Presupposti del sacrificio umano 9788864730493

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Presupposti del sacrificio umano
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Angelo Brelich

PRESUPPOSTI DEL SACRIFICIO UMANO A

cura di

Andrea Alessandri Prefazione di

Marcello Massenzio

Editori Riuniti university press

«Rispetto alla nostra

sensibilità

culturale i sacrifici

umani, considerati superficialmente nella loro evidenza imme­ diata, costituiscono materia di scandalo e, una volta posti nel novero dei monstra, suscitano una reazione istintiva intrisa di rifiuto e di attrazione, di fastidio e di curiosità: una reazione che non solleva problemi, perché non stimola il pensiero. I sacrifici umani, valutati alla luce delle acquisizioni delle "nuove scienze dell'uomo" (alle quali appartiene la storia delle religioni, disci­ plina di cui Brelich è stato maestro riconosciuto), perdono i con­ notati "mostruosi" nella misura in cui è possibile coglierne il significato e la funzione che legittimano la loro piena apparte­ nenza all'orbita della cultura e, più precisamente, alla dimen­ sione del "culturalmente alieno".[. .] L'intelligenza dei fenomeni .

culturali "altri" richiede un impegno e un rigore maggiore del solito, in quanto la logica ad essi sottesa non di rado sembra sfuggirei di mano, poiché segue itinerari diversi da quelli cui siamo avvezzi da sempre. In altri termini, il riconoscimento positivo della diversità culturale presuppone la presa di coscien­ za del fatto che i confini della civiltà non coincidono con i con­ fini della civiltà cui siamo partecipi. L etto in questa chiave, il libro di Brelich è, nel suo insieme, una lezione sulla necessità di oltrepassare i limiti che l'etnocentrismo occidentale pone alla conoscenza dell'uomo[ . .].)) (dalla Prefazione di Marcello Massenzio)

ISBN 978-88-6473-049-3

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788864 730493

ANGELO BRELICH (Budapest 20 giugno 1913- Roma l ottobre 1977) è una delle voci pii:1 autorevoli della sto­ ria delle religioni e, più in generale, delle nuove scienze umane. Studioso eli fama internazionale, è stato allievo eli

Karl

Kerényi

a l l 'Università

eli

Budapest; in seguito ha ricoperto il ruolo eli assistente presso la Cattedra eli Storia delle religioni dell'Ateneo eli Roma "La Sapienza", della quale è divenuto titolare nel 1958. Ponendosi nel solco tracciato da Raffaele Pettaz­ zoni, ha dato un contributo decisivo alla definizione dell'impianto teorico e, congiuntamente, della piattaforma metoclologica caratterizzanti la disci­ plina storico-religiosa: in tale ottica il suo nome è inclissociabile da quello eli Ernesto De Martino. L'esigenza eli val utare la religione come

fenomeno

culturale

integral­

mente umano, da analizzare - nelle sue espressioni concrete - con l'ausi­ lio della comparazione storica, rap­ presenta uno dei tratti salienti del suo insegnamento. l suoi lavori, conside­ rati a tutti gli effetti classici del pensie­ ro contemporaneo, uniscono al rigore della ricerca inerente acl uno specifico ambito storico l 'ampiezza della pro­ spettiva teorica, che tocca problemati­ che attuali d'interesse generale riguar­ danti, ad esempio, il laicismo e il rela­ tivismo culturale.

Tra le sue opere ci llinitiaJilo a ricordare: Tre variazioni romane sul tema delle origini (1955), Gli eroi greci. Un problema

storico-mligioso

(1958),

Introduzione alla st01"ia delle mligio­ ni (1966), Paides e parthenoi (1969), Prolégomènes à

une

Histoim

des

Religions (1970), Storia delle religio­ ni: perché? 0979).

Collana "Opere di Brelich" Volumi pubblicati: •

Presupposti del sacr(jìcio umano, a cura eli A. Alessanclri, Prefazione eli M. Massenzio



!lpoliteismo, a cura eli M. Massenzio e A. Alessanclri, Prefazione eli M. Augé



Le iniziazioni, a cura eli A. AJessanclri, Prefazione eli D. Fabre



Teatri di guerre agoni culti nella Grecia antica, a cura eli E. Dettori, Prefazione eli M.G. Bonanno



Ti-e variazioni romane sul tema delle origini, a cura eli A. Alessanclri, Prefnione eli E. Montanari

Volumi in corso eli pubblicazione: • •



Paides eparthenoi K. Kerénvi, A. Brelich, CarteggiÒ ( 1935-1959) !utroduzione allo studio dei calendari.fèst fui

ANDREA ALESSANDRI ha conse­ guito il dottorato eli ricerca nel 2006. Attualmente collabora con la Cattedra eli Storia delle religioni dell'Università degli Studi eli Roma "Tor Vergata". 1 suoi lavori e i suoi interessi eli ricerca hanno per oggeuo l'opera dei maestri italiani della storia delle religioni (Raffaele Pettazzoni, Ernesto De Martino e Angelo 13relich). Per editori Hiuniti University Press ha curato l'edizione dei seguenti volumi eli A. Brelich: Ilpoliteismo (2007, in collabo­ razione con M. Massenzio), Le iniziazio­

ni (2008), Tre uariazioui romaue sul tema delle or(qini (20 1 0). Presso il mede­ simo editore ha pubblicato il volume

Mito e memoria. Filot!ete nell'immagina­ rio occidentale (2009).

MARCELLO MASSENZIO è Profes­ sore Ordinario eli Storia delle religioni aii'Universit�l

degli Studi eli Roma "Tor

Vergaw". Per la Collana "Opere eli Angelo Brelich", oltre alla Prefazione al presente volume, ha cur:1to l'edizione cle TIpolitei­

smo (2007, in collaborazione con Andrea Alcssanclri). Tra le sue ultime pubblicazio­ ni ricordiamo La Passione secondo l'Ebreo

errante CQuocllihet 2007) e Le./111/errante ou L'art de suruiure (Eclitions clu Cerf 20 1 0 ), insignito della menzione speciale clelia Giuria al "Prix Spiritualité 2010". Euro 14,00 (iva compresa)

Opere di Brelich Collana diretta da Mare Augè, Maria Grazia Bonanno, Daniel Fabre, Marcello Massenzio, Paolo Scarpi

Angelo Brelich

PRESUPPOSTI DEL SACRIFICIO UMANO

A

cura di

Andrea Alessandri

Prefazione di Marcello Massenzio

Editori Riuniti university press

In copertina: Giambattista Tiepolo,

Sacrificio di Ifigenia, 1757, Villa

Valmarana, Vicenza. Sullo sfondo pagina manoscritta di Brelich.

II edizione: ottobre 2011 I edizione: ottobre 2006

© Editori Riuniti university press - Roma di Gruppo editoriale italiano srl - Roma www.editoririunitiuniversitypress.it Progetto Grafico Pixel Press sas [email protected] ISBN 978-88-6473-049-3

L'edizione di questa opera ha beneficiato di un contributo dell'Università degli Studi di Roma "Tor Vergata"

Indice

Prefazione IL PARADOSSO DEI SACRIFICI UMANI

-

di Marcello Massenzio

Nota del curatore

7 17

Angelo Brelich PRESUPPOSTI DEL SACRIFICIO UMANO

Introduzione l. Considerazioni d'ordine didattico 2. L'argomento 3. Cenno agli studi sull'argomento 4. Impostazione del problema

Parte Prima- LE UCCISIONI RITUALI I- VImME UMANE NEI FUNERALI REGALI

Mesopotamia 2. Egitto 3. Il problema storico 4. Etnologia e 'Preistoria" 5. Africa 6. Ver.ço l'Oriente 7. Cina 8. Ver.ço l'America 9. Considerazioni l.

II- VITTIME UMANE NEI RITI DI FONDAZIONE l. Riti di fondazione 2. Vittime umane nei riti di fondazione

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PRESUPPOSTI DEL SACRIFICIO UMANO

3. L'Agnicayana 4. Riti di fondazione e miti cosmogonici III - VImME UMANE NEI RITI AGRARI l. Esempi 2. Giappone: dal folk/ore moderno alla preistoria 3. La teoria di Adolf E. jensen IV- VImME UMANE IN SITUAZIONI DI CRISI E IN RITI DI PURIFICAZIONE

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l. Riti per la pioggia

87

2. Riti per allontanare calamità

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3. La guerra 4. Crisi e purificazione 5. Considerazioni V- CANNIBALISMO E CACCIA ALLE TESTE l. Un esempio: il cannibalismo dei Tupinamba 2. Il cannibalismo 3. La caccia alle teste VI - RICAPITOLAZIONI E INTEGRAZIONI

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l. Premessa 2. La vittima

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3. I modi dell'uccisione

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VII- CONSIDERAZIONI FINALI

Parte Seconda- IL SACRIFICIO UMANO I- OSSERVAZIONI DI CARATIERE GENERALE l. Premessa 2. Oscillazioni tra riti autonomi di uccisione e sacrifici umani 3. Politeismo, uccisioni rituali, sacrificio umano

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II - UNO SGUARDO SUI FATTI

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ELENCO DELLE OPERE CITATE NEL TESTO

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Prefazione IL PARADOSSO DEI SACRIFICI UMANI

Il testo scelto per inaugurare la Collana "Opere di Brelich" è sostanzialmente un inedito: sono pubblicate per la prima volta in volume le dispense del corso universitario dell'anno accademico 1 966-67, intitolato Presupposti del sacrificio umano. Il titolo è pregnante nella sua concisione, poiché indica in modo trasparente tanto l'oggetto dell'analisi quan­ to la prospettiva della ricerca. Oggetto dell'indagine storico­ religiosa è una pratica rituale largamente diffusa (i sacrifici umani), che in alcune civiltà rappresenta la norma, in altre l'eccezione, a volte è realtà di fatto, a volte è evocazione di un costume superato; pratica di cui Brelich si propone di ricostruire il senso, evitando il rischio di prospettare al letto­ re un mero repertorio di dati. La decifrazione del senso, per uno storico, passa innanzi tutto attraverso la messa in que­ stione: il termine "presupposti" va letto in questa direzione. Rispetto alla nostra sensibilità culturale i sacrifici umani, considerati superficialmente nella loro evidenza immediata, costituiscono materia di scandalo e , una volta posti nel novero dei monstra, suscitano una reazione istintiva intrisa di rifiuto e di attrazione, di fastidio e di curiosità : una reazio­ ne che non solleva problemi, perché non stimola il pensie­ ro . I sacrifici umani, valutati alla luce delle acquisizioni delle " nuove scienze dell'uomo" (alle quali appartiene la storia delle religioni, disciplina di cui Brelich è stato maestro rico-

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PRESUPPOSTI DEL SACRIFICIO UMANO

nosciuto) , perdono i connotati "mostruosi" nella misura in cui è possibile coglierne il significato e la funzione che legit­ timano la loro piena appartenenza all'orbita della cultura e , più precisamente, alla dimensione del "culturalmente alie­ no" . Da questo primo tipo di approccio deriva un ulteriore grado di consapevolezza critica : l'intelligenza dei fenomeni culturali "altri" richiede un impegno e un rigore maggiore del solito, in quanto la logica ad essi sottesa non di rado sembra sfuggirei di mano, poiché segue itinerari diversi da quelli cui siamo avvezzi da sempre . In altri termini, il rico­ noscimento positivo della diversità culturale presuppone la presa di coscienza del fatto che i confini della civiltà non coincidono con i confini della civiltà cui siamo partecipi. Letto in questa chiave , il libro di Brelich è, nel suo insieme, una lezione sulla necessità di oltrepassare i limiti che l'etno­ centrismo occidentale pone alla conoscenza dell'uomo, prima ancora di essere una serie organica di lezioni univer­ sitarie riguardanti i presupposti dei sacrifici umani. Lezioni universitarie antiaccademiche e d'alto profilo che, rispetto all'oggi, possiedono il fascino del reperto che esalta il vigo­ re intellettuale del discorso scientifico: per questa ragione abbiamo pensato di non sopprimere , ma di custodire gelo­ samente gli elementi legati alla contingenza , quelli che più "sanno" di didattica universitaria d'antan. Merita un accen­ no a parte , infine , il singolare impasto linguistico creato da Brelich in cui, accanto ai moduli propri della comunicazio­ ne orale, risuonano gli echi incrociati delle sue diverse patrie culturali. Si è detto che Brelich non si limita a registrare i dati, e che uno dei suoi obiettivi di fondo consiste nella ricostruzione del processo di formazione dei fenomeni indagati; collocan­ dosi in questa prospettiva il primo interrogativo al quale

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intende dare una risposta concerne l'individuazione del contesto storico-culturale cui si possono far risalire le origi­ ni dei sacrifici umani. Al fine di esemplificare tale procedi­ mento, ci limitiamo a fornire alcune indicazioni di massima , volte a orientare il lettore. La ricerca parte da una constata­ zione oggettiva: il ricorso a questo tipo di procedura rituale è attestato in un certo numero di civiltà "superiori", in occa­ sione di cerimonie funebri destinate a personaggi di rango regale . Dalla constatazione scaturisce, senza soluzione di continuità , il seguente problema storiografico: si tratta di una pratica che può essere considerata come il portato diretto di quel tipo di civiltà o si tratta , invece, di retaggi risa­ lenti ad epoche culturali preesistenti, rimodellati in funzio­ ne di nuove esigenze politiche e sociali? Dal particolare al generale, dal caso concreto all'elabora­ zione teorica : la messa in luce della genesi e degli sviluppi degli istituti culturali comporta una marcia regressiva alla ricerca dell'antecedente storico o, in altre parole, dei pre­ supposti; una volta afferrato il punto di partenza, si prospet­ ta il compito di capire le variazioni semantiche che hanno subito i vari fenomeni nel loro cammino, passando dall'am­ bito originario ad altri ambiti : l'indagine, conseguentemen­ te , da retrospettiva diviene prospettica . Il segno distintivo delle analisi condotte da Brelich sta nel continuo sposta­ mento dell'asse della ricerca da un piano all'altro - dal con­ creto all'astratto, dal molteplice all'uniforme, dal presente al passato (e viceversa) : un movimento vorticoso, sorretto dal proposito di mettere in luce le complesse articolazioni di ogni dinamica storico-culturale . Un disegno di così largo respiro non si presta ad essere riassunto senza essere banalizzato : lasciamo al lettore il pia­ cere di seguire l'itinerario tracciato da Brelich, che cattura

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PRESUPPOSTI DEL SACRIFICIO UMANO

l'interesse per la generosa profusione di conoscenze che abbracciano civiltà le più diverse e apparentemente prive di connessioni fra loro. È Brelich che sa metterle in rapporto attraverso l'uso sapiente di un metodo, quello della compa­ razione storica trasmessogli da Raffaele Pettazzoni, alla cui definizione il Nostro ha dato un contributo decisivo. Il letto­ re scoprirà che i sacrifici umani sono divenuti tali a partire dal presupposto rappresentato dalle uccisioni rituali di vitti­ me umane: ben più della scoperta in sé conta, ovviamente , il percorso intellettuale che conduce ad essa , che è sorretto in ogni sua tappa dal ricorso al confronto interculturale . Nell'esplorare il variegato universo delle uccisioni rituali, Brelich è attento a cogliere sia gli elementi che permettono di considerarlo in una prospettiva unitaria, sia i fattori nei quali è racchiuso il carattere specifico, storicamente deter­ minato, di ciascuna di queste espressioni rituali; al medesi­ mo modus operandi si adegua l'analisi concernente la dimensione dei sacrifici umani. Nella capacità di raccordare il generico allo specifico, rendendo funzionale l'elaborazio­ ne tipologica all'individuazione storiografica, risiede il sigil­ lo del metodo storico-comparativo, nettamente distante dal comparativismo di matrice evoluzionistica , interessato al solo recupero delle analogie. Pettazzoni ha segnalato con vigore lo scarto differenziale tra i due approcci alla compa­ razione, sostenendo in pari tempo la necessità di porre sem­ pre in primo piano la ricognizione dello svolgimento stori­ co, in quanto "ogni evento ha dietro di sé un processo di sviluppo" (R. Pettazzoni, Il metodo comparativo in "Numen" VI, 1 959, p. 1 0) . L'eredità di Pettazzoni sotto i l profilo del metodo è pre­ sente in Brelich non come peso inerte, ma come sostanza viva e, soprattutto, da vivificare traducendone in atto le

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potenzialità nel concreto delle indagini storiografiche, piut­ tosto che sul piano della pura speculazione. Di tutto questo offre una testimonianza illuminante il presente volume, che raccoglie un corso di lezioni universitarie, il cui ulteriore oggetto, sottilmente connesso con quelli segnalati in prece­ denza , riguarda il metodo di ricerca. Quest'ultimo, come si accennava, è inseparabile da una precisa visione della sto­ ria che ha più di un punto di contatto con le grandi sintesi teoriche e metodologiche (si pensi, ad esempio, allo "stori­ cismo assoluto") elaborate dall'altro grande storico delle religioni: Ernesto de Martino. L'accostamento è tutt'altro che sorprendente se si considera soltanto che durante la fase "aurea" della storia delle religioni in Italia , compresa tra il secondo dopoguerra e la fine degli anni '50, Brelich e de Martino a partire dal 1953 hanno fatto parte - ma è più per­ tinente affermare che hanno rappresentato le "punte di dia­ mante" - del comitato di redazione della rivista "Studi e Materiali di Storia delle Religioni" , insieme con A. Bausani, N. Turchi, A. Pincherle: rivista fondata da R. Pettazzoni che tendeva a definire il profilo scientifico della disciplina sto­ rico-religiosa e, al contempo, a promuovere in Italia un nuovo modo di fare cultura aperto, finalmente , al confronto tra l'Occidente e il "culturalmente alieno " . In quale ambito è possibile cogliere elementi d i obiettiva convergenza tra la prospettiva di Brelich e quella di de Martino? L'infaticabile ricerca dei "presupposti" , lo sguardo puntato alle origini costituiscono una costante dell'opera di Brelich, che manifesta il suo significato in riferimento all'idea-guida secondo la quale la creatività umana è il solo motore della storia. In questa prospettiva la dimostrazione della genesi puramente storica (o compiutamente umana) dei fenomeni è importante di per sé e lo diviene ancora di

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PRESUPPOSTI DEL SACRIFICIO UMANO

più se si tiene conto del fatto che essa si colloca nel territo­ rio delle religioni, investendo la religione stessa, tra le cui prerogative figura la pretesa di sottrarre la sfera delle origi­ ni all'iniziativa dell'uomo . Dal suo canto de Martino nel defi­ nire l'essenza dell'"umanesimo storicistico" , il volto contem­ poraneo dell'umanesimo, pone l'accento sulla "coscienza che i beni culturali hanno integralmente origine e destina­ zione umana, sono fatti dall'uomo per l'uomo" (La fine del mondo. Contributo all'analisi delle apocalissi culturali, a cura di C . Gallini, Einaudi, Torino 200 2 , p. 356) . La conver­ genza delle impostazioni teoriche è la spia di un progetto comune che ha per asse portante la messa a punto della sto­ ria delle religioni come disciplina d'orientamento laico, che include la religione (e le singole religioni) nel novero delle formazioni culturali storicamente condizionate . Non meno ricco d'implicazioni si dimostra un secondo fattore di convergenza tra i due studiosi che consiste nell'at­ tribuire un'importanza del tutto peculiare all'etnologia reli­ giosa . Il lettore troverà in questo libro testimonianze pre­ gnanti dell'interesse scientifico di Brelich per le culture impropriamente dette "primitive" ; non si tratta di un caso isolato, poiché la dimensione etnologica è una presenza ricorrente in tutto l'arco della produzione del Nostro. Nel caso di de Martino è sufficiente evocare Il mondo magico (Einaudi , Torino 1 948, I edizione) per avere un'idea precisa del ruolo che occupa l'etnologia e, soprattutto, la riflessione sull'etnologia, all'interno del suo pensiero. L'apertura criticamente sorvegliata al culturalmente alie­ no costituisce l'aspetto più rilevante dello " storicismo allar­ gato" - vale a dire dello storicismo che ha saputo compiere il "passo eroico" che ha portato al superamento della conce­ zione eurocentrica della cultura e della storia - teorizzato da

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de Martino, nei cui quadri s'inscrive tanto l'opera di Brelich quanto la discliplina storico-religiosa, la quale si fonda sul riconoscimento della pari dignità delle religioni (e delle civiltà cui esse appartengono) e sulla necessità assoluta del confronto interculturale . Siamo in grado di tracciare una prima sintesi: l'analisi di quest'opera di Brelich ci ha portato a delineare i tratti essen­ ziali, teorici e metodologici, di un ambito disciplinare com­ plesso che è stato in Italia, per molteplici aspetti, il territorio d'elezione delle nuove scienze umane : un ambito cui spet­ ta un posto di rilievo nella storia delle idee del Novecento italiano e che, pertanto, merita di essere riconsiderato con spirito critico nell'odierna, confusa congiuntura storica. Tornando ad esaminare più da vicino il ciclo di lezioni raccolte in questo libro, punteremo lo sguardo in una nuova direzione, mettendo in evidenza la riflessione di taglio poco consueto sulla morte umana che scorre da una pagina all'al­ tra , in maniera a volte sotterranea ed implicita , a volte espli­ cita . L'argomento non è affrontato in modo generico, ma è circoscritto con cura: innanzitutto si tratta non della morte subita , quella che s'impone come inevitabile insorgenza naturale, ma della morte ricercata, inflitta per decisione cul­ turale a uno o più individui umani da altri soggetti umani . La ritualità che connota fin nei minimi dettagli la messa in scena dell'uccisione di vittime umane non costituisce un puro rive­ stimento formale, ma è un elemento d'importanza sostanzia­ le che pone l'accento sulla gravità o, più propriamente, sulla straordinarietà dell'accadimento. I contesti esaminati da Brelich, pur nella loro eterogeneità , hanno un nucleo comu­ ne che si presta ad essere sintetizzato nei seguenti termini: nell'uomo che si propone come datore di morte nei confron­ ti dei propri simili si materializza una dimensione oscura

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della realtà, talmente contraria alle consuetudini vigenti da essere immaginabile soltanto nella sfera separata dell'alterità d'ordine sacro, vale a dire nello spazio/tempo del mito e del rito. Da qui il paradosso: i riti in discussione - intesi sia come azioni autonomamente efficaci, sia come strumenti funzio­ nali al culto di esseri sovrumani - enfatizzano l'eccezionalità dell'operato e, di riflesso, testimoniano del valore normal­ mente attribuito alla vita umana. Detto altrimenti, le uccisio­ ni rituali di vittime umane e i sacrifici umani, anche quando assumono proporzioni cospicue dal punto di vista quantita­ tivo, non sono mai riconducibili a manifestazioni di brutale svalutazione dell'esistenza umana, come potrebbe suggerire una lettura superficiale dei fenomeni in esame, ma esprimo­ no, sia pure per via indiretta, una forma estrema di riconosci­ mento della sua portata . Brelich s'interroga , conseguentemente, sulle motivazioni d'ordine culturale che sono a fondamento di comportamen­ ti che sovvertono la regola; collocandosi in tale prospettiva , egli prende nettamente le distanze dall'atteggiamento cor­ rente che consiste, per riprendere le parole di C. Lévi­ Strauss, "nel ripudiare puramente e semplicemente le forme culturali - morali, religiose, sociali, estetiche - che sono più lontane da quella con cui noi ci identifichiamo" (Razza e storia, in Razza e storia . Razza e cultura, Einaudi, Torino 2002, p. 1 0) . L'obiettivo che si pongono le "nuove scienze dell'uomo" è quello di capire le ragioni degli altri, senza cedere alla tentazione istintiva di considerare barbaro il culturalmente alieno poiché, come ci ricorda ancora Lévi­ Strauss, il barbaro non è l'altro, ma "anzitutto l'uomo che crede nelle barbarie" (ibid., p. 1 2) . L'indagine conoscitiva d i Brelich h a come punto d i par­ tenza l'individuazione del "quando" : quali sono le circostan-

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ze che legittimano il ricorso alle uccisioni rituali di vittime umane e/o ai sacrifici umani? Per accennare brevemente alla risposta (o, meglio, al metodo che permette di scorgere una possibile soluzione del problema) senza sottrarre al lettore il piacere intellettuale della scoperta, diremo che l'elemento comune a tali circostanze è rappresentato da uno stato di crisi particolarmente acuta; crisi intesa come irruzione gra­ tuita del non-umano (comprensivo tanto del piano naturale che di quello sovrannaturale) che scompagina il tessuto del­ l'ordine a tutti i livelli e che, proprio per questo, richiede un'adeguata forma di riscatto culturale . È quanto si verifica, ad esempio, in occasione del decesso del sovrano, o di un personaggio della sua cerchia, in civiltà in cui l'istituto rega­ le rappresenta il cardine dell'organizzazione sociale e cultu­ rale: se la morte naturale è comunque un fattore di crisi, lo è ancor di più quando essa colpisce soggetti umani altamen­ te rappresentativi a livello politico, sociale e simbolico. L'indagine di Brelich si sposta , a questo punto, sulle uccisio­ ni rituali di vittime umane e sui sacrifici umani in quanto strumenti istituzionali di riscatto : su quale tipo di logica si fonda il riconoscimento di questa funzione? Sia le prime che i secondi sono veicoli istituzionali di morte: morte ricercata in questo caso, fatta esistere nel rispetto di canoni social­ mente condivisi, valorizzata come strumento di produzione del non-umano. Detto altrimenti, nei rituali in questione affiora una valenza insolita del fenomeno, che è possibile afferrare utilizzando uno schema oppositivo del tipo seguente : l'apparizione incontrollata della morte è antitetica rispetto alla sua manifestazione ritualmente disciplinata; in un caso si è agiti da una "forza" non umana da subire, nel­ l'altro si agisce sul non umano dapprima materializzandolo e trasformandolo, quindi, in "potenza" sovrumana posta a

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difesa dell'ordine culturale . La lettura di Brelich non si limi­ ta all'individuazione di questa fondamentale opposizione, ma mette in luce la relazione che passa tra i termini costitu­ tivi , riconducibile, a nostro modo di vedere , al principio della compensazione, nella misura in cui il polo della ritua­ lità mira a bilanciare il peso soverchiante del polo della naturalità , garantendo così il ripristino dell'equilibrio com­ promesso dalla crisi. Una nota conclusiva che ha lo scopo di fornire nuovi spunti per inserire questo lavoro di Brelich nel quadro degli studi italiani di storia delle religioni : com'è noto, i problemi posti dall'irrompere della morte umana sono al centro del­ l'opera di Ernesto de Martino Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria (Einaudi, Torino 1 958, I edizione) , dove l'accento cade prevalentemente sulla morte umana vista come uno "scandalo" - perché segna il sopravvento della natura sulla cultura - che impo­ ne la ricerca di forme di riscatto culturale . Lo sguardo di Brelich non si concentra su questo lato del fenomeno ma, pur non trascurandolo, è rivolto soprattutto all'uomo che si fa datore di morte nei confronti dei suoi simili all'interno di istituzioni cerimoniali. I due aspetti non sono irrelati, ma appaiono sottilmente collegati, come si evince da quanto detto in precedenza ; pertanto, può risultare stimolante per il lettore far interagire la ricerca di Brelich con quella di de Martino, avendo in comune il riconoscimento della peculia­ re efficacia dell'azione che si dipana nello spazio del rito.

Marcello Massenzio

Nota del curatore

Rispetto al volume pubblicato nel 2006 , il testo della pre­ sente edizione è stato oggetto di una meditata revisione . Oltre all'emendazione dei refusi, si è ritenuto necessario intervenire anche sulla punteggiatura , contemperando la duplice esigenza di una maggiore scorrevolezza della lettu­ ra del saggio, da un lato, e il pieno rispetto del pensiero dell 'Autore, dall'altro lato. Si è altresì, reputato opportuno sopprimere }"'Appendice" con la sola eccezione dell"'Elenco delle opere citate" , che è stato controllato, ret­ tificato e collocato direttamente alla fine del testo.

Andrea Alessandri

Angelo Brelich

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Introduzione

l. Considerazioni d'ordine didattico Uno dei problemi più seri nell'insegnamento universita­ rio della storia delle religioni, nel momento attuale della sto­ ria di questa disciplina in formazione, è quello della scelta degli argomenti; specie in un ordinamento universitario come il nostro, in cui la maggior parte degli studenti prende contatto con una materia per la durata di un solo anno. Lo studio di un argomento ristretto - limitato p. es . a un deter­ minato aspetto di una singola religione - potrebbe essere condotto in un corso annuale con esauriente precisione, ma lascerebbe in ombra quasi l'intera problematica storico-reli­ giosa . La trattazione di un problema più vasto, invece, diffi­ cilmente sfuggirebbe al pericolo di restare generica e sche­ matica . Peggio, gli schemi pronti per l'illustrazione dei gran­ di argomenti della storia delle religioni, cioè gli schemi tra­ mandatici dalle passate generazioni di studiosi, appaiono ora superati , perché provengono da un'epoca in cui il meto­ do storico-religioso non era ancora formato . Si può dire che tutti questi grandi argomenti oggi richiedono di essere affrontati ex nova, ma per nessuno di essi lo spazio di un anno, concesso dal ritmo dell'insegnamento, permette uno studio a fondo. Se, d'altra parte , si volesse condurre la trat­ tazione di un argomento per un numero indefinito di corsi, il risultato sarebbe identico a quello ottenuto con corsi dedi-

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cati ad argomenti ristretti: gli studenti, frequentando per un solo anno o anche per un biennio l'insegnamento, si trove­ rebbero di fronte a un'infinità di dettagli minuti, senza poter farsi un'idea delle prospettive più propriamente storico-reli­ giose in cui essi si pongono . Di qui la necessità di un com­ promesso. Il criterio seguito dall'insegnamento presso la cattedra romana è fondato sulla convinzione che è preferi­ bile mettere gli studenti a contatto con i grandi argomenti, offrendo loro, anziché risultati completi, soprattutto proble­ mi e indicazioni metodologiche. Ogni corso, perciò, ha un puro carattere di introduzione a qualche importante tema della storia delle religioni. 2. L 'argomento Il corso di quest'anno intende offrire un'introduzione al problema storico dei sacrifici umani. Più particolarmente, anche se ciò forse non apparirà in maniera esplicita, inten­ de preparare il terreno per un'interpretazione storica del sacrificio umano in quelle religioni politeistiche in cui esso aveva un posto rilevante. Il termine "sacrificio umano" anche se, a rigore, improprio (ovviamente non è che il sacri­ ficio stesso sia "umano") è abbastanza trasparente, tanto da non aver bisogno di essere spiegato su un piano puramen­ te lessicale: indica i sacrifici in cui le vittime sacrificali sono persone umane . Ma chiunque abbia la buona abitudine di voler rendersi conto del senso delle parole comunemente usate, si accorgerà subito del fatto che una siffatta definizio­ ne del valore lessicale del termine presuppone la chiarezza di altri termini come p. es . "sacrificio" , "vittima" , ecc . che, invece, non sono affatto chiari. Anche a prescindere dall'uso in senso traslato di questi termini nel linguaggio corrente (p . es. "sacrificare" ore di sonno allo studio o essere "vittime" di

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calunnie, ecc.), il loro senso tecnico (attinente alle religioni) non è chiaro a nessuno che non li abbia studiati apposita­ mente. La maggior parte dei profani pensa , p. es . , che il sacrificio sia un dono o un omaggio offerto alla "divinità" (o, comunque, a un'entità sovrumana), sia per ottenere la sua benevolenza, sia per mostrare , anche senza scopi egoistici, la sottomissione del soggetto nei suoi riguardi. Ma basta un momento di riflessione per capire che la q_uestione non è tanto semplice : mentre doni ed espressioni di omaggio pos­ sono essere - e sono anche - del più vario genere , e innu­ merevoli religioni conoscono offerte di cibi, vesti, fiori, oggetti preziosi, ecc . , non è affatto ovvio perché essi debba­ no implicare l'uccisione di una "vittima" . Sia nel linguaggio corrente che in quello scientifico vi è tuttora una certa oscil­ lazione nell'uso della parola "sacrificio" : c'è chi include in questo concetto ogni specie di offerta a esseri sovrumani, per distinguere poi tra sacrifici "cruenti" e "incruenti" , e c'è chi preferisce, invece, distinguere tra offerta e sacrificio, intendendo per la prima solo l'offerta incruenta e per il secondo solo il sacrificio cruento. (Si noti, tra parentesi, che anche queste distinzioni sono ancora imprecise e problema­ tiche : si vorrà chiamare, p. es . , "offerta" un cibo consacrato a esseri sovrumani, ma poi consumato dagli "offerenti" stes­ si, come spesso accade nelle varie religioni? Ed è anche bene ricordare il carattere improprio dell'aggettivo "cruen­ to" nei casi in cui si procede, sì, all'uccisione di una vittima , ma si evita con ogni cura che essa versi sangue; l'uccisione, in tali casi, avviene per mezzo di strangolamento, annega­ mento nell'acqua, seppellimento da vivo, ecc.) In tutti i modi, la differenza tra riti di offerta o sacrificio (secondo la terminologia scelta) che richiedono vittime (cioè uccisioni) e quelli che non esigono la morte di esseri vivi è abbastan-

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za appariscente per sfuggire all'attenzione. Il sacrificio con uccisione di vittime è, dunque, in ogni caso un tipo di rito particolare che non si spiega interamente con la semplice idea del dono o dell'omaggio, o, per lo meno, non si spiega esattamente allo stesso modo delle offerte "incruente" . Ora, come si vedrà, in diverse religioni si praticavano sacrifici le cui vittime erano persone umane . Questo tipo di sacrifici ­ il sacrificio umano - costituisce l'argomento del corso. 3 . Cenno agli studi sull 'argomento È sorprendente che su un fenomeno religioso abbastan­ za diffuso da non essere ignorato e - non fosse altro abbastanza raccapricciante per la sensibilità media , e lonta­ no dagli orientamenti religiosi e morali dei nostri tempi per non costituire un problema , non esista una letteratura scientifica particolare . Non esiste alcun'opera scientifica interamente dedicata allo studio del sacrificio umano. Esistono, invece : a ) Prese di posizione teoriche sul problema, contenute in opere non direttamente dedicate ad esso. Tra quelle vec­ chie, va almeno menzionata la classica opera di W. Robertson Smith (Lectures o n the Religion of tbe Semites, 1889) che ebbe il merito di scardinare le vecchie posizio­ ni influenzate in parte da tradizioni non scientifiche, in parte da preconcetti evoluzionistici, anche se la teoria che tentò di sostituire ad esse appare inaccettabile; men­ tre , infatti, prima si pensava che il sacrificio umano fosse un fenomeno estremamente primitivo e solo più tardi sostituito per lo più dal sacrificio animale, Robertson Smith, nella convinzione che ogni sacrificio derivasse dalla consumazione rituale dell 'animale totemico, soste­ neva il carattere derivato, secondario, del sacrificio

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umano. Di teorie moderne che coinvolgono anche il pro­ blema del sacrificio umano si farà menzione al momento opportuno. b) Studi sul sacrificio in generale, che, inevitabilmente , toc­ cano anche l'argomento del sacrificio umano (gli autori dei più importanti di questi studi sono menzionati nell'Introduzione alla Storia delle Religioni pp. 43 sgg . ) . c ) Voci d i enciclopedie e capitoli di manuali o opere genera­ li di storia delle religioni. Tra le prime siano menzionate quella dell'Encyclopaedia of Religion and Ethics di ]. Hastings dove sotto "Human Sacrifice" , oltre all'introduzio­ ne generale di Crawley, si trovano paragrafi per le singole religioni; il volume che li contiene risale al 1 9 1 3 . più recen­ te, ma sempre vecchia, è la voce "Menschenopfer" , redat­ ta da Thurnwald, nel Reallexikonfur Vorgeschichte ( 1927) . Nella recente terza edizione dell'enciclopedia Die Religion in Geschichte und Gegenwart, il quarto volume contiene due brevissime voci sul sacrificio umano, una che se ne occupa in linea generale, di Schmitz, mentre l'altra, di Eissfeldt, riguarda il mondo biblico. Tra le opere di caratte­ re generale che dedicano qualche attenzione al problema, basti ricordare quella, tra le più recenti, di F. Heiler, Erscheinungsformen und Wesen der Religion (1% 1), dove a pp. 2 1 1 sgg. si trova anche la bibliografia essenziale. d) Opere che trattano del sacrificio umano in singole reli­ gioni. Tra queste citeremo, a titolo d'esempio, quella di F. Schwenn per il mondo classico ( 1 9 1 5) e il ricco articolo di ] . Henninger nella rivista "Anthropos" ( 1 958) per gli Arabi e il loro ambiente storico. e) Infine, naturalmente, vi è il mare magnum degli innume­ revoli studi su singole religioni, civiltà , popolazioni, ecc . Il paziente e accurato spoglio di quest'immenso materia-

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le sarebbe la prima condizione per affrontare organica­ mente il problema, per il quale qui, su basi molto più limitate, si vuole offrire solo un primo orientamento. 4 . Impostazione del problema Nel suo Essai historique sur le sacrifice (Paris 1 920), Alfred Loisy scriveva che, in fondo, il sacrificio umano non costituiva un problema . Secondo quest'autore sarebbe inu­ tile chiederci le ragioni del sacrificio umano: sorprendente sarebbe se esso non esistesse. L'uomo mangia il suo prossi­ mo, per assimilare il suo vigore: perché non usare quella riserva di vita anche ai fini del sacrificio? Ugualmente non sarebbe il caso di chiederci quale fosse più antico, il sacrificio umano o il sacrificio animale: entram­ bi hanno lo stesso fine e coesistono sin dalle origini; infatti, ricorrono nelle stesse identiche occasioni. "Tutto sommato, l'impiego della vittima umana si spiega con le stesse ragioni di quello della vittima animale e non si vede (. . . ) che la vit­ tima umana originariamente sia stata una sostituzione della vittima animale" ; Loisy allude qui alla teoria di Robertson Smith : "sono le vittime animali che spesso hanno sostituito le vittime umane nei casi in cui queste erano state proibite" . Non c i soffermiamo sui presupposti arbitrari (p . es. quel­ lo sottinteso secondo cui il cannibalismo sarebbe una con­ dizione del sacrificio umano: questo, infatti, secondo Loisy, appare naturale, dal momento che anche l'uomo "mangia il suo prossimo") o sugli errori di fatto (il cannibalismo pre­ sentato come una forma d'alimentazione tra le altre : sull'ar­ gomento si tornerà più avanti) che viziano questo ragiona­ mento. Per il resto, questo appare perfettamente coerente: poiché sia le occasioni che i fini (e potremmo aggiungere : le forme, almeno in buona parte) del sacrificio umano sono

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identici a quelli del sacrificio animale, il problema del sacri­ ficio umano sembra svanire, risolvendosi perfettamente in quello del sacrificio (''cruento") in generale . L'uomo non sarebbe che una tra le tante vittime possibili. . . Ma se il ragionamento è inoppugnabile sul piano della logica astratta, ciò non vuol dire ancora che esso sia soddi­ sfacente anche dal punto di vista storico. Nella realtà storica il sacrificio umano non si confonde tra gli altri sacrifici cruenti: come vedremo, esistono civiltà - ed epoche nella storia di certe civiltà - la cui religione pratica i sacrifici ani­ mali, ma ignora totalmente il sacrificio umano; altre civiltà ed epoche ricorrono solo sporadicamente alla vittima umana, ponendoci davanti alla questione del perché in quei casi rari esse non si accontentino delle usuali vittime anima­ li; e vi sono, infine , civiltà la cui religione dà un posto cen­ trale alla pratica del sacrificio umano. Per il fatto che nell'an­ tica religione messicana il sacrificio umano fosse, si può dire, quello normale, e vittime animali ricorressero solo spo­ radicamente nella pratica sacrificale, la vecchia spiegazione (Jevons) , fondata sulla constatazione che gli antichi Messicani non avevano animali domestici, non è , certo, sod­ disfacente : essa presuppone che il sacrificio "cruento" dovesse necessariamente appartenere a ogni religione; i Messicani si sarebbero trovati, dunque, in questa situazione: sapevano di dover far sacrifici cruenti, ma non disponevano di animali a questo fine ; perciò, non potevano far altro che sacrificare uomini. . . A parte l'errore di fondo di questo ragionamento, esso non aiuta a capire altre religioni che come quella peruviana , fenicia, celtica, ecc . - davano un posto importantissimo ai sacrifici umani, pur praticando anche quelli animali . In altri termini: se , come vogliono le teorie astratte, il

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sacrificio umano non avesse nulla di specifico rispetto agli altri sacrifici e la vittima umana non fosse che una delle vit­ time sacrificati possibili, noi dovremmo attenderci di trova­ re in tutte le religioni che praticano sacrifici cruenti una pro­ porzione pressappoco uguale tra vittime umane e vittime animali; i fatti storici mostrano, invece, che il sacrificio umano ha una diffusione diversa da quella degli altri sacri­ fici cruenti. E basta questa constatazione per capire che il sacrificio umano costituisce un problema storico. Ora , d'altra parte, bisogna anche riconoscere che Loisy aveva ragione nell'affermare che le occasioni e i fini del sacrificio umano non si distinguono - almeno non in manie­ ra evidente - da quelli di altri sacrifici. Ciò vuol dire che dif­ ficilmente si arriverebbe alla comprensione del fenomeno storico del sacrificio umano, partendo dal fenomeno gene­ rale del sacrificio. Ma esiste un altro punto di partenza? A questo proposito dobbiamo aprire un altro discorso. Diversi studiosi (tra cui Crawley, Schwenn, Blome e, più recentemente , Henninger) hanno già avvertito che di "sacri­ fici umani " , in senso stretto, si dovrebbe parlare solo nei casi in cui persone umane vengono uccise come vittime offerte a qualche essere sovrumano; non c'è, infatti, "sacrifcio" là dove non vi è un destinatario, mentre spesso vengono, a torto, indicati come sacrifici umani certi riti in cui si uccido­ no persone umane, senza , tuttavia, che l'azione sia rivolta a un qualsiasi destinatario. Non solo fenomeni religiosi così singolari e ben definiti come il cannibalismo rituale o la cac­ cia alle teste possono essere completamente privi di ogni idea sacrificale - mentre l'uccisione di vittime umane costi­ tuisce almeno il loro presupposto indispensabile - ma, come si vedrà dettagliatamente , esistono numerosi altri tipi di rito (riti funebri, riti di fondazione, riti iniziatici, ecc.) che

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possono richiedere vittime umane senza assumere un cara t­ tere sacrificale . Fino a questo punto si tratta, almeno appa­ rentemente , di una pura questione terminologica : per una maggiore precisione appare opportuno chiamare "sacrifici umani" soltanto quei riti di uccisione che sono rivolti a un destinatario sovrumano (divinità , antenati, spiriti, "feticci" e, perfino, persone apparentemente umane alle quali però si conferisce uno status sovrumano come certi re o capi) , men­ tre per gli altri riti è meglio usare un termine più generico, come quello di "uccisioni rituali" che adotteremo. Ma, a guardare meglio, la distinzione terminologica non porta solo a una chiarificazione dei concetti . Anzitutto, ina­ spettatamente, essa ci ha dato la possibilità di vedere i sacri­ fici umani da un nuovo punto di vista. Finora si era rimasti davanti all'affermazione che il sacrificio umano è una specie di sacrificio che - a prescindere dalla vittima - non si distin­ gue dagli altri sacrifici; i suoi fini, mezzi , occasioni e senso sarebbero gli stessi di ogni altro sacrificio e, perciò, la scel­ ta della vittima umana in certi casi, e animale in altri , non si spiegherebbe a partire dallo studio del fenomeno "sacrifi­ cio " . Ma ora vediamo che il sacrificio umano rientra anche in un'altra categoria più generale, quella delle uccisioni rituali. Tra gli altri sacrifici, esso si distingue solo per il tipo della vittima ; tra le altre uccisioni rituali, si distingue per il suo carattere sacrificale . In altri termini: il sacrificio umano fa parte della più ampia categoria dei sacrifici e, contempo­ raneamente, anche della più grande categoria delle uccisio­ ni rituali; le due grandi categorie vengono a contatto solo nel settore del sacrificio umano, come due dischi che si coprano per una piccola parte della superficie di entrambi . Ora , se il problema del sacrificio umano - un problema sto­ rico che, come si è visto, esiste - non è stato risolto da colo-

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ro che partivano dallo· studio della categoria "sacrificio" , sembra giustificato tentare un'altra strada, quella che parte dalla categoria "uccisione rituale" . Se dal punto di vista del sacrificio non si spiega perché certe religioni - o costante­ mente o solo in certi periodi storici o in determinate occa­ sioni - propendano per la vittima umana, bisogna almeno accertare se dal punto di vista delle uccisioni rituali non si comprenda meglio la specificazione di queste in senso sacrificale, cioè la formazione del fenomeno "sacrificio umano" . A scegliere questa nuova strada incoraggia anche un'altra considerazione . Le uccisioni rituali non sacrificali appaiono come riti "autonomi" (per il concetto v. Introduzione alla storia delle religioni, pp. 31 sgg.), mentre il sacrificio, e quindi anche il sacrificio umano, è un rito cultuale. Ora, non vi è alcuna ragione cogente per postulare che i riti autono­ mi come tali siano necessariamente più antichi dei riti cul­ tuali (come volevano certe teorie evoluzionistiche, attri­ buendo p. es. una priorità assoluta ai riti "magici"). Ma nei casi in cui un rito che ha una sua ragione d'essere come rito autonomo (e come tale ricorre in diverse religioni) appare investito di funzioni cultuali, si può essere certi che si tratta di un suo adattamento relativamente recente: se p. es. un rito di passaggio di tipo ben individuato appare in una reli­ gione politeistica quale elemento liturgico di una festa dedi­ cata a una divinità, è chiaro che il culto divino si è impos­ sessato di un rito originariamente indipendente da esso e l'ha piegato a una nuova funzione . Ora, trasferendo la que­ stione sul nostro argomento: se noi studiassimo prima le uccisioni rituali non sacrificali (riti autonomi) e dopo i sacri­ fici umani, non è escluso che potremmo incontrare dei casi in cui il sacrificio umano apparirebbe come un'uccisione

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rituale autonoma trasformata in sacrificio, cioè in rito cultua­ le : e allora, almeno in questi casi, avremmo in mano una sequenza storica . Potrà essere poco: ma ad ogni modo più di quanto finora ha offerto lo studio del sacrificio umano, condotto dal punto di vista del sacrificio. Ma si può sperare anche di più : solo da un punto di vista astratto la vittima umana è una vittima sacrificale qualsiasi. Forse i riti non sacrificali che richiedono l'uccisione di per­ sone umane faranno capire le ragioni per cui la richiedono; e queste ragioni potranno essere utilizzate anche nell'inter­ pretazione del sacrificio umano. Se poi, come si è detto sopra , l'ultimo fine di questo corso è di contribuire allo studio del sacrificio umano nelle religioni politeistiche, non possiamo dimenticare che queste religioni sono sicuramente "recenti" (non anteriori alla for­ mazione delle civiltà superiori); e si vedrà che sono recenti rispetto alle varie forme di uccisioni rituali, diffuse anche in culture notevolmente antiche . Perciò vi è almeno la teorica possibilità che queste forme di uccisioni rituali costituiscano dei precedenti storici del sacrificio umano nelle religioni politeistiche . È un'altra ragione per tentare il nuovo approc­ cio al problema .

Parte Prima LE UCCISIONI RITUALI

I

VITTIME UMANE NEI FUNERALI REGALI

l. Mesopotamia In una delle sue campagne di scavo nel cimitero dell'an­ tica città sumera di Ur, nel 1 928, Leonard Woolley fece una scoperta sensazionale . Dopo aver esplorato circa un miglia­ io e mezzo di tombe comuni che contenevano morti avvol­ ti in stuoie o posti in bare, con semplice corredo funebre e tracce di offerte, egli s'imbatté in una costruzione sotterra­ nea rivestita di muratura, che comprendeva diversi vani . Qui, dapprima, gli apparvero cinque scheletri coricati fian­ co a fianco, ciascuno con un pugnale all'altezza della vita; più avanti, dieci scheletri di donne disposti ordinatamente su tre file, ciascuno con un'acconciatura in oro e lapislazzu­ li. Nessuno di questi scheletri era accompagnato da suppel­ lettile sepolcrale, che pur non mancava neanche nelle tombe più semplici. Poi si trovò un'arpa di straordinaria fat­ tura artistica e ornata con materie preziose : accanto, giace­ va l'arpista che portava una corona d'oro; poi, ancora , un carro decorato, con gli scheletri degli asini attaccati e quelli dei guidatori . All'ingresso di un vano, che subito appariva come particolare , finalmente si trovò una ricchissima sup­ pellettile funebre, oltre che due carri riccamente ornati, con tre buoi ciascuno e i rispettivi guidatori; nello stesso spazio giacevano altre donne con acconciature lussuose e orecchi­ ni d'oro; tra di esse e i carri, altri corpi, tra cui quelli di sol-

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dati con le loro lance , un'altra arpa , modelli di navi, ecc . Il vano particolare - una camera sepolcrale - appariva sac­ cheggiato dai ladri e non conteneva corpi; ma un'altra camera sepolcrale vicina, rimasta intatta, conteneva lo sche­ letro di un personaggio femminile nettamente distinto, per posizione e per ornamenti (tra cui uno stupendo diadema) , da tutti gli altri morti. Oggetti iscritti permisero di dare un nome a questo personaggio: era Shubad, principessa di famiglia reale . Gli altri morti - circa un'ottantina in tutto non erano che persone appositamente uccise per accompa­ gnare nella morte la principessa : gente della corte, guardie e altro personale al suo servizio . (L'ipotesi di Woolley, che nella tomba saccheggiata fosse stato sepolto un re , non può essere provata .) Successivamente fu trovata anche un'altra tomba simile, ugualmente di donna d'alto rango, con ses­ santotto corpi allineati intorno. La sensazione suscitata da questi ritrovamenti, anche presso il grande pubblico, era dovuta soprattutto alla ric­ chezza e alla bellezza artistica degli oggetti, ma anche alla documentazione di un'usanza - l'uccisione in massa di persone destinate ad essere sepolte insieme con un perso­ naggio di rango reale - che era, fino a quel momento, com­ pletamente sconosciuta nella Mesopotamia . A tutto ciò si aggiungeva la data che Woolley assegnava allora ai ritrova­ menti, me che oggi risulta inaccettabile : Woolley proponeva una data tra il 3500 e il 3200 a . C . per la I dinastia di Ur cui le tombe appartenevano, mentre la cronologia attuale assegna a questa dinastia un'epoca difficilmente anteriore al 26° o al 27° sec. Allo stesso periodo risalgono alcune tombe regali della città sumera di Kish (Watelin-Langdon, Excavations at Kish, IV, 1 932) .

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Dal nostro punto di vista importa soprattutto che si tratta di un fenomeno completamente isolato nella Mesopotamia, dove pur si conoscono ormai numerosi cimiteri di tutte le epoche : né in secoli più antichi, né in periodi più recenti si trova alcuna traccia di una simile pratica funeraria . Solo un passo di un poema sumero appartenente al ciclo di Gilgamesh, cui l'editore, S. Kramer, ha dato il titolo La morte di Gilgamesh (v. in Pritchard, Ancient Near Eastern Texts), allude forse (ma l'interpretazione del testo lacunoso è del tutto incerta!) all'uso di far accompagnare un re nella tomba da persone che gli appartenevano da vive : si tratta di un elenco (preceduto da una lacuna) che si apre con le parole : "La sua beneamata moglie, il suo beneamato figlio, la sua beneamata concubina" e passa, via via , a menzionare il suo musicante, il suo valletto, il suo capo-servitore , ecc . , poi all'enumerazione di oggetti che il re morto dedica alle divi­ nità infere. Anche se l'interpretazione, secondo cui le perso­ ne e gli oggetti elencati dovevano seguire il re nella tomba, cogliesse nel vero, il passo non documenterebbe che l'esi­ stenza dell'idea o del ricordo di quella pratica nel periodo della composizione del poema (come l'uccisione di prigio­ nieri troiani ai funerali di Patroclo non documenta una sif­ fatta pratica - ma solo il suo ricordo - nell'epoca dei poemi omerici!) . Bisogna aggiungere che la religione mesopotamica igno­ rava il sacrificio umano, mentre - a parte i casi menzionati di Ur I - uccisioni rituali vi ricorrevano solo nei riti di fonda­ zione (v. sotto) . 2 . Egitto Il clamore che accompagnò la scoperta di Woolley sareb­ be stato forse lievemente minore , se il grande pubblico

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fosse stato a conoscenza di fatti parzialmente analoghi dell'Egitto antico, noti da tempo agli specialisti. Già gli scavi di Flinders Petrie ad Abydos (Alto Egitto) , nel 1 899- 1 900, avevano portato alla luce alcune tombe di re della I dinastia, che erano circondate da numerose tombe ("sussidiarie" , nel linguaggio degli egittologi) assai modeste, in ciascuna delle quali vi era un morto. La suppellettile di queste tombe modeste aveva un carattere particolare : ogni morto portava con sé gli strumenti del mestiere che aveva esercitato da vivo; si potevano agevolmente distinguere le tombe dell'in­ cisore di pietre , del vasaio, del tessitore, del costruttore di navi, del soldato, ecc . Si è potuto dimostrare che queste tombe erano state chiuse insieme con la tomba regale; le persone che vi erano sepolte erano morte contemporanea­ mente, certo non per caso ma perché erano state uccise: il re doveva essere accompagnato nella morte dal personale specializzato che era al suo servizio. Poiché si sapeva che la I dinastia dell'Egitto unificato era oriunda dell'Alto Egitto, era plausibile pensare che i re di questa dinastia si facesse­ ro seppellire nella loro antica capitale, anziché nella nuova del regno unificato, che era Menfi. Più recentemente, però, scavi condotti da W. Emery a Saqqara , necropoli di Menfi, (e pubblicati in tre volumi, rispettivamente del 1 949, 1 954 e 1 958) hanno portato a nuovi risultati: Emery ha ritrovato lì tombe di diversi re della I dinastia , e ciò che appare sor­ prendente è che alcuni di questi re risultano gli stessi di cui si conoscevano già le tombe ad Abidos. Ciò vuol dire che questi re della I dinastia avevano due tombe ciascuno , u n a nella capitale dell'Egitto unito, l'altra nell'ex-capitale dell'Alto Egitto, loro patria d'origine : due tombe di cui evi­ dentemente una sola poteva contenere il corpo del morto, mentre l'altra era un cenotafio. Ora , anche le tombe di

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Saqqara risultano circondate da tombe "sussidiarie" che, esattamente come ad Abidos, contenevano i lavoratori spe­ cializzati al servizio del re, uccisi in occasione dei suoi fune­ rali. (A Saqqara una delle tombe risulta essere di una regina: Emery pensa che si tratti di una regina regnante e non sem­ plicemente moglie di un re .) Le conclusioni di Emery, che vede nelle tombe di Saqqara le tombe reali e in quelle di Abydos i cenotafi, sono state ora attaccate in un articolo apparso nel corso della stesura delle presenti dispense (B .J. Kemp in "Antiquity" 1 967) : sarebbe prematuro qui prende­ re posizione nella questione che dovrà essere ridiscussa dagli egittologi. L'uso di uccidere persone destinate ad accompagnare il re nella morte è rimasto limitato, nell'antico Egitto, esclusi­ vamente al periodo della I dinastia . Si conosce un solo caso in qualche misura analogo risalente a un periodo molto più recente: a Kerma località della Nubia (paese confinante e occupato dagli Egiziani), presso la tomba di qualche digni­ tario o governatore egiziano del Medio Regno si sono trova­ ti i resti di diverse decine di Nubiani appositamente uccisi. Si noti che lo stesso personaggio aveva una tomba anche in patria, per nulla differente dalle normali tombe (senza vitti­ me umane, naturalmente) degli altri dignitari egiziani: si vede che solo nel paese "barbaro" e soggiogato dall'Egitto, il rappresentante ufficiale della potenza occupante aveva diritto a onoranze funebri così imponenti; le vittime che lo accompagnavano nella tomba non erano, del resto, lavora­ tori specializzati, bensì gente del paese occupato. 3. Il problema storico I casi della I dinastia egiziana e quelli di Ur I sono gli esempi cronologicamente più antichi che siano attestanti

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dell'istituzione di uccisione di vittime umane per i funerali di personaggi di rango reale. Vi è un nesso storico tra i due gruppi di fatti? Oggi è fuori di ogni dubbio che sin da epoca protostorica, malgrado il deserto che separa l'Egitto dall'Asia anteriore, vi erano contatti tra i due paesi: influssi prove­ nienti dalla Mesopotamia hanno avuto parte determinante nella formazione della civiltà superiore egiziana . Nel caso dell'istituzione qui esaminata, però, difficilmente si può pensare a un influsso mesopotamico sull'Egitto. Anzitutto, perché i fatti documentati sono più antichi - e di diversi secoli - in Egitto (la I dinastia , anche secondo la cronologia più bassa finora sostenuta - che oggi non gode più il favo­ re degli specialisti -, avrebbe avuto termine nel 29° sec.), dove l'uso appare anche più massiccio e duraturo. In secon­ do luogo, bisogna osservare che l'istituzione, per quanto limitata anche in Egitto a un periodo di pochi secoli, s'inse­ risce più coerentemente - o per lo meno si spiega più age­ volmente - nei quadri della civiltà egiziana che non in quel­ li della civiltà mesopotamica . L'importanza del re, conside­ rato anche come dio, e la straordinaria preoccupazione rela­ tiva ai morti e soprattutto al re morto sono tra quegli ele­ menti costanti e fondamentali della civiltà della Valle del Nilo che maggiormente la distinguono dalle altre civiltà del vicino oriente , compresa quella mesopotamica. Inoltre, in Egitto è sempre rimasto vivo l'uso di fornire di servitù il morto, e specie il re morto, anche se questa servitù non era più costituita di persone appositamente uccise, bensì di figurine che per lo più rappresentavano uomini e donne dediti a particolari lavori e che nell'aldilà dovevano essere chiamate e vivificate per provvedere ai bisogni del morto . La tenacia di quest'idea può spiegare in una certa misura anche quella isolata reviviscenza delle uccisioni di sudditi ai fune-

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rali che è documentata, come si è visto, a Kerma. Sebbene ancora oggi eminenti orientalisti cerchino di spiegare la presenza dell'istituzione qui studiata nell'anti­ chissima storia mesopotamica ed egiziana mediante l'ipote­ si di un nesso diretto - si postula un'ondata conquistatrice che avrebbe coinvolto entrambi i paesi, sovrapponendosi alle popolazioni autoctone e creando i presupposti della radicale trasformazione che portava alla formazione della civiltà superiore nell'una e nell'altra area (cfr. W. Emery, Saqquara and the Dynastic Race 1 9 5 2 ; C .J . Gadd, Tbe Spirit of Living Sacrifice in Tombs "Iraq" 22 (1 960), pp . 5 1 sgg.) -, bisogna dire che lo stato dei fatti finora accertato non favo­ risce siffatte ipotesi . In Egitto, data l'ampia conoscenza che si ha delle tombe reali di tutte le epoche, è fuori d'ogni dub­ bio che l'uso delle uccisioni ai funerali del re fu limitato alla I dinastia ; nella Mesopotamia, per quanto le sorprese non si possano escludere a priori, non sembra probabile che nuovi risultati di scavo possano ampliare i limiti cronologici e spaziali in cui l'uso finora è stato riscontrato. Ora, alla limi­ tata diffusione in entrambe le aree e alla distanza cronologi­ ca tra i fatti egiziani e quelli di Ur I si aggiungono le notevo­ li differenze formali nella realizzazione dell'istituzione , nel­ l'una e nell'altra civiltà , per rendere ancora più inverosimile un nesso diretto : in Egitto, le persone uccise hanno, ciascu­ na , la propria tomba con suppellettile funebre, in Ur sono sepolte nella tomba del personaggio che devono accompa­ gnare , senza suppellettile propria; in Egitto si tratta , pare (contro: Kemp nel cit. art. del 1 967) , solo di tombe di re, in Ur, nei soli due casi sicuri, di donne di famiglia reale; in Egitto le persone uccise sono prevalentemente lavoratori specializzati, in Ur gente della corte, sfarzosamente vestita e ornata .

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Ma se una diretta dipendenza dell'una dall'altra civiltà, per l'uso qui studiato, appare improbabile , la presenza di quest'uso - in forme variate, a distanza di pochi secoli e in due civiltà non prive di contatti e di caratteri comuni - non sarà ugualmente un puro caso . Che proprio in quell'epoca e in quell'area due popoli abbiano inventato indipendente­ mente la stessa istituzione, per praticarla, poi, solo per un breve tempo, è ancora più inverosimile del nesso diretto. Teoricamente, comunque, esiste anche una terza soluzione: l'uso può essere più antico delle due civiltà superiori, egi­ ziana e mesopotamica, e in epoca più antica anche più lar­ gamente diffuso in un'area che poteva ben comprendere entrambi i paesi. Si tratta , naturalmente, di un'ipotesi , per­ ché non si conoscono tombe reali, con vittime umane, cro­ nologicamente più antiche di quelle della I dinastia egizia­ na : ma se si considera che le costruzioni sepolcrali durature appaiono, appunto, con la formazione delle civiltà superio­ ri, non ci si può neppure attendere di trovare tombe di quel genere di un'epoca più antica. L'ipotesi si raccomanda a priori per varie ragioni: essa spiegherebbe sufficientemente e le divergenze formali e lo sfasamento cronologico tra i fatti egiziani e quelli sumeri, prodotti di sviluppi indipendenti a partire da un retaggio comune. E soprattutto spiegherebbe il fatto che in entrambi i paesi l'uso sia affiorato solo per breve tempo e sia stato, subito dopo, definitivamente sop­ presso: originato a un livello culturale più antico, esso non si sarebbe potuto inserire durabilmente nelle civiltà superio­ ri . Secondo questa ipotesi, non si tratterebbe , dunque, né di un'istituzione mesopotamica passata in Egitto, né di un'isti­ tuzione egiziana accolta dai sumeri, né di una portata in entrambi i paesi da un'unica ondata di conquistatori, né , infine , di una indipendente creata - e creata per essere

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subito soppressa! - dagli Egiziani e dai Sumeri: le tombe reali con vittime umane in Egitto e in Ur sarebbero, invece, le ultime manifestazioni in quelle civiltà superiori appena costituitesi, di un'idea religiosa più antica e più largamente diffusa. Come si può accertare la consistenza effettiva di que­ st'ipotesi? Anzitutto, perseguendo le tracce di istituzioni ana­ loghe in altre civiltà e, soprattutto, controllando se esse si riscontrino in civiltà di tipo più antico di quelle "superiori" dell'Egitto e della Mesopotamia . 4. Etnologia e "preistoria " L'ipotesi secondo cui i fatti qui studiati non rappresen­ terebbero, nelle fasi più antiche delle civiltà superiori egi­ ziana e mesopotamica, che gli ultimi sviluppi o reviviscen­ ze di un'istituzione più antica , implica che questa fosse radicata in una civiltà "preistorica" (intendendo per " prei­ storiche" , ovunque, le fasi storiche anteriori alla formazio­ ne della civiltà superiore) . Ora , si sa che la documentazio­ ne diretta delle civiltà preistoriche rivela, in generale , ben poco delle istituzioni, delle ideologie e delle strutture reli­ giose e sociali; i ritrovamenti sono oggetti muti di cui si capiscono le tecniche di produzione e la destinazione , si possono ricostruire le forme economiche , le capacità tec­ nologiche e perfino qualcosa della storia (migrazioni, con­ tatti con altri popoli) delle genti preistoriche, ma della loro vita resta in ombra tutto ciò che non lascia direttamente segno negli oggetti conservati . Ora , è vero che l'assenza delle forme tipiche della civiltà superiore accomuni in una larga, troppo larga , tipologia le civiltà preistoriche e quel­ le "primitive" recenti; ed è anche vero che a determinati ritro­ vamenti preistorici spesso corrispondano i prodotti della

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"cultura materiale" di determinati popoli primitivi, di modo che - con prudenti deduzioni analogiche - a partire dai fatti etnologici spesso si può ricostruire il genere di conte­ sto culturale in cui quei ritrovamenti preistorici verosimil­ mente s'inserivano . Ciò, però, non significa che una civiltà primitiva attuale corrisponda perfettamente o anche solo con buona approssimazione a una qualsiasi civiltà preisto­ rica . Salvo forse - e in nessun caso completamente - qual­ che rara civiltà di cacciatori e raccoglitori, nessuna civiltà primitiva osservata in tempi recenti è rimasta del tutto immune da influssi diretti o indiretti provenienti - nel corso degli ultimi seimila anni - dalle civiltà superiori . Si pensi come certi importantissimi fenomeni - come p . es. l'allevamento di grande bestiame o l'uso dei metalli -, ormai da lunghi secoli perfettamente integrati in un gran numero di civiltà primitive , abbiano la loro dimostrabile origine nel periodo di formazione delle civiltà superiori del vicino oriente : le civiltà preistoriche anteriori a questo periodo devono essere state sostanzialmente differenti dalle civiltà primitive attuali. Perciò, contrariamente a quanto si credeva nel periodo ingenuo dell'evoluzioni­ smo , non è affatto sicuro che un'istituzione sociale o reli­ giosa osservata nelle civiltà primitive debba , per questa sola ragione , essere considerata d'origine preistorica . La questione deve essere esaminata caso per caso . Tornando, dunque, al nostro argomento presente : anche se noi ritro­ veremo l'uccisione di vittime umane ai funerali del re o di personaggi di rango sociale elevato presso i popoli primi­ tivi , questo fatto da solo non ci autorizzerà a presumere un'origine preistorica indefinitamente remota dell'istituzio­ ne, ma ci darà solo un indizio che , insieme con altri , dovrà essere valutato.

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5. Africa Sin dal 1932, e poi ripetutamente, C . G . Seligman ha segnalato una serie di corrispondenze tra alcune civiltà pri­ mitive dell'Africa orientale - di popoli etnicamente camitici, economicamente pastorali, come i Ganda e i Kitara dell'Uganda - e l'antica civiltà egiziana . Si tratta di corri­ spondenze troppo precise per essere casuali, che vanno da oggetti materiali (come determinati strumenti musicali) e usanze tradizionali (come la deformazione artificiale delle corna dei bovini) fino a certi riti religiosi; tra questi ultimi sia menzionato p. es. un rito eseguito dal re egiziano in occa­ sione della grande festa giubilare (sed) e in altre occasioni: per prendere possesso dell'universo, il re, come già nel mito il dio Horus, dopo la sua vittoria scagliava quattro frecce verso i quattro punti cardinali; il medesimo rito ricorre nel cerimoniale d'intronizzazione presso i popoli menzionati dell'Uganda . Seligman spiegava questi riscontri con un comune sostrato camitico su cui si sarebbero innestate le conquiste della civiltà superiore egiziana, diffusesi e conser­ vate fino ad oggi presso quei popoli. Anche l'istituzione qui studiata può essere citata nella medesima connessione . Presso i Ganda (un popolo bantu­ coltivatore nella sua massa , ma con uno strato dominante camitico-pastorale cui appartiene anche il re) , quando il re muore, viene spento il suo fuoco e viene ucciso il capo della guardia addetta al fuoco reale . Si lavano le viscere del re e poi anche il corpo, e precisamente con della birra che verrà bevuta dalle mogli e da coloro che hanno compiuto il lavag­ gio. Poi vengono legati: il cuoco principale del re , il suo principale preparatore di birra , il capo dei suoi pastori, il suo fontaniere , la sua cuoca (si dice : "la sua pentola è rotta ; per chi cucinerebbe ormai?"), il dispensiere della birra , l'ad-

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detto alla stanza da letto, l'addetto al vestiario, l'addetto al latte . A sepoltura compiuta vengono uccise, a mazzate, anzi­ tutto le mogli del re (ad esse si rompono anche le gambe) e poi tutte le persone precedentemente legate, nonché centi­ naia di persone comuni. I loro corpi, lasciati insepolti intor­ no alla tomba del re, sono custoditi per qualche tempo con­ tro le bestie. Anche i Ganda, dunque, fanno accompagnare il re nella morte da servitori specializzati (oltre che da altre persone) come gli Egiziani della I dinastia . Ma gli africanisti ben presto si sono resi conto del fatto che fenomeni analoghi, con precisi dettagli comuni, si tro­ vano anche fuori dall'ambiente camitico-pastorale . In un volume intitolato Tbe King of Ganda, (Stoccolma 1 944) , T. Irstam ha seguito le istituzioni connesse con la regalità - tra cui l'uccisione di vittime ai funerali del re - presso un gran numero di popoli africani, a partire da quelli dell'Uganda fino ai grandi regni negri dell'Africa occidentale, dove sia la base etnica che la struttura economica sono completamente differenti da quelle del mondo camitico. Certo, p. es . , il grande regno di Dahomey, sulla costa di Guinea, è fuori d'ogni presumibile contatto con quest'ultimo . Si tratta di una di quelle civiltà " primitive" che per molti aspetti società articolata , grossi agglomerati semi-urbani, religio­ ne politeistica - si avvicinano alle civiltà "superiori " . Ora, nel Dahomey, la morte del re era occasione di uccisioni in massa , ma tra la massa di gente uccisa vengono nettamente distinti i rappresentanti di singole categorie : un soldato per ogni reparto militare , un tessitore, un fabbro, una vasaia , un sarto, un incisore di legno, un agricoltore, un uomo e una dozzina per ciascun villaggio, oltre l'enorme numero delle mogli, il banditore officiante nella cerimonia e i portatori della bara .

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I numerosi esempi africani, del resto, richiamano la nostra attenzione su un fatto che dobbiamo qui segnalare: nella grande maggioranza dei casi l'uccisione di vittime umane non accompagna solo i funerali del re, ma anche diversi momenti salienti della sua vita, a cominciare dalla sua intronizzazione . Quest'osservazione apparentemente ci allontana dal tema che i fatti mesopotamici ed egiziani ci hanno proposto. Ma bisogna, anzitutto, riflettere sulla circo­ stanza che la documentazione relativa a questi fatti è esclu­ sivamente archeologica : nelle tombe reali sono state ritrova­ te le vittime uccise, ma non possiamo sapere se l'istituzione dell'uccisione di vittime umane non s'inquadrasse, anche durante la dinastia egiziana e in Ur I, in un nesso più ampio tra uccisioni rituali e regalità, come nell'Africa primitiva (e altrove: v. sotto) . In secondo luogo: nel caso che così non fosse - cosa che non si può né affermare né escludere resterebbe aperta la questione se il nesso più vasto osserva­ to nel mondo primitivo fosse dovuto a un allargamento del rapporto (in tal caso, più antico) tra funerali regali e uccisio­ ne rituale, o, invece, al contrario, se esso rispecchiasse la forma più antica, di cui l'eventuale rapporto esclusivo con i funerali non sarebbe che un provvedimento o una riduzio­ ne . In ogni modo, nell'etnologia africana l'uccisione di vitti­ me umane ai funerali del re è soltanto uno dei casi delle uccisioni connesse con la regalità e perciò qui è necessario accennare anche agli altri casi . Per tornare ai Ganda da cui siamo partiti : presso questo popolo diverse occasioni importanti per il re richiedevano vittime umane che dovevano garantire la sua "salute " . Subito dopo l a sua intronizzazione, i l re intraprendeva u n giro d i visite presso i sottocapi del paese. Questi gli presen­ tavano allora un figlio o altro prossimo parente già prescel-

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to che le guardie del re uccidevano sul posto . Presso i Kitara , affini, in occasione di ogni novilunio il popolo si felicita con il re perché questi ha superato una nuova lunazione, e un uomo appositamente catturato viene scannato; con il suo sangue si spalmano i "feticci" del re . Non lontano, a nord-est dell'Uganda , nell'Etiopia meri­ dionale, si trovano popolazioni cuscitiche che recentemen­ te sono state studiate in tutta la loro cultura complessa e stratificata (H. Straube , Westkuschitische Volker, 1 963) . Presso di esse le uccisioni rituali sono state soppresse appe­ na una sessantina d'anni fa dallo stato etiopico (strato domi­ nante amhara) . La regalità ha un posto importante nella cul­ tura dei Cusciti occidentali, che si sovrappone a uno strato pre-cuscitico e, mescolata con elementi caratteristici delle culture cuscitiche orientali, a sua volta è parzialmente sopraffatta dallo strato culturale imposto dai colonizzatori amhara . Presso i Giangero (uno di questi popoli) , l'uccisio­ ne di vittime ai funerali del re s'inserisce in tutto un com­ plesso di uccisioni rituali legate all 'istituto monarchico carat­ teristico dei Cusciti occidentali. La posizione del re è, del resto, sottolineata da un linguaggio particolare che bisogna adottare (sotto pena di morte) quando si parla di lui; il re è identificato con il sole e la luna , al punto che egli non esce quando questi astri sono visibili in cielo. In quattro luoghi sacri distinti avvengono, alternativamente , uccisioni rituali annuali, salvo in occasione dell'intronizzazione , quando quattro vittime (fonite a turno da certi clan galla del paese) vengono uccise contemporaneamente nei quattro luoghi, mentre una quinta viene sepolta viva insieme con il re pre­ cedente . Se si volessero concepire queste uccisioni come "sacrifici umani" , si dovrebbe dire che il re ha in essi la dop­ pia veste di "destinatario" - le vittime muoiono per la sua

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salute - e di "sacrificante" , anche se presso i Giangero diversamente da quanto avviene presso altri popoli del­ l'area, come gli Amarro, i Dorse, ecc . - non è lui, personal­ mente, a colpire con la lancia la vittima, voltandole le spal­ le , bensì delega il compito e affida la lancia reale con cui l'uccisione deve avvenire a persone che ne traggono presti­ gio sociale . Prestigio circonda, del resto, anche le vittime (in certe occasioni in cui servono vittime infantili, le madri offrono a gara i propri figli) . Oltre ai funerali, all'intronizza­ zione e alle uccisioni annuali, vittime umane vengono ucci­ se, per il re , a ogni novilunio (cfr. i Kitara, sopra) e in varie occasioni legate sempre alla vita del re (restaurazione della sua capanna , rifacimento con nuova pelle del suo tamburo, ecc . ) . Presso i popoli bantu sud-orientali (Zulu, Swazi, Shona, Sotho, ecc. : cfr. O . Petterson, Chiefs and gods, Lund 1 953), ai funerali del re vengono uccise spesso persone di posizio­ ne particolare , come le mogli, i consiglieri, i capi-distretto (questi , presso gli Swazi, appositamente convocati, buttano le loro armi nel fuoco e attendono il colpo di coltello del fat­ tucchiere) , gli schiavi del re e il personale che ha preparato i funerali. Presso lo stesso gruppo di popoli anche l'introniz­ zazione richiede talvolta vittime umane . La regalità , del resto, presso questi popoli coltivatori, entra in connessioni ideologiche sia con la coltivazione stessa sia con il culto degli antenati che è al centro della religione : in occasione dell 'intronizzazione del nuovo re , i Wangwe rapiscono in segreto un ragazzo e una ragazza ; li ingozzano di farina e di semi e poi li sacrificano agli antenati . Tornando, infine, ai grandi regni dell'Africa occidentale , neanche nel Dahomey l'uccisione di vittime umane era limi­ tata all'occasione dei funerali regali. Bisogna, anzitutto,

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ricordare che un rito simile a quello dei funerali - ma su una scala minore e con vittime, a quanto pare, scelte tra i con­ dannati a morte - aveva luogo annualmente in onore dei re morti, cioè inserito nel culto degli antenati regali. Le vittime godevano, almeno per un giorno prima di morire, di un otti­ mo trattamento. Il re, del resto, offriva vittime umane ai pro­ pri antenati in ogni occasione di qualche rilievo (prima di una spedizione bellica, per la fondazione di un nuovo palazzo, perfino per lo scavo di un nuovo pozzo, ecc.). Secondo una notizia, anzi, ogni mattina ringraziava in que­ sto modo gli antenati di avergli permesso di svegliarsi. . . Nel Dahomey soltanto il re aveva diritto di far uccidere vittime umane : c'era, infatti, tutta una gerarchia delle offerte sacrifi­ cali; i poveri dovevano accontentarsi di offrire legumi e altri vegetali, altri, in più , offrivano anche un pollo, i più ricchi potevano aggiungere una capra o una pecora , i nobili di rango elevato anche un torello; al re spettava la vittima più preziosa, l'uomo.

6. Verso l'Oriente Di fronte alla diffusione, in culture tanto varie delle zone più varie dell'Africa, delle uccisioni rituali legate alla regali­ tà , gli africanisti hanno rinunciato a spiegare il fenomeno con gli influssi della civiltà egiziana antica (con o senza riguardo al sostrato camitico) . E, bisogna dire , con ragione: è davvero impensabile che un'istituzione che nell'antico Egitto ebbe una vita effimera, potesse influenzare per mil­ lenni tutto il continente. Diversi studiosi hanno pensato, allora , che nell'Egitto stesso quell'istituzione fosse dovuta a influssi provenienti da fuori, dall'Oriente (sulle varie teorie v. van Bulck in La regalità sacra, Leiden 1 959) . Ma da quale Oriente?

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Non certo dalla civiltà superiore mesopotamica e dalle altre grandi civiltà vicino-orientali, dominate dall'egemonia culturale mesopotamica, dato che, come si è visto, nella Mesopotamia l'uso si presenta più tardi che in Egitto e resta ancora più limitato nel tempo. Si è già visto che, se mai, l'origine dell'istituzione andava cercata in una fase culturale più antica di quella delle civiltà superiori: ma nel Vicino Oriente preistorico non ne troviamo traccia. In una fase preistorica, la Mesopotamia accolse importanti influssi pro­ venienti dall'Iran (naturalmente "pre-iranico" , cioè non ancora abitato dai popoli di lingua indoeuropea): ora, in mancanza di prove preistoriche dirette , potrebbe avere qualche valore di indizio, se si ritrovasse l'istituzione nell'Iran storico, quale eventuale retaggio di tempi remoti. Ma sebbene qualche sacrificio umano sia documentato nell'Iran anche sotto gli Achemenidi, non sembra che vi siano prove di uccisioni rituali ai funerali dei re (o comun­ que legate alla regalità) : G. Widengren che ne afferma l'esi­ stenza (in La regalità sacra, p. 254), resta debitore della documentazione . Bisogna allontanarsi sia nello spazio dell'area nucleare delle grandi civiltà vicino-orientali, sia nel tempo dal perio­ do più antico delle civiltà superiori, per ritrovare ancora l'uso che stiamo seguendo. Erodoto C 4, 7 1 e sgg.) descrive come gli Sciti seppellivano i loro re . Gli Sciti conosciuti da Erodoto - popolo etnicamente forse affine agli Iranici erano quelli stanziati nelle prossimità delle colonie greche del Mar Nero; ma questo territorio non era che un angolo dell'immensa area popolata o percorsa da tribù scite ed altre , culturalmente affini. Con gli Sciti, infatti, entriamo in un mondo culturale particolare , quello delle grandi steppe euroasiatiche che, pur con molte varietà etniche, locali e

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cronologiche, formano un continuum tra l'Europa orientale e la Cina. In quest'immensa area popoli nomadi e semino­ madi, per lo più allevatori (specie di cavalli) e guerrieri, vivevano spostandosi frequentemente secondo le pressioni che di volta in volta alcuni di essi, giunti improvvisamente in una fase di espansione e di egemonia , esercitavano sui loro vicini : dagli Unni del 4° sec. ai Mongoli di Genghiz Khan, nel 1 3° sec . , questi vari popoli spesso rappresentaro­ no gravi minacce anche per le grandi civiltà sedentarie dell 'Europa e dell'Estremo Oriente. Ciò che qui importa non è tanto la loro storia, quanto il fatto che questi popoli amalgamavano nella loro civiltà ele­ menti occidentali e orientali, fondendoli e trasformandoli secondo le proprie esigenze e sensibilità e facendoli viag­ giare attraverso gli sterminati spazi nei due sensi opposti. La civiltà delle steppe si realizza su vari livelli, ma quella dei popoli di volta in volta dominanti non era, certo, di tipo "primitivo" ; d'altra parte , essa è così diversa da quella dei grandi popoli sedentari dell'Occidente, del Vicino, Medio e Estremo Oriente , che si esiterebbe a definirla, al pari di que­ ste , come "civiltà superiore " ; e, infatti , il nomadismo stesso esclude certe caratteristiche salienti della civiltà superiore (urbanesimo, economia agraria con tecniche progredite , ecc.); perciò, in un senso puramente convenzionale possia­ mo piuttosto usare il termine di civiltà "barbara " . Tornando agli Sciti di Erodoto, quando il loro re moriva , il suo corpo, pulito delle interiora e avvolto in cera (realiz­ zazione "barbara" della mummificazione), veniva posto su un carro e portato in giro, di tribù in tribù , a raggiungere il lontano cimitero regale . Qui, sotto un'asse di legno posta su lance conficcate in terra e ricoperta di pelli, veniva scavata una fossa ; una concul •ina , il coppiere, lo stalliere, il servito-

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re personale e l'araldo del re venivano strangolati, interrati insieme con i cavalli; inoltre, in questa tomba di massa si gettavano anche primizie di ogni prodotto e coppe d'oro. Dopo un anno si strangolavano ancora cinquanta dei servi­ tori più fedeli del re e cinquanta dei migliori cavalli; dopo una rudimentale procedura di imbalsamazione e di impa­ gliatura, i cavalli venivano messi in piedi e gli uomini uccisi sopra di essi, e tutto ciò "in modo che sembrassero correre in giro intorno alla tomba" del re . (Il rito funebre di cavalca­ re intorno alla tomba è noto sia nell'antichità classica, sia in diverse civiltà "barbare".) Gli scavi di Kuban (Russia meridionale) hanno conferma­ to le informazioni di Erodoto: tombe regali scite del 5°-4° sec . , con vittime umane, cavalli e, in più , notevoli tesori d'oro, sono state portate alla luce . Ma tombe non molto dis­ simili sono state trovate anche a Pazirik, nella zona altaica, cioè a enorme distanza verso nord-est (cfr. T. Talbot Rice, Tbe Scythians, 1 957) . Degli altri popoli delle steppe , non è facile, allo stato attuale degli studi, raccogliere una documentazione suffi­ ciente ; si hanno notizie sparse soprattutto sull'uccisione di prigionieri alla morte dei re presso i vari popoli "barbari" che ebbero parte nelle grandi migrazioni dei primi secoli del medioevo europeo. I Mongoli praticavano lo stesso uso anche nel periodo della loro massima espansione: ed esat­ tamente come gli Sciti, oltre alle vittime umane, anche essi uccidevano e seppellivano cavalli per i re morti. Sia menzionato, almeno con un accenno, che presso i popoli "primitivi" della Siberia si osserva come un tenue riflesso - per quel che riguarda il nostro argomento - delle civiltà "barbare" delle steppe . Tra gli animali uccisi sulla tomba del padrone figurano con particolare frequenza i cani

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e i cavalli; si dice che gli Yakut a volte, insieme con il caval­ lo, uccidevano anche un servo del morto. Sporadicamente, questi riflessi arrivano, certamente dalla Siberia, fino all'America primitiva (I.A. Lopatin, Tbe eu/t of the Dead among the Natives of the Amur Bassi n, 1 960) .

7. Cina La documentazione sui popoli delle steppe per il nostro argomento, come si è detto, è ancora molto insoddisfacen­ te; inoltre, essa riguarda casi che cronologicamente non risalgono oltre al 5° sec. a . C . Ma la steppa congiungeva anche prima il Vicino e l'Estremo Oriente : oggi non pare vi sia dubbio che la civiltà del bronzo e la cerealicoltura rag­ giunsero la Cina a partire dal Vicino Oriente e precisamen­ te sulla scia delle steppe . Ora, nella prima civiltà superiore cinese (dinastia Shang: 1 5°-14° sec . a . C . !) , l'uccisione di vit­ time umane è documentata anche dalle iscrizioni dei noti ossi oracolari che più volte accennano alla decapitazione di centinaia di prigionieri. Gli scavi hanno portato alla confer­ ma definitiva di questi documenti. Scheletri senza testa e teste senza corpi, raggruppati frequentemente per decine, sono stati trovati in più di un sito di quest'antica civiltà . Ma ciò che qui interessa , è che essi sono stati trovati sempre all'interno o nei pressi immediati di grandi costruzioni sepolcrali. Nel cimitero di Hsi Pei Kang, in una tomba, ai quattro angoli della camera sepolcrale, sono stati trovati quattro scheletri inginocchiati e i resti di un cane; in un'altra tomba un gran numero di crani raggruppati per decine . Tutt'intorno alle grandi tombe vi erano delle piccole (specie di "tombe sussidiarie"!) che non contenevano che decine di scheletri senza testa o, invece, di crani. In una tomba di Hsiao Thun, scoperta nel 1 950, erano racchiusi ventiquattro

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vittime umane e undici cani; nei corridoi che portavano alla camera sepolcrale sotterranea, gli scheletri di guardie arma­ te di alabarde ricordano i soldati delle tombe di Ur I; sopra la stessa camera sepolcrale, in una fossa, 34 crani erano disposti in modo da guardare, tutti, verso il centro (cfr. W. Watson, China, 1 96 1 ) . Ciò che appare significativo, è che questa pratica sembra sia definitivamente scomparsa dalla Cina con la dinastia Shang. Confucio (6°-5° sec. a . C . ) che pur conosceva le antichità e le tradizioni del proprio paese, non sapeva nulla di questo rito, tanto è vero che criticava l'uso di mettere figure umane nelle tombe, senza accennare al fatto che in un tempo si era soliti mettervi persone umane vere, appositamente uccise .

8. Ver.so l'America Non toccheremo in questo capitolo, né in quelli prossi­ mi, l'America antica di cui converrà parlare in un unico con­ testo. Perciò qui sorvoliamo anche sui casi, del resto piutto­ sto eccezionali, in cui anche nell'America primitiva recente si verificavano casi del genere di quelli finora studiati, che rivelano indubbi influssi provenienti dalle alte civiltà preco­ lombiane (così, p. es . , presso i Natchez - popolo del basso Mississipi, cioè della regione settentrionale del Golfo di Messico -, che avevano una regalità sacra con caratteri sola­ ri e uccidevano vittime umane sia per i funerali del re che per altre occasioni collegate alla carica monarchica) . Ma, giunti all'estremo angolo orientale del Vecchio Mondo, è inevitabile gettare un rapido sguardo sull'immenso oceano, il Pacifico, che lo separa dal - o, se vogliamo, lo collega al ­ continente americano . Vedremo che vari tipi di uccisioni rituali sono diffusi nelle varie civiltà delle isole del Pacifico; ma tra queste civiltà,

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quella che conosce le forme più esplicite della "regalità sacra" è indubbiamente quella polinesiana. Ora, non per caso, proprio nelle varie isole della Polinesia - dove, del resto, si praticano anche altri tipi di uccisione rituale e per­ fino (dato il carattere politeistico della religione polinesiana) anche sacrifici umani propriamente detti - si hanno notizie di persone uccise ai funerali del re ; a volte si tratta delle vedove (Tonga , Is. Marchesi) , a volte di nemici apposita­ mente catturati (ls . Marchesi, Paumotu , Rotuma : R.W. Williamson, Religion and Society Organization in Centrai Polyn esia , 1 937, p. 1 28) . Ma non è solo la morte del re che richiede vittime umane . Da Tahiti si ha un'impressionante elenco (Teuira Henry, Tahiti aux temps anciens, ed. del 1 9 5 1 ) di quei momenti della vita del re che prevedevano uccisioni di persone umane : il primo bagno del primogeni­ to del re - cioè del futuro re - costituisce il primo di quei momenti; la sua prima presentazione in pubblico, la sua cir­ concisione , la sua maggiore età , ecc . , i successivi, prima ancora della sua intronizzazione; perfino momenti della preparazione materiale di certe sue insegne - p. es . il primo colpo d'ago dato nella stoffa di corteccia di cui si prepara la sua cintura - vengono celebrati con l'uccisione di vittime umane . 9. Considerazioni Dalla sommaria e ovviamente incompleta rassegna dei fatti emergono vari problemi. Il nostro punto di partenza erano i dati cronologicamente più antichi accertabili del­ l'uccisione di vittime umane ai funerali di persone di rango reale : essi si trovavano, come si è visto, nelle civiltà superio­ ri egiziana e mesopotamica; a più di un millennio di distan­ za, la stessa istituzione è attestata dagli scavi nell'antica

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Cina . Usi analoghi - ma di nuovo a grandi distanze cronolo­ giche - appaiono presso i popoli "barbari" delle steppe (Sciti, Mongoli, ecc . ) . E, infine, essi sono diffusi presso numerosi popoli "primitivi" , presso i quali sono stati osser­ vati nel corso degli ultimi secoli, e ciò sia in Africa che in Oceania ed eccezionalmente anche in America . Presso que­ sti popoli, l'istituzione - osservata in atto e non solo nelle sue tracce archeologiche - spesso s'inquadrava in un com­ plesso più vasto di uccisioni rituali legate alla regalità; se ciò fosse così anche nelle civiltà superiori antiche, non può risultare dai dati archeologici . Vi è una connessione storica tra tutti questi fatti? O dobbiamo pensare che per ragioni che non s'immaginano facilmente le civiltà di più vario tipo, livello ed epoca siano arrivate, indipendentemente le une dalle altre, all'idea di uccidere persone umane per accompa­ gnare il re nella tomba (o nell'aldilà) ed eventualmente anche in altri momenti salienti della sua esistenza? L'idea di quelle uccisioni, bisogna convenire, non è tanto ovvia da far pensare che essa sorga automaticamente in ogni comunità umana : e, infatti, essa non è propria di tutte le civiltà . Ma se propendiamo per una sua diffusione stori­ ca , dobbiamo renderei conto che la cronologia dei docu­ menti non equivale necessariamente alla cronologia della diffusione . Anzi, a questo proposito, bisogna valutare seria­ mente una circostanza già rammentata : i casi la cui docu­ mentazione ci riporta nella più lontana antichità, apparten­ gono, sì, a civiltà superiori, ma in ciascuna di queste (egizia­ na , sumera, cinese) si limitano a un momento iniziale e, comunque , antichissimo, della loro storia , mentre subito dopo l'istituzione scompare in maniera totale e definitiva . Ciò fa pensare che essa non sia stata creata al livello della civiltà superiore, ma , anzi, che la stessa forma di civiltà

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superiore abbia portato, dopo un'adozione iniziale, alla sua soppressione. Ma allora l'istituzione ha origine in civiltà preistoriche di tipo "primitivo"? (Le civiltà barbare, infatti, sono fuori que­ stione: esse presuppongono già le civiltà superiori, ai cui massicci influssi devono il loro particolare carattere) . Per l'evoluzionismo ingenuo che identificava "primitivo" e "preistorico" e che, ignorando o sottovalutando gli influssi delle civiltà superiori su quelle primitive, riteneva che ogni parallelismo tra una civiltà superiore e una civiltà primitiva si spiegasse con la "sopravvivenza" di fenomeni primitivi, necessariamente più antichi, in fasi culturali più elevate e più recenti, non poteva esserci dubbio : l'origine dell'ucci­ sione di vittime umane legate alla regalità doveva essere pri­ mitiva, "cioè" preistorica . Ad ogni modo, anche in questo caso dovremmo chiederci, in quale civiltà preistorica, in quale tipo di civiltà primitiva si debba situare l'origine del­ l'istituzione e, anzi, del suo presupposto stesso che è la regalità. Malgrado i numerosi studi sulla regalità in generale e sulla c.d. "regalità sacra" (che poi non è affatto di un tipo unico) in particolare, questo problema non è stato tuttora affrontato in maniera organica e soddisfacente; né qui è, ovviamente, il luogo di farlo. Al riguardo, però, alcune osservazioni s'impongono. Poiché l'istituzione monarchica è ignota alle società economicamente più "primitive" (di cacciatori e raccoglitori) , il suo posto storico non può esse­ re nelle fasi più antiche (paleolitiche) della preistoria; d'altra parte, se per ipotesi le si volesse assegnare un posto nel neolitico, con ciò ci si avvicinerebbe notevolmente, in senso cronologico, al periodo di formazione delle più antiche civiltà superiori. Vi è, poi, un altro fatto importante : nel mondo etnologico la regalità non sembra legata a un deter-

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minato tipo fondamentale di civiltà; anche la breve esempli­ ficazione africana sopra riportata mostra che essa può esse­ re presente sia presso popoli coltivatori primitivi, sia presso popoli prevalentemente allevatori, sia , infine, nei grandi stati primitivi. D 'altra parte si conoscono numerosi popoli coltivatori e allevatori, nell'Africa stessa come altrove, che non sono né sembra siano mai stati organizzati in forma monarchica . Ciò suggerisce di non collegare, evoluzionisti­ camente, l'origine della regalità con una particolare fase di sviluppo della società umana, bensì di considerarla come un prodotto storico sorto in una determinata situazione - in un luogo e in un'epoca - e poi passato per diffusione in varie civiltà che per le loro condizioni erano portate ad accoglier­ lo (e non attecchito, invece, in altre) . Per tornare al problema specifico delle uccisioni rituali legate alla regalità , non pare dubbio che esse riflettano una particolare esaltazione dell'istituto monarchico. Ora, se già la monarchia stessa risponde al bisogno di un'organizzazio­ ne stretta della società , cioè ha la sua condizione nel biso­ gno di subordinare , nell'interesse della comunità, ogni volontà individuale a una sola, la particolare esaltazione del re - al punto di "sacrificargli" vite umane meno preziose della sua - sottolinea ancora di più quel bisogno: non si andrà lontani dalla verità supponendo che l'istituzione di quelle uccisioni rituali fosse sorta in una situazione sociale di emergenza , in cui bisognava ricorrere all'affermazione estrema dell'importanza del sovrano, per fronteggiare pres­ sioni esterne o interne. A quest'ipotesi sembrano corrispon­ dere alcuni fatti precisi. Si è visto che nell'antico Egitto vitti­ me umane accompagnavano nella tomba soltanto i re della I dinastia, di quella dinastia, cioè, che ha dovuto lottare per compiere e, successivamente, per consolidare l'unificazione

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del paese; dopo, la monarchia egiziana era talmente al sicu­ ro, garantita com'era da un ponderoso e, nello stesso tempo, capillare meccanismo istituzionale e da una burocra­ zia efficiente, che essa poteva fare a meno dei mezzi estre­ mi. La regalità era esistita anche prima dell'unificazione che, anzi, era sorta dalla lotta di re locali; di questi e delle forme istituzionali della loro sovranità non si sa abbastanza per poterlo affermare con certezza , ma l'uccisione di vittime umane durante la I dinastia del paese unificato può essere stata un prolungarsi di istituzioni più antiche . Quanto alla Mesopotamia , la sua civiltà superiore non si è formata nel segno della monarchia : ma se le uccisioni rituali di Ur I sono state davvero, come sembra ,· un fenomeno limitato a quel periodo, non bisogna dimenticare che proprio in quel periodo le antiche città templari si stavano trasformando in città-stato impegnate in una lotta di espansione e di difesa tra di loro, e, con la scissione dell'originaria carica unica del re-sacerdote , si veniva creando la figura del re vero e pro­ prio, avente cioè funzioni prevalentemente politiche . Non sappiamo quali ricordi o quali modelli stranieri abbiano reso possibile l'istituzione delle uccisioni rituali - presto soppressa in quel periodo -, ma la situazione rende com­ prensibile quella sua fugace comparsa . Anche le condizioni della dinastia Shang in Cina s'inseriscono in un quadro simi­ le : già l'emergere stesso di uno stato centralizzato, portatore di un nuovo tipo di civiltà , non deve essere stato un proces­ so pacifico; i re Shang avevano dovuto lottare per afferma­ re la propria supremazia in mezzo ai popoli "barbari" , fino a quando, poi, non furono travolti da uno di questi che ne raccolse l'eredità culturale . In tutte e tre le civiltà superiori, dunque, l' istituzione sembra legata a un critico periodo ini­ ziale , in cui la monarchia si stava imponendo, mentre con il

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consolidamento del nuovo tipo di stato essa scompariva definitivamente . Ciò fa pensare che l'istituzione delle ucci­ sioni rituali legate alla regalità fosse sorta proprio in quel periodo protostorico in cui la civiltà superiore e gli stati stes­ si che dovevano realizzarla erano appena in formazione . Fino a quell'epoca , infatti, le condizioni difficilmente avreb­ bero conferito tanta importanza - e, anzi, difficilmente avrebbero dato nascita - all'istituto monarchico, e i villaggi neolitici, scarsamente popolati , non ne avevano probabil­ mente alcun bisogno; la stretta organizzazione statale deve essere diventata una necessità vitale solo quando lo svilup­ po economico (con le nuove tecniche della cerealicoltura) aveva condotto a una pressione demografica tale da creare conflitti tra popolazioni vicine e bisognose di espansione . Secondo quest'ipotesi (che qui può essere appena for­ mulata , ma non dimostrata), la regalità non sarebbe dun­ que , un fenomeno "primitivo" ; bensì un'istituzione sorta in quel periodo di transizione che , nel giro di pochi millenni, doveva portare alla maturazione delle forme della civiltà superiore . L'uccisione di vittime umane connessa con la regalità sarebbe caratteristica del periodo in cui quelle forme non erano ancora pienamente consolidate . Successivamente, sia la regalità stessa , sia le uccisioni ritua­ li connesse, si sarebbero diffuse nel mondo "primitivo" insieme con vari altri influssi delle civiltà "storiche" ; esse sarebbero attecchite là dove le condizioni le favorivano (svi­ luppo demografico, conflitti tra popoli vicini, ecc.). Il fatto che , con il consolidamento dei grandi stati monarchici, le uccisioni rituali per il re scomparivano, mentre presso i popoli primitivi esse continuavano fino a tempi recenti, non costituisce un problema difficile: basti pensare alla caratteri­ stica labilità dei poteri nella maggior parte delle società pri-

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mitive; in esse, i detentori del potere hanno un continuo bisogno di affermare la propria posizione. Altrettanto vale per le società "barbare" nomadi e guerriere, la cui movimen­ tata storia esclude una completa stabilizzazione degli ordi­ namenti istituzionali. Tutto ciò non è che un tentativo d i situare storicamente l'istituzione finora studiata . La soluzione prospettata , però, pone subito un nuovo problema. È concepibile che il biso­ gno dell'esaltazione del re abbia dato origine all'idea stessa di uccidere vittime umane? O è, invece, molto più probabi­ le che uccisioni rituali esistessero già in quelle civiltà , che hanno solo impiegate anche nelle funzioni politiche sopra caratterizzate? In quest'ultimo caso, le uccisioni rituali lega­ te alla regalità non sarebbero che una forma relativamente recente (creata nel periodo di formazione delle civiltà supe­ riori) di un tipo di rito che potrebbe essere anche rilevante­ mente più antico. Per vedere un po' più chiaro nella que­ stione dobbiamo passare in rassegna altri tipi di uccisioni rituali.

II

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l. Riti di fondazione Per "fondazione" , in senso stretto, si intende quella di una costruzione (casa , villaggio, città, tempio, ponte, ecc.); in senso largo si può parlare anche della fondazione di isti­ tuzioni (stati, culti, associazioni, ecc.): sebbene questo senso largo del termine sia giustificato anche dal punto di vista della fenomenologia religiosa , in quanto spesso gli atti istitutivi o inauguratori del più vario genere sono accompa­ gnati da riti simili a quelli di "fondazione" vera e propria , qui ci limiteremo, per ora , al senso più stretto del termine . È pressoché universale il fatto che alla fondazione di una costruzione importante si associno comportamenti rituali: tanto che questi, anche svuotati del senso religioso e diven­ tati pure formalità , sopravvivono perfino nella civiltà con­ temporanea (si pensi p. es. al taglio di nastri da parte di ministri che "inaugurano" qualche nuova opera pubblica) . Nel chiederci il senso dei riti di fondazione, dobbiamo, anzi­ tutto, scartare le spiegazioni semplicistiche in chiave di una malintesa "magia" : sebbene in tutte le religioni che pratica­ no riti di fondazione sia evidente l'idea che senza la celebra­ zione di tali riti la costruzione fondata rischierebbe di non durare, nessuna civiltà religiosa affida unicamente ai riti l'ef­ ficienza della costruzioni; il rito non sostituisce le tecniche profane volte a garantire la stabilità di una costruzione; se si

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credesse che il rito "magicamente" sia in grado di conferire a un edificio tutte le qualità necessarie, si potrebbero trascu­ rare tranquillamente anche le più elementari regole di costruzione : ciò che non accade mai. Ma allora il rito è un inutile duplicato delle misure tecniche profane? Certamente no : tecniche profane e riti religiosi sono ritenuti ugualmen­ te indispensabili, il che vuoi dire che hanno funzioni diffe­ renti . Per capire il senso dei riti di fondazione, bisogna osser­ vare i procedimenti religiosi tipici che accompagnano i pro­ cedimenti pratici della costruzione. Anzitutto, la scelta del luogo per una nuova casa, città o ponte , ecc . è certamente determinata ovunque anche da criteri pratici: non si costrui­ sce un villaggio dove non vi sia possibilità di rifornimento idrico, né una casa su terreno friabile, né un ponte dove non serva attraversare un fiume. Eppure, la stessa scelta del luogo è condizionata anche da scrupoli religiosi: presagi da "segni" casuali a "miracoli" -, appositi procedimenti divi­ natori, consultazione di oracoli, ecc. hanno una parte deci­ siva . Sul piano di una concezione teistica, ciò vuoi dire che la scelta del luogo deve essere in accordo con la volontà divina ; ma i procedimenti religiosi non sempre presuppon­ gono, in questi casi, divinità personali : il luogo deve avere, comunque, qualità intrinseche in accordo con qualche genere d'ordine distinto dalle condizioni puramente prati­ che . Dopo la scelta del luogo si procede , di solito, alla sua delimitazione (materiale - recinti, fosse , ecc . - o ideale - p. es . , con la circumambulazione) , con ciò lo spazio prescelto viene distaccato dallo spazio rimanente con cui fino allora era confuso; in altri termini : viene rilevato dall'ambiente contingente , e perciò assume un valore proprio. I frequenti riti di purificazione (o, eventualmente, di consacrazione)

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mirano a conferirgli una condizione nuova . Lo spazio pre­ scelto , delimitato e purificato, viene ad inserirsi, dunque, in un ordine diverso da quello cui apparteneva prima dell'in­ tervento rituale ; passa in un ordine umano, anziché rimane­ re in quello naturale. Con ciò, però, si rompe l'equilibrio precedente - quello "naturale" - e in ciò, al livello religioso cui i riti di fondazione appartengono, l'uomo avverte un grave rischio. Perfino nel folklore europeo vive ancora la credenza che chi entri per primo nella nuova casa vi morirà per primo; perciò, presso certi popoli (come p. es . gli Yoruba dell'Africa occ.), vi si mandano prima alcuni schiavi, altrove animali. In qualsiasi fase d i questi procedimenti rituali, ma spesso proprio al momento dell'inizio della costruzione, può avve­ nire poi ciò che comunemente si usa chiamare "sacrificio di fondazione ". Esso può essere veramente un "sacrificio" , rivolto, cioè , a u n destinatario sovrumano, indipendente­ mente dalla particolare funzione definita dal contesto in cui ha luogo : "divinatorio" , se lo si compie in connessione con la scelta del luogo, "purificatorio" se in connessione con la purificazione, "espiatorio" se si tratta di scontare in qualche modo l'ordine turbato o, più particolarmente, "di fondazio­ ne" quando il suo scopo esplicito è di dare solidità all 'ope­ ra costruita ; distinzioni che hanno un valore relativo, dato che in ogni modo l'atto "sacrificale" s'inserisce in un'azione complessa imperniata sulla fondazione; ma da esse risulta chiaramente che il rito non implica necessariamente un carattere cultuale , perché ognuna di quelle funzioni (divina­ toria, purificatoria, ecc .) può essere realizzata anche indi­ pendentemente dal culto di esseri sovrumani (mediante, cioè, riti "autonomi"). Infatti, l'eventuale destinatario varia secondo il carattere della religione di ciascuna civiltà, indi-

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pendentemente dal rito stesso: cioè là dove domina il culto degli antenati, anche il sacrificio di fondazione viene offer­ to agli antenati, in una religione politeistica a qualche divi­ nità, altrove a "spiriti" , ecc. Tutt'al più , vale la pena di rileva­ re un caso particolare e piuttosto frequente . Appropriandosi di un pezzo dello spazio ("naturale" , "non-umano") e volen­ dolo destinare a fini suoi ("culturali", "umani"), l'uomo esattamente come appropriandosi di un alimento, è spinto all'offerta primiziale - è portato a regolare, in qualche modo, i conti con il "non-umano" da lui defraudato; per poterlo fare, deve avere di fronte a sé una controparte personale; questa necessità crea gli "spiriti del luogo", esseri analoghi a quel­ lo romano antico del genius taci; si tratta sempre ed esclusi­ vamente del luogo che interessa in quanto è coinvolto nel­ l'azione umana. Ciò dimostra che l'azione (l'appropriarsi dello spazio) costituisce il prius rispetto al rito, e il rito (il "sacrificio") rispetto all'idea dell'essere sovrumano cui si rivolge. 2 . Vittime umane nei riti di fondazione I c.d. "sacrifici di fondazione" possono anche essere incruenti; sotto le fondamenta della costruzione si mette qualcosa che rappresenti un "valore " : può trattarsi di cibi (primizie, alimenti-base, alimenti particolarmente "forti") o di altro; nel folklore europeo sono stati osservati casi in cui vi si metteva addirittura del denaro o, perfino, un valore "fondamentale" così spirituale come la Bibbia (cfr. la voce "Foundations" di E . S . Hartland nell'Enc of Re!. and Eth.). Diffusa è tuttora , del resto, l'uccisione - o seppellimento da vivo - di un animale (gatto, pollo, ecc . ) sopra il quale viene posata poi la pietra di fondamento. Ma ciò che sorprende è che ancora nelle tradizioni popolari dell'Europa moderna ,

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vive l'idea che la riuscita di una fondazione richieda una vit­ tima umana. Non solo nell'Europa cristiana, ma neanche nelle civiltà classiche si praticava - salvo casi aberranti l'uccisione di vittime umane nei riti di fondazione. Eppure, in larghe aree europee è diffuso, p. es. , un tema popolare di ballata che racconta come una casa in costruzione crollasse sempre, finché i muratori non decisero di immurarvi una persona viva; si misero d'accordo di prendere, a questo fine, la prima persona che passasse nelle vicinanze; il destino volle che questa fosse proprio la giovane moglie del capo­ mastro, che portava da mangiare al marito; pur addolorato, il capomastro non si sottrasse al destino, e la donna immu­ rata finalmente diede la stabilità desiderata alla casa . (Questo tema popolare ha costituito l'argomento di uno dei primi lavori di M. Eliade .) Ancora oggi, in Grecia, si "seppel­ lisce" almeno l'ombra di una persona sotto le nuove costru­ zioni. Nel vicino Oriente antico - in Mesopotamia (p . es. a Nippur, ad Assur) , in Palestina (p . es . a Gezer, a Megiddo) ­ gli scavi hanno dimostrato la grande antichità della pratica dell'uccisione di persone umane nei riti di fondazione : sche­ letri o soli crani rinvenuti sotto le fondamenta o immurati nella costruzione ne forniscono la prova . Ora , è importante osservare che la religione mesopotamica non conosceva sacrifici umani: a parte le uccisioni rituali funebri di Ur I , quelle connesse alla fondazione sono l e uniche documenta­ te ; entrambi i tipi di uccisione sembrano indipendenti dalla religione politeistica che dominava nella civiltà mesopota­ mica. Quanto alla Palestina, la situazione è solo apparente­ mente diversa: lì incontreremo sacrifici umani anche nei culti divini cannaniti-fenici. Ma ecco che in questi sacrifici le vittime erano, come vedremo, quasi esclusivamente bambi-

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ni piccoli; mentre gli scheletri ritrovati sotto gli edifici erano di giovani, anche di adulti (in un caso anche di una madre con i suoi bambini) . Quindi anche in quest'area le uccisioni nei riti di fondazione sembrano indipendenti dalla religione politeistica; del resto, esse sono anche cronologicamente più antiche dell'epoca in cui i sacrifici di bambini sono documentati nei culti divini. Menzioneremo qui - con tutte le riserve , data l'incertez­ za del significato - un caso di eccezionale antichità : a Gerico, in Palestina , scavi recenti hanno portato alla luce l'esistenza di un insediamento di tipo quasi urbano che risa­ le a un'epoca anteriore all'uso della ceramica (in termini di cronologia assoluta : al 6° millennio a . C . ) . Ora, in questa "città " neolitica , sotto il pavimento di una costruzione - ma forse semplicemente perché appartenenti alla costruzione precedente sopra la quale quella nuova fu eretta - si sono trovati crani umani modellati in gesso nella forma di teste vive (con conchiglie al posto degli occhi) con un gusto arti­ stico sorprendente . In realtà, nulla dimostra che si tratti di resti di un "sacrificio" di fondazione; anzi, poiché nelle tombe adiacenti si sono trovati numerosi scheletri senza testa , appare più probabile che la gente conservasse in casa le teste dei propri morti, che, modellate con cura, diventa­ vano oggetto di una specie di culto degli antenati; non vi è motivo di pensare ad apposite uccisioni rituali. Ad ogni modo , prendendo atto anche solo di un'eventuale conver­ genza formale tra culto degli antenati e uccisioni rituali di fondazione (conservazione di crani dei morti) , su cui torne­ remo, approfittiamo dell'occasione per segnalare che anche le vittime umane dei riti di fondazione possono diventare oggetti di culto, quali "spiriti tutelari" della costruzione fon­ data . In un periodo relativamente recente (1 831 ) è stato

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descritto il rito che si celebrava a Bangkok per inaugurare una nuova porta (o restaurare una vecchia) nelle mura della città. Tre uomini venivano invitati a un sontuoso banchetto dal re che li pregava di far buona guardia alla porta e di avvertirlo in tempo di una qualsiasi minaccia d'invasione o altro. Intanto, sotto la porta si scavava una fossa , dove poi le tre vittime dovevano attendere che un'enorme trave, appo­ sitamente sospesa e, al momento opportuno, fatta cadere, le schiacciasse; così esse diventavano spiriti guardiani della porta. Non accumuleremo qui esempi di riti di fondazione con vittime umane dal mondo etnologico: si può dire che essi esistano pressoché dovunque le uccisioni rituali di qualsiasi tipo siano in uso, salvo eventualmente presso i popoli che per il loro nomadismo ignorano ogni costruzione destinata ad essere duratura . La pratica è più diffusa e sembra più antica del fenomeno esaminato nel capitolo precedente , più antica dell'istituzione della regalità stessa . Nel Pacifico, infatti, dove le uccisioni rituali connesse con la regalità si limitano ai popoli presso cui i re o capi hanno grande importanza - si è visto qualche esempio nella Polinesia -, le uccisioni nei riti di fondazione sono diffuse anche in civiltà di tipo più antico, così p. es . nella Melanesia (anche con connesso cannibalismo, come si vedrà , p. es . , nella fonda­ zione di una "casa degli uomini" , ecc . ) . Di qui, e precisa­ mente dalle isole di Bougainville (Salomone), citiamo il caso di una consacrazione della casa di un capo, perché esso si presta a osservazioni varie . A uno schiavo appositamente comperato si tagliano le braccia e le gambe che vengono appese sulle pareti: in esse i presenti scagliano frecce. Il corpo viene sepolto, poi riesumato, e le ossa, seccate al sole , vengono legate al pilastro centrale della casa ; il cranio,

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portato all'interno della casa, è consacrato agli antenati; ma lo "spirito" della vittima deve prendere posto in una figura di legno appositamente fabbricata che funge da spirito tute­ lare della casa. Si nota , in quest'esempio, una singolare stra­ tificazione di idee religiose intorno al rito di fondazione : il culto degli antenati (con l'offerta del cranio della vittima) e il culto dello spirito tutelare si fondono in un unico com­ plesso con l'uccisione della vittima e con l'utilizzazione dei suoi resti per assicurare solidità alla costruzione (ossa lega­ te al pilastro centrale che deve reggere tutto l'edificio) . I Batak di Sumatra seppellivano vivo uno schiavo sotto ogni palo della casa; presso certi gruppi di questo popolo il rito di fondazione veniva concepito come un sacrificio a una divinità della terra che , si riteneva , poteva essere "disturba­ ta" dalla costruzione (cfr. con quanto si è detto sopra sullo "spirito del luogo"). Presso i popoli per i quali il mare è elemento vitale (per la pesca , per la navigazione di commercio o di guerra), le imbarcazioni non hanno meno importanza delle case . L'uccisione di vittime umane in occasione del varo di una nuova imbarcazione è diffusa p. es . nella Melanesia. Un fatto veramente sorprendente è la precisa corrispondenza formale di un'istituzione in civiltà così differenti e distanti nello spazio e nel tempo, quali quelle degli antichi Germani e dei Fenici: all'uso di questi ultimi (popoli navigatori per eccellenza del Mediterraneo antico) di schiacciare vittime umane sotto la nuova nave che veniva spinta per la prima volta in mare, è quasi perfettamente identica l'istituzione detta hlunnrod presso i Vikingi del medioevo, in cui "rulli" umani venivano arrossati del proprio sangue (donde il nome) in occasione del varo di una nave . È ovvio che non può trattarsi di un influsso diretto, ma, d'altra parte, non

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sembra probabile che un uso così particolare sia stato " inventato" in maniera indipendente in due civiltà differen­ ti. In questi casi dobbiamo sempre tener presente che i nostri documenti sono del tutto sporadici rispetto ai secoli e millenni della storia di numerosi popoli: spesso abbiamo a che fare con fatti apparentemente isolati, perché di centina­ ia d'altri che li collegavano non ci è pervenuta notizia . 3 . L 'Agnicayana Nella religione vedica non sembra che si siano mai prati­ cati sacrifici umani o, comunque, uccisioni rituali. Diciamo prudentemente "non sembra" perché anche così ci troviamo in contraddizione con un'esplicita tradizione sacerdotale vedica secondo cui, invece, ben due rituali solenni richiede­ vano vittime umane . Uno di questi rituali aveva, anzi, il nome stesso di "Sacrificio umano" (Purushamedha, da puru­ sha = uomo). Ma la descrizione che ne danno i testi brahma­ nici corrisponde, dettaglio per dettaglio, a quella di un'altra cerimonia in cui la vittima era un cavallo e che si chiamava, appunto, Ashvamedha, "Sacrificio di cavallo" . Si ha l'impres­ sione che il Purushamedha non sia che una costruzione teo­ rica, un "calco" speculativo sull'Ashvamedha; che, cioè , esso non sia mai stato celebrato nella realtà . Senza conoscere i dettagli del rituale, si potrebbe forse dubitare : non sarà stato , invece, l 'Ashvamedha creato sul modello del Purushamedha? Non sarà stato una sua sostituzione , come spesso accade , nelle più diverse civiltà , che con il supera­ mento o la soppressione del sacrificio umano, la vittima umana viene sostituita da un animale, mentre il rito rimane sostanzialmente uguale? L'Ashvamedha (documentato già nel Rg Veda, in cui manca ogni accenno al Purushamedha!) era un rito grandioso che solo un grande re (che avesse

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"potere sul mondo") poteva (ma anche doveva) far cele­ brare ; la preparazione e i mezzi investiti nella cerimonia erano del tutto eccezionali e, stando alle descrizioni sacer­ dotali, essa aveva una portata cosmica (al cavallo si dice­ va : "tu sei il mondo" e la corda che gli veniva attaccata era concepita come il rta). Un elemento singolare del rito era che il cavallo prescelto veniva lasciato circolare liberamen­ te per un anno intero : quattrocento guerrieri lo accompa­ gnavano per proteggerlo se nel suo vagabondaggio entra­ va in territorio nemico. Ora , questo dettaglio essenziale sarebbe del tutto privo di senso, se la vittima fosse una persona umana (che non vagabonda a caso) . Anche l'ac­ coppiamento rituale della regina con il cavallo già ucciso (fatto soffocare), trae il proprio significato precisamente dal carattere anormale-straordinario dell'atto , che in buona parte si perderebbe nel caso di una vittima umana . Perciò si ha motivo di credere che il Purushamedha non sia mai stato praticato . Altrettanto vale certamente per il secondo rituale di cui la tradizione brahamanica affermava che "anticamente" avesse implicato l'uccisione di una vittima umana: l'Agnicayana (pron . Agniciàiana), la fondazione dell'altare del fuoco. Nello Shatapatha Brahmana, infatti, - che ne dà una lun­ ghissima descrizione con commenti teologici - troviamo che all'epoca cui questo scritto risale (7° sec . a . C . ?) le pre­ sunte vittime originarie (un uomo, un cavallo, un toro, un montone e un caprone) erano sostituite e rappresentate da due caproni; d'altra parte , i testi più antichi non sanno nulla dell'Agnicayana . Questo era, ad ogni modo, un rito di fon­ dazione: si trattava della costituzione di un altare . Le cinque vittime sarebbero state decapitate , i loro corpi buttati nel­ l'acqua e dal fondo di quest'acqua si doveva prendere l'ar-

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gilla per farne i mattoni, mentre le teste dovevano essere immurate nell'altare; questa utilizzazione delle vittime per dare solidità alla costruzione, rientra perfettamente nella tipologia dei "sacrifici" di fondazione. Ma questo rito appa­ rentemente elementare si trova inserito in tutto un comples­ so, elaborato nei minimi dettagli (p . es . è prescritto perfino il numero dei mattoni da impiegare nei vari punti dell 'alta­ re , con valore simbolico: così, p. es . , il numero 360 rappre­ senta l'anno, e l'anno, nel pensiero indiano, è simbolo del­ l'ordine cosmico), che, a sua volta, viene collegato con un mito. Ora, questo mito prende le mosse dalla creazione del mondo, di cui la fondazione dell'Agnicayana - da parte del creatore Prajapati - non è che un momento conclusivo necessario. Entrambi i rituali, dunque, per i quali la tradizione vedi­ ca parlava di vittime umane , avevano un aspetto cosmogo­ nico . In questa connessione bisogna menzionare che già il Rg Veda (lO , 90) narra un mito cosmogonico che s'imper­ nia sull'uccisione sacrificate di Purusha, l'Uomo (che non è "un uomo " : l'Uomo mitico ha mille occhi e mille piedi e dimensioni superiori a quelle dell'intero mondo abitato) . Purusha viene "sacrificato" (ma non è detto a chi: i grandi dèi, anzi, nasceranno da questo sacrificio) - sacrificanti sono i Sadhyas e i Rsis (esseri primordiali) - e dalle varie parti del suo corpo smembrato provengono tutte le com­ ponenti fondamentali dell 'ordine cosmico: p. es . dalla testa il cielo, dai piedi la terra , dalle orecchie i punti cardinali ; dalla bocca la classe sacerdotale, dalle braccia quella guer­ riera , dalle cosce quella dei lavoratori, dai piedi i fuori­ casta, e così via , dèi, come Indra , Agni, Vayu , astri come il sole e la luna , gli animali e perfino i canti liturgici e i loro metri .

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4. Riti di fondazione e miti cosmogonici Il mito vedico di Purusha ha un riscontro piuttosto preci­ so nella mitologia germanica . In più d'un passo, l'Edda ricorda l'uccisione - ai primordi dei tempi, quando ancora nulla esisteva - del gigantesco essere Ymir. Dal suo corpo fu formata la terra , dalle sue ossa i monti, dal cranio il cielo, dal sangue il mare , dai capelli le foreste , ecc . Ma anche se il mito di Ymir è senza dubbio particolarmente vicino a quel­ lo di Purusha , il tema dell'uccisione cosmogonica non è pro­ prietà esclusiva delle mitologie dei popoli di lingua indoeu­ ropea: basti qui rammentare il "Poema della Creazione" (enuma elish) babilonese, in cui il dio Marduk, vittorioso nella grande lotta cosmogonica, taglia in due il suo mostruo­ so avversario femminile Tiamat, costruendo dalle due metà del suo corpo il cielo e la terra, mentre con il sangue di un altro avversario, Qingu , crea gli uomini (ma motivi parzial­ mente simili si riscontrano anche in poemi sumeri risalenti a tradizioni più antiche) . Questo diffuso tema mitico ci permette di rammentare come nei riti di fondazione spesso vi siano richiami eviden­ ti alla cosmogonia . È un argomento, questo, che è stato ripetutamente studiato, con particolare interesse, da M . Eliade . Dalle sue pagine s i ricava l'impressione che i l rito di fondazione debba essere concepito come una " iterazione rituale" del mito cosmogonico; nel costruire ciò che gli importa in modo particolare - la propria casa , la città , il tempio, ecc . - l'uomo vuole assicurargli la stabilità massi­ ma , e questa è la stabilità dell'universo stesso; perciò la fon­ dazione si pone al "centro" del mondo (si ricordino le città che si considerano come centro o ombelico: omphalos della terra) ; perciò si dispone secondo i punti cardinali (case , città , templi "orientati"), s'impernia intorno a un axis

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mundi (palo centrale, albero sacro , montagna sacra , ecc . ) . Ora , tenendo presente quest'aspetto delle "fondazioni" , si sarebbe tentati di pensare che le uccisioni nei riti di fonda­ zione non fossero che "iterazioni rituali" di quei miti cosmogonici in cui la formazione dell'universo parte dal­ l'uccisione di una vittima mitica . Ciò che tuttavia non bisogna dimenticare, è che nulla dimostra una priorità dei miti cosmogonici rispetto ai riti di fondazione : questi e quelli sono ugualmente creazioni umane e le uccisioni mitiche, perciò, non "spiegano" le uccisioni nei riti di fondazione, ma , al pari di queste, richie­ dono spiegazione. Di tutta la questione noi riterremo qui solo quanto segue: sin da un'epoca indefinibile, ma indub­ biamente assai antica (più antica delle civiltà superiori che ne documentano il ricordo) , l'uccisione di vittime umane era considerata, in certe civiltà, come un mezzo atto ad assi­ curare stabilità alle fondazioni, perfino alla "fondazione" (creazione) dell'universo stesso.

III

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l. Esempi I riti agrari in cui si ricorre all'uccisione reale o simboli­ camente adombrata di persone umane sono stati studiati e inseriti in grandi costruzioni teoriche - già da Mannhardt ( 1 877) e da ] . Frazer nel suo celebre Il ramo d 'oro. Perciò anche per quest'argomento sarebbe inutile portare molti esempi . Si è visto, più sopra , che i popoli bantu sud-orien­ tali praticano l'uccisione rituale di vittime umane in occa­ sione dei funerali del re ; un'altra occasione di uccisioni è la semina presso gli Tswana : p. es . , in quell'occasione , un uomo (descritto dalle fonti come tozzo e robusto : ma non risulta chiaro se si tratti, come in altri casi, di precisi carat­ teri fisici prescritti) viene afferrato , scannato , bruciato , e le sue ceneri vengono sparse sui campi da seminare . Presso gli Yoruba (P.A. Talbot, Tbe Peoples of Southern Nigeria, 1 9 2 1 ) , numerose vittime, maschili e femminili, cadevano davanti agli alberi di kola , per assicurarne la fertilità . Nell'America sett. , le uccisioni rituali sono quasi ignote ed è anche per ciò che , nel caso dei Pawnee (popolo di lingua caddo delle Praterie) , gli studiosi propendono a vedere l'eco di influssi messicani : ad ogni modo, ancora intorno al 1 837 (anno cui risale la descrizione del rito) , questi Indiani praticavano uccisioni rituali a fini agrari ; una ragazza pri­ gioniera era trattata con ogni riguardo per sei mesi, ma al

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momento opportuno la si legava e la si uccideva (con un colpo di mazza e una freccia al cuore) e tutti i membri della comunità, uomini e donne, scagliavano frecce nel suo corpo; alla fine, la vittima veniva smembrata e con il suo sangue si bagnavano le sementi (cfr. R . M . Underhill , Red man 's religion, 1 965) . Le forme di quest'uccisione ricorda­ no, effettivamente certi sacrifici umani messicani: ma è da tener presente che il rito - se d'origine messicana - qui si trova svincolato dalla religione politeistica da cui proveni­ va . Il ricordo della ideologia sacrificale messicana sembra tuttavia trasparire nel fatto che la vittima " rappresentava" la stella Vespertina (messa in rapporto con la fertilità agraria) e la sua morte era concepita come un congiungimento con il "marito" , la Stella Mattutina . . . Anche riti agrari con vittime umane , nell'America Centrale e Meridionale, mostrano pro­ babili nessi con le civiltà superiori antiche del continente , ma questi nessi non sono sempre a senso unico: si sa, p . es . , che contro l'usanza d i u n popolo dell'Ecuador d i ucci­ dere centinaia di bambini al momento del raccolto, sia il re di Quito, sia l'Inca peruviano, sia infine gli Spagnoli - cioè, di volta in volta , i rappresentanti delle civiltà superiori ege­ moniche nel luogo - hanno inutilmente emesso decreti di proibizione; l'uso era radicato, dunque, in uno strato cultu­ rale " primitivo" , e i suoi riscontri nelle civiltà superiori vanno probabilmente spiegati tenendo conto di un sostra­ to primitivo. Ed erano fuori dei confini dell'impero incaico le montagne in cui gli indigeni di Acobamba ancora recen­ temente celebravano la festa di S. Antonio (!) nel modo seguente : gli uomini si dividevano in due gruppi che ingag­ giavano un combattimento, questo durava finché alcuni dei combattenti non cadevano, morti o feriti; in quel momento intervenivano le donne per raccogliere il sangue che poi

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veniva interrato nei campi per assicurare un buon raccolto (R. Karsten) . Anche in questi esempi un po' particolari ritorna, dun­ que, costantemente uno dei motivi più diffusi delle uccisio­ ni nei riti agrari: che cioè, il corpo della vittima (o parti del corpo, o sangue, o cenere, ecc .) devono essere portate a contatto materiale con i campi coltivati (o con i semi, tube­ ri, alberi, ecc.): questo è il motivo che più facilmente fa rico­ noscere lo scopo dell'uccisione. Questo dettaglio rivelatore serve anche a individuare il nucleo originario "autonomo" nei riti rivestiti di carattere "cul­ tuale". Nell'India contemporanea vi è un gran numero di popoli "primitivi" - etnicamente e, per lo più , anche linguisti­ camente distinti dalla popolazione indù - le cui religioni sono in varia misura, spesso assai superficialmente, induizzate . I Kond (o Khond) sono un popolo di lingua dravidica abitane nello stato di Orissa. La loro religione è formalmen­ te politeistica (un misto di induismo e di demonologia pri­ mitiva) , ma già la sproporzionata importanza , tra tutte le divinità , di una sola dea mostra che non si tratta di un poli­ teismo classico; questa dea, venerata fervidamente anche da altri popoli dell'India sotto diversi nomi tra cui i più diffusi sono Kali e Durga, fa parte del pantheon induistico in cui è associata al dio Shiva ; ma, a livello primitivo, essa è soprat­ tutto una grande "terra-madre" , dea della fertilità e della morte. È a lei che i Kond offrono numerose vittime umane , appositamente comperate ; prima del rito, le vittime godono di un eccellente trattamento. La forma tipica di questo sacri­ ficio umano, detto meriah è la seguente : la vittima, appena ferita dal sacerdote, viene sbranata viva dalla folla . La sua carne viene divisa tra i singoli gruppi di partecipanti, che ne portano a casa i pezzi per sotterrarli in parte sotto la piazza

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centrale del villaggio, in parte nei campi coltivati di ciascu­ na famiglia . Carne e sangue di vittime umane vengono sot­ terrati anche nei campi di curcuma (inglese : turmeric) u n vegetale "forte" , d i grande importanza rituale; i Kond bagna­ no anche le sementi di sangue umano. 2. Giappone: dalfolk/ore moderno alla preistoria Diversi racconti popolari giapponesi parlano di ragazze destinate ad essere uccise e sepolte nei campi di riso. Certe località , in Giappone , si chiamano "Campo dell 'uccisione della vergine" . Questi fatti folkloristici hanno forse pressap­ poco lo stesso valore delle ballate europee menzionate più sopra (per le uccisioni nei riti di fondazione) : conservano certamente l'eco di fatti reali, ma non si sa di quale tempo e luogo, perché in Giappone non si hanno notizie di uccisio­ ni di questo tipo realmente praticate . Questi fatti folkloristi­ ci sono stati recentissimamente presi in considerazione da due studiosi (Karow e Numazawa) che hanno condotto, indipendentemente, ricerche (pubblicate nella Festschrift jensen 1 964) di cui vale la pena riassumere i risultati in gran parte convergenti . Nella più antica letteratura sacra giapponese, e precisa­ mente sia nel Kojiki che nel Nihongi, figura un mito che parla dell'uccisione di un personaggio femminile con conse­ guenze di carattere agrario. Nel Nihongi la sostanza del rac­ conto è la seguente : Izanagi distribuisce le sfere di dominio tra le principali divinità, Amaterasu (la dea-sole), Tsuki­ yomi (il dio-luna) e Susano-o (qui messo in rapporto con il mare) . Amaterasu arriva in cielo e da lì vede, tra i canneti della terra , la dea Uke-mochi; manda allora da lei Tsuki­ yomi, per averne notizie . Uke-mochi volta la testa verso il cielo - e dal suo naso esce riso cotto; si volta verso il mare ,

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e dal suo corpo nascono gli animali marini; si volta verso la montagna, e nascono gli animali terrestri. Da tutto ciò la dea prepara un pasto che offre a Tsuki-yomi. Questo dio, però, trova i cibi così prodotti "sporchi e disgustosi" , uccide con la spada la dea e torna a riferire ad Amaterasu . Amaterasu si adira e si separa da lui (mito della separazione tra sole e luna che hanno cammini diversi!) ; poi manda giù un altro personaggio che scopre come dal corpo della dea uccisa siano usciti il bue, il cavallo e il baco da seta , mentre il corpo conteneva ancora del riso e, nelle parti genitali, il frumento. Saputo tutto ciò, Amaterasu decreta che questi saranno ormai i cibi degli uomini. Nel Kojiki si trova il seguente racconto: Susano-o, punito delle sue malefatte con l'esilio dal cielo, si aggira per la terra; incontrando la dea Ohgetsu-hime, le chiede da mangiare . La dea , allora, prende dal proprio naso, dalla bocca e dall'ano "varie cose gustose" che, però, Susano-o trova "sporche" e, nella sua ira , uccide la dea . Dalla testa della dea uccisa nasce il baco da seta, dagli occhi il riso, dalle orecchie il miglio, dal naso i fagioli, dalle parti genitali il grano, ecc . Un dio sopravvenuto adopera poi questi prodotti come sementi. Dal confronto dei due racconti appare che l) i personag­ gi sono differenti; la dea uccisa è Ohgetsu-hime nel Kojiki, Uke-mochi nel Nihongi; l'uccisore è Susano-o nel Kojiki, Tsuki-yomi nel Nihongi; 2) differente è anche l'inquadra­ mento dell'episodio: nel Kojiki si tratta delle vicende di Susano-o, nel Nihongi della separazione tra sole-Amaterasu e luna-Tsuki-yomi, successiva alla distribuzione cosmogoni­ ca delle competenze tra le divinità; 3) ma la vicenda è iden­ tica : una dea trae fuori cibi dal proprio corpo; un dio che trova ripugnanti questi cibi uccide la dea ; dalle varie parti del corpo della dea uccisa sorgono i prodotti utili per l'eco-

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nomia umana (con qualche eccezione: prodotti alimentari vegetali) . Qual è il rapporto tra le due versioni? Nulla fa pen­ sare che il Nihongi (di poco più recente, nella sua redazio­ ne, al Kojiki) abbia attinto la propria dallo scritto più antico: in tal caso non sarebbe neppure concepibile che l'abbia tra­ sformato così radicalmente nei personaggi e nell'inquadra­ mento; inoltre, proprio nel Kojiki, l'episodio è inserito in modo poco coerente; esso spezza, in quella parte del libro, il filo logico delle vicende che portano alla determinazione della posizione di Susano-o. È chiaro, dunque, che il mito o, piuttosto, il tema mitico soggiacente ai due racconti è più antico dei due libri sacri . (Si potrebbe anche aggiungere : Kojiki e Nihongi sono come i "canoni" del politeismo shin­ toista ; i loro racconti "fondano" il pantheon delle divinità immortali. Ora, una dea che viene uccisa non è, certo, tipi­ ca di un sistema politeistico: anche per questo, l'episodio mitico appare più antico della formazione stessa del politei­ smo giapponese.) La conclusione dei due autori citati è che il mito dell'uc­ cisione della dea e delle origini degli alimenti vegetali dal suo corpo - mito risalente probabilmente alle origini del­ l'agricoltura in Giappone (dove il riso, insieme con la civiltà del bronzo, è stato introdotto proveniente dall'Asia sud­ orientale verso il 3° sec. a.C.), era il modello mitico delle uccisioni rituali delle piantatrici di riso; queste uccisioni, in un tempo reale, avrebbero messo in scena il mito delle ori­ gini dei beni agrari, assicurando così la fertilità dei campi. Ma, per capire questa interpretazione, bisogna ricordare che i due studi sono comparsi nei due volumi pubblicati in onore di Adolf E. Jensen, appunto perché si riallacciano alla teoria del grande etnologo tedesco recentemente ( 1 965) scomparso.

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3. La teoria di Adolf E. jensen Resta un merito duraturo di Jensen l'aver individuato, innanzitutto, un preciso tipo di miti e di averne definito il posto storico. Ma, sebbene per Jensen i miti avessero, come si dirà subito, un'importanza grandissima nella storia delle civiltà, egli non si limitava ad occuparsi di miti; il suo scopo esplicito era, anzi, di ricostruire un'intera civiltà storica ("preistorica") presso cui quel tipo di miti era particolarmen­ te caratteristico: si tratta della civiltà scaturita dalla scoperta della coltivazione delle piante alimentari. Di questa civiltà, antica di parecchi millenni, anteriore a ogni civiltà superio­ re, esisterebbero anche nel presente forme notevolmente ricche e organiche presso popoli che, in diverse parti del mondo, vivono tuttora nelle condizioni dei più antichi agri­ coltori, coltivando soprattutto tuberi e alberi fruttiferi. Ma anche nelle civiltà superiori antiche , fondate ormai sulla cerealicoltura, molti fenomeni culturali e soprattutto religio­ si si spiegherebbero con i retaggi di quella più antica civiltà di "piantatori", mentre d'altra parte questa avrebbe esercita­ to influssi anche sui popoli che non hanno superato il livel­ lo economico della caccia e raccolta . Jensen ha cercato di ricostruire i più vari aspetti di quell'originaria civiltà, nella loro stretta connessione organica (cfr. il suo volume Weltbild einer frnher Kultur, 1 948; trad. it. : Come una cul­ tura primitiva ha concepito il mondo, Torino 1 9 5 2 ; la seconda ed. , rielaborata con il titolo Die get6tete Gottheit, 1 966, verrà citata in seguito) . Fermiamoci anzitutto sul tipo di miti menzionati: si tratta , precisamente, dell'uccisione - assai spesso accompagnata dallo spezzettamento del corpo - di un personaggio mitico, dal cui corpo (o dalle singole parti del corpo fatto a pezzi) nascono le piante alimentari coltivate. Al personaggio miti-

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co ucciso e, con la sua uccisione, originatore dei vegetali coltivati, Jensen applicava il termine dema, vocabolo dei Marind-anim della Nuova Guinea, che, tra l'altro, indicava anche i personaggi mitici di quel tipo . Jensen ritrova i miti di dema nell'Indonesia , nella Melanesia, ma anche nell'America del Sud (e perfino tra i cacciatori-raccoglitori della California meridionale) e in alcune civiltà africane; ne ritrova, inoltre, i riflessi nelle religioni delle civiltà superiori dell'antica Grecia , dell'Egitto, dell'India, del Messico e del Perù , dove esistono miti di uccisione di divinità particolar­ mente interessate all'agricoltura o a qualche singolo prodot­ to agrario . Poiché il vegetale alimentare nasce dal corpo del dema - cioè il dema, dopo la sua morte, continua a vivere nella forma del vegetale -, è chiara la sostanziale identità tra il dema e il prodotto cui dà origine: anche il mito dell'ucci­ sione riflette, in fondo, il trattamento della pianta alimenta­ re che deve "morire" sotto terra, per dar frutti . Questa con­ nessione appare particolarmente evidente nei miti in cui il dema viene fatto a pezzi , esattamente come i tuberi devono essere spezzettati per essere piantati e fruttificare (p. 1 48) . Ora, tra gli altri aspetti caratteristici della civiltà dei pian­ tatori, Jensen sottolinea la massiccia presenza delle uccisio­ ni rituali: di animali, anche, in rapporto con il tipo di alleva­ mento (soprattutto di suini) caratteristico di quella civiltà , dovuto ugualmente ai dema (per Jensen il sacrificio cruen­ to, in generale, deriverebbe da queste uccisioni originaria­ mente prive di destinatario e rievocatrici delle sorti del dema); ma poi anche di persone umane, soprattutto nelle forme del cannibalismo rituale e della caccia alle teste . In queste azioni, le società coltivatrici primitive metterebbero in scena il mito del dema: Jensen parla, infatti, di "rappre­ sentazione cultuale dt l mito " .

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Anche se Jensen vede nelle sanguinose istituzioni delle uccisioni umane solo un' ipertrofia delle originarie azioni rituali scaturite dalla visione mitica fondamentale della civil­ tà dei piantatori (p . 1 49) , ad ogni modo egli postula implici­ tamente la seguente sequenza: tecnica della coltivazione; mito di uccisione del dema; uccisioni rituali di animali e di persone umane in singole occasioni festive (come "messa in scena" del mito del dema); uccisioni rituali umane praticate su larga scala , come "ipertrofia" di queste ultime . In ultima analisi, le uccisioni rituali dipenderebbero dal mito. Questo singolo aspetto della concezione jenseniana che qui isoliamo appositamente - non appare molto con­ vincente . La sequenza postulata lascia adito a vari dubbi. Anzitutto, si può notare che in tutto l'abbondante materiale addotto da Jensen per la ricostruzione dell'originaria civiltà dei piantatori non troviamo un solo caso in cui l'uccisione rituale di una vittima umana appaia chiaramente come una "messa in scena" dell'uccisione di un dema (p . es . , proprio presso i Marind-anim, esistono numerosi miti di uccisione di vari dema; ma nei grandi complessi rituali si uccide sem­ pre una ragazza nominata "madre del rito" e questa uccisio­ ne ha un proprio mito delle origini, in cui la mitica donna uccisa non è affatto un dema nel senso sopra definito) . Ciò può essere un fatto casuale Qensen non cerca apposita­ mente i casi che noi, dal nostro punto di vista , ci attende­ remmo) , ma può anche dipendere dal fatto che nel corso dei molti millenni che separano le attuali civiltà di coltiva­ tori primitivi da quella originaria nata nel segno della sco­ perta della coltivazione , sia i miti che i riti hanno subito alterazioni al punto di perdere la stretta connessione che anticamente poteva caratterizzarli. La nostra obiezione quindi non è decisiva , ma la sequenza postulata non appa-

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re provata . In secondo luogo la teoria dell'ipertrofia per opera di "persone zelanti" , seguite poi dalle masse , difficil­ mente rende conto dell'immensa diffusione delle uccisioni rituali nelle loro forme " ipertrofiche" . Infine, c'è anche da chiedersi se davvero il trattamento dei vegetali dovesse " apparire" in modo tanto evidente come un'uccisione e che l'evidenza di questa somiglianza si potesse imporre con tale forza alla coscienza della società da condurla alle ucci­ sioni rituali; o se non, invece, molto più probabilmente, l'idea dell'uccisione si associasse al trattamento del vegeta­ le proprio perché le uccisioni erano già parte significativa della cultura , indipendentemente dalla tecnica agraria . Se si ammette questa possibilità , l'origine delle uccisioni rituali sfugge di nuovo a una precisa collocazione storica , in quanto l'incipiente coltivazione non ne costituisce necessa­ riamente il punto di partenza . Resta , tuttavia , vero che le primitive civiltà coltivatrici appaiono come un terreno assai fecondo delle uccisioni rituali. Queste civiltà sono, nella loro struttura fondamenta­ le, più antiche delle civiltà superiori. Anche l'esame delle uccisioni rituali connesse con i riti agrari ci riporta dunque chiaramente nella "preistoria" .

IV

VITIIME UMANE IN SITUAZIONI DI CRISI E IN RITI DI P URIFICAZIONE

l. Riti per la pioggia Sembra che non ci allontaniamo di molto dai riti rivolti ad assicurare un buon raccolto, quando tocchiamo quelli che mirano ad ottenere la pioggia, condizione assoluta - specie al livello delle tecniche agrarie primitive - della fertilità dei campi. Ma bisogna osservare, prima di tutto, che la pioggia non è necessaria soltanto agli agricoltori : perfino i cacciato­ ri-raccoglitori ne dipendono in grande misura, dato che la prolungata siccità fa morire anche la vegetazione spontanea e, di conseguenza, allontana anche la selvaggina; e ne dipendono i popoli allevatori, perché i pascoli hanno ugual­ mente bisogno di pioggia . C'è poi un'altra ragione per cui i riti per la pioggia , anche presso le società coltivatrici, pur avendo lo stesso scopo dei riti agrari, si distinguono netta­ mente da questi : i riti agrari normali si legano ai momenti periodici della coltivazione, come p. es. la semina e il rac­ colto, e vengono celebrati regolarmente nelle stagioni pre­ viste ; ai riti per la pioggia, invece, si ricorre di solito nel caso in cui il prolungarsi della siccità minaccia di fallimento gli sforzi umani tesi ad ottenere dalla terra quanto è necessario per la sopravvivenza; perciò alla periodicità regolare dei riti agrari si contrappone l'imprevedibilità del bisogno di cele­ brare riti per la pioggia . Questi riti, pertanto, fanno parte della categoria dei riti eseguiti in particolari situazioni di

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crisi che sopravvengono inaspettatamente nella vita della società . "Inaspettatamente" , di volta in volta : ma , per secolare esperienza , ogni popolo sa che tali situazioni possono veri­ ficarsi e possiede le istituzioni ritenute atte a fronteggiarle . Per la gravità delle sue conseguenze e per la sua relativa fre­ quenza, specie in climi torridi, la siccità è una della "crisi" più costantemente previste e perciò presso innumerevoli popoli essa ha portato alla formazione di diverse istituzioni. Si è accennato solo di sfuggita all'esistenza di "facitori di pioggia" (o "pioggiaiuoli") presso molti popoli primitivi: si tratta di fattucchieri specializzati, il cui compito è di provo­ care la pioggia . La loro importanza spesso è tale da assicu­ rare loro un'elevata posizione nella società ; ma vi sono molti popoli presso i quali spetta al re stesso di provvedere per la pioggia, perché egli è responsabile della prosperità della sua gente . I riti per la pioggia sono stati interpretati da Frazer, a suo tempo, come riti fondati sul principio della "magia omeopa­ tica" , intesa come frutto di un errato ragionamento: Frazer ha sottolineato come la manipolazione dell'acqua sia un motivo pressoché costante di quei riti; si versa, p. es . , del­ l'acqua dall'alto in basso per indurre il verificarsi dello stes­ so fenomeno su larga scala, cioè la pioggia; o si producono lagrime, sudore, ecc. , perché si produca, di conseguenza , anche il liquido celeste . Ma se i primitivi credessero vera­ mente in un rapporto causale tra il versare acqua e il soprav­ venire della pioggia , essi non avrebbero bisogno di affidare l'elementare compito di versare un po' d'acqua a fattucchie­ ri specializzati, né di elaborare i complessi rituali per la pioggia, in cui la manipolazione dell'acqua è sempre solo un dettaglio. Presso diversi popoli, di questi rituali comples-

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si fa parte anche l'uccisione di vittime umane . Gli esempi africani sono numerosi; ne scegliamo solo alcuni. Quegli stessi popoli bantu sud-orientali che sono stati menzionati in connessione con le uccisioni ai funerali del re e nei riti di semina, hanno il loro "facitore di pioggia" che si adopera per mettere fine alla siccità prolungata; se però, come a volte accade , i suoi sforzi risultano insufficien­ ti, presso i Sotho p. es . , interviene il re e precisamente ricor­ rendo a una vittima umana. Le fonti non precisano se si trat­ ti di un "sacrificio umano" offerto a destinatari sovrumani; ma poiché viene riferito che, contemporaneamente all'ucci­ sione della vittima umana, un bue nero - vittime nere spes­ so figurano nei sacrifici agli antenati - viene sacrificato alla tomba del "primo re" (cioè del capostipite , forse mitico, della famiglia reale) , sembra che l'uccisione della vittima umana sia , invece, indipendente da questo culto del primo antenato dei re . Presso i Lugbara, sudanesi ai margini occi­ dentali dell'Uganda , incontriamo, ad ogni modo, un destina­ tario - un mitico eroe-antenato - del rito per la pioggia : qui, in caso di siccità , un prigioniero di guerra (che deve avere l'ernia ombelicale) per essere ucciso viene condotto su una collina, dove è situata la tomba di quel personaggio detto anche "mangiatore di uomini" , perché nel suo mito - indi­ pendentemente , a quanto pare, da ogni riferimento alla pioggia - ha mangiato i propri figli (J. Middleton, Lugbara religion, 1 960) . Dalla Rhodesia meridionale, dove in caso di siccità si uccide una ragazza , ci è noto anche il mito delle origini di ques�a istituzione : un tempo la pioggia mancò un anno intero; gli indovini stabilirono che una figlia vergine del re dovesse essere uccisa; ma poiché le figlie nubili del re non erano vergini (data la licenza sessuale di cui godono anche nella realtà) , si decise di rinchiudere la maggiore tra

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le sue figlie impuberi in perfetto isolamento e attendere che giungesse all'età nubile; per due anni continuò a non pio­ vere , uomini e bestiame morivano; finalmente, a tempo dovuto , la ragazza fu strangolata e sepolta in una fossa sca­ vata tra le radici di un grande albero; l'albero cominciò a crescere con una velocità straordinaria, in tre giorni rag­ giunse il cielo, le sue foglie diventarono nubi da cui scatu­ rì la pioggia . Nell'antico stato africano occidentale del Benin, per scongiurare il protrarsi di una grave siccità , si espone una vittima femminile sopra un albero, dove viene poi divorata dagli insetti. Ma anche le eccessive piogge sono rovinose e anche contro di esse si ricorre all'uccisione di una vittima (sempre femminile) cui si affida un messaggio per il "dio della pioggia" : la vittima, uccisa a colpi di mazza, viene poi esposta, anche in questo caso, sopra un albero "affinché la pioggia la veda " . Collina, cielo, albero sembrano, in diverse culture africane, costituire gli elementi fondamentali del grande quadro cosmologico in cui si inseriscono i riti per la pioggia, che - anziché limitarsi al "magico" versamento d'acqua - possono richiedere , dunque, anche vittime umane. Gli Shilluk, popolo allevatore nilotico, dicono di non ricorrere all'uccisione di vittime umane che in due soli casi: sotto la minaccia della siccità e nell'imminenza della guerra (W. Hofmayer, Die Schillu k, 1925). "Guerra e pioggia sono del tutto uguali - dicono -, ciò che vale per l'una, vale anche per l'altra " . Gli Shilluk sono ben consci dell'estrema gravità del provvedimento: solo il re può ordinare l'uccisione di una vittima umana, che avviene , ad ogni modo, in gran segreto e, nel caso della siccità , solo dopo che ogni altro tentativo (uccisione di vittime animali) è rimasto senza sue-

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cesso. La vittima deve essere un uomo giovane, forte e bello, un "figlio di re" . Anche a Tahiti, tanto per citare u n esempio non africano, l'uccisione di vittime umane (qui di carattere sacrificale , dato il tipo politeistico della religione) per la pioggia ha il suo mito di fondazione: fu la prima siccità a mettere fine a una specie di "età aurea" in cui la prima umanità era vissu­ ta , dopo che l'eroe culturale Maui aveva organizzato il mondo e l'esistenza umana ; la catastrofe veniva attribuita all'ira del dio Taaroa e perciò si ricorreva ai più vari sacrifi­ ci per placarlo, ma inutilmente; allora il re decretò: "dobbia­ mo umiliarci, tremare di terrore" ; si decise, allora per la prima volta , di sacrificare un "pesce dalle gambe lunghe" , cioè un uomo; e l a pioggia venne. 2 . Riti per allontanare calamità La siccità è solo una delle catastrofi incontrollabili che possono colpire un popolo. I riti per allontanarla hanno, però, spesso tratti particolari che corrispondono ai caratteri particolari di quella specie di calamità (rapporto con l'acqua, con il cielo, con la vegetazione, ecc.). Ciò potrebbe far pen­ sare che il concetto di "calamità" o "crisi" sia solo un'astrazio­ ne nostra, mentre le istituzioni religiose prevedono tipi diffe­ renti e ben determinati di situazioni cui esse devono far fron­ te . È vero che la singola catastrofe può provocare misure reli­ giose ad hoc, ma per lo più la lunga esperienza di catastrofi ricorrenti matura istituzioni fisse , come appunto quelle desti­ nate a far cessare la siccità viste nel paragrafo precedente. Così avviene, p . es . , che in una regione vulcanica, in cui i ter­ remoti sono frequenti, esistono riti tradizionali per stornarli: nell'isola polinesiana di Tonga, in caso di terremoto, le per­ sone si tagliano un dito; se il provvedimento non risulta suf-

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fidente, si ricorre al sacrificio di una vittima umana. Un simi­ le comportamento rituale tradizionale evidentemente non avrebbe possibilità di formarsi in una regione dove i terre­ moti fossero del tutto eccezionali. D'altra parte , però, sembra esistano anche istituzioni che, indipendentemente dai caratteri specifici dei singoli tipi di calamità, sono destinate a parare qualsiasi catastrofe che improvvisamente venga a colpire la società. In questi casi, dunque, l'idea dominante è realmente, e non soltanto per astrazione nostra , "la" calamità , "la" situazione di crisi, quale che sia la forma concreta in cui questa si verifichi. Tipici, a questo riguardo, sono i miti greci che narrano delle origini di qualche culto, ricollegandole a una calamità abbattutasi sulla città in un tempo remoto (cioè nel tempo del mito) : nelle varianti dello stesso mito spesso ricorrono, indifferen­ temente, l'epidemia (loimos), la carestia (limos), a volte anche la siccità . E. Westermarck, nella sua classica ma ormai antiquata opera su L 'origine e l 'evoluzione delle idee morali (1 906-8) , ha raccolto, in base alla vecchia letteratura storica ed etno­ grafica, un notevole numero di casi di "sacrifici umani" (in buona parte si tratta , però, di riti d'uccisione non sacrificali, secondo la terminologia da noi adottata) cui i vari popoli ricorrono in caso di calamità . Egli tratta separatamente i casi di guerra , di epidemia , di carestia , di siccità e di inondazio­ ne ; ma egli stesso ricorda esempi in cui gli stessi riti valeva­ no contro le epidemie , contro le epizoozie, contro un'ecces­ siva frequenza di casi di morte durante il parto e quando il raccolto era minacciato (i Kond) ; o in caso di guerra o di calamità (gli Ewe) . Nel rammentare le occasioni di uccisioni rituali presso certi popoli, gli autori spesso si limitano a ram­ mentare le grandi calamità , senza specificare se i riti siano

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uguali in tutti i casi : dei Bagobo delle Filippine viene detto Q. Roger, Estudio etnol. comp. Jormas relig. , Madrid 1 949) che in casi di calamità ricorrono all'uccisione di qualche schiavo, possibilmente vecchio e inutilizzabile . Similmente, i casi di calamità non meglio definite figurano tra le varie occasioni rituali enumerate in generale per i popoli dell'In­ donesia (W. Stohr, Die Religionen Indonesiens, 1 965) . 3. La guerra Tra le varie situazioni di crisi che possono richiedere vit­ time umane , un posto particolare spetta alla guerra . Si è visto, più sopra , che gli Shilluk mettono la guerra sullo stes­ so piano della pioggia : sono le sole due ragioni per le quali essi ricorrono all'uccisione di vittime umane . Il rito è descrit­ to solo per la guerra, e i suoi dettagli rendono probabile che non fosse uguale a quello praticato per la pioggia : prima di una guerra, dunque, un giovane pastore veniva rapito per essere strangolato; poi gli si apriva il ventre e gli si tagliava­ no i testicoli (uso, quest'ultimo , diffuso in una certa area dell'Africa orientale, dove gli organi genitali degli uccisi in combattimento vengono asportati anche come trofei di guerra) . Presso altri popoli dell'Africa orientale , come i Nyamwezi (F. Bosch, Les Banyamwezi, 1 930) pare che i preparativi per la guerra siano l'unica occasione di uccisio­ ni rituali; prima di una spedizione bellica si rapisce un ragazzo, scelto tra quelli che non siano tatuati e abbiano l'ombelico particolarmente grande; a cominciare dal re , tutti i guerrieri passano sopra il suo corpo; alla vittima si tappa la bocca, affinché non possa lamentarsi. Presso un altro grup­ po dello stesso popolo, con il sangue della vittima uccisa vengono aspersi i guerrieri; il re calpesta la testa della vitti­ ma, pronunciando la frase: "calpesto la testa di quest'uomo,

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affinché quelli (i nemici) periscano" . Questo dettaglio è indicativo anche al di là del caso singolo. La guerra primiti­ va , benché generalmente comporti perdite di vite umane infinitamente inferiori, è molto più esplicitamente una impresa di uccisioni di quanto lo sia la guerra moderna (in cui gli scopi politici fanno apparire le uccisioni e i massacri solo come un male inevitabile) . Nell'esempio citato, l'ucci­ sione rituale " inaugura" le uccisioni che seguiranno nella guerra: la vittima si configura come il primo ucciso, la cui sorte determina quella dei nemici. Un caso molto diverso dell'identificazione di vittime umane con il nemico si conosce dall'antica Roma : nel 2 26 a . C . in una situazione critica in cui Roma temeva invasioni nemiche, dietro consultazione dei Libri sibillini si decise di seppellire vive una coppia di Galli e una coppia di Greci (certamente prigionieri) nel Foro Boario (o, secondo un'al­ tra versione, nel Foro romano) ; così i nemici (Galli e Greci erano i nemici tradizionali della Roma repubblicana) "pren­ devano possesso" della terra della città e l'oracolo che lo aveva predetto era già bello e compiuto; perciò l'invasione non aveva più motivo di verificarsi. Nessun dato dice che queste vittime umane siano state "sacrificate" a una divinità, né in quell'occasione né quando il medesimo rito fu ripetu­ to nell'atmosfera di panico dopo la battaglia di Canne; anzi, secondo la testimonianza di Plutarco, queste vittime stesse sono state poi venerate con un rito annuale in loro onore . Non stiamo a citare esempi di uccisioni rituali della guer­ ra presso i più vari popoli primitivi (dall'Africa all'Oceania e all'America meridionale) . Ricordiamo, piuttosto, alcuni casi presi dalle civiltà superiori antiche, in cui la guerra stessa assume l'aspetto di un rito di uccisione . La rapida menzione di un tipo di guerra presso gli Ebrei antichi servirà a mostr�-

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re questo e, contemporaneamente, a illustrare come anche in una religione imperniata sul culto divino certe uccisioni rituali possano essere nettamente distinte dal sacrificio. L'istituzione dello herem consisteva nel "votare allo stermi­ nio" il nemico con tutto il suo paese e tutti i suoi beni. Basti ricordare quanto più vantaggioso sia, dal punto di vista pra­ tico, procurare bottino e, eventualmente, prigionieri, anzi­ ché uccidere e distruggere tutti e tutto, per capire che l'isti­ tuzione era di natura religiosa. Essa probabilmente era inse­ parabile dall'antichissima idea ebraica secondo cui le guer­ re che portavano alla conquista della "terra promessa" erano guerre di Jahvè stesso: il popolo ebraico non era che uno strumento di Dio nella guerra contro i nemici di Dio, che si opponevano alla realizzazione del piano divino; perciò non spettava agli Ebrei di trarre vantaggi materiali dalla vittoria . Ricorderemo qui solo l'episodio descritto in l Sam 1 5 : Samuele (che h a "unto" Saul re d'Israele) manda Saul contro "Amalek" (cioè gli Amalechiti) : "Vota allo sterminio tutto ciò che gli appartiene: non lo risparmiare, ma uccidi uomini e donne, fanciulli e lattanti, buoi e pecore, cammelli e asini " . Ora , Saul e i suoi guerrieri compiono i l grande sterminio, ma prendono vivo il re e il meglio del bestiame per sacrifi­ car/i a Jahvè "come primizie" . Ma Samuele rimprovera aspramente il re vittorioso: Jahvè vuole l'ubbidienza e non il sacrificio; Saul ha mancato al proprio voto . Ad ogni modo, sia pure con ritardo, Samuele provvede a far uccidere il re prigioniero. Questa uccisione potrebbe dar l'impressione di un sacrificio umano, in quanto avviene in un luogo sacro (a Ghilgal) e, come il testo biblico precisa , "in presenza di Jahvè" : eppure , il contesto rende sicuro che essa è solo un completamento del voto allo sterminio e non ciò che Saul voleva fare, un sacrificio. .

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Simili distinzioni si possono fare, in sede scientifica, in base alla struttura del fenomeno religioso, indipendente­ mente dall'ideologia del popolo di cui si tratta e che può " interpretare" i fatti in maniera diversa. Un'istituzione simile allo herem ebraico è segnalata ripetutamente per i popoli germanici; se le nostre fonti fossero solo autori tardi come Orosio e Procopio, si potrebbero perfino sospettare influssi biblici nelle loro descrizioni (cosi, p. es . , quando Procopio parla di "primizie della guerra" a proposito delle donne e dei bambini dei Goti buttati nel fiume dai Franchi, peraltro già cristianizzati) . Ma si ha una precisa notizia antica (Tacito, Ann. 1 3 , 57) sulla guerra tra due tribù germaniche, gli Hermunduri e i Chatti, in cui i vincitori "consacravano" (sacravere) il nemico a Mars e a Mercurius (cioè alle divini­ tà germaniche di cui Mars e Mercurius erano le "interpreta­ zioni romane"), "quo voto qui viri cuncta viva occidioni dantur'' , cioè venivano uccisi senza un rito sacrificale . Ancora diversa è un'istituzione degli antichi Romani: la devotio. Narrando il caso del console Decio Mure in una guerra latina della seconda metà del 4° sec. a . C . - caso cui seguirà , quello analogo del secondo Decio Mure , nipote del primo, nella battaglia di Sentinum contro i Galli, ragione per cui si parlerà di un familiare fatum dei Deci -, Livio (8, 6, 9 e sgg.) lo presenta quasi come un provvedimento preso ad hoc: in una critica situazione militare i due consoli romani hanno una visione identica, in cui un dio dice loro che vin­ cerà colui che consacrerà ai Di Manes e alla Terra se stesso insieme con l'esercito nemico. Dai dettagli di ciò che segue, però, risulta chiaro che non si trattava di un'improvvisazio­ ne . Decio Mure chiama il pontefice che gli ordina di mette­ re la toga praetexta, di coprirsi il capo (come facevano i sacrificanti romani) , di posare il piede sopra una lancia e

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pronunciare una formula di preghiera dettata parola per parola dal pontefice stesso (che quindi possedeva già tutto il rituale previsto per il caso!). La formula comprende un'invo­ cazione di una serie (teologicamente ordinata) di divinità, a cominciare da Ianus (dio "primo" nelle invocazioni collettive) e dalla triade Iuppiter-Mars-Quirinus, a divinità della guerra e a collettività divine (Lares, dii novensiles, dii indigentes, ecc.), e termina con le parole: "legiones auxiliaque hostium mecum diis Manibus Tellurique devoveo" . Dopo di ciò, Decio - in costume sacrificale (il cinctus Gabinus, lasciando libere le braccia, serviva precisamente a rendere possibile l'uccisione della vittima) - monta a cavallo e si lancia nel fitto dello schie­ ramento nemico: la sua morte, in virtù del voto, comporta la distruzione del nemico e, quindi, la vittoria dei Romani. Commentando l'episodio, del resto, Livio stesso parla delle norme istituzionali che regolavano la devotio (p . es . , se la per­ sona che si era consacrata in quel modo non trovava ugual­ mente la morte nella battaglia, essa non poteva mai più sacri­ ficare, ecc.). Ora il caput velatum e il cinctus Gabinus carat­ terizzavano la persona "devota" come sacrificante; nello stes­ so tempo essa era anche vittima; ma l'azione che compiva era ben differente da ogni rito sacrificale: era semplicemente il combattimento. Se poi si osservano i destinatari divini di que­ sto singolare "sacrificio" - i Di Manes e Tellus, cioè il mondo dei morti e la terra che li ricopre -, risulta ancora più chiara­ mente che ciò che qui appariva rivestito di forme sacrificali, in realtà, era un "votare alla morte" le vittime. Con ciò gli aspetti della guerra connessi con le uccisioni rituali (o con la ritualizzazione delle uccisioni!) non sono ancora esauriti : si avrà occasione di menzionarne altri , sia nel paragrafo seguente, sia più avanti, a proposito del can­ nibalismo e della caccia alle teste .

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4. Crisi e purificazione In una religione imperniata sul culto di esseri sovrumani, le situazioni di crisi, le calamità , ecc . vengono per lo più interpretate come manifestazioni dell'ira di quegli esseri (di Dio, degli dèi, degli antenati, ecc.), punizione che essi man­ dano sul popolo: perciò i riti cui si fa ricorso hanno caratte­ re "espiatorio" , mirano a placare la giusta ira degli esseri sovrumani suscitata certamente dalle trasgressioni (o, in chiave morale , dai "peccati") della società. Ma rituali del tutto analoghi possono essere celebrati anche senza alcun riferimento ad esseri sovrumani: la trasgressione delle norme tradizionali, che garantiscono l'ordine e l'equilibrio dell'esistenza , mette la società in uno stato d'impurità , in uno stato critico, esposto alle conseguenze del turbamento dell'ordine, cioè alle calamità ; il rimedio cui si può ricorrere è il rito di purificazione. Anche una disfatta militare è una calamità . Un testo hitti­ ta descrive il rito che le truppe sconfitte dovevano eseguire nelle vicinanze di un fiume: "si tagliano in due un uomo, un capro, un cagnolino e un maialino da latte; mettono metà [di questi corpi] da questo lato , metà dall'altro, e di fronte fanno una porta di legno di. . . e stendono sopra un . . . [termini di dubbia interpretazione] e di fronte alla porta accendono fuochi da questo lato e dall'altro e le truppe passano dritto attraverso, e, quando arrivano al fiume, viene loro spruzza­ ta acqua addosso. Poi si fa un sacrificio di campagna, come si usa fare un sacrificio di campagna" . I l testo s i presta a varie osservazioni: l'azione rituale con uccisione di quattro vittime, tra cui un uomo, non è un sacri­ ficio; il sacrificio segue dopo, nelle sue forme abituali (che il testo perciò neanche descrive) . Il rito ha un carattere puri­ ficatorio e si articola in un passaggio tra le metà dei corpi

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delle vittime uccise, un passaggio tra due fuochi e attraver­ so una porta e, infine, una aspersione con acqua. I singoli momenti - tutti di carattere purificatorio - potrebbero esse­ re concepiti anche come una cumulazione di procedimenti differenti ma miranti allo stesso scopo, al fine di meglio garantire la riuscita; ma forse essi non sono intercambiabili: l'aspersione con l'acqua è l'atto ultimo che segna l'inizio della nuova vita (pura); la precede il "passaggio" simbolico - da una condizione all'altra - attraverso una porta (apposi­ tamente eretta e priva di destinazione pratica) ; prima di que­ sto passaggio ha luogo quello tra i fuochi (accesi "di fronte" alla porta, ai due lati) ; questi fuochi purificatori devono "bruciare" qualcosa che è attaccato ancora alle truppe, dopo il passaggio che appare - dato l'impiego di vittime, tra cui una umana! - come il più importante : quello tra le due serie di mezzi corpi. Le due metà di un corpo costituiscono pur sempre un corpo intero: esse vengono distanziate in modo da permettere che le truppe passino realmente attraverso il corpo . Le vittime ritualmente uccise erano ritenute, dunque, capaci di trattenere o di assorbire l'impurità della catastrofe; m a i l passaggio "attraverso" i corpi morti richiedeva, a sua volta, una purificazione cui serviva il passaggio "attraverso" il fuoco; solo dopo questo si può passare attraverso la porta simbolica, dietro la quale attende l'acqua purificatrice, ma anche rigeneratrice . L'elemento più singolare del rito hittita ha numerose ana­ logie presso diversi popoli del mondo (cfr. O. Masson in "Rev. hist. rei. " , 1 950) . Nella maggior parte dei casi si taglia­ no in due vittime animali, tra cui con particolare frequenza figura il cane (l'uccisione rituale del cane ha in varie civiltà un significato analogo a quello dell'uccisione di vittime umane; perfino l'antropofagia e il mangiare carne di cane

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sono spesso parallelamente coltivati o, al contrario, proibiti, nelle medesime aree; per l'Africa una precisa documenta­ zione di questo fatto si trova in B. Frank, Die Rolle des Hundes in afrik. Kulturen, 1 965) . Città beote purificavano periodicamente il popolo - i Macedoni l'esercito - facendo­ lo passare tra le metà del corpo di un cane appositamente ucciso. Ma lo stesso rito presso i Koriaki della Siberia serve a purificare ( guarire) un ammalato e, nell'Assam e in Birmania, un uomo inseguito ricorre a questo "passaggio" per trovare scampo dal pericolo che lo minaccia. Altrove altri animali trattati in maniera uguale risolvono varie situa­ zioni critiche (malattia , puerperio, perfino pericolo di nau­ fragio, per superare il quale si buttano le due metà della vit­ tima nel mare, ai due lati della prua!) . È interessante notare che i pochi casi in cui dati sicuri e antichi parlano di vittime umane impiegate nel rito, sono connessi con la guerra, e precisamente non solo con la disfatta , come nel caso hittita : Xerxes fa passare il proprio esercito tra le metà di un corpo umano, quando è in procinto di marciare sull'Ellesponto (Erodoto 7, 39 e sgg.). In un mito greco un esercito vittorio­ so, quello di Peleus a Iolkos , passa tra le metà del corpo della moglie (Astydameia) del re vinto (Akastos) . La guerra stessa è una situazione di crisi: sia per affrontarla che per uscirne è necessario essere in stato di purità . Anche altre specie di riti di purificazione possono richie­ dere vittime umane. Si è accennato al noto tipo di rito che si usa designare come quello del "capro espiatorio" , con rife­ rimento a un rito ebraico descritto nell'Antico Testamento; esso, infatti, - a differenza del rito biblico - può avere per vittime anche persone umane . Si può partire dal rito ebrai­ co la cui vittima è, invece, un capro . Esso viene celebrato in una delle due feste annuali che nel sistema calendariale =

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ebraico - come in altri del Vicino Oriente antico (e non importa, in questa connessione, per quali ragioni) - hanno un netto carattere di Capodanno; si tratta della festa autun­ nale detta dei "Tabernacoli" . In questa occasione, secondo il testo che ne narra la fondazione (Lev. 1 6) , si prendono due capri e si trae a sorte "per vedere quale dei due debba essere di Jahvè e quale di Azazel" . Quello di Jahvè veniva offerto in sacrificio, "ma il capro che è toccato ad Azazel" ha tutt'altra sorte: il sacerdote gli pone tutte e due le mani sulla testa, confessa sopra di esso "tutte le iniquità dei figli d'Israele, tutte le trasgressioni, tutti i loro peccati, e li mette sulla testa del capro" . Poi si conduce il capro nel deserto; esso "porterà su di sé tutte le loro iniquità in terra inabitata" . Gli aspetti che dobbiamo osservare in questo rito sono i seguenti: il secondo capro, a differenza del primo, non è vit­ tima di un sacrificio; esso non tocca , del resto, a Jahvè (unico destinatario di culto nella religione ebraica) , bensì al non meglio definito Azazel (il nome significa qualcosa come "potenza di dio " , ma qui - mentre non figura in alcun altro contesto nell'AT - appare come entità personale ed è loca­ lizzato nel deserto, nell'inabitato) ; la funzione del capro è di prendere su di sé tutto il male di Israele e di portarlo via, fuori dal mondo di Israele, nel deserto. Inoltre: non si tratta di un rito purificatorio eseguito in occasione di una singola situazione di crisi, o in seguito a una particolare trasgressio­ ne che abbia contaminato la comunità , bensì di un rito periodico: i mali (peccati, trasgressioni, ecc.) che vengono caricati sul capro sono quelli accumulatisi nel corso di un anno intero. L'anno nuovo che sta per prendere inizio, deve trovare la società in condizioni di purità. Un altro esempio, ma con vittime umane, si trova in un'altra civiltà superiore , quella della Grecia antica . Anche

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ad Atene, il rito di cui si parlerà, s'inserisce - malgrado l'ap­ parenza - in un contesto di Capodanno: è vero che la festa Thargelia era celebrata nel penultimo mese dell'anno attico, che ne prendeva il nome (Thargelion) ; ma l'anno attico cominciava nel mese successivo a quello del raccolto; Thargelion era, invece, il mese precedente a questo e servi­ va a preparare il terreno per il grande evento economico rinnovatore . Ora, sorvolando su altre feste purificatone del mese (p . es. quella in cui si faceva fare un bagno all'imma­ gine cultuale di Athena, dea della città) , la festa Thargelia occupava due giorni consecutivi del mese, il 6 e il 7, ed era sacra alle due divinità Artemis e Apollon. Due erano anche i riti salienti: un'offerta primiziale dei cui caratteri singolari qui non possiamo occuparci; e il rito eseguito (pare nel primo giorno) su due persone umane dette pharmakoi (phàrmakon significa "medicina"). Poiché pharmakoi figu­ rano, come si dirà subito, anche in riti di altre città , non è sempre facile distinguere nelle testimonianze ciò che riguar­ da precisamente i pharmakoi dei Thargelia ateniesi; ma sembra chiaro che anche questi erano uomini di bassa con­ dizione sociale (certamente non cittadini), nutriti per un periodo a spese pubbliche . Al momento del rito - forse anche ad Atene condotti in giro per la città - essi venivano, però , ingiuriati e maltrattati e alla fine espulsi dai confini dello Stato. Per altre città - come Massilia (la colonia greca sul posto dell'attuale Marsiglia) e Abdera è documentata l'uccisione dei pharmakoi; ad Abdera in un rito annuale di purificazione collettiva un uomo appositamente comperato veniva lapidato pro capitibus omnium. Del rito di Massilia (vittima fatta precipitare in un burrone?) si hanno dettagli interessanti: la vittima era volontaria (un povero, forse allet­ tato dalla prospettiva di venire nutrito per un anno intero a -

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spese pubbliche, a dieta, del resto, particolare : purioribus cibis); per il rito, essa veniva ornata con insegne e vesti sacre; e poi (ciò che qui è particolarmente importante) il rito veniva celebrato - secondo una fonte - ogni volta che la città soffriva di un'epidemia. E infatti anche da altre notizie si viene a sapere che città greche ricorrevano all'uccisione di pharmakoi in casi di calamità . Perciò nel caso ateniese (e di Abdera , ecc.), un rito di purificazione altrove previsto per singole situazioni di crisi, veniva reso annuale, con funzioni simili a quelli del "capro espiatorio" ebraico, inserito, nel largo ciclo festivo di rinnovamento annuale, in una festa dedicata a due divinità : tuttavia esso non assumeva caratte­ re sacrificate (anche se qualche testo tardo greco adopera il termine "sacrificare") come risulta anche dal fatto che ad Atene (e altrove) non si ha neppure un'uccisione delle vitti­ me , ma solo la loro espulsione. ] . Frazer ha dedicato un intero volume del suo Il ramo d 'oro ai riti del tipo "capro espiatorio" , raccogliendo un notevole numero di esempi da molte parti del mondo . Ne ricorderemo alcuni che implicano l'uccisione o eliminazio­ ne di vittime umane, soprattutto per mostrare quanto, nel rito greco, è indipendente dalla specifica elaborazione elle­ nica. Nel Siam (Thailandia) una prostituta decaduta veniva scelta per vittima ; la si portava in giro su una lettiga per il vil­ laggio e tutti la coprivano di ingiurie e le buttavano addos­ so del sudiciume; dopo di che veniva portata fuori dal paese e abbandonata - ormai senza possibilità di contatto con la gente, e perciò destinata a morire - su un letamaio. Presso gli Ibo dell'Africa occidentale, due persone appositamente comprate - e precisamente per sottoscrizione cui contribui­ vano soprattutto coloro che avevano compiuto delle tra­ sgressioni - venivano trascinate per terra e picchiate tra le

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urla della folla che con ciò caricava su di esse le "malvagità" (le impurità) diffuse nel paese ; si noti che le vittime erano di preferenza persone ammalate (come in Grecia i pharmakoi, in certi testi, vengono definiti come deformi, oltre che "miserabili"), già colpite, cioè, dal male e perciò veicoli adatti ad accumularlo in sé . Presso gli Yoruba, ugualmente dell 'Africa occidentale, una persona che poteva essere anche un uomo libero, scelta (ma non si dice in base a quali criteri) dal sacerdote , veniva anzitutto bollata come vittima ; poi godeva non solo di un trattamento eccellente, ma addi­ rittura di una venerazione da parte del popolo. Al momento previsto per il rito la si portava in processione per il villag­ gio e tutti cercavano di toccarla per trasferire su di essa le impurità . La processione finiva in un boschetto sacro, men­ tre la gente da fuori attendeva di udire - secondo la descri­ zione di Frazer - le ultime parole della vittima o i rantoli della sua agonia (ma poiché quella finiva per decapitazione, di rantoli difficilmente poteva trattarsi) ; secondo un'altra descrizione (Talbot) si attendeva, invece, il suo canto (in tal caso la vittima avrebbe partecipato attivamente al rito!) e lo si accompagnava con grida di gioia .

5 . Considerazioni I riti di purificazione periodici - svincolati, cioè , dalle sin­ gole situazioni di crisi concepite come dovute a qualche tra­ sgressione - mostrano come, accanto alle crisi acute, una concezione arcaica del mondo conosca anche una crisi, per così dire, cronica e congenita all'esistenza umana . Ponendoci sul piano di questa concezione , non è difficile capire di che si tratti : la forma umana dell'esistenza rappre­ senta di per sé una continua deviazione dall'ordine della natura; sin da quando l'uomo è uomo - p. es. sin da quan-

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do fabbrica strumenti - vive su un piano diverso (''cultura­ le") da quello naturale; d'altra parte egli vive nella e della natura che è, e spesso si dimostra in maniera schiacciante, più forte di lui. La "condizione umana" è determinata dallo squilibrio insito in questa situazione che è, dunque, perma­ nentemente "critica" ; le crisi particolari non sono che sue manifestazioni acute in cui l'impotenza umana nel fronteg­ giare le forze non-umane si rivela in forme minacciose . Non è qui il luogo di discutere come le religioni, ma anche in generale le istituzioni culturali, siano tentativi di soluzione della condizione umana : se, però, questa è un dato perma­ nente, i tentativi di soluzione sono sempre diversi, sorgono, si propagano e vengono sostituiti da altri nel corso della

storia. Tornando al nostro argomento, si può constatare che a certi tipi di situazioni di crisi certe civiltà religiose rispondo­ no con l'uccisione rituale di vittime umane; altrettanto fanno, inoltre, periodicamente, in vista della crisi perma­ nente e latente implicita nella condizione umana . In un sif­ fatto concetto più largo della "crisi" rientrano, però, anche le occasioni precedentemente distinte delle uccisioni rituali: sia la morte (o l'intronizzazione, ecc .) del re , sia la fondazio­ ne di qualcosa di nuovo, sia - anno per anno - i momenti decisivi e perciò particolarmente rischiosi della coltivazione della terra, ecc . rappresentano turbamenti di equilibrio, pro­ spettive cariche d'imprevisti. Da queste considerazioni emerge la questione : perché certe civiltà e non tutte , per fronteggiare le crisi (presenti, nelle varie forme, in tutte le civiltà), ricorrono all'uccisione di vittime umane? La sola formulazione di questa domanda si fonda su due precise implicazioni: una , che l'uccisione di vittime umane non è un fenomeno da risolversi su basi

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"generalmente umane " , bensì un prodotto storico, ampia­ mente diffuso, ma sempre limitato a determinate, sia pure numerose, civiltà; e l'altra , che entro queste civiltà essa doveva essere considerata come un mezzo efficace per far fronte alla crisi implicita nella condizione umana . Dobbiamo cercare di capire, nei limiti del possibile, perché.

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l. Un esempio: il cannibalismo dei Tupinamba L'istituzione che ora verrà brevemente descritta ci darà occasione di riallacciarci alle uccisioni rituali connesse con la guerra; nello stesso tempo, grazie agli studi di A. Métraux (La religion des Tupinamba, 1 928) e a un articolo di F. Fernandes ('Journ. des Américanistes" , 1 952) che hanno valorizzato le fonti antiche (tra cui testimonianze oculari del 1 6°-1 7° sec.), si avrà la possibilità di vedere attraverso un esempio concreto quali valori possono essere in gioco nella pratica dell'antropofagia : naturalmente, bisogna sin d'ora tener presente che si tratta di un caso singolo, caratteristico di una singola civiltà (o tutt'al più di un'area culturale limi­ tata), mentre il cannibalismo ha una vasta diffusione e in ogni civiltà che lo pratica può avere caratteri peculiari, non validi per le altre . L'esempio permetterà, infine, anche un primo accenno al problema dei rapporti tra cannibalismo e caccia alle teste. I Tupinamba sono un popolo che i primi europei hanno già trovato stanziato sulla costa brasiliana tra S. Paulo e le foci del Rio delle Amazzoni, dove essi sono pervenuti dopo precedenti migrazioni; appartengono alla famiglia linguisti­ ca tupi-guarani e hanno affinità culturali con vari popoli dell'Amazzonia . Essi fanno la guerra con lo scopo preciso di prendere

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almeno un prigioniero: i guerrieri portano con sé la corda che servirà a legarlo. Il catturatore acquista una posizione particolare : tuttavia, poiché è difficile che un solo uomo rie­ sca a catturarne vivo un altro, la cattura avviene di solito per cooperazione, ma è convenuto che conta per catturatore colui che per la prima volta tocca il futuro prigioniero (in caso di dissensi, il nemico viene ucciso e, come tutti i cadu­ ti, mangiato sul posto) . Dopo la cattura si mandano messag­ geri a casa, dove, come prima conseguenza, il catturatore ancora assente viene depredato di ogni sua proprietà . Nei villaggi che i guerrieri attraversano lungo la via del ritorno, il prigioniero si esibisce in danze e dialoga con i suoi cattu­ ratori: egli vanta la bravura della propria gente, dice di esse­ re partito in guerra per catturare nemici, ma che questa volta è toccato a lui di cadere prigioniero e perciò morirà come tutti i bravi guerrieri, la cui sorte è morire nel paese nemico; i suoi catturatori gli dicono che si vendicheranno su di lui della loro gente caduta nella mani della sua. Prima del rien­ tro nel proprio villaggio, i guerrieri danno al prigioniero la stessa acconciatura che portano loro stessi (lo trasformano, cioè, in uno di loro) . Infatti, dopo un'accoglienza ostile (le donne del villaggio - alle quali egli proclama di arrivare come "loro nutrimento" - lo scherniscono e lo insultano) , il prigioniero, benché teoricamente schiavo del catturatore , viene adottato dalla tribù; una circostanza particolare è che egli entra in possesso dei beni di un guerriero della tribù caduto nelle mani del nemico, sposandone anche la vedo­ va ; fino a quel momento né questa poteva sposare, né i beni del morto passavano in eredità a nessuno. In queste condi­ zioni, il prigioniero passa nella tribù un certo periodo che può prolungarsi per mesi e anni - se è giovane, anche per 1 5-20 anni! -, controllato, ma libero (si sa che in nessun caso

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scapperebbe, perché la propria tribù neanche lo riaccoglie­ rebbe) ; viene genericamente trattato come un qualsiasi membro della tribù, salvo per il fatto che in determinate occasioni (p . es . feste) gli viene ricordato che verrà il giorno in cui sarà mangiato. Quando il momento del rito viene deciso, si mandano inviti ai vicini, nel raggio di 30-40 miglia. La festa dura cin­ que giorni, con grandi preparativi in cui ha parte importan­ te la decorazione della mazza e della corda rituali che servi­ ranno da strumenti dell'esecuzione . Un rito consiste in una fuga simulata e conseguente ricatturazione del prigioniero, dopo di che egli viene legato . Di solito nell'ultimo giorno, quando gli si applica la corda rituale e lo si dipinge (con gli stessi ingredienti con cui si dipinge la mazza che l'ucciderà) , ha luogo un combattimento tra il prigioniero che, legato, può scagliare oggetti vari, pietre o anche frecce spuntate, e i suoi esecutori . Del resto, il prigioniero proclama che egli sarà vendicato dalla propria gente. Il combattimento dura finché l'esecutore - appositamente scelto (non identico al catturatore) e ornato -, dopo un dialogo con la vittima, finalmente la uccide con un colpo di mazza alla nuca . Si traggono presagi dal modo di cadere dell'ucciso. Il suo san­ gue caldo viene bevuto dalle vecchie che hanno una parte notevole nel rituale; il corpo viene arrostito e la carne distri­ buita : tutti i presenti, ospiti compresi, devono mangiarne (quando i partecipanti sono troppo numerosi, parte di essi deve accontentarsi di bere il brodo in cui certe parti della vittima sono state cotte) . D'altra parte nulla del corpo deve andare perduto: il cranio viene appeso davanti alla capanna del catturatore, le ossa sono conservate, dalle tibie si fanno flauti, dai denti collane , ecc . L'esecutore - come, del resto, tutti gli uccisori - entra ora in una condizione particolare.

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Anzitutto, come già il catturatore, viene rapinato dei propri beni; poi cambia nome (il nuovo nome viene proclamato dalle sorelle); si sottomette a forti restrizioni alimentari, non parla più e non deve toccare terra : giace "malato" nella pro­ pria amaca e non si rade più . Solo diverso tempo dopo si celebra una festa che scioglie tutti questi obblighi e divieti; in quell'occasione l'uccisore si pratica un tatuaggio - per ogni uccisione compiuta un Tupinamba porta un segno duraturo - e assume un titolo che indica il suo nuovo rango. Si aggiunga che senza aver ucciso almeno una persona, un Tupinamba non può neppure sposare . È stato sottolineato che l'istituzione è dominata dall'ideo­ logia della vendetta; il fatto che tutti devono mangiare della carne della vittima si spiega con l'intenzione di rendere col­ lettiva la responsabilità dell'uccisione, rafforzando così la coesione sociale tra tutti i membri della tribù : da quel momento, però, tutti possono essere oggetto della vendetta del nemico. Fernandes ha sollevato la domanda: perché la moglie e i beni di un ucciso non possono entrare in circola­ zione nell'ambito della tribù prima di passare temporanea­ mente a un prigioniero? Dopo l'uccisione di questi, infatti, la vedova può risposare e le proprietà del morto passano ad altri. La soluzione prospettata è la seguente: l'ucciso, man­ giato dal nemico, era passato nel possesso del nemico; così anche le sue " appartenenze" erano sotto il controllo del nemico; il prigioniero che rappresenta - data la responsabi­ lità collettiva acquisita con il pasto cannibalico - tutto il nemico, logicamente viene a possedere beni e moglie del­ l'ucciso; solo quando egli stesso viene mangiato, la tribù torna in possesso del proprio ucciso e, naturalmente, anche del prigioniero stesso e delle sue "appartenenze" . Prima d i lasciare l'argomento, vale l a pena d i sottolinea-

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re alcuni fatti: s i tratta d i u n sistema d i valori accettato in tutta un'area, da gruppi di popoli che per questi valori - e non per scopi pratici - fanno la guerra tra di loro; l'uccisio­ ne, qui, è un merito (dà "rango") , ma anche condizione del­ l'esistenza stessa (chi non ha ucciso, non può sposare) ; nello stesso tempo, l'estrema gravità dell'uccisione è messa in rilievo dalla "malattia" e dalle severe restrizioni che colpi­ scono l'uccisore . La vittima è, ad un tempo, figura gloriosa e ben trattata , e nemico maltrattato e ingiuriato; la sua uccisio­ ne e consumazione restituisce alla tribù la vita che essa ha perso con la precedente uccisione di un proprio guerriero. La consumazione della vittima non serve, ovviamente, a fini alimentari profani (altrimenti non la si rimanderebbe per anni) . È da notare, inoltre, che per adempiere alla propria funzione, la vittima deve subire un trattamento particolare (ed è per ciò che non basta mangiare sul campo i nemici caduti nella battaglia) ; essa viene trasformata, adottata , ornata e fatta parte attiva del rituale . Nella medesima area sudamericana esistono altri popoli che ugualmente guerreggiano per ragioni che a noi sembra­ no "irrazionali " , come quelle dei Tupinamba e dei popoli culturalmente affini, ma non praticano il cannibalismo; pra­ ticano, invece, la caccia alle teste . Senza entrare qui in det­ tagli, è sin d'ora opportuno rilevare che anche presso questi popoli l'uccisore acquista "rango" e l'uccisione è condizione di vita; nello stesso tempo, l'uccisore subisce le stesse gravi conseguenze che toccano all'uccisore presso le tribù canni­ bali . La vittima non viene mangiata: ma la sua testa subisce un trattamento del tutto particolare che è al centro di ritua­ li, come l'uccisione e la consumazione della vittima presso i cannibali; viene preparata in maniera complicata (si ricordi­ no, p. es. , i famosi tsantsa, teste disossate, rimpicciolire e

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rese conservabili, presso gli ]ivaro) , e solo dopo questo trat­ tamento, acquista valore (essa porta "fortuna" , dà fertilità, prosperità , ecc .). All'acquisizione di teste, insomma, certi popoli assegnano pressappoco le medesime funzioni che altri popoli, cannibali, della medesima area attribuiscono alla cattura, uccisione e consumazione di un prigioniero. 2 . Il cannibalismo L'esempio dei Tupinamba non deve far pensare che il cannibalismo sia dovunque connesso con la guerra, dovun­ que inserito in un'ideologia della vendetta e dovunque pra­ ticato nelle stesse forme . Esso è un fenomeno largamente diffuso nel mondo e si manifesta in una grande varietà di forme. Un volume di E. Volhard (pubblicato nel 1 939; trad. it. Il cannibalismo, 1 949) presenta pressoché l'intero mate­ riale disponibile sull'argomento. Qui ci limiteremo a poche informazioni e a qualche osservazione di diretto interesse per il nostro problema . Le principali aree di diffusione del cannibalismo sono l'Africa occidentale e centrale , l'Asia sud-orientale, Indone­ sia , Melanesia, l'America meridionale; ma intorno a queste aree il fenomeno si presenta ancora abbastanza massiccio (Polinesia, Micronesia , Australia , America centrale) ; spora­ dicamente, poi, quasi senza limitazione geografica . Di fron­ te alla varietà delle forme e degli inquadramenti culturali e ideologici del fenomeno, si è portati a chiedersi se si tratti realmente di un fenomeno o se invece il mangiare carne umana non possa essere un'azione risultante - quasi per coincidenza fortuita - da moventi totalmente differenti e indipendenti: così p. es . certi casi farebbero pensare sempli­ cemente a ragioni alimentari o di gusto; altri - p. es. la c.d. "patrofagia" (già Erodoto notava che presso alcuni popoli

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sciti, come i Massageti e gli Issèdoni, mangiavano i vecchi per pietà filiale, si compiangevano coloro che morivano "di morte naturale " , e l'etnologia offre numerosi paralleli) - allo scopo altruistico di risparmiare ai parenti vecchi o ammala­ ti la completa decadenza fisica ; altri, invece, a un'espressio­ ne di somma ostilità contro i nemici; altri al fine magico di assorbire le energie vitali di un'altra persona umana , ecc. Ma un esame più attento dei fatti mostra che alcuni di questi tipi del cannibalismo sono prodotti secondari, sviluppi o dege­ nerazioni particolari di forme più antiche e di senso diffe­ rente: così Volhard è riuscito a dimostrare, p . es . , che il can­ nibalismo puramente profano (a scopi alimentari o gastro­ nomici) è quasi inesistente e, nei rari casi in cui i motivi pro­ fani sembrano realmente prevalere su quelli religiosi, si trat­ ta di degenerazioni di più antiche istituzioni religiose . (Del resto, i gusti gastronomici - come altrove - anche nel canni­ balismo spesso risultano "culturalmente condizionati" : si preferiscono, p. es. , le parti - cuore, cervello, fegato - con­ siderate come "sedi della vita" o quelle - palmo della mano, ecc. - più inconfondibilmente "umane " ; in questa connes­ sione rientra anche il fatto che il mangiare cani (v. sopra) o anche scimmie , in certe civiltà , è considerato alla stessa stregua del cannibalismo, dati i caratteri "umani" di questi animali.) Dal nostro punto di vista è importante rilevare che il can­ nibalismo si pratica spesso nelle medesime occasioni e con i medesimi fini delle uccisioni rituali non accompagnate dalla consumazione della carne della vittima . Ci limiteremo a segnalare qualche esempio preso da Volhard. Presso gli Aro del delta del Niger, alla morte del capo si uccidono come nel Dahomey (v. sopra) - ma anche si divorano cen­ tinaia di persone ; presso i Baja del Camerun gli schiavi del

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capo morto vengono mangiati. Per la fondazione di una casa di culto (''casa degli uomini"), come pure per l'inaugu­ razione di una nuova imbarcazione, in certe isole della Melanesia non soltanto si uccidono, ma anche si mangiano vittime umane. Presso qualche popolo della Costa d'Oro, la fondazione di un nuovo villaggio dà luogo a un banchetto in cui si consumano, miste con carne di capra , di gallina e pesce, le interiora di una vittima umana. Se gli Tswana, come si è visto, spargono la cenere di un uomo ucciso sui campi coltivati, altri gruppi vicini si limitano, nei riti agrari, a spargere sui campi le ceneri del cervello e del sangue coa­ gulato della vittima , mentre ne mangiano la carne . Nell'India primitiva, si è visto, i Kond seppelliscono pezzi della vittima nei campi coltivati; presso i Gond, invece, la vittima - un ragazzo ucciso a colpi di frecce - viene mangia­ ta, solo il suo sangue viene spruzzato sui campi. Il canniba­ lismo è spesso praticato nei riti in situazioni critiche, specie in riti di passaggio (nelle iniziazioni, soprattutto, in Melanesia); prima di una spedizione in guerra, diversi popoli, p. es. dell'Angola, procedono a un pasto cannibali­ co. (Per un altro nesso con la guerra v. il paragrafo prece­ dente .) PerCiò, sempre dal nostro punto di vista, il cannibalismo appare solo come una forma particolare dell'uccisione ritua­ le , o, per essere più precisi, dell'utilizzazione della vittima; esso, in fondo, presuppone l'uccisione rituale e perciò, dal punto di vista di questa, non rappresenta un caso nuovo. Ciò non vuole dire, naturalmente, che esso si risolva intera­ mente nel fenomeno delle uccisioni rituali. La sua autono­ mia , rispetto alle uccisioni non accompagnate dall'antropo­ fagia, va cercata nelle radici del suo tratto specifico: nel­ l 'esperienza culturale del mangiare . (Per intenderei: man-

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giare è u n bisogno naturale, sia per gli uomini che per gli animali; ma nelle civiltà umane il mangiare non resta limita­ to al piano naturale, bensì diventa un fatto "significativo" ; basti qui accennare solo brevemente a l fatto che tutto quan­ to possa essere importante per una società primitiva, può essere espresso o statuito in chiave alimentare: i divieti ali­ mentari, p. es . , possono sanzionare le differenze tra i sessi, tra le età, tra clan, tra caste, tra periodi di tempo, ecc . : i pasti consumati insieme stabiliscono legami, determinano rap­ porti, creano patti. Il mangiare è condizionato, del resto, dalla ricerca del cibo, che è sempre una penetrazione rischiosa dell'uomo nel non-umano, da dove strappa i pro­ pri alimenti, vegetali o animali: e questo rischio è tutelato da istituzioni come p. es. l'offerta primiziale .) Ora, tenendo conto del fatto che il sacrificio è sempre riferito al mangiare (o mangiano i sacrificanti o, invece, essi rinunciano a un cibo e allora mangia il destinatario del sacrificio, o destina­ tario e sacrificanti "mangiano insieme") , è chiaro che la componente che dà al cannibalismo una certa autonomia tra le altre uccisioni rituali può essere importante dal punto di vista della comprensione del sacrificio umano. Ancora qualche parola su un aspetto che ulteriormente accomuna il cannibalismo alle altre uccisioni rituali. Si è visto che all'uccisione di vittime umane la società ricorre spesso, come a un'ultima ratio, là dove ogni altro mezzo risulta insufficiente; che non tutti possono - ma p. es . solo il re - procedere all'uccisione di una vittima umana, ecc. La gravità dell'azione è presente anche nella coscienza dei popoli antropofagi, e precisamente anche là dove l'antropo­ fagia è praticata su larga scala . Volhard porta numerosi esempi in cui l'uccisione e la consumazione della vittima umana avvengono fuori dell'abitato, di notte, in segreto,

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ecc . ; dal pasto cannibalico molto spesso sono esclusi le donne e i bambini, o esso è riservato addirittura a classi pri­ vilegiate . La carne umana è, dunque, un cibo non comune, un cibo particolarmente "forte" , non adatto a tutti; d'altra parte essa comunica la propria "forza" (ed è per ciò che, p . es . , i n certi riti iniziatici dell'Oceania i novizi sono obbligati ad assaggiare la carne umana : ciò è, del resto, anche una prova di virilità) . Da tutto ciò risulta che il cannibalismo non si fonda sul disprezzo della vita umana o sull'indifferenza per essa ; al contrario, il valore particolare attribuito alla carne umana deriva precisamente dal valore attribuito alla vita umana; per questo la carne umana non è semplicemente un cibo tra gli altri. Ciò spiega perché le preferenze dei cannibali vada­ no spesso agli organi vitali della vittima . Proprio nelle ucci­ sioni dei cannibali troviamo spesso l'estrazione del cuore dal corpo ancora vivo. Presso gli Ashanti (Ghana) , al nemi­ co caduto si strappava il cuore che , preparato con erbe par­ ticolari mentre si pronunciavano incantesimi, serviva da pasto per coloro che non avevano ancora ucciso un nemi­ co. Gli ]aga, già menzionati, mangiavano sul campo di bat­ taglia i cuori ancora palpitanti dei caduti . A Mindanao (Filippine), solo il sacerdote poteva mangiare il cuore del nemico, che non doveva essere estratto se non con l'appo­ sita spada sacerdotale . Altrove è il cervello la parte più apprezzata della vittima e anch'esso può venir tolto, attra­ verso un foro praticato nel cranio, dal corpo ancora caldo . (È noto che esistono crani preistorici che presentano fori artificiali e che sono stati considerati - soprattutto da A . C . Blanc - come prova dell'esistenza del cannibalismo in epoca paleolitica : tesi in contraddizione con quella di Volhard, che vuole l �gare l'origine dell'antropofagia alle

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civiltà coltivatrici . ) Il fatto che gli Australiani - che sono, tutti, cacciatori-raccoglitori - pratichino diverse forme del cannibalismo (anche l'endocannibalismo, cioè il mangiare persone della propria tribù - p . es . i bambini piccoli posso­ no servire da cibo ai loro fratelli maggiori deboli o malatic­ ci, per rinforzarsi -, e anche la necrofagia) , non è una prova matematicamente sicura delle origini del fenomeno in epoca anteriore alla coltivazione, perché diversi elementi delle civiltà australiane provengono dalla Melanesia ; ad ogni modo è un fatto che il cannibalismo può integrarsi anche in una civiltà di cacciatori . In Australia la parte più pregiata del corpo umano è il grasso renale . Dagli usi non­ alimentari di questo risulta il genere di valore che gli si attri­ buisce: così, p. es . , quando con il grasso renale umano si ungono le punte delle lance per renderle più efficienti; o quando con esso si spalmano i corpi dei partecipanti ai riti iniziatici; oppure quando il grasso renale viene avvolto in erbe e portato sul corpo come amuleto.

3. La caccia alle teste Sulla caccia alle teste manca ancora una monografia esauriente condotta su scala ecumenica; vi sono, invece, diversi studi dedicati al fenomeno come esso si presenta presso singoli popoli. In generale sembra di poter dire che la caccia alle teste si riscontra nelle stesse grandi aree del cannibalismo; essa è una pratica meno diffusa di quest'ulti­ mo, ma all'interno o ai margini delle zone caratterizzate dal­ l'antropofagia esistono " isole" in cui la caccia alle teste sembra sostituire il cannibalismo o prevalere su di esso. Nell'Africa occidentale i due fenomeni vanno di pari passo ma alcune tribù si limitano alla caccia alle teste, senza prati­ care il cannibalismo: cosi, presso gli Ibo, fianco a fianco

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vivono tribù cannibali e tribù cacciatrici di teste. In Oriente la grande area delle uccisioni rituali comincia con la Birmania e con l'Assam; in questo ultimo luogo soprattutto i popoli maga praticano quasi esclusivamente la caccia alle teste . In Sumatra solo i Batak sono dediti al cannibalismo, mentre gli altri popoli, in buona parte, praticano la caccia alle teste (che , viceversa, è limitatissima presso i Batak) . Nelle Filippine certe tribù sono soltanto cacciatrici di teste . Nella Melanesia prevale largamente il cannibalismo, ma esi­ stono gruppi (così nelle Salomone a sud di una precisa linea) non antropofagi, bensì cacciatori di teste . Questa distribuzione della caccia alle teste in rapporto al cannibalismo fa pensare che i due fenomeni - malgrado la netta differenza tra l'uno e l'altro - siano due grandi varian­ ti di qualcosa di fondamentalmente comune . Non si vede un possibile passaggio dal cannibalismo alla caccia alle teste , né viceversa: solo certe remote radici dei due tipi d'istituzio­ ne dovrebbero essere comuni. Un certo parallelismo tra i due fenomeni risulta anche dal fatto che la caccia alle teste si pratica spesso nelle medesi­ me occasioni che sono tipiche del cannibalismo e che, come si è visto, sono le stesse delle uccisioni rituali prive sia di antropofagia, sia di caccia alle teste . Tra i popoli meno dediti, nell'Assam, alla caccia alle teste vi sono i Lakhers: solo in occasione della morte del capo o di un suo familia­ re essi organizzano spedizioni per le teste, "per allontanare i cattivi sogni" : il lutto pubblico non può cessare finché non arrivano le teste (i vicini Caro dicono che lo scopo dell'uso sia di assicurare servitori al capo morto nell'aldilà) ; la stessa usanza si ritrova presso i Bontoc Igorot delle Filippine. In Sumatra nei riti di fondazione spesso si ricorre all'uccisione di vittime umane : ma a Mentawei, per la fondazione di una

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"casa comunale" , si fa una spedizione di caccia alle teste . Nella Birmania in questo modo si cerca di procurare spiriti protettori per un villaggio appena fondato . La caccia alle teste in molti luoghi accompagna i riti agrari; presso i Naga e anche nelle Filippine, spedizioni hanno luogo al momen­ to della semina. I Naga portano le teste sui campi coltivati. Nell'Indonesia, in generale, si praticano uccisioni rituali, le cui vittime sono di solito schiavi: presso diversi popoli (Dajak del Borneo, Toradja del Celebes, ma anche nel Ceram, come pure nelle zone già segnalate) è in uso la cac­ cia alle teste: è stato notato (Stohr) che, essendo lo schiavi­ smo un fenomeno relativamente recente, in questa zona la caccia alle teste deve essere più antica delle altre uccisioni rituali; i due usi, peraltro, in certi casi si confondono: dalla guerra ora si riportano prigionieri vivi che vengono uccisi nel rito stesso; ora i cadaveri dei nemici caduti e altre volte ancora solo le loro teste . Anche le occasioni delle due pra­ tiche sono le stesse: riti di passaggio o riti funebri dei capi , riti di fondazione , feste agrarie, calamità , più le c . d . "feste di merito" ; per quel che riguarda queste ultime (cfr. Introduzione alla storia delle religioni p. 1 20) , le teste pro­ curate assicurano un "rango", un particolare prestigio socia­ le all'individuo . L a testa "cacciata" è, anzitutto, un trofeo i n quanto docu­ menta l'uccisione compiuta . Ma sarebbe un grosso errore credere che essa debba attestare la bravura o l'eroismo di chi l 'ha procurata . Risulta come un carattere pressoché costante della caccia alle teste - ampiamente documentato nelle più varie zone del mondo, dall'Eritrea alla Melanesia, dalla Nigeria all'Assam o al Brasile - che essa non è affatto un'impresa eroica: proprio i cacciatori di teste si comporta­ no in una maniera che noi definiremmo "vile" , aggredendo

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spesso persone isolate e inermi, tendendo agguati anche a donne o bambini. Perfino le spedizioni che hanno un carat­ tere bellico avvengono in forma di aggressioni notturne e durano finché non si taglia qualche testa tra la gente assali­ ta nel sonno. Ciò naturalmente non annulla i rischi impliciti nell'istituzione, in quanto provoca la vendetta delle tribù che perdono vittime : così si crea una situazione in cui (cfr. sopra per i Tupinamba cannibali) tutti sono e uccisori e vit­ time virtuali . Comunque, la singola impresa non è rischiosa e il trofeo non intende documentare un atto di coraggio. Ciò vuoi dire che il "valore" della testa non si situa sul piano morale . Apparentemente, la testa ha un valore in sé : secondo la credenza dei vari popoli , essa porta "fortuna" , prosperità , fertilità , dà protezione contro pericoli, procura la benevo­ lenza degli antenati, ecc . ; nello stesso tempo, come si è visto , conferisce prestigio e rango a chi l'ha procurata . Vi sono diversi popoli cacciatori di teste presso cui l'acquisto di almeno una testa è condizione del vivere da uomini: senza di esso un individuo non può sposare o non conta per adulto. Queste varietà delle formulazioni esplicite del valo­ re attribuito alle teste prese mostra che le credenze e perfi­ no gli impieghi istituzionali sono in qualche modo seconda­ ri rispetto all'uso stesso della caccia alle teste, che, invece, appare sostanzialmente invariato dovunque. Ricordando, ora, sia la distribuzione della caccia alle teste rispetto al can­ nibalismo e di entrambi rispetto alle altre uccisioni rituali, sia il fatto che le occasioni della caccia alle teste siano spes­ so le stesse del cannibalismo e delle altre uccisioni rituali, sia infine il valore di "trofeo" attribuito alle teste cacciate (e che, inoltre, esistono popoli - p. es . nell'Etiopia - presso i quali altri trofei, come gli organi genitali dei nemici, hanno

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valenze parallele), si ha motivo di supporre che, presso i cacciatori di teste , la testa attinga il proprio valore dall'ucci­ sione stessa . Che i valori dell'uccisione si siano, in qualche modo, concentrati proprio nelle teste-trofei, può dipendere da vari fattori (testa come sede di vita o altro: non si può nemmeno escludere a priori che vi abbia avuto parte , come pensa Jensen, la mitologia lunare in base a un rapporto sim­ bolico testa-luna: ma ancora andrebbe dimostrato che tale rapporto - là dove si presenti - non sia secondario) : ad ogni modo sembra che si tratti di un particolare sviluppo storico sul grande tronco delle uccisioni rituali. Ancora un'osservazione . I cacciatori di teste per lo più non si accontentano di portare a casa la testa: essi la sotto­ pongono a particolari trattamenti e, soprattutto, la conserva­ no, esposta , di solito, in luoghi significativi (piazza centrale , "casa degli uomini", ecc . ) . È stato osservato che questo trat­ tamento spesso è analogo a quello dei crani dei morti della comunità , trasformati in "antenati" e fatti diventare oggetto di culto. Poiché, inoltre , anche alle teste prese, in virtù dei poteri che sono loro attribuiti, viene tributata una specie di venerazione, si è pensato che la caccia alle teste si sia modellata sul - più antico - culto degli antenati . Ora, il culto degli antenati è una forma religiosa ben precisa che, però, a sua volta ha antecedenti storici più antichi: anche là dove di un culto degli antenati vero e proprio non si può parlare p . es . anche tra popoli cacciatori-raccoglitori - le "reliquie" dei morti trovano varie utilizzazioni istituzionali (p. es . sul corpo servono da "amuleti") . A questo punto sembra di dover constatare che il signi­ ficato dell'uccisione s'innesta direttamente su quello della morte in generale . Con ciò si apre una nuova vasta dimen­ sione del problema , su cui naturalmente non possiamo

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soffermarci che molto brevemente . La morte è uno di quei fatti su cui nessuna religione sorvola ; essa è un fatto " natu­ rale" che , invece, sul piano "umano" appare come il mas­ simo assurdo, il più inaccettabile non-senso; perciò, infini­ ti sono stati sempre gli sforzi umani ("culturali") intesi a dare un "senso" alla morte (o, addirittura , a negare la morte : idea dell 'immortalità) . Si legge spesso in libri di etnologia che questo o quel popolo, o , in generale , i popo­ li primitivi, non riconoscono la morte naturale : ogni caso di morte è attribuito a fattori particolari, come p . es. infra­ zioni di tabù o, soprattutto , atti di stregoneria: di ogni sin­ gola morte si cerca il "responsabile" . Tale atteggiamento non trova una spiegazione plausibile nella presunta " stupi­ dità" dei popoli primitivi, ben capaci di individuare i rap­ porti causali in tanti altri settori dell'esistenza , bensì nel rifiuto dell'accettazione passiva dell'assurdo; attribuendo a fattori umani e di carattere , comunque, "culturale" il singo­ lo caso di morte , l'uomo lo annulla come fatto "naturale" e lo inserisce nel proprio mondo regolato da valori "cultura­ li" . Ora uno dei modi di "dar senso" alla morte è quello di valorizzare il suo carattere non-umano come sovrumano . Il morto, uscito dal mondo umano, si configura con aspetti magari terrificanti (ma contro questi si ergono le istituzio­ ni quali i riti destinati ad allontanare o a pacificare gli "spi­ riti" o - più attinenti al nostro argomento - i trattamenti miranti a trasformare il semplice morto in "antenato" da venerare o, a livello più antico, in fonte di potere o prote­ zione), ma ad ogni modo sovrumanamente potenti. Se tra il culto degli antenati (o semplicemente l'attribuzione di un carattere sovrumano ai morti) e la caccia alle teste vi è un nesso storico, ciò getta luce su un significato nuovo di tutte le uccisioni rituali (essendo la caccia alle teste solo uno

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sviluppo particolare , come si è visto, delle uccisioni ritua­ li) : l'uccisione - eseguita nelle debite forme - è un mezzo atto a trasformare la vittima in un morto sovrumano , a creare , cioè , una fonte di poteri superiori .

VI

RICAP ITOLAZIONI E INTEGRAZIONI

l. Premessa I capitoli precedenti non esauriscono certamente la ricca tipologia delle uccisioni rituali non sacrificali; ma essi offro­ no già - malgrado il numero volutamente assai limitato degli esempi menzionati - una base che permetterà qualche osservazione di carattere generale; nel corso di queste avre­ mo sempre occasione di menzionare anche esempi nuovi, ove questi servano a illuminare qualche altro aspetto del nostro argomento . Finora si sono visti alcuni tipi di uccisione rituale , distin­ ti soprattutto dal punto di vista delle occasioni e dei fini del rito. Ora ritorneremo sullo stesso materiale - tutt'al più inte­ grandolo, come si è detto, con qualche altro caso - da altri punti di vista . 2 . La vittima Nei casi incontrati si è potuto osservare che le vittime delle uccisioni rituali possono essere di un'estrema varietà di tipi; a tutta prima sembrerebbe che non ci fosse alcuna regola generale in questo campo : uomini, donne, bambini, persone particolari o qualunque, parenti, membri della tribù , schiavi, nemici, tutti sembrano adatti ad essere vittime di un'uccisione rituale . Questa impressione - anche se in un certo senso, ma non in quello dell'assenza di ogni criterio di

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scelta, ci apparirà giustificata - va ora rettificata e precisata . A) Valore sociale della vittima. La varietà, da questo punto di vista, è estrema: ma appare immediatamente inve­ rosimile che possa essere indifferente destinare all'uccisione una persona d'alto rango o uno schiavo. Si tratta di una gamma di possibilità di scelta in cui ogni gradazione può avere un significato proprio . Per illustrare uno dei gradi estremi - le vittime di più alto grado - sembrerebbe che si debba menzionare un tipo di uccisione istituzionalizzata di cui finora non abbiamo parlato : l ' uccisione del re. Quest'argomento occupa il posto centrale nella monumen­ tale opera di ) . Frazer, Il ramo d'oro, che, com'è noto, pren­ de per spunto un'antica istituzione latina, quella del rex Nemorensis, sacerdote del culto di Diana nel boschetto sacro (nemus) presso il lago che anche oggi si chiama "di Nemi" . Il rex Nemorensis provvedeva al culto di Diana Nemorensis, finché qualcuno non lo uccideva per suben­ trargli nella carica; l'istituzione era ancora in vigore nei tempi dell'impero romano, quando (ma forse anche in tempi più antichi) soprattutto schiavi fuggiaschi tentavano l'impresa dell'uccisione del sacerdote in carica, non si sa se solo per sottrarsi così alla legge, a prezzo di esporsi, a loro volta, all'imprevedibile attentato di un pretendente succes­ sore. L'attenzione di Frazer si è soffermata sul fatto che que­ sto sacerdote portava il titolo di re; e, partendo da questa osservazione, lo studioso ha raccolto una vastissima docu­ mentazione sull'istituzione dell'uccisione del re. Non riporteremo qui esempi (che ognuno, del resto, può comodamente trovare anche nell' editio minor de Il ramo d 'oro, tradotta anche in italiano), ma ricapitoliamo solo i fatti. In varie parti del mondo, presso i popoli primitivi dove esiste la regalità , s'incontra, in molteplici forme, l'uso di

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uccidere il re quando si ritiene che egli rischi di perdere il proprio vigore : esistono casi in cui si attende di constatare la decadenza fisica, per vecchiaia o malattia del re; altri in cui lo si sottopone all'ordalia di un duello in cui, se risulta vincitore, può conservare ancora la carica , se, invece, viene ucciso, il suo uccisore gli prende il posto (caso analogo a quello del rex Nemorensis che, però, non si dimentichi, era solo un sacerdote con il titolo di re) ; altri, infine, in cui è pre­ stabilita la durata della sovranità del re e alla scadenza degli anni previsti egli viene ucciso. Se di questa istituzione non abbiamo finora parlato, era per la ragione che essa, in veri­ tà, non rientra, o non rientra perfettamente, nel nostro argo­ mento : infatti, non si tratta di un rito che possa richiedere l'uccisione di una persona, bensì di una persona che in un determinato caso deve essere uccisa, sia pure ritualmente. Il senso dell'istituzione è, in prima facie, abbastanza chiaro : essa vige presso popoli che a l re attribuiscono un'immensa importanza e poteri sovrumani; tutta la prosperità del paese e del popolo dipende dal re. Ma quei poteri non sono pro­ pri del re come persona, bensì di colui che è investito della sovranità (donde l'importanza dei riti d'intronizzazione, delle insegne regali, ecc.): la persona è solo un veicolo - ma deve essere un veicolo adatto! - dei poteri impliciti nella sovranità; nel momento in cui la sua capacità di fungere da veicolo di quei poteri diminuisce , la persona viene elimina­ ta e sostituita da un'altra più adatta . L'istituzione si fonda, dunque, - per paradossale che ciò possa sembrare - proprio sull'esaltazione della sovranità . Frazer sosteneva che il sacerdozio, in generale, si fosse formato per scissione di determinate funzioni dell'originario re sacro, re e sacerdote nello stesso tempo. Perciò, nel trat­ tare l'argomento dell'uccisione del re, rammentava anche

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qualche caso di uccisione di un sacerdote. Ma che non tutti quei casi possano essere ridotti a un comune denominato­ re, risulterà dal seguente esempio che Frazer conosceva da descrizioni vecchie, ma che recentemente è stato riesamina­ to in base a ricerche più scrupolose (Lienhardt, Divinity and experience, 1 96 1 ) . Si tratta di una specie di sacerdote presso i Dinka, popolo nilotico allevatore di bovini; diciamo "una specie di sacerdote" , perché - mentre Frazer lo prendeva per un "facitore di pioggia" - in realtà la posizione del "signore della lancia da pesca" non è una carica sacerdota­ le; "signori della lancia da pesca" si nasce, in quanto presso i Dinka esistono dei clan di "signori della lancia da pesca" ; s i tratta , più che d i una carica ereditaria, d i poteri ereditati che non in tutti i membri di quei clan sono ugualmente forti. La "lancia da pesca" è solo uno degli strumenti - e neanche il più importante - impiegati nella pesca , attività economica sussidiaria, in certe stagioni importanti, di quella società di allevatori; quale insegna di tali "sacerdoti" , la lancia da pesca non richiama tanto la pesca, quanto piuttosto, come risulta anche dai miti, un rapporto più generale con l'acqua, elemento condizionante dell'esistenza del popolo non solo per la pesca, ma anche per la pastorizia. In virtù dei loro rapporti con l'acqua, i "signori della lancia da pesca" hanno poteri particolari ed è per questo che esercitano funzioni "sacerdotali " ; poiché la loro parola è potente (essi possono anche uccidere con la sola parola) , essi sono le persone più adatte a pregare per la comunità e a pronunciare le formu­ le sacrificali. Essi sono soprattutto datori di vita (come l'ac­ qua) . Ora, quando un "signore della lancia da pesca" s'in­ vecchia o si ammala, egli stesso convoca il popolo e gli chie­ de di "sistemarlo" , di metterlo al suo posto: la gente allora scava una fossa e nella fossa mette seduto (non coricato

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come i morti!) il "sacerdote" , che durante l'esecuzione del rito canta e prega . La fossa poi viene riempita e, naturalmen­ te, il "signore della lancia da pesca" - dal punto di vista fisio­ logico - muore; ma il senso di tutta l'istituzione sembra esse­ re proprio nell'intenzione di evitare che egli muoia; infatti, potrebbe morire anche in via naturale e, se si volesse ucci­ derlo, ci sarebbero mille modi, tra cui anche il seppellirlo vivo, ma proprio il fatto che non lo "seppelliscono" come fanno con i morti, bensì lo mettono seduto e soltanto lo ricoprono di terra, mostra che l'intenzione è diversa. Il dato­ re di vita non deve morire, ma deve continuare a dare vita ­ e così si crede che faccia - anche dal suo " posto" definitivo in cui viene sistemato . È chiaro, dunque, che !'"uccisione rituale" di questa "vittima volontaria" , mentre da un lato di nuovo costituisce un caso in cui non è il rito a richiedere vit­ time umane, ma una persona particolare a richiedere di essere ucciso, d'altra parte ha un senso notevolmente diffe­ rente da quello dell'uccisione del re . Questi esempi dovevano essere menzionati soprattutto per essere scartati dalla trattazione del nostro argomento, malgrado una certa (ma in parte solo apparente) affinità con esso. Ma se l'uccisione dei re o del "sacerdote" dinka non fa parte dei riti di uccisione da noi studiati, si può tuttavia osservare che anche questi riti a volte richiedono una vitti­ ma di elevata posizione sociale . Si è visto che il re morto, presso certi popoli, deve essere accompagnato nella sua tomba , oltre che dalle mogli, anche dai dignitari (sotto-capi, gente della corte, ecc.); nella devotio romana il sacrificante e vittima nello stesso tempo era un imperator. Presso una comunità brahmanica dei Bhil, vicino a Bombay, (W. Koppers, Die Bhil, 1 948) - un popolo di cultura sostanzial­ mente primitiva, anche se induizzata - è un giovane brah-

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mano straniero che, accolto e ospitato per mesi, deve poi essere sacrificato a quella dea-madre che sotto diversi nomi è venerata in India e la cui presenza rivela la destinazione agraria del rito. Ma anche al di là dei casi di vittime di rango elevato, non bisogna dimenticare che ogni vittima scelta nel seno della comunità ha un valore sociale importante. Ora, contraria alla tendenza di scegliere "vittime prezio­ se" appare quella di ricorrere a vittime , per così dire, " a buon prezzo" . Questa tendenza può manifestarsi anche nel caso che le vittime provengano dalla comunità stessa: le donne, in certe società , hanno meno valore degli uomini e qualche volta è questo che determina la preferenza per le vittime femminili; i bambini indubbiamente sono considera­ ti, nella maggior parte delle civiltà primitive, di minor valo­ re degli adulti (sia perché non ancora integrati nella società, sia perché si rimpiazzano facilmente . . . ) ; si è visto che in Australia i bambini piccoli vengono dati in pasto a quelli più grandi, se questi sono di salute cagionevole. Ma ancora meno valore hanno le persone non appartenenti alla comu­ nità : i nemici che si prendono prigionieri (o si distruggono sul campo di battaglia, eventualmente con intenti rituali, v. sopra) ; gli schiavi che in moltissime società forniscono la materia prima per le uccisioni rituali; si è visto che in certi casi - dato che anche lo schiavo ha un valore economico anche tra gli schiavi si scelgono di preferenza quelli vecchi e inutilizzabili. Inoltre sono da considerarsi come vittime "a buon prezzo" anche i criminali, postisi fuori della comunità e destinati ad essere eliminati: nel Dahomey, p. es . , le vitti­ me dei grandi massacri rituali in onore dei re morti sono prevalentemente i condannati a morte. Vi è una contraddizione tra i due atteggiamenti (la ricer­ ca di vittime particolarmente preziose o, invece, di vittime

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dal più basso valore sociale)? Il fatto che anche persone di basso valore possano essere considerate come vittime effi­ caci per i riti, dimostra che l'essenziale è che si tratti di per­ sone umane; sono proprio le vittime meno preziose a met­ tere in rilievo il grande valore attribuito alla vita umana, la cui estinzione, dunque, in tutti i casi produce l'effetto richie­ sto. Sembra, anzi, che la scelta di vittime particolarmente preziose sia un fenomeno secondario; l'influsso dell'idea sacrificale - agli esseri sovrumani non si può offrire qualco­ sa di meno che perfetto -, la volontà di esaltare il re, per il quale anche persone di rango elevato devono morire, o, comunque, la tendenza a rendere ancora di più importante il rito, ecc. si innestano sull'originaria grande esperienza dell'uccisione di persone umane in generale . B) Qualità particolari richieste alle vittime. Quali specie di vittime vengano scelte per i riti di uccisione, può dipende­ re da ragioni intrinseche alle singole civiltà : che, p. es. , in Polinesia tutte le vittime (anche animali) debbano essere di sesso maschile, dipende da una valutazione sacrale dei sessi all'interno della cultura polinesiana e perciò non si presta a considerazioni d'ordine generale . In altri casi, la preferenza per un particolare tipo di vittima umana sembra, invece , dipendere dal carattere del rito: che nei riti agrari giappone­ si ricordati nel folklore la vittima fosse proprio la piantatrice di riso, che già nella sua attività normale aveva contratto un rapporto con la fertilità agraria, non è meno comprensibile della scelta di prigionieri di guerra per certe uccisioni rituali connesse con la guerra , ecc. Piuttosto, vale la pena di dedi­ care attenzione ai pochi casi citati in cui si è visto che la vit­ tima deve avere una caratteristica fisica particolare (p . es. ernia ombelicale): questi criteri ci sembrano bizzarri e a tutta prima incomprensibili . Ma prima di tutto bisogna ricordare

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che simili "segni" fisici possono avere, per un singolo popo­ lo primitivo, significati che a noi sfuggono, quando l'etnogra­ fo non li abbia scrupolosamente appurati, il che troppo spes­ so avviene. Ma, in secondo luogo, indipendentemente da un tale eventuale significato particolare, è importante che il segno in certo qual modo "pre-destina" la persona alla parte della vittima (specie quando è raro, come, secondo l'osser­ vatore, l'ombelico grande presso i Nyamwezi, v. sopra); sotto questo aspetto, la caratteristica fisica richiesta ha un significato analogo a quello di altri "segni" prestabiliti (come p. es. nel caso del rito di fondazione, nelle ballate europee ricordate: "la prima persona che passi" ; cfr. il caso biblico del giudice Jefta, ecc.). Si potrebbe pensare che la concezione di una simile predestinazione servisse a togliere la responsabi­ lità a chi altrimenti avrebbe dovuto scegliere la vittima; ma forse più importante di questo motivo è un altro, che, cioè, la vittima si riveli - attraverso il segno che porta o la sua fata­ le comparsa al momento opportuno - come particolarmente adatta allo scopo (e per ciò efficace); il "segno", in tal caso, ha un valore di presagio. Alla stessa idea s'informa la scelta per sorteggio della vittima (presso i Germani). C) Trattamento e comportamento della vittima. Anche dalla ristretta esemplificazione riportata appare chiaramente - ma gli esempi in proposito potrebbero essere moltiplicati a volontà - che il trattamento della vittima va da un estremo all'altro e, ciò che è più importante, spesso unisce i due estremi: ingiuriata , schernita, picchiata, a volte torturata, la vittima - in altre fasi dei preparativi per la sua uccisione può esser fatta oggetto di premure particolari; nutrita, orna­ ta e perfino venerata . La contraddizione tra gli opposti atteg­ giamenti della comunità nei riguardi della vittima è solo apparente . La vittima , in tutti i casi, muore per la comunità

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(o, comunque, per chi la destina all'uccisione); essa deve subire la suprema aggressività che culmina nella sua morte ma che è presente spesso già nella sua cattura (si sono visti casi in cui essa è "rapita" , sopraffatta d'improvviso) e, comunque, nella maniera in cui viene costretta a morire; ma nello stesso tempo con la sua morte essa realizza i più alti interessi, la salvezza stessa , della società e perciò ne merita la riconoscenza; anzi, realizzando qualcosa che solo essa quale vittima - può fare, si rivela come fonte di poteri non comuni o addirittura sovrumani, e come tale diventa ogget­ to di venerazione (prima o dopo la morte) . A questo punto è necessario inserire la constatazione che in ogni uccisione rituale si ritrova l'aspetto di riscatto o, se vogliamo usare questo termine, di redenzione operata dalla vittima in favore di coloro che l'uccidono. Quest'aspetto sarà già apparso chiaro nei riti di purificazione del tipo "capro espiatorio" : la comunità è colpita o minacciata dalle conseguenze dell'impurità contratta; trasferisce quest'impu­ rità su una vittima che perciò diventa abominevole e richia­ ma maltrattamenti, ma che , uccisa, elimina l'impurità, libe­ randone la società . Ma, con maggiore o minor rilievo, in tutte le uccisioni rituali la vittima ha questa funzione reden­ trice, in quanto dalla sua morte derivano quegli effetti - che si tratti della fertilità agraria, della solidità di una fondazio­ ne, della pioggia o del successo in guerra - senza i quali la comunità correrebbe gravi rischi. In certi riti quest'aspetto si sposta decisamente in primo piano, come quando presso i Lapponi (in una zona estremamente marginale rispetto alle grandi aree delle uccisioni rituali), in caso di malattia una persona, per evitare la propria morte , "sacrifica" (ma al "dio della morte" , cioè semplicemente vota alla morte) prima una renna qualsiasi, poi, se ciò non basta , una renna scelta;

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se ancora non guarisce, si decide a sacrificare un cavallo e , infine, - come ultima ratio - una persona umana (0. Petterson, ]abmek andjabmeaimo, 1 957) . Secondo la tradi­ zione, un re scandinavo, Aun , sacrificava ogni nove anni dei propri figli, prolungando così - per mezzo della morte di questi - la propria vita, finché il popolo non glielo impedì : allora, mori. L a stessa idea traspare nelle parole con cui Cesare (B. Gal. 6, 1 6 , 3) spiega i sacrifici umani dei Galli: ''jJro vita hominis nisi hominis vita reddatur, non posse deorum immortalium numen p/acari arbitrantur' . Per cir­ coscrivere, sia pure vagamente, l'esperienza religiosa che si manifesta in questa funzione attribuita alle uccisioni rituali, possiamo dire che il ricorso a vittime umane sembra presup­ porre che vi sia qualcosa nel mondo che voglia la morte o la distruzione; offrendo a questo "qualcosa" la vita di una vittima, lo si soddisfa , almeno temporaneamente , evitando così altre morti o catastrofi. Questo modo di vedere l'esistenza è alla base di un uso apparentemente bizzarro osservato presso i Khasi dell'Assam. Qui certe famiglie tengono (o si crede che ten­ gano?) nella propria casa un serpente di una particolare spe­ cie (la cui descrizione è piena di tratti fantastici!); quando una malattia o qualche infortunio colpisce una di queste famiglie, essa sa che il suo serpente vuole una vittima umana ; uomini della famiglia vanno, allora , a uccidere, di nascosto, una persona; perciò i (presunti?) detentori di quei serpenti sono temuti o odiati. Il singolare uso rivela il pro­ prio senso alla luce del mito delle sue origini: un tempo un mostruoso serpente divoratore minacciava di sterminio tutta l'umanità; l'eroe culturale dei Khasi riuscì, mediante uno stratagemma, a ucciderlo; lo spezzettò e lo fece mangiare alla gente; ma un pezzetto del serpente sfuggi a questa sorte

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e da esso nacquero poi i serpenti di quella specie, che anco­ ra oggi richiedono vittime umane . Il mitico mostro supera­ to, all'inizio dei tempi, dall'eroe (che porta l'umanità dalle condizioni caotiche in quelle normali, ordinate) ha innume­ revoli riscontri in altre mitologie; anche, del resto, l'incom­ pleta distruzione degli esseri mostruosi: le forze distruttrici il cui superamento rese possibile, nel tempo delle origini, la formazione dell'ordine - non cessano mai completamente di minacciare l'esistenza umana. L'interesse particolare di questa concezione presso i Khasi sta nel fatto che essa serve a fondare l'uccisione di vittime umane . Dalla funzione salvatrice della vittima può derivare in molti casi il suo prestigio e persino la venerazione di cui viene fatta oggetto. Ma probabilmente non si tratta solo di questo. Si è visto più sopra che l'uccisione di una persona umana è sempre un atto estremamente grave che sconfina nel non-umano, ma che proprio il non-umano della morte, e quindi dell'uccisione, viene riscattato mediante l'attribu­ zione ad esso di un carattere sovrumano (inteso come non­ umano positivamente valutato) . Come già i morti in genera­ le , a maggior ragione chi viene ucciso appositamente per una funzione di cui il rito lo investe è fonte di poteri sovru­ mani: la vittima destinata ad acquisire questa posizione superiore, anche per questa sola ragione, richiede timorosa venerazione; essa , infatti, non è solo strumento di un'azio­ ne, ma origine dei risultati ottenuti mediante il rito . I valori dell'uccisione, presenti alla coscienza di una società , sono presenti ugualmente alla coscienza della vitti­ ma stessa: solo questo fatto può spiegare il comportamento delle vittime, spesso descritto con stupore dagli osservatori. Molte volte questi si sono dimostrati incapaci di entrare nello spirito delle istituzioni descritte, come p. es. quando

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attribuivano alla rassegnazione o addirittura a un'apatia bestiale (come se le bestie si comportassero apaticamente, quando la loro vita è minacciata!) la calma dignitosa con cui le vittime prescelte affrontano il proprio destino. Spesso, del resto, - come in qualche esempio citato si è potuto vedere - la vittima non si limita a subire passivamente l'esecuzione, bensì partecipa attivamente al rito, recitando la propria parte esattamente come gli uccisori recitano la loro. 3. I modi dell 'uccisione L'estrema varietà dei modi in cui la vittima umana viene uccisa nei vari riti presso i vari popoli non dipende da un criterio unico. In certi casi, per esempio, è chiaro che il modo dell'uccisione è determinato dall'utilizzazione previ­ sta della vittima: dove la sua testa deve porsi al centro di pratiche rituali, si procederà, ovviamente, alla sua decapita­ zione (e ciò non necessariamente soltanto presso i cacciato­ ri di teste: si ricordino i casi documentati dalla Cina degli Shang); dove la vittima deve non solo essere mangiata , ma con ciò anche trasmettere direttamente le proprie "energie vitali" (in realtà: ciò che deriva dall'uccisione - v. paragrafo precedente - concepita sotto quest'aspetto!), si ricorrerà p . es . all'estrazione del cuore ancora palpitante, a l succhia­ mento del cervello, ecc . Le utilizzazioni di parti della vittima come "trofei" (v. sopra per il senso di questo termine nelle uccisioni rituali) sono molto varie e possono richiedere, per­ ciò, varie procedure (come le tibie delle vittime possono servire per la preparazione di flauti rituali, così la pelle - e allora la vittima viene sacrificata! - presso certe popolazioni delle regioni andine serviva nella preparazione di tamburi) . Altre volte il modo dell'uccisione sembra dipendere dal tipo di rito di cui l'uccisione fa parte. Il seppellimento da

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vivo può essere la normale sorte di coloro che devono accompagnare il re nella tomba (ma nulla vieta di ucciderli prima in altro modo) ; e altrettanto vale per le vittime poste sotto le fondamenta di una costruzione o immurate, nel caso di riti di fondazione . Nei riti agrari, la vittima uccisa deve spesso essere messa a diretto contatto con i campi coltivati; per poter utilizzarla per una maggiore estensione di terreni è, perciò, opportuno farla a pezzi; o, eventualmente, ince­ nerirla, per spargere le sue ceneri sui campi; o anche scan­ narla, per servirsi del suo sangue. Nei riti preliminari a una guerra, la vittima a volte rappresenta il "primo ucciso" : in tal caso essa viene trattata come si ha intenzione di trattare i nemici nel combattimento. Simili casi non costituiscono regole fisse , ma sono particolarmente adatti a mostrare il nesso che può esistere tra il carattere del rito e il modo del­ l'uccisione . In altri casi la ragione della scelta del modo dell'uccisio­ ne può dipendere da altri motivi. Si è visto che il pharma­ kos greco in qualche città veniva lapidato. A questo propo­ sito si osserverà che la lapidazione è, anzitutto, un'uccisio­ ne a distanza : il pharmakos, veicolo di tutta l'impurità che gli è stata caricata addosso, non deve essere toccato; per ucciderlo senza doverlo toccare, si può scegliere il mezzo della lapidazione . Ma forse anche in questo caso gioca ugualmente un'altra considerazione : il pharmakos deve morire per tutti (pro capitibus omnium) perciò tutti devono ucciderlo; la lapidazione non è soltanto un'uccisione a distanza, ma anche un'uccisione collettiva. Diversi riti rive­ lano chiaramente l'intenzione di far partecipare l'intera comunità all'uccisione da cui l'intera comunità deve trarre vantaggio (v. p. es. il rito agrario dei Pawnee) . Si è visto che i Tupinamba vogliono acquistare una responsabilità colletti-

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va nell'uccisione del prigioniero: e l'acquistano mediante la partecipazione obbligata alla consumazione della sua carne. Ora , i Sipai del Brasile centrale hanno un'istituzione larga­ mente analoga a quella dei Tupinamba; anch'essi prendono e mangiano prigionieri per "vendetta" , ma l'uccisione di questi non avviene mediante un colpo di mazza, bensì ogni membro della comunità scaglia una freccia nel corpo della vittima (preferibilmente nello stesso punto del corpo, per non rovinare la carne che servirà da cibo) ; e così tutti sono responsabili della sua morte. Il parallelismo va anche più in là: come presso i Tupinamba il catturatore non partecipa al pasto cannibalico, così presso i Sipai egli non partecipa all'uccisione collettiva, e ciò sia perché egli ha già la propria "responsabilità" , sia perché è entrato in una "parte" specia­ le , differente da quella degli altri membri della tribù . A proposito di questo motivo delle uccisioni collettive, menzioneremo un'istituzione dei Dayak Ngadju del Borneo che ci darà l'occasione di fare una digressione utile per altre ragioni. Gli Ngadju celebrano riti in occasione di ogni singo­ lo caso di morte, e inoltre hanno una festa collettiva dei morti (che interessa solo i morti di almeno due anni prima) . Al rito funebre individuale si associa il seppellimento prov­ visorio del morto. La morte precipita l'intero villaggio in uno stato di tabù (detto pali), con varie restrizioni che gravano sulla vita di tutti; il villaggio viene anche isolato dal resto del mondo; un filo di rotang gli viene teso tutt'intorno. Queste condizioni durano per sette giorni. L'ultimo giorno un parente del morto uccide uno schiavo in un luogo apposito (cioè "sacro"). Con il sangue della vittima si spalma il filo di rotang e un "sacerdote" , tagliando il filo, dice: "Come tu sei ora tagliato e rotto, così tutti i pali e ogni impurità siano tagliati via . . . ", ecc. La grande festa dei morti, detta Tiwab,

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dura ugualmente diversi giorni, uno dei quali ha il nome di "giorno dell'uccisione" : in questo giorno numerosi schiavi vengono uccisi. Il rito si svolge nel modo seguente : le vitti­ me vengono ornate in modo particolare e si sparge riso sulle loro teste (questo motivo si spiega con la frequente connes­ sione tra festa dei morti e Capodanno agrario) ; poi si legano le vittime ad appositi pali e si danza intorno ad esse; duran­ te questa danza ognuno produce una piccola ferita sui corpi delle vittime che muoiono in seguito al gran numero di feri­ te riportate. Contemporaneamente si accendono i roghi in cui si inceneriscono i morti riesumati dalla loro sepoltura provvisoria. Lo scopo di quella maniera crudele dell'uccisio­ ne non è, probabilmente, la semplice tortura, bensì la parte­ cipazione collettiva all'uccisione (W. Stohr). Ma qual è il senso di questi riti? Ci si ricorderà che altro­ ve il lutto pubblico per la morte di un capo non poteva aver termine prima dell'arrivo delle teste appositamente procura­ te ; la stessa istituzione vige, del resto, anche presso diversi gruppi di Dayak; ma presso altri non si tratta del lutto per il capo, bensì di ogni caso di morte : la caccia alle teste è l'equivalente del rito di uccisione degli Ngadju (e altri) . La morte colpisce l'intera comunità: ciò è nettamente statuito mediante il pali che isola il villaggio e lo pone in condizio­ ni di anormalità . Per superare questo stato di crisi, bisogna procedere a eliminare la presenza della morte che contami­ na la vita: anzitutto, bisogna mettere da parte il morto stes­ so che, in un primo momento, viene sepolto provvisoria­ mente; poi bisogna concentrare la diffusa presenza della morte in un unico veicolo: la vittima . La morte della vittima è fonte di vita per gli altri; simbolicamente il suo sangue per­ mette di "tagliare via" , insieme con il filo di rotang, le "impu­ rità " . Si tratta di un provvedimento di emergenza cui si ricor-

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re in ogni singolo caso di morte: ma i casi di morte si ripe­ tono e la morte continua a gravare sulla comunità; perciò è necessario, ogni tanto, una liberazione completa e generale da essa, il rito non per i singoli morti ma per tutti i morti. Qui non possiamo entrare nell'esame dell'istituzione della "dop­ pia sepoltura " , largamente diffusa : ad ogni modo, dove essa è in vigore, la morte non è concepita come un cambiamen­ to definitivo di condizione; solo la seconda sepoltura elimi­ na completamente il morto dalla società (o, invece, in diver­ si casi, lo inserisce in essa con un nuovo status, quello dell"'antenato"!). Il morto, per non essere tra i vivi, dev'essere "altrove" , fuori del mondo umano; per i Dayak, egli solo dopo l a festa dei morti trova la strada nell'aldilà. Presso un gruppo Dayak è documentata esplicitamente la credenza che il morto non può entrare nell'aldilà senza i riti di uccisione della festa dei morti. L'uccisione di vittime umane è, dunque, anche in questo caso, lo strumento della separazione tra vivi e morti, tra vita e morte . (Anche in altre aree, l'uccisione rituale - in Polinesia : il sacrificio umano - serve a rimuovere uno stato di tabù che grava sulla società: il meccanismo del rito è identico a quello dell'esempio precedente, anche se lo stato di tabù non dipende da un caso di morte, ma dall'infiltrazio­ ne di qualche altra forza nefasta nell'ordine umano.) Forse un altro esempio, preso di nuovo dall'Indonesia, ma questa volta da Sumatra meridionale, illuminerà ancora meglio l'idea soggiacente a riti simili. A Lampong nel caso di un omicidio è prevista la compensazione della famiglia dell'uc­ ciso da parte del gruppo dell'omicida; quest'ultimo gruppo fornisce, perciò, diversi beni, più anche due teste . Ma nella celebrazione della riconciliazione viene anche ucciso uno schiavo; il suo sangue, mescolato con quello di un bufalo e

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diluito in acqua, servirà a lavare i membri del gruppo del­ l'ucciso, non di quello dell'omicida : non si tratta, cioè, di "lavare" la trasgressione compiuta , ma di eliminare, median­ te la uccisione rituale, la morte che, avendo colpito un indi­ viduo, è rimasta "attaccata" al suo gruppo. Torniamo, ora, all'argomento dei modi dell'uccisione. In alcuni casi si è visto che l'uccisione rituale avviene nella forma di un combattimento: più o meno simulato nel caso dei Tupinamba (dato che la vittima, legata e solo inefficien­ temente armata, non è in grado di nuocere realmente) , effettivo nel caso del rito agrario delle montagne peruviane, ed effettivo anche, in forma di duello, nei combattimenti dei gladiatori a Roma, che, secondo una tradizione romana, sarebbero stati istituiti come sostituzione delle uccisioni ai funerali di persone importanti. Che i combattimenti di gla­ diatori conservassero sempre un carattere rituale, risulta da varie circostanze (p . es . che i "giochi" avevano luogo in occasioni festive) , ma qui sia menzionato soltanto che anco­ ra nell'epoca di Plinio (28,4) la gente beveva il sangue caldo dal corpo stesso dei gladiatori caduti, ritenendolo efficace contro l'epilessia: non si trattava semplicemente del sangue umano comunque procurato, bensì del sangue di una "vitti­ ma" , cioè di una persona ritualmente uccisa. Le uccisioni in forma di combattimento possono avere sensi differenti. In una festa pubblica degli Hittiti si inscena­ va un combattimento tra due gruppi designati rispettiva­ mente come gli uomini di Hatti e gli "uomini di Masa " ; i primi (rappresentanti degli Hittiti conquistatori e dominato­ ri) erano armati di tutto punto, i secondi (rappresentanti della popolazione autoctona soggiogata) erano armati solo di canne; gli "uomini di Masa" dovevano perdere, perché il rito sanzionava , appunto, la permanente supremazia degli

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Hittiti. Il primo caduto veniva sacrificato. Qui si tratta di un combattimento rituale che in un certo senso sostituisce la guerra reale, affermandone l'inalterabile risultato; nel caso dei Tupinamba il rito riattualizza il combattimento in cui il prigioniero fu vinto (come, in un momento precedente del rituale, si riattualizza la sua cattura), in favore del senso stes­ so del rito che deve essere l'uccisione di un nemico. Ma dove il rito non ha alcun riferimento alla guerra, il combat­ timento rituale può avere funzioni differenti: è anche un modo di non scegliere la vittima, bensì lasciare che cada quella "predestinata" ; ma può essere importante anche che la vittima venga sopraffatta e uccisa proprio nell'esplicazio­ ne della sua massima vitalità, cioè nello sforzo del combat­ timento; e non è escluso che sia l'idea dell'alternativa - esse­ re uccisi o uccidere (mors tua vita mea anche nei giochi gla­ diatori!) - a concretarsi nella forma di combattimento data all'uccisione rituale . In diversi casi si hanno uccisioni incruente (per strango­ lamento, impiccagione, seppellimento da vivo, annegamen­ to, esposizione o abbandono, ecc. ) . Forse non è ingiustifica­ to osservare, preliminarmente, che in generale è più facile uccidere in maniera cruenta che non in maniera incruenta: e ciò basterebbe per metterei sull'avviso che nelle uccisioni incruente può manifestarsi precisamente l'intenzione di evi­ tare lo spargimento di sangue (che in altri riti di uccisione è , invece, elemento essenziale!). Ma anche l a categoria generi­ ca di "uccisioni incruente" risulta astratta . È diverso il caso in cui l'uccisione incruenta dipende, come si è visto, dal carat­ tere del rito (v. sopra per il seppellimento da vivo nei riti funerari o di fondazione) e diverso, invece, quando è deter­ minata da idee particolari; e queste possono essere varie per i singoli modi di uccisione incruenta.

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Citiamo subito un esempio singolare : i già più volte men­ zionati Batak di Sumatra - che sono anche cannibali - cono­ scono diverse maniere di uccidere vittime umane : nei riti di fondazione seppelliscono uno schiavo vivo sotto ogni pila­ stro della costruzione; nei riti agrari organizzano combatti­ menti rituali proprio allo scopo di spargere sangue sui campi. Ma la loro religione, sotto influssi esterni, ha assun­ to un carattere politeistico e perciò le loro uccisioni rituali in qualche caso si presentano come sacrifici umani. Una divi­ nità può manifestare al sacerdote la propria esigenza di avere una vittima umana . In tal caso si mandano messagge­ ri in giro che, con la domanda rituale "chi è stanco?" , invita­ no la gente a presentarsi come vittime volontarie. Ora, in questo caso, la vittima umana viene legata a un palo insie­ me con un bufalo; le si danza attorno, le si sputa addosso e poi si procede alla sua regolare consacrazione per il "sacri­ ficio"; ma poi, invece di ucciderla, la si abbandona, tagliata fuori dalla società, perché nessuno può più avere contatto con essa, nessuno può darle da mangiare : se muore entro un mese, vuoi dire che la divinità l'ha accettata come vitti­ ma . I Batak, dunque, che pur non rifuggono dall'uccisione e dal versamento del sangue di vittime umane in altri riti, in questo caso sembra vogliano lasciare tutto alla "divinità" da cui parte anche la richiesta del sacrificio: la vittima è volon­ taria ed essa non viene neppure uccisa, ma solo "lasciata morire " . L e uccisioni rituali (di vittime umane come d i animali) per annegamento nell'acqua hanno una vasta diffusione sia nell'Europa antica (Celti e Germani), sia in una immensa area che unisce l'Estremo Oriente, attraverso il Pacifico, con l'America; esse sono state studiate da A. Closs (in Kultur und Sprache, ed. da W. Koppers, 1 952). Si ha motivo di sup-

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porre che - almeno nella maggior parte dei casi - nella scel­ ta di questo modo di uccidere abbiano parte determinante le idee religiose relative all'acqua, che già in diverse civiltà assai primitive viene concepita come cosa unica, malgrado le sue pur diversissime forme concrete (pioggia, fiumi, mare) , nelle quali si avverte un uguale carattere ambivalen­ te (pioggia fecondatrice e portatrice di alluvioni; mare , fonte di alimenti e di beni economici, ma anche di pericoli morta­ li; fiumi che irrigano, ma minacciano di straripare, ecc.). I Marind-anim, per esempio, hanno paura soprattutto dei temporali, dannosi per le loro coltivazioni: ma, per evitarli, mandano in mezzo al mare una barca con un giovane cari­ co di ornamenti che poi viene buttato nell'acqua . Il valore dell'uccisione per annegamento nel rito di fondazione di un ponte o di una diga (Giappone) non è sostanzialmente dif­ ferente da quello dell'interramento della vittima per la fon­ dazione di una costruzione in terra ferma ; il "dio del fiume" che appare come destinatario del "sacrificio" equivale, in questo caso, allo "spirito del luogo" di cui si è parlato a pro­ posito dei riti di fondazione. Più particolare deve essere lo sfondo ideologico dell'uso (reale o leggendario?) cinese di offrire una fanciulla in sposa al fiume (facendola annegare in esso) per evitare inondazioni. Un'elaborazione teologica (druidica) deve aver dato a più antichi riti celtici di uccisione quella forma definitiva che traspare da una schematica notizia tramandataci da scoliasti di Lucano: per il passo in cui il poeta nomina, con i nomi indigeni, tre divinità galliche destinatarie di sacrifici umani, il commento dice che per una di esse la vittima veniva fatta annegare in apposite vasche, per l'altra impiccata e per la terza cremata (acqua, aria, fuoco, come mezzi distinti di uccisione) . Le due forme di uccisione incruenta - per anne-

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gamento e per impiccagione - compaiono, del resto, insie­ me anche nel grandioso culto germanico di Uppsala. L'impiccagione, per quanto relativamente rara come forma di uccisione rituale, può avere tante valenze differen­ ti da rendere sconsigliabile il parlarne in astratto: che l'evi­ tazione del versamento di sangue possa essere uno dei suoi motivi determinanti, appare anche dal fatto che essa è stata adottata , anche in stati moderni, come forma dell'esecuzio­ ne della pena capitale . Tale era , del resto, anche presso gli antichi Germani, che - pur praticando anche il sacrificio umano in questa forma - in certi casi distinguevano netta­ mente tra il sacrificio e la semplice (non rituale) uccisione per impiccagione: così, p. es . , dopo la disfatta di Varo (9 d.C.) gli ufficiali romani furono "sacrificati agli dèi", mentre i soldati soltanto impiccati. Altrove (nel citato esempio celti­ co?) può giocare il motivo di voler far morire la vittima nel­ l'aria o tra cielo e terra . Nel caso del culto di Uppsala in cui grande parte hanno gli alberi sacri e soprattutto un immen­ so albero "di cui nessuno sapeva di che specie fosse" (Adamo di Brema) , l'impiccagione può essere connessa con il valore attribuito all'albero (su cui la vittima veniva impic­ cata) , ma difficilmente per una venerazione della forza vegetale : un grande e unico albero, nella mitologia germa­ nica, è quello chiamato Yggdrasil, le cui radici affondano negli inferi, mentre la sua chioma tocca il cielo; si tratta chia­ ramente di un asse cosmico; su quest'albero si è impiccato, per nove giorni e notti, il dio Odin che da quest'esperienza di morte trasse la sua insuperabile sapienza magica.

VII

CONSIDERAZIONI FINALI

Quando per la prima volta si prende contatto con il mate­ riale relativo alle uccisioni rituali, dall'estrema varietà dei fini, occasioni, mezzi e forme dei riti si trae facilmente l'im­ pressione che il concetto stesso di "uccisione rituale" (di vit­ time umane) sia una mera astrazione e che nulla vi sia, in realtà, di sostanzialmente comune tra i vari riti che possono implicare - tra l'altro - l'uccisione di una persona umana; come già a proposito del cannibalismo (v. sopra) , viene il dubbio che si tratti di una semplice coincidenza - in quel singolo particolare - tra azioni dovute a motivi completa­ mente differenti. Questa prima impressione, poi, potrebbe apparire con­ fortata anche dall'osservazione che gli stessi riti, che certe volte richiedono vittime umane, sono celebrati anche con l'uccisione di vittime animali; e se è cosi, sembra che svani­ sca anche la consistenza di quel "dettaglio" che almeno apparentemente unisce i differenti riti di uccisione. Ma, anzitutto, il ragionamento astratto è proprio quest'ul­ timo e non quello che porta al concetto della uccisione rituale di vittime umane : perché solo astrattamente - cioè in base ai fatti considerati al di fuori del loro concreto contesto culturale - si può affermare che gli "stessi" riti richiedono, indifferentemente, vittime umane e vittime animali; la realtà è che in certe civiltà essi richiedono solo vittime animali, in

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certe altre anche o prevalentemente o soltanto vittime umane; perciò tra le uccisioni rituali quelle di vittime umane hanno una propria autonomia storica. Quanto alla prima perplessità, relativa all'apparente ete­ rogeneità dei riti implicanti vittime umane , essa si va atte­ nuando fino a scomparire del tutto, a mano a mano che, stu­ diando i singoli casi, si scorgono sempre più chiaramente i motivi ricorrenti e si scoprono le ragioni della varietà che non spezza l'unità di fondo dell'intero fenomeno. Non sarebbe, naturalmente, il caso di voler "definire" in concetti moderni - concetti forgiati attraverso secoli di storia cultura­ le lontana da quella in cui è nato e prosperato il fenomeno da noi studiato - ciò che è comune nei più vari riti osserva­ ti; la definizione di un "comune denominatore" risulterebbe inevitabilmente astratta . Dobbiamo rievocare piuttosto quanto si è potuto osservare a più riprese nei capitoli prece­ denti . Il punto di partenza è dato dalla logica più elementare : ciò che unisce le istituzioni più varie che abbiamo esamina­ to è, innanzitutto, l'uccisione di persone umane. Ora , si è potuto vedere che l'uccisione appare - anche là dove è pra­ ticata con larghezza e con la più perfetta convinzione della sua necessità - come un'azione di tremenda gravità. Spesso vi si ricorre solo in extremis, quando ogni altro mezzo tec­ nico o rituale risulta insufficiente al fine desiderato; spesso la decisione di ricorrervi o l'esecuzione stessa dell'atto sono riservate a persone non comuni, come il re o il sacerdote , che sono meglio tutelate contro le conseguenze temute di un atto così preoccupante (e si è visto perfino un caso in cui il re stesso, eseguendo l'uccisione , deve evitare di vedere la vittima); a volte l'uccisore cade in uno stato di crisi, è colpi­ to da tabù e restrizic ni varie, ecc. Ma proprio da questa

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estrema gravità , da questa anormalità dell'atto di uccidere deriva, a chi lo compie , una posizione particolare, concepi­ ta ora come "merito", ora come "prestigio" o "rango" o anche come "potere " . In certe società, per diventare "stregoni" , bisogna porsi fuori della normalità - i poteri magici hanno sempre fonti fuori dell'ordine normale e ciò si ottiene commettendo qual­ cosa di molto grave, violando, p. es . , tabù importanti: ma una di queste azioni gravi può essere uccidere una persona umana o anche mangiare della sua carne (cfr. , p. es . , B . Reynolds, Magie, Divination and Witchcraft among the Barotse of Nortbern Rbodesia, 1 963) . Questa concezione dell'anormalità dell'uccisione non contraddice - se non apparentemente - quella, altrettanto diffusa , secondo cui l'uccisione (o il cannibalismo o la caccia alle teste) è condi­ zione, invece, della posizione normale dell'uomo nella società (dell'iniziazione, del matrimonio, ecc.): la differenza è soltanto che in quest'ultimo caso la conquista stessa della posizione umana (per cui anche i riti iniziatici tribali, in generale, sottopongono i ragazzi a prove ed esperienze che li mettono temporaneamente fuori della normalità e li fanno ritualmente "morire") appare condizionata dal compimento di atti fuori dell'ordinario. Da tutto ciò appare che l'uccisione conferisca qualcosa all'uccisore - sia questo un individuo o la comunità stessa (soggetto dei riti pubblici) -, cioè l'uccisore, mediante il pro­ prio atto, viene in possesso di qualcosa - e ogni parola come "forza", "potere " , "energia vitale" , ecc. per definire questo "qualcosa" , resterà inadeguata - di "qualcosa" che l'uccisione "produce" o semplicemente è; la consumazione di parte dell'ucciso o l'acquisizione e la trasformazione di "trofei" presi dal suo corpo sono mezzi per concretare quel-

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la presa di possesso. Ora, d'altra parte , si è visto che tra certi comportamenti rituali di fronte all'ucciso e altri di fronte ai morti in generale (p. es. nel culto degli antenati) vi sono estese affinità, e più sopra si è tentato di indicarne la ragio­ ne nel fatto che la morte stessa può essere concepita come un passaggio dal piano umano non solo a quello non­ umano, bensì anche a quello sovrumano: l'uccisione che realizza questo passaggio, "crea" il sovrumano di cui l'ucci­ sore è, dunque, autore e possessore . Ma l'uccisore non è un individuo isolato, bensì membro di un gruppo (e ciò anche quando non agisca direttamente a nome del gruppo, come ciò avviene, invece, sempre nei riti pubblici) : ciò che egli conquista con la sua azione, resta a disposizione del grup­ po che, anzi, spesso ne beneficia senza esporsi al rischio immediato che l'uccisore affronta . Ora , a quanto sembra , proprio questo "qualcosa" di sopranormale conquistato con l'uccisione è ciò che permet­ te - all'individuo come al gruppo - di dominare situazioni che non si dominano al livello normale : le società che pra­ ticano le uccisioni rituali, se ne servono, per così dire, gio­ cando l'anormale contro l'anormale o il sovrumano contro il sovrumano. Per far produrre la terra, i normali sforzi del col­ tivatore sono necessari, ma possono non essere sufficienti; e così le abili tecniche di costruzione per erigere un edificio, la bravura guerriera per vincere un combattimento, la peri­ zia del navigatore per evitare un naufragio e, in generale , ogni accorgimento per superare una crisi - e una situazione di crisi, si è visto, non è che un'acutizzazione di quella crisi in cui l'uomo con il suo stesso esistere contemporaneamen­ te dentro e fuori della "natura " , con il suo esistere che è una continua violazione del non-umano, si trova inevitabilmen­ te e permanentemente. Contro la minaccia di questo non-

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umano più forte di lui, nella fragilità della propria posizio­ ne, l'uomo - in certe civiltà - cerca di diventare egli stesso fonte di poteri non-umani, mediante l'uccisione, e precisa­ mente mediante l'uccisione culturalmente controllata (e non quella che esiste anche tra le bestie e, del resto, anche tra gli uomini in situazioni "naturali") . Egli realizza questo, facen­ do passare, con suprema violenza , dalla condizione umana in quella non-umana (e sovrumana) della morte un essere come lui stesso : è quindi la vittima - propri0 la vittima sopraffatta e calpestata nella sua umanità - che risulta non solo strumento, ma origine sovrumana di ciò di cui l'ucciso­ re (cioè il suo gruppo) viene così in possesso. È inutile ripetere che tutto ciò non vuole "spiegare" i fatti o ricostruire un "ragionamento" , ma solo rendere in qualche misura accessibile anche per la nostra mentalità un'espe­ rienza religiosa antica che sembra essere alla base di tutta l 'infinita varietà delle forme in cui le uccisioni rituali appaio­ no in numerose civiltà del passato e del presente . Numerose, ma ben lontane dall'esaurire la totalità delle civiltà umane: e questa sola constatazione basta a conferma­ re che le uccisioni rituali non sono un fenomeno "general­ mente umano" , non appartengono "alla" religione come tale e neppure alla religione primitiva , bensì sono un prodotto storico particolare. Questo è quanto si può affermare con perfetta sicurezza in base ai fatti : se poi questo fenomeno sia sorto in una sola particolare civiltà storica (ad ogni modo : "preistorica") - e in quale e quando? - e si sia propa­ gato per diffusione, a partire da questa, in altre che le loro condizioni predisponevano ad accoglierlo in tutta la sua intima coerenza, o se eventualmente (ma, date le sorpren­ denti corrispondenze di dettagli in civiltà differenti e distan­ ti, meno probabilmente) sia invece sorto indipendentemen-

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te in più d'una civiltà , che in tal caso devono essere giunte a partire da radici comuni a produrne i presupposti, è una questione che qui certo non può essere affrontata; ad essa future ricerche , soprattutto etnologiche, potranno dare una risposta .

Parte Seconda IL SACRIFICIO UMANO

I

OSSERVAZIONI DI CARATIERE GENERALE

l. Premessa Come accade, il tempo concesso al corso si è consumato nella trattazione degli argomenti che dovevano costituire solo la prima parte delle nostre ricerche. Si è parlato solo delle uccisioni rituali non-sacrificati. Il progetto originario del corso prevedeva una seconda parte il cui problema cen­ trale sarebbe stato quello dei rapporti storici tra i sacrifici umani propriamente detti - in particolare, nelle religioni politeistiche - e i tipi di riti studiati nella prima parte. Questo problema richiederebbe ampie discussioni su singole istitu­ zioni di singole religioni politeistiche, cui ormai bisogna rinunciare (in attesa di poter tornare sull'argomento in un corso futuro). Ciò che, però, in queste ultime pagine - che costituiranno, dunque, una "seconda parte" sproporzionata­ mente più ristretta della prima - è indispensabile fare, è di indicare almeno qualche via di approccio al problema : altri­ menti la Parte Prima perderebbe gran parte della sua ragion d'essere .

2 . Oscillazioni tra riti autonomi di uccisione e sacrifici umani In tutto quanto precede si è cercato di evitare di citare tra gli esempi delle uccisioni rituali quelli che avessero un carattere sacrificate . Il fatto stesso di aver dovuto evitarli

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appositamente, la necessità , in cui a volte ci si è trovati, di mostrare come, contrariamente all'apparenza, certi riti non fossero sacrifici (come p. es. l'impiccagione del re nemico in Israele o l'uccisione dei pharmakoi ateniesi, pur inserita nella festa di due divinità, ecc .) o che lo fosse solo in un certo senso, in conseguenza alla sovrapposizione dell'ideo­ logia sacrificale su un rito essenzialmente diverso dal sacri­ ficio (come p. es. nel caso della devotio romana), mostrano che il limite tra le uccisioni rituali non sacrificati e il sacrifi­ cio umano, nella realtà , non è così netto come appare nella teoria . Soprattutto deve essere esplicitamente rilevato che riti esattamente dello stesso tipo possono avere e possono non avere carattere sacrificate: i riti di uccisione per la semi­ na presso i popoli bantu sud-orientali, presso certi gruppi erano considerati come sacrifici agli antenati; i riti per para­ re situazioni di emergenza possono essere del tutto uguali là dove sono privi di alcun riferimento a esseri sovrumani e là dove, come in Polinesia , appaiono nella forma del sacrificio a qualche divinità . Gli esempi potrebbero essere agevol­ mente moltiplicati . Da un punto di vista teorico sembra di poter distinguere due tipi fondamentali di questa fluttuazione tra carattere "autonomo" e "sacrificale" degli stessi tipi di rito. l) Esistono molti casi in cui un rito sostanzialmente autonomo viene praticato tale e quale - senza, cioè, mutare fini e forme in una religione incentrata sul culto di esseri sovrumani, e in tal caso viene inteso come sacrificio offerto a questi. Là dove domina il culto degli antenati, anche un'uccisione rituale funebre (Cina degli Shang?) o agraria (v. capoverso prece­ dente) o di fondazione, ecc . appariranno come sacrifici agli antenati; lo stesso rito, in una religione politeistica, fungerà da sacrificio a una divinità (o in una religione monoteistica

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al dio unico) . In tutti questi casi si tratta dell'inserimento di un rito autonomo in un sistema cultuale, di un suo adatta­ mento a funzioni che originariamente gli erano estranee . Sia subito detto che in questa connessione ci riferiamo solo ai casi di adattamento superficiale e non alle rielaborazioni più sostanziose (di cui si vedrà qualche esempio nelle religioni politeistiche) . 2) Ma esistono altri casi in cui il destinatario attribuito al rito originariamente autonomo, e ora concepito come cultuale, non proviene dalle file degli esseri sovruma­ ni comunemente venerati nella religione, bensì è in qualche modo espresso o prodotto dal rito stesso. Per illustrare il meccanismo di cui si tratta - e che funziona, del resto, in una sfera ben più ampia di quella delle uccisioni rituali - qui dobbiamo !imitarci ai pochi esempi già menzionati. Uno di essi è il rito di fondazione concepito come sacrificio allo "spirito del luogo" (anziché agli antenati o a qualche grande divinità) : lo "spirito" di quel luogo, di cui ci si appropria con la fondazione, prende consistenza nella coscienza del sog­ getto religioso solo nel momento e in diretta conseguenza dell'atto fondatore . Ma anche quando il rito per la pioggia si indirizza, come si è visto, a un "dio della pioggia" che non ha altra funzione che quella di dare esito al rito, o quando p. es. nella devotio romana - i destinatati del "sacrificio" (che è semplicemente l'uccisione del nemico a prezzo della vita del "sacrificatore") sono i Di Manes ("dèi" della morte) e la terra che accoglie i morti, in realtà, gli esseri sovrumani interessati incarnano il senso stesso del rito. In altri termini, la differenza tra i due casi che abbiamo distinto è la seguen­ te : il rito di uccisione - per sua natura "autonomo", come dimostrano i casi in cui non implica alcun destinatario sovrumano - può assumere l'aspetto di un sacrificio, inse­ rendosi nel culto di esseri sovrumani che, indipendente-

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mente da esso, dominano l'orizzonte religioso; ma può, invece, farlo anche creando il proprio destinatario, proiet­ tandosi, cioè, in una figura sovrumana che trae la propria ragion d'essere dall'azione rituale e non preesiste ad essa in maniera indipendente. Questa distinzione, valida sul piano teorico, nella realtà concreta non appare, naturalmente, sempre netta. Nelle religioni politeistiche, in modo particolare, i due casi tendo­ no a sfumare l'uno nell'altro. Precisamente: anche il rito autonomo inserito nel culto - o piegato a funzioni cultuali può contribuire alla differenziazione caratteristica delle divi­ nità (producendo, p. es. , differenze tra divinità che accolgo­ no e altre che non accolgono nel loro culto uccisioni rituali, o quelle che accettano determinati tipi di vittime o di ucci­ sione e quelle che ne accettano altri). D'altra parte, i desti­ natari espressi direttamente dal rito, in una religione politei­ stica, difficilmente rimangono limitati alla funzione che il rito conferisce loro, bensì, conformandosi alla generale ten­ denza del politeismo a creare divinità complesse (a organiz­ zare, cioè, in singole figure divine una molteplicità di espe­ rienze religiose), trovano il modo di confluire in sintesi più vaste . Tornando sull'esempio citato poco fa : si è detto che il rito della devotio romana , il cui senso è di consegnare alla morte nemico e "devoto" uniti nella stessa sorte dalla formu­ la "sacrificale " , produce i propri destinatari, i Di Manes e la Terra; ma sarebbe assurdo credere che Di Manes e Tellus come li conosce e venera la religione romana - fossero sol­ tanto ed esclusivamente i prodotti della devotio: i Di Manes, cui sono dedicate anche le tombe, sono il " prodotto" di diversi tipi di riti - p . es. anche del seppellimento e della cura delle tombe -, per non parlare di Tellus che, grande divinità , unisce nella propria figura, oltre alla funzione di

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ricoprire per sempre i morti, diverse altre che le derivano non solo da riti riguardanti i morti, ma anche dalle preoccu­ pazioni e dai riti di carattere agrario cui la "terra" è ugual­ mente interessata . 3. Politeismo, uccisioni rituali, sacrificio umano Per i più vari tipi di uccisioni rituali si sono visti indizi che fanno ritenere ora sicuro, ora almeno probabile che la loro origine fosse preistorica; le religioni politeistiche si forma­ no, invece , insieme con le civiltà superiori, cioè all'inizio del periodo "storico" (che cronologicamente varia nelle diverse parti del mondo: in Egitto, p. es. , la "preistoria" finisce intor­ no al 3000 a .C . , in Italia tra 1'8°-7° sec. a. C . , in Giappone non prima della metà del l 0 millennio d.C. , ecc.). Le religioni politeistiche, però, non sorgono ex nihilo: esse rappresentano una nuova forma di organizzazione di esperienze religiose in gran parte più antiche, oltre che, naturalmente, di altre nuove . Innumerevoli prove possono essere addotte , p. es. , per dimostrare : che in una figura divi­ na vengono rielaborati esseri sovrumani di tipo primitivo (pre-politeistico e preistorico) , quali l'Essere Supremo cele­ ste , il dema, il trickster, l'eroe culturale e così via; che nei miti delle divinità continuano a trovare posto (e nuova fun­ zione) terni rnitici più antichi di ogni religione politeistica; che i culti degli dèi comprendono molti riti evidentemente non inventati di sana pianta (solo diversamente impiegati), bensì diffusi molto più largamente e anticamente delle civil­ tà superiori (p. es. l'offerta prirniziale, la comunione , i vari riti di passaggio, ecc.). Il nostro problema sarà ora il seguente : la grande espe­ rienza religiosa, che in epoche preistoriche non sempre definibili ha condotto, in certe civiltà, alla creazione di

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diversi riti comprendenti l'uccisione di vittime umane, si sarà inserita - e, nel caso, in quale modo sarà stata rielabo­ rata - nelle religioni politeistiche? Ma bisogna subito dire che la domanda non va posta in questi termini generali e astratti: poiché le uccisioni rituali non sono un fenomeno universale, bensì appartengono a una particolare, sia pur vasta , fascia di aree culturali, noi potremmo tutt'al più chiederci se le religioni politeistiche , sorte sul terreno di civiltà che conoscevano le uccisioni rituali, abbiano accolto e valorizzato in qualche modo quel retaggio antico: perché, invece, per religioni sorte in ambien­ te diverso, un tale retaggio poteva anche semplicemente non esistere. Certo, se si getta uno sguardo sulla distribuzione geogra­ fica delle zone particolarmente interessate alle uccisioni rituali, in un primo momento si ha l'impressione che in esse - con la sola eccezione dell'America centro-meridionale - in generale non siano sorte civiltà superiori e religioni politei­ stiche (ma tutt'al più accolte secondariamente). Ma bisogna rendersi conto che le aree culturali che oggi (o, comunque, in tempi recenti) appaiono caratterizzate dalla frequenza dei fenomeni che ci interessano, non sono necessariamente le stesse di migliaia d'anni or sono . Teoricamente vi è sia la possibilità che , nel corso dei millenni, l'area delle uccisioni rituali si sia estesa in seguito ai processi di diffusione cultu­ rale , sia che essa si sia ristretta . La seconda di queste possi­ bilità (che , del resto, non esclude affatto la prima : l'area delle uccisioni rituali può essersi allargata in certe direzioni e ristretta in altre parti del mondo) non è neppure solamen­ te teorica, ma risulta chiaramente dai fatti. E forse inutile ricordare che , p. es . , l'Europa moderna , nel cui territorio ­ abitato anticamente in buona parte da popoli celti e germa-

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nici - i fenomeni di uccisione rituale e di sacrificio umano hanno avuto ricchi sviluppi, ignora ormai da oltre un millen­ nio ogni simile pratica religiosa . Ma nel corso dei capitoli precedenti si sono incontrati vari casi in cui una civiltà supe­ riore dimostrava di aver conosciuto la pratica delle uccisio­ ni rituali, ma di averla superata o soppressa : si pensi, p. es . , alle uccisioni di vittime umane nei funerali regali all'ihizio delle civiltà superiori egiziana, mesopotamica e cinese, e alla loro brusca abolizione nei periodi successivi; si pensi all'India, dove numerosi popoli primitivi praticano tutt'ora (o fino a tempi recentissimi) riti con vittime umane, ma dove la religione vedica, sorta con la civiltà degli invasori di lin­ gua indoeuropea , ha completamente eliminato il fenomeno, valorizzandone solo il ricordo nella speculazione teologica e nella mitologia . Tutto fa pensare che anche in Cina e in Giappone siano state le civiltà superiori a eliminare - o, piuttosto, a respingere al livello folkloristico - le uccisioni rituali. Questi fatti suggerirebbero di pensare che la civiltà supe­ riore e la sua più diffusa forma religiosa, il politeismo, fos­ sero inconciliabili con il fenomeno da noi studiato: ma che una siffatta generalizzazione sia fuori luogo, risulta subito dal fatto che in alcune religioni politeistiche (p. es. messica­ na, peruviana, fenicia, celtica , germanica) l'uccisione di vit­ time umane ha un posto importante . Vero è soltanto che determinate civiltà superiori si orientano più o meno deci­ samente contro l'uccisione di vittime umane, altre invece l'accolgono e la valorizzano nella loro religione . Questa dif­ ferenza può dipendere anche dal minore o maggiore peso che il fenomeno aveva nel patrimonio ereditario di ciascuna civiltà , ma anche da infiniti altri fattori che determinano l'in­ dividualità di ogni religione.

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Quanto ai casi in cui la civiltà superiore elimina le ucci­ sioni rituali, bisogna ricordare che - mentre queste si lega­ no spesso a situazioni di crisi e rappresentano l'estremo mezzo per superarle - le civiltà superiori si distinguono, in generale, da quelle di tipo primitivo per una maggiore sicu­ rezza ; anzitutto sul piano economico, grazie al sovraprodot­ to assicurato dalle nuove tecniche di coltivazione, ma anche sul piano sociale , in conseguenza della salda organizza­ zione sostenuta dalle leggi e dai ben articolati organi amministrativi, e, infine , sul piano religioso , per il regola­ re rapporto con divinità immortali che tutelano l'ordine . Naturalmente ciò non significa che le civiltà superiori non possano essere minacciate da situazioni critiche e, tanto meno, che esse siano al di sopra di quella crisi più fonda­ mentale che è insita , come si è detto più sopra , nella condi­ zione umana; ma il senso di una maggiore sicurezza può aver contribuito, in qualche caso, alla rinuncia ai mezzi estremi che una più antica esperienza religiosa presentava come necessari al su peramento delle crisi . In alcune civiltà superiori l'avversione all'uccisione di vittime umane - le cui ragioni andrebbero studiate caso per caso e potrebbero apparire affini - porta alla proibizione esplicita del sacrificio umano (specie nei paesi dominati: p. es. Persiani e Greci contro i Cartaginesi, Romani contro Cartaginesi e Galli; per­ fino il Perù incaico - che pur praticava i sacrifici umani imponeva limitazioni in questo campo ai popoli soggetti al proprio impero) . Ma, come si è detto, non si tratta di un fenomeno generale di tutte le civiltà superiori. Dal nostro punto di vista sono naturalmente più interes­ santi le religioni politeistiche che conservano e valorizzano positivamente le uccisioni rituali . Ma anche su questi ultimi termini conviene , an: itutto, fare una distinzione . In molti

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casi - del resto, occasionalmente già ricordati -, nelle reli­ gioni politeistiche (e monoteistiche!) delle civiltà superiori, le uccisioni rituali continuano - in misura varia - a essere praticate nelle loro forme originarie (di tipo primitivo) o appena "verniciate" da una nuova ideologia . Le civiltà supe­ riori comportano su tutti i piani - anche su quello religioso - una più o meno radicale riorganizzazione dell'esistenza : ma nessuna organizzazione umana è tale da investire la totalità dei fatti che la riguardano. Ora , ai margini di una nuova organizzazione , non, o non completamente, inseriti, possono prosperare sostanzialmente inalterati fenomeni prodotti in fasi culturali più antiche: questo è il caso delle uccisioni rituali che conservano il loro carattere "autonomo" o vengono solo superficialmente adattate alla forma religio­ sa dominante . Anche queste hanno ora per noi poco inte­ resse (gli esempi di questi casi si trovano nella Parte Prima) . Vi sono, invece, altri casi, in cui l'uccisione rituale si ripre­ senta al livello politeistico, con caratteri nuovi dovuti a una rielaborazione creativa. In questi casi si tratterà del sacrificio umano vero e proprio. Regole fisse non esisteranno neanche in questo settore, come in nessuno della storia; ma , in generale, si potrà pen­ sare che la misura in cui l'antico fenomeno delle uccisioni rituali verrà positivamente valorizzato, dando nascita a nuove istituzioni religiose, dipende da una parte dal vigore delle sue radici nel terreno della nuova civiltà nascente, e dall'altra parte dall'originalità creatrice di questa , capace di formarsi più sulla base delle proprie tradizioni più antiche che non su modelli esterni.

II

UNO SGUARDO SUI FATII

Tutto ciò che si è detto nel capitolo precedente in forma di premesse teoriche, in realtà rappresenta una prima e cer­ tamente ancora troppo generica conclusione ricavata dai fatti che ora non possiamo più né esporre, né tantomeno analizzare. Solo per dare almeno qualche informazione sul­ l'argomento di cui non abbiamo potuto trattare che i pre­ supposti, passeremo in rapida rassegna le religioni politei­ stiche (e non tutte!) dal punto di vista del sacrificio umano. È di importanza storica il fatto che nelle due civiltà supe­ riori più antiche del mondo - quella mesopotamica e quel­ la egiziana - le uccisioni rituali, documentate in una breve fase iniziale della loro storia, scompaiono definitivamente e il sacrificio umano non si sviluppa . (Per la religione egizia­ na la questione è ancora controversa , ma, malgrado la con­ vinzione degli eruditi greci di epoca ellenistica che scriveva­ no opere sui "sacrifici umani degli Egiziani" - convinzione che può essere spiegata con diverse ragioni -, non esistono prove sicure della pratica; anche i documenti figurativi e le presunte allusioni nei testi sono suscettibili di interpretazio­ ni diverse . Comunque, anche se si riuscisse - il che non sembra probabile - a provare che il politeismo egiziano non ignorava totalmente la pratica del sacrificio umano, reste­ rebbe sempre evidente l'assoluta marginalità del fenomeno nell'insieme dell'organizzazione del culto , di cui possedia-

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mo un'ampia documentazione .) La grande complessità per stratificazioni etniche e culturali e per il massiccio acco­ glimento di influssi esterni - della religione hittita non per­ mette forse affermazioni del tutto lineari sulla questione : sono stati, più sopra , menzionati due riti hittiti con uccisio­ ne di vittime umane, uno dei quali nell'esplicita forma del sacrificio umano; esiste qualche altro fatto (riti di purifica­ zione con vittime umane riscattabili con vittime animali, ecc .), ma in complesso si può ritenere che i riti di uccisione, sacrificali o meno, non abbiano avuto una grande parte nella religione hittita . Un quadro diverso si presenta nel mondo semitico. Bisogna , anzitutto, intenderei sul termine: a rigore, esso non indica un'unità culturale. Del "mondo semitico" fa parte, p . es . , anche l a Mesopotamia, i n cui l a popolazione d i lingua semitica, presente sin dall'inizio e presto dominante, ha cooperato all'elaborazione della grande civiltà del paese; ne fa parte, con tutte le sue particolarità culturali e religiose, Israele; ne fanno parte i vari stati, di civiltà superiore e di religione politeistica , che chiameremo fenici, ma anche le innumerevoli tribù nomadi ai margini delle civiltà sedenta­ rie; la penisola araba primitiva, con le formazioni di civiltà superiori alle sue estremità settentrionale e meridionale . Tuttavia , malgrado la grande diversità delle culture ai "verti­ ci" , questo vasto "mondo semitico" conserva , attraverso i millenni, una sua unità alla "base" , non dovuta a fattori etni­ ci, bensì a fattori storici, in quanto nel continuo movimento della storia del Vicino Oriente, tra i popoli semiti, si verifica­ vano incessanti e sempre nuovi contatti: mentre popoli semibarbari spesso invadevano i paesi d'alta civiltà (come mostra la storia mesopotamica, ma anche quella della Palestina e di altre zone) , questi ultimi spesso estendevano

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il loro dominio sui primi; e forse nessun fatto culturale importante poteva prodursi in una parte di questa grande area, senza avere qualche ripercussione nelle altre parti. È questa la ragione di quell'unità che permane come un sotto­ fondo comune alle pur diversissime civiltà dei vari popoli semiti. Questa considerazione non è stata qui inserita gratuita­ mente: essa ha importanza dal punto di vista del nostro argomento e precisamente in rapporto con il sacrificio umano presso i Fenici. I Fenici - orientali e occidentali ('Cartaginesi', sorti dalla colonizzazione fenicia nell'Africa settentrionale e, di là, diffusi in altre zone del Mediterraneo occidentale) - erano l'unico popolo semitico di civiltà supe­ riore e di religione politeistica che praticassero i sacrifici umani su larga scala . È inoltre significativo che nella civiltà ugaritica - cioè nella prima grande fase storica di questa cul­ tura - non si trova alcuna traccia consistente del sacrificio umano. Questo si presenta, invece, con grande rilievo sin dal secondo quarto del l o millennio a . C . La relativa docu­ mentazione più importante ci viene da due fonti: l'archeolo­ gia delle colonie fenicie occidentali e i testi biblici (che riguardano sotto quest'aspetto i popoli del Canaan e, in parte, l'ebraismo stesso, che subiva , tra gli altri influssi delle religioni locali, anche quello del sacrificio umano) . Senza poter entrare qui nei dettagli, sia solo osservato quanto segue: l) il sacrificio umano presso i Fenici si presenta in una forma del tutto particolare, quella del sacrificio di bam­ bini neonati; 2) esso appare sia in forma privata (e allora è sacrificio dei figli e delle figlie) , sia in forma pubblica (al momento dell'assedio di Cartagine da parte di Agatocle, lo stato invitò duecento delle famiglie più illustri a sacrificare i figli) ; 3) destinatati del sacrificio sono il dio Ba'al ("interpre-

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tato" nel mondo classico come Kronos e Saturnus) , in pri­ missimo luogo , ma anche (in Occidente) la grande dea-regi­ na Tanit (la figura che nel politeismo punico sorge da quel tipo di dea-madre che sin dalla preistoria è presente in tutto il mondo mediterraneo) e un dio, Melqart, il cui nome con­ tiene la parola "re " ; 4) le vittime venivano bruciate (i testi biblici indicano l'atto sacrificale con l'espressione di "passa­ re per il fuoco i figli"), ma sia da qualche passo biblico, sia da autori classici risulta che precedentemente le si "scanna­ va" : la loro cremazione non aveva, dunque, la funzione di ucciderle, bensì di "trasformarle " , onde consegnarle, nella forma adatta , alla divinità . Alcune stele puniche sono state interpretate come raffiguranti le vittime con attributi e gesti divini; comunque , il rango sovrumano delle vittime risulta anche dalla conservazione delle loro ceneri nei vari "tophet" (i santuari dei sacrifici di bambini) del mondo fenicio. Non è chiaro se si trattasse di un sacrificio di "primogeniti" (con valore, dunque, "primiziale" - quale ha la consacrazione ebraica di tutti i "primi nati" di cui, però, quelli dell'uomo e quelli dell'asino, non commestibili, venivano "riscattati"), ad ogni modo, di entrambi i sessi. Ora , sacrifici di bambini e sacrifici umani in generale ma con molto meno rilievo! - sono attestati anche in altre zone del mondo semitico, perfino nell'Arabia all'epoca della nascita dell'Islam. L'istituzione fenicia è un potente sviluppo storico di pratiche più limitate originate non nell'alta civiltà (p . es . di tipo ugaritico), bensì a livello "primitivo" . Esso è in linea con il carattere della religione fenicia "post-ugaritica" , sempre politeistica , ma tutta incentrata sull'esaltazione di un dio-signore qual è Ba'al. Se a livello primitivo si ricorre a vit­ time umane in situazioni di crisi, ora tutte le crisi e tutte le soluzioni dipendono e provengono da un dio padrone asso-

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luto: ed è proprio questo carattere di indiscussa signoria del dio che viene sottolineato dai sacrifici. Nello stesso tempo, ciò che l'uccisione di una vittima umana produce (v. sopra) ora va ad alimentare la potenza del dio (che , secondo qual­ che passo biblico "divora" le vittime che sono il suo "pasto") . D 'altra parte, la vittima da cui tutto ciò proviene non può essere che "divina" . Ecco un caso, dunque, di ela­ borazione politeistica delle uccisioni rituali. Nella Grecia antica vi è un singolare contrasto tra l'enor­ me numero di miti che narrano di sacrifici umani e l'estre­ ma sporadicità dei sacrifici umani realmente praticati. I miti, anzitutto, presentano la consueta tipologia delle uccisioni rituali (situazioni di crisi - epidemie , carestie, pericoli belli­ ci, mancanza di vento per i naviganti -, riti di fondazione di città , purificazioni, ecc .) anche se concepite come sacrifici offerti a determinate divinità (che , con la loro esigenza di vittime umane - nel mito -, si caratterizzano) . Spesso si trat­ ta di miti di fondazione di culti; a volte un rituale viene pre­ sentato come sostituzione di un sacrificio umano: ciò non significa che fosse tale anche realmente, ma solo che il senso del rituale equivaleva a quello dell'uccisione (in certi casi solo di un'uccisione simbolica, qual è, p. es . , quella dei giovani nei riti iniziatici!). I miti mostrano che alla coscienza religiosa greca erano ben presenti tutti i significati delle uccisioni rituali e tutte le loro possibilità di essere impiega­ te nel sacrificio. Ma, nel culto, le uccisioni di vittime umane sono per lo più solo adombrate : il proverbiale "sofisma dei Tessali" era un rito annuale in cui un'ecatombe umana veni­ va regolarmente rinviata all'anno successivo. Un rito di inse­ guimento poteva essere motivato da un mito in cui l'insegui­ to alla fine veniva raggiunto e ucciso (Tegea) . E vero, però, che in un altro rituale - quello degli Agrionia di Orcomeno

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-, se il sacerdote di Dionysos raggiungeva nell'inseguimen­ to una delle donne "discendenti dalle Minyadi" (colpevoli di aver ucciso e mangiato, nella follia dionisiaca, i figli) , la uccideva realmente: ma ciò doveva essere un caso-limite , se , quando una volta si è verificato, la tradizione conserva­ va perfino il nome del sacerdote . Dionysos si chiamava Anthroporraistes ("sbranatore di uomini") a Tenedo, ma le sue vittime erano una vacca e il suo vitellino, trattati come se fossero persone umane (e, anzi, il vitellino calzava i coturni del dio stesso!). Dionysos (egli stesso sbranato e divorato crudo, nel mito, dai Titani) era anche Omadios e Omestes: sotto quest'ultimo epiteto richiese e ottenne l'eccezionale sacrificio (reale) dei tre prigionieri persiani nobili di Temistocle . L'uccisione, vera o adombrata, di vittime umane rientra, così, tra i mezzi di caratterizzazione di questa divini­ tà che sempre ha funzione di portare a una rottura di livel­ lo, a una distruzione dell'ordine umano normale, per immettervi risorse extra e sopranormali (come quelle che provengono anche dall'uccisione di persone umane) . I casi sicuri di sacrificio umano, nella Grecia antica , sono rari: non possiamo, infatti, prendere sempre sul serio i dati tardi (soprattutto di autori cristiani che prendevano per veri anche i fatti mitici) . Tra i due casi menzionati nel Minos pseudo-platonico, quello del discendente di Athamas che, se entrava nel prytaneion, doveva essere sacrificato a Zeus Laphystios (fatto già menzionato da Erodoto) , conta poco, perché egli probabilmente non vi entrava mai (come già nel mito di Athamas le vittime destinate al sacrificio riescono a fuggire) ; quello di Zeus Lykaios, in Arcadia, sembra invece reale (si tratta di sacrifici di bambini con connesso rito can­ nibalico) . Altri casi (come il sacrificio umano nel culto cipriota di DiomedeE - ma Cipro è un caso a parte, in

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Grecia! - e qualche altro ancora) sono una prova dell'infini­ ta apertura della religione greca verso le più varie forme di culto, anche quelle che non sono largamente praticate . In conclusione, dunque, bisognerà dire che l'esperienza delle uccisioni di vittime umane era viva nell'antica Grecia, ma, salvo alcuni casi (ciascuno dei quali andrebbe interpretato nel proprio contesto, se la scarsità dei dati non lo rendesse per lo più impossibile), essa veniva "impiegata" solo indiret­ tamente, mediante miti e forme allusive dei riti, al fine di precisare i caratteri di singoli culti e di singole divinità. Se si tiene presente che nemmeno la religione micenea conosce­ va i sacrifici umani (i testi che sono stati interpretati in quel senso, parlano di offerte di persone umane alla stessa stre­ gua delle offerte di oggetti preziosi, quindi non destinate a un'uccisione), è probabile che neanche in Grecia le uccisio­ ni rituali avessero radici nella civiltà superiore, bensì in stra­ ti culturali più primitivi e che la civiltà superiore - a differen­ za di quella fenicia - non le abbia potenziate, bensì le abbia elaborate e utilizzate prevalentemente in forme indirette, ma non per questo meno significative . I Celti, al pari dei Fenici (e degli Sciti) , erano diventati, per gli autori classici, paradigmi dei popoli che sacrificava­ no uomini. Per valutare i fatti, bisogna ricordare che, in tutto l'immenso territorio in cui si diffusero, i Celti rappresentava­ no solo uno strato dominante e gran parte della loro civiltà rivela gli influssi dei vari "sostrati" locali; ciò può spiegare la straordinaria varietà che si osserva nel campo dei sacrifici umani celtici. Benché qualche autore classico metta in dub­ bio o neghi esplicitamente che i Celti praticassero il canni­ balismo, altre testimonianze rendono probabile qualche traccia anche di questa pratica. Più consistenti sembrano i retaggi di popoli cacciatori di teste: essi spiegherebbero la

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grande importanza delle teste-trofeo presso i Celti. I crani (presi ai nemici) venivano preparati (p . es. indorati), esibiti ed esposti; se ne facevano anche coppe. Ora , però, crani sono stati trovati anche in santuari della Gallia, e si ha noti­ zia del fatto che anche i crani-coppe erano usati dai sacer­ doti nelle libagioni rituali: così la caccia alle teste fu inserita nel culto divino. La cultura celtica presenta vari livelli - dal primitivo-tribale al barbarico e al "superiore-politeistico" e , corrispondentemente, vi troviamo le uccisioni rituali di tipo primitivo e i sacrifici umani - in luoghi e tempi fissi - a singole divinità, presentati dai druidi. È interessante notare che i sacrifici animali erano piuttosto rari (rispetto alle offer­ te vegetali e di oggetti preziosi) nella religione celtica : infat­ ti, secondo gli autori classici, i Celti ritenevano che l'uomo fosse la vittima più perfetta , quella degna degli dèi. Da un passo già citato di Cesare risulta che gli dèi esigevano la vita umana e accettavano vita per vita, cioè vittime che riscatta­ vano la vita degli altri . Le vittime erano preferibilmente i pri­ gionieri e i criminali: in mancanza di tali soggetti, si ricorre­ va anche a "innocenti" . Ma accanto a questo criterio pare che affiorasse anche quello della vittima "scelta " : secondo una notizia, i "più belli" tra i prigionieri venivano sacrificati agli dèi, gli altri semplicemente uccisi. Anche nelle forme dell'uccisione delle vittime si trova una grande varietà: come si è visto più sopra , al più alto livello politeistico (sacerdota­ le) , anche la scelta tra queste forme serviva a differenziare le divinità. Saremo ancora più brevi per i Germani, la cui posizione culturale, sotto diversi aspetti , è simile a quella dei Celti, p�r via dei seguenti fattori: la presenza di ele �ènti del prece­ dente "sostrato" , la stratificazione culturale . I Germani rag­ giungono un livello di civiltà "superiore" (sia pure con forte

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sottofondo "barbarico") soprattutto nella seconda metà del l o millennio d.C. , quando danno nascita a stati veri e propri e a città , mentre anche la loro religione politeistica si svilup­ pa in quelle forme precise che rispecchia l'Edda e che tra­ spaiono anche dalle notizie medievali sui loro culti. A livel­ lo primitivo e barbarico le uccisioni rituali hanno molta parte nelle pratiche religiose e soprattutto nel segno della guerra (v. anche sopra) . Ritroviamo, qui, la concezione che uccidere almeno una persona (un nemico) è condizione della vita normale del­ l'uomo: i Chatti, secondo notizia di Tacito (Germ. 3 1 ) , dopo l'adolescenza non si radevano prima di aver ucciso un nemico e portavano anche un ignominioso anello di ferro, quasi a simbolo di catene . Anche la pena capitale aveva un aspetto di uccisione rituale , amministrata com'era dai sacer­ doti . Il sacrificio umano vero e proprio si presenta già al livello tribale , p . es . , nel grande culto dei Semnoni descritto da Tacito (Germ . 39) : era celebrato in un bosco sacro con festa periodica cui convergevano delegazioni di tuttt i grup­ pi della tribù ; l'uccisione di vittime umane s'inquadra qui in una pronunciata esaltazione della divinità (definita come regnator omnium deus) e nella totale sottomissione umana (nessuno poteva entrare nel bosco sacro, se non in catene) . A livello politeistico e urbano troviamo, molto più tardi, il grandioso culto di Uppsala ; le relative notizie medievali sono naturalmente soggette a cautele (p . es. quando parla­ no di un tempio "tutto d'oro") . Sembra che il culto fosse dedicato alla triade divina Odin-Thorr-Frigg: la festa si cele­ brava ogni nove anni e durava nove giorni; ogni giorno veniva sacrificato un maschio di ogni specie di animale da sacrificio e un uomo. Delle forme dell'uccisione (impicca­ gione e annegamento) si è detto più sopra .

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In ultimo, dobbiamo parlare - ormai nel modo più suc­ cinto possibile - del sacrificio umano nelle religioni politei­ stiche dell'America precolombiana. Queste religioni, con le civiltà superiori cui appartengono, sorgono in una delle aree più dense delle uccisioni rituali (specie nelle forme del cannibalismo e della caccia alle teste). Mentre altrove la civiltà superiore elimina o limita le uccisioni rituali, o le cri­ stallizza in una forma sacrificate speciale (Fenici) , o ne con­ serva soprattutto i significati e meno la pratica (Grecia) , o continua a coltivarle sia in forma primitiva sia in forme adat­ tate al nuovo tipo di religione (Celti, Germani), nel Messico essa ne fa, per così dire, la base stessa, la sostanza più viva , della religione politeistica . Ogni studio delle uccisioni ritua­ li e del sacrificio umano potrebbe essere considerato come un'introduzione alla religione messicana in cui il fenomeno non soltanto realizza i suoi massimi sviluppi, ma anche il suo massimo approfondimento e le sue più ricche articola­ zioni. Ma ormai anche su questa religione dobbiamo limitar­ ci a pochi accenni. Prima, però, alcune parole sul sacrificio umano nel Perù incaico. La civiltà incaica è tutta imperniata sull'organizza­ zione dell'impero; il re (l' inca) ha una posizione paragona­ bile per importanza (anche religiosa) solo a quella del re egiziano. La centralizzazione politica ha riflessi determinan­ ti nella religione che, pur essendo politeistica , non si pre­ senta con un pantheon molto ricco e articolato; solo alcune figure divine complesse spiccano tra le numerosissime divi­ nità locali (la cui importanza sul piano nazionale è determi­ nata dall'inserimento della località della huaca nell'impero). Gli Inca hanno proibito ai popoli soggetti il cannibalismo e la caccia alle teste, diffusi nell'area andina; è caratteristico che una forma dell'utilizzazione della vittima - l'uso della

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pelle nella fabbricazione di tamburi sacri -, documentata per alcuni popoli della regione, viene accolta, ma limitata alle "vittime" delle esecuzioni capitali: i traditori. Agli strati primitivi della cultura risale anche l'uso di spalmare con il sangue di vittime umane - che nella religione pubblica erano prevalentemente bambini - il volto delle immagini divine e degli incas morti e mummificati. Le principali occa­ sioni dei sacrifici di bambini sono l'intronizzazione del nuovo inca, le situazioni di crisi e calamità (tra cui, con aspetto di crisi pubblica, la malattia dell'inca) e le feste periodiche delle huacas locali. Nella festa dell'intronizza­ zione le immagini divine vengono portate, tutte , sulla piaz­ za centrale della città : i rappresentanti delle quattro provin­ cie dell'impero portano uno o due bambini per ogni villag­ gio e per ogni gruppo gentilizio, oltre a molte altre offerte . Dopo una circumambulazione delle statue, le vittime e le offerte vengono divise in modo che ogni huaca del paese ne abbia la sua parte . L'esempio di questo rituale serve a illustrare i caratteri sopra rilevati della religione del Perù incaico. La religione messicana, malgrado basi ed elementi costi­ tutivi comuni (sia per quel che riguarda i retaggi primitivi sia per diversi fattori promotori della civiltà superiore) a tutta l'area centro-meridionale dell'America, è molto diversa. Quanto al sacrificio umano - onnipresente, o quasi, nel culto pubblico - esso ha anche nel Messico radici primitive . Origine cannibalica ha, probabilmente, il rito dell'estrazione del cuore palpitante dal petto della vittima ancora viva : ma il cuore non viene più mangiato, bensì bruciato con la fun­ zione di apportare la propria energia vivificatrice agli dèi (in particolare al dio-sole) . Altrettanto si può dire dell'uso ritua­ le di succhiare , mediante apposite canne, il sangue della vit-

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tima, che, però, ugualmente non viene bevuto, ma spruzza­ to verso il sole . Del resto, in certi rituali hanno luogo riti can­ nibalici veri e propri, ma in forma assai limitata . Certamente nella caccia alle teste ha radici la decapitazione delle vittime e il trattamento particolare (esposizione delle teste in una apposita costruzione presente in tutti i grandi complessi cul­ tuali, come pure le danze rituali con le teste delle vittime) . Ma, come già anche queste riplasmazioni di tradizioni pri­ mitive mostrano, nella religione messicana si è lontani dal livello primitivo. Si tratta di un politeismo articolato e orga­ nizzato in tutti i suoi aspetti. Uno dei mezzi di organizzazio­ ne del pantheon è l'elaboratissimo sistema calendariale con le sue numerose feste periodiche. Ciascuno dei diciotto mesi di venti giorni ha una festa principale dedicata a una divinità , con complessi e differenti rituali; anche i sacrifici umani, presenti in quasi tutte le grandi feste, sono differen­ ti in ciascuna di esse per numero e qualità delle vittime (da prigionieri a schiavi, da bambini a donne e a giovani scelti) , e per modi di uccisione . Solo lo studio analitico di ogni sin­ golo rituale (e di ogni singola divinità!) permetterebbe l'in­ terpretazione di questa varietà e dei singoli tipi di sacrificio umano. Ricordiamo almeno un motivo assai caratteristico e comune a diversi rituali: la vittima spesso figura come immagine viva della divinità . Nel culto messicano in genera­ le, l'intento di rendere presenti le divinità - o, per meglio dire, di crearle ogni volta è continuamente presente. (L'osso dell'anca di un prigioniero sacrificato viene rivestito e fornito di una maschera : da quel momento esso diventa il "dio prigioniero". ) Anche un'offerta vegetale, fatta di pasta di amaranto, può essere "dio " : la si fa a pezzi, poi, e la si mangia . I sacrificanti spesso assorbono il dio come il dio -

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assorbe la vittima: il circuito che unisce uomo e dio attraver­ so la vittima umana e divina viene continuamente rivivifica­ to. Per le feste annuali di Tezcatlipoca si tengono in riserva diversi prigionieri scelti (le vittime, di solito, devono essere belle, saper danzare e suonare, ecc.); uno di loro è destina­ to per ciascuna festa . Il prescelto, per un intero anno, viene trattato come dio: la gente si prosterna davanti a lui e gli rivolge preghiere, mentre egli va in giro per le strade, suo­ nando il flauto. Il re stesso lo considera come "suo dio pre­ zioso", gli dà ornamenti e doni. Per l'ultimo mese gli si danno quattro donne (ugualmente destinate ad essere sacri­ ficate), ciascuna delle quali porta il nome di una dea. Ma poi questo "dio" viene ucciso: le divinità devono essere periodi­ camente uccise per vivere eternamente; esse traggono la loro vita e i loro poteri dalla morte delle vittime, che già per questa loro capacità di creatori di dèi sono divine: e ciò non vale solo in generale , ma ciascuna vittima - per le sue qua­ lità particolari, per la forma della sua morte, per il rito cui partecipa attivamente - "crea" quella particolare divinità cui viene sacrificata . Malgrado l'insufficienza e genericità di queste poche parole sul sacrificio umano messicano, esse fanno forse intravedere come l'esperienza fondamentale dell'uccisione rituale trovi, nell'antico Messico, la più perfet­ ta trasparenza sul piano di una religione politeistica .