Plutarco: La virtù delle donne (Mulierum virtutes): Introduzione, testo critico, traduzione italiana e note di commento 9789004409750, 9004409750

Questo volume contiene edizione critica, traduzione italiana e note di commento al trattato di Plutarco Mulierum Virtute

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Italian Pages 352 [349] Year 2019

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Plutarco: La virtù delle donne (Mulierum virtutes): Introduzione, testo critico, traduzione italiana e note di commento
 9789004409750, 9004409750

Table of contents :
‎Sommario
‎Introduzione
‎Capitolo 1. I manoscritti
‎Capitolo 2. Il titolo dell’opera
‎Capitolo 3. Lo stile dell’opera
‎Capitolo 4. Plutarco e le donne nel Mulierum Virtutes
‎Capitolo 5. Il rapporto con gli Strategemata di Polieno
‎Conspectus siglorum et compendiorum
‎Alia sigla et compendia
‎Editores et commentatores qui in apparatu citantur
‎Plutarco La virtù delle donne (Mulierum virtutes)
‎La virtù delle donne
‎1. Le donne di troia
‎2. Le donne focesi
‎3. Le donne di Chio
‎4. Le donne di Argo
‎5. Le donne persiane
‎6. Le donne celtiche
‎7. Le donne di Melo
‎8. Le donne tirrene
‎9. Le donne licie
‎10. Le donne di Salamanca
‎11. Le donne di Mileto
‎12. Le donne di Ceo
‎13. Le donne di Focide
‎14. Valeria e Clelia
‎15. Micca e Megisto
‎16. Pieria
‎17. Policrite
‎18. Lampsace
‎19. Aretafila
‎20. Camma
‎21. Stratonica
‎22. Chiomara
‎23. Una donna di Pergamo
‎24. Timoclea
‎25. Erisso
‎26. Senocrite
‎27. La moglie di Pite
‎Note di commento
‎Bibliografia finale
‎Edizioni e traduzioni dei Moralia di Plutarco
‎Edizioni e traduzioni delle Vite Parallele di Plutarco
‎Edizioni e traduzioni del Mulierum Virtutes di Plutarco
‎Studi sul Mulierum Virtutes di Plutarco
‎Studi su Plutarco
‎Edizioni e traduzioni di opere di altri autori
‎Studi vari
‎Index verborum ad mulierum virtutem relatorum

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Plutarco: La virtù delle donne (Mulierum virtutes)

Brill’s Plutarch Studies Brill’s Plutarch Text Editions

Editors Lautaro Roig Lanzillotta (University of Groningen) Delfim F. Leão (University of Coimbra)

Editorial Board Lucia Athanassaki Mark Beck Ewen L. Bowie Timothy Duff Rainer Hirsch-Luipold Judith Mossman Anastasios G. Nikolaidis Christopher Pelling Aurelio Pérez Jiménez Luc van der Stockt Frances B. Titchener Paola Volpe Cacciatore

volume 3

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Plutarco La virtù delle donne (Mulierum virtutes) Introduzione, testo critico, traduzione italiana e note di commento

a cura di

Fabio Tanga

LEIDEN | BOSTON

The Library of Congress Cataloging-in-Publication Data Names: Plutarch, author. | Tanga, Fabio, editor, translator. | Plutarch. Mulierum
 virtutes. 2019. | Plutarch. Mulierum virtutes. Italian. 2019. 
Title: La virtù delle donne (mulierum virtutes) / Plutarco ; introduzione, 
 testo critico, traduzione italiana e note di commento a cura di Fabio Tanga. 
Other titles: Mulierum virtutes Italian & Greek | Brill's Plutarch studies ; v. 3. 
Description: Leiden ; Boston : Brill, 2019. | Series: Brill's Plutarch studies, 
 2451-8328 ; volume 3 | Includes bibliographical references and index. 
Identifiers: LCCN 2019033427 (print) | LCCN 2019033428 (ebook) | ISBN 9789004408036 (hardback) | ISBN 9789004409750 (ebook) 
Subjects: LCSH: Plutarch. Mulierum virtutes. Classification: LCC PA4377.M8 M85 2019 (print) | LCC PA4377.M8 (ebook) | 
 DDC 888/.01–dc23 LC record available at https://lccn.loc.gov/2019033427
 LC ebook record available at https://lccn.loc.gov/2019033428

Typeface for the Latin, Greek, and Cyrillic scripts: “Brill”. See and download: brill.com/brill‑typeface. ISSN 2666-0199 ISBN 978-90-04-40803-6 (hardback) ISBN 978-90-04-40975-0 (e-book) Copyright 2020 by Koninklijke Brill NV, Leiden, The Netherlands. Koninklijke Brill NV incorporates the imprints Brill, Brill Hes & De Graaf, Brill Nijhoff, Brill Rodopi, Brill Sense, Hotei Publishing, mentis Verlag, Verlag Ferdinand Schöningh and Wilhelm Fink Verlag. All rights reserved. No part of this publication may be reproduced, translated, stored in a retrieval system, or transmitted in any form or by any means, electronic, mechanical, photocopying, recording or otherwise, without prior written permission from the publisher. Authorization to photocopy items for internal or personal use is granted by Koninklijke Brill NV provided that the appropriate fees are paid directly to The Copyright Clearance Center, 222 Rosewood Drive, Suite 910, Danvers, MA 01923, USA. Fees are subject to change. This book is printed on acid-free paper and produced in a sustainable manner.

Ai miei genitori, Luigi e Rosanna



Sommario Introduzione 1 I manoscritti

ix xxxiii

2 Il titolo dell’opera

li

3 Lo stile dell’opera

lx

4 Plutarco e le donne nel Mulierum Virtutes

lxiv

5 Il rapporto con gli Strategemata di Polieno Conspectus siglorum et compendiorum

lxxiii

lxxvii

Editores et commentatores qui in apparatu citantur

Testo critico e traduzione La virtù delle donne 2 1 Le donne di Troia 4 2 Le donne focesi 6 3 Le donne di Chio 8 4 Le donne di Argo 10 5 Le donne persiane 12 6 Le donne celtiche 14 7 Le donne di Melo 14 8 Le donne tirrene 16 9 Le donne licie 18 10 Le donne di Salamanca 20 11 Le donne di Mileto 22 12 Le donne di Ceo 24 13 Le donne di Focide 24 14 Valeria e Clelia 26 15 Micca e Megisto 28 16 Pieria 38 17 Policrite 38

lxxviii

viii 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27

sommario

Lampsace 42 Aretafila 44 Camma 50 Stratonica 52 Chiomara 54 Una donna di Pergamo Timoclea 58 Erisso 60 Senocrite 64 La moglie di Pite 68

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Note di commento 72 Bibliografia finale 229 Index verborum ad mulierum virtutem relatorum 268

Introduzione Lo scritto plutarcheo conosciuto come Γυναικῶν ἀρεταί (Mulierum virtutes o De mulierum virtute per consuetudine, De virtutibus mulierum in traduzione latina), catalogato con il nr. 126 nel Catalogo di Lampria, con il nr. 33 nella recensio planudea e con il nr. 17 nell’editio princeps Aldina del 1509 dei Moralia1, è un opuscolo di tematica femminile2 ad impostazione filosofico-paradigmatica3 e 1 L’opera è classificata al nr. 17 anche nell’edizione dei Moralia di Plutarco, divenuta canonica, allestita a Ginevra da H. Estienne nel 1572. 2 Nel Mulierum Virtutes e nei Coniugalia Praecepta (e, per certi versi, anche nella Consolatio ad uxorem e nell’Amatorius), Plutarco esplora a suo modo il mondo femminile, sviluppando quello che K. O’Brien Wicker ha definito un “topic common in the philosophical discussions of his day”; K. O’Brien Wicker, “Mulierum Virtutes (Moralia 242E–263C)”, in H. Dieter Betz (ed.), Plutarch’s Ethical Writings and Early Christian Literature (Leiden: Brill, 1978) 114. A tale proposito G. D’Ippolito ha descritto l’opera come partecipe (insieme ai Coniugalia Praecepta e, parzialmente, all’Amatorius ed al Septem Sapientium Convivium) della “macrotematica femminile” dei Moralia di Plutarco; cfr. G. D’Ippolito, “Il Corpus Plutarcheo come macrotesto di un progetto antropologico: modi e funzioni dell’autotestualità”, in G. D’Ippolito–I. Gallo (eds.), Strutture formali dei “Moralia” di Plutarco, Atti del III Convegno Plutarcheo, Palermo, 3–5 Maggio 1989 (Napoli: D’Auria, 1991) 15. A. Nikolaidis ha inserito anche le Quaestiones Romanae tra gli opuscoli plutarchei che si occupano di donne “in one way or another”; A.G. Nikolaidis, “Plutarch on Women and Marriage”, WS 110 (1997) 31. Inoltre, il titolo Γυναικῶν ἀρεταί· ἐν ἄλλῳ δὲ, Περὶ τοῦ πῶς δεῖ ζῆν γυναῖκα πρὸς ἄνδρα, presente nel Catalogo di Lampria, e la confusione che persiste nei manoscritti α e γ dei Γαμικὰ παραγγέλματα (dove, di seconda mano, i Coniugalia Praecepta sono erroneamente intitolati Γυναικῶν ἀρεταί) confortano l’ipotesi di una circolazione tardoantica di opuscoli plutarchei accomunati da qualche prerogativa tematica o strutturale, prima del successivo accorpamento a minore ad maius (come noto, la vicenda testuale dei Moralia è storia di singoli rotoli o di piccoli codici contenenti corpuscula, successivamente accorpati nella monumentale opera di Planude alla fine del XIII secolo); cfr. A. Garzya, “La tradizione manoscritta dei Moralia”, in A. Garzya–G. Giangrande–M. Manfredini (eds.), Sulla tradizione manoscritta dei Moralia di Plutarco, Atti del Convegno (Salerno, 4–5 dicembre 1986) (Napoli: D’Auria, 1988) 13 e S. Martinelli Tempesta, “Pubblicare Plutarco: l’eredità di Daniel Wyttenbach e l’ecdotica plutarchea moderna”, in G. Zanetto–S. Martinelli Tempesta (eds.), Plutarco: lingua e testo. Atti dell’XI Convegno plutarcheo della International Plutarch Society – Sezione Italiana (Milano, 18–20 giugno 2009) (Milano: Cisalpino, 2010) 6– 7. Per l’immagine della donna nei modelli culturali greci cfr. anche P. Impara–M. Manfredini (eds.), Plutarco, Consolazione alla moglie (Napoli: D’Auria, 1991) 23–40. 3 Per l’uso di esempi storici femminili a fini filosofici cfr. Seneca, ad Marciam de consolatione 16 (Quod si tibi vis exempla referri feminarum quae suos fortiter desideraverint, non ostiatim quaeram). All’esempio mitologico delle Amazzoni ricorse, invece, il filosofo stoico Musonio Rufo (Stob. II 31.123 = Muson. 13–19 Hense) per argomentare l’uguaglianza di virtù e coraggio in uomini e donne. La fase paradigmatica del Mulierum Virtutes, invece, è fondata nelle intenzioni su aneddoti di carattere storico e tende ad emarginare o minimizzare τὸ μυθῶδες; cfr., in particolare, la storia 9.

© koninklijke brill nv, leiden, 2020 | doi:10.1163/9789004409750_002

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introduzione

di sviluppo di carattere storico-antiquario4 che si estende tra la pagina 242 e la pagina 2635 dell’edizione francofortana6. Oggetto di narrazione sono miti, leggende7 o fatti storici8, riportati non in precisa successione, collocabili all’incirca tra la fine dell’epoca dei poemi omerici e il I sec. a.C.9, e disposti in ordine sparso10

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K. Ziegler ha classificato l’opuscolo (in compagnia di Quaestiones Romanae, Quaestiones Graecae, Regum et imperatorum apophthegmata, Apophthegmata Laconica, Parallela minora ed altre due opere presenti nel Catalogo di Lampria, ma ad oggi perdute) tra gli “scritti plutarchei di carattere antiquario”. Tale classificazione è stata accettata e riproposta anche da A. De Lazzer; cfr. E. Calderón Dorda–A. De Lazzer–E. Pellizer (eds.), Plutarco, Fiumi e monti (Napoli: D’Auria, 2003) 43–45. Successivamente, I. Gallo ha annoverato l’opuscolo tra le collezioni di racconti e leggende, al pari di Coniugalia Praecepta, Parallela Minora ed Amatoriae Narrationes. Cfr. K. Ziegler, Plutarco, ed. it. B. Zucchelli, trad. it. di M.R. Zancan Rinaldini (Brescia: Paideia, 1965) 264; I. Gallo, “Strutture letterarie dei Moralia di Plutarco: aspetti e problemi”, in J.A. Fernández Delgado–F. Pordomingo Pardo (eds.), Estudios sobre Plutarco: aspectos formales. Actas del IV Simposio Espaňol sobre Plutarco. Salamanca, 26 a 28 de Mayo de 1994 (Salamanca: Sociedad Espaňola de Plutarquistas, 1996) 10. Nel dettaglio, il Mulierum Virtutes si estende tra 242E e 263C. Si tratta dell’edizione su cui si fonda il criterio di numerazione progressiva e di divisione in paragrafi tradizionale di citazione dei Moralia di Plutarco; cfr. A. Wechel (ed.), Plutarchi Chaeronensis quae exstant omnia, cum Latina interpretatione Hermanni Cruserij: Gulielmi Xylandri, et doctorum virorum notis, et libellis variantium lectionum ex Mss. Codd. diligenter collectarum, et indicibus accuratis, t. II (Francofurti: Marnius & Aubrius, 1599). Miti e leggende sono trattati nelle storie 1, 9 e 27. Ad eventi storici sono dedicate le storie 2–8 e 10–26. Ad avviso di J. McInerney, invece, le storie del Mulierum Virtutes “tend to fall in three categories; those that revolve around obscenity suggested either by the display of the female genitals or by verbal abuse (or both), stories that relate to concealment; and stories that hinge on physical exploitation”, con una narrativa generalmente rivolta al corpo delle donne; cfr. J. McInerney, “Chapter fifteen, Plutarch’s manly woman”, in R.M. Rosen–I. Sluiter (eds.), Andreia, Studies in Manliness and Courage in Classical Antiquity (Leiden/Boston: 2003) 328–330. Tuttavia, nella stragrande maggioranza delle storie, le qualità descritte o messe in mostra dalle donne risultano di inequivocabile profilo etico-morale (storie 6, 7, 8, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27) e danno origine ad ogni comportamento virtuoso che afferisca in qualche modo al corpo femminile. La fisicità, in tal senso, rientra in una fase secondaria di riflesso pratico, cui corrisponde una indole o disposizione mentale, caratteriale o sentimentale di natura virtuosa. All’età eroica risale la storia 1, al VII sec. a.C. le storie 3, 17 e 18 e al VI sec. le storie 4, 5, 8, 14, 25, 26. Al V sec. a.C. si riconduce la storia 27, al IV sec. a.C. le storie 2, 13, 16 e 24, poi si ritrovano nel III sec. a.C. le storie 3, 6, 10 e 15, nel II a.C. la storia 21 e, infine, sono collocabili nel I sec. a.C. le storie 19, 22 e 23. Brenk ha notato come gli esempi plutarchei di donne virtuose non fossero limitati ad Atene e alla Grecia mitica, a somiglianza di quelli platonici, ma toccassero con respiro più ampio tutto il mondo greco-romano, e senza coinvolgere donne contemporanee; cfr.

introduzione

xi

tra Spagna11 e Persia12, passando per Gallia13, Italia14, Libia15, varie città della Grecia16, Creta17 ed altre isole del mar Egeo18 e l’Asia minore19. L’opuscolo, come dichiarato dall’autore nella sezione introduttiva20, dopo una rassegna delle γνῶμαι di Tucidide e Gorgia sul valore femminile, seguita dalla lode per le attitudini romane nei confronti delle donne nei funerali21, ha l’obiettivo di completare e sostanziare22 paradigmaticamente una discussione

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F.E. Brenk, “Plutarch’s Erotikos: The Drag Down Pulled Up”, ICS XIII.2 (1988) 469–470 e F.E. Brenk, “Setting a Good Exemplum. Case Studies in the Moralia, the Lives as Case Studies”, in A.G. Nikolaidis (ed.), The Unity of Plutarch’s Work (Berlin/New York: De Gruyter, 2008) 247. Cfr. storia 10. Cfr. storia 5. Cfr. storia 6. Cfr. storie 1, 14 e 26. Cfr. storie 19 e 25. Per una visione delle donne non greche o barbare in Plutarco, cfr. T.S. Schmidt, Plutarque et les Barbares. La rhétorique d’une image (Louvain/Namur: Peeters, 1999) 253–255. Per ritratti di personaggi barbari, intesi come figure non romane senza alcuna connotazione negativa o peggiorativa nella definizione stessa, cfr. 261DE; 329F; 336C; 576C; 618A; 753E e A. Strobach, Plutarch und die Sprachen (Stuttgart: Steiner, 1997) 50. Cfr. storie 2, 4, 8, 13, 15, 24. Cfr. storia 8. Cfr. storie 3, 8, 12 e 17. Cfr. storie 7, 11, 16–18, 20–23 e 27. Cfr. Mul. Virt. 242F4–243E2. Cfr. Mul. Virt. 242E5–242F2. Per certi versi, l’accumulazione introduttiva di sententiae, l’antefatto della discussione avvenuta in precedenza, l’indirizzo monotematico, la costruzione metaforico-evocativa del proemio e la selezione di materiali narrativi lontani dai circuiti più percorsi potrebbero richiamare lo stile delle declamazioni retoriche finalizzate all’ ἀπόδειξις di un assunto piuttosto fuori dal comune. In tal senso, l’opuscolo si rivela decisamente il frutto di un eclettismo in grado di adattare le risorse intellettuali e culturali dell’autore di volta in volta alle tematiche trattate, al contesto dell’occasione compositiva, alle circostanze di lettura e al destinatario, come nello stile della Seconda Sofistica. Sotto questa luce andrebbero letti i pareri, a volte non univoci o negativi, espressi nell’arco di tutto il corpus plutarcheo in merito alle donne. Per la donna quale essere passivo, freddo e ricettivo cfr. De Is. et Osir. 368C; De Pyth. orac. 402DE; De def. or. passim; Amat. 764D; 770AB; Quaest. nat. 918A; De Facie passim; De prim. frig. 954D. Per i numeri intesi al femminile cfr. Quaest. rom. 288D; De E 388C; De def. or. 429F; Quaest. conv. 657D; De an. procr. 1018C. Per l’inabilità alla procreazione delle donne cfr. De Is. et Osir. 358E; 364D; 372EF; 373F–374A; 374F; 382CD; Quaest. conv. 650F–651E; Amat. 770AB; De facie 938B; 943E; De an. procr. 1015DE. Per il femminile impiegato come termine negativo o peggiorativo cfr. Rom. 32.2; Lyc. 14.4; 15.11; Num. 22.11; Per. 12.2; Cras. 32.2–3; Alc. 2.3; 23.6; Tim. 15.10; 32.3; Dem. 16.4; Mar. 34.3; Gal. 25.2. Per dichiarazioni esplicite, riferimenti ironici o allusioni indirette alla passività ed inferiorità femminile cfr. Thes. 23.3; Sol. 21.7; Caes. 63.11; De aud. poet. 16EF; 36D; De aud. 41E; De ad. et am. 70A; Cons. ad Ap. 102DE; 112F–113A; Con. praec. 139B; 140CD; Reg. et imp. apophth. 190A;

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intercorsa in precedenza23, dopo la morte dell’ottima Leontis24, tra Plutarco e Clea25 riguardo all’unitarietà ed identità della virtù dell’uomo e della donna26.

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Apophth. Lac. 212B; 215D; 219F; 223C; 230C; 231B; 240E; Quaest. rom. 289E; De Alex. Magn. fort. 331DE; De Is. et Osir. 375A; De virt. mor. 442DE; De coh. ira 457BC; 460C; 463E; De tranq. an. 465D; 472B; 475A; De gar. 507B–508AB; De vit. pud. 528EF; 529F; Quaest. conv. 645D; 650B; 650E–651F; 711CD; Ad princ. 780C; An seni 790C; Praec. ger. reip. 819D; De Her. mal. 869F–870A; Terrest. an aq. 964C; Bruta anim. 988B; 989E; 990BF; Adv. Col. 1126DE. Per una lettura di Plutarco come autore prevalentemente misogino, che, basandosi soprattutto su presupposti aristotelici (cfr. soprattutto Arist. PA 648a; 655a; 661b; 662a; 663b; 676a; 678a; 684ab; 688b; 689ab; Pr. 951a; 961a; 963b) e pregiudiziali arcaiche di ascendenza soprattutto esiodea (per il mito del vaso di Pandora cfr. Hes. Th. 565–616; Op. 42–105; Aesch. Pr. 218; 252; 445; 478; 228–236; A.R. 2.1249), riconosceva l’inferiorità biologica femminile e si limitava soltanto, su influenza della cultura ellenistico-romana, a riproporre il luogo comune della potenziale uguaglianza di uomo e donna, cfr. in particolare K. Blomqvist, “From Olympias to Aretaphila: women in politics in Plutarch”, in J. Mossman (ed.), Plutarch and his Intellectual World, Essays on Plutarch (London: Duckworth, 1997) 73–97. Per il lento riscatto della posizione etico-giuridica della donna greca cfr. anche G. Martano–A. Tirelli (eds.), Plutarco, Precetti coniugali (Napoli: D’Auria, 1990) 13–16. Wyttenbach classificava il Mulierum Virtutes tra le “disputationes Delphis habitae”, insieme a De Ei apud Delphos, De Pythiae Oraculis, De Defectu Oraculorum, De Iside et Osiride, De Sera Numinis Vindicta e Symposiacae Quaestiones. Il novero tra gli opuscoli di ambientazione delfica non era, tuttavia, certo, in quanto “nulla exstant manifesta loci indicia”; cfr. D.A. Wyttenbach, Animadversiones in Plutarchi Moralia, vol. II pars I (Oxonii: Clarendon, 1821) 273. Mul. Virt. 242F2–3. Cfr. anche G. Marasco, “Donne, cultura e società nelle Vite Parallele di Plutarco”, in A.G. Nikolaidis (ed.), The Unity of Plutarch’s Work (Berlin/New York: De Gruyter, 2008) 666 nota 17. εἰς τὸ μίαν εἶναι καὶ τὴν αὐτὴν ἀνδρός τε καὶ γυναικὸς ἀρετήν (Mul. Virt. 243A1). Per l’uguaglianza fra uomo e donna nella filosofia ellenistica cfr. C. Vatin, Recherches sur le mariage et la condition de la femme mariée à l’époque héllénistique (Paris: 1970) 33–39. Il medesimo argomento fu trattato nell’opera di Seneca (Dial. VI 16.1 e, soprattutto, ad Marciam de consolatione 16.1: Quis autem dixerit naturam maligne cum mulierum ingeniis egisse et virtutes illarum in artum retraxisse? Par illis, mihi crede, vigor, par ad honesta, libeat, facultas est; dolorem laboremque ex aequo, si consuevere, patiuntur) e nelle diatribe del neo-stoico Musonio Rufo (Stob. II 31.126 = Muson. 8–13 Hense; Stob. II 31.123 = Muson. 13–19 Hense); cfr. anche I. Ramelli (ed.), Musonio. Diatribe, frammenti e testimonianze (Milano: Bompiani, 2001) 18–19; 54–47. G. Marasco ha parlato prima di una “commistione di motivi epidittici ed artistici”, per cui il ruolo delle donne tanto messo in rilievo, in realtà, apparirebbe “assai sfocato in alcune delle vicende narrate” e, più tardi, ha sostenuto che Plutarco “mostra costantemente nelle sue opere un’alta considerazione della funzione della donna nella famiglia e nella società e della sua attitudine a dimostrare virtù ed a compiere atti eroici analoghi a quelli degli uomini”, parlando poi del Mulierum Virtutes, dell’Amatorius, dei Coniugalia Praecepta e della Consolatio ad uxorem come opere atte ad elogiare, tramite esempi storici, le virtù femminili e la tendenza all’intelligenza e alla saggezza da parte delle donne; cfr. G. Marasco, “Sul Mulierum virtutes di Plutarco”, in G. D’Ippolito– I. Gallo (eds.), Strutture formali dei “Moralia” di Plutarco, Atti del III Convegno Plutarcheo,

introduzione

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Tuttavia l’autore, dopo aver confessato di volersi esprimere unendo l’amabilità dell’ascolto alla dottrina in un bellissimo connubio, come auspicato ai vv. 673– 675 dell’Eracle di Euripide27, rileva che, a motivo delle disposizioni naturali, le virtù acquistano alcune caratteristiche come se prendessero delle particolari sfumature e si conformassero ai presenti costumi, temperamenti, alimentazioni e stili di vita28, per cui le diversità di ciascuna non vanno ad intaccare la definizione che è insita nel concetto stesso di virtù29. Dunque il complesso delle vicende esposte nell’opera permette di osservare, senza eccessive digressioni e fronzoli stilistici che condiscendano al diletto (τὸ τέρπον) fine a se stesso, come la natura unitaria della virtù non impedisca all’ἀρετή femminile30 di dispiegarsi, identifi-

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Palermo, 3–5 Maggio 1989 (Napoli: D’Auria, 1991) 335–345; G. Marasco, “Donne, cultura e società nelle Vite Parallele di Plutarco”, in A.G. Nikolaidis (ed.), The Unity of Plutarch’s Work (Berlin/New York: De Gruyter, 2008) 663–665. Un parere critico è stato espresso da K. O’Brien Wicker, secondo cui “the accounts do not directly demonstrate that there is no difference in ἀρετή between the sexes, but only that women can perform deeds traditionally considered masculine”; O’Brien Wicker, “Mulierum Virtutes”, 107. Anche ad avviso di J. McInerney, “not all the stories support the claim that women’s virtues are the same as men’s” e l’opera sarebbe divisa in una parte “infused with traditional notions of female propriety” ed un’altra contenente “quite new understandings of conjugal relations” che introdurrebbero “a new way of seeing women”; cfr. McInerney, “Chapter fifteen”, 341. Malgrado Stadter avesse parlato di differenti tipi di confronto, E. Melandri ha riconosciuto una ambiguità di fondo tra l’affermazione dell’unitarietà ed identità dell’ἀρετή maschile e femminile e la sostanziale proposizione di un confronto, realizzato tra virtù tradizionalmente caratteristiche dei due diversi generi; cfr. P.A. Stadter, An analysis of the Mulierum Virtutes, Plutarch’s historical methods (Cambridge/Massachusetts: Harvard University Press, 1965) 10; E. Melandri, “La virtù al femminile”, in J. Ribeiro Ferreira–L. Van Der Stockt–M. Fialho (eds.), Philosophy in Society, Virtues and Values in Plutarch (Leuven/Coimbra: 2008) 173– 174. Secondo McInerney, l’opuscolo plutarcheo difende la “tricky proposition that women may possess and display the one virtue that most thoroughly makes a man a man: andreia”; McInerney, “Chapter fifteen”, 320–321. Tuttavia, l’assunto di Plutarco è che la virtù, intesa in senso generale, sia unica ed identica per uomini e donne: proprio per questo l’andreia, che costituisce soltanto una delle molteplici sfumature secondarie che può assumere l’ ἀρετή, sarebbe, di conseguenza, comune ad entrambi i sessi. ταῖς Μούσαις τὰς Χάριτας συγκαταμιγνὺς καλλίστην συζυγίαν. Per una analisi dettagliata di questa citazione del secondo stasimo dell’Eracle euripideo e della sua fortuna in epoca umanistica cfr. anche F. Tanga, “Una citazione euripidea nel Mulierum Virtutes di Plutarco: osservazioni sulle traduzioni di età umanistica”, in A. Pérez Jiménez–P. Volpe Cacciatore (eds.), Musa Graeca tradita, Musa Graeca recepta. Traducciones de poetas griegos (siglos XV–XVII) (Zaragoza: Portico, 2011) 167–179. διαφοράς γέ τινας ἑτέρας ὥσπερ χροιὰς ἰδίας αἱ ἀρεταὶ διὰ τὰς φύσεις λαμβάνουσι καὶ συνεξομοιοῦνται τοῖς ὑποκειμένοις ἔθεσι καὶ κράσεσι σωμάτων καὶ τροφαῖς καὶ διαίταις (Mul. Virt. 243C5–7). ἂν μόνον τοῦ λόγου τοῦ οἰκείου μηδεμίαν αἱ καθ᾿ ἕκαστον ἀνομοιότητες ἐκβιάζωσι (Mul. Virt. 243D3–4). Una temperie descrittiva favorevole al mondo femminile si riscontra anche nella sezione

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candosi e sfumandosi, a seconda del contesto, in un’ ampia e mutevole gamma di qualità31 (ἀριστεία, μεγαλοπραγμοσύνη, σύνεσις, φρόνημα, δύναμις, θυμός, ὁρμή, τόλμα, εὐεργεσία, εὐφυΐα, εὐλάβεια, εὐταξία, ῥώμη, ἀξίωμα, εὐγένεια, δόξα, τιμή, τιμὴ ἡρωϊκή, πράξις, εὐμένεια, χρηστότης, πίστις, εὐτυχία, λαμπρότης, φιλανθρωπία, φιλοφροσύνη, σωφροσύνη32, ἀνδρεία33) e conferendo alle protagoniste di volta in

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finale degli Apophthegmata Laconica (240C–242D), dove le scarne sententiae pronunziate dalle donne spartane (assenti, come le donne ateniesi, dagli episodi narrati nel Mulierum Virtutes, forse per la scelta di evitare τὰ ἄγαν περιβόητα; cfr. 243D5) sembrano richiamare la tensione etica ed il profilo virtuoso di condotte e discorsi diretti femminili contenuti in alcuni episodi del Γυναικῶν ἀρεταί. Cfr. anche C. Santaniello (ed.), Plutarco, Detti dei Lacedemoni (Napoli: D’Auria, 1995) 288–307. A margine delle storie 3, 15 e 20 del Mulierum Virtutes plutarcheo contenuto nel ms. Laur. 80,22 in suo possesso, l’umanista di Tolentino Francesco Filelfo annotò il termine μεγαλοψυχία (termine che compare altre 28 volte nell’arco dell’intera opera di Plutarco, senza mai essere riferito a donne) per qualificare gli atti virtuosi delle donne di Chio, dell’Elide e di Galazia. M. López Salvá e M.A. Medel, seguite da M. García Valdés, hanno individuato nell’opera sei virtù dominanti: “coraje, audacia, fidelidad, bondad, honradez e intelligencia”. G. McLeod, poi, ne ha riconosciute sette: “courage, piety, intelligence, beauty, chastity, patriotism and generosity”. In seguito, J. McInerney ha sostenuto che la “novel figure of the brave and virtuous woman is a highly traditional, and restrictive, understanding of womanly virtue”; McInerney, “Chapter fifteen”, 323. C. Ruiz Montero e A.M. Jiménez, parlando dell’ “existencia de un catálogo implícito de virtudes”, hanno diviso le storie dell’opuscolo “según tres tipos básicos, que ejemplifican andreia” (storie 1, 3, 4, 5, 7, 8, 9, 10, 14, 15 e 23), φρόνησις (storie 2, 3, 6, 11, 12, 15, 16, 17, 20, 21, 22 e 24), che include σωφροσύνη (storie 12, 14, 15, 20, 22, 24) e δικαιοσύνη (storie 13, 15, 17, 18, 19, 25, 26 e 27), precisando, poi, che le tre qualità “se interpenetren y combinen”, presentando “subdivisiones o variaciones”. P. Schmitt-Pantel, di recente, ha distinto “les actes de bravoure, les leçons de courage, le consentement, les bons conseils, la résistance au tyran” come “caractéristiques de valeur féminine” all’interno del Mulierum Virtutes plutarcheo. Cfr. O’Brien Wicker, “Mulierum Virtutes”, 114–115; M. López Salvá–M.A. Medel (eds.), Plutarco. Obras morales y de costumbres, vol. III (Madrid: Gredos, 1987) 262; G. McLeod, Virtue and Venom: Catalogs of Women for Antiquity to the Renaissance (Ann Arbor: University of Michigan Press, 1991) 21; M. García Valdés, “Plutarco uersus Tucídides: Uirtutes mulierum”, in M. Jufresa– F. Mestre–P. Gómez–P. Gilabert (eds.), Plutarc a la seva època: Paideia i societat (Actas del VIII Simposio Internacional de la sociedad Española de Plutarquistas, Barcelona, 6–8 de noviembre 2003) (Barcelona: 2005) 297–312; C. Ruiz Montero–A.M. Jiménez, “Mulierum Virtutes de Plutarco: aspectos de estructura y composición de la obra”, Myrtia 23 (2008) 109–117; P. Schmitt–Pantel, “Autour du traité de Plutarque Vertus de femmes (Gunaikôn Aretai)”, Clio. Histoire, femmes et sociétés 30 (2009) 39–60. Per una completa disamina delle virtù detenute dai protagonisti delle Vite Parallele cfr. F. Frazier, Histoire et Morale dans les Vies parallèles de Plutarque (Paris: 1996) 197–230; 231–271. L’applicazione femminile della σωφροσύνη sarebbe strettamente connessa alla sfera della sessualità o della fedeltà coniugale; cfr. Melandri, “La virtù”, 175–180. Aristotele (Pol. 1263b) riteneva la σωφροσύνη una virtù da esercitare per eccellenza in politica nei confronti delle donne. C. Ruiz Montero e A.M. Jiménez hanno selezionato, all’interno dell’opuscolo, un vocabo-

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volta le polivalenti sembianze e definizioni di donna φίλανδρος, μεγαλόφρων, γενναία, σώφρων, συνετή, ποθεινή, σοφή e χρηστή34. Nel contesto sociale e nella quotidianità della vita familiare, al verificarsi di situazioni di pericolo, le protagoniste dei vari episodi agiscono, indipendentemente dal proprio status, in maniera autonoma e spesso in conflitto con le prescrizioni maschili, mostrandosi capaci di svolgere importanti e decisivi compiti di ausilio, supplenza o sostituzione, che spesso esulano dalla sfera di pertinenza consueta (e tradizionalmente riconosciuta loro35) fino a giungere a veri e propri exploit36. Le protagoniste delle storie narrate nel Mulierum Virtutes, infatti, sono individualità o gruppi di donne comuni, e non personaggi straordinari appartenenti alla mitologia37; poi, anche nei casi38 in cui appartengono a famiglie di governo, non

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lario “con el que se expresa areté”, riconoscendo, in un totale di 88 termini, 14 vocaboli contenuti nell’introduzione dell’opera, 18 nella sezione dedicata agli atti di virtù collettiva, 12 nelle storie cosiddette “di cesura” (ovvero le storie 14 e 15) e 44 nella parte consacrata agli episodi di virtù individuale. Per questa raccolta di termini in vario modo riconducibili alla virtù (non soltanto femminile) nel testo del Mulierum Virtutes, cfr. Ruiz Montero–Jiménez, “Mulierum Virtutes”, 109 e note 33, 34, 35 e 36. Platone (R. 427e–434c; Lg. 964b3–6) aveva parlato di φρόνησις, σωφροσύνη, δικαιοσύνη e ἀνδρεία come virtù basilari, e Valerio Massimo (Facta et dicta memorabilia, passim) citava sapientia, iustitia, fortitudo et temperantia come virtù codificate dalla filosofia e dai trattati di retorica, così come in Rhetorica ad Herennium (3.3) si menzionavano come virtù canoniche prudentia, iustitia, fortitudo e modestia. Plutarco, nell’Amatorius (769B12), raggruppava le virtù possedute dalla donna in σωφροσύνη καὶ σύνεσις, πίστις καὶ δικαιοσύνη, τὸ ἀνδρεῖον καὶ τὸ θαρραλέον καὶ τὸ μεγαλόψυχον. Alla fine del presente volume si ritrova un’appendice di vocaboli, presenti nell’opuscolo e riferiti soltanto all’ἀρετή femminile. Cfr. anche M. Duarte Silveira, A imagem femenina na Moralia: heroismo e outras virtudes (Diss., Universidade de Sâo Paulo, 2006) 20; Ruiz Montero–Jiménez, “Mulierum Virtutes”, 111–117. Cfr. F. Tanga, “Plutarco e le donne nel Mulierum Virtutes”, in C. Talamo (ed.), Saggi di Commento a Testi Greci e Latini 2 (Pisa: ETS, 2010) 105–113. Paradigma di valore femminile erano le figure mitologiche delle Amazzoni, collettivo di donne la cui alterità, in rapporto al mondo ellenico, si esplicitava anche nella barbarie e nella fusione di prerogative maschili e femminili. Similmente, Apollonio Rodio (1.627– 630) aveva descritto le donne di Lemno capaci di annichilire il genere maschile per poi dedicarsi alla pastorizia e alla guerra. Quindi la ginecocrazia (paventata da Aristotele quale fonte di pericoli per mariti e schiavi; cfr. Pol. 1313b) diveniva utopico-parodistica nella tribù delle Onoscelie, narrate da Luciano (V.H. 2.46), ed una sorta di rovesciamento romanzesco-favolistico nella novella intitolata Τὰ ὑπὲρ Θούλην di Antonio Diogenes (epitomata in Phot. Bibl. cod. 166, 109b), dove si ritrovava un popolo οὗ γυναῖκες μὲν πολεμοῦσιν, ἄνδρες δὲ οἰκοῦσιν καὶ τὰ γυναικῶν ἐπιμελοῦνται. Cfr. anche A. Ibáňez Chacón, “PseudoPlutarco, Parallela Minora 29: Tradición, Reinvención, Erudición”, Minerva 20 (2007) 69– 71. Le donne descritte nel Mulierum Virtutes solo di rado dimostrano “concern with power”, contrariamente a quanto afferma J. McInerney, che ha descritto gli atti virtuosi narrati

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esercitano quasi mai39 ruoli diretti di comando, ma si limitano a mantenere una sorta di provvisoria longa manus40, o comunque una capacità di moral suasion, nei confronti degli uomini al potere41. Per questo, l’appendice dimostrativa di 27 episodi42, di cui i primi 15 trattano donne che agirono collettivamente (κοινῇ) ed i successivi 12 discutono eventi di virtù esercitata individualmente (ἰδίᾳ)43, non essendo stata composta per il piacere dell’ascolto (πρὸς ἡδονὴν ἀκοῆς)44, ma per sostenere l’assunto principale del Cheronese, intende rafforzare l’idea di una donna dalle potenzialità fisiche ed intellettuali pienamente identiche a quelle maschili nel bene e nel male, dotata di un sesto senso nella percezione delle circostanze di difficoltà e pericolo, e provvista di particolare sagacia nella soluzione di problematiche45 sorte a seguito di debolezze o incapacità

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nell’opuscolo come indirizzati quasi esclusivamente verso il potere, inteso come fondamentale “issue” della Seconda Sofistica, nella prospettiva di integrazione del mondo ellenico e romano; cfr. McInerney, “Chapter fifteen”, 342. L’eccezione è rappresentata dalla moglie di Pite; cfr. storia 27. All’interno del corpus dei Moralia è bene ricordare anche la figura della saggia e famosa Eumetide, detta Cleobulina dal nome del padre, cui Talete riconosceva φρόνημα θαυμαστόν, νοῦς πολιτικός e φιλάνθρωπον ἦθος in grado di far divenire suo padre un governante più buono ed affabile verso i suoi cittadini; cfr. Sept. sap. conv. 148CD. Cfr. storie 1, 2, 6, 10, 15, 19, 21, 25, 26, 27. Tra questi, 18 sono noti soltanto attraverso Plutarco, mentre gli altri 9 riferiscono dettagli altrove mai narrati. Indiscutibile, pertanto, risulta l’originalità di Plutarco nella selezione del materiale storico a sua disposizione; cfr. Stadter, An analysis, 126 e López Salvá–Medel, Plutarco. Obras morales, 262. Tuttavia l’ispirazione, anche parziale, a cataloghi femminili coevi o antecedenti (e non ad autori di storie individuali) andati perduti resta una ipotesi valida; cfr. anche D. Gera, Warrior Women. The anonymous Tractatus de Mulieribus by Deborah Gera (Leiden/New York/Köln: Brill, 1997) 35. Ἐπεὶ δὲ πολλὰ καὶ κοινῇ καὶ ἰδίᾳ γυναιξὶν ἄξια λόγου πέπρακται, βραχέα τῶν κοινῶν οὐ χεῖρόν ἐστι προϊστορῆσαι (Mul. Virt. 243D7–E2); tali criteri di suddivisione si rivelano piuttosto generici, in quanto, ad un’attenta analisi, la dinamica degli episodi è piuttosto eterogenea, poiché nel primo gruppo di storie compaiono diverse individualità di rilievo (storie 1, 4, 7, 14, 15), mentre nel secondo si riconoscono diversi collettivi femminili di varia entità e composizione in azione (storie 17, 24, 25, 26, 27). In proposito, cfr. Ruiz Montero–Jiménez, “Mulierum Virtutes”, 108 e, soprattutto, F. Tanga, “Mulierum Virtutes: atti di virtù individuale e collettiva”, Ploutarchos (n.s.) 7 (2009/2010) 84–95. προσανέγραψά σοι, τὸ ἱστορικὸν ἀποδεικτικὸν ἔχοντα καὶ πρὸς ἡδονὴν μὲν ἀκοῆς οὐ συντεταγμένην (Mul. Virt. 243A1–2). Un sentimento di stima nei confronti della condotta e delle qualità intellettuali femminili è espresso in maniera diffusa anche all’interno dell’Amatorius (767B e 769B), dei Coniugalia Praecepta (138C e 145AF) e della Consolatio ad uxorem (609C); cfr. anche J. Boulogne (ed.), Plutarque, Œuvres Morales, t. IV (Paris: Les Belles Lettres, 2002), introduction e Marasco, “Donne, cultura e società”, 663–666. Nelle Vite, poi, non è celata l’ammirazione per le

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maschili. In tal senso, resta esemplare la figura femminile della anonima moglie di Pite46, che, consapevole dei disastri causati alla popolazione dalla eccessiva passione per l’oro (χρυσοφιλία) del marito, dapprima lo convinse a concedere ai sudditi delle turnazioni lavorative in miniera, e quando Pite, amareggiato dalle continue delusioni della vita, decise di lasciarsi lentamente morire in un mausoleo costruito fuori dai confini della città, si occupò saggiamente del governo della città e pose fine ai mali dei cittadini47. In questo caso, chiamata in causa dalle circostanze, la protagonista si mostra dotata di senso di responsabilità familiare ed istituzionale e si cimenta nel governo della città, dando prova di saper modificare in meglio la condizione dei cittadini48. Il Mulierum Virtutes, pur non essendo un repertorio tout court, si inserisce in maniera complementare (poiché parzialmente innovativa49) nel solco di una tradizione letteraria50 catalogica51

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donne autrici di atti eroici; cfr. F. Le Corsu, Plutarque et les femmes dans les Vies Parallèles (Paris: 1981) 270–274. Πύθεω γυνή. Cfr. storia 27. ἡ δὲ γυνὴ τῆς ἀρχῆς καλῶς ἐπεμελήθη καὶ μεταβολὴν κακῶν τοῖς ἀνθρώποις παρέσχεν (Mul. Virt. 263C6–7). Invece Aretafila (storia 19), dopo aver liberato in maniera rocambolesca Cirene dalla tirannide, si rifiutò di συνάρχειν καὶ συνδιοικεῖν τοῖς ἀρίστοις ἀνδράσι τὴν πολιτείαν (Mul. Virt. 257D5–6), e, ritiratasi nel gineceo, trascorse il resto dei suoi giorni al telaio in tranquillità e in compagnia di amici e parenti; cfr. 257E1–3. Tale condotta è stata considerata da K. O’Brien Wicker un “example of household virtue of the women”; O’Brien Wicker, “Mulierum Virtutes”, 120. Plutarco è consapevole di aver effettuato un componimento di intento filosofico esemplificativo, raccogliendo eventi non percorsi da autori precedenti a sostegno di una conversazione avvenuta tempo prima, e lasciando, di conseguenza, in secondo piano, in una prospettiva moralizzante, un’impostazione esclusivamente compilativa di carattere tradizionale; cfr. Mul. Virt. 242E–243E2. Boulogne, invece, ha ritenuto che Plutarco non abbia in alcun modo innovato la tradizione catalogica precedente; cfr. Boulogne, Plutarque, 6. C. Ruiz Montero e A.M. Jiménez hanno individuato nel Mulierum Virtutes alcuni punti di contatto con titoli e metadiscorsi presenti nei Facta et dicta memorabilia di Valerio Massimo, opera in cui compaiono esempi di fortitudo femminile e di moderatio e clementia maschile; Ruiz Montero–Jiménez, “Mulierum Virtutes”, 109–110 nota 37. C. Ruiz Montero e A.M. Jiménez hanno riconosciuto, all’interno dell’opera, “la existencia de un catálogo implícito de virtudes”; Ruiz Montero–Jiménez, “Mulierum Virtutes”, 109–118. G. Pomata ha parlato del Mulierum Virtutes come archetipo del catalogo biografico femminile, inteso quale modello storiografico antico; G. Pomata, “Storia particolare e storia universale: in margine ad alcuni manuali di storia delle donne”, Quaderni Storici 74 (1990) 346. In realtà l’autore, pur richiamando metodologicamente il procedimento della synkrisis e componendo la seconda metà dell’opuscolo impostata su singole donne virtuose, non scrive biografie complete di personaggi femminili, ma si limita ad esporre svariati episodi di interesse storico, estrapolati a sfondo filosofico-moralistico. Il genere del catalogo di biografie di donne celebri, con finalità precipuamente agiografiche ed enco-

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femminile52 che rimonta all’Iliade53 e all’Odissea54, alla Teogonia55 e al Catalogo delle donne56 di Esiodo, al Partenio di Agide e Agesicora57 di Alcmane e agli Ἔπη Ναυπάκτια di Carcino di Naupatto58. Tale tradizione, in seguito, si è consolidata con i Τῶν κατ’ ἀρετὴν γυναιξὶ πεπραγματευμένων διηγήματα59 di Artemone di Magnesia60, con le Ὅσαι γυναῖκες ἐφιλοσόφησαν ἢ καὶ ἄλλως τι ἐπίδοξον διεπράξαντο, καὶ δι’ ἃς οἰκίαι εἰς εὔνοιαν συνεκράθησαν di Apollonio stoico61, con la lista di autore anonimo citata da Fozio62 come ἐκλογαὶ καὶ αὐτὸ τυγχάνει τὸ βιβλίον, οὐκ ἔχον ἑπιγραφόμενον τὸν συνηθροικότα· ἐν οἷς τὰς εἰς μέγα δόξης καὶ ὄνομα λαμπρὸν ἀρθείσας γυναῖκας καταλέγει, con l’anonimo catalogo medio-imperiale Γυναῖκες

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miastiche, tende a cristallizzarsi soltanto dalla tarda antichità, per godere di maggiore successo nell’epoca bassomedievale e rinascimentale. Per il genere biografico cfr. anche A. Momigliano, Lo sviluppo della Biografia Greca (Torino: 1974); B. Gentili–G. Cerri, Storia e Biografia nel pensiero antico (Roma/Bari: Laterza, 1983); V. Ramón Palerm, Plutarco y Nepote. Fuentes e interpretación del modelo biográfico plutarqueo (Zaragoza: 1992) 1–15; A. Pérez Jiménez, “Ensayo sobre dos Vidas comparadas: Alejandro y César”, in A. Cosentino–M. Monaca (eds.), Studium Sapientiae, Proceedings of the 9th EASR Annual Conference and IAHR Special Conference, 14–17 September 2009, Messina (Soveria Mannelli: Rubbettino Editore, 2013) 189–199. L’opuscolo, forse, si ispirò parzialmente a qualche collezione o antologia di imprese femminili circolante all’epoca; Gera, Warrior Women, 35. Piuttosto discutibile l’opinione di J. McInerney, secondo cui il vero antecedente del Mulierum Virtutes non sarebbe “the body of complex and contradictory literature about women”, ma piuttosto “the Hellenistic legacy to which Plutarch was heir”; cfr. McInerney, “Chapter fifteen”, 343. Cfr. Il. 14.315–328, dove Zeus passa in rassegna tutte le amanti del passato, e Il. 18.39–49, dove sono elencati i nomi delle Nereidi, figlie di Nereo e sorelle di Teti. Cfr. Od. 11.225–330, dove Odisseo enumera, partendo da Tiro fino a giungere ad Erifile, una lunga serie di mogli e figlie di valorosi. Cfr. 75–79 e 240–264, per i cataloghi di Nereidi ed Oceanidi. Cfr. anche 886–923 e 938–944 per i cataloghi delle mogli di Zeus, divine e mortali. Di cui Pausania parla come opera composta in celebrazione delle donne; cfr. 1.3.1; 1.43.1 e 9.31.5. Cfr. 64–77. Autore, secondo Pausania (10.38.11), di un’opera in onore delle donne. Sopatro ha riassunto il contenuto di quest’opera nelle Ἐκλογαί; cfr. Phot. Bibl. 161, 103a. Secondo E.L. Wheeler, all’epoca di Sopatro vi erano dei cataloghi di stratagemmi militari che avevano reso inutili opere quali il Mulierum Virtutes di Plutarco e gli Strategemata di Polieno; cfr. E.L. Wheeler, “Polyainos: Scriptor Militaris”, in K. Brodersen (ed.), Polyainos. Neue Studien (Berlin: 2010) 18. Cfr. G. Wentzel, “Artemon”, R.E. II.2 (1896) 1447. Per l’identità di questo personaggio, che potrebbe essere il filosofo stoico Apollonio di Tiro, che nel tardo I sec. a.C. compose un catalogo riguardante gli Stoici e le loro opere (Strabo 16.1.24 = SVF I, 37), cfr. H. Von Arnim, “Apollonios 94”, R.E. II.1 (1895) 146. Sopatro ha realizzato un estratto anche di questo componimento; cfr. Phot. Bibl. 161, 104b. Cfr. Phot. Bibl. 161, 104a.

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ἐν πολεμικοῖς συνεταὶ καὶ ἀνδρεῖαι63, seguito dalla brevissima raccolta di casate rovinate da donne intitolata Τίνες οἶκοι ἀνάστατοι διὰ γυναῖκας ἐγένοντο, di autore ignoto64, per concludere con il catalogo di biografie di uomini e donne illustri di età ellenistica redatto da Carone di Cartagine65, ἱστορικός che, secondo il lessico Suda66, ἔγραψε Τυράννους, ὅσοι ἐν τῇ Εὐρώπῃ καὶ Ἀσίᾳ γεγόνασι, Βίους ἐνδόξων ἀνδρῶν ἐν βιβλίοις δʹ, Βίους ὁμοίως γυναικῶν ἐν δʹ. L’opera, poi, oltre a trovare origine nella topica della produzione paramitetica67 per quanto riguarda l’indicazione di figure esemplari68, in virtù dell’interesse non accessorio per usanze69, religione70 ed eziologia71, tratti del genere della letteratura erudita di periodo ellenistico, denota nei confronti del mito uno spirito razionalistico di fondo che tende, talora, a fornire spiegazioni naturali o verosimili ad eventi portentosi72. Da un punto di vista filosofico, l’impostazione, la tematica e lo sviluppo dell’opuscolo rivelano una chiara matrice platonica, cui si aggiungono non trascurabili analogie73 con alcuni argomenti percorsi nell’opera di Seneca74 e 63

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Questo trattato, per consuetudine intitolato in latino De Mulieribus Quae Bello Clarerunt o De Mulieribus Claris in Bello (titolo tradotto da D. Gera nell’inglese Women Intelligent and Courageous in Warfare), ad avviso di D. Gera, probabilmente non aveva il titolo conferitogli nei manoscritti. Cfr. A. Westermann (ed.), ΠΑΡΑΔΟΞΟΓΡΑΦΟΙ, Scriptores Rerum Mirabilium Graeci (Brunsvigae/Londini: Black/Armstrong, 1839) 213–218; Gera, Warrior Women, 3–6. Cfr. Westermann, ΠΑΡΑΔΟΞΟΓΡΑΦΟΙ, 218 e V. Rose (ed.), Anecdota Graeca et GraecoLatina (Berlin: 1864) 1, 7. Cfr. E. Schwartz, “Charon 9”, R.E. III.2 (1899) 2180. Cfr. Suidas s.v. Charon, che menziona l’opera. Dopo la morte dell’ottima Leontis, Plutarco afferma di aver intrattenuto con Clea una “conversazione non priva di παραμυθία filosofica” (Mul. Virt. 242F3–4); per questo, gli exempla storici addotti a sostegno della tesi principale dell’opera sono riconducibili, per alcuni versi, anche al serbatoio topico della riflessione consolatoria. Cfr. Sen. ad Marciam de consolatione 16; Plu. Consolat. ad Apollon. 26. Per una sintesi sull’ “espressione dell’esemplarità anche in riguardo alla formazione della memoria sociale oppure collettiva” nell’ambito della cultura dell’epoca di Plutarco, cfr. F.E. Brenk, “Parlando senza profumi raggiunge con la voce mille anni: Plutarco e la sua età”, in P. Volpe Cacciatore–F. Ferrari (eds.), Plutarco e la cultura della sua età, Atti del X Convegno plutarcheo, Fisciano-Paestum 27–29 ottobre 2005 (Napoli: D’Auria, 2007) 36. Cfr. storie 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 12, 16, 26. Cfr. storie 2, 4, 13, 16, 17, 18. Cfr. storie 1, 2, 4, 5, 7, 8, 9, 14, 16, 17, 26. Cfr. storie 4 e 9. In riferimento all’esercizio di virtù muliebri quali ragione, coraggio e giustizia, sono presenti alcuni riscontri nel pensiero cristiano, soprattutto in consonanza con lo spirito della predicazione paolina (Coloss. 3.18–19); cfr. Tit. 2.3–5; I Pt. 3.1–6; ICor. 6.7b–8; Mc. 7.21–22; Mc. 10.43–44; cfr. soprattutto O’Brien Wicker, “Mulierum Virtutes”; Martano–Tirelli, Plutarco, Precetti, 8–13; Ramelli, Musonio. Diatribe, 18–19. Cfr. Sen. Dial. 6.16.1; Ep. 95.52.

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di altri stoici75 come Musonio Rufo76, senza tralasciare una probabile affinità77 speculativa con il perduto trattato Περὶ τοῦ ὅτι ἡ αὐτὴ ἀρετὴ [καὶ] ἀνδρὸς

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Come testimoniava Lattanzio (Div. Ist. 3.25), secondo gli Stoici le donne dovevano filosofare anch’esse. Inoltre, è noto che Epicuro ammetteva alla scuola anche le donne, a differenza di quanto accadeva all’Accademia ed al Liceo. Per P. Andrés Ferrer, forse influenzato dal fervido dibattito filosofico neo-stoico sul matrimonio, il Mulierum Virtutes è un “discurso” o “tratado” che ha avuto origine da un “debate de filiación estoica”; cfr. P. Andrés Ferrer, “Porcia, un personaje de Plutarco, en la literatura espaňola”, Espéculo. Revista de studios literarios 39 (2008). Tuttavia, il lessico e la matrice ideale della parte introduttiva dell’opuscolo denunciano una palese ascendenza platonica. Un peso non trascurabile sulla valutazione del mondo femminile da parte di Musonio Rufo, maestro di Epitteto e Dione di Prusa, fu esercitato dalla sua cultura etrusca, che concedeva grande libertà alle donne; cfr. Ramelli, Musonio. Diatribe, 19–20. A Musonio Rufo risale un’opera intitolata Anche le donne devono praticare la filosofia (Stob. 2.31.126 = Muson. 8–13 Hense), in cui si afferma che la donna è pari all’uomo nei confronti della virtù e deve dedicarsi allo studio della filosofia, ed un trattato denominato Se le figlie debbano essere educate alla stessa maniera dei figli (Stob. 2.31.123 = Muson. 13–19 Hense), dove la virtù femminile è reputata uguale a quella maschile anche nel coraggio, come dimostrato dall’esempio delle Amazzoni. Per l’influenza di Musonio Rufo su Plutarco, cfr. anche De coh. ira 453D; Stadter, An analysis, 3–5. Sulla stessa lunghezza d’onda di Musonio, forse, era l’ ὅτι καὶ γυναῖκα παιδευτέον, opuscolo plutarcheo di probabile ispirazione filosoficopedagogica, non menzionato nel Catalogo di Lampria, di cui restano alcuni frammenti tràditi da Stobeo (frammenti 128–133 Sandbach); in proposito, cfr. F. Tanga, “Plutarco e Musonio Rufo: una figura di saggezza femminile nell’ ὅτι καὶ γυναῖκα παιδευτέον (frr. 128– 133 Sandbach)?”, in D. Leão–O. Guerrier (eds.), Figures de sages, figures de philosophes dans l’oeuvre de Plutarque (Coimbra: Coimbra University Press, 2019) 27–40. Per la figura di Musonio Rufo e le diatribe musoniane come punto di intersezione tra il pensiero esplicitato nel De matrimonio senecano (opera tràdita in Hieron. adv. Iovinianum 2.48 = SVF III, 727, p. 183) ed i primi scritti cristiani di interesse coniugale, cfr. C. Lutz, Musonius Rufus, The Roman Socrates (New Haven: 1947) 37–49; C.E. Manning, “Seneca and the Stoics on the Equality of the Sexes”, Mnemosyne 26 (1973) 170–177; I. Ramelli, “La tematica de matrimonio nello Stoicismo romano: alcune osservazioni”, Ilu, Revista de Ciencias de las Religiones 5 (2000) 145–162. Alcune affinità tematiche, stilistiche e metodologiche hanno condotto G. Marasco a ritenere lo storico ellenistico Filarco “un illustre ed influente predecessore dello scrittore di Cheronea”, in grado di esercitare una rilevante influenza sul Mulierum Virtutes e sull’intero pensiero plutarcheo, soprattutto attraverso il proprio interessamento alla virtù delle donne e all’amore coniugale. Per i riscontri testuali relativi ad episodi di virtù femminile (in particolare, per la vicenda di Chilonide ed Acrotato cfr. Pyrrh. 26.17–18; 27.10; 28.5–7; per Cleombroto e Chilonide, figlia di Leonida II, cfr. Ag. 17.1–18; per Agiatide e i mariti Agiatide IV e Cleomene III cfr. Cleom. 1.2–3; 22.1; per Panteo e la moglie cfr. Cleom. 38.5–7; per Berenice e Demetrio cfr. Iustin. 26.3) o a episodi di colonizzazioni, accompagnati da notizie eziologiche, ispirati da Filarco, cfr. Marasco, “Sul Mulierum virtutes”, 341–345; 344 note 39, 40 e 47; Marasco, “Donne, cultura e società”, 668–669. Per l’adesione plutarchea all’ideale licurgico di donna all’interno della società spartana cfr. Marasco, “Donne, cultura e società”, 667.

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καὶ γυναικός78 di Cleante e con il Περὶ γυναικὸς σωφροσύνας79 della pitagorica Fintide80. Poi, nel complesso delle opere plutarchee dedicate alla cosiddetta “macrotematica della donna”81, il proclamato assenso alla consuetudine romana della laudatio funebris per le donne, l’origine fondamentalmente consolatoria della raccolta di paradigmi storici ed il richiamo metodologico al procedimento della σύγκρισις contemplati nell’introduzione dell’opuscolo, uniti alla clamorosa assenza di qualsiasi riferimento preliminare al contesto coniugale82, nel 78 79

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Cfr. D.L. 7.5.174–175 = SVF I, 48L, p. 106. Per i frammenti superstiti di quest’opera, cfr. Stob. Flor. 4.23.61. La tradizione filosofica pitagorica, di cui era celebre l’apertura verso le donne, produsse anche un trattato intitolato Περὶ γυναικὸς ἁρμονίας, attribuito a Perictione; cfr. Stob. Flor. 4.25.50. L’autrice, tuttavia, non è presente nell’elenco delle pitagoriche stilato da Giamblico; cfr. V.P. 36.5 = 58 A 1 DK; cfr. C. Montepaone, Lo spazio del margine: prospettive sul femminile nella comunità antica (Roma: 1999) 220–223. In Con. praec. 145F, Plutarco addita Teano, moglie di Pitagora, come primo esempio di “donne che furono degne di ammirazione e di celebrità”; cfr. anche Con. praec. 142C; Martano–Tirelli, Plutarco, Precetti, 103–105; 120. Il Cheronese invitava Euridice ad occuparsi di geometria, attività prediletta da Pitagora e dai Pitagorici, oltre che di filosofia (Con. praec. 145CD; 146A) per tenersi lontana da occupazioni insulse. Di Fintide, figlia di Callicratida, (forse corrispondente alla Filtide, figlia di Teofrio di Crotone, menzionata nell’elenco delle filosofe pitagoriche redatto da Giamblico; cfr. V.P. 36.5 = 58 A 1 DK) Stobeo (Flor. 4.121) citava anche un frammento del Περὶ σοφίας; cfr. anche Montepaone, Lo spazio del margine, 222–225; 239–240. Per l’ispirazione platonizzante e neo-pitagorica di Plutarco cfr. anche Martano–Tirelli, Plutarco, Precetti, 14. Tematica sviluppata, secondo G. D’Ippolito, lasciando prevalere l’exemplum storico nelle Vite e nel Mulierum Virtutes (e, parzialmente, nel Sept. sap. conv.), e privilegiando la forma del discorso teorico nei Coniugalia Praecepta e, in parte, nell’Amatorius. In tale macroargomento, lo studioso ha poi distinto tre piani di discussione: uno erotico, un altro familiare, ed un altro ancora di natura sociale; cfr. D’Ippolito, “Il Corpus Plutarcheo”, 15. Dopo il Περὶ γάμου dello stoico Perseo (D.L. 7.1.36 = SVF I, 435, p. 96), il Περὶ ὑμεναίου di Cleante (D.L. 7.174–175 = SVF I, 481, pp. 106–108), il Περὶ γάμου del medioplatonico Nicostrato (Stob. Flor. 4.22.102 e 4.23.62–65), il Περὶ γάμου di Ierocle (Stob. 4.22.21–24), il Περὶ γάμου (Stob. 4.22.25 = SVF III, 63, pp. 254–257) ed il Περὶ γυναικὸς συμβιώσεως di Antipatro di Tarso (Stob. 4.22.103 = SVF III, 62, p. 254), la tematica matrimoniale era stata trattata da Plutarco nelle Vite Parallele e nei Coniugalia Praecepta, dove la figura femminile era valutata soprattutto in contesto familiare e nel rapporto tra coniugi; cfr. Le Corsu, Plutarque, 270–274; Martano–Tirelli, Plutarco, Precetti, 10–24; Nikolaidis, “Plutarch on Women”, 63–88. Per lo stoicismo come corrente filosofica in cui la vita coniugale ha riscosso il maggiore apprezzamento, in un’epoca in cui oramai l’interesse filosofico per la metafisica e per la politica si era affievolito, ricercando indicazioni sicure per il raggiungimento della felicità individuale, cfr. Ramelli, “La tematica de matrimonio”, 145–162. Secondo Stadter, l’attenzione al matrimonio sarebbe stata una “caratteristica peculiare ed unica dell’opuscolo all’interno della letteratura greca” (Stadter, An analysis, 7; cfr. anche Marasco, “Sul Mulierum virtutes”, 344); tuttavia il Mulierum Virtutes, pur contenendo alcuni rimandi a donne sposate (storie 4, 8, 14, 15, 19, 20, 21, 22, 27), esamina il mondo femminile in maniera

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cui alveo Plutarco riconduceva principalmente la presenza e l’operato della donna, conferiscono al Mulierum Virtutes dei tratti di originalità ed unicità83, consacrandolo direttamente all’interesse verso il mondo femminile per il tramite dell’indagine etica. L’erudizione storica, quale ausilio paradigmatico e non eccessivamente esornativo, giunge a rappresentare una componente importante dell’opuscolo, soprattutto in funzione di un gusto di ascendenza ellenistica per il dettaglio e l’eziologia84 e per una fruizione soggettiva ed articolata delle risorse storiografiche, filosofiche e letterarie, di natura concreta o mnemonica, a disposizione. L’opera, infatti, ospita citazioni gnomiche di Tucidide, Gorgia ed Euripide85 e menziona Socrate di Argo ed Erodoto di Alicarnasso86, il quarto libro del trattato Περὶ Ἡρακλείας di Ninfi87, gli scrittori di Nasso ed Aristotele88, Carone Lampsaceno89 e Polibio90, soffermandosi a discutere91, talora ad elencare92, più spesso a contaminare93, e a volte a razionalizzare94 fonti o versioni diverse degli eventi95.

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complessiva ed avulsa da rapporti coniugali (storie 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 23, 25, 26), i quali spesso sono ostacolati o sostituiti da fidanzamenti (storia 11), rapporti di interesse (storie 17, 19, 21), di concubinato (storia 23), anche forzato (storie 17 e 26), violenze (storie 15, 19, 24), o da relazioni complicate con i pretendenti (storie 7, 14, 16, 18). In tal senso, all’interno dell’opera il matrimonio è osservato molto marginalmente, o soltanto come una delle attività spesso collegate alla vita delle donne in oggetto. P. Schmitt-Pantel ha individuato nel Mulierum Virtutes un “programma perfino sorprendente, se ben si vuole ricordare il discorso attribuito da Pericle a Tucidide, che riflette l’opinione dominante del mondo antico sulle donne: meno si parla delle donne, meglio è”; P. Schmitt-Pantel, “Introduzione”, in G. Duby–M. Perrot (eds.), Storia delle donne in Occidente (Roma: 1992) 4. R.J. Benefiel ha considerato l’eziologia uno strumento ausiliario alla dimostrazione dell’assunto dell’opera, mentre C. Ruiz Montero e A.M. Jiménez ne hanno parlato come un “recurso” (di Plutarco) “para proporcionar verosimilitud a sus istoria”; cfr. R.J. Benefiel, “Teaching by Example. Aetiology in Plutarch’s De mulierum virtutibus”, Ploutarchos (n.s.) 1 (2003/2004) 11–20 e Ruiz Montero–Jiménez, “Mulierum Virtutes”, 107. Cfr. 242E1; 242E4; 243A4–5. Storia 4. Storia 9. Storia 17. Storia 18. Storia 22. La tendenza pervade tutta l’opera, e, in particolare, le storie 4, 9, 14, 17 e 18. Storie 2, 4, 9, 14, 17. Storie 1, 4, 8, 16, 17, 18, 27. Storie 4 e 9, dove μῦθος e μυθῶδες sembrano bersaglio di critica o parziale confutazione. In merito al metodo storico di Plutarco, cfr. la monumentale opera di P.A. Stadter; Stadter,

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Poi la sensibilità religiosa96 dell’autore determina un’attenzione particolare verso festività, quali Ἐλαφηβόλια97, Ὑβριστικά98, Νηληίς99 e Θαργήλια100, oracoli101, figure divine102, luoghi103, oggetti di culto o istituzioni sacerdotali di Ares104, Artemide105, Demetra106, Dioniso107 ed Ermes108, culti eroico-fondativi109 e sepolture110. L’opera inoltre contiene, e a volte descrive, una gran quantità di usanze111 e rituali magico-iniziatici112, azioni politico-legislative113 e vicende belliche114 o coloniali115 che indirizzano in maniera decisiva o consequenziale il cursus degli eventi.

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An analysis, passim. Per le fonti lette e sintetizzate dal Cheronese per la composizione di questo opuscolo cfr. Stadter, An analysis, 126–137. Non è da dimenticare che, malgrado “l’impronta decisamente virile” della civiltà ellenica, “in materia religiosa il culto olimpico annoverava figure femminili di divinità per numero non inferiori alle maschili, senza dire delle divinità secondarie, delle divinità agresti a carattere locale e dei culti misterici”; cfr. M. Pohlenz, Der hellenische Mensch (Göttingen: 1947) 714–715; Martano–Tirelli, Plutarco, Precetti, 19. P. Schmitt-Pantel ha recentemente messo in rilievo il ruolo svolto dalla religione per la costruzione e la narrativa della virtù nel Mulierum Virtutes; cfr. P. Schmitt-Pantel, “La religion et l’arété des femmes. À propos des Vertus de femmes de Plutarque”, in L. Bodiou–V. Mehl (eds.), La religion des femmes en Grèce ancienne. Mythes, cultes et société (Rennes: Presses Universitaires de Rennes, 2009) 145–159. Storia 2. Storia 4. Storia 16. Storia 17. Storie 3, 4, 7, 8. Storia 9. Storia 20. Storia 4. Storie 2, 8 e 20. Storia 26. Storie 13 e 15. Storia 4. Storia 18. Storie 4, 11, 17, 18, 23, 25. Storie 1, 3, 4, 5, 6, 9, 12, 16, 17, 20. Più che il segnale di un gusto letterario di ascendenza ellenistica (cfr. Benefiel, “Teaching by Example”, 11–20), C. Ruiz Montero e A.M. Jiménez hanno riconosciuto (sulla scorta di P.A. Stadter) in “monumentos, lugares, ritos, festivales, costumbres o historias orales que (Plutarco) ha conocido en sus viajes” le fonti non scritte dell’opera; cfr. Stadter, An analysis, 126–129 e Ruiz Montero–Jiménez, “Mulierum Virtutes”, 102. Storie 4, 5, 9, 19. Introduzione; storie 2, 6, 12, 14, 15, 16, 18, 19, 20, 23, 24, 25, 26, 27. Storie 2, 3, 4, 5, 6, 8, 10, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 22, 23, 24, 25, 26, 27. Storie 3, 7, 8, 9, 16, 18.

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Talora anche i monumenti celebrativi sono menzionati a memoria della solennità pubblica e della fortuna coeva degli atti di virtù celebrati116. Dopo che M. Dinse117 ha dissipato i dubbi sulla paternità plutarchea dell’opera sollevati da C.G. Cobet118, l’autenticità dell’opuscolo è tuttora fuori discussione119, mentre, nell’impossibilità di giungere ad una collocazione cronologica certa all’interno della produzione letteraria del Cheronese, pare condivisibile la proposta di datazione approssimativa alla prima metà del secondo decennio del II secolo, avanzata da C.P. Jones120, che, considerata anche la comune dedica a Clea, fa risalire il testo al periodo di composizione del De Iside et Osiride e dunque ad una fase di inoltrata maturità dell’autore121.

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Storie 4, 14 e 18. Le motivazioni principali sono così sintetizzate: “cur librum de virtutibus mulierum vere Plutarcheum existimemus, et sensum cuiusvis et aures animumque quasi advocemus, quis est qui nulla suspicione, nulla dubitatione preoccupatus aut ab altero informatus, modo accuratiorem comparaverit cognitionem sermonis ususque Plutarchei, ad hunc librum adductus non statim ex proemio, vel capite XI de Milesiorum mulieribus, vel XIX de Aretaphila (ne alia promam) Plutarchum indolemque eius singularem agnoscat”; cfr. M. Dinse, De libello Plutarchi Γυναικῶν ἀρεταί inscripto (Berlin: Jahncke, 1863) 1–6;10– 17. Cobet riteneva il Mulierum Virtutes “spurium et abiudicandum a Plutarcho”. Dinse, con intento polemico, raccolse e riportò in forma riassuntiva tutte le affermazioni dello studioso olandese in tal senso: “ … libellum de Mulierum Virtutibus qui in Plutarchi Moral. circumfertur, quamquam satis apparet ab eo compositum librum esse, qui Plutarchi scribendi elegantia et venustate longe superaret … ”; “ … in suavissimo libello, qui Γυναικῶν ἀρεταί inscriptus inter Plutarcheos circumfertur, legitur … ”; “ … Legitur in libello, qui Γυναικῶν ἀρεταί inscribitur et in Plutarcheis circumfertur, sed scriptus est oratione et stilo multo nitidiore et elegantiore, quam Plutarchus uti solet … ”; “ … leguntur apud PseudoPlutarchum de Mulierum Virtutibus … ”. Cfr. C.G. Cobet, “Variae lectiones”, Mnemosyne IV (1855) 240; C.G. Cobet, “Variae lectiones”, Mnemosyne V (1856) 382; C.G. Cobet, “Variae lectiones”, Mnemosyne VII (1858) 28; C.G. Cobet, “Annotationes ad Philostratum. I. Ad vitam Apollonii Tyanensis”, Mnemosyne VIII (1859) 125. Cfr. anche Dinse, De libello Plutarchi, 4. B. Weissenberger, nel suo saggio sugli scritti pseudo-plutarchei, ha dedicato un capitoletto al Γυναικῶν ἀρεταί, in cui, dopo aver definito “strana” (trad. it. G. Indelli) la convinzione di Cobet di un Mulierum Virtutes spurio, reputava impossibile ribattere alla dettagliata e convincente dissertazione di M. Dinse in merito alla genuinità dell’opuscolo; cfr. B. Weissenberger, La lingua di Plutarco di Cheronea e gli scritti pseudoplutarchei, ed. e trad. it. G. Indelli (Napoli: D’Auria, 1994) 95–96. Successivamente, anche K. Ziegler ha quasi ironicamente bollato come “strana idea di Cobet” (trad. it. M. Zancan Rinaldini) la proposta di considerare non autentico l’opuscolo; Ziegler, Plutarco, 264–265. Cfr. C.P. Jones, “Towards a chronology of Plutarch’s works”, JRS 56 (1966) 73. L’opuscolo seguirebbe dunque di circa un ventennio i Coniugalia Praecepta (collocati da Jones nel 90–100 d.C.) e risulterebbe coevo all’Amatorius (datato tra il 115 e il 125 da Flacelière), datandosi nella vecchiaia di Plutarco (come ha rivelato anche lo studio stilistico sulle “images de Plutarque” effettuato da F. Fuhrmann); cfr. R. Flacelière, Dialogue sur

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Il Mulierum Virtutes, riconducibile per certi versi anche al genere dei Parallela122, sottende solo progettualmente il procedimento comparativo della σύγκρισις (LSJ: comparison), presente e sistematizzato nelle Vite Parallele123, in

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l’Amour (Paris: Les Belles Lettres, 1952) 10–13; F. Fuhrmann, Images de Plutarque (Paris: 1964); Jones, “Towards a chronology”, 71; R. Flacelière (ed.), Plutarque, Œuvres morales, t. X (Paris: Les Belles Lettres, 1980) 9. Jannoray e Bowersock hanno collocato negli ultimi anni di vita di Plutarco la composizione del Mulierum Virtutes, mentre Stadter (seguito da O’Brien Wicker), sulla base di criteri poco convincenti (quali la citazione della perduta Vita di Daifanto, e la datazione, piuttosto controversa, della storia di Camma, trattata anche nell’Amatorius) ha ascritto l’opuscolo agli ultimi dieci anni di vita del Cheronese; cfr. J. Jannoray, “Inscriptions Delphiques d’époque tardive”, BCH 70 (1946) 247–261; G.W. Bowersock, “Some persons in Plutarch’s Moralia”, CQ (n.s.) 15.2 (1965) 267–270; Stadter, An analysis, 10–15 e O’Brien Wicker, “Mulierum Virtutes”, 106. Kapetanopoulos ha fissato il 110 d.C. quale precisa data di composizione dell’opera, mentre P. Schmitt-Pantel ha collocato il trattato all’inizio del II secolo d.C. e D. Gera ha datato l’opuscolo agli anni 115–125; cfr. E. Kapetanopoulos, “Klea and Leontis: Two Ladies from Delphi”, BCH 90.1 (1966) 119–130; Schmitt-Pantel, “Introduzione”, 4; Gera, Warrior Women, 35. Secondo M.T. Schettino, nessun catalogo di stratagemmi femminili può contribuire ad antedatare il Mulierum Virtutes; cfr. M.T. Schettino, Introduzione a Polieno (Pisa: 1998) 228–229. Successivamente, J. Boulogne ha ritenuto il Mul. Virt. leggermente precedente all’Amatorius e di dieci anni anteriore al De Iside et Osiride, mentre, di recente, C. Ruiz Montero e A.M. Jiménez hanno parlato più genericamente di “obra de madurez, una de las últimas de la producción plutarquea, perteneciente a los primeros aňos del siglo II d.C.”; cfr. Boulogne, Plutarque, 25–29; Ruiz Montero–Jiménez, “Mulierum Virtutes”, 103–104; 117. Una datazione precisa è resa piuttosto difficile dall’ipotesi di più fasi compositive dell’opuscolo sottesa alla raccolta e alla successiva rielaborazione del materiale storico esposto; in tal senso, una collocazione storica risalente alla maturità inoltrata dell’autore potrebbe spiegare alcune incoerenze interne ed una sostanziale mancanza di revisione strutturale dell’opera, dovute forse alla morte dell’autore; per alcune incoerenze interne e per la sostanziale mancanza di revisione strutturale dell’opuscolo cfr. Tanga, “Mulierum Virtutes: atti di virtù”, 83–96. Cfr. Boulogne, Plutarque, 18–19. Si tratterebbe di un ibrido di storiografia ed aneddotica; cfr. anche Calderón Dorda–De Lazzer–Pellizer, Plutarco, Fiumi, 43–45. Tuttavia, l’assenza di una synkrisis finale e di episodi di ἀρετή maschile riconduce ad una sfera metodologicoevocativa l’appartenenza dell’opuscolo al genere dei Parallela (suggerita da 243A6–D4). Cfr. Alex. 1; Cim. 2; Nic. 1; Pom. 8; De prof. in virt. 84B–85B; De frat. amore 488D–489F; De garrul. 505A–511E; Amat. 768B; 770D; 771C. Cfr. anche R. Flacelière-É. Chambry–M. Juneaux (eds.), Plutarque. Vies, t. I (Paris: Les Belles Lettres, 1957) XXVI–XXIX; C.P. Jones, Plutarch and Rome (Oxford: 1971) 103–109; C.B.R. Pelling, “Synkrisis in Plutarch’s Lives”, in F.E. Brenk–I. Gallo (eds.), Miscellanea Plutarchea. Atti del I convegno di studi su Plutarco (Roma, 23 novembre 1985), Quaderni del Giornale Filologico Ferrarese 8 (1986) 83–96; S. Swain, “Plutarchan synkrisis”, Eranos 90 (1992) 101–111; J. Boulogne, Plutarque. Un aristocrate grec sous l’occupation romaine (Lille: Presses Universitaires de Lille, 1994) 57–61; C.B.R. Pelling, “Synkrisis revisited”, in A. Pérez Jiménez–F. Titchener (eds.), Historical and Biographical Values of Plutarch’s Works, Studies devoted to Professor Philip A. Stadter by The International Plutarch Society (Málaga/Logan: Universidad de Málaga–Utah State University, 2005) 325–340.

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quanto l’intento metodologico dichiarato di comprendere le analogie e le discrepanze che intercorrono tra la virtù maschile e quella femminile, confrontando vite con altre vite ed azioni con altre azioni per scoprire l’impronta e il carattere distintivo di ogni virtù secondo la forza e più profonda singolarità del personaggio storico che la detiene124, resta di fatto disatteso, in mancanza di un confronto finale tra le donne elencate125. La grande mole di materiale storico esposta da Plutarco126 risale al periodo indagato nella fase di studio preparatorio per la composizione delle Vite127, e l’accumulazione di dati di varia natura inerenti a svariati contesti geo-politici rispecchia un interesse storico alimentato da curiosità per il particolare128 e per il diverso. L’autore espone il criterio selettivo adoperato nella scelta degli esempi storici: il principale pre-requisito è l’originalità contestuale delle vicende, nell’intento di evitare le vicende fin troppo celebri (τὰ ἄγαν περιβόητα), per cogliere solo episodi degni d’interesse (ἀκοῆς ἄξια) che non siano sfuggiti a coloro che prima di noi hanno narrato storie pubbliche e ben note129. Oltre ai numerosi accostamenti con la letteratura cristiana antica130 come composite picture of ideal woman, o piuttosto come uncommon aretalogy of 124

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ὁμοιότητα καὶ διαφορὰν ἄλλοθεν καταμαθεῖν μᾶλλον, ἢ βίους βίοις καὶ πράξεσι … εἰ τὸν αὐτὸν ἔχει χαρακτῆρα καὶ τύπον … κατὰ τὴν κυριωτάτην καινότητα καὶ δύναμιν (Mul.Virt. 243B7– C5). L’opera si discosta dall’attitudine biografica del Cheronese anche nel modo in cui sono narrati soltanto alcuni episodi clou (in cui si concretizza l’ ἀρετή femminile), e non l’intera vita delle donne in oggetto. Ad avviso di C. Ruiz Montero e A.M. Jiménez, l’opuscolo, seppur privo di una effettiva σύγκρισις finale, “establece una comparación de hazaňas a dos niveles: entre un hombre y una mujer, y entre dos mujeres”. Per spiegare, però, l’assenza della concreta narrazione di atti di virtù maschile (cui si rimanda solo brevemente nell’introduzione dell’opera), le studiose non ipotizzano la perdita di una parte dell’opuscolo, ma propongono un riferimento di carattere ideale ad imprese di uomini virtuosi, o al testo delle Vite Parallele, di cui un lettore colto era probabilmente a conoscenza; cfr. Stadter, An analysis, 10 e Ruiz Montero–Jiménez, “Mulierum Virtutes”, 104–105; 117–118. Che Stadter ha definito “stock in trade”; cfr. Stadter, An analysis, 138. Cfr. Stadter, An analysis, 13. Al contrario, quando tratta un medesimo avvenimento in differenti contesti, Plutarco denota un gusto per l’essenziale che esula dal dettaglio; cfr. Stadter, An analysis, 137–139. Τὰ μὲν οὖν ἄγαν περιβόητα καὶ ὅσον οἶμαί σε βεβαίοις βιβλίοις ἐντυχοῦσαν ἱστορίαν ἔχειν καὶ γνῶσιν ἤδη παρήσω· πλὴν εἰ μή τινα τοὺς τὰ κοινὰ καὶ δεδημευμένα πρὸ ἡμῶν ἱστορήσαντας ἀκοῆς ἄξια διαπέφευγεν (Mul. Virt. 243D4–7). Numerose e variegate consonanze del Mulierum Virtutes con i Vangeli e la letteratura giudaica sono state individuate da O’Brien Wicker; cfr. O’Brien Wicker, “Mulierum Virtutes”, 106–120; i paralleli sono scrupolosamente elencati in appendice al medesimo contributo, alle pagine 121–134. La differenza tra la letteratura cristiana antica e Plutarco nella considerazione della donna si presenta nel momento in cui nella prima soltanto Dio è visto come fonte ultima di ogni azione virtuosa, mentre il Cheronese contempla la perfezione

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women131, nell’ambito della produzione letteraria europea132 il Γυναικῶν ἀρεταί ha riscosso una notevole fortuna, documentata, nel corso dei secoli e soprattutto in epoca umanistico-rinascimentale, da diverse traduzioni, tra cui la versio latina di Alamanno Rinuccini133, ritradotta poi in greco da Costantino Lascaris134, e il volgarizzamento di Luca Antonio Ridolfi135. Poi le traduzioni

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come conquista tutta umana, consentendogli di arrivar1e ad una posizione più aperta sulla natura e sulle capacità femminili. La letteratura cristiana delle origini, invece, manterrà lo status subordinato della donna, pur consapevole della lampante testimonianza delle donne martiri; cfr. O’Brien Wicker, “Mulierum Virtutes”, 121. Retori e maestri di etica e religione dell’antichità spesso componevano racconti storici, semi-storici o pseudo-storici di personaggi distinti, “to emphasize the moral qualities and virtuous actions of their subjects”, spesso creando aretalogie di filosofi e figure religiose; cfr. M. Hadas–M. Smith, Heroes and Gods (New York: 1965) 73–81; 87–88 e O’Brien Wicker, “Mulierum Virtutes”, 108. In proposito, cfr. anche V. Hahn, “Γυναικῶν ἀρεταί Plutarcha w literaturze polskiej”, in Charisteria Casimiro de Morawski septuagenario oblata ab amicis, collegis, discipulis (Krakau/Leipzig: 1922) 87–101; R. Aulotte, Amyot et Plutarque, La Tradition des Moralia au XVIe Siècle (Genève: Droz, 1965) 25; 39; 69–79; 253; Ziegler, Plutarco, 265; Paci, “Tradizione, novità”, 65–80. Vergata nel 1464, ma stampata a Brescia solo nel 1485 per i tipi di Bonino de’ Bonini; cfr. A. Rinuccini, De claris mulieribus sive De virtutibus mulierum (Brescia: Boninus de Boninis, 1485); V. Giustiniani, Alamanno Rinuccini, lettere ed orazioni (Firenze: 1953); V. Giustiniani, Alamanno Rinuccini, 1426–1499. Materialen und Forschungen zur Geschichte des florentinischen Humanismus (Köln/Graz: 1965); F. Tanga, “Alamanno Rinuccini traduce il Mulierum Virtutes di Plutarco”, in A. Pérez Jiménez (ed.), Plutarco renovado, Importancia de las Traducciones Modernas de Vidas y Moralia (Málaga: Sociedad Espaňola de Plutarquistas, 2010) 39–64. Proprio la reiterazione di alcune sviste versorie dell’umanista fiorentino da parte di altri traduttori ha consentito di riconoscere la versio rinucciniana del Mulierum Virtutes quale imprescindibile punto di partenza per le traduzioni dell’opuscolo realizzate nei secoli successivi in ambito europeo; cfr. anche Aulotte, Amyot et Plutarque, 69–79. Per il contributo della traduzione di Rinuccini alla comprensione del testo tràdito del Mulierum Virtutes plutarcheo cfr. anche F. Vendruscolo, “Sulla traduzione inedita della Consolatio ad Apollonium di Alamanno Rinuccini”, in P. Volpe Cacciatore (ed.), Plutarco nelle traduzioni latine di età umanistica (Napoli: D’Auria, 2009) 189–216; Tanga, “Alamanno Rinuccini traduce”, 42–64. Cfr. A. Guzmán Guerra, “De virtutibus mulierum versis in graecum ex texto latino a C. Lascari. El manuscrito 4621(78) de la Biblioteca Nacional de Madrid”, in A. Pérez Jiménez–G. Del Cerro Calderón (eds.), Estudios sobre Plutarco: Obra y Tradición. Actas del I Symposion Espaňol sobre Plutarco, Fuengirola 1988 (Málaga: Universidad de Málaga, 1990) 265–270; T. Martínez Manzano, “Las retraducciones al greco clásico de Constantino Láscaris”, Hieronymus Complutensis 2 (1995) 3–21. Il lavoro di Ridolfi è tuttora conservato nel ms. 1535 del fondo Ashburnham della Biblioteca Mediceo-Laurenziana di Firenze e in Gamma.V.2.6 del Fondo Campori presso la Biblioteca Estense di Modena.

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francesi136 di Jean de Monstiers137, Denys Sauvage138, Claude De Tesserant139 e Charles Guille140 hanno portato armi efficaci in mano ai sostenitori dell’onore del sesso femminile all’interno della Querelle des femmes141, dibattito sviluppatosi nella Francia di fine XVI secolo in seguito alla pubblicazione di Le Fort inexpugnable de l’honneur du sexe feminin di François de Billon nel 1555142.

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Il Mulierum Virtutes, dopo i Coniugalia Praecepta, è il trattato plutarcheo più frequentemente tradotto in francese prima dell’opera di J. Amyot; Aulotte, Amyot et Plutarque, 69. Intitolata Recueil des haultz et nobles faicts de plusieurs femmes vertueuses, escript premierement en grec par Plutarque et maintenant traduict en françoys. A très noble et très haute dame, ma dame Marguerite de France, fille du Roy, nostre Sire e pubblicata a Parigi nel 1538, tale traduzione rimase fino alla metà del secolo scorso anonima, e fu erroneamente attribuita a Geoffroy Tory nella Bibliographie di Cioranescu. Cfr. anche Aulotte, Amyot et Plutarque, 69. Jean De Monstiers, vescovo-umanista di Bayonne esperto di diritto e lettere, operò al servizio di Margherita di Francia come diplomatico ed ambasciatore in Germania, e si trovò in contatto con numerosi studiosi dell’epoca. Per la figura e la produzione letteraria di J. De Monstiers, e per il rapporto della sua traduzione con la versio latina di Alamanno Rinuccini, cfr. Aulotte, Amyot et Plutarque, 69–73. Che pubblicò per conto dell’editore Roville, a tiratura molto limitata, il Petit opuscule de Plutarque des vertueux et illustres faitz des anciennes femmes. Translaté d’Italien en François, Lyon 1546. Quest’opera, dedicata ad Anne Clavelle Galèse, non era altro che una fedele versio gallica del volgarizzamento (rimasto inedito) effettuato da L.A. Ridolfi della traduzione rinucciniana dell’opuscolo, che l’autore, a detta di Roville, non volle mai “mettre en lumière”. Denys Sauvage, storico e traduttore interessato anche a questioni linguisticogrammaticali, collaborava con Guillaume Roville, e prestò per un periodo di tempo i propri servigi anche a Luca Antonio Ridolfi, da cui trafugò una copia del volgarizzamento del Mulierum Virtutes per consegnarla all’editore, con cui intratteneva uno stretto sodalizio. Per la figura di D. Sauvage e una breve analisi della sua traduzione dell’opuscolo plutarcheo cfr. Aulotte, Amyot et Plutarque, 73–76. La versio gallica di Claude de Tesserant (risalente al 1554 e tuttora conservata in un elegante manoscritto della Pierpont Morgan Library), intitolata Les Histoires des vertueuses femmes faictes du Grec de Plutarque de Chaeronee Francoyses par Claude de Tesserant, fu dedicata alla Principessa Margherita, duchessa di Savoia e di Berry, in quanto descriveva, come dichiarato nell’epistola dedicatoria, “actes vertueux des femmes”, precisando che “qu’ ilz ne cedent pas beaucoup à ceulx des hommes, & que les Royaumes et principautés tumbent aussi bien des femmes que des hommes”. De Tesserant fu autore anche del secondo tomo delle Histoires prodigieuses extraictes de plusieurs fameux auteurs grecs et latins, opera in sei tomi cui contribuirono anche P. Boaistuau, F. de Belleforest, R. Hoyer e J. De Marconville, completata solo negli anni 1596–1598. Cfr. anche Aulotte, Amyot et Plutarque, 76–79. Tuttora conservata nel manoscritto B.N., ms. fr. 2592, la traduzione di Guille del 1580 è intitolata Traitté des vertueux faits des femmes illustres composé par Plutarque de Cheronée. Sulla cosiddetta “Querelle des femmes” cfr. J. Kelly, “Early Feminist Theory and the Querelle des femmes, 1470–1789”, in Women, History and Theory. The Essays of Joan Kelly (Chicago: 1984) 65–109. Aulotte, Amyot et Plutarque, 69; H.M. Pabel, “Femina unica est cura pudicitiae: Rhetoric

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L’opuscolo è divenuto una sorta di archetipo della letteratura catalogica femminile, seguito dall’anonimo catalogo medio-imperiale De Mulieribus Quae Bello Clarerunt, avviando una tradizione cui va ricondotto il De claris mulieribus di Giovanni Boccaccio143, Il libro delle lodi e commendazione delle donne di Vespasiano da Bisticci144 e Le Livre de la Cité des Dames di Christine de Pizan145 e divenendo fonte di ispirazione per l’iconografia rinascimentale146. Oltre a ricevere interessate letture di Angelo Poliziano147 e Francesco Filelfo148, il Mulierum Virtutes ha favorito la nascita di un filone letterario che ha riscosso poi gran fortuna in Francia, dal XV secolo in poi, a partire dal Livre de la louange et vertu des nobles et cleres dames149 di Anna di Bretagna, del 1493, passando per il De memorabilibus et claris mulieribus150 di Jean Tixier de Ravisy e la Louenge de mariage et recueil des histoires des bonnes, vertueuses et illustres femmes151 di Pierre de Lesnauderie, fino a giungere alla Nef des dames vertueuses152 di Symphorien Champier e a La femme heroique ou Les Heroïnes Comparées avec les Heros en Toute Sorte de Vertus et Plusieurs Reflexions Morales à la Fin de Chaque

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and the Inculcation of Chastity in Book 1 of Vives’ De Institutione Feminae Christianae”, Humanistica Lovaniensia. Journal of Neo-Latin Studies 48 (1999) 90–91. Cfr. anche Aulotte, Amyot et Plutarque, 69. Cfr. L. Sorrento, Il libro delle lodi e commendazione delle donne di Vespasiano da Bisticci (cod. Riccardiano 2293) (Milano: 1911). Cfr. A. Kennedy, Christine de Pizan (London: 1984); P. Phillippy, “Establishing Authority: Boccaccio’s De claris mulieribus and Christine de Pizan’s Le Livre de la Cité des Dames”, Romanic Review 77 (1986) 167–195; McLeod, Virtue and Venom. Come galleria di personaggi femminili virtuosi del mondo antico, il Mulierum Virtutes ha ispirato le serie di eroine raffigurate nell’arte, soprattutto rinascimentale; cfr. M. Caciorgna–R. Guerrini, La Virtù figurata. Eroi ed eroine dell’antichità nell’arte senese tra Medioevo e Rinascimento (Siena: 2003). Cfr. C. Bevegni, “Poliziano lettore dei Moralia di Plutarco: alcuni dati di ordine statistico”, Studi Umanistici Piceni 29 (2009) 205–220. Sul cod. Laur. 80,22 (bombicino di XIV secolo), appartenuto alla sua biblioteca personale. L’identificazione della mano di Francesco Filelfo risulta agevole, mentre la nota di possesso del manoscritto recita τοῦτο τὸ βιβλίον φραγκίσκου εστι τοῦ φιλέλφου καὶ τῶν αὐτοῦ φίλων; cfr. Repertorium der griechischen Kopisten 800–1600 (Wien: 1981) 2. Frankreich, Tafel 304; B. Paläographische Charakteristika n. 520; M. Manfredini, “Codici plutarchei di umanisti italiani”, ASNP (s. 3) vol. 17 (1987) 1001–1043; P. Eleuteri, “Francesco Filelfo copista e possessore di codici greci”, in D. Harlfinger–G. Prato (eds.), con la collaborazione di M. D’Agostino–A. Doda, Paleografia e codicologia greca: atti del II Colloquio internazionale (Berlino–Wolfenbüttel, 17–21 ottobre 1983) (Alessandria: 1991) 172. Cfr. E. Berriot-Salvadore, Les femmes dans la société française de la Renaissance (Genève: 1990) 345–346. Paris 1521; cfr. Berriot-Salvadore, Les femmes, 345–347. Paris 1527; cfr. Berriot-Salvadore, Les femmes, 345–347. Lyon 1503; cfr. Berriot-Salvadore, Les femmes, 345–347.

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Comparaison153 di Jacques du Bosc. Inoltre, l’opuscolo ha ispirato studiosi, eruditi e letterati di ogni epoca154, come attestano, tra gli altri, l’utilizzo da parte del novelliere Matteo Bandello155 e di Francesco Barbaro156 nel De re uxoria, le traduzioni parziali di Baldesar Castiglione157 nel Cortegiano, dell’umanista belga amico di Erasmo da Rotterdam, Petrus Nannius158, all’interno dei Dialogismi heroinarum, e di Antonio de Guevara, vescovo di Mondoñedo, nel Reloj de Príncipes159. Poi il trattato ha ricevuto una rilettura aristotelizzante nel Della virtù femminile e donnesca discorso alla sereniss. Signora duchessa di Mantova di Torquato Tasso160 e una riscoperta in senso cristiano161 nel Memorial del

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Paris 1645. In quest’opera la synkrisis di matrice plutarchea è istituita tra uomini e donne; Andrés Ferrer, “Porcia, un personaje”. Lo spirito comparativo, associato all’indagine o alla difesa del mondo femminile, rivisse anche nel Cárcel de amor (1492) di Diego de San Pedro, nella Ingeniosa comparación entre lo antiguo y lo presente (1539) di Cristobal de Villalón, in La Araucana (1569–1589) di Alonso de Ercilla, nel Fructus sanctorum y Quinta Parte del Flos Sanctorum di Alonso de Villegas (1592), in El viaje entretenido (1603) di Rojas Villandrando, negli Aciertos celebrados en la Antigüedad (1654) di Padre José de la Torre e in La defensa de las mujeres, discorso XVI del primo tomo del Teatro Crítico Universal di Padre Fray Benito Jerónimo Feijoo y Montenegro. Echi ulteriori di tali tematiche si ritrovano anche in Cervantes, Lope de Vega, Quevedo e Tirso de Molina; cfr. Andrés Ferrer, “Porcia, un personaje”. La diffusione del Mulierum Virtutes è avvenuta come testo indipendente o come parte di un’opera maggiore; Andrés Ferrer, “Porcia, un personaje”. Cfr. F. Flora (ed.), Tutte le Opere di Matteo Bandello, Parte Terza (Milano: 1943) Novella V, parte terza; M. Villa, “Su Castiglione e Plutarco morale: una prima ricognizione nel Cortegiano”, Italogramma (febbraio 2011) 10–12. Cfr. Aulotte, Amyot et Plutarque, 69; D. Sacré, “Plutarchs Camma bei Petrus Nannius”, in L. Van Der Stockt (ed.), Plutarchea Lovanensia. A Miscellany of Essays on Plutarch (Leuven: Peeters, 1996) 247. Cfr. Aulotte, Amyot et Plutarque, 69; Sacré, “Plutarchs Camma”, 246; Villa, “Su Castiglione e Plutarco”, 10–12. Cfr. Sacré, “Plutarchs Camma”, 243–256. Opera del 1568. T. Tasso menzionò il suddetto opuscolo sotto il titolo De le donne illustri, quando, all’interno del dialogo intitolato Il conte, o dell’imprese, richiamò la storia delle donne di Licia in riferimento ad una esegesi del mito di Pegaso. Per Plutarco e Tasso cfr. anche P. Volpe Cacciatore, L’eredità di Plutarco. Ricerche e proposte (Napoli: D’Auria, 2004)79–98; P. Volpe Cacciatore, Torquato Tasso, Risposta di Roma a Plutarco e marginalia, con una nota di M. Andria (Roma: Edizioni di Storia e Letteratura, 2004), passim. L’interesse verso nobili figure femminili aveva caratterizzato la letteratura di matrice cristiana fin dall’epoca tardo-imperiale (con autori quali Girolamo, Prudenzio ed Agostino) e la produzione letteraria bizantina (in particolare l’opera di Gregorio di Nissa e Giovanni Crisostomo), come attestato in una lunga serie di martirologi storici, legendae, passiones, biografie mistiche ed agiografie monastiche, che hanno ritratto ed esaltato sante, martiri, monache, eroine, vergini o peccatrici pentite, o semplici apostole del Cristianesimo con-

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pecador remut del teologo catalano Felip de Malla162 e nel De institutione feminae Christianae dell’umanista spagnolo Luis Vives163. L’opuscolo ha rappresentato una miniera di erudizione per storici e filosofi quali Gianbattista Vico164 e Giovanni Felice Astolfi165, per drammaturghi166 da Nicolas de Montreux167, Jean de Hays168, Alexandre Hardy169, Michael Hoyerus170, Lope Félix de Vega y

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traddistinte da una incrollabile ed esemplare fede in Cristo, spesso votata all’ascetismo e al sacrificio. Vissuto nel siglo XV spagnolo; cfr. J. Redondo, “Sobre la recepción de Plutarco en el primer cuarto del siglo XV: el Memorial del pecador remut de Felip De Malla”, in J.M. Candau Morón–F.J. González Ponce–A.L. Chávez Reino (eds.), Plutarco transmisor, Actas del X Simposio Internacional de la Sociedad Española de Plutarquistas, Sevilla, 12–14 de noviembre de 2009 (Sevilla: Universidad de Sevilla, 2011) 640. Cfr. anche Aulotte, Amyot et Plutarque, 69–72; J. Bergua Cavero, Estudios sobre la tradición de Plutarco en Espaňa (siglos XIII–XVIII) (Zaragoza: Universidad de Zaragoza, 1995); A. Morales Ortiz, Plutarco en España: traducciones de Moralia en el siglo XVI (Murcia: Universidad de Murcia, 2000) 75–97; Á. Narro Sánchez, “Los valores de la buena mujer en Plutarco a través del De institutione feminae christianae de Luis Vives”, in J.M. Candau Morón–F.J. González Ponce–A.L. Chávez Reino (eds.), Plutarco transmisor, Actas del X Simposio Internacional de la Sociedad Española de Plutarquistas, Sevilla, 12–14 de noviembre de 2009 (Sevilla: Universidad de Sevilla, 2011) 569–584. A proposito della Mitologia di Perseo, Andromeda e Pegaso. Per Plutarco e Vico cfr. anche Volpe Cacciatore, L’eredità di Plutarco, 99–111. Nell’opera intitolata Della officina historica (1659). Cfr. C. Mazouer, “Les Mulierum virtutes de Plutarque et la tragédie française du XVIIe siècle”, in O. Guerrier (ed.), Plutarque de l’Âge Classique au XIXe siècle. Présences, interférences et dynamique. Actes du colloque international de Toulouse (13–15 mai 2009) (Grenoble: 2012) 45–54. Compose una tragedia intitolata Camma (databile tra il 1575 e il 1584). Aulotte, Amyot et Plutarque, 267 nota 10. Autore di una Cammate (1597). Aulotte, Amyot et Plutarque, 267 nota 11. Scrisse un’opera intitolata Timoclée ou la juste vengeance (databile tra il 1624 e il 1626). Cfr. anche Aulotte, Amyot et Plutarque, 268. Per la Camma (1631) in 1312 versi di Michael Hoyerus, cfr. Sacré, “Plutarchs Camma”, 253– 256. Per la ricezione della vicenda di Camma nell’ambito della letteratura drammatica, cfr. anche R. Aulotte, “Une heroine de Plutarque: Camma et son destin dans la litterature dramatique”, in N. Hepp–G. Livet (eds.), Héroïsme et création littéraire sous les règnes d’Henri IV et de Louis XIII (Colloque de Strasbourg, 5–6 mai 1972) (Paris: 1974) 277–296; Sacré, “Plutarchs Camma”, 243–256; F.E. Brenk, “The Barbarian within. Gallic and Galatian heroines in Plutarch’s Erotikos”, in A. Pérez Jiménez–F. Titchener (eds.), Historical and biographical Values of Plutarch’s Works. Studies devoted to Professor Philip A. Stadter by The International Plutarch Society (Málaga/Logan: Universidad de Málaga–Utah State University, 2005) 93–106; F. Frazier, “La prouesse de Camma et la fonction des exempla dans le Dialogue sur l’Amour”, in A. Pérez Jiménez–F. Titchener (eds.), Historical and biographical Values of Plutarch’s Works. Studies devoted to Professor Philip A. Stadter by The International Plutarch Society (Málaga/Logan: Universidad de Málaga–Utah State University, 2005) 197–211.

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Carpio171, Jean de Rotrou172, Pierre du Ryer173, Morel174, Thomas Corneille175 e Alfred Tennyson176 fino a Giuseppe Montanelli177 e Luigi Beghè178, ed autori di balletto come Pietro Angiolini179. Lo scritto plutarcheo ha riscosso una discreta fortuna anche nella letteratura polacca180 ed è stato un repertorio per la pubblicistica educativa, scolastica e della letteratura amena destinata al mondo femminile italiano ed inglese degli ultimi tre secoli181, oltre ad alimentare e supportare idee femministe nella saggistica storica e di gender più recente182. 171 172 173

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Autore della commedia, divisa in tre giornate, intitolata La mayor hazaňa de Alejandro Magno (1601), dove rimodula in versi la storia di Timoclea. Autore di Crisante (1639), storia certamente dipendente dalla vicenda di Camma. Aulotte, Amyot et Plutarque, 268 nota 5. Autore della tragicommedia Arétaphile (risalente al 1628); cfr. Aulotte, Amyot et Plutarque, 268 nota 4 e R.G. Zardini Lana (ed.), Pierre du Ryer, Arétaphile, tragi-comédie (Genève/Paris: 1983) 183–198. Compose una tragi-comédie intitolata Timoclée ou la generosité d’Alexandre (1658) con l’intento di esentare Timoclea dalla violenza che ella soffrì. Aulotte, Amyot et Plutarque, 268 nota 3. Cfr. la Camma reine de Galatie (1661) di T. Corneille, tradotta anche in italiano dal pastore dell’Arcadia Cesennio Issunteo, ovvero C. Doni, e stampata per i tipi di Chracas nel 1699. Fouquet aveva suggerito questo soggetto a Pierre Corneille, che lo fece trattare da suo fratello; Aulotte, Amyot et Plutarque, 268 nota 1. Cfr. il dramma intitolato The cup (1881). Compose una tragedia dal nome Camma (1857). Autore di una Camma (1906). Cfr. il ballo tragico dedicato a Camma regina di Galazia (1817). Tracce del Mulierum Virtutes nell’ambito della letteratura polacca sono state individuate da V. Hahn; cfr. Hahn, “Γυναικῶν ἀρεταί”, 87–101. Notevole influenza esercitò la traduzione in lingua polacca dei Moralia di Plutarco, realizzata dall’umanista Mikolaj Kochanowski sul finire del Cinquecento. Cfr. M. Pilkington, A Mirror for the Female Sex, Historical Beauties for Young Ladies, intended to Lead the Female Mind to the Love and Practice of Moral Goodness, designed principally for the use of Ladies’ School (London: Vernor and Hood, 1804); I. Porciani, “Il Plutarco femminile”, in S. Soldani (ed.), L’educazione delle donne. Scuole e modelli di vita femminile nell’Italia dell’Ottocento (Milano: Franco Angeli, 1989) 265–299; A. Ascenzi, Il Plutarco delle donne: repertorio della pubblicistica educativa e scolastica e della letteratura amena destinate al mondo femminile nell’Italia dell’Ottocento (Macerata: Edizioni Universitarie, 2009); passim. Cfr. anche G. Voigt, Die Wiederbelebung des klassischen Alterthums oder das erste Jahrhundert des Humanismus (Berlin: 1859), passim; Boulogne, Plutarque, 38–39; Paci, “Tradizione, novità”, 65–80.

capitolo 1

I manoscritti Il Mulierum Virtutes è tramandato da 15 manoscritti, tra i quali il più antico (Ambros. C 126 inf.) risale all’anno 12941 e il più recente (Tolet. 20) alla fine del XV secolo. Si tratta dei seguenti manoscritti, interamente collazionati per la presente edizione critica2: Parisinus gr. 16713 (A), a. 1296

1 Cfr. A. Rollo, “Per la storia del Plutarco Ambrosiano (c 126 inf.)”, in F. Bonanno (ed.), Plutarco, Parallela minora, Traduzione latina di Guarino Veronese (Messina: Centro Interdipartimentale di Studi Umanistici, 2008) 95–129. 2 Per aggiornate prospettive di indagine dell’ecdotica plutarchea moderna cfr. anche S. Martinelli Tempesta, “Pubblicare Plutarco: l’eredità di Daniel Wyttenbach e l’ecdotica plutarchea moderna”, in G. Zanetto–S. Martinelli Tempesta (eds.), Plutarco: lingua e testo. Atti dell’XI Convegno plutarcheo della International Plutarch Society – Sezione Italiana (Milano, 18–20 giugno 2009) (Milano: Cisalpino, 2010) 63–68; S. Martinelli Tempesta, “La tradizione manoscritta dei Moralia di Plutarco. Riflessioni per una messa a punto”, in G. Pace–P. Volpe Cacciatore (eds.), Gli scritti di Plutarco: tradizione, traduzione, ricezione, commento. Atti del IX Convegno Internazionale della International Plutarch Society, Ravello–Auditorium Oscar Niemeyer, 29 settembre– 1 ottobre 2011 (Napoli: D’Auria, 2013) 273–288. 3 Questo manoscritto è stato redatto dallo stesso copista del cod. Vaticanus gr. 139. Cfr. M. Treu, De codicibus nonnullis Parisinis Plutarchi “Moralium” narratio (Jaraviae: 1871) 10; H. Omont, Inventaire sommaire des manuscrits grecs de la Bibliothèque nationale et des autres bibliothèques de Paris et des Départements, II (Paris: 1888) 118–120; V. Hahn, De Plutarchi Moralium codicibus quaestiones selectae (Krakau: 1905) 4–6 n. 1; H. Wegehaupt, Plutarchstudien in italienischen Bibliotheken (Cuxhaven: 1906) 40; H. Hunger, “Iohannes Chortasmenos, ein byzantinischer Intellektueller der späten Palaiologenzeit”, Wiener Studien 70 (1957) 153–163; W. Nachstädt–J.B. Titchener–W. Sieveking (eds.), Plutarchi Moralia, vol. II (Leipzig: Bibliotheca Teubneriana, 21971 [1935]) XXI–XXII; A. Turyn, Dated Greek Manuscripts of the Thirteenth and Fourteenth Centuries in the Libraries of Italy, vol. 2 (Urbana: University of Chicago Press, 1972) 83; W.R. Paton–I. Wegehaupt–M. Pohlenz–H. Gärtner (eds.), Plutarchi Moralia, vol. I (Leipzig: Bibliotheca Teubneriana, 21974 [1925]) XXVIII; F. Cole Babbitt (ed.), Plutarch Moralia, vol. I (Cambridge: The Loeb Classical Library, 21986 [1927]) XIX–XX; J. Irigoin, “Histoire du texte des Œuvres morales de Plutarque”, in R. Flacelière–J. Irigoin–A. Philippon–J. Sirinelli (eds.), Plutarque, Œuvres morales, t. I, première partie (Traités 1 et 2) (Paris: Les Belles Lettres, 1987) CCLXXIII; M. Manfredini, “Codici plutarchei di umanisti italiani”, ASNP (s. 3) vol. 17 (1987) 1009; A. Garzya, “Planude e il testo dei Moralia”, in A. Garzya–G. Giangrande– M. Manfredini (eds.), Sulla tradizione manoscritta dei Moralia di Plutarco, Atti del Convegno (Salerno, 4–5 dicembre 1986) (Salerno: Laveglia, 1988) 43–45; R. Caballero, Inventario de los códices griegos de Plutarco (s. X–XVI) (Diss., Universidad de Málaga, 1989) 39–41; Ph. Hoffmann, “Parisinus Graecus 1671 (n. 29)”, in Ch. Astruc et al. (eds.), Les manuscrits grecs datés

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capitolo 1

Parisinus gr. 16724 (E), a. 1360 ca. Vaticanus gr. 1676 + Neapolitanus III E 28 (gr. 350)5 (n), s. XIV med. Vaticanus Urbinas gr. 1006 (t), a. 1401 des XIII et XIV siècles conservés dans les bibliothèques publiques de France (Paris: 1989) 69–72; M. Manfredini, “Il Plutarco di Planude”, SCO 42 (1992) 123–125; F. Vendruscolo, “Protostoria dei Plutarchi di Planudes”, SCO 43 (1993) 73–82; F. Vendruscolo, “L’edizione planudea della Consolatio ad Apollonium e le sue fonti”, BollClass (s. 3) 15 (1994) 31–32; 76; 79–82; R. Caballero, “La tradición manuscrita del De exilio de Plutarco”, ASNP (s. 4) 5.1 (2000) 163; Boulogne, Plutarque, VII–X; S. Martinelli Tempesta, Studi sulla tradizione testuale del De tranquillitate animi di Plutarco, (Firenze: Olschki, 2006) 69–72; P. Megna, “Per la storia della princeps di Omero. Demetrio Calcondila e il De Homero dello pseudo Plutarco”, Studi Medievali ed Umanistici 5–6 (2007/2008) 217–278; Rollo, “Per la storia”, 95–101; G.N. Bernardakis–P.D. Bernardakis– H.G. Ingenkamp (eds.), Plutarchi Chaeronensis Moralia, Recognovit G.N. Bernardakis, Editio Maior, vol. II (Athenis: 2009) 10–11; F. Becchi (ed.), Plutarco, La fortuna (Napoli: D’Auria, 2010) 86. 4 Cfr. Treu, “De codicibus nonnullis”, III–XI; Omont, Inventaire sommaire, 120–121; Hahn, De Plutarchi Moralium, 8–9; Wegehaupt, Plutarchstudien, 40; G. Behr, Die handschriftliche Grundlage der im Corpus der Plutarchischen Moralia überlieferten Schrift ΠΕΡΙ ΠΑΙΔΩΝ ΑΓΩΓΗΣ (Freising: 1911) 65–66; C.G. Lowe, The Manuscript Tradition of pseudo Plutarch’s Vitae Decem Oratorum (Urbana: University of Illinois, 1924) 36–38; J.B. Titchener, The Manuscript tradition of Plutarch’s Aetia Graeca and Aetia Romana (Urbana: University of Illinois, 1924) 51–53; Nachstädt–Titchener–Sieveking, Plutarchi Moralia, XXI–XXII; Paton–Wegehaupt–Pohlenz– Gärtner, Plutarchi Moralia, XXVIII–XXX; N.G. Wilson, “Some Notable Manuscripts Misattribuited or Imaginary”, GRBS 16 (1975) 95–97; B.P. Hillyard, “The Medieval Tradition of Plutarch’s De audiendo”, RHT 7 (1977) 28; Cole Babbitt, Plutarch Moralia, vol. I, XX–XXIII; Irigoin, “Histoire du texte”, CCLXXIV; CCLXXX–CCLXXXII; Manfredini, “Codici plutarchei”, 1010; 1040; Garzya, “Planude e il testo”, 45–46; Caballero, Inventario de los códices, 41–42; M. Manfredini, “Un famoso codice di Plutarco: il Parisinus Gr. 1672”, SCO 39 (1989) 127; Vendruscolo, “L’edizione planudea”, 31–33; 76; 83–85; Caballero, “La tradición manuscrita”, 163–164; Boulogne, Plutarque, VII–X; Martinelli Tempesta, Studi sulla tradizione, 72–76. Lo studio di Becchi sul De fortuna plutarcheo colloca il cod. Paris. 1672 più genericamente nella II metà del XIV sec.; Becchi, Plutarco, La fortuna, 86. 5 Cfr. Wegehaupt, Plutarchstudien, 25–26; C. Giannelli, Bybliothecae Apostolicae Vaticanae codices Vaticani Graeci (Codices 1485–1683) (Città del Vaticano: 1950) 441–443; P. Canart–V. Peri, Sussidi bibliografici per i manoscritti greci della Biblioteca Vaticana (Città del Vaticano: 1970) 630; Nachstädt–Titchener–Sieveking, Plutarchi Moralia, XXI–XXII; Paton–Wegehaupt–Pohlenz–Gärtner, Plutarchi Moralia, XXV; Hillyard, “The Medieval Tradition”, 37; Irigoin, “Histoire du texte”, CCLXVI; Vendruscolo, “L’edizione planudea”, 76; 78–79. La recente edizione del Mulierum Virtutes plutarcheo curata da Boulogne per la collana “Les Belles Lettres” colloca questo manoscritto nel XV secolo; cfr. Boulogne, Plutarque, IX. Martinelli Tempesta vi ha identificato la mano del copista Cratero, che ricondurrebbe a Costantinopoli o alla cerchia di Niceforo Gregora piuttosto che ad una origine italogreca, come ipotizzato da M.R. Formentin; cfr. Martinelli Tempesta, Studi sulla tradizione, 271–272; M.R. Formentin, “Uno scriptorium a Palazzo Farnese?”, Scripta. An International Journal of Codicology and Palaeography 1 (2008) 98. 6 Copista di questo codice è stato Andrea Leontino. Cfr. C. Stornajolo, Codices urbinates graeci bibliothecae Vaticanae (Roma: 1895) 153–156; Hahn, De Plutarchi Moralium, 17 n. 98; Wege-

i manoscritti

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Vaticanus Urbinas gr. 997 (u), s. XV Vindobonensis phil. gr. 468 (v), s. XV med. Ambrosianus C 126 inf. (gr. 859)9 (α), a. 1294 Vaticanus gr. 101310 (β), s. XIV in.

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haupt, Plutarchstudien, 15–16; 41; Nachstädt–Titchener–Sieveking, Plutarchi Moralia, XXI– XXII; Manfredini, “Codici plutarchei”, 1012; 1015; 1017; Caballero, Inventario de los códices, 68; Vendruscolo, “L’edizione planudea”, 82; Caballero, “La tradición manuscrita”, 166; Boulogne, Plutarque, VII–X; Martinelli Tempesta, Studi sulla tradizione, 9–11. Questo manoscritto fu copiato in parte da Angelo Vadio (XV secolo) e da Giorgio Disypatos Galesiotes (XV secolo); cfr. R. Stefec, “Die Griechische Bibliothek des Angelo Vadio da Rimini”, Römische Historische Mitteilungen 54 (2012) 132 nota 157. Cfr. Stornajolo, Codices urbinates, 152–156; Wegehaupt, Plutarchstudien, 13; Nachstädt–Titchener–Sieveking, Plutarchi Moralia, XXI–XXII; Manfredini, “Codici plutarchei”, 1016; Caballero, “La tradición manuscrita”, 165; Boulogne, Plutarque, VII–X. Secondo le indagini di Valgiglio sul De fato plutarcheo, il Vat. Urb. gr. 99 sarebbe un codice di XIV secolo; E. Valgiglio (ed.), Plutarco, Il fato (Napoli: D’Auria, 1993) 51. Nello studio sui testimoni del De fortuna plutarcheo, Becchi, così come Caballero e Martinelli Tempesta, colloca questo manoscritto, di cui è stato copista Thomas Bitzimanos, nella II metà del XV sec.; cfr. Becchi, Plutarco, La fortuna, 89. Cfr. Treu, Zur Geschichte, 6–7; Hahn, De Plutarchi Moralium, 25 n. 182; Wegehaupt, Plutarchstudien, 42; H. Wegehaupt, “Plutarch Πότερον ὕδωρ ἢ πῦρ χρησιμώτερον”, in Charites F. Leo dargerbracht (Berlin: 1911) 148; Titchener, The Manuscript tradition, 15; H. Hunger, Katalog der griechischen Handschriften der Österreichischen Nationalbibliothek 1: Codices historici, codices philosophici et philologici (Wien: 1961) 168–170; Nachstädt–Titchener–Sieveking, Plutarchi Moralia, XXI– XXII; Hillyard, “The Medieval Tradition”, 18; Irigoin, “Histoire du texte”, CCLXVI–CCLXVII; Caballero, Inventario de los códices, 78–79; Martano–Tirelli, Plutarco, Precetti, 38–39; Vendruscolo, “L’edizione planudea”, 37; Caballero, “La tradición manuscrita”, 166; Boulogne, Plutarque, VII–X; Martinelli Tempesta, Studi sulla tradizione, 93; Bernardakis–Ingenkamp, Plutarchi Chaeronensis Moralia, 8–9. Questo codice è stato redatto da vari copisti, tra cui Massimo Planude e Giovanni Zarida. Cfr. M. Treu, Zur Geschichte der Überlieferung von Plutarchs Moralia III (Breslau: 1884) 8; 10–13; Hahn, De Plutarchi Moralium, 22 n. 158; E. Martini–D. Bassi, Catalogus codicum Graecorum Bibliothecae Ambrosianae II (Mediolani: 1906) 954–956 n. 859; Wegehaupt, Plutarchstudien, 39; H. Wegehaupt, “Die Entstehung des Corpus Planudeum von Plutarchs Moralia”, Sitzungsberichte der königlich Preussischen Akademie der Wissenschaften 40 (1909) 1034–1046; H. Wegehaupt, “Planudes und Plutarch”, Philologus 73 (1914) 244– 252; Nachstädt–Titchener–Sieveking, Plutarchi Moralia, XXI–XXII; Turyn, Dated Greek, 81– 87; Stadter, An analysis, 137–139; Paton–Wegehaupt–Pohlenz–Gärtner, Plutarchi Moralia, XXVIII; Irigoin, “Histoire du texte”, CCLXXII; Manfredini, “Codici plutarchei”, 1002; 1028; 1031; Garzya, “Planude e il testo”, 42–45; Caballero, Inventario de los códices, 29; Vendruscolo, “L’edizione planudea”, 31; 76–79; Caballero, “La tradición manuscrita”, 160; Boulogne, Plutarque, VII–X; Martinelli Tempesta, Studi sulla tradizione, 50–54; Rollo, “Per la storia”, 95–101; Bernardakis–Ingenkamp, Plutarchi Chaeronensis Moralia, 10–11. Manoscritto appartenuto a Cristoforo Garatone ed ascrivibile al secondo quarto del XIV secolo; cfr. Wegehaupt, Plutarchstudien, 23–24; G. Mercati, Scritti d’Isidoro, il cardinale Ruteno e codici a lui appartenuti che si conservano nella Biblioteca Apostolica Vaticana

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capitolo 1

Vaticanus gr. 13911 (γ), a. 1296 ca. Vaticanus Reginensis gr. 8012 (δ), s. XV Marcianus 24813 (σ), a. 1455

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(Roma: 1926) 106–116 (che datava il codice al XIII secolo); H. Devresse, Le fonds grec de la Bibliothèque Vaticane des origines à Paul V (Città del Vaticano: 1965) 9; Canart–Peri, Sussidi bibliografici, 524; Nachstädt–Titchener–Sieveking, Plutarchi Moralia, XXI–XXII; L. Pesce, “Cristoforo Garatone trevigiano, nunzio di Eugenio IV”, Rivista di storia della Chiesa in Italia 28 (1974) 23–93; Paton–Wegehaupt–Pohlenz–Gärtner, Plutarchi Moralia, XXIX; Hillyard, “The Medieval Tradition”, 28; 35; Vendruscolo, “L’edizione planudea”, 76; 80; Caballero, “La tradición manuscrita”, 165; Boulogne, Plutarque, VII–X e Martinelli Tempesta, Studi sulla tradizione, 23–26. Questo codice è stato vergato dallo stesso copista del cod. Parisinus gr. 1671. La communis opinio lo datava, fino ad un ventennio fa, a dopo il 1299 o, forse, in seguito alla morte di Planude, avvenuta nel 1305. In seguito, Manfredini e Vendruscolo hanno collocato il codice poco dopo l’ultimazione di A, avvenuta l’11 luglio 1296. Cfr. Hahn, De Plutarchi Moralium, 14 n. 77; Wegehaupt, Plutarchstudien, 19; 41; G. Mercati–P. Franchi de’ Cavalieri, Codices Vaticani Graeci I (Codices 1–329) (Roma: 1923) 164–165; Lowe, The Manuscript Tradition, 35–36; Titchener, The Manuscript tradition, 27–30; Canart–Peri, Sussidi bibliografici, 378; Nachstädt–Titchener–Sieveking, Plutarchi Moralia, XXI–XXII; Paton– Wegehaupt–Pohlenz–Gärtner, Plutarchi Moralia, XXIX; Hillyard, “The Medieval Tradition”, 34; Irigoin, “Histoire du texte”, CCLXXIV; CCLXXX; Caballero, Inventario de los códices, 53–54; Manfredini, “Il Plutarco di Planude”; Vendruscolo, “Protostoria dei Plutarchi”, 74– 77; 80–82; Vendruscolo, “L’edizione planudea”, 31–32; 76; 82–83; Caballero, “La tradición manuscrita”, 164; Boulogne, Plutarque, VII–X; Martinelli Tempesta, Studi sulla tradizione, 12–14; Becchi, Plutarco, La fortuna, 87. Spesso definito codex Petavensis, in quanto appartenuto al celebre collezionista ed erudito francese Paul Petau (Orléans 1568–Paris 1614), è stato rivalutato nelle edizioni del Mulierum Virtutes allestite da J.J. Reiske e G. Hutten, ed è stato inserito nei codici adoperati per la constitutio textus della più recente edizione critica commentata del medesimo opuscolo realizzata da J. Boulogne; cfr. J.J. Reiske (ed.), Plutarchi Volumen septimum, Operum Moralium et Philosophicorum partem secundam tenens (Lipsiae: 1777); Nachstädt– Titchener–Sieveking, Plutarchi Moralia, XXI–XXII; Paton–Wegehaupt–Pohlenz–Gärtner, Plutarchi Moralia, XXIX; Boulogne, Plutarque, VII–X; Bernardakis–Ingenkamp, Plutarchi Chaeronensis Moralia, 3. Copista di questo manoscritto fu Giovanni Roso. Cfr. Hahn, De Plutarchi Moralium, 12 n. 60; Wegehaupt, Plutarchstudien, 42; Behr, Die handschriftliche, 75; Lowe, The Manuscript Tradition, 20; 32; Titchener, The Manuscript tradition, 15; 25–27; E. Valgiglio, “In margine alla tradizione manoscritta del De audiendis poetis di Plutarco”, Bollettino del Comitato per la preparazione dell’Edizione Nazionale dei Classici greci e latini (n.s.) 15 (1967) 109; Nachstädt–Titchener–Sieveking, Plutarchi Moralia, XXI–XXII; E. Mioni, Codices Graeci Manuscripti Bibliothecae Divi Marci Venetiarum. Thesaurus antiquus I (Roma: 1972) 362– 365; Paton–Wegehaupt–Pohlenz–Gärtner, Plutarchi Moralia, XXIX; Hillyard, “The Medieval Tradition”, 27; 31; Irigoin, “Histoire du texte”, CCLV; Caballero, Inventario de los códices, 72; M. Manfredini, “I manoscritti plutarchei del Bessarione”, ASNP (s. 3) vol. 24.1 (1994) 31–48; Vendruscolo, “L’edizione planudea”, 83; Caballero, “La tradición manuscrita”, 163; Boulogne, Plutarque, VII–X; Martinelli Tempesta, Studi sulla tradizione, 83–84; Becchi, Plutarco, La fortuna, 84.

i manoscritti

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Laurentianus 80,514 (80,5), s. XIV ex. Laurentianus 80,2115 (80,21), s. XIV Laurentianus 80,2216 (80,22), s. XV Toletanus 2017 (T), s. XV ex. 14

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Cfr. A.M. Bandini, Catalogus codicum Graecorum Bibliothecae Mediceae Laurentianae III (Florentiae: 1770) 175–178; M. Treu, Zur Geschichte der Überlieferung von Plutarchs Moralia II (Waldenburg in Schlesien: 1877) 13; Hahn, De Plutarchi Moralium, 19 n. 127; Wegehaupt, Plutarchstudien, 27–28; Wegehaupt, “Plutarch Πότερον”, 150; Lowe, The Manuscript Tradition, 34–36; Titchener, The Manuscript tradition, 25–27; Valgiglio, “In margine”, 108–109; Nachstädt–Titchener–Sieveking, Plutarchi Moralia, XXI–XXII; Paton–Wegehaupt–Pohlenz–Gärtner, Plutarchi Moralia, XXIX; Hillyard, “The Medieval Tradition”, 27; 31; Manfredini, “Codici plutarchei”, 1034–1035; Caballero, Inventario de los códices, 14–15; Vendruscolo, “L’edizione planudea”, 76; 82; Caballero, “La tradición manuscrita”, 161; Boulogne, Plutarque, VII–X; Martinelli Tempesta, Studi sulla tradizione, 38–40; Becchi, Plutarco, La fortuna, 83. Datato al XV sec., tale manoscritto, che presenta marginalia di Poliziano, Giano Lascaris e M. Musuro (cfr. D. Speranzi, “Andata e ritorno: Vicenda di un Plutarco mediceo tra Poliziano, Musuro e l’Aldina”, Incontri triestini di filologia classica 9 (2009–2010) 45–63; C. Bevegni, “I Moralia di Plutarco in Poliziano: per un censimento delle citazioni e dei riusi nelle opere dell’umanista fiorentino”, in G. Pace–P. Volpe Cacciatore (eds.), Gli scritti di Plutarco: tradizione, traduzione, ricezione, commento. Atti del IX Convegno Internazionale della International Plutarch Society, Ravello–Auditorium Oscar Niemeyer, 29 settembre–1 ottobre 2011 (Napoli: D’Auria, 2013) 69–79) è piuttosto da assegnare al XIV secolo; Vendruscolo, “L’edizione planudea”, 76; 81. Cfr. anche Bandini, Catalogus codicum, 209–210; Wegehaupt, Plutarchstudien, 28; Nachstädt–Titchener–Sieveking, Plutarchi Moralia, XXI–XXII; Caballero, “La tradición manuscrita”, 162; Boulogne, Plutarque, VII–X. Questo manoscritto fu in parte vergato da Francesco Filelfo, Ciriaco d’Ancona e Demetrio Sguropulo. Riguardo a tale codice cfr. anche Bandini, Catalogus codicum, 210–212; Wegehaupt, Plutarchstudien, 28; Nachstädt–Titchener–Sieveking, Plutarchi Moralia, XXI; Manfredini, “Codici plutarchei”, 1038; Eleuteri, “Francesco Filelfo”, 163–179; Caballero, “La tradición manuscrita”, 162; Boulogne, Plutarque, VII–X. Codice altrimenti noto con la originaria dicitura Toletanus (o Toledensis) 51,5. Altrove è siglato con τ ma in questa edizione è segnalato come codice T per evitare facile confusione con t (ovvero il ms. Vat. Urbin. 100). Acquistato nel 1598 circa dal cardinale spagnolo Saverio de Zelada e infine comprato nel 1801 dall’arcivescovo Antonio de Lorenzana, che lo collocò nella biblioteca Capitolare della Cattedrale di Toledo. Nel 1830 Gustave Haenel lo registrò con la dicitura Cajón 51. No. 5 (seguita da C. Graux) e nel 1875 M. Ch. Émile Ruelle, nella descrizione della lista di manoscritti greci della biblioteca di Toledo, lo catalogò con il No. 20, numerazione recepita da Hahn e dalle edizioni di Nachstädt e Boulogne. Il 1534 è il terminus ante quem per la redazione di questo manoscritto, che Haenel fece risalire al XIV sec. e Ruelle collocò nel XVI sec., ipotesi ritenute impossibili da Fletcher “the former by reason of the character of the writing, the latter by reason of the pontifical shield with the Medici arms”. Se Graux aveva genericamente ascritto il cod. Tolet. 20 al XVI secolo e Titchener, pur accogliendo in un caso la datazione tra fine XV e inizio XVI secolo, proposta da Canon Estella ed accolta in seguito da Valgiglio, riconduceva tale manoscritto al XV secolo, pare ragionevole l’ipotesi, formulata da C.G. Lowe ed accolta anche da Flet-

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capitolo 1

I suddetti codici costituiscono una tradizione chiaramente bipartita18. Da una parte si colloca, isolata, la testimonianza indipendente19 costituita dal Vindobonensis phil. gr. 46 (v), codice di XV sec. appartenente al ramo Φ della tradizione dei Moralia che, a giudizio di Frerichs20 e Pohlenz21, risalirebbe, nell’alveo della stessa tradizione, ad un communis fons22 con la recensio Planudea. Dunque a monte di v potrebbero esservi uno23 o più antigrafi pre-planudei

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cher, di collocare il cod. Tolet. 20 nella parte finale del XV secolo. Cfr. D.G. Haenel, Catalogi Librorum Manuscriptorum, qui in Bibliothecis Galliae, Heluetiae, Belgii, Britanniae M., Hispaniae, Lusitaniae asservantur, nunc primum editi a D. Gustavo Haenel (Lipsiae: 1830) 993; C.É. Ruelle, “Rapports sur une Mission littéraire et philologique en Espagne”, Archives des Missions scientifiques et littéraire 3.2 (1875) 479–627; C. Graux, Notices sommaires des Manuscrits grecs d’Espagne et de Portugal par Charles Graux, mises en ordre et complétées par Albert Martin (Paris: 1892) 264–266; Hahn, De Plutarchi Moralium; Lowe, The Manuscript Tradition; G.B.A. Fletcher, “The Toledo ms. of Plutarch’s Moralia”, CQ 21 (1927) 166–176; Nachstädt–Titchener–Sieveking, Plutarchi Moralia, XXI–XXII; Valgiglio, Plutarco, Il fato, 49–50; Boulogne, Plutarque, VII–X. Boulogne, invece, ha parlato di v, n ed u come manoscritti che si distinguono nettamente dal corpus di Planude e che “semblent représenter trois familles séparées”. Inoltre, ha ritenuto “impossible de faire venir n de α”. J. Boulogne, Actes Vertueux de Femmes. Γυναικῶν ἀρεταί. Texte et traduction avec une introduction et des notes (Diss., Nanterre, 1973) 48–49. Le motivazioni addotte in favore di tale assunto non convincono, in quanto riferite ad interventi testuali e glosse molto probabilmente realizzati sui tre manoscritti da copisti dotti. L’indipendenza di v da Π fu dimostrata da Wegehaupt e confermata da Sieveking (“Praeter codices Planudeos solus liber v alterius codicum classis testis nobis servatus est”); W. Sieveking, “Praefatio”, in Plutarchus Moralia, vol. II (Leipzig: Bibliotheca Teubneriana, 21971 [1935]) XXV. Cfr. I. Frerichs, Plutarchi libelli duo politici (Gottingae: Officina Academica Dieterichiana, 1929) 9. Cfr. C. Hubert–M. Pohlenz–H. Drexler (eds.), Plutarchi Moralia, vol. V, fasc. I (Lipsiae: Bibliotheca Teubneriana, 1960) 14. La Praefatio di Sieveking dedicata ai testimoni collazionati per l’edizione critica Teubneriana del De Iside et Osiride plutarcheo ha ritenuto il codice v descriptus dal manoscritto adoperato da Planude per la sua edizione dell’opera di Plutarco (“descriptum esse ex libro, quo Planudes in componendo corpore Plutarcheo usus est”); Sieveking, “Praefatio”, XXV. Wegehaupt (Wegehaupt, “Die Entstehung”, 1030–1046) ha dimostrato che v risale “recta via” alla fonte utilizzata da Planude almeno per il segmento 22–35 del corpus dei Moralia, evidentemente riaffiorata, probabilmente tramite un apografo (Vendruscolo, “L’edizione planudea”, 37), in ambiente cretese due secoli più tardi. Anche Cuvigny ha parlato di un “lien de filiation” tra le due classi di codici, concretizzatosi forse nella copia di un esemplare di Φ da parte del capostipite planudeo, così come di modello comune tra v ed α ha parlato Vendruscolo; M. Cuvigny (ed.), Plutarque, Œeuvres Morales, t. XI-Première partie (Paris: Les Belles Lettres, 1984) 10–14; Vendruscolo, “L’edizione planudea”, 37–40; 54. Secondo Irigoin, l’esemplare adoperato da Massimo Planude per α nella serie 22–34 del

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non identificabili ma probabilmente di buon livello redazionale, in quanto il manoscritto presenta un numero molto consistente di variae lectiones24 di primario interesse spesso linguistico (258C4 συναισθόμενος Π : συναισθανόμενος v), stilistico (259E5 τῆς Τιμοκλείας οἰκίαν Π : τῆς Τιμοκλείας τὴν οἰκίαν v) e talora contenutistico (247E6 ἀντιταξαμένων v : αὐτῶν ταξαμένων Π oppure 248B2 ἀνασυράμεναι τοὺς χιτωνίσκους Π : ἀνασειράμεναι τοὺς νεανίσκους v) o strutturale (259C5 προσελθεῖν· γύναιον δὲ Περγαμηνόν Ald. : προσελθεῖν· Γύναιον δὲ Περγαμηνόν nβ: post προσελθεῖν· manifesta signa finis fabulae sunt in v αuγδσ 80,5; lineae antecedentis minima pars vacua relinquitur in AEσ et magna pars relinquitur in v uγδ 80,5. Nova fabula incipitur in α et quasi nova in AE. Hic titulus παρθένος περγαμηνή additur in v) e una quantità alquanto ridotta di corruttele. In effetti il Vindobonensis phil. gr. 46 fornisce un riassuntivo spaccato della articolata, fluida25 e controversa26 trasmissione testuale che si offrì agli occhi dell’équipe di Planude in sede di allestimento dell’edizione dei Moralia e talora propone valide alternative alle scelte testuali del monaco costantinopolitano.

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corpus sarebbe stato precisamente un antigrafo dei manoscritti viennesi (ovvero i codici Vind. phil. gr. 36 e 46); Irigoin, “Histoire du texte”, CCLXXVI–CCLXXVII. Sulla scorta di queste osservazioni e in seguito all’incrocio dei due rami della tradizione manoscritta del De exilio, Caballero ha ricostruito un archetipo vergato in minuscola nel periodo compreso tra il ‘rinascimento’ bizantino dei secoli IX–X e l’epoca della dinastia paleologa; cfr. Caballero, “La tradición manuscrita”, 167. Sulla presenza di un manoscritto del gruppo Φ (Φ stesso o φ, suo apografo) presso la cerchia planudea cfr. anche Martinelli Tempesta, Studi sulla tradizione, 122–123; 143; 250; 259. Per il De Is. et Osir., invece, v non presenta lectiones novae (“novae codicum lectiones rarissime tantum in hac editione citantur”); Sieveking, “Praefatio”, XXV. In riferimento all’immissione di lezioni di altra tradizione in Πv, non può escludersi che essi occasionalmente conservino tradizione genuina di provenienza extra-stemmatica; cfr. Vendruscolo, “L’edizione planudea”, 54. “Fluida e sfuggente”, secondo Garzya; cfr. A. Garzya, “La tradizione manoscritta dei Moralia”, in A. Garzya–G. Giangrande–M. Manfredini (eds.), Sulla tradizione manoscritta dei Moralia di Plutarco, Atti del Convegno (Salerno, 4–5 dicembre 1986) (Napoli: D’Auria, 1988) 24. Il cod. Vindobonensis phil. gr. 46 (v), certo recentior, ma, per alcuni aspetti, non deterior, pur essendo accusato di “médiocrité”, “fantaisie” ed “extravagance”, fu riconosciuto come portatore, talora, della “bonne leçon”. Cfr. A. Tirelli (ed.), Plutarco, Ad un governante incolto (Napoli: D’Auria, 2005) 42–48.

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capitolo 1

Al secondo gruppo appartengono i manoscritti riconducibili in vario modo27 alla cosiddetta recensio Planudea (Π), frutto dell’attività editoriale di Planude e dei suoi collaboratori ed epigoni, ovvero: il capostipite Ambrosianus C 126 inf. (α), vergato nel 1294 da Massimo Planude, dal suo discepolo Giovanni Zarida e, probabilmente, altri dieci copisti28; il Parisinus gr. 1671 (A), concluso l’11 luglio 1296 e riconosciuto come la “mise au net” di α corretto, il Parisinus gr. 1672 (E), collocabile nel 136029, che rappresenta il tout Plutarque prodotto probabilmente da un allievo o epigono di Planude in realizzazione del sogno del maestro, il Vaticanus gr. 139 (γ), terminato nel 129630, il Vaticanus gr. 1013 (β), risalente al XIV secolo ed il Vaticanus Reginensis gr. 80 (δ31), vergato nel XV secolo. Il codice α, contentente Mor. 1–69 nell’ordine introdotto da Planude, a cui furono apportate correzioni, varianti e integrazioni dallo stesso Planude, costituisce solo la fase preparatoria dell’edizione vera e propria32, portata a termine da un solo copista con il codice A, che, come si deduce dalla sottoscrizione autografa, ha l’apparenza di un esemplare inteso dal redattore come coronamento della sua impresa. La realizzazione del progetto di Planude avviene più di un cinquantennio dopo la sua morte, quando un suo continuatore ha riunito Vite e 78 Moralia in un unico volume (E), vergato da cinque copisti e che sembra riprodurre il testo di A rifinito e corretto.

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Per i rapporti genealogici tra i codici della recensio planudea cfr. Vendruscolo, “L’edizione planudea”, 38–43; Martinelli Tempesta, Studi sulla tradizione, 123–137; Bernardakis– Ingenkamp, Plutarchi Chaeronensis Moralia, 10; Martinelli Tempesta, “Pubblicare Plutarco”, 273–288. Cfr. Rollo, “Per la storia”, 95–129 (soprattutto 102 e ss.). Il Paris. gr. 1672 è stato a lungo ritenuto planudeo e collocato tra il 1302 ed il 1305; dopo Wilson, tale convinzione (mantenuta, però, nella recentissima editio maior dell’opera di Bernardakis a cura di H.G. Ingenkamp) è caduta e la datazione del codice è stata spostata circa un cinquantennio più tardi; cfr. Wilson, “Some Notable”, 95–97; M. Manfredini, “La tradizione manoscritta dei Moralia 70–77 di Plutarco”, ASNP (s. 3) vol. 6 (1976) 461– 480; Garzya, “La tradizione manoscritta”, 20 nota 24; Manfredini, “Un famoso codice”, 130; Martinelli Tempesta, Studi sulla tradizione, 72; 75; Rollo, “Per la storia”, 98–99; Bernardakis– Ingenkamp, Plutarchi Chaeronensis Moralia, 10–11. Il Vaticanus gr. 139 sarebbe copia di A2 (cfr. Hillyard, “The Medieval Tradition”, 35; Ph. Hoffmann, “Deux témoins apparentés des Vies de Plutarque; les Parisini gr. 1671 (A) et 1674 (D)”, Scriptorium 37 (1983) 259–264; Manfredini, “Il Plutarco di Planude”, 124; Vendruscolo, “Protostoria dei Plutarchi”, 73; Martinelli Tempesta, Studi sulla tradizione, 12–15), mentre Irigoin lo riteneva apografo di α2; cfr. Irigoin, “Histoire du texte”, CCLXXX. Altrove noto anche come r (Valgiglio, Plutarco, Il fato, 54–55) o Petavensis (Bernardakis– Ingenkamp, Plutarchi Chaeronensis Moralia, 3). Cfr. Becchi, Plutarco, La fortuna, 105.

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Il codice γ, poi, è copia di A33, verosimilmente corretta e revisionata in alcuni punti34 (250C2 Οὐαλερία Stephanus : οὐαλλερία n : βελλερία v αAEuβδσ 80,5 80,22 : βαλλερία 80,21: βαλερία γ : Valeria Alaman. Ranutin. : βελερία Turn.), mentre il Vaticanus gr. 1013 (β), anch’esso codex descriptus di A35 (cfr. 243A2 συντεταγμένην v αAEunβγσ 80,5 80,22 : -ταγμένον E² : -ταγμένα ed. Basileensis oppure 243D4 ἐκβιάζωσι v E : ἐκβιάζουσι αAunβγδσ 80,5 : ἐκβιβάζωσι Wyttenbach oppure 250A4 Ταρκυνίου v A²Eβ²δ : Ταρκυνίων αunγσ 80,5 80,21 80,22), riguardo all’appellativo di un capo galata ribellatosi a Mitridate, tramanda una lectio che tra gli editori e traduttori umanistico-rinascimentali ha riscosso grande successo (259A3 Πορηδόραξ A²mg Eδ : omiserunt v αA²unγσ 80,5 80,22 : τορηδόραξ β 80,21 : Toridorax, Thoridorax vel Toredorax Alaman. Ranutin. : τορηδόραξ Ald. : Toredorix Xyl.1 : Τορηδόραξ Step. : τορηδόριξ Xyl.2 : πορηδόριξ Iunius : Πυρηδόναξ Wy. : Ἐπορηδόριξ Na. Cf. R.-E. VI 250,1 Eporedirix C.I.L. XIII 2728. 2805), istituisce una storia autonoma a metà dell’episodio 23 inserendo ex novo un titolo con iniziali maiuscole (259C5 προσελθεῖν· γύναιον δὲ Περγαμηνόν Ald. : προσελθεῖν· Γύναιον δὲ Περγαμηνόν β) e presenta correzioni interessanti concordi con v, (250B4 δικαστῇ vβ² : δικαστὴν αAEunγδσ 80,21 80,22 : ⟨τούτῳ⟩ δικαστῇ Na. oppure 250A4 Ταρκυνίου v A²Eβ²δ : Ταρκυνίων αunγσ 80,5 80,21 80,22) indici di una contaminazione con il ramo Φ della tradizione manoscritta dei Moralia36. Poi il 33 34

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Cfr. Vendruscolo, “L’edizione planudea”, 38–43; Bernardakis–Ingenkamp, Plutarchi Chaeronensis Moralia, 10. Irigoin (cfr. Irigoin, “Histoire du texte”, CCCXXX) propose γ come copia di α² revisionata da Planude, mentre l’ipotesi, formulata da Rescigno, della derivazione da una copia o gemello di A, non sussiste per criteri cronologici; cfr. Martinelli Tempesta, Studi sulla tradizione, 12; Becchi, Plutarco, La fortuna, 106. Cfr. Titchener, The Manuscript tradition, 14; 42–47; Hillyard, “The Medieval Tradition”, 28; 35; Valgiglio, Plutarco, Il fato, 52–53; Vendruscolo, “L’edizione planudea”, 76; 80; A. Rescigno (ed.), Plutarco, L’eclissi degli oracoli (Napoli: D’Auria, 1995) 53–59 (secondo la cui indagine riguardante i testimoni del De defectu oraculorum plutarcheo β potrebbe essere “l’esito di una successiva revisione di A, e non di una primitiva copia di esso, … ed apparire come un tardo superstite di quella tradizione alla quale Planude guardò correggendo il testo dei Moralia”); Caballero, “La tradición manuscrita”, 181–182; Martinelli Tempesta, Studi sulla tradizione. Sulla scorta di Einarson, De Lacy e Hani, R. Caballero, dopo aver analizzato i codici viennesi w e v, ovvero Vind. phil. gr. 36 e 46, ha ipotizzato come fonte di β² un “gemelo de ambos, que discenda también del hiperarquetipo común de wv” oppure un “antígrafo o un gemelo de uno de los dos”; cfr. B. Einarson–P. De Lacy, “The manuscript tradition of Plutarch Moralia 548A–612B”, CPh 46 (1951) 107; J. Hani (ed.), Plutarque, Œuvres morales, t. VIII (Paris: Les Belles Lettres, 1980) 144; Caballero, “La tradición manuscrita”, 168–172. Di “stretta relazione” tra β² e v aveva parlato anche A. Rescigno, che nella Introduzione alla edizione del De defectu oraculorum riconduceva le lezioni isolate di β ad iniziativa di copista o all’ausilio di altri esemplari, definiti “tramiti non raramente connessi anche a taluni altri codici che, ora perduti, si palesano nelle varianti di quelli sopravvissuti”; cfr. Rescigno, Plutarco, L’eclissi, 59.

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codice Vaticanus Reginensis gr. 80 (δ), ascrivibile al XV sec., solo in una circostanza riporta la lezione genuina37 concordemente con A post correctionem, (codice di cui probabilmente è descriptus38, come paiono indicare 243D3 μόνον A2δ : μόνου vΠ ed anche 250A4 Ταρκυνίου v A²Eβ²δ : Ταρκυνίων αunγσ 80,5 80,21 80,22) e trasmette un testo generalmente concorde con il ramo Π. Tale manoscritto spesso tramanda varianti interessanti (in particolare 246F3 συνῄσθοντο v αAEunβγ : συνέθεντο δ ma anche 255D2 συμβασιλεύειν vΠ : βασιλεύειν δ e 255A6 προσαγορευομένων vΠ : ὑπαγορευομένων δ oppure 255C4 ἐγχειροῦσι vΠ : ἐπιχειροῦσι δ), ascrivibili forse più ad elaborazione dotta che a contaminazione con un esemplare/ramo della tradizione non identificabile; tuttavia esso presenta omissioni di termini (244B4 γὰρ omisit δ) e frequenti e riconoscibili errori di copista (errori semplici come 259A4 τετράρχης vΠ : τετάρχης δ e 245C6 Τελεσίλλης vΠ : Τελλεσίλλης δ, errori multipli come 259B7 ἀναίμακτον αὑτῷ vΠ : ἀνέμακτον αὐτῷ δ e 244C3 αἴσθωνται νικωμένους vΠ : ἔσθωνται νεικωμένους δ o errori di etacismo come 244D5 Ἐλαφηβόλια vΠ : Ἐλαφιβόλια δ) mostrando anche, in alcune occasioni, delle leggere variazioni paleografiche del testo di Π rispetto al quale, tuttavia, si rilevano alcune significative innovazioni (come nel caso di 244F1 φόνου vΠ : φθόνου δ oppure a 244D1 βεβουλευμένον vΠ : βεβουλευμένος δ e a 243C8 ἀνδρεῖος vΠ : ἀνδρείως δ) da ricondurre forse a congettura, più che a banale svista. All’interno del secondo gruppo vi è anche una serie di manoscritti di varia epoca e valore in vario modo riconducibili all’alveo della famiglia planudea39 che, pur essendo stati già considerati descripti40 e rimanendo di interesse marginale per la costituzione del testo del Mulierum Virtutes, a volte conservano elementi piuttosto interessanti che, nel contesto di una tradizione testuale fluttuante, intricata e caratterizzata da molteplici e complessi fenomeni contaminatori, sono stati segnalati in apparato per fornire un quadro ampio, articolato 37

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Per Boulogne il Vat. Reginensis gr. 80 “livre à plusieurs reprises, de même que u, une leçon interessante, comme en 247B, 250A, 255D et 258B pour les Mulierum Virtutes”; Boulogne, Plutarque, X. Valgiglio, per il De fato plutarcheo, lo ha descritto come uno scorretto ed inutile apografo del Paris. gr. 1671, in quanto portatore soltanto di errori ed omissioni, e latore della lezione esatta solo una volta, forse per error calami. L’edizione critica di Mulierum Virtutes, Quaestiones Graecae, Quaestiones Romanae e Parallela Minora a cura di Boulogne per la collana C.U.F. ha collocato questo manoscritto, insieme al Leid. Voss. gr. Q 2 (ν), in uno di quattro gruppi di codices descripti di α. Cfr. Valgiglio, Plutarco, Il fato, 54–55; Boulogne, Plutarque, IX. Ingenkamp ha affermato che “ex γ et ex A illa magna caterva codicum oriunda est” ad indicare il grosso raggruppamento di codices descripti dal Vat. gr. 139 e dal Paris. gr. 1671. Bernardakis–Ingenkamp, Plutarchi Chaeronensis Moralia, 10. Cfr. Nachstädt–Titchener–Sieveking, Plutarchi Moralia, Praef., XXI–XXII.

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ed esauriente anche a più livelli, della storia della trasmissione manoscritta dell’opera. Tra questi codici lato sensu planudei, non sempre collegati da una rete di rapporti univoci ed esclusivamente verticali41, il codice Laurentianus 80,2142, vergato nel XIV secolo e descriptus di β post correctionem43, si segnala per una correzione al testo tràdito da v e Π (250C2 βελλερία vΠ : βαλλερία 80,21) ma soprattutto per una lezione, genuina e molto significativa per l’assetto politicoistituzionale che ha preceduto la fondazione della città di Lampsaco (255D2 συμβασιλεύειν vΠ : συμβουλεύειν 80,21), adottata da Demetrio Duca nell’editio Aldina. Il Marcianus 248 (σ), risalente all’anno 1455 ed apografo44 di γ, è latore di variante grafica interessante nel merito della denominazione delle donne di Ceo (249D2 κίων vΠ : σκίων σ), una trivializzazione (251F5 Ἑλλάνικος, ἀνὴρ Stephanus : ἑλλανικὸς ἀνήρ, vΠ : ἑλληνικὸς ἀνήρ, σ), oltre a qualche innovazione su sfumature di significato in sezioni in cui v e Π non concordano (247E6 ἀντιταξαμένων v : αὐτῶν ταξαμένων Π : αὐτῶν καταξαμένων σ). Quindi il Laurentianus 80,22, codex descriptus45 di XV secolo del cod. Vat. Gr. 139, oltre a registrare nei suoi marginalia annotazioni di carattere erudito, tra cui spicca un’intuizione esegetica dell’umanista tolentinate Francesco Filelfo in merito all’appellativo di un congiurato contro il tiranno Aristotimo nella storia 15 (251F5 Ἑλλάνικος, ἀνὴρ Stephanus : Ἑλλανικός Philelfus : Hellanicus Alaman. Ranutin. : ἑλλανικὸς ἀνήρ, vΠ), riporta errori di pronuncia υ/β (come 243C3–4 τῇ Σερουίου αAγ : τῇ Σεροβίου 80,22 : τῆ Σεροβίου E : τῆς ἐροβίου v) e qualche correzione degna di nota (come a 260D2 ἐπῄει vΠ : ἐποίει 80,22²).

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Cfr. anche Tirelli, Plutarco, Ad un governante, 42–48. Per l’indagine ecdotica sulla tradizione dell’opuscolo, inoltre, risulta imprescindibile il suggerimento di J. Irigoin, che, notato come, all’interno della tradizione testuale dei Moralia, l’unità materiale di un manoscritto ricoprisse spesso l’assemblaggio di elementi di data o di origine diverse, suggeriva all’editore di evitare di estendere a tutto il contenuto di un manoscritto i rapporti genealogici intravisti in una parte di esso; cfr. J. Irigoin, “Tradizione manoscritta e ecdotica plutarchea”, in I. Gallo–R. Laurenti (eds.), I Moralia di Plutarco tra filologia e filosofia, Atti della giornata plutarchea di Napoli, Istituto Suor Orsola Benincasa, 10 Aprile 1992 (Napoli: D’Auria, 1992) 20. Altrove noto come codice μ; cfr. Caballero, “La tradición manuscrita”, 181–182; Martinelli Tempesta, Studi sulla tradizione. Boulogne lo ha collocato, insieme a β, in uno di quattro gruppi di codices descripti di α; cfr. Boulogne, Plutarque, IX. Vendruscolo, “L’edizione planudea”, 76. Cfr. anche Vendruscolo, “L’edizione planudea”, 83. Caballero lo ha descritto come apografo di γ²; cfr. Caballero, “La tradición manuscrita”, 177–180. Altrove noto come codice π; cfr. Caballero, “La tradición manuscrita”, 177–180.

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Infine il Laurentianus 80,5, riconducibile alla fine46 del XIV, è certamente apografo47 di γ, mentre il cod. Toletanus 20, apografo48 di γ risalente alla fine del XV secolo, non è latore di elementi cui prestare particolare attenzione49. Sempre al secondo gruppo appartengono il Vat. Urbinas gr. 99 (u), il Vat. Urbinas gr. 100 (t)50 ed il Vat. gr. 1676 (n)51. Il Vaticanus Urbinas gr. 99 (u), di XV sec., pur concordando con Π nella maggior parte delle occasioni, a volte propone varianti di rilievo (254F1–2 ὁμολογεῖν ἀφίξεσθαι v αAEnβγδσ 80,5 : ὁμολογεῖν ἐνδοῦναι καὶ ἀφίξεσθαι u) anche stilisticosintattico (252F6 τί πέπονθας, ὦ πάτερ, καθεύδων v αAEnβγδσ 80,5 : τί πάτερ πέπονθας καθεύδων u: τί πέπονθώς, ὦ πάτερ, καθεύδεις Dinse) ascrivibili a correzioni autonome (258B5 τὴν v αAEnβγδσ 80,5 : τὸν u e 247C1 τὰ δ᾿ u : τὰς δὲ v αAEnβγσ 80,5) o all’utilizzo di fonti differenti52, caratterizzandosi inoltre piuttosto spesso per omissioni di vario genere (251D1 ἀθρόας v αAEnβγδσ 80,5 : omisit u) e, in alcuni casi, per lezioni interessanti (256D6 ἡττᾶσθαι v αAEnβγδσ 80,5 : κτᾶσθαι u oppure 257F3 αὐτῆς v αAEβγδσ 80,5 : αὐτὸς u : αὐτοῖς n o anche 258B7 ἀπολαβοῦσα v αAEnβδσ 80,5 : ἀπολαύουσα uγ). Alcuni forti indizi (243D5 ὅσον v α2u 80,5 : ὅσων AEnβγδσ e 259F3 δεξαμένη v αAEnβγδσ : διαδεξαμένη u 80,5 come anche 256B3 φονικὴ v αAEnβγδσ 80,22 : φοινικὴ u 80,5) lasciano pensare che si tratti di un apografo del Laur. 80,5 corredato di alcuni interventi di

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“Deve in effetti essere anteriore al 1401, data del Vat. Urbinas 100, di cui è parzialmente modello”; Vendruscolo, “L’edizione planudea”, 82. “Le filigrane sembrano suggerire la prima metà del secolo”; Martinelli Tempesta, Studi sulla tradizione, 38–39. Cfr. Martinelli Tempesta, Studi sulla tradizione, 38–40; 259. Caballero lo aveva indicato più precisamente come apografo di γ²; cfr. Caballero, “La tradición manuscrita”, 177–181. In effetti, all’interno di γ Martinelli Tempesta ha rintracciato correzioni del copista stesso e di un diorthotes, diverso da Planude, che interviene con inchiostro nero (Martinelli Tempesta, Studi sulla tradizione, 16–17); tuttavia, la sezione del Vat. gr. 139 contenente il Mulierum Virtutes non presenta le dette tipologie di correzioni. Il cod. Tolet. 20, come già suggerito dalle collazioni e dagli studi codicologici di Sandbach, Titchener, Lowe e Fletcher su alcuni opuscoli e passi dei Moralia plutarchei, è apografo del cod. Vat. gr. 139; cfr. Fletcher, “The Toledo ms.”, 170 nota 6; 171; Nachstädt–Titchener– Sieveking, Plutarchi Moralia, XXI; Boulogne, Plutarque, IX. Cfr. anche Fletcher, “The Toledo ms.”, 170–176. Cfr. Martinelli Tempesta, Studi sulla tradizione, 9–11. Nachstädt, all’interno della Praefatio alla sua edizione critica del Mulierum Virtutes e del De gloria Atheniensium di Plutarco, ebbe a definire questi due manoscritti come “libros ut ita dicam Planudeos” per il consenso con Π e la formulazione di lezioni autonome di un certo valore, forse consultate presso fonti migliori di α; cfr. Nachstädt–Titchener– Sieveking, Plutarchi Moralia, XXI–XXII. Secondo lo studio di Valgiglio sulla tradizione testuale del De fato plutarcheo, il Vat. Urb. gr. 99 sarebbe un codice scorretto e contaminato in più punti con il Vat. gr. 1013 ed il Laur. 80,21; Valgiglio, Plutarco, Il fato, 51.

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copista dotto53, qualche volta forse prodotti da contaminazione (come sembra accadere a 250B2 συνεπιτιθεμένου v αEn 80,52 : συνεπιτιθεμένων Auβγδσ 80,22 : συνεπιθεμένου Papageorg.). Il Vaticanus Urbinas gr. 100 (t), apografo per metà54 di β e per metà di Laur. 80,5 ultimato e sottoscritto nel 1401, si contraddistingue per una variazione dell’ordo verborum (248F2–3 ξίφη λαβοῦσαι vΠ : λαβοῦσαι ξίφη t) ed un paio di lezioni di qualche rilievo, ascrivibili a svista o a elaborazione dotta (249A5–6 καταβαλόντες vΠ : καταβαλλόντες t e soprattutto 245C9 τῇ θεῷ Ω : τῷ θεῷ Méziriacus : in t η ex ω factum vidit Bern.). Il codice Vaticanus gr. 167655 (n), risalente alla metà del XIV sec., oltre a concordare molto spesso con la famiglia Π (soprattutto con α, capostipite di questa56), presenta in qualche caso delle lezioni importanti per la costituzione e la conseguente comprensione del testo (come 250C2 Οὐαλερία Stephanus : οὐαλλερία n : βελλερία v αAEuβδσ 80,5 80,22 : βαλλερία 80,21 : βαλερία γ : Valeria Alaman. Ranutin. : βελερία Turn. o anche 254C5 ἐλευθέρας n : ἐλευθέρους v αAEuβγδσ 80,5 ma soprattutto 260D8 Εὐδαίμονος v n : δαίμονος αAEuβγδσ 80,5 80,22), tramanda significative aggiunte o correzioni autonome (come 252F1 σημείου συντεταραγμένος v αAEβγδσ 80,5 80,22: σημείου Δία συντεταραγμένος n : σημείου συντεταγμένος u e 257F3 αὐτῆς v αAEβγδσ 80,5 : αὐτὸς u : αὐτοῖς n)

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Per i rapporti genealogici del cod. Vaticanus gr. 139 con i suoi apografi cfr. soprattutto Caballero, “La tradición manuscrita”, 180 oltre che Martinelli Tempesta, Studi sulla tradizione, 12–13; 259. Cfr. Vendruscolo, “L’edizione planudea”, 76; 78; Caballero, “La tradición manuscrita”, 181– 182. Boulogne, in riferimento ai testimoni utili alla constitutio textus del Mulierum Virtutes di Plutarco, ha riconosciuto n quale una delle “quatre branches” della “tradition ancienne”, qualificandolo come un manoscritto “recentior”, copiato nel XV secolo, “melangé” e di qualità “assez mediocre”; cfr. Boulogne, Plutarque, VIII–IX. Come ricordato di recente da Becchi, questo manoscritto probabilmente appartiene al ramo Δ della tradizione dei Moralia, il cui capostipite (oggi perduto) rappresenterebbe una recensione antica, forse risalente ad una fase pre-bizantina della trasmissione del testo; Becchi, Plutarco, La fortuna, 107– 108. Cfr. anche Bernardakis–Ingenkamp, Plutarchi Chaeronensis Moralia, 189–203; F. Vendruscolo, “Libidinosa recensio. La recensione Δ e il testo dei Moralia”, in G. Zanetto–S. Martinelli Tempesta (eds.), Plutarco: lingua e testo. Atti dell’XI Convegno plutarcheo della International Plutarch Society – Sezione Italiana (Milano, 18–20 giugno 2009) (Milano: Cisalpino, 2010) 143–169. Per il legame stemmatico tra α e n si rimanda ad Einarson–De Lacy, “The manuscript tradition”, 107; Hani, Plutarque, Œuvres morales, 144 e, per il codice n considerato “descriptus ex α correcto” cfr. anche Nachstädt–Titchener–Sieveking, Plutarchi Moralia, XXII. Riguardo all’esistenza di un intermediario tuttora perduto tra αpc e n, ipotizzata da Vendruscolo per la Consolatio ad Apollonium, cfr. Vendruscolo, “L’edizione planudea”, 76; 78.

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o un raro esempio di glossa57 infiltrata nel testo del Mulierum Virtutes (come 260D2 ὡς μείζονα θαυμάσας v AEuβγδσ 80,5 80,22 : ὡς μείζονα συγγνώμης πράξασαν θαυμάσας α2(superscriptum) n : haec verba interpolata iudicans, quod non συγγνώμης sed ἐλέου exspectamus, pro his ⟨πράξασαν ἢ παθοῦσαν⟩ scrib. fere putat Pohlenz), oltre a lectiones rilevanti sotto l’aspetto linguistico (come 257B3 διειλέχθη v αuβγσ 80,5 80,22 : διελέχθη AEδ : διαλέχθη n oppure 257B6 ἄνοπλος v αAEuβγδσ 80,5 : ἄοπλος n) e a varianti stilistiche relative all’ordo verborum (cfr. 261D1 αὐτῆς ἦν ἀξίωμα αAEuβγδσ 80,5 80,22 : ἦν αὐτῆς ἀξίωμα n: ἀξίωμα ἦν (omisit αὐτῆς) v). Alcune decisive occorrenze, soprattutto nelle storie 24 e 25 dell’opuscolo (251C6 ὅσα α2 (α in ras.) n : ὅσαι v AEuβγδσ 80,5 80,21 80,22 : ὅσον Stephanus come anche 261C5 παρὰ α2n : περὶ v AEuβγδσ 80,5 : del. Ha. : τὰ παρὰ Bern. oppure 261D4 Ἐρυξοῦς v α2AEunβγδσ 80,5 : γυναικός α oltre al caso già citato di 260D2) lasciano pensare che si tratti di un apografo di α² (piuttosto che di A2, come forse avrebbero potuto far pensare i casi di 260D5 ἀφῆκεν Euβγδσ 80,5 80,22 : omiserunt v αA2n e 257E8 καὶ φίλανδρος v Eβδ : omiserunt v αA2unγσ 80,5 80,22) nel quale sono confluite sporadiche correzioni di matrice colta58. Quanto è stato appena riferito può essere riassunto nella seguente ipotesi di stemma codicum:

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Per i quattro livelli di penetrazione di congetture bizantine nei mss. delle famiglie Π e Φ cfr. Vendruscolo, “L’edizione planudea”, 54. Secondo lo studio di Einarson–De Lacy sulla tradizione manoscritta di Moralia 548A– 612B, si trattava di un apografo di α; cfr. Einarson–De Lacy, “The manuscript tradition”, 107. F. Vendruscolo, in riferimento alla Consolatio ad Apollonium, ha individuato due stadi intermedi: α post correctionem sarebbe stato antigrafo del cod. Matritensis 4690 (graecus 60), altrove noto come ε, della cui copia corretta n sarebbe descriptus. Lo stesso studioso, poi, ha sottolineato come la posizione stemmatica di n possa divergere da trattato in trattato; Vendruscolo, “L’edizione planudea”, 76–77.

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Per la costituzione del testo59, tra gli altri, si sono rivelati, per ragioni differenti, di maggiore rilievo60 i codici: Vindobonensis phil. gr. 46 (v), Ambrosianus C 126 inf. (α), Parisinus gr. 1671 (A), Parisinus gr. 1672 (E), Vaticanus Urbinas gr. 99 (u) e Vaticanus gr. 1676 (n). La constitutio textus del Mulierum Virtutes conta prevalentemente sull’apporto di codici di matrice Planudea, che Irigoin61 riteneva pour qui cherche à restituire le texte original de Plutarque … plus un obstacle qu’ un aide e Pohlenz62 consigliava di adoperare magna cum cautione; in tal senso lo stato della tradizione testuale di VII sec d.C., documentato dalla testimonianza indiretta dell’Anonymus de incredibilibus nel capitolo dedicato alla Chimera, il quale cita in maniera molto precisa il μονόβιβλος di Plutarco Περὶ ἀρετῆς γυναικῶν, ma presentando alcune evidenti corruttele testuali (248C4 ὄρει codices : θέρει Anonymus De incredib.; 248C6 μάλιστα τὰς codices : μάλιστα τὸ τὰς Anonymus De incredib.), induce comunque a rivalutare l’imponente scrupolo e sforzo ecdotico dell’équipe di Planude, messo in atto con un work in progress fatto di molteplici e difficili scelte e correzioni, revisioni ed integrazioni, oltre alla registrazione di un cospicuo numero di varianti al testo. Inoltre l’esame dell’intera tradizione ha consentito di annotare in apparato positivo un buon numero di varianti sinora ignorate dalla totalità degli editori

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Per uno stemma che riassuma i rapporti genealogici tra tutti i mss. analizzati si rimanda agli studi di Einarson–De Lacy, “The manuscript tradition”, 107; Hillyard, “The Medieval Tradition”, 37; Hani, Plutarque, Œuvres morales, 144; Valgiglio, Plutarco, Il fato, 55; Vendruscolo, “L’edizione planudea”, 54; 76; Caballero, “La tradición manuscrita”, 172; 176; 180; 182; Martinelli Tempesta, Studi sulla tradizione, 259. Per la constitutio textus del Mulierum Virtutes, Nachstädt si servì dei codici v αAE, con l’ausilio soltanto parziale di u e n, e avendo considerato apografi βγδt 80,5 80,21 80,22 Marc. 248 e Tolet. 20. Boulogne, poi, ha adoperato i mss. v αAEunδ, qualificando “les autres représentants de cette famille” (la planudea), “comme des minores de qualité souvent décevante, en particulier γ et β et … qui n’apportent pas beaucoup par rapport à A”, e vedendo nel Vat. gr. 1676 un esponente della tradizione antica. Contestualmente, Boulogne ha più genericamente individuato, all’interno della tradizione planudea, α come “chef de file” e “quatre groupes” di manoscritti che “dérivent de ce dernier”: i raggruppamenti comprendono 1) AE; 2) γ t u Laur. 80,5 Laur. 80,22 Marc. 248 e Tolet. 20; 3) β 80,21; 4) δ. Di recente Ingenkamp, per l’editio maior dell’opera ecdotica plutarchea di Bernardakis, ha ritenuto di primaria importanza esclusivamente i codd. v (“in toto fere libello”) α (qualificato come “testis gravissimus”) A ed E, annotando in apparato lezioni ed elementi interessanti provenienti dalla collazione di βγδun t Tolet. 20 dell’edizione Teubneriana di Nachstädt, e di fatto escludendo da ogni considerazione i codici Laurenziani 80,5, 80,21 e 80,22 ed il Marc. 248. Cfr. Nachstädt–Titchener–Sieveking, Plutarchi Moralia, XXI–XXII; Boulogne, Plutarque, VII–X; Bernardakis–Ingenkamp, Plutarchi Chaeronensis Moralia, 10–11; 198. Irigoin, “Histoire du texte”, CCLXXVI. Paton–Wegehaupt–Pohlenz–Gärtner, Plutarchi Moralia, XXXVII.

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(come a 248A6 εἶτα v αAunβγδσ 80,5 80,21 80,22 : εἶ του E; a 259D8 τοὺς κατ᾿ αὐτὸν ἀντιτεταγμένους αAEnβγδσ 80,5 80,21 80,22 : τὰ κατ᾿ αὐτὴν ἀντιτεταγμένα v : τοὺς κατ᾿ αὐτὴν ἀντιτεταγμένους u; e a 254F6 ἐφ᾿ οἷς Π : ἐφ᾿ ἧς v oppure a 263B3 δὲ ἄλλους Π : ἄλλους v solo per fare alcuni esempi) di rettificare le attribuzioni di alcune congetture (come, ad esempio, a 253A2 ἑτέρους codices : ἑταίρους Wyttenbach: socios Alaman. Ranutin.) e di correggere ed integrare una lunga serie di mende ed omissioni che inficiano alcune delle edizioni più recenti dell’opuscolo. Le edizioni del passato che hanno ispirato ed indirizzato il lavoro sono l’editio princeps Aldina63 curata da D. Doukas (1509), l’editio Basileensis (1542), le edizioni curate da H. Estienne64 (1572) e W. Xylander (1574), la francofortana (1599), le edizioni a cura di J.J. Reiske (1777) e J.G. Hutten (1798) e la monumentale opera ecdotica di D.A. Wyttenbach65 (1830). A seguire, l’edizione Tauchnitziana (1866), la Didotiana di F. Dübner (1868) e l’imprescindibile opera di G.N. Bernardakis (1889), seguita dall’edizione “Loeb” di F. Cole Babbitt (1931), dall’editio Teubneriana a cura di Nachstädt (1936) e quella della Collana “G. Budé” curata da J. Boulogne, cui ha fatto seguito la recente pubblicazione 63

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Per la presente edizione sono state visionate anche le annotazioni redatte a margine dei seguenti esemplari dell’edizione Aldina conservati presso la Biblioteca Apostolica Vaticana: I, 22 (postillata da Scipione Carteromaco); I, 23 (postillata da F. Orsini); I, 25 (postillata da G. Lascaris). Inoltre sono stati esaminati i marginalia all’edizione Aldina custodita presso la biblioteca dell’Università di Leida e registrata come 757 A 8 (uno degli esemplari appartenuti a D. Giannotti) e le annotazioni di J. Amyot all’edizione Basileense conservata presso la Bibliothèque Nationale de Paris (registrata come B.N. Rés. J 103). H. Estienne dichiarò di aver adoperato lezioni tratte da imprecisati “codices vetusti” o, come sospettato da Wyttenbach, raccolte da variae lectiones di Giannotti, Turnebus ed altri studiosi, che si trovavano trascritte a margine di numerosi esemplari dell’editio Aldina. Reiske aveva avanzato anche l’ipotesi che Estienne avesse proposto proprie congetture spacciandole per lezioni di manoscritti. Cfr. Martinelli Tempesta, Studi sulla tradizione, 169–221; F. Becchi, Le edizioni a stampa del De fortuna di Plutarco (Napoli: D’Auria, 2008) 20–21. Edizione fondata sulle variae lectiones di Vulcob, Bongars e Turnebus contenute nelle edizioni francofortane, e sui postillati aldini di Leonico, Polo, Giannotti, Muret, Iunius, Schott e Méziriac (probabilmente gran parte dei postillati dell’Aldina che Wyttenbach attribuiva a C.G. Bachet de Méziriac erano riconducibili a Muret; cfr. Aulotte, Amyot et Plutarque, 179–182; Martinelli Tempesta, Studi sulla tradizione, 215–217), oltre all’apporto di numerosi manoscritti conosciuti direttamente o attraverso le collazioni fornitegli da altri studiosi. Pur mancando, ovviamente, ogni riferimento alla recensio e all’eliminatio codicum descriptorum, nella costituzione del testo Wyttenbach si mosse con dichiarata cautela; cfr. Becchi, Le edizioni, 32. Per l’edizione di Wyttenbach come summa di tutti gli sforzi critici ed ecdotici compiuti fino alla metà del Settecento a partire dall’editio princeps del 1509, e per l’eredità di tale opera nell’ecdotica plutarchea moderna cfr. Martinelli Tempesta, “Pubblicare Plutarco”, 8–32; 33–60.

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dell’editio maior – preparata, ma mai pubblicata – di G.N. Bernadakis a cura di P.D. Bernardakis e H.G. Ingenkamp (2009). Sono stati valutati, e di volta in volta menzionati in apparato critico ed in particolare nelle note di commento, notazioni erudite e specifici contributi critici al testo del Mulierum Virtutes, le traduzioni latine dell’opuscolo realizzate da A. Rinuccini (compiuta nel 1464, ma pubblicata nel 1485)66, W. Xylander (1570) e H. Cruserius (1573), le versiones gallicae di J. de Monstiers (1538), D. Sauvage (1546), C. De Tesserant (risalente al 1572 circa, e tuttora inedita), J. Amyot (1572), C. Guille (1580), abate Ricard (1785), V. Bétolaud (1870) e J. Boulogne (2002) e i volgarizzamenti di L.A. Ridolfi67 (risalente al 1542 circa, e rimasto inedito), G. Tarcagnota68 (1549) e M. Adriani69 (risalente alla II metà del 1500, ma pubblicato solo nel 1819). Sono state oggetto di consultazione anche le traduzioni spagnole di D. Gracián (1548) e M. López Salvá–M.A. Medel (1987), le versioni in inglese di I. Chauncy (1704), F. Cole Babbitt (1931) e D. Russell (1993), quella portoghese di M. Fialho–P. Barata Dias–C. Cravo da Silva (2001), la neogreca di Κ.Α. Μόσχου (2002) e le recenti rese in brasiliano di M. Duarte Silveira (2006) ed in catalano di R. Homar (2011). 66 67

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Tanga, “Alamanno Rinuccini traduce”, 39–64. Intellettuale fiorentino attivo a Lione nella metà del Cinquecento, volgarizzò il Mulierum Virtutes plutarcheo, dedicandolo a Maria Albizzi degli Dei con il titolo Delle virtù e fatti notabili delle donne. Noto anche con lo pseudonimo di Lucio Fauno, membro dell’Accademia romana dei Vignaiuoli, fu un antiquario e traduttore originario di Gaeta che volgarizzò, oltre ai Moralia di Plutarco (in collaborazione con Antonio Massa, giurista originario di Gallese e partecipe della temperie umanistica), opere di Galeno e Svetonio. Compose, inoltre, le Historie del mondo (1562) e la Favola d’Adone (1550). L’opera versoria di Massa e Tarcagnota, impressa prima nel 1543 e poi nel 1549 a Venezia presso Michele Tramezzino, fu poi riedita da Geronimo Giglio e compagni nel 1559 e nel 1560, da Comin da Trino nel 1567, da Fioravante Prati nel 1598 e da Giovan Battista Combi nel 1625. Marcello Adriani il Giovane realizzò un volgarizzamento dei Moralia, letto probabilmente in prima persona presso l’Accademia degli Alterati, dov’era conosciuto come “il Torbido”; cfr. M. Adriani, Opuscoli di Plutarco volgarizzati, t. II (Milano: Fratelli Sonzogno, 21825 [1819/20]) 209. Per le più recenti traduzioni italiane di carattere divulgativo dell’opuscolo, cfr. quella di F. Chiossone e quella di I. Berti; F. Chiossone, Plutarco, Virtù delle donne (Genova: Il Melangolo, 2010); I. Berti in E. Lelli–G. Pisani (eds.), Plutarco, Tutti i Moralia (Milano: Bompiani, 2017).

capitolo 2

Il titolo dell’opera Il Mulierum Virtutes1 di Plutarco è intitolato Γυναικῶν ἀρεταί· ἐν ἄλλῳ δὲ, Περὶ τοῦ πῶς δεῖ ζῆν γυναῖκα πρὸς ἄνδρα nel Catalogo di Lampria2 e riceve la definizione Γυναικῶν ἀρεταί nell’edizione dei Moralia allestita da Massimo Planude3. Se nel Catalogo di Lampria sembra essersi verificata una confusione con il titolo di un altro opuscolo plutarcheo di tematica affine4, la titolazione pla-

1 Catalogato con il nr. 126 nel Catalogo di Lampria, con il nr. 33 nell’edizione di Massimo Planude e con il nr. 17 nell’edizione Aldina del 1509 e in quella di H. Estienne del 1572; Irigoin, “Histoire du texte”, CCXXXIX–CCXLI; CCLXII–CCLXV; CCLXXXV–CCLXXXVIII; CCCXI– CCCXVII. Il titolo Mulierum Virtutes comparve per la prima volta nell’indice della traduzione latina dei Moralia approntata dall’umanista tedesco H. Cruser; cfr. H. Cruserius, Plutarchi Chaeronei, Ethica, sive Moralia, Opera quae extant, omnia (Basileae: Guarinus, 1573) 246–259. 2 Catalogo che riproduce l’inventario del materiale plutarcheo di una biblioteca di III–IV secolo, una volta ritenuto erroneamente opera di uno dei figli di Plutarco; esso registra 227 titoli, più della metà dei quali sono andati perduti. Ai titoli del catalogo vanno però aggiunte circa 30 opere, superstiti o comunque testimoniate in fonti diverse dal catalogo stesso. In merito al Catalogo di Lampria cfr. M. Treu, Der sogenannte Lampriascatalog der Plutarchschriften (Waldenburg in Schlesien: 1873); Ziegler, Plutarco, 79–85; Irigoin, “Histoire du texte”, CCXLV–CCXLVIII; CCCXI–CCCXVIII; J. Irigoin, La tradition des textes grecs. Pour une critique historique (Paris: 2003) 337–352. 3 Cfr. Treu, Zur Geschichte, III–XI; Wegehaupt, “Die Entstehung”, 1030–1046; Wegehaupt, “Planudes”, 244–252; C. Wendel, “Planudea”, Byzantine Zeitschrift 40 (1940) 406; 410–414; 416–445; C. Wendel, “Planudes, Maximos”, R.E. XX.2 (1950) 2202–2253; Garzya, “Planude e il testo”, 39– 53. 4 I Coniugalia praecepta, collocati al nr. 34 nell’edizione di Planude e ugualmente riconducibili alla cosiddetta “macrotematica delle donne”; cfr. D.A. Wyttenbach, Animadversiones in Plutarchi Moralia, vol. II pars I (Oxonii: Clarendon, 1821) 1; Nachstädt–Titchener–Sieveking, Plutarchi Moralia, 225; Martano–Tirelli, Plutarco, Precetti, 7–24 e D’Ippolito, “Il Corpus Plutarcheo”, 15. Tale confusione persiste anche nei manoscritti α e γ dei Γαμικὰ παραγγέλματα, dove di seconda mano i Coniugalia praecepta sono erroneamente intitolati Γυναικῶν ἀρεταί (cfr. Martano–Tirelli, Plutarco, Precetti, 56), e nel pinax del cod. Ambrosianus C 126 inf. (gr. 859). Al numero 167 del Catalogo di Lampria compare poi l’Αἰτίαι γυναικῶν, trattato perduto probabilmente di interesse erudito e a tematica femminile, superficialmente considerato, nell’apparato di Nachstädt (“167 αἰτίαι γυν. i.e. ἀρεταί γυν.”), una erronea reduplicazione del titolo Γυναικῶν ἀρεταί (Cat. Lamp. 126), con l’inversione dei termini ipoteticamente causata dalla vicinanza con il trattato precedente, classificato al nr. 166 e denominato Αἰτίαι Ἑλλήνων; cfr. Treu, Der sogenannte Lampriascatalog, 14; Nachstädt–Titchener–Sieveking, Plutarchi Moralia, 225. Più possibilista a riguardo si è mantenuto Irigoin, che, nell’appendice alla Histoire du texte des Œuvres Morales de Plutarque dedicata a Le Catalogue de Lamprias, ha riportato in apparato “167 αἰτίαι : an ἀρεταί (cf. 126) Nachstädt”, così come non aveva preso una

© koninklijke brill nv, leiden, 2020 | doi:10.1163/9789004409750_004

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nudea risulta inappropriata5 in quanto propone una pluralità di virtù che non pare rispondere agli intenti dell’autore e alle autentiche finalità dell’opera. In primo luogo il titolo planudeo sembra dettato soprattutto dalle peculiarità strutturali6 ed influenzato dalla materia spesso eziologica7 ed erudita del Γυναικῶν ἀρεταί; tali elementi rendono l’opera partecipe anche delle categorie degli scritti plutarchei consacrati alle antichità, all’erudizione filosofica, all’apoftegmatica e ai Parallela, i cui titoli presentano una declinazione spesso al nominativo plurale8.

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netta posizione Wyttenbach, asserendo che l’Αἰτίαι γυναικῶν “et verum esse potest, Quaestiones Muliebres, vel, de Mulieribus prouti sunt … Et falsum esse potest; ita, ut ἀρεταὶ a librariis mutatum sit in αἰτίαι”; cfr. Wyttenbach, Animadversiones, 1; Irigoin, “Histoire du texte”, CCCXVI. K. O’Brien Wicker (citando De aud. poet. 24CD e De Al. Magn. fort. 332CD) ha provato a spiegare la “discrepancy” tra il titolo ed i contenuti dell’opera sostenendo che “the possession of ἀρετή by an individual is reflected in the practice of specific virtues (αἱ ἀρεταί) which ultimately result in the perfection or achievement (ἡ ἀρετή) of the individual”; O’Brien Wicker, “Mulierum Virtutes”, 107 nota 6. Il Mulierum Virtutes è costituito da una introduzione cui seguono 27 storie di donne che esercitarono la virtù in gruppo e individualmente; cfr. 242D6–243E1. Ricard, Dinse, Ziegler, Stadter, Gera, Dettenhofer e Benefiel dividono l’opera in un primo gruppo di 15 episodi di virtù singola ed in un secondo di atti di virtù collettiva, come inequivocabilmente stabilito dal Cheronese, mentre López Salvá–Medel, Aguilar (che ha notato una sorta di gradazione discendente nell’ordinazione degli episodi) e García Valdés hanno suddiviso il Mul. Virt. in una sezione di 13 episodi meritori compiuti in comune, un gruppuscolo di due storie che trattano di coppie di donne, e le restanti 12 storie dedicate alle individualità. Boulogne ha parlato di due raggruppamenti separati a mo’ di cesura dagli episodi di Valeria e Clelia e di Micca e Megisto, mentre C. Ruiz Montero e A.M. Jiménez hanno ricalcato questa posizione, riconoscendo ai due blocchi maggiori una sostanziale simmetria di fondo, accompagnata da differenze formali che ratificano la divisione ed eterogeneità tematica, descrivendo le storie 14 e 15, sulla scorta di Boulogne, quale “subgrupo dentro del primer bloque, como relatos de transición”. Cfr. D. Ricard, Œuvres Morales de Plutarque traduites en françois, t. III (Paris: Desaint, 1785); Dinse, De libello Plutarchi, 5; Stadter, An analysis, 80–84; Ziegler, Plutarco, 264; López Salvá–Medel, Plutarco. Obras morales, 261; R.M. Aguilar, “La mujer, el amor y el matrimonio en la obra de Plutarco”, Faventia 12–13 (1990–1991) 321; Gera, Warrior Women, 36; Boulogne, Plutarque, 19; Benefiel, “Teaching by Example”, 13; M.H. Dettenhofer, “Frauenbilder in Plutarch’s Schrift Mulierum Virtutes im Verhältnis zum traditionellen Frauenbild der Griechen”, in C. Ulf–R. Rollinger (eds.), Geschlechter, Frauen, Fremde Ethnien. In antiker Ethnographie, Theorie und Realität (Innsbruck/Wien/München/Bozen: 2002) 417–435; García Valdés, “Plutarco uersus Tucídides”, 306; Ruiz Montero–Jiménez, “Mulierum Virtutes”, 106; 118; Tanga, “Mulierum Virtutes: atti”, 83–96. Cfr. Marasco, “Sul Mulierum virtutes”, 335–345 e Benefiel, “Teaching by Example”, 11–20. Ὑγιενὰ παραγγέλματα, Γαμικὰ παραγγέλματα, Αἴτια Ῥωμαϊκά, Αἴτια Ἑλληνικά e Πλατωνικὰ Ζητήματα, solo per fare alcuni esempi. Cfr. Ziegler, Plutarco, 70; 221. J. Boulogne, richiamando Mul. Virt. 243B9–D3, ha accostato il Mulierum Virtutes anche al genere della biografia. Cfr. Boulogne, Plutarque, 4–5; 18–19.

il titolo dell’opera

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In secondo luogo, nella fase introduttiva del Mulierum Virtutes, che costituisce una sorta di proemio metodologico all’opera, Plutarco afferma di aver redatto τὰ ὑπόλοιπα9 di una conversazione avuta in un’occasione precedente con Clea εἰς τὸ μίαν εἶναι καὶ τὴν αὐτὴν ἀνδρός τε καὶ γυναικὸς ἀρετήν10, manifestando pertanto la chiara intenzione di dimostrare l’unitarietà e l’identità della virtù di uomini e donne, supportandola tramite un ἱστορικὸν ἀποδεικτικόν11. Successivamente, il Cheronese riconosce nella presenza di divergenze12 individuali, dovute a particolari sfumature che si conformano a differenti costumi, temperamenti, alimentazioni e stili di vita, un elemento che non intacca in alcun modo l’unitarietà della virtù maschile e femminile, lasciandone di conseguenza invariata la definizione generale. Inoltre, anche il fatto che Plutarco non abbia adoperato in alcun caso il termine ἀρεταί nell’accezione di fortia facta13 lascia supporre che Γυναικῶν ἀρεταί

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Mul. Virt. 242F4. Mul. Virt. 243A1. Mul. Virt. 243A2. Cfr. anche C. Theander, “Plutarch und die Geschichte”, Bulletin de la Société Royale des Lettres de Lund 1 (1950/51) 2–32; Stadter, An analysis, 125–140. Mul. Virt. 243CD. Poi queste sfaccettature, unite alla varietas di circostanze prese in oggetto dalla narrazione, permettono anche di riconoscere l’ ἀρετή nelle sue molteplici manifestazioni; cfr. Boulogne, Plutarque, 8–9. Per le sfumature e definizioni dell’ ἀρετή nell’opera, cfr. l’indice dei termini riferiti alla virtù delle donne collocato in conclusione del presente volume. D.A. Wyttenbach sottolineava che “Ἀρεταί fortia facta, Plutarcho alibi non dicuntur, nec aliis scriptoribus ita simpliciter”, e ribadiva “At frequentius et disertius, fortiter facta dicuntur ἀνδραγαθήματα, et Plutarcho et aliis”; Wyttenbach, Animadversiones, 2. Come segnalato da Wyttenbach, solo in Tucidide 2.35 e 4.92 il termine ἀρεταί compare con il significato di “virtutes, ex quibus facta profecta sunt”, mentre LSJ (s.v. ἀρετή) segnala l’accezione, al plurale, di “brave deeds” solo in Hdt. 1.176; 8.92 e 9.40 (collocando “later, of gods and chiefly in pl.” la sfumatura religiosa di “glorious deeds, wonders, miracles”). In tale direzione gli eruditi cinquecenteschi L.A. Ridolfi (autore di un volgarizzamento del De Virtutibus Mulierum sive De Claris Mulieribus di A. Rinuccini), J. De Monstiers, D. Sauvage (che trasferì in lingua francese e pubblicò nel 1546 la traduzione di Ridolfi), C. De Tesserant (la cui versio gallica, dedicata alla principessa Margherita di Francia e risalente al 1567, è conservata nell’elegante ms. 559A della Pierpont Morgan Library), C. Guille (autore di una traduzione francese del Mulierum Virtutes plutarcheo risalente al 1580 tuttora conservata nel ms. fr. 2592 della Biblioteca Nazionale di Parigi), J. Amyot ed un traduttore italiano anonimo (autore di una traduzione dell’opuscolo, probabilmente realizzata nel XVI secolo, registrata da Aulotte senza data e luogo di stampa; cfr. Aulotte, Amyot et Plutarque, 339) tradussero il titolo dell’opera rispettivamente in Delle virtù e fatti notabili delle donne, Recueil des haultz et nobles faicts de plusieurs femmes vertueuses, Des vertueux et illustres faitz des anciennes femmes, Les histoires des vertueuses femmes, Traitté des vertueux faits des femmes illustres, Les vertueux faicts des femmes e Trattato delle virtù delle donne, mantenendo il plurale, così come di recente R. Aulotte, D.A. Russell, J. Boulogne e la catalana R. Homar hanno scelto,

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capitolo 2

sia un titolo non attribuibile allo scrittore di Cheronea14, ma scelto in un periodo storico ed in una temperie culturale a lui successivi forse di alcuni secoli15, in cui l’accezione e l’utilizzo di alcuni termini della lingua greca erano sensibilmente cambiati, condizionando inevitabilmente anche la ricezione delle opere dell’autore16.

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per il medesimo opuscolo, le definizioni Vertueux faits des femmes, Noble deeds of women, Conduites méritoires de femmes e Els mèrits de les dones; cfr. J. De Monstiers, Recueil des haultz et nobles faicts de plusieurs femmes vertueuses, escript premierement en grec par Plutarque et maintenant traduict en françoys (Paris: Mallard, 1538); D. Sauvage, Petit opuscule de Plutarque des vertueux et illustres faitz des anciennes femmes, traduit du vulgaire tuscan en nostre langue (Lyon: Roville, 1546); J. Amyot, Les Oeuvres Morales et meslées de Plutarque, Translatées de Grec en François, Tome Premier (Paris: Vascosan, 1572); Aulotte, Amyot et Plutarque, 69–79; D.A. Russell, “On Reading Plutarch’s Moralia”, G&R (2nd Ser.) 15.2 (Oct. 1968) 134 nota 3; Boulogne, Plutarque; R. Homar, Plutarc. Els mèrits de les dones (Martorell: Adesiara, 2011). Sulla scorta del titolo De virtutibus mulierum, già scelto da W. Xylander ed invertito in De mulierum virtutibus nel catalogus dell’editio francofortana dei Moralia del 1599, I. Chauncy effettuò a calco la traduzione inglese Concerning the Vertues of women, mentre D.A. Wyttenbach, nelle sue Animadversiones al testo del Mulierum Virtutes, tentò di interpretare la denominazione Γυναικῶν ἀρεταί parafrasandola con “de fortibus factis mulierum, unde harum virtutes cognoscuntur”; cfr. W. Xylander, Plutarchi Chaeronensis Moralia, quae usurpantur (Basileae: Guarinus, 1570); I. Chauncy, Plutarch’s Morals translated from greek by several hands, vol. II (London: Braddyll, 1704); Wyttenbach, Animadversiones, 2. Ad avviso di K. O’Brien Wicker, “the concept of ἀρετή that Plutarch uses in the Mulierum Virtutes embraces both the homeric concept of courageous achievement and the notion of intellectual and moral excellence found in the philosophical tradition”; O’Brien Wicker, “Mulierum Virtutes”, 113. Come rilevato da Wyttenbach e Boulogne, oltre ai problemi inerenti alla struttura dell’opera, sussistono anomalie anche in riferimento alla tradizione dei titoli di diversi episodi dell’opuscolo (storie 10, 12, 14, 15, 23 e 27). L’effettiva paternità plutarchea di una parte o del complesso dei titoli delle storie comprese nel Mulierum Virtutes è tuttora oggetto di discussione; cfr. Wyttenbach, Animadversiones, 11; Boulogne, Plutarque, 298. I termini di riferimento sono la titolazione del Catalogo di Lampria (III–IV sec. d.C.) e quella planudea (XIII sec.); il titolo presente nel Catalogo di Lampria potrebbe essere il prodotto di una compilazione di carattere scolastico (e non bibliotecario) tardo-antica, forse di matrice orientale (e di influsso cristiano, nel cui immaginario dottrinale potrebbe spiegarsi la definizione di ἀρετή come condotta virtuosa; cfr. anche LSJ, s.v. ἀρετή) e di larga circolazione, vista la fortuna riscossa fin nei modelli e nell’edizione di Planude. Anche la ricezione dell’autore in un determinato periodo storico, o in particolari temperie culturali, ha giocato un ruolo fondamentale nella titolazione dell’opuscolo: l’interesse per l’erudizione ed i cataloghi di personaggi celebri dell’epoca umanistico-rinascimentale, ad esempio, ha portato prima A. Rinuccini, e in seguito D. Gracián e G. Tarcagnota, a tradurre il titolo Γυναικῶν ἀρεταί rispettivamente in De Virtutibus Mulierum sive De claris muleribus, De las illustres mugeres e De le donne illustri; cfr. Rinuccini, De claris mulieribus; D. Gracián, Morales de Plutarco, traduzidos de lengua griega en castellana (Alcalá de Hernares: 1548); G. Tarcagnota, Seconda parte de le cose morali di Plutarcho in Alcuni opusculetti de le Cose morali del diuino Plutarco in questa nostra lingua nuovamente tradotti

il titolo dell’opera

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A questo punto riveste una primaria importanza l’esame di una sezione dell’opuscolo mitografico greco intitolato Περὶ ἀπίστων17 (e meglio conosciuto come Excerpta Vaticana o Anonymus De incredibilibus), composto di XXIII capitoletti18, il cui unico testimone è il codice Vaticano greco 30519. In particolare il capitolo VIII, intitolato Περὶ τῆς χιμαίρας, a proposito della figura mitologica della Chimera, riferisce: Περὶ τῆς χιμαίρας, οὕτω φησὶ Πλούταρχος ἐν τῷ μονοβίβλῳ τῷ περὶ ἀρετῆς γυναικῶν20 e subito dopo continua: τὴν Χίμαιραν ὄρος ἀντήλιον γεγονέναι φησί, καὶ ποιεῖν ἀνακλάσεις καὶ ἀνακαύσεις ἐν τῷ θέρει χαλεπὰς καὶ πυρώδεις, ὑφ᾿ ὧν ἀνὰ τὸ πεδίον σκεδαννυμένων μαραίνεσθαι τοὺς καρπούς, τὸν δὲ Βελλεροφόντην συμφρονήσαντα διακόψαι τοῦ κρημνοῦ τὸ λειότατον καὶ μάλιστα τὸ τὰς

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(Venetia: Giglio, 1549). Contrariamente a tale tendenza rinascimentale, che accentuava il carattere catalogico dell’opuscolo, C. Lascaris ritradusse in greco la versio latina De Virtutibus Mulierum sive De claris muleribus di Rinuccini, intitolandola περὶ ἀρετῶν γυναικῶν (tale traduzione è conservata nel cod. Matr. 4621 (78) della Biblioteca Nacional de Madrid, ff. 24–34); cfr. Guzmán Guerra, “De virtutibus mulierum”, 265–270; Martínez Manzano, “Las retraducciones”, 13–14. Per la ricezione e fortuna europea del Mulierum Virtutes cfr. anche Hahn, “Γυναικῶν ἀρεταί”, 87–101; Aulotte, Amyot et Plutarque, 69–79; 267–268; 330; 339–340; A. Pérez Jiménez, “Plutarco y el humanismo espaňol del Renacimiento”, in A. Pérez Jiménez–G. Del Cerro Calderón (eds.), Estudios sobre Plutarco: obra y tradición, Fuengirola 1988 (Málaga: Sociedad Espaňola de Plutarquistas, 1990) 229–247; Morales Ortiz, Plutarco en España, 75–97; 255–352; Volpe Cacciatore, L’eredità di Plutarco, 21–23; V. Paci, “Tradizione, novità”, 65–80; F. Becchi, “Le traduzioni latine dei Moralia di Plutarco tra XIII e XVI secolo”, in P. Volpe Cacciatore (ed.), Plutarco nelle traduzioni latine di età umanistica (Napoli: D’Auria, 2009) 11–52; Tanga, “Alamanno Rinuccini traduce”, 39–64; Tanga, “Una citazione euripidea”, 167–179. Si tratta di un compendio di testi estratti da diverse opere; cfr. L. Allatius (ed.), Excerpta Varia Graecorum Sophistarum ac Rhetorum (Romae: 1641); A. Westermann (ed.), ΜΥΘΟΓΡΑΦΟΙ, Scriptores Poeticae Historiae Graeci (Brunsvigae: 1843) XV; 322–323; N. Festa, Mythographi graeci III.2 (Leipzig: Bibliotheca Teubneriana, 1902) LII–LIII; 91; M. Sanz Morales, “Las fuentes del opúsculo mitográfico De incredibilibus y un posible testimonio desconocido de Helánico de Lesbos”, Myrtia 13 (1998) 137–138. Le fonti di quattordici capitoli sono stati identificate, mentre dei restanti nove testi non c’è traccia in alcuna opera greca conosciuta; cfr. Sanz Morales, “Las fuentes”, 137. Cfr. anche M. Sanz Morales (ed.), Eratóstenes, Partenio, Antonino Liberal, Paléfato, Heráclito, Anónimo Vaticano. Mitógrafos Griegos (Madrid: AKAL Ediciones, 2002) 283–302. Vergato verosimilmente nel 1269 da Theophylactus Saponopulos, quindi di redazione di qualche decennio anteriore ai manoscritti planudei (o di matrice planudea) che sono finora i più antichi testimoni del Mulierum Virtutes (Ambrosianus C 126 inf. -gr. 859-, a. 1294; Parisinus gr. 1671, a. 1296; Parisinus gr. 1672, ca. 1360; Vaticanus gr. 139, a. 1296 ca.). Tale manoscritto contiene inoltre opere di Apollodoro di Atene, Antonino Liberale, Partenio di Nicea, Pseudo–Palefato, Eratostene di Cirene ed Eraclito mitografo; M. D’Ambrosi, Teodoro Prodromo. I tetrastici giambici ed esametrici sugli episodi principali della vita di Gregorio Nazianzeno (Roma: 2008) 107–110. Westermann, ΜΥΘΟΓΡΑΦΟΙ, 322.

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ἀνακλάσεις ἀποστέλλον21, riportando quasi alla lettera un estratto22 della storia del Mulierum Virtutes plutarcheo dedicata alle donne di Licia23, in cui si narra la versione24 del mito secondo cui Chimera era il nome di una montagna esposta al sole, che produceva riflessi e vampate di calore pericolose ed ardenti dagli effetti devastanti per la popolazione ed il raccolto. Il mito ricordava pure che Bellerofonte avrebbe tagliato la parte più levigata del monte, che recava il danno principale in quanto rimandava maggiormente indietro i riflessi dei raggi solari. Un riferimento così preciso alla fonte dell’episodio25, ed in particolare ad un determinato μονόβιβλος di Plutarco, compiuto da un autore26 collocabile nel VII secolo27, oltre a presentare il testo del Mulierum Virtutes nella versione fruibile al tempo della compilazione del Περὶ ἀπίστων28, permette di 21 22

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Westermann, ΜΥΘΟΓΡΑΦΟΙ, 322–323. τὴν λεγομένην Χίμαιραν ὄρος ἀντήλιον γεγονέναι φασὶ, καὶ ποιεῖν ἀνακλάσεις καὶ ἀνακαύσεις ἐν τῷ ὄρει χαλεπὰς καὶ πυρώδεις, ὑφ᾿ ὧν ἀνὰ τὸ πεδίον σκεδαννυμένων μαραίνεσθαι τοὺς καρπούς, τὸν δὲ Βελλεροφόντην συμφρονήσαντα διακόψαι τοῦ κρημνοῦ τὸ λειότατον καὶ μάλιστα τὰς ἀνακλάσεις ἀνταποστέλλον (Plu. Mul. Virt. 248C3–7). Cfr. anche Wyttenbach, Animadversiones. Le uniche varianti dell’anonimo Περὶ ἀπίστων rispetto al testo del Mulierum Virtutes sono la presenza del termine θέρει in sostituzione di ὄρει tramandato dalla totalità dei codici plutarchei (il che lascia pensare ad una confusione tra le lettere θ ed ο verificatasi, come spesso accadeva, in un codice vergato in maiuscola), e la evidente banalizzazione della lezione τὰς ἀνακλάσεις ἀνταποστέλλον (tramandata da tutti i testimoni del Γυναικῶν ἀρεταί) in τὸ τὰς ἀνακλάσεις ἀποστέλλον (o in τὸ τὰς ἀνακλάσεις ἀποστέλλειν; Festa, Mythographi, 91). Storia intitolata Λύκιαι; Mul. Virt. 247F1–248D7. Nella medesima storia Plutarco riporta altre due versioni differenti riguardo alla vicenda della Chimera e di Bellerofonte; cfr. anche Stadter, An analysis, 68–73. Anonymus De incredib. XI, poi, riproduce una sezione degli Strategemata di Polieno (1.2); cfr. Sanz Morales, “Las fuentes”, 149. Questa opera del retore macedone è stata inoltre oggetto di numerosi studi per cercare di stabilire un rapporto di dipendenza con il Mulierum Virtutes di Plutarco per quanto concerne l’utilizzo delle fonti storiche. Per Polieno e per uno status quaestionis sui suoi rapporti con Plutarco cfr. Stadter, An analysis, 125–140 e Boulogne, Plutarque, 29–38. O, nel caso, da una fonte intermedia. Wellmann lo ha ritenuto contemporaneo di Giovanni di Antiochia, autore del VII secolo, basandosi sul fatto che entrambi citano Carax di Pergamo. Inoltre la compilazione è sicuramente successiva al 485 d.C., anno del decesso di Proclo, autore citato nel capitolo 21; cfr. M. Wellmann, “Anonymi 7d”, R.E. I.2 (1894) 2327–2328; Sanz Morales, “Las fuentes”, 137–138. Mettendo in rilievo importanti varianti testuali assenti nella totalità dei testimoni di questo opuscolo (dunque anche nella stratificazione pre-planudea testimoniata dal cod. Vindobonensis phil. gr. 46, ritenuto da Sieveking “descriptum esse ex libro, quo Planudes in componendo corpore Plutarcheo usus est”; Sieveking, “Praefatio”, XXV. In merito a tale manoscritto cfr. anche Martano–Tirelli, Plutarco, Precetti, 38–39; Martinelli Tempesta, Studi sulla tradizione, 93; Becchi, Plutarco, La fortuna, 89) ed attribuibili probabilmente alla tradizione antica del testo plutarcheo, o all’intervento dell’autore stesso del catalogo,

il titolo dell’opera

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supporre che il compilatore, o la fonte da cui egli attingeva, potesse contare su una conoscenza diretta, o al più indiretta, ma pur sempre piuttosto dettagliata e approfondita, dell’opera plutarchea tuttora conosciuta come Γυναικῶν ἀρεταί. E, proprio per tale ragione, l’esplicito richiamo, da parte dell’ Anonymus De incredibilibus, ad un’opera composta da Plutarco ed intitolata Περὶ ἀρετῆς γυναικῶν, avvalora l’ipotesi di una circolazione tardoantica29 sotto questa denominazione dell’opuscolo plutarcheo in questione, e inoltre, l’attestazione fornita da una fonte collocabile in un’epoca comunque relativamente vicina30 al periodo di composizione, consente di restituire all’opera un titolo provvisto di una certa attendibilità e verosimilmente coerente con quanto dichiarato dall’autore. Naturalmente questo non esclude che l’opera possa esser circolata senza aver mai ricevuto un vero e proprio titolo da parte dell’autore, anzi rafforza l’idea che, in mancanza di una prestabilita definizione, essa possa esser stata a lungo intitolata, indicata o citata esclusivamente tramite l’incipit31

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o forse alla modifica del brano da parte di una fonte intermedia. In base alle affermazioni di Westermann, che ritiene il catalogo di incredibilia un “libellus idoneus ad puerilem institutionem” (Westermann, ΜΥΘΟΓΡΑΦΟΙ, XI), non pare recondita l’ipotesi di un intervento sul testo, ex ingenio o con l’ausilio dei thesauri poetarum utilizzati all’epoca, da parte di un istitutore scolastico. Westermann, inoltre, ritrae dei maestri di scuola intenti ad “amplificare, exornare, interpolare”, ma anche “recidere, contrahere” ed “excerpere” i testi degli autori antichi, che avevano a propria disposizione tramite antologie, florilegi o manoscritti di varia qualità; cfr. Westermann, ΜΥΘΟΓΡΑΦΟΙ, XI–XII. Resta, invece, molto difficile da stabilire se il presunto testimone tardoantico di questa versione leggermente differente di Plu. Mul. Virt. 248C possa essere stato sottoposto o meno al vaglio della équipe che allestì i codici planudei contenenti il Γυναικῶν ἀρεταί. Singola, o in gruppi di opere accomunate da una qualche prerogativa tematica o strutturale. Già nel Catalogo di Lampria pare visibile un tentativo di sistemazione dei titoli in blocchi tematici; I. Gallo, “La tradizione manoscritta dei Moralia: linee generali”, in A. Garzya–G. Giangrande–M. Manfredini (eds.), Sulla tradizione manoscritta dei Moralia di Plutarco, Atti del Convegno (Salerno, 4–5 dicembre 1986) (Napoli: D’Auria, 1988) 9–38; Garzya, “La tradizione manoscritta”, 13; I. Gallo, “Ecdotica e critica testuale nei Moralia di Plutarco”, in I. Gallo (ed.), Ricerche plutarchee (Napoli: D’Auria, 1992) 31–37. Diversi secoli più tardi, il retore bizantino Niceforo Basilace (che aveva ben presente l’opera di Plutarco), riferendosi in principio di Progymnasmata 2.3 all’episodio del re Pite, narrato in Mul. Virt. 262D4–263C7, o forse al brevissimo richiamo a re Mida, presente in Public. 15, scrisse διήγημα ὃ καὶ Πλούταρχος ἐν παραλλήλοις διηγεῖται. Cfr. C. Walz (ed.), Rhetores Graeci I (Stuttgart/Leipzig: Cotta, 1832) 430; K. Krumbacher, Geschichte der byzantinischen Litteratur (Münich: 1897) 473–475; A. Garzya (ed.), Nicephori Basilacae Orationes et epistolae (Lipsiae: Bibliotheca Teubneriana, 1984). Wyttenbach sospettò si trattasse di confusione del Mulierum Virtutes con le Vite Parallele (“Παραλλήλοις ab errore profectum sit”; Wyttenbach, Animadversiones, 18), forse ascrivibile a citazione mnemonica o ad una fruizione in corpus unico dell’intera opera del Cheronese. Naturalmente in rapporto a Massimo Planude, che operò circa sei secoli più tardi. L’ incipit dell’opera recita: Περὶ ἀρετῆς, ὦ Κλέα, γυναικῶν οὐ τὴν αὐτὴν τῷ Θουκυδίδῃ γνώμην

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capitolo 2

dell’opuscolo. Quindi, per ovviare ad una definizione che sembra far riferimento alla narrazione di una pluralità di virtù diverse ed indipendenti tra loro, e per rendere la denominazione pienamente coerente con quanto dimostrato nella discussione avuta in precedenza con Clea, pare ragionevole ed opportuno restare fedeli al testo di Plutarco, optando per il titolo Περὶ ἀρετῆς γυναικῶν32,

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ἔχομεν (Mul. Virt. 242E1–2). Anche De liberis educandis, De virtute morali, De tranquillitate animi, De invidia et odio, De laude ipsius, De fato, De facie, De primo frigido e De esu carnium presentano un titolo che riproduce interamente o parzialmente parole iniziali o presenti nella primissima fase dell’opuscolo. In traduzione italiana La virtù delle donne (in francese La vertu des femmes; cfr. Le Corsu, Plutarque, 273). L’abate Ricard, nell’introduzione alla traduzione francese Actions courageuses et vertueuses des femmes, dopo aver ricordato che nel Γυναικῶν ἀρεταί “le mot de vertu ne doit pas se prendre ici dans le sens rigoureux qu’on lui donne ordinairement”, attribuiva all’ἀρετή l’accezione prevalente di “force” e “courage”, quale sintomo di “fermeté et force d’esprit peu communes”; cfr. Ricard, Œuvres Morales. Una linea analoga ha seguito F. Cole Babbitt, che ha preferito tradurre Bravery of women (titolo ritradotto nello spagnolo Hechos virtuosos de mujeres da Ruiz Montero e Jiménez; Ruiz Montero– Jiménez, “Mulierum Virtutes”, 108–109), prediligendo dunque l’unitarietà della virtù, ma circoscrivendola all’audacia e al coraggio; cfr. F. Cole Babbitt (ed.), Plutarch Moralia, vol. III (Cambridge: The Loeb Classical Library, 1931). L’opera, poi, è stata menzionata come Proezas de las mujeres da R. Aguilar (Aguilar, “La mujer, el amor”, 320) e, similmente, Prouesse de femmes da F. Frazier; Frazier, “La prouesse de Camma”, 197–212. Risulta ugualmente improntata all’audacia femminile la più recente traduzione portoghese A coragem das mulheres, realizzata da M. Fialho, P. Barata Dias e C. Cravo da Silva; cfr. M. Fialho–P. Barata Dias–C. Cravo da Silva, A coragem das mulheres (Coimbra: Minerva, 2001). Successivamente F. Brenk, forse in scia a P.A. Stadter (cfr. Stadter, An analysis, passim), ha attribuito all’opuscolo il titolo letterale On the Virtues of Women, interpretando, sulla scorta di McInerney, l’ἀρετή quale “andreia, litterally manliness, but indicating courage, resourcefulness, and the ability to lead”, soprattutto in riferimento ad una idea di “excellence” o a come il concetto latino di virtus originariamente indicasse “virile qualties”; cfr. McInerney, “Chapter fifteen”, 319–344; Brenk, “The Barbarian within”, 96. Sempre Brenk, più recentemente, ha tradotto il titolo dell’opuscolo con il più inequivocabile On the Courage of Women, che propende per una virtù femminile decisamente intesa come ἀνδρεία; cfr. Brenk, “Setting a Good Exemplum”, 248 nota 32. In tal modo, però, (come già riconosciuto da K. O’Brien Wicker, che ha definito “too limiting” il titolo Bravery of women scelto da Babbitt; cfr. O’Brien Wicker, “Mulierum Virtutes”, 113 nota 24) si lascerebbe il sopravvento soltanto ad una delle sfumature, seppur non secondaria, della virtù dimostrata in più circostanze dalle donne descritte nell’opuscolo; cfr. le storie 1, 2, 3, 4, 7, 8, 10, 12, 14, 15, 16, 17, 19, 20, 22, 23, 24 e 26. Piuttosto ambigui e generici, poi, risultano i titoli Virtù di donne, Vertus de femmes, Virtudes de mujeres, Virtues in Women, Αρετές Γυναικών, Vertus de femmes e Virtù delle donne scelti da M. Adriani (seguito da I. Berti; cfr. Lelli–Pisani, Plutarco, 453), V. Bétolaud, M. López–Salvá, D. Russell, Κ.Α. Μόσχου, P. Schmitt–Pantel e F. Chiossone; cfr. Adriani, Opuscoli di Plutarco, 209; V. Bétolaud, Œuvres complètes de Plutarque, Œuvres Morales et Œuvres Diverses, traduites en français, tome premier (Paris: Hachette, 1870); López Salvá–Medel, Plutarco. Obras morales; D. Russell, Plutarch: Selected

il titolo dell’opera

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che riproduce le parole iniziali dell’opera e sintetizza a pieno i reali propositi dell’autore. Essays and Dialogues (Oxford/New York: Oxford University Press, 1993) 307; Κ.Α. Μόσχου– Ι.Σ. Χριστοδούλου (eds.), Πλούταρχος, Γυναικῶν ἀρεταί / Πλατωνικὰ Ζητήματα (Thessaloniki: Ζήτρος, 2002) 163; Schmitt–Pantel, “Autour du traité”, 39–60; Chiossone, Plutarco, Virtù. A. Pérez Jiménez ha recentemente ritenuto frutto di un errore di attenzione il titolo De curis muliebribus con cui la Iconologia di Cesare Ripa aveva indicato l’opuscolo plutarcheo; cfr. A. Pérez Jiménez, “Plutarco en la Iconología de Cesare Ripa”, in M. Gabriele–C. Galassi– R. Guerrini (eds.), L’Iconologia di Cesare Ripa. Fonti letterarie e figurative dall’Antichità al Rinascimento. Atti del Convegno internazionale di studi, Certosa di Pontignano, 3–4 maggio 2012 (Firenze: Olschki, 2013) 24.

capitolo 3

Lo stile dell’opera Plutarco ha composto il Γυναικῶν ἀρεταί rifunzionalizzando in struttura narrativa unitaria e rivisitando in forma ornata una congerie di ὑπομνήματα, excerpta, riscontri documentari e scampoli di letture ed indagini di varia natura e provenienza. Un simile procedimento comporta una forte consapevolezza stilistica1 e coscienza pedagogico-letteraria che, nell’intento di rendere attraente ed uniforme una materia narrativa composita, confessa preventivamente il ricorso alle Χάριτες e all’ausilio del piacere dell’ascolto e del τέρπον παραδείγματος. La rielaborazione stilistica di contenuti già conosciuti e praticati dall’autore si configura principalmente in una sintassi talora ampia ed articolata, in costruzioni dicotomiche2 spesso poggiate sulla correlazione μέν-δέ, nella realizzazione di eleganti verbi composti con ἐκ, πρός, διά, ἐν, nell’utilizzo di particolari formule e combinazioni terminologiche e nel ricorrente artifizio della figura etymologica3. L’elocuzione, strutturata alternando λέξις εἰρομένη alla λέξις κατεστραμμένη4, si svolge secondo una varietas operativa che non segue un preciso ordine tematico, mentre emerge una tendenza stilistica a qualificare la virtù spesso tramite endiadi5, perifrasi6, raggruppamenti7 e giustapposizioni8, in costruzioni simmetriche spesso binarie e strutture parallele9.

1 Per l’atteggiamento pratico di Plutarco nei confronti della retorica, cfr. Ziegler, Plutarco, 349– 360 e, in particolare, 355. 2 Cfr. J.D. Denniston, Lo stile della prosa greca, ed. it. E. Renna, con una premessa di M. Gigante (Bari: Levante, 21993 [1952]) 160–186. 3 Cfr. Dinse, De libello Plutarchi, 12–13. 4 Cfr. anche Denniston, Lo stile, 97–100. 5 Cfr. 247A3. Cfr. anche Denniston, Lo stile, 101–103. 6 Cfr. 249C5–6; 250A3; 255E4. 7 Per i raggruppamenti cfr. 250D3–4; 250F1; 260C2–3; 261D3–4 e 258F6. Ricorrono sintagmi che rimandano alla tecnica dei clusters individuata da C.B.R. Pelling, che si concretizza nel Mulierum Virtutes come “reagrupación de conceptos que, sin ser verdaderamente sinónimos, ejercen entre ellos un sentido reciproco” (Ruiz Montero–Jiménez, “Mulierum Virtutes”, 109– 111). Cfr. anche T.S. Schmidt, “La rhétorique des doublets chez Plutarque: le cas de βάρβαρος καὶ […]”, in L. Van Der Stockt (ed.), Rhetorical theory and praxis in Plutarch – Acta of the IVth International Congress of the International Plutarch Society (Leuven, July 3–6, 1996) (Louvain/Namur: Peeters, 2000) 455–464. 8 Cfr. Denniston, Lo stile, 112–120 e Ruiz Montero–Jiménez, “Mulierum Virtutes”, 110. 9 Cfr. anche Schmidt, “La rhétorique”, 455–464.

© koninklijke brill nv, leiden, 2020 | doi:10.1163/9789004409750_005

lo stile dell’opera

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Tuttavia la frequentissima accumulazione sinonimica10, residuo senza dubbio di un’impostazione dialogico-didattica dell’opera, lungi dal costituire un meccanismo di coesione linguistica atto a produrre processi di ampliamento di carattere descrittivo ed emotivo, spesso appesantisce il testo rendendolo ridondante. Inoltre la aequabilitas sermonis11, pur mirando ad ottenere unitarietà interpretativa ed uniformità di contenuti tramite scelte lessicali omogenee, in realtà denuncia una stretta contiguità tematica e diegetica delle vicende storiche narrate e non soltanto una ricercata raffinatezza stilistica. Indubbiamente, peculiarità specifiche quali la sostantivizzazione dell’aggettivo neutro, la presenza frequente di gruppi di sinonimi e l’impiego di domande retoriche sono frutto del gusto atticistico dell’autore12. Quindi l’eleganza del ductus, contemplata nelle modalità espressive dell’autore, risulta coniugata con una rapidità di stesura i cui connotati di trascuratezza13 sembrano riconducibili ad una parziale o incompleta revisione finale dell’opera. Per quanto riguarda lo iato, lungi dalla persecuzione ed eliminazione totale messa in atto dagli editori normativi14 e dal dichiarare che Plutarco non lo evitasse affatto15, considerando che nell’opuscolo il fenomeno riguarda preva-

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Cfr. Dinse, De libello Plutarchi, 14–18. M. Dinse parlava di “sermonis aequabilitas, in qua nulla est verborum varietas et discrepantia quotienscunque auctor rem eandem significaturus est”; Dinse, De libello Plutarchi, 12–13. Per altre prerogative stilistiche riconducibili al gusto atticistico di Plutarco cfr. Weissenberger, La lingua di Plutarco, 11–22. Lo stesso C.G. Cobet, che negò convintamente e ripetutamente la paternità plutarchea del Mulierum Virtutes in quanto “scriptus est oratione et stilo multo nitidiore et elegantiore, quam Plutarchus uti solet”, riconosceva l’opuscolo come “multis etiam nunc mendis erroribusque commacolatus”. J. Boulogne, invece, in base alla ricorrenza di τοίνυν e δέ nella fase iniziale dei singoli episodi, ha ritenuto che l’opuscolo sia stato “rédigé d’un trait”. Cfr. Dinse, De libello Plutarchi, 1–10 e Boulogne, Plutarque, 20. In particolare, si sono distinti nell’impegno ad eliminare ogni traccia di iato dall’opera di Plutarco i curatori delle varie edizioni di Vite e Moralia allestite a Lipsia per la Collana della “Bibliotheca Teubneriana”. Tale rigido indirizzo operativo ha riscosso un discreto seguito fino agli inizi degli anni’90, per poi essere messo in discussione soprattutto negli ultimi due decenni. Giangrande ha mostrato come infondate le teorie introdotte dall’indirizzo normativo ottocentesco, ritenendo che Plutarco non avesse evitato lo iato; G. Giangrande, “La lingua dei Moralia di Plutarco: normativismo e questioni di metodo”, in I. Gallo–R. Laurenti (eds.), I Moralia di Plutarco tra filologia e filosofia. Atti della giornata plutarchea di Napoli, Istituto Suor Orsola Benincasa, 10 aprile 1992 (Napoli: D’Auria, 1992) 29–46, in particolare 32–33. Secondo Barigazzi, invece, tale idea era il prodotto di un assolutismo opposto all’esa-

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capitolo 3

lentemente le particelle connettive16, che il Cheronese seguì solo in parte la regola dello iato, senza elevarla a norma di osservanza sistematica ed uniforme nell’arco della sua produzione letteraria e nel complesso dei generi letterari percorsi17, e ricordando come lo scrittore avesse criticato coloro che non sopportano l’incontro di due vocali all’interno dello stesso discorso18, è sembrato un ragionevole compromesso la scelta ecdotica di ripristinare la lezione dei codici19 che tramandano l’opuscolo, soprattutto nell’intento di non trivializzare il testo dell’opera tramite correzioni ex post. Probabilmente la scriptio plena, o in gran parte20 plena, dei codici non costituiva un problema agli occhi di chi compilava i manoscritti, visto il grande riscontro di segni convenzionali21, così come le consuetudini grafiche dei copisti in merito allo iato, così uniformi22 all’interno di codici vergati in secoli piuttosto distanti, potrebbero forse riprodurre in larga parte proprio l’usus auctoris che le prevenzioni degli editori normativi hanno a lungo tempo artificiosamente oscurato.

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gerazione normativistica nell’eliminazione dello iato; A. Barigazzi, “Il Corpus Plutarchi Moralium: riflessioni e proposte”, in I. Gallo–R. Laurenti (eds.), I Moralia di Plutarco tra filologia e filosofia, Atti della giornata plutarchea di Napoli, Istituto Suor Orsola Benincasa, 10 aprile 1992 (Napoli: D’Auria, 1992) 49. Cfr. anche M. Grimaldi (ed.), Plutarco, La malignità di Erodoto (Napoli: D’Auria, 2004)19. L’uso dello iato sarebbe stato più frequente all’interno dei Moralia, in quanto redatti alla stregua di “Unterhaltungsliteratur”; cfr. G. Giangrande, “Linguaggio e struttura nelle Amatoriae Narrationes”, in G. D’Ippolito–I. Gallo (eds.), Strutture formali dei “Moralia” di Plutarco, Atti del III Convegno Plutarcheo, Palermo, 3–5 Maggio 1989 (Napoli: D’Auria, 1991) 273–294. Riferendosi con grossa probabilità ad Isocrate (che imponeva ai propri discepoli di evitare lo iato; cfr. De Glor. Atheniens. 350E), Plutarco, in De vit. pud. 534F–535A, asseriva con tono polemico e quasi canzonatorio ἐνίους γοῦν ὁρῶμεν οὐδὲ φωνήεντι συγκροῦσαι φωνῆεν ἐν τῷ λέγειν ὑπομένοντας. Cfr. anche P. Volpe Cacciatore (ed.), Plutarco, L’eccessiva arrendevolezza (Napoli: D’Auria, 1994) 76–77; 105. Tuttavia, non va sopravvalutato l’intento meramente provocatorio di questa citazione, per non rischiare di conferire un significato totalizzante a quella che poteva essere anche solo una boutade scolastico-esemplificativa. Nei testimoni del Mulierum Virtutes vergati tra il 1294 ed il tardo XV secolo si riscontra una certa uniformità diacronica di scelte nei confronti dello iato, forse ascrivibile ad una percezione sonora che travalicava il gusto delle varie epoche e le prescrizioni della trattatistica antica, e che il buon senso di un editore moderno non dovrebbe trascurare. All’interno dei manoscritti gli iati grafici sono mantenuti nei due terzi dei casi. Come ha fatto notare A. Tirelli; cfr. Tirelli, Plutarco, Ad un governante, 52 nota 127. In riferimento alle consuetudini grafiche sullo iato adottate dai copisti del Mulierum Virtutes, si riscontra un consensus codicum piuttosto diffuso, anche tra manoscritti allestiti in secoli distanti. Se Indelli ha ipotizzato che la scrittura dei copisti potesse essere quella di Plutarco, la scelta di seguire i codici, se non altro, evita gratuite manomissioni; cfr. G. Indelli (ed.), Plutarco, Le bestie sono esseri razionali (Napoli: D’Auria, 1995) 39; Tirelli, Plutarco, Ad un governante, 52.

lo stile dell’opera

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Nel testo predomina la diegesi pura in terza persona, concretizzata da un narratore primario ed onnisciente che interviene in qualsiasi momento per evidenziare la virtù femminile23, mentre la complessità narrativa cresce poco per volta, con il ricorso sempre maggiore al discorso diretto24 e l’inserimento di brevi caratterizzazioni dei personaggi25, dilatando di conseguenza la trama di poco e senza venir meno ad un principio di “massima economia narrativa” che sembra pervadere l’intero opuscolo26. 23 24 25

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Ruiz Montero–Jiménez, “Mulierum Virtutes”, 109–110. Cfr. storie 5, 15, 16, 19, 20, 22, 24, 26 e 27. Cfr. storie 4, 7, 14, 15, 18, 19, 20, 21, 23, 25 per le caratterizzazioni di personaggi femminili, e le storie 5, 7, 9, 14, 15, 16, 18, 19, 22, 23, 24, 25 e 26 per le caratterizzazioni di personaggi maschili. Cfr. Ruiz Montero–Jiménez, “Mulierum Virtutes”, 106–107.

capitolo 4

Plutarco e le donne nel Mulierum Virtutes Nella sezione introduttiva del Mulierum Virtutes Plutarco afferma di aver messo per iscritto τὰ ὑπόλοιπα di una conversazione precedentemente avuta con Clea εἰς τὸ μίαν εἶναι καὶ τὴν αὐτὴν ἀνδρός τε καὶ γυναικὸς ἀρετήν, aggiungendovi una ricca e varia appendice di carattere ἱστορικὸν ἀποδεικτικόν, ma senza avere come obiettivo principale il mero piacere dell’ascolto1. Poi il Cheronese, riconoscendo che τῷ πείθοντι καὶ τὸ τέρπον ἔνεστι φύσει τοῦ παραδείγματος, dichiara di non rifuggire dall’adoperare l’amabilità dell’esposizione e del contenuto in supporto alla dimostrazione2. Quindi, di fatto, l’autore si serve di un grande e composito serbatoio di “effetti speciali”3 e digressioni di diversa entità4 che contribuiscono ad alimentare l’interesse ed il coinvolgimento del fruitore e nel contempo a spogliare l’opera dalle sembianze di un arido e ripetitivo catalogo. E proprio in questa ottica vanno osservate le molteplici peripezie in cui incorrono le donne narrate nell’opuscolo, che mettono spesso le protagoniste in condizione di agire in disparati contesti ed affrontare situazioni di difficoltà o pericolo, estrinsecando le proprie qualità migliori. Inoltre le condotte meritorie, oltre che per il coraggio5, l’eroismo, il senso di responsabilità, la dignità e l’onore femminili6, spesso passano anche attraverso sotterfugi, tradimenti, delazioni, inganni, falsità e vendette7 la cui orchestrazione desta senza dubbio un particolare scalpore. In rapporto al sesso maschile, poi, le donne dell’opera sono ritratte in dinamiche di innamoramento, fidanzamento, matrimonio, vedovanza e talora nello status materno, mentre all’interno delle vicende di virtù corale sono considerate come collettività indistinta.

1 Plu. Mul. Virt. 242F2–243A2. 2 Inoltre, Plutarco afferma anche: οὐ φεύγει χάριν ἀποδείξεως συνεργὸν ὁ λόγος οὐδ᾿ αἰσχύνεται ‘ταῖς Μούσαις τὰς Χάριτας συγκαταμιγνὺς καλλίστην συζυγίαν’, ὡς Εὐριπίδης φησίν; Mul. Virt. 243A3–5. 3 Cfr. storie 1, 2, 3, 4, 5, 7, 8, 9, 14, 15, 16, 17, 19, 20, 22, 24, 25, 27. 4 Cfr. storie 1, 3, 4, 8, 9, 14, 15, 19, 24, 25, 26, 27. 5 Per un’analisi del coraggio e dell’intelligenza negli eroi plutarchei, cfr. Frazier, Histoire et Morale, 197–230. 6 Cfr. storie 2, 3, 4, 5, 6, 9, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 21, 23, 27. 7 Cfr. storie 1, 7, 8, 10, 17, 18, 19, 20, 22, 24, 25, 26.

© koninklijke brill nv, leiden, 2020 | doi:10.1163/9789004409750_006

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Soprattutto K. Blomqvist8 e P.A. Stadter9, all’interno di diversi contributi, hanno riconosciuto un ruolo fortemente marginale alle donne descritte in varie sedi da Plutarco, ma, come si osserva in questa opera, i personaggi femminili rivestono nelle varie circostanze un ruolo di protagonista assoluto, la cui importanza risulta talora attenuata solo dalle ridotte dimensioni dell’episodio, o dall’esigenza di trattare in maniera approfondita ed esaustiva intrecci sempre differenti e ricchi di personaggi ed eventi di rilievo. Inoltre le donne, artefici di atti virtuosi individuali o di gruppo, non costituiscono un fenomeno di portata eccezionale10, ma danno prova della normalità 8 9

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Cfr. Blomqvist, “From Olympias to Aretaphila”, 73–97. Cfr. P.A. Stadter, “Philosophos kai philandros: Plutarch’s view of Women in the Moralia and the Lives”, in S.B. Pomeroy (ed.), Plutarch’s Advice to the Bride and Groom and A consolation to his Wife, English translations, Commentary, Interpretive Essays, and Bibliography (New York/Oxford: Oxford University Press, 1999) 173–182. Come ha ritenuto P. Walcot, che ha riconosciuto nelle donne del Mulierum Virtutes degli esempi tanto eccezionali quanto inspiegabili di virtù femminile. Plutarco, piuttosto, sembra limitarsi ad osservare la molteplice realtà del mondo femminile, narrandone e contemplandone di volta in volta comportamenti di carattere positivo o negativo, senza che questo implichi una pregiudiziale ed univoca visione della donna quale un essere “deceitful, savage, sexually insatiable, frivolous and gossips”, capace solo di rari slanci virtuosi; cfr. P. Walcot, “Plutarch on women”, SO 74 (1999) 163–164; 165–183. Inoltre, una testimonianza chiara ed attendibile di un’osservazione esente da pregiudizi della varietas del mondo femminile nella sua interezza, da parte del Cheronese, è costituita anche dall’ampia ricognizione effettuata da F. Le Corsu sulle donne descritte nelle Vite Parallele di Plutarco, che presenta una nutrita gamma di lodevoli e virtuosi personaggi femminili; cfr. Le Corsu, Plutarque, 11–24; 25–84; 99–128 e 270–274. Sull’argomento, se P.A. Stadter affermava: “Plutarch had a low opinion of women”, e J. Boulogne ha parlato di “égalité dans la dissemblance” tra uomo e donna, riconoscendo che Plutarco nutriva grande stima e rispetto per la preparazione culturale di Clea e Leontis, K. Ziegler riteneva impossibile negare la virtù delle donne, mentre si è rivelata molto opportuna l’analisi di W. Lee Odom, che ha mostrato Plutarco intento a narrare indifferentemente potenzialità, peculiarità ed errori delle donne. In seguito Y. Vernière ha parlato di un Plutarco “précurseur du féminisme”, così come Nikolaidis ha notato che gli scritti stessi di Plutarco “as a whole that demonstrate his exceptionally keen interest in and favourable attitude toward women”, e che le sue “attitudes to women foreshadow some of the most essential aspects of modern feminism”. L’attenzione verso le donne nel corpus Plutarcheum, tuttavia, andrebbe riconsiderata seguendo lo spirito di osservazione, la varietas letteraria e tematica, il vaglio delle fonti storiografiche, il contesto familiare ed amicale, la pratica dossografica e la sensibilità religiosa e filosofico-moralistica del Cheronese. Cfr. W. Lee Odom, A study of Plutarch: the position of Greek women in the first century after Christ (Diss., University of Virginia, 1961) 101–118; Stadter, An analysis, 5; Ziegler, Plutarco, 163; 196; 304; Y. Vernière, “Plutarque et les femmes”, The Ancient World 25 (1994) 165; Nikolaidis, “Plutarch on Women”, 31; 87–88; J. Boulogne, “Plutarque et l’education des femmes”, in M. Jufresa–F. Mestre– P. Gómez–P. Gilabert (eds.), Plutarc a la seva època: Paideia i societat (Actas del VIII Simposio Internacional de la sociedad Española de Plutarquistas, Barcelona, 6–8 de noviembre

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capitolo 4

di figure femminili, che, seppur tra alti e bassi, in silenziosa e quotidiana operosità portano il proprio contributo alla risoluzione delle più disparate ed intricate problematiche. Quando entrano in gioco la difesa dell’onore e della libertà personale, l’interesse della patria e della famiglia, il benessere dei concittadini, il rispetto del culto religioso e la salvezza dell’uomo amato, scende in campo la donna ad esercitare una funzione pienamente attiva e propulsiva, condizionando in modo decisivo l’ambiente circostante attraverso la propria capacità di agire con autonomia e senza inibizioni di sorta. I palcoscenici dell’azione sono rappresentati da momenti di crisi11 in cui l’intervento femminile porta un soccorso salvifico in contesti di violenza e soprusi12, contribuendo ad apportare armonia e svolgendo un compito che Plutarco riconosce alla dignità femminile e, in particolare, nell’ambito del rapporto di fecondo interscambio, non solo affettivo, con il mondo maschile. Dunque, l’onere di supplire alle negligenze dell’uomo e l’operare sempre in favore della decenza, della semplicità, della pace e della libertà rende merito, in Plutarco, all’essere femminile; la fondamentale complementarità della donna si esplicita in una sostanziale e paritaria comunanza di potenzialità, e trova una realizzazione scevra da vicendevoli invasioni di campo e priva di vincoli di inferiorità legati a problematiche di natura prettamente fisica13. L’evidenza fornita da un simile contesto sembra negare recisamente una posizione secondaria e marginale della donna, e Plutarco, trovandosi ad affrontare in maniera specifica la questione all’interno di questa opera, la risolve lasciando trasparire chiaramente una virtù che si manifesta in modi e secondo sfumature diverse, a causa dei differenti ruoli e delle relative posizioni consolidate nel corso del tempo e anche nell’ambito dei rapporti di interazione sociale e familiare tra uomo e donna14. I presupposti metodologici enunciati

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2003) (Barcelona: 2005) 225–234; Tanga, “Plutarco e le donne”, 105–113. Per un’estesa bibliografia sull’argomento cfr. anche Nikolaidis, “Plutarch on Women”, 27–30. Cfr. storie 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 23, 25, 27. Come notato da C. Ruiz Montero e A.M. Jiménez, le donne nel Mulierum Virtutes, a volte, affrontano “un hombre, que suele ser descrito como ὠμός, θηριώδης, ἄτεγκτος, ὑβριστής, ἀνόητος, πονηρός y que oprime la libertad de los habitantes de su ciudad y a ella misma”; cfr. G.J.D. Aalders, Plutarch’s political Thought (Amsterdam/Oxford/New York: North Holland Pub. Co., 1982) 33–35; Ruiz Montero–Jiménez, “Mulierum Virtutes”, 116–118. Il Mulierum Virtutes mette ripetutamente in discussione proprio quella inferiorità fisica femminile spesso ritenuta elemento decisivo nel dimostrare la misoginia di Plutarco. Un contesto simile, che mostra donne capaci anche di realizzare valorose azioni belliche, proprio in base alle direttive fornite dal Cheronese nell’introduzione dell’opuscolo, rientra a pieno titolo in una situazione di normalità in cui la virtù maschile e femminile è unica ed identica. Mul. Virt. 243A1: τὸ μίαν εἶναι καὶ τὴν αὐτὴν ἀνδρός τε καὶ γυναικὸς ἀρετήν. Mul. Virt. 243CD.

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da Plutarco nella parte iniziale dell’opuscolo in merito al riconoscimento e alle manifestazioni di una virtù unitaria in uomini e donne15, congiunti alla estrema varietas16 di personaggi, luoghi, epoche ed eventi narrati nel Mulierum Virtutes, permettono di riconoscere alla donna un ruolo di primo piano che riesce a travalicare, in teoria e in pratica, in via generale ed individuale, i confini di un’opera composta proprio allo scopo di narrare e celebrare la virtù dimostrata da personaggi femminili. In primo luogo, nell’introduzione, il Cheronese chiama in causa il talento pittorico e le arti divinatorie a testimonianza delle eguali capacità di uomini e donne17, mentre successivamente prova ad istituire un paragone, mettendo su uno stesso piano illustri personaggi maschili e femminili18 e spiegando come la virtù assuma delle particolari sfumature conformandosi di volta in volta a costumi, temperamento, alimentazione e stile di vita di ogni individuo senza perdere la propria connotazione generale e, di conseguenza, senza implicare per questo una palese od occulta inferiorità femminile19. In tal direzione, risultano molto frequenti le occasioni in cui singoli regnanti, gruppi di personaggi rappresentativi di comunità o intere popolazioni decidono di conferire a donne meritevoli, in qualità di riconoscimento pubblico ed ufficiale, degli attestati di benemerenza quali statue20, lodi21 ed ossequi22, cariche onorifiche23 e celebrazioni eroiche24, fino a concedere sepolture onorevoli e sontuose25 e ad effettuare sacrifici ed atti di deferenza nel tenore di 15 16

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Mul. Virt. 243BD. Nell’impossibilità di effettuare semplicistiche schematizzazioni in contesti talmente disparati (Martano–Tirelli, Plutarco, Precetti, 18), la virtù muliebre rappresenta l’unico vero filo conduttore del testo, superando l’etica catalogico-aneddotica (che propenderebbe a conferire connotati di straordinarietà agli aneddoti selezionati; di “extraordinary situations” aveva parlato K. O’Brien Wicker; cfr. O’Brien Wicker, “Mulierum Virtutes”, 120) sottesa all’opuscolo, per raggiungere uno status di indagine universale sul mondo femminile, che attraversa epoche, luoghi e personaggi riconducibili in vario modo all’antichità grecoromana, o contemplati tra i paesi del vicino Oriente ellenizzato e del Mediterraneo romanizzato. Mul. Virt. 243A6–B6. Cfr. anche Pl. R. 451c–457c. Trattasi di Sesostri, Servio, Bruto, Pelopida, Achille, Aiace, Odisseo, Nestore, Catone ed Agesilao e di Semiramide, Tanaquil, Porzia, Timoclea, Irene, Alcesti, Cornelia ed Olimpiade; Mul. Virt. 243C3–D2. Mul. Virt. 243C5–7; 243D2–4. Mul. Virt. 250F2–3. Mul. Virt. 254E2–4. Mul. Virt. 247A1–2; 257E7–F2; 260D1–6; 261D3–5. Mul. Virt. 262D1–3. Mul. Virt. 255D7–E1. Mul. Virt. 245E4; 254E5.

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quelli dedicati alle divinità26. In questi casi la donna, guadagnata la possibilità di mostrare il proprio valore, riesce a conquistare l’opportunità non solo di eguagliare, ma addirittura di superare l’uomo fino a meritare, grazie al proprio operato, degli onori che nell’immaginario collettivo trascendono la dimensione umana27, dirigendosi verso quella divina. Perciò, se l’audace, determinante e vittoriosa partecipazione al combattimento da parte delle donne di Chio28, Argo29 e Salamanca30 sembra dimostrare che la presenza femminile può risultare utile e decisiva in contesti di guerra31, riducendo di conseguenza al minimo l’impatto pregiudiziale esercitato dalla forza fisica32 nella differenza tra i due sessi, la figura di Clelia33 arriva, seppur in modo isolato, a minare definitivamente qualsiasi presupposto di supremazia maschile che sia basato sull’impos-

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Mul. Virt. 255E1; 257D1. In particolare gli onori eroici ed i sacrifici simili a quelli ricevuti dalle dee, ottenuti da Lampsace dopo il decesso, e la deferenza della popolazione di Cirene, che si prostra ad Aretafila come dinnanzi alla statua di una dea, rappresentano il punto più alto e significativo della celebrazione femminile nel Mulierum Virtutes. P. Stadter e K. Blomqvist, invece, hanno sostenuto un’uguaglianza genericamente o parzialmente sterile tra i sessi e una manifesta inferiorità, inerte passività e subordinata marginalità delle donne raffigurate da Plutarco. Cfr. Blomqvist, “From Olympias to Aretaphila”, 73–97; Stadter, “Philosophos kai philandros”, 173–182. Mul. Virt. 245B1–C3. Mul. Virt. 245D2–E1. In seguito all’eroismo mostrato dalle donne cadute nella battaglia contro gli Spartani, la popolazione di Argo decise di erigere una statua di Enialio come monumento al valore; Plu. Mul. Virt. 245E5. Mul. Virt. 249A2–6. Platone riteneva necessaria un’educazione ginnica (Leg. 804c–805d) e militare (Leg. 805d–806d) delle donne, alla stregua della consuetudine spartana, affermando che, “escludendole dalla preparazione guerresca … esse non saprebbero opporsi, maneggiando con perizia l’arco … o alcuna altra arma da lancio, … brandendo lo scudo e la lancia, a chi minaccia la loro patria, incutendo paura ai nemici col solo mostrarsi inquadrate in schiere” (Leg. 806b–c). Per i pareri discordanti sul femminismo di Platone, che espresse punti di vista contrastanti sulle donne nella Repubblica e nelle Leggi, cfr. Nikolaidis, “Plutarch on Women”, 30 nota 10. Aristotele (Pol. 1269b), invece, considerava inutile, confusionario e nocivo l’apporto delle donne in battaglia, mentre lo stoico Musonio Rufo (alle cui idee sulle donne Plutarco sembrava avvicinarsi molto; cfr. soprattutto la Diatriba IV) credeva che le donne, come dimostrato dalla stirpe delle Amazzoni, partecipassero al valore delle armi e che le eventuali mancanze femminili in campo bellico fossero ascrivibili soltanto a mancanza di esercizio, piuttosto che al difetto naturale di coraggio. Il principio-base musoniano prevede che “tutte le attività umane allo stesso modo sono comuni agli uomini e alle donne e nessuna può essere per forza retaggio esclusivo dell’uno o dell’altro genere”; trad. it. I. Ramelli. Oltre che dalla capacità di elaborare e mettere in pratica strategie in un contesto di conflitto bellico. Mul. Virt. 250C5–F3.

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sibilità, da parte delle donne, di raggiungere una eguale prestanza. La giovane vergine romana, dopo aver tratto in salvo le compagne di prigionia, fu premiata per aver dimostrato audacia e forza superiori degne di lode, ricevendo in dono non solo un cavallo superbamente ornato, a riprova della sua capacità di eguagliare le qualità fisiche e l’ardimento di un autentico guerriero, ma anche la dedica di una statua equestre, fatta erigere dal popolo romano lungo la via Sacra a perenne memoria del suo eroismo34. Plutarco testimonia e sostiene la nobiltà e la centralità delle figure femminili anche nell’episodio dedicato alle Μιλήσιαι35, dove tutte le giovani della città di Mileto furono colpite da un terribile morbo di origini ignote e superiore al soccorso umano, che le portava all’alienazione e al delirio, spingendole ad avere un insano impulso verso il suicidio e un’inarrestabile volontà di togliersi la vita, a dispetto della disperazione e degli sforzi di amici e parenti. Proprio nel momento in cui insorge un male improvviso ed irrimediabile, la nobile indole femminile, pur in uno stato di completo sconvolgimento delle facoltà intellettive, porta le donne ad evitare di suicidarsi per il pensiero ed il timore di ricevere infamia e disonore dopo la morte36. Quindi l’autore esplicita chiaramente il proprio pensiero intervenendo, alla fine della storia, non solo per indicare nel comportamento delle giovani milesie un μέγα δὴ τεκμήριον εὐφυΐας καὶ ἀρετῆς e per sottolinearne debitamente ἡ τῆς ἀδοξίας εὐλάβεια, ma soprattutto per mettere in primo piano e lodare una virtuosa e dignitosa disposizione naturale femminile, che si palesa impavida dinnanzi a τὰ δεινότατα τῶν ὄντων, θάνατον καὶ πόνον, mostrando come, in questa circostanza, per le donne la paura della sofferenza e l’impulso verso la morte risultassero ampiamente superati dal timore di ricevere una cattiva fama in seguito al decesso. Occorre anche ricordare che, nel contesto di un’opera rivolta a celebrare la virtù muliebre tramite l’esposizione di svariati aneddoti di carattere storico, non manca il riferimento a due donne connotate in maniera piuttosto nega-

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Mul. Virt. 250E5–F3. Queste parole, parificando le capacità fisiche ed il valore militare di una donna a quello maschile, contribuiscono, di fatto, in maniera determinante a riscattare il pregiudizio inerente alla presunta inferiorità biologica femminile. Le occasioni in cui la donna eguaglia il bellicismo e l’audacia maschile sarebbero prova di unitarietà ed identità, oltre che di una natura inscindibile della virtù maschile e femminile, e non la dimostrazione del possesso, solo da parte di alcune donne, di una “manly virtue” o di “manliness” (come sostenuto da J. McInerney e F. Brenk; cfr. McInerney, “Chapter fifteen”, 319–344; Brenk, “The Barbarian within”, 96). Mul. Virt. 249B3–C8. Dal momento che, su proposta di un uomo assennato, fu emanato un provvedimento che imponeva di trascinare nude per la piazza coloro che si erano suicidate; Plu. Mul. Virt. 249C2–8.

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tiva, che rivestono un ruolo non secondario nell’economia dei rispettivi episodi di appartenenza, delineando di conseguenza un quadro di prerogative ed attitudini femminili estremamente variabile, e non esclusivamente un contesto di encomio tanto eccezionale, quanto indiscriminato. In particolare, Καλβία37, madre del tiranno Nicocrate, descritta come φύσει φονικὴ γυνὴ καὶ ἀπαραίτητος38, costrinse il figlio a mettere sotto tortura la compagna Aretafila con l’obiettivo di ucciderla o farle confessare il ricorso alla magia e, solo dopo una strenua difesa e sopportazione dei tormenti da parte dell’imputata, venne meno di controvoglia ai propri nefasti propositi senza riuscire ad ottenere alcuna prova del misfatto. Questa donna, pur tratteggiata come feroce e sanguinaria nella prospettiva del narratore, ad una verifica obiettiva dei fatti e della ragion di stato che suo figlio in quel momento rappresentava, era l’unica ad avere ben inteso gli intenti fraudolenti della pozione magica preparata da Aretafila, ma non ebbe la perseveranza39 di perseguire e torturare in maniera costante ed implacabile l’astuta colpevole40 e, al termine della vicenda, con il ritorno della democrazia in Elide, otterrà la punizione di essere bruciata viva in qualità di familiare complice del tiranno. Altro personaggio femminile a ricevere un marchio negativo è Neera41, moglie di Ipsicreonte, che fuggì in nave con un ospite del marito, di nome Promedonte, dopo essersene invaghita, provocando così tra le città di Mileto e Nasso una contesa che sfociò in una lunga e sanguinosa guerra. Soltanto la condotta saggia di Πολυκρίτη riuscì a pacificare definitivamente le parti in causa, e di conseguenza il conflitto εἶτ᾿ ἐπαύσατο δι᾿ ἀρετὴν γυναικός, ὡς συνέστη διὰ μοχθηρίαν, mostrando come in questa occasione sia stata proprio esclusivamente l’infedeltà di una donna a creare una disputa per la cui risoluzione si sia rivelato indispensabile il provvidenziale ed attivo soccorso femminile. Anche in tale vicenda Plutarco mette in risalto una situazione il cui equilibrio viene modificato e spezzato da una donna, che agisce, in spregio al marito, di propria iniziativa, e in ossequio ai propri istintivi sentimenti, senza subire passivamente azioni altrui e dando prova di essere parte attiva e centrale

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Mul. Virt. 256B3–D3. Plu. Mul. Virt. 256B3–4. Successivamente, Καλβία viene definita ἀτέγκτος e nuovamente ἀπαραίτητος; Plu. Mul. Virt. 256D1. Alla base di questa connotazione negativa vi era il legame di parentela con il tiranno, che portò questo personaggio femminile, dotato tanto di acuta intelligenza quanto di inflessibile ferocia, a soccombere nei confronti di Aretafila, donna altrettanto sagace, ma provvista di un’astuzia nettamente superiore. Probabilmente condizionata dalla volontà di non prevaricare eccessivamente il figlio, o limitata nella brutalità dall’istinto materno. Nella storia 19 pare configurarsi una sorta di duello tra due personaggi femminili altrettanto astuti e senza scrupoli. Plu. Mul. Virt. 254B3–C2.

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della vicenda, che ella non vive esclusivamente di riflesso e in conseguenza alle azioni o alle crisi create da una società maschile42. La storia conclusiva dell’opuscolo narra dell’avido Pite43, che, regnando in Lidia all’epoca dell’invasione della Grecia da parte di Serse, dopo aver scoperto nel proprio territorio delle miniere d’oro, attratto in maniera smodata dal profitto che ne traeva, costringeva tutti i cittadini a compiervi incessanti lavori di estrazione e senza poter svolgere nessuna altra attività lavorativa. A questo punto l’episodio sembra configurarsi come una sorta di fabula dai risvolti pedagogici e moraleggianti, in quanto la moglie di Pite44, sollecitata dagli scongiuri e dalle suppliche delle donne del luogo, convocò presso la propria dimora degli orefici di fiducia ed impose loro di forgiare nell’oro le pietanze che il marito amava maggiormente, in modo da imbandirgliele a tavola al ritorno da un viaggio in terra straniera. Quando si trovarono entrambi a tavola, a Pite fu servita una copia dorata di qualsiasi manicaretto avesse richiesto, e, dopo aver apprezzato con gli occhi le dorate riproduzioni dei cibi, si adirò molto fin quando sua moglie gli fece notare di aver fatto sfiancare l’intera popolazione nella ricerca di un metallo non commestibile come l’oro, e senza la possibilità di seminare, piantare o raccogliere niente altro. Di conseguenza il marito, compreso il problema, decise di far praticare la turnazione ai cittadini per i lavori alle miniere e, in seguito alla morte in guerra di tutti i propri figli nel corso della spedizione contro la Grecia del re Serse, rimase sconvolto dalla sofferenze e segnato per sempre dalla tristezza. Essendo incapace di continuare a vivere, ma anche di togliersi la vita, decise di andare a trascorrere tristemente il resto dei propri giorni su una collina all’interno di una costruzione commemorativa di se stesso, facendosi quotidianamente mandare su una barca il cibo necessario per la sopravvivenza, in attesa del sopraggiungere della morte. Oltre a notare una certa affinità tematica con la celebre leggenda di re Mida, l’elemento che suscita maggiore attenzione si ritrova nella sezione finale45 dell’aneddoto, dove si ricorda che Pite, prima di ritirarsi a vita solitaria, affidò il governo della città alla moglie, che l’autore aveva inizialmente definito σοφή e χρηστή, e che τῆς ἀρχῆς καλῶς ἐπεμελήθη καὶ μεταβολὴν κακῶν τοῖς ἀνθρώποις παρέσχεν. Ad un’analisi dei fatti, la moglie di Pite non solo accettò il gravoso incarico 42

43 44 45

L’intervento di Plutarco presente a 254C1–2 contraddice, dunque, il generico enunciato: “Plutarch’s virtuous women, in all their variety of action, display their virtue only where gaps appear in the fundamentally male society. They support or retaliate against male action, and do not initiate action”, con cui P.A. Stadter giustificava l’apparente marginalità sociale della donna. Cfr. Stadter, “Philosophos kai philandros”, 179. Plu. Mul. Virt. 262D4–263C7. Il cui nome non è riferito da Plutarco. Plu. Mul. Virt. 263C.

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capitolo 4

di governo46 senza alcuna esitazione, ma seppe gestirlo in maniera adeguata e consapevole, procurando anche dei cambiamenti in positivo per la popolazione, che, dopo essere stata abituata agli eccessi e alle sregolatezze dovuti all’indole avida e stolta di Pite, si ritrovò governata da una donna dotata di saggezza e buon senso. Questo aneddoto del Mulerium Virtutes presenta47 una donna che, dopo aver compiuto un atto virtuoso, senza accettare o riconoscere alcuna inferiorità di sorta, evitando di ritirarsi a vita privata o di rinunciare ad una missione da compiere48, riceve le redini del potere dal marito e si dedica ad esercitarlo, offrendo sicuramente ai cittadini un cambiamento di rotta politica economica e sociale, probabilmente all’insegna della moderazione e del buon senso, che ottiene riscontri positivi. Così la donna, che Plutarco tratteggia come personaggio in grado di svolgere un ruolo attivo e propulsivo in seno alla società, incidendo spesso pesantemente sugli eventi, risulta capace non solo di compiere atti di grande virtù, ma talora anche di accollarsi le responsabilità previste dai ruoli di comando e senza fuggire dinnanzi all’impegno politico, anzi portando fino in fondo gli sforzi profusi per il bene della famiglia e della collettività e riuscendo a segnalarsi per il buon governo esercitato sulla popolazione. 46

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Celebre era anche l’accortezza politica di Eumetide (detta anche Cleobulina), le cui qualità esercitavano un’influenza benefica indiretta sull’azione di governo del padre nei riguardi dei cittadini; cfr. Sept. sap. conv. 148CD. La figura di Cleobulina avrebbe ispirato anche la commedia di Cratino intitolata Le Cleobuline (D.L. 1.89). Cfr. anche F. Lo Cascio (ed.), Plutarco, Il convito dei Sette Sapienti (Napoli: D’Auria, 1997) 108–109; 116–117; 201. Dopo il rifiuto di assumere incarichi di governo ed il successivo ritiro a vita privata da parte di Aretafila nella storia 19. K. Blomqvist, invece, in merito all’impegno politico delle virtuose donne descritte da Plutarco, basandosi principalmente sull’evidenza della storia 19, dove Aretafila rifiuta di assumere incarichi di governo per ritirarsi in famiglia al telaio (cfr. 257CD), ha affermato in maniera piuttosto generica: “Women are capable of courageous defiance of tyrants and external enemies – but after their exploits, they are to renounce all power”; Blomqvist, “From Olympias to Aretaphila”, 89. P. Schmitt-Pantel, di recente, ha sostenuto che, nell’opuscolo, le donne sono “louées par la cité, mais la reconnaissance publique ne se traduit jamais dans le domaine politique”; Schmitt-Pantel, “Autour du traité”, 39–60. Per una bibliografia sul ruolo e sull’attività politica di donne vissute in Ebla, Israele, Babilonia, Sumer, Egitto ed in generale nei paesi del Vicino Oriente Antico, cfr. Gera, Warrior Women, 12 nota 12.

capitolo 5

Il rapporto con gli Strategemata di Polieno I libri VII e VIII degli Strategemata1 di Polieno2 contengono, in forma riassuntiva e talora lievemente variata, diciannove3 dei ventisette episodi narrati nel Γυναικῶν ἀρεταί di Plutarco. L’opera del retore macedone, dedicata nel 162 d.C. agli ἱερώτατοι βασιλεῖς Marco Aurelio e Lucio Vero, si prefiggeva di raccogliere e condensare in brevi aneddoti una serie di stratagemmi guerreschi da offrire agli imperatori in vista di una imminente spedizione contro i Parti. Riguardo al rapporto esistente tra le due opere e alle fonti adoperate per la composizione delle stesse è sorta un’annosa, e tuttora irrisolta, questione: D.A. Wyttenbach segnalò certe ex hoc Plutarchi libro multa descripsit capita Polyaenus Strategem. Lib. VIII4, mentre C.G. Cobet consigliò iuvenibus … elegantem librum pseudo-Plutarcheum ita comparare cum Polyaeno in lib. VIII … ; videbunt enim multa apud scriptorem antiquiorem recte et venuste dicta a militari viro et scribendi imperito subinepte et perperam reficta esse5. Poi A. Von Gutschmidt asserì Polyaenus ex Plutarchi libro de virtute mulierum deprompsit, cum alias Plutarcho non usus est6 e Wölfflin affermò la dipendenza di Polieno da Plutarco7. Successivamente O. Knott8, seguito da A. Schirmer9, J. Melber10, C. Wachsmuth11 1

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Il testo di riferimento è E. Wölfflin–J. Melber–K. Reinhard (eds.), Polyaeni Strategematon libri VIII (Stvtgardiae: 1970 [Lipsiae 1887]). Cfr. anche F. Lammert, “Στρατηγήματα”, R.E. IV A.1 (1931)174–181. F. Lammert, “Polyainos 8”, R.E. XXI.2 (1952) 1432–1436. Le storie 1–8, 10, 11, 14, 16–20, 24, 25, 27. Wyttenbach, Animadversiones, 2. Cobet inizialmente riteneva pseudo-plutarcheo il Mulierum Virtutes, principalmente “propter stili venustatem”. A. Von Gutschmidt, “De Aegyptiacis apud Polyaenum obviis eorumque fontibus”, Philologus 11 (1856) 149. Nell’Introduzione alla sua edizione lipsiana del 1860 degli Strategemata di Polieno, citata anche da J. Melber; cfr. J. Melber, “Uber die Quellen und der Wert der Strategensammlung Polyäns”, Jahrbücher für classische Philologie Supplementband 14 (1885) 417–688. Ritenendo la differente disposizione dei medesimi episodi narrati da Plutarco e le divergenze presenti nella storia delle Ἀργεῖαι due eccellenti indizi in favore dell’autonomia di Polieno dal Mulierum Virtutes; cfr. O. Knott, De fide et fontibus Polyaeni (Diss., Leipzig, 1883) 51–53. A. Schirmer, Über die Quellen des Polyaen (Altenberg: 1884) 17–18; Schirmer, attribuendo l’ordine variato degli episodi ad un’antologia, e non ad uno storico, propose anche Nicola Damasceno come una delle probabili fonti di entrambe le opere. Melber, “Uber die Quellen”, 596; 654; 664; 683. C. Wachsmuth, Einleitung in das Studium der alten Geschichte (Leipzig: 1895) 233–234.

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capitolo 5

e più tardi da G. Wagner12, ha di fatto negato tale dipendenza, ascrivendo la somiglianza tra le due opere all’utilizzo di una fonte intermedia13 da parte di entrambi gli autori. Quindi, P.A. Stadter14 ha decisamente contrastato questa tesi, sostenendo una absolute dependance di Polieno dal Mulierum Virtutes, corroborata da una striking similarity of words and phrases in the two authors, che, distinguendo in Plutarco una originalità letteraria unita ad una più precisa e dettagliata riproposizione delle fonti storiche, tende ad attribuire al retore macedone un modus operandi sostanzialmente frettoloso, sciatto ed impreciso che non aggiunge nulla e spesso omette dati della narrazione plutarchea. Le controverse prove addotte a sostegno di entrambe le tesi suggeriscono la cautela adottata da F. Jacoby, che, pur non fornendo una visione di insieme univoca, individua negli Strategemata di Polieno alcune storie dipendenti dal Mulierum Virtutes di Plutarco15 ed altre derivanti da fonti intermedie non identificabili16. Un approccio più realistico si rivela dunque necessario, in quanto Polieno sembra attingere all’opuscolo plutarcheo, ricorrendo alla ripresa verbatim (o quasi) di interi periodi, talora seguendo la disposizione degli episodi narrati nel Mulierum Virtutes e denunciando, a volte, una dipendenza stilisticocontenutistica dall’opera di Plutarco: pur caratterizzato da un procedimento compositivo frettoloso17, e forse, in alcuni casi, disattento, resta comunque percorribile l’ipotesi che lo stesso retore macedone abbia potuto consultare altre fonti18 e, tra queste, un catalogo conosciuto anche da Plutarco. Occorre ricor12

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Basandosi soprattutto sulla menzione in Polieno del satrapo Oibares, non citato dal Mulierum Virtutes di Plutarco, G. Wagner identificò la fonte intermedia in un non precisato catalogo redatto tra il 50 a.C ed il 50 d.C.; G. Wagner, Die Quellen zu Plutarchs Γυναικῶν ἀρεταί (Diss., Graz, 1967) 133–145. Opinione condivisa anche da K. Ziegler; cfr. Ziegler, Plutarco, 265. Stadter, An analysis, 13–29 ed, in particolare, 15; 19; 24; 29. J. Boulogne ha più recentemente condiviso, e con maggiore cautela riproposto, le argomentazioni di Stadter; cfr. Boulogne, Plutarque, 31–38. FGrHist, Komm. zu 139 F 2, p. 510 e Komm. zu 310 F 6 n. 80, p. 45. FGrHist, Komm. zu 262 F 7–8, pp. 11–17; Komm. zu 310 F 6 n. 80, p. 45 e Komm. zu 500 F 1 n. 3, p. 418. J. Melber (Wölfflin–Melber–Reinhard, Polyaeni Strategematon, VI) affermava: “Polyaenus igitur omnes libros intra paucos annos deinceps emisit … Polyaenum in brevius contraxisse”. Inoltre cfr. Strateg. 8.65 e Mul. Virt. 2; Strateg. 8.64 e Mul. Virt. 7; Strateg. 7.49 e Mul. Virt. 8; Strateg. 8.31 e Mul. Virt. 14; Strateg. 8.40 e Mul. Virt. 24; Strateg. 8.41 e Mul. Virt. 25. Talora, poi, il retore macedone omette alcuni particolari (cfr. Strateg. 8.66 e Mul. Virt. 3; Strateg. 8.36 e Mul. Virt. 17; Strateg. 8.39 e Mul. Virt. 20; Strateg. 8.41 e Mul. Virt. 25) e ignora le varianti narrative (cfr. Mul. Virt. 4, 14 e 17) fornite da Plutarco. Cfr. J. Melber (Wölfflin–Melber–Reinhard, Polyaeni Strategematon, VI), che affermava: “multo labore ex historicis collegerat”, traducendo la prefazione al libro II degli Strategemata, in cui Polieno ammetteva: ἀφ’ ὅσης ἱστορίας καὶ ὅσῳ πόνῳ τάδε συλλεξάμενος. Del resto,

il rapporto con gli strategemata di polieno

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dare anche che, se Polieno spesso pare compendiare l’opera del Cheronese selezionandone i contenuti ed eliminandone intere sezioni19, a volte presenta gli eventi descritti da Plutarco in una forma lievemente modificata o integrata, aggiungendo nuovi particolari narrativi20, la cui origine potrebbe risalire a reminiscenze personali, alla lettura di opere storiche o alla consultazione di cataloghi di varia natura, che all’epoca circolavano quale relitto di una tradizione consolidata e di lungo corso. Per questo non si può escludere a priori che la redazione degli Strategemata possa aver contemplato21 delle, seppur sbrigative, ricerche o indagini dell’autore presso una o molteplici fonti intermedie (e a più livelli contaminate), passate, così come τὰ ἄγαν περιβόητα22, anche per le mani di Plutarco: sarebbe poi il differente approccio mantenuto nei confronti della stessa fonte a connotare una sensibilità23 e uno scrupolo metodologico/compilativo diverso tra i due autori24. Inoltre, un’identica fina-

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anche Plutarco ometteva o variava particolari, univa le fonti, si affidava alla memoria; cfr. Stadter, An analysis, 138–139. Cfr. Stadter, An analysis, 17–23. Si è ipotizzato che un procedimento simile fosse stato adottato dal probabile compilatore dell’anonimo trattato De Mulieribus Claris in Bello, o dal suo predecessore; Gera, Warrior Women, 9–13. Cfr. Strateg. 8.65 e Mul. Virt. 2; Strateg. 8.33 e Mul. Virt. 4; Strateg. 8.63 e Mul. Virt.11; Strateg. 8.31 e Mul. Virt. 14; Strateg. 8.37 e Mul. Virt. 18; Strateg. 8.38 e Mul. Virt. 19; Strateg. 8.39 e Mul. Virt. 20; Strateg. 7.40 e Mul. Virt. 24; Strateg. 8.42 e Mul. Virt. 27. Esemplare, inoltre, la menzione del satrapo Oibares, assente nel racconto plutarcheo della storia dedicata alle donne persiane; cfr. Strateg. 7.45.2 e Mul. Virt. 5. In merito, cfr. anche Stadter, An analysis, 27; Wagner, Die Quellen, 133–145. La tesi di Boulogne (Boulogne, Plutarque, 33), di Polieno intento a “broder” nuovi elementi della narrazione, troverebbe un riscontro ancora maggiore nell’ipotesi di un testo (o catalogo) di riferimento da cui ricavare dati da modificare o mutuare. Oltre ad imprecisioni e, forse, errori di copista (come per la confusione Phobos/Phoxos; cfr. Stadter, An analysis, 24) o, piuttosto, varianti antiche. Cfr. Plu. Mul. Virt. 243D5. Nei cataloghi di donne virtuose, probabilmente, figurava Tebe di Fere, le cui imprese sono apostrofate da Plutarco con il medesimo aggettivo, περιβόητα; cfr. Mul. Virt. 256A6. Sullo stile di Polieno, caratterizzato dalla predilezione per l’inserimento di discorsi diretti e dalla drammatizzazione delle circostanze in oggetto, cfr. Stadter, An analysis, 27. Plutarco, ad esempio, si mostra maggiormente interessato a citare le fonti cui attinge, e, in presenza di differenti versioni di uno stesso avvenimento, le elenca tentando di effettuare una cernita su base realistica o di verosimiglianza; cfr. in particolare Mul. Virt. storie 4; 9; 14; 17; 22; 25. Per il metodo storiografico di Plutarco, cfr. anche Theander, “Plutarch und die”, 2–32. Le rivendicazioni di originalità del Mulierum Virtutes, in riferimento alla statura letteraria dell’autore, avanzate da Stadter prima (Stadter, An analysis, 24–26) e da Boulogne poi (Boulogne, Plutarque, 34–35), potrebbero avvalorare l’ipotesi della riproposizione di uno stesso catalogo, in maniera ampliata e rivista con spunti personali da parte del Cheronese, e in maniera più o meno fedele dal retore macedone, giustificando, così, parzialmente le divergenze sostanziali tra le due opere.

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capitolo 5

lità dimostrativa, indirizzata in campo pratico-strategico nel contesto bellico degli Strategemata e rivolta al completamento storico di una discussione di matrice filosofica sulla virtù delle donne del Mulierum Virtutes, comporta, oltre ad un’organizzazione parzialmente differente del materiale narrativo25, nel primo caso brevitas espositiva, e nel secondo digressioni di varia natura. Tuttavia, le attestazioni diffuse di una influenza molto probabile, anche se controversa, del Mulierum Virtutes sugli Strategemata di Polieno mostrerebbero uno spaccato della fortuna immediata riscossa dal genere della letteratura catalogica, ed in particolare da tale opera plutarchea, sul pubblico colto dell’epoca, visualizzando come l’ἀρετή femminile, agli occhi del retore macedone, rappresentasse soprattutto una lodevole dimostrazione di ἀνδρεία/ἀνδρία26 in un ambito guerresco di frequentazione prettamente maschile. 25

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Plutarco divide l’opuscolo in episodi di virtù collettiva ed individuale, mentre Polieno, nella prima parte dell’opera, procede per nazionalità delle protagoniste e, nella seconda parte, segue in maniera pressoché identica l’ordine delle storie plutarchee; cfr. Mul Virt. storie 16–27 e Strateg. 8.35–42. Cfr. τὴν ἀνδρείαν τῶν γυναικῶν θαυμάσας, Strateg. 7.48.14; καὶ τὴν ἀνδρίαν ἐθαύμασαν, Strateg. 8.31.21; ὑπεραγασθεὶς τὸ ἀνδρεῖον τῆς κόρης, Strateg. 8.31.1; ἐποίησεν ἀνδρειότερον, Strateg. 8.65.7.

Conspectus siglorum et compendiorum A E n t u v α β γ δ σ 80,5 80,21 80,22 T

Parisinus gr. 1671, a. 1296 Parisinus gr. 1672, a. 1360 ca. Vaticanus gr. 1676, s. XIV med. Vaticanus Urbinas gr. 100, a. 1401 Vaticanus Urbinas gr. 99, s. XV Vindobonensis phil. gr. 46, s. XV med. Ambrosianus C 126 inf. (gr. 859), a. 1294 Vaticanus gr. 1013, s. XIV in. Vaticanus gr. 139, a. 1296 ca. Vaticanus Reginensis gr. 80, s. XV Marcianus 248, a. 1455 Laurentianus plut. 80,5, s. XIV ex. Laurentianus plut. 80,21, s. XIV Laurentianus plut. 80,22, s. XV Toletanus 20, s. XV ex.

Alia sigla et compendia Π consensus codd. αβγδσ AE tun 80,5 80,21 80,22 T Ω codices omnes add. addidit del. delevit om. omisit Anonymus De incredib. Anonymus De incredibilibus Polyaen. Polyaenus, Strategemata

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Editores et commentatores qui in apparatu citantur Alaman. Ranutin. Ald. Amyot Benseler Bern. Bollaan Boulogne Cobet

Cruserius Dinse Dueb. Ed. Basileensis Fuhr Ha. Halm. Hatz. Herw. Hu. Iunius Kal. Ku.

Meursius Méziriacus Mommsen Na. Naber Pant. Papabasileios Papageorg.

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editores et commentatores qui in apparatu citantur

Pohlenz Reiske Rich. Salmas. Schell. Stegmann Stephanus Turn. Xyl.1 Xyl.2 Wil. Wyttenbach

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M. Pohlenz, apud ed. in Bibl. Teubn. J.J. Reiske, edizione Leipzig 1777 H. Richards, Class. Re. 28, 1914 C. Salmasius, adnot. ad ed. Stephan. J. Schellens, apud ed. Bernard. C. Stegmann, N. Jahrb. f. kl. Philol. 141, 1890 H. Estienne, edizione Paris 1572 A. Tourneboeuf, adnot. ad ed. Aldinam (B.N. Rés. J 94) W. Xylander, traduzione latina, Basilea 1570 W. Xylander, edizione greca, Basilea 1574 U. v. Wilamowitz, apud ed. in Bibl. Teubn. D.A. Wyttenbach, edizione Clarendon, Oxford 1796 e Animadversiones in Plut. Moral., vol. II pars I, Oxford 1821

Plutarco La virtù delle donne (Mulierum virtutes)



Γυναικῶν ἀρεταί 242E

F

243A

B

C

⸤Περὶ ἀρετῆς1, ὦ Κλέα, γυναικῶν οὐ τὴν⸥ αὐτὴν τῷ Θουκυδίδῃ γνώμην ἔχομεν. Ὁ μὲν γάρ, ἧς ἂν ἐλάχιστος ᾖ παρὰ τοῖς ἐκτὸς ψόγου πέρι ἢ ἐπαίνου λόγος, ἀρίστην ἀποφαίνεται, καθάπερ τὸ σῶμα καὶ τοὔνομα τῆς ἀγαθῆς γυναικὸς οἰόμενος δεῖν κατάκλειστον εἶναι καὶ ἀνέξοδον. Ἡμῖν δὲ κομψότερος μὲν ὁ Γοργίας φαίνεται, κελεύων μὴ τὸ εἶδος ἀλλὰ τὴν δόξαν εἶναι πολλοῖς γνώριμον τῆς γυναικός· ἄριστα δ᾿ ὁ Ῥωμαίων δοκεῖ νόμος ἔχειν, ὥσπερ ἀνδράσι καὶ γυναιξὶ δη⸤μοσίᾳ μετὰ τὴν τελευτὴν τοὺς προσήκοντας ἀποδιδοὺς⸥ ἐπαίνους. Διὸ καὶ Λεοντίδος τῆς ἀρίστης ἀποθανούσης, εὐθύς τε μετὰ σοῦ τότε πολὺν λόγον εἴχομεν οὐκ ἀμοιροῦντα παραμυθίας φιλοσόφου, καὶ νῦν, ὡς ἠβουλήθης, τὰ ὑπόλοιπα τῶν λεγομένων εἰς τὸ μίαν εἶναι καὶ τὴν αὐτὴν ἀνδρός τε καὶ γυναικὸς ἀρετὴν ⸤προσανέγραψά σοι, τὸ ἱστορικὸν ἀποδεικτικὸν ἔχοντα καὶ⸥ πρὸς ἡδονὴν μὲν ἀκοῆς οὐ συντεταγμένην2· εἰ δὲ τῷ πείθοντι καὶ τὸ τέρπον ἔνεστι φύσει τοῦ παραδείγματος, οὐ φεύγει χάριν ἀποδείξεως συνεργὸν ὁ λόγος οὐδ᾿ αἰσχύνεται “ταῖς Μούσαις τὰς Χάριτας συγκαταμιγνὺς καλλίστην συζυγίαν”, ὡς Εὐριπίδης φησίν, ἐκ τοῦ φιλοκάλου μάλιστα τῆς ψυχῆς ἀναδούμενος τὴν πίστιν. Φέρε γάρ, εἰ λέγοντες τὴν αὐτὴν εἶναι ζωγραφίαν ἀνδρῶν καὶ γυναικῶν παρειχόμεθα τοιαύτας γραφὰς γυναικῶν, οἵας Ἀπελλῆς ἀπολέλοιπεν ἢ Ζεῦξις ἢ Νικόμαχος, ἆρ᾿ ἄν τις ἐπετίμησεν ἡμῖν, ὡς τοῦ χαρί⸤ζεσθαι καὶ ψυχαγωγεῖν μᾶλλον ἢ τοῦ πείθειν στοχαζομέ⸥νοις; ἐγὼ μὲν οὐκ οἶμαι. Τί δέ; ἐὰν ποιητικὴν πάλιν ἢ μαντικὴν ἀποφαίνοντες οὐχ ἑτέραν μὲν ἀνδρῶν ἑτέραν δὲ γυναικῶν οὖσαν, ἀλλὰ τὴν αὐτήν, τὰ Σαπφοῦς μέλη τοῖς Ἀνακρέοντος ἢ τὰ Σιβύλλης λόγια τοῖς Βάκιδος ἀντιπαραβάλλωμεν3, ἕξει τις αἰτιάσασθαι δικαίως τὴν ἀπόδειξιν, ὅτι χαίροντα καὶ τερπόμενον ἐπάγει τῇ πίστει τὸν ἀκροατήν4; οὐδὲ τοῦτ᾿ ἂν εἴποις. Καὶ μὴν οὐκ ἔστιν ἀρετῆς γυναικείας καὶ ἀνδρείας ὁμοιότητα καὶ διαφορὰν ἄλλοθεν καταμαθεῖν μᾶλλον, ἢ βίους βίοις καὶ πράξεσι πράξεις ὥσπερ ἔργα με⸤γάλης τέχνης παρατιθέντας ἅμα καὶ σκοποῦντας, εἰ τὸν αὐ⸥τὸν ἔχει χαρακτῆρα καὶ τύπον

2 cf. 351D Thuc. II 45 3 cf. mor. 217F 220D Synes. de provident. p. 105 d 5 frg. B 22 DK 6 v. Camill. 8 Cic. de orat. II 11.44 Liv. V 50.7 14 Eurip. Herc. 673 17 Plu. fr. XXV.1 Bern.= fr. 134 Sandb. Ael. v. h. XIV 47 19 vit. Phoc. 2.8–9 22 Hor. Epist. II 3.426 1 Γυναικῶν ἀρεταί Ω : Περὶ ἀρετῆς γυναικῶν Anonymus De incredib. 4 οἰόμενος v αAEunβγσ 80,5 : αἰόμενος δ 5 φαίνεται v αAEunβγσ 80,5 : ἀποφαίνεται δ 9 τότε v αAEunβγσ 80,5 : ὅτε δ 10 ἠβουλήθης Ω : ἐβουλήθης Bern. 11 προσανέγραψά σοι αAEnγδσ : πρὸς τὸ ἀνέγραψά σοι u 80,5 : προσανέγραψά συ β² 12 συντεταγμένην v αAEunβγσ 80,5 80,22 : -ταγμένον E² : μαντικὴν Cobet : μιμητικὴν Ω -ταγμένα ed. Basileensis 20 πάλιν αAEnβγδ : μᾶλλον u 80,5 22 Βάκιδος Π : Βάκχιδος v ἀντιπαραβάλλωμεν Dinse : -βάλλοιμεν Ω 24 Καὶ μὴν οὐκ ἔστιν Π : οὐ μὴν οὐκ ἦν v 24–25 ἄλλοθεν Π : ἄλλοτε v

© koninklijke brill nv, leiden, 2020 | doi:10.1163/9789004409750_010

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La virtù delle donne O Clea5, riguardo alla virtù delle donne non condivido il pensiero di Tucidide6. Egli, infatti, ritiene ottima quella donna della quale presso gli estranei si parli il meno possibile in male o in bene7, ritenendo che occorra riservatezza e discrezione8, come per l’aspetto esteriore9, così per la reputazione della donna virtuosa10. Mi sembra invece più acuto11 Gorgia12, che della donna esorta a render noto ai più non l’aspetto fisico13 ma il comportamento. Migliore, in verità, appare la affermata consuetudine romana14 che, dopo il decesso, tributa in pubblico i dovuti elogi tanto agli uomini quanto alle donne15. Ed è per questo che, dopo la morte dell’ottima Leontis16, subito ebbi con te, in quei momenti, una lunga conversazione non priva del conforto17 filosofico18 ed ora, proprio come tu desideravi, ho messo per iscritto19, tra le altre cose, quanto dicemmo riguardo all’unitarietà ed identità della virtù20 dell’uomo e della donna21, che contiene una parte di esempi22 storici23, ed in aggiunta una parte che tende al piacere di chi ascolta senza che questo sia ricercato24; se poi nei tratti costitutivi dell’esempio si ritrova un’unione di persuasione e diletto25, la mia opera non rifugge dall’adoperare l’amabilità dell’esposizione e del contenuto in supporto alla dimostrazione26 e non ritiene disonorevole27 “Unire le Grazie alle Muse in un bellissimo connubio”, secondo quanto afferma Euripide28, facendo dipendere la persuasione soprattutto dall’amore dell’anima per la bellezza29. Se infatti sosteniamo che30 il talento nell’arte pittorica31 è lo stesso per gli uomini e per le donne, e portiamo come testimonianza dei dipinti di pregevole fattura eseguiti da donne, del calibro di quelli che ci hanno lasciato Apelle, Zeusi o Nicomaco32, qualcuno ci potrà forse rimproverare33 di aver mirato a dilettare e a sedurre piuttosto che a persuadere34? Non credo proprio35. Perché? Se di nuovo affermiamo che l’abilità poetica o divinatoria non differisce tra uomini e donne ma è la medesima, paragonando i carmi di Saffo36 con quelli di Anacreonte37 o confrontando le profezie38 della Sibilla39 con quelle di Bacide40, qualcuno potrebbe a buon diritto confutare la dimostrazione, in quanto conduce il lettore alla persuasione tramite l’amabilità e il diletto41? Non potresti dire neppure questo42. E d’altronde, per comprendere le analogie e le discrepanze che intercorrono tra la virtù maschile e quella femminile, certamente non vi è migliore modo43 che confrontare44 vite con altre vite45 ed azioni con altre azioni46, come se si avesse a che fare con grandi capolavori artistici,47 e nel contempo osservare se la magnificenza48 di Semiramide49 ha la stessa

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la virtù delle donne

ἡ Σεμιράμεως μεγαλοπραγμοσύνη τῇ Σεσώστριος ἢ ἡ Τανακυλλίδος σύνεσις50 τῇ Σερουίου τοῦ βασιλέως, ἢ τὸ Πορκίας φρόνημα51 τῷ Βρούτου καὶ τὸ Πελοπίδου52 τῷ Τιμοκλείας, κατὰ τὴν κυριωτάτην καινότητα53 καὶ δύναμιν· ἐπειδὴ διαφοράς γέ τινας ἑτέρας ὥσπερ χροιὰς ἰδίας αἱ ἀρεταὶ διὰ τὰς φύσεις λαμβάνουσι καὶ συνεξομοιοῦνται τοῖς ὑποκειμένοις ἔθεσι καὶ κράσεσι σωμάτων καὶ τροφαῖς καὶ διαίταις· ἄλλως γὰρ ἀνδρεῖος54 ὁ Ἀχιλλεὺς ἄλλως ὁ Αἴας· καὶ φρόνησις Ὀδυσσέως οὐχ ὁμοία τῇ Νέστορος ⸤οὐδὲ δίκαιος55 ὡσαύτως Κάτων καὶ Ἀγησίλαος, οὐδὲ Εἰ⸥ρήνη φίλανδρος ὡς Ἄλκηστις οὐδὲ Κορνηλία μεγαλόφρων ὡς Ὀλυμπιάς. Ἀλλὰ μὴ παρὰ τοῦτο πολλὰς καὶ διαφόρους ποιῶμεν ἀνδρείας καὶ φρονήσεις καὶ δικαιοσύνας, ἂν μόνον τοῦ λόγου τοῦ οἰκείου μηδεμίαν αἱ καθ᾿ ἕκαστον ἀνομοιότητες ἐκβιάζωσι56. Τὰ μὲν οὖν ἄγαν περιβόητα καὶ ὅσον οἶμαί σε βεβαίοις57 βιβλίοις ἐντυχοῦσαν ἱστορίαν ἔχειν καὶ γνῶσιν ἤδη παρήσω· πλὴν εἰ μή τινα τοὺς τὰ κοινὰ καὶ δεδημευμένα πρὸ ἡμῶν ἱστορήσαντας ἀκοῆς ἄξια διαπέφευγεν. Ἐπεὶ δὲ πολλὰ καὶ κοινῇ καὶ ἰδίᾳ γυναιξὶν ἄξια λόγου πέπρακται, ⸤βραχέα τῶν κοινῶν οὐ χεῖρόν ἐστι προϊστορῆσαι.⸥

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Τρῳάδες

Τῶν ἀπ᾿ Ἰλίου περὶ τὴν ἅλωσιν ἐκφυγόντων οἱ πλεῖστοι χειμῶνι χρησάμενοι, καὶ δι᾿ ἀπειρίαν τοῦ πλοῦ καὶ ἄγνοιαν τῆς θαλάττης ἀπενεχθέντες εἰς τὴν Ἰταλίαν καὶ περὶ τὸν Θύμβριν ποταμὸν ὅρμοις καὶ ναυλόχοις ἀναγκαίοις μόλις ὑποδραμόντες, αὐτοὶ μὲν ἐπλανῶντο περὶ τὴν χώραν φραστήρων δεόμενοι, ταῖς δὲ γυναιξὶν

4 Hippocr. π. ἀέρ. ὑδ. τόπ. 23 Aristot. Problem. XXX 1 Cic. Tusc. I 33.80 5 v. Phoc. 3 cf. mor. 76A 343A–B Cic. de. orat. III 7. 26–28 Porphyr. de abstin. III 8 Philo Π. τοῦ πάντα σπουδαῖον εἶναι ἐλεύθερον p. 882c–d 7 de Irena Athen. XIII.64 p. 593B 9 p. 97e 17 FGrH 840 F 13 c 265B–C vit. Rom. 1 Polyaen. VIII 25.2 Festus p. 269 Müller Solin. I 2 Serv. ad Aen. I 273 Steph. Byz. s.v. Σκιώνη Schol. Lyc. 921 1 ἢ ἡ E : ἢ Auβγδσ 80,5: ἥ α v : ἡ n τανακυλλίδος AEuβγ 80,5 : τ’ ἀνακυλλίδος v αn : τ’ ἁνακυλλίδος δ: τανακυλίδος σ 1–2 τῇ Σερουίου αAγ : τῆ Σεροβίου Eunβδσ 80,5 80,21 : τῇ Σεροβίου 80,22 : τῆς ἐροβίου v 2–3 τὸ Πελοπίδου τῷ Τιμοκλείας αAunγσ : τῷ Πελοπίδου τὸ Τιμοκλείας E: τῷ Πελοπίδου τῷ Τιμοκλείας v : τὸ Πελοπίδου τῷ Τιμοκλείας β 80,5 80,21 80,22 : τῷ Πελοπίδα τῷ Τιμοκλείας δ 3 καινότητα v αAEunβγσ 80,5 80,21 80,22: ὁμοιότητα δ: κοινότητα Méziriacus 6 ἀνδρεῖος v αAEunβγσ 80,5 : ἀνδρείως δ 8 παρὰ τοῦτο v AEun β 80,5 : περὶ τοῦτο αγδσ 9 ἀνδρείας αAunβγδσ 80,5 : ἀνδρίας v E μόνον A2 δ : μόνου v αEunβγσ 80,5 10 ἐκβιάζωσι v E : ἐκβιάζουσι αAunβγδσ 80,5 : ἐκβιβάζωσι Wyttenbach 11 ὅσον v α2u 80,5 : ὅσων AEnβγδσ βεβαίοις βιβλίοις Ω : ex aliorum libris Alaman. Ranutin. : βεβαίως βιβλίοις Babbitt : βεβαίοις del. Wyttenbach ut ex dittogr. ortum : βεβαίαν βιβλίοις Na. : βεβαίαν ⟨ἄλλοις⟩ βιβλίοις Pohlenz 12 τινα Steph. : τινας Ω 17 περὶ Π : μετὰ περὶ v

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1. le donne di troia

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impronta e lo stesso carattere distintivo rispetto a quella di Sesostri58, o l’intelligenza di Tanaquil rispetto a quella del re Servio59, o il nobile sentire di Porcia60 rispetto a quello di Bruto61 e l’elevatezza d’animo di Pelopida62 rispetto a quella di Timoclea63 secondo la forza e la più profonda singolarità. Infatti, a motivo delle disposizioni naturali64, le virtù acquistano alcune caratteristiche come se prendessero delle particolari sfumature65 e si conformassero ai presenti costumi, temperamenti, alimentazioni e stili di vita66; difatti Achille è coraggioso in maniera differente da Aiace67, la saggezza di Ulisse68 non è uguale a quella di Nestore69, Catone70 non fu giusto come Agesilao71, l’amore coniugale di Irene72 non fu identico a quello di Alcesti73, né Cornelia74 fu magnanima quanto Olimpiade75. Ma, non per questo, consideriamo numerose e differenti forme di coraggio, saggezza76 e giustizia77, a meno che le diversità di ciascuna non ne escludano qualcuna soltanto dalla definizione che è in essa insita78. Dunque tralascerò le vicende fin troppo celebri79 e quanto ritengo tu abbia indagato e conosciuto grazie alla lettura di libri degni di fede80, a meno che fatti degni d’interesse81 non siano sfuggiti82 a coloro che prima di noi hanno narrato storie pubbliche e ben note83. Visto che molti atti di rilievo sono stati compiuti, sia singolarmente che in gruppo84, non è una cattiva idea menzionare per prima in breve quelli che furono messi in atto collettivamente.

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Le donne di Troia85

La maggior parte di coloro che riuscirono a fuggire da Troia dopo la sua conquista, dopo essersi imbattuti in una tempesta, essendo trasportati verso le coste dell’Italia a causa dell’inesperienza della navigazione e della scarsa conoscenza del mare86, sbarcati con grande difficoltà presso la foce del fiume Tevere grazie a necessari porti e luoghi di approdo, mentre gli uomini vagavano per la zona in cerca di informatori87, alle donne capitò di ragio-

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ἐμπίπτει λογισμός, ὡς ἡτισοῦν ἵδρυσις ἐν τῇ πάσῃ πλάνῃ καὶ ναυτιλίᾳ88 εὖ τε καὶ καλῶς πράττουσιν ἀνθρώποις ἀμείνων ἐστί, καὶ πατρίδα δὲ89 ποιεῖν αὐτούς, ἀπολαβεῖν ἣν ἀπολωλέκασι ⸤μὴ δυναμένους. Ἐκ δὲ τούτου συμφρονήσασαι κατέφλεξαν⸥ τὰ πλοῖα, μιᾶς καταρξαμένης ὥς φασι Ῥώμης. Πράξασαι δὲ ταῦτα τοῖς ἀνδράσιν ἀπήντων βοηθοῦσι πρὸς τὴν θάλασσαν, καὶ φοβούμεναι τὴν ὀργὴν αἱ μὲν ἀνδρῶν αἱ δ᾿ οἰκείων ἀντιλαμβανόμεναι καὶ καταφιλοῦσαι λιπαρῶς, ⸤ἐξεπράυναν τῷ τρόπῳ τῆς φιλοφροσύνης. Διὸ καὶ γέγονε καὶ⸥ παραμένει ταῖς Ῥωμαίων γυναιξὶν ἔτι νῦν ἔθος ἀσπάζεσθαι μετὰ τοῦ καταφιλεῖν τοὺς κατὰ γένος προσήκοντας αὐταῖς. Συνιδόντες γὰρ ὡς ἔοικε τὴν ἀνάγκην οἱ Τρῶες καὶ ἅμα πειρώμενοι τῶν ἐγχωρίων, εὐμενῶς καὶ φιλανθρώπως προσδεχομένων, ἠγάπησαν τὸ πραχθὲν ὑπὸ τῶν γυναικῶν καὶ συγκατῴκησαν αὐτόθι τοῖς Λατίνοις.

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la virtù delle donne

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Φωκίδες

Τὸ δὲ τῶν Φωκίδων ἐνδόξου μὲν οὐ τετύχηκε συγγραφέως, οὐδενὸς δὲ τῶν γυναικείων ἔλαττον εἰς ἀρετήν ἐστι, μαρτυρούμενον ἱεροῖς τε μεγάλοις, ἃ δρῶσι ⸤Φωκεῖς ἔτι νῦν περὶ Ὑάμπολιν, καὶ δόγμασι παλαιοῖς, ὧν τὸ⸥ μὲν καθ᾿ ἕκαστον τῆς πράξεως ἐν τῷ Δαϊφάντου βίῳ γέγραπται, τὸ δὲ τῶν γυναικῶν τοιοῦτόν ἐστιν. Ἄσπονδος ἦν Θετταλοῖς πρὸς Φωκέας πόλεμος· οἱ μὲν γὰρ ἄρχοντας αὐτῶν καὶ τυράννους ἐν ταῖς Φωκικαῖς πόλεσιν ἡμέρᾳ μιᾷ πάντας ἀπέκτειναν, οἱ δὲ πεντήκοντα καὶ διακοσίους ἐκείνων ὁμήρους κατηλόησαν· εἶτα πανστρατιᾷ διὰ Λοκρῶν ἐνέβαλον, δόγμα θέμενοι μηδενὸς φείδεσθαι τῶν ἐν ἡλικίᾳ, παῖδας δὲ καὶ γυναῖκας ἀνδραποδίσασθαι. Δαΐφαντος οὖν ὁ Βαθυλλίου, τρίτος αὐτὸς ἄρχων, ἔπεισε τοὺς Φωκεῖς μὲν αὐ⸤τοὺς90 ἀπαντήσαντας τοῖς Θετταλοῖς μάχεσθαι, τὰς δὲ γυ⸥ ναῖκας ἅμα τοῖς τέκνοις εἰς ἕνα που τόπον συναγαγόντας ἐξ ἁπάσης τῆς Φωκίδος, ὕλην τε περινῆσαι ξύλων καὶ φυλακὰς καταλιπεῖν, πρόσταγμα δόντας, ἂν αἴσθωνται νικω-

13 Herod. VIII 27. 28 Polyaen. VIII 65 Paus. X 1.3–11 16 Plu. vit. Daiphanti commemoratur in Lampr. catal. 38 et Phot. bibl. cod. 161 p. 104b 19 Aeschin. de fals. leg. 140 1 ἐν τῇ πάσῃ πλάνῃ καὶ ναυτιλίᾳ Ω : ἐν γῇ πάσῃ πλάνης καὶ ναυτιλίας Xyl.2 : ἐν γῇ πάσῃ πλάνῃ καὶ ναυτιλίᾳ Wyttenbach : ἐν γῇ πάσης πλάνης καὶ ναυτιλίας Dueb. 1–2 εὖ τε καὶ καλῶς Ω : εὐτελῶς καὶ καλῶς sive εὖτε καὶ οὐ καλῶς Wyttenbach : μὴ εὖ τε καὶ καλῶς Halm. : εὖ τε καὶ κακῶς Bern. : εὐτελῶς καὶ ⟨μὴ⟩ καλῶς Na. : εὖ γε καὶ καλῶς πολιτεύουσιν Pohlenz 2 ἀμείνων ἐστί v αAEunβγσ 80,5 : ἄμεινόν ἐστι δ δὲ Ω : δεῖ Xyl.2 αὐτούς Ω : αὑτοῖς ⟨τοὺς⟩ Wil. 5 ἀπήντων v αAEunβγσ 80,5 : ἀπήντουν δ 17 γὰρ v αAEunβγσ 80,5: omisit δ 18 ἀπέκτειναν v αEunβγδσ : ἀπέκτεινον A 21 Βαθυλλίου v αAEnβγδ : Βαθυλίου u 80,5 : Βαθύλλου Wil. 22 μὲν αὐτοὺς Ω : μὲν, αὐτοὺς Stephanus : αὐτοὺς μὲν Dinse 24 ξύλων Ω : del. Papabasileios αἴσθωνται νικωμένους v αAEunβγσ 80,5 : ἔσθωνται νεικωμένους δ

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2. le donne focesi

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nare91 sul fatto che, per uomini che volevano vivere in maniera felice e prospera92, sarebbe stato meglio avere una dimora stabile93 quando essi erravano per lungo periodo anche per mare e fondare una nuova patria94, non potendo avere più quella che avevano perduto. In seguito a ciò, di comune accordo, bruciarono le navi95, sotto la guida, dicono, di una donna di nome Roma96. Avendo così fatto, andarono incontro agli uomini che stavano correndo in mare per salvare le navi e, poiché temevano alcune l’ira dei mariti, altre quella dei familiari, li fermarono e li baciarono con affetto e a lungo97, riuscendo a tranquillizzarli con il loro amore. Proprio da questa vicenda ha avuto origine ed ancora oggi, presso le donne romane, corre l’usanza98 di salutare con baci i propri familiari. I Troiani, dunque, constatato, a quanto sembra, lo stato di necessità e avendo nel contempo fatto conoscenza con la popolazione locale, che li accolse con cortesia e benevolenza, apprezzarono quanto era stato fatto dalle donne e decisero di stabilirsi e vivere in quel luogo insieme ai Latini99.

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Le donne focesi

L’impresa delle donne focesi, pur non essendo inferiore per virtù a nessuna delle gesta femminili, non ha avuto la ventura di essere trattata da uno scrittore illustre100, ma è attestata dai grandi sacrifici che i Focesi compiono ancora oggi presso Iampoli101 e da antichi decreti102. Di queste vicende ho scritto minuziosamente nella Vita di Daifanto103; alle donne, invece, accadde quanto segue. I Tessali stavano conducendo una guerra senza tregua contro i Focesi104: mentre questi ultimi uccisero in un giorno tutti i magistrati e tiranni tessali presenti nelle proprie città, i Tessali massacrarono105 duecentocinquanta ostaggi focesi e in seguito, dopo aver emanato un provvedimento che prevedeva di non risparmiare chiunque fosse in età idonea al combattimento e di ridurre in schiavitù donne e bambini, attraversando la Locride106, penetrarono in Focide con tutto il proprio esercito. Quindi, uno dei tre generali107, Daifanto108 figlio di Batillio, convinse da una parte i Focesi ad andare incontro ai Tessali e combatterli e, riunite poi in un certo luogo le donne insieme con i bambini provenienti da tutta quanta la Focide109, ad ammassare una grande quantità di legname110, e lasciare a presidio guardie

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la virtù delle donne

μένους αὐτούς, κατὰ τάχος τὴν ὕλην ἀνάψαι καὶ καταπρῆσαι τὰ σώματα.Ψηφισαμένων δὲ ταῦτα τῶν ἄλλων, εἷς ἐξαναστὰς ἔφη δίκαιον εἶναι ταῦτα συνδοκεῖν καὶ ταῖς γυναιξίν· εἰ δὲ μή, χαίρειν ἐᾶν καὶ μὴ προσβιάζεσθαι. Τούτου τοῦ λόγου διελθόντος εἰς τὰς γυναῖκας, αὐταὶ καθ᾿ ἑαυτὰς συνελθοῦσαι ταῦτα ἐψηφίσαντο καὶ τὸν Δαΐ⸤φαντον ἀνέδησαν, ὡς τὰ ἄριστα τῇ Φωκίδι βεβουλευμένον·⸥ τὰ δ᾿ αὐτὰ καὶ τοὺς παῖδας ἰδίᾳ φασὶν ἐκκλησιάσαντας ἐπιψηφίσασθαι. Πραχθέντων δὲ τούτων, συμβαλόντες οἱ Φωκεῖς περὶ Κλεωνὰς τῆς Ὑαμπόλιδος ἐνίκησαν. Τὸ μὲν οὖν ψήφισμα Φωκέων Ἀπόνοιαν οἱ Ἕλληνες ὠνόμασαν· ἑορτὴν δ᾿ ἐκ πασῶν μεγίστην τὰ Ἐλαφηβόλια μέχρι νῦν τῇ Ἀρτέμιδι τῆς νίκης ἐκείνης ἐν Ὑαμπόλιδι τελοῦσιν.

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Χῖαι

Χῖοι Λευκωνίαν ἐπῴκισαν ἐκ τοιαύτης αἰτίας. Ἐγάμει τις ἐν Χίῳ τῶν δοκούντων γνωρίμων εἶναι· ἀγο⸤μένης δὲ τῆς νύμφης ἐπὶ ζεύγους, ὁ βασιλεὺς Ἵπποκλος, ἐπι⸥τήδειος ὢν τῷ γαμοῦντι καὶ παρὼν ὥσπερ οἱ λοιποί, μέθης οὔσης καὶ γέλωτος, ἀνεπήδησεν ἐπὶ τὸ ζεῦγος, οὐδὲν ὑβριστικὸν πράξων, ἀλλ᾿ ἔθει κοινῷ καὶ παιδιᾷ χρώμενος· οἱ δὲ φίλοι τοῦ γαμοῦντος ἀπέκτειναν αὐτόν. Μηνιμάτων δὲ τοῖς Χίοις προφαινομένων καὶ τοῦ θεοῦ κελεύσαντος τοὺς Ἵπποκλον ἀνελόντας ἀνελεῖν, ἅπαντες ἔφασαν Ἵπποκλον ἀνῃρηκέναι. Πάντας οὖν αὖθις ὁ θεὸς ἐκέλευσε τὴν πόλιν ἐκλιπεῖν, εἰ πᾶσι τοῦ ἄγους μέτεστιν. Οὕτω δὴ τοὺς αἰτίους καὶ μετασχόντας τοῦ φόνου καὶ συνεπαινέσαντας ἁμωσγέπως, οὐκ ὀλίγους ⸤γενομένους οὐδ᾿ ἀδυνάτους ὄντας, ἀπῴκισαν εἰς Λευκω⸥νίαν, ἣν Κορωνεῖς ἀφελόμενοι πρότερον ἐκτήσαντο μετ᾿ Ἐρυθραίων. Ὕστερον δὲ πολέμου πρὸς τοὺς Ἐρυθραίους αὐτοῖς γενομένου, μέγιστον Ἰώνων δυναμένους τότε, κἀκείνων ἐπὶ τὴν Λευκωνίαν στρατευσάντων ἀντέχειν μὴ δυνάμενοι, συνεχώρησαν ἐξελθεῖν ὑπόσπονδοι, χλαῖναν ⸤μίαν ἑκάστου καὶ ἱμάτιον ἄλλο δὲ μηδὲν ἔχοντος. Αἱ δὲ γυναῖκες⸥ ἐκάκιζον αὐτούς, εἰ προέμενοι τὰ ὅπλα γυμνοὶ διὰ τῶν πολεμίων ἐξίασιν· ὀμωμοκέναι δὲ φασκόντων, ἐκέλευον αὐτοὺς τὰ μὲν ὅπλα μὴ καταλιπεῖν, λέγειν δὲ πρὸς τοὺς πολεμίους ὅτι χλαῖνα μὲν ἐστι τὸ ξυστόν, χιτὼν δ᾿ ἡ ἀσπίς, ἀνδρὶ θυμὸν ἔχοντι.

8 Paus. X 1.7 9 660D 1098F 11 Her. I 18 II 5.15 Athen. XIII p. 566e, ubi Κέαι proponit Wil.

Polyaen. VIII 66 20 Thuc. VIII 24.3

cf. Frontin.

4 ταῦτα Ω : ταὐτὰ Dueb. 5 βεβουλευμένον v αAEunβγσ 80,5 : βεβουλευμένος δ 9 Ἐλαφηβόλια v αAEunβγσ 80,5 : Ἐλαφιβόλια δ 13 παρὼν Ω : παριὼν Stegmann 14 ἀνεπήδησεν v αAEunβγσ 80,5 : ἀνεπίδησεν δ 15 φίλοι v αAEunβγσ 80,5 : φίλου δ 18 μέτεστιν v αAEnβδ : μετῆν uγ 80,5 19 φόνου v αAEunβγσ 80,5 : φθόνου δ 20 ἀπῴκισαν AEuβγδ : ἀπῴκησαν v αn Κορωνεῖς Ω : Κολωνεῖς Wil. 23 ἀντέχειν v αAEunβγσ 80,5 : ἀντέχει δ 24 ἔχοντος AEunβγδσ 80,5 80,22 : ἔχοντες v α 25 προέμενοι Π : προιέμενοι v

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3. le donne di chio

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con la consegna di dare fuoco alla legna e bruciare i corpi, in caso avessero appreso che gli uomini erano stati sconfitti. Dopo che tutti gli altri ebbero approvato per votazione tale provvedimento, un tale, alzatosi, sostenne che per quella decisione era giusto chiedere il benestare anche delle donne; in caso contrario bisognava lasciar perdere e non costringerle con la forza. Quando alle donne furono riferite queste parole, riunitesi tra di loro, approvarono quel provvedimento111 e cinsero con una corona Daifanto poiché aveva preso la migliore decisione per la Focide; si dice che anche i figli di queste, avendo indetto a parte una propria assemblea, votassero112 allo stesso modo. In seguito a questi fatti, i Focesi andarono allo scontro e vinsero presso Cleone di Iampoli113. I Greci, quindi, definirono questo provvedimento “Disperazione focese”114 e, proprio da quella vittoria, ancora oggi a Iampoli celebrano in onore di Artemide le Elafebolie115, la più grande delle loro feste.

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Le donne di Chio116

Gli abitanti di Chio117 fondarono la colonia118 di Leuconia119 per questo motivo. Stava per sposarsi uno dei notabili di Chio e, mentre la sposa era condotta sul carro, il re Ippoclo120, amico dello sposo e presente lì come tutti gli altri, nel pieno dell’ubriachezza e di una atmosfera scherzosa, saltò sul carro senza intenzione di fare alcunché di oltraggioso, ma seguendo una comune usanza dal carattere burlesco121: gli amici dello sposo, però, lo uccisero122. Essendo chiari ai Chioti i segni della collera divina123, e ordinando il dio di uccidere gli assassini di Ippoclo, tutti quanti si dichiararono colpevoli di quel delitto. In un secondo momento, il dio ordinò a tutti di lasciare la città nel caso che tutti fossero colpevoli di quell’atto empio. Così, non essendo né pochi né deboli, i colpevoli, i complici e quanti avevano in qualche modo approvato quell’omicidio, andarono a fondare una colonia a Leuconia sottraendola, con l’aiuto degli Eretriesi, ai Coronei124, che in precedenza la occupavano. Sorto poi125 un conflitto126 che opponeva i coloni chioti agli Eretriesi, che a quel tempo erano i più potenti tra gli Ioni, e non riuscendo a resistere all’attacco che gli Eretriesi avevano portato contro Leuconia, i Chioti, in seguito ad un accordo, acconsentirono ad evacuare la città non avendo indosso ognuno null’altro che un mantello e una veste127. Le donne, allora, li accusarono di viltà, se, gettando via le armi, passavano nudi davanti ai nemici, e, poiché gli uomini risposero di aver giurato, quelle intimarono

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C

Πεισθέντων δὲ ταῦτα τῶν Χίων καὶ πρὸς τοὺς Ἐρυθραίους παρρησιαζομένων καὶ τὰ ὅπλα δεικνυόντων, ἐφοβήθησαν οἱ Ἐρυθραῖοι τὴν τόλμαν αὐτῶν καὶ οὐδεὶς προσῆλθεν οὐδ᾿ ἐκώλυσεν, ἀλλ᾿ ἠγάπησαν ἀπαλλαγέντων. Οὗτοι μὲν οὖν θαρρεῖν διδαχθέντες ὑπὸ τῶν γυναικῶν οὕτως ⸤ἐσώθησαν. Τούτου δὲ οὐδέν τι λειπόμενον ἔργον ἀρετῇ⸥ καὶ χρόνοις ὕστερον πολλοῖς ἐπράχθη ταῖς Χίων γυναιξίν, ὁπηνίκα Φίλιππος ὁ Δημητρίου πολιορκῶν τὴν πόλιν ἐκήρυξε κήρυγμα βάρβαρον καὶ ὑπερήφανον, ἀφίστασθαι τοὺς οἰκέτας πρὸς ἑαυτὸν ἐπ᾿ ἐλευθερίᾳ καὶ γάμῳ τῆς κεκτημένης, ὡς συνοικιῶν αὐτοὺς ταῖς τῶν δεσποτῶν γυναιξί. Δεινὸν δὲ αἱ γυναῖκες καὶ ἄγριον θυμὸν λαβοῦσαι, μετὰ τῶν οἰκετῶν καὶ αὐτῶν συναγανακτούντων καὶ συμπαρόντων128 ὥρμησαν ἀναβαίνειν ἐπὶ τὰ τείχη, καὶ λίθους καὶ βέλη προσφέρουσαι καὶ παρακελευόμεναι καὶ προσλιπαροῦσαι129 ⸤τοῖς μαχομένοις, τέλος δὲ ἀμυνόμεναι καὶ βάλλουσαι τοὺς⸥ πολεμίους, ἀπεώσαντο τὸν Φίλιππον, οὐδενὸς δούλου τὸ παράπαν ἀποστάντος πρὸς αὐτόν.

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la virtù delle donne

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̓Αργείαι

Οὐδενὸς δὲ ἧττον ἔνδοξόν ἐστι τῶν κοινῇ διαπεπραγμένων γυναιξὶν ἔργων ὁ πρὸς Κλεομένη περὶ Ἄργους ἀγών, ὃν ἠγωνίσαντο, Τελεσίλλης τῆς ποιητρίας προτρεψαμένης. Ταύτην δέ φασιν οἰκίας οὖσαν ἐνδόξου τῷ δὲ σώματι νοσηματικὴν εἰς θεοὺς130 πέμψαι περὶ ὑγιείας· καὶ χρησθὲν αὐτῇ Μούσας θεραπεύειν, πειθομένην τῇ θεῷ καὶ ἐπιθεμένην ᾠδῇ καὶ ἁρμονίᾳ τοῦ τε πάθους ἀπαλλαγῆναι ταχὺ καὶ θαυμάζεσθαι διὰ ποιητικὴν ὑπὸ τῶν γυναικῶν. Ἐπεὶ δὲ Κλεομένης ὁ βασιλεὺς τῶν Σπαρτιατῶν ⸤πολλοὺς ἀποκτείνας (οὐ μήν, ὡς ἔνιοι μυθολογοῦσιν, ἑπτὰ⸥ καὶ ἑβδομήκοντα καὶ ἑπτακοσίους πρὸς ἑπτακισχιλίοις) ἐβάδιζε πρὸς τὴν πόλιν, ὁρμὴ καὶ τόλμα δαιμόνιος131 παρέστη ταῖς ἀκμαζούσαις τῶν γυναικῶν ἀμύνεσθαι τοὺς πολεμίους ὑπὲρ τῆς πατρίδος. Ἡγουμένης δὲ τῆς Τελεσίλλης, ὅπλα λαμβάνουσι καὶ παρ᾿ἔπαλξιν ἱστάμεναι132 κύκλῳ τὰ τείχη περιέστεψαν, ὥστε θαυμάζειν τοὺς πολεμίους. Τὸν μὲν οὖν Κλεομένην πολλῶν πεσόντων ἀπεκρούσαντο· τὸν ⸤δὲ ἕτε-

15 Herod. VI 77 Polyaen. VIII 33 VII 148 de sex milibus nobis narrat

cf. I 14

Paus. II 20.8–10

223A–C

21 Herod.

9 αὐτῶν v αAEunβγσ 80,5 : τῶν δ 10 συμπαρόντων Ω : συμπαθούντων Cobet : συμπαρορμώντων vel συμπραττόντων Wyttenbach : συμπαροξυνόντων Bern. 13 δούλου τὸ παράπαν v αAEnβγδ : δόλου τὸ παράπαν 80,5 : τὸ παράπαν δόλου u 14 ἀργεῖαι Π : ἀργολίδες v 16 Κλεομένη δ : Κλεομένην v αAEunβγσ 80,5 ἠγωνίσαντο v αAEunβγσ 80,5 : ἠγωνίσατο δ Τελεσίλλης v αAEunβγσ 80,5 : Τελλεσίλλης δ 17–18 εἰς θεοὺς Ω : εἰς θεοῦ Méziriacus 19 τῇ θεῷ Ω : τῷ θεῷ Méziriacus : in t η ex ω factum vidit Bern. 20 ὑπὸ τῶν γυναικῶν Ω : delevit Hu. 23 δαιμόνιος v αAunβδ : δαίμονος Euγσ 80,5 : δαὶμονον 80,22 24 Τελεσίλλης αunβγδ : Τελεσίνης v AE λαμβάνουσι Ω : λαμβάνουσαι Pohlenz 26 Κλεομένην Π : Κλεομένη v

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4. le donne di argo

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loro133 di non abbandonare le armi, ma piuttosto di dire ai nemici che per un uomo valoroso la lancia è la sua veste e lo scudo è il suo mantello. Dal momento che i Chioti parlavano senza paura agli Eretriesi e mostravano le armi, questi ne temerono l’audacia e così nessuno si avvicinò, né li ostacolò, ma si rallegrarono che fossero andati via. Dunque costoro, dopo aver imparato dalle donne ad essere ardimentosi, riuscirono in tal modo a salvarsi. Una impresa che, in quanto a virtù, non è per nulla inferiore a questa134, fu messa in atto dalle donne di Chio135 molto tempo dopo, quando Filippo, figlio di Demetrio136, mentre cingeva d’assedio la città137, emanò un proclama incivile e insolente che incitava gli schiavi a fuggire presso di lui in cambio della libertà e del matrimonio con la padrona, con l’intenzione quindi di unirli in matrimonio alle mogli dei rispettivi padroni138. Le donne allora, colte da uno sdegno tremendo e feroce ed in compagnia degli schiavi, che erano anch’essi indignati e pronti a fornire supporto, si affrettarono a salire sulle mura e, scagliando sassi e dardi139 ed esortando con insistenza i combattenti, infine respingendo e colpendo i nemici140, scacciarono Filippo senza che l’ombra di uno schiavo fosse passato dalla sua parte.

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Le donne di Argo141

Tra le imprese142 compiute collettivamente da donne143, nessuna è più celebre della battaglia in difesa di Argo combattuta contro Cleomene144 sotto l’impulso della poetessa Telesilla145. Si dice che costei, essendo di nobile casata ma molto malata nel fisico, si rivolse agli dei chiedendo della propria salute e, ricevuto responso di servire le Muse, obbedì alla dea146 dedicandosi alla poesia147 e alla musica148; guarita poi in breve tempo dalla malattia149, fu ammirata150 dalle altre donne per la sua arte poetica151. Quando Cleomene, re degli Spartani152, dopo aver ucciso un gran numero (e non, come alcuni favoleggiano153, settemilasettecentosettantasette) di Argivi, marciava verso la città154, un ardore e un’audacia divina di combattere i nemici155 a difesa della patria pervase le donne che erano nel pieno dell’età156. Quindi, sotto la guida di Telesilla, impugnarono le armi e, posizionatesi tutt’intorno ai merli, presidiarono le mura157 sì da stupire i nemici. Dunque respinsero prima Cleomene, infliggendogli gravi perdite, e succes-

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B

la virtù delle donne

ρον βασιλέα Δημάρατον, ὡς Σωκράτης φησίν,⸥ ἐντὸς γενόμενον καὶ κατασχόντα τὸ Παμφυλιακὸν ἐξέωσαν. Οὕτω δὲ τῆς πόλεως περιγενομένης, τὰς μὲν πεσούσας ἐν τῇ μάχῃ τῶν γυναικῶν ἐπὶ τῆς ὁδοῦ τῆς Ἀργείας ἔθαψαν, ταῖς δὲ σωθείσαις ὑπόμνημα τῆς ἀριστείας ἔδοσαν ἱδρύσασθαι τὸν Ἐνυάλιον. Τὴν δὲ μάχην οἱ μὲν ἑβδόμῃ λέγουσιν ἱσταμένου μηνός, οἱ δὲ νουμηνίᾳ γενέσθαι τοῦ νῦν μὲν τετάρτου, πάλαι δὲ Ἑρμαίου παρ᾿ Ἀργείοις, καθ᾿ ἣν μέχρι νῦν τὰ Ὑβριστικὰ τελοῦσι, γυναῖκας μὲν ἀνδρείοις χιτῶσι καὶ χλαμύσιν, ἄνδρας δὲ πέπλοις γυναικῶν καὶ ⸤καλύπτραις ἀμφιεννύντες. Ἐπανορθούμενοι δὲ τὴν ὀλι⸥γανδρίαν, οὐχ ὡς Ἡρόδοτος ἱστορεῖ τοῖς δούλοις, ἀλλὰ τῶν περιοίκων ποιησάμενοι πολίτας τοὺς ἀρίστους, συνῴκισαν τὰς γυναῖκας· ἐδόκουν δὲ καὶ τούτους ἀτιμάζειν καὶ περιορᾶν ἐν τῷ συγκαθεύδειν ὡς χείρονας. Ὅθεν ἔθεντο νόμον τὸν κελεύοντα πώγωνα δεῖν ἐχούσας συναναπαύεσθαι τοῖς ἀνδράσι τὰς γεγαμημένας.

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⸤Περσίδες

Πέρσας Ἀστυάγου βασιλέως καὶ⸥ Μήδων ἀποστήσας Κῦρος ἡττήθη μάχῃ· φεύγουσι δὲ τοῖς Πέρσαις εἰς τὴν πόλιν, ὀλίγον ἀπεχόντων συνεισπεσεῖν τῶν πολεμίων, ἀπήντησαν αἱ γυναῖκες πρὸ τῆς πόλεως καὶ τοὺς πέπλους ἐκ τῶν κάτω μερῶν ἐπάρασαι, “ποῖ φέρεσθε,” εἶπον, “ὦ κάκιστοι πάντων ἀνθρώπων; οὐ γὰρ ἐνταῦθά γε δύνασθε καταδῦναι φεύγοντες, ὅθεν ἐξεγένεσθε.” Ταύτην τὴν ὄψιν ἅμα καὶ τὴν φωνὴν αἰδεσθέντες οἱ Πέρσαι καὶ κακίσαντες ἑαυτοὺς ἀνέστρεψάν τε καὶ συμβαλόντες ἐξ ἀρχῆς ἐτρέψαντο τοὺς πολεμίους. Ἐκ ⸤τούτου κατέστη νόμος, εἰσελάσαντος βασιλέως εἰς τὴν πό⸥λιν ἑκάστην γυναῖκα χρυσοῦν λαμβάνειν, Κύρου νομοθετήσαντος. Ὦχον δέ φασι, τά τε ἄλλα μοχθηρὸν καὶ φιλοκερδέστατον βασιλέων ὄντα, περικάμψαι τὴν πόλιν ἀεὶ καὶ μὴ παρελθεῖν ἀλλ᾿ ἀποστερῆσαι τῆς δωρεᾶς τὰς γυναῖκας. Ἀλέξανδρος δὲ καὶ δὶς εἰσῆλθε καὶ ταῖς κυούσαις διπλοῦν ἔδωκε.

1 FGrH 310 F 6 8 Herod. VI 83 10 v. Lyc. 15.5 mor. 304E VII 45.2 Iustin. I 6.13–15 Nic. Dam. FGrH 90 F 66, 43.44 16 241B Alex. 69.1 i.e. Pasargades, cf. FGrH 90 F 66, 38 et al.

14 Polyaen. 248B 21 vit.

2 Οὕτω δὲ Ω : Οὕτω δὴ Bern. 4 ἑβδόμῃ v αAEunβγσ 80,5 : ἑβδόμην δ 6 τελοῦσι v αAEnβ : καλοῦσι uγδσ 80,5 9 συνῴκισαν AEuβγδ: συνῴκησαν v αn 11 πώγωνα v αAEnβγδ 80,5 : omisit u ἐχούσας Ω : ἔχουσι Ku. 19 ἀνέστρεψάν τε Ω : ἀνεστρέψαντο Fuhr

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5. le donne persiane

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sivamente158, secondo quanto dice Socrate159, scacciarono anche l’altro re Demarato160, che era penetrato in città e occupava il Panfiliaco161. E così, dopo aver salvato la città, seppellirono lungo la via Argiva le donne cadute in battaglia, mentre ricompensarono le sopravvissute facendo erigere una statua di Enialio162 come monumento al loro valore. Alcuni dicono che la battaglia avvenne nel settimo giorno163, altri invece la collocano nel giorno del novilunio di quello che ora è il quarto mese, ma che anticamente per gli Argivi era il mese consacrato ad Ermes164. Nella ricorrenza di tale giorno, ancora oggi, celebrano la Festa dell’Insolenza165, durante la quale le donne vestono chitoni e clamidi maschili166, mentre gli uomini indossano pepli e veli femminili. Posero quindi rimedio alla scarsezza di uomini167, facendo sposare le donne non con degli schiavi168, come riferisce Erodoto169, ma con i migliori perieci170 che erano divenuti cittadini argivi171; le donne, però, li ritenevano indegni e li trascuravano nella vita di coppia in quanto inferiori. Per questo stabilirono una legge172 che imponeva alle donne sposate di dormire con i propri mariti portando in volto una barba posticcia173.

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Le donne persiane174

Dopo aver istigato i Persiani alla ribellione contro re Astiage e i Medi, Ciro fu sconfitto in battaglia. Ai Persiani che fuggivano verso la propria città175, nella quale i nemici erano non lontani dal fare irruzione, vennero incontro le donne che, arrotolati i pepli alla vita176, esclamarono: “Dove ve ne andate, o peggiori tra tutti gli uomini? Fuggendo di certo non potete nascondervi lì da dove siete venuti fuori177”. I Persiani, provando vergogna per tale spettacolo e per tali parole, si resero conto di aver sbagliato, tornarono indietro e, ripresa la battaglia, misero in fuga i nemici178. In seguito a tale episodio179 ebbe origine l’usanza, istituita proprio da Ciro, per la quale il re, ogni volta che faceva il suo ingresso in città180, donava dell’oro ad ogni donna181. Narrano che Oco182, che per altro era il più miserabile e avido di denaro tra i re persiani, girava sempre intorno alla città senza entrarvi, privando così le donne del dono. Alessandro, invece183, non solo vi entrò due volte184, ma alle donne in attesa donò il doppio.

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Κελταί

Κελτοῖς, πρὶν ὑπερβαλεῖν Ἄλπεις καὶ κατοικῆσαι τῆς Ἰταλίας ἣν νῦν νέμονται χώραν, στάσις ἐμπεσοῦσα δεινὴ καὶ δυσκατάπαυστος εἰς πόλεμον ἐμφύλιον ⸤προῆλθεν. Αἱ δὲ γυναῖκες ἐν μέσῳ τῶν ὅπλων γενόμεναι καὶ⸥ παραλαβοῦσαι τὰ νείκη185 διῄτησαν οὕτως ἀμέμπτως καὶ διέκριναν, ὥστε φιλίαν πᾶσι θαυμαστὴν καὶ κατὰ πόλεις καὶ κατ᾿ οἴκους γενέσθαι πρὸς πάντας. Ἐκ τούτου διετέλουν περί τε πολέμου καὶ εἰρήνης βουλευόμενοι μετὰ τῶν γυναικῶν καὶ τὰ πρὸς τοὺς συμμάχους ἀμφίβολα δι᾿ ἐκείνων βραβεύοντες. Ἐν γοῦν ταῖς πρὸς Ἀννίβαν συνθήκαις ἐγράψαντο, Κελτῶν μὲν ἐγκαλούντων Καρχηδονίοις, τοὺς ἐν Ἰβηρίᾳ Καρχηδονίων ἐπάρχους καὶ στρατηγοὺς εἶναι δικαστάς· ἂν δὲ Καρχηδόνιοι Κελτοῖς ἐγκαλῶσι, τὰς Κελτῶν ⸤γυναῖκας.⸥

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la virtù delle donne

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Μηλίαι

Μήλιοι γῆς χρῄζοντες ἀμφιλαφοῦς Νυμφαῖον ἡγεμόνα τῆς ἀποικίας ἐποιήσαντο, νέον ἄνδρα καὶ κάλλει διαφέροντα· τοῦ θεοῦ πλεῖν κελεύσαντος αὐτούς, ὅπου δ᾿ ἂν ἀποβάλωσι τοὺς κομιστῆρας, ἐκεῖ κατοικεῖν, συνέπεσε τῇ Καρίᾳ προσβαλοῦσιν αὐτοῖς καὶ ἀποβᾶσι τὰς ναῦς ὑπὸ χειμῶνος διαφθαρῆναι. Τῶν δὲ Καρῶν οἱ Κρύασσαν οἰκοῦντες, εἴτε τὴν ἀπορίαν οἰκτίραντες εἴτε δείσαντες αὐτῶν τὴν τόλμαν, ἐκέλευον οἰκεῖν παρ᾿ αὐτοῖς καὶ τῆς χώρας μετέδωκαν· εἶτα πολλὴν ἐν ὀλίγῳ χρόνῳ λαμ⸤βάνοντας αὔξησιν ὁρῶντες, ἐπεβούλευον ἀνελεῖν εὐωχίαν τι⸥νὰ καὶ θοίνην παρασκευάσαντες. Ἔτυχε δὲ Καρίνη παρθένος ἐρῶσα τοῦ Νυμφαίου καὶ λανθάνουσα τοὺς ἄλλους· ἐκαλεῖτο δὲ Καφένη· πραττομένων δὲ τούτων οὐ δυναμένη τὸν Νυμφαῖον περιορᾶν ἀπολλύμενον, ἐξήγγειλε τὴν διάνοιαν αὐτῷ τῶν πολιτῶν. Ὡς οὖν ἧκον οἱ Κρυασσεῖς καλοῦντες αὐτούς, οὐκ ἔφη νόμον ὁ Νυμφαῖος Ἕλλησιν εἶναι βαδίζειν ἐπὶ δεῖπνον ἄνευ γυναικῶν· ἀκούσαντες δὲ οἱ Κᾶρες ἐκέλευον ἄγειν καὶ τὰς γυναῖκας. Οὕτω δὴ φράσας τὰ πεπραγμένα Μηλίοις ἐκέλευσεν αὐτοὺς μὲν ἀνό⸤πλους ἐν ἱματίοις βαδίζειν, τῶν δὲ γυναικῶν ἑκάστην ξίφος⸥ ἐν τῷ κόλπῳ κομίζειν καὶ καθέζεσθαι παρὰ τὸν αὑτῆς. Ἐπεὶ δὲ τοῦ δείπνου μεσοῦντος ἐδόθη τὸ σύνθημα τοῖς Καρσὶ καὶ συνῄσθοντο τὸν καιρὸν οἱ Ἕλληνες, αἱ μὲν γυναῖκες 2 Polyaen. VII 50

13 Polyaen. VIII 64

2 κατοικῆσαι v αAEnβγδ 80,5 : κατοικίσαι u 6 Ἐκ τούτου Π : Ἐκ τούτου γε v 10 ἐπάρχους Ω : ἱππάρχους Polyaen. ἐγκαλῶσι Eβ2 80,21 : ἐγκαλοῦσι v αAunγδσ 80,5 14 τοῦ θεοῦ Ω : τῦ δὲ θεοῦ Méziriacus 15 ἀποβάλωσι v αAEnβγδ : ἀποβάλλωσι u 80,5 17 et infra Κρύασσαν αAEnβγδ 80,22 : Κρύασαν uσ 80,5 : Κρύβασσαν v : Κρύασσον Xyl.2 : Κρυασσὸν Polyaen. 20 καὶ Ω : delevit Stegmann 24 ἐκέλευον v αAEnβγδ 80,5 : ἐκέλευσαν u 25 δὴ v αAEnβγδσ 80,5 : δὲ u 80,21 26 τῶν δὲ γυναικῶν v αAEnβγδσ : τῶν γυναικῶν δὲ u 80,5 27 αὑτῆς v αAEnδ : αὐτῆς u 28 συνῄσθοντο v αAEunβγ : συνέθεντο δ

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6. le donne celtiche – 7. le donne di melo

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Le donne celtiche186

Ai Celti187, prima di valicare le Alpi e stabilirsi nel territorio dell’Italia in cui ora vivono188, capitò una crisi tremenda e difficile da placare, che degenerò in guerra civile189. A quel punto le donne, postesi in mezzo agli schieramenti armati e presesi carico della disputa, fecero da giudici e risolsero la controversia in un modo così irreprensibile da creare una meravigliosa atmosfera di concordia generale, sia nelle città che nelle famiglie190. Dopo questa vicenda, i Celti continuarono a prendere decisioni con l’ausilio delle donne191 in questioni riguardanti guerra e pace, ed emettendo, insieme con esse192, giudizi in merito a dispute con gli alleati. Infatti, nei trattati con Annibale193, misero per iscritto194 che, in caso di controversie dei Celti contro i Cartaginesi, sarebbero stati giudici i governatori e generali cartaginesi presenti in Spagna195, mentre, se i Cartaginesi avessero avuto dispute con i Celti, i giudici sarebbero stati le donne dei Celti196.

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Le donne di Melo197

I Melii198, avendo bisogno di un ampio territorio, scelsero a capo di una colonia Ninfeo, uomo giovane e di insigne bellezza. Il dio aveva ordinato loro di navigare e di stabilirsi nel luogo in cui avessero perso ciò che li trasportava; capitò loro di accostarsi alla Caria e di riuscire a sbarcare dalle navi, che erano state distrutte da una tempesta. Quindi, i Cari che abitavano a Criasso, sia per compassione della loro condizione di disagio che per paura della loro audacia, li invitarono a stabilirsi presso di loro e a condividere quella terra. Quando poi videro che i Melii199 in poco tempo avevano raggiunto un grande sviluppo, tramarono di invitarli ad un sontuoso banchetto preparato ad arte ed ucciderli200. Il destino volle che una giovane caria si innamorasse di Ninfeo e all’insaputa degli altri; il suo nome era Cafene. Mentre si perfezionavano i preparativi del piano, ella, non potendo permettere che Ninfeo fosse ucciso, gli rivelò le intenzioni dei propri concittadini201. Quando dunque gli abitanti di Criasso vennero ad invitarli, Ninfeo rispose che per i Greci non era costume recarsi ad un banchetto senza le donne202, e perciò i Cari, sentite queste parole, li esortarono a portare anche le donne. Così, dopo aver narrato ai Melii l’accaduto, ordinò agli uomini di andare al banchetto senza armi e con un mantello indosso, e ad ognuna delle donne di portare una spada, nascosta nelle pieghe dei vestiti, e di sedersi accanto al proprio uomo. Quando nel pieno del banchetto ai Cari fu dato il segnale prestabilito e i Greci compresero che era giunto il momento dell’azione, le donne

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ἅμα πᾶσαι τοὺς κόλπους διέσχον, οἱ δὲ τὰ ξίφη λαβόντες ἐπέθεντο τοῖς βαρβάροις καὶ διέφθειραν αὐτοὺς ἅμα πάντας· κτησάμενοι δὲ τὴν χώραν καὶ τὴν πόλιν ἐκείνην καταβαλόντες, ᾤκισαν ἑτέραν, ἣν νέαν Κρύασσαν ὠνόμασαν. ⸤Ἡ δὲ Καφένη τῷ Νυμφαίῳ γαμηθεῖσα τιμὴν καὶ χάριν⸥ ἔσχε ταῖς εὐεργεσίαις πρέπουσαν. Ἄξιον οὖν ἄγασθαι τῶν γυναικῶν καὶ τὴν σιωπὴν καὶ τὸ θάρσος203, καὶ τὸ μηδεμίαν ἐν πολλαῖς μηδ᾿ ἄκουσαν ὑπὸ δειλίας κακὴν γενέσθαι.

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B

C

D

la virtù delle donne

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Τυρρηνίδες

Τυρρηνῶν τοίνυν τῶν Λῆμνον καὶ Ἴμβρον κατασχόντων, ἁρπασάντων δὲ Βραυρωνόθεν τὰς Ἀθηναίων γυναῖκας, ἐγένοντο παῖδες, οὓς ἐξήλασαν Ἀθηναῖοι μιξοβαρβάρους ὄντας ἐκ τῶν νήσων. Οἱ δὲ εἰς Ταίναρον κατάραντες ἐγένοντο χρήσιμοι Σπαρτιάταις περὶ τὸν εἱλωτικὸν πόλεμον, καὶ διὰ τοῦτο πολιτείας καὶ γάμων ⸤τυχόντες, οὐκ ἀξιούμενοι δὲ ἀρχείων καὶ βουλῆς, ὑπό⸥νοιαν ἔσχον ὡς ἐπὶ νεωτερισμῷ συνερχόμενοι καὶ διανοούμενοι τὰ καθεστῶτα κινεῖν. Συλλαβόντες οὖν αὐτοὺς οἱ Λακεδαιμόνιοι καὶ καθείρξαντες ἐφύλαττον ἰσχυρῶς, ζητοῦντες ἑλεῖν σαφέσι καὶ βεβαίοις ἐλέγχοις· αἱ δὲ τῶν καθειργμένων γυναῖκες ἐπὶ τὴν εἱρκτὴν παραγενόμεναι, πολλαῖς ἱκεσίαις καὶ δεήσεσι παρείθησαν ὑπὸ τῶν φυλάκων ὅσον ἀσπάσασθαι καὶ προσειπεῖν τοὺς ἄνδρας. Ἐπεὶ δὲ εἰσῆλθον, ἐκέλευον αὐτοὺς μεταμφιέννυσθαι ταχὺ τὰ ἱμάτια καὶ τὰ μὲν αὐτῶν ἐκείναις ἀπολιπεῖν, τὰ δ’ ἐκείνων ἐνδύν⸤τας αὐτοὺς ἀπιέναι περικαλυψαμένους. Γενομένων δὲ τού⸥των, αἱ μὲν ὑπέμειναν αὐτοῦ παραταξάμεναι πρὸς πάντα τὰ δεινά, τοὺς δὲ ἄνδρας ἐξαπατηθέντες οἱ φύλακες παρῆκαν ὡς δὴ γυναῖκας. Ἐκ δὴ τούτου καταλαβομένων αὐτῶν τὰ Ταΰγετα, καὶ τὸ εἱλωτικὸν ἀφιστάντων καὶ προσδεχομένων, οἱ Σπαρτιᾶται εἰς πολὺν φόβον καταστάντες ἐπεκηρυκεύσαντο καὶ διηλλάγησαν ἐπὶ τῷ κομίσασθαι μὲν αὐτοὺς τὰς γυναῖκας, χρήματα δὲ καὶ ναῦς λαβόντας ἐκπλεῦσαι καὶ γῆς τυχόντας ἀλλαχόσε καὶ πόλεως ἀποίκους Λακεδαιμονίων καὶ συγγενεῖς νομίζεσθαι. ⸤Ταῦτ᾿ ἔπραττον οἱ Πελασγοὶ Πόλλιν ἡγεμόνα καὶ Δελ⸥φὸν καὶ Κραταΐδαν Λακεδαιμονίους λαβόντες·

8 296B Herod. IV 146 VI 138 (Zenob. III 85) IV 6 ext. 3 26 Conon. FGrH 26 F 1.47 296 C

Polyaen. VII 49 Thuc. V 84

VIII 71

Val. Max.

7 τυρρηνίδες Π : λάκαιναι v 8–9 Βραυρωνόθεν Amyot : Βαυρωνόθεν Π : Βρανωνόθεν v 10 νήσων v αAEunβγσ 80,5 : νόσων δ Ταίναρον v αAEunβγσ 80,5 : Τέναρον δ 11 τοῦτο v αAEunβγσ 80,5 : τοῦτων δ 17 προσειπεῖν v αAEnβδ : προειπεῖν uγσ 80,5 80,22 18 ἀπολιπεῖν Π : καταλιπεῖν v αὐτῶν Ω : αὑτῶν Ku. τὰ δ᾿ u : τὰς δὲ v αAEnβγσ 80,5 21 καταλαβομένων v αAEunβγσ 80,5 : καταλαμβανομένων δ 24 ἀλλαχόσε Ω : ἀλλαχόθι vel ἀλλαχοῦ Dinse 26 καὶ Δελφὸν καὶ Κραταΐδαν Meursius : Pollis, Adelphus & Cratais Cruserius : καὶ ἀδελφὸν καὶ Κραταΐδαν Π : Κραταιΐδαν v : καὶ ἀδελφὸν Κραταΐδαν Xyl.2 : καὶ τὸν ἀδελφὸν Καλλικρατίδαν Valcken. : καὶ ἀδελφὸν ⟨αὐτοῦ⟩ Κραταΐδαν Na.

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8. le donne tirrene

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tutte insieme aprirono le vesti, e gli uomini, prese le spade, si lanciarono sui barbari, ammazzandoli tutti quanti. Impossessatisi quindi del territorio e abbattuta quella città, ne fondarono un’ altra che chiamarono Nuova Criasso. E Cafene, dopo essersi sposata204 con Ninfeo, ricevette l’onore e la riconoscenza che spettano alle benefattrici. È dunque giusto ammirare sia il silenzio che il coraggio delle donne; pur essendo in gran numero, nessuna di loro, neppure senza volere205, si lasciò prendere dalla paura206.

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Le donne tirrene207

Dopo che i Tirreni208 avevano occupato Lemno209 e Imbro210 e avevano portato via delle donne ateniesi da Brauron211, nacquero dei figli, che poi gli Ateniesi cacciarono dalle isole212 in quanto erano semibarbari213. Costoro, dunque, approdati a Tenaro214, furono utili agli Spartani nella guerra contro gli Iloti215 e per questo ottennero il diritto di cittadinanza e di contrarre matrimonio216. Non essendo però ritenuti degni di accedere a cariche militari o politiche, furono sospettati di effettuare riunioni con scopi sovversivi e di pianificare lo stravolgimento dell’ordine prestabilito. Perciò gli Spartani li riunirono, e, rinchiusili in prigione, li tenevano sotto stretta sorveglianza, cercando di incastrarli con prove chiare e certe. Allora le mogli dei prigionieri giunsero presso il carcere e, con molte preghiere e suppliche, ottennero dalle guardie il permesso di salutare i mariti e parlare con loro217. Quando queste furono dentro, esortarono i mariti a fare un veloce scambio di vestiti218, lasciare ad esse i panni maschili e, indossati gli indumenti femminili, fuggire sotto mentite spoglie. Messo in atto tale stratagemma219, le mogli rimasero lì pronte ad affrontare ogni pericolo, mentre le guardie furono ingannate e lasciarono uscire gli uomini credendo fossero donne220. Dopo la fuga, essi presero il Taigeto e, poiché avevano istigato e accolto nelle proprie fila gli Iloti, gli Spartani cominciarono ad avere timore e, mandate delle ambascerie, si accordarono di cessare le ostilità con i Tirreni, a patto che fossero restituite le mogli, fosse dato loro denaro e navi per salpare via e, in caso poi avessero ottenuto un territorio o una città in qualche altro luogo, di presentarsi come coloni e parenti dei Lacedemoni221. I Pelasgi222 fecero questo223 sotto la guida dei capi spartani Polli, Delfo224 e Crataide225; poi, una

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la virtù delle donne

καὶ μέρος μὲν αὐτῶν ἐν Μήλῳ κατῴκησαν· τοὺς δὲ πλείστους οἱ περὶ Πόλλιν ἔχοντες εἰς Κρήτην ἔπλευσαν, ἀποπειρώμενοι τῶν λογίων. Ἐχρήσθη γὰρ αὐτοῖς, ὅταν τὴν θεὸν καὶ τὴν ἄγκυραν ἀπολέσωσι, παύσασθαι πλάνης καὶ πόλιν ἐκεῖ συνοικίζειν. Ὁρμισθεῖσιν οὖν πρὸς τῇ λεγομένῃ Χερρονήσῳ θόρυβοι πανικοὶ προσέπεσον νύκτωρ, ὑφ᾿ ὧν διαπτοηθέντες ἐνεπήδησαν εἰς τὰς ναῦς ἀκόσμως, ἀπολιπόντες ἐν τῇ γῇ ξόανον226 τῆς Ἀρτέμιδος, ὃ πατρῷον ἦν αὐτοῖς εἰς Λῆμνον ἐκ ⸤Βραύρωνος κομισθέν, ἐκ δὲ Λήμνου πανταχοῦ συμπερια⸥γόμενον. Ἐπεὶ δὲ τοῦ θορύβου λήξαντος ἐπόθησαν αὐτὸ κατὰ πλοῦν, ἅμα δὲ ὁ Πόλλις κατέμαθε τῇ ἀγκύρᾳ τὸν ὄνυχα μὴ προσόντα (βίᾳ γὰρ ἑλκομένης ὡς ἔοικεν ἐν τόποις ὑποπέτροις ἀποσπασθεὶς ἔλαθε), περαίνεσθαι τὰ πυθόχρηστα φήσας ἐσήμαινεν ἀναστρέφειν· καὶ κατέσχε τὴν χώραν, καὶ μάχαις πολλαῖς τῶν ἀντιταξαμένων227 ἐπικρατήσας Λύκτον ᾤκησε καὶ πόλεις ἄλλας ὑποχειρίους ἔλαβε. Διὸ καὶ νομίζουσιν αὐτοὺς Ἀθηναίοις τε διὰ τὰς μητέρας κατὰ γένος προσήκειν καὶ Σπαρτιατῶν ἀποίκους εἶναι.

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⸤Λυκίαι

Τὸ δ᾿ ἐν Λυκίᾳ γενέσθαι λεγόμενον μυ⸥θῶδες μέν ἐστιν, ἔχει δέ τινα φήμην ὁμοῦ μαρτυροῦσαν. Ἀμισώδαρος γάρ, ὥς φασιν, ὃν Ἰσάραν Λύκιοι καλοῦσιν, ἧκεν ἐκ τῆς περὶ Ζέλειαν ἀποικίας Λυκίων, λῃστρίδας ἄγων ναῦς, ὧν Χίμαρρος ἡγεῖτο, πολεμιστὴς μὲν ἀνὴρ ὠμὸς δὲ καὶ θηριώδης. Ἔπλει δὲ πλοίῳ λέοντα μὲν ἔχοντι πρῴραθεν ἐπίσημον, ἐκ δὲ πρύμνης δράκοντα, ⸤καὶ πολλὰ κακὰ τοὺς Λυκίους ἐποίει, καὶ πλεῦσαι τὴν θά⸥λασσαν οὐκ ἦν οὐδὲ τὰς ἐγγὺς θαλάσσης πόλεις οἰκεῖν. Τοῦτον οὖν ἀποκτείνας ὁ Βελλεροφόντης φεύγοντα τῷ Πηγάσῳ διώξας, ἐκβαλὼν δὲ καὶ τὰς Ἀμαζόνας, οὐδενὸς ἐτύγχανε τῶν δικαίων, ἀλλ᾿ ἦν ἀδικώτατος περὶ αὐτὸν Ἰοβάτης· ὅθεν εἰς τὴν θάλασσαν ἐμβὰς ηὔξατο κατ᾿ αὐτοῦ τῷ Ποσειδῶνι τὴν χώραν ἄκαρπον γενέσθαι καὶ ἀνόνητον. Εἶτα ὁ μὲν ἀπῄει κατευξάμενος, κῦμα δὲ διαρθὲν ἐπέκλυζε τὴν γῆν· καὶ θέαμα δεινὸν ἦν, ἑπομένης μετεώρου τῆς θαλάσσης καὶ ἀποκρυπτούσης τὸ πεδίον. Ἐπεὶ δέ, τῶν ἀν⸤δρῶν δεομένων τὸν Βελλεροφόντην

15 Il. Z 152 sqq. Π 328 schol. Ven. ad Il. B 328 Z 181 Palaeph. 29 anon. de incredib. 7.13 (Lucian. De astrol. 13) Hygin. fab. 57 Apollod. II 3 Paus. II 1.9; 31.9 4 πανικοὶ v αAEunβγσ 80,5 : πανυκοὶ δ 6 Βραύρωνος Xyl.2 : Βαύρωνος Ω 9 ἑλκομένης v αAunβγδσ : ἑλκόμενος E² t 80,5 11 ἀντιταξαμένων v : αὐτῶν ταξαμένων αAEunβγδ 80,5 : αὐτῶν καταξαμένων σ 15 γενέσθαι v αAEunβγσ 80,5 : λεγέσθαι δ ὁμοῦ Ω : υ in rasura habet α : ὅμως Méziriacus : ὅμως συμμαρτυροῦσαν Herw. 16 φασιν v α : φησιν AEunβγδσ Ἰσάραν v αAEnβγδσ 80,5 : ἰστάραν u 17 χίμαρρος α n : χείμαρρος v AEuβγδσ : χείμαρος δ 23 ηὔξατο Ω : εὔξατο Bern. 24 εἶτα v αAunβγδσ 80,5 80,21 80,22 : εἶ του E ἀπῄει Ω : ἐπῄει ed. Basileensis 26 Βελλεροφόντην v αAEunβγσ 80,5 : Βελεροφόντην δ

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9. le donne licie

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parte di loro si stabilì a Melo228, mentre la maggioranza degli altri rimase insieme con Polli e navigò verso Creta, volendo saggiare la veridicità delle profezie229. Infatti era stato loro predetto che, quando avessero perduto la dea e l’ancora, avrebbero dovuto porre fine alla navigazione e fondare in quel luogo una città. Dopo aver gettato dunque l’ancora in quella parte di Creta chiamata Chersoneso230, di notte piombarono nel panico e nella confusione, a causa della quale saltarono disordinatamente a bordo delle navi dimenticando a terra la statua di Artemide231, che avevano ereditato dagli antenati, che avevano trasportato da Brauron a Lemno e portato dovunque con loro. Passato poi il momento di confusione, durante la navigazione ne rimpiansero la perdita, e nel contempo Polli si accorse che l’ancora era priva dell’arpione (trascinato con violenza, come sembra, per fondali sassosi, si era staccato senza che nessuno se ne accorgesse). Dichiarando allora che si erano compiute le profezie dell’oracolo, diede ordine di tornare indietro, occupò quella terra232 e, riuscito a prevalere in molte battaglie sugli schieramenti opposti233, colonizzò Litto234 e assoggettò altre città235. Ed è per questo motivo che essi ritengono di essere sia parenti degli Ateniesi, per discendenza materna, che coloni spartani236.

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Le donne licie237

Quanto si dice che accadde in Licia238 è simile ad una favola239, ma nel contempo possiede una certa tradizione240 che ne attesta la veridicità241. Si dice242, infatti, che Amisodaro243, che i Lici chiamano Isaras244, giungesse dalla colonia che i Lici avevano presso Zeleia245 portando delle navi pirata condotte da Chimarro246, guerriero e individuo sanguinario e brutale. Questi navigava su un vascello, che aveva come contrassegno un leone a prua e un serpente247 a poppa, e compieva numerosi atti ostili nei confronti dei Lici, al punto tale che non era più sicuro navigare per mare, né abitare città costiere. Bellerofonte248, dunque, uccise costui, dopo averlo inseguito con l’aiuto di Pegaso249, mentre fuggiva, scacciò anche le Amazzoni, ma non riuscì ad ottenere la dovuta riconoscenza250 e, per di più, Iobate251 era molto ingiusto nei suoi confronti. Proprio come vendetta verso quest’ultimo, Bellerofonte, inoltratosi in mare, chiese solennemente a Poseidone252 di far divenire quella terra sterile ed improduttiva. Dopo la preghiera, egli andò via e si alzò un enorme flutto che inondò la terra. Era uno spettacolo terribile: il mare sovrastava la terra e copriva la pianura253. In seguito, visto che gli uomini provarono senza esito a scongiurare Bellerofonte di placarsi, le donne, sollevatesi

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ἐπισχεῖν, οὐδὲν ἔπει⸥θον, αἱ γυναῖκες ἀνασυράμεναι254 τοὺς χιτωνίσκους ἀπήντησαν αὐτῷ· πάλιν οὖν ὑπ᾿ αἰσχύνης ἀναχωροῦντος ὀπίσω καὶ τὸ κῦμα λέγεται συνυποχωρῆσαι. Τινὲς δὲ τοῦ λόγου τούτου παραμυθούμενοι τὸ μυθῶδες255 οὔ φασι κατάραις ὑπαγαγέσθαι τὴν θάλασσαν αὐτόν, ἀλλὰ τοῦ πεδίου τὸ πιότατον ὑποκεῖσθαι τῇ θαλάσσῃ ταπεινότερον· ὀφρὺν δὲ παρατείνουσαν ἀκτῆς, ἣ διεῖργε τὴν θάλασσαν, ἐκρῆξαι τὸν Βελλεροφόντην, καὶ βίᾳ τοῦ πελάγους ἐπιφερομένου καὶ κατακλύζοντος τὸ πεδίον, τοὺς μὲν ἄνδρας οὐδὲν περαίνειν δεο⸤μένους αὐτοῦ, τὰς δὲ γυναῖκας ἀθρόας περιχυθείσας αἰ⸥δοῦς τυχεῖν καὶ ἀποπαῦσαι τὴν ὀργήν. Οἱ δ᾿ ὅλως τὴν λεγομένην Χίμαιραν ὄρος ἀντήλιον γεγονέναι φασὶ καὶ ποιεῖν ἀνακλάσεις καὶ ἀνακαύσεις256 ἐν τῷ ὄρει257 χαλεπὰς καὶ πυρώδεις, ὑφ᾿ ὧν ἀνὰ τὸ πεδίον σκεδαννυμένων μαραίνεσθαι τοὺς καρπούς. Τὸν δὲ Βελλεροφόντην συμφρονήσαντα διακόψαι τοῦ κρημνοῦ τὸ λειότατον καὶ μάλιστα τὰς ἀνακλάσεις ἀνταποστέλλον258· ἐπεὶ δ᾿ οὐκ ἐτύγχανε χάριτος, ὀργῇ πρὸς ἄμυναν τραπέσθαι τῶν Λυκίων, πεισθῆναι δὲ ὑπὸ τῶν γυναικῶν. Ἣν δὲ Νύμφις ἐν τῷ τετάρτῳ περὶ ⸤Ἡρακλείας αἰτίαν εἴρηκεν, ἥκιστα μυθώδης ἐστί· λέγει γάρ, ὅτι⸥ σῦν ἄγριον ἐν τῇ Ξανθίων χώρᾳ καὶ ζῷα καὶ καρποὺς λυμαινόμενον ἀνελὼν ὁ Βελλεροφόντης οὐδεμιᾶς ἐτύγχανεν ἀμοιβῆς· καταρασαμένου δὲ τῶν Ξανθίων αὐτοῦ πρὸς τὸν Ποσειδῶνα, πᾶν τὸ πεδίον ἐξήνθησεν ἁλμυρίδα καὶ διέφθαρτο παντάπασι, τῆς γῆς πικρᾶς γενομένης· μέχρι οὗ τὰς γυναῖκας αἰδεσθεὶς δεομένας εὔξατο τῷ Ποσειδῶνι τὴν ὀργὴν ἀφεῖναι. Διὸ καὶ νόμος ἦν τοῖς Ξανθίοις μὴ πατρόθεν ἀλλ᾿ ἀπὸ μητέρων χρηματίζειν.

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la virtù delle donne

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Σαλματίδες

Ἀννίβα δὲ τοῦ Βάρκα, πρὶν ἐπὶ ⸤Ῥωμαίους στρατεύειν, ἐν Ἰβηρίᾳ πόλει μεγάλῃ Σαλμα⸥τικῇ προσμαχομένου, πρῶτον μὲν ἔδεισαν οἱ πολιορκούμενοι καὶ συνέθεντο ποιήσειν τὸ προσταττόμενον, Ἀννίβᾳ τριακόσια δόντες ἀργυρίου τάλαντα καὶ τριακοσίους ὁμήρους. Ἀνέντος δὲ τὴν πολιορκίαν ἐκείνου, μεταγνόντες οὐδὲν ἔπραττον ὧν ὡμολόγησαν. Αὖθις οὖν ἐπιστρέψαντος αὐτοῦ καὶ τοὺς στρατιώτας ἐπὶ διαρπαγῇ χρημάτων κελεύσαντος ἐπιχειρεῖν τῇ πόλει, παντάπασι καταπλαγέντες οἱ

1 246A cf. Il. Z 162 9 an. de. incredib. 8 Olympiod. in Plat. Gorg. f. 177 (p. 523 Jahn) Vit. Arat. 22.4 14 FGrH 432 F 7 19 Herod. I 173 Nic. Dam. fr. 103 ap. Stob. IV 2.25 (p. 157H.) Heracl. Polit. 15 22 Polyaen. VII 48 1 ἔπειθον Ω : πειθόντων Ku. ἀνασυράμεναι τοὺς χιτωνίσκους Π : ἀνασειράμεναι τοὺς νεανίσκους v 4 ὑπαγαγέσθαι Ω : ἐπαγαγέσθαι Papageorg. 9 ἀντήλιον Ω : ἀνθήλιον Turn. 10 καὶ ἀνακαύσεις del. Cobet ὄρει Ω : θέρει Anonymus De incredib. πυρώδεις Ω : παρώδεις Ald. 12 μάλιστα τὰς Ω : μάλιστα τὸ τὰς Anonymus De incredib. 12–13 ἀνταποστέλλον Ω : ἀποστέλλειν aut ἀποστέλλον Anonymus De incredib. 15 ὅτι v αAEunβγσ 80,5 : omisit δ 17 πρὸς v αAEunβγσ 80,5 : omisit δ 24 Ἀννίβᾳ del. Stgm.

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10. le donne di salamanca

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le vesti259, andarono ad incontrarlo260; infine quegli, per la vergogna261, si tirò indietro e si dice che anche l’onda si ritrasse insieme a lui. Alcuni, cercando di attenuare il carattere mitico di questa storia262, dicono che Bellerofonte non condusse il mare con i suoi scongiuri263, ma che la parte più fertile della pianura giaceva più in basso rispetto al mare; egli, dunque, avrebbe rotto l’argine264 che si estendeva lungo la costa e che la divideva dal mare, e con violenza il mare avrebbe straripato inondando la piana. Quindi, dato che gli uomini non ottennero nulla con le loro preghiere, le donne gli si strinsero intorno tutte insieme265 e riuscirono ad ottenere da lui il rispetto e la fine della sua ira. Altri, invece, affermano che Chimera266 era il nome di un monte267 esposto al sole che produceva riflessi e vampate di calore268 pericolose ed ardenti sulla montagna269, per cui i frutti erano dispersi per la pianura e rovinati. Resosene conto, Bellerofonte avrebbe tagliato la parte più levigata del dirupo e che maggiormente rimandava indietro i riflessi dei raggi solari e, non ricevendo in cambio alcuna gratitudine, per vendetta si adirò con i Lici, ma fu placato dalle donne. La spiegazione che invece presenta Ninfi270, nel quarto libro del suo trattato271 su Eraclea272, è la più lontana dal mito273: egli, infatti, dice che Bellerofonte, dopo aver ammazzato un cinghiale274 che nella terra degli Xanti procurava danni ad animali e frutti, non avrebbe ottenuto alcuna riconoscenza e, rivoltosi a Poseidone per maledire gli Xanti, avrebbe fatto spuntare depositi salini su tutta la piana, mandandola totalmente in rovina a causa della salinizzazione del terreno275. Poi, provando riguardo nei confronti delle donne che lo supplicavano276, pregò Poseidone277 di placare la sua ira278. Ed è per questo motivo che, tra gli Xanti, vi era l’usanza di prendere nomi279 derivanti dalle madri280 e non dai padri281.

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Le donne di Salamanca

Annibale, figlio di Barca, prima di attaccare i Romani, prese d’assalto la grande città di Salamanca282, in Iberia283, e gli assediati, dapprima ebbero timore, poi convennero di eseguire quanto era stato loro ordinato, ossia consegnare ad Annibale trecento talenti d’argento ed altrettanti ostaggi284. Però, nel momento in cui quegli tolse l’assedio, essi cambiarono parere e non fecero nulla di quanto avevano deciso. Quando Annibale fu tornato subito indietro ed ebbe ordinato ai suoi soldati di impossessarsi della città per

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βάρβαροι συνεχώρησαν ἐξελθεῖν ἐν ἱματίῳ τοὺς ἐλευθέρους, ὅπλα καὶ χρήματα καὶ ἀνδράποδα ⸤καὶ τὴν πόλιν καταλιπόντας. Αἱ δὲ γυναῖκες οἰόμεναι⸥ τῶν μὲν ἀνδρῶν φωράσειν ἕκαστον ἐξιόντα τοὺς πολεμίους, αὐτῶν δὲ οὐκ ἂν ἅψασθαι, ξίφη λαβοῦσαι καὶ ἀποκρύψασαι συνεξέπιπτον τοῖς ἀνδράσιν. Ἐξελθόντων δὲ πάντων ὁ Ἀννίβας φρουρὰν Μασαισυλίων ἐπιστήσας ἐν τῷ προαστείῳ συνεῖχεν αὐτούς, οἱ δὲ ἄλλοι τὴν πόλιν ἀτάκτως ἐμπεσόντες διήρπαζον. Πολλῶν δ᾿ ἀγομένων, οἱ Μασαισύλιοι καρτερεῖν οὐκ ἠδύναντο βλέποντες ⸤οὐδὲ τῇ φυλακῇ τὸν νοῦν προσεῖχον, ἀλλ᾿ ἠγανάκτουν⸥ καὶ ἀνεχώρουν ὡς μεθέξοντες τῆς ὠφελείας. Ἐν τούτῳ δ᾿ αἱ γυναῖκες ἐμβοήσασαι τοῖς ἀνδράσι τὰ ξίφη παρέδοσαν, ἔνιαι δὲ καὶ δι᾿ ἑαυτῶν ἐπετίθεντο τοῖς φρουροῦσι· μία δὲ καὶ λόγχην ἐξαρπάσασα Βάνωνος τοῦ ἑρμηνέως αὐτὸν ἐκεῖνον ἔπαισεν· ἔτυχε δὲ τεθωρακισμένος· τῶν δ᾿ ἄλλων τοὺς μὲν καταβαλόντες, τοὺς δὲ τρεψάμενοι, διεξέπεσον ἀθρόοι μετὰ τῶν γυναικῶν. Πυθόμενος δ᾿ ὁ Ἀννίβας καὶ διώξας τοὺς μὲν καταλειφθέντας εἷλεν· οἱ δὲ τῶν ὀρῶν ἐπιλαβόμενοι παραχρῆμα μὲν διέφυγον, ὕστερον δὲ πέμψαντες ἱκετηρίαν εἰς ⸤τὴν πόλιν ὑπ᾿ αὐτοῦ κατήχθησαν, ἀδείας καὶ φιλανθρω⸥πίας τυχόντες.

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la virtù delle donne

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Μιλήσιαι

Τὰς Μιλησίων ποτὲ παρθένους δεινὸν πάθος καὶ ἀλλόκοτον κατέσχεν, ἐκ δή τινος αἰτίας ἀδήλου· μάλιστα δὲ εἰκάζετο κρᾶσιν ἐκστατικὴν καὶ φαρμακώδη λαβὼν ὁ ἀὴρ τροπὴν αὐταῖς καὶ παραφορὰν τῆς διανοίας ἐνεργάσασθαι. Πάσαις μὲν γὰρ ἐξαίφνης ἐπιθυμία θανάτου καὶ πρὸς ἀγχόνην ὁρμὴ περιμανὴς ἐνέπιπτε, πολλαὶ δὲ ἀπήγχοντο λανθάνουσαι· λόγοι δὲ καὶ δάκρυα γονέων καὶ παρηγορίαι φίλων οὐδὲν ἐπέραινον, ἀλλὰ περιῆσαν ἐπινοίας καὶ πανουρ⸤γίας ἁπάσης τῶν φυλαττόντων, ἑαυτὰς διαχρώμεναι. Καὶ⸥ τὸ κακὸν ἐδόκει δαιμόνιον εἶναι καὶ κρεῖττον ἀνθρωπίνης βοηθείας, ἄχρις οὗ γνώμῃ νοῦν ἔχοντος ἀνδρὸς ἐγράφη προβούλευμα, τὰς ἀπαγχομένας γυμνὰς ἐκκομίζεσθαι διὰ τῆς ἀγορᾶς· καὶ τοῦτο κυρωθὲν οὐ μόνον ἐπέσχεν,

17 frg. π. ψυχῆς (frg. 175 Sandb.) ap. Gell. XV 10 p. 35 f.

Polyaen. VIII 63

Hieron. adv. Jovin.

1 ἐν ἱματίῳ Ω : ἐνὶ ἱματίῳ Polyaen. 3 φωράσειν v αAEunβγσ 80,5 : φωράσιν δ 3–4 ξίφη λαβοῦσαι v αAEunβγδσ : λαβοῦσαι ξίφη t 6 ἀτάκτως ἐμπεσόντες v αAunβγδσ : ἐμπεσόντες ἀτάκτως E 7 ἠδύναντο Ω : ἐδύναντο Bern. 8 ἀνεχώρουν Π : ἀπεχώρουν v 9 αἱ γυναῖκες ἐμβοήσασαι v αAunβγδσ 80,5 80,21 80,22 : ἐμβοήσασαι αἱ γυναῖκες E ἐμβοήσασαι v αAEunβγ : ἐμβήσασαι δ : ἐμβοήσασθαι σ : ἐκβοήσασαι Polyaen. : ἐκβοηθήσασαι Valcken. 10 Βάνωνος v αAEunβγδσ2 : Hannonis cuiusdam Alaman. Ranutin. 11–12 καταβαλόντες v αAEunβγδσ : καταβαλλόντες t 13 καταλειφθέντας Ω : καταληφθέντας Hatz. εἷλεν Ω : ἀνεῖλεν Herw. 16 μιλήσιαι v αAEunγδσ : μηλὶσιαι β 80,21 80,22 17 μιλησίων v αAEunγδσ : μηλισίων β 80,21 19 γὰρ v αAEnβδ : omisit uγσ 80,5 80,22 24 ἄχρις Ω : ἄχρι Dueb.

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11. le donne di mileto

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depredarne le ricchezze, i barbari concessero agli uomini liberi, che erano estremamente spaventati, di andare via con indosso un mantello e dopo aver abbandonato le armi, i beni, gli schiavi e la città285. Ma le donne, pensando che i nemici avrebbero perquisito ognuno degli uomini che usciva dalla città senza curarsi di loro, dopo aver preso e nascosto delle spade286, andarono via insieme con gli uomini. Quando tutti furono usciti, Annibale li riunì nei pressi della città, ponendo un corpo di guardie masesile287 a sorveglianza, mentre il resto dei soldati si precipitava alla rinfusa a saccheggiare la città. I Masesili, quindi, visto il gran bottino che era stato fatto, non riuscirono a stare a guardare, né poterono continuare ad assolvere al proprio compito e neppure pensarono al servizio di guardia, ma si indignarono e si allontanarono per prendere parte ai saccheggi. Allora le donne, richiamati gli uomini con delle grida, consegnarono loro le spade, mentre tra di loro alcune si lanciarono anche sulle guardie: una donna sottrasse la lancia all’interprete288 Banone289 e lo colpì, ma la sorte volle che questi indossasse l’armatura290. Delle restanti guardie, alcune furono uccise ed altre messe in fuga, mentre gli uomini riuscirono a scappare in massa insieme con le donne. Annibale, dunque, informato dell’accaduto, si mise ad inseguirli e riuscì a catturare solo quelli che erano rimasti indietro rispetto al gruppo291. Gli altri fuggitivi, invece, riuscirono a raggiungere i monti292, e in un primo momento vi trovarono scampo, ma successivamente, dopo aver inviato un’ ambasceria perché lo supplicasse, furono ricondotti da Annibale in città293, ricevendo l’impunità ed un trattamento benevolo294.

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Le donne di Mileto295

Un tempo296 un male terribile e fuori dal comune, la cui origine era ignota297, colpì le giovani donne di Mileto298. Soprattutto, si presumeva che l’aria299, avendo assunto una composizione velenosa che influiva sulla mente300, producesse in loro uno sconvolgimento delle facoltà intellettive e il delirio301. Infatti, furono tutte improvvisamente colte da un desiderio di morte e da un insano desiderio di impiccarsi302, e molte si impiccarono di nascosto; le parole e le lacrime dei genitori e le esortazioni degli amici non sortivano alcun effetto, ma quelle superavano ogni sforzo ed astuzia di chi le sorvegliava togliendosi la vita303. Il male sembrava di origine divina e superiore al soccorso umano304, fin quando, su proposta di un uomo assennato, fu emanato un provvedimento che imponeva di trascinare305 nude306 per la piazza coloro che si erano impiccate307, e tale misura308 non solo arginò, ma

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la virtù delle donne

ἀλλὰ καὶ παντελῶς ἔπαυσε θανατώσας τὰς παρθένους. Μέγα δὴ τεκμήριον εὐφυΐας καὶ ἀρετῆς ἡ τῆς ἀδοξίας εὐλάβεια καὶ τὸ πρὸς τὰ δεινότατα τῶν ὄντων, θάνατον καὶ πόνον, ἀδεῶς ἐχούσας αἰσχροῦ φαντασίαν μὴ ὑπομεῖναι μηδὲ ἐνεγκεῖν αἰσχύνης μετὰ θάνατον ἐσομένης.

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⸤Κεῖαι

Ταῖς Κείων παρθένοις ἔθος ἦν εἰς ἱερὰ δημό⸥σια συμπορεύεσθαι καὶ διημερεύειν μετ᾿ ἀλλήλων, οἱ δὲ μνηστῆρες ἐθεῶντο παιζούσας καὶ χορευούσας· ἑσπέρας δὲ πρὸς ἑκάστην ἀνὰ μέρος βαδίζουσαι διηκονοῦντο τοῖς ἀλλήλων γονεῦσι καὶ ἀδελφοῖς ἄχρι τοῦ καὶ τοὺς πόδας ἀπονίζειν. Ἤρων πολλάκις μιᾶς πλείονες οὕτω κόσμιον ἔρωτα καὶ νόμιμον, ὥστε τῆς κόρης ἐγγυηθείσης ἑνὶ τοὺς ἄλλους εὐθὺς πεπαῦσθαι. Κεφάλαιον δὲ τῆς εὐταξίας τῶν γυναικῶν, τὸ μήτε μοιχείαν μήτε φθορὰν ἀνέγγυον ἐτῶν ἑπτακοσίων μνημονεύεσθαι παρ᾿ αὐτοῖς γενομένην.

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Τῶν ἐν Φωκεῦσι τυράννων κατειληφότων⸥ Δελφοὺς καὶ τὸν ἱερὸν κληθέντα πόλεμον Θηβαίων πολεμούντων πρὸς αὐτούς, αἱ περὶ τὸν Διόνυσον γυναῖκες, ἃς Θυιάδας ὀνομάζουσιν, ἐκμανεῖσαι καὶ πλανηθεῖσαι νυκτὸς ἔλαθον ἐν Ἀμφίσσῃ γενόμεναι· κατάκοποι δ᾿ οὖσαι καὶ μηδέπω τοῦ φρονεῖν παρόντος αὐταῖς, ἐν τῇ ἀγορᾷ προέμεναι τὰ σώματα σποράδην ἔκειντο καθεύδουσαι. Τῶν δὲ Ἀμφισσέων αἱ γυναῖκες, φοβηθεῖσαι μὴ διὰ τὸ σύμμαχον τὴν πόλιν Φωκέων γεγονέναι καὶ συχνοὺς στρατιώτας παρεῖναι τῶν τυράννων ἀγνωμονηθῶσιν αἱ Θυιάδες, ἐξέδραμον εἰς τὴν ἀ⸤γορὰν ἅπασαι καὶ κύκλῳ περιστᾶσαι σιωπῇ κοιμωμέναις⸥ μὲν οὐ προσῄε-

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⸤Φωκίδες

6 de Aristot. Rep. Ciorum Sop. ap. Phot. 161 p. 105 Bek. Schol. Apoll. Rhod. I 1177 de Athen. XIII p. 566 10 cf. 228B–C 13 rectius Ἀμφισσαῖαι inscribitur Wy. alia de Thyiadibus, inter quas Plutarchi temporibus etiam Clea erat, mor. 293C–F 364E 365A 953C cf. R.E. IV 2530 V 1018 Roscher, Lex. Myth. I 1029 sqq. Nilsson p. 284 3–4 αἰσχύνης – ἐσομένης Ω : αἰσχύνην – ἐσομένην Ku. : αἰσχύνας – ἐσομένας ed. Basileensis : μηδ᾿ ἐνεγκεῖν αἰσχύνης μετὰ θάνατον ἐσομένης delevit Papabasileios 5 κεῖαι Cobet : κῖαι v αEnβ 80,21 80,22 : omiserunt Aγδσ : σκίαι u 80,5 6 κείων Cobet : κίων v αAEnβγδ 80,21 80,22 : σκίων uσ 80,5 8 ἑκάστην v αAEu2nβγδσ βαδίζουσαι Ω : βαδίζοντες Xyl.2 ἀλλήλων Ω : αὐτῶν Xyl.2 9 ἀπονίζειν. ἤρων Ω : ἀπονίζειν. ⟨ τῶν δὲ μνηστήρων ⟩ ἤρων Na. 11 εὐταξίας Ω : ἀταξίας Ald. et ed. Basileensis 12 ἀνέγγυον Ω : ἀνέγγυων ed. Basileensis 15–16 ἃς Θυιάδας ὀνομάζουσιν ex marg. in textum irrepsisse videtur Na. negat Pohlenz, cum liber scribi potuerit, antequam Clea θυιὰς fieret (364e) 16 πλανηθεῖσαι v αAunβγδσ : περιπλανηθεῖσαι E

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12. le donne di ceo – 13. le donne di focide

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debellò completamente il fenomeno309 delle giovani donne che si toglievano la vita310. Grande testimonianza di nobile indole e di virtù311 sono il timore di una fama negativa, il comportamento ardito nei confronti degli eventi più terribili di questo mondo, quali la morte e la sofferenza312, e il fatto di non riuscire proprio a sopportare il pensiero dell’infamia né del disonore ricevuto dopo la morte313.

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Le donne di Ceo314

Le giovani donne di Ceo315 avevano l’usanza di andare tutte insieme ai sacrifici pubblici316 e di trascorrere le giornate tra loro, mentre i pretendenti le osservavano giocare e danzare317. Di sera, poi, recatesi a turno l’una presso la casa dell’altra, si mettevano a disposizione dei rispettivi genitori e fratelli, giungendo finanche a lavare loro i piedi. Spesso molti uomini si innamoravano di una donna, ma provavano un affetto così misurato e corretto che, non appena una fanciulla si fidanzava con uno dei pretendenti, subito tutti gli altri smettevano di farle la corte. Come risultato dei buoni costumi318 di queste donne, nel loro paese319 non si ricorda neppure un adulterio o una relazione illegittima nell’arco di settecento anni320.

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Le donne di Focide321

Nel tempo in cui i tiranni focesi s’impadronirono di Delfi e i Tebani scatenarono contro di loro il conflitto denominato “Guerra Sacra322”, le devote di Dioniso323, che questi chiamano Tiadi324, prese dal furore bacchico e girovagando di notte325, giunsero a propria insaputa ad Anfissa. Poiché erano sfinite e non avevano ancora ripreso piena coscienza326 delle proprie azioni, dopo essersi recate in piazza, in ordine sparso si stesero a terra addormentate. Temendo che le Tiadi venissero trattate in maniera disonorevole, poiché la città era alleata327 dei Focesi e per il fatto che molti soldati dei tiranni erano lì presenti328, le donne di Anfissa si precipitarono tutte quante in piazza e le circondarono in silenzio, senza avvicinarsi a quelle che dormi-

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la virtù delle donne

σαν, ἐπεὶ δ᾿ ἐξανέστησαν, ἄλλαι περὶ ἄλλας ἐγίγνοντο θεραπεύουσαι καὶ τροφὴν προσφέρουσαι· τέλος δὲ πείσασαι τοὺς ἄνδρας ἐπηκολούθησαν αὐταῖς ἄχρι τῶν ὅρων ἀσφαλῶς προπεμπομέναις.

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B

C

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⸤Οὐαλερία καὶ Κλοιλία

Ταρκύνιον Σού⸥περβον, ἕβδομον ἀπὸ Ῥωμύλου βασιλεύοντα Ῥωμαίων, ἐξήλασεν ὕβρις329 καὶ ἀρετὴ Λουκρητίας, γυναικὸς ἀνδρὶ γεγαμημένης λαμπρῷ καὶ κατὰ γένος προσήκοντι τοῖς βασιλεῦσιν. Ἐβιάσθη μὲν γὰρ ὑφ᾿ ἑνὸς τῶν Ταρκυνίου παίδων, ἐπιξενωθέντος αὐτῇ· φράσασα δὲ τοῖς φίλοις καὶ οἰκείοις τὸ πάθος εὐθὺς ἀπέσφαξεν ἑαυτήν. Ἐκπεσὼν δὲ τῆς ἀρχῆς ὁ Ταρκύνιος ἄλλους τε πολλοὺς ἐπολέμησε πολέμους, πειρώμενος ἀναλαβεῖν τὴν ἡγεμονίαν· καὶ τέλος ἄρχοντα Τυρρηνῶν Πορσίναν ἔπεισεν ἐπὶ τὴν Ῥώμην στρατεῦσαι μετὰ ⸤πολλῆς δυνάμεως. Ἅμα δὲ τῷ πολέμῳ καὶ λιμοῦ συνεπι⸥τιθεμένου τοῖς Ῥωμαίοις, πυνθανόμενοι τὸν Πορσίναν οὐ πολεμικὸν εἶναι μόνον, ἀλλὰ καὶ δίκαιον ἄνδρα καὶ χρηστόν, ἐβούλοντο χρῆσθαι δικαστῇ τῶν πρὸς Ταρκύνιον330. Ἀπαυθαδισαμένου δὲ τοῦ Ταρκυνίου καὶ τὸν Πορσίναν, εἰ μὴ μένει σύμμαχος βέβαιος, οὐδὲ κριτὴν δίκαιον ἔσεσθαι φάσκοντος, ἀφεὶς ἐκεῖνον ὁ Πορσίνας ἔπραττεν, ὅπως φίλος ἄπεισι Ῥωμαίων, τῆς τε χώρας ὅσην ἀπετέτμηντο Τυρρηνῶν καὶ τοὺς αἰχμαλώτους κομισάμενος. Ἐπὶ τούτοις ὁμήρων αὐτῷ δοθέντων δέκα μὲν ἀρρένων παίδων δέκα δὲ θηλειῶν (ἐν αἷς ⸤ἦν ἡ Ποπλικόλα τοῦ ὑπάτου θυγάτηρ Οὐαλερία331), πᾶ⸥σαν εὐθὺς ἀνῆκε τὴν πρὸς τὸν πόλεμον παρασκευήν, καίπερ οὔπω τέλος ἐχούσης τῆς ὁμολογίας. Αἱ δὲ παρθένοι κατέβησαν μὲν ἐπὶ τὸν ποταμὸν ὡς λουσόμεναι μικρὸν ἀπωτέρω τοῦ στρατοπέδου· μιᾶς δὲ αὐτῶν ὄνομα Κλοιλίας προτρεψαμένης, ἀναδησάμεναι περὶ τὰς κεφαλὰς τοὺς χιτωνίσκους παρεβάλοντο πρὸς ῥεῦμα πολὺ καὶ δίνας βαθείας νέουσαι διεπέρασαν 5 v. Public. 19 Polyaen. VIII 31 III 2.2 Flor. I 10.7 de vir. ill. 13

Liv. II 9.11.13

Dion. Hal. V 33.34

Val. Max.

4 οὐαλερία καὶ κλοιλία uσ 80,5 : οὐαλλερία καὶ κλοιλία AEβδ 80,21 80,22 : οὐαλερία κλοιλία αn : λουκρητία καὶ κοιλία v 7 Ταρκυνίου v A²Eβ²δ : Ταρκυνίων αunγσ 80,5 80,21 80,22 8 φράσασα v αAEunβγδσ 80,5 : φράσσα 80,22 9 lac. ante ἐκπεσὼν stat. Kal. 11 Πορσίναν v αAEunβγσ 80,5 : Πορσύναν δ 12 συνεπιτιθεμένου v αEn 80,52 : συνεπιτιθεμένων Auβγδσ 80,22 : συνεπιθεμένου Papageorg. Πορσίναν v αAnβγδσ 80,5 80,22 : Πορσύναν Eu 14 δικαστῇ vβ² : δικαστὴν αAEunγδσ 80,21 80,22 : ⟨τούτῳ⟩ δικαστῇ Na. τῶν πρὸς Ταρκύνιον v α2 : τὸν πρὸς Ταρκύνιον α : πρὸς τὸν Ταρκύνιον AEunβγδσ 80,22 : τῶν πρὸς τὸν Ταρκύνιον Boulogne τοῦ Ταρκυνίου καὶ τὸν Πορσίναν, εἰ μὴ μένει σύμμαχος βέβαιος, οὐδὲ v αAEunβγσ 80,5 : omisit δ 15 μένει Ω : μενεῖ Papabasileios 18 Ποπλικόλα v AEunβγδσ 80,22 : Πουπλικόλα α 19 Οὐαλερία Stephanus : οὐαλλερία n : βελλερία v αAEuβδσ 80,5 80,22 : βαλλερία 80,21 : βαλερία γ : Valeria Alaman. Ranutin. : βελερία Turn. 20 ὁμολογίας v αAEunβγσ 80,5 80,22 : ὁμιλίας δ 23 παρεβάλοντο v u : παρεβάλλοντο αAEnβγδσ 80,5 80,222 νέουσαι διεπέρασαν Ω : νέουσαι ⟨καὶ⟩ διεπέρασαν Stegmann

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14. valeria e clelia

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vano. Quando poi quelle si destarono, ognuna delle donne di Anfissa si pose accanto ad una Tiade prestandole soccorso e porgendole del cibo, e infine riuscirono anche ad ottenere dai propri mariti di poterle seguire, scortandole in tutta sicurezza fino al confine332.

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Valeria e Clelia333

L’arroganza e la virtù di Lucrezia334, donna sposata ad un uomo illustre335 e appartenente alla famiglia dei re, scacciarono dal trono Tarquinio il Superbo, settimo re di Roma a partire da Romolo. Ella, infatti, fu violentata da uno dei figli di Tarquinio336 cui aveva prestato ospitalità; dopo avere riferito ad amici e parenti la violenza subita, si uccise senza esitazione. Perduto il trono, Tarquinio intraprese molte ed altre guerre per cercare di reimpossessarsi del potere e, alla fine, convinse il re dei Tirreni, Porsenna337, a combattere contro i Romani con gran forza. I Romani si trovarono ad affrontare contemporaneamente il conflitto e la sopraggiunta carestia e, venuti a sapere che Porsenna era non solo un gran guerriero, ma anche un uomo giusto e buono, vollero servirsene come giudice nella disputa con Tarquinio. Quando poi Tarquinio affermò con arroganza che Porsenna, se non restava un fido alleato, non avrebbe potuto essere un buon arbitro, il capo etrusco lo abbandonò e fece in modo di andarsene da amico dei Romani, ottenendo in cambio la porzione di terra che era stata sottratta ai Tirreni e i prigionieri di guerra. In onore ai patti, gli furono dati in ostaggio dieci338 ragazzi e dieci ragazze (tra cui vi era Valeria, figlia del console Publicola) e Porsenna immediatamente sospese i preparativi bellici, anche se l’accordo non era ancora stato portato a termine. Le giovani scesero al fiume per lavarsi in una zona un po’ più distante dall’accampamento, ma, su esortazione di una di loro di nome Clelia339, si legarono gli abiti intorno alla testa, si gettarono in una corrente impetuosa e,

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ἀλλήλων ἐχόμεναι πολυπόνως καὶ μόλις. Εἰσὶ δὲ οἱ λέγοντες ἵππου τὴν Κλοιλίαν εὐπορήσασαν αὐτὴν μὲν ἐπιβῆναι καὶ διεξελαύνειν ἠρέμα, ταῖς δὲ ⸤ἄλλαις ὑφηγεῖσθαι παραθαρσύνουσαν νηχομένας καὶ πα⸥ραβοηθοῦσαν. Ὧι δὲ τεκμηρίῳ χρῶνται, μετ᾿ ὀλίγον ἐροῦμεν. Ἐπεὶ δὲ σωθείσας εἶδον οἱ Ῥωμαῖοι, τὴν μὲν ἀρετὴν καὶ τόλμαν ἐθαύμασαν, τὴν δὲ κομιδὴν οὐκ ἠγάπησαν οὐδ᾿ ὑπέμειναν ἐν πίστει χείρονες ἀνδρὸς ἑνὸς γενέσθαι. Πάλιν οὖν τὰς κόρας ἐκέλευσαν ἀπιέναι καὶ συνέπεμψαν αὐταῖς ἀγωγούς, οἷς διαβᾶσι τὸν ποταμὸν ἐνέδραν ὑφεὶς ὁ Ταρκύνιος ὀλίγον ἐδέησεν ἐγκρατὴς γενέσθαι τῶν παρθένων. Ἡ μὲν οὖν τοῦ ὑπάτου Ποπλικόλα θυγάτηρ Οὐαλερία μετὰ τριῶν προεξέφυγεν οἰκετῶν εἰς τὸ τοῦ Πορσίνα στρατόπεδον, ⸤τὰς δὲ ἄλλας ὁ τοῦ Πορσίνα υἱὸς Ἄρρους ταχὺ προσβοηθή⸥σας ἐξείλετο τῶν πολεμίων. Ἐπεὶ δὲ ἤχθησαν, ἰδὼν αὐτὰς ὁ Πορσίνας ἐκέλευσεν εἰπεῖν, ἥτις ἐστὶν ἡ προτρεψαμένη καὶ κατάρξασα τοῦ βουλεύματος. Αἱ μὲν οὖν ἄλλαι φοβηθεῖσαι περὶ τῆς Κλοιλίας ἐσιώπησαν· αὐτῆς δὲ τῆς Κλοιλίας εἰπούσης ἑαυτήν, ἀγασθεὶς ὁ Πορσίνας ἐκέλευσεν ἵππον ἀχθῆναι κεκοσμημένον εὐπρεπῶς, καὶ τῇ Κλοιλίᾳ δωρησάμενος ἀπέπεμψεν εὐμενῶς καὶ φιλανθρώπως πάσας. Τοῦτο ποιοῦνται σημεῖον οἱ πολλοὶ τοῦ τὴν Κλοιλίαν ἵππῳ διεξελάσαι τὸν ποταμόν· οἱ δὲ οὔ φασιν, ἀλλὰ τὴν ῥώμην θαυμάσαντα καὶ τὴν τόλμαν αὐτῆς ὡς κρείττονα γυναικὸς ἀξιῶσαι δωρεᾶς ἀνδρὶ πολεμιστῇ πρεπούσης. Ἀνέκειτο γοῦν ἔφιππος εἰκὼν γυναικὸς ἐπὶ τῆς ὁδοῦ τῆς ἱερᾶς λεγομένης, ἣν οἱ μὲν τῆς Κλοιλίας οἱ δὲ τῆς Οὐαλερίας λέγουσιν εἶναι.

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la virtù delle donne

Μίκκα καὶ Μεγιστώ

Plin. N.H. XXXIV 13.29

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Ἀριστότιμος Ἠλείοις ἐπαναστὰς τύραννος ἴσχυε μὲν δι᾿ Ἀντιγόνου τοῦ βασιλέως, ἐχρῆτο δὲ τῇ δυνάμει πρὸς οὐδὲν ἐπιεικὲς οὐδὲ μέτριον· καὶ γὰρ αὐτὸς ἦν φύσει θηριώδης, ⸤καὶ τοῖς φυλάττουσι τὴν ἀρχὴν καὶ τὸ σῶμα βαρβάροις⸥ μιγάσι δουλεύων ὑπὸ φόβου, πολλὰ μὲν ὑβριστικὰ πολλὰ δ᾿ ὠμὰ τοὺς πολίτας ὑπ᾿ αὐτῶν περιεώρα πάσχοντας· οἷον ἦν καὶ τὸ Φιλοδήμου πάθος. Ἔχοντος γὰρ αὐτοῦ θυγατέρα καλὴν ὄνομα Μίκκαν ἐπεχείρησέ τις τῶν περὶ τὸν τύραννον ξεναγῶν ὄνομα Λεύκιος ὕβρει μᾶλλον ἢ ἔρωτι συγγενέσθαι· καὶ πέμψας ἐκάλει τὴν παρθένον. Οἱ

18 Sen. cons. ad Marc. XVI 2 XXVI 1 Paus. V 5.1

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Serv. ad. Aen. VIII 646

21 Iustin.

3 νηχομένας Π : μηχανωμένας v παραβοηθοῦσαν v αAEunβ 80,5 80,22 : περιβοηθοῦσαν γδσ 4–5 καὶ τόλμαν v αn : καὶ τὴν τόλμαν AEuβγδσ 80,5 6 ἀνδρὸς ἑνὸς v αAunβγδσ 80,22 : ἑνὸς ἀνδρὸς E 9 Οὐαλερία Stephanus : οὐαλλερία v αAEunβγδσ 80,5 80,22 (hic et infra) 9–10 τὰς δὲ ἄλλας v αAEnβγδσ 80,22: τοῖς δὲ ἄλλοις u 80,5 10 προσβοηθήσας v αAEunβγσ 80,5 : προβοηθήσας δ 13 εἰπούσης v αAEunβγσ 80,5 : ὐπούσης δ 14 κεκοσμημένον v αAEnβγδσ 80,22 : κεκοσμημένην u 80,5 εὐπρεπῶς Ω : ἐκπρεπῶς Naber 20 Μίκκα καὶ Μεγιστώ Π : Μίκκα καὶ Μεγιστὼ καὶ Μυρώ v 24 ὑπ᾿ αὐτῶν v αAEunβγσ : omisit δ 26 ξεναγῶν Π : ξεναγωγῶν v

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15. micca e megisto

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nuotando tra flutti vorticosi, traversarono il corso d’acqua tenendosi legate le une alle altre e soffrendo travagli e stenti. Vi sono invece alcuni340 che dicono che Clelia, procuratasi un cavallo, attraversasse lentamente in sella ad esso il fiume e facesse da guida alle altre, prestando conforto e soccorso a loro che nuotavano. Diremo tra poco di quale testimonianza essi si servono. I Romani, nel momento in cui le videro sane e salve, da un lato ne ammirarono il valore e l’audacia, ma dall’altro non ne approvarono la fuga, né poterono tollerare che un uomo solo risultasse rispettoso dei patti più di loro stessi. Perciò ordinarono alle fanciulle di tornare di nuovo indietro e inviarono insieme con loro una scorta di uomini; proprio mentre questi stavano compiendo la traversata del fiume, Tarquinio tese un’imboscata giungendo quasi ad impossessarsi delle fanciulle. A quel punto Valeria, figlia del console341 Publicola342, riuscì a fuggire con tre schiavi all’accampamento di Porsenna, il cui figlio Arruns343, giungendo subito in soccorso, portò le altre fanciulle in salvo dai nemici. Quando le giovani donne gli furono riportate, Porsenna, osservandole, ordinò di riferire chi fosse stata l’istigatrice e promotrice della fuga. Le altre ragazze, avendo paura di Clelia, tacquero. Allora Clelia prese su di sé la colpa e Porsenna, stupefatto, ordinò di portare un cavallo splendidamente equipaggiato e, donatolo344 a Clelia, rimandò indietro tutte le fanciulle in maniera cortese e filantropica. I più assumono questo episodio a testimonianza del fatto che Clelia avesse passato il fiume a cavallo; altri invece non la pensano così e affermano che Porsenna, ammirando in lei una forza e un’audacia superiori a quelle di una donna, la ritenne degna di un dono adatto ad un guerriero. In seguito, in quella che è chiamata via Sacra345, fu innalzata una statua346 di donna a cavallo347 che alcuni ritengono raffiguri Clelia, mentre altri credono rappresenti Valeria.

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Micca e Megisto348

Aristotimo, dopo esser divenuto tiranno dell’Elide349, spadroneggiava grazie all’appoggio del re Antigono350 ed esercitava il proprio potere351 per niente di giusto o moderato. Infatti egli era di indole brutale e, per il timore di essere spodestato, era asservito a dei barbari di varie etnìe che custodivano il suo potere e la sua persona e, per tale motivo, lasciava correre molti atti crudeli e numerose azioni insolenti che i cittadini subivano da costoro. Di tale genere fu anche l’ingiustizia subita da Filodemo. Di fatti, egli aveva una figlia dall’aspetto avvenente chiamata Micca, e Lucio352, uno degli ufficiali mercenari353 che facevano parte della scorta del tiranno, cercò di intrecciare una relazione con lei, servendosi dell’arroganza piuttosto che dell’amore, e

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la virtù delle donne

μὲν οὖν γονεῖς τὴν ἀνάγκην ὁρῶντες ἐκέλευον βαδίζειν· ἡ δὲ παῖς οὖσα γενναία καὶ μεγαλόφρων ἐδεῖτο τοῦ πατρὸς περιπλεκομένη καὶ καθικετεύουσα μᾶλλον αὐτὴν περιιδεῖν ἀποθανοῦσαν ἢ τὴν ⸤παρθενίαν αἰσχρῶς καὶ παρανόμως ἀφαιρεθεῖσαν. Καὶ δια⸥τριβῆς γενομένης, σπαργῶν καὶ μεθύων ὁ Λεύκιος αὐτὸς ἐξανέστη μεταξὺ πίνων πρὸς ὀργήν· καὶ τὴν Μίκκαν εὑρὼν ἐν τοῖς γόνασι τοῦ πατρὸς τὴν κεφαλὴν ἔχουσαν ἐκέλευεν αὐτῷ συνακολουθεῖν· οὐ βουλομένης δὲ τὸ χιτώνιον περιρρήξας ἐμαστίγου γυμνήν, αὐτὴν μὲν ἐγκαρτεροῦσαν σιωπῇ ταῖς ἀλγηδόσιν· ὁ δὲ πατὴρ καὶ ἡ μήτηρ, ὡς οὐδὲν ἀντιβολοῦντες καὶ δακρύοντες ἐπέραινον, ἐτράποντο πρὸς θεῶν καὶ ἀνθρώπων ἀνάκλησιν ὡς δεινὰ καὶ παράνομα πάσχοντες. Ὁ δὲ βάρβαρος ἐκμανεὶς παντάπασιν ὑπὸ τοῦ θυ⸤μοῦ καὶ μέθης ἀποσφάττει τὴν παρθένον, ὡς ἔτυχεν ἐν τοῖς⸥ κόλποις τοῦ πατρὸς ἔχουσαν τὸ πρόσωπον. Ἀλλ᾿ οὐδὲ τούτοις ὁ τύραννος ἐκάμπτετο, πολλοὺς δ᾿ ἀνῄρει καὶ πλείονας ἐφυγάδευεν· ὀκτακόσιοι γοῦν λέγονται καταφυγεῖν ἐπ᾿ Αἰτωλοὺς δεόμενοι τὰς γυναῖκας αὑτοῖς καὶ τὰ νήπια τῶν τέκνων κομίσασθαι παρὰ τοῦ τυράννου. Ὀλίγῳ δ᾿ ὕστερον αὐτὸς ἐκήρυξε τὰς βουλομένας γυναῖκας ἀπιέναι πρὸς τοὺς ἄνδρας, ὅσα βούλονται τῶν γυναικείων χρημάτων ἐπιφερομένας. Ἐπεὶ δὲ πάσας ᾔσθετο μεθ᾿ ἡδονῆς τὸ κήρυγμα δεδεγμένας (ἐγένοντο γὰρ ὑπὲρ ἑξακόσιαι τὸ πλῆθος), ἐκέ⸤λευσεν ἀθρόας ἡμέρᾳ ῥητῇ βαδίζειν, ὡς τὴν ἀσφάλειαν⸥ αὐτὸς παρέξων. Ἐνστάσης δὲ τῆς ἡμέρας, αἱ μὲν ἐπὶ τὰς πύλας ἠθροίζοντο τὰ χρήματα συσκευασάμεναι, καὶ τῶν τέκνων τὰ μὲν ἐν ταῖς ἀγκάλαις φέρουσαι τὰ δ᾿ ἐπὶ τῶν ἁμαξῶν ἔχουσαι, καὶ περιέμενον ἀλλήλας· ἄφνω δὲ πολλοὶ τῶν τοῦ τυράννου ἐπεφέροντο, μένειν βοῶντες ἔτι πόρρωθεν. Ὡς δὲ ἐγγὺς ἐγένοντο, τὰς μὲν γυναῖκας ἐκέλευον ἀναχωρεῖν ὀπίσω, τὰ δὲ ζεύγη καὶ τὰς ἁμάξας ὑποστρέψαντες ἔωσαν εἰς αὐτὰς καὶ διὰ μέσων ἀφειδῶς διήλαυνον, οὔτ᾿ ἀκολουθεῖν οὔτε μένειν ἐῶντες οὔτε τοῖς νηπίοις βοηθεῖν ἀπολ⸤λυμένοις (τὰ μὲν γὰρ ἐκπίπτοντα τῶν ἁμαξῶν τὰ δ᾿ ὑπο⸥πίπτοντα διεφθείροντο), βοῇ καὶ μάστιξιν ὥσπερ πρόβατα τῶν μισθοφόρων ἐπειγόντων ἀνατρεπομένας ὑπ᾿ ἀλλήλων, ἕως εἰς τὸ δεσμωτήριον ἐνέβαλον ἁπάσας, τὰ δὲ χρήματα πρὸς τὸν Ἀριστότιμον ἀπεκομίσθη. Χαλεπῶς δὲ τῶν Ἠλείων ἐπὶ τούτοις ἐχόντων, αἱ περὶ τὸν Διόνυσον ἱεραὶ γυναῖκες, ἃς ἑκκαίδεκα καλοῦσιν, ἱκετηρίας καὶ στέμματα τῶν ἀπὸ τοῦ θεοῦ λαβοῦσαι περὶ τὴν ἀγορὰν ἀπήντησαν τῷ Ἀριστοτίμῳ, καὶ τῶν δορυφόρων ὑπ᾿ αἰδοῦς δια1 γενναία v αAEunβγσ 80,5 : γεννέα δ 4 γενομένης Ω : γινομένης Pant. 5 πρὸς ὀργήν Ω : πρὸς ἁρπαγὴν Pant. 6 ἐκέλευεν Ω : ἐκέλευσεν Turn. 10 ἐκμανεὶς v αAEunβγσ 80,5 : ἐκμανὴς δ ὑπὸ τοῦ θυμοῦ Ω : ὑπὸ τε θυμοῦ Po. 11 ἔχουσαν Ω : ἔχουσα Stephanus 13 ἐπ᾿ Αἰτωλοὺς Ω : εἰς Αἰτωλοὺς Herw. 13–14 τῶν τέκνων v αAEunβγσ 80,5 80,22 : τέκνα δ 15 ὅσα α2 (α in ras.) n : ὅσαι v AEuβγδσ 80,5 80,21 80,22 : ὅσον Stephanus 17 ὑπὲρ ἑξακόσιαι Eunδ : ὑπερεξακόσιαι v αAβγσ 80,5 80,22 : ὑπὲρ ἑξακοσίας Bern. ἀθρόας omisit u 18 Ἐνστάσης v αAEunβγσ 80,5 : Ἐνστάσεις δ 21 τοῦ v αAEnβδ : omiserunt uγσ 80,5 80,22 ἐπεφέροντο Ω : ἐπεφαίνοντο Cobet : συνεπεφέροντο Bern. 25 διεφθείροντο Ω : διεφθείρετο Dinse 27 ἐνέβαλον v αAEnβγδσ 80,5 : ἐνέβαλλον u ἀπεκομίσθη Π : ἐκομίσθη v 29 ἃς ἑκκαίδεκα Ω : ἃς ⟨τὰς⟩ ἑκκαίδεκα Herw.

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15. micca e megisto

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mandò un invito alla fanciulla. Dunque i genitori della ragazza, valutando la necessità, le ingiunsero di recarsi da lui, ma la fanciulla, essendo di animo onesto e nobile, chiese al padre con abbracci e suppliche di lasciarla morire, piuttosto che farle perdere la verginità in maniera turpe ed illegale. Dato che la fanciulla tardava, Lucio, che nel frattempo aveva bevuto ed era gonfio di desiderio e di vino, scattò in piedi per la collera e, avendo trovato Micca con la testa riversa tra le ginocchia del padre, ordinò ad entrambi di seguirlo. Poiché ella non voleva, Lucio le strappò di dosso la tunica e la prese a frustate sul corpo nudo, mentre quella sopportava le sofferenze in silenzio. Allora il padre e la madre, non riuscendo ad ottenere nulla con suppliche e lacrime, si rivolsero agli dei e agli uomini perché fossero testimoni dei mali orrendi e ingiusti che stavano soffrendo. Il barbaro, dunque, completamente furioso per il desiderio e l’ubriachezza, uccise la fanciulla che aveva per caso il volto appoggiato sul petto del padre354. Il tiranno, però, non si piegò dinnanzi a simili avvenimenti, ma faceva ammazzare molti uomini e molti altri esiliava: si dice che almeno ottocento persone fuggirono presso gli Etoli, chiedendo per le proprie mogli ed i figli più piccoli la salvezza dal tiranno. Poco tempo dopo, fece proclamare pubblicamente che, le donne che ne avessero intenzione, potevano raggiungere i propri mariti, portando con sé quanto volevano dei propri beni. Quando vide che tutte le donne avevano accettato con piacere il proclama (erano infatti più di seicento), ordinò loro di riunirsi tutte in un giorno stabilito, affinché egli stesso potesse provvedere alla loro sicurezza. Giunto il giorno prestabilito, le donne si radunarono sistemando i propri beni davanti alle porte della città; portavano alcuni bambini tra le braccia, mentre altri li tenevano su carri e si attendevano a vicenda. All’improvviso molti uomini del tiranno si lanciarono sulle donne, urlando loro da lontano di attendere ancora. Non appena furono vicini, ingiunsero alle donne di tornare di nuovo indietro, fecero girare i buoi ed i carri su se stessi e, senza pietà, spinsero le donne in mezzo, non permettendo loro di seguire, né di restare ferme, né di soccorrere i bambini che stavano morendo (infatti alcuni bambini cadevano dai carri e altri morivano schiacciati). I mercenari le spingevano con urla e frustate, proprio come si fa con le bestie355, e le facevano scontrare le une con le altre, finché non le condussero tutte quante in carcere, mentre i loro averi furono portati ad Aristotimo. Poiché gli Elei furono indignati da questi avvenimenti, le sacre donne devote a Dioniso, chiamate le “Sedici”356, presi i rami e le bende supplici consacrati dal dio, si recarono in piazza per incontrare Aristotimo e, dopo che

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la virtù delle donne

στάντων, ἔστησαν τὸ πρῶτον σιωπῇ ὁσίως προϊσχόμεναι τὰς ἱκετηρίας. Ἐπεὶ δὲ ⸤ἐγένοντο φανεραὶ δεόμεναι καὶ παραιτούμεναι τὴν ὀργὴν⸥ ὑπὲρ τῶν γυναικῶν, παροξυνθεὶς πρὸς τοὺς δορυφόρους καὶ κεκραγὼς ὅτι προσελθεῖν εἴασαν αὐτὰς ἐποίησε357 τὰς μὲν ὠθοῦντας τὰς δὲ τύπτοντας ἐξελάσαι ἐκ τῆς ἀγορᾶς, ἑκάστην δὲ δυσὶ358 ταλάντοις ἐζημίωσε. Γενομένων δὲ τούτων, ἐν μὲν τῇ πόλει συνέστησε πρᾶξιν ἐπὶ τὸν τύραννον Ἑλλάνικος, ἀνὴρ359 διὰ γῆρας ἤδη καὶ δύο τέκνων θάνατον ὡς οὐδὲν ἂν πράξας ὑπὸ τοῦ τυράννου περιορώμενος. ⸤Ἐκ δ᾿ Αἰτωλίας διαπεράσαντες οἱ φυγάδες κατα⸥λαμβάνουσι τῆς χώρας ἐπιτήδειον ἐμπολεμεῖν ἔρυμα τὴν Ἀμυμώνην, καὶ συχνοὺς προσεδέχοντο τῶν πολιτῶν ἐκ τῆς Ἤλιδος ἀποδιδράσκοντας. Ταῦτα δὲ δείσας ὁ Ἀριστότιμος εἰσῆλθε πρὸς τὰς γυναῖκας, καὶ νομίζων φόβῳ μᾶλλον ἢ χάριτι διαπράξεσθαι προσέταττε πέμπειν καὶ γράφειν αὐτὰς τοῖς ἀνδράσιν ὅπως ἀπίωσιν ἐκ τῆς χώρας· εἰ δὲ μή, κατασφάξειν ἠπείλει πάσας αἰκισάμενος καὶ προανελὼν τοὺς παῖδας. Αἱ μὲν οὖν ἄλλαι, πολὺν χρόνον ἐφεστῶτος καὶ κελεύοντος εἰπεῖν εἴ τι πράξουσι τούτων, οὐδὲν ἀπεκρίναν⸤το πρὸς ἐκεῖνον, ἀλλὰ προσέβλεψαν ἀλλήλαις σιωπῇ⸥ καὶ δι᾿ εὔνοιαν360, ἀνθομολογούμεναι τὸ μὴ δεδιέναι μηδ᾿ ἐκπεπλῆχθαι τὴν ἀπειλήν. Μεγιστὼ δὲ ἡ Τιμολέοντος γυνὴ καὶ διὰ τὸν ἄνδρα καὶ τὴν ἀρετὴν ἡγεμονικὴν ἔχουσα τάξιν, διαναστῆναι μὲν οὐκ ἠξίωσεν οὐδ᾿ εἴασε τὰς ἄλλας· καθεζομένη δ᾿ ἀπεκρίνατο πρὸς αὐτόν, “εἰ μὲν ἠ̄ ς ἀνὴρ φρόνιμος, οὐκ ἂν διελέγου γυναιξὶ περὶ ἀνδρῶν, ἀλλὰ πρὸς ἐκείνους ἂν ὡς κυρίους ἡμῶν ἔπεμπες, ἀμείνονας λόγους εὑρὼν ἢ δι᾿ ὧν ἡμᾶς ἐξηπάτησας· εἰ δὲ αὐτὸς ἐκείνους πεῖσαι ἀπεγνωκὼς δι᾿ ἡμῶν ἐπιχειρεῖς παραλογίζε⸤σθαι, μήθ᾿ ἡμᾶς ἔλπιζε πάλιν ἐξαπατήσειν μήτ᾿ ἐκεῖνοι⸥ κακῶς οὕτω φρονήσειαν, ὥστε φειδόμενοι παιδαρίων καὶ γυναικῶν ἐγκαταλιπεῖν τὴν τῆς πατρίδος ἐλευθερίαν· οὐ γὰρ τοσοῦτο κακὸν αὐτοῖς ἡμᾶς ἀπολέσαι μηδὲ νῦν ἔχοντας, ὅσον ἀγαθὸν ἐξελέσθαι τῆς σῆς ὠμότητος καὶ ὕβρεως τοὺς πολίτας”. Ταῦτα τῆς Μεγιστοῦς λεγούσης, οὐκ ἀνασχόμενος ὁ Ἀριστότιμος ἐκέλευσε τὸ παιδίον αὐτῆς ὡς ἀποκτενῶν ἐν ὄψει κομισθῆναι. Ζητούντων δὲ τῶν ὑπηρετῶν ἀναμεμιγμένον ἐν τοῖς ἄλλοις παίζουσι καὶ διαπαλαίουσιν, ἡ μήτηρ ὀνομαστὶ προσκαλεσαμένη, “δεῦρο”, ἔφη, “τέκνον, ⸤πρὶν αἰσθέσθαι καὶ φρονεῖν ἀπαλλάγηθι τῆς πικρᾶς τυραν⸥νίδος· ὡς ἐμοὶ βαρύτερόν ἐστι δουλεύοντά σε παρ᾿ ἀξίαν ἐφορᾶν ἢ ἀποθνῄσκοντα”. Τοῦ δὲ Ἀριστοτίμου σπασαμένου τὴν μάχαι-

1 τὸ πρῶτον v αAEunβγδσ 80,5 : τῷ πρότω δ σιωπῇ ὁσίως Ω : σιωπῇ del. Papabasileios : σιωπῇ κοσμίως Naber : σιωπῇ ⟨καὶ⟩ ὁσίως Schellens 4 ἐκ delevit Benseler 5 Γενομένων δὲ τούτων v αn : Γενομένων τούτων Euβγδσ 6 Ἑλλάνικος, ἀνὴρ Stephanus : ἑλλανικὸς ἀνήρ, v αAEunβγδ 80,5 80,21 : ἑλληνικὸς ἀνήρ, σ 11 διαπράξεσθαι Stephanus : διαπράξασθαι Ω 15 δι᾿ εὔνοιαν Ω : διένευσαν Wy. 17 τὴν v αAEunβγσ : δι᾿ δ 21 πεῖσαι Ω : πείσειν Bern. 23 γυναικῶν Ω : γυναίων Cobet 26 ἐκέλευσε Ω : ἐκέλευε Reiske 28 προσκαλεσαμένη v Eβ 80,21 : προκαλεσαμένη αAunγσ 80,5 : πρὸς καλεσαμένη δ αἰσθέσθαι v αAEunβγσ 80,5 : ἔσεσθαι δ 30 ἢ v αAEβγδ 80,21 : omis. uσ 80,5

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le guardie del corpo si furono spostate per rispetto, rimasero in un primo momento religiosamente in silenzio, protendendo i rami supplici. Quando fu chiaro che quelle lo imploravano e scongiuravano di deporre l’ira in nome delle donne, scagliatosi contro le guardie del corpo e urlando improperi, poiché avevano permesso alle donne di passare, ne fece allontanare dalla piazza alcune a forza di spintoni e altre a suon di percosse, infliggendo inoltre ad ognuna di loro una multa di due talenti. Dopo questi fatti, in città, ordì un complotto contro Aristotimo Ellanico, uomo che per la vecchiaia e per la morte dei due figli era ritenuto dal tiranno inoffensivo e incapace di agire. Gli esuli, dopo aver attraversato l’Etolia, s’impadronirono di Amimone, una postazione del territorio vantaggiosa per combattere, ed accolsero numerosi cittadini fuggiti di nascosto dall’Elide361. Aristotimo, temendo questa situazione, si recò dalle donne e, ritenendo di riscuotere maggior credito con il terrore piuttosto che con l’amabilità, ordinò loro di mandare ai propri mariti delle lettere con le quali si invitavano a ritirarsi da quella regione; se non l’avessero fatto, minacciò di ucciderle tutte e di torturare ed ammazzare i loro bambini. Dunque le altre donne, trascorso molto tempo e avendo ricevuto l’ordine di dire se avevano intenzione di mettere in pratica qualcuno dei piani proposti, non risposero niente a quello, ma si guardavano tra loro in silenzio362 e con affetto, testimoniando di non essere né impaurite, né costernate dalla minaccia363. A quel punto Megisto, moglie di Timoleonte, che per via del marito e della propria virtù possedeva predisposizione a comandare, non si degnò d’alzarsi in piedi, né permise alle altre di farlo, ma, restando seduta, gli disse: “Se fossi stato un uomo saggio, non avresti discusso con delle donne riguardo ai loro mariti, ma le avresti mandate da loro, che hanno l’autorità su di noi, usando parole migliori di quelle con cui ci hai ingannato. Ma se, dal momento che disperi di convincere quelli, cerchi di ingannarli tramite noi, non sperare di imbrogliarci di nuovo, e non pensare che quelli siano così stupidi da lasciar perdere la libertà della patria per aver salva la vita di mogli e bambini: infatti, per loro non è un male così grande il fatto di perdere noi, che in questo momento non siamo neanche con loro, quanto invece è un bene liberare i cittadini dalla tua crudeltà e arroganza”. Aristotimo non sopportò queste parole pronunciate da Megisto ed ordinò di sottrarle il figlio e di ucciderlo sotto i suoi occhi. Mentre i servitori lo cercavano, confuso tra gli altri bambini che giocavano e facevano la lotta, la madre, chiamatolo per nome, disse: “Vieni, figlio364, liberati dalla misera tirannide prima di riuscire a comprendere e pensare, poiché per me è più insopportabile vederti indegnamente schiavo che vederti morire365”. Allora Aristotimo estrasse il coltello e, quando lo ebbe rivolto con collera contro Megisto, uno dei suoi amici di nome Cilone366, che il tiranno credeva

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ραν ἐπ᾿ αὐτὴν ἐκείνην καὶ μετ᾿ ὀργῆς ἐπιφερομένου, τῶν συνήθων τις αὐτῷ Κύλων ὄνομα πιστὸς δοκῶν εἶναι, μισῶν δὲ καὶ μετέχων τῆς συνωμοσίας τοῖς περὶ τὸν Ἑλλάνικον, ἀντέστη καὶ ἀπέστρεψε δεόμενος καὶ λέγων ἀγεννὲς εἶναι καὶ γυναικῶδες οὐκ ἀνδρὸς ἡγεμονικοῦ καὶ πράγμασι χρῆσθαι μεμαθηκότος τὸ ἔργον· ὥστε μόλις ἔννουν γενόμενον τὸν Ἀριστότιμον ἀπελθεῖν. Γίγνεται δὲ σημεῖον ⸤αὐτῷ μέγα· μεσημβρία μὲν γὰρ ἦν καὶ μετὰ τῆς γυναι⸥κὸς ἀνεπαύετο· παρασκευαζομένων δὲ τῶν περὶ τὸ δεῖπνον, αἰετὸς μετέωρος ὤφθη δινούμενος ὑπὲρ τῆς οἰκίας, εἶθ᾿ ὥσπερ ἐκ προνοίας καὶ στοχασμοῦ λίθον ἀφῆκεν εὐμεγέθη κατ᾿ ἐκεῖνο τῆς στέγης τὸ μέρος, οὗ τὸ δωμάτιον ἦν, ἐν ᾧ κατακείμενος ἐτύγχανεν ὁ Ἀριστότιμος. Ἅμα δὲ ἄνωθεν ψόφου μεγάλου καὶ κραυγῆς ἔξωθεν ὑπὸ τῶν ἰδόντων τὸν ὄρνιν γενομένης, ἐκπλαγεὶς καὶ πυθόμενος τὸ γεγονὸς μετεπέμψατο μάντιν, ᾧ χρώμενος διετέλει κατ᾿ ἀγοράν, καὶ διηρώτα περὶ τοῦ σημείου συντεταραγμένος. Ὁ δὲ ⸤ἐκεῖνον μὲν παρεκάλει ὡς τοῦ Διὸς αὐτὸν ἐξεγείροντος⸥ καὶ βοηθοῦντος, οἷς δὲ ἐπίστευε τῶν πολιτῶν ἔφρασεν ὅσον οὔπω τὴν δίκην αἰωρουμένην ὑπὲρ κεφαλῆς ἐμπεσεῖσθαι τῷ τυράννῳ. Διὸ καὶ τοῖς περὶ τὸν Ἑλλάνικον367 ἔδοξε μὴ μέλλειν, ἀλλ᾿ ἐπιτίθεσθαι τῇ ὑστεραίᾳ. Τῆς δὲ νυκτὸς Ἑλλάνικος ἐδόκει κατὰ τοὺς ὕπνους τῶν τεθνηκότων υἱῶν τὸν ἕτερον λέγειν αὐτῷ παραστάντα, “τί πέπονθας, ὦ πάτερ, καθεύδων; αὔριον δέ σε δεῖ τῆς πόλεως στρατηγεῖν”. ⸤Οὗτός τε δὴ διὰ τὴν ὄψιν εὐθαρσὴς γεγενημένος παρεκάλει⸥ τοὺς ἑτέρους368, ὅ τε Ἀριστότιμος πυθόμενος Κρατερὸν αὐτῷ βοηθοῦντα μετὰ πολλῆς δυνάμεως ἐν Ὀλυμπίᾳ καταστρατοπεδεύειν, οὕτως ἐξ εθάρσησεν, ὥστ᾿ ἄνευ δορυφόρων εἰς τὴν ἀγορὰν προελθεῖν μετὰ τοῦ Κύλωνος. Ὡς οὖν συνεῖδε τὸν καιρὸν Ἑλλάνικος, ὃ μὲν ἦν σημεῖον αὐτῷ πρὸς τοὺς μέλλοντας ἐπιχειρεῖν συγκείμενον οὐκ ἔδωκε, λαμπρᾷ δὲ τῇ φωνῇ καὶ ἅμα τὰς χεῖρας προτείνων ἀμφοτέρας, “τί μέλλετ᾿, ἄνδρες ἀγαθοί; καλὸν τὸ θέατρον ἐν μέσῳ τῆς πατρίδος ἐναγωνίσασθαι”. Πρῶτος οὖν369 ὁ Κύλων σπασά⸤μενος τὸ ξίφος παίει τινὰ τῶν ἑπομένων τῷ Ἀριστοτίμῳ·⸥ Θρασυβούλου δὲ καὶ Λάμπιδος ἐξ ἐναντίας ἐπιφερομένων, ἔφθη μὲν ὁ Ἀριστότιμος εἰς τὸ τοῦ Διὸς ἱερὸν καταφυγών· ἐκεῖ δὲ ἀποκτείναντες αὐτὸν καὶ τὸ σῶμα προβαλόντες εἰς τὴν ἀγορὰν ἐκάλουν 1 αὐτῷ v : αὐτοῦ αAEnβδ 80,21 : omis. uγσ 80,5 80,22 hic et infra κύλων A (sed una lit. ante λ erasa) Eunβγσ 80,5 80,22 : κύκλων v α : λύκων δ : κύλλων Na. 2 τοῖς v αAuγδ 80,5 80,22 : τῆς Enβσ 80,21 7 αἰετὸς v αAEuβγδσ 80,5: ἀετὸς n 8 ἀφῆκεν εὐμεγέθη v αAEnβγδσ : εὐμεγέθη ἀφῆκεν u 80,5 12 σημείου συντεταραγμένος v αAEβγδσ 80,5 80,22: σημείου Δία συντεταραγμένος n : σημείου συντεταγμένος u 13 ἐκεῖνον v AEunβγσ 80,5 : ἐκεῖνο δ 15 ἐμπεσεῖσθαι v αAEunβγσ 80,5: ἐκπεσεῖσθαι δ 17–18 τί πέπονθας, ὦ πάτερ, καθεύδων v αAEnβγδσ 80,5 : τί πάτερ πέπονθας καθεύδων u: τί πέπονθώς, ὦ πάτερ, καθεύδεις Dinse 18 αὔριον δέ σε v αAEnβγδσ 80,5: δ᾿ αὔριον σε u οὗτός Ω : οὕτως Wy. 19 ἑτέρους Ω : ἑταίρους Wyttenbach: socios Alaman. Ranutin. 20 αὐτῷ βοηθοῦντα v αAEnβγδσ 80,5: αὐτῶν βοηθούντων u 22 Ἑλλάνικος Stephanus : ἑλλὰνικος v : ἑλλανικὸς αEnuβγδσ 80,5 : A habet lacunam postquam legitur ανικὸς ἑλλ. Euγδσ 80,5: ὁ ἑλλ. v αnβ 80,21 : A habet lacunam 24 μέλλετ᾿ ἄνδρες Ω : μέλλετ᾿, ⟨ἔφη vel ἐβόησεν⟩, ἄνδρες Dinse : ⟨ἀνεβόησεν ⟩ Bern. 25 πρῶτος οὖν Ω : πρῶτος μὲν οὖν Ald. 26 τινὰ τῶν ἑπομένων v αAEnβγδσ 80,5 : τῶν ἑπομένων τινὰ u

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fedele, ma che in realtà era un oppositore e partecipe della congiura ordita dai seguaci di Ellanico, si oppose e lo fece desistere, pregandolo e dicendogli che quello era un atto ignobile, degno di una donna e non di un uomo di comando istruito ad affrontare gli eventi. E così Aristotimo, a malapena ritornato in sé, andò via. In seguito egli ebbe un grave presagio370: era infatti mezzogiorno e stava riposando con la moglie. Durante i preparativi per il pranzo, fu vista un’aquila volteggiare in alto sulla sua abitazione, e poi, come se lo stesse facendo di proposito e per deliberata intenzione, lasciar cadere un grosso sasso su quella parte del tetto dove era situata la camera in cui si trovava a giacere Aristotimo. Si sentirono contemporaneamente in alto un gran fracasso e all’esterno un clamore di grida da parte di coloro che avevano visto l’uccello; sbalordito, egli mandò a chiamare un indovino371 per interrogarlo sull’accaduto e continuò a consultarlo sulla piazza, chiedendogli notizie sul prodigio che lo aveva sconvolto. L’indovino, invece, tranquillizzò Aristotimo dicendogli che Zeus lo aveva svegliato e soccorso ma, ai cittadini in cui aveva fiducia, confidò che la giustizia era ormai sospesa in alto e stava per abbattersi sulla testa del tiranno. Per questo motivo, i seguaci di Ellanico decisero di non lasciar trascorrere altro tempo, ma di passare all’azione il giorno successivo. Quella notte ad Ellanico apparve in sogno il secondo dei suoi figli defunti che gli si avvicinava, dicendo: “Padre, come mai dormi? Tu domani devi guidare la città”. E questi, rinfrancato dal sogno, si fece raggiungere dagli altri. Aristotimo, venuto a sapere che Cratero372 stava accorrendo in suo soccorso con un grande esercito e che si era accampato ad Olimpia, prese coraggio a tal punto da recarsi in piazza con Cilone senza le guardie del corpo. Dunque Ellanico, non appena vide che era giunto il momento di agire, a quelli che si stavano accingendo all’impresa non diede il segnale concordato ma, con voce chiara e nel contempo con entrambe le mani protese, esclamò: “Cosa aspettate, o uomini coraggiosi? E’un palcoscenico stupendo combattere proprio nel cuore della patria373”. Ed ecco allora che Cilone estrasse la spada e colpì uno dei seguaci di Aristotimo, mentre dalla parte opposta si lanciarono Trasibulo374 e Lampide; Aristotimo, intanto, cercò di rifugiarsi nel tempio di Zeus ma, proprio in quel luogo, lo uccisero e, dopo aver gettato il suo cadavere nella piazza, chiamarono i cittadini a festeggiare la libertà.

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τοὺς πολίτας ἐπὶ τὴν ἐλευθερίαν. Οὐ μὴν ἔφθησάν γε πολλοὶ τὰς γυναῖκας· εὐθὺς γὰρ ἐξέδραμον μετὰ χαρᾶς καὶ ὀλολυγμοῦ, καὶ περιστᾶσαι τοὺς ἄνδρας ἀνέδουν καὶ κατέστεφον. Εἶτα τοῦ πλήθους ἐπὶ τὴν οἰκίαν τοῦ τυράννου ῥυέντος, ἡ μὲν γυνὴ συγκλείσασα τὸν θάλαμον αὑτὴν ἀνήρτησε. Δύο δ᾿ ἦσαν αὐτῷ θυγατέρες, παρ⸤θένοι μὲν ἔτι, κάλλισται δὲ τὴν ὄψιν, ἤδη γάμων ὥραν ἔχουσαι·⸥ ταύτας συλλαβόντες εἷλκον ἔξω πάντως μὲν ἀνελεῖν, αἰκίσασθαι δὲ καὶ καθυβρίσαι πρότερον ἐγνωκότες. Ἀπαντήσασα δὲ ἡ Μεγιστὼ μετὰ τῶν ἄλλων ἐβόα δεινὰ ποιεῖν αὐτούς, εἰ δῆμος ἀξιοῦντες εἶναι ταῦτα τολμῶσι καὶ ἀσελγαίνουσι τοῖς τυράννοις ὅμοια. Ἐντρεπομένων δὲ πολλῶν τὸ ἀξίωμα τῆς γυναικὸς παρρησιαζομένης καὶ δακρυούσης, ἔδοξεν ἀφελεῖν τὴν ὕβριν, αὐτὰς δ᾿ ἐᾶσαι δι᾿ αὐτῶν ἀποθανεῖν. Ὡς δ᾿ οὖν ἀναστρέψαντες ἔνδον ἐκέλευον εὐθὺς ἀποθνῄσκειν τὰς παρθένους, ἡ πρεσβυτέρα Μυρὼ λύσασα τὴν ζώνην καὶ ⸤βρόχον ἐνάψασα τὴν ἀδελφὴν κατησπάζετο καὶ παρε⸥κάλει προσέχειν καὶ ποιεῖν ἅπερ ἂν αὐτὴν θεάσηται ποιοῦσαν, “ὅπως ἄν”, ἔφη, “μὴ ταπεινῶς μηδ᾿ ἀναξίως ἑαυτῶν καταστρέψωμεν”. Τῆς δὲ νεωτέρας δεομένης αὐτῇ παρεῖναι πρότερον ἀποθανεῖν καὶ τῆς ζώνης ἀντιλαμβανομένης, “οὐδὲ ἄλλο πώποτ᾿”, εἶπεν, “οὐδε ἓν ἤρνημαί σοι δεομένῃ· καὶ ταύτην οὖν λάβε τὴν χάριν, ἐγὼ δὲ ὑπομενῶ καὶ τλήσομαι τοῦ θανάτου βαρύτερον, τὸ σέ, φιλτάτη, προτέραν ἰδεῖν ἀποθνῄσκουσαν”. Ἐκ τούτου τὴν μὲν ἀδελφὴν αὐτὴ διδάξασα τῷ τραχήλῳ περιβαλέσθαι τὸν βρόχον, ⸤ὡς ᾔσθετο τεθνηκυῖαν, καθεῖλε καὶ κατεκάλυψεν·⸥ αὐτὴν375 δὲ τὴν Μεγιστὼ παρεκάλεσεν ἐπιμεληθῆναι, καὶ μὴ περιιδεῖν αἰσχρῶς, ἐπειδὰν ἀποθάνῃ, τεθεῖσαν· ὥστε μηδένα πικρὸν μηδὲ μισοτύραννον οὕτω γενέσθαι τῶν παρόντων, ὃς οὐκ ἔκλαυσεν οὐδὲ κατηλέησε τὴν τῶν παρθένων εὐγένειαν. Τῶν μὲν οὖν κοινῇ πεπραγμένων γυναιξὶ μυρίων ὄντων ἱκανὰ ταῦτα παραδείγματα· τὰς δὲ καθ᾿ ἑκάστην ἀρετάς, ὅπως ἂν ἐπίῃ, σποράδην ἀναγράψομεν, οὐδὲν οἰόμενοι τῆς κατὰ χρόνον τάξεως δεῖσθαι τὴν ὑποκειμένην ἱστορίαν.

1 πολλοὶ Ω : πολὺ Cobet : πολλῷ Pohlenz 3 ῥυέντος αAEnβδ : ῥυόντος v : ῥέοντος uγσ 80,5 4 αὐτῷ Ω : αὐτῇ Dinse 6 εἷλκον v αn : εἷλον AEβγδσ 80,5 : ἧλον u 7 et infra Μεγιστὼ v αAEunβγσ 80,5 : Γεμιστὼ δ 8 αὐτούς v αAEuβγδσ 80,5 : αὐτάς n ταῦτα-ὅμοια Ω : ταὐτὰ (del. ὅμοια) Cobet 11 ἀναστρέψαντες v αAEunβγσ 80,5 80,22 : ἀνατρέψαντες δ 12 μυρὼ v αAEunβγδσ 80,5 80,22 : μυλὼ v : Μοιρὼ Cobet ἐνάψασα αAEunβγδσ 80,5 : ἀνάψασα v : ἅψασα Hch. 15 πρότερον v : προτέρᾳ E : προτέρα αAunβγδσ 80,5 : προτέραν Bern. 16 οὐδὲ v 80,5 δ : οὐδὲν αAEunβγσ 80,22 : οὔτ᾿ Dinse : οὐδὲ ἓν Babbitt 17 τοῦ θανάτου Ω : τὸ θανάτου Bern. 20 αὐτὴν Ω : αὐτῆς Bern. : αὐτὴ Babbitt περιιδεῖν Π : ὑπεριδεῖν v 21 τεθεῖσαν v αAEnβγδσ : κτανθεῖσαν u 80,5 : ⟨ἐκ⟩τεθεῖσαν Kal. : μιανθεῖσαν Bern. 25 ἐπίῃ v αAEunβγσ 80,5 : ἐποίει δ

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In verità non molti uomini riuscirono a precedere le donne; quelle, infatti, piombarono subito in piazza con gioia ed alte grida e, dispostesi intorno agli uomini, li incoronarono. Poi la folla si riversò in direzione della casa del tiranno, e quindi la moglie, chiusasi in camera, s’impiccò376. Aristotimo aveva due figlie ancora vergini molto belle a vedersi, che allora erano in età da marito; le catturarono e trascinarono fuori dal palazzo con l’intenzione di ucciderle definitivamente, dopo averle maltrattate ed oltraggiate. Andando incontro alle altre donne, Megisto urlò che stavano compiendo atti orribili se, ritenendosi un popolo libero, commettevano azioni audaci e sregolate simili a quelle dei tiranni. Poiché furono in molte a mostrare rispetto per l’alta autorità della donna che liberamente aveva parlato, decisero di evitare gli oltraggi e di permettere alle figlie del tiranno di darsi autonomamente la morte. Quando dunque, dopo averle ricondotte all’interno del palazzo, ordinarono alle fanciulle di darsi subito la morte377, la più grande delle due, di nome Miro, scioltasi la cintura e fattone un nodo378, si congedò definitivamente dalla sorella e la invitò ad avvicinarsi e a fare ciò che avrebbe visto fare a lei. “Così non moriremo in un modo vile ed indegno379 di noi”, disse. Chiedendole la sorella minore il permesso di morire prima e di prendere la cintura, Miro disse: “Non ho mai e poi mai detto di no ad alcuna tua richiesta; dunque ricevi anche questo favore. Io invece resisterò e sopporterò qualcosa di più duro380 della morte: veder morire te, o carissima”. Dopo questo, ella mostrò alla sorella come passarsi il laccio intorno al collo e, quando vide che era morta, la tirò giù e la seppellì; poi pregò Megisto stessa di occuparsi del suo cadavere381, evitando di farlo giacere indegnamente dopo il decesso382. E nessuno dei presenti fu tanto crudele e ostile al tiranno da non piangere ed avere pietà della nobiltà383 delle fanciulle384. Questi, dunque, sono egregi esempi degli innumerevoli atti compiuti collettivamente385 dalle donne; gli atti di virtù individuale, invece, li riferiremo come ci si porranno innanzi, in ordine sparso, non ritenendo che la presente esposizione necessiti di una disposizione in ordine cronologico.

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Πιερία

Τῶν εἰς Μίλητον ἀφικομένων Ἰώνων στασιάσαντες ἔνιοι πρὸς τοὺς Νείλεω παῖδας, ἀπεχώρησαν εἰς Μυοῦντα κἀκεῖ κατῴκουν, πολλὰ κακὰ πάσχοντες ὑπὸ τῶν Μιλησίων· ἐπολέμουν γὰρ αὐτοῖς διὰ τὴν ἀποστασίαν. Οὐ μὴν ἀκήρυκτος ἦν οὐδ᾿ ἀνεπίμικτος ὁ πόλεμος386, ἀλλ᾿ ἔν τισιν ἑορταῖς ἐφοίτων387 εἰς Μίλητον ἐκ τοῦ Μυοῦντος αἱ γυναῖκες. Ἦν δὲ Πύθης ἀνὴρ ἐν αὐτοῖς ἐμφανής, γυναῖκα μὲν ἔχων Ἰαπυγίαν, θυγατέρα δὲ Πιερίαν. Οὔσης οὖν ἑορτῆς Ἀρτέμιδι καὶ θυσίας παρὰ Μιλησίοις, ⸤ἣν Νηληίδα προσαγορεύουσιν, ἔπεμψε τὴν γυναῖκα καὶ⸥ τὴν θυγατέρα, δεηθείσας ὅπως τῆς ἑορτῆς μετάσχωσι· τῶν δὲ Νείλεω παίδων ὁ δυνατώτατος ὄνομα Φρύγιος τῆς Πιερίας ἐρασθεὶς ἐνόει τί ἂν αὐτῇ μάλιστα γένοιτο παρ᾿ αὐτοῦ κεχαρισμένον. Εἰπούσης δ᾿ ἐκείνης “εἰ διαπράξαιό μοι τὸ πολλάκις ἐνταῦθα καὶ μετὰ πολλῶν βαδίζειν”, συνεὶς οὖν ὁ Φρύγιος δεομένην φιλίας καὶ εἰρήνης τοῖς πολίταις κατέπαυσε τὸν πόλεμον. Ἦν οὖν ἐν ἀμφοτέραις ταῖς πόλεσι δόξα καὶ τιμὴ388 τῆς Πιερίας, ὥστε καὶ τὰς Μιλησίων εὔχεσθαι γυναῖκας ἄχρι νῦν οὕτως τοὺς ἄνδρας ἐρᾶν αὐτῶν, ὡς Φρύγιος ἠράσθη ⸤Πιερίας.⸥

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Πολυκρίτη

Ναξίοις καὶ Μιλησίοις συνέστη πόλεμος διὰ τὴν Ὑψικρέοντος τοῦ Μιλησίου γυναῖκα Νέαιραν. Αὕτη γὰρ ἠράσθη Προμέδοντος Ναξίου καὶ συνέπλευσεν, ὃς ἦν μὲν ξένος τοῦ Ὑψικρέοντος, ἐρασθείσῃ δὲ τῇ Νεαίρᾳ συνῆλθε, καὶ τὸν ἄνδρα φοβουμένην ἀπαγαγὼν εἰς Νάξον ἱκέτιν τῆς Ἑστίας ἐκάθισεν. Τῶν δὲ Ναξίων οὐκ ἐκδιδόντων χάριν τοῦ Προμέδοντος, ἄλλως δὲ ποιουμένων πρόφασιν τὴν ἱκετείαν, ὁ πόλεμος συνέστη. Τοῖς δὲ Μιλησίοις ἄλλοι τε πολλοὶ καὶ προθυμότατα τῶν Ἰώνων Ἐρυθραῖοι συνεμάχουν, ⸤καὶ μῆκος ἔσχε καὶ συμφορὰς ἤνεγκε μεγάλας ὁ πόλεμος·⸥ εἶτ᾿ ἐπαύσατο δι᾿ ἀρετὴν γυναικός, ὡς συνέστη διὰ μοχθηρίαν. Διόγνητος γὰρ ὁ τῶν Ἐρυθραίων στρατηγὸς ἔχων καὶ πεπιστευμένος ἔρυμα κατὰ τῆς Ναξίων πόλεως εὖ πεφυκὸς καὶ κατεσκευασμένον, ἠλάσατο λείαν τῶν Ναξίων πολλὴν καὶ 2 Polyaen. VIII 35 pseud. p. 502

Aristaen. I 15

17 Polyaen. VIII 36

Parthen. 18.9

cf. Rose Aristot.

2 ἔνιοι v αAunβγδσ 80,5 80,22 : omisit E Νείλεω Ω : Νήλεω Xyl.2 3 κακὰ Π : κακῶς v 4 ἀποστασίαν Ω : ἀπόστασιν Cobet 6 πύθης Ω : πυθῆς Wil. 7 θυγατέρα v αAEunβγσ 80,5 : θυγατέραν δ 8 νηληίδα Ω : νειλήια Cobet 10 ἐνόει v αn : ἐνενόει AEuβγδσ 80,5 : ἤρετο Cobet ex Polyaen. 12 οὖν Ω : οὖν del. Bern. : αὐτὴν pro οὖν Dinse δεομένην v αAEunβγσ 80,5 : δεομένης δ 14 τῆς v αAEnβδ : omiserunt uγσ 80,5 80,22 15 ἐρᾶν αὐτῶν Ω : ἐρᾶν ⟨τοὺς ἄνδρας⟩ αὐτῶν add. Xyl.2 18 συνέπλευσεν Ω : συνεπένευσεν Ku. 20 ἑστίας Ω : Ἑστίας Stephanus : Vestae Alaman. Ranutin. 22 Τοῖς δὲ Μιλησίοις v αAEunβγσ 80,5 : τοῖς δεμένων πρόφασιν τὴν ἱκετείαν δ 25 ἔχων καὶ Ω : ἔχων καὶ del. Cobet

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16. pieria – 17. policrite

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Pieria389

Alcuni degli Ioni giunti a Mileto, dopo essersi ribellati ai figli di Neleo390, se ne andarono a Miunte391 e lì si stabilirono392, subendo numerose ritorsioni393 da parte dei Milesi, che li combattevano proprio a causa del loro allontanamento394. La guerra non era implacabile e senza relazioni, ma in alcune festività le donne si recavano da Miunte a Mileto395. Tra loro era eminente un uomo chiamato Pite, che aveva una moglie di nome Iapigia396 e una figlia di nome Pieria. Dunque, in occasione della festa sacra a Mileto in onore di Artemide che chiamano Neleidi397, Pite vi mandò la moglie e la figlia, che gli avevano chiesto di poter partecipare alle celebrazioni398. Il più potente dei figli di Neleo, il cui nome era Frigio399, s’innamorò400 di Pieria e provò a pensare con quale gesto potesse conquistare il suo cuore. Quando Pieria gli disse: “Se fai in modo che io possa giungere da te spesso e in compagnia di molte persone”, Frigio, compreso che quella gli stava chiedendo amicizia e pace per i cittadini, mise fine alla guerra401. E così in entrambe le città vi fu una tale fama e gloria per Pieria che, ancora oggi, le donne di Mileto402 chiedono agli dei di essere amate come Frigio amò Pieria.

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Policrite403

Tra gli abitanti di Nasso e quelli di Mileto404 sorse un conflitto a causa di Neera405, moglie del milesio Ipsicreonte. Ella, infatti, invaghitasi di Promedonte di Nasso, fuggì su una nave con lui. Questi era ospite di Ipsicreonte, ma corrispose al sentimento di Neera e, dopo aver condotto a Nasso lei che temeva il marito, la fece sedere406 supplice del focolare pubblico407. Dato che i Nassi, per riguardo a Promedonte, non la restituivano adducendo come pretesto la sua condizione di supplice, si scatenò la guerra408. Al fianco dei Milesi combattevano molti altri alleati, tra cui gli Eretriesi, che erano i più battaglieri tra gli Ioni. La guerra si protrasse a lungo409 ed arrecò gravi lutti; poi, così come era stata l’infedeltà di una donna a provocarla, fu la virtù di una donna a decretarne la fine. Diogneto, generale degli Eretriesi cui era stato demandato il compito di tenere il controllo di un avamposto ben disposto ed attrezzato nei pressi della città di Nasso, strappò ai nemici un grosso bottino e catturò donne di

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la virtù delle donne

γυναῖκας ἐλευθέρας καὶ παρθένους ἔλαβεν· ὧν μιᾶς Πολυκρίτης ἐρασθεὶς εἶχεν αὐτὴν οὐχ ὡς αἰχμάλωτον ἀλλ᾿ ἐν τάξει γαμετῆς γυναικός. Ἑορτῆς δὲ τοῖς Μιλησίοις καθηκούσης ἐν τῇ στρατιᾷ καὶ πρὸς πόσιν ἁπάντων καὶ συνουσίας τραπομένων, ἠρώτησε τὸν Διόγνητον ἡ Πολυκρίτη μή τι ⸤κωλύοι πεμμάτων μερίδας ἀποπέμψαι τοῖς ἀδελφοῖς⸥ αὐτῆς. Ἐπιτρέψαντος δὲ ἐκείνου καὶ κελεύσαντος, ἐνέβαλε μολίβδινον γραμματίδιον εἰς πλακοῦντα, κελεύσασα φράσαι τὸν κομίζοντα τοῖς ἀδελφοῖς ὅπως αὐτοὶ μόνοι καταναλώσωσιν ἃ ἔπεμψε. Οἱ δ᾿ ἐντυχόντες τῷ μολίβδῳ καὶ τὰ γράμματα τῆς Πολυκρίτης ἀναγνόντες, κελευούσης νυκτὸς ἐπιθέσθαι τοῖς πολεμίοις, ὡς ὑπὸ μέθης διὰ τὴν ἑορτὴν ἐξημελημένων πάντων, προσήγγειλαν τοῖς στρατηγοῖς καὶ παρώρμησαν ἐξελθεῖν μετ᾿ αὐτῶν. Ἁλόντος δὲ τοῦ χωρίου καὶ πολλῶν διαφθαρέντων, ἐξῃτήσατο τὸν Διόγνη⸤τον ἡ Πολυκρίτη παρὰ τῶν πολιτῶν καὶ διέσῳσεν. Αὐτὴ δὲ⸥ πρὸς ταῖς πύλαις γενομένη πρὸς τοὺς πολίτας ἀπαντῶντας αὐτῇ, μετὰ χαρᾶς καὶ στεφάνων ὑποδεχομένους καὶ θαυμάζοντας, οὐκ ἤνεγκε τὸ μέγεθος τῆς χαρᾶς, ἀλλ᾿ ἀπέθανεν αὐτοῦ πεσοῦσα περὶ τὴν πύλην· ὅπου τέθαπται, καὶ καλεῖται βασκάνου τάφος, ὡς βασκάνῳ τινὶ τύχῃ τὴν Πολυκρίτην φθονηθεῖσαν ἀπολαῦσαι τῶν τιμῶν. Οὕτω μὲν οἱ Ναξίων συγγραφεῖς ἱστοροῦσιν· ὁ δὲ Ἀριστοτέλης φησὶν οὐδ᾿ ἁλούσης τῆς Πολυκρίτης, ἄλλως δέ πως ἰδόντα τὸν Διόγνητον ἐρασθῆναι καὶ πάντα διδόναι καὶ ποιεῖν ἕτοιμον εἶναι· τὴν ⸤δὲ ὁμολογεῖν ἀφίξεσθαι410 πρὸς αὐτόν, ἑνὸς μόνου τυχοῦσαν⸥, περὶ οὗ τὸν Διόγνητον, ὥς φησιν ὁ φιλόσοφος, ὅρκον ᾔτησεν· ἐπεὶ δ᾿ ὤμοσεν, ἠξίου τὸ Δήλιον αὐτῇ δοθῆναι (Δήλιον γὰρ ἐκαλεῖτο τὸ χωρίον), ἄλλως δὲ οὐκ ἂν ἔφη συνελθεῖν. Ὁ δὲ καὶ διὰ τὴν ἐπιθυμίαν καὶ διὰ τὸν ὅρκον ἐξέστη καὶ παρέδωκε τῇ Πολυκρίτῃ τὸν τόπον, ἐκείνη δὲ τοῖς πολίταις. Ἐκ δὲ τούτου πάλιν εἰς ἴσον καταστάντες, ἐφ᾿ οἷς ἠβούλοντο πρὸς τοὺς Μιλησίους διελύθησαν.

2 Thargelia, cf. Müller, Dorier I 327

Nilsson, Griech. Feste 106

14 Gell. III 15

1 ἐλευθέρας n : ἐλευθέρους v αAEuβγδσ 80,5 2 τοῖς v αAEunβγσ 80,5 : τῆς δ 3 πρὸς πόσιν v αAEuβγσ 80,5 : πρὸς τὴν πόλιν δ 3–4 τραπομένων v αAEnβγδσ 80,5 80,22 : τρεπομένων u 5 ἀποπέμψαι v αAEunβγσ 80,5 : πέμψαι δ 6 μολίβδινον v αAEunβγσ 80,5 : μολίβδιον δ 12 γενομένη Ω : γενομένους Ald. : αἰσθανομένη Ku. : γενομένη ⟨καὶ θεασαμένη⟩ Bern. : γίγνεσθαι Bollaan 14 περὶ αAEunβγσ 80,5 : παρὰ v δ 16 φθονηθεῖσαν ἀπολαῦσαι Ω : φθονηθεῖσαν ⟨οὐκ⟩ ἀπολαῦσαι Xyl.2 17 οὐδ᾿ Ω : οὐχ Stegmann 18–19 ὁμολογεῖν ἀφίξεσθαι v αAEnβγδσ 80,5 : ὁμολογεῖν ἐνδοῦναι καὶ ἀφίξεσθαι u 19 Διόγνητον v αAEunβγσ 80,5 : θεόγνητον δ 21 ἔφη συνελθεῖν Π : ἔφησεν ελθεῖν v 22 δὲ v αAEunβγσ 80,5 : γὰρ δ 23 ἐφ᾿ οἷς Π : ἐφ᾿ ἧς v ἠβούλοντο v αAEunβγσ 80,5 : ἐβούλοντο δ

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17. policrite

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condizione libera e vergini. Innamoratosi di una di queste che si chiamava Policrite411, la tenne non come prigioniera, ma a guisa di donna sposata. Quando per l’esercito milesio venne il momento di celebrare una festività durante la quale tutti quanti pensavano solamente a bere e a stare in compagnia412, Policrite chiese a Diogneto se vi era qualche norma che le impedisse di mandare ai propri fratelli delle porzioni di dolci. Ottenuto da quegli il permesso ed il forte sostegno, ella inserì in un dolce una lamina di piombo che recava un breve scritto413, ordinando al latore di riferire ai fratelli che essi soli avrebbero dovuto consumare i dolci che ella aveva inviato loro. Quelli trovarono la laminetta di piombo e, letto lo scritto di Policrite che ingiungeva di piombare di notte sui nemici poiché tutti erano resi più deboli dal vino e dai festeggiamenti, riferirono ai generali e li esortarono ad effettuare insieme con loro una sortita dalla città. Dopo che l’avamposto fu distrutto e molti Milesi persero la vita, Policrite chiese ai propri concittadini di risparmiare la vita a Diogneto, e lo salvò414. Ella, giunta alle porte della città, essendo accolta, onorata con corone ed ammirata dai concittadini, non fu in grado di sostenere una felicità così grande, ma morì lì, cadendo vicino alla porta, dove fu sepolta415. Il posto è chiamato Tomba dell’Invidia416, come se la sorte avesse provato una particolare invidia per gli onori417 ricevuti da Policrite. Questo raccontano418 gli scrittori di Nasso419; Aristotele420, invece421, dice che Policrite non fu fatta prigioniera422, ma che Diogneto, non appena la vide, se ne innamorò, essendo disposto a dare e a fare qualsiasi cosa per lei. Ella acconsentì ad andare presso di lui, ma alla sola condizione che Diogneto, come dice il filosofo423, prestasse un giuramento. Dopo il giuramento, Policrite gli chiese di donarle Delio424 (la piazzaforte infatti era chiamata Delio); in caso contrario, non sarebbe andata presso di lui. A quel punto Diogneto, spinto dall’amore e dalla necessità di tenere fede al giuramento prestato, cedette e regalò quella piazzaforte a Policrite, che a sua volta la donò ai propri concittadini. Questi ultimi, ristabilita di nuovo una situazione di parità grazie a questa mossa, si riconciliarono coi Milesi dettando loro le proprie condizioni425.

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la virtù delle donne

⸤Λαμψάκη

Ἐκ Φωκαίας τοῦ Κοδριδῶν γένους ἦσαν⸥ ἀδελφοὶ δίδυμοι Φόβος καὶ Βλέψος· ὧν ὁ Φόβος ἀπὸ τῶν Λευκάδων πετρῶν πρῶτος ἀφῆκεν ἑαυτὸν εἰς θάλατταν, ὡς Χάρων ὁ Λαμψακηνὸς ἱστόρηκεν. Ἔχων δὲ δύναμιν καὶ βασιλικὸν ἀξίωμα παρέπλευσεν εἰς Πάριον ἰδίων ἕνεκα πραγμάτων· καὶ γενόμενος φίλος καὶ ξένος Μάνδρωνι, βασιλεύοντι Βεβρύκων τῶν Πιτυοεσσηνῶν προσαγορευομένων, ἐβοήθησε καὶ συνεπολέμησεν αὐτοῖς ὑπὸ τῶν προσοίκων ἐνοχλουμένοις. Ὁ δὲ Μάνδρων ἄλλην τε πολλὴν ἐνεδείξατο τῷ Φόβῳ φιλοφροσύνην ἀποπλέοντι καὶ μέρος τῆς τε ⸤χώρας καὶ τῆς πόλεως ὑπισχνεῖτο δώσειν, εἰ βούλοιτο Φωκαεῖς⸥ ἔχων ἐποίκους εἰς τὴν Πιτυόεσσαν ἀφικέσθαι. Πείσας οὖν τοὺς πολίτας ὁ Φόβος ἐξέπεμψε τὸν ἀδελφὸν ἄγοντα τοὺς ἐποίκους. Καὶ τὰ μὲν παρὰ τοῦ Μάνδρωνος ὑπῆρχεν αὐτοῖς, ὥσπερ προσεδόκησαν· ὠφελείας δὲ μεγάλας καὶ λάφυρα καὶ λείας ἀπὸ τῶν προσοίκων βαρβάρων λαμβάνοντες, ἐπίφθονοι τὸ πρῶτον εἶτα καὶ φοβεροὶ τοῖς Βέβρυξιν ἦσαν. Ἐπιθυμοῦντες οὖν αὐτῶν ἀπαλλαγῆναι, τὸν μὲν Μάνδρωνα, χρηστὸν ὄντα καὶ δίκαιον ἄνδρα περὶ τοὺς Ἕλληνας, οὐκ ἔπεισαν, ἀποδημήσαντος δὲ ἐκείνου, παρεσκευά⸤ζοντο τοὺς Φωκαεῖς δόλῳ διαφθεῖραι. Τοῦ δὲ Μάνδρωνος ἡ⸥ θυγάτηρ Λαμψάκη παρθένος οὖσα τὴν ἐπιβουλὴν προέγνω, καὶ πρῶτον μὲν ἐπεχείρει τοὺς φίλους καὶ οἰκείους ἀποτρέπειν καὶ διδάσκειν ὡς ἔργον δεινὸν καὶ ἀσεβὲς ἐγχειροῦσι πράττειν, εὐεργέτας καὶ συμμάχους ἄνδρας νῦν δὲ καὶ πολίτας ἀποκτιννύντες. Ὡς δὲ οὐκ ἔπειθε, τοῖς Ἕλλησιν ἔφρασε κρύφα τὰ πραττόμενα καὶ παρεκελεύσατο φυλάττεσθαι. Οἱ δὲ θυσίαν τινὰ παρασκευασάμενοι καὶ θοίνην ἐξεκαλέσαντο τοὺς Πιτυοεσσηνοὺς εἰς τὸ προάστειον· αὑτοὺς δὲ διελόντες δίχα, τοῖς μὲν τὰ τείχη κατελάβοντο τοῖς ⸤δὲ τοὺς ἀνθρώπους ἀνεῖλον. Οὕτω δὴ τὴν πόλιν κατασχόν⸥τες τόν τε Μάνδρωνα μετεπέμποντο, συμβασιλεύειν426 τοῖς παρ᾿αὐτῶν κελεύοντες· καὶ τὴν Λαμψάκην ἐξ ἀρρωστίας ἀποθανοῦσαν ἔθαψαν ἐν τῇ πόλει μεγαλοπρεπῶς, καὶ τὴν πόλιν ἀπ᾿ αὐτῆς Λάμψακον προσηγόρευσαν. Ἐπεὶ δὲ ὁ Μάνδρων προδοσίας ὑποψίαν φεύγων τὸ μὲν οἰκεῖν μετ᾿ αὐτῶν παρῃτήσατο, παῖδας δὲ τῶν τεθνηκότων καὶ γυναῖκας ἠξίωσε κομίσασθαι, καὶ ταῦτα προθύμως 2 Polyaen. VIII 37

4 FGrH 262 F 7a

24 Steph. Byz. s. v. λάμψακος

2 Φωκαίας E : Φωκέας v αAunβγδ 80,5 : Φωκΐας σ 80,21 hic et infra Φόβος Ω : Φόξος Na. ex Polyaen. 6 Πιτυοεσσηνῶν v αAEunβγσ 80,5 : Πιτυοεσσονῶν δ προσαγορευομένων v αAEunβγσ 80,5 : ὑπαγορευομένων δ 8 ἐνεδείξατο v αAEunβγσ 80,5 : ἐδείξατο δ 10 ὁ Φόβος v αAEunβγσ 80,5 : omisit δ 12 καὶ λείας Π : καὶ λίαν v : καὶ λείας del. Stegmann 13 εἶτα καὶ φοβεροὶ Π : εἶτα φοβεροὶ v 16 τοὺς v αAEnβγδσ 80,5 : πρὸς τοὺς u 18 ὡς v αAEunβγσ 80,5 : ωσπερ δ 19 ἐγχειροῦσι v αAEunβγσ 80,5 : ἐπιχειροῦσι δ 22 ἐξεκαλέσαντο Ω : ἐξεκάλεσαν Cobet 23 κατελάβοντο Ω : κατέλαβον Bern. 24 μετεπέμποντο v αAEunβγσ 80,5 80,22 : μετὰ πέμποντος δ συμβασιλεύειν v αAEunβγσ 80,5 80,22 : συμβουλεύειν 80,21 : βασιλεύειν δ αὐτῶν v αAEunβγσ 80,5 : αὐτὸν δ 26–27 ἐπεὶ δὲ ὁ Μάνδρων v αAEnβδ : ἐπεὶ δὲ καὶ ὁ uγσ 80,5 80,22

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18. lampsace

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Lampsace427

Da Focea provenivano Fobo428 e Blepso429, due fratelli gemelli discendenti dalla stirpe di Codro430. Tra i due, Fobo431 fu il primo432 a gettarsi in mare dalla rupe di Leucade433, come riferisce Carone di Lampsaco434. Essendo dotato di forza fisica e dignità regale, egli navigò fino a Paro435 per delle faccende private; divenuto amico ed ospite di Mandrone, re dei Bebrici436 chiamati Pitoesseni, li aiutò combattendo insieme con loro contro le turbolente popolazioni confinanti. Mandrone espresse una grandissima benevolenza nei confronti di Fobo mentre questi stava salpando per tornare in patria, e promise di donargli parte del territorio e della città, se avesse voluto ritornare a Pitoessa in compagnia di coloni focesi. Dunque Fobo, convinti i concittadini, inviò suo fratello a capo dei coloni. Quanto Mandrone aveva promesso, come speravano, fu a loro disposizione437. Strappati ai barbari confinanti grandi bottini in beni e bestiame, i coloni focesi vennero in primo luogo malvisti e in un secondo momento temuti dai Bebrici. I Bebrici dunque, desiderando sbarazzarsi dei Focesi, non fecero valere le proprie ragioni con Mandrone, che era un uomo leale e giusto nei confronti dei Greci, ma, mentre quegli era fuori per un viaggio, decisero di ammazzarli a tradimento438. La giovane figlia di Mandrone, Lampsace439, venuta a conoscenza di quella trama, in un primo momento cercò di dissuadere gli amici e i familiari e di far comprendere loro che si stavano accingendo a compiere un atto crudele ed empio, uccidendo dei benefattori ed alleati, ma ora anche concittadini. Poiché non li persuase, riferì in segreto quelle trame ai Greci, raccomandando loro di stare in guardia. I Greci allora, preparato un sacrificio e un banchetto, invitarono i Pitoesseni in un sobborgo della città e, dopo essersi divisi in due gruppi, gli uni assaltarono le mura della città e gli altri ammazzarono gli uomini. In questo modo si impossessarono della città e mandarono a chiamare Mandrone, chiedendogli di riprendere a regnare sulla città, ma in accordo con loro. Poi, con grandi onori seppellirono nel centro abitato Lampsace, che era morta di malattia440, e in suo onore chiamarono la città441 Lampsaco. Poiché Mandrone, per evitare il sospetto di tradimento, rifiutò di convivere con i Greci e ritenne doveroso che i figli e le mogli dei defunti fossero condotti via, glieli inviarono subito e senza commettere alcuna ingiustizia442.

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οὐδὲν ἀδικήσαντες ἐξέπεμψαν· καὶ τῇ Λαμψάκῃ πρότερον ἡρωικὰς τιμὰς ἀποδιδόντες ὕστερον ὡς θεῷ θύειν ἐψηφίσαν⸤το καὶ διατελοῦσιν οὕτω θύοντες.⸥

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la virtù delle donne

̓Αρεταφίλα

Ἀρεταφίλα δὲ ἡ Κυρηναία παλαιὰ μὲν οὐ γέγονεν ἀλλ᾿ ἐν τοῖς Μιθριδατικοῖς καιροῖς, ἀρετὴν δὲ καὶ πρᾶξιν ἐνάμιλλον τῇ βουλῇ τῶν ἡρωίδων παρέσχεν. Ἦν δὲ θυγάτηρ μὲν Αἰγλάτορος Φαιδίμου δὲ γυνή, γνωρίμων ἀνδρῶν· καλὴ δὲ τὴν ὄψιν οὖσα, καὶ τὸ φρονεῖν ἐδόκει περιττή τις εἶναι καὶ πολιτικῆς δεινότητος οὐκ ἄμοιρος· ἐπιφανῆ δὲ αὐτὴν αἱ κοιναὶ τύχαι τῆς πατρίδος ἐποίησαν. Νικοκράτης γὰρ ἐπαναστὰς Κυρηναίοις τύραννος ἄλλους τε πολλοὺς ἐφόνευε τῶν πολιτῶν καὶ τὸν ἱερέα τοῦ Ἀπόλλωνος αὐ⸤τόχειρ ἀνελὼν Μελάνιππον, εἶχε τὴν ἱερωσύνην· ἀνεῖλε δὲ καὶ⸥ Φαίδιμον τὸν τῆς Ἀρεταφίλας ἄνδρα καὶ τὴν Ἀρεταφίλαν ἔγημεν ἄκουσαν. Πρὸς δὲ μυρίοις ἄλλοις παρανομήμασι φύλακας ἐπὶ τῶν πυλῶν κατέστησεν, οἳ τοὺς ἐκφερομένους νεκροὺς ἐλυμαίνοντο νύττοντες ξιφιδίοις καὶ καυτήρια προσβάλλοντες ὑπὲρ τοῦ μηδένα τῶν πολιτῶν ὡς νεκρὸν λαθεῖν ἐκκομιζόμενον. Δύσφορα μὲν οὖν καὶ τῇ Ἀρεταφίλᾳ τὰ οἰκεῖα κακά, καίπερ ἐνδιδόντος αὐτῇ δι᾿ ἔρωτα τοῦ τυράννου πλεῖστον ἀπολαύειν τῆς δυνάμεως ⸤ (ἥττητο γὰρ ἐκείνης καὶ μόνῃ χειροήθη παρεῖχεν αὑτὸν ἄτεγ⸥κτος ὢν τἄλλα καὶ θηριώδης)· ἠνία δὲ μᾶλλον αὐτὴν ἡ πατρὶς οἰκτρὰ πάσχουσα παρ᾿ ἀξίαν. Ἄλλος γὰρ ἐπ᾿ ἄλλῳ τῶν πολιτῶν ἐσφάττετο, τιμωρία δὲ ἀπ᾿ οὐδενὸς ἠλπίζετο· καὶ γὰρ οἱ φυγάδες, ἀσθενεῖς παντάπασιν ὄντες καὶ περίφοβοι, διεσπάρησαν. Αὑτὴν οὖν ἡ Ἀρεταφίλα ὑποθεῖσα μόνην τοῖς κοινοῖς ἐλπίδα, καὶ τὰ Θήβης ζηλώσασα τῆς Φεραίας καλὰ καὶ περιβόητα τολμήματα, συμμάχων δὲ πιστῶν καὶ οἰκείων, οἵους ἐκείνῃ τὰ πράγματα παρέσχεν, ἔρημος οὖσα, φαρμάκοις ἐπεχείρησε διεργάσασθαι τὸν ἄνδρα. Παρασκε⸤υαζομένη δὲ καὶ πορίζουσα καὶ διαπειρωμένη πολλῶν δυ⸥νάμεων οὐκ ἔλαθεν ἀλλ᾿ ἐμηνύθη· καὶ γενομένων ἐλέγχων, Καλβία μὲν ἡ τοῦ Νικοκράτους μήτηρ, φύσει φονικὴ γυνὴ

4 Polyaen. VIII 38 21 856A 1093C vit. Pelop. 35.4 Conon. 50 Xen. Hell. VI 4.35–37 Diod. XVI Cic. de off. II 7.25 de invent. II 49.144 Val. Max. IX 13 ext. 3 5 τῇ βουλῇ Ω : βουλῇ del. Wil.: βελτίστῃ Nab. 6 αἰγλάτορος Ω : Αἰγλάνορος Wil. 7 τὸ φρονεῖν Ω : [τὸ] φρονεῖν vel τῷ φρονεῖν Wyttenbach 8 ἐποίησαν v αAEunβγσ 80,5: ἐποίησαντο δ 10 εἶχε Ω : ἔσχε Babbitt 12 φύλακας v αAEnβγδ 80,22: φωλικὰς u 80,5 : φυλικὰς σ 13–14 προσβάλλοντες v α2 AEnβγσ 80,22 : προβάλλοντες uδ2 80,5 : προσβάλοντες v 15 οὖν καὶ τῇ Ἀρεταφίλᾳ Ω : οὖν ἦν τῇ Ἀρεταφίλᾳ Ku. : οὖν τῇ Ἀρεταφίλᾳ καὶ Pant. 17 ἠνία v αAEnβδ 80,5 : ἠνίκα uγσ 80,22 20 Αὑτὴν v αAEnβγδσ 80,5: Αὐτὴν u ὑποθεῖσα μόνην Ω : μόνην ὑποθεῖσα Benseler 21 καλὰ καὶ περιβόητα v αAEnβδ: καλὰ περιβόητα uγσ 80,5 80,22 25 γενομένων v u 80,5 80,22: γινομένων αAE nβγδσ hic et infra Καλβία Ω : ἀλιβία Na. Νικοκράτους Π : Νικοστράτους v φονικὴ v αAEnβγδσ 80,22: φοινικὴ u 80,5

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19. aretafila

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In un primo momento decretarono onori eroici443 a Lampsace e, successivamente, decisero per votazione di tributarle sacrifici444 come ad una dea, celebrazione che tuttora continuano a tenere.

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Aretafila445

Aretafila446 di Cirene non è vissuta in tempi molto antichi, bensì all’epoca di Mitridate447; ella dimostrò una virtù e una condotta paragonabili al Consiglio448 delle eroine449. Era figlia di Eglatore450 e moglie di Fedimo, che erano due uomini di una certa notorietà; era bella d’aspetto e, in quanto a capacità intellettive, sembrava essere eccellente e non priva di destrezza politica: le vicende pubbliche della sua patria la resero celebre. Nicocrate, divenuto tiranno a Cirene, fece uccidere molti dei cittadini e, dopo aver assassinato di propria mano Melanippo, sacerdote di Apollo, rivestiva la carica di sacerdote. Uccise anche Fedimo, marito di Aretafila, e sposò quest’ultima contro la sua volontà. Oltre ad altri innumerevoli atti illegali, mise delle guardie alle porte della città, che avevano il compito di oltraggiare i defunti che venivano portati via trafiggendoli con i pugnali e marchiandoli a fuoco, affinché nessuno dei cittadini si facesse condurre fuori dalla città spacciandosi per morto. Le disgrazie familiari, dunque, erano difficili da sopportare per Aretafila, nonostante il tiranno, per amore, le concedesse di trarre il massimo vantaggio dalla sua posizione di supremazia (infatti Nicocrate era sottomesso ad Aretafila, solo con lei si mostrava affabile, mentre in tutte le altre occasioni era feroce ed inflessibile) ma, al di sopra di ogni bene materiale, ciò che la affliggeva maggiormente era la condizione della sua patria, costretta a subire mali degni di compassione. I cittadini venivano uccisi uno dopo l’altro e nessuno sperava in soccorsi dall’esterno, poiché gli esuli, che erano pieni di timore e di sicuro privi delle risorse necessarie, si erano divisi. Dunque Aretafila, proponendosi come unica speranza per la comune salvezza ed emulando le belle e famose imprese di Tebe di Fere451, pur essendo priva di alleati, uomini fedeli ed amici che la situazione offriva a quella, da sola provò ad uccidere il marito con il veleno. Poiché si diede molto da fare nel preparare, procurare e sperimentare diverse pozioni, non passò inosservata, ma fu scoperta. Dato che vi erano delle prove, Calbia452, la madre di Nicocrate, che era una donna di indole

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la virtù delle donne

καὶ ἀπαραίτητος, εὐθὺς ᾤετο δεῖν ἀναιρεῖν αἰκισαμένην τὴν Ἀρεταφίλαν· τοῦ δὲ Νικοκράτους μέλλησιν ἐνεποίει τῇ ὀργῇ καὶ ἀσθένειαν ὁ ἔρως, καὶ τὸ τὴν Ἀρεταφίλαν ἐρρωμένως ὁμόσε χωρεῖν ταῖς κατηγορίαις ἀμύνουσαν ἑαυτῇ πρόφασίν τινα τῷ πάθει παρεῖχεν. Ἐπεὶ δὲ κατελαμβάνετο τοῖς ἐλέγχοις καὶ τὴν παρασκευὴν τῆς φαρμακείας ἑώρα μὴ δεχομένην ἄρνησιν, ὡμολόγει, παρασκευάσασθαι453 δὲ οὐκ ὀλέ⸤θριον φαρμακείαν· “ἀλλ᾿ ὑπὲρ μεγάλων”, εἶπεν, “ὦ ἄ⸥νερ, ἀγωνίζομαι, τῆς σῆς εὐνοίας πρὸς ἐμὲ καὶ δόξης καὶ δυνάμεως, ἣν διὰ σὲ καρποῦμαι πολλαῖς ἐπίφθονος οὖσα κακαῖς γυναιξίν· ὧν φάρμακα δεδοικυῖα καὶ μηχανὰς ἐπείσθην ἀντιμηχανήσασθαι, μωρὰ μὲν ἴσως454 καὶ γυναικεῖα, θανάτου δὲ οὐκ ἄξια· πλὴν εἰ κριτῇ σοι δόξειε φίλτρων ἕνεκα καὶ γοητείας κτεῖναι γυναῖκα, πλεῖον ἢ σὺ βούλει φιλεῖσθαι δεομένην”. Τοιαῦτα τὴν Ἀρεταφίλαν ἀπολογουμένην ἔδοξε τῷ Νικοκράτει βασανίσαι· καὶ τῆς Καλβίας ἐφεστώσης ἀτέγκτου καὶ ἀπαραιτήτου, ταῖς ⸤βασάνοις ἀνέκρινε· καὶ διεφύλαττεν αὑτὴν ἀήττητον ἐν⸥ ταῖς ἀνάγκαις ἄχρι καὶ τὴν Καλβίαν ἀποκαμεῖν ἄκουσαν. Ὁ δὲ Νικοκράτης ἀφῆκε πεισθεὶς καὶ μετενόει βασανίσας· καὶ χρόνον οὐ πολὺν διαλιπὼν αὖθις ἧκεν ὑπὸ τοῦ πάθους εἰς αὐτὴν φερόμενος, καὶ συνῆν αὖθις ἀναλαμβάνων τιμαῖς καὶ φιλοφροσύναις τὴν εὔνοιαν. Ἡ δὲ οὐκ ἔμελλε χάριτος ἡττᾶσθαι κρατήσασα βασάνων καὶ πόνων, ἀλλὰ τῷ φιλοκάλῳ φιλονεικίας προσγενομένης ἑτέρας ἥπτετο μηχανῆς. Ἦν γὰρ αὐτῇ θυγάτηρ ἀνδρὸς ὥραν ἔχουσα καὶ τὴν ὄψιν ἱκανή· ταύτην ὑφῆκε455 τἀδελφῷ τοῦ τυ⸤ράννου δέλεαρ, ὄντι μειρακίῳ πρὸς ἡδονὰς εὐαλώτῳ.⸥ Πολὺς δὲ λόγος ἐστὶ χρησαμένην γοητείᾳ καὶ φαρμάκοις ἐπὶ τῇ κόρῃ τὴν Ἀρεταφίλαν, χειρώσασθαι καὶ διαφθεῖραι τοῦ νεανίσκου τὸν λογισμόν· ἐκαλεῖτο δὲ Λέανδρος456. Ἐπεὶ δὲ ἡλώκει καὶ λιπαρήσας τὸν ἀδελφὸν ἔτυχε τοῦ γάμου, τὰ μὲν ἡ κόρη παρῆγεν αὐτὸν ὑπὸ τῆς μητρὸς διδασκομένη καὶ ἀνέπειθεν ἐλευθεροῦν τὴν πόλιν, ὡς μηδὲ αὐτὸν ἐλεύθερον ἐν τυραννίδι ζῶντα μηδὲ τοῦ λαβεῖν γάμον ἢ φυλάξαι κύριον ὄντα, τὰ δὲ οἱ φίλοι τῇ Ἀρεταφίλᾳ χαριζόμενοι διαβολάς τινας ἀεὶ καὶ ὑπονοίας κατεσκεύαζον αὐ⸤τῷ πρὸς τὸν ἀδελφόν. Ὡς δὲ ᾔσθετο καὶ τὴν Ἀρεταφίλαν τὰ⸥ αὐτὰ βουλευομένην καὶ σπουδάζουσαν, ἐπεχείρει τὸ ἔργον, καὶ Δάφνιν οἰκέτην παρορμήσας ἀπέκτεινε δι᾿ ἐκείνου

1 ἀναιρεῖν αἰκισαμένην Ω : ἀναιρεῖν αἰκισάμενον Méziriacus : ᾐκισμένην ἀποθανεῖν 2 Νικοκράτους AEβδ : τιμοκράτους v αunγσ 80,5 5 φαρμακείας v αAEunβγσ 80,5 : φαρμακίας δ παρασκευάσασθαι Ω : παρασκευάσθαι Ald. : παρεσκευάσθαι Stephanus 6 φαρμακείαν v αAEunβγσ 80,5 : φαρμακίαν δ ὑπὲρ v αAEunβγσ 80,5: εἴπερ δ 7 πολλαῖς v AEunβγδσ 80,5: πολλάκις α 11 Νικοκράτει AEβδ: τιμοκράτει v αunγσ 80,5 12 ἐφεστώσης v αAEunβγσ 80,5: ἀφεστώσης δ 14 ἄκουσαν Ω : κακοῦσαν Naber Νικοκράτης Π : Νικοστράτης v 17 ἡττᾶσθαι v αAEnβγδσ 80,5: κτᾶσθαι u 17–18 φιλονεικίας Ω : φιλονικίας Babbitt 19 ἱκανή Ω : καλή Nab. 22 Λέανδρος Ω : Λάανδρος Na. 26 κατεσκεύαζον v αAEunβγσ 80,5 : κατασκεύαζων δ 27 βουλευομένην αAEunβγδσ 80,5: βουλομένην v 28 τὸ ἔργον Ω : τῷ ἔργῳ Turn. Δάφνιν v αAEunβγσ 80,5 80,22: Δάφνην δ οἰκέτην Ω : ἱκέτην Ald. et ed. Basileensis

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sanguinaria457 ed inflessibile, subito ritenne opportuno mettere sotto tortura ed uccidere458 Aretafila, ma l’amore che per lei provava Nicocrate calmava la sua ira, insinuandogli indugi e debolezza, e il fatto che Aretafila nello stesso tempo si proclamava assolutamente innocente, difendendosi dalle accuse, offrì il pretesto alla sua passione. Quando fu inchiodata dalle prove e si rese conto di non poter in nessun modo negare l’evidenza di aver preparato una pozione459, confessò di aver predisposto un filtro non mortale ma, “Marito mio”, disse, “mi batto per grandi obiettivi quali la tua benevolenza nei miei confronti, la tua fama e potenza, io che, a causa tua, sono oggetto di invidia da parte di molte donne malefiche; proprio per paura dei loro filtri e delle loro macchinazioni mi convinsi a prendere le contromisure, atto di una donna sciocca sicuramente, ma di certo non meritevole di morte, a meno che la tua illustre mente non decida di uccidere, a causa di magia e filtri460, una donna che ha bisogno di essere amata più di quanto è nelle tue intenzioni”. Di fronte ad una simile difesa da parte di Aretafila, Nicocrate decise di farla torturare e, in presenza dell’inflessibile e spietata Calbia, la interrogò torturandola. Quella, però, non si lasciò vincere neppure dalle sofferenze, e Calbia, di controvoglia, fu costretta a lasciar perdere. Allora Nicocrate, convinto della buona fede di Aretafila, la liberò e si pentì di averla fatta torturare461; trascorso non molto tempo, la passione lo spinse a riallacciare di nuovo i rapporti con lei e riprese a coltivarne l’affetto con ossequi e cortesie. Ella non aveva intenzione di farsi vincere da quella rinnovata benevolenza, dopo aver subito torture e sofferenze, ma il desiderio di rivalsa si aggiunse al suo amore per l’onestà ed escogitò un piano. Aveva una figlia in età da marito e di bell’ aspetto: come esca la diede in moglie al fratello del tiranno, che era un giovinetto dedito ai piaceri. É difficile stabilire se Aretafila avesse adoperato, oltre alla fanciulla462, anche magia e filtri per ridurre in suo possesso e plagiare la mente del giovinetto, il cui nome era Leandro. Quando il giovinetto cadde in trappola e chiese insistentemente al fratello di dare il proprio assenso al matrimonio, la fanciulla, su istruzione della madre, da un lato cercò di indurlo a liberare la città convincendolo del fatto che, sotto la tirannide, non viveva da uomo libero e non era padrone di contrarre un matrimonio e di preservarlo. Dall’altro lato gli amici, per ingraziarsi Aretafila, insinuavano sempre in lui sospetti e calunnie per istigarlo contro il fratello. Quando Leandro si accorse che anche Aretafila desiderava e perseguiva i medesimi obiettivi, si fece carico dell’impresa e, dopo aver incoraggiato

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τὸν Νικοκράτην. Τὰ λοιπὰ δὲ οὐκέτι τῇ Ἀρεταφίλᾳ προσεῖχεν, ἀλλ᾿ εὐθὺς ἔδειξε τοῖς ἔργοις ἀδελφοκτόνος οὐ τυραννοκτόνος γεγονώς· ἦρχε γὰρ ἐμπλήκτως καὶ ἀνοήτως. ⸤Τιμὴ δέ τις ὅμως ἦν τῆς Ἀρεταφίλας παρ᾿ αὐτῷ καὶ δύναμις,⸥ οὐκ ἀπεχθανομένης οὐδὲ πολεμούσης ἄντικρυς ἀλλ᾿ ἀδήλως διαταττούσης τὰ πράγματα. Πρῶτον μὲν γὰρ αὐτῷ Λιβυκὸν ὑπεκίνησε πόλεμον, Ἀνάβουν τινὰ πείσασα δυνάστην τὴν χώραν ἐπιδραμεῖν καὶ τῇ πόλει προσαγαγεῖν, ἔπειτα διέβαλε τοὺς φίλους καὶ τοὺς στρατηγοὺς πρὸς τὸν Λέανδρον, ὡς πολεμεῖν οὐκ ὄντας προθύμους, εἰρήνης δὲ μᾶλλον δεομένους καὶ ἡσυχίας, ἣν καὶ τὰ πράγματα ποθεῖν αὐτοῦ καὶ τὴν τυραννίδα, βουλομένου βεβαίως κρατεῖν τῶν πολιτῶν· αὐτὴ δὲ πράξειν ἔφη τὰς διαλύσεις καὶ τὸν Ἀνάβουν εἰς λό⸤γους αὐτῷ συνάξειν, ἐὰν κελεύῃ, πρὶν ἀνήκεστόν τι τὸν πόλεμον⸥ ἐξεργάσασθαι. Κελεύσαντος δὲ τοῦ Λεάνδρου, πρότερον αὐτὴ τῷ Λίβυι διειλέχθη, συλλαβεῖν δεομένη τὸν τύραννον ἐπὶ δωρεαῖς μεγάλαις καὶ χρήμασιν, ὅταν εἰς λόγους αὐτῷ παραγένηται. Πεισθέντος δὲ τοῦ Λίβυος, ὤκνει μὲν ὁ Λέανδρος, αἰδεσθεὶς δὲ τὴν Ἀρεταφίλαν αὐτὴν παρέσεσθαι φάσκουσαν, ἐξῆλθεν ἄνοπλος καὶ ἀφύλακτος. Ὡς δὲ ἐγγὺς ἦλθε καὶ τὸν Ἀνάβουν εἶδεν, αὖθις ἐδυσχέραινε καὶ περιμένειν ἐβούλετο τοὺς δορυφόρους· ἡ δὲ Ἀρεταφίλα παροῦσα τὰ μὲν ἐθάρρυνεν αὐτὸν τὰ δὲ ἐκάκιζε· τέλος δὲ γενομένης διατριβῆς, ἐφελκυσαμένη τῆς ⸤χειρὸς ἰταμῶς πάνυ καὶ τεθαρρηκότως προσήγαγε τῷ βαρ⸥βάρῳ καὶ παρέδωκεν. Εὐθὺς οὖν ἀνήρπαστο καὶ συνείληπτο καὶ δεθεὶς ὑπὸ τῶν Λιβύων ἐτηρεῖτο, ἄχρι οὗ τὰ χρήματα τῇ Ἀρεταφίλᾳ κομίζοντες οἱ φίλοι παρεγένοντο μετὰ τῶν ἄλλων πολιτῶν. Πυθόμενοι γὰρ οἱ πλεῖστοι ἐξέδραμον ἐπὶ τὴν παράκλησιν· ὡς δὲ εἶδον τὴν Ἀρεταφίλαν, ὀλίγου ἐδέησαν ἐκλαθέσθαι τῆς πρὸς τὸν τύραννον ὀργῆς, καὶ πάρεργον τὴν ἐκείνου τιμωρίαν ἐνόμιζον· ἔργον δὲ πρῶτον ἦν αὐτοῖς καὶ ἀπόλαυσμα τῆς ἐλευθερίας ἐκείνην ἀσπάσασθαι μετὰ χαρᾶς καὶ δακρύων, ὥσπερ ἀγάλματι θεοῦ προσ⸤πίπτοντας. Ἄλλων δ᾿ ἐπ᾿ ἄλλοις ἐπιρρεόντων, μόλις ἑσπέ⸥ρας τὸν Λέανδρον παραλαβόντες ἐπανῆλθον εἰς τὴν πόλιν. Ἐπεὶ δὲ τῶν τιμῶν τῆς Ἀρεταφίλας καὶ τῶν ἐπαίνων ἐνεπλήσθησαν, οὕτω τραπόμενοι πρὸς τοὺς τυράννους τὴν μὲν Καλβίαν ζῶσαν κατέκαυσαν, τὸν δὲ Λέανδρον ἐνράψαντες εἰς βύρσαν κατεπόντισαν. Ἠξίουν δὲ τὴν Ἀρεταφίλαν συνάρχειν καὶ συνδιοικεῖν τοῖς ἀρίστοις ἀνδράσι τὴν πολιτείαν. Ἡ δὲ ὡς ποικίλον τι δρᾶμα καὶ πολυμερὲς

1 τὰ λοιπὰ δὲ v αAEnβγδσ 80,5 80,22: τὰ δὲ λοιπὰ u 4 διαταττούσης v α (primum τ habet in rasuram α) AEnβδ : διαττατούσης uγσ 80,5 80,22 : διαταραττούσης Bern. 7 Λέανδρον Π : Λάανδρον v 9 δὲ v αAEunβγσ 80,5 : τε δ 11 ἐξεργάσασθαι v αAEnβ : ἐξειργάσασθαι uγδσ 80,5 Λεάνδρου Π : Λαάνδρου v 12 αὐτὴ v αAEunβγσ 80,5 : αὐτῇ δ διειλέχθη v αuβγσ 80,5 80,22 : διελέχθη AEδ : διαλέχθη n 13 πεισθέντος v αAEunβγσ 80,5 : πειθέντα δ 15 ἄνοπλος v αAEuβγδσ 80,5 : ἄοπλος n 17 γενομένης Ω : γινομένης Pant. 20 ἄχρι v αAnγσ 80,5 : ἄχρις Euβδ τῇ Ἀρεταφίλᾳ v αAEnβγδσ 80,5 : τῆς Ἀρεταφίλας u 22 παράκλησιν Ω : παράληψσιν Po. ὀλίγου Ω : ὀλίγον Reiske 28 κατέκαυσαν v αAEunβγσ 80,5 : ἀπέκαυσαν δ Λέανδρον Π : Λάανδρον v 30 τι δρᾶμα v αAEunβγσ 80,5 : τιμᾷ δ

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il servo Dafni, per suo tramite uccise Nicocrate. Per il resto non si curò più di Aretafila, ma subito dimostrò coi fatti di essere stato un fratricida e non un tirannicida, poiché resse la città in maniera sconsiderata. Tuttavia Aretafila era tenuta in gran pregio ed esercitava nei suoi confronti una particolare influenza, evitando quindi di divenirgli invisa e di fargli apertamente guerra, e tessendo le proprie trame in gran segreto. Infatti, dapprima gli scatenò contro i Libici in una guerra, dopo aver convinto il potente Anabo ad invadere la zona ed assaltare la città, in un secondo momento istigò gli amici e gli strateghi contro Leandro, in modo da farli combattere senza particolare zelo e piuttosto con l’intenzione di ottenere la pace e la tranquillità, che sia i suoi atti che la tirannide richiedevano, volendo controllare saldamente la cittadinanza. Ella affermò di poter far cessare le ostilità e condurre Anabo a trattare di persona con lui, se Leandro avesse dato l’ordine prima che il conflitto diventasse irreparabile. Quando Leandro diede l’ordine, Aretafila per prima cosa discusse con il libico, pregandolo con grandi doni e ricchezze di catturare il tiranno nel momento in cui si fosse trovato a discorrere con lui. Dopo aver convinto il libico, Leandro in un primo momento esitò ma, provando vergogna del fatto che Aretafila gli disse che sarebbe stata anche lei presente, giunse all’incontro disarmato e privo di guardie del corpo. Non appena si presentò e vide Anabo, subito si preoccupò e volle che le guardie fossero presenti: allora Aretafila, che era lì presente, gli fece coraggio con dei rimproveri e alla fine, avvenuta la conversazione, trascinatolo molto impetuosamente e coraggiosamente per la mano, lo condusse dal barbaro e glielo consegnò463. Dunque fu subito catturato e fatto prigioniero e, dopo essere stato legato, fu guardato a vista dai Libici, fino a quando gli amici che portavano le ricchezze ad Aretafila non sopraggiunsero insieme agli altri cittadini. Infatti, coloro che erano stati informati dell’accaduto accorsero in gran numero all’appello464 ma, non appena videro Aretafila, ci misero poco a dimenticare la rabbia verso il tiranno e ritennero la vendetta nei suoi confronti di secondaria importanza: per loro era di primaria importanza godere della libertà ed accogliere Aretafila con affetto, gioia e lacrime prostrandosi a lei supplichevoli come dinnanzi alla statua di una dea465. Poiché gli uni dopo gli altri accorrevano da lei, a stento di sera presero Leandro e lo condussero in città. Dopo aver riempito Aretafila di onori e di lodi, rivoltandosi contro i tiranni, bruciarono viva Calbia e, dopo aver cucito Leandro in un sacco, lo gettarono in mare. Quindi ritennero Aretafila degna di amministrare il governo della città insieme con gli uomini migliori. Ella invece, come se avesse recitato in una rappresentazione teatrale intricata e compo-

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ἀγωνισαμένη μέχρι στεφάνου διαδόσεως, ὡς ἐπεῖδε τὴν πόλιν ἐλευθέραν, εὐθὺς εἰς τὴν γυναικωνῖτιν ἐνεδύετο, καὶ τοῦ πολυπραγμονεῖν ὁτιοῦν ⸤παραβαλλομένη466, τὸν λοιπὸν χρόνον ἐν ἱστοῖς ἡσυχίαν ἄγου⸥σα μετὰ τῶν φίλων καὶ οἰκείων διετέλεσεν.

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Κάμμα

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Ἦσαν ἐν Γαλατίᾳ δυνατώτατοι τῶν τετραρχῶν καί τι καὶ κατὰ γένος προσήκοντες ἀλλήλοις Σινάτος τε καὶ Συνόριξ· ὧν ὁ Σινᾶτος γυναῖκα παρθένον ἔσχε Κάμμαν ὄνομα, περίβλεπτον μὲν ἰδέᾳ σώματος καὶ ὥρᾳ, θαυμαζομένην δὲ μᾶλλον δι᾿ ἀρετήν· οὐ γὰρ μόνον σώφρων καὶ φίλανδρος, ἀλλὰ καὶ συνετὴ καὶ μεγαλόφρων καὶ ποθεινὴ τοῖς ὑπηκόοις ἦν διαφερόντως ὑπ᾿ εὐμενείας καὶ χρηστότητος· ἐπιφανεστέραν δὲ αὐτὴν ἐποίει καὶ τὸ τῆς Ἀρτέμιδος ἱέρειαν ⸤εἶναι, ἣν μάλιστα Γαλάται σέβουσι, περί τε πομπὰς ἀεὶ καὶ⸥ θυσίας κεκοσμημένην ὁρᾶσθαι μεγαλοπρεπῶς. Ἐρασθεὶς οὖν αὐτῆς ὁ Σινόριξ, καὶ μήτε πεῖσαι μήτε βιάσασθαι ζῶντος τοῦ ἀνδρὸς δυνατὸς ὤν, ἔργον εἰργάσατο δεινόν· ἀπέκτεινε γὰρ δόλῳ τὸν Σινᾶτον, καὶ χρόνον οὐ πολὺν διαλιπὼν ἐμνᾶτο τὴν Κάμμαν ἐν τῷ ἱερῷ ποιουμένην διατριβὰς467 ⸤καὶ φέρουσαν οὐκ οἰκτρῶς καὶ ταπεινῶς ἀλλὰ θυμῷ νοῦν⸥ ἔχοντι καὶ καιρὸν περιμένοντι τὴν τοῦ Σινόριγος παρανομίαν. Ὁ δὲ λιπαρὴς ἦν περὶ τὰς δεήσεις, καὶ λόγων ἐδόκει μὴ παντάπασιν ἀπορεῖν εὐπρέπειαν ἐχόντων, ὡς τὰ μὲν ἄλλα Σινάτου βελτίονα παρεσχηκὼς ἑαυτὸν ἀνελὼν δὲ ἐκεῖνον ἔρωτι τῆς Κάμμας μὴ δι᾿ ἑτέραν τινὰ πονηρίαν. Ἦσαν οὖν τὸ πρῶτον ἀρνήσεις οὐκ ἄγαν ἀπηνεῖς τῆς γυναικός, εἶτα κατὰ μικρὸν ἐδόκει μαλάττεσθαι· καὶ γὰρ οἰκεῖοι καὶ φίλοι προσέκειντο θεραπείᾳ καὶ χάριτι τοῦ Σινόριγος μέγιστον δυναμένου, πείθοντες αὐτὴν καὶ καταβιαζόμενοι· τέλος δὲ συνε⸤χώρει καὶ μετεπέμπετο πρὸς ἑαυτὴν ἐκεῖνον, ὡς παρὰ τῷ⸥ θεῷ τῆς συναινέσεως καὶ καταπιστώσεως γενησομένης. Ἐλθόντα δὲ δεξαμένη φιλοφρό-

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Polyaen. VIII 39

Apul. Met. VIII 1–14

2 παραβαλλομένη v αEn : περιβαλλομένη Auβγδσ 80,5 : προβαλλομένη Wy. : ⟨ ἀποστᾶσα ⟩ τοῦ πολυπραγμονεῖν ὁτιοῦν παραβαλλομένη Cobet : τῷ πολυπραγμονεῖν ὁτιοῦν παραβαλλομένη Bern. 5 Κάμμα Ω : Κάμιλλα Bern. (cfr. 768 B ubi omnes codices Κάμιμαν exhibent) 7 Σινάτος Π : Σινᾶτος v Συνόριξ v αAEnβγδσ 80,5 80,22 : Σινόριξ u 9 καὶ φίλανδρος v Eβδ : omiserunt v αA2unγσ 80,5 80,22 10 εὐμενείας v αAEunβγσ 80,5 : εὐγενείας δ 11 τὸ v αAEunβγσ 80,5 : omisit δ 13 αὐτῆς v αAEβγδσ 80,5 : αὐτὸς u : αὐτοῖς n πεῖσαι v αAEunβγσ 80,5 : πείσας δ 14 γὰρ v αAEunβγσ 80,5 : omisit δ 15 διαλιπὼν v αAEunβγσ 80,5 : διαλυπὼν δ διατριβὰς Π : τὰς διατριβὰς v 16 θυμῷ v αAEunβγσ 80,5 : θυμόν δ 19 ἐκεῖνον Π : ἐκεῖνων v Κάμμας Ω : Κάμμης Hatz. 22 δυναμένου αEn : δυνάμενοι v Auβγδσ 80,5 πείθοντες-καταβιαζόμενοι αn: πείθοντος-καταβιαζομένου v AEuβγσ 80,5 : πείθοντος-κατὰ βιαζομένου δ 23 παρὰ v αAEnβ: περὶ uγδσ 80,5 τῷ Ω : τῇ Xyl.2 24 καταπιστώσεως v αAEunβγσ 80,5 : καταπινώσεως δ

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20. camma

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sta di molte sezioni fino al conseguimento della corona di vincitrice468, non appena vide la città libera, subito entrò nel gineceo e, rinunciato a qualsiasi tipo di incarico, trascorse il resto dei suoi giorni al telaio in tranquillità e in compagnia di amici e parenti469.

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Camma470

In Galazia471 i più potenti tra i tetrarchi472 e, per così dire, anche consanguinei, erano Sinato473 e Sinorige474. Tra i due, Sinato aveva in moglie una fanciulla di nome475 Camma476, insigne per aspetto fisico e leggiadria, e ammirata ancor di più per la virtù: non solo era saggia e rispettosa del marito, ma anche assennata, magnanima e particolarmente apprezzata dai sottoposti per la sua bontà e dolcezza. La rendeva ancora più illustre il fatto di essere sacerdotessa di Artemide477, divinità che i Galati478 venerano particolarmente, e di essere vista splendidamente ornata nei cortei solenni e nelle cerimonie sacrificali. Sinorige, dunque, s’invaghì di lei e, non essendo capace di conquistarla né di sedurla finché il marito era vivo, commise un atto orribile: uccise Sinato a tradimento479 e, trascorso non molto tempo480, chiese la mano di Camma, che si tratteneva a lungo481 nel tempio e sopportava l’illecito assassinio di Sinorige non miseramente né con prostrazione, ma con coraggio e con la lucida determinazione di aspettare il momento opportuno per agire in riferimento alla violazione della legge da parte di Sinorige. Questi era insistente nelle richieste, e senza dubbio le belle parole sembravano non mancargli per dimostrarsi per il resto migliore rispetto a Sinato, affermando di averlo ucciso per amore di Camma e non per qualche altra scelleratezza. Dunque, in un primo momento, i dinieghi della donna non erano troppo decisi; in seguito, dava l’impressione di mitigare un poco alla volta le proprie posizioni. Infatti, i suoi parenti ed amici erano inclini a servire e compiacere Sinorige, che era un uomo molto potente, cercando di convincerla e forzarla482. Alla fine ella condiscese e lo convocò presso di sé per ottenere il consenso e la garanzia della dea. Appena giunto, lo accolse benevolmente e, dopo averlo

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νως καὶ προσαγαγοῦσα τῷ βωμῷ κατέσπεισεν ἐκ φιάλης, καὶ τὸ μὲν ἐξέπιεν αὐτὴ τὸ δὲ ἐκεῖνον ἐκέλευσεν· ἦν δὲ πεφαρμαγμένον μελίκρατον. Ὡς δὲ εἶδε πεπωκότα, λαμπρὸν ἀνωλόλυξε καὶ τὴν θεὸν προσκυνήσασα, “μαρτύρομαί σε”, εἶπεν, “ὦ πολυτίμητε δαῖμον, ὅτι ταύτης ἕνεκα τῆς ἡμέρας ἐπέζησα τῷ Σινάτου φόνῳ, χρόνον τοσοῦτον οὐδὲν ἀπολαβοῦσα τοῦ βίου χρηστὸν ἀλλὰ τὴν ἐλπίδα τῆς δίκης, ἣν ἔχουσα καταβαίνω πρὸς τὸν ἐμὸν ἄν⸤δρα. Σοὶ δ᾿, ὦ πάντων ἀνοσιώτατε ἀνθρώπων, τάφον ἀντὶ⸥ θαλάμου καὶ γάμου παρασκευαζέτωσαν οἱ προσήκοντες”. Ταῦτα δὲ ἀκούσας ὁ Γαλάτης καὶ τοῦ φαρμάκου δρῶντος ἤδη καὶ διακινοῦντος τὸ σῶμα συναισθόμενος ἐπέβη μὲν ὀχήματος ὡς σάλῳ καὶ τιναγμῷ χρησόμενος, ἐξέστη δὲ παραχρῆμα καὶ μεταβὰς εἰς φορεῖον ἑσπέρας ἀπέθανεν. Ἡ δὲ Κάμμα διενεγκοῦσα τὴν νύκτα καὶ πυθομένη τέλος ἔχειν ἐκεῖνον, εὐθύμως καὶ ἱλαρῶς κατέστρεψεν.

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Στρατονίκη

Παρέσχε δὲ ἡ Γαλατία καὶ Στρα⸤τονίκην τὴν Δηιοτάρου καὶ Χιομάραν τὴν Ὀρτιάγοντος,⸥ ἀξίας μνήμης γυναῖκας. Ἡ μὲν οὖν Στρατονίκη δεόμενον γνησίων παίδων ἐπὶ διαδοχῇ τῆς βασιλείας ἐπισταμένη τὸν ἄνδρα, μὴ τίκτουσα δὲ αὐτὴ συνέπεισεν ἐξ ἑτέρας γυναικὸς παιδοποιησάμενον αὐτῇ τὸ παιδίον περιιδεῖν ὑποβαλλόμενον. Τοῦ δὲ Δηιοτάρου τήν τε γνώμην θαυμάσαντος καὶ πᾶν ἐπ᾿ αὐτῇ ποιησαμένου, παρθένον εὐπρεπῆ παρασκευάσασα τῶν αἰχμαλώτων ὄνομα Ἠλέκτραν συνεῖρξε τῷ Δηιοτάρῳ, καὶ τοὺς γενομένους παῖδας ὥσπερ γνησίους αὑτῆς ἔθρεψε φιλοστόργως483 καὶ μεγαλοπρεπῶς.

13 1109B (Βερρονίκη)

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1 κατέσπεισεν v αAEnβγδσ 80,5 : κατέπεισεν δ 2 ἐκεῖνον v αAEnβγδσ 80,5 : ἐκεῖνος u 80,5 3 λαμπρὸν v αn : λαμπρὰν Eβγδσ : λαμπρῶς A : omiserunt u 80,5 τὴν v αAEnβγδσ 80,5 : τὸν u 4 φόνῳ v αAEnβγδσ 80,5 : φόνον δ 5 ἀπολαβοῦσα v αAEnβδσ 80,5 : ἀπολαύουσα uγ ἀλλὰ Ω : ἄλλο ἢ Dinse: ἀλλ᾿ ἢ Bern. 7 καὶ γάμου Π : omisit v 9 συναισθόμενος Π : συναισθανόμενος v χρησόμενος Π : χρώμενος v ἐξέστη Π : διέστη v 13 παρέσχε Ω : παρέσχων Ald. 13–14 Ὀρτιάγοντος v αAEunβγσ 80,5 : Ἀρτιάγοντος δ 14 ἀξίας v αAEunβγσ 80,5 : ἀξίωμα δ 17 αὐτῇ v αAEunβγσ 80,5 : αὐτὴν δ

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21. stratonica

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condotto all’altare, fece delle libagioni con una coppa e gli ordinò di bere ciò che ella aveva bevuto484; era infatti un idromele velenoso. Camma, non appena vide che Sinorige aveva bevuto, mandò un forte urlo485 e, prostratasi innanzi alla dea486, disse: “Ti prendo come testimone, divinità molto venerata487, del fatto che sono sopravvissuta all’uccisione di Sinato fino a questo giorno, e per così tanto tempo non ho covato null’altro di buono se non la speranza di giustizia, ricevuta la quale scendo agli inferi da mio marito. A te, o uomo più empio che ci possa essere, i congiunti preparino la tomba, invece del talamo e delle nozze488”. Il galata, udite queste parole e avvertendo che la pozione già agiva sconvolgendo il proprio organismo, salì su un carro con l’intenzione di placare le turbolenze e i sommovimenti interni, andò via subito, trasportato sulla lettiga, e di sera morì. Camma, invece, sopravvisse489 tutta la notte e, dopo aver saputo che quegli era morto490, morì491 con l’animo felice e sollevato492.

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Stratonica493

La Galazia fu la terra di origine di due donne494 degne di essere ricordate: Stratonica, moglie di Deiotaro495, e Chiomara, moglie di Ortiagonte. Stratonica, dunque, vedendo che il marito non aveva figli legittimi per la successione al trono, e non potendo lei dare alla luce alcun erede, lo convinse ad avere un figlio da un’altra donna, permettendo poi alla propria moglie di appropriarsene496. Poiché Deiotaro apprezzò la proposta e affidò tutto nelle mani di lei, Stratonica, avendo scelto tra le schiave una bella fanciulla di nome Elettra497, la fece unire a Deiotaro e tirò su amorevolmente e magnificamente i figli nati da quella unione come se fossero stati i propri.

54 258E

F

22

⸤Χιομάρα

Χιομάραν δὲ συνέβη τὴν Ὀρτιάγον⸥τος αἰχμάλωτον γενέσθαι μετὰ τῶν ἄλλων γυναικῶν, ὅτε Ῥωμαῖοι καὶ Γναῖος ἐνίκησαν μάχῃ τοὺς ἐν Ἀσίᾳ Γαλάτας. Ὁ δὲ λαβὼν αὐτὴν ταξίαρχος ἐχρήσατο τῇ τύχῃ στρατιωτικῶς καὶ κατῄσχυνεν· ἦν δ᾿ ἄρα καὶ πρὸς ἡδονὴν καὶ ἀργύριον ἀμαθὴς498 καὶ ἀκρατὴς ἄνθρωπος· ἡττήθη δὲ ὅμως ὑπὸ τῆς φιλαργυρίας, καὶ χρυσίου συχνοῦ διομολογηθέντος ὑπὲρ τῆς γυναικός, ἦγεν αὐτὴν ἀπολυτρώσων, ποταμοῦ τινος ἐν μέσῳ διείργοντος. Ὡς δὲ διαβάντες οἱ Γαλάται τὸ χρυσίον ἔδωκαν αὐτῷ καὶ παρελάμβανον τὴν Χιομάραν, ἡ μὲν ἀπὸ ⸤νεύματος προσέταξεν ἑνὶ παῖσαι τὸν Ῥωμαῖον ἀσπαζόμε⸥νον αὐτὴν καὶ φιλοφρονούμενον· ἐκείνου δὲ πεισθέντος καὶ τὴν κεφαλὴν ἀποκόψαντος, ἀραμένη καὶ περιστείλασα τοῖς κόλποις ἀπήλαυνεν. Ὡς δὲ ἦλθε πρὸς τὸν ἄνδρα καὶ τὴν κεφαλὴν αὐτῷ προύβαλεν, ἐκείνου θαυμάσαντος καὶ εἰπόντος, “ὦ γύναι, καλὸν ἡ πίστις”, “ναί”, εἶπεν, “ἀλλὰ κάλλιον ἕνα μόνον ζῆν ἐμοὶ συγγεγενημένον”. Ταύτῃ μὲν ὁ Πολύβιός φησι διὰ λόγων ἐν Σάρδεσι γενόμενος θαυμάσαι τό τε φρόνημα καὶ τὴν σύνεσιν.

23 259A

la virtù delle donne

⟨Γύναιον Περγαμηνόν⟩499

⸤Ἐπεὶ δὲ Μιθριδάτης ἑξήκοντα Γαλατῶν τοὺς ἀρί⸥στους μεταπεμψάμενος εἰς Πέργαμον ὡς φίλους, ὑβριστικῶς ἐδόκει καὶ δεσποτικῶς προσφέρεσθαι, καὶ πάντες ἠγανάκτουν, Πορηδόραξ500, ἀνὴρ τό τε σῶμα ῥωμαλέος καὶ τὴν ψυχὴν διαφέρων (ἦν δὲ Τοσιωπῶν τετράρχης), ἀνεδέξατο τὸν Μιθριδάτην, ὅταν ἐν τῷ βήματι γυμνα2 Polyb. XXI 38 Liv. XXXVIII 24 Val. Max. VI 1 ext. 2 Flor. I 27 de vir. ill. 55 Suid. s. v. Ὀρτιάγων (Ortiago ap. Graecos et Liv. XXXVIII 19, Orgiago ap. Latinos) 3 Cn. Manlius cons. a. 189 a.C. 15 cf. App. Mithr. VII 46 2 Χιομάραν v αAEunβγσ 80,5 : Χιμάραν δ 3 Γναῖος v αAEunγσ 80,5 80,22: Γναῖοι βδ 5 ἀμαθὴς καὶ Ω : delevit Cobet : ἐμπαθὴς καὶ ed. Basileensis ἄνθρωπος ex mge. in textum irrepsisse, in textu fuisse χρόνῳ δ᾿ αὐτῆς καὶ ἐρασθῆναι λέγεται vel sim. putat Stegmann 9 νεύματος v αAEnβγδσ 80,5 : πνεύματος u 80,5 11 ἀπήλαυνεν v αAEnβδσ 80,5 : ἀπέλαυνεν uγ 12 αὐτῷ Π : αὐτοῦ v 13 συγγεγενημένον Π : συγγενομένον v 15 Γύναιον περγαμηνόν Xyl.2 ex 259C6–7: Mulier Pergamena add. Xyl.1: omiserunt Ω : Mulier quaedam Pergamensis add. Cruserius: sed alius quoque eadem provincia scribendi praestat argumentum add. Alaman. Ranutin. 18 Πορηδόραξ A²mg Eδ : omiserunt v αA²unγσ 80,5 80,22 : τορηδόραξ β 80,21 : Toridorax, Thoridorax vel Toredorax Alaman. Ranutin. : τορηδόραξ Ald. : Toredorix Xyl.1 : Τορηδόραξ Step. : τορηδόριξ Xyl.2 : πορηδόριξ Iunius : Πυρηδόναξ Wy. : Ἐπορηδόριξ Na. Cf. R.-E. VI 250,1 Eporedirix C.I.L. XIII 2728. 2805 ῥωμαλέος v αAEunβγσ 80,5 : ῥωμαλέως δ 19 Τοσιωπῶν Ω : Τολιστοβώγων Wy. : Τολιστοαγίων Mommsen : Τολιστοβίων Wil. : Τεκτοσάγων τετράρχης v αAEunβγσ 80,5 : τετάρχης δ βήματι γυμνασίῳ Π : βήματι γυμνασίους v : βήματι ⟨τοῦ⟩ γυμνασίου Na. : γυμνασίῳ del. Bern. : ἐν τῷ γυμνασίῳ χρηματίζῃ, συναρπάσας ὤσειν ἅμα σὺν αὐτῷ τῷ βήματι Wyttenbach : βήματι ⟨ἐν⟩ γυμνασίῳ Babbitt

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22. chiomara – 23. una donna di pergamo

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Chiomara501

Capitò che Chiomara, moglie di Ortiagonte502, cadde prigioniera insieme con altre donne quando i Romani e Gneo503 sconfissero in battaglia i Galati d’Asia. Un centurione504, avendola catturata, secondo la consuetudine militare approfittò della propria buona sorte e la disonorò. Quegli poi era un uomo ignorante e smodatamente dedito all’amore e al denaro: proprio per questo si fece vincere dall’avidità e, pattuita una grossa quantità d’oro505 in cambio della donna, la condusse, per liberarla, in un luogo che aveva al centro un fiume come linea di demarcazione. Dopo che i Galati, traversato il fiume, gli ebbero dato l’oro ricevendo in cambio Chiomara, ella, con un cenno del capo506, ordinò ad uno di uccidere il romano che la stava salutando amorevolmente507 dando grandi segni di affetto. Il galata obbedì, tagliandogli la testa, e Chiomara andò via dopo aver raccolto la testa ed averla avvolta in un panno. Non appena fu giunta dal marito, gli gettò avanti agli occhi la testa del romano e, poiché Ortiagonte508, rimasto stupefatto, esclamò: “Moglie, la fedeltà509 è una bella cosa”, ella rispose: “Sicuramente, ma è ancora più bello che sia vivo soltanto un uomo che è stato in intimità con me”. Polibio510 afferma511 di essersi trovato a parlare con questa donna a Sardi512 e di averne ammirato la nobile indole e la perspicacia513.

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Una donna di Pergamo514

Quando Mitridate515, dopo aver fatto venire a Pergamo sessanta nobili galati come amici, sembrava comportarsi in maniera violenta e dispotica e tutti ne erano indignati, Poredorige, uomo forte nel fisico e nobile nell’animo (era tetrarca dei Tosiopi516), si prese l’incarico di catturare Mitridate mentre dava udienza sull’altare del ginnasio e di scaraventarlo con esso in un dirupo.

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259B

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D

la virtù delle donne

σίῳ χρηματίζῃ συναρπάσας ὤσειν ἅμα σὺν αὐτῷ κατὰ τῆς φάραγγος. Τύχῃ δέ τινι τῆς ἡμέρας ἐκείνης οὐκ ἀναβάντος εἰς τὸ γυμνάσιον αὐτοῦ, μεταπεμπομένου δὲ τοὺς Γαλάτας οἴκαδε, θαρρεῖν παρεκάλει, καὶ ὅταν ἐν ταὐτῷ γένωνται, διασπάσαι τὸ σῶμα καὶ ⸤διαφθεῖραι πανταχόθεν προσπεσόντας. Τοῦτ᾿ οὐκ ἔλαθε τὸν⸥ Μιθριδάτην, ἀλλὰ μηνύσεως γενομένης, καθ᾿ ἕνα τῶν Γαλατῶν παρεδίδου σφαγησόμενον· εἶτά πως ἀναμνησθεὶς νεανίσκου πολὺ προέχοντος πρωτεύσαντος ὥρᾳ καὶ κάλλει τῶν καθ᾿ αὑτὸν ᾤκτειρε καὶ μετενόει· καὶ δῆλος ἦν ἀχθόμενος ὡς ἐν πρώτοις ἀπολωλότος, ὅμως δὲ ἔπεμψεν, εἰ ζῶν εὑρεθείη, μεθεῖναι κελεύων· ἦν δὲ ὄνομα τῷ νεανίσκῳ Βηπολιτανός. Καί τις αὐτῷ τύχη θαυμαστὴ συνέπεσε· καλὴν γὰρ ἐσθῆτα καὶ πολυτελῆ συνελήφθη φορῶν· ἣν ὁ δήμιος ἀναίμακτον αὑτῷ καὶ καθαρὰν διαφυλάξαι βουλόμενος, καὶ ἀπο⸤δύων ἀτρέμα τὸν νεανίσκον, εἶδε τοὺς παρὰ τοῦ βασιλέως προσ⸥θέοντας ἅμα καὶ τοὔνομα τοῦ μειρακίου βοῶντας. Τὸν μὲν οὖν Βηπολιτανὸν ἡ πολλοὺς ἀπολέσασα φιλαργυρία διέσῳσεν ἀπροσδοκήτως. Ὁ δὲ Πορηδόραξ κατακοπεὶς ἄταφος ἐξεβέβλητο, καὶ τῶν φίλων οὐδεὶς ἐτόλμησε προσελθεῖν· γύναιον δὲ Περγαμηνόν517, ἐγνωσμένον ἀφ᾿ ὥρας ζῶν τι τῷ Γαλάτῃ παρεκινδύνευσε θάψαι καὶ περιστεῖλαι τὸν νεκρόν· ᾔσθοντο δ᾿ οἱ φύλακες καὶ συλλαβόντες ἀνήγαγον πρὸς τὸν βασιλέα. Λέγεται μὲν οὖν τι καὶ πρὸς τὴν ὄψιν αὐτῆς παθεῖν ὁ Μιθριδάτης, νέας παντάπασι καὶ ἀκάκου τῆς παιδί⸤σκης φανείσης· ἔτι δὲ μᾶλλον ὡς ἔοικε τὴν αἰτίαν γνοὺς ἐρω⸥τικὴν οὖσαν ἐπεκλάσθη καὶ συνεχώρησεν ἀνελέσθαι καὶ θάψαι τὸν νεκρὸν ἐσθῆτα καὶ κόσμον ἐκ τῶν ἐκείνου λαβοῦσαν.

1 σὺν αὐτῷ Ω : σὺν αὑτῷ Hu. 2 ἀναβάντος Π : ἀναβαίνοντος v 6 προέχοντος πρωτεύσαντος v αAEunβγσ 80,5 : προσέχοντος πρωτεύσαντος δ : πρωτεύσαντος del. Wy. 10 ἀναίμακτον αὑτῷ v αAEunβγσ 80,5 : ἀνέμακτον αὐτῷ δ 11 ἀτρέμα Ω : ἠρέμα Cobet 12 παρὰ τοῦ βασιλέως Π : περὶ τοῦ βασιλέας v 14 Πορηδόραξ Ω : Toridorax, Thoridorax vel Toredorax Alaman. Ranutin. : πορηδόραξ Ald. : Toredorix Xyl.1 : Πορηδόραξ Step. : τορηδόριξ Xyl.2 : πορηδόριξ Iunius : Πυρηδόναξ Wy. : Ἐπορηδόριξ Na. Cf. R.-E. VI 250,1 Eporedirix C.I.L. XIII 2728. 2805 15 προσελθεῖν· γύναιον δὲ Περγαμηνόν Ald. : προσελθεῖν· Γύναιον δὲ Περγαμηνόν nβ: post προσελθεῖν·manifesta signa finis fabulae sunt in v αuγδσ 80,5; lineae antecedentis minima pars vacua relinquitur in AEσ et magna pars relinquitur in v uγδ 80,5. Nova fabula incipitur in α et quasi nova in AE. Hic titulus παρθένος περγαμηνή additur in v τι Π : omisit v 16 παρεκινδύνευσε θάψαι καὶ περιστεῖλαι τὸν νεκρόν· ᾔσθοντο δ᾿ οἱ v αAEunβγσ 80,5 : omisit δ 20 θάψαι v αAEunβγσ 80,5 : θάψας δ

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23. una donna di pergamo

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La sorte volle che Mitridate quel giorno non salisse sul ginnasio, ma convocò i Galati a casa propria. Poredorige, allora, li esortò ad avere coraggio e, dopo essere giunti in casa di quegli, a dilaniarne il corpo e a lacerarlo piombandogli addosso da ogni parte. Di questo piano venne a conoscenza Mitridate grazie ad una delazione, ed ordinò di uccidere uno ad uno i Galati; successivamente, ricordatosi di un giovanetto molto distinto che si segnalava per il bell’aspetto518 tra i suoi coetanei, ne ebbe pietà e si pentì della propria decisione. Mitridate era chiaramente dispiaciuto, in quanto pensava che il giovinetto fosse stato ucciso tra i primi, ma inviò ugualmente l’ordine di rilasciarlo qualora fosse stato ritrovato vivo. Il giovane si chiamava Bepolitano519 e la sorte gli riservò un destino singolare: quando fu arrestato, indossava un vestito bello e costoso, e il boia, volendone conservare l’abito pulito e senza macchie di sangue, stava facendo lentamente spogliare il giovinetto, quando vide i messi del re che correvano e nel contempo pronunciavano a gran voce il nome del giovane520. In questo caso, a salvare inaspettatamente la vita a Bepolitano fu l’avidità, che ha mandato in rovina molti uomini521. Poredorige fu gettato a terra a pezzi senza ricevere sepoltura e nessuno degli amici osò avvicinarvisi; una donna522 di Pergamo, però, che aveva conosciuto523 il galata quando era in vita per la sua bellezza, prese il rischio524 di seppellire il defunto525 e di rivestirlo per la sepoltura. Le guardie allora la videro e, arrestatala, la condussero al cospetto del re. Si narra che Mitridate ne ebbe compassione solo a vederla, poiché la fanciulla appariva così giovane ed innocente nell’aspetto. Sembra che Mitridate fosse maggiormente mosso a compassione avendo saputo che all’origine di quel gesto vi era l’amore526, e acconsentì a prelevare e seppellire il cadavere prendendo un vestito e un ornamento tra quelli del defunto527.

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⟨F⟩

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B

la virtù delle donne

Τιμόκλεια

Θεαγένης ὁ Θηβαῖος, Ἐπαμεινώνδᾳ καὶ Πελοπίδᾳ καὶ τοῖς ἀρίστοις ἀνδράσι τὴν αὐτὴν ὑπὲρ τῆς πόλεως λαβὼν διάνοιαν, ἔπταισε περὶ τὴν κοινὴν τύχην τῆς Ἑλλάδος ἐν Χαιρωνείᾳ, κρατῶν ἤδη καὶ διώκων τοὺς κατ᾿ αὐτὸν ἀντιτεταγμένους. Ἐκεῖνος γὰρ ἦν ὁ πρὸς τὸν ἐμβοήσαντα, “μέχρι ποῦ διώκεις;” ἀποκρινάμενος, “μέχρι Μακεδονίας”. Ἀ⸤ποθανόντι δ᾿ αὐτῷ περιῆν ἀδελφὴ μαρτυροῦσα κἀκεῖνον ἀ⸥ρετῇ γένους καὶ φύσει μέγαν ἄνδρα καὶ λαμπρὸν γενέσθαι· πλὴν ταύτῃ γε καὶ χρηστὸν ἀπολαῦσαί τι τῆς ἀρετῆς ὑπῆρξεν, ὥστε κουφότερον, ὅσον τῶν κοινῶν ἀτυχημάτων εἰς αὐτὴν ἦλθεν, ἐνεγκεῖν. Ἐπεὶ γὰρ ἐκράτησε Θηβαίων Ἀλέξανδρος, ἄλλοι δ᾿ ἄλλα τῆς πόλεως ἐπόρθουν ἐπιόντες, ἔτυχε τῆς Τιμοκλείας οἰκίαν528 καταλαβὼν ἄνθρωπος οὐκ ἐπιεικὴς οὐδ᾿ ἥμερος ἀλλ᾿ ὑβριστὴς καὶ ἀνόητος· ἦρχε δὲ Θρᾳκίου τινὸς εἴλης529 καὶ ὁμώνυμος ἦν τοῦ βασιλέως οὐδὲν δ᾿ ὅμοιος. Οὔτε γὰρ τὸ γένος οὔτε τὸν βίον αἰδεσθεὶς τῆς γυναικός, ὡς ἐνέπλησεν ἑαυτὸν οἴνου, μετὰ δεῖπνον ἐκάλει συναναπαυσομένην. Καὶ τοῦτου πέρας οὐκ ἦν· ἀλλὰ καὶ χρυσὸν ἐζήτει καὶ ἄργυρον, εἴ τις εἴη κεκρυμμένος ὑπ᾿ αὐτῆς, τὰ μὲν ὡς ἀπειλῶν τὰ δὲ ὡς ἕξων διὰ παντὸς ἐν τάξει γυναικός. Ἡ δὲ δεξαμένη λαβὴν αὐτοῦ διδόντος, “ὤφελον μέν”, εἶπε, “τεθνάναι πρὸ ταύτης ἐγὼ τῆς νυκτὸς ἢ ζῆν, τὸ γοῦν σῶμα πάντων ἀπολλυμένων ἀπείρατον ὕβρεως διεφύλαξα ⸤πεπραγμένων δὲ οὕτως, εἴ σε κηδεμόνα καὶ δεσπότην καὶ⸥ ἄνδρα δεῖ νομίζειν, τοῦ δαίμονος διδόντος, οὐκ ἀποστερήσω σε τῶν σῶν· ἐμαυτὴν γὰρ ὅ τι βουλήσῃ530, ὁρῶ γεγενημένην. Ἐμοὶ περὶ σῶμα κόσμος ἦν καὶ ἄργυρος ἐν ἐκπώμασιν, ἦν τι καὶ χρυσοῦ καὶ νομίσματος. Ὡς δὲ ἡ πόλις ἡλίσκετο, πάντα συλλαβεῖν κελεύσασα τὰς θεραπαινίδας ἔρριψα, μᾶλλον δὲ κατεθέμην εἰς φρέαρ ὕδωρ οὐκ ἔχον· οὐδὲ ἴσασιν αὐτὸ πολλοί· πῶμα γὰρ ἔπεστι καὶ κύκλῳ περιπέφυκεν ὕλη σύσκιος. Ταῦτα σὺ μὲν εὐτυχοίης λαβών, ἐμοὶ δὲ ἔσται πρός σε ⸤μαρτύρια καὶ γνωρίσματα τῆς περὶ τὸν οἶκον εὐτυχίας καὶ⸥ λαμπρότητος”.

2 FGrH 139F 2b 145E–F vit. Alex. 12 Polyaen. VIII 40 IV 2.2 de Stratocle Ath. 11 cf. Eustath. ad Il. 17.720

Zon. IV 9

4 cf. Polyaen.

4 τοὺς κατ᾿ αὐτὸν ἀντιτεταγμένους αAEnβγδσ 80,5 80,21 80,22 : τὰ κατ᾿ αὐτὴν ἀντιτεταγμένα v : τοὺς κατ᾿ αὐτὴν ἀντιτεταγμένους u 6 ἀδελφὴ Π : ἡ ἀδελφὴ v 8 ὅσον v αAEunβγσ 80,5 : ὅσων δ 10 τῆς Τιμοκλείας οἰκίαν Π : τῆς Τιμοκλείας τὴν οἰκίαν v 11 ἦρχε Π : ἤρχετο v 12 εἴλης αAEuβ γσ 80,5 : ἴλης v n : omisit δ ὅμοιος v αAEnβγσ : ὅμοιον u 80,5 14 τοῦτου Ω : τοῦτο Méziriacus 15 ἀπειλῶν v αAEunβγσ 80,5 : ἀπολῶν δ ὡς Ω : ὡς del. Herw. 16 δεξαμένη v AEnβγδσ : διαδεξαμένη u 80,5 17 ζῆν τὸ Ω : ζῆν ⟨ὥστε⟩ τὸ Pohlenz : ζῆν· ⟨ καὶ γὰρ ἂν ἐξῆν ⟩ τὸ Bern. : ⟨ὡς⟩ ἐξῆν pro ζῆν Ku. 17–18 ἀπολλυμένων v αn : omiserunt AEuβγδσ 80,5 : ἀπολομένων Cobet 20 βουλήσῃ αEn : βουλήσει v Aβδ : βουλήσειν uγσ 80,5 : βούλῃ σύ Méziriacus : βούλει, σὴν Cobet : βούλῃ, σὴν Benseler 21 ἐν v αn : omiserunt AEuβγδσ 80,5 ἐκπώμασιν v αAunγσ 80,5 : ἐκ πώμασιν Eβδ 24 ἐμοὶ δ᾿ ἔσται πρός σε μαρτύρια καὶ γνωρίσματα τῆς περὶ τὸν οἶκον εὐτυχίας καὶ λαμπρότητος. Ἀκούσας οὖν ὁ Μακεδὼν v αAEunβγδ(in margine)σ 80,5

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24. timoclea

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Timoclea531

Teagene di Tebe532, mosso dal medesimo intento di difendere la propria città che animò Epaminonda, Pelopida533 ed altri ottimi uomini, cadde nella comune sventura della Grecia a Cheronea, mentre stava avendo la meglio ed inseguiva i suoi nemici. Fu lui, che ad un nemico che gli gridava: “Fin dove ci vuoi inseguire?” rispose: “Fino alla Macedonia534”. Quando Teagene morì, gli sopravvisse una sorella, che testimoniò che il fratello era stato un uomo grande e magnifico per nobiltà di stirpe e per indole: peraltro così iniziava ad usufruire della grande virtù del fratello, in modo tale da sopportare, come più lieve, quanto su di lei ricadeva delle comuni sciagure. Quando infatti Alessandro s’impadronì di Tebe535, i suoi soldati attraversavano varie zone della città per compiere saccheggi, e capitò che, ad impossessarsi della casa di Timoclea, fu un uomo non mite e cortese ma violento e stupido; comandava una truppa tracia536 ed era omonimo del re537, senza essergli in nulla simile538. Non ebbe nessun rispetto né per la stirpe né per la dimora della donna, poiché si riempì di vino e, dopo il pasto, la chiamò a dormire insieme con lui. E questo non era tutto. Chiese infatti anche oro e argento, se ella ne aveva nascosto in casa, minacciandola da un lato e dall’altro tenendola di fatto nella condizione di moglie. Timoclea, cogliendo l’opportunità che le era stata offerta, disse: “Oh, potessi io morire prima di stanotte, conservando almeno il corpo intatto dalla violenza, quando ormai tutto è perduto; visto come stanno le cose, se occorre che io ti ritenga mio custode, signore e marito per volontà degli dei, non ti priverò di quanto ti appartiene: per quanto mi riguarda, io vedo di essere diventata ciò che desiderasti. Avevo degli ornamenti per il corpo e dell’argento in alcune ciotole, e possedevo anche dell’oro e del denaro. Quando la città fu conquistata, dopo che avevo ordinato alle ancelle di raccogliere ogni bene prezioso, lo gettai o, piuttosto, lo depositai in un pozzo privo d’acqua; molti ne ignorano l’esistenza, poiché è chiuso da un coperchio ed è circondato da un fogliame che rende il luogo buio. Prendendo questo tesoro, potresti essere felice; a me, invece, resterà la prova e il ricordo della tua felicità e della tua magnificenza in questa casa”.

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260C

D

Ἀκούσας οὖν ὁ Μακεδὼν οὐ περιέμεινε τὴν ἡμέραν, ἀλλ᾿ εὐθὺς ἐβάδιζεν ἐπὶ τὸν τόπον, ἡγουμένης Τιμοκλείας· καὶ τὸν κῆπον ἀποκλεῖσαι κελεύσας, ὅπως αἴσθοιτο μηδείς, κατέβαινεν ἐν τῷ χιτῶνι. Στυγερὰ δ᾿ ἡγεῖτο Κλωθὼ539 τιμωρὸς ὑπὸ τῆς Τιμοκλείας ἐφεστώσης ἄνωθεν. Ὡς δ᾿ ᾔσθετο τῇ φωνῇ κάτω γεγονότος, πολλοὺς μὲν αὐτὴ τῶν λίθων ἐπέφερε πολλοὺς δὲ καὶ μεγάλους αἱ θεραπαινίδες ἐπεκυλίνδουν, ἄχρι οὗ κατέκοψαν αὐτὸν καὶ κατέχωσαν. Ὡς δ᾿ ἔγνωσαν οἱ Μακεδόνες καὶ τὸν νεκρὸν ἀνείλοντο κηρύγματος ἤδη γεγονότος μηδένα κτείνειν Θηβαίων, ἦγον αὐτὴν συλλα⸤βόντες ἐπὶ τὸν βασιλέα καὶ προσήγγειλαν τὸ τετολμημέ⸥νον. Ὁ δὲ καὶ τῇ καταστάσει τοῦ προσώπου καὶ τῷ σχολαίῳ τοῦ βαδίσματος ἀξιωματικόν τι καὶ γενναῖον ἐνιδὼν πρῶτον ἀνέκρινεν αὐτὴν τίς εἴη γυναικῶν. Ἡ δὲ ἀνεκπλήκτως πάνυ καὶ τεθαρρηκότως εἶπεν, “ἐμοὶ Θεαγένης ἦν ἀδελφός, ὃς ἐν Χαιρωνείᾳ στρατηγῶν καὶ μαχόμενος πρὸς ὑμᾶς ὑπὲρ τῆς τῶν Ἑλλήνων ἐλευθερίας ἔπεσεν, ὅπως ἡμεῖς μηδὲν τοιοῦτον πάθωμεν· ἐπεὶ δὲ πεπόνθαμεν ἀνάξια τοῦ γένους, ἀποθανεῖν οὐ φεύγομεν· οὐδὲ γὰρ ἄμεινον ἴσως ζῶσαν ἑτέρας πειρᾶσθαι νυκτός, εἰ σὺ τοῦτο μὴ κωλύσῃς”. Οἱ μὲν οὖν ἐπιεικέστατοι ⸤τῶν παρόντων ἐδάκρυσαν, Ἀλεξάνδρῳ δὲ οἰκτείρειν μὲν οὐκ⸥ ἐπῄει τὴν ἄνθρωπον540 ὡς μείζονα541, θαυμάσας δὲ τὴν ἀρετὴν καὶ τὸν λόγον εὖ μάλα καθαψάμενον αὐτοῦ, τοῖς μὲν ἡγεμόσι παρήγγειλε προσέχειν καὶ φυλάττειν, μὴ πάλιν ὕβρισμα τοιοῦτον εἰς οἰκίαν ἔνδοξον γένηται· τὴν δὲ Τιμόκλειαν ἀφῆκεν αὐτήν τε καὶ πάντας ὅσοι κατὰ γένος αὐτῇ προσήκοντες εὑρέθησαν.

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E

la virtù delle donne

̓Ερυξώ

Βάττου τοῦ ἐπικληθέντος Εὐδαίμονος υἱὸς Ἀρκεσίλαος ἦν οὐδὲν ὅμοιος τῷ πατρὶ τοὺς τρόπους· καὶ γὰρ ζῶντος ἔτι περὶ τὴν οἰκίαν περιθεὶς ἐπάλξεις ὑπὸ τοῦ πα⸤τρὸς ἐζημιώθη ταλάντῳ· καὶ τελευτήσαντος ἐκείνου, τοῦτο⸥ μὲν οὖν542 φύσει 3 cf. Hes. Scut. 258 9 Ap. Lac. 240E 22 Herod. IV 160 (λέαρχος rec. β Ἁλίαρχος rec. α) Nic. Dam. FGrH 90 F 50 Polyaen. VIII 41 2 ἡγουμένης Τιμοκλείας v αAunβγδσ 80,5 : ἡγουμένης τῆς Τιμοκλείας E 3 ὑπὸ Ω : ὑπὲρ Ha. 5 δὲ v αAEunβγσ 80,5 : omisit δ 13 μηδὲν α (sed μη in ras.) n : οὐδὲν v AEuβγδσ 80,5 τοιοῦτον v αAEuβγδσ 80,5 : τοιοῦτο δ ἀποθανεῖν v αAEnβγδσ 80,5 : omisit u 14 φεύγομεν v αAEunβγσ 80,5 : φεύγωμεν δ ἑτέρας Ω : ἑτέρας ⟨τοιαύτης⟩ Herw. πειρᾶσθαι v αAEuβγδσ 80,5 : πειρασθῆναι n 15 κωλύσῃς v AEuβγδσ 80,5 : κωλύσεις αn Ἀλεξάνδρῳ v αEn : Ἀλέξανδρος Auβγδσ 80,5 80,22 16 οἰκτείρειν αnβ 80,22 : οἰκτείρει v AEuγδσ 80,5 ἐπῄει v αAEunβγδσ 80,5 : ἐποίει 80,22² ὡς μείζονα θαυμάσας v AEuβγδσ 80,5 80,22: ὡς μείζονα συγγνώμης πράξασαν θαυμάσας α2 (superscriptum) n : haec verba interpolata iudicans, quod non συγγνώμης sed ἐλέου exspectamus, pro his ⟨πράξασαν ἢ παθοῦσαν⟩ scrib. fere putat Pohlenz 19 ἀφῆκεν Euβγδσ 80,5 80,22: omiserunt v αA2n 21 Ἐρυξώ Π : Ἐρυξὼ καὶ Κριτόλα v 22 Εὐδαίμονος v n : δαίμονος αAEuβγδσ 80,5 80,22 24 μὲν οὖν φύσει v AEuβγδσ 80,5 80,22 : οὖν erasum in α : οὖν omisit n

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25. erisso

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Il macedone543, udite queste parole, non aspettò che si facesse giorno, ma subito si recò al pozzo sotto la guida di Timoclea e, dato ordine di chiudere ogni accesso al giardino affinché nessuno vedesse, scese nel pozzo in tunica. E precedeva la terribile Cloto544, vendicatrice di Timoclea, che guardava dall’alto545. Quando si accorse dalla voce che ormai era giunto nella profondità del pozzo, gli scagliò addosso molte pietre e le ancelle546 facevano rotolare su di lui molti e grossi sassi fino ad ucciderlo e ricoprirlo totalmente547. Quando i Macedoni lo seppero, recuperarono il cadavere, poiché era stato da poco fatto un bando che prevedeva di non uccidere nessuno dei Tebani e, dopo averla arrestata, la condussero dinnanzi al re e gli riferirono cosa ella aveva osato fare. Il re, scorgendo nella posizione del volto e nella lentezza dell’incedere un segno di nobiltà, in un primo momento le chiese chi mai fosse. Ella, per nulla spaventata e con molto coraggio, disse: “Mio fratello era Teagene, che era stratego a Cheronea e cadde combattendo contro di voi per la libertà dei Greci e affinché noi non subissimo nulla di tutto ciò: visto che abbiamo sofferto azioni irrispettose del rango nobiliare, non fuggiamo davanti alla morte. Se tu non impedisci, è preferibile non provare affatto a vivere un’altra notte simile a quella appena trascorsa”. Anche i più inflessibili dei presenti non riuscirono a trattenere le lacrime, ma Alessandro non provò affatto compassione per una donna dall’animo tanto grande548; avendone anzi ammirato il coraggio e le parole così ben pesate, ordinò ai luogotenenti di stare attenti e sorvegliare affinché un tale affronto non fosse di nuovo compiuto nei confronti di una nobile casata549. Inoltre fece rilasciare sia Timoclea sia tutti quelli che furono riconosciuti come membri550 della sua famiglia.

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Erisso551

Arcesilao552, figlio di Batto553 soprannominato “il Felice”554, non era per niente simile al padre nei comportamenti: infatti, quando ancora il padre era in vita, fu multato per volere del padre di un talento per aver fatto circondare la propria residenza con dei parapetti. Alla morte del padre555, un po’ per il

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χαλεπὸς ὤν (ὅπερ καὶ ἐπεκλήθη), τοῦτο δὲ φίλῳ πονηρῷ, Λαάρχῳ, χρώμενος ἀντὶ βασιλέως ἐγεγόνει τύραννος. Ὁ δὲ Λάαρχος ἐπιβουλεύων τῇ τυραννίδι καὶ τοὺς ἀρίστους τῶν Κυρηναίων ἐξελαύνων ἢ φονεύων, ἐπὶ τὸν Ἀρκεσίλαον τὰς αἰτίας ἔτρεπε· καὶ τέλος ἐκεῖνον μὲν εἰς νόσον ἐμβαλὼν φθινάδα καὶ χαλεπήν, λαγὼν πιόντα θαλάσσιον, διέφθειρεν, αὐτὸς δὲ τὴν ἀρχὴν ἔσχεν ὡς τῷ παιδὶ τῷ ἐκείνου Βάττῳ διαφυλάττων. Ὁ μὲν οὖν παῖς καὶ διὰ τὴν χωλότητα καὶ διὰ τὴν ἡλικίαν κατεφρο⸤νεῖτο, τῇ δὲ μητρὶ πολλοὶ προσεῖχον αὐτοῦ· σώφρων τε⸥ γὰρ ἦν καὶ φιλάνθρωπος556 οἰκείους τε πολλοὺς καὶ δυνατοὺς εἶχε. Διὸ καὶ θεραπεύων αὐτὴν ὁ Λάαρχος ἐμνηστεύετο, καὶ τὸν Βάττον ἠξίου παῖδα θέσθαι γήμας ἐκείνην, καὶ κοινωνὸν ἀποδείξας τῆς ἀρχῆς· ἡ δὲ Ἐρυξὼ (τοῦτο γὰρ ἦν ὄνομα τῇ γυναικὶ) βουλευσαμένη μετὰ τῶν ἀδελφῶν, ἐκέλευε τὸν Λάαρχον ἐντυγχάνειν ἐκείνοις, ὡς αὐτῆς προσιεμένης τὸν γάμον. ⸤Ἐπεὶ δ᾿ ὁ Λάαρχος ἐνετύγχανε τοῖς ἀδελφοῖς, ἐκεῖνοι δὲ⸥ ἐπίτηδες παρῆγον καὶ ἀνεβάλλοντο, πέμπει πρὸς αὐτὸν ἡ Ἐρυξὼ θεραπαινίδα παρ᾿ αὑτῆς παραγγέλλουσαν, ὅτι νῦν μὲν ἀντιλέγουσιν οἱ ἀδελφοί, γενομένης δὲ τῆς συνόδου παύσονται διαφερόμενοι καὶ συγχωρήσουσι· δεῖν οὖν αὐτόν, εἰ βούλεται, νύκτωρ ἀφικέσθαι πρὸς αὐτήν· καλῶς γὰρ ἕξειν καὶ τὰ λοιπὰ τῆς ἀρχῆς γενομένης. Ἦν οὖν ταῦτα πρὸς ἡδονὴν τῷ Λαάρχῳ, καὶ παντάπασιν ἀναπτοηθεὶς πρὸς τὴν φιλοφροσύνην τῆς γυναικὸς ὡμολόγησεν ἥξειν, ὅταν ἐκείνη κελεύῃ. Ταῦτα δὲ ἔπραττεν ἡ Ἐρυξὼ μετὰ Πολυάρχου τοῦ πρεσβυτά⸤του τῶν ἀδελφῶν. Ὁρισθέντος δὲ καιροῦ πρὸς τὴν σύνοδον, ὁ Πο⸥λύαρχος εἰς τὸ δωμάτιον τῆς ἀδελφῆς παρεισήχθη κρύφα, νεανίσκους ἔχων δύο σὺν αὑτῷ ξιφήρεις, φόνῳ πατρὸς ἐπεξιόντας, ὃν ὁ Λάαρχος ἐτύγχανεν ἀπεκτονὼς νεωστί. Μεταπεμψαμένης δὲ τῆς Ἐρυξοῦς αὐτόν, ἄνευ δορυφόρων εἰσῆλθε, καὶ τῶν νεανίσκων αὐτῷ προσπεσόντων τυπτόμενος τοῖς ξίφεσιν ἀπέθανε. Τὸν μὲν οὖν νεκρὸν ἔρριψαν ὑπὲρ τὸ τεῖχος, τὸν δὲ Βάττον προσαγαγόντες ἀνέδειξαν ἐπὶ τοῖς πατρίοις βασιλέα, καὶ τὴν ἀπ᾿ ἀρχῆς πολιτείαν ὁ Πολύαρχος ἀπέδωκε τοῖς Κυρηναίοις. Ἐτύγχανον δὲ Ἀμάσιδος τοῦ Αἰγυπτίων βασι⸤λέως στρατιῶται συχνοὶ παρόντες, οἷς ὁ Λάαρχος ἐχρῆτο πι⸥στοῖς, καὶ φοβερὸς ἦν οὐχ ἥκιστα δι᾿ ἐκείνων τοῖς πολίταις. Οὗτοι πρὸς Ἄμασιν ἔπεμψαν τοὺς κατηγορήσοντας τοῦ τε Πολυάρχου καὶ τῆς Ἐρυξοῦς. Χαλεπαίνοντος δὲ ἐκείνου καὶ διανοουμένου πολεμεῖν τοῖς Κυρηναίοις, συνέβη τὴν μητέρα

3 mor. 983F 1 ὅπερ καὶ Π : ὅπερ οὖν καὶ v 9 ἐμνηστεύετο Ω : ἐμνήστευέ τε ed. Basileensis 10 ἀποδείξας Ω : ἀποδεῖξαι Bern. 11 ἐντυγχάνειν v αAEunβγσ 80,5 : ἐντυγχάνει δ 14 παρ᾿ αὑτῆς v αAEunβγσ 80,5 : παρ᾿ αὐτῆς δ παραγγέλλουσαν Π : ἀγγέλλουσαν v 15 δεῖν v αEn : δεῖ Auβγδσ 80,5 17 πρὸς Ω : καθ᾿ Dueb. 18 ὅταν ἐκείνη κελεύῃ v αAEunβγσ 80,5 : ὅταν ἐκλεύῃ δ κελεύῃ Ω : κελεύσῃ Wil. 19 πρεσβυτάτου v αn : πρεσβυτέρου AEuβγδσ 80,5 20 Πολύαρχος v αEunβδ 80,5 : πολυάρχης Aγσ 24 ὑπὲρ v αAEunβγσ 80,5 : ἐπὶ δ 25 προσαγαγόντες Ω : προαγαγόντες Herw. 28 ἐκείνων α2AEunβγδσ 80,5: ἐκείνου v α

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suo carattere duro (che fu causa del suo soprannome557), un po’ per la frequentazione di un amico558 malvagio, Laarco559, piuttosto che un re era divenuto un tiranno. Laarco, tramando contro la tirannide e cacciando o uccidendo i nobili560 di Cirene, ne dava la colpa ad Arcesilao e alla fine lo uccise561, imbandendogli una lepre di mare562 che gli procurò un male tremendo e incurabile. Laarco così deteneva il potere con il pretesto di conservare il trono per Batto, figlio di Arcesilao. Il figlio, dunque, era zoppo e troppo giovane563 e questo lo rendeva oggetto di disprezzo; perciò, molti pensavano di affidare a sua madre il governo della città, poiché era saggia e buona ed aveva parenti numerosi e potenti. Per questo motivo Laarco, dopo aver rivolto a lei ogni genere di attenzione, cercò di averla in moglie e prometteva, dopo averla sposata, di adottare il figlio Batto e di associarlo al potere564. Erisso, (questo infatti era il nome della donna) dopo essersi consigliata coi fratelli, ordinò a Laarco di incontrarsi con loro fingendo di voler acconsentire alle nozze565. Ogni volta che Laarco incontrava i fratelli di Erisso, quelli a bella posta rimandavano e tiravano per le lunghe, e allora Erisso inviò da lui una ancella ad annunciare che i fratelli avevano espresso parere contrario alle nozze, ma che, una volta avvenuto il matrimonio, avrebbero terminato di opporsi566 placando il loro disaccordo. Occorreva dunque che Laarco, se voleva, giungesse presso di lei di notte e, fatto questo, anche il resto sarebbe andato bene. A Laarco fecero piacere quelle parole e, rimanendo totalmente sbalordito per la cortesia della donna, diede l’assenso ad andare da lei qualora lo chiedesse. Erisso fece tutto questo avendo alleato Poliarco567, il più anziano dei suoi fratelli. Giunto il momento del matrimonio, Poliarco di nascosto s’introdusse nella camera da letto della sorella568 e portando con sé due giovinetti armati di spada, intenzionati a vendicare l’assassinio del padre che da poco Laarco aveva per caso ucciso. Quando Erisso mandò a chiamare Laarco, questi fece il suo ingresso senza le guardie del corpo e, dopo che i giovinetti si lanciarono su di lui, morì sotto i colpi di spada569. Poi gettarono il suo cadavere dalle mura della città e, esposto Batto dinnanzi al popolo, lo dichiararono sovrano per diritti ereditari e Poliarco ridiede ai Cirenei il precedente regime politico. In quel tempo a Cirene vi era un gran numero di soldati570 di Amasi571, re degli Egiziani, uomini su cui faceva affidamento Laarco572 e, grazie al loro aiuto, incuteva terrore ai cittadini. Quei soldati inviarono da Amasi dei messaggeri che accusavano Poliarco ed Erisso. Il faraone si adirò e pensò di muovere guerra contro Cirene, ma gli morì la madre e, mentre ne stava

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τελευτῆσαι, καὶ ταφὰς αὐτῆς ἐπιτελοῦντος, ἀπαγγέλλοντας ἐλθεῖν παρὰ τοῦ Ἀμάσιδος. Ἔδοξεν οὖν τῷ Πολυάρχῳ βαδίζειν ἀπολογησομένῳ· τῆς δ᾿ Ἐρυξοῦς μὴ ἀπολειπομένης, ἀλλ᾿ ἕπεσθαι καὶ συγκινδυνεύειν βουλομένης, οὐδ᾿ ἡ μήτηρ Κριτόλα, καίπερ οὖσα πρεσβῦτις, ἀπελείπετο. Μέγιστον δὲ ⸤αὐτῆς ἦν ἀξίωμα, Βάττου γεγενημένης ἀδελφῆς τοῦ Εὐδαί⸥μονος. Ὡς οὖν ἦλθον εἰς Αἴγυπτον, οἵ τ᾿ ἄλλοι θαυμαστῶς ἀπεδέξαντο τὴν πρᾶξιν αὐτῶν, καὶ ὁ Ἄμασις οὐ μετρίως ἀπεδέξατο τήν τε σωφροσύνην καὶ τὴν ἀνδρείαν τῆς Ἐρυξοῦς· δώροις δὲ τιμήσας καὶ θεραπείᾳ βασιλικῇ τόν τε Πολύαρχον καὶ τὰς γυναῖκας εἰς Κυρήνην ἀπέστειλεν.

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Ξενοκρίτη

Οὐχ ἧττον δ᾿ ἄν τις ἀγάσαιτο τὴν Κυμαίαν Ξενοκρίτην ἐπὶ τοῖς πραχθεῖσι περὶ Ἀριστόδημον τὸν τύραννον, ᾧ τινες Μαλακὸν ἐπίκλησιν οἴονται γεγονέναι, τὸ ἀληθὲς ἀγνοοῦντες. Ἐπεκλήθη γὰρ ὑπὸ τῶν βαρβά⸤ρων Μαλακός, ὅπερ ἐστὶν ἀντίπαις, ὅτι μειράκιον ὢν παντά⸥πασι μετὰ τῶν ἡλίκων ἔτι κομώντων (οὓς κορωνιστὰς ὡς ἔοικεν ἀπὸ τῆς κόμης ὠνόμαζον) ἐν τοῖς πρὸς τοὺς βαρβάρους πολέμοις ἐπιφανὴς ἦν καὶ λαμπρὸς οὐ τόλμῃ μόνον οὐδὲ χειρὸς ἔργοις, ἀλλὰ καὶ συνέσει καὶ προνοίᾳ φανεὶς περιττός. Ὅθεν εἰς τὰς μεγίστας προῆλθεν ἀρχὰς θαυμαζόμενος ὑπὸ τῶν πολιτῶν, καὶ Ῥωμαίοις ἐπικουρίαν ἄγων ἐπέμφθη πολεμουμένοις ὑπὸ τῶν Τυρρηνῶν Ταρκύνιον Σούπερβον ἐπὶ τὴν βασιλείαν καταγόντων. Ἐν ταύτῃ δὲ τῇ στρατιᾷ573 μακρᾷ γενομένῃ πάντῃ πρὸς χάριν ἐνδιδοὺς τοῖς ⸤στρατευομένοις τῶν πολιτῶν καὶ δημαγωγῶν μᾶλλον ἢ στρα⸥τηγῶν ἔπεισεν αὐτοὺς συνεπιθέσθαι τῇ βουλῇ καὶ συνεκβαλεῖν τοὺς ἀρίστους καὶ δυνατωτάτους. Ἐκ δὲ τούτου γενόμενος τύραννος ἦν μὲν ἐν ταῖς περὶ γυναῖκας καὶ παῖδας ἐλευθέρους ἀδικίαις αὐτὸς ἑαυτοῦ μοχθηρότατος. Ἱστόρηται γὰρ ὅτι τοὺς μὲν ἄρρενας παῖδας ἤσκει κόμαις574 καὶ χρυσοφορεῖν, τὰς δὲ θηλείας ἠνάγκαζε περιτρόχαλα575 κείρεσθαι καὶ φορεῖν ἐφηβικὰς χλαμύδας καὶ576 τῶν ἀνακώλων577χιτωνίσκων. ⸤Οὐ μὴν ἀλλ᾿ ἐξαιρέτως ἐρασθεὶς τῆς Ξενοκρίτης εἶχεν αὐ⸥τὴν φυγάδος οὖσαν πατρός, οὐ καταγαγὼν οὐδὲ πείσας ἐκεῖνον, ἀλλ᾿ ὁπωσοῦν ἡγούμενος ἀγαπᾶν συνοῦσαν αὐτῷ τὴν κόρην, ἅτε δὴ 10 Dion. Hal. VII 2–11

Diod. VII 10

1 ἀπαγγέλλοντας Ω : ⟨τοὺς⟩ ἀπαγγέλλοντας Pohlenz παρὰ α2n : περὶ v AEuβγδσ 80,5 : del. Ha. : τὰ παρὰ Bern. 2 ἔδοξεν v αAEunβγσ 80,5 : ἔνδοξον δ Πολυάρχῳ v αAEnβγδσ: πολυάρχη u 80,5 4 αὐτῆς ἦν ἀξίωμα αAEuβγδσ 80,5 80,22 : ἦν αὐτῆς ἀξίωμα n: ἀξίωμα ἦν (omisit αὐτῆς) v 7 σωφροσύνην Π : φρόνησιν v Ἐρυξοῦς v α2AEunβγδσ 80,5: γυναικός α 10 δ᾿ ἄν v αAEunβγσ 80,5 : δὲ δ 11 ⟨ἀπὸ τῆς μαλακίας⟩ ante Μαλακὸν Herw. 15 ἀλλὰ v αAEunβγσ 80,5 : ἀλλὰ καὶ δ 17–18 τῶν Τυρρηνῶν αAEunδ : τυράννων (omisit τῶν) v 19 στρατιᾷ Ω : στρατείᾳ Bern. πάντῃ Ω : πάντα ed. Basileensis 23 μοχθηρότατος Ω : μοχθηρότερος Herw. γὰρ Π : omisit v κόμαις Ω : κομᾶν Méziriacus 25 καὶ Ω : κατὰ Salmas. 27 δὴ v αn : omiserunt AEuβγδσ 80,5

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celebrando i funerali, giunsero presso di lui messaggeri. Dunque Poliarco ritenne opportuno andare a difendersi di persona; non volendo Erisso esser messa da parte, ma preferendo seguirlo ed esporsi ai rischi, neppure sua madre Critola578, malgrado fosse in età avanzata, volle essere lasciata a casa. Ella godeva di una grandissima reputazione579 poiché era sorella di Batto “il Felice”. Quando giunsero in Egitto, tutti accolsero con stupore la loro iniziativa, ed anche Amasi ammirò entusiasta la saggezza e il coraggio di Erisso e, dopo averli onorati con doni e con ossequio regale, permise a Poliarco e alle donne di tornare in patria.

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Senocrite580

Non di meno si potrebbe ammirare la cumana Senocrite per l’atteggiamento avuto nei confronti del tiranno581 Aristodemo, che alcuni, non conoscendo la verità, credono abbia avuto il soprannome di “Malakós582”. Fu soprannominato dai barbari583 “Malakós”, il cui significato è “appena uscito di gioventù”584, poiché in giovane età, tra le schiere dei ragazzi che portavano ancora i capelli lunghi (che chiamavano, a quanto sembra, “coronisti585” per via della chioma586), nelle guerre contro i barbari, si distingueva587 non tanto per l’audacia né per le imprese compiute dal suo braccio, ma perché si dimostrava intelligente ed accorto588 in maniera straordinaria. Ammirato perciò dai suoi concittadini, scalò le più alte cariche589 politiche e militari e fu inviato a portare soccorso ai Romani590, che erano stati attaccati dagli Etruschi591, per riportare Tarquinio il Superbo sul trono592. Durante questa lunga spedizione593, comportandosi più da demagogo594 che da condottiero, condiscese ad ogni richiesta dei cittadini che combattevano595 e li convinse a sciogliere il consiglio cittadino596 e ad espellere597 dalla città i nobili e i più potenti598. Divenuto tiranno599 dopo questi fatti600, era particolarmente malvagio nelle offese che commetteva ai danni delle donne e dei ragazzi di condizione libera. Si narra, infatti, che ai ragazzi faceva portare i capelli lunghi e ornamenti dorati601, mentre costringeva le ragazze a tagliare i capelli tutto intorno e a portare clamidi maschili602 e delle tunichette corte603. Innamoratosi follemente di Senocrite, la teneva presso di sé. Il padre di costei era esule, ed egli né lo fece rimpatriare né da lui aveva ottenuto il consenso, ritenendo che la fanciulla amasse stare con lui, invidiata, com’era, e reputata felice dai suoi concittadini. In realtà Senocrite non gra-

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ζηλουμένην καὶ μακαριζομένην ὑπὸ τῶν πολιτῶν. Τὴν δὲ ταῦτα μὲν οὐκ ἐξέπληττεν· ἀχθομένη δὲ ἐπὶ τῷ συνοικεῖν ἀνέκδοτος καὶ ἀνέγγυος οὐδὲν ἧττον ἐπόθει τῶν μισουμένων ὑπὸ τοῦ τυράννου τὴν τῆς πατρίδος ἐλευθερίαν. Ἔτυχε δὲ κατ᾿ ἐκεῖνο καιροῦ τάφρον ἄγων κύκλῳ περὶ τὴν χώραν ὁ Ἀριστόδημος, οὔτ᾿ ἀναγκαῖον ἔργον οὔτε χρήσιμον, ἄλλως δὲ τρίβειν καὶ ἀποκναίειν πόνοις καὶ ἀσχολίαις τοὺς πολίτας ⸤βουλόμενος· ἦν γὰρ προστεταγμένον ἑκάστῳ μέτρων τινῶν ἀ⸥ριθμὸν ἐκφέρειν τῆς γῆς. **604 ὡς εἶδεν ἀπιόντα τὸν Ἀριστόδημον, ἐξέκλινε καὶ παρεκαλύψατο τῷ χιτωνίσκῳ τὸ πρόσωπον. Ἀπελθόντος οὖν τοῦ Ἀριστοδήμου, σκώπτοντες οἱ νεανίσκοι καὶ παίζοντες ἠρώτων ὅ τι δὴ μόνον ὑπ᾿ αἰδοῦς φύγοι τὸν Ἀριστόδημον, πρὸς δὲ τοὺς ἄλλους οὐδὲν πάθοι τοιοῦτον· ἡ δὲ καὶ μάλα μετὰ σπουδῆς ἀπεκρίνατο, “μόνος γάρ”, ἔφη, “Κυμαίων Ἀριστόδημος ἀνήρ ἐστι”. Τοῦτο γὰρ λεχθὲν τὸ ῥῆμα πάντων μὲν ἥψατο, τοὺς δὲ γενναίους καὶ παρώξυνεν αἰσχύνῃ τῆς ἐλευθερίας ἀντέχεσθαι. Λέγεται δὲ καὶ Ξενοκρίτην ἀκούσασαν εἰπεῖν, ὡς ἐ⸤βούλετ᾿ ἂν καὶ αὐτὴ γῆν ὑπὲρ τοῦ πατρὸς φέρειν παρόντος ἢ⸥ τρυφῆς συμμετέχειν Ἀριστοδήμῳ καὶ δυνάμεως τοσαύτης. Ἐπέρρωσεν οὖν ταῦτα συνισταμένους ἐπὶ τὸν Ἀριστόδημον, ὧν ἠγεῖτο Θυμοτέλης· καὶ τῆς Ξενοκρίτης εἰσόδου παρεχούσης αὐτοῖς ἄδειαν καὶ τὸν Ἀριστόδημον ἄνοπλον καὶ ἀφύλακτον, οὐ χαλεπῶς παρεισπεσόντες διαφθείρουσιν αὐτόν. Οὕτω μὲν ἡ Κυμαίων πόλις ἠλευθερώθη δυοῖν ἀρετῇ γυναικῶν, τῆς μὲν ἐπίνοιαν αὐτοῖς καὶ ὁρμὴν ἐμβαλούσης τοῦ ἔργου, τῆς δὲ πρὸς τὸ τέλος συλλαβομένης. Τιμῶν δὲ καὶ δωρεῶν μεγάλων τῇ Ξενοκρίτῃ προτεινομένων ἐάσασα πάσας ἓν ᾐτήσατο, θάψαι ⸤τὸ σῶμα τοῦ Ἀριστοδήμου· καὶ τοῦτ᾿ οὖν ἔδοσαν αὐτῇ καὶ Δή⸥μητρος ἱέρειαν αὐτὴν εἵλοντο, οὐχ ἧττον οἰόμενοι τῇ θεῷ κεχαρισμένην ἢ πρέπουσαν ἐκείνῃ τιμὴν ἔσεσθαι.

2 οὐδὲν Ω : οὐδεν⟨ὸς⟩ Ku. 6 προστεταγμένον Π : πρὸς v 6–7 ἑκάστῳ – ἀπιόντα Π : deficit in v 7 ante ὡς lacunam statuit Xyl.1 : consueverat autem Xenocrita add. Alaman. Ranutin. : ⟨ἐν τούτοις δὲ καὶ γυνή τις⟩ add. Wy. : ⟨ ἐν δὲ τούτοις ἦν καὶ γυνή τις … ἥπερ πρώτη τοῖς πολίταις ὁρμὴν ἐνέβαλε τοῦ ἀντέχεσθαι τῆς ἐλευθερίας· αὕτη γὰρ⟩ vel. sim. add. Pohlenz ἀπιόντα Ω : ἐπιόντα Xyl.2 9 φύγοι v αAEunβγσ 80,5 : φεύγει δ 10 μάλα v αAEuβγδσ 80,5 : omisit n 11 γὰρ Ω : γοῦν Méziriacus : ἄρα Wy. : δὲ Rich. : del. Papageorg. 12 αἰσχύνῃ Ω : αἰσχύνη Dinse 15 συνισταμένους Π : τοὺς συνισταμένους v 16–17 ὧν ἠγεῖτο Θυμοτέλης· καὶ τῆς Ξενοκρίτης εἰσόδου παρεχούσης αὐτοῖς ἄδειαν καὶ τὸν Ἀριστόδημον v αAEnβγδσ 80,5 : omisit u 19–20 συλλαβομένης v αAEnβδ : συλλαμβανομένης uγσ 80,5 22 εἵλοντο Π : omisit v κεχαρισμένην v αAEnβγδσ 80,5 : κεχαρισμένον u 23 ἐκείνῃ Π : ἐκείνην v ἔσεσθαι v αAEnβγδσ : ἔπεσθαι u 80,5

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diva quel trattamento ma, sdegnata per quella convivenza illegittima e senza permesso paterno, desiderava la libertà sia per la patria che per i cittadini oppressi dal tiranno. In quella situazione capitò che Aristodemo facesse scavare un fossato605 tutt’intorno alla città senza che tale opera fosse necessaria o utile, ma solo perché voleva vessare e tormentare i cittadini con fatiche e sofferenze. Ad ognuno era stato assegnato di trasportare una determinata quantità di terra. (***) Non appena vide che Aristodemo stava andando via, chinò il volto e lo nascose con la tunichetta. Quando poi Aristodemo si fu allontanato, dei giovinetti, per deriderla e scherzare, le chiesero per quale motivo provasse vergogna dinnanzi ad Aristodemo, mentre questo non avveniva con gli altri uomini. Ella con molta serietà rispose dicendo: “Perché Aristodemo è l’unico uomo606 a Cuma607”. Queste parole così pronunciate colpirono tutti, ma l’onta stimolò soprattutto i più coraggiosi608 a lottare per la libertà. Raccontano che Senocrite, dopo aver sentito quelle parole, disse che preferiva trasportare anche lei la terra per rivedere suo padre, piuttosto che condividere con Aristodemo quel lusso e una potenza così grande. Tali parole, dunque, istigarono coloro che congiuravano contro Aristodemo, il cui capo era Timotele609; quando Senocrite diede loro la possibilità di entrare in casa e trovare Aristodemo disarmato e senza guardie del corpo, piombatigli addosso senza difficoltà, lo uccisero610. Così la città di Cuma fu liberata dalla tirannide grazie alla virtù di due611 donne, l’una che diede ai cittadini l’impulso e il pensiero dell’impresa, e l’altra che contribuì a portarla a compimento. Senocrite612, dopo aver rifiutato tutti i grandi onori e doni che le furono offerti, chiese una sola cosa, ovvero di poter seppellire il cadavere di Aristodemo. Questo suo desiderio fu esaudito, e in seguito la nominarono sacerdotessa di Demetra, ritenendo che quella carica onorifica613 sarebbe stata gradita alla dea e apprezzata da Senocrite.

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Πύθεω γυνή

Λέγεται δὲ καὶ τὴν Πύθεω τοῦ κατὰ Ξέρξην γυναῖκα σοφὴν614 γενέσθαι καὶ χρηστήν. Αὐτὸς μὲν γὰρ ὁ Πύθης ὡς ἔοικε χρυσείοις ἐντυχὼν μετάλλοις καὶ ἀγαπήσας τὸν ἐξ αὐτῶν πλοῦτον οὐ μετρίως ἀλλ᾿ ἀπλήστως καὶ περιττῶς, αὐτός τε περὶ ταῦτα διέτριβε καὶ τοὺς πολίτας καταβιβάζων ἅπαντας ὁμαλῶς ὀρύττειν ἢ φορεῖν ἢ καθαίρειν ἠνάγκαζε τὸ χρυσίον, ἄλλο μηδὲν ἐργαζομένους τὸ ⸤παράπαν μηδὲ πράττοντας. Ἀπολλυμένων δὲ πολλῶν πάν⸥των δ᾿ ἀπαγορευόντων, αἱ γυναῖκες ἱκετηρίαν ἔθεσαν ἐπὶ τὰς θύρας ἐλθοῦσαι τῆς τοῦ Πύθεω γυναικός. Ἡ δὲ ἐκείνας μὲν ἀπιέναι καὶ θαρρεῖν ἐκέλευσεν, αὐτὴ δὲ τῶν περὶ τὸ χρυσίον τεχνιτῶν οἷς ἐπίστευε μάλιστα καλέσασα καὶ καθείρξασα, ποιεῖν ἐκέλευεν ἄρτους τε χρυσοῦς καὶ πέμματα παντοδαπὰ καὶ ὀπώρας, καὶ ὅσοις δὴ μάλιστα τὸν Πύθην ἐγίγνωσκεν ἡδόμενον ὄψοις καὶ βρώμασι. Ποιηθέντων δὲ πάντων, ὁ μὲν Πύθης ἧκεν ἀπὸ τῆς ξένης· ἐτύγχανε γὰρ ἀποδημῶν· ἡ δὲ γυνὴ δεῖπνον αἰτοῦντι παρέθηκε χρυσῆν τράπεζαν οὐ⸤δὲν ἐδώδιμον ἔχουσαν ἀλλὰ πάντα χρυσᾶ. Τὸ μὲν οὖν πρῶ⸥τον ἔχαιρε Πύθης τοῖς μιμήμασιν, ἐμπλησθεὶς δὲ τῆς ὄψεως ᾔτει φαγεῖν· ἡ δὲ χρυσοῦν ὅ τι τύχοι ποθήσας προσέφερε. Δυσχεραίνοντος δὲ αὐτοῦ καὶ πεινῆν βοῶντος, “ἀλλὰ σύ γε τούτων”, εἶπεν, “ἄλλου δ᾿ οὐδενὸς εὐπορίαν πεποίηκας ἡμῖν· ⸤καὶ γὰρ ἐμπειρία καὶ τέχνη πᾶσα φροῦδος, γεωργεῖ δὲ οὐδείς⸥, ἀλλὰ τὰ σπειρόμενα καὶ φυτευόμενα καὶ τρέφοντα τῆς γῆς ὀπίσω καταλιπόντες ὀρύττομεν ἄχρηστα καὶ ζητοῦμεν, ἀποκναίοντες αὑτοὺς καὶ τοὺς πολίτας”. Ἐκίνησε ταῦτα τὸν Πύθην, καὶ πᾶσαν μὲν οὐ κατέλυσε τὴν περὶ τὰ μέταλλα πραγματείαν, ἀνὰ μέρος δὲ τὸ πέμπτον ἐργάζεσθαι κελεύσας τῶν πολιτῶν, τοὺς λοιποὺς ἐπὶ γεωργίαν καὶ τὰς τέχνας ἔτρεψε. Ξέρξου δὲ καταβαίνοντος ἐπὶ τὴν Ἑλλάδα, λαμπρότατος ἐν ταῖς ὑποδοχαῖς καὶ ταῖς δωρεαῖς γενόμενος χάριν ᾐτήσατο παρὰ τοῦ βασιλέως, πλειόνων αὐτῷ παίδων ὄντων, ⸤ἕνα παρεῖναι615 τῇ στρατείᾳ καὶ καταλιπεῖν αὐτῷ γηροβοσκεῖν. Ὁ⸥ δὲ Ξέρξης ὑπ᾿ ὀργῆς τοῦτον μόνον, ὃν ἐξῃτήσατο, σφάξας καὶ διατεμὼν ἐκέλευσε τὸν στρατὸν διελθεῖν, τοὺς δὲ ἄλλους ἐπηγάγετο, καὶ πάντες ἀπώλοντο κατὰ τὰς μάχας. Ἐφ᾿ οἷς ὁ Πύθης ἀθυμήσας ἔπαθεν ὅμοια πολλοῖς τῶν κακῶν καὶ ἀνοήτων· τὸν μὲν γὰρ θάνατον ἐφοβεῖτο, τῷ βίῳ δὲ ἤχθετο. Βουλόμενος δὲ μὴ ζῆν, προέσθαι 2 Polyaen. VIII 42 Nicephor. Basilaca ap. L. Allatius Exc. sophist. p. 143 cf. de Mida Schol. Aristoph. Plut. 287 Ovid. Met. XI 92 sqq. 22 Herod. VII 27–29. 38. 39 25 Herod. IV 84 Sen. de ira III 16 1 Πύθεω γυνή Xyl.2 : Pythis uxor add. Xyl.1 : Pithei uxor Alaman. Ranutin. : omiserunt Ω 4 περιττῶς v αAEunβγσ 80,5 : περιττὸς δ 8 τοῦ v αEn : omiserunt Auδ 11 δὴ v αAEunβγσ 80,5 : τε δ 12 πάντων v αAEunβγσ 80,5 : τούτων δ 14 οὐδὲν v αAEunβγσ 80,5 : omisit δ 16 δυσχεραίνοντος αAEunβγδσ 80,5 : δυσχεράναντος v 17 εὐπορίαν v αAEunβγσ 80,5 : ἀπορίαν δ ἐμπειρία v αAEun βγσ 80,5 : ἡ ἐμπειρία δ 23 ὑποδοχαῖς v : ὑπεροχαῖς Π 25 τῇ στρατείᾳ v αn : τῆς στρατείας A2Euβγσ 80,5 : τῇ στρατιᾷ δ γηροβοσκεῖν AEunβγδσ 80,5 : γηροβοσκόν v α 26 μόνον Ω : μὲν Po. 27 δὲ ἄλλους Π : ἄλλους v ἐπηγάγετο Ω : ἀπηγάγετο Pohlenz

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Si racconta617 che la moglie di Pite618, vissuto al tempo di Serse, fosse saggia e buona. A quanto pare, Pite619 aveva scoperto delle miniere d’oro620 e, tenendo in maniera smodata621 e con eccessiva avidità al profitto622 che ne traeva, dedicava ad esse tutto il proprio tempo e costringeva indistintamente tutti quanti i cittadini a scendervi per scavare, trasportare o mondare l’oro senza poter assolutamente intraprendere o svolgere alcun’altra attività lavorativa623. Poiché molti morirono e tutti erano al limite delle forze, le donne andarono a portare il ramo supplice davanti alla porta della moglie di Pite. Ella ordinò loro di andare via e di farsi coraggio e, dopo aver convocato e rinchiuso nella sua dimora gli orefici di cui aveva più fiducia, impose loro di creare esemplari dorati di panini, dolci d’ogni sorta, frutti e quanti manicaretti e pietanze sapeva che a Pite piacevano maggiormente. Dopo che tutto fu ultimato, Pite tornò da una viaggio all’estero, poiché gli era capitato di trovarsi lontano da casa; quando disse di voler mangiare, la moglie gli imbandì una tavola dorata che non aveva nulla di commestibile, ma tutti i cibi erano d’oro. In un primo momento Pite apprezzò le riproduzioni dorate e, dopo essersi riempito gli occhi, chiese da mangiare; tutto quello che chiedeva, la moglie glielo offriva, ma d’oro. Quando il marito si alterò e gridò di aver sete, ella disse: “Sei stato tu a procurarci abbondanza d’oro e di null’altro; sono scomparsi tutti i mestieri e le attività; nessuno coltiva ma, trascurato quanto è stato seminato, piantato e prodotto dalla terra, cerchiamo e scaviamo un metallo inutile, stancando noi stessi e i cittadini”. Queste parole scossero Pite, che non interruppe gli scavi nelle miniere, ma ordinò ad alcuni cittadini di scavare a gruppi di cinque per volta e indirizzò i restanti verso l’agricoltura e le altre attività lavorative624. Quando Serse si stava dirigendo in Grecia625, Pite, fattosi notare molto per l’accoglienza e per i doni626, chiese al gran re il favore di dispensare dalla leva militare uno dei tanti figli che aveva e di lasciarglielo come bastone per la vecchiaia627. Serse si adirò628 e, dopo aver ucciso e tagliato in due parti il figlio che gli era stato chiesto di salvare, ordinò all’esercito di passargli in mezzo629; portò con sé gli altri figli e morirono tutti nelle battaglie630. Pite fu molto rattristato da questi avvenimenti e patì sofferenze simili a molti uomini malvagi e stupidi; ormai la morte lo spaventava

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δὲ τὸ ζῆν μὴ δυνάμενος, χώματος ὄντος ἐν τῇ πόλει μεγάλου καὶ ποταμοῦ διαρρέοντος, ὃν Πυθοπολίτην ὠνόμαζον, ἐν μὲν τῷ χώματι κατεσκεύασε μνημεῖον, ἐκτρέψας δὲ τὸ ῥεῖθρον, ὥστε διὰ τοῦ χώμα⸤τος φέρεσθαι ψαύοντα τοῦ τάφου τὸν ποταμόν· ἐπὶ τούτοις συν⸥τελεσθεῖσιν αὐτὸς μὲν εἰς τὸ μνημεῖον κατῆλθε, τῇ δὲ γυναικὶ τὴν ἀρχὴν καὶ τὴν πόλιν ἀναθεὶς631 ἅπασαν ἐκέλευσε μὴ προσιέναι, πέμπειν δὲ τὸ δεῖπνον αὐτῷ καθ᾿ ἑκάστην ἡμέραν εἰς βᾶριν ἐντεθεῖσαν, ἄχρι οὗ τὸν τάφον ἡ βᾶρις παρέλθῃ τὸ δεῖπνον ἀκέραιον ἔχουσα, τότε δὲ παύσασθαι πέμπουσαν, ὡς αὐτοῦ τεθνηκότος. Ἐκεῖνος μὲν οὕτω τὸν λοιπὸν βίον διῆγεν, ἡ δὲ γυνὴ τῆς ἀρχῆς καλῶς ἐπεμελήθη καὶ μεταβολὴν κακῶν τοῖς ἀνθρώποις παρέσχεν.

6 βᾶριν et βᾶρις Po. : βάριν et βάρις Ω

ἐντεθεῖσαν v αnδ : ἐντιθεῖσαν AEuβγσ 80,5

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e la vita lo opprimeva. Non voleva vivere, ma non era capace di congedarsi dalla vita632. In città vi era una grande collina e vi scorreva intorno un fiume che chiamavano Pitopolite633: sulla collina edificò un monumento e, deviato il corso del fiume in modo tale che la corrente passasse intorno alla collina fino a rasentare la tomba, una volta che fu portato a termine il mausoleo, vi si recò all’interno e, affidato alla moglie il potere della città, le ordinò di non avvicinarvisi, ma di inviargli ogni giorno il cibo ponendolo su una barca634, fino a quando l’imbarcazione non passava a fianco alla tomba, di lasciare intatto il cibo e di smettere di inviarglielo quando sarebbe morto635. Quegli in questo modo trascorse il resto della sua vita, la moglie si occupò saggiamente del governo della città e pose fine ai mali dei cittadini636.

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Per l’ἀρετή come motore, guida e sostanza dell’azione nelle Vite Parallele plutarchee cfr. Frazier, Histoire et Morale, 36–140. Sulla base del consensus codicum accetto, con Stephanus, Xylander e Reiske, συντεταγμένην (cfr. Aem. 17.5; Reg. et imp. apophth. 198B3), reputandolo participio dipendente da ἔχοντα e considerando il verbo συντάσσω nell’accezione di “predisporre, pianificare” (cfr. Con. praec. 138C) in specifico riferimento all’ἡδονή. In tal modo si rivaluta la correlazione μέν-δέ, riconducendo la σύνταξις ἡδονῆς ἀκοῆς nell’alveo della successiva questione inerente all’utilizzo di amabilità espositiva nel corso di una dimostrazione filosofica. Plutarco adopera questa ardita variatio stilistica per marcare uno snodo cruciale nell’architettura di un periodo sintatticamente e concettualmente complesso e per giustificare come non premeditata la presenza di orpelli retorici e digressioni narrative. La lezione συντεταγμένον (cfr. anche Sept. sap. conv. 159A7), sovrascritta nel solo codice E, riproposta da Turnebus ed accolta da Wyttenbach e Nachstädt, nell’intenzione di ovviare all’attrazione esercitata dalla presenza di ἡδονήν o di correggere un probabile errore di omoteleuto, collega il suddetto participio all’ ἱστορικὸν ἀποδεικτικόν, marginalizzando l’antinomia sintattico-concettuale tra μέν e δέ senza qualificare in maniera definita il ruolo connettivo del καί. Hutten, Dübner, Bernardakis e Babbitt, invece, seguirono l’editio Basileensis proponendo la congettura συντεταγμένα che, creando una coordinazione in parallelo con ἔχοντα, si ricollegava a τὰ ὑπόλοιπα in un tentativo di normalizzare il testo per via analogica che risulta poco plausibile. La correzione con il congiuntivo ἀντιπαραβάλλωμεν, suggerita da M. Dinse, è stata sostenuta, motivandola con la presenza di ἕξει τις nella proposizione principale, anche da B. Weissenberger, La lingua di Plutarco, che ha ritenuto non provabile in Plutarco (seppur presente in Luciano ed Aristide) la struttura non attica con ottativo; cfr. Weissenberger, La lingua di Plutarco, 54 nota 165. Per il verbo, cfr. De se ipsum laud. 545D. Fin da Wyttenbach, risultava inevitabile il richiamo al docere delectando del testo oraziano, che recitava: Tu seu donaris seu quid donare voles cui, Nolito ad versus tibi factos ducere plenum Laetitiae: clamabit enim, pulcre, bene, recte; Hor. Ars 426–428; Wyttenbach, Animadversiones, 3. Per il richiamo ad un concetto simile cfr. anche Plu. Per. 2.1–4. Figlia di L. Flavio Polliano Aristione e Memmia Euridice (cfr. SEG 1, 159), coppia di sposi (cui sono dedicati i Coniugalia Praecepta, cfr. 138B e 145A7)

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con cui Plutarco intratteneva legami amicali e didattici e condivideva la consuetudine con il territorio ed il santuario di Delfi, e nipote di Tito Flavio Soclaro, uno dei migliori amici del Cheronese (lo si ritrova nelle Quaestiones Convivales, più volte all’interno dell’Amatorius, e interlocutore nel De sollertia animalium); cfr. B. Puech, “Soclaros de Tithorée, ami de Plutarque, et ses descendants”, REG 94 (1981) 186–192. Definita dal Cheronese “saggia e filosofa” (361E), fino a poco più di un secolo fa era ritenuta una sacerdotessa egiziana; cfr. B. Latzarus, Les Idées Religieuses de Plutarque (Paris: 1920) 47 nota 2. Il proemio del Mulierum Virtutes dipinge Clea intenta in discorsi con il Cheronese (242F2–4) e alle prese con affidabili libri di storici, filosofi e poeti con cui sembra avere particolare confidenza (243D4–7). Inoltre il metodo espositivo adottato dall’autore, che individua nel complesso motivi di carattere storico, filosofico, biografico, paradigmatico, erudito e comparativo, richiama proprio il modus operandi di un maestro che si rivolge ad una giovane allieva (secondo A. Nikolaidis, Clea “must have been a particularly cultured and intelligent woman”; Nikolaidis, “Plutarch on Women”, 85. G. Marasco la descrive “dotata di buona preparazione storica … dotata di grande cultura” e partecipe degli interessi filosofici di Plutarco “correlati alle finalità morali … della storia”; Marasco, “Donne, cultura e società”, 666) avvezza allo studio, alle letture e alle conversazioni e piuttosto ricettiva per quanto concerne la trattazione di metodi, argomenti e personaggi già discussi in precedenza. Questo conforta l’ipotesi che ella appartenesse ad una famiglia di elevata classe sociale con facile accesso all’istruzione e alla cultura; cfr. Ruiz Montero–Jiménez, “Mulierum Virtutes”, 103. Xylander, nelle Annotationes, segnalava che “in scripto apparet fuisse κλέα sed ab emendatore factum κλέαρχε, quod minime probo”; W. Xylander, Plutarchi Chaeronensis philosophorum & historicorum principis Uaria scripta, quae Moralia uulgo dicuntur vere autem Bibliotheca et Penus omnis doctrinae appellari possunt (Basileae: Episcopius, 1574) II. Probabilmente alla fase della piena maturità di Clea, oramai divenuta ἀρχηίς delle Tiadi di Delfi, sono riconducibili l’iscrizione risalente all’età di Antonino Pio e la dedica del De Is. et Osir. (364E); cfr. J. Jannoray, “Inscriptions Delphiques d’époque tardive”, BCH 70 (1946) 254–259. Per la partecipazione femminile al culto di Dioniso nell’opera di Plutarco cfr. anche S. Matthews, “Elite Women, Public Religion, and Christian Propaganda in Acts 16”, in A.L. Levine–M. Blickenstaff (eds.), A Feminist Companion to the Acts of Apostles (London: 2004) 119–121. Sulla questione cfr. G. Ménage, Historia mulierum philosopharum (Lugduni: 1690) cap. XIV; Bowersock, “Some persons”, 267–270; Ziegler, Plutarco, 34; 54; 62; Kapetanopoulos, “Klea and Leontis”, 119–130;

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Puech, “Soclaros de Tithorée”, 189; C. Froidefond (ed.), Plutarque, Œuvres Morales, t. V (Paris: Les Belles Lettres, 1988) 22; B. Puech, “Prosopographie des amis de Plutarque”, ANRW 2.33.6 (1992) 4857–4858; Boulogne, Plutarque, 27–29. Senza dubbio la dedica dell’opuscolo a Clea costituisce una espressione di drammaticità formale; cfr. D’Ippolito, “Il Corpus Plutarcheo”, 14. Su Clea sacerdotessa di Iside (cfr. 351C e 352C) e consacrata ai misteri di Osiride cfr. anche H. Dieter Betz, Plutarch’s theological writings and early Christian literature (Leiden: Brill, 1975) 36. Per la famiglia di Clea quale dedicataria di tre dei quattro opuscoli plutarchei di tematica femminile cfr. Ruiz Montero–Jiménez, “Mulierum Virtutes”, 103. Plutarco riduce a semplice γνώμη le parole attribuite allo statista ateniese dalla ricostruzione tucididea che, senza una corretta ricollocazione in ambito di analisi storica, politica e sociale, divengono oggetto di semplificazione letteraria ad esclusivo uso antinomico. Per una probabile reazione tucididea contro la corrente femminista del tempo e all’influenza esercitata da Aspasia sul pensiero e l’operato di Pericle cfr. P. Roussel, “Thucydide et la question féminine à Athènes”, REG 36 (1943) 698–706; García Valdés, “Plutarco uersus Tucídides”, 297–312. Per le citazioni di carattere gnomico quale elemento di uniformità formale all’interno dei Moralia cfr. anche I. Gallo, “Strutture letterarie dei Moralia di Plutarco: aspetti e problemi”, in J.A. Fernández Delgado–F. Pordomingo Pardo (eds.), Estudios sobre Plutarco: aspectos formales. Actas del IV Simposio Espaňol sobre Plutarco. Salamanca, 26 a 28 de Mayo de 1994 (Salamanca: Sociedad Espaňola de Plutarquistas, 1996) 9. Per l’imitatio tucididea ad opera di Plutarco cfr. anche Apophth. Lac. 217F e 220D. Inoltre la riflessione politico-ideologica di Tucidide, mediata da esercizi retorico-scolastici, subisce una decontestualizzazione che la rifunzionalizza su un piano etico-individuale. Per la familiarità, stima ed ammirazione speciale di Plutarco nei confronti di Tucidide (a volte preferito persino al tanto riverito Platone) e delle sue capacità artistiche come veicolo di varietà brillante, vivida, emozionale ed incomparabile, soprattutto davanti ad un pubblico che ne conosceva bene l’opera anche nei passi più precisi, cfr. Nic. 1, 1–5; M.A. Levi, Plutarco e il V secolo (Milano/Varese: Cisalpino, 1955) 288–378; R.H. Barrow, Plutarch and his Times (London: Chatto & Windus, 1967) 157 e soprattutto C.B.R. Pelling, “Plutarch and Thucydides”, in P.A. Stadter (ed.), Plutarch and the historical tradition (London: Routledge, 1992) 10–11; 17–18; 26. Riguardo alla riproposizione di citazioni ed aneddoti provenienti da raccolte compilate per scopi retorici o filosofici cfr. Ziegler, Plutarco, 328 e, in merito alla cosiddetta “ricontestualizzazione morali-

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stica” dell’opera tucididea cfr. R. Tosi, “Tucidide in Plutarco”, in I. Gallo (ed.), La biblioteca di Plutarco. Atti del IX Convegno plutarcheo, Pavia 13–15 giugno 2002 (Napoli: D’Auria, 2004) 147–158. Per la riconosciuta consuetudine del dossografo di Cheronea di dare inizio ad un’opera citando l’opinione o il testo di celebri autori del passato in qualità di testimonianza cfr. Dinse, De libello Plutarchi, 11. Per la formulazione di un incipit brillante quale elemento di uniformità formale all’interno degli opuscoli dei Moralia cfr. Gallo, “Strutture letterarie”, 9. Un simile approccio di carattere etico-gnomico si riscontra in Con. praec. 139C6 nei riguardi dell’opinione di Erodoto in merito al pudore femminile. L’autore cita sommariamente (o “memoriter”; Dinse, De libello Plutarchi, 11) la parte conclusiva della sezione del λόγος ἐπιτάφιος pericleo rivolta alle donne (Τῆς τε γὰρ ὑπαρχούσης φύσεως μὴ χείροσι γενέσθαι ὑμῖν μεγάλη ἡ δόξα καὶ ἧς ἂν ἐπ’ ἐλάχιστον ἀρετῆς πέρι ἢ ψόγου ἐν τοῖς ἄρσεσι κλέος ᾖ. Cfr. Th. 2.45.2) fornendone una breve esegesi. Secondo W.B. Tyrrell e L.J. Bennett, Pericle, cosciente del potere che le donne ateniesi erano in grado di esercitare sugli uomini di famiglia, non pretendeva altro che la cooperazione delle stesse per la causa comune; cfr. W.B. Tyrrell–L.J. Bennett, “Pericles’ Muting of Women’s Voices in Thuc. 2.45.2”, CJ 95.1 (1999) 37–51; F. Tanga, “Alcuni celebri ateniesi e le donne nell’opera di Plutarco”, in A. Casanova (ed.), Figure d’Atene nelle opere di Plutarco (Firenze: Firenze University Press, 2013) 175–203. La costruzione di entrambi i testi in oggetto è condizionata in maniera decisiva dall’epoca di composizione, dal pubblico, dalla forma letteraria scelta e dal contesto complessivo dell’opera; un ruolo importante è svolto anche dalla simbiosi di retorica e filosofia nel discorso letterario ed epistemologico portato avanti dai due autori. Cfr. W.C. Helmbold–E.N. O’Neill, Plutarch’s quotations (Baltimore: 1959) 72; García Valdés, “Plutarco uersus Tucídides”, 297–312. Il tema ritorna in Con. praec. 142C3–D6, ma sviluppato con esempi differenti: “Fidia rappresentò l’Afrodite degli Elei con un piede su una tartaruga; la cosa, per la donna, ha questo significato esortativo: restare a casa e tacere” (trad. it. A. Tirelli). In merito al silenzio come portatore di κόσμος per le donne, cfr. anche A. Th. 232; S. Aj. 293 e fr. 64 R.; Democr. B 274 DK; Ar. Lys. 515 e Arist. Pol. 1260a30. Nei Con. praec. la discrezione riguardava anche la voce femminile; cfr. 139C e 142CD. Inoltre, al paragrafo 144E si precisava che “Quando il corpo (della consorte) non si vede, devono manifestarsi la sua virtù, la sua devozione al marito, la sua misura e il suo amore” (trad. it. A. Tirelli). Il γαμήλιος λόγος prescriveva: “La luna, quando è lontana dal sole, la vediamo chiara e brillante, mentre scompare e si nasconde quando gli

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è vicina. Al contrario la donna virtuosa deve concedersi alla vista soprattutto quando è in compagnia del marito, mentre deve badare alla casa restandovi nascosta quando il marito non c’è. È bene infatti o che parli col marito o tramite il marito” (trad. it. A. Tirelli). Cfr. Con. praec. 139C e De Is. et Osir. 381F. Cfr. anche Martano–Tirelli, Plutarco, Precetti, 63. L’aggettivo, esprimendo un relativo apprezzamento del parere di Gorgia nell’ambito della questione della virtù femminile, lascia intravedere un progresso che non costituisce una concreta prova del contributo dei sofisti al movimento di emancipazione della donna, come suggerito, invece, da J. Boulogne; cfr. Boulogne, Plutarque, 12. Per l’enumerazione delle virtù delle persone secondo Gorgia cfr. Arist. Pol. 1260a. Si scorge un riferimento all’Encomio di Elena, la cui struttura concettuale individuava proprio nella δόξα e nell’ ὀνόματος φήμη i motivi principali dell’ἔπαινος rivolto alla donna, riconoscendo anche, più in generale, come l’aspetto fisico rendesse lustro esclusivamente al corpo; cfr. 82 B 22 DK; Helmbold–O’Neill, Plutarch’s quotations, 33; F. Donadi, Gorgia, Encomio di Elena (Roma: 1982) 1–5; 8–12; 13–15; 37–38; 115–120. In Con. praec. 144B10, invece, Plutarco fa riferimento alla discordia che regnava nella famiglia di Gorgia, incapace di mantenere armonia in casa con la moglie e la serva. Il retore, avendo un debole per la servetta di cui la moglie era gelosa, fu tacciato di ipocrisia e doppiezza da Melanzio per aver pronunciato ad Olimpia dinnanzi ai Greci un discorso Περὶ ὁμονοίας. Anche in De Adulat. 64C Plutarco rifiutava un’affermazione riprovevole di Gorgia; in questa circostanza, tuttavia, ne loda l’attitudine nei confronti delle donne; cfr. S.T. Teodorsson, “Plutarch on the Presocratics and the Sophists”, in J.M. Candau Morón–F.J. González Ponce–A.L. Chávez Reino (eds.), Plutarco transmisor, Actas del X Simposio Internacional de la Sociedad Española de Plutarquistas, Sevilla, 12–14 de noviembre de 2009 (Sevilla: Universidad de Sevilla, 2011) 441; 445. C. Ruiz Montero ha ricondotto l’idea dell’uguaglianza dei sessi principalmente a Socrate e ai circoli socratici, piuttosto che a Gorgia; in effetti pare che Socrate avesse insegnato come alcune donne potessero essere in grado quanto gli uomini di raggiungere l’eccellenza umana (cfr. Pl. Men. 73ab; R. 457b–466d; Arist. Pol. 1260a; X. Smp. 2.9) ed Antistene, uno dei suoi allievi, sembra aver affermato che ἀνδρὸς καὶ γυναικὸς ἡ αὐτὴ ἀρετή (D.L. 6.1.12); cfr. C. Ruiz Montero, “Caritón de Afrodisias y el mundo real”, in P.L. Furiani–A.M. Scarcella (eds.), Piccolo mondo antico: appunti sulle donne, gli amori, i costumi, il mondo reale nel romanzo antico (Napoli: 1989) 133. Per l’esposizione anche solo di una parte del corpo femminile, che fosse un braccio o la voce, cfr. l’aneddoto di Teano descritto in Con. praec. 142C.

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Il favore espresso nei confronti di questa usanza sembra rivelare una influenza positiva della cultura romana sulla prospettiva positiva esplicitata dal Cheronese nei confronti delle donne. Cfr. anche R. Flacelière, “Rome et ses empereurs vus par Plutarque”, AC 32 (1963) 47. Secondo K. Blomqvist, inoltre, le eroine del Mulierum Virtutes erano “essentially Roman matrons, strong and virtuous, even when dressed in the traditional Greek peplos”; Blomqvist, “From Olympias to Aretaphila”, 90. Contrariamente al silenzio chiesto da Pericle sulle qualità delle donne ateniesi (cfr. Th. 2.45.2), l’affermata consuetudine della laudatio funebris in ambito romano, che (cfr. D.H. 5.17.3) ebbe inizio verso il 400 a.C. per gli onori pubblici (all’epoca di Camillo; cfr. Cic. de Orat. 2.11.44; Liv. 5.50.7; Plu. Cam. 8) e nel 102 a.C. per i funerali privati (con il decesso di Popilia, madre di Lutazio Catulo; cfr. Cic. de Orat. 2.11.44), marca una diversità che rappresenta lo stadio conclusivo del percorso ideale tracciato da Plutarco su alcuni rappresentativi e gradualmente differenti pareri dell’antichità riguardanti la virtù femminile; cfr. F. Vollner, “Laudatio funebris”, R.E. XII.1 (1924) 992–994; M. Durry, Eloge funèbre d’une matrone romaine (Paris: 1950) XI–XXIII; S.B. Pomeroy, Goddesses, Whores, Wiwes and Slaves. Women in Classical Antiquity (New York: 1976). Inoltre, l’autore esprime un personale apprezzamento per un νόμος appartenente al mondo latino che, tributando in pubblico onori ad uomini e donne, ripristina un trattamento paritario tra i sessi che non permette di tacere i meriti femminili. Questo riferimento proemiale, oltre a mostrare un simbolico e sintetico excursus di carattere retorico ed introduttivo compiuto da un autore propenso a stringenti moduli comparativi, non implica alcun intento polemico o di indagine socio-antropologica, contrariamente a quanto affermato da J. Boulogne; cfr. Boulogne, Plutarque, 12–13. Luca Antonio Ridolfi, per agevolare la comprensione del suo Delle virtù e fatti notabili delle donne (egli stesso spiegava: “avendo Plutarco nel proemio di questa sua historia citato i fatti et allegati i nomi d’alcune donne famose mi è paruto conveniente cosa scrivervi hora parte di quelle secondo che appresso agli altri authorj si leggono”) scrisse una nota di commento intitolata Della legge fatta da i Romanj in honor delle donne. In base ad un’iscrizione di Delfi (cfr. CID IV, 143bis), si tratterebbe della figlia di P. Memmio Teocle (deceduta nel 110 d.C. ca.), conoscente e forse coetanea di Plutarco nota anche a Clea per fama (la precisazione τῆς ἀρίστης riferisce di un personaggio eminente o carismatico, forse della tribù di Leontis di cui Plutarco era cittadino; cfr. anche Barrow, Plutarch and, 36) o conoscenza di tipo personale o familiare (ella era “probabilmente una parente”, secondo Marasco; Marasco, “Donne, cultura e società”, 666)

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in ambito delfico, piuttosto che per parentela vicina o lontana o per amicizia diretta. Ad avviso di C. Ruiz Montero e A.M. Jiménez, Leontis sarebbe da identificare con la madre di Clea, dedicataria dei Coniugalia Praecepta (Ruiz Montero–Jiménez, “Mulierum Virtutes”, 103; 117), cui sarebbe stato conferito il nomen romanum di Memmia Euridice; tuttavia non si comprenderebbe il motivo di apostrofare la medesima persona in un opuscolo sotto il nome di Leontis e nell’altro con la definizione di Memmia Euridice. Inoltre, vista la consuetudine di Plutarco con la famiglia di Clea, dedicataria dell’opuscolo, l’assenza di un richiamo alla figura materna di Leontis, ivi definita soltanto ἡ ἀρίστη, lascia molti dubbi in proposito, soprattutto nel contesto di un’opera consacrata alle figure femminili. In merito all’identità di Leontis e ai suoi legami con Plutarco e Clea cfr. Ménage, Historia mulierum, XIV; J.J. Hartman, De Plutarco scriptore et philosopho (Leiden: Brill, 1916) 128–129; Kapetanopoulos, “Klea and Leontis”, 119–130; Puech, “Prosopographie”, 4857–4858; Boulogne, Plutarque, 7; 26–27; Ruiz Montero–Jiménez, “Mulierum Virtutes”, 103; 117. Wyttenbach riteneva che Plutarco “illam laudasset hac schola, qua demonstravit unam eamdemque virtutem esse viri et mulieris”; cfr. Wyttenbach, Animadversiones, 3. Secondo A. Nikolaidis, Leontis era la prova del fatto che Plutarco avesse “belief in the moral and intellectual capacities of women”; Nikolaidis, “Plutarch on Women”, 31. Il procedimento consolatorio, strutturato nella revocatio, in una laudatio corredata di exempla e nel momento finale della consolatio vera e propria dei vivi, sembra ripercorso dalle parole pronunciate dall’autore in memoria di Leontis per introdurre gli aneddoti contenuti nell’opuscolo. In tal modo l’autore ha adattato la topica consolatoria, assimilata nel periodo della propria formazione scolastica, a persone e situazioni dell’occasione compositiva. Così le storie del Mulierum Virtutes paiono pienamente organiche ad un generale programma/impianto letterario pregresso di natura lato sensu consolatoria e di ispirazione funebre; cfr. anche F. Lillo Redonet, “La Consolatio ad uxorem de Plutarco y la tradición de la consolación femenina”, in J.A. Fernández Delgado–F. Pordomingo Pardo (eds.), Estudios sobre Plutarco: aspectos formales. Actas del IV Simposio Espaňol sobre Plutarco. Salamanca, 26 a 28 de Mayo de 1994 (Salamanca: Sociedad Espaňola de Plutarquistas, 1996) 157–166. Per la παραμυθία nel corpus plutarcheo cfr. soprattutto Cons. ad Ap. 105B; 110E e 111F; De Pyth. or. 395F; De facie 929F; De an. procr. 1012B e Adv. Col. 1123E. Fondamentali per l’efficacia in ambito consolatorio erano la μετριοπάθεια, come attitudine nell’affrontare il dolore, e la τέχνη ἀλυπίας, per la guarigione degli afflitti. Il genere letterario del παραμυθητικὸς λόγος possedeva

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un retroterra filosofico-culturale di varia provenienza; cfr. De exilio, Cons. ad Ap., Cons. ad ux., De tranq. an., De coh. ira, le opere perdute Παραμυθητικὸς πρὸς Ἀσκληπιάδην (Lampr. 111) e Πρὸς Φηστίαν παραμυθητικός (Lampr. 157) e i trattati teorici non pervenuti intitolati Περὶ ἀλυπίας (Lampr. 272) e Περὶ ἀταραξίας (Lampr. 179). Cfr. anche Plu. Non posse suav. 1092C; 1093A e 1106F; R. Kassel, Untersuchungen zur griechischen und römischen Konsolationliteratur (München: 1958); P.M. Schuhl, “On Consolation and on consolations”, in R.B. Palmer–R. Hammerton-Kelly (eds.), Philomates, Studies and Essays in the Humanities in memory of Philip Merlan (The Hague: 1971) 223–226; J. Hani, Plutarque. Consolation à Apollonios (Paris: Klincksieck, 1972) 11–14; J. Defradas–J. Hani–R. Klaerr (eds.), Plutarque, Œuvres Morales, t. II (Paris: Les Belles Lettres, 1985) 14–18; Impara–Manfredini, Plutarco, Consolazione, 8–14. Suggestiva resta l’immagine, descritta da Wyttenbach, (Wyttenbach, Animadversiones, 3) di Plutarco che, durante una lezione tenuta a Roma dinnanzi ai propri allievi, lodava le virtù di Leontis e delle donne in generale, esaltando nel contempo l’usanza romana dell’elogium funebre. Per il conforto e l’utilità prestati dalla filosofia nelle questioni d’amore cfr. anche Con. praec. 138B7 e 138C8. Questa unica attestazione del verbo προσαναγράφω nel lessico di Plutarco è volta a rimarcare la stesura successiva e per iscritto di una precedente conversazione. La concezione della donna di Plutarco è anche frutto della rielaborazione etico-pratica, nella prospettiva del pensiero e della produzione letteraria dell’età imperiale, di un processo sociale, inaugurato in età ellenistica, che conferì maggiore coinvolgimento pubblico alle donne tramite il prestigio e l’influenza derivanti dall’esercizio di attività economiche, l’esempio delle regnanti ellenistiche e la propensione sempre maggiore dei filosofi epicurei, cinici, stoici, neo-pitagorici e accademici al riconoscimento dell’uguaglianza di abilità filosofiche femminili nelle loro scuole. Cfr. D.L. 6.7.96–98; 7.1.33; 7.5.175 = SVF I, 247, pp. 58–59; III, 253–254, p. 59; Pomeroy, Goddesses, Whores, 120–148; O’Brien Wicker, “Mulierum Virtutes”, 114. Cfr. anche Pl. Lg. 631c; Plu. De aud. poet. 30D e 32A; Maxime cum princip. 776DE. Per l’influenza della tradizione filosofica e retorica antica in sede di individuazione delle virtù cardinali all’interno di Vite e Moralia, cfr. Frazier, Histoire et Morale, 179–195; 197–281. Per la questione dell’unitarietà e molteplicità della virtù (soprattutto in rapporto alla phronesis) nel pensiero di Platone, Aristotele, Zenone e Crisippo cfr. anche Becchi, Plutarco, La fortuna, 170–171. Secondo Aristotele, invece, la donna, in quanto essere più debole, era portatrice di una virtù inferiore a quella maschile; cfr. Pol. 1259b e 1260a.

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Il modello dialogico, il metodo comparativo e la scelta lessicale lasciano intendere che la discussione avvenuta in precedenza tra Plutarco e Clea avesse approfondito o richiamato in maniera contestuale o complementare tematiche di ascendenza platonica (cfr. anche l’intento aristotelico di esaminare la virtù appartenente ad uomo e donna in contesto familiare e politico in Pol. 1260b e la Diatriba IV (13–19 Hense) di Musonio Rufo, ove si affermava la parità di virtù maschili e femminili mediante svariati esempi); dalla sezione proemiale dell’opuscolo si evince quale fine ultimo dell’autore la volontà di riproporre ed ampliare, con l’ausilio di esempi storici e l’allusione a moduli narrativi ed argomenti trattati nel V libro della Repubblica e all’interno del Menone, le conclusioni filosofiche cui giunse Socrate in compagnia di Glaucone e Menone riguardo alla virtù delle donne (nello specifico, Platone faceva sostenere a Socrate che la virtù era una sola, sia per gli uomini che per le donne; cfr. Pl. Men. 71e–73e; Smp. 2.9; R. 452c1–458e2; Grg. 509c. Cfr. anche Gera, Warrior Women, 25–26). La piena adesione e la costante frequentazione di testi del corpus platonico portava Plutarco ad alludere in maniera consapevole (o, forse, anche inconscia) ad opere di Platone, ricorrendo però piuttosto di rado alla citazione diretta dei passi di riferimento; cfr. F. Ferrari, “Platone in Plutarco”, in I. Gallo (ed.), La biblioteca di Plutarco. Atti del IX Convegno plutarcheo, Pavia 13–15 giugno 2002 (Napoli: 2004) 225– 231. Sulla naturale tendenza della donna verso l’ἀρετή, cfr. anche Amat. 767B–769B (McInerney ha riconosciuto una vera e propria simmetria del Mulierum Virtutes con l’Amatorius; cfr. McInerney, “Chapter fifteen”, 320– 321). Plutarco, inoltre, parla di una natura identitica ed unica della virtù maschile e femminile (nel parere di K. Blomqvist, invece, Plutarco “is an earnest defender of women’s virtue”, ma soltanto “in the way that he recognises it”; Blomqvist, “From Olympias to Aretaphila”, 91), concetto di gran lunga più complesso rispetto al riscontro fattuale di una semplice analogia delle capacità delle donne a quelle degli uomini (uguaglianza di potenzialità sostenuta da Marasco, “Donne, cultura e società”, 663). In merito alla propensione a completare la trattazione della tematica della virtù per entrambi i sessi cfr. Pl. Phdr. 269d: “La vera arte dei discorsi si fonda sulla conoscenza dell’essenza della cosa di cui tratta e dell’intero di cui essa fa parte”. Riguardo alle donne del Mulierum Virtutes quale espressione e cumulo di “traits de caractère qui sont éminemment grecs” cfr. Schmidt, Plutarque et les Barbares, 253–258 (Vertus des femmes barbares) e, in particolare, 255–256. Tale ragionamento plutarcheo, per certi versi, riecheggia nella lettera indirizzata da Matteo Bandello al magnifico dottor di leggi messer Francesco Taverna (quale prefazione di una sua novella

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che riprendeva Mul. Virt. 15), che recitava: “Ed io certamente porto ferma opinione che tutte l’opere cosí speculative come pratiche tanto sortiranno piú nobile e lodevole effetto, o siano discorse e messe in opera da le donne o dagli uomini, quanto che piú volte, prima che si facciano, saranno maturamente crivellate e fattovi sopra i convenevoli discorsi che se gli ricercano”. Un procedimento simile è adottato nel proemio dei Con. praec. (138C2– 3), dove Plutarco con termini analoghi afferma: κεφάλαια συντάξας ἔν τισιν ὁμοιότησι βραχείαις. Per alcuni esempi contenuti nell’Amatorius cfr. Brenk, “Setting a Good Exemplum”, 237–253. Secondo K. O’Brien Wicker, Plutarco “assembles a diverse collection of historical and semihistorical accounts of the deeds of Greek and nonGreek women to support his thesis”; O’Brien Wicker, “Mulierum Virtutes”, 107. Nel novero del τὸ ἱστορικὸν ἀποδεικτικόν vanno considerati i riferimenti di carattere eziologico (consuetudine riscontrabile nell’intera produzione letteraria plutarchea), frutto dei molteplici interessi culturali e del modus operandi storico dell’autore, che paiono diretti a risvegliare l’interesse e l’erudizione del lettore, oltre che a creare una sorta di cornice narrativa al susseguirsi dei primi nove episodi. L’eziologia, dispiegata in maniera non sistematica e distribuita solo in modo occasionale all’interno dell’opera, più che costituire un indispensabile ed efficace strumento retorico atto a comprovare le tesi esposte nella fase iniziale dell’opuscolo, sembra rappresentare un ulteriore orpello da addebitare al gusto letterario di Plutarco, senza richiamare particolari implicazioni teoriche o metodologiche. La sezione proemiale, inoltre, omette qualsiasi (anche solo fugace) accenno all’eziologia in qualità di strumento ausiliario alla corretta ricezione dei contenuti, o adoperato allo scopo di dimostrare l’effettiva incidenza dei nobili atti femminili del passato sulla realtà storica successiva. R.J. Benefiel, invece, ha proposto l’eziologia come elemento centrale del Mulierum Virtutes, utilizzato in maniera sofisticatamente mirata per provare la tesi principale dell’opera, mettendo anche in rilievo le reali conseguenze delle azioni femminili, i cui effetti ricadevano sul pubblico contemporaneo di Plutarco (cfr. Benefiel, “Teaching by Example”, 11–20). Plutarco considerava gli esempi storici, insieme all’esperienza quotidiana e ad aneddoti filosofici, un genere di discorsi particolarmente adeguato al simposio (Quaest. conv. 614A9–B6). O’Brien Wicker ha ricordato come, sebbene Plutarco tentasse di apparire fattuale nei propri racconti, in realtà egli si trovava spesso a lavorare “with materials of more or less questionable reliability”, il cui valore di fonti storiche “cannot be uncritically accepted”; O’Brien Wicker, “Mulie-

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rum Virtutes”, 108. Per l’aspetto etico e teoretico ed i risvolti socio-politici dei παραδείγματα storici cfr. O’Brien Wicker, “Mulierum Virtutes”, 112–115; H.A. Gärtner, “Die Exempla der römischen Geschichtsschreiber im Zeitalter des Historismus”, in G.W. Most (ed.), Historicization-Historisierung (Göttingen: 2001) 223–239. Ad avviso di G. Marasco, la documentazione storica disponibile allo scopo di dimostrare l’assunto di Plutarco “offriva un materiale limitato”; Marasco, “Donne, cultura e società”, 667. L’autore impiega un ampio e composito serbatoio di effetti speciali e digressioni di diversa entità allo scopo di alimentare l’interesse del lettore e spogliare l’opera dalle sembianze di un arido catalogo; cfr. Tanga, “Plutarco e le donne”, 106–107. Cfr. Con. praec. 138C10, dove compare la proficua unione di Πειθώ con le Χάριτες. Per la compresenza di τέρπον ed ἡδονή all’interno di opere filosofiche con l’obiettivo di assumere quanto vi è di χρήσιμον cfr. anche De aud. poet. 14EF. Per l’eloquenza a supporto della virtù cfr. anche Plu. Cic. 13.1. Gli esempi storici addotti, seppur spesso infarciti di puntate eziologiche (cfr. Benefiel, “Teaching by Example”, 11–20) e divagazioni dialogiconarrative (e connotati da un’eleganza stilistica che indusse Cobet a sospettare “propter stili venustatem” riguardo all’attribuzione plutarchea dell’opuscolo; cfr. Dinse, De libello Plutarchi, passim), costituiscono un ausilio alla persuasione dell’ascoltatore, formulato senza premeditazione e pretese formali. Dunque la bellezza della forma, pur non essendo fine a se stessa, si riflette inevitabilmente sull’intera opera e, rifiutando il ricorso ad argomentazioni capziose o a tanto intricati e seducenti quanto vani sofismi, promana un’efficace persuasione (e non “una persuasione che fa credere senza tuttavia insegnare”; Plu. fr. 197 Sandbach); cfr. P. Volpe Cacciatore (ed.), Plutarco. Frammenti (Napoli: D’Auria, 2010) 229–231. Platone parlava di un ammirato stupore per la δύναμις messa in atto dalla τέχνη ἀντιλογική; cfr. Pl. R. 453e–454a. Per la condanna platonica della retorica in quanto τέχνη disgiunta dalla verità cfr. anche Pl. Phdr. 260e; cfr. anche A.M. Tagliasacchi, “Le teorie estetiche e la critica letteraria in Plutarco”, Acme 14.1–3 (1961) 93–94; Ziegler, Plutarco, 291–293. In ossequio ad una vera retorica fondata sulla conoscenza della verità storica esemplificata nei 27 episodi (cfr. Th. 1.21.1 e Pl. Phdr. 259e–271c), il diletto assume un secondario ruolo palliativo per il fruitore (cfr. Plu. De aud. poet. 16AB; Amat. 769C; K. Svoboda, “Idées esthétiques de Plutarque”, in Mélanges Bidez 2 (Annuaire de l’Institut de philologie et d’histoire orientales) (Brussel: Secrétariat de l’Institut, 1934) 917–946; Tagliasacchi, “Le teorie estetiche”, 71–77), propedeutico alla ricezione ragionata di contenuti presentati secondo i “corretti criteri metodologici di fare discorsi” enunciati da

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Platone nel Fedro. Inoltre, questa mera premessa teorica/dichiarazione di intenti di chiara ispirazione platonica sembra lungi dal pretendere il riconoscimento della trattazione rigorosa di una materia seria, come ipotizzato da Boulogne, Plutarque, 15. Dalla terminologia adoperata (cfr. οὐδ᾿ αἰσχύνεται al paragrafo 243A3–4) sembra di scorgere un rimando a polemiche precedenti, piuttosto che una studiata costruzione retorica. Cfr. Herc. 673: Οὐ παύσομαι τὰς Χάριτας/ Μούσαις συγκαταμειγνύς, /ἁδίσταν συζυγίαν. Plutarco, come Dione Crisostomo, Stobeo e gli scolii ad Esiodo, riporta questa sezione dell’Eracle in una forma leggermente differente dal testo euripideo, che tradisce l’imprecisa citazione mnemonica di una frase famosa divenuta quasi proverbiale. Cfr. Schol. ad Hes. Th. 64; J.W. Cohoon–H. Lamar Crosby (eds.), Dio Chrysostom, Discourses 31– 36 (London: The Loeb Classical Library, 1940) 268–269; C. Wachsmuth– O. Hense (eds.), Ioannis Stobaei anthologii libri duo priores qui inscribi solent Eclogae Physicae et Ethicae (Dublin/Zürich: 21974 [1884–1923]) 27. Cfr. anche Helmbold–O’Neill, Plutarch’s quotations, 32. Per il riferimento a Muse e Cariti in un contesto di persuasione cfr. anche Con. praec. 138C3– D2 (dove vegliano sulla felice convivenza dei coniugi insieme ad Afrodite, Ermes e Πειθώ) e A. Meriani, “Suonare le parole: esecuzioni musicali e discorso filosofico nel proemio dei Coniugalia Praecepta di Plutarco (138A–D)”, in J.M. Nieto Ibaňez–R. Lopez Lopez (eds.), El amor en Plutarco, IX Simposio Internacional de la Sociedad Espaňola de Plutarquistas (Leon: 2007) 557–574. Cfr. anche Con. praec. 143C10, dove si richiama l’invito di Euripide a mettere fine alle liti coniugali attraverso l’amore, e Quaest. conv. 612E9. Per la fortuna nelle traduzioni umanistiche di Plutarco di tale citazione euripidea cfr. Tanga, “Una citazione euripidea”, 167–179; per la ratio citandi plutarchea nell’ambito della ricontestualizzazione al fine di armonizzare la citazione letteraria con le finalità dell’opuscolo cfr. S. Amendola, Ricerche sul De sera numinis vindicta di Plutarco (Napoli: Arte Tipografica Editrice, 2014) 6; 27–42. Il legame che unisce la persuasione all’amore dell’anima per la bellezza è emblematizzato da un’espressione immaginifica, presa in prestito dal campo della tessitura ad indicare l’interdipendenza tra passioni e piacere. Cfr. Plu. De sera numinis vindicta 565D e De genio Socratis 575BC. Cfr. anche F. Fuhrmann, Images de Plutarque (Paris: 1964) 159. La tematica denuncia una chiara ascendenza platonica; cfr. Pl. Smp. 210a–211a e Phdr. 243e–257b. Per le metafore come strumenti espressivi ed emozionali ed efficaci mezzi di dimostrazione e propaganda cfr. Quaest. conv. 747CD; Praec. ger. reip.

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803A; Fuhrmann, Images de Plutarque, 15–18; Y. Vernière, Symboles et mythe dans la pensée de Plutarque (Paris: Les Belles Lettres, 1977) 300–305. In merito al simbolismo del linguaggio metaforico, risulta indispensabile anche il confronto con il dettato platonico in Pl. Alc. 132d–133c; Sph. 254a e R. 519b. Plutarco ricalca l’analogo raffronto tra abilità, qualifiche, propensioni e disposizioni della φύσις maschile e femminile in rapporto al complesso delle τέχναι e delle attività umane compiuto da Platone (ἰατρική, τεκτονική, μουσική, γυμναστική, πολεμική, φιλοσοφία, φυλακική; cfr. Pl. R. 454d–456b). Per l’interesse di Plutarco verso la pittura cfr. De def. orac. 410C e Quaest. conv. 735C, oltre al celeberrimo passo del De gloria Athen. 346F–347A. All’interno della Diatriba IV (p. 15 Hense), Musonio Rufo ascriveva ad uomini e donne eguali capacità di apprendere l’arte di suonare flauto e cetra, cui corrispondeva una simile propensione a senno, equilibrio, coraggio e giustizia nella prospettiva del raggiungimento della virtù. I pittori Apelle (cfr. Alex. 4.3.1; Demetr. 22.6.1; Arat. 13.1.3; De lib. educ. 7A1; De ad. et am. 58D6 e 63E2; De Al. Magn. fort. 335A8; De Is. et Os. 360D1; De tranq. an. 472A2 e Non posse 1094D9), Zeusi (cfr. Per. 13.4.1; De am. mult. 94F2; Amat. 750C2 e fr. 134.29) e Nicomaco (Tim. 36.3.3 e fr. 134.28) sono citati per chiara fama e senza ordine di preferenza (cfr. Boulogne, Plutarque, 277); quanto ai particolari tecnici, il gusto di Plutarco è diretto alla predilezione del colore alla linea (cfr. De aud. poet. 16B). Cfr. Svoboda, “Idées esthétiques”, 940. Celebre il giudizio di Nicomaco sull’Elena di Zeusi, come anche la metafora pittorica adoperata in Amat. 759C. Per un riferimento ad eventuali cornici dialogiche o discussioni pregresse cfr. τις αἰτιάσασθαι δικαίως a paragrafo 243B7. Questo accade quando la retorica, che “nell’ambito dei discorsi detiene una autorità suprema e artefice”, (Plu. fr. 197 Sandbach; cfr. Volpe Cacciatore, Plutarco. Frammenti, 229–231) antepone la produzione di τέρψις ed ἡδονή alla persuasione e alla conoscenza della verità. Su ψυχαγωγεῖν come termine tecnico di estetica letteraria cfr. Pl. Ti. 71a; Lg. 909b e S.E. M. 1.297. Riguardo alla compatibilità tra ψυχαγωγία e διδασκαλία cfr. Tagliasacchi, “Le teorie estetiche”, 93–94. Per l’oratoria “trascinatrice dell’anima”, secondo Platone, cfr. anche Pl. Phdr. 271c e Plu. Per. 15.2. Si riconosce una struttura antinomica atta a simulare un contraddittorio e che conferma il Mulierum Virtutes come prodotto e conseguenza di una reale discussione intercorsa tra Plutarco e Clea, forse in presenza anche di altri interlocutori (ἐγὼ μὲν οὐκ οἶμαι. Τί δέ; 243B2). Anche l’appendice paradigmatica successiva di 27 episodi conserva tutti i tratti dell’ordine

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casuale tipico della conversazione, senza però comporre un assetto artificioso; cfr. Tanga, “Mulierum Virtutes: atti di virtù”, 94. Cfr. Demet. 38.4.4; De prof. in virt. 81D9; Con. praec. 145F–146A; De Pyth. or. 397A7; 406AB; De coh. ira 456E7; Quaest. conv. 622C6; 646E10 e 711D6; Amat. 751D5; 762F1 e 763A2. Cfr. anche Helmbold–O’Neill, Plutarch’s quotations, 65. Luca Antonio Ridolfi scrisse una nota collettiva di commento dedicata a Semiramis, Saffo, Olimpia e Portia; cfr. Aulotte, Amyot et Plutarque, 74. Per comporre la prima metà del proemio al Mulierum Virtutes, Plutarco molto probabilmente utilizzò, o ebbe ben presenti, gli ὑπομνήματα adoperati durante la composizione dei Coniugalia Praecepta, opera di cui questa introduzione in alcuni tratti sembra una sbrigativa ripresa, un rimaneggiamento o una parziale riproposizione. Cfr. Per. 2.1.5; Quaest. conv. 711D6 e Amat. 751A6. Cfr. anche Helmbold– O’Neill, Plutarch’s quotations, 3. Secondo P.A. Stadter, Plutarco menzionò poche volte Anacreonte poiché aveva una limitata conoscenza dei suoi carmi, frequentemente citati in occasioni conviviali; P.A. Stadter, A Commentary on Plutarch’s Pericles (Chapel Hill: The University of North Carolina Press, 1989) 59. Alla donna si riconoscevano spiccata sensibilità e capacità di previsione, come dimostrano la profetessa omerica Cassandra, la sacerdotessa delfica di cui parla Eraclito (De Pyth. or. 397A = 22 B 92 DK) e la donna di Mantinea del Simposio platonico (201d e ss.); cfr. anche Martano–Tirelli, Plutarco, Precetti, 18–20. Per l’esemplarità contestuale della figura poetica di Saffo e del ruolo profetico della Sibilla all’interno di domande retoriche cfr. anche De Pyht. or. 406AB. Sibilla e Bacis (cfr. anche De Pyth. or. 397A = 22 B 92 DK) sono chiamati in causa come nomi generico-rappresentativi di uomo e donna che svolgono attività profetica. Cfr. E. Suárez De La Torre, “De la Sibila a las sibilas. Observaciones sobre la constitución de los cánones sibilinos”, in R. Teja (ed.), Profecía, magia y adivinación en las religiones antiguas, (Aguilar de Campóo: 2001) 47; R.M. Aguilar, “Anotaciones plutarqueas sobre la Sibila y los Oráculos sibilinos”, in A. Pérez Jiménez–F. Titchener (eds.), Historical and Biographical Values of Plutarch’s Works, Studies devoted to Professor Philip A. Stadter by The International Plutarch Society (Málaga/Logan: Universidad de Málaga/Utah State University, 2005) 20–29. Si ricorda anche la figura di Bacis, indovino di Beozia celebre in quanto ispirato dalle ninfe marine; cfr. anche Ricard, Œuvres Morales. Per un raffronto con lo schema omologico disposto nei Coniugalia Praecepta cfr. Martano–Tirelli, Plutarco, Precetti, 24; A. Tirelli, “Lo schema

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omologico nei Coniugalia Praecepta: dal modello formale alle strutture ideologiche”, in G. D’Ippolito–I. Gallo (eds.), Strutture formali dei “Moralia” di Plutarco, Atti del III Convegno Plutarcheo, Palermo, 3–5 Maggio 1989 (Napoli: D’Auria, 1991) 357–374. Paradossalmente, proprio la confutazione di un detrattore immaginario per mezzo di citazioni dotte e metafore pittoriche, poetiche e divinatorie, costituisce un ricorso/tributo, tanto parziale e ponderato quanto necessario, alla τέχνη retorica. Riguardo alla struttura antinomica cfr. 243B6 (οὐδὲ τοῦτ᾿ ἂν εἴποις). Metodo comparativo ereditato dalle scuole di retorica (cfr. Flacelière– Chambry–Juneaux, Plutarque. Vies, XXVI–XXIX), sotto l’influenza di Platone, Aristotele e del Peripato, che Plutarco, come mostrato nei Moralia oltre che nelle Vite Parallele (Cim. 2; Nic. 1; Pomp. 8; Alex. 1; De prof. in virt. 84B–85B; De frat. am. 488D–489F; De gar. 505A–511E; Amat. 768BD e 770D–771C; cfr. Flacelière–Chambry–Juneaux, Plutarque. Vies, XXVI– XXXI; D’Ippolito, “Il Corpus Plutarcheo”, 14; Boulogne, Plutarque, 17; I. Gallo, La biografia greca. Profilo storico e breve antologia di testi (Salerno: Rubbettino, 2005) 39–40. Cfr anche Jones, Plutarch and Rome, 103–109; Boulogne, Plutarque. Un aristocrate, 57–61), adopera per primo in maniera quasi sistematica e difende con costanza, prefiggendosi di scoprire l’autentica connotazione morale e psicologica del carattere umano attraverso gli esempi (sull’utilizzo e la funzione degli esempi nel corpus platonico cfr. Lg. 804d–806c e 813c–814c ma anche Hp. Mi., Men., Ion, Ti. e Grg. passim. Proprio l’utilizzo degli exempla rappresenta il marchio distintivo di Plutarco in qualità di “capostipite” della saggistica ed uno strumento prediletto dal Cheronese nell’ambito della trattatistica filosofica, in particolare per la trattazione in vari opuscoli della tematica femminile; cfr. Ziegler, Plutarco, 304; D’Ippolito, “Il Corpus Plutarcheo”, 13–15) di vita e le azioni offerte dalla storia; cfr. T. Duff, “Plutarch’s Lives and the critical reader”, in L. Van Der Stockt–G. Roskam (eds.), Virtues for the People. Aspects of Plutarchan Ethics (Leuven: Leuven University Press, 2011) 72 nota 36. Tale procedimento, nel perseguire un intento educativo, pedagogico e di elevazione morale dei lettori e dell’autore stesso (come ammesso in Tim. 1.2: “quando io mi misi a scrivere queste vite, lo feci per utilità degli altri; ma ormai mi avviene di continuare e di insistere in questo lavoro anche per utilità mia”. Trad. it. C. Carena), applicato anche al Γυναικῶν ἀρεταί, agevola in linea teorica la possibilità di individuare punti di contatto e di discrepanza tra la virtù maschile e quella femminile. La premessa metodologica del Mulierum Virtutes è stata ritenuta da D. Russell esemplare e fruibile anche per il modello biografico

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delle Vite Parallele; cfr. Russell, Plutarch: Selected Essays, 307. M. Durán Maňas, invece, ha recentemente considerato l’applicazione a tale opuscolo del metodo comparativo delle Vite Parallele un’ipotesi piuttosto improbabile; M. Durán Maňas, “Las mujeres en la Vida de Pericles”, in L. Van Der Stockt–F. Titchener–H.G. Ingenkamp–A. Pérez Jiménez (eds.), Gods, Daimones, Rituals, Myths and History of Religions in Plutarch’s Works. Studies Devoted to Professor Frederick E. Brenk by The International Plutarch Society (Logan: Utah State University, 2010) 143–162. Tuttavia, la mancanza di una struttura dialettica binaria come la σύγκρισις a guisa di resoconto finale (o nella funzione di sviluppo del metodo dimostrativo scelto dallo scrittore; cfr. O’Brien Wicker, “Mulierum Virtutes”, 107) sembra vanificare le premesse dell’autore, permettendo un accostamento dell’opera al genere dei Parallela, poiché ogni giudizio od osservazione sulla pertinenza ed efficacia paradigmatica e persuasiva delle storie narrate è lasciato solo alla cultura del lettore. Sulla synkrisis come procedimento narrativo attento alla “dissonance”, cfr. T. Duff, Plutarch’s Lives. Exploring Virtue and Vice (Oxford: Clarendon Press, 1999) 243–286 e, in particolare, 286. Per una rassegna sulla struttura sincritica del βιβλίον plutarcheo cfr. anche T. Duff, “The Structure of the Plutarchan Book”, ClAnt 30.2 (2011) 213– 278. Cfr. Pelling, “Synkrisis”, 83–96; Swain, “Plutarchan synkrisis”, 101–111; Pelling, “Synkrisis revisited”, 325–340. L’utilizzo di esempi storici per dimostrare affermazioni filosofiche induce spesso Plutarco anche a rielaborare in maniera leggera o consistente, a seconda dell’occasione e del contesto, la versione dei fatti narrati, scegliendo quella più adatta alla dimostrazione del suo assunto. Cfr. Stadter, An analysis, passim; Ziegler, Plutarco, 12; 324; Marasco, “Sul Mulierum virtutes”, 335 e Boulogne, Plutarque, 16. Cfr. anche Seneca (ad Marciam 16), che citava Lucrezia, Clelia e le due Cornelie quali esempi di donne virtuose, e Musonio Rufo (ed. Hense p. 15 = Stobeo 2.31.123), che chiamava in causa le Amazzoni (nella Diatriba IV, p. 15 Hense) per mostrare quanto le donne fossero capaci di compiere atti di virtù. Per l’utilità del genere biografico e l’attenzione ai piccoli particolari allo scopo di scoprire i segni distintivi dell’anima ed il carattere delle persone cfr. la dichiarazione metodologica presente in Alex. 1.2. Secondo la prospettiva di indagine antropologica sul mondo femminile di P. SchmittPantel, Plutarco “non mantiene le promesse”, in quanto nel trattato “non mette in parallelo le virtù maschili e quelle femminili, non scrive neanche Vite di Donne Illustri, che sarebbe riconoscere alle donne il diritto a

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una biografia … ma si accontenta di trarre dall’oblio un’azione, un fatto, considerato come l’illustrazione lampante della virtù femminile. Appuntando ciò che nelle azioni comuni o negli atteggiamenti individuali delle donne rientra nei luoghi comuni del discorso antico su di esse, egli nega a queste ultime ogni diritto alla peculiarità … chiudendole nella gogna di una immagine scontata”. Cfr. Schmitt-Pantel, “Introduzione”, 4. Nel giudizio sull’utilità dell’arte per la riscoperta del “vero”, Plutarco sembra distante dalla celebre condanna platonica. In proposito, K. Svoboda richiamava l’idea stoica della virtù quale suprema creazione artistica ed arte della vita intera. Cfr. Pl. R. 369e–379a; cfr. anche De genio Socratis 575C; Svoboda, “Idées esthétiques”, 926–927. Per un confronto dei concetti di μεγαλοπραγμοσύνη e πολυπραγμοσύνη in Plutarco cfr. P. Volpe Cacciatore, Graeca et Byzantina. Studi raccolti da amici e allievi (Napoli: 2006) 43–64. Personaggio in parte leggendario, da molti accostato a Sammuramat (o Shammuramat), moglie del re assiro Shamshi-Adad V (che governò dall’811 all’808 a.C.) e reggente per il figlio Addu-Nirari III. La leggenda la indicava come figlia della dea Derceto e del siriano Caistro; sposa del re Nino (Adad Nirari o Adad Ninari), fu dipinta quale donna sfrenata, lussuriosa e incestuosa (Iustin. Historiarum Philippicarum ex Trogo Pompeio Libri XLIV 1.1; August. C.D. 14.28; Paul. Oros. Historiarum adversus paganos libri septem 1.4). Regina di Assiria (Plu. De Is. et Osir. 360B e Amat. 753DE) o di Babilonia (Hdt. 1.184; 3.155), cui sono in vario modo attribuite la costruzione delle mura e dei giardini pensili babilonesi, la conquista di Media ed Etiopia, il progetto di conquistare l’India e la progressiva unificazione e pacificazione religiosa dell’impero (Hdt. 3.155; D.S. 2.4; Polyaen. Strateg. 3.4; Str. 16.1). Luca Antonio Ridolfi le dedicò una nota di commento, intitolata Semiramis, Saffo, Olimpia e Portia; cfr. Aulotte, Amyot et Plutarque, 74. Il primo capitolo dell’anonimo Tractatus De Mulieribus Claris in Bello (Westermann, ΠΑΡΑΔΟΞΟΓΡΑΦΟΙ, 213; Gera, Warrior Women, 6) tratta della figura di Semiramide, mentre nella quarta sezione della medesima opera (Westermann, ΠΑΡΑΔΟΞΟΓΡΑΦΟΙ, 214) ella è presa come termine di paragone per la regina babilonese Nitocris. Poi, all’interno del terzo capitolo del trattato (Westermann, ΠΑΡΑΔΟΞΟΓΡΑΦΟΙ, 214), si descrive la vicenda di un’altra regina d’Egitto di nome Nitocris, figlia di Psammetico I e “Divina Sposa Regnante” di Amon, vissuta tra il VII e il VI sec. a.C. Per la σύνεσις come intelligenza dell’azione cfr. Frazier, Histoire et Morale, 210–213. Per il φρόνημα come elevazione eroica di spirito cfr. Frazier, Histoire et Morale, 204–207.

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Accolgo la lezione riportata dalla maggioranza dei codici planudei (α, A e γ) e sostenuta da Stephanus, Xylander, Reiske, Wyttenbach, Bernardakis e Babbitt, in quanto conserva un ordito stilistico atto a variare la serrata successione donna/uomo in base a cui l’autore enumera alcuni celebri detentori di virtù vissuti nel passato. La lezione del codice E scelta da Dübner, Nachstädt e Ingenkamp mira, invece, a ristabilire la detta successione in un ordine di perfetta ed invariata corrispondenza di elementi maschili e femminili, banalizzando, di conseguenza, il testo tràdito. In accordo con Stephanus, Xylander e Reiske conservo il καινότητα attestato in quasi tutti i manoscritti che, conferendo una decisa connotazione di singolarità paradigmatica, valorizza ulteriormente l’intero riferimento ad una caratterizzazione rigorosamente esclusiva ed individuale della virtù. Tuttavia, il palese richiamo alla σύγκρισις ed al procedimento comparativo delle Vite Parallele, e dunque a pratiche che lasciano la possibilità di individuare elementi comuni e differenti tra i personaggi presi in oggetto, ha favorito anche letture diametralmente opposte. Ad esempio Bernardakis, seguito da Babbitt, Nachstädt ed Ingenkamp, scelse κοινότητα, congettura di J. Amyot (in seguito erroneamente attribuita a C.G. Bachet de Méziriac) che si appoggiava su una matrice comune o presunta somiglianza degli esemplari possessori di virtù elencati da Plutarco. Wyttenbach, indirizzato in maniera decisiva dall’usus scribendi del Cheronese (in particolare da Phoc. 3), accolse nel testo, con la successiva approvazione di Hutten e Dübner, la variante ὁμοιότητα, lectio singularis del codice δ probabilmente prodotto di reduplicazione, facendo leva soprattutto su un’uguaglianza intesa nel senso di affinità totale, e riproponendo, forse troppo a stretto giro, il termine (cfr. anche il passo di poco precedente Mul. Virt. 243B7). Per l’ἀνδρεία come “vertu de base” cfr. Frazier, Histoire et Morale, 197–199 e anche Becchi, Plutarco, La fortuna, passim. Per la δικαιοσύνη all’interno del corpus plutarcheo cfr. Frazier, Histoire et Morale, passim e anche Becchi, Plutarco, La fortuna, 176–178. La presenza di ἄν e l’attestazione della diatesi attiva del verbo ἐκβιάζω, (cfr. anche De def. or. 426E; Quaest. conv. 662A) ivi inteso con la sfumatura semantica transitiva di “escludere”, consentono di accettare ἐκβιάζωσι, lezione tràdita dai codici v ed E ed accolta da Xylander con il successivo consenso di Stephanus, Dübner, Reiske e Hutten. Le disuguaglianze, riscontrabili nei personaggi menzionati ed attribuibili alle peculiarità dei singoli, impediscono di determinare differenti tipologie di virtù, escludendo di conseguenza l’ἀρετή dalla sua connotazione generale. Nell’ambito di una protasi di periodo ipotetico misto indicante even-

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tualità generale, l’ἐκβιάζουσι riportato dai restanti manoscritti pare il prodotto di una corruzione dovuta a scambio tra ω ed il dittongo ου. Wyttenbach, addebitando unicamente alla “negligentia librariorum” la diatesi attiva di composti del verbo βιάζω, confortato da alcuni passi plutarchei (Quaest. conv. 732AB) e influenzato in maniera decisiva da un errore presente nel codice A (che in “Didymi ap. Stob. Cl. p. 557” al posto di ἐκβιβάζειν “perperam dat ἐκβιάζειν”; cfr. Wyttenbach, Animadversiones, 4), propose di emendare il testo con ἐκβιβάζωσι (cfr. De comm. not. 1083 C), reputato “unice verum … quamquam a nullo nostrorum librorum proditum”. Tale congettura, riproposta anche da Bernardakis, Babbitt, Nachstädt ed Ingenkamp, suggerisce di intervenire sul testo tràdito in base ad una concezione ristrettamente normativa ed analogica della lingua plutarchea. Non vi è ragione di modificare βεβαίοις βιβλίοις, lezione testimoniata concordemente dai codici, accolta da Xylander, Stephanus, Reiske, Hutten e Dübner, e che, in un contesto narrativo riferito all’indagine storica effettutata in vario modo da autori, cataloghi o altre fonti di episodi pubblici, allude all’utilizzo di validi testi di riferimento da parte di Clea. Risulta abilmente indirizzata la resa “ex receptis libris” di Cruserius, mentre pare forzata ed elusiva la traduzione di Xylander “in frequenti librorum lectione”; si rivela illuminante l’intuizione di Boulogne, che rilegge “pour les avoir leus és livres des anciens” di Amyot, vedendovi una chiara allusione a libri ἀξιοπίστοι e a “de solides lectures” realizzate su testi di affidabilità storica, contenutistica o concettuale garantita da validi auctores non meglio definiti. A partire da Wyttenbach, βεβαίοις è stato ritenuto un errore di dittografia “ex βιβλίοις ortum”, espunto dalle edizioni di Bernardakis ed Ingenkamp e corretto da Babbitt in βεβαίως, avverbio molto attestato nel lessico plutarcheo. Poi, dopo l’originale traduzione ad sensum dell’umanista Rinuccini, “ex aliorum libris”, Nachstädt ha proposto di emendare il passo in βεβαίαν ἄλλοις βιβλίοις, intervento forte e poco plausibile che deforma e devia il testo tràdito senza un motivo verosimilmente valido. Il concetto di βεβαιώτης in un contesto inerente alla ἱστορία ritorna in Quaest. conv. 675A nel significato di “auctor unde quid demonstratur”; D.A. Wyttenbach, Lexicon Plutarcheum I–II (Lipsiae: Kuehn, 1843) s.v.; cfr. anche Tanga, “Alamanno Rinuccini traduce”, 60–61. Erodoto parlava di sue numerose spedizioni, tra cui quella in Colchide. Gli furono attribuite la conquista di Etiopia e Scizia, la suddivisione dell’Egitto in distretti amministrativi e in un sistema di caste, e la paternità del re cieco Feron (cfr. Hdt. 2.102–111; D.S. 1.53–59 e Str. 15). Cfr. anche K. Sethe, Untersuchungen zur Geschichte und Altertumskunde Ägyptens (Leipzig: 1896). Inoltre, costruì la piramide di Dahshur e s’impossessò della Nubia.

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Fu identificato nel faraone della dodicesima dinastia Senwosret III (il cui nome regale era “Kakhaura”; regnò dal 1879 a.C. fino al 1846 a.C. circa), prototipo delle leggende elleniche che incarnava tutte le prerogative del sovrano saggio e fortunato, sul cui conto illumina una stele di Semna preso la seconda cataratta, che ricorda le espressioni adoperate da Erodoto per questo re; cfr. É. Drioton–J. Vandier, L’Égypte (Paris: 1962) 251–255; N. Grimal, Histoire de l’Egypte ancienne (Paris: 1988) 216–222; D.P. Silverman, Ancient Egypt (Oxford: 2003). Cfr. De fort. Rom. 322E–323D. Per la figura di Porcia cfr. soprattutto Plu. Cat. Ma. 25 e 63; Brut. 13; 14; 23 e 52 e Val. Max. 3.2.15 e 4.6.6. Per una rassegna delle fonti classiche che la menzionavano, a partire da Cicerone, Marziale, Appiano e Cassio Dione fino alla letteratura spagnola dei secoli XIV–XVII, cfr. Andrés Ferrer, “Porcia, un personaje”. Secondo Moormann–Uitterhoeve, proprio la fama del testo plutarcheo del Mulierum Virtutes contribuì in maniera rilevante alla fortuna del personaggio di Porcia nei secoli successivi; cfr. E.M. Moormann–W. Uitterhoeve, Miti e personaggi del mondo classico. Dizionario di storia, letteratura, arte, musica, ed. it. E. Tetamo (Milano: 2004) 615. Cfr. Brut. 13.2.6 e 53.4–5. Cfr. Le Corsu, Plutarque, 33–34; 53–56; 76; 116 e 252. Cfr. Pel. passim e Reg. et imp. apophth. 194CE. Cfr. Alex. 12; Con. praec. 145E11; Reg. et imp. apophth. 194CE e Mul. Virt. 259D–260D. Ridolfi scrisse una breve nota di commento intitolata Della prudenza grande di Timoclia. Cfr. anche Le Corsu, Plutarque, 191. Risulta notevole l’influsso delle teorie platoniche riguardo al ruolo e alle prerogative della φύσις nel raffronto uomo/donna. Cfr. Pl. R. 453ce; 454d– 455a e 455cd. I rimandi a Platone sono frequenti anche in Con. praec. 140D6; 141 F3 e 144F1. Metafora coloristico/pittorica talora adoperata da Plutarco. Cfr. Phoc. 3.5; Arat. 48.3; De aud. poet. 16. Cfr. anche Fuhrmann, Images de Plutarque, 163. Sul ruolo dell’abitudine nella formazione del carattere cfr. Pl. Lg. 792e; Plu. Phoc. 3.6–8 e De virt. mor. 443CD. Per Wyttenbach queste parole riecheggiano Galeno, Ippocrate, Aristotele e Cicerone (Wyttenbach, Animadversiones, 2). Per tale eroe omerico cfr. Quaest. conv. 740A. Riguardo alla φρόνησις di Odisseo cfr. anche Con. praec. 140F8. P.A. Stadter ha menzionato questo capoverso per esemplificare lo scopo morale delle Vite Parallele, spiegando anche come l’organizzazione distintiva in coppie per mezzo della giustapposizione di caratteri simili permet-

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tesse al lettore “to see how the virtues, neatly defined in the abstract, take on particular form in individuals. The subjects of the pairs are chosen because their qualities are the same”; Stadter, A Commentary on, XXVII. Cfr. anche H. Erbse, Die Bedeutung der Synkrisis in den Parallelbiographien Plutarchs, “Hermes” 84 (1956) 398–424; A. Wardman, Plutarch’s Lives (London: Elek, 1974) 234–244; Pelling, “Synkrisis”; F. Frazier, “À propos de la composition des couples dans les Vies parallèles de Plutarque”, RPh 61 (1987) 65–75; P. Desideri, “La formazione delle coppie nelle Vite plutarchee”, ANRW 2.33.6 (1992) 4470–4486. Cfr. Cat. Mi. passim. Agesilao era considerato un campione di δικαιοσύνη (che, invece, non sarebbe stata la virtù dominante di Agesilao, secondo Zierke) e di lealtà da Plutarco (Agesil. 15.4.3; 22–23 e 25; Reg. et imp. apophth. 190F–191D), mentre deteneva celeritas consilii, industria, pietas, modestia, abstinentia e patientia a detta di Nepote (cfr. Nep. Ag.); cfr. D.E. Zierke, “Agesilaos” (Diss., Frankfurt, 1936); P. Cartledge, Agesilaos and the Crisis of Sparta (Baltimore: 1987) passim. Le qualità principali di Agesilao, nel parere di Shipley, erano φιλοτιμία e πραότης; cfr. D.R. Shipley, A Commentary on Plutarch’s Life of Agesilaos. Response to Sources in the Presentation of Character (Oxford: Clarendon, 1997) 11–14. Hetaira di Tolomeo (fratello di Tolomeo Filadelfo), insieme al quale fuggì per dissidi con il padre; fu poi assassinata nel tempio di Artemide ad Efeso. Cfr. Athaen. 13.593ab. Cfr. anche H. Willrich, “Eirene”, R.E. V.2 (1905) 2134– 2135; Stadter, An analysis, 10. Stadter ha proposto di tradurre l’appellativo con Evadne, invece di Irene; P.A. Stadter, “Plutarque, Oeuvres Morales, t. IV, Conduites méritoires de femmes, texte établi et traduit par Jacques Boulogne, C.U.F., Paris, Les Belles Lettres, 2002”, Ploutarchos (n.s.) 2 (2004/2005) 159 (Book Review). L.A. Ridolfi compose una nota di commento intitolata Dell’amore d’Alceste verso il marito. Cfr. Plu. C.G. 19.1–3; T.G. 1.4–5 e Con. praec. 145E12. Cfr. anche P. Grimal, L’amour à Rome (Paris: 1963) 207–210; Le Corsu, Plutarque, 9–11; 114; 121– 122. Per la figura materna di Cornelia cfr. S. Medina Quintana, “Madres y maternidades en Plutarco. Una valoración de textos seleccionados”, in R.M. Cid López (ed.), Madres y maternidades. Construcciones culturales en la civilización clásica (Oviedo: KRK, 2009) 249–259. Ridolfi descrisse tale personaggio nella nota Di Cornelia donna magnanima et eloquentissima. Per Olimpiade, madre di Alessandro Magno, cfr. Alex. 10.4 e 39.4–5. Ridolfi dedicò una nota esegetica a Semiramis, Saffo, Olimpia e Portia; cfr. Aulotte, Amyot et Plutarque, 74.

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Per un’analisi della nozione di φρόνησις (anche come virtù ausiliaria della giustizia) e per l’evoluzione di tale concetto nell’arco della cultura greca, oltre che in Platone, Aristotele e Plutarco, cfr. Becchi, Plutarco, La fortuna, 171–177. Si tratta di una virtù teoretica applicata al mondo umano, che rappresenta una perfetta disposizione interiore e la qualità più divina appartenente all’uomo (De prof. in virt. 82F), il coronamento di ogni buona reputazione (De fort. 99C), fonte di tranquillità (De tranq. an. 466F–467A) e guida ordinatrice di tutte le arti (De virt. doc. 440B); cfr. anche F. Becchi, “La nozione di φρόνησις negli scritti postaristotelici di etica”, Prometheus 13 (1987) 37–46. Cfr. Pl. Men. 73bd. Per il concetto di δικαιοσύνη in Plutarco e nei filosofi antichi cfr. anche Becchi, Plutarco, La fortuna, 176–178. Riecheggiano le parole rivolte da Socrate a Menone. Cfr. Pl. Men. 72c– 74a e in particolare 72c6–8: Οὕτω δὴ καὶ περὶ τῶν ἀρετῶν· κἂν εἰ πολλαὶ καὶ παντοδαπαί εἰσιν, ἕν γέ τι εἶδος ταὐτὸν ἅπασαι ἔχουσι δι’ ὃ εἰσὶν ἀρεταί. Plutarco parafrasa (utilizzando una terminologia strettamente affine, se non identica) e ricontestualizza, nell’ambito di un opuscolo dedicato alla virtù femminile, il parallelo tra ἀνδρεία, φρόνησις e δικαιοσύνη già effettuato tra uomini celebri del passato (cfr. Phoc. 3), inserendovi anche i nominativi di donne famose. Più che di deliberata scelta selettiva plutarchea, Marasco ha parlato di vera e propria propensione per vicende poco note e storicamente marginali; Marasco, “Sul Mulierum virtutes”, 335. Rosenmeyer ha notato come l’enunciazione teorica plutarchea riguardante la comparazione di vite potesse contenere delle problematiche o risultare incompleta ma, dinnanzi alla consapevolezza e alle rassicurazioni fornite dall’autore in tal proposito, tali riserve sembrano recedere; cfr. T.G. Rosenmeyer, “Beginnings in Plutarch’s Lives”, YCS 29 (1992) 209. Oltre ai testi celebri di poeti, storici e filosofi contemplati in versione integrale o compendiaria nell’institutio scolastica e nelle letture colte dell’epoca, Plutarco faceva probabilmente riferimento a cataloghi o antologie preesistenti, realizzati da compilatori tuttora non identificabili per via del materiale accumulato in maniera schematica e acritica. Allo scopo di arricchire ed integrare tali florilegi nelle disponibilità di Clea, il Cheronese, aduso a lavori di ricatalogazione, rielaborazione e revisione di elementi di natura storica ed eziologica raccolti anche durante la composizione delle Vite Parallele, nel tentativo di ovviare all’incompletezza e ripetitività della letteratura catalogica in suo possesso, ha dato vita per fini filosofico-moralistici ad un’ulteriore συναγωγή che risulta, per alcuni versi, partecipe delle carenze progettuali e strutturali rintracciabili nelle

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collezioni o raccolte di donne celebri e virtuose. Cfr. anche Hartman, De Plutarco scriptore, 127; Ziegler, Plutarco, 272–273; Gera, Warrior Women, 35–37. Resta da definire il criterio inclusivo adottato per la distinzione delle vicende ἄγαν περιβόητα dagli episodi ἀκοῆς ἄξια selezionati ed inseriti nell’opuscolo. Plutarco presenta l’opera come espressione di utilitas et dignitas audiendi contrapposta alla voluptas audiendi menzionata a 243A2 e crea un’antinomia retorica realizzata tra la dignitas della parola e dell’ascolto in costruzione chiastica con ἄξια λόγου a 243E1. Sulla provenienza e composizione del materiale storico adoperato da Plutarco cfr. anche Dem. 2.1. Per la raccolta di materiale con la finalità di combattere l’ignoranza cfr. Phil. Apoll. 1.2–3. T. Duff ha parlato di “wellpublicized tales” tralasciati all’interno del piano programmatico complessivo dell’autore; cfr. Duff, Plutarch’s Lives, 23 e nota 32. Cfr. Nic. 1 e Dem. 2. Cfr. anche Duff, Plutarch’s Lives, 13–51. La struttura dell’opuscolo sarebbe bipartita secondo alcuni (hanno riconosciuto atti di virtù individuale e atti di virtù collettiva Ricard, Œuvres Morales; Dinse, De libello Plutarchi, 5; Ziegler, Plutarco, 264; O’Brien Wicker, “Mulierum Virtutes”, 107; E. Valgiglio, “Dagli Ethicà ai Bioi in Plutarco”, ANRW 2.33.6 (1992) 3975; Gera, Warrior Women, 36; Benefiel, “Teaching by Example”, 13; Dettenhofer, “Frauenbilder”, 417–435; Ruiz Montero–Jiménez, “Mulierum Virtutes”, 105–108), tripartita secondo altri (hanno parlato di atti di virtù individuale, atti di virtù in coppia e atti di virtù collettiva López Salvá–Medel, Plutarco. Obras morales, 261; Aguilar, “La mujer, el amor”, 321; García Valdés, “Plutarco uersus Tucídides”, 306), bipartita con due episodi di cesura secondo altri ancora (Stadter, An analysis, 80–84 e Boulogne, Plutarque, 19); in realtà le incongruenze distributive dell’autore, aldilà della simmetria dicotomica e delle graduali differenze formali nella diegesi, nella complessità narrativa e nella titolazione in gentilizi e nomi propri (individuate da Ruiz Montero–Jiménez, “Mulierum Virtutes”, 105– 108), tradiscono una mancata revisione strutturale attribuibile all’assenza di un vero progetto di impianto definitivo, a una catalogazione approssimativa o temporanea degli episodi καὶ κοινῇ καὶ ἰδίᾳ (cfr. Mul. Virt. 243D7), o forse a un graduale mutamento di intenti che, tuttavia, non confuta l’impostazione teorica generale dell’opuscolo; cfr. Tanga, “Mulierum Virtutes: atti di virtù”, 83–96. Questa storia è l’emblema di una costante rielaborazione stilistica e narrativa che, sviluppata in virtù dell’aderenza a una particolare versione dei fatti, si impegna ad adattare il materiale di volta in volta alle esigenze dei singoli scritti, dietro la spinta di una cultura totale che adopera la storia al

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fine di reperire esempi e idee utili, col tramite della filosofia, alla lettura della realtà. Cfr. anche Marasco, “Sul Mulierum virtutes”, 345. In questo episodio l’intervento femminile si mostra oltremodo lungimirante perché gli uomini, dopo il soggiorno nel Lazio, avendo ancora a disposizione le navi, avrebbero molto probabilmente potuto continuare a navigare, pur essendo inesperti del mare e della navigazione, ed esporsi di conseguenza a nuovi e forse più grossi pericoli. Secondo Aristotele (Quaest. rom. 265BC), dopo che gli Achei avevano deciso di trascorrere l’inverno nel Lazio per poter poi ripartire con la buona stagione, le donne avrebbero approfittato della notte per appiccare il fuoco alle navi, mentre nella testimonianza di Plutarco l’incendio sarebbe stato provocato subito dopo l’arrivo, probabilmente di giorno. In merito, cfr. anche Marasco, “Sul Mulierum virtutes”, 340. Si tratta di un vocabolo adoperato nel lessico plutarcheo per esprimere contrasto con la terraferma; cfr. Quaest. rom. 276C7 e Quaest. conv. 743F2. Inoltre, con Stephanus conservo il tràdito ἐν τῇ πάσῃ πλάνῃ καὶ ναυτιλίᾳ (cfr. τῆς πλάνης δεόμεναι καὶ τῆς θαλάττης presente in Quaest. rom. 265C), in quanto attribuisce ad ἐν un valore temporale che connota in maniera precipua πλάνῃ καὶ ναυτιλίᾳ, evidenziando la lunga durata di vagabondaggio e navigazione senza l’obbligo di individuare un secondo termine di paragone sotteso e correlato al successivo ἀμείνων ἐστί. Xylander, avendo rinvenuto un γ sovrascritto al τῇ all’interno di un manoscritto del Mul. Virt. in suo possesso (“lego γῇ pro τῇ id in scripto supra, notatum reperi, lege etiam ex eodem πλάνης καὶ ναυτιλίας”; cfr. Xylander, Plutarchi Chaeronensis), propose di emendare in ἐν γῇ πάσῃ πλάνης καὶ ναυτιλίας, intervento di natura duplice, successivamente accolto anche da Reiske ed Hutten, che intendeva piegare il testo ad una lettura normalizzante formulata a margine di qualche postillato cinquecentesco o manoscritto deteriore consultati all’epoca nel fondo della stamperia Episcopiana di Basilea (cfr. Irigoin, “Histoire du texte”, CCXCV–CCXCVI; Martinelli Tempesta, Studi sulla tradizione, 166). Sempre nella direzione di riconoscere la necessità di una dimora sulla terraferma da contrapporre al vagabondaggio per mare, Wyttenbach, avendo apprezzato nelle Animadversiones la correzione di Xylander (“Xylander bene corrigendum monuit”; Wyttenbach, Animadversiones, 4), nelle note alla propria edizione critica ivi identificò un “locus male habitus a librariis”, emendandolo con ἐν γῇ πάσῃ πλάνῃ καὶ ναυτιλίᾳ. Poi Dübner, seguito da Bernardakis, Babbitt, Nachstädt ed Ingenkamp, ha pubblicato ἐν γῇ πάσης πλάνης καὶ ναυτιλίας scegliendo di rifunzionalizzare ἐν in maniera locativa e di allineare πάσῃ ad una comparazione forzata. Nel contesto di un approdo temporaneo dopo navigazioni pro-

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lungate e reiterate, risulta pleonastica e banalizzante la precisazione ἐν γῇ riferita ad una dimora di cui i reduci troiani erano da tempo privi. I codici leggono concordi δέ, lezione accolta da Stephanus, Wyttenbach e Boulogne che ripristina la correlazione logico-consequenziale delle proposizioni e ristabilisce una corretta dinamica antitetica ed ipotattica tra la propensione al vagabondaggio degli uomini troiani, che αὐτοὶ μὲν ἐπλανῶντο περὶ τὴν χώραν, e le donne, che ragionavano in una più lungimirante ottica stanziale auspicando di πατρίδα δὲ ποιεῖν αὐτούς. Invece la traduzione latina patriamque eam esse faciendam e il δεῖ, congetturato dallo stesso Xylander e riproposto dalla quasi totalità degli editori successivi, interpretano il testo caricandolo di un’ulteriore e quasi ridondante percezione di necessità, che finisce per appensantire la trama sintattica dipendente da ἀμείνων ἐστί. Il testo non richiede l’inversione proposta da Dinse ed accolta da Nachstädt e Boulogne, atta precipuamente a normalizzare per analogia la correlazione con il successivo τὰς δέ. Non sembra plausibile nemmeno il segno di interpunzione, inserito da Stephanus (e accolto da Reiske, Wyttenbach, Hutten e Dübner) per creare una pausa sintattica contestuale alla distinzione dell’elemento di nazionalità focese dal resto della popolazione coinvolta nel conflitto, ma isolando di conseguenza αὐτούς in una funzione pronominale quasi pleonastica. In questo caso soltanto la lezione dei manoscritti, preferita da Xylander, Bernardakis ed Ingenkamp, mantiene la correlazione instaurata da Plutarco tra τοὺς Φωκεῖς μὲν αὐτούς e τὰς δὲ γυναῖκας, che rimarca una distinzione/opposizione di ruoli maschili e femminili facendo assumere al primo elemento una valenza determinativa intensiva, attribuibile all’esclusiva pertinenza del campo bellico, come già parzialmente intuito dalla traduzione “leur persuada, que tous ceulx qui seroint en age de porter armes allassent au devant des Thessaliens” di Amyot, contrapposta alla totale passività di donne e bambini quali oggetto di vendette e ritorsioni da parte del nemico vincitore. Il λογισμός femminile rappresenta un preciso e giusto ragionamento in cui le donne si dimostrano superiori agli uomini per lungimiranza e coraggio, determinando con la loro azione, non condizionata da una semplice stanchezza fisica per il viaggio, l’origine stessa della civiltà romana. Tale riflessione sarebbe stata assente nei racconti di Aristotele, Ellanico e Damaste, rendendo unica la versione dei fatti narrata da Plutarco ad elogio delle donne; cfr. anche Marasco, “Sul Mulierum virtutes”, 340–341. Wyttenbach (Wyttenbach, Animadversiones, 4), osservando che “εὖ τε καὶ καλῶς non satis cum senso loci congruit, qui potius εὐτελῶς, vel οὐ καλῶς

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postulat”, propose di tradurre il passo “hominibus tenui fortuna utentibus, in re tenui versantibus”. Il motivo della stanchezza del viaggio e il desiderio di porre fine alle peregrinazioni, ricorrenti anche in Ellanico di Lesbo e Damaste di Sigeo, come riferito da Dionigi (1.72.2 = FGrHist 4 F 84 = 5 F 3), hanno fatto pensare a Marasco che la versione dell’incendio delle navi fosse ascrivibile a quei due autori, piuttosto che ad Aristotele, da cui Plutarco traeva notizie in merito allo ius osculi; Marasco, “Sul Mulierum virtutes”, 339–341. Cfr. anche A. Alföldi, Die trojanischen Vrahnen der Römer (Basilea: 1957) 9–11; S. Mazzarino, Il pensiero storico classico II (Bari: 1983) 203–207. Il motivo della donna che agisce in favore della patria è presente nell’episodio di Coriolano (Liv. 2.40), nella vicenda di Veturia, Volumnia e delle matrone romane, e nel ratto delle Sabine (Liv. 1.11), in cui si distinse la condotta di Ersilia, moglie di Romolo, e delle Sabine rapite. Fin dall’episodio di Aithia (nomen loquens da αἴθω, “brucio”; cfr. anche la figura di Aithilla in Apollod. Epit. 6.15c), sorella di Priamo, che al ritorno da Ilio, sbarcata in Calcidica, incitò le altre prigioniere troiane ad incendiare la flotta achea per stabilirsi nella penisola di Flegra/Pallene (Polyaen. Strateg. 7.47), il rogo delle navi rappresenta un τόπος utilizzato anche nel contesto dei racconti di fondazioni di città quali Crotone (Str. 7.262), Pisa (Serv. Ad Aen. 10.179), Gaeta (Auct. de orig. 9.2.10) e Skione (St.Byz. s.v.; Str. 7 fr. 25 e 27; Polyaen. Strateg. 7.47) e nelle zone del Lazio, della Daunia e della Sicilia; cfr. F. Cauer, De fabulis graecis ad Romam conditam pertinentibus (Berlin: 1884) 468–471; J. Bérard, La Magna Graecia (Torino: 1963) 352; 374. Se da un lato è indiscutibile l’influsso di leggende eroiche sulla creazione di miti fondativi basati sull’antico motivo letterario dell’incendio di vascelli, d’altra parte l’esclusione aprioristica di qualsiasi tipo di riscontro locale è la naturale conseguenza dell’applicazione di anacronistiche sovrastrutture di natura razionalistica ad un patrimonio di matrice etno-antropologica, prodotto spesso dalla stratificazione di culture e tradizioni secolari alla cui formazione hanno concorso i fattori più disparati; cfr. J. Perret, Les origins de la légend de l’origine troyenne de Rome (Paris: 1942) 396–399; 401. Boulogne ha attribuito esclusivamente alla fantasia dei mitografi l’utilizzo dell’episodio del rogo delle navi per creare ex novo delle leggende di fondazione eroica. Cfr. anche U. Höfer, Konon (Griefswald: 1890) 62–63; Boulogne, Plutarque, 280; L. Antonelli, Traffici focei di età arcaica. Dalla scoperta dell’Occidente alla battaglia del mare Sardonio (Roma: 2008) 114–115. Le notizie riguardanti questa donna sono molteplici, confuse e discordanti: si tratterebbe di una prigioniera troiana (o di una donna di ori-

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gine frigia), o della figlia di Telefo, che accompagnò Enea (cfr. Plu. Rom. 2) ed Ulisse sulle sponde del Tevere (D.H. Ant. Rom. 1.72.5); della figlia di Evandro o Italo; della madre di Romolo e Remo (opinione di Callia apud D.H. Ant. Rom. 1.72.5) o di Telegono; di una indovina che consigliò ad Evandro di scegliere il colle Palatino per fondare Pallantione quale primo nucleo abitativo della città di Roma (cfr. Plu. Rom. 2) o della nipote di Enea andata in sposa a Latino; cfr. anche J. Bayet, Idéologie et plastique (Roma: 1974) 81. Il valore eponimo di questo personaggio, cui la communis opinio tributava una generica origine troiana nell’ambito della mitologia fondativa dell’Urbe (cfr. St.Byz. s.v. Σήταια), e il cui appellativo richiama la ῥώμη esercitata sul campo in circostanze di difficoltà, tradisce la creazione ex post di una figura leggendaria femminile (che emerge dalla folla, contrariamente alla versione di Aristotele richiamata in Quaest. rom. 265BC). In merito all’individuazione della figura di una leader nel raggruppamento di atti di virtù effettuati κοινῇ, come dichiarato da Plutarco a 243D7, cronologicamente collocata in un’indefinita quanto lontana fase arcaica pre-monarchica, cfr. Tanga, “Mulierum Virtutes: atti di virtù”, 83–96. Appunto sul nomen loquens Ῥώμη, fin dall’età tardo-repubblicana/alto-imperiale, si sarebbero per convenzione (come testimonierebbe l’espressione ὥς φασι, presente a 243F2) fatte convergere, forse anche in un contesto culturale di rivalutazione della dignitas femminile, spiccate attitudini al comando ed al coraggio quale sintomo originario di una società geneticamente votata alla guerra di espansione. A. Palmucci ha parlato di una confusione generatasi tra nomenclatura d’ambiente calabro e laziale e di un parallelo di Ῥώμη con Astioche; cfr. A. Palmucci, “Virgilio e gli Etruschi. Il ruolo degli Etruschi e della città di Corito-Tarquinia nell’Eneide (risvolti scolastici)”, Aufidus 24 (1994) 125– 150. Per un’identificazione di Ῥώμη in riferimento alle fonti letterarie e per gli utilizzi e le finalità della varietà di versioni discordanti esistenti sulla sua origine e provenienza, cfr. anche Perret, Les origins, 396–408; Alföldi, Die trojanischen (che ha anche individuato la ricorrenza della figura di Ῥώμη fin dall’iconografia monetaria di II sec. a.C.), Stadter, An analysis, 30–34; Boulogne, Plutarque, 280. Per la tradizione dell’arcadismo romano cfr. J. Poucet, Les origines de Rome. Tradition et histoire (Bruxelles: 1985) 187. Per la posizione dell’appellativo Ῥώμη all’interno della lista delle Etymologien Lateinischer Wörter redatta da A. Strobach quale appendice ad uno studio sulla lingua di Plutarco, cfr. Strobach, Plutarch und die, 199. In merito a questa usanza cfr. Plb. 6.2.6 = Ath. 10.440EF; Plu. Quaest. rom. 265BC. Cfr. anche K. Schneider, “Ius osculi”, R.E. X.2 (1919) 1284–1285;

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H.J. Rose, The Roman Questions of Plutarch (Oxford: Clarendon, 1924) 106– 108. Per un’analisi di carattere tecnico-giuridico ed antiquario, provvista di una panoramica sugli studi e sulle fonti inerenti alle differenti utilizzazioni, interpretazioni e implicazioni familiari e sociali dello ius osculi cfr. C. Fayer, La familia romana: aspetti giuridici ed antiquari (Roma: 1994) 394–395. Questa è la prima usanza menzionata da Plutarco, il cui interesse eziologico rappresenta in quest’opera un elemento di natura ornamentale affine al gusto letterario alessandrino, piuttosto che un metodo sistematico di indagine finalizzata alla didattica (come sostenuto da R. Benefiel; cfr. Benefiel, “Teaching by Example”, 11–20). Questa vicenda è narrata anche in Quaest. rom. 265BC (dove non si riesce a comprendere lo status delle donne troiane) e in Rom. 2 (dove si parla di fuggitivi troiani), richiamando probabilmente una testimonianza di Aristotele (le cui πολιτείαι Plutarco aveva letto con piacere; cfr. Non posse 1093C. Il Cheronese citava Aristotele come fonte per la storia romana anche in Camill. 22.4) forse tratta da un passo dei Barbarika Nomima (come ipotizzato da Stadter; cfr. Stadter, An analysis, 31–33). Tuttavia la versione dello Stagirita (riportata da D.H. Ant. Rom. 1.72.3–4 = fr. 609 Rose) parla di prigioniere troiane (e non di fuggitive nello status di donne libere) condotte dagli Achei nel Lazio, prive di leader nella rivolta, e restìe a tornare da schiave in Ellade, così come il racconto di Eraclide Lembo (tràdito in Fest. s.v. Romam, p. 329 Lindsay. La versione di Eraclide è riportata in maniera meno particolareggiata da Serv. Ad Aen. 1.273 e Solin. Collectanea 1.2), ricalcando similmente la fonte aristotelica (Eraclide Lembo epitomò πολιτείαι e Νόμιμα aristotelici in excerpta spesso inerenti al mondo femminile; cfr. Arist. fr. 611.44 Rose), riferisce di schiave troiane che si ribellarono, in quanto stanche delle tante e lunghe peregrinazioni, ma menzionando la figura eminente di Ῥώμη. In riferimento ai Tirreni, cfr. M. Polito, Dagli scritti di Eraclide sulle Costituzioni: un commento storico (Napoli: 2001) 136–137. In riferimento ai Traci, cfr. Arist. fr. 611.58 Rose; Polito, Dagli scritti di Eraclide, 165–166. Cfr. anche H. Bloch, “Heracleides Lembos and his Epitome of Aristotle’s Politeiai”, Transactions and Proceedings of the American Philological Association 71 (1940) 37. Pare verosimile che Plutarco, per adattare il racconto di volta in volta al contesto (quello eziologico dello ius osculi nelle Quaestiones Romanae e quello etico relativo alla virtù femminile nel Mulierum Virtutes. Lo scopo di ampliare ed arricchire il contenuto della fonte all’interno di una tardiva rielaborazione di una quantità di materiale erudito a disposizione dell’autore, ipotizzato in Boulogne, Plutarque, 279–280, sussiste solo parzialmente a causa di differenti ambiti e

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finalità storico-letterarie di realizzazione) narrativo, abbia citato a memoria ed in maniera imprecisa la fonte aristotelica (fruita tramite Eraclide Lembo) in questione e modificando, a seconda dell’occasione, lo status delle Troiane, la nazionalità degli uomini in loro compagnia e le finalità del rogo navale perpetrato, forse anche subendo l’influenza dei miti fondativi romani all’epoca più in voga, che propendevano in maggioranza (come Virgilio o Livio, nonostante i dubbi espressi in Str. 6.264 e Tac. Ann. 12.58. Cfr. anche Perret, Les origins) per l’origine troiana della stirpe latina. In proposito, cfr. anche Marasco, “Sul Mulierum virtutes”, 339–340. D’altra parte la presenza, nella storia dedicata alle Τρῳάδες, di particolari narrativi (quali l’inesperienza nella navigazione, il λογισμός delle donne, la volontà di ricostituire la patria perduta) non tràditi da Dionigi e Festo, e dunque non ascrivibili ad Aristotele, non esclude la possibilità che Plutarco (come riferito in Rom. 2, quando parla di “altre fonti/altri raccontano”) oltre ad aver potuto romanzare un po’ il racconto aristotelico, avesse potuto consultare qualche altra fonte parallela o simile al testo sunteggiato da Eraclide Lembo. Ellanico (FGrHist 4 F 84), invece, parlava di Troiane libere venute nel Lazio in compagnia di Enea ed Odisseo, mentre risulta difficile stabilire con precisione in quale misura Tzetze, che riferiva di Ῥώμη quale prigioniera troiana degli Achei citando come fonte Plutarco (cfr. ad Lyc. 921), abbia confuso le varie versioni del testo aristotelico tràdite dal Cheronese e da altri autori. 100 Su questi fatti cfr. Plb. 16.32.1–2; Paus. 10.1.6–7 e Polyaen. Strateg. 8.65. Stadter, malgrado Plutarco affermasse che queste vicende non erano state trattate da alcuno scrittore celebre in precedenza, ritiene “not unreasonable” considerare Eforo la fonte di questo episodio “in view of his propensity to enlarge upon Herodotean notices” (Stadter, An analysis, 37–38). In riferimento all’originalità degli eventi narrati in questo opuscolo e all’omissione di alcuni importanti vicende da parte degli storici precedenti cfr. anche τὰ μὲν οὖν ἄγαν περιβόητα … παρήσω (Mul. Virt. 243D4–6); Τούτου δ᾿ οὐδέν τι λειπόμενον ἔργον ἀρετῇ … (Mul. Virt. 245B1–2) e l’incipit della storia 4, Οὐδενὸς δ᾿ ἧττον ἔνδοξόν ἐστι … (Mul. Virt. 245C5). 101 Città vicina ad Elatea, incendiata da Serse e rasa al suolo da Filippo. Odierno sito di Kalapodi, di importanza strategica poiché situato all’ingresso della Focide, che ha rivestito un’importanza fondamentale come luogo regionale di culto e per l’autodeterminazione identitaria dei Focesi. Le celebrazioni ivi tenute erano di certo di origine più antica e di natura differente rispetto a quelle menzionate da Plutarco; J. Larson, Ancient Greek Cults: A Guide (Oxford/New York: Routledge, 2007) 103–104; 214 nota 6.

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102 L’episodio specifico relativo al decreto delle donne focesi (che accettarono di comune accordo la prospettiva di essere uccise e bruciate su una pira qualora i mariti avessero perso la battaglia decisiva contro i Tessali, per giunta insignendo in via ufficiale il proponente questa decisione con una corona al merito) è narrato soltanto da Plutarco, quale prodotto di indagine personale in loco e compiuta sulle fonti e tradizioni locali, e come contributo congeniale alla virtù delle donne celebrata nell’opuscolo. M. Sordi, invece, considerando l’omissione di questo particolare evento nei racconti di Polibio e Pausania (ed essendo quest’ultimo, peraltro, molto sensibile alle tradizioni locali), riteneva la storia 2 del Mulierum Virtutes una narrazione romanzata basata sul proverbio dell’ Ἀπόνοια Φωκική (o Ἀπόνοια Φωκέων); cfr. M. Sordi, “La guerra tessalofocese del V secolo”, Rivista di Filologia Classica (n.s.) 31 (1953) 235–258; J.A.O. Larsen, “A new Interpretation of the Thessalian Confederacy”, CPh 55 (1960) 229–248 e, in particolare, 232–234. H. Von Gaertringen suggerì Eforo come fonte di questa storia del Mulierum Virtutes: cfr. H. Von Gaertringen, “Daïphantos”, R.E. IV.2 (1901) 2012–2013. I sacrifici compiuti a Iampoli ed alcuni antichi decreti, forse uniti a qualche iscrizione (IG IX, 90) o stele commemorativa visionata (alcuni studi hanno attestato a Trezene, Platea e Cirene la presenza di steli commemorative erette a celebrazione di “great events in a city’s history”; cfr. Stadter, An analysis, 39 nota 30), a notizie riferite da un amico originario di quei luoghi che si dichiarava discendente di Daifanto (cfr. De sera numinis vindicta 558A; Theander, “Plutarch und die”, 31), o alla partecipazione in prima persona a dette celebrazioni di cui era ben a conoscenza (cfr. Quaest. conv. 660D e Non posse 1099EF) potrebbero aver suggerito a Plutarco, che fu a Iampoli (oltre che a Delfi ed in Elide; cfr. Barrow, Plutarch and, 36–42) per assistere a festival religiosi, i dettagli di questo decreto femminile. Proprio un mix di indagini ed amicizie, insieme all’osservazione personale e alla sensibilità alla tradizione storiografica locale (anche se Jacoby dubitava dell’esistenza di un’opera storiografica sulla Focide; FGrHist 3 b, p. 423 e Stadter, An analysis, 37–39) avrebbe costituito la fonte di questi fatti, narrati nel Mul. Virt. ma sfuggiti all’attenzione di Pausania e Polibio. Per la competizione delle donne indiane allo scopo di essere bruciate sulla stessa pira del marito cfr. Plu. An vitiositas ad infelicitatem sufficiat 498C. 103 Per un’esposizione dettagliata degli eventi bellici e di virtù femminile esposti nella storia 4 del Mul. Virt. Plutarco rimanda alla sua Vita di Daifanto, presente nel Catalogo di Lampria al n. 38 e riassunta da Sopatro (Phot. Bibl. cod. 161, p. 104b Bekker). Quest’opera, ove si realizzavano la

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consuetudine e la familiarità di Plutarco con il territorio e le tradizioni della Focide, probabilmente conteneva una narrazione ampia e documentata della lunga guerra tessalo-focese, conflitto ivi soltanto accennato o trattato riassuntivamente per sommi capi o per episodi clou. Il fatto conferma la composizione del Mulierum Virtutes quale parziale riproposizione e rivisitazione di materiale storico già indagato nel corso dell’elaborazione delle Vite Parallele (cfr. Stadter, An analysis, passim). 104 Date le discordanze narrative ed il differente focus selettivo degli eventi presenti in Erodoto 8.27.2 e Pausania 10.1.3 (uniti alla equivoca testimonianza di Eschine 2.140), resta ancora da stabilire la precisa successione degli scontri, da ricondurre probabilmente ad un solo conflitto tra Tessali e Focesi, protrattosi per molti anni e con vicende alterne. Brelich parlò di questo conflitto come di una guerra rituale; cfr. A. Brelich, Guerre, agoni e culti nella Grecia arcaica (Bonn: 1961) 46–52. Plutarco parla di un attacco dei Tessali alla Focide, scatenato da una rivolta focese contro i tiranni che i Tessali sostenevano nelle città della Focide. Busolt, Beloch e Schober, seguiti con qualche riserva o modifica da Meyer (che parlava di più attacchi portati dai Tessali ai Focesi) e Sordi (che modificò la datazione erodotea del conflitto), pensarono a figure di tiranni e magistrati che i Tessali avevano stabilito, o perlomeno supportato, nelle città della Focide; cfr. K.J. Beloch, Griechische Geschichte I.1 (Strassburg: 1854– 1929) 339; G. Busolt, Griechische Geschichte I.1 (Gotha: 1893) 699; E. Meyer, Geschichte des Altertums III (Stuttgart: 1937) 266; 708; F. Schober, “Phokis”, R.E. XX.1 (1941) 482–483; Sordi, “La guerra tessalo-focese”, 253–258. Secondo Wyttenbach (“hoc bellum … paucis annis ante Xerxis bellum fuisse”; Wyttenbach, Animadversiones, 5) e Stadter (Stadter, An analysis, 40), gli eventi bellici intercorsi tra Tessali e Focesi sono collocabili poco prima dell’invasione di Serse. Larsen (cfr. Larsen, “A new Interpretation”, 229–246) pensò a tre conflitti successivi tra Tessali e Focesi avvenuti a Iampoli, di cui: il primo fu menzionato da Erodoto (8.28), Polibio (6.18.2) e Pausania (10.1.3), il secondo richiamato da Polibio (16.32.12), Plutarco (Mul. Virt. 2) e Pausania (10.1.6–7) ed avvenuto nel 510 a.C. circa, e il terzo raccontato da Erodoto (8.27) e Pausania (10.1.11) e verificatosi nello stesso arco temporale. I Tessali ebbero la peggio in tutte e tre le battaglie. 105 Eschine, come altri oratori attici notoriamente poco accurati nel riferire episodi della storia ateniese (Stadter, An analysis, 37), parlava della rivalità tessalo-focese (Aesch. 2.140) ricordando come i Tessali avessero bastonato a morte i prigionieri focesi (qui invece sono i Focesi a massacrare tutti i magistrati e tiranni tessali presenti nelle proprie città). Per riferire que-

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sto episodio, Eschine adoperava il piuttosto raro termine καταλοᾶν, verbo derivante probabilmente da una qualche fonte comune anche a Plutarco, che non indicava una semplice uccisione ma una bastonatura a sangue (Phot. Lexicon s.v.; Wyttenbach, sulla scorta di Heracl. Pont. = Ath. 12.524A e di Clearch. = Ath. 541D affermava “certe origo vocis significat caedem quasi triturando confectam”, così come LSJ s.v. traduce il verbo con crush in piece). Antica regione della Grecia centrale, la Locride orientale si estendeva a sud-est della Tessaglia e a nord-est della Focide. Il passaggio di Iampoli, di facile accesso per bagagli e cavalleria, era il percorso naturale più adatto e conveniente per qualsiasi spedizione o invasione tessala verso il meridione e la regione della Focide; per tale motivo si narra di diverse battaglie avvenute in queste zone; cfr. Larsen, “A new Interpretation”, 233–234; Stadter, An analysis, 40. Gli altri due erano Ῥοῖος Ἀβρωσσεύς e, probabilmente, il divino Τελλίας ὁ Ἠλεῖος, che ricopriva una posizione molto importante tra i magistrati (cfr. Hdt. 8.27–28; Paus. 10.1.8) pur non essendo molto probabilmente un generale stricto sensu. Stadter (Stadter, An analysis, 35) reputava “noteworthy” la posizione del veggente di Elea tra i leaders focesi, mentre Larsen (Larsen, “A new Interpretation”, 234) notava come la presenza di Tellia fosse un importante elemento per la datazione della battaglia poco prima della guerra contro i Persiani (cfr. anche Hdt. 8.27.2). Cfr. anche De sera numinis vindicta 558AB; Non posse 1099EF; Von Gaertringen, “Daïphantos”, 2012–2013. Boulogne (Boulogne, Plutarque, 282) ha ritenuto un’esagerazione l’accumulo di donne e bambini da tutta quanta la Focide, in quanto solo gli abitanti delle comunità vicine a Iampoli erano coinvolti in tale vicenda bellica; i cittadini del resto della Focide, come avvenuto anche in altri conflitti (Larsen, “A new Interpretation”, 229–248), avevano il tempo di rifugiarsi sul Parnaso. Cfr. anche Hdt. 2.107; 6.80. Cfr. l’audacia di Archidamia (episodio di probabile origine filarchea; Marasco, “Sul Mulierum virtutes”, 343) e delle spartane nel rifiutarsi di lasciare la città sotto l’attacco di Pirro in Pyrrh. 27.4. La delibera dei ragazzini, di cui parla anche Polieno (Strateg. 8.65), rientra nei dettagli narrativi frutto di erudizione o ricerche personali di Plutarco. A prima vista sembra trattarsi del prodotto o relitto di una tradizione di stampo focese atta ad elogiare la predisposizione al sacrificio e l’audacia di soggetti non preposti al combattimento, quali donne e bambini della Focide. In merito all’attendibilità storica di questa notizia, Stadter

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esprime delle riserve (Stadter, An analysis, 39) facendo notare come l’utilizzo di φασίν suggerisce che Plutarco “felt less confidence in his authority for this element”. 113 La parola d’ordine durante questa battaglia era stata “Phokos”. Cfr. Paus. 10.1.10; G. Daverio, “Strutture urbane e centralismo politico nel koinon focese”, in L. Aigner Foresti–A. Barzano–C. Bearzot–L. Prandi–G. Zecchini (eds.), Federazioni e federalismo nell’Europa antica, Atti del Convegno, Bergamo, 21–25 settembre 1992 (Milano: 1994) 188–189. 114 Espressione divenuta in seguito proverbiale (cfr. Paus. 10.1.3–11: ἀντὶ τούτου μὲν ἄπαντα τὰ ἀνάλγητα βουλεύματα ἀπόνοια ὑπὸ Ἑλλήνων ὀνομάζεται Φωκική), indicava la volontà e la decisione di sottrarre al nemico, in caso di sconfitta in battaglia, il possesso di mogli e figli dei combattenti deceduti; un tale gesto di estrema audacia ed orgoglio esprimeva, in spregio alla vita, un’indomita vocazione al combattimento per libertà ed indipendenza (cfr. St.Byz. ἐστὶ γὰρ παροιμία, Φωκικὴ ἀπόνοια, ἐπὶ τῶν τὰ ἀναλγῆ βουλευομένων). Risoluzioni di tal genere furono adottate dagli abitanti di Abido assediati da Filippo (Plb. 16.29–35 e, in particolare, 16.30–32), dai cittadini di Acarnania contro gli Etoli (Plb. 9.40.4–6; cfr. anche Liv. 26.25.11–14), dalla popolazione di Xanto contro Arpago (Hdt. 1.176), poi contro Alessandro e infine contro Bruto (App. B.C. 4.76–80), e dagli abitanti di Astapa dopo la caduta della città durante la II guerra punica (Liv. 28.22–23). 115 Si tratta molto probabilmente delle Lafrie, le più importanti celebrazioni tenute a Iampoli in onore di Artemide e svolte nel mese corrispondente all’attico Elafebolione, quando si sacrificava alla dea un cervo, simboleggiato da un dolce, in memoria dei sacrifici umani offerti nell’epoca primitiva; cfr. M.P. Nilsson, Griechische Feste von religioser Bedeutung (Leipzig: 1906) 221–225. Tale culto, attestato continuativamente dal tardo-Miceneo fin al periodo Geometrico, commemorava, oltre alla salvezza dalla guerra, la prerogativa artemidea del predominio sugli animali (da ἐλαφηβόλος, “assassino di cervi”; cfr. Hom. Il. 18.319 e P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque. Histoire des mots (Paris: 2008) 333. Tale configurazione cultuale è testimoniata dai ritrovamenti di spoglie di cervi sacrificali fin negli strati ascrivibili alla fase di frequentazione tardoMicenea; Larson, Ancient Greek Cults, 103–104). Una iscrizione ricollega strettamente le Lafrie alle Elafebolie ateniesi (CIG IX, 1, 90 = Journ. Hell. St. 16 (96) 309 nota 5). Il tempio di Artemide Laphria (dal nome del fondatore della città, il focese Lafrio, nipote di Delfo; Paus. 4.31.7 e 7.18.9) era aperto solo due volte all’anno (Paus. 10.35.7), e per i sacrifici alla dea era edificata una pira su cui venivano immolati animali vivi, selvaggi o domestici

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(Paus. 7.18.11); forse il particolare del sacrificio sulla pira spinse Plutarco a collegare questo episodio bellico avvenuto in Focide all’origine e alle modalità di celebrazione di tale festività. Nella fase iniziale del culto le vittime sacrificali dovevano essere capre e pecore, successivamente sostituiti, nel 560 a.C. circa, da armi ed armature; Larson, Ancient Greek Cults, 103–104. Il Cheronese cita nominatim le Elafebolie in Quaest. conv. 660D (Ἐλαφηβολίων γὰρ ὄντων, εἰς Ὑάμπολιν), mentre vi allude soltanto in Non posse 1099EF (τὴν Δαϊφάντου περὶ Ὑάμπολιν ἑορτάζομεν, ὡς ἴστε, καὶ θυσιῶν καὶ τιμῶν ἡ Φωκὶς ἐμπέπλησται). Cfr. anche De sera num. 558AB. Il santuario, nel complesso, era dedicato ad Artemide ed Apollo cui, a partire dal IX sec. a.C., furono dedicati due templi singoli. Cfr. Polyaen. Strateg. 8.66 e, per il conflitto tra Chioti ed Eretriesi, cfr. Hdt. 1.18; Frontin. 2.5.15. La fonte adoperata da Plutarco per questa storia sembra derivare da una testimonianza di matrice filo-chiota, ma l’assenza di riferimento ad una Costituzione dei Chioti compilata da Aristotele, le scarse tracce di storiografia locale chiota (oltre alle perdute opere sulla fondazione di Chio di Ellanico di Lesbo e Ione di Chio) e i dubbi espressi da Jacoby (FGrHist, Komm. zu. 421 F 1 n. 11, p. 160) sull’esistenza di fonti su tale guerra lasciano la questione ancora aperta. Cfr. anche Stadter, An analysis, 41–45 e Boulogne, Plutarque, 283. Wyttenbach, fondandosi su 244F, propose di tradurre “insuper habitatum venerunt, insuper habitarunt”, rigettando la traduzione “coloniam deduxerunt” di Xylander quale troppo generica e riconoscendo che “veteribus incolis vel expulsis vel relictis: quae vis in nomine ἔποικος etiam apparet”. Wyttenbach individuava una sottile sfumatura di significato tra la frequentazione pre-Chiota di Leuconia e l’insediamento di nuovi coloni, spiegandola “Qui Chio coloni Leuconiam habitatum abierunt, eam ἐπῴκησαν: sed Chii qui hos colonos emiserunt, eos ἀπῴκισαν εἰς Λευκωνίαν”, e chiamando in causa la testimonianza di E. Ion 1583; Paus. 1.35 e 2.34 e Plu. De def. or. 419E. Ad oggi, tuttavia, è riconosciuta una sostanziale identità di significato tra ἐποικία e ἀποικία; cfr. LSJ, s.v. Toponimo forse riferito alla luce del sole o al chiarore/colore bianco (il radicale di indicazione cromatica *leuk- era geograficamente assai comune: cfr., ad esempio, Leuca, Leucopetra, Leucade, Leucimna, Leukosia o Leukonia come primo nome di Samotracia, il caso di Leucofri, antico nome di Tenedo, ed anche Leuke Akte in Egitto e in Propontide) delle terre (definite Ἄσπρα χώματα) dove era localizzata Leuconia o Leuconion (Th. 8.24), città distante poche miglia a sud dalla capitale dell’isola di Chio e fondata, secondo la leggenda, dall’eroe eponimo Leucon; cfr.

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L. Bürchner, “Λευκωνία”, R.E. XII.2 (1927) 2283; M.B. Sakellariou, La migration grecque en Ionie (Athènes: 1958) 200; F. Raviola, Napoli Origini (Roma: 1995) 56. Resta da verificare l’ipotesi dell’esistenza di un monarca a Chio nel VII secolo (P.A. Stadter ha ritenuto impossibile tale ipotesi; cfr. Stadter, An analysis, 43), mentre pare più probabile che uno dei magistrati collegiali detenesse particolari poteri militari. Cfr. anche P. Carlier, La Royauté en Grèce avant Alexandre (Strasbourg: 1984) passim. L’usanza richiedeva che il giorno delle nozze si tenesse un banchetto a casa dello sposo e della sposa, prima di dare luogo al vero e proprio incontro fra i nubendi nella casa di lei; di sera, poi, il marito portava a casa propria la moglie a cavallo di un carro nuziale trainato da muli e buoi, cui seguiva un corteo; cfr. U.E. Paoli, La donna greca nell’antichità (Firenze: 1953) passim. Il salto sul carro potrebbe essere riconducibile ad un’antichissima tradizione burlesca relativa al matrimonio, in un contesto di ubriachezza, festeggiamenti e motti salaci relativi tanto alla consumazione del matrimonio quanto a vicissitudini di carattere apotropaico. A margine del codice Laur. 80,22 compare un’annotazione di Francesco Filelfo che recita: μή παίζ’ ἐς γάμον. Tale constatazione suona come una sorta di rimprovero velato di sincera e disincantata ironia. La prescrizione divina costituisce una determinante concausa degli eventi successivi. L’intervento (o la consultazione) di divinità, diretto, mediato o richiesto da oracoli, discorsi, invocazioni o suppliche, lascia intravedere, oltre alla sensibilità religiosa di Plutarco sacerdote di Delfi, una frequente origine e motivazione, soprannaturale ed imprevedibile, di modifiche al corso degli eventi; solo per alcuni esempi cfr. Mul. Virt. 244E6–7; 245C7–9; 246D4–6; 247D6; 248B1–5; 248D4–6. Sakellariou ha riconosciuto nell’odierna Κουρούνεια, piccola località dell’isola di Chio, un toponimo discendente dalla cittadina occupata all’epoca da tale popolazione (Sakellariou, La migration, 200). Wilamowitz, invece, propose di leggere Κολωνεῖς citando Strabone (13.589), che identificò la città in oggetto con una colonia di Mileto a nord di Lampsaco. Boulogne ha pensato si trattasse degli abitanti di una città della Beozia situata presso il lago Copaide, o forse, più verosimilmente, di una cittadina del territorio di Eritre (cfr. Boulogne, Plutarque, 284), come testimoniato da Stefano di Bisanzio (s.v.). Stadter (Stadter, An analysis, 41 nota 36), in accordo con Bürchner (Bürchner, “Λευκωνία”, 2283), ha fatto notare come l’abitato di Leukonia fosse menzionato, oltre che nel Mul. Virt., soltanto in Th. 8.24.3; Polyaen. Strateg. 8.66 e Frontin. 2.5.15 (Frontino tuttavia non specificava il nome di Leuconia).

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125 In realtà dalla fondazione di Leuconia all’insorgere del conflitto dei coloni chioti contro gli Eretriesi trascorse un periodo piuttosto lungo (cfr. Stadter, An analysis, 43), non precisamente quantificato e vagamente descritto da un generico ὕστερον da Plutarco, mentre un dato di fatto della narrazione è costituito dalla supremazia eretriese tra gli Ioni al momento della guerra in oggetto. Brelich ha proposto di considerare tale conflitto tra Chioti ed Eretriesi una guerra rituale; cfr. Brelich, Guerre, agoni, 40–46. 126 Se Jacoby (FGrHist, Komm. zu 500 F 1, p. 248) non aveva provato ad ipotizzare una data per tale guerra, richiamando l’attenzione sulla datazione fornita da Herbst e Rubensohn (intorno alla metà del VII sec. a.C.; cfr. R. Herbst, “Naxos 5”, R.E. XVI.2 (1935) 2088), P.A. Stadter parlava di un “historical setting … difficult to ascertain”, in quanto le fonti (Hdt. 1.18.3; Anticlide, FGrHist 140 F 5 = Ath. 9.384DE; Ippia di Eritre, FGrHist 421 F 1 = Ath. 6.258F–259F; Frontin. 2.5.15; Plu. Mul. Virt. 254B2–F7) non lasciano emergere “a coherent picture” (cfr. Stadter, An analysis, 42–43); cfr. anche O. Rubensohn, “Paros”, R.E. XVIII.4 (1949) 1808. W.G. Forrest, invece, datò il conflitto nel periodo della guerra lelantina; cfr. W.G. Forrest, “Colonization and the Rise of Delphi”, Historia 6 (1957) 168. In effetti il quadro dei rapporti tra queste ed altre città della Ionia fu caratterizzato da una lunga serie di conflitti a sorti alterne, alleanze mutevoli e predomini periodici alternati. 127 Accordi di pace stipulati a tali umilianti condizioni non erano inconsueti (cfr. la storia dedicata alle donne di Salamanca, narrata in Mul. Virt. 10); l’abbandono inerme del campo con addosso soltanto i vestiti fungeva da simbolica sottomissione, in seguito alla resa, e da salvacondotto per gli ultimi combattenti. Come noto, l’obiettivo precipuo delle tattiche belliche dell’antichità era convincere il nemico della convenienza della resa, oltre che indurre allo scontro campale con diversi mezzi. Cfr. anche C. Bonner, “A new Historical Fragment”, Transactions and Proceedings of the American Philological Association 72 (1941) 27–28 (linee 5–7); 29–30. 128 Tutti gli editori scrivono συμπαρόντων tràdito dai manoscritti e, se le traduzioni “avec les esclaves, qui eulx mesmes en furent irritez comme elles, et leur assisterent” di Amyot, e “cum servis, ipsis quoque una indignantibus et auxilium ferentibus” di Xylander rendono al meglio una funzione di supporto ed assistenza schiavile inserita in un contesto di compartecipazione emotiva all’atto bellico, le congetture di Cobet, Wyttenbach e Bernardakis non si sono imposte nell’emendare un verbo molto attestato in Plutarco (cfr. Cat. Mi. 63.5; De aud. poet. 27E; De Her. mal. 872F3 et alia) ed a torto giudicato corrotto o sconveniente.

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129 Wyttenbach, sulla scorta di Ant. 40.2.2 e Arat. 27.4.1 giudicava “huic loco aptius προσταλαιπωροῦσαι”, per accentuare il carattere dinamico e insistente (forse nell’accezione di hold out, persevere; cfr. LSJ, s.v.) dell’azione femminile nei confronti degli schiavi. 130 Accolgo, nell’accezione di “rivolgersi agli dei”, la lezione εἰς θεούς, testimoniata dalla totalità dei codici, accettata da Stephanus, Reiske, Hutten e Dübner, e tradotta da Xylander con “deos de paranda bona valetudine consuluisse”, come un’espressione di carattere generico, precisata dal successivo riferimento ad una dea identificabile con Hera in veste di dispensiera di suggerimenti. La proposta attribuita a C.G. Bachet de Méziriac, invece, seguita da Wyttenbach, Bernardakis, Nachstädt ed Ingenkamp, ritenendo εἰς θεούς (attestato in Rom. 27.8.6 e 28.10.8; De superst. 168D1; De Is. et Osir. 361E5; 362E6; 379E5; De genio Socr. 580A7; Amat. 763E6) una banalizzazione della celebre formula di ambito oracolare εἰς θεοῦ (testimoniata in Comparat. Lyc. et Num. 3.6.2; Consolat. ad Apoll. 168D), dopo le traduzioni “ab oraculo responsum accepit” di Rinuccini e “elle envoya devers l’oracle” di Amyot, riconsiderò l’intera sezione in riferimento ad un presunto ricorso all’oracolo di Delfi, ed emendò di conseguenza 245C9 in τῷ θεῷ. Una simile lettura, oltre ad obliterare una probabile allusione ad una divinità venerata ad Argo presso un celebre Heraion all’interno di un opuscolo alle donne interamente dedicato, applicata ad un’imprecisata richiesta di consulto divino e all’obbedienza di Telesilla agli ordini di una dea, richiamerebbe uno specifico contesto di marcata connotazione apollinea non evocato dall’autore. Plutarco, al contrario, si mantenne vago e forse, per esigenze di brevitas narrativa, ivi ricongiunse in una diretta successione cronologica due azioni avvenute in luoghi e momenti differenti e secondo modalità tutte da definire. 131 Oltre alla illuminante testimonianza fornita da Sept. sap. conv. 161C e soprattutto da Demetr. 8.1.1, la lezione dei manoscritti E, u, γ, σ e 80,5, seppur ritenuta interessante da Wyttenbach, è probabilmente da rigettare, considerando in particolare l’assenza di un articolo, appellativo o attributo che qualifichi o configuri in maniera più specifica la presenza divina in oggetto. 132 L’espressione παρ᾿ ἔπαλξιν ἱστάμεναι fu qualificata come “exquisita dictio” da Wyttenbach; cfr. Wyttenbach, Animadversiones, 7. 133 Riguardo al supporto delle donne, in situazioni di crisi ove la salvaguardia dell’onore della patria possa essere minacciato all’interno di racconti storico-leggendari, cfr. G. Proulx, Femmes et féminin chez les historiens grecs anciens (Diss., Montréal, 2008) 292 (che richiama anche le storie delle donne di Argo e Melo).

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134 Da alcune espressioni dell’autore sembra trasparire il criterio inclusivo adottato per la selezione degli episodi narrati nel Mulierum Virtutes. 135 Stadter e Boulogne hanno ritenuto questo aneddoto supplementare riferito alle donne di Chio una sorta di storia di transizione, aggiunta da Plutarco per verosimiglianza con l’episodio successivo relativo alle donne di Argo; cfr. Stadter, An analysis, 44 e Boulogne, Plutarque, 284. Tuttavia si ritrovano coppie di episodi (la cui funzione certamente non è assimilabile a quella di cesura o transizione) anche nelle storie 14 (Lucrezia e poi Valeria e Clelia) e 15 (Micca e poi Megisto), mentre all’interno di altri episodi dell’opuscolo compaiono eventi differenti situati nel contesto di un arco temporale ampio, ma comunque collegati da un unico filo conduttore della narrazione. 136 Polibio (16.1–10) parla di un assedio portato da Filippo ad una città situata nei pressi di Chio, dopo essere incagliato con la flotta di fronte a Samo, e prima di perdere, sempre presso la medesima cittadina, una battaglia navale contro Pergamo e Rodi; questa città anonima potrebbe essere Chio. Stadter ha ritenuto Polibio la fonte adoperata da Plutarco per questi fatti (cfr. anche il finale di Mul. Virt. 22), mentre Boulogne si è mantenuto dubbioso, ricordando come Plutarco menzionasse particolari narrativi non presenti in Erodoto; in realtà le perplessità espresse in questa circostanza da Boulogne (in merito agli ulteriori dettagli narrativi citati da Plutarco) sono estensibili anche a diversi altri eventi narrati nell’opuscolo. Cfr. I.C. Rospatt, “Die Politik der Republik Rhodos”, Philologus 27 (1868) 680; D. Magie, Roman Rule in Asia Minor (Princeton: 1950) 942; Stadter, An analysis, 44; Boulogne, Plutarque, 284. 137 L’assedio a Chio da parte di Filippo V, re di Macedonia dal 221 al 179 a.C., è databile verso il 202–201 a.C.; cfr. Stadter, An analysis, 44 e Boulogne, Plutarque, 284. 138 In un’ottica prevalentemente misogina il potere femminile era tradizionalmente associato a quello servile; cfr. Hdt. 4.1–4 per le donne di Scizia. La tematica dell’unione di donne a schiavi è trattata anche nella storia delle donne argive; cfr. Mul. Virt. 245F2–6. 139 L’utilizzo di armi da lancio in un contesto bellico, oltre a richiamare il modello delle Amazzoni, riconduce al dettato platonico (Leg. 806bc), che prescriveva la liceità della partecipazione delle donne alla battaglia in obbedienza ad un impulso di autodifesa e di protezione della patria (ricorrente anche nella storia delle donne argive guidate da Telesilla contro i Lacedemoni). 140 Per le donne combattenti nelle Vite Parallele di Plutarco cfr. anche Le Corsu, Plutarque, 177–197.

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141 Cfr. anche Hdt. 6.77; Paus. 2.20 e Polyaen. Strateg. 8.33. 142 Cfr. anche E. Meier Tetlow, Women, Crime, and Punishment in Ancient Law and Society, vol. II (London: 2005) 76. 143 Plutarco riprendeva (Stadter, seguito da Boulogne, ha parlato di “literary invention of Argive writers”; cfr. Stadter, An analysis, 53 e Boulogne, Plutarque, 285) una delle versioni dei fatti tramandate dalla tradizione argiva (il Cheronese consultò diverse varianti, anche a suo parere favolistiche ed inverosimili, di questi fatti storici, come testimonia lo scetticismo sui 7777 morti in battaglia; cfr. 245D1–2) e che circolavano all’epoca, introducendo delle varianti provenenti da letture personali effettuate su testi di Socrate di Argo e di altri scrittori. Gli scrittori di Argolika probabilmente crearono questa ed altre storie (differenti in alcuni particolari, come testimoniava il passo di Paus. 2.20.8–10, anche a causa delle diverse implicazioni simboliche e contingenze storiche da esaltare o ricordare; cfr. Stadter, An analysis, 52) come reazione al racconto di Erodoto (6.76; 7.148) e a quanto scritto dagli autori di Lakonika; cfr. FGrHist, Komm. zu F 310, n. 84, p. 27; Stadter, An analysis, 47–48. 144 Cleomene, re di Sparta e figlio di Anassandride (cfr. anche Apophth. Lac. 223A), invase tra il 517 e il 468 a.C. la città di Argo. Tale spedizione militare è narrata, con attenzione e sensibilità differenti, anche da Erodoto (che radunò materiale ad Argo e Sparta; cfr. Hdt. 6.73–84. Cfr. anche FGrHist, Komm. zu F 310, n. 78, p. 26 e Stadter, An analysis, 48), Pausania (2.20.8) e Polieno (Strateg. 8.33). 145 Poetessa originaria di Argo, (celebrata come εἰκών di ἀρετή e καλοκἀγαθία, e molto frequentemente menzionata dagli autori di epoca bizantina) annoverata tra le nove Muse della poesia lirica (Antip. Thess. AP 9.26), fiorì verso il 510 a.C. (LXVII Olimpiade) e in suo onore (oltre alla creazione del verso cosiddetto “telesilleo”), verso il 270–260 a.C., fu eretta ad Argo, presso il tempio di Afrodite, una statua (ritenuta da Müller, e successivamente da Fraser, una raffigurazione di Afrodite stessa nell’atto di armarsi) che la ritraeva con un elmo tra le mani e con dei libri ai suoi piedi (cfr. Paus. 2.20.8–10; Tatian. Oratio ad Graecos 33 e Suidas s.v.) ad opera dello scultore ateniese Nikeratos (riguardo alla figura e all’operato dello scultore Nikeratos cfr. anche Plin. H.N. 34.80–88); cfr. K.O. Müller, Prolegomena zu einer wissenschaftlichen Mythologie. Mit einer antikritische Zugabe (Gottingen: 1825) 405; J.G. Fraser (ed.), Pausanias’ Description of Greece (London: 1898) 197; G. Lippold, “Nikeratos 4”, R.E. IV (1936) 314– 316. Pare che il motivo della difesa eroica e vittoriosa della città di Argo da parte delle donne fu inventato dagli scrittori di Argo in seguito alla cattiva interpretazione di un oracolo (l’oracolo infatti preannunciava la disfatta

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di Sepeia. O forse, come proposto da E. Franchi, la parte argiva dell’oracolo epiceno era stata concepita, in ambienti neutralisti aristocratici argivi in stretto contatto con Delfi, in riferimento all’incombente minaccia persiana per legittimare la propria scelta di neutralità nel conflitto. Rivelatasi errata la profezia di un disastro contro i Persiani, la sezione argiva dell’oracolo fu probabilmente rifunzionalizzata in un riuso creativo all’interno delle tradizioni su Sepeia) citato da Erodoto che recitava: ἡ θήλεια τὸν ἄρσενα νικήσασα (cfr. Hdt. 6.77) e la tradizione argiva, sentendo il bisogno di trovare un leader alle azioni militari femminili, lo individuò nella coeva personalità della poetessa Telesilla, associando ai suoi poemi una “martial air” (definizione di Stadter, An analysis, 49; più felice risulta il calco francese “allure martiale” adoperato da Boulogne; cfr. Boulogne, Plutarque, 285. Paiono influenzate da tale tradizione creata ex post le testimonianze di pseudo-Luciano e Massimo di Tiro; cfr. pseudo-Lucianus Am. 30.11 e Max. Tyr. Diss. 37.5) di cui, tuttavia, i frammenti della produzione letteraria di Telesilla pervenuti e le citazioni di altri autori non lasciano alcuna traccia (dipendenti dalla narrazione plutarchea risultano le testimonianze di Polieno e Clemente Alessandrino; cfr. Polyaen. Strateg. 8.33 e Clem. Al. Strom. 4.19); in proposito, cfr. J.B. Bury, “The Epicene Oracle concerning Argos and Miletos”, Klio II (1902) 14–25; D. Asheri, “Erodoto e Bacide. Considerazioni sulla fede di Erodoto negli oracoli”, in AA.VV. (eds.), La profezia nel mondo antico (Milano: 1993) 63–76; C. Catenacci, “L’oracolo di Delfi e le tradizioni oracolari nella Grecia arcaica e classica. Formazione, prassi, teologia”, in M. Vetta (ed.), La civiltà dei Greci (Roma: 2001) 131–184; C. Angelucci, “L’oracolo relativo alla battaglia di Sepeia”, in D. Ambaglio (ed.), Syngraphè. Materiali e appunti per lo studio della storia e della letteratura greca (Como: 2002) 25–32. Cfr. anche H.W. Parke, Greek Mercenary Soldiers, from the Earliest Times to the Battle of Ipsos (Oxford: 1933) 158–159; R. Crahay, La littérature oraculaire chez Hérodote (Paris: 1956) 172–175; Ales Bello–A.M. Pezzella (eds.), Il femminile tra Oriente e Occidente: religioni, letteratura, storia, cultura (Roma: 2005) 20. Telesilla compose un’ode ad Apollo Φιληλιάς (fr. 2 Page = Ath. 14.619B), poemi in onore di Apollo ed Artemide (fr. 3 Page = Paus. 2.28.2; fr. 4 Page = Paus. 2.35.2), probabilmente un carme sulle nozze di Zeus ed Hera (fr. 10 Page = Schol. ad Theocr. in Pap. Antin. B. fol. VI recto v. 60 in marg. sin. scriptum deletumque; ed. Hunt & Johnson, Two Theocritus Papyri, 46; saec. V/VI d.C.) e restano: parte di quello che sembra un Partenio per un coro di vergini argive sull’amore del fiume Alfeo per Artemide (fr. 1 Page = Hephaest. Ench. 11.2, p. 35 Consbr.; si tratta di un Dimetro Ionico Catalettico a Maiore con il metro finale Trocaico, sintomo di una strofe spezzata

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in versi più brevi, come riferito da pseudo-Censorino), un’affermazione sui figli di Niobe (fr. 5 Page = Apollod. Bibl. 3.46, p. 120 Wagner), una rappresentazione della virtù simile a quella di Senofonte nella favola di Prodico (fr. 9 Page = Schol. A Hom. Od. 13.289) e alcuni riferimenti grammaticali su singole parole da lei utilizzate (fr. 6 Page = Hsch. s.v. Βελτιώτας; fr. 7 Page = Ath. 11.467F; fr. 8 Page = Poll. 2.23). Cfr. anche G.H. Bode, Geschichte der Lyrischen Dichtkunst der Hellenen, Zweiter Band (Leipzig: 1838) 119. I frammenti telesillei superstiti celebrano, tra le altre divinità, Hera, Artemide ed Afrodite. Il riferimento ad Apollo Φιληλιάς (fr. 2 Page = Ath. 14.619B) forse ha influenzato le congetture interdipendenti εἰς θεοῦ e τῷ θεῷ di C.G. Bachet de Méziriac (cfr. 245C7–9). Probabilmente Plutarco ha esposto sommariamente la storia della consultazione degli dei e della successiva guarigione di Telesilla, narrandoli come eventi direttamente successivi; nel lasso di tempo intercorso tra i due eventi la poetessa avrebbe potuto far voto al celebre Heraion dell’Argolide sito nell’area di Prosimna (Paus. 2.15–17). I versi di Telesilla sono definiti ἄσματα da Pausania (2.28.2) e μήλη da Massimo di Tiro (Max. Tyr. Diss. 37.5). Plutarco descrive il connubio versi/musica (l’unione poesia/accompagnamento musicale caratteristica del genere lirico) tramite il binomio ᾠδή καὶ ἁρμονία. Polieno definiva (forse in via del tutto semplicistica) Telesilla ἡ μουσική (Strateg. 8.33). Nel capitolo 9 intitolato De musica, all’interno di Gramm. Lat. VI.608.2 (Keil), un autore anonimo (Censorino?) ricorda in appendice che Telesilla Argiva minutiores edidit numeros (rispetto ad Archiloco, Giamblico ed Alcmane, il quale numeros etiam minuit in carmen). Il culto delle Muse quale terapia nota fin dagli Egizi e all’interno del corpus ippocratico (per il piacere o dolore arrecato dalla musica cfr. Regimen 1.18) suggerita dagli dei per alleviare o curare il dolore e la malattia (forse anche attraverso canti di guarigione), pur considerando i connotati leggendari legati al culto oracolare e alla reale contestualizzazione bellica della figura di Telesilla, testimonia la grande diffusione, all’epoca, di conoscenze o credenze (anche solo di carattere mitopoietico) nel campo delle pratiche di musicoterapia (ovvero utilizzo della musica e degli elementi musicali quali armonia, melodia, ritmo e timbro per favorire l’integrazione fisica, psicologica ed emotiva dell’individuo, materia riconosciuta come disciplina specifica ed efficace solo ai primi del secolo scorso). Cfr. anche A. Provenza, La musicoterapia nell’antica Grecia (Diss., Palermo, 2007) passim.

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150 Gli scrittori di Argolika hanno in tal modo inteso individuare l’αἴτιον dell’attività poetica di Telesilla, collegando la sua successiva fama ad un evento bellico della storia della città. Cfr. anche Ruiz Montero–Jiménez, “Mulierum Virtutes”, 108. 151 Per il valore catartico della poesia agli occhi di Plutarco cfr. Tagliasacchi, “Le teorie estetiche”, 77–79. 152 A prendere le armi contro la prima invasione degli Spartani guidati da re Carillo, sotto l’impulso di Marpessa, soprannominata “la Vedova” (cfr. Paus. 8.48.4; Ovid. Fasti 3.170 e Lucianus Am. 30), furono anche le donne di Tegea, dove, in memoria di tale impresa, era celebrato un culto sacrificale esclusivamente femminile denominato Γυναικοθοίνας. Boulogne (Boulogne, Plutarque, 286–287) ha ipotizzato che forse fu proprio la città di Tegea a dare l’esempio alle donne di Argo. 153 Plutarco applica un processo di razionalizzazione a quella che forse era la più affermata (ed accettata da Polieno; cfr. Strateg. 8.33) tra le varie versioni circolanti sul numero dei caduti nella battagia di Sepeia. Lo scetticismo, espresso dal Cheronese (tramite la locuzione ὡς ἔνιοι μυθολογοῦσιν, da cui traspare una critica per indulgenza alla simbologia e alla favolistica; cfr. anche Cor. 38, dove Plutarco critica la medesima parola presente in D.H. Ant. Rom. 8.56. Un simile spirito razionalistico nel vaglio delle fonti compare anche in Mul. Virt. storie 1; 9; 14; 17; 22) su una delle fonti consultate in merito a tale conflitto, ritorna nella storia dedicata alle donne di Licia. Risulta indubbia l’influenza simbolica del numero sette (come anche in Apophth. Lac. 223AB, in cui Cleomene avrebbe vinto la battaglia dopo aver rotto una tregua di sette giorni) con una funzione numerica di carattere rituale o tribale in un contesto eziologico-religioso. Cfr. anche S. Luria, “Frauenpatriotismus and Sklavenemanzipation in Argos”, Klio 26 (1933) 211–228; F. Kiechle, “Argos und Tiryns nach der Schlacht bei Sepeia”, Philologus 104 (1960) 181–182. 154 Si tratta della battaglia di Sepeia, dove Cleomene sconfisse pesantemente gli Argivi; in base alla notizia della prossimità temporale con la caduta di Mileto (Hdt. 6.19), tale scontro risulterebbe collocabile molto probabilmente nel 494 a.C. (nonostante altri lo facciano risalire al 519 a.C.; cfr. Stadter, An analysis, 48 nota 51). 155 Per le diverse figure di donne in guerra descritte all’interno del corpus plutarcheo cfr. Le Corsu, Plutarque, 177–197. 156 Pausania (2.20.8–10), invece, parlava anche della presenza di schiavi, giovani ed anziani durante il combattimento e gli appostamenti sulle mura. Kuhn proponeva il confronto “Ex Homeri Ιλ.’θ ubi senes & vixdum puberes jubentur servare moenia Trojae”, individuando un motivo letterario

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omerico quale fonte di ispirazione per la riscrittura, in senso filo-argivo, del conflitto argivo-spartano da parte degli autori di Argolika. Nell’elaborazione platonica delle Leggi, per la componente femminile della società l’avviamento all’uso delle armi doveva esser messo a frutto non nelle spedizioni militari o in campo aperto, ma per la difesa della città in caso di attacco nemico, come avvenne alle donne di Argo (e di Chio). Le argive prelevarono le armi dai templi per scacciare i nemici; cfr. Apophth. Lac. 223BC. Questo aneddoto bellico supplementare, forse ispirato dal celebre episodio (probabilmente di ispirazione filarchea; Marasco, “Sul Mulierum virtutes”, 343–344) della morte di Pirro per mano di una donna argiva (databile nel 271 a.C., quando il re d’Epiro si era impadronito di Argo; cfr. Pyrrh. 34.2), pare addotto per controbilanciare la versione degli eventi fornita dagli Spartani (che giustificava il ritiro di Cleomene con l’onta di combattere contro delle donne, poiché l’esito sarebbe stato in ogni caso ignominioso), allo scopo di collegare due eventi felici della storia locale. Proprio al periodo del successo su Pirro risalirebbe la stele di cui parlava Pausania (2.20.8); cfr. anche R. Flacelière, Le Féminisme dans l’ancienne Athènes (Paris: 1971) 14. Storico argivo letto da Plutarco e citato in Quaest. rom. 26 e 32; Quaest. graec. 25 e De Is. et Osir. 364F; cfr. FGrHist Komm. zu 310, pp. 37–39; FGrHist 310 F 6 e Stadter, An analysis, 45–53. Re di Sparta (tra il 510 ed il 491 a.C.) deposto da Cleomene nel 491 a.C. (Hdt. 6.64–67). Il secondo re della città non ha potuto prendere parte ai combattimenti a seguito di una legge promulgata nel 506 a.C. (Hdt. 5.75). Quartiere di Argo (FGrHist, Komm. zu. 310 F, n. 105, p. 47) il cui nome sarebbe legato alla tribù dei Παμφῦλαι. Il Panfiliaco sarebbe, però, stato loro assegnato soltanto dopo l’assedio di Cleomene, in un’epoca di regime democratico in cui le tribù genetiche furono sostituite da omonimi ma differenti raggruppamenti locali. Cfr. W. Vollgraff, “Inscriptions d’Argos”, BCH 33 (1909) 186–187; Stadter, An analysis, 47 nota 50; M. Piérart, “Phratries et komai d’Argos”, BCH 107 (1983) 269–275; P. Charneux, “Phratries et komai d’Argos”, BCH 108 (1984) 207–227; Boulogne, Plutarque, 286. Comune epiteto (spesso associato al grido di guerra; Chantraine, Dictionnaire étymologique, 352) di Ares (cfr. Roscher, Lexicon, I, 1250–1251) o appellativo di divinità pre-ellenica, testimoniato fin da alcune iscrizioni in lineare B di epoca micenea rinvenute a Cnosso (la forma micenea era enuwarijo); successivamente, il culto di Ares ed Enialio (la cui controparte femminile era Enyo) fu oggetto di sincretismo (fin dall’antichità si disputava se Enyalios fosse una semplice epiclesi cultuale del dio,

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come appare nella tradizione letteraria e in Arcadia, o se si trattasse di una divinità separata). Ares, nella qualità di antenato delle Amazzoni, era associato spesso a tradizioni di battaglia e a storie di donne guerriere, come dimostrano le evidenze in Arcadia e Laconia. Ad Argo vi era un santuario di Ares contenente delle statue donate, si diceva, da Polinice prima di marciare su Tebe, e il ritrovamento di una placca bronzea, risalente al VII sec. a.C., dedicata ad Enialio (raffigurante da un lato un lanciatore e dall’altro un cavaliere, e con incisa l’iscrizione Ἐνυάλιος) attesterebbe l’origine arcaica di tale devozione. A Tegea, dopo la vittoria delle donne sugli Spartani, fu istituito un culto di Ares Aphneios (“dell’abbondanza”, nella speranza che accrescesse i bottini di guerra) da cui gli uomini erano esclusi, mentre a Mantinea Enialio diede nome ad una delle tribù della città; IG V, 2, 271. A Sparta, invece, la statua di Enialio era tenuta in catene per mantenerne sotto controllo la potenza distruttiva. Cfr. O. Jessen, “Enyalios”, R.E. V.2 (1905) 2651–2653; W. Burkert, Greek Religion (Harvard: 1985) 169; Larson, Ancient Greek Cults, 156–157 e 218 nota 2. Il re di Sciro portava il nome Enieo (Hom. Il. 9.668) ed Enyalion era anche il nome di un tempio; cfr. Chantraine, Dictionnaire étymologique, 352. Per la dedica di un tempio ad Enialio dopo un atto di coraggio femminile cfr. anche Sol. 9.4. 163 Cfr. Arist. Pol. 1303ab. 164 Ἑρμαῖος era il nome conferito dagli Argivi al Gamelione, settimo mese dell’anno attico consacrato ai Γαμήλιοι Θεοί, in cui era consuetudine celebrare i matrimoni in ricordo delle nozze di Hera con Zeus; cfr. Nilsson, Griechische Feste, 371–372; J. Stengel, “Ὑβριστικά”, R.E. IX.1 (1914) 33. 165 Dal termine ὑβριστικός, con il significato di “insolento, violento, brutale”; Chantraine, Dictionnaire étymologique, 1150. Festeggiamento inerente alla sfera nuziale, celebrato nel giorno del novilunio come data propizia per le unioni matrimoniali, forse assimilabile agli Ἐνδυμάτια; M. Delcourt, Hermaphrodite. Mythes et rites de la bisexualité dans l’antiquité classique (Paris: 1958) 12–13. Il nome della festa suggerirebbe un “carnaval déchaîné, accompagné d’injures et de propos salés” (Delcourt, Hermaphrodite, 21– 22), di cui Plutarco rammenta solo l’episodio più notevole, ma spogliato dal relativo contesto psicologico e provvisto di una giustificazione chiaramente posticcia. Era previsto lo scambio dei vestiti tra uomini e donne, pratica (piuttosto frequente, secondo Boulogne, Plutarque, 287) ascrivibile a tradizioni preistoriche o tribali dal carattere magico, apotropaico (Nilsson, Griechische Feste, 372) o agrario e vegetale; cfr. anche G. Dumézil, Rites et légendes du monde égéen. Le crime des Lemniennes (Paris: 1924) 51–53; L. Gernet–A. Boulanger, Le génie grec dans la religion (Paris: 21970

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[1932]) 40–42. Il contesto scherzoso doveva risultare favorevole all’accoppiamento e alla rottura dei tabù sessuali tra gli sposi, o al fine di allontanare presenze negative. Un rito simile era tenuto ad Argo in onore di Afrodite Urania e a Cipro in ossequio ad Afrodite androgina; inoltre, Plutarco parlava di riti affini agli Ὑβριστικά in Lyc. 15 e Quaest. graec. 304F. Tale “déguisement sexuel”, sicuramente sintomo del simbolismo dell’iniziazione, è stato ritenuto da M. Delcourt una “explication pseudo-historique inventée après que le sens véritable du rite eut été perdu”, ricordando come non si imitasse un personaggio leggendario ma uno scambio reciproco di ruoli; cfr. Delcourt, Hermaphrodite, 7; 12–13; 21–22. Cfr. anche le imposizioni di Aristodemo ai giovani cumani in Mul. Virt. storia 26 e H. Jeanmaire, Couroi et Courètes. Essai sur l’éducation spartiate et sur les rites d’adolescence dans l’antiquité historique (Lille: 1939) 153–154; 321–322. 166 Questo procedimento è stato considerato un momento pre-matrimoniale di iniziazione femminile, una sorta di rito di inversione, messo in parallelo con il trattamento subìto dalle donne spartane ad opera della nympheutria, dopo aver trascorso infanzia e adolescenza in replica alle istituzioni maschili; cfr. P. Vidal Naquet, Il Cacciatore nero, forme di pensiero e forme di articolazione sociale nel mondo greco antico (Milano: 2006) 172. 167 In riferimento all’oligandria e all’interregno servile verificatisi in Argo a causa del gran numero di lutti, cfr. Arist. Pol. 1303a; Diod. 10.26 e Paus. 2.20.9. Cfr. anche C. Bearzot, “I douloi/perioikoi di Argo. Per una riconsiderazione della tradizione letteraria”, IncidAntico 3 (1990) 61–82. 168 Plutarco sembra compiere una revisione di Erodoto (6.77–83) sulla base della tradizione argiva; alcuni pregiudizi anti-erodotei, espressi altrove dall’autore (come l’utilizzo di termini negativi, pur avendone disponibili altri a connotazione positiva; cfr. De Her. mal. 855B), hanno lasciato individuare a P.A. Stadter un “obvious pleasure” del Cheronese nell’effettuare tale correzione alla narrazione erodotea; cfr. De Her. mal. 863B e Stadter, An analysis, 51–53. Tale tradizione sarebbe stata modificata dagli scrittori argivi in una versione meno offensiva per il loro patriottismo (cfr. Boulogne, Plutarque, 287), e parlando perciò di perieci (Vidal Naquet, Il Cacciatore nero, 67–70). Il cosiddetto interregno servile argivo denuncerebbe un significato simbolico, in quanto la supplenza temporanea alla funzione dei capifamiglia deceduti a Sepeia esercitata dagli schiavi avrebbe creato una situazione innaturale, rispetto alla quale il ritorno degli orfani, una volta cresciuti, avrebbe costituito il ritorno all’ordine nella funzione di legittimare l’ordine ricostituito dai figli degli uccisi. Per la somiglianza di questo episodio con il ritorno a Cuma dei figli degli esuli, i cui padri furono temporaneamente sostituiti da schiavi dopo l’ascesa al potere di

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Aristodemo, cfr. N. Luraghi, Tirannidi arcaiche in Sicilia e Magna Grecia da Panezio di Leontini alla caduta dei Dinomenidi (Firenze: 1994) 95–98. La polemica anti-erodotea (altrove soltanto di carattere etico-letterario, a riprova dell’interesse della Seconda Sofistica di sottoporre a revisione l’opera dello storico, intesa quale modello di letteratura; cfr. Grimaldi, Plutarco, La malignità, 9–11) riguardo all’inaffidabilità dello storico (sviluppata anche in Con. praec. 139C e De esu 998A) è sviluppata su due direttrici: l’inverosimiglianza di alcune affermazioni ed interpretazioni di scelte tattiche come ragioni storiograficamente valide e l’antimetodica giustificazione di fatti e notizie per affermazione autoschediastica suffragata dall’autopsia; cfr. Grimaldi, Plutarco, La malignità, 12–13. Popolazione asservita abitante la periferia di alcune città (assimilabile ai servi, ad avviso di Boulogne, Plutarque, 287–288), soprattutto del Peloponneso, priva di diritti politici, tranne che nell’amministrazione locale; i perieci di Argo erano chiamati gimneti in quanto, stando al lessico militare, impossibilitati a rivestire l’armatura degli opliti; cfr. anche D. Lotze, Metaxu eleutheron kai doulon. Studien zur Rectsstellung unfreier Landbevölkerungen in Griechenland bis zum 4. Jahrundert v. chr. (Berlin: 1959) passim. Per questo, nudi ed inermi, erano soldati di lieve levatura (anche se, spesso, il loro numero superava quello degli opliti stessi) capaci di scagliare sassi o giavellotti, difendendosi dietro gli scudi degli opliti; cfr. anche F. De Sanctis, “Argo e i gimneti”, in Saggi di Storia antica e di archeologia offerti a Giulio Beloch, (Roma: 1910) 235–239; Vidal Naquet, Il Cacciatore nero, 70. Sulla validità di tale precisazione lessicale e di status sociale cfr. anche Arist. Pol. 1303a6. Per uno status quaestionis sul rapporto douloi/perioikoi e sull’identificazione dei relativi ruoli nel corso della storia argiva di V sec. a.C., cfr. Stadter, An analysis, 50 nota 66. Per l’esistenza di una tradizione che associava il governo femminile al potere schiavile cfr. Vidal Naquet, Il Cacciatore nero, 63–80. Successivamente alla disfatta di Sepeia, la città di Argo affrontò anche un irrigidimento del regime oligarchico, cui fece probabilmente seguito anche l’esilio di un gran numero di cittadini ostili al governo; in tal modo la penuria di uomini risulterebbe ascrivibile a cause belliche, ma anche a decisioni politiche. Plutarco pare voler fornire una spiegazione storica a questa usanza di difficile interpretazione, di cui, forse già alla sua epoca, era andata perduta la valenza originaria. Usanza associata al clima giocoso e di ascendeza tribale caratteristico della “Festa dell’Insolenza”, forse collegata allo spirito della scoperta appartenente alla prima notte di nozze (Boulogne, Plutarque, 288). Macro-

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bio (Sat. 3.8.3 = Serv. Ad Aen. 2.632) citava una cerimonia simile nell’ambito dei festeggiamenti in onore di un’Afrodite barbara. Luraghi, anche in riferimento a questa usanza, ha parlato del “De mulierum virtutibus plutarcheo” come “una opera di ambito di per sé corrivo alle situazioni rovesciate”; Luraghi, Tirannidi arcaiche, 95 nota 74; 97. La versio latina di A. Rinuccini e le traduzioni da essa direttamente dipendenti censurarono questa usanza omettendo ogni riferimento alla legge che imponeva l’utilizzo di una barba posticcia; cfr. Tanga, “Alamanno Rinuccini traduce”, 54–55. Per l’identificazione di una vera e propria realizzazione rituale del “mondo alla rovescia” nella sfera dei ruoli di gender secondo modalità dionisiache note da fonti testuali e figurative, o per l’individuazione di un processo di ristrutturazione e rifunzionalizzazione di un ethos dell’inversione e per l’androginia come coincidentia oppositorum, cfr. G. Casadio, Il vino dell’anima. Storia del culto di Dioniso a Corinto, Sicione, Trezene (Roma: 1999) 113–123; G. Casadio, “Il culto di Dioniso in Campania: Cuma”, in C. Santini–L. Zurli–L. Cardinali (eds.), Concentus ex dissonis. Scritti in onore di Aldo Setaioli (Napoli: 2006) 162. 174 Cfr. anche Plu. Apophth. Lac. 241B; Polyaen. Strateg. 7.45.2; Iustin. 1.6. I capitoli VII e VIII dell’anonimo Tractatus De Mulieribus Claris in Bello (Westermann, ΠΑΡΑΔΟΞΟΓΡΑΦΟΙ, 215–216), invece, narrano le vicende di Atossa, moglie del re Dario I, e di Rodogine, altra sovrana persiana. 175 Plutarco, citando i fatti probabilmente a memoria, parla erroneamente di una città e non di un’altura, come attestato in Nicola Damasceno; tale confusione “was facilitated by Ctesias’ mention of the city in the same passage” (Stadter, An analysis, 54). 176 Simile fu il comportamento delle donne di Licia nei riguardi di Bellerofonte, per farlo desistere dall’ira; cfr. Mul. Virt. 248B2–3. Il gesto dell’ ἀνάσυρμα (denudamento deliberato di genitali o natiche) era adoperato in connessione con riti religiosi, erotismo e scherzi osceni per ottenere un effetto provocatorio sullo spettatore. Diverso dall’esibizionismo, possedeva un valore magico, apotropaico o anche di beffa nei confronti di un nemico o del malocchio. Presente alle Tesmoforie e nei misteri eleusini in collegamento con Demetra e Dioniso, era una posa indecente tipica di una donna chiamata Baubo (e testimoniata su terrecotte e figurine ateniesi e cipriote, anche in relazione al culto ermafrodito di Aphroditus), forse mutuata da più antiche divinità femminili mediorientali. Analoghi atti auto-espositivi dal duplice intento drammatico e sovrannaturale sono testimoniati nella cultura irlandese, cinese, balcanica ed africana; cfr. anche C. Blackledge, The Story of V: A Natural History of Female Sexuality (London: 2003). Per tale atto, che Stadter (Stadter, An analysis,

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56) ha genericamente definito “instance of self-exposure”, cfr. J. Moreau, “Les guerriers et les femmes impudiques”, AIPhO 11 (1951) 283–300; cfr. anche McInerney, “Chapter fifteen”, 329–330, che ha collegato il gesto a riti concernenti il male e la fertilità. Soprattutto la fisicità di tale atto virtuoso ha indotto J. McInerney a caratterizzare genericamente il contenuto dell’opuscolo come un “range of behaviors, taboos and restrictions focused on the body, summed up in the notion of shame (aidôs)”; cfr. McInerney, “Chapter fifteen”, 328. Una storia analoga di rimbrotto di una madre spartana ad un figlio in fuga dalla battaglia si ritrova in Apophth. Lac. 241B4, episodio già utilizzato dal filosofo cinico Teles di Megara, cui lo ascriveva Stobeo (4.44.83 = p. 989 ed. Hense) insieme ad altri apoftegmi. Nachstädt riteneva gli Apophth. Lac. una collezione “ex vetere illo apophthegmatum Laconicorum corpore, quo iam Plato et Aristoteles usi erant”; tale opinione è stata rigettata da Jacoby (FGrHist, Komm. zu 591 n. 5, p. 365). Stadter (Stadter, An analysis, 56) riteneva la versione spartana (narrata in Apophth. Lac. 241B4) niente altro che una traduzione della stessa vicenda persiana nella tradizione filosofica greca. Vicenda narrata anche in Nicola Damasceno (FGrHist 90 F 66 43–44) e Giustino (1.6.3–15). Polieno (Strateg. 7.45.2), invece, attribuiva la fuga dell’esercito persiano alla codardia del satrapo Oibares, figura altrove citata da Nicola Damasceno sempre nell’ambito di questa campagna militare. Tuttavia, in accordo con How e Wells, Stadter (Stadter, An analysis, 53–54) e Boulogne (Boulogne, Plutarque, 288), pare che la fonte (“scheint reines exzerpt ohne jede zutat N.s oder aus anderen quellen”; FGrHist, Komm. zu 90 F 66, p. 251) comune di questi eventi possa essere stato il racconto di Ctesia; W.W. How–J. Wells, A Commentary on Herodotus (Oxford: 1912) 389; F. Jacoby, “Ktesias”, R.E. XI.2 (1922) 2056–2058 (l’opinione di Jacoby è stata poi messa in dubbio da R. Laqueur, “Nikolaos 20”, R.E. XVII.1 (1936) 375–384). Di diverso parere J. Melber, che riteneva i passi di Plutarco, Nicola Damasceno e Giustino dipendenti da fonti differenti; J. Melber, “Uber die Quellen und der Wert der Strategensammlung Polyäns”, Jahrbücher für classische Philologie Supplementband 14 (1885) 453–456; Stadter, An analysis, 54 nota 80. Per l’opera di Nicola di Damasco cfr. anche E. Parmentier-Morin, L’oeuvre historique de Nicolas de Damas (Diss., Lille, 1998). Questa battaglia, avvenuta nel 535 a.C., pose fine all’impero dei Medi. Si tratta di Pasargade (cfr. Nic. Damasc., FGrHist 90 F 66 43–44 e Plu. Alex. 69.2), ove era collocata la tomba di Ciro (Str. 15.730A; Arrian. 6.29.4), e non di Persepoli, come suggerito da Wyttenbach (“articulus declarat

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certam quamdam eximie dictam πόλιν, haec intelligenda est Persepolis”; Wyttenbach, Animadversiones, 6–7) e ripetuto da Nachstädt (Nachstädt– Titchener–Sieveking, 233). Pasargade (fondata circa nel 546 a.C. da Ciro il Grande, dopo la vittoria su Astiage; cfr. St.Byz. s.v. Πασσαργάδαι = Anaximenes von Lampsakos, FGrHist 72 F 19) era il nome della città reale persiana più antica, ma anche della tribù più nobile di Persia, da cui discendevano gli Achemenidi (Hdt. 1.125.5), e di un’altura su cui si fermarono le donne persiane durante la battaglia degli uomini. Il nome originale della città era Batrakataš (traslitterazione greca del toponimo in antico farsi Pâthragâda), ed era situata 65km a nord-est di Persepoli. 181 Senofonte (Cyr. 8.5.2) ricordava che, di ritorno da un viaggio presso suo zio Ciassare, Ciro si mostrò munifico nei confronti di tutti i Persiani, sia uomini che donne; i suoi successori, poi, rinverdirono tale usanza nel corso dei loro regni. 182 Terzogenito di Artaserse II Mnemone e Statira, Oco (ovvero “bastardo”) effettuò varie spedizioni militari prima di salire al trono, dopo la morte del padre in età molto avanzata. Assicuratosi la successione eliminando i fratelli maggiori Arsame e Ariaspe, facendo assassinare più di 80 membri della sua famiglia e tenendo celata per dieci mesi la morte del padre al fine di stabilizzare al meglio il trono, prese il nome di Artaserse III Oco e divenne celebre quale principe crudele e sanguinario. Regnò sui Persiani dal 359/358 a.C. fino al 338 a.C., anno in cui fu avvelenato (un’iscrizione babilonese, invece, parla del decesso di Artaserse III Oco nei termini di una morte avvenuta per cause naturali. In ogni caso Brosius considera con scetticismo la descrizione greca degli intrighi di corte) dal potentissimo chiliarco di palazzo ed eunuco egiziano Bagoas, per fargli succedere, con il nome di Artaserse IV, Arsete, il più giovane dei suoi figli. Il regno di Artaserse III Oco fu sconvolto da rivolte di satrapi e dalla sempre insorgente ribellione dell’Egitto, che sottomise conquistando anche Sidone e la Siria. Avendo fatto scannare ed imbandire il bue sacro adorato dagli Egizi, si guadagnò l’ostilità di un partito di corte e del luogotenente Bagoas, che lo assassinò facendolo avvelenare. Cfr. Artax. 38–46; De Is. et Osir. 355C e 363C; FGrHist 690 F 21; A.T. Olmstead, History of the Persian Empire (Chicago/London: 1948) 437–441; M. Brosius, The Persians (New York: 2006) 31. 183 Tale confronto tra l’avidità di Artaserse III Oco e la munificenza di Alessandro Magno ha lasciato supporre a Stadter (cfr. Stadter, An analysis, 55) che Plutarco, per la composizione di questo episodio, avesse citato memoriter due fonti differenti, ovvero il racconto di Ctesia e quello di uno storico di Alessandro quale Aristobulo, mescolandole. Boulogne, poi

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(cfr. Boulogne, Plutarque, 289), si è affidato all’intuizione di J. Moreau (Moreau, “Les guerriers”, 290), secondo cui la comparazione tra i due sovrani risalirebbe alle Effemeridi di Eumene di Cardia e Diodoto di Eritre, mentre Ctesia avrebbe potuto fornire agli storici di Alessandro tali informazioni, poi esposte solo in forma riassuntiva da Plutarco. Per le letture antiche e la fortuna dell’opera di Ctesia cfr. D. Lenfant, Ctésias de Cnide (Paris: Les Belles Lettres, 2004) soprattutto CLXI–CLXVIII. In Alex. 69.1 Plutarco raccontava, sostanzialmente, la medesima storia, ma adoperando un’enfasi differente adatta ad un contesto narrativo diverso; cfr. Stadter, An analysis, 55. A parere di Stadter, l’utilizzo di νείκη nella declinazione plurale avviene soprattutto quando un pacificatore conclude una guerra; cfr. P.A. Stadter, “Competition and its costs”, in L. Van Der Stockt–G. Roskam (eds.), Virtues for the People. Aspects of Plutarchan Ethics (Leuven: Leuven University Press, 2011) 248. Plutarco e Polieno (Strateg. 7.50) sono gli unici a riferire tali avvenimenti; troppo poche le notizie sul conto di Sileno di Calatte (FGrHist 175) per convincere gli studiosi dell’ipotesi di C. Jullian, che lo proponeva quale fonte (definendolo tuttavia “mystérieux Silénus”) adoperata da Plutarco in questo episodio, e forse anche per la narrazione della presa di Salamanca (cfr. Mul. Virt. storia 10 e Stadter, An analysis, 57). Per la testimonianza di Aristotele sul rapporto dei Celti con le proprie donne cfr. Pol. 1269b. Riprendendo la tesi di Jullian, Boulogne ha pensato si trattasse di “indigènes voisins de l’Espagne” di razza non celtica, cui poi Plutarco, per estensione, avrebbe dato il generico appellativo di Κέλτοι (Boulogne, Plutarque, 290). Risulta più probabile una confusione mnemonica o descrittiva dell’autore, avvenuta in fase di individuazione e collocazione geografica dei vari ceppi della radice celtica cui appartenevano sia i Celtiberi che le varie tribù galliche; C. Jullian, Histoire de la Gaule I (Paris: 1909) 462. Nell’immaginario collettivo dell’antichità, i Celti si erano stabiliti in Italia a seguito di un’invasione che comportò il passaggio dei valichi alpini; tale scenario non risulta inverosimile (Boulogne, invece, lo ha ritenuto una immotivata fantasia antica, cfr. Boulogne, Plutarque, 289–290) e probabilmente rende conto di una comune origine e collocazione unitaria centronordeuropea di tutti i popoli di stirpe celtica, cui successe una migrazione di massa precedente alla fase finale dell’età del bronzo. Risultato di tale massiccio spostamento fu la presenza testimoniata, nelle regioni settentrionali d’Italia, delle tribù dei Galli Insubri, Senoni, Boi e Lingoni. Già Strabone (5.1–4) parlava di tribù celtiche stanziate nella Gallia Cispadana

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e Transpadana ed imparentate con le popolazioni celte della Gallia Transalpina. Cfr. anche Jullian, Histoire, 289–290; D. Vitali, “I Celti in Italia”, in I Celti, Catalogo della mostra di Palazzo Grassi (Venezia: 1991) 220–235; B. Cunliffe, The Ancient Celts (Oxford: 1997) 2–9; 20–38; 68–90; 211–234; Boulogne, Plutarque, 289–290. Per una mappa storica della Gallia cfr. J. Haywood, The Historical Atlas of the Celtic World (London: 2001) 58– 59. Forse potrebbe trattarsi di conflitti intestini che, durante un’originaria fase unitaria della loro storia (Jullian suggerì l’anno 400 a.C., nel perido dell’egemonia dei Biturigi; cfr. Jullian, Histoire, 255–257), spinsero i Celti alla conquista della Gallia, sottraendola ai Liguri, e poi a disseminarsi nella zona del Danubio, nella penisola iberica e nell’Italia centro-settentrionale, fino a creare quello che Boulogne definisce “une sorte d’empire universel” (Boulogne, Plutarque, 290). In questa breve sezione, Plutarco pare sunteggiare e contaminare le fonti a sua disposizione in merito alle origini e alla storia politica, sociale e migratoria dei Celti. Il rilievo sociale rivestito dalle donne nell’ambito della società celtica prendeva talora dei connotati di sorprendente centralità in quanto l’assunzione di responsabilità (probabilmente in funzione di veggenti ispirate dagli dei; cfr. Jullian, Histoire, 462) contemplava anche la ricezione di punizioni esemplari. La decisione delle donne in merito alla guerra era preponderante nelle deliberazioni pubbliche, ma, in caso di sconfitta bellica, a coloro che avevano esortato alla guerra, la testa veniva tagliata e gettata via (cfr. Paradoxographus Vaticanus Rhodii, Rerum Naturalium Scriptores Graeci Minores I, Leipzig 1877, ed. O. Keller, p. 112, n. 46). Importanti reperti aurei in sepolture femminili confermano che alcune donne celtiche hanno rivestito un ruolo eccezionale in seno alla società; cfr. S. Moscati (ed.), I Celti (Venezia: 1991) 353. Annibale, dopo aver valicato i Pirenei, per poter proseguire la sua avanzata verso Roma attraverso quelle terre della Gallia meridionale, stipulò con le tribù del Rossiglione e della Linguadoca un trattato, secondo cui, in caso di processo, l’imputato avrebbe dovuto essere giudicato da un tribunale del suo popolo. Cfr. Boulogne, Plutarque, 290. Accordo stipulato tra Annibale ed i Galli nel passaggio dai Pirenei al Rodano durante l’avanzata verso l’Italia, onde scongiurare un’opposizione armata di questi ultimi contro l’esercito cartaginese proveniente dalla penisola iberica, come sembra testimoniare Liv. 21.24 (oratores ad regulos eorum misit, conloqui semet ipsum cum iis velle; … hospitem enim se Galliae non hostem advenisse, nec stricturum ante gladium, si per Gal-

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los liceat, quam in Italiam venisset. Et per nuntios quidem haec). Cfr. anche Plb. 34.10; Jullian, Histoire, 462 nota 3; F. De Sanctis, Storia dei Romani III.2 (Torino: 1917) 26 nota 25. Stadter (Stadter, An analysis, 57; cfr. anche Boulogne, Plutarque, 289) ha considerato probabile che Plutarco avesse adoperato la medesima fonte che narrava della presa di Salamanca (248D8–249B2), o magari avesse consultato l’opera di Sileno di Calatte, storico greco (filo-annibalico per eccellenza) al seguito dell’esercito cartaginese ed intimo amico di Annibale, le cui imprese diligentissime persecutus est (cfr. Cic. Div. 1.24.49; Corn. Nep. 23.13.3); cfr. anche Polyaen. Strateg. 7.50; FGrHist 175. Jullian credeva che le donne dei Celti chiamate a giudicare fossero delle veggenti ispirate dagli dei (Jullian, Histoire, 462) mentre Stadter, ritenendo questa usanza “a custom quite foreign to Greek ways”, ha pensato si trattasse di un aition, genuino o inventato per motivare dei termini tanto inusuali per un trattato di pace (Stadter, An analysis, 57). Cfr. Polyaen. 8.64. Cfr. Mul. Virt. 255A1–E1 e Polyaen. Strateg. 8.64. Riguardo all’origine dei coloni meli, Dümmler, basandosi sul motivo della donna barbara che aiutava i coloni greci, presente anche nella storia di Lampsace, rilevò come tale tocco novellistico fosse “vor dem Epos in der ionischen Volkssage vorhanden”, e volle riconoscere un’origine ionica dei coloni meli, mentre Stadter li riteneva “surely Dorian” (Stadter, An analysis, 58) e Boulogne ha sostenuto che “il s’agit d’abord très probablement … de colons Doriens” (Boulogne, Plutarque, 290); F. Dümmler, “Zu den historischen Arbeiten der ältesten Peripatetiker”, RhM (N.F.) 42 (1887) 185; F. Dümmler, “Bemerkungen zum ältesten Kunsthandelwerk auf griechischen Boden”, Mitteilungen des deutschen Archäologischen Instituts, Atenische Abteilung 13 (1888) 301. Cfr. anche W. Zschietzschmann, “Melos”, R.E. XV (1931) 581. La fonte adoperata da Plutarco sembra di tendenza filo-ellenica, forse di matrice melia. Nella completa assenza di notizie riguardo agli storici di Melo (FGrHist, Komm. zu III b, p. 400), unita all’esistenza di un unico frammento di costituzione aristotelica (fr. 555 Rose) che non tramanda notizie particolari in merito, è stato ipotizzato da Oldfather che la fonte del Cheronese possano essere stati i Karika di Apollonio di Afrodisia (FGrHist 740), scrittore citato da Stefano di Bisanzio e dall’Etymologicum Magnum, ma ritenuto da Jacoby troppo tardo per essere utilizzato, oppure, come suggeriva Stadter (Stadter, An analysis, 58), Filippo di Theangela (FGrHist 741), autore risalente al III sec. a.C.; cfr. W.A. Oldfather, “Kaphene”, R.E. X.2 (1919) 1893.

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201 Il motivo della giovane che tradisce il suo popolo per amore risaliva già alle figure di Arianna, Scilla, Medea e Tarpea. 202 Boulogne ha ricordato come, in epoca classica, le donne non potessero presenziare, perlomeno ad Atene, a questo tipo di conviti (sulla necessità di regolare la partecipazione delle donne alle mense cfr. anche Pl. Lg. 780e–781e) ma, trattandosi molto probabilmente di coloni dorici e di fatti relativamente antichi, la presenza femminile fu tollerata (Boulogne, Plutarque, 290–291); per la cronologia delle invasioni doriche cfr. P. Lévêque, L’Aventure grecque (Paris: 1964) 89–93. Secondo Seltman, i Greci avrebbero subito l’influenza dei costumi anatolici in merito alla partecipazione femminile ai pasti, lasciando così alle donne la facoltà di sedere sempre al fianco del proprio padre o marito; C. Seltman, La femme dans l’antiquité (Paris: 1963) 92. 203 Per il tharsos inteso quale sentimento di confidenza e sicurezza cfr. Frazier, Histoire et Morale, 202–204. 204 Il comportamento di Cafene, che tradisce i propri parenti e concittadini per aiutare l’amato, richiama un motivo ampiamente percorso, fin dagli episodi di Teseo ed Arianna o Medea e Giasone, in base al quale la donna mantiene una posizione ambigua tra la famiglia di origine e quella di adozione; cfr. J. Bremmer, Greek religion (Oxford: 1994) 73–74. Questo modello sarà totalmente capovolto nel momento in cui Policrite (storia 17) tradirà il proprio compagno per aiutare i propri concittadini in guerra, Aretafila (storia 19) ingannerà Nicocrate per liberare Cirene, e Senocrite (storia 26) lascerà uccidere il convivente Aristodemo dai congiurati per vendicarsi dell’esilio comminato al padre. Cfr. anche il tradimento di Abrone in Amat. Narrat. 772DE. 205 L’espressione μηδ᾿ ἄκουσαν suonava proverbiale a Wyttenbach (che annotava “Ne invitam quidem. Habet proverbii vim”; Wyttenbach, Animadversiones, 8), soprattutto se messa a confronto con analoghe formule ricorrenti in Ar. Ra. 1571; Plu. Cor. 28.3; De aud. poet. 31B e De soll. an. 971C. Forse una simile locuzione intrisa di misoginia non piacque a Bachet de Méziriac, che provò a correggere il testo formulando la non fortunata congettura μηδ᾿ ἄκούουσαν. 206 Plutarco, forse accortosi di aver concesso eccessivo merito e rilievo narrativo all’operato della singola Cafene all’interno di un gruppo di episodi dedicati ad atti di virtù collettiva, attraverso un intervento in prima persona, tenta di riequilibrare la struttura concettuale dell’intero opuscolo, evidenziando la straordinarietà ed il relativo interesse storico, filosofico e letterario dell’apporto della componente femminile collettiva rappresentata nell’aneddoto (cfr. Tanga, “Mulierum Virtutes: atti di virtù”, 85). L’affer-

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mazione ἐν πολλαῖς μηδ᾿ ἄκουσαν di Plutarco lascia trasparire una primordiale pregiudiziale misogina che, per cause connaturate all’indole femminile, nutriva scarsa fiducia nella capacità delle donne di agire in gruppo con esiti positivi; non quantificabile, in tal senso, risulta l’influenza esercitata anche dalle fonti storiografiche adoperate dall’autore. Il ruolo di primo piano della caria Cafene giungeva quasi ad oscurare l’audacia delle donne greche, comportando un intervento ammirato di Plutarco onde ovviare a tale scompenso, e soprattutto per rispondere alle direttive strutturali enunciate nel proemio (cfr. 243D5–E2) e a metà dell’opera (cfr. 253E5–7. Cfr. anche Tanga, “Mulierum Virtutes: atti di virtù”, 85). Stadter notava come, in questo caso, l’interesse di Plutarco fosse rivolto alla virtù delle donne greche e non alla singola donna barbara (Stadter, An analysis, 58); secondo tale prospettiva analitica, però, occorrerebbe anche riconsiderare in via complessiva l’interesse di Plutarco verso tutti gli altri popoli barbari narrati in molti altri episodi dell’opera (per la virtù delle donne straniere cfr. anche Duff, Plutarch’s Lives, 243–286). Boulogne, poi, ha sostenuto che le qualità virili delle melie sorprendevano molto una coscienza maschile greca antica convinta che l’indole femminile fosse per natura inferiore e sottomessa alla passione e all’istinto; distinguendosi per virtù, le donne superavano la normalità biologica, meritando per questo lodi maggiori rispetto ad una medesima azione virtuosa compiuta da uomini (Boulogne, Plutarque, 291). 207 Cfr. anche D.H. Ant. Rom. 1.25; Conon. Narr. 36; Paus. 7.2; D.L. 8.1; Zen. 3.85; Porph. V.P. 1.1. Secondo Wyttenbach, malgrado la varietà di testimonianze riguardo a tali fatti, Plutarco aveva “suos auctores, quos sequeretur”; cfr. Wyttenbach, Animadversiones, 8. Il titolo della storia fu tradotto in “Tyrrheniens et Thoscans” da Amyot e con “Hetruscae” da Cruserius; cfr. Cruserius, Plutarchi Chaeronei, 248. 208 Definizione riferita agli Etruschi stanziati in Italia, ma anche ad una antica popolazione di origine egea, spesso identificata dagli antichi con i Pelasgi. Ellanico (D.H. Ant. Rom. 1.28) riteneva gli Etruschi discendenti degli antichi Pelasgi stanziatisi in Italia, Erodoto (4.145–148) narrava della sconfitta dei Mini ad opera dei Pelasgi, e Tucidide (4.109) parlava dei Pelasgi quali abitatori della penisola Calcidica in coabitazione con i Tirreni, mentre Plutarco sosteneva l’origine lidia degli Etruschi (Rom. 25.7 e Quaest. rom. 277CD), convinzione piuttosto comune in epoca imperiale; cfr. D. Briquel, Les Pélasges en Italie (Roma: 1984); D. Briquel, L’origine Lydienne des Étrusques (Roma: 1991). In merito all’identificazione di tale popolo cfr. anche E. Meyer, Forschungen zur alten Geschichte I (Halle: 1892) 6–28; F. Skutsch, “Etrusker”, R.E. VI.1 (1907) 770–806; L. Pareti, “Pela-

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sgica”, Rivista di Filologia Classica 46 (1918) 153–190; F. Schachermeyr, Etruskische Frühgeschichte (Berlin: 1929) 267–273; F. Schachermeyr, “Pelasgoi”, R.E. XIX.I (1937) 252–256; W. Brandenstein, “Tyrrhener”, R.E. VII A.2 (1948) 1909–1920; J. Bérard, “La question des origines étrusques”, Revue des Études Anciennes 51 (1949) 201–245; J. Gagé, “La stèle de Lemnos et les Tyrrhènes en Étrurie”, in Huit recherches sur les origines italiques et romaines (Paris: 1950) 15–28; F. Cassola, La Ionia nel mondo miceneo (Napoli: 1957); Sakellariou, La migration, 418–426; 467–473; F. Lochner-Hüttenbach, Die Pelasger (Wien: 1960) 108–111; J. Heurgon, Rome et la Méditerranée occidentale (Paris: 1969) 363–371; M.R. Torelli, “Turranoi”, La Parola del Passato CLXV (1975) 417–433; L. Beschi, “Tirreni di Lemnos alla luce dei recenti dati di scavo”, in Magna Grecia Etruschi Fenici (Atti XXXIII Convegno di Studi sulla Magna Grecia, Taranto 8–13 ottobre 1993) (Napoli: 1996) 43–48; C. De Simone, I Tirreni a Lemnos, evidenza linguistica e tradizioni storiche (Firenze: 1996). Per una rassegna sui Tirreni come pirati nell’inno omerico a Dioniso cfr. M. Conticello De’ Spagnolis, Il mito omerico di Dionysos ed i pirati tirreni in un documento da Nuceria Alfaterna (Roma: 2004) 41– 51. Per i Tirreni a Lemno cfr. anche la testimonianza di Filocoro (FGrHist 328 F 99–101 e pp. 405–413) e Stadter, An analysis, 59. I Tirreni-Pelasgi invasori di queste due isole provenivano, secondo una parte della tradizione, dall’Attica, e Boulogne (Boulogne, Plutarque, 292) ha ricordato che l’iscrizione sulla stele di Kaminia è redatta in un linguaggio molto affine all’etrusco parlato in Italia. Il ratto delle giovani ateniesi è un episodio (probabilmente inventato; cfr. FGrHist 3 b, suppl. 2, pp. 302–303) avvenuto durante la celebrazione delle Brauronie (Hdt. 6.137–140). In merito allo sbarco dei Pelasgi a Brauron ed al rapimento di fanciulle cfr. la testimonianza di Filocoro (FGrHist 328 F 101). Non riconobbe la località dell’Attica l’umanista Filefo, che annotò la lezione corrotta βαῦρονος a margine del cod. Laur. 80,22. Quando le due isole furono conquistate da Milziade il Giovane, nel 510 a.C. La versione filo-ateniese diffusa da Erodoto (6.137–140), invece, parlava di discendenti che, sovrastando i coetanei Pelasgi a causa del proprio mezzosangue ateniese, erano divenuti un pericolo per i padri stessi, fino ad essere uccisi; secondo Plutarco, costoro furono soltanto cacciati. Tale espulsione, forse espressione di una nuova forma di nazionalismo ed orgoglio razziale ateniese, è stata associata da Stadter (Stadter, An analysis, 67–68) ad un passo del Menesseno di Platone (245d) e ad un altro delle Elleniche di Senofonte (2.1–15) per evidenziare un tentativo, da parte

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della fonte adoperata da Plutarco, di riscrivere la storia in base a parametri più razionalistici, e sotto l’influenza della xenofobia in voga ad Atene nella prima metà del IV sec. a.C.; cfr. anche Dumézil, Rites et légendes, 51– 53. Il termine μιξοβάρβαροι sarebbe da intendere senza alcuna sfumatura negativa, come anche μιξέλληνες adoperato in Crass. 31; cfr. anche Strobach, Plutarch und die, 54. LSJ, s.v. traduce il termine con “Half barbarian half greek”, menzionando anche la presenza di tale aggettivo in E. Ph. 138 e in X. HG 2.1.15. La versione di Erodoto (4.145–148) adduce quale motivazione dell’accoglienza dei Mini a Sparta il loro legame di parentela con i Tindaridi, discendenti degli Argonauti (i Dioscuri, protettori di Sparta, avevano preso parte all’impresa degli Argonauti). Conflitto collocabile nell’arcaico periodo dell’occupazione dorica ad opera di Agide, risalente alla terza generazione degli Eraclidi (ad avviso di Eforo; FGrHist 70 F 117), o forse avvenuto più tardi, nel periodo di Alcamene (cfr. Paus. 3.2–7). Boulogne (Boulogne, Plutarque, 292), sulla scorta degli studi di J. Bérard (cfr. Bérard, “La question des origines”, 201–245), ha sostenuto che Plutarco avesse contaminato due eventi distinti e separati, in quanto i Tirreni scacciati da Lemno ed Imbro da Milziade si erano successivamente rifugiati nella penisola Calcidica, dove vivevano ancora all’epoca di Tucidide (che della zona era gran conoscitore; cfr. Th. 4.109). Ad essersi recati in Laconia sarebbero stati, piuttosto, i Mini, precedentemente espulsi da quelle isole in seguito all’arrivo/invasione dei Tirreni. Una simile circostanza di anomala confusione/ibridazione applicata alle fonti non risulterebbe aliena dal modus operandi di Plutarco nella costruzione di questo intero episodio (Stadter, An analysis, 58–68) e di tutto l’opuscolo. Essendo oramai prossima l’esecuzione dei prigionieri, con gran probabilità fu concessa loro la facoltà di un estremo saluto ai condannati. Travestirsi per sfuggire ai nemici era un τόπος frequente nelle leggende storiche; cfr. anche Hdt. 5.18. Per la τρυφή dei Tirreni nei riguardi delle donne cfr. Athaen. 14.517d Kaibel; Polito, Dagli scritti di Eraclide, 136–137. Un espediente simile, adoperato in una circostanza analoga, è narrato da Polieno (8.34). Lo scambio di vesti (seppur con carattere rituale) riconduce al culto di Artemide, divinità evocata più volte nell’arco dell’intero episodio (tramite la menzione di Brauron e le molteplici vicissitudini dello xoanon; cfr. 247D7–E2). Dumézil associava lo scambio di vestiti ad alcuni riti di fecondità; cfr. Dumézil, Rites et légendes, 51–53. Questo stratagemma fu trattato in maniera sintetica anche da Polieno (Strateg. 7.49; 8.71), che però, seguendo la versione erodotea (Hdt. 4.146),

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ed analogamente a Valerio Massimo (Val. Max. 4.6.3), lo ricondusse ai Mini e non ai Tirreni. Il vincolo di parentela (di cui fu concesso il riconoscimento prima della partenza per Creta) tra Spartani e Tirreni effettivamente sussisteva, in quanto, in seguito all’elargizione dello ius connubii, i Tirreni si erano uniti in matrimonio a donne spartane; cfr. 247B. Per la parentela dei Meli con gli Spartani cfr. Th. 5.84. L’opinione più accreditata è che i Greci d’età classica considerassero tale popolo come un ethnos dai contorni piuttosto vaghi, identificando col detto nome tutti i residui di popolazioni pre-elleniche e alloglotte; M. Cristofani, Gli Etruschi del mare (Milano: 1983) 56–61. Harari, invece, collocava in epoche preistoriche o protostoriche l’insediamento dei Pelasgi in isole o aree costiere dell’Egeo settentrionale; M. Harari, “Dioniso, i pirati, i delfini”, PACT 20 (1988) 42. In questa occasione, Plutarco definisce Pelasgi il popolo precedentemente chiamato Tirreni (cfr. anche Boulogne, Plutarque, 293) e, poiché Eforo non aveva mai chiamato Tirreni i migranti lemni in Laconia, è chiaro che “Plutarch … overlooked this difference, thus preserving an indication that the two halves are from diffrent sources” (Stadter, An analysis, 63). Sull’identità tra Pelasgi e Tirreni come dato di fatto nella cultura romana tardo-repubblicana e di epoca augustea cfr. Serv. Ad Aen. 8.600: Hyginus dicit Pelasgos esse qui Tyrrheni sunt: hoc etiam Varro commemorat. La seconda sezione di questa storia, dedicata alla colonizzazione di Melo e Litto (in merito, cfr. anche Quaest. graec. 296BD, dove Plutarco mirava a spiegare l’origine della classe cretese dei κατακαῦται e non vi è menzione dello stratagemma delle donne), viste le corrispondenze tra la versione dei fatti narrata dal Cheronese e diversi elementi deducibili dai racconti di Conone (FGrHist 26 F 36 e 47), Nicola Damasceno (FGrHist 90 F 28) ed Eforo (FGrHist 70 F 117 e 149) riferiti da Strabone (Str. 8.5.4 = FGrHist 70 F 117; Str. 10.4.16–18 = FGrHist 70 F 149) e Plutarco, fu probabilmente tratta da Eforo, con l’aggiunta di qualche particolare rintracciato dall’autore presso altre fonti ed altrimenti ignoto; cfr. Höfer, Konon, 71–73; L. Pareti, Storia di Sparta arcaica I (Firenze: 1917) 124–130; W.R. Halliday, Greek Questions of Plutarch (Oxford: Clarendon, 1928) 108–112; F. Kiechle, Lakonien und Sparta (München: 1963) 75–82; Stadter, An analysis, 59–62. La paternità di tale narrazione era stata precedentemente ascritta a Conone; cfr. Stadter, An analysis, 59–60. Sulla base del testo di Conone (Narr. 36) e di Quaest. graec. 21, si sceglie di preferire Delfo quale nome proprio di uno dei condottieri della spedizione (o come rappresentazione razionalizzante dell’azione di Apollo

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delfico; Wagner, Die Quellen, 118–119) seguendo l’intuizione di Meursius (Miscell. Lacon. I, 7) e la traduzione di Cruserius, piuttosto che la lezione ἀδελφόν tràdita dai codici, sostenuta da Xylander e difesa dalla successiva integrazione ⟨αὐτοῦ⟩ di Nachstädt, atta ad indirizzare esplicitamente il legame familiare tra i due personaggi in oggetto. Malgrado la totale assenza di riferimenti ad eventuali vincoli tra i due personaggi in sostegno alla lectio dei codici, in riguardo alla restituzione di questa sezione testuale, restano attuali sia l’esitazione di cui parla Stadter (Stadter, An analysis, 60 nota 101) sia la sospensione di giudizio mantenuta da Wyttenbach, quando, seppur persuaso dalle argomentazioni di Meursius, affermava “neque enim Cononis Δελφόν adeo firmum putem”; per Delfo promotore di colonie cfr. anche C. Lanzani, L’oracolo delfico: saggio di religione politica nel mondo antico (Roma/Napoli/Città di Castello: 1940) 11–12. 225 Crateide, μητέρα τῆς Σκύλλης, ἥ μιν τέκε πῆμα βροτοῖσιν (Hom. Od. 12.124), era sia la dea della forza dei moti ondosi marini, sia Ecate, divinità trimorfa figlia della Notte (o forse unigenita discendente di Asteria e Perseo, come ricordava Esiodo; cfr. Th. 404–452) di epoca titanica, in possesso di dignità terrestre, desertica e celeste; cfr. W.H. Roscher, Lexicon der griechischen und römischen Mythologie I (Leipzig: 1884–1890) art. Krataiis, 1408–1409. Boulogne, seguendo le tesi di G. Wagner (Wagner, Die Quellen, 119–122), ha visto in Crateide la figura di Artemide, che deteneva diversi elementi in comune con Ecate (la parentela e l’emblema della fiaccola) e, nel contesto narrativo, risulta coinvolta in veste di simulacro protettivo prelevato a Brauron, trasportato a Lemno, e successivamente dimenticato dai profughi/coloni tirreni durante la spedizione a Creta. Per l’arcaicità (forse trasferibile anche all’epoca di formulazione della leggenda fondativa in oggetto) dell’appellativo Crateide, P. Chantraine, in riferimento a κράτος, parlava di un “premier terme de composés”, dove esiste una forma κραται- “qui doit être ancienne”; Chantraine, Dictionnaire étymologique, 578. 226 Lo ξόανον era un’immagine cultuale arcaica (la cui creazione era spesso ascritta alla figura mitica di Dedalo) intagliata in un legno simbolico (ma anche ricavata da marmo od avorio), cui era riconosciuto un prodigioso potere protettivo, e cui talora era conferito un rivestimento in tessuto con valore cerimoniale. Spesso si riteneva fosse caduto direttamente dal cielo (cfr. anche Suidas s.v.), trascinato dalle onde del mare o trasportato da personaggi mitici. Per l’impiego e le valenze del termine ξόανον, dal V sec. a.C. fino all’età bizantina, cfr. A. Donohue, Xoana and the Origins of Greek Sculpture (Atlanta: 1988) passim. Cfr. anche J.P. Vernant, “Figuration et image”, Metis 5 (1990) 227–235; Boulogne, Plutarque, 293.

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227 Gli editori stampano la lectio difficilior di v, che riproduce un verbo piuttosto attestato nella diatesi passiva, in ambito militare, nell’usus plutarcheo (cfr. Arist. 2.1.5; Per. 11.1.4; Pomp. 58.6.4; Phoc. 8.3.7 e T.G. 34.2.1) riportando un sintagma particolarmente affine a quello adoperato in Peric. 27.1.3. Inoltre, la congettura αὐτῶν καταξαμένων del copista di σ conforta l’ipotesi che, a probabili difficoltà di lettura dell’antigrafo (confusione υ / ν), attribuibili a lacuna o parziale corruttela di questa breve sezione di testo, si fossero aggiunti problemi di varia natura nella comprensione della lezione αὐτῶν ταξαμένων tràdita dai codici αAEunβγδ80,5. 228 Erodoto (8.48) e Tucidide (5.84.2) annoveravano Melo tra le colonie di Sparta. 229 Era consuetudine consultare l’oracolo di Delfi prima della partenza di un’impresa di fondazione; in questa occasione pare si trattasse di una profezia creata ad arte (FGrHist 3 b suppl. 2, pp. 303–303) per esigenze politico-demografiche. Cfr. Hdt. 4.155; Th. 3.92.5. Cfr. anche J. Defradas, Les thèmes de la propagande delphique (Paris: 1954) 231–233. La presenza dell’eroe eponimo Delfo sembra essere una rappresentanza di Apollo delfico e del suo oracolo. Pare che l’oracolo favorisse particolarmente l’espansione delle genti doriche; cfr. Lanzani, L’oracolo delfico, 11–12. 230 Presso il porto marittimo di Litto, chiamato Chersoneso, era situato il tempio di Britomarte, indigena divinità minoico-micenea delle montagne e della caccia dall’aspetto terrificante. Poeti e mitografi ellenistici interpretarono Britomarte e Dittinna come compagne di Artemide o come epiteti della stessa dea, e nella pratica del culto continuarono a trattarle come divinità separate. L’epiteto (di origine non ellenica; cfr. Solin. Polyhistor 2.8) di “dolce vergine” era di carattere eufemistico/apotropaico in relazione al suo opposto, e sovrintendeva alla fecondità umana ed animale tra montagne, grotte e fiere (cfr. Str. 10.4.14); C.A.P. Ruck–D. Staples, The World of Classical Myth (Durham: Carolina Academic Press, 1994) 113. Venerata a Creta come Potnia theron e come Dittinna o Ditte, monte situato nell’est dell’isola (presso Cidonia e Lisso) noto come luogo di nascita di Zeus, ove ella era venerata sotto il nome di Britomarpide (variante locale dell’appellativo; ad Egina era onorata nelle sembianze della ninfa montana Afaia o Afa, protettrice delle partorienti e dei bambini) e possedeva un’antica statua di culto fatta risalire a Dedalo. Spesso compariva raffigurata con l’aspetto di una Gorgone in possesso di serpenti; perseguitata per amore da Minosse, riuscì a salvarsi solo gettandosi in alcune reti di pescatori (Call. Dian. 189–203). Il sincretismo di epoca classica la associò ad Artemide nel pantheon delle divinità olimpiche (Paus. 2.30.3), e la descrisse anche in compagnia di Zeus bam-

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bino. W.R. Halliday vide un nesso tra la statua di Artemide trasportata dai Lemni ed il culto cretese di Britomarte (Halliday, Greek Questions, 111), mentre in Preller-Robert si spiegava la somiglianza tra i due culti attraverso il ratto da Brauron delle giovani consacrate ad Artemide; cfr. L. Preller–C. Robert, Griechische Mythologie I (Berlin: 1894) 1, 313, n. 7. Cfr anche Roscher, Lexicon, I, 821–822. In effetti, una nutrita serie di coincidenze cultuali e connotazioni caratterizzanti dell’immaginario mitologico contribuiva notevolmente a riconoscere in Britomarte/Dittinna e Artemide una divinità unica ed identica, a causa della grande quantità di tempo che entrambe trascorrevano insieme (cfr. D.S. 5.76.3), o a vedere in Britomarte direttamente l’Artemide cretese (Solin., Polyhistor 2.8). Per il rapporto tra divinità cretesi ed elleniche in riferimento a monumenti e religione cfr. anche M.P. Nilsson, The Minoan-Mycenaean Religion and Its Survival in Greek Religion (Lund: 1950). Cfr. anche Larson, Ancient Greek Cults, 170; 177–178. Il culto di Artemide a Brauron era uno dei più antichi ed importanti nell’Attica ed era connesso con il parto e l’allevamento dei figli. All’interno del santuario collocato sull’acropoli di Atene vi erano tre statue di Artemide (distinte come la statua “vecchia”, quella “in pietra” e quella “in piedi”) su cui erano poggiati, fino a cinque capi di vestiario per volta, i migliori vestiti donati dalle devote. Cfr. Larson, Ancient Greek Cults, 107– 108. La colonizzazione dorica di Creta fu descritta in dettaglio da Eforo (FGrHist 70F 149), probabilmente nel IV o V libro della sua opera (Stadter, An analysis, 64). L’impresa avvenne durante le prime due generazioni dopo gli Eraclidi, con il contributo di Euristene, Procle ed Altamene. Traduco “gli schieramenti opposti” per valorizzare un’idea di opposizione/contrarietà in contesto bellico che non esplicita il nome dei nemici, pur circoscrivendone il raggio d’azione nei dintorni della città di Litto. Similmente generiche furono le traduzioni “ceulx qui se trouverent en arme devant luy” di Amyot, e “hostes” di Xylander, mentre Rinuccini ricondusse direttamente i nemici al territorio cretese interessato dal conflitto, identificandoli quali “locorum habitatores”. Che i Litti fossero una colonia spartana, e che la costituzione cretese offrisse numerose somiglianze con quella della madrepatria spartana lo testimonia Aristotele (Pol. 1271b28). Cfr. anche 247DE; Wyttenbach, Animadversiones, 9; Stadter, An analysis, 62. C. Talamo ha ritenuto questo episodio del Mul. Virt. un “racconto mitico di fondazione” di Litto, cui Atene “prende parte”, seppur in un “contesto di tensione con il mondo dorico”, notando come dai testi di Erodoto e Polieno si deducesse una

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attenzione di Atene per Litto databile “tra la fine del V e l’inizio del IV sec.”; C. Talamo, “Il sissizio a Creta”, MGR 12 (1987) 10–12. Plutarco sembra aver assoggettato la narrazione storica di questo episodio ad alcune tecniche critiche post-erodotee, sostituendo la terminologia etico-religiosa adoperata da Erodoto con definizioni di carattere prettamente politico, “in the style of later historiography” (Stadter, An analysis, 66). Secondo quanto narrato da Plutarco (247C6–7) e rimarcato da Boulogne (che parla di “contradiction” che “s’explique par la fusion de deux récits différents”; cfr. Boulogne, Plutarque, 294), i Tirreni avevano precedentemente preteso di potersi presentare altrove quali parenti e coloni degli Spartani come condizione necessaria per assicurare la cessazione delle ostilità e la propria partenza dalla Laconia. Servio reputava più probabile che i Pelasgi, ritenuti i primi ad aver abitato l’Italia, fossero originari della Tessaglia, piuttosto che di Atene o Sparta; cfr. Serv. Ad Aen. 8.600: Veteres sacrasse Pelasgos de his varia est opinio; nam alii eos ab Atheniensibus, alii a Laconibus, alii a Thessalis dicunt originem ducere, quod est propensius: nam multas in Thessalia Pelasgorum constat esse civitates. Secondo Gallé Cejudo, questa storia potrebbe essere elevata a massima espressione del “Plutarco trasmisor” per via delle quattro versioni (cinque, contando anche la versione omerica che soggiace al tentativo di razionalizzazione ed esegesi evemeristica dell’episodio inerente a Bellerofonte e alla Chimera) differenti della vicenda presentate dall’autore; cfr. R.J. Gallé Cejudo, “Plutarco y la transmisión de los fragmentos elegíacos de época helenística: algunas hipótesis sobre el Mvliervm Virtvtes”, in J.M. Candau Morón–F.J. González Ponce–A.L. Chávez Reino (eds.), Plutarco transmisor, Actas del X Simposio Internacional de la Sociedad Española de Plutarquistas, Sevilla, 12–14 de noviembre de 2009 (Sevilla: Universidad de Sevilla, 2011) 47. Sul popolo licio cfr. anche J.J. Bachofen, Il popolo licio (Firenze: 1944). Per il diretto collegamento della mitopoiesi con un particolare ambiente geografico e culturale, e per la visione del mito come genere letterario, cfr. Vernière, Symboles et mythe, 101; 295–300. Questa espressione proemiale dell’autore mette in luce tutta la consapevolezza dell’esistenza di numerose saghe riguardanti Bellerofonte, Pegaso e la Chimera, ma forse anche una volontà di superare, in una maniera embrionalmente razionalistica, le leggende e credenze popolari legate ad eventi straordinari piuttosto che alla presenza ed influenza di dei ed eroi sulle vicende umane e naturali. In questo caso τὸ μυθῶδες non svolge funzioni di ornamento o incanto, ma lascia il campo ad un’inda-

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gine sul prodotto di una categoria di storie risalenti al genere letterario della mythographia/mythologia, che risulta in un certo modo assimilabile al concetto aristotelico di paradoxia (cfr. Arist. Metaph. 982b18–20), e ben traducibile con il termine “counterintuitiveness”; cfr. G. Casadio, “Mythos vs Mito”, Minerva 22 (2009) 55; 59; 63. Questo spirito analitico pare lungi dal gusto per l’allegoria, che in Plutarco era forse più vivo anche rispetto a Platone stesso; cfr. Vernière, Symboles et mythe, 314–318; 330. Cfr. anche A. Pérez Jiménez, “La filiación en las Vidas paralelas de Plutarco. Interpretación ética y política de los hijos de los dioses”, in P. De Navascués Benlloch–M. Crespo Losada–A. Sáez Gutiérrez (eds.), Filiación. Cultura Pagana, Religión de Israel, Orígenes del Cristianismo (Madrid: Trotta/San Justino, 2014) 134. 240 Nelle Animadversiones, D.A. Wyttenbach a buon diritto sosteneva che in questo episodio “Plutarchus singularia ex suis fontibus hausit”. 241 Le quattro versioni del mito riferite da Plutarco non seguono la tradizione poetica, mostrandosi quali “examples of the rationalization of the myths introduced by the Ionians, the chief exponents of which were Hecataeus, Herodotus and Euhemerus”, i quali autori “attempted to reduce the myths to stories which might take place even in their own day” (Stadter, An analysis, 69). Tali deduzioni di Stadter aiutano a comprendere lo spirito razionalistico che in questo episodio muoveva Plutarco, messosi all’occasione in scia alla scuola ionica, pur nutrendo una mai celata avversione per Erodoto ed il suo metodo compositivo. Cfr. anche F. Wipprecht, Zur Entwicklung der rationalistischen Mythendeutung bei den Griechen I (Tübingen: 1902); Wipprecht 1902; Grimaldi, Plutarco, La malignità, 9–15. B. Sergent, invece, ha ritenuto la tentata razionalizzazione dei fatti narrati il frutto di “tradizioni, svalutate da una evemerizzazione troppo evidente” a causa della loro “eterogeneità in rapporto alla vulgata omerica, esiodea e pindarica”; cfr. B. Sergent–G. De Turris, Celti e Greci. Il libro degli eroi (Roma: 2005) 296–297. 242 L’espressione ὥς φασι (cfr. 243F2) sembra denotare una sorta di dubbioso e quasi incredulo distacco, nei confronti del materiale narrativo in oggetto e, forse, dell’attendibilità degli estensori di tale versione locale del mito che l’autore è in procinto di riferire. Secondo Boulogne, Plutarco avrebbe voluto adoperare una “juste mesure en évitant la crédulité, qui est propre de la superstition, ou le scepticisme systématique” (di matrice platonica), “lequel nie tout ce qui échappe aux explications de la raison”, contraddistinguendosi per l’equilbirio di discernimento. Tuttavia, l’umanizzazione di Bellerofonte ed una razionalizzazione del mito, che comunque non esclude attori divini, rendono questo episodio un emblematico

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limite (sicuramente ascrivibile alla temperie culturale e alle conoscenze dell’epoca) alla “perspective étiologique et razionaliste” di cui sarebbe intriso il Mulierum Virtutes (Boulogne, Plutarque, 24–25). Lo studioso francese, inoltre, ivi riconosce l’attitudine fondamentale del Cheronese nei confronti dei miti in ossequio alle proprie credenze religiose. Sull’evoluzione del pensiero di Plutarco in merito alla superstizione cfr. R. Flacelière, La vie quotidienne en Grèce au siècle de Périclès (Paris: 1959) 197–215. In merito all’utilizzo critico dei miti da parte di Plutarco cfr. De Is. et Osir. 358F e 374E; De gen. Socr. 589F; Amat. 762A; Vernière, Symboles et mythe, 336–340. 243 Il saggio e tranquillo re Amisodaro, padre di Atimnio e Maride (compagni di Sarpedone; cfr. Hom. Il. 16.326–329), regnò nei pressi del fiume Xanto. Tenne a bada e, quando possibile, nutrì come un animale domestico, offrendole vittime umane, la Chimera, per evitare che devastasse i campi del reame (cfr. Hom. Il. 16.328–332). Secondo la tradizione cui pare rimontare Plutarco, invece, Amisodaro era un pirata che infestava i mari e che aveva affidato la propria flotta al crudele Chimarro, ovvero alla Chimera, protettrice dei re pirati che le offrivano sacrifici umani. L’appellativo Amisodaro (proveniente dal sanscrito amischa-dârah) sarebbe stato dunque un nomen loquens riferito a “colui che strappa (dârah) la carne (amischa)” ed il personaggio, secondo tradizione religiosa e sacrificale relativa alla triplice natura della Chimera, navigava restando al centro del vascello in attesa della vittima umana di turno. In tal senso Bellerofonte, sconfiggendo la Chimera, avrebbe anche abolito l’usanza di sacrificare vittime umane. Cfr. F. D’Eckstein, “Sur les sources de la Cosmogonie de Sanchoniathon”, JA (V serie) 15 (1860) 215; 217–218 e, per la somiglianza di questo episodio con il mito indiano di Parâshu-Râma, le pagine 220–223. Cfr. anche Palaeph. De incredibilibus 28.37–39 Festa; E. Bethe, “Bellerophon”, R.E. III.1 (1897) 245. 244 Nome di persona che compare soltanto in questo luogo. Per l’onomastica licia cfr. anche N. Cau, “Onomastica Licia”, Studi Ellenistici 16 (1984) 345– 376. 245 All’interno della celebre sezione definita “catalogo delle navi” dell’Iliade (2.824–827) si parla in breve degli abitanti di Zeleia come ricchissimi e bevitori dell’acqua nera dell’Esepo, presenti nel campo dei Troiani come alleati capeggiati da Pandaro, figlio glorioso di Licaone, cui Apollo in persona donò l’arco. Zeleia, inoltre, è celebrata (Il. 2.824) come città lontana situata ai piedi del monte Ida (in turco: Kazdağı; altura nei pressi dell’antica Troia, nell’attuale provincia di Balıkesir). Strabone (13.585) affermava erroneamente che nell’Iliade gli abitatori di Zeleia fossero rico-

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nosciuti quale popolazione licia. Anche sull’eventualità che Zeleia non fosse una colonia licia cfr. Stadter, An analysis, 69 nota 125. 246 Nelle Annotationes di Xylander, senza specificare altro, si legge: “Non ignotum est, quid χίμαρος & χίμαιρα significent”. 247 L’ambivalenza del termine δράκων e del corrispondente latino draco, senza chiarire il reale significato delle versiones latinae di Rinuccini, Xylander, Wyttenbach e Dübner, ha condotto alla traduzione “drago” ad opera di Ridolfi ed Adriani, mentre la resa “dragon” di Amyot ha influito sull’Abbé Ricard, Boulogne e sugli studiosi francesi (cfr. D’Eckstein, “Sur les sources”, 217–218), che han inteso riconoscere nella coda di drago la figura del regnante nell’Ade (nello specifico, la testa leonina della Chimera avrebbe rimandato al mondo celeste e il corpo di capra sarebbe stato simbolo di Ecate terrestre destinataria di sacrifici umani o animali). Successivamente, forse anche per accreditare maggiormente lo spirito prevalentemente razionalistico dell’autore in questo episodio, con Babbitt si è imposta la traduzione “serpent”, seguita anche da Chiossone, a seguito dell’attestazione omerica (Il. 6.179–182) e della gran parte delle testimonianze iconografiche, che rimandano al serpente dell’oltretomba spirante fuoco. 248 La saga di origine asiatica di Bellerofonte (eroe corinzio, forse generato da Poseidone, ma allevato come figlio del re di Corinto, Glauco. Dopo aver ucciso il fratello Deliade, o il re di Corinto Bellero, prese il nominativo di “assassino di Bellero”, ovvero Βελλεροφόντης) contro la Chimera, ambientata in Licia, era stata menzionata per la prima volta in Il. 6.152– 205 e poi rinarrata da Esiodo (Th. 319; Catalogo delle donne fr. 7), Pindaro (Ol. 13.60–91; Istm. 7.44), Sofocle (in una tragedia intitolata Iobate, andata perduta), Euripide (in due tragedie, di cui restano solo frammenti: il Bellerofonte e la Stenebea), Apollodoro (Bibliotheca 1.9.3; 3.3.1), Igino (Fab. 56; 157) e Giovanni Tzetze (ad Lyc. 17); cfr. Roscher, Lexicon, 757–774; Bethe, “Bellerophon”, 241–251; L. Radermacher, Mythos und Sage bei den Griechen (Brünn/München/Wien: 1903) 103; C. Robert, Griechische Heldensage I (Berlin: 1920) 179–185; L. Malten, “Bellerophontes”, JDAI 40 (1925) 121–160; R. Peppermüller, Die Bellerophontessage (Diss., Tübingen, 1961); T.B.L. Webster, La Grèce de Mycènes à Homère (Paris: 1963) 73. La saga di Bellerofonte fu spiegata in maniera allegorica (cfr. Olymp. in Grg. 44.4) fino anche a simboleggiare la lotta tra il bene ed il male in epoca cristiana. Per un’esegesi interculturale e geograficamente estesa del mito di Bellerofonte cfr. R. Graves, Greek Myths (London: 31960 [1955]) 150–152; per il successo riscosso da tale mito nell’ambito dell’iconografia, musica, arte e letteratura nel corso dei secoli cfr. Moormann–Uitterhoeve, Miti e personaggi, 159–161.

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249 La figura mitologica di Pegaso, sempre descritto quale cavallo alato dalla tradizione antica (cfr. Hom. Od. 4.708–709; Hes. Th. 278–286; 319–325; fr. 43a; 84ss; Pi. O. 13.115–166; Ar. Pax 76–77; Posidipp. Epigram. 14; Schol. ad Hom. Il. ζ. 155.5–6; Eratosth. Cat. 18.5; Apollod. Bibliotheca 32; Hor. Carm. 4.12; Hyg. Astron. 2.17; Str. 34–35; Prop. 30; Ov. Met. 4.786–789; Paus. 2.4.1 et alia) ha spesso ricevuto, da parte di lettori e traduttori di varie epoche del Mulierum Virtutes plutarcheo, una razionalizzazione che ha portato ad identificarlo in una velocissima nave al servizio di Bellerofonte. Già l’autore dell’opuscolo mitografico di tardo IV secolo, intitolato Περὶ ἀπίστων ed attribuito a Palefato, nel cap. XXVIII dedicato a Bellerofonte, non solo esprimeva i propri dubbi (cfr. anche Filocoro = FGrHist 328 F 104) affermando: Ἐμοι δὲ τοῦτο ἵππος οὐδέποτε δοκεῖ δύνασθαι, οὐδ’εἰ πάντα τὰ τῶν πτηνῶν πτερὰ λάβοι, ma forniva successivamente anche una propria spiegazione più razionale della leggenda di Pegaso: (Βελλεροφόντης) κατασκευάσας δὲ πλοῖον μακρὸν ἐληῒζετο τὰ παραθαλάσσια χωρία πλέων καὶ ἐπόρθει. Ὄνομα δὲ ἦν τῷ πλοίῳ Πήγασος (ὡς καὶ νῦν ἕκαστον τῶν πλοίων ὄνομα ἔχει· ἐμοὶ δὲ δοκεῖ πλοίῳ μᾶλλον ἢ ὄνομα κεῖσθαι Πήγασος), (cfr. Festa, Mythographi, 37–40). Da Palefato fu richiamata nuovamente tale esegesi nel cap. XXIX, in riferimento agli ἵπποι ὑποπτέροι cavalcati da Pelope, descritti come emblemi dipinti sul legno della nave utilizzata dall’eroe per rapire Ippodamia. In seguito, l’umanista Rinuccini tradusse il passo “Pegaso citissima quadam, ut arbitror, navi, assecutus interemit”, formulando una ipotesi di carattere apparentemente personale e non suggellata da un preciso richiamo alle fonti, mentre generica sembra essere la resa di Amyot “Bellerophon qui le poursuyuit suyant avec son Pegasus”, corredata dalla nota al testo “les poëtes seignent que c’estoit un cheval alé, mais il est vray-semblable que c’estoit un vaisseau fort leger” che, in base ad un criterio di verosimiglianza, si distaccava dalla tradizione poetica attraverso un cosciente vaglio analitico che individuava in Pegaso un rapido vascello. Torquato Tasso, poi, nel dialogo intitolato Il conte, o dell’imprese, citava espressamente l’opera De le donne illustri di Plutarco per discutere di “una velocissima nave detta Pegaso, peraventura da l’insegna di quel mostruoso animale”, riproponendo l’eziologia dell’emblema equino come elemento primario e infine, a riprova di un corretto indirizzo di profonda riflessione razionalistica basata sulle fonti letterarie, Giambattista Vico, a proposito della Mitologia di Perseo, Andromeda e Pegaso, riferiva: “il quale Perseo con Pegaso, ossia colla nave, ossia col cavallo del mare e coi remi, che sono le ali delle navi poiché Omero adoperava ambedue queste frasi”, evocando l’ascendenza omerica della metafora cavallo/nave (cfr. Od. 4.708–709). Tuttavia la versione plutarchea degli eventi

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lascia pensare che si potesse trattare anche solo di un semplice cavallo. Nel racconto tradizionale, il re di Licia Preto, alla fine, ricompensava l’eroe cedendogli metà del regno e la propria figlia in sposa, dopo avergli riconosciuto la parentela divina e predisposto un campo, bello d’alberata e arativo, affinché abitasse con loro (Hom. Il. 6.191–195). La mancata gratitudine per gli sforzi messi in campo da Bellerofonte, oltre all’incapacità maschile di avere una risposta positiva, rappresentò l’elemento determinante per la discesa in campo, con atto risolutivo, da parte delle donne di Licia. Leggendario re di Licia, padre di Antea (detta anche Stenebea; cfr. Hygin. Fab. 57) e Filonoe, vide giungere presso la propria corte Bellerofonte con una missiva di Preto, re di Tirinto, in cui si chiedeva di uccidere il latore stesso dell’epistola per aver sedotto Stenebea (Anonym. De incredibil. 29). Impossibilitato a farlo a causa dell’inviolabilità dei partecipanti al convito nella sua terra, sperò di eliminare comunque Bellerofonte affidandogli l’improba missione di uccidere la Chimera. Riuscito nell’impresa grazie all’invio del cavallo alato Pegaso da parte di Atena, ritornò da un incredulo Iobate, che gli concesse in premio la mano della figlia Filonoe. Su Iobate cfr. anche Apollod. Biblioth. 2.24–25, p. 57 Festa. L’inserimento dell’elemento marino, simboleggiato da Poseidone e dalle inondazioni, probabilmente costituiva la variante locale licia del mito di Bellerofonte, in quanto il mito di quest’ultimo doveva essere “attaché aux mythes de la nature”, incarnando “notamment la maîtrise del’eau”; cfr. Boulogne, Plutarque, 295. Poseidone era in origine “a god of elemental, geological forces: life-giving springs, disastrous floods, chasms through which water flows or recedes, and tremors in the earth” (Larson, Ancient Greek Cults, 57). Per la figura del “Marine Poseidon” cfr. Larson, Ancient Greek Cults, 60–61. Tale calamità, prodotta artificialmente per intervento divino (secondo il mito), aveva una base fattuale poiché le zone costiere della Licia erano spesso oggetto di inondazioni (celebre quella del 68 d.C.; cfr. Dio Cassius 63.26.5). Cfr. anche Orac. Sybill. 3.439–441; 4.112–113; 5.126–129; O. Benndorf–G. Niemann, Das Heroon von Gjölbaschi–Trysa (Wien: 1889). Il verbo ἀνασύρομαι ricorre anche altrove nelle fonti sul cinismo (Diogen. V B 403 Giannantoni = D.L. VI.46). Un comportamento identico è attribuito ad un’anonima donna spartana in Apophth. Lac. 241B. Cfr. anche Santaniello, Plutarco, Detti, 429. Il verbo ricorre anche in De Al. Magn. fort. 330D2. Letteralmente, τὸ μυθῶδες, che compare anche altre due volte all’interno della medesima storia (cfr. 247F2 e 248D2), indica il favoloso, la parte

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legata o riconducibile al mito nell’ambito di un testo o di un racconto. In questa circostanza, la figura etymologica παραμυθούμενοι τὸ μυθῶδες accentua lo sforzo razionalistico, sostenuto dagli autori e dalle fonti selezionate da Plutarco per la composizione del brano, di conferire agli occhi del lettore una certa attendibilità “storica”, o realistica verosimiglianza, alla propria versione degli eventi rispetto alle precedenti narrazioni di sapore mitico. Il verbo παραμυθέομαι è traducibile nell’accezione di assuage, abate, soften down, palliate (cfr. LSJ, s.v.). 256 Non si tratta di una dittografia, come riteneva Cobet, ma di una peculiarità dell’usus scribendi del Cheronese, che soleva accumulare paronimi come sinonimi per il piacere dell’orecchio (cfr. 258E5 ἀμαθὴς καὶ ἀκρατής); cfr. Weissenberger, La lingua di Plutarco, 99 e Boulogne, Plutarque, 295. 257 Con Stephanus, Xylander, Wyttenbach, Reiske ed Hutten, accetto ὄρει conservato dalla totalità dei manoscritti, poiché sulla montagna si verificano le immediate ricadute dei riverberi solari, e proprio l’elemento montuoso, oltre a rivestire un notevole rilievo contestuale nell’arco della dinamica narrativa e del paesaggio della Licia, si configura in sostanziale antitesi morfo-geologica con l’adiacente territorio pianeggiante (cfr. anche Michel. Apostol. Collectio Paroem. 28.14–30). Anche l’attestazione di attività vulcanica presso Phaselis, forse, ha contribuito alla sortita di effetti devastanti. La varia lectio θέρει, nota grazie alla testimonianza di Anonym. De Incredib. 8 ed accolta da Dübner, Bernardakis, Babbitt, Nachstädt ed Ingenkamp, ricollega l’accresciuta intensità dei riflessi solari alla calura estiva, convertendo una notazione geografica in precisazione temporale. Tuttavia, gli effetti devastanti dei raggi solari, più che dipendere da particolari fattori stagionali, paiono ascrivibili principalmente alla levigatezza del dirupo assolato, così come la mancanza di un pur minimo riferimento all’estate, da parte dell’autore e delle altre fonti di questo episodio, potrebbe forse ricondurre la variante in oggetto alle mire esegetiche di un ambiente scolastico tardoantico, o ad uno scambio θ/ο avvenuto su codice vergato in maiuscola. 258 I codici leggono concordi ἀνταποστέλλον, verbo non comune (cfr. Aen. Tact. Poliorcetica 31.9.4; Plb. 21.43.22; Pseudo-Lucianus Dem. Enc. 39.9 e S.E. M. 8.86.10) ivi riferito alla rifrazione dei raggi solari tramite l’opposizione spaziale tecnicamente indicata dalla preposizione ἀντί. Va tuttavia rilevato che questa sarebbe l’unica attestazione di ἀνταποστέλλω nell’usus plutarcheo, dove, di contro, risulta molto frequente ἀποστέλλω tramandato da Anonym. De Incredib. 8.

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259 R. Graves connetteva tale atto con il culto erotico della divinità egizia Apis e, associandolo ad un’icona raffigurante delle donne selvagge impazzite che adoperavano un hippomanes giungendo a sanguinare dall’utero, ipotizzava che le donne Xantie, nell’implorare Bellerofonte, forse indossarono maschere cultuali di sembianze equine connesse al colore giallo. Inoltre, Graves riteneva che l’approccio di donne svestite nei confronti del capoclan, con cui era proibito relazionarsi, lo avrebbe costretto a ritirarsi e nascondere la propria faccia; stesso rimedio, nella leggenda irlandese, era adoperato contro Cüchulainn, quando la sua furia non poteva essere altrimenti contenuta; cfr. Graves, Greek Myths, 152. Marasco ha parlato di “probabile connotazione magica” di tale gesto (Marasco, “Sul Mulierum virtutes”, 336), mentre, all’interno del capitolo dedicato alle “potenze misteriose del corpo”, R. Bracchi ha classificato questa vicenda narrata da Plutarco quale caso di “denudamento rituale finalizzato alla legatura magica delle forze naturali e dei demoni che la scatenano”; cfr. R. Bracchi, Nomi e volti della paura nelle valli dell’Adda e della Mera (Tübingen: 2009) 293. 260 Cfr. la lettura misogina in Consolat. ad Apollon. XL: “Raccontasi che il legislatore de’ Licii comandò a’suoi cittadini, che quando volevan piangere vestissero abiti femminili, volendo dimostrarci che tale affetto è più conveniente a donna, che ad uomini modesti e addirizzati da nobile erudizione” (traduzione di M. Adriani il Giovane; cfr. Adriani, Opuscoli di Plutarco volgarizzati, t. I, 326). 261 Secondo Marasco, l’episodio “assume in realtà un valore elogiativo più del pudore di Bellerofonte che della virtù delle donne licie”; cfr. Marasco, “Sul Mulierum virtutes”, 336. 262 Questa seconda versione dei fatti rappresenta un deciso sforzo dell’autore di rimuovere gli elementi di natura mitologica presenti nella prima spiegazione (in particolare l’onda punitiva inviata da Poseidone). 263 La devozione nei confronti degli dei non sembra essere, agli occhi di Plutarco sacerdote di Delfi, l’elemento che contribuiva in maniera decisiva al carattere popolare e mitico della leggenda. 264 La razionalizzazione degli eventi proposta sostituisce gli dei con gli eroi e l’onda anomala di origine divina riceve spiegazione attraverso l’analogia con altre imprese eroiche, in quanto il taglio di dighe/canali era una facoltà anche di Eracle; cfr. Str. 7 fr. 44 M; Paus. 8.14.1–3. 265 Questa versione dei fatti rese anche “more normal” l’azione delle donne di Licia, “who only flocked about Bellerophon, filling him with shame and placating his anger”; cfr. Stadter, An analysis, 70. 266 Essere mostruoso di natura divina e tripartita: la triplice composizione, forse, faceva intravedere in ogni testa uno dei popoli contro cui aveva

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combattutto Bellerofonte (i Solimi, le Amazzoni e i Lici; cfr. Schol. ad Lycophr. 17). Olimpiodoro (In Grg. 44.4) registrava diverse tradizioni interessanti in merito alla Chimera, tra cui quella risalente al filosofo Ammonio, informato dal generale Solone di Alessandria del fatto che ἐν Λυκίᾳ ἐγένετο γυνὴ ἥτις ἐκαλεῖτο Χίμαιρα, καὶ αὕτη ἔτεκεν δύο τέκνα Λέοντα καὶ Δράκοντα καλούμενα. Secondo Graves, la Chimera era “symbol of the Great Goddess’s tripartite Sacred Year-lion for spring, goat for summer, serpent for winter” (cfr. Graves, Greek Myths, 151), e la lotta di Bellerofonte avrebbe rimandato al conflitto dell’uomo contro l’alternanza delle stagioni, oppure alla vittoria degli invasori greci sui Cari, che determinò la soppressione del loro calendario. Per un’analisi del mito della Chimera e della sua spiegazione talora razionalistica cfr. Palaeph. De incredibil. 28, pp. 37–39 Festa; Heracl. De incredibilib. 15, pp. 78–79 Festa; Exc. Vat. 8, p. 91 Festa; Graves, Greek Myths, 150–152; Stadter, An analysis, p. 70 e nota 127 e, da un punto di vista interdisciplinare (archeologia, linguistica, mitologia, orientalistica, psicologia, storia dell’arte), U. Bardi, Il libro della Chimera: storia, rappresentazione e significato del mito (Firenze: 2008). 267 Ctesia (= FGrHist 688 F 45) parlava di una montagna licia chiamata Chimera (“Goat Mountain”, come traduceva Graves, Greek Myths, 152), mentre Palefato (Anonym. De incredibilibus 29), Servio (secondo cui il monte Chimera era abitato da leoni sulla vetta, da capre alle pendici, e da serpenti ai piedi; cfr. Ad Aen. 6.288) e alcuni scoliasti (Ad. Il. 6.181) collegavano Bellerofonte alla cacciata di leoni e serpenti da un monte: l’identificazione della Chimera con una montagna potrebbe essere giustificata dall’attestata attività vulcanica dell’epoca, piuttosto che dagli effetti nefasti dei raggi solari riflessi; cfr. E. Bethe, “Chimaira”, R.E. III.2 (1899) 2281–2282; Malten, “Bellerophontes”, 121–160. Cfr. Anonym. De incredibil. 8; Stadter, An analysis, 71. Cfr. anche Graves, Greek Myths, 152. Nei pressi dell’antica Olympos (odierna Kemer, in Turchia, a sud-ovest di Antalya), città federata della Licia, vi era un’altura vicino al mare dove ardeva una fiamma eterna (chiamata Chimera) visibile in tutta la regione circostante, originata da emissioni di gas metano che filtravano tra le rocce della collina. 268 Cfr. FGrHist 688 F 45e = Antigon. Hist. mir. 166, dove si localizza nella terra dei Faseliti ἐπὶ τοῦ τῆς χιμαίρας ὄρους la presenza di τὸ καλούμενον ἀθάνατον πῦρ e Plin. H.N. 2.236, dove si narra che flagrat in Phaselitis mons Chimaera, et quidam immortali diebus ac noctibus flamma. Cfr. anche P. Mela 1.15. L’esegesi razionalistica del mito della Chimera sostituiva all’animale che sputava fuoco una montagna che produceva vampate di calore deva-

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stanti dopo l’esposizione al sole; cfr. I. Ramelli–G. Lucchetta, Allegoria, vol. I, L’età classica, introduzione e cura di R. Radice (Milano: 2004) 210. La montagna rappresentava un pericolo rilevante anche nel mito di Pegaso, poiché, già durante la gara di canto tra Muse e Pieridi, per il piacere, l’Elicona si era ingigantito fino a minacciare il cielo; cfr. Arat. Phain. 216– 224 e Paus. 9.31.3. Su Ninfi, esponente dell’aristocrazia locale, accanito oppositore della tirannide e rappresentante della storiografia eracleota attivo tra gli ultimi decenni del IV secolo e gli anni ’40 del III secolo, e che, cercando di valorizzare il ruolo di Eraclea nella storia mitica dei Greci, ha goduto di una notevole fortuna non riscontrata dalla trasmissione della sua opera cfr. R. Laqueur, “Nymphis”, R.E. XVII.2 (1937) 1608–1623; P. Desideri, “Studi di storiografia eracleota”, SCO 16 (1967) 366–416; S. Gallotta, “Per un’introduzione ai Pontika”, in E. Lanzillotta–V. Costa–G. Ottone (eds.), Tradizione e trasmissione degli storici greci frammentari. In ricordo di Silvio Accame. Atti del II workshop internazionale, Roma, 16–18 febbraio 2006 (Tivoli: 2009) 441–445. Nel racconto di Ninfi (= FGrHist 432 F 7; Suidas s.v.) Bellerofonte diviene solo un essere umano di capacità straordinarie, perdendo l’aura eroico-divina: tuttavia, la razionalizzazione del mito è solo parziale, in quanto rimane protagonista l’operato di Poseidone. Agli occhi dell’autore, il fattore determinante per il corso degli eventi è l’uomo Bellerofonte, capace di condizionare il corso delle vicende invocando, e poi placando, l’intervento esterno del padre Poseidone attraverso i propri scongiuri. In tale modo, la pietas conduce la figura umana a riguadagnare centralità nei fatti narrati, e a ricreare un ciclo razionale degli eventi che non contempli atti sovrumani, quali la cacciata delle Amazzoni, la rottura di una diga o il taglio di un pezzo di montagna. Il Περὶ Ἡρακλείας, di cui rimangono 19 frammenti, si componeva di 13 libri che trattavano del passato mitico di Eraclea fino alla caduta della tirannide nella città. Il contenuto del quarto libro, di cui Plutarco cita probabilmente un excursus, non è noto, anche se è probabile che Ninfi avesse tentato di ricostruire un patrimonio di tradizioni di carattere storico e mitico in cui gli Eracleoti potessero riconoscere la vera storia di Eraclea, rielaborando in funzione locale alcune tradizioni sul Ponto. Città fondata, secondo la leggenda, da Eracle in Asia minore occidentale. A parere di Stadter, Ninfi avrebbe potuto collegare in qualche modo la Licia con Lico, re dei Mariandini che accolse Eracle nel suo territorio, di cui lo storico eracleota parlava nel libro I del trattato (= FGrHist 432 F 4–5). Per giustificare tale connessione, Stadter giungeva anche ad ipotizzare, nel rimando alla medesima opera, uno scambio paleografico

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(non attestato nei mss. plutarchei) tra quarto e primo libro; cfr. Stadter, An analysis, 72 e nota 136. Boulogne, poi, ha ipotizzato la presenza in zona di una caccia al cinghiale, o di un deposito salino causato da un’alta marea, per spiegare la presenza del mito di Bellerofonte all’interno di un’opera in cui a priori l’eroe non pareva coinvolto; cfr. Boulogne, Plutarque, 295. Sembra che le quattro versioni dei fatti siano state esposte in ordine crescente di credibilità/attendibilità; ad avviso di Stadter, Plutarco, come consueto nelle Vite Parallele, riportava differenti versioni di un episodio narrando “first … the more fabulous yet more interesting version, then that which is more credible”. Cfr. Rom. 2.4–3.1 e Stadter, An analysis, 73. In nessuna opera si accenna ad un cinghiale ucciso da Bellerofonte. Il collegamento con figure eroiche che ammazzarono cinghiali (Calidonio e di Erimante) forse condusse Ninfi a vedere nella Chimera un animale simile. Poseidone, tramite la salinizzazione indotta del terreno, avrebbe mandato in rovina anche la terra vicino Trezene, prima di essere debitamente placato; cfr. Paus. 2.32.8. Per Poseidone come “god of chaos in nature and brute force in men and animals”, particolarmente venerato nelle coste dell’Anatolia più soggette a terremoti e maremoti, cfr. Bremmer, Greek religion, 18. Che anche Ninfi introducesse il particolare della self-exposure femminile all’interno della sua narrazione non si ha la certezza; cfr. Stadter, An analysis, 72–73 e nota 138. Il procedimento osceno (cfr. anche 246A4– 6), da interpretare come atto in grado di suscitare pietà, richiamando la figura materna nel suo spettatore, o capace di ispirare vergogna (cfr. Apophth. Lac. 241B), forse possedeva originariamente una connotazione di carattere religioso o magico; cfr. O. Gruppe, Griechische Mythologie II (Münich: 1906) 896; Moreau, “Les guerriers”, 283–300. Il gesto è testimoniato anche in ambito egizio (alcuni soldati egizi mostrarono il membro virile come gesto di disprezzo verso gli emissari del re che ingiungevano loro di lasciare l’Etiopia per far ritorno in patria; cfr. Hdt. 2.30; D.S. 1.85.3 e Plu. De exil. 601DE), eleusino (cfr. Clem. Al. Protr. 2.27), celtico (in un simil modo gli Irlandesi annullavano il furore mortale dell’eroe Cüchulainn), germanico (le donne germaniche si denudavano il petto per incoraggiare i combattenti; cfr. Tacit. Germ. 8.1) e bizantino (Leo Diacon. Historiae, edidit K.B. Hase = Corpus Scriptorum Historiae Byzantinae XI, Bonn 1828, II.6–14D); cfr. anche R. Thurneysen, Hirische Helden- Und Königsage (Halle: 1921) 139; M.L. Sjoestedt, Dieux et héros des Celtes (Paris: 1940) 90– 91. A causa della reversibilità del sacro, l’impurità a volte incute una forza mistica terribile nella persona cui ne viene fatta mostra, mentre altre

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volte rende impotenti i nemici; cfr. Plu. Brut. rat. 989A, dove le donne si spogliano dinnanzi al sacro capro per captare la forza riproduttiva del dioanimale; cfr. J. Caseneuve, Sociologie du rite (Paris: 1971) 147–213. Poseidone era riconosciuto come una sorta di “macho god” protettore della maturazione dei giovani e, per tale ragione, talora alle donne era vietato recarsi nei suoi templi; Bremmer, Greek religion, 18. L’anonimato di tre su quattro delle differenti versioni del racconto potrebbe suggerire un loro rinvenimento in uno scolio (ad esempio, è frequente la citazione di Ninfi negli Scoli ad Apollonio Rodio) o opuscolo mitologico; resta improbabile che fossero state riportate tutte in quattro loci diversi, in un identico volume o soltanto dallo stesso Ninfi. Cfr. Stadter, An analysis, 73. Wyttenbach segnalava che il “verbum χρηματίζειν, appellari, nominari, hanc notione antiquis classicis quidem non usurpatum” (Wyttenbach, Animadversiones, 10), portando Anton. 54.6.5 quale unica eccezione. La tradizione greca ha insistito sul voler presentare, anche in maniera tendenziosa, le usanze licie come nettamente opposte a quelle dei Greci. Secondo Marasco, Plutarco reputava il matriarcato licio “ben lontano dal ruolo che egli stesso attribuiva alla donna nella famiglia e nella vita sociale e, per tale motivo, ne ricercò con scrupolo l’etiologia, quasi a sottolinearne l’eccezionalità”; cfr. S. Pembroke, “Last of the Matriarchs: a Study in the Inscriptions of Lycia”, JESHO 8 (1965) 217–247; S. Pembroke, “Women in Charge: the Function of Alternatives in Early Greek Tradition and the Ancient Idea of Matriarchy”, Journal of the Warburg and Courtauld Institutes 30 (1967) 1–35; P. Vidal Naquet, “Esclavage et gynécocratie dans la tradition, le mythe, l’utopie”, in Recherches sur les structures sociales dans l’antiquité classique (Paris: 1970) 67–80; Marasco, “Sul Mulierum virtutes”, 336. Sul matriarcato cfr. J.J. Bachofen, Das Mutterrecht. Eine Untersuchung über die Gynaikokratie der Alten Welt nach ihrer religiösen und rechtlichen Natur (Stuttgart: 1861). Le popolazioni pre-indoeuropee di area mediterranea, forse, vissero in una società di stampo matriarcale. Secondo R. Graves, furono i Greci che “managed to enforce patrilineal reckoning on all Carians except the conservative Xanthians”; Graves, Greek Myths, 152. La relazione tra lo svestimento supplice e l’istituzione del matriarcato è stata discussa da Kornemann; cfr. E. Kornemann, “Mutterrecht”, R.E. suppl. VI (1935) 566–567. A parere di B. Sergent (Sergent–G. De Turris, Celti e Greci, 296–297), il motivo della scelta della filiazione matrilineare da parte dei Lici, con grossa probabilità, era completamente diverso, trattandosi di un mito generalmente di origine greca, peraltro riferito citando anche una fonte

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di Eraclea Pontica (Ninfi) e non di matrice licia. Cfr. anche Hdt. 1.173; Nic. Damasc., FGrHist 90 F 103k; Heracl. Lembo, Politeiai 15 = Arist. fr. 611.43 Rose. 282 La stessa città che il Cheronese definisce Σαλματική (enclave di frontiera tra Vaccei e Vetoni) era chiamata Ἑλμαντική da Polibio (3.14) e Hermandica da Livio (21.5); questo potrebbe testimoniare l’utilizzo di una tradizione differente (e non la versione integrale o non rimaneggiata di una medesima fonte) e maggiormente dettagliata, da parte di Plutarco, rispetto ai due storici precedenti (che, plausibilmente, si ipotizza avessero adoperato Sileno di Calatte, un greco di Sicilia che accompagnò Annibale nei suoi viaggi; cfr. FGrHist 175); cfr. anche E. Sánchez Moreno, “Releyendo la campaña de Aníbal en el Duero (220 a.C.): La apertura de la meseta occidental a los intereses de las potencias mediterráneas”, Gerión 18 (2000) 116. Potrebbe trattarsi, come suggerito da Meyer (cfr. FGrHist, Komm. zu 175, 600–601), di Sosilo di Sparta (che trattò molto ampiamente la spedizione iberica di Annibale; cfr. FGrHist 176), che tuttavia Polibio (3.20.5 = FGrHist 176 T 3) considerava alla stregua di un raccoglitore di chiacchiere da barbiere, o di Cherea (FGrHist 177), conosciuto soltanto di nome; tale fonte sarebbe, nel caso, stata utilizzata forse anche nella storia relativa alle donne celtiche (dove si menziona Annibale; cfr. Mul. Virt. storia 6); cfr. E. Meyer, Kleine Schriften (Halle: 1924) 405; A. Schulten, Fontes Hispaniae Antiquae III (Barcelona: 1935) 26. Cfr. anche Polyaen. Strateg. 7.48 e Stadter, An analysis, 74–75. L’umanista Alamanno Rinuccini, il cui testo ha rivestito un ruolo di primo piano per la fortuna europea del Mulierum Virtutes plutarcheo, erroneamente tradusse il titolo di questo episodio “Saguntinae”, svista frutto della vicinanza di Salmatis (che corrisponde all’odierna Salamanca) con la più celebre città di Sagunto. Xylander scelse per tale aneddoto il titolo “Salmanticae”, commentando nelle Annotationes: “ego nihil volui mutare, nisi quod N litteram inserui”. Boulogne ha affermato, invece, che “la forme Σαλματίδες … n’existait peutêtre pas à l’époque de Plutarque”, ma senza addurre in favore della sua tesi alcun ulteriore elemento che non fosse la ben nota assenza di una testimonianza da parte di Polibio e Livio. 283 Riguardo alla presa di Salmantica, città Vaccea espugnata dai Cartaginesi nel 220 a.C. (prima della presa di Arbocala, qualche tempo dopo), e all’attività bellica annibalica in Iberia, Plutarco aggiunge alcune informazioni rispetto ai racconti precedenti di Polibio (3.14.1) e Livio (21.5.5). 284 Molto si è discusso sulle ragioni politiche o militari che spinsero Annibale a condurre una campagna a cavallo in tale zona della regione iberica: si sarebbe trattato di un’incursione di grande effetto a scopo dimo-

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strativo, ma di durata breve, per il controllo strategico dell’ intera penisola, che era una zona periferica dei domini cartaginesi, oppure di una spedizione per fini di sfruttamento minerario o finalizzata all’appropriazione di bottino e mercenari; V. Bejarano, “Fuentes antiguas para la historia de Salamanca”, Zephyrus 6 (1955) 97; 102; F. Wattenberg Sampere, La región vaccea. Celtiberismo y romanización en la cuenca media del Duero (Madrid: 1959) 31; J.M. Roldán Hervás, Iter ab Emerita Asturicam. El camino de la Plata (Salamanca: 1971) 182; C. González Wagner, “Los Bárquidas y la conquista de la Península Ibérica”, Gerion 17 (1999) 271–272. Le risultanze del testo plutarcheo lasciano pensare ad una campagna militare con l’obiettivo di guadagnare grano e vettovagliamenti per le truppe, mercenari per la cavalleria dell’esercito, e manodopera schiavile da adoperare per le estrazioni nelle miniere di Nova Carthago e dell’alto Guadalquivir (da cui i prigionieri e i talenti d’argento richiesti agli abitanti di Salamanca); cfr. anche le evidenze degli studi di J.M. Solana Sainz, “Fuentes antiguas de Salamanca”, in Actas del I Congreso de Historia de Salamanca (Salamanca, 1989) (Salamanca: 1992) 276; Sánchez Moreno, “Releyendo la campaña”, 111–116. Recentemente si è ipotizzato che tale spedizione fosse un atto politico di Annibale, interpretato quale strumento di pressione per ottenere la fedeltà e la sottomissione economico-militare di Vaccei e Vetoni, ricevendo in cambio truppe ausiliarie e l’acquisto di merci puniche; J. Mangas Manjarrés, De Aníbal al emperador Augusto. Hispania durante la República romana, (Madrid: 1995). Per i termini della resa cfr. anche la storia relativa alle donne di Chio (Mul. Virt. storia 3). Per l’escamotage di nascondere le spade sotto le vesti cfr. anche l’episodio delle donne di Melo (Mul. Virt. storia 7). Tribù di stirpe paleo-libico-berbera stanziata sulla costa nord-occidentale dell’Africa (Plb. 3.14.3) ed adoperata nella campagna annibalica di Iberia (in Liv. 28.17 si parla di un trattato che stipularono con i Cartaginesi); cfr. Plb. 3.33.15; M. Schwabe, “Masaesyli”, R.E. XIV.2 (1930) 2057. Il regno dei Masesili o Numidi occidentali (confinante con quello dei Massili) si trovava al centro, rispetto al territorio dei Mauri e ai domini cartaginesi. Per la figura dell’interprete delle truppe in spedizione in terra straniera cfr. anche Crass. 28, dove si parla di τις τῶν παρ’ αὐτῷ διγλώττων a disposizione di Crasso, nella terra dei Parti presso Carre. L’appellativo Βάνων, tramandato dai codici, è attestato in ambito romano (nella forma di Bannonius e Banonus) ed è attribuito, nel contesto di un conflitto in territorio ispanico, ad un interprete delle truppe annibaliche probabilmente di estrazione celtiberica (“Banona, nom. mul. celt.”;

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cfr. Thesaurus Linguae Latinae, Vol. II, p. 1716); cfr. H. Solin–O. Salomies (eds.), Repertorium nominum gentilium et cognominum Latinorum (Hildesheim/Zürich/New York: 1988) 31. La particolare diffusione a Cartagine del nome Hannone (in particolare si ricordano un generale ed un navigatore così chiamati. La prosopografia delle testimonianze letterarie cartaginesi di K. Geus ricorda due personaggi con questo nome, nessuno dei quali precisamente identificabile) forse influenzò la traduzione “Hannonis cuiusdam” di Rinuccini (seguita da Cruserius con la resa “Hannoni interpreti”), ritenuta “vox punica” da Xylander e “coniectura, ut videtur” da Wyttenbach. Le poche notizie fornite dall’autore non aiutano a comprendere la precisa attività svolta e il contesto sociale in cui si muoveva l’interprete Banone; cfr. anche cfr. K. Geus, Prosopographie der literarisch bezeugt en Karthager (Leiden: 1994) 12 f.; Strobach, Plutarch und die, 172; 175. Per Stadter questo episodio specifico della sottrazione della lancia all’interprete sembrava essere la traccia di un “on-the-scene reporting”; cfr. Stadter, An analysis, 75. I fuggitivi si sarebbero poi coalizzati con altre tribù iberiche della zona, per poi essere sconfitti tutti insieme da Annibale nei pressi del fiume Tago; cfr. Plb. 3.14.3 e Liv. 21.5. Tuttora non vi sono monti intorno a Salamanca; Bejarano sottolineava come le colline boscose di lecci che circondavano la città fossero sembrate ai Punici molto più impervie di quanto appaiano ora gli spogli e desertici paesaggi nei dintorni della città odierna; cfr. Bejarano, “Fuentes antiguas”, 108. Fernandez Chicarro ha visto nella logica narrativa “chiara ed impeccabile” adottata da Plutarco e Polieno una garanzia di veridicità dei fatti raccontati; tuttavia la costruzione di una narrazione precisa ed inappuntabile non costituisce affatto un elemento probante; cfr. anche C. Fernandez Chicarro, “Valor de las mujeres salmantinas en las campañas contra Hannibal”, Helmantica 17 (1954) 261; Stadter, An analysis, 75. Boulogne ha notato come il rapido ritratto di Annibale venuto fuori da questo episodio non tratteggiasse, come solito, il generale cartaginese quale uno spietato sanguinario; cfr. Boulogne, Plutarque, 296. Vicenda menzionata anche nel primo libro del De anima plutarcheo (ma meno dettagliatamente; cfr. Gell. N.A. 1.3.31 = fr. 175 Sandbach. Brenk ha parlato dell’ “epidemic suicide” delle giovani milesie come storia di introduzione al trattato, che doveva contenere molti libri) e in Polieno (8.63). Stadter (seguito da Boulogne), sulla scorta di Jacoby, riteneva che questa storia potesse ragionevolmente derivare, più che dai Milesiaka di Ari-

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stide, da un qualche storico locale di Mileto (FGrHist 495, nota 6, p. 245), mentre Mittelhaus parlava di una dipendenza dell’episodio dai Πολιτικὰ πρὸς τοὺς καιρούς di Teofrasto; cfr. K. Mittelhaus, De Plutarchi Praeceptis Gerendae Reipublicae (Diss., Berlin, 1911) 35–36; O. Regenbogen, “Theophrastos 3”, R.E. suppl. VII (1940) 1518; Stadter, An analysis, 76–77; 95– 97; F.E. Brenk, In mist apparelled, religious themes in Plutarch’s Moralia and Lives (Lugduni Batavorum: Brill, 1977)16–17; Boulogne, Plutarque, 297. Wyttenbach riconobbe una somiglianza di questa storia con l’episodio di morte volontaria narrato in Hieron. Adv. Iovinian. 36.2; cfr. Wyttenbach, Animadversiones, 10. I suicidi collettivi di vergini non erano così rari come sembra; cfr. E. Cantarella, I supplizi capitali in Grecia e a Roma (Milano: 1991) 21–26. M. Bonazzi ha ipoteticamente connesso questo episodio con la discussione sul suicidio intrapresa da Socrate e i suoi compagni all’inizio del Fedone platonico, contestualizzando la preoccupazione delle fanciulle per un decoro del cadavere post-mortem in una più ampia disamina riguardante l’immortalità dell’anima; M. Bonazzi, “Plutarque et l’immortalité de l’âme”, in X. Brouillette–A. Giavatto (eds.), Les dialogues platoniciens chez Plutarque. Stratégies et méthodes exégétiques (Leuven: Leuven University Press, 2010) 78. 296 Di questo episodio non è possibile fornire una datazione, nemmeno approssimativa (“no attempt at dating is possible, or indeed necessary”; Stadter, An analysis, 76); tuttavia l’indefinitezza temporale e i caratteri generici dei personaggi coinvolti sembrano rivestire un valore simbolico o universale che si riflette sull’intera stirpe delle donne di Mileto. 297 Marasco ha ipotizzato che Plutarco potesse avere verosimilmente attinto da una particolare tradizione storiografica e non ad una fonte medica; cfr. Marasco, “Sul Mulierum virtutes”, 337. Secondo É. Durkheim, una disamina psicoanalitica di carattere strutturale e sovrastrutturale riguardante il fenomeno individuale e collettivo delle epidemie di suicidi avrebbe individuato che le giovani milesie “a livello sottostrutturale … non volevano morire attraverso il suicidio, ma vivere una vita diversa”. Lo stesso autore, poi, asseriva che le ragazze di Mileto non accettavano “più una esistenza oppressa”, ma tentavano “una alternativa negativa ed immaginaria come il suicidio”, e non fornisce ulteriori spiegazioni di carattere strutturale e sovrastrutturale a tale fenomeno individuale e collettivo; cfr. É. Durkheim, Il suicidio. Studio di sociologia (Milano: 2007) 20– 22. 298 In alcuni trattati di medicina legale composti nella seconda metà dell’Ottocento si riteneva che l’epidemia di suicidi (secondo il dettagliato racconto di C. Livi, le donne “facevano a gara ad appiccarsi”; e a molte delle

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giovani milesie “riusciva di uccidersi fin nelle braccia delle loro guardie”) a Mileto fosse ascrivibile alla mancanza di presenza maschile, “quando la gioventù maschia era fuori alla guerra”; cfr. C. Livi, “Contro la pena di morte ragioni fisiologiche e patologiche discorsi due. Parte Prima”, Atti della Reale Accademia de’ Fisiocritici di Siena (sec. serie) vol. I (1862) 23– 56. L’interesse per la malattia che colpì le donne di Mileto potrebbe anche derivare da un contesto di natura medica e non di matrice storica; Stadter, An analysis, 77; di parere contrario Marasco, “Sul Mulierum virtutes”. Spesso l’aria era considerata causa di malattie, generatrice di disturbi mentali e, talvolta, origine della malinconia quale fonte di follia; cfr. Pl. Ti. 86e–87a; Corp. Hipp. Nat. Hom. 9; Flat. 5–15; Aër. 10; Aph. n. 23; n. 53; n. 56; Plu. Quaest. conv. 731CD; Amat., 758DE; J. Pigeaud, Folie et cures de la folie chez les médecins de l’antiquité gréco-romaine. La manie (Paris: 1987) 56–59; Boulogne, Plutarque, 297. Le vicende trattate nel Mulierum Virtutes si rifanno principalmente a fonti storiografiche, e simili descrizioni di malattie erano comuni negli storici greci; Stadter, An analysis, 77. Van Der Stockt ha contemplato questo “strange and illogical behaviour” tra i “disastrous effects of manic passions”; cfr. L. Van Der Stockt, “Plutarch on mania and its therapy”, in J.G. Montes Cala–M. Sánchez Ortiz de Landaluce–R.J. Gallé Cejudo (eds.), Plutarco, Dioniso y el vino, Actas del VI Simposio Espaňol sobre Plutarco, Cádiz, 14–16 de mayo de 1998 (Madrid: Ediciones Clásicas, 1999) 525. Secondo Stadter, visto il riferimento a probabili cause fisiche del malanno, Plutarco aveva già spiegato le cause di tale malessere all’interno del De anima (fr. 175 Sandbach), ripetendo poi il tutto in maniera più sintetica nel Mulierum Virtutes (lo stesso studioso, tuttavia, riteneva “not certain” questa sequenza temporale; Stadter, An analysis, 76–77). Per un’efficace rassegna sulla storia e psicodinamica del suicidio nelle diverse categorie di individui cfr. M. Lodi, “Il suicidio. Meccanismi induttori e prognostici: sindrome presuicidale e crisi narcisistica”, Attualità in Psicologia 6.1 (1991) 34–41. De Martino (anche in parallelo con un frammento pseudo-ippocrateo riconducibile al De morbis muliebribus) ha indicato questo morbo quale esemplare testimonianza di un frequente disordine psichico che assumeva carattere collettivo tra le adolescenti. Tale forma di crisi, o condizione di alterazione dell’equilibrio femminile, (spesso causata nelle donne anche dalla mancanza di figli) poteva condurre ad una sorta di stupore, cui seguivano febbre e tremori, mania, angosce, esplosioni di

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furore e impulsi suicidi per annegamento o per impiccagione; E. De Martino, La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del sud (Milano: 1961). M. Gioja, citando (in un capitolo della sua opera Dell’ingiuria dei danni del soddisfacimento, intitolato Del pudore e le sue gradazioni – Esistenza e intensità del sentimento del pudore) la “notissima storia delle giovani di Mileto”, spiegava che esse “si davano a gara la morte, senza dubbio in quella età in cui la natura, facendo nascere dei desiderj inquieti e vaghi, punge vivamente l’immaginazione, e l’animo sorpreso da nuovi e non ben noti bisogni, sente succedere la melancolia alla giovialità e agli scherzi dell’infanzia”, individuando negli sbalzi d’umore e nei fenomeni ormonali collegati al momento di passaggio dall’adolescenza all’età adulta l’origine di un simile malanno; cfr. M. Gioja, Opere principali di Melchiorre Gioja, volume undecimo, Dell’ingiuria dei danni del soddisfacimento, tomo unico (Lugano: 1838) 235. Gellio (15.10 = fr. 175 Sandbach) ricordava anche un dettaglio della legge promulgata, secondo cui le donne sarebbero state trascinate nude cum eodem laqueo con cui si erano impiccate. L. Vives (De inst. fem. christ. 1.11.96) presentò il comportamento delle donne di Mileto quale esempio di pudicizia nel mostrare il proprio corpo in pubblico; cfr. Pabel, “Femina unica est”, 89–91; Narro Sánchez, “Los valores de la buena mujer”, 578. Per simili fenomeni nell’antichità cfr. Hygin. Astron. 2.4; Fab. 130; T. Mommsen, Feste der Stadt Athen im Altertum (Leipzig: 1898) 356. Mittelhaus (poggiando su Dümmler, “Zu den historischen”, 179–197) riteneva questo decreto un esempio di πολιτικὸν πρὸς τὸν καιρόν letto dall’opera di Teofrasto e successivamente riproposto dal Cheronese; cfr. Mittelhaus, De Plutarchi Praeceptis, 35. Per i suicidi causati da debolezza e codardia, Platone (Lg. 873de) prescriveva un consulto preventivo dei familiari con gli interpreti degli dei e, successivamente, un’inumazione senza onori ai confini dello stato e in luoghi impervi, anonimi e senza stele identificativa. Marasco ha messo in parallelo questo provvedimento con quello adottato da Tarquinio il Superbo nei confronti di molti Romani che, impiccandosi (cfr. la testimonianza, certamente seguita da Plin. H.N. 34.24.108, dell’annalista Cassio Emina, fr. 15 Peter, HRR I2, p. 103 = Serv. Ad. Aen. 12.603), volevano evitare le enormi fatiche imposte loro per la costruzione della Cloaca Massima (cfr. D.H. Ant. Rom. 4.44; Liv. 1.56.1–2): il sovrano ordinò che i loro corpi fossero crocifissi e questo li distolse dai propositi autodistruttivi; cfr. anche F. Münzer, Beiträge zur Quellenkritik der

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Naturgeschichte des Plinius (Berlin: 1897) 184–185; H. Bardon, La Littérature latine inconnue, I (Paris: 1952) 73–77; R.M. Ogilvie, A commentary on Livy (Oxford: 1965) 214; J.C. Richard, Les origines de la plèbe romaine. Essai sur la formation du dualisme patricio-plébéien (Rome: 1978) 294–296; Y. Grisé, Le suicide dans la Rome antique (Paris: 1982) 127–132; Mazzarino, Il pensiero storico, II, 106; 300–303. Secondo Cassio Dione (II, fr. 11.6 Boissevain, I, p. 27), invece, il re avrebbe fatto legare nudi nel foro e frustare a morte alcuni cittadini. Plutarco, grande conoscitore delle tradizioni di Roma arcaica, avrebbe individuato l’analogia tra i due fenomeni di massa accomunando il senso del pudore milesio con il pudor Romani nominis proprius di cui parlava Plinio il Vecchio; Marasco, “Sul Mulierum virtutes”, 337–338. Interessante la connessione tra la considerazione del corpo femminile e il cosiddetto “problem solving” strategico. Per il corpo interpretato come misura ultima di ogni atto femminile cfr. McInerney, “Chapter fifteen”, 328. Per tale exploit femminile, Stadter, sulla scorta dell’interpretazione di Polieno (ovvero di virtù femminile intesa quale lodevole dimostrazione di ἀνδρεία in ambito guerresco) e sicuramente influenzato dalla generica lettura dell’opuscolo da parte di Babbitt (che ne tradusse il titolo “Bravery of women”), ha parlato di un episodio concernente virtù di donne intesa “in the modern sense, with modesty and continence rather than bravery” (Stadter, An analysis, 76). Tale definizione piuttosto anacronistica non risulta particolarmente convincente, visto che i presupposti metodologici e proemiali dell’opera non fissano qualità standard della virtù femminile, né enunciano discrimini temporali al palesamento della stessa; cfr. Mul. Virt. 242E–243E. Nel caso, dunque, “il principale deterrente al suicidio, oltre alla ratio fondante la disciplina e la morale, viene trovato nell’anima, nell’emotività che vuole negare al proprio corpo, con cui ancora si confonde finché la vita è il termine del suo paragone e con cui gli altri, sopravvissuti ad essa, continueranno a confonderla, una violenza estrema e l’ estrema perdita dell’onore e del decoro”; S. De Risio–M. Sarchiapone, Il suicidio: aspetti biologici, psicologici e sociali (Milano: 2002) 23–24. Cfr. anche Apophth. Lac. 242C, dove una donna spartana, violata all’insaputa di tutti, partorì in silenzio assoluto perché “il decoro, opponendosi alla vergogna, dominò la veemenza dei dolori”. L’aggiunta di una considerazione finale (assente nel testo di Gellio) sul comportamento femminile sarebbe da ricondurre alla ricontestualizzazione moralistica della vicenda. Marasco considerava forzato l’elogio della virtù femminile in questo episodio, poiché solo il timore di una legge

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aveva indotto le donne a desistere dai suicidi; Marasco, “Sul Mulierum virtutes”, 337. Il virtuoso e quasi proverbiale equilibrio degli abitanti di Ceo, configurato nella forma di un pudico autocontrollo e unito alla ricorrente confusione del dittongo ει con il singolo ι all’interno dei manoscritti, lascia propendere in maniera decisiva per l’emendazione κεῖαι, proposta da Cobet ed accettata anche da Bernardakis e Babbitt. Malgrado κεῖα fosse l’ordinario femminile etnico per gli abitanti dell’isola di Ceo, e nonostante non siano attestati i femminili etnici κῖαι o σκίαι tramandati dai manoscritti, Nachstädt ha preferito mantenere la lezione κῖαι (tràdita dai codici v αEnβ 80,21 80,22) forse per collegare il termine alla piccola città di Cios (situata in Misia, presso il golfo della Propontide), il cui aggettivo di riferimento sarebbe, però, come riferito da diversi autori, iscrizioni e monete (cfr. Stadter, An analysis, 78), kianos per gli uomini (Arist. fr. 514 Rose = Schol. ad A.R. 1.1177; Plb. 15.21–23; 18.3; D.S. 18.72.2) e kianis (A.R. 1.1177) per le donne. La narrazione di consolidate abitudini virtuose al posto di uno specifico episodio ha portato Stadter, in ossequio ad una visione totalizzante dell’opuscolo, ad affermare che “this chapter is not a story, as all the others” (Stadter, An analysis, 78–79); si tratterebbe soltanto di un semplice ragguaglio sulla condotta virtuosa delle donne di Ceo, in cui ad una prestabilita unità di suddivisione della materia non corrisponderebbe un’azione narrativa di carattere qualificante ed isolata dalle consuetudini. Tuttavia Plutarco, nella sezione proemiale di carattere metodologico, non ha fornito dettami di uniformità distributivo-caratterizzante di natura esclusiva. Gentili ha citato tale vicenda a dimostrazione di come i sacrifici in santuario potessero essere, nel ristretto mondo della società greca, situazione tipica e luogo privilegiato per innamoramenti, approcci tra adolescenti e proposte di matrimonio; cfr. B. Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica: da Omero al V secolo (Milano: 42006 [1984]) 277–278. Fonte di questo episodio potrebbe forse essere stata la Πολιτεία Κείων aristotelica, di cui abbiamo notizia in Eraclide Lembo (Arist. fr. 611.27 Rose) e Sopatro (Phot. Bibl. cod. 161, 105a Bekker = Arist. fr. 511 Rose); tuttavia la storia stessa non fornisce indizi, decisivi o di indirizzo, in riferimento alla sua origine. Cfr. anche Stadter, An analysis, 78–79 e Boulogne, Plutarque, 297. Per l’arcinota ed esemplare morigeratezza di costumi degli abitanti di Ceo cfr. Ar. Ra. 970 et schol.; Arist. fr. 611.28 Rose; FGrHist 81 F 4 e Ath. 610d. Cfr. anche Stadter, An analysis, 79. La castità era un tema molto per-

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corso nelle narrazioni amorose della novella greca, genere in cui la difesa dell’onore di una vergine era un cliché di derivazione popolare molto ricorrente, e successivamente adoperato nelle leggende e nelle agiografie cristiane. L’eroina usciva indenne da situazioni di pericolo simulando stati di infermità (X. Eph. 5.7), assumendo veleno (X. Eph. 3.5; Iamb. Bab. 7), assassinando il proprio aggressore (X. Eph. 4.5; Iamb. Bab. 15) o servendosi del proprio valore (Ach. Tat. 6.20); questi ultimi due comportamenti sono più frequenti nel Mulierum Virtutes. Cfr. anche S. Trenkner, The Greek novella in the classical period (Cambridge: 1958) 26; 45; 108. La continenza sessuale nella gioventù è incoraggiata anche in Plu. Lyc. 14 e 15. L’interesse per la frequenza o unicità di comportamenti simili o contrari nell’ambito della vita coniugale o familiare è tipico dell’osservazione del Cheronese; cfr. Rom. 35.6; Num. 25.11; Quaest. rom. 267C e 278 E. Cfr. anche Gell. 4.3.2 e 17.21.44 e Stadter, An analysis, 78. Simili notizie riguardanti i costumi, dopo Erodoto, divennero una presenza costante all’interno delle opere storiche. Cfr. anche Apophth. Lac. 228BC. Questa storia (definita “charming”; Stadter, An analysis, 79) potrebbe derivare da una fonte focese, forse dal libro di Demofilo sulla guerra sacra (continuazione del racconto di Eforo; FGrHist 70 T 9, 70 F 93–96), rientrando nella gran quantità di informazioni storiche accumulate da Plutarco durante gli anni di sacerdozio a Delfi. Guerra scatenata dai Focesi verso la metà del quarto secolo a.C. (sotto i tiranni Filomelo, Onomarco e Faullo) contro la Beozia ed altri membri dell’Anfizionia, durante cui la città di Anfissa fu espugnata nel 354 o 353 a.C. (D.S. 16.33.3); cfr. N.G.L. Hammond, “Diodorus’ Narrative of the Sacred War”, JHS 57 (1937) 64; 80; Stadter, An analysis, 80 e nota 174. La titolazione (quasi sicuramente non plutarchea, almeno in questo caso) dell’aneddoto all’interno di tutti i manoscritti risulta inappropriata, in quanto (come già notava Wyttenbach, Animadversiones, 11) sono le donne di Anfissa a compiere un atto di estrema pietas nei confronti delle incaute sacerdotesse Φωκίδες, precipitandosi in piazza, circondandole in silenzio per evitare clamori, vegliando su di loro per tutta la notte, prestando soccorso, fornendo cibo al risveglio e riconducendole sane e salve al confine, dopo averne perorato la causa presso i mariti. Proprio nell’intenzione di sanare una svista piuttosto evidente, e per restituire un titolo sicuramente più consono alle intenzioni dell’autore e coerente con il contenuto dell’episodio, Wyttenbach ritenne “Potius inscribendum Ἀμφισσαῖαι, vel Λοκραί”. Anche a parere di Boulogne il titolo della storia “serait plus per-

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tinent si l’on remplaçait, comme le propose Wyttenbach e n’est pas en rapport avec les véritables héroines de l’événement, qui sont les Locridiennes d’Amphissa”; Boulogne, Plutarque, 298. Una simile incongruenza (problemi o anomalie relativi alla titolazione riguardano anche le storie 12, 14, 15, 23 e 27) contenutistica, tuttavia, non esclude l’anomalia di un riferimento generico di carattere estensivo alle sacerdotesse della Focide quali protagoniste, seppur passive, di un atto di solidarietà femminile di matrice religiosa. Nel caso, si tratta anche del secondo richiamo a donne della Focide all’interno dell’opera (successivamente le storie 20, 21 e 22 costituiranno un trittico di episodi dedicati alla regione della Galazia). 324 Era il nome delle sacerdotesse di Dioniso di stanza a Delfi (la presenza di Tiadi è attestata anche ad Atene, Anfipoli e Tessalonica). Definite anche Βάκχαι, Μαινάδες o Λῆναι, avevano il compito di far rinascere periodicamente (durante celebrazioni religiose che si succedevano con varie cadenze temporali, ogni due anni oppure ogni otto anni) il dio, le cui spoglie, secondo tradizione, riposavano all’interno dei locali profetici. Esse inscenavano una sorta di dramma sacro di carattere magico-agrario con lo scopo di propiziare la fecondità dei campi. La loro leggendaria fondatrice ed eroina eponima, Thia, era tradizionalmente figlia di Castalio, fu amata da Poseidone, e divenne la prima sacerdotessa ed εὑρετής del culto di Dioniso. Pausania (10.4.3) parlò con delle Tiadi dell’Attica, che gli riferirono di incontri annuali con le omologhe delfiche. Plutarco riferisce i pellegrinaggi sul Parnaso, dove rimasero anche intrappolate da una tempesta di neve, e descrive il divino invasamento e i riti religiosi eseguiti dalle Tiadi (ovvero “le frementi”); per prerogative ed attività di queste sacerdotesse cfr. Quaest. graec. 293CF; De Is. et Osir. 364E–365A e De prim. frig. 953CD. Cfr. anche L. Weniger, Über das Collegium der Thyiaden von Delphi (Eisenach: 1876); O. Kern, “Dionysos”, R.E. V.1 (1905) 1018–1029; Nilsson, Griechische Feste, 284–285; H. Pomtow, “Delphische Neufunde”, Klio 17 (1921) 153–203; H. Pomtow, “Delphoi”, R.E. Suppl. IV (1924) 1190– 1432; Halliday, Greek Questions, 71–72; K. Preisendanz, “Thyiaden”, R.E. VI A.1 (1936) 684–691; H. Jeanmaire, Dionysos. Histoire du culte de Bacchus (Paris: 1951) 180–181; M.C. Villanueva Puig, “À propos des Thyiades de Delphes, L’association dionysiaque dans les sociétés anciennes”, Collection de l’École française de Rome 89 (1986) 31–51; M.C. Villanueva Puig, Ménades. Recherches sur la genèse iconographique du thiase féminin de Dionysos des origines à la fin de la période archaïque. Études anciennes (Paris: 2009); Roscher, Lexicon, I, 1029–1044. Cfr. anche 251E5–8, dove le Sedici (a Sparta, invece, erano in numero di undici), devote di Dioniso, schierandosi con esito negativo contro la tirannide di Aristotimo in Elide, mostrano di pos-

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sedere un carisma, esercitato disinteressatamente ed in funzione di rappresentanza nell’ambito dell’agone politico. Clea stessa, dedicataria del Mulierum Virtutes, era ἀρχηίς del collegio delle Tiadi di Delfi (De Is. et Osir. 364E). Se la dedica dell’opuscolo a Clea ha fatto pensare che ella fosse, al momento dell’ultimazione dell’opera, piuttosto giovane o allieva di Plutarco, secondo Stadter il metodo plutarcheo di riferimento alle Tiadi dimostrerebbe che il Mulierum Virtutes “was written for publication and not only for Clea, who would have no need of such an explanation” (Stadter, An analysis, 80). Tuttavia, se la composizione con intento di pubblicazione non è da escludere (tuttavia l’opera pare priva di un’ effettiva redazione ultimativa; cfr. Tanga, “Mulierum Virtutes: atti di virtù”, 83–96), la dedica dell’opera ad una persona addentrata nelle tematiche religiosodevozionali non escludeva che l’esplicitazione di un collegio sacerdotale potesse essere rivolta anche a persone terze, magari inserite nell’alveo delle comuni conoscenze di Plutarco e Clea, e non necessariamente ad un vasto pubblico. Secondo Larson, se non fosse stato per la testimonianza contestuale di Plutarco, “It would be difficult to believe that Greek women actually danced on the mountain at night”. Cfr. anche Van Der Stockt, “Plutarch on mania”, 517–526; Larson, Ancient Greek Cults, 126–128; 135–141 (in particolare, 138). S. Matthews ha erroneamente considerato la pratica “of maenadic rites as an exemplary act of women’s virtutes” (Matthews, “Elite Women, Public Religion”, 120); in realtà, l’atto pio e virtuoso fu quello delle donne di Anfissa, che protessero le menadi riaccompagnandole incolumi al confine. 325 Le Tiadi si recavano sul monte Parnaso per celebrare i riti dionisiaci al colmo degli spasimi entusiastici. Per le peregrinazioni rituali delle devote di Dioniso cfr. anche E. Ba. 115–116; 136; 147; 162. 326 A. Henrichs ha discusso questo passo, notando come i riti bacchici notturni ivi descritti da Plutarco non fossero offensivi o destassero particolari sospetti, a riprova di una pratica dionisiaca non pervasiva; cfr. A. Henrichs, “Greek Maenadism from Olympias to Messalina”, Harvard Studies in Classical Philology 82 (1978) 136. L. Van Der Stockt ha ascritto tale vagabondaggio delle Tiadi alla “deficiency of Reason”, ad un momento in cui la ragione “fails to hold them in the right balance” in quanto la “μανία is opposed to σωφρονεῖν and λόγος and associated with παραφρονεῖν and ἀπόνοια”. Lo studioso ha classificato l’episodio tra gli aspetti della “human μανία”; cfr. Van Der Stockt, “Plutarch on mania”, 522–525. 327 Dettaglio che consente di collocare l’episodio prima del 353 a.C., anno in cui Onomarco espugnò la città di Anfissa; cfr. Hammond, “Diodorus’ Narrative”, 64–80.

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328 I soldati ivi presenti erano molto pericolosi, in quanto si trattava con grossa probabilità di mercenari (come del resto la maggior parte delle truppe adoperate dai Focesi in questo conflitto) che, forse, non avrebbero usato troppe cautele nei confronti di donne straniere nemiche, seppur provviste di immunità sacerdotale. Cfr. Stadter, An analysis, 80. 329 Per la ὕβρις femminile come causa della caduta delle tirannidi cfr. Arist. Pol. 1314b. 330 Con Stephanus, Reiske, Wyttenbach e Hutten accolgo la lectio τῶν πρὸς Ταρκύνιον, tràdita da v e α², in quanto specifica e rievoca in genitivo (cfr. LSJ: δικάζεσθαι τινός, D. 601; Lys. 10.12) l’oggetto della disputa già in precedenza esposto, riconducendo la scelta di un δικαστής direttamente al contenzioso in atto. Se la lezione τὸν πρὸς Ταρκύνιον, conservata da α, più che riconducibile ad una figura retorica di posizione, pare originata da un errore di omofonia o perdita di quantità, l’inversione πρὸς τὸν Ταρκύνιον, testimoniata da gran parte dei manoscritti ed accettata da Dübner, Bernardakis, Babbitt, Nachstädt ed Ingenkamp, sembra banalizzare il testo, adoperando un costrutto che, oltre ad omettere ogni riferimento al casus belli, pare orientare il giudizio contro la persona di Tarquinio, contravvenendo anche alla pretesa imparzialità dell’arbitro prescelto. 331 Prima dell’emendazione Οὐαλερία effettuata da Stephanus, la traduzione “Valeria” di Rinuccini aveva correttamente interpretato una tradizione manoscritta che presentava l’appellativo della figlia del console Publicola sotto quattro forme differenti: βελλερία, οὐαλλερία, βαλλερία e βαλερία, cui in seguito si aggiunse la congettura di Turnebus βελερία. 332 Non vi è ragione di dubitare sulla frequenza di incidenti di tal genere, anche all’epoca in cui visse Plutarco; cfr. E.R. Dodds (ed.), Bacchae. Euripides (Oxford: Clarendon, 1960) XIII–XIV; Stadter, An analysis, 80. 333 Questo episodio (che Wyttenbach definiva, in ottica bellica e “maschiocentrica”, “Cloeliae facinus”; Wyttenbach, Animadversiones, 11), frutto di varie versioni raccolte, combinate ed integrate in maniera approfondita da Plutarco, è riferito anche in Publ. 18–19 e Polyaen. Strateg. 8.31. Contrariamente alle conclusioni di H. Peter, Stadter ha ridiscusso ed ampiamente approfondito quanto dimostrato da Bocksch, notando come la storia di Valeria e Clelia fosse dipendente da Publ. 16–19, in quanto ne sunteggiava il contenuto; cfr. H. Peter, Die Quellen Plutarchs in den Biographien der Römer (Halle: 1865) 49; O. Bocksch, “Zum Publicola des Plutarch”, in Griechische Studien Hermann Lipsius (Leipzig: 1894) 171–172; Stadter, An analysis, 82. Tuttavia, nel solco del modus operandi plutarcheo, tale semplificativo sommario, pur omettendo per brevitas alcuni passaggi riportati

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nella Vita di Publicola, inseriva talora piccoli dettagli narrativi e rielaborazioni (“refinements”, fors’anche “inventions”; Stadter, An analysis, 81–82). Inoltre, alcuni dei testi di riferimento per la composizione di Publ. 18–19 probabilmente furono l’opera di Dionigi di Alicarnasso (Ant. Rom. 5.32– 35) e una qualche fonte che amplificava le imprese di Valeria; cfr. E. Schwartz, “Dionysios von Halikarnassos 113”, R.E. V.1 (1903) 944; W. Soltau, Die Quellen Plutarchs in der Biographie des Valerius Publicola (Zabern: 1905) passim; Stadter, An analysis, 83 e nota 187. Per una rassegna sull’importanza rivestita dalla gens Valeria nelle prime fasi della res publica romana, prima e dopo la scoperta del lapis Satricanum, cfr. J.C. Richard, “À propos du premier triomphe de Publicola”, MEFRA 106.1 (1994) 403–404. Come notato da C. Ruiz Montero e A.M. Jiménez, Valeria e Clelia, come anche Micca e Megisto, non agiscono insieme ma “cada una de las dos mujeres lleva a cabo su propia acción digna de elogio”; Ruiz Montero–Jiménez, “Mulierum Virtutes”, 108. Il breve excursus inerente a ὕβρις καὶ ἀρετή della nobile Lucrezia (che inserisce nell’economia dell’episodio un altro personaggio virtuoso femminile) e una dinamica degli eventi incentrata principalmente sulla figura di Clelia (che lascia solo un ruolo marginale a Valeria) hanno favorito la titolazione λουκρητία καὶ κοιλία, presente nel cod. Vindobonensis phil. gr. 46. Lucrezia era figlia di Spurio Lucrezio Tricipitino e moglie di Lucio Tarquinio Collatino. Trattasi di Sesto Tarquinio. Per la descrizione di tale episodio cfr. anche Liv. 1.58. Re di Clusium, città all’epoca dei fatti tra le più potenti dell’Etruria (D.H. Ant. Rom. 5.21); per i rapporti tra Roma e Chiusi in questo periodo storico cfr. Liv. 5.35. Cfr. anche L. Pareti, Studi minori di storia antica I (Roma: 1958) 311; 317–318. Qui Plutarco considera Porsenna sovrano di tutti gli Etruschi, e non solo di Chiusi; sul regno di Porsenna cfr. G. Colonna, “Società e cultura a Volsinii”, Annali della fondazione per il Museo “Claudio Faina” 2 (1985) 100–131. Porsenna esercitava l’egemonia politica su un’alleanza di città dell’Etruria interna e tiberina, il cui centro sacrale era Orvieto, e l’esercito di questa coalizione etrusca si avvaleva anche di un contingente di barbari piceni che risiedevano sull’Adriatico. Lo scopo di Porsenna era di assorbire nella propria influenza lo snodo viario di Roma, per estendere il proprio potere anche su Lazio e Campania e rendere l’Urbe debole e incapace di instaurare alleanze con altre città laziali. Porsenna, di fatto, pertanto vinse i Romani, ma non instaurò una nuova monarchia: forse per questo motivo gli fu eretta una statua din-

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nanzi alla Curia; cfr. A. Carandini, Res publica: come Bruto cacciò l’ultimo re di Roma (Milano: 2011) passim. Plutarco menziona il numero preciso dei prigionieri affidati a Porsenna, a differenza di Livio, che non riferiva alcuna cifra esatta di ostaggi romani consegnati ai nemici (in Ab Urbe condita libri 2.13 si parlava genericamente di Clelia come virgo una ex obsidibus); la diligenza del Cheronese era sottolineata dal commento filefiano ἀριθμόν τῶν ὁμήρων Πορσίνᾳ δοθήντων, redatto a margine del cod. Laur. 80,22. Figura divenuta in seguito celeberrima quale simbolo storico della resistenza repubblicana contro il ritorno dei Tarquini (componendo con Orazio Coclite e Muzio Scevola un “heroic trio” nell’immaginario romano; Stadter, An analysis, 80) e quale paradigma di eroismo femminile (Sen. ad Marciam 16.2; Emporius orator Rhetores Latini Minores, ed. Halm, p. 570), oltre che come soggetto letterario di grande fortuna (cfr. Verg. A. 8.651; Man. 1.780; Sil. 10.488–502; 13.828–830; Juv. 8.265; Claudian. 18.447; 29.16– 17). Il coraggio ed il carisma della vergine Clelia furono trattati specificamente in D.H. Ant. Rom. 5.32–35; Liv. 2.13.6–11; Val. Max. 3.2.2; Flor. 1.10.7–8; Dio Cass. 45.31.1 e fr. 14.4 ed. Melber (= Bekker Anecdota, p. 133, 8); Serv. Ad Aen. 8.646; Oros. 2.5.3; De viris illustribus 13 e Boccaccio, De mulieribus claris 50 (opera non influenzata da Plutarco); cfr. L. Torretta, “Il Liber de claris mulieribus”, Giornale storico della letteratura italiana 39 (1902) 274–292. Vi è menzione delle vicissitudini di Clelia anche in Publ. 19. La rinomanza quasi proverbiale della vergine Clelia, tuttavia, contraddice i presupposti metodologico-contenutistici enunciati nel proemio dell’opera, dove Plutarco diceva di voler tralasciare vicende fin troppo celebri, pubbliche e ben note a Clea e agli storiografi (cfr. 243D). Per spiegare tale incongruenza occorrerebbe pensare che Clea non conoscesse a fondo la fase fondativa e monarchica/vetero-repubblicana della storia romana (come potrebbe testimoniare anche l’aneddoto dedicato alle donne troiane; cfr. Mul. Virt. storia 1), o che Plutarco menzionasse comunque tale celebre storia come una sorta di omaggio al mondo femminile romano. Questa variante narrativa, avviata dalla formula Εἰσὶ δὲ οἱ λέγοντες, in Publ. 19.2 era introdotta dall’espressione ἔνιοι δέ φασι; la fonte è ignota, anche se Stadter ha provato a ipotizzare fosse Valerio Massimo. Tuttavia, in Val. Max. 3.2.2 (come anche in Flor. 1.10.8 e De viris illustrib. 13) Clelia saltò a cavallo, ma da sola. Cfr. Stadter, An analysis, 82 e nota 183. Boulogne notava come l’appropriazione culturale dell’onomastica politico-militare da parte degli storici greci traducesse il termine latino consul con la riduttiva definizione ὕπατος στρατηγός, che indicava il più alto in grado all’interno di una gerarchia.

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342 Personaggio leggendario che rivestì il consolato a Roma tra il 509 e il 503 a.C.; per la figura di Publicola all’interno dell’opera plutarchea cfr. anche R. Flacelière-É. Chambry–M. Juneaux (eds.), Plutarque. Vies, t. II (Paris: Les Belles Lettres, 21968 [1961]) 51–52; E. Ruschenbusch–G. Faranda Villa– M. Affortunati (eds.), Plutarco, Vite Parallele di Solone e Publicola (Milano: Biblioteca Universale Rizzoli, 1994) 259–319. 343 Arrunte era favorevole alla pace con i Romani, dopo che questi ultimi si fossero ritirati dai territori dell’Etruria (ovvero dai Septem pagi; cfr. Rom. 25.5) che avevano occupato; cfr. Publ. 18.2. Arrunte, durante la spedizione del padre Porsenna, trovandosi alla testa di un esercito, assediò ed affamò la città di Roma per diverso tempo. Le truppe di Arrunte furono poi sconfitte nei pressi di Aricia da Aristodemo, tiranno di Cuma giunto in soccorso dei Romani; cfr. anche Carandini, Res publica. 344 Per l’usanza romana di premiare con un cavallo da guerra equipaggiato di tutto punto, cfr. D.H. Ant. Rom. 6.94.1 e Plu. Cor. 10. In Plu. Publ. 19.8 si parlava del dono di “uno dei cavalli reali” posseduti da Porsenna. 345 Era il nome della strada che conduceva dal foro romano alla Velia, permettendo l’accesso al Palatino (Plu. Cic. 22.2 e Tac. Hist. 3.68); tale appellativo le fu conferito in quanto toccava le abitazioni delle Vestali e del pontifex maximus (cfr. D.H. Ant. Rom. 3.67.2–3; Ov. Tr. 3.1.28 e Plu. Num. 10.1–13), oltre a diversi siti cultuali (di Vesta e dei Lari) dell’Urbe. Seneca definì la via Sacra un celeberrimus locus da cui Clelia, donna di insigne audacia, exprobrat iuvenibus nostris pulvinum escendentibus in ea illos urbe sic ingredi, in qua etiam feminas equo donavimus; cfr. Sen. ad Marciam 16.2. 346 Il monumento a Clelia, eretto in epoca tardo-monarchica/alto-repubblicana, si trovava vicino al tempio di Giove Statore (a destra della via Sacra in direzione del Palatino, nelle vicinanze anche dell’arco di Tito) ed andò distrutto durante il crollo dovuto all’incendio di alcuni palazzi vicini ad essa; cfr. D.H. Ant. Rom. 5.35; Liv. 2.13.11; Plin. H.N. 34.13 ( fuerit contra Jovis Statoris aedem in vestibulo Superbi domus) e Plu. Publ. 19.8. Secondo Servio (Ad. Aen. 8.646), fu Porsenna stesso a chiedere ai Romani di conferire a Clelia un onore virile, mentre Dionigi di Alicarnasso ne ascriveva l’edificazione ai padri delle vergini restituite. Tale statua esisteva ancora, in bronzo, all’epoca di Seneca, forse perché rieretta (cfr. Sen. ad Marciam 16.2: equestri insidens statuae in Sacra Via); cfr. anche S.B. Platner– T. Ashby, Topographical Dictionary of Ancient Rome (London: 1929) s.v. Statua Cloeliae, 498. Stadter dubitava dell’effettiva dedica del monumento a Clelia nell’epoca della guerra contro i Tarquini, e ipotizzava si trattasse di una statua di Venere Cluilia o Cluacina o di una raffigurazione di Venus Cloaca, successivamente confusa con un monumento a Valeria su un toro

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ubicato di fronte alla residenza dei Valerii; cfr. E. Pais, Storia di Roma I (Torino: 1898) 479–482; F. De Sanctis, Storia dei Romani I (Torino: 1907) 448–449; Stadter, An analysis, 84 e nota 190. Anche Boulogne ha ritenuto che, malgrado anche Porsenna (Publ. 19.10) ed Orazio Coclite (Gell. 4.5; Liv. 2.10.12; Plin. H.N. 34.22.29 e Plu. Publ. 16.9) avessero una propria statua presso la Curia e il Comizio, fosse poco verosimile l’idea di una statua rappresentante una vergine a cavallo. Una soluzione di mediazione potrebbe essere, come proposto da R.M. Ogilvie (Ogilvie, A commentary, 268), la raffigurazione di una Venus equestris; cfr. F. Coarelli, Il Foro romano. 1, Periodo arcaico (Roma: 1983) 138–178; Boulogne, Plutarque, 300. 347 In riferimento alla dedicataria di tale monumento equestre, nel racconto pliniano sono ricordate due versioni: in particolare, Calpurnio Pisone (console nel 133 a.C.) sosteneva che gli ostaggi restituiti da Porsenna avessero intestato la statua a Clelia, mentre Annio Feziale (annalista contemporaneo di Pisone, o più probabilmente vissuto in età alto-imperiale in base a CIL XV, 796) intestava la scultura a Valeria, in quanto capace di scampare all’agguato dei Tarquini e traversare il Tevere a nuoto; cfr. Plin. H.N. 34.29; Plu. Publ. 19.8; P. Von Rohden, “Annius 43”, R.E. I.2 (1894) 2265; Münzer, Beiträge zur Quellenkritik, 168–169. Secondo Stadter, la storia di Valeria, di cui si specificava il rango nobiliare, era un doppione della più celebre saga di Clelia, inventato di sana pianta per magnificare la gens Valeria, probabilmente dall’annalista Valerius Antias (che, oltre ogni ragionevole dubbio, resta la probabile fonte per l’episodio di Valeria; cfr. Stadter, An analysis, 83 e nota 186). In effetti, anche Plutarco segue la versione dei fatti che attribuiva la statua equestre a Clelia, riportando l’ipotesi di dedica a Valeria soltanto come una variante anonima. 348 Questa storia conserva dettagli di un evento poco noto (ne rimangono soltanto i racconti molto più brevi di Paus. 5.5.1 e 6.14.4 e Iust. 26.1.4–10) della storia ellenistica. Si tratta dell’episodio più lungo dell’intero opuscolo, la cui narrativa (divisa in “four incidents” da Stadter; cfr. Stadter, An analysis, 85), fitta di eventi e colpi di scena, contiene momenti di vera e propria drammatizzazione. Secondo Stadter, l’estensione e la posizione (centrale all’interno dell’opera, e finale nell’ambito degli episodi dedicati a gruppi di donne) dell’episodio mostrano “evidently” che Plutarco lo riteneva “the most interesting of his collection” (Stadter, An analysis, 84); in realtà l’autore sembra estraneo a qualsiasi procedimento gerarchico/ordinamentale, oltre alla divisione in storie di virtù singola o collettiva, e al criterio geografico talora adoperato (per il gruppo di storie sulla Galazia). Per questo motivo le storie paiono posizionate, se non alla rinfusa, seguendo un criterio lato sensu cronologico. C. Ruiz Montero e A.M. Jiménez hanno

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classificato questa storia come la “más sobresaliente por situación, extensión y complejidad”, individuandovi sei atti di virtù differenti tra loro; Ruiz Montero–Jiménez, “Mulierum Virtutes”, 111 nota 43. L’episodio fu riproposto anche da Matteo Bandello, nel racconto V della Parte Terza delle sue Novelle (edite per la prima volta a cura dell’autore nel 1554, quando era vescovo di Agen in Francia). Il novelliere affermava di aver letto questa storia presso casa di tal Giacomo antiquario, in un libro greco, ove Plutarco parla di molte chiare ed eccellenti donne. In seguito alla morte di Pirro e ai tumulti che si verificarono nel Peloponneso, Aristotimo, figlio di Demareto, riuscì con abilità a profittare di una situazione confusa, divenendo, forse con l’appoggio di Antigono Gonata, tiranno dell’Elide per 5/6 mesi fino al suo assassinio, dovuto all’azione congiunta di esuli e congiurati; cfr Plu. Pyrrh. 34. Cfr. anche il breve riferimento a questa tirannide, nella rassegna sulla storia di Elide compiuta in Paus. 5.5.1 e in Iustin. 26.1. Aristotimo condivise con Apollodoro di Cassandreia le caratteristiche di tipico tiranno oppressore; cfr. D.S. 22.5.2.; la tirannide di Aristotimo sarebbe databile verso il 271 a.C.; Marasco, “Sul Mulierum virtutes”, 343. Per la datazione ed il contesto storico della tirannide di Aristotimo cfr. H. Berve, Die Tyrannis bei den Griechen (München: 1967) 403–405; J.D. Rice, The Greek State of Elis in Hellenistic Times (Diss., Univ. of Missouri, 1975) 27–30; G. Marasco, Sparta agli inizi dell’età ellenistica: il regno di Areo I (309/8-265/4 a.C.) (Firenze: 1980) 81–82; 120. Figlio di Demetrio Poliorcete e re di Macedonia nel 283 a.C.; Pausania (2.41.10) e Polibio (9.29.6) concordavano nell’affermare che il suo sostegno alla creazione di tirannidi nel Peloponneso fosse chiaro, mentre Tarn ha ridimensionato questo apporto, esprimendo dubbi sul ruolo effettivamente giocato dal macedone nella politica peloponnesiaca del tempo; cfr. J. Kaerst, “Antigonos 4”, R.E. I.2 (1894), 2413–2417; U. Wilcken, “Aristotimos 2”, R.E. II.1 (1895) 1056. Per il rapporto degli Etoli con Antigono Gonata, cfr. R. Flacelière, Les aitoliens à Delphes (Paris: 1937) 194–195. Cfr. anche W.W. Tarn, Antigonos Gonatas (London: 1913) 278–281. Filarco (è nota la sua tendenza anti-macedone, soprattutto nel riferimento all’appoggio di Antigono Gonata al potere di Aristotimo e all’instaurazione di tirannidi nelle diverse città del Peloponneso) molto probabilmente trattò con ampiezza il periodo della tirannide di Aristotimo in Elide, dopo essersi occupato della spedizione di Pirro contro Sparta, e della sua morte ad Argo (avvenuta nel 272 a.C.), e prima della guerra di Cremonide; cfr. Wilcken, “Aristotimos 2”, 1056; Stadter, An analysis, 88; R. Flacelière, Le Féminisme dans l’ancienne Athènes (Paris: 1971) 9–11. Wyttenbach pensava di identificarlo, forse, con un esule proveniente

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dall’Italia, di nome Λυκῖνος, favorito da Antigono (e ricordato da Stilpone Megarese presso Stobeo; cfr. Stob. 3.40.8); cfr. Wyttenbach, Animadversiones, 11. Consistente era il numero di mercenari illirici, galli, siriaci e lucani al tempo in Grecia; il capitano della scorta del tiranno, Lucio, sembra essere un soldato di origine italica (Boulogne invece lo riteneva “sans doute” un italico; cfr. Boulogne, Plutarque, 301), sebbene tale appellativo avesse riscontri anche in altre regioni. Per le attestazioni della presenza di mercenari cfr. Parke, Greek Mercenary Soldiers; G.T. Griffith, The mercenaries of the hellenistic world (Cambridge: 1935) 68; M. Launay, Recherches sur les armées hellénistiques, vol. II (Paris: 1948–1950); Stadter, An analysis, 89 e nota 203; A. Aymard, “Mercenariat et histoire grecque”, Études d’Histoire Ancienne (Paris: 1967) 487–498; L.P. Marinovic, Le mercenariat grec au IVe s. avant notre ère et la crise de la polis (Paris: Les Belles Lettres, 1988); Y. Garlan, Guerre et économie en Grèce ancienne (Paris: 1989) cap. 7, 143–172. Cfr. anche D. Whitehead, “Who equipped mercenary troops in classical Greece?”, Historia 40 (1991) 105–113; M. Bettalli, I mercenari nel mondo greco. Dalle origini alla fine del V secolo a.C. (Pisa: 1996) passim; M. Trundle, Greek Mercenaries. From the Late Archaic Period to Alexander (London/New York: 2004). Per la ferocia sistematica dei mercenari antichi, cfr. M. Bettalli, “Hoi ton Hellenon aporoi: i mercenari del mondo greco classico tra violenza, emarginazione e integrazione”, in G. Urso (ed.), Terror et pavor, Violenza, intimidazione, clandestinità nel mondo antico. Atti del convegno internazionale, Cividale del Friuli, 22–24 settembre 2005 (Pisa: 2005) 55–63. Cfr. Plu. Per. 34.2 e De Al. Magn. fort. 329B. Per questa immagine cfr. anche Fuhrmann, Images de Plutarque, 247. Per le “Sedici”, devote di Dioniso ed Hera probabilmente omologhe delle Tiadi di Delfi, cfr. Quaest. graec. 299AB; De Is. et Osir. 364EF. Cfr. anche L. Weniger, Das Kollegium der sechzehn Frauen und der Dionysdienst in Elis (Weimar: 1883); Nilsson, Griechische Feste, 291–293; Halliday, Greek Questions, 156. Cfr. le feste di Dioniso in Elide, denominate Θυῖα, celebrate da sedici donne e descritte in Paus. 6.26.1. Sostenendo ἐποίησε nel significato di effecit ut, attestato anche in Plu. T.G. 2.2–3 e Reg. et imp. apophth. 184A e 188C, Wyttenbach cercò di screditare la proposta di correzione del testo con ἐπέταξε; cfr. Wyttenbach, Animadversiones. Forma rara di numerale; cfr. Weissenberger, La lingua di Plutarco, 35. I manoscritti parlano di ἑλλανικὸς ἀνήρ, che σ varia in ἑλληνικὸς ἀνήρ. L’analisi contestuale dell’intero episodio indusse per primo Alamanno Rinuc-

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cini a tradurre “Hellanicus”, nome del personaggio a capo della rivolta dell’Elide, mentre, qualche decennio più tardi, Francesco Filelfo, a margine del cod. 80,22 di cui era in possesso, annotò Ἑλλανικός tra i suoi notabilia. Decisivo l’intervento di Stephanus, seguito da tutti gli editori successivi, che modificò l’accento del termine in Ἑλλάνικος, cui fece succedere una virgola che rendesse ἀνήρ apposizione del nome proprio. Con Stephanus, Xylander e Reiske accetto, sulla base del consensus codicum, δι᾿ εὔνοιαν qualificandola come espressione dalla duplice valenza: da un lato testimonia la volontà di condividere tacitamente le sofferenze della prigionia in una mutua solidarietà femminile che non intende mostrare segni di cedimento o, magari, prestarsi al tradimento (cfr. la traduzione di Xylander “tacita invicem benevolentia significantes”); dall’altro lato, proiettata all’interno della proposizione retta da ἀνθομολογούμεναι, motiva una scelta di campo all’interno di una situazione conflittuale (cfr. Plu. Arist. 8.6.6; Alc. 30.10.2; Pomp. 21.2.9; 21.3.6; 43.3.4; Aem. 23.7.2; Eum. 5.4.1; Phil. 18.7.2; Oth. 3.2.11; De aud. poet. 30A6; De coh. ira 453C2 e 460F1 e Amat. 749C10). Il testo tràdito non convinse Wyttenbach, che, (basandosi su Dem. 25.4–5; Lucianus V.H. 2 e D.Meretr. 3; Aristaen. Epist. 1.1) seguito da tutti gli editori successivi, sospettò che “veram scripturam esse διένευσαν, nutu invicem significarent”, ipotizzando dei cenni di intesa con la testa tra le silenti prigioniere (Wyttenbach, Animadversiones, 12), mentre Amyot aveva proposto a margine di correggere il testo “forte” in δι᾿ εὐγένειαν. I movimenti bellici degli esuli sono un chiaro segno dell’attivismo degli Etoli contro Antigono in prospettiva anti-macedone; Stadter, An analysis, 89. La confederazione etolica, di cui l’Elide faceva parte, si oppose a partire dal IV secolo a.C. all’espansione macedone, e dunque anche ad Antigono. Per l’elogio della capacità femminile di mantenere il silenzio in circostanze difficili, cfr. Mul. Virt. storia 7 e l’esempio di Lena in De garrul. 505EF. Queste notizie riferite da Plutarco e Giustino senza dubbio si rifanno, come fonte comune, a Filarco (la cui opera fu utilizzata da Plutarco anche in varie sezioni delle Vite di Arato, Agide e Cleomene, e soprattutto nel racconto dell’ultima campagna di Pirro direttamente precedente alla tirannide di Aristotimo; cfr. Plu. Pyrrh. 27–34 e Stadter, An analysis, 86). Filarco fu utilizzato anche da Trogo (la cui opera fu epitomata da Giustino) e, probabilmente, da Pausania (cfr. Regenbogen, “Theophrastos 3”, 1075). Cfr. B. Niese, Geschichte der griechischen und makedonischen Staaten II (Gotha: 1899) 228 n. 1; Tarn, Antigonos, 280 n. 15; Beloch, Griechische, IV,

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1, 581 n. 1; J. Kroymann, “Phylarchos”, R.E. suppl. VIII (1956) 476–477; 484– 485; E. Gabba, Studi su Filarco. Le biografie plutarchee di Agide e Cleomene (Pavia: 1957) 3–55; 193–239; T.W. Africa, Phylarchus and the Spartan Revolution (Los Angeles: 1961). Cfr. anche FGrHist 2 C, Komm. zu 81, pp. 133– 134. Per altre virtuose espressioni materne rivolte ai figli cfr. Apophth. Lac. 240C; 240F; 241A; 241B e 241C. Questo comportamento eroico e sprezzante del pericolo fu citato come esempio virtuoso all’interno del Memorial del pecador remut composto dal teologo catalano Felip de Malla; cfr. Redondo, “Sobre la recepción”, 640. Per un episodio simile, cfr. Cor. 35.5. Cfr. anche l’atto disperato di Damocrita in Amat. Narrat. V. La tradizione risalente a Pausania (6.14.11) riconosceva in Cilone l’assassino di Aristotimo, poiché ad Olimpia il Periegeta aveva veduto una statua eretta dalla lega etolica in onore di Cilone quale liberatore dell’Elide dalla tirannide (senza che Antigono avesse alcuna reazione ostile, a causa del tacito accordo che evitava qualsiasi atto di offesa tra il macedone e gli Etoli; cfr. Paus. 6.14.11); cfr. Flacelière, Les aitoliens, 194–195. Tuttavia, restano dubbi in merito alla precisa attribuzione e datazione di un’iscrizione riferita a Cillone, figlio di Cillone di Elide, collegata da Dittenberger all’assassinio di Aristotimo; cfr. Stadter, An analysis, 87 nota 198. La perifrasi, nel significato di “quelli che sono con qualcuno”, indica in questo caso i congiurati in accordo con Ellanico; cfr. L. Torraca, “Problemi di lingua e di stile nei Moralia di Plutarco”, ANRW 2.34.4 (1998) 3489– 3493. Si ristabilisce la lezione concordemente tràdita ἑτέρους, tradotta “accendit caeteros” da Cruserius e accolta da Xylander, Stephanus, Reiske, Wyttenbach, Hutten e Dübner. Essa narra come Ellanico avesse chiamato a sé una quantità indefinita ed eterogenea di persone, in merito a cui l’autore non fornisce ulteriori precisazioni (inerenti all’esistenza di probabili consorterie di carattere politico, familiare o amicale). Le traduzioni “socios” (definito “vocabulum in hac re solemne”; Wyttenbach, Animadversiones, 12) di Rinuccini (traduzione ad sensum scambiata per congettura da Nachstädt; Nachstädt–Titchener–Sieveking, Plutarchi Moralia, 249) e Xylander, e “compaignons” di Amyot, unite ad un’ipotetica “confusio fraequens” terminologica, portarono Wyttenbach ad osservare che “potius auctor scripserit τοὺς ἑταίρους”, congettura in seguito adottata nelle edizioni di Bernardakis, Babbitt, Nachstädt ed Ingenkamp. I codici leggono concordi πρῶτος οὖν ma Dübner, seguito da Bernardakis e Babbitt, ha inserito μέν tra i due termini per giustapporre l’operato

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di Cilone al comportamento di Trasibulo e Lampide, mentre Stephanus, Reiske e Wyttenbach riproposero il πρῶτος μὲν οὖν presente nell’Aldina, avverbializzando, di conseguenza, il complemento predicativo. Cfr. anche l’ambiguo sogno di Pirro durante l’assedio di Sparta e i sogni contenuti in Agis et Cleom. 28 e 60, entrambi riconducibili, forse, ad un contesto filarcheo; Stadter, An analysis, 88 nota 200. Stadter ipotizzava si trattasse del chiaroveggente Trasibulo; Stadter, An analysis, 85 nota 192. Figlio avuto dal generale Cratero (detto “il Vecchio”) con Fila, era fratellastro di Antigono Gonata e fu a capo degli avamposti macedoni nel Peloponneso. In seguito alla morte del re Pirro, egli cercò di ricondurre ad Antigono tutte le città perdute, ma non riuscì nell’opera per quanto riguardava l’Elide. Cfr. P. Schoch, “Krateros”, R.E. XI.2 (1922) 1617–1622. Secondo Giustino (26.1.7–8), invece, Ellanico fu costretto a minacciare di tradire i suoi compagni per persuaderli ad attaccare apertamente la tirannide. Forse la paura di inimicarsi Antigono, occulto propiziatore di questa ed altre tirannidi, tratteneva dall’azione i congiurati. Risulta strano che Plutarco avesse omesso questo dettaglio, visto il suo grande interesse per ogni tipo di congiura all’interno di Vite e Moralia; Marasco, “Sul Mulierum virtutes”, 342. Personaggio di simpatie democratiche, esercitava la pratica di veggente; probabilmente fu consultato da Aristotimo, dopo il presagio del sasso lanciato dall’aquila sulla sua camera da letto, cui fornì una profezia tendenziosamente errata. Dedicò una statua di Pirro ad Olimpia (Paus. 6.14.9) e diede consigli agli abitanti di Mantinea sotto l’attacco spartano (Paus. 6.2.4 e 8.10.5). Una sua statua si trovava presso il santuario di Olimpia (Paus. 6.2.4); cfr. anche E. Bernert, “Thrasybulos 9”, R.E. VI A.1 (1936) 576. Accolgo αὐτήν testimoniato dai manoscritti, pubblicato dalla quasi totalità degli editori, e tradotto “addressant sa parolle a Megisto mesme” da Amyot, nell’intenzione di rimarcare una funzione pronominale che pone al centro dell’attenzione l’operato di Μυρώ, polarizzandolo nei confronti della sorella minore e di Megisto tramite la correlazione μέν-δέ. Babbitt, invece, corresse in αὐτή, formulando un altro soggetto in analogia con 253D10, mentre Bernardakis propose di normalizzare, tramite il genitivo αὐτῆς, il rapporto con ἐπιμεληθῆναι. La moglie del tiranno, come nella tragedia (il suicidio costituisce una delle modalità più tipiche di scioglimento del nodo tragico), si toglie la vita in camera da letto, ovvero nello spazio simbolo dell’esistenza di una donna, dove si trova il letto nuziale, vero centro dell’universo femminile,

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poiché luogo in cui una donna si concede allo sposo e partorisce i figli; cfr. G. Guidorizzi, “Deianira e le altre: alcuni modi tragici per uccidere un uomo”, Turin D@ms Review (2006) 1–2. Per un codice della sfera femminile nell’ambito dell’antropologia della morte cfr. anche N. Loraux, Façons tragiques de tuer une femme (Paris: 1985). Cfr. anche il comportamento delle donne di Mileto (249B3–D8) e la morte delle figlie del tiranno Aristotimo (253C6-E4). 377 A Marasco è sembrato credibile che alcuni dettagli fortemente drammatici contenuti all’interno della narrazione di Filarco potessero essere ispirati alla tradizione relativa alla condotta del tiranno siracusano Dionisio II a Locri: la moglie e le figlie del tiranno furono violentate ed uccise a seguito della rivolta che pose fine al suo dominio (Str. 6.1.8; Plu. Tim. 13.10; Praec. ger. reip. 821E e Ael. VH 6.12 e 9.9) e lo stratagemma adottato da Dionisio per spogliare le donne locresi dei loro gioielli (Iustin. 21.3.1– 7) era simile a quello escogitato da Aristotimo ai danni delle donne di Elide; cfr. P. Meioni, “Il soggiorno di Dionisio II a Locri”, SIFC 25 (1951) 158–167. Sulla base di tali ed altre consonanze, Marasco ha proposto di riflettere sull’influenza esercitata dall’opera di Filarco su tale opuscolo e, più in generale, sul pensiero del Cheronese: malgrado le riserve espresse da Plutarco in merito alla parzialità filo-spartana e alle caratteristiche “tragiche” di Filarco (Arat. 38.12 = FGrHist 81 F 52. Per la tendenza al patetismo di Filarco, causata dal suo interesse per la fedeltà coniugale forse in consonanza con il ruolo del matrimonio in età ellenistica, cfr. Vatin, Recherches, 30–33; 57–60; 261–265; Marasco, “Sul Mulierum virtutes”, 344–345), in entrambi gli autori compariva grande attenzione per atti di virtù femminile (cfr. Africa, Phylarchus, 43–45; Marasco, Commento alle biografie, I, 25–27) ed un’ insistenza sul tema dell’amore coniugale; cfr. A. Toynbee, Some Problems of Greek History (London: 1969) 360–361; C. Schneider, Die Welt des Hellenismus (München: 1975) 42–45; Marasco, “Sul Mulierum virtutes”, 342–344. Plutarco, inoltre, conosceva bene l’opera di Filarco, apprezzandone l’indirizzo ed avendola utilizzata ampiamente per le biografie di Arato, Pirro, Agide e Cleomene (cfr. FGrHist 2 C, Komm., p. 134; Kroymann, “Phylarchos”, 484–485; Marasco, Commento alle biografie, I, 25–30 e passim); il racconto della tirannide di Aristotimo, databile verso il 271 a.C., ovvero dopo la morte di Pirro e molto prima dell’inizio della carriera politica di Arato, pare dimostrare che l’opera filarchea fosse nota in maniera completa al Cheronese; W.P. Theunissen, Ploutarchos’ leven van Aratos (Diss., Nijmegen, 1935) 4–8; W.H. Porter, Plutarch’s Life of Aratus (Dublin/Cork: Cork University Press, 1937) XV; Marasco, “Sul Mulierum virtutes”, 343.

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378 Nel comportamento delle figlie del tiranno si intravede una modalità di suicidio tratteggiata con caratteri di solidarietà/comprensione tipica dell’affetto sororale, e definita nei canoni di un valoroso atto di dignità. La fine della vita, inoltre, si realizza tramite lo stringimento della cintura dell’abito, che, da elemento esornativo, diviene estremo strumento di morte. 379 Queste parole esclamate prima di morire dimostrano il coraggio delle due fanciulle, la cui impiccagione sembra assumere un valore quasi catartico: scacciando in primis la codardia, e rifiutando in secondo luogo gli eventuali abusi e l’oltraggio derivanti da una morte per linciaggio, le figlie del tiranno giungono a rivestire, nell’economia del singolo episodio e nella totalità dell’opera, un ruolo di valoroso protagonista. Tale funzione di primo piano fu riconosciuta in particolare alla sorella maggiore (Miro), il cui nome, all’interno del solo cod. vind. phil. gr. 46, rientra nel titolo della storia (che risulta intitolata a Micca, Megisto e Miro). Cfr. anche Tanga, “Mulierum Virtutes: atti di virtù”, 83–96. Per la volontà femminile di evitare una infamia post-mortem quasi certa cfr. anche Mul. Virt. storia 11. 380 Anche Focione rispose con simile gravitas all’amico Nicocle, che gli aveva chiesto di morire per primo; cfr. Phoc. 36.5. In entrambi i casi, sopportare τὸ βαρύ significa assistere alla morte di una persona molto cara quale gesto estremo di affetto, ed in virtù di un legame sororale o amicale. 381 Analogamente a Megisto, Agesistrata e la moglie di Panteo (cfr. Plu. Agis et Cleom. 20 e 59) si occuparono di disporre decentemente i cadaveri dei congiunti deceduti per suicidio e morte violenta all’interno di scene intrise di grande pathos. Proprio l’alto patetismo e le straordinarie affinità narrative tra questi tre cruenti episodi rivelerebbe “the single hand of Phylarchus behind them all”; Stadter, An analysis, 88. 382 Stadter ha visto nel “treatment of the memorable death scene of the daughters of Aristotymus … the most striking”, tra le “numerous features typical of Phylarchus’ style” all’interno dell’episodio (Stadter, An analysis, 87). Questa drammatizzazione costituisce un caso unico nell’arco dell’opera, fornendo una descrizione patetica e dettagliata dei sofferenti attimi precedenti al suicidio di Miro e della sorella minore, mostrando due donne capaci di affrontare coraggiosamente la cattiva sorte, per mantenere, pur nel dolore, intatta la propria dignità femminile. Cfr. anche le scene di morte (che Plutarco attinse egualmente da Filarco) cui hanno assisito Agesistrata e la moglie di Panteo in Plu. Agis et Cleom. 20 e 59. La preferenza di Filarco per le storie di donne è evidente nell’episodio riguardante Micca e Megisto, e una lista delle sue eroine avrebbe incluso anche Mista, concubina di Seleuco (FGrHist 81 F 30), Danae e Laodice (F 24),

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Dafne (F 32) ed ancora altre ben note a Plutarco, quali Chilone, moglie di Cleonimo (Pyrrh. 26–28) e Chilonide, moglie di Cleombroto (Agis et Cleom. 17). Per la distruzione totale dell’oikos come destino tipico per il tiranno cfr. anche Plu. Sol. 14.9. Risulta interessante l’osservazione, riferita al capriccio della sorte e all’ereditarietà della colpa, che il novelliere Matteo Bandello pospose alla sua ripresa del testo plutarcheo: Oh quanto sarebbero state queste due sirocchie di vie piú gran lode celebrate, se di cosí scelerato padre non fossero state figliuole. Ma non deverebbero le macchie paterne in cosa che si sia denigrare le vertuose e buone opere dei loro discendenti. Questa storia pare un omaggio alla varietas dell’ἀρετή femminile individuale e collettiva, per via del numero di lodevoli e differenti comportamenti coraggiosi messi in atto dalle donne in esame. A tal proposito, la quantità di episodi descritti non consente di collocare nettamente la storia tra gli episodi di virtù singola o di gruppo. La presenza delle storie dedicate alle coppie Valeria/Clelia e Micca/Megisto, insieme ad altre involontarie ambiguità o inevitabili imprecisioni di suddivisione (cfr. Tanga, “Mulierum Virtutes: atti di virtù”, 83–96), mette in dubbio questa affermazione, lasciando campo aperto all’ipotesi di una mancata revisione strutturale finale dell’opera. C. Ruiz Montero e A.M. Jiménez, non trovando alla fine dell’opuscolo (ovvero in corrispondenza della conclusione degli atti di virtù singola) delle affermazioni simili a queste, hanno parlato di asimmetria compositiva; cfr. Ruiz Montero– Jiménez, “Mulierum Virtutes”, 106. Per πόλεμος ἀκήρυκτος cfr. anche Hdt. 5.8; Aesch. 2.37 e Pl. Lg. 626a. Per la ricorrenza del verbo φοιτάω seguito dalla preposizione εἰς e da una indicazione di luogo cfr. Lyc. 12.6; Cam. 10.1; Per. 32.1; Ages. 20.5; Sert. 14.4; Demetr. 24.4; Quaest. conv. 643C; Amat. 771A. Per la φιλοτιμία associata al θυμός e all’ardore cfr. Frazier, Histoire et Morale, 199–200. Storia narrata anche in Callim. frr. 80–83 ed. Pfeiffer, 87–91; Polyaen. Strateg. 8.35 e Aristaen. Ep. I.15 = FGrHist 496 F 6 (cfr. Epistolographi Graeci, ed. Hercher, 146–147); cfr. anche W. Schmid, “Aristainetos 8”, R.E. II.1 (1895) 851–852; G.B. D’Alessio (ed.), Callimaco, Aitia, giambi e altri frammenti, vol. II (Milano: BUR, 1996) 493–497; F. Conca–G. Zanetto (eds.), Alcifrone, Filostrato, Aristeneto: Lettere d’amore (Milano: BUR, 2005); A.T. Drago (ed.), Aristeneto: Lettere d’amore (Lecce: Pensa Multimedia, 2007). Con una certa probabilità Aristeneto attinse da Callimaco, il quale era stato edotto su queste vicende da un autore di Milesiaka. Secondo Gallé Cejudo, per la storia 16 del Mul. Virt. Plutarco ha “manejado varias fuentes” (Gallé

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Cejudo, “Plutarco y la transmisión”, 46). Per la trasmissione letteraria della vicenda di Frigio e Pieria cfr. anche R.J. Gallé Cejudo, “La transmisión literaria del relato de Frigio y Pieria (a propósito de Plu. Mul. Virt. 16 = 253F–254B)”, in C. Schrader–V. Ramón–J. Vela (eds.), Plutarco y la Historia: actas del V simposio espanol sobre Plutarco, Zaragoza 20–22 junio de 1996 (Zaragoza: 1997) 177–188. 390 La leggenda ateniese, che intendeva rivendicare il possesso dei territori di Ionia, narrava che Neleo, figlio di Codro e discendente di Neleo fondatore di Pilo, aveva condotto con sé un contingente di Ateniesi e Messeni per fondare Mileto (Str. 14.3.633 e Paus. 7.2.10). Mileto, in effetti, era una colonia di origine arcadica o tessala, mentre Neleo, primitivamente, pare fosse una divinità ctonia o funeraria; cfr. Sakellariou, La migration, 39–76. Sulle tradizioni relative alla fondazione di Mileto quale prodotto dell’elaborazione delle componenti etniche o fazioni in conflitto, in prospettiva di una rivendicazione della priorità di appartenenza da utilizzare come strumento di lotta politica cfr. M. Polito, “I racconti di fondazione su Mileto: antichi nomi della città ed eroi fondatori”, IncidAntico 9 (2011) 65–100 e, in particolare, 95–98. 391 Miunte non fu mai una grande città (inviò soltanto tre navi alla battaglia di Lade; Hdt. 6.8) e non vi è evidenza di alcuna opera storiografica locale (Jacoby la ometteva completamente; FGrHist 3 B). Secondo la tradizione, fu fondata durante la migrazione ionia da un figlio di Codro (cfr. Sakellariou, La migration, 76), o dal bastardo Cidrelo (Paus. 14.633), o da Ciareto (Paus. 7.2.10). Forse questi ultimi due non sarebbero altro che una differente lettura, o una variante paleografica di un medesimo nome; cfr. anche Stadter, An analysis, 91 nota 215. Per i rapporti tra Mileto e Miunte cfr. anche G. Ragone, “Callimaco e le tradizioni locali della Ionia asiatica”, in G. Ragone (ed.), ΑΡΧΑΙΟΛΟΓΙΑΙ tra Ionia ed Eolide (Napoli: 2006) 7–34. In riferimento alle differenti prospettive delle fonti circa la fondazione di Miunte e la lunga guerra tra Mileto e Miunte cfr. M. Polito, “Problemi della storia arcaica di Miunte e Mileto: la fondazione di Miunte, la lunga guerra tra Mileto e Miunte”, Mediterraneo antico 17.2 (2014) 543–572. 392 Questo dettaglio (visto che, nelle altre attestazioni, le fondazioni di Mileto e Miunte sono avvenute in maniera indipendente) lascia pensare che l’episodio possa provenire da una tradizione storiografica milesia, poiché in nessun altro luogo è ricordata la fondazione di Miunte da parte di alcuni Ioni giunti a Mileto. In tutti gli altri racconti, Miunte è descritta come una delle dodici città della Ionia, indipendente e fondata al tempo della migrazione ionia. Cfr. W. Ruge, “Myus 2”, R.E. XVI.2 (1935) 1431; Sakellariou, La migration, 76–77.

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393 Nel primo scorcio del quarto secolo sorse una disputa tra Mileto e Miunte, affidata al satrapo Persiano Struse e risolta in favore di Mileto, che forse al tempo era ancora indipendente, seppur debole. Nel 228/7 a.C. i Milesi ordinarono di accettare nel territorio di Miunte degli arcieri cretesi come propri alleati e, dopo questi eventi, Miunte non pare essere più stata una città autonoma. Nel 201 Miunte fu assegnata da Filippo V a Magnesia, e in seguito recuperata da Mileto. Strabone (14.636) riferisce che Miunte fu unita a Mileto per penuria di abitanti, mentre Pausania (7.2.11) narra di come fosse stata abbandonata a causa della stagnazione del porto. Certamente, in un momento non definibile tra il 388 e il 228 a.C., Miunte cadde sotto il controllo di Mileto, o, in seguito ad un trattato di sympoliteia, si giunse al vero e proprio completamento del processo sinecistico, mentre la versione filo-milesia tràdita da Plutarco parla di una costola di Ioni che, caduta in stasis con i figli di Neleo, si allontanò per fondare la sub-colonia di Miunte, effettuando una sorta di secessione; in merito al processo sinecistico, un recente aggiornamento epigrafico è presente in F. Ferraioli, “Una nota di A. Brelich a proposito della guerra rituale (Plu. Quaest. graec. 17)”, in C. Talamo (ed.), Saggi di Commento a Testi Greci e Latini 2 (Pisa: ETS, 2010) 102 nota 21. 394 La tradizione tramandata da Plutarco in merito alla fondazione di Miunte, ascrivibile probabilmente ad una fonte storiografica di Mileto, sembra una variante del leggendario racconto di fondazione, reinventata in maniera tendenziosa dai Milesi per rivendicare il possesso del territorio di Miunte (si tratterebbe di una “pro-milesian distortion of legendary history”; Stadter, An analysis, 92). L’origine di questa rielaborazione è forse (la mancata citazione, da parte di Aristotele, della fondazione di Miunte o della guerra tra Mileto e Miunte non aiuta a collocare precisamente questa variante) da collocare tra il IV e III sec. a.C., quando gli storici locali milesi, probabilmente infiammati da zelo patriottico, fabbricarono questo racconto sconosciuto ad Erodoto (cfr. Hdt. 1.142), Ferecide (FGrHist 3 F 155) ed Ellanico (FGrHist 4 F 125 = 323 a F 23), per legittimare il proprio dominio su Miunte. Riguardo alla fondazione di Miunte cfr. anche Plin. H.N. V.31. 395 Forse si trattava di un conflitto fisso e regolamentato di residuo tribale, in un contesto di guerre secolari, periodiche, tra consanguinei. Ferraioli ha discusso questo caso come una descrizione di guerra rituale tra genti affini, “condotta né senza dichiarazione né senza relazioni fra le parti”; cfr. Ferraioli, “Una nota di A. Brelich”, 102–104. Per il concetto di guerra rituale cfr. anche Brelich, Guerre, agoni, 74 nota 17.

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396 I nomi dei genitori di Pieria compaiono soltanto in questo episodio narrato da Plutarco. 397 Secondo la tradizione narrata da Callimaco (Dian. 225–227. Cfr. anche Jov. 77–78 et schol.), Neleo portò dall’Attica una statua di Artemide (venerata a Mileto quale χιτώνη o κιθωνέη; cfr. Roscher, Lexicon, I, 572; Nilsson, Griechische Feste, 242; Boulogne, Plutarque, 302) istituendone il culto a Mileto, ivi chiamato feste Neleidi (appellativo cultuale presente solo in questa occasione), di certo anche quale perenne ricordo della statura divina del capostipite. Momigliano riteneva inverosimile che la festa delle Neleidi fosse dedicata esclusivamente all’ecista nella sua prerogativa di divinità infernale, e spiegava la presenza di Artemide, probabilmente nella veste di divinità della morte, come qualità ctonia che la connetteva a Neleo. Tuttavia, in età ellenistico-romana era forse sparita ogni percezione del rapporto tra Neleo ed Artemide. Cfr. Nilsson, Griechische Feste, 242–243; Stadter, An analysis, 93 nota 224; A. Momigliano, Quinto contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, tomo I (Roma: 1975) 381–382. L’umanista Rinuccini definì tali celebrazioni “Dianae sacra”; per il ruolo di sacerdotessa di Diana cfr. anche Le Corsu, Plutarque, 134–140. Chantraine associava il nome di Neleo a νηλεής (dal significato di “sans pitié” o “à quoi on ne peut échapper”) per etimologia popolare; cfr. Chantraine, Dictionnaire étymologique, 750–751. Secondo Vitruvio gli Ioni ascrissero ai Milesi “sacra et suffragium” di Miunte; cfr. Vitruv. 4.1.4. 398 La festa delle Neleidi, forse, sarebbe stata così chiamata perché, trattandosi di una celebrazione processionale legata ad Artemide in quanto esclusivamente femminile, in seguito alla pacificazione delle due città, avvenuta per merito di uno dei figli di Neleo, sarebbe stata aperta anche agli uomini. L’ipotesi è stata formulata da A. Momigliano per spiegare il collegamento tra Artemide e Neleo; cfr. Momigliano, Quinto contributo, 382. 399 Frigio era, invece, il re della città, secondo quanto riporta Aristeneto (autore di storie d’amore in forma epistolare vissuto nel V sec. d.C.), che attinse dagli Aitia di Callimaco per l’argomento di questo aneddoto (che forse ricopriva la terzultima posizione all’interno dell’opera). La fonte di Callimaco molto probabilmente fu Meandrio (variante onomastica/paleografica di Leandrio, autore di cui si servì Callimaco; cfr. FGrHist 492 F 18 e Pfeiffer ad fr. 83, p. 91. Per l’identità di Meandrio/Leandrio cfr. quanto suggerito da Jacoby in FGrHist 491 e soprattutto, più recentemente, M. Polito, che ripropone e argomenta la tesi di Keil, sostenuta da Meineke e, di fatto, da Mikolajczak, dell’esistenza di un autore di nome Maiandrios, il cui appellativo si sarebbe in seguito corrotto, per evidenti

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ragioni paleografiche, in Leandrios. La tesi di due autori distinti sostennero Bux, Laqueur e Wendel), autore di Milesiaka; cfr. FGrHist, Komm. zu 496 F 6, p. 414; cfr. M. Polito, Milesiaka, volume I. Meandrio, testimonianze e frammenti (Tivoli: 2009) 1–8. Per la cronologia e l’opera di Meandrio cfr. Polito, Milesiaka, 8–19. Frigio è anche menzionato in Parth. 14 (= FGrHist 496 F 1 e Arist. fr. 556 Rose), dove, in un racconto ascritto ad Aristotele e agli scrittori di Milesiaka, si narra che subentrò al potere a Mileto al posto di Fobio, uno dei Neleidi che era stato accusato e dovette farsi da parte. Pare probabile che anche Aristotele dipendesse da uno degli storici locali di Mileto, ma non è sicuro che fosse lo stesso da cui attinse Callimaco, perché non si ha certezza che il racconto di Partenio riferisse precisamente l’episodio di Frigio e Pieria (Stadter, An analysis, 90–91). Gallé Cejudo ha notato come Plutarco avesse mantenuto la struttura sintattico-narrativa di Partenio, variando i campi funzionali degli attori in campo, sottomettendo il testo ad un severo processo riassuntivo, che eliminava tutti gli elementi accessori riferiti all’eros e ai caratteri dei personaggi, ma mantenendo l’interesse per l’intento eziologico della storia; cfr. Gallé Cejudo, “Plutarco y la transmisión”, 46–47. I numerosi dettagli riportati paiono suggerire che questo aneddoto fosse tratto da uno storico locale di Mileto; Stadter, An analysis, 91. Prima del matrimonio le donne di Mileto davano voce al voto che il futuro marito le onorasse come Frigio aveva fatto con Pieria; cfr. D’Alessio (ed.), Callimaco, 497 nota 97. Vicenda narrata anche in Polyaen. Strateg. 8.36. Partenio di Nicea, invece, aveva parlato in sedi separate di Policrite (attingendo dai Naxiaka di Andrisco e forse dal IV libro dei Πρὸς τοὺς καιρούς di Teofrasto; cfr. Parth. 9) e dell’adulterio di Neera ai danni di Ipsicreonte (rifacendosi al primo libro dei Πρὸς τοὺς καιρούς di Teofrasto; cfr. Parth. 18). Il racconto di Partenio risulta più ricco e dettagliato, concentrandosi maggiormente su elementi romanzeschi o particolari specifici, sunteggiati per brevitas espositiva da Plutarco. Stando a quanto si evince dai testi di Plutarco e Partenio, le fonti adoperate potrebbero essere state degli indefiniti Ναξίων συγγραφεῖς chiamati in causa da Plutarco (cfr. 254E6); Aristotele, che aveva composto una Costituzione dei Nassi (cfr. Ath. 8.348AC = Arist. fr. 558 Rose) con grossa probabilità letta da Teofrasto, oppure la fonte di Partenio, probabilmente identificabile con Andrisco. Cfr. anche Stadter, An analysis, 95; Meier Tetlow, Women, Crime, 76. A parere di Gallé Cejudo, questo aneddoto, oscillante tra il leggendario e lo storico-aneddotico, provvisto di contenuto erotico e con una donna da protagonista in mezzo a vicende belliche intrecciate a storie d’amore, per materia e struttura letteraria rientrava

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a pieno nei parametri di genere dell’elegia di epoca ellenistica; cfr. Gallé Cejudo, “Plutarco y la transmisión”, 42–43. Si tratta del terzo episodio ambientato a Mileto, dopo le storie 11 e 16. La storia narra di un conflitto sorto tra i Milesi ed i Nassi e risolto, come avvenuto già per Frigio e Pieria (cfr. Mul. Virt. storia 16), dall’amore di un comandante di Mileto per una donna nemica. Prima portatrice di μοχθηρία femminile in ambito familiare e coniugale, all’interno di un opuscolo dedicato all’ἀρετή γυναικῶν. Tuttavia, la condotta riprovevole di Neera, causa di un conflitto tra Mileto e Nasso, sarà bilanciata e risolta dalla virtuosa risoluzione procurata da Policrite. Stadter notava come “the tradition about Neaera reveals no variants”, affermando anche che il riferimento a Teofrasto, nell’incipit della narrazione di Partenio, lasciava pensare ad una trattazione dell’episodio da parte di Aristotele. In questa occasione l’enfasi verbale pare risiedere nel luogo di approdo e nella successiva stasi che lo caratterizzerà, piuttosto che sul movimento effettuato per raggiungerlo. L’alternanza di significato focolare/altare-santuario rimanda certamente ad un luogo di frequentazione pubblica, di indirizzo politico-religioso o esclusivamente sacrale (ambiguità perfettamente sintetizzata dalla traduzione “suppliante à son autel et foyer domestique” di Amyot). Nel testo di Partenio, Neera ἱκέτις προσκαθίζετο ἐπὶ τῆς ἑστίας τῆς ἐν τῷ πρυτανείῳ, mentre nella versione sintetica di Plutarco (tràdita dai manoscritti), Promedonte ἱκέτιν τῆς ἑστίας ἐκάθισεν. Se nel primo caso il riferimento al pritaneo è esplicito, il testo di Plutarco vi omette qualsiasi richiamo specifico. Stadter ha sottolineato come la ri-narrazione di un medesimo episodio potesse prevedere l’insorgere di “change of meaning” (leggendo semplicisticamente “as a suppliant on the hearth”; cfr. Stadter, An analysis, 94), ma lo studioso non ha preso in considerazione l’ipotesi che Plutarco avesse potuto leggere una variante del medesimo aneddoto all’interno di una fonte terza di cui non siamo a conoscenza, intendendo in senso estensivo il “focolare pubblico” per indicare il pritaneo, o nella meno probabile accezione generica di ἑστία quale altare o tempio. La congettura Ἑστίας, poi, anticipata dalla traduzione “Vestae” di Alamanno Rinuccini, introdotta da Stephanus ed accolta da Nachstädt, ha riconosciuto la suggestione di Neera quale supplice della divinità Estia in funzione di sacro focolare, forse anche in uno dei templi (ad Estia non erano dedicati templi particolari, perché ogni città ed ogni casa era un tempio per lei; aveva posto anche in luoghi di culto di altre divintà, ed i sacrifici si aprivano e chiudevano con libagioni in suo onore) presenti a Nasso (tempio di

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Demetra?). Ci sono grosse possibilità che si trattasse del braciere situato nel pritaneo, dove ardeva il sacro fuoco di Estia, dea dell’integrità della casa (e, per estensione, della castità delle donne ivi residenti. Essa era la meno antropomorfica delle divinità e non godeva di una mitologia pienamente sviluppata; Larson, Ancient Greek Cults, 161) e dell’ospitalità. Estia incarnava la più immobile delle divinità e segnava il centro della casa, proprio come le donne che vi rimanevano in disparte e prive di ogni contatto con estranei. In questa occasione la collocazione di Neera nel pritaneo, apostrofato genericamente da Plutarco quale “focolare” pubblico per eccellenza (trasferito dall’ambito domestico a quello civico a simbolo di continuità ed integrità della polis), intenderebbe evidenziare l’ospitalità ufficiale conferita alla donna da tutta la città, sottolineando, di conseguenza, il coinvolgimento di una collettività in una questione personale, e l’iniziativa di intraprendere un lungo e difficile conflitto difensivo in soccorso del concittadino Promedonte. La correzione di Stephanus, invece, sulla scorta di precedenti mitologici e letterari, e chiamando forse in causa la sensibilità sacerdotale di Plutarco per l’inviolabilità dei supplici in edifici di culto, rivestirebbe un richiamo generico (ed essenzialmente laico) al vincolo dell’ospitalità di un’aura prettamente religiosa che il testo apertis verbis non descrive. Cfr. anche Larson, Ancient Greek Cults, 160–162. Conflitto riconducibile alla seconda metà del VII secolo a.C., quando Eritre era all’apogeo della sua potenza; cfr. 244F2-5; M. Sordi, Religione e politica nel mondo antico (Milano: 1981) 75–76. M. López Salvá, C. Ruiz Montero e A.M. Jiménez hanno classificato questa vicenda come leyenda etiológica che intendeva spiegare l’origine del conflitto; cfr. López Salvá– Medel, Plutarco. Obras morales, 295; Ruiz Montero–Jiménez, “Mulierum Virtutes”, 108. Gli avvenimenti si collocano nel VII secolo a.C., quando le due città erano in mano a regimi aristocratici; per la storia di Nasso cfr. anche V. Costa, Nasso. Dalle origini al V sec. a.C. (Roma: 1997). Il cod. Vaticanus Urbinas gr. 99 tramanda ὁμολογεῖν ἐνδοῦναι καὶ ἀφίξεσθαι, lezione mai registrata dagli editori del Mulierum Virtutes fino all’edizione della Bibliotheca Teubneriana a cura di Nachstädt, e che pare una reduplicazione del διδόναι presente a 254F1. Burkert (che ha dedicato un intero capitolo a Policrite quale emblema delle “metamorphoses” dello “scapegoat pattern”), nel corso della trattazione delle metamorfosi del cosiddetto “capro espiatorio”, ha ipotizzato che Policrite fosse un nomen loquens per indicare una donna “who bears selection in her name, Polykrite, much chosen, or chosen out of many”;

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W. Burkert, Structure and History in Greek Mythology and Ritual (Berkeley/Los Angeles: 1979)73–75. Dal testo di Partenio (9.5) si evince che si tratta delle feste chiamate Θαργήλια (alla figura di Θαργηλία di Mileto, moglie di Antioco, re dei Tessali, è dedicato il capitolo XI del trattato De Mulieribus Claris in Bello; cfr. Westermann, ΠΑΡΑΔΟΞΟΓΡΑΦΟΙ, 217), celebrazioni agrarie di carattere apotropaico ed espiatorio, svolte a Mileto (ma anche ad Atene e Colofone) tra il giorno 6 e 7 del mese di Targelione (metà maggio/metà giugno) in onore di Apollo, e connesse a riti di purificazione (come l’espulsione del φάρμακον dalla città) e di fecondità (come la processione dell’ εἰρεσιώνη e la panspermia) per assicurare lo sviluppo e la maturazione dei semi; cfr. Nilsson, Griechische Feste, 106–107. Il rito traeva origine mitica dall’uccisione di Androgeo, figlio di Minosse; i pharmakoi, inizialmente lapidati ed uccisi, erano scelti tra colpevoli di reati o persone sgradevoli di aspetto, per poi essere portati in processione, fustigati con rami di fico e mazzi di cipolle, ed espulsi dalla città per garantire il ritorno dell’abbondanza, simboleggiato da un ramoscello di ulivo o alloro addobbato con frutta, dolci, olio, vino o lana. Il primo giorno della festività era dedicato all’espulsione del male commesso durante tutto l’anno, e il secondo ad offrire ad Apollo le primizie (τὰ ἀργήλια), come anche un tipo di focaccia (θάργηλος) o un calderone colmo di frutta e grano, simboli di fertilità; cfr. C. Daremberg– E. Saglio, Dictionnaire des antiquités (Paris: 1877) s.v., 176–178; J.P. Vernant– P. Vidal Naquet, Mito e tragedia nell’antica Grecia (Paris: 1972) (trad. it. Torino 1976) 105–112; Chantraine, Dictionnaire étymologique, s.v., mentre Burkert riteneva che bere vino e consumare quanto era più prezioso, durante queste festività, “evidently means not just revelry but destruction of wealth, in a kind of potlatch”; Burkert, Structure and History, 73. Trattasi di un piccolo documento epistolare (cfr. Brut. 5.3 e Art. 22.9) redatto su supporto plumbeo. Si è notato come il termine γραμματίδιον in altri contesti stesse ad indicare un messaggino d’amore realizzato su tavoletta, papiro o altro materiale scrittorio; cfr. A. Vicente Sánchez, “La comunicación escrita en la antigüedad a través de la obra biográfica de Plutarco”, in J.M. Candau Morón–F.J. González Ponce–A.L. Chávez Reino (eds.), Plutarco transmisor, Actas del X Simposio Internacional de la Sociedad Española de Plutarquistas, Sevilla, 12–14 de noviembre de 2009 (Sevilla: Universidad de Sevilla, 2011) 522–523. Nel racconto di Partenio, Diogneto morì in battaglia. Questa era la versione aristotelica dei fatti (Cognito repente insperato gaudio expirasse animam refert Aristoteles philosophus Polycritam, nobilem feminam Naxo insula; Gell. 3.15.1 = Arist. fr. 559 Rose); nel racconto di Par-

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tenio, invece, Policrite rimase uccisa per il gran numero di doni ammucchiati su di lei (come avveniva per i vincitori ad Olimpia) dai cittadini di Nasso (richiamando la storia di Tarpea e le giovani di Leuttra; cfr. Rom. 17 et al.); cfr. anche A.H. Krappe, “Die Sage von der Tarpeia”, RhM (N.F.) 78 (1929) 249–276; G. Radke, “Polykrite”, R.E. XXI.2 (1952) 1753–1759; Burkert, Structure and History, 74. Ella sarebbe poi stata tumulata nella piana e, per volere dei Nassi, Diogneto sarebbe stato cremato sulla medesima pira funebre. Il topos della improvvisa trasformazione di un momento di gioia in tragedia farebbe della morte di Policrite un momento per internalizzare una crisi esistenziale attraverso un’esaltazione/esultanza che uccide l’eroe per lanciarlo in prospettiva di promozione quasi divina; cfr. T.J. Figueira, Excursions in epichoric history: aiginetan essays (Lanham/Maryland: 1993) 252. Policrite (cui si rendevano sacrifici durante le feste Targhelie; cfr. Burkert, Greek Religion, all’interno del capitolo pharmakos), inoltre, sembra la personificazione dell’allontanamento di un personaggio, eletto per bellezza e bravura, per salvare il resto della cittadinanza. Proprio i suoi meriti patriottici le impediscono di fare ritorno a casa, avviandola, quale sorta di espiazione (in una sorta di “forme romancée”; Boulogne, Plutarque, 304) del pharmakos delle feste Targhelie, a morire fuori città senza potervi più rientrare (primo personaggio a subire tale sorte fu Elena durante la guerra di Troia); cfr. M.P. Nilsson, Geschichte der Griechischen Religion I (München: 1967) 354; Burkert, Structure and History, 73. Cfr. la storia analoga trattata in Parall. Min. 309BC. 416 Per allontanarla, i Nassi sacrificavano la decima di tutti i loro prodotti. Burkert descriveva così il processo mentale alla base di questa percezione: “Man feels surrounded by danger which does not allow him to enjoy life to its full extent, and which can only be averted by separating oneself from what may seem to be most precious” (Burkert, Structure and History, 73). Riguardo alla βασκανία, termine greco per indicare il malocchio, (concetto contiguo a quello di phthonos; Burkert, Structure and History, 73) cfr. anche Plu. Dio 2 e soprattutto Quaest. conv. 680C–683B. Su questa credenza e sull’esistenza di demoni gelosi cfr. D. Babut, Plutarque et le stoïcisme (Paris: Publications de l’Université de Lyon, 1969). Boulogne, sostanzialmente sulla base di A. Ernout–A. Meillet, Dictionnaire Étymologique de la Langue Latine: Histoire Des Mots (Paris: Klincksieck, 2001) s.v., rapportava questa superstizione greca al fascinum di mondo latino; cfr. F. Kuhnert, “Fascinum”, R.E. VI.2 (1909) 2009–2014; Boulogne, Plutarque, 304. Proveniente da βάσκανος, termine inerente alla calunnia e alla cattiva sorte piuttosto ricorrente nelle iscrizioni funebri, possedeva una valenza magica ed un’ origine indefinita, forse di matrice balcanica o traco-illirica;

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cfr. Chantraine, Dictionnaire étymologique, 167. Jacoby notava che la versione dei fatti ascritta agli storici di Nasso mirava a spiegare l’esistenza di un monumento chiamato “Tomba dell’Invidia”; cfr. FGrHist, Komm. zu 500 F 1, p. 473. Per l’importanza delle tombe nell’economia dell’intreccio cfr. anche Amat. Narrat. 3 e 4. Cfr. anche P. Volpe Cacciatore, “Cicalata sul fascino volgarmente detto jettatura: Plutarch, quaestio convivalis 5.7”, in F.L. Roig Lanzillotta–I. Muňoz Gallarte (eds.), Plutarch in the Religious and Philosophical Discourse of Late Antiquity (Leiden/Boston: Brill, 2012) 171–179. Il culto e lo status di eroina, successivamente tributati al personaggio di Policrite, sono stati considerati una sorta di espiazione compiuta dal gruppo per la morte del “capro espiatorio”; cfr. J.L. Larson, Greek heroine cults (Madison/Wisconsin: 1995) 136. Stadter, confrontando altre due citazioni plutarchee di storici nassi (Thes. 20.8 = FGrHist 501 F 1 e soprattutto De Herod. malignit. 869A = FGrHist 501 F 3), ha mostrato come il Cheronese fosse fautore di historical research nei confronti degli storiografi consultati, ritenendo inoltre che Plutarco, pur citando una pluralità di scrittori di Nasso, avesse forse letto soltanto una Naxian story; cfr. Stadter, An analysis, 96. Jacoby pensava si trattasse di Andrisco; cfr. Stadter, An analysis, 95. Dümmler (seguito da Regenbogen, “Theophrastos 3”, 1518), considerando molto improbabile che Plutarco avesse registrato una variante aristotelica dei fatti per integrare la tradizione storiografica di Nasso di sua conoscenza, ipotizzò che il Cheronese (ben informato sull’opera teofrastea, come mostra Lampr. 53, Περὶ Θεοφράστου πρὸς τοὺς καιροὺς πολιτικῶν; cfr. anche Helmbold–O’Neill, Plutarch’s quotations, 69–70) avesse interamente attinto questo episodio da una sezione dell’opera di Teofrasto dedicata ad amori che avevano causato o concluso conflitti bellici. Teofrasto, dunque, avrebbe fornito una versione differente dal racconto aristotelico, ma egualmente riconducibile alla tradizione di Nasso, suscitando l’interesse di Plutarco; cfr. Dümmler, “Zu den historischen”, 180–181. Stadter, invece, pensava che Plutarco avesse letto Aristotele di prima mano (cfr. anche Non posse 1093C) perché, se avesse usato Teofrasto, lo avrebbe citato direttamente, come era solito fare in Vite e Moralia. Risulta piuttosto verosimile l’ipotesi formulata da Stadter, secondo cui Aristotele avrebbe utilizzato una fonte di Nasso; cfr. Stadter, An analysis, 95. Secondo Stadter appare inusuale, per il modus operandi plutarcheo, il richiamo alle fonti precise cui far risalire una versione alternativa della storia raccontata. Tuttavia, già in riferimento alle varianti razionalistiche

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sul mito della Chimera, il Cheronese aveva chiamato in causa, oltre ad imprecisati οἱ δέ, la spiegazione dello storico Ninfi esposta nel IV libro del trattato su Eraclea (cfr. 248D). Plutarco, pur menzionando l’autorevole testimonianza di Aristotele, avrebbe preferito seguire un’anonima tradizione locale diversa da Andrisco per via della sua maggiore aderenza all’assunto dell’opuscolo. L’altra versione dei fatti, invece, parlava di una donna libera che, seppur per motivazioni patriottiche, si offriva a Diogneto ottenendone la collaborazione per la restituzione di un territorio, senza però delineare un quadro favorevole all’esaltazione delle doti morali della donna; Marasco, “Sul Mulierum virtutes”, 338–339. In questo caso si tratta di un nome comune, adoperato in funzione sinonimica in luogo del nome proprio, soprattutto al fine di evitare ridondanze. Plutarco utilizza l’epiteto ὁ φιλόσοφος più spesso in relazione allo Stagirita; cfr. Plu. Thes. 3.2; Lyc. 1.1; Sol. 32.4; Cam. 22.3; Comp. Arist. et Cat. Ma. 2.4; Alex. 17.5; Quaest. rom. 256B. Pare poco probabile che tale appellativo servisse a distinguerlo dallo storico Aristotele di Calcide, o costituisse un “epitheton ornans” o un “cognomen ex virtute”. Cfr. M. Meeusen, “From reference to reverence: five quotations of Aristotle in Plutarch’s Qvaestiones Natvrales”, in J.M. Candau Morón–F.J. González Ponce–A.L. Chávez Reino (eds.), Plutarco transmisor, Actas del X Simposio Internacional de la Sociedad Española de Plutarquistas, Sevilla, 12–14 de noviembre de 2009 (Sevilla: Universidad de Sevilla, 2011) 361. Luogo dove esisteva un tempio di Apollo (tuttora ne rimangono le rovine) e situato a chiusura del porto di Nasso, in una posizione strategica per il controllo delle rotte marine ed interne; cfr. L. Bürchner, “Delion 2”, R.E. IV.2 (1901) 2443; Herbst, “Naxos 5”, 2088; Boulogne, Plutarque, 303. La versione dei fatti che Plutarco attribuisce ad Aristotele era riferita anche da Partenio; cfr. anche Stadter, An analysis, 94. Si ristabilisce μετεπέμποντο συμβασιλεύειν, lezione tràdita dalla maggioranza dei manoscritti ed accolta da Dübner, Hutten, Bernardakis, Babbitt, Nachstädt ed Ingenkamp nell’ottica del ripristino di una sovranità regale, ma in coesistenza con gli apparati governativi dei nuovi padroni greci della città; dunque, la gratitudine nei confronti di Mandrone avrebbe portato alla riproposizione, forse soltanto in funzione simbolica o rappresentativa, della figura di un monarca, ma limitato dalla presenza di οἱ παρ᾿ αὐτῶν non meglio identificati. Il codice Laur. 80,21 riporta la lectio singularis μετεπέμποντο συμβουλεύειν che, avvalendosi di un termine frequente nell’usus plutarcheo, avvalora la tesi di un un ruolo consultivo nell’arco delle mansioni di governo, rispetto all’anomala condivi-

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sione di un potere tradizionalmente assoluto. Questa lezione, pubblicata dall’ediz. Aldina e riproposta da Xylander, Stephanus, Reiske e Wyttenbach (che, tuttavia, a margine obiettò “forte rectius est συμβασιλεύειν”), fu alla base delle traduzioni “Mandronem qui rebus consuleret revocarunt” di Rinuccini, “ut de suis consilium una caperet” di Xylander, “ad rempublicam una capessendam accersunt” di Cruserius, e “lequel ils voulurent estre participant de leurs conseils” di Amyot. Elusiva pare la traduzione “ut regni particeps esset” di Dübner, mentre l’esegesi di Babbitt parlava esplicitamente di una dualità di regnanti “bade him be king jointly with one or another of their own number”, e Boulogne, traducendo “l’engageant à partager la royauté avec leur représentants”, lascia intravedere un meccanismo politico elettivo della componente cittadina di orgine greca. Infine, una corruttela sembra essere all’origine della lezione μετὰ πέμποντος βασιλεύειν tramandata soltanto dal cod. Vaticanus Reginensis 80. 427 Questo aneddoto a forte connotazione eziologico-eponimica (definito “pictoresque and exciting one” da Blundell–Williamson) celebra l’eroina che diede il nome alla città di Lampsaco (fino ad allora chiamata Pityoussa o Berbykia); cfr. anche la versione più sintetica dei fatti fornita da Polyaen. Strateg. 8.37. Cfr. anche I. Malkin, “What’s in a name? The Eponymous Founders of Greek Colonies”, Athenaeum (n.s.) 63 (1985) 118; S. Blundell– M. Williamson, The sacred and the feminine in ancient Greece (New York: 1998) 106. Il racconto di fondazione sarebbe solo “apparently aetiological”, ad avviso di Malkin; cfr. Malkin, “What’s in a name?”, 118–119. Secondo il parere di Stadter (Stadter, An analysis, 100–101) la citazione verbatim dei Persika di Carone in De Her. mal., l’esistenza (attestata da Lampr. 195) di un trattato plutarcheo intitolato Πόλεων κτίσεις contenente brani di storia locale come quella in oggetto, la modalità selettiva dell’excerptum, e la scelta di menzionare un’unica fonte per la tradizione del salto dalla rupe di Leucade (Plutarco avrebbe potuto trovare questa informazione parentetica non in un’antologia o riassunto storico, ma in un testo indipendente dalla storia di fondazione) lascerebbero pensare a Carone lampsaceno quale fonte di questo episodio (altri validi motivi potrebbero essere l’assenza di una costituzione aristotelica di Lampsaco e il fatto che la testimonianza di Mela 1.97 non fosse un’autentica tradizione locale, ma un’invenzione di cui ogni greco poteva essere capace; cfr. FGrHist, Komm. zu 262 F 7–8, p. 13; Stadter, An Analysis, 100 nota 246); cfr. anche W. Aly, Volksmärchen. Sage und Novelle (Göttingen: 1921) 218 e l’analogia con l’episodio di Teagene richiamato in Mul. Virt. 24. Molto probabilmente Plutarco si servì, quale fonte intermedia, del Peri Lampsakou,

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compendio ellenistico in due libri degli Ὧροι Λαμψακηνῶν (in quattro libri). Nachstdät, rifacendosi al testo degli Strategemata di Polieno (8.37), accettava la lezione Φόξος, non tràdita dai manoscritti plutarchei, forse presupponendo una correzione di Polieno o l’esistenza di una fonte terza consultata dal retore macedone. Tuttavia, senza escludere a priori l’ipotesi che Polieno fosse a conoscenza di una versione differente dei fatti, pare più probabile si trattasse di una corruttela verificatasi in un codice redatto in grafia maiuscola (non risulta difficile una confusione tra Β e Ξ all’interno di parola). Il retore Polieno ometteva ogni riferimento a Blepso; cfr. Strateg. 8.37. Per ricondurre i due appellativi ad un contesto di mitopoiesi di presunta finalità eziologica, cfr. la formula eschilea φόβον βλέπειν (Sept. 498), definita “expression du renard” da P. Chantraine; cfr. Chantraine, Dictionnaire étymologique, 179. Un’interpretazione degli eventi influenzata dalla propaganda ateniese post-rivolta ionica (l’idea era con grossa probabilità nata prima del 460 a.C., anno della morte di Paniassi di Alicarnasso, che nella sua opera aveva presentato Neleo, figlio di Codro, come capo della migrazione in Ionia) vedeva nei discendenti di Codro gli artefici della colonizzazione in Ionia. La tradizione che voleva i Focesi originari della Focide non è verificata, anche se la città risultò abitata parzialmente da alcuni Cheronesi; cfr. Sakellariou, La migration, 234–238. Giovane nobile focese della stirpe dei Codridi, che Stadter credeva fosse realmente esistito (nonostante il nome sembrasse inventato; cfr. Stadter, An analysis, 98 nota 239) malgrado il parere di Jacoby (FGrHist, Komm. zu 262 F 7–8, p. 15), che lo considerava, al pari del fratello Blepso, una figura di carattere mitologico. In effetti, i nomi di Fobo e Blepso sembrano essere frutto, in qualche modo, di invenzione, in quanto contengono un riferimento, forse apotropaico, alla paura e alla vista; cfr. E. Bernert, “Phobos 3”, R.E. XX.1 (1941) 318. Secondo Carone di Lampsaco, Fobo fu il primo a lanciarsi dalla rupe di Leucade (da Calcedone o da Leuce nel golfo di Smirne; FGrHist 262 F 7–8, p. 16), ma il termine πρῶτος risulta davvero significativo solo se considerato in riferimento alla rupe di Leucade (Stadter, An analysis, 101); cfr. anche U. Von Wilamowitz-Moellendorf, Sappho und Simonides (Berlin: 1913) 25–33. Tuttavia, Plutarco non specifica la motivazione dell’estremo gesto, ipoteticamente curativo di un amore non corrisposto, mostrando una leggenda antica almeno quanto il racconto di Carone. Nella rupe di Leucade si credeva che Apollo avesse scovato delle proprietà curative

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dell’amore, ed il curativo salto nel mare fu sperimentato in primo luogo da Zeus, poi da Venere (dopo la morte dell’amato Adone), e successivamente da Deucalione (per amore di Pirra), dai poeti Nicostrato e Carino, dalla figlia di Pterela (per amore di Cefalo), da Calice (per amore di Evatlo) e da Artemisia, regina caria (per amore di Dardano di Abido), dopo essere stato inaugurato, secondo tradizione, dalla poetessa Saffo (rifiutata da Faone). Tale promontorio aveva una punta che sporgeva sul mare e si perdeva tra le nubi, essendo spesso circondato dalla nebbia anche nei giorni più sereni, e sulla sommità vi era stato edificato un tempio di Apollo; talora, nel giorno in cui si festeggiava il dio di Leucade, vi erano precipitati anche alcuni condannati a morte, che divenivano vittime espiatorie. Talora erano posizionate in acqua delle scialuppe per il recupero dei corpi risanati dalla passione amorosa. In merito a tale leggenda, che descriveva il disperato lancio per amore (i Pitagorici, invece, usarono questa immagine per simboleggiare l’anelito dell’anima alla purificazione) da quello che sarebbe l’odierno Capo Lefkata, nell’isola ionia di Leucade (o, più generalmente, da scogliere caratterizzate da colore biancastro; cfr. Boulogne, Plutarque, 305), cfr. Stesic. fr. 100 Page (= Ath. 14.619DE Kaibel); Men. fr. 1 Dindorf; Str. 10.452; Ovid. Heroid. 15.163–172; Ptol. Chenn. in Phot. Bibl. 190, p. 153 Bekker. Cfr. anche S.G. De Vries, Epistula Sapphus ad Phaonem (Berlin: 1888) 101–103; Von Wilamowitz-Moellendorf, Sappho und, 25–33; C. Densmore Curtis, “Sappho and the Leucadian Leap”, AJA 24 (1920) 146–151; G. Nagy, “Phaethon, Sappho’s Phaon, and the White Rock of Leukas”, Harvard Studies in Classical Philology 77 (1973) 137–177; D. Danna, Amiche, compagne, amanti. Storia dell’amore tra donne (Trento: 2003) 30– 32. La pratica rituale del καταποντισμός, inoltre, richiamava un annegamento mistico che simboleggiava l’immortalità, raffigurata dalla riemersione quale disposizione naturale a regnare; cfr. S. Eitrem, “Leukas-Sprung und andere rituelle Sprünge”, Λαογραφία 7 (1923) 127–136; J. Hubaux, “Le plongeon rituel”, Musée Belge 27 (1923) 5–81; G. Méautis, “Sappho et Leucothéa”, REA 32 (1930) 333–338; J. Toutain, Nouvelles études de mythologie et d’histoire des religions antiques (Paris: 1934) 126–148. 433 Secondo Stadter (Stadter, An analysis, 100–101), un particolare simile, certamente fuori obiettivo rispetto al contesto narrativo, anche se pienamente corrispondente al gusto plutarcheo per la divagazione eziologica, sarebbe stato omesso da una fonte intermedia, mentre Plutarco avrebbe avuto avanti a sé una versione integrale del testo di Carone, cui avrebbe aggiunto alcuni dettagli stimati significativi per contestualizzare e preparare l’avvento in scena di Lampsace (metodo sistematicamente applicato anche nelle storie 2, 3, 4, 8, 9, 14, 16, 20, 23, 25, 26).

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434 Malgrado Plutarco vi facesse solo parziale riferimento, fu molto probabilmente Carone a narrare la fondazione storica (datata da Eusebio nel 654 a.C.; tale data è stata generalmente accettata come “approssimativamente accurata”, e spostata al 615 a.C. soltanto da C. Roebuck; cfr. Stadter, An analysis, 98) della città di Lampsaco e le origini del suo nome negli Horoi Lampsakenon (opera citata in Ath. 11) tramite una narrativa fondamentalmente storica, provvista anche di spunti novellistico-descrittivi; cfr. anche K. Von Fritz, Die griechische Geschichtsschreibung (Berlin: 1967); G. Ottone, Lybika (Roma: 2002) 43 nota 30. Carone di Lampsaco rivestì, forse, un ruolo preminente tra le fonti di questo episodio (secondo Stadter, invece, Carone sarebbe stato “without doubt” l’unica fonte “for Plutarch’s whole chapter”; cfr. Stadter, An analysis, 98). Cfr. FGrHist 262 F 7; cfr. anche S. Eitrem, Beiträge zur griechischen Religionsgeschichte, vol. III (Christiania: 1920) 161; L. Pearson, Early Ionian Historians (Oxford: 1939) 144–145; C. Roebuck, Ionian Trade and Colonization (New York: 1959) 113. Jacoby, invece, riteneva che Carone avesse trattato la fondazione mitologica di Lampsaco (FGrHist, Komm. zu 262 F 7–8, pp. 14–15), come lascerebbe pensare, tra l’altro, anche il τόπος del salto dalla rupe di Leucade; cfr. anche Ottone, Lybika, 36–45. 435 Fobo avrebbe incontrato Mandrone a Parium, fondata, secondo Eusebio, una cinquantina di anni prima di Lampsaco (negli anni 708–707 a.C. circa); cfr. Stadter, An analysis, 98. Questa città dell’Ellesponto non sembra fosse una colonia milesia; cfr. Paus. 9.27.1 (che la collegava ad Eritre); F. Bilabel, Die ionische Kolonisation (Leipzig: 1921) 49–50; cfr. anche 255A. 436 Popolazione mitica, appartenente al ceppo dei Traco-Frigi, impossessatasi dell’Asia Minore agli inizi del XII sec. a.C. e conosciuta soprattutto in relazione alla saga degli Argonauti. Contati tra gli ausiliari di Priamo durante l’assedio di Troia, abitavano la Bitinia, o forse la sola Troade (cfr. Lycophr. Alex. 516; 305; 1474), e si narrava fossero ben chiomati e possedessero corpi di dimensioni più grandi del normale. Stefano di Bisanzio parlava di βεβρύκων ἔθνη δύο, divisi in un ramo europeo, situato presso gli Iberi, e in un ceppo asiatico, collocato nella Propontide, su cui esistevano pareri discordanti; cfr. St.Byz. s.v.; E. Pais, I Bebrici dell’Asia Minore e dei Pirenei (Pisa: 1895); W. Ruge, “Bebrykes 2”, R.E. III.1 (1897) 180–181; Sakellariou, La migration, 434–437. 437 Oltre all’affermazione di Carone lampsaceno riportata a 255A1–3, le testimonianze di Eforo (FGrHist 70 F 46), Deioco di Cizico (FGrHist 471 F 3 = St.Byz. s.v. Λάμψακος), Mela (1.97) e una proclamazione ellenistica di fratellanza (SIG3 591, linea 26) tra cittadini lampsaceni e Massiliesi (notoriamente Massilia era colonia focese) confermano che Lampsaco fosse

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una colonia focese, come attestato da Stefano di Bisanzio (ἔστι δὲ Φωκαίων κτίσμα, πάλαι Πιτύουσα λεγομένη; cfr. St.Byz. s.v. Λάμψακος); cfr. anche L. Vecchio, Deioco di Proconneso. Gli argonauti a Cizico (Napoli: 1998). Strabone (13.1.19) considerava Lampsaco colonia milesia (testimonianza da ritenersi, secondo Stadter, “either incorrect or only half true”; cfr. Stadter, An analysis, 98) o per un’effettiva compartecipazione dei Milesi alla fondazione di Lampsaco (avvenuta nel contesto di un territorio dominato da fondazioni di Mileto; cfr. FGrHist, Komm. zu 262 F 7–8, pp. 14–15; Bilabel, Die ionische Kolonisation, 49–50), o per una più probabile distorsione filo-milesia degli eventi, paragonabile a quella verificatasi nel caso della fondazione di Miunte (cfr. anche Stadter, An analysis, 91–92). 438 Queste vicende, pur nel sunto in termini romanzati del racconto di Carone, paiono riflettere la coeva e reale dinamica di conflitti tra coloni greci e popolazioni autoctone; Stadter, An analysis, 99. 439 Personaggio femminile di dubbia storicità (non era un’eroina fondatrice, ad avviso di Jacoby; FGrHist, Komm. zu 262 F 7–8, pp. 14–15), palesemente funzionale alla finalità eziologica della vicenda, e ivi assurta a simbolo della forte e fattiva cooperazione ed interazione tra Greci e non Greci, di cui non risulta traccia nell’abbondante monetazione successiva della città; cfr. C. Sourvinou-Inwood, Hylas, the nymphs, Dionysos and others: myth, ritual, ethnicity: Martin P. Nilsson Lecture on Greek Religion, delivered 1997 at the Swedish Institute at Athens (Stockholm: 2005) 331–332; 340–341. Altre e meno attestate leggende facevano derivare il nome della città da una luce soprannaturale (P. Mela 1.19.1; Theoph. Cont. 367.705) o dal chiarore procurato da un fulmine (E.M. s.v.), che avrebbe guidato i fondatori della città (alla radice del nome Lampsace è facilmente riconoscibile il verbo λάμπω, nella valenza di “brillare” o “essere brillante”; Chantraine ha riscontrato come, nelle lingue di ceppo indoeuropeo, il fonema lap fosse spesso associato in qualche modo alla luce; cfr. Chantraine, Dictionnaire étymologique, 617–618). Cfr. anche W. Leaf, Strabo on the Troad (London: 1923) 94–95; A.R. Burn, The lyric age of Greece (New York: 1968) 109–110. L’intervento di Lampsace la rende appropriata patrona di una città di composizione razziale mista, esplicitando la speciale identità cittadina in un personaggio femminile; cfr. anche Blundell–Williamson, The sacred and the feminine, 106. 440 Ad avviso di Stadter (cfr. Stadter, An analysis, 100), la morte di Lampsace interrompe piuttosto goffamente la cronaca degli accordi tra Mandrone e i coloni greci, a testimonianza del fatto che Plutarco avrebbe chiaramente sunteggiato una più elaborata descrizione caroniana dei rapporti tra Greci ed autoctoni.

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441 Una volta la città era chiamata Πιτύουσα, stando alla testimonianza di Deiloco Ciziceno (ovvero Deioco di Proconneso; cfr. Vecchio, Deioco, passim) riferita da Stefano di Bisanzio; cfr. St.Byz. s.v. Λάμψακος = Deioch., FGrHist 471 F 3. Per M. Polito l’appellativo Pityusa, privo di connotazione etnica, sembra riportare ad un momento primordiale della fase fondativa della città legato alla vegetazione. Per le varie attestazioni del toponimo (anche nella forma di Πιτυοῦς; cfr. Strabo. 11.2.14; Zosim 1.32) in riferimento a Mileto, Faselide, Chio ed altre città, cfr. Strabo 13.1.18; Schol. ad A.R. 1.932–933a, p. 80 Wendel; St.Byz. s.v. Φάσηλις ed anche C. Talamo, Mileto. Aspetti della città arcaica e del contesto ionico (Roma: 2004) 29 nota 8; P.G. Guzzo, “Intorno a Lampsake. Ipotesi su un modello foceo”, IncidAntico 8 (2010) 198; Polito, “I racconti di fondazione”, 66– 100. 442 Stadter, valutando Carone quale unica o principale fonte di Mul. Virt. 18, reputa questo episodio una testimonianza straordinaria dell’esistenza, all’epoca dello storico lampsaceno (circa due secoli dopo gli eventi in considerazione), di un racconto completo e ragionevolmente accurato della fondazione di Lampsaco, che ne discutesse ampiamente anche gli aspetti di preistoria insediativa e coloniale. Tuttavia non rimane alcuna precisa evidenza di una trattazione articolata della ktisis lampsacena da parte di Carone (cfr. FGrHist, Komm. zu 262 F 7–8, p. 13), proprio come non pare così scontato (come crede Stadter; cfr. Stadter, An analysis, 99) che il medesimo storico considerasse la fondazione di VII sec. a.C. la reale ed effettiva fondazione della città di Lampsaco. Esistevano, probabilmente, altri e remoti miti fondativi, come quello che connetteva Pitoessa con la guerra troiana (cfr. St.Byz. s.v. Λάμψακος). 443 Secondo Stadter, seguito da Boulogne, il culto di Lampsace presumibilmente esisteva già prima dell’arrivo dei Focesi (Stadter, An analysis, 99; Boulogne, Plutarque, 306) e la storia della vergine che aiutò i Greci fu inventata successivamente per spiegare il nome della città. Tuttavia, di questo culto eponimo e di natura eroico-fondativa (Boulogne si dichiarava contrario all’ipotesi di un culto di carattere eroico-fondativo; cfr. Boulogne, Plutarque, 306) preesistente alla fondazione focese, allo stato attuale delle fonti e delle evidenze archeologiche, non resta alcuna traccia. Ganszyniec ha intravisto in questo aneddoto una leggendaria tematica di ascendenza orientale, ritenendo inoltre che il culto di Lampsace fosse ascrivibile alla religione semitica; cfr. R. Ganszyniec, “Lampsake”, R.E. XII (1925) 588. L’umanista Francesco Filelfo riconobbe a margine del ms. Laur. 80,22 la riconoscenza dei Lampsaceni, annotando il termine εὐχαριστία.

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444 Larson menziona questa sezione dell’episodio all’interno di “Heroization Stories”, mostrando come Plutarco distinguesse due fasi del culto di Lampsace e precisando che si trattò di iniziali onori eroici e di successivi sacrifici, come quelli dedicati alle divinità; cfr. Larson, Greek heroine, 14. 445 Questo episodio ebbe una o più fonti tuttora sconosciute, successivamente raccolte e, forse, cospicuamente romanzate da Plutarco (Stadter riconosceva nell’ipotetica fonte una probabile “tendency to dramatize events”; Stadter, An analysis, 103), cui è difficile risalire a causa del grande numero di autori del periodo mitridatico, e per via dell’impossibilità di individuare un preciso autore di Kyrenaika. Potrebbe trattarsi di Posidonio (citato tre volte da Plutarco in Mar.; cfr. FGrHist 87 F 37 = Mar. 45.7), la cui storia giungeva almeno fino all’86 a.C., e che fornì un dettagliato racconto della campagna orientale di Silla, forse informando il Cheronese anche sulla situazione a Cirene prima dell’arrivo di Lucullo (cfr. anche FGrHist, Komm. zu 87 2 C, p. 156; FGrHist 87 T 1; Stadter, An analysis, 103 nota 259), oppure più verosimilmente di Strabone, menzionato diverse volte per questo periodo storico da Plutarco (Luc. 28 = FGrHist 91 F 9; Sull. 26 = FGrHist 91 F 8; Caes. 63 = FGrHist 91 F 19) e anche da Flavio Giuseppe (in connessione con la visita di Lucullo a Cirene; cfr. J. AJ 14.114 = FGrHist 91 F 7). A. Pérez Jiménez ha riconosciuto nella storia dedicata ad Aretafila una biografia completa, provvista di tutti i connotati strutturali presenti nello schema basico delle Vite Parallele; cfr. A. Pérez Jiménez, “Retrato literario y biografía menor en el Corpus Plutarcheum”, in I. Gallo–C. Moreschini (eds.), I generi letterari in Plutarco. Atti del VIII Convegno plutarcheo, Pisa, 2–4 giugno 1999 (Napoli: D’Auria, 2000) 36– 37. 446 Pur definita figura piuttosto problematica di donna attiva in politica e capace di adoperare un modus operandi quantomeno discutibile, per non dire cinico, ed esclusivamente finalizzato all’utile della città, Aretafila alla fine riprende la vita casalinga al telaio, rifiutando qualsiasi ulteriore coinvolgimento nel governo di Cirene. Il tempestivo rientro nei ranghi familiari, secondo Blomqvist (che classificava Aretafila tra le figure di donne definite “supportive”), avrebbe consentito a Plutarco di ammirare la virtù e lo status morale di Aretafila, il cui impegno attivo in politica sarebbe stato onorevole e lodevole proprio perché soltanto temporaneo; cfr. Blomqvist, “From Olympias to Aretaphila”, 84–86. In realtà la storia 27, dedicata alla moglie di Pite, mostra una donna che non si tira indietro dalla vita politica, anzi prende le redini del governo cambiando in meglio le condizioni della popolazione. Per il personaggio di Aretafila cfr. anche

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A.M. Mozzoni, La donna e i suoi rapporti sociali (Milano: 1864) 134–135; R.M. Rosen–I. Sluiter, Andreia: studies in manliness and courage in classical antiquity (Leiden: Brill, 2003) 335; per la fortuna dell’aneddoto, volto anche nella tragicommedia Arétaphile dall’autore drammatico secentesco P. du Ryer, cfr. Zardini Lana, Pierre du Ryer, 183–198. Per Agiatide quale altro esempio di donna “maestra del marito, nel campo essenziale del pensiero politico” nella Sparta ellenistica, cfr. Cleom. 1.5 e Marasco, “Donne, cultura e società”, 668–669. Plutarco narra un episodio dalla storia di Cirene dell’epoca di Mitridate.; cfr. anche Polyaen. Strateg. 8.38 e Stadter, An analysis, 24. Rimangono ben poche informazioni sulla coeva storia della città: Tolomeo Apione nel 96 a.C. lasciò il regno in eredità al popolo romano ed il senato di Roma dichiarò Cirene libera (Liv. Periochae 70), fino a renderla, poi, colonia romana nel 74 a.C. (App. B.C. 1.111). Stadter (basandosi su Plu. Luc. 2.4 e J. A.J. 14.114) ha ritenuto le imprese di Aretafila immediatamente precedenti all’inverno dell’87–86 a.C., anni in cui Lucullo fu inviato da Silla a radunare navi da Egitto e Libia, dove trovò la popolazione di Cirene afflitta da frequenti guerre e tirannie. Queste notizie sembrano coincidere in pieno con le tirannie di Nicocrate e Leandro e la guerra libica menzionate nella storia di Aretafila. Cfr. anche H. Broholm, “Kyrene 2”, R.E. XII.1 (1924) 157; J.P. Thrige, Res Cyrenensium (Verbania: 1940) 269; A.H.J. GreenidgeA.M. Clay, Source for Roman History (Oxford: 21960 [1903]) 118; S.I. Oost, “Cyrene, 96–74 B.C.”, Classical Philology 58 (1963) 11–25. Cfr. Plu. Brut. 2; Comp. Ag., Cleom. et Gracch. 3; Arat. 24. La comparazione della condotta audace e senza scrupoli di Aretafila con le imprese delle eroine del passato susciterebbe, secondo Stadter, “little wonder”; Stadter, An analysis, 102. Cfr. anche la storia 18 dedicata a Lampsace. Crönert ha segnalato la scoperta di un’iscrizione che menziona un personaggio di nome Αἰγλάνωρ, vissuto dopo il 40 a.C., regnante su Cirene con l’assenso di Marco Antonio, che gli consegnò il potere. Anche l’emendazione di Wilamowitz al testo tràdito dai manoscritti (che presentano l’appellativo Αἰγλάτωρ) sembra muoversi in tale direzione. Tuttavia, la mancanza di fonti più dettagliate su questo episodio ed il consenso dei codici (inoltre, una confusione τ/ν pare paleograficamente piuttosto improbabile) impediscono di riconoscere con certezza nel personaggio indicato da Crönert uno dei parenti più stretti di Aretafila; cfr. W. Crönert, “Philitas von Kos”, Hermes 37 (1902) 226–227; Boulogne, Plutarque, 306. Per ulteriori notizie su questa figura di donna coraggiosa, che assassinò il marito per una causa giusta, cfr. X. H.G. 6.4.35–37; Cic. De officiis 2.7; De

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invent. 2.49; D.S. 16.14; Conon, FGrHist 26 F 1; Val. Max. 9.13 ext. 3; Plu. Pel. 35; De Her. mal. 856A e Non posse. 1093C (= FGrHist 115 F 337). 452 Insieme a Neera (storia 17), moglie infedele e fuggitiva di Promedonte di Nasso, Calbia è una delle due uniche figure femminili connotate negativamente all’interno dell’opera. In questa figura, C. Ruiz Montero e A.M. Jiménez hanno riconosciuto il motivo tradizionale e folkloristico della donna (molto spesso la suocera) che ostacola l’eroe o l’eroina; cfr. le vicende sofoclee di Atamante, Fineo ed Eurialo, e quelle euripidee di Ino, Frisso e Melanippo. Cfr. la figura di Idea in Hdt. 4.154; Venere nella favola di Amore e Psiche in Apul. Metamorph. 4.28. Cfr. anche X. Eph. 2.9; Apul. Metamorph. 10.23. Lasciando da parte il ritiro al telaio di Aretafila (storia 19) e la figura saggia e stimata dell’anziana Critola, sorella di Batto “il Felice” (storia 25), Calbia pare corrispondere in pieno allo stereotipo della donna vecchia spaventosa e terrificante per gli uomini poiché in menopausa; cfr. Bremmer, Greek religion, 74 (che chiamava in causa le Moire, Empusa, Lamia e le Erinni). Cfr. Ruiz Montero–Jiménez, “Mulierum Virtutes”, 108–109; Tanga, “Mulierum Virtutes: atti di virtù”, 83–96. Del resto, l’immaginario mitologico ellenico presentava un’altissima incidenza di figure mostruose femminili, come se la donna (la cui nascita fu ritenuta un τέρας da Aristotele in GA 769b) rappresentasse il mostro più temibile e pericoloso, o la quintessenza della mostruosità. In tal senso, un invalso pregiudizio misogino originava il simbolismo teriomorfo collegato al mondo femminile; cfr. E. Pellizer, “Rappresentazioni femminili della paura nella mitologia greca”, in G. Del Olmo Lete et al. (eds.), La dona en l’antiguitat, Seminari: “Deesses, Heroinas en les Mitologies antigues”, Barcelona, 9–13 setembre 1985 (Sabadell: 1987) 47–59; C. Mainoldi, “Mostri al femminile”, in R. Raffaelli (ed.), Vicende e figure femminili in Grecia e a Roma, Atti del Convegno di Pesaro, 28–30 aprile 1994 (Ancona: 1995) 69–92; E. Pellizer, “Figures de croquemitains fémenins en Grèce antique”, in J. Berlioz–D. Alexandre-Bidon (eds.), Le croque mitaines. Fair peur et éduquer (Grenoble: 1998) 141–151; M. Ressel, “Defining the Other: Ethnographical Approaches in Ancient Greece”, Elvira 5 (2002) 61– 78. 453 Con Xylander e Nachstädt conservo παρασκευάσασθαι, forma attestata da tutti i codici, mentre l’editio Aldina presenta παρασκευάσθαι e tutti gli altri editori hanno preferito adottare la forte modifica παρεσκευάσθαι apportata da Stephanus. 454 Per questa circostanza, E. Ruiz Yamuza ha parlato di un utilizzo dell’avverbio ἴσως nella funzione modificata di “adjectivo más sencillamente calificativo”; E. Ruiz Yamuza, “Aproximación a las estrategias de mitigación

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en Plutarco: el uso de adverbios de modalidad”, in J.M. Candau Morón– F.J. González Ponce–A.L. Chávez Reino (eds.), Plutarco transmisor, Actas del X Simposio Internacional de la Sociedad Española de Plutarquistas, Sevilla, 12–14 de noviembre de 2009 (Sevilla: 2011) 513. Per ὑφιέναι cfr. anche Per. 13.15; Pomp. 20.4. In accordo con la totalità dei codici planudei, e seguendo Xylander, Stephanus, Wyttenbach, Dübner e Bernardakis, si ristabilisce la lezione Λέανδρος, in questo e nei successivi passi ove compare il nome del fratello del tiranno Nicocrate. Non convince, invece, pur essendo suffragata dalla testimonianza del cod. F degli Strategemata di Polieno e dall’assonanza con l’altro nome cirenaico Λάαρχος, menzionato più volte nella storia dedicata ad Ἐρυξώ (cfr. Mul. Virt. storia 25), la congettura Λάανδρος, formulata da Nachstädt ed adottata da Ingenkamp e Boulogne; essa pare indotta dalle variae lectiones Λάανδρον/Λαάνδρου, che, presenti soltanto nel cod. Vindob. phil. gr. 46 e in sezioni successive della narrazione riferite al giovane usurpatore (256E4; 257A5; 257B2 e 257D2), paiono attribuibili più a sviste di copista che a differenti riscontri onomastici. Wyttenbach accoglieva la lectio φονική, definendo Calbia “sanguinis et caedis cupida”; cfr. Wyttenbach, Animadversiones, 13. Per le punizioni e torture subite da Aretafila cfr. anche Meier Tetlow, Women, Crime, 223. Per l’accusa di φαρμακεία rivolta ad Aretafila cfr. C.A. Faraone, Ancient Greek Love Magic (Cambridge, Massachusetts/London: 1999) 116. Per la magia come attività femminile da evitare con lo studio, cfr. Con. praec. 145AF. Per altre donne artefici di stregonerie cfr. i casi di Olimpiade e Cleopatra in Alex. 2.6–9; Ant. 71.6–8; Con. praec. 139A; 141BC. Secondo D. Romero, Plutarco in questa circostanza avrebbe presentato Aretafila come soggetto ed oggetto di arti magiche nell’ambito di relazioni amorose, come testimoniato da alcune frasi rinvenute in papiri; in realtà, Aretafila aveva tentato di uccidere con una pozione velenosa Nicocrate per motivi politici e, una volta scoperta, simulò astutamente di aver voluto difendere il proprio “amato” compagno per replicare ai filtri preparati dalle altre donne; D. Romero, “¿Qué es la mujer? Hechizo de perversidad”, in J.M. Candau Morón–F.J. González Ponce–A.L. Chávez Reino (eds.), Plutarco transmisor, Actas del X Simposio Internacional de la Sociedad Española de Plutarquistas, Sevilla, 12–14 de noviembre de 2009 (Sevilla: Universidad de Sevilla, 2011) 497. Aretafila, dunque, si serve della comune credenza nella pratica magica con finalità amorose solo allo scopo di difendersi dall’accusa di aver voluto assassinare il tiranno. Per i filtri magici cfr. anche Con. Praec. 141C e 145C.

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461 La sofferenza corporale si rivela importante all’interno della “poetic of womanhood”, soprattutto per i risvolti sociali della performance politica; cfr. E.J. Haland, “Women, Death and the Body in some of Plutarch’s writings”, Mediterranean Review IV.2 (2011) 1–48. 462 D. Romero ha ipotizzato che Aretafila avesse esercitato le arti magiche (quali “pociones y encantamientos”; Romero, “¿Qué es la mujer?”, 500) sulla figlia per indurla a sedurre Leandro; in realtà, Plutarco stesso dichiarava la propria impossibilità di stabilire se Aretafila avesse adoperato filtri per irretire soltanto il tiranno di Cirene, e non con la finalità di convincere la propria figlia a plagiare Leandro. 463 F. Filelfo, in uno dei marginalia al Mulierum Virtutes contenuti nel ms. laurenziano plutarcheo in suo possesso, definì Aretafila τεχνουργός. 464 Si tratta della convocazione del popolo, probabilmente in un’assemblea improvvisata, per annunciare la caduta del tiranno e la restituzione della libertà alla cittadinanza. Illuminante, in tal senso, il parere di Wyttenbach che, dopo aver elencato e commentato le differenti traduzioni di Xylander, Amyot, Cruserius e Rinuccini, annotò “credo significari morem usitatum, dejecto tyranno populum ad libertatem vocandi, καλεῖν τοὺς πολίτας ἐπὶ τὴν ἐλευθερίαν … Ita quae universe dicitur invitatio, advocatio, παράκλησις, ad illam libertatis propositionem referri potest”; cfr anche Pel. 12.1; Caes. 66.1–4; Cleom. 37.3–4. In riferimento alla costruzione ἐπὶ τὴν παράκλησιν, Wyttenbach si esprimeva “Frequentiore ratione dictum esset πρὸς τὴν παράκλησιν sed et ἐπὶ τι venire, hoc loco valet ad aliquid accipiendum, nimirum, ad acceptionem propositae libertatis”; cfr. Apophth. Lac. 222C; 233C; D.L. 2.77; Iamb. V.P. 133. 465 Allo stesso modo, i Siracusani si rivolsero al loro liberatore come ad un dio (Plu. Dion 29.1). Per Plutarco l’immagine della divinità all’interno della città è prova fondamentale di saggezza (cfr. Fuhrmann, Images de Plutarque, 234; Boulogne, Plutarque, 72). 466 In questa sezione i codici si dividono: v αEn presentano παραβαλλομένη, lezione adottata dall’editio Aldina, da Stephanus, Xylander, Reiske, Hutten, Dübner e Babbitt, mentre Auβγδσ 80,5 tramandano περιβαλλομένη, termine che Plutarco adopera talora per indicare specificamente l’appropriazione del potere, o l’assunzione di cariche politico-militari (cfr. Sull. 5.3.5; Eum. 12.1.4). Il contesto narrativo, però, che parla di un’ Aretafila ormai stanca della lotta alla tirannide e degli intrighi di palazzo, e che ha ispirato anche le traduzioni “negotiorum omnium ac civilium rerum cura posthabita” di Rinuccini, “ne se voulant plus hazarder à s’entremettre” di Amyot, “rebus tractandis se admiscendi repudiato studio” di Xylander e “rejecting any sort of meddling in affairs” di Babbitt, lascia propende-

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re per il significato intransitivo del participio medio di παραβάλλω inteso quale “astensione, cessazione” di ogni attività di difesa civica, per dedicarsi alla famiglia e al telaio (cfr. 257E1–3; nella cinquecentesca traduzione di Giovanni Tarcagnota, invece, il disimpegno civile assume i tratti di un’anacronistica vocazione religiosa per Aretafila, la quale “tosto che vidde la patria libera, si ritirò in un monasterio di monache”). Wyttenbach, seguito da Bernardakis, Nachstädt ed Ingenkamp, congetturò προβαλλομένη (“quod jungatur cum ὁτιοῦν: quidquid alieni negotii repudians”; cfr. Wyttenbach, Animadversiones, 14), participio ben attestato nel lessico plutarcheo ma non suffragato dalla tradizione manoscritta del Mulierum Virtutes, mentre l’integrazione di Cobet ἀποστᾶσα, e la sostituzione di τοῦ con il τῷ suggerito da Bernardakis (in ossequio a S. O.C. 231) o con il τό proposto da Wyttenbach (con la traduzione “quamcumque alienarum rerum tractationem repudians”) non hanno avuto sinora seguito. 467 In accordo con Stephanus, Xylander, Dübner, Bernardakis e Babbitt, accetto διατριβάς, lezione della maggioranza dei codici, che riproduce una espressione (ivi anche connessa con la determinazione di luogo ἐν τῷ ἱερῷ) latrice di un significato oscillante tra: “passing of time”, (LSJ, s.v.) come nelle traduzioni “in Dianae templo degentem” di Rinuccini, “in fano frequenter degentem” di Xylander e “who was spending time in the temple” di Babbitt, e “stay there”, (LSJ, s.v.) di cui si era fatto interprete Amyot, rendendo “elle fasoit sa demourance dedans le temple”. In questo caso, Plutarco descrive la sacerdotessa Camma, che, dopo esser rimasta vedova, indugia a lungo, e senza prendervi necessariamente alloggio temporaneo o definitivo, all’interno del tempio di Artemide per pregare e meditare vendetta contro l’illecito assassinio del marito. Il cod. Vindobon. phil. gr. 46 tramanda, invece, τὰς διατριβάς, lezione adottata da Nachstädt, Boulogne ed Ingenkamp provvista di un articolo, probabilmente di natura congetturale, che, implicando una specificità (cfr. Pomp. 39.3.1; Comp. Dion. et Brut. 4.3.1; Reg. et imp. apophth. 196B2; De virt. mor. 447E8; De coh. ira 459E2 e Quaest. conv. 713C2) ivi pleonastica, pare sminuire la formularità di διατριβὰς ποιεῖσθαι. 468 Per la corrispondenza tra vita e teatro, metafora molto cara al Cheronese, cfr. De gen. Socrat. 596 DE; Praec. ger. reip. 813EF; Fuhrmann, Images de Plutarque, 243. 469 Malgrado la palese drammatizzazione degli eventi e una narrativa piuttosto vivida, il valore storico del racconto plutarcheo non è stato reputato questionabile da Stadter, che ha anche ricondotto la trattazione di questi eventi al perido di composizione delle Vite parallele riguardanti perso-

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naggi romani vissuti al tempo delle guerre civili (quali Silla, Lucullo e Cesare); Stadter, An analysis, 103. 470 L’episodio di Camma è trattato con minore dovizia di particolari e con alcune differenze in Amat. 22 (768 BD), dove, in un contesto di strenua difesa della nobiltà dell’amore eterosessuale, Plutarco focalizza specificamente la propria attenzione sulla fedeltà coniugale manifestata da Camma nei confronti del consorte defunto. Il raffronto tra le due versioni del medesimo aneddoto è preso da Stadter a prova del “free handling” plutarcheo di una medesima vicenda storica, e a testimonianza di una probabile maggiore vicinanza di Mul. Virt. 20 alla fonte storica (che per Stadter è senza dubbio la stessa) usata dall’autore in entrambi i trattati, composti all’incirca nell’ultima decade della sua vita. Inoltre, una descrizione maggiormente dettagliata degli eventi potrebbe indicare una posteriorità compositiva di questa versione dei fatti rispetto alla trattazione, precedente e meno approfondita, riservata alla medesima vicenda nell’Amatorius (cfr. Stadter, An analysis, 103–106); tuttavia, tale ragionamento può essere agevolmente capovolto. Marasco, invece, proprio sulla base del differente adattamento della fonte storica all’interno nei due opuscoli, non ha ritenuto possibile formulare alcuna ipotesi in merito alla cronologia delle due opere; Marasco, “Sul Mulierum virtutes”, 341. Cfr. anche Polyaen. Strateg. 8.39. 471 La storia dedicata a Camma apre un ciclo di quattro storie dedicate alla virtù di donne provenienti dalla Galazia (il capitolo XIV del trattato De Mulieribus Claris in Bello descriveva anche la vicenda della regina galata Onomari, ivi assente; cfr. Westermann, ΠΑΡΑΔΟΞΟΓΡΑΦΟΙ, 218), che comprende anche gli aneddoti riguardanti Stratonica (storia 21), Chiomara (storia 22) ed una sconosciuta donna vissuta a Pergamo (storia 23). Non risulta traccia evidente di una presunta enfasi attribuita consapevolmente da Plutarco all’unità di questo corpus galata (ipotesi formulata da Stadter; cfr. Stadter, An analysis, 104), ma è indubbio che la matrice anatolica che accomuna i quattro successivi episodi costituisca un unicum, all’interno di un opuscolo i cui aneddoti costitutivi non seguono nel complesso una precisa disposizione geografica. La testimonianza pseudoplutarchea di Cons. ad Apoll. XL (“perché a dire il vero il pianto mostra natura effeminata, debole e vile; e le donne son più inclinate al pianto degli uomini; e i barbari più de’ Greci; e’peggiori più de’ migliori; e fra’ i barbari stessi non i più generosi i Celti, i Galati e gli altri ripieni di spirito virile, ma gli Egizj, i Siri, i Lidj e tutti gli altri simili a questi”. Traduzione di Marcello Adriani il Giovane) potrebbe provare una valutazione positiva della dignitas dei Galati nel complesso dei popoli non ellenici;

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cfr. M. Adriani, Opuscoli di Plutarco volgarizzati, t. I (Milano: Fratelli Sonzogno, 21825 [1819/20]) 326. Plutarco venne a conoscenza di questi fatti molto probabilmente mentre raccoglieva materiale per la composizione delle Vite di Lucullo, Bruto e Pompeo, le cui carriere furono interessate dagli avvenimenti succedutisi in quel tempo in Asia Minore; cfr. Boulogne, Plutarque, 307; inoltre P. Freeman ha dedicato un intero capitolo alla Galazia, interpretando e valutando la vicenda di Camma (e Chiomara; cfr. Mul. Virt. 22) in funzione anti-romana. Cfr. P. Freeman, The philosopher and the druids, A journey among the ancient Celts (New York: 2006) 39–47 e, in particolare, 48–51. Per un’analisi dello stereotipo negativo dei Galati (chiamati “Gallograeci” da Cruserius) quale popolo barbaro “par excellence” nell’opera di Polibio, cfr. Schmidt, Plutarque et les Barbares, 325–332; E. Foulon, “Polybe et les Celtes”, LEC 69 (2001) 35–64. Tuttavia Schmidt, pur enfatizzando un’immagine non positiva dei Galati, che verrebbe fuori anche dall’opera di Tacito (nelle Origines di Catone, invece, erano visti più favorevolmente; Brenk, “Setting a Good Exemplum”, 248 nota 36), ha notato come una rappresentazione letteraria non equivalesse alla reale percezione e considerazione di tale popolo; cfr. Schmidt, Plutarque et les Barbares, 67. In merito alla rivalutazione della civiltà galata, malgrado le sfavorevoli rappresentazioni dei Galati perpetuate dalla letteratura ed arte classica, cfr. S. Mitchell, Anatolia: Land, Men, and Gods in Asia Minor (Oxford: 1993); K. Strobel, Die Galater I. Untersuchungen zur Geschichte und historischen Geographie des hellenistischen und römischen Kleinasien (Berlin: 1996); G. Darbyshire–S. Mitchell–L. Vardar, “The Galatian Settlement in Asia Minor”, AS 50 (2000) 75–98; Sergent–De Turris, Celti e Greci. 472 I Galati erano distinti in tre tribù: Trocmi, Tectosagi e Telistobogi (o Tolistoagi). In seguito alla riorganizzazione dell’Asia Minore portata a termine da Pompeo, furono messi quattro tetrarchi a capo di ogni tribù galata (cfr. Str. 12.566–567; Magie, Roman Rule, 372–374) per bilanciare il potere tra i vari notabili locali, anche se talora alcuni tetrarchi (che Livio definiva reguli; cfr. Liv. 38.18–19) cercavano di estendere la propria influenza a danno di altri, come accadde effettivamente a Deiotaro; cfr. B. Niese, “Deiotarus 2”, R.E. IV.2 (1901) 2401–2403; J. Coupry, “Les tumuli de Karalar et la sépulture du roi Déiotarus II”, RA 6 (1935) 140–151; Magie, Roman Rule, 372–374. Nello specifico, i Romani guidati da Gn. Manlio affrontarono nel 189 a.C. tre tribù galate, mentre il tetrarca Eposognato si defilò, tentando di persuadere gli altri re a sottomettersi a Roma. Nel 184 a.C., poi, i Galati combatterono contro Eumene capeggiati dal solo Ortiagonte; cfr. Trog. Prol. 32 e Stadter, An analysis, 105–106 nota 266. Per una mappa sto-

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rica dell’antica Anatolia, cfr. Haywood, The Historical Atlas, 40–41. Per la formazione di un’entità statale unica dei Galati cfr. K. Strobel, “State Formation by the Galatians of Asia Minor. Politico-Historical and Cultural Processes in Hellenistic Central Anatolia”, Anatolica 28 (2002) 1–46. Epiteto del dio Marte presso i Celti; cfr. Roscher, Lexicon, IV, 9, 21. L’appellativo Mars Sinatus è attestato in un’iscrizione austriaca di Seckau (CIL III 05320); cfr. N. Jufer–T. Luginbühl, Les dieux gaulois. Répertoire des noms de divinités celtiques connus par l’épigraphie. Les textes antiques et la toponymie (Paris: 2001) 62. Molto probabilmente si tratta del padre di Deiotaro I, sovrano di Galazia e tetrarca dei Telistobogi già dal 74 a.C. (Liv. Periochae 94 e App. Mith. 75), cui fu dedicata successivamente una statua dagli Ateniesi; cfr. IG II2 3429. Ellis ha interpretato Sinorix come epiteto significante “King of Storms”, mentre Kelly, Loicq ed altri studiosi dei Celti vedono in tale nome una variante di Senorix, ovvero “antico re”; cfr. P.B. Ellis, The Ancient World of the Celts (London: 1998) 90; Brenk, “The Barbarian within”, 97 nota 14. L’appellativo Kemme, variante della parola celtica *kammno (cfr. l’antico irlandese céimmenn, “marcia”, o céimm, “passo”, il francese “chemin” e l’italiano “cammino”) era ben noto nell’onomastica delle regioni della Germania romana e del nord-est della Gallia; cfr. Brenk, “The Barbarian within”, 95 nota 10. Tra i nomi degli dei gallici compariva Caimina Matrona, dea Camloriga, Camulorix e Camulus; cfr. Jufer–Luginbühl, Les dieux gaulois, 32. Per l’etimologia derivante dal radicale *Cammo/Cambius, per il significato di Camma quale “evil woman” e per un’esaustiva rassegna bibliografica su tale questione onomastica cfr. A. Hofeneder, “Kann man Kamma, die Frau des Galatertetrarchen Sinatos, für die keltische Religion heranziehen?”, in H. Heftner–K. Tomaschitz (eds.), Festschrift für Gerhard Dobesch zum fünfundsechzigsten Geburtstag am 15. September 2004 dargebracht von Kollegen, Schülern und Freunden (Wien: 2004) 708 nota 20. La storia fu riprodotta per intero in latino nel capítulo cuarto del De institutione feminae christianae di Luis Vives (cfr. Narro Sánchez, “Los valores de la buena mujer”, 582), citata quale paradigma di fedeltà femminile nel terzo libro del Cortegiano (1528) di B. Castiglione (cfr. Villa, “Su Castiglione e Plutarco”, 10–12) e, come fatto degno di memoria, nel Capitolo IV intitolato Que las princesas y grandes seňoras deuen amar a sus maridos si quieren con ellos ser bien casadas, y que el tal amor se ha de procurar con ser ellas virtuosas y no con hechizos de hechizerías, all’interno del secondo volume del Reloj de Príncipes (1529) del frate Antonio de Guevara, vescovo di Mondoñedo. Quindi la vicenda De Camma Galatha ex Plutarcho, De virtutibus foeminarum fu narrata, con allegato il relativo dia-

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logismo, dall’umanista studioso belga amico di Erasmo, Petrus Nannius (Pieter Nanninck), all’interno dei Dialogismi heroinarum (1541), e trattata nel De re uxoria (1513) di Francesco Barbaro, con l’appellativo di Camma o Cania. Oltre a riecheggiare nella storia di Drusilla ed Olindro, trattata nelle strofe 51–75 del canto 37 dell’Orlando Furioso (1516) di Ludovico Ariosto, l’episodio della virtuosa galata ha trovato spazio come capitolo aggiuntivo intitolato Ad ogni suo passo trova apparecchiate insidie, una donna bella, et honesta alla fine dell’opera Della officina historica (1659) di G.F. Astolfi, ricevendo anche il riassuntivo e moraleggiante commento laterale “Infelice fine di casta donna e di pazzo innamorato”. Particolare fortuna ha riscosso la vicenda di Camma anche nel campo della tragediografia europea: si ricordano, tra le altre opere, la Camma (1581) di Nicolas de Montreux, la Cammate di Jean de Hays (1598), la Camma (1631) in 1312 versi di Michael Hoyerus, la Camma reine de Galatie (1661) di T. Corneille (tradotta in italiano dal pastore dell’Arcadia Cesennio Issunteo, ovvero C. Doni, e stampata per i tipi di Chracas nel 1699), il ballo tragico Camma regina di Galazia (1817) di P. Angiolini, la Camma (1857) di G. Montanelli, The cup (1881) di L.A. Tennyson e la Camma (1906) di L. Beghé. Per la ricezione della vicenda di Camma nell’ambito della letteratura drammatica cfr. anche Aulotte, “Une heroine de Plutarque: Camma”, 277–296; Sacré, “Plutarchs Camma”, 243–256; Hofeneder, “Kann man Kamma”, 708; Brenk, “The Barbarian within”, 93–106; Frazier, “La prouesse de Camma”, 197–211. 477 Nell’Afrodite menzionata in questa circostanza da Plutarco, Ramsay ha intravisto la figura dell’anatolica Bellona o Ma, il cui rituale prevedeva una processione annuale della divinità, durante la quale Camma sarebbe stata vestita come la dea stessa, provocando così negli astanti l’ammirazione di cui il Cheronese parla; cfr. W.M. Ramsay, Historical Commentary on St. Paul’s Epistle to the Galatians (London: 1899) 88. Staehelin, invece, ha riconosciuto consonanze con i culti della Grande Madre e di Zeus sul Taunion, intrapresi dai Celti al momento dell’arrivo in Galazia; cfr. F. Staehelin, Geschichte der kleinasiatischen Galater (Leipzig: 1907) 46 n. 9. Si trattava, probabilmente, di una divinità celtica assimilabile ad Artemide per culti e funzioni (cfr. Jullian, Histoire, 367; Le Corsu, Plutarque, 129–148 e Boulogne, Plutarque, 74) o forse della dea/eroina equestre celtica chiamata Epona, dal carattere tranquillo e benigno, e non associata al mondo selvatico o della caccia, come Artemide; cfr. anche S. Boucher, “Epona”, LIMC (Addenda) V.1 (1990) 985–999; V.2, 619–628; Ellis, The Ancient World, 89; B. Meier, Die Religion der Kelten. Götter-Mythen-Weltbild (München: 2001) 53; H. Van Handringa, La religion en Gaule romaine. Piété et politi-

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que (Ier–IIIe siècle apr. J.-C.) (Paris: 2002) 106; 278; Brenk, “The Barbarian within”, 100. Per un sincretismo, trasformato quasi in universalismo religioso, ascrivibile a una sostanziale corrispondenza ed identità tra dei greci e dei stranieri cfr. anche le storie 9, 16, 26; Vernière, Symboles et mythe, 41. Cfr. anche Hofeneder, “Kann man Kamma”, 705–711. Etnico di origine celtica, probabilmente servito ai Celti per designare le nazioni di ausiliari quali Belgi o Gesati (Jullian, Histoire, 318–319), che indicava un popolo venuto dalla Gallia, stanziatosi nel mezzo dell’Asia Minore verso il 235 a.C.; cfr. Jullian, Histoire, 303–306; G. Brandis, “Galatia”, R.E. VII.1 (1910) 519–559. Non è difficile che l’assassinio di Sinato avesse avuto motivazioni anche di natura politica, cui Plutarco non ha fatto riferimento; cfr. Stadter, An analysis, 105–106. Stadter collocava la morte di Sinorige nel primo quarto del I sec. a.C.; Stadter, An analysis, 106. In Amat. 768C, Plutarco riferisce che Camma passava la maggior parte del suo tempo presso la dea nel santuario. In Amat. 768BD, Camma è una vedova corteggiata da molti re e dinasti. Cfr. l’analoga condotta di Cornelia, madre dei Gracchi in TG 1.7. Cfr. anche il comportamento dell’usurpatore Laarco nei confronti della vedova Erisso (260F–261B). G. Roskam ha individuato in questo passo un riferimento all’amore dei genitori per i figli, e non solo all’amore coniugale o all’affetto espresso in altre relazioni familiari; cfr. G. Roskam, “Plutarch against Epicurus on affection for offspring”, in L. Van Der Stockt–G. Roskam (eds.), Virtues for the People. Aspects of Plutarchan Ethics (Leuven: Leuven university Press, 2011) 184. La condivisione di un calice all’atto del matrimonio è stata considerata parte di un antico rituale anatolico (tuttora presente nel rito del matrimonio greco-ortodosso; cfr. Ramsay, Historical Commentary, 88) o una affermata consuetudine gallica; H. Van Gelder, Galatorum res in Graecia et Asia gestae (Amsterdam: 1888) 199. La vicenda di Camma è stata definita da F. Brenk “both appealing and repelling, a mixture of heroism and homicide, civilization and barbarity”, nonostante il ruolo della donna fosse “quintessentially that of a spouse”. Questa storia, infatti, pur delineando il tema dell’ “eternal love”, inconsciamente evoca anche le possibilità tragiche inerenti al matrimonio; Brenk, “The Barbarian within”, 98. In questa occasione Artemide è chiamata in causa non come divinità combattente, ma come dea che “guide et sauve, invoqué comme salva-

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trice dans les situations critiques”, e che si mobilita quando, “par l’emploi excessif de la violence au cours de l’affrontement, la guerre sort du cadre civilisé à l’intérieur duquel la maintiennent les règles de la lutte militaire et bascule brutalement du côté de la sauvagerie”; J.P. Vernant, La mort dans les yeux: figures de l’autre en Grèce ancienne (Paris: Hachette, 21998 [1985]) 23. L’assassinio a tradimento di Sinato aveva costituito una violazione delle regole sociali inerenti al vincolo matrimoniale e alla lealtà politica e personale tra tetrarchi; Artemide ha funto, in tal senso, da testimone della ricostituzione di un ordine civile e sociale. In Amat. 768BD Camma effettua una preghiera differente, invocando il marito estinto a testimone dell’atto di estrema fedeltà che si appresta a compiere. Il riferimento ad Artemide piuttosto che a Sinato, unito all’apostrofe di Sinorige quale ἀνοσιώτατε ἀνθρώπων, richiama la sfera religiosa, configurando il delitto quale atto irrispettoso nei confronti della dea di cui Camma era sacerdotessa. Mentre nell’Amatorius l’amore coniugale era al centro dell’attenzione, nel Mulierum Virtutes la condotta virtuosa di Camma assume il rilievo maggiore. Marasco ha ritenuto la versione dei fatti esposta nel Mul.Virt. più aderente alla fonte, concludendo anche che il diverso adattamento del materiale storico effettuato nei due opuscoli non permettesse di utilizzare le differenze narrative quali prove a riguardo della cronologia compositiva dei due testi. Il coraggio, la tenacia e l’affetto per l’amato marito connotano Camma di un realismo non riscontrabile nei dialoghi platonici, e la vendetta per l’uccisione di Sinato la rende partecipe di una primaria tematica isiaca; cfr. Brenk, “Plutarch’s Erotikos”, 470. L’abbondanza di descrizioni e l’enunciazione di dettagli precisi contribuisce, ad avviso di Valverde Sánchez, ad un effetto di “claridad” o “vivacidad” dell’aneddoto di Camma, adoperando un procedimento che la retorica antica definì ἐνάργεια o “evidentia”; M. Valverde Sánchez, “Los símiles en el Erótico de Plutarco”, in J.G. Montes Cala–M. Sánchez Ortiz de Landaluce– R.J. Gallé Cejudo (eds.), Plutarco, Dioniso y el vino, Actas del VI Simposio Espaňol sobre Plutarco, Cádiz, 14–16 de mayo de 1998 (Madrid: Ediciones Clásicas, 1999) 509. La figura di Camma potrebbe ricordare il prototipo di “heroína de verdadera microtragedia” parzialmente riconosciuto da C. Alcalde Martins soprattutto all’interno dello schema narrativo del Mulierum Virtutes e delle Amatoriae Narrationes; cfr. C. Alcalde Martins, “Semíramis y Émpone. Dos historias de amor y desamor en el Amatorivs de Plutarco”, in J.M. Candau Morón–F.J. González Ponce–A.L. Chávez Reino (eds.), Plutarco transmisor, Actas del X Simposio Internacional de la Sociedad Espa-

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ñola de Plutarquistas, Sevilla, 12–14 de noviembre de 2009 (Sevilla: Universidad de Sevilla, 2011) 78–79. R. Aguilar ha interpretato il gesto suicida di Camma soprattutto come un’estrema volontà di evitare il disonore proveniente dall’idea di trascorrere il resto dei propri giorni in compagnia dell’assassino del marito. Nella prospettiva di una vendetta coniugale e di preservazione dell’onore familiare, Plutarco, pur essendo in linea di principio contrario al suicidio, non esprime critiche sulla condotta della donna galata; R.M. Aguilar, “Mujeres barbaras en Plutarco: Vidas de Lúculo y Pompeyo”, in E. Calderón– A. Morales–M. Valverde (eds.), Koinòs lógos. Homenaje al profesor José Garcia López (Murcia: Universidad de Murcia, 2006) 32–34. La tipologia narrativa del corteggiamento senza lieto fine della vedova fedele (che rientra nel canone del ruolo tradizionale della moglie), percorsa anche da Apuleio in Metamorph. 8.1–4 (come rilevato da E. Rohde), è senza dubbio riconducibile ad un’antica tradizione (indoeuropea, secondo Anderson) o ad un modello precedente, anche se l’episodio riferito da Plutarco, seguendo Stadter (Stadter, An analysis, 106), “seems not to be fiction”, come del resto le successive tre storie riguardanti la Galazia; cfr. E. Rohde, Der griechische Roman und seine Vorläufer (Leipzig: 1914) 590; W. Anderson, “Zu Apuleius’ Novelle vom Tode der Charite”, Philologus 68 (1909) 537–549. Brenk ha definito il comportamento di Camma un atto “kamikaze” indice di un tocco di “athesia” (perfidia), qualità spesso associata ai Galati; Brenk, “Setting a Good Exemplum”, 248. Si sa troppo poco sulle fonti storiche adoperate dal Cheronese per i fatti di Asia Minore di questo periodo per poter ipotizzare la provenienza di informazioni così dettagliate sulla vicenda di Stratonica; cfr. anche Stadter, An analysis, 107. Questa vicenda fu riprodotta in latino all’interno del De institutione feminae christianae di Luis Vives (cfr. Narro Sánchez, “Los valores de la buena mujer”, 582). Questa breve sorta di presentazione/preambolo, comune alle storie di Stratonica e Chiomara quali meritorie rappresentanti della terra di Galazia, oltre ad indicare una presunta provenienza di entrambi gli aneddoti da una medesima fonte o antologia divisa per ordine territoriale o etnico, rafforza ancor più l’idea che Plutarco non avesse corredato di titoli (oltre che di una cornice narrativa completa) i vari episodi narrati nel Mulierum Virtutes. Stadter ha efficacemente dimostrato come potesse trattarsi soltanto di re Deiotaro II Philopator, coreggente insieme al padre (Cic. Deiot. 36; Att. 5.17.3 e Phil. 11.31.33), in quanto Deiotaro I era stato tetrarca soltanto dei Tolistobogi, Deiotaro Philoromaios, figlio di Sinorige (che ha combattuto

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contro Mitridate nel 74 a.C., ricevendo in ricompensa il titolo di re nel 63 a.C., e morì nel 39 a.C., dopo aver unificato l’intera Galazia; cfr. Crass. 17.2 e Mul. Virt. 257E), aveva avuto una moglie di nome Berenice (o Βερρονίκη, cfr. Adv. Col. 1109B; Coupry, “Les tumuli”, 140–151), poi Deiotaro, padre di Brogitaro e tetrarca dei Trocmi, non divenne mai re, mentre Deiotaro Philadelphus, re di Paflagonia, non fu mai identificato come galata; cfr. B. Niese, “Deiotarus 1”, R.E. IV.2 (1901) 2401; Niese, “Deiotarus 2”, 2401–2403; B. Niese, “Deiotarus 4”, R.E. IV.2 (1901) 2404; Stadter, An analysis, 107. Si diceva che il vecchio re avesse ucciso tutti i suoi figli eccetto uno per rendere più semplice la successione al trono (De Stoic. rep. 1049C), ma il suo piano non andò a fondo poiché, come rivela un’iscrizione tombale, Deiotaro II morì prima di suo padre. 496 L’espediente di Stratonica fu comunque infruttuoso, dato che alla morte di Deiotaro I il regno andò in mano a suo nipote Castore, sposo di una delle sorelle di Deiotaro II e tetrarca dei Tectosagi. Se in vita all’atto della successione, i figli di Deiotaro II non furono capaci di far valere i propri diritti di eredi al trono; cfr. Magie, Roman Rule, 372–374; Stadter, An analysis, 107. 497 Stadter ha definito “remarkable” la menzione del nome di una concubina da parte di Plutarco; Stadter, An analysis, 107. 498 Wyttenbach riteneva “sanum nec mutandum” l’ἀμαθής (termine riferito a “quisquis non perfecte sapientiam tenet” o a chi detiene “negligentia morum et honesti”; Wyttenbach, Animadversiones, 15) tràdito dai manoscritti, leggendolo in costruzione chiastica con ἡδονήν (“ἀμαθὴς ad ἡδονήν, ἀκρατὴς ad ἀργύριον refertur”; Wyttenbach, Animadversiones, 16), mentre l’espunzione di ἀμαθὴς καί, suggerita da Cobet, e la riproposizione, da parte di Nachstädt, dell’emendazione ἐμπαθής, presente nell’editio Basileensis, sembrano non tenere conto della testimonianza di De virt. mor. 446C3 (οὔτε γὰρ ὁ σοφὸς ἐγκρατὴς ἀλλὰ σώφρων, οὔθ’ ὁ ἀμαθὴς ἀκρατὴς ἀλλ’ ἀκόλαστος). Ivi occorre valorizzare il legame di coordinazione per polisindeto instaurato dal καί tra le due coppie di termini: riconsiderando in maniera cumulativa e non necessariamente dicotomica, chiastica o alternata il corredo attributivo riferito al centurione romano in oggetto, non si oblitererebbe la decisiva attrazione di significato esercitata in apertura e chiusura di inciso da πρός e da ἄνθρωπος. Mentre la costruzione chiastica plutarchea fu, in un certo senso, imitata dalla traduzione “cum & libidinis & avaritiae proiectae esset atque impotentis” di Cruserius, la completa mancanza di autocontrollo in rapporto ai più bassi piaceri, cagionata inequivocabilmente da deficit di istruzione e buon senso, è ben esemplificata dalla resa di Babbitt “he was, naturally, an ignorant man with no self-

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control when it came to either pleasure or money”. In Liv. 38.24 si legge Ortiagontis reguli uxor forma eximia custodiebatur inter plures captivos: cui custodiae centurio praeerat, et libidinis et avaritiae militaris. 499 Nei manoscritti l’episodio della congiura dei tetrarchi contro Mitridate segue senza soluzione di continuità la fine della storia intitolata a Χιομάρα, costituendo di fatto con essa un corpus unico di narrazioni di matrice galata. In tal senso, Rinuccini esplicitò la comune origine galata dei due episodi inserendo la giunzione “sed alius quoque eadem provincia scribendi praestat argumentum”, mentre Amyot li ricongiunse tramite la cornice “mais puis qu’il est venu à propos de faire mention des Galates i’en reciteray encore une telle histoire”. Poi Xylander, seguito da Wyttenbach, Dübner, Hutten, Bernardakis, Babbitt, Nachstädt ed Ingenkamp, individuò e separò una nuova storia intitolandola “Mulier Pergamena” (e, successivamente, Γύναιον Περγαμηνόν. Intanto anche Cruserius aveva isolato la storia intitolandola “Mulier quaedam Pergamensis”; cfr. Cruserius, Plutarchi Chaeronei, 256) sulla scorta di 259C5, mentre Stephanus non apportò variazioni alla suddivisione tràdita dai codici e Reiske si limitò ad isolare la storia senza dotarla di un titolo. 500 Il consensus codicum a 259C4 sull’appellativo del nobile galata che architettò il fallito attentato a Mitridate consente (malgrado l’omissione del nome proprio del personaggio in v αA²unγσ 80,5 e 80,22) di accogliere con Dübner la lezione πορηδόραξ, tràdita da E δ e dal margine di A, rigettando la congettura πορηδόριξ di Iunius, adottata da Bernardakis, Babbitt ed Ingenkamp. Uno scambio consonantico nei mss. β e 80,21 ha dato origine alla forma τορηδόραξ, pubblicata da editio Aldina, Stephanus, Reiske, Wyttenbach, Hutten e Tauchnitz, tradotta in “Toredorax” (con le varianti “Thoridorax” e “Toridorax”) da Alamanno Rinuccini e “Teredorace” da Lucantonio Ridolfi, e variata in τορηδόριξ dall’editio Basileensis e Xylander e dalla traduzione “Toredorix” di Amyot. Infine Nachstädt, ripreso da Boulogne e parzialmente da Stadter (che ha parlato di “reasonable correction”; cfr. Stadter, An analysis, 111), ha proposto, basandosi sulla testimonianza di due iscrizioni (CIL XIII 2728 e 2805), la forma Ἐπορηδόριξ (nome celtico attestato in Caes. De bell. gall. 7.39.1 e 7.67.7; tuttavia non vi è attestazione certa dell’utilizzo di nomi esattamente identici in Galazia e in Gallia) mentre non ha riscosso sinora successo il Πυρηδόναξ suggerito da Wyttenbach. Cfr. anche F. Münzer, “Eporedorix”, R.E. VI.1 (1907) 250– 251. 501 La storia di Chiomara fu raccontata anche in Liv. 38.24; Val Max. 6.1 ext. 2; Flor. 1.27 e Ps.-Aurel. Vict. De viris illustribus 55. Il nome della protagonista dell’aneddoto è riferito soltanto da Plutarco, che, con qualche probabilità,

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lo ritrovò in Polibio; cfr. Stadter, An analysis, 108–109 e Boulogne, Plutarque, 308. Per la vicenda di Chiomara cfr. anche S. Montero, “Mujeres extranjeras en la obra de Valerio Máximo”, Gerión Anejos VIII (2004) 45– 56. Ispirata alla storia di Chiomara fu la tragedia di J. Rotrou, intitolata Crisante (1640). Oltre a contenere un’esposizione maggiormente dettagliata dei fatti, il racconto di Livio (38.24) presenta una differente onomastica di due dei protagonisti dell’episodio, in quanto non si fa riferimento al nome di Camma ed il marito della donna è chiamato Orgiagonte. Le altre versioni latine dell’episodio (così come G. Boccaccio, che rinarrò l’episodio in De Claris Mulieribus 71) si rifanno a Livio (come rilevò T. Mommsen; cfr. Mommsen, Römische forschungen, 541 n. 38), poiché riproducono il medesimo errore di lettura (dovuto a confusione tra tau e gamma) liviano ed omettono il nome di Chiomara. Cfr. Liv. 38.19.2 e Trog. Prol. 32. Cfr. anche Suidas s.v. Ortiagon (= Plb. 22.21) e Stadter, An analysis, 109 nota 276. Trattasi del console Gneo Manlio Vulso, che, dopo la vittoria riportata su Antioco a Magnesia nel 190 a.C., marciò contro i suoi alleati galati (Tolistobogi e Trocmi, sconfitti in Misia nel 189 a.C.); cfr. App. Syr. 42; Paus. 9; T. Lenschau, “Ortiagon”, R.E. XVIII.2 (1942) 1505–1506; Magie, Roman Rule, 21; 764 nota 58; A. Piganiol, La conquête romaine (Paris: 1967) 308–309. La raccolta di materiali in hypomnemata, o forse la brevitas della digressione storica sulle vicende belliche di Galazia, probabilmente cagionarono la generica menzione Ῥωμαῖοι καὶ Γναῖος, come se Gneo fosse un personaggio estraneo o alleato al popolo latino. Tuttavia, non è recondita l’idea che Plutarco avesse voluto, in tal modo, distinguere diversi tipi di truppe non consolari impiegate nel corso della campagna di Galazia dai Romani. Cfr. anche Liv. 38.24; Flor. 1.27. In Polibio (6.24.1) il termine greco ταξίαρχος designava il comandante di una divisione di fanteria, traducendo il corrispondente grado militare romano di centurio. Livio (38.24) parla di lunghe trattative tra le parti in causa per concordare un riscatto. In Liv. 38.24 Chiomara impartì nell’idioma galata (sua lingua) l’ordine di uccidere il centurione. Livio (38.24) descrive il centurione con in mano l’oro appena ricevuto in riscatto. Ortiagonte era il leader dei Tolistobogi (Liv. 38.19.2), tribù alleata dei Trocmi sconfitta dai Romani in una grande battaglia presso il monte Olimpo. Di indole molto valorosa, il principe tolistobogio era riuscito a riunire in un solo regno le tre tribù dei Galati.

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509 Plutarco ammira la πίστις di Chiomara e non la brutalità del suo comportamento, chiamando a testimonianza l’autorevolezza di Polibio nell’aver notato di persona φρόνημα e σύνεσις della donna; cfr. anche Schmidt, Plutarque et les Barbares, 256. 510 Per la visione dei Galati all’interno dell’opera di Polibio cfr. Foulon, “Polybe et les Celtes”, 35–64. 511 Questa citazione dell’opinione personale di Polibio in merito all’intelligenza di Chiomara, unita all’evidente somiglianza del testo plutarcheo con quello di Livio (la cui narrazione dell’invasione romana della Galazia sotto Manlio era dipendente dall’opera di Polibio), contribuisce a reputare Polibio quale fonte verosimilmente adoperata da Plutarco per questa vicenda (questo capitolo del Mul. Virt. è stampato come frammento di Polibio 21.38); cfr. anche H. Nissen, Kritische Untersuchungen über die Quellen der Vierten und Funften Dekade des Livius (Berlin: 1863) 203–205. Stadter, riconoscendo una dipendenza del testo plutarcheo da Polibio, giustificava la leggera differenza con Livio nella descrizione della morte del centurione definendola “natural changes of phrasing” all’interno della normale dinamica di “retelling of such anecdotes”, e non come il risultato dell’utilizzo di fonti differenti; cfr. Stadter, An analysis, 108. L’assenza dell’appellativo di Chiomara, tuttavia, potrebbe indicare che Plutarco si è rifatto solo parzialmente al testo liviano. 512 Probabilmente Polibio, recatosi in Asia Minore prima del 169, incontrò Chiomara nella roccaforte pergamena di Sardi, mentre costei era prigioniera o ostaggio in seguito alla sconfitta del marito; Van Gelder, Galatorum res, 258; O. Cuntz, Polybios und sein Werk (Leipzig: 1902) 76; K. Ziegler, “Polybios”, R.E. XXI.2 (1952) 1461. L’ipotesi secondo cui Polibio avrebbe partecipato alla spedizione romana del 190/189 a.C. e parlato in quel periodo con Chiomara (eventualità postulata da Mommsen) sembra improbabile, in quanto ella sarebbe stata ritenuta una nemica a Sardi, in una roccaforte pergamena assaltata per ben tre volte dal marito Ortiagonte poco tempo prima (una prima volta nel 190 a.C., insieme ad altri Galati alleati di Antioco, poi nel 189, quando Eumene soccorse il console Manlio, e infine nel 184, quando Ortiagonte guidò i Galli ad un ultimo attacco in alleanza con Prusia, re di Bitinia, ed altri ancora); cfr. anche Trog. Prol. 32; T. Mommsen, Römische forschungen (Berlin: 1879) 538–543; Stadter, An analysis, 109. 513 L’aneddoto relativo a Chiomara ed Ortiagonte costituisce uno dei pochi ritratti favorevoli dei Galati; cfr. Foulon, “Polybe et les Celtes”, 63; Brenk, “The Barbarian within”, 94. 514 La fonte di questo episodio è sconosciuta in quanto soltanto Plutarco riferisce in tale maniera gli eventi probabilmente affrontati durante la

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preparazione delle Vite di Silla, Lucullo e Pompeo (in cui compariva traccia storica delle attività di Mitridate a Pergamo). La presentazione ed il contenuto del racconto di Appiano (Mith. 46), che verte sui medesimi fatti, sembrano delineare una tradizione differente da quella di Plutarco. Questa storia pare costituire una sorta di ponte tra gli episodi che la precedono e la succedono, a causa dell’ibridazione di elementi costitutivi delle tre storie antecedenti, quali la Galazia dei tetrarchi, l’audace contravvenzione ad un’imposizione regale ed il tempestivo e pietoso ravvedimento del re, che caratterizzeranno anche la successiva interazione tra Timoclea ed Alessandro Magno. Cfr. anche Stadter, An analysis, 111–112. 515 Quando Mitridate VI Europatore, dopo la sconfitta subita ad opera di Silla ad Orcomeno nell’86 a.C., stabilì la sua corte a Pergamo, assassinò e tenne come ostaggi gli alleati galati (Magie, Roman Rule, 223), più che accoglierli come amici: questo atteggiamento dispotico mirava ad indebolire e assoggettare maggiormente i sudditi e gli alleati all’interno dei suoi nuovi possedimenti in Asia Minore. Secondo il racconto di Appiano (Mith. 46), Mitridate fece uccidere tetrarchi con mogli e figli, confiscando loro ogni bene e temendo che passassero dalla parte di Silla. Cfr. anche F. Geyer, “Mithridates” 12, R.E. XV.2 (1932) 2174. Wachsmuth ha osservato che nessun aneddoto del Mulierum Virtutes contribuirebbe a postdatare la prima guerra mitridatica (88–85 a.C.); cfr. C. Wachsmuth, Einleitung in das Studium der alten Geschichte (Leipzig: 1895) 233–234. 516 Le principali tribù di Galazia erano Trocmi (stabiliti sulla sponda destra dell’Halis, a Tavium, in Moeonia e Paphlagonia), Tectosagi (che risiedevano ad Ancyra, nella Cappadocia, a nord-est e nella regione più fertile) e Tolistobogi o Tolostoagi (stanziati principalmente a Pessinus e Gordium, in Phrygia. Per il riferimento alle tribù di Galazia cfr. anche Mul. Virt. storia 20; Str. 12.3 e Liv. 38.19); quello dei Tosiopi di Poredorax potrebbe essere uno dei dodici clan in cui erano divisi i Galati all’epoca (Plin. H.N. 5.42 parlava anche di Voturi, Ambitui e Teutobodiaci, e di un totale di 195 tetrarchie). Ruge riteneva i Tosiopi la forma corrotta del nome di uno dei clan menzionati da Plinio; cfr. anche W. Ruge, “Τωσιωποί (-αί)”, R.E. VI A.2 (1937) 1811. 517 Dopo προσελθεῖν (259C5), i mss. β e n scrivono in maiuscola Γύναιον Περγαμηνόν, palesando un maldestro quanto tardivo tentativo di suddivisione grafica di un episodio provvisto di una solida unità concettuale e narrativa, mentre il solo codice v stabilisce per la sezione 259C5–D4 il nuovo titolo παρθένος περγαμηνή. Nello stesso luogo, poi, il resto della tradizione manoscritta mette un punto o comunque pone una forte pausa prima della fine della linea di riferimento, e colloca dei chiari segnali di fine

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storia, prima di andare a capo ed individuare in γύναιον περγαμηνόν le parole iniziali, o il probabile titolo, di un nuovo episodio. Appare palese come, in mancanza di precise direttive o indicazioni introduttive da parte dell’autore (cfr. 258C8), i copisti, invece di sdoppiare questo unico blocco narrativo nel punto in cui risiede l’inizio reale dell’episodio relativo alla congiura di Poredorige (ovvero a 258F7–259A1, dove successivamente Xylander e Cruserius collocarono i titoli “Mulier Pergamena” e “Mulier quaedam Pergamensis”), avessero preferito dare inizio ad una nuova storia soltanto a 259C5, dove individuarono il nome della protagonista, di fatto creando ex novo un mini-nucleo narrativo acefalo e sprovvisto di completezza ed autonomia. Per via di questa decisione, nei marginalia filelfiani al cod. Laur. 80,22 Mitridate fu qualificato παιδεραστής. Il nome del fortunato giovane divenne poi “Vepolitanus” nella traductio di A. Rinuccini e “Nepolitanus” nella versio gallica di C. de Tesserant. Il giovane Bepolitano fu uno dei tetrarchi superstiti che in seguito cacciò via Eumaco, generale nominato satrapo di Galazia da Mitridate; cfr. Ramsay, Historical Commentary, 97 nota 1. Il paradosso di un’avidità che salva la vita, invece di mandarla in malora, lascia emergere tutto lo stupore del moralista di Cheronea dinnanzi ad un simile colpo di fortuna, causato dalla scolasticamente tanto deplorata cupidigia; cfr. J.C. Capriglione–L. Torraca (eds.), Plutarco, La bramosia di ricchezza (Napoli: D’Auria, 1996) 9–21. Una simile considerazione intende ricreare un’atmosfera pedagogica virtualmente rotta da un esempio non pienamente in linea con i princìpi che l’autore intende veicolare. Molto probabilmente si trattava di una prostituta, come lascia intendere il termine γύναιον; la medesima definizione è conferita ad Aspasia in Plu. Per. 24.6–7. “Conosciuto” nel senso biblico del termine, ad avviso di Boulogne (Boulogne, Plutarque, 309); cfr. Genes. 4.1; Levit. 1.34; Vang. di Matt. 1.85. Cfr. anche Plu. Alex. 21 e Praec. ger. reip. 818BC. L’audacia della donna pergamena colpì di certo l’umanista Filelfo, che, a margine della sezione del manoscritto plutarcheo in suo possesso che riferiva l’episodio, ascrisse tale gesto alla ἔρωτος δύναμις. Cfr. anche Phoc. 36–37 e Le Corsu, Plutarque, 147–148. Per il motivo della sepoltura dell’amato nella tragedia si veda l’Antigone sofoclea. Stadter ha considerato questa seconda parte dell’episodio, alla stregua della sezione finale di Mul. Virt. 3, un “connecting passage” tra storie di natura differente; cfr. Stadter, An analysis, 112. Stadter ha definito questa storia “unusual”, poiché l’eroina non sarebbe

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galata, ma pergamena, e rivestirebbe un ruolo non centrale nell’economia della narrazione, lasciando pensare ad una “more or less stereotyped afterthought” nel contesto di due aneddoti relativi ad uomini (Stadter, An analysis, 110). In effetti, il focus centrato sulle vicende del rivoltoso e del giovinetto salvato in extremis dal patibolo rispondono all’esigenza di inquadrare storicamente e politicamente l’operato della donna virtuosa, mentre la volontà di romanzare gli eventi pare forse ascrivibile alla fonte adoperata, oltre che all’indole moralistica del Cheronese. La forma ellittica τῆς Τιμοκλείας οἰκίαν, tràdita dai mss. αAEunβγδσ 80,5 e trascurata dagli editori, oltre a risultare difficilior, sembra mantenere dei tratti di autenticità che fanno difetto all’espressione banalizzante e ridondante τῆς Τιμοκλείας τὴν οἰκίαν, conservata dal solo codice v e pubblicata da Xylander, Stephanus, Reiske, Wyttenbach, Hutten, Tauchnitz e Nachstädt. Suscita, inoltre, una particolare attenzione l’emendazione τὴν Τιμοκλείας οἰκίαν, formulata da Dübner e riproposta da Bernardakis e Babbitt. Conservo la forma εἴλης, testimoniata da quasi tutti i manoscriti e pubblicata dall’editio Aldina, da Stephanus e Reiske, ritenendo frutto di normalizzazione linguistica la forma ἴλης, riportata dal solo codice v e riproposta da Xylander, Bachet de Méziriac, Hutten, Wyttenbach, Dübner, Bernardakis, Babbitt, Nachstädt ed Ingenkamp. Un errore di copista in un contesto di sciatteria redazionale sta alla base dell’omissione da parte del codice δ. Accolgo, con Xylander, Stephanus, Reiske, Hutten, Dübner, Tauchnitz e Babbitt, la forma tramandata dai codici αEn e coniugata al futuro indicativo βουλήσῃ, reputando l’azione di Timoclea nella prospettiva di una realizzazione imminente che produca riverberi immediati, stabilendo un seppur minimo, ma necessario, scarto temporale tra il desiderio del macedone e la conseguente cieca obbedienza della nobildonna tebana. La proiezione dilazionata degli effetti futuri risulterebbe annullata dal βούλῃ σύ attribuito a Bachet de Méziriac e pubblicato da Bernardakis, Nachstädt ed Ingenkamp, poiché, riportando al presente l’osservazione di Timoclea, la trasformerebbe quasi in un’ingiunzione categorica, piuttosto che in una dichiarazione di completa sottomissione nei riguardi del suo novello protettore. Inoltre, le congetture βούλει, σήν di Cobet e βούλῃ, σήν di Benseler, nel tentativo di recuperare e spiegare il βουλήσει tràdito dai mss. v Aβδ, creano due proposte alternative che ricalcano in omofonia la lezione sgrammaticata βουλήσειν testimoniata dai codd. uγσ 80,5. Cfr. Alex. 12; Con. praec. 145E; Non posse 1093C = FGrHist 139 F 2a; Polyaen. Strateg. 8.40; Zonaras 4.9. In Hieron. Adv. Jovian. 1.41 si ritrova un aneddoto relativo ad una Thebana virgo violata da un soldato che presenta

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alcune analogie con la storia di Timoclea; cfr. Wyttenbach, Animadversiones, 16. Poi, il passo di Non posse. 1093C mostra che Plutarco aveva letto la storia di Timoclea in Aristobulo (autore citato direttamente per sei volte in Plu. Dem. 23.4–6 = FGrHist 139 F 3; Alex. 12; De Al. Magn. fort. 327F e 341C = FGrHist 327 F 4 e F 46), e la narrativa sostanzialmente identica di Mul. Virt. 24 e Alex. 12 lascia pensare all’utilizzo di una stessa fonte in entrambi i racconti. Jacoby ha stampato questo episodio come FGrHist F 2b ed ha parlato di Aristobulo come fonte solo di Alex. 12 (FGrHist, Komm. zu 139 F 2b, 510), mentre Droysen e Wenger hanno voluto collegare questa storia con Clitarco, autore tuttavia citato nel complesso soltanto due volte, e nemmeno direttamente, da Plutarco (cfr. Them. 27.1 = FGrHist 137 F 33; Alex. 46 = FGrHist 137 F 15). Pearson, invece, ha considerato questo aneddoto relativo a Timoclea un modo appropriato per dimostrare non la brutalità gratuita, ma il rispetto e la disciplina tenuti da Alessandro durante l’attacco a Tebe, allo scopo di mostrare la generosa attitudine del Macedone nei confronti delle donne nemiche; cfr. J.G. Droysen, Geschichte des Hellenismus I (Hamburg: 1836) 2, 394; F. Wenger, Die Alexander-Geschichte des Aristoboulos von Kassandreia (Diss., Würzburg, 1914) 5; L. Pearson, The Lost Histories of Alexander the Great (New York: 1960) 155. A. Pérez Jiménez ha interpretato la storia di Timoclea come una piccola biografia politica, arricchita ed ampliata rispetto all’analogo aneddoto narrato nella Vita di Alessandro e troncata dove termina l’interesse dell’autore per la condotta virtuosa della protagonista. La vicenda sarebbe, poi, il prodotto del medesimo metodo di composizione ed avrebbe le stesse funzioni di ritratto letterario delle Vite Parallele; cfr. Pérez Jiménez, “Retrato literario y biografía”, 35–36. Chiaramente ispirati a questa vicenda sono i versi 891–979 de La mayor hazaňa de Alejandro Magno, commedia secentesca attribuita al celebre drammaturgo spagnolo Lope Félix de Vega y Carpio, così come si rifecero alla vicenda di Timoclea la tragedia Timoclée ou la juste vengeance (1618) di Alexandre Hardy e la tragi-comédie di Morel, intitolata Timoclée ou la generosité d’Alexandre (1658). La storia di Timoclea è stata menzionata anche quale esempio di “virtue” femminile all’interno dell’opuscolo pedagogico composto da Mary Pilkington ed intitolato A Mirror for the Female Sex, Historical Beauties for Young Ladies, intended to Lead the Female Mind to the Love and Practice of Moral Goodness, designed principally for the use of Ladies’ School (1804). 532 Generale tebano a Cheronea, definito capo della falange e persona corrotta in Dinarc. 1.74. 533 Cfr. Pel. 4.

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534 Vicenda analoga a quella occorsa a Stratocle in Polyaen. Strateg. 4.2.2. L’aneddoto riguardante Teagene è invece omesso in Alex. 12. 535 Nel 335 a.C., alla notizia della morte di Alessandro, Tebe si ribellò alle forze macedoni lasciate a presidio della città. 536 Polieno (Strateg. 8.40) parlava di un ipparco; a tal proposito è stato ipotizzato un errore di Polieno o una corruzione testuale da ilarco ad ipparco senza la necessità di questionare la correttezza dell’appellativo o del grado militare del soldato trace; cfr. FGrHist, Komm. zu 139 F 2 p. 510; Droysen, Geschichte, I, 2, 394; Stadter, An analysis, 112 nota 290. 537 Particolare onomastico omesso in Alex. 12. 538 Questa notazione, in un certo senso, anticipa al lettore l’esito del successivo dialogo tra il re e Timoclea; Stadter, An analysis, 114. Per altri omonimi del condottiero macedone cfr. Alex. 58 (un valoroso soldato di nome Alessandro, morto sul campo combattendo splendidamente durante l’assedio della rocca di Sisimitro); De Al. Magn. fort. 334A (il tiranno della città di Fere). Secondo Eustazio (Commentarii ad Homeri Iliadem et Odysseam 17.720) Alessandro Magno pretendeva che suoi omonimi di indegno valore mutassero nome oppure carattere. 539 Tale espressione colpì particolarmente Wyttenbach, che affermò “nisi poetae est dictum, dictio certe poetica est”. Cfr. anche Hes. Sc. 258. 540 Il termine ἄνθρωπος in riferimento ad una donna è utilizzato da Plutarco anche parlando della moglie di un re spartano (Lyc. 3.4), di una sacerdotessa di Atena (Nic. 13.6), di Olimpiade (Alex. 2.5), di Antiope (Thes. 27.6) e di Aspasia (Per. 24.2). Ad avviso di Stadter “the expression is not derisive or patronizing”, ma è adoperata in relazione a regine ed eroine; Stadter, A Commentary on, 233. 541 Ristabilisco il testo ὡς μείζονα θαυμάσας, tràdito dai manoscritti v AEuβγδσ 80,5 80,22 e pubblicato da Xylander, Stephanus, Reiske, Wyttenbach, Hutten, Dübner, Bernardakis ed Ingenkamp, traducendo il comparativo assoluto nel solco delle rese di Rinuccini “tali animo praeditam mulierem”, e di Babbitt “for he felt she was too great for that”, focalizzate direttamente sulla magnaminità di Timoclea. L’aggiunta di seconda mano συγγνώμης πράξασαν, sovrascritta al testo di α e presente all’interno di n, costituisce un esempio molto raro di glossa infiltrata nel testo di uno dei manoscritti del Mulierum Virtutes. Inoltre, l’attribuzione ad ὡς μείζονα di un valore prevalentemente quantitativo ha portato diversi traduttori alla ricerca di un secondo termine di paragone (“ut miseratione superiorem” in Xylander; “il luy sembla que le courage de ceste dame estoit plus grand, que de devoir faire pitiè” in Amyot; “pensant que son acte valait plus qu’un pardon” in Boulogne) in realtà volutamente omesso, o piuttosto sottinteso

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dall’autore, mentre le edizioni di Nachstädt e Boulogne hanno inserito συγγνώμης πράξασαν all’interno del testo, e Pohlenz, in base a criteri linguistici rigorosamente esclusivi, ha ritenuto i due termini un’interpolazione da sostituire con ἐλέου παθοῦσαν. 542 Con le editiones Aldina e Basileense, Stephanus, Xylander, Reiske, Wyttenbach, Hutten e Dübner, conservo οὖν, tramandato dai mss. v AEuβγδσ 80,5 80,22 e frequentemente adoperato in successione alla particella μέν da Plutarco, mentre la stessa congiunzione appare erasa in α ed omessa in n, riscuotendo successo presso Herwerden, Bernardakis, Babbitt, Nachstädt, Boulogne ed Ingenkamp. 543 In Alex. 12 il comandante è di nazionalità tracia; una simile svista, unita alla descrizione meno dettagliata degli eventi, avvalorerebbe l’ipotesi che Plutarco, durante la composizione della Vita di Alessandro, abbia citato a memoria l’episodio di Timoclea da precedenti, e non meglio identificate, letture. Questo, tuttavia, non implica che il Mulierum Virtutes debba essere stato composto necessariamente prima della biografia del macedone, poiché le modalità, la frequenza e la qualità della lettura delle citazioni di Aristobulo nel complesso della composizione di Vite e Moralia plutarchei non consentono di definire una precisa successione temporale delle due opere, lasciando in campo anche l’ipotesi di una fonte terza da cui il Cheronese avesse potuto attingere, realmente o memoriter. 544 Insieme a Lachesi ed Atropo, era una delle tre Parche, anziane donne preposte a filare il destino degli uomini e a perseguire i delitti di uomini e dei, non cessando dall’ira prima di aver inflitto una pena terribile a chi sbagliava (Hes. Th. 211–222). Esse sedevano, figlie di Ananche, in cerchio, su un trono e ad egual distanza tra loro, vestite di bianco e con il capo cinto di bende, sull’armonia delle Sirene cantavano il passato (Lachesi), il presente (Cloto) ed il futuro (Atropo); Cloto, con la mano destra sul fuso, ne faceva girare ad intervalli il cerchio esteriore (Pl. R. 617bd). Cfr. anche Pi. O. 1.26; I. 6.17; Pl. Lg. 960c; Vernière, Symboles et mythe, 237; P. Colafrancesco, Dalla vita alla morte, il destino delle Parche (Bari: 2004). In De fato 568E Cloto è la più alta delle tre parti in cui sembra essere divisa l’anima universale del mondo, ovvero il fato, considerato secondo la sostanza. In De facie 945D, Cloto è una figura di moto, di collegamento e mescolanza che porta a termine una parte dei piani della Fortuna (περὶ τὴν σελήνην φερομένη συνδεῖ καὶ μίγνυσιν). Cfr. soprattutto Plu. Quaest. conv. 745BC e Max. Tyr. Dissertat. 12.5. Per il ruolo e il rapporto con gli dei delle Moire nel pensiero ed immaginario degli scrittori e filosofi greci e latini precedenti e successivi a Plutarco, cfr. soprattutto Valgiglio, Plutarco, Il fato, 120–122; P. Donini (ed.), Plutarco, Il volto della luna (Napoli: D’Auria, 2011) 363–364.

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545 Il richiamo all’imperscrutabilità della sorte e all’inesorabile decorso del destino e della vendetta appartiene ad uno stile elevato, forse mutuato dalla fonte del racconto, e giustificabile in un contesto di mantenimento delle dimensioni e delle prerogative stilistiche del testo di Aristobulo. La versione più sintetica dei fatti presentata in Alex. 12, oltre a fornire minori dettagli, sarebbe stata maggiormente adattata ed integrata al contesto biografico di inserimento. La versione tràdita in Mul. Virt. 24, forse, è più vicina al testo di Aristobulo, anche se i due testi non aiutano a collocare cronologicamente le due opere; cfr. Stadter, An analysis, 114–115. 546 Alex. 12 attribuisce l’impresa soltanto a Timoclea, la quale avrebbe spinto direttamente (senza attendere che costui vi discendesse) il trace (e non macedone) nel pozzo, gettandogli, poi, addosso svariate pietre senza l’aiuto delle ancelle. 547 L’astuto escamotage di Timoclea è presentato in maniera più ridotta in Alex. 12. Ruiz Montero e Jiménez hanno richiamato la storia biblica di Giuseppe, gettato dai fratelli nel pozzo, come descritto nell’Antico Testamento; cfr. Ruiz Montero–Jiménez, “Mulierum Virtutes”, 115 nota 52. Cfr. anche Amatoriae Narrationes 773D. 548 Plutarco indicò all’allieva Euridice l’esempio di Timoclea (e di Teano, Cleobulina, Gorgo, Claudia e Cornelia; cfr. Con. praec. 145F) tra le donne che ἐγένοντο θαυμασταὶ καὶ περιβόητοι. 549 Per questa vicenda Stadter ha parlato di proclamazione di “mastery of virtue over fortune” (Stadter, An analysis, 112), ma i continui e molteplici riferimenti alla casata, alla stirpe e ai familiari di Timoclea paiono conferire merito soprattutto alla nobiltà della donna, piuttosto che soltanto alla sua virtù (intesa come sprezzo del pericolo). 550 In Alex. 12 Timoclea fu liberata insieme ai figli. 551 Vicenda narrata molto più sommariamente da Erodoto (4.160), nel mezzo di un excursus sulla dinastia Battiade a Cirene, e riferita negli Strategemata (8.41) di Polieno. Plutarco molto probabilmente attinse da uno storico locale di Cirene: Acesandro (citato anche in Quaest. conv. 675AB = FGrHist 469 F 7; la sua opera era difficile da reperire per il Cheronese, che la menzionava forse memoriter; Ottone, Lybika, 261–264), i cui frammenti fanno, però, riferimento soltanto al periodo mitico (cfr. Busolt, Griechische Geschichte, 489 nota 2; Acesandro diede ampio rilievo al complesso di miti relativi alla “storia” di Cirene antecedente alla sua fondazione; Ottone, Lybika, 274), o Menecle di Barca (= FGrHist 270; si tratta di un autore mai citato da Plutarco), non propriamente uno storico locale, le cui Libykai historiai dovevano forse raccogliere diverse tradizioni locali cirenaiche (cfr. FGrHist, Komm. zu 270 F 5–6, p. 223). Tuttavia, il catalogo anonimo

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De mulieribus ricordava esplicitamente lo scritto di Menecle sulla Libia in riferimento alla storia di Φερετίμη, e si evince che il testo di Menecle, pur non contraddistinto da un tono novellistico (Ottone, Lybika, 433; 434 nota 14), fu oggetto di raccolta, nell’ambito della catalogica femminile di età imperiale e nell’alveo di una produzione storico-letteraria di carattere erudito e di interesse femminile da cui aveva, forse, già attinto Plutarco per la composizione del Mulierum Virtutes. Il viaggio di Batto a Delfi (cfr. FGrHist 270 F 6), tuttavia, differisce sensibilmente dal racconto erodoteo, mentre la storia di Feretime (FGrHist 270 F 5) somiglia molto alla narrazione di Erodoto (4.162–167). La Costituzione dei Cirenei di Aristotele (frr. 528–531 Rose) probabilmente menzionava Laarco, ma non nel dettaglio. 552 Trattasi di Arcesilao II, che, a detta di Erodoto (4.160), litigò coi suoi fratelli, che dapprima fuggirono da Cirene stabilendosi a Barca per sollevare i Libici contro di lui, e, una volta inseguiti dal sovrano, gli inflissero una sonora sconfitta presso Leukon. Arcesilao II sarebbe, quindi, morto, già malato, per strangolamento ad opera di Laarco, dopo aver ingerito una droga; cfr. anche K.O. Müller, Fragmenta Historicorum Graecorum III (Paris: 1849) 387 nota 52. Dal testo erodoteo attinse anche Nicola Damasceno (cfr. FGrHist 90 F 50), che ugualmente riferiva della riforma della costituzione di Cirene ad opera di Demonatte di Mantinea durante il regno di Batto III “lo zoppo”, episodio mai menzionato altrove; cfr. Stadter, An analysis, 115 nota 298. Per la storia dei primordi di Cirene, tra gli altri, cfr. F. Studniczka, Kyrene (Leipzig: 1890); L. Malten, Kyrene. Sagengeschichtliche und historische Untersuchungen (Berlin: 1911); F. Chamoux, Cyrène sous la monarchie des Battiades (Paris: 1953) 136–138; G. Barker–J. Lloyd–J.M. Reynolds (eds.), Cyrenaica in antiquity (Oxford: 1985); A. Laronde, Libykai historiai. Études d’Antiquités africaines (Paris: 1987); Ottone, Lybika. 553 Il capitolo X del trattato De Mulieribus Claris in Bello descriveva la vicenda di Feretime, moglie di Batto; cfr. Westermann, ΠΑΡΑΔΟΞΟΓΡΑΦΟΙ, 216– 217. 554 Si tratta di Batto II, terzo monarca della dinastia dei Battiadi dopo Batto I (figlio di Polimnesto e fondatore di origini minie della colonia di Cirene nel VII secolo a.C.), ed Arcesilao I. Batto “il Felice” (soprannome dovuto al successo di un’impresa di imponente immigrazione, che incrementò l’elemento greco in Cirene affidando ad ogni nuovo arrivato un lotto di terre; in tal modo, rese la città popolosa e militarmente forte) salì al trono agli inizi del 580 a.C., dopo aver liberato la città dalla dominazione egizia. Cfr. Broholm, “Kyrene 2”, 157–161; Chamoux, Cyrène sous la monarchie, 137–138; H. Schaefer, “Die verfassungsgeschichtliche Ent-

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wicklung Kyrenes im ersten Jahrhundert nach seiner Begründung”, RhM 95 (1952) 165; Barker–Lloyd–Reynolds, Cyrenaica; Ottone, Lybika, passim. La corruttela δαίμονος, tràdita dalla maggioranza dei codici (αAEuβγδσ 80,5 80,22), sembra ascrivibile ad una scorretta esegesi dell’epiteto del monarca battiade, forse condizionata da una svista di natura misticoreligiosa. Broholm la collocava nel 560 a.C.; sarebbe avvenuta, invece, nel 554, secondo Larcher, oppure nel 550, a parere di Reitz; cfr. Müller, Fragmenta, 387 (= FGrHist 2 A 90 F 50); Broholm, “Kyrene 2”, 157–161; Chamoux, Cyrène sous la monarchie, 141; Barker–Lloyd–Reynolds, Cyrenaica; Boulogne, Plutarque, 310; Ottone, Lybika, passim. Per alcuni aspetti della φιλανθρωπία cfr. Frazier, Histoire et Morale, 233– 236. Per via della sua indole, Arcesilao II fu soprannominato ὁ Χαλεπός. Le notizie in merito al suo carattere difficile, forse, erano un indizio dei primi conflitti tra la monarchia e i maggiorenti della città (Chamoux, Cyrène sous la monarchie, 136; 142). Il regno di Arcesilao II fu caratterizzato dalla sconfitta di Leukon, che causò la perdita di settemila opliti, contro i Libici nel deserto (ribellatisi dopo anni di malcontento e spoliazioni, ascrivibili al dominio assoluto che su di loro aveva stabilito Batto “il Felice”), dopo un lungo inseguimento; Chamoux, Cyrène sous la monarchie, 137. L’effettivo ruolo di Laarco nella vicenda è controverso, poiché per Erodoto era uno dei fratelli di Arcesilao II, mentre per Plutarco si trattava solo di un cattivo, ma influente, amico del re. Stefano di Bisanzio citava come fratelli di Arcesilao II soltanto i nominativi di Perseo, Zacinto, Aristomedonte e Lico. Per Stadter la fonte di Erodoto era un racconto cirenaico piuttosto condensato e selettivo, mentre Plutarco avrebbe attinto da una descrizione molto dettagliata del periodo della tirannide di Laarco; cfr. F. Jacoby, “Herodotos”, R.E. suppl. 2 (1913) 437; Stadter, An analysis, 116– 117; Boulogne, Plutarque, 310. La forma Λέαρχος è attestata in Erodoto (con la variante Ἁλίαρχος nel codice Laurent. gr. LXX 3 e nel codice Laur. conv. suppr. gr. 207) e Nicola Damasceno (FGrHist 90 F 50), mentre Plutarco e Polieno presentano l’appellativo Laarco; cfr. anche A. Corcella–S. Medaglia–A. Fraschetti (eds.), Erodoto, Le Storie, Libro IV, La Scizia e la Libia, (Milano: Fondazione Lorenzo Valla/Arnoldo Mondadori, 1993) 3; 174. Se la rassegna erodotea riguardante gli otto re Battiadi di Cirene fornisce un’attestazione di rilievo non trascurabile, data la trattazione approfondita della successione regale cirenaica, la leggera variazione onomastica presentata dal testo tràdito plutarcheo può essere accolta (confermata anche da

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alcune iscrizioni di Cirene; cfr. Boulogne, Plutarque, 310) non senza qualche riserva, considerando che il Cheronese, come intuito da Wyttenbach, “alios auctores secutus est” (Wyttenbach, Animadversiones, 17). Si trattava, con gran probabilità, di fautori della parte politica dei fratelli di Arcesilao ed altri personaggi ostili anche a Laarco; Stadter, An analysis, 116–117. Il decesso di Arcesilao II si verificò circa dieci anni dopo l’inizio del suo regno, dopo la sconfitta per mano dei Libici sollevati dai suoi fratelli; Hdt. 4.160; Müller, Fragmenta, 387. La lepre di mare (nota anche come nudibranco) è una Aplysia fasciata dotata di una conchiglia convessa interna, che vive in acque poco profonde, dove abbonda la vegetazione di alghe della varietà Cystoseira, Ulva e Zostera, di cui si nutre in quanto erbivoro. Tale mollusco gasteropode (o univalva), provvisto di un olfatto piuttosto sviluppato a causa di rinofori molto sensibili alle sollecitazioni, deve il proprio nome ai tentacoli (posizionati sul capo) che ricordano le grandi orecchie di una lepre o di un coniglio, e ne esistono diverse specie, anche prive di guscio. Di forma allungata, bassa e bombata, e di colore bruno, è dotata di due lunghe e larghe espansioni laterali, i parapodi, che servono per nuotare. Rilasciano un muco estremamente tossico chiamato aplisiatossina (che queste lumache assumono dalle alghe di cui si nutrono), sono ricoperte di un manto di ghiandole, che espelle un fluido torbido (bianco, viola o rosso, a seconda del colore dei pigmenti presenti nella fonte di cibo) quando l’animale è disturbato, e la loro pelle contiene una tossina che le rende, per la maggior parte, non commestibili ai predatori. Plutarco riteneva la lepre di mare velenosa e mortale per l’uomo (De soll. anim. 983F) e, se somministrata asfissiata dentro il vino (per dissimularne il succo colorato e nocivo), si credeva producesse effetti mortali (Ath. 8.355D; Plin. H.N. 9.48 e 9.72). Boulogne (Boulogne, Plutarque, 310) ha parlato di una confusione verificatasi con la specie (menzionata in Plin. H.N. 9.72.1 e 20.84.2) di lepus marinus indicus, specie di carattere esotico cui era attribuita una tossicità maggiore della realtà. Cfr. anche Plin. Nat. Hist. 9.155; Ael. NA 2.45; 9.51 e 16.19 e Philostr. VA 6.32. Il figlio di Erisso ed Arcesilao, alla fine di questa stasis, fu proclamato re sotto il nome di Batto III. La successione al trono di Batto III, avvenuta poi senza particolari difficoltà, sarebbe stata, a parere di Jacoby e Stadter, la prova decisiva a dimostrare che egli era l’unico legittimo pretendente al trono, e che dunque Laarco era un amico, e non il fratello di Arcesilao II. La morte dell’usurpatore, essendo questi soltanto uno dei fratelli ostili ad Arcesilao, non avrebbe risolto granché nell’ambito della disputa

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con i restanti familiari in conflitto, mentre pare plausibile si trattasse di un amico di famiglia, sulla cui identità Erodoto riferiva notizie imprecise o meno dettagliate (la narrazione sintetica di Erodoto, forse, aveva assimilato la stasis dei fratelli di Arcesilao all’usurpazione dell’amico Laarco, riunendole in un’unica storia). Mazzarino, Schaefer e Chamoux rispettavano, invece, l’autorità del racconto di Erodoto, che descriveva Laarco come uno dei fratelli del sovrano. Cfr. Jacoby, “Herodotos”, 437; S. Mazzarino, Fra Oriente e Occidente (Firenze: 1947) 359; Schaefer, “Die verfassungsgeschichtliche”, 165; Chamoux, Cyrène sous la monarchie, 138 nota 1; Stadter, An analysis, 116 e nota 300; Barker–Lloyd-Reynolds, Cyrenaica; Ottone, Lybika, passim. Tale simulazione di affetto disinteressato fu definita περὶ κακοῦ φιλία in uno dei marginalia filelfiani al codice Laur. 80,22. Il tono ed il contenuto dell’episodio (definito “dramatic vignette”; Stadter, An analysis, 115) sono accostabili all’incedere novellistico adoperato dallo storico Menecle nel racconto delle vicende di Feretime (cfr. FGrHist 270 F 5); tuttavia Plutarco non cita mai questo autore. Il racconto di Plutarco effettivamente risulta “romancé”, come già notato da Chamoux (Chamoux, Cyrène sous la monarchie, 138), ed il susseguirsi di vicende tragiche alla corte di Cirene inevitabilmente ha potuto alimentare tutta una serie di narrazioni romanzate degli eventi. Probabilmente Poliarco, insieme ad Erisso, supportò gli esuli di Cirene in prospettiva anti-Laarco, proclamando in seguito la restaurazione della costituzione ancestrale per riformare l’ordinamento politico della città, nell’intenzione di indebolire il potere reale esercitato con abusi personalistici e tirannici esemplificati dalle condotte di Arcesilao II e Laarco (la monarchia ellenica del fondatore, da magistratura a vita, si era evoluta in una sorta di dispotismo di tipo orientale; Chamoux, Cyrène sous la monarchie, 138). Così la riforma di un arbitro straniero, Demonatte di Mantinea, comportò la sostituzione della monarchia patriarcale con un regime oligarchico con una continuazione puramente formale della dinastia Battiade; cfr. Hdt. 4.162–167; Schaefer, “Die verfassungsgeschichtliche”, 166–170; Chamoux, Cyrène sous la monarchie, 138–142. La modifica del sistema fu probabilmente caldeggiata anche dalla maggioranza della popolazione greca, a causa dei continui crimini cui aveva assistito. Schaefer ha ipotizzato che Poliarco ed Erisso avessero costituito una terza fazione politica, indipendente dagli esuli e dalle posizioni di Laarco; cfr. Schaefer, “Die verfassungsgeschichtliche”, 166–170; Stadter, An analysis, 116–117 note 300 e 301. A Cirene le fazioni in lotta dovevano essere sostan-

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zialmente tre: il partito di Laarco, sostenuto da coloni e mercenari, il gruppo degli esiliati, costituito dai fratelli di Erisso e di Arcesilao, e la famiglia reale, che nelle persone di Erisso, Poliarco e Critola concedeva appoggio esterno agli esiliati in opposizione al regime di Laarco; cfr. Schaefer, “Die verfassungsgeschichtliche”, 165 nota 101. Si tratta della prima di una serie di tragedie di palazzo che spesso insanguinarono la famiglia dei Battiadi. Seguirono, poi, la storia di Arcesilao II e di sua madre Feretime, la morte di Arcesilao IV e quella di Demetrio “il Bello”; Chamoux, Cyrène sous la monarchie, 138 nota 2. Affermazione che concorda con la testimonianza erodotea di un matrimonio tra Amasi ed una donna di Cirene (Hdt. 2.181). Le relazioni amichevoli ebbero inizio quando Batto II nel 570 a.C. sconfisse le truppe egiziane (Hdt. 2.161 e 4.159) e l’utilizzo di soldati egizi pare il segnale di un rapporto di vassallagio di Cirene verso Amasi, piuttosto che di una relazione paritetica, come confermerebbe anche la visita di Critola per placare lo sdegno dei soldati. Si tratta di Henemibra (lett. “colui che abbraccia il cuore di Ra”) Iahmesi Saneith, nono sovrano della XXVI dinastia, giunto al trono in seguito all’acclamazione delle truppe, soprattutto di origine libica (per le umili origini di Amasi cfr. Hdt. 2.172; Arist. Pol. 1259b e Plu. Sept. sap. conv. 151E; per la figura di Amasi quale regnante saggio cfr. anche Sept. sap. conv. 151A–153E), ammutinate dopo essere state inviate contro Cirene (per limitare la crescente influenza greca in cirenaica), e soprannominato “Filelleno” per l’enorme influenza che ottennero i mercanti greci sotto il suo regno. Il predecessore Apries aveva ottenuto una disfatta nella spedizione contro Batto II (Hdt. 2.161), e il generale di origine libica Amasi, inviato per sedare la rivolta della folla, fu convinto a prendere il potere e scacciare il faraone. Fu sovrano per oltre quarant’anni, passò alla storia come monarca innovatore e riformatore che riportò l’intero Egitto ai fasti del Nuovo Impero, e divenne celebre per aver tessuto una serie di alleanze con città della sfera greca. Intrattenne legami di amicizia con Cirene a partire da Batto II, ed Erodoto narra che avesse sposato una cirenea (Hdt. 2.181). Morì nel 529, poco prima della sconfitta contro i Persiani di Cambise II, subìta dal figlio Psammetico III; cfr. R. Pietschmann, “Amasis”, R.E. I.1 (1894) 1745–1747. Laarco probabilmente faceva affidamento su un partito pro-egiziano; Chamoux, Cyrène sous la monarchie, 138. Si ristabilisce la lezione dei manoscritti, mentre la proposta di Bernardakis, accolta anche da Babbitt, Nachstädt, Ingenkamp e Boulogne, sembra fondata esclusivamente sull’usus scribendi del Cheronese.

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574 Si ristabilisce κόμαις, lezione concordemente testimoniata dai manoscritti ed accettata da Dübner, Reiske, Tauchnitz, Wyttenbach, Bernardakis e Babbitt, conservando in dipendenza da ἤσκει ed in costruzione con dativo (cfr. Dem. 5.5.2 e Mar. 16.8.1) una variatio sintattica che propone l’accezione di significato “foggiare con lunghe chiome”. L’emendazione κομᾶν, proposta attribuita a Bachet de Méziriac e seguita da Nachstädt, Boulogne ed Ingenkamp (che aggiunge in apparato la nota “quam scripturam confirmat Aristot. frg. 611 Rose”), oltre a poggiarsi sull’usus di Plutarco (cfr. Parall. Graeca et Romana 274B10 e De Stoic. rep. 1038C10), propone l’analogia di un costrutto con doppio infinito che Wyttenbach giudicò “ut ex coniectura profectum, nec recipiendum nec reticendum”. Hutten, mosso da riserve di ordine strutturale, obiettò sulla genuinità della forma κόμαις (“Dubito, an haec vox sit genuina. Constructio flagitat κομᾶν”). 575 All’interno di una sezione intitolata Περὶ κουρᾶς καὶ τῶν κατ’ αὐτήν, Polluce (2.29.2) ricordava il taglio di capelli περιτροχαλάτη (LSJ, s.v. recita to have one’s hair clipped round about, adducendo le testimonianze di Hdt. 3.8 ed Agath. 1.3), che Wyttenbach, come già ampiamente descritto all’interno del trattato De coma dell’umanista olandese H. Junius, riconosceva quale “rotunda tonsurae forma” (Wyttenbach, Animadversiones, 17), aggiungendo che “fortasse hoc fuit Euboeensium negotium”, sulla base del testo di Dio Chrys. 2.12–13. Per una simile capigliatura cfr. Her. 3.8.15 e Cassio Dione (Zonaras 9.17), dove ritorna il binomio capigliatura/vestiario ad emblema di status; cfr. anche H. Junius, Hadriani Junii hornani, medici Animadversa, ejusdemque De coma commentarium, Ab autore innumeris in locis emendata, & insignibus supplementis locupletata. Accedit adpendix Hadriani Junii ad animadversa sua, nunc primum ex clariss. vir. autographo in lucem edita. Ex bibliotheca Corn. Van Arckel (Roterdami: 1708), 503–507. 576 Accolgo, con Xylander, Stephanus, Reiske, Hutten, Dübner, Tauchnitz, Bernardakis e Babbitt, il καί tràdito dalla totalità dei manoscritti, considerando che il seguente genitivo “commode accipi potest pro Accusativo, quasi dictum esset καί χιτωνίσκους τῶν ἀνακώλων, et tuniculas e genere brevium”, come segnalato da Wyttenbach e tradotto da Rinuccini (“et brevissimas gestare tunicas”), Xylander (“gestarent, et tuniculas perbreves”), Amyot (“et des fayes sans manches”) e Babbitt (“to wear boys’ clothes and the short undergarment”). L’autore ivi propone le principali vessazioni imposte alle giovani cumane nel campo dell’abbigliamento da parte di Aristodemo, instaurando una dicotomia sintattica fondata sull’antitesi “variata” tra ἐφηβικάς ed ἀνακώλων. L’esegesi del passo sostanzialmente non cambia neppure con l’intervento di Salmasius, che, influenzato forse dal De pallio (1.1 e 5.3) di Tertulliano e da Dionigi di Alicarnasso (7.9.4), ha

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introdotto, seguito da Nachstädt, un poco condivisibile κατά allo scopo di normalizzare il testo e classificare i capi di vestiario in ordine di indossatura, come nella traduzione “à porter la casaque des éphèbes sur la très courte petite tunique des ces derniers” di Boulogne. In merito a tale indumento, Wyttenbach segnalava “colligimus ἀνάκωλος esse vestem vel tunicam quae ἄνω τῶν κώλων, citra genua desinit nec ea tegit”; cfr. Wyttenbach, Animadversiones, 17. Cfr. anche Phot. Lex. s.v. ἐπιγονατίς. La partecipazione all’ambasceria in Egitto da parte di Critola, sorella di Batto “il Felice”, che aveva in precedenza battuto le truppe egizie, pare voler rinsaldare un legame di alleanza, costituito dalla famiglia allora regnante in Cirene in seguito al precedente conflitto, e forse affievolito o recentemente rafforzato sotto la tirannide di Laarco. Per questo, la presenza di Critola intendeva, forse, concedere il proprio assenso agli sviluppi politici occorsi e sottolineare la continuità dinastica del nuovo assetto cittadino, succeduta alle recenti diatribe familiari sorte per gli atteggiamenti di Arcesilao II. Forse Batto “il Felice” aveva stipulato un trattato di alleanza con Amasi, e la donna greca di nome Ladice, che il faraone aveva preso nel suo harem, era, secondo alcuni, figlia di Batto II; Hdt. 2.181; Chamoux, Cyrène sous la monarchie, 136. Dionigi di Alicarnasso (Ant. Rom. 7.2–11) fornisce un racconto molto più lungo e dettagliato (che tuttavia non contribuisce ad accertare la storia del tiranno o la tradizione della stessa; Stadter, An analysis, 118) sulla figura di Aristodemo, mentre un frammento di Diodoro Siculo (7.10) descrive l’attività del tiranno, che chiama semplicemente Malakos. Plutarco molto probabilmente lesse il passo di Dionigi di Alicarnasso (Ant. Rom. 6.1–8.62 costituisce la base narrativa di Cor.) senza trarne eccessivo spunto e senza servirsi di una fonte comune (come ipotizzato in De Sanctis, Storia, 451), come dimostrano alcuni dettagli narrativi divergenti; cfr. Stadter, An analysis, 118. Risulta difficile stabilire in qualche modo la fonte di questo episodio, anche perché la tradizione sembra aver mescolato e confuso altri storici annalisti di Roma e della Magna Graecia con autori di Kymaika, come Iperoco (che in FGrHist 576 F 1 = Ath. 12.37 p. 528DE parlava di pratiche effeminate dei cumani simili a quelle introdotte da Aristodemo), stando all’ipotesi di De Sanctis, appoggiata da Meier ed Heurgon, o come Diocle di Pepareto, secondo quanto ipotizzato da Von Christ (dopo una analisi dei frammenti di Diocle, uno dei quali Plutarco citava da Fabio Pittore; cfr. FGrHist 820 F 2 = Rom. 3) o semplicemente una cronaca locale cumana tardo-antica che probabilmente il suo autore spacciò per mol-

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to più antica (Luraghi, Tirannidi arcaiche, 81–82), come anche una delle opere storiche sui Greci d’Occidente da cui lo stesso Timeo dipendeva; cfr. cfr. Schwartz, “Dionysios von Halikarnassos 113”, 943; W. Von Christ, “Griechische Nachrichten über Italien”, SBAW (1905) 59–71; De Sanctis, Storia, 450–451; E. Meyer, Geschichte des Altertums III (Stuttgart: 1937) 750 n. 1; J. Heurgon, Recherches sur l’histoire, la religion et la civilisation de Capoue préromaine (Paris: 1942) 64; D.A. Russell, “Plutarch’s Life of Coriolanus”, JRS 53 (1963) 21–28. Probabilmente la fonte di Diodoro, e forse anche di Dionigi di Alicarnasso, era stato Timeo (cfr. FGrHist 566, 3 B, pp. 527– 529 e n. 30, p. 313). Senocrite è un nome attestato in Eubea ancora in età classica, come dimostrano le fonti epigrafiche di età tardo-classica e proto-ellenistica; cfr. SEG 15, 560; SEG 35, 973. 581 Questa è la seconda storia, dopo quella di Aristotimo (Mul. Virt. 15), a trattare delle vicissitudini di un tiranno e della sua deposizione da parte di una rivolta popolare generalizzata. 582 LSJ presenta quattro accezioni elleniche del termine riferite a persons or modes of life: (I) soft, mild, gentle; II) soft in bad sense; III) faint-hearted, coward; IV) morally weak, lacking in self-control, nessuna delle quali pare rispondere alle prerogative del giovane e valoroso Aristodemo, vittorioso contro la coalizione di barbari e contro gli Etruschi di Arrunte nelle file della cavalleria cumana. Per la posizione dell’epiteto Μαλακός (classificato come “Weichling, jüngling, barbar?”) nel complesso della lingua di Plutarco e all’interno della lista delle Etymologien Lateinischer Wörter di A. Strobach, cfr. Strobach, Plutarch und die, 139; 202. Μαλακός potrebbe essere la grecizzazione di un epiteto ritenuto incomprensibile (Plutarco traduce il termine ἀντίπαις riconducendolo al campo semantico della fanciullezza) in quanto di origine anellenica e dotato anche di una variante accentuativa significativa (cfr. anche D.S. 7.10 dove l’epiteto compare come nome proprio del tiranno e con l’accento ritratto nella forma Μάλακος); cfr. L. Antonelli, “Aristodemo Μάλακος e la dea dell’Averno. Per una storia del culto presso il νεκυομαντεῖον in territorio cumano”, Hesperia 4 (1994) 118–120; Luraghi, Tirannidi arcaiche, 98–99; 114. In seguito alla caduta della tirannide, la tradizione tentò di ricostruire un’etimologia del termine, che era di origine barbara, in virtù del ruolo rivestito nella battaglia di Aricia: la vulgata di segno marcatamente anti-tirannico lo interpretò come “effeminato”, forse in relazione con alcuni rituali orgiastici o pratiche omosessuali cui egli sarebbe stato legato (accusa esemplata su un motivo della tradizione anti-agatoclea, forse di origine timaica; Luraghi, Tirannidi arcaiche, 98), mentre quella di segno filo-tirannico, probabilmente individuabile sullo sfondo della narrazione dionigiana

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dell’ascesa del tiranno, lo lesse come “mite, non violento”. Tale soprannome, adattamento pseudo-etimologico dell’appellativo/epiteto di origine semitica mlk, attestato in area etrusco-laziale, effettivamente circolante nella temperie politico culturale dell’epoca (in quanto riferito a Thefarie Velianas nella versione semitica delle lamine di Pyrgi), equivalente, in un certo senso, al greco βασιλεύς (termine adoperato dalle fonti di Eforo per definire Aristodemo in quanto sostenitore economico dell’oracolo ctonio dell’Averno; cfr. FGrHist 70 F 134a), e forse riferito ad un autocrate paragonabile ad un tyrannos greco, pare riconducibile all’ambito etrusco-italico soprattutto poiché sarebbe stato affibiato ad Aristodemo durante le battaglie contro i barbari che aveva sostenuto (in tal senso, Luraghi ha supportato, con Cristofani e Mele, la provvisoria ipotesi di un adattamento dall’etrusco malak o mlaχ; Luraghi, Tirannidi arcaiche, 114); per la connessione tra mlk e Malakós cfr. anche G. Radke, “Volsci”, R.E. IX A.1 (1961) 805. Successivamente tale epiteto divenne meglio conosciuto rispetto al nome stesso del tiranno (D.S. 7.10). Plutarco pare riferire questo nomignolo di origine barbara soprattutto per confutarne i significati di “dolce” ed “effeminato”, sostenuti da alcuni storici menzionati da Dionigi di Alicarnasso soprattutto quali tentativi di interpretazione dell’omofono termine greco malakós; cfr. anche Stadter, An analysis, 119 nota 309. Tuttavia, l’etimologia proposta da Plutarco potrebbe anche essere condizionata da una certa pudicizia sacerdotale riferita alla tematica dell’omosessualità. 583 Probabilmente Etruschi Padani, Umbri, Dauni e popolazioni di altre etnie presenti nell’Italia centro-settentrionale; cfr. D.H. Ant. Rom. 7.2–11; Luraghi, Tirannidi arcaiche, 115. 584 LSJ traduce il vocabolo in tre modi: I) like a child; II) little more than a child; III) instead of a boy, i.e. no longer a boy. Il significato del termine sarebbe dunque “non più un ragazzo”, oppure “uno che sembra, ma non è più un ragazzo” (Luraghi, Tirannidi arcaiche, 99), certamente con l’intento di evidenziare l’incongruenza tra l’aspetto esteriore giovanile e le doti psicologiche mature del giovane combattente Aristodemo, che mostrò coraggio, avvedutezza e perspicacia straordinarie per la sua età. In realtà il termine, nella lingua barbara di origine, potrebbe anche avere una valenza assimilabile ai concetti odierni di “bambino prodigio” o “fanciullo nato vecchio”. In Plu. Aem. 22.4 ricorre ἀντίπαις in riferimento al figlio prediletto di Emilio Paolo, giovinetto diciassettenne (cfr. anche Liv. 44.44.3) pieno di ardore e desideroso di gloria. Il vocabolo è stato tradotto “still hardly more than a boy in years” da Perrin, “à peine sorti de l’enfance” da R. Flacelière, e “poco più che un fanciullo” da Amerio–Orsi; cfr. B. Perrin (ed.), Plu-

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tarch’s Lives with an English Translation. VI, Dion and Brutus, Timoleon and Aemilius Paulus (London/New York: The Loeb Classical Library, 1918) 413; R. Flacelière–É. Chambry (eds.), Plutarque. Vies, t. IV (Paris: Les Belles Lettres, 1966) 96; M.L. Amerio–D.P. Orsi (eds.), Vite di Plutarco, volume terzo, Focione e Catone, Dione e Bruto, Emilio e Timoleonte, Sertorio e Eumene (Torino: UTET, 1998) 576–577. Termine che contraddistingueva i saltimbanchi che cantavano reggendo una ciotola per la questua (Ath. 8.360B; Hsch. s.v.), contestualizzato da Plutarco in riferimento alla capigliatura dei giovinetti cumani. Se Rinuccini aveva tradotto “una cum aequalibus comatis”, e Amyot rese “portans encore les cheueux longs, qu’on appelloit ancienement coronistes”, l’Abate Ricard intuì che i giovinetti dovevano tagliare i capelli tutt’intorno alla testa per formare una specie di corona, mentre Babbitt ha preferito coniare lo strano termine “harassers” quale “corruption of hair-raisers”. Boulogne ha parlato, poi, di un particolare taglio che faceva gonfiare i capelli sulla fronte in una voluminosa punta a forma di poppa, ma pare più verosimile che in questa occasione si trattasse di una maniera di raccogliere o intrecciare le chiome di capelli (forse per esigenze di praticità, onde evitare fossero di impaccio durante il combattimento) in forma circolare sul capo dei ragazzi, la qual capigliatura sembrava costituire una sorta di corona sul loro capo. Plutarco probabilmente aveva trovato il significato dell’appellativo Malakós all’interno della sua fonte, mentre il dettaglio riferito alle lunghe chiome dei cosiddetti “coronisti” pare un’aggiunta personale. Ateneo (8.360B), invece, presentava un’etimologia differente del termine koronistes proveniente da Panfilo di Alessandria. Secondo Stadter, Plutarco avrebbe mutuato alcuni elementi narrativi letti in Dionigi, così come il ricordo degli onori ricevuti da Aristodemo nel conflitto contro i barbari (Ant. Rom. 7.3–4). Cfr. Stadter, An analysis, 119. L’etimologia di origine barbara e di motivazione etico-pratica del termine riferita da Plutarco dovrebbe suggerire, in ogni modo, un appellativo inerente a saggezza e lungimiranza, inflitto al giovane Aristodemo senza finalità politico-belliche, anche se la matrice del termine era, con grossa probabilità, riconducibile al campo semantico dell’agone pubblico di pertinenza degli adulti di età. La versione dei fatti di Plutarco sembra influenzata da una rilettura in chiave romana della spedizione ad Aricia, in quanto Aristodemo sarebbe stato prescelto per il suo valore e senza nessun doppio fine politico, divenendo demagogo soltanto dopo l’incarico ricevuto. Luraghi, Tirannidi arcaiche, 90 e nota 52.

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590 Più precisamente Aristodemo, nel 504–503 a.C., giunse in soccorrso di Aricia assediata dai Chiusini e sconfisse personalmente in duello Arrunte, figlio di Porsenna, dopo una gloriosa battaglia, e ottenendo gli onori degli Aricini ed il merito della vittoria. Il successo di Aristodemo gli fruttò il favore di una grossa fetta di popolazione, malgrado l’aristocrazia della città calcidese lo avesse inviato in Lazio, alla testa di un esercito composto per la maggioranza dai cumani meno abbienti e sulle triremi peggio equipaggiate, avventurandolo in una spedizione molto rischiosa allo scopo di eliminarlo dall’agone politico. Invece Aristodemo, dopo la pace conclusa tra i Romani e Porsenna, tornò vincitore, ed il consenso guadagnato presso le truppe guidate gli consentì di sottrarre il potere all’oligarchia con un colpo di mano. Plutarco, certamente in maniera generica ed influenzato da un’opera annalistica romana, o di tono decisamente filo-romano, in nome di una tradizione di amicizia tra le due città, parla di soccorso prestato ai Romani e non ad Aricia, ove effettivamente si recò Aristodemo. Anche questo racconto di Plutarco sembra costituire un tentativo di conciliare ed intrecciare la storia di Roma con quella di Cuma; cfr. B. Niese, “Aristodemos” 8, R.E. II.1 (1895) 922–923; De Sanctis, Storia, 451 n. 306; Stadter, An analysis, 119. Livio (2.14.5–7), invece, non menzionava Aristodemo a capo dellla spedizione dei Cumani; cfr. anche Luraghi, Tirannidi arcaiche, 112 nota 161. 591 Cfr. anche la storia 14 dedicata a Valeria e Clelia. 592 In realtà Aristodemo, già campione della resistenza cumana contro gli Etruschi adriatici nel 534 a.C., intrattenne profondi rapporti con l’ultimo re di Roma (esisteva una tradizione che riferiva di Tarquinio il Superbo, oramai in età avanzata, rifugiato a Cuma presso Aristodemo, ove sarebbe poi morto senio et aegritudine; Cic. Tusc. 3.12.27; D.H. Ant. Rom. 6.21 e Liv. 2.21.5), che era originario di Tarquinia, città dell’Etruria costiera la cui evoluzione politica, sociale ed economica all’epoca non differiva di molto da quella cumana, soprattutto nell’ottica di una comune alleanza (per la presenza, nell’area etrusco-laziale, di tradizioni leggendarie che potevano rimandare ad un’influenza cumana) contro le città etrusche della componente tiberina, che nutrivano mire espansionistiche avverse alla sicurezza di Cuma. Cfr. anche M.R. Torelli, Storia degli Etruschi (Roma/Bari: 1981) 140–142; A. Mele, “Aristodemo, Cuma e il Lazio”, in M. Cristofani (ed.), Etruria e Lazio arcaico, (Atti dell’incontro di studio. Roma 1986), Quaderni del Centro di studio per l’archeologia etrusco-italica 15 (1987) 174; Antonelli, “Aristodemo Μάλακος”, 97–121. Luraghi ha ipotizzato si trattasse di un rapporto di ξενία tra Aristodemo e Tarquinio, secondo uno schema ripetuto presso le classi dominanti delle poleis arcaiche, come avvenne tra Teli

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di Sibari e Filippo di Butacide, o tra Terillo di Imera ed Amilcare; Luraghi, Tirannidi arcaiche, 112 e nota 158. In realtà l’introduzione dei Libri Sibillini a Roma implicava l’esistenza di buoni rapporti tra Cuma e Roma ben prima dell’avvento della tirannide; l’istituzione successiva del culto di Cerere, Libero e Libera, in cui sono stati riconosciuti componenti di origin cumana, potrebbe lasciar pensare che la giovane res publica romana continuasse a guardare amichevolmete alla Cuma ormai governata da Aristodemo. La vittoria sarebbe stata propiziata dalla cavalleria in cui Aristodemo militava. Successivamente, l’attribuzione delle onorificenze per il valore mostrato in battaglia avrebbe generato una stasis tra Aristodemo, sostenuto dal demos, e la coalizione di dunatoi e boule, che sostenevano Ippomedonte, risolta dall’intervento degli anziani che proposero un ex aequo; D.H. 7.4.4–5. Non è improbabile che la fonte di Plutarco contenesse schemi formalizzati di pensiero politico platonico, come anche elementi e procedimenti di scalata al potere convenzionalmente attribuiti alle tirannidi magnogreche. Ad avviso di Luraghi, la scarsa consistenza storica delle notizie sulla demagogia di Aristodemo lascia l’impressione che fossero state fabbricate a bella posta da una tradizione a lui ostile; Luraghi, Tirannidi arcaiche, 86– 89. L’alleanza tra Aristodemo e la truppa di duemila soldati inviata con lui al massacro ad Aricia è un dato profondamente radicato nella tradizione; Luraghi, Tirannidi arcaiche, 109. Plutarco (come anche Dionigi di Alicarnasso; cfr. Ant. Rom. 6.69) assimilava il consiglio cittadino dei Cumani alla βουλή. Secondo Dionigi, Aristodemo, al ritorno da Aricia, avrebbe convocato l’assemblea ed i magistrati in carica per fare rendiconto del proprio operato, riunione durante la quale i suoi partigiani avrebbero fatto irruzione, uccidendo tutti gli aristocratici presenti ed occupando tutti i punti strategici della città, mentre i cittadini fuggivano a casa o fuori città. Inoltre, secondo Dionigi di Alicarnasso, Aristodemo avrebbe affidato le famiglie dei nemici politici esiliati o uccisi ai loro stessi schiavi liberati e avrebbe scacciato dalla città gli orfani, mandandoli nei campi a lavorare da schiavi. Per l’alleanza con il corpo schiavile come consuetudine pertinente al comportamento tirannico e per i probabili rimaneggiamenti tardi della tradizione cfr. Luraghi, Tirannidi arcaiche, 92–94. Aristodemo, volendo fondare il proprio potere sul consenso delle classi meno abbienti, avrebbe espropriato i beni dei cumani più ricchi distribuendoli agli schiavi, cui donò anche la libertà ed il diritto di cittadi-

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nanza; cfr. D.H. Ant. Rom. 7.2–11; D.S. 7.10. Tuttavia, il racconto di Plutarco descrive un contesto cittadino di consenso verso il tiranno piuttosto generalizzato e non poggiato soltanto su una truppa di mercenari, condannati a morte e schiavi liberati, come riferisce Dionigi di Alicarnasso; tale quadro di consenso soltanto della parte “peggiore” della città al tiranno sembra tradire la pretesa di tante tradizioni storiche sui tiranni, secondo cui costoro avrebbero riscosso successo soltanto tra gruppi marginali e πονηρότατοι della cittadinanza. Per la retorica anti-tirannica frutto di rielaborazioni seriori sulle fonti del racconto di Dionigi di Alicarnasso cfr. Luraghi, Tirannidi arcaiche, 93. In merito alla tirannide di Aristodemo di Cuma cfr. M. Pallottino, “Il filoetruschismo di Aristodemo e la data della fondazione di Capua”, La Parola del Passato 47 (1956) 81–88; U. Cozzoli, “Aristodemo Malaco”, in Miscellanea greca e romana, Studi pubblicati dall’Istituto Italiano per la Storia Antica 16 (1965) 5–29; E. Manni, “Aristodemo di Cuma detto il Malaco”, Klearchos 25–28 (1965) 63–78; K.W. Welwei, “Die Machtergreifung des Aristodemos von Kyme”, Talanta 3 (1971) 44–55; Mele, “Aristodemo, Cuma”, 155–156; N. Luraghi, Tirannidi arcaiche in Sicilia e Magna Grecia da Falaride alla morte di Gelone (Diss., Roma, 1991) 46–110; Luraghi, Tirannidi arcaiche, 79–118. Rispetto a Dionigi di Alicarnasso, che poneva venti anni di distanza tra la battaglia di Aricia e la salita al potere di Aristodemo, Plutarco è più vago e riassuntivo, forse perché “not based upon an annalistic source” (Stadter, An analysis, 119), o soprattutto perché le specifiche vicende occorse nel frattempo non risultarono all’autore di particolare interesse narrativo nel contesto di riferimento, o la fonte da cui attinse accorciava il lasso di tempo intercorso tra i due eventi. Boulogne, invece, ha ritenuto la cronologia fornita da Dionigi di Alicarnasso “pour le moins surprenante”, considerando troppo ampio il lasso di tempo trascorso tra la battaglia di Aricia e l’inizio della tirannide di Aristodemo a Cuma; cfr. anche Boulogne, Plutarque, 311. Il tentativo di rendere effeminati i giovani cumani è riferito anche da Dionigi di Alicarnasso (Ant. Rom. 7.9.4). Questa atmosfera di inversione simmetrica dei sessi, più che una stravaganza dispotica, avrebbe avuto l’intento politico di indebolire il carattere dei sudditi, rendendoli più docili. Tale imposizione sarebbe stata forse il frutto di una “superfetazione tarda, intesa a spiegare il significato del soprannome del tiranno” (Luraghi, Tirannidi arcaiche, 98 ha ripreso la tesi di De Sanctis, Cozzoli e Berve), o piuttosto un’impronta dell’interesse di una certa storiografia ellenistica per la tryphe magnogreca. Se è

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probabile che Aristodemo avesse imposto ai giovani cumani uno stile di vita permeato di elementi orientali (successivamente connotati negativamente, quali sintomi di barbarie ed effeminatezza) consono a quello delle aristocrazie ioniche tardoarcaiche, o paragonabile al modus vivendi delle famiglie aristocratiche appena esiliate e assassinate (che probabilmente se ne servivano come elemento di differenziazione sociale), risulta meno plausibile che il tiranno intendesse creare una sorta di percorso di anti-ἀγωγή che impedisse ai giovani di riprendere le prerogative politiche e civiche dei genitori (in realtà la consacrazione nei templi di tutte le armi presenti in città era stata determinante per evitare rivolte a stretto giro). Nell’aneddoto ricordato da Plutarco si riconosce una spessa stratificazione di motivi letterari, influssi culturali e mode di varie epoche connesse a prese di posizione ideologiche codificatesi non solo negli ambienti anti-tirannici coevi, ma anche nelle rielaborazione successive delle cronache locali ad opera della storiografica posteriore. 603 Anche Dionigi di Alicarnasso (Ant. Rom. 7.9.4) menzionava le medesime imposizioni, mentre Ateneo (12.526) non le ascriveva ad Aristodemo. Boulogne, in collegamento con le celebrazioni degli Hybristika di Argo (storia 4, cfr. 245E7) e lo stratagemma adoperato dalle donne tirrene per far fuggire i mariti dalle carceri spartane (storia 8, cfr. 247BC), ha inteso tale abbigliamento dei giovinetti cumani quale spiegazione razionale di antichi riti di inversione sessuale incomprensibili all’autore; cfr. Boulogne, Plutarque, 312. Cfr. anche Plu. Sol. 8 e Pel. 11. 604 Si è in presenza di una lacuna originatasi in una fase alta, e non precisamente identificabile, della tradizione manoscritta pre-planudea, diffusasi fino ad uno stato avanzato della tradizione antica; ad individuarla per primo fu Xylander, e ad averla generata potrebbe essere stato un saut du même au même all’interno di un testimone antico di un certo rilievo, piuttosto che il progressivo deterioramento dell’archetipo ipotizzato da Nachstädt. La sezione di testo perduta probabilmente recava il nome della coraggiosa donna che contribuì in maniera decisiva, insieme a Senocrite, a liberare Cuma dalla tirannide di Aristodemo. Rinuccini, Amyot e Ridolfi riconobbero erroneamente (cfr. Mul. Virt. 262C6–8) Senocrite quale autrice dell’atto di virtù narrato a 262B2–6, mentre sono caratterizzate da eccessi di brevitas o di prolissità le integrazioni al testo proposte da Wyttenbach, Bernardakis, Babbitt e Pohlenz. 605 Risulta probabile che Aristodemo intendesse approntare un’opera di bonifica, forse nella zona paludosa del Clanis, eventualmente per mettere a coltura nuove terre o per venir incontro a richieste di distribuzioni terriere da parte degli strati inferiori della cittadinanza; Luraghi, Tirannidi

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arcaiche, 110 e nota 147. Tale episodio avrebbe subito una deformazione in chiave anti-tirannica dei lavori di bonifica, oppure tradirebbe una tradizione eziologica locale riecheggiata da Plutarco, interessata, forse, a chiarire l’origine di un monumento, quale poteva essere la fossa Graeca, menzionato da Livio a proposito dell’ager campanus durante la seconda guerra punica; cfr. Luraghi, Tirannidi arcaiche, 97. 606 Questa affermazione, sottintendendo un disprezzo per i cittadini non partecipi in prima persona della vita politica della città, sembra riassociare il concetto di libertà politica alla virilità oscurata artificiosamente (obbligando ostentati abbigliamenti effeminati ed orientalizzanti) nei giovani da Aristodemo, risvegliando nei cittadini una sorta di “maschiocentrico” desiderio di coraggiosa autodeterminazione democratica della polis. Nel frattempo, gli orfani esuli delle famiglie aristocratiche, forgiati dal lavoro nei campi, temprati nello spirito dalla fatica e dalle ristrettezze della povertà, si riorganizzarono a Capua per abbattere la tirannide di Aristodemo. Tuttavia, il fatto che il corpo civico cumano sia descritto in maniera piuttosto vaga, senza determinare la precisa estrazione sociale dei giovani costretti per imposizione ad abbigliamenti impropri (o forse al lusso e all’ostentazione) e il modo in cui potessero essere impiegati nel lavoro dei campi, mentre il grosso della popolazione, su cui il tiranno avrebbe dovuto poggiare il proprio consenso, potesse tollerare dispotismi e lavori forzati di tal genere, suggerisce che Plutarco avesse rimaneggiato una più ampia narrazione effettuata dalla propria fonte, senza esplicitare i rapporti tra i sostenitori e gli oppositori del tiranno nel contesto sociale cumano dell’epoca. 607 Francesco Filelfo descrisse l’autrice di tale gesto di sfida come una φρόνημος γυνή. 608 Luraghi, sulla scorta di Mele, ha qualificato l’orientamento politico della tradizione plutarchea come funzionale ad ambienti che avevano in un primo momento appoggiato e, successivamente, abbandonato la tirannide (Luraghi, Tirannidi arcaiche, 96 nota 80). In effetti, alcuni elementi, come la tendenza giustificativa che traspare dal racconto di Dionigi di Alicarnasso dell’ascesa al potere di Aristodemo, sembrano conservare una eco, per quanto filtrata e distorta, della versione dei fatti gradita al tiranno, che difficilmente avrebbe potuto sopravvivere, se non grazie all’apporto di ambienti e gruppi che si riconoscevano nelle istanze su cui aveva fatto leva il tiranno, e che, nel contempo, avevano mantenuto un peso tale, nella società cumana, da determinare in qualche misura l’immagine che essa aveva del proprio passato. Solo in tal modo la restaurazione aristocratica ha potuto condannare il regime tirannico, ma senza cancellare

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la memoria storica dell’origine di tale colpo di mano. Cfr. anche Luraghi, Tirannidi arcaiche, 109–110. Secondo Dionigi di Alicarnasso (Ant. Rom. 7.9.4), invece, i figli degli aristocratici cumani assassinati, che Aristodemo aveva reso pastori e braccianti schiavili, unitisi agli esuli cumani rifugiati a Capua e capeggiati dai figli di Ippomedonte (in passato commilitone in cavalleria e grande rivale di Aristodemo), attraverso uno stratagemma riuscirono ad allontanare le truppe lealiste da Cuma, ad entrare di nascosto in città e ad ammazzare il tiranno con tutta la sua famiglia, compresa la moglie (invece la compagna del tiranno, in Plutarco, è un’eroina complice dei tirannicidi, lodata ed onorata con il sacerdozio di Demetra), dopo averli torturati per tutta la notte. In proposito, cfr. anche Luraghi, Tirannidi arcaiche, 95. Il regime tirannico di Aristodemo non avrebbe resistito anche per la difficoltà di soddisfare le richieste pressanti dei ceti subalterni, e a causa della grande capacità di resistenza delle famiglie aristocratiche oppositrici. La morte di Aristodemo sarebbe da collocare, secondo A. Mele, nel 485 a.C. Questa affermazione sancisce quantomeno un’incongruenza con i principi di suddivisione enunciati nel proemio dell’opuscolo e alla fine della storia dedicata a Micca e Megisto (253E5–7): come già notato da Xylander, Cuma fu liberata dalla virtù di due donne, e questo contraddice o esula dal dettame pronunciato inizialmente dall’autore, che prevedeva un primo gruppo di episodi di virtù femminile collettiva ed una seconda sezione rivolta alla virtù individuale di donne. Cfr. anche Tanga, “Mulierum Virtutes: atti di virtù”, 83–96. Amyot, in un commento a margine, spiegava: “potius legendum videtur δυεῖν ἀρεταῖν γυναικός”. Il ruolo di Senocrite, ad avviso di Stadter, fu ideato e ritagliato da Plutarco sulla scorta di racconti precedenti, quali la leggendaria Tebe di Fere (tirannicida celebrata in particolare da Teopompo; cfr. FGrHist 115 F 337), oppure potrebbe rimandare alla tradizione di una famiglia sacerdotale, analoga a quella riguardante Teline (Luraghi, Tirannidi arcaiche, 97 nota 81; 120–124). Un parallelo tra la vicenda di Senocrite e quella di Lucrezia è stato instaurato da Mastrocinque e ritenuto del tutto impreciso da Luraghi; cfr. Luraghi, Tirannidi arcaiche, 97 e nota 81. Cfr. anche Le Corsu, Plutarque, 134–148. Per la σοφία nell’opera di Plutarco cfr. Frazier, Histoire et Morale, 210–213. Risulta convincente la scelta di Wyttenbach, che negò l’esistenza di un vitium huius loci, non riconoscendo la necessità di correggere il testo in παριέναι τῆς στρατείας, come proposto da Bryan, ma considerando παρεῖναι “et exquisitum et Plutarcho non infrequens”; cfr. Wyttenbach, Animadversiones, 17.

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616 Cfr. Hdt. 7.27–29; 7.38–39 e Polyaen. Strateg. 8.42 (dove la moglie di Pite è chiamata Πυθόπολις). Dal racconto erodoteo si sono originate, poi, le menzioni di Pite e le storie sul suo conto narrate in Sen. De ira 3.16.4; Plin. H.N. 33.10; Schol. ad Aristid. Panathen. 129.8 (III, p. 147 Dindorf); Basil. Sermo de legendis libris gentilium 8 (Migne, Patrologia Graeca 31, 585c); St.Byz. s.v. Pythopolis; Suidas s.v. Ἀπαρτίαν; Tzetz. H. 1.926–929; Eust. Commentarii ad Homeri Iliadem et Odysseam 2.865. Non è remota la possibilità che la storia di Plutarco si fosse originata indipendentemente dal testo di Erodoto, così come gli elementi in comune agli aneddoti erodotei riguardanti Mida, Creso e Pite lasciano pensare che la ricchezza e cultura delle regioni di Lidia e Frigia con gran probabilità incoraggiarono la creazione di simili leggende sui propri governanti. Per questo, forse, esistevano ancora altre versioni della vicenda di Pite, personaggio storico realmente esistito e intorno al quale “s’est créé toute une légende” (Boulogne, Plutarque, 312) ed altre ipotesi di plausibilità tutta da verificare. Macan ritenne Pite nipote di Creso; cfr. R.W. Macan, Herodotos, the seventh, eighth and ninth books (London: 1908) comm. ad Hdt. 7.27. Per C. Talamo egli apparteneva, forse, alla famiglia dei Mermnadi; C. Talamo, La Lidia arcaica. Tradizioni genealogiche ed evoluzione istituzionale (Bologna: 1979) 131; cfr. anche il recente contributo di G. Vanotti, “Pythios/Pythes e la moglie da Erodoto a Plutarco”, Anabases 18 (2013) 11–32, che propone un’ interessante analisi di Mul. Virt. 27 dedicata, tra l’altro, a delineare un equilibrato crescendo narrativo della storia e un ruolo di co-protagonisti per Pite e sua moglie. 617 Aly ha associato il tono novellistico e la connotazione ionica del nome di Pite alla storia del “re ghiottone” narrata da Xanto di Lidia (= FGrHist 765 F 18), proponendolo come ipotetica fonte di questo episodio del Mulierum Virtutes (Aly, Volksmärchen, 172–174); tuttavia Plutarco non cita mai questo autore, così come la gran mole di storici ionici perduti non aiuta ad identificare la fonte di questa ultima storia contenuta nell’opuscolo; cfr. Stadter, An analysis, 123. 618 Si è notato come l’ortografia del nome del personaggio lidio straordinariamente ricco (il più ricco dell’impero dopo Serse stesso; Hdt. 7.27) variasse dal Pythes (gen. Pytheo) di Plutarco, al Pythios di Erodoto (appellativo connesso con il culto di Apollo delfico), al Pythes (gen. Pythou) di Stefano di Bisanzio, al Pytheas dello Scol. ad Aristide, fino al Pythis di Plinio ed al Pythius di Seneca; cfr. Stadter, An analysis, 120 nota 315; N. Sekunda, “Changing Patterns of Land-Holding in the South-Western Border Lands of Greater Phrygia in the Achaemenid and Hellenistic Periods”, in A.H. Cadwallader–M. Trainor (eds.), Colossae in space and time. Linking to an ancient city (Göttingen: 2011) 49–51.

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619 Si tratta dello stesso personaggio (“aucun preuve ne permet de douter de l’historicité du personnage”; Boulogne, Plutarque, 312) descritto e chiamato Pythios da Erodoto e ritenuto erede, o discendente, di Creso (Pite era figlio del lidio Ati, unigenito di Creso; cfr. Hdt. 7.27) cfr. T. Leslie Shear, “The gold sands of the Pactolus”, Classical Weekly 17 (1924) 188. Tuttavia, il testo plutarcheo si mantiene completamente indipendente dal dettato erodoteo, assumendo dei marcati tratti di unicità: il Cheronese sembra trattare in maniera superficiale gli eventi già riferiti dallo storico di Alicarnasso, per concentrarsi particolarmente su altri elementi narrativi che sono “more folk tale than history” (Stadter, An analysis, 121), quali l’avidità smisurata ed ottusa di Pite, che impediva ai cittadini di svolgere altri mestieri al di fuori del lavoro in miniera, il pranzo allestito dalla moglie con pietanze dorate, e la rinuncia alla vita da parte del ricco lidio, che preferì attendere la morte rinchiuso in un mausoleo situato fuori città. A questi eventi nuovi, Plutarco aggiunge un moralistico tono di rimprovero ad un comportamento folle e riprovevole, la cui naturale conseguenza era la morte, o una vita privata di ogni significato e senza felicità. 620 La smodata passione di Pite per l’oro e l’ambientazione lidia dell’aneddoto hanno fatto pensare che questa storia plutarchea potesse essere una versione razionalizzata della più celebre leggenda di re Mida (Aly, Volksmärchen, 172–173). Figlio di Gordia e sovrano di Frigia, detentore di un maestoso giardino di rose di Macedonia (Hdt. 1.14.35–45; 8.138), Mida possedeva il dono di trasformare in oro tutto ciò che toccava (mito attestato per la prima volta in età augustea; cfr. Conone = FGrHist 26 F 1, 1 e Ovid. Met. 11.85–145). Forse la persistenza della leggenda poetica riguardante le sabbie aurifere dello Tmolo potrebbe essere parzialmente riconducibile all’argilla ricca di particole dorate utilizzata per la produzione di vasi a Sardi; cfr. Leslie Shear, “The gold sands”, 188. Per il controllo dell’oro in Lidia all’epoca della dinastia di Gige cfr. Talamo, La Lidia arcaica, 130–134, che ipotizzava la nascita della tradizione di questo episodio in un ambiente che conosceva bene i problemi amministrativi scaturiti dall’estrazione, trasporto e raffinazione del metallo dalle miniere. Per la leggenda di re Mida e per una sua probabile identificazione cfr. anche la lettura di Graves, Greek Myths, 167–169. 621 La ricchezza di Creso era molto probabilmente dovuta ai depositi auriferi presenti nel monte Tmolo e nelle sabbie del Pactolo; successivamente divennero sempre più difficili le operazioni di reperimento e pulitura del metallo dorato, rendendo le fonti da cui si attingeva utilizzabili non ancora per molto tempo (forse da questo traeva origine la leggenda del

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forsennato accanimento per l’estrazione dalle miniere a parte di Pite). In merito alla ricchezza di Pite cfr. Leslie Shear, “The gold sands”, 186–188; Roebuck, Ionian Trade, 88–89; Vanotti, “Pythios/Pythes”, 11–32. La ricchezza di Pite divenne successivamente proverbiale nell’antichità (cfr. anche Plin. H.N. 35.47), così come la rabbia di Serse da questi offeso (Sen. De ira 3.17). Per l’influenza dell’oro sull’uomo nell’arco della tradizione orale antica, a partire da Esopo e Conone, cfr. anche Trenkner, The Greek novella, 126–128. Stadter ricordava che “building programs are either castigated as devices of a tyrant to burden the people (cfr. Arist. Pol. 1313b21–25) or praised as munificent gifts and a beautification of the city” (cfr. Per. 12.3–6; Cim. 13.5– 7 et al.); Stadter, A Commentary on, 153. L’aneddoto è stato riscritto nel XII sec. in Progymnasmata 2.3 (Walz, Rhetores Graeci, 430–432; Garzya, Nicephori Basilacae) dal retore Niceforo Basilace, che, pur non ripetendo il nome di Pite, affermò la propria dipendenza da Plutarco, ascrivendo, però, l’episodio alle Vite Parallele (attribuzione, forse, indotta da una circolazione o fruizione in corpus unico di Vite e Moralia plutarchei nel contesto geografico-letterario in cui si mosse il retore, o perpetrato da una fonte sconosciuta tardoantica e perpetuato da Niceforo; cfr. Wyttenbach, Animadversiones, 18). Per Stadter l’attribuzione alle Vite era una imprecisione non sorprendente per un’opera di tal genere; cfr. Krumbacher, Geschichte, 473–475; Stadter, An analysis, 122 nota 319. Più probabilmente la citazione di Niceforo non è scorretta, poiché il retore, abile conoscitore dell’opera di Plutarco, faceva riferimento al breve richiamo alla vicenda di re Mida presente in Publ. 15. L’episodio potrebbe essere una leggenda nata dopo le guerre persiane, e l’eclisse, che secondo Erodoto ha preceduto il secondo incontro di Pite con Serse, dovrebbe essere avvenuta nel 478 a.C. Erodoto narra di una festa organizzata da Pite per le truppe persiane e di un platano ed una vite dorati donati in precedenza al re Dario. Il ricco lidio avrebbe poi offerto la propria smisurata ricchezza a Serse per finanziare la sua spedizione, ma il Gran Re rifiutò tale proposta, aggiungendo come regalo personale un’altra somma di denaro alle fortune di Pite (che ammontavano a 2000 talenti d’argento e 3993000 stateri d’oro) per fargli raggiungere il totale di quattro milioni di stateri; cfr. Hdt. 7.27–29; Vanotti, “Pythios/Pythes”, 11–32. In proposito, cfr. Plin. H.N. 33.47 (Pythis Bithyni, qui platanum auream vitemque nobiles illas Dario regi donavit, Xerxis copias … excepit epulo, stipendium quinque mensum frumentumque pollicitus, ut e quinque liberis in dilectu senectuti suae unus saltem concederetur).

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628 Cfr. Hdt. 4.84; Sen. De ira 3.17. 629 Stadter considerava priva di fondamento storico questa vicenda, alla stregua delle altre leggende create all’epoca sulla tirannia persiana (cfr. Stadter, An analysis, 124), mentre Boulogne, sulla scorta di un’antica pratica di purificazione pubblica riconducibile ad un contesto geografico beota, che prevedeva il passaggio tra le due metà di un cadavere tagliato a metà per accrescere le possibilità di successo in battaglia (Quaest. rom. 290D), vi ha riconosciuto un rito di propiziazione di carattere militare; cfr. Hdt. 4.84; 7.114. Cfr. anche A. Hauvette, Hérodote, historien des guerres médiques (Paris: 1894) 302; Vanotti, "Pythios/Pythes", 11-32. 630 La morte di tutti gli altri figli di Pite è un dettaglio decisivo aggiunto da Plutarco, che induce Pite ad uno stato di depressione permanente caratterizzato da estrema tristezza, delusione per il proprio operato, disgusto per la vita e incapacità di suicidarsi, che lo conducono a condannarsi ad una sorta di esilio volontario, lontano dalla vita pubblica. 631 Cfr. Per. 32.6. 632 Pite sembra ormai diventato l’ombra di se stesso e non dimostra un carattere forte (cfr. X. Cyr. 5.1.3); l’unica strada che gli pare percorribile è quella di attendere la morte in solitudine, lontano dalla famiglia e dalla città in cui regna. Dopo aver confidato soltanto nella ricchezza, anche nell’illusione di poter comprare, seppur a caro prezzo, persino la benevolenza del Gran Re e la salvezza di almeno un discendente, trovatosi allora senza i figli e privo di una continuità generazionale, non vede differenze tangibili tra una vita svuotata dagli affetti e la morte. Cfr. Pl. Phd. 68d; Plu. Cons. ad ux. 107A–110A. Questa storia del Mul. Virt. sembra configurarsi quale una sorta di fabula dai risvolti pedagogici e moraleggianti; Tanga, “Plutarco e le donne”, 111. Vanotti ha parlato di Pite come personaggio trasformatosi in una sorta di “anti-eroe”; Vanotti, “Pythios/Pythes”, 11–32. 633 La città della Caria (successivamente chiamata Nisa) ed il fiume che la lambiva (probabilmente il Meandro) prendevano probabilmente nome proprio dal re Pite, suo probabile fondatore; cfr. St.Byz. s.v. Πυθόπολις. Il regno di Pite, forse, aveva il centro presso Pitopoli e si estendeva fino a Celene, città della Frigia dove giunse ad accogliere il re Serse; cfr. Sekunda, “Changing Patterns”, 50. Altri, invece, avevano ritenuto Celene la vera località centrale del regno di Pite; cfr. J.M. Balcer, Sparda by the Bitter Sea: Imperial Interaction in Western Anatolia (Chico: 1984) 202. 634 La βᾶρις era un’imbarcazione dal fondo piatto, molto utilizzata soprattutto in Egitto. 635 L’aggiunta del ritiro di Pite nel mausoleo potrebbe essere opera di uno storico locale che attinse da materiale erodoteo inserendovi elementi leggen-

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note di commento

dari o romanzeschi, oppure tale vicenda godeva di una fortuna autonoma e indipendente dal racconto di Erodoto, cui fu successivamente riunita da Plutarco o dalla sua fonte; Stadter, An analysis, 123. 636 La moglie di Pite, protagonista occulta dell’episodio, riceve le redini del potere cittadino dal marito e lo esercita portando delle migliorie economiche e sociali all’insegna della moderazione e del buon senso, abolendo gli eccessi che avevano caratterizzato il regno del marito, e non tirandosi indietro davanti ad un incarico pubblico. Ella gioca un ruolo attivo e propulsivo in seno alla società, assumendo delle importanti responsabilità di governo che portano a cambiamenti positivi per la popolazione; cfr. Tanga, “Plutarco e le donne”, 111–112.

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Index verborum ad mulierum virtutem relatorum Introduz. ἀρετή 242E1 2 ἀρίστη 242E2–3 2 ἀγαθή 242E3 2 ἀρίστη 242F2–3 2 ἀρετή 243A1 2 ἀρετή 243B7 2 μεγαλοπραγμοσύνη 243C3 σύνεσις 243C3 4 φρόνημα 243C4 4 δύναμις 243C5 4 ἀρεταί 243C6 4 φίλανδρος 243D1–2 4 μεγαλόφρων 243D2 4 ἀνδρεία 243D3 4 φρόνησις 243D3 4 δικαιοσύνη 243D3 4

4

st. 15 γενναία 251A6 30 μεγαλόφρων 251A7 30 ἀρετή 252B4 32 ἀξίωμα 253C5 36 εὐγένεια 253E4 36 st. 16 δόξα 254A6 38 τιμή 254A7 38 st. 17 ἀρετή 254C2 38

st. 2 ἀρετή 244B1 6 st. 3 ἀρετή 245B2 10 θυμός 245B6 10 st. 4 ἔνδοξος 245C5 10 ὁρμή 245D2 10 τόλμα 245D3 10 ἀριστεία 245E5 12 st. 7 τιμή 247A2 16 εὐεργεσία 247A2 16 θάρσος 247A3 16 st. 11 εὐφυΐα 249C5–6 24 ἀρετή 249C6 24 εὐλάβεια 249C6 24 st. 12 εὐταξία 249D7

ἀρετή 250A3 26 ἀρετή 250D3 28 τόλμα 250D3–4 28 ῥώμη 250F1 28 τόλμα 250F1 28

24

st. 14 ὕβρις 250A3 26

st. 18 ἡρωικαὶ τιμαί 255D7 44 st. 19 ἀρετή 255E4 44 πρᾶξις 255E4 44 τόλμημα 256A6–7 44 τιμή 257A1 48 δύναμις 257A1 48 st. 20 ἀρετή 257E7–8 50 σώφρων 257E8 50 φίλανδρος 257E8 50 συνετή 257E8 50 μεγαλόφρων 257E8 50 ποθεινή 257E9 50 εὐμένεια 257E9 50 χρηστότης 257E9 50 st. 22 πίστις 258F4 54 φρόνημα 258F6 54 σύνεσις 258F6 54

index verborum ad mulierum virtutem relatorum st. 24 ἀξιωματική 260C2 60 γενναία 260C3 60 ἀρετή 260D3 60 st. 25 σώφρων 260F1 62 φιλάνθρωπος 260F1–2 62 φιλοφροσύνη 261A7 62 ἀξίωμα 261D1 64

πρᾶξις 261D3 64 σωφροσύνη 261D3 64 ἀνδρεία 261D4 64 st. 26 ἀρετή 262C6 66 st. 27 σοφή 262D5 68 χρηστή 262D5–6 68

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