Populismo e filosofia politica 9788820768720, 9788820768737

Cos'è il populismo? E come si spiega il successo dei movimenti populisti in molti Paesi occidentali? In questo volu

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Populismo e filosofia politica
 9788820768720, 9788820768737

Table of contents :
Introduzione. L’ascesa del populismo e il ruolo della filosofia politica
Capitolo 1. Il quadro normativo
Capitolo 2. Populismo e scelte economiche: un approccio istituzionalista
Capitolo 3. La ‘hyper-globalization’ e i suoi trade-off
Capitolo 4. Effetti e genesi del cambiamento tecnologico
Conclusione. Una sintesi e uno sguardo su presente e futuro

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PIETRO MAFFETTONE

Populismo e filosofia politica

LIGUORI EDITORE

Pietro Maffettone

Populismo e filosofia politica

LIGUORI EDITORE

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Indice

Ringraziamenti .............................................................................................................IX Introduzione L’ascesa del populismo e il ruolo della filosofia politica............................................. 1 1.  La natura del progetto.......................................................................................... 1 2.  La tesi di questo volume...................................................................................... 5 3.  Una breve guida ai contenuti del volume ........................................................... 8 Capitolo 1 Il quadro normativo..................................................................................................... 13 Introduzione............................................................................................................. 13 Giustizia politica: l’autonomia politica e le sue condizioni di possibilità............. 14 Giustizia distributiva: il prioritarianesimo.............................................................. 28 Conclusione ............................................................................................................ 44 APPENDICE AL CAPITOLO 1 I classici e il modello di democrazia cositituzionale: cenni brevi............................. 46 Capitolo 2 Populismo e scelte economiche: un approccio istituzionalista................................ 55 Introduzione............................................................................................................. 55 1.  Premessa metodologica...................................................................................... 56 2.  Definire il populismo: la centralità del conflitto fra popolo ed elites............... 59 3.  Una visione interattiva e complessa delle origini causali ................................ 64 4.  Un approccio specifico alle dinamiche economiche ......................................... 71 5.  Un esempio di Policy Regime: l’economia del debito negli USA ................... 79 Conclusione............................................................................................................. 86 Capitolo 3 La ‘hyper-globalization’ e i suoi trade-off.................................................................. 89 Introduzione............................................................................................................. 89 1.  Il trilemma dell’economia globale: una visione storico-analitica...................... 90 2.  Le basi ‘normative’ del trilemma....................................................................... 97 3.  Giustizia politica, auto-determinazione e accordi commerciali....................... 103 4.  Giustizia distributiva e interdipendenza fiscale............................................... 107 5.  Un excursus: l’integrazioe economica e il conflitto fra efficienza ed equità........ 112

VI Indice

Capitolo 4 Effetti e genesi del cambiamento tecnologico......................................................... 123 Introduzione .......................................................................................................... 123 1.  Gli effetti del cambiamento tecnologico: un modello task-based................... 125 2.  Cambiamento tecnologico e scelte istituzionali............................................... 136 3. Cambiamento tecnologico e integrazione economica: una visione composita..... 144 4.  Elementi per una filosofia politica del cambiamento tecnologico................... 151 Conclusione........................................................................................................... 159 Conclusione Una sintesi e uno sguardo su presente e futuro..................................................... 161 1.  Una breve sintesi.............................................................................................. 161 2.  Proposte paradigmatiche del populismo ......................................................... 162 Bibliografia................................................................................................................. 167

A mia figlia Margherita Omnia vincit amor

Ringraziamenti La mia formazione intellettuale deve molto a un luogo e a una persona in particolare. Il luogo è la London School of Economics (LSE), dove ho conseguito master, dottorato e dove ho insegnato un anno come ‘fellow in government’; e la persona è David Held, con il quale ho lavorato sia a Londra che a Durham per quasi un decennio. David mi diceva sempre che la miglior specie di teoria normativa si nutre della comprensione dei fenomeni politici, economici e culturali che caratterizzano il presente. Fu proprio lui a consigliarmi vivamente di seguire il corso di global political economy dove si alternavano come professori Ken Shadlen, Robert Wade e Andrew Walter, e quello di teoria delle relazioni internazionali tenuto da Chris Brown. Devo ringraziare inoltre il mio primo capo di dipartimento alla School of Government and International Affairs (SGIA) della Durham University, James (Jim) Piscatori, per aver fortemente sostenuto la mia proposta di creare un corso sugli aspetti morali dell’economia mondiale nel luglio 2013. Molti dei testi che cito in questo volume provengono dalle letture che ho utilizzato negli anni per spiegare ai miei studenti quanto fosse importante la teoria normativa per orientarsi in un mondo globalizzato in cui i fenomeni economici non rispettano i confini tracciati sulle mappe. Se questo volume ha un percorso che parte da Londra e dalla LSE, la sua vicenda si conclude di certo a Napoli nel Dipartimento di Scienze Politiche della Federico II. Sarebbe riduttivo dire che il Dipartimento si sia rivelato un luogo intellettualmente stimolante dove terminare la stesura del saggio. Le sue caratteristiche di forte multi-disciplinarietà mi hanno consentito di beneficiare di un enorme ventaglio di fonti intellettuali dalle quali prendere ispirazione. In particolare ci terrei a ringrazire le seguenti persone: Vittorio Amato per numerose discussioni sulle determinanti economiche del populismo; Marco Musella per una lunga chiacchierata sulla concettualizzazione del lavoro nella teoria economica; Maurizio Griffo e Settimio Stallone per avermi spinto a considerare la dimensione storica dell’evoluzione delle classi dirigenti in Italia; Vanda Fiorillo per avermi ricordato l’importanza dei classici della filosofia politica; Lilia Costabile per avermi segnalato due testi importanti sulla connessione fra indebitamento privato e fragilità finanziaria; Lucia Simonetti per una discussione sul ‘trade in tasks’; Enrico Sacco per il suo aiuto nella comprensione dell’idea di politica industriale; Gianluca Luise per aver reso più complessa la mia concettualizzazione delle istituzioni europee; Barbara Guastaferro per il costante confronto sulla natura della democrazia costituzionale. Inoltre, ringraziamenti speciali vanno ad Armando Vittoria con il quale spesse volte ho discusso di populismo e dal quale ho molto appreso

X Ringraziamenti

sul tema negli ultimi due anni, e a Laura Minguzzi la cui ricerca di tesi sul populismo nel contesto USA abbiamo lungamente e ripetutamente analizzato negli ultimi sei mesi. Vincenzo Alfano e Gaetano Vecchione si sono prestati all’ingrato compito di leggere tutto il volume offrendo commenti dettagliati che si sono rivelati assai preziosi e per questo gli sono sinceramente grato. Gaetano merita una menzione speciale visto che parte delle idee sviluppate nel testo sono originate dalla nostra collaborazione nella stesura di un articolo sul tema (si veda Maffettone e Vecchione, 2020). Infine, ci terrei a ringraziare Sebastiano Maffettone per aver letto e commentato il testo nel suo insieme e specialmente il capitolo primo, Mark Tatcher per aver letto e lungamente commentato il capitolo due del volume, e Mariano Croce per un bel confronto sul concetto di istituzione. Un grazie sentito va inoltre a Federico Zuolo, Michele Bocchiola, e Ruth Hanau Santini per il loro incoraggiamento durante la parte finale della stesura del testo, e Adriana O’Connor per avermi aiutato a compilare la bibliografia. Ogni errore restante all’interno dello scritto rimane, come sempre, mia responsabilità personale.

Introduzione L’ascesa del populismo e il ruolo della filosofia politica 1.

La natura del progetto

Uno spettro si aggira per il mondo occidentale, lo spettro del populismo (qui seguiamo Maffettone e Vecchione, 2020). Cosa hanno a che fare la Brexit in Inghilterra del giugno 2016, poi Trump negli USA in ottobre dello stesso anno, i gilet gialli di fine 2018, senza dimenticare Syriza e Alba Dorata in Grecia, Podemos in Spagna, e ovviamente, la crescita delle destre in Francia con il Front National, in Germania, in Austria, in Olanda, e nei paesi scandinavi – si pensi a True Finns in Finlandia? Come spiegare il fatto che in Italia, negli ultimi 6 anni, un movimento politico più o meno sconosciuto, per di più fondato da un comico, è arrivato a raggiungere il 32 per cento dei consensi? E cosa ha spinto la Lega, partito rifondato su basi sovraniste e anti-europeiste, a quasi decuplicare i propri consensi? A detta di molti osservatori, l’affermarsi del populismo è il sintomo più evidente della crisi del modello di democrazia liberale in occidente. Crisi che appare confermata dal relativo successo di modelli alternativi, come la Cina in primis, ma anche, al netto delle loro alterne vicende, della crescente assertività internazionale di Russia e Turchia (si veda Parsi, 2018). In termini di relazioni internazionali, sempre più il sogno di realizzare un ordine liberal democratico sembra infrangersi sugli scogli del realismo politico e del nazionalismo (si veda Mearshimer, 2018). In altre parole, al populismo in politica interna sembra corrispondere una crisi di più ampia portata che riguarda il destino dell’ordine liberale internazionale. Tutto ciò, come è naturale, ha generato una sconfinata serie di studi sul populismo e sulla crisi di quello che potremmo chiamare il modello occidentale di organizzazione politica. Tale letteratura spazia dall’economia alla scienza politica, dagli studi culturali alla teoria delle relazioni internazionali e ai ‘media studies’, e così via. La filosofia politica si è anch’essa sicuramente impegnata a offrire diagnosi della crisi del modello liberal democratico e i rischi che il populismo comporta per quest’ultimo (si veda ad esempio Műller, 2016). Tuttavia, è nostra impressione che, al netto di sparute eccezioni, essa non abbia però contribuito in maniera sufficiente alla comprensione del fenomeno stesso. Proprio per ciò proponiamo questo saggio in cui, in maniera modesta e parziale, si vogliono cercare di comprendere non solo i rischi che il populismo comporta per le istituzioni liberal democratiche ma anche alcune delle origini

2 Introduzione

dell’ascesa del populismo. Se il populismo è un oggetto di indagine relativamente nuovo, piuttosto sfuggente e sicuramente complesso, gli strumenti analitici che adoperiamo per interpretarlo nelle pagine seguenti sono invece quelli oramai tradizionali della filosofia politica normativa. Quest’ultima, però, a partire dalle numerose teorie della giustizia che si cono succedute dall’inizio degli anni 1970 in poi, non viene discussa in quanto tale (non mancano certo i lavori che svolgono questo compito in maniera egregia!). Piuttosto, alune delle sue categorie vengono per così dire applicate ai materiali empirici e alle ragioni economiche e culturali di solito collegate alle origini del populismo. Come avremo modo di approfondire nel secondo capitolo di questo volume, la discussione empirica sulle cause del populismo verte di solito sulla contrapposizione di due narrative. La prima di queste, lo vede come il frutto di dinamiche culturali complesse. La seconda, come il risultato di cambiamenti economici strutturali. La prima si concentra sulla marginalizzazione progressiva di quei gruppi delle popolazioni occidentali tradizionalmente abituati, essi e le loro esigenze, a occupare il centro dello spazio politico, umano e sociale. In quest’ottica, il populismo sarebbe una reazione da parte loro al sentirsi ‘dimenticati’ dalle classi dirigenti ‘illuminate’ e ‘cosmopolite’. Tutto ciò, mentre si affronta il difficile compito di riconciliarsi con una società che cambia e si fa più aperta e multiculturale. La seconda narrativa, sempre espressa per sommi capi (e sulla quale torneremo a lungo nel prosieguo del volume) si focalizza invece sul peggioramento economico della condizione di ampie fasce delle popolazioni occidentali dovute a diversi fattori come una globalizzazione non appropriatamente regolata e gli effetti del cambiamento tecnologico. Questi fattori avrebbero contribuito a un progressivo impoverimento economico e a un deterioramento delle loro prospettive in termini di occupazione presente e futura. Delle due prospettive menzionate, quella di stampo culturale e quella di matrice economica, questo volume si occuperà soltanto di quella economica. E questo non perchè in essa si voglia rintracciare una verità unica che ci consenta di comprendere le origini del populismo, ma per limitare il campo di indagine. Inoltre, a nostro avviso, lo studio approfondito delle origini economiche del populismo ci offre l’opportunità di dispiegare i metodi della filosofia politica normativa in merito a una questione reale, di grande rilievo e notevole urgenza. Questo fatto comporta due vantaggi teorici. Il primo riguarda – come vedremo – la nostra capacità di comprensione del fenomeno populismo. Il secondo, un’ulteriore evidenza della capacità potenziale di un paradigma filosofico-politico normativo di dare una lettura teoricamente interessante del presente. Le due cose, ovviamente, sono fra loro intimamente connesse. Queste due affermazioni, tanto impegnative quanto generali, sono comunque giustificate da ragioni del tutto comprensibili. In primo luogo, sem-



Introduzione  3

bra difficile non tenere conto del legame profondo fra il peggioramento delle condizioni di vita che ha colpito la classe media dei paesi occidentali e la protesta diffusa che ha gonfiato i consensi ricevuti dai populisti. La questione che inevitabilmente si pone, però, è quale sia il contenuto e la valenza normativa del disagio espresso. Ed è proprio ponendosi tali domande, domande che a noi sembrano collegate alla tradizione normativa della filosofia politica contemporanea, che meglio si può comprendere il successo delle istanze recriminatorie che spesso vengono raccolte dai populisti di destra e di sinistra. Se, infatti, tali recriminazioni, come noi andremo a sostenere, sono concettualizzate in termini di giustizia politica e giustizia distributiva, allora esse non sono semplice espressione di un interesse di parte (seppur largamente diffuso), ma costituiscono invece il segnale di un’avvenuta ferita nei confronti di un modello di equità sociale condiviso. Modello nel quale, come cercheremo di argomentare, si danno per scontate una visione della giustizia politica come controllo da parte dei cittadini comuni sui processi fondamentali che li riguardano, e una di giustizia distributiva dove -nella nostra visione- le esigenze di chi sta peggio dovrebbero avere maggiore peso nelle scelte di natura pubblica a cominciare da quelle in campo economico. In sintesi, le recriminazioni che portano al crescente successo dei movimenti populisti possono sovente rappresentare una vera e propria denuncia di uno iato fra la visione immanente dell’equità che permea le democrazie liberali d’Occidente e il modo in cui queste ultime sono state ‘gestite’ negli ultimi quattro decenni. In questo senso, la filosofia politica normativa ci sembra centrale per comprendere la natura del problema: la violazione di parametri di equità sociale largamente condivisi si pone con un’urgenza e un tipo di valenza simbolica che altre forme di pretesa politica, ad esempio, il lobbying di una corporazione sulle regole pubbliche che la riguardano, semplicemente non possono avere. In secondo luogo, il nostro esercizio ci permetterà di mostrare al lettore il potenziale epistemico e analitico di uno specifico approccio alla filosofia politica, ossia di quella che un tempo si sarebbe chiamata ‘scuola di pensiero’. Uno dei paradigmi dominanti della filosofia politica contemporanea è senza dubbio rintracciabile nell’opera di John Rawls. Specialmente nel contesto anglo-americano, la publicazione della prima edizione di A Theory of Justice nel 1971 fu salutata com una vera e propria rivoluzione copernicana. La filosofia politica dell’epoca, per quanto concerne il cosiddetto campo ‘analitico’, sembrava sul viale del tramonto tramortita da un’accettazione acritica dell’utilitarismo e una nuova deriva teoretica che riduceva le questioni politico normative a espressione di preferenze ‘emotive’ oppure alla semplice analisi concettuale dei termini utilizzati dalla filosofia pratica in senso lato. Con le dovute eccezioni (si pensi ai primi lavori di Brian Barry), il mondo anglosassone della filosofia politica sembrava quindi stretto in una potente morsa controllata da forme

4 Introduzione

latenti di conseguenzialismo da un lato e da una certa visione della filosofia del linguaggio accoppiata al non-cognitivismo etico dall’altro. In questo contesto, la rottura imposta dal lavoro di Rawls è difficile da esprimere sino in fondo, ma può forse essere restituita parafrasando alcune delle affermazioni fatte sia dai suoi ammiratori che dai suoi ‘detrattori’ della prima ora. Il famoso positivista legale di Oxford Herbert Hart iniziava la sua analisi del progetto rawlsiano informandoci che era dai tempi della sua frequentazione dei grandi classici che la sua mente non veniva sollecitata tanto quanto essa lo era da A Theory of Justice. Il filosofo libertario Robert Nozick iniziava la sua opera di demolizione argomentativa della socialdemocrazia di stampo liberal proposta dal filosofo di Baltimora (Rawls), ammonendoci che dopo la comparizione del volume di quest’ultimo, si doveva lavorare nell’alveo del paradigma rawlsiano oppure spiegare perché si sceglieva di non farlo. In una versione agiografica del paradigma, quella che non di rado viene proposta agli studenti dei primi anni nelle università americane e britanniche, il discorso potrebbe chiudersi in questo modo. Il che sarebbe, se da un lato molto confortante, non del tutto accurato. Ovviamente non sono mai mancati coloro che hanno criticato nel merito ciò che il paradigma rawlsiano sosteneva, ma quello che si è andato affermando e consolidando nell’ultimo decennio circa è uno scetticismo di fondo sull’approccio nel suo complesso. Tale scetticismo è assai ben rappresentato dalla recente publicazione del lavoro di Katrina Forrester In the Shadow of Justice (2019). Il ‘j’accuse’ che fa da cornice a molti di questi interventi polemici è che il paradigma si sia avvitato su se stesso assecondando una deriva ‘scolastica’ e che, inoltre, la sua ossatura profonda sia inadeguata a consentire un vera filosofia della politica, vicina come questa dovrebbe essere alle nozioni di potere, conflitto, egemonia, e in ultima analisi di contributo critico diretto alle questioni pubbliche di maggiore rilevanza. Prendendo sul serio tali obiezioni tenteremo, in questo volume, di rispondere a queste critiche nel modo che ci sembra assieme più convincente e produttivo: non tanto contro-argomentando a livello prettamente teorico in merito al ruolo e signifcato della filosofia politica normativa, ma mostrando come essa possa essere impiegata per capire una parte del nostro presente, tracciandone un ritratto che sia anche utile a giudicare le storture della realtà politica contemporanea. Un modo alternativo per comprendere il nostro approccio è quello di dire che tenteremo, in quanto segue, e muniti delle categorie filosofiche forniteci dal paradigma rawlsiano, di calarci nella realtà delle società liberal democratiche occidentali e soprattutto delle scelte che le loro classi dirigenti hanno compiuto negli ultimi quattro decenni in merito alla struttura dei sistemi economici di tali paesi. Lo faremo quindi con gli strumenti concettuali del filosofo politico, ma consci dell’importanza che le scienze sociali, e in particolare la teoria economica, debbano necessariamente avere in questo particolare tipo di indagine intellettuale.

Introduzione  5



2.

La tesi di questo volume

La nostra indagine intellettuale comincia da quello che molti osservatori ritengono essere uno dei dati più rilevanti per comprendere le origini economiche dell’ascesa del populismo: lo sviluppo delle dinamiche distributive del reddito reale a livello globale. Partiamo quindi dalla ricerca di Branko Milanovic (2016) sulle diseguaglianze globali. Uno dei risultati più significativi fornitici dall’economista serbo è certamente quello sulle variazioni di reddito reale a livello globale nell’arco di tempo che va dal 1988 al 2008. Questo tipo di misura ha le seguenti caratteristiche. Come prima cosa compara gruppi di individui sulla base del reddito. In secondo luogo, sceglie la popolazione di riferimento, al netto di complicazioni, come l’intera popolazione mondiale. Quindi, possiamo dire, semplificando, che sull’ascissa del grafico 1.1 troviamo tutte le persone esistenti ordinate (dal più povero al più ricco in termini di reddito), raggruppate a pacchetti (‘quantili’) che costituiscono il 5% della popolazione complessiva di riferimento, eccezion fatta per la parte finale (i più ricchi) che sono raggruppati in maniera leggermente più ‘sottile’ ovvero utilizzando quantili di dimensioni inferiori al 5%. Invece, l’ordinata ci dice come per tali gruppi sia variato, nell’intervallo di tempo 1988-2008, il reddito reale, e cioè il reddito al netto delle dinamiche inflattive. Che quadro ci offrono i dati? Detto altrimenti, in cosa risiede il loro contenuto specifico? Gli elementi che si possono ritenere di maggiore interesse, di fatto, specificano tre macro-gruppi geo-economici. Utilizzando una metafora sportiva, potremmo definire tali gruppi come segue: a) coloro che hanno giocato la partita economica mondiale e l’hanno vinta; b) coloro che l’hanno giocata e l’hanno largamente persa, almeno in termini relativi; c) coloro che non sono nemmeno riusciti a partecipare al gioco. I tre gruppi possono essere rappresentati, in maniera paradigmatica piuttosto che analiticamente, come, rispettivamente: a) le nuove classi medie di alcuni paesi emergenti e le élites socio-economiche dei paesi occidentali; b) le classi medio-basse dei paesi occidentali; c) larghissime fette della popolazione del continente africano. La nuova classe media dei paesi emergenti e le élites economiche dei paesi avanzati (qui intese come il 5% più ricco della distribuzione del reddito nei paesi occidentali) hanno visto, rispettivamente, un incremento del reddito reale di circa l’80% e del 50%. Viceversa, a livello globale, si evidenziano due gruppi di soggetti che hanno visto i loro redditi stagnare o diminuire in termini reali, e questi sono la classe della piccola borghesia e dei blue collars nei paesi avanzati e poi coloro che potremmo definire come i super-poveri, ovvero, ad esempio, le popolazioni dell’Africa, e specialmente di quella sub-sahariana. Va ovviamente fatto notare che queste sono ‘interpretazioni’ delle informazioni contenute nel grafico, non una loro innocente ‘lettura’. La loro accuratezza dipende dall’analisi complessiva di Milanovic (che non possiamo discutere in maggiore dettaglio in questo frangente)

6 Introduzione

e da assunzioni rispetto a come interfacciare plausibilmente la localizzazione di una data posizione sull’ascissa con quella che potremmo chiamare la condizione ‘socio-geografica’ di un individuo. Ovviamente, ci sono milardari in Costa D’avorio, persone che hanno un reddito nullo o quasi in Europa, e via discorrendo. Il punto non è l’accuratezza a questo livello di granularità, ma la capacità dei dati di restituire una visione d’insieme. E la visione d’insieme che i dati ci restituiscono, se ci concentriamo sulle classi socio-economiche medio-basse delle società occidentali, sembra abbastanza nitida: di certo gli sviluppi relativamente recenti dell’economia mondiale non li hanno grandemente aiutati. E ciò, se forse non è sempre vero in termini assoluti, certamente lo è in termini relativi. La nostra indagine deve sicuramente partire da questo dato. D’altro canto, deve anche costatare che il dato in quanto tale ci offre una disamina degli effetti distributivi che si sono dispiegati negli ultimi decenni, e non già delle loro origini. Detto altrimenti, quello che osserviamo sono sorti differenti per differenti gruppi di persone, mentre quello che non possiamo comprendere, limitandoci a tale osservazione, è quali ne siano le determinanti principali. Rinviando al secondo capitolo di questo volume una discussione più dettagliata delle varie risposte che sono state sviluppate dalla letteratura economica, è opinione diffusa che il combinato disposto fra globalizzazione (qui intesa come una specifica forma di integrazione fra mercati) e cambiamento tecnologico siano additabili come i principali responsabili di questo tipo di risultato. Inoltre, si deve notare, anche questa essendo cosa affermata da molti autori, che sembra difficile interpretare la globalizzazione economica ma anche, e forse meno intuitivamente, il cambiamento tecnologico, come fenomeni naturali. Al contrario, è opinone da molti condivisa che tali fenomeni siano il risultato di scelte isituzionali (o della mancanza di tali scelte) precise. Scelte che hanno, sintetizzando fortemente, FIGURA I.1  Variazione reddito reale a livello globale 1988-2008

Fonte: Milanovic (2016).



Introduzione  7

avallato l’integrazione fra mercati con la promessa che essa sarebbe stata a beneficio di tutti e consentito lo sviluppo di una certa forma di progresso tecnico senza porsi il tema di come governarlo visti i suoi effetti asimmetrici su diversi gruppi socio-economici all’interno della società. E, proprio a questo punto, comincia a stagliarsi con maggiore chiarezza sul nostro orizzonte concettuale quella che sembra essere la forma strutturale delle narrative economiche legate all’emergere del populismo. Se il cuore pulsante di quest’ultimo risiede in una contrapposizione fra ‘popolo’ ed ‘élites’, tale contrapposizione può essere spiegata dalle scelte che le ‘élites’ hanno compiuto rispetto a quei fattori economici strutturali che hanno finito per danneggiare le sorti delle persone comuni nei paesi occidentali. Come abbiamo già ripetuto, rimandiamo il lettore al prosieguo dello scritto per una trattazione comparativamente più sofisticata delle tematiche che abbiamo messo in campo. Quello che ci preme chiarire nel modo più trasparente possibile in questo frangente è la tesi da noi portata avanti nel lavoro e che potremmo enunciare come segue: Tesi complessiva: (i) La crescente domanda di (ii) populismo, (iii) nelle società democratiche occidentali è in parte spiegabile facendo riferimento alle (iv) scelte istituzionali (v) in campo economico (vi) avvenute negli ultimi quattro decenni circa e che (vii) hanno penalizzato la fasce più deboli della popolazione, e in ultima analisi hanno contraddetto una visione fortemente condivisa (viii) della giustizia politica e (ix) della giustizia distributiva. Gli elementi costitutivi della tesi possono essere compresi e ulteriormente elaborati così: Elemento (i): La tesi parte dall’ascesa dei movimenti populisti e si sofferma sulle ragioni della loro attrattività – in questo senso, è una tesi che si concentra sull’origine della domanda di populismo. Elemento (ii): La definizione di populismo adottata nel volume è imperniata su uno degli elementi focali comuni a molte delle definizioni di populismo, e cioè il conflitto fra ‘popolo’ ed ‘elites’, ma riposa anche su di una caratterizzazione specifica dell’approccio dei populisti nel dare risposte ai loro elettori. Elemento (iii): La tesi si concentra sulle società democratiche occidentali data la forte ascesa politica di numerosi movimenti populisti in tali società negli ultimi dieci anni. Elementi (iv) e (v): La tesi propone una visione ispirata alla New Institutional Economics della natura del mercato e quindi rintraccia nelle scelte istituzionali la radice degli effetti che le dinamiche di mercato hanno su vari gruppi all’interno di una società.

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Elemento (vi): La tesi rintraccia un periodo storico di riferimento, ovvero a partire dai primi anni ottanta circa; periodo che coincide con l’inizio della fine della guerra fredda ma soprattutto con un cambiamento ideologico a favore di una specifica visione della natura del mercato e del suo ruolo. Elemento (vii): Forte attenzione verrà posta su due tipi di scelte istituzionali in campo economico: a) quelle legate all’integrazione economica globale; b) quelle legate allo sviluppo e alla governance del cambiamento tecnologico. Entrambe hanno sistematicamente penalizzato quei gruppi che erano già (comparativamente parlando) più svantaggiati all’inizio del periodo storico oggetto della nostra analisi. Il senso specifico di ‘penalizzare’ nella precedente frase è: hanno svantaggiato gruppi specifici, sia in termini di reddito e ricchezza (relativamente parlando), sia in termini di opportunità nel mercato del lavoro (in senso assoluto), ma anche in termini della loro capacità di controllare le dinamiche politiche alle quali tali gruppi sono soggetti. Elementi (viii) e (ix): Un tale tipo di risultato contravviene a una visione largamente diffusa di giustizia sociale. La giustizia sociale viene concepita come avente due sotto-insiemi: la giustizia politica e la giustizia distributiva. La prima si fonda sul concetto di autonomia politica. La seconda sull’intuizione che la distribuzione dei vantaggi creati dalla cooperazione sociale debba dare priorità a coloro che stanno relativamente peggio degli altri.

3.

Una breve guida ai contenuti del volume

Il volume si articola in quattro capitoli. Nel primo capitolo si offre al lettore un quadro normativo di riferimento, e cioè una visione specifica della giustizia sociale. La giustizia sociale viene concepita come composta dall’idea di giustizia politica e dall’idea di giustizia distributiva. La giustizia politica viene associata all’idea di autonomia politica mentre quella distributiva al cosiddetto ‘prioritarianesimo’; all’intuizione che le esigenze di coloro che stanno peggio debbano avere maggiore peso quando si distribuiscono i vantaggi che discendono dalla cooperazione sociale. Nel secondo capitolo del volume, si passa dal quadro normativo del nostro approccio a quello teorico e si delinea la visione istituzionalista del mercato. Prima di essa, però viene affrontato il tema di come definire il populismo, e di cosa dica la letteratura empirica in merito alle sue cause. Nel capitolo, a seguito di una discussione metodologica, viene operato un ‘doppio rovesciamento’. Quest’ultimo consiste, in primo luogo, nel rendere la definizione di populismo in parte dipendente da una visione normativa del fenomeno, e in secondo luogo, nel partire da una visione equanime dell’evidenza empirica per poi ricostruirne teoreticamente uno dei suoi filoni principali.



Introduzione  9

Nel terzo capitolo, ci si concentra su di una prima illustrazione concreta delle scelte istituzionali in campo economico che riteniamo essere importanti nello spiegare la crescente domanda di populismo, e cioè la scelta di un modello specifico di integraizone economica globale. Il capitolo prende le mosse da una ricostruzione critica del lavoro di Dani Rodrik, e in particolare, del suo modo di concepire i trade-off fra la ‘hyper-globalization’ e la rappresentatività delle istituzioni politiche locali. Il capitolo illustra la relazione della visione di Rodrik con il quadro normativo discusso nella prima parte del libro tramite due esempi specifici di policy: a) la natura dei moderni accordi commerciali internazionali; b) l’effetto della integrazione finanziaria sulla distribuzione del carico fiscale nei paesi occidentali. Il primo tipo di mutamento analizzato, quello riguardante la cangiante natura degli accordi commerciali, diminuisce l’autonomia politica dei cittadini. La seconda policy, quella che lega liberalizzazione della circolazione dei capitali alla cosiddetta ‘tax competition’, ha effetti regressivi sulla distribuzione del carico fiscale fra diversi gruppi di persone. Nel quarto capitolo si tenta invece di illustrare quella che riteniamo essere la seconda grande fonte dei mutamenti economici che hanno toccato le società occidentali negli ultimi decenni: il cambiamento tecnologico. Il capitolo indaga gli effetti distributivi del cambiamento tecnologico e ne spiega le origini istituzionali facendo perno su di una particolare visione della crescita economica in seno ai cosiddetti modelli di crescita endogena. Infine, vengono delineati i principali problemi che una filosofia politica dell’innovazione, per come essa si va oggi evolvendo, deve affrontare. Ci si concentra in particolare sul problema della non-neutralità della forma specifica di cambiamento tecnologico in atto, e sulla questione di chi debba avere controllo sui processi di innovazione in senso più ampio. Nella conclusione al volume, dopo una brevissima sintesi degli argomenti proposti in precedenza, ci dedichiamo in maniera invero assai stringata a spiegare quelli che riteniamo essere i principali problemi associati alle proposte di policy che sembrano paradigmantiche del populismo: a) il reddito di cittadinanza; b) il ricorso ai dazi. Il primo viene giudicato come positivo ma come un rimedio incompleto ai problemi attuali, il secondo come inutile se non addirittura foriero di instabilità politica. Si fa inoltre notare come entrambe le soluzioni proposte siano in linea con la definizione del populismo proposta nel secondo capitolo del volume: il tentativo di trovare soluzioni semplici e indolori a problemi complessi e che comportano invece scelte difficili. Prima di concludere questa introduzione, vanno inoltre fatte due precisazioni importanti. La prima riguarda la scelta degli Stati Uniti come caso al quale fare sovente riferimento per illustrare le nostre argomentazioni. È chiaro che, come avremo modo di ricordare più volte nel corso del volume, il populismo abbia caratteristiche assai diverse dettate anche dal contesto politico locale.

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Allo stesso modo, ci sembra altrettanto evidente che le scelte istituzionali in campo economico, a nostro avviso una delle fonti principali del populismo, non siano state identiche in tutti i paesi occidentali. In questo senso, la scelta di concentrarsi sugli USA va giustificata: qual è la sua valenza e quali le ragioni che ce l’hanno suggerita? La prima risiede nella chiarezza espositiva. Si è preferito seguire con maggiore attenzione relativa un paese specifico e le dinamiche economiche che hanno caratterizzato gli ultimi decenni della sua storia invece che, se così si può dire, disperdere le energie su vari fronti. La seconda risiede nel fatto che riteniamo il caso statunitense per molti versi paradigmatico. In primo luogo vista la portata degli effetti che il populismo ha avuto negli Stati Uniti: l’elezione come presidente di Trump è forse il più importante ‘successo populista’ nella storia recente dei paesi occidentali. In secondo luogo perché vi è la sensazione che gli Stati Uniti costituiscano un modello di capitalismo dove le dinamiche segnalate nel libro hanno potuto dispiegarsi con maggiore forza, e quindi chiarezza. Spiegarne il motivo sarebbe un compito complesso, ma, semplificando radicalmente, possiamo dire che gli USA (almeno sino all’avvento di Trump) hanno perseguito un modello aggressivo di integrazione economica mondiale, sono all’avanguardia per quanto riguarda l’innovazione tecnologica nelle sue forme recenti, e, ideologicamente, nel complesso più propensi ad una visione specifica del ruolo del mercato nella società che molti definirebbero come ‘neolibersimo’ (si veda Quiggin, 2010; Blyth, 2013), o, utlizzando un’espressione meno ambigua, ‘fondamentalismo del mercato’ (si veda Naidu, Rodrik, e Zucman, 2019). Se la nostra prima precisazione riguarda quella che potremmo chiamare una presenza ingombrante nelle pagine che seguiranno, la seconda riguarda la grande assente nella nostra narrativa complessiva. A parte qualche sparuto cenno, non vi è grande traccia in esso dell’Unione Europea (UE). Eppure, molti si affretteranno a ricordarci, a giusto titolo, che l’Unione Europea è un emblema (negativo) per molti populisti; un’effige da bruciare in nome del ‘popolo’. Quali dunque le ragioni della sua parziale esclusione? In primis, questa si giustifica come l’altra faccia della medaglia della nostra scelta espositiva, scelta dettata dal desiderio di non disperdere eccessivamente le nostre energie argomentative saturando il campo di fenomeni e argomenti già ricco di complessità utilizzando come uno dei riferimenti principali gli USA. Inoltre, la nostra idea a riguardo è che, nel suo complesso, l’UE sia un capro espiatorio dei populisti piuttosto che una reale causa della domanda di populismo. A questa tesi va apportata una modifica importante se ci concentriamo sull’integrazione monetaria europea. L’Euro è senza dubbio il progetto politico-economico più controverso che l’Unione abbia tentato di portare avanti dalla sua nascita. E, se tale progetto non è privo di giustificazioni ragionevoli, si deve anche ammettere che la sua forma corrente non sembra offrire un soppesamento fra costi e benefici del tutto



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favorevole. Questo soprattutto se cominciamo a porgere la nostra attenzione sulla distribuzione dei costi e dei benefici, non solo alla differenza fra i due. Di certo non possiamo cercare di affrontare i problemi dell’unione monetaria in poche righe, ma ci preme sottolineare come anche in questo caso, gli aspetti che sembrano renderla criticabile hanno precisamente a che vedere con la perdita di autonomia politica dei cittadini (si pensi alle regole che derivano dai parametri fiscali imposti ‘dall’alto’) e le dinamiche distributive fra i vari paesi che essa ha di fatto innescato (da ‘sud’ verso ‘nord’). Se così fosse (ma si veda De Grauwe, 2016: 70-98 per una discussione approfondita), allora anche l’Euro sarebbe un tipo di scelta istituzionale che ha un profilo simile a quelle che andremo a illustrare in quanto segue. E, come per le altre, vale lo stesso messaggio di fondo, messaggio che ci sentiamo in dovere di enunciare con la maggior chiarezza possibile. Criticarle non significa avere in mente il loro abbattimento, ma semplicemente evidenziarne i problemi viste le forme specifiche che esse hanno finito per assumere. Detto altrimenti, se la ‘hyper-globalization’, l’innovazione tecnologica e l’Euro hanno un impatto asimmetrico e nel complesso incompatibile con l’idea di giustizia sociale qui presentato il rimedio di certo non sono i dazi, il luddismo, e il ritorno alla Lira. Piuttosto, bisogna adoperarsi per cercare di riformarne i contenuti. In sintesi, le nostre critiche sono intese come uno sprone a proporre un modello di integrazione economica mondiale, di sviluppo tecnologico, e di unione monetaria che siano eque.

Capitolo 1 Il quadro normativo Introduzione In quanto segue, il nostro scopo principale sarà quello di articolare una visione della giustizia sociale che faccia da sfondo, ma anche da complemento, alle analisi che proporremo nel resto del volume. La visione proposta ha le seguenti caratteristiche. La giustizia sociale viene concepita come composta da due sotto-insiemi: la giustizia politica e la giustizia distributiva. La giustizia politica, per come noi la comprendiamo, è imperniata sul concetto di autonomia politica. Quest’ultima prevede una robusta forma di democrazia ‘interna’, una parziale protezione dello spazio decisionale rispetto a dinamiche ‘esterne’, e un limite superiore alle diseguaglianze di reddito e ricchezza e alla povertà assoluta. La giustizia distributiva, per come viene compresa nel nostro framework, riposa sull’intuizione morale che collega il valore morale di una data distribuzione dei ‘vantaggi’ che risultano dalla cooperazione sociale alla sorte che in tale distribuzione hanno coloro che stanno peggio. Detto altrimenti, si adotterà una visione che in gergo tecnico si chiama ‘prioritarianesimo’, e che ci spinge a dare maggiore valore alle esigenze di coloro che, nell’ambito di una data comunità politica, stanno (relativamente parlando) peggio. Prima di procedere, un cenno metodologico sulla questione della ‘giustificazione’. In quanto segue, non ci adopereremo a fornire una giustificazione articolata dei fondamenti della giustizia sociale. Questo tipo di compito ci allontanerebbe eccessivamente dalle tematiche sulle quali il volume nel suo complesso intende focalizzarsi. Piuttosto, cercheremo di offrire un modello di giustificazione ‘coerentista’ implicitamente basato sul concetto di equilibrio riflessivo (Daniels, 2016). Detto altrimenti, partiremo da quelle che ci sembrano intuizioni morali largamente condivise all’interno delle democrazie occidentali (come l’importanza dell’autonomia politica e il peso relativo delle esigenze di coloro che stanno peggio) e cercheremo di proporre una visione della giustizia sociale che le tenga assieme mostrandone interconnessioni e implicazioni. Se tale visione d’insieme risulterà attraente, allora, avremo offerto una forma peculiare di giustificazione della concezione stessa: quella che ci consente di pensare che le nostre intuizioni morali si supportino a vicenda e che, almeno prima facie, non abbiano implicazioni con le quali non possiamo essere riconciliati.

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1. Giustizia politica: l’autonomia politica e le sue condizioni di possibilità Partiamo quindi, anche in questo caso, semplificando radicalmente la problematica, con il delineare l’idea di giustizia sociale che sottende alla nostra visione filosofico-politica. Senza pretendere di offrire una classificazione universalmente condivisa (si veda ad esempio Honneth, 2004) possiamo pensare alla giustizia distributiva e alla giustizia politica come due componenti centrali del più ampio concetto di giustizia sociale. In quest’ottica, la giustizia politica si concentra su quelli che potremmo definire gli elementi di base di una forma costituzionale. In particolare si concentra sulla forma di governo e, in maniera intimamente collegata, sui diritti politici e civili a essa connessi. Visto il campo di azione della nostra analisi (le società liberal democratiche occidentali), ci pare intuitivamente plausibile partire da una visione che potremmo definire ‘situata’ della giustizia politica. Una visione che, parafrasando Rawls (2001), si ispiri alle libertà fondamentali della tradizione costituzionale. Queste articolano una nozione di autonomia politica, sia individuale che collettiva. Tali libertà, inoltre, vanno sempre concepite non come meramente formali, ma sempre come associate a un contesto che ne può favorire o rendere impossibile l’esercizio. La giustizia politica, e quindi le libertà fondamentali che ne costituiscono il cuore pulsante, non possono sopravvivere in assenza delle loro condizioni di possibilità socio-economiche (si veda la discussione di Dahl, 1985). In concreto, possiamo affermare che eccessive diseguaglianze snaturino il carattere genuinamente democratico delle scelte pubbliche (Cohen, 2001), che la presenza diffusa di povertà assoluta renda impossibile la partecipazione dei cittadini alla deliberazione collettiva (si veda Lovett, 2009; Anderson, 1999), e che le interferenze ‘esterne’, se eccessive, ne limitino la portata e il significato (Altman e Wellman, 2009; Buchanan, 2004; 2013). Da un punto di vista analitico, le nozioni da sostanziare sono quindi le seguenti: a) l’idea di democrazia; b) come essa si collega all’idea di autonomia politica; e c) i meccanismi, sia ‘interni’ che ‘esterni’ che possano rendere l’esercizio di quest’ultima più problematico, se non addirittura impossibile. Data la portata delle tematiche in gioco, ci pare scontato ricordare al lettore che una trattazione approfondita delle stesse non sarà possibile. Ci limiteremo in quanto segue a offrire un quadro di riferimento. Tenteremo di farlo partendo da due assunti specifici, ovvero che esistono diversi modi concepire la democrazia, e che il modo attuale in cui essa si è andata sviluppando e articolando affondi le sue radici nella storia del pensiero liberale, e in particolare dell’idea di contratto sociale (su questo secondo punto si veda l’Appendice al capitolo). Partiamo quindi dall’idea di democrazia. Come ci ha insegnato David Held (2006), è sempre possibile rintracciare una pluralità di antecedenti morali e significati istituzionali nell’idea stessa di democrazia che contribuiscono a



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crearne diversi ‘modelli’ e diverse forme di giustificazione (si veda ad esempio Christiano, 2008; e lo si contrasti con Estlund, 2009). In quanto segue, ci focalizzeremo sulle caratteristiche istituzionali e normative principali del modello di democrazia costituzionale liberale (si veda in particolare Held, 2006: 56-95). Quattro nozioni ci sembrano imprescindibili per comprendere i lineamenti fondamentali del modello di democrazia costituzionale liberale: a) la concezione dei cittadini come liberi ed eguali; b) l’idea di legittimazione democratica del potere pubblico; c) l’idea di diritti costituzionalmente garantiti, e quindi dei limiti dell’autorità delle maggioranze democratiche; e d) l’idea di separazione dei poteri. Delle prime due si tenterà di dare esplicitmante conto in quanto segue e di collegarle al concetto di autonomia politica che, a nostro avviso, ne restituisce il senso complessivo. A proposito delle ultime due ci limiteremo a osservare che, seguendo una lunga tradizione nell’alveo della teoria politica, esse ci sembrano necessarie come forme di istituzionalizzazione di garanzie pertinenti alla stabile realizzazione dell’autonomia politica dei cittadini (si veda l’Appendice al primo capitolo). Il modello oggetto della nostra analisi parte sicuramente da una concezione dei cittadini che lo ‘popolano’. Essi vengono conceptiti come liberi ed eguali. È ovviamente possibile attribuire una vasta gamma di origini e interpretazioni all’espressione ‘liberi ed eguali’. In quanto segue ci concentreremo sulla visione rawlsiana (in particolare si veda Rawls, 2001). A detta di Rawls bisogna partire da un’idea complessiva di cittadinanza democratica. I cittadini vengono da Rawls concepiti come partecipanti alla cooperazione sociale, e quindi come capaci di contribuirvi attivamente per la durata della loro esistenza (2001: 18). Alle persone, in un tale schema, vengono assegnati due ‘moral powers’ (due capacità morali). Essi hanno infatti, in primo luogo, la capacità di agire secondo giustizia, concepita come la capacità di comprendere, applicare ma anche di agire scientemente in linea con una concezione pubblica della giustizia sociale. Essi hanno anche la capacità di elaborare, rivedere e ‘razionalmente perseguire’ una concezione del bene, che potremmo, semplificando, associare all’idea di vita buona. I due ‘moral powers’ danno fondamento all’assunto di partenza rawlsiano e cioè che i cittadini siano capaci di contribuire alla cooperazione sociale: la persona entra nella società politica con il desiderio di perseguire la sua visione di una vita buona ma lo fa anche essendo in grado di seguire volontariamente i precetti di una concezione della giustizia sociale che regolino i suoi rapporti con gli altri cittadini. L’origine della concezione della persona appena esposta, inoltre, va rintracciata, secondo il filosofo di Baltimora, nella maniera in cui: (…) citizens are regarded in the public political culture of a democratic society, in its basic political texts (constitutions and declarations of

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human rights), and in the historical tradition of the interpretation of those texts. For these interpretations we look not only to courts, political parties, and statesmen, but also to writers on constitutional law and jurisprudence, and to the more enduring writings of all kinds that bear on a society’s political philosophy. (Rawls, 2001: 19-20) Una volta presupposta questa impalcatura concettuale, possiamo allora dire che i cittadini sono eguali visto che posseggono i due ‘moral powers’ in misura tale da consentirgli di partecipare alla cooperazione sociale. Rawls è ovviamente consapevole del fatto che le facoltà mentali degli individui varino. E con esse le loro capacità di, ad esempio, perseguire razionalmente una concezione di vita buona. Egli però ritiene che i due ‘moral powers’ siano da pensare come soggetti a un effetto di soglia: arrivati a un certo punto, quello che rende possibile ai cittadini di partecipare attivamente alla cooperazione sociale, differenze oltre la soglia non sono significative. Quest’idea è tutt’altro che evidente, ma possiamo spiegarla usando un’analogia. Sia Roma che Ventimiglia sono ‘egualmente’ in Italia, e questo a prescindere dalla loro localizzazione sul territorio nazionale e a prescindere dalla loro vicinanza al confine. Cosi’ come non ha senso pensare che Roma sia ‘più in Italia’ di Ventimiglia, non hanno reale valore (per quanto riguarda la concezione pubblica della persona-cittadino), differenze di facoltà mentali all’interno dello spazio che individua i requisiti minimi per partecipare attivamente alla cooperazione sociale. E veniamo quindi al senso in cui, secondo Rawls, i cittadini democratici sono liberi (Rawls, 2001: 21-24). Questo si articola in due modi distinti. I cittadini sono liberi, in primo luogo, come persone che si auto-concepiscono, sia loro stessi che gli altri membri della comunità politica, come capaci di sviluppare, razionalmente perseguire e soprattutto rivedere una concezione del bene. Anche in questo caso, il senso dell’affermazione non è per forza trasparente, ma possiamo spiegarlo come segue: dal punto di vista pubblico, i cittadini hanno il diritto a una identità stabile a prescindere dalle loro scelte in merito a quale concezione della vita buona essi decidano di adottare (nei limiti imposti da una concezione della giustizia). Detto altrimenti, la persona che si comprende come ‘cattolico’ può decidere, senza conseguenze per la sua identità pubblica, di non esserlo più, per esempio convertendosi all’Islam, oppure adottando una qualche forma di visione agnostica e via discorrendo. In questo senso, i cittadini sono liberi in quanto non pubblicamente vincolati a una specifica comprensione della vita buona da essi adottata: cambiare la propria visione della vita non porta con sé la perdita di diritti. Ciò, va anche chiarito, non significa che Rawls atomizzi gli individui e veda quelle che potremmo chiamare le loro affiliazioni morali e metafisiche come non vincolanti o non costitutive della loro identità. La perdita della fede, o il trovarla, sembrano



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elementi dirimenti per la vita delle persone, ad esempio, e non vi sono ragioni per negarlo all’interno dello schema rawlsiano. Piuttosto, il punto è che, al netto della loro rilevanza, tali eventi non debbono poter condizionare lo status pubblico di chi li affronta. Il secondo senso in cui i cittadini sono liberi è invece da rinvenire nel fatto che essi si concepiscono come ‘self-authenticating sources of valid claims’. Essi hanno cioè la facoltà di (letteralmente, essi hanno ‘titolo per’) porre, nei confronti delle istituzioni pubbliche, istanze riguardanti la loro capacità di perseguire una concezione del bene da ritenersi valide. Detto altrimenti, un modo per interpretare l’idea di Rawls è che le istanze dei cittadini nei confronti delle istituzioni pubbliche, a patto che queste siano compatibili con una concezione della giustizia sociale, siano sempre legittime, e che lo siano proprio in virtù del fatto che dai cittadini esse provengano. A ben vedere, questo senso di ‘libero’ costituisce l’altra faccia della medaglia del primo senso che abbiamo discusso. Per comprenderlo, giova guardare alla questione dalla prospettiva delle istituzioni pubbliche. Lo Stato non ha il diritto di giudicare la legittimità di una specifica istanza proveniente da un cittadino (per esempio, una richiesta di fondi) basandosi su di un giudizio di merito su quello che potremmo chiamare il suo ‘contenuto filosofico’. Ovviamente, ciò non significa che lo stato debba assecondare l’istanza. Significa però che la decisione di non farlo non può essere dettata dal fatto che, ipoteticamente, la visione che a tale istanza fa da sfondo sia ‘sciocca’ o ‘non coerente con il sentire comune’ e così via (un discorso a parte, che non affronteremo, riguarda la valenza epistemica dell’istanza presentata), ma deve invece far riferimento a una concezione della giustizia per articolare il suo (dello Stato) giudizio in merito. Per illustrare: le istanze dei testimoni di Geova nei confronti delle istituzioni pubbliche non hanno minore legittimità, in quanto tali, rispetto a quelle dei cattolici, o degli aderenti all’Islam etc.; la loro legittimità dipende dalla loro compatibilità con una concezione della giustizia sociale e dal fatto che provengano da cittadini di una società democratica, non dal loro contenuto specifico. I cittadini sono anche in questo caso liberi perché, come sopra, una prerogativa fondamentale della loro identità pubblica, quella di rapportarsi alle loro istituzioni concependosi come fonti di istanze valide, non dipende, nei limiti previsti dalla giustizia, dal contenuto della loro concezione del bene. Le persone sono quindi ‘libere’ di scegliere una concezione del bene senza per questo divenire dei paria agli occhi dello Stato. Consentendoci un volo pindarico, passiamo quindi al concetto di legittimità del potere pubblico. Partiremo ancora una volta dall’opera Rawls, e lo faremo con particolare riguardo alla sua visione in Political Liberalism (1996). Il Rawls di Liberalismo Politico parte da due assunti fondamentali. Il primo assunto è che le società liberal democratiche sono marcate da quello che egli

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stesso definisce ‘pluralismo ragionevole’. Il pluralismo ragionevole ha due caratteristiche principali che sono deducibili dalle due parole che vanno a comporre l’espressione. La prima è che si tratti di una forma di pluralismo: differenze di vedute, spesso inconciliabili, su quelle che Rawls chiama dottrine comprensive, ma che noi possiamo interpretare più semplicemente come visioni alternative del senso dell’esistenza umana. La seconda caratteristica è che si tratta di pluralismo ragionevole, non pluralismo sic et simpliciter. ‘Ragionevole’ qualifica la fonte o l’origine del pluralismo stesso che risiede, secondo Rawls, in quelli che egli definisce gli ‘oneri del giudizio’. Quest’ultimi ci forniscono una spiegazione che vede in alcune forme di pluralismo (quelle ragionevoli appunto), non già l’esito dei pregiudizi individuali o degli interessi di parte, ma bensì il risultato dell’uso della ragione umana in condizioni istituzionali che ne proteggano il libero esercizio. Il secondo assunto di partenza della visione di Rawls è che il potere pubblico è il potere egualmente detenuto da tutti i cittadini e che da essi viene collettivamente esercitato. Il problema della legittimità politica liberale nasce dal tentativo di tenere assieme questi due assunti di partenza e si può riassumere in questo modo: come è possibile, ovvero su quali basi si fonda, un esercizio legittimo del potere pubblico da parte dei cittadini che tale potere egualmente detengono, in circostanze che vedono i cittadini stessi come profondamente e ragionevolmente divisi sulle questioni profonde legate al senso dell’esistenza umana? (1996: XXXIX-XL). La risposta di Rawls è che un esercizio legittimo del potere pubblico richiede il rispetto di quello che egli chiama il ‘principio di legittimità liberale’ e che viene da egli enunciato in questo modo: (…) our exercise of political power is fully proper only when it is exercised in accordance with a constitution the essentials of which all citizens as free and equal may reasonably be expected to endorse in the light of principles and ideals acceptable to their common human reason. (Rawls, 1996: 137). Passando sopra quelle sono numerose difficoltà e complessità interpretative, il significato del principio di legittimità liberale può essere compreso come segue. L’uso del potere pubblico è legittimo in una società liberal democratica quando le regioni che ne giustifichino l’impiego siano derivate da quella che Rawls definisce una concezione liberale e politica della giustizia sociale (1996: 5-6). Una concezione ‘liberale’ e ‘politica’ della giustizia ha le seguenti caratteristiche. Ciò che la rende politica sono il suo campo di azione, e cioè il fatto che si applichi alle istituzioni principali che rendono la cooperazione sociale possibile, come la costituzione, e le varie istituzioni che danno vita al sistema economico: il suo campo di azione è limitato, non guida direttamente,



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per esempio, le azioni dei cittadini concepiti come individui singoli. In secondo luogo, una concezione della giustizia è politica perché il suo contenuto non è derivato dalle visioni inconciliabili del significato dell’esistenza umana. Bensì, e questo è il terzo elemento del suo essere ‘politica’, viene vista come una ricostruzione filosofica dei concetti impliciti nella tradizione politica liberal democratica e in particolare delle tradizioni interpretative dei fondamenti ideali che hanno dato vita e corpo alla tradizione costituzionale. Una concezione politica della giustizia è anche liberale se rispetta le tre seguenti restrizioni sul suo contenuto. Come prima cosa la specificazione di un insieme di libertà fondamentali che sono legate alla tradizione liberale e costituzionale quali: libertà di espressione, di coscienza, di associazione, le libertà politiche associate ad un sistema democratico e la libera scelta della propria occupazione. In secondo luogo, una concezione politica liberale della giustizia assegna a tali libertà fondamentali una speciale priorità rispetto al bene comune e a varie forme di concezioni perfezioniste che possono essere a quest’ultimo collegate. Infine, una concezione politica liberale della giustizia deve specificare misure adeguate che possano garantire la possibilità di un esercizio sostanziale e non solo la validità formale delle succitate libertà fondamentali, argomento sul quale torneremo in seguito. Sin qui, l’esposizione di alcuni elementi centrali della filosofia politica di Rawls. La nostra tesi è che, come abbiamo avuto modo di segnalare qualche pagina orsono, a fondamento sia della concezione dei cittadini come liberi ed eguali, sia della legittimità del potere pubblico vi sia una preocupazione per l’autonomia politica delle persone. Detto altrimenti, il modello di democrazia costituzionale liberale si fonda, nel suo complesso, sul desiderio di garantire l’autonomia politica della persona-cittadino. Tale tesi, si noti bene, è sia interpretativamente (con riferimento al lavoro di Rawls) che nel merito, assai controversa. Per comprenderlo basti pensare al fatto che, nell’ambito di quelle vengono viste come giustificazioni non-strumentali della democrazia (si veda Christiano, 2006: 2.2), viene spesso operata una tripartizione. In primis si ricorda la diade composta da giustificazioni imperniate su appelli alla libertà (e alla democrazia come estensione pubblica di quella individuale), e quelle che riposano su appelli all’eguaglianza politica (di cui la democrazia sarebbe un’espressione pubblica e simbolica – il suo ‘embodiement’ per usare il termine scelto da Christiano). Entrambe vengono poi distinte dal modello basato sull’idea di ‘giustificazione pubblica’, quello di Rawls, che vede nella democrazia una condizione necessaria per giustificare l’impiego del potere pubblico. La nostra affermazione, perché di questo si tratta, è che il modello basato sulla giustificazione pubblica, quello rawlsiano, può sussumere i due precedenti approcci, e farlo tramite il ricorso al concetto di autonomia politica. In quanto segue illustreremo brevemente la nostra idea.

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Nella visione rawlsiana, i cittadini raggiungono quella che egli chiama piena autonomia politica quando essi, nella loro condotta: (…) not only comply with the principles of justice, but they also act from these principles as just. Moreover, they recognize these principles as those that would be adopted in the original position. It is in their public recognition and informed application of the principles of justice in their political life, and as their effective sense of justice directs, that citizens achieve full autonomy. Thus, full autonomy is realized by citizens when they act from principles of justice that specify the fair terms of cooperation they would give to themselves when fairly represented as free and equal persons. (…) [F]ull autonomy is achieved by citizens: it is a political and not an ethical value. By that I mean that it is realized in public life by affirming the political principles of justice and enjoying the protections of the basic rights and liberties; it is also realized by participating in society’s public affairs and sharing in its collective self-determination over time. (Rawls, 1996: 77-78). La concezione dell’autonomia politica (che sarebbe più accurato chiamare: ‘full autonomy of persons as citizens’, traducibile con ‘piena autonomia delle persone concepite come cittadini’) offerta da Rawls è intimamente connessa con la sua idea di ‘posizione originaria’. Di quest’ultima non ci dilungheremo a spiegarne ruolo e significato, ma possiamo dire che essa individui una situazione di scelta, vertente sul contenuto di una concezione della giustizia, sulla quale vengono imposte restrizioni specifiche che aiutano a garantire la coerenza fra l’idea di persone libere ed uguali e i principi che esse si danno per regolamentare le loro istituzioni sociali di base. In questo senso, la posizione originaria impone restrizioni sulle ragioni alle quali è lecito fare riferimento per l’utilizzo del potere pubblico. E tali ragioni, che sono poi quelle alle quali si deve ricorrere visto il principio di legittimità liberale sopra enunciato, sono ragioni pubbliche. Ovvero ragioni che presuppongono la visione degli altri cittadini come liberi ed eguali. In ultima analisi la concezione della legittimità liberale come articolata da Rawls e come da noi brevemente illustrata, esprime una visione dell’autonomia politica. Come scrive Paul Weithman: (…) [A]mong the things Rawls tried to do in both A Theory of Justice and Political Liberalism was to show how we can live freely while subject to the basic structure of a modern state. From the opening pages of A Theory of Justice, Rawls argued that if that structure were



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well ordered by justice as fairness, the demands to which we would be subject could be seen as self-imposed—and hence, as he might later have put it, as imposed by our own rationality and reasonability. Rawls’s argument does not provide a reason for caring about autonomy. It assumes, rather, that seeing demands of the basic structure as self-imposed—as having a reasonable and rational basis—will draw the sting from subjection: members of a society which is well ordered can be reconciled to it because they can view their subjection as compatible with a form of freedom [freedom as political autonomy] that they recognize as important when they see it. (2017: 122) Così facendo l’approccio di Rawls offre un fondamento implicito delle quattro caratteristiche (sempre tenendo a mente la distinzione funzionale fra di esse) che abbiamo suggerito come centrali per la comprensione del modello di democrazia oggetto della nostra attenzione. Non ci dedicheremo all’opera, sia esegetica quanto analitica, che consentirebbe di dimostrare tale affermazione, ma ci sembra ragionaevole asserire che, nella concezione di Rawls, i cittadini sono visti come liberi ed eguali, la legittimazione del potere pubblico viene dai cittadini stessi, mentre la divisione fra i poteri e la garanzia costituzionalmente istituita di alcuni diritti fondamentali sono un ‘trait d’union’ imprescindibile che allenta la tensione fra i primi due elementi e ne consente un rapporto di equilibrio se non statico, perlomeno stabile. In sintesi, quella che ci viene offerta è una concezione, o modello, di democrazia che rifletta genuinamente il volere della maggioranza dei cittadini concepiti come libere ed eguali ma allo stesso tempo garantisca i diritti fondamentali degli individui nel modo più sicuro possibile. L’equilibrio fra questi due ideali ragolativi viene assicurato da specifiche forme istituzionali. E, nel suo complesso, la visione si fonda sul desiderio di dare pubblica espressione e valore reale all’autonomia politica della persona-cittadino. Infine, un avvertimento che ci sembra importante viste le premesse del nostro studio, e in particolare, vista la nostra costatazione vertente su di un modello occidentale in crisi (si veda l’introduzione generale al volume). Non vi è dubbio che questa visione del modello di democrazia costituzionale liberale (quella che abbiamo appena offerta) sia fortemente idealizzata. I cosiddetti teorici dell’elitismo competitivo (per citare un solo esempio), da Mosca e Pareto sino a Schumpeter (si veda Maffettone, 2019: 47), ci hanno spesso ricordato il carattere utopico ad essa connessa. Va però anche ricordato che il concetto di autonomia politica che abbiamo discusso, è pensato come base morale normativa del modello di democrazia in esame, non come descrizione dei fenomeni politici reali. Quanta distanza sia fra essi tollerabile prima che una concezione morale normativa divenga priva di qualsiasi presa sulla realtà

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non è cosa che possiamo affrontare in questo volume (ma si veda, Valentini, 2018; Gaus, 2016). Ci limiteremo a chiosare che le due visioni hanno scopi differenti e quindi che non è facile usarne una per falsificare l’altra. E passiamo infine al terzo elemento teoretico della giustizia politica che ci siamo imposti di illustrare in questa parte del capitolo. Come abbiamo stabilito all’inizio della nostra discussione, per comprendere la giustizia politica si deve specificare un modello istituzionale e le sue fondamenta morali normative. Sono questi i compiti che, almeno crediamo, abbiamo assolto nelle pagine precedenti. Eppure, come abbiamo anche osservato ab initio, una visione della giustizia politica che non ci dica nulla sulle precondizioni socio-economiche della sua possibilità sarebbe una concezione povera, se non addirittura fortemente e colpevolmente incompleta. Questa, in fondo, è sempre stata una delle più penetranti critiche ‘da sinistra’ (da parte marxista e socialista) della concezione di democrazia costituzionale liberale. In assenza di una forma di controllo sulle precondizioni di possibilità socio-economiche dell’esercizio della propria autonomia politica, potremmo così sintetizzare, quest’ultima non può che trasfigurarsi in una forma di governo dei ricchi sui poveri, dei potenti sui cittadini comuni, delle maggioranze etniche e religiose sulle minoranze, degli uomini sulle donne, e in sintesi di coloro che hanno storicamente e strutturalmente avuto una posizione di forza nella società civile su coloro che tale posizione non la posseggono. Ed è proprio nel tentativo di fornire risposte adeguate a una tale critica che è rintracciabile, almeno in parte, lo sviluppo della visione socialdemocratica del liberalismo contemporaneo. Da Habermas a Rawls, una visione che, senza rinunciare alle libertà fondamentali della tradizione costituzionale, e al loro legittimo prevalere sul richiamo al bene comune, si interrogano a fondo sulle loro condizioni di possibilità. Detto altrimenti il tentativo di sviluppare una visione dove i cittadini tutti siano realmente liberi ed eguali e fonti di legittimazione del potere pubblico, e la loro autonomia politica abbia davvero un senso e un valore sostanziale, e non solo formale; per tutti e non solo per alcuni. In questo senso cambia, e si complica radicalmente, il rapporto fra il pensiero liberale e l’idea di libero mercato. Esso diventa più complesso, frammentato, e in ultima analisi ambiguo. Mentre non vi è dubbio che il liberalismo classico abbia costituito, da Adam Smith fino a John Stuart Mill, uno dei grandi movimenti intellettuali che hanno appoggiato l’idea di una separazione netta fra la sfera di intervento pubblico e quella economica, l’idea che il liberalismo debba portare a una visione basata sulla dottrina del ‘laissez faire, laissez passer’ si complica radicalmente nel secolo ventesimo. Rimane certamente una corrente fortemente ispirata da quella visione, basti pensare ai contributi che spaziano da quello di Friederich Von Hayek e Milton Friedman, a quello di Robert Nozick (si veda Kresge e Wenar, 1994; Wolff, 1991). Al



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contempo si sviluppa un pensiero liberale più ‘interventista’ dove il mercato rimane centrale come meccanismo di allocazione delle risorse, ma largamente strumentale e imperfetto dal punto di vista di una valutazione più ampia del suo ruolo sociale. Tale visione filosofica ha sicuramente degli antecedenti importanti nelle policy del New Deal americano, ma anche nella creazione dei primi elementi dello stato sociale con Beveridge nel Regno Unito, e con il monumentale contributo alla teoria macroeconomica fornito da Keynes negli anni trenta del secolo scorso. Al netto di questa frammentazione, e posizionandoci sul suo versante socialdemocratico, possiamo dire che tre grandi ‘minacce’ sono state riconosciute dal pensiero politico liberale contemporaneo nei confronti della reale possibilità di esercitare i propri diritti e quindi dare vita a un sistema politico dove l’autonomia politica di tutti sia sostanzialmente garantita. Il primo e più ovvio è la presenza di povertà assoluta diffusa. Il secondo è il ruolo distorisivo delle diseguaglianze di reddito e ricchezza sulla genuina democraticità dei processi decisionali pubblici. Il terzo è il ruolo che le influenze di ‘forze esterne’ possono avere nel ridurre, e/o progressivamente sottrarre, al controllo democratico crescenti aspetti delle decisioni istituzionali che danno forma alle caratteristiche specifiche di una data comunità politica. Prima di iniziare la nostra discussione in proposito, tre osservazioni preliminari. La prima che ci sembra invero assai importante, è che discutere questioni di fruibilità e distribuzione delle ricchezze all’interno di una visione della giustizia politica è tutt’altro che accidentale. Non farlo potrebbe suggerire, innanzitutto, un’accettazione acritica della tesi che vede il posizionamento delle dinamiche economiche come pertinenti solamente alla sfera della società civile, cosa che, come abbiamo visto, la socialdemocrazia moderna rifiuta in blocco. Più in generale, segnala, se ce ne fosse davvero bisogno, che i rapporti politici fra le persone sono profondamente influenzati dalla distribuzione di risorse vigente in una società. Se essere politicamente autonomi richiede un contesto che lo consenta, allora non vi è dubbio alcuno che la distribuzione di risorse, da un punto di vista strumentale e legato ai suoi effetti, è centrale. In questo senso, la giustizia distributiva e quella politica sono sempre intimamente legate: esse non possano essere nitidamente separate dall’attenzione verso un ambito specifico come, ad esempio, quello riguardante la distribuzione di risorse economiche. La seconda precisazione riguarda la nostra decisione, in quello che segue, di concentrarci in modo quasi esclusivo sul rapporto fra diseguaglianze economiche e fedeltà alla natura democratica dei processi decisionali. Il motivo è presto detto. Riteniamo che la prima minaccia alla autonomia politica (la povertà assoluta) sia scontata e richieda poca energia argomentativa per essere difesa. In questo ci sentiamo largamente confortati dalle recenti versioni del

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repubblicanesimo civico, e in parte del cosidetto ‘egualitarismo relazionale’ (si veda in particolare Anderson, 1999). La sola osservazione che desideriamo aggiungere a tale proposito è che non intendiamo suggerire che l’unico motivo che ci spinge a giudicare negativamente la povertà assoluta sia il suo effetto sulla capacità dei cittadini di essere politicamente autonomi. Ovviamente la povertà assoluta è fonte di enorme sofferenza umana, e questo basta per renderla moralmente inaccettabile. Invece, la nostra idea di fondo è che ci sembra evidente che la povertà assoluta ponga anche un problema morale per ragioni strumentali, e questo perché essa impedisce ai cittadini di partecipare attivamente alla vita pubblica, ne rende impossibile l’uso concreto delle loro libertà fondamentali e, in ultima analisi permette soltanto una forma di autonomia politica scevra del suo reale valore. Inoltre, non ci soffermeremo sul terzo elemento, ovvero l’effetto di forze esterne sull’autonomia politica di uno stato liberal democratico, e questa volta semplicemente perché avremo modo di discuterne ampiamente nei capitoli successivi e in particolare nel capitolo terzo di questo volume, quello dedicato alla ‘hyper-globalization’. La terza e ultima precisazione è che, in quanto segue, daremo per scontata una definizione intuitiva dell’espressione ‘diseguaglianza economica’, eppure quest’ultima non facilmente si da al singolare. Infatti, non esiste ‘la’ disegualianza, ma soltanto misure diverse che segnalano, in modo statico o dinamico, le differenze fra vari gruppi o individui in termini di una o più variabili. Decomprimendo leggermente la nostra ultima frase, possiamo dire che riferirsi alla diseguaglianza in astratto, anche se spesso la associamo a fenomeni specifici, non può, analiticamente parlando, avere grande senso. Bisogna quindi fissare dei paletti, oppure se volessimo utilizzare un linguaggio più scientifico, dei parametri, per dare senso compiuto al concetto. Quantomeno bisogna comprendere in termini di che cosa si voglia comparare le persone, e, in secondo luogo, si deve scegliere chi comparare e come. Per intenderci, si prenda ad esempio la seguente affermazione ipotetica: la differenza di reddito medio annuo fra l’ultimo decile e il primo decile della distribuzione del reddito annuale della popolazione del paese X, nell’anno Y, è di Z dollari. In questo tipo di affermazione, si può facilmente riscontrare che abbiamo specificato le seguenti cose: a) un metro di paragone (il reddito medio annuo); b) due gruppi specifici all’interno di una popolazione specifica (semplificando, il 10% più povero e il 10% più ricco della popolazione di un paese, in termini di reddito); c) in un dato momento storico (un dato anno). Cambiando le succitate scelte, si possono comporre infinite ‘misure della diseguaglianza’: potremmo sostituire reddito con ricchezza in tutta o in parte dell’espressione, potremmo variare il paese (o addirittura non interessarci a un paese specifico), e la scelta dei gruppi da comparare (compararne più di due, oppure ridurre i gruppi a individui), potremmo scegliere un anno diver-



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so, oppure considerare un intervallo di tempo maggiore, o interessarci alle variazioni all’interno di un intervallo temporale, o interessarci a variazioni evolutive di una misura piuttosto che a una misura statica. E naturalmente, anche se la cosa non è identica dal punto di vista concettuale, possono variare enormemente le basi di dati utilizzate per stabilire il contenuto specifico di ogni affermazione fatta. E veniamo quindi al rapporto fra diseguaglianza economica e degrado dell’eguaglianza politica. Il tema è, storicamente complesso. Che il rapporto fra le due idee sia importante non vi è dubbio, ma quale sia la direzione del nesso causale fra le due e dove rintracciare maggiori pericoli per il cittadino democratico non è sempre stata cosa ovvia. Di certo, autori come de Tocqueville vedevano nell’eguaglianza di condizione socio-economica una potente minaccia nei confronti della libertà politica. Come però ci ricorda Dahl (1985), sembra anche chiaro che i timori di de Tocqueville fossero legati alla struttura socio-economica degli Stati Uniti dell’epoca. Al mutare di tali condizioni, e marcatamente con lo sviluppo della moderna forma di capitalismo industriale (e post-industriale) si è invece andata affermando l’idea opposta: quella che una eccessiva diseguaglianza economica possa essere esiziale per una genuina forma di eguaglianza politica e in ultima analisi per l’autonomia politica stessa dei cittadini più complessivamente. La ricerca recente a questo proposito è praticamente sterminata. Senza nessuna pretesa di completezza in merito, essa può essere schematicamente divisa in tre filoni. Il primo è caratterizzato dal ritorno dell’interesse da parte della teoria economica ‘mainstream’ al tema dell’evoluzione delle diseguaglianze, stimolato dal successo dei lavori di economisti come Anthony Atkinson, Thomas Piketty, Emanuel Saez, Facundo Alvaredo, Gabriel Zucman e Salvatore Morelli, solo per elencarne alcuni (si veda a titolo illustrativo Atkinson, Piketty e Saez, 2011; WIR, 2018). Il focus centrale della ricerca economica recente è stato quello di offrire misure sempre più accurate e innovative della crescente diseguaglianza di reddito e soprattutto di ricchezza che ha afflitto i paesi occidentali a partire dagli anni ’80 del secolo scorso e di elaborare rimedi di policy per combatterla. Vi è poi una letteratura di scienze sociali in senso lato che ha evidenziato gli effetti assai negativi della diseguaglianza economica, ma anche di status, per una serie di indicatori socio-economici rilevanti che vanno dalla salute, alle gravidanze in età adolescenziale, passando per i livelli di incarcerazione e di obesità (si veda Marmot, 1978; Wilkinson e Pickett, 2009). Infine vi è una letteratura di scienze politiche che si è via via andata interessando agli effetti delle diseguaglianze economiche sui processi politici e su quelli elettorali in particolare (si pensi al lavoro di Larry Bartels).

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FIGURA 1.1  Top 1% per reddito nazionale – Paesi anglofoni

Fonte: Osberg (2014).

Che la diseguaglianza nei paesi occidentali sia in aumento dagli anni 1980 circa è cosa dubitata da pochi. A titolo meramente illustrativo possiamo mostrare l’andamento della percentuale di reddito complessiva catturata dall’ 1% più ricco in alcuni paesi anglofoni (figura 1.1). Tale andamento ha la tipica forma a ‘U’ che si registra nelle statistiche sulle diseguaglianze nei paesi occidentali e che segnala un ritorno verso forme di distribuzione delle risorse economiche (qui del reddito) che si avvicinano a quelle vigenti nei primi decenni del secolo scorso, e che, in ultima analisi, vengono considerate storicamente assai elevate. Per quello che ci riguarda, basta notare la seguente cosa. Gli osservatori che abbiamo appena citato sono, in genere, unanimemente d’accordo su due affermazioni: a) la diseguaglianza economica è spesso collegata con il peggioramento di indicatori sociali che riteniamo importanti per stabilire la qualità della vita delle persone in una comunità politica; e forse cosa per noi decisiva b) al crescere delle diseguaglianze economiche si possono rintracciare anche empiricamente capacità di influenzare il processo politico e quindi l’uso del potere pubblico fortemente correlate con la pozione socio-economica (si veda Bartels, 2016). In questo senso, la filosofia politica contemporanea si è limitata a giocare il ruolo dell’Hegeliana nottola di Minerva anche se in maniera assai sui generis: il timore spesso esplicitato, da Rousseau fino a Rawls, che il processo politico

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potesse divenire ostaggio di coloro che hanno posizioni socio-economiche e culturali dominanti ha visto una progressiva forma di trasformazione da intuizione basata su di una sociologia politica ed economica di base a vera e propria costatazione dei fatti avvalentesi di una folta schiera di dati empirici. Alcuni dei canali principali tramite i quali si può comprendere concettualmente il legame fra diseguaglianze economiche e politiche sono riassunti nella tabella 1.1. Anche volendo essere assai cauti, sembra evidente che, in assenza di forti correzioni istituzionali (come riforme radicali del metodo di finanziamento ai partiti e candidati, ma anche norme per evitare la concentrazione dei media in poche mani), le diseguaglianze economiche rischiano di traviare fortemente l’accountability dei processi democratici nei confronti dei cittadini presi nel loro insieme. TABELLA 1.1  Diseguaglianze economiche e autonomia politica Aspect of the Democratic Process

Associated Problems

Money for votes

Law-making Mechanism: campaign finance

Special treatment for the well-off – regulatory capture

Money as predictor of success

Agenda setting Mechanism: campaign finance

Issues not considered in public/legislative fora

Money as space in the public sphere

Preference formation Mechanism: ownership of media

Cultural hegemony and lack of balanced information

Money as an independent power

Exogenous Constraint on policy-making Mechanism: capital mobility (e.g. ‘exit threat’)

Lack of democratic accountability – e.g. on economic policy

Fonte: elaborato dall’autore a partire da Bartels (2016); Christiano (2012); Cohen (2001).

Concludiamo la nostra discussione della giustizia politica con una brevissima sintesi. In questa sezione abbiamo offerto una visione di giustizia politica basata su tre elementi portanti. L’individuazione di uno specifico modello di democrazia, e cioè delle caratteristiche di base del modello costituzionale liberale. Abbiamo in seguito proposto come fondamento morale normativo di tale modello una visione di autonomia politica. Infine, abbiamo esplorato quelle che ci sembrano essere la condizioni di possibilità tali che il modello in oggetto possa realmente rimanere fedele a quelle che costituiscono le sue aspirazioni normative immanenti: garantire la capacità ai cittadini di poter davvero esercitare le loro libertà fondamentali e così facendo garantire il reale valore della loro autonomia politica.

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Giustizia distributiva: il prioritarianesimo

Nella sezione precedente del capitolo ci siamo concentrati sull’idea di giustizia politica. In questa focalizzeremo la nostra attenzione su quella di giustizia distributiva. Prima di cominciare la nostra analisi ci sembra opportuno fare due precisazioni. La prima è che, in quanto segue, non tratteremo, almeno non in dettaglio, della priorità relativa fra i due aspetti della giustizia sociale. Detto altrimenti, ci possiamo senz’altro chiedere se l’esercizio delle prerogative democratiche dei cittadini possa spingerli ad adottare una visione della giustizia distributiva che sia in contrasto con quella che andremo a illustrare in questa sezione. La risposta, se si vuole dare una qualche forma di priorità alla giustizia politica, è che ciò sia senz’altro possibile, sempre che si rispettino i vincoli sulla distribuzione delle risorse economiche che abbiamo visto costituire precondizioni importanti per una genuina forma di autonomia politica. Ciononostante e come speriamo di poter illustrare nei capitoli successivi, a noi pare che tale conflitto non sia particolarmente rilevante nel contesto della nostra analisi, visto che le scelte istituzionali in campo economico che andremo ad analizzare sembrano combinare effetti contrari a entrambe gli aspetti della giustizia sociale da noi discussi. La seconda e più importante precisazione è che si deve assolutamente tenere a mente il fatto che la distinzione fra giustizia politica e giustizia distributiva non può essere nitidamente collegata a una divisione fra diritti da un lato e condizione socio-economica dall’altro. Un primo modo di comprendere quest’ultima affermazione è stato concretamente illustrato nella sezione precedente. Ivi, discutendo di quelle che abbiamo chiamato le precondizioni della giustizia politica abbiamo fatto riferimento al ruolo delle diseguaglianze e della povertà assoluta. Nel capitolo quattro di questo volume ci occuperemo dell’annosa questione del controllo dell’innovazione, intimamente collegato alla tematica del controllo pubblico o quantomeno diffuso sui mezzi di produzione. Detto questo, il fatto che fra giustizia politica e giustizia distributiva non vi sia una divisione analitica netta, o quantomeno una divisione rintracciabile nella distribuzione di risorse, non significa che non esista un ambito proprio per la giustizia distributiva. La domanda fondamentale alla quale essa deve poterci dare una risposta è quella che riguarda il criterio di giudizio morale da adottare per comprendere come valutare la ripartizione dei vantaggi (e svantaggi) della cooperazione sociale in senso generale. In altri termini, possiamo pensare che la cooperazione sociale, come la maggior parte delle umane imprese, richieda dei sacrifici e crei delle ricompense o vantaggi per quelli che a essa partecipano. Se non vi fossero benefici dalla cooperazione sociale essa sarebbe inutile, se non comportasse sacrifici, intesi come parziale rinuncia al perseguimento dei propri interessi individuali, essa sarebbe senz’altro meno controversa. In questo quadro, in tutti i casi, si pone la questione di come ripartire in maniera mo-



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ralmente accettabile i frutti della cooperazione sociale. E questo problema, si badi bene, si pone anche se le principali precondizioni dell’autonomia politica sono state soddisfatte, e quindi anche se le diseguaglianze non sono eccessive, e la povertà assoluta non è diffusa. Anche quando ciò dovesse essere il caso, si pongono, in sintesi, questioni relative all’equa distribuzione dei vantaggi (e svantaggi) della cooperazione sociale. Vediamo quindi come si può articolare un’idea di giustizia distributiva che sia coerente, moralmente attraente, e nel complesso in linea con credenze diffuse nelle società democratiche occidentali. Anche in questo caso, la definizione da noi adottata sarà scarna, ma, riteniamo, sufficientemente intuitiva da far comprendere il legame che intercorre fra tale idea e il sistema di istituzioni economiche di un paese. Per quanto riguarda il dibattito sul concetto di giustizia distributiva nel contesto della letteratura anglo-americana degli ultimi cinque decenni, possiamo individuare perlomeno cinque domande fondamentali che ogni concezione della giustizia distributiva ha sia la necessità che il dovere di affrontare (per una discussione critica si veda Lamont e Favor, 2017). La prima riguarda il problema della giustificazione: che ragioni possono darsi a favore della concezione nel suo complesso? La seconda riguarda il principio di distribuzione che si intende perorare: garantire un minimo a tutti? Aumentare il benessere sociale complessivo? Mirare ad una società più eguale? Oppure dare una qualche forma di priorità alle esigenze di coloro che stanno relativamente peggio in termini di un metro condiviso per offrire una tale misura? La terza domanda fondamentale, sulla scorta del riferimento all’idea di un ‘metro di giudizio condiviso’ pertiene all’individuazione di una qualche forma di ‘currency’ (o ‘distribuendum’) per poter proporre giudizi di natura sia assoluta che comparativa rispetto alla condizione delle persone. Detto altrimenti, come si fa a stabilire, ad esempio, se un dato attore si trovi in una condizione migliore o peggiore di un altro attore? In assenza di un metro di comparazione determinato, ci si troverà molto probabilmente impossibilitati ad offrire un giudizio complessivo e/o univoco. Il problema è facilmente illustrabile comparando l’utilitarismo classico (dove ciò che conta è il benessere delle persone) e un’ipotetica concezione della giustizia distributiva dove le risorse economiche vengano individuate come il principale distribuendum. Se il livello di benessere di una persona dipende dalla sua capacità individuale di trasformare risorse economiche in utilità, e cioè dalla sua cosiddetta funzione di utilità, ciò ci pone un dilemma. Difatti, non conoscendo nulla sulle (diverse) funzioni di utilità di ogni cittadino, sarà possibile trovare persone economicamente ricche che hanno livelli di utilità minori, e cioè stanno peggio, di persone economicamente meno abbienti. In assenza di una scelta rispetto al metro adeguato di comparazione, oppure di affermazioni, necessariamente ipersemplificanti e distorcenti la realtà, sulla forma di queste funzioni di utilità, non sarà quindi possibile determinare chi fra queste due persone stia meglio.

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Infine, tutte le concezioni della giustizia distributiva debbono offrire una duplice esplicazione del loro campo di azione. In primo luogo, e questa è la quarta domanda fondamentale, debbono specificare i soggetti ai quali le loro prescrizioni vengono primariamente indirizzate. Molto frequentemente si tende a dare per scontato che una concezione della giustizia distributiva sia per forza legata alla costruzione e struttura delle istituzioni economiche e politiche di una data società, ma, come la letteratura contemporanea ha ampiamente illustrato (si veda Cohen, 2008), si può anche pensare che tali principi debbano essere indirizzati, e quindi capaci di guidare direttamente, anche i comportamenti dei singoli. La seconda questione legata al campo di azione di una concezione della giustizia distributiva, e la quinta domanda alla quale essa debba obbligatoriamente dare una risposta, si riferisce alla decisione su quello che viene, nella letteratura corrente, definito come lo ‘scope’ dei principi distributivi scelti (si veda Held e Maffettone, 2016). Questo tipo di dibattito ha visto una crescente importanza alla luce di discussioni sulla natura e caratteristiche di quella che in gergo viene denominata ‘giustizia globale’. In sintesi, il problema che si pone è il seguente: una volta individuate le risposte alle prime quattro domande che abbiamo appena proposto, a chi si debbono applicare le risposte, e cioè la concezione di giustizia distributiva scelta? Ai cittadini di un dato paese? Oppure a livello internazionale o globale? Fin qui ci siamo limitati ad offrire un orizzonte di senso per comprendere l’idea di giustizia distributiva e le principali domande e problematiche che esso contiene, perlomeno all’interno di una specifica tradizione filosofico-politica. Resta, ovviamente, il compito più complesso; quello di operare scelte giustificate concernenti le risposte alle domande che abbiamo illustrato nei paragrafi precedenti; risposte che costituiscono il cuore di qualsiasi concezione della giustizia distributiva. Usando un’analogia di tipo più formale, possiamo dire che la giustizia distributiva viene qui presentata come un’idea parametrica legata, per l’appunto, al valore che si intende dare ai cinque parametri fondamentali sopra illustrati: tali valori ci danno le coordinate esatte, se così si può dire, di una specifica concezione e ne determinano quindi la posizione relativa rispetto alle sue alternative. Va detto senza timore di smentita che offrire una disamina completa delle risposte alle cinque domande fondamentali che abbiamo appena illustrato non è un compito assolvibile nel breve spazio che andremo a concedere a tale problematica in questo volume. Va anche però riconosciuto che l’assenza di una trattazione completa non deve per questo portare a una deriva di forzata arbitrarietà, bensì ci suggerisce di puntellare le scelte che andremo a compiere in maniera differente. Il nostro approccio sarà quindi quello di offrire non già una giustificazione complessiva, ma una specificazione sintetica delle risposte, e quindi di un’assegnazione di un valore determinato a quelli che abbiamo chiamato i cinque parametri fondamentali della giustizia distributiva,



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alla luce di due tipi di ragioni specifiche: a) il contesto e gli scopi dello studio che stiamo intraprendendo; b) l’attratività morale intuitiva delle scelte compiute. Trovare risposte che intersecano queste due direttive argomentative ci sembra un approccio assai ragionevole, se non altro viste le circostanze. Partiamo dalle due scelte che ci sembrano, comparativamente parlando, meno controverse e che riguardano la risposta alla quarta e alla quinta domanda fondamentale connesse alla giustizia distributiva. In quanto segue, ci atterremo all’idea che il campo di azione di una concezione della giustizia distributiva sia principalmente legato alle istituzioni, e quindi anche alle scelte istituzionali nell’ambito economico, e che il loro ‘scope’ sia da individuarsi principalmente come interno ad un determinato paese. Entrambe le idee, e soprattutto la seconda, vanno però precisate onde evitare fraintendimenti. A riguardo della prima, ci sentiamo di dire che, nonostante la questione sia tutt’altro che risolta all’interno della letteratura scientifica, vi è una forte predominanza a favore di coloro che vedono nelle istituzioni il principale campo di azione dei principi di giustizia distributiva e che, in tutti i casi, sono davvero pochi coloro che negano il fatto che esse facciano parte di tale campo di azione (anche quando non vengano ritenute come l’unico soggetto al quale si debbano applicare principi di giustizia). Inoltre, a tale proposito, giova un’ulteriore precisazione in merito al rapporto fra giustizia distributiva e sistema economico. È importante comprendere che la nostra risposta alla quarta domanda fondamentale legata al concetto di giustizia distributiva è da concepirsi in senso inclusivo piuttosto che restrittivo. Vanno altresì inclusi, nell’idea di giustizia distributiva, non soltanto distribuzioni specifiche di vantaggi, ma anche le variabili istituzionali che a esse ci conducono come: a) forme alternative di organizzazione delle principali istituzioni economiche quali i sistemi di tassazione; b) le scelte di politica economica che spaziano dall’ ‘industrial policy’ agli investimenti in capitale umano; c) le decisioni riguardanti il livello di integrazione fra un’economia singola e il resto del sistema economico internazionale quando queste hanno chiari effetti distributivi. Ovviamente, ci preme anche sottolineare che la nostra tesi non è quella, assai improbabile, che vedrebbe tutti gli ambiti ai quali abbiamo appena fatto riferimento come estensione del concetto stesso di giustizia distributiva. Piuttosto, l’idea di fondo è che questi ambiti siano soggetti ai giudizi riguardanti la giustizia distributiva (e questo per il semplice fatto che sono determinanti per la distribuzione di alcuni dei vantaggi della cooperazione sociale) e quindi che essi vadano interpretati, anche, se non principalmente, come contesti importanti per comprendere come un’equa distribuzione degli oneri e dei vantaggi della cooperazione economica debba avvenire. Per quanto riguarda la risposta alla quinta domanda, si debbono osservare due cose. La prima è che pensare che una data concezione della giustizia distri-

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butiva valga all’interno di un dato paese è certamente compatibile, dal punto di vista concettuale, con un principio di iterazione che estenda tale concezione ad ogni comunità politica. Per comprendere questo aspetto immaginiamo di essere a favore di una concezione egualitaria della giustizia distributiva, che il distribuendum scelto sia il reddito, e che la giustificazione di una tale scelta sia strumentale e riposi sull’idea, tutt’altro che peregrina (anche se si adotta la visione neoclassica della determinazione dei prezzi, si veda soprattutto Heath, 2018; ma anche Olsaretti, 2004), che eccessive diseguaglianze di reddito non possano essere giustificate tramite un appello al merito, piuttosto che ai contributi individuali alla cooperazione sociale. Se così fosse, sarebbe possibile pensare che, al netto dell’esistenza di processi politici internazionali, siano le diseguaglianze interne a ogni paese a essere in contrasto con la giustizia distributiva. Si potrebbe quindi immaginare un mondo composto da società politiche internamente egualitarie anche se fra loro ineguali in senso aggregato o di reddito pro-capite. La seconda precisazione è che anche se dovessimo rifiutare la visione della giustizia distributiva che abbiamo appena descritto come internazionalmente iterativa, questo non comporterebbe l’assenza di quelli che potremmo definire come ‘vincoli morali’ rispetto alla distribuzione delle risorse economiche in altre parti del mondo. Questa affermazione segue dalla semplice costatazione che non si deve per forza ridurre la moralità politica al solo concetto di giustizia distributiva (o politica), e che altri concetti, come ad esempio quello di ‘diritti umani’ possano (anzi, debbano) svolgere una funzione di carattere più universale (si veda a tale proposito Nagel, 2005; Cohen e Sabel, 2006). Veniamo ora ai tre aspetti di una concezione della giustizia distributiva che ci sembrano più controversi: il trittico composto da principio distributivo/ distribuendum/giustificazione. Il percorso argomentativo che sceglieremo per dare contenuto a tale triade è il seguente: partiremo dall’enunciare i contenuti dei suoi primi due elementi e poi ci limiteremo a fornire una spiegazione intuitiva del terzo. Dopo aver fatto questo, ritorneremo sui primi due elementi, inizialmente solo enunciati, per meglio sviscerarli e connetterli alla problematica di fondo trattata in questo volume. Il principio distributivo che si intende adottare in quanto segue è basato sull’idea, resa nota e inizialmente formalizzata da Derek Parfit nella sua Lindley Lecture (1991), di ‘prioritarianesimo’. Rimandando a dopo una specificazione analiticamente più robusta di tale principio, possiamo dire che consiste nell’idea di base che una qualsiasi forma di vantaggio distributivo cresca di importanza o valore morale al decrescere della condizione, in termini di vantaggi, di coloro che ne ricevono un’unità addizionale. Detto in maniera molto più semplice: il benessere di chi sta peggio conta di più, ceteribus paribus, del benessere di chi sta meglio. Il senso del secondo elemento del trittico sopra enunciato, la ‘currency’ o distri-



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buendum, che adotteremo in questo studio si baserà principalmente sulle risorse economiche in senso tradizionale (reddito e ricchezza) e sulle opportunità per l’ottenimento di ‘buoni lavori’. Detto altrimenti, i vantaggi che vengono distribuiti dalla nostra concezione prioritarista della giustizia distributiva sono da concepirsi come un misto di due elementi, internamente connessi, e cioè i mezzi di sostentamento economici e la possibilità di avere accesso a un lavoro di buona qualità (espressione che cercheremo di delucidare in seguito). Come abbiamo accennato sopra, prima di procedere alla specificazione ulteriore delle caratteristiche del prioritarianesimo per come lo intendiamo, ci sembra giusto fornirne una giustificazione intuitiva. Per molti versi, le giustificazioni intuitive sono il cuore di una concezione della giustizia distributiva. In loro assenza, sarebbe molto più improbabile che qualcuno si desse la pena di affinarle e di metterle a sistema in modo da offrire una difesa più complessiva di una data concezione. Quale, dunque la giustificazione intuitiva del prioritarianesimo? Il primo modo di comprenderne l’appeal riposa sicuramente sull’idea che il benessere (qui inteso come sostituto generico per il distribuendum) delle persone, ceteribus paribus, ci interessa in maniera differente a seconda della loro condizione di partenza. Se ci trovassimo in una situazione dove ci fosse chiesto come ci sembra giusto allocare un’unità addizionale di benessere fra due persone, il prioritarianesimo si fonda sull’intuizione che saremo molto più inclini, a parità di altre condizioni, nel distribuirle a favore di chi sta peggio. In questo il prioritarianesimo si avvicina a una visione utilitaristica, almeno se si assumono rendimenti marginali decrescenti del distribuendum utilizzato (torneremo su questo punto in seguito). In secondo luogo, per comprendere l’appeal del prioritarianesimo si può adottare una via ‘indiretta’. Partendo dall’attratività di un principio di distribuzione alternativo come l’eguaglianza, possiamo chiederci che cosa davvero sia che ci ‘piace’ in tale principio alternativo. Se dovessimo ‘scoprire’ che non è l’eguaglianza in quanto tale che ci attrae, ma bensì un’intuizione vicina al prioritarianesimo che soggiace al nostro gradimento per la visione egualitarista, allora, mutatis mutandis, l’appeal intuitivo (che qui, per ipotesi, diamo per scontato, ma si veda Granaglia, 2007) di un principio egualitarista fornirebbe indirettamente una giustificazione dell’attrattività del prioritarianesimo stesso. Questa, in sintesi, sembra essere la visione di Joseph Raz quando scrive che: What makes us care about various inequalities is not the inequality but the concern identified by the underlying principle. It is the hunger of the hungry, the need of the needy, the suffering of the ill, and so on. The fact that they are worse off in the relevant respect is relevant. But it is relevant not as an independent evil of inequality. Its relevance is in showing that their hunger is greater, their need more pressing, their

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suffering more hurtful, and therefore our concern for the hungry, the needy, the suffering, and not our concern for equality, makes us give them priority. (1986: 240) Questa, in brevissima sintesi, la difesa intuitiva del prioritarianesimo. Passiamo allora alla specificazione del distribuendum al quale abbiamo sopra accennato: un misto di risorse economiche tradizionali e opportunità di accesso a buoni lavori. Anche in questo caso, ci limiteremo ad articolare la nostra posizione senza poterla difendere del tutto. In primo luogo, come accennavamo qualche paragrafo orsono, il contesto della nostra indagine ci sembra rilevante per comprendere la genesi di un tale distribuendum. In sintesi, se pensiamo ad alcune spiegazioni del successo dei movimenti populisti (argomento che analizzeremo in maggiore dettaglio nel secondo capitolo di questo volume), non ci sembra peregrino pensare che l’espressione ‘insicurezza economico-sociale’ rappresenti il cuore della prospettiva economica sulla questione. Il punto, quindi, sta nel comprendere come si voglia interpretare una tale espressione. E la nostra ipotesi, perché essa, allo stato attuale dei fatti, non può che essere qualificata come ipotesi speculativa, è che siano proprio le dinamiche di distribuzione di reddito e ricchezza congiunte alla mancanza di prospettive future all’interno del mercato del lavoro che rendano molti cittadini delle democrazie occidentali fortemente insicuri economicamente e socialmente. In questo quadro, le risorse economiche sono rilevanti, almeno nella misura in cui forniscono una delle motivazioni che spingono le persone a cercare lavoro, e in quanto sono mezzo imprescindibile, in un’economia capitalistica, per la soddisfazione dei propri bisogni e delle proprie preferenze, e financo della propria concezione di vita buona. Trascurarle del tutto sarebbe quindi inopportuno. La nostra sensazione però è che il mero riferimento alle risorse economiche non colga del tutto il problema. E questo per il semplice fatto che ridurre il lavoro a mezzo o strumento per poter consumare, costituirebbe una fonte di impoverimento della nostra comprensione sia del lavoro stesso, che delle reali preoccupazioni di molti cittadini delle liberal democrazie occidentali; conclusione che cercheremo di argomentare in quanto segue. Prima di procedere in tal senso, ci sembra però importante sottolineare che la nostra enfasi su risorse economiche e prospettive lavorative non deve essere presa come una tesi su quale sia, in forma del tutto generale, il miglior ‘distribuendum’ di una concezione della giustizia distributiva. Invece, in linea con i nostri commenti nel precedente paragrafo, possiamo dire che la nostra scelta in merito sia, in una certa misura, immanente alla problematica che si intende affrontare. Questo comporta che tale scelta costituisca una semplicazione analitica che ci consentirà di restare focalizzati sui principali effetti distributivi delle scelte istituzionali in campo economico che andremo ad analizzare in seguito.



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Non è certo questo il luogo dover fornire una disamina completa di quella che potremmo definire un’etica del lavoro (per un ottimo contributo filosofico si veda Celentano, 2019a; per un’impostazione legata alla teoria dello sviluppo umano si veda invece Musella, 2015: 63-84). Ma ci preme sottolineare alcuni aspetti elementari che segnalano la non assimilabilità fra lavoro e mero strumento volto alla possibilità di consumare. In primo luogo, il lavoro è fonte di identità personale. Questo è riscontrabile nella misura in cui si pensi all’identità personale come almeno in parte caratterizzata dai ruoli che si occupano all’interno di una vita con affiliazioni complesse e multiformi (si veda Korsgaard, 1996). Detto in parole povere, alla domanda ‘chi siamo?’, si risponde spesso facendo ricorso ai nostri ruoli, come quello di padre o madre, di figlio o figlia, di cittadino, e, in ultima analisi, come persona che ha una certa occupazione lavorativa, ovvero, come ‘medico’, ‘professore’, ‘ingegnere’, ‘operaio specializzato’, ‘autista’, etc. A questo punto si potrebbe obiettare che la propria occupazione lavorativa specifica non sia altro che una ‘specie’ nell’alveo di un ‘genus’ più ampio ( quello di lavoratore), e che sia quest’ultimo a caratterizzare un determinato ruolo alla stregua degli altri che abbiamo suggerito (il parallelo sarebbe questo: se io sono padre, il mio ruolo è quello di padre, non quello di padre di una persona specifica). Analiticamente la sensazione è che tale obiezione sia corretta, ma che allo stesso tempo non colga nel segno. Se i ruoli intesi in senso generale danno struttura alla nostra identità personale, non vi è dubbio che solo collegando quest’utlimi alle caratteristiche specifiche e le circostanze altrettanto specifiche connesse alla nostra occupazione di un dato ruolo che a tale identità andremo a dare un contenuto. Per tornare alla nostra precedente illustrazione: una parte della identità di una persona è costitutita dal suo essere padre, ma senza connettere il ruolo a circostanze specifiche (essere ‘padre di Margherita’ o ‘padre di Sebastiano’ etc.) il ruolo in quanto tale non potrebbe pienamente contribuire all’identità di una persona. Inoltre, si può osservare che il contributo del lavoro all’identità personale è favorito non solo dall’importanza qualitativa che esso assume per l’autocomprensione delle persone, ma anche in ragione della mera quantità di tempo che ad esso finiamo per dedicare. Se chi siamo è in parte definito da ciò che facciamo durante il nostro tempo di vita cosciente, allora non si può negare che il lavoro occupi, almeno nelle economie capitalistiche avanzate, una parte cospicua del tempo a disposizione delle persone. Infine, sempre pensando alla connessione fra lavoro e identità personale, e stavolta facendo riferimento a una visione leggermente meno intuitiva, si può dire che gli individui sviluppino una sorta di attaccamento profondo nei confronti dell’esercizio delle loro capacità avanzate (si veda Rawls, 1999). Il carattere alienante del lavoro ripetitivo denunciato da Marx va in questo senso compreso come l’altra faccia della stessa medaglia. E il succitato attaccamento è anch’esso fonte di identità

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personale nella misura in cui gli esseri umani sono in parte definiti dalle cose a cui danno valore. In secondo luogo, il lavoro non è solo fonte di identità personale, ma anche di identità sociale. Se le nostre osservazioni in merito al contributo del lavoro all’identità personale hanno sicuramente un forte carattere fenomenologico, possiamo dire che il concetto di identità sociale riposa su di una concezione filosofico normativa più ampia della persona e, nello specifico, della persona intesa come cittadino che partecipa al processo di cooperazione sociale. In altri termini, possiamo dire che molte persone ritengano opportuno dare una qualche forma di contributo alla società nella quale vivono. E che, al netto di coloro che così non la pensano, si può serenamente affermare che dal punto di vista filosofico normativo, una qualche forma di anelito a contribuire alla società sia da ritenersi alla stregua di una virtù legata a una concezione attraente di cittadinanza. Ovviamente, non si contribuisce alla società semplicemente in quanto lavoratori. L’attività politica responsabile, oppure l’impegno di tempo e risorse nei confronti di organizzazioni umanitarie, per citare solo due esempi, sono sicuramente parte integrante, e forse financo più importante (lasceremo al lettore l’onere di stabilire la veridicità di tale affermazione), del contributo alla cooperazione sociale. Ma non vi è dubbio che tale contributo sia spesso mediato anche dalle attività lavorative. Il medico ‘cura le persone’, il professore ‘insegna agli studenti’, l’ingegnere ‘crea infrastrutture e/o software’ etc. Queste descrizioni funzionali (sicuramente riduttive) di alcune professioni ci servono a comprendere che molti, e come abbiamo visto a giusto titolo, vedono nel lavoro un mezzo per offrire un qualche tipo di contributo al miglioramento della vita degli altri, e in questo senso, vedono nel lavoro una fonte della loro identità sociale. Quest’ultima non intesa meramente come l’identità che la società ci assegna, ma come l’effetto dei nostri sforzi lavorativi su coloro che ci circondano. Infine, e stavolta prendendo le mosse da una visione maggiormente improntata al liberalismo classico, si può affermare che il lavoro sia fonte di autonomia nella misura in cui contribuisce a parzialmente determinare, come suggerisce John Tomasi, un’origine specifica dei mezzi di sostentamento che le persone necessitano (su questo punto si veda Tomasi, 2012). Un modo per comprendere l’approccio di Tomasi è quello di offrire un’interpretazione specifica dell’idea che il lavoro nobilita la persona. Questo accade, almeno in parte, perché coloro che lavorano vedono proprio nei loro sforzi una fonte importante dei loro mezzi di sostentamento, e in questo senso si sentono autori della loro capacità di ottenere i beni necessari a condurre una vita dignitosa. Non vi è dubbio che una tale visione vada temperata dal riconoscimento del fatto che nessuna persona, come individuo singolo, possa letteralmente essere la fonte ultima dei propri mezzi di autonomia economica. Tale osservazione



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non discende da una visione ‘socialista’, o in tutti i casi non la presuppone, visto che essa può benissimo essere dedotta dalla semplice osservazione che un mercato del lavoro competitivo determina livello di salari e occupazione in maniera parzialmente indipendente dagli sforzi individuali (su questo punto si veda ancora Heath, 2018). Cionondimeno, è altrettanto certo che gli sforzi individuali svolgano un qualche tipo di ruolo (non soltanto in senso simbolico) nel determinare le due succitate variabili e che questo fatto aiuti a distinguere il lavoro da una mera forma di trasferimento redistributivo di fondi, pubblico o privato che sia. Tirando le fila del discorso, e ritornando alla specifica iniziale del distribuendum adottato dal nostro approccio alla giustizia distributiva, possiamo quindi affermare che sia le risorse economiche, sia quelle legate all’opportunità di ottenere un ‘buon lavoro’, siano elementi centrali e non riducibili l’uno all’altro, della nostra visione del distribuendum della giustizia distributiva. A questo punto, sorgono due problemi di carattere tecnico che tenteremo di risolvere, o almeno depotenziare. Il primo è che non abbiamo sin qui offerto una definizione di cosa sia un ‘buon lavoro’. Il secondo è che la presenza di due elementi non assimilabili l’uno con l’altro all’interno della stessa visione del distribuendum pone problemi di completezza nella nostra capacità di ‘ordinare’ le scelte istituzionali oggetto del giudizio concernente la giustizia distributiva: molto semplicemente, come si giudicano scelte che, ad esempio, migliorano la condizione economica di coloro che stanno peggio a scapito della loro capacità di trovare un buon lavoro, o viceversa? Partendo dal recente contributo di Rodrik e Sabel (2019), possiamo dire che un buon lavoro sia, in prima istanza, da definirsi nel modo seguente: The definition of “good job” (…) depends on a host of contextual features: the overall level of productivity and economic development, costs of living, prevailing income gaps, and so on. Broadly speaking, we have in mind stable formal-sector employment that comes with core labor protections such as safe working conditions, collective bargaining rights, and regulations against arbitrary dismissal. A good job enables at least a middle-class existence, by a region’s standards, with enough income for housing, food, transportation, education, and other family expenses, as well as some saving. (2019: 4-5). La definizione di Rodrik e Sabel ci segnala alcune importanti caratteristiche. In primis la connessione fra un buon lavoro e il contesto di riferimento (cosa che, ci piace far notare, è in linea con la nostra caratterizzazione dello ‘scope’ nazionale della nostra concezione di giustizia distributiva). Se quindi ci interroghiamo sulle condizioni materiali che vengono consentite dall’ottenimento di un buon lavoro, queste vanno giudicate in base al contesto produttivo

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e al livello di sviluppo di una data società. In secondo luogo, a detta degli autori, un buon lavoro è collegato ad un senso di stabilità e relativa sicurezza da un punto di vista sia sincronico che diacronico. E tali forme di stabilità devono essere garantite da una adeguata legislazione del mercato del lavoro che consenta ai lavoratori di sentirsi protetti dalle forme più marcate di utilizzo arbitrario del potere da parte del datore di lavoro e da una attenuazione delle disparità di potere negoziale fra datore di lavoro e lavoratore. Infine, ci permettiamo di offrire una duplice estensione del concetto di buon lavoro come descritto da Rodrik e Sabel. La prima è che l’obiettivo di una concezione della giustizia distributiva che utilizzi la nozione di buon lavoro come perno centrale in seno alla sua visione del distribuendum selezionato è più plausibilmente rappresentata come un riferimento alla presenza di eque opportunità per ottenere un buon lavoro, piuttosto che all’ottenimento del lavoro stesso. Anche se non vi è qui lo spazio necessario per giustificare questa modifica, si può chiosare che in un sistema liberale, e dati gli elementi centrali di una concezione stavolta della giustizia politica, si deve poter lasciare ampio margine di scelta occupazionale alle persone – anche se tale scelta non fosse quella di optare per un buon lavoro. In secondo luogo, facciamo notare come la definizione di Rodrik e Sabel non contenga un riferimento esplicito alla natura stessa di quello che può essere definito un ‘buon lavoro’. Anche in questo caso, la nostra ipotesi interpretativa è che ciò sia dovuto alla necessità di non restringere eccessivamente, rischiando di cadere in forme di perfezionismo di tipo socio-culturale, il concetto di buon lavoro a solo poche occupazioni specifiche, magari di carattere puramente intellettuale. Inoltre, il desiderio di restare neutri nei confronti delle caratteristiche specifiche di quello che sia un buon lavoro si incontra sicuramente con la necessità di accettare una qualche forma di divisione del lavoro all’interno di una economia di mercato. Ciò detto, crediamo che un riferimento al contenuto o alle caratteristiche di ciò che sia un buon lavoro, seppur tenue, può essere ottenuto osservando che tale concetto può essere definito nel contesto più ampio dell’idea di carriera. In questo senso, a prescindere dall’occupazione specifica del singolo, un buon lavoro è un lavoro che consenta il miglioramento o affinamento progressivo delle capacità specifiche legate ad una data occupazione e in questo modo preveda la possibilità, ma ovviamente non la garanzia, di un ragionevole avanzamento delle responsabilità del singolo all’interno di una certa filiera lavorativa (oppure, anche più di una). In sintesi, mettendo a sistema le varie osservazioni fatte sin quì, possiamo dire che un buon lavoro sia stabile, protetto da varie forme di abuso di potere, e permetta, a prescindere dal suo contenuto specifico, un affinamento delle capacità della persona e una ragionevole prospettiva di avanzamento. Ma veniamo al secondo problema che il nostro approccio al distribuendum sembra incontrare, ovvero quello della non-comparabilità, intesa come



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mancata capacità di ‘ordinare’ situazioni o meglio scelte istituzionali alla luce del principio di priorità, dato un distribuendum che contenga due elementi distinti al suo interno. La nostra risposta sarà duplice. Una, più pragmatica, una più teorica. Quella pragmatica è intimamente legata al nostro scopo specifico in questo volume. Infatti, come andremo a vedere nei capitoli successivi, e specialmente nel terzo e quarto capitolo, le dinamiche distributive (nel senso della distribuzione di reddito e ricchezza) e quelle occupazionali sembrano essersi mosse di pari passo negli ultimi decenni. Questo è sicuramente in parte dovuto al fatto che, per molte persone, il reddito da lavoro costituisce una fetta molto importante del reddito complessivo, e che quindi dinamiche economiche che penalizzano le opportunità lavarotive e i livelli salariali non possono non avere effetti sul reddito. La soluzione teorica che proporremo è quella di poter scegliere fra due opzioni per ordinare i due elementi all’interno del distribuendum complesso che abbiamo delineato. La prima soluzione è quella di considerare i due elementi come ‘commensurabili’ ma dare un peso maggiore all’accesso a opportunità lavorative. Al crescere del peso relativo delle opportunità lavorative si otterrà una commensurabilità fra queste e le risorse economiche sempre più favorevole alle prime. Una seconda soluzione invece nega (a meno di casi estremi, si veda il paragrafo successvio) la commensurabilità fra i due aspetti del distribuendum e poggia sull’utilizzo dell’idea di ‘lexicographic ordering’ (traducibile con ‘ordinamento lessicografico’; si veda Rawls, 1999). L’idea di ordinamneto lessicografico stabilisce che, stanti, ad esempio, due principi normativi che si debbano ordinare in un certo modo, uno dei due debba avere priorità sull’altro nel senso specifico che non si possano accettare trade-off fra i due principi normativi, e quindi che soddisfare quello che viene considerato lessicograficamente inferiore non possa avvenire a scapito del soddisfacimento di quello che venga concepito come lessicograficamente superiore. È importante notare che accettare un dato ordinamento lessicografico non comporta il pensare che, per continuare ad utilizzare lo stesso linguaggio adottato nella frase precedente, il principio che sia lessicograficamente inferiore sia da considerarsi come poco importante in senso assoluto. Piuttosto, il punto risiede nel tentativo di ordinare, in un modo specifico, l’importanza (intesa come priorità di realizzazione) relativa di due principi normativi. Allo stesso tempo, questo tipo di approccio, ci dice anche che, a parità di soddisfazione dell’elemento lessicograficamente superiore all’interno del distribuendum (nel nostro caso, le opportunità di aggiudicarsi un buon lavoro), si può e si deve tener conto delle dinamiche distributive (in senso di reddito e ricchezza) che discendono dalle scelte istituzionali in campo economico. Riportando la discussione al nostro tema specifico, e ricordando l’importanza non strumentale che abbiamo assegnato al concetto di lavoro, possiamo

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affermare che ci sembra naturale pensare che l’opportunità di ottenere un buon lavoro, all’interno del distribuendum composito che abbiamo sin qui proposto, debba avere una qualche forma di priorità sulle risorse economiche. Se tale priorità debba avvere caratteristiche di commensurabilità o meno ci sembra invece più complesso da stabilire. A nostro modo di vedere ciò dipenderà in parte sulla visione che si ha della natura dei valori e alla loro possibilità di essere commensurati in senso più ampio, problematica alla quale non possiamo ahimé dedicarci in questo frangente. Infine, un caveat sulla portata dell’idea di priorità lessicografica come illustrata sin qui. Tale priorità, riteniamo, debba essere fatta valere in quelle che potremmo definire condizioni relativamente favorevoli; condizioni nelle quali la scarsità delle risorse economiche sia realmente limitata e dove non esista un problema significativo di povertà assoluta. Se tali assunti di fondo non fossero rispettati, allora sarebbe plausibile ‘rilassare’ il vincolo lessicografico fra i due elementi del nostro distribuendum composito e dare maggiore peso alla creazione e distribuzione o redistribuzione di risorse economiche tradizionali anche a scapito di una perdita di opportunità diffuse di accedere a un buon lavoro. Questa osservazione è anche in linea con i nostri cenni sulla giustizia politica, visto che, come abbiamo cercato di spiegare, la povertà assoluta determina, intera alia, la mancata possibilità di partecipare attivamente alla vita pubblica. Lo stesso vale, ci preme sottolinearlo, per quanto riguarda le diseguaglianze economiche. Se, come abbiamo visto nella sezione precedente, eccessive diseguaglianze economiche possono svilire l’autonomia politica dei cittadini, allora una concezione della giustizia distributiva deve di questo fatto tenere conto e prenderlo come ulteriore vincolo sul suo range di applicabilità. Per intenderci, si possono immaginare (e ritenere moralmente consentite) circostanze, anche solo ipotetiche, in cui si potrebbe migliorare fortemente la condizione di chi sta peggio accettando forme relativamente marcate di diseguaglianze economiche (tecnicamente, questo dipende da che funzione si adotta per descrivere in concreto una data versione del prioritarianesimo). Il vincolo posto dalla giustizia politica ci dice che le diseguaglianze economiche da ritenersi accettabili diepndono non solo dall’effetto che esse hanno su coloro che stanno peggio, ma anche dal loro impatto sul carattere democratico del sistema politico. E veniamo infine alla discussione del cuore del nostro approccio alla giustizia distributiva: il principio distributivo stesso. Come abbiamo avuto modo di notare, l’idea di prioritarianesimo nasce, almeno per quanto riguarda le sue più recenti formulazioni, da un’intuizione di Derek Parfit (1991; ma si veda anche Parfit, 2002). Sino a ora ci siamo accontentati di una rappresentazione a dir poco superficiale di tale approccio. In quanto segue, sulla scorta del recente lavoro di Nils Holtug (si veda soprattutto Holtug, 2017) e Matthew Adler (2012), cercheremo di offrirne una formulazione accessibile, ma allo stesso

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tempo maggiormente rigorosa. Secondo Holtug, il prioritarianesimo può essere definito tramite il seguente principio di valutazione di stati di cose possibili: (…) an outcome is noninstrumentally better, the larger the sum of weighted individual advantages it contains, where advantages are weighted such that they gain a greater value, the worse off the individual is to whom they accrue. (2017: 3). Da un punto di vista formale, il prioritarianaesimo può essere rappresentato da una funzione che associa livelli di ‘vantaggio’ di una popolazione (ovvero la loro condizione di partenza) di individui (in ascissa) e il valore morale di un dato outcome (in ordinata) tramite una funzione e che ha la seguente forma: G = F(a1) + F(a2) + … + F(an) Una funzione è semplicemente una regola che associa, o fa corrispondere, tramite una qualche sorta di legge, gli elementi di due insiemi. Datane una rappresentazione cartesiana, possiamo dire che una funzione offra un certo modo di associare gli elementi che si trovano sulle ascisse a quelli che si trovano sulle ordinate (le ascisse e le ordinate costituiscono i due insiemi che vengono messi in relazione dalla funzione). È quindi fondamentale comprendere che cosa venga inteso per i due insiemi messi in relazione, nel nostro caso, dalla funzione G. Nella funzione G, (a1, a2,…, an), i valori in ascissa, costituiscono quello che possiamo chiamare il livello di ‘vantaggi’ posseduti da un dato individuo e che potremmo ridefinire come le sue ‘circostanze di partenza’ (la sua condizione in termini del distribuendum adottato dalla concezione della giustizia distributiva). Mentre i valori di G, le ordinate, rappresentano diversi livelli di ‘valore morale’ da associare alle varie posizioni di partenza data una certa assegnazione di benefici o vantaggi. Per essere compatibile con l’idea di prioritarianesimo, la funzione G deve essere crescente e strettamente concava. Geometricamente, una funzione strettamente concava ci consente di affermare che la congiunzione di due punti qualsiasi della funzione giaceranno sotto il grafico della funzione stessa. L’idea di rappresentare il prioritarianesimo tramite una funzione con le caratteristiche di G esprime formalmente, secondo Holtug, la seguente intuizione morale: Since the function is increasing and strictly concave, it assigns greater weight to individual advantages the worse off the individual to whom they accrue is (or, more precisely, would otherwise be). A different way of stating this is that according to prioritarianism, advantages have diminishing marginal moral value (…). (2017: 3). A questo punto ci sembra utile un’illustrazione concreta di una tale formalizzazione. Consideriamo, per scopi meramente esemplificativi, il livello

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di vantaggio di un dato individuo come completamente determinato dal suo reddito. Inoltre, sostituiamo, per la funzione di natura generale G, quella di radice quadrata, che è anch’essa crescente e strettamente concava. Una volta fatto ciò, possiamo considerare diversi outcome o stati di cose (in questo caso: diverse distribuzioni di reddito e diversi livelli di reddito aggregato) e fare vedere come una funzione che appartenga alla classe di funzioni che hanno le caratteristiche di G, la funzione radice quadrata nel nostro esempio, ci consenta di ordinare il livello di valore morale complessivo di uno stato di cose rispetto ad altri. TABELLA 1.2  Prioritariensimo e ranking di stati di cose Individuo A

Individuo B

Individuo C

Reddito totale

Distribuzione 1

4

9

16

29

Distribuzione 2

2

9

18

29

Distribuzione 3

4

9

17

30

Distribuzione 4

0

0

31

31

Distribuzione 5

2

8

81

91

Fonte: elaborazione dell’autore

Nella tabella 1.2, abbiamo scelto di far rimanere il reddito totale invariato nei primi due casi. Nel terzo caso abbiamo alterato lievemente il reddito totale, aumentandolo di una unità, ma lo abbiamo fatto a favore della persona con più reddito e mantenendo invariato il reddito dei primi due individui. Nel quarto caso, abbiamo aumentato il reddito totale, ma allo stesso tempo, abbiamo riportato una distribuzione che è perfettamente inegualitaria (nel gergo sovente usato dagli economisti, alla distribuzione 4 sarebbe associato un coefficiente di Gini di valore 1). Nel quinto caso, abbiamo scelto di aumentare considerevolmente il reddito totale, ma, allo stesso tempo di peggiorare leggermente la condizione dell’individuo A e di quello B rispetto alla distribuzione 1. Usando la funzione radice quadrata, calcoliamo il ‘valore morale totale’ di ogni distribuzione, ovvero la somma delle radici quadrate dei redditi che sono assegnati a ciascun individuo in una data distribuzione, e denotiamola come V(di). − − −− V(d1) = √2 + √3 + √16 = 9 − − −− V(d2) = √2 + √3 + √18 = 8,65 V(d3) = 9,1 V(d4) = 5,57 V(d5) = 13,24



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Ordinando i risultati, il ranking complessivo ottenuto in questo caso è il seguente: V(d5) < V(d3) < V(d1) < V(d2) < V(d4) La possibilità stessa di offrire un ranking chiaro di stati di cose è di per sé un risultato significativo connesso a una formalizzazione del prioritarianesimo legata al reddito. Detto questo, dal ranking possono essere estratte, anche se qui lo faremo intuitivamente e non formalmente, altre caratteristiche del prioritarianesimo. Ad esempio se confrontiamo V(d5) con V(d1) comprendiamo che il prioritarianesimo non è una forma di egualitarismo perché anche in presenza di una distribuzione che è comparativamente più inegualitaria è compatibile con l’assegnare a essa (e nel caso in questione è proprio così) un valore morale totale superiore (ma, ancora una volta, si vedano le osservazioni sui vincoli imposti dalla giustizia politica). Comparando V(d1) e V(d2) possiamo notare che, al contempo, il prioritairanesimo non è indifferente alla distribuzione delle risorse all’interno di una popolazione, visto che mantenendo invariato il reddito totale della popolazione composta dai tre individui, ma rendendola meno favorevole a quegli individui che stanno relativamente peggio, si ottiene un risultato morale complessivo di minor valore. Una conclusione simile può anche essere raggiunta, in maniera leggermente diversa, se compariamo V(d1) e V(d4). In questo caso vediamo che un peggioramento sensibile della condizione dei primi due individui non può essere riscattato da un lieve aumento del reddito totale; questo ci aiuta a distinguerlo, al netto di varie complicazioni, dall’utilitarismo. Su questo punto, possiamo dire che la relazione che intercorre fra prioritarianesimo e utilitarismo è invero complessa. Infatti, comparando V(d1) e V(d3), si può intuire che il prioritarianesimo può essere rappresentato da una classe di funzioni che sono compatibili con il principio di Pareto (proprio come lo è l’utilitarismo), visto che un lieve miglioramento delle condizioni dell’individuo più ricco viene giudicato complessivamente in maniera positiva in concomitanza con la stazionarietà del reddito degli altri due individui più poveri. Detto questo, mentre sia prioritatianesimo che utlitarismo sono compatibili con il criterio di efficienza paretiano, e quindi con la nozione di miglioramento paretiano fra due stati di cose, solo il prioritarianesimo è sensibile alla distribuzione dei vantaggi in una popolazione e soddisfa quello che viene in gergo chiamato il criterio di Pigou-Dalton. Infine, si deve osservare, punto questo di grande importanza, che il prioritarianesimo è una ‘famiglia’ di posizioni nella misura in cui esistono un numero infinito di funzioni appartenenti alla classe di funzioni con le caratteristiche di G. Diversi elementi che appartengono a tale classe (nell’esempio adottato sopra, abbiamo scelto la funzione radice quadrata) evidenziano diversi livelli di priorità da assegnare a coloro che stanno peggio. In gergo tecnico si direbbe

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che il criterio fornito dalle funzioni della classe definita dalle caratteristiche di G possono spaziare da forme di priorità quasi assoluta data a coloro che stanno peggio e quindi andare asintoticamente verso un criterio di ‘leximin’, oppure dare una forma di priorità sempre più debole al benessere di coloro che stanno peggio e quindi tendere asintoticamente verso una versione di utilitarismo classico. In conclusione di questa sezione del capitolo, ci sembra arrivato il momento di tirare le fila del nostro discorso complessivo sulla giustizia distributiva. La sezione ha delineato una forma di benchmark filosofico normativo per giudicare le scelte istituzionali che danno origine a, oppure hanno, ricadute distributive. Tale criterio è stato concepito come ispirato al lavoro di Derek Parfit e dall’idea di prioritarianesimo. La forma specifica di prioritarianesimo che abbiamo adottato si concentra sulle scelte istituzionali in campo economico. Il principio distributivo chiamato prioritarianesimo ci aiuta a offrire un ranking di stati di cose in base all’idea intuitivamente attraente da un punto di vista morale che il benessere di coloro che stanno peggio debba ricevere una qualche forma di priorità rispetto al benessere di coloro che stanno relativamente meglio quando si giudicano le scelte pubbliche. Mettendo tutte queste considerazioni a sistema, e collegandole alle tematiche che andremo ad affrontare nei prossimi capitoli, si può ottenere la seguente posizione filosofico politica: Uno dei compiti fondamentali della giustizia distributiva come qui concepita è quello di offrire un benchmark morale normativo per giudicare le scelte istituzionali che sono alla base delle dinamiche economiche recenti, e tale benchmark deve essere improntato al dare maggiore peso alla condizione di coloro che stanno peggio in termini delle ‘risorse’ che sono fondamentali per comprenderne la condizione, ovvero le opportunità di ottenere buoni lavori e l’accesso a risorse economiche più tradizionali come reddito e ricchezza.

Conclusione In questo primo capitolo abbiamo delineato un quadro morale normativo per orientare il nostro lavoro nei capitoli successivi. Tale quadro è stato improntato a una visione della giustizia sociale. La giustizia sociale è stata concepita come formata di due sotto-insiemi: la giustizia politica e la giustizia distributiva. In merito alla giustizia politica abbiamo affermato che essa: a) istituzionalmente, consiste in un dato modello di democrazia, quello che abbiamo chiamato il modello costituzionale liberale; b) che tale modello si fonda sul concetto di autonomia politica; e c) che ha tre importanti precondizioni da individuarsi nell’assenza di diseguaglianze troppo elevate, di povertà assoluta e di interfe-



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renze esterne eccessivamente invasive. Per quanto riguarda la giustizia distributiva abbiamo sostenuto una visione improntata al prioritarianesimo, e quindi alla intuizione morale che i vantaggi della cooperazione sociale debbano essere distribuiti in modo da favorire coloro che stanno comparativamente peggio. Questo quadro di riferimento ci sembra in linea con idee largamente diffuse, o quantomeno implicite, nella concezione di giustizia sociale dei cittadini delle liberal democrazie occidentali e, a prescindere da ciò, moralmente attraente di per sé. Nel resto del volume il quadro normativo che abbiamo sviluppato avrà due ruoli importanti. Il primo sarà quello di fornire un metro che ci consenta di giudicare le scelte istituzionali in campo economico che sono state fatte negli ultimi decenni da parte delle società democratiche occidentali. Il secondo e più controverso, come vedremo nel secondo capitolo, sarà quello di orientare almeno in parte la nostra comprensione del fenomeno populismo.

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APPENDICE AL CAPITOLO 1 I classici e il modello di democrazia cositituzionale: cenni brevi Le caratteristiche istituzionali e normative del modello di democrazia che abbiamo discusso nella prima parte del capitolo sono, per certi versi, relativamente scontate: costituiscono l’alveo in cui la maggior parte di ‘noi’ (occidentali) è nato e cresciuto, politicamente parlando. Eppure esse hanno radici profonde, e ‘padri putativi’ illustri. Schematicamente, possiamo pensare, nell’ambito della storia della tradizione liberal democratica moderna, ad autori come Hobbes, Locke, Montesqieu e Rousseau. E quindi pare centrale comprendere, almeno per sommi capi, i contributi specifici che essi a tale tradizione hanno apportato. In quanto segue, come del resto nel corpo del capitolo primo, utilizzeremo il lavoro di Held (2006) come nostra guida nel brevissimo percorso ricostruttivo dello sviluppo del modello di democrazia costituzionale liberale. La presenza di Hobbes nella schiera dei padri putativi del modello di democrazia in esame può destare non poche perplessità viste le sue idee sui limiti dell’esercizio del potere politico. È però proprio con Hobbes che inizia, a detta di molti, la visione liberale della natura stessa di tale potere. Per Hobbes, e qui sta la rottura con il mondo intellettuale che lo precede e la sua potenziale affiliazione al liberalismo, la fonte del potere politico e ciò che, in ultima analisi, deve legittimarlo, sono gli individui, non Dio (per una discussione critica si veda Martinich, 2005: 115-125). In questo senso, nasce con Hobbes quella che potremmo chiamare la concezione ‘negativa’ dei cittadini come liberi ed eguali. Essi sono eguali in quanto, per natura, nessuno di loro è tanto provvisto di qualità rilevanti che ne dettino la superiorità naturale. Essi sono liberi nel peculiare senso che nessuno ha su di loro autorità di comandarli senza che essi stessi glie la conferiscano. Se in Hobbes, quindi, possiamo rintracciare l’inizio di una concezione moderna di cittadino libero e agli altri eguale, dobbiamo però attendere la risposta, invero piuttosto polemica, di Locke per comprendere, in nuce, l’importanza di quella che abbiamo chiamato legittimazione democratica e dei limiti che il potere politico deve necessariamente osservare per essere con essa compatibile. Locke famosamente giudica l’assolutismo hobbesiano come un rimedio peggiore del male al quale vuole ovviare. In larga parte, ciò è sicuramente dettato dalla differente concezione dello stato di natura insita nel pensiero dei due autori; Locke immagina uno stato di natura che, seppur colmo di incertezze e problemi (come l’assenza di un giudice terzo nelle controversie



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fra individui), è pur sempre uno stato di cose parzialmente moralizzato, e in tutti i casi non uno stato di ‘guerra’ (si veda Hampsher-Monk, 1993: 81-88). Per Hobbes il problema centrale della politica è quello di trovare le condizioni alle quali individui concepiti come razionali e auto-interessati siano disposti a fidarsi l’uno dell’altro e quindi ad abbandonare il loro ‘diritto su ogni cosa’ ed evitare il ‘bellum omnium contra omnes’, e così facendo perseguire il loro interesse di lungo termine: quello di sfuggire a un tipo di esistenza che si sarebbe rivelato ‘solitatry, poor, nasty, burtish, and short’ (si veda Kavka, 1986: 96-102; Gert, 2010: 117-120). Sempre per Hobbes, l’unica condizione che può portare a un simile stato di cose è la concessione di un potere assoluto al sovrano (monarchico, oligarchico o democratico che sia). Per Locke, una tale idea è semplicemente impensabile perché, parafrasando uno dei passaggi più celebri nel secondo dei suoi Two Treatises of Government (1689/1988), equivarrebbe a farsi sbranare dai leoni per paura di essere infastiditi da animali ben meno pericolosi come le volpi o le puzzole. È quindi con Locke che nasce l’idea che il sovrano non è solo legittimato dai cittadini, ma anche che di essi egli sia un fiduciario (qui il riferimento è al concetto di ‘trust’ nel senso legale del termine) che non riceve da essi che una forma di autorizzazione limitata nei confronti dell’esercizio del potere pubblico, e specialmente per quanto i diritti fondamentali delle persone. Il sovrano è istituito per garantire i diritti fondamentali delle persone ed è sempre soggetto al ritiro della ‘trusteeship’ che essi gli affidano, financo con forme di resistenza attiva (Hampsher-Monk, 1993: 108-115). Per Locke, i diritti fondamentali, che egli concepisce come diritti naturali, sono costituiti dalla famosa espressione ‘life, health, liberty or possessions’ (spesso sostiuito dalla più generale parola ‘property’). Nessuna forma di potere pubblico, nessuna persona artificiale o naturale che sia, ne è la fonte, e quindi nessuna forma di governo, e nessun tipo di sovrano, possono ‘appropriarsene’. Come scrivono Jedediah Purdy e Kimberly Fielding: When people enter into political society to avoid the inconveniences of natural liberty—frequent conflict and the absence of authoritative arbiters—they surrender this self-sovereignty to the community. The inherent rights that Locke described as self-sovereignty he also designated “by the general Name, Property,” a term encompassing “Lives, Liberties and Estates.” Following his predecessors, Locke made two arguments for the inherently limited character of the power individuals transferred to political society. First, it must be limited by the purpose of the transfer, “an intention in every one the better to preserve himself his Liberty and Property,” and thus state power “can never be suppos’d to extend farther than the common good.” Second, because Locke believed that natural right implied a reciprocal duty of non-interference among

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persons, the state could not exercise “Arbitrary Power” in interfering with its subjects, for “no Body can transfer to another more power than he has in himself,” and the power of the state is built out of the transferred powers of citizens. (2007: 278). In questo senso, vediamo in Locke la nascita di una visione più consensuale e allo stesso tempo limitata del potere pubblico. Il consenso, implicito o esplicito che sia, non è rilevante soltanto in un momento legittimante fondativo (come suggerisce Hobbes, al netto della sua concezione di sovranità per acquisizione), e si accompagna all’idea che il sovrano debba rispettare le sue necessariamente limitate prerogative. Seppur in nuce, non è possibile non rintracciare nella visione di Locke l’origine recente di aspetti centrali del modello di democrazia costituzionale liberale quale l’importanza della legittimazione dal basso dell’ordine politico e i limiti intrinseci che esso deve rispettare nello svolgimento del suo ruolo fiduciario di garante a protezione dei diritti fondamentali delle persone. Tutte le succitate tematiche sono chiaramente centrali ma, in assenza di una qualche forma di istituzionalizzazione precisa, rischiano di rimanere astratte: l’idea e le caratteristiche del contratto sociale non contengono la possibilità di derivarne analiticamente una specifica forma di governo, anche se chiaramente ne possono segnalare i limiti e gli scopi ultimi. Ed è proprio in questo tipo di transizione, da idee astratte a forme istituzionali più delineate che di tali idee meglio sono atte a garantirne il rispetto, che possiamo rintracciare il contributo specifico di Montesquieu (Held, 2006: 65-70). Per quest’ultimo, una delle questioni centrali rimane quella che segna la storia del pensiero liberale, ovvero il tentativo di conciliare pubblica utilità e garanzia delle libertà individuali. La questione però diventa per Montesquieu marcatamente istituzionale, e cioè legata alla diversa capacità di differenti costruzioni istituzionali di garantire il raggiungimento degli scopi che esse si pongono. Ed è prorio in questo che, ispirandosi alla Glorious Revolution britannica (1688) e al Bill of Rights (1689), Montesquieu diventa uno dei più importanti sostenitori della separazione fra i diversi poteri dello stato nella ormai classica distinzione fra quello esecutivo, quello legislativo e quello giudiziario. Mettendo da parte la complessità della giustificazione che Montesquieu offre della divisione fra poteri dello Stato, possiamo dire che le sue fondamenta risiedano nell’intuizione che un potere non diviso porta inevitabilmente al suo abuso da parte di chi lo detiene. Per Montesquieu, la salus publica, e qui l’eco del repubblicanesimo classico è forte, deve essere garantita da forme di bilanciamento fra poteri (i famosi, qui citati nonostante l’evidente anacronismo insito nell’espressione di stampo madisoniana, ‘checks and balances’) che siano esplicitamente e formalmente istituite. Il potere politico deve essere depersonalizzato e i suoi



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effetti positivi non debbono dipendere dalla virtù di chi lo detiene, ma bensì dalle circostanze istituzionali nelle quali esso viene esercitato. Come scrive autorevolmente Held: Montesquieu argued that under modern conditions liberty can only be based on the careful creation of an institutionalized separation and balance of powers within the state. Previously, the idea of mixed government had tended to mean limited ‘participation’ of different estates within the state. By making the case for a constitution based upon three distinct organs with separate legal powers, Montesquieu recast this idea and established an alternative account that was to be critical in attempts to curtail highly centralized authority, on the one hand, and to ensure that ‘virtuous government’ depended less on heroic individuals or civic discipline and more on a system of checks and balances, on the other. (2006: 67-68) Se quella che abbiamo presentato è, in modo assai sintetico, una visione della progenie intellettuale del modello di democrazia oggetto della nostra analisi, è possibile vederne le forme attuali, in senso lato, come radicalizzazioni in direzione democratica delle sue caratteristiche ‘repubblicane’; radicalizzazioni sovente egualitarie e miranti a garantire maggiori libertà individuali, soprattuto dal punto di vista delle libertà politiche (si veda Mansbridge, 1983). In primo luogo è importante notare che per tutti i succitati classici del pensiero politico, le forme di partecipazione attiva alla vita pubblica erano concepite come fortemente limitate. Criteri come genere, classe di appartenenza, e censo, erano spesso ritenuti come dirimenti allo scopo di definire chi avesse diritto a influenzare la cosa pubblica. Tali restrizioni e la loro valenza, si badi bene, sono rimaste in piedi, sia intellettualmente che in senso pratico, sino al secolo scorso. Sono state sostenute anche da autori il cui pensiero era sicuramente di carattere progressista come i primi utilitaristi (James Mill e Jeremy Bentham su tutti), e nel caso dell’allargamento della platea avente diritto al voto, marcatamente a favore delle donne, hanno trovato risoluzione pratica diffusa soltanto nella seconda metà del secolo appena passato. Questo non significa certamente che non vi siano stati autori appartenenti alla tradizione liberale che abbiano prefigurato una visione democratica da accompagnare all’idea di governo repubblicano nell’aveo di un approccio improntato alla tradizione del diritto naturale - in questo senso si pensi al ‘giacobinismo filosofico’ dell’autore tedesco Bergk (si veda Fiorillo, 2000: 9). La questione è piuttosto quella di una prevalenza iniziale di un diffuso scetticismo nei confronti dei crismi della democrazia costituzionale come dai noi presentemente concepita; resistenze che si sono via via andate ad attenuare.

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A riprova della nostra ultima osservazione possiamo ricordare che l’idea di un potere esecutivo da porre nelle mani di un governo espressione, sia diretta che indiretta, del volere dei cittadini, era, nei classici che abbiamo brevemente preso in esame, fortemente temperato dalla preferenza nei confronti della monarchia costituzionale (per Locke e Montesquieu). Infine, se la separazione fra poteri è sicuramente da considerarsi un’enorme forma di progresso istituzionale per garantire che il potere politico sia appropriatamente limitato in termini del suo campo di azione, è soltanto con la protezione costituzionalmente esplicitata e giuridicamente garantita di un’ampia gamma di diritti individuali (non certamente da ridursi a quelli che Locke concepiva come diritti naturali) che si arriva alla accettazione che anche un potere esercitato legittimamente debba trovare un limite legalmente se non invalicabile, almeno comparativamente più difficile da alterare, nelle prerogative dei singoli. Come accennavamo nell’incipit di questo paragrafo, queste sono forme di radicalizzazione delle idee sopra illustrate. E la loro radicalizzazione è rintracciabile in un percorso di progressiva inclusione di soggetti che hanno una gamma di diritti fondamentali sempre più ampia e sempre meglio protetti. Col passare del tempo si è andata altresì affermando l’idea che tutte le persone che sono cittadini in senso formale e ‘passivo’ del termine ricevono, una volta superata una certa età, l’opportunità di divenire cittadini nel senso ‘attivo’ della parola. È questo il volto democratico ed egualitario della radicalizzazione. Progressivamente, tutti i cittadini guadagnano maggiori protezioni nei confronti degli esercizi del potere pubblico e maggiore capacità di influenzare come e per quali scopi esso debba venire esercitato. Queste, in breve, alcune delle caratteristiche principali della genesi intellettuale del modello di democrazia costituzionale liberale. Se nel corso delle pagine precedenti abbiamo dato vita a un breve ricostruzione in termini del pensiero liberale delle basi di tale modello, non ne abbiamo però discusso o approfondito quelle che sono, a nostro avviso, le sue fondamenta giustificative. E per questo, a nostro modo di vedere, bisogna partire dal lavoro di Rousseau. Anche in questo caso, come per Hobbes, l’accostamento di Rousseau alle fondamenta di un ordine istituzionale a carattere liberale (e non solo democratico) può destare non poche perplessità nel lettore che abbia familiarità con la storia del pensiero politico: non è forse Rousseau colui che voleva forzare le persone a essere libere? E, come ci ha insegnato Isaiah Berlin, non è forse Rousseau il principale ‘colpevole’, insieme con Hegel, dello sviluppo della pericolosa idea di ‘libertà positiva’? Alla stregua di tutti i classici, il pensiero di Rousseau si presta a numerose interpretazioni. In quanto segue, in tutti i casi, ci appoggeremo a quelle ricostruzioni del pensiero dell’autore che nella sua opera, pur non negando la presenza di ‘lati oscuri’ dal punto di vista del pensiero liberale, rintracciano anche gli elementi fondanti di una visione morale e normativa del-



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la liberal democrazia (si veda Dent, 2005; Cohen, 2010). Se tale ricostruzione sia fedele alle idee originarie di Rousseau stesso non intendiamo stabilirlo; di certo, il nostro è un Rousseau letto attraverso Kant, ma anche Rawls. Ciò che ci sembra rilevante è capire se dal suo pensiero possa essere estrapolata una visione di autonomia politica che ci sembri fedele alla autocomprensione delle fondamenta morali normative della democrazia costituzionale liberale, e se tale visone sia, nel complesso, attraente. In questo senso, ci pare addirittura di maggiore peso come Rousseau ponga il problema dell’autonomia politica, piuttosto di come egli cerchi di risolverlo. La storia di tale visione comincia dalla necessità di risolvere un problema fondamentale, quello che si pone nel tentativo di riconciliare libertà ed eguaglianza (si veda Rawls, 2001). Come ci insegna Joshua Cohen (il cui lavoro useremo come guida), Rousseau tenta di sciogliere il nodo gordiano della tensione fra eguaglianza e libertà offrendo una visione di società politica come comunità libera di cittadini eguali: “a social-political world in which individuals realize their natures as free by living together as equals, giving the laws to themselves, guided in those lawgiving judgments by a conception of the common good” (2010: 10). Come è noto, Rousseau parte dalla famosa dichiarazione, parafrasando l’incipit del primo capitolo di Du Contrat Social (1762/2012), che le persone nascono libere ma dappertutto si trovano in catene. La questione centrale che Rousseau intende affrontare è come si possa dare una società dove gli individui siano protetti dalle regole e dalla forza della comunità nella quale vivono senza per questo dover rinunciare alla loro libertà, qui intesa in senso di ‘libertà positiva’, e quindi come concetto assai vicino all’autonomia; senza, in altri termini, dover rinunciare alla loro capacità di rimanere essi stessi la fonte delle norme che debbono seguire. La persona libera, ci dice Rousseau, non deve obbedire a nessun altro se non a sé stessa, eppure essa richiede la protezione della comunità politica per portare avanti quelli che sono i suoi interessi fondamentali. Semplificando, la concezione rousseauiana della natura umana si basa su due caratteristiche fondamentali, l’amore di sé (inteso come ‘amour de soi’ e non come ‘amour-propre’) e la libertà. Il primo richiede l’istituzione di un potere pubblico che ne garantisca le basi: la difesa dell’integrità personale e la creazione dei beni che rendano possibili la nostra sopravvivenza, ma anche la nostra capacità di vivere bene. La seconda ci impone che il potere pubblico non possa essere esercitato da altri su di noi, ma debba sempre essere riconducibile alla nostra capacità di utilizzare la Ragione, di giudicare, e in ultima analisi di essere noi stessi fonte ultima dei limiti sulla nostra condotta (ancora una volta si veda Fiorillo, 2000: 23-27). In sintesi, per Rousseau, come del resto per Hobbes, non vi è sicurezza senza un sovrano. Diversamente da Hobbes però, a detta di Rousseau, se il prezzo della sicurezza è la sottomissione completa a un sovrano altri da noi, allora

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rimarremo attaccati alle nostre catene. La vita in società sarebbe vissuta come un continuo ricordo di una profonda scissione fra la nostra natura sensibile e la nostra natura morale razionale: il prezzo della nostra vulnerabilità (o come l’avrebbe chiamata Pufendorf, la nostra ‘imbecillitas’, si veda Fiorillo, 1992: 37-59) sarebbe il morire della nostra libertà positiva, o autonomia. La questione fondamentale è quindi come conciliare una vera e compiuta forma di autonomia politica con l’idea stessa di potere pubblico. E la risposta rouseauiana risiede in una particolare visione dell’autorità politica come fondata sul concetto di volonté générale. Il concetto di volontà generale di Rousseau ha generato più dibattito, e diffidenza, forse di qualunque altro concetto politico negli ultimi tre secoli. In quanto segue, ne riprenderemo quella che è sicuramente un’interpretazione positiva e attualizzata. I suoi determinanti principali sono da rintracciarsi nell’idea di eguaglianza e nell’idea di bene comune, e come ci spiega in maniera chiarissima sempre Cohen, offrono la seguente riconciliazione fra potere pubblico e autonomia: In the society of the general will, citizens share an understanding of the common good and that understanding is founded on the members’ commitment to treat one another as equals by refraining from imposing burdens on other citizens that those members would be unwilling to bear themselves. Thus the content of the understanding of the common good reflects an equal concern for the good of each citizen; citizens take that shared understanding to be the ultimate basis of their political deliberations, and express it by jointly settling on the laws of their community; finally, they acknowledge political obligations as fixed by laws founded on the common good, and the limits of collective legal regulation as fixed the need to justify such regulation by reference to the common good (…). (Cohen, 2010: 15). Sui limiti, e financo i pericoli, della soluzione rousseauiana molto è stato scritto. Ciò che è certo è che le caratteristiche della visione di Rousseau non sempre la rendono facile da riconciliare con le società liberal democratiche contemporanee. In primo luogo, l’appello a una visione condivisa del bene comune sembra sovente riposare (nel senso di essere resa possibile), in Rousseau, su di una forte enfasi ‘comunitarista’; al forte patriottismo, alla visione quasi sempre negativa del disaccordo politico, sino alla creazione di una vera e propria religione civile. In secondo luogo, il richiamo, se non concettualmente immanente quantomeno molto forte, all’idea di democrazia diretta. Tali idee, ci sembra ragionevole asserire, non collimano bene con il contesto attuale delle liberal democrazie occidentali; marcate come queste lo sono da visioni politiche, morali e metafisiche spesso fra loro inconciliabili, e da dimensioni



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e caratteristiche (basti pensare alla complessità delle moderne economie) che certamente favoriscono una versione di democrazia rappresentativa. Cionondimeno, ci sembra importante ricordare l’importanza dell’impostazione rousseauiana per comprendere il concetto di autonomia politica che abbiamo cercato di mettere a perno della comprensione morale normativa dell’attuale modello di democrazia costituzionale liberale. Inoltre, a nostro modesto avviso, il lavoro di Rawls ha non poche tracce dell’eredità rousseauiana, anche se chiaramente, il Rousseau di Rawls è fortemente influenzato da una lettura che usa categorie kantiane come prisma o filtro. Vedere nel lavoro di Rawls una continuazione delle idee di Rousseau è senza dubbio controverso, ma, anche accettando pacificamente differenze certamente assai significative, ci sentiamo di affermare che vi è sicuramente un elemento comune. Esso risiede nel tentativo di dare una risposta alla tensione fra eguaglianza e libertà che ha marcato da sempre il pensiero liberal democratico e di farlo, inter alia, offrendo una concezione della legittimità del potere pubblico che consenta sia un’equa distribuzione dei frutti della cooperazione sociale, sia l’autonomia politica dei cittadini.

Capitolo 2 Populismo e scelte economiche: un approccio istituzionalista Introduzione Come abbiamo visto nell’introduzione, uno spettro si aggira per il mondo occidentale, lo spettro del populismo. Senza negare quelle che sono certamente specificità locali del fenomeno, ciò che colpisce è che il trend sia così diffuso e temporalmente omogeneo spingendoci a ricercare una spiegazione di tipo sistemico e strutturale. Riteniamo, infatti, che la recente rinascita e larga diffusione dei movimenti di matrice populista (Judis, 2016; Werner Műller, 2016) affondi le sue radici nei meccanismi di funzionamento delle istituzioni economiche formali e informali e più specificamente negli effetti derivanti dalla globalizzazione economica e dai processi di trasformazione tecnologica. Detto altrimenti, la tesi di questo volume è relativamente semplice da comprendere. Esso si concentra sulla crescente domanda di offerte politiche di carattere populista. Tale domanda viene considerata come nel complesso originata dalle scelte istituzionali in campo economico operate negli ultimi quattro decenni all’interno delle democrazie occidentali avanzate. Scelte che hanno penalizzato coloro che occupavano posizioni economiche e lavorative già comparativamente peggiori, riducendone allo stesso tempo l’autonomia politica. I due esempi principali che verranno illustrati nel volume sono l’accettazione acritica di un modello specifico di integrazione economica mondiale (nel capitolo terzo) e di una forma specifica di progresso tecnologico (nel capitolo quarto). Tali scelte si sono rivelate sia foriere di instabilità politica che moralmente sbagliate in vista di quella che riteniamo essere una concezione intuitivamente attraente e largamente diffusa di giustizia sociale, ovvero quella illustrata nel precedente capitolo. Prima di affrontare tali tematiche in maniera diretta ci dedicheremo, in questo capitolo, a specificare ulteriormente alcuni degli elementi teoretici che costituiscono l’ossatura della tesi sostenuta. Nello specifico, il capitolo ha due obiettivi analiticamente distinti ma, a nostro avviso, intimamente connessi. In primo luogo, affronteremo l’annosa questione di come definire il populismo stesso, e di dove esattamente se ne possano empiricamente rintracciare le cause principali. In secondo luogo, una volta rintracciato un filone causale specifico, e cioè quello legato alle dinamiche economiche che hanno toccato le democrazie occidentali, ci concentreremo su come si possa arrivare a comprendere

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tali dinamiche come il frutto di scelte istituzionali. La connessione tematica fra i due obiettivi che il capitolo si pone non è per forza ovvia e vale quindi la pena di sottolinearla. Anche accettando che la domanda di populismo sia generata dagli effetti delle dinamiche di mercato, si pone, a nostro avviso, la questione di come si debbano comprendere o interpretare le dinamiche in questione. E la tesi di questo capitolo, in linea con una visione ispirata alla ‘New Institutional Economics’ e ai recenti sviluppi negli studi sulla ‘political economy of regulation’, è che sarebbe un errore interpretare le evoluzioni dei mercati come dettate da forze largamente impersonali. Invece, se la teoria economica e alcuni dei suoi principi di base non possono certo essere ignorati, sono, in ultima analisi, le scelte istituzionali il cuore del funzionamento di una qualsiasi economia: il mercato stesso, e specialmente nelle economie moderne, si deve concepire come una creazione istituzionale non come un fenomeno puramente naturale (per due contributi recenti si veda Iversen e Soskice, 2019; Vogel, 2018). Infine, un cenno sull’approccio metodologico adottato in quanto segue. È proprio in questo capitolo che opereremo quello che abbiamo chiamato, nell’introduzione a questo volume, un ‘doppio rovesciamento’. Il doppio rovesciamento consiste, in sintesi, nel concepire la definizione di populismo come parzialmente ‘normativa’ (primo rovesciamento), e di adottare una prospettiva sul dibattito empirico sulle origini della domanda di populismo che si concentra su di una delle tesi principali in campo per meglio definirla piuttosto che sul tentativo di determinarne la superiorità (secondo rovesciamento). Ci sembra quindi il caso di spiegare sia il senso che il motivo che ci spinge ad adottare tale doppio rovesciamento; sarebbe a dire una prospettiva metodologica tanto sui generis. A questo punto dedicheremo la prima sezione del capitolo.

1.

Premessa metodologica

Il senso del doppio rovesciamento è il seguente. Da un lato, adotteremo una definizione di populismo, almeno in parte, ‘normativa’. Dall’ altro, dopo una breve rassegna del materiale che discute empiricamente le origini del populismo, ci limiteremo a illustrare un filone particolare di tali spiegazioni proponendone un’interpretazione teorica specifica. In questo senso, la prima scelta, almeno in parte, cambia l’ordine di priorità concettuale fra definizione e giudizio normativo sul fenomeno in questione (visto che, prima facie, il termine populsimo non è per forza di cose un termine normativo). In questo senso, la nostra analisi concettuale e la nostra visione normativa del populismo si intrecciano per fornire una definizione del fenomeno stesso. La seconda scelta operata, quella che parte da una visione parzialmente situata della storia causale oggetto di discussione, vede il modello teorico di riferimento seguire, piuttosto che



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precedere, le analisi empiriche. I rischi del doppio rovesciamento sono evidenti a tutti gli scienziati sociali, ma vale la pena ricordarli. Il rischio connesso al primo rovesciamento è quello di adottare una visione teleologica del concetto definito. Il rischio connesso al secondo è che il modello teorico adottato non serva in nessun modo a spiegare il fenomeno in oggetto; che sia inerte. Una difesa esaustiva delle nostre scelte esula da quelli che sono i compiti specifici che ci siamo prefissi in questo volume. Ci limitiamo a segnalare gli elementi principali della nostra strategia difensiva. Essa è largamente ‘deflazionaria’, ovvero cerca di sgonfiare la portata dei rischi che vengono incorsi nei due tipi di rovesciamento, e osserva che una qualche forma di ‘doppio rovesciamento’ è, se non quasi inevitabile, almeno largamente diffusa. Partiamo dai rischi di una definizione teleologica nel senso specifico del termine da noi illustrato poco sopra. Come vedremo, nella letteratura non vi è accordo su quale sia la definizione migliore di populismo. Si può anche chiosare che l’impresa analitica di definire il termine è ulteriormente resa complessa dal fatto che mentre, ad esempio, i ‘liberali’ o i ‘socialisti’ di solito si definiscono loro stessi come tali, i populisti non fanno allo stesso modo e sono così definiti dai loro avversari politici. Ora, nel filosofo che si approccia alle scienze politiche e sociali e su di esse cerca di ragionare adottando una prospettiva più ‘distante’, sorge il dubbio che il concetto non sia suscettibile di una definizione tradizionale in termini di condizioni sufficienti e necessarie. Come ci ha insegnato Wittgenstein, questa non è per forza una cosa grave o tantomeno un problema isolato, ma potrebbe dipendere dai limiti stessi del nostro linguaggio. Il punto centrale, in tutti i casi, è che si possono definire concetti anche usando quelle che Wittgenstein stesso chiamava ‘family resemblance’ anziché utilizzando condizioni necessarie e sufficienti. Se però si adotta questo approccio, viene spontaneo chiedersi come selezionare tali ‘somiglianze’. E la risposta, certamente non ortodossa, da noi adottata è che si può cercare una forma di equilibrio fra gli elementi comuni alle principali definizioni esistenti nella letteratura, e una visione normativa di fondo. Passiamo ora al secondo rovesciamento, all’inversione cioè fra modello teorico e ricerca empirica. Anche in questo caso, notiamo il disaccordo diffuso nella letteratura a proposito delle origini causali della domanda di populismo. Stavolta però il dubbio che sorge è di natura leggermente differente. In primo luogo, notiamo che molti degli elementi delle storie causali da noi vagliate sono difficili da isolare gli uni rispetto agli altri, non solo empiricamente, ma concettualmente. Uno degli esempi che porteremo nel corso del capitolo è quello dell’immigrazione: se essa influisce sia sul funzionamento del mercato del lavoro che sulle condizioni culturali di un paese, come dobbiamo interpretare un’analisi che in essa rintracci una causa importante dell’ascesa dei populisti? A nostro giudizio, e al netto di tecniche statistiche di ‘controllo’ più o meno

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sofisticate, non vi sono risposte facili. In secondo luogo, notiamo, partendo da una visione più ampia della natura delle scienze sociali e politiche, che offrire una spiegazione causale monocromatica di un fenomeno che interagisce con altri nell’alveo di un sistema estremamente complesso, non sembra cosa facile, se non si voglia arrivare addirittura a pensare che sia un’impresa implausibile. Anche in questo caso, quindi, decidiamo di approcciarci alla letteratura empirica in maniera ‘situata’ rispetto alla nostra tesi più complessiva: partendo da un controllo di plausibilità di una visione che attribuisce un peso importante alle ragioni economiche nella storia causale che descrive il crescere della domanda di populismo, cercheremo di spiegarne le origini teoriche in maniera più approfondita. Ci preme ribadire che abbiamo piena coscienza dei rovesciamenti operati, e che essi debbano sicuramente portare a una qualche forma di cautela rispetto alle affermazioni che si fanno in merito alle determinanti della crescente domanda di populismo. Ciononostante, e questa sarebbe poi la seconda traccia argomentativa del nostro tentativo di ‘deflazione’, riteniamo che qualche forma di rovesciamento simile a quelli che noi abbiamo illustrato sia certamente molto diffusa e forse inevitabile. Detto altrimenti, e adottando una prospettiva che potremmo definire come ‘costruttivista’ in senso lato del termine, risulta difficile credere che coloro che compiono ricerche nelle scienze sociali non portino con loro categorie normative e concettuali implicite, e che pesano sulle loro scelte teoriche. Anche accettando che si debba minimizzare l’impatto dei nostri ‘pregiudizi’ teorici, ci sembra che la loro eliminazione totale sia davvero difficile da ottenere. Se così fosse, ci piace pensare, sarebbe sicuramente meglio prenderne coscienza, e allo stesso tempo temperare la natura delle affermazioni causali che si fanno, piuttosto che fare finta di niente. Infine, continuando sul piano metodologico, un cenno sulla questione della giustificazione. Nel contesto attuale della nostra discussione metodologica, e tralasciando per un momento la nostra difesa delle scelte fatte in questo capitolo, possiamo chiederci che valore abbia l’approccio da noi adottato visti gli evidenti e confessati limiti che abbiamo voluto ascrivergli. Così come nel capitolo precedente, ci affideremo ad una idea di giustificazione ‘coerentista’. In questo senso, possiamo dire che il contributo che la nostra analisi può dare alla comprensione delle cose sta nel presentarne una visione complessiva che sia non in contraddizione esplicita con alcuni risultati della letteratura empirica ma che riesca a darne un’interpretazione più ampia e quindi convincente. Il contributo del filosofo politico, in questo contesto, risiede dunque nel tentare di espandere e approfondire una data narrativa per farne comprendere sino in fondo il potenziale attrattivo concepito come capacità di dare senso complessivo al fenomeno oggetto di analisi.



2.

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Definire il populismo: la centralità del conflitto fra popolo ed elites

È certamente semplificatorio mettere tutti i partiti e movimenti che abbiamo nominato nell’introduzione a questo volume sullo stesso piano, ma è allo stesso modo innegabile che vi sia una importante matrice comune: questi movimenti sono anti-sistema e anti-élites (si veda Rodrik, 2017 per un tentativo di classificazione più preciso). Per comprendere questo punto in modo leggermente più sofisticato potremmo far notare che, come è prevedibile che sia, esistono in letteratura diverse definizioni di populismo. Tali definizioni sono ‘overlapping’ ma ovviamente non coincidenti (si confrontino Canovan, 1981; Kazin, 1998; Taggart, 2000; Goodwin e Eatwell, 2018; Levitstky e Ziblatt, 2019). Ma cerchiamo di meglio comprendere, sulla scorta di due autorevoli lavori di sintesi sul concetto di populismo (si veda Mudde e Kaltwasser, 2017; Gidron e Bonokowski, 2013), quali siano le principali correnti o approcci alla comprensione del fenomeno. Per alcuni, il populismo è semplicemente l’altra faccia della medaglia di quello che potremmo definire un ‘aumento della partecipazione democratica diretta’. In questa particolare accezione del termine, il populismo è fenomeno da giudicare in maniera positiva in quanto è foriero di una accresciuta coscienza democratica, e, in questo senso, rappresenterebbe un ritorno alle origini del concetto stesso di democrazia secondo il quale vi debba essere una coincidenza, se non perfetta, quantomeno forte, fra governati e governanti (si veda Goodwyn, 1976). In una seconda accezione del termine, non del tutto dissimile dalla prima, il populismo viene considerato come uno strumento (anche in questo caso non necessariamente negativo) per il raggiungimento di una concezione radicale dell’ordine democratico che mira al progressivo superamento dell’idea di liberal democrazia e di democrazia rappresentativa. Anche in questo caso, seppur con sfumature diverse, il problema principale risiede nel tentativo di ri-politicizzare, spesso accettando una visione conflittuale quasi Schmittiana del politico, gli spazi di decisione delle moderne liberal democrazie percepiti come sempre più confinati dietro steccati di natura procedurali e legali o derive tecnocratiche. L’idea di fondo è quella di ricercare una strategia post-marxista per la costruzione di un movimento populista di sinistra che abbia lo scopo di realizzare la promessa emancipatoria insita nell’idea di democrazia radicale (si veda Laclau, 2005). In una terza visione del concetto, il populismo consisterebbe non tanto in un tipo di approccio alla democrazia, ma piuttosto in uno specifico stile di leadership politica (si veda ad esempio Musella e Vercesi, 2019; Musella, 2017). In questo tipo di approccio, il ‘populista’ è un leader carismatico che ricerca un legame forte e diretto con il ‘popolo’. In questo senso, il populismo è un

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tentativo di by-passare quelli che spesso vengono definiti come corpi intermedi delle società avanzate, dai sindacati, ai partiti, e fondare la governance di una democrazia su quello che potremmo chiamare un rapporto di affinità elettive (nel senso assai più ampio di elezioni politiche!) fra leader e seguaci. Vi è poi una visione del populismo che deriva prevalentemente dalle scienze economiche e che associa il fenomeno ad una cattiva gestione macroeconomica e in particolare della finanza pubblica (per un classico di questa letteratura si veda Dornbusch e Edwards, 1991, per una recente critica si veda Kaltwasser, 2019). I populisti, in questa visione, sarebbero proni a ottenere consenso popolare tramite politiche fiscali irresponsabilmente espansive e quindi insostenibili. Tali politiche, finanziate tramite il ricorso alla creazione di un crescente debito pubblico, debito che diviene sempre più eccessivo e insostenibile, sarebbero poi seguite da periodi di forte inflazione e indi dal collasso dei conti dello stato e da misure di ‘rientro’ pagate a caro prezzo dalla popolazione. In questo tipo di approccio, il populismo, compreso come fenomeno economico, viene concepito alla stregua di un ciclo che porta gli elettori a pensare di poter vivere al di sopra dei propri mezzi e poi a scontarne le amare conseguenze. Infine, nella letteratura più recente in seno alle scienze politiche si è via via andato ad affermare quello che potremmo definire un approccio ‘para-ideologico’ del concetto di populismo. A questo proposito vale la pena di riportare esplicitamente la definizione adottata da due dei suoi più autorevoli sostenitori. Secondo Mudde e Kaltwasser (2017), il populismo va inteso come: (…) a thin-centered ideology that considers society to be ultimately separated into two homogeneous and antagonistic camps, “the pure people” versus “the corrupt elite,” and which argues that politics should be an expression of the volonté générale (general will) of the people. (2017: 6) Secondo Mudde e Kaltwasser, questa definizione ci aiuta sia a cogliere gli elementi centrali del fenomeno populismo, sia a spiegarne la pluralità di forme che assume (e che includono movimenti quasi apertamente xenofobi e di estrema destra, ma anche visioni vetero-marxiste che mettono in discussione l’idea stessa di economia di mercato). In sintesi, la definizione proposta, a detta dei due autori, avrebbe il merito di non essere vacua (e quindi di aiutarci a individuare un leader o partito come populista e distinguerlo da altri che non lo sono) ma allo stesso tempo sufficientemente inclusiva da permetterci di classificare come ‘populismo’ fenomeni che, dal punto di vista dei contenuti politici, non sembrano avere molto in comune. In seno a questa visione, restano centrali due elementi che costituiscono il cuore di quella che potremmo tradurre, concedendoci una licenza linguistica, come un’ide-



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ologia spoglia. L’opposizione naturale, quasi un antagonismo primigenio e ontologico, fra una visione astratta di popolo e quella altrettanto astratta di élites, e una tesi specifica rispetto alla fonte primaria della legittimità delle decisioni pubbliche. Come ci si può orientare rispetto a una tale diversità di approcci alla definizione del concetto di populismo? Senza nascondere le simpatie di chi scrive per la visione di Mudde e Kaltwasser, ci sembra, dati gli scopi del presente lavoro, più utile adottare una visione equanime che riconosca, come spesso accade nelle scienze sociali, che le varie definizioni di un fenomeno politico sono spesso influenzate dagli scopi e dalla provenienza disciplinare di coloro che le propongono. A tale affermazione va inoltre aggiunta un’osservazione di natura filosofica rispetto al concetto stesso di ‘definizione’. Al netto di tesi epistemologiche controverse (non per forza erronee, ma difficili da dare per scontate), le definizioni in senso generale hanno caratteristiche che le rendono utili o meno piuttosto che vere o false. Ciononostante, limitarci a tali osservazioni rischierebbe di portarci a conclusioni eccessivamente aporetiche. E perciò, alla visione equanime sin qui proposta, va sicuramente aggiunta una chiosa, e cioè che la maggior parte delle definizioni di populismo hanno un elemento in comune, ed è su tale elemento che ci andremo a concentrare: la contrapposizione fra popolo ed élites (su questo punto si veda anche Müller, 2016). Come abbiamo già discusso nella precedente sezione del capitolo, potremmo dire che esistono, fra le varie definizioni di populismo delle ‘family resemblance’ (per un’analisi del concetto wittgensteiniano si veda Griffin, 1974) che ci permettono di cogliere elementi centrali e condivisi dei movimenti populisti, come ad esempio la già menzionata necessità di contrapporsi alle élites socio-economiche, senza però che questo ci consenta di individuare condizioni necessarie e\o sufficienti per definire il populismo come un tipo di movimento politico-culturale. Se ciò fosse vero, allora concentrarsi su quello che è un elemento cardine comune a molte definizioni di populismo, non ci sembra per nulla arbitrario, soprattutto visti gli scopi argomentativi di questo lavoro. Infatti, non vi è dubbio che uno degli obbiettivi politici principali di tali movimenti risieda nel tentativo, in alcuni casi riuscito, di spodestare i partiti politici tradizionali di centro destra e centro sinistra. Inoltre, sulla scorta della nostra analisi normativa, ovvero quella svolta nel capitolo primo di questo volume, offriremo una visione specifica della opposizione ‘popolo-elites’. Una visione nella quale la contrapposizione fra di essi viene rintracciata proprio in seno a una concezione della giustizia sociale. Illustriamo brevemente quello che intendiamo. Per cominciare, possiamo osservare che la natura dell’opposizione fra ‘popolo’ ed ‘élites’, viene spesso presentata come una contrapposizione manichea fra il bene e il male. A nostro

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avviso ciò non giova né alla comprensione del fenomeno né alla formazione di un giudizio su di esso (la definizione in questione contenendo già una chiara, ma tautologica, risposta). Piuttosto, si può comprendere la contrapposizione come: Proposizione 1: Una recriminazione di una delle due parti (il ‘popolo’) rispetto all’altra (le ‘élites’) data dalla percezione di uno spodestamento del locus primario delle scelte pubbliche e quindi della loro fonte di legittimazione sostanziale, e verso risultati di tali scelte che violano un criterio di equità distributiva. In sintesi, la contrapposizione è una critica dello scollamento fra élites che decidono per conto loro e che invece dovrebbe farsi portatrici o quantomeno interpreti, in un sistema democratico, della volontà generale, e che, congiuntamente a tale scollamento, portano avanti politiche economiche che violano criteri di equità distributiva. Detto altrimenti, la contrapposizione è una critica alla violazione dell’autonomia politica dei cittadini che stanno relativamente peggio con risultati che li danneggiano dal punto di vista distributivo. In questo quadro: Proposizione 2: Il populismo viene inteso come sovente caratterizzato da uno specifico tipo di risposta politica a domande che hanno una struttura irriducibilmente normativa; domande di maggiore equità distributiva e di rispetto dell’autonomia politica dei cittadini nel loro complesso. I populisti sono coloro che, esplicitamente o implicitamente, vedono la loro missione politica come quella di farsi portatori di recriminazioni legate a una nozione ampiamente condivisa di giustizia sociale (e cioè quella da noi articolata nel primo capitolo di questo volume). Ma questo non basta, perché oltre a essere portatori di tali ‘istanze’, ciò che a nostro avviso molto spesso li caratterizza come populisti è la natura stessa delle risposte che essi vogliono offrire: Proposizione 3: Le ‘risposte’ dei populisti hanno in genere due caratteristiche comuni: a) l’individuazione indifferenziata di colpevoli ( una concezione di ‘colpa’ o ‘responsabilità’ collettive) rispetto all’origine delle recriminazioni del ‘popolo’; e b) il sostenere che i cambiamenti richiesti per orientare le politiche pubbliche nella direzione di maggiore autonomia politica dei cittadini nel loro complesso, e di maggiore equità distributiva, siano semplici e/o privi di costi.



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E, data la Proposizione 3, possiamo anche affermare che: Proposizione 4: Le differenze fra le varie forme di populismo possono essere pensate come differenze fra i valori che si attribuiscono ai parametri implicitamente contenuti nelle due caratteristiche dell’offerta politica dei populisti: a) chi siano i ‘colpevoli’ o ‘reponsabili’, e b) le ricette specifiche (ma sempre semplicistiche) per ridare ai cittadini nel loro complesso maggiore autonomia politica e risultati delle politiche pubbliche più in linea con l’equità distributiva. Rispetto a questa visione del populismo, si notino le seguenti cose. In primo luogo, la nostra caratterizzazione è compatibile, come quella proposta da Kaltwasser e Mudde, con un’ampia gamma di posizioni ideologiche: sembra chiaro che al variare dei parametri della definizione possa variare il posizionamento ideologico dell’offerta politica. In secondo luogo, si noti che la nostra definizione consente una forma di giudizio critico sulla contrapposizione fra popolo ed élites: tale giudizio può essere guidato dalla nostra analisi della veridicità delle recriminazioni che sono alla base della domanda di offerta politica populista. In aggiunta, si noti che la definizione adottata consente lo scollamento fra il giudizio che diamo sulla domanda di populismo e quello che diamo sull’offerta politica populista. Se il secondo è implicitamente sempre negativo, il primo non deve per forza esserlo. Tutt’altro. Vi sono ottime ragioni per pensare che, nel caso specifico (ci riferiamo agli ultimi quattro decenni e alle società democratiche occidentali) le recriminazioni alle quali i populisti cercano di dare risposta siano invero assai fondate, come cercheremo di spiegare nei capitoli successivi. Infine, si noti come questo sia il senso profondo, a nostro modo di vedere, dell’ambivalenza di molti commentatori nei confronti del fenomeno ‘populismo’: il timore che condannare il populismo rischi di essere visto come una condanna delle istanze che lo portano al successo. L’ambivalenza è giustificata perché vi è un rapporto intimo fra la natura delle istanze alle quali il populismo tenta di dare risposta (istanze di maggiore autonomia politica e maggiore giustizia distributiva) e la natura di un regime liberal democratico. Almeno se questi viene concepito alla stregua di come noi ne abbiamo descritto i lineamenti principali nel primo capitolo. Al netto del giudizio sui fatti, e cioè sulla ragionevole veridicità del contenuto delle recriminazioni ai quali i populisti intendono dare un tipo specifico di risposta, autonomia politica e giustizia distributiva sono alla base della nostra comprensione di una società liberal democratica e chi ne denuncia ferite deve essere preso sul serio. Ciò che invece non è obbligatorio apprezzare, per usare un eufemismo, è il metodo scelto per lenire le ferite in questione. Mettendo queste varie considerazioni a sistema possiamo arrivare alla seguente cratterizzazione del populismo:

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Proposizione 5: Il populismo è da concepirsi come una forma consapevole di strumentalizzazione politica di recriminazioni basate sul concetto di giustizia sociale.

3.

Una visione interattiva e complessa delle origini causali

I consensi dei populisti, come abbiamo accennato più volte sono saliti progressivamente negli ultimi dieci anni, sia in Europa continentale sia nelle democrazie anglosassoni (si veda Vittoria, 2018). Le domanda che inevitabilmente sorge in proposito è la seguente: Perché? Ed essa suggerisce chiaramente il desiderio di offrire una spiegazione causale dell’insorgere dei movimenti populisti. A tale proposito, va però subito chiarito un punto concettuale di grande importanza. L’idea di ‘spiegare l’insorgere del populismo’, come implicitamente suggerito negli ultimi paragrafi della sezione precedente, è di per sé ambigua. Infatti, un tale desiderio potrebbe riguardare, da un lato il tentativo di spiegare la comparsa di un certo tipo di fenomeno politico che, come abbiamo avuto modo di discutere poco sopra, e al netto di differenze non marginali nelle definizioni possibili, concentra la propria piattaforma politica sulla conflittualità fra popolo ed élites. Dall’altro, investigare l’insorgere del populismo significa comprendere cosa ha recentemente spinto larghe fette delle popolazioni dei paesi liberal democratici occidentali ad affidarsi a coloro che proponevano piattaforme politiche improntate a una visione dicotomica e semplificata dei cleavage socio-economici che permeano molte società avanzate. Adottando una terminologia di stampo economico, possiamo dire, come del resto viene evidenziato in molti contributi recenti, che esiste una differenza fra offerta di populismo e domanda di populismo (si veda a tale proposito Guiso et. al., 2017). Senza negare che entrambe le questioni siano di grande interesse accademico e intellettuale, in quanto segue ci andremo a concentrare sulla domanda di populismo. Volendo stravolgere in senso keynesiano il tradizionale slogan di Say, in questo caso vi è la netta sensazione, dato il contesto in cui il fenomeno si va a posizionare (un contesto politico dove il populismo riscontra favori crescenti) che sia la domanda a creare la propria offerta. Va però precisato a beneficio del lettore che la scelta di chi scrive è dettata soprattutto dagli scopi dell’opera, e non soltanto da una specifica visione dell’importanza relativa fra offerta e domanda di populismo (sulla qualità di offerta politica in Italia si veda Griffo, 2019). In questo senso, e restando nell’alveo della metafora precedente, si può dire che al lettore non viene chiesto il rifiuto di una prospettiva classica o neo-classica sul populismo, ma una ben più modesta accettazione della rilevanza del problema di abbondanza di domanda.



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Tornando al nostro tema principale, cosa spiega il successo dei movimenti populisti? Ovviamente, le cause sono molteplici e molte di queste riconducibili a ragioni legate al contesto dei singoli paesi. In questo scritto non intendiamo offrire una disamina esaustiva degli antecedenti della sua (del populismo) ascesa. E va sicuramente osservato che, all’interno della ricerca nelle scienze sociali degli ultimi anni, stanno emergendo spiegazioni sia empiriche che qualitative di crescente valore e sofisticazione. Ciò premesso, giova, a nostro avviso, esplicitare le origini del nostro approccio a un tale tipo di investigazione. Per comprendere, anche se sommariamente, le diverse tesi in merito alle cause del populismo, possiamo pensare ad uno spettro concettuale (certamente semplificato) che abbia due poli, uno di natura cultural-identitaria (Margalit, 2019; Gest, Reny and Mayer, 2017; Gest, 2016; Inglehart e Norris, 2016), e l’altro di natura economica (Autor et. al., 2017; Frieden, 2017; Rodrik, 2017). Il lettore più avvezzo a formalizzazioni matematiche potrebbe immaginare ogni punto su questo spettro come un diverso tipo di spiegazione che combina linearmente le due categorie riguardanti le origini profonde del populismo (su questo punto si veda Rico e Anduiza, 2019; Rodrik, 2019). Ora, è a nostro avviso ragionevole supporre che la spiegazione di un fenomeno così complesso e dirompente, anche se affatto nuovo, si pensi al populismo americano degli anni trenta dello scorso secolo (si veda Eichengreen, 2018), non possa avere una causa unica e mono-tematicamente caratterizzata da parole o categorie quali ‘economia’ oppure ‘cultura’ (a tale proposito si veda ancora Rodrik, 2019). E quindi, la tesi di una combinazione lineare (o anche non-lineare, a seconda di quanto si voglia rendere complesso l’universo concettuale che noi abbiamo ridotto a due soli estremi, si veda ad esempio Martinelli, 2019) sia per forza di cose la soluzione più plausibile. Perché? In primo luogo, perché, in linea con quello che abbiamo scritto nella prima sezione del capitolo, a livello puramente meta-teoretico e metodologico, molti fenomeni politici e sociali hanno cause che ne sovra-determinano gli esiti. Detto altrimenti, e utilizzando un linguaggio di natura più formale, non è raro che un dato fenomeno politico, sociale o anche economico abbia più di una condizione sufficiente e che queste si verifichino allo stesso tempo così da rendere il tentativo di discernere una linea causale univoca impossibile. Esistono ovviamente metodi di controllo formali che possono cercare di ovviare a situazioni dove può apparire (anziché essere realmente il caso) che più di una condizione sufficiente sia in gioco. Senza per forza voler criticare eccessivmanete questi tentativi, e improntando la nostra visione a una forma di ‘modestia epistemica’, ci permettiamo di suggerire che, senza nulla togliere al fascino della ricerca di una visione uni-causale, essa rischia di impoverire anziché arricchire la conoscenza di molti fenomeni.

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In secondo luogo, e stavolta restando più vicini alla nostra problematica di fondo, perché la reazione di una persona a quelli che potremmo definire episodi per certi versi dirimenti per il suo orientamento politico come la perdita di un lavoro, oppure le sue opinioni in merito all’immigrazione e al cambiare del contesto socio-culturale nel quale vive, non sono facilmente classificabili in termini puramente binari (come semplicemente causate da un problema ‘culturale’ oppure ‘economico’). Ovviamente, anche in questo caso, esistono metodi di analisi sia quantitativi ma anche qualitativi (si pensi all’utilizzo dei ‘survey experiments’; su puesto punto si veda Margalit, 2019: 160) per cercare di perorare una specifica interpretazione del significato che determinati eventi hanno nella vita delle persone, come da essi vengano prevalentemente interpretati, e quindi sulle loro scelte politiche alla luce di tali interpretazioni. Detto questo, l’ipotesi di chi scrive è che vi sia anche in questo caso una sorta di aporia investigativa, aporia dettata dalla natura stessa e dal significato intrinsecamente controverso di alcune esperienze rispetto all’oggetto in esame. Giova a questo punto proporre due esempi concreti. Proviamo a farlo ponendoci alcune semplici domande. Chi vede la propria prospettiva occupazionale peggiorare drasticamente è spinto a reagire da motivazioni ‘puramente culturali’, visto che il lavoro costituisce per molti fonte di auto-comprensione e di identità profonda (si ved la seconda parte del precedente capitolo di questo volume, ma anche Gheaus e Herzog, 2016)? Oppure da motivazioni ‘puramente economiche’, visto che per la maggior parte delle persone il salario costituisce la fetta più rilevante del loro reddito e della loro possibilità di consumare? L’immigrazione, è qualcosa che sviluppa reazioni negative per la ‘diversità’ di coloro che immigrano? Oppure perché molti percepiscono un tale influsso di lavoratori come un potenziale shock all’offerta di skills che sono ‘sostituibili’ con le loro (Borjas, 2017), e di conseguenza prevedono un abbassamento dei loro salari (almeno nel breve periodo)? A nostro modo di vedere non esistono risposte perfette a queste domande. Per cercare di spiegare al lettore il perché della nostra conclusione, proviamo a illustrare i limiti potenziali di un dato tipo di metodo che tenta di isolare la componente culturale da quella economica – metodo basato sull’utilizzo di studi sperimentali. Per farlo, partiamo dalla recente descrizione dei risultati di alcuni di questi studi da parte di Yotam Margalit: [E]xperimental studies indicate that anxiety over changing demographics and a declining predominance of white people underlies part of natives’ opposition to immigration. For example, a survey experiment in the United Kingdom varied the information it provided to participants about the skill mix of immigrants coming into the country, their region of origin, and the impact of immigration numbers on the long-term



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share of white Britons. The study finds that even when controlling for the information about skill mix and region of origin, the very mention of the immigrants’ impact on the share of white Britons almost halves support for current immigration levels (reducing it by 17–22 percentage points to about 20 percent of the public) (Kaufmann 2018). Experiments conducted in the United States find a similar effect, in which prompting (or reminding) white Americans about the impending racial shift and future loss of their majority status magnifies their racial bias, particularly toward Hispanics, and increases support for restrictive immigration policies (Margalit, 2019: 163). Gli ‘esperimenti’, in sintesi, cercano di comprendere che cosa determini un dato atteggiamento nei confronti dell’immigrazione variando le caratteristiche associate agli immigrati (e all’immigrazione come fenomeno complessivo) in modo da vedere quale si riveli quella determinante, o comunque di peso maggiore. La conclusione dello studio citato da Margalit (ci riferiamo al lavoro di Kaufmann) sembra essere che non sia tanto il pacchetto di skill da spendere nel mercato del lavoro, ma l’impatto sulle percentuali relative della composizione del corpo politico nel lungo periodo e in forma minore le caratteristiche di provenienza geografica che siano determinanti. Per comprendere l’approccio adottato possiamo citare esplicitamente alcune delle domande fatte dallo stesso Kaufmann (2018: 2-3; traduzione dell’autore) al suo campione di intervistati e che egli ritiene una fonte attendibile che ci consenta di ‘isolare’ il ruolo del livello di skill degli immigrati rispetto ad altri elementi che li caratterizzano come la provenienza geografica. Ad esempio, Kaufaman chiede agli intervistati se sarebbero favorevoli: a) Ad accrescere la quota di migranti qualificati da Asia e Africa, mantenendo i numeri complessivi di migranti che hanno accesso agli UK costante, ma così facendo alzando dal 40 al 50 per cento la percentuale complessiva di migranti con skill elevate; b) Alla riduzione di immigrazione con skill elevate da Asia e Africa, diminuendo concomitantemente la quota complessiva di migranti, ma allo stesso tempo accettando una riduzione dal 40 al 20 per cento la percentuale complessiva di migranti con qualifiche avanzate; c) Non saprei. Tralasciando complicazioni legate alla comparazione con i risultati di altre risposte alle domande del survey proposto da Kaufmann, possiamo dire che, siccome egli nota una preferenza per la seconda alternativa (quella b), egli conclude che il livello di skill di un migrante sembra contare meno che la sua provenienza geografica.

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Come ci possiamo rapportare alla conclusione che Kaufmann sembra voler trarre? Il nostro chiaramente non intende essere un tentativo di smantellamento della valenza empirica dell’indagine, ma ci permettiamo di sottolineare alcune aporie di fondo. In primo luogo, ciò che colpisce chi scrive è che leggendo l’insieme delle domdande fatte nel ‘survey sperimentale’ (e quelle riproposte sopra non fanno eccezione), è quanto esse diano per scontata la capacità da parte dei ‘respondents’ di comprendere esattamente cosa gli venga chiesto. Detto in parole povere, le domande sono difficili. In aggiunta, quello che né Margalit né Kaufmann sembrano spiegarci è perché una data persona possa ritenere che le percentuali relative della composizione etnica del corpo politico piuttosto che le differenze di provenienza geografica siano importanti. In particolare, riferendoci esplicitamente alle alternative proposte nelle domande riportata sopra, e concedendo che sia difficile negare che molte persone abbiano pregiudzi etnici o razziali, la questione che ci sembra dirimente è capire che tipo di ruolo tali pregiudizi abbiano sulle loro opinioni. Ad esempio, non è facile capire se essere relativamente più scettici sull’immigraizione da Asia e Africa rispetto a quella dal resto del mondo (come lo studio di Kaufamnn suggerisce lo siano i cittadini Britannici) sia motivato da fattori culturali o etnici ‘puri’, o da associazioni implicite fra provenienza geografica e un dato pacchetto di skill, e questo anche quando questa associazione venisse implicitamente negata dalla domanda posta. I pregiudizi, si sa, sono duri a morire, e il negarne uno diffuso (che vede, per sempio, i migranti provenienti dall’Africa come ‘meno qualificati’) all’inizio di una domanda di una survey non ci garantisce, in genere, che l’intervistato accetti immediatamente di adeguarsi. Infine, sul tema dell’immigrazione, ci preme sottolineare, come ampiamente documentato da recenti indagini empiriche, la fortissima distanza fra percezione e realtà (si veda Alesina et. al. 2019). A nostro avviso, tale differenza rende assai più complesso raggiungere una conclusione sul suo ruolo causale nella spiegazione della crescita del populismo. A noi questo sembra il classico caso dove le distinzioni concettuali sono importanti. Come è ovvio che sia, i ricercatori empirici sono spesso interessati alla percezione da parte delle persone di un dato fenomeno. Il motivo, specialmente quando si parla di evoluzioni politiche all’interno di un contesto democratico, appare semplice da spiegare: in ultima analisi non è la realtà in quanto tale (ammesso che una tale cosa esista!) che spiega un determinato outcome, ma la percezione che di tale realtà si sono fatta gli attori che in pratica hanno determinato il risultato in questione, e in questo caso, gli elettori comuni. Ora, se il ragionamento non fa una piega, viene da chiedersi che cosa esso sia in grado di dirci sul fenomeno oggetto di analisi in senso più ampio. Infatti, se la credenza in questione fosse completamente falsa, la nostra sensazione è che la natura delle domande che saremmo portati a farci rispetto al fenomeno cambierebbe.



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Per comprendere il problema, pensiamo a un caso ipotetico. Se gli americani votassero per Trump perché credono che stiano arrivando gli alieni, e che Trump solo li possa salvare, è certamente vero che la loro credenza sull’arrivo degli alieni spiegherebbe l’elezione di Trump. Ma è altresì anche vero che di certo l’arrivo imminente degli alieni non sarebbe una causa dell’elezione del presidente americano: lo sarebbe la percezione del loro arrivo. E, potremmo aggiungere: sapere che gli americani votano Trump perché temono gli alieni ci spingerebbe a chiederci soprattutto perché essi si rendano disponibili a credere negli alieni, non perché eleggono Trump. La domanda verrebbe ancora più spontanea se, per esempio, ci venisse il fondatissimo sospetto che Trump stesso fosse parzialmente responsabile della falsa credenza che lo ha portato a essere eletto. Ritornando al nostro tema: se i movimenti populisti fomentano l’ansia degli elettori (per esempio, ansia dettata da un peggioramento delle loro condizioni economiche) rispetto a fenomeni come l’immigrazione e così facendo ne alterano la percezione distaccandola dalla realtà, spiegare il successo dei populisti tramite il timore degli elettori rispetto all’immigrazione non ci sembra fornire una risposta particolarmente illuminante alla domanda relativa alle cause del loro successo. Anche in questo caso, così come nella sezione precedente di questo capitolo, terminare la discussione in questo modo rischierebbe di lasciare la nostra indagine priva di una direzione specifica. Certamente non è questo il risultato che intendiamo ottenere! Alle nostre intenzioni vanno però accompagnate delle spiegazioni. La questione centrale, a nostro modo di vedere, non è quella che riguarda la dimostrazione di una ‘causa efficiente’ unica di aristotelica memoria. Bensì la questione riguarda la ‘scelta’ di prospettiva che si intende adottare. Il termine ‘scelta’ è assai importante. Perché segnala due aspetti centrali del nostro incedere argomentativo; aspetti che possiamo ritrovare parallelamente esplicitati nella scelta di concentrarsi su di un aspetto specifico della definizione di populismo. Il termine ‘scelta’ segnala, in primo luogo, la possibilità, e in questo caso la liceità, di procedere altrimenti. In secondo luogo, il termine ‘scelta’ non ha, nella maggior parte dei casi, un connotato che lo collega alla forzata arbitrarietà di ciò che la determina. Detto altrimenti, in questo volume ci concentreremo su quegli aspetti dell’evoluzione delle economie liberal democratiche occidentali che possano fornire un quadro di riferimento per spiegare la domanda crescente di populismo. Tale visione, se rimane assai plausibile vista l’abbondanza di materiale scientifico empirico che in queste evoluzioni rintracciano le cause principali di tale domanda, non viene qui interpretata come l’unica possibile, ma semplicemente come il porre l’accento su quella che viene considerata come una delle interpretazioni più plausibili, se non la più plausibile, del fenomeno in oggetto. Un’analisi più dettagliata dei fattori che, a nostro modo di vedere, hanno avuto un impatto importante sulla domanda di populismo sarà condotta nei

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capitoli tre e quattro di questo volume. Per ora, ci limiteremo, in quanto segue, a offrire una brevissima disamina intuitiva di quella che potremmo definire la ‘narrativa economica’, criticandone gli aspetti che ci sembrano meno convincenti. A tal uopo, ci pare che l’espressione chiave da prendere in consierazione sia quella, spesso citata nella letteratura scientifica, di ‘economic insecurity’ (espressione che noi tradurremo come ‘vulnerabilità economica’). Quali sono le cause principali che determinano l’aumento di vulnerabilità economica? Seguendo l’eccellente, e quanto mai critica, ricostruzione recente da parte del già citato Margalit (2019), possiamo rintracciare quattro storie analiticamente, almeno a prima vista, distinte. La prima vede l’aumento di vulnerabilità economica come conseguenza di uno degli aspetti dell’attuale forma di globalizzazione. Sono certamente ascrivibili a questa visione lavori che enfatizzano l’impatto della competizione da parte di paesi con un bassissimo costo del lavoro sul settore manifatturiero dei paesi occidentali. L’esempio classico di tale approccio è rintracciabile nei contributi che si occuppano degli effetti del cosiddetto ‘China Shock’ per le ‘import-competing industries’ statunitensi (si veda in particolare Autor et. al., 2017; Autor et. al., 2016, e il capitolo tre di questo volume). Un secondo filone di indagine si concentra invece sugli effetti della forma recente assunta dal cambiamento tecnologico, e sulla polarizzazione del mercato del lavoro che a essa è seguita. Sono ascrivibili a questa impostazione i lavori che enfatizzano le origini e gli effetti del cosiddetto ‘skill-biased technological change’ (si veda Goos, Manning e Salomons, 2014; si veda anche il quarto capitolo di questo volume). La terza e quarta versione della visione imperniata sul concetto di vulnerabilità economica sono rispettivamente basate sull’impatto della Grande Recessione del 2009 e su quello dell’immigraizone (Yotam, 2019: 155). La prima avrebbe alterato il rapporto fra persone comuni e sistema politico creando una frattura nella fiducia fra il votante medio e le élites socio-economiche del paese. La seconda, l’immigrazione, avrebbe generato apprensione da parte di coloro che vedono negli immigrati (almeno nel breve periodo) una fonte di ulteriori oneri fiscali (e di conseguenza un vulnus per la sostenibilità dei sistemi di welfare occidentali) e di competizione nel mercato del lavoro. Sembra quindi chiaro che, anche all’interno di quella che abbiamo definito come la narrativa economica dell’ascesa del populismo si possa rintracciare una complessità notevole. Come ci si può rientrare al suo interno? Non sarà evidentemente possibile offrire in quanto segue una disamina dettagliata del contenuto degli studi empirici che vengono citati a supporto delle varie ipotesi che abbiamo appena esposto. Detto questo, il lettore ci consentirà qualche osservazione in merito a quello che crediamo sia il loro peso relativo. La nostra strategia argomentativa sarà invero assai semplice: ci limiteremo a criticare quella che si concentra sull’impatto della Grande Recessione, e suggerire che



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quella basata sull’impatto economico dell’immigrazione è difficile da stabilire empiricamente. Come si può comprendere la non sostenibilità della ipotesi legata al ruolo della Grande Recessione? La nostra impressione è che la Grande Recessione debba essere concepita un cosiddetto ‘place-holder’ per qualcosa di diverso e più profondo. Se gli elettori si sentono traditi dal comportamento della classe dirigente in un dato momento, le domande che vengono da porsi quasi immediatamente riguardano cosa sia davvero accaduto in quel momento storico e cosa ne abbia determinato i contorni. La Grande Recessione ha magari offerto un esempio o caso di studio al cittadino-elettore in merito all’affidabilità del sistema politico per quanto riguarda la sua capacità di rispondere alle esigenze della classe media e/o dei meno abbienti. Ma non ci sembra in grado di spiegare quelli che sembrano trend di lungo periodo (come l’aumento delle diseguaglianze, la liberalizzazione dellle regole che si applicano al settore finanziario, gli squilbri delle partite correnti fra paesi come Usa e Cina, e l’integrazione dei mercati finanziari internazionali più in generale) che, a detta di molti, hanno origini ben più lontane e profonde. Cosa invece dire sull’impatto economico dell’immigrazione? La nostra sensazione, a dire il vero condivisa da molti studiosi (si veda Helpman, 2018), è che la ricerca empirica sugli effetti dell’immigrazione sia sul mercato del lavoro che quelli fiscali, non sia arrivata a una sintesi univoca. Per esempio, molti sono convinti che, di fatto, l’impatto dell’immigrazione sui salari dei cosiddetti ‘native workers’ sia praticamente zero nel breve periodo e che, nel medio-lungo termine l’influsso di immigrati consenta l’aumento di produttività e salari (si veda Peri, 2014).

4.

Un approccio specifico alle dinamiche economiche

Come abbiamo avuto modo di argomentare nelle due precedenti sezioni, il campo di azione della nostra indagine si focalizzerà su alcune delle determinanti economiche della crescente domanda di populismo compreso come accentuazione della contrapposizione fra popolo ed élites. Ciò detto, come accennato nell’introduzione al capitolo, e vista l’importanza delle dinamiche economiche nella narrativa qui proposta, non si può non fare riferimento a quella che potremmo definire la visione di fondo dei fenomeni economici che andremo a descrivere e analizzare nei capitoli successivi. Non farlo esporrebbe questo studio a due problemi significativi. Il primo sarebbe di carattere meta-teoretico rispetto alla comprensione delle dinamiche economiche in generale. L’idea che tale comprensione non sia mediata da una qualche prospettiva teorica, se a detta di molti sarebbe erronea anche nelle scienze naturali (si pensi alle varie ‘scuole’ che popolano la fisica quantistica), sembra senza dubbio fallace quando si approcciano fenomeni di tipo sociale, economico e politico. In secondo luogo, la nostra analisi, come verrà svolta nei prossimi

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capitoli di questo volume, porrà l’accento sulle scelte (sia quelle compiute che quelle non fatte) istituzionali e di governance economica. Ma soffermarsi sulle scelte istituzionali e di governance economica rischia di essere percepito come arbitrario in assenza di un quadro di riferimento teorico, che seppur brevemente, ne indichi l’importanza in un determinato orizzonte di riferimento nella teoria economica. Vi sono molti modi di comprendere come funzionano i mercati e i sistemi economici più in generale (per una introduzione accessibile si veda Chang, 2015). Uno è sicuramente quello di pensarli come il frutto dell’emersione di un ordine spontaneo dettato dall’interazione fra attori, concepiti come individui strumentalmente razionali, che perseguono scopi predefiniti e indipendenti (si veda soprattutto Friedman, 2002, e in modo più ambiguo Hayek, 1982). Partendo da quelle che sono ovviamente enormi semplificazioni, si può dire che la visione ‘neoclassica’ della microeconomia, oppure una certa comprensione della visione ‘austriaca’ del mercato più in generale (omettiamo volutamente il nesso fra visione austriaca e il concetto di razionalità limitata), tendano ad una tale impostazione. In quest’ultima, i mercati sono spesso dipinti come estensione di propensioni naturali degli esseri umani, e, al netto di forme più o meno marcate di ciclicità, come entità che si auto-regolano e tendono, a meno di distorsioni esterne improprie, verso forme di equilibrio quantomeno più efficienti delle alternative disponibili alle società umane. Un altro, quello che intendiamo perseguire in questo testo, pone invece maggiore attenzione alla cornice in cui tali attori interagiscono e alle ‘regole del gioco’ che essi debbono rispettare per portare avanti le loro istanze. La nostra prospettiva, in questo senso, si colloca in seno alla visione di quegli autori che, da Veblen a Ostrom, si preoccupano di situare le dinamiche economiche all’interno di sistemi istituzionali e vedono in questi ultimi la loro radice profonda (per una rassegna si vedano Voigt, 2019; oppure Alesina e Giuliano, 2015). Ovviamente, in tale approccio, non scompaiono di certo i principi economici di base, come ad esempio il fatto che gli attori economici rispondano a incentivi. Piuttosto, è la comprensione delle evoluzioni economiche che viene reso più ampio perchè al suo interno, oltre ai succitati principi economici, vengono inserite considerazioni riguardanti le caratteristiche istituzionali. Per restare fedeli all’esempio degli incentivi, possiamo dire, semplificando, che se la teoria economica prevede che attori razionali ad essi debbano rispondere, non ci spiega con sufficiente dovizia di particolari quali incentivi prevalgano in una data economia e perché. L’attenzione verso le istituzioni e il loro ruolo nelle scienze sociali prese nel loro complesso ha recentemente riscosso ritrovati consensi (si veda ad esempio Hall e Taylor, 1996 per una classificazione dei vari tipi di istituzionalismo nelle scienze politiche). In quanto segue, ci limiteremo ad esaminare



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alcuni degli elementi centrali di un modo specifico di attrbuire importanza al ruolo svolto dalle istituzioni nei processi economici e cioè quella proposta dalla cosiddetta New Insitutional Economics. Non possiamo ovviamente proporre una disamina esaustiva delle tematiche affrontate da quest’ultima. Nel proseguio del lavoro ci limiteremo dunque ad alcuni cenni sui suoi assunti di fondo, e sulle nozioni di base che ad una tale prospettiva teorica sottendono. Le due nozioni principali, a nostro modo di vedere, sono quelle di ‘costi di transazione’ (e con essa quella di razionalità limitata) e quella di ‘istituzione’. Anche limitandoci a queste due sole idee, la ricerca scientifica da esaminare ad esse collegata sarebbe letteralmente sconfinata. Il nostro scopo sarà quindi di offrire al lettore una comprensione intuitiva dell’importanza dei costi di transazione per spiegare la necessità delle istituzioni e di una brevissima disamina sul significato (o meglio, sulla pluralità di significati) che il termine istituzione può assumere. L’idea di fondo che si intende proporre è, nel complesso, relativamente semplice, ovvero, che non esistano, tranne rare eccezioni che risultano marginali, mercati ‘naturali’, e che le istituzioni (e quindi le scelte istituzionali) sono il cuore di un sistema economico moderno. L’idea di ‘costi di transazione’ deriva, almeno da un punto di vista storico, dalla semplice domanda posta da Ronald Coase (1937): perché esistono entità come le aziende anche all’interno di mercati liberi e competitivi? I mercati competitivi, almeno a prima vista, sono sistemi di libera contrattazione ‘orizzontali’, privi di rapporti di potere formalmente specificati. Al contrario, le aziende, sono forme di governance gerarchiche, spesso accompagnate dalla presenza di organigrammi, rapporti di seppur limitata ubbidienza e comando, e dove regna l’assenza della libera contrattazione. Come si spiega la convivenza, anzi, si potrebbe dire la assoluta complementarietà, di due forme di rapporti economici e financo umani di natura così differente? La risposta di Coase, semplice quanto rivoluzionaria, risiede proprio nell’idea che le transazioni di qualsiasi tipo non siano da concepirsi come ‘gratuite’, ma bensì che comportino dei ‘costi’ (si veda Medema, 1994: 13-40). E proprio l’esistenza di questi costi spiega l’emergere di forme di organizzazione che mirano a limitarne la portata. Come ci ha insegnato Oliver Williamson (1973), mercati e gerarchie non sono le uniche forme di ‘governance economica’ possibili vista l’esistenza di costi di transazione, ma esse rimangono importanti per illustrare il paradigma della New Institutional Economics nel suo insieme. Il punto centrale risiede nella rottura con la visione microeconomica neoclassica delle organizzazioni economiche come, essenzialmente, funzioni di produzione che trasformano, in maniera internamente opaca (come ‘black boxes’), varie forme di input in varie forme di output data la tecnologia esistente. Il paradigma inaugurato da Coase ci spinge a porre l’accento sulle caratteristiche interne alle organiz-

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zazioni economiche, visto che sono proprio quest’ultime che ci consentono di comprenderne il reale funzionamento in un sistema di mercato (si veda Williamson, 2009). Ma cosa sono, in concreto, i costi di transazione? Per comprendere il problema nella maniera più semplice possibile, e adattando un esempio proposto da Voigt (2019: 9-10), basti pensare al banale desiderio di acquistare un paio di scarpe (un esempio di possibile transazione). Le nostre vecchie scarpe sono consunte e ce ne servono di nuove immediatamente. Per questo motivo facciamo ricorso a internet. L’ideale sarebbe ovviamente acquistare un paio di scarpe di ottima qualità e fattura, di stile pregevole che incontri le nostre preferenze estetiche, ma di farlo al miglior prezzo possibile (quello più basso). Come sa chiunque abbia fatto acquisti on-line, se questi desideri sembrano normali e financo banali, le complicazioni insorgono quasi immediatamente quando cerchiamo di mettere in pratica il nostro obbiettivo di ottimizzazione vincolata. In primo luogo, data la vastità del mercato on-line e il numero di produttori di scarpe che vendono i loro prodotti tramite la rete, come fare per localizzare quello che ci sembra il paio di scarpe che offre il miglior rapporto fra prezzo e qualità desiderate? In secondo luogo, come facciamo a sapere se la qualità di un prodotto descritta in un certo modo da un dato sito sia realmente quella indicata? Inoltre, come facciamo a sapere che il sito che offre quella che ci sembra essere la migliore offerta ci spedisca realmente le scarpe invece di metaforicamente fuggire con il nostro denaro? Infine, se ciò dovesse accadere, ci verrebbe naturale pensare che aver subito una qualche forma di truffa giustifichi delle contromisure. Senza entrare eccessivamente nel dettaglio, possiamo comprendere che la transazione sopra descritta può incorrere in una serie di costi che gli economisti istituzionalisti definirebbero come, ad esempio, costi per la raccolta delle informazioni, oppure, costi di contrattazione (bargaining) e scelta (decision), e costi legati al monitoraggio (policing) e alla effettiva attuazione (enforcement) di un accordo. La natura degli ostacoli che si frappongono fra quello che potremmo chiamare il desiderio di ‘transare’ e la transazione stessa è, come accennato sopra, connesso intimamente ai problemi legati alla razionalità limitata degli attori economici. Un individuo che abbia conoscenza perfetta delle circostanze collegate ad una data transazione non affronta i limiti sulle informazioni che abbiamo descritto; per tale individuo, i costi di transazione sono inesistenti in quanto la sua conoscenza delle circostanze e del pacchetto di informazioni necessarie a compiere una data scelta sono completamente esaustive rispetto alle eventualità future (Voigt, 2019: 10). La domanda successiva è chiaramente la seguente: come si arriva dal concetto di costi di transazione al concetto di istituzione e più in generale a una visione istituzionalista delle dinamiche di mercato? E la risposta più semplice e intuitiva è che le istituzioni (termine sul quale ci soffermeremo in



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seguito) ci aiutano a gestire e/o minimizzare (comparativamente parlando) i costi di transazione. Ragionando come ci insegnano gli economisti, potremmo riformulare il problema nel seguente modo. Una volta consci del fatto che le transazioni non sono gratuite, ma comportano dei costi, possiamo essere relativamente certi di una cosa, ovvero, che esisteranno transazioni possibili (nel senso che un attore economico le compierebbe volontariamente in vista di un miglioramento della sua condizione presente) che non avranno luogo perché proprio i costi di transazione le renderebbero non migliorative rispetto allo stato attuale dei fatti. In questo senso, si possono concepire i costi di transazione alla stregua di come viene concepita un’imposta in seno alla microeconomia neoclassica, e cioè come un disincentivo al raggiungimento di un prezzo competitivo ideale con conseguente perdita di benessere sociale (spesso rappresentato formalmente dai cosiddetti di ‘triangoli di Harberger’ che esprimono graficamente la cosiddetta ‘deadweight loss’, si veda Varian, 2014). Come scrive Voigt: The significance of transactions costs not only for the existence of firms, but for economic development in general (…) [is clear]. Generally, the higher the transaction costs, the lower the number of transactions. And a lower number of transactions implies a lower degree of specialisation and, at the end of the day, less income. (2019: 10). Ovviamente, l’affermazione di Voigt andrebbe qualificata con l’aggiunta dell’ espressione ‘ceteribus paribus’ visto che anche la creazione di istituzioni non è di certo gratuita. Ciononostante, in concreto, come fanno le istituzioni a gestire e/o minimizzare i costi di transazione? Il modo più diretto di comprendere la risposta a questa domanda passa ancora una volta per il concetto di razionalità limitata. Al netto di molte complicazioni che non menzioneremo, l’altra faccia della medaglia del concetto di razionalità limitata risiede nell’idea di incertezza. Da Knight in poi, l’idea di incertezza viene spesso definita come l’assenza di conoscenza delle probabilità soggettive relative all’accadimento di un set di outcome noti. In senso più ampio, però, possiamo comprendere l’idea di incertezza come vicina a quella di razionalità limitata visto che entrambe sembrano riferirsi (in modi certo differenti) alla mancanza di conoscenza di tutte le informazioni necessarie per compiere una scelta accurata e realmente migliorativa della nostra condizione presente. In una tale visione, le istituzioni semplicemente ci aiutano a diminuire la nostra incertezza nei confronti delle circostanze che fanno da contorno alle transazioni che desideriamo compiere, e così facendo, ne possono minimizzare i costi (relativamente parlando, visto che anche esse implicano l’impiego di risorse per istituirle).

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A questo punto, pare ovvio chiedersi cosa siano le istituzioni e come facciano a ridurre la nostra incertezza nei confronti delle scelte economiche. Ci sembra però obbligatorio, prima di rispondere a una domanda di così ampia portata, segnalare al lettore, per poi cercare di risolverla, un’ambiguità di fondo che permea la domanda stessa. Quando ci si chiede che cosa sia un dato oggetto, almeno per chi, come scrive, lo fa da una prospettiva filosofica, ci si pone una domanda ontologica, ovvero sulla natura dell’oggetto in questione. Da questo punto di vista, non esistono risposte condivise all’interno della letteratura che tratta di ontologia sociale. Seguendo l’autorevole contributo di Guala (2016), possiamo dire che si oscilla fra due poli; fra coloro che vedono le istituzioni come ‘regole’ e coloro che le vedono come ‘equilibri’ relativamente stabili in seno a interazioni ripetute di tipo strategico. Un altro modo di presentare questa dicotomia è quello di osservare che si oscilla fra una sponda dove si enfatizza il fatto che le istituzioni sono ontologicamente prescrittive a un’altra dove si insiste sul fatto che esse sono maggiormente associate a regolarità di comportamento motivate dalle circostanze strategiche in cui si trovano gli attori. Accettando questo quadro, è sicuramente apprezzabile e fonte di ispirazione il tentativo di Guala stesso di unificare i due succitati poli ontologici e di concepire le istituzioni come ‘regole che gli attori sono motivati a seguire’ (2016: 3-19). Senza entrare nel merito del dibattito fra le varie concezioni della natura delle istituzioni, si può però ritornare alla domanda con la quale abbiamo iniziato il paragrafo precedente e declinarla in maniera differente; come una richiesta di spiegazione di quello che potremmo chiamare il lavoro funzionale delle istituzioni data una concezione relativamente semplice (ma non per questo teoreticamente ‘innocente’) della loro natura. Detto altrimenti, cosa fanno le istituzioni? E la risposta più autorevole, almeno in seno alla letteratura della New Institutional Economics è sicuramente quella fornita da Douglass North. Secondo North: Institutions are the humanly devised constraints that structure political, economic and social interaction. They consist of both informal constraints (sanctions, taboos, customs, traditions, and codes of conduct), and formal rules (constitutions, laws, property rights). Throughout history, institutions have been devised by human beings to create order and reduce uncertainty in exchange. Together with the standard constraints of economics they define the choice set and therefore determine transaction and production costs and hence the profitability and feasibility of engaging in economic activity. They evolve incrementally, connecting the past with the present and the future; history in consequence is largely a story of institutional evolution in which the historical performance of economies can only be understood as a part of a sequential



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story. Institutions provide the incentive structure of an economy; as that structure evolves, it shapes the direction of economic change towards growth, stagnation, or decline. (1991: 97). Non è certamente questo il luogo dove offrire un’analisi approfondita della visione di North (ma si veda Galiani e Sened, 2014). Ci preme però sottolineare alcuni aspetti della definizione da egli fornita. In primo luogo, pare chiaro che la definizione di North, se sicuramente autorevole, non è certamente da considerarsi come l’unica possibile (per un’analisi dettagliata si veda Croce, 2010). Infatti, le definizioni del termine ‘istituzione’ variano sia all’interno della teoria economica (si pensi, a tale proposito, all’influente lavoro di Ostrom (1986), sul quale torneremo in seguito), sia, in modo ancora maggiore, nelle scienze sociali in generale. A titolo meramente esemplificativo ci si può rifare alla definizione di istituzione fornita da uno dei padri della sociologia. Secondo Durkheim le istituzioni si possono comprendere come modi di ‘agire e pensare’ collettivi che: (…) hanno al di fuori degli individui una realtà a cui essi si conformano in ogni istante: essi sono cose dotate di esistenza propria. […] c’è un termine che – a condizione di estenderne alquanto il significato corrente – esprime assai bene questo particolare modo di essere: il termine di istituzione. Si può infatti – senza travisare il senso dell’espressione – chiamare “istituzione” ogni credenza e ogni forma di condotta istituita dalla collettività. (1963: 19-20, citato in Croce, 2010: 11). In secondo luogo, rifacendoci esplicitamente alla definizione di North, possiamo osservare che le istituzioni non debbono per forza essere concepite come entità di natura formale. Il riferimento di North alle istituzioni come includenti anche ‘vincoli informali’ è invero di grande importanza. Soprattutto all’interno della teoria economica recente, ma anche della scienza politica (si pensi a Putnam, 1994). Infatti, la distinzione fra istituzioni formali e informali, quest’ultime spesso comprese come elementi culturali di una data società, e la loro rispettiva influenza sui processi economici e di sviluppo politico, hanno da sempre occupato un posto di rilievo nell’alveo della ricerca economica sugli effetti delle istituzioni (si veda a tale proposito Alesina e Giuliano, 2015). Basti pensare alla cospicua letteratura sul tema degli effetti economici del capitale sociale (elemento che, a detta di molti, concorre esso stesso alla formazione di istituzioni efficaci) o dello ‘generalized trust’, delle preferenze nei confronti di visioni valoriali individualistiche o collettivistiche, oppure della importanza relativa dei legami famigliari (si veda ad esempio Guiso, Sapienza e Zingales, 2006).

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Una terza caratteristica importante della definizione di North è il suo campo di azione, e cioè il riferimento al fatto che le istituzioni sono capaci di strutturare le interazioni fra esseri umani a livello economico, ma anche politico e sociale. All’interno del paradigma della New Institutional Economics l’importanza di istituzioni non prettamente economiche per lo sviluppo di un paese e in particolare come determinante principale della capacità di crescita economica, ha sicuramente visto un contributo importante da parte di Acemoglu e Robinson (2006; 2013). I due autori distinguono esplicitamente fra istituzioni politiche e istituzioni economiche, sostengono che siano le prime, in larga misura, a determinare le seconde, suggerendo al contempo l’esistenza di un circolo virtuoso fra istituzioni politiche ed economiche ‘inclusive’ e di un circolo vizioso fra istituzioni politiche ed economiche ‘estrattive’ (2013: 73-95). Inoltre, e stavolta riferendoci esplicitamente al lavoro di Ostrom (si veda soprattutto 1986; 2005), si deve rilevare che le istituzioni possono agire a diversi livelli di generalità o profondità all’interno di una società. Vi possono essere norme sociali (o regole) più ‘locali’ e norme con validità (nel senso descrittivo) più ampia all’interno dello stesso comparto sociale. Allo stesso modo, le istituzioni economiche, intese come regole formali, contengono sicuramente elementi di base come gli insiemi di norme legali che regolano la proprietà, ma fanno riferimento anche alle ‘policies’ oppure ai ‘policy regimes’ di natura transitoria che, se non determinano a pieno le regole del gioco, ne alterano senza dubbio il carattere. Un altro elemento di rilievo nella definizione di North è quello legato alla evoluzione incrementale delle istituzioni. Ritorneremo su questo punto nella parte conclusiva del volume, ma giova sottolineare il suo legame intrinseco con la funzione che le istituzioni debbono avere per aiutare le persone a gestire i costi di transazione: quello di ridurre l’incertezza. Istituzioni soggette a cambiamenti continui sarebbero, in questo senso, meno efficaci a tal uopo. Senza voler per forza adottare una logica eccessivamente teleologica, molti studiosi hanno insistito (in vero, in modi e con definizioni assai differenti) sull’importanza del concetto di ‘path-dependence’ per la comprensione del cambiamento istituzionale in prospettiva diacronica, e così facendo hanno fornito, implicitamente o esplicitamente, una spiegazione della natura incrementale dei meccanismi di cambiamento istituzionale (per un’analisi dell’idea di path-dependence vicina al lavoro di North si veda Pierson, 2000). Infine, elemento anch’esso collegato al ruolo delle istituzioni nel ridurre l’incertezza, va sottolineato un elemento che rimane implicito nel passaggio sopra citato: la connessione fra istituzioni e sanzioni. Anche questo argomento si presta a interpretazioni assai differenti. E ancora una volta non sarà possibile dare conto della complessità delle opzioni teoretiche in campo. Quello che si può dire, seguendo Ostrom (1986: 5) e Voigt (2013: 5-8), è che esistono vari modi di sanzionare (dalla coercizione pubblica, sino alla costatazione che una data



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strategia di comportamento vedrà chi l’adotta sempre penalizzato) un comportamento non conforme a una regola istituzionale (o alle caratteristiche di un dato tipo di interazione strategica) e che il concetto di sanzione aiuta a spiegare la capacità delle istituzioni nello stabilizzare e rendere prevedibile il comportamento delle persone. Avendo tentato di offrire una breve, e speriamo relativamente intuitiva, ricostruzione della logica istituzionalista nella teoria economica, ci sembra tempo di tirare le fila del discorso. Quello che possiamo osservare è che nell’ottica di un approccio istituzionalista, i fenomeni economici, e quindi le conseguenze distributive che essi inevitabilmente portano con sé, sono intimamente legati alle scelte di governance che vengono compiute dalla classe dirigente di un paese nel lungo periodo. Per essere più precisi possiamo dire quanto segue. Nella visione istituzionalista ci sono perlomeno tre livelli tematici distinti che è possibile rintracciare: a) le regole del gioco che rappresentano la vera e propria ossatura di un sistema economico; b) le organizzazioni e gli individui singoli, ovvero gli attori che potremmo definire come ‘semplici’ (persone naturali) e ‘complessi’ (persone artificiali o attori collettivi) che si muovono all’interno di tali regole profonde e, sulla base dei vincoli che tali regole impongono (in connessione con i principi fondamentali della teoria economica), perseguono i loro obbiettivi; e c) le decisioni di governance a vari livelli di ‘profondità istituzionale’ che, anche quando non cambiano le regole del gioco in senso profondo, alterano, in maniera tendenzialmente più transitoria, il modo in cui le organizzazioni e gli individui (punto b) interagiscono con le regole (profonde) del gioco (punto a). In questo tipo di framework, le scelte fondamentali di politica economica si vanno a collocare nella terza classe di fenomeni appena descritti. Nel resto di questo scritto cercheremo di mettere l’accento sulla dimensione della governance istituzionale (e nello specifico sulle scelte di politica economica fatte e non fatte) delle origini delle dinamiche distributive che, a nostro avviso, spiegano (almeno in parte) il malcontento diffuso di una larga parte delle popolazioni dei paesi occidentali e di conseguenza l’ascesa di movimenti politici di protesta che cercano di veicolare tale insoddisfazione. Prima di passare a tale compito, però, nella sezione successiva del capitolo, tenteremo di offrire un esempio concreto del ruolo delle scelte di governance economica nello strutturare i comportamenti delle persone.

5.

Un esempio di Policy Regime: l’economia del debito negli USA

Nella sezione precedente del capitolo, abbiamo terminato la nostra discussione dell’approccio istituzionalista avvalendoci di una distinzione fra ‘regole del gioco’, attori economici (semplici e complessi), e scelte di governance economica.

80  Populismo e filosofia politica

Ora, tale scelta potrebbe sembrare non del tutto trasparente. E sicuramente, da un punto di vista prettamente analitico, le cose stanno così. In primo luogo, se si definiscono le istituzioni come le ‘regole del gioco’, e si accetta che vi siano regole di diversa importanza e livello di profondità, allora, chiaramente le scelte di governance economica fanno parte delle istituzioni di una società. In secondo luogo, giova inoltre enfatizzare che quella che può sembrare una questione che riposa esclusivamente sulla definizione di istituzione da noi adottata, è in verità realmente una situazione di equivalenza funzionale: le scelte di governance economica e le istituzioni profonde che strutturano un dato mercato hanno entrambe, al netto di una forte semplificazione, il potere di alterare gli incentivi ai quali gli attori economici rispondono, e quindi di guidare i loro comportamenti. In questo senso non vi è una distinzione funzionale netta fra, ad esempio, esistenza e caratteristiche dei diritti di proprietà da un lato, e la decisione di un dato governo rispetto a cosa tassare e cosa no dall’altro. A tale proposito, è importante ricordare, seguendo l’enfasi posta sul tema da autori come Guala (2016) e Greif (2006), che se le istituzioni sono regole, e ci aiutano a ridurre o gestire i costi di transazione rendendo le interazioni fra attori economici più prevedibili, la loro capacità di motivare gli attori economici deve in qualche modo essere spiegata. Se tale spiegazione debba essa stessa far parte della definizione del concetto di istituzione non è questione che ci preme trattare. Piuttosto, si deve segnalare che tutti i quadri di riferimento istituzionalista prevedono l’esistenza di una qualche forma di meccanismo cognitivo (nel senso ampio del termine) che colleghi istituzioni e comportamenti degli attori economici. Le istituzioni offrono tali meccanismi, anche qui semplificando molto, prevedendo diversi metodi per la di (dis)incentivazione di un dato comportamento (tassare un bene oppure renderlo illegale, ad esempio, hanno entrambe l’effetto di diminuirne il consumo). D’altro canto, si possono offrire due risposte a tali osservazioni, una di merito e una legata alle nostre esigenze in questo studio. La prima, quella di merito, è che a diversi livelli di ‘profondità’ delle regole del gioco corrispondono, in genere, diversi costi di alterazione. Se quest’ultima non è una differenza funzionale, ci segnala sicuramente un qualcosa di importante: l’attenzione sulle scelte di governance economica hanno maggiori chance di essere oggetto di tentativi di riforma. La seconda risposta è che, vista la natura del nostro studio, ci sembra naturale cercare di isolare, se non analiticamente, almeno in senso più tematico e descrittivo, le scelte di governance economica, dato che proprio sulla loro analisi si basa la nostra comprensione dell’origine del populismo. Detto altrimenti, si può asserire che la nostra scelta, anche se in larga parte dettata da necessità espositive, non sia teoricamente arbitraria. In quanto segue, cercheremo di illustrare questi cenni teorici facendo riferimento a un insieme di policy, quello che alcuni scienziati politici sarebbero in-



Populismo e scelte economiche: un approccio istituzionalista  81

clini a chiamare un ‘policy regime’, che ha caratterizzato alcune delle economie avanzate occidentali. La scelta del nostro esempio è tutt’altro che innocente, per così dire. Ci concentreremo su quello che lo scienziato politico britannico Colin Crouch (2009) ha definito il regime di ‘keynesianesimo privatizzato’ (2009) e ne illustremo brevemente uno degli esempi più marcati, ovvero quella che molti osservatori hanno definito come lo sviluppo di un’economia basata sull’indebitamente privato negli USA, e in particolare, in collegamento con il mercato immobiliare (ci faremo guidare, in questo caso, dal lavoro di Barba e Pivetti, 2009). Questa scelta non è innocente per un semplice motivo: essa non soltanto offre un’illustrazione del ruolo di un dato ‘policy regime’ (o insieme relativamente coerente di politiche pubbliche) nel condizionare gli incentivi ai quali sono soggette le persone, ma ci consente anche di guardare a un ulteriore elemento della nostra storia concernente l’emersione della domanda di populismo. Se, infatti, nei due prossimi capitoli, andremo ad investigare quelle che riteniamo essere le origini profonde delle dinamiche che di tale domanda sono alla base, possiamo pensare di interpretare l’economia del debito negli USA come un tentativo, quantomeno implicito, ma in tutti i casi certamente fallito, di rispondere alle esigenze della classe media americana la cui capacità di consumare veniva progressivamente ridotta (in senso relativo) proprio dagli effetti della globalizzazione e del cambiamento tecnologico. A detta di Crouch, l’insieme di politiche pubbliche da lui definito ‘keynesianesimo privatizzato’ può essere concettualizzato come una risposta specifica a due esigenze politico-economiche generali: a) riconciliare la natura imprevedibile dell’evoluzione dei mercati alla necessità di stabilità delle persone-lavoratori; e b) assicurare una fonte di domanda interna relativamente stabile e crescente per i beni prodotti da un’economia (2009: 384). Se la prima, a detta di Crouch stesso, può in qualche misura essere attenuata dalla espansione dello stato sociale, la seconda no, almeno se si assume che il livello di consumi che il ricorso all’espansione dello stato sociale riuscirebbe a garantire non sarebbe sufficiente a consentire una domanda interna tale da sostenere una forma di crescita economica sostenuta. Vi sono ovviamente diversi modi di affrontare la questione, e senza dilungarci eccessivamente possiamo segnalare che uno di questi è la tradizionale visione keynesana di intervento pubblico mirato a garantire livelli adeguati di domanda interna, mentre un altro è costituito dal tentativo di separare geograficamente consumatori e produttori facendo ricorso a un modello di crescita economica legata alle esportazioni. L’alternativa emergente nei paesi anglo-sassoni, e in particolare negli USA, ci segnala Crouch, è stata invece improntata proprio alla nozione di keynesianesimo privatizzato, e cioè l’idea di rimpiazzare l’intervento pubblico del modello keynesiano tadizionale e con esso la sua tendenza a generare debito pubblico, con un modello di indebitamento privato consentito da una maggiore facilità di

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accesso al credito per le fasce più deboli della popolazione. In sintesi, sono i cittadini privati, e marcatamente quelli appartenenti alle fasce socio-economiche più svantaggiate, che si fanno carico della loro capacità di consumare in modo stabile e quindi di rendere le loro vite più controllabili, e allo stesso tempo di sostenere livelli adeguati di domanda interna tramite un crescente riscorso al credito. In questo contesto, è possibile identificare un policy regime perché il passaggio da indebitamento pubblico a indebitamento privato (senza per questo omettere di ricordare che gli USA hanno un rapporto fra debito lordo e PIL superiore alla media europea) come mezzo di sostengo alla domanda interna non è semplicemente accaduto, ma è stato fortemente aiutato da precise scelte di governance economica; scelte come il progressivo abbandono del ruolo delle politiche fiscali e industriali attive da parte dello stato, oppure la progressiva deregolamentazione (meglio definita come ‘liberalizzazione del contenuto delle regole’) delle attività finanziarie e in particolare quelle legate alla creazione di mercati finanziari sempre più opachi, o ancora la panoplia di sussidi per l’indebitamento connesso all’acquisto di forme specifiche di asset come la casa, e financo le garanzie esplicite o implicite offerte ad alcune parti del settore finaziario da parte dello stato stesso (si pensi alle famose govermnet sponsored enterprises nel settore della finanza immobiliare), senza dimenticare le scelte in merito al tasso di interesse fatte dalla Federal Reserve nel decennio 1995-2005. Per comprendere questo tipo di dinamica e illustrarla facendo ricorso a dati concreti, ci sembra opportuno appoggiarci all’autorevole analisi condotta da Barba e Piveti (2009). La tesi dei due autori parte dalla costatazione che, se è vero che i livelli assoluti più elevati di indebitamento privato negli Stati Uniti si registrano per i gruppi relativamente più abbienti, almeno tre indicatori possono contribuire a una analisi differente di quello che potremmo definire come l’indebitamento relativo, ossia: a) il rapporto fra debito e reddito; b) il rapporto fra debito e valore degli asset posseduti; e c) il peso relativo del costo del debito (la ‘debt-service ratio’). Tutti e tre gli indicatori restituiscono una situazione di maggiore esposizione di coloro che si trovano nelle parti inferiori della distribuzione del reddito nazionale, e marcatamente nella metà inferiore (2009: 114). Che l’indebitamento privato negli Stati Uniti sia grandemente cresciuto negli ultimi decenni del secolo scorso e nel primo decennio di quello corrente non è conclusione soggetta a grande ambiguità. Questo è facilmente osservabile dalla tabella 2.1. Quest’ultima, inoltre, ci segnala proprio l’importanza del mercato immobiliare (ossia dei mutui che a esso sono fonte di accesso per la maggior parte delle persone) in termini di peso relativo sulla percentuale di indebitamento rispetto al reddito disponibile. Quello che è meno evidente, e che ci viene segnalato dallo scritto di Barba e Pivetti, è che, in termini di indicatori o proxies del ‘peso reale’ dei debiti sulle persone, la verità che emerge è di una chiara situazione di stress economico comparativamente maggiore per le famiglie relativamente meno abbienti.

Populismo e scelte economiche: un approccio istituzionalista  83



TABELLA 2.1  Indebitamento privato (USA) come percentuale del reddito disponibile Consumer credit

Home mortgages

Other

Total debt.

1980

17.8

46.2

8.1

72.1

1985

19.6

46.5

9.9

76.0

1990

19.2

58.3

9.1

86.7

1995

21.6

61.6

10.3

93.6

2000

24.2

66.7

11.7

102.8

2005

24.5

97.5

11.1

134.1

2006

25.1

102.3

12.3

139.7

Fonte: Barba e Pivetti (2009) su dati Federal Reserve Board.

La loro tesi complessiva è che una tale situazione, vista l’asimmetria fra la sostenibilità del debito pubblico e quello privato, e viste le caratterisitche dell’elasticità limitata delle scelte di consumo rispetto alle variazioni (o anche alla stagnazione) del reddito, non possa essere imputata a processi di ‘consumption smoothing’ da parte di attori economicamente razionali nel senso tradizionale del termine. Essa va invece concepita come in larga parte dipendente dalle dinamiche di distribuzione del reddito e giudicata in maniera negativa dal punto di vista della sostenibilità di lungo periodo (si veda Rajan, 2010; Stiglitz, 2009, per una overview dei dati empirici si veda Atkinson e Morelli, 2015). Come scrivono i due autori: Household debt growth has been normally explained in the literature as a rational response of forward-looking agents to hump-shaped time earning profiles or to temporary deviations of income from its long-run trend. Contrary to these views, we maintain that the rising household indebtedness should be seen principally as a response to stagnant real wages and retrenchments in the welfare state, i.e. as the counterpart of enduring changes in income distribution. In our view, the key issue concerns the sustainability of the process. In fact, whilst we argue that household debt can exert a significant negative impact on the aggregate savings rate, helping to sustain demand and activity, the real challenge concerns the feasibility of containing the long-run shortcomings of a growing stock of household debt. Our position here is that while the widespread worries about the sustainability of rising debt levels are generally ill-placed when referred to public debt, they do retain their relevance with respect to household debt. (2009: 114).

84  Populismo e filosofia politica

In questo senso, i due autori operano una chiara rottura con la visione neoclassica delle scelte di consumo, e lo fanno, in linea con la prospettiva istituzionalista classica di Veblen e soprattuto dell’approccio alle scelte di consumo di Duesenberry. I motivi delle scelte di consumo, in questo tipo di visione non sono qundi legati a una risposta alla composizione temporalemente disomogenea che il flusso di risorse economiche a disposizione degli individui generalmente tende ad avere (per intederci, di solito si guadagna di più a cinquant’anni piuttosto che a venti oppure a novanta). Esse sarebbero invece da rintracciare nella natura profondamente sociale e comparativa delle scelte di consumo stesse e alla loro bassa elasticità rispetto alle variazioni verso il basso del reddito. Detto altrimenti, e questa volta usando un linguaggio non adottato dagli autori, possiamo dire che consumiamo beni perché spesso il loro acquisto determina la nostra (e quella degli altri) percezione del nostro status sociale, e lo facciamo in maniera parzialmente independente da quante risorse abbiamo realmente a disposizione, almeno se ciò ci è consentito, ovvero se possiamo fare ricorso al credito in presenza di un peggioramento assoluto o relativo della nostra condizione economica generale. A questo punto, il lettore attento sicuramente si porrà la seguente domanda: è possibile conciliare la visione di Barba e Pivetti, che molti defiirebbero ‘eterodossa’ visto il mainstream teorico attuale, con la visione della New Institutional Economics? Che i due autori si allontanino dalla posizione mainstream non è solo percepibile dal loro netto rifiuto della teoria del consumo neoclassica, ma anche, inter alia, dalla loro analisi della differente valenza negativa dell’indebitamento pubblico e privato. Interpretazione che, poggiando sull’indipendenza fra debito e reddito soltanto nel caso dei privati sembra avere origini keynesiane (2009: 127). L’obiezione, ci sentiamo di rispondere, ha un suo fondamento ma non ci sembra analiticamente decisiva. In primo luogo, e partendo da considerazioni altamente generali, possiamo osservare che se la New Institutional Economics da spazio, oltre che al ruolo delle istituzioni, anche a quello dei principi della teoria economica, quali siano davvero i principi della teoria economica ‘giusti’ non sembra essere cosa sulla quale vi sia accordo unanime, per usare un eufemismo. In secondo luogo, e questa volta concentrandoci esclusivamente sulla teoria del consumo, possiamo osservare che la rottura operata dall’approccio eterodosso di Barba e Pivetti ci sembra, questa volta, assai vicina a quella operata, a detta di alcuni dei suoi padri putativi come North, alla New Institutional Economics: entrambe le prospettive sembrano dare meno importanza al concetto di razionalità strumentale e maggiore rilievo al ruolo di idee e ideologie. Un altro modo di mettere la cosa è il seguente: la visione delle scelte legate al consumo di autori come Duesenberry ci indicano che attori soggetti ai vincoli della razionalità limitata, e che vivono non isolati ma in



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un contesto sociale e culturale specifico, tenderanno a preoccuparsi di più di come le loro scelte di consumo siano rilevanti per il loro status sociale -date le norme culturali vigenti - piuttosto di come ottimizzare nel lungo periodo tramite scelte di ‘consumption smoothing’. Se tale visione sia ancora compatibile con quella della New Insitutional Economics non è cosa che siamo in gradi di stabilire in maniera definitiva, ma ci sembra, ancora una volta facendo ricorso a Wittgenstein e stavolta parafrasandolo, che vi siano ovvi rapporti di parentela intellettuale (e, storicamente, chiaramente così è vista l’influenza di Veblen su Duesenberry). Infine, e stavolta virando, a nostro modo di vedere in linea con la visione di Crouch, in una direzione legata alla ‘political economy’ di una data situazione, Barba e Pivetti aggiungono una considerazione importante alle tradizionali preoccupazioni legate all’accumulazione di debito da parte di una persona. Queste, in fatti, sono spesso incentrate sul fatto che, se l’accumulazione di debito favorisce la continua possibilità di consumare, e anche al netto della sostenibilità di lungo periodo del debito stesso, essa rende ncessariamente le ‘balance sheets’ dei soggetti in questione più fragili: ossia si paga in termini di una maggiore esposizione alle conseguenze di shock endogeni ed esogeni. Invece, Barba e Pivetti ci spiegano lucidamente che il profilo distributivo dell’economia del debito è tutt’altro che neutrale, visto che, strutturalmente, favorisce gruppi specifici di persone a discapito di altri. Vale la pena di citare il loro ragionamento per intero: [The] analysis seems to suggest that through household indebtedness it is possible to bring about the best outcome from the point of view of the capitalist system, i.e. that through household debt low wages can be brought to coexist with high levels of aggregate demand, without it being necessary, for this coexistence to be persistently ensured, to have recourse to state intervention and bigger government. Household debt thus appears to be capable of providing the solution to the fundamental contradiction between the necessity of high and rising levels of consumption, for the growth of the system’s actual output, and a framework of antagonistic conditions of distribution, which keeps within limits the real income of the vast majority of society. Indeed, not only the solution to this fundamental contradiction of capitalism, but the best of all possible worlds seems to have been brought about for the richest section of society. This is because with the substitution of loans for wages the share of actual income accruing to capitalists et hoc genus omne is fed also by interest that wage earners must pay on the loans they obtain; moreover, the burden of servicing their debt pushes them, sooner or later, to work harder and for longer hours—that

86  Populismo e filosofia politica

burden, in other words, eventually enhances the workers’ willingness to ‘go anywhere and do anything’ on such terms as can be got, thereby contributing to the persistence of low wages and labour costs. (Barba e Pivetti, 2009: 126-127) Cerchiamo di tirare le fila, e di mettere a sistema con le considerazioni fatte nelle precedenti sezioni del capitolo l’analisi dell’argomento specifico trattato in questa parte dello scritto. In primo luogo, possiamo chiaramente evidenziare che il caso dell’economia del debito, almeno per come noi lo abbiamo brevemente sviluppato in queste pagine, ci sembra un chiaro esempio di policy regime. Questa conclusione, come abbiamo ricordato poco sopra, deriva dal fatto che esso è stato accompagnato e reso possibile da scelte istituzionali precise. In aggiunta, possiamo osservare che tali scelte abbiano avuto conseguenze assai asimmetriche in termini della posizione relativa di vari gruppi all’interno dell’economia americana, visto che, come ci ricorda il passaggio appena citato, il sistema crea rapporti di forza, o se non altro posizioni negoziali dettate dalla struttura economica, assai differenti. Possiamo anche notare, inoltre, che l’analisi di Barba e Pivetti parte dall’assunto che vi sia un rapporto di dipendenza fra la distribuzione del reddito all’interno di un dato paese e le dinamiche di indebitamento privato, almeno nella misura in cui vengano rimossi i principali vincoli a tale indebitamento (per esempio rendendo più facile l’accesso al credito). Anche accettando le tesi dei due economisti, però, essi non sembrano offrire una spiegazione dei cambiamenti e dei fenomeni economici che hanno portato alla divergenza economica alla quale essi imputano un ruolo importante dal punto di vista causale (obiettivo che, in tutta onestà, essi non si pongono nello scritto che abbiamo citato). Proprio per questo, nei due capitoli successivi, tenteremo di costruire una narrativa che tali cause tenti di investigare e illustrare. Infine, l’analisi dei due autori italiani segnala l’importanza di un policy regime per comprendere gli incentivi ai quali sono soggetti gli attori economici, e in questo caso i cittadini concepiti come consumatori. Se, da un lato, il loro approccio alla teoria del consumo rompe chiaramente con la visione neoclassica, è anche vero che la rimozione progressiva dei vincoli all’accumulazione di debito ha, anche ai loro occhi, giocato un ruolo essenziale nello spiegare come le scelte di consumo da parte degli individui siano state determinate nel contesto istituzionale nel quali essi si trovavano ad operare.

Conclusione In questo capitolo abbiamo completato il framework di riferimento complessivo adottato in questo volume offrendo una visione teorica che va vista come intimamente legata e interconnessa con la visione normativa sviluppata nel



Populismo e scelte economiche: un approccio istituzionalista  87

primo capitolo. I legami fra le due ci sembrano evidenti, ma giova sicuramente ricordarli. Partendo da una serie di scelte metodologiche controverse, ma riteniamo tutt’altro che arbitrarie, abbiamo definito il populismo come un tipo risposta politica di natura specifica a domande che hanno un carattere irriducibilmente normativo: domande riguardanti l’autonomia politica dei cittadini e l’equità distributiva. Abbiamo in seguito tentato di offrire una visione della storia causale che spiega l’aumento di domanda di piattaforme politiche populiste ispirandoci a quella che abbiamo chiamato ‘modestia epistemica’ concedendo che non sia facile rintracciare una spiegazione causale monocromatica. Tale visione epistemica modesta ci sembra plausibilmente giustificabile in ragione della complessità del fenomeno oggetto di analisi e dal fatto che, alla luce di tale complessità, spiegazioni ‘monocromatiche’ delle sue origini causali siano da ritenersi di dubbio valore, anche se non prive di fascino. Abbiamo quindi deciso di investigare una visione specifica di tale storia causale, quella che rintraccia in alcune classi di fenomeni economici la causa principale dell’aumento di domanda populista, ma ovviamente senza del tutto negare la liceità di procedere in maniera differente. Per approfondire la nostra comprensione della ‘visione economica’ abbiamo inoltre cercato di illustrare un determinato approccio alla teorizzazione dei fenomeni economici, ovvero un approccio, quello della New Institutional Economics, che si fonda sull’importanze delle scelte istituzionali. Per farlo ci siamo soffermati sull’idea di costi di transazione e la nozione ad essa strettamente connessa di razionalità limitata. In aggiunta, abbiamo fornito una breve disamina del significato del termine istituzione e del ruolo che esse svolgono in contesti dove esistono costi di transazione e dove gli attori economici sono soltanto limitatamente razionali. Anche in questo caso il legame con il framework normativo ci sembra evidente, visto che proprio nelle scelte dell’organizzazione delle istituzioni politiche, economiche e sociali di base di una società abbiamo rintracciato, nel capitolo primo, il luogo naturale o campo di azione privilegiato di una concezione della giustizia sociale. Nei capitoli seguenti, sulla scorta del nostro quadro sia normativo che teorico sviluppato nei primi due capitoli dello scritto, andremo a illustrare quelle scelte istituzionali in campo economico che maggiormente hanno determinato, a nostro avviso, l’ascesa dei populisti.

Capitolo 3 La ‘hyper-globalization’ e i suoi trade-off Introduzione Nei due precedenti capitoli abbiamo cercato di dare un’impostazione chiara all’approccio che si è deciso di seguire in questo volume. Un approccio che vede le fonti di una crescente domanda di populismo nelle scelte istituzionali in campo economico operate dalle democrazie occidentali negli ultimi quattro decenni. In questo capitolo, ci accingiamo a descrivere e analizzare una delle due macro-aree che si sono rivelate di maggiore importanza, ovvero, dove le scelte istituzionali in campo economico (e qui ovviamente utilizziamo il termine ‘economico’ in senso molto ampio) si sono rivelate di grande importanza per comprendere l’evoluzione della domanda di populismo. La questione di base che affronteremo in questo capitolo è quale sia il modello di integrazione economica mondiale che è stato perseguito negli ultimi decenni e come questi abbia influito sulle prospettive di diversi gruppi della popolazione dei paesi occidentali. E lo faremo sempre tenendo conto di quelle che sono le principali idee normative che abbiamo sin ora sviluppato, cioè una visione della giustizia politica e della giustizia distributiva. Per guidarci attraverso questo complesso esercizio, il nostro personale Virgilio non sarà altri che l’economista Dani Rodrik, e in particolare la sua visione dei trade-off legati alla globalizzazione economica. Questi trade-off, che Rodrik (2011) presenta sotto forma di un trilemma, verranno trattati sia dal punto di vista dei suoi antecedenti storici, che dal punto di vista analitico. Inoltre, sarà di grande importanza, data la nostra impostazione generale, cercare di segnalare al lettore quelli che sono gli impegni normativi e morali impliciti nella visione di Rodrik nel suo complesso. In seguito, nelle sezioni terza e quarta del capitolo, illustreremo due esempi concreti delle scelte fatte negli ultimi decenni; scelte che segnalano una chiara visione di come affrontare i trade-off nel trilemma di Rodrik, e che hanno avuto conseguenze a nostro modo di vedere importanti proprio per l’autonomia politica dei cittadini e per la giustizia distributiva all’interno delle loro comunità politiche. Infine, nella quinta ed ultima sezione, ci consentiremo un excursus che ci permetterà di affrontare le riserve di molti che, implicitamente e anche esplicitamente, si sentiranno in disaccordo con la nostra visione tutt’altro che rosea della globalizzazione economica (o quantomeno della sua forma attuale), ossia che resisterle significa pur sempre ignorarne i benefici in termini di efficienza. La sintesi del nostro discorso complessivo può essere agevolmente proposta come segue: negli ultimi quattro decenni, i paesi occidentali hanno optato per

90  Populismo e filosofia politica

un modello di integrazione economica mondiale sempre più forte e hanno così progressivamente perso la capacità di controllare alcune aree importanti delle loro policy economiche e favorito, allo stesso tempo, specifici gruppi di persone al loro interno. Gli esempi concreti che intendiamo fornire, come abbiamo accennato, sono due. Il primo riguarda il passaggio da una forma di ‘shallow integration’ a una di ‘deep integration’ per quanto concerne gli scopi e contenuti degli accordi commerciali internazionali. Il secondo si focalizza su di una delle principali implicazioni della integrazione dei mercati finaziari a livello globale e nello specifico le conseguenze dell’interdipendenza finanziaria fra paesi per la distribuzione interna del carico fiscale a fronte del crescente fenomeno della ‘tax competition’. Infine, prima di procedere oltre, ci preme sottolineare la continutià teoretica fra il lavoro di Rodrik e l’approccio istituzionalista che abbiamo illustrato nel precedente capitolo di questo volume. Il quadro offerto da Rodrik è, a nostro avviso, molto importante non solo per i trade-off che segnala, ma soprattutto per la natura ultima del messaggio che esso contiene. Come spesso accade, uno schema analitico-teorico offre una tesi esplicita (in questo caso, il succitato trilemma) ma propone anche una visione profonda di natura assai più implicita. Nel caso di Rodrik tale tesi fondante implicita è l’idea che le caratteristiche istituzionali che danno vita ad una certa forma di mercato non sono mai né neutrali né naturali. Nulla di ciò che Rodrik discute viene da egli proposto come un dato acquisito e non controllabile; il mondo economico al quale ci consente di accedere l’autore di Harvard è fatto, come quello descritto da North, di scelte politiche e istituzionali oltre che di principi e modelli economici. In quest’ottica, il nostro modo di porci nei confronti della pressione verso la ‘hyper-globalization’ è sempre e comunque da considerarsi alla stregua di una scelta e non certo come l’esito di una imposizione divina. Inoltre, questa visione rafforza, a nostro modo di vedere, l’importanza di un’analisi filosofico politica visto che tale scelta, come vedremo, ha chiare conseguenze sulla capacità dei singoli stati di adottare concezioni di giustizia sociale differenziate e di implementare modelli diversi di redistribuzione interna.

1.

Il trilemma dell’economia globale: una visione storico-analitica

Partiamo quindi da una lettura critica delle scelte istituzionali che soggiacciono al modello attuale di integrazione economica internazionale. Negli ultimi quarant’anni molti paesi hanno aderito con entusiasmo alla globalizzazione economica e lo hanno fatto in qualità di democrazie forti, e sulla carta attente ai processi politici nazionali e sovranazionali. Nella realtà in questi stessi anni sono state invece parzialmente inevase le istanze che hanno un diretto impatto sulla vita delle persone. Si pensi ai posti di lavoro persi a seguito delle decisioni



La ‘hyper-globalization’ e i suoi trade-off  91

FIGURA 3.1  Il Trilemma di Rodrik

Fonte: Dani Rodrik (2016)

di outsourcing (delocalizzazione) delle imprese, allo spiazzamento di interi mercati a seguito della concorrenza di economie emergenti, all’abbassamento dei livelli di vivibilità di periferie e piccoli centri a seguito dell’insediamento di interi gruppi di immigrati in cerca di fortuna provenienti dai paesi poveri e dalla crescente concentrazione geografica delle opportunità economiche. Per meglio comprendere una tale serie di eventi e indi la fonte ultima che li accomuna, bisogna senza dubbio partire dal lavoro di Dany Rodrik nel suo celebre volume The Globalization Paradox (2011) e alla sua concezione dei trade-off legati a quella che egli stesso definisce ‘hyper-globalization’. Nel volume, Rodrik ci spiega come tutte le democrazie occidentali si siano dimostrate incapaci di coniugare ragionevolmente e in maniera equilibrata e credibile tre aspetti: la partecipazione sempre maggiore alla globalizzazione economica, l’esercizio di una sovranità nazionale ben attenta alle istanze che provengono dall’interno, e l’implementazione di un sistema autenticamente democratico. Per dirla alla North, Rodrik sostiene che stando alle attuali ‘regole del gioco’ è impossibile soddisfare pienamente e contemporaneamente tutte e tre i succitati ‘desiderata’ (si veda la figura 3.1). Infatti, come ci spiega con pregevole chiarezza lo stesso Rodrik: If we want to maintain and deepen democracy, we have to choose between the nation state and international economic integration. And if we want to keep the nation state and self-determination, we have to choose between deepening democracy and deepening globalization. Our troubles have their roots in our reluctance to face up to these ineluctable choices. (Rodrik, 2011: XIX).

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Quali sono le fonti profonde del trilemma di Rodrik? Da un punto di vista storico, nel senso della storia della teoria economica, è impossibile non rintracciare nello schema di Rodrik la forte eco di quello che gli economisti neoclassici chiamano la ‘impossible trinity’ dell’economia internazionale. L’idea di una ‘impossible trinity’, originariamente sviluppata da Robert Mundell e Marcus Flemming negli anni sessanta del secolo scorso, è stata resa nota nella sua forma attuale verso la fine degli anni novanta da scritti come quelli di Maurice Obstfeld e Alan Taylor sulla evoluzione storica della mobilità del capitale (1997; si veda anche Obstfeld, Shambaugh e Taylor, 2005). La ‘impossible trinity’ segnala l’impossibilità di raggiungere tre obiettivi economico-monetari che vengono ritenuti desiderabili, e cioè la stabilizzazione dei tassi di cambio (alle volte descritta con l’idea di tassi di cambio fissi), l’indipendenza della politica monetaria e la sua capacità di rispondere a esigenze interne (si pensi al doppio mandato della Federal Reserve negli USA), e infine la mobilità del capitale finanziario fra le varie giurisdizioni di diversi paesi. Il primo obiettivo è reso intuitivamente desiderabile, inter alia, perché facilita gli scambi commerciali e stabilizza le aspettative degli imprenditori che in un dato paese intendono investire. Il secondo obiettivo presuppone il valore di una banca centrale indipendente che possa, ad esempio, adottare misure controcicliche in tempi di crisi. Il terzo obiettivo dipende, in larga parte, dall’idea che la mobilità del capitale, come del resto la mobilità di qualsiasi fattore di produzione, ne migliori l’allocazione dal punto di vista dell’efficienza. Che la ‘impossible trinity’ rappresenti scelte complesse di policy è suggerito dal fatto che, a tutt’oggi, diverse economie ritengono di doversi posizionare su diversi lati del triangolo nella figura 3.2. Infatti, possiamo pensare di situare come USA, Australia e Nuova Zelanda sul lato B, i membri dell’euro gli uni nei confronti degli altri e nel loro complesso verso l’esterno sul lato A (ma anche, come indicato dalla figura, Singapore e Hong Kong), e paesi come la Cina sul lato C (almeno fino al 2005). Questa varietà di scelte, inoltre, segnala che l’impossible trinity può, e spesso viene, ‘sciolta’ adottando una data diade di obiettivi a scapito del terzo (e questo sembra logicamente necessario), in maniera consapevole e in linea con le preferenze o esigenze politiche locali. Infine, ci permettiamo di chiosare che il legame fra le visioni di Rodrik e il modo in cui molti hanno scelto di descrivere la concezione dell’economia internazionale spesso denominata ‘regime di Bretton-Woods’ emersa al termine della seconda guerra mondiale è tutt’altro che tenue. Questo può essere compreso dal fatto che in entrambe vige un forte scetticismo nei confronti dell’integrazione finanziaria globale, scetticismo che, per inciso, sembrava essere condiviso dallo stesso Keynes, padre putativo più autorevole del sistema di governance economica internazionale emerso dalle macerie del secondo conflitto mondiale.



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FIGURA 3.2  La trinità impossibile: alcuni esempi

Fonte: Goh (2017)

Sin qui, ci siamo limitati ad alcuni cenni storici sull’origine intellettuale del trilemma di Rodrik. Esso va però analizzato nella sua orginalità e autonomia. Per ottenere tale risultato giova partire dalla semplice osservazione (lasciata implicita nella discussione della ‘impossible trinity’) che, da un punto di vista meramente concettuale, l’esistenza di un trilemma significa prendere per buone due tipi differenti di affermazione. La prima è di natura analitico-descrittiva, e concerne la non-raggiungibilità simultanea di tre obbiettivi. La seconda, di natura normativa, sta nel pensare che tutti e tre gli elementi del trilemma siano di un qualche valore o comunque desiderabili, altrimenti non si potrebbe parlare di un trilemma. Al netto del comportamento delle persone reali, infatti, la razionalità suggerisce che in assenza di (buone) ragioni per perseguire uno degli obbiettivi citati da Rodrik non vi dovrebbe essere nessun trilemma in gioco. In quanto segue partiremo da una spiegazione della natura analitico-descrittiva del trilemma. Una volta che questa sia divenuta più chiara ci soffermeremo, nella sezione successiva del capitolo, sulla desiderabilità intrinseca dei tre obiettivi in modo da offrire una disamina articolata della prospettiva offerta da The Globalization Paradox. L’idea di base di Rodrik risiede nel fatto che i mercati non sono entità che si auto-creano e/o auto-regolamentano. Piuttosto, come abbiamo già accennato nel capitolo precedente, questi poggiano su basi fortemente istituzionali. Gli esempi da portare sarebbero innumerevoli, ma basti pensare alla necessità, per il funzionamento (o quantomeno per il funzionamento comparativamente efficiente) di un qualsiasi tipo di mercato, dell’esistenza dei diritti di proprietà o di istituzioni legate alla giustizia civile che consentano di fare valere i contratti fra privati. Si potrebbe continuare a citare altri elementi di questo tipo, ma il punto centrale è senza ombra di dubbio che i mercati sono in larga misura istituzioni sociali non fenomeni naturali; sono, per dirla in gergo, ‘embedded’

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(inseriti) in un ampio sistema di regole (formali) e pratiche (informali) che gli consentono di esistere e funzionare. In questo senso, è facile rintracciare nel lavoro di Rodrik l’influenza della prospettiva istituzionalista. Infatti, è lo stesso Rodrik a ricordarci l’importanza delle istituzioni per permettere (o comunque facilitare) le transazioni legate a qualsiasi forma di scambio economico. Le parole di Rodrik stesso sono, come spesso accade, di grande impatto e chiarezza: Think of all the things that we take for granted that are absolutely essential for trade to take place. There must be some way—a marketplace, bazaar, trade fair, an electronic exchange—to bring the two parties to a transaction together. There must be a modicum of peace and security for them to engage in trade without risk to life and liberty or concern for theft. There must be a common language for the parties to understand each other. In any form of exchange other than barter, there must be a trusted medium of exchange (a currency). All the relevant attributes of the good or service being exchanged (for example, its durability and quality) must be fully observable. There must be sufficient trust between the two parties. The seller must have (and be able to demonstrate) clear property rights over the goods being sold and must have the ability to transfer these rights to the seller. Any contract that the two sides enter into must be enforceable in a court of law or through other arrangements. The parties must be able to take on future commitments (“I will pay you so much upon the delivery of . . . ”) and do so credibly. There must be protection against third parties trying to block the exchange or impede it. I could keep going, but the point is probably clear. (2011: 14-15) Se gli scambi economici richiedono istituzioni che riducano l’incertezza necessariamente a essi legata, la visione di Rodrik diviene assai più specifica nel segnalare il tipo di istituzioni che meglio si prestano a tale scopo in un sistema economico avanzato. Infatti, ci spiega Rodrik, se esistono vari tipi di meccanismi istituzionali, che come abbiamo avuto modo di discutere sempre nel secondo capitolo di questo volume, hanno caratteristiche fra essi assai diverse, a detta dell’economista, soltanto istituzioni formali con capacità di sanzionare coercitivamente coloro che ne violano le prescrizioni possono svolgere il ruolo di facilitare lo sviluppo di economie moderne: Repeated interaction and community norms work best when markets are mostly local and small scale, when people do not move around much, and when the goods and services traded are simple, standardized, and don’t have to travel over long distances. But as economies grow and geographical mobility increases, the need for clear and extensive rules and more



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reliable enforcement becomes paramount. The only countries that have managed to become rich under capitalism are those that have erected an extensive set of formal institutions that govern markets: tax systems that pay for public goods such as national defense and infrastructure, legal regimes that establish and protect property rights, courts that enforce contracts, police forces to sanction violators, bureaucrats who design and administer economic regulations, central banks that ensure monetary and financial stability, and so on. In the language of the economist, these are institutions of “third-party enforcement.” The rules of the game are enforced by a formal, typically governmental apparatus. You pay your taxes in part because you want better roads and schools, but I suspect you would pay a lot less if it weren’t for the tax collector. (2011: 15-16) Questo, per quanto riguarda l’impostazione di fondo adottata da Rodrik. La domanda successiva che viene naturale porsi è la seguente: come impatta una tale visione istituzionalista sulla comprensione dell’economia internazionale? Il primo punto fondamentale della transizione a una dimensione internazionale sta nel riconoscere che, viste le caratteristiche delle transazioni che costituiscono gli scambi economici internazionali (sia commerciali che finanziari), i loro ‘costi’ saranno strutturalmente più alti: If you and I are citizens of the same country, we operate under an identical set of legal rules and benefit from the public goods that our government provides. If we are citizens of different countries, none of this is necessarily true. There is no international entity that guarantees peace and safety, passes laws and enforces them, pays for public goods, or ensures economic stability and security. In view of the differences in culture and distances that separate nations, informal institutions such as reciprocity and norms typically do not induce much cooperation either. The market-supporting institutions that do exist are local and vary across nations. As a result, international trade and finance entail inherently higher transaction costs than domestic exchanges. (2011: 19, enfasi aggiunta) L’elemento fortemente paradossale di questa osservazione risiede proprio nel fatto che parte fondante del problema, ovvero della acuita difficoltà di scambio dovuta a costi di transazione più alti che si riscontrano nel contesto internazionale deve la sua origine, almeno in una certa misura, all’esistenza di quelle istituzioni nazionali che facilitano la gestione dei costi di transazione all’interno delle rispettive economie domestiche. Lo schema concettuale di Rodrik è, per un certo verso, di una immediatezza disarmante. Si parte dalla necessità di affrontare il problema dei costi di transazione. Il problema viene

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risolto tramite lo sviluppo di istituzioni locali di natura formale. Ma tali istituzioni locali sono assai differenti da paese a paese, e si vanno paradossalmente ad aggiungere a quelli che sono i costi di transazione legati agli scambi internazionali. La tensione che allora si riscontra è semplice da enunciare: mirare a una maggiore integrazione fra economie di diversi paesi significa per forza di cose tentare di rendere le istituzioni che creano e regolano i mercati di tali paesi quantomeno molto più omogenee di quanto esse non siano dato il modo cui di solito esse si sviluppano, e cioè evolvendo nel contesto specifico di una data comunità politica. La costruzione analitico-descrittiva dei trade-off che compongono il trilemma di Rodrik comincia, a questo punto, a delinearsi chiaramente in quello che potremmo definire il suo aspetto fondamentale: la tensione fra le differenze istituzionali a livello locale e l’integrazione economica globale. Se un qualsiasi tipo di sistema economico moderno richiede istituzioni formali condivise che ne regolino il funzionamento in maniera omogenea, allora, il principale ostacolo al crescere dell’integrazione economica globale risiede proprio nella diversità istituzionale a livello delle varie società politiche ‘locali’. Assumendo inoltre (ma la questione verrà discussa apertamente in seguito), che la fonte della diversità delle istituzioni che regolano i mercati delle differenti società politiche sia l’incedere situato delle decisioni democratiche a livello locale, si può completare il quadro di riferimento offerto dal trilemma. Infatti, se per ‘Stato forte’ intendiamo uno Stato che sia in grado di controllare le dinamiche economiche interne, e se inoltre sostituiamo l’idea di ‘globalizzazione economica’ con quella di omogeneizzazione delle istituzioni economiche locali, e se infine, come appena suggerito, intendiamo con la parola ‘democrazia’ rintracciare la fonte decisionale che determina la forma delle succitate istituzioni economiche locali, possiamo immediatamente comprendere le tensioni sviluppate da un tale trittico di concetti. Uno Stato forte che miri al contempo alla omogeneizzazione istituzionale globale in modo da favorire l’integrazione economica con il resto del mondo non potrebbe più tenere conto delle istanze democratiche interne ‘dal basso’ quando esse esprimessero preferenze contrarie all’obiettivo di omogeneizzazione. Se invece si volesse optare per una economia globale altamente integrata e allo stesso tempo cercare di mantenere il legame fra scelte democratiche e forme di governance economica, allora non si potrebbe che optare per una versione essa stessa globale della democrazia, con l’inevitabile risultato di far progressivamente scomparire lo Stato forte. Infine, se si scegliesse di mantenere uno Stato forte a carattere democratico, si dovrebbe rifiutare, almeno in parte, l’idea che si possa integrare in maniera perfetta l’economia globale visto che la diade ‘Stato forte’ più ‘democrazia’ non consentirebbe, a meno di miracolose coincidenze, di omogenizzare le istituzioni economiche dei vari paesi che partecipano all’economia mondiale.



2.

La ‘hyper-globalization’ e i suoi trade-off  97

Le basi ‘normative’ del trilemma

Sino a ora ci siamo limitati ad esporre il contenuto analitico del trilemma. Come chiosavamo qualche paragrafo orsono, va però ricordato che in assenza di una giustificazione della desiderabilità dei vari elementi che compongono la triade di obiettivi da ottenere, non si potrebbe parlare di vero e proprio trilemma. Inoltre, abbiamo suggerito che la natura di tale giustificazione dovrebbe essere normativa. Tale osservazione è invero non completamente innocente, o quantomeno trasparente. Infatti, se per ‘normativo’ intendiamo fare riferimento a un qualsiasi tipo di ragione che possa giustificare una data scelta pratica, allora, le ragioni di tipo economico legate, per esempio, all’efficienza, hanno carattere sicuramente normativo. È questo il caso della spiegazione che abbiamo offerto della desiderabilità dei vari elementi della ‘impossible trinity’. Se per normativo facciamo invece riferimento a un tipo di giustificazione di carattere morale, ossia in cui le ragioni per adottare una certa condotta (in questo caso, un certo obiettivo di policy) sono di carattere anch’esse morali, allora ragioni legate meramente alla logica economica, se possono senz’altro avere effetti moralmente importanti, non sono, ipso facto, ragioni normative. La complessità, e in parte il fascino, dello schema di Rodrik è che esso sembra accoppiare in modo elegante, anche se spesso implicito, questi due tipi di normatività. Il modo più efficace di procedere al fine di comprendere il carattere che potremmo definire doppiamente normativo del trilemma proposto dall’autore di Harvard parte, a nostro modo di vedere, da una descrizione leggermente differente dei termini di base da esso adottato. Nel gergo tradizionale del diritto internazionale, infatti, potremmo ridefinire il concetto di Stato forte tramite quello di autodeterminazione esterna, mentre potremmo sostituire all’idea di democrazia quella di autodeterminazione interna (si veda Cassese, 1995). Una volta operate queste due sostituzioni, se così possiamo chiamarle, sembra relativamente più agevole, almeno a prima vista, comprendere in modo generale il carattere normativo morale di due dei tre elementi fondanti del trilemma di Rodrik. Infatti, sia autodeterminazione interna che esterna sono considerate, nell’alveo della letteratura sull’etica internazionale, come principi che riposano per la loro giustificazione su ragioni morali importanti e fra esse intimamente connesse (si veda ad esempio Altman e Wellman, 2009). Non possiamo soffermarci qui su questo punto quanto lo meriterebbe (ma si veda Maffettone, 2020; Teson, 2016). Ci limiteremo quindi a offrire una caratterizzazione di base dei valori in gioco nel connubio fra autodeterminazione interna ed esterna, aggiungendo alcune osservazioni sulla versione specifica (anche se sovente implicita) che di tale connubio ci offre Rodrik. In genere, il concetto di autodeterminazione esterna di una comunità politica, quando esso non è inteso nel senso legale-descrittivo di sovranità nella comunità internazionale, si fonda sull’idea di autonomia politica collettiva. L’idea di autonomia politica collettiva può essere essa stessa in

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parte connessa, come da noi discusso nel primo capitolo di questo volume, alla protezione da influenze esterne delle scelte politiche fatte da una data società politica. La parte successiva del ragionamento riposa sulla seguente domanda: perché l’autonomia politica collettiva come sopra descritta dovrebbe essere moralmente desiderabile? E la risposta, almeno in un’ottica liberale, è che il motivo principale per proteggere da influenze esterne il processo politico interno di una data comunità risiede nel carattere stesso di tale processo, ovvero sul concetto di autodeterminazione interna. Quest’ultima viene spesso compresa come una visione specifica del rapporto fra un dato ‘popolo’ e le istituzioni politiche dal quale questi viene governato. Una società politica è ritenuta come internamente autodeterminantesi se le sue istituzioni principali, e quindi anche quelle che ne creano e regolano i mercati, sono nel complesso sotto il controllo dell’insieme dei suoi cittadini. Mettendo assieme le considerazioni che abbiamo appena offerto, possiamo dire che, in genere, si ritiene l’autodeterminazione esterna di una data comunità politica moralmente desiderabile nella misura in cui essa protegge un processo politico interno che abbia carattere rappresentativo – un processo politico che mostri i crismi dell’autodeterminazione interna. In questo schema concettuale, come si posiziona la visione di Rodrik? Lo fa, a nostro giudizio, operando delle scelte precise in merito ai tre aspetti fondamentali del rapporto fra autodeterminazione interna ed esterna. Esso offre altresì una visione specifica: a) dell’ ‘oggetto’ che merita di autodeterminarsi esternamente; b) del significato dell’autodeterminazione interna; e c) delle ragioni che giustificano l’autodeterminazione esterna. Procediamo con ordine. Chi abbia diritto ad autodeterminarsi esternamente è da sempre stata considerata la questione centrale, dalla risposta opaca e controversa, eppure imprescindibile, per comprendere la natura stessa del concetto di autodeterminazione esterna nel contesto del diritto internazionale e, più in generale, nell’intera teoria politica delle relazioni internazionali (si veda a tale proposito Anaya, 2004; Brown, 2002). La risposta di Rodrik, a nostro avviso largamente dettata dallo scopo della sua indagine, sta nell’affermare la centralità dell’autodeterminazione esterna degli Stati (e non, ad esempio, quella dei popoli, delle nazioni, o delle comunità indigene etc.). In aggiunta, l’autodeterminazione esterna come concepita da Rodrik in seno all’idea di Stato forte ha un chiaro legame con il concetto di sovranità, visto che egli non si limita a predicare forme di autonomia o indipendenza culturale, ammistrativa etc. ma, come abbiamo visto in parte discutendo la parte analitico-descrittiva del trilemma, poggia sull’assegnazione di una chiara autonomia giurisdizionale agli Stati. Passiamo quindi al secondo dei tre succitati elementi caratterizzanti della visione implicita nel trilemma, ossia l’equazione ‘autodeterminazione interna = democrazia’. Anche in questo caso, e forse è proprio questo l’assunto più discutibile nel trilemma di Rodrik, l’autore opera una scelta che, se sicuramente plausibile e financo diffusa e attraente, è tutt’altro che moralmente neutra o



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non controversa. Il motivo della nostra affermazione sta proprio nel modo in cui abbiamo definito, poche righe orsono, il concetto di autodeterminazione interna, legandolo al controllo da parte dei cittadini sulle loro istituzioni. Se da un lato non vi sia dubbio alcuno che il concetto di democrazia, almeno in condizioni relativamente idealizzate, rappresenti il modo moralmente più attraente per comprendere le condizioni dell’autodeterminazione interna, va detto che molti autori, anche di stampo liberale, vedono nella democrazia si la forma più alta, ma certamente non l’unica possibile, per caratterizzare il concetto di rappresentatività delle istituzioni politiche. Una tale visione è rintracciabile, ad esempio, nel concetto di ‘popolo decente’ come concepita da John Rawls (1999), o nell’analisi del concetto di autodeterminazione fatta da Charles Beitz (2009). Occupiamoci infine della terza componente che abbiamo segnalata come innovativa nell’alveo dell’analisi di Rodrik. Possiamo dire che proprio porgendo il nostro sguardo su di essa si può costatare il sovrapporsi dei due tipi di normatività che abbiamo brevemente delineato in precedenza. Infatti, se tradizionalmente si associa, come abbiamo appena discusso, alla autodeterminazione esterna una giustificazione legata alla autodeterminazione interna, la discussione di Rodrik poggia su due elementi ulteriori che vedono in essa qualcosa di moralmente e financo istituzionalmente desiderabile (o quantomeno da non demonizzare). Dal punto di vista morale, il contributo centrale alla giustificazione dell’autodetemrinazione esterna offerta da Rodrik sta nell’osservare due cose di fondamentale importanza a suo modo di vedere. La prima è che, ‘geneticamente’, i mercati non hanno capacità di auto-legittimarsi. La seconda è che uno dei compiti principali di uno stato democratico che intenda fornire le basi di una tale legittimazione sia proteggere i suoi cittadini dalle dislocazioni interne generate dai mercati locali stessi e in special modo dagli effetti delle dinamiche economiche internazionali. Dal punto di vista di quella che abbiamo denominato normatività economica, inoltre, lo Stato forte di Rodrik (quello che possiede una forte forma di capacità di autodeterminazione esterna) non rappresenta un reale problema in termini di efficienza. E questo anche tenendo presenti le ovvie variazioni della natura specifica delle istituzioni economiche fra diversi paesi che l’autodeterminazione esterna finirebbe con il generare. Detto altrimenti, Rodrik sembra rifiutare la logica secondo la quale si dia un set specifico o addirittura puramente univoco di istituzioni economiche interne a un paese che consenta uno sviluppo economico sostenuto. Al netto di quelle che possiamo definire caratteristiche strutturali condivise, come quelle che abbiamo citato nell’offrire una visione analitico-descrittiva del trilemma, tali linee guida sono compatibili con una grande varietà di contenuti: contenuti che sono pensabili come declinazioni particolari e fra loro assai diverse di principi strutturali generali. In sintesi, esistono diverse forme di soluzioni valide per costruire le basi istituzionali del funzionamento di un mercato efficiente. Per illustrare tale punto, a nostro modo di vedere, giova

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portare due esempi di approcci istituzionalisti che sembrano suggerire una medesima conclusione. In primo luogo, vale la pena di fare riferimento alla ricerca sulle cosiddette ‘varieties of capitalism’ condotta da Hall e Soskice (2001), per comprendere che non esiste una soluzione unica (e neppure ottimale) al ‘problema’ di dare regole che consentano a un’economia avanzata di funzionare. In secondo luogo, possiamo partire dalla definizione di ‘istituzioni economiche inclusive’ fornita da Acemoglu e Robinson (2013), alla quale abbiamo già accennato in precedenza, e mostrare come essa sia compatibile con più tipi di soluzioni istituzionali rispetto all’assetto di una economia di mercato. Acemoglu e Robinson definiscono le istituzioni economiche inclusive nel seguente modo: Inclusive economic institutions, such as those in South Korea or in the United States, are those that allow and encourage participation by the great mass of people in economic activities that make best use of their talents and skills and that enable individuals to make the choices they wish. To be inclusive, economic institutions must feature secure private property, an unbiased system of law, and a provision of public services that provides a level playing field in which people can exchange and contract; it also must permit the entry of new businesses and allow people to choose their careers.” (2013: 74-75). Dando per scontato, vista la posizione di Rodrik sulla importanza delle istituzioni politiche democratiche (e quindi la sintonia fra Rodrik e Acemoglu e Robinson sulla rilevanza di istituzioni politiche che, come quelle democratiche, sono in genere inclusive e non estrattive) possiamo chiederci quanta diversità sia compatibile con la definizione di istituzioni economiche inclusive. E la risposta che ci sembra intuitivamente corretta è che tale definizione sia conciliabile con un’ampia variazione negli assetti specifici di un’economia di mercato. Diritti di proprietà relativamente stabili, servizi o beni pubblici che attenuino imperfezioni di mercato e consentano un’equa opportunità di partecipare alla vita economica, un sistema giudiziario che non sia corrotto, barriere di entrata per chi decida di creare un nuovo business che non siano eccessivamente alte, e la possibilità di scegliersi la propria occupazione ci sembrano compatibili con qualsiasi tipo di concezione ‘mista’ dell’economia di mercato. Al lettore attento non sarà sfuggito il fatto che sin qui non abbiamo fatto cenno al concetto di globalizzazione economica. Anche questo concetto, però, deve poter trovare un qualche spazio all’interno della visione di Rodrik, pena la decadenza dell’idea stessa di trilemma. E, nel caso specifico, possiamo tranquillamente dire che la visione di Rodrik si fa più critica, anche se, nel complesso, non la si può di certo definire come ostile, alla integrazione economica mondiale. In un certo qual senso, la posizione di Rodrik in merito a quest’ultima, assomiglia molto a quella che potremmo definire un ottimismo

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moderato nei confronti dei meriti della globalizzazione economica. In realtà a noi pare che sia il giudizio generale della professione economica nel suo complesso che rischia di far sembrare la visione di Rodrik come negativa, quando, in effetti, essa è semplicemente molto più cauta della media nei suoi apprezzamenti della globalizzazione e molto più aperta nel sostenere che essa porta con se dei problemi. L’idea di fondo portata avanti da molti economisti è che la crescente integrazione economica mondiale sia fortemente positiva per i motivi tradizionali che ci insegna la teoria economica neoclassica, e cioè quelli legati alla crescita di efficienza dovuta a una migliore allocazione dei fattori di produzione come capitale e lavoro, allo sfruttamento di vantaggi comparati fra diverse economie, ma anche alle esternailtà positive dovute alla circolazione dell’innovazione, oppure agli effetti legati a ritorni crescenti su scala consentiti dalla presenza di mercati di esportazione più ampi. La componente distintiva dell’approccio di Rodrik sta nel fatto che, senza negare gli aspetti positivi della globalizzazione, egli ne enfatizzi anche i problemi. In primo luogo, come abbiamo avuto modo di spiegare in queste pagine, la pressione verso l’omogeneizzazione delle istituzioni nazionali, in secondo luogo, i loro effetti distributivi, e infine, per quello che concerne i mercati finanziari, il loro ruolo destabilizzante, soprattutto rispetto alle economie in via di sviluppo o emergenti. TABELLA 3.1:  I due ‘trilemma’ a confronto Impossible Trinty

Trilemma di Rodrik

I tre obbiettivi non-concilabili

A: stabilità dei cambi B: politica monetaria autonoma C: libera circolazione dei capitali

A: perfetta integrazione economica mondiale B: Stato forte C: democrazia interna

La desiderabilità degli obbiettivi

A: incentivo agli investimenti B: politiche contro-cicliche C: migliore allocazione del capitale finanziario

A: contributo allo sviluppo economico B: diversità istituzionale C: accountability delle decisioni economiche

Esempi di possibili soluzioni

A + B: China A + C: Euro (internamente) B + C: USA

A + B = regime vigente/pressione verso la ‘hyper-globalization’

Gli aspetti morali

N/A.

B + C = regime di Bretton Woods A: possibile contributo allo sviluppo dei paesi emergenti B: legittimazione dei mercati come protezione dei ‘perdenti’ C: valore intriseco dell’autonomia politica intesa come democrazia

Fonte: elaborazione dell’autore.

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Ci sembra doveroso, a questo punto, proporre una sintesi complessiva dell’argomento che soggiace al trilemma della governance economica globale (si veda anche la tabelle 3.1). Tale sintesi verrà poi seguita, nelle due sezioni successive del capitolo da due esempi concreti che ne faranno risaltare gli aspetti fondamentali. La visione di fondo che ci viene proposta è improntata a quello che potremmo chiamare uno squilibrio crescente nelle scelte di policy economica degli ultimi quattro decenni, a favore della integrazione economica globale. Come vedremo fra poco, tale squilibrio può essere concretamente illustrato dalla natura cangiante degli accordi commerciali internazionali e da fenomeni come la tax competition. Nel complesso, però, la cosa che sembra essere importante sottolineare è che, parafrasando il linguaggio utilizzato nelle analisi costi-benefici, tale entusiasmo a favore della globalizzazione economica sia stato spesso motivato, a voler pensar bene, dalla mancanza di comprensione nei confronti dei rischi e dei problemi che essa porta con se, e quindi da una visione che di tale integrazione vede i benefici ma tende ad ignorarne i costi. I rischi e problemi legati alla globalizzazione economica sono sicuramente connessi alla natura stessa dei processi economici per come questi vengono concepiti nella visione istituzionalista e, potremmo aggiungere pluralista, che ci propone Rodrik. Primo fra tutti, il rischio di voler adottare un modello unico di economia di mercato, con un unico sistema di istituzioni a suo supporto, e così facendo propugnando un approccio monolitico allo sviluppo. In secondo luogo, e data la natura filosofico politica del nostro approccio alle questioni trattate, ci preme sottolineare i rischi morali, se così essi possono essere definiti, di una pressione verso l’omogeneizzazione delle istituzioni economiche ‘locali’: la diminuita capacità degli stati di proteggere i propri cittadini dagli effetti delle dinamiche di mercato, spesso accompagnata dalla riduzione della capacità dei cittadini di controllare le ‘regole del gioco’ economico nei loro rispettivi paesi. In sintesi, la proposta normativa di carattere morale che Rodrik avanza è quella di levare decisamente il piede dall’acceleratore della globalizzazione economica, di farlo si con cautela, ma coscienti dei valori che soggiacciono alla difesa di uno Stato esternamente autonomo, e internamente democratico. Che la ‘hyper-globalization’ comporti dei rischi dovrebbe essere, a nostro modo di vedere, evidente. Il fatto che non lo sia per molti ci lascia spesso stupiti (e, nei giorni di minore ottimismo ci spinge a pensar male). Detto questo, nelle prossime due sezioni del capitolo, cercheremo di illustrare concretamente cosa si ‘rischia’ se, per restare in metafora automobilistica, si spinge sull’acceleratore della integrezione economica globale.



3.

La ‘hyper-globalization’ e i suoi trade-off  103

Giustizia politica, auto-determinazione e accordi commerciali

Come abbiamo sostenuto nella sezione precedente di questo capitolo, vi è un forte legame fra globalizzazione economica e una pressione verso la omogeneizzazione delle istituzioni che regolano i mercati a livello locale. Inoltre, è bene ricordarlo, tale pressione deve, in qualche maniera, essere considerata un vulnus per l’idea di autonomia politica collettiva, idea questa che, come spiegato nel primo capitolo di questo volume, è sicuramente centrale per una concezione attraente di giustizia politica. Il motivo di questa conclusione è semplice. Infatti, come abbiamo avuto modo di sostenere in precedenza, proprio l’assenza di eccessive pressioni esterne sulle scelte democratiche deve essere concepita come una delle precondizioni per usufruire di una reale, anziché formale, autonomia politica. Sino ad ora, però, non abbiamo avuto modo di illustrare concretamente il modo in cui il tipo specifico di globalizzazione economica recentemente emerso come obiettivo di policy condiviso da molti governi liberal democratici occidentali possa mettere in crisi l’autonomia politica collettiva dei cittadini di uno stato. Detto altrimenti, come si è andato a generare il progressivo attenuamento dell’idea stessa di controllo democratico sulla governance economica locale? L’esempio che intendiamo fornire riguarda gli accordi commerciali internazionali. L’evoluzione della natura di tali accordi dal secondo dopoguerra a oggi è un tema affascinante che meriterebbe senza dubbio maggiore approfondimento e spazio di quelli che possiamo dedicargli in questo volume (si veda a questo proposito O’Brien & Williams, 2016: 86-124; Hoekman e Costecki, 2009; Hoekman e Nelson, 2018; Hoekman e Sabel, 2019). Comprimendo in maniera assai forte le tematiche esplorate dalla ‘political economy of international trade’, possiamo affermare che la principale evoluzione legata alla natura degli accordi commerciali negli ultimi decenni è il passaggio da un’agenda di cosiddetta ‘shallow integration’ a una di cosiddetta ‘deep integration’. In altri termini, il passaggio progressivo dalla preoccupazione per la riduzione delle ‘border measures’ come i dazi, a una maggiore attenzione nei confronti delle differenze regolatorie che si frappongono fra due paesi o blocchi di paesi e che impediscono loro di integrarsi economicamente, ovvero quelle che vengono spesso chiamate ‘non-tariff measures’. La distinzione fra i due tipi di policy agenda viene spiegata in maniera assai efficace in un classico della letteratura sul tema The Political Economy of the World Trading System di Bernard Hoekman e Michel Kostecki (2001). I due autori la descrivono nel modo seguente: Starting with the Kenney Round, MTNs [multilateral trade negotiations] began to focus on domestic regulatory policies and administrative procedures that have an impact on trade. This trend shows no sign of

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abating. Possible topics for post-Uruguay Round negotiations include subjects such as competition law, labor standards, environmental policy, and FDI regulations. The focus of the GATT was largely limited to the reduction or abolition of discrimination against foreign products or producers. The approach was one of negative or shallow integration: agreement not to do specific things (for example, raise tariffs above bound levels, use indirect taxes to discriminate against foreign products, or use QRs [quantity restrictions]) or to do things in a certain way if a government decided to pursue a policy (for example, undertake an injury investigation as part of an AD [antidumping] or CVD [countervailing duty] action). This approach is more difficult to use to address differences in domestic regulatory regimes. Positive or deep integration may be required: agreement to pursue common policies, to harmonize (…). (2001: 413). Anche tenendo a mente il notevole lasso di tempo trascorso dall’analisi proposta nella citazione di Hoekman e Kostecki, e di un progressivo stallo delle negoziazioni plurilaterali designate con il nome di ‘Doha Round’ a favore di una crescente proliferazione di accordi bilaterali e fra blocchi, la differenza fra i due tipi di policy agenda è rimasta largamente intatta. In tale quadro (adottiamo qui una prospettiva specifica sul trilemma) la ‘hyper-globalization’ si inserisce come forza di pressione verso una omogeneizzazione delle regole di base dei vari mercati nazionali. Detto altrimenti, la ‘hyperglobalization’ consiste non in un semplice tentativo di ridurre le barriere esterne all’integrazione economica (come, ad esempio, gli strumenti di politica industriale legati all’imposizioni di restrizioni protezionistiche quali sono i dazi, o le quote di importazioni consentite, oppure come i famosi ‘voluntary export restraints’) ma bensì nel più complesso e controverso obiettivo di ridurre le disomogeneità interne fra le regole che strutturano le diverse soluzioni adottate a livello locale come cemento dei diversi sistemi economici nazionali. Questo è un punto importante che vale la pena di sottolineare. Al netto della prosa, invero assai flemmatica, di Hoekman e Kostecki, ci sembra chiaro che, ad esempio, omogeneizzare la regolamentazione del lavoro, piuttosto che la competition policy, o le regole che proteggono l’ambiente e il territorio, sono scelte che hanno un impatto di gran lunga superiore, da un punto di vista politico, rispetto alle decisioni legate alle cosiddette border measures. Per far comprendere tale differenza, proponiamo un esperimento mentale, certamente poco fantasioso e non troppo audace, e pensiamo a un tema come quello che di recente ha dominato le discussioni politico-economiche nel contesto italiano, e cioè il tema dell’Ilva di Taranto. Un governo che dovesse perseguire una certa visione della ‘deep integration’ sarebbe obbligato, qualora venisse chiamato a risolvere un problema simile a quello posto dall’Ilva, a



La ‘hyper-globalization’ e i suoi trade-off  105

tenere in considerazione come tale soluzione impatta su regole condivise visto che ci sembra chiaro che essa (la soluzione adottata) ponga problemi di rispetto del territorio e dell’ambiente, di sicurezza sul lavoro, e di competition policy (data una possibile massiccia iniezione di capitali pubblici). Come le regole Europee impatteranno sul caso Ilva esula dai nostri scopi specifici in questo capitlo del volume, ma il fatto che sia un set di regole ‘esterne’ a un dato paese e alle sue circostanze specifiche a dettare la possibile agenda di risoluzione di una questione tanto delicata non ci sembra politicamente e moralmente irrilevante. Infine, anche se non è menzionata dai due autori come esempio di deep integration (il motivo è che essi ritengono l’argomento di tale importanza da meritare un trattamento a sé stante), il perseguimento di policy comuni tocca anche aree come quella dei diritti di proprietà intellettuale, con un conseguente impatto su temi quali l’accesso ai medicinali nei paesi in via di sviluppo, e più in generale il bilanciamento fra incentivi alla innovazione e costi per i consumatori della concessione di quelli che sono di fatto monopoli temporanei. È lo stesso Rodrik a fornire una chiarissima disamina delle differenze di natura qualitativa che sono emerse negli ultimi decenni a tale proposito: To illustrate the changing nature of trade agreements, compare US trade agreements with two small nations, Israel and Singapore, signed two decades apart. The US–Israel Free Trade Agreement, which went into force in 1985, was the first bilateral trade agreement the US concluded in the postwar period. It is quite a short agreement—less than 8,000 words in length. It contains 22 articles and three annexes, the bulk of which are devoted to free-trade issues such as tariffs, agricultural restrictions, import licensing, and rules of origin. The US– Singapore Free Trade Agreement went into effect in 2004 and is nearly ten times as long, taking up 70,000 words. It contains 20 chapters (each with many articles), more than a dozen annexes, and multiple side letters. Of its 20 chapters, only seven cover conventional trade topics. Other chapters deal with behind-the-border topics such anti-competitive business conduct, electronic commerce, labor, the environment, investment rules, financial services, and intellectual property rights. Intellectual property rights take up a third of a page (and 81 words) in the US– Israel agreement. They occupy 23 pages (and 8,737 words) plus two side letters in the US–Singapore agreement. (2018: 75) Al lettore più esperto verrà sicuramente da chiosare che lo spazio di manovra delle economie avanzate, anche di quelle europee, rimane cospicuo, e questo rimane vero anche tenendo in considerazione gli effetti dell’agenda di deep integration che è stata perseguita negli ultimi decenni. È questo sicuramente un altro dei grandi temi che popolano la letteratura sulla political economy

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del commercio internazionale. Ciò detto, e senza voler negare la veridicità del commento del nostro ipotetico lettore, riteniamo che la sua affermazione non colga fino in fondo il punto che si è cercato di argomentare. La questione, in sostanza, non riguarda esclusivamente la quantità di spazio di manovra a disposizione dei singoli paesi vista staticamente, ma piuttosto la direzione di marcia che abbiamo potuto osservare dagli anni ottanta in poi. Espressioni come ‘tanto spazio di manovra’ sembrano intuitivamente e financo intrinsecamente comparative: tanto rispetto a cosa? E se il benchamrk adottato è di natura temporale, ovvero se il riferimento è al passato recente del sistema del commercio internazionale emerso dalla seconda guerra mondiale sotto l’egida della prima versione del GATT (general agreement on tariffs and trade), allora possiamo serenamente rispondere ‘meno’. In sintesi, se non è del tutto facile stabilire quanto spazio di policy tali accordi continuino a concedere ai paesi che li sottoscrivono, si può certamente dire che questi (gli accordi) limitino la loro capacità di provare politiche industriali più radicali e impattino fortemente sulla natura del sistema economico che vanno a regolamentare. Se non eliminato, il cosiddetto ‘policy space’, nel contesto della ‘deep integration’, va a ridursi progressivamente. Questa riduzione progressiva del policy space non può non incidere, per definizione, sulla autodeterminazione esterna degli stati che la ‘subiscono’, e con essa, non può non attenuarsi la capacità dei cittadini di controllare aspetti centrali della governance economica del loro paese. Ovviamente, si potrebbe obiettare che tale diminuzione non viene propriamente subita, ma scelta, e, di fatto, scelta da governi che hanno i crismi della rappresentatività. Questa osservazione è senza dubbio da tenere presente, ma, a nostro modo di vedere, mostra tutti i limiti dell’equazione ‘sistema democratico = sistema rappresentativo’. Non ci soffermeremo sulla crisi di efficacia e rappresentatività delle istituzioni democratiche nel mondo reale (ma si veda Achen e Bartels, 2016), tema al quale abbiamo accennato nel primo capitolo di questo volume. Piuttosto, ci limiteremo ad affermare che non ci sembra peregrino pensare che in un clima epistemico in cui le élites di un paese non percepiscano i rischi connessi alla ‘hyper-globalization’ e in cui i cittadini sono poco informati e si sentono sempre più distanti dai loro rappresentanti, le scelte istituzionali riguardanti il commercio internazionale, avvenute nell’arco di decenni, sembrano eludere nella sostanza il carattere rappresentativo che sicuramente hanno nella forma. Lo stesso tipo di ragionamento deve essere fatto valere, a nostro avviso, anche per quanto riguarda il secondo esempio concreto dei rischi della integrazione economica globale che intendiamo proporre in questo capitolo del volume, ossia quello legato alla liberalizzazione della circolazione del capitale finanziario e del fenomeno della cosiddetta tax competition.



4.

La ‘hyper-globalization’ e i suoi trade-off  107

Giustizia distributiva e interdipendenza fiscale

Se, come abbiamo appena avuto modo di illustrare, l’evoluzione della natura del commercio internazionale negli ultimi decenni mette pressione sull’autonomia politica degli Stati, e quindi può essere facilmente connessa con l’idea di giustizia politica, la liberalizzazione della circolazione del capitale finanziario e la tax competition ci riportano immediatamente nell’alveo della giustizia distributiva. Naturalmente, la nostra distinzione, se intesa come netta, risulterebbe artificiale: elementi dell’agenda di deep integration come la competition policy impattano la giustizia distributiva non solo l’autonomia politica, e la tax competition pone un problema di giustizia politica non solo di autonomia fiscale e quindi di giustizia distributiva. Va quindi intesa la nostra distinzione come largamente euristica, e non pienamente analitica. La libera circolazione dei capitali finanziari è stata oggetto, in anni recenti, di moltissime analisi (si veda ad esempio Ahrend, Goujard e Schwellnus, 2012). Uno dei problemi principali evidenziati è stato sicuramente la propensione di quest’ultima a generare crisi finanziarie, sia nei paesi emergenti che, come ci ha mostrato la Grande Recessione, nei mercati avanzati (per un’analisi si veda Reinhart e Rogoff, 2009). Dal punto di vista filosofico politico, i problemi principali connessi alla correlazione fra libera circolazione dei capitali e crisi finanziarie è, in ultima analisi, chi sia veramene a pagarne i costi (James, 2012; Wollner, 2014). Un altro problema morale legato alla finanza internazionale è quello del debito pubblico degli Stati e il trade-off che sembra esistere fra capacità di finanziarsi emettendo debito sui mercati internazionali e accountability democratica: in sintesi, il passaggio dalla disciplina degli elettorati a quella dei compratori di debito, spesso anche stranieri (si veda Dietsch, 2016: 236-253). Infine, ed è precisamente questo il punto che ci piacerebbe illustrare, si è fatto notare come la libera circolazione del capitale finanziario, in connubio con un regime regolatorio lasco e mal disegnato, abbia generato fenomeni leciti di tax competition ed elusione fiscale, e illeciti di vera e propria evasione fiscale transnazionale (si veda Clemente, Blair e Troken, 2016; Zucman, 2015; Sinn, 1990). Il punto di partenza intellettuale della nostra analisi di uno dei problemi morali principali connesso alla libera circolazione dei capitali è senza dubbio il lavoro di Peter Dietsch in Catcthing Capital: The Ethics of Tax Competition (2015; si veda anche Dietsch e Rixen, 2014). Il ragionamento di Dietsch è relativamente semplice. Qualsiasi Stato ha bisogno di tassare i suoi cittadini per ottemperare ai suoi doveri principali, ovvero, compiti come la creazione di beni pubblici, la capacità di gestire le fasi critiche dei cicli economici, e, cosa non meno importante, la possibilità di implementare una specifica concezione della giustizia distributiva. Ci concentreremo, per ovvi motivi legati alla nostra impostazione filosofico politica, su quest’ultimo compito. Compito al quale, ci piace

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sottolinearelo, un qualsiasi Stato liberal democratico dovrebbe poter assolvere. Anche se, come abbiamo argomentato nel primo capitolo di questo volume, non ci sembra corretto assimilare la giustizia distributiva alla semplice allocazione di risorse economiche, non vi è dubbio che tali risorse siano importanti, e che la tassazione sia uno strumento centrale posseduto da uno Stato moderno per implementare diverse forme di concezioni della giustizia distributiva. Partendo da una semplice distinzione fra il livello di tassazione e la distribuzione del carico fiscale fra gruppi diversi di attori (sia individuali che collettivi), si può notare che, assumendo la costanza del primo, sarà la seconda a determinare gli elementi (re-)distributivi di un dato sistema fiscale. E tali sistemi, ci permettiamo di osservare, in linea con il concetto di prioritarianesimo, sono quasi unanimemente ispirati a principi di progressività; progressività molto spesso interpretata come variare della pressione fiscale (in percentuale) sugli attori economici con il variare delle loro capacità di generare reddito o con la quantità di ricchezza posseduta. La tassazione progressiva, così come l’abbiamo definita, e che secondo molti autorevoli interpreti in Italia assurge a principio di valenza costituzionale, significa semplicemente che coloro che stanno meglio economicamente debbono pagare una quota proporzionalmente maggiore di tasse sulle loro entrate (e in una certa misura sulla loro ricchezza), almeno per quanto riguarda gli elementi centrali che compongono il sistema fiscale stesso. Ovviamente, il carattere progressivo di un sistema fiscale va visto nel suo insieme, dato che non tutte le forme di tassazione sono, se prese singolarmente progressive: basti pensare alle tasse come l’IVA sui beni di largo consumo (per intenderci: il panino al bar, il detersivo al supermercato etc.). Nel complesso, però, la maggior parte degli stati liberal democratici hanno mantenuto fermo il principio, almeno de jure, che il complesso del carico fiscale debba essere sopportato, se cosi si può dire, in maniera sproporzionata da coloro che stanno economicamente meglio. Come si inserisce la tax competition in questo brevissimo quadro analitico? La questione è anch’essa relativamente immediata da dipanare. La tax competition è basata sul concetto della interdipendenza della base imponibile a disposizione dei vari Stati: detto semplicemente, sull’idea che le ‘mie’ politiche sulla tassazione andranno ad influenzare le ‘tua’ base imponibile. E questo avverrà, ci spiega Dietsch, in maniera tutt’altro che neutra rispetto alla composizione della base imponibile in questione. Infatti, se riconduciamo la nostra analisi al concetto di libera circolazione dei capitali finanziari, saranno proprio questi ultimi, data la loro possibilità di spostarsi rapidamente che tenderanno a divenire più difficili da tassare. E con essi coloro che li controllano e da essi traggono profitto e/o reddito. Dagli introiti e profitti delle grandi multinazionali, alle decisioni sulla localizzazione degli investimenti esteri diretti (il cosiddetto ‘FDI’), passando per la localizzazione (nel senso giurisdizionale)

La ‘hyper-globalization’ e i suoi trade-off  109



della ricchezza degli individui più abbienti, la globalizzazione finanziaria ha permesso a fette specifiche degli attori economici dei paesi avanzati di eludere, evadere, o semplicemente di spostare le loro attività (e quindi la giurisdizione dove queste verranno tassate) in luoghi dove il loro trattamento fiscale (il carico fiscale che su queste grava) è considerevolmente più leggero. La portata di tale fenomeno non va sottovalutata, visto che studi recenti (si veda la figura 3.3) ne hanno evidenziato l’ampiezza quantitativa. TABELLA 3.2:  Capitale offshore e ‘perdite’ fiscali Offshore wealth ($ bn)

Share of financial wealth held offshore

Tax revenue loss ($ bn)

Europe

2,600

10%

78

United States

1,200

4%

35

Asia

1,300

4%

34

Latin America

700

22%

21

Africa

500

30%

14

Canada

300

9%

6

Russia

200

52%

1

Gulf Countries

800

57%

0

7,600

8%

190

Total

Fonte: Zucman, (2015).

Senza voler entrare eccessivamente nei meandri di una problematica dal sicuro fascino empirico e analitico, ci si può porre la seguente domanda. Se diamo per scontato il desiderio (o l’esigenza) di mantenere uno stesso livello di introiti pubblici dovuti alla tassazione, che cosa accadrà al variare della composizione della base imponibile di un dato paese? E la risposta più intuitiva è che dovrà per forza di cose essere rivista la distribuzione del carico fiscale. Se poi tale variazione della composizione della base imponibile all’interno di un dato sistema fiscale riguardasse esplicitamente attori economici e singoli individui che, almeno da un punto di vista generale, sono facilmente assimilabili a coloro che controllano più reddito e ricchezza all’interno di un dato paese, non è peregrino concludere che la redistribuzione del carico fiscale, tenendo fissa la revenue totale, dovrà essere spostata su quei fattori di produzione e quegli attori che non hanno ‘putroppo’ la possibilità di spostarsi in giurisdizioni differenti. In larga misura questo significa aumentare la pressione fiscale sul

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lavoro e il livello medio di tassazione sui consumi. E non vi è dubbio alcuno che una tale direzione di marcia vada in quella opposta a quella che un sistema fiscale complessivamente progressivo debba mirare a mantenere. A questo punto vale la pena di citare direttamente il lavoro di Dietsch: In a nutshell, (…) [tax competition] puts downward pressure on tax rates on mobile capital, thereby squeezing government revenues, and it tends to result in more regressive fiscal regimes, which are not necessarily in line with citizens’ democratic preferences concerning the level of redistribution. (…) [States] have broadened the tax base, mainly by shifting the burden to the relatively immobile factors of consumption and labour, and have thus been able to prevent a significant loss of revenue. However, this fiscal policy response has a regressive effect. It shifts the tax burden from capital to labour, from direct taxation on revenue to indirect taxation on consumption, and from high incomes to low incomes. The renewed surge in inequality in OECD countries, while certainly due to a multitude of factors, corroborates this analysis. One way to assess this development, then, is to say that OECD countries have bought fiscal stability in terms of revenue at the cost of a less redistributive system. (2015: 47-48). Inoltre, continua Dietsch, I problemi generati dalla tax competition non si limitano a quelli che potremmo chiamare i loro effetti diretti, e regressivi, sulla distribuzione del carico fiscale in un dato paese. Indirettamente, assumono un’importanza considerevole effetti collaterali sulla spesa pubblica se si rilassa la nostra assunzione di partenza che vedeva il fenomeno della tax competition come neutrale rispetto alla revenue totale. Anche in questo caso, gli effetti sono regressivi. E questo sia perché, in genere, l’intervento statale ‘corregge verso il basso’ (in altri termini a favore dei più deboli) i risultati distributivi delle dinamiche di mercato, sia perché in genere l’intensità di utilizzo dei beni e servizi forniti dallo stato, se li si prende nel loro complesso, è fortemente influnzata dalla posizione socio-economica (i ‘ricchi’ li usano di meno, per intenderci). Ancora una volta vale la pena riportare le parole di Dietsch su questo tema: The losses tax competition imposes on some members of society, mostly on those who do not own capital, cannot be captured by income considerations alone. Both in the developed and in the developing world, the effect of shifting the tax burden away from mobile factors such as capital to relatively immobile factors such as labour and consumption also has implications in other dimensions of social justice. Two of these are worth highlighting. First, tax competition not only has a direct effect on the income distribution via its tendency to usher in more regressive fiscal policies, but it also has an indirect effect via the pressure it puts



La ‘hyper-globalization’ e i suoi trade-off  111

on government expenditure. To the extent that governments suffer revenue losses (…), cutbacks in government programmes will affect the opportunity sets that different members of society face. In particular, if the equalizing effect of spending on health and education is compromised, this not only has knock-on effects for the distribution of income but, more importantly, it constitutes an injustice in its own right. (…) Second, tax competition affects the distribution of employment, another important dimension of social justice.” (2015: 51-52). Having a job is not merely a means to earn an income; it is also an important source of self-respect. (2015: 51-52). Infine, se la tax competition colpisce direttamente il sistema di tassazione può anche influenzare (e ovviamente lo fa) il mercato del lavoro, tramite l’incentivazione di fenomeni di delocalizzazione delle attività produttive dovuto ai differenziali di tassazione sui profitti. In questo senso, la mobilità del capitale contribuisce ad affievolire la capacità dei singoli stati di assicurare contesti occupazionali stabili. Ci preme a questo punto sottolineare come l’analisi di Dietsch, presa nel suo complesso, mostri un livello di altissima coerenza con la nostra visione della giustizia distributiva. Detto altrimenti, le conseguenze della ‘hyper-globalization’, e in questo caso dei suoi aspetti finanziari, violano chiaramente l’impostazione delle scelte istituzionali nel campo economico a favore di coloro che stanno relativamente peggio (elemento che va in direzione opposta all’intuizione principale del prioritarianesimo). E lo fa non solo deprivandoli di risorse economcihe tradizionali e cioè diminuendo le capacità redistributive dello stato, ma anche diminuendo un elemento chiave della nostra visione, e cioè l’accesso a buoni lavori. Cerchiamo di tirare le fila dell’esempio che abbiamo appena portato discutendo di uno dei problemi centrali legato alla libera circolazione dei capitali finanziari. In primo luogo, giova ricordare come la libera circolazione dei capitali finanziari sia uno degli elementi, o pilastri, fondamentali della nozione di ‘hyper-globalization’ che abbiamo trattato nelle sezioni precedenti e nel contesto del trilemma proposto da Rodrik. Se, infatti, l’evoluzione della natura degli accordi commerciali è spesso considerata come importante per comprendere la diminuzione progressiva dello spazio di manovra degli stati per quanto riguarda le loro policy economiche, non vi è dubbio che la integrazione dei mercati finanziari ne costituisca un altro elemento centrale. La libera circolazione del capitale è, in questo senso, un esempio lampante dell’affievolirsi del controllo degli Stati su aspetti fondamentali delle loro istituzioni economiche. Nello specifico, abbiamo messo in relazione tale integrazione con la capacità degli Stati di stabilire autonomamente i contorni delle loro politiche di tassazione, intese quest’ultime come distribuzione del carico fiscale fra vari gruppi della

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popolazione. Tale mancanza di controllo sulla distribuzione del carico fiscale ha, ipso facto, implicazioni importanti a prescindere dalla forma specifica che assume: si tratta in tutti i casi di una forma di perdita di autonomia politica da parte dei cittadini. Se però consideriamo la forma specifica che tale perdita di autonomia politica va ad assumere allora possiamo dire che la succitata perdita viene aggravata dal fatto che i suoi effetti sono contrari all’idea di giustizia distributiva che abbiamo illustrato nel primo capitolo del volume: essa ha chiaramente caratteristiche regressive, visto che sposta il carico fiscale dal capitale verso lavoro e consumo. Inoltre, tale fenomeno ha anche conseguenze indirette anch’esse regressive.

5.

Un excursus: l’integrazioe economica e il conflitto fra efficienza ed equità

In questa parte finale del capitolo ci dedicheremo a uno scopo che riteniamo importante: quello di rispondere a un’obiezione, basata sul concetto di efficienza, del nostro ragionamento complessivo in questa parte dello scritto. Cominciamo quindi dal concetto di efficienza e cerchiamo di comprendere perché, proprio su di esso, si fonda spesso un certo scetticismo, almeno da parte di molti esperti della materia, rispetto alle critiche che abbiamo portato avanti nei confronti della hyper-globalization. Ovviamente sarebbe concettualmente sbagliato ridurre l’hyper-globalization a puro fenomeno di integrazione superficiale fra mercati. Detto questo, ci sembra naturale occuparci della seconda, e di farlo in termini di efficienza, perché in molti casi è proprio il richiamo all’efficienza generata dall’integrazione economica (intesa come ‘shallow integration’) che costituisce l’ultimo bastione della difesa politica della hyper-globalization. Inoltre, in quanto segue, assumeremo che si dia un qualche tipo di trade-off fra efficienza ed equità, e cioè metteremo da parte la famosa obiezione di Le Grand (1990) che giudica tale trade-off non facilmente rintracciabile dato che per efficienza si può benissimo intendere il raggiungimento di un qualsiasi tipo di scopo (e quindi anche di uno scopo valoriale) nel modo ‘meno costoso’ possibile. In quanto segue ci interesseremo a quello che possiamo definire il ‘caso paradigmatico’ nel quale si osserva il potenziale conflitto, o ‘trade-off’ per dirla con Okun (1975/2015), fra efficienza ed equità, ovvero nella comprensione degli effetti previsti dai modelli economici di base dell’integrazione economica in termini di efficienza e distributivi. Detto altrimenti, la nostra analisi sarà sbilanciata a favore di una versione in cui il potenziale trade-off fra efficienza ed equità viene trattato in un caso specifico dovuto da un tipo di fenomeno specifico. Il motivo per procedere in questo modo è di natura relativa alla chiarezza espositiva, e ci affidiamo al lettore per trarre conclusioni che, mutatis mutandis, si possano applicare altrove.



La ‘hyper-globalization’ e i suoi trade-off  113

Come abbiamo suggerito nel primo capitolo, si può chiaramente pensare che l’efficienza non sia un valore assoluto e che, come d’altronde fa il prioritarianesimo, si debba tenere conto degli aspetti distributivi di una politica pubblica (si veda Sen, 1987; Buchanan, 1985; Hausman e McPherson, 2010: 135-156; Dietsch, 2016: 127-166). Se questa tesi rimane certamente in piedi dal punto di vista morale, essa però non ci aiuta a comprendere bene due problemi specifici. Il primo concerne quali siano i limiti intrinseci al concetto di efficienza dal punto di vista della sua capacità di generare conclusioni normative moralmente attraenti in astratto (a tale proposito si veda ancora Le Grand, 1990; e soprattutto Buchanan, 1985), mentre il secondo si riferisce alla valenza del concetto di efficienza nel contesto dei modelli economici di base del commercio internazionale (si veda Driskill, 2012; Lepenies, 2015). Partiamo quindi dalla definizione stessa dell’idea e segnaliamo che si possono dare almeno due concetti di efficienza, e due criteri per comparare (nel senso di giudicare comparativamente) stati di cose in termini di efficienza. Semplificando drasticamente, si distingue infatti spesso fra efficienza produttiva e allocativa (mettendo quindi da parte il concetto di efficienza dinamica), e, specialmente in relazione al secondo concetto di efficienza, quello allocativo, fra un criterio di giudizio paretiano ed uno Pareto-potenziale (detto anche di Kaldor-Hicks). Senza entrare eccessivamente nelle formalizzazioni microeconomiche dei concetti di efficienza produttiva e efficienza allocativa, possiamo distinguerle nel modo seguente. La prima è sovente utilizzata per indicare se stiamo operando su quella che gli economisti chiamano la frontiera delle possibilità produttive e quindi se stiamo producendo un dato livello di output con impiego minore possibile di input. La seconda ci indica se la distribuzione delle risorse (in senso lato) in una data popolazione di individui è ottimale, e si ottiene, nel contesto di un mercato competitivo, quando il costo marginale di una risorsa equivale al suo prezzo. Entrambe i concetti di efficienza sono importanti. Un sistema economico potrebbe produrre in maniera perfettamente (produttivamente) efficiente cose che non desidera nessuno (soltanto scarpe per lo stesso piede). In questo caso si darebbe una situazione in cui l’efficienza produttiva è massima ma non particolarmente utile o socialmente significativa perché totalmente slegata dal benessere degli individui. Allo stesso modo un sistema economico che allochi le risorse disponibili (eccezion fatta per quelle che sono richieste per la produzione di beni) in maniera perfettamente efficiente, ma che le produca in modo assai inefficiente, sembra lasciare molto a desiderare, perché producendo in maniera più efficiente si potrebbero drasticamente aumentare i beni da allocare. Collegando il criterio paretiano ai due concetti di efficienza, possiamo dunque distinguere un criterio di ottimo paretiano produttivo, e quello di un ottimo paretiano in senso più generale (si veda Buchanan, 1985: 4-7; la caratterizzazione specifica della distinzione è presa in prestito da Dietsch, 2016: 137) nel seguente modo:

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Ottimo Produttivo Paretiano: Un’allocazione di risorse utilizzate per un processo produttivo è ottimale dal punto di vista paretiano se non esiste un altro modo di allocare tali risorse produttive che generi almeno la stessa quantità di output per tutti i beni prodotti e almeno un’unità in più di uno dei beni prodotti. Ottimo Generale Paretiano: Lo stato di un sistema è ottimale dal punto di vista paretiano se non esiste uno stato alternativo di tale sistema nel quale tutte le persone coinvolte abbiano almeno lo stello livello di benessere e almeno una di esse abbia un livello di benessere superiore. Si notino tre cose sulle due definizioni appena fornite. La prima è che non abbiamo ancora detto nulla sul criterio di Kaldor-Hicks. Il motivo è che, se, come vedremo, questo tipo di criterio è di gran lunga il più importante dal punto di vista pratico, esso è, concettualmente, una forma di derivazione di quello paretiano. In secondo luogo, si noti che, come spiega chiaramente Dietsch (2016: 137-138), i due criteri paretiani non sono equivalenti, come, in genere, non lo sono i giudizi riguardanti efficienza produttiva e allocativa. A tale proposito Dietsch scrive: The crucial difference between the two notions is that the latter establishes the link between production and welfare, whereas the former does not. Only if one combines productive Pareto optimality with the assumption that welfare is a monotonic function of growth—which is a rather implausible assumption—does the difference between the two disappear. (2016: 137-138) Questa osservazione è di grande importanza a nostro avviso. Nel corso del capitolo abbiamo segnalato come anche per autori come Rodrik sembri chiaramente vero che l’integrazione economica sia un mezzo importante per il miglioramento dell’efficienza produttiva. Ora, se è altrettanto vero quello che scrive Dietsch, va anche accettato che una difesa del fenomeno di integrazione economica in termini di efficienza dovrebbe però porsi la domanda della relazione fra efficienza produttiva e benessere delle persone. E questo perché, come abbiamo osservato poco sopra, la prima idea, senza lo stabilirsi di un legame con la seconda, non ha grande valore intrinseco. Se così è, allora dovremmo supporre che le difese ‘efficientiste’ dei fenomeni che abbiamo illustrato poco sopra nelle sezioni precedenti del capitolo debbano darsi in termini del criterio paretiano generale (o dei suoi derivati, vedi sotto), e non di quello legato all’efficienza produttiva. Il terzo punto da tenere a mente e segnalare è che finora ci siamo limitati a illustrare la nozione di ‘ottimo’. Ma come spesso accade nella vita più in generale, trovarsi difronte all’ottimo è



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cosa assai rara, mentre ci viene spesso chiesto di dare giudizi comparativi fra cose che ottime non sono. Detto altrimenti, il criterio paretiano (e soprattutto quello di Kaldor-Hicks) viene in genere utilizzato non solo per specificare un ottimo ma per specificare se un dato stato di cose sia Pareto-superiore oppure Pareto-inferiore rispetto a un altro stato di cose. Passiamo dunque all’interpretazione del concetto di efficienza paretiana in senso generale, e soprattutto chiediamoci come essa possa acquisire una valenza di natura morale. Se il concetto di ottimo paretiano è molto popolare fra gli economisti uno dei motivi è sicuramente il ruolo che esso gioca all’interno del primo teorema fondamentale della welfare economics, e cioè l’idea che mercati competitivi (dove ‘competitivi’ è definito tramite assiomi precisi) conducono all’efficienza paretiana. Il primo teorema fondamentale, anche detto teorema della mano invisibile, implicitamente suggerisce (ma ovviamente non in maniera esplicita) un’equipollenza fra dinamiche di mercato e una situazione di ottimalità da un punto di vista sociale. La prima domanda che sembra lecito farsi, a tale proposito, è quindi come si arrivi a un giudizio di, appunto, equipollenza fra ottimo paretiano (che di fondo è nozione tecnica) e ottimo sociale (che senza dubbio è idea morale). Vi sono diversi modi di farlo che, per ragioni di spazio, non possiamo prendere in considerazione. Ci limiteremo quindi a spiegare la difesa morale di tale criterio che ci sembra più intuitiva. Un significato intuitivo di uno stato di cose classificato come ottimo paretiano è che si sono esauriti i cosiddetti ‘gains from trade’. Tale interpretazione può sembrare una specificazione ridondante rispetto alle definizioni appena discusse, ma vale la pena di citarla perché assumendo che ogni scambio sia volontario in senso robusto del termine (assunzione assai controversa e per nulla innocente) possiamo osservare che un modo moralmente attraente di descrivere un ottimo paretiano è dire che in esso non vi è più spazio per azioni volontarie connesse allo scambio che possano aumentare il benessere di qualcuno. Detto altrimenti, e questa volta introducendo un chiaro giudizio di valori, un ottimo paretiano segnala l’assenza di sprechi, o, per dirla con Joseph Heath (2014: 173-204), l’assenza di sofferenza non necessaria. Ora, se questa conclusione va presa sicuramente in considerazione, bisogna ammettere che non ci dice un granché dal punto di vista morale. La questione centrale è a che cosa, moralmente parlando, siamo disposti a rinunciare, per evitare sofferenze non necessarie. Si noti, ad esempio, che il concetto di ottimo paretiano è completamente muto o indifferente sulle questioni prettamente distributive (si veda Cozzi e Zamagni, 2003). Questo può essere compreso, formalmente, tramite il secondo teorema fondamentale della welfare economics, quello che ci dimostra come qualsiasi distribuzione di risorse può essere rappresentata come un ottimo paretiano risultante dal meccanismo di mercato al variare degli endowment delle dotazioni iniziali. Anche accettando (come rovescio della medaglia del secondo teorema fondamentale della wel-

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fare economics) che ‘indifferenza’ non significa per forza ‘ostilità’ (si veda Stiglitz, 1994), è senz’altro peculiare che un criterio di ottimo sociale rimanga indifferente rispetto a una delle questioni morali principali che qualsiasi tipo di società deve affrontare: quella distributiva. Inoltre, il criterio paretiano giudica un enorme quantità di outcome possibili come ‘non comparabili’: più precisamente, tutti quelli che migliorano la condizione di almeno una persona (ma potenzialmente di tutte tranne una) ma ne peggiorano quella di almeno un’altra. Illustrando quest’ultima affermazione in modo diretto, possiamo dire che di fronte a un mondo in cui tutte le risorse sono nelle mani di pochissime persone, e dove l’unico modo per far sopravvivere gli altri sia redistribuirle contro la volontà dei primi, il criterio di Pareto non ci può venire in soccorso, dal punto di vista morale, perchè l’allocazione iniziale non è, tecnicamente, migliorabile. Se questa caratteristica, almeno storicamente, è stata giudicata come necessaria da molti economisti onde generare un modello ‘positivo’ di scienza economica (inteso come un modello scevro da giudizi di valore, si veda in particolare Robbins, 1932: 139-140), ci sembra invero un limite assai forte del criterio stesso. Amartya Sen esprime il problema con inusitata schiettezza quando afferma che “(…) a society or an economy can be Pareto-optimal and still be perfectly disgusting” (1970: 22). Infine, si noti che il primo teorema fondamentale della welfare economics presuppone una definizione di mercati perfettamente competitivi che raramente si riesce anche solo ad approssimare nel mondo reale: cosa si possa ottenere a seguito del funzionamento di un mercato perfettamente competitivo ha valore euristico, ma non ha grande importo pratico se le probabilità di sperimentare un mercato perfetto sono assai basse, o se la strada che a esso ci porta è molto complicata da percorrere (si veda a tale proposito Lipsey e Lancaster, 1956). Queste due ultime caratteristiche del criterio paretiano, sembra plausibile pensare, sono alla radice dello sviluppo della sua principale alternativa (anche se da esso è derivata): quella rappresentata dal criterio di Kaldor-Hicks. In breve, la motivazione potrebbe essere riassunta così: il mondo reale delle policy economiche è pieno di scelte che hanno implicazioni distributive ed è quindi fondamentale un criterio che ci consenta di giudicarle e compararle. In sintesi, il criterio di Kaldor-Hicks è un criterio che ci riporta alla possibilità di praticare una (nuova) forma di welfare economics. E lo fa però non ignorando la ‘scomunica’ di Robbins, ma proprio tenendone conto (sia Kaldor che Hicks, è bene ricordarlo, erano studenti di Robbins alla LSE). La posizione di Robbins era imperniata sulla difficoltà di proporre paragoni interpersonali che rimanessero ‘scienfifici’ e sul desiderio di eliminare giudizi di valore dalla scienza economica (per una discussione si veda Scarantino, 2009). In una tale prospettiva, le prescrizioni di policy sarebbero divenute impossibili da ‘derivare’ dalla teoria economica. Possiamo quindi osservare che sia Kaldor

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che Hicks tentano di restare fedeli all’impostazione positivistica di Robbins ma allo stesso tempo cercano di ridare alla scienza economica la capacità di fornire un metro di giudizio sulle politiche pubbliche. Il criterio di Kaldor-Hicks, inoltre, non si dà sotto forma di ottimo, ma è meglio illustrato come criterio di comparazione fra stati di cose, ovvero come criterio che ci consenta di comparare, ad esempio, lo status quo con un cambiamento di policy da attuare. Può essere definito come segue: Criterio di Kaldor-Hicks: Uno stato di un sistema B è Kaldor-Hicks superiore rispetto a uno stato di un sistema A, se in B sia possibile una redistribuzione dei benefici ottenuti dal passaggio da A a B che ci consenta di descrivere B come un miglioramento paretiano rispetto ad A – B rappresenta uno stato del sistema dove sia potenzialmente possibile riconfigurare la distribuzione delle risorse in modo che nessuno stia peggio in termini di benessere rispetto ad A, e almeno una persona stia meglio. Il criterio è facilmente comprensibile facendo riferimento a un esempio concreto di comparazione di stati di cose in termini che assumeremo essere quelli di variazione del reddito. Illustriamo il criterio tramite la tabella 3.2. TABELLA 3.2:  Illustrazione semplificata del criterio di Kaldor-Hicks Reddito Attore 1

Reddito Attore 2

Stato A del sistema

5

10

Stato B del sistema

2

16

5

13

Una redistribuzione possibile in B

Fonte: elaborazione dell’autore.

Dal punto di vista paretiano, nella tabella 3.2, lo stato A e quello B del sistema non sono comparabili. Invece lo stato B è Kaldor-Hicks superiore rispetto a quello A, perché è potenzialmente possibile redistribuire parte delle risorse aggiuntive acquisite dall’attore 2 in B per compensare l’attore 1 e rendere la sua situazione, ad esempio, identica a quella che era nello stato A del sistema. Se tale redistribuzione avvenisse, allora potremmo dire che, ceteribus paribus, lo stato del sistema ‘B + redistribuzione’ è Pareto superiore rispetto allo stato A del sistema, visto che in ‘B + redistribuzione’ nessuno sta peggio di prima e almeno un attore sta meglio di prima. Siccome, però, il criterio di Kaldor-Hicks non obbliga, ma semplicemente presuppone la possibilità di una tale redistribuzione (lasciando ‘positivisticamente’ tale decisione alla politica, si potrebbe chiosare), esso viene spesso compreso come un criterio di superiorità paretiana potenziale.

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In sintesi, se la maggior parte delle politiche pubbliche e delle trasformazioni economiche nel mondo reale non sono suscettibili di essere valutate dal punto di vista paretiano in senso stretto dati i loro effetti distributivi, il criterio di Kaldor-Hicks ci consente di utilizzare il concetto di efficienza in modo più ampio e più legato alla realtà. Dal punto di vista puramente teorico, si può comprendere l’idea di efficienza basata sul criterio di Kaldor-Hicks semplicemente come una trasformazione del concetto paretiano da reale in ipotetico. Detto altrimenti, un modo per vedere la relazione fra i due concetti è che se uno stato di cose B è Kaldor-Hicks superiore rispetto a uno stato di cose A, allora si può sempre, decidendo di redistribuire l’allocazione finale delle risorse, riconfigurare il passaggio da A a B come un miglioramento paretiano. Siamo giunti (finalmente, penserà il lettore!) al termine della nostra digressione teorica sull’idea di efficienza. Il suo valore, come speriamo di illustrare, sta nel fatto che le scelte istituzionali, per esempio quello legate all’integrazione fra mercati, sono scelte che hanno, a detta stessa dei modelli tradizionali che le descrivono, conseguenze distributive. Ne segue che la loro difesa in termini di efficienza è una difesa in termini della superiorità Kaldor-Hicks o Pareto potenziale di tali scelte rispetto alle alternative; in questo caso, rispetto ad alternative che potremmo definire più ‘autarchiche’. Ancora una volta, rendere conto degli effetti distributivi dell’integrazione economica sarebbe un compito impossibile da assolvere nello spazio a nostra disposizione. Questo, va segnalato, è dovuto non solo alla enorme mole di dati disponibili, ma semplicemente perché, come spesso accade nella teoria economica, vi sono numerose vie per ‘modellizzare’ la situazione. La nostra scelta sarà quindi assai radicale, limitandoci a prendere le mosse da una versione sintetica di quello che molti ritengono essere il modello di base o di riferimento, e cioè il cosiddetto ‘factor endowment model’ o ‘modello di Hechsher-Ohlin’ (a tale proposito si veda Driskill, 2012; Rodrik, 2018a; Rodrik, 2018c; Lepenies, 2015). Semplificando radicalmente, nel modello di Hechsher-Ohlin, il vantaggio comparato di un’economia risiede nell’intensità relativa dei suoi ‘endowments’ concepiti come fattori di produzione (ad esempio, capitale e lavoro). E, sempre secondo tale modello, è facile prevedere che il fattore con minore intensità relativa rispetto alle economie con le quali si andrà a integrare progressivamente il suo paese, verrà penalizzato. Detto altrimenti, e prendendo come esempio paradigmatico il caso in cui i paesi sviluppati hanno minore intensità relativa del fattore lavoro rispetto al fattore capitale, allora maggiore integrazione significa, nella stragrande parte dei casi, spostamenti distributivi a favore del fattore lavoro nei paesi emergenti e a favore del fattore capitale nei paesi avanzati. Tali dinamiche sono state recentemente corroborate da molte analisi empiriche per quanto riguarda il caso statunitense (si veda Autor, Dorn e Hanson, 2016; Broz, Fieden e Weymouth, 2019). Le parole di Dani Rodrik, riferite al caso specifico dell’accordo NAFTA, sono di esemplare chiarezza:



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The economists must have been aware that trade agreements, like free trade itself, create winners and losers. But how did they weight the gains and losses to reach a judgment that US citizens would be better off “on average”? Did it not matter who gained and lost, whether they were rich or poor to begin with, or whether the gains and losses would be diffuse or concentrated? What if the likely redistribution was large compared to the efficiency gains? What did they assume about the likely compensation for the losers, or did it not matter at all? And would their evaluation be any different if they knew that recent research suggests NAFTA produced minute net efficiency gains for the US economy while severely depressing wages of those groups and communities most directly affected by Mexican competition? [i.e. low-skilled workers] (Rodrik, 2018b: 74) Il punto principale, quindi risiede nella nostra capacità di comprendere se, da punto di vista del bene comune, o più semplicemente da un punto di vista morale, si possano giudicare problemi legati agli effetti distributivi dell’integrazione economica in base al criterio di efficienza di Kaldor-Hicks. Il primo limite evidente di tale criterio è che, come abbiamo notato, si riferisce soltanto alla possibilità di compensare i cosiddetti perdenti (si veda James, 2012). Ad esempio, se è vero, come ci ricorda la teoria economica, che alcuni prezzi al consumo scenderanno grazie al commercio internazionale, essa ci dice anche che l’integrazione fra mercati cambia i prezzi dei beni disponibili in un dato mercato facendone si scendere alcuni ma anche salire altri. In un paese che esporta scarpe il prezzo delle scarpe tende ad aumentare rispetto a quello degli altri beni. Come possiamo giudicare tale situazione dal punto di vista degli appassionati di scarpe in questo esempio ipotetico? La nostra intuizione è che una giustificazione che preveda l’idea che tutto va bene perché essi ‘potrebbero potenzialmente essere compensati’ per la loro sventurata sorte non li convincerebbe granché. Detto altrimenti, l’informazione principale che il criterio di Kaldor-Hicks non ci può fornire (e volutamente, visto che la decisione di compensare o meno viene ritenuta come ‘politica’) è se la compensazione di coloro che perdono a seguito di una data trasformazione economica avverrà oppure no. Il criterio di Kaldor-Hicks ci dice che essa è possibile, ma ovviamente, ciò che conta da un punto di vista morale è se essa avvenga, non se essa sia teoricamente attuabile. Per illustrare: il fatto che un aumento di stipendio possa consentirci di fare maggiore beneficienza di certo non può rappresentare un accadimento moralmente positivo senza sapere se, in concreto, questa beneficienza verrà fatta o meno. Questo tipo di problema è ovviamente noto agli economisti (lo stesso Hicks ne era chiaramente consapevole), per cui, in genere, essi ci rispondono che, date alcune premesse, il fatto che la compensazione potenziale avvenga o

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meno non è del tutto dirimente. Questa risposta è paradigmaticamente illustrata da quello che Paul Samuelson (1981) definiva un teorema euristico: Most technical changes or policy choices directly help some people and hurt others. For some changes, it is possible for the winners to buy off the losers so that everyone could conceivably end up better off than in the prior status quo. Suppose that no such compensatory bribes or side payments are made, but assume that we are dealing with numerous inventions and policy decisions that are quasi-independent. Even if for each single change it is hard to know in advance who will be helped and who will be hurt, in the absence of known ‘bias’ in the whole sequence of changes, there is some vague presumption that a hazy version of the law of large numbers will obtain: so as the number of quasi-independent events becomes larger and larger, the chances improve that any random person will be on balance benefitted by a social compact that lets events take place that push out society’s utility possibility frontier (…). (Samuelson, 1981: 227). Questa versione della giustificazione del criterio di Kaldor-Hicks, giustificazione che potremmo definire ‘indiretta’, non ci sembra però assai convincente. In primo luogo, perché, come ci ricorda Driskill (2012), non può essere dedotta analiticamente da nessun tipo di cambiamento che rappresenti un miglioramento Kaldor-Hicks preso singolarmente. In secondo luogo, perché, senza voler essere troppo critici nei confronti di un grande intellettuale come Samuelson, alcune delle premesse di fondo sono al limite dell’eroico: quanto tempo e quante scelte individualmente negative bisognerebbe dover tollerare nella speranza che sopraggiunga la legge dei grandi numeri a sollevare le nostre sorti? Inoltre, da un punto di vista concettualmente ancora più fondamentale, e come hanno chiaramente segnalato i primi critici dell’impostazione di Kaldor e Hicks (si veda Little, 1957), la loro versione della welfare economics fallisce proprio dove desiderava operare una sintesi, ossia fra scienza economica positiva e prescrizioni di policy, e questo perché, inter alia, la compensazione dei perdenti di una scelta di policy è da consdierarsi come parte integrante della policy stessa. Infine, ci possiamo porre un’ulteriore domanda: quanto è facile e quanto costa individuare ed effettivamente compensare i cosiddetti ‘perdenti’ (Driskill, 2012: 8-9)? In primo luogo, se, come abbiamo evidenziato partendo da uno dei modelli più semplici degli effetti dell’integrazione economica (il modello di Hechsher-Olin) sembra intuitivo comprendere esattamente chi perde e chi vince, non sempre è così semplice determinarlo nel mondo reale. Questa sarà proprio una delle conclusioni della visione della globalizzazione economica suggerita da Richard Baldwin e che discuteremo nella terza sezione del quarto capitolo di questo volume. Il punto, si badi bene, non è stabilire se vi sia



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una correlazione fra un cambiamento economico e le sorti di una data fascia socio-economica della società. Questo, al netto di molte complicazioni, è a nostro avviso possibile. Il punto risiede piuttosto nel fatto che per trasformare un cambiamento con caratteristiche distributive in uno che abbia il profilo di un miglioramento paretiano (ovvero dove nessuno sta peggio di prima e almeno qualcuno sta meglio), dovremmo avere un livello di risoluzione sull’impatto di una policy che al momento non sembra facile ottenere. In secondo luogo, bisogna notare che qualsiasi forma di compensazione necessita di istituzioni e di meccanismi che non solo individuino i ‘perdenti’ ma che provvedano a compensarli in concreto: e tali istituzioni debbono necessariamente comportare una qualche forma di costo. Come abbiamo accennato nel secondo capitolo di questo volume, la New Insitutional Economics ci insegna che le istituzioni, se sono potenzialmente fonte di una riduzione dei costi di transazione, non sono però ‘gratis’. E se il loro costo istitutivo e di mantenimento è sufficientemente alto, allora è possibile che un cambiamento che ci sembra, ex-ante, un miglioramento dal punto di vista del criterio di Kaldor-Hicks, di fatto non lo sia realmente ex-post se si prendono in considerazione, come facenti parte del cambiamento, i costi legati alle istituzioni necessarie per effettuare le forme di compensazione richieste. A conclusione della nostra disamina del concetto di efficienza, concetto sul quale spesso si basa la difesa delle scelte istituzionali che abbiamo sottoposto alla nostra attenzione nel corso del terzo capitolo di questo volume, ci preme sottolineare una cosa di fondamentale importanza. Il punto centrale che abbiamo cercato di segnalare non può chiaramente essere quello che l’efficienza, sia produttiva che allocativa, non abbia valore dal punto di vista morale: questa sarebbe una conclusione sbagliata e implicherebbe che, ad esempio, una concezione della giustizia sociale e/o distributiva possa essere completamente ortogonale a una preoccupazione per l’efficienza. Questo tipo di tesi è chiaramente possibile da sostenere, ma non è di certo quella che stiamo difendendo in questo volume. Invece, quello su cui bisogna essere chiari è che l’efficienza non può essere l’unico criterio di giudizio di una scelta istituzionale, anche se tale scelta ha carattere prevalentemente economico e conseguenze prevalentemente economiche. Il punto centrale della nostra impostazione, quindi, non è quello di criticare i sistemi di allocazione di risorse tramite dinamiche di mercato. Piuttosto, in una prospettiva che si auto-comprende come (teoreticamente) istituzionalista e (valorialmente) social democratica, ci preme sottolineare il carattere di ‘scelta’ che vari aspetti del mercato necessariamente hanno, e la non-riducibilità del giudizio che di tali scelte si dà al semplice criterio di efficienza.

Capitolo 4 Effetti e genesi del cambiamento tecnologico Introduzione Sin dagli albori della rivoluzione industriale, il cambiamento tecnologico ha posto questioni importanti per le società umane, e specialmente per quelle i cui sistemi produttivi sono organizzati tramite forme di economia di mercato. È ormai quasi un cliché ricordare il movimento luddista come uno dei primi che, nell’ambito di un’Inghilterra attraversata dalla rivoluzione industriale, abbia coscientemente tentato di porre la questione della desiderabilità del progresso tecnologico, almeno da parte di una fetta specifica della popolazione lavorativamente attiva. Va certamente osservato che, eccezion fatta per episodi estremamente marginali, come la condanna dello strapotere dei cosiddetti ‘giganti del web’, le piattaforme populiste in voga nelle democrazie liberal democratiche di oggi non sembrano orientate a una specifica linea di condanna dei fenomeni di evoluzione tecnologica che hanno impattato il tessuto delle economie occidentali. Secondo alcuni, questo è dettato proprio dal fatto che esso non sia facilmente additabile come un cleavage della cui responsabilità sia semplice rendere le élites dei paesi avanzati (o un qualsiasi gruppo di persone) i principali colpevoli; detto altrimenti, se il populismo ha bisogno di nemici almeno collettivamente riconoscibili (come abbiamo sostenuto nel secondo capitolo di questo volume), il cambiamento tecnologico, al contrario delle élites socio-economiche oppure degli immigrati, non sembra fornire un bersaglio altrettanto facilmente individuabile (Rodrik, 2017). Eppure nel dibattito economico contemporaneo, non mancano le posizioni, invero assai sofisticate, di coloro che ci ricordano che, se l’integrazione economica globale (di cui abbiamo ampiamento discusso nel capitolo precedente) è responsabile di qualche forma di dislocamento nelle economie odierne, è bensì la forma corrente del progresso tecnologico a giocare la parte del leone nella spiegazione causale dei recenti effetti distributivi che hanno sfavorito le classi medie – e soprattutto della natura cangiante delle tendenze occupazionali nei mercati europei e statunitensi (si veda Helpman, 2018). Anche in questo capitolo, come del resto in tutti quelli precedenti, il volume e la complessità della ricerca accademica recente, non ci consentiranno di offrire una panoramica dettagliata del fenomeno oggetto della nostra analisi. Per tale motivo, qui come altrove nel nostro lavoro, cercheremo di fornire al lettore elementi di base che lo aiutino a orientarsi. In altri termini intendiamo fornirgli delle direttrici epistemiche concrete per comprendere le

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radici del problema in questione. E nel caso specifico, in relazione all’impatto che la forma corrente del cambiamento tecnologico ha assunto negli ultimi decenni. Il punto di partenza per tale comprensione è, forse in maniera assai poco intuitiva, la natura non specifica e al contempo sui generis dell’innovazione tecnologica. L’idea di una non specificità sui generis coglie certamente un elemento paradossale del nostro approccio analitico. Eppure, questo tipo di osservazione dipende semplicemente dal fatto che è possibile adottare due ottiche diverse su molti dei fenomeni che abbiamo illustrato in questo libro. La prima collegata alle formalizzazioni elementari operate dalla teoria economica. La seconda più coerente con una visione complessiva delle scienze sociali e della teoria economica intesa in senso più generale, e nel nostro caso della filosofia politica. La questione di base è, di fondo, come intendiamo rappresentare un certo tipo di oggetto. E nel caso specifico, se intendiamo rappresentarlo come un elemento di una cosiddetta funzione di produzione, oppure come argomento con le sue peculiarità dovute alle ragioni della sua genesi e dei suoi effetti nel mondo reale. Nelle formalizzazioni elementari della teoria economica, una funzione di produzione include tutti i fattori che sono necessari a produrre un qualcosa, e naturalmente, come essi possono essere combinati. In sintesi, come abbiamo spiegato nel primo capitolo, una funzione è una regola che ci porta da un campo a un altro, e nel caso di una funzione di produzione, una regola che ci spiega come sia possibile trasformare input in output. In genere, i fattori di produzione includono il lavoro, il capitale (sia fisico che finanziario), la terra, e sono soggetti ai constraint dovuti alla tecnologia impiegata (si veda Varian, 2014). Le combinazioni possibili di output, data una certa quantità di input e un certo tipo di tecnologia, sono in genere denominate ‘production set’. Ora, nell’ottica di una funzione di produzione relativamente semplice non vi è nessuna differenza fra lavoro, capitale e tecnologia. Ciò che interessa è la produttività complessiva (la cosidetta ‘total factor productivity’) di un dato processo e come essa impatti la capacità di un’azienda di massimizzare i profitti. A titolo illustrativo, in una tale ottica il lavoro è semplicemente visto come un tipo di input, mentre la tecnologia sembra essere un constraint completamente esogeno (idea questa che, come vedremo in seguito, è stata progressivamente abbandonata) al processo produttivo stesso. È questo il senso, forse banale, in cui la tecnologia, come del resto il lavoro oppure il capitale impiegati in un processo di produzione, non hanno nessun tipo di peculiarità loro. Eppure, come anche gli economisti sanno benissimo, ridurre un tema complesso come il lavoro a input di produzione rischia di non farci comprendere come funzionano davvero i mercati del lavoro. E lo stesso vale per la tecnologia (e, anche in questo caso, la cosa è più che nota agli economisti di professione!): considerarla alla stregua di un qualcosa di meramente esogeno non ci aiuta



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certo a comprendere come essa venga sviluppata e sulla base di quali scelte ciò accada. Queste osservazioni, si badi bene, non costituiscono una critica alle formalizzazioni operate nella microeconomia neoclassica. Al contrario, costituiscono un avvertimento, certamente già ampiamente colto dagli esperti del settore, a non ridurre un dato fenomeno alla sua descrizione formale semplificata. Tale descrizione deve costituire un punto di partenza importante, ma non può essere il punto di arrivo di una buona analisi di questioni complesse come certamente lo sono quelle legate al cambiamento tecnologico. Nel tentativo di non abusare eccessivamente della pazienza del nostro lettore, che ha magari mal digerito la nostra digressione, ci si potrà chiedere quale sia la sua utilità. La risposta, a nostro avviso, sta nel fatto che per cogliere in pieno il fenomeno del cambiamento tecnologico, bisogna guardarlo da due ottiche distinte. La prima, in linea con le formalizzazioni della teoria economica, ne rintraccia gli effetti sulla produttività degli attori economici e, indirettamente, sulle variazioni di combinazioni di input che consentirà di utilizzare - ad esempio, come questa consentirà di operare sostituzioni fra lavoro e capitale fisico e che impatto avrà una tale rinnovata capacità di sostituzione sul mercato del lavoro. D’altro canto, però, questi costituiscono soltanto gli effetti del cambiamento tecnologico. E, se tali effetti sono certamente importanti, non ci dicono nulla sulla provenienza del cambiamento tecnologico stesso. È a questo punto che, tornando alla visione sviluppata nel secondo capitolo di questo volume, ci chiederemo quale sia il ruolo delle scelte istituzionali nella genesi di un determinato tipo o forma di progresso tecnologico. E, naturalmente, visto il tema generale del nostro lavoro, quali ne siano le implicazioni dal punto di vista della filosofia politica normativa. In particolare, per gli elementi centrali della giustizia politica e distributiva come essi sono stati discussi nel primo capitolo di questo volume.

1.

Gli effetti del cambiamento tecnologico: un modello task-based

La seconda grande fonte di mutamenti economici nelle società occidentali ha origine nelle dinamiche legate al cambiamento tecnologico. Che cosa possiamo dire della forma specifica di progresso tecnologico che abbiamo sperimentato negli ultimi decenni? A chi sono costati di più la crescita di produttività da questo generata? Il dibattito scientifico non è ancora giunto ad una conclusione unanime ma è opinione diffusa che i processi di automazione che stanno cambiando il modo di concepire il lavoro producono effetti diversi per lavoratori skilled o unskilled anche se li si può comprendere come appartenenti ad un unico modello teorico di riferimento (si veda Acemoglu e Restrepo, 2018). Per il momento adottando una forte semplificazione, si può dire che per un

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qualsiasi lavoratore (compreso come rappresentante di un dato pacchetto di skills), se la nuova tecnologia si sviluppa come forma di alternativa (sostituzione) al suo lavoro egli perderà in termini di occupazione e salario; se invece la nuova tecnologia si sviluppa come capacità di aumentare l’efficienza del suo lavoro (complementarità) allora ne guadagnerà in termini di occupazione e salario. In questo contesto è chiaramente di grande importanza, dal punto di vista delle previsioni degli effetti del cambiamento tecnologico, comprendere, ad esempio, la suscettibilità di una data occupazione ad essere automatizzata, ovvero sostituita, oppure resa più produttiva, ad esempio consentendo il suo dispiegamento in nuovi mercati. Per affrontare un tale problema utilizzando un framework leggermente più sofisticato si può partire dall’ultima iterazione del modello concepito da Acemoglu e Restrepo (2019b). Questi ultimi, illustrando gli aspetti principali del loro ‘task-based framework’ scrivono quanto segue: Production requires tasks, which are allocated to capital or labor. New technologies not only increase the productivity of capital and labor at tasks they currently perform, but also impact the allocation of tasks to these factors of production—what we call the task content of production. Shifts in the task content of production can have major effects for how labor demand changes as well as for productivity. (2019b: 3) Inoltre, va ricordato come il modello dei due economisti viene reso più complesso dal fatto che gli effetti di ‘displacement’ possono essere bilanciati dalla crescita di domanda di lavoro e dei salari da quelli che potremmo definire gli effetti indiretti dei guadagni di produttività consentiti dall’innovazione. Con riferimento specifico all’automazione i due autori affermano quanto segue: By allowing a more flexible allocation of tasks to factors, automation technology also increases productivity, and via this channel, which we call the productivity effect, it contributes to the demand for labor in non-automated tasks. The net impact of automation on labor demand thus depends on how the displacement and productivity effects weigh against each other. (2019b: 4). In questo tipo di contesto, non vi è dubbio che sia importante, almeno dal punto di vista di coloro che si affacciano sul mercato del lavoro, comprendere il tipo specifico di skill di cui avranno bisogno se desiderano fare leva sul fenomeno della complementarità, e, in ultima analisi, acquisire competenze atte a svolgere compiti che non verranno, almeno nel breve periodo, penalizzate dal cambiamento tecnologico.



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Ma cerchiamo di indagare il fenomeno più a fondo, stavolta partendo dal lavoro di un altro economista, David Autor (si veda Autor, 2019; Autor, Dorn e Hanson, 2019; Autor e Solomon, 2018). In quello che riteniamo essere uno dei contributi più accessibili e insieme sofisticati alla comprensione del fenomeno (si veda Autor, 2015), Autor ci chiede, essenzialmente, di cambiare completamente ottica sugli effetti del cambiamento tecnologico sulla domanda di lavoro. Detto altrimenti, e questo a noi pare un artificio retorico di grandissima utilità, il punto di partenza da adottare non è quello in cui ci si domanda timorosi quando arriverà il momento in cui gli esseri umani potranno essere, per parafrasare Marx, liberati dalla schiavitù del lavoro, ma come mai, dopo due secoli di progressi tecnici ininterrotti, ciò non sia già accaduto. In sintesi, la domanda corretta dalla quale partire, se ci soffermiamo sulle caratteristiche della più recente ondata di progresso tecnico costituita dai fenomeni di automazione, è la seguente: “Why doesn’t automation necessarily reduce aggregate employment, even as it demonstrably reduces labor requirements per unit of output produced?” (Autor, 2015: 6). La risposta di Autor è che, l’automazione non potrà, almeno nel futuro prossimo, completamente rimpiazzare il contributo del lavoro umano nei processi produttivi. E, come abbiamo evidenziato qualche paragrafo orsono, le skill (e quindi le occupazioni), che non possono essere sostituite dall’automazione sfrutteranno fenomeni di complementarità per divenire più produttive: (…) tasks that cannot be substituted by automation are generally complemented by it. Most work processes draw upon a multifaceted set of inputs: labor and capital; brains and brawn; creativity and rote repetition; technical mastery and intuitive judgment; perspiration and inspiration; adherence to rules and judicious application of discretion. Typically, these inputs each play essential roles; that is, improvements in one do not obviate the need for the other. If so, productivity improvements in one set of tasks almost necessarily increase the economic value of the remaining tasks. (2015: 6) La questione fondamentale, quindi, se sostituiamo l’idea generica di cambiamento tecnologico con quella piu specifica di automazione, è comprendere quali tipi di ‘task’ siano più facili da sostituire. E la risposta dell’economista americano, nella sua semplicità, è invero assai illuminante, perché ci spiega che il fenomeno di sostituzione dipenderà essenzialmente dalla ‘nostra’ capacità di codificare una data skill in maniera esplicita. Se, in sintesi, fenomeni di complementarità o sostituzione sono essenziali per comprendere, in senso generale, gli effetti del progresso tecnico sul lavoro, il contributo di Autor è quello di consentirci, se ci concentriamo sull’automazione, di individuare

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un criterio specifico che spieghi la direttrice di sviluppo delle differenze fra complementarità e sostituzione. La versione analitica del ragionamento ha quindi la seguente forma: Premessa 1: L’impatto su di un dato lavoro di una data tecnologia dipenderà, generalmente, dalla complementarità o sostituibilità delle skills richieste dal lavoro in questione rispetto al contributo specifico della nuova tecnologia; Premessa 2: Fra quelle recenti, la forma più importante, e potenzialmente dagli effetti maggiori, di innovazione tecnica, è la progressiva introduzione di meccanismi di automazione nei processi produttivi; Premessa 3: Come ogni tecnologia, l’automazione offre possibilità di sostituire skill specifiche, ossia si offre come una forma di ‘labour saving device’, e nel concreto, di quelle skill che hanno caratteristiche tali da poter essere esplicitamente codificate; Conclusione: Date le premesse 1-3, si può concludere che il cambiamento tecnologico contemporaneo, generalmente, tenderà a penalizzare coloro che hanno occupazioni il cui contenuto in termini di task facilmente codificabili sia comparativamente maggiore. A questo punto, verrà spontaneo chiedersi quali siano le occupazioni alle quali si fa genericamente riferimento nella conclusione del nostro ragionamento analitico. Prima di fare ciò, ci preme però sottolineare l’importanza della conclusione stessa. Sino a ora abbiamo parlato genericamente di ‘effetti sul mercato del lavoro’. Il nostro ragionamento analitico, sulla base del lavoro di Autor, ci consente di capire in maniera più precisa, che tali effetti, come accennavamo all’inizio di questa sezione, saranno non omogenei a seconda dell’occupazione che si ha. Per tornare quindi alla domanda di partenza di questo paragrafo, possiamo affermare che la versione sintetica della risposta sia la seguente: saranno comparativamente più facili da automare quelle che possiamo chiamare ‘routine tasks’ (si veda Autor, Levy e Murnane, 2003). Detto altrimenti, lavori come quelli collegati a versioni semplici di classificazione delle informazioni, oppure lavori di natura ripetitiva nel contesto del settore manufatturiero etc. E, naturalmente, viene immediatamente da chiedersi quali siano, all’opposto, quelle occupazioni che non sono ‘routine’ nel senso specifico attribuito a tale termine. Tale domanda è, per certi versi ancora più importante della precedente, perché ci aiuterà a spiegare in maniera trasparente le direttrici specifiche dell’evoluzione del mercato del lavoro dopo che i processi di automazione saranno intervenuti,



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e quindi la sua ‘direzione di marcia’. Anche in questo caso, l’outline di una risposta sintetica è relativamente facile da enunciare: lavori ad alto contenuto di skill astratte, e lavori che contengano skill molto semplici ma che non hanno una forte componente di ripetitività tali da poter essere facilmente esplicitate e quindi codificate. È nuovamente Autor a fornirci una descrizione lineare quanto eloquente ed efficace: If computers largely substitute for routine tasks, how do we characterize the nonroutine tasks for which they do not substitute? In Autor, Levy, and Murnane (2003), we distinguish two broad sets of tasks that have proven stubbornly challenging to computerize. One category includes tasks that require problem-solving capabilities, intuition, creativity, and persuasion. These tasks, which we term “abstract,” are characteristic of professional, technical, and managerial occupations. They employ workers with high levels of education and analytical capability, and they place a premium on inductive reasoning, communications ability, and expert mastery. The second broad category includes tasks requiring situational adaptability, visual and language recognition, and in-person interactions — which we call “manual” tasks. Manual tasks are characteristic of food preparation and serving jobs, cleaning and janitorial work, grounds cleaning and maintenance, in-person health assistance by home health aides, and numerous jobs in security and protective services. These jobs tend to employ workers who are physically adept and, in some cases, able to communicate fluently in spoken language. While these activities are not highly skilled by the standards of the US labor market, they present daunting challenges for automation. Equally noteworthy, many outputs of these manual task jobs (haircuts, fresh meals, housecleaning) must be produced and performed largely on-site or in person (at least for now), and hence these tasks are not subject to outsourcing. (2015: 12). In quanto segue, ci preme sottolineare due aspetti importanti della risposta offerta da Autor. Il primo riguarda il legame con l’analisi del lavoro di Rodrik condotta nel capitolo precedente. L’osservazione, detta in parole assai povere, è che le skills difficili da automatizzare sembrano coincidere, in parte, con quella categoria di lavori del settore terziario la cui caratteristica di essere necessariamente collegati a servizi da fornire in loco li rende meno suscettibili alla concorrenza internazionale proveniente dai paesi emergenti. In secondo luogo, e questa ci sembra la conclusione di maggiore rilevanza che si può trarre dalla citazione del lavoro di Autor che abbiamo appena riportata, la classificazione delle task poco suscettibili di essere sostituite da processi di automazione fornisce una chiave di lettura assai potente per comprendere la

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polarizzazione dei mercati del lavoro, e specialmente di quello statunitense, che si è potuta osservare negli ultimi anni. Mercati del lavoro che hanno visto la crescita di occupazioni che si trovano agli antipodi dello spettro di complessità e sofisticazione delle skill richieste (a tale proposito si veda la figura 4.1). FIGURA 4.1:  Cambiamenti dell’occupazione – principali categorie lavorative

Fonte: Autor (2015)

A titolo meramente illustrativo, nella figura 4.1, si possono guardare le variazioni nel tempo per tre categorie: a) personal care; b) production; e c) professionals. Semplificando, possiamo dire che la prima e terza categoria di occupazioni (personal care e professionals) hanno visto una robusta crescita almeno fino al 2007 e hanno continuato a crescere anche nell’ultimo periodo preso in analisi, e cioè il quinquenio 2007-2012. Invece, la seconda categoria occpuazionale (production), ha visto un forte declino a partire dalla fine degli anni ’90 dello scorso secolo. Questo tipo di risultato sembra pienamente in linea con il quadro offerto da Autor nella misura in cui possiamo affermare che la prima e terza categoria si riferiscono ad attività lavorative che, per motivi diversi, sono meno soggette alla possibilità di essere esplicitamente codificate, mentre non è così per la seconda. Per intenderci, è difficile rimpiazzare tramite automazione l’infermiere che ci viene a fare la dialisi a domicilio, oppure il nostro avvocato di fiducia, mentre sembra assai più facile da codificare esplicitamente (e quindi sostituire tramite una forma di automazione) il lavoratore che si occupa di una



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parte specifica della produzione di un tipo di scarpa che compriamo. Questo fenomeno, sul quale ci soffermeremo nella parte conclusiva di questo capitolo, è di grande importanza perché segnala un link evidente fra gli effetti dell’automazione e la concezione della giustizia distributiva proposta nel primo capitolo del volume: gli effetti di displacement dovuti all’automazione sembrano avere un chiaro profilo distributivo, almeno da un punto di vista aggregato. Giova a questo punto, concludere il nostro ragionamento con due ulteriori commenti. Il primo riguarda la differenza, in prospettiva storica, fra gli effetti del cambiamento tecnologico odierno se questi viene comparato agli effetti del cambiamento tecnologico dei primi decenni del secolo scorso che portò alla drastica riduzione della percentuale di lavoratori nel settore agricolo. Il secondo commento riguarda il rapporto analitico fra dinamiche di sotituzione e complementarità dettate dalla forma di cambiamento tecnologico in atto e i suoi effetti sui livelli occupazioniali e sulle dinamiche salariali. Per comprendere il primo punto che abbiamo appena menzionato, la questione fondamentale è capire ‘verso dove’, se così si può dire, vengano direzionati i lavori vittime di forme di displacement dovute al progresso tecnico. Al netto delle esperienze individuali e delle normali frizioni che un cambiamento di occupazione porta con sé, l’evoluzione principale delle dinamiche del mercato del lavoro in un contesto come quello statunitense degli inizi del secolo scorso vedevano i ‘displaced’ naturalmente diretti verso settori e occupazioni nel complesso più attraenti di quelle che, forzatamente, si lasciavano alle loro spalle. Come testimoniato dalla figura 4.2, il trend complessivo vedeva un progressivo passaggio da occupazioni pericolose, fisicamente drenanti, e spesso assai monotone, verso settori come quello manufatturiero e quello dei servizi che rispondevano alla domanda crescente di beni di consumo e di cosiddetti ‘leisure complements’ (fenomeni come, ad esempio, l’arrivo dei cinema drive-in una volta cresciuta la diffusione delle automobili) da parte di una popolazione sempre più agiata. Sempre riferendoci alla figura 4.2, possiamo osservare che se una qualsiasi transizione da un settore a un altro crea vincitori e vinti, si può senz’altro osservare che, in senso aggregato, le prospettive occupazionali di coloro che venivano espulsi dal settore agricolo non fossero particolarmente negative. Lo stesso non può invece essere detto delle attuali prospettive di coloro che subiscono le forme contemporanee di displacement dovute al cambiamento tecnologico e all’automazione in particolare, specialmente se il loro endowment di skill di partenza non è sufficientemente avanzato. Infatti, come scrive Autor: (…) after the late 1970s, these favorable winds slowed and in some cases reversed. While jobs at the top of the skill ladder—professional, technical, and managerial occupations—grew even more rapidly be-

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tween 1980 and 2010 than in the four decades prior, positive occupational shifts outside of these categories mostly halted. Skilled blue-collar occupations shrank rapidly and clerical and sales occupations — the vulnerable “production jobs” of the information age — sharply reversed course. While physically demanding operative and laborer jobs continued to atrophy, low-paid personal services began absorbing an increasing share of noncollege labor. By this time, the vast movement away from agricultural work had already played out. (2015: 10). FIGURA 4.2  Cambiamento nell’occupazione negli Stati Uniti 1940-1980 e 1980-2010

Fonte: Autor (2015)

Infine, il nostro quadro analitico di riferimento non sarebbe completo se non lo concludessimo apportando un qualche tipo di riflessione sulla connessione fra dinamiche di complementarità e sostituzione dovute al cambiamento tecnologico da un lato ed alla polarizzazione dei mercati del lavoro ed i suoi effetti sui salari dall’altro. Infatti, considerare le due cose come equivalenti significherebbe ignorare alcune delle principali variabili economiche che si osservano in un dato mercato e che contribuiscono a determinare sia il prezzo di un determinato bene che quello dei suoi input. Con la necessaria cautela dovuta ad un’eccessiva semplificazione dato il carattere di questo testo, si può dire di star parlando dell’elasticità della domanda del bene, e dell’elasticità dell’offerta dei lavori con le skill necessarie a produrre il bene in questione. La questione, esposta in parole assai povere, è la seguente. Il cambiamento



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tecnologico influsice sulle capacità produttive di una data azienda e/o di una data economia. Ma quali ne siano gli effetti complessivi sui lavoratori non dipende soltanto dal progresso tecnico in quanto tale, e questo neppure se si tiene in consdierazione la sua forma specifica. Dipende anche da come si comportano le preferenze dei consumatori e da come reagiscono (o possono reagire) al progresso tecnico i lavoratori nel loro insieme. Basti immaginare cosa accadrebbe, ipoteticamente, a lavoratori che sfruttano una nuova tecnologia per divenire enormemente più efficaci nella produzione di un bene che nessuno ha intenzione di consumare. Allo stesso modo, si può pensare alle conseguenze di un altrettanto fantasioso scenario nel quale una nuova tecnologia che rende i lavoratori incredibilmente produttivi nella creazione di beni fortemente apprezzati dai consumatori richiedesse a coloro che la debbono ‘sfruttare’ un quoziente intellettivo nel primo 1% della popolazione oppure un investimento di tempo quantificabile in 35 anni di studio. E, naturalmente, ci si può chiedere come le due dinamiche appena illustrate interagiscano. In sintesi, possiamo dire che le dinamiche di complementarità e di sostituzione sono molto importanti per comprendere il profilo generale degli effetti del cambiamento tecnologico sul mercato del lavoro, ma che gli effetti in questione e le associate dinamiche salariali possono essere sia aumentati che mitigati, ancora una volta semplificando, dall’elasticità della domanda per diversi tipi di beni e dall’elasticità dell’offerta per le varie skill che contribuiscono a produrli. Utilizzando esempi meno fantasiosi ma certamente con maggiore presa sulla realtà, possiamo fare riferimento a una categoria di lavoratori specifica: gli agricoltori italiani sono molto più produttivi oggi di cinquanta anni fa, ma gli italiani non consumano quantità di cibo enormemente superiore oggi di quanto non facessero qualche decennio orsono. E questo perché, di norma, la domanda per beni come il cibo prodotto dagli agricoltori è relativamente anelastica, e cioè tende a non variare in maniera proporzionale (aumentando, in questo caso) alla variazione di prezzo di tali beni (che diminuisce, in questo caso). Al crescere della sua produttività, il settore agricolo si ‘rimpicciolisce’: ogni impresa produce più facilmente una quantità maggiore di cibo, quindi ne servono meno per produrre la quantità complessivamente richiesta dal mercato (che resta grossomodo la stessa di prima del miglioramento tecnologico). Allo stesso modo, se immaginassimo una polarizzazione del mercato del lavoro che aumenti la domanda di un determinato tipo di skill senza sapere come l’offerta di tale tipo di skill reagisca all’aumento di domanda (in questo caso parleremo di elasticità dell’offerta dei lavoratori con la competenza in questione), non saremmo in grado di prevedere le conseguenze per il ‘prezzo’ di quella specifica skill. Per comprendere, anche in questo caso, tramite un esempio concreto: il medico di oggi, proprio come l’agricoltore odierno, è molto più produttivo grazie all’utilizzo delle nuove tecnologie; tuttavia questo non ha,

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al contrario di ciò che è accaduto all’agricoltore, diminuito la domanda per i suoi servizi e per quelli dei suoi colleghi, anzi, è vero il contrario. Inoltre, quest’ultima osservazione non è, di per sé, determinante se volessimo sapere come evolverà il salario del nostro amato medico. Per saperlo dovremmo quantomeno chiederci se sia elastica o meno l’offerta di competenze mediche. Difatti, una maggior domanda potrebbe portare più concorrenti nel mercato, con effetti di riduzione dei prezzi per la nota legge della domanda e dell’offerta. In questo caso specifico la risposta è che, dato il costo (in termini di tempo e investimenti necessari) di sviluppare competenze mediche, la loro offerta tende a essere anelastica. Riportando le nostre osservazioni nell’ambito delle nostre preoccupazioni specifiche, dobbiamo quindi chiederci come si possano comprendere gli effetti dei due tipi di elasticità appena illustrate sulle varie categorie di lavoratori che abbiamo sin qui considerato. Semplificando fortemente, possiamo dire che sino ad ora abbiamo preso in esame due macro-categorie di lavoratori. Quelli il cui lavoro viene reso più produttivo dal cambiemnto tecnologico in atto e quelli il cui lavoro viene sostituito da quest’ultimo. Inoltre, abbiamo suddiviso i lavoratori appartenenti al primo gruppo (che beneficiano di complementarità) in due categorie: a) quelli con skill relativamente meno sofisiticate (si pensi al personale delle pulizie); b) quelli con skill relativamente più sofisticate (si pensi al neurochirurgo). Mentre, se volessimo offrire un esempio chiaro di coloro che sono ‘vittime’ di fenomeni di sostituzione, possiamo pensare agli operai specializzati nel settore manifatturiero; questi, nonostante posseggano skill che si collocano, sempre semplificando, a metà fra il personale delle pulizie e il neurochirurgo, sono le principali vittime del displacement tecnologico. Come ci aiutano elasticità della domanda (di beni) e dell’offerta di competenze per comprendere il destino dei tre tipi di lavoratore appena citati? La risposta più semplice è la seguente. Partiamo dal gruppo di lavoratori con skill avanzate. Come ci dice Autor stesso, al crescere della loro produttività si è potuto costatare che la domanda per i beni e servizi associati a tali competenze è elastica mentre è anelastica l’offerta delle loro competenze e questo perché, essenzialmente, sono relativamente più difficili da sviluppare. In questo caso, si verificherà molto probabilmente un aumento delle opportunità occupazionali e del salario. Per quanto riguarda il gruppo di lavoratori con il livello relativamente più basso di skill, anche la domanda per i beni e servizi che essi contribusicono a portare sul mercato si è rivelata elastica. Se, però, si è potuta sperimentare una crescente domanda per quelle occupazioni che richiedono skill non codificabili nella parte ‘bassa’ del mercato del lavoro polarizzato, tale aumento di domanda è stato più che compensato dalla crescita di offerta di competenze in quei settori dove tali skill sono richieste. In questo caso si è quindi assistito a un miglioramento delle prospettive occupazionali ma non di quelle salariali. E, il motivo di questo risultato è relativamente semplice



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da comprendere: esso dipende proprio dal comportamento del terzo gruppo di lavoratori da noi preso in esame, e cioè le vittime del displacement tecnologico. Sono proprio loro ad aver aumentato l’offerta di skill relativamente meno sofisticate. E questo perché la transizione dai settori dove il displacement è stato più forte verso quelli che richiedono l’impiego di skill meno sofisticate, come ad esempio dal settore manifatturiero a quello dei cosiddetti ‘personal services’, non sembra avere barriere di entrata alte. In sintesi, gli operai specializzati possono molto più facilmente, data la loro dotazione di skill di partenza, operare una transizione verso l’universo delle ‘warehouse’ di Amazon, o verso Walmart, etc. piuttosto che verso l’ingegneria informatica, il top management delle grandi multinazionali, o la neurochirurgia. Cerchiamo di tirare le fila del nostro discorso sin qui. La nostra analisi ha preso come mercato di riferimento quello americano, ma, al netto di variazioni dettate da caratteristiche locali in altri paesi, possiamo dire che la trattazione dell’argomento in questa sezione del capitolo ci consente di avere una comprensione relativamente generale dell’impatto del cambiamento tecnologico sul mercato del lavoro. In primo luogo, abbiamo cercato di evidenziare la diade di base che spiega la forma generale di tali effetti: la differenza fra complementarità e sostituzione. Se una tecnologia è complementare ad una data skill, ne accresce la produttività, e quindi, ceteribus paribus, ne favorisce l’impiego; se invece la sostituisce allora, sempre ceteribus paribus, la rende in un certo qual senso obsoleta. Abbiamo poi cercato di comprendere come funzionano i fenomeni di complementarità e sostituzione dando per assunto che il principale processo di innovazione tecnica da prendere in considerazione sia il fenomeno dell’automazione. E abbiamo stabilito che il nucleo centrale della questione dipende dalla codificabilità esplicita di una data skill: si può più facilmente automatizzare ciò che si può rendere facilmente codificabile (relativamente parlando). Questo dato rende comprensibile la polarizzazione del mercato del lavoro quando questi viene investito da un’ondata di automazione: le skill difficili da codificare si trovano agli estremi di tale mercato. Sono, per intenderci, il neurochirurgo e l’ingegnere da un lato e il barbiere o il personale delle pulizie dall’altro. Infine, abbiamo reso il nostro quadro leggermente più complesso cercando di spiegare che, per comprendere la polarizzazione del mercato del lavoro e dei salari, si debbono anche prendere in considerazione l’elasticità della domanda di vari tipi di bene, e l’elasticità dell’offerta delle skill che contribuiscono a produrli. Se per quanto riguarda i livelli occupazionali si registra una domanda elastica per i beni prodotti tramite l’impiego di skill molto e poco avanzate, solo quest’ultime sono soggette ad un’offerta di skill simili che è elastica. Questo determina una crescita di occupazione agli estremi dello spettro delle competenze (le imprese di pulizie ed i neurochirurghi) ma effetti salariali positivi soltanto per coloro che hanno competenze più difficili da sviluppare (e quindi, usualmente, più avanzate).

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2.

Cambiamento tecnologico e scelte istituzionali

Nella sezione precedente abbiamo cercato di offrire un breve quadro analitico per comprendere gli effetti dell’automazione sul mercato del lavoro. Ma come abbiamo cercato di spiegare nell’introduzione a questo capitolo, terminare la nostra analisi con un tale quadro sarebbe invero assai limitativo per comprendere il fenomeno nel suo complesso, o, forse più modestamente, comprendere un aspetto ulteriore ma fondamentale del fenomeno alla luce del taglio analitico adottato dal nostro lavoro. La differenza essenziale alla quale abbiamo cercato di accennare nell’introduzione è fra gli effetti di un dato tipo di cambiamento tecnologico e le sue origini. Se, infatti, non è pensabile non avvalersi dei concetti di base della teoria economica per capire gli effetti del cambiamento tecnologico sul mercato del lavoro, non ci si può limitare all’interazione fra domanda e offerta di lavoro, piuttosto che alle dinamiche fra sostituibilità e complementarità, se di una data tecnologia se ne vuole conoscere la genesi. Detto altrimenti, e come la teoria economica stessa ha da tempo riconosciuto, bisogna sollevare il velo dell’esogeneità del cambiamento tecnologico e chiederci da dove esso provenga. La nostra ipotesi, in linea con quella di molti autori contemporanei, e anche con il nostro framework istituzionalista, sta nel suggerire che il cambiamento tecnologico, nel suo complesso, se non del tutto determinato dalle scelte istituzionali, ne sia da esse fortemente influenzato. Se ciò fosse vero, allora bisognerebbe mettere a sistema una tale visione con gli effetti delineati nella sezione precedente del capitolo. A questo compito ci dedicheremo in maniera comparativamente più dettagliata nella sezione successiva, ma, volendo anticipare quelle che sembrano essere conclusioni relativamente intuitive si può affermare quanto segue. Se un certo tipo di cambiamento tecnologico ha effetti fortemente asimmetrici nel mercato del lavoro sia in termini occupazionali che di salari e allo stesso tempo esso risulta essere generato, almeno in parte, da scelte istituzionali di natura pubblica, allora, ci troviamo in presenza non già di una fortuita (si fa per dire) serie di circostanze, ma di un qualcosa al quale sembra bene applicarsi il concetto di giustizia distributiva, e, in qualche misura, anche quello di giustizia politica. Entriamo quindi nel merito della nostra visione riguardante la genesi del tipo specifico di cambiamento tecnologico che abbiamo analizzato poco sopra. La cosa che ci preme maggiormente sottolineare è che, anche in questo caso, come per la visione di Rodrik che abbiamo discusso nel precedente capitolo dello scritto, sarebbe un errore di natura concettuale, a nostro modo di vedere, quello di considerare il cambiamento tecnologico come un dato non controllabile. Per dimostrare la validità di questa affermazione bisogna allora partire da una concezione della crescita economica più in generale e vedere come questa tiene conto del cambiamento tecnologico nel suo complesso.



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Nella versione neoclassica tradizionale (per intenderci quella del modello di Solow, si veda Solow, 1956; 1970), la crescita economica veniva in genere presentata come determinata dalla crescita della popolazione, dalla accumulazione di capitale e dal cambiamento tecnologico. La versione neoclassica di Solow, però, tendeva a rappresentare il progresso tecnologico come esogeno e quindi largamente determinato, o comunque fortemente correlato, al progresso scientifico. Inoltre, tale visione ci spingeva verso conclusioni relativamente deboli a proposito del rapporto fra crescita economica e scelte di policy: nel complesso, l’intervento pubblico (diretto o indiretto, ovvero sulle condizioni a contorno delle scelte dei privati) nel processo di crescita non viene dipinto come importante ma in larga parte marginale. E tale conclusione si applicava, in modo per noi decisivo, all’idea di cambiamento tecnologico stesso. In sintesi, quello che ci preme sottolineare è che, come scrive Shaw: What the early (…) neo-classical formulations of growth theory possessed in common was the belief that the third ingredient in growth, namely technical progress, was an exogenously determined, fortuitous and costless occurrence—descending like manna from the heavens. Even though it was recognized that technical progress could be the dominant element in the growth equation (…) there was no satisfactory account of the determinants of technical change. Indeed, in the neo-classical growth model with exogenous population expansion and exogenous technical change there was virtually no role for government to play. Discussion turned to the rather sterile issue of whether government intervention could speed up the process of adjustment in the event of some temporary disturbance from the steady state path. But there was no growth policy as such. (1992: 616-617) Gli sforzi di una parte della teoria economica successiva si sono quindi concentrati, inter alia, su due punti. Il primo è quello di meglio spiegare il ruolo del cambiamento tecnologico nell’alveo di una teoria della crescita economica (si veda ad esempio Arrow, 1962; Grossman e Helpman, 1994). Il secondo, e per noi più interessante, è quello di concepire il cambiamento tecnologico come endogeno (si veda Romer, 1990). Più in generale, le cosiddette teorie della ‘crescita endogena’ considerano il cambiamento tecnologico come il frutto di fattori legati a dinamiche quali: gli investimenti in capitale umano, il contesto produttivo, le capacità imprenditoriali, etc. La cosa da notare, dal nostro punto di vista, è che le implicazioni di policy di questo tipo di visione nel suo complesso sono certamente molto più rilevanti rispetto a quelle presenti nei succitati modelli neoclassici iniziali à la Solow. I modelli della crescita endogena vedono un ruolo dello stato nella formazione del capitale umano, e nel rimediare al parziale sotto-investimento in

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ricerca da parte dei privati visti gli spillover positivi che tali investimenti hanno per un settore oppure per una economia in generale (come ci ricorda Romer, le idee sono ‘non-rival goods’). Ragione per la quale, anche in una una visione in cui le scelte di investimento dei privati ‘dominano’ i modelli di progresso tecnico, si può notare che i fattori che intervengono nella comprensione della endogeneità della crescita economica sono sicuramente legati a scelte istituzionali. In questo senso, i modelli della crescita endogena spostano la frontiera: il ruolo del pubblico riappare, e le scelte istituzionali non sono irrilevanti. Come sintetizza efficacemente Acemoglu “(…) these models not only endogenize technological progress, but they also relate the process of technological change to market structure and to [public] policies concerning antitrust, competition, and intellectual property rights.” (2009: 411, enfasi aggiunta). A un livello di analisi più approfondito, va anche notato che, nell’alveo di un approccio alla crescita economica come quello offerto dai modelli endogeni, soggiace una visione generale della fonte del progresso tecnologico. Esso viene visto non come un fenomeno che semplicemente ‘accade’ in un certo modo, e prende forme specifiche per motivi che hanno a che fare con la totale imprevedibilità a priori della direzione futura delle innovazioni scientifiche, ed in ultima analisi con la sostanziale aleatorietà della creatività umana. Nella visione della teoria endogena, il cambiamento tecnologico dipende dagli incentivi di mercato ai quali vengono esposti coloro che lo debbono creare. Se la discussione su questo punto nella letteratura economica è vasta, accesa e variegata, c’è a nostro avviso sicuramente del vero in una concezione che comprende scelte istituzionali e dinamiche economiche come veri e propri motori dell’innovazione (per un classico si veda Schmookler, 1966). In aggiunta, sempre restando nell’alveo di quelli che abbiamo chiamato, seguendo la letteratura economica, modelli endogeni di crescita, ci piacerebbe presentare una visione specifica che si lega in maniera diretta con il framework analitico brevemente illustrato nella parte precedente di questo capitolo. Ci riferiamo, nello specifico, alle recenti iterazioni (che hanno precedenti storici importanti nel lavoro di autori come Hicks, Kaldor e Kennedy) dei modelli di crescita chiamati ‘directed technical change models’ (si veda soprattutto Acemoglu, 2002; 2009). Per comprendere il contributo di questi modelli, bisogna iniziare con una distinzione importante, e cioè quella fra la endogeneità del cambiamento tecnologico e quella della natura stessa di tale cambiamento. Detto altrimenti, se i modelli della crescita endogena, contrariamente a quelli neoclassici inizialmente sviluppati da autori come Solow, vedono il cambiamento tecnologico come il frutto di fattori endogeni a una data economia, quello che non spiegano è perché una specifica forma di cambiamento tecnologico si sviluppi in un dato contesto. Eppure, comprenderne l’origine sembra decisivo alla luce delle circostanze che abbiamo evidenziato nella sezione precedente di



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questo capitolo: è proprio la forma del cambiamento tecnico che contribuisce a determinare effetti specifici sul mercato del lavoro. Per appropriarsi del nesso fra le due cose, basti pensare all’andamento del cosiddetto ‘college premium’ nel contesto statunitense dal secondo dopoguerra a oggi e rapportarlo con l’offerta di skill derivanti dall’educazione terziaria (si veda figura 4.3). Nello specifico, il grafico descrive l’andamento del rapporto fra l’offerta relativa di skill (ossia il rapporto fra ‘college equivalent workers’ e ‘non-college equivalent workers’), e il cosiddetto college premium. Ora, il lettore che ha familiarità con le basi della teoria economica, noterà che vi è un’incongruenza nel grafico. A partire dagli anni ’60 circa, l’offerta relativa di skill (come questa è stata definita nella frase precedente) cresce. Allo stesso tempo però, e in modo inizialmente controintuitivo, il college premium stesso comincia a salire negli anni ’70. Questa dinamica è controintuitiva, dal punto di vista economico, perché assumendo ragionevolmente che i lavoratori cosiddetti ‘skilled’ e quelli cosiddetti ‘unskilled’ non siano perfetti sostituti, a una maggiore offerta relativa di lavoro ‘skilled’ dovrebbe corrispondere una diminuzione, non già un aumento, del college premium (ovvero del ritorno economico connesso all’acquisire più skill). Una spiegazione plausibile di tale fenomeno, proposta da molti lavori autorevoli (si veda Goldin e Katz, 2010; Acemoglu, 2002) sembra poggiare sul fatto che il cambiamento tecnologico degli ultimi decenni sia stato ‘skill-biased’, e cioè che abbia teso a favorire coloro che avevano un pacchetto di skill più sofisticate e avanzate relativamente parlando. Si notino due cose in proposito. La prima è che un cambiamento skill-biased ci aiuta spiegare l’andamento anomalo del college premium rispetto all’offerta relativa di skill perché, in sintesi e semplificando, suggerisce che, grazie a una specifica forma di evoluzione tecnica, la produttività dei lavoratori skilled è cresciuta in modo più rapido rispetto alla loro offerta relativa. La seconda cosa da notare è che, da un punto di vista descrittivo rispetto agli effetti del cambiamento tecnologico, siamo tornati esattamente dove ci siamo fermati illustrando le dinamiche legate all’automazione nella sezione precedente dello scritto; quello che però ora stiamo cercando di chiederci è: perche’ l’automazione e non qualcos’altro? E, come scrive Acemoglu, l’importanza di questa domanda viene resa ancora più significativa se ci rapportiamo all’esperienza storica delle economie avanzate negli ultimi due secoli: In contrast to the developments during recent decades, technological changes during the eighteenth and nineteenth centuries appear to have been unskill-biased. The artisan shop was replaced by the factory and later by interchangeable parts and the assembly line. Products previously manufactured by skilled artisans started to be produced in factories by

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workers with relatively few skills, and many previously complex tasks were simplified, reducing the demand for skilled workers. (…) First in firearms, then in clocks, pumps, locks, mechanical reapers, typewriters, sewing machines, and eventually in engines and bicycles, interchangeable parts technology proved superior and replaced the skilled artisans working with chisel and file. Even though the types of skills valued in the labor market during the nineteenth century were different from those supplied by college graduates in today’s labor markets, the juxtaposition of technological change biased toward college graduates in the recent past and biased against the most skilled workers of the time in the nineteenth century is both puzzling and intriguing. It raises the question: why was technological change, which has been generally skill-biased over the twentieth century, biased toward unskilled workers in the nineteenth century? (2009: 498). FIGURA 4.3:  Rapporto fra offerta relativa di skills e college premium

Fonte: Acemoglu (2009)

In sintesi, se il cambiamento tecnologico è endogeno, ci dicono i modelli di ‘directed technical change’, non sembra plausibile pensare che la sua forma specifica sia interamente esogena (Acemoglu, 2009: 499). Sembra quindi di grande importanza cercare di capire da ‘dove’ venga la direzione di tale cambiamento. La risposta generale che ci danno i modelli di ‘directed technical change’ è che anche in questo caso, così come nella visione endogena della crescita economica, bisogna comprendere le condizioni di mercato e quindi



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gli incentivi ai quali gli attori economici sono soggetti. In particolare, nel framework presentato da Acemoglu (2002), si devono considerare due effetti e la loro interazione: (…) there are two competing forces determining the relative profitability of different types of innovation: (i) the price effect, which creates incentives to develop technologies used in the production of more expensive goods (or equivalently, technologies using more expensive factors); (ii) the market size effect, which encourages the development of technologies that have a larger market, more specifically, technologies that use the more abundant factor. These two effects are competing because, while the price effect implies that there will be more rapid technological improvements favouring scarce factors, the market size effect creates a force towards innovations complementing the abundant factor. (2002: 783). Il modello di base esposto da Acemoglu si puo comprendere, in vero semplificandolo fortemente, utilizzando il seguente ragionamento. Si pensi a un’economia con due fattori di produzione, che chiameremo H (lavoratori con competenze relativamente sofisticate) e L (lavoratori con competenze relativamente meno sofisticate). In tale economia, si potranno sviluppare due tipi di tecnologia, una che definiremo come ‘H-augmenting’ (che favorisce la produttività relativa del fattore H), e la seconda che chiameremo ‘L-augmenting’ (che favorisce la produttività relativa del fattore L). Assumiamo inoltre che ci troviamo di fronte ad attori, come le imprese private, che desiderano massimizzare i loro profitti. In questo quadro, come si determina la scelta fra lo sviluppo di una delle due tecnologie? Si determina, a rigor di logica, a seconda delle circostanze economiche che di tali tecnologie ne spieghino la capacita relativa di generare profitto. E da cosa è influenzata questa capacità? Sempre semplificando, si può dire che sia determinata da due circostanze: a) i prezzi relativi dei beni prodotti tramite l’impiego della tecnologia sviluppata in combinazione con uno dei due tipi di lavoratore e b) la dimensione del mercato in cui una data tecnologia viene usata. Detto altrimenti, si adotterà una delle due tecnologie se i prezzi dei beni che essa consente di produrre sono relativamente più alti e se il ‘campo d’azione’ in cui la tecnologia viene dispiegata è relativamente più grande. I due effetti ‘spingono’ in direzioni differenti. Vale pena, data la forte chiarezza espositiva, di citare come il conflitto fra ‘price effect’ e ‘market size effect’ viene riassunto da Elhanan Helpman (2018): (…) in a closed economy – when the United States did not trade with the less developed countries – the relative supply of skilled workers [ossia H, quelli che abbiamo chiamot lavoratori con competenze relativamente

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sofisticate] had conflicting effects on the direction of change. On the one hand, the relatively greater availability of skilled workers raised the relative supply of skill-intensive products, which reduced their relative price [il cosidetto ‘price effect’]; and this encouraged relatively more innovation in the low-skill-intensive sector [ossia una tecnologia ‘L-augmenting’]. On the other hand, the relatively greater availability of skilled workers raised the market size for skill-intensive innovation [overo una tecnologia ‘H-augmenting’], which encouraged relatively more innovation in the high-skill-intensive sector [il cosiddetto ‘market size effect’].” (2018: 141) La risoluzione di questa ‘tensione’ fra i due effetti appena illustrati finisce quindi per dipendere, continua Helpman, “(…) on the elasticity of substitution between high-skill-intensive and low-skill-intensive products in consumption, which determines in turn the elasticity of substitution between high-skilled and low-skilled workers in overall manufacturing.” (2018:141). Sembra quindi chiaro che, in questo quadro, e date le osservazioni sull’aumentare del college premium anche in presenza di aumento dell’offerta di lavoratori relativamente più qualificati, Acemoglu suggerisca che il ‘market size effect’ ha di fatto dominato sul ‘price effect’ negli ultimi decenni; almeno per quel che riguarda il contesto statunitense. Riportando questa visione nella forma più immediata e semplificata possibile, e generalizzandola rispetto al tipo di skill, possiamo dire che l’adozione di un certo tipo di tecnologia dipende dal prezzo che i beni che essa ci consente di produrre avranno sul mercato e dalla dimensione del campo di azione nella quale essa può essere dispiegata. Il primo principio ci dice che, all’aumentare di un certo tipo di offerta di skill, i beni alla cui produzione tali skill contribuiscono tenderanno ad avere prezzi comparativamente inferiori, ma allo stesso tempo, che proprio in ragione dell’aumento di un certo tipo di skill, tecnologie che ad esse siano complementari tenderanno ad offrire guadagni di produttività maggiori perché potranno essere ‘dispiegate’ in un campo di azione più ampio. Inoltre, per anticipare un tema che, seppur brevemente, toccheremo nella prossima sezione di questo capitolo, ci preme sottolineare che il modello iniziale proposto da Acemoglu, e così chiaramente illustrato da Helpman, si basa sull’assunzione iniziale di assenza di apertura economica nei confronti del resto del mondo. Una volta messa da parte questa assunzione, ci si può chiedere come l’integrazione economica influisca sull’offerta relativa di vari livelli di skill, e in ultima analisi come essa influenzi la direzione specifica del cambiamento tecnologico. Infine, se, nel complesso le succitate idee possono restare compatibili con un ruolo che potremmo definire ‘complementare’ dello stato, e cioè come il creatore di un contesto economico favorevole all’innovazione, non va certo



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dimenticata la visione di coloro che, appellandosi alla idea di ‘industrial policy’, riscontrano (e sovente caldeggiano) interventi più attivi e diretti dello stato per influenzare la direzione stessa del cambiamento tecnologico. In sintesi, possiamo dire che vi siano almeno due visoni in campo. Nella prima e più mainstream, le politiche pubbliche sono fondamentali, ma, utilizzando una metafora sportiva, lo stato, di fondo, gioca di rimessa: influenza fortemente il contesto economico/ istituzionale, ma lo fa in maniera per lo più indiretta. Nella seconda, intesa sia come frame analitico per comprendere scelte istituzionali già accadute che come fonte di prescrizioni di policy, lo stato assume un ruolo più attivo: anziché giocare di rimessa, parte all’attacco, e guida la direzione specifica dell’innovazione. Basti pensare, a titolo esemplificativo, al ruolo centrale che lo stato, anche in un sistema capitalistico avanzato, ha nel finanziamento della ricerca di base. Questa sembra la lezione che economisti come Marianna Mazzuccato (2013) hanno cercato di propugnare negli ultimi anni (si veda anche Mazzuccato, 2016; Mazzuccato, Onida e Viesti, 2016; Chang, 2002; Wade, 1990). Ma se ciò è vero, allora non si può non pensare che vi sia una certa visione organizzata e politica alle spalle di almeno una parte dell’innovazione tecnologica che, partendo da finanziamenti pubblici e indirizzi legati, ad esempio, allo sviluppo di ricerca di base e\o tecnologie militari, percoli lentamente nel mondo delle imprese. Citiamo il lavoro della Mazzucato, visto il contesto della nostra analisi, perché proprio quest’ultimo pone l’accento in modo particolarmente efficace sulla scelta, da parte di molti governi occidentali e in particolare da parte di quello statunitense, di investire in scienza di base. Ma lo facciamo anche e soprattutto, perché la direzione di tali investimenti, ovvero in tecnologie legate all’elettronica, a internet, e al settore del computing, costituiscono, viene naturale pensare, il retroterra della frontiera tecnologica che ha permesso di diminuire i costi relativi di innovazioni nell’ambito dell’automazione e di altre tecnologie che si sono rivelate essere ‘skill-biased’. Mettendo a sistema i vari filoni argomentativi sviluppati sin qui possiamo affermare quanto segue. I modelli neoclassici tradizionali, come quello di Solow, vedono la crescita economica determinata in parte dal cambiamento tecnologico, ma essi non vedono nelle scelte istituzionali e in quelli di policy qualcosa che tale cambiamento possa influenzare. Il cambiamento tecnologico, giudicato da sempre uno dei motori della crescita, è visto come esogeno. Modelli più recenti, i cosiddetti modelli della crescita endogena, invece partono da assunti diversi. Essi vedono la crescita come fortemente influenzata da fattori endogeni a una data economia. Non solo, questi modelli vedono lo sviluppo tecnologico stesso come endogeno, ossia determinato dagli incentivi che il contesto economico offre agli attori privati. In questo senso, se ammettiamo che le circostanze economiche e gli incentivi ai quali gli attori privati sono soggetti sono influenzate dalle scelte istituzionali e di policy compiute da un

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paese (come, ad esempio, le scelte relative agli investimenti in capitale umano), allora la crescita economica dipende fortemente dalle politiche pubbliche. In aggiunta, se i modelli endogeni di crescita economica ci spiegano che le origini del cambiamento tecnologico non vanno rintracciate semplicemente nell’evoluzione della scienza, essi però non ci aiutano necessariamente a spiegarne la forma specifica che andrà ad assumere. È questa una delle motivazioni principali che hanno visto, negli ultimi due decenni, il tentativo di riformulare ipotesi relative al ‘directed technical change’. Tale motivazione è sicuramente rafforzata dall’interagire controintuitivo fra l’aumento relativo dell’offerta di lavoro più qualificato e il parallelo aumento del ritorno economico degli investimenti in capitale umano (qui inteso come il college premium). Nei modelli di ‘directed technical change’ questa circostanza ritorna nell’ambito di una comprensione neoclassica dell’economia e consente una spiegazione della prevalenza di innovazioni come la crescente automazione che sia in linea con le dinamiche di mercato. Ovviamente, però, anche in questo caso, le condizioni a contorno che determinano la scelta da parte degli operatori di mercato su quale tipo di tecnologia investire sono fortemente influenzate da scelte istituzionali che si trovano a monte, e nello specifico da scelte che riguardano l’investimento in educazione terziaria e l’apertura relativa al mercato mondiale. Infine, non mancano coloro che vedono nel ruolo dello stato qualcosa di assai più attivo che non un semplice intervento sulle condizioni di mercato. Sono questi i proponenti dell’importanza analitco-descrittiva, ma anche prescrittiva, delle politiche industriali. In una visione basata sull’idea di ‘industrial policy’ lo stato viene compreso non solo come fonte delle principali condizioni in cui operano gli attori privati ma bensì come vero proprio motore del cambiamento tecnologico e della sua direzione specifica.

3.

Cambiamento tecnologico e integrazione economica: una visione composita

Il nostro obiettivo, in questa sezione del capitolo quarto è quello di completare l’analisi della genesi del cambiamento tecnologico e di farlo allo stesso tempo mostrando come si possano integrare teoreticamente i due principali fenomeni oggetto della nostra analisi nei due precedenti capitoli dello scritto: una sempre maggiore apertura verso l’esterno delle economie occidentali e i fenomeni di cambiamento tecnologico. Prima di cominciare a spiegare i legami che fra essi intercorrono, ci preme però sottolineare due caveat importanti. Il primo è che un tema comune a entrambe i fenomeni è già stato ampiamente discusso ed esplicitato, e cioè la loro dipendenza da scelte di natura istituzionale. Se, a nostro avviso, questo fatto è di importanza decisiva, però esso non ci dice molto sulla connessione specifica che esiste fra i due fenomeni, ma si limita



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a presentarli come due ‘species’ dello stesso ‘genus’; e per giunta un genus con caratteristiche assai ampie. Il secondo caveat è che in quanto segue ci limiteremo a presentare connessioni fra i due fenomeni a vari livelli di generalità e soffermandoci prettamente sugli aspetti legati alle dinamiche economiche piuttosto che a quelle politiche. Lo scopo di procedere a evidenziare questi legami non è quindi quello di esprimere una visione teoretica unica, ma bensì quello di completare la nostra analisi offrendo al lettore spunti per comprendere che, se la ‘hyper-globalization’ e il cambiamento tecnologico possono essere distinti analiticamente per essere studiati separatamente, essi sono legati da una logica e spesso anche da approcci intellettuali e teorici che non li vedono come scissi. Per dimostrarlo, procederemo nel modo seguente. Cominceremo con il presentare il legame astratto che esiste fra integrazione economica e cambiamento tecnologico evidenziando come essi possano essere descritti o ri-descritti in maniera analoga. In secondo luogo, faremo menzione della recente concezione della globalizzazione economica offerta da Richard Baldwin (2016). Una visione nella quale è il cambiamento tecnologico a consentire diverse modalità e forme di localizzazione spaziale delle attività economiche. Infine, termineremo con un ritorno alla visione della crescita economica basata sui modelli di ‘directed technical change’ e mostreremo il modo in cui, una volta fatta cadere una delle assunzioni del modello base, si può comprendere come l’integrazione economica abbia effetti sulla forma stessa che il cambiamento tecnologico andrà ad assumere. Così facendo, illustreremo il fatto che fra i due fenomeni esiste un’interconnessione concettuale profonda, e visioni nelle quali l’uno o l’altro si scambiano (parzialmente) il ruolo di fattore principale che contribuisce a influenzare l’altro. Partiamo quindi dal legame concettuale. Senza voler ridurre la hyper-globalization a semplice integrazione economica (intesa come ‘shallow integration’), possiamo chiederci che cosa renda potenzialmente attraente una maggiore integrazione fra economie diverse e se esiste un legame con il cambiamento tecnologico (si veda Rodrik, 2011: 49 ff.; Panagariya, 2019: 28 ff.). Una prima, relativamente banale, osservazione è che, se il commercio internazionale fa ‘viaggiare’ i prodotti, esso farà con essi viaggiare anche le tecnologie che sono state usate per produrli. In questo senso, per un paese relativamente meno sviluppato dal punto di vista tecnologico, importare beni può significare importare tecniche di produzione e invenzioni più vicine alla frontiera dell’innovazione globale. Questo tipo di legame è però superficiale e in un certo qual senso limitato. Per raggiungere a un livello di profondità appena superiore bisogna partire da una semplice domanda: quanti lavoratori ci sembra ottimale impiegare per produrre una data quantità di un dato output, per esempio, un paio di scarpe?

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La risposta, intuitivamente parlando, sembra evidente (e forse addirittura tautologica) se adottiamo un criterio di valutazione basato esclusivamente sull’idea di efficienza: il numero minore possibile. Se, per esempio, oggi ci volessero tre lavoratori per produrre il nostro paio di scarpe, e domani scoprissimo un modo per produrlo ‘usandone’ soltanto due, ceteribus paribus, questo tipo di cambiamento ci sembrerebbe positivo. Ovviamente, impiegare un terzo in meno di forza lavorativa per ottenere lo stesso risultato non è cosa da tutti i giorni, e quindi ci potremmo chiedere da dove provenga la nostra capacità di ridurre i costi di produzione del paio di scarpe. E un modo in cui questo può avvenire è chiaramente perché una nuova tecnologia ce lo consente. Come abbiamo già discusso in precedenza (si veda il capitolo terzo), usare il concetto di efficienza come unico metro di giudizio delle scelte economiche è moralmente discutibile - ma se il criterio che decidiamo di adottare è esclusivamente quello dell’efficienza, allora non sembra possibile negare che produrre la stessa quantità di output con una minore quantità di input sia un progresso. La domanda successiva che ci potremmo porre a questo punto è la seguente: sempre dal punto di vista dell’efficienza, esistono altri metodi, oltre al cambiamento tecnologico, per ottenere risultati analoghi? E la risposta iniziale, di stampo pre-Ricardiano, è che basterebbe lasciar fare agli altri ciò che fanno meglio di noi. Importare beni equivalenti che un altro paese produce a costi inferiori è, nei suoi effetti dal punto di vista dell’efficienza, equivalente ad adottare una tecnologia nuova che ci consente di ridurre la quantità di input nel processo produttivo. Si notino due cose a tale proposito. La prima è che abbiamo usato due espressioni differenti nella frase precedente, ovvero ‘quantità inferiore di input’ e ‘costi inferiori’. Questo è un nodo centrale, perché l’utilizzo della seconda espressione segnala che il guadagno in termini di efficienza dovuto all’importazione del bene non è necessariamente dettato dall’impiego di una tecnologia superiore nell’altro paese (cosa che renderebbe la nostra analogia non molto utile), ma può essere determinato da fattori quale il minore costo del lavoro. In secondo luogo, si noti che l’esempio è ‘pre-Ricardiano’, nel senso che illustra il principio comune ai due fenomeni (cambiamento tecnologico e integrazione economica) senza utilizzare l’idea di vantaggio comparato. Tale scelta è dettata da motivi di semplicità espositiva. La sostanza resta però invariata: sia il cambiamento tecnologico che l’integrazione fra i mercati sono modi di aumentare l’efficienza produttiva, e, in questo senso, sono concettualmente analoghi. Partendo da un tale spunto, e mettendeolo a sistema con le nostre considerazioni iniziali sulla natura istituzionale di entrambe i fenomeni, possiamo quindi anche affermare che integrazione economica e cambiamento tecnologico siano accomunabili da un punto di vista morale: entrambe hanno importanti effetti distributivi e quindi entrambe debbono essere valutati in base a un



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insieme di principi e valori che includano ma non si riducano a criteri di efficienza. Giova a tale proposito citare esplicitamente le parole di Driskill (2012): (…) profit-driven technological change is quite similar in its effects to trade liberalization: some people are helped, others harmed, but the gains to the winners are greater than the losses to the losers. As with free trade, such changes in economic circumstances seldom draw critical thought anymore. For example, to call someone a Luddite is to insult them with an implication that they do not understand the virtues of technological progress. An attempt to argue that perhaps the Luddites had a point – after all, it was their livelihood at stake – tends to elicit comments from some other economists that suggest it is self-evident that the Luddite position was wrong. At a more fundamental level, the denigration of Luddites reflects a view that economists know ‘best’ about how societies should view the trade-offs between material progress and equity. Some people have different views about such tradeoffs, though. (2012: 4-5). Andiamo oltre e investighiamo il legame fra i due fenomeni da un punto di vista teorico. E per farlo cominciamo dalla visione della globalizzazione economica di Richard Baldwin (2016; si veda anche Amato, 2012: 23-28; Grossman e Rossi-Hansberg, 2008; Baldwin e Robert-Nicoud, 2014), e cioè una visione nella quale è il cambiamento tecnologico a spiegare il tipo specifico di integrazione fra i mercati che si ottiene a livello globale. Infatti, per Baldwin, bisogna comprendere la globalizzazione economica, e invero la stessa localizzazione geografica delle attività produttive, in base agli sviluppi tecnologici che hanno consentito quelli che lui stesso definisce successivi ‘unbundling’ (termine che Amato traduce con ‘spacchetamento’, 2012: 23) fra localizzazione della produzione e localizzazione del consumo (2016: 4). All’interno di quella che egli stesso definisce una ‘three-cascading-constraints narrative’ (2016: 8) della globalizzazione economica, il ruolo del cambiamento tecnologico sta proprio nel consentire l’abbattimento progressivo (e però, cosa decisiva, nei fatti non sincronico) di tre tipi di ‘costi legati alla distanza’, ovvero il costo di spostare beni, idee e persone. Al diminuire di tali costi, si dispiegano diverse configurazioni geografiche delle attività produttive a livello mondiale. Si inizia quindi con la rivoluzione industriale e il drastico abbassamento dei costi legati al trasporto dei beni. Questo primo ‘unbundling’ ha consentito di spezzare il legame forzato fra dove un bene viene prodotto e dove viene consumato nella maniera più semplice concepibile: consentendo lo spostamento della produzione di beni pronti per essere consumati dal luogo in cui essi vengono effettivamente consumati.

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L’avvento delle cosiddette ICTs (Information and Communication Technologies) negli anni ’90 del secolo scorso segna invece il progressivo, e assai repentino, abbassamento del costo di spostare le idee da un luogo ad un altro e così facendo, quello che Baldwin chiama il secondo ‘unbundling’, consente a un flusso di idee, e know-how, spesso generato nelle economie avanzate, di essere trasferito in una manciata di paesi in via di sviluppo. Il secondo ‘unbundling’ consente quindi un distacco ancora maggiore fra produzione e consumo nella misura in cui non sono più (soltanto) i beni che vengono ‘spostati’ verso consumatori lontani, ma le varie fasi della produzione che si delocalizzano e si dispiegano geograficamente sull’intero pianeta all’interno delle cosiddette catene globali del valore. Più specificamente, l’abbassamento del costo di spostare informazioni e idee permette di fare incontrare capitale e know-how tecnologico e imprenditoriale originato nei paesi avanzati con la manodopera e il lavoro a costi inferiori di un gruppo selezionato di paesi emergenti in un unico processo produttivo; e questo con bassi costi di organizzazione e coordinazione all’interno di una stessa azienda oppure di una stessa filiera che intreccia varie aziende per la produzione di un unico bene. In quest’ottica, se le ICTs rendono il costo dello spostamento delle idee basso, è l’altrettanto basso costo del lavoro nei paesi emergenti che rende l’incontro fra i due ricco di possibilità di profitto da parte delle grandi aziende multinazionali. La tempistica sfasata dei primi due ‘unbundling’, continua Baldwin, è decisiva per comprendere la fortissima divergenza fra paesi occidentali e il resto del mondo dal 1820 al 1980 circa, e l’impressionante fenomeno di segno opposto di convergenza economica che è accaduto sotto i nostri occhi negli ultimi trenta anni. Rimane invece ancora alto, a detta dell’autore statunitense, il costo di spostare le persone, e con esso il tentativo di separare definitivamente in senso geografico il lavoratore dal suo lavoro (si pensi all’idea di un barbiere che vi faccia un taglio di capelli lavorando da Mumbai). Al netto di quella che è sicuramente una presentazione semplificata della visone complessa e sofisticata proposta da Baldwin, si possono notare due aspetti principali nel suo approccio. Il primo riguarda, come accennavamo sopra, il ruolo del cambiamento tecnologico all’interno del binomio tecnologia-integrazione economica mondiale. Il secondo riguarda il rapporto fra la visione di Baldwin e gli effetti distributivi del secondo ‘unbundling’. Sul primo punto, possiamo dire che, almeno nella visione offerta da Baldwin nel suo splendido volume The Great Convergence (2016), la tecnologia, e nello specifico le ICTs (che sono collegate ma non vanno confuse con il binomio intelligenza artificiale-automazione), sembrano svilupparsi per motivi spesso esogeni, per usare il gergo che abbiamo sviluppato nella sezione precedente del capitolo. In secondo luogo, uno degli aspetti più interessanti della visione proposta risiede nelle implicazioni che essa può avere per le dinamiche distributive



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relative all’integrazione economica mondiale. A detta di Baldwin, il nuovo tipo di globalizzazione ha effetti distributivi più repentini e maggiormente micro-localizzati, e quindi molto più difficili da prevedere e controllare (2016: 168). Questo ci sembra un punto importante al quale vorremmo aggiungere una chiosa: se è vero che nella visione di Baldwin gli effetti distributivi sono meno facilmente comprensibili tramite logiche settoriali, va anche detto che questo non per forza ci impedisce di avere un qualche tipo di visione aggregata sui profili distributivi per vari gruppi socio-economici. Infine, poniamoci in un’ottica leggermente diversa, quella nella quale è il cambiamento tecnologico a essere (parzialmente) determinato dall’integrazione fra mercati. Per fare questo, ritorniamo al modello di ‘directed technical change’ sviluppato da Daron Acemoglu, e vediamo che ruolo può giocare l’integrazione fra mercati su quelle variabili che abbiamo viste essere importanti per spiegare la forma specifica del cambiamento tecnologico. Come il lettore ricorderà, uno degli assunti del modello di base sviluppato da Acemoglu, almeno per come lo abbiamo illustrato nella sezione precedente del capitolo, era proprio quello che una data economia (con caratteristiche di sviluppo e dimensioni simili a quelle degli Stati Uniti) fosse inizialmente concepita come isolata dal resto del mondo. Il motivo per una tale scelta, da un punto di vista puramente intuitivo sembra, anche se teoreticamente giustificabile in prima battuta, discutibile in senso assoluto visto che l’integrazione fra mercati potrebbe avere effetti su alcuni degli elementi che determinano la direzione specifica del cambiamento tecnologico: e cioè l’offerta relativa di vari tipi di skill. Ed è proprio per questo motivo che il lavoro di Acemoglu (si veda soprattutto Acemoglu, 2003) ha cercato di tenerne conto. L’ipotesi principale dell’economista del MIT a tale proposito, poi dimostrata nel corso del suo più significativo lavoro in merito è relativamente chiara: The most important hypothesis in this paper is that increased international trade may have been more important than generally believed [in termini dei suoi effetti distributivi] because it induces skill-biased technical change. Therefore, this paper argues that the two competing explanations for the increase in the demand for skills, trade and technology, may be related. The basic reason why trade induces skill-biased technical change is that it creates a tendency for the U.S. relative price of skill-intensive goods to increase. This change in relative prices increases the demand for technologies used in the production of these goods, makes these technologies more profitable to develop, and encourages further technical change directed at them. (2003: 200).

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Ritornando brevemente ai cenni relativi al cambiamento tecnologico endogeno come concepito dallo stesso Acemoglu, e da noi illustrati nella precedente sezione del capitolo, possiamo ricordare che i due effetti principali che influenzano la direzione specifica del cambiamento tecnologico sono il cosiddetto ‘price effect’ e il cosiddetto ‘market size effect’, e che, normalmente, questi ‘spingono’ in direzioni differenti. Nello specifico, il ‘price effect’ dovrebbe riverberarsi negativamente sul ritorno alle skill la cui offerta relativa va aumentando, mentre il contrario dovrebbe accadere per quanto riguarda il ‘market size effect’. Inoltre, nel contesto statunitense, visto l’aumento del college premium, e tenendo a mente quello che è stato sicuramente un aumento concomitante dell’offerta relativa di skill più sofisticate dovute a un’educazione terziaria, si poteva concludere che (accettando il modello per buono) la spiegazione dello ‘skill-biased technological change’ doveva risiedere in larga parte sul fatto che l’impatto del ‘market size effect’ era superiore a quello del ‘price effect’. In questo tipo di framework, si può allora aggiungere che l’integrazione fra mercati, sempre considerando il caso statunitense, può agire come forza che tempera il ‘price effect’ (relativamente parlando) e che quindi contribuisce a rinforzare la natura skill-biased del cambiamento tecnologico. E, come ci dice Acemoglu stesso, la conclusione teorica più significativa che possiamo trarre se prendiamo per buona la sua analisi è che la forma specifica del cambiamento tecnologico e l’integrazione fra mercati dei paesi occidentali e quelli dei paesi emergenti, date le caratteristiche relative in termini di skill, sono interconnesse e si rafforzano l’una con l’altra. Terminiamo la nostra analisi della connessione fra cambiamento tecnologico e integrazione economica con un breve sunto e un avvertimento che ci sembra importante. Il sunto, passando sopra molte complessità, è che il cambiamento tecnologico e l’integrazione fra mercati sono concettualmente legate tramite l’idea di efficienza e che vi sono buone ragioni per pensare che si influenzino a vicenda. Sia perchè la forma specifica di globalizzazione economica può in parte dipendere dalle tecnologie a nostra disposizione, sia perché la forma specifica del cambiamento tecnologico in un dato paese può dipendere da come l’integrazione economica influisce sulle variabili endogene che contribuiscono a determinare lo sviluppo di tecnologie e innovazioni con caratteristiche specifiche. Le due prospettive offerte nei paragrafi precedenti non sono necessariamente in conflitto, ma possono essere viste come parti di una spiegazione causale complessa e interattiva, dove i due tipi di dinamiche si intrecciano e influenzano a vicenda. In questo senso, come osserva giustamente Helpman (2018), la difficoltà nello stabilire quale dei due fenomeni in oggetto sia davvero responsabile delle conseguenze distributive nei paesi avanzati dipende sicuramente dal fatto che isolarne uno rispetto all’altro non è cosa semplice da ottenere, sia concettualmente che in termini di dati. In tutti i casi,



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però, giova ricordare che il quadro complessivo che ne ricaviamo, a nostro giudizio, permette di tenere stabile la nostra prospettiva di fondo: a prescindere dal carattere specifico delle dinamiche di interazione fra integrazione economica e cambiamento tecnologico il binomio ‘scelte istituzionali-conseguenze distributive’ rimane in piedi e lo fa, nella maggior parte dei casi penalizzando proprio le fasce più deboli delle popolazioni occidentali.

4.

Elementi per una filosofia politica del cambiamento tecnologico

In quanto segue, non sarà ovviamente possibile offrire un’analisi esaustiva del rapporto fra filosofia politica e cambiamento tecnologico. In questo senso, l’utilizzo del termine ‘elementi’ nel titolo del presente paragrafo va inteso come un riferimento a direttrici di pensiero piuttosto che a una visione complessiva e articolata. Da un punto di vista generale, è chiaro che vi sia un rapporto intimo fra cambiamento tecnologico e questioni morali. Per comprendere la natura del nesso, basti pensare al fatto che molti tipi di innovazione vengono strettamente regolamentate dalla maggior parte degli stati, se non addirittura proibite, e che tali scelte siano spesso connesse a posizioni morali esplicite (si veda Rodrik, 2011: 54). Esempi cogenti non mancano se ci avviciniamo ad aree d ricerca come il nucleare, oppure l’agro-alimentare, senza parlare poi del ruolo dell’etica nella comprensione dei limiti che la ricerca genetica debba rispettare (si veda ad esempio Buchanan, 2017). Nuovi tipi di tecnologia vengono, in sintesi, sempre vagliati, per utilizzare un termine relativamente neutro, dal punto di vista pubblico, e la loro desiderabilità è spesso oggetto di analisi basate su concetti squisitamente etici, non semplicemente economici, piuttosto che politici. In questo contesto, ci sembra quindi naturale ponderare e chiederci se, alla luce del nostro sforzo analitico nelle due precedenti sezioni, vi sia un modo per offrire una prospettiva filosofico politica sul cambiamento tecnologico – possibilmente facendone emergere il legame con la forma specifica che questi ha assunto di recente (quella che abbiamo definito ‘skill-biased’ e che è bene illustrata dall’idea di automazione), sia con la visione normativa complessiva che abbiamo cercato di offrire nel primo capitolo di questo volume, che con l’approccio istituzionalista che si è scelto di adottare per comprendere i fenomeni economici. Partiamo quindi da quest’ultimo, e cioè dal nesso fra cambiamento tecnologico e scelte istituzionali. Mettere le varie considerazioni svolte sin qui a sistema ci consente, a nostro avviso, di collegarci in modo abbastanza lineare con la discussione del quadro teorico di Rodrik, e in ultima analisi alla visione istituzionalista di North. Il punto centrale, anche in questo caso, è che né gli effetti, né tantomeno le origini, del cambiamento tecnologico sono da consi-

152  Populismo e filosofia politica

derarsi come ‘manna dal cielo’, e quindi esogeni rispetto alle nostre scelte di governance economica. Essi, sono in parte dettati dalla struttura dei mercati nei quali si sviluppano, e risentono dell’influenza, per esempio, delle scelte relative agli investimenti in capitale umano. Inoltre, essi sono ‘direzionabili’ da uno stato che adotta un dato tipo di politica industriale. In sintesi, come scrive Daron Acemoglu (2019), non vi è ragione di pensare che le diseguaglianze occupazionali e di reddito generate da tali sviluppi tecnologici siano semplicemente inarrestabili: Let me first dispense with the claim that not much can be done because growing inequalities and the disappearance of old-style good jobs are inexorable consequences of the age of artificial intelligence and robots. They aren’t. We choose how to use technology and many options, with potentially much better outcomes for labor, are feasible. In fact, automation is nothing new. It’s been ongoing for the last two and a half centuries. Demand for labor grew vigorously in the four decades following World War II (and wages for all groups rose more or less in tandem) because the forces of automation were counterbalanced by firms using their technologies in other ways that increased the demand for different types of labor. This included new technologies complementing labor and most importantly new tasks in which workers could be productively employed. The rupture with the past arose not just because robotics and artificial intelligence have increased the pace of automation. It is in equal measure a consequence of firms no longer seeking new ways to productively employ labor. (Acemoglu, 2019: 6) Questo tipo di conclusione ci sembra di grande rilievo per un semplice fatto: se le origini e l’impatto di un dato tipo di cambiamento tecnologico sono il frutto di scelte (sia pubbliche che private) e non già di cose che semplicemente ‘accadono’, allora il paradigma filosofico politico, e in particolare quello legato ai concetti di giustizia politica e distributiva, sembrano assumere una valenza differente. Più specificamente, una visione ‘istituzionalista’ del cambiamento tecnologico ci porta a vedere il nostro paradigma filosofico politico come particolarmente saliente, visto che le scelte istituzionali costituiscono, per molti versi, il ‘luogo naturale’ della filosofia politica. I temi che la filosofia politica deve affrontare, in questo contesto, e in linea con la nostra visione normativa nel capitolo primo, sono ancora una volta legati a questioni distributive e questioni di autonomia politica in senso lato. In aggiunta, e questo è un tema che ci sembra specifico al problema della forma attuale del cambiamento tecnologico, si pone una questione che sembra resistere alla visione dicotomica della distinzione fra giustizia distributiva e giustizia politica; il tema del controllo pubblico, o quantomeno diffuso, sui



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frutti dell’innovazione. Possiamo esplicitare questi aspetti filosofico politici nel modo seguente. In primo luogo, come abbiamo visto nella prima sezione di questo capitolo, a una data forma di cambiamento tecnologico corrisponde, in genere, un determinato effetto distributivo, sia sulle opportunità occupazionali che per il livello dei salari, e quindi del reddito. In secondo luogo, se una data forma di cambiamento tecnologico, ad esempio il binomio intelligenza artificiale-automazione, ha implicazioni distributive, e se in aggiunta ha implicazioni per le relazioni sociali e umane fra le persone, allora ci sembra naturale pensare che la sua regolamentazione, nel senso ampio del termine, debba essere frutto di scelte politiche democratiche. Detto altrimenti, le dinamiche istituzionali che, come abbiamo visto, influenzano fortemente la direzione specifica del cambiamento tecnologico, debbono essere rese esplicite nel dibattito pubblico e sottoposte a una qualche forma di accountability collettiva ispirata alle procedure democratiche. Infine, la questione del controllo sui frutti dell’innovazione tecnologica. Come abbiamo accennato, quest’ultima resiste una classificazione netta fra aspetti distributivi e politici. Riprendendo e modificando quella che potremmo definire una visione ispirata alla lezione di Marx sul controllo dei mezzi di produzione, ci si può senz’altro chiedere quali siano gli scenari da prendere in considerazione rispetto alla proprietà di un elemento centrale del processo prduttivo in un contesto in cui questo elemento tenda a generare effetti assai diseguali su ‘gruppi’ (classi?) differenti all’interno di una data popolazione. In quanto segue ci limiteremo a sviluppare brevemente, due delle tre direttrici filosofico politiche che abbiamo appena esplicitate, partendo da quelle che riguardano gli effetti distributivi dell’innovazione e proponendo qualche breve osservazione su forme di controllo pubblico (o diffuso) di quest’ultima. I motivi per questa scelta sono due. In primo luogo, perché ci sembra, come abbiamo accennato anche nel primo capitolo di questo volume, che vi sia un consenso maggiore sull’idea di controllo democratico rispetto alle scelte pubbliche. Almeno da un punto di vista normativo, tale affermazione sembra difficile da confutare, anche al netto di coloro che, forse in preda a nostalgie platoniche, rifiutano esplicitamente la visione democratica (si veda Brennan, 2016). La questione principale, a noi pare, quando si tratta di accountability pubblica, sta nello stabilire che un dato fenomeno sia il risultato non solo di dinamiche impersonali e/o incontrollabili. Cosa che abbiamo, ci piace pensare, sufficientemente illustrato e spiegato nelle sezioni precedenti del capitolo. In secondo luogo, gli aspetti legati alle dinamiche distributive e al controllo del capitale produttivo percorrono, forse proprio in ragione di una visione ‘esogena’ del cambiamento tecnologico, strade meno filosoficamente ‘battute’ (ma si veda Celentano, 2019b). Se così fosse, il valore aggiunto di una loro esplorazione sarebbe maggiore.

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Partiamo quindi dagli aspetti distributivi. Che cosa possiamo dire in proposito? La nostra analisi ha evidenziato, sulla scorta di autorevoli contributi provenienti dalla letteratura economica, che gli effetti della forma attuale di cambiamento tecnologico hanno avuto come caratteristica principale la polarizzazione del mercato del lavoro in termini sia occupazionali che di salario. Tale polarizzazione ha visto, essenzialmente, la ‘migrazione’ di persone con occupazioni facilmente codificabili proiettate verso lavori meno attraenti (dal punto di vista salariale e in termini di skill impiegate), mentre ha visto coloro che hanno skill meno facili da codificare, e specialmente coloro che hanno skill avanzate astratte, proiettati in un futuro in cui l’automazione e l’intelligenza artificiale sono complementari rispetto alle loro qualità produttive e contribuiscono a determinare un miglioramento delle prospettive occupazionali e di quelle salariali. È utile ricordare che, come abbiamo visto nel primo capitolo, il prioritarianesimo ha, fra le sue caratteristiche più importanti, quella di stabilire un nesso fra il valore morale di un dato outcome e il benessere relativo degli attori coinvolti. Ovviamente, per ottenere una connessione precisa fra le due cose bisognerebbe, formalmente, stabilire il ‘peso’ da attribuire all’idea di priorità relativa, e una metrica esatta che classifichi le persone in termini di condizione relativa. In quanto segue, non ci sarà consentito di approfondire la nostra analisi in modo tale da proporre, e tantomeno difendere analiticamente ed eticamente, scelte teoretiche specifiche in merito: ci accontenteremo, come fatto nel primo capitolo del volume, di segnalare l’importanza delle risorse economiche e delle opportunità lavorative per comprendere in senso lato la condizione delle persone. Nonostante tale caveat, e anche in mancanza di una definizione formale di come si applichi con esattezza compiuta il concetto di prioritarianesimo al fenomeno di polarizzazione del mercato del lavoro appena evidenziata, ci sembra non particolarmente peregrino pensare che i fenomeni di automazione, presi nel loro complesso, hanno peggiorato le condizioni occupaizonali e salariali di coloro che già stavano peggio relativamente parlando. Se così fosse, ci troveremo di fronte a circostanze dove non viene rispettata la concezione di giustizia distributiva che ci sembra intuitivamente più attraente e largamente condivisa nelle democrazie occidentali. A questa conclusione si potrebbe obbiettare che la polarizzazione del mercato del lavoro potrebbe avere dei benefici per i lavoratori che partivano dal livello più basso (in senso assoluto, se così si può dire; pensiamo agli addetti alle pulizie per esempio). Tale obiezione, a nostro avviso, non coglie però nel segno. In primo luogo, perché, come abbiamo visto, le dinamiche salariali non la confortano. Se è vero che dal punto di vista occupazionale si possono riscontrare maggiori opportunità ‘verso il basso’, queste opportunità non si sono trasformate in sostanziali vantaggi economici perché, inter alia, l’offerta di lavoro per quel livello di skill è considerevolmente aumentata. In



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secondo luogo, perché vanno distinte le dinamiche salariali da quelle legate al concetto più ampio di ‘retribuzione’. Non possiamo in quanto segue addentrarci nell’evidenza empirica su questo punto, ma la sensazione, almeno da un punto di vista aneddotico, è che le dinamiche di retribuzione, ovvero il compenso complessivo che un lavoratore riceve e che include anche i benefit non prettamente monetari, siano anch’esse peggiorate nel tempo per quanto riguarda la parte bassa del mercato del lavoro polarizzato. In aggiunta, anche se ci siamo limitati a considerare, nel contesto della giustizia distributiva, le risorse economiche e le opportunità lavorative come aventi un ruolo fondamentale nello stabilire la condizione di una persona, va segnalato che quest’ultima è una pur sempre parziale semplificazione adottata per facilitare la nostra analisi. Se la si mettesse da parte, si potrebbe indagare, per esempio, come le condizioni di lavoro nella parte bassa del mercato polarizzato siano evolute negli ultimi anni. La nostra ipotesi, in linea con quella di molti studiosi, è che fenomeni come la precarizzazione contrattuale, il micro-controllo manageriale, e lo ‘on-call scheduling’, siano sempre più diffusi nei lavori che richiedono comparativamente meno skill e che essi influiscano negativamente sul benessere dei lavoratori (si veda McCrate, 2018; Woodcock, 2016). Infine, veniamo alla discussione sulla proprietà e/o il controllo delle innovazioni tecnologiche. Non sarebbe, a nostro avviso, per nulla avventato dichiarare che quella dell’importanza della proprietà e del controllo sui mezzi di produzione sia stata, perlomeno a partire da Marx (che a tale questione legava la vera e propria definizione di un sistema capitalistico), una delle questioni centrali della sociologia economica, e della teoria economica eterodossa (si veda a tale proposito Cohen, 1979). In aggiunta, va anche ricordato che un importante filone parallelo di indagine su tali questioni può essere rintracciato nella letteratura economica e filosofica recente. Ci riferiamo a tutte quelle proposte di policy e filosofico politiche che mirano allo spostamento dell’attenzione delle politiche pubbliche volte al raggiungimento dell’equità sociale dall’idea di redistribuzione ex-post all’idea di ‘pre-distribuzione’ (sul concetto di pre-distribuzione si veda Meade, 1964). Un tipo di approccio importante legato a queste indagini (e relative proposte di policy) si può trovare all’interno della recente letteratura economica in merito ai possibili rimedi alle crescenti disuguaglianze nei paesi occidentali (si veda Atkinson, 2015). Un altro approccio, stavolta piuù filosofico, si propone di creare un ruolo centrale per la pre-distribuzione come pietra miliare di una buona teoria della giustizia distributiva (si veda ad esempio O’Neill e Williamson, 2012; Ackerman e Alstott, 2000). Anche tenendo a mente quelle che sono differenze teoretiche significative, basti pensare alla distinzione fra ‘ricchezza’ e ‘capitale’ (si veda Harvey, 2014), quello che sembra accomunare le varie proposte in materia (sia quelle di stampo marxista, che quelle di stampo più liberale) è la preoc-

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cupazione per lo status politico-economico che la persona-lavoratore ha in una società democratica caratterizzata da meccanismi di allocazione guidati da forze di mercato. La nostra sfera di indagine sarà, prevedibilmente, assai più limitata. In primo luogo, si noti che ci concentriamo in questa sede soltanto su uno degli elementi del processo produttivo, e cioè la tecnologia. In secondo luogo, ci limiteremo a descrivere il problema in quella che riteniamo essere la sua forma più attuale e cogente. Identificheremo quindi il concetto di innovazione tecnologica con il binomio automazione-intelligenza artificiale. Alla luce di queste due restrizioni sui parametri della nostra indagine, possiamo quindi affermare che un’importante questione che si è posta di recente è la seguente: chi dovrebbe avere il controllo (inteso non solo o non per forza come proprietà, ma nel senso più ampio di governance) dei ‘robot’ (si veda Bernhardt, 2017; Freeman, 2015)? Seguendo Bernhardt (2017), possiamo dire che uno dei difetti principali di una visione della giustizia economica e distributiva imperniata su idee come quelle del ‘basic income’ sia l’accettazione financo fatalistica del ruolo del cambiamento tecnologico sui mercati del lavoro nelle società occidentali. Invece, a parere dell’autrice statunitense (e la nostra analisi sembra confortare le sue affermazioni) possiamo quantomeno osservare che “humans are the creators of new technology and can shape the path it takes (at least for now) (…) automation and displacement are not the only possible outcome” (2017: 1). E, se l’innovazione è creata dagli essere umani (e a noi verrebbe da aggiungere: creata come risultato almeno in parte di precise scelte istituzionali), allora non può non porsi la questione della governance di tale innovazione. La Bernhardt segnala, a questo proposito, tre direttrici di governance nell’interesse generale che avrebbero la possibilità di influenzare gli effetti dell’innovazione (intesa come automazione) sulle persone e che si contraddistinguono per una crescente carica progressista. In primo luogo, segnala due meccanismi per compensare e attenuare gli effetti dell’automazione. Il primo consiste in un modello di investimento in capitale umano simile a quello in essere (seppur di dimensioni limitate) per coloro che perdono il lavoro a causa dell’integrazione economica internazionale (si pensi alla ‘Trade Adjustment Assistance’). Il secondo, e qui si passa dal concetto di compensazione a quello di attenuazione, mira all’aumento della forza di contrattazione dei lavoratori, e consiste nel rinnovare la capacità dei sindacati di intervenire sulle decisioni produttive tramite strumenti regolatori che a essi siano più favorevoli. Infine, Bernahrdt propone quella che a suo modo di vedere è la versione più radicale di affrontare il problema: ripensare completamente la governance dell’innovazione tecnologica. Dopo una breve overview delle varie possibilità di governance in campo, l’autrice termina offrendoci quella che a suo modo di vedere è l’opzione più coraggiosa di affrontare il problema, e cioè una forma



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di controllo collettivo sull’innovazione tecnologica tramite un modello ‘multi-stakeholder’: The more ambitious version of governance is to shape technology via a multi-stakeholder model. The key insight here is that there are multiple paths of technological development. Optimizing efficiency by reducing or eliminating human input is not the only path; within any given occupation or industry there are alternatives where technology works with humans to improve productivity. But how to shape what engineers call the design choice — augmentation vs. automation — is not yet clear. Ideally, we would establish mandated oversight structures that allow for multi-stakeholder decision-making over what is developed. We would greatly expand the goals of innovation — to eliminating poverty, saving the planet, ensuring the full realization of every human being, ending dangerous and back breaking work — and maybe even insist that some amount of work has intrinsic value to humans. And we would harness the powerful fact that public dollars fund a lot of technological development, often in universities (as the saying goes, venture capital only funds the last mile). (2017: 3). Le proposte della Bernhardt sono invero assai intriganti perché ci consentono di passare dalla premessa che l’innovazione è frutto dell’agire umano alla conclusione normativa che, se accettiamo tale premessa, allora dobbiamo porci il problema di come governarla. Inoltre, ci sembra giusto notare come l’analisi condotta nelle prime due sezioni di questo capitolo rafforzi fortemente la plausibilità della visione dell’autrice americana. Dire che un qualcosa sia il frutto dell’intenzionalità delle persone non spiega in che modo questa intenzionalità operi o si dispieghi concretamente, ed è proprio questo che abbiamo cercato di illustrare nelle pagine precedenti. Se l’idea di governance condivisa e indirizzata a scopi di natura sociale dei processi di innovazione sembra assai progressista, non si spinge però sino al richiedere una forma di controllo diretto, qui inteso come proprietà in senso classico, sull’innovazione stessa. Tale questione viene invece posta in maniera assai incisiva da Richard Freeman quando scrive: The “who-owns-the-robots-rules-the-world” thesis is simple: Regardless of whether technological advance is labor-saving or capital-saving, skill-biased or not, and regardless of the speed with which robots or other machines approach or exceed human skill sets, the key to the effect of the new technologies on the well-being of people around the world is who owns the technologies. (2015: 6).

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Riprendendo, e modificandola alla luce di quelle che sono le circostanze specifiche odierne, parte di una tesi inizialmente sviluppata da James Meade nella sua visione di una ‘società buona’ (che Meade (1993) chiama Agathotopia e che contrasta con l’idea di una società ‘utopica’), Freeman segnala che, in ultima analisi, soltanto un controllo diretto sull’innovazione potrà far coincidere i frutti di quest’ultima con una forma di benessere generalizzato. Il richiamo al lavoro di Meade è, in questo senso, obbligatorio. Proprio Meade, in tempi forse insospettabili, fu tra i primi a porsi il problema delle ripercussioni del cambiamento tecnologico in generale e dei suoi effetti sul mercato del lavoro in particolare. La sua concezione di Agathotopia è complessa e articolata, e non sarà quindi possibile tracciarne i contorni precisi (a tale proposito si veda O’Neill e White, 2019). Va però ricordato che al suo interno si intersecano molti dei temi trattati sin qui. Meade, in sostanza, ci propone una visione sofisticata in cui si moltiplicano le fonti di reddito di un lavoratore e che includono: a) il salario fisso; b) una forma di dividendo sociale equivalente al basic income; c) la partecipazione dei lavoratori ai profitti di impresa (dell’impresa nella quale lavorano); e d) la remunerazione del possesso di quote azionarie in società in cui il lavoratore investe senza farne parte. Il finanziamento del primo di questi quattro meccanismi sarebbe poi garantito da una forma estesa di controllo pubblico (indiretto, e inteso come controllo degli asset produttivi e non delle decisioni imprenditoriali) su circa il 50% dell’economia, mentre il secondo punto sarebbe accompagnato da una visione dinamica e cooperativa di cogestione delle aziende private. Oltre i dettagli tecnici del funzionamento della visione dell’economista britannico, va però segnalata la fine strategia di fondo che ne anima la proposta. Quella di diversificare le fonti di introiti dei lavoratori in modo da garantire stabilità economica a quest’ultimi pur consentendo evoluzioni complesse della struttura dei mercati e delle economie. Proprio nell’equilibrio virtuoso fra stabilità e cambiamento, in ultima analisi, rintracciamo una delle preoccupazioni principali delle proposte analizzate in questa parte dello scritto. La scommessa che esse lanciano è quella, non già di boicottare il progresso tecnico, ma di asservirlo a scopi sociali. E così facendo di offrine una visione che ci consenta di venire con esso riconciliati dal punto di vista distributivo e dell’autonomia politica dei cittadini. Il senso profondo del concetto di Agathotopia è quindi di riconciliare l’efficienza dei processi di allocazione tipici del mercato con una visione equa della distribuzione di ricchezza e status in una società composta da cittadini liberi ed eguali. Il parallelo con la conclusione del capitolo terzo di questo volume ci pare evidente. Ancora una volta il problema che emerge, messi a confronto con elementi della vita economica che consentono guadagni di efficienza, risiede nel gestirne le implicazioni in modo da garantire la giustizia sociale.



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Conclusione Concludiamo il capitolo quarto con un brevissimo riepilogo. Il cambiamento tecnologico è, a detta di molti, una delle principali fonti delle evoluzioni economiche che hanno caratterizzato le democrazie occidentali negli ultimi quattro decenni. Tale cambiamento ha avuto effetti molto specifici sul mercato del lavoro, portando a una sua crescente polarizzazione. Quest’ultima, è stata inolte accompagnata da dinamiche salariali dello stesso segno. Queste le conclusioni per quanto riguarda l’effetto del cambiamento tecnologico recente. Quello che queste conclusioni non ci possono dire, però, è come e perché si è sviluppata una certa forma di innovazione. Per dare risposte a tali domande abbiamo cominciato con il segnalare la rottura operata dai modelli della crescita endogena rispetto a quelli neoclassici tradizionali, e, in rapida successione, illustrando concisamente un modello di crescita endogena che si concentra proprio sulla forma specifica del cambiamento tecnologico; una versione recente dei cosiddetti modelli di ‘directed technical change’. Inoltre, abbiamo anche tentato di segnalare le possibili interconnessioni fra cambiamento tecnologico e integrazione economica globale dal punto di vista teoretico e suggerito che i due fenomeni sono legati a vari livelli di profondità concettuale e analitica. Mettendo a sistema i vari elementi della nostra analisi, possiamo concepire le caratteristiche del recente cambiamento teconologico come, almeno in parte, il risultato di un contesto produttivo fortemente influenzato da politiche pubbliche e che ha avuto implicazioni non marginali per la giustizia politica e quella distributiva. In questo senso, esattamente come per la nostra analisi della ‘hyper-globalization’, ci troviamo di fronte a dinamiche di natura istituzionale che hanno penalizzato gruppi specifici della popolazione, quelli che stanno peggio, e lo hanno fatto essendo presentate come il frutto di fenomeni economico-politici inarrestabili e quindi inevitabilmente sotrtratti al controllo pubblico. Ricollegandoci alla definizione di populismo offerta nel secondo capitolo di questo volume, una volta di più ci ritroviamo innanzi ad una parziale sottrazione di accountability democratica e, a lei connessa, costatiamo un marcato peggioramento delle condizioni relative di chi sta peggio.

Conclusione Una sintesi e uno sguardo su presente e futuro 1.

Una breve sintesi

Nei capitoli tre e quattro di questo volume abbiamo cercato di presentare due tipi di scelte istituzionali in campo economico che, a detta di molti autori, si sono rivelate importanti per comprendere le evoluzioni delle economie di mercato occidentali negli ultimi quattro decenni. Il primo tipo di scelta è stata quella di orientare tali economie, all’interno di quello che è il ‘trilemma di Rodrik’, verso l’idea di hyper-globalization. Una visione nella quale, per intenderci, si riducono sia il carattere democratico delle scelte compiute, sia la capacità dello stato di attenuare gli effetti distributivi della globalizzazione su coloro che da essa vengono maggiormente colpiti. In sintesi, possiamo dire che questa prima classe di scelte istituzionali chiama in gioco entrambe le categorie filosofico politiche che abbiamo individuato nel primo capitolo del libro, e cioè, una preoccupazione per l’autonomia politica e per le dinamiche distributive (soprattutto quando queste sfavoriscono i più deboli). Il secondo tipo di scelta istituzionale, perché, come abbiamo a lungo argomentato, di scelta si tratta, è stata quella di incoraggiare o quantomeno consentire una forma di progresso tecnologico specifico. Tale forma parte dal binomio intelligenza artificiale-automazione e porta a quello che abbiamo definito, con Autor (2015), un mercato del lavoro polarizzato. Anche in questo caso, occupandoci del problema da un punto di vista filosofico politico, abbiamo riscontrato l’applicabilità delle due categorie normative di giustizia politica e giustizia distributiva. La seconda è chiamata in causa dagli effetti dell’automazione sulle opportunità occupazionali e sulle dinamiche salariali; effetti questi che abbiamo visto essere disomogenei e che tendono a sfavorire, secondo proxies complessivamente affidabili della condizione socio-economica di un lavoratore come il livello di skill, coloro che stanno peggio relativamente parlando. La prima è invece fatta intervenire dalla constatazione che il cambiamento tecnologico ha effetti sulle relazioni politiche fra le persone, e che, in ultima analisi, ci si deve porre la questione su chi debba avere il controllo, in senso lato, sui processi di innovazione. In sintesi, sia il modello specifico di integrazione fra mercati che il cambiamento tecnologico ci aiutano a proporre una visione dei mutamenti economici degli ultimi decenni che ha conseguenze, in senso aggregato, relativamente chiare. Queste hanno contribuito a diminuire l’autonomia politica dei cittadini delle società democratiche occidentali e allo stesso tempo prodotto effetti distributivi che sembrano essere in contraddizione con l’idea diffusa che le esigenze di coloro

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che stanno peggio relativamente parlando debbano avere una qualche forma di priorità nell’orientare le scelte pubbliche. Ovviamente, in senso altrettanto aggregato, possiamo dire che tali scelte abbiano avuto conseguenze positive dal punto di vista dell’efficienza. Il miglioramento della condizione di molti abitanti dei paesi in via di sviluppo ne costituisce un’evidenza concreta. È però altrettanto vero che non ci si può limitare al solo criterio di efficienza complessiva, e che nozioni di giustizia sociale debbano orientare un giudizio più ampio delle politiche pubbliche. E, almeno nei paesi occidentali, un tale tentativo è stato quantomeno carente. Alla luce di questi brevi cenni ricapitolativi possiamo dunque asserire che entrambe le classi di scelte istituzionali analizzate nei capitoli precedenti offrano esempi concreti di quella che potremmo chiamare ‘tensione’ fra una concezione della giustizia sociale largamente condivisa e gli effetti di politiche economiche (intese qui come scelte di governance economica) che sono state fatte negli ultimi decenni. La tabella 5.1 offre una visione d’insieme di questa tensione, ricordandone i casi concreti che abbiamo illustrato. TABELLA C.1:  Tensione fra giustizia sociale e scelte istituzionali Giustizia Politica Hyperglobalization

AI-Automazione

Nuovo tipo di accordi commerciali internazionali: ‘deep integration’ Effetti sulle relazioni fra persone Problema della governance dell’innovazione

Giustizia Distributiva Effetti distributivi ‘normali’ (modello H-O) Effetti distributivi ‘indiretti’ tramite la leva fiscale Mercato del lavoro polarizzato e dinamiche salariali connesse

Fonte: autore

2.

Proposte paradigmatiche del populismo

Per concludere il nostro scritto ci piacerebbe, seppur brevemente, offrire una qualche forma di commento su quelle che riteniamo essere le proposte che hanno caratterizzato il programma politico di molti movimenti populisti occidentali. Infatti, se lo scopo principale del nostro lavoro, da un punto di vista analitico, è stato sicuramente quello di comprendere alcune delle cause dell’ascesa dei populisti, non ci sembra giusto lasciare il lettore completamente privo della nostra opinione in merito a quello che essi (i populisti), politicamente parlando, hanno cercato di portare avanti in termini di riforme dei sistemi economici. E questo soprattutto visto che uno dei tratti che a nostro avviso



Conclusione  163

caratterizzano l’offerta politica dei populisti (l’idea che le soluzioni a problemi certamente complessi siano invero assai semplici), merita un’ulteriore forma di stigmatizzazione. Ci concentreremo su due policy che ci sembrano paradigmatiche per comprendere il tema; l’idea di un reddito di cittadinanza e quella, variamente declinata, di una minore apertura economica verso il resto del mondo. Prima di cominciare la nostra disamina, ci sentiamo però in dovere di offrire due caveat. Il primo è che, ancora una volta la nostra analisi sarà assai breve, e quindi non potrà addentrarsi nelle complessità legate alle varie tematiche trattate. Prima fra tutte, come il contesto specifico dei vari paesi dove il populismo cresce condizioni la forma specifica che le policy che abbiamo menzionato vanno ad assumere. In secondo luogo, va precisato che non tutti i movimenti populisti sposano ambo le policy (reddito di cittadinanza e chiusura verso l’esterno). La nostra analisi è in questo senso meno ambiziosa, e cerca soltanto di evidenziare che esse siano da considerarsi come strumenti spesso impiegati per offrire un qualche tipo di piattaforma politico-economica che risponda alle recriminazioni dei loro elettori attuali e potenziali. Ciò premesso, che cosa dire delle due policy? Due osservazioni di carattere generale si impongono. La prima è che il loro contenuto non ha una forma puramente casuale. Non si arriva cioè ad esse in maniera aleatoria, bensì queste diventano molto più facilmente interpretabili se le associamo all’analisi del populismo che abbiamo condotta nel secondo capitolo del volume. Se la contrapposizione fra popolo ed élites è da comprendere tramite le categorie della giustizia politica e distributiva, allora non sembra implausibile che politiche basate su forme di redistribuzione delle risorse economiche e su di una, comparativamente parlando, maggiore autarchia economica, appaiano prima facie plausibili. La seconda osservazione è che sovente, e ancora in linea con la nostra analisi nel capitolo secondo, queste proposte vengono rappresentate come risolutive delle istanze alle quali cercano di rispondere. Il reddito di cittadinanza ci consentirebbe di ‘eliminare la povertà’, mentre l’uscita dall’Euro di riprendere il controllo sulla nostra economia e ritornare a crescere, e i dazi sui prodotti stranieri di rimpatriare il lavoro percolato attraverso i meandri delle catene globali del valore. I populisti ci dicono che così stanno le cose, ma allo stesso tempo omettono due caveat centrali. Il primo caveat è che non ci spiegano mai nel dettaglio come tali affermazioni si possano giustificare. Il secondo caveat che omettono è che tutte queste policy hanno un costo, e non solo potenziali (o putativi) benefici. Passiamo quindi a un giudizio più specifico sulle policy che abbiamo appena menzionate. Di gran lunga quella che desta in noi maggiore simpatia è l’idea di un reddito di cittadinanza, qui compreso alla stregua di un vero e proprio ‘basic income’ (si veda Van Parijs and Vanderborght, 2019). Lasceremo da parte le obiezioni al basic income legate a questioni di equità fra coloro che lavorano

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e coloro che semplicemente percepiscono il basic income. Anche omettendo questo tipo di obiezione, vanno però notate alcune cose. La prima è che il basic income ha un costo e quindi il suo livello, anche accettandone la desiderabilità, deve essere stabilito in base al costo opportuntà (e cioè la non utilizzazione delle risorse impiegate per quelli che potrebbero essere scopi alternativi). In un periodo di crisi ambientale e climatica, di sempre minore sostenibilità dei sistemi previdenziali (Alfano, Cicatiello e Maffettone, 2019a) e di crescente invecchiamento della popolazione, questa osservazione non è da prendere alla leggera. In secondo luogo, l’accettazione del basic income va spesso di pari passo, se non in maniera concettualmente necessaria se non altro come regolarità di associazione, con un atteggiamento rinunciatario rispetto alla nostra capacità di governare il cambiamento tecnologico. Questa caratteristica, anche se puramente contingente, andrebbe sicuramente abbandonata. Infine, ci piace ricordare che, anche se ci trovassimo ad affrontare un costo opportunità assai minore di quello che a nostro avviso avrebbe un robusto basic income in un paese occidentale, la questione della giustizia distributiva non può essere ridotta a quella delle risorse economiche percepite. In tutti i casi, questo senza dubbio segue dalla nostra analisi condotta nel capitolo primo del volume. A conferma della nostra intuizione possiamo portare l’esempio del contesto italiano: il reddito di cittadinanza approvato dal cosiddetto governo ‘Conte 1’ è assai più vicino a una forma di politica attiva del lavoro che a una tradizionale basic income guarantee (si veda Alfano, Cicatiello e Maffettone, 2019b). In questo senso, possiamo dire che, almeno in Italia, alcuni movimenti populisti si rendono conto che il lodevole scopo di ‘eliminare’ la povertà non sazia la sete di giustizia distributiva dei loro elettori. Meritano invece un discorso a parte e assai meno edulcorato nei giudizi i tentativi di politiche legate al sovranismo economico. Intendiamoci, la visione di chi ritiene il sistema Euro come un successo così come è, oppure nega che qualsiasi forma di protezione dalle importazioni sia sempre e comunque un danno per un paese, a noi non sembra particolarmente convincente. Senza addentrarci nella letteratura sulla political economy dell’Euro o su quella che pertiene alle imperfezioni di mercato che possano giustificare una forma limitata di impiego dei dazi, piuttosto che negli argomenti a favore della ‘infant industry protection’, possiamo dire che tali questioni siano sufficientemente dibattute e ambigue per meritare cautela. Il punto, piuttosto, sta nel comprendere che anche accettando le conclusioni di questi ambiti della ricerca scientifica, a nessuno verrebbe di pensare che un’uscita unilaterale dall’Euro oggi, e l’utilizzo dei dazi come strumento di politica estera, siano opzioni sagge oppure economicamente vincenti. Mettiamo pure da parte i rischi di instabilità politica che inevitabilmente queste scelte, sia compiute che semplicemente sbandierate, comportano. Anche da un punto di vista pratico, molti osservatori concordano sul fatto che (si veda in particolare Baldwin, 2016), ad esempio, introdurre



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dazi riporterebbe ‘a casa’ alcuni tipi di occupazioni in numero relativamente ampio solo se fossimo disposti ad accettare costi davvero proibitivi per farlo. Allo stesso modo, sembra altrettanto chiaro che a prescindere da cosa si voglia pensare sulla decisione iniziale di entrare nell’Euro, piuttosto che sulla attuale forma che la governance della moneta unica europea ha finito con l’assumere, i costi di uscita nel breve e medio periodo sarebbero davvero proibitivi. Usando una metafora forse spiccia: la maggior parte delle persone sanno che gli ‘errori’ che si fanno in passato hanno costi elevati proprio perché condizionano le opzioni che ci restano aperte in futuro. Un osservatore forse eccessivamente severo nei confronti delle ricette populiste potrebbe sintetizzare la nostra opinione come segue. Il basic income, se preso come ricetta unica, sembra un resa nei confronti del presente. Il desiderio di maggiore autarchia economica, una forma di nostalgia per il passato. Tutto ciò, e aggiungiamo ‘purtroppo’, non costituisce a nostro modo di vedere il problema principale che i movimenti populisti finiscono con il creare alle liberal democrazie. Il danno maggiore consiste invece nella natura stessa delle promesse che essi tendono a fare, ovvero che le soluzioni alle recriminazioni delle quali essi si fanno portavoci siano possibili e financo semplici, se solo gli venisse concesso potere sufficiente per attuarle. Ovviamente, molti osservatori riscontrano una tendenza di tipo autoritario in questo tipo di approccio. E questa, nella misura in cui si dovesse presentare, va sicuramente stigmatizzata. I rischi di questo atteggiamento sono però ancora più profondi. Permettendoci una tesi di natura storica assai audace, ci sembra che le dittature ed il rovesciamento (dall’interno) di regimi demoratici e pluralisti avviene quando la maggioranza delle persone smette di credere alla loro capacità di dare riposte sensate alle esigenza dei cittadini comuni. E proprio questo il populismo finirà con l’ottenere. Lo farà, aggiungiamo, proprio perché vende la promessa di un cambiamento istituzionale rapido quando, come molti studiosi delle istituzioni ci hanno spiegato, il cambiamento istituzionale ha spesso la caratteristica di essere lento e complicato. La nostra analisi in questo volume ha posto l’accento sulla necessità di apportare cambiamenti profondi alle economie occidentali se si vuole rispondere alle richieste di maggiore giustizia sociale da molte parti avanzate. Eppure, non possiamo non enfatizzare che, proprio in ragione della natura stessa delle istituzioni e quindi anche di quelle che strutturano i mercati, la loro trasformazione profonda richieda scelte ponderate e di lungo respiro, ma soprattutto richiede quella che potremmo definire ‘pazienza istituzionale’. La promessa del populismo come quella proposta da tutti i movimenti politici radicali è quella di un mondo nuovo, dove, come per miracolo, i problemi che ci affliggono scompariranno. Il giorno in cui, secondo noi inevitabilmente, tale visione si rivelasse inefficace, allora i cittadini comuni, ancora più disillusi, traditi non solo dalle élites tradizionali, ma anche da coloro che promettevano,

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spodestandole, di tutto risolvere, finirebbero per perdere qualsiasi forma di fiducia nel sistema politico nel quale vivono. Se questo dovesse accadere, una deriva autoritaria sarebbe, se non inevitabile, quantomeno molto più probabile di quanto essa non lo sia stata dalla fine dei fascismi in Europa. Esistono rimedi possibili? O siamo condannati a questo tipo di spirale socio-politica? Certamente l’attrazione di una visione messianica, soprattutto su coloro che, come le classi medie occidentali, stanno soffrendo fenomeni di pauperizzazione relativa e pagano lo scotto di mutazioni economiche profonde, non deve essere sottovalutata. Detto questo, e forse toccando punte di eccessivo moralismo, si ritiene che un reale recupero di fiducia fra ‘élites’ e ‘popolo’ non possa che passare da una duplice assunzione di responsabilità da parte delle prime. Una presa di responsabilità nei confronti di un passato mal gestito, e che ha ingiustamente penalizzato proprio coloro che una diffusa idea di giustizia sociale ci dice dovrebbero essere al centro delle scelte pubbliche. E una presa di responsabilità per il futuro che prevede innanzitutto un dovere di verità nei confronti delle soluzioni credibili ai problemi attuali. In un sistema democratico è sicuramente difficile chiedere a un leader politico di basare la propria piattaforma elettorale su ammissioni di colpa e ricette per il futuro i cui risultati non potranno essere toccati con mano se non nel medio e lungo periodo. Va però ricrodato che, come spesso accade nella vita di tutti, il punto non sta nel comprendere cosa sia difficile in assoluto, ma le alternative che si hanno a disposizione. La classe dirigente di un paese avanzato, se ha a cuore le istituzioni della liberal democrazia, deve comprendere che, in questo frangente, non accettare le succitate sfide significa consegnare il paese a coloro che, nel tempo, ne distruggeranno le fondamenta. Ma non è tutto. Ci sembra inoltre necessario una radicale evoluzione culturale da parte delle élites dei paesi avanzati. Perché, come ci ricorda North, alterare le regole spesso non basta per modificare il tessuto reale di un sistema economico-politico. La fiducia nelle classi dirigenti dei paesi avanzati si deve nutrire di questo cambiamento culturale. Cambiamento che deve consistere in una maggiore consapevolezza che i mercati non si autoregolano e che gli interventi a costo zero (come l’indebitamento finanziario che magicamente crea ricchezza, o l’austerity espansiva accompagnata da politiche monetarie aggressive, che miracolosamente riporteranno interi continenti alla crescita) non saranno più accettabili. La fiducia, in sintesi, si deve nutrire di un ritrovato coraggio nel dire che le scelte di politica economica hanno un chiaro sostrato morale, che debbono mirare ad attenuare e indirizzare (nel modo più efficiente possibile) le dinamiche distributive generate dai mercati e, in un sistema liberal democratico, debbono rispondere alla volontà dei cittadini comuni ed essere indirizzate primariamente alla protezione di coloro (le classi medio-basse) che stanno peggio.

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Cos’è il populismo? E come si spiega il successo dei movimenti populisti in molti paesi occidentali? In questo volume si cerca di offrire una risposta a queste due domande intrecciando temi classici della filosofia politica contemporanea come la giustizia sociale, e argomenti di natura economica come la globalizzazione e il cambiamento tecnologico. Il populismo viene compreso come un tipo di risposta specifica a domande di maggiore giustizia sociale da parte della popolazione. Le origini del suo successo vengono rintracciate nelle evoluzioni delle principali scelte istituzionali in campo economico adottate dai paesi occidentali dagli anni 80 dello scorso secolo sino ai nostri giorni.

Pietro Maffettone si è formato alla Sapienza di Roma e alla London School of Economics. Ha insegnato alla LSE, e all’università di Durham (UK). È ricercatore di Filosofia Politica nel Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Napoli, Federico II.