Potere operaio. La storia. La teoria [Vol. 1]
 886548246X, 9788865482469

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I DeriveApprodi

Marco Scavino

Potere operaio La storia. La teoria volume I

Presentazione

Potere operaio fu uno dei gruppi della sinistra rivoluzionaria italia­ na che si fonnarono nel biennio 1968-1 969 sull'onda delle lotte operaie e studentesche. Aveva già alle spalle, però, una storia quasi decennale, iniziata con la partecipazione di alcuni suoi militanti alla rivista «Quaderni rossi», prima, e al giornale «classe operaia», poi. E nell'ambito della sinistra «extraparlamentare» dei primi anni Settanta fu l'unica fonnazione politica a richiamarsi esplicitamente alla tradizione teorico-politica del cosiddetto «operaismo», consi­ derandosene in qualche modo l'erede e la continuatrice. Fra i gruppi rivoluzionari di livello nazionale era tra i più deboli sul piano organizzativo; non contò mai più di 250 0, forse 3000 militantP ed ebbe una presenza numericamente rilevante solo in poche realtà: l'area veneta (in particolare Padova e Venezia) , Roma e Firenze, un po' meno Bologna e altre città emiliane, mentre nei lo Stabilire con un minimo di precisione la consistenza numerica dei vari gruppi è pres­ soché impossibile, sia per le loro origini largamente "movimentiste", sia per le loro ca­ ratteristiche d'organizzazione in genere scarsamente formalizzate, che non hanno la­ sciato tracce attendibili su questo punto, anche nei casi in cui le norme interne preve­ devano l'iscrizione formale dei militanti; una norma che Potere operaio, peraltro, sembrò non applicare mai in maniera rigorosa (e comunque non in tutte le sedi) e alla quale non attribuiva alcuna importanza. Un tentativo di fornire il quadro generale del fenomeno, tenendo conto anche dei diversi significati possibili del termine «militan­ za», è in Diego Giachetti, Il '68 in Italia. Le idee, i movimenti, la politica, BFS, Pisa 2018, p. 94, dove per Potere operaio si parla di «di 4/5000 persone, ridottesi poi nella fase del declino a 1500». Il primo dato, tratto da Toni Negri, Stona di un comunista, a cura di Gi­ rolamo De Michele, Ponte alle Grazie, Milano 2015, p. 391, mi sembra un pd esagerato; il secondo proviene invece dalla testimonianza resa all'autore molti anni fa da uno degli ultimi segretari nazionali del gruppo, Mario Dalmaviva (e anch'esso mi sembra dub­ bio). Il raffronto con i numeri degli altri gruppi è impietoso ( Lotta continua, 20.000 iscritti; Avanguardia operaia, tra i 15 .000 e i 18.000) , ma bisogna tenere conto che per questi ultimi si tratta di stime condotte verso la metà degli anni Settanta, quando

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cosiddetti "poli" di classe su cui pure insisteva maggiormente il suo progetto politico (Milano e Torino) ebbe sempre una presenza fortemente minoritaria. Era pressoché assente nelle piccole città di provincia e debolissimo in tutto il Sud, dove anche a Napoli non contò mai molto. Dal punto di vista della composizione sociale era verosimilmente simile agli altri gruppi, con una maggioranza di militanti di estrazione studentesca. (anche se il termine "studenti" risulta molto generico, trattandosi in parte di persone iscritte al­ Yuniversità, ma che in realtà facevano i lavori più diversi) e di sesso maschile2• Le compagne erano piuttosto numerose ovunque, ma quasi mai avevano incarichi di responsabilità e di direzione (solo a Roma, a quanto è dato saperne, qualcuna faceva parte dei diretti­ vi) . Anche valutare il peso effettivo della componente operaia è pressoché impossibile, perché raramente i militanti operai faceva­ no vita d'organizzazione al di fuori dei collettivi e dei comitati di fabbrica. I quadri operai di livello nazionale erano pochissimi, ma di notevole spessore politico; e nessuno di loro, peraltro, era un giovane operaio "estremista" . Potere operaio, insomma, era un gruppo fortemente minorita­ rio, il cui ruolo alfinterno del movimento e delle lotte non era cer­ tamente proporzionato alla forza numerica o d'organizzazione. E lo scopo principale della ricerca da cui è nato questo libro, pertan­ to , è stato cercare di comprendere le ragioni di questo fenomeno, provando a considerarlo nel quadro più generale delle vicende dello scontro di classe tra la fine degli anni Sessanta e Yinizio del decennio seguente. Partendo da un assunto di fondo, che può ap­ parire persino banale ma che forse è bene esplicitare: e cioè che il gruppo, così come tutte le altre formazioni politiche «extraparla­ mentari» dell'epoca, consumò la propria parabola organizzativa nel tentativo di capire come fosse possibile tradurre Yenorme forza dei movimenti di classe in un progetto di rottura rivoluzio­ naria degli equilibri complessivi di potere, tanto sul piano sociale, quanto su quello politico generale, statale. Essere presenti nelle lotte, radicalizzarne gli obiettivi e le forme, costituiva ovviamente

le file delle formazioni rivoluzionarie si ingrossarono notevolmente, soprattutto per l'adesione di giovani militanti (molti studenti delle scuole medie superiori) che non ave­ vano vissuto il Sessantotto e si erano formati nella prima fase del decennio. Una delle chiavi di lettura della debolezza organizzativa di Potere operaio può essere proprio il fatto di non aver colto in pieno (per la brevità della propria storia) quel passaggio. 2. Anche su questo, cfr. D. Giachetti, Il '68 in Italia, cit. , pp. 91-92 (i dati sono tratti da una indagine sociologica dell'epoca sui giovani italiani). 8

un elemento indispensabile, ma in sé non sufficiente. Si trattava semmai di indicare uno "sbocco politico" delle lotte diverso da quello riformistico indicato dalle organizzazioni ufficiali del mo­ vimento operaio, sindacati e Partito comunista italiano. Non per un astratto massimalismo (quasi che il miglioramento generale delle condizioni di lavoro e di vita fosse considerato irrilevante: cosa assolutamente non vera) , ma perché l'obiettivo restava l'ab­ battimento del sistema fondato sul lavoro salariato. Ed era un obiettivo non proiettato in un futuro lontano, ma da raggiungere in tempi - se non brevi - almeno medi. Per usare le considerazioni fatte all'epoca da un personaggio certo non sospettabile di partico­ lare estremismo, come Vittorio Foa: «La differenza è fra chi crede nella rivoluzione (magari sbagliando tutto) e chi non ci crede»3. Ho quindi provato a ricostruire la storia di Potere operaio in ma­ niera analitica, partendo dal lungo processo di formazione negli anni Sessanta per arrivare sino alla fase di sbandamento e infine di scioglimento del gruppo, che non avvenne - come quasi sempre si sostiene - alla conferenza d'organizzazione tenuta agli inizi di giu­ gno del 1973 a Rosolina, vicino a Chioggia, ma parecchio tempo più tardi, in un lento e prolungato processo di esaurimento4• La materia è stata suddivisa in due volumi, secondo un criterio che vuole avere il senso di un'indicazione interpretativa; nel primo si trattano le vi­ cende del gruppo sino agli inizi del 1971, cioè a quando fallì il pro­ getto di aggregazione con il Manifesto, che non fu affatto - a mio giudizio - una parentesi o il frutto di un equivoco, ma una sorta di spartiacque nella storia di Potere operaio, che portò ad abbandona­ re definitivamente le speranze di poter creare (insieme ad altre for­ mazioni di movimento) una forza politica nazionale di massa. Il se­ condo volume tratterà invece la parabola politica e organizzativa del gruppo dalla primavera del 1971, quando prese corpo l'ipotesi del cosiddetto «partito dell'insurrezione» (peraltro abbandonata abba­ stanza presto, per la sua palese impraticabilità) , sino alla conclusio­ ne, identificata con la realizzazione nel 1975 del numero unico «Linea di condotta», frutto di un lavoro collettivo - a livello naziona-

3- Citato in Antonio Lenzi, Gli opposti estremismi. Organizzazione e linea politica in Lotta

continua e ne Il Manifesto - Pdup (1969-1976), Città del Sole, Reggio Calabria 2016, pp. 254-255. 4. Il giornale continuò a uscire per alcuni mesi e alla conferenza fu formata una nuova segreteria nazionale, che operò ancora per un certo periodo di tempo, così come nelle varie sedi l'intervento politico proseguì senza soluzioni di continuità. A Torino il grup­ po si firmò Potere operaio sino almeno alla metà del 1975. 9

le - di elaborazione teorica e di nuove pratiche deIrintervento poli­ tico, che influÌ in maniera significativa sulla diaspora successiva dei militanti e dei collettivi locali superstiti. Il racconto dei fatti ha quindi un andamento rigorosamente cronologico. Nel corso del lavoro, tuttavia, ho cercato di sottolinea­ re alcune questioni tematiche, alcuni "nodi" della storia del grup­ po, che mi sono sembrati ernblematici delle sue contraddizioni di fondo. Il primo riguarda il rapporto con il bagaglio teorico-politico originario deIr «operaismo» (trattato in apertura di questo volu­ me) ; un rapporto complesso, fatto indubbiamente di continuità ma anche di contributi originali e innovativi , che influenzarono in maniera rilevantissima il dibattito coevo del movimento operaio (ben al di là dell'area rivoluzionaria) e che ancora oggi sono consi­ derati aspetti fondamentali della cultura politica deIr epoca, come il concetto di «operaio massa». La seconda questione riguarda la mancata elaborazione del ter­ mine "rivoluzione". Un problema che negli anni Settanta non ri­ guardò solo Potere operaio, ovviamente, ma che nel suo caso si presentò in forme ben riconoscibili, proprio per l'intreccio con la cultura politica operaista. Si faceva un uso costante e pervasivo del termine "rivoluzione" (il primo numero de «La Classe», nel mag­ gio 1969, si apriva con il titolo Lotta di classe per la rivoluzione) , ma non era affatto chiaro che cosa si intendesse esattamente dire. Loperaismo teorico su questo punto non aveva detto nulla, limi­ tandosi (e non era però cosa da poco) a sviluppare un'analisi delle trasformazioni intervenute neIrultimo mezzo secolo nei rapporti di classe e a trarne la conclusione che dovessero essere rimessi ra­ dicalmente in discussione tutti i modelli classici dell'azione politi­ ca operaia, ivi compresa la mitologia rivoluzionaria terzintema­ zionalista. Per certi versi era sembrato suggerire l'idea, mai piena­ mente sistematizzata, che andasse abbandonato il paradigma stesso della "rivoluzione", nel senso tradizionale del termines, ra­ gionando semmai sulla capacità delle lotte e dei comportamenti operai (tra i quali potevano senz'altro rientrare anche momenti di scontro violento) di incidere sempre più profondamente sulla struttura del capitale e sul ruolo dello Stato, spingendo ne sempre

5. A volte, nella stampa del gruppo, circolarono immagini suggestive ma di sconcertante indetenninatezza: «immettere la "malattia della lotta operaia" in tutto il corpo della socie· tà capitalistica fino a farlo morire» ( Un'unica lotta contro i riformisti nel partito, contro il pa· drone nella fabbrica. «Potere operaio» veneto·emiliano. n. 5. 15 novembre 1 967, p. I). IO

più avanti le contraddizioni, la necessità di riformarsi e di ristrut­ turare incessantemente la società. Dopo il Sessantotto, tuttavia, il discorso della "rivoluzione" iniziò ad assumere significati palese­ mente diversi, recuperando la dimensione della rottura violenta degli apparati statali, ma senza mai fare i conti - mi sembra - con la complessità anche di natura teorica della materia nel contesto ideologico "operaista" . A mio giudizio si tratta di uno dei problemi più interessanti da approfondire (cosa che in questa ricerca ho po­ tuto fare solo in parte) , qualora si voglia comprendere la comples­ sità politica degli anni Settanta. La terza questione, infine, riguarda il ruolo di Potere operaio nella genesi della lotta armata. Questione delicatissima, dal mo­ mento che - com'è noto - nel 1979 il quadro dirigente del gruppo, quasi al completo, venne arrestato con Yaccusa, poi fortemente ridi­ mensionata nel corso dei processi che ne seguirono, di essere stato fideatore e il promotore della lotta armata in Italia, in una strategia comune (e in una sorta di divisione dei compiti) con le prime for­ mazioni politiche clandestine, in primis le Brigate rosse. Una vicen­ da che, al di là dei giudizi sulle sue ragioni e sui suoi sviluppi (che esulano totalmente dagli scopi di questo volume) , ha finito con il creare un'immagine fortemente stereotipata del gruppo e di ciò che fece (o tentò di fare) nei pochi anni in cui operò: un'immagine in cui tutto sembra teleologicamente orientato, tutto sembra rispondere a un'unica logica e a un'unica dinamica intema6• E che ha finito per condizionare in parte anche la memoria dei protagonisti. Ora, che Potere operaio abbia non solo lungamente discusso della lotta armata (come peraltro nei primi anni Settanta facevano anche altri gruppi, come Lotta continua7) , ma anche iniziato a pra­ ticarla, è fuori di dubbio. Il primo ferimento a colpi di arma da fuoco di un "capd' di fabbrica in Italia fu fatto a Roma, nel 1973, dal gruppo. Ciò non di meno, credo sia altrettanto evidente che Potere operaio non compì mai un vero e proprio passaggio d'organizzaFra i tanti esempi possibili (tralasciando per decenza quelli più forcaioli), si veda quanto ha scritto di recente Massimo Cacciari, che ebbe un ruolo di primo piano nel gruppo veneto di Potere operaio sino al 19 68-1 969, allorché se ne allontanò per la scel­ ta di lavorare (insieme ad altri compagni provenienti dallo stesso percorso politico) al­ l'interno del Pei: «Questo è il tentativo che fu fatto, con risultati forse miserrimi, ma al­ meno nessuno di noi è andato a finire in galera, come invece è successo ad altri» ( Un Sessantotto di classe, «Micromega», n. 2, 2018, p. 21). 7. Cfr. Gabriele Donato, La lotta è armata. Sinistra rivoluzionaria e violenza politica in Ita­ lia (1969-1972), Derive Approdi, Roma 2014 (prima ed. : I stituto regionale per la storia del movimento di Liberazione nel Friuli Venezia Giulia, Trieste 2012). 6.

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zione in quel senso, trattenuto dall'idea che la lotta armata dovesse svilupparsi in un rapporto stretto e diretto con le lotte di massa, e dalla consapevolezza che al momento ciò non fosse possibile poli­ ticamente (da qui un'azione per lo più a bassissima intensità, che spesso si confondeva con pratiche diffuse nel movimento) 8. La conferenza di organizzazione del 1973 , a ben vedere, ruotò princi­ palmente attorno a queste discussioni, senza venire a capo di nulla. Il che, beninteso, non impedì di commettere un atto gravis­ simo (ancorché preterintenzionale) come la strage di Primavalle a Roma, nell'aprile del 1973 , ma andrebbe tenuto presente in sede di giudizio storico-politico. Ciò che ho voluto sottolineare in questa ricerca (se vi sia riusci­ to ovviamente non sta a me dirlo) è che Potere operaio consumò la propria, breve parabola come organizzazione confrontandosi certo, in modi particolari - con il problema di fondo che caratteriz­ zò la storia dell'intera sinistra rivoluzionaria negli anni Settanta: fimpossibilità di operare una rottura rivoluzionaria, nelle uniche forme in cui essa ha un senso e una possibilità di successo, cioè su basi di massa. Forse lo aveva intuito, già neIrestate del 1969, il di­ rettore de «f Espresso» , Eugenio Scalfari, quando incontrò alcuni esponenti del gruppo (allora ancora «La Classe») in margine a un convegno nazionale dei comitati operai di base e, riferendone nel settimanale, concluse: «Come a tutti coloro che vogliono molto, gli si può perdonare ogni cosa, salvo che di essere sconfitti»9.

8. Per un approfondimento, al momento rimando a M. Scavino, La piazza e laforza. I percorsi verso la lotta armata dal Sessantotto alla metà degli anni Settanta, in Simone Neri Serneri, a cura di, Verso la lotta armata. La politica della violenza nella sinistra radicale degli anni Settanta, il Mulino, Bologna 2012, pp. I I7-203. 9. E. S., Una corrida per l'autunno, «t Espresso», a. XV, n. 31, 3 agosto 1969, p. 5.

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N OTA SULLE FONTI Per la realizzazione di questo volume ho usato principalmente fonti pri­ marie prodotte da Potere operaio: giornali e altra pubblicistica, materiale di agitazione e propaganda, documenti di elaborazione e di discussione politica, resoconti di riunioni, bollettini interni. Che la ricerca storica sulle formazioni politiche minoritarie degli anni Sessanta e Settanta sia resa problematica o quasi impossibile dalla scarsità (o dall'eccessiva frammentarietà) di questo genere di fonti, è un pregiudizio (un tempo al­ quanto diffuso) ormai superato da anni e smentito dall'ampia produzio­ ne storiografica in materia. Certo, la natura stessa di quelle formazioni politiche, scarsamente o per nulla strutturate sul piano burocratico, ha fatto sÌ che non sia rimasta quasi traccia di organigrammi interni, di ver­ bali ufficiali, di corrispondenza formale degli organi di direzione centrali e periferici (il che, d'altra parte, in molti casi vale anche per altri periodi storici e per organizzazioni politiche decisamente più strutturate, sino ai partiti politici istituzionali). Ciò non di meno, la mole della documenta­ zione disponibile per questo genere di studi è davvero ingente, conserva­ ta in massima parte presso istituti di conservazione privati in fondi perso­ nali, nei quali a volte è possibile rinvenire anche appunti, quaderni, corri­ spondenze private e altro ancora. Ho sempre segnalato in nota le fonti usate e i rispettivi luoghi di conservazione (una parte della documenta­ zione, peraltro, risultava già edita). Ho usato molto meno, invece, le fonti di polizia, avvalendomi su que­ sto versante del lavoro fatto da Aldo Grandi per la stesura del volume La generazione degli anni perduti. Storie di Potere Operaio (Einaudi, Torino 2003) , in cui sono ampiamente riprodotti i documenti più significativi acquisiti dalla magistratura nel corso della cosiddetta "inchiesta 7 aprile", poi confluiti nell'archivio della Commissione nazionale d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei re­ sponsabili delle stragi (per brevità: Commissione stragi) e ora depositati e consultabili presso l'archivio storico del Senato. Va segnalato peraltro che nel corso delle indagini "7 aprile" la magistratura acquisÌ copiosa docu­ mentazione relativa alle attività di Potere operaio, in possesso soprattutto del principale imputato del processo, Antonio Negri, che venne seque­ strata in parte presso lo studio professionale di Manfredo Massironi (mi­ litante della prima ora del gruppo padovano) , in parte presso la Fondazio­ ne Giangiacomo Feltrinelli di Milano. Un discorso a sé riguarda la copiosa memorialistica degli ex militanti di Potere operaio, che non ha pari nel caso di altre formazioni politiche degli anni Settanta e che rimanda, va da sé, all'impatto della vicenda pro­ cessuale in cui il gruppo fu coinvolto a distanza di anni dal proprio scio­ glimento. Si tratta senza dubbio di fonti preziose per la ricostruzione sto­ rica, da non disprezzare o trattare con sufficienza (il volume di Aldo

Grandi ne ha fatto largo uso, costruendo attorno ai ricordi dei protagoni­ sti un racconto di indubbia efficacia). Personalmente, tuttavia, ritengo che si tratti di fonti da trattare con prudenza, soprattutto per quanto ri­ guarda i giudizi storico-politici, che sono sempre - com'è omo - frutto di opinabili rielaborazioni ex post del significato delle esperienze vissute, inevitabilmente in contrasto fra loro, talvolta in maniera radicale. Per questa ragione ho preferito usare le testimonianze solo per quanto attie­ ne alla possibilità di ricostruire fatti e circostanze specifiche (se possibile confrontandole tra loro e verificandone l'attendibilità). E ho chiesto po­ chissime nuove testimonianze dei protagonisti (segnalate in nota) , atte­ nendomi a questo criterio. Ringrazio, inoltre, le persone che maggiormente mi hanno aiutato nel corso del lavoro. Prima di tutto le bibliotecarie e gli archivisti del Centro studi Piero Gobetti di Torino, per la pazienza e la disponibilità. E gli amici Diego Giachetti e Andrea Tanturli per avermi segnalato alcuni documenti. La responsabilità dell'uso che ne ho fatto, ovviamente, è solo mia. Mi sembra doveroso, infine, informare che l'interesse per i temi trat­ tati nel libro deriva anche dall'aver militato attivamente in Potere operaio dall'autunno del 1970 sino allo sbandamento finale del gruppo. Questo fatto, se può essere stato d'aiuto per la comprensione di certi aspetti della vita del gruppo (in particolare per quanto attiene alla decifrazione di alcu­ ni elementi della discussione interna, a volte un po' criptici) , sul piano del giudizio storico costituisce un fattore di condizionamento del quale spero di essere riuscito a tenere adeguatamente conto. E ovviamente non è in alcun modo una garanzia contro gli errori, gli equivoci e le sviste.

Dedico questo volume alla memoria di Mario Dalmaviva (194°-2016)

Potere operaio La storia. La teoria

volume I

Prologo

Una sera d'inizio a gosto a Firenze

Il progetto politico di Potere operaio venne definito nelle sue linee fondamentali (cioè in termini di strategia e di obiettivi politici, prima ancora che come struttura di organizzazione) una sera di inizio agosto del 1969, nel corso di una riunione che si tenne a Monterinaldi, sulla collina fiorentina di fronte a Fiesole, nella villa dell'architetto Leonardo Riccil• Più che una riunione, in realtà, fu una piccola assemblea, alla quale prese parte una trentina di per­ sone, provenienti da Milano, dal Veneto e dall'Emilia, da Roma e da Torino , oltreché ovviamente da Firenze. Erano i principali espo­ nenti dei collettivi di intervento politico nelle fabbriche, che dal maggio precedente pubblicavano il giornale «La Classe» (sottoti­ tolo: Operai e studenti uniti nella lotta) e che negli ultimi tre mesi avevano vissuto da protagonisti di primo piano le vicende del mo­ vimento nato attorno agli scioperi di massa alla Fiat di Torino e cul­ minato negli scontri del 3 luglio in corso Traian02• Un movimento del quale erano stati i primi a intuire i caratteri e le potenzialità (nel numero di esordio de «La Classe» avevano scritto che alla Fiat la conflittualità operaia - benché al momento si manifestasse an­ cora in «forme passive» - stava già «mano a mano assumendo caI. Ricci (19 18-1994), uno dei più importanti architetti italiani del Novecento, non aveva alcun rapporto politico con i convenuti, ma mise generosamente a loro disposizione la propria "casa-studid' durante un incontro occasionale con il fiorentino Claudio Greppi, che conosceva molto bene sul piano personale. Alcuni particolari in merito mi sono stati fomiti dallo stesso Greppi, in una testimonianza del 28 aprile 2015. Nei ricordi dei protagonisti non c'è concordanza sul giorno esatto, che potrebbe essere stato il l° o il 2 agosto (ritengo più probabile quest'ultima data, che era un sabato) . 2. Cfr. M. Scavino e Diego Giachetti, La Fiat in mano agli operai. L'autunno caldo del 1969, BFS, Pisa 1999, pp. 13-46; D. Giachetti, Il giorno più lungo. La rivolta di Corso Tra­ iano. Torino 3 luglio 1969, BFS, Pisa 1997.

ratteristiche offensive e quindi di organizzazione operaia autono­ ma»)) e nel quale avevano poi riversato tutte le loro energie, tanto sul piano delfagitazione e del lavoro organizzativo (alcune decine di loro avevano praticamente vissuto a Torino negli ultimi mesi, contribuendo alla formazione delfassemblea operai-studenti) , quanto su quello della comunicazione e della circolazione a livello nazionale, attraverso il giornale, di quelle esperienze. Esattamente una settimana prima, nei giorni 26 e 27 luglio, con la parola d'ordine Dalla Fiat a tutta Italia: unifichiamo le lotte - co­ struiamo l'organizzazione, si era tenuto al Palazzetto dello sport di Torino un convegno nazionale «dei comitati e delle avanguardie operaie», promosso unitariamente dal movimento torinese (anche se il quotidiano «La Stampa» aveva attribuito la responsabilità del­ finiziativa proprio al gruppo de «La Classe»4) e al quale avevano preso parte i rappresentanti di una ventina di realtà nazionali, so­ prattutto lombarde, toscane, venete ed emiliane, romane5• Ed era stato proprio fesito contraddittorio di quella manifestazione (un'in-

3. Articolo di presentazione, senza titolo, «La Classe», n.

I, l° maggio 1969, p. I. L:autore era Sergio Bologna, che a distanza di anni ne ha rivendicato più volte la paternità; cfr. ad esempio la sua testimonianza in L'operaismo degli anni Sessanta. Da «Quaderni rossi» a «classe operaia», a cura di Giuseppe Trotta e Fabio Milana, DeriveApprodi, Roma 2008, p. 727 (con una forte accentuazione del valore politico di quella "intuizione", o "scom­ messa", sulle lotte alla Fiat: «A nessuno [... ] era saltato in mente che si potesse contribui­ re a far scoccare la lotta in Fiat»). 4. Cfr. Convegno di contestatori a Torino, a cura di Carlo Rossella e Maria Valabrega, «La Stampa», 27 luglio 1969, p. 5. Che questa informazione avesse creato qualche proble­ ma, è dimostrato da una breve nota comparsa poi nel settimanale (