Potere senza stato
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Universale scienze sociali ANGIOMI ASAD AUGE BERNARDI BROMBERGER CIRESE CARLINI SIGNORELLI SOLINAS

POTERE SENZA STATO A cura di Carla Pasquinelli

Editori Riuniti

Lire 15.000 (IVA compresa)

CL 63-2919-5

Abituato a riconoscere e localizzare il potere in un punto ben definito — lo Stato — l’occidente ha a lungo ritenuto che nelle società primitive il potere non esistesse. Si è poi capito, con l’aiuto dell’antropologia culturale, che esso andava ricercato in luoghi diversi da quelli propri della civiltà europea: e cioè nella famiglia, nella parentela, nei lignaggi, nelle classi di età ecc. Un mutamento di prospettiva che ha coinciso, forse non casualmente, proprio con il progressivo modificarsi dell’analisi e della teoria del potere nella società occidentale. Società complesse, si dice oggi a proposito delle società (post-) industriali: proprio a significare, fra l’altro, la non coincidenza tra Stato e potere, la presenza di poteri molteplici e diffusi nel corpo sociale. Ciò rende paradossalmente vicine società moderna e società primitive: tanto che l’analisi della prima non può fare a meno delle suggestioni che provengono dallo studio delle seconde. È quanto ci suggeriscono i saggi raccolti in questo volume; contributi che, pur nella loro diversità, pongono tutti una interrogazione sul potere che ci aiuti a ridisegnarne la mappa e a renderlo visibile anche là dove la sua presenza è meno sospetta.

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Universale Scienze sociali

Sotto gli auspici della Regione Autonoma della Sardegna

Giulio Angioni Talal Asad Marc Auge Bernardo Bernardi Christian Bromberger Alberto M. Cirese Clara Galiini Amalia Signorelli Pier Giorgio Solinas

Potere senza Stato a cura di Carla Pasquinelli

Editori Riuniti

I edizione: gennaio 1986 © Copyright by Editori Riuniti Via Serchio 9/11 - 00198 Roma CL 63-2919-5 ISBN 88-359-2919-9 In copertina: Mimmo Rotella, Per la nave, 1960

Indice

VII

Nota

IX

Carla Pasquinelli

Perché potere senza Stato

L Società senza Stato 3

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Bernardo Bernardi

11 potere nelle società acefale

Pier Giorgio Solinas

Guerra e matrimonio

II. Corpo e potere

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Talal Asad Potere e rituale nella Chiesa medievale. Note sulle pene corporali e la verità

83

Clara Gailini

II corpo e la sua immagine: forme del po­

tere penale

III. Immagini del potere 101

Marc Auge

115

Christian Bromberger La seduzione del potere. Procedure simboliche di legittimazione nell'IsIam rivoluzionario

135

Giulio Angioni "Dominio ed egemonia: problemi di defi­ nizione e di estensione

Ideo/logiche del potere

IV. Potere e modernità

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Amalia Signorelli

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Alberto M. Cirese II potere del computer: come coman­ dare a un servo che non ha paura della morte?

Patroni e clienti

Nota

Questo volume raccoglie gli atti del convegno « Potere senza Stato », organizzato dall’istituto di discipline socio-antropologiche della facoltà di magistero della Università di Cagliari, nei giorni 10 e 11 maggio 1984. Si ringrazia il preside prof. Silvano Tagliagambe e i docenti dell’istituto dà discipline socio-antropologiche, e in particolare i professori Paola Atzeni e Chiarella Rapallo, il doti. Benedetto Caltagirone, la dott.ssa Giannetta Corriga e la dott.ssa Gabriella Da Re per quanto hanno fatto collaborando alla organizzazione ed alla riuscita del convegno.

Carla Pasquinelli

Perché potere senza Stato

1. Un lungo silenzio

Mi rendo conto che una espressione come « potere senza Stato » può risultare abbastanza ambigua perché fa pensare alle cose più diverse. Per quanto mi riguarda voglio con essa indicare due fenomeni ben distinti e cioè tanto quelle società in cui il po­ tere non è localizzato nello Stato e nei suoi apparati che quelle forme di potere diffuse nel corpo sociale delle società statuali, sviluppatesi al di fuori o contro lo Stato. Ma forse più che ambigua può apparire arbitraria per la pretesa che ha di mettere insieme culture e storie che siamo sempre stati abituati a considerare se­ parate e cioè società primitive e mondo occidentale. Tanto più che si tratta di un accostamento basato su una definizione in ne­ gativo e come tale debole, perché, se anche permette in qualche misura di delimitare l’oggetto di indagine, questo rischia comun­ que di rimanere indeterminato, per il venir meno di quell’anco­ raggio allo Stato su cui si è formata la nostra immagine (zione) del potere. Di potere senza Stato si è cominciato a parlare da quando la antropologia politica ha preso ad interrogarsi sulla presenza e sul­ la qualità del potere nelle società acefale. Cosi come è ormai d’obbligo, dopo Foucault, parlare di potere diffuso ogniqualvolta si accenna alla società post-industriale. Ma queste analisi sono sem­ pre state condotte isolate l’una dall’altra. Credo invece che si sia­ no intersecate in più di un punto ed in particolare mi sembra che la ricerca delle forme del potere nelle società primitive sia stata non senza rilievo per l’orientamento che da qualche anno ha as­ sunto l’analisi e la morfologia del potere nelle società complesse. Vorrei quindi cercare di ritrovare questi nessi, ricostruire la tra­ ma di questo rapporto per porre un’interrogazione sul potere che

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aiuti a ridisegnarne la mappa. Perché il potere sfugge ad ogni messa in scena che lo disveli, si nasconde, si maschera, assume al­ tri sembianti ogni volta che si cambia prospettiva o che si sceglie un punto di vista diverso. Eppure è là, presente, è una costante della società e della storia, non si tratta che di renderlo visibile. Nelle società primitive il potere è rimasto per lungo tempo invisibile almeno ad un occhio occidentale. Finché veniva inter­ rogato a partire dallo Stato il potere restava muto, assente. Abi­ tuati a quella visibilità e riconoscibilità che ha nel mondo occi­ dentale, localizzato com’è in un luogo suo proprio (nello Stato e nei suoi apparati), se lo Stato non c’era voleva allora dire che non c’era nemmeno il potere. E così le società primitive sono state giudicate società senza potere. Poi sono venuti i funzionalisti che ci hanno spiegato che società di tal fatta non possono esi­ stere, dal momento che il potere è quello che tiene insieme una società, difendendola dall’entropia che minaccia di distruggerla. Se si voleva saperne di più bisognava mettere da parte ogni re­ siduo eurocentrico, smettendo di guardare alle società primitive per ritrovarvi anticipata e deformata la nostra immagine. Restava comunque vero che il potere era nascosto. In assenza di circuiti specializzati bisognava andare a cercarlo altrove, per trovarlo là dove meno ce lo saremmo aspettato e cioè in quelle istituzioni che noi siamo abituati a considerare private come la famiglia, la parentela, il lignaggio ecc.

2. Le società senza Stato A rompere il ghiaccio sono stati due libri, African Politicai Systems a cura di Fortes ed Evans-Pritchard e I Nuer di EvansPritchard, usciti entrambi nel 1940, anno a cui si fa ormai con­ cordemente risalire la data di nascita della antropologia politica. Cominciamo dal primo perché tra i due è quello che più direttamente si è misurato con i problemi metodologici e teorici posti dall’analisi del potere in società sprovviste di istituzioni specializ­ zate a rappresentarlo. Un’impresa da pionieri dunque visto che i pochi strumenti a portata di mano erano quelli forniti dalla poli­ tologia e dalla filosofia politica occidentale, che alla prova dei fatti dovevano rivelarsi, se non proprio inservibili, del tutto insuf­ ficienti. In particolare il concetto di potere a loro disposizione era

XI quello elaborato in riferimento ad una tipologia molto ristretta e soprattutto formatasi attorno ad un oggetto troppo circoscritto. A notarlo è un nome di tutto rispetto della antropologia sociale britannica, come Radcliffe-Brown, che, nella prefazione ad African Political Systems, cerca di porvi in qualche modo rimedio, for­ nendo una definizione di potere abbastanza ampia o comunque tale da poter soddisfare al compito non facile di fare da guida alle analisi di quanti si venivano mettendo sulle sue tracce nelle società primitive. Stando a questa definizione il potere viene a coincidere con « il mantenimento o l’instaurazione dell’ordine sociale nei limiti di un territorio, mediante l’esercizio organizzato di un’autorità capace di imporre le proprie decisioni ricorrendo all’uso o alla possibilità dell’uso della forza fisica » (Radcliffe-Brown, 1940, XIV). Come noterà Beattie molti anni piu tardi, Radcliffe-Brown cerca qui di mettere insieme due criteri diversi, facendo riferi­ mento « in primo luogo al fine a cui è diretta l’attività politica, cioè il regolamento e il controllo dell’ordine sociale entro un dato territorio e, in secondo luogo, agli strumenti mediante i quali il fine citato è conseguito, vale a dire all’esercizio dell’autorità, so­ stenuto dalla forza» (Beattie, 1972, p. 203). Mentre il secondo di questi due criteri è ancora tutto interno alla logica weberiana, in quanto ancora fondato sulla relazione comando/obbedienza e come tale si rivelerà inadeguato a spiegare un gran numero di società primitive, è solo il primo criterio che appare invece utiliz­ zabile nell’analisi delle società senza Stato. Ma nonostante che Radcliffe-Brown sia riuscito solo parzialmente nel suo proposito di attrezzare l’antropologia di un concetto di potere adeguato al suo oggetto di studio, ha messo gli antropologi sulla buona strada, con il suggerire loro che studiare il potere non vuol dire altro che scoprire in quale modo una società realizza l’ordine sociale. Non esistono infatti società le cui norme, come ci ricorda Lucy Mair, « siano automaticamente osservate » (Mair, 1982, p. 18). Se que­ sto è vero, non resta che indagare quali sono per ogni società i meccanismi e le strutture che inducono al rispetto delle regole, che la fondano e che la difendono dalle proprie contraddizioni. Tra le prime a beneficiare di questa impostazione sono state le società di lignaggio, che hanno così finalmente rivelato un or­ dine ed una regola là dove per lungo tempo era stato visto solo anarchia e caso. A parlarcene oltre ad African Political Systems è

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la bella monografia di Evans-Pritchard su I Nuer. Per società di lignaggio si intende — conviene forse qui brevemente ricordar­ lo — quelle società formate da gruppi di persone collegate per via maschile da rapporti di parentela effettivamente determina­ bili (discendenza patrilineare). La struttura del lignaggio costi­ tuisce la base del sistema politico: ogni lignaggio si suddivide in un numero molto vasto di lignaggi minori (segmenti) ed ogni membro è legato al proprio lignaggio da vincoli di solidarietà. I lignaggi costituiscono infatti dei gruppi corporativi, che preve­ dono un alto livello di cooperazione, tanto che se un suo mem­ bro viene offeso od ucciso tutti gli altri membri del lignaggio si impegnano nell’esigere un compenso per il danno subito, compen­ so che poi viene diviso tra tutti. Se l’offesa non viene debitamen­ te riparata allora il contenzioso degenera nella faida. Per Evans-Pritchard la faida diventa una delle chiavi di let­ tura del potere primitivo. Dietro l’apparente insensatezza e cru­ deltà di una serie ininterrotta di omicidi e di vendette si delinea una delle principali istituzioni politiche dei Nuer. Il perseguimento della vendetta è infatti il segnale dell’esistenza di una norma che è stata violata e che va fatta in qualche modo rispettare. Tanto il compenso che la vendetta non sono altro che un implicito rico­ noscimento che l’assassinio è una infrazione alle regole. Ma c’è anche dell’altro: la faida è efficace non solo come sanzione so­ ciale, in quanto il timore di subirla può essere un importante in­ centivo a rispettare le regole, ma è anche il mezzo grazie al quale si rafforza la solidarietà di gruppo, delimitandone i confini e ren­ dendo visibile la comunità politica. Se infatti per comunità poli­ tica si intende quel gruppo formato da tutti coloro che accettano una norma comune di legge, allora la comunità politica dei Nuer è quel gruppo al cui interno si paga un compenso per l’omicidio. Negli scontri tribali non viene invece accettato nessun pagamen­ to in riparazione ad un’uccisione e quindi al posto della faida subentra la guerra. Ma anche la guerra è un indice per scoprire il sistema politico, perché rende visibile la comunità di lignag­ gio, nel momento stesso in cui si contrappone e si scontra con gli altri lignaggi. Del resto in tutte queste società in cui il po­ tere resta una sorta di energia diffusa, esso può venire più facil­ mente colto dall’esame delle relazioni esterne. Lo scontro con l’Altro è infatti uno dei mezzi attraverso cui il potere si cristalliz­ za e si manifesta, essendo la guerra tra le altre cose la maniera in

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cui un gruppo acquisisce coscienza di sé come gruppo perché stabilisce ogni volta chi deve riunirsi e contro chi. L’indicazione di Radcliffe-Brown ha finito dunque per dare i suoi frutti. Grazie ad essa il potere è emerso dal corpo sociale svincolandosi da istituzioni che, invece di rappresentarlo, lo na­ scondono. Con gli anni e con il moltiplicarsi delle ricerche sulle società acefale la definizione di Radcliffe-Brown (che pure resta alla base delle analisi degli antropologi britannici) verrà precisata in una direzione che finirà per metterne definitivamente in luce il carattere positivo relegando sempre piu sullo sfondo il riferimento alla forza. Dall’ordine sociale, con il cui mantenimento RadcliffeBrown faceva coincidere il potere, l’accento si sposta sulla coope­ razione tra i membri del gruppo. Cosi per Schapera il potere di­ venta « quell’aspetto dell’intera organizzazione che è interessato alla instaurazione e al mantenimento della cooperazione interna » (Schapera, 1956, p. 218). La ricerca delle regole che sottostanno e guidano la cooperazione tra i membri di un gruppo diventa ora il punto di vista privilegiato che permette di mettere a fuoco le forme che il potere assume nelle società acefale. Ad essere analiz­ zate saranno ora soprattutto quelle istituzioni che servono a ce­ mentare i vincoli comunitari e a rafforzare la solidarietà di grup­ po. Come ad esempio i riti e le cerimonie che, assicurando una rimessa a nuovo periodica od occasionale della società, contribui­ scono a mantenere e a ricreare la cooperazione interna. Con Gluckman il rito diventa una modalità per esprimere e dare visibilità ai conflitti ma anche per ricomporli riconfermando l’unità della so­ cietà e portando all’accettazione dell’ordine sociale in maniera mol­ to piu efficace e radicale di quanto non faccia la minaccia della forza. Ma oltre ad essere una forma di controllo sociale, il rito è anche una epifania del potere, una maniera attraverso cui si rende visibile la comunità e la sua articolazione interna, perché è solo con la partecipazione al rito che le differenze di status si mani­ festano, scomponendo l’apparenza egualitaria delle società primiti­ ve in una serie distinta di ruoli e di funzioni. I funzionalisti sono stati piu volte criticati, e molto spesso a ragione, per la loro esclusiva attenzione al funzionamento del si­ stema sociale e delle sue istituzioni più che all’analisi delle istitu­ zioni stesse. Ma a ben guardare è proprio questa impostazione che li ha messi in grado di vedere quello che altre metodologie non

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erano riuscite a portare in luce. Nel caso specifico del potere l’analisi funzionale ha permesso, in assenza di circuiti specializ­ zati come lo Stato, di cogliere la sua presenza in molte istituzioni che noi consideriamo pre-politiche. Con più precisione a mettere gli antropologi britannici sulle tracce del potere è stata la sco­ perta che ogni istituzione primitiva assolve a più di una funzione. Si tratta di quella plurifunzionalità delle istituzioni primitive di cui hanno parlato Beattie e Schneider riferendosi in particolare alla parentela e che è stata in tempi più recenti ripresa anche da Godelier. Cosi la parentela non ha un contenuto proprio ma è piuttosto un contenitore, o meglio è la forma simbolica in cui si esprimono i vari contenuti della vita sociale, le relazioni economiche, politiche religiose ecc. In altre parole in molte società acefale i rapporti di parentela funzionano da rapporti politici. Come ad esempio tra le bande dei Boscimani la struttura politica si fonde e si confonde con la parentela. O tra i Somali del nord, studiati da Lewis, una genealogia non è un semplice albero genealogico, ma « rappresenta le divisioni sociali della popolazione in gruppi corporativi » (Lewis, 1983, p. 22). Ma c’è un altro aspetto con cui il potere si presenta nelle so­ cietà primitive che sconvolge i nostri abituali parametri di rife­ rimento formatisi sulla bipolarità della relazione comando/obbedienza, ed è la molteplicità dei livelli in cui esso si manifesta. Si tratta di quella « polivalenza politica » {multipolity} di cui ha par­ lato Southall a proposito della parentela e che è stata ripresa e sviluppata da Bernardi nell’analisi dei sistemi di classi di età. Molto in breve — perché Bernardi ne parla estesamente nel sag­ gio raccolto in questo libro — il sistema di classi di età è quel tipo di organizzazione in cui gli individui della stessa età ven­ gono reclutati in gruppi (classi di età) che passano attraverso i successivi ruoli di guerriero, di marito, di anziano ecc. cioè attra­ verso diversi ruoli sociali definiti dall’età. In tal modo ogni indi­ viduo (mai come individuo ma sempre come membro di una clas­ se) è chiamato a svolgere nel corso della propria vita diversi ruoli sociali e ad esercitare per ogni ruolo le funzioni di potere che competono a quel ruolo. Il potere è infatti spartito fra le varie classi di età. Si tratta di un potere diffuso, distribuito nel corpo sociale non in maniera casuale ma secondo una griglia molto stret­ ta di norme e di modalità di accesso, che prevede per tutti i mem­ bri della società un suo esercizio parziale e temporaneo. In questo

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contesto il potere non è altro che « la capacità di svolgere atti­ vità sociale » (Bernardi, 1984, p. 59). La diffusione del potere cambia infatti la natura stessa del po­ tere, o meglio a cambiare è piuttosto la nostra immagine del pote­ re. Nel momento in cui le società primitive perdono la loro fisio­ nomia ambiguamente esotica, a cui le confinava la nostra rilut­ tanza ad accedere ad un diverso set di norme e di valori, per mo­ strare una complessità insospettata, ci scopriamo improvvisamente in debito nei loro confronti. Grazie ad esse il potere perde il suo aspetto demoniaco per svelare un suo volto benigno, sconosciuto all’Occidente, rivelandosi piu un dovere che un diritto, più l’eser­ cizio di una attività sociale volta a rafforzare la cooperazione ed i legami comunitari che il mero esercizio della forza. Un potere produttivo, definito più dall’abilità di fare che dalla possibilità di vietare, un potere comunitario che si manifesta nel momento in cui non è ancora monopolio di un gruppo o di una istituzione. Resta da vedere se nelle società primitive il potere è diffuso perché possiede tali caratteristiche positive o se è la sua diffu­ sione che lo rende tale, preservandolo dall’assumere i connotati del dominio e della forza. Invano cercheremmo una risposta nelle analisi dei funzionalisti. Tanto più che c’è da chiedersi quanto questa lettura cosi armonica del potere non sia anche in parte dovuta ad una interpretazione come quella funzionalista preoccu­ pata di dare per ogni società soprattutto un’immagine di ordine e di equilibrio.

3. Da Clastres a Foucault

All’antropologia funzionalista rimane comunque il merito di avere per prima indagato sul potere nelle società primitive e di averne messo in luce il carattere comunitario. Ma nonostan­ te questo mi sembra che sia rimasta anch’essa prigioniera del pri­ mato dello Stato. Infatti a ben guardare lo Stato rimane il pun­ to di riferimento obbligato rispetto al quale misurare la quan­ tità di potere presente nelle varie società prese in esame e valu­ tarlo sulla base di concetti occidentali (coesione, ordine, coerci­ zione, ecc.). Indicativo a questo proposito è l’atteggiamento di Lucy Mair — ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi — che è

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preoccupata di trovare una soglia a partire dalla quale il potere diventa visibile. In Governo primitivo la parte dedicata alla ana­ lisi delle società acefale è suddivisa secondo una escalation pro­ gressiva che parte dalle forme embrionali di potere — dove lo Stato è piu lontano — fino ad arrivare a quelle che più si avvici­ nano al modello occidentale — anticamera dello Stato. Si tratta cioè di una lettura evolutiva che riconduce le vicende del potere alla unità e linearità di un solo percorso, quello che sfocia e si compie con l’apparizione dello Stato, confermando la nostra dif­ ficoltà ad immaginare e pensare il potere al di fuori di esso. È questa una tendenza che possiamo ritrovare anche in altre tradizioni. Penso al marxismo e alla sua teoria della transizione. È proprio il tema dell’origine dello Stato che sta alla base dell’in­ teresse di Marx per le società primitive. La loro analisi avrebbe dovuto, almeno nelle sue intenzioni, permettergli di scoprire quel­ l’anello mancante che documenti il passaggio dalla comunità pri­ mitiva alla società di classe e con esso la nascita dello Stato. È questo dello Stato il grande tema incompiuto della sua ricerca — un tema ripreso ed abbandonato più volte, che ha spesso tro­ vato forma in progetti poi rimasti lì, come ad esempio l’idea di un IV libro del Capitale, mai scritto, di cui Marx ci ha la­ sciato traccia nello schema del 1857. Nei suoi taccuini etnologici (The Ethnological Notebooks) l’analisi di Morgan della gens di­ venta la chiave di volta per cogliere nel passaggio dalla società gentilizia alla società di classe l’origine dello Stato. Marx scrive infatti che lo Stato sorge là dove si è disgregata la « primitiva relazione collettiva ». L’idea che sta dietro questa affermazione è quella di una evo­ luzione che si compie senza soluzioni di continuità, segnata si da una cesura ma non tale da alterare un processo che trova in ogni tappa precedente le ragioni del suo evolversi successivo. Del resto il modello non differisce molto dallo schema della successione di ogni formazione sociale, che — non dimentichiamolo — per Marx « sorge solo quando le condizioni materiali della sua solu­ zione esistono già o almeno sono in formazione » (Marx, 1957, p. 11). In altre parole tanto Marx che i funzionalisti pongono sullo stesso piano forme di potere che non sono commensura­ bili tra loro, ipotizzando tra di esse una continuità di sviluppo. Ma il potere nelle società primitive non può essere definito prestatuale, nel senso di una incompletezza, di una dimensione

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mancante che lo stadio successivo colmerà attraverso il conteni­ tore provvidenziale dello Stato, che ne permetterebbe così una comprensione retrospettiva. Tra l’uno e l’altro c’è uno scarto teo­ rico che decide della loro incommensurabilità. Siamo debitori a Pierre Clastres di avere liberato il potere primitivo dal dominio dello Stato. Nelle società acefale il po­ tere è immanente alla società stessa, è il « noi » comunitario, nel senso che non esiste un potere separato e contrapposto al corpo sociale. Questa idea di un potere comunitario è però molto lontana dalle interpretazioni funzionaliste secondo cui — lo ricordiamo — il potere coincide con il mantenimento del­ l’ordine sociale e con la cooperazione interna o con tutti e due. Anzi Clastres è tutt’altro che benevolo nei loro confronti e non manca di criticare la scelta funzionalista di ricercare il potere nel­ le varie istituzioni primitive, perché « tutto allora rientra nel campo del politico, tutti i sottogruppi e unità (gruppi di paren­ tela, classi di età, unità di produzione ecc.) costituenti una so­ cietà sono investiti, a proposito e a sproposito, di un significato politico che finisce per coprire l’intero spazio sociale perdendo di conseguenza la propria specificità. Ché se dovunque vi è poli­ tica, non ve ne è più in nessun luogo» (Clastres, 1977, p. 18). Stando a Clastres l’ipotesi funzionalista non è altro che un enne­ simo tentativo per delegittimare il potere primitivo riducendolo ad una sorta di potere imperfetto, là dove la perfezione (inarri­ vabile per queste società) è ancora una volta costituita dal model­ lo occidentale. Ma il potere condensato nello Stato « non è il modello del vero potere bensì semplicemente un caso particolare, una realizzazione concreta del potere politico in certe culture, quale l’occidentale » (Clastres 1977, p. 21). Così come la coercizione non è la forma del potere, ma una sua espressione storica particolare, quella ba­ sata sulla relazione comando/obbedienza. Le società primitive non sono dunque società senza Stato ma società contro lo Stato, non solo perché hanno un diverso modello di potere ma per­ ché sono organizzate proprio contro la sua comparsa. Lo Stato diventa l’immagine del cattivo potere da cui le società primitive si difendono impedendone la nascita. Ognuna di esse mette in­ fatti in atto, secondo Clastres, una serie di accorgimenti che la preservano dall’apparizione dello Stato e dei suoi meccanismi per­ versi. La guerra ad esempio è la migliore garanzia contro di es­

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so, perché è la via per mantenere l’eguaglianza fra tutti i mem­ bri di una società. La guerra è il modo di essere delle società pri­ mitive, essa basta infatti da sola a dare il senso del « noi » comu­ nitario, perché « per mantenersi indivisa la comunità selvaggia ha strutturalmente bisogno della figura del nemico, attraverso la quale soltanto può leggere la propria unità » (Clastres, 1982, p. 167). Cosi le società primitive non hanno bisogno di un’espressio­ ne metasociale della propria identità quale è normalmente as­ sicurata dallo Stato. Anzi lo Stato è tutt’altro che un fattore di unità e di identità, è piuttosto l’affossatore del « noi » comu­ nitario, in quanto introduce al suo interno la diseguaglianza. Per Clastres dunque il potere primitivo è « buono » perché è diffuso, o meglio perché non è condensato in una istituzione che sovrasta e domina il resto della comunità. Ma anche in quelle società, in cui vi sono dei « capi », questi hanno sempre l’obbligo di dimostrare ad ogni istante l’innocenza della loro funzione. In altre parole il potere deve ogni volta giu­ stificarsi, richiedere consenso e permettere una notevole dose di reciprocità. « Ci troviamo di fronte ad un complesso enorme di società in cui i detentori di ciò che, altrove, si chiamerebbe po­ tere sono, in effetti, privi di potere, in cui il campo politico si determina al di fuori di qualsiasi coercizione e violenza e di ogni subordinazione gerarchica, in cui in breve non esiste alcuna rela­ zione di comando/obbedienza » (Clastres 1977, p. 12). Così la chieftainship non è l’antefatto dello Stato, ma l’espressione di un potere non riconducibile a nessun apparato istituzionale. Tra noi e loro c’è uno scarto. Dietro l’enigma del « potere im­ potente » si cela un’altra forma di potere, un potere senza coerci­ zione, senza forza, senza autorità. L’unica qualità che possiamo riconoscergli è il prestigio. Così il big man della Melanesia è il capo condannato a non essere obbedito né ascoltato; il suo è un potere precario così come precarie sono la sua fortuna e la sua ricchezza che è obbligato dal suo stesso status a distribuire. Ma è anche colui che con il suo prestigio si fa garante dell’identità co­ munitaria. Con le analisi di Marshall Sahlins sul big man il pote­ re primitivo si disvela nelle sue forme di rappresentazione, ba­ sate su una strategia di scambi e su una sorta di reciprocità asim­ metrica, dove le qualità personali assumono funzioni simboliche di dominio. Un potere destinato a restare nudo, senza istituzioni che lo medino e lo rappresentino, un potere condannato alla tra­

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sparenza dalla natura personale dei rapporti che lo rendono pos­ sibile. Avevo cominciato dicendo che nelle società primitive il potere è nascosto, perché è privo di quelle istituzioni che in Occidente lo rappresentano e lo rivelano. Scopriamo adesso che ha invece una visibilità sconosciuta al mondo occidentale, perché si mani­ festa in tutta la sua immediatezza. Sono le istituzioni, è lo Stato e i suoi apparati che, facendosi intermediari del potere, di fatto lo nascondono. La situazione è ribaltata: il potere nelle società primitive è divenuto visibile, tanto visibile da occultare con la sua luminosità le forme che il potere assume nella società occi­ dentale. Tanto da fare dire a Foucault che ciò che comunemente viene chiamata la vita politica, la maniera in cui il potere si dà una rappresentazione, è invece la maniera in cui il potere si na­ sconde di più. Con Sorvegliare e punire ma soprattutto con La volontà di sa­ pere Foucault cambia le sue idee sul potere. Gli aspetti più rile­ vanti di questo cambiamento sono due e riguardano entrambi la concezione statuale del potere. Alla nozione tradizionale di un cen­ tro di irradiazione, localizzato nello Stato e nei suoi apparati, Fou­ cault sostituisce Videa di un potere diffuso, disseminato nel corpo sociale, di una pluralità di poteri locali che si esercitano a partire da innumerevoli punti. Contemporaneamente critica la concezione giuridico-discorsiva « centrata sul solo funzionamento della legge e sul solo funzionamento del divieto » ovvero il modello statuale, per il suo carattere fortemente limitativo. « Un potere povero nelle sue risorse, economico nei suoi procedimenti, monotono nelle tattiche che usa [...] un potere che non avrebbe altro che la po­ tenza del “no” » (Foucault, 1978). A tutto questo Foucault contrappone « quel che si potrebbe chiamare una nuova “economia del potere” » (Foucault, 1977, p. 13) che trova nella relazione tra potere e sapere il suo statuto teo­ rico. Non è comunque qui il caso di seguire ulteriormente Fou­ cault nella sua proposta di una concezione produttiva del potere, che è fin troppo nota; mi basta e mi preme mettere in rilievo come essa sia in parte ricalcata sulle analisi di Clastres. Ritroviamo qui tanto l’idea secondo cui il potere coercitivo non è il modello del potere ma solo una sua espressione particolare rappresentata dallo Stato, che la nozione di potere diffuso. Anche se l’immagine che Foucault dà della diffusione del potere è molto diversa da quella

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che ci viene dalle società primitive. In queste ultime la diffusione del potere è regolamentata da aspettative e ruoli sociali ben de­ terminati, mentre nello scenario foucaultiano il potere si distribui­ sce in maniera selvaggia e imprevedibile. Ma non si tratta solo di rilevare le suggestioni esercitate da parte di un pensatore su di un altro, che è un fatto normale e frequente e neppure di mettere in rilievo l’influenza che gli studi etnoantropologici stanno sempre di piu avendo da qualche anno a questa parte su altri ambiti disciplinari. Ci troviamo piuttosto di fronte a quella sorta di « effetto di ritorno » che lo studio delle società « altre » ha prodotto e produce sulla società e la cultura occidentale, svelandone ciò che agli occhi di chi sta dentro è de­ stinato a rimanere nascosto. È, per dirlo con le parole di Ernesto De Martino, un esempio di quella opportunità che il rapporto con l’etnos ci dà di « rimettere in causa il mondo in cui si è nati e cresciuti », sapendo però, come ci ha avvertito Elias Canetti, che « non è mai del tutto privo di pericoli accostarsi ai cosiddetti primitivi, perché spesso da essi ricade su di noi una luce spieta­ ta ». Una luce che in questo caso ha aiutato ad illuminare il pae­ saggio della società post-industriale.

4. Le proposte dei sociologi A parlare di potere diffuso non è stato però solo Foucault; al­ tri sono i nomi che potremmo fare da quelli di Luhmann a Bell, Parsons, Gouldner ecc. per citare solo i più noti. Sebbene prove­ nienti da punti di vista diversi le loro analisi convergono tutte su di un punto e cioè che il potere è un mezzo circolante che si spinge al di là dei confini ristretti del sistema politico, oltre lo Stato e i suoi apparati. Una riflessione che ha inizio verso la metà degli anni cinquan­ ta, un inizio un po’ nascosto e periferico, che si svolge in ambiti disciplinari lontani dai percorsi della politologia ancora segnati tranne rare eccezioni — e penso al libro di Lasswell e Kaplan — da un’attenzione quasi esclusiva verso le istituzioni politiche. A lanciare il sasso fu Wright Mills, che restituisce all’analisi del potere quella centralità che aveva sempre avuto nella migliore tradizione sociologica e da cui la sociologia americana si era sem­ pre difesa mantenendolo ai margini delle proprie ricerche. Con lui il potere non ha più un solo volto, un solo luogo di

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identificazione che coincide con lo Stato e con i partiti, ma va ol­ tre le istituzioni politiche per rivelare la sua ingombrante pre­ senza in zone vitali del corpo sociale, quali le istituzioni economi­ che e quelle militari. L’idea che sta dietro alla descrizione delle élite è che il potere resta si un patrimonio di pochi, ma non è più il monopolio di un solo gruppo o istituzione, in quanto si riparti­ sce all’interno della società secondo una logica quantitativa che dà luogo ad una serie di dislivelli ordinati gerarchicamente. Ma nonostante questo, nonostante che il potere sia ormai inserito in uno scenario più ampio, pure la maniera gerarchica in cui è pre­ sente — un potere come noterà criticamente Parsons « a somma zero », cioè con una quantità fissa, per cui chi lo detiene lo fa sempre a spese e a danno di altri che ne restano cosi privi — fa si che siamo ancora lontani dall’idea del potere diffuso. Con Wright Mills il potere resta infatti localizzato in un centro da cui si irradia sul resto della società. A cambiare sono solo i confini di questo centro che non coincidono più con quelli dello Stato. Più che ad una critica del potere con Wright Mills ci troviamo piuttosto di fronte ad una critica della politica, come sfera sepa­ rata, critica a cui in parte deve avere contribuito la sua tenace anche se vaga appartenenza marxista. Per il resto Wright Mills si mantiene fedele ad una visione tradizionale del potere ricon­ fermando l’essenziale della teoria weberiana: il ricorso alla forza e, a completarne la fisionomia, il suo implicito carattere di pro­ prietà, in mano a quei pochi che lo esercitano sui molti. È proprio questa idea del potere come proprietà e l’asimmetria che porta con sé ad essere messa in discussione in questi stessi anni. A farlo sono i cosiddetti pluralisti, decisi avversari della teoria della élite, che trovano nello studio della comunità il terre­ no adatto per sviluppare la propria critica, facendo buon uso di quella tendenza della sociologia americana a fare della comunità, in particolare della comunità urbana, il laboratorio in cui è possi­ bile scoprire quello che il grande paese nella sua varietà occulta o rende di difficile rilevazione. A dire il vero anche gli elitisti erano partiti da lì, dallo studio del potere locale — è dei tardi anni venti il famoso libro dei coniugi Lynd Middletown (1929) — ma poi il punto di riferimento aveva finito quasi esclusivamente per essere La élite del potere. E infatti Robert A. Dahl proprio prima di pubblicare Who Governs?, il suo celebre studio sul potere a New Haven, se la prende con il libro di Wright Mills criticando

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il regresso all’infinito della sua spiegazione e l’assenza di una salda base empirica che la renda accettabile. Dahl sviluppa invece la sua tesi attraverso una meticolosa do­ cumentazione su chi governa a New Haven (una comunità al­ l’epoca di 150.000 persone) concentrando la propria attenzione non tanto sull’origine del potere quanto piuttosto sul suo eser­ cizio. Ne viene fuori un frastagliato panorama in cui una plura­ lità di gruppi, istituzioni e individui si fronteggiano e si equili­ brano a vicenda, cancellando ogni traccia di élite arroganti ed esclusive. A essere rigettata è tra l’altro la tesi della stratifica­ zione secondo cui ci deve essere per forza un gruppo che domina la comunità. Per Dahl il potere è infatti non solo decentrato, e come tale si estende al di fuori delle istituzioni politiche, ma so­ prattutto, come del resto aveva già anticipato nel suo The Concept of Power (1957), non è una proprietà. Il potere è un rapporto e, come subito precisa, è un rapporto tra persone che lo esercitano e lo subiscono secondo alterne vicende a tutti i livelli della vita politica e sociale. Non più visualizzato secondo un asse verticale che scandisce gerarchie e asimmetrie, il potere diventa ora una relazione orizzontale in cui i ruoli tra chi lo ha e chi ne è privo non sono più fissi ma possono sempre cambiare e comunque non sono mai tali da impedire che anche chi detiene il potere possa subire l’influenza o il potere di quanti gli sono subordinati. L’esempio a cui Dahl ricorre è quello di una democrazia a suf­ fragio universale dove « sarebbe poco saggio sottovalutare il gra­ do di influenza indiretta sulle decisioni dei leaders che hanno gli elettori attraverso le votazioni » (Dahl, 1957, p. 203). Il po­ tere diventa cosi l’esercizio di una attività a cui tutti hanno eguali opportunità di accesso. Non è mancato chi abbia fatto notare come questo modo di trattare i rapporti di potere non sia altro che la riproduzione su un altro terreno del modello del mercato messo a punto dai neo­ classici (Hartsock, 1983). Un’analogia che permette ai pluralisti di accentuare il carattere volontario della partecipazione e la natura egualitaria dei rapporti di potere per trascurare i rapporti di do­ minio cioè i suoi aspetti coercitivi e gerarchici. Se questa osserva­ zione coglie senza dubbio l’ambiguità presente nella posizione pluralista, tanto che non è sempre facile distinguere tra criti­ ci ed apologeti, pure non deve farci sottovalutare, come invece spesso accade ai critici radicai americani, il tentativo di cogliere i

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mutamenti intervenuti nelle forme del potere nella società moderna. Con i pluralisti il potere diventa infatti la partecipazione al processo di presa delle decisioni (partecipation in decision-making) che riguardano la comunità. Da luogo di antagonismi e di conflitti il potere si trasforma nel cemento che tiene insieme la società, nello strumento che permette di mobilitare risorse per conseguire beni collettivi. L’enfasi è sulla comunità, parola magica a cui è affidato il riscatto del potere e della sua natura perversa. L’idea è quella di una comunità in cui nessuna forza prevale sulle altre e la pluralità degli interessi in gioco — individui, gruppi, isti­ tuzioni — è di per sé garanzia e condizione della democrazia. Anche se poi nel definire e misurare il potere della comunità, i pluralisti ricorrono ad uno schema analitico che si concentra soprattutto sul potere individuale, tanto che la comunità finisce per restare abbastanza indeterminata nella sua struttura per ap­ parire piuttosto il risultato di una collezione di individui e delle loro diverse quantità di potere. E infatti per i pluralisti il potere è sempre un atto individuale e non, come sarà invece per Parsons, una funzione del sistema. Con loro siamo alla descrizione del funzionamento di una società complessa in cui si intrecciano le decisioni dei singoli totalmente svincolate dall’intervento esclusivo di una fonte centrale. La deci­ sione diventa la parola chiave. Il potere è la capacità di prendere decisioni, di organizzare la vita e le scelte degli altri. A porre l’ac­ cento sulla decisione era già stato un classico del pensiero poli­ tico come il libro di Lasswell e Kaplan Potere e società, uscito nel 1950. E molto di questi autori è confluito nella interpretazio­ ne di Dahl e Polsby, a cominciare dalla definizione del potere come un certo tipo di relazione umana. Ma mentre per Lasswell e Kaplan l’enfasi sulla decisione è ancora tutta interna ad una vi­ sione coercitiva del potere, perché se il potere è anche per loro partecipazione alla presa delle decisioni, la decisione è però « una linea di condotta che comporta sanzioni (private) severe » (Lass­ well e Kaplan, 1969), con Dahl e Polsby le cose sono un po’ di­ verse; in un certo senso potremmo dire che c’è un processo di laicizzazione, di svincolamento dagli aspetti coercitivi. La decisio­ ne non è tanto una scelta preconfezionata che deve in qualche modo essere imposta, ma diventa piuttosto la costituzione stessa di un ordine, la creazione di una situazione risolutiva.

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Attraverso la decisione il potere guadagna una visibilità scono­ sciuta agli elitisti, per i quali, a cominciare da Wright Mills, il po­ tere è per lo piu nascosto. Per i pluralisti il potere si rende infatti visibile nel momento stesso della presa delle decisioni, dato che ogni decisione comporta sempre un conflitto reale ed osservabile. Questa idea di una perfetta trasparenza del potere (che si fonda in parte su di una metodologia comportamentista) non è in genere molto piaciuta. Il potere ha perlomeno due facce: una visibile, quella appunto che si manifesta nel processo di presa delle deci­ sioni ed una nascosta. Per Bachrach e Baratz, per citare i due piu polemici, il potere non consiste solo e sempre nel decidere ma anche nell’impedire che altri decidano. Con il volto nascosto del potere ritornano anche i rapporti di dominio messi troppo disin­ voltamente da parte dai pluralisti. Faremmo però loro torto nel sottovalutare i mutamenti che hanno introdotto nella teoria del potere. Della lettura pluralista restano alcuni punti fermi: il po­ tere non è più un fenomeno circoscrivibile alle sole istituzioni politiche ma compare nei più diversi ambiti della società e come tale non è più una proprietà di una istituzione o di un individuo ma è diventato un rapporto tra persone. Ma la vera svolta si ha con Talcott Parsons. Con lui muta lo statuto del potere, che cessa di essere una prerogativa del sogget­ to per diventare una caratteristica del sistema. Una rottura resa possibile dall’analogia che Parsons stabilisce tra potere e denaro, analogia basata sull’assunto secondo cui ognuno dei sottosistemi che formano il sistema sociale comporta la stessa struttura logi­ ca, soddisfa le stesse condizioni generali ed obbedisce agli stessi principi d’insieme. Il potere al pari della moneta è un mezzo circolante, che opera tanto all’interno del sistema politico che tra questo e gli altri sot­ tosistemi della società. Come tale il potere non è una proprietà del sistema politico, non sta cioè da qualche parte in una sorta di latenza o permanenza. È mobile, attivo e genera incessantemente scambi e spostamenti, è insomma un mezzo di comunicazione, un elemento in circolazione che agisce nell’interazione degli attori e della collettività in ogni parte del sistema sociale. Come i pluralisti anche Parsons ha in mente un’idea estensiva del potere che finisce per smussarne gli aspetti gerarchici ed au­ toritari. Anzi Parsons è quello che più si allontana da una lettura dei rapporti di potere in termini di dominio, facilitato in questo

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dal parallelismo tra potere e denaro. Infatti al pari del denaro l’esercizio del potere deve ispirare fiducia e implicare legittima­ zione. « Il che significa — come egli stesso precisa — che l’obbedienza [...] non è vincolante e quindi non coartabile ben­ sì opzionale» (Parsons, 1975, p. 469). In altre parole con Parsons il potere non è più esclusivamente definito dal ricorso alla forza, dal momento che questa « in se stessa è del tutto inade­ guata » a spiegare il potere. Ma se il potere non può operare con la minaccia della forza, non può però essere pensato senza fare ri­ ferimento alla forza. « La forza fisica sta al potere come il metal­ lo sta al denaro ». Il potere si definisce allora più per la sua pos­ sibilità di usare la forza che per il suo esercizio. Ovvero il potere è più minaccia che costrizione. Parsons tenta così di scorporare, per quel che gli è possibile, la forza dal potere. Parte di questo disegno è affidato alla separazione che egli fa tra potere e autorità, portando infatti alle sue estreme conseguenze la differenziazione già stabilita da Max Weber, fino ad espungere dal potere la con­ notazione di dominio, facendo dell’autorità la struttura gerarchica attraverso cui l’uso del potere diventa significante per i membri di una collettività data. Qualcosa di analogo, anzi di ancora più radicale, lo ritroviamo in Hannah Arendt che lavora sullo stesso tema all’incirca negli stessi anni. Con lei potere e autorità così come potere e forza di­ ventano incompatibili, dato che il potere è solo e sempre con­ sensuale. La città-Stato ateniese diventa il modello del potere buono, il potere che « sorge ovunque vari uomini si riuniscono e agiscono in comune » (Arendt, 1971, p. 65). È l’immagine del­ la polis, della comunità a fornire i connotati del potere, o meglio la sua interpretazione del potere è parte del suo progetto di ri­ lanciare la comunità e i suoi valori. Comunità e potere vengono cosi quasi a coincidere, perché se il potere è l’agire in comune, come tale è anche il cemento che tiene insieme la comunità. Con Hannah Arendt siamo forse al tentativo più estremo di fornire una lettura tutta positiva del potere; con lei i fenomeni di coercizione, di manipolazione, di violenza cessano di essere fenomeni di po­ tere e di conseguenza scompaiono dal panorama teorico. Anche per Parsons le questioni di potere finiscono per diven­ tare questioni che riguardano la comunità, dal momento che il ruolo del potere viene definito dalla realizzazione dei fini collet­ tivi. Un ruolo che però è in parte delegato alla categoria di

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influenza. Come per il potere anche per l’influenza vale il pa­ ragone con la moneta (entrambi sono meccanismi di intera­ zione sociale che partecipano di « una disposizione comune, cioè quella di “ottenere risultati” »), ma mentre il potere resta comun­ que definito dalla minaccia della forza, non cosi l’influenza che tutt’al piu è operante come sanzione positiva. Una distinzione im­ portante perché Parsons sembra volere affidare alla categoria di influenza il peso di una versione tutta positiva del potere, che trova il suo ancoraggio in un rilancio dei valori comunitari. Come per Hannah Arendt anche per Parsons il potere si identifica in certa misura con la comunità: l’accettazione del potere da parte dei membri di una comunità dà ad essi il senso « del loro “ap­ partenere” insieme ». Il potere si rivela essere un fattore di iden­ tificazione, diventa cioè il portatore dell’identità, di « un ele­ mentare e diffuso sentimento di appartenenza ad un tipo di soli­ darietà Gemeinschaft » (Parsons, 1975, p. 520). A questo punto Weber è ormai lontano dall’orizzonte teorico di Parsons, a farsi sentire è piuttosto la presenza di Durkheim. Con il suo aiuto Parsons finisce di mettere a punto una interpretazione produttiva del potere come « agire in comune », come « stare in­ sieme » che confina sempre piu sullo sfondo la relazione comando/obbedienza. Assieme ad essa scompare anche la tendenza a localizzare il potere nello Stato per lasciare il posto ad uno sce­ nario allargato in cui il potere funziona da mezzo di comunica­ zione generalizzato. È questa estensione del potere a tutto il cor­ po sociale che contribuisce a dare la misura della distanza che la sociologia contemporanea e soprattutto Parsons hanno ormai preso dà Weber. Ma a ben guardare parte di questi esiti erano già in qualche misura presenti nello stesso Weber, che sembra averli trascurati di proposito. Innanzitutto egli sa di operare una restrizione del­ l’area del potere, con il limitarlo come fa allo Stato e alle isti­ tuzioni politiche, dal momento che riconosce come « anche i rap­ porti convenzionali di scambio della vita sociale costituiscono “potere” in quel piu ampio significato, dal ”re da salotto” fino all’arbiter elegantiarium della Roma imperiale e alle corti d’amo­ re delle dame di Provenza » (Weber, 1981, IV, p. 48). E sa an­ che che questa limitazione del potere gli è imposta dal concetto stesso di potere che sceglie, quello basato sulla relazione comando/ obbedienza, o come egli stesso afferma sa di « utilizzare il concetto

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di potere nel significato ristretto» (Weber, 1981, IV, p. 48). Questo significato ristretto non va più bene nel momento in cui il potere non appare piu contenibile all’interno dello Stato. La sua estensione a tutta la vita sociale richiede per essere analizzata un diverso concetto di potere, dal momento che sono i limiti di applicabilità di un concetto a definire in gran parte il concetto stesso. Ritorna qui la domanda che ci eravamo posti a proposito delle società primitive e cioè se l’aspetto produttivo del potere è una causa od un effetto della sua diffusione. A questo punto però ogni risposta appare superflua e la domanda inutile. Tutto quello che importa è notare e tener ferma la compresenza dei due. Ogni volta che il potere si spinge oltre i limiti dello Stato per rivelare la sua presenza in ampie zone del corpo sociale, la rela­ zione comando/obbedienza scompare per lasciare il posto ad una morfologia assai piu articolata. Con Luhmann le cose diventano ancora piu radicali, anche se poi la sua posizione risulta alla fine meno chiara rispetto a quella di Parsons. Benché si interessi soprattutto del potere politico,, co­ me sottosistema autonomizzato che ha il compito di trasmettere decisioni vincolanti, di fatto riconosce che « il potere è una con­ dizione della esistenza umana presente in ogni aspetto della socie­ tà » (Luhmann, 1979, p. 105). Come per Parsons, anche per Luhmann il potere è un mezzo di comunicazione. Ricompare in­ fatti l’analogia con il denaro che Luhmann estende anche alla ve­ rità e all’amore, gli altri due mezzi di comunicazione caratteriz­ zati dalla generalizzazione simbolica, che regolano la trasmissione di prestazioni selettive. Fare del potere un mezzo di comunicazione è la via scelta da Luhmann per metterne in luce il carattere relazionale. « Tutti i mezzi di comunicazione presuppongono l’esistenza di situazioni sociali che offrono ad ambedue i partners determinate possibilità di scelta, di situazioni, quindi che sono caratterizzate da una se­ lettività doppiamente contingente» (Luhmann, 1979, p. 5). Se il potere è un mezzo di comunicazione ciò significa che entrambi i partners sono in grado di esercitarlo reciprocamente, o quanto meno che non è più possibile assegnare il potere ad uno dei due partners quale sua caratteristica e facoltà. Per Luhmann la teo­ ria tradizionale, stando alla quale il potere si sviluppa sempre unidirezionalmente in forme gerarchiche dall’alto in basso, è oggi inadeguata a capire la nuova morfologia del potere, perché non

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tiene conto di una caratteristica fondamentale del potere moder­ no, ignora cioè che ciascun soggetto sociale può esercitare alter­ nativamente ruoli di potere subordinati o sovraordinati. Il potere è infatti la facoltà per entrambi i partners di ridurre complessità per VAltro. Su questa base Luhmann distingue il potere dalla co­ strizione perché con essa viene meno il carattere relazionale del potere. Infatti « la riduzione della complessità non viene ripartita ma ricade completamente su chi esercita la costrizione » (Luhmann, 1979, p. 7). Ma nonostante questa distinzione tra potere e costrizione, Luhmann mantiene in fondo una concezione negativa del potere. Il potere, al pari di ogni altro mezzo di comunicazione, non è altro che « una limitazione dello spazio selettivo di cui dispone il partner » (Luhmann, 1979, p. 10), è la facoltà di ridurre com­ plessità per altri. Insomma il potere è solo potere di veto o, nella migliore delle ipotesi, di veti reciproci. La proposta luhmanniana è ancora in larga parte interna alla realazione comando/ obbedienza. Il riferimento alla forza fisica e la minaccia di san­ zioni restano alla base del potere. Anche se « la forza fisica non può certo essere potere », è però « il caso limite non superabile di una alternativa da evitare che crea potere » (Luhmann, 1979, p. 72). Luhmann finisce cosi per rimanere tutto sommato assai piu vicino a Weber di quanto non lo sia Parsons. Tra l’altro Luhmann parla spesso del « detentore del potere » in maniera tale da far pensare al potere come ad una proprietà piuttosto che ad un mezzo di comunicazione. Ma al di là di queste oscillazioni la posizione di Luhmann resta quella che più ha tenuto conto delle « nuove potenze » prodotte dal processo di socializzazione della politica ormai ingovernabili dentro gli orizzonti dello Stato liberale (Marramao, 1983). Detto in altre parole si assiste oggi ad una sorta di rivincita o di ricon­ quista da parte della società civile di quegli spazi che le erano stati sottratti dallo sviluppo storico dello Stato capitalista. E questo tanto nel senso di un moltiplicarsi dei centri di potere (economici, amministrativi, burocratici, ecc.), quanto nel senso della presenza ormai stabile anche se saltuaria di nuovi movimenti, di manifesta­ zioni spontanee e decentrate che moltiplicano la diffusione delle decisioni. Per dirlo con Luhmann, si è verificato un aumento della complessità dell’ambiente tale da rendere sempre più difficile al

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sistema politico operare quella riduzione della complessità che gli permetta di governare. Lo scenario è ormai quello della società post-industriale, su cui si è venuta sempre più concentrando l’attenzione anche di altri sociologi come Daniel Bell o Alvin Gouldner. Sebbene le loro ana­ lisi siano soprattutto interessate a decifrare i mutamenti che ri­ guardano l’assetto economico e sociale — passaggio dalla produ­ zione di merci ad una economia di servizi, preminenza di un ceto professionale e tecnico, centralità del sapere come fonte di inno­ vazione e di orientamento delle scelte politiche — pure queste analisi contengono una implicita concezione del potere. Anche per loro ci troviamo oggi di fronte ad « un allargamento dell’area del potere », di cui testimonia la pluralità di soggetti, gruppi, istitu­ zioni che vi hanno accesso. A metterli su questa strada è anche l’ipotesi, condivisa tanto da Bell che da Gouldner, della new class, della nascita di una nuova classe, formata dagli intellettuali, che, proprio in virtù della centralità acquisita dalle loro competenze nella società post-industriale, sono in grado di esercitare un pro­ prio potere. Un potere che non passa più attraverso le istituzioni politiche (Stato e partiti), ma si distingue e si contrappone ad esse per fronteggiarle ad armi pari nell’arena di quello che è stato defi­ nito lo scambio politico.

5. In cerca del potere Lo Stato sta oggi perdendo quella centralità che ha avuto nella storia dell’Occidente obbligandoci cosi a mutare la nostra imma­ gine del potere. Società complesse e società primitive diven­ tano improvvisamente vicine, nel senso che entrambe hanno a che fare con forme di potere che non passano attraverso lo Stato e i suoi apparati. Si tratta di una vicinanza teorica, nel senso che la ricerca ed il confronto con le società primitive ci ha aiutato a scorporare il potere dallo Stato, permettendo una inter­ rogazione sul potere altrimenti bloccata. Finché il potere è rima­ sto identificato con lo Stato ed i suoi apparati ogni discorso sul potere ha finito per esaurirsi e coincidere con l’analisi dello Stato. Oggi è diventato possibile parlare del potere come di una dimensione autonoma. Non ci resta che interrogarlo. Termino là dove avrei voluto cominciare e cioè alle soglie di

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una riflessione sul potere. Mi limiterò a porre alcune domande. La presenza del potere è sempre stata associata all’idea di una diseguaglianza. Una diseguaglianza che si è espressa in una rela­ zione basata sulla dipendenza. Ma la dipendenza non è mai stata solo da parte di chi il potere lo subisce. È dipendente anche chi detiene il potere perché il potere ha bisogno dell’Altro per eser­ citarsi, per esistere. Inoltre tale dipendenza ha sempre portato con sé una categoria fondamentale, quella di identità. Il potere dà identità, nel senso che costituisce il limite che permette di acquisire i confini di sé. Ma del riconoscimento ha bisogno anche il potere. Da qui la sua ambiguità: il potere ha bisogno del con­ senso per esercitarsi, ma il consenso lo limita. Il consenso diventa infatti una forma di controllo indiretto di cui il potere è obbli­ gato a tener conto. Ma come non si dà potere senza consenso così non esiste potere senza resistenza. L’idea di resistenza ci riporta alla relazione comando/obbedienza. E come il potere nella sua for­ ma coercitiva è solo un potere, come ci ha ricordato Foucault, che ha soltanto « la potenza del no », così la resistenza al potere ha soltanto la possibilità della negazione. È una forma debole, defi­ nita sempre e solo in opposizione a qualcos’altro, che decide della sua esistenza. Con la nozione di potere diffuso scompare la possibilità e l’idea stessa di resistenza. Se il potere è dapertutto e in nessun luogo particolare non c’è piu la possibilità né la necessità di contra­ starlo. Lo spazio si allarga e la resistenza diventa tutt’al piu una espressione o un momento della sua diffusione. Ma il potere diffuso, contrariamente a quanto sembra suggerire Foucault, non elimina le ragioni del dominio, ma semplicemente le occulta. In questa nuova economia del potere c’è dunque ancora posto per una nozione come quella di resistenza, oppure la resistenza è co­ stretta a trovare nuove forme? Ma com’è pensabile il potere senza resistenza? Non è la resistenza al potere ciò che ha permesso ogni volta di disvelarlo? Se oggi il potere è stato tradotto in discorso è perché la rivolta contro il potere lo ha improvvisamente reso visibile là dove meno ce lo saremmo aspettato. Liberato dallo Stato il potere perde ogni trascendenza per di­ ventare una relazione immanente ai rapporti sociali. Possiamo an­ cora legare il potere alla presenza di una diseguaglianza oppure dobbiamo limitarci a considerare il potere una asimmetria? O meglio una relazione asimmetrica? Ma questa asimmetria non

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appare piu orientata in maniera unidirezionale, gerarchicamente dall’alto al basso, appare invece reversibile. E tale reversibilità non toglie al potere ogni possibilità di legittimazione? E assieme a questo non finiscono per venir meno alcune categorie fonda­ mentali del potere, quali appunto quella di identità? Oppure la reciprocità che si instaura è suscettibile di fornire altre forme di riconoscimento, non più congelate nei ruoli di chi comanda e di chi obbedisce? Oppure ancora ha ragione Luhmann a parlare di una tendenza « inflattiva » del potere, nel senso che nelle so­ cietà complesse il potere tende a non realizzare più le proprie possibilità?

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I. Società senza Stato

Bernardo Bernardi

Il potere nelle società acefale

Inizierò sottolineando l’aspetto antropologico del mio contri­ buto. Il farlo non sembri ovvio né pleonastico. L’accostamento antropologico ai problemi culturali e sociali prende l’avvio dal­ l’esperienza vissuta. Ritengo essenziale che ciò avvenga anche nell’affrontare un tema come quello del potere. Il potere lo si vive: che lo si eserciti attivamente o lo si subisca più o meno passiva­ mente, esso ci coinvolge sempre personalmente. Forse, proprio in questa realtà si ritrova una delle ragioni del costante riemergere di un tema del genere come problema provocativo, apparente­ mente tutto ancora da scoprire. Ma c’è un’altra dimensione che l’accostamento antropologico consente, ed è quella comparativa. Nelle ricerche tradizionali e nelle analisi classiche la dimensione comparativa o manca del tutto o resta illusoriamente ristretta alle società occidentali. Un’ulteriore causa del riemergere inappagato del problema del potere può an­ che ritrovarsi nell’insufficienza comparativa di tali ricerche. Biso­ gna riconoscere che il riferimento alle sole società occidentali fu un’esigenza ineluttabile, condizionata dalle gravi insufficienze delle conoscenze etnologiche, durate fino all’inizio del nostro secolo. Oggi, un tale esclusivismo non è piu giustificabile. I dati etnolo­ gici a nostra disposizione consentono nuove prospettive. D’altra parte, l’insistenza ai soli riferimenti occidentali non solo risulta etnocentrica e riduttiva, ma può essere addirittura fuorviante, poi­ ché impedisce la chiarificazione concettuale e porta, a ben vedere, alla semplice tautologia di quanto già insegnavano gli antichi. È per motivi del genere, e nella speranza di ritrovare nuovi termini per nuove prospettive, che mi propongo di estendere la mia ana­ lisi alle società acefale. Nel farlo, traggo spunto da un lavoro comparativo di anni, più specificamente dedito allo studio dei si­ stemi delle classi d’età [Bernardi, 1984].

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1. Autonomia personale e potere

Il riferimento che ho fatto all’esperienza quotidiana e vissuta mi induce a rilevare il rapporto esistente tra autonomia personale e potere. Si tratta di una premessa necessaria per cogliere appieno il significato concettuale e pratico del potere nelle società acefale. Il rapporto tra autonomia personale e potere è uno degli aspetti più delicati e intimi del concetto stesso di potere. L’autonomia personale comporta la capacità di trovare in se stesso le norme di condotta e la forza di decisione che sostiene l’agire. È un traguardo al cui raggiungimento aspira ogni essere, fin dalla nascita. In ogni società, pur nella diversità peculiare delle istituzioni, viene messo in atto un processo di inculturazione e di socializzazione, attra­ verso il quale i suoi membri vengono guidati a essere in grado di agire per proprio conto e, per questo, dichiarati adulti. Normal­ mente, un tale riconoscimento avviene dopo il raggiungimento del pieno sviluppo fisiologico dei candidati. I riti di passaggio della maturità costituiscono il momento solenne del riconoscimento so­ ciale. Al giovane, o alla giovane, dichiarato adulto si riconosce una conoscenza adeguata delle norme sociali e si richiede la capacità di saper decidere per il proprio comportamento. Intesa in tal modo, come del resto suggerisce la stessa etimologia della parola, l’auto­ nomia è sinonimo di libertà ed è altresì sinonimo di potere. Così, i limiti all’autonomia personale, come alla libertà, sono innanzi­ tutto tracciati dal diritto degli altri alla propria autonomia e alla propria libertà. Ma, al di là dei rapporti personali, vi sono anche le istituzioni sociali che limitano l’area dell’autonomia personale. Non è necessario che le norme di comportamento connesse a tali istituzioni siano redatte in leggi scritte, è più che sufficiente che esse siano trasmesse oralmente con una forza semmai maggiore delle leggi. L’interesse di studio per il concetto del potere che possiamo de­ rivare dalle società acefale consiste proprio nell’analisi del modo con cui le istituzioni sociali, che le caratterizzano, incidono sull’au­ tonomia, e la libertà individuale. Le società acefale appartengono alla categoria delle società senza Stato. La conoscenza e l’apprezzamento di tali società è forse l’ap­ porto più significativo degli studi antropologici alla teoria politica. L’organizzazione politica, ossia quell’aspetto dell’ordinamento so­ ciale vólto, in termini parsoniani, al conseguimento del bene co­

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mune, che distingue la società senza Stato, appare radicalmente di­ versa dal modello statale. In quanto categoria, le società senza Stato non riflettono un tipo unico di società. Le società acefale, cioè senza capo, ne sono un modello. Ma non necessariamente le società senza Stato sono prive di capi. Nelle società segmentane di linguaggio, che appartengono alla categoria delle società senza Stato, il capo del lignaggio possiede ed esercita un prestigio e un po­ tere che l’assegna decisamente alla categoria dei capi, anche se si tratta di capi primi tra pari, sia al livello interno al confronto degli altri anziani del proprio lignaggio, sia al livello esterno in relazione ad altri lignaggi. L’esistenza di società acefale ha costituito un enigma, non tanto perché non se ne accettasse la realtà dell’esistenza, quanto perché si stentava a capire in che modo potessero funzionare e sopravvi­ vere. Effettivamente, il loro studio antropologico non è stato age­ vole. La prima difficoltà derivava dai presupposti culturali ed etno­ centrici degli stessi antropologi. Si ricordi che, nel secolo scorso, il modello supremo dell’organizzazione politica era ancora quello monarchico, ritenuto il culmine delle sequenze evolutive della so­ cietà. Dove la monarchia non esisteva o, comunque, dove non c’era una forma centralizzata di potere politico, la società era conside­ rata primitiva, cioè ai primi stadi della scala evolutiva. Quelli che erano barbari per i greci, selvaggi per gli illuministi, furono pri­ mitivi per gli evoluzionisti. La realtà ha dimostrato che essi erano e sono uomini, punto e basta, come tutti gli altri. E si è poi capito che anche l’organizzazione delle loro società si basava su modelli strutturali altrettanto complessi e sviluppati quanto quelli occi­ dentali. Sta di fatto che, fino agli inizi del nostro secolo, risultò difficile capire come una popolazione come i Galla dell’Etiopia me­ ridionale, pur senza un’organizzazione centralizzata e monarchica, avesse un’organizzazione militare e sociale cosi efficiente da po­ tere resistere agli Amhara dominanti. Lo stesso enigma si poneva in relazione ai pastori Masai del Kenya. Oggi, essi costituiscono l’attrazione dei turisti; ieri, rappresentavano lo spauracchio dei primi viaggiatori del Kenya, timorosi di doversi scontrare con i loro guerrieri. Non potendo negare la loro efficienza, se ne spre­ giava il livello, relegandola nel novero delle società caotiche, —- « una repubblica di giovani guerrieri », si diceva, — quasi che non vi fossero né un ordine né istituzioni degni di tale nome. Significativa, in tal senso, è la testimonianza di uno dei primi uf-

6 fidali amministrativi del governo coloniale inglese del Kenya, Charles Dundas. Egli si riferisce espressamente ai Kikuyu del Ke­ nya, vicini e, per diversi aspetti, affini dei Masai, ma le sue parole sono di carattere generale, risultato di esperienza e di studio e, pertanto, applicabili a tutte le popolazioni di quelle regioni. E, infatti, afferma: « Dopo la piu attenta indagine e valutazione di quanto è ancora evidente, mi sono convinto che queste tribù non hanno capi né leader cui si possa attribuire la dignità del nome di capo. Il concetto di capo come di un funzionario essenziale per il benessere della tribù non era penetrato nella gente e di conse­ guenza l’ufficio di una tale autorità non faceva parte della loro organizzazione tribale [...]. La mancanza di individui investiti di autorità può indurci a credere che lo stato della società che ci sta dinanzi sia del tutto disorganizzato e incontrollato, eppure non è affatto cosi, anche se è difficile scoprire il suo vero fondamento e se probabilmente è inadeguato per servire a condizioni più avan­ zate » [Dundas, 1915, pp. 238-239]. Come si vede, si tratta di una dichiarazione straordinariamente onesta e trasparente delle convinzioni culturali del suo autore. Notiamo, innanzitutto, il presupposto evoluzionista che gli fa ve­ dere nella popolazione odierna quel che è « ancora evidente » di un passato primitivo; non c’è ormai dubbio alcuno nel riconoscere il carattere acefalo di quelle società, ma Dundas mette in guar­ dia, molto onestamente, dal non confondere la mancanza di capi con la mancanza di organizzazione e di controllo, anche se rico­ nosce difficile individuarne gli elementi e i fattori. La conclusione è importante, perché orienterà l’intervento coloniale: quali che sia­ no gli elementi organizzativi e i fattori del controllo sociale, essi appaiono inutilizzabili per « condizioni più avanzate »: la conse­ guenza di una tale conclusione sarà l’imposizione d’imperio di capi governativi, che serviranno da tramite tra il governo coloniale e la popolazione locale.

2. Studio e tipologia delle società senza Stato Il problema vero, dunque, si poneva in relazione alla possibilità di ordine là dove non c’erano capi, e conseguentemente nella indi­ viduazione degli elementi strutturali di un tale ordine. La risposta venne in termini molto positivi. Lentamente, ma con sempre mag­

7 gior evidenza di prova, si colsero i segni dell’organizzazione, si mi­ sero in luce gli elementi portanti, si scoprirono i meccanismi di controllo delle tensioni e del superamento dei conflitti sociali, si individuarono con esattezza le vie e i modi del potere. Fu giocofor­ za accostarsi a quelle popolazioni con libertà, ossia senza il presup­ posto dei modelli occidentali, e solo lentamente, immergendosi nel­ la vita quotidiana di quelle genti, l’intreccio strutturale e il fun­ zionamento effettivo delle istituzioni sociali emersero in tutta la loro chiarezza. Credo che il merito di averci dato per la prima volta un’analisi approfondita e problematica di una società senza Stato vada as­ segnato a E.E. Evans-Pritchard per il suo studio sui Nuer, popo­ lazione prevalentemente, ma non esclusivamente, pastorale del Su­ dan meridionale. Il merito di Evans-Pritchard non si limita solo al suo apporto etnografico, già di per sé straordinario, bensì al metodo di analisi problematica da lui seguito. Egli inserì in tal modo il tema delle società senza Stato nella problematica teorica dell’antropologia e, di riflesso, della scienza politica. Nella reda­ zione originale il titolo della monografia di Evans-Pritchard suona­ va quasi banale: I Nuer. Descrizione dei modi di vita e delle istitu­ zioni politiche di un popolo nilotico. Nella traduzione italiana, per esigenze dell’editore preoccupato di lanciare il libro tra un pub­ blico, come quello italiano, non certo facilmente interessato alle ricerche antropologiche, il titolo venne modificato: I Nuer. Un'anar­ chia ordinata. L’ossimoro, anarchia ordinata, appartiene allo stesso Evans-Pritchard e lo si trova nel testo. Non si tratta, dunque, di una accomodazione capziosa per carpire l’attenzione del lettore piu o meno interessato, ma la sua suggestione sta proprio nel fatto che esso riassume la problematica di un tale tipo di società che agli antichi osservatori era sembrato un enigma insolubile [EvansPritchard, 1940, 1975]. A distanza di pochi anni, ma praticamente nello stesso decen­ nio degli anni trenta, Meyer Fortes svolge una ricerca altrettanto intensa tra i Tallensi, agricoltori del Ghana (allora Costa d’Oro). Anch’egli, come Evans-Pritchard, di cui si dichiara fratello mi­ nore, è portato dalle cose a mettere in luce il valore strutturale del lignaggio in un’analisi meticolosa che ha reso le sue monografie sui Tallensi contributi classici dell’antropologia sociale [Fortes, 1945], I due autori si fanno promotori di una rassegna compara­ tiva sui sistemi politici delle popolazioni africane con contributi

8 tratti da ricerche dirette. African Politicai Systems ebbe a suo tempo un valore seminale e apri il campo alla comprensione si­ stematica delle società africane. Per la prima volta le società senza Stato venivano poste a confronto con le società monarchiche e sta­ tali [Fortes e Evans-Pritchard, 1940]. L'opera dei due maestri venne continuata dai loro discepoli, Middleton e Tait, che appro­ fondirono, allargandolo ad altre società africane, lo studio delle società senza Stato [Middleton e Tait, 195’8]. Una semplice indicazione può essere sufficiente per darci una idea della tipologia della società senza Stato risultata da tali studi. Mi limiterò a segnalarne cinque tipi. Il primo riguarda le società dove la struttura sociale e politica si fonda sulla collaborazione del­ l’unità minima della parentela, la famiglia nucleare, nell’organizza­ zione di banda. È il tipo caratteristico dei cacciatori e raccoglitori, quali sono i Pigmei e i Boscimani. Il secondo tipo è dato dalle società dove l’organizzazione sociale e politica risulta dall’intreccio dei gruppi maggiori della parentela, quali sono i lignaggi. Vale la pena di precisare il significato che alla parola lignaggio si attribui­ sce in antropologia dopo gli studi di Evans-Pritchard e Meyer Fortes, a confronto e in distinzione del clan: il clan rappresenta un gruppo di parentela i cui membri riconoscono un capostipite unico e mitico; l’accento è da porsi sulla parola mitico. Il lignaggio è, invece, il segmento storico del clan: il capostipite che i membri del lignaggio considerano come antenato è storico: di esso si ha un ricordo preciso e spesso la sua tomba costituisce il santuario etnico e il centro dell’attività rituale e sociale, cosi come avviene, per esempio, tra i Tallensi. L’appartenenza al lignaggio, con il richiamo di ascendenza all’antenato, fonda il diritto di residenza e di ogni altra attività sociale e politica. I Nuer e i Tallensi offrono l’esem­ pio di società segmentarie fondate sul lignaggio e la diversità del loro modo di produzione — pastorale quello dei Nuer, agricolo quello dei Tallensi — testimonia la molteplicità dei modelli che un tale tipo di società senza Stato può assumere. Il terzo tipo si riferisce alle società di villaggio, dove l’organiz­ zazione della comunità residenziale costituisce la base strutturale dell’attività sociale e politica. Gli esempi africani piu caratteristici si ritrovano nell’Africa Occidentale, specialmente tra gli Igbo della Nigeria, tra i Lagunari della Costa d’Avorio e altri. Il quarto tipo è analogo al precedente, ma si differenzia perché l’organizzazione di villaggio fa perno sul capo villaggio, al quale gli abitanti del

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villaggio sono legati da parentela cognatica se non consaguinea, cosi come ogni capo-villaggio è legato al capo supremo del terri­ torio, pur mantenendo nei suoi confronti la propria autonomia. Un tale tipo di organizzazione è diffuso nell’Africa centrale; Monica Wilson ce ne ha dato uno studio singolare in relazione ai Nyakyusa del Tanzania. Il quinto tipo di società senza Stato è rappresentato dalle so­ cietà basate sui sistemi delle classi d’età. Questi sono più noti e diffusi nell’Africa orientale. La precisazione dei termini concettuali è d’obbligo, tanto più che il termine « classi d’età » è proprio an­ che delle scienze demografiche. Evidentemente, nel gergo antropo­ logico l’espressione classi d’età non si riferisce a gruppi d’età con­ figurati artificiosamente per scopi statistici. Le classi d’età, in senso antropologico, sono veri raggruppamenti sociali, fondati sull’asse­ gnazione ai loro membri di una comune età strutturale. L’età strut­ turale è una specie di età sociale: con essa, non solo si riconosce una posizione cronologicamente significativa nell’ambito di una determinata società, ma si definisce un preciso ruolo all’interno della struttura sociale. Un’altra caratteristica comune dei sistemi delle classi d’età è la relazione esistente tra classi e gradi d’età: ogni classe, una volta pienamente formata — ossia, una volta che tutti i suoi membri siano stati reclutati — costituisce un corpo unitario e percorre la scala della gradazione sociale con competenze particolari per ogni grado d’età. In tal modo — ed è un’ulteriore caratteristica comune a tutti i sistemi delle classi d’età — i sistemi delle classi d’età adempiono all’organizzazione sociale e politica della comunità e, più specificamente, servono per la definizione e la distribuzione del potere. I modi di formazione delle classi — ossia i principi del reclutamento dei membri — cosi come il quadro strutturale dei gradi d’età risultano assai vari. In altre parole, i sistemi delle classi d’età costituiscono anch’essi una categoria speciale, all’in­ terno della quale molti sono i modelli. È questa un’osservazione che occorre tenere presente per valutare appieno la realtà etno­ grafica e capire certe affermazioni generalizzanti che spesso ven­ gono ripetute acriticamente. Dei vari tipi di società senza Stato mi soffermerò, in particolare, sulle società fondate sui sistemi delle classi d’età, perché sono quelle dove l’aspetto acefalo dell’organizzazione si presenta in maniera più significativa e dove il rapporto tra la gerarchia dei

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gradi e l’egalitarismo delle classi rende il problema del potere quanto mai interessante. Mi propongo, innanzitutto, di chiarire i due concetti di gerarchia e di uguaglianza. Come ho già notato, la connessione tra classi e gradi costituisce una caratteristica comune e fondamentale dei sistemi delle classi d’età. Il processo di formazione di una classe avviene attraverso il reclutamento dei suoi membri durante un determinato periodo di tempo. La classificazione, cioè, è cronologica e la distinzione che in tal modo si crea tra classe e classe avviene in termini crono­ logici, ossia di età. Una classe che è reclutata prima di un’altra è seniore e quella che segue è juniore: tra seniore e juniore si intro­ duce un rapporto gerarchico che viene espresso e precisato dai gradi di età. Mentre le classi si distinguono tra loro gerarchica­ mente, i membri di ogni classe sono e restano tra loro uguali, non tanto perché il loro sviluppo fisiologico, ossia la loro età genea­ logica, sia uguale (anzi, non lo è quasi mai), quanto perché hanno in comune la stessa età strutturale: appunto perché sono stati re­ clutati in una stessa classe, essi sono considerati coetanei e sono socialmente pari. Tale parità si riferisce soltanto ai propri com­ pagni di classe e dura finché il legame corporativo della classe dura, il che normalmente avviene fino alla morte. Ora, è importante notare che lo status e il ruolo di chiunque appartenga a una società fondata su un sistema di classi d’età sono determinati contemporaneamente dall’appartenenza di classe e dalla posizione che la sua classe occupa nella linea dei gradi. Lo status e il ruolo definiscono le attività che competono alle singole classi e ai loro appartenenti, ossia, in altre parole, definiscono il potere. Una tale osservazione ci deve indurre a dissipare ogni pregiudizio sul potere e sulla sua distribuzione, quasi che esso potesse aversi soltanto là dove c’è gerarchia e non potesse esistere là dove c’è uguaglianza. Nei sistemi delle classi d’età il potere è intimamente connesso tanto con l’aspetto gerarchico quanto con quello egalitario. 3. Caratteristiche delle società senza Stato Prima di approfondire l’analisi della natura e della distribuzione del potere nei sistemi delle classi d’età ritengo necessario chiarire ancora il carattere sistematico e organizzativo dei sistemi delle clas­ si d’età.

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Nel parlare, come abitualmente facciamo, di società senza Stato e di società acefale, noi diamo rilievo a un loro carattere negativo: affermiamo che tali società mancano di un qualcosa, che è lo Stato, che sono i capi. La prospettiva negativa di tali espressioni non con­ sente di dare rilievo ai loro aspetti positivi e, di fatto, impedisce di capire come tali società siano socialmente strutturate e come funzionino. Pertanto, ritengo piu che utile accentuare i caratteri effettivi che fanno di tali società organizzazioni tipiche e distinte. Mi varrò, allo scopo, di un’analisi che Aidan Southall ha pubbli­ cato nell’Enciclopedia internazionale delle scienze sociali, preci­ sando una serie di caratteristiche singolari [Southall, 1968]. La prima caratteristica è detta multipolity, che tradurrò con l’espressione polivalenza politica. Nelle società senza Stato, osserva giustamente Southall, gli elementi dell’organizzazione politica sono molteplici e polivalenti e determinano i livelli a cui si svolge l’at­ tività politica. Tali livelli si riscontrano nella struttura sociale, come sono, per esempio, i segmenti della parentela o le classi d’età. Evidentemente occorre saperli vedere nella realtà etnografica, su­ perando ogni prevenzione enigmatica. La seconda caratteristica è definita da Southall ritual super in­ tegrations super integrazione rituale. L’espressione si riferisce agli effetti comunitari dei riti. La celebrazione dei riti è un diritto e un dovere che, nelle società senza Stato, non soltanto offre l’oc­ casione di incontro comunitario, ma costituisce anche un modo di affermare il proprio status sociale e il proprio potere. Come dice Fortes in relazione ai Tallensi, la celebrazione dei riti è il mo­ mento in cui la comunità emerge. Ed è precisamente dalla celebra­ zione dei riti sulla tomba dell’antenato che Meyer Fortes si rese conto del significato strutturale del lignaggio tra i Tallensi. Il rito, al di là del suo significato religioso, funziona come fattore coesivo della comunità e assume, per ciò stesso, un significato politico. La terza caratteristica viene definita complementary opposition, che traduco complementarietà degli opposti. Tale caratteristica appare evidente nei sistemi di lignaggio. Come si è detto, i lignaggi sono segmenti della parentela; ogni lignaggio afferma il proprio diritto con il richiamo all’ascendenza dal proprio antenato; in tal modo, ogni lignaggio si distingue e, in un certo senso, si oppone agli altri lignaggi, ma tale opposizione è complementare, nel senso che dalla dialettica che suscita si mantiene viva la struttura sociale. Un fenomeno analogo lo si osserva nei sistemi delle classi d’età,

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dove ogni classe si contrappone all’altra in termini di seniorità e la tensione sociale esistente tra tutte le classi mantiene salda la struttura globale della società. Una quarta caratteristica è chiamata intersecting kinship: l’in­ treccio della parentela pone in risalto il diritto e il dovere dell’at­ tività sociale e politica che derivano dai rapporti di parentela. In­ fine, una quinta caratteristica è detta da Southall distributive legitimacy: legittimità distributiva. Si tratta di una caratteristica del massimo interesse perché il suo vero oggetto è il potere. L’ac­ cento, prima ancora che sulla natura del potere, è posto sulla sua distribuzione. Infatti, l’ambito del potere può variare da modello a modello >(e già si è ripetutamente messa in risalto la molteplicità e la varietà delle società senza Stato), ma ciò che è comune delle società senza Stato e delle società acefale, in particolare, è la di­ stribuzione del potere. Il potere non è centralizzato, bensì diffuso. Tale diffusione, tuttavia, non è casuale né arbitraria, ma presup­ pone la legittimità del diritto: solo chi può effettivamente vantare la discendenza dall’antenato capostipite del lignaggio può aspirare a ottenere il potere che è proprio dei membri di quel lignaggio; solo chi appartiene legittimamente a una classe può esercitare il potere che è proprio del grado occupato in quel momento dalla sua classe. La regolazione del potere secondo criteri di legittimità ac­ centua il carattere positivo delle società senza Stato: esse non sono solo privative — senza — ma costituiscono un ordinamento e sostengono un ordine; sono anarchie, ma anarchie ordinate. Le società senza Stato sono, pertanto, veri ordinamenti politici e tali vanno considerate. Posseggono la capacità organizzativa ne­ cessaria per dare e mantenere l’ordine dei rapporti sociali di una comunità, consentendo ai singoli l’ottenimento della propria auto­ nomia personale e della legittimità sociale. Resta, dunque, da ve­ dere in quali termini si configuri il potere all’interno di tali società e in quali modi avvenga la sua distribuzione. Ma proprio in relazione al primo dei due quesiti occorre evi­ tare l’equivoco di identificare il potere con il potere politico. Più su, abbiamo accennato all’equivoco di assegnare il potere soltanto alle formazioni sociali gerarchizzate. Si tratta di una concezione etnocentrica derivata dalla struttura piramidale, o gerarchica, pro­ pria delle società occidentali. Nelle strutture piramidali il potere decisionale dei politici viene talmente esaltato nella considerazione, più o meno logorata, dell’uomo della strada fino a identificarlo

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con il potere tout-court. Ora, poiché le società senza Stato sono, come si è appena detto, veri ordinamenti politici si può essere indotti a ricercare nel potere politico l’idea di potere di quelle so­ cietà, tanto più che vi sono società senza Stato che riconoscono dei capi. Ma l’esistenza e la struttura delle società acefale ci mette in guardia dal farlo. D’altra parte, anche nelle società con capi la caratteristica della legittimità distributiva, che abbiamo registrato più sopra, costituisce una delle note fondamentali; il potere, cioè, non è centralizzato ma distribuito a tutti i membri della società secondo criteri di legittimità. A corollario di tali considerazioni possiamo porci una domanda che ci possa chiarire l’idea che del potere si fanno gli appartenenti alle società senza Stato, chiedendoci quali siano le ambizioni di potere cui aspirano. Se, per rispondere a tale quesito, ci limitiamo alle società fondate sui sistemi delle classi d’età possiamo consta­ tare che l’aspirazione suprema degli appartenenti a quelle società coincide con l’ambizione di essere reclutati in una classe e di ot­ tenere, in tal modo, il riconoscimento della propria autonomia personale, espressa nel diritto di esercitare il potere proprio della classe secondo il grado di età che essa occupa. Si tenga presente che, come si è detto, la singolarità dei sistemi delle classi d’età consiste nell’interrelazione tra classi e gradi.

4. Potere e gradazione

A questo punto occorre anche dire che l’attività politica, nel­ l’ambito dei sistemi delle classi d’età, non si limita al solo potere decisionale ma investe la globalità delle attività sociali, scandite secondo la successione dei gradi d’età. Ma esaminiamo ancora che cosa intendiamo per attività politica. Normalmente si definisce po­ litico quell’aspetto dell’attività sociale prevalentemente interessato al potere, cioè a ottenere che certe cose siano fatte: a prendere decisioni e a farle eseguire o a impedire che altre cose si facciano, in nome di una qualunque collettività o di una qualunque persona. Una tale concezione del potere è assai diffusa e trova la sua ispi­ razione nella definizione del potere data da Weber, secondo il quale potere è la possibilità di costringere alla propria volontà la volontà altrui, se necessario anche con la forza. Un concetto del genere non corrisponde affatto a quanto avviene

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nelle società senza Stato e, in particolare, nelle società acefale. In tali società, o meglio nelle società a sistema di classi d’età, il po­ tere è radicalmente condizionato dal rapporto delle classi con i gradi d’età: sono i gradi che definiscono la forma specifica del potere e, in altre parole, la forma di attività sociale che compete a una classe durante un determinato periodo di tempo. L’insieme dei gradi nei sistemi delle classi d’età costituisce l’organigramma dell’organizzazione sociale in base al quale si definisce il potere di compiere ogni tipo di attività sociale. La promozione nei gradi si avvera corporativamente per classe, secondo una precisa succes­ sione di tempi. Pertanto, l’attività politica nei sistemi delle classi d’età non può limitarsi soltanto alla fase specifica in cui a una classe compete il potere decisionale, che in senso stretto potrebbe definirsi potere politico, ma riguarda l’intera gamma delle forme sociali comprese nell’organigramma dei gradi d’età. Per fare un esempio, sceglierò il sistema delle classi d’età dei Masai che pre­ senta un organigramma dei gradi tra i più semplici e trasparenti. Tra i Masai sono quattro i gradi d’età: 1) il primo riguarda l’attività militare e compete alle giovani reclute dopo che hanno superato il culmine dell’iniziazione con cui diventano membri di una classe. Si tratta di un diritto/dovere: il diritto di portare le armi e il dovere di difendere gli armenti e la popolazione. Durante il periodo in cui la classe svolge tale at­ tività, ai suoi membri non è consentito sposarsi: i guerrieri vivono in abitazioni proprie, segregate dal resto della popolazione (ciò era vero soprattutto nell’era precoloniale); 2) il secondo grado dà diritto all’attività sociale ed economica. Gli appartenenti alla classe, promossa a tale grado, ottengono il diritto di sposarsi, il che implica anche il diritto di costruirsi una propria casa e attendere allo sviluppo di un proprio armento; in tal modo, si può arrivare ad avere i mezzi per sposare altre donne, poiché la poliginia è fattore di prestigio sociale; 3) il terzo grado assegna alla classe e ai suoi membri il diritto di prendere la decisione finale nei consigli di comunità: in tali con­ sigli tutti sono liberi di intervenire, secondo gli argomenti trat­ tati, ma la decisione spetta soltanto ai membri della classe che oc­ cupa questo terzo grado; 4) il quarto grado consente a quanti lo raggiungono di com­ piere alcuni riti solenni, per cui l’attività che le è propria può de­ finirsi in termini religiosi o rituali.

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La permanenza di una classe in un grado, nel sistema masai, dura all’incirca quindici anni. Un individuo che percorra l’intera serie dei gradi copre, quindi, un arco di sessant’anni, ai quali van­ no aggiunti gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, quando la sua posizione sociale è nulla, con un totale complessivo che può va­ riare dai settantacinque agli ottanta anni e più. Come si può ve­ dere, l’insieme dei gradi costituisce un vero comprensorio delle attività sociali; è un diritto preciso di ogni classe di svolgere tali attività nel rispetto del proprio turno di promozione. La competenza, ossia il potere, di svolgere una determinata attività sociale appartiene globalmente alla classe, ma appartiene anche singolarmente e in ugual misura a ognuno dei membri della stessa. Le classi, pertanto, si distinguono tra loro gerarchicamente, ma sarebbe errato e fuorviarne fermarsi a una constatazione del genere. Va, invece, notato come il diritto di percorrere l’intero corso dei gradi e ad esercitare il potere proprio di ogni grado ap­ partiene in ugual misura a ogni classe, senza distinzione, ovvia­ mente secondo i ritmi cronologici che segnano i turni della pro­ mozione. In altre parole, le classi sono tra loro uguali almeno come soggetti di diritto potenziale, mentre i membri di una sin­ gola classe, essendo tra loro coetanei e pari, sono di fatto e non solo potenzialmente uguali. L’affermazione dei diritti delle singole classi avviene e si mani­ festa soprattutto nei tempi della promozione: tempo di tensioni, di conflitti e anche di prevaricazioni. Chi detiene un potere è re­ stio a cederlo e chi vi aspira non cessa di reclamare il suo buon diritto. Lentamente, con tempi pur non tanto lunghi, la promo­ zione si avvera. Si tenga presente che l’effettivo esercizio del po­ tere, qualunque sia la sua forma ossia l’attività sociale interessata, avviene localmente: sono i rappresentanti locali della classe che applicano le loro competenze alle situazioni locali del momento. È in tal modo, ossia in relazione alle piccole comunità locali, che avviene la distribuzione del potere nei sistemi delle classi d’età, cosi come sono i consigli locali i luoghi in cui si esercita il potere decisionale: questi sono i consigli cui si applica il termine di go­ verno diffuso con cui sono stati descritti i sistemi delle classi d’età e, più genericamente, le società senza Stato. Raramente, se pur mai, una classe è visibile o si raduna nella totalità dei suoi membri. Se, pertanto, l’attività politica è globale e distributiva a un tempo, è necessario tentare una definizione coerente del concetto

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di potere. Il potere delle classi d’età si distingue secondo i gradi in varie forme ed è sempre temporaneo: viene il momento in cui è dovere passare la mano alla classe juniore. Il potere dei sistemi delle classi d’età non ha quindi soltanto carattere distributivo, ma anche carattere di successione. Tuttavia, nell’ambito della propria competenza — definita dal grado occupato in un determinato pe­ riodo — il potere della classe e dei suoi membri è pienamente auto­ nomo: è vero potere. Pertanto, sembra logico non applicare ai sistemi acefali delle classi d’età l’idea del potere come possibilità di piegare la volontà altrui alla propria, se necessario anche con la forza: un’eventualità del genere non viene presa in considera­ zione perché non appartiene all’ordine normale delle cose (gli even­ tuali casi di prevaricazione rafforzano la regola). Più esatto sem­ bra, invece, il definire il potere nelle società senza Stato, e in par­ ticolare nelle società acefale, dei sistemi delle classi d’età come la competenza legìttima ax compiere uriattività sociale. Una defini­ zione del genere non sembri troppo generica né troppo compren­ siva. È vero che essa copre ogni tipo di attività sociale, ma con un limite qualificante, indicato, nella definizione, con l’espressione « competenza legittima ». Non ogni tipo di attività sociale corri­ sponde a un potere, bensì solo quella che compete e che l’attore compie legittimamente, ossia a pieno titolo. Al di là di un tale limite vi è l’abuso; e l’abuso è condannato o, in ogni caso, consi­ derato prevaricazione. Quando più sopra ho posto la domanda sulle ambizioni nutrite dagli appartenenti alle società acefale, non facevo una domanda retorica ma mi riferivo all’esperienza raccolta tra le popolazioni dell’Africa orientale. Chiunque abbia vissuto in mezzo a queste po­ polazioni, o a popolazioni affini, sa bene quanto sia grande l’am­ bizione dei giovani adolescenti di essere riconosciuti adulti e, per questo scopo, di essere ammessi a passare la prova finale dell’ini­ ziazione. Il salto sociale tra il non essere iniziato e l’essere ini­ ziato è immenso, proprio come tra l’essere e il non essere. Si tratta effettivamente, non in semplici termini teorici ma con conseguenze sociali assai concrete e pratiche, di una vera nascita. Chi non è ini­ ziato non ha personalità sociale; chi è iniziato ha la competenza di compiere azioni sociali socialmente valide e riconosciute. L’aber­ razione di un non iniziato che mettesse incinta una ragazza è tal­ mente grave da essere paragonata a un caso di incesto e, cioè, a una situazione del tutto illegittima. Non altrettanto grave è lo stes­

17 so fatto causato da un giovane iniziato: illecito, per continuare nel linguaggio giuridico, ma non illegittimo.

5. Potere potenziale e potere effettivo La distinzione tra lecito e illegittimo impone un'altra conside­ razione: la competenza legittima di compiere attività sociali non implica necessariamente che uno sia autorizzato a compiere im­ mediatamente ciò che radicalmente gli è riconosciuto legittimo. A tale proposito, ripropongo la distinzione tra potere potenziale e potere effettivo. La distinzione dei gradi d’età del sistema dei Masai, piu sopra riportata, serve a illustrare il concetto. Il gio­ vane iniziato che viene reclutato in una classe ottiene il potere potenziale di compiere legittimamente le attività sociali proprie degli adulti, ma non ne ottiene il potere effettivo se non in ma­ niera graduale — gradualità indicata dai gradi d’età. Cosi, il gio­ vane iniziato masai ottiene immediatamente il potere di portare le armi, ma non il potere di sposarsi né di mettere su casa per proprio conto né di attendere singolarmente a un proprio armento; ciò gli verrà concesso solo con la promozione della sua classe al secondo grado. In maniera ancora piu rigida la distinzione tra potere potenziale e potere effettivo si avvera nel sistema generazionale delle classi d’età dei Galla dell’Etiopia meridionale. Cosi, un giovane che ab­ bia legittimamente contratto matrimonio non ottiene il potere di procreare figli immediatamente: solo con la promozione della sua classe al grado corrispondente otterrà il potere di procreare figli maschi, e solo con la promozione a un ulteriore grado gli verrà il potere di procreare figlie femmine. La rigidità della regola è tale che i figli nati fuori del tempo consentito dovevano essere abbandonati. In realtà, l’infanticidio è una delle aporie sociali più gravi dell’antico sistema dèlie classi d’età dei Galla, cui solo re­ centemente si è tentato di porre rimedio introducendo l’adozione dei figli così condannati da parte di persone legittimate ad avere figli. Sembra pertanto evidente che nelle società acefale si debba ri­ conoscere una concezione del potere del tutto singolare. Tra l’al­ tro, si tenga presente che in tali società la gradazione del potere, definita dai gradi d’età, non rappresenta solo un limite restrit­

18 tivo, ma costituisce il meccanismo per la distribuzione e la succes­ sione del potere. Nessuna forma di potere è preclusa agli adulti che, con il reclutamento nelle classi d’età, ottengono la compe­ tenza legittima di compiere ogni attività sociale. Il potere non di­ venta l’appannaggio esclusivo di classi particolari né di persone sin­ gole. Viene il momento in cui quel dato potere deve essere passato alle classi che seguono e ai loro membri. L’accumulazione del po­ tere non è consentita. E se avviene, come avviene, che la promo­ zione di una classe al grado successivo sia ritardata, l’evenienza dà luogo a tensioni e conflitti e, in ogni caso, è considerata una prevaricazione offensiva del buon diritto. È questo il caso descritto da Paul Spencer in relazione ai Samburu del Kenya. Esso riguarda gli uomini sposati (i giovani anziani) che per accaparrarsi la pos­ sibilità di nuovi matrimoni poliginia, rimandano l’esecuzione dei riti che dovrebbero segnare la promozione dei giovani guerrieri al grado successivo che consente loro di contrarre, alfine, il matri­ monio [Spencer, 1965]. In relazione alle società acefale il concetto di distribuzione del potere ha senso anche territoriale. Le società acefale, come tutte le società senza Stato, non sono centralizzate o, se si vuole, sono costituite da una molteplicità di piccoli centri che sono le comu­ nità locali. Tali comunità sono completamente autonome, nel senso che i loro membri esercitano il potere effettivo secondo il grado occupato dalle classi di loro appartenenza. Le assemblee e i con­ sigli delle comunità locali riflettono con trasparenza la struttura del sistema delle classi d’età. Ognuno conosce il posto che gli spetta: al centro stanno gli anziani del grado cui compete il potere decisionale; al loro fianco, con parità d’onore ma con superiorità di prestigio, siedono gli anziani del grado ultimo (se pur ve ne sono); nella fila posteriore seggono i giovani anziani {gli uomini sposati) e, dietro, i giovani militari. Per definire un sistema politico del genere in termini di governo, Lucy Mair lo chiamò «governo diffuso» [Mair, 1982]. Il ter­ mine è divenuto ormai di gergo. La diffusione si riferisce alla di­ stribuzione locale del potere e al suo esercizio effettivo attraverso le assemblee e i consigli locali. Asmaron Legesse, in relazione ai Galla Boran dell’Etiopia, lo chiama « governo di comitato » [Le­ gesse, 1973]. La diffusione, come ho accennato, ha senso terri­ toriale ma ha anche senso personale: il potere non solo non è cen­

19 tralizzato, ma appartiene, per gradi, a tutti attraverso il mecca­ nismo delle classi d’età. Non toccherò, qui, il problema della posizione delle donne nei sistemi delle classi d’età. Mi limiterò a dire che la tendenza evi­ dente di tali sistemi, anche di quelli sviluppatisi all’interno di so­ cietà matrilineari, è patrilineare e che la posizione delle donne è parallela a quella che i loro uomini, mariti o figli, occupano nel sistema. Chi voglia approfondire l’argomento veda il capitolo re­ lativo del mio lavoro sui sistemi delle classi d’età [Bernardi, 1984],

6. Punti fondamentali

Per concludere vorrei riassumere in alcuni punti i concetti che ritengo fondamentali. Innanzitutto occorre affermare gli aspetti positivi delle società senza Stato e, in particolare, delle società ace­ fale. Esse costituiscono un tipo singolare di ordinamenti politici tali da reggere con efficacia lo svolgimento ordinato delle relazioni sociali delle più varie etnie. Secondo punto: la struttura di tali ordinamenti politici è varia e complessa; non solo presentano mo­ delli diversi, ma all’interno di tali modelli le forme si diversificano e si complicano secondo principi di reclutamento e di funziona­ mento che non consentono affatto di parlare di tali società, sem­ mai ci fosse ancora chi intendesse farlo, come di società semplici. Terzo punto: nelle società senza Stato e, più specificamente, nelle società acefale il concetto di potere deve essere inteso in una pro­ spettiva più ampia e vasta per includere non solo la possibilità decisionale (piegare la volontà degli altri alla propria), ma la pos­ sibilità di compiere legittimamente ogni attività sociale. Quarto punto: il potere, in tali società, è distribuito territorialmente e per­ sonalmente; esso rappresenta un modo e un metodo di governo che appositamente è stato definito « governo diffuso ». Aggiungerò infine che tali società, all’interno degli Stati mo­ derni, tendono a rimanere marginali. Finché la loro marginalità viene rispettata, o per calcolo politico o per disinteresse ammini­ strativo, esse conservano la propria caratteristica strutturale e poli­ tica e formano ordinamenti politici autonomi, incapsulati nella più vasta entità statale.

20 Riferimenti bibliografici

Bernardi B. (1984), I sistemi delle classi d’età. Ordinamenti sociali e politici fondati sull’età, Torino, Loescher, 1984. Dundas C. (1915), The organization and laws of some Bantu tribes in East Africa, in Journal of the Royal Anthropological Institute, n. 45, 1915. Evans-Pritchard E.E. (1940), The Nuer. A description of the modes of livelihood and political institutions of a Nilotic people, Oxford, Clarendon Press, 1940. — (1975), I Nuer. Un’anarchia ordinata, Milano, Franco Angeli, 1975. Fortes M. (1945), The dynamics of clanship among the Tallensi. Being the first part of an analysis of the social structure of a Trans-Volta tribe, Oxford, Oxford University Press, 1945. — e Evans-Pritchard E.E. (1940) ed., African political systems, Ox­ ford, Oxford University Press, 1940. Legesse A. (1973) Gada. Three approaches to the study of African society, New York, The Free Press, 1973. Mair L. (1962), Primitive government, Harmondsworth, Penguin Books, 1962. i — (1982), Governo primitivo. I sistemi politici tradizionali nell’Africa orientale, Milano, Franco Angeli, 1982. Middleton J. e Tait D. (1958) ed., Tribes without rulers, London, International African Institute, 1958. Southall A., (1968), Stateless societies, in International Encyclopedia of Social Sciences, 1968. Spencer P. (1965), The Samburu. A studi of gerontocracy in a nomadic tribe, London, Routledge and Kegan Paul, 1965.

Pier Giorgio Solinas Guerra e matrimonio

1. Senso del matrimonio, non senso della guerra È necessario spiegare anticipatamente, per quanto è possibile, la scelta dell’argomento cosi vagamente percepibile nel titolo di questo saggio. Il concetto di potere non comparirà, e con poco ri­ lievo, che al termine di una discussione teorico-comparativa su oggetti e fenomeni che in apparenza sono di natura prepolitica o apolitica. L’ipotesi che verrà messa alla prova è la seguente: se l’ordine politico pertinente ai rapporti sociali di tipo « primitivo » possa essere estratto dall’analisi di istituti culturali, costumi, nor­ me che non posseggono per proprio conto esplicite proprietà di potere. In realtà, dei due termini prescelti come tema della discussione, matrimonio e guerra, questo secondo sembra mettere in imbarazzo l’ipotesi appena formulata: è di così comune evidenza la rela­ zione fra guerra e potere che non vale la pena impegnarsi a dimo­ strarla. Invece, nessun rapporto fondamentale sembra legare tra loro il potere e il matrimonio, anche se è chiaro che le istituzioni matrimoniali producono effetti di potere o, all’inverso, ricevono influssi dagli istituti del potere. Ci troviamo dunque di fronte a una prima disparità: mentre il potere non solo è implicatof ma sembra quasi indispensabile per rappresentare e per spiegare la con­ dotta antagonistica violenta, per il matrimonio questo riferimento è superfluo e forse non molto fruttuoso. Come si cercherà di mostrare, tuttavia, si può fare una scelta d’analisi che isoli i due campi, quello dell’inimicizia armata e quello dell’alleanza matrimoniale, per considerarli in base al loro essere l’uno per l’altro, senza bisogno di presupporre una condi­ zione politica logicamente antecedente.

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Vi sono però altre « disparità » — continuiamo per ora a chia­ marle in questo modo — che sembrano rafforzare la separazione di livello e di funzione tra le istituzioni matrimoniali e le istitu­ zioni di guerra. Fra queste, una disparità di statuto scientifico me­ rita di esser presa in esame. Noi sappiamo bene, o abbastanza bene, qual è l’oggetto del ma­ trimonio: la riproduzione, il rinnovo della materia costitutiva di cui è fatta una società, e prima ancora una popolazione, gli uomini, le donne; sappiamo, o conveniamo, che la sua forma di funziona­ mento, lo scambio, opera essa stessa nel cuore della struttura so­ ciale, costituisce in qualche modo il sociale. Non sappiamo affatto, invece, qual è l’oggetto della guerra. Ci imbarazza moltissimo dover dire che questa condottalo addirittura che questa istituzione, ha come scopo e oggetto il male e la distruzione in se stessi. Pre­ feriamo invocare altre cause, altri oggetti; nonostante tutto non riusciamo a scoprire un motivo cosi convincente come quello che l’antropologia della parentela ha, almeno allo stato attuale, conve­ nuto di poter attribuire alle istituzioni matrimoniali. Nessuno può oggi pretendere di sanare questa ignoranza, però vale la pena averne coscienza. Gli antropologi sono o sono stati molto più interessati a spiegare perché i gruppi si sposano che non perché si combattono. Anzi a ben guardare non si chiedono « perché gli uomini si sposano », ma come lo fanno, con chi lo fanno. La prima domanda appare oggi poco interessante dal mo­ mento che, avendo ricevuto risposte ampiamente condivise, la natura dell’istituzione matrimoniale appare di cosi comune e pa­ lese evidenza da non richiedere di essere preliminarmente illustrata. Opposto il carattere del problema « guerra »: se pure si riesce a descrivere come e contro chi questa o quella tribù combatte, ci sembra di non capire veramente il perché, sebbene sia il problema che più ci tormenta. Insomma, nel primo caso non abbiamo bi­ sogno di trovare delle ragioni profonde perché quelle che l’istitu­ zione rivela nel suo funzionamento sembrano sufficienti a spie­ garla, nel secondo caso soffriamo dell’incapacità permanente a dar­ ci ragione di qualcosa che vediamo all’opera in ogni società. Più la logica della guerra si ripete e si dispiega, più la sua natura ci pare oscura. La guerra primitiva, incivile, politicamente dissennata, strate­ gicamente irrazionale — questa l’immagine frequente nella trat­ tatistica pre-antropologica, fra il Seicento e l’Ottocento — pare,

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proprio a causa della sua impenetrabile insensatezza, non aver bi­ sogno di motivi esterni a se stessa. L’antagonismo, e le tecniche di violenza che servono a esprimerlo, formano un complesso auto­ sufficiente: visto che la guerra non è mossa da motivi di conve­ nienza o di guadagno, che non si fa per conquistare, ma per ven­ detta, non si può cercare che nella violenza il motivo della vio­ lenza: «Le guerre che si fanno reciprocamente — così scrive a proposito degli indios del Brasile Pero Magalhaens nel sedicesimo secolo — non hanno per causa la differenza delle leggi e dei co­ stumi, né motivo d’interesse: si battono perché in altri tempi un indiano sarà stato ucciso da un altro » l. Non diverso il commento che si può leggere nel Grande viaggio di Gabriel Sagard, una ses­ santina d’anni piu tardi, a proposito degli Uroni: « Non c’è quasi tribù che non abbia guerra o contesa con qualche altra non per lo scopo di possederne le terre e conquistarne il paese, ma per ster­ minarla, se è possibile, e per vendicarsi di qualche piccolo torto o affronto » 2. La persistenza del motivo, la guerra come auto-espansione della violenza parcellare, è riconoscibile ancora nell’ottocento, per esem­ pio in Letourneau. Anche qui non sono le ricchezze, e nemmeno la conquista di potenza a spiegare la guerra, ma le offese e le rea­ zioni alle offese: « ma queste reazioni sono incessanti — aggiunge Letourneau — e il loro ripetersi finisce per creare nella mentalità dei primitivi il gusto, l’abitudine, il bisogno della guerra che cresce smisuratamente nel corso dell’evoluzione sociale »3. Ma anche, molto piu recentemente, resoconti etnografici di sicura fondatezza scientifica, come quello di Klaus Friederich Koch sui Jalé dèlia Nuova Guinea, sottolineano l’autonomia della catena antagonistica di violenza di gruppo 4. 1 P. Magalhaens de Gondavo, Historia da Provincia Sacta Cruz, Lisbona, 1576, cit. in G. Gliozzi (a cura di), La scoperta dei selvaggi, Milano, Princi­ pato, 1971, p. 41, nota 1. 2 G. Sagard, Grande viaggio nel paese degli Uroni 1623-1624, a cura di U. Piscopo, Milano, Longanesi, 1972 (Parigi, 1632), p. 253. 3 C. Letourneau, La guerra nelle diverse razze umane, traduzione italiana e introduzione di Carlo Lessona, Roma, Enrico Voghera, 1897, p. 477. 4 K. Friederich Koch, ~War and peace in Jalémó. The management of conflict in Highland Hew Guinea, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1974, dove si legge, in sintetica ricapitolazione, la descrizione del meccanismo che fa proliferare le iniziative di guerra: « La causa dell’attacco iniziale è virtualmente sempre un ferimento o Lucoisione di una persona nei corso di azioni di rappresaglia » (p. 76).

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2. Uccidersi o sposarsi Non c’è dubbio che la differenza di statuto cognitivo che separa le due istituzioni dipenda anche da una diversa disponibilità della ricerca e dei ricercatori, piu propensi a studiare le forme in cui l’evidente si dispone e varia se stesso che a rischiare le loro ener­ gie nella sfera del non evidente, o di ciò che emana fenomeni conoscibili da una sorgente resistente all’ordinabilità. Tuttavia è chiaro che la diversa sensibilità dei ricercatori rispetto ai due temi non avrebbe senso se non esistessero, appunto, delle differenze in re fra l’un tipo di fenomeno e l’altro. Per esempio il carattere straordinario e instabile dell’impresa militare, sorta di festa dell’antagonismo, prodezza di brutalità e di valore, che si può fare solo una volta ogni tanto, richiede accu­ mulo di forze e specializzazioni, in una specie di ipertensione so­ ciale che sconvolge lucidamente, che espelle in intermittenza al­ l’esterno il suo disordine. Di contro, la struttura della parentela per alleanza maritale si mantiene nella permanenza, nel ripetersi e rinnovarsi delle congiunzioni ordinate tra le parti normali della società, abbisogna di regolarità minuta, della uniforme distribu­ zione dei coniugii, in manzanca della quale, appunto, rischia di de­ gradare nel conflitto interno, nell’antagonismo violento. Differenza nella sostanza e nell’oggetto, dunque, oltre che nell’attitudine della ricerca. Per riassumere questa prima differenza con una formula provvi­ soria si potrebbe dire che l’ordine costante delle strutture coniu­ gali ha come suo opposto, ma anche come sua alterazione, il di­ sordine o, più precisamente, la perturbazione che i rapporti di guerra generano entro la struttura minuta e ripetitiva dei sistemi sociali quotidianamente rinnovati. La guerra sconvolge le famiglie, quelle di chi è aggredito ma anche quelle di coloro che sono at­ tori dell’aggressione armata. La guerra estromette dal suo domi­ nio il mondo femminile, disdegna la cultura domestica, teme il contatto contaminante con gli accoppiamenti regolamentati e isti­ tuzionali perché, se la logica dei rapporti militari tende a disgre­ gare la solidarietà coniugale e familiare, vale pure l’inverso: l’or­ dine e l’amore familiari intaccano la resistenza e l’integrazione cor­ porata delle comunità di guerrieri. È noto che nella gran parte delle culture melanesiane, dove i rapporti di violenza organizzata tra i gruppi dominano tradizional­

25 mente la vita etnica, l’incompatibilità tra le due sfere (quella co­ niugale e quella bellica) si proietta nettamente nelle rappresenta­ zioni mentali. Gli Enga della Nuova Guinea, guerrieri audaci e accaniti, secondo Lindenbaum 5, hanno paura del sesso anche nel matrimonio, come se la perdita di sperma diminuisse la vitalità e la forza maschile; la potenza aggressiva degli uomini e le loro ener­ gie riproduttive, alimentate da una stessa riserva biologica limi­ tata, sembrano in concorrenza l’una con l’altra. Se gli uomini de­ vono uccidere bisogna che evitino il più possibile di contaminarsi con i rapporti matrimoniali e con tutto ciò che appartiene alla sfera riproduttiva, appunto per non perdere il loro vigore e il loro coraggio. Analogamente, secondo quanto riferisce Rappaport per un altro gruppo non lontano dal precedente, i Tsembaga, quando, in tempo di battaglia, i guerrieri si sono spalmati lo speciale un­ guento di guerra, il ringi, non possono toccare le donne né par­ lare con loro: « Le donne, e tutto ciò che esse hanno toccato, si dice che è “freddo”. L’avere contatti con loro spegnerebbe il fuo­ co che arde nella testa degli uomini. Viceversa, si dice che il con­ tatto con gli uomini bollenti coprirebbe letteralmente di piaghe la pelle delle donne »6. L’inconciliabilità simbolica tra l’ambito dell’antagonismo armato e l’ambito dell’imparentamento armonico delle famiglie è cosi lar­ gamente attestato nei rituali militari da non richiedere ora altri esempi. Vi si ritrova, quasi in mille frammenti di specchio, quella grande alternativa politica che gli antropologi hanno spesso indi­ cato come la grande scelta latente nei rapporti fra i gruppi, l’an­ titesi radicale tra due direzioni opposte che si offrono nell’incon­ tro fra unità sociali distinte: distruggersi o congiungersi. La ce­ lebre sentenza di Tylor ne ha dato una formula tanto lapidaria quanto fortunata: « Più volte ripetutamente nella storia del mondo è avvenuto che le tribù dei selvaggi si sono trovate di fronte ad un’alternativa fondamentale: sposarsi con quelli di fuori o esserne uccisi » 7. L’alternativa non potrebbe definire in modo più netto 5 S. Lindenbaum, Sorcerers, ghosts and polluting women: an alalysis of religious belief and population control, in Etnology, 11 (3), 1972, pp. 241-253. 6 R. Rappaport, Maiali per gli antenati, Milano, Franco Angeli, 1980, p. 156. 7 E.B. Tylor, On a method of investigating the development of institu­ tions applied to laws of marriage and descent, in Journal of the Royal Anthropological Institute, XVIII, 1888, p. 267.

26 i due esiti possibili in una opposizione inconciliabile, in una in­ compatibilità assoluta: unirsi o annullarsi. Eppure piu di un indizio ci consiglia di trattare con prudenza questa apparente inassociabilità fra istituzioni militari e istituzioni matrimoniali. Per esempio: i rituali iniziatici, il carattere ambiguo dei rapporti fra metà esogamiche nelle organizzazioni dualistiche, la simbologia dello scontro armato che accompagna, presso moltis­ sime culture, i riti nuziali. Vediamo un po’ piu in particolare che cosa dice almeno qual­ cuno di questi esempi. In molti casi le cerimonie che segnano il passaggio degli adolescenti alla pienezza della vita adulta sanci­ scono simultaneamente, o in stretto collegamento, l’ingresso nel mondo delle attività di guerra e in quello delle prerogative matri­ moniali o, con pari frequenza, introducendo i giovani nello stato di guerrieri assumono questa condizione come requisito necessario per il loro ingresso in quello che con brutta espressione viene chia­ mato oggi in antropologia il « mercato matrimoniale ». La prova pubblica della piena titolarità alla scelta come coniuge è data quan­ do si è partecipato con valore a una impresa di guerra: uccidere dà diritto a sposarsi. Valga per tutti il caso riferito da Hogbin per i Koaka di Guadalcanal: « Un giovane deve prendere parte a una campagna militare e uccidere prima di poter essere scelto per spo­ sarsi o per una carica sacerdotale »8. Abbiamo così un primo 8 I. Hogmin, A Guadalcanal society: the Kaoka speakers, New York, Rinehart and Winston, 1964, p. 61, cit. da Walsh e Scandalis, in Nettleship e altri, War: its causes and correlates, L’Aia, Parigi, Mouton, 1975. Non è inutile sottolineare, con altri esempi e altre fonti, la rilevanza transculturale di questo motivo ritual-simbolico. Commentando Thevet (La cosmographie universelie. Le Brésil et les Brésiliens, Parigi, Puf 1953), a proposito dei Tupinanba, Métraux afferma: « La condizione di un uomo che non aveva mai fatto un prigioniero e non ne aveva mai ucciso uno rimaneva mediocre. Egli aveva difficoltà nel trovare una donna “perché [dice Thevet] essi credevano che i bambini generati da un Manem, cioè da uno che non ha preso schiavi, non avrebbero mai dato buon frutto” » (A Métraux, La religion des Tupinamba et ses rapports avec celle des autres tribus TupiGvarani, Parigi, Librairie Ernest Leroux, 1928, pp. 124-169: L’anthropophagie rituelle des Tupinamba, trad. it. in A. Métraux, Religioni e riti magici in­ diani nell’America meridionale, Milano, Il Saggiatore, 1967, p. 91). Di diversa natura ma estremamente significativa la seguente testimonianza, sospesa fra l’ingenuità antropologica e la presunzione della « criminologia » profes­ sionale, nel Resoconto del Procuratore del Re (Ranieri Falcone), letto il 23 gennaio 1905 all’assemblea generale del Tribunale d’appello in Asmara. A proposito dei « crimini sanguinosi contro la persona » che i giudici coloniali dovevano reprimere fra le comunità piu arretrate della Colonia Eritrea, « so­ pravvivenze dell’infantilismo etnico », si osserva che, presso questi gruppi

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segno, una traccia che ci pare condurre verso territori simbolici del tutto diversi rispetto a quelli, più consueti, nei quali guerra e matrimonio stavano ordinatamente e inconciliabilmente separati. Esistono dunque orizzonti rituali e, più largamente, pratiche e attitudini collettive che, in molte culture, legano anziché disgiun­ gere l’ambito delle virtù guerriere e quello dello statuto maritale: Tesser guerrieri è condizione dell’esser mariti e padri. Il combinarsi dei due complessi simbolici fa allora vacillare, o almeno rende as­ sai meno rigida, quella inconciliabilità che pareva inattaccabile. È pur vero tuttavia che un confine fondamentale resta: il titolo di dignità acquistato con l’omicidio a\V esterno si realizza Quinter­ no a patto di trasformarsi, a patto, se possiamo dirlo, di inver­ tire il suo valore; il nuovo rapporto maritale muta, se non can­ cella, la valenza del precedente rapporto violento. Non basta: i destinatari delle due relazioni sono nettamente diversi, si direbbe opposti. Gli uni, i membri del mio stesso gruppo, non sono quelli che combatto o che mi combattono, ma quelli che riconoscono e sanciscono il mio diritto matrimoniale. Gli altri, quelli che com­ batto, sono coloro che, a loro volta, mi vogliono distruggere in quanto membro di una comunità avversa, e dunque non solo come guerriero, ma anche come titolare di prerogative maritali entro il mio gruppo.

3. Nemici e parenti Siamo condotti nuovamente, allora, a meditare su proprietà dif­ ferenziami, su rapporti di forma: esterno/interno, unione/distruzione. La guerra separa e distrugge o all’esterno o all’interno; il l’omicidio « non ha per loro nulla di immorale o di antisociale. Anzi, l’avere ucciso un uomo è un titolo alla considerazione altrui, ed in qualche tribù è elemento indispensabile alla vita sociale dell’individuo. Il giovane baza, raggiunta una certa età deve ammazzare, altrimenti nessuna donna lo spo­ serà ». Costume, questo, sottolineava il procuratore, che si ritrova in etnie e razze le più lontane fra loro: in Libia, nel Borneo, nelle isole Figi... (R. Falcone, JJamministrazione della giustizia nella Colonia Eritrea, alle­ gato n. 24 in: F. Martini, Relazione sulla Colonia Eritrea del Regio Com­ missario Civile Deputato Ferdinando Martini per gli esercizi 1902-1907 presentata dal Ministro delle Colonie (Bertolini) nella seduta del 14 giugno 1913, Roma, Tipografia della Camera, Atti parlamentari, legislatura XXIII, sessione 1909-1913, 4 volumi, vol. II, pp. 230-271, pp. 313-14).

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matrimonio unisce e riproduce o all’esterno o all’interno. Senonché proprio questa scelta di trattamento piu astratto scopre nuove analogie che spingono fortemente a riavvicinare i due settori. Con­ siderati dal punto di vista dei soli rapporti formali sia l’aggressione organizzata, sia il coniugio regolamentato sembrano concordare in una comune dimensione sociologica. Tutti e due, una volta privati delle ragioni di contenuto (avere donne, avere progenitura, per il matrimonio; conquistare ricchezze, dominio, o vendetta, per la guerra), quindi se ridotti alla pura forma dei rapporti che isti­ tuiscono, che implicano o che neutralizzano, appaiono privi di un senso esterno, non hanno una vera spiegazione fuori dalle rela­ zioni che attivano o disattivano. Se il matrimonio, alla fine dei conti, non si spiega che come scambio, e lo scambio non ha altra giustificazione che se stesso9, ebbene allora anch’esso, il matrimo­ nio, finisce per appiattirsi in quella stessa dimensione di auto­ fondazione che, come abbiamo visto, marca con il suo segno d’in­ determinatezza la guerra. Si delinea cosi un campo possibile di reciproca traduzione; può la guerra esser rappresentata attraverso le categorie formali che si usano per il matrimonio? E ciò equivale a chiedersi: si può analizzare il rapporto fra gruppi in guerra usan­ do la stessa chiave che si adopera per i rapporti tra gruppi che in­ trattengono alleanza matrimoniale, e cioè lo scambio? In un vecchio articolo 10 Lévi-Strauss ha tentato qualche cosa del genere, ma per inversione di segno, riproponendo la disgiun­ zione radicale fra scambio positivo (commercio, alleanza matrimo­ niale) e scambio degradato (cioè non scambio). La guerra è la forma dello scambio fallito o dello scambio che non riesce a rea­ lizzarsi. Una volta create le condizioni minime per il contatto fra gruppi estranei, la tendenza che muove i due gruppi nell’incontro è innanzi tutto quella dello scambio positivo; essa spinge ad atti­ 9 « [...] lo scambio non vale soltanto per quel che valgono le cose scambiate: lo scambio — e di conseguenza le regole di esogamia che lo esprimono — ha di per se stesso un valore sociale: fornisce il mezzo per le­ gare gli uomini tra loro » (cfr. C. Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela, Milano, Feltrinelli, 1972, seconda edizione italiana: edizione ori­ ginale in francese, 1947). 10 C. Lévi-Strauss, Guerre et commerce chez les Indiens de VAmerique du Sud, in Renaissance, v. I, New York, 1943. Una critica notevolmente pene­ trante, ma con una lettura molto diversa rispetto a quella qui proposta, sulla teoria levistraussiana della guerra è nel noto articolo di P. Clastres: Archéologie de la violence: la guerre dans les sociétés primitives, in Libre, 1, 1977.

29 vare e intensificare i rapporti di prestazione reciproca. Solo in quanto questa tendenza si inverta e lo scambio regredisca e si annulli i due gruppi saranno spinti a dissociarsi con violenza. Come per il male agostiniano, absentia boni, anche il male levistraussiano è insufficienza di potenza scambista, mancanza di reciprocità. Ancora una volta quindi, sebbene tutte e due i fenomeni possano esser letti attraverso la lente della nozione di scambio, l’uno come scambio realizzato e l’altro come scambio recessivo, si confermano tuttavia in quella irriducibile incompatibilità di cui s’è detto: il matrimonio sopprime la guerra, la guerra impedisce il matrimonio. A me sembra invece che non solamente sia possibile leggere le due cose con un vocabolario comune, ma che l’alleanza matrimo­ niale e la disalleanza bellica presentino in aspetti non secondari una precisa complementarietà, se non addirittura una diretta con­ vergenza. Per rendersene conto non occorre abbandonare l’itine­ rario che abbiamo cominciato a percorrere. Basterà riprendere il quadro delle possibilità formali che all’inizio si sono presentate in una alternativa ristretta: separare e distruggere all’esterno / unire e riprodurre all’interno, ma allargare il quadro con nuove relazioni non previste nello schema iniziale; per esempio: unire e distrug­ gere all’esterno; distruggere e riprodurre all’esterno, ecc. Per percorrere questa strada sarà bene fissare, come una rinno­ vata stipulazione « zero », due definizioni minime ma complemen­ tari di matrimonio e di guerra. Nell’integrarsi esogamico, dei gruppi separati cedono l’un altro (e dunque scambiano) i propri elementi riproduttivi, agenti vivi di rigenerazione i quali apportano in ciascuno dei gruppi recettori nuovo organico per il ricambio e l’allargamento del gruppo. Nel­ l’aggressione armata i gruppi si incontrano per sopprimere l’uno nell’altro elementi che sono solamente in parte dello stesso tipo: nelle relazioni esogamiche si offrono e si ricevono donne, nelle re­ lazioni di guerra si uccidono uomini e si subiscono uccisioni di uòmini. Già queste due azioni che sembrano opposte si possono fondere, se è vero, come lo è in più di un esempio etnografico ri­ levante, che nella stessa azione di guerra si possono contempora­ neamente uccidere uomini (combattenti e riproduttori) e sposare le loro donne (riproduttrici). Non si può evitare di esser colpiti dal fatto che in culture di­ verse e lontane fra loro la coscienza indigena identifichi il gruppo con il quale si hanno rapporti d’intermatrimonio con quello dei

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nemici di guerra. In Africa, secondo Max Gluckman, si incontra molto spesso un’espressione che sintetizza in uno solo questi due rapporti: « Sono i nostri nemici, noi ci sposiamo con loro » quan­ do si parla di un gruppo diverso dal proprio11. La stessa formula, anzi una versione ancora più forte, è riferita da Meggitt per i Mae Enga, di cui abbiamo già parlato: « I Mae dicono spesso “noi spo­ siamo la gente che combattiamo” e questo stereotipo popolare cor­ risponde ai dati di fatto » 12. In effetti Meggitt ha trovato in questa tribù una stretta correlazione quantitativa fra lo scambio di osti­ lità armata con omicidio, e lo scambio di matrimoni. Nella lunga storia di rapporti fra gruppo e gruppo le uccisioni e le nozze si alternano vincolando in una sorta di ambivalente relazione privi­ legiata due gruppi; quelli che si uccidono, o dai quali si può es­ sere uccisi, sono quelli ai quali si dànno o dai quali si ricevono le spose. Allo stesso concetto rimanda l’osservazione di Paula Brown, ancora per i gruppi Papua degli altopiani neo-guineani: « Diversi popoli dell’altopiano vedono il mondo esterno, al di là della loro area di esogamia, come un territorio totalmente nemico: ogni ma­ trimonio è visto come un matrimonio con un gruppo nemico »13. Se da un lato accade che i nemici diventino parenti altri segni ci rivelano anche la relazione inversa: in molti casi coloro con i quali si aprono o si ripetono accordi matrimoniali vengono sim­ bolicamente trattati come nemici di guerra: i futuri parenti diven­ gono dei nemici. Fra gli esempi più conosciuti, e anche fra i più chiari, si possono ricordare i rituali che accompagnano la richiesta di una donna in sposa. Tra gli Ifugao, nelle Filippine, la cerimonia assume i toni drammatici di uno scontro simulato. Cosi ce lo de­ scrive Barton, e cosi lo riprende Lévi-Strauss per tratti essenziali a proposito delle organizzazioni dualistiche 14. Sullo stesso feno­ meno, e sulla stessa etnia, Hoebel ha proposto un’analisi socio­ giuridica che riconduce, in parte, il rapporto d’imparentamento matrimoniale a quello di estraneità-inimicizia cui abbiamo prima 11 M. Gluckman, Custom and conflict in Africa, Oxford, Blackwell, 1973 (1956), p. 13. 12 M. Meggitt, Blood is their argument. Warfare among the Mae Enga tribesmen of the New Guinea Highlands, Palo Alto, Cal., Mayfield Pu­ blishing comp., 1977, p. 42. 13 P. Brown, Highland peoples of New Guinea, Cambridge, Cambr. Un. Press, 1978, p. 168. 14 R.F. Barton, The religion of the Ifugaos, in Memoirs of the American Anthropological Association, n. 65, 1946, cit. in C. Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela, cit., p. 137.

31 accennato15. Anche qui lo spazio compreso fra il lontano-ignoto (i gruppi sociali del tutto sconosciuti, che non hanno alcun rap­ porto con noi) e lo spazio proprio, quello del se stessi, è lo spazio della differenza conosciuta e, si direbbe, necessaria. È il terreno intermedio situato fra noi e il nulla sociale, terreno intermedio dove si trovano quelli che sono altri ma che noi conosciamo come una specie di contropartita della nostra propria personalità etnica di gruppo. Ebbene, appunto la zona d’intervallo in cui vivono so­ cietà esterne ma non anonime è a un tempo quella entro la quale si cercano le donne e quella nella quale di tanto in tanto si scate­ nano le inimicizie violente tra gruppi, quasi che il contatto tra comunità vicine fosse soggetto al fluttuare permanente e instabile fra integrazione e repulsione. Tra gli Ifugao, dunque, i parenti del giovane che aspira alla mano di una ragazza si presentano al gruppo dei familiari di questa armati di tutto punto, fanno la loro richiesta in forme arroganti e minacciose. Si produce cosi uno stato di ten­ sione pericolosa, una specie di scontro o di quasi-scontro artifi­ ciale, i due gruppi si fronteggiano per qualche tempo con le armi in pugno, come sospesi al limite del conflitto violento, fino a che la risoluzione verbale dell’accordo matrimoniale non allenta il ri­ schio di guerra. Allo stesso modo, ma in tutt’altro contesto etni­ co, fra gli Aché del Brasile, ai quali Pierre Clastres ha dedicato la sua tenerissima « cronaca di una tribù », gli incontri di corteggia­ mento e di gioco fra i sessi, quando diverse bande si riuniscono per divertirsi nella festa tò kybairu, la festa nella quale fra l’altro si celebrano i matrimoni, sono al tempo stesso incontri tra uomini armati pronti a passare al combattimento. All’inizio i guerrieri dei diversi gruppi si fronteggiano in armi, le donne e i bambini ven­ gono lasciati indietro mentre l’eccitazione della guerra che potreb­ be nascere aumenta. Alla soglia dello scontro vero e proprio la tensione aggressiva si ferma per volgersi poi allo scherzo, al diverti­ mento, al gioco della confidenza sessuale. Si dovrebbe commentare il modo in cui anche Clastres, al pari di una larga parte degli studiosi di antropologia del rituale, inter­ preta questi episodi drammatizzatile cioè come tecniche simboliche per « fare » relazioni sociali, quasi che gli attori di una situazione non ancora definita montassero apposta un dispositivo di subli15 E.A. Hoebel, in II diritto nelle società primitive, Bologna, Il Mulino, 1973 (cap. VI: « Gli Ifugao: diritto privato nel nord di Luzon », pp. 151-190), utilizza anch’egli le ricerche di Barton.

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inazione e di transfert capace di dirigere le attitudini dei parteci­ panti, e le loro reazioni, nei canali già orientati verso una finalità sociale d’ordine; in questo caso un dispositivo simbolico che libera delle porzioni di violenza conflittuale, o quasi-conflittuale, per neu­ tralizzare la minaccia di un suo scatenamento extra-simbolico. Ci sarebbe da chiedersi se davvero l’astuzia della metafora violenta sia fin da principio all’opera in questo genere di drammi di gruppo, se la « convenzionalità » simbolica ne sia proprio il presupposto, o non sia per caso il risultato di eventi relazionali in sé realmente disposti al conflitto. Non si può qui andar oltre su questo problema troppo gene­ rale rispetto al tema più limitato che l’esempio serviva ad appro­ fondire, basti l’averlo segnalato prima di riprendere il filo del di­ scorso sul nesso tra imparentamento e inimicizia di guerra. In breve, ci troviamo di fronte a due esiti inversi fra loro: o i ne­ mici diventano parenti, o i parenti diventano nemici. Da una parte può accadere che i nemici, diciamo quelli « veri », siano di tanto in tanto neutralizzati, come nemici attivi, per ottenere da loro dei legami matrimoniali, cosicché in questo primo caso sono i rapporti di guerra a dischiudere entro il flusso di antagonismo che li nutre lo scambio matrimoniale; dall’altra parte si direbbe che i partner di matrimonio, i gruppi che si incontrano partendo dalla pace o addirittura dall’amicizia precedente, per incontrarsi come tali e per portare a compimento il loro accordo che fa nascere parentela sembrano aver bisogno di dichiararsi, insieme con l’alleanza, i se­ gni inequivocabili di una buona riserva d’inimicizia. Si potrebbe dire allora che se i nemici creano rapporti matrimo­ niali, i rapporti matrimoniali a loro volta hanno o alimentano una dinamica d’inimicizia che si può contenere, ma che può anche aumentare. Se è vero quindi che lo scambio di vincoli coniugali è in un senso ben determinato una tecnica per fare la pace (o forse più esattamente per sospendere la guerra) con i nemici, che serve a stringere contatti e a integrarsi con gli estranei, per altro verso la parentela creata per congiungimento (a differenza di quel­ la non decisa ma ricevuta per discendenza) espone le parti che vi si impegnano al rischio dell’antagonismo violento. Ma la guerra fra parenti è più temibile e più dolorosa di quella che minaccia i rapporti fra estranei perché, se evolverà fino in fondo, dovrà rom­ pere i legami d’unità nel frattempo avanzati, dovrà cioè ritrasfor-

33 mare l’amicizia in inimicizia, dovrà imporre una rottura d’odio nella rete d’armonia edificata dalle parti. Il matrimonio, allora, agisce in due sensi sociologicamente com­ presenti: nel primo senso opera come connettivo tra diversi; tra­ passa i confini tra gruppi sociali contrapposti facendo mescolare le parentele e trasferendo uomini e donne dell’un gruppo nello spazio sociale dell’altro. Nel secondo senso introduce differenze o addirittura separazione entro rapporti sociali originariamente neutri, distingue in raggruppamenti differenziati, se non concorrenti, i corpi collettivi che altrimenti rimarrebbero quasi dissolti in una eguaglianza amorfa. In tutti e due i casi le tecniche e i simboli del congiungimento coniugale tra gruppi o tra parentadi si com­ binano con i simboli b e talora con lo stato d’animo, del conflitto armato. Ma in un ordine inverso: in un caso l’apparentamento si realizza entro un contesto d’inimicizia, nell’altro caso il segno del­ l’inimicizia compare entro una rete nascente di apparentamento. Tra nemici di guerra il matrimonio porta su di sé il tono dei rap­ porti in cui si inserisce: atto di tregua, gesto riparatorej compenso imposto per diritto di guerra: in un modo o nell’altro ci trasmette un messaggio ibrido entro ih quale il vincolo di coniugio assume nello stesso tempo i tratti che distinguono tutt’intorno i doveri di relazione tra nemici16. Tra parenti « interni », affini, che stanno nello stesso gruppo non come nemici, l’alleanza matrimoniale si stringe senza mancare di avvertire del pericolo di conflitto che può recare insieme all’aumento dell’integrazione e della contiguità pa­ rentale.

4. Esogamia, esopolemia È ora possibile finalmente allargare la formula tyloriana; non più solamente: « combattere all’esterno o sposarsi all’esterno », ma anche per esempio: « sposarsi all’interno o combattere all’in­ terno »; oppure ancora: «sposarsi all’interno e combattere all’in­ terno», che è ovviamente un assurdo sociologico; ma non lo è: «sposarsi all’esterno e combattere all’esterno ». E ancor meglio, per restituire nella sua ampiezza reale il quadro delle scelte che una comunità primitiva avrebbe di fronte: « o sposarsi all’esterno 16 L’inimicizia obbliga al rispetto rigoroso dei rapporti d’antagonismo fra coloro che sono legati attraverso antichi rapporti di conflitto. V’è una fedeltà nell’inimicizia, una forma obbligante nei rapporti (il silenzio, il dovere di far fronte alila sfida, di onorare il nemico ecc.).

34 e combattere all’esterno, o sposarsi all’interno e combattere al­ l’esterno, o sposarsi all’esterno e combattere all’interno, o sposarsi all’interno e combattere all’interno ». Ebbene, se l’ultima di queste scelte è quasi un non senso, la prima, che pure sembra a prima vista strana, contiene la piu effi­ cace resa sociale, come si vedrà. Se la scelta è ridotta a questi due estremi: sposarsi e uccidere all’esterno/sposarsi e uccidere all’in­ terno, allora si vede bene che l’aggressione violenta e lo scambio matrimoniale non solo rivelano un uguale orientamento sociale, ma agiscono con una concorde efficacia politica. L’una e l’altro coope­ rano nel qualificare e nel delimitare il centro d’identità del gruppo, conferiscono valore ai rapporti che si stabiliscono fra questo cen­ tro e la sua periferia, definiscono e il valore della violenza, cioè dei buoni e dei cattivi antagonismi, e il valore dei matrimoni, dei buoni e dei cattivi. In altre parole, è nella concorrenza fra antago­ nismo esterno e rivalità interna che la forza parentale di coesione conferisce un senso definito alla violenza: deprime il conflitto in­ terno, espande quello esterno. Allo stesso modo è nella concor­ renza fra endogamia ed esogamia che si regola il grado di distanza delle alleanze: quelle troppo esterne sono impossibili o nocive, quelle troppo interne sono inutili e cattive. Così la violenza, al pari del matrimonio, diventa positiva verso l’esterno e negativa verso l’interno. Esistono illuminanti riscontri etnologici al riguardo. È appena il caso di ricordare le ricerche di Evans-Pritchard sui Nuer. Presso questa società, come del resto presso altre etnie nilotiche, il grado di violenza ammesso nel combattimento aumenta man mano che si riduce la prossimità parentale. Piu debole il legame consanguineo per comune discendenza (e dunque piu forte la probabilità di in­ trattenere scambi esogamici) maggiore la brutalità nello scontro armato. Il bastone si usa nei combattimenti fra gruppi imparentati per discendenza clanica comune, la lancia tra gruppi che apparten­ gono a clan differenti ma alla stessa tribù, mentre l’arco e le frecce i(l’arma dello scontro mortale) prevalgono nelle guerre intertribali. Un analogo barema di gravità dei mezzi e dei modi d’of­ fesa si può osservare tra i gruppi Papua della Nuova Guinea, cui già si è fatto cenno, ma con più diretta e visibile regolarità. Meggitt per gli Enga e Koch per Jalèmo classificano i tipi di conflitto secondo i tipi di rapporto sociale e parentale che esiste fra i part­ ner: tra consanguinei, tra affini, tra clan della stessa tribù, fra

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tribù diverse I7. Si hanno qui variazioni di intensità aggressiva, di predisposizione a uccidere e di brutalità distruttiva: dal combatti­ mento verbale, con insulti e offese urlati a distanza, oppure dallo scontro fisico con sole pietre e clave, attraverso i combattimenti « piccoli » che si fanno con armi vere ma senza accanimento e volontà di uccidere, fino al combattimento « grande », guerra vera e propria — anche qui prevalentemente con arco e frecce — dove si uccide e si è uccisi. Lungo una sorta di scala graduata scandita sui livelli di prossi­ mità sociale i Jalé regolano l’intensità degli antagonismi: conflitti fra parenti per via agnatica, fra parenti per affinità, fra vicini, fra stranieri. Si praticano e si riconoscono due tipi di guerra: wim e soli. La guerra wim è meno brutale, ha una durata piu breve, ma è piu frequente. Non giunge fino al massacro, in linea di princi­ pio coinvolge esclusivamente i combattenti. La guerra soli è molto piu distruttiva, più prolungata; si uccidono anche le donne e i bambini e — tratto particolarmente importante — i nemici uccisi possono essere mangiati. Vertice estremo di intensità violenta, la guerra soli si spinge al confine massimo della comunicabilità so­ ciale: non è possibile colpire con l’estremo oltraggio colui « di cui si conosce la faccia ». Il nemico con il quale si intrattiene un rap­ porto assiduo e regolare di combattimento deve essere incluso nell’area di conoscenza; la violenza negatrice di ogni rapporto, compreso il rapporto d’antagonismo, sprofonda nell’ignoto, estra­ neo, impercorribile nulla sociale, come pure oltre i limiti spaziali e sociali entro i quali abitualmente si intrecciano i vincoli di af­ finità. La guerra wim coinvolge segmenti dello stesso villaggio (subunità residenziali aggregate intorno alle case degli uomini) op­ pure frazioni separate della stessa unità, o anche villaggi vicini; è una guerra di corto raggio. La guerra soli si fa contro nemici lontani, in territori sconosciuti, oltre i fiumi che segnano i limiti dei distretti, oltre le montagne che separano i grandi aggregati clanici. « In pratica — precisa Koch — l’immunità dalla vendetta antropofagica deriva dalla natura e dalla frequenza relativa dei le­ gami d’affinità fra due villaggi. Dal momento che nella maggior parte dei matrimoni inter-villaggio la sposa proviene da un insedia­ mento dello stesso distretto o di un distretto adiacente, la distanza geografica determina in questo senso i confini precari soli » 18. 17 M. Meggitt, op. cit., K.F. Koch, op. cit. 18 Ibidem, p. 80.

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In altre parole, fra l’area di matrimonialità e l’area di bellige­ ranza riconosciuta esiste una correlazione positiva. L’inizio e il termine di questa fascia matrimoniale-militare risultano definiti da­ gli scarti di livello che segnano, per quanto riguarda il conflitto armato, gli scarti d’intensità e di qualità della violenza riconosciu­ ta. Verso l’esterno, oltre il limite massimo di conflittualità for­ male, la guerra diventa violenza-limite, violenza oltre la quale i pre­ supposti stessi del conflitto durevole e attivo diventano precari. Verso l’interno, prima che la rivalità fra membri della stessa co­ munità assuma i tratti dell’inimicizia distruttiva, la dinamica dei conflitti abbisogna di sue specifiche tecniche d’antagonismo vio­ lento. Fra il troppo e il troppo poco antagonismo, o forse più esat­ tamente fra il limite d’intensità violenta superiore e il limite d’in­ tensità inferiore, la guerra si situa a un « giusto » grado di ostilità e a un giusto grado di differenza. Senza il corretto collegamento con la gamma d’onda appropriata allo scambio antagonistico il co^dice della violenza degenera nella confusione: è «normale » brutalizzare gli estranei, è anormale farlo con i vicini e i parenti. Il nesso fra vicinanza socio-parentale e intensità conflittuale ap­ pare ancor più marcato nel profilo che Meggitt, ancora nel suo la­ voro sugli Enga, cosi riassume: « I Mae riconoscono quattro con­ testi principali nei quali gruppi di uomini scendono in combatti­ mento, e li definiscono largamente nei termini dell’affiliazione dei gruppi di discendenza dei combattenti: a) combattimento all’in­ terno del clan; b) combattimento fra clan di una stessa fratria; c) combattimento fra clan di diverse fratrie; d) combattimenti fra intere fratrie » 19. Per capire appieno la corrispondenza fra i tipi di conflitto e la struttura socio-parentale occorre richiamare i prin­ cipi di composizione segmentaria-acefala della società Enga:

A A "" A A A AAA „ A AAA 19 M. Meggit, op. tit., p. 16.

37 La tipologia della guerra ricalca l’ordinamento segmentarlo del reticolo genealogico, idealmente coincidente con l’ordine spaziale in cui le diverse unità sociali si trovano distribuite. Esogamia e guerra procedono quasi di pari passo. Il clan è esogamo ma anche, si dovrebbe aggiungere, « eso-polemo ». Delle settantuno guerre che risultano combattute da uno dei clan nel cinquantennio 19001950, il 62 per cento hanno interessato clan di diverse fratrie, il 28 per cento sono state combattute tra clan della stessa fratria, e solo il 10 per cento sono state combattute fra sottoclan dello stesso clan. Le percentuali d’esogamia seguono quasi parallele quel­ le delle relazioni di guerra: il 67 per cento dei matrimoni riguar­ dano fratrie differenti, il 33 per cento clan della stessa fratria. A sua volta l’intensità della violenza militare varia fra i due estre­ mi di prossimità sociale dando luogo, alla maggior distanza (guer­ re tra intere fratrie) ai « grandi combattimenti », i quali corrispon­ dono al tipo d elencato nella classificazione di Meggitt (vedi sopra). Alla minor distanza, il tipo a, il conflitto entro uno stesso clan, si producono i combattimenti meno violenti e meno cruenti. Le guerre tra fratrie, cui ciascuna partecipa nella totalità, vedono in campo grandi schiere di armati (non eccezionalmente 500 per parte), combattimenti aperti che si basano sulle armi da lancio, soprattutto archi e frecce, mentre è evitato il corpo a corpo. Le guerre entro lo stesso clan sono invece degli scontri quasi devita­ lizzati: non si possono usare le armi mortali (lance, asce, archi), gli eventuali omicidi devono essere risarciti con un compenso in maiali, che invece non è in nessun modo dovuto fra i nemici di fratria. Propriamente la guerra tra fratrie, sembra, non è un vero e proprio estremo di brutalità, ma un estremo di strategia antago­ nistica: in questi scontri, che sono molto più rari di quelli fra singoli clan, i combattenti si fronteggiano per uccidere, ma dichia­ ratamente. Il bilancio delle forze dipende dalla massa di parteci­ panti che ognuna delle parti riesce a riunire, e mai il risultato dello scontro porta alla devastazione o al massacro. Apparentemente dun­ que, in questo caso, il limite massimo di sviluppo della guerra è segnato dalla fermezza in equilibrio contrapposto delle sfide reci­ proche tra grandi raggruppamenti, le quali convergono fino al pun­ to da raggiungere una sorta di accordo a combattersi: si dànno appuntamento in un luogo e ih un tempo definiti per confrontarsi e uccidersi.

38 Il vero « massimo violento », se cosi si può dire, si incontra comunque un passo prima, quanto alla distanza, dell’estremo so­ ciale di cui appena abbiamo parlato, nel tipo b della classifica­ zione, nelle guerre fra singoli clan di diverse fratrie. Al contrario della precedente questa forma di combattimento è proditoria, fe­ roce e distruttiva: in caso di vittoria gli attaccanti massacrano i non combattenti, distruggono le colture, mutilano i nemici uccisi e ignorano le relazioni di parentela eventualmente intercorrenti con i nemici sconfitti. Qui, come nel caso Jalé, la ferocia diretta a distruggere, a infliggere il male peggiore si esprime come istituto di cultura: risolvere la differenza che separa dagli altri eliminan­ done gli stessi presupposti, sopprimendo l’altrui identità. La vio­ lenza piena e libera opera perciò sul limite che oscilla fra la co­ mune identità e l’estraneità. Comune identità troppo debole, alla periferia della rete congiunta di parenti partecipi di lontane ascen­ denze comuni, ma estraneità a sua volta non sufficientemente pro­ fonda da precludere la comunicazione. Oltre il limite dell’estraneità l’aggressione di vendetta non può andare. L’unico prolungamento possibile può nascere da un salto di grandezza e di categoria, da nuove tecniche e nuovi motivi cultu­ rali che portino a far la guerra senza odio diretto, a combattere coloro che non si conoscono. Quando i partner del conflitto si mobilitano interamente, ciascuno al suo massimo livello di gran­ dezza e di indipendenza — tutta una fratria contro tutta un’al­ tra — i vettori contrapposti di violenza si neutralizzano nel punto comune in cui le rispettive forze sono maggiormente concentrate. Solo al livello della forza pura, immune da pulsioni private e da rapporti personali fra nemici, solo a questo grado di astrattezza quasi completa l’antagonismo diventa istituto pubblico e politicamente separato, antagonismo capace di produrre da se stesso i suoi motivi d’esistenza e di generare ferocia senza vendetta. Non c’è dubbio che l’ordine di grandezza nel quale gli antagonismi entrano con il passaggio alla guerra pubblica ci avvicina a uno stato di complessità politica prossimo a quello delle società statuali. Non è quindi il caso di prolungare in questa direzione un itinerario che questo scritto dovrebbe ancora completare restando nei limiti delle società senza Stato. L’analisi condotta fino a questo punto è servita a mettere in rilievo una stretta correlazione fra guerra e società. I gruppi do­ tati di unità consanguinea rinnovano e perpetuano la propria eoe-

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sione combattendo e sposando quei gruppi esterni con i quali mantengono più deboli rapporti di comunità agnatica. È proprio la relativa estraneità parentale a permettere i matrimoni che non si possono realizzare dentro i confini del gruppo consanguineo più coeso. D’altra parte esattamente il ripetersi dello scambio matrimo­ niale rischia di fondere, con il tempo, i gruppi scambisti e di can­ cellare i reciproci confini d’identità. Se i segmenti sociali distinti finissero per assimilarsi e sciogliersi in unità superiori queste do­ vrebbero spostare verso altri gruppi-partner, più grandi e più lon­ tani, sia lo scambio matrimoniale che i flussi di antagonismo, e dovrebbe corrispondentemente ridurre i conflitti e i matrimoni entro la nuova area d’identità. Quest’ultima, la sfera di eso-gamia e di eso-polemia, diventerebbe sempre più larga poiché la stessa logica di assimilazione che spingerebbe prima i segmenti minori a fondersi, premerebbe poi sugli aggregati di maggiore ampiezza. Sembra logico aspettarsi che una simile dinamica, che pure espri­ me tendenze riscontrabili nei fatti, non sia in grado di svilupparsi illimitatamente. Le strategie che tendono a integrazione crescente sono soggette a due limiti potenti: in primo luogo si scontrano con uguali tendenze provenienti da altri centri d’integrazione, opposti e concorrenti; in secondo luogo non dispongono di illimitata capa­ cità espansiva perché il mantenimento dell’unità tra segmenti uni­ ficati richiede elevati costi di energia e di controllo. Ciascun grup­ po sarebbe, teoricamente, sia integratore di altri (o « assimilatore »), che integrabile da altri (« assimilabile»). Di fatto nessuna delle due spinte è in grado di annullare l’altra. Cosicché — fintan­ to che la struttura globale conserva il suo ordinamento segmenta­ no diffuso — ogni gruppo deve svolgere la sua azione scambista in una fascia intermedia situata fra il massimo assoluto di comu­ nicabilità (il gruppo in se stesso nel suo centro di coesione interna) e il minimo assoluto (gli sconosciuti irraggiungibili). È appunto in questa regione mista che si rinnova senza sosta l’indeterminato: la perenne disponibilità di altri che possono in parte diventare noi stessi, e di parti di noi stessi che possono diventare altri; è una simile fluidità che permette alla società di costruire cultural­ mente partizioni di se stessa: di dar luogo a sovra-aggregati, di scomporre raggruppamenti coesi. In altri termini, ogni porzione segmentaria composta, clan, sotto-clan, fratria, per usare la termi­ nologia di Meggitt, deve poter disporre di gruppi con cui unirsi e dividersi, deve essere in grado di fondersi e di scindersi. Fon­

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dersi con le parti meno prossime nella rete di cui fa parte, scin­ dersi entro se stessa quando raggiunge un’espansione eccessiva, per ricostituire aggregati pieni di identità definita. È chiaro che né l’ideale della fusione progressivamente espan­ siva verso l’esterno, né quello « riduttivista » sono raggiungibili. Per questo, al punto di maggior equilibrio, l’unificazione e la se­ parazione coincidono con lo stesso partner: vogliamo assimilare e combattere gli stessi soggetti; i nostri legami di strategia riprodut­ tiva coincidono con i legami di strategia distruttiva: uccidiamo e sposiamo le stesse persone. Del resto, più di una testimonianza etnografica contribuisce ad alimentare il nostro sospettò: che in molti casi distruggere e riprodurre diventino parti indistinguibili di un unico trattamento. Si pensi all’istituto esquimese legato al­ l’omicidio di vendetta: si sa che in certi casi l’assassino di un uomo prendeva il posto dell’ucciso, diventava il nuovo marito e padre nella famiglia che quegli aveva lasciato. E di nuovo Sagard, a proposito degli Uroni, racconta che in guerra non si uccidono né donne né bambini, « anzi li salvano e li tengono per sé o per fare dono ad altri che abbiano perduto i loro in guerra. Questi hanno grande stima di tali surrogati, come se fossero i propri fi­ gli ». Ancor più esplicitamente, nel citato lavoro di Rappaport sui Tsembaga della Nuova Guinea, si trova culturalmente sancita la pratica di sfruttare matrimonialmente le perdite subite in guer­ ra: « In questa occasione [nei rituali di pacificazione, n.d.r.] si scambiano o si promettono le donne. Queste sono esplicitamente chiamate “wump” (materiale di coltivazione), e tramite loro si sostituiranno gli uomini morti; ai figli che esse partoriranno verrà dato il nome di coloro che sono stati uccisi dai loro fratelli, padri o nonni » 20. Aggredire i nemici, e sposarli, significa in qualche modo farli propri, o far proprie delle parti che sono riprodotte da loro, farli propri e identificarli a sé. Distruggere e riprodurre den­ tro il proprio gruppo: è il doppio trattamento con il quale da una parte si annulla l’estraneità dei separati, dall’altra si trasferisce in loro la propria identità. Una dinamica inversa colpisce i rapporti socio-matrimoniali già costituiti, quelli che hanno già iniziato a propagare i loro frutti nella parentela consanguinea: nei punti di sutura fra linea e linea, 20 R. Rappaport, op. cit., p. 259.

41 nei congiungimenti cognatici, si annidano i focolai di conflitto che possono mobilitare i gruppi consanguinei gli uni contro gli altri. Il matrimonio predispone una direzione di antagonismo, cata­ lizza alleanze contrapposte. I parenti della sposa e quelli del marito si trovano a far corpo gli uni contro gli altri quando il con­ nettivo che li teneva uniti attraverso la coppia si rompe. Nella pa­ rentela si imprime, quasi una stratigrafia minerale, la doppia storia matrimoniale e di guerra, come pure il doppio processo agnaticocognatico. I gruppi agnatici formano il nucleo rigido, precostituito; i legami cognatici sono il frutto sintetico di espansioni transitorie. Tutto ciò avrebbe bisogno di maggior precisione, ma troppo poco gli studi sui sistemi di parentela in antropologia hanno medi­ tato sul carattere processuale dei rapporti, concentrandosi quasi esclusivamente sulle loro proprietà strutturali. Quasi mai si sente commentare, in antropologia, la principale differenza, appunto di ordine processuale, che percorre tutti i sistemi: non solo i legami agnatici sono preesistenti e propagativi ’(rispetto agli individui che vi sono coinvolti), mentre quelli cognatici sono costituiti e aggre­ gativi, ma anche, e in conseguenza delle proprietà appena menzio­ nate, i primi sono irreversibili, mentre i secondi sono reversibili. Due gruppi possono cancellare i rapporti d’imparentamento cogna­ tico che hanno costituito, in nessun modo due gruppi uniti per via agnatica possono annullare il loro legame. È lo scarto fra questi due livelli che spiega come, invariabil­ mente, i gruppi di discendenza si rinsaldino in presenza di conflitti entro i rapporti cognatici; mentre restano sempre problematiche, nonostante la loro rigorosa coerenza formale, le interpretazioni di tipo sociobiologistico come quella proposta da Chagnon e Bugos21 per certe forme di combattimento in Amazzonia. Essi spiegano le amicizie e le ostilità che si formano in occasione di liti nella « com­ petizione fra maschi », in chiave di determinismo genetico. Secon­ do il principio di .maximizing their inclusive fitness gli attori scel­ gono i propri partner d’alleanza calcolando il miglior investimento in base all’aiuto che possono dare, che risulta essere quello of­ ferto ai parenti geneticamente più vicini. 21 N. Chagnon e P. Bugos jr., Kin selection and conflict: An analysis of Yanomamo ax fight, in N. Chagnon e W. Irons (a cura di), Evolutionary biology and human social behavior. An antropoiogical perspective, Dux­ bury Press, North Scituate (Mass.) 1979, pp. 213-238.

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5. Conclusioni

Si potrebbe essere indotti a concludere che le correnti di con­ flitto percorrano il sistema dei rapporti sociali come una rete pre­ esistente di canali conduttori adattandosi alla funzione che il si­ stema sociale assegna loro in base ai suoi bisogni di unità e di di­ visione, di integrazione e di scissione. Si dovrebbe presupporre che l’ostilità di gruppo sia uno strumento culturale puro, predisposto naturalmente a servire alle strategie d’identità che un aggregato sociale necessariamente utilizza per definirsi e ridefinirsi. In tal modo la violenza collettiva sarebbe interpretata come una sorta di servizio sociale, subordinato e controllato dalle stesse leggi che servono a integrare e a mantenere le parti e le sottoparti dell’unità sociale. Si dovrebbe ammettere inoltre che l’antagonismo violento non costituisca un puro negativo, ma un negativo « convertibile », un male sociale dotato di, efficacia e di efficienza culturale. Un male per i nemici è uguale a un bene per noi e per i nostri amici, il che è come dire che il sociale ha culturalmente bisogno di produrre male e maleficio nello stesso momento e nelle stesse cose che le dànno bene e beneficio. Possiamo servirci certamente di un simile presupposto, ma con prudenza. Una visione del tutto diversa, forse più completa, con­ siglierebbe di prevedere anche una certa irriducibilità culturale della violenza. Se, da un lato, il conflitto violento soggiace al con­ trollo di specifiche forme regolate, se insomma è un fatto di cultu­ ra, quindi un fatto socialmente prodotto, dall’altro lato niente ga­ rantisce che esso resti comunque un fatto socialmente controllato: occorre poter pensare che, e perché, i sistemi culturali generino, attraverso i meccanismi della distruzione organizzata verso gli al­ tri, anche istituti di violenza verso se stessi. Anche quando l’anta­ gonismo violento pare rispondere a un bisogno civile, quando fi­ gura culturalmente sottomesso all’ordine sociologico delle identità e delle separazioni esso lascia sprigionare da queste stesse basi nuove energie conflittuali. Si direbbe quasi che gli istituti culturali dell’antagonismo distruttivo tendano a crescere senza sosta, in am­ piezza e in violenza, in ragione dell’aumento di complessità del sociale, intensificandosi mano a mano che la società si arricchisce di nuove differenziazioni, di parti e sottoparti. Acquista così una durezza scientifica nuova l’espressione quasi-naturalistica di Le­ tourneau: « Il gusto, l’abitudine, il bisogno della guerra che ere-

43 see smisuratamente nel corso dell’evoluzione sociale ». Occorre dunque correggere il tiro: non solo e non tanto concepire la guer­ ra come un complesso di istituzioni antagonistiche, come proprietà subordinata del sociale, ma come energia, energia sociale certa­ mente e non naturale, e tuttavia mai completamente socio-dipendente. L’ultimo riferimento etnologico che qui si propone prima di tentare di trarre delle conclusioni apre uno spiraglio importante nella direzione extra-sociologica di cui si intuisce per molti segni il bisogno. In un saggio dedicato alla dinamica culturale della vio­ lenza fra gli Anggor della Nuova Guinea — ancora una volta la Nuova Guinea, il laboratorio privilegiato per lo studio delle culture di guerra — Peter B. Huber assume per l’appunto un presupposto non sociologico. Nella cultura Anggor la violenza, frequentissima tra i villaggi, non agisce come relazione d’ordine politico, non è una tecnica di ordinamento dei rapporti fra comunità, ma è una sorta di proprietà morale e culturale inerente alla condizione uma­ na. Considerata dal suo proprio punto di vista, interno, la comu­ nità è un isolato completo, un cosmo, anzi il cosmo, « un sistema morale autonomo ed essenzialmente armonioso circondato da un mondo esterno uniformemente ostile, pericoloso, caotico » 22. Il cosmo di cui qui si parla, evidentemente, non è un cosmo programmato da regole tecniche, ma un ordine di comune assimi­ lazione simbolica, una convergenza di distinte identità personali in una super-persona collettiva, una specie di concentrazione spi­ rituale che riunisce e ridefinisce gli individui, ma è deperibile, sog­ getta alla minaccia interna di forze etiche disgregatrici. Ora, la so­ cietà deve sempre ricostituirsi contrastando la spinta al disordine che la minaccia, difendendosi dal degrado e dalla caduta nel non­ sociale, nel non identico, neutralizzando le forze malefiche che risiedono nel fondo dell’animo di ciascuno. Infatti la persona, se­ condo la filosofia Anggor, ospita dentro di sé una energia cieca, incosciente, della stessa natura di quella impersonale e asociale che circola caoticamente nel mondo esterno; un’energia violenta, amorale, devastatrice. È per opera dell’unità collettiva cosciente che le tensioni malefiche permangono represse nei singoli e che gli odi e le offese non distruggono l’armonia coesa del villaggio. 22 P.B. Huber, Defending the cosmos: Violence and social order among the Anggor of Netv Guinea, in A. Nettleship e altri, War. Its causes and correlates, The Hague-Paris, 1975, pp. 619-660.

44 Ma la società si mantiene unita a prezzo di un grande dispendio di energie perché deve continuamente purificarsi delle rivalità che nascono e rinascono nel suo seno, generate dalle , stesse relazioni inter-individuali di cui essa stessa è composta. Ogni morte, ogni malattia è culturalmente interpretata per mez­ zo di queste categorie del negativo: ogni morte è un omicidio, il risultato di un attacco magico compiuto a distanza dallo spirito malvagio di uno straniero. Ogni male interno è il prodotto della volontà di male che le comunità esterne emanano intorno a lóro. La forza aggressiva e la malvagità degli stranieri possono sfondare la barriera culturale che difende la comunità dal disordine perché possono congiungersi e identificarsi, dentro la stessa comunità , ag­ gredita, con la parte selvaggia delle persone normali. E, allo stesso modo, l’energia violenta che noi, la nostra comunità, emettiamo verso l’esterno si fonde entro la comunità aggredita con le ener­ gie di disordine che vi sono latenti. Il flusso distruttivo che ogni cosmo manda all’esterno, verso il mondo caotico dell’indi­ stinto ha dunque — a quanto sembra — una natura culturame e deculturame nel medesimo tempo. In quanto reazione al contagio del disordine circostante agisce come apparato ordinatore e pro­ tettivo; in quanto forza corruttrice che risveglia in seno alla co­ munità avversa, energie malefiche della sua stessa natura, si com­ porta come una forza socialmente intrattabile. Cosi, ancora una. volta, i rapporti fra estranei vicini sono tali da generare insieme e la comprensione degli altri, come inclusione in sé, e la distruzione degli altri, come inclusione, devastatrice, di sé negli altri. Anche in questo caso i legami d’affinità e di paren­ tela cognatica tra villaggi (legami che sono riconosciuti in termini specifici: ngumni} possono trasmettere solidarietà e nuova ami­ cizia,, ma con uguale probabilità « possono, di fatto, generare con­ flitto e violenza »23. Se essi possono temporaneamente estendere la rete ordinata del cosmo sociale oltre i confini permanenti, con uguale intensità sono capaci di convertirsi in focolai di pericolo. « Le relazioni tra villaggi, dunque —- dice Huber — implicano una interazione dialettica fra due aspetti: quello per cui gli stra­ nieri sono uguali: ai co-residenti (co-villagers), conosciuti, sicuri e affidabili e quello per cui essi sono uguali agli stregoni, anonimi, pericolosi e cattivi » 24. .2? Ibidem, p. 632. 24 Ibidem, p. 636.

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. In .definitiva, è necessario prendere atto che l’antagonismo vio­ lento ha un potere, di formazione sul sociale pari a quello che il sociale cerca di imporgli. Se, nei contesti etnici che qui sono stati evocati, i sistemi di parentela si comportano come se governassero il proprio potere di violenza, come se lo usassero per fini che vanno al di là dell’antagonismo, per essere quello che sono e per costrin­ gere gli altri ad essere quello che sono, ciò non basta a spiegare realmente le culture di guerra. Gli aggregati parentali, una volta che si sono definiti, reagiscono alle distanze sociali sia mobilitando la propria capacità di violenza, sia erogando pretese e offerte ma­ trimoniali; ma nello stesso tempo essi risultano definiti e trasfor­ mati, dalla dinamica di ostilità e dallo scambio di matrimoni che animano il loro ambiente culturale in formazione. Non è questa, esattamente a! punto di fusione fra l’agire pro­ creativo e l’agire distruttivo, la sede in cui si manifesta un pro­ blema di potere, forse il problema del potere? Dovrebbe infatti ri­ saltare con maggior chiarezza, ora, il nesso che nell’itinerario fin qui percorso è andato emergendo a poco a poco: guerra e ma­ trimonio sono due dei vertici di un triangolo il cui terzo vertice è appunto il potere. Potere non ancora definito come potere di comandare e di dirigere, ma come la radice pre-politica della con­ tinuità coesa, appunto come resistenza al disordine de-nuclèante, il potere di vincere la mescolanza e di respingere la tendenza sem­ pre latente a regredire nello stato confuso. Che tutti e tre i « vertici », matrimonio, guerra, potere, si cor­ rispondano come sedi di strategia non può essere casuale, come pure non casuale dovfà apparire la concordanza che lega queste tre strategie nelle loro condizioni formali. Infatti: 1) come la guerra interna, specie la guerra fratricida, cosi l’en­ dogamia consanguinea estrema (sposarsi tra fratelli) segna il li­ mite critico che rendè impossibile l’esistenza sociale. Nessuna so­ cietà può sopravvivere combattendo se stessa o « sposando se stes­ sa ». Analogamente, per « potere su se stessa » le società tribali si sforzano in realtà di esercitare il potere al loro esterno; la poli­ tica, si direbbe, nasce oltre i confini d’identità del gruppo coeso; 2) il potere si disperde se non si hanno nemici esterni: è la guerra contro gli estranei la sede nella quale i doveri d’alleanza fra parenti consanguinei suscitano la forza, la. potenza sociale dei rapporti dai quali nascono. Nella vita pacifica, infatti, la rete di coesioni familiari e interfamiliari ha un tonò lento e politicamente

46 inerte. Nelle circostanze di conflitto di gruppo questa stessa rete diventa focolaio di energie aggressive, si contrae e diventa politica; 3) i soggetti della strategia esogamica sono anche i soggetti dell’azione armata: i parenti dell’offeso sono titolari dei diritti di vendetta cosi come i parenti della sposa sono beneficiari dei van­ taggi e dei compensi che derivano dal matrimonio della ragazza. Non solo i soggetti, ma anche l’oggetto della relazione (sia di guer­ ra, sia di nozze) si esprime in forme comparabili: il « prezzo della sposa », il « prezzo del sangue ». Cosicché l’inimicizia violenta e lo scambio matrimoniale figurano, non casualmente, come le due istituzioni, per molti aspetti le sole, nelle quali il valore della per­ sona si trovi espresso e misurato; in un caso come compenso per la perdita di una donna che fornirà prestazioni riproduttive ai nuo­ vi parenti, nell’altro caso come risarcimento per la perdita di un uomo che è stato ucciso per infliggere un danno vitale. Un uomo ucciso in guerra rappresenta di per sé uno scompenso di valore tra i due gruppi che si combattono: un vantaggio per chi ha compiuto l’omicidio, uno svantaggio per chi l’ha subito25. Da qui si dovrebbe cominciare di nuovo, se ve ne fosse lo spa­ zio, a cercare altre connessioni interessanti: i « mezzi di pagamen­ to » utilizzati nell’uno e nell’altro caso formano generalmente una categoria speciale di valori, frequentemente dello stesso genere fisico, bestiame, oggetti di lusso, maiali. Questa classe di valori sta al vertice della scala di ricchezza, cosicché, possiamo dire, il mas­ simo di valore pare concentrarsi proprio intorno a quelle transa­ zioni, di guerra, di matrimonio, che hanno per oggetto la vita e la persona. I circuiti economici, nei sistemi « primitivi », sono solitamente descritti come strutture gerarchizzate: ogni categoria di beni ha un livello distinto di circolazione, mentre tra livello e livello il pas­ saggio è ostacolato da una sorta di barriera o di « scarto » che trattiene ogni categoria al suo livello. Tuttavia, dato che la ric­ chezza in ogni caso tende a formarsi, la piramide è tutt’altro che immune da flussi verticali. I detentori dei beni di minor pregio — quotidiani, deperibili, di larga circolazione — tendono a tra­ 25 Prezzo della sposa e prezzo del sangue sono interpretati parallelamente, tutti e due come indemnity in un articolo di Radcliffe-Brown, Bride price, earnest or indemnity, in Man, a. XXIX, 1929, pp. 131-132. Questo cenno (si trattava della discussione sulla natura economica o meno del « lobolo ») non ebbe poi seguito.

47 sferire il valore economico e simbolico nella categoria superiore, a convertire in ricchezza le risorse di cui dispongono. Solo che, piu si eleva il livello, piu il valore si immobilizza: il bestiame­ capitale finisce per diventare un tesoro vivente da contemplare ma non da usare, oppure, come nel caso dei branchi di maiali presso le culture neo-guineane, una ricchezza da dissipare tutta in una volta. Perché possa realizzarsi deve anch’esso convertirsi in valori di categoria piu alta. Al culmine della scala, dove il va­ lore estremo si espone al meccanismo dell’espressione e della rea­ lizzazione, e cioè quando la donna da sposare o l’uomo da risar­ cire devono trovare un corrispettivo di valori, quando la persona stessa diventa campo di conversione in valore, ebbene qui la ric­ chezza si arresta. Il valore raggiunge il limite più alto della sua corsa, che vorrebbe continuare e che invece si deve spegnere; se il prezzo della sposa e il prezzo del sangue traducono in qualche modo il valore della persona, questa a sua volta non può più esprimere valori di ordine superiore, perché non ha al di sopra di sé livelli più alti. In definitiva, forse, essa rappresenta il mas­ simo valore economicamente pensabile, quasi il limite dell’econo­ mico, il confine tra l’universo dei beni finiti e quello dei beni eco­ nomicamente inesprimibili. Qui, credo, si dovrà esplorare per far progredire le nostre co­ noscenze sulla genesi della moneta: approfondire lo studio sui le­ gami simbolici, economici, sociali tra valore, persona, denaro. Ma intanto, per poter presentare almeno un rendiconto provvisorio, ci si deve accontentare di un risultato, se possiamo dirlo rag­ giunto, più limitato, ma di non trascurabile interesse. Sia pure in modo indiretto sembra possibile tradurre in un vocabolario co­ mune il linguaggio della riproduzione e quello della distruzione. Che la comune convertibilità dimostri o quanto meno consenta di produrre un terzo codice inclusivo, quello del potere, non basta certo a ricavare conclusioni totalizzanti; come sarebbe per esem­ pio quella che affermasse: « il potere è un prodotto involontario delle concordanze spontanee e delle funzionalità complementari tra istituti sociali non politici ». Non ci si può permettere di fare della teoria cosi alla leggera; ma almeno come eventualità, non foss’altro per superarla o rifiu­ tarla, questa tesi potremo prenderla in considerazione, senza quel sospetto di misteriosa stravaganza che all’inizio ci avrebbe fatto retrocedere.

II. Corpo e potere

Talal Asad Potere e rituale nella Chiesa medievale. Note sulle pene corporali e la verità *

Introduzione La maggior parte degli antropologi che si sono occupati di re­ ligione ne hanno soprattutto messo in luce i significati simbo­ lici o le funzioni sociali. In questo saggio — che è parte di una indagine antropologica sul rapporto tra religione cristiana e po­ tere — non mi occuperò né di significati simbolici né di funzioni sociali, ma della maniera in cui nel medioevo cristiano si sono for­ mati particolari rituali concernenti la produzione della verità e l’ap­ plicazione di pene corporali e di come il loro sviluppo abbia per­ messo alla disciplina di entrare in vigore in diverse maniere. Vorrei iniziare esaminando la pratica della tortura giudiziaria, che nel XII secolo ha cominciato a sostituire nell’Europa occiden­ tale forme assai diverse di procedura legale. Un tema particolar­ mente interessante, perché la comparsa alla metà del medioevo della tortura giudiziaria sembra essere collegata alla formazione di un particolare tipo di politica, di rituale religioso, di produzione della conoscenza e soprattutto di un particolare tipo di soggetti­ vità. Ma anche perché si tratta di una pratica autorizzata e im­ piegata dalla Chiesa. L’ultima parte è dedicata all’esame della più importante forma di disciplina cristiana presente nel medioevo a partire anch’essa dal XII secolo: il rituale della penitenza sacra­ mentale. Mi occuperò invece solo di sfuggita delle loro implica­ zioni sulla produzione della conoscenza e sulla formazione della soggettività. Sia nella tortura giudiziaria che nella penitenza religiosa pos­ siamo intravedere le maniere attraverso cui il potere — l’effetto più diretto, fisico del potere — riesce a produrre discorsi veritieri facendo sì che i soggetti obbediscano all’autorità. Questa indagine * Traduzione di Maria Lucioni Diemoz.

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sulla pena nel cristianesimo medievale è dunque un tentativo di esplorare i modi in cui le forme storiche del potere diventarono non semplicemente mezzi di coercizione e di assoggettamento, ma, cosa piu interessante, condizioni per creare particolàri potenzialità individuali, sociali e culturali. Quello che mi interessa, come spero risulterà piu chiaro in seguito, non è tanto il rituale cristiano e il potere, ma il potere del rituale cristiano. La tortura giudiziaria e il progresso della razionalità Nella storia del diritto penale dell’occidente la tortura giudizia­ ria è, generalmente considerata una tecnica della prima procedura inquisitoria ed è contrapposta al duello, all’ordalia è al giuramento solenne (compurgazione),, che sono gli elementi di forme primi­ tive di procedura accusatoria. Gli storici del diritto . distinguono vari aspetti di questi due tipi di procedura — per esempio il ruolo svolto da « singoli cittadini » o dalla «società» nell’avviare e portare avanti il processo, nel determinare la colpevolezza, nello stabilire e nell’eseguire la pena. Ma forse la differenza piu signifi­ cativa pare sia nei rispettivi modi di determinare la colpevolezza. Secondo Esmein, nel primo sistema accusatorio medievale « lo sforzo principale dell’accusa è diretto alla prova dell’atto stesso. Nelle procedure primitive la flagranza sembra essere, invero, l’ipo­ tesi legittima per la repressione; il sentimento di vendetta che ispira il sistema penale è, in questo caso, più forte; la colpevo­ lezza, che è necessario provare, è dunque meno dubbia. A parte il caso della flagranza, se l’accusato non confessa, tocca a lui, per un’inversione di corso dell’onere della prova, dimostrare la pro­ pria innocenza prestando giuramento a discolpa e sostenendolo con il concorso di quanti co-giuranti la consuetudine richieda. Questo è infatti il metodo normale di prova, e costituisce un diritto del­ l’accusato. Ma in certi casi può essere accantonato e allora en­ trano in gioco le ordalie attraverso cui si fa appello al giudizio della divinità. Le ordalie sono di due tipi. In alcune, soltanto una delle parti svolge un ruolo attivo, di solito l’accusato. Per citare il tipo più diffuso, c’è l’ordalia del marchio di fuoco, quella del­ l’acqua bollente e quella dell’acqua fredda. In altre, entrambe le parti svolgono un ruolo attivo, come nel duello giudiziario e nel­ l’ordalia della croce. Questo sistema non è per niente tipico delle abitudini germaniche; è caratteristico non di una razza precisa,

53 ma di una determinata fase della civiltà. Nella fase mitologica del­ lo sviluppo dèlia mente umana la divinità veniva chiamata in causa sul problema della colpevolezza o dell’innocenza proprio com’era invocata per decidere il destino'.china battaglia. C’è qui una con­ nessióne tra credenze e istituzioni giuridiche, e cioè lo stesso at­ teggiamento mentale che accetta la divinazione tramite auguri e stregoni conduce alla pratica e alla diffusione dell’interrogatorio dell’accusato per mezzo dell’ordalia e del combattimento giudizia­ rio» [Esmein, 1914, pp. 6-7]. Nel sistema inquisitorio, invece, la colpevolezza viene provata da un giudice che indaga senza far ricorso al soprannaturale: « Un nuovo tipo di interrogatorio, più crudele forse, ma più logico [sic], delle ordalie, cioè quello della torturarla il suo ingresso nei tri­ bunali di grado superiore e filtra man mano nei tribunali di grado inferiore. Poiché la confessione dell’accusato ha acquisito un’im­ portanza determinante, il metodo par excellence per ottenere que­ sta prova diventa ora la tortura, per esempio il cavalletto, lo sti­ valetto o l’acqua. La tortura è un’istituzione di origine romana.. Sotto la repubblica, senza dubbio, e agli inizi dell’impero, il cit­ tadino romano non correva questo rischio. Le uniche persone ad esservi esposte erano gli schiavi e i sudditi delle province. Ma nei primi tempi dell’impero cominciò a diffondersi l’usanza di sotto­ porre a questo tipo d’interrogatorio il cittadino romano accusato di tradimento. La tortura fini allora per diventare d’uso così ge­ nerale che i testi raccomandavano ai giudici di non cominciare l’interrogatorio con tale pratica ma di raccògliere prima delle pro­ ve. Nessuna meraviglia dunque se la diffusione della tortura coin­ cida nella storia moderna con la ripresa da parte dèi criminalisti della scuola di Bologna; di una legge romana, quasi dimenticata. La trasformazione della procedura con la sostituzione della tor­ tura alle ordalie cominciò veramente a fare la sua comparsa alla fine del XII secolo. Da allora nessun paese europeo sfuggì a tale contagio. Alla fine del XIV secolo la tortura era diventata un’usan­ za generale, una delle istituzioni fondamentali dell’antica procedu­ ra penale» [ibidem, p. 9]. Nella storia dell’Europa medievale la grande trasformazione del­ le procedure legali dal processo per ordalia (adeguato alla men­ talità «mitologica») a uno più « logico » è stata interpretata dagli studiosi come parte di un movimento più vasto e profondo in cui la ricerca della verità ha cambiato direzionò. Al posto del

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giudizio divino gli uomini cominciarono a prendere in considera­ zione prove puramente umane. Come osserva il medievalista Sou­ thern: « Agli inizi l’appello al soprannaturale era il più comune di tutti gli espedienti di governo. Dal IX secolo in poi abbiamo una quantità di forme liturgiche tese a sollecitare un giudizio divino in tutti i casi dubbi, sia che si trattasse di un delitto o di una proprietà contesa. Le chiese erano le depositarie degli strumenti con cui il giudizio divino veniva espresso: il calderone dell’acqua bollente, il braciere per arroventare il ferro, e simili; e una delle funzioni più comuni del prete doveva essere quella di benedire questi strumenti [...]. Nel corso del XII secolo questo modo di pensare andò rapidamente cambiando, un cambiamento che ebbe luogo contemporaneamente al mutato atteggiamento nei confronti dell’autorità secolare. Lo studio del diritto romano permise di scoprire l’esistenza di un elaborato sistema di prove puramente umane; e lo sviluppo di un diritto canonico uniforme, che appli­ cava i metodi del diritto romano, diffuse dapertutto la lezione dei giuristi [...]. In particolare, gli uomini finirono per dubitare sempre di più dell’efficacia del giudizio per ordalia. Quando il Con­ cilio lateranense del 1215 proibì agli ecclesiastici di intervenire nell’ordalia, fu soprattutto in questa occasione, che si manifestò quel cambiamento nel modo di pensare che da tanto tempo andava maturando. Quanto all’amministrazione della giustizia, l’effetto fu immediato. Gli uomini furono spinti a preferire la probabilità cui si poteva arrivare con mezzi umani alle certezze del giudizio divino» [Southern, 1959, pp. 101-102]. Da quando la tortura come tecnica appartenente alla procedura inquisitoria fu diretta ad assicurare la verità con l’aiuto soltanto di mezzi umani, il suo uso sistematico nel Medioevo può essere interpretato come un passo avanti nello sviluppo razionale del sistema giudiziario europeo. Il nuovo orientamento rappresentato dall’uso della tortura sarà destinato a rimanere mentre saranno invece alla fine eliminate le sue crudeltà e i suoi eccessi. Secondo Wellington, un antropologo americano del secolo scorso, « in que­ sto passaggio della razza umana da tipi formali e cerimoniali di prova negativa a tipi razionali e sostanziali di prova positiva, l’uso della tortura occupa un posto che si può definire una specie di “tappa a mezza strada” tra queste due forme tipiche e distintive di procedura giudiziaria» [cit. in Peters, 1973]. Gran parte degli storici che hanno affrontato questo argomento

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hanno elogiato per il loro razionalismo i critici medievali della ordalia, che resisi conto degli ovvii « insuccessi » delle ordalie nella identificazione del vero colpevole, arrivarono alla conclusione che si trattasse di pura superstizione e reclamarono un approccio alla verità piu valido, piu razionale. Ma perché i casi che venivano adesso indicati come insuccessi del sistema dell’ordalia non erano piu visti come semplici errori di applicazione delle regole, come doveva esser stato nel passato? Quello di cui molti storici eviden­ temente non si rendono conto è che sono i cambiamenti nelle pra­ tiche per stabilire la verità che conducono al « riconoscimento » della superstizione e non viceversa. In altri termini: la Chiesa riformatrice non riscopri la razionalità, ma la ridefini. Le nuove regole della pratica razionale portarono a un riconoscimento delle pratiche precedenti come « superstizione », cioè pratiche che era­ no sopravvissute al loro tempo. In questi ultimi anni lo studioso che piu d’ogni altro ha su­ scitato dubbi sulle versioni trionfalistiche della razionalità è stato, naturalmente, Michel Foucault. In Sorvegliare e punire [Foucault, 1975] è una orrenda cronaca della tortura e dell’esecuzione di un regicida nell’età classica ad aprire, come si ricorderà, una discussio­ ne sui cambiamenti nelle strategie del potere nei confronti del cor­ po, e quindi sui mutevoli concetti e metodi di punizione. L’incon­ trollata manifestazione del potere sovrano, che permette che il corpo del colpevole venga torturato, marchiato ed esposto, lascia il posto a una economia dell’addestramento nella quale corpo e anima sono plasmati con cura, quasi con sollecitudine, dal potere. La punizione è trasformata da rituale di comunicazione politica in qualcosa che può essere definito un rituale di produzione sociale: mentre la verità era un tempo spettacolo, pubblica manifestazione del potere e della giustizia, ora è diventata un processo con un prodotto fina­ le: l’ex criminale riformato, socialmente utile, capace di ragionare. Naturalmente la tortura non era solo una manifestazione di giu­ stizia, era anche di per sé produttrice di verità. Sulla tortura giu­ diziaria, che è diversa dalla tortura volta esclusivamente a punire, Foucault ha scritto brevi ma suggestive osservazioni nel secondo capitolo del primo libro: « Possiamo [...] ritrovare il funzionamento della quaestio come supplizio di verità. Prima di tutto la quaestio non è un mezzo per strappare la verità a qualunque costo; non è la tortura scatenata degli interrogatori moderni; è crudele, certo, ma non selvaggia.

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Si tratta di una pratica che ha le sue regole, che obbedisce ad una procedura ben definita; momenti, durata, strumenti utilizzati, lun­ ghezza delle corde, pesantezza dei pesi, numero dei cunei, inter­ venti del magistrato che interroga, tutto questo, secondo le diffe­ renti consuetudini, è accuratamente codificato. La quaestio è un gioco giudiziario rigoroso. E, a questo titolo, al di là delle tecni­ che dell’inquisizione, si riallaccia alle antiche prove che avevano luogo nelle procedure accusatorie: ordalie, duelli giudiziari, giudizi di Dio. Tra il giudice che ordina la quaestio e il sospettato che è torturato, si svolge ancora quasi una sorta di combattimento ca­ valleresco; il “paziente” — è il termine con cui si designa il sup­ pliziato— è sottomesso a una serie di prove, graduate in severità, e nelle quali egli vince “tenendo” e perde confessando [...]. « Sotto l’apparente ricerca accanita di una verità non maturata poco a poco, ritroviamo nella tortura classica il meccanismo ben regolato di una competizione: una sfida fisica che deve decidere della verità; se il paziente è colpevole, le. sofferenze che essa im­ pone non sono ingiuste; ma essa è anche segno di discolpa se egli è innocente. Affrontamento, sofferenza e verità sono, nella pratica della tortura, legate fra loro: lavorano in comune il corpo del pa­ ziente. La ricerca della verità per mezzo della quaestio è pur sempre un modo di far apparire un indizio, il più grave di tutti: la confes­ sione del colpevole; ma è anche una battaglia, ed è la vittoria di un avversario sull’altro che “produce” ritualmente la verità. Nella tortura, per far confessare, c’è inchiesta, ma c’è anche duello » [Foucault, 1975, pp. 44-45]. La definizione della tortura (insieme con l’ordalia) come ri­ tuale mi sembra un’intuizione che ci aiuterà a vedere come la tortura giudiziaria sia qualcosa di diverso da una « tappa a mezza strada » nello sviluppo della mente umana dal mito alla logica, dal cerimoniale al.razionale. Come rituale la tortura ha .condizioni proprie, regole proprie, effetti propri, che sono differenti e non semplicemente migliori di quelli dell’ordalia. Questo è, natural­ mente, il tipo di argomentazione su cui si fonda la tesi di Sorvegliare e punire. Ma, nel contempo, l’assimilazione che Foucault opera in questo passo tra tortura giudiziaria, duello e ordalia è irta di non poche difficoltà e rischia di confondere le sue stesse fonda­ mentali intuizioni. II. problema principale, come vedremo, è che la verità prodotta dalla tortura non è affatto la stessa prodotta dal duello e dall’ordalia. Non è sufficiente, in fin dei conti, definire

57 una pratica come un rituale — e Foucault da quel consumato etnografo della cultura occidentale che è, lo sa benissimo. È sol­ tanto quando si descrivono le differenze tra i rituali che si può cercar di capire che cosa ciascun tipo di rituale rende possibile, e come lo rende possibile. Verso la fine del suo libro Foucault con­ trappone esplicitamente l’ordalia al sistema inquisitorio: « L’inchie­ sta come ricerca autoritaria di una verità constatata o attestata si oppóneva cosi alle antiche procedure del giuramento, dell’ordalia, del duello giudiziario, del giudizio di Dio o ancora della transa­ zione tra privati. L’inchiesta era il potere sovrano che si arrogava il diritto di stabilire il vero attraverso un certo numero di tecniche codificate» [Foucault, 1975, p. 245]. Questa differenza d’autorità tra l’ordalia e il sistema inquisitorio era, lo vedremo piu avanti, assolutamente cruciale. Ma l’idea di infliggere pene fisiche nell’interesse della verità resta qualcosa ancora da esaminare ed è questa connessione che rende la tortura giudiziaria parte di quella stessa storia che ha come oggetto l’asce­ tismo religioso.

L’ordalia in contrapposizione alla tortura Nel Medioevo il passaggio alla tortura non è stato semplicemente un cambiamento nella direzione della ricerca della verità sulla trasgressione, ma ha anche significato una pratica diversa per raggiungere tale verità, una pratica in cui le pene corporali giocavano un ruolo assai diverso. La prima cosa da stabilire è che tanto-l’ordalia che il combattimento giudiziario erano essenzial­ mente rituali per risolvere i conflitti tra persone socialmente egua­ li. « La tortura — come precisa Esmein — è fuori posto in una procedura puramente accusatoria e in un paese libero; l’accusatore e l’accusato sono due combattenti che lottano in pieno giorno e ad armi pari» [Esmein, p. 107]. Quel che gli antropologo chia­ mano faide, come pure combattimento giudiziario e ordalia, so­ no anzitutto modi di risolvere conflitti in cui le parti principali sono interpretate dall’accusatore e dall’accusato, secondo regole ri­ conosciute, e non da una autorità giudiziaria. Come tali non hanno niente a che fare con la risoluzione di un dubbio. Quel che fan­ no è di fornire le regole per produrre un esito inequivocabile che permetta di prendere una decisione chiara in materia di rapporti sociali.

58 Prendiamo, ad esempio, il caso di Stefano di Tournai, in un periodo in cui la Chiesa stava diventante sempre più critica verso la vecchia pratica delle faide. «Nel 1179, quando insorse una disputa tra lui, come abate di Sainte-Genéviève di Parigi e i suoi affittuari di Rosny-sous-Vincennes circa la natura dei loro servizi personali, Stefano portò la controversia davanti alla corte di re Luigi VII. In mancanza di veri e propri contratti, il re ordinò un duello giudiziario « secondo la consuetudine dei Franchi ». Quando i campioni degli uomini di Rosny, spaventati da quelli di Sainte-Genéviève, abbandonarono il campo, il re confermò le pre­ stazioni servili dovute da coloro che avevano perduto l’ordalia » [Baldwin, p. 261]. Ciò che questo evento aveva prodotto non era tanto una « prova » che permettesse di emettere un giudizio legale, quanto la definizione di un giudizio stesso o, più esattamente, la ridefinizione di un rapporto sociale, non sufficientemente chiaro. C’erano, naturalmente, molte differenze nelle varie ordalie impie­ gate, ma sebbene ogni ordalia avesse normalmente un suo voca­ bolario di definizione della verità, esse erano tutte simili in quanto generavano una « verità » che era inseparabile dalla decisione. In pratica, poteva essere presente un giudice, come nella disputa tra l’abate di Sainte-Genéviève e i suoi affittuari, ma il ruolo del giudice era, a rigore, superfluo. Nelle ordalie non c’era niente da giudicare. Il giudice dava semplicemente voce alla verità che era già marchiata sul corpo dell’accusatore e/o dell’accusato, e in maniera cosi evidente che tutti la potevano vedere. I fatti erano o noti o insignificanti: era soltanto la colpevolezza o Vinnocenza che dove­ va essere stabilita. Era l’esito che contava, e per questo i corpi di sostituti potevano andare altrettanto bene di quelli dell’accusa­ tore e dell’accusato. Gli antropologi che hanno studiato l’istituzio­ ne della faida hanno dimostrato che non c’è ragione perché, fin tanto che vengono applicate le regole giuste, il ricorso alla giusti­ zia non possa in teoria continuare all’infinito. Nel conflitto tra due gruppi di parenti impegnati in una faida il ferimento o l’uccisione di un avversario indica nello stesso tempo il soddisfacimento della giustizia, e la necessità di riparazione. La faida è un processo perma­ nente, non un evento o, per dirla altrimenti, la determinazione del­ la « colpa » attraverso un rigoroso sistema accusatorio sta non nella vittoria della verità ma in una tregua tra poteri eguali. La tortura, come parte del sistema inquisitorio, produceva invece la verità in maniera assolutamente diversa. Anzitutto produceva

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informazione, fatti su cose dette e fatte, dove, con che cosa e con chi, fatti che erano ben distinti dalla conclusione che ne sarebbe stata tratta. Era una strategia indagine che comportava una gamma di domande e di risposte concrete e che si basava su una maniera molto diversa di articolare verità e sofferenza fisica. Nell’ordalia il corpo dello sconfitto rivelava la sua colpa direttamente con la posizione che assumeva o i segni che mostrava. E la sofferenza, o almeno la sua causa immediata, apparteneva al passa­ to. Nel sistema della tortura giudiziaria era la voce che doveva dire la verità per paura della sofferenza — sofferenza che quindi apparteneva sempre al futuro. Naturalmente, anche nel sistema dell’ordalia l’accusato poteva, per paura, rifiutare di sottoporsi alla prova, e quindi riconoscere la propria colpevolezza. Anzi, il prete stesso che celebrava la cerimonia religiosa prima dell’ordalia poteva anche invitarlo a confessare. Ma la confessione rimaneva comunque superflua, anche se, in casi particolari, poteva essere addirittura a portata di mano. Nel sistema inquisitorio che usava la tortura, la confessione era invece essenziale quando non c’era altro modo per stabilire la colpevolezza, cioè quando non si disponeva del tipo e del numero adeguato di testimoni [cfr. Langhein, 1977]. L'espressione verbale era il veicolo indispensabile della verità. I pensieri segreti dovevano esser resi accessibili sotto forma di parole, quali suoni significativi che rappresentassero all’esterno segni interiori. Ma le parole non si identificavano con la verità, nella stessa maniera dei segni sul corpo di colui che era stato sottoposto all’ordalia, segni che non potevano mentire. E questo ci conduce alla seconda importante differenza tra il modo in cui il sistema inquisitorio, che usava la tortura, produ­ ceva la verità e il modo in cui la produceva invece l’ordalia. L’ap­ plicazione di pene corporali nel sistema inquisitorio facilitava il perseguimento della verità che avrebbe permesso la determinazione della colpevolezza. Tutto questo non aveva però niente di automa­ tico perché, sebbene la colpevolezza poteva essere stabilita dalla confessione, il rifiuto di confessare non avrebbe mai potuto di per sé quietare ogni dubbio. Come in ogni caccia, c’era sempre la possibilità di scampo, e il successo non era mai sicuro finché la preda non fosse stata catturata. Inoltre, il cacciatore doveva esser certo che la preda che inseguiva fosse davvero quella giusta e non un occasionale randagio. (Questa è la differenza fondamentale tra cacciatori e pescatori.) Perciò i teorici medievali insistevano nel

60 sostenere che l’accusato non doveva conoscere l’imputazione, altri­ menti avrebbe potuto facilmente confessare quel che non aveva fatto per paura di ulteriori sofferenze. Il problema non era di tro­ vare una vittima per la vendetta (come nella faida), ma di trovare la verità. La segretezza diventò cosi un elemento essenziale, cosa completamente estranea all’ordalia. Il prudente occultamento d’in­ formazioni è di per sé un espediente per attrarre la preda, per farle tradire la sua presenza. (Nel sistema anglosassone, che con­ servava procedure accusatorie all’interno di un sistema inquisitorio, l’espediente della segretezza diventò un diritto concesso al­ l’accusato: il cacciatore non doveva trovare la caccia troppo facile!) La confessione aveva dunque lo scopo di confermare e svilup­ pare quel che già la corte sapeva per suo conto, o meglio, di tra­ sformare i suoi sospetti in conoscenza. Per questo era necessario acquisire piu informazioni di quelle che si avevano all’inizio del procedimento, e per l’esattezza non qualsiasi informazione, ma sol­ tanto quelle pertinenti. Si arrivò con lo stabilire regole adeguate, regole per scovare la verità e arrivare finalmente a un corretto giu­ dizio. Il giudizio finale sarebbe stata l’autorizzazione a rendere il fatto di pubblico dominio. Naturalmente, anche le ordalie avevano le proprie regole, alla cui infrazione (volontaria o non) si poteva far. riferimento per spiegare perché un certo risultato era viziato. Ma tali regole stabilivano la verità su colpevolezza o innocenza (come perdere o vincere in una partita a dadi) ma non miravano a catturare la verità (come nella strategia della caccia). Terzo, la confessione resa in camera di tortura non poteva da sola servire di base per la condanna. Doveva essere ripetuta volontaria­ mente in tribunale e se l’accusato rifiutava di farlo veniva riportato di nuovo al supplizio. Da qui il principio che la verità non poteva essere il prodotto della violenza ma che doveva essere invece la libera confessione di un soggetto sincero e cosciente. La violenza praticata sul corpo era vista come una condizione che facilitava la manifestazione e la cattura della verità, e non, come nell’ordalia e nel duello, la condizione che definiva la verità stessa. In maniere fondamentalmente diverse il corpo era in entrambi i casi il campo di battaglia per il perseguimento della verità. Possiamo ora riassumere il tutto dicendo che gli aspetti prin­ cipali che distinguevano la tortura dall’ordalia erano i seguenti: la tortura facilitava la produzione d’informazioni, era parte di una « caccia » alla verità e la sua violenza sul corpo era una condizione

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per arrivare a un giudizio e non la forma in cui il giudizio era iscritto e letto. Cóme tale l’uso della tortura richiedeva abilità ed esperti in grado di collegàre correttamente le pene corporali e le parole che provocavano, con il perseguimento della verità verbale. Venne così man mano producendosi una notevole letteratura eru­ dita che definiva le forme, i vantaggi e i limiti della tortura e, dunque, il suo corretto uso. È importante sottolineare quest’ultimo punto, giacché non sempre era conosciuta tutta la verità sul cri­ mine in questione nemmeno dalla persona torturata, specialmente (ma non soltanto) quando la confessione veniva estorta a un testi­ mone. In senso stretto, la verità veniva fuori alla fine soltanto nelle parole del giudizio. Dal momento che il sistema inquisitorio trasferisce l’autorità della verità dai segni sul corpo dell’accusato all’espressione ver­ bale di un giudizio, è naturale che l’importanza del giudice acqui­ sisca maggior peso. Ma tale trasferimento facilita anche la costru­ zione di una gerarchia nell’autorità3 in cui un giudizio può essere soppiantato da un altro che può non avere un preciso parallelo con i segni corporali. Il che avviene sulla base di un principio che è assai piu metafisico, oltre che piu ambiguo, di qualsiasi princi­ pio su cui poggi l’ordalia, e cioè: la verità è nello stesso tempo l’autrice della parola e la parola autorizzata. Naturalmente non tutte le indagini sui crimini comportavano la tortura. Di fatto la normativa in proposito era piuttosto chiara: la tortura poteva es­ sere usata soltanto nei casi in cui la punizione del crimine era la morte o una mutilazione. E anche in tal caso, la tortura non po­ teva essere ordinata a meno che non ci fosse una chiara prova che era: stato effettivamente commesso un crimine. C’era però un’importante eccezione: l’eresia. Dal momento che il crimine di avere idee eretiche non poteva essere stabilito senza la confessione dell’accusato, diventava necessario acquisirne le pro­ ve, e di conseguenza si poteva, se era il caso, ricorrere alla tortura, prima di stabilire l’esistenza del crimine. Poiché il crimine stesso era deliberatamente celato, la caccia alla verità doveva servirsi di un proprio astuto gioco di segreti mortali e di salutari paure. Il contesto socio-politico della tortura giudiziaria

Il IV Concilio lateranense del 1215, che proscrisse l’ordalia, prescrisse anche per tutti i cristiani l’obbligo annuale della confes-

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sione privata. Fu sempre questo Concilio che promulgò i decreti che definivano l’impegno della Chiesa a combattere l’eresia e che imponevano alle autorità secolari il dovere di sterminarla. Poiché la confessione (sacramentale) s’era ormai confermata come la di­ sciplina universale per formare la coscienza veritiera, nessuna sor­ presa se a quel punto la confessione (giudiziaria) venisse ricono­ sciuta come la tecnica specifica per provare l’eresia. La Chiesa sa­ peva benissimo che la confessione non era un atto isolato, ma che era una speciale modalità di dialogo ispirata dal potere, un pro­ cesso unico che legava insieme Videa della pena fisica (qui o nell’al di là) con Io scambio di domande e risposte nel perseguimento della verità. L’estendersi e il prevalere della tortura nella procedura penale dal XIII secolo in poi sono chiaramente connessi con la rinnovata importanza del diritto romano e insieme col declino delle ordalie co­ me metodo di prova giudiziaria. La Chiesa, che contribuì all’affer­ marsi di queste tendenze, cercò naturalmente di gerarchizzare e centralizzare le autorità e le istituzioni giudiziarie (come del resto fecero e con successo anche le monarchie) di fronte all’opposizione degli interessi feudali, — ecclesiastici e secolari — localizzati e basati sulla consuetudine. A questo punto potremmo chiederci in quali modi il sistema in­ quisitorio fini per prender piede nella procedura giudiziaria, dato che s’adeguava cosi bene allo sviluppo delle istituzioni politico­ giuridiche e alle condizioni socio-economiche dell’alto medioevo. La crescita delle classi commerciali richiedeva una forma di diritto « universale », standardizzato, « razionale », e tale esigenza si con­ ciliava con le ambizioni politiche di papi e monarchi. Perché? [cfr. Tigar e Levy, 1977] Perché i duelli erano anarchici e le ordalie imprevedibili, mentre il sistema inquisitorio permetteva un esercizio piu persistente, più pervasivo del controllo centralizzato, come mai avevano potuto fare le vecchie procedure. La tortura può essere così vista come la brutale estensione e intensificazione di questo potere dominante e razionalizza tore. In quest’ottica po­ tremmo esaminare le condizioni ideologiche e politiche che facili­ tarono o frenarono l’impiego della tortura giudiziaria nella proce­ dura penale del medioevo. Ma qui voglio invece seguire una linea di ricerca assai diversa: individuare cioè le principali fasi della storia religiosa della peni­ tenza in cui l’interesse per la verità, la sofferenza fisica e la con­

63 fessione (proprio quegli elementi d’importanza fondamentale nella pratica della tortura giudiziaria) fini per esaurirsi. Nel corso di questa indagine ci staccheremo dalla storia ben nota dello svi­ luppo degli apparati coercitivi dello Stato per concentrarci su qual­ cosa che è piu difficile da rintracciare: le mutevoli forme delle pratiche disciplinari nella cultura latino-cristiana che portarono in luce modelli caratteristici di potenzialità (morale, politica, intel­ lettuale) .

La penitenza e la Chiesa primitiva

A prima vista potrebbe sembrare che la confessione sacramen­ tale, che è volontaria e spirituale, sia del tutto diversa dalla con­ fessione strappata a forza da un soggetto sotto tortura. C’è, natu­ ralmente, una grande differenza tra i due tipi di confessione, spe­ cialmente per noi moderni. Ma forse l’idea che l’una è volontaria e l’altra forzata non è la maniera migliore per cogliere tale diffe­ renza. Dopo tutto entrambi i tipi di confessione, come pure i modi di provare la verità e le tecniche per affrontare i pericoli della tra­ sgressione, sono messi in moto e regolati dalT^a/ontó. Nell’istituzione cristiana della penitenza, la pena fisica e la ri­ cerca della verità sono state strettamente collegate l’una all’altra fin dai primi secoli, anche se non sempre nella stessa maniera. Cer­ cheremo qui di individuare queste connessioni distinguendole in tre stadi: primo, la maniera in cui il corpo della Chiesa escludeva e riammetteva coloro che avevano commesso trasgressioni obbli­ gandoli a una serie di disagi e privazioni fisiche, ed esigendo poi una confessione per paura di pene nella vita dopo la morte; se­ condo, e parallelo a questo esercizio del potere all’interno della comunità secolare, le pratiche della disciplina ascetica caratteristi­ che della comunità religiosa (il monastero), in cui le manière di osservare e di mettere alla prova le inclinazioni del corpo erano si­ stematicamente sviluppate attraverso l’assoggettamento dell’indi­ viduo all’autorità divina di cui erano investiti la Regola della co­ munità e l’abate; terzo, una confluenza e un aggiustamento nel XII e XIII secolo di queste due tradizioni in cui il discorso ver­ bale diventa gradualmente la modalità prevalente del potere e il mezzo attraverso cui si può realizzare la collaborazione tra domi­ natori e dominati.

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Fin dagli inizi della storia cristiana le comunità dei fedeli si trovarono di fronte al problema della disciplina religiosa, cioè alla necessità di occuparsi di quei loro fratelli che avevano trasgredito « la Verità ». Al trasgressore veniva imposto di confessare il suo peccato davanti alla congregazione riunita in assemblea, di implo­ rare umilmente le sue preghiere e la sua intercessione per potersi riconciliare con «la Verità ». Per le colpe minori commesse nella vita quotidiana (e chi non ne aveva?) era sufficiente questa pub­ blica confessione. Per peccati piu gravi, compresi quelli che provo­ cavano pubblico scandalo, veniva prescritto un periodo di esclu­ sione dalla congregazione (e anche dalla partecipazione alla comu­ nione sacramentale). Il peccatore era riammesso soltanto dopo che aveva compiuto severi riti di penitenza che si concludevano con la sua riconciliazione formale. Sia che i peccati fossero stati commessi in pubblico o in privato, la confessione della colpa, la penitenza e la riconciliazione dove­ vano avvenire pubblicamente, e ciascun atto era parte di un’unica sequenza di rituali, noti nel primissimo periodo con la parola greca di « esomologesi ». I riti della riconciliazione, che erano si­ mili a quelli imposti ai convertiti che chiedevano il battesimo, se­ gnavano la graduale reintegrazione del peccatore nella Chiesa, la sua riconciliazione con la Verità. E, come il battesimo, il rito della riconciliazione poteva essere celebrato una volta soltanto nella vita di un peccatore e non veniva celebrato prima che il peccatore aves­ se fatto la sua penitenza. La sofferenza fisica e il disagio che la penitenza imponeva precedevano o comunque accompagnavano la riconciliazione (cioè il ristabilimento della Verità e della Giusti­ zia). Il che è in netto contrasto con la moderna pratica, stabilita nel tardo medioevo, secondo cui la penitenza (che non prevedeva piu la sofferenza fisica come suo elemento essenziale) segue l’as­ soluzione. Gli storici parlano in genere di un declino della penitenza pub­ blica nei primi secoli, attribuendolo alla sua severità e non-ripetibilità, che pare inducesse i peccatori a rimandare la confessione e la riconciliazione fin sul letto di morte. Ma quale che sia la ra­ gione del declino della penitenza pubblica nei vecchi centri del cristianesimo europeo, le cose erano assai diverse tra le tribù cel­ tiche e germaniche del nord-ovest dove andò gradualmente conso­ lidandosi a partire dalla fine del VI secolo un nuovo sistema di confessione privata, basato sui Penitenziali. I Penitenziali erano

65 dei manuali, nati nei monasteri celtici, che classificavano i peccati specificando, spesso molto dettagliatamente, la penitènza che an­ dava applicata in ciascun caso. -(C’era qualcosa di molto meccanico nella determinazione della penitenza tanto da ricordare in certo modo l’ordalia.) Questi peccati comprendevano trasgressioni che nei secoli successivi sarebbero state chiamate crimini civili diven­ tando cosi di competenza dei tribunali laici. Gli storici hanno par­ lato spesso dei Penitenziali come di una specie di strumenti con la funzione sociale di « civilizzare una popolazione barbara e senza regole» [cfr. Oakley, 1923 e 1932]. Tuttavia, a parte l’aspetto teleologico di questa sommaria tesi sociologica, dobbiamo tener presente che la Chiesa era soprattutto interessata a fare dei cri­ stiani, non a governare dei barbari [cfr. Frantzen, 1983]. E non basta neppure dire che questo significava « educare » i convertiti ai princìpi della morale cristiana. Perché la maniera in cui i cri­ stiani venivano educati, e i Penitenziali giocavano in quest’opera un ruolo molto importante, esigeva la formazione di soggetti la cui moralità doveva essere costruita intorno alla nozione giuridica di « dovere » [cfr. Anscombe, 1958, p. 78], — le tabelle fisse delle penitenze prescritte, chiamate dagli storici « tariffe », sono un aspetto determinante di questo sistema. L’uso di questi manuali segna l’istituzionalizzazione di un nuovo metodo di disciplina penitenziale, e anche di un nuovo modo di guidare i confessori. Anzitutto, adesso era il prete del luogo e non soltanto il vescovo che poteva amministrare la penitenza. La con­ fessione era fatta in privato al sacerdote, e la penitenza da lui imposta (che comprendeva digiuno a pane e acqua, flagellazione e penose veglie) era di solito qualcosa di assai meno duro di quanto prevedesse la vecchia penitenza pubblica. E, infine, il rito della riconciliazione (o « assoluzione ») era ripetibile, cioè ogni volta che il peccatore confessava i suoi peccati e si sottoponeva alla peni­ tenza prescritta, si trovava riconciliato. Nella prima parte del IX secolo, quando questi manuali diven­ tarono assai diffusi tra la popolazione laica, gli ordini ecclesiastici cominciarono a denunciarli. Secondo alcuni storici questo successe perché « il possesso di un penitenziale rendeva un prete relativa­ mente indipendente dal suo vescovo nell’amministrazione della pe­ nitenza », mentre altri sostengono che « ciò che i vescovi volevano non era la scomparsa di questi manuali, ma la loro ortodossia » [McNeill e Gamer, 1938, p. 27]. Comunque sia, quando questi

66 Penitenziali furono man mano abbandonati, l’autonomia del par­ roco come confessore non scomparve, ma fu mantenuta e anzi raf­ forzata all’interno del sistema della confessione privata annuale, sancita nel 1215 dalla Chiesa centralizzata. Nella lista dei peccati erano compresi anche i pensieri oltre che le azioni, anzi talvolta i pensieri erano trattati alla stregua delle azioni, venendo penalizzati nello stesso modo per periodi esatta­ mente definiti (tanti giorni o tanti anni); talaltra erano trattati come condizioni, come sintomi di un sé allo stato rudimentale, un sé il cui desiderio sessuale, la libido, oscura il suo dovere di cri­ stiano, e in tal caso questi pensieri erano penalizzati fintantoché durava quella condizione. Abbiamo qui un importante contrasto tra un atto peccaminoso (un peccato che, come nell’ordalia, richiedeva che la sofferenza della penitenza scolpisse direttamente sul corpo la verità sulla col­ pevolezza) e una condizione peccaminosa (che richiedeva una re­ lazione più complessa tra la sopportazione di sofferenze e disagi, l’espressione verbale della verità e l’emergere di una volontà che si contrapponesse ai desideri della carne). Ritornerò su questo punto quando discuterò d’un recente saggio di Foucault (Le com­ bat de la chastete) ma qui voglio soltanto sottolineare che la di­ stinzione tra atto peccaminoso e condizione peccaminosa presente nei Penitenziali non va però confusa con quella tra « condotta pec­ caminosa » e « pensieri peccaminosi ». La differenza è più simile a quella tra un evento (fisico o mentale) e una potenzialità (tem­ poranea o infinita). Un evento che costituisce una trasgressione richiede qualcosa per controbilanciare i suoi effetti dannosi; una potenzialità di trasgressione richiede che la possibilità d’azione del sé venga classificata e suddivisa in modo che possa essere ricono­ sciuta come pericolosa. Come condizione religiosa, tale potenzialità è dunque nel contempo storicamente definita e culturalmente co­ struita. Una delle principali giustificazioni per fare penitenza era che in tal modo il peccatore evitava una pena maggiore da scontare in purgatorio. Va sottolineato che la penitenza non era una semplice questione di una punizione imposta in maniera automatica, o di una repressione contro un individuo senza regole. Dopo tutto, nella maggioranza dei casi, la penitenza era imposta in seguito a una con­ fessione volontaria e privata. La penitenza era dunque il risultato di una scelta sulla condizione della propria anima, che presuppo­

67 neva che in un modo o nell’altro un individuo dovesse affrontare con fermezza la Verità. Se le pene del purgatorio erano piu dure, era soltanto perché egli aveva già respinto l’occasione di rimettere a posto in questo mondo, mediante la penitenza, la propria anima di peccatore nei confronti della Verità rinunciando cosi ai benefici spirituali dell’eucarestia, senza di cui, come tutti sanno, l’anima potrebbe completamente perire. Il punto importante era non la mi­ naccia da parte del prete di pene fisiche nell’aldilà (immaginato), ma la volontà del soggetto di ammettere la colpa, da cui dipen­ deva la sua sottomissione alla pena in questo mondo, come qual­ cosa di positivo. L’ammissione della colpa da parte del penitente al confessore era il riconoscimento della verità su se stesso, e nel contempo la presentazione di sé come di un’anima malata, biso­ gnosa d’aiuto. Era questa attività collaborativa che sosteneva il rapporto di autorità tra sacerdote e penitente. Il concetto di penitenza come medicina dell’anima non era una fantasiosa metafora, ma un modo di organizzare la pratica della penitenza in cui la sofferenza fisica era connessa al perseguimento della Verità — letterale e metafisica insieme. Bisognava infatti che il penitente riferisse al medico la verità sulla sua condizione, per­ ché il medico elaborasse una corretta diagnosi della malattia e pre­ scrivesse cosi una cura adeguata. Ma bisognava soprattutto che il paziente riconoscesse davanti a se stesso, oltre che al medico, la verità la cui negazione è in parte la condizione stessa di quella malattia. Solo che per il cristiano la condizione dell’uomo è un’eter­ na malattia, proprio perché egli non riesce ad ammettere l’intera verità, e di conseguenza non ci potrà mai essere una completa gua­ rigione in questo mondo, ma solo un continuo processo di cura dei sintomi. Proprio questo bisogno di lotta incessante contro la per­ manente potenzialità di trasgressione è ciò che determina il carat­ tere fondamentale dell’ascetismo cristiano. La metafora della medicina, in cui le nozioni di salute e di ve­ rità erano congiuntamente opposte a quelle di malattia e di errore, ha bisogno anch’essa di una spiegazione. Rimane infatti da rispon­ dere a quale sia la funzione delle pene corporali nella malattia spi­ rituale. Perché nel procedimento per raggiungere la verità il corpo veniva sottoposto a tortura? Ci sono almeno due nozioni che sembrano essere impiegate qui nella disciplina della penitenza: primo, in relazione al « purgato­ rio », c’è il concetto di pena fisica come punizione che dà la misura

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della trasgressione, e che sostituisce dunque un castigo maggiore nell’altra vita e riconcilia il peccatore con la Giustizia divina; se­ condo, in relazione alla metafora della medicina, la pena è conce­ pita come una purificazione, come il salutare effetto della cura per restituire al peccatore (che si trova in una condizione pericolosa) la salute spirituale. Le due nozioni si possono collegare attraverso la nozione di purgazione, ma è nel secondo contesto che la necessità di esprimere in parole la verità su se stesso viene piu chiaramente in luce. Ed è quindi questo secondo procedimento che rende pos­ sibile l’accumulazione di tipi specifici di informazione, la messa in pratica di certe tecniche basate sulla conoscenza, l’esercizio di forme distintive di autorità (del giudice, del medico, del prete), e le tipiche giustificazioni per applicare — o minacciare — pene fisiche in presenza della colpa, la malattia, l’errore. Ma prima di poter tentare una risposta al quesito testé posto sulla funzione delle pene corporali nella malattia spirituale dob­ biamo esaminare piu da vicino la tradizione cristiana che s’incar­ nava nella vita disciplinata delle comunità monastiche.

L’ascetismo monastico Gli storici della Chiesa occidentale parlano del periodo che va dalla fine del VI secolo circa agli inizi del XII come dei « secoli benedettini », durante i quali l’« unico tipo di vita religiosa possi­ bile era quella monastica, e l’unico codice monastico era la Regola di San Benedetto » [Knowles, 1950, p. 3]. La vita religiosa erg allora basata su una disciplina ascetica i cui principi fondamentali erano stati posti dai primi Padri della Chiesa. Uno storico della patristica li riassume cosi: « La vita cristiana è una battaglia con­ tro se stessi, e le armi sono quelle che procurano pena al corpo e lo costringono a mostrare i segni della pratica della virtù ». Origene, l’« antesignano del monacheSimo cristiano » come lo chiama Strathmann, fu uno dei primi, almeno stando alle fonti letterarie, a praticare questa austerità esteriore [Musurillo, 1956, p. 51]. Origene fu probabilmente uno dei primi Padri della Chiesa a pra­ ticare la punizione corporale, ma ciò che a noi qui interessa è soltanto il fatto che tale tipo di punizione costituiva un tratto fon­ damentale della disciplina monastica nel medioevo, e che i suoi principi erano ispirati dagli scritti dei primi Padri greci e latini,

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regolarmente studiati nelle comunità monastiche. Il corpo deve es­ sere punito, apprendiamo, perché rappresenta un ostacolo al rag­ giungimento della perfetta Verità. « Quando noi commettiamo pec­ cato, facciamo, per così dire, dei segni su una tavoletta di cera e questi segni diventano più profondi con la ripetizione; l’unico modo per cancellare tali segni è praticare la penitenza » [ibidem, p. 54]. I segni del peccato sono fatti sull’anima e sul corpo. Sono questi segni che la penitenza cancella, scrivendo al loro posto i segni della verità in un rituale di costante ripetizione. Questo, secondo la teoria, è un « significato » delle pratiche ascetiche. Ma dobbiamo cercare di andar oltre il principio dei significati, ed esaminare nei limiti del possibile il complicato processo di sog­ gezione perseguito dall’ascetismo cristiano, e la collaborazione da cui dipendeva. La più imponente analisi dell’ascetismo monastico è senza dub­ bio quella fornitaci recentemente da Foucault [1982] in una di­ scussione dei testi di Cassiano (360-435 circa) il De institutis coenobiorum e le Collationes, la cui lettura veniva imposta nei monasteri medievali. Secondo Foucault l’importanza di questi due testi consiste nell’esposizione articolata di una tecnologia del sé che svolge un ruolo di primo piano in una produzione tutta par­ ticolare della verità. La categorizzazione degli otto vizi operata da Cassiano fu accolta e rielaborata nel discorso religioso del me­ dioevo ;(e ne risultarono alla fine i Sette peccati capitali), e con essa fu accolta ed elaborata l’idea della loro connessione differen­ ziata. Foucault rileva che di tutti i vizi la fornicazione (lussuria) si distingue dagli altri perché si basa su un impulso naturale, fi­ sico e innato (in questo come la gola); ciò nonostante essa va completamente eliminata (in questo senso si tratta di un vizio di­ verso dalla gola, perché il bisogno di cibo non va mai totalmente negato). Questa è la ragione per cui tale vizio è tanto difficile da vincere. Ma la vittoria sulla fornicazione è importante proprio per­ ché permette al cristiano di vivere nel suo corpo liberandosi dalle inclinazioni della carne in una sola maniera possibile. Questa vit­ toria si colloca dunque al centro della pratica ascetica. L’essenza della lotta di Cassiano per la castità, insiste Foucault, non ha nulla a che vedere con l’atto sessuale, e ancor meno con Ì rapporti sessuali fra due persone. Riferendosi al resoconto di Cas­ siano sulle sei tappe che segnano il progresso verso la castità, egli scrive:

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« In questa descrizione dei differenti tratti dello spirito di forni­ cazione, che si affievoliscono man mano che progredisce la castità, non c’è dunque nessuna relazione con un altro, nessun atto, e neppure l’intenzione di commetterne. Nessuna fornicazione nel senso stretto del termine. Da questo microcosmo di solitudine sono assenti i due maggiori elementi intorno a cui ruotava l’etica ses­ suale non solo dei filosofi antichi, ma di un cristiano come Cle­ mente Alessandrino — almeno nella II Lettera del Pedagogo: il congiungimento di due individui \sunousid} e i piaceri dell’atto (apbrodisia). Gli elementi in gioco sono i movimenti del corpo e quelli dell’anima, le immagini, le percezioni, i ricordi, le figure del sogno, il corso spontaneo del pensiero, il consenso della vo­ lontà, la veglia e il sonno. E due poli vi si disegnano che, giova dirlo, non coincidono con il corpo e con l’anima: il polo involon­ tario, quello sia dei movimenti fisici sia delle percezioni, che sono ispirati da ricordi e immagini che sopraggiungono e che, propa­ gandosi nella mente, investono, richiamano e attraggono la vo­ lontà stessa che accetta o respinge, si ritrae o si lascia catturare, indugia, acconsente. Da un lato, dunque, un meccanismo del corpo e del pensiero che, circuendo l’anima, si carica d’impurità e può condurre fino alla polluzione; dall’altro, un gioco, del pensiero con se stesso» [Foucault, 1982, pp. 19-20]. Foucault conclude dicendo che la battaglia per la castità in Cassiano, con le pratiche, le valutazioni, gli obiettivi che ne sono parte integrante, non ha nulla a che vedere con la interiorizzazione di proibizioni relative ad atti e intenzioni particolari. Piuttosto « si tratta della scoperta di un nuovo dominio (la cui importanza è già stata sottolineata in testi come quelli di Gregorio di Nissa e spe­ cialmente di Basilio d’Ancira), un dominio del pensiero, con il suo corso irregolare e spontaneo, con le sue immagini, i suoi ri­ cordi, le sue percezioni, con i movimenti e le impressioni che si trasmettono dal corpo all’anima e dall’anima al corpo. Quel che allora è in gioco non è un codice di atti permessi o proibiti, è tutta una tecnica per analizzare e diagnosticare il pensiero, le sue ori­ gini, le sue qualità, i suoi pericoli, i suoi poteri di seduzione e tutte le forze oscure che si possono nascondere sotto l’aspetto che presenta. E sebbene l’obiettivo finale sia, naturalmente, di espel­ lere tutto quel che è impuro o che conduce all’impurità, questo obiettivo può essere raggiunto soltanto con una vigilanza che mai s’allenta, con un sospetto che uno deve portarsi dietro, dapper-

71 tutto e sempre, contro se stesso. Bisogna sempre interrogarsi in maniera da stanare ogni accenno di segreta « fornicazione » che si nasconda nelle pieghe più profonde dell’anima. « In questa ascesa alla castità si può riconoscere un processo di “soggettivazione” che relega a distanza un’etica sessuale che s’in­ centra su un’economia degli atti. Ma è anche necessario sottolineare due cose. Questa soggettivazione è inseparabile da un processo di conoscenza che trasforma l’obbligo di ricercare e dire la verità su se stesso in una condizione indispensabile e permanente di quel­ l’etica. Se c’è soggettivazione, c’è di conseguenza una oggettiva­ zione indefinita del sé ad opera del sé — indefinita nel senso che, non essendo mai acquisita una volta per tutte, non ha termine nel tempo; e nel senso che si deve sempre spingere il più lontano pos­ sibile l’indagine dei movimenti del pensiero, per quanto tenui ed innocenti possano apparire. Inoltre, questa soggettivazione sot­ to forma di ricerca della verità su se stessi si effettua attraverso complessi rapporti con gli altri. E in molteplici maniere: perché si tratta di stanare da sé la potenza dell’Altro, del Nemico, che vi si nasconde sotto l’apparenza di se stesso; perché si tratta di con­ durre contro quest’Altro una lotta incessante, che non si può vin­ cere senza l’aiuto dell’onnipotente, che è più potente di lui; per­ ché, infine, la confessione agli altri, la sottomissione ai loro con­ sigli, la costante obbedienza ai direttori, sono indispensabili per questa battaglia » [ibidem, p. 23]. Se l’analisi di Foucault è giusta, allora la pena inflitta al corpo può esser vista come parte cruciale della tecnologia monastica del sé — non semplicemente perché il corpo andava disprezzato, e certamente non perché andava ucciso '(sebbene l’imitazione della Passione di Cristo fosse storicamente un motivo potente che spin­ geva il cristiano alla ricerca di significati nella sua automortifica­ zione). La sofferenza era necessaria perché l’involontaria connes­ sione del sé con le sensazioni, i sentimenti e i desideri richiedeva un costante, duro lavoro di indagine e di prova del corpo, a meno che non si volesse tradire l’anima. In risposta alla nostra precedente domanda possiamo provare a dire che il corpo non era semplicemente un ostacolo alla verità, come riferiva Musurillo, ma era anzitutto un’ratf in cui poteva esser portata alla luce la verità sulla potenzialità del sé alla trasgressione, si da poter essere illuminata da una Verità me­ tafisica; un processo, questo, in cui sofferenza e disagio erano

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mezzi indispensabili. Foucault ci fa capire che non è il tradizionale simbolismo attribuito alla sofferenza ascetica cui dobbiamo guar­ dare (« punire » e « mortificare » il corpo), ma il posto che la pena, la sofferenza fisica occupa in un’economia della verità. L’analisi di Foucault della lotta per la castità, di cui ho dato soltanto rapidi cenni, è notevolmente ricca e (posso dirlo?) illu­ minante. C’è tuttavia un fatto importante che viene trascurato — o almeno non sufficientemente evidenziato —. Per il monaco cristiano l’umiltà (la virtu che è l’esatto contrario del peccato d’or­ goglio) era uno dei mezzi principali per il progresso spirituale. Cosi si esprime la Regola di San Benedetto, nel famoso capitolo sull’umiltà: « Noi diciamo che i lati di questa scala [che conduce verso il Signore] sono il corpo e l’anima nostra, fra i quali la divina vo­ cazione inserì, per ascenderli, diversi gradini di umiltà e di di­ sciplina. [...] Il primo grado pertanto dell’umiltà consiste nel por­ si sempre innanzi agli occhi il timore di Dio, evitare di dimenti­ care mai i comandi di Dio, esserne sempre memori •[...]. Il se­ condo grado di umiltà è quello di colui che disdegnando la pro­ pria volontà e rifuggendo dal compiacersi nel soddisfacimento dei propri desideri, traduca con le azioni la parola del Signore '[...]. Il terzo grado di umiltà è quello di colui che per amore di Dio si sottopone in attitudine di perfetta obbedienza al superiore, imi­ tando il Signore [...]. Il quarto grado di umiltà è quello di chi nella stessa ubbidienza, nelle più dure contrarietà, o anche per qualsiasi oltraggio inflittogli, silenzioso nell’intimo della sua co­ scienza abbraccia la pazienza •[...]. Il quinto grado di umiltà è di colui che non nasconde al proprio abate tutte le perverse idee che gli traversano il cuore e tutte le male fatte commesse in se­ greto, ma le denunzia in contrita confessione Il sesto grado di umiltà è quello del monaco soddisfatto di ogni più umile man­ sione e di ogni più oneroso incarico, che ad ogni comando rice­ vuto dice a se stesso col Profeta “Ridotto a nulla non me ne ac­ corsi; diventando quasi un giumento al tuo cospetto, mi sentii sempre astretto a te”. Il settimo grado di umiltà è quello di chi non solamente a parole si proclami il più basso ed indegno di tutti, ma creda effettivamente nell’intimo di esserlo [...]. L’ottavo grado di umiltà è quello del monaco il quale non fa nulla ah di fuori di quel che è raccomandato dalla comune regola del cenobio e dagli esempi dei maggiori [...]. Il nono grado di umiltà è quello del

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monaco che tien serrata la lingua al parlare e non rompe il silen­ zio finché non sia interrogato [...]. Il decimo grado di umiltà è quello del monaco che non sia facile e pronto al riso [...]. L’undi­ cesimo grado di umiltà è quello del monaco il quale parla dolce­ mente e senza ridere, umilmente e con gravità, con laconicità piena di senno, senza mai gridare [...]. Il duodecimo grado di umiltà è quello del monaco il quale tradisce a quelli che lo veggono l’umiltà che ha nel cuore anche con l’atteggiamento esteriore » [Meisel e Del Mastro, 1975]. Risulta chiaro che la maggior parte di questi passi sul cammino dell’umiltà è caratterizzata da successi identificabili soltanto nei, e attraverso i, rapporti con gli altri. La mia tesi è dunque che men­ tre Foucault sembra concentrare la sua attenzione interamente su un «microcosmo di solitudine », questi famosi «gradi dell’umil­ tà » sono meticolosamente inseriti in una rete di rapporti sociali, rapporti che rappresentano non soltanto un ambiente, ma costitui­ scono un mezzo. Nella forma predominante del monacheSimo me­ dievale (cenobitico che è l’opposto dell’eremitico) la tecnologia del sé, che sta al centro della battaglia per la castità, è di per sé dipen­ dente dalle risorse istituzionali di una vita comunitaria organiz­ zata, L’indagine e il disimpegno della volontà che Foucault illustra tanto brillantemente, avvengono entro il contesto concreto della vita monastica sotto la guida dell’abate. È vero che Foucault stesso menziona alla fine « la forma di una ricerca della verità sul sé [che] si effettua attraverso complesse relazioni con gli altri », ma egli non spiega chiaramente se, a suo avviso, si tratti di un fatto necessario o di un fatto meramente contingente e, se è necessario, non spiega perché sarebbe tale. Sebbene la battaglia per la castità al cui centro si colloca la tecnologia del sé, abbia un posto unico nell’ideale ascetico cri­ stiano, essa non è disgiunta dalle altre battaglie per la virtù, e specialmente per l’obbedienza. (Le tre grandi rinunce dei « con­ sigli evangelici », i tre voti che i monaci facevano, erano, giova ri­ cordarlo, Povertà, Obbedienza e Castità /[cfr. Butler, 1924, p. 30]. Era attraverso l’obbedienza che l’asceta poteva essere educato all’umiltà, e sperare così di tenere a bada il più pericoloso di tutti i peccati, l’orgoglio. Era attraverso l’umiltà che egli poteva impa­ rare ad amare Dio e quindi sostituire i desideri della carne con il desidèrio di Dio. Ma l’obbedienza si poteva impararla soltanto in una comunità organizzata, soggetta all’autorità e alla sorveglianza

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di un abate — la Regola di san Benedetto parla della comunità monastica come di una scuola « per il servizio di Dio », — nella quale il neofita poteva imparare a praticare la tecnologia del sé ai fini della propria perfezione spirituale e a maggiore gloria di Dio. Naturalmente ci furono sempre asceti che vissero da soli. Ma è significativo che la Regola ne identifichi soltanto un tipo che ap­ prova, gli eremiti, « coloro i quali non in virtu del primo fervore della conversione, bensì in virtù di un diuturno tirocinio nel mo­ nastero appresero con l’aiuto di molti a combattere contro il dia­ volo e, perfettamente ammaestrati ed agguerriti nelle schiere dei fratelli, son capaci ormai di procedere e di cimentarsi nella sin­ golare tenzone dell’eremo, pari alla lotta contro le sregolatezze della carne e del pensiero, con l’aiuto di Dio [...] senza il soc­ corso confortante di alcuno» [ibidem, p. 93]. I rapporti tra i monaci che definiscono i doveri di ciascuno e la maniera in cui tali doveri vanno espletati, sono dunque intrin­ seci allo sviluppo della tecnologia ascetica del sé, e di conseguenza alla sua accuratezza ed efficacia. Da questa condizione ne conse­ gue un’altra di grande importanza: il corpo che Foucault indica come l’arena per una continua, faticosa opera d’ispezione e di pro­ va può ora esser visto come il corpo monastico nel suo complesso. In quest’arena non c’è piu un singolo punto di sorveglianza da cui il sé esamina se stesso, ma un’intera rete di funzioni attraverso cui si può svolgere il lavoro di vigilanza, di prova, d’apprendimento e d’insegnamento: quell’ordinata sequenza di attività (compiti pro­ fani e servizi sacri) nell’ambito di una gerarchia e di ruoli formali (abate, priore, monaci a pieno titolo, novizi ecc., coristi, obedienziari; il rango individuale di ciascun fratello ecc.). Sebbene l’osservazione reciproca fosse un dovere di tutti, era cosa troppo importante per essere lasciata nella forma di un’in­ giunzione generica. Coloro cui veniva affidata la primaria respon­ sabilità di osservare erano scelti tra quelli che dovevano, a loro volta, essere particolarmente osservati e imitati. Il corpo mona­ stico osservava e metteva alla prova se stesso, e i suoi membri imparavano, non senza soffrire, l’obbedienza che formava la vo­ lontà disciplinata di ciascuno come volontà non del sé ma del Si­ gnore. Non che la comunità religiosa reprimesse il sé, al contràrio forniva le regole necessarie alla costruzione di un certo tipo di personalità: il sé peccaminoso che vive con « la comunità di co­ loro che stanno con lui come peccatori davanti a Dio » [Dorries,

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1962, p. 292]. La pratica di esporre la propria colpa a qualcuno più abile nell’affrontare la trasgressione di chi l’ha commessa era una parte importante di questa costruzione. E Poccasione formale per un’operazione del genere si presentava nell’assemblea quoti­ diana nota come il Capitolo, nella quale, dopo la recita di un passo della Regola di san Benedetto, o del Vangelo, i monaci impara­ vano a confessare con la dovuta umiltà la verità e a sottoporsi alla penitenza (fustigazione). Il « microcosmo della solitudine » di Foucault era fin dal suo inizio un microcosmo della soggezione sociale ; la solitaria ricerca di se stesso era ancora di là da venire. Il corpo dell’individuo en­ tro cui erano rinchiuse le sue sensazioni e i suoi desideri non era ancora la misura della verità. Né « la reale verità » sul sé scatu­ riva dagli spasimi del desiderio fisico, come sarebbe successo più tardi. Il vero sé del monaco benedettino era opera costante di una comunità strutturata.

La penitenza moderna come metodo inquisitorio Se nelle discipline monastiche la confessione e la penitenza fi­ guravano come elementi fondamentali, fuori dai monasteri, nel pri­ mo medioevo, le cose stavano ben diversamente. È vero che i Pe­ nitenziali avevano diffuso tra la popolazione laica la pratica della penitenza privata, ma questa pratica non fu mai obbligatoria, e tanto meno regolare, fintantoché il concilio lateranense del 1215 non decretò che diventasse tale. In precedenza il penitente laico confessava i suoi peccati segreti soltanto quando ne sentiva il bi­ sogno. Una recente storia della confessione medievale così de­ scrive l’emergere del moderno sistema della penitenza privata: « Tra il IX e il XIII secolo quattro mutamenti avvennero nella teologia e nella pratica di questo sacramento: 1) le pene diventa­ rono più lievi e assunsero un carattere discrezionale; 2) la con­ trizione diventò l’elemento essenziale per il penitente e relegò gli esercizi penitenziali in posizione subalterna; 3) la confessione pri­ vata, già accettata come parte necessaria per il perdono dei pec­ cati, fu dichiarata universalmente obbligatoria dal IV Concilio lateranense del 1215; 4) il significato del ruolo del sacerdote fu più accuratamente definito e la sua importanza nel processo del perdono acquistò maggior peso» [Tender, 1977, p. 16].

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Contemporanei come Graziano, Alano di Lilla e Roberto di Flamborough misero in rilievo il declino della severità delle pene nel XII secolo e lo attribuirono alla progressiva avversione della gente a sottoporsi alle dolorose penitenze del passato. Non è tut­ tavia del tutto chiaro se la volontà di sopportare delle pene per la causa della verità stesse in generale diminuendo: dall’XI secolo fino a tutto il tardo medioevo ci furono numerose ondate di rinno­ vamento ascetico che prevedevano l’autotortùra. Ancor meno mar­ cato era il declino della volontà di infliggere pene agli altri per amore della verità: tutto sommato, fu proprio questo il periodo in cui la tortura giudiziaria diventò pratica corrente nei tribunali sia ecclesiastici che laici. Il problema è ben diverso; si tratta di vedere la maturazione di un nuovo rituale per la produzione della verità in cui Vinterrogatorio gioca il ruolo centrale, in cui la ve­ rità sulla colpevolezza non si iscrive piu sul corpo, ma viene estorta dal corpo e investita in esso, sotto forma di parole e gesti disci­ plinati. In effetti il nuovo sistema di penitenza estendeva la tecnologia del sé, che Foucault descrive, dai centri monastici {con i loro corpi prigionieri) alla popolazione nel suo complesso, e specialmente alla popolazione mobile, in espansione, delle città dove l’irreligione e l’eresia sembravano entrambe fiorire. Scrivendo di questi secoli di sviluppo, uno storico della Chiesa medievale nota come, «la Chiesa organizzata del medioevo aveva, per la verità, finora scar­ samente considerato il problema della società urbana. Nonostante tutte le. calamità naturali e la disgregazione che affliggevano la campagna, era possibile trattare la comunità rurale come una massa inerte e stabile, suscettibile di organizzazione e di controllo. Ma che. fare delle città, anarchiche, impegnate in attività che il diritto canonico difficilmente poteva approvare del tutto diverse nello stile di vita dalla comunità rurale? » ([Southern, 1970, pp. 274275]. Sarebbero stati i nuovi ordini mendicanti, francescani e do­ menicani, di recente costituzione {entrambi direttamente soggetti all’autorità papale centrale) a farsi carico dell’espansione della disciplina della Chiesa tra queste popolazioni urbane. Per questo compito, ciò di cui piu avevano bisogno era la capacità di predi­ care e di sostenere dispute; e furono esattamente queste le doti che essi acquisirono nelle nuove università attraverso lo studio della teologia e della logica.

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Nel nuovo sistema di confessione (in cui i frati avrebbero svolto il ruolo di gran lunga più importante amministrandone la pràtica e sviluppandone la teoria) ai laici viene chiesto d’imparare non soltanto a dire la verità nel proprio intimo, specie quando la ve­ rità è più difficile da esprimere in termini chiari, più penosa da portare alla luce. Ai laici viene chiesto di imparare anche a inter­ rogarsi, ascoltarsi e identificare la verità; un’impresa molto ardua da compiere da soli rispetto al proprio sé, se non si è passata un’intera vita di disciplina. (Il demonio nasconde assai facilmente la verità.) L’interrogante deve dunque essere un altro, qualcuno aduso a fare pressioni, conosca o no il penitente. Egli deve im­ parare a dire, nelle parole di un anonimo trattato del XII se­ colo: « Confessa ciò che hai fatto, come l’hai fatto, quando l’hai fatto, in che misura l’hai fatto, e chi sei tu che l’hai fatto; e chi e che tipo di persona è colui con cui l’hai fatto: o se fosse imper­ sonale, che cos’è. Se vuoi salvarti confessa tutte queste circostan­ ze con il numero delle occasioni, la misura della gratificazione e l’indicazione dell’età» [cit. in Watkins, 1920, p. 746]. La sof­ ferenza spirituale che accompagna l’indagine è in genere J1 sin­ tomo che il penitente ha ammesso l’intera verità del suo peccato e che è adeguatamente contrito. E la contrizione era la condizione preliminare ed essenziale per l’assoluzione. Al contrario, l’ostinata resistenza ad ammettere la colpa, che è coscientemente nascosta nel proprio intimo può talvolta (come nell’eresia) imporre il ricorso alla sofferenza fisica. Si può dire che l’applicazione di pene corpo­ rali è un’efficace strategia per assicurarsi la verità solo quando l’individuo che vi è sottoposto sia nel contempo prigioniero e restio a parlare. Se un’intera popolazione (e non semplicemente quelli tenuti prigionieri) fosse ora addestrata a confessare regolar­ mente le sue colpe, la tortura fisica non sarebbe né praticabile né necessaria. La forma e i mezzi di questa dolorosa procedura do­ vrebbero essere essenzialmente verbali. Nel tardo medioevo fiori una vasta letteratura per istruire il confessore nel suo delicato e difficile compito: come interrogare, come ascoltare, e come identificare la colpa che era indicata (o letteralmente creata) dalle parole del penitente. Il decreto del 1215, insieme con le varie consuetudini e norme locali che l’ave­ vano preceduto, richiedeva al cristiano il compimento di un atto ben definito. Per rendere tale atto possibile il sacerdote doveva

78 possedere alcune capacità pratiche e teoriche che erano del tutto indipendenti dalle sue personali doti morali: doveva sapere come accogliere il penitente e stabilire con lui un solido rapporto, com­ pletamente diverso dal superficiale contatto d’un incontro casuale; doveva sapere come aiutare il penitente ad esaminare la sua co­ scienza al fine di determinare le colpe che aveva commesse e il loro grado di gravità in relazione non soltanto all’atto colpevole in se stesso ma anche all’indole del penitente e alle circostanze attenuanti o aggravanti. Oltre a possedere tutte queste capacità necessarie per valutare l’esatta situazione, il confessore deve sa­ pere come suggerire i modi per evitare in futuro altre colpe, e come imporre la penitenza appropriata sulla base del numero di colpe e della loro gravità [cfr. Michaud-Quantin, 1962, p. 8]. Chiaramente le capacità necessarie in questo caso erano assai di­ verse da quelle che bisognava avere per amministrare le « tariffe » penitenziali — se mai si può dire che quest’ultimo compito richie­ desse qualche particolare capacità oltre quella di saper leggere. Il nuovo sistema dipendeva dunque da speciali forme d’addestra­ mento del confessore e da un corpo di speciali conoscenze colti­ vate da teologi, logici e grammatici. La tipica letteratura prodotta in connessione con le nuove esigenze nel corso del medioevo era dunque fondamentale per il sistema della confessione e per l’eser­ cizio del potere che ne derivava. In un memorabile passo Lea osserva che « tutte le possibili deviazioni dalla retta via in ogni sfera dell’attività umana erano studiate, valutate e catalogate e definite con una minuzia che mai era stata prima tentata dai mo­ ralisti, mentre ponderosi libri furono compilati per offrire al sacer­ dote il necessario aiuto nella sua opera di investigatore. I Dieci comandamenti, i sette peccati capitali, i cinque sensi, i dodici arti­ coli di fede, i sette sacramenti, le sette opere di misericordia tem­ porali, le sette spirituali, erano rovistati alla ricerca di materiale d’indagine, e successivamente tutte le categorie di persone, tutte le loro vocazioni, erano passate in rassegna, mentre si elaboravano liste di domande pertinenti alle loro molteplici tentazioni e abi­ tuali trasgressioni» [Lea, 1896, p. 371]. Questa dissertazione sui peccati serviva a esaminare e nel con­ tempo aiutava a definire e formare tipi specifici di coscienza cri­ stiana. I peccati non erano semplicemente vizi in generale (or­ goglio, fornicazione, ecc.), ma tipi di pensiero, di discorso, di azio­ ne ancorati a particolari status socially e con la loro negatività in­

79 dicavano le virtu di altri status sociali. « Bisogna indagare sui pec­ cati tipici degli uomini della condizione sociale del penitente. Non si deve interrogare un cavaliere sui peccati di un monaco o vice­ versa [...]. Per acquisire una migliore conoscenza di chi dovete interrogare su che cosa, tenete presente che i principi vanno inter­ rogati sulla giustiziaci cavalieri sui saccheggi, i mercanti, gli offi­ ciali, gli artigiani e i lavoranti sullo spergiuro, la frode, la men­ zogna, il furto, ecc. » [Summa Astesana, 1317 circa, cit. in Le Goff, 1980, p. 149]. La formazione di una coscienza religiosa disciplinata venne cosi a trovarsi radicata nei privilegi e nelle responsabilità, nei diritti e nei doveri delle diverse classi sociali. Nel suo lavoro il confessore doveva essere vigile e attento, non solo rispetto alle verità oggettivate nella confessione del peni­ tente, ma anche rispetto a se stesso, per evitare il rischio che quelle parole di colpa che egli era costretto a provocare suscitas­ sero in lui sentimenti di piacere. Questo distacco dalle sensazioni era decisivo non tanto per il suo personale beneficio spirituale, come nel caso analizzato da Foucault, ma per il suo ruolo di inqui­ sitore e di giudice. (Dopo tutto, egli avrebbe a sua volta confes­ sato in seguito i suoi propri peccati al suo confessore, compresi quei pensieri impuri che aveva avuto occasione di ascoltare dai suoi penitenti — naturalmente, in maniera da non tradire il se­ greto della confessione.) La ragione prima dello stato di distacco che il confessore doveva coltivare non riguardava, dunque, mini­ mamente la sua perfezione spirituale; la ragione prima era che doveva essere il piu efficiente possibile nel perseguire, identificare e cogliere la verità che si nascondeva nelle pieghe più profonde del­ l’anima del peccatore. Questo meccanismo costruito socialmente sarebbe diventato una condizione essenziale per esplorare e colti­ vare « la reale verità ». sul soggetto — psicologico e politico. La storia del rituale della confessione ci indica, credo, una delle vie attraverso cui i cristiani — prete e laico, marito e moglie, maestro e allievo, confessore e penitente, giudice e accusato — so­ no stati alla fine « soggettificati » in determinate maniere. Come aspiranti a virtù distintive, il cui esercizio li lega l’uno all’altro attraverso reciproci doveri, tutti sono diventati soggetti (attivi e passivi insieme) del potere. Ma non tutti, naturalmente, nello stes­ so tempo o nella stessa maniera.

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Clara Gailini Il corpo e la sua immagine: forme del potere penale

Che il potere penale si eserciti sul corpo e assieme sulla sua immagine sociale è questione che, dopo Sorvegliare e punire, è stata poco tematizzata, se non da alcune voci provenienti dal carcere. Eppure, sempre più ineludibile diventa oggi un discorso su corpo e potere, in quanto persona e potere: persona in tutta la sua unità, nella sua identità di individuo sociale, che nessun sistema penale dovrebbe sopprimere. Dentro le mura, la persona si rivela capace di resistenza. Una resistenza che parte dal soggetto, proprio in quanto persona, e che si traduce ora nelle nuove — antropologicamente nuove — forme di bisogno di tenerezza, di innamoramento, di ironia, forse gli aspetti meno noti e più oscuri della peraltro oscura vita del carcere. Resistenza che si fa cominciando dal cercar di vivere mangiando, la­ vandosi, pettinandosi, vestendosi e magari profumandosi. Resisten­ za che si fa scrivendo — Lombroso la chiamava « grafomania » e la attribuiva a tara degenerativa — con una riconversione del parlare allo scrivere che è faticosissimo tentativo di comunicazione. Resi­ stenza-trasgressione di donne che decidono di fare un figlio in car­ cere, assumendosi tutte le conseguenze di quest’atto. Resistenze ignote, ancor meno note delle cadute nella malattia e nella follia, che talvolta trovano inascoltata voce esterna solo attraverso dispe­ rati, impotenti appelli di congiunti. È difficile, dal di fuori, perfino immaginare che cosa possa es­ sere resistenza, là dentro. Appena lo possiamo intuire da qualche documento, collettivo o individuale, che può giungere fino a noi, testimone anch’esso di un fenomeno abbastanza recente nella sto­ ria del nostro « sorvegliare e punire »: una consapevolezza di di­ ritti, una volontà di esprimersi pubblicamente. Ma troppo ignoria­ mo di quanto avviene in questo mondo sconosciuto, per poterne a buon diritto parlare. Quello che possiamo — almeno in questa

84 fase — è cercare di osservare e di capire come, dal di fuori, si siano di recente venute a costituire nuove forme di condiziona­ mento e di controllo dèi corpo e della sua immagine, che sembrano corrispondere a nuovi modelli di potere e di organizzazione della società. Oggi, sul percorso che conduce al carcere si gioca una manipo­ lazione del corpo e della sua immagine, molto diversa da quelle di un tempo. Ricordate? In Sorvegliare e punire, Foucault [Fou­ cault, 1976] aveva disegnato due epoche storico-culturali, contras­ segnate da profonde diversità nelle pratiche e nei discorsi del potere penale. Riassumerò in breve le linee del percorso che egli ricostruisce, cercando assieme di mettere in risalto alcuni aspetti — specie quelli inerenti alle logiche processuali — che meno in­ teressano al nostro autore. Fino alle soglie dell’età moderna, i processi erano per do più « a porte chiuse », ma pubblica e fortemente ritualizzata era l’ese­ cuzione della pena. Il corpo del reo era stato inquisito, attraverso un procedimento di estorsione-imposizione della verità, che rico­ nosceva come valido l’impiego della tortura. All’esecuzione della pena — o almeno di certe pene — assisteva invece tutta la cit­ tadinanza, che traeva ammonimento dalla solennità del rito. Pub­ blica era la gogna, pubblico il patibolo. Il corpo del reo, in tutta la sua concretezza, era assieme il luogo, fisico e simbolico, di un grande dramma rituale di espiazione collettiva, in cui convivevano sofferenza, confessione della trasgressione e anche una buona dose di spettacolarità. È sul corpo umano, dunque, che l’intero sistema penale elabora il proprio lessico di potere: corpo fatto di segni che l’inquisitore decifra mediante lo strumento della tortura e che il carnefice disvelerà poi in tutta la sua colpevole concretezza. Si­ gnificante e significato sembrano così fondersi nella realtà di uii corpo, che è assieme materia e segno. In un noto saggio sulla tortura, l’etnologo Clastres motivatamente assegna pratiche di questo genere a civiltà o epoche storiche in cui è il còrpo ad es­ sere ancora il principale strumento di produzione {Clastres, 1977]. Omette però di riflettere sul significato di negazione dell’esisten­ za reale del dolore che è parte intrinseca di queste pratiche in quanto specifiche pratiche di potere. Veniamo ora all’età moderna. Circa dalla fine del ’700, nuove tecniche di potere, nuovi simboli sarebbero stati elaborati dalla nascente borghesia. Nuovi ideali garantistici, nuove richieste di

85 umanizzazione fan parte integrante dello strutturarsi di nuovi di­ scorsi di potere e controllo. Ora, è il processo nel tribunale a di­ ventare il grande momento pubblico, cui partecipano spettatori fortemente coinvolti. Nel contempo, si afferma la pratica dell’internamento carcerario, con conseguente perdita di visibilità della pena e con la creazione di occulti interventi di potere tra le mura dell’istituzione segregante. Alla perdita di visibilità del corpo del reo Foucault attribuisce il segno di una costituzione di un uomo astratto, moderno prodromo di tutte quelle forme di controllo so­ ciale, che nella società moderna passerebbero piu attraverso la psiche che attraverso il corpo. Torture e violenze comunque pre­ senti nel sistèma carcerario altro non sarebbero che effetto di po­ tere, pratica conseguenza di assunti teorici dettati appunto da un discorso di potere modernamente conformato. Il librò di Foucault è ormai un classico, un punto di riferimen­ to fondamentale. E, come tutti i grandi libri, può essere riutiliz­ zato per ulteriori verifiche sulla nostra realtà contemporanea. Stra­ no. Chi lo rilegga oggi ne esce affascinato, come sempre, ma anche turbato. Affascinato per la sua grande novità di metodo. Turbato, perché, se ci si pone la domanda: ed oggi, come vanno le cose?, ci si accorge che molto è cambiato nel frattempo. In uri frattempo durato meno di dieci anni, perché Sorvegliare e punire è stato pub­ blicato in Francia nel 1975 e tempestivamente tradotto da noi nel 1976, costituendo punto di riferimento per quariti in quegli anni, nel bene e nel male, cercavano di portare avanti una critica radi­ cale del sistema. Rileggerlo ora è dunque, anche per noi, solleci­ tarci a riflettere sul nostro cambiamento sociale e politico, a par­ tire soprattutto dagli « anni di piombo »: con constatazioni che non inducono a grande serenità. Certo, gli interrogativi sono mol­ ti, e forse non sempre quelli giusti, come sembra stia avvenendo da molte parti attorno a una materia ancora scottante e persino pericolosa. Comincerò a pormi qualche domanda, che resti nel no­ stro tema, e che parte da questa constatazione: nell’attuale realtà penale, corpo reale e immagine del corpo sembrano essere oggetto di tecniche di occultamento e di disvelamento nuove rispetto a un passato recente. Come è cambiato, insomma, il gioco del potére sul corpo e sulla sua immagine pubblica, il rapporto tra realtà e simbolo? Quali i nuovi intrecci che si sono formati tra una realtà giudiziaria che sembra stia riportando alla luce un antico passato d’inquisizione e una pratica simbolica, che fa sempre meno ricorso

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al corpo e sempre piu alla macchina, come strumento di produ­ zione delle proprie immagini di uso sociale? E come si trova, nel suo giusto centro, il corpo reale, concreto, della persona che è stata presa nella trappola? Proverò a chiedermelo, seguendo tappa per tappa quella strada — ormai prolungata come supplizio di anni — che è rappresentata dal cosiddetto iter giudiziario. C’è anzitutto il corpo inquisito. Specie negli anni di piombo delle grandi retate « antiterroristiche », bastava portare jeans, ave­ re capelli lunghi o un tatuaggio per essere « segnato ». Ma anche oggi, sebbene in modo meno plateale, l’adolescente « metallaro » corre forti rischi di capitare per lo meno sotto la classica richiesta di documenti. Ad abbigliamento che si vuole trasgressivo, si ac­ compagna la risposta normalizzatrice della polizia. Qui, segno della trasgressione non è più direttamente il corpo: né il corpo della strega — su cui l’inquisitore cercava il marchio del demonio — né quello del delinquente secondo il modello freniatrico ottocen­ tesco, che individuava nell’anomalia fisica lo stigma della degene­ razione morale. Segno della trasgressione è ora l’acconciatura, l’ab­ bigliamento: dunque, il segno della moda, come simbolo di comu­ nicazione sociale. Segno percepito, tradotto in risposta pratica, la sua essenza non viene teorizzata e interpretata come qualità di marchio indelebile: il suo messaggio viene però, nella pratica, coe­ rentemente percepito e decodificato. Di fatto, la violenza del pe­ staggio e dell’incarcerazione si pratica assieme all’altra forma di violenza simbolica rappresentata dallo spogliare la persona dei se­ gni della trasgressione (taglio dei capelli, strappo degli abiti, ecc.). Recente, e ancor più determinante sul piano della coscienza so­ ciale, è il ruolo dell’immagine proposta dai mezzi di comunicazione di massa. In questi ultimi anni, e con una frequenza senza dubbio crescente, i mass media ci hanno abituati a convivere con im­ magini di arresti e di processi. Certo, la cronaca nera e quella giudiziaria han sempre fatto notizia, come parte essenziale di un discorso di normalizzazione che dà rilievo alle immagini della de­ vianza per inculcare, nel cervello dei singoli, il bisogno di ordine sociale e di conservazione di uno status quo compromesso. Ma ora che il mezzo televisivo si è tanto diffuso da far parte inte­ grante del nostro vivere quotidiano, la sua centralità simbolica sembra ormai priva di concorrenti. Il mezzo a diffusione di massa viene cosi a entrare in modo specifico nella complessa partita che ha come posta l’intero controllo del nostro corpo e della nostra

87 immagine. Naturalmente, il suo ruolo — che è quello di elaborare immagini e simboli — non può essere visto isolatamente dal con­ testo dei rapporti reali. E, per il caso che ci interessa, da tutta quel­ la catena (arresto - detenzione cautelare - processo - detenzione) al­ l’interno della quale si esercita il controllo piu radicale: quello appunto che passa attraverso il corpo e la mente. Ed ecco il mezzo televisivo entrare come strumento di forte pubblicizzazione degli aspetti di questa catena che si ritengono pubblicizzabili e di im­ plicito occultamento di quelli che si ritengono da occultare. Una volta che ti beccano, ti sbattono il mostro in prima pagina. Il tuo corpo, con tutti i suoi segni, diventa protagonista, ma di un protagonismo non voluto (ed ecco il volto celato da mani inca­ tenate, i maldestri tentativi di nasconderlo dietro i risvolti della giacca, il camminare ricurvi, a testa bassa, ecc.) e non controlla­ bile. Anche qui gioco di segni, la comunicazione sociale — cioè la veramente terroristica imposizione di un’immagine di devianza — avviene attraverso la circolazione di un’immagine-simbolo, che il proprietario reale non possiede come immagine di sé, e in cui non si riconosce. Qui, la divaricazione tra corpo e immagine è totale, e totalmente rispondente ai canoni comunicativi di una so­ cietà moderna, non solo per quanto concerne il ricorso a un mezzo tecnico di comunicazione di massa, ma anche e soprattutto per un’utilizzazione strumentale dell’immagine umana, che rinvia a nuove forme di potere e di controllo. Il distacco tra persona e immagine — elemento che certo non troviamo negli antichi rituali giudiziari di pubblica esibizione del reo — si caratterizza socialmente come una complessa partita tra rimozione é memoria. Da un lato, memoria dell’orrore suscitato dalla denuncia del crimine attraverso i mass media, immagine di devianza imposta e, se si vuole, mantenibile nel tempo. Dall’altro, scomparsa sociale dell’individuo reale: scomparsa dalla vita di re­ lazione, ma anche — in casi purtroppo sempre piu frequenti — scomparsa reale dagli elenchi carcerari, giorni di vuoto di infor­ mazione, che neppure parenti e avvocati difensori riescono a col­ mare. Lui, lì dentro, inizia quel doloroso percorso che è anche perdita della propria identità come perdita del proprio corpo e del­ la pròpria memoria. Il tema romantico del furto dell’ombra, che porta inesorabilmente alla morte, sembra quasi aver precorso con lucida chiaroveggenza tutta la modernità del dramma del doppia­ mente funesto distacco tra il corpo e la sua immagine.

88 Ma c’è anche —di certo accresciuto in questi recentissimi an­ ni — un processo di moltiplicazione di interventi polizieschi e di imposizione di immagini che, per chi sta fuori, fa finire nell’indi­ stinto perfino la memoria di un singolo volto — appena ricordia­ mo la faccia, insistentemente proposta, di Toni Negri: ma gli al­ tri? dai terroristi giù giù fino all’esercito di giovani camorristi e drogati che finiscono dentro? La ressa di nomi e di facce — af­ follamento di immagini — produce nuovi effetti ideologici, nuovi e più generalizzati oblìi. Oggi sembra dunque che al foucaultiano « uomo astratto» si vada affiancando, quando addirittura non sovrapponendo, il nuo­ vo « uomo-immagine ». Prodotto di nuovi linguaggi (media più carcere) e quindi di nuovi discorsi e pratiche di potere, l’uomoimmagine è soggetto a una doppia violenza, che si esercita in luo­ ghi e secondo modi scissi l’uno dall’altro, ciascuno con la propria specificità. Non è un caso che il nostro immaginario si eserciti cosi poco su scene di vita all’interno del carcere (solo pochissimi film ce le hanno riproposte per una riflessione che si spinga un po’ oltre il tema, avventuroso e romantico, dell’evasione del condan­ nato). Anche in questo senso, la forbice tra pubblicizzazione e occultamento, tra momento visibile e momento invisibile si è an­ data divaricando in misura sempre crescente. Ed è proprio nell’isolamento di un corpo deprivato in ogni caso — sia disvelando, sia occultando — della sua immagine sociale che si consuma il dramma della massima solitudine, che può giun­ gere fino al rifiuto di far vivere un corpo tanto mutilato.

Il carcere sta sempre più diventando luogo dove si manda a morire, con una sentenza bruta, che non ha più il coraggio •— nel bene o nel male, — di riferirsi a dei princìpi. Morte lenta, morte segreta, alchimia di torture che si perpetrano a tutti i livelli del­ l’uomo: quello fisico e quello psicologico. Stillicidio di attese, di interlocutori cercati e mai concèssi, contrassegnato dal sadismo del singolo sul singolo. E ci muori lì dentro, in maniere diverse, ma che son pure la stessa morte: il suicidio,.la morte « improvvisa » che nasconde la realtà di una storia di sofferenze lunghe e non riconosciute ufficialmente, pubblicamente, perché negate dalla car­ ta bollata. La pena di morte è stata abolita dalla nostra legislazione. Dai tempi di Beccaria si è fatta avanti una concezione pedagogica della

89 pena detentiva, che è stata applaudita come segno di modernità e di umanizzazione di costumi, e di cui Foucault avrebbe poi disve­ lato i nuovi impliciti discorsi di potere. Eppure, la pena di morte sussiste nella pratica, come forma estrema dell’oggettiva violenza carceraria. Rispetto ai cosiddetti secoli bui del Medioevo, la pena di morte ha solo perduto il suo valore di esemplarità, il suo so­ lenne riconoscimento sociale. Un tempo, al boia si copriva la testa con un sacco nero, perché non si riconoscesse il volto del datore di morte. Ma i giudici erano lì presenti e riconoscibili da tutti, a rappresentare il volto visibile del potere. Ora si fa tutto a viso apèrto, semplicemente negando che si stia dando la morte. Il man­ datario non alza la mannaia, ma mette un timbro, passa una carta, pone una sigla, insabbia. Effetto, conseguenza del nuovo discorso di potere, come vor­ rebbe Foucault? O non vediamo piuttosto anche qui ripetersi il troppo consueto divario tra teoria e pratica, tra affermazioni di princìpi e comportamenti reali? Anche il primo articolo della no­ stra Costituzione recita solennemente che la repubblica italiana è fondata sul lavoro, eppure la disoccupazione aumenta.. Di_bei prin­ cìpi abbiamo bisogno, non se ne può più fate a meno, una volta che il loro riconoscimento è stato imposto attraverso lotte di mas­ sa, dure e spesso pagate col sangue. Ma i princìpi si possono an­ che svuotare e restare lì come maschere derisorie. In un libro recente, Todorov mette a confronto il sacrificio umano degli Aztechi con le tecniche di massacro perpetrate dagli spagnoli sugli indigeni d’America. E giustamente rifiuta, come pe­ ricolosamente limitanti, tesi che accomunino gli uni e le altre richia­ mandosi al principio di una « natura umana >> caratterizzata dalla presenza di aggressività, pulsioni di morte o altri simili eter­ ni psicologici. Il sacrificio umano degli Aztechi risponde a un codice socialmente riconosciuto. Il massacro perpetrato dagli spa­ gnoli no: ed è per questo che non viene mai rivendicato, anzi viene negato e tenuto segreto. In pratica, verrebbe reso possibile da una debolezza del tessuto sociale, dalla distanza dal centro di una periferia dove tutto è permesso, dal prevalere di una nuova lo­ gica di appropriazione colonialistica. « Delitto ateo », il massacro rivelerebbe « non una natura primitiva (la belva assopita in cia­ scuno di noi), ma un essere moderno, a cui appartiene l’avvenire, che non ha alcuna morale, e che uccide perché e quando gli pia­ ce » [Todorov, 1984, p. 176].

90 Una riflessione sull’universo delle regole non può disgiungersi da un suo confronto con la realtà. La nostra società borghese ha elaborato un insieme di principi, che non sono solo (come vole­ va Foucault) discorsi di potere, o comunque principi la cui appli­ cazione non comporterebbe altro che effetti di potere: ad esempio, l’abolizione della pena di morte o della tortura, la stessa richiesta di eliminazione dalla pena di ogni carattere di afflittività, ecc.: valori laici e certamente piu liberali di quanto non fossero quelli del sistema penale spagnolo, che negli anni della conquista del­ l’America si riscaldava ai roghi dell’inquisizione. A maggior ra­ gione dunque, noi, oggi, siamo in grado di misurare la distanza tra teoria e prassi non soltanto come lontananza fisica tra mondo dei bianchi dove deve vigere la norma e mondo degli altri, dove tutto è possibile. L’oceano che separa il « dentro » dal « fuori » è un nostro mare interno, prodotto di anni di scollamento istitu­ zionale. L’attenzione allora dovrà puntare all’individuazione dei soggetti sociali che esercitano violenza, dando via libera all’ingres­ so dell’arbitrio in un sistema, come quello giudiziario e penale, per sua natura sempre passibile di gestione arbitraria, ma la cui arbi­ trarietà risulta anche piu o meno controllabile a seconda delle condizioni storiche e sociali di riferimento. Sorvegliare e punire si arresta, come dicevamo, alle soglie della contemporaneità. Il progetto di controllo sociale individuato da Foucault si colloca, di fatto, in un’epoca precisa: il sorgere della civiltà borghese moderna, che si caratterizza per la presenza di uno Stato forte (per la Francia, VAncien Regime, per l’Italia, grosso modo, potrebbe essere l’età giolittiana). Cos’è cambiato da allora, al di là dei pur importanti rapporti tra simbolo e realtà, di cui ab­ biamo appena indicato qualcuno degli elementi più vistosi? Molto, e poco conosciuto. Mutamento della popolazione carceraria, anzitutto: molti gio­ vani, molti tossicodipendenti, molti « politici ». Mutata pure la minoranza femminile, cui non son più attribuiti soltanto i clas­ sici « reati minori »: l’ingresso in carcere della « politica » ha mol­ to trasformato gli stessi rapporti tra donne, i reciproci discorsi. Popolazione non più illetterata, rispetto al passato va maturando forme di coscienza dei propri diritti, che han cominciato a sfociare in nuove forme di azioni collettive non riconducibili soltanto alla tradizionale rivolta. E anche questo viene avvertito, dalle autorità

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preposte, come forte e pericoloso elemento di disturbo. Piu tra­ dizionale sembrerebbe il rapporto — antico quanto l’istituzione — tra mafia, camorra e carcere: ma forse anche qui, segno dei tempi mutati potrebbe essere la grande estensione del fenomeno, che né diminuisce né viene controllato, collegandosi a forme di traffico (armi, droga) ora a diramazione internazionale.. Mutamento., so­ prattutto dell’entità numerica della popolazione carceraria, quasi a significare l’impotenza di un sistema che incontra sempre mag­ giori difficoltà nel controllo delle proprie contraddizioni. Oggi, come si sa, le carceri sono sovraffollate (42 mila detenuti costretti in celle progettate per 27 mila), l’intero apparato della giustizia, civile e penale, soffre di un intasamento ormai incontrollabile. La violenza diffusa, l’accrescersi di centri di potere occulto in reciproca concorrenza, ma anche l’accrescersi di una conflittualità sociele orientata o orientabile, sono problemi che proprio nel so­ ciale dovrebbero trovare la loro soluzione. La risposta è stata un rafforzamento dell’istituzione penale, fino ai limiti della sua in­ controllabilità. In questo senso, vai la pena di ripercorrere criti­ camente due constatazioni-previsioni delineate nel libro di Fou­ cault, che preconizzava un progressivo svuotarsi di funzione del carcerario, come conseguenza di due fattori determinanti: il dif­ fondersi nel sociale di nuove tecniche di controllo e normalizza­ zione indirizzate alla medicalizzazione e alla psichiatrizzazione del­ la devianza, e l’intemazionalizzarsi delle grandi centrali di crimi­ nalità connesse ai traffici di armi, droga, valuta. L’attuale vigoroso rilancio della galera sembra mettere in dub­ bio, o comunque seriamente problematizzare, entrambe le ipotesi foucaltiane. In particolare, la prima sembra connettersi alla pre­ visione dell’avanzata tranquilla, senza contraddizioni, di un Wel­ fare State ben organizzato, perfettamente funzionante. Ma le cose non sembrano andar cosi, né in Italia — che forse non ha mai conosciuto un Welfare State — né altrove — dove il Welfare State è ormai entrato in una crisi da tutti denunciata come grave. L’impressione è che, almeno nella nostra nazione, le piu moderne istanze di controllo e normalizzazione siano scarsamente diffuse nel sociale, con una maggiore incidenza nel centro-nord e una vi­ stosa latitanza nel Mezzogiorno: istanze comunque piu private che pubbliche e con una capacità di controllo inversamente proporzio­ nale al loro grado di frammentarietà e di dispersione. D’altro can­ to, all’aumento di contraddizioni sociali cui lo Stato assistenziale

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non riesce a sopperire, e che anzi il suo stesso modello ha prodotto, si è andato accompagnando quel processo di criminalizzazione del­ la devianza che ha avuto, come unica conseguenza pratica, il raf­ forzamento dello strumento piu tradizionale: il carcere. Conse­ guenza nota è che l’intera macchina della giustizia sembra soffrire di un intasamento e di un ingorgo che è al limite della tolleranza per i suoi stessi controllori, ma che è esso stesso assieme tenta­ tivo di drenaggio e fonte di alimentazione della conflittualità. La nostra stessa istituzione carceraria presenta, nelle sue strut­ ture, un coacervo di modelli — gli uni arcaici, gli altri modernis­ simi — in cui si applicano le piu diverse tecniche di sorveglianza e punizione: dalle celle umide e maleolenti, infestate da ratti, di vecchia costruzione umbertina se non conventuale, al carcere spe­ ciale sul modello di Stammheim, che punta sul terrorismo psicolo­ gico più che sulla sola violenza fisica. Potremmo dire, insomma, che anche per le carceri esistono un nord e un sud, che convivono in un insieme, il quale di volta in volta utilizza, secondo possibi­ lità o convenienze, le più svariate forme di controllo e repressio­ ne. La — pur sempre mai totale — differenza tra tortura fisica e tortura morale si traduce di fatto in una compresenza di elementi contraddittori i quali hanno, è vero, una diversa origine storica e possono apparire l’uno il superamento, l’ammodernamento del­ l’altro, ma sono anche il convivere di parti di un insieme nuovo e moderno, come nuova e moderna è la struttura sociale e cultu­ rale della nostra penisola. Dell’interno di questa varia realtà carceraria, però, si può dire ben poco. Preclusa ai mass media, concessa a modestissime incur­ sioni del politico, resta fuori dell’indagine dell’antropologo, in tutt’altre faccende affaccendato. L’antropologia criminale di tanto deprecata memoria ci aveva per lo meno fatto conoscere — anche se per ulteriormente criminalizzarle e psichiatrizzarle — alcune voci dalla galera: si pensi ai Palimp sesti del carcere, in cui Lom­ broso [Lombroso, 1891] raccolse, catalogandole secondo i criteri della sua scuola, le varie forme di espressione letteraria, spesso clandestina, dei carcerati, oppure si vada a visitare la sala del Museo criminologico di via Giulia, a Roma, significativamente in­ titolata alle Malizie carcerarie, che poi altro non sono che le stra­ ordinarie, ingegnose invenzioni escogitate dai detenuti per comu­ nicare o evadere. Oggi, al contrario, noi antropologi facciamo co­ me le classiche tre scimmiette. Né guardiamo dentro al carcere né

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tentiamo una analisi teorica dei nuovi raccordi tra sistema giudi­ ziario, sistema penale e sistemi di potere vigenti nella società con­ temporanea. Affermarci diversi dai nostri predecessori, in quanto non compromessi direttamente con gli apparati repressivi, non ba­ sta a giustificare una latitanza che è in ultima analisi sempre con­ ferma dello stato delle cose. Importanti, se pur ancora iniziali, riflessioni sul cambiamento ci provengono da giuristi, politici e politologi e, paradossalmente, proprio da quella parte di loro che ha saputo aprire i propri con­ fini esegetici disciplinari ai metodi della ricerca storica e antropo­ logica. Ne citerò qualcuno, ben consapevole del rischio che la mia scarsa e iniziale conoscenza dell'argomento mi faccia trascurare qualche fonte importante. Ma vai la pena di correre questo rischio, almeno per cominciare a porsi dei problemi che non siano stret­ tamente di ordine tecnico. Se si considera l’analisi del sistema giudiziario, notiamo che da piu parti ormai proviene una denuncia: il giudizio in pratica è già avvenuto fuori dal momento del processo. Importante, ma non esclusiva, forma di avallo sarebbe la carcerazione preventiva. In ogni caso, l’intera prassi processuale starebbe subendo un processo di profondissima trasformazione, che non può essere letto esclu­ sivamente nei tradizionali termini giuridici. Rossana Rossanda, ad esempio, nella sua costante attenzione al processo del « 7 aprile », non può fare a meno di notare l’impressionante divario tra aula vuota di pubblico e immancabile presenza della televisione, stru­ mento che ormai fungerebbe da avallo simbolico di una prassi giu­ diziaria affermativa e colpevolizzante [Rossanda, 1984]. Ma se le prove si fabbricano altrove, se non vengono verificate in sede di dibattimento, ecco il processo (anche il processo) deformarsi in un’assurda pratica di espressione di violenza, assieme reale e sim­ bolica. Confronti sembrano proporsi proprio con quegli antichis­ simi rituali giudiziari che avrebbero dovuto essere stati banditi dalle nuove forme di un moderno sorvegliare e punire. Ed ecco Massimo Cacciati leggere l’intero procedimento nei termini storico-culturali del capro espiatorio [Cacciati, 1984]. Nella moderna pratica giudiziaria, almeno nel caso del « 7 aprile », la violenza sempre più diffusa nel sociale verrebbe spostata su un unico oggetto, recintata in un unico spazio sacro. Di conseguenza: « Ecco che, esattamente, come per la vittima, tutto nel capro

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espiatorio diventa significante, traccia, sintomo, tutto in lui fa-leveci, sta-per, poiché è la sua intera figura che sta-per. Semiotica inquisitoria, assolutamente affine alle indagini degli auguri nelle viscere degli animali ». Il confronto non è puramente letterario. In due diversi saggi di carattere giuridico, Ferrajoli e Resta propongono un confronto tra Fattuale prassi giudiziaria, come prassi e come metodo, e l’an­ tica modalità inquisitoria. L’Inquisizione infatti (osserva Ferrajoli analizzando il metodo storiografico esibito dalla requisitoria Calogero e dall’ordinamento Amato, sempre al processo del « 7 aprile ») « non è solo istruttoria segreta, assenza di difesa ed esclusione del contraddittorio. Essa è ancor prima un metodo d’indagine, una logica, una teoria della conoscenza » [Ferrajoli, 1983, p. 189]: metodo ne è la petizione di principio, strumento l’infalsificabilità delle prove, oggetto pro­ cessuale non il reato, ma il reo in tutta la sua persona. È un passato che riaffiora? E se cosi fosse, quali sono le con­ dizioni che lo permettono, che lo rifunzionalizzano? Eligio Resta ci invita a ripercorrere la storia della penalità e del processo « a partire da due variabili significative (anche se trascu­ rate), la struttura narrativa e la visibilità delle procedure » [E. Re­ sta, 1983, p. 67]. L’antico modello inquisitorio, proprio di so­ cietà a potere sovrano e caratterizzato dalla segretezza del pro­ cesso e dalla pubblicità della esecuzione della pena, col sorgere del moderno Stato di diritto si sarebbe progressivamente ribaltato nelle forme della pubblicità del processo e della perdita di esem­ plarità della pena. Ma questa vicenda di affrancamento dalle vec­ chie modalità processuali ora parrebbe tanto fortemente compro­ messa, da porci seri interrogativi sulla stessa stabilità della demo­ crazia e dello stato di diritto. L’ipotesi è feconda in più direzioni. Anzitutto ci invita a ricon­ siderare in tutta la sua interezza, nella varietà delle sue compo­ nenti, una vicenda legislativa e processuale di cui Sorvegliare e punire ha considerato solo l’anello finale, e cioè l’internamento. E in questo quadro, torna a farci riflettere su quanto si osservava all’inizio del nostro discorso circa l’attuale enorme distanza tra un dire che si proclama democratico e un fare che è la sua esatta ne­ gazione. L’antica inquisizione mi risulta almeno più coerente, se è vero che i giudici credevano in dio e nel diavolo. Certo, var­ rebbe la pena di portare avanti confronti più precisi e argomenta­

95 ti, e questo non per mera erudizione accademica, ma per capire, anche attraverso questa operazione critica, segni e direzioni del­ l’attuale cambiamento nel senso di un ipotetico ritorno alle forme di un processo inquisitorio. Altro punto importante dell’analisi di Resta è la segnalazione che il rigurgito di metodi inquisitori si accompagnerebbe a una profonda crisi dello Stato di diritto: « Ha ragione N. Bobbio quan­ do spiega la dinamica oppositiva tra visibilità e invisibilità delle procedure e del potere come metro che dimensiona successi e in­ successi della democrazia. Al potere, alla democrazia come palazzo (gli arcana imperii) si contrappone un modello di democrazia come piazza {agorà) dove le regole della relazione e quelle del loro con­ trollo siano visibili e a loro volta controllabili » [E. Resta, 1983, p. 67]. Non mi sembra qui il caso (né sarei in grado di farlo) di se­ guire il nostro autore nella sua ulteriore analisi delle teorie dello Stato, e in particolare dello Stato di diritto. Vorrei solo fare un’os­ servazione, anche se solo come ipotesi che la verifica può smen­ tire. Ed è questa. La mia impressione è che il binomio visibilità versus occultamento sia un ideologico, in prima istanza prodotto da quella stessa democrazia borghese che si è legittimata su ana­ loghi motti quali « Libertà, eguaglianza, fratellanza », « La legge è eguale per tutti » ecc. Motti che sono comunque punti di rife­ rimento irrinunciabili, ma di cui è stato anche, giustamente e da tempo, segnalato l’implicito discorso di potere. Né ho ancora esem­ pi di democrazia parlamentare dove tutto realmente si dibatta e decida in aula. Che dire poi dell’occulto? È vero: ci sono poteri occulti, pratiche occulte. Almeno finché non vengono disvelati, operazione che può richiedere anche un certo tempo o non avve­ nire mai. Comunque, il problema, oggi, mi pare piuttosto un al­ tro: il problema di un disvelato rispetto al quale noi, come citta­ dini, o siamo indifferenti o non sappiamo trovare strumenti di opposizione. Gli autori della strage dell’Italicus non sono occulti; Gelli non è occulto; che al « 7 aprile » né pubblico ministero né corte abbiano tenuto conto che Fioroni non era presente al processo ed è scappato con regolare passaporto: tutto questo, ed altro ancora non è occulto. È un problema di rapporto tra sapere e potere. Certo, molte cose non sappiamo, molte pedine ci vengono na­ scoste. Ma quanto anche sappiamo, sapendo di non potere. Mi chiedo quanto della tanto deprecata indifferenza dell’opi­

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nione pubblica rispetto a questo e ad altri problemi — di cui an­ che quello penale e carcerario fa parte — non consegua a queste, o analoghe, constatazioni di impotenza. Ed ecco allora, ancora una volta, la necessità di interrogarsi sui soggetti sociali e i rispettivi rapporti. Sulle ragioni storiche per cui si sia arrivati alla rottura di quegli argini che, sia pur sempre in modo limitato e strumentale, lo Stato di diritto si era in qual­ che modo costruito. Sui collegamenti, dentro e fuori l’istituzione, tra gruppi personali di interesse. Sulle operazioni di occultamento e di disvelamento che hanno portato molti di noi a un sapere rassegnato e senza coalizione. Penso che su questo, come su altri punti, un più meditato con­ fronto tra studiosi di antropologia e studiosi di diritto sia più che utile, direi ineludibile. Soprattutto, mi sembra atrocemente re­ strittivo il fatto che l’intero discorso sulla pena venga delegato all’istanza stessa che, in virtù di una propria « specializzazione », intende di gestirlo per intero. È anche questo un rapporto tra sapere e potere che giustamente inizia ad essere messo in discus­ sione. Certo, il campo dei rapporti sanzione-pena va ben oltre quello della sua mera definizione giuridica. Dire però in positivo in che cosa questo « oltre » consista ci è davvero difficile, bloccati come siamo da lunghe consuetudini al non guardare in certe direzioni. Si può però cominciare ad aguzzare la vista, e gli strumenti non mancano. Proprio le discipline etno-antropologiche, che fanno della comparazione un collaudato strumento del loro metodo, ci hanno abituati all’idea che al variare delle formazioni sociali e dei relativi rapporti di potere su cui si reggono corrisponde un variare di forme del controllo e della sanzione. Sappiamo anche che con­ trollo sociale e sanzione si esercitano attraverso soggetti sociali e istituzioni, i quali elaborano norme di comportamento e valori. Ed è proprio questo il sapere da recuperare, per ricominciare — dopo Foucault — a guardare quell’« oltre » il giuridico, che è fatto innanzi tutto dall’insieme di principi — proposti, appresi, riela­ borati, rifiutati anche — su cui si regge il rapporto tra istituzione e soggetti sociali. Oggi ci sono le leggi, c’è il carcere, compaiono (e se ne co­ mincia a parlare) nuove istanze di controllo diffuse nel sociale. Ma c’è anche una società che a tutto questo si rapporta, ren­ dendolo possibile ed efficace nella misura in cui ne accetta l’effi-

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cacia del discorso. È dunque un sociale dentro una cultura. Si tratterà allora anche di interrogarsi sulla provenienza di questa cultura, e quindi sulla sua qualità storica. Ma si tratterà anche di cercare in direzioni più dialettiche, se è vero che il campo della cultura non è un luogo di pacifica e tautologica affermazione del­ le ideologie del dominio, ma il luogo dove si scontrano diverse istanze e bisogni che non necessariamente coincidono con quelli dominanti. Come denunciano anche le nuove, emergenti forme di ri­ chiesta di una giustizia diversa, corollario di una diversa società.

Riferimenti bibliografici Cacciari M. (1984), La violenza spostata e messa in scena, in II mani­ festo - La Talpa, 12 aprile 1984. Clastres P. (1977), La società contro lo Stato, Milano, Feltrinelli, 1977. Ferrajoli L. (1983), Il caso «7 aprile». Lineamenti di un processo inquisitorio, in Dei delitti e delle pene, a. I, n. 1, pp. 167-205. Foucault M. (1976), Sorvegliare e punire, Torino, Einaudi, 1976. Lombroso C. (1891), Palimpsesti del carcere, Torino, Bocca, 1891. Resta E. (1983), Il diritto premiale. «Nuove» strategie di con­ trollo sociale, in Dei delitti e delle pene, cit., pp. 41-69. Rossanda R. (1984), La memoria negata, in II manifesto - La talpa, cit. Todorov T. (1984), La conquista dell’America. Il problema dell’« al­ tro », Torino, Einaudi, 1984.

IH. Immagini del potere

Marc Auge Ideo/logiche del potere *

La questione del potere o dell’autorità mi sembra subordinata ad altre due questioni, più fondamentali, che si possono formu­ lare nel modo seguente: cos’è che costituisce il carattere sociale di ogni individualità? Cos’è che costituisce il carattere simbolico di ogni istituzione sociale? Per mettere in chiaro i termini di questa doppia domanda farò riferimento a due autori in fondo piuttosto diversi, Lévi-Strauss e Castoriadis. Nella sua Introduzione all'opera di Marcel Mauss Levi-Strauss definisce ogni sistema simbolico come la rappresentazione o l’espressione di due tipi di realtà (sociale e fisica) e di due tipi di rapporti (fra realtà sociale e realtà fisica, da una parte, fra gli stessi sistemi simbolici, dall’altra). Ciò significa che, più vicino di quanto si potrebbe pensare al linguaggio delle istanze, egli apre la via a due tipi di ricerche: quelle che vertono sui rapporti del reale (fisico e sociale) con il simbolico e quelle che vertono sui rapporti reciproci dei diversi sistemi simbolici fra di loro. Tutta­ via Lévi-Strauss osserva anche che, essendo i sistemi simbolici a rigore intraducibili gli uni rispetto agli altri, è soltanto nella vita sociale che sembra realizzarsi la costruzione di una struttura sim­ bolica d’insieme aperta a tutti i membri della società. Per cui, dato che la vita sociale mette in funzione sia i rapporti economici che i rapporti matrimoniali, il linguaggio ecc., il problema diventa allora quello di sapere qual è il tipo di coerenza e la natura del­ l’ordine simbolico a cui si identifica la vita sociale come trait d’union pragmatico fra sistemi simbolici. Ma Lévi-Strauss è soprattutto interessato a problemi con­ cernenti il rapporto fra psicologia e sociologia e vuole mostrarci che> in certe culture, si riconosce a taluni uomini il potere di reaTraduzione di Ottavio Fatica.

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lizzare delle sintesi che non sono possibili sul piano sociale; ad esempio lo sciamano, il quale, nell’idea che se ne fanno quelli che vivono con lui, è capace di comprendere la corrispondenza fra i diversi sistemi simbolici che, per la maggior parte degli uo­ mini, sono reciprocamente opachi. Questo punto si collega indi­ rettamente alla questione del potere. Penso ad esempio a quelli che, in certe culture, vengono chiamati chiaroveggenti. La facoltà della chiaroveggenza è, in molte culture africane, una componen­ te del potere tout court, e non soltanto in Africa: saper vedere chiaro è il potere degli uomini forti. Ora, la tradizione etnologica usa talvolta un linguaggio dualista che non ritengo essere il più adatto per rendere conto di questo tipo di realtà e di rappresen­ tazione. La tradizione etnologica, incluse le sue forme più recenti, parla spesso dei rapporti fra il visibile e l’invisibile; il chiaroveg­ gente, colui che possiede la buona vista, sarebbe colui che sa ve­ dere ciò che gli altri non vedono e che si trova dietro il visibile. Io penso che si possa dare un’altra definizione delle cose: il chia­ roveggente è colui che vede istantaneamente non l’invisibile bensì la relazione fra i sistemi simbolici, che non è manifesta agli occhi degli altri. Quando un guaritore vede, nel sintomo della malattia, la traccia di un affronto sociale, che a sua volta può rinviare ad altre vicende, ad esempio a delle liti di carattere economico, che altro fa se non mettere per l’appunto in relazione quegli ordini simbolici che, nella consuetudine della pratica umana, si lasciano vedere solo successivamente? Insomma, il potere del chiaroveg­ gente consisterebbe nell’attuare quelle sintesi istantanee che il co­ mune dei mortali non è in grado di compiere. Mi sembra però che la preoccupazione sociologica debba supe­ rare la vocazione che le attribuisce Lévi-Strauss: essa deve ver­ tere sull’ordine simbolico della pratica sociale e quindi interes­ sarsi non tanto alla struttura di ciascun sistema preso isolatamen­ te o ai rapporti sincronici ideali fra i sistemi, quanto piuttosto al loro entrare in rapporto nella pratica sociale. L’ordine sul quale si interrogano il sociologo o l’antropologo è quello delle pratiche che attraversano i sistemi simbolici, li mettono in relazione e af­ fermano una specie di coerenza la quale non è lo stretto equivalen­ te della coerenza ideale supposta fra i sistemi stessi. La vita so­ ciale è la prova che vi è comunicazione fra i diversi sistemi sim­ bolici, ma è una comunicazione la cui logica integra la diversità delle situazioni e delle posizioni sociali. Di conseguenza, non si

103 tratta piu soltanto di cultura; ciò che è proprio dei sistemi sim­ bolici è il fatto che in qualche modo siano portatori delle istru­ zioni per il loro uso e che stabiliscano la maniera in cui certi at­ tori sociali, in funzione delle loro posizioni diverse, possono uti­ lizzarli. Perciò lascerò da parte per un attimo il riferimento a LéviStrauss per fare allusione ad alcune analisi che erano state pro­ poste da Castoriadis in un certo numero di articoli degli anni 1964-65, raccolti nel libro L’institution-imaginaire de la société. Castoriadis insiste sul concetto di alienazione: nella società ogni individuo sociale si trova sin dall’inizio alienato al sistema di istituzioni che gli viene proposto, imposto. La cosa comincia già con il linguaggio, ovviamente: non c’è bambino che sia libero di parlare un’altra lingua da quella che gli viene inculcata dall’inizio, e la cosa non è senza conseguenze. A proposito di questo concetto di alienazione, le analisi di Castoriadis ricordano in misura notevo­ le quelle di Althusser, più o meno con temporanee, nella misura in cui hanno entrambi una concezione non manipolatrice dell’ideologia. Esiste infatti tutto un insieme di riflessioni e di riferimenti, nel pensiero marxista o post-marxista di quegli anni, che a mio avviso si rifanno su un paio di punti all’antropologia e specificamente allo strutturalismo di Lévi-Strauss: da una parte l’evidenziazione del carattere aprioristico di ogni sistema simbolico e quindi di quella alienazione di partenza di ogni individuo al sistema sociale che lo assume; dall’altra la dimensione simbolica di ogni attività sociale. Di fatto Castoriadis, per chiudere con lui, insiste su due aspetti del­ le cose: gli atti reali, egli ci dice, individuali o collettivi, non sono sempre dei simboli {quantunque sia possibile attribuire un valore simbolico a qualsiasi tipo di realtà), ma sono impossibili al di fuori di una rete simbolica che li situi gli uni rispetto agli altri. Il secon­ do aspetto delle cose è che il simbolico è sempre anteriore sia all’in­ dividuale che al sociale, il che è particolarmente evidente nel caso del linguaggio ma lo è altrettanto per ogni altra istituzione sociale. Solo che poi Castoriadis, non va molto lontano nella misura in cui utilizza per spiegare le cose il concetto di immaginario sociale, un concetto che gli serve per evocare il carattere irriducibi­ le di ogni singola cultura. Infatti, prendendo ad esempio que­ sto carattere aprioristico dei sistemi simbolici, Castoriadis tende poi a spiegarci perché i Greci, gli Aranda, i Bororo si muovono in un universo di senso che è il loro e che non è riducibile a un

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altro universo di senso. È questo il compito che egli assegna al­ l’antropologia in senso lato: comprendere l’universo proprio di certe culture cercando di non ridurlo, senonché la conclusione di un tale sforzo di riflessione è la constatazione di una irriducibilità, di una incomunicabilità, almeno per quanto riguarda quel piccolo residuo che chiamiamo cultura e che non è spiegabile in termini utilitaristici. Ebbene, io credo che ciò costituisca una restrizione d’interesse del pensiero di Castoriadis giacché, a mio avviso, se ce una cosa interessante, per la ricerca antropologica, è natural­ mente prendere coscienza delle differenze fra sistemi culturali, ma oltre a ciò — ed è appunto quel che piu mi sembrava interes­ sante nel duplice riferimento a Lévi-Strauss e a Castoriadis — comprendere cosa siano, in ogni forma sociale, i meccanismi di quella che Castoriadis nel suo linguaggio chiama « l’alienazione all’istituzione ». Tali meccanismi rendono necessaria la gestione di un ordine simbolico al quale nessun individuo è in grado di sfuggire, qualunque sia la forma sociale con cui ha a che fare — un problema questo totalmente diverso rispetto al mutamento dei sistemi simbolici nella storia. Quali che siano questi sistemi simbolici, il problema è anche quello di comprendere in che modo essi si rapportino all’individualità, la quale non si può definire se non in rapporto ad essi e quindi, in tal senso, in modo rela­ tivamente alienato. L’alienazione intellettuale è una dimensione necessaria, ineluttabile della condizione umana in quanto condi­ zione necessariamente sociale. A partire da qui rimangono ancora due questioni da affrontare: bisogna prestare attenzione alla diversità interna delle società per evitare di fare della società un soggetto, come credo che succeda a Castoriadis, il quale peraltro si rifà a Hegel e al concetto dello « spirito di un popolo »; va inoltre notato che, se c’è per tutti gli attori sociali alienazione rispetto alla società, alle istituzioni sociali, si tratta nondimeno di una alienazione differenziale in quanto ciascuno fa parte si di una società, talvolta forse anche di due, ma al suo posto e nel suo ruolo. L’importante è questa diversità interna che, a mio giudizio, fa parte dell’a priori del sim­ bolico e non si riduce all’entità unificante che sarebbe quella di una cultura di riferimento, bororo, londinese o altra. Un secondo punto da prendere in considerazione riguarda l’uni­ versalità degli effetti dell’efficacia simbolica. C’è un modo per comprendere le procedure generali di integrazione sociale, vale

105 a dire di identità. C’è un modo per comprendere in maniera gene­ rale e quindi astratta tali procedure all’opera nella storia? Su quest’ultimo punto penso che in certo modo l’etnologo, e piu precisamente l’africanista, possa avere qualcosa da dire. Per scusarmi di questa lunga digressione, vorrei adesso passare all’esempio delle società di lignaggio, ma cominciando col segna­ lare che cosa è in gioco nel loro studio. Sono in gioco due ordini di questioni. In primo luogo le società e in genere le società stu­ diate dagli etnologi sono di solito delle società a forte identità culturale. Tale identità culturale forte può essere rafforzata arti­ ficialmente dal modo di indagare degli etnologi, il ricorso a infor­ matori privilegiati, certo, ma, indipendentemente da queste fonti di errori e di relativismo, c’è una identità culturale forte che si può anche opporre spesso alla diversità etnica. Spesso è vero che quella che viene chiamata una etnia rinvia di fatto a varie fonti di popolamento e l’unità etnica si è costituita sulla base di una gran­ de diversità. È una cosa interessante, poiché il rapporto dell’indi­ viduo con la società, in quel tipo di società, è tanto piu esemplare in quanto esistono delle procedure culturali intense, dei riti di specie diversa — riti di iniziazione, riti che cominciano alla na­ scita e integrano fortemente al sistema culturale l’individuo che è in tal modo assunto e che così rimarrà fino alla morte. Si ha pertanto una forte assunzione culturale ed è con un unico movi­ mento che la logica sociale e i valori culturali si impongono a cia­ scun individuo. La logica sociale vuole che ciascun individuo stia al suo posto definito in funzione di diversi criteri: in particolare filiazione e situazione nell’ordine delle nascite; dunque non è che sia in un posto qualunque, sin dall’inizio è situato in un posto ben determinato. È cosi con uno stesso movimento che si affer­ mano questa logica sociale come logica delle differenze (ciascuno ha un posto diverso dall’altro) e simultaneamente i valori cultu­ rali che sono in teoria condivisi da tutti. Ciò che mi interessa è questa produzione simultanea dell’identità e delle differenze: iden­ tità culturale, almeno nei confronti dell’esterno (si sa che vuol dire appartenere a una cultura, essa si può circoscrivere), e sistema di differenze sociali, poiché all’interno di ciascuna società ciascuno è diverso dall’altro, distinto, discriminato. È il primo punto: da questo punto di vista le società di lignaggio mi sembrano assolutamente esemplari. In ciò non credo siano diverse dalle altre: esse sono come le altre, solo in modo chiaro.

106 Va notato che tale produzione simultanea di differenza e di identità è ciò che possiamo chiamare la produzione di senso e ciò che mi interessa è proprio tale questione. C’è anche da dire che è appunto tale produzione di senso ad essere messa in causa in ma­ niera quanto mai pratica per non dire assai brutale o crudele dai rigori della storia e particolarmente da tutto ciò che è sentito come aggressione dell’altro e specificamente dell’Occidente, per quanto concerne l’Africa. Ma è altresì ciò che è messo in causa da molte delle procedure battezzate amabilmente « sviluppo ». Intendo dire che l’etnologia, quella più attenta agli effetti di senso, non è necessariamente la meno adatta a comprendere le difficoltà create dalle condizioni dell’ingresso nel mercato mondiale, dalla de­ finizione di nuove società nazionali o di nuovi interessi individuali e in questo campo potremmo portare molti esempi. Ma quest’analisi della produzione del senso pone dei difficili problemi teorici: essa presuppone che sia afferrabile, comprensi­ bile per un osservatore, spesse volte straniero, il senso che danno al proprio ambiente gli uomini di un’altra cultura, ma tale anàlisi avrà una portata sociologica, antropologica, solo se ammette e chiarisce tre fatti: 1) che il senso è simultaneamente individuale e collettivo e, più precisamente, che c’è interferenza e intersezione tra senso individuale e senso sociale, dato per scontato che cia­ scun individuo è al suo posto e che tale meccanismo definisce, per essere precisi, il gioco combinato dell’immaginario e del sim­ bolico; 2) che l’ambiente di ciascun individuo (e da questo punto di vista le società di lignaggio sono esemplari, ma credo che ne troveremmo l’equivalente nelle società più tecnicizzate o più tecniche) è sia quello della natura (corpo individuale incluso) sia quello del sociale (compresa la persona individuale e la sua defi­ nizione in una società); 3) che questo senso non dipende pura­ mente e semplicemente da una distribuzione arbitraria dei simboli sul mondo ma che esso si costituisce altresì, anche quando av­ viene in maniera parziale, sulla base di osservazioni. Non si pos­ sono opporre, parola per parola e irriducibilmente, il simbolismo e la conoscenza. Alcune riflessioni più rapide sulle società di lignaggio. Una prima osservazione riguarda il fatto che in tali società, come pure in altre, ma in modo particolarmente manifesto in queste, la socia­ lizzazione dell’individuo precede perfino la sua nascita. Lo testi­ moniano le diverse teorie dell’eredità presenti nelle società afri­

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cane: la persona è generalmente concepita come una addizione di diverse sostanze e si tratta di sostanze nelle quali non è possibile dissociare radicalmente i principi che nel nostro linguaggio dicoto­ mico chiameremmo spirituali e quelli che invece chiameremmo fi­ sici o materiali. Ricordiamo, ad esempio le componenti psichiche della persona in numerose culture africane: c’è una topica, si di­ rebbe in linguaggio freudiano, che rappresenta la personalità psi­ chica e ci sono delle « istanze », sempre in senso freudiano, che hanno degli attributi particolari. Ma ciascuna di queste istanze è altresì una realtà fisica. Faccio un esempio: nelle società akan, che sono diffuse dal Ghana alla Costa d’Avorio, una delle parole che designano ciò che gli etnologi in mancanza di meglio hanno chiamato « anima » ha anche un contenuto fisico nel senso più materiale. Sperma, sangue e tale o talaltra forza « psichica » sono la realizzazione di una medesima sostanza. Lo stesso avviene in altre culture: ragion per cui quando Harner parla degli Jivaros si trova in imbarazzo a impiegare il termine « anima » per desi­ gnare dei principi psichici e cosi è costretto a notare che, quando gli Jivaros perdono sangue, dicono di avere « una emorragia di anima ». Qui si pone un problema di traduzione in quanto l’espres­ sione, per gli Jivaros, non è metaforica. Una seconda osservazione riguarda il fatto che l’identità indi­ viduale è sanzionata dall’attribuzione di un nome, poiché non si dà mai un nome senza tener conto degli antenati e dei genitori, della posizione nell’ordine delle nascite; capita anche che siano presi in considerazione altri elementi, come il giorno della nascita, ma tutto ciò è un’aggiunta, è una determinazione supplementare. Di fatto, in queste società assistiamo sin dall’inizio e perfino pri­ ma della nascita al predisporsi di procedure di identificazione di colui che sta per nascere. Vi sono naturalmente dei parametri che si collegano all’ordine delle nascite, alla natura dei congiunti, ai differenti lignaggi, ma vi è anche un qualcosa in più che può rin­ viare a un particolare antenato o a un destino singolare ed è molto interessante vedere nei sistemi di divinazione come sono praticati (in particolare ancor oggi nelle regioni del Dahomey, l’odierno Benin, nel Togo e in certe regioni dell’odierna Nigeria), quali sono i procedimenti di divinazione che cercano sin dall’inizio di caratte­ rizzare la natura e l’identità di colui che sta per nascere. Per un verso, ogni nascita è una rinascita, ma non si può veramente par­ lare di metempsicosi, in quanto è soltanto uno dei principi la cui

108 combinazione fa la singolarità individuale che si ripresenta; in fondo la persona è la riunione effimera di principi di origini di­ verse che sono coerenti per un periodo, la durata di una vita, prima di riprendere, ciascuno per suo conto, il proprio cammino, secondo una linea che differisce in funzione della loro natura. Prima di concludere su questo punto, possiamo ancora fare qual­ che osservazione: l’insieme di tali determinazioni alla nascita non costituisce un sistema strettamente parlando fatalista; sarà piut­ tosto uno degli elementi a fare comprendere l’avvenimento allor­ ché questo si verificherà. Ci saranno altri elementi che andranno tenuti presenti per analizzare l’avvenimento, ad esempio la malat­ tia, che, al riguardo, è un avvenimento esemplare. Si tratta quindi più che altro di una chiave di lettura per l’avvenire, lo strumento di una lettura retrospettiva più che la definizione a priori di un destino. Inoltre bisogna capire che la collocazione di queste deter­ minazioni può leggersi simultaneamente in rapporto ai diversi si­ stemi simbolici di cui ho già parlato, poiché il diritto e i doveri in materia economica sono chiaramente inclusi nella definizione della persona al suo posto e secondo il suo rango: ad esempio i figli degli uomini del lignaggio debbono al padre le forme di la­ voro, mentre in una società matrilineare, parallelamente a questi do­ veri di lavoro nei confronti della parentela paterna, si definiranno altri tipi di obblighi nei confronti dello zio materno, ma anche altre promesse nel campo dell’eredità e della successione; il che vuol dire che, da questo punto di vista, non si può dissociare ciò che pertiene all’ordine della biologia da ciò che dipende dal so­ ciale o dall’economico; tutto è dato in una stessa definizione, il che non vuol dire che il sistema non offra delle possibilità di stra­ tegia e di gioco. Delle possibilità si offrono sempre, particolar­ mente per colui che Bourdieu chiama « virtuoso » e F. Barth « primadonna », di giostrarsi con il sistema, ma tali capacità di gioco sono limitate e non sono contrarie allo spirito del sistema nel suo insieme. Bisogna inoltre capire che il processo di integrazione, di senso e di costrizione non si interrompe mai poiché, dopo le determinazioni alla nascita, ci sarà l’integrazione nelle classi d’età, ci sarà il matrimonio, ecc., che rispondono ad altrettante deter­ minazioni. Nella prospettiva non dualista delle società e delle culture africane non si ha mai un taglio netto fra « materiale » e « spirituale », fra « psichico » e « somatico », fra « individuale » e « sociale », fra Io stesso e l’altro.

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Tutto ciò porta alla definizione di una pratica sociale in cui nessun avvenimento sfugge all’interpretazione e nessuna interpre­ tazione alla teoria virtuale che è possibile inferire da tali prati­ che. Questa teoria è al tempo stesso una teoria dei poteri — dei poteri come sostanze, potenze individuali, potenzialità inerenti a ciascuna personalità — e del potere come struttura, struttura che, ponendo gli uni rispetto agli altri in un gioco di differenze, dà la misura della quantità di potenza che ciascuno può maneggiare. Sulla natura di questa teoria virtuale ci si potrebbe interrogare con maggiore precisione e, invece di tentare di teorizzare sulla teoria, svilupperò molto rapidamente un esempio: quello che con una certa goffaggine viene definita la credenza nella stregoneria nelle società africane. Si comincia a capirne qualcosa solamente a partire dal momento in cui si riconosce che si tratta di un feno­ meno di struttura, anche se le sue modalità possono variare da una cultura all’altra: presso gli Akan, matrilineari, il potere di ag­ gressione nella stregoneria può essere esercitato dallo zio materno sul nipote uterino; presso altre popolazioni sarà il patrilignaggio o i rapporti di alleanza ad essere messi in causa. Ogni storia di stregoneria, di aggressione psichica, concerne obbligatoriamente un certo numero di partner sociali e non persone qualunque. Ogni riferimento credibile, plausibile, alla stregoneria deve tener conto di due considerazioni che evocano quanto si è appena detto: 1) La stregoneria non può essere praticata arbitrariamente, al­ meno in un mondo non ancora sconvolto da fenomeni di contatto, di colonizzazione, di disordine sociale e intellettuale. Deve tener conto del fatto che il sistema esiste e che non si può fare una dia­ gnosi che vada contro tale sistema. Per cui, in un sistema matri­ lineare, nel quale l’atto di stregoneria si esercita da parte dello zio sul nipote, non è pensabile che possa riguardare invece un padre e un figlio. 2) Una persona qualunque non può accusarne un’altra a caso, anche se l’accusa è a priori teoricamente possibile. Questo perché la teoria di cui parlo non è espressa in quanto tale da nessuno nella sua globalità. Ciò che costatiamo è che ogni riferimento cre­ dibile alla stregoneria dipende dalle circostanze e dai rapporti di forza (e io ho cercato di mostrare che tra forza nel senso fisico o psichico del termine e potere nel senso istituzionale, la transi­ zione è impercettibile, almeno nell’idea che uno se ne fa). Il rife­ rimento alla stregoneria deve prendere in considerazione la strut-

110 tura di lignaggio, ma sempre partendo dal fatto che la teoria è una cosa e l’impiego delle parole un’altra. Colui che volesse accu­ sare, non essendo nella posizione di poterlo fare, si condannereb­ be allo scacco e alla morte. Vi sono quindi delle parole che non si possono usare se non quando si è in grado di farlo, cosa che mostrano tutte le situazioni di stregoneria. Direi che la definizione di tale stregoneria come fenomeno di struttura non è mai cosi evidente come nel caso dei capi di lignaggio, ad esempio in so­ cietà del tipo delle società lagunari della Costa d’Avorio, società a lignaggi forti che non hanno capi in senso stretto, bensì dei capi di lignaggio. Il primo sospetto è allora lo stesso capo del lignaggio, dato che è un uomo forte. Bisogna essere forti per meritare la successione e quest’uomo forte può tutto: può attaccare o difendere. Ora, se si vuole sapere perché qualcuno è morto, si interroga il cada­ vere seguendo dei procedimenti precisi: lo si solleva sopra la te­ sta e questi risponde sì o no alle domande che gli vengono rivolte facendo avanzare o retrocedere i portatori. Il capo del lignaggio è colui che ha il diritto di autorizzare o di proibire l’interroga­ zione del cadavere. Se rifiuta l’interrogazione, vuol dire che con­ fessa o meglio rivendica l’attacco senza affermarlo esplicitamente. Quando si oppone all’interrogazione, si può immaginare che si trova in grado di dire: « Ebbene sì, sono forse io il colpevole », ma impone la sua decisione, è il primo sospetto e l’ultimo accu­ sato. Di fatto, il capo del lignaggio si situa idealmente all’incrocio di due linee di filiazione (e di trasmissione di poteri essenziali, quello di stregoneria ma anche quello di « difesa », di « contrat­ tacco ») e beneficia così di un potere a rigore inqualificabile. Egli è forte, tutto qui. La costituzione dell’autorità tende, nelle società di lignaggio come nelle altre, a confondere ciò che l’ordine sociale distingue, a situare la realtà del potere dalla parte della natura indiscriminabile, anche quando è il fondamento e il garante di un ordine sociale che, per definizione, distingue, discrimina e mette in relazione. Da queste osservazioni sulla stregoneria nell’ambito del lignag­ gio si può trarre l’ipotesi seguente: c’è nelle società di lignaggio un certo numero di enunciati possibili a priori. È questo che ho prima chiamato la « teoria ». Ma la plausibilità, la credibilità de­ gli enunciati effettivamente pronunciati in un’accusa è funzione della persona e della situazione sociale dei locutori. Mi sembra che

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l’esempio della stregoneria possa essere esteso all’insieme dèi com­ portamenti sociali possibili, plausibili o credibili e propongo di usare il termine di ideo-logica per rinviare a tale somma del pos­ sibile e del pensabile, definendo però tale somma del possibile e del pensabile come differenziale. L’ideo-logica è al tempo stesso un insieme di regole in senso grammaticale (ciò che chiamavo teoria) e un modo d’impiego, un codice del saper vivere che in­ clude nelle sue regole l’uso diverso che possono farne coloro che l’utilizzano. Bisogna averne in qualche modo una visione stereo­ scopica: è lo stesso corpo di riferimenti ma cambia a seconda della posizione che si occupa, posizione che è quello stesso corpo di riferimenti ad assegnare. L’ideo-logica è simbolica in un duplice senso (il simbolo greco è quella moneta tagliata in due che permette a due partner di ri­ conoscersi, e il rapporto simbolico è quello che riunisce questi due partner). Il rapporto simbolico non è un rapporto d’espressione ma un rapporto di complementarità. L’ideo-logica, in questo sen­ so, sarebbe doppiamente simbolica: è simbolica rispetto alla tota­ lità che costituisce la somma virtuale del possibile e del pensa­ bile (poiché vi sono cose che non sono né possibili né pensabili vuol dire che c’è una somma di ciò che è possibile e pensabile). Quanto alla seconda totalità di riferimento, essa è la somma non piu virtuale ma reale, di ogni discorso e di ogni pratica possibile, effettiva, e prende in considerazione la posizione di colui che parla e di colui che agisce e di chi non parla né agisce da qual­ siasi posizione e in qualsiasi modo. Vorrei a questo punto tornare su un’osservazione particolare. Ho insistito sul carattere a priori della simbolica sociale, abbiamo visto l’insieme dei procedimenti istituzionali disporre un sistema di costrizioni che è simultaneamente un sistema di differenze intel­ lettuali o simboliche: ciascuno deve pensarsi nella sua differenza rispetto all’altro. Quel che ci mostra l’osservazione dei riti, è che non bisogna confondere né i sessi né le generazioni né le posi­ zioni sociali, ed è questa la costrizione fondamentale; l’effetto di una visione chiara è innanzitutto di sapersi tenere al proprio po­ sto. Dalla parte dell’autorità che fonda questo sistema delle dif­ ferenze invece, dalla parte della chefferie, della monarchia, qua­ lora esista, o anche dalla parte dei responsabili dell’ordine meteo­ rologico (il capo della terra, della pioggia, delle acque) — dato che sono loro a fondare il sistema delle differenze e il suo fun­

112 zionamento, che sono cioè loro a fondare il sociale — vediamo tali differenze cancellarsi o anche rovesciarsi, come per affermare il carattere bruto e naturale del potere. C’è un arbitrario del se­ gno sociale, come si può parlare di un arbitrario del segno lingui­ stico, e quest’arbitrario è significato dai riti che ci mostrano che al re, ad esempio nelle monarchie dell’est africano o nei piccoli regni dell’Africa dell’ovest, vengono proibite è vero molte cose, ma non le stesse che al resto dei comuni mortali. Avviene addirit­ tura che gli sia ordinato ciò che agli altri è proibito, particolar­ mente nel campo dell’incesto. In fondo si tratta di mostrare come il fondamento del sistema delle differenze (il sociale) sfugga esso stesso al sistema: esso ha la realtà dei grandi alberi, delle grandi montagne, in un certo senso è dalla parte della natura. Almeno è ciò che l’insieme del sistema di rappresentazioni mediante il quale ci vengono proposte delle forme di autorità tende a suggerire, con quella specie di brutalità, di cinismo dell’ideologia che affer­ ma la necessità di un sistema di differenze fondato, come si tende a credere, in ultima istanza, unicamente sullo stato delle cose. Esso è, tutto qui; non si discute. Ecco piu o meno ciò che molto brevemente si può dire a proposito di questa logica che, sull’esem­ pio delle società di lignaggio, può apparire in effetti come tota­ litaria nel senso intellettuale del termine, nella misura in cui non c’è avvenimento che sfugga all’interpretazione, essendo necessaria­ mente l’interpretazione funzione di una griglia che, nel caso delle società di lignaggio, è particolarmente rigida. Per concludere su alcune aperture, porrò molto rapidamente tre domande: cosa rappresenta per una tale logica delle forze la prova di forza, l’incontro dell’altro, la colonizzazione o, in senso più lato, l’integrazione nel mondo del cosiddetto sviluppo? Su un pianò più teorico e astratto, questo concetto di ideo-logica non rischierà di apparire come una visione idealistica o culturalista delle società? E infine, si può parlare di ideo-logica a proposito di tipi di società diversi dalle società di lignaggio (come io cre­ do)? Ognuna di queste domande meriterebbe di essere sviluppata e io non sono in grado di rispondere in modo sicuro a nessuna di esse; è per questo che mi limito a evocarle assai rapidamente. Credo in effetti che la prova della colonizzazione sia stata decisiva e radicale. La resistenza delle società che sono state oggetto della colonizzazione o dell’aggressione occidentale si misura anche dalla loro capacità simbolica, dalla loro capacità di resistenza simbolica,

113 di reintegrazione degli elementi che vengono loro dall’esterno. Da questo punto di vista, credo vi siano delle situazioni diseguali, non perché certi sistemi siano più deboli di altri, ma perché sono stati assaliti in modo diverso e sono stati messi in causa più radicalmente; da questo punto di vista credo che l’Africa non sia stata risparmiata. È una questione che andrebbe verificata nei particolari. Sul secondo punto, vorrei sottolineare che non è possibile dissociare l’attenzione verso il simbolico né da quel­ la verso la storia né da quella verso la produzione del sapere. Lévi-Strauss, neWIntroduzione all'opera di Marcel Mauss, a cui ho fatto cenno all’inizio, ha detto benissimo che, non appena c’è stata apparizione del linguaggio, è stato necessario che il mondo significasse: di conseguenza, c’è stata la distribuzione del senso, che ha preceduto quella del sapere; bisognava che il mondo significasse prima che si potesse sapere ciò che signifi­ cava, prima che si fossero elaborati i processi costitutivi del sa­ pere, che sono più lenti. Ma è la stessa ragione che è all’opera nella distribuzione del simbolismo sul mondo e nel varo di quel sapere di cui sono manifeste le tracce empiriche. Dopotutto, le società di cui parliamo sono vissute, sopravvissute, si sono ripro­ dotte: il loro dominio sulla natura non è semplicemente un domi­ nio simbolico, poiché hanno inventato delle procedure culturali e hanno disposto della natura; ma se andiamo a guardare tali pro­ cedure di organizzazione della natura noi diciamo, sempre a causa di quella visione dicotomica delle cose che è il nostro punto de­ bole, che anche in tal caso si ha simbolismo, ma proprio qui sta la prova che il pensiero che classifica e il pensiero che domina sono lo stesso pensiero. Di conseguenza non c’è — cosa importan­ tissima sul piano epistemologico — quel taglio netto tra il razio­ nale e l’irrazionale, tra l’empirico e il simbolico o il magico, che noi proiettiamo su certi tentativi intellettuali di dominare il mon­ do, che invece non si presentano in due tempi. Ecco la mia prima osservazione. Parlando di ideo-logica, suggerisco che in ogni so­ cietà vi sono strutture omologhe di ordinamento del mondo che sono anche degli ordinamenti del sociale. Ciò può sembrare con­ traddittorio rispetto al tema della determinazione mediante dati naturali e, in forma più elaborata, mediante lo stato delle forze produttive. A dir il vero, situerei questa determinazione a fianco di quella che Lucien Sebag, proseguendo su questo punto sulla

114 scia di Engels, ha chiamato una determinazione negativa: non tutto è possibile in un dato contesto. Vorrei infine dire che questa stretta complementarietà fra or­ dine individuale, ordine sociale e ordine del mondo è l’ideale del senso per ogni cultura, nella misura in cui questo cerchio chiuso, questa totalità, ha le sue virtu politiche. Da ciò forse la tenacia delle forme ideologiche nelle quali si è affermato questo legame. Potremmo applicare questa categoria al nostro mondo, che noi diciamo frazionato (separazione dei poteri, delle istituzioni)? Io penso che forse potremmo, perlomeno, tentare di cominciare a farlo, a condizione di mutare sguardo. È vero che viviamo in un mondo contraddistinto dall’istituzione: se un giorno nel mondo occidentale piu sviluppato sbarcassero dei marziani, se facessero delle monografie sulla falsariga di quelle che noi abbiamo fatto in altri continenti, credo che si arriverebbe a dei risultati assai stupe­ facenti; e se applicassero con la stessa leggerezza le categorie da noi applicate agli altri nelle voci delle monografie (vita sociale, vita politica, religione, rituale), si potrebbe scommettere che non riconosceremmo ciò che noi chiamiamo religione, o rituale, nelle loro descrizioni. Sono convinto che noi non misuriamo ancora l’im­ portanza di tutto ciò che, effettivamente, dà significato alle nostre vite individuali nel tipo di società attualmente rappresentato in Europa o negli Stati Uniti.

Christian Bromberger

La seduzione del potere. Procedure simboliche di legittimazione nell’IsIam rivoluzionario * « Si avrebbe torto a sottovalutare l’autonomia e Fefficacia di tutto ciò che avviene nel campo politico e di ridurre la storia propriamente politica a una sorta di manifestazione epifenomenale delle forze economiche e sociali cui attori sarebbero in certo senso le marionette» (Pierre. Bourdieu).

Negli anni settanta uno dei migliori specialisti di storia con­ temporanea dell’Iran vedeva in questi termini l’avvenire del paese: « Dato l’aumento del potere governativo, l’espansione del­ l’esercito, della burocrazia, dell’educazione laica, sembra probabile che il potere degli ’olamà (“chierici”, dottori dell’IsIam) conti­ nuerà a declinare come è avvenuto nell’ultimo mezzo secolo ». Nel 1978-79, molti osservatori non videro negli avvenimenti rivo­ luzionari altro che una tempesta passeggera, un episodio fugace che sarebbe necessariamente incappato in enormi difficoltà economi­ che, legate alla distruzione o alla disorganizzazione degli apparati di produzione durante le sommosse, alla fuga dei capitali, dei cer­ velli, dei tecnici ma anche a un rifiuto ideologico dell’« econo­ mismo » da parte dei nuovi dirigenti. Nel settembre del 1980, al­ l’indomani dell’aggressione irachena, gli stessi osservatori hanno annunciato la caduta imminente del governo islamico di Teheran, il cui esercito aveva subito una profonda disorganizzazione sulla scia degli avvenimenti rivoluzionari. Occorre forse sottolineare che i fatti hanno pili o meno clamo­ rosamente smentito ognuna di quelle predizioni? Se ricordo quei pronostici sbagliati — dei quali si potrebbe senza difficoltà allun­ gare la lista — non è per farmi gioco di profeti un po’ sfortu­ nati (peraltro non so di nessuno specialista che abbia previsto l’emergenza e ancóra meno le forme assunte dalla rivoluzione isla­ mica del 1978-79), e neppure per rammentare la vanità di qual­ siasi futurologia politica (la « necessità » storica « si impone » sempre a posteriori!) ma solamente per sottolineare la debolezza interpretativa di verdetti basati su una concezione riduttiva, re­ strittiva e unilaterale del campo politico. Tutti quei pronostici in effetti si fondano su una definizione lacunosa del potere, conce* Traduzione di Ottavio Fatica.

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pi to come una semplice forza di dominio, di coercizione e di or­ ganizzazione (di apparati produttivi, giuridici, amministrativi) e trascurano quei meccanismi principali nella rivendicazone, imposi­ zione e perpetuazione dell’autorità politica che sono la persuasione e la seduzione dei governanti o di coloro che aspirano a diventarlo; quei pronostici delimitano rigidamente il terreno dove si esercita il potere (l’esercito, la polizia, gli apparati giuridico-amministrativi, l’organizzazione economica...), sotto valutando le manifestazio­ ni invisibili dell’autorità, la sua dispersione in tutto il corpo so­ ciale, anche là dove meno ci si aspetterebbe di coglierne gli ef­ fetti in quanto a incarnarli non vi si incontra nessuna istituzione politica. Riconoscere la persuasione e la seduzione come componenti es­ senziali della legittimazione del potere, ammettere che questo po­ tere non si limita al dominio su istituzioni specializzate, oggi sono idee relativamente banali. Autori tanto diversi come Max Weber, Antonio Gramsci, Pierre Bourdieu o Michel Foucault hanno sotto­ lineato, ciascuno a suo modo, l’importanza nevralgica dei processi di legittimazione, di quelle « tecnologie positive del potere » (Fou­ cault) che suscitano nei governati non solo obbedienza, un con­ senso forzato o rassegnato ma « un minimo di volontà di obbe­ dire » (M. Weber), un consenso attivo, fiducia, credenza, fedeltà. Uno dei principali meccanismi della persuasione politica risiede in quella che Gramsci chiama la capacità direzionale dei leader o del gruppo sociale che esercitano o rivendicano il potere. Con ciò bisogna intendere la capacità dei dirigenti di proporre un progetto sociale, morale, culturale, in una parola antropologico, in grado di infondere — o meglio ancora di radicarsi in — « una visione del mondo » suscettibile di riunire i militanti di oggi e i governati di domani. Come dire che è sul terreno ideologico che si situa l’es­ senziale delle lotte per la contestazione e la conferma del potere, perché è li che si attua la presa di coscienza dei conflitti e delle contraddizioni. Gramsci ne deduce logicamente che un gruppo sociale che aspiri a governare deve in primo luogo affermare la sua supremazia direzionale. Tale supremazia — o se si vuole effi­ cacia ideologica — non si misura solamente con la coerenza intel­ lettuale, la pienezza di speranza diffuse da una dottrina, un programma, un insieme di regole e di norme sulla società e i modi di fare. Due meccanismi mi sembrano determinanti nel pro­ cesso ideologico di legittimazione: l’esistenza di atti che, offrendo

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dei modelli concreti di identificazione e di imitazione garantiscano il progetto direzionale; e che questo progetto sintetizzi, con va­ riazioni di senso e accumulo semantico, diverse dimensioni del­ l’esperienza sociale e culturale generalmente disgiunte (è quella che si può chiamare Fefficacia simbolica). Questi due punti meri­ tano qualche commento. Il potere di persuasione dei leader o di un gruppo dirigente non si esaurisce nella capacità di convinzione che costoro mani­ festano nelle loro analisi dello stato del mondo, degli uomini e delle cose, oggi e domani; esso si basa altresì sulla loro forza, intenzionale o inintenzionale, di seduzione; un’opera­ zione di sviamento che focalizza l’attenzione non piu sul potere, sulla sua reale natura, ma sulle pratiche quotidiane o eccezionali di quelli che lo esercitano o mirano a esercitarlo. In tutte le società il fascino per idee e progetti sul mondo rimane il piu delle volte appannaggio di alcuni specialisti; al contrario, perlo­ meno nelle società moderne, il riconoscimento consensuale del­ l’autorità di capi o leader si basa largamente sulla capacità di questi ultimi di incarnare un habitus (pratiche linguistiche, modo di vita, abitudini nel vestiario, comportamenti domestici, socievo­ lezza, ecc.) che si proponga come un riassunto delle pratiche — o delle aspirazioni — culturali della maggioranza. La seduzione politica, dunque, non funziona solamente gio­ cando sull’immaginazione e l’illusione (disconoscimento e trave­ stimento dello stato reale del mondo, promesse fallaci...); essa procede altresì per traslazione, esibendo modi di essere e di fare al pari degli intenti propriamenti politici. Il capitale culturale — in senso antropologico — fa così parte del « capitale politico », allo stesso titolo degli ideali e delle forze sociali di cui i leader sono i mandatari; esso contribuisce — occorre sottolinearlo, tanto abbondano gli esempi con temporanei? — all’affermazione dei maggiorenti locali e regionali ma anche alla popolarità dei leader dei grandi movimenti nazionali e rivoluzionari. Gramsci stesso aveva sottolineato l’importanza di questa capacità di incarnare un habitus consensuale allorché contrapponeva gli intellettuali dirigenti, — nel senso pieno del termine, — che traducono in atti un progetto, che si presentano come « modelli da imita­ re » — ai semplici produttori d’idee, che si muovono in un campo chiuso, che dànno pretesto a elogi o critiche unicamente da parte dei loro pari.

118 Questa capacità direzionale — che è una condizione della pro­ duzione e della riproduzione del potere — s’afferma con tanta piu forza in quanto si basa su un progetto che cristallizza diverse dimensioni dell’esperienza sociale e culturale, che opera una sinte­ si tra i diversi sistemi simbolici che costituiscono l’orizzonte di una società. Con questa formula non intendo solamente che il potere — o il progetto di potere — debba, per imporsi, dissimu­ larsi sotto le « apparenze legittime », come direbbe Bourdieu, « di tassonomie filosofiche o religiose »; con ciò intendo anche dire che la visione del mondo che propongono, in modo più o meno esplicito, i (futuri) governanti diventa veramente effica­ ce, mobilitatrice soltanto: 1) se è un’antropologia totale, un siste­ ma di sistemi, in grado di stabilire, grazie a un gioco di equivalen­ ze di opposizioni semantiche, una serie di corrispondenze fra i diversi registri di funzionamento e di apprensione del reale (conflitti sociali, modi di vita, sistemi religiosi e di rappresenta­ zione...); 2) se manipola un materiale culturale precostituito ad alto potere connotativo, materiale valorizzato il cui registro (mitico, storico, etico ecc.) varia a seconda delle società. Su questa base si può supporre che uno dei terreni nevralgici dell’affermazione della legittimità politica è di ordine propria­ mente simbolico; ma questa capacità di muovere dei simboli può perpetuare la sua efficacia solamente se è unita a una capacità di muovere il reale. Come un potere si logora se si impantana nei soli compiti organizzativi, così si logorano i simboli, perdendo il loro effetto di mobilitazione, se si rivelano vani alla prova della stagnazione — perfino della regressione — del mondo. Per mantenersi, un potere deve necessariamente conciliare le due dimensioni strutturalmente complementari che sono il « domi­ nio » e la « direzione », secondo le espressioni di Gramsci. Sono queste, per riprendere i termini dello stesso autore, le condizioni dell’imposizione o della perpetuazione dell’« egemonia ». Queste considerazioni preliminari possono permettere di chia­ rire certi meccanismi della crisi rivoluzionaria iraniana degli anni 1978-79, e di comprendere come i leader islamici abbiano potuto imporre la loro legittimità per rovesciare e poi impadronirsi del potere dello Stato. Accantonando — senza sottovalutarli — i fat­ tori economici che hanno determinato, sin dagli anni 1974-75, una crisi strutturale della società iraniana, di questo processo

119 prenderò in considerazione tre punti determinanti: 1) l’incapa­ cità del regime palliavi di imporre la sua egemonia e, per reazione, il rafforzamento del potere direzionale dei leader islamici, che incarnavano un habitus consensuale per larghi strati della società iraniana; 2) l’investimento politico da parte dei rivoluzionari di un materiale culturale (mitico-religioso) precostituito e di abitudini sociali (socievolezza comunale, professionale, ecc.) for­ temente radicate; 3) il peso del capitale di seduzione personale per la promozione del leader (all’occorrenza Vemàm Khomeyni). Risultato del fallimento di un sistema di sviluppo — che aveva organizzato la « periferizzazione » dell’economia del paese — la crisi rivoluzionaria iraniana fu altresì — e forse innanzitutto — una crisi di egemonia, che sanzionava la debolezza direzionale del potere pahlavi. Discorsi del genere potrebbero, sorprendere quando si conosca lo straordinario rafforzamento dell’influenza dello Stato su tutti i settori della vita pubblica durante i regni di Rezà Shàh e poi soprattutto di suo figlio, Mohammad Rezà Pahlavi: organizzazione di una potenza militare che diventa una delle piu importanti del mondo, di una polizia politica che con­ trolla quasi tutti gli aspetti della vita pubblica e privata, confisca della quasi totalità degli organi di elaborazione, trasmissione e diffusione del sapere. In effetti, malgrado il suo controllo su quasi tutti i settori della vita sociale, malgrado la velleità egemo­ nica di addossarsi la responsabilità dell’uomo nella sua interezza (insomma di essere una antropologia), lo Statò di Pahlavi è rimasto, per rifarci ancora una volta alle contrapposizioni gram­ sciane, un semplice strumento coercitivo, uno Stato « in senso stretto » e non « in senso integrale », una forza di dominio ma molto piu raramente di direzione. Diciamo, anche a rischio di cadere nella caricatura, che nel periodo prerivoluzionario l’IsIam (simboleggiante un modo di vita, ci torneremo sopra) e il regime pahlavi occupavano nella sfera del potere — in senso lato — delle posizioni simmetriche e inverse: da una parte una « forza di direzione », incarnazione di un campo di pratiche e di rappre­ sentazioni tradizionali, quelle degli strati subalterni o privati delle loro prerogative (i piccoli bdzdri\ piccola borghesia mercantile), dall’altra una forza di dominio che, malgrado i numerosi tentativi di affermare culturalmente la propria legittimità, non è mai riusci­ ta a imporre la propria egemonia. Non mancarono infatti tentativi del genere per suscitare l’adesione del popolo iraniano alla « gran­

120 de civilizzazione » che lo scià proponeva come progetto antropo­ logico. Le due molle principali di questo progetto erano, da una parte, l’insistenza sull’unicità iraniana, dall’altra, il richiamo all’occidentalizzazione. L’immagine dell’identità iraniana proposta dall’alto cancellava tutto un aspetto della storia e delle tradizioni del paese (quelle di un Iran progressivamente conquistato daU’islamizzazione, dalla conquista araba alla metà del settimo secolo) ed esaltava il « gran­ dioso » passato preislamico o anche forme folkloristiche desuete. L’esasperazione dell’identità nazionale, ariana e plurimillenaria — che aveva per scopo di affermare la singolarità della storia e del destino dell’Iran rispetto ai vicini paesi musulmani — si era tradotta in tutta una serie di manifestazioni e di atti simbolici, alcuni dei quali ebbero risonanza mondiale senza pro­ durre molti effetti sulla popolazione locale: celebrazione fastosa del duemilacinqueceptesimo anniversario dell’impero, istituzione di un calendario imperiale, sfruttamento a fini ideologici delle scoperte archeologiche riguardanti il periodo achemenide, delle scoperte etnografiche che permisero di definire un folklore speci­ ficamente iraniano. Questi tentativi di legittimazione e di stabi­ lizzazione culturali del potere imperiale si estesero alla toponimia e all’onomastica; nel 1935 il paese veniva ribattezzato: da Persia divenne l’Iran o « paese degli ariani » (Iran-vej in lingua pahlavi, « persiano medio » in uso sotto le dinastie dei Parti e dei Sassanidi) ; allo stesso modo vennero ribattezzate numerose città, a testimonianza del radicamento della tradizione nazionale in una arianità plurimillenaria. Quando ai nomi stessi dei sovrani, Rezà Shàh Pahlavi e Mohammad Rezà Shàh Pahlavi Aryàmehr, essi simboleggiano al tempo stesso una connessione all’islamità (Mo­ hammad, Rezà — ottavo emàm degli sciiti) e l’affermazione crescente dell’identità preislamica e ariana della nazione iraniana (Pahlavi, in riferimento alle epoche dei Parti e dei Sassanidi, cfr. supra-, Aryàmehr: « l’amore sole degli ariani »). Il richiamo all’occidentalizzazione dei modi di vita fu la secon­ da faccia dell’ideologia imperiale, che invitava al consumo dei beni di importazione, sanzionando cosi la dipendenza e la periferizzazione crescente dell’economia iraniana. Questa occidentalizza­ zione, predicata dall’alto, che imponeva come modelli le pratiche di consumo all’europea e all’americana, veniva comunemente desi­ gnata nell’Iran prerivoluzionario con l’espressione: « civiltà della

121 Peykàn » (automobile fabbricata in Iran con pezzi proveniènti dall’Inghilterra); molti nell’Iran imperiale denunciavano questa alienazione culturale, questa « ovestossicazione » (qarbzadegi, ti­ tolo dell’opera di J. Al-e Ahmad uscita negli anni sessanta) che giovava solamente a una minoranza di privilegiati (grande borghe­ sia cittadina, quadri dell’industria, impiegati delle amministrazio­ ni, ecc.). A dire il vero, alla vigilia della rivoluzione coesistevano nella società urbana iraniana due culture impermeabili; a Teheran esse erano rigorosamente localizzate nello spazio: i quartieri ele­ ganti e occidentalizzati occupavano la zona nord della città, i quartieri poveri quella sud; i viali mediani erano considerati come delle frontiere tra i due mondi. La comunicazione fra classi dominanti e strati subalterni — che è una delle condizioni del­ l’egemonia — era diventata radicalmente impossibile: due univer­ si culturali fianco a fianco, due sfere di pratiche e di rappresenta­ zioni totalmente separate, due campi di referenti e di stili di discorso senza elementi comuni. Il regime pahlavi, pur proponendo dei modelli di identità, non riuscì mai a trovare gli intermediari — personali, materiali, simbolici — capaci di suscitare l’identificazione del popolo in quei modelli. Questa debolezza direzionale — completamente scissa dalle pratiche e dalle rappresentazioni popolari — fu uno dei fallimenti principali del potere dello scià. Al contrario, i modi di vita ostentati e predicati dai leader religiosi erano, nell’Iran prerivoluzionario, oggetto di un vasto consenso; il prestigio di un certo numero di quei leader — fra i quali in prima fila Vemàm Khomeyni — si fondava tanto sul contenuto delle loro prediche, della loro azione propriamente politica, che sul modo di vita — semplice, frugale e sobrio — che essi simboleggiavano, sulla falsariga delle condizioni di vita degli strati medi tradizionali. La rivoluzione islamica ha dovuto almeno in parte il suo successo alla riabilitazione di un habitus (comportamenti e regole domestiche, fogge di abbigliamento, for­ me di socievolezza abituali) che rimaneva in sorte ai « frustrati della modernizzazione » e che era stigmatizzato dal vecchio regime in quanto un freno al progresso. Il linguaggio populista e diretto di Khomeyni, il suo tenore di vita austero, l’immagine del patriar­ ca che amava assumere, hanno contribuito sensibilmente all’affer­ marsi della sua popolarità, a detrimento di altri leader dalla retorica piu lambiccata, che denunciavano con meno forza, meno

122 esempi e meno demagogia i modi di vita degli idolatri (taghuti). Il pauperismo — affettato o accettato — resta a tutt’oggi una regola di comportamento dei dirigenti (semplicità di abbi­ gliamento e di eloquio, rifiuto del lusso domestico), in modo da offrire l’immagine di una riconciliazione fra il dowlat (gover­ nò) e il mellat (popolo), tradizionalmente opposti, nelle tradi­ zioni popolari, come due forze contraddittorie.

La potenza di mobilitazione dell’IsIam non potrebbe tuttavia ridursi a questa capacità di simboleggiare un’identità, di restaura­ re modi di vita tradizionali fustigati dalle pratiche e dai discorsi dei vecchi governanti. L’investimento politico di credenze, dogmi, pratiche rituali — propri dello sciismo —, che costituiscono il cemento della cultura popolare, è stato — e rimane ancora dall’istaurazione della repubblica islamica — un’arma efficace di contestazione prima, e poi di legittimazione. Tutta la forza dei leader religiosi — come di certi filosofi e teologi, quali ’Ali Shari’ati e Mortazà Motahhari — è consistita nel pensare e far pensare il reale attraverso forme culturali precostituite, Ì cui significati sono stati investiti di nuovi contenuti. È vero che le credenze e i dogmi shi’ti — più di quelli di altre ideologie religiose — offrono appiglio per una simbolizzazione socio-poli­ tica, per una messa in relazione punto per punto fra le diverse dimensioni costitutive dell’esperienza del mondo; tali credenze e tali dogmi infatti — e in modo ancor più sensibile che nel sunnismo — pongono il problema della legittimità del potere, laddove altri sistemi religiosi, ad esempio il cristianesimo, istaura­ no — perlomeno teoricamente — una divisione fra la gestione dei beni qui in terra e nell’aldilà («Dà a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio »). Non si può comprendere lo svolgimento della rivoluzione ira­ niana del 1978-79, le forme di mobilitazione popolare che perdu­ rano a tutt’oggi, se non si tiene conto del peso delle tradizioni martiristiche proprie dello sciismo duodecimano, le quali hanno formato l’ossatura simbolica del dramma rivoluzionario e sono state per molti una griglia di lettura della realtà sociale e un modello d’azione per la lotta politica. L’esaltazione del martire (shahàdat) trova la sua origine nella storia mito del terzo emàm (letteralmente: « guida ») degli sciiti, Hoseyn, ucciso in circo­

123 stanze atroci dalle truppe del califfo omayyade Yazid, nel 680, a Karbalà (nell’odierno Irak). Prima di presentare per sommi capi le risorse drammatiche e tematiche di questo mito che costituisce l’orizzonte principale dello sciismo popolare e di mostrare come questa tradizione martiristica abbia gravato con tutto il suo peso sulla piega assunta dagli avvenimenti rivoluzionari, vorrei fare due osservazioni su quella che si potrebbe definire la pesantezza simbolica. Spesso si sono presentate le identificazioni, frequenti nelle dichiarazioni degli ’olama durante i due decenni che hanno prece­ duto la rivoluzione, fra gli attori del dramma di Karbalà e i protagonisti della vita politica, come un linguaggio di circo­ stanza, un’abile mossa per evitare la censura del regime dello scià, un « ombrello protettivo »; sempre nello stesso senso si è affermato, nel corso degli avvenimenti del 197B-79, che la simbolica sciita e martiristica si era appiccicata a posteriori su una contestazione popolare — in margine alla religione — che ne aveva preceduto le manifestazioni. L’Islam, le immagini e le metafore associate al dramma di Karbalà, altro non erano, secondo quelle interpretazioni, che vettori di rivendicazioni di altra natura (economica, sociale, ecc.). Ridurre il linguaggio o la « coscienza » mitici a semplici paraventi o a espressioni con­ giunturali di conflitti sociali preesistenti mi sembra dipendere da schemi rigidamente meccanicisti. Non si possono dissociare, e attribuire un carattere piu o meno determinante, a avve­ nimenti, conflitti, una crisi e dei quadri concettuali, cre­ denze, una griglia di lettura simbolica attraverso i quali quella crisi, quei conflitti, quei fatti sono percepiti, giudicati e vissuti. Al pari della lingua, i miti e i rituali sono radicati nelle rappresen­ tazioni e nelle pratiche sin dalla piu tenera infanzia e mediano l’esperienza della realtà; all’occorrenza essi hanno formato il voca­ bolario e il cerimoniale designando e aderendo ai conflitti sociali. Il « paradigma di Karbalà », per riprendere l’espressione di M.M. J. Fischer, nelle fasi prerivoluzionaria e rivoluzionaria, ha infor­ mato la realtà e le contraddizioni sociali tanto quanto ne è stato informato. La seconda osservazione è che la forza di mobilitazione e di identificazione di un mito personale è senza dubbio piu forte di quella di un insieme di dogmi e di convinzioni; i miti personali (come quello della passione di Hoseyn) offrono delle analogie

124 sui generis con la lotta politica, sono dei drammi con le loro vittime, i loro attori sanguinari, i loro traditori, i loro convertiti alla buona causa; sulla falsariga dei conflitti sociali sono anch’essi iscritti nel tempo, si svolgono in atti scanditi da sconfitte e da momenti di incertezza. E passiamo alla presentazione delle grandi risorse drammatiche e simboliche del mito di riferimento dello sciismo. Il tragico confronto di Karbalà s’iscrive nel quadro delle rivalità che segui­ rono alla morte del profeta. Alla morte di ’Ali (cugino e genero del profeta), primo emàm degli sciiti, Hasan e Hoseyn, i suoi figli, rivendicarono il loro diritto al califfato, esercitato dall’omayyade Mo’awiya. Hasan (secondo emàm), sebbene avesse rinunciato ai suoi diritti, mori avvelenato da una donna del suo harem assoldata dal califfo. Quanto a Hoseyn, egli rispose nel 60-61/679-680 all’appello degli abitanti di Koufà, partigiani degli alidi in rivolta contro il califfo Yazid, figlio di Mo’awiya. ISernàm e le genti della sua casa (la famiglia e un pugno di partigiani), traditi dai koufiani, subirono durante dieci giorni e in condizioni atroci, l’assedio delle truppe amayyadi nel sito desertico di Karbalà. Il giorno di 'àshurà (10 moharram 61/ 10 ottobre 680), parenti e compagni di Hoseyn vennero mas­

sacrati a eccezione di due o tre ragazzi, fra cui ’Ali, figlio di Hoseyn (che diventerà il quarto emàm degli sciiti) e delle don­ ne, che furono tutte risparmiate. Il martirio e il supplizio di Hoseyn — che non tentò di sottrarsi alla morte — concluse la drammatica giornata. Questo è l’« avvenimento centrale », per riprendere l’espressione di J. Calmard, nel quale si contrappon­ gono due categorie di personaggi, i buoni e i cattivi, i tiranni e le vittime: da un lato il califfo Yazid, Ibn Ziyàd, comandante delle truppe omayyadi, Shemr che compie il mostruoso misfatto (l’assassinio dell’emàm) ; dall’altra Hoseyn, « il principe dei mar­ tiri », e i suoi, fra i quali il fratellastro Abbàs che tentò, il 7 moharram, una disperata sortita per rifornire di acqua gli alidi, e sua sorella Zeynàb, altra figura leggendaria. L’analisi dei temi dominanti della « passione » di Hoseyn fa apparire una rete di opposizioni semantiche binarie molte delle quali ruotano intorno al problema del potere: alla legittimità degli alidi si oppone l’illegittimità degli omayyadi, alla giustizia — incarnata da Hoseyn — la tirannia — simboleggiata da Yazid — ecc. Cosi il mito fornisce, grazie alla sua struttura drammatica

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e tematica, un materiale che si presta in modo particolare alle analogie con Fazione e la lotta politiche. I principali rituali sciiti sono incentrati sulla commemorazione del martirio di Hoseyn e dei suoi e quindi caratterizzati dal lutto e dal cordoglio. La simbolica martiristica, che domina lo sciismo popolare, si esprime soprattutto al momento delle cerimo­ nie dei dieci primi giorni di moharram che conclude la celebra­ zione di 'àshura (anniversario della morte di Hoseyn): prediche, cantici, misteri, processioni nel corso delle quali i penitenti si flagellano commemorando il dramma di Karbalà. L’osservanza di quei rituali dolorizzanti — che evocano o riproducono il suppli­ zio di Hoseyn — è per i credenti un mezzo per ottenere l’interces­ sione del Principe dei Martiri e di accedere cosi, il giorno della loro morte, al « giardino » (Paradiso). Questa tradizione martirista e i rituali che le corrispondono, metaforicamente investiti di un contenuto politico, hanno costi­ tuito l’ossatura simbolica e organizzativa degli avvenimenti rivo­ luzionari. E in effetti, attraverso quale altro quadro uomini radi­ cati nello sciismo potevano pensare, far pensare, vivere la contestazione e la legittimazione del potere se non attraverso quella simbolica e quei rituali che formavano il cemento della cultura popolare? Se la tradizione sciita ha costituito l’ossatura simbolica del dramma rivoluzionario è in primo luogo per via dell’insieme di associazioni metaforiche che accomunavano i protagonisti della vita politica iraniana agli attori della tragedia di Karbalà: nel 1978, nei discorsi dei leader religiosi, come negli slogan popolari, il nemico da sconfiggere era la triade Yazid, scià, dowlat (gover­ no). « Morte al governo di Yazid », « Shàn Yazid » gridavano i manifestanti; oggi è il capo di stato irakeno, Saddam Husain, a essere paragonato a Yazid negli slogan ufficiali. Peraltro questa tradizione ha avuto un peso enorme nel processo di mobilitazione, per via del ruolo che accorda al martirio (shahàdat) e al sacrificio di sé (fedàkàri). Ricordiamoci di alcuni slogan dell’autunno 1978: « La libertà è come un albero; cresce solo annaffiata dal nostro sangue », « La sola via della felicità è la fede, la guerra santa, il martirio », « La morte rosea, la morte di re Hoseyn è piu bella di una vita di vergogna! », « Non c’è nulla di piu bello che morire a moharram »... Ci si ricorda anche che il « ve­ nerdì nero » (8 settembre 1978), dei giovani offrirono il loro

126 nudo petto alle pallottole dei militari, sacrificandosi a imitazione di Hoseyn. Osserviamo infine che le grandi manifestazioni che determinarono la partenza dello scià assunsero la forma e il ritmo delle processioni rituali tradizionali (organizzazione, posizione dei partecipanti, ritmo dei passi e degli slogan). Dall’istaurazione della repubblica islamica, il martirismo resta un’arma di mobilitazione e di legittimazione che viene brandita per suscitare l’adesione popolare, per giustificare un disastro, investire un’autorità, accendere la commemorazione e il ricordo. Il linguaggio rivoluzionario resta impregnato di riferimenti al martirio, al dramma di Karbalà; gli slogan ufficiali lo riecheggia­ no: « Vivi come ’Ali, muori come Hoseyn », « Ogni giorno è ’àshura e ogni luogo è Karbalà »... Nei giornali iraniani, come sui manifesti che tappezzano le mura delle città è sempre la parola shahid (e non quella più neutra di « morto ») a designare coloro che sono caduti per la « buona causa »; la formula ufficiale presentata ai parenti di coloro che sono periti per « amore della verità » è tabrik va tasliyat (« felicitazioni e condoglianze »), glorificazione del martire promesso alla felicità. L’assimilazione fra i protagonisti della vita politica e quelli del dramma di Kar­ balà resta frequente, forzando gli avvenimenti per farli coincidere con la matrice mitica. Nel breve messaggio indirizzato al popolo iraniano dopo l’attentato che, il 28 giugno 1981, decimò il Partito della repubblica islamica, Vemàm Khomeyni impiegò sedici volte i termini « martirio » e « sacrificio » e fece un parallelo fra quell’avvenimento e l’episodio della Karbalà: « La nazione iraniana ha perduto, in questo dramma inaudito, settantadue innocenti — numero uguale a quello dei martiri di Karbalà » (in effetti ci furono probabilmente più di cento morti ma gli organi ufficiali di informazine si attennero a quel numero simbolico...). Con l’ascesa alla presidenza della repubblica à^hojat-ol-eslàm ’Ali Khamene’i, gravemente ferito nel corso di un attentato, si è popolarizzato un nuovo concetto, quello di shahid zande (« mar­ tire vivente »). Infine, gli appelli alla mobilitazione per la guerra contro l’Irak non avrebbero avuto lo stesso successo — perlome­ no all’inizio delle ostilità — se non avessero fatto leva sul senti­ mento del dovere religioso e su quella sensibilità martiristica. Quei simboli, quei rituali, materiale culturale ad alto potere con­ notativo, sono stati investiti di nuovi significati e presentati come una matrice di lettura del mondo e di azione sul mondo; è

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appunto a motivo del loro statuto privilegiato nella cultura popo­ lare che hanno potuto mutarsi in armi efficaci di mobilitazione e di legittimazione. L’Islam sciita presenta inoltre, per il suo contenuto dottrinale, una predisposizione particolare a porre in termini critici il proble­ ma della legittimità del potere. È proprio facendo leva su tali virtualità contestatarie fornite dalla dottrina e poi investendole di nuovi contenuti che i chierici piu radicali — Vemàm Khomeyni in prima fila — hanno legittimato i loro appelli alla contestazione del potere dello scià e poi l’imposizione del governo islamico. Questo bricolage teologico-politico, che è risultato nel controllo diretto del potere da parte dei religiosi — un’innovazione nella storia dello sciismo duodecimano — è potuto sembrare legittimo solamente perché trovava le sue giustificazioni in fonti dottrinali preesistenti. Le virtualità contestatarie dello sciismo duodecimano hanno le loro radici alle origini stesse di quella corrente religiosa. Secon­ do il dogma, infatti, solo i dodici primi emàm (’Ali e i suoi discendenti che si sono succeduti come capi spirituali della comu­ nità) hanno potuto esercitare un potere giusto e legittimo; i primi undici emàm sono tutti periti in circostanze tragiche; quan­ to al dodicesimo, Mohammad, egli è scomparso nell’874 e la sua « occultazione » dura ancora. Nell’attesa della parusia di que­ sto « emàm nascosto » {emàm qa'eb}, qualsiasi forma di governo è necessariamente imperfetta. I credenti, per guidare i loro atti e le loro decisioni, devono conformarsi ai consigli degli ’olamà riconosciuti come i più giusti e i più competenti e che sono considerati come fonti di imitazione {maria'-e taqlid). Come ge­ stire allora il potere in mancanza di guide legittime? Il problema è stato oggetto, sin dall’istituzione dello sciismo duodecimano come religione di stato, all’inizio del XVI secolo, di interpreta­ zioni e di atteggiamenti divergenti, perfino contraddittori, secon­ do i periodi, le dinastie, le scuole teologiche o ancora secondo le diverse tendenze del clero; ma nessun potere nella storia mo­ derna dell’Iran ha potuto eluderlo: tutte le dinastie, tutti i monar­ chi — salvo rare eccezioni — cercarono una garanzia religiosa all’esercizio del loro governo. Anche l’ultimo scià, che pure denun­ ciava la « reazione nera » e metteva in opera una politica di laicizzazione, aveva la sua personale « cricca » di 'olamà che ga­ rantiva il potere imperiale. In effetti, da parte del clero, non

128 ci fu mai unanimità sulla condotta politica da preconizzare in assenza dell’e^Tzz nascosto. Per attenerci al periodo recente, non si può non essere colpiti dalle radicali divergenze di interpre­ tazioni dei filosofi e teologi che hannno trattato ù&emàmat. Per taluni la vacanza del potere degli emàm deve spronare a una certa indifferenza, perfino alla diffidenza nei riguardi della vita politica e quindi al rifugio nella spiritualità, dovendo i chierici limitarsi alle attività propriamente religiose; era questa la posizio­ ne di un certo numero di islamologi più in vista sotto il regime pahlavi, ad esempio S.H. Nasr; è ancora adesso il punto di vista — con alcune sfumature — di una frazione del clero sciita, ostile a una gestione diretta del potere da parte degli ’olamà, stimando che costoro debbano limitarsi all’interpretazione della legge religiosa, alla soluzione giuridica dei problemi che pone la vita quotidiana, alle raccomandazioni in materia di rituale e di devozione. Per altri, il cui punto di vista — non occorre sottolinearlo — l’ha avuta vinta, il dogma AeWemamat imponeva il dovere di contestare i detentori di un potere illegittimo e, secondo la versione che Khomeyni sviluppava nelle sue opere prima di concretizzarla nei fatti, di rimpiazzarli « con uomini superiori che attuassero la religione e fossero dei modelli ». Que­ sta concezione radicale, offensiva — e interamente nuova — àeXYemàmat che imponeva come guida il teologo più giusto e più virtuoso, è oggi una delle pietre miliari del governo islamico. L’istituzionalizzazione del velàyat-e fadih (letteralmente la « so­ vranità del giurista-teologo ») è indubbiamente il tratto più origi­ nale della costituzione della Repubblica islamica: « In assenza à&Yemàm del tempo \Yemdm nascosto] — che Dio affretti la sua riapparizione — nella repubblica islamica dell’Iran, la gestione e la guida della comunità sono affidate a un dottore dèi dogma giusto, virtuoso, cosciente del suo tempo, coraggioso, che possegga autorità e esperienza, accettato come guida (emàm) dalla maggioranza del popolo ». Le prerogative di questa guida — definite al quinto e al centodecimo principio della costitu­ zione— sono considerevoli (comando delle forze armate, revoca del presidente della repubblica, ecc.). Si vede dunque come l’interpretazione khomeyniana dell’e^mat sia servita tanto a contestare il potere dello scià che a imporre il governo islamico. Se, in nome AeWemàmaty bisogna « impedire ai sovrani e ai loro giudici di servire da riferimento o da rimedio

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estremo al popolo: è per questo che Dio ha ordinato ad esso di rivoltarsi contro quei monarchi e altri governanti »; allo stesso titolo bisogna, dopo l’istaurazione del governo islamico, « ob­ bedire alla Legge, sottomettersi ai responsabili del governo o emàm »; si tratta « degli ordini di Dio ». L’uso stesso della parola emàm a partire dal 1979 per designare la guida della rivoluzione ha contribuito a quel processo di legittimazione teologico-politica; esso ha favorito, nelle rappresentazioni popolari, l’accosta­ mento fra Khomeyni e i dodici emàm dello sciismo e ha potuto far credere, all’inizio degli avvenimenti rivoluzionari, che fosse giunto il tempo della parusia A^emàrn nascosto. La legittimazione del potere islamico si è quindi largamente basata sull’interpretazione — nuova — del dogma — preesistèn­ te ùeR emàm at e sull’insieme delle connotazioni che. suscita l’im­ piego di quel termine. La contestazione del regime dello scià e poi l’istaurazione del controllo sociale e della repressione non avrebbero avuto la stessa efficacia se non avessero aderito, secondo un processo formalmen­ te simile a quello da noi descritto in precedenza, a delle forme di organizzazione preesistenti, le cui funzioni tradizionali si situa­ no in margine alle attività propriamente politiche. All’inizio degli avvenimenti rivoluzionari molti osservatori hanno notato, a torto, che il movimento e le manifestazioni popolari erano spontanei; per costoro, spesso prigionieri di schemi etnocentrici, l’organizza­ zione poteva essere opera soltanto di apparati politici o sindacali la cui debolezza invece, dovuta in gran parte alla repressione, era un tratto saliente della situazione prerivoluzionaria. Ciò signi­ ficava misconoscere l’importanza di raggruppamenti e di associa­ zioni tradizionali che formarono l’ossatura organizzativa della ri­ voluzione. I raggruppamenti regolari nelle moschee, nei grandi santuari (Qom, Mashhad) e negli umili emàmzade (piccoli san­ tuari, dove riposano le spoglie di un discendente di un emàm), le riunioni nei hoseyniye (locali consacrati alla commemorazione del terzo emàm} sono il quadro di una socievolezza abituale ed erano, nell’Iran dello scià, le sole circostanze in cui la parola contestataria sfuggiva alla censura del potere. Le città iraniane sono del resto tradizionalmente irrigate da una rete di piccole associazioni a vocazione religiosa, che riuniscono gli uomini di uno stesso quartiere (hey’at-e. mahalli) o di una stessa professione (hey’at-e senfi). Tali associazioni si erano venute moltiplicando

130 durante il decennio precedente alla rivoluzione; è attraverso quel­ la rete che si è diffusa la contestazione, che sono circolate le cassette dei chierici piu famosi che invitavano alla rivolta. Quei quadri tradizionali di raggruppamento hanno formato durante gli avvenimenti rivoluzionari un dispositivo di sostegno, di mutua assistenza e di organizzazione particolarmente efficaci e formano oggi l’ossatura di un certo numero di istituzioni incaricate del controllo sociale e poliziesco o della distribuzione delle derrate: i comitati di quartiere, i consigli islamici sono, a titoli diversi, eredi di quelle strutture associative la cui missione è stata — occorre sottolinearlo? -— ampiamente sviata dalla loro funzione originale. In quanto alle moschee, esse giocano un ruolo chiave nell’organizzazione della vita quotidiana a livello di quartiere: vi si distribuiscono i biglietti di razionamento per l’acquisto dei prodotti di prima necessità, i certificati di moralità indispensabili al compimento di pratiche amministrative, ecc. Tali forme tradi­ zionali di raggruppamento hanno inoltre modellato le grandi ma­ nifestazioni popolari del 1978-79, non solo, come si è detto, perché queste ultime hanno riprodotto le processioni rituali di moharram ma anche perché furono organizzate secondo gli stessi principi: ordine preciso assegnato ai daste (gruppo di flagellanti e, all’occorrenza, di manifestanti), equipaggiamento tecnico sofi­ sticato (sonorizzazione, ecc.), intendenza e assistenza minuziosa (per i pasti, il trasporto, eventualmente i malati). Armatura simbolica del dramma rivoluzionario, le tradizioni sciite ne furono altresì, in larga misura, l’armatura organizzativa. Credenze, dogmi, costumi riconosciuti come legittimi dalla mag­ gior parte della popolazione vennero investiti di nuovi contenuti che li trasformarono in strumenti per la contestazione e poi per l’esercizio del potere. Il peso del « capitale politico personale », secondo l’espressio­ ne di Bourdieu, è un altro elemento determinante nel processo di rivendicazione e d’imposizione del potere. Tanto più esso è determinante in Iran in quanto, per ragioni storiche, l’immagine del capo, del leader è al centro delle rappresentazioni politiche; tradizioni cosi diverse — e spesso antagoniste— come Yemàmat, la chefferie tribale, la monarchia — rendono difficile la compren­ sione e la concezione di un potere che non sia eminentemente personalizzato. La personalità del leader, i simboli che manipola, la sua storia personale, la figura che dà a vedere sono al centro

131 del processo di legittimazione dell’autorità. Se Khomeyni, quale appare alle folle iraniane nel 1978-79, è il leader legittimo per eccellenza è perché sintetizza, grazie al suo passato, al suo modo di vita, ai suoi progetti, le dimensioni sociali e culturali piu salienti in cui si riconosca il popolo. Traendo le sue giustificazioni dalla « credenza [...] nella santità di tradizioni valide da sempre » e presentando « virtù eroiche », un « valore esemplare », egli risponde alle definizioni che dà Max Weber del leader tradizionale e del leader carismatico. La sua popolarità, il suo carisma, Kho­ meyni li deve innanzitutto alle condizioni della sua apparizione sulla scena politica, a quello che Bourdieu chiamerebbe il suo « atto inaugurale eroico ». In occasione delle sommosse del 1963 — di cui fu uno dei leader — Khomeyni fu circondato, il giorno di ’asurà, nella città santa di Qom, prima di essere arrestato; questo episodio fu identificato dai suoi fedeli con l’assedio subito da Hoseyn e dai suoi a Karbalà; l’anno seguente egli fu esiliato all’estero dal governo dello scià. Il suo prestigio Khomeyni lo deve anche al suo passato di martire, simbolo che, come abbiamo detto, ha una forza connotativa particolare nel mondo sciita ira­ niano: suo padre, raccontano, sarebbe stato ucciso sotto il regno di Rezà Shàh (che è una pura e semplice falsificazione della storia: Khomeyni ha perduto il padre all’età di sei mesi, vale a dire molto tempo prima dell’istaurazione della dinastia pallia­ vi); una delle sue figlie è morta in tenera età; il figlio maggiore è stato assassinato nel 1977, sicuramente dagli agenti della Savak (la polizia politica dello scià). Tutti questi avvenimenti — fittizi o reali — hanno finito per conferire a Khomeyni l’immagine — senza dubbio oggi paradossale — di un martire che ha patito la sofferenza e l’ingiustizia, a immagine di Hoseyn. Del resto, gli appelli alla rivolta che egli lanciava nel 1978 non venivano da un punto qualunque nello spazio ma da Najaf (città santa in cui si trova il mausoleo di ’Ali), da lui scelta come luogo d’asilo; i suoi discorsi si caricavano cosi di una legittimità supple­ mentare in quanto provenivano dal centro dello spazio sciita. Infine, fra i suoi pari, Khomeyni incarna, nel modo più eloquente, come abbiamo ripetuto, un habitus tradizionale, sobrio, frugale, nel quale possono riconoscersi ampie fasce della popolazione ira­ niana. È a questo insieme di fattori, alla loro risonanza particolare nell’IsIam iraniano, che Khomeyni deve, in larga misura, la sua supremazia personale; egli ha potuto simboleggiare i poveri e

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i diseredati rispetto ai ricchi e agli orgogliosi, la vittima sofferente rispetto ai tiranni, la giustizia rispetto all’ingiustizia. A ciò ha saputo aggiungere una capacità particolare, che porta al riconosci­ mento del leader, la chiaroveggenza, non accettando nessun com­ promesso là dove altri si rassegnavano, dicendo « no » fino alla fine, vale a dire fino al crollo del regime dello scià; infine, ha saputo proporre un progetto politico, certamente nuovo, ma che integra — pur riinterpretandoli — dei dogmi, delle credenze, delle tradizioni che sono oggetto di consenso in gran parte della società iraniana.

I meccanismi di mobilitazione popolare al momento della rivo­ luzione iraniana possono sembrare talmente specifici e radicati in una storia singolare che dalla loro analisi non si riuscirebbe a trarne nessuna lezione di portata generale. Molti, che questa rivoluzione disturba non solamente a motivo dei suoi esiti brutali e tragici ma anche perché non si piega agli schemi interpretativi — e ai desideri -— piu consolidati, sono tentati di considerarla come un fenomeno marginale, erratico, accidentale. A me al con­ trario sembra che l’esempio, vicino e grave, della rivoluzione iraniana è da meditare con profitto per comprendere i meccanismi generali di legittimazione del potere e i fenomeni rivoluzionari in tutta la loro complessità; innanzitutto perché esso si presenta come la messa in atto di procedure metaforiche e simboliche, di rimaneggiamenti e manipolazioni di forme culturali precostitui­ te, che appaiono come condizioni necessarie alla mobilitazione e all’imposizione della legittimità; e poi perché l’effervescenza rivoluzionaria è caratterizzata, in questo come indubbiamente in altri casi, dalla cristallizzazione di differenti sistemi di percezione e di rappresentazione del mondo (sistemi filosofici, religiosi, poli­ tici, ecc.) che in genere l’esperienza disgiunge od oppone. La rivoluzione potrebbe essere perciò considerata come una specie di sintesi antropologica, della quale il leader sarebbe il momento dell’effervescenza, il modello concreto. Questa sintesi ideale resiste raramente alla prova del tempo e della realtà; i carismi rientrano nell’abitudinario, per riprendere l’espressione di M. Weber, il terrore si sostituisce alla mobilita­ zione volontaria; i simboli si logorano, perdono in efficacia quan­ do la stagnazione o la brutalità dei cambiamenti rivelano che lo straordinario sovvertimento semantico del mondo, delle prati­

133 che, delle credenze, delle istituzioni, ha lasciato il mondo come prima oppure, a conti fatti, non ha nutrito altro che illusioni. Ma questa costatazione retrospettiva non deve mascherare le pie­ ghe singolari di quel tempo privilegiato in cui il mondo sembra pensabile e trasformabile, non a frammenti separati ma nella sua totalità.

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Giulio Angioni Dominio ed egemonia: problemi di definizione e di estensione

La generalizzazione si addice all’antropologo, non meno della descrizione etnografica dei fenomeni. Alcuni anni fa ho avuto un colloquio epistolare con Pietro Clemente in cui abbiamo di­ scusso di egemonia, dominio, potere. M’è a lungo sembrato che una nozione di potere come escrescenza malata della vita sociale, soprattutto se pensata come male minore, non serva molto a capirne il caleidoscopio di manifestazioni. Ho cercato di farmi un’idea di potere tendenzialmente neutra, piu vicina a quella, come si dice, di « potere di » piuttosto che di « potere su »: potere di fare, non necessariamente potere di far fare. Per chi si occupa di diversità culturali arrivare aU’élementare è un punto di arrivo e di partenza indispensabile, pena la perdita del senso del proprio lavoro. Ho ripreso quelle pagine scambiate con Cle­ mente e le ripropongo in tutta la loro ingenuità, tanto più evi­ dente, forse, a chi dà molta importanza a quelle posizioni recenti che, occupandosi dei rapporti di senso, dimenticano un po’ troppo quelli di forza che si vestono di segni. La mia discussione con Clemente partiva da un bisogno, oggi forse non più sentito, di chiarire le nozioni di egemonia e dominio in vista di una loro estensione all’antropologia. Dal momento che per me è fin troppo evidente che nozioni come queste, anche solo nelle loro accezioni gramsciane, sono utili all’antropologo, mi sono abban­ donato a un tentativo personale di formulare una nozione massi­ ma, o minima (che è lo stesso in questo caso), elementare, di potere. Nel far questo ho tenuto poco conto della distinzione ormai invalsa tra potere politico e potere sociale, che vale solo per i nostri tipi di società. 1. Egemonia mi pare una parola usata per indicare particolari processi ed esiti di esercizio di potere e di presa del potere.

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Non si tratta tanto di aspetti che hanno immediatamente a che fare con le istituzioni politiche ed economiche delle varie forme di società, quanto piuttosto mediatamente rispetto al potere so­ ciale che si materializza in istituzioni politiche ed economiche. Come tali hanno a che fare con idee e modi di sentire e di volere, con concezioni del mondo e con i sentimenti e le aspira­ zioni che ne derivano e che vengono incanalati nel senso del potere, per esercitare una funzione di controllo sociale in forma interiorizzata (consenso verso qualcuno nelle società stratificate o diffusione generale di modi di interpretare certi modi di essere al mondo nelle società piu semplici). Personalmente riesco a pensare meglio ciò che. riesco a pensare usando il termine egemonia se tengo presenti società stratifica­ te, dove cioè il potere (potere di agire sulla natura e sul sociale) è o tende a concentrarsi nelle «mani» (= istituti) di gruppi particolari. Si tratta quindi di un aspetto del potere che non agisce come forza materiale, ma piuttosto come forza intellettuale e morale. Forza intellettuale e morale necessaria (ma non suffi­ ciente) all’organizzazione sociale che in fondo promana dal­ l’esercizio del dirigere le attività materiali. L’egemonia è dunque la ragione esplicita, il discorso (il verbum) del potere che si manifesta come discorso, sono le idee del dominio di chi domina. Il potere è un aspetto presente e necessario di ogni raggruppamento umano in quanto espressione concentrata delle capacità di azione umana, e laddove il potere, proprio in quanto concentrazione della forza della società, si con­ centra ulteriormente in un gruppo (classe o altro) che assume questa forza nei confronti di altri gruppi (classi o altro), si giu­ stifica parlando di sé a se stesso !(chi comanda ha la psicologia del comandante) e a chi è oggetto della sua forza. E dal mo­ mento che il potere è una concentrazione necessaria della forza di una società, ogni potere concentrato in gruppi, che riservano a sé questa forza, tende a presentarsi come necessario. Egemonia = aspetto particolare del potere concentrato in grup­ pi di uomini che lo esercitano su altri uomini che possono essere espropriati della capacità individuale e sociale di azione (forza) sulla natura e sulla società, che possono agire quindi solo in quanto diretti da chi si riserva l’esercizio del potere di agire sulla natura e sulla società, come strumenti della forza altrui. La particolarità dell’egemonia intesa come aspetto peculiare del

137 potere (concentrato o meno in gruppi sociali dominanti) è il suo essere forza spirituale, intellettuale, morale, psichica, il suo essere « discorso » del potere. Idee, sentimenti e atteggiamenti che si comunicano non come ordini ma proprio come informa­ zioni, che tendono e pretendono di essere le sole informazioni possibili nel solo mondo possibile. È il potere (in quanto capacità, forza collettiva di azione sulla natura e sulla società) che si esprime in quanto interpreta­ zione di un modo di essere di una società, interpretazione propria del gruppo che si riserva il potere sociale o che aspira a dirigere e a riservare a sé il potere sociale. Il caso di esercizio del dominio (= potere concentrato in una minoranza o in una maggioranza che ne espropria la maggioranza o la minoranza) senza egemonia pare in effetti un caso limite, un’astrazione al di là della possibilità storica reale. E infatti il potere è esercitato da uomini, i quali, in quanto uomini, pensano, si esprimono, significano qualcosa anche solo quando semplicemente agiscono in un modo intellegibile: comunicano se stessi, si dànno dei nomi e dànno dei nomi al loro agire e alle loro funzioni. Non pare si dia il caso di una concentrazione di potere che non comunichi e non si comuni­ chi, che non dia un’immagine di sé i(e non solo una legittimazione di sé) in quanto potere; cioè in quanto espressione concentrata della forza sociale, ovvero della capacità e possibilità di una socie­ tà di agire collettivamente sulla natura e di organizzarsi social­ mente in questa azione. Se l’egemonia è il potere che pensa e sente se stesso in quanto esercizio e uso della forza sociale concentrata, e « si esprime » in quanto potere, è forse allora facile capire come per esempio Gramsci abbia visto nell’egemonia un processo di direzione in­ tellettuale e morale che precede l’esercizio effettivo del potere. È propria degli uomini, infatti, la capacità di pensare, progettare, prefigurare i modi e gli esiti del proprio agire (l’architetto e l’ape) e di indirizzare la volontà verso l’azione tesa a raggiungere determinati scopi. E siccome, poi, le società non si prefiggono mai degli scopi per raggiungere i quali non esistano le condizioni necessarie, questa coscienza delle condizioni per raggiungere gli scopi prefissi non è altro che il potere che ha coscienza di se stesso. O forse meglio, questa coscienza, e la volontà d’azione e i sentimenti che ne derivano, sono il contenuto dell’egemonia in quanto aspetto « spirituale » del potere in atto o in potenza.

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2. Per non sembrare troppo astratto, è bene, mi pare, dedicare qualche riflessione alla nozione di potere. Se si definisce il potere come il dominio di uomini (i pochi) su altri uomini (i molti), si dà di esso una definizione che corrisponde storicamente solo alle sue manifestazioni nelle società divise in classi, e risulta quindi scarsamente utilizzabile in etnologia, nello studio di società primitive poco o per niente stratificate dove è del tutto assente o presente solo in forme embrionali il fenomeno della concentra­ zione del potere. Ho parlato di potere come forza sociale concen­ trata, di capacità collettiva concentrata di azione sulla natura e sulla società, forza di produzione delle condizioni della vita materiale e di organizzazione della società per questa produzione, come capacità di progettare, esprimere e comunicare progetti di azione sulla natura e sulla società. Mi pare un buon punto di partenza. Vorrei mantenermi ancora su un piano di generalizza­ zione per poi passare più concretamente a un confronto con la storia, e con quanto conosciamo delle società « primitive ». Ho accennato al fenomeno della concentrazione, in riferimento al potere, e ne ho parlato in due sensi, o meglio in due forme e gradazioni. Ho parlato di potere come espressione concentrata delle capacità di azione umana e poi di potere (in quanto mani­ festazione storica particolare del potere in generale, caratteristico di ogni società) come ulteriore e particolare concentrazione delle capacità di azione umana nelle mani di un gruppo di una società stratificata. Parliamo spesso di potere alienato, così come parliamo di lavo­ ro alienato. Ma come potremmo percepire l’alienazione, l’estra­ niazione, se non percepissimo la possibilità di un potere (o di un lavoro) non alienato? Sentiamo, cioè, che il potere è una caratteristica della vita sociale in generale, ma che può degenerare in dominio, cioè in potenza estranea — estranea perché riservata a qualcuno ed estranea perché sovrastante le possibilità e le aspira­ zioni del singolo e di determinati gruppi. Questo tipo di manife­ stazione e di esercizio del potere sociale ha in larga misura caratte­ rizzato tutte le società storiche. Ma come si arriva ai vari modi di estraniazione del potere? Il potere sociale, in generale, è il risultato concentrato dell’azio­ ne dei vari individui e dei vari gruppi, organizzati socialmente nella cooperazione. Il potere in generale è quindi l’insieme delle possibilità di azione (materiale e spirituale: produzione di beni

139 e di istituti, produzione di idee e di sentimenti) di una società in quanto insieme di uomini organizzati per agire. È la possibilità di agire di uomini riuniti in società, sebbene poi questa capacità di agire socialmente sia stata di solito vista come una possibilità che proviene dal di fuori (da Dio, dallo spirito, dalla storia, da chi domina effettivamente nella società). Ogni società ha quindi sue proprie possibilità di azione unifi­ cata, concentrata, e questa concentrazione sociale della possibilità di azione umana è il potere. L’unificazione-concentrazione delle possibilità sociali umane, proprio in quanto unificazione e concen­ trazione, è la base, la condizione materiale su cui si sviluppa storicamente il potere-dominio come ulteriore unificazione e con­ centrazione nelle mani di un gruppo dominante. I tipi di potere storicamente esistiti (dispotismo, tirannide, oligarchia, monar­ chia, chefferie, patriarcato, democrazia antica e democrazia libe­ rale, ecc.) paiono una serie di modi di concentrazione ulteriore e sbilanciata del potere sociale, che rimane potere di tutta la società, ma cristallizzato in istituzioni e in suoi organi-agenti che raccolgono e unificano il potere sociale e lo gestiscono come monopolio, per il proprio interesse piu o meno esclusivo, e dun­ que comprimendo le possibilità del potere sociale.

3. Ho accennato alla mia idea-sospetto che non possa praticamente darsi dominio senza egemonia, perché non esiste dominio (di uomini) che non pensi e comunichi se stesso. Sarà allora una questione di gradazioni, storicamente verificabili, tra dominio ( = potere autoriservato di un gruppo: tendenzialmente potere senza egemonia, che pretende di fare a meno sia del consenso sia del dissenso) in quanto effettivo comando, direzione dell’azio­ ne sociale attraverso vari strumenti di coercizione materiale, da una parte; ed egemonia dall’altra, in quanto potere concentrato che pensa se stesso, si comunica parlando di sé esplicitamente (teorie politiche, giuridiche, concezioni del mondo e della società) o implicitamente (per il fatto che agisce in modo da significare quello che è in quello che fa). Una gradazione, di solito, tra dominio e sua giustificazione-legittimazione sul piano della ra­ gione e della morale. Tra egemonia e dominio si tratta quindi di una distinzione prima di tutto logica, ma anche storica, che si ritrova nelle varie società sotto forma di gradazione di intensità fra esercizio effetti­

140 vo del dominio e suo essere pensato come razionale, utile, giusto, buono, legittimo, efficiente, indispensabile, proveniente da poten­ ze che dominano gli uòmini in quanto potenze sovrumane; Lo sforzo di pensare e di rappresentare se stesso è del resto proprio di ogni tipo di concentrazione del potere sociale. I fascismi recenti e attuali, per esempio, hanno dedicato e dedicano molte energie e risorse al pensarsi (Gentile, Rosenberg) e al presentarsi e rappresentarsi comunicandosi (adunate oceaniche, uso dei mass media per la prima volta in modo massiccio) e soprattutto riser­ vando al potere politico istituzionalizzato il monopolio dei mezzi di comunicazione per comunicare sé stessi e diventare movimenti di massa con vaste aree di consenso di massa. Gli effetti dell’egemonia sono naturalmente vari, e dipendono da molti « fattori », tra i quali ritengo tuttora determinante quello della struttura sociale. L’azione di chi aspira a ottenere egemonia come preparazione-anticipazione del potere sociale (come do­ minio o come partecipazione collettiva) comincia e si fonda su una interpretazione critica della struttura sociale, cui deve seguire lo sforzo di collegamento e di concentrazione delle forze sociali esistenti in vista della presa del potere. Presa del potere che non è solo azióne distruttiva delle istituzioni di potere esisten­ ti, ma è anche, e preliminarmente, distruzione e controllo delle idee del dominio esistenti, da sostituire con nuove idee, senti­ menti, aspirazioni emananti dalla critica della struttura sociale e dai disagi e dalle speranze che ha creato « nel suo seno » sulla base delle forme specifiche di proprietà, di divisione del lavoro e di esercizio del potere.

4. Vorrei dire qualcosa sull’egemonia dei moderati toscani pri­ mo Ottocento e il mondo delle campagne toscane come oggetto della loro egemonia. Mi pare che la subalternità strutturale dei mezzadri toscani non sia stata tanto l’effetto dell’attività egemonica del blocco di potere dèi moderati toscani, quanto piuttosto il risultato di quel particolare tipo di divisione del lavoro fra città e campagna e fra attività produttiva materiale e attività intellettuale. Se le idee e i modi di sentire cittadini non sono giunti alla campagna, per mancanza di forza intrinseca, e si sono fermati quindi in una zona intermedia di media intellettualità, allora bisogna chie­ dersi come mai questa media intellettualità non sia stata in grado

141 (e il blocco di potére moderato non sia stato a sua volta in grado di mettere in grado questa media intellettualità) di eserci­ tare le funzioni subalterne dell’egemonia. Era questa una situa­ zione sufficiente all’esercizio effettivo del potere senza egemonia da parte del blocco dei moderati? Si potrebbe rispondere di sì, se è vero che il mondo mezzadrile era ancora immerso in quel tipo di « idiozia contadina » che in pratica tornava utile al potere e lo dispensava dall’esercizio- dell’egemonia verso di esso. Poteva cioè fare a meno di una loro consonanza di idee e di sentimenti, di una loro omologazione-innalzamento intellettuale e morale, po­ teva fare a meno di divulgare nella campagna le idee del proprio dominio, anche se non per propria scelta consapevole. Ma è poi véro che la loro scelta era proprio quella di esercitare l’egemonia sul mondo mezzadrile in tutti i suoi strati? Io sono comunque portato a pensare, per motivi che discendono da quanto detto nei punti precedenti, che se il blocco dei moderati avesse esercitato effettivamente il potere sulla campagna, questo potere avrebbe assunto agli occhi dei mezzadri un suo pratico e immediato « discorso », una maniera di presentare se stesso al mondo della campagna in quanto mondo cittadino eminente e: diri­ gente. E che perciò avrebbe suscitato in qualche modo idee e sentimenti che in parte non potevano non essere influenti, nono­ stante la forza delle tradizioni contadine. Il presentarsi del potere dei moderati, cioè, e il loro sforzo di egemonizzazione non poteva non produrre effetti intellettuali e morali, anche solo ottenendo una riplasmazione e una reinterpretazione di ciò che veniva da fuori con ciò che già c’era dentro, forse attraverso l’amalgama po­ tente della religione >(come mi pare sia stato 'poi il caso eccezionale, qualche tempo dopo, o contemporaneamente, del fenomeno del lazzarettismo). Potrebbe essere chiamato, questo, un caso particolare di ege­ monia indiretta, un’egemonia implicita, per separatezza e per estraneità culturale degli egemonizzandi? O una egemonia monca e mancata^ per mancanza e deficienza di forza e di capacità orga­ nizzativa? C’era chi voleva egemonizzare; però il prodotto fini­ to di egemonia non è stato raggiunto, fino a coprire ogni gruppo e ogni individuo di una compagine sociale. Certo, nel mon­ do storico sono continui e ricorrenti i progetti di controegemonia piu o meno ben congegnati e adeguati, da Spartaco a Cristo, da Lenin a Martin Luther King, da Nasser a Khomeyni, dalle

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lotte dei plebei romani al Congresso di Vienna, da Pugacèv a Mao Zedong, dai levellers agli illuministi, ai giacobini, ai socialisti.

5. Credo valga la pena di correre il rischio di perdere punti di riferimento certi e maneggevoli, tentando di pensare Fuso della nozione di egemonia per lo studio di fenomeni di gestione e concentrazione del potere sociale riscontrabili a microlivelli dentro le nostre società e fuori delle nostre società, in società etnologiche e contadine per esempio, in società paleo e pre­ capitalistiche in generale. Se in ogni società finora conosciuta esistono forile di divisione del lavoro e di specializzazione produttiva, sia pure basate sulle differenze naturali di sesso, d’età, di caratteristiche fisiche, e se il potere in generale è l’insieme delle possibilità di azione sociale sulla natura e sui raggruppamenti umani per organizzarsi in questa azione produttiva sulla natura, allora esistono in ogni società anche forme di dislocazione e di concentrazione, almeno temporanea e provvisoria, del potere sociale. Di conseguenza esi­ steranno anche forme, non temporanee e provvisorie, di pensare il potere sociale come separabile e concentrabile in una parte del raggruppamento sociale e quindi estraniabile dall’insieme del­ la società. Ma se pure immaginiamo una società in cui la divisione del lavoro produce una situazione tanto armonica per cui l’inte­ resse del singolo e dei vari raggruppamenti (famiglia, lignaggio, clan) è immediatamente l’interesse di tutta la società, anche allora siamo però autorizzati a porre l’esistenza di modi di pensare il potere ( = in questo caso il determinato modo di essere al mondo di una società) come rappresentazione collettiva di tutta la società. In questo caso tali rappresentazioni (pensieri, aspira­ zioni, sentimenti, atteggiamenti, volontà e paure) non partirebbe­ ro da un gruppo dominante e centrale, ma si troverebbero in forma diffusa e indifferenziata in tutta la società e in ogni suo raggruppamento e individuo. Si tratterebbe allora dell’egemonia (= del modo di pensare il potere sociale) di tutta la società su tutta intera la società. Caso limite che non pare essere mai stato documentato. Nei casi più vicini a questo limite, come ad esempio nelle più semplici bande di raccoglitori e cacciatori, si nota che il modo di pensare se stessi come società da parte di questi raggruppamenti umani è tanto più vicino a pensarsi

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dominati da potenze naturali e/o sovrannaturali estranee e auto­ nome rispetto al proprio potere sociale quanto piu la divisione del lavoro tende a ridursi a zero. Appaiono cioè dominati intellet­ tualmente da forze non umane difficilmente controllabili, al mas­ simo propiziagli, secondo una divaricazione per cui quanto mino­ re è il potere sociale (capacità di agire e servirsi in modo orga­ nizzato della natura a fini umani), tanto maggiore è il potere che si pensa essere fuori e oltre la società. Sono essi stessi a produrre idee del proprio essere dominati, in quanto effettiva­ mente « troppo poco » emancipati dal dominio della natura. Forse De Martino direbbe: quanto minore il potere sociale, tanto mag­ giore il rischio di perdersi come uomini, tanto maggiore il bisogno di proiettare oltre l’umano i poteri umani. L’analisi di Durkheim sulla genesi delle forme elementari delle idee religipse mi pare arrivare a un tracciato simile: l’egemonia delle rappresentazioni collettive su tutta la collettività, e per di più egemonia illusoriamente pensata come esterna e sovrastante, non è altro che la società che pensa e sente se stessa. Ma torniamo a forme più trattabili di egemonia in quanto aspetto etico-intellettuale del potere dislocato più o meno netta­ mente in un gruppo sociale o in un insieme di gruppi sociali dominanti o aspiranti a gestire il potere. Rendiamo il discorso più drastico e schematico. Se l’egemonia è il potere sociale che pensa se stesso, si rappresenta e si comunica per suscitare anche in chi non li nutre idee e sentimenti adatti al suo esercizio, allora si trovano forme di egemonia in tutte le società dove il potere si disloca in una sezione della società per effetto e conseguenza della divisione sociale del lavoro. Con la divisione sociale del lavoro, che necessita sempre di forme di cooperazione fra diverse specializzazioni lavorative, il potere, quantunque dislo­ cato, ha bisogno di presentarsi come la forza che tiene insieme e fa funzionare tutto il complesso della società stratificata e diffe­ renziata. A seconda dunque delle diverse forme di stratificazione e di divisione sociale del lavoro, troveremo forme diverse di manifesta­ zione dell’attività egemonica da parte del gruppo dominante. Per dirlo con altre parole: a diversa forma di potere (= potere concentrato e dislocato in una sezione della società stratificata), diversa forma di processi e di esiti dell’attività egemonica. Ne discende, tra l’altro, che laddove più articolate e complesse sono

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le forme di divisione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale (cioè tra ambito sociale del pensare, organizzare e dirigere e ambito sociale dell "eseguire, operare e ubbidire), più forti e inci­ sivi devono essere i processi e gli esiti dell’egemonia, più tempo i dominatori devono dedicare, all’elaborazione intellettuale, più « commessi » del pensiero e delle funzioni subalterne dell’egemo­ nia essi devono avere, più forte infine si manifesterà la distinzione stessa tra lavori intellettuali all’interno stesso del raggruppamen­ to dominante. Il monopolio del sapere è sempre stato un attributo più o meno esclusivo delle classi dominanti, ma questo monopolio lo vediamo formarsi anche presso società senza classi o con soli embrioni di classi, in caste di sacerdoti, di scribi, di sacerdotiscribi, di re-sacerdoti, di anziani, ecc. Per l’antropologia il proble­ ma pare essere allora quello di come si formino i gruppi di potere a seconda delle diverse formazioni economico-sociali e di come quegli aspetti del potere intellettuale e in genere spiritua­ le si manifestino nelle diverse forme di raggruppamento umano.

6. Ho spesso pensato più o meno confusamente che l’influenza storicistica (idealistica e storico-materialistica) sugli intellettuali italiani ci abbia abituato a svalutare eccessivamente le operazioni filosofiche di generalizzazione, tanto da arrivare a definirle astra­ zioni inutili e dannose. Un atteggiamento particolarmente diffuso nella storiografia, dove all’acribia « filologica » e cronachisticoaccumulativa di dati non si accompagna una vigilanza e uno sforzo continuo di verifica e di aggiustamento delle nozioni gene­ rali che pur tuttavia implicitamente (e quindi più o meno confusamente e senza rigore e consapevolezza critica) vengono adoperate. Questa premessa mi dovrebbe servire a sgombrare il campo da eccessivi ritegni a usare nozioni generali per cogliere e analizza­ re processi particolari, anche quando lontani e diversi dai contesti in cui sono nate tali nozioni generali. Banalizzando, se la nozione di lavoro è nata a un certo punto nella nostra società, ciò non significa che essa non possa essere usata per studiare le forme peculiari di lavoro di altri tempi e di altre società. Oppure, se la forma di potere dello Stato ha una sua origine e un suo luogo di sviluppo, ciò non può indurre a pensare. che, dove non esiste la forma Stato, là non ci siano forme di gestione più o meno centralizzata del potere o che addirittura non ci

145 siano forme di potere tout-court, o fenomeni denominabili con la nozione di politica. O ancora, che laddove non siano individua­ bili gruppi simili ai nostri intellettuali, là non vi sia una attività intellettuale specialistica e che non si formino ideologie, modi di diffonderle e di imporle. Ora, la stessa cosa vale per l’egemonia. Se pure si tratta di un prodotto peculiare delle moderne società capitalistiche, ciò non impedisce che questa nozione-astrazione così determinata sia utile per comprendere fenomeni di direzione morale e intellettuale propri di altre epoche e di altre società. Magari operando un confronto oppure cercando di inquadrarne l’essenza in un contesto più ampio e generale di riferimento teorico. Ad esempio mettendo la nozione di egemonia all’interno della nozione più generale di potere, e scindendola dalla nozione di dominio ma ricompren­ dendole ambedue dentro quella più generale di potere. Nozione più generale di potere che a sua volta va individuata nella sua massima estendibilità conoscitiva, al cui interno cioè sia possibile comprendere tutta una serie (al limite tutta la serie effettiva e possibile) di sue manifestazioni « storiche ed etnologiche ». Non solo, ma siccome per ogni fenomeno storico è lecito porre problemi di genesi e di processualità, estendere la nozione (e le correlate conoscenze che la nozione ha prodotto nell’analisi concreta) di egemonia (e di dominio) può essere utile per coglier­ ne, in formazioni sociali diverse -(più semplici), o in porzioni di società particolari (il mondo contadino, il ceto medio), aspetti e caratteristiche anche solo embrionali, oppure suoi particolari mo­ di ed esiti locali. Mi pare allora che l’egemonia, ovvero quella manifestazione del potere che agisce e si manifesta sul piano etico-intellettuale, e il dominio, cioè quella dislocazione del potere sociale in ima sezione della società, siano fenomeni riscontrabili in ogni società ed epoca, seppure con modalità diversissime. Se nelle nostre socie­ tà l’egemonia è un complèsso fenomeno di potere che tende ad estendersi a tutta la società civile come emanazione del potere politico statale, o è una maniera di contrapporsi al potere politico statale da parte di sezioni della società civile, in altre società può avere altri modi di manifestazione. Si può, per esempio, considerare un modo di funzionamento dell’egemonia tutto il complesso delle forme rituali di iniziazione, tutto il complesso mitico-rituale dei riti di passaggio; mentre si può riconoscere

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una manifestazione del potere egemonico nelle forme di esclusivi­ tà nella conservazione e narrazione dei miti. Ma non è allora il vincitore del potlach ad acquistare egemonia, quanto piuttosto l’istituto del potlach che può essere utilmente studiato come una particolare forma di espressione di sé del potere sociale. E non sarà allora il carisma di un marabutto che si potrà definire egemonia, ma piuttosto essenza dell’egemonia sarà il complesso di idee e di sentimenti che la funzione del marabutto produce, in quanto però espressione di un particolare aspetto del potere sociale dislocato nella casta dei marabutti. In ogni società) si potrebbe dire, l’esistenza e l’esercizio di forme di egemonia hanno sempre una propria originalità, nonostante alcuni tratti essenziali, cosi come per il dominio, o potere dislocato in una sezione della società (classi, clan, lignaggio, classi d’età, stato e cosi via). E il suo tratto essenziale è quello di essere una funzione ideologica del potere, sia esso potere diffuso in tutta la società, sia esso dominio in quanto potere sociale dislocato in una sezione della società. 7. Nella nozione di egemonia è utile far rientrare tutto ciò che, da un punto di vista marxista, è definito ideologia? Mi pare di si, se il termine ideologia si accompagna e si fa reagire con quello di potere e di dominio: ideologia dominante, potere ideologico, ideologia politica, ideologia del dominio e cosi via. Esistano o non esistano apparati politici del potere, laddove esiste dominio in quanto potere dislocato in una sezione della società, tale dominio ha bisogno di presentarsi, di rappresentarsi, di parlare di sé parlando della società, di elaborare una specie di discorso commentatore di se stesso in quanto funzione sociale, cioè di elaborare una ideologia del proprio dominio. L’ideologia di chi detiene il potere sociale o di chi aspira a conquistarlo è allora l’egemonia? Credo che non basti e che occorra dire che l’ideologia di chi detiene o aspira al potere è la base della sua effettiva attuale o potenziale egemonia, è il primo passo dell’egemonia. L’egemonia con dominio da una parte, e l’egemo­ nia che aspira al dominio (o più generalmente alla presa del potere sociale), si accompagna anche sempre a fenomeni di lotta ideologica. E quando la lotta ideologica si blocca per decisione dei gruppi sociali (dei dirigenti dei gruppi sociali che hanno o aspirano al potere) si può allora dire che l’egemonia è stata

147 raggiunta o che ci si illude di averla raggiunta? O non si tratta piuttosto di un’astuzia più o meno conscia, per cui la sordina alla lotta ideologica favorisce chi è ideologicamente egemone? Io credo che si dia più spesso quest’ultimo caso. E credo anche che quest’ultimo caso, cioè una apparente assenza di contrasto ideologico, sia un fenomeno molto frequente nelle società più semplici e in seno alle sezioni più subalterne e separate delle compagini sociali stratificate. Mi ritorna in mente come esempio la situazione dei mezzadri toscani, apparentemente non oggetto dell’egemonia del blocco dei moderati toscani e apparentemente privi di un progetto alternativo di egemonia. In questo caso, forse come in molti altri casi di società arcaiche, l’egemonia con dominio effettivo è un dato talmente radicato che i dominatori effettivi possono dedicare poche energie alla realizzazione e al rafforzamento del loro potere tramite la lotta ideologica. In que­ sta situazione è preferibile lasciar fare al discorso delle cose (o meglio della struttura sociale), implicito e meccanico; mentre, d’altra parte, i dominati possono essere dominati pur conservando al loro interno una propria visione del mondo sociale, una visione che o è sufficientemente compatibile con lo stato effettivo della loro porzione di società o è troppo incommensurabile (come contenuti e come suoi modi di espressione) con l’interpretazione (= ideologia) della struttura sociale che è propria dei gruppi dominanti. Se si prende per esempio il mondo degli schiavi neri delle Americhe rispetto al mondo dei grandi proprietari di schiavi, credo che si possa riscontrare qualcosa del genere in modo ancora più evidente: due culture separate, di cui una talmente subalterna da non richiedere in tempi normali nessuno sforzo di egemonizza­ zione da parte dei dominatori. Eppure (e i tempi eccezionali lo dimostrano cruentemente) la mancanza di egemonia è solo apparente e la lotta ideologica traspare proprio attraverso o al di là del silenzio. Una chiusura che tende a essere totale e imper­ meabile da ambo le parti, ma che tuttavia non pare essere mai stata totale, come almeno dimostrano i sincretismi religiosi delle Americhe nere. Lo stesso fenomeno di assenza apparente di ege­ monia, soprattutto nei suoi aspetti di contrasto e di lotta, si riscontra in vario modo nel rapporto coloniale moderno, forse appunto per la forte differenza culturale fra dominati e domina­ tori. Ma sono proprio i modi della lotta anticoloniale (lotta anche culturale che si è caratterizzata ampiamente come nativismo, revi-

148 valismo, sincretismo religioso) che hanno messo in luce in tutta la loro asprezza l’egemonia rozza e sommaria dei dominatori e il bisogno di controegemonia da parte dei dominati, che si è espresso nella lotta ideologica, fatta per esempio in nome della negritudine e simili (e mi paiono, questi, casi di controegemonia deboli). È evidente tuttavia che la nozione di egemonia, in quanto piu ricca e comunque indicante fenomeni e processi peculiari, non si può ridurne a quella di ideologia dominante e di lotta ideologica» Non so se sono riuscito abbastanza a far apparire l’utilità, per una considerazione differenziale delle forme e delle manife­ stazioni del potere, di non pensarlo come « palazzo » o « sistema » solamente, ma anche come fenomeno di organizzazione, produ­ zione, direzione, presente in ogni società. Come nozione generale che non designa solo e necessariamente, sempre e per sempre, una proterva oppressione o le debolezze della democrazia rappre­ sentativa, ma, piu semplicemente e neutralmente, come capacità di assumere piu o meno efficientemente l’interezza storica dei bisogni e dei modi sociali di soddisfarli nella variabilità delle forme di società. Con ciò, credo sia chiaro e implicito che non si deve né guardare alla nascita delle società di classe come a una degenerazione o a una rottura di una previa condizione di solidarietà, né pensare che non sia legittimo usare il termine potere, con o senza Stato, in tutte le sue accezioni negative e perfino demonizzanti. Infatti questa preoccupazione di estendere al massimo la nozione di potere non produce nulla che non si sapesse già, ma lo scopo di ciò è il rigore e la messa a punto problematica di un’idea da utilizzare nella ricerca, non la mera neutralizzazione di nozioni come potere e dominio e magari anche egemonia.

IV. Potere e modernità

Amalia Signorelli Patroni e clienti

Obiettivo del mio intervento è sottoporre a verifica due affér­ mazioni divenute correnti negli ultimi tempi sotto l’influenza di analisi politologiche e antropologiche di successo: l’afferma­ zione relativa alla diffusione del potere nelle società complesse tardo-industriali e l’affermazione relativa al rifiuto dell’uguaglian­ za come valore e alla domanda di nuova gerarchizzazione che caratterizzerebbe le medesime società. Si tratta, come dicevo, di affermazioni che hanno larga circolazione a livello di produ­ zione dell’opinione pubblica, e che hanno tratto origine da analisi autorevoli. La mia verifica muove dai risultati di una ricerca sul campo, che abbiamo condotto, insieme ad alcuni collaboratori, tra il 1981 e il 1983 in una comunità montana della provincia di Salerno, nel basso Cilento, ricerca ora pubblicata in volume. La scala territoriale della comunità montana, abbastanza nuova per uno studio antropologico, si è rivelata particolarmente adeguata per la verifica in questione, giacché si tratta della piu moderna istanza amministrativa di decentramento, vale a dire di uno degli snodi passando attraverso i quali il potere dovrebbe diffondersi e distri­ buirsi nel corpo sociale, fino alle sue couches piu periferiche. Nello stesso tempo, grazie all’emigrazione, alla politica di inter­ vento dello Stato, alla scolarizzazione, alla valorizzazione turistica, all’insieme insomma di tutti i fattori che hanno operato nel Mez­ zogiorno dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi, anche nell’area della nostra ricerca si è realizzata nell’ultimo trentennio una vivace mobilità sociale verticale che ha modificato sia il tipo della stratificazione sociale sia la collocazione in essa di numerósi soggetti individuali e collettivi: cambiando in tal modo i tradizionali referenti dell’uguaglianza e della gerarchia.

152 Vorrei notare, a questo proposito, e sia pure come osservazione di metodo a margine, che la ricerca antropologica può mantenere il rapporto con il campo senza necessariamente restare dentro quei confini di villaggio o comunità locale tradizionale che la tradizione metodologica della disciplina considera, arbitrariamen­ te, ottimali. Al contrario, problematica della ricerca e terreno di verifica non possono non definirsi reciprocamente, tra l’altro anche sulla base delle specificità storiche e geografiche della situa­ zione su cui si lavora. Nel caso in questione, redistribuzione del potere e riformulazione dei valori relativi alla stratificazione sociale sono avvenuti in strettissima connessione, anzi si può senz’altro dire all’interno di un processo che ha determinato il modernizzarsi prima e il riconsolidarsi poi di una struttura di relazioni sociali specifica, la clientela, e dell’ideologia ad essa collegata, il clientelismo. Una legge dello Stato ha istituito nel 1971 le comunità montane e ne ha definito attribuzioni e compiti; leggi emanate dalle regioni ne hanno istituzionalizzato i confini e, attraverso le assegnazioni ordinarie e straordinarie di fondi, ne condizionano l’esistenza e l’operatività. Ma di fatto questo complesso sistema si struttura e funziona (dal livello più basso, quello dei rapporti interni alle comunità montane, fino al più alto, quello tra regioni e Stato) come una rete di rapporti clientelati; e si legittima (o viene contestato) in rapporto a un sistema di valori e di norme di stampo clientelare: ciò è vero al punto che alcuni operatori e commentatori politici hanno considerato l’istituzione delle co­ munità montane nient’altro che un espediente per rafforzare e rilanciare il sistema clientelare. Il nostro primo assunto da verificare è se il sistema clientelare è un sistema di potere e, se si, se è anche un sistema di redistribu­ zione diffusa del potere. Nostro secondo obiettivo sarà confron­ tare il rapporto che c’è tra ideologia clientelare e ideologia egua­ litaria. La ricerca antropologica e politologica ha individuato fonda­ mentalmente tre tipi di clientela accomunati dal fatto di essere tutti reti di rapporti diadici di reciprocità asimmetrica basati sullo scambio di prestazioni con protezioni, di fedeltà con favori, ma differenziati quanto alla connotazione sociale e alla quantiqualità di potere proprie dei due partner della relazione, cliente e patrono. I tre tipi di clientela sono: quello proprio dell’antichità

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classica, soprattutto dello Stato romano tardo repubblicano e im­ periale; quello detto patronage, proprio delle società tradizionali a base produttiva agricolo-pastorale; infine il brokerage o clien­ tela-macchina di partito, proprio delle moderne società di massa. Alcuni autori insistono sulle differenze tra i tre tipi, altri sulle similarità. Certo, alcune differenze sono cosi rilevanti da non poter essere sottovalutate. È importante però notare che nella letteratura corrente si presta molta attenzione alla quanti-qualità dei beni scambiati nella relazione clientelare e alla configurazione diadica o triadica oppure a grappolo di quest’ultima: e ben poca al rapporto di forza e dunque di potere che lega i due partner. Anzi è proprio prestando attenzione a quest’ultimo che si riescono a evidenziare sia le differenze significative fra l’uno e l’altro tipo di clientela, sia il legame specifico che lega ciascun tipo di clientela ad un’ideologia legittimatrice. Ad esempio, se in età classica il pactum in fide stabilito tra patrono e cliente, caratterizzato com’era da un alto livello di istituzionalizzazione e formalizzazione, garantiva realmente il cliente contro arbitri e abusi, in cambio della sua dedizione, ciò non avveniva perché i patrizi romani fossero « uomini d’onore» in misura maggiore delle classi dominanti di altri periodi: bensì perché quella dei clienti era una massa sufficientemente forte sul mercato politico dell’epoca, da ottenere che i contenuti « morali » della relazione clientelare fossero sentiti come cogenti anche dal partner più potente. La situazione del cliente nelle società rurali è molto più debole e il suo potere contrattuale pressoché nullo. Le due grandi metà, le due classi in cui si suddivide la società tradizionale nell’Italia meridionale, i percettori di rendita e gli erogatori di «fatica», sono portatori di interessi antagonistici: i primi vogliono la ripro­ duzione del sistema sociale, per i secondi il problema è riuscire a sopravvivere. La più forte delle due classi non ha esitato, tutte le volte che le è convenuto o che lo ha ritenuto necessario, a ricorrere alla forza, alla pura coercizione, per raggiungere il proprio obiettivo. Blok, ad esempio, mostra assai bene come questa di contenere con la forza le aspirazioni delle masse conta­ dine a un minimo di benessere materiale, fosse in gran parte la funzione originaria dei gabellotti siciliani; funzione che essi ampliarono fino a farne la base della loro ascesa sociale. Ma il ricorso costante ed esclusivo alla violenza è, com’è noto, impra­

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ticabile per qualsiasi regime: un minimo di consenso bisogna pure, in qualche modo, ottenerlo. Entra qui in giuoco la clientela e l’ideologia ad essa comiessa: la relazione verticale, che garantisce agli uni la rendita, agli altri la possibilità di sopravvivere essi stessi mentre producono plusvalore per gli altri, viene avviata, gestita, controllata come un sistema di reciprocità, di ambigua reciprocità asimmetrica, all’interno del quale la rendita assume la forma di un pedaggio, di una tangente che chi vuole sopravvi­ vere deve pagare per potere accedere alle risorse, — prima fra tutte la terra, — l’uso delle quali gli consentirà appunto di so­ pravvivere. È importante sottolineare, però, che l’intera costruzione ideolo­ gica e operativa del patronage si regge sull’idea che è a buon diritto che il patron detiene il controllo delle risorse: una conce­ zione patrimoniale, anzi in definitiva feudale, della proprietà della terra e in genere dei beni di ogni tipo, fa da base al rapporto e legittima il diritto del patron a gestire le risorse secondo criteri di preferenza personalizzata. I risultati così ottenuti sono complessi e notevoli. Il primo e forse piu importante è quello di dividere in ammessi ed esclusi il fronte di coloro che aspirano ad accedere alle risorse e di innescare cosi fra loro dinamiche antagonistiche di concorrenza (fino a che punto è la struttura clientelare a rafforzare, se non a generare, il familismo?); un secondo importante effetto è quello ottenuto a livello culturale, con la costruzione, sia negli esclusi che negli ammessi, di una vera e propria falsa coscienza. Infatti, la concessione dell’accesso alle risorse sulla base della preferenza personalizzata, del favore genera, a contrario, l’idea che l’escluso sia responsabile della propria esclusione, per incapacità sua a ottenerlo, quel favore. Nello stesso tempo le qualità e attitudini che hanno procurato agli ammessi la concessione del favore diven­ gono, proprio per questa conferma che ottengono nella prassi, le vere virtu. Si tratta poi in sostanza delle virtu della sottomissio­ ne e delle virtù della gratitudine. In verità chi accede all’uso di una risorsa attraverso il meccanismo del patronage, lungi dal­ l’essere favorito, viene caricato di un costo supplementare, appun­ to il costo del favore: cioè la rendita, che egli accetta di pagare solo perché costantemente si confronta con gli esclusi. È impor­ tante notare che il prezzo del favore non è pattuito esplicitamente né riscosso immediatamente; viene invece anch’esso «converti-

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to »: precisamente in obbligazione a praticare quelle virtù che si sono prima indicate. Le prestazioni e i servizi del cliente e soprattutto quell’insieme di pratiche e di atteggiamenti a cui si dava (e ancora si dà) il nome di fedeltà, costituiscono appunto il prezzo del favore. Per pesante che potesse essere, il rapporto di patronage era senza dubbio funzionale alla riproduzione del sistema sociale che lo esprimeva. Aveva dalla sua il merito di una grande elasticità e convertibilità, poteva esser mantenuto a basso o ad altissimo regime, produceva comunque consenso, in quanto consentiva co­ munque di alimentare una speranza. Infatti il partner più debole, anche nel caso di massima asimmetria del rapporto, anche nel caso dell’esclusione, poteva sempre mettere in opera un’estrema risorsa: poteva praticare le virtù della propiziazione. Ancora oggi è tipico che un italiano meridionale per ottenere un favore si appelli ai « sacrifici » che ha sopportato talvolta a vantaggio del possibile concedente ma anche, cosi, in generale: e non v’è dubbio che una concezione analoga sottende il culto dei santi taumaturghi nel Mezzogiorno. Basta pensare alla diffusissima pratica propi­ ziatoria del voto: non a caso tanto questa quanto le altre consimili forme di devozione propiziatoria, ancora presenti nella religiosità popolare, si sono venute consolidando proprio nel corso di quel XVII secolo che, sotto il viceregno spagnolo, vide un notevole peggioramento delle condizioni di vita nelle campagne. In paralle­ lo alla propiziazione dei poteri ultramondani attraverso le pratiche devozionali, è ancora oggi operante e riconoscibile tutto il rituale di propiziazione dei poteri mondani: essere fisicamente presenti in determinate circostanze l’atteggiamento e la positura del corpo, la formula adottata per il saluto, fino al o ai doni che vengono offerti e alle parole che li accompagnano, tutto ciò costituisce appunto un insieme di pratiche propiziatorie, la cui funzione è quella di testimoniare la disponibilità del soggetto a praticare le virtù della sottomissione, della disponibilità, della gratitudine: e quindi la legittimità della sua aspirazione ad ottenere il favore. Praticamente la totalità degli autori è d’accordo nel considerare il brokerage, o clientela moderna collegata ai partiti di massa, una forma diversa da quella del patronage tradizionale. Si insiste soprattutto su due aspetti: la novità del rapporto che si stabilisce tra colui che detiene il controllo delle risorse e colui che ad

156 esse aspira, che non è più un povero contadino destituito di ogni potere, ma un cittadino elettore al quale il possesso del voto dà una capacità di contrattazione affatto nuova; e la tra­ sformazione del patron in broker, in mediatore che mette in relazione periferia e centro, bisogni e risorse, arcaicità e innova­ zione. La nuova clientela di partito è dunque al tempo stesso un indicatore, un fattore e un effetto dei processi di mobilitazione e modernizzazione. In questa definizione sono impliciti anche quelli che potremmo chiamare i « meriti » che alcuni autori rico­ noscono alle « macchine di partito ». Li riassumeremo seguendo Tarrow: possibilità per i gruppi di « bassa condizione » di trovare un terreno comprensibile e praticabile di partecipazione politica; opportunità per i più attivi dei loro membri di trovare canali di mobilità sociale; mantenimento complessivo della realtà sociale in equilibrio, giacché i conflitti vengono risolti attraverso la coop­ tazione e/o la corruzione delle opposizioni in via di costituzione o almeno dei loro vertici. Inoltre, secondo altri autori (Gribaudi) la macchina di partito avrebbe un’altra funzione e un’altra valen­ za: permetterebbe alla comunità locale di manifestare in qualche modo la sua resistenza ai processi di proletarizzazione e di raziona­ lizzazione, consentendo la conservazione di reti di relazioni inter­ personali. Sulla base di tutte queste considerazioni non pochi autori sembrano convinti della funzionalità, se non proprio della positività, delle macchine di partito. Sulla base dei dati della nostra ricerca, altri fatti sembrebbero più rilevanti per una comprensione del ruolo che le clientele e il clientelismo giuocano nel determinare sia le caratteristiche delle società locali meridionali sia i loro rapporti con il sistema nazionale. Questi fatti riguardano tanto il livello delle relazioni e la qualità e quantità delle poste in gioco, e dunque la questione della : redistribuzione dei poteri, quanto la questione della legitti­ mazione del sistema, e dunque dell’aspirazione o meno all’ugua­ glianza e del modo di intendere l’uguaglianza stessa. Vorrei innan­ zi tutto sottolineare il fatto che il boss di partito non è tanto un mediatore quanto — a tutti i livelli — un gate-keeper, vale a dire un custode della porta, del collo di bottiglia attraverso il quale bisogna passare per accedere alle risorse. Non è su questo punto che egli si differenzia sostanzialmente dal vecchio patron, bensì su un altro, di tale rilievo che stupisce che . sia stato così poco, sottolineato dagli studiosi. Ora le risorse, il controllo al­

157 l’accesso delle quali costituisce il fondamento del potere dei nuovi boss; sono pubbliche', e come tali, in via di diritto, accessibili a chiunque, in base a requisiti oggettivi e controllabili. In via di fatto, l’operazione che il boss deve fare per creare la strettoia, la porta di cui vuol essere il custode, è proprio l’introduzione o la reintroduzione nella situazione di un elemento di incertezza del diritto, un elemento di arbitrio che gli consenta di arrogarsi il potere di discriminare tra coloro che aspirano ad accedere alla risorsa. Dovrà dunque creare o mantenere artificiosamente una situazione in cui la risorsa continui ad essere appetibile ma l’accesso ad essa non sia né liberalizzato né automatico. Questa situazione di fatto, su cui poggia il potere del boss, dà conto anche del carattere diadico e personale-privato che la relazione clientelare continua ad avere. L’uso privato di risorse pubbliche e reso possibile dall’efficacia pubblica di relazioni private: le quali non è necessario che siano personalizzate o connotate affetti­ vamente in modo rilevante. Sono private in quanto sono relazioni per mezzo delle quali ciò che era (o veniva dichiarato e ritenuto essere) irraggiungibile in via di diritto, sarà raggiunto in via di fatto. Ciò comporta un prezzo, ovviamente. Ma, per la natura pubblica della posta in gioco, stabilisce qualcosa di piu di un dovere di reciprocità: stabilisce una compromissione reciproca. Di qui il carattere quasi sempre ai margini e spesso fuori dei confini della legalità che la pratica clientelare di partito assume. Altro carattere della nuova clientela è la sua tendenza a espan­ dersi: non solo attraverso l’estensione dei « favori» a un numero sempre più alto di persone, ma soprattutto attraverso un processo che fa si che un numero sempre maggiore di prestazioni pubbliche assuma forma di favori: si va cioè verso la onniclientelizzazione del sistema. Da un lato, essendo il sistema sociale complesso, i bisogni, soddisfacendo i quali si possono ottenere voti, sono ormai assai vari e articolati e i boss dovranno darsi gli strumenti per rispondere adeguatamente a questa domanda differenziata; ma dall’altro lato ancor più efficace è, per l’estendersi del sistema clientelare ad ambiti sempre più vasti della vita sociale, l’incompa­ tibilità funzionale che viene a crearsi tra settori contigui o com­ plementari, l’uno dei quali sia gestito secondo efficienza produtti­ va, di mercato, e l’altro secondo efficienza clientelare. Per parte sua il cliente, nella necessità di dover richiedere continuamente favori e con il rischio di non poterne affrontare

15® i molteplici costi, preferisce stabilire con un boss, il piu conve­ niente o accessibile per lui, un rapporto « forfettario »: gli destina tutte le prestazioni in voti, attività, propaganda, anche danaro, di cui è capace, in cambio di una protezione continuativa. Il conto fra i due diventa sempre più aperto, la relazione sempre più stabile, la compromissione e eventualmente la ricattabilità reciproca sempre più alte. Mayer ha mostrato molto bene come la clientela possa diventare quello che egli chiama un quasi-gruppo: persone che, sulla base di una serie di rapporti diadici, com­ piono e ripetono azioni che, se per i singoli comportano un vantaggio personale, sono però tutte « creazioni intenzionali di un Ego », vale a dire hanno tutte in comune la caratteristica di contribuire a un risultato che interessa un Ego, che è al centro dei rapporti diadici. Se da questi rapporti diadici si svilupperanno, intorno a Ego, alcuni collegamenti orizzontali tra i seguaci da lui maggiormente dipendenti e a lui più fedeli, nel cuore della clientela si sarà costituita la clique (cricca o cosca). È, questo, un caso che pare oggi assai frequente; ma se pensia­ mo a quel connotato di semilegalità e spesso di vera e propria illegalità che è condizione stessa dell’instaurarsi della relazione clientelare moderna, bisogna allora riconoscere che la moderna macchina di partito è innanzi tutto e prima di tutto uno strumento di socializzazione di massa alla violazione delle leggi.

Certo un’occhiata alle cronache politico-giudiziarie, o semplicemente un po’ d’osservazione sistematica di ciò che accade intorno a ciascuno di noi, indurrebbe a pensare che questo processo di socializzazione di massa alla illegalità si sia già compiuto. Ma i dati della ricerca sul campo dànno luogo a qualche perplessità e stimolano ulteriori riflessioni. A differenza di ciò che accade per la mafia, la cui esistenza, come si sa, è negata dai mafiosi stessi, la clientela è invece denunciata e condannata in toni molto risentiti: la raccomanda­ zione, il favore, la preferenza, la collusione, l’intrallazzo, insomma gli effetti pubblici delle relazioni private, sono spontaneamente chiamati in causa per spiegare le caratteristiche della situazione; e all’unanimità sono definiti una « vergogna ». Di conseguenza, clientelismo è sempre quello degli altri: ben difficilmente un soggetto, intervistato, si autodefinirà boss o cliente di qualcuno. Insomma, ci si trova di fronte a un tipo di comportamenti manife­

159 sti e generalizzati, interno a una rete di relazioni la cui esistenza e caratteristiche sono note a tutti e da tutti riconosciute: ma sia comportamento che strutture di relazioni non godono di nessu­ na legittimità. Anche questo è un aspetto della questione suffi­ cientemente anomalo perché ci si stupisca che non sia stato piu attentamente considerato dagli studiosi. In verità uno dei tanti effetti negativi che l’immeritata popola­ rità goduta dalle tesi di Banfield ha avuto è quello di convincere tutti che nessun sistema di gestione del rapporto pubblico-privato può essere più congeniale, a un popolo di familisti amorali, del sistema clientelare. Peggio ancora, l’interpretazione corrente vuole che clientela e clientelismo siano diretta conseguenza del famili­ smo, frutto dell’estensione dell’ethos familistico alla gestione delle risorse e delle strutture di uno stato moderno. Si tratta di una tesi a dir poco semplicistica. È probabile che analisi più puntuali e approfondite porterebbero al suo rove­ sciamento, nel senso di dimostrare che il clientelismo rafforza e riproduce il familismo, almeno tanto quanto il familismo con­ sente il perpetrarsi del clientelismo. In ogni caso, quello che qui vorrei mettere in rilievo è che esistono dati storici ed evidenze etnografiche che dimostrano che nella cultura delle classi subalter­ ne meridionali l’ethos familistico, l’orientamento particolaristico dei valori, lungi dall’essere una caratteristica dominante o addi­ rittura esclusiva, è da sempre in una sorta di ambigua e difficile tensione con valori di tipo egualitario universalisticamente orien­ tati. Non si vogliono qui evocare le tracce della filosofia greca o del diritto romano, che pure nella cultura popolare sono proba­ bilmente più presenti di quanto ci si sia mai preoccupati di accertare. Ci si può limitare a considerare l’ambivalenza, a questo proposito, del cristianesimo popolare, nel quale l’orientamento egualitaristico e universalistico è inoppugnabilmente documentato per esempio dall’uso sia appellativo che denotativo e connotativo che viene fatto del termine « cristiano », in opposizione però all’orientamento particolaristico, gerarchico, propiziatorio testi­ moniato per esempio dal culto dei santi. Ancora: documentazione demologica ed evidenza etnografica testimoniano della medesima ambivalenza e ambiguità. Ricorderò appena tutta la proverbistica di ispirazione politico-sociale e giudi­ ziaria, che culmina in quella sorta di monumento alla coscienza della contraddizione che è il celebre e diffusissimo: «La legge

160 è uguale per tutti, chi have denari se ne fatti »; quanto a evidenza etnografica mi basterebbe ricordare Fincondizionata approvazione da parte di tutti gli emigrati italiani per il « rispetto dei diritti » che caratterizza il rapporto del cittadino con i poteri pubblici e privati in paesi come la Svizzera o la Germania; o ancora i risultati della ricerca a cui mi riferisco in questa esposizione, dai quali traggo quest’altro tragico tributo alla coscienza della contraddizione: « Io sono iscritta come bracciante agricola e aven­ do fatto due figli mi hanno dato la maternità, due milioni, e io a lavorare non ci sono mai andata, quindi anch'io mi metto nella categoria dei truffatori » > in-coerenti, anzi confliggenti. SÌ tratterebbe, insomma, di un caso di « doppia morale ». Non pochi autóri considerano la doppia morale uno strumento efficiente che consente l’adeguamento dei soggetti a situazioni variate e, in definitiva, facilita l’equilibrio del sistema sociale. È un’interpretazione anche questa discu tibile , priva com’è di prospettiva diacronica. Nei tempi brevi la flessibilità dei soggetti, che attivano o disattivano un certo codice morale in rapporto alle variazioni del contesto, può anche apparire un elemento di elasticità, duttilità, adattabilità complessiva del sistema. Ma la compresenza di sistemi di valori differenti potrebbe dimostrare non tanto un’adattabilità al presente quanto un’eredità del passa­ to, essere cioè il frutto dello stratificarsi di esperienze diverse, succedutesi nel corso della storia, ma nessuna mai con caratteri cosi « radicali » da poter essere un momento sintetico, risolutore, rifondatore, di liquidazione, insomma, del passato. Di modo che la compresenza di sistemi di valori diversi, lungi dall’essere un sintomo di flessibile modernità, testimonierebbe piuttosto dei conati innovatori o addirittura rivoluzionari mai giunti a compi­ mento: e aprirebbe dunque tutta la complessa questione dell’iden­ tificazione dei soggetti con il sistema e del grado di legittimità che essi gli riconoscono. Questa problematica, sollevata con tagli diversi dagli storici

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(Giarrizzo, Galasso) non ha trovato ancora attenzione adeguata tra gli antropologo Ma c’è un altro aspetto della doppia morale che riguarda diret­ tamente la questione del potere: l’adozione dell’uno o dell’altro sistema di valori a cui riferirsi e su cui modellare il comporta­ mento non avviene nel vuoto, in condizioni di indifferenza; al contrario, esso avviene all’interno di rapporti sociali che sono anche rapporti di potere. Il soggetto non sceglie liberamente i valori per lui più convincenti né quelli più convenienti, bensì quelli che sa di dover scegliere, perché ad essi deve conformarsi se vuole entrare in un rapporto di cui ha bisogno, ma all’interno del quale è comunque subalterno. Per diffuso che sia, il potere clientelare è comunque cogente e vessatorio: né la possibilità che ha il cliente di trasformarsi a sua volta in boss verso chi sta più in basso di lui lo affranca realmente dalla sua dipendenza da chi sta più in alto. Ma una volta di più, qual è il grado di legittimità che i soggetti sono disposti a riconoscere a un sistema del quale, per cosi dire, conoscono i trucchi? E se non gli riconoscono legittimità, quale contestazione attivano? Interro­ gativi, questi, che pochi anni or sono sembravano aver trovato definitive risposte. Oggi invece appaiono in una prospettiva del tutto diversa: cosi lontani dall’aver trovato una convincente solu­ zione da indurre persino il dubbio che siano correttamente posti.

Riferimenti bibliografici Banfield E. (1958), The moral basis of a backward society, Glencoe, Ill., The Free Press, 1958; trad. it. Le basi morali di una società arretrata, Bologna, Il Mulino, 1961 e 1976. Blok A. (1974), The Mafia in a Sicilian village. 1860-1960, Oxford, Basii Blackwell, 1974. Galasso G. (1982), L'altra Europa. Per un'antropologia storica del Mezzogiorno d'Italia, Milano, Mondadori, 1982. Giarrizzo G. (1982), Mezzogiorno e civiltà contadina, in Aa.Vv., Cam­ pagne e movimento contadino nel Mezzogiorno d'Italia, Bari, De Donato, 1980. Gribaudi G. (1980), I mediatori. Antropologia del potere democri­ stiano nel Mezzogiorno, Torino, Rosenberg e Sellier, 1980. Mayer A.C. (1966), The significance of quasi-groups in the study of complex societies, in M. Banton (ed.), The social anthropology of complex societies, London-New York, S.A. Monographs, Tavistock Pubi., pp, 97-122.

162 Signorelli A. (1983), Chi può e chi aspetta. Giovani e clientelismo in un'area interna del Mezzogiorno, Napoli, Liguori, 1983. Tarrow S.G. (1967), Peasant communism in southern Italy, New Ha­ ven, London, Yale University Press, 1967; trad. it. Partito comunista e contadini nel Mezzogiorno d'Italia, Torino, Einaudi, 1972.

Alberto M. Cirese Il potere del computer: come comandare a un servo che non ha paura della morte? Maraviglia sarebbe in te, se, privo d’impedimento, giu ti fossi assiso com’ a terra quiete in foco vivo Par. I, 138-140

Le considerazioni che espongo — da autodidatta che spera nell’indulgenza degli esperti — si riferiscono soprattutto a quel­ l’uso personale del calcolatore che è in crescita vertiginosa. È dunque certo che, anche al di là di intrinseche debolezze, lo scritto risulterà già vecchio al momento di vedere la luce. Tanto più importa non restare intellettualmente seduti. 1. Qualcuno, parlando di calcolatori, ha detto che il software è quella cosa che, quando sai come è fatta, non hai più bisogno di comprarla. In materia di hardware, invece, nessuna informa­ zione sulla sua struttura può di per sé bastare ad assicurarcene il possesso. Potrebbe anche dirsi che per rubare un microprocessore {hard­ ware) occorrono le mani. Per rubare invece un programma {soft­ ware) bastano, almeno in linea di principio, gli occhi. Se infatti ho capacità mnemoniche adeguate (e speriamo che la scuola torni a svilupparle) potrò memorizzare il programma, o almeno la sua struttura, non solo senza l’uso di quei sofisticati supporti specifici della memoria di massa che sono i nastri e i dischi magnetici, ma addirittura senza far ricorso a strumenti elementa­ rissimi di memoria non volatile quali carta e matita. Un esempio? Le tre righe che seguono sono un programma, anche se banalissi­ mo (da prima dispensa di un corso di Basic): 10 FOR K = o TO 9 20 PRINT K 30 NEXT

Chiunque è in grado di imparare meccanicamente a memoria le tre righe, e può dunque portarsi a casa il programma senza né scriverlo né pagarlo. Se poi si dispone di . un calcolatore, e

164 posto che questo accetti il linguaggio Basic in cui il programma è scritto, basteranno un po’ d’attenzione e una minima conoscenza della tastiera perché dalla memoria mentale — e, si badi, senza esserne cancellate — le tre righe passino nella memoria dell’ap­ parecchio. E al comando di esecuzione, sul video compariranno incolonnati i numeri da 0 a 9. Il tutto senza che l’agente umano debba sapere assolutamente nulla né su ciò che le righe del programma significano né su come faccia il calcolatore a fare ciò che fa. Con il che, almeno in questo caso, la cosiddetta stupidità del calcolatore è certo minore di quella dell’agente uma­ no: quest’ultimo infatti nulla intende del programma, mentre il calcolatore lo capisce, almeno nel senso non trascurabile che ne esegue le istruzioni o i comandi.

2. Assai probabile, soprattutto nella mia generazione, un deciso rigetto: è indegno anche il solo immaginare la mente umana ridotta a passivo trasferitore di incompresi caratteri, e dunque avvilita a servente d’una macchina che cosi ha o sembra avere più intendimento dell’uomo. Ma già da tempo sperimento con giovanissimi amici delle scuole medie, o addirittura elementari, una reazione di segno (apparentemente) opposto: la banalità del programma esemplificato — e l’idea che per averlo lo si debba rubare — umiliano l’intelligenza umana almeno tanto quan­ to umiliano le capacità di ogni calcolatore, per modeste che siano. Vengono cosi in campo due dei possibili sensi che il termine « potere » ha nell’uso corrente: potere come capacità di svolgere questo o quel compito; e potere invece come imposizione o signo­ ria o imperio, ossia come facoltà di disporre delle azioni altrui con la forza (dominio) più o meno congiunta a persuasioni indot­ te e ottenuto consenso (egemonia). Il secondo senso — imperio — è quello su cui si concentra l’attenzione dei testi raccolti in questo volume, lasciando in ombra l’altro. Ma, pur non escludendo il secondo, il primo senso — capacità — viene in più immediata evidenza quando si parli di potere del computer. Infatti il tipo di imperio che il calcolatore esercita o può esercitare -(meglio: che consente o può consentire di esercitare) si lega strettamente al tipo di capacità che il calcola­ tore ha o può avere, e dà o può dare; non senza tener conto delle capacità che il calcolatore, prodotto umano, esige dagli agen­ ti umani che lo mettono in opera.

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3. Quanto all'imperio escluderei qui la fantarobotica e le terrifi­ canti visioni di macchine informatiche che, fattesi autonome, schiavizzano l'umanità. C'è infatti un senso più realistico e imme­ diato in cui il calcolatore può rendere schiavi gli uomini: ed è che non se ne possa più fare a meno. Una indispensabilità, cioè; e una dipendenza, anche se non di quel tipo psico-compor­ tamentale che ci fa schiavi, che so, di tabacco o droghe, dell’auto o del video, e che è competenza diagnostico-terapeutica di psichia­ tri, psicologi, sociologi, assistenti sociali, ecc. Vero è che possono esserci e ci sono anche casi di « computerite », per cosi dire: incapacità o quasi di staccarsi dal calcolatore. Ora che l'accessibilità economica ne è divenuta addirittura casalin­ ga, anche il calcolatore può diffondersi dunque come droga, se piace questo facile genere di metafore; ma si ammetterà che eventualmente si tratta di droga assai leggera, sia per càrica auto­ distruttiva sia per pericolosità sociale. Né credo valga l’equipara­ zione con la dipendenza da video-tv. In quest’ultimo caso, infatti, si è ancora in posizione tecnologica di necessaria passività. Per il calcolatore invece è già tecnologicamente possibile una posizione attiva: si può sempre andare al di là dei videogiochi programmati da altri; ove poi non lo si facesse, il computer cesserebbe di essere tale per ridursi a super-flipper, e quindi come tale andrebbe classificato e trattato. 4. La reale dipendenza da computer — e cioè il non poterne più fare a meno — è invece di ben altra natura, come già c’insegna il caos che si crea alle poste o in banca o negli aeroporti se i terminali non funzionano. È una dipendenza analoga a quella che da tempo ci lega, che so, all’energia elettrica: il suo mancare può anche produrre conseguenze psicosomatiche (panico per black-out, ad esempio, che però sarebbe difficile classificare come crisi da astinenza), ma il cui effetto primario è quello di bloccare là società — o almeno la nostra — nei suoi basilari meccanismi attuali di funzionamento. Cosi già è o sarà anche per i calcolatori. E come per l'energia elettrica — di cui possono privarci non solo accidenti tecnici ma anche azioni umane di sciopero o serrata — cosi pure per i calcolatori si pone il problema del potere/ imperio che essi possono conferire ad alcuni gruppi sociali su altri. Il tutto poi con peso forse più decisivo, in ragione del sempre più capillare dispiegarsi dei servizi che i calcolatori rendo­

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no e della crescente qualità e quantità delle operazióni umane che essi sono in grado di surrogare. Da quest'ultimo punto di vista — e siamo sul terreno del potere/imperio — credo che gli effetti non potranno non essere dirompenti. Già nei quotidiani, pur solo limitandosi a battere il suo pezzo al computer invece che sulla abituale macchina dà scrivere, il giornalista sta rendendo superflue alcune attività e figure lavorative: la composizione ad opera del linotipista o tastie­ rista, il trasferimento fisico del dattiloscritto per mezzo dei com­ messi, ecc. Se poi l’informatizzazione delle fabbriche continua (e non vedo come arrestarla), è dubbio che possa farsi « per sé » una classe che cessasse di esistere « in sé ». Ci sono dunque anche prospettive di costi umani altissimi, se la dirigenza politica e sindacale fosse incapace di andare al di là delle questioni di breve raggio per occuparsi dei modi in cui gestire, a lunga gittata, una trasformazione tecnologica e socio-economica che non si evita certo con quel pervicace chiudere gli occhi che poi, una volta costretti ad aprirli, mi pare venga chiamato « ritardo ».

5. Ma non intendo insegnare il mestiere a chi, per averlo tanto praticato, certo lo conosce a fondo. Tornerei piuttosto a quella reazione di rigetto che supponevo probabile, nella mia generazione, di fronte all’esempio iniziale. L’inquietudine e il timore mi paiono atteggiamenti soggettivi inadeguati di fronte a un fatto che però è oggettivamente saldo (o almeno tale a me sembra, per ragioni che dirò piu oltre): la novità qualitativa che la svolta informatica presenta rispetto alle rivoluzioni tecnolo­ giche precedenti. La macchina a vapore e il motore a scoppio producono energia, e hanno sostituito in tutto o in parte i musco­ li; il calcolatore esegue operazioni logiche, e fa concorrenza al cervello. Per i motori non fa (piu) paura che il sostituirsi all’ener­ gia umana sia eventualmente totale. Il calcolatore invece (ancora) inquieta di per sé, e tanto più se c’è la possibilità che per cosi dire vinca la gara. Non so se il rischio sia effettivo (fuori resterebbero comunque quelle famose e importanti ragioni che la ragione non conosce); ma se effettivo fosse, non basterebbero certo gli anatemi. Il punto (laico) è che non si può non accettare l’ulteriore sfida evolutiva che l’intelligenza umana pone a se stessa: crescere al di là dei propri prodotti. Non escludo — ed anzi in vari casi

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I auspico — che la crescita possa o debba consistere anche nella rinuncia a certi prodotti. È quanto chiede, mi pare, l’ecologismo

piu responsabile. Ma intanto il calcolatore è ecologicamente puli­ to, né richiede energia atomica (anche se poi può servire a pro­ durla e a guidarne impieghi più o meno distruttivi; se dunque non si pasticcia, la questione è diversa). C’è poi da aggiungere che, come in ogni altro caso, la eventuale rinuncia è seria solo se si rispettino alcune importanti condizioni. Una è che ben si sappia che poi non si possono piu pretendere i vantaggi che il rifiutato prodotto avrebbe portato (amaro il degradarsi del­ l’utopia nella stolta pretesa d’avere botte piena e moglie ubriaca). Altra condizione è poi che il rifiuto non sia mai fideistico e teocratico come quello che vietò l’impianto delle ferrovie nello Stato pontificio (e in Urss, se non erro, ha poi proibito per anni la fisica quantistica). Infine bisogna essere ben certi che dietro il rifiuto non ci sia quell’atteggiamento (valido solo in materia di scelleraggipi) che porta a giudicare diabolico che altri faccia o impari a fare ciò che personalmente non si ha voglia d’imparare. 6. L’ultimo punto tocca di nuovo il potere del calcolatore inteso in qualche modo come imposizione: le capacità che il calcolatore ha e dà — l’ho accennato — richiedono il possesso o l’acquisizione di certe capacità da parte dell’utente. In verità, ai livelli più abituali di utilizzazione, le abilità che il calcolatore esige dall’operatore umano sono minime. Buona parte della gara commerciale tra personal si svolge proprio sul terreno della cre­ scente facilità d’uso tanto della parte hard (tastiera, nastri o dischi, stampante) quanto del soft, ossia dei programmi. E in effetti — ad esempio per l’uso in luogo della macchina da scrivere — tutto ormai si riduce a poche operazioni preliminari e all’intro­ duzione dei testi; il resto va automaticamente, compresi spesso gli ordinamenti alfabetici, tematici, cronologici. Per molti rispetti questa facilitazione nell’uso dei programmi è positiva. Faccende commerciali a parte, ho cercato di ottenerla anch’io nel programma di analisi componenziale automatica delle relazioni di parentela (Acarep) cui da tempo lavoro (e le cui origini stanno nei lontani anni sardi in cui nacque il progetto del metalinguaggio parentale poi pubblicato col nome Nlc, e ora immesso nel calcolatore col nome Gepr). Il proposito è stato, e resta,

168 quello di rendere il programma Acarep fruibile anche dall’utente informaticamente più sprovveduto: tutto quanto gli si richiede — oltre alla normale dattilografia e al sapere qualcosa sui termini parentali — è di scrivere le relazioni di parentela in una delle notazioni usuali che il programma finora accetta (tre inglesi, una francese e una italiana). Poi tutto è automatico: oltre a rifiu­ tare errori banali (Tizio è marito della moglie di Caio, ad esempio, se il sistema è monogamico), e oltre a correggere espressioni equi­ voche (marito indifferentemente di un maschio o di una femmina, se il sistema è eterosessuale), il programma effettua il converso di ciascuna relazione (chi sono io per te se tu per me sei il figlio della sorella del padre di mia madre?), riconosce i tratti parenta­ li già indicati da Kroeber (discendenza diretta o collaterale, livello di generazione, età relativa ecc.), identifica caratteristiche spesso non considerate (simmetria o meno delle relazioni, biforcazioni di sesso tra tutti i parenti intermedi ecc.), traccia i diagrammi, e infine fornisce risultati analitici anche più ricchi di quelli ot­ tenuti per via manuale-mentale da Lounsbury o Goodenough. Senza richiedere capacità informatiche, dunque, Acarep libera tem­ po ed energie per elaborazioni mentali di grado più avanzato.

7. Quando chiede cosi poco all’utente, il computer è dunque un servo docile e fedele cui anche il più inesperto padrone può agevolmente dar ordini e richiedere prestazioni: non però al di fuori di ciò che ciascun programma prevede. Ad esempio, per ragioni transitorie, il ricordato programma Acarep attualmente suddivide i sistemi parentali in soli quattro gruppi: omosessuale poligamico, omosessuale monogamico, ete­ rosessuale poligamico, eterosessuale monogamico. L’utente dun­ que non può ottenere distinzioni tra poliginia e poliandria. Ri­ muovere la limitazione non richiede molto: a patto però che si sappia dove mettere le mani. In caso contrario si resta prigionie­ ri dello strumento che, pur se docilissimo, tuttavia impone al­ l’utente informaticamente sprovvisto la ferrea legge del suo man­ sionario. Il servo dunque si fa in qualche modo padrone di chi non abbia capacità di comandarlo alla base. Di qui la massima che il personal personalizza solo chi lo sappia programmare. Quando il servo è informatico, insomma, la dialettica signoria/servitù cam­ bia: meno il servo chiede al padrone, più cresce il suo potere;

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né il servo, come invece in Hegel, può essere dominato con la paura della morte. Ciò che occorre è il crescere delle capacità di signoria dell’attività mentale umana: intelligenza. Nel furto mnemonico-visivo di incompresi segni ipotizzato al­ l’inizio c’è piena soggezione del padrone al servo: se non se ne capisce nulla, le cifre stampate saranno in eterno da 0 a 9, e in colonna, anche se ne volessimo altre, e disposte di seguito. La seconda reazione cui più sopra accennavo viene proprio da chi invece sappia dove mettere le mani per ottenere queste e altre variazioni dei risultati: e in proposito basta anche l’abicì del Basic. Un minimo di capacità informatica libera dunque l’utente dalla soggezione al programma: più precisamente lo libera dall’assog­ gettamento agli agenti umani che sono capaci di costruire pro­ grammi. Quel minimo infatti basta già a rendere superfluo l’acquisto o il furto di programmi anche molto meno banali di quello esemplificato: ognuno diviene capace di scriverseli da sé. Anche qui, e più che in ogni altro campo, se s’impara a pescare non è più indispensabile rubare un pesce, o chiederlo in regalo.

8. Col crescere poi delle capacità crescono le dipendenze da cui ci si può liberare. Se si conoscono più linguaggi di program­ mazione, ad esempio, non occorre che il programma da usare sia nel linguaggio specifico della macchina di cui si dispone: si può tradurre da Basic in Fortran o Pascal ecc., e viceversa. Ma c’è molto di più: i programmi possono essere ideati e costruiti in linguaggi che l’uomo sa o capisce, e il calcolatore no. Si può in­ somma prescindere, in certa misura, da conoscenze informatiche specifiche. Per esempio, invece che in Basic i passi del banale pro­ grammino iniziale possono indicarsi con il diagramma di flusso rappresentato nella figura della pagina successiva. Ora la copia mentale puramente meccanica è meno facile: per ricordare senza intendere occorre una memoria fotografica. Però è possibile capire (posto che la scuola di base abbia addestrato a minimi passaggi astrattivi quale quello che da 2 + 2 = 4 porta ad a+ b = c). Anche chi non ne abbia mai visto uno intende su­ bito che il diagramma assegna un valore iniziale alla variabile K e controlla se quel valore iniziale superi il valore assegnato come finale: se sì, il procedimento si arresta; se no, si stampa K e lo si incrementa di una unità; si replica quindi il confronto

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con il valore finale, stampando e incrementando K fino a quando il valore raggiunto non eguagli il limite.

Ogni furto è cosi divenuto superfluo. Si è imparato a pescare; e la mente, lungi dall’essere asservita, fa ciò che è fatta per fare: pensa pensieri, qui certo elementarissimi, ma almeno chiari a sé e agli altri. Cessa la soggezione perché ora ognuno sa dove mettere le mani per ottenere risultati a suo piacere: cambiando 0 e 9 si otterranno cifre diverse; chiedendo di sottrarre, invece che aggiungere, si avrà un procedimento a ritroso; incrementando di 2, invece che di 1, si avranno i pari (o dispari), ecc. E sosti­ tuendo le costanti con variabili, il programma obbedirà docilis­ simo a qualsiasi ulteriore richiesta (ragionevole).

9. Resta il fatto che il diagramma non può essere immesso nel calcolatore cosi come è scritto: è assolutamente necessario — almeno ad oggi — tradurlo nel linguaggio di cui questa o quella macchina dispone. Occórre cioè sapere, ad esempio, che in Basic l’incremento o decremento di una o più unità si realizza in genere mediante il ciclo For... Next che lega la riga 10 alla 30 nel programma addotto all’inizio.

171 S’impone dunque a questo punto (ma solo a questo punto) il possesso di conoscenze più specifiche e oggi ancora abbastanza specialistiche. Va subito aggiunto però che il momento della tra­ duzione in Basic o altro è secondario, non solo nel tempo, rispetto al momento vero della programmazione: quello dell’analisi che individua l’algoritmo o procedimento che in un numero finito di passi porta da un certo stato iniziale a quello finale. Donde due figure professionali o lavorative che, anche se riunite in una stessa persona, restano intrinsecamente distinte: quella dell’analista e quella del programmatore. Si aprono allora quattro astratte possibilità combinatorie: che si sia in grado tanto di realizzare una analisi quanto di tra­ durla poi in Basic o Lisp o altro; che si sappia effettuare l’analisi, ma non si sia poi capaci di tradurla in linguaggi di. programma­ zione; che si conosca il Basic o altro ma senza capacità di analisi; e infine che non si sappia niente di niente. Si configura dunque una precisa gerarchia di autonomie o dipendenze: e parlo qui di rapporti tra agenti umani, non di relazioni tra uomo e macchina. Su chi nulla sa pesa evidentemente il predominio di chiunque sappia almeno qualcosa: e qui, dunque, di tutti. È il caso delle con­ figurazioni hard/soft di massima facilitazione: per l’utente tutto è di assoluta « trasparenza», nel senso che il termine ha nel set­ tore, e cioè tutto gli resta invisibile, come invisibili appunto sono vetri ben tersi. La trasparenza, in questo senso, fa schiavi. All’altro estremo c’è non solo il massimo di indipendenza, ma anche la massima capacità di signoria: si vede e governa ciò che poi ad altri resta invisibile o perché lo si cela (reato del dominante) o anche perché l’utente, intellettualmente pigro, non spezza le catene del servo (salvo poi a prendersela con le stelle). Al livello intermedio, tra analista e programmatore c’è inter­ dipendenza e insieme gerarchizzazione: l’uno non può fare a me­ no dell’altro; ma se una analisi senza traduzione in linguaggi di programmazione sarà forse inutile ma è possibile, che cosa mai tra­ durrà il traduttore se non c’è un testo da tradurre? Comunque tanto l’analista quanto il traduttore hanno predominio su chi sé ne stia assiso sull’infimo gradino \ 1 La reciproca dipendenza tra chi sappia analizzare ma non tradurre, e chi invece sappia tradurre ma sia incapace di analisi, mi espone alla tentazione di uscire dal seminato per sottolineare il carattere ternario, e non binario, della relazione di potere. Cedere qui alla tentazione urterebbe giustamente il

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10. Pare chiaro allora che una nuova rete di signorie e servitù viene a intrecciarsi con quelle già esistenti. Ed è presumibile che ne nascano modificazioni profonde dei precedenti assetti. Sono certamente da evitare, in materia, quei corto-circuiti apo­ calittici o palingenetici di cui ha fatto efficace e argomentata cri­ tica Paola Manacorda2. Mi azzarderei tuttavia a insistere, qui e nel seguito, su una caratteristica che credo decisiva e cioè sulla natura non strettamente economica della scala di autonomie e di­ pendenze cui accennavano: è una scala di saperi, e non di ricchezze o simili. Gli stessi imprenditori potrebbero trovarsene profonda­ mente condizionati, ove il loro sapere non consentisse di control­ lare in profondità ciò che mettono dentro i calcolatori e i pro­ grammi quelli che sono in grado di idearli. E ove i portatori di saperi informatici fossero essi ad assumere vessatorio potere, sa­ rebbero adeguati mezzi per sbarazzarsene gli assalti alle Bastiglie o ai Palazzi d’inverno? So di un programma di bibliografia utilizza­ bile collegialmente da un gruppo di ricercatori: l’analista/programmatore, tra malvagio e pedagogico, aveva inserito una proce­ dura che gli diceva quanti e quali fossero i dati introdotti da cia­ scun cooperatore, e dunque di documentare a ciascuno ogni sua pigrizia o errore; alla indignata protesta contro l’esoso controllo, la risposta fu che il programma era li, a disposizione di tutti, e che chi voleva, purché sapesse, poteva disinnescare il meccanismo spionistico; ove poi non sapesse, poteva sempre imparare; e se non voleva imparare, affar suo. Certo, la fabrilità non è scissa dalla segnicità, e nulla mai si fa solo con le mani. Tentando di diagrammare quel processo pro­ duttivo semplice che Marx dice invariante attraverso tutti i modi di produzione, mi è venuto di per sé in innegabile evidenza che anche la fabrilità più elementare necessariamente incorpora infor­ mazione sia come notizia sia come regola-, e informazione incor­ porata è pure l’abilità lavorativa, senza la quale nessun prodotto fabrile è possibile 3. Non ho dunque alcuna difficoltà, da questo punto di vista, a schierarmi con quanti considerano anche i pro­ dotti della fabrilità come neg-entropia: come ordine introdotto in lettore; non cedere è al di sopra delle mie forze. Trovo perciò un farisaico compromesso confinando in una Appendice fuori tema quel che mi viene da dire sull’argomento, e su simmetria, riflessività, Luhmann ecc. 2 Lavoro e intelligenza nell'età microelettronica, Milano, Feltrinelli, 1984. 3 A.M. Cirese, Segnicità, fabrilità, procreazione, Roma, Cisu, 1984.

173 ciò che — rispetto allo scopo o causa finale di ogni lavoro — risultava disordinato, pur magari avendo già ordine rispetto ad altri fini o ad altri livelli di organizzazione del reale (penso come al solito al lavoro a maglia in cui il pullover risultante è ordine rispetto all’indossarlo, mentre ferri e lana, pur essendo ordine ri­ spetto alle materie da cui derivano, non sono ancora ordine, o sono addirittura disordine, rispetto al vestire: non si indossano, mi pare, né ferri da maglia né matasse di lana). Resta tuttavia una netta differenza categoriale. Mi si perdoni se ripeto qui la distinzione che ho tentato in Segnicità (non credo si sia rei di autocitazione quando ciò che si cita ha davvero avuto quei soli venti lettori di cui Manzoni parlava invece per civetteria). Ci sono cose che, quando tu ne fruisci, un altro non può simul­ taneamente fruirne: non si mangia una mela in due: se ne mangia metà ciascuno (o anche meno, se l’altro non è discreto). Un qua­ dro invece si guarda in due o in cento, senza che la fruizione di ciascuno sottragga nulla alla fruizione degli altri (a meno che qualcuno non ti tolga la visuale, come quel tale toglieva a Diogene il sole). Se per strada mi chiedono un gettone, e io lo do, l’altro può telefonare ma io non più, almeno con quel gettone; se invece mi chiedono dove sia, poniamo, Via del Boschetto, e io lo so e lo dico, l’altro saprà quel che non sapeva, ma non per questo io dovrò a mia volta andare chiedendo in giro. Se disponiamo di una sola auto, e l’ha presa mio fratello dicendomi dove va, è assolutaneamente utilizzare: non si mangia una mela in due: se ne mangia a meno di amnesie, lui non ha bisogno di telefonarmi per sapere da me dove lui sta andando. Sciocchezze? Può darsi. Ma si provi a mangiare la mezza mela già mangiata dal partner, a telefonare con un gettone che non si ha più, a usare un’auto che un altro ha già portato via. La mela o il gettone o l’auto stanno in una sfera in cui vale la legge: « sparti palazzo, diventa cantone »; o, più nobilmente, stanno « là v’è mestier di consorte divieto », come Giovanni Pirodda m’ha insegnato che Dante disse. Il qua­ dro, l’indicazione verbale di una via, e anche il gesto che addita ciò che spesso sta « in fondo a destra », appartengono a un altro universo categoriale: quello dei segni erogatori d’informazione in quanto eliminatori di incertezza (neg-entropia) ; e la caratteristica materiale ne è d’essere simultaneamente fruibili in modo plurimo senza decurtazioni, e dunque comunicabili non solo senza perdita

174 ma addirittura con arricchimento, come avviene nella « recipro­ cità » di Lévi-Strauss, o come accade nel « tempo incielato » di Dante là dove « esser puote eh’un ben distribuito / in piu posseditor faccia più ricchi / di sé, che se da pochi è posseduto » (e qui il maestro è stato Mario Alighiero Manacorda)4. Credenze medievali a parte, sono queste le ragioni per cui non mi riesce di equiparare la macchina informatica alla macchina a vapore o al motore a scoppio: la prima è in sé segnica, e solo ac­ cessoriamente fabrile, e le altre invece sono segniche solo se azio­ nano altre macchine che siano in sé tali. Anche tralasciando Pascal o le macchine di Turing, più che alla locomotiva il calcolatore è prossimo alla pianola: quella che produceva musiche con mano­ vella o pedali e bande di carta, perforate, queste ultime, proprio come le schede dei primi calcolatori.

11. Sottolinerei anche un altro aspetto. Nel processo produttivo fabrile, oggetto, strumenti e prodotto sono dell’ordine della ma­ teria-massa, anche se il progetto e l’abilità lavorativa sono dell’or­ dine della materia-informazione (secondario è poi che la materiaenergia sia umana o meno). Ma in quello che in genere (e un po’ confusamente) si chiama « lavoro intellettuale », oggetto, stru­ menti e prodotto sono tutti dell’ordine segnico: appartengono tutti all’ordine della materia-informazione (e cioè al livello categoriale in cui si modula l’energia o si organizza la massa a significare e comunicare, e non, o non solo, a servire e scambiare). E la diffe­ renza è profonda. La produzione di software o programmi è appunto attività che con strumenti e oggetti segnici produce prodotti anch’essi segnici. È certo ancora erogazione di energia, e dunque fatica asservibile o asservita; ma è proprio vero che ogni fatica è lavoro nel senso del processo produttivo semplice? È dunque almeno legittimo il dubbio che anche le modalità dei rapporti di produzione possano intrinsecamente cambiare al cambiare categoriale della attività, e cioè se a un esercito di produttori fabrili si sostituisca un esercito di produttori segnici. Proprio non conta nulla che oggetto e stru­ mento dell’attività siano nel primo caso natura esterna all’agente 4 A offuscare le certezze in cui mi piacerebbe muovermi (e perciò vilmen­ te ne parlo solo in nota) c’è la massima che Isidoro Moreno Navarro a Si­ viglia mi diceva frequente sulla bocca di una sua familiare di antica espe­ rienza: «Chi dice la verità, la perde ». È difficile da intendere, ma forse perciò più turba.

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(legno o metalli e simili), e nel secondo caso invece natura psicosomatica e cioè interna a lui? Potrà parlarsi di espropriazione negli stessi termini usati fino ad oggi quando il prodotto dell’atti­ vità sta innanzi tutto nella mente del produttore, e può rimanervi anche quando dato ad altri? So bene che quando i programmi si fanno complessi è arduo conservarne memoria mentale, pur se li si sia costruiti da sé, passo a passo: occorrono memorie extrasoma­ tiche, stampa o nastri e dischi magnetici che siano. So anche, però, che sempre mi è riuscito di ricostruire programmi acciden­ talmente e irrecuperabilmente distrutti. Il punto infatti non sta nel ricordare ma nell’aver capito. Forzando un poco, verrebbe da aggiornare l’antica massima: « rem tene, programmata sequentur »; i programmi verranno, se si è padroni del concetto. Quale perquisizione ai cancelli d’uscita d’una fabbrica di programmi potrà dunque impedire che si porti via con sé, nella mente, il prodotto mentale che la propria attività mentale ha prodotto nelle ore di turno? O ci saranno varchi come negli aeroporti, a lavare però istantaneamente i cervelli senza gli attuali ricorsi a carceri o manicomi? O l’ingegneria genetica pro­ durrà menti umane che si facciano tabula rasa quando si stacca il turno, così come nel calcolatore si fa tabula rasa la memoria vola­ tile o Ram quando si stacca la spina? Resterebbe comunque il problema della Rom, e cioè di quella memoria che nei calcolatori contiene il sapere e che non si cancella spegnendo, e ove si can­ cellasse renderebbe inservibile l’apparecchio: l’operaio/analista o programmatore lascerà in fabbrica la sua Rom o sapere, cosi come oggi lascia macchine e attrezzi? Piu che nel corto-circuito qui siamo nella fantascienza: e se non è già stato fatto, pagine forse divertenti potrebbero dedicarsi agli operatori umani che, per rein­ corporare il sapere, all’ingresso di ogni turno si reinnestano le decine di piedini delle Rom asportabili, e ricaricano nella Ram vuota quanto prodotto nel precedente turno. È piuttosto da interrogarsi sulla pertinenza dell’idea stessa di espropriazione quando il prodotto dell’attività mentale sia menta­ le: uno scrittore che un editore defraudi, senza però cancellarne il nome, è espropriato o non piuttosto derubato? Non sono certis­ simo di tutto quanto dico. Sicuro sono però che il pensiero mate­ rialistico rischia di sfuggire a se stesso quando per « condizioni materiali della produzione » si restringe a intendere solo i pur importanti rapporti di produzione, obliterando il problema della

176 materia con cui si fanno, e di cui sono fatte, le cose che si fanno. Certo non va dimenticato che, prima dei programmi (segnici o soft), occorrono i microprocessori (fabrili o hard)-, e questi ulti­ mi, così come tastiere o video e dischi, non escono di fabbrica per solo sapere e memoria mentali. È certo è anche che la pro­ duzione stessa dei programmi richiede giganteschi impegni finan­ ziari e organizzativi con connesse gerarchizzazioni e dipendenze di ruoli, retribuzioni, orari. È dunque più che ragionevole pensare che fenomeni essenziali possano restare grosso modo invariati: il plusvalore e il lavoro alienato, ad esempio, per Paola Manacorda. Non so per il primo, ma pienamente consento nell’idea che fru­ strazione e noia nel lavoro non dipendono dal tipo dell’attività ma dai rapporti socio-economici-affettivi entro cui l’attività si col­ loca, si qualifica e si motiva a se stessi; una attività segnica non è di per sé meno frustrante di una fabrile. Vale ancora, cioè, l’idea marxiana della mancanza, o perdita, della proprietà delle condizioni di realizzazione del proprio lavoro. Ma, per altro verso, sarà ancora applicabile alla lettera l’idea di quel « processo di scis­ sione » che consiste nella « contrapposizione delle potenze intellet­ tuali del processo materiale di produzione agli operai, come pro­ prietà non loro e come potere che li domina », culminando « nella grande industria che separa la scienza, facendone una potenza produttiva indipendente dal lavoro »?

12. Ma, tornando al tema, c’è anche chi sta o resta sull’ultimo gradino: né analista né programmatore. Ed è questione che ci ri­ guarda in modo diretto, in quanto studiosi di formazione pre- o a-informatica. In proposito ricordo sempre l’ottima lezione di base che — al primo contatto con i calcolatori per l’edizione dei canti della Raccolta Barbi — ebbi vent’anni fa a Pisa da Antonio Zampolli, che allora iniziava la sua tanto feconda attività di linguista com­ putazionale: « Mi dica che cosa esattamente vuole — fu la sua frase — e ottenerlo sarà poi compito mio ». E il difficile fu pro­ prio lì, nel dirgli, e dirmi, che cosa esattamente volessi. Prima che il sapere che cosa faccia o possa fare, e come si faccia a farglielo fare, il calcolatore esige che si rendano quanto più si può nitidi a noi stessi i termini del nostro problema; e il prezzo ne è la non facile rinuncia a quelle indeterminatezze che ci sono consen­ tite dalle pur talora feconde ambiguità concettuali del linguaggio

177 corrente non rigorizzato. La questione è dunque a-informatica, giacché si pone anche indipendentemente dal calcolatore, e investe alternative piu generali. Non tirerò qui in ballo temi impegnativi come il contrasto tra ragione dialettica e ragione analitica che divise Sartre e Lévi-Strauss; la questione può anche rappresen­ tarsi piu banalmente come la scelta tra due opposti enunciati di preferenza: « meglio schematico che confuso » è il primo, e « me­ glio fecondo che rigoroso » il secondo. Dubito che la seconda prospettiva si adatti al calcolatore (per programmarlo in proprio, ovviamente, giacché con il servo facilitante non c’è problema). Scegliendo l’altra prospettiva, almeno un ulteriore passo resta ancora a-informatico: è l’acquisizione di quell’habitus dei mate­ matici che Lévi-Strauss dichiarava di voler assumere in proprio: quando si incontra una difficoltà si comincia anzitutto col suddi­ viderla in piu difficoltà minori, per superarle poi una alla volta. È ancora il mestiere dello studioso; ma è già anche il mestiere dell’analista: e sarà da sottolineare da un lato che lo studioso che costruisca programmi ha da essere analista, e non necessariamente programmatore, e dall’altro che ogni analista deve avere compe­ tenze nel campo scientifico per il quale ricerca e individua reti di procedure o algoritmi. L’identificazione di procedure comincia però a richiedere opera­ zioni che forse sono meno familiari: quella di dire a se stessi quali sono i passi che in modo intuitivo e quasi inavvertibile com­ piamo quando da certi dati iniziali giungiamo a certi risultati finali. Ma per arduo che il compito possa parere, mi rifiuto di credere che uno studioso non sappia riconoscere analiticamente il cammino che intuitivamente ha percorso. Il punto se mai è se giudichi che valga la pena di farlo; ma pósto che decida per il sì, e che quindi scriva diagrammi di flusso o simili, lo studióso già si è fatto analista del proprio problema. E così, non solo non sta piu sul gradino più basso, ma è quasi al vertice della scala dei saperi più sopra schematizzata. Né è strettamente necessario che vada oltre: può benissimo delegare a un programmatore il compito della traduzione in Basic o altro del suo lavoro di analista. Ma ci si può voler liberare anche dell’ultima dipendenza. In tal caso, più direttamente a confronto con l’apparecchio, meglio ci si rende conto che il calcolatore non è di per sé né intelligente né stupido: è intelligenza umana per così dire incorporata e oggettivata che, antropomorfizzando, non ti tradisce mai ma non ti perdona nep­

17'8 pure il piu piccolo sbaglio, sia che tu contravvenga alle sue regole, s\a che tu violi quelle che tu stesso hai fissato. E altrettanto frut­ tuosamente si intende che mai volesse dire chi scrisse che « la na­ tura si comanda obbedendole ». Ma la difficoltà maggiore sta forse proprio nei linguaggi di programmazione: è lungo e faticoso programmare in Basic; già meno quando si passi a linguaggi di piu alto livello, e cioè piu prossimi al modo di procedere mentale dell’operatore umano (Lisp d Prolog). Ma anche le intelligenze artificiali richiedono ancora impegni di tempo che possono diventare incompatibili con la normale attività dello studioso. Una soluzione sta nella crescita delle attrezzature professionali delle università (tecnici ad esem­ pio). Ma la strada principe è altra: come è stato osservato, il personal ha democratizzato il calcolatore solo a metà; l’altra metà della democratizzazione sta nello sviluppo di linguaggi di pro­ grammazione sempre più potenti e di utilizzazione sempre piu im­ mediata e veloce. La facilitazione ha da essere nella programmabili tà in proprio, e non solo nell’uso di programmi altrui. Torna dunque il punto: programmi, soft, segnicità, informazio­ ne. E torna evidente il dilatarsi di una fonte di potere/imperio non certo ignota in precedenza, ma ormai incomparabilmente cre­ sciuta: quella di saperi che si impongono non piu per le capacità d’indurre persuasioni (come nell’egemonia) ma per la indispensabi­ lità dei prodotti/servizi che rendono. Tanto piu occorre che l’informazione liberamente circoli (e non penso solo a quella politica). Tanto piu urge poi che la formazione scolastica attrezzi adeguatamente ciò che qualcuno ha chiamato « lo strumento testa »: fermo restando però, a mio avviso, lo studio o il ripristino dello studio delle « tecniche morte », se cosi posso chiamare, che so, la tavola pitagorica o il calcolo mentale e ma­ nuale, la memoria, ecc. Si tratta di aumentare le capacità, e non di perderne. O altrimenti si fa incentivo al non pensare — « a terra quiete in foco vivo » — ciò che invece chiede all’intelligenza di continuare ad essere se stessa crescendo al di là dei propri pro­ dotti; Appendice sul carattere ternario delle relazioni di potere

Con riferimento alla nota 1, e supponendo per un momento che la relazióne tra analista e programmatóre accennata al paragrafo 5 sia

179 di potere in-senso corrente, e non invece di indispensabilità pur se gerarchizzata, potremmo rappresentare il rapporto indicando con P la relazione aver potere su, con & la congiunzione logica « e », e con x e y gli individui coinvolti. Ne risulterebbe. la seguente espressione (1)

(x P y) & (y P x)

da leggersi: x ha potere su y e y ha potere su x. In tal modo però si annulla la irriducibile unidirezionalità della relazione di potere: valendo tanto da x a y quanto da y a x, la rela­ zione P, da asimmetrica quale non può non essere, diventa simmetri­ ca, cessando cosi di essere ciò che è. C’è dunque un errore nell’espressione (1). E l’errore nasce dal fatto che spesso l’uso linguistico lessicalizza come binarie delle relazioni che invece sono ternarie. Ad esempio, nella espressione « Tizio scrive a Caio » lasciamo sottinteso il fatto che, oltre al mittente Tizio e al destinatario Caio, è coinvolto anche un terzo elemento: il messaggio, lettera o biglietto che sia. Altrettanto accade per il potere: lasciamo sottinteso il fatto che il potere su qualcuno si ha sempre relativamen­ te a qualcosa. Non per nulla spesso si parla di « sfere » di potere; e quanto al potere assoluto, esso è tale tra l’altro proprio perché è po­ tere relativo a tutte le cose. Che valga tra due individui (e sia perciò detta « diadica ») o valga tra uno e molti, molti e uno, molti e molti, la relazione di potere ha insomma sempre tre soggetti, intendendosi qui per soggetto né le persone né quella categoria grammaticale che «va al nominativo», ma semplicemente ogni entità di cui si predichi alcunché. Per rappresentare il carattere ternario della relazione di potere, tra altre possibili, usiamo qui l’espressione (2)

x P y/a

che si legge: x ha potere su y relativamente alla sfera a. Con alcuni passaggi che tralascio — non senza danno, invero, per i necessari controlli di correttezza — la (2) può essere snellita, asso­ ciando a P (potere) altri simboli variabili (ad esempio A, B, C, ecc.) che rappresentino le diverse sfere relativamente alle quali qualcuno ha potere su altri. L’espressione (2), perciò, si trasforma in (3)

(% PA y) & (y PB x)

che si legge: x ha potere su y relativamente ad A, e y ha potere su x relativamente a B. Poniamo che A significhi «favori » (o simili) e B invece «voto» (o simili). La (3) è allora un possibile modello del rapporto clientelare; e il modello — a differenza della (1) — non annulla la irriducibile asimmetria della relazione di potere (PA è infatti relazione contenuti­ sticamente diversa da PB), e tuttavia indica anche, con PB, quel «po­ tere di segno inverso » cui accenna Luhmann, e che comunque, oltre a essere esercitato, è già da tempo noto a livello di semplice buon

180 senso (più che di potere « reciproco » parlerei qui di potere « rispetti­ vo o «corrispettivo»). Per rozzo che sia, il formalismo adottato già sollecita a parlare, invece che di potere al singolare, di tanti poteri quanti sono i contenuti di volta in volta investiti. Inoltre la (3) stimola a distinguere tra i casi in cui il contenuto A del potere dell’uno ha come suo necessario corrispettivo l’insorgere di un potere di contenuto B da parte dell’altro (clientelismo? padrone/servo?), e i casi in cui ciò non accade (padre-padrone ? ). Niente però evita, fin qui, che si producano espressioni che, come la (1), annullino la asimmetria di P. L’inconveniente può eliminarsi formulando un assioma di asimmetria che potrebbe avere la seguen­ te forma ASI:

V x y— ( (x PA y) & ()> PA x) )

da leggere: quali che siano x e y, è falso che x abbia il potere A su y e y abbia il potere A su x. AS1 non impedisce ovviamente di rappresentare l’alternarsi nel tempo dei ruoli, pur relativamente a una stessa sfera: basta introdurre l’ope­ ratore temporale T (che si legge « e poi ») e avremo (4)

(x PA y) T (y PA x)

ossia: x ha potere su y relativamente ad A, e poi y ha potere su x re­ lativamente allo stesso A. Se A fossero, che so, le bevute, si avrà il gioco della passatella: chi oggi è « padrone » domani può essere « sot­ to », e viceversa. Se A fosse, più nobilmente, ciò ohe dipende dall’ese­ cutivo, si avrebbe il meccanismo delle democrazie parlamentari. È possibile anche rappresentare una successione di subordinazioni: l’espressione (5)

(u PA s) & (r PA 1) & (1 PA a)

& (a PA m) &

ben potrebbe rappresentare la vecchia e amara storiella dell’ufficiale che picchia il sottufficiale che picchia il legionario che picchia l’arabo che picchia la moglie che picchia il ciuco. Qui l’assioma di asimmetria AS1 esclude il rischio che il sottufficiale si metta a bastonare l’ufficiale e via di seguito, e compie appunto la sua funzione di garantire l’esistenza stessa del potere: non è un caso quindi che il dominio colonialista si sia avviato alla fine quando l’arabo ha cominciato a bastonare i bastonatori (irrilevante è poi se abbia simmetrizzato o meno PA nei confronti di moglie e ciuco). La successione rappresentata in (5) può essere chiusa circolarmente (al modo dello scambio generalizzato di Lévi-Strauss, o anche al modo di certe circolarità maschili un tempo condannate al terzo girone infernale):

(6)

(u PA s) & ... & (c PA u)

Con il che il ciuco prende a calci l’ufficiale, che cosi alla fin fine in qualche modo prende a calci se stesso: conclusione ovviamente risi­

181 bile, — visto che la relazione di potere non è mai transitiva — ma che forse perciò dice molto su quella « riflessività del potere » che per me resta oscura nel poco che so di Luhmann (si tratta forse di ciò che in altri settori si chiama « autoriferimento »? ma che significherà mai un concetto del tipo « potere il potere »?). Dalla successione pura e semplice espressa in (5) e (6) si può passa­ re a quelle che Luhmann chiama « concatenazioni »: basta ad esempio stabilire che nella sfera A del potere è incluso anche il potere di dispor­ re del potere altrui. In tal modo l’ufficiale ha il potere di impedire che il sottufficiale bastoni il legionario, e via dicendo. Ma se vale la co­ sidetta « riflessività » anche il ciuco potrà disporre del potere dell’uf­ ficiale. A evitare la conseguenza si stipulerà allora che il potere di disporre del potere altrui spetti al solo ufficiale: ma che ne sarà allora della proposizione di Luhmann che nega che « il primo abbia... maggior valore causale del secondo »? Ci vuol altro però per procedere seriamente: il potere è stato qui assunto come concetto primitivo o non definito; bisognerebbe invece definirlo a partire da altri concetti primitivi. In un primo tentativo, che non racconterò, ho provato ad assumere come primitivi « attuare (un’azione) », « ordinare di », « avere facoltà di ». La definizione di PA che sono riuscito a ricavarne dice che il potere PA di x su y consi­ ste nel fatto che x ha facoltà di ordinare a y di attuare tutte le azioni comprese nell’insieme A, e che y non ha la facoltà di non eseguirle. Non è però di questo tipo l’interdipendenza tra analista e program­ matore da cui ho preso spunto, e per la quale dovrebbe invece defi­ nirsi l’indispensabilità. Ma ormai ho azzardato anche troppo.