Potere e sopravvivenza. Saggi
 884590167X, 9788845901676

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Elias Canetti POTERE E SOPRAVVIVENZA SAGGI

ADELPHI

Pochi scrittori hanno oggi il grande pregio di EHas Canetti. Romanziere, saggista, drammaturgo, autore di un ricchissimo diario, la sua opera, a partire dagli Anni Trenta, è tutta un ostinato e ossessivo combattimento con alcuni grandi temi: la massa, il potere, la metamorfosi, il rifiuto della morte, riflessi ogni volta in forme diverse, affrontati nei loro più elusivi segreti, colti nelle più varie manifestazioni, illuminati dall'interpretazione dei testi più diversi: antropologici, letterari, storici, filosofici. In questo volume, che raccoglie scritti recenti di Canetti, il lettore troverà prose dense e fulminee, dedicate, fra l'altro, agli ultimi anni di Tolstoj, alla fascinazione di Karl Kraus - che ebbe un'influenza capitale sulla giovinezza di Canetti, a Vienna -, ai folli progetti architettonici di Hitler, al senso segreto dell'insegnamento di Confucio, al diario di un testimone di Hiroshima infine al tema che dà il titolo al libro e segretamente ricompare in tutti questi saggi: il potere e la sopravvivenza. Insieme narratore e pensatore, Canetti concentra qui, in poche pagine e in una prosa straordinariamente incisiva, una riflessione e un'esperienza lungamente maturate, che lasciano una traccia indelebile su tutti gli argomenti che toccano. A cura di Furio Jesi.

ISBN 8 8 - 4 5 9 - 0 1 6 7 - X

€ 9,00

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Nato a Rustschuck (Bulgaria) da una famiglia ebraica di origine spagnola, Elias Canetti (1905-1994) è vissuto lungamente a Vienna e poi a Londra e Zurigo. Nel 1981 gli è stato conferito il premio Nobel per la letteratura.

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DELLO STESSO AUTORE:

Auto da fé Il cuore segreto dell'orologio Il frutto del fuoco Il gioco degli occhi Il Testimone auricolare La coscienza delle parole La lingua salvata La provincia dell'uomo La rapidità dello spirito La tortura delle mosche Le voci di Marrakech Massa e potere Un regno di matite

Elias Canetti POTERE E SOPRAVVIVENZA SAGGI

ADELPHI EDIZIONI

T I T O L I ORIGINALI:

Die Gespaltene Zuhunft

e

Macht und Ùberleben

A cura di Furio Jesi

Ottava edizione: luglio 2004

> 1 9 7 2 CARL HANSER V E R L A G M Ù N C H E N © 1 9 7 2 ELIAS CANETTI I 1 9 7 4 A D E L P H I E D I Z I O N I S.P.A. MILANO

WWW.ADELFHI.IT

ISBN 88-459-0167-X

INDICE

Potere e sopravvivenza Karl Kraus, scuola di resistenza Dialogo con il terribile partner Hitler secondo Speer Confucio nei suoi dialoghi Tolstoj, l'ultimo avo Il diario da Hiroshima del dottor Hachiya

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POTERE E SOPRAVVIVENZA

POTERE E SOPRAVVIVENZA

Schivare il concreto è uno dei fenomeni più inquietanti della storia dello spirito umano. C'è una netta tendenza a buttarsi verso le cose più lontane, subito, e a trascurare così tutto ciò contro cui si va continuamente a sbattere. Lo slancio del gesto di partire, l'audacia avventurosa delle spedizioni in terra remota, ingannano circa le loro motivazioni. Non di rado si tratta semplicemente di evitare quanto ci sta dappresso, poiché non siamo all'altezza di affrontarlo. Ne avvertiamo la pericolosità e preferiamo aver a che fare con altri pericoli di ignota entità. Anche quando ci imbattiamo in questi ultimi, e accade puntualmente, essi posseggono pur sempre il briUio delle cose improvvise e uniche. Solo una persona molto limitata potrebbe condannare questa qualità avventurosa dello spirito, sebbene essa derivi talvolta da palese debolezza. Ci ha condotto a un ampliamento del nostro orizzonte di cui siamo orgogliosi. Ma oggi, come tutti sappiamo, la situazione dell'umanità è così seria che dobbiamo volgerci a quanto vi è di più vicino a noi e di più concreto. Neppure presagiamo quanto tempo ci sia rimasto per vedere il peggio; ma potrebbe darsi benissimo che il nostro destino sia subordinato a determinate, dure conoscenze che ancora non possediamo. Voglio ora parlare della sopravvivenza - mi riferisco naturalmente alla sopravvivenza degli al13

tri - e cercare di dimostrare che questa sopravvivenza sta nel nocciolo di tutto ciò che chiamiamo, un po' genericamente, potere.' A questo proposito incomincerò con alcune considerazioni molto semplici. L'uomo che sta in piedP agisce in piena autonomia, come se fosse là ritto di per sé solo e gli restasse ancora aperta ogni decisione. L'uomo seduto esercita una pressione, il suo peso è rivolto verso l'esterno e desta un senso di durata. Finché siede, egli non può cadere; quando si alza diviene più alto. Ma l'uomo che si è abbandonato al riposo, l'uomo giacente, si è disarmato. Mettergli le mani addosso mentre dorme, inerme, è cosa da nulla. Il giacente è forse caduto, forse è stato ferito. Fino a quando non si drizza di nuovo sulle gambe, non viene preso realmente sul serio. Il morto tuttavia, che non si drizzerà più, suscita un'impressione enorme. Il primo impulso in chi vede dinanzi a sé un morto, specialmente se il morto in qualche modo lo riguarda, ma non solo in tal caso, è l'incredulità. Con diffidenza se è un nemico, con aspettazione tremante se è un amico, si spia ogni moto del suo corpo. Si è mos1. Sul rapporto fra sopravvivenza e potere, Canetti si è sofEermato a lungo nel suo saggio Masse und Macht, Glaassen, Hamburg, 1971' (trad. it. Massa e potere, Adelphi, Milano, 1986'), di cui il presente scritto sintetizza alcuni punti principali. Massa e potere contiene anche i relativi rimandi bibliografici e fonti storiche. Per quanto riguarda in particolare il sopravvivere, cfr. Massa e potere, cit., cap. VI, » Il sopravvissuto », pp. 276-336 [AT.d.T.]. 2. Cfr. Massa e potere, cit., pp. 469-78, « Le posizioni dell'uomo: il loro contenuto di potere » [A^.d.T.].

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so, respira. No. Non respira. Non si muove. È proprio morto. Subentra allora il terrore di fronte alla realtà della morte, che si potrebbe definire l'unica realtà, una realtà talmente inaudita che include in sé tutto il resto. Il confronto con il morto è un confronto con la propria morte, meno di essa poiché non si muore veramente, più di essa poiché ce n'è sempre anche un'altra. Anche l'uccisore di professione, che prende la sua insensibilità per coraggio e intrepidezza, non sfugge a questo confronto: in un luogo ben celato del suo animo, anch'egli è preso dal terrore. Ci sarebbe molto da dire circa questa assunzione del morto nell'osservatore, l'assunzione più profonda e più degna dell'uomo; con la sua descrizione precisa si possono riempire ore e notti. La più grandiosa testimonianza di essa è la più antica; il lamento del sumero Gilgamesh per la morte dell'amico Enkidu. Qui tuttavia non ci occuperemo di questo stadio palese di un'esperienza della quale non dobbiamo vergognarci d'essere vittime e che proprio per questo si staglia nella vivida luce delle religioni - bensì dello stadio seguente, nel quale non ci riconosciamo volentieri: dello stadio, molto più ricco di conseguenze del precedente e per nulla degno dell'uomo, che sta nel cuore del potere e anche della grandezza, e sul quale dobbiamo aprire gli occhi senza paura, senza riguardi, se vogliamo comprendere che cosa sia davvero e che cosa apparecchi il potere. Il terrore suscitato dal morto quando giace dinanzi a chi lo guarda è compensato da un senso di sollievo: chi guarda, non è lui il morto. Sarebbe potuto esserlo. Ma chi giace è l'altro. Chi 15

guarda sta in piedi, indenne, incolume; il morto può essere un nemico ucciso o un amico venuto a mancare: in ambedue i casi sembra d'improvviso che la morte da cui eravamo minacciati si sia stornata da noi su di lui. È questa la sensazione che, rapidissima, ha il sopravvento; ciò che dapprima era terrore trapassa in soddisfazione. Colui che sta ritto, per il quale tutto è ancora possibile, è ora più che mai consapevole di stare in piedi sulle proprie gambe. Non c'è istante in cui si senta meglio nella posizione eretta. E l'istante lo blocca là, il senso d'essere alto sul morto lo lega a lui. Se chi sta ritto avesse le ali, ora non si librerebbe in volo. Resta là dove si trova, nell'immediata prossimità dell'esanime, con lo sguardo rivolto a lui; e il morto, chiunque sia, è per lui come se l'avesse proprio ora sfidato e minacciato, e si trasforma in una sorta di preda. Questo fatto è così orribile e nudo che lo si vela con ogni mezzo. Che ci si vergogni di esso oppure no, è determinante per la valutazione dell'uomo. Ma ciò non muta nulla quanto al fatto in sé. La situazione del sopravvivere è la situazione centrale del potere. Sopravvivere non è solo spietato, è qualcosa di concreto: una situazione ben delimitata, inconfondibile. L'uomo non crede mai del tutto alla morte finché non l'ha sperimentata. E la sperimenta negli altri. Essi muoiono dinanzi ai suoi occhi, ciascuno singolarmente, e ogni singolo che muore lo convince della morte. Alimenta il terrore dinanzi alla motte, ed è morto in sua vece. Il vivo lo ha spinto avanti al suo posto. Il vivo non si crede mai così alto come quando ha di fronte il morto, che è caduto per 16

sempre: in quell'istante è come se egli fosse cresciuto. È tuttavia una crescita di cui solitamente non si fa sfoggio. Può passare in secondo piano dietro a un genuino dolore ed esserne del tutto celata. Ma anche se il morto importava poco per il vivo e non ci si aspetta da questo alcuna particolare esibizione di lutto, sarebbe assolutamente contrario a ogni buona creanza lasciar trasparire qualcosa della soddisfazione che deriva dal confrontarsi con il morto. È un trionfo che rimane nascosto, che non si ammette con nessuno e forse neppure con se stessi. La convenzione ha qui il suo valore: cerca di occultare e di contenere un moto la cui libera manifestazione avrebbe conseguenze assai pericolose. Non in tutti i casi ciò resta così occultato. Per comprendere come dal trionfo segreto al cospetto della morte nasca un trionfo palese, ammesso, che procura onore e gloria e che perciò è ambito, è indispensabile configurare la situazione della battaglia, proprio nella sua forma originaria. Il corpo dell'uomo è cedevole, esposto alle ferite e molto vulnerabile nella sua nudità. Tutto può penetrarvi; a ogni nuova ferita gli riesce più arduo portarsi sulla difensiva; e in un attimo per lui è finita. Un uomo che si pone in battaglia sa cosa rischia; se egli non è cosciente di alcuna superiorità, rischia al massimo. Chi ha la fortuna di vincere sente crescere le proprie forze e affronta con più ardimento il successivo avversario. Dopo una serie di vittorie egli acquisterà ciò che vi è di più prezioso per il combattente: un senso di invulnerabilità- e dall'istante in cui l'avrà acquisito oserà cimentarsi in battaglie sempre più 17

pericolose. È come se egli disponesse ormai di un altro corpo, non più nudo, non più esposto, corazzato grazie agli istanti dei suoi trionfi. Finalmente più nessuno può nuocergli, è un eroe. Da tutto il mondo e dalla maggior parte dei popoli ci giungono storie di eroi sempre vincitori; e anche se, come accade non di rado, essi restano vulnerabili in un punto segreto del corpo, ciò serve soltanto a conferire maggior valore alla loro invulnerabilità, altrimenti assoluta. La reputazione dell'eroe e la sua coscienza di sé si compongono di tutti gli istanti in cui egli si drizzò vittorioso sul nemico abbattuto. L'eroe è ammirato per la superiorità che gli viene conferita dal suo senso di invulnerabilità e che non appare come ingiusto vantaggio sull'avversario. Egli sfida senza esitare chiunque non gli si sottometta. Combatte, vince, uccide; colleziona vittorie. « Collezionare » va qui inteso alla lettera. È come se le vittorie entrassero nel corpo del vincitore e vi rimanessero a sua disposizione. Noi non riusciamo più, ormai, a concepire questo processo come una prassi concreta, non lo intendiamo più nel modo giusto, e tuttavia la sua sotterranea efficacia sopravvive indiscutibilmente fin nel nostro secolo. Può essere istruttivo esaminarlo in una cultura nella quale è ancora palese: una delle culture che con qualche imprecisione chiamiamo primitive. Con la parola Mana^ si designa nei Mari del Sud una sorta di potere soprannaturale e impersonale, che può passare da un uomo all'altro. Molto desiderato, esso può concentrarsi in singoli indi1. Cfr. Massa e potere, cit., pp. 302, 303, 580 [N.d.T.]. 18

vidui. Un guerriero valoroso può acquisirlo deliberatamente. Ma non Io deve alla sua abilità guerresca o alla sua forza fisica, bensì lo riceve come Mana che trapassa in lui dal nemico abbattuto. Cito dall'opera di Handy sulla religione polinesiana:' « Nelle Isole Marchesi un membro della tribù poteva divenire capo nelle imprese di guerra per valore personale. Si credeva che il guerriero contenesse nel proprio corpo il Mana di tutti coloro che aveva ucciso. In proporzione con il suo valore cresceva il suo Mana. Secondo la concezione degli indigeni il suo valore non era, però, la causa ma l'effetto del suo Mana. A ogni uccisione da lui compiuta, cresceva il Mana della sua lancia. Di volta in volta che vinceva un uomo in battaglia, il guerriero assumeva il nome dell'avversario abbattuto: e questo significava che il potere del nemico ora apparteneva a lui. Per incorporarsi direttamente il Mana del vinto, il guerriero mangiava le carni di quello; e per vincolare a sé in una battaglia questo accrescimento di potere, per garantirsi l'intimo rapporto con il Mana predato, il guerriero portava su di sé come parte del suo equipaggiamento bellico un avanzo corporeo del nemico vinto: un osso, una mano disseccata, talvolta anche un intero teschio ». Così Handy. Non si potrebbe cogliere più chiaramente l'efEetto della vittoria sul sopravvivente. Poiché ha ucciso l'altro, egli è divenuto più forte, e il suo accrescimento di Mana lo rende capace di nuove vittorie. Ciò che egli strappa al ne1. E.S.C. Handy, Polynesian Religion, Honolulu, 1927, pp. 31 sgg. [iV.d.r.].

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mico è una sorta di grazia: può ottenerla, però, solo se il nemico è morto. La presenza fisica del nemico, vivo e poi morto, è indispensabile. Ci dev'essere stata necessariamente battaglia e uccisione; tutto dipende dallo specifico atto di uccidere. Le parti maneggevoli del cadavere che il vincitore si assicura, si incorpora, porta su di sé, gli ricordano sempre l'accrescimento del suo potere. Grazie a esse si sente più forte e con esse suscita terrore: ogni nuovo nemico che egli sfida trema di fronte a lui e ha dinanzi agli occhi, spaventoso, il proprio destino. Presso altri popoli si ritrovano concezioni di tipo diverso, che tuttavia servono al medesimo scopo. Non sempre la forza viene acquisita in un combattimento franco e palese. Presso i Murngin' della Terra di Arnhem ogni giovane si cerca un nemico per impadronirsi della sua forza. Deve però ucciderlo di nascosto, di notte, e solo se ci riesce lo spirito del morto penetra in lui e gli conferisce raddoppiate energie. Si dice espressamente che, grazie a questo processo, il vincitore cresce, diviene di fatto più grande. Anziché la forza impersonale del Mana che abbiamo incontrato nel caso precedente, qui si tratta di uno spirito personale, che si cerca di predare; e questo spirito non deve presentarsi alla vista dell'uccisore durante l'impresa di morte, poiché si adirerebbe e ricuserebbe di penetrare in lui. Appunto per questa ragione è indispensabile che l'assalto avvenga di sorpresa, nell'oscurità della notte. Il modo in cui l'anima del morto penetra poi nel corpo dell'uccisore viene descritto con 1. Cfr. Massa e potere, cit., pp. 303-305, 580 [N.d.T.].

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precisione. Padroneggiata e incorporata, l'anima del morto diviene utilissima all'uccisore. Non solo l'uccisore stesso, grazie a essa, cresce fisicamente, ma anche la preda che essa gli procaccia - un canguro, una testuggine - cresce dopo esser stata colpita, ancora mentre agonizza, e negli ultimi istanti diviene più grassa a vantaggio del fortunato uccisore. Nelle Isole Figi' incontriamo eroi che assomigliano maggiormente a quelli delle nostre tradizioni. Si narra che un ragazzo, il quale viveva lontano dal padre e non era ancora completamente cresciuto, si recò da lui e per fargli impressione affrontò da solo tutti i nemici del padre. « Il giorno successivo, di primo mattino, i nemici salirono verso la città con grida di guerra... Il ragazzo si levò e disse: " Nessuno mi segua. Rimanete tutti in città! ". Prese in mano la clava che s'era fabbricato da sé, si gettò in mezzo ai nemici e colpì furiosamente intorno, colpì a destra, colpì a sinistra. A ogni colpo ne uccideva uno, finché fuggirono dinanzi a lui. Egli sedette su un mucchio di cadaveri e gridò alla sua gente nella città: " Venite fuori e trascinate via gli abbattuti! ". Vennero fuori, cantarono il canto funebre, trascinarono via i 42 cadaveri degli abbattuti, mentre in città risuonavano i tamburi Il ragazzo ha tenuto testa da solo a un'intera muta di nemici, e inoltre con ogni colpo ne ha steso uno morto; non uno dei suoi colpi è stato vano. Infi1. Cfr. ibid: pp. 305-306, 580 [N.d.T.]. 2. L. Fison, Tales from Old Fiji, London, 1904, pp. 51-53 [N.d.T.].

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ne egli siede come vincitore su un mucchio di cadaveri, e ognuno di coloro sui quali siede è stato abbattuto personalmente da lui. Nelle Isole Figi la reputazione di tale virtù guerresca era cosi grande che si usavano quattro diversi nomi per designare gli eroi, a seconda del numero dei nemici uccisi. Al gradino più basso della scala c'era il Koroi, l'uccisore di un uomo solo. Koli si chiamava, poi, chi aveva ucciso dieci nemici; Visa, chi ne aveva uccisi venti; Wangka, chi ne aveva uccisi trenta. Un celebre capo venne chiamato Koli-Visa-Wangka: era l'uccisore di 10-1-20-1-30, dunque di 60 uomini. Non è mai del tutto privo di pericoli accostarsi ai cosiddetti primitivi. Li studiamo affinché da essi ricada su di noi una luce spietata; e tuttavia suscitano spesso l'effetto opposto. Ci vediamo enormemente superiori a essi, poiché ciò che essi fanno con le clave noi lo facciamo con le bombe atomiche. In realtà il solo punto sul quale possiamo compiangere il capo Koli-Visa-Wangka è il fatto che la sua lingua lo metta in così gravi difficoltà con il far di conto. Certo, per noi la cosa è più facile, molto più facile. Sono ricorso all'ultimo esempio solo per mostrare dove porti la scoperta abitudine al sopravvivere. La cosa non si ferma, infatti, al caso per così dire ' pulito ' dell'eroe che gradualmente, in duelli da lui stesso cercati, acquista il senso della propria invulnerabilità per rinnovarlo poi sempre nei successivi combattimenti, quando la sua gente sia minacciata da mostri o da nemici. Può anche darsi che vi siano stati eroi di questo genere, cosi disciplinati. Ma sono propenso a riconoscervi delle figure ideali. Il senso di felicità del so22

pravvivere concreto rappresenta infatti un intenso piacere. Una volta subentrato e approvato, esso esigerà la sua ripetizione e crescerà rapidamente fino a diventare una passione insaziabile. Colui che ne sarà invasato si approprierà delle forme di vita sociale intorno a lui nella maniera più adatta a soddisfare questa passione. La passione è quella del potere. A tal punto è legata alla realtà della morte che ci appare naturale; la accettiamo come accettiamo la morte, senza porla davvero in discussione, senza renderci conto seriamente delle sue diramazioni e delle sue conseguenze. Chi ha preso gusto al sopravvivere vuole accumularlo. Cercherà dunque di provocare situazioni in cui possa sopravvivere a molti. Gli sparsi momenti del sopravvivere, offerti a lui dall'esistenza quotidiana, non gli basteranno più. Poiché tutto dura troppo a lungo, egli non può essere soddisfatto. Non può trovare soddisfazione tra gli uomini che realmente gli stanno vicino. Nella maggior parte delle società umane l'esistenza pacifica ha il suo corso ingannevole che cerca di mascherare pericoli e fratture. L'incessante svanire di uomini che qui e là, d'improvviso, cessano d'essere in vita, viene concepito e rappresentato come se essi non fossero veramente del tutto scomparsi. Speciali procedure di acquietamento fanno sì che ci si volga a essi come se ancora potessero partecipare alla società. Perlopiù si credette che godessero ancora di una vera esistenza in qualche luogo e si temette la loto invìdia per i viventi, che poteva recare conseguenze pericolose. L'attività di coloro che miravano al sopravvivere 23

fisico è stata sempre rivolta contro questa rete di rapporti, una rete talmente fitta che nessuno, neppure un defunto, poteva uscire dal mondo. Ed essendo tra l'altro gli appassionati del sopravvivere di natura relativamente ingenua, essi si sentivano a loro agio nelle guerre e nelle battaglie. In simili casi si è sempre parlato del fascino del pericolo, come se il pericolo fosse il senso autentico della situazione bellica. E tuttavia non c'è alcun dubbio: in guerra si tratta di uccidere, di uccidere moltissimi uomini. L'obiettivo è un mucchio di nemici morti, e chi vuole vincere s'immagina ben chiaramente di sopravvivere a quel mucchio di nemici morti. Non è però tutto qui: cadono anche molti dei propri compagni, ai quali pure si sopravvive. Chi parte volentieri per la guerra, agisce con la convinzione di ritornare, di non essere colpito; è una sorta di lotteria al contrario, nella quale vincono i numeri che non escono. Chi parte volentieri per la guerra, va con fiducia, e questa fiducia consiste nell'aspettarsi che i caduti da ambo le parti, anche dalla propria parte, siano assolutamente altri, e che l'io sia il sopravvivente. La guerra offre così all'uomo semplice, che in tempo di pace non aveva modo di farsi avanti come personaggio di primo piano, l'opportunità di sperimentare il senso del potere proprio laddove codesto senso ha la sua radice, nel sopravvivere a mucchi di morti. In guerra la presenza dei morti non può essere assolutamente evitata, tutto è basato su di essa; e anche chi personalmente non ha fatto gran che in questa direzione, si sente elevare alla vista di tutti quei caduti, fra i quali egli non si trova. Ciò che in tempo di pace è vietato con le più 24

dure sanzioni, qui è non solo preteso dal singolo, ma praticato in massa. Il sopravvivente ritorna dalla guerra con accresciuta coscienza di sé, anche quando i combattimenti non sono stati favorevoli alla sua parte. Altrimenti non si capirebbe perché uomini che hanno visto da vicino gli aspetti più orrendi della guerra, ben presto poi li dimentichino o li trasfigurino. Un certo splendore di invulnerabilità irraggia intorno a chi ritorna dalla guerra sano e salvo. Ma non tutti sono semplici, non tutti si accontentano di ciò. Di questa esperienza c'è una forma più attiva, ed è quella che ora ci interessa in particolare. Un individuo singolo non può uccidere da solo tanti uomini quanti la sua passione di sopravvivere gli farebbe desiderare. Egli però può indurre altri a uccidere, può dirigerli. In qualità di comandante, egli stabilisce la forma del combattimento. Lo progetta in anticipo e impartisce l'ordine di cominciare. Si tiene informato circa l'andamento della battaglia. Un tempo si preoccupava di osservarne lo svolgimento da un luogo elevato. Egli è dunque sottratto alla lotta diretta; può anche darsi che non gli capiti di uccidere neppure un nemico. Ma gli altri che sono ai suoi ordini ci pensano per lui. Ciò che riescono a fare viene ascritto a lui. È lui il vero vincitore. II suo nome e il suo potere crescono con il numero dei morti. Egli non trae particolare reputazione da una battaglia in cui non si sia combattuto duramente, da una battaglia troppo facile e quasi senza vittime. Non si edifica un vero potere su facili vittorie. Il terrore che esso, il potere, dovrà suscitare e del quale propriamente 25

consiste, dipende dalla grande quantità delle vittime. Questa è stata la strada di tutti i famosi conquistatori della storia. In seguito si sono attribuite loro virtù di ogni sorta. Dopo secoli ancora, gli storici raffrontano e soppesano scrupolosamente le loro qualità, per pronunciare su di essi una sentenza giusta - cosi credono. Si può toccare con mano la profonda ingenuità degli storici in queste faccende. In realtà essi subiscono ancora il fascino di un potere che è svanito da lungo tempo. Il fatto che si immedesimino in un'epoca li rende suoi contemporanei, sicché una parte della paura suscitata a quell'epoca dalla spietatezza del potente penetra in loro; non si rendono conto di arrendersi a lui mentre vagliano coscienziosamente i fatti. Vi è in ciò anche un nobile motivo, dal quale furono influenzati anche alcuni grandi pensatori: non si sopporta di dichiarare a se stessi che un numero enorme di uomini, ciascuno dei quali recava in sé tutte le possibilità dell'umanità, siano stati massacrati inutilmente, assolutamente per nulla; e perciò si va in cerca di un qualche significato. Poiché la storia è andata avanti, è sempre facile trovare un senso palese nella sua continuità; e si fa in modo che tale senso acquisti una certa dignità. La verità tuttavia non ha alcuna dignità. È tanto umiliante quanto fu annientatrice. Si tratta di una privata passione di chi ha il potere: il piacere che egli trae dal sopravvivere cresce con il suo potere; il suo potere gli consente di abbandonarvisi. Il contenuto vero di questo potere è la brama di sopravvivere a una massa di uomini. Per il potente è più utile che le vittime siano dei 26

nemici; ma anche gli amici servono allo scopo. In nome di virtù virili, egli esigerà dai suoi sudditi le cose più difficili, o addirittura impossibili. Che così soccombano, non ha per lui la minima importanza. Può dar loro a intendere che ciò sia un onore. Li legherà a sé con il bottino che da principio procura loro. Si servirà del comando, che appunto è fatto per i suoi scopi (non possiamo ora addentrarci nella disamina precisa, ed enormemente importante, del comando). Se ne è capace, li ecciterà a formare masse guerresche e farà balzare dinanzi ai loro occhi tanti di quei nemici pericolosi che infine sarà loro impossibile separarsi dalla propria massa di guerra. Egli non rivela loro le sue intenzioni profonde; può fìngere bene, e trova cento pretesti convincenti per ogni ordine che impartisce. Può darsi che nella sua arroganza egli si tradisca quando si trova fra gli intimi, e allora lo fa in termini assai chiari, come Mussolini che parlando con Ciano dichiara il suo popolo uno spregevole branco di pecore, della cui vita naturalmente non gli importa. L'intenzione autentica del vero potente è, infatti, incredibilmente grottesca: egli vuole essere l'unico. Vuole sopravvivere a tutti, affinché nessuno sopravviva a lui. A ogni costo vuole sfuggire la morte, e perciò non deve esserci nessuno, da nessuna parte, che possa dargli la morte. Finché ci sono uomini, qualsiasi uomo, egli non si sentirà sicuro. Perfino le sue guardie, che lo difendono dai nemici, possono volgersi contro di lui. Non è difficile dimostrare che egli nutre sempre un segreto timore nei confronti di coloro cui comanda; e sempre nasce in lui la paura anche verso chi gli è più vicino. 27

Vi sono stati dei potenti che per questa ragione non vollero avere figli. Il fondatore del regno Zulu nel Sudafrica, Chaka,' un uomo valorosissimo, non vinse mai l'angoscia d'avere un figlio. Aveva 1200 mogli che ufficialmente portavano il titolo di « sorelle ». Era loro proibito restare incinte: la gravidanza veniva punita con la morte. Sua madre, l'unica creatura al mondo cui fosse affezionato e della quale gli era indispensabile il consiglio, desiderava ardentemente un nipote, e quando una moglie rimase incinta la nascose presso di sé e l'aiutò a partorire un bambino. Questi crebbe presso di lei, in segreto, per alcuni anni. Ma un giorno Chaka, recatosi dalla madre, la sorprese mentre giocava con un bambino. Subito comprese che era figlio suo e lo uccise sul posto con le sue stesse mani. Egli non riuscì tuttavia a eludere il destino che temeva: à quarantun anni fu ucciso, anziché da un figlio, da due suoi fratelli. Questa paura di un figlio ci sembra strana; inusitato, nella vicenda di Chaka, è però solo il fatto che egli non volesse avere neppure un figlio. Le lotte fra sovrani e i loro figli sono, peraltro, all'ordine del giorno. La storia orientale ne è colma, tanto che esse rappresentano la regola anziché l'eccezione. Ma quale significato può avere l'affermazione che il potente vuole essere l'unico? Sembra naturale - lo abbiamo sperimentato che egli voglia essere il più forte, che combatta contro altri |>otenti per sottometterli, che accarezzi la speranza di soggiogare tutti e di diventare il sovrano del più grande regno esistente, forse 1. Cfr. Massa e potere, cit., pp. 296, 579 [AT.d.T.].

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addirittura dell'unico regno. Mi si concederà facilmente che egli voglia essere l'unico sovrano-, troppi sono i conquistatori che svolsero questa parte, e alcuni riuscirono perfino a essere veramente tali nell'àmbito del loro orizzonte. Ma l'unico uomo? Che senso può avere, dire che il potente desidera essere l'unico uomo? È proprio dell'essenza del potere che esistano degli altri su cui signoreggiare: senza di essi, non è pensabile alcun atto di potere. Si dimentica, con questa obiezione, che l'atto di potere può consistere nelVallontanamento degli altri, e l'atto in tal caso è tanto più grande quanto più l'allontanamento è radicale e globale. Una vicenda di tali amplissime proporzioni si ritrova nell'India del XIV secolo. A parte la sua coloritura esotica, essa suona così moderna che vorrei sinteticamente riferirla. Il più energico e ambizioso re del suo tempo, Muhammad Tughlak,' sultano di Delhi, trovò ripetutamente delle lettere che venivano gettate di notte oltre i muri della sua sala di udienza. Non ne conosciamo il contenuto preciso; si dice comunque che fossero piene di ingiurie e di insulti. Il sultano decise allora di ridurre in macerie Delhi, a quei tempi una delle più grandi città del mondo. Poiché, da musulmano rigoroso, teneva molto alla giustizia, egli comperò a tutti gli abitanti le loro case, e le pagò a prezzo pieno. Poi ordinò loro di trasferirsi in una nuova città, molto lontana, Daulatabad, che voleva eleggere a sua capitale. Gli abitanti di Delhi rifiutarono; il sultano fece annunciare dall'araldo che entro tre giorni non si sarebbe I. Cfr. ibid., pp. 292, 515-28, 579, 584 [N.d.T.].

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più dovuto trovare un solo uomo nella città. La maggior parte dei cittadini obbedirono, ma alcuni si rinchiusero nelle case. Poi il sultano fece rastrellare la città, alla ricerca di chi vi fosse ancora rimasto. I suoi schiavi trovarono nella via due uomini, uno storpio e un cieco. Vennero portati dinanzi al sultano; questi ordinò che lo storpio fosse lanciato con una catapulta e che il cieco venisse trascinato da Delhi a Daulatabad, un viaggio di quaranta giorni. Durante il percorso il cieco cadde in pezzi, e tutto ciò che di lui raggiunse Daulatabad fu un osso. Tutti allora fuggirono da Delhi, abbandonando mobili e beni; la città restò completamente deserta. La devastazione fu così totale che neppure un gatto, neppure un cane rimasero negli edifìci della città, nei palazzi o nei sobborghi. Una notte il sultano salì sul tetto del suo palazzo, volse gli occhi su Delhi ove non si vedeva alcun fuoco, alcun fumo, alcuna luce, e disse: « Ora il mio cuore è quieto e la mia collera è placata », È vero che più tardi egli scrisse agli abitanti di un'altra città, ordinando loro di recarsi a Delhi per ripopolarla; è anche vero che solo pochi vi giunsero e che Delhi rimase a lungo quasi vuota nella sua smisurata grandezza. Ma l'istante che conta è quello àeWunicità solitaria del sultano: l'istante in cui egli, di notte, dal tetto del suo palazzo, guardò la città vuota: tutti gli abitanti, perfino i gatti e i cani, lontani, a quaranta giorni di viaggio; nessun fuoco, nessun fumo, nessuna luce, ed egli, il sultano, solo: « Ora il mio cuore è quieto ». Va osservato che questa frase del sultano: « Ora il mio cuore è quieto » non è un'invenzione o un 30

abbellimento tardivo; essa è ben degna di fede, riferita dal celebre viaggiatore arabo Ibn Battuta, che visse sette anni alla corte del sultano e lo conobbe a fondo. Il suo cuore è quieto poiché per un vastissimo spazio non c'è un solo uomo che possa volgersi contro di lui. Egli ha inoltre la sensazione d'essere sopravvissuto a tutti gli uomini: la popolazione della capitale vale qui per l'umanità intera. Certo, questo istante di unicità fu solo passeggero. Ma la consapevole pertinacia con cui fu provocato, l'enorme spesa che costò, le sue conseguenze - la desolazione, per molti anni, di una capitale già ricca e brillante, il fatto che un sovrano lodato per saggezza e giustizia, avveduto, attivo e pratico si fosse deciso a trattare la propria capitale come quella del peggiore dei nemici tutto ciò dimostra che l'impulso a quell'unicità è qualcosa di estremamente reale: un'autentica forza di prim'ordine, che si deve prendere molto sul serio e scandagliare a fondo ogni volta che se ne offra l'opportunità. Come molte altre cose, la si può specialmente trarre in luce studiando alcune psicopatie, e in particolare la paranoia. A mia conoscenza, il documento di gran lunga più importante circa l'Unico in questo senso sono le Memorie di Schreber,' già presidente della Corte d'Appello a Dresda. Un paranoico che trascorse nove anni in casa di cura ha esposto in quel libro tutto il suo sistema, in modo completo e organico. Il libro. 1. D.P. Sdireber, Denkwurdigheiten eines Nervenkrankert, Leipzig, 1903 (trad. it. Memorie di un malato di nervi, Adelphi, Milano, 1974); cfr. Massa e potere, cit., pp. 528-71 [Ar.d.r.].

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del resto, non è interessante solo per il nostro scopo; esso tocca fenomeni così molteplici e così frequentemente ricorrenti che non esito a definirlo il documento più importante della intera letteratura psichiatrica. Ancora in forma di manoscritto, portò alla revoca giudiziaria dell'interdizione di Schreber. L'autore lo pubblicò a sue spese nel 1903. Ma la sua famiglia, che si vergognava del libro, comperò la maggior parte della tiratura, così che l'edizione originale è diventata rarissima. Bisogna tuttavia prescindere da uno scritto che Freud pubblicò nel 1911 sul caso Schreber.^ Non è affatto uno dei lavori più felici di Freud. Sembra soltanto un primo tentativo, esitante, di ricerca, e si ha l'impressione che Freud stesso ne avvertisse le carenze. Egli prese in considerazione solo una minima parte del materiale, e di rado sbagliò come in questo caso la sua interpretazione. Per convincersene è indispensabile conoscere davvero le Memorie. Nelle successive discussioni intorno a questo scritto sono stati presi in considerazione solo i brani di Schreber che Freud stesso aveva citato. Soltanto negli ultimissimi anni uno o due autori si sono preoccupati di riattingere direttamente al documento, nessuno ancora in modo esauriente, posto che ciò sia davvero possibile. Va detto d'altronde, per giu2. S. Freud, Psychoanalytische Bemerkungen ilber einen autobiographisch beschriebenen Fall von Paranoia (Dementia paranoides) [trad. it. Osservazioni psicoanalitiche su un caso di paranoia (dementia paranoides) descritto autobiograficamente (Il caso clinico del presidente Schreber), in S. Freud, Opere, Boringhieri, Torino, 1974, voi. VI].

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stizia, che Freud scriveva nel 1911, quando ancora non era scoppiata la Prima guerra mondiale con cui ebbe inizio propriamente il nostro secolo. Chi, dopo aver vissuto consapevolmente i quasi sessant'anni che da allora sono trascorsi, può dire di esser rimasto il medesimo? Per chi non si sono riproposti in maniera nuova tutti i problemi? Solo agli uomini della nostra generazione è divenuto possibile capire Schreber e interpretarlo in modo che l'essenziale di quanto egli espone non vada perduto. Mi limiterò a porre in evidenza nelle pagine seguenti due delle immagini principali da cui Schreber era dominato. È lecito dar loro particolare rilievo, poiché stanno senza dubbio al centro del suo delirio. L'umanità intera era perita. L'unico uomo rimasto, l'unico che fosse ancora in vita, era lui. Egli rifletté su quale catastrofe avesse potuto provocare la fine dell'umanità, e formulò più d'una supposizione. Forse il sole s'era allontanato dalla terra ed era sopravvenuta una glaciazione generale. Forse s'era trattato di un terremoto, come una volta quello di Lisbona. Schreber però si soffermò specialmente sull'ipotesi di una spaventosa epidemia: lebbra e peste. Se ne convinse appieno, pensando a nuove e sconosciute forme di peste. Mentre tutti gli altri uomini ne erano periti, egli solo era stato guarito da raggi « benedicenti ». Nell'agitato periodo iniziale della malattia ebbe grandiose visioni. Una di queste visioni lo condusse su una specie di ascensore nelle profondità della terra. Sperimentò così tutti i periodi geologici e d'improvviso si trovò in una foresta di 33

carbon fossile. Per un certo tempo abbandonò il suo veicolo e si aggirò in un cimitero ove giacevano tutti gli abitanti di Lipsia. Là visitò la tomba di sua moglie. In realtà sua moglie era ancora in vita e si recava regolarmente a fargli visita nella clinica di Sonnenstein presso Dresda, dove egli trascorse come paziente otto o nove anni. Di_ queste visite egli era perfettamente consapevole. Inoltre vedeva e udiva il suo medico, gli altri medici della clinica e gli infermieri. Quando il suo stato di eccitazione cresceva, aveva con loro aspri scontri. Vedeva anche altri pazienti. Come si conciliava tutto ciò con la sua granitica convinzione della propria unicità? Egli non negava ciò che aveva dinanzi agli occhi, ma lo interpretava a modo suo. Gli uomini che vedeva non erano reali: erano « uomini fatti fugacemente ». Cosi li definiva; e quelle parvenze fallaci che si presentavano e svanivano, e alle quali lui non dava importanza, erano apprestate solo per ingannarlo e turbarlo. Non si creda tuttavia che egli, unico uomo, conducesse una vita solitaria. Era in rapporto con le stelle, e questo rapporto aveva caratteristiche molto particolari. Le anime dei morti sopravvivevano sulle stelle, erano collegate in enormi schiere a costellazioni a lui familiari come Cassiopea o le Pleiadi; egli si rappresentava questi corpi celesti come se fossero propriamente costituiti di anime di morti. Su tali anime Schreber esercitava una possente attrazione. Si radunavano in moltitudini intomo a lui, per dileguarsi poi nella sua testa o nel suo corpo. Di notte, gocciavano a migliaia dalle stelle su di lui, come « piccoli uomini », minuscole figurette in sem34

bianze umane, alte pochi millimetri, e menavano una breve esistenza sopra il suo capo. Ma ben presto per loro era finita: il suo corpo le risucchiava ed esse svanivano in lui. Talvolta egli udiva ancora i loro ultimi, brevi rantoli di agonizzanti, prima che fossero assorbite in lui. Le aveva messe in guardia contro la sua forza d'attrazione, e tuttavia continuavano a giungere. In tal modo si dissolsero intere costellazioni; l'uno dopo l'altro, gliene giungevano gli annunci funesti. Raccogliendo insieme le stelle superstiti, si cercava di salvare questa o quella costellazione, ma tutto finiva per essere vano: nulla poteva arrestare la catastrofica influenza di lui sull'universo. Dato questo suo rapporto con le anime, egli si considerava il più grande veggente, interlocutore di spiriti, d'ogni millennio. Tuttavia, in base alle descrizioni che egli stesso fornisce della sua influenza, l'espressione « veggente » è imprecisa e, si sarebbe tentati di dire, troppo modesta. La vera immagine che egli offre è un'altra. Schreber rappresenta al tempo stesso due diversi stadi del potere. Poiché appaiono contemporaneamente, l'uno di fianco all'altro, possono in un primo momento generare confusione. Ma non è difficile separarli e coglierli nel loro preciso significato. Il primo riguarda coloro che per Schreber sono il prossimo: tutti sono già periti, ed egli, come appunto vuole, è il solo, Yunico. È questo lo stadio estremo e ultimo del potere. Si può fare tutto il possibile per raggiungerlo, ma solo nel delirio si può realizzarlo appieno. In rapporto alle anime - che Schreber s'immagina del resto in sembianze umane: dunque, in qualche modo, come uomini -, egli è il grand'uomo; è per esse il Fiihrer 35

intorno al quale si adunano a migliaia, a decine di migliaia, come massa. Ma non è facile che esse rimangano adunate come massa intorno a lui, come un popolo intorno al suo Fùhrer; accade loro esattamente ciò che sperimentano dapprima gradualmente, nel corso degli anni, i popoli adunati intorno al Fùhrer: rispetto a lui, diventano sempre più piccole. Non appena lo hanno raggiunto, incominciano a rimpicciolire con la massima rapidità, fino alle dimensioni di pochi millimetri, e diventa perfettamente chiaro il vero rapporto in cui si trovano con lui. Egli, un gigante rispetto a loro; esse, minuscole' creature che si agitano intorno a lui. E non ci si ferma qui: il grand'uomo le inghiotte. Esse finiscono letteralmente in lui, per poi definitivamente svanire. La sua influenza su di esse è tale da annientarle. Tutto ciò che erano torna ora a profitto del suo corpo. Sebbene qui egli non sia propriamente l'unico, è pur sempre la sua unicità ciò che davvero importa. Per questo stadio del potere, che è familiare a noi tutti, Schreber offre un'immagine che non potrebbe essere più chiara e cogente. Non lasciamoci spaventare dal fatto che tale immagine si colloca nel contesto di un delirio. Dobbiamo attingere le nostre conoscenze là dove esse si offrono a noi, e il potere reale, nelle forme estreme che ci sono note, quanto a delirio non è da meno. Certo, Schreber non può dirci nulla circa il modo in cui gli uomini raggiungono il potere: sarebbe necessario, a questo proposito, esaminare la loro prassi. Nondimeno, non mi sembra affatto trascurabile imparare da lui a che cosa miri il potere. 86

Spero di non deludere, concludendo con il caso Schreber. Si dovrebbe essere accecati come lui, o come uno dei veri potenti che ho descritto, per mettersi l'animo in pace. In fin dei conti, sono interessati a ciò tutti gli uomini, tutti noi, e la parte di gran lunga più importante di una ricerca su questo potere dovrebbe essere quella dedicata a chiarire perché gli ubbidiamo. Era qui mia intenzione limitarmi all'aspetto interno del potente, che ci sembra inconcepibile, cui tutto in noi si rivolta, e che proprio per questo dobbiamo avere con estrema chiarezza dinanzi agli occhi.

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KARL KRAUS, SCUOLA DI RESISTENZA

È tipico dell'insaziabilità, ma anche della veemenza degli anni giovanili, che un fenomeno, un'esperienza, un modello scacci da solo tutti gli altri. Siamo allora ardenti e pronti a espanderci, afferriamo questo e quello, lo rendiamo il nostro idolo, ci assoggettiamo a esso, aderendovi con una passione che esclude tutti gli altri. E non appena uno ci delude lo facciamo precipitare dalla sua altezza e lo frantumiamo senza esitazioni; non vogliamo essere giusti: ha contato troppo per noi. Tra i frantumi del vecchio idolo insediamo l'idolo nuovo. Importa poco che esso vi si trovi a disagio. Siamo capricciosi e arbitrari con i nostri idoli; non badiamo alla loro sensibilità; esistono per essere innalzati e abbattuti e si susseguono in numero stupefacente, tanto diversi e opposti tra loro che rimarremmo sorpresi se potessimo abbracciarli tutti con un solo sguardo. L'uno o l'altro di essi riesce a diventare un dio, e dunque perdura, viene risparmiato; nessuno gli metterà le mani addosso. Su di esso può agire solo il tempo, non la volontà ostile di qualcuno. Un idolo simile può deteriorarsi o sprofondare a poco a poco nel terreno cedevole: nondimeno, resterà pur sempre pressoché intatto, non perderà la sua forma. Ci s'immagini la distruzione di questo recinto sacrale che un uomo porta in sé quando ha vissuto per un certo numero d'anni. Nessun archeologo 39

riuscirebbe a ricostruirne razionalmente il disegno. Già i simulacri divini rimasti intatti, riconoscibili, formano da sé soli un pantheon enigmatico. E lo scavatore troverebbe poi macerie su macerie, sempre più strane, sempre più fantastiche. Come riuscirebbe a capire perché proprio queste macerie si sovrappongano a quelle? L'unica cosa che hanno in comune è il modo in cui sono state distrutte: se ne potrebbe dedurre soltanto che là infieri sempre il medesimo barbaro. La cosa più saggia sarebbe non andare a toccare questo recinto sacrale di rovine. Oggi tuttavia mi sono proposto di non essere saggio e di parlare di uno dei miei idoli che fu un dio, e che ciò nonostante, dopo forse cinque anni di sovranità assoluta, venne rimosso, e dopo un più lungo periodo fu abbattuto. È passato ormai molto tempo e posso in certa misura rendermene conto. Oggi so perché Karl Kraus mi giunse perfettamente a proposito, perché gli fui soggetto e perché infine assunsi verso di lui una posizione di difesa. Nella primavera del 1924 - ero tornato a Vienna solo da poche settimane - fui portato per la prima volta da amici a una lettura' di Karl Kraus. La grande sala da concerto era piena zeppa. Io sedevo molto indietro e, da quella distanza, potevo vedere poco: un uomo piccolo, piuttosto gracile, un po' curvo in avanti, con un viso che finiva a punta, di una inquietante mobilità, che non riuscivo a capire - aveva in sé qualcosa di una creatura sconosciuta, di un animale scoperto solo ora, non awei saputo dire quale. La voce 1. Le Vorlesungen di K. Kraus erano molto spesso vere e proprie « letture teatrali » di testi suoi e altrui [AT.d.T.].

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era tagliente e mossa e dominava agevolmente la sala, a tratti - e piuttosto spesso - si intensificava di colpo. Ciò che però potevo osservare molto bene erano le persone intomo a me. C'era nella sala un clima che avevo conosciuto nei grandi raduni politici: come se tutto ciò che l'oratore aveva da dire fosse già noto e atteso. Per il nuovo venuto che per otto anni, e forse gli anni più importanti, dagli undici ai diciannove, non era stato a Vienna, ogni cosa in ogni particolare era nuova e sorprendente. Ciò che là si stava dicendo, e si diceva con enfasi appassionata, come cosa importantissima, era infatti legato a un'infinità di particolari della vita pubblica e anche della vita privata. Era dunque a tutta prima sconvolgente rendersi conto che in una città accadevano tante cose, tutte degne di rilievo e nell'interesse di tutti. La guerra e le sue conseguenze, vizi, assassinii, avidità di guadagno, ipocrisia, ma anche errori di stampa, venivano estratti e isolati dai più diversi contesti con la medesima irruente energia, chiamati col loro nome, stigmatizzati, e in una sorta di furore scagliati su mille persone che coglievano ogni parola, la disapprovavano, la acclamavano, la deridevano e la salutavano con giubilo. Devo confessare che la cosa che più mi sorprese fu innanzitutto la rapidità impetuosa dell'effetto sulla massa? Com'era possibile che tutti sapessero con esattezza di cosa si trattava, che tutti ne fossero già al corrente, già avessero disapprovato, e ora anelassero la condanna? Accuse totali venivano esposte in una lingua stranamente cementata, in qualche misura affine ai paragrafi giuridici, ininterrotta, uniforme, che risuonava come se 41

avesse avuto inizio da anni e dovesse proseguire ancora per anni, tal quale. L'affinità con la sfera del diritto si poteva anche cogliere nel fatto che tutto presupponeva una legge stabilita e assolutamente inattaccabile, certa. Era chiaro ciò che era buono e ciò che era cattivo. Era duro e naturale come il granito, che nessuno sarebbe riuscito a graffiare o a scarabocchiare. Si trattava però di un tipo molto particolare di legge, e io potei già accorgermi la prima volta dalla totale estraneità con i colpevoli trasgressori che cominciavo ad assoggettarmi a essa. Perché la cosa inafferrabile e indimenticabile - indimenti cabile per chiunque l'abbia vissuta, e vivesse poi ancora per trecento anni - era che questa legge ardeva: essa irraggiava, bruciava e annientava. Da quelle massime perfettamente connesse l'una con l'altra come pietre nelle mura di una rocca ciclopica, scoccavano lampi improvvisi, non innocui, non illuminanti, e neppure lampi da teatro, ma lampi mortali; e questa sequenza di punizioni annientanti che si compiva dinanzi a tutti, nell'orecchio di tutti, appariva così terrificante e possente che nessuno era in grado di sottrarvisi. Ogni sentenza era eseguita sul posto. Una volta pronunciata, era irrevocabile. Noi tutti assistevamo all'esecuzione. Ciò che fra le persone nella sala creava un'acuta attesa non era tanto la proclamazione della sentenza quanto la sua immediata esecuzione. Tra le vittime più indegne ce n'erano alcune che si difendevano e non accettavano d'essere giustiziate. Molte evitavano la battaglia aperta, ma altre la accettavano; la caccia spietata che allora aveva inizio era lo spettacolo che l'uditorio godeva più a fondo. Passarono de42

cenni prima che io capissi che a Karl Kraus era riuscito di sobillare gli intellettuali fino a farne una massa aizzata, che si ritrovava insieme a ogni lettura e che durava, tesa nella sua eccitazione, finché la vittima veniva abbattuta. Non appena la vittima era ridotta al silenzio, la caccia era esaurita. Un'altra caccia poteva incominciare. Il mondo delle leggi che Karl Kraus custodì con « voce di cristallo », come « mago irato » - sono parole di Trakl -, congiunse due sfere che non sempre si rivelano in rapporti così stretti: la sfera della morale e quella della letteratura. Nel caos intellettuale che segui la Prima guerra mondiale non vi era forse nulla di più necessario di questa congiunzione. Di quali mezzi disponeva Kraus per ottenere i suoi effetti? Mi limiterò ora a indicare i due mezzi principali: Yuso delle parole alla lettera e il destare orrore. L'uso delle parole alla lettera, per incominciare con esso, si manifestava nella sua sovrana capacità di adoperare le citazioni. La citazione, dato il modo in cui egli la usava, deponeva contro l'autore citato: era spesso il culmine, il compimento di ciò che il commentatore mirava a produrre contro di lui. Karl Kraus aveva il dono di condannare gli uomini usando le loro stesse parole. Ma l'origine di questa maestria - e non so se codesto rapporto sia già stato visto con chiarezza ~ stava in ciò che vorrei chiamare la citazione acustica. Kraus era assillato da voci: una situazione che è meno rara di quanto si pensi - ma con una differenza: le voci che lo assillavano esistevano veramente nella realtà viennese. Erano frasi staccate, 43

parole, esclamazioni, che egli poteva udire dovunque per le strade, nelle piazze, nei locali. La maggior parte degli scrittori d'allora era gente esperta nell'udire con un orecchio solo. Erano disposti a frequentare i loro pari, talvolta per ascoltarli, più spesso per obiettare. È il vizio ereditario dell'intellettuale, comporre di intellettuali il proprio mondo. Anche Kraus era un intellettuale: altrimenti non avrebbe potuto passare le sue giornate leggendo giornali, i più diversi, in cui apparentemente c'era sempre la stessa cosa. Ma poiché il suo orecchio era sempre in ascolto - non si chiudeva mai, era sempre in funzione, udiva sempre - egli riusciva a leggere anche quei giornali come se li udisse. Le parole nere, stampate, morte, erano per lui parole sonore. Quando poi le citava, era come se facesse parlare delle voci: citazioni acustiche. E poiché egli citava tutto senza distinzioni, senza ignorare alcuna voce, senza sopprimerne alcuna - poiché tutte quelle voci stavano l'una di fianco all'altra, in una sorta di equiparazione che prescindeva dal rango, dall'importanza e dal valore -, Karl Kraus era la persona incomparabilmente più viva che la Vienna d'allora potesse offrire. Era il più strano dei paradossi: quell'uomo estremamente sprezzante, il più drastico spregiatore della letteratura mondiale dal tempo dello spagnolo Quevedo e di Swift, una sorta di flagello divino sull'umanità colpevole, lasciava la parola a tutti. Non era in grado di sacrificare la voce più infima, più futile, più vacua. La sua grandezza consisteva nel fatto che egli solo, letteralmente solo, confrontava, udiva, spiava, attaccava 44

e sferzava il mondo fin dove lo conosceva, tutto il suo mondo globalmente, in tutti i suoi rappresentanti, innumerevoli. Egli era dunque l'esatto opposto di tutti gli scrittori - l'enorme maggioranza degli scrittori - che ungono di miele la bocca degli uomini per esserne amati e apprezzati. Sulla necessità di una figura come la sua non è certo il caso di sprecare parole, proprio perché figure del genere scarseggiano assai. Pongo qui l'accento su Kraus vivente, e in particolare su Kraus in atto di parlare a molti. Non lo si ripete abbastanza: il vero Karl Kraus, il Kraus che scuoteva dal sonno, che tormentava e fracassava, il Kraus che entrava nel sangue, dal quale si era afferrati e scrollati, tanto che poi ci volevano degli anni per radunare le proprie forze e contrapporsi a lui, era l'oratore. In tutta la mia vita non ho mai saputo di un oratore paragonabile a lui in nessuno degli àmbiti linguistici europei che mi sono familiari. Tutte le sue passioni - ed erano sviluppate con estrema ricchezza - mentre egli parlava si comunicavano agli ascoltatori e d'un tratto divenivano le loro. Ci vorrebbe un libro per trattare a fondo di quelle passioni, per rappresentare la sua collera, il suo scherno, la sua amarezza, il suo disprezzo, la sua adorazione quando si trattava dell'amore e delle donne - adorazione mai disgiunta da una certa cavalleresca gratitudine per il sesso femminile in quanto tale -, la sua pietà e la sua tenerezza verso coloro che erano sprovvisti d'ogni potere, la micidiale audacia con cui dava la caccia ai potenti, la voluttà con cui scavava nel loro animo smascherandone l'ottusità tipicamente austriaca, l'orgoglio con cui creava il vuoto 45

intorno a sé, la sempre attiva venerazione per i suoi dèi così diversi uno dall'altro, come Shakespeare, Claudius, Goethe, Nestroy, OfFenbach. Per il momento posso solo indicare queste passioni, benché il solo fatto di enumerarle mi stimoli a dirne qualcosa di più concreto e anzi a rappresentarle come se fossi appena uscito da una lettura di Kraus. Devo però porne in evidenza almeno una, che avevo già menzionato. Era ciò che in lui sarei propenso a definire propriamente biblico: il suo destare orrore. Se dovessimo limitarci a indicare una sola qualità che lo distingueva da tutte le altre figure pubbliche del suo tempo, dovremmo dire: Karl Kraus era il maestro del destare orrore. Ancor oggi se ne convincerà facilmente chiunque apra Gli ultimi giorni dell'umanità} Balza agli occhi il suo rappresentare sempre gli uni di fianco agli altri coloro che la guerra ha degradato e coloro che la guerra ha reso tronfi: invalidi di guerra a fianco di profittatori di guerra, il soldato cieco a fianco dell'ufficiale che vuol essere salutato da lui, il volto nobile dell'impiccato dinanzi alla smorfia grassa del boia - tutto ciò, in Kraus, non ha a che fare con le cose cui ci ha abituato il cinematografo, con i suoi contrasti a buon mercato: è tutto ancora pregno del proprio orrore, intero e inestinguibile. Quando egli diceva queste cose, mille persone erano paralizzate dinanzi a lui; l'orrore che egli destava ogni volta, leggendo come spesso fece 1. K. Kraus, Die letzten Tage der Menschheit, Wkn, 1922 (trad. it. Gli ultimi giorni dell'umanità, Addphi, Milano. 1980) [AT.d.T.].

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brani della sua opera, rigenerava l'energia della visione originaria di cui ciascuno si sentiva pregno. In tal modo gli riuscì di creare fra i suoi ascoltatori almeno un modo di sentire omogeneo e irrevocabile: l'odio assoluto verso la guerra. Doveva giungere una seconda guerra mondiale e, dopo la distruzione di intere, respiranti città, anche il suo prodotto più peculiare, la bomba atomica, perché questo modo di sentire divenisse generale e quasi ovvio. In questo senso, Karl Kraus fu una sorta di precursore della bomba atomica, i cui terrori erano già contenuti nelle sue parole. Dal suo modo di sentire è derivata oggi una nozione cui gli stessi potenti devono aprirsi sempre più: che le guerre, tanto per i vincitori quanto per i vìnti, sono assurde e perciò impossibili, e che la loro proscrizione irrevocabile è ormai solamente una questione di tempo. Prescindendo da ciò, che cosa ho imparato da Karl Kraus? Che cosa di lui penetrò in me così profondamente che io non riuscii più a separarlo dalla mia persona? Innanzitutto il senso di assoluta responsabilità. Questo senso lo avevo dinanzi a me in una forma che confinava con l'ossessione, e nulla che vi fosse inferiore pareva degno di una vita. Ancor oggi questo modello mi sta dinanzi così potente che tutte le successive formulazioni della medesima esigenza non possono che apparire inadeguate. C'è la povera parola engagement (« impegno »), che era nata per divenire banale e che oggi cresce ovunque come la gramigna. Essa suona come se di fronte alle cose davvero importanti dovessimo assumere una posizione impiegatizia. La ve47

ta responsabilità è cento volte più ardua poiché è sovrana e si determina da sé. In secondo luogo, Karl Kraus mi ha aperto le orecchie, e nessuno avrebbe saputo farlo come lui. Dopo averlo udito, non mi è più possibile non udire. Incominciò con le voci della città intorno, le esclamazioni, le grida, le deformazioni della lingua colte per caso; in special modo con ciò che era falso e fuor di proposito. Tutto ciò era al tempo stesso comico e atroce, e il legame fra codeste due sfere mi risultò da allora perfettamente naturale. Grazie a lui cominciai a capire che ciascun uomo ha una sua fisionomia linguistica con cui si stacca da tutti gli altri. Compresi che gli uomini si parlano, sì, l'un l'altro, però non si capiscono; che le loro parole sono colpi che rimbalzano sulle parole altrui; che non vi è illusione piìi grande della convinzione che il linguaggio sia un mezzo di comunicazione fra gli uomini. Si parla a un altro, ma in modo che questi non comprenda. Si continua a parlare, e quegli comprende ancor meno. Si grida, si torna a gridare, e l'esclamazione, che nella grammatica vive una povera vita, s'impadronisce del linguaggio. Le grida balzano qua e là come palle, colpiscono, ricadono al suolo. Di rado qualcosa penetra negli altri, e quando accade è qualcosa di distorto. Ma quelle stesse parole che non sono comprensibili, che agiscono isolate, che danno luogo a una specie di figura acustica, non sono rare o nuove, inventate dalle creature che mirano alla loro singolarità: sono le parole che vengono usate più di frequente, frasi comunissime per tutti, ripetute centomila volte; e di questo, proprio di 48

questo si servono per dimostrare la loro caparbietà. Parole belle, brutte, nobili, comuni, sacre, profane, capitate tutte in questo tumultuoso serbatoio; e ciascuno ne trae fuori ciò che si addice alla propria inerzia; e lo ripete finché le parole non sono più riconoscibili, finché dicono tutt'altro, il contrario di ciò che una volta significavano. La deformazione della lingua conduce al caos delle figure separate. Karl Kraus, estremamente sensibile agli abusi della lingua, aveva il dono di captare in statu nascendi e di non lasciarsi pivi sfuggire i prodotti di questi abusi. Per chi lo ascoltava si apriva cosi una dimensione nuova della lingua, che è inesauribile e alla quale prima si faceva ricorso solo sporadicamente, senza l'opportuna coerenza. Ricorderò qui solo di sfuggita la grande eccezione a questa regola. Nestroy, dal quale Karl Kraus imparò tanto quanto io stesso da lui. Vorrei ora parlare di qualcosa che stava in netto contrasto con la spontaneità del suo orecchio: della forma della sua prosa. Ogni brano di prosa un po' lungo di Kraus può essere tagliato in due, quattro, otto, sedici parti, senza che in tal modo gli si tolga davvero qualcosa. Le pagine si allineano alle pagine, il loro peso è equivalente. Possono essere riuscite meglio o peggio, comunque continuano a proliferare in un peculiare addentellarsi, di natura però meramente esteriore, che non permette di prevedere una fine necessaria. Ogni pezzo che egli rese autonomo conferendogli un titolo potrebbe essere lungo il doppio o la metà. Nessun lettore imparziale potrà stabilire perché esso non sia terminato prima o perché 49

non prosegua ancora. Regna un arbitrio di continuità che non soggiace ad alcuna regola palese. Finché ha in mente un tema, egli prosegue; e perlopiù gli resta in mente molto a lungo. Un principio strutturale sovraordinato non c'è mai. Perché la struttura, che manca al tutto, è presente in ogni singola proposizione e salta agli occhi. In Karl Kraus tutte le voglie di costruzione architettonica, che di solito abbondano negli scrittori, si esauriscono nella singola proposizione. La sua preoccupazione: essere inattaccabile, nessuna lacuna, nessuna fessura, nessuna virgola falsa proposizione per proposizione, pezzo per pezzo si commette la compagine di una muraglia cinese. E quella compagine è dappertutto ugualmente ben commessa, il suo carattere è sempre riconoscibile, ma che cosa veramente recinga non lo sa nessuno. Non c'è un regno dietro questa muraglia, essa stessa è il regno, tutte le linfe che possono esservi nel regno sono andate a finire nella costruzione. Ormai non si può più dire che cosa era dentro e che cosa era fuori, il regno si stendeva da tutte e due le parti, muraglia verso l'interno e verso l'esterno. La muraglia è tutto, ciclopica impresa fine a se stessa, che traversa il mondo, su e giù per i monti, per le valli e le pianure e tanti deserti. Forse crede di esser viva, perché tutto all'infuori di essa è distrutto. Degli eserciti che la popolavano e a cui spettava di fare la guardia è restato solo un unico, solitario guardiano. Questo guardiano solitario è al tempo stesso l'essere solitario che porta avanti la costruzione. Dovunque egli guardi, là egli sente la necessità di erigere un nuovo pezzo della muraglia. A questo fine gli si offrono i materiali più diversi ed egli 50

riesce a squadrarli tutti in nuovi blocchi. Si può andare avanti per anni su questa muraglia senza che essa abbia mai fine. Credo che un certo malessere circa la natura di questa muraglia e lo spettacolo desolato dei deserti da tutte e due le parti di essa siano stati ciò che gradualmente mi pose contro Kraus. I blocchi squadrati con cui Kraus costruiva erano infatti condanne, e in esse era finito tutto ciò. che era vissuto nel territorio circostante. Il guardiano era divenuto morbosamente avido di condanne; per la fabbricazione dei suoi blocchi squadrati e della sua muraglia che non finiva mai erano necessarie sempre più condanne, che egli si procurava a spese del suo stesso regno. Kraus dissanguava ciò che doveva custodire: per i suoi alti scopi, certo, ma in modo tale che d'intorno si faceva sempre più il deserto, e alla fine poteva nascere il timore che il fine ultimo della sua esistenza consistesse nella costruzione di quella indistruttibile muraglia di condanne. Il nocciolo della questione era che egli aveva arrogato a sé ogni condanna, non concedendone una propria ad alcuno di coloro che vedevano in lui un esempio. Chiunque lo seguiva poteva ben presto avvertire su di sé le conseguenze di questa coercizione. La prima cosa che accadeva dopo aver ascoltato dieci o dodici letture di Karl Kraus, dopo aver letto una o due annate della « Fackel » e r a un generale avvizzirsi della volontà di sentenziare 1. « Die Fackel », rivista fondata da K. Kraus nel 1899 nella quale, a partire dal 1911, apparvero esclusivamente articoli da lui scritti o tradotti [N.d.T.].

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da sé. Sopravveniva un'invasione di verdetti forti e inesorabili, in relazione ai quali non sussisteva il minimo dubbio. Ciò che era stato deliberato in quella superiore istanza valeva per certo, come se fosse presuntuoso procedere a una verifica; e allora non si prendevano neppure in mano autori che fossero stati condannati da Kraus. Bastavano anche piccole sprezzanti osservazioni marginali, che spuntavano come erbe tra i massi della sua rocca di proposizioni, perché coloro che ne erano l'oggetto fossero evitati una volta per tutte. Subentrava una sorta di riduzione: mentre nei precedenti otto anni della mia assenza da Vienna, trascorsi a Zurigo e a Francoforte, mi ero aggirato in tutta la letteratura come un lupo affamato di letture, iniziò ora un periodo di limitazione, di riserva estetica. Ciò comportava il vantaggio di volgersi in modo intensivo agli autori cui Kraus concedeva valore: Shakespeare e Goethe naturalmente; Claudius; Nestroy, di cui Kraus per primo riportò in vita e dischiuse le opere più personali e dense di conseguenze; il primo Hauptmann, fino a Pippo,^ di cui Kraus soleva leggere il primo atto; Strindberg e Wedekind che nei primi anni avevano l'onore di comparire sulla « Fackel » ; e dei moderni, ancora, Trakl e la Lasker-Schùler. Come si vede, Kraus non obbligava certo a leggere gli scrittori peggiori. Per Aristofane, che egli rimaneggiava, non avevo certo bisogno di lui, e del resto non sarebbe riuscito a distogliermene, e neppure dall'epopea di Gilgamesh e dall'Odissea: da lungo 1. Und Pippo tanzt (E Pippa balla, 1906), tragedia di G. Hauptmann [AT.d.T.].

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tempo queste opere avevano lasciato tracce profondissime nel mio spirito. Kraus lasciava fuori questione i romanzieri, i narratori in genere; credo che lo interessassero poco, ed era una fortuna. Così, anche sotto la sua spietata dittatura, potei leggere indisturbato Dostoevskij, Poe, Gogol' e Stendhal, e accoglierli come Kraus non avrebbe mai fatto. Direi che queste letture furono allora la mia segreta esistenza in cantina. Da essa, e dai pittori Griinewald e Breughel, cui la sua parola non giungeva, trassi senza ancora accorgermene le forze per la successiva ribellione. Perché allora io ho realmente fatto l'esperienza di che cosa vuol dire vivere sotto una dittatura. Io ero un suo sostenitore volontario, devoto, appassionato ed entusiasta. Un nemico di Karl Kraus era un uomo spregevole, immorale; e se non mi spinsi al punto, cosa che nelle dittature successive divenne consueta, di sterminare i presunti insetti immondi, pure avevo anch'io, lo debbo confessare con vergogna - si, non posso dire in altro modo: avevo anch'io i miei ' Ebrei ', uomini che evitavo di guardare quando li incontravo nei locali e per le strade, che non degnavo di uno sguardo, il cui destino non mi importava affatto, che da me erano respinti e proscritti, il cui contatto mi avrebbe contaminato, che io con assoluta serietà non consideravo piii parte dell'umanità: le vittime e i nemici di Karl Kraus. Ciò nonostante non era affatto una dittatura senza frutto, e poiché mi sottomisi spontaneamente a essa e infine, altrettanto spontaneamente, riuscii a liberarmene, non ho alcun diritto di accusarla. Del resto, proprio perché vi sono passato 53

attraverso, mi sono profondamente disgustato del diffuso malcostume di accusare gli altri. È importante avere un modello che possiede un mondo ricco, turbolento, inconfondibile, un mondo che da solo egli ha presentito, da solo ha riconosciuto, accettato, sperimentato, escogitato.' L'autenticità del suo mondo è ciò che il modello dà effettivamente a coloro che lo riconoscono come tale, ciò con cui egli si imprime più a fondo. Da questo mondo ci si lascia avvolgere e sopraffare, e non posso immaginarmi uno scrittore che da principio non sia stato neppure una volta dominato e paralizzato da un autenticità estranea. Nell'umiliazione di questa violenza subita, quando egli sente di non aver più nulla di proprio, di non essere se stesso, di non sapere chi egli stesso sia, cominciano a destarsi le sue forze nascoste. La sua persona si articola, nasce dalla resistenza: ovunque egli si liberi, c'è stato qualcosa che lo ha liberato. Ma quanto più ricco era il mondo di colui che lo teneva sottomesso, tanto più ricco diventerà il suo proprio mondo, che da quello si svincola. È dunque un bene desiderare dei modelli forti e ricchi. Ed è un bene soggiacere a uno di essi se davvero, solo segretamente, in una sorta di oscurità da schiavi, si è assorti nel proprio peculiare possesso, del quale ancora ci si vergogna, e giustamente, poiché ancora non è visibile. Sono funesti i modelli che si spingono perfino all'interno di questa oscurità e tolgono il respiro 1. Canetti sottolinea qui, in modo intraducibile, le particelle che intervengono nei verbi composti cui egli ricorre: an-gesehen, er-dacht, ecc. [Md.T.].

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anche nell'ultima, più misera cantina. Ma sono pericolosi anche i modelli di tipo completamente diverso, quelli che ricorrono alla corruzione e troppo presto diventano utili nelle piccolezze, quelli che a un seguace, solo perché si inchina umilmente dinanzi a loro, danno a intendere che qualcosa di suo già esiste. Si finisce allora per vivere delle loro buone grazie, come animali addestrati e soddisfatti di ricevere qualche leccornia dalle loro mani. Nessuno infatti, quando è al principio, può sapere che cosa troverà in sé. E come potrebbe anche solo presentire ciò che troverà, dal momento che ciò che troverà non esiste ancora? Con strumenti presi in prestito egli scava in un terreno che esso pure è preso in prestito ed estraneo, è un terreno che appartiene ad altri. Quando per la prima volta, d'improvviso, si trova dinanzi qualcosa che non conosce, che non gli giunge da nessuna parte, egli si spaventa e vacilla: poiché quella è veramente cosa sua. Può essere una cosa da poco, un'arachide, una radice, una minuscola pietra, una puntura velenosa, un odore nuovo, un suono inesplicabile, o anche una linfa oscura che si spinge lontano: quando egli ha il coraggio e l'accortezza di destarsi dalla prima vertigine di paura per riconoscere e dar nome a ciò che ha trovato, allora comincia la sua vera vita.

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DIALOGO CON IL TERRIBILE PARTNER

Mi sarebbe difficile andare avanti in ciò che faccio più volentieri, se non tenessi talvolta un diario. Non che io adoperi poi quelle pagine: esse non costituiscono mai la materia grezza per il mio vero lavoro. Ma un uomo come me, un uomo che conosce la violenza delle sue impressioni, sperimenta ogni particolarità di ogni giorno come se si trattasse del suo unico giorno, vive di vere e proprie esagerazioni - non si potrebbe chiamarle altrimenti - e d'altronde non combatte questa sua natura poiché ciò che gli preme è lo spicco, l'acutezza e la concretezza di tutte le cose che compongono una vita -, un uomo del genere esploderebbe o in qualche altro modo andrebbe in pezzi se non si calmasse scrivendo un diario. Calmarmi è forse la ragione fondamentale per cui tengo un diario. Si stenta a credere quanto la frase scritta possa calmare e domare l'uomo. La proposizione è sempre un ' altro '' rispetto a colui che la scrive. Gli sta dinanzi come qualcosa di estraneo, una subitanea, solida muraglia, di là dalla quale non si può saltare. Si potrebbe forse aggirarla; ma prima ancora che si sia giunti dall'altra parte, ecco sorgere ad angolo acuto con essa una nuova muraglia, una nuova proposizio1. In tedesco ein anderes: letteralmente « un qualcosa di diverso » [AT.d.T.].

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ne, non meno estranea, non meno solida e alta, che essa pure alletta affinché la si aggiri. Gradualmente viene componendosi un labirinto, in cui chi l'ha costruito si orienta a stento. Girando e rigirando, egli si calma. Alle persone che compiono il più vicino aggiramento di uno scrittore riuscirebbe insopportabile sentire tutto ciò che lo ha eccitato. Le eccitazioni sono contagiose, e gli altri, si spera, hanno una loro propria vita che non può consistere solo delle eccitazioni del prossimo: altrimenti finirebbero soffocati. Vi sono cose, inoltre, che non si possono dire a nessuno, neppure ai più intimi, poiché di esse ci si vergogna troppo. Non è bene che non vengano mai espresse; non è bene che cadano nell'oblio. Tanto, i meccanismi grazie ai quali ci si rende la vita facile sono già fin troppo ben congegnati. Si comincia a dire, un po' titubanti: « Veramente non ne ho colpa », e in un batter d'occhio si dimentica tutto. Per sfuggire a questa indegnità bisogna mettere per iscritto ciò di cui si prova vergogna, e poi, molto più tardi, anni più tardi forse, quando si trasuda contentezza di sé da tutti i pori, quando meno ce lo si aspetta, trovarsi ad un tratto orripilati davanti a ciò che si era scritto. « Di questo ero capace, questo ho fatto ». La religione che assolve una volta per tutte da questo orrore può andar bene per coloro che non hanno il compito di pervenire a una piena e vigile consapevolezza dei propri processi interiori. Chi vuol davvero sapere tutto, impara specialmente da se stesso. Ma non deve risparmiarsi e deve trattare se stesso come se fosse un altro, con 58

una durezza che non sia minore, ma anzi maggiore. La vacuità di molti diari consiste nel fatto che in essi non si trova nulla di cui l'autore voglia calmarsi. Alcuni, e parrebbe incredibile, sono soddisfatti di tutto ciò che li circonda, perfino di un mondo che sta andando in rovina; altri, in ogni peripezia, sono soddisfatti di se. La funzione calmante del diario non è, dunque, di così vasta portata. È una calma temporanea, che placa la momentanea impotenza e rende la giornata chiara abbastanza per lavorare. Considerato in una lunga prospettiva di tempo, il diario ha invece l'effetto opposto, non permette la narcosi, disturba il processo naturale di trasfigurazione di un passato che resta in balìa di se stesso, tiene svegli e mordenti. Ma prima di dire qualcosa di più preciso circa questa e alcune altre funzioni dei diari, vorrei separare alcuni scritti che non considero propriamente tali. Distinguo infatti tra quaderni d'appunti [Aufzeichnungen], agende [Merkbiicher] e diari veri e propri [Tagebiicher]. QUADERNI D'APPUNTI

Di questi ho già parlato nella prefazione alla scelta delle mie Aufzeichnungen 1942-1948} È necessario però che per farmi capire io ripeta qui i punti essenziali. I « quaderni d'appunti » sono I. E. Canetti, Aufzeichnungen 1942-1948, Munchen, 1965 (trad. it. in La provincia dell'uomo, Adelphi, Milano, 1984') [N.d.T.].

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spontanei e contraddittori. Contengono idee che talvolta nascono da una tensione insopportabile, ma spesso anche da grande leggerezza. Non si può evitare che un lavoro che va avanti da anni, giorno per giorno, ci paia talvolta pesante, vano o tardivo. Lo detestiamo, ci sentiamo accerchiati, ci toglie il respiro. D'improvviso ogni cosa al mondo ci sembra più importante di quel lavoro, nel quale ci sentiamo limitati e falliti. Come può esserci qualcosa di buono in un lavoro che consapevolmente esclude tanta altra realtà? Ogni suono estraneo echeggia come da un paradiso vietato, mentre ogni parola che aggiungiamo alle pagine su cui stiamo lavorando da tanto tempo, ha nella sua docile acquiescenza, nella sua servilità, il colore di un inferno consentito e banale. In ogni lavoro obbligato c'è qualche cosa di insopportabile che può risultare molto pericoloso per il lavoro stesso. Un uomo, ed è questa la sua più grande fortuna, è mille volte molteplice e solo per un certo periodo può vivere come se non lo fosse. Nei momenti in cui egli si vede come uno schiavo dei propri intenti, una cosa soltanto può essergli d'aiuto: deve cedere alla molteplicità delle sue inclinazioni e mettere giù, senza selezionarle, le cose che gli passano per la testa. Tutto ciò deve affiorare come se non arrivasse da alcun luogo e non portasse in alcun luogo: han da essere perlopiù appunti brevi, rapidi, spesso fulminei, non verificati, non padroneggiati, senza ambizioni e senza alcun obiettivo. Quello stesso scrivente che altrimenti è solito comandare a bacchetta, diventa per un attimo il docile trastullo delle idee che gli passano per il capo. Mette per iscritto cose che non avrebbe mai sospet60

tato in sé, che contraddicono la sua storia, le sue convinzioni, il suo modo di fare, il suo pudore, il suo orgoglio e la sua verità, altrimenti difesa con ostinazione. La pressione con cui tutto ciò ha inizio s'allontana infine da lui, e può accadergli di divenire improvvisamente leggero e di registrare con una sorta di beatitudine le cose più schiette. Ciò che cosi si produce, ed è moltissimo, è meglio se egli lo metta da un canto senza più badarci. Se ci riesce veramente, per molti anni, vuol dire che ha conservato fiducia nella spontaneità, la quale è l'ossigeno indispensabile di questi quaderni d'appunti; infatti, una volta perduta la spontaneità, i quaderni non servono più a niente, e si può benissimo restar fissi nel proprio lavoro. Molto più tardi, quando tutto appare ormai come se fosse scritto da un'altra persona, è possibile ritrovare nei quaderni cose che, per quanto potessero forse sembrare prive di senso a colui che le scrisse, d'improvviso acquistano significato per altri. E poiché chi le scrisse è ora egli stesso un altro, può trasceglierne ciò che serve senza particolare fatica. AGENDE

Ogni persona, seguendo l'esempio dell'umanità intera, vorrebbe crearsi un proprio calendario. La principale attrazione del calendario consiste nel fatto che esso continua sempre. Per numerosi che siano i giorni già trascorsi, altri ne seguiranno. I nomi dei mesi tornano a ripetersi, e ancor più di frequente quelli dei giorni. Ma il numero che indica gli anni è sempre diverso. Cresce, non 61

può mai diminuire, ogni volta è un anno in più. Cresce costantemente, nessun anno può essere saltato; proprio come nella serie dei numeri, si va sempre avanti solo di uno. La misurazione del tempo esprime con esattezza ciò che l'uomo soprattutto si augura. Il ritorno dei giorni, di cui l'uomo conosce i nomi, gli reca sicurezza. Si sveglia: che giorno è oggi? Mercoledì, è di nuovo un mercoledì, ci sono stati già molti mercoledì. Egli però ha alle sue spalle non solo dei mercoledì. Poiché è il 30 ottobre, è un giorno che rappresenta qualcosa di più; e anche di simili giorni egli ne ha già conosciuti una quantità. Ma dal numero dell'anno, nel suo accrescimento lineare, egli spera d'essere condotto a millesimi sempre più elevati. Sicurezza e desiderio di lunga vita si congiungono nella misurazione del tempo, e l'una sembra ideata in vista dell'altro. Il calendario vuoto è tuttavia il calendario di ognuno; ora egli vuole che diventi il suo proprio calendario, e perciò deve riempirlo. Ci sono i giorni buoni e i cattivi, gli aperti e gli assediati. Se egli li contrassegna, con poche parole o lettere, il calendario diventa inconfondibilmente il suo calendario. Gli avvenimenti più importanti fondano giorni commemorativi. Durante la sua giovinezza ce ne sono ancora pochi; l'anno resta quasi bianco, la maggior parte dei giorni sono ancora liberi e inutilizzati per il futuro. Ma gradualmente gli anni si riempiono, sempre di più ritorna ciò che era determinante, e alla fine nel suo calendario non c'è quasi più un solo giorno inutilizzato: egli ha una sua storia. Conosco persone che si beffano dei calendari degli altri « poiché in essi c'è così poco ». Ma solo 62

chi si è fatto il suo proprio calendario può davvero sapere che cosa c'è dentro. La scarsità dei segni ne crea il valore. Esistono grazie alla loro concentrazione; il vissuto che è contenuto in essi è quasi occultato da un incantesimo, non si logora e può d'improvviso, in un anno diverso e per influsso di eventi affini, sbocciare in qualcosa di straordinario. Non vi è nessuno che non abbia diritto a una simile agenda. Ognuno, ma proprio ognuno, è il centro del mondo, e il mondo è prezioso poiché è pieno di tali centri. Questo è il senso della parola uomo: ognuno un centro a fianco di innumerevoli altri, i quali lo sono quanto lui. Le agende furono e sono in nuce dei veri e propri diari. Molti scrittori che non si fidano dei diari, poiché in essi potrebbe andare sprecata troppa della loro sostanza, tengono però delle agende. Comunemente, agende e diari vengono confusi tra loro. Io li tengo nettamente separati. Nelle agende, che sono quasi sempre piccoli calendari, segno molto brevemente ciò che in particolare mi colpisce o mi soddisfa. Là si trovano i nomi delle pochissime persone grazie alle quali si è respirato e senza le quali non si sarebbero sopportati tutti gli altri giorni. L'incontro con esse, la prima vicinanza, la loro partenza, il ritorno, le loro malattie gravi, la loro guarigione, e la cosa più orribile, la loro morte. Ci sono poi i giorni delle idee balenate d'improvviso, che dapprima piombano addosso come spade, vanno a fondo, riemergono e infine, trasformate, resistono per buona parte della vita; talvolta si segnano i giorni in cui qualcosa di queste idee ha preso forma e ha soddisfatto. A questi giorni di supe63

ramento espansivo e vittorioso si contrappongono gli altri, quelli nei quali noi stessi siamo stati sopraffatti: i giorni in cui abbiamo letto qualcosa che, lo sentiamo subito, non ci abbandonerà mai più; Woyzeck, I demoni, VAiace di Sofocle. Poi gli istanti in cui siamo venuti a conoscenza di costumi inauditi, di una religione ignota, di una nuova scienza, di un ampliamento del mondo, di una nuova minaccia o, molto di rado, di una nuova speranza per l'umanità. E inoltre i luoghi che finalmente si raggiungono, dopo aver a lungo desiderato di visitarli. Tutto è menzionato soltanto in tre o quattro parole; i nomi sono la cosa principale; si tratta del giorno in cui nuove cose, nuove persone sono apparse nella nostra vita, o vi si è ripresentato come se fosse nuovo ciò che era scomparso. Di queste agende si può dire con sicurezza una sola cosa: che non interessano a nessuno. Per l'estraneo sono incomprensibili; e, se non lo sono, la monotonia della loro fissazione linguistica fa si che esse siano la noia stessa. Non appena in esse c'è qualcosa di più, non appena ha inizio la riflessione sulle cose, le agende escono dall'àmbito dei calendari per annotazioni e cadono in quello dei diari. DIARI

Nel diario si parla con se stessi. Chi non riesce a farlo, chi vede dinanzi a sé un pubblico, sia pure un pubblico che verrà in futuro, dopo la sua morte - quegli falsifica. Non è qui il caso di parlare di tali diari falsificati. Anch'essi possono ave64

re un loro valore. Ce ne sono alcuni straordinariamente avvincenti; ciò che in essi interessa è la misura della falsificazione: la loro attrattiva dipende dalle capacità del falsario. Ciò che però vorrei ora prendere in considerazione è il diario genuino, molto più raro e importante. Che significato ha per chi lo scrive, e in particolare per una persona che, anche prescindendo dal diario, scrive moltissimo poiché scrivere è la sua professione? Spicca innanzitutto il fatto che un diario non si può tenere sempre: ci sono lunghi periodi durante i quali lo si schiva come qualcosa di pericoloso, quasi un vizio. Non si è sèmpre malcontenti di sé e degli altri. Ci sono momenti di indubbia felicità personale. Nella vita di un uomo per il quale la propensione alla conoscenza è divenuta una seconda natura, questi momenti non possono essere molto frequenti. Gli appariranno, dunque, estremamente preziosi. Avrà paura di sciuparli. Poiché lo sorreggono, lui come ogni altro, durante il resto dell'esistenza che è molto più lungo, egli ne ha bisogno e perciò non li tocca: lascia loro l'alone dei miracoli incomprensibili. Solo il loro crollo lo indurrà a riflettere. Come ha fatto a perderli? Che cosa glieli ha distrutti? In questo istante riprende il dialogo con se stesso. Può accadere, in altri momenti, che il giorno intero vada consumato nel lavoro vero e proprio. Il lavoro procede bene, con sicurezza; ha raggiunto uno stadio che supera le aspettative ed è esente da dubbi, coincide tanto esattamente con ciò che si è che al di fuori di esso non c'è nulla, non resta nulla. Vi sono buoni e importanti scrit65

tori che in questo modo riescono a scrivere un libro dopo l'altro. A sé non hanno nulla da dire, il loro libro già dice tutto. Riescono a distribuirsi completamente nei loro personaggi. Ciò che essi hanno elaborato costituisce una superficie, una tessitura così ricca e peculiare che impegna di continuo la loro attenzione e la loro memoria sensibile. Essi sono i veri e propri capiofficina della letteratura, i più fortunati tra gli scrittori. Per loro è naturale ridurre al minimo l'intervallo tra un'opera e l'altra. La peculiarità della loro superficie li alletta nuovamente al lavoro. In questa superficie hanno colto ciò che si trasforma ed è cangiante nel mondo, il movimento che è proprio della vita esteriore, e in essa s'aggirano come gli altri nel mondo. Io sono l'ultimo a cui potrebbe venire in mente di prendere in giro o addirittura di schernire questo genere di scrittori. Devono essere valutati in base alla necessità della loro particolare indole: buona parte di quanto vi è di meglio nella letteratura mondiale appartiene a loro. In certi momenti ci si augura un mondo in cui non sia possibile altra forma di arte letteraria. Certo, però, non ci si deve aspettare dei diari genuini da questi scrittori. Essi anzi dubiteranno che tali diari possano essere scritti. La loro sicurezza e la loro riuscita li colmano certo di disprezzo per altre indoli meno regolari e uniformi. Basta però menzionare il nome di Kafka, con la sostanza e la natura del quale nessuno, neppure il migliore fra gli scrittori che oggi si sentono così sicuri, potrebbe osare misurarsi, per convincerli dell'inammissibilità della loro intolleranza. E forse dovrebbe anche dar loro da pensare il fatto che i 66

diari siano l'esito più importante di un uomo come Pavese: ciò che di lui resterà si trova nei diari e non nelle sue opere. Nel diario, dunque, si parla con se stessi. Ma che cosa significa? Ci si trasforma davvero in due persone che intrecciano fra loro un dialogo in piena regola? E chi sono questi due? E perché son solo due? Non potrebbero, non dovrebbero, essere molti? Perché dovrebbe essere senza valore un diario in cui lo scrivente parlasse sempre a molti anziché a sé solo? Il primo vantaggio che presenta l'io fittizio al quale ci si volge sta nel fatto che egli ascolta realmente. È sempre lì, non si allontana. Non simula interesse, non lo fa per cortesia. Non interrompe, lascia parlare. Non solo è curioso, è anche paziente. Posso parlare soltanto in base alla mia esperienza: ma torno sempre a stupirmi che ci sia qualcuno disposto ad ascoltarmi con la stessa pazienza che uso io con gli altri. Tuttavia non ci s'immagini che questo ascoltatore ci faciliti il compito. Poiché ha il pregio di capirci, con lui dobbiamo essere sinceri. Non solo è paziente, è anche maligno. Non lascia passare nulla, indovina tutto. Si ricorda di ogni minimo dettaglio, e non appena ci accingiamo a falsarlo vi torna su con veemenza. Nei miei sessantasette anni di vita non ho mai incontrato un interlocutore altrettanto pericoloso, eppure ne ho conosciuti alcuni che chiunque potrebbe esibire senza vergognarsene. Forse il suo vantaggio maggiore è che non rappresenta alcun interesse personale. Ha tutte le reazioni di una persona autonoma, senza le sue motivazioni. Non difende alcuna teoria, non mena vanto di alcuna scoperta. Ha un istinto pau67

roso per i moti del potere o della vanità. Naturalmente è avvantaggiato dal fatto di conoscerci in tutte le fibre. Quando mi coglie in un'inesattezza, in un difetto di conoscenza, in una debolezza, in una pigrizia, mi piomba addosso come un fulmine. Quando dico: « Comunque non è grave, non è tanto di me che mi importa, quanto della situazione del mondo, io sento il dovere di nietterlo in guardia e questo è tutto », lui mi ride in faccia. « Nondimeno, nondimeno, » dice poi, e mi permetto qui di citarlo testualmente « l'errore di quelli che fanno i Buoni » - e già quanto mi punge questa perfida espressione! - « sta nel fatto che, di là dalla responsabilità che sentono e dal bene che forse davvero vogliono, dimenticano di perfezionare lo strumento che permetta loro di far la conoscenza degli uomini e di coglierli in mille particolarità rozze o sottili. Poiché proprio da questi uomini scaturisce ciò che accade di più terribile e di più pericoloso per tutti. Per la sopravvivenza dell'umanità si può solo sperare di riuscire a capire a sufficienza come sono fatti gli uomini. Come osi dunque esibire sul tuo conto simili falsità, solo perché ti fa comodo? ». È accaduto che io prevedessi qualcosa di terribile - nel mondo, voglio dire - che poi si è puntualmente verificato. Non avevo nulla di meglio da fare che prenderne nota. Potevo dimostrarlo a me stesso, era già dinanzi a me gran tempo prima che accadesse. Probabilmente volevo procurarmi così un diritto per ulteriori predizioni. Cito qui la risposta annientante del mio interlocutore; è più importante della pietosa vanagloria di una profezia che si è avverata: 68

« L'ammonitore, il profeta, la cui predizione si avvera, è una figura stimata a torto. Egli ha agito troppo alla leggera, e si è lasciato sopraffare dagli orrori che paventava ancor prima che si verificassero. Crede di ammonire, ma il suo ammonimento, paragonato alla sua passione di preveggenza, è privo di ogni valore. Egli è ammirato della propria prevèggenza; ma non c'è niente di più facile. Quanto più la previsione è terribile, tanto più è probabile che si avveri. Da ammirare sarebbe piuttosto un profeta che avesse predetto qualcosa di buono. Poiché questo e solo questo è inverosimile ». La coscienza, la cara vecchia coscienza - sento già dichiarare da un lettore trionfante -, costui parla con la sua coscienza! Si dà delle arie perché tiene un diario per parlare con la sua coscienza! Ma non è affatto così. L'altro con cui parliamo nel diario muta le sue parti. Può presentarsi, è vero, come coscienza, e per questo gli sono molto obbligato, dato che gli altri ci rendono tutto troppo facile: sembra che gli uomini trovino una speciale voluttà nel lasciarsi abbindolare. Ma non è sempre una coscienza. Talvolta sono io il mio partner, e gli parlo autoaccusandomi disperata mente, con una violenza che non auguro a nes suno. Lui, allora, diventa tutt'a un tratto il con sciatore dallo sguardo acuto, che sa bene quan do mi spingo troppo oltre. Egli vede che io come scrittore mi procuro spesso malvagità e cattivi sentimenti che non sono affatto miei propri. Mi ricorda allora che in ultima analisi ciò che dav vero conta è quello che uno fa, poiché, quanto al pensare, tutti possono pensare tutto. Con ironica gaiezza fa cadere le maschere del cattivo con 69

cui ci pavoneggiamo e ci dimostra che non siamo affatto così « interessanti ». Per questa sua parte gli sono ancora più grato. Egli ha ancora molte altre parti, e sarebbe alla fine noioso illustrarle tutte. Una cosa però dev'essere posta in luce: un diario che non possegga questo carattere prettamente dialogico mi sembra privo di valore; non potrei tenere il mio diario se non nella forma di tale colloquio con me stesso. Non posso credere che la vivacità di queste due figure che si danno la caccia a vicenda sia un futile gioco. Si tenga conto che se un uomo non riconosce le estreme istanze della fede, deve creare in sé qualche cosa di analogo per non ridursi al caos e alla totale impotenza. Il fatto che egli consenta a queste figure di mutare ruolo e di agire in base ad esso liberamente, non significa che egli non le prenda sul serio. In questo gioco egli potrebbe, ammesso che ci riesca, acquistare finalmente una sensibilità morale più sottile di quella che gli viene prescritta dalle norme consuete del mondo. Queste ultime, infatti, sono morte per i più proprio perché non hanno alcuna possibilità di manovra: la rigidità toglie loro la vita. È questa forse la funzione più importante di un diario. Sarebbe sviante definirla l'unica. Poiché nel diario non si parla soltanto con se stessi: si parla anche con gli altri. Tutti i colloqui che nella realtà non si possono portare fino in fondo poiché finirebbero in atti di brutalità, tutte le parole assolute, irriguardose, spietate, che spesso sentiamo di dover dire agli altri, tutto questo si deposita nel diario. In esso restano segrete, giacché un diario che non sia segreto non è un dia70

rio; e le persone che hanno l'abitudine di leggere agli altri pagine e pagine dei loro diari farebbero meglio a scrivere delle lettere, o meglio ancora a organizzare delle serate di recitazione sulla propria persona. Durante i primi tempi a Berlino conobbi un tipo che non scriveva due righe sul suo diario senza leggermele la sera stessa. Mi riuscì poi, invitando per. lui un numero sufficiente di ospiti, di ridurre le sue letture a una serata settimanale; ed egli ne fu molto soddisfatto: non solo la lettura durava più a lungo, ma gli risultava anche più piacevole fare la ruota dinanzi a più di due occhi. Le astuzie e le misure precauzionali per tenere segreto un diario non saranno mai troppe. Delle serrature non c'è da fidarsi. Molto meglio le scritture cifrate, lo uso una stenografia modificata che nessuno sarebbe in grado di decifrare senza un lavoro di settimane. Così posso scrivere tutto quello che voglio, senza danneggiare o addolorare nessuno; e così, quando sarò finalmente divenuto vecchio e saggio, potrò decidere se far scomparire tutte quelle pagine, o se affidarle a un luogo segreto ove solo per caso possano essere ritrovate in un innocuo futuro. Non sono ancora mai riuscito a tenere un diario durante un viaggio in un paese nuovo. Il numero di persone sconosciute con cui si parla senza capirsi, vuoi a segni, vuoi a presunte parole, è talmente grande e mi riempie a tal segno che non riuscirei neppure a prendere la matita in mano. La lingua, uno strumento che altrimenti crediamo di saper maneggiare, ridiventa all'improvviso selvaggia e pericolosa. Ci si abbandona alla sua seduzione e si finisce per essere maneggiati da lei. 71

Incredulità, fiducia, ambiguità, vanteria, forza, minaccia, rifiuto, dispetto, inganno, tenerezza, ospitalità, meraviglia, c'è tutto, e in modo cosi immediato che sembra di non averlo mai notato prima. Dinanzi a ciò, una parola scritta giace sulla carta come il cadavere di se stessa. Mi guardo bene, in mezzo a simili magnificenze, dal diventare un assassino. Ma non appena torno a casa, mi affretto a recuperare quei giorni. Scavando nella memoria, a volte con fatica, concedo ad ognuno di essi quel che gli spetta. Ci sono stati dei viaggi il cui diario a posteriori ha richiesto un tempo triplo di quel che sono durati. Credo che, scrivendo tali ricordi di viaggio, si pensi soprattutto ai lettori. Sentiamo di poter comunicare agli altri questi ricordi senza che nulla risulti falsato. Tornano in mente i resoconti di altri, che furono di allettamento al nostro viaggio. È piacevole ora dimostrare a loro la nostra riconoscenza attingendo a ciò che abbiamo vissuto. I diari altrui hanno generalmente significato molto per colui che li ha letti. Quale scrittore non ha letto diari che poi non l'hanno più abbandonato? Forse è questo il momento di dire qualcosa al riguardo. Si può cominciare con i diari che abbiamo letto da bambini: i diari dei grandi viaggiatori e scopritori. Dapprima l'avventura affascina in quanto tale, indipendentemente da costumi e civiltà legati a popolazioni strane. Per un bambino la cosa più inquietante è il vuoto, che egli non conosce poiché non viene mai lasciato del tutto solo ed è sempre circondato da altre persone. Così egli si getta in spedizioni al Polo Nord o al Polo Sud 72

o in lunghi viaggi per mare su piccoli scafi. È emozionante il vuoto tutt'intomo, specialmente pericoloso durante la notte di cui il bambino stesso ha paura. Là, nella lontananza e nel vuoto, si imprime in lui indelebilmente il succedersi del giorno e della notte, poiché il viaggio che continua in vista di una meta, non si conclude mai prima che essa sia raggiunta o prima della catastrofe; io credo che in questo modo il bambino sperimenti con terrore il calendario. Vengono poi i viaggi nelle regioni dai misteriosi abitanti: l'Africa e la foresta vergine, e i primi costumi strani che gli si incidono nella carne sono quelli dei cannibali. La sua curiosità viene spronata da tali orrori: ora vuole sapere qualcosa anche di altri popoli stranieri. Ci si apre la strada passo passo attraverso la foresta vergine, si registra con precisione il numero di miglia percorse ogni giorno. Qui sono già prefigurate tutte le forme che in seguito assumerà la scoperta del nuovo. Avventura dopo avventura, ma giorno per giorno; e inoltre la terribile attesa dei dispersi, i tentativi di salvarli, oppure la loro fine straziante. Non credo che più tardi, per l'adulto, potranno esserci diari altrettanto importanti. Resta però il gusto di ciò che è remoto, un interesse che non si placa mai. Così, si percorrono insaziabilmente epoche trascorse e civiltà straniere. Mentre cresce la rigidità della nostra esistenza, esse rappresentano il mezzo più inesauribile di metamorfosi. Esperienze che bramiamo e che in patria sono proibite diventano ad un tratto costumi consueti nei luoghi in cui ci caliamo grazie alla lettura. A casa, la situazione nella quale ci troviamo è predeterminata: ciò che facciamo 73

è basato su orari fìssi, che si ripetono ogni giorno; le persone che conosciamo si conoscono fra loro; parlano di noi e ci sorvegliano; anche i muri hanno occhi e orecchie. Poiché tutto è legato e lo diventa sempre di più, si forma un'enorme riserva di inappagata voglia di metamorfosi, e solo le notizie di un paese veramente straniero possono darle sfogo. È una gran fortuna, che in verità viene sfruttata troppo poco, che esistano diari di viaggio attraverso civiltà straniere scritti non da Europei ma da uomini appartenenti a quelle civiltà. Ne ricorderò solo due fra i più estesi, che non mi stanco mai di rileggere: il libro del pellegrino cinese Hsùan Tsang che visitò l'India nel VII secolo e quello dell'arabo Ibn Battuta, di Tangeri, che per venticinque anni percorse tutto il mondo islamico del XIV secolo, l'India e, probabilmente, anche la Cina. Ma la fortuna di disporre di diari esotici non si esaurisce qui. Dal Giappone provengono diari letterari che per sottigliezza e precisione possono gareggiiare con Proust; il Libro del guanciale della dama di corte Sei Shònagon, l'esempio più perfetto di « quaderno di appunti » che io conosca, e il diario dell'autrice della Storia di Genji, Murasaki Shikibu, le quali vissero ambedue alla medesima corte intorno all'anno 1000 e si conobbero ma non simpatizzarono. L'esatto contrapposto di questi resoconti della lontananza è offerto dai diari della vicinanza. Si tratta in tal caso di persone che sono nostri parenti prossimi, nelle quali riconosciamo noi stessi. Nella letteratura tedesca, l'esempio più bello di questo genere è rappresentato dai diari di 74

Hebbel. Sono diari che amiamo poiché in essi non c'è pagina o quasi nella quale non scopriamo qualcosa che ci riguarda personalmente. Si può avere l'impressione d'aver già scritto noi stessi da qualche parte questo o quello. Forse lo si è perfino fatto davvero. Comunque si sarebbe potuto farlo. Il processo di questo incontro intimo è già stimolante perché a fianco di ciò che sentiamo come ' nostro ' scopriamo dell'altro, che non potremmo mai aver pensato o scritto cosi. È lo spettacolo di due spiriti che si compenetrano: su certi punti si toccano, su altri esistono fra loro spazi vuoti che non si potrebbero colmare in alcun modo. L'identico e il diverso si trovano riuniti insieme cosi dappresso che già questo costringe a pensare; nulla è più fecondo di simili diari della vicinanza - come, appunto, potremmo chiamarli. Devono però essere 'completi', cioè ricchissimi di contenuto, e non essere stati scritti sotto il controllo di uno scopo preciso da raggiungere. I diari religiosi che descrivono la lotta per una fede esulano da questo quadro; essi infondono energia solo in coloro che siano impegnati in un'analoga lotta. Per lo spirito veramente libero che prende così sul serio la propria libertà da non potersi mai essere dedicato a una simile impresa, essi, piuttosto, risulteranno deprimenti. Le tracce di libertà che ancora vi si possono trovare, la resistenza residua che passa per debolezza, commuoveranno questo lettore più di ciò che l'autore considerava la propria forza: il graduale abbandonarsi alla fede. Escludo da questa limitazione gli esempi più prodigiosi, quelli che fanno esplodere la forma del diario: Pascal e Kierke75

gaard; essi sono più grandi dei loro propositi, e dunque contengono tutto. Si sente dire spesso che i diari degli altri incoraggiano a essere veritieri nel proprio. Le confessioni di uomini importanti, una volta poste sulla carta, hanno un effetto durevole sugli altri. « Un uomo simile dice d'aver fatto questo e quello. Non c'è bisogno dunque che io mi scoraggi se ho fatto altrettanto ». Il valore del modello si amplia così in modo notevole. I suoi difetti ci incoraggiano a combattere i difetti che sono nostri. È certo che, senza grandi modelli, nulla può nascere. Ma le opere di quei modelli hanno anche qualcosa di paralizzante: quanto più a fondo si capiscono, quanto più - dunque - si è dotati, tanto più ci si persuade che esse non sono eguagliabili. L'esperienza tuttavia dimostra il contrario. La letteratura moderna è sorta nonostante i modelli schiaccianti del mondo antico. Cervantes, dopo aver scritto il Don Chisciotte, dunque dopo aver superato tutti i precedenti che l'antichità forniva nell'àmbito del romanzo, sarebbe stato orgoglioso di eguagliare Eliodoro. La maniera precisa in cui funzionano i modelli non è ancora stata studiata a fondo, e non è questo il luogo per affrontare seriamente un tema cosi enorme. È tuttavia divertente, per esempio, considerare quale parte abbia svolto Walter Scott, uno degli scrittori più indigeribili di tutti i tempi, nei confronti di Balzac, con il quale pure non aveva nulla in comune. La ricerca dell'originalità, caratteristica dell'arte moderna, si palesa nella ricerca di modelli che sono tali solo in apparenza, e che i moderni vogliono distruggere per porsi vistosa76

mente contro di essi; in tal modo si nascondono ancora mèglio i veri modelli, quelli dai quali veramente si dipende. Questo processo può essere inconsapevole; spesso è consapevole e viene negato. Ma per coloro che non devono ottenere con la frode o con la forza la loro originalità, per quelli che non hanno esaurito in sé l'impeto dei grandi spiriti che li hanno per cosi dire scagliati nel mondo, e che senza venir meno a se stessi a quelli possono sempre fare ritorno - per costoro è una fortuna inestimabile ritrovare i diari dei loro predecessori, che rivelano le debolezze da cui essi stessi sono travagliati. Il lavoro compiuto presenta una superiorità schiacciante. Chi è ancora profondamente calato nel proprio, non sa dove mai andrà a finire, non sa se riuscirà a concluderlo, può scoraggiarsi mille volte. Gli darà forza constatare i dubbi di quelli che sono riusciti nel loro intento. A questo valore pratico, ai fini del proprio lavoro, dei diari altrui, si aggiunge anche un effetto di natura più generale: quello della ostinatezza che essi manifestano. In ogni diario degno di questo nome ritornano più e più volte le stesse ossessioni, gli stessi tormenti, gli stessi problemi privati. Durano per una vita intera e creano la sua peculiarità. Chi se ne è liberato, sembra che sia spento. La lotta con essi è necessaria quanto la loro pervicacia. Non è affatto detto che siano sempre di per sé interessanti, e tuttavia costituiscono quanto vi è di più saldo nell'uomo che li reca in sé: non può fame a meno, cosi come non può liberarsi delle sue ossa. È estremamente importante scoprire negli altri questi tormenti af77

fatto inguaribili, per riuscire a considerare più serenamente ciò che in noi vi corrisponde senza perderci d'animo. I personaggi di un'opera letteraria possono non avere un simile effetto, essi esistono infatti grazie alla meravigliosa distanza che il creatore ha posto fra sé e loro separandoli il più possibile dai suoi processi interiori. A me sembra che in una vita esistano determinati contenuti che meglio che in qualsiasi altra forma possono essere colti in quella del diario. Non so se per tutti debba essere così. Ci si potrebbe immaginare che un uomo lento, per il quale tutto si dispiega solo molto gradualmente, debba acquisire la capacità opposta. La fulmineità dei quaderni d'appunti è forse per lui l'esercizio migliore: una volta tanto potrebbe imparare a correre e ad afferrare quegli aspetti del mondo che appartengono al moto accelerato; integrerebbe in tal modo la sua disposizione naturale per il lento dispiegarsi delle cose. Agli uomini veloci che si gettano come animali da preda su ogni situazione e ogni persona, afferrandole al cuore con tale violenza da distruggere la forma esterna del loro corpo, bisognerebbe prescrivere il contrario: un lento diario, in cui l'argomento trattato acquisti di giorno in giorno un nuovo aspetto. Grazie a questa penosa costrizione che impedirebbe loro di giungere troppo presto alla meta, potrebbero accedere a una dimensione che altrimenti resta loro preclusa. Stendhal appartiene ai veloci. Si muove, si, in un mondo straordinariamente ricco e resta aperto a esso. Ma i temi dei suoi diari sono pochi e soggetti a continue rielaborazioni. È come se di 78

quando in quando egli avesse scritto nuovi diari sui vecchi. Poiché non può essere veramente lento, ritorna sempre sugli stessi argomenti. Questo processo ha condotto infine ai suoi grandi romanzi. Perfino i due suoi romanzi che sono compiuti, e di cui non riusciamo a prevedere che l'effetto sugli uomini possa mai aver fine, perfino quelli non sono per lui propriamente finiti. Egli è il perfetto opposto di quelli che con sicurezza staccano da sé un'opera dopo l'altra e possono accingersi a una nuova opera solo quando la vecchia appare loro estranea. Lo scrittore che ha dato espressione più pura al nostro secolo e che perciò io considero la sua manifestazione più essenziale, Kafka, in questo può essere benissimo paragonato a Stendhal. Non giunge mai alla fine con nulla, ciò che lo inquieta è sempre la stessa cosa, dal principio alla fine. Torna sempre a rovesciarla, la riscrive, la ripercorre con passi diversi. Non è mai esaurita, né sarebbe stata esauribile se la sua vita fosse durata il doppio. Kafka tuttavia appartiene ai lenti, mentre Stendhal ai veloci. Sono i veloci che inclinano a sentire felice la propria vita. Così, l'opera di Stendhal è intinta nel colore della felicità; quella di Kafka nel colore dell'impotenza. Ma l'opera di entrambi scaturisce da un diario tenuto per tutta la vita, diario che prosegue mettendosi continuamente in questione. Può sembrare presuntuoso parlare ancora di sé dopo due figure simili che hanno resistito intatte alla prova del tempo. Ma ciascuno può dare solo quello che ha. Per essere completo, voglio dunque menzionare ancora i temi che sono le ossessioni dei miei diari e che in essi occupano lo spa79

zio maggiore. A fianco di molti altri argomenti che restano effimeri e dispersi, essi sono ciò che nei miei diari toma sèmpre a ricorrere in forme mutevoli, fino all'esaurimento. Sono il progresso, il regresso, il dubbio, l'apprensione e l'ebbrezza per un'opera che si trascinò per il maggior tempo della mia vita e della quale riuscii infine a pubblicare, essendone convinto, la parte determinante. È inoltre l'enigma della metamorfosi e della sua più concentrata espressione nella letteratura: il dramma; il dramma non mi ha più abbandonato da quando, a dieci anni, lessi per la prima volta Shakespeare e, a diciassette, incontrai Aristofane e i tragici greci; registro dunque tutto ciò che mi giunge di drammatico, tutti i drammi e i miti, là dove sono veramente tali, ma anche ciò che oggi viene chiamato con questo nome: i miseri pseudomiti. E sono gli incontri con persone di paesi che non conosco affatto, oppure che conosco particolarmente bene. Sono le vicende e i destini di amici che da lungo tempo ho perso di vista e ritrovo. È la lotta per la vita delle persone che mi sono più vicine, una lotta contro malattie, operazioni, pericoli che si trascinarono per decenni, contro l'estinguersi della loro volontà di vivere. Sono tutti i tratti di avarizia e di invidia che mi irritano: li detesto fin dall'infanzia; ma anche i tratti di generosità, di bontà e di orgoglio, che idolatro. È la gelosia, la mia forma privata di manovrare il potere, un tema che Proust ha certo esaurito, ma che ciò nonostante dobbiamo riaffrontare con le nostre forze. È ancor sempre ogni sorta di delirio: sebbene io mi sia provato molto presto a rappresentarlo, per me la sua fascinazio80

ne non è mai venuta meno. È il problema della fede, della fede in generale e di tutte le sue manifestazioni, verso la quale inclino per la mia origine, e alla quale tuttavia non potrò mai votarmi finché non mi sarà riuscito di sciogliere l'enigma della sua natura. Infine, il tema che più di tutti mi ossessiona è la morte, che io non posso ammettere pur non facendo mai astrazione da essa: la morte, che devo andare a scovare fin nei suoi ultimi nascondigli per distruggere la sua attrazione e il suo falso splendore. È parecchio, come ben si vede, sebbene io mi sia limitato a citare ciò che è più pressante; e non so come potrei vivere senza tornare continuamente a darmene il resoconto. Ciò che consideriamo valido e in effetti abbiamo dinanzi in opere che non vogliono essere troppo indegne degli uomini che le leggeranno è solo una minima parte di quello che ci succede quotidianamente. E poiché questo è un processo che continua giorno dopo giorno e che non cesserà, io non sarò mai tra quelli che si vergognano dell'insufficienza di un diario.

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HITLER SECONDO SPEER GRANDEZZA E DURATA

I progetti edilizi di Hitler costituiscono forse la parte più sorprendente del libro di Speer che li riporta.' Riprodotti nelle illustrazioni, appaiono in flagrante contrasto con tutto ciò che ha a che fare con l'architettura moderna, e perciò hanno provocato tanta sensazione. Restano indimenticabili per chiunque vi abbia gettato anche solo uno sguardo fuggevole. Non possiamo però accontentarci di queste facili constatazioni. Non c'è da fidarsi dell'unicità di simili fenomeni. È necessario prenderli bene in considerazione e stabilire quale sia il loro fondamento, che cosa precisamente li abbia prodotti. In primo luogo è evidente - Speer stesso lo sottolinea - il parallelismo fra costruzione e distruzione. I progetti per la nuova Berlino hanno origine in tempo di pace. Il loro compimento è previsto per il 1950. Perfino Speer, il facitore di miracoli, che ottenne la fiducia di Hitler grazie alla rapidità delle sue realizzazioni, si sarebbe trovato in difficoltà a completare il programma entro quel termine. La passione con cui Hitler sollecitò quei progetti non lascia dubbi circa la loro serietà. Nello stesso tempo, tuttavia, si stava sviluppando il progetto per la conquista del mondo. Passo passo, un successo dopo l'altro, divenivano 1. A. Speer, Erinnerungen, Berlin, 1969 (trad. it. Memorie del Terzo Reich, Mondadori, Milano, 1971) [AT.d.T.].

palesi l'ampiezza e la serietà anche di quell'intenzione. Era impensabile che la si potesse realizzare senza guerra, dunque fin da principio la guerra fu prevista. Per quanto forte potesse essere la posizione raggiungibile senza guerra, alla fine si sarebbe dovuti arrivare al conflitto. Il Reich, che con la preminenza assoluta dei Tedeschi e forse anche di tutti i ' Germani ' avrebbe condotto all'asservimento del resto della terra, poteva agire solo con il terrore, molto sangue doveva essere versato. Hitler fu dunque coerente nel lasciarsi sedurre dalla guerra. La contemporaneità di questa seduzione e dei termini fìssati per la realizzazione dei progetti edilizi fa sorgere il sospetto che egli con quei progetti intendesse mascherare le sue intenzioni belliche. È una possibilità che anche Speer considera, pur senza potersi risolvere ad accettarla. Si deve concordare con lui là dove egli dichiara la presenza nella natura di Hitler di due aspetti, non subordinati l'uno all'altro. Ambedue, il piacere di costruire e la distruzione, sono in Hitler altrettanto acuti ed efficienti. Ciò determina anche la forte impressione che i progetti edilizi suscitano nell'osservatore di oggi. Mentre esaminiamo quei piani siamo consapevoli delle spaventose distruzioni subite dalle città tedesche. Conosciamo la fine, e ora ci giunge dinanzi all'improvviso l'inizio in tutta la sua ampiezza. Questo parallelismo è ciò che rende davvero impressionante il confronto. Sembra enigmatico e inesplicabile. Ma di fatto è l'espressione concentrata di qualcosa che, di là da Hitler, ci turba. È in fondo l'unico risultato incontestabi84

le, sempre ricorrente, di tutta la ' storia ' fino ora. Questo ci costringe a indagare in ogni possibile modo quell'improvviso inasprirsi della storia che fu la comparsa di Hitler. È impossibile distogliersene con orrore e nausea, come a qualcuno può sembrare naturale. E non basta neppure accontentarsi dei mezzi consueti della ricerca storica. Che non siano sufficienti è evidente. Dov'è lo storico che sarebbe riuscito a tracciare la prognosi del caso Hitler? Anche se oggi una storia particolarmente scrupolosa fosse capace di eliminare una volta per tutte dal proprio sangue l'ammirazione per il potere che le è intrinseca, nel migliore dei casi essa sarebbe in grado di mettere in guardia da un nuovo Hitler. Ma poiché costui comparirebbe altrove, si presenterebbe in maniera diversa e l'avvertimento sarebbe vano. Per una vera comprensione di questo fenomeno sono indispensabili nuovi strumenti. Bisogna scorgerli, andarli a prendere e adoperarli ovunque si offrano. Il metodo per una simile ricerca non può ancora esistere. Qui il rigore delle discipline specialistiche si rivela superstizione. Ciò che ad esse sfugge è proprio ciò che importa. Una visione non frammentata del fenomeno è il presupposto capitale. Ogni arroganza concettuale, per quante buone prove possa aver dato in altre occasioni, è qui nociva. Gli edifici di Hitler sono destinati ad attrarre e a contenere le più grandi masse possibili. Mediante la creazione di tali masse egli è riuscito a ottenere il potere, ma sa con quanta facilità le grandi masse tendano a dissolversi. Prescindendo dalla guerra, ci sono solo due mezzi per contrap85 a

porsi alla dissoluzione della massa. Uno è la sua crescita, l'altro è la sua regolare ripetizione. Da empirico della massa, Hitler ne conosce le forme e i mezzi. In enormi piazze, tanto grandi che difficilmente si possono riempire, si dà alla massa la possibilità di crescere: la massa resta aperta. L'entusiasmo della massa, questo a Hitler importa soprattutto, aumenta con la sua crescita. Tutto ciò che altrimenti serve alla formazione di tali masse: bandiere, musica, unità in marcia che fungono da cristalli di massa,^ ma in particolare la lunga attesa dell'apparizione del personaggio principale - tutto ciò è ben noto a lui e ai suoi aiutanti. Non è necessario darne qui una descrizione dettagliata. Riguardo al tipo dei progetti edilizi e all'intenzione di formare una massa aperta, è importante sottolineare che tale massa ha la possibilità di crescere. Edifici di tipo cultuale servono alla ripetizione regolare. Le cattedrali ne sono il modello. Il « Kuppelberg»^ progettato per Berlino avrà un'ampiezza diciassette volte superiore a quella di San Pietro. Alla fine, edifici del genere servono 1. Al concetto di « cristalli di massa » Canetti ha dedicato un paragrafo di Massa e potere, cit., pp. 88-90

[N.d.T.].

2. « Kuppelberg »: letteralmente «montagna a cupola»; era la denominaizione del progettato edifìcio delle adunate, che avrebbe dovuto contenere 180.000 persone. Internamente sarebbe dovuto essere un immenso locale circolare con, al centro, un'arena circondata da tribune concentriche; sul lato di contro all'ingresso: una nicchia alta 50 metri, a mosaico d'oro, ove avrebbe preso posto Hitler [AT.d.r.].

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per masse chiuse. Per quanto grandi siano concepiti, non appena saranno pieni la massa non potrà più crescere, urterà contro un limite. Invece che di una crescita ulteriore, si tratterà allora di regolari occasioni di raduno. La massa che si scioglie abbandonando quei luoghi deve essere certa della prossima occasione in cui tornerà a formarsi. Nelle manifestazioni sportive la massa si trova chiusa in un cerchio (o in semicerchio); innumerevoli persone seggono dirimpetto le une alle altre: la massa vede se stessa mentre segue gli avvenimenti che si stanno svolgendo al suo centro. Non appena si formano due partiti, si crea un sistema a due masse, stimolato dalle lotte di cui sono spettatrici. I modelli di questa forma traggono origine dall'antichità romana. Un'altra forma di massa che ho definito lenta si crea in occasione di processioni, sfilate e parate. Non ripeterò qui ciò che ho scritto, a proposito di questa forma, in Massa e potere} Hitler era perfettamente consapevole della sua importanza. A essa, nei progetti hitleriani, è destinata una via monumentale, larga 120 metri e lunga 5 chilometri. Queste costruzioni e questi impianti che, a causa della loro grandezza, hanno già sulla carta qualcosa di freddo e di scostante, nella mente dell'edificatore sono pieni di masse che si differenziano a seconda del recipiente che le contiene, a seconda del tipo di delimitazione che subiscono. Per rappresentare con esattezza gli avvenimenti cui questi luoghi sarebbero destinati, bi1. Cfr. Afasia e potere, cit., pp. 47-50 [A'.d.r.].

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sognerebbe descrivere dal principio alla fine lo svolgersi di una riunione di massa in ciascuno dei singoli complessi edilizi. Ma non può essere qui il nostro compito. Dovremo perciò limitarci a porre in evidenza, in termini molto generali, il modo nel quale edifici e impianti avrebbero dovuto animarsi. È un'animazione che si prolunga oltre la morte del loro costruttore. « Suo marito » dice solennemente Hitler alla moglie di Speer la prima sera in cui la conosce « erigerà per me edifici come non ne sono più sorti da quattro millenni ». Così dicendo, pensa alle costruzioni egizie e in particolare alle piramidi: a causa della loro grandezza, ma anche perché durano da quattro millenni. Non potevano in alcun modo essere occultate e non sono state ricoperte da nulla: è come se avessero immagazzinato in sé, come durata, i millenni della loro esistenza. Il loro essere palesi e la loro durata hanno impressionato Hitler nel modo più tenace; forse non si rendeva ben conto che quei monumenti, date le modalità della loro costruzione, servivano anche quali simboli di massa, e tuttavia dovette sospettarlo grazie al suo istinto per tutto ciò che aveva a che fare con la massa. Quegli edifici, infatti, composti di blocchi che furono trascinati e commessi insieme dalle fatiche di innumerevoli uomini, sono il simbolo di una massa che non può più disgregarsi. Ma i suoi edifici non erano piramidi, e delle piramidi dovevano assumere soltanto la grandezza e la durata. Contenevano uno spazio interno che sarebbe stato di volta in volta riempito dalle masse vive di ciascuna generazione. Dovevano essere fabbricati con la pietra più resistente, per dura-

re nel tempo e inoltre per collegarsi alla tradizione degli edifici che erano sopravvissuti fino ai suoi giorni. Non è affatto difficile comprendere queste tendenze, se le consideriamo dal punto di vista del costruttore. Naturalmente il problema della durata è ovunque cosa precaria, e sulla sua natura e sul suo valore non si è ancora riflettuto a dovere. Ma posto che un uomo sia pervaso da questa brama di durata in modo non sospetto, tale cioè da vietare ogni ricognizione circa la sua sensatezza o la sua follia, è possibile che egli riveli se stesso in progetti del genere. Le masse, eccitando le quali Hitler ha raggiunto il potere, devono poter essere continuamente eccitate, anche quando egli stesso non ci sia più. Poiché i suoi successori non saranno in grado di farlo come lui, che è un uomo unico nel suo genere, egli lascia in eredità i mezzi migliori per conseguire quello scopo: ogni sorta di edifici e di impianti che servono a mantenere in vita la tradizione di tale eccitazione di massa. Il fatto che siano i suoi edifici conferisce ad essi la loro aura particolare: egli spera di vivere ancora abbastanza per inaugurarli' e anche per colmarli di sé durante alcuni anni. Il ricordo dei suoi schiavi, delle masse da lui personalmente eccitate, sarà d'aiuto in quei luoghi ai suoi più deboli successori, È possibile, è perfino probabile, che essi non meritino questa eredità; ma ciò nonostante, in questo modo, continuerà a esistere il potere che egli ha ottenuto con le sue masse. 1. Einweihen significa al tempo stesso « inaugurare » « consacrare » [iV.d.T.].

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Naturalmente, infatti, è di questo potere che alla fin fine si tratta. Ai « recipienti di masse » s'aggiunge ciò che potremmo definire la corte, la sede del potere: la sua Cancelleria del Reich - il suo palazzo - e non lontano le sedi dei ministeri che traggono da lui il loro potere. Come speciale capriccio, egli pensa inoltre di conservare il vecchio edificio del Reichstag. Potrà in tal modo rendere evidentissima la differenza di proporzioni. Come sembrerà piccolo il vecchio Reichstag di fianco ai nuovi colossi! Il suo disprezzo per il periodo di Weimar, che ebbe il solo merito di favorire la sua ascesa, si trasmetterà a tutti coloro che osserveranno il Reichstag nanerottolo all'ombra dei suoi giganteschi monumenti. Eravamo così piccoli e, grazie a lui, siamo divenuti così grandi. Nella sua decisione interviene però anche l'amoroso rispetto per la propria storia. In quel Reichstag si sono svolti molti eventi importanti per lui: verrà dunque inserito fra i luoghi del suo culto. Egli nutre una venerazione superstiziosa per la propria ascesa. Non gli basta che ogni sua fase sia ufficialmente elencata, come egli ritiene naturale attendersi da una storiografia servile; egli stesso ne parla nella cerchia della sua corte più ampia o più ristretta. Si diffonde a parlarne per ore e ore, e sempre vi ritorna. Le vicende delle sue avversità e le svolte della sua fortuna sono così ben note agli ascoltatori, che questi potrebbero continuare a narrare se egli ad un tratto ammutolisse. Talvolta ammutolisce davvero e si addormenta. Il suo affetto particolare va alla città della sua giovinezza, Linz. Non può dimenticare nulla, e 90

quindi ricorda anche con quale disprezzo Linz fu trattata dal governo di Vienna. Nei confronti di Vienna continua a sentire un rancore profondo: in quella città gli era andata molto male; neppure il suo ingresso trionfale nel marzo del 1938 lo ha riconciliato con Vienna: sia prima sia dopo, in quella città lo interessa solamente il Ring con i suoi edifici monumentali. Ritiene imperdonabile che il Danubio resti alla sinistra del complesso urbano di Vienna. All'opposto, Linz deve diventare una seconda Budapest, con grandiosi edifici su ambedue le sponde del Danubio. Sarà la residenza della sua vecchiaia e là vuole erigere il suo mausoleo. Linz diverrà infine più importante di Vienna, e le umiliazioni dei suoi primi anni saranno vendicate dai suoi imponenti edifìci. Idea prediletta di Hitler è che Linz superi Vienna. Poiché ora è caduta nel discorso questa parola, sembra giunto il momento di dire qualcosa circa la funzione che il ' superare ' ebbe per Hitler. Essa offre l'occasione forse migliore di avvicinarsi ai meccanismi della sua mente. Ciascuna delle sue imprese, ma anche i suoi desideri più profondi, sono dettati da una coazione a superare: ci si può spingere al punto di definire Hitler uno schiavo del superare. Ma in ciò non è affatto solo. Se avesse senso caratterizzare con un unico tratto l'essenza della nostra società, dovremmo necessariamente ricadere su questo: la coazione a superare. In Hitler questa coazione ha raggiunto una tale intensità che non si può far a meno di incontrarla in continuazione. Ci si potrebbe immaginare che questa coazione faccia qualche luce sul suo vuoto interiore, intorno al quale Speer 91

verso la fine del libro scrive parole degne di nota. Tutto si misura e si cimenta' nella lotta, e colui che supera è un perpetuo vincitore. L'idea dell'indispensabilità della lotta e della legittimazione recata dalla vittoria a ogni sorta di pretesa è così profondamente radicata in Hitler che egli, pur non mettendo mai in conto una propria sconfitta, trova giusto che essa, ammesso che possa accadere, implichi rovina e annientamento anche per il suo stesso partito. Il più forte è il migliore, il più forte merita di vincere. Finché è possibile, egli, raggirando l'avversario, ottiene vittorie incruente. Le considera rafforzamenti in vista della vittoria definitiva che dev'essere cruenta, una vittoria senza spargimento di sangue non è realmente valida. I trattati cosi presto infranti che Ribbentrop ha concluso e di cui è orgogliosissimo, lo fanno ridere fino alle lacrime. Non può prendere sul serio i trattati poiché non costano sangue, e gli uomini del campo avverso che costruiscono la loro politica sui trattati li giudica decadenti poiché arretrano dinanzi alla guerra. Ma non solo nelle guerre Hitler manifesta il suo piacere di cimentarsi e di superare. Ne è propriamente infetto: ricorre al superare incessantemente e in ogni modo possibile; il superare viene usato da lui come una sorta di rimedio universale che si applica a ogni circostanza. Ritiene importante affidare il medesimo incarico a due persone diverse, affinché cerchino di superarsi a vicenda. 1. Traduciamo con questi due verbi insieme la forma messeri usata da Canetti [Ar.d.T.].

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Sulla terra non c'è nulla di vistoso che Hitler non si senta stimolato a superare. Senza dubbio Napoleone è la figura che suscita maggiormente la sua rivalità. Gli Champs-Élysées che conducono all'Are de Triomphe sono lunghi due chilometri: la sua via monumentale sarà non soltanto più larga, ma anche lunga cinque chilometri. L'Are de Triomphe è alto 50 metri, il suo arco di trionfo sarà alto 120 metri. L'unificazione dell'Europa| era la meta di Napoleone: a lui, Hitler, riuscirà di attuarla, e in modo duraturo. La campagna di Russia gli è imposta dall'esempio napoleonico. L'energia con cui volle quell'impresa, l'ostinazione con cui ordinò di conservare le posizioni conquistate che non erano più tenibili, contro ogni consiglio e ogni ragionevolezza, possono anch'esse essere spiegate dalla coazione a schiacciare il precedente di Napoleone. Hitler vuole tenere il Caucaso come base per un'avanzata verso la Persia, e qui i suoi piani s'incontrano con i progetti indiani di Napoleone. Che questi a sua volta si sentisse stimolato dall'esempio di Alessandro Magno, conferma l'esistenza di un'unica tradizione storica che sembra inestirpabile: quella dei superatori che tornano continuamente alla ribalta. Ci sono anche realizzazioni più banali che lo colpiscono molto. La tribuna d'onore a Norimberga è coronata da una figura che supera di 14 metri la Statua della Libertà di New York. Il « Grosse Stadion » della stessa città ha una capienza duetre volte superiore a quella del Circo Massimo. Todt progetta per Amburgo un ponte sospeso che dovrebbe superare il Golden Gate Bridge di San Francisco. La Stazione Centrale di Berlino dovrebbe schiacciare la Grand Central Station di 93

New York. Nel « Kuppelberg », l'edifìcio a cupola destinato a immense adunate, avrebbero trovato largamente posto il Campidoglio di Washington, San Pietro, e qualcos'altro ancora. Speer stesso non tace affatto la parte che Hitler ebbe in questi « superamenti schiaccianti ». Era, come appunto scrive, inebriato all'idea di creare testimonianze di pietra della storia. « Ma entusiasmavo anche Hitler quando potevo dimostrargli che avremmo ' battuto ', almeno nelle proporzioni, le più eminenti creazioni architettoniche della storia ». È chiaro che Speer fu contagiato dalla megalomania di Hitler e che non era in grado di opporsi alla crescente fiducia che questi gli concedeva. A quel tempo, tuttavia, fece un'osservazione di cui forse solo più tardi avrebbe compreso appieno il significato: « La sua passione di costruire per l'eternità creava in lui un totale disinteresse per le strutture del traffico, per le zone residenziali, per gli spazi verdi: la dimensione sociale gli era indifferente ». L'idea fìssa del superare si collega, come ho mostrato in Massa e potere, con l'illusione di continuare a crescere. E quest'ultima è percepita come una sorta di garanzia di continuare a vivere. In realtà, dunque, questi progetti elaborati per molti anni vanno visti come un mezzo per prolungare la vita. In quegli anni Hitler manifesta spesso dei dubbi circa la durata della propria esistenza. « Non vivrò più molto a lungo. Ho sempre pensato di potermi concedere un po' di tempo per realizzare i miei piani. Io stesso devo condurli in portol ». Queste apprensioni hanno una particolare coloritura che è tipica dei paranoici. Nelle disposizioni ad ammalarsi, apparenti o rea94

li che siano, si esprimono altri pericoli, collegati all'incoercibile pretesa di grandezza. Nel 'caso Schreber',' in cui la paranoia ebbe uno sviluppo assai più vasto, questo rapporto appariva lampante. Apprensioni di tal genere non significano certo che si sia minimamente rinunciato alla pretesa di grandezza. Si giunge però a un' ' utile ' interazione fra apprensioni e pretesa. I progetti che si teme di non riuscire ad attuare, poiché il tempo di vita concesso appare sovente troppo breve, conservano o accrescono la loro grandezza in modo da permettere a chi li ha ideati di carpire un prolungamento della propria esistenza. Hitler deve restare in vita fino al 1950, quando i progetti della nuova Berlino saranno divenuti realtà; e anzi anche per un paio d'anni in più, per poterli impregnare di sé a vantaggio dei suoi più deboli successori, e dunque metterli in condizioni di svolgere la loro funzione in eterno. L'efficacia nel tempo delle mete perseguite con la massima intensità è del resto sorprendente anche in uomini meno ambiziosi. Se non ci fosse stata la guerra, che suscitò nel destino di Hitler la svolta verso la catastrofe, è probabile che egli sarebbe riuscito a vedere la sua nuova Berlino nel 1950, nonostante tutte le apprensioni e la salute cagionevole. L'ARCO DI TRIONFO

Di tutte le costruzioni che Hitler progetta per Berlino, l'arco di trionfo è il più caro al suo cuo1. Si veda il mio libro Masse und Macht, cit., pp. 500 sgg. [trad. it Massa e potere, cit., pp. 528-71].

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re - insieme, forse, con la grande sala a cupola. Lo ha ideato fin dal 1925; un modello in base a questo primo progetto, alto quasi quattro metri, è la sorpresa di Speer per il cinquantesimo compleanno di Hitler, nell'aprile del 1939. Poche settimane prima le sue truppe sono entrate a Praga. Sembra quindi un momento particolarmente adatto per un arco di trionfo. Hitler è commosso nel profondo da quel dono. Ne è continuamente attratto, lo contempla a lungo, lo mostra agli ospiti; alle Memorie di Speer è unita una fotografia che illustra il suo entusiasmo. Diffìcilmente un dono ha mai toccato di più il cuore del destinatario. Prima, Hitler e Speer avevano parlato spesso di questo arco di trionfo. L'altezza doveva raggiungere i 120 metri: così sarebbe stato alto più del doppio dell'Are de Triomphe di Napoleone a Parigi: « Sarà almeno un degno monumento per i nostri morti nella guerra mondiale. Il nome di ciascuno dei nostri 1.800.000 caduti sarà scolpito nel granito! ». Sono parole di Hitler, riferite da Speer. Non c'è nulla che condensi con altrettanta intensità l'essenza di Hitler. La sconfitta della Prima guerra mondiale non è riconosciuta e viene trasformata in vittoria. Sarà celebrata da un arco di trionfo, grande il doppio di quello che fu concesso a Napoleone per tutte le sue vittorie. Si manifesta chiaramente così l'intenzione di superare le vittorie napoleoniche. Poiché si prevede che la sua durata sarà eterna, l'arco verrà fabbricato con dura pietra. Ma in realtà è costituito di qualcosa di più prezioso: 1.800.000 morti. Il nome di ciascuno di questi caduti sarà scolpito 96

nel granito. In tal modo essi vengono onorati, ma anche accostati uno vicinissimo all'altro, più fitti di quanto sarebbe mai possibile in una massa. L'arco di trionfo di Hitler è costituito da questo enorme numero di caduti. Non sono i morti della sua nuova guerra, progettata e voluta da lui, bensì quelli della prima, in cui egli stesso come ogni altro era stato soldato. Egli le è sopravvissuto, ma le è rimasto fedele e non l'ha mai rinnegata. Dalla coscienza di quei morti ha tratto la forza per non ammettere mai l'esito di tale guerra. Erano la sua massa quando ancora non ne aveva altra, ed egli sente che essi sono ciò che gli ha permesso di conquistare il potere; senza i morti della Prima guerra mondiale, Hitler non sarebbe mai esistito. La sua intenzione di raccoglierli insieme nel proprio arco di trionfo è un riconoscimento di questa verità e del suo debito verso di essi. Si tratta però del suo arco di trionfo e porterà il suo nome. Difficilmente qualcuno leggerà molti altri nomi; e anche se verranno davvero incisi 1.800.000 nomi, la grande maggioranza di essi non sarà mai presa in considerazione. Ciò che resterà nella memoria sarà il loro numero, e quel numero enorme appartiene al suo nome. Il senso della massa di morti è determinante in Hitler. Si tratta della sua massa peculiare. Se non si tiene conto di questo suo sentimento, è impossibile capire lui, il suo esordio, il suo potere, ciò che egli intraprese con tale potere e l'obiettivo delle sue imprese. L'ossessione da lui manifestata con sinistra vitalità sono questi morti. 97

VITTORIE! VITTORIE!

Vittorie! Vittorie! Se c'è in Hitler una fatalità cui tutte le altre risultano subordinate, questa è la fede nella vittoria. I Tedeschi, dall'istante in cui non vincono più, cessano d'essere veramente il suo popolo; senza esitazioni, egli nega loro il diritto alla vita. Si sono dimostrati i più deboli: tanto peggio per loro; egli augura ad essi la rovina che meritano. Se, com'era consueto sotto di lui, avessero continuato a vincere, ai suoi occhi sarebbero stati un altro popolo. Gli uomini che hanno vinto sono uomini diversi, anche quando sono pur sempre i medesimi. Che tanti credano ancora in lui, sebbene le loro città siano in macerie e praticamente nulla li difenda ormai dagli attacchi aerei del nemico, non gli fa la minima impressione. Il fallimento di Gòring, dopo tanti discorsi vuoti (e Hitler ne è consapevole, poiché lo ingiuria per questa ragione), viene in ultima analisi addebitato alla massa dei Tedeschi, giacché non sono più in condizioni di vincere. Di fatto, Hitler porta rancore all'esercito per ogni pezzo di terreno conquistato da cui i soldati si ritirano. Finché gli è possibile, si oppone all'abbandono di qualsiasi posizione, indifferente al numero delle vittime. Egli infatti sente come un pezzo del proprio corpo tutto ciò che è stato conquistato. Il suo declino fisico durante le ultime settimane di Berlino, che Speer descrive in modo molto penetrante, provandone compassione nonostante tutto ciò che ha fatto contro di lui, non è altro che l'avvizzirsi del suo potere. Il corpo del paranoico è il suo potere, con esso prospera o avvizzisce. Fino all'ultimo Hitler si pre98

occupa di impedire che questo corpo venga dissacrato dal nemico. Egli ordina, sì, l'ultima battaglia per Berlino, affinché si cada combattendo - un cliché tratto dal ciarpame storico che ingombra la sua mente. Dice però a Speer: « Io non combatterò; è troppo grande il pericolo che io venga soltanto ferito e cada vivo nelle mani dei Russi. E neppure potrei tollerare che i miei nemici trattassero il mio corpo come una carogna. Ho ordinato d'essere cremato ». Egli perirà senza combattere, mentre gli altri combattono; e qualunque cosa accada agli altri che combattono per lui, l'unica sua preoccupazione è che non accada nulla al suo corpo morto: poiché questo corpo era per lui identico al suo potere, ne era l'involucro. A Goebbels, tuttavia, che muore vicinissimo a lui, riuscirà di superarlo ancora nella morte. Goebbels costringe sua moglie e i suoi figli a morire con lui. « Mia moglie e i miei figli non devono sopravvivermi. Gli Americani li addestrerebbero soltanto a fare propaganda contro di me ». Così Speer riferisce le sue parole. A Speer, che era amico della moglie di Goebbels, non è permesso prendere congedo da lei da solo. « Goebbels restò continuamente al mio fianco... Solo verso la fine ella accennò a ciò che veramente la commuoveva: " Come sono felice che almeno Harald (suo figlio di primo letto) sia vivo " ». L'ultimo atto del potere di Goebbels consiste nell'aver impedito ai propri figli di sopravvivergli. Egli temeva che potessero essere addestrati nel suo mestiere più specifico — la propaganda — contro di lui. Che alla fine si sia ancora procurato la soddisfazione di questo tipo di sopravvivenza, 99

non dev'essere erroneamente interpretato come un'espiazione per la sua attività: l'attività di Goebbels culmina in questo. L'indifferenza di Hitler per il destino del suo popolo, la cui grandezza e prosperità - a suo dire erano invece il senso vero e proprio, lo scopo e il contenuto della sua vita, appare nelle parole di Speer con una evidenza davvero ineguagliabile. È Speer che ora assume d'improvviso la presunta funzione iniziale di Hitler: cerca di salvare ciò che per i Tedeschi è ancora salvabile. La tenacia della sua lotta contro Hitler, che ormai ha deciso la completa rovina dei Tedeschi e in virtù della propria autorità di comando dispone ancora del potere sufficiente per costringere lo stesso Speer ad agire in tal senso, impone rispetto. Hitler non fa minimamente mistero delle sue intenzioni. « Se la guerra è perduta, » dice a Speer « anche il popolo sarà perduto. Non è necessario aver riguardo per le cose fondamentali di cui il popolo tedesco abbisogna al fine della più elementare sopravvivenza. È anzi preferibile distruggere anche queste stesse cose. Il popolo infatti s'è dimostrato il più debole, e il futuro appartiene esclusivamente al più forte popolo orientale. Ciò che rimane dopo questa lotta sono comunque soltanto gli infimi, giacché i buoni sono caduti! ». La vittoria è qui dichiarata esplicitamente come l'istanza suprema. Poiché il suo popolo, che egli stesso ha spinto in guerra, si è dimostrato il più debole, nemmeno i superstiti devono sopravvivere. A questo riguardo, il motivo più profondo è che Hitler non vuole che alcuno gli sopravviva. Non può impedire di sopravvivergli ai nemici 100

che hanno vinto, ma può distruggere quanto ancora resta del suo popolo. Secondo un modello già sperimentato, ciò che resta egli lo dichiara privo di valore, « giacché i buoni sono caduti ». Quelli che vivono ancora sono sulla buona strada per trasformarsi ai suoi occhi in gentaglia. Ma non è neppure necessario spingere sino alla fine il processo di svalutazione; a lui basta, come hanno sempre fatto gli psicopatici, dichiarare i sopravvissuti roba di scarto. Tutto ciò che egli ha sterminato rimane desto in lui. La massa degli uccisi invoca il proprio accrescimento. Hitler è ben consapevole della grandezza del loro numero: che il fatto e il modo del loro annientamento siano stati tenuti segreti, noti solo a quanti vi parteciparono, accresce ai suoi occhi la loro efficacia. Gli uccisi sono diventati la più grande massa di cui egli disponga, e sono il suo segreto. Come ogni massa, urgono verso il proprio accrescimento. Non potendovi più aggiungere dei nemici, poiché i nemici hanno ottenuto la supremazia, egli avverte la costrizione di accrescere il loro numero mediante il suo stesso popolo. Prima di lui e dopo di lui deve morire il maggior numero possibile di persone. Senza conoscere l'intima coesione di questi processi, parte dei quali gli era ancora ignota, Speer dovette provare il più profondo orrore dinanzi ai fenomeni in cui si manifestavano. Che cosa significassero gli ordini di distruzione impartiti da Hitler, era chiaro come il sole. Ma il suo modo di motivarli, se incontrava resistenze, indusse Speer ad augurargli la morte. È oggi difficile concepire che i Tedeschi i quali ricevettero questi ordini non abbiano tutti sentito e reagito come Speer. 101

Noi tutti, però, Tedeschi e non Tedeschi, grazie alla conoscenza a posteriori di simili fatti, siamo divenuti sospettosi verso gli ordini. Sappiamo di più, quell'esempio mostruoso ci è ancora abbastanza vicino, e anche coloro che possono continuare a credere negli ordini li rigirerebbero più volte prima di obbedirvi. Allora invece si era educati, proprio da Hitler, a ravvisare la suprema virtù nell'esecuzione cieca di ogni suo ordine. Al di sopra di ciò non vi era più alcun valore; s'era compiuta con straordinaria rapidità la demolizione di tutti quei valori che per moltissimo tempo erano stati riconosciuti come una specie di patrimonio appartenente all'intera umanità. Si può benissimo dire che proprio la consapevolezza di ciò riunì l'umanità nella più sorprendente coalizione contro Hitler. Nel disprezzo di questi valori, nella svalutazione della loro importanza per uomini di ogni sorta, Hitler diede prova di incomparabile cecità. Anche se avesse vinto - ed è impensabile -, sarebbe bastato questo motivo a dissolvere rapidamente il suo potere. Insurrezioni si sarebbero manifestate in ogni angolo del suo Reich, e alla fine i suoi stessi seguaci ne sarebbero stati contagiati. Egli, che traeva la sua sicurezza dalle vittorie di Napoleone, non era capace di trarre insegnamento dalle sconfìtte napoleoniche. Il suo incentivo più profondo nasceva dalla volontà di superare le vittorie di Napoleone. Come già abbiamo osservato, è improbabile che Hitler si sarebbe accinto alla conquista della Russia se proprio là Napoleone non avesse fatto naufragio. Lo spirito di Hitler era soggiogato da tutte le vittorie della storia. Ma egli doveva anche tramutare in vittorie pro102

prie le sconfitte dei suoi modelli, appunto per superarli. Aveva preso le mosse dal trattato di Versailles e dalla sconfitta nella Prima guerra mondiale. Lottando contro le clausole di Versailles, ottenne le sue prime masse e alla fine conquistò il potere in Germania. Passo dopo passo riuscì a vanificare gli effetti di Versailles. Dall'istante della sua vittoria sulla Francia, che significò il capovolgimento di Versailles, Hitler fu perduto. Poiché allora si persuase della possibilità di capovolgere in vittoria ogni sconfitta, anche quella di Napoleone in Russia. LA VOLUTTÀ DEL N U M E R O ZAMPILLANTE

Hitler si crede capace di tutto, le cose più difficili le accetta, se egli vi si accinge andranno certo in porto. Si tratta di decisioni, iniziative di sorpresa, mascherature, richieste, minacce, promesse solenni, rotture di patti, temporaiiea non aggressione, e infine si tratta di guerra; ma anche di una sorta di onniscienza, perfino in settori specialistici. La sua memoria per i numeri è un fatto a parte. In lui i numeri svolgono una funzione diversa da quella consueta presso gli altri uomini. Recano in sé qualcosa delle masse che aumentano a scatti. La sua passione più intensa riguarda il numero dei Tedeschi che comporranno la popolazione del suo Reich. Nei suoi discorsi la voluttà del numero zampillante si fa clamorosa. Il mezzo più energico per eccitare la massa è il miraggio della sua crescita. Finché la massa mira al 103

proprio accrescimento, non sente il bisogno di disgregarsi. Quanto più elevato è il numero che le si propone come meta raggiungibile, tanto più profondamente la si impressiona. Bisogna darle però il senso preciso di come quella meta può essere raggiunta. L'eccitazione sale sempre più, insieme con l'elevarsi del numero. Sessanta, sessantacinque, sessantotto, ottanta, cento milioni di Tedeschi! Se non si tratta di milioni, non c'è nulla d'importante che si possa fare: egli stesso, Hitler, ha sperimentato su di sé l'efficacia di quel numero. A lui riuscirà di riunirli tutti insieme. La massa, colpita da questi numeri, si sente in istantaneo aumento. In tal modo la sua intensità raggiunge il più alto grado che si possa immaginare. Chiunque ne sia stato afferrato, non riesce poi a liberarsene nel suo intimo. Ritrovarsi anche esteriormente in quella situazione diviene la sua smania incoercibile. Sono noti gli altri mezzi usati in tali occasioni. Non è questo il momento di parlarne. Va comunque notato l'istintivo talento di Speer, fin dall'inizio della sua carriera, nel progettare enormi bandiere e disporle in modo particolare. Si deve ora osservare che il gusto di Hitler per i grandi numeri si trasferì dal numero degli uomini a quello di molte altre cose. Egli era ben consapevole dei costi enormi che bisognava sostenere per i suoi edifici berlinesi, e voleva che raggiungessero le maggiori dimensioni possibili. L'esempio di Luigi II di Baviera non lo spaventava, anzi lo attraeva. S'immaginava che un giorno si sarebbero potuti attirare turisti americani con l'imponenza della cifra di un miliardo, spesa per il « Kuppelberg » di Berlino, e si divertiva all'idea 104

che per compiacere quei turisti la somma potesse anche essere elevata a un miliardo e mezzo. Si ricordava particolarmente volentieri i numeri mediante i quali veniva superato qualcosa, qualsiasi cosa fosse: erano i suoi numeri favoriti. Non appena le sorti della guerra mutano, Hitler incomincia ad aver a che fare con altri numeri. Poiché non gli si può nascondere nulla - egli si riserva ogni visione d'insieme e ogni decisione il suo ministro ha l'obbligo di rendergli note le cifre di produzione del nemico. Nella loro improvvisa crescita, mostrano un'analogia fatale con le sue stesse cifre: quelle che egli in precedenza soleva usare per i propri scopi. Hitler le teme e si rifiuta di prenderne atto. La vitalità dei numeri zampillanti gli è ben familiare. Ora, poiché si volgono contro di lui, egli avverte la loro ostilità e cerca di sottrarsi al loro contagio distogliendosi da essi. VISITE R I C U S A T E

Quando crollarono le grandi città tedesche, trasformandosi una dopo l'altra in cumuli di macerie, Speer non fu il solo a ritenere utile, addirittura indispensabile, che Hitler si recasse a visitarle. L'esempio di Churchill stava dinanzi agli occhi di tutti. Questi non mancava, ogni volta, di presentarsi alle vittime della guerra che non erano direttamente coinvolte nei combattimenti. Dimostrava cosi non soltanto la sua intrepidezza, ma anche la sua partecipazione. Nonostante gli impegni di cui era sovraccarico, Churchill trovava il tempo per le vittime e testimoniava con 105

la sua presenza quanto fossero importanti, quanto contassero. Egli chiedeva molto di più alla popolazione civile, ma in cambio la prendeva sul serio. Può darsi che se Churchill non si fosse comportato così, il morale degli Inglesi, durante l'anno in cui si trovarono a far fronte da soli a un nemico piìi forte e ovunque vincitore, sarebbe precipitato in misura pericolosa. Al contrario, Hitler rifiutò ostinatamente di mostrarsi nelle città bombardate. È difficile ammettere che - almeno durante i primi tempi - gli mancasse il coraggio fisico per una simile decisione. Le sue truppe occupavano gran parte dell'Europa, e non gli passava neppur per la mente di considerarsi battuto. Ma, al di fuori delle persone che ricevevano ordini direttamente da lui e di quelli, pochissimi, che componevano la sua corte ristretta, egli era avvezzo a mostrarsi soltanto alle masse, e a masse di tipo ben particolare. Era divenuto maestro neWaccusa: durante gli anni dell'ascesa, l'accusa era stata il suo strumento peculiare per eccitare gli uomini a farsi massa. Poiché tale massa lo aveva aiutato a raggiungere il potere, per qualche anno aveva fatto del suo meglio al fine di soddisfarne le aspettative e di assicurarsene la devozione entusiastica. Erano gli anni dei suoi viaggi trionfali attraverso la Germania, in un'atmosfera di giubilo che non era del tutto artefatta. Speer ha descritto la ripercussione su Hitler di quell'atmosfera: si considerò l'uomo più amato dal popolo in tutta la storia tedesca. Dal tempo di Lutero, non c'era stato più nessuno verso il quale i contadini affluissero spontaneamente da ogni parte. Da ciò e dai suoi preparativi d'ordine organizzativo Hitler trasse la 106

forza per procedere all'aggressione verso l'esterno. Ebbe inizio la serie di facili vittorie, considerate alla stregua di miracoli poiché erano ottenute senza vittime e spargimento di sangue. Egli fu trionfatore prima che venisse sparato un solo colpo, e tale rimase quando si spararono i primi colpi. Gli riusciva naturale affacciarsi dinanzi alla folla che in lui acclamava il vincitore: in essa continuavano a manifestarsi le stesse forme e costellazioni di massa alle quali era stato abituato fin da principio. La massa che ringraziava il suo Fiihrer era diventata più forte, ma continuava a essere quello stesso tipo di massa che egli aveva eccitato a formarsi e con la quale aveva sempre operato. La sua immagine di sé recava impressi questi tratti, ed egli non era in grado di presentarsi a un altro tipo di massa. Innanzitutto non lo voleva, giudicava dannoso modificare o ampliare la sua immagine pubblica. Così come vigilava su quali delle sue fotografie dovessero essere esibite in pubblico, così come teneva segreta la sua vita con Eva Braun per non perdere la devozione delle donne tedesche verso l'uomo solitario, allo stesso modo non volle mostrarsi nel contesto delle città tedesche distrutte. Ne avrebbe sofferto l'immagine del Semprevincitore, e sarebbe divenuta meno credibile la sua capacità di ottenere la vittoria finale. Preferì dunque conservare la sua immagine intatta, non violata da alcuna distruzione all'interno del suo Reich, senza comunicazione con alcuno. Non è facile stabilire se in questo, dal suo limitato punto di vista, egli avesse torto. Anche la fede nelle armi miracolose, che serbò fino all'ul107

timo, può essere messa in relazione con l'assoluta integrità della sua immagine di Semprevincitore. Finché egli non prendeva atto della distruzione in Germania, finché non permetteva che quella distruzione s'avvicinasse alla sua persona, la Germania - che secondo la sua follia era incarnata nella sua persona - non poteva essere sconfitta. Ma va anche detto che egli non sarebbe stato affatto in grado di visitare gente che avesse autentiche ragioni di lutto e di lamento. Con quali parole si sarebbe potuto rivolgere loro? Compassione non ne poteva avere per nessuno, tranne che, negli ultimi tempi, per se stesso; a chi avrebbe potuto credibilmente mostrarsi partecipe dell'altrui sventura? Non fu mai capace di fingere, e tanto meno di provare sentimenti « deboli » : ne aveva disprezzo. Hitler fra i dolenti è inimmaginabile. La mancanza di tutto ciò che propriamente fa uomo l'uomo - quei movimenti dell'animo che legano a un'altra persona, anche se sconosciuta, senza un obiettivo, senza calcolo, senza previsione di risultati o di subordinazioni -, questo totale difetto, questo vuoto temibile, lo avrebbe fatto apparire nella sua miseria e nella sua impotenza. Certo, Hitler non prese in considerazione neppure per un istante l'eventualità di porsi in una situazione simile. SEGRETO E U N I C I T À

La cerchia più ristretta di Hitler nell'Obersalzberg, poche persone fra le quali trascorreva buona parte del suo tempo, è sorprendentemente esigua. La compongono il fotografo di fiducia, l'au108

lista, il segretario, l'amica, due segretarie, la cuoca vegetariana, e infine un uomo di tipo completamente diverso: l'architetto privato. Tutti, a parte quest'ultima e unica eccezione, sono stati scelti per soddisfare le sue necessità più elementari. Non solo dipendono da lui in modo assoluto, ma sono totalmente incapaci di formulare su di lui un giudizio. Quando è con loro, Hitler si sente sicuro della propria immensa superiorità. Non sanno nulla di ciò che egli propriamente fa, dei suoi progetti e delle sue decisioni. Egli può vìvere senza che nessuno turbi mai il suo segreto, la cui tutela rappresenta per lui una grandissima necessità vitale. È il segreto del grande Stato sul quale egli solo comanda; ed egli può ben giustificare ai propri occhi la necessità della segretezza assoluta. Dice spesso che non si fida di nessuno, tantomeno delle donne; e poiché accanto a sé non ammette la presenza di donne capaci di pensare, gli riesce facile persistere in questo disprezzo. Si trova bene in tale cerchia, ove nessuno può spingersi al suo livello; là vive indisturbato come quella creatura unica che ritiene di essere. Giacché nessuno ha dei diritti su di lui, si sente protetto da qualsiasi richiesta dì favori che potrebbe raggiungerlo. La sua integrità si identifica per lui con la sua durezza. Non deroga dalla sua concezione del potere; ha assorbito in sé tutto il potere dei suoi modelli storici e nella coerenza con cui lo difende vede la ragione dei propri successi. Tuttavia si rende conto che non potrebbe esercitare il potere senza l'aiuto di quei pochi che hanno contribuito alla sua ascesa e hanno dato buona prova di sé. Con essi è largo di concessioni, 109

fin tanto che gli servono e accolgono senza obiezioni ogni sua decisione. Ha un occhio acuto per le loro svariate debolezze, che giungono fino alla corruzione. Le accetta se ne è messo al corrente, se nulla di esse gli è tenuto nascosto: l'onniscienza anche nei loro confronti è una delle sue capitali esigenze. Si preoccupa di serbare per sé questa onniscienza, e di tenere entro limiti ben precisi il potere degli altri. Egli solo, e nessun altro, dev'essere informato di tutto. Si considera un maestro in questa separazione degli incarichi che affida a ciascuno dei suoi aiutanti. E bada a non attirarli durevolmente vicino a sé, poiché potrebbero venire a sapere più di quanto sia loro consentito. Dal suo punto di vista, questo istinto è giusto, perché Bormann, l'unico che è sempre rimasto accanto a lui e che, per la natura stessa del suo incarico di segretario è venuto a conoscenza di molte cose, si è in effetti conquistato il potere. Si ha l'impressione che Hitler abbia propriamente bisogno delle debolezze di coloro ai quali delega una parte di potere. Non soltanto, in questo modo, li tiene più saldamente in pugno e quando vuole deporli non deve cercare a lungo dei validi motivi. Ma così, inoltre, conserva su di loro un senso di superiorità morale. È importante per lui potersi dire immune dalle debolezze più consuete, come l'avidità, la concupiscenza, la vanità, tutto ciò che interviene nell'esistenza comune degli uomini « piccoli ». Se controlla i suoi ritratti destinati a essere resi pubblici, esiste per questo una giustificazione politica. Si preoccupa a tal fine di non ingrassare, ma ciò non ha a che fare con la vanità: un f ùhrer con la pancia è im110

pensabile. I suoi enormi edifici devono impressionare gli altri potentati e renderli facilmente arrendevoli. Come egli afferma, però, quegli edifici sono innanzitutto concepiti per l'eternità: devono servire a rafforzare l'autocoscienza del popolo quando egli non ci sarà più. Tutto ciò che egli intraprende, anche le iniziative più smisurate, serve alla sua missione: dotatissirao del tipico talento dei paranoici di scovare motivazioni, non ravvisa nulla in sé che non possa giustificare in modo convincente dinanzi agli altri e a se stesso. Nella sua inoffensiva e ristrettissima cerchia, può esprimersi liberamente riguardo ai suoi complici; non si contiene affatto: ed è divertente, ma anche istruttivo, leggere in Speer quali parole riservi a questa gente. Deride Gòring per la sua passione venatoria: è talmente facile abbattere gli animali da lontano. Ammazzare gli animali è un lavoro da macellaio. Sugli uccisori di uomini, non si pronuncia. Lo ritiene forse pericoloso in ogni caso? La « filosofia » di Rosenberg gli riesce incomprensibile. Anche se ne parla pochissimo, si ha l'impressione che gli invidi la diffusione e le enormi tirature del suo libro. Certo, le tirature di Mein Kampf sono di gran lunga superiori, ma egli non tollera nulla che in qualsiasi campo gli si avvicini e che, sia pure da lontano, attenti alla sua unicità. Le smanie di Himmler a proposito dei Germani gli danno sui nervi. Bisogna proprio ricordare al mondo che quelli, al tempo dell'impero romano, abitavano in capanne di fango? Hitler sembra vergognarsi delle condizioni degli antichi Germani, che vivevano senz'arte e senza cultura. Lui, che apprezza Grùtzner e il 111

Ring viennese, si sente molto superiore a loro. A proposito di Himmler si esprime con una certa asprezza, quando questi definisce Carlo Magno massacratore dei Sassoni. Hitler approva il massacro dei Sassoni, giacché l'impero franco ha portato in Germania la civiltà. Il fatto che approvi il massacro dei Sassoni di Germania è già una sorta di segno precorritore della sua futura indifferenza per il destino dei Tedeschi. Comunque non ammette che si sparli di Carlo Magno poiché riconosce in lui un precursore. In fondo, rispetta i Germani solo a partire dal Sacro Romano Impero: è irresistibile la forza di attrazione che sente per gli imperi, in quanto egli stesso è in procinto di fondare il proprio impero universale. Il rapporto di Hitler con Speer è sostanzialmente diverso da quelli con tutti gli altri. Come Speer stesso ha riconosciuto, Hitler vede in lui la propria giovinezza. Non solo, grazie a lui, le ambizioni architettoniche della sua giovinezza saranno pienamente appagate. Nella dimestichezza con Speer, Hitler ritrova un poco dell'entusiasmo di cui lui stesso era pervaso nel tempo della sua solitudine. Forse intuisce anche un poco della relativa purezza di quei primi anni di schizzi ben fatti e impossibili da realizzare, in cui si esprimeva l'ammirazione per qualcosa d'altro, che già esisteva. Probabilmente egli non ammirò mai nulla tanto quanto la « grande » architettura. Ma non sarebbe stato in grado di capire che, realizzando quegli schizzi, distruggeva l'unica componente preziosa della sua ammirazione: il suo carattere di onirica venerazione. Ora, ogni « realizzazione » ha acquistato su di lui un rabbioso 112

potere, cui egli sottomette ogni residuo impulso vitale. DISTRUZIONE

Il duplice piacere della durata e della distruzione, che è caratteristicd del paranoico, è stato esaminato a fondo a proposito del ' caso Schreber La minaccia contro la propria persona, avvertita acutamente come se fosse sempre incombente, viene contrastata in due modi: da un lato, mediante l'estensione in enormi spazi che sono per così dire incorporati nella propria persona, dall'altro mediante il conseguimento di durata « eterna ». La formula del « Reich millenario » non sarebbe affatto eccessiva per un caso di paranoia avanzata. Tutto ciò che è diverso dall'io viene eliminato o sottomesso: sottomissione vuol dire soltanto temporanea salvezza, che facilmente si converte in sterminio. Ogni resistenza nell'àmbito della propria sfera di potere appare insopportabile: narra Speer che resistere a Hitler significava suscitare tutta la sua furia. Solo là dove non dispone ancora del potere assoluto, egli è capace di accomodamenti: e questo perché si tratta dei processi che gli serviranno ad acquisire il potere. Il Reich in tutta la sua estensione costituisce la persona di Hitler finalmente non più in pericolo, e fin quando egli non sarà giunto ad abbracciare tutta la terra non potrà mai stare tranquillo. L'obiettivo della durata diviene ovvio in questa pro1. Si vedano sopra, nel saggio Potere e sopravvivenza, le pp. Sl-37 [N.d.T.].

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spettiva: nelle Memorie di Speer non ne mancano le testimonianze. Alla sommità del « Kuppelberg » hitleriano di Berlino, a 290 metri d'altezza, dev'essere posta un'aquila. Al principio dell'estate del 1939 Hitler ne parla a Speer: « Lassù non dovrà più esserci l'aquila sulla svastica: l'aquila dovrà invece sovrastare il globo del mondo! L'aquila sul globo del mondo dev'essere il coronamento del più grande edificio della terra! ». Già due anni prima, nel 1937, discutendo il progetto del « Grosse Stadion », aveva detto quasi di passata: « Nel 1940 i giochi olimpici avranno ancora luogo a Tokio. Ma dopo si svolgeranno per sempre in Germania ». I libri su cui si sofferma più a fondo, quelli che formano le sue letture preferite, trattano di guerra o di architettura. In questi campi sorprende per le sue precise conoscenze anche gli specialisti, e grazie alla sua memoria gli riesce facile sconfìggerli nelle discussioni su tali argomenti. La sua architettura è comprensibile solo quando se ne considera il fine di « etema » durata; Hitler detesta ciò che non è pietra: il vetro, dietro al quale non ci si può nascondere, e oltretutto è fragile, è da lui aborrito come materiale per grandi edifici. Da principio egli tiene meglio celato il suo piacere di distruggere, che perciò appare ancor più mostruoso quando finalmente si manifesta. Verso la fine di giugno del 1940, tre giorni dopo l'inizio dell'armistizio con la Francia, Hitler porta con sé Speer e pochi altri in visita a Parigi, ove non era mai stato. In tre ore visita l'Opéra, dimostrandosene profondo conoscitore (« Qui potete 114

vedere quanto me ne intendo! »), la Madeleine, gli Champs-Élysées, l'Are de Triomphe, la Tour Eiffel, Les Invalides, ove rende omaggio reverente a Napoleone, il Panthéon, il Louvre, Rue de Rivoli e infine il Sacré-Coeur a Montmartre. Dopo queste tre ore dichiara: « Era il sogno della mia vita poter vedere Parigi. Non posso dire quanto sono felice che si sia realizzato ». La sera stessa, tornato nel suo quartier generale, nella stanzetta di una casa di contadini, incarica Speer di riprendere la costruzione degli edifici di Berlino, e soggiunge: « Non era bella Parigi? Ma Berlino dovrà essere molto più bella! Mi ero chiesto più volte se non si dovesse distruggere Parigi; ma quando a Berlino sarà tutto pronto, Parigi non sarà più che un'ombra. E allora perché dovremmo distruggerla? ». Speer è sorpreso dalla tranquillità con cui Hitler parla della distruzione di Parigi, « come se si trattasse della cosa più ovvia del mondo ». Qui appare evidente la prossimità fra superare e distruggere. Il superamento equivale alla vittoria, e qualora sia ottenuto in fretta differisce la distruzione. La facile vittoria sulla Francia ha temporaneamente salvato Parigi. Parigi deve ancora durare, in modo da apparire come un'ombra rispetto alla nuova Berlino. Subito dopo, in quello stesso 1940, Speer ha modo di ascoltare Hitler che, durante una cena alla Cancelleria del Reich, « prende a vaneggiare in crescente ebbrezza di distruzione ». « Ha mai guardato una carta di Londra? Le case sono così fitte che un solo focolaio d'incendio basterebbe a distruggere l'intera città, come è accaduto duecento anni fa. Goring, con innumerevoli bombe incendiarie di nuovissima efficacia, creerà foco115

lai d'incendio nei più diversi quartieri di Londra; ovunque, focolai d'incendio. A migliaia. E poi si uniranno in un immenso mare di fuoco. Questa di Gòring è l'unica idea giusta: le bombe dirompenti non servono, ma con le bombe incendiarie lo si può fare: distruggere totalmente Londra! Cosa potranno mai concludere con i loro servizi antincendio, una volta che sia scatenata questa offensiva? ». Si rivela così senza mascherature il piacere di distruggere una città con otto milioni di abitanti, e proprio il numero degli abitanti deve aver contribuito alla crescita di quel piacere. La riunione di migliaia di focolai d'incendio in un immenso mare di fuoco si presenta come una sorta dì immagine di massa. Il fuoco serve spesso da simbolo della massa, della massa che distrugge, Hitler non si accontenta del simbolo, lo trasforma nella realtà che esso rappresenta e si serve del fuoco come massa per la distruzione di Londra. Questa « ebbrezza di distruzione » che inizialmente sorge nella mente di Hitler si riverserà in due modi differenti sulla Germania. Ciò che egli ha progettato per Londra, e che non gli riuscirà, è divenuto poi realtà per le città tedesche. È come se Hitler e Gòring avessero indotto e persuaso i loro nemici a usare l'arma che essi stessi inventarono. Ma vi è anche un secondo aspetto, non meno terribile: Hitler aveva una tale familiarità con queste idee di distruzione totale, che esse non potevano più impressionarlo profondamente. Le cose più atroci non lo sorprendevano più: le aveva escogitate lui stesso e a lungo si era beato a quei pensieri. Le distruzioni di intere 116

città erano nate nella sua mente, ed erano ormai divenute una nuova tradizione della guerra quando si volsero seriamente contro la Germania. Bisognava soltanto « passarvi attraverso », come attraverso ogni altra cosa. Egli rifiutava di prenderne conoscenza con i suoi occhi, e né la distruzione di Amburgo né la distruzione di Berlino lo avrebbero indotto a cedere un palmo di terreno russo conquistato. Ne risultò una situazione oggi incredibile: il suo Reich continuava a estendersi territorialmente per buona parte dell'Europa, mentre le grandi città tedesche cadevano una dopo l'altra in macerie. Si erano presi provvedimenti perché la sua persona in senso stretto rimanesse illesa. E la sua più vasta persona era rappresentata dall'estensione del Reich. Non è possibile figurarsi in maniera adeguata la distruzione che si compie nella mente di un paranoico. Il lavorio interno, che mira all'ampliamento e alla durata, si contrappone appunto a questa malattia di voler distruggere. Ma essa è in lui, poiché è una parte di lui, e quando si manifesta d'improvviso nel mondo esterno, dovunque e in qualsiasi modo, non ha più la capacità di ferirlo o sorprenderlo. La violenza dei processi che si svolgono dentro di lui è ciò che egli impone al mondo come visione. La sua intelligenza può essere insignificante come quella di Hitler, egli può per così dire non aver nulla da mostrare che possieda un qualche valore a un esame imparziale - ciò nonostante, l'intensità dei suoi interni processi di distruzione lo fa apparire come visionario o profeta, come salvatore o come Fùhrer. 117

DIVISIONI, SCHIAVI, CAMERE A GAS

Durante la guerra, la gioia suscitata in Hitler dalla massa eccitata intorno a lui si va spegnendo. Egli è ormai avvezzo a ottenere con la radio la più grande massa per lui possibile, cioè tutti i Tedeschi. E non ha più alcuna occasione di parlare dell'incremento pacifico del numero dei Tedeschi. Lo occupa la guerra, che egli considera, insieme con l'architettura, la sua autentica professione. Ora agisce muovendo le divisioni. Sono perfettamente pronte, ai suoi ordini; con esse può far da padrone a sua discrezione assoluta. Il suo scopo principale è adesso tenere in pugno i generali. Sono gli specialisti della guerra quelli che ora deve persuadere. Riesce innanzitutto a renderli docili mediante vittorie facili e sorprendenti. Le vittorie a cui dapprima aveva chiamato le masse, le vittorie che aveva promesso, riuscendo in tal modo a formare la' massa, diventano ora realtà: è il primissimo stadio. Niente gl'importa di più che sostenere di aver ragione contro ciò che pensano gli specialisti. Ogni sua previsione avverata diventa un pezzo, solidale con tutti gli altri, della sua coscienza di sé. La paranoia, che ha due volti, abbandona temporaneamente quello della persecuzione e assume esclusivamente quello della grandezza. La sua mente non è mai libera dall'idea delle masse; sono mutate però la loro composizione e la loro funzione. In passato ha acquistato i suoi Tedeschi, ora acquista degli schiavi. Sono utili, e il loro numero sarà molto più grande di quello dei Tedeschi. Ma non appena la conduzione della guerra incontra in Russia delle difficoltà, e 118

non appena le stesse città tedesche sono minacciate dalle bombe, un'altra massa acquista per lui una grande importanza: quella degli Ebrei, da sterminare. Li ha riuniti, ora può annientarli. Già in precedenza aveva detto con sufficiente chiarezza che cosa intendeva fare di loro; ma quando si tratta seriamente di procedere allo sterminio, egli si preoccupa che venga tenuto segreto. Era possibile trovarsi tanto vicini come Speèr alla fonte del potere, senza avere direttamente di fronte quello sterminio. Qui la testimonianza di Speer mi sembra specialmente significativa. Non solo egli era consapevole dello stadio della schiavitù, del lavoro forzato, ma anzi se ne occupava nell'àmbito delle sue competenze. I suoi progetti erano in parte basati su questo. Ma dello sterminio divenne consapevole solo molto tardi, quando la guerra appariva già perduta. Le vere e proprie rivelazioni circa i campi di sterminio colpirono Speer solo all'ultimo, quando era ormai impegnato nella lotta contro Hitler, e solo a Norimberga, per la prima volta, ebbero su di lui pieno effetto. Tutto ciò è credibile, non foss'altro perché lo indusse a postulare una colpevolezza collettiva della dirigenza tedesca. La fermezza del suo comportamento in circostanze difficili - egli dovette trovarsi di fronte i coimputati che lo consideravano un traditore -, la franchezza delle sue dichiarazioni - egli non maschera nulla -, l'opera principale cui egli attese durante gli anni di carcere, la stesura delle sue memorie che avevano l'intento di rendere impossibile la formazione di una leggenda intorno a Hitler, tutto ciò 119

presuppone lo shock tardivo che egli subì da quelle rivelazioni. Hitler riuscì dunque nel complesso a mantenere la maggioranza dei Tedeschi ignari della sua impresa pili orrenda, le camere a gas. Ciò, in compenso, fu tanto più presente nella sua coscienza. In tal modo ogni via per tornare indietro gli fu sbarrata. Per lui non ci fu più alcuna possibilità di concludere la pace. Rimaneva un'unica strada aperta: la vittoria, la quale, quanto più appariva impossibile, tanto più era l'unica. D E L I R I O E REALTÀ

È difficile separare in Hitler delirio e realtà: trapassano incessantemente l'uno nell'altra. Ma in sé e per sé questo fatto distingue ben poco Hitler dagli altri. La vera differenza consiste nella forza della sua illusione, che in lui non s'jaccontenta di piccole soddisfazioni come nella maggior parte degli uomini. Il delirio di Hitler nella sua compattezza è l'elemento primario e non accetta di sacrificare la minima parte di sé. Tutto ciò che compare nella realtà viene riferito al delirio come globalità. Il suo contenuto è tale che una sola cosa può alimentarlo: i successi. L'insuccesso non può propriamente toccare Hitler; egli ha un'unica funzione: spronare gli altri a trovare nuove ricette per il successo. Nell'imperturbabilità del delirio egli ravvisa l'essenza della propria durezza. Tutto ciò che ha afferrato una volta, rimane e non si sbriciola. Nessuno degli edifìci che egli ha pensato di erigere è fondato così solidamente come il suo delirio. Non è un delirio che gli per120

metta di ritrarsi in se stesso e di vivere a fianco del mondo: è così fatto, che egli deve imporlo al mondo circostante. La via che altri percorrono in casi apparentemente affini, siano essi degli inventori o dei creatori particolarmente appassionati, la via che consiste nel convincere singole persone o nel produrre opere cui spetta di operare il convincimento, non è fatta per lui. Sarebbe innanzitutto una strada assai lenta, e inoltre non corrisponde al contenuto del suo delirio. A partire dall'esito catastrofico della Prima guerra mondiale, Hitler è pervaso dalla massa dei soldati tedeschi caduti, per lui non possono essere caduti invano e dunque rimangono in vita in un modo solo a lui peculiare. Egli vuole ritrasformarli nella massa che esisteva al momento dello scoppio della guerra. È questa la massa che costituisce la sua forza, la massa con l'aiuto della quale, poiché a essa si riferisce incessantemente, egli può eccitare e raccogliere intorno a sé nuove masse. Hitler si rende conto prestissimo della realtà di questa massa, ed esercitandosi costantemente con una crescente intensità riesce a trasformarsi in un vero maestro delle masse. In questo àmbito s'accorge che gli è possibilissimo trasformare il suo delirio in realtà. Ha scoperto per cosi dire il punto debole della realtà, il punto in cui essa è sommamente fluida e dinanzi al quale arretra la maggior parte di coloro che temono la massa. Ciò non accresce il suo rispetto per l'altra realtà, la realtà statica. Il potere che si nutre delle masse, il potere allo stato grezzo, resta a lungo l'unico di cui egli disponga, e sebbene cresca rapidamente non è affatto ciò che egli veramente vuo121

le: il suo delirio esige il potere politico assoluto nello Stato. Non appena lo ha raggiunto, allora sì che si accosta alla realtà. È capacissimo di distinguerla dal suo delirio. Il suo senso della realtà, del quale è molto orgoglioso, consiste nell'esercizio del potere. Ed egli adopera il potere per imporre grado a grado il contenuto del suo delirio al suo ambiente e ai suoi apparati. Finché tutto va bene, è per essi impossibile rendersi conto (né sarebbe da augurarglielo) del carattere delirante della struttura in cui sono inseriti e della quale partecipano. Solo con gli insuccessi, l'irrevocabile rigidità e l'autentica follia della sua impresa cominciano a diventare visibili in modo sorprendentemente chiaro. L'abisso si allarga fra delirio e realtà, e la saldezza della sua fede in se stesso al tempo della sua buona sorte si rivela la sventura della Germania, così come fin dagli esordi era stata la sventura del resto del mondo. Ma egli continua a rivendicare il diritto alla preveggenza. Lui solo e nessun altro può prevedere ciò che accadrà. Più volte s'è dimostrata l'esattezza delle sue previsioni. La realtà del futuro gli appartiene, egli l'ha compresa nella sfera del proprio potere. Egli considera gli avvertimenti altrui come un turbamento del suo futuro. Lo esasperano anche se provengono dai suoi collaboratori più fidati. Li respinge con la massima asprezza, come una sorta di insubordinazione. Per lui ormai le sue previsioni hanno acquistato il carattere di ordini che egli impartisce al futuro. La capacità di intuire i pensieri altrui, tipica del paranoico non meno che del potente, comincia a dimostrare il suo carattere delirante. Gli era stata utile per valutare gli avversari. Riusciva infat122

ti a penetrarne le intenzioni anche quando erano ancora nascoste. A tale capacità e alla esattezza delle sue previsioni egli si riferisce quando parla del suo « sesto senso ». Ma ora che è incalzato dalle difficoltà, si comincia a capire quanto possa essere falsa la sua capacità d'intuizione. Hitler crede per parecchio tempo che lo sbarco in Normandia sia una finta: il vero sbarco avverrà nella zona di Calais. Le misure che prende contro il nemico sono dettate da questa falsa intuizione, dalla quale nulla può distoglierlo, alla quale si attiene, irremovibile, fino a quando sarà troppo tardi. Il fallito attentato del 20 luglio ha come conseguenza l'ultima, efficace crescita del suo senso del potere. Hitler è sopravvissuto come per miracolo, è stato dunque davvero un miracolo. Per una volta, Stalin diventa il suo modello. Hitler approva il modo in cui Stalin ha eliminato i generali russi, e sebbene non sappia nulla di concreto circa il loro tradimento, ammette che debbano essere colpevoli poiché lui stesso odia i propri generali. Ordina infatti che siano perseguiti con la massima durezza e li fa uccidere nel modo più infamante. Dalla loro esecuzione ricava la forma più primitiva di potere: quella del sopravvivere ai nemici. Si gode i film di quelle esecuzioni e li fa proiettare nella sua cerchia intima. Qualche vittima però la tiene in serbo per dopo, e predispone di tanto in tanto ulteriori esecuzioni, a seconda delle circostanze e del suo bisogno. Il 12 aprile 1945, diciotto giorni prima della morte di Hitler, Speer viene chiamato d'urgenza da lui. « Mi vide e si lanciò verso di me con una vivacità rara in lui, quasi invasato, con un dispac123

ciò d'agenzia in mano: " Qui, legga qui! Qui! Non ci volevano credere! Qui! ". Le sue parole si accavallavano: " Ecco, qui, il grande miracolo che io ho sempre predetto. Chi ha ragione adesso? La guerra non è perduta. Legga! Roosevelt è morto! ". Non riusciva a calmarsi ». Il prolungarsi della guerra fino a quell'istante appare giustificato. Sembrano ripetersi le vicende della fine della Guerra dei Sette Anni, quando Federico fu salvato dal pericolo incombente poiché morì la sua acerrima nemica. Poche cose hanno contribuito in modo così determinante al proseguimento del tutto assurdo della guerra come il pensiero di questa svolta di un destino storico. Federico il Grande fu uno dei primi modelli durevoli di Hitler: alla fine, l'unico. Nel suo bunker, che Speer paragona a una prigione, null'altro che rovine intorno a sé, i Russi alle porte di Berlino, di cui quasi più nulla è rimasto intatto, Hitler è in grado di sperare in una svolta della guerra poiché è morto un suo personale nemico. Per lui, fino all'ultimo, la storia vera e propria è soltanto una lotta fra alcuni, pochissimi, potenti; solo essi contano; quale di essi riesca a sopravvivere agli altri, è ciò che determina il corso del mondo - e nulla rivela più chiaramente la devastazione provocata nella mente di Hitler dall'idea del potere e dalla sua cieca dedizione a essa. Alla scomparsa di Roosevelt, l'uomo che egli irrideva e disprezzava chiamandolo « il paralitico », si aggrappa ora la sua ultima speranza. Se si considera l'efficacia dei modelli storici e la loro pericolosità mai del tutto compresa, sarebbe opportuno riportare in tutti i libri di lettura del 124

mondo la scena del bunker così come Speer l'ha narrata. Per ora non possiamo fare molto di più che addurre immagini di verità assoluta in grado di contrapporsi alla persistente efficacia di quei modelli tanto funesti. La vergogna per questa situazione, l'esame della sua ignominia, l'essenza della visione falsa - tutto questo insieme dovrebbe poter suscitare un'impressione incancellabile.

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CONFUCIO NEI SUOI DIALOGHI

L'avversione di Confucio per l'eloquenza, il peso delle parole scelte con proprietà. Egli teme che l'uso facile e scorrevole le indebolisca. L'esitazione, la riflessione, il momento che precede la parola è tutto; ma anche il momento che la segue. Nel ritmo della domanda e della risposta isolate c'è qualcosa che ne accresce il valore. Confucio odia la parola veloce dei sofisti, il concitato palleggio delle parole. Ciò che conta non è il colpo della risposta immediata, ma l'affondare della parola alla ricerca della sua responsabilità.' Confucio ama attenersi a qualcosa che sia presente, e ama spiegarlo. Dibattiti più lunghi, da parte sua, non ci sono stati tramandati e apparirebbero innaturali. In contrasto con lui, i suoi allievi diventano utili ai principi regnanti più per la loro eloquenza che per il loro sapere. Quelli tra loro che si fanno innanzi nel mondo grazie ai discorsi non sono dunque i veri allievi del suo cuore. Nella vita di Confucio spicca la sua mancanza di successo, specie durante il periodo di peregrinazioni di città in città. Sarebbe difficile prenderlo sul serio se in qualche luogo fosse effettivamente 1. Notiamo che in tedesco vi è un legame, che non può essere reso in italiano, tra Antwort (« risposta ») e Verantwortung («responsabilità») [AT.d.r.].

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divenuto e rimasto ministro. Trascura il potere reale, gli interessano soltanto le sue possibilità. Per lui il potere non è mai fine a se stesso, bensì un compito, la responsabilità per la totalità. Egli diventa cosi il maestro della negazione e si dimostra perfettamente in grado di preservarsi. Tuttavia non è affatto un asceta, prende parte a ogni aspetto di questa vita e mai si ritrae veramente da essa. Solo nei periodi di lutto per i morti ammette qualcosa di simile all'ascesi: essa serve alla conservazione vivente del morto. La sua felicità, che non ha mai fine, è lo studio. I suoi interessi antiquari si collegano sempre all'umano e servono all'ordinamento dell'esistenza. In lui la propensione all'ordine si spinge molto in là, e la ritualità dell'ordine si incide profondamente in lui. « Non si sedeva su una stuoia che non fosse ben disposta ». Egli ha fiuto per le distanze e le rispetta scrupolosamente. Confucio non permette ad alcun uomo d'essere uno strumento. A ciò si riconnette la sua avversione per gli specialisti: un tratto, questo, particolarmente importante, giacché ancora oggi lo si trova in Cina. Non importa che si sia capaci di far questo o quello, importa che con ogni singola capacità si sia uomini. Con grande vigore Confucio insiste però anche sulla necessità che non si agisca per calcolo; ciò significa, a ben considerare, che non si trattino gli uomini come strumenti. Per quanto si voglia tener conto dell'origine sociale di questo principio, che reca in sé il disprezzo verso l'attività commerciale - il fatto che esso sia espresso chiaramente e che dallo studio dei dialoghi di Con128

fucio risulti comunque operante, benché non decisivo, ha una notevole importanza per ciò che si potrebbe definire nel complesso il residuo della civiltà cinese. L'uomo esemplare resta quello che non agisce per calcolo. Confucio è paziente nelle sue fatiche per ottenere udienza da parte di coloro che detengono il potere, i principi regnanti. Non si può dire che li aduli, e quando riconosce la loro autorità lo fa solo perché dall'esercizio di tale autorità pretende moltissimo. In genere egli non rivela d'aver alcuna nozione della natura del potere, di ciò che il potere è intimamente. Nozioni di tal genere le forniranno poi i suoi tardi avversari, i legalisti. È molto significativo che tutti i pensatori della storia dell'umanità i quali comprendono qualcosa del potere effettivo, lo affermino. I pensatori che sono contro il potere ne penetrano difficilmente l'essenza. Provano per il potere un orrore talmente grande che non riescono a occuparsene; temono d'esserne contaminati; il loro atteggiamento ha qualcosa di religioso. Hanno elaborato una scienza del potere solo quei pensatori che lo approvano e sono disposti a farsi suoi consiglieri. Qual è il modo migliore per ottenere e conservare il potere? A cosa bisogna specialmente badare per difenderlo? Quali scrupoli, che ne ostacolano l'esercizio, bisogna metter da parte? Il più interessante fra questi conoscitori del potere che lo valutano positivamente è Han Fei Tzu (vissuto 250 anni dopo Confucio). Studiarlo 129

è indispensabile per gli avversari più incalliti del potere. I Dialoghi di Confucio sono il più antico ritratto spirituale completo di un uomo. Si leggono come un libro moderno; è importante non solo tutto ciò che contengono, ma anche tutto ciò di cui sono carenti. L'uomo che vi si impara a conoscere è un uomo assolutamente completo, ma non un uomo qualsiasi. È un uomo che tiene conto della propria esemplarità e che, grazie a essa, vuole agire sugli altri. Ogni singolo tratto, e moltissimi ne sono delineati, ha un suo significato. Secondo un ordine non rigido, non predisposto in base a norme identificabili, si manifesta nella sua globalità una creatura che agisce in modo credibile, che pensa, respira, parla, ammutolisce, e che, soprattutto, è un modello. Studiando Confucio si può imparare con particolare chiarezza come sorga un modello e come si conservi. Bisogna innanzitutto già essere ricolmi di un modello al quale ci si attiene in ogni circostanza, del quale non si dubita; un modello cui non si rinuncia mai, che si potrebbe raggiungere e che tuttavia non si raggiunge mai del tutto. Anche se lo si fosse raggiunto, non si dovrebbe voler mai ammettere di averlo raggiunto davvero. Giacché il modello raggiunto perde la sua forza. Nutre soltanto chi, di lontano, vi aspira. Il tentativo di superare questa distanza, il tentativo di stringere dappresso il modello, dovrà sempre essere rinnovato, ma non potrà mai riuscire. Finché non riesce, finché dura la tensione della distanza, il salto in direzione del modello può con130

tinuamente essere ritentato. Ciò che importa, sia pure in modo apparentemente vano, sono questi tentativi, anch'essi vani in apparenza; nel compierli, infatti, si acquista un'esperienza, una capacità, una qualità riguardo agli altri. Confucio si pone dinanzi a grande distanza il proprio modello: è il duca di Tsu, che visse cinquecento anni prima di lui e al quale veniva attribuita la maggior parte delle istituzioni della dinastia allora nuova. Per capirlo, Confucio si occupa di tutto ciò che allora e da allora era accaduto, e inoltre dei documenti storici, dei canti, dei riti. Esamina queste tradizioni, le vaglia e le ordina; in seguito si suppose che tutto quanto si sapeva di quel periodo fosse stato definito da Confucio. Il suo modello gli appare in sogno; negli anni successivi egli diventa inquieto se queste apparizioni non si ripetono per un certo tratto di tempo. Considera infatti la mancata apparizione un segno di disapprovazione: vuol dire che egli ha fallito troppo, là dove il duca aveva ottenuto successo. Non è però il suo unico modello. Si può dire che Confucio abbia raggruppato intorno a dei modelli l'intera storia cinese, almeno fin là dove credeva di conoscerla: al principio di ciascuna delle tre dinastie tradizionali, ma anche immediatamente prima della prima di esse, egli colloca una o due figure che con il loro valore esemplare improntano a lungo il periodo successivo. Non solo sì rende conto dell'enorme importanza dei modelli, ma sa anche che essi si logorano e perciò si preoccupa del loro rinnovamento. Da se stesso e dai suoi allievi apprende l'efficacia degli esempi positivi. Dai principi che cerca di consigliare e 131

che non vogliono ascoltarlo impara a conoscere gli esempi negativi.* Per quanto gli siano sgraditi, egli non li sopprime. Li introduce nella storia e li colloca preferibilmente alla fine delle dinastie. Si preoccupa sempre, però, che nella storia gli esempi negativi siano vinti ed eliminati dagli esempi positivi. Occupandosi cosi dei propri modelli, egli stesso diventa uno di questi, ed è degno di nota che egli sia diventato un modello molto più di quelli, e per un arco di tempo di gran lunga maggiore. « Un giovane » dice Confucio « dovrebbe essere trattato con il massimo rispetto. Come fai a sapere che un giorno egli non varrà quanto tu vali oggi? Chi ha raggiunto i quaranta o cinquant'anni senza essersi distinto in qualche modo, quegli non merita alcun rispetto ». Confucio ha applicato questo principio durante la sua lunga consuetudine con gli allievi. Come li osserva! Con quanta prudenza li valuta! Si guarda bene dal nuocere loro con una lode troppo precoce. Si lascia andare ed è felice quando meritano lode incondizionata. Non biasima senza aver tolto al biasimo la sua punta nociva. Si lascia criticare dagli allievi e risponde loro. Nonostante il grande numero di princìpi da cui egli prende le mosse, la sua valutazione del carattere resta empirica. Quando due allievi si ritrovano insieme, egli li interroga sui loro più intimi desideri e poi rivela i propri. In ciò non si deve rav1. Gegenbilder: letteralmente « contro-immagini », « immagini invertite » [A'^.d.T.].

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visare una critica, piuttosto un confronto fra nature diverse. Egli tuttavia non fa mistero del suo profondo amore per Yen Hui, il Puro e l'Inutile al mondo; e non nasconde la sua disperazione quando l'allievo prediletto muore a trentadue anni. Non conosco alcun saggio che come Confucio abbia preso la morte tanto sul serio. Alle domande intorno alla morte rifiuta una risposta. « Se ancora non si conosce la vita, come si potrebbe conoscere la morte? ». Su questo tema non è mai stata detta una frase più appropriata. Confucio sa benissimo che tutte le domande di tal genere riguardano un periodo dopo la morte. Ogni risposta è una scappatoia che non tiene conto della morte, è così che viene elusa la morte e la sua incomprensibilità. Se dopo c'è qualcosa, come qualcosa c'era prima, la morte in quanto tale perde il suo peso. Confucio non si presta a questo, che è il più indegno dei trucchi. Non dice che dopo non c'è nulla, non può saperlo. Ma si ha l'impressione che se anche fosse possibile non gli importerebbe affatto di saperlo. Ogni valore viene così spostato sulla vita; alla vita viene restituito quel tanto di serietà e di splendore che gli uomini le avevano sottratto, trasferendo di là dalla morte buona parte, e forse la parte migliore, della loro forza. In tal modo la vita resta interamente ciò che è, e anche la morte rimane intatta; vita e morte non sono permutabili né confrontabili, non si mescolano fra loro, restano diverse. La purezza e l'orgoglio umano di questo principio possono conciliarsi perfettamente con la netta accentuazione del ricordo dei morti che è pa133

lese nel Li Chi, il Libro dei Riti dei Cinesi. In questo libro si trova ciò che di più credibile io abbia letto in tutta la mia vita sull'approccio ai morti, e sul significato della loro presenza nei giorni destinati alla loro memoria. A questo proposito il contenuto del Libro dei Riti è perfettamente nello spirito di Confucio; sebbene sia stato esposto in tale forma solo in epoca successiva, vi ritroviamo ciò che sempre si avverte quando si leggono i dialoghi di Confucio. Con tenerezza e tenacia, unite in modo che raramente si incontra altrove, Confucio s'adopera ad accrescere il senso di venerazione per certi morti. È stato troppo poco sottolineato che egli si sforza cosi di diminuire il piacere del sopravvivere, uno dei compiti più ardui, il quale fino a oggi non è stato affatto assolto. Chi piange per tre anni il proprio padre, interrompendo radicalmente e così a lungo il corso della propria attività consueta, non può provare alcuna gioia di sopravvivere; ogni soddisfazione di sopravvivere, quand'anche fosse ancora possibile, verrebbe estirpata alla base dalla pratica degli obblighi del lutto. In questo periodo, infatti, bisogna anche dimostrarsi degni del padre. Ci si carica della sua esistenza in ogni particolare, si diventa lui, mediante un'incessante venerazione. Non soltanto non lo si rimuove, ma anzi si mira al suo ritorno e con determinati riti si ottiene la sensazione di tale ritorno. Il padre morto continua a esistere come figura e modello. Ci si guarda dal non fare il proprio dovere nei suoi confronti: dinanzi a lui bisogna dar buona prova di sé. « Dopo tre giorni si mangia di nuovo, dopo tre mesi ci si lava di nuovo, dopo un anno si in134

dossano di nuovo abiti di seta grezza sotto il costume di lutto. Il tormento di sé non deve spingersi fino all'annientamento dell'essere, affinché la vita non sia danneggiata dalla morte. Il lutto non supera i tre anni ». « I sacrifici non devono essere troppo frequenti, poiché altrimenti divengono gravosi e la loro solennità ne soffre. Ma non devono neppure essere troppo rari, poiché altrimenti si diventa pigri e ci si dimentica dei morti ». « Il giorno del sacrificio, il figlio pensò ai genitori, richiamò alla memoria la loro abitazione, il loro sorriso, il tono della loro voce, il loro modo di sentire; pensò a tutto ciò che li rallegrava e a ciò che mangiavano volentieri. Dopo che in questo modo ebbe digiunato e meditato per tre giorni, vide coloro per i quali digiunava ». « Il giorno del sacrificio, quando entrò nella stanza degli antenati, aspettava con ansia di rivederli sul seggio degli antenati; muovendo intorno, entrando e uscendo, era certo di sentirli muovere o parlare; quando uscì dalla porta, stette con il fiato sospeso ad ascoltare, come se li udisse sospirare ». Per quanto ne so, e considerando tutte le civiltà, questo è l'unico tentativo serio di eliminare la cupidigia di sopravvivere. Almeno sotto questo aspetto, è necessario dunque che il confucianesimo delle origini - nonostante le degenerazioni successive - sia preso in considerazione senza alcun pregiudizio. Con tutto il rispetto che perciò si deve a Confucio, non si potrà negare che un'altra questione era per lui più importante. Si trattava di utilizzare il ricordo dei morti per fissare stabilmente 135

la tradizione. Egli preferì questo mezzo alle sanzioni, alle leggi e alle pene. La trasmissione di padre in figlio gli parve più efficace, ma solo nella misura in cui il padre stesse dinanzi al figlio come persona intera, modello mai sgretolato. Tre anni di lutto gli parvero necessari affinché il figlio divenisse interamente ciò che il padre era stato. Questo implica molta fiducia in ciò che il padre era, e vuole impedire un peggioramento di padre in figlio. Resta però da considerare se in tal modo non si renda anche più difficile un miglioramento.

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TOLSTOJ, L'ULTIMO AVO

La mania di autoaccusarsi di Tolstoj, fin dagli anni giovanili, è un'infezione derivante da Rousseau. Le sue autoaccuse, tuttavia, vanno a urtare contro un io compatto. Può rinfacciarsi tutto ciò che vuole, ma non si distrugge. È un'autoaccusa che gli dà importanza, fa di lui il centro del mondo. Sorprendentemente presto, egli scrive la storia della propria giovinezza: di là ha inizio la sua attività di scrittore. Non può sentir parlare di un nuovo argomento senza volerne subito definire le « regole ». Le leggi, che egli deve sempre trovare, sono il suo orgoglio; così, tuttavia, va anche alla ricerca di stabilità. Ne ha bisogno a causa della morte, che ha sperimentato presto e in gran quantità. A due anni perde la madre, a nove il padre, e a brevissima distanza la nonna, di cui osserva e bacia il cadavere nella bara. Non è però precoce. Raccoglie a lungo la sua osti nazione. Tutte le sue esperienze si tuffano immu tate nei suoi racconti, romanzi, drammi. Sono esperienze forti, e poiché non si sgretolano mai gli conferiscono qualcosa di monumentale. Ogn uomo che si conserva cosi è una specie di mostro Gli altri si indeboliscono scorrendo via da sé. Egli vede troppo la verità come legge e accorda ai propri diari una sorta di onnipotenza. Mediante la lettura dei suoi primi diari, che brulicano di verità su di lui, penose ma sopravvalutate, 137

vuole educare la moglie diciottenne a comportarsi secondo le proprie leggi, ancora vacillanti. Lo shock che in tal modo le provoca avrà conseguenze per cinquant'anni. Egli appartiene a coloro che non smarriscono un'osservazione, un pensiero, un'esperienza di vita. Tutto in lui rimane singolarmente cosciente. È spontaneo nelle antipatie, nelle ripulse; ingenuo nell'attenersi a costumi e immagini tradizionali. La sua forza consiste nel non lasciarsi convincere: per giungere a nuove convinzioni ha bisogno di violente esperienze personali. I suoi resoconti sul modello di Franklin, cui dà inizio molto presto, sarebbero un po' risibili se tutto ciò che contengono non si fosse ripetuto con spaventosa tenacia. Ci sono però dei brani suoi, affascinanti, che risarciscono di molte cose che compaiono nei diari: così, in una lettera alla moglie, egli include totalmente nella propria esistenza la guerra russo-turca del 1877-78: « Finché durerà, non potrò più scrivere. È come se la città ardesse. Non si sa cosa fare. Non si può pensare ad altro ». L'evoluzione religiosa del tardo Tolstoj sta sotto il segno di una coazione inevitabile. Ciò che egli considera libera decisione del suo spirito, è determinato da un'equiparazione mostruosa: con Cristo. Ma la sua gioia, ogni lavoro agricolo, il predominio in lui delle attività manuali, hanno ben poco in comune con Cristo. Più che assomigliare a Cristo, egli è un regressivo possidente, il padrone che torna a essere contadino. Per riparare a tutto ciò che i padroni hanno commesso, si serve del Vangelo. Cristo è la 138

sua stampella. Suo dovere è la propria ritrasformazione, assolutamente personale, in contadino. A lui non importano i diritti del contadino, ma la sua esistenza. Gli importa inoltre di essere riconosciuto come contadino. La sua famiglia, che lo ostacola in questa metamorfosi, gli diviene molesta. Sua moglie ha sposato il conte e lo scrittore, del contadino non vuol saperne. Lo attornia con i loro otto figli viventi, che non sono per nulla figli di un contadino. Le sue proprietà vengono spartite mentre egli è ancora in vita. Vuole esserne libero; e tutte le dispute consuete fra eredi si svolgono tra la moglie e i figli sotto i suoi occhi. È come se egli avesse previsto di far scaturire il peggio dai suoi familiari. La moglie si nomina editrice delle sue opere. E si consulta sulla faccenda con la vedova di Dostoevskij, di cui fa la conoscenza appunto per quella ragione. Ci si immagini: due vedove, due vedove abilissime, riunite insieme. Negli ultimi anni della sua esistenza Tolstoj viene fatto a pezzi da vivo, per opera di due iniziative, si può dire di due imprese d'affari, risultato di ciò che egli veramente fu per decenni. Sua moglie rappresenta l'affare editoriale e vuol ricavare il più possibile dallo smercio delle Opere complete. Certkov, il suo segretario, rappresenta la sua fede, la nuova religione o setta che viene fondata. È abile anche lui, sta attento ad ogni parola di Tolstoj e lo mette sulla buona strada. Diffonde in tutto il mondo a buon mercato pamphlets e trattati. Usurpa ogni riga del fondatore che possa tornare utile alla fede e pretende copie del diario in statu nascendi. Tolstoj è legato al discepolo prediletto e gli permette tut139

to. Tiene a questa iniziativa, mentre per quella della moglie spesso non prova altro che amaro rancore. Le due imprese, del resto, vivono di vita autònoma e in generale non si danno pensiero di lui. Quando egli subisce un grave attacco e si ha l'impressione che potrebbe morire da un momento all'altro, la moglie grida d'improvviso: « Dove sono le chiavi? », e vuol dire le chiavi dei suoi manoscritti. Ho trascorso tutta la notte, quasi stregato, sulla vita di Tolstoj. Nella vecchiaia, vittima dei parenti e dei seguaci, oggetto di tutto ciò che egli specialmente combatte, la sua vita acquista un significato che nessuna delle sue opere riesce ad attingere. Egli strazia l'osservatore, ogni osservatore, poiché ognuno scopre incarnate in quella vita convinzioni che sono per lui capitali, strette ad altre che egli aborre sopra ogni cosa. Tutte sono articolate, vengono cacciate fuori senza riguardo, non cadono nell'oblio, tornano sempre. In lui appaiono conciliabili cose che altrimenti nell'uomo si combattono aspramente. Le sue contraddizioni lo rendono sommamente credibile. È l'unica figura di uomo anziano dei tempi nostri che si possa prendere sul serio. Poiché egli lascia che tutto si manifesti, non può rinunciare ad alcun biasimo, ad alcuna sentenza, ad alcuna legge, resta aperto da ogni lato, anche là dove traccia i suoi confini con maggiore nettezza. Per me è molto doloroso constatare che un uomo, il quale penetra e rifiuta spietatamente il potere in ogni sua forma, guerra, tribunale, governo, denaro - che un uomo di cosi inaudita e incorruttibile chiarezza, stipuli una sorta di patto con la 140

morte che per lungo tempo ha temuto. Per uno sviante itinerario religioso, egli s'avvicina alla morte e si inganna su di essa tanto a lungo da essere infine capace di adularla. In tal modo riesce a dimenticare gran parte della sua angoscia dinanzi alla morte. La accetta con l'intelletto, come se essa fosse un bene morale. Si esercita a osservarla tranquillamente quando muoiono le persone che gli sono più care. Sua figlia Masa, l'unica tolstoiana adulta della famiglia, muore a trentacinque anni. Egli sta a guardare la sua malattia e la sua morte, partecipa alla sua sepoltura. È soddisfatto di ciò che verifica in quell'occasione: s'è spinto innanzi nel suo allenamento alla morte, ha fatto progressi, approva l'orrore; ciò che doveva estorcere da sé con la violenza qualche anno prima, quando era morta, a sette anni, la figlia prediletta Vanicka, ora non gli riesce più affatto difficile. Egli stesso, così, continua a sopravvivere e diventa sempre più vecchio. Gli manca ogni conoscenza profonda del processo del sopravvivere. Inorridirebbe all'apprendere che la morte di giovani membri della sua famiglia rafforza il suo senso di vita e di fatto prolunga la sua esistenza. Certo, egli si augura, pensando a Cristo, la sorte di un martire; ma i poteri di questo mondo, che egli aborre, si guardano bene dal toccarlo. Tutto ciò che gli capita è d'essere scomunicato dalla Chiesa. I suoi seguaci più fedeli vengono esiliati, ma lui è lasciato nella sua proprietà e può muoversi liberamente ovunque. Continua a scrivere ciò che vuole e, in un modo o nell'altro, a poter pubblicare: non è persona che si possa far tacere. Supera anche le malattie più gravi. 141

Ciò che lo Stato non gli fa, gli giunge dalla sua famiglia. È sua moglie, non il governo, che apertamente sorveglia il suo bene. La lotta per la vita e per la morte che egli deve combattere con lei non riguarda i pamphlets e gli appelli - riguarda bensì la più intima resa dei conti che egli ha quotidianamente con se stesso: il suo diario. È sua moglie, alleata con i figli, che gli dà una caccia mortale. Ella si vendica della guerra che Tolstoj ha combattuto contro il suo sesso e contro il denaro; e bisogna dire che soprattutto le importa il denaro. È lei che in sua vece sviluppa quella mania di persecuzione che propriamente sarebbe dovuta nascere in lui, come conseguenza della battaglia senza compromessi condotta contro nemici potenti. Di lui, il più franco degli uomini, ella fa nell'estrema vecchiaia un congiurato. Fino alla fine egli ama la sua dottrina, grottescamente incarnata nel segretario Certkov. La ama a tal punto che il suo rapporto con Certkov assume carattere omosessuale agli occhi folli della moglie. I diari, che sono collegati al principio del loro matrimonio, rappresentano per lei l'autentico Tolstoj. Si è perciò appropriata dei suoi manoscritti, che ha faticosamente ricopiato. La sua paranoia le dice che di Tolstoj non resterà altro che i manoscritti e i diari; quelli devono essere suoi. Ella tuttavia odia la qualità esemplare della sua vita, l'incessante dibattito con se stesso, in cui lei stessa è coinvolta. E le riesce, con virtù diabolica, di devastare gli ultimi anni di quella vita. Non si può dire che prevalga totalmente, poiché alla fine, dopo tormenti indicibili, Tolstoj fugge. Ma anche negli ultimi giorni, quando crede di 142

essersene liberato, lei gli è segretamente vicinissima; nei momenti estremi gli mormora all'orecchio che è stata là tutto il tempo. Per dieci giorni mi sono occupato della vita di Tolstoj. Ieri è morto ad Astapovo ed è stato sepolto a Jasnaja Poljana. Una donna entra nella camera in cui giace maIato; egli crede che sia la figlia prediletta morta e grida forte: « Masa! Masa! ». Dunque ha provato la gioia di ritrovare uno dei suoi morti; e anche se quella donna non era Masa, l'istante ingannevole di questa gioia fu uno degli ultimi della sua vita. Tolstoj morì faticosamente; come sempre chi ha vissuto con tenacia. Non s'è riconciliato con la Chiesa. Ma era circondato dai discepoli, che l'hanno difeso dagli ultimi emissari della Chiesa. Sua moglie e i suoi figli - i quali, ad eccezione del maggiore, Sergej, erano tutti dei pessimi soggetti - s'erano insediati in un vagone di lusso nella stazione di Astapovo, nelle immediate vicinanze del morente. Questi s'avvide che la moglie spiava dalla finestra, e si dovette tirare una tenda. Sei medici, e non erano troppi, stavano intorno a lui: per quanto li avesse disprezzati, li preferiva alle attenzioni di sua moglie. Non conosco nulla di più avvincente e toccante della vita di quest'uomo. Che cosa in essa mi soggioga a tal punto? Che cosa da dieci giorni mi vieta di liberarmene? È una vita completa fino all'ultimo istante; fino alla morte vi è tutto ciò che sta in una vita. Non c'è punto sul quale sia stata decurtata, frodata, falsata. Entro questa vita stanno tutte le contrad143

dizioni di cui un uomo è capace. Ci è dinanzi completa, nota in ogni particolare: tutto, dalla giovinezza agli ultimi giorni, in qualsiasi forma, è stato registrato. Ciò che spesso mi disturba nella sua opera, una certa assennatezza e mancanza di slancio, torna a profitto della sua narrazione autobiografica. Ha una sola tonalità, è credibile, la si abbraccia con lo sguardo e si soggiace all'illusione che una vita possa davvero lasciarsi afferrare cosi. Forse nessuna illusione è più importante di questa. Che la vita di un uomo si frammenti in innumerevoli dettagli che non hanno fra loro alcun rapporto è una concezione che si può anche sostenere, ma è stata spinta troppo in là e le sue conseguenze non sono positive. Essa sottrae all'uomo il coraggio di resistere, poiché per avere questo coraggio l'uomo deve sentire che resta uguale a se stesso. Nell'uomo ci deve essere qualcosa di cui egli non si vergogni, qualcosa che ponga dinanzi agli occhi e registri le vergogne che sono necessarie. Questa parte impenetrabile della natura più intima di un essere umano possiede una sua relativa costanza, rintracciabile già nei suoi primi anni se la nostra ricerca è scrupolosa. Quanto più a lungo riusciamo a inseguire le tracce di tale costanza, quanto più ampio è l'arco di tempo in cui si estende l'attività di quest'uomo, tanto più la sua vita acquista peso. Un uomo che per ottant'anni abbia posseduto consapevolmente questo elemento costante offre uno spettacolo tanto terrificante quanto necessario. Egli rende vera la creazione in un modo nuovo, quasi potesse giustificarla col suo discernimento, con la sua resistenza, con la sua pazienza. 144

Mi sono qui occupato soltanto della vita di Tolstoj, non delle sue opere.' Così non poteva fuorviarmi ciò che nelle sue opere mi riesce stucchevole. Non lo è mai la sua vita, la sua vita è mostruosa, con questa fine è una vita esemplare. La sua evoluzione religiosa e morale sarebbe priva di valore se non l'avesse condotto alla situazione terribile degli anni tardi ed estremi. Il fatto che Tolstoj sia fuggito ancora una volta e non sia morto nel suo letto ha fatto della sua vita una leggenda. Ma forse ha valore superiore il periodo che precedette la fuga. La resistenza di Tolstoj contro tutto ciò che gli pareva non vero gli rese nemiche le persone più vicine, la moglie, i figli. Se egli avesse subito abbandonato la moglie, se non fosse stato in pensiero per la sua vita, se le avesse voltato le spalle (e ve n'erano ragioni a sufficienza) non appena l'esistenza vicino a lei divenne insopportabile - non sarebbe da prendere sul serio. Ma è rimasto e, vecchissimo, ha affrontato le sue minacce diaboliche. La sua pazienza ha suscitato lo stupore dei contadini intorno a lui, e più d'uno con il quale parlava glielo ha anche detto. Non lo disprezzavano: di tutti gli uomini appariva loro ancor sempre il migliore. Nelle battaglie che dovette patire divenne, come egli stesso scrive, un oggetto; era questa per lui la cosa più insopportabile. Non era del tutto solo. Aveva discepoli fedeli, e uno che specialmente amò poiché volgeva contro 1. Devo molto alla stimolante biografia di Troyat [H. Troyat, Tolsto'i, Paris, 1965] che utilizza una quantità di materiali accessibili solo in lingua russa.

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lui stesso, contro il maestro, il rigore della sua dottrina. Ebbe anche una figlia ciecamente devota. Ma proprio questo è ciò che rende cosi evidenti e concreti gli avvenimenti che lo riguardano. Non si svolgono in lui solo. Coinvolgono gli altri. Alla fine, la vita di Tolstoj si svolge come nel mio libro Aulo da fé: la battaglia per il testamento, il rovistare fra le carte. Un matrimonio che era iniziato in un clima di venerazione e comprensione, con la moglie che copiava ripetutamente, senza tregua, ogni pagina scritta dal consorte, termina nella guerra più spaventosa a causa di un'assoluta incomprensione. Negli ultimi anni Tolstoj e sua moglie sono lontani tra loro quanto Kien e Therese. Il loro tormento è però più intimo, poiché dopo decenni di convivenza, sanno di più uno dell'altra. Sono nati dei figli da questo matrimonio, il profeta ha dei seguaci, e dunque lo scenario non è così spaventosamente vuoto come l'appartamento di Kien. In Auto da fé la rappresentazione del conflitto ha maggiore rilievo e perciò è forse più chiara, ma siccome si avvale di mezzi che Tolstoj respinge, apparirà meno attendibile a persone che posseggano la sua visione della « natura ». Anche nei peggiori tormenti, egli non si sarebbe riconosciuto in Kien, mentre probabilmente avrebbe riconosciuto sua moglie in Therese. Nell'estrema vecchiaia Tolstoj ricerca nel trattato di psichiatria di Korsakov i sintomi della follia di sua moglie. Dovrebbe già conoscerli tutti con estrema esattezza. Ma non si è mai interessato seriamente alla follia, l'ha sempre schivata, lasciandola con sprezzo a Dostoevskij. 146

Poco prima della sua fuga, egli legge I fratelli Karamazov, e in particolare legge qualcosa sull'odio di Mitja per il padre, o comunque sulrodio. Lo rifiuta, non lo ammette; può darsi che il suo rifiuto morale dell'odio offuschi la sua valutazione dinanzi alla soggiogante narrazione di Dostoevskij? E tuttavia, per la fuga, si procura dalla figlia Sasa il secondo volume dei Karamazov.

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IL DIARIO DA HIROSHIMA DEL DOTTOR HACHIYA A Hiroshima i volti che si disfanno, la sete dei ciechi. Denti bianchi sporgenti in un volto sparito. Vie bordate di cadaveri. Su una bicicletta un morto. Stagni colmi di morti. Un medico con quaranta ferite. « Siete vivo? Siete vivo? ». Quante volte deve udirlo. Visita illustre: l'Eccellenza. In suo onore, egli si alza a sedere nel letto e pensa, va meglio. Di notte come unica luce i fuochi della città, cadaveri che bruciano. Odore come di sardine che bruciano. Quando accadde, la prima cosa che d'improvviso notò su di sé: era completamente nudo. Il silenzio, tutte le figure si muovono senza rumore, come in un film muto. Le visite ai malati nell'ospedàle: primi resoconti di ciò che è stato l'annientamerlto di Hiroshima. La città dei quarantasette Ronin è stata scelta per questo? Il diario del medico Michihiko Hachiya comprende 56 giorni a Hiroshima, dal 6 agosto, il giorno della bomba atomica, al 30 settembre 1945. È scritto come un'opera della letteratura giapponese: precisione, delicatezza e responsabilità sono i suoi tratti essenziali. Un medico moderno, che è tanto giapponese da 149

credere irremovibilmente nell'imperatore, anche quando questi annuncia la capitolazione. In questo diario quasi ogni pagina è degna di riflessione. Se ne impara più che da ogni altra descrizione successiva, poiché si è coinvolti nell'inesplicabilità dell'accaduto fin dal principio: tutto è assolutamente inesplicabile. Fra le sue sofferenze, in mezzo ai morti e ai feriti, l'autore va raccogliendo pezzo per pezzo la situazione di fatto; i suoi sospetti cambiano a mano a mano che egli ne sa di più, e si trasformano in teorie che esigono esperimenti. Non c'è una riga falsa in questo diario; e nessuna vanità che non si fondi sul pudore. Se avesse un senso riflettere su quale forma di letteratura sia oggi indispensabile, indispensabile a un uomo che sa e non chiude gli occhi, si dovrebbe dire: eccola, è questa. Tutto si svolge in un ospedale, e perciò l'osservazione è interamente vincolata agli uomini: a quelli che lo cercano e a quelli che lo gestiscono. Vengono menzionate delle persone, e quelle entro pochi giorni sono morte. Altre persone giungono da luoghi e città diversi a visitare Hiroshima. È sconvolgente ritrovare in vita amici creduti morti. L'ospedale è il migliore della città, una sorta di paradiso in confronto agli altri, ognuno cerca di arrivarvi e molti ci riescono. Di notte le uniche luci sono i fuochi nella città; i morti che vengono cremati elargiscono quella luce. Più tardi si forma intomo a un'unica candela un gruppo di tre, che parlano del pikadon, ciò che è accaduto. Ognuno cerca di integrare quanto sa con il resoconto d'un altro, come se si dovesse ricomporre 150

un film con fotogrammi frammentari e casuali, e di tanto in tanto se ne aggiungesse un pezzo. Si va nella città, ci si apre il passo fra le rovine o si scava alla ricerca di tesori, si ritorna nella nuova comunità dei moribondi e si spera. Mai come in questo diario sono riuscito a conoscere un giapponese. Per quanto abbia letto, già prima, su di loro. Solo ora, per la prima volta, sento di conoscerli realmente. È vero che possiamo capire intimamente gli uomini solo nella loro massima sventura? È soprattutto la sventura ciò che accomuna gli uomini? Può darsi che a ciò si connetta la mia profonda avversione per ogni idillio, il fatto che mi sia insopportabile la letteratura idillica. Nel caso di Hiroshima si tratta della più concentrata catastrofe che mai sia piombata sugli uomini. In una pagina del suo diario il dottor Hachiya pensa a Pompei. Ma anche Pompei non vale affatto come termine di confronto. Su Hiroshima è piombata una catastrofe provocata dagli uomini che l'hanno calcolata. La « natura » non c'entra. L'aspetto della catastrofe è diverso a seconda che la si sia osservata dall'interno della città, dove si vede tutto ma non si ode nulla, e allora la si chiama pika, oppure dall'esterno, ove si può anche udire, e allora si dice pikadon. Molto avanti nel diario si trova la descrizione di un uomo che ha visto la « nube » senza esserle immediatamente esposto. È sbalordito dalla sua bellezza: lo splendore colorato della nube, i contorni netti, le linee rette che da essa si espandono nel cielo. 151

Che cosa significa sopravvivere in una catastrofe di tali proporzioni? Come ho già detto, le annotazioni di questo diario sono di un medico, di un medico moderno e particolarmente scrupoloso, che è abituato a pensare in modo scientifico e che, dinanzi a questo fenomeno totalmente nuovo, non riesce a rendersi conto della cosa con cui ha a che fare. Solo il settimo giorno, ricevendo una visita dall'esterno, apprende che era una bomba atomica ciò che è caduto su Hiroshima. Un capitano amico gli porta in dono un cestino di pesche: « È un miracolo che lei sia sopravvissuto », dice al dottor Hachiya « in fin dei conti l'esplosione di una bomba atomica è una faccenda orribile ». « " Una bomba atomica! " gridai, e mi alzai sul letto. " Ma allora è la bomba di cui ho sentito dire che potrebbe far saltare in aria Formosa con non più di dieci grammi di idrogeno! " ». E giungono ben presto visitatori che si congratulano con Hachiya poiché è ancora vivo. È un uomo stimato e amato, ci sono pazienti riconoscenti, compagni di studi, colleghi, parenti. La loro gioia per la sua sopravvivenza è senza limiti, sono stupefatti e felici, non c'è forse felicità più pura. Gli sono affezionati, ma in lui inoltre ammirano stupiti una sorta di miracolo. È una delle situazioni del diario che si ripetono più spesso. Così come amici e conoscenti si rallegrano di trovarlo in vita, allo stesso modo egli si rallegra quando viene a sapere che altri sono sopravvissuti. Questa esperienza ha alcune varianti: egli apprende, per esempio, che lui stésso e sua moglie erano creduti morti. Un ricoverato nell'ospedale, che era fuggito dalla sua casa in 152

fiamme senza riuscire a salvare la moglie, la considera morta. Appena può, ritorna nella casa distrutta e cerca i resti di lei. Nel punto in cui l'aveva sentita gridare aiuto per l'ultima volta, trova delle ossa; le porta all'ospedale e con grande pietà le posa dinanzi all'altare domestico. Dieci giorni dopo, quando si reca in campagna per consegnare le ossa alla famiglia della moglie, la ritrova là salva e incolume. Era riuscita in qualche modo a fuggire dalla casa incendiata e un autocarro militare che passava l'aveva portata in salvo. Qui vi è già più che una sopravvivenza: è un ritorno dai morti, l'esperienza più intensa e meravigliosa che sia data agli uomini. Nell'ospedale di cui il dottor Hachiya era direttore e nel quale ora egli giace in una condizione ibrida tra medico e paziente, uno dei fenomeni più singolari è l'irregolarità della morte. Ci si aspetta che le persone giunte ustionate o segnate nell'ospedale muoiano o guariscano. È molto duro assistere ai loro continui peggioramenti; ma alcuni sembrano resistere, gradualmente si sentono meglio. Vengono già dati per salvi, quando inaspettatamente si aggravano e d'improvviso sono in imminente pericolo. Altri, e tra questi infermiere e medici, da principio appaiono illesi. Lavorano giorno e notte con tutte le loro forze, poi d'improvviso mostrano i segni del male, peggiorano di giorno in giorno, muoiono. Non si è mai certi che uno sia sfuggito al pericolo; gli effetti ritardati della bomba eludono qualsiasi normale prognosi clinica. Il medico si rende conto molto presto di andare a tastoni nel buio più completo. Egli si adopera in tutti i modi possi153

bili, ma finché resta all'oscuro dell'effettiva natura del male si trova ad agire come ai tempi che precedettero la medicina scientifica, e deve accontentarsi di confortare anziché di curare. Mentre affronta l'enigma delle manifestazioni del male negli altri, il dottor Hachiya è egli stesso un paziente. Ogni sintomo che scopre negli altri lo preoccupa anche per se stesso, e segretamente ne va in cerca sul proprio corpo. La sopravvivenza è precaria e non ancora certa per lungo tempo. Non perde mai il rispetto per i morti e inorridisce al vederlo scemare negli altri. Quando si reca nella capanna di legno in cui un collega venuto da fuori esegue le autopsie, non tralascia di inchinarsi dinanzi al cadavere. Ogni sera i morti vengono cremati di fronte alle finestre della sua camera d'ospedale. Proprio di fianco al luogo delle cremazioni si trova una vasca per il bagno. La prima volta che egli assiste dall'alto a una cremazione, sente qualcuno chiedere forte dal bagno: « Quanti ne hai bruciati oggi? ». L'irriverenza di questa situazione, qui un uomo che poco prima era ancora vivo e ora viene cremato, e là, proprio di fianco, un altro, nudo nel bagno, lo rivolta profondamente. Ma dopo poche settimane egli consuma la cena insieme con un amico, su nella sua camera d'ospedale, durante una cremazione. Osserva che l'odore è « come di sardine bruciate », e continua a mangiare. La buona fede e la sincerità di questo diario sono al di sopra d'ogni dubbio. Chi scrive è un uomo di alta civiltà morale. Come chiunque, è soggetto alle tradizioni della sua origine: di esse non dubita. I suoi interrogativi e i suoi dubbi re154

stano compresi all'interno della sfera della medicina, ove sono permessi e necessari. Ha creduto nella guerra, ha accettato la politica militaristica del suo paese, e sebbene abbia osservato nel comportamento della casta degli ufficiali parecchie cose che non gli piacciono, ha considerato suo dovere patriottico tacere. Ma proprio questo stato di fatto rende tantd più interessante il suo diario. Il quale non si limita a informarci della distruzione di Hiroshima sotto la bomba atomica - si è testimoni dell'effetto che provocò su di lui il divenir consapevole della sconfitta del Giappone. In questa città assolutamente distrutta, le persone a cui si sopravvive non sono i nemici, ma la propria famiglia, i colleghi, i concittadini. La guerra dura ancora e i nemici a cui si augura la morte sono altrove. Da essi ci si sente minacciati, la scomparsa della propria gente accresce la minaccia. Con la caduta della bomba la morte giunge dall'alto, si può soltanto respingerla lontano, e bisognerebbe venirlo a sapere. Il desiderio che ciò accada è fortissimo, e infine sembra trovare adempimento. Dopo pochi giorni giunge da un'altra località uno che riferisce come cosa certa - l'ha saputo da fonte sicurissima - che i Giapponesi hanno colpito a loro volta con la medesima arma, devastando nello stesso modo non una sola ma parecchie grandi città americane. Nell'ospedale lo stato d'animo si capovolge di colpo, l'euforia s'impadronisce perfino dei feriti gravi. Ci si sente di nuovo massa; poiché la morte è stata deviata su altri, ci si crede salvi da essa. È 155

probabile che molti, finché dura questa euforia, siano persuasi che ormai non moriranno più. Tanto più dura s'abbatte poi, dieci giorni dopo la bomba, la notizia della capitolazione. L'imperatore non aveva mai parlato per radio, prima. Certo anche ora il suo discorso rimane incomprensibile, egli lo pronuncia nel linguaggio arcaicizzante della corte. Ma i superiori, che devono conoscerla, riconoscono quella voce per sua; il contenuto del proclama viene tradotto. Quando viene menzionato il nome dell'imperatore, la gente radunata nell'ospedale si inchina. Nessuno finora è mai riuscito a udire la voce dell'imperatore, non è quella voce che ha proclamato la guerra. Ma è quella voce che ora la revoca. A essa si crede quando dichiara la sconfitta, che altrimenti verrebbe messa in dubbio. I ricoverati nell'ospedale ne sono colpiti più duramente che non dalla distruzione della loro città, dalla loro malattia, dalla morte dolorosissima che molti di essi hanno dinanzi agli occhi. Ora non è più pensabile alcuna diversione, la ferita e la morte vanno sofferte in tutto il loro peso. Tutto è incerto, ma senza speranza. Molti si ribellano contro questa disperazione che è passiva e preferiscono combattere ancora. Si formano due partiti, uno a favore e l'altro contro la cessazione dei combattimenti. La massa degli sconfitti, prima di sciogliersi del tutto, si suddivide in una massa doppia. Ma la parte favorevole al proseguimento della guerra ha questo punto decisivo di debolezza: si pone contro l'ordine dell'imperatore. È interessante osservare, nel corso dei giorni seguenti, che nella coscienza del dottor Hachiya il 156

potere, già supremamente centralizzato durante la guerra, si divide in due parti: da un lato il potere cattivo, i militari, che hanno condotto il paese alla sventura; dall'altro il potere buono, l'imperatore, che vuole il bene del paese. In tal modo sussiste ancora per Hachiya un'istanza di potere, e la vera e propria struttura della sua esistenza non viene lesa. I suoi pensieri girano continuamente intorno all'imperatore. Egli, così come il paese, è stato vittima dei militari. Va profondamente compianto; la sua vita è divenuta ancor più preziosa. È stato umiliato per qualcosa che non voleva affatto, la guerra. Ciò permette a ogni leale suddito d'andare alla ricerca anche nel proprio io di qualcosa che non volle la guerra. Le osservazioni che s'erano sempre fatte a proposito dei militari, senza che si osasse manifestarle: la loro arroganza, la loro stupidità, il disprezzo verso chiunque non appartenesse alla loro casta, diventano improvvisamente potenti. In luogo del nemico, contro il quale non si può più combattere, sono essi che divengono il nemico. Ma l'imperatore esisteva sempre, la continuità della vita dipende da quella di lui: anche durante la catastrofe che colpì la città, il suo ritratto viene salvato. Verso la fine del diario - al trentanovesimo giorno, poiché solo allora il dottor Hachiya è venuto a saperla - è narrata la storia del salvataggio del ritratto dell'imperatore. È dipinta in ogni particolare. In mezzo alla folla degli agonizzanti e dei feriti gravi della città, poche ore dopo l'esplosione della bomba atomica, il ritratto dell'imperatore viene portato al fiume. I moribondi fanno posto: « Il ritratto dell'imperatore! Il ritratto del157

l'imperatore! ». Bruciano ancora a migliaia dopo che il ritratto è stato tratto in salvo e portato via da un battello. Questa prima narrazione del salvataggio del ritratto non basta a saziare il dottor Hachiya. La cosa non dà requie, egli va in cerca di ulteriori testimoni, in particolare di quelli che presero parte all'alta impresa. Nel suo diario inserisce un altro resoconto. Durante quei giorni a Hiroshima sono accadute molte cose degne di lode. Hachiya è giusto e non sminuisce alcun merito. Elargisce la sua lode con sollecitudine e scrupolo. Ma con entusiasmo senza limiti parla del salvataggio dell'effigie imperiale. Si avverte che, di tutto quanto è successo, questo è per lui il fatto più ricco di speranza: equivale alla sopravvivenza dell'imperatore. Continuano a giungere persone che si meravigliano di trovarlo in vita e si congratulano con lui. La loro gioia si avverte ancora nei suoi appunti e si trasmette al lettore. A lungo si continuano a cremare dinanzi alle finestre dell'ospedale pazienti defunti, la morte prosegue. È come un'epidemia nuova, sconosciuta. La sua origine e il suo decorso non sono stati ancora indagati con precisione. Solo con le autopsie si comincia gradualmente a capire con che cosa si ha a che fare. Hachiya non perderà neppure per un istante la sua avidità di ricerca nei confronti della nuova malattia. Così come dura intatta in lui la struttura del suo paese, che culmina nell'imperatore, del pari egli non è minimamente leso nella sua indole di studioso moderno della medicina. Ho qui compreso appieno per la prima volta come que158

sti due elementi possano combaciare naturalmente, quanto poco l'uno sia disturbato dall'altro. Soprattutto intangibile è però in quest'uomo il rispetto per i morti. S'è detto quanto poco egli tolleri che ci si abitui alla morte: la morte resta sempre per lui qualcosa di molto serio. Non si ha l'impressione che per lui i morti si amalgamino in una massa entro la quale i singoli non contano più. Egli pensa ai morti come a persone. Non si deve dimenticare che Hachiya è un medico, dunque esposto a una sorta di smussamente professionale nei confronti della morte. Ma in qualsiasi circostanza si sente che ai suoi occhi è importante ogni persona che ha vissuto, ogni persona così com'era realmente, così come gli si è manifestata nella sua unicità. Il quarantanovesimo giorno dopo la sventura ha luogo una giornata di commemorazione dei morti. In bicicletta egli si reca in città e visita ogni luogo che è consacrato dai morti, dai suoi morti e anche da quelli di cui ha sentito parlare. Chiude gli occhi per vedere una vicina che è perita, ed ella gli appare. Non appena riapre gli occhi l'immagine svanisce; li richiude, e riappare. Egli si apre la via fra i resti della città e non si può dire che girovaghi a caso, poiché sa bene quel che cerca, e lo trova: i luoghi dei morti. Non si risparmia nulla. Si figura tutto. Dice d'aver pregato per ognuno. Mi chiedo se nelle città d'Europa ci furono uomini che andarono frugando tra le rovine alla ricerca dei luoghi dei morti, e in questo modo, avendo negli occhi le sembianze nitide dei defunti, pregando per loro, non solo per la propria famiglia, ma per i vicini, gli amici, i conoscenti, e perfino per i morti 159

mai incontrati, di cui soltanto era stata narrata loro la morte. Ho esitato prima di usare la parola « pregare » a proposito di ciò che fece Hachiya quel giorno, ma questa parola la usa egli stesso e non solo in questa circostanza si definisce un buddhista.

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