Platone

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Roberto Radice (Busto Arsizio, 1947), già professore ordinario di Storia della filosofia antica all'Università Cattolica di Milano,

è condirettore delle collane «Temi

metafisici e problemi del pensiero antico•• e , rispose Cebete. «E t u cerca di concludere presto!» «Allora guarda» , disse, «Se le conseguenze che da questi po­ stulati derivano ti sembrano essere le stesse che sembrano a me. A me sembra che, se c'è qualcos'altro che sia bello oltre al bello in sé, per nessun' altra ragione sia bello, se non perché partecipa di questo bello in sé, e così dico di tutte le altre cose. Sei d'accordo su questa causa?» «Sì, sono d'accordo» , rispose. «Allora io non comprendo più e non posso più conoscere le altre cause, quelle dei sapienti ; e, se qualcuno mi dice che una cosa è bella per il suo colore vivo o per la figura fisica o per al­ tre ragioni del tipo di queste io, tutte queste cose, le saluto e le mando a spasso, perché, in tutte queste cose, io perdo la testa, e solo questo tengo per me, semplicemente, rozzarnente e for­ se ingenuamente: che nessun' altra ragione fa essere quella cosa bella, se non la presenza o la comunanza di quella bellezza i n sé, o quale altro sia i l modo in cui h a luogo questo rapporto: giacché sul modo di questo rapporto io non voglio ancora insistere, ma insisto semplicemente nell'affermare che tutte le 57

cose belle sono belle per la bellezza. Questa mi pare che sia la risposta più sicura da dare a me e agli altri; e, afferrandomi a essa, penso di non poter mai cadere, e che sia sicuro, e per me e per chiunque altro, rispondere che le cose belle sono belle per la bellezza. Non pare anche a te?» «Mi pare>> . «E non ti pare, anche, che tutte le cose grandi siano grandi per la grandezza, e che le maggiori siano maggiori sempre per la grandezza, e che le cose minori siano minori per la piccolezza?>> «Sh» . «Perciò, se qualcuno afferma che un tale è più grande di un altro per la testa e che il più piccolo è più piccolo ugualmente per que­ sto, non potresti ammetterlo, ma gli diresti francamente che tu non ammetti che una cosa sia più grande di un'altra per nessun'al­ tra ragione se non per la grandezza, e che per questa causa essa è più grande, precisamente per la grandezza; e che il più piccolo per nessun'altra causa è più piccolo se non per la piccolezza, e che per questa causa è più piccolo, precisamente per la piccolezza. «E diresti questo, temendo che, se tu dicessi che qualcuno è più grande o più piccolo per la testa, non ti si obiettasse, in primo luogo, che è impossibile che per la medesima cosa il maggiore sia maggiore e il minore minore, e, poi, che è altresì impossibile che per la testa, che è piccola, il maggiore sia maggiore, giacché sarebbe veramente un portento che una cosa fosse grande per causa di una cosa che è piccola. O non temeresti tu queste obiezioni?» «Sì)), disse Cebete ridendo. «E non temeresti anche» , soggiunse Socrate, «di affermare che il dieci è più dell'otto per il due e che per questa causa supera l'ot­ to, e non invece per la pluralità e a causa della pluralità? E che il bicubito è maggiore del cubito per la metà e non invece per la grandezza? Si tratta pur sempre dello stesso timore di prima» .

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«Certamente)) , rispose. «E allora, non ti guarderesti bene dal dire che, aggiungendo l' uno all' uno ovvero dividendo l'uno, l'aggiunzione o la divi­ sione sia la causa che fa diventare l'uno due? E non grideresti a gran voce che tu non sai come possa in altro modo generarsi alcuna cosa, se non partecipando di quella essenza che è pro­ pria di quella realtà della quale essa partecipa, e che, nel caso in questione, tu non hai altra causa per spiegare il nascere del due se non questa, cioè la partecipazione alla dualità, e, inoltre, che debbono partecipare di questa dualità le cose che vogl iono diventare due come dell'unità ciò che vuole essere uno, e sa­ luteresti e manderesti a spasso queste divisioni, queste aggiun­ zioni e tutte le altre ingegnose trovate, lasciando che le usino nelle loro risposte coloro che sono più sapienti di te, mentre tu, come si dice, temendo la tua ombra e la tua inesperienza, risponderesti nel modo che s'è detto, appoggiandoti alla sal­ dezza di questo postulato?))

I CARATTERI DELLE I D EE

Platone si era ben reso conto che la sua scoperta delle idee non era la conclusione di un ragionamento, ma l'inizio di una ricerca per giungere a una meta che sta oltre il sensibile, e anzi si pone come alternativa a esso. Infatti so/eva por/o nell'Iperuranio, cioè in un posto che sta sopra il cielo, dove, secondo la concezione di allora, non si trova nulla. Collocava insomma le idee quasi in un luogo che non c'è, perché in esso non vi è nulla di sensibile. Aperta la via del soprasensibile si pongono in sostanza due pro­ blemi: il primo è quali siano i caratteri propri delle idee, e il secondo come si distinguano dal mondo sensibile. 59

Proprio perché la seconda navigazione esprime un progetto di ricerca e non la conclusione di un ragionamento, ambedue i problemi impegnano Platone in molti dialoghi. In risposta alprimo, ilfilosofo individua come tratto essenziale delle idee l'Essere. Accadeforse per reagire all'opinione comune che considerava le idee come realtà inconsistenti: Platone sottolinea che esse, al contrario, sono la vera realtà, perché non nascono e non muoiono, non decadono e non si alterano. A risoluzione del secondo problema, Platone ne evi­ denzia il carattere intelligibile - non con l'o cchio fisico si colgono, ma con quello dell'intelletto - e di conseguenza quello d'essere invisibili e prive di qualità. Inoltre accenna al carattere della oggettività (ovvero perseità, ad esempio: il Bene per sé o in sé, il Giusto per sé o in sé) che è una rispo­ sta al relativismo dei sojìsti (Bene per me, Giusto per me), i quali ritenevano che ogn uno avesse il suo concetto di giusto, di bene e così via. In tal modo tutto ciò che attiene all'idea ha la garanzia dell'oggettività. LE I DEE SONO AF F I N I ALL:AN IMA « E allora» , riprese Socrate, «b isogna che facciamo a noi me­ desimi una domanda di questo tipo: qual è quella cosa alla quale si addice l'essere passibile di questo, ossia di dissipar­ si, e per quale cosa c'è da temere che subisca questo , e quale è invece quella cosa per la quale non c'è da temere nulla di ciò? E, dopo questo, dobbiamo considerare a quale di que­ ste due specie di cose l'anima appartiene, e , a seconda della risposta che otterremo, aver fiducia o temere per l'anima nostra » . « Dici bene » , rispose. «Orbene, ciò che è stato composto o che ha una struttura

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composta, non conviene che sia passibile di questo, cioè di andar soggetto a decomposizione, in quello stesso modo i n cui è stato composto ? E, se esiste qualcosa che non sia composto, non conviene a esso, più che a qualsiasi altro, il non andar soggetto a questo ? » «Mi pare che sia cosÌ» , disse Cebete. « E non è naturale che non composte siano soprattutto le cose che sono sempre identiche e che permangono sempre nella medesima condizione? E che, invece, composte siano quelle cose che sono sempre soggette a variazione e non permangono mai nella medesima condizione ? >> «Mi pare che sia cosÌ » . « Ora torniamo a quelle cose di c u i discorrevamo prima», disse Socrare. «La realtà in sé, quella realtà del cui essere noi diamo conto formulando domande e dando risposte, si trova sempre nelle medesime condizioni, o a volte in un modo e a volte in un altro ? L' Uguale in sé, il Bello in sé e ciascun'altra cosa che è in sé, insomma il puro essere , può mai subire in sé m utazione alcuna, di qualsiasi genere essa sia? Oppure ciascuna di queste cose che è in sé, essendo e uniforme e in sé e per sé, si trova sempre nella medesima condizione e non può subire mai, per nessuna ragione e i n nessun modo , alcuna alterazione?» « È necessario, o Socrate, che rimanga sempre nella m edesi­ ma condizione» , rispose Cebete. « E che diremo delle molte cose belle, come ad esempio uo­ mini, vestimenti , e di tutte le altre cose di questo genere, che designiamo come " belle" o come "ugual i " , e di tutte le altre cose che designiamo con lo stesso nome che han n o le cose in sé? Permangono sempre nella medesima condizio­ ne, o , proprio al contrario delle cose in sé, non sono mai identiche né rispetto a se medesime né rispetto alle altre e, 61

in una parola, non sono mai i n alcun modo nelle medesime condizioni ?)) «E proprio cosh) , disse Cebete. > . Socrate: «Ebbene, dimmi: vi è qualcosa che tu chiami affer­ mare il vero e il falso?» Ermogene: «SÌ». Socrate: « Pertanto, vi sarebbero un discorso vero e uno falso?» Ermogene: «Senz' altro». Socrate: «E quello che dice gli esseri come sono è vero, mentre quello che li dice come non sono è falso?» Ermogene: «SÌ». Socrate: «Allora, si può dire col discorso, sia ciò che è, sia ciò che non è?>> Ermogene: «Certo». Socrate: «Ma, forse, il discorso vero è tale nella sua interezza, mentre le sue parti non sono vere?>> Ermogene: >

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re: infatti, il ricercare e l'apprendere sono in generale un ricordare . «Non bisogna, dunque, prestar fede a quel discorso eristi­ co: esso, infatti, ci renderebbe neghittosi, e suona gradito agli orecchi degli uomini inetti; questo nostro, invece, rende operosi e stimola alla ricerca. Avendo fiducia che esso sia vero, desidero ricercare con te che cosa sia la virtÙ>> . Menone: «Sì, o Socrate, ma i n che senso t u dici questo: che noi non apprendiamo, ma che ciò che noi denomin iamo apprendimento è reminiscenza? Sapresti insegnarmi che è veramente così ? » Socrate: «Già prima dissi, o Menone, che s e i un furbac­ chione: ora mi domandi se so insegnarri , proprio m e ntre sto dicendo che non c'è insegnamento ma reminiscenza, evidentemente per farmi subito apparire i n contraddizione con me stesso>> . Menone: «No, per Giove, o Socrate, n o n l'ho detto con questo scopo, ma solo per abitudine; se, però , in qualche modo mi puoi dimostrare che la cosa sta così come dici , dimostramelo» . Socrate : «Ma non è facile; tuttavia , per te, sono disposto a farlo. Chiamami un po' uno dei tuoi numerosi servi che son qui, quello che vuoi tu, affinché su di lui ti possa dare la dimostrazione » . Menone: « Cerro. Vieni qui>> . Socrate: « È greco e parla greco? >> Menone: «Sì, perfettamente. È nato i n casa» . Socrate: « Fa bene attenzione, se ti sembra che si ricordi o che impari da me» . Menone: « Farò attenzione» .

[Menone, 80D-82B]

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COME FARE AFFIORARE LE NOZIONI I NNATE Socrate: «Che cosa ti sembra, o Menone? C'è qualche pen­ siero da lui espresso che non sia suo ? » Menone: « N o , tutti suoi » . Socrate: �� Eppure non sapeva, come dicevamo poco fa» . Menone: « Dici i l vero». Socrate: « E c'erano in lui questi pensieri o no?» Menone: «Sh . Socrate : «Dunque , in chi non sa, intorno alle cose che non sa, vi sono opinioni veraci che a esse si riferiscono?» Menone: «Sembra» . Socrate : «E ora in lui, come un sogno, sono state suscitate queste opinioni; e se lo si interrogasse di nuovo più volte e in molti modi, intorno a queste stesse cose, sta cerro che fi­ nirà per sapere con precisione, intorno alle medesime, non meno esattamente di chiunque altro » . Menone: « Pare d i sh . Socrate: « Dunque, egli saprà senza che nessuno gli insegn i , m a solo che lo interroghi, traendo egli stesso la scienza da se medesimo» . Ragazzo: « S Ì» . Socrate: « E questo trarre l a scienza d i dentro a s e medesi­ mo, non è ricordare? >> Menone: «Certamente» . Socrate: « E l a scienza che ora egli possiede, o la imparò u n tempo o l a possedette sempre » . Menone: « S ì » . Socrate: « Dunque, se la possedette sempre, fu anche sem­ pre conoscente; e se, invece, l'apprese un tempo, non poté cerro averla appresa nella presente vita. Oppure gli insegnò qualcuno geometria? Costui, infatti, farà lo stesso per tutta

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la geometria, e per tutte quante le altre scienze. C'è, forse, qualcuno che gli abbia insegnato tutto? A buon diritto tu devi saperlo: non per altro , perché è nato ed è stato allevato in casa tua» . Menone: «Ma lo so che nessuno gli ha mai insegnato » . Socrate: « E h a o n o n h a queste conoscenze ? » Menone: « Necessariamente, o Socrate, appare » . Socrate : « E allora, se non le ha acquistate nella presente vita, non è già evidente che le ebbe e le apprese i n u n altro tempo? » Menone: « È chiaro » . Socrate : E n o n è fo rse questo il tempo in c u i egli n o n era uomo? » . Socrate: «Se, dunque, sempre l a verità degli esseri è nel­ l a nostra anima, l'anima dovrà essere immortal e . S i cché bisogna mettersi con fiducia a ricercare e a ricordare ciò che attualmente non si sa: questo è infatti ciò che n o n si ricorda)> . Menone: « M i sembra che tu dica bene, o Socrate, m a non so come>> . Socrate: « E sembra anche a m e , o Menone . E p e r quan­ to riguarda le altre cose, sopra questo discorso non vorrei troppo insistere ; ma che, ritenendo che si debba far ricerca delle cose che non si sanno, diventiamo migliori, più forti 93

e meno inetti , che non se credessimo che sia impossibile trovare ciò che non sappiamo, e che quindi non se ne deb­ ba fare ricerca: intorno a questo io vorrei combattere , se ne fossi capace, con la parola e con l'opera». Menone: «Anche questo, o Socrate, mi sembra che tu dica bene» . [Menone, 8 5 C-86C]

LE CON SEG UENZE D ELL'ANAMNESI

L'esperimento maieutico esposto nel Menone (maieutico, nel senso che imita l'azione dell'ostetrica, in quanto "fa nascere" un concetto geometrico nella mente di un individuo ignaro di geometria) ha dimostrato che esiste una conoscenza innata di certe idee geometriche che gravitano intorno all'idea di uguale in sé, e che non si può cogliere con i sensi, dato che l'uguaglian­ za perfetta in natura non esiste. Tuttavia, Platone è convinto che nell'anima si trovino altre idee che non si colgono tramite l'esperienza, e queste sono non solamente di valore scientifico, ma anche morale. In quanto innate, sarebbero condivise da tutti gli uomini e ne costituirebbero l'essenza. ALL'ORI G I N E DELLA CONOSCENZA E DELLA MORALE Socrate: «Dunque, è necessario che noi abbiamo veduto l'u­ guale in sé prima di quel momento in cui, avendo visto per la prima volta cose uguali, abbiamo pensato che esse tendono, sì, tutte quante a essere come l' uguale in sé, ma, rispetto a esso, sono difettose».

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Simmia: « È cosÌ». «Ma anche in questo siamo d'accordo: che noi per la cono­ scenza di quello non siamo partiti e non possiamo partire da altro, se non da un vedere o da un toccare o da qualunque al­ tra percezione sensoriale tu voglia, giacché non fa differenza» . > . « E non è forse vero che incominciamo subito a vedere e a udire e a usare gli altri sensi non appena siamo nati ? » «Certo!>> «E non abbiamo anche detto che, prima ancora di avere sen­ sazioni, bisognava che noi avessimo appreso la conoscenza dell' uguale in sé?>> «Sh» . « D unque, prima d i nascere, come sembra, è necessario che noi fossimo in possesso di quella conoscenza» . «Sembra» . «Orbene, se, avendo appresa prima della nascita questa co­ noscenza, nascemmo possedendola , noi conoscevamo , pri95

ma che nascessimo e subito dopo nati , non solo l' uguale, il maggiore e il mi nore, ma anche tutte le altre realtà di questo genere. Infatti, il ragionamento che ora stiamo facendo non vale solo per l' uguale in sé, ma anche per il bello in sé, per il buono in sé, per il giusto in sé, per il santo in sé e per ciascu­ no degli altri esseri, come io dico, ai quali noi, domandando nelle nostre domande e rispondendo nelle nostre risposte poniamo il sigillo dell' essere in sé. Pertanto, è necessario che noi abbiamo appreso le nozioni di tutte queste cose prima di nascere)) . > . « Dunque, a quanto pare, la prima cosa d a fare è tener d'oc­ chio gli ideatori delle favole: quando ne inventassero una bella la approveremmo, in caso contrario la scarteremmo. E poi ci toccherà far opera di convincimento presso le madri e

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le nutrici, perché raccontino ai loro piccoli le favole ammes­ se, in modo da plasmare con esse le loro anime, molto più che, con le mani, i loro corpi. I nvece, delle favole che oggi si raccontano, parecchie sarebbero da buttare». «Di quali parli?», chiese. «Nelle grandi favole» , dissi, > E io risposi : «Questa accusa va loro addebitata, ed essa è la più grave e la più pesante, tanto più se uno non sa i nventare come dovrebbe». «Di che si tratta?>> «Quando uno nel descrivere la natura degli eroi e degli dei, la raffigura in maniera errata, come se un pi ttore dipingesse immagini per niente simili al modello che ha in mente>> . « È giusto>> , ammise, « i l rimprovero che muovi a tal i azion i . Ma quali miti dovremmo raccontare e i n che modo? >> «In primo luogo», incominciai a dire, . «Effettivamente)) , riconobbe, «questi sono discorsi scabrosi)) . «E nella nostra città)), aggi unsi, «non andranno fatti, caro Adimanto. E tanto meno andranno riferiti a un giovane, perché in tal modo egli si sentirebbe ripetere che non c'è nessuno scandalo a commettere iniquità, anche le più gravi, e che neppure ce ne sarebbe a punire con qualsiasi mezzo il proprio padre quando le abbia commesse, perché in tali casi non farebbe che seguire l'esempio dei primi e sommi dei )). «No, per Zeus)) , esclamò, « neppure a me sembrano discorsi da fare)) . «E poi)) , ripresi, «se davvero vogliamo che i futuri custodi della ci ttà ritengano assolutamente negativo l'azzuffarsi fra loro per futili motivi non bisogna neppure sostenere - an­ che perché il fatto non corrisponde a verità - che gli dei si combattono e tramano l'uno contro l'altro, alimentando reciproche contese. E inoltre facciamo di tutto per evitare a loro racconti o rappresentazioni di gigantomachie, o di epi­ sodi in cui dei o eroi si dimostrano ostili ai propri congiunti o parenti; se invece in qualche misura volessimo i nculcare l' idea che mai nessun cittadino ha avuto motivi di attrito con un altro ci ttadino, perché ciò sarebbe un'azione illeci­ ta, toccherebbe ai vecchi e alle vecchie il compito di dire ciò fin dall'inizio ai bambini. E poi, quando giovani si sian fatti adulti , toccherebbe ai poeti creare racconti dello stesso tenore. E le catene di Era impostele dal figlio, e l'episodio

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di Efesto precipitato dal padre, mentre accorre in difesa del­ la madre percossa, e anche le battaglie fra dei inventate da Omero, non devono aver posto nel nostro stato, né se siano fatte in senso allegorico, né se non lo siano. In effetti i giova­ ni non sono in grado di distinguere il significato allegorico da quello letterale, e d'altra parte l'opinione che si fa a quel­ la età, risulta poi immodificabile e difficile da correggersi . Per questo motivo, sarebbe della massima importanza che i primi racconti che recepiscono siano finalizzati alia virtù, quanto meglio è possibile» . «Ciò effettivamente non manca di logica» , ammise. «Ma se qualcuno chiedesse quali siano questi discorsi e quali i miti, che avremmo da dire?» Al che gli risposi: « Caro Adimanto, almeno fino a oggi , né io né tu siamo poeti , ma fondatori di uno stato; e chi fonda uno stato non è tenuto a ideare lui stesso dei racconti mi­ tologici, ma ad averne chiare i n mente le l inee direttive , at­ tenendosi alle quali i poeti avranno da costruire i loro miti. E anzi, a loro non sarebbe neppure permesso di comporre opere che esulino da questi orientamenti » . «Va bene» , disse, «ma tali direttive i nerenti la teologia quali potrebbero essere?» «Più o meno», risposi: « come dio si trova a essere, così an­ drebbe sempre raffigurato, sia che lo si faccia in versi epici , o lirici, o nel testo di una tragedia» . « È necessario>> . « Dunque, siccome nella realtà dio è buono, così va raffigu­ ratO>> . «Come no?» «Ma non c'è bene che sia nocivo; o non sei d i quest'avviso ? » « A me n o n sembra» . « E potrebbe mai ciò che non è nocivo recar danno? » 107

«Assolutamente no» . «E ciò che non reca danno potrebbe fare del male?» «Neppur questo è possibile» . «E ciò che non fa male potrebbe essere all'origine di un qual­ che male?» «E come potrebbe?» «E il bene non è forse qualcosa di utile?» «Sì » . « È causa di benessere?» «Allora dal bene non deriva ogni cosa, bensì esso è causa solo di effetti positivi, e di quelli negativi non è causa» . «Assolutamente» , disse lui. «Di conseguenza>> , continuai, «dio, in quanto è buono, non potrebbe essere responsabile di tutti gli avvenimenti, come i più sostengono; al contrario, delle vicende umane solo una minima parte gli può essere addebitata, della maggior parte, invece, è incolpevole. Per noi uomini, infatti , i beni sono molto più scarsi dei mali, e se dei primi non si deve trovare nessun'altra causa al di fuori di dio, dei secondi ne andrà assolutamente trovata un'altra che non sia dio». «Quel che sostieni sembra assolutamente vero», disse. [Repubblica, III, 377A-379B]

L'AN IMA È COME UNA BIGA ALATA Socrate: «Sulla immortalità dell'anima abbiamo detto a suf­ ficienza. «Sull'idea di anima dobbiamo dire quanto segue. «Spiegare quale sia, sarebbe compito di una esposizione divi-

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na in tutti i sensi e lunga; ma dire a che cosa assomigli, è una esposizione umana e piuttosto breve. Parliamone, dunque, in questo modo. «Si pensi l'anima come simile a una forza per sua natura composta di una biga a due cavalli e di un auriga. «I cavalli e gli aurighi degli dei sono tutti buoni e derivati da buoni, invece quelli degli altri sono misti. «In primo luogo, i n noi l'auriga guida una biga a due cavall i ; inoltre, dei due cavalli, u n o è bello e buono e derivante da belli e buoni; l'altro, invece, deriva da opposti ed è opposto. Difficile e disagevole, di necessità, per quel che ci riguarda, è la guida del carro. «Ora, bisogna cercare di dire in che senso il vivente è stato chiamato mortale e immortale. «Ogni anima si prende cura di tutto ciò che è inanimato. Essa gira per tutto il cielo, ora i n una forma, ora i n un'altra. Quando essa è perfetta e alata, vola in alto e governa tutto quanto il mondo. Ma una volta che abbia perduto le ali , vie­ ne trascinata giù fino a quando non si aggrappi a qualcosa di solido, e, trasportata la sua dimora in esso, e preso un corpo terroso, per la potenza di essa questo sembra m uoversi da sé. L' i nsieme, ossia l'anima e il corpo a essa congiunto, fu chiamato vivente ed ebbe il soprannome di mortale. «Il termine immortale non può essere spiegato sulla base di un solo discorso razionale; ma, senza conoscerlo e intenderlo in modo adeguato, noi ci figuriamo un dio, un essere vivente e im­ monale, che ha un'anima e un corpo eternamente connaturati. «Ma di queste cose si pensi e si dica come piace al dio. «Cerchiamo invece di comprendere la causa della caduta delle ali , per cui esse si staccano dall'anima. «Una causa è la seguente » .

[Fedro, 246A-D] 109

LE AN IME DIVINE CHE NON S I INCARNANO MAI E LE ANI M E UMANE Socrate: «La potenza dell'ala per sua natura tende a portare in alto ciò che è pesante, sollevandolo là dove abita la stirpe degli dei , e in certo senso partecipa del divino più di tutte le cose che riguardano il corpo. «E il divino è ciò che è bello, sapiente e buono e tutto e ciò che è di questo tipo. «Appunto da queste cose le ali dell'anima vengono nutrite e accresciute in grado supremo; invece, dalla bruttezza, dalla malvagità e da tutti i contrari negativi esse vengono guastate e mandate in rovina. «Zeus, il grande sovrano che sta in cielo, conducendo il carro alato, è il primo a procedere, ordina tutte quante le cose e si prende cura di esse. A lui tien dietro un esercito di dei e di demoni, ordinato in undici schiere. Infatti , nella casa degli dei rimane Estia da sola. Quanto agli altri dei, quelli che sono sta­ ti posti come capi in questo numero di dodici, guidano, cia­ scuno, la loro schiera, nell'ordine secondo cui sono stati scelti. Molti e beati sono, dunque, le visioni e i percorsi dentro il cielo, che compie la stirpe degli dei beari, mentre ciascuno di questi adempie il proprio compito. «Tien dietro agli dei chi sempre lo vuole e ne ha la capacità: infatti, l'invidia rimane fuori del coro divino. «Quando essi vanno a banchetto per prendere cibo, procedono per l'ascesa fino a raggiungere la sommità della volta del cielo. «Là i veicoli degli dei, che sono ben equilibrati e agili da guidare, procedono bene; gli altri, invece, procedono con fatica. Il caval­ lo che è partecipe del male, infatti, cala, piegando verso terra e opprimendo quell'auriga che non abbia saputo all evarlo bene». [Fedro, 246D -247B]

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L I PERURAN IO, LUOGO D ELL E REALTÀ AL D I SOPRA DEL CIELO Socrate: «Qui all'anima si presenta la fatica e la prova suprema. « > Critone: «Credo bene che ci sia, o Socrate» . [ Critone, 46B-47D]

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L'I NTELLETTUALI SM O DEL LA MORALE Ateniese: «D'altra parte, per quanto riguarda quelli che non sono irrimediabilmente malvagi, bisogna innanzi tutto rico­ noscere che nessun uomo malvagio fa il male di proposito, perché è evidente che nessuno, in nessuna circostanza può scegliere in piena coscienza qualcuno dei mali più gravi, tanto più se riguarda realtà che per lui sono particolarmente pre­ giate. Ma noi abbiamo sostenuto che, in verità, è l'anima il bene più di ogni altro prezioso, sicché è logico che nessuno coscientemente possa accogliere proprio nel bene più prezioso che ha il male peggiore e, una volta accoltolo, possa condi­ videre con esso tutta la vita. L'uomo vizioso poi è davvero da commiserare, come uno che sia vittima di una qualche sciagura. O meglio, è giusto aver compassione di chi è ancora redimibile e in tal caso si dovrà trattenere lo sdegno e mante­ nere la calma, onde evitare di fare la figura di una donnicciola serbando un carattere scontroso e un animo esacerbato. Ma quando abbia a che fare con uomini viziosi e con peccatori incalliti e irrecuperabili, allora bisogna dar libero sfogo alla propria ira. Ecco perché noi sosteniamo che l'uomo buono deve essere un tempo irruente e paziente». [Leggi , V, 73 1 C-D]

CONTRO IL PIACERE

Il privilegio concesso alla ragione anche in campo etico comporta la superiorità dell'anima, rispetto al corpo. O, per dirla in altri termini, porta a un deprezzamento della dimensionefisica dell'uo­ mo: all'inizio molto accentuato, poi via via più attenuato. Grigi127

nariamente questa tendenza assunse la fonna dell'antiedonismo, cioè dell'avversione alpiacere, e concepì la filosofia come una fuga dal corpo, quasifosse un esercizio di morte. A questo atteggiamento si lega anche la condanna dell'arte, colpevole di far leva sull'emo­ tività dell'uomo e di allontanare dalla verità, per ilfotto di essere solamente imitativa senza conoscere a fondo ciò che imita. Socrate: «Coloro che amano il sapere sanno che la filoso­ fi a, prendendo la loro anima in teramente legata ai lacci del corpo e a esso congi unta, costretta a considerare l ' es­ sere puro attraverso il corpo come attraverso una prigio­ ne, non da se stessa e per se stessa, è avvolta i n ogni forma di ignoranza; e avvedendosi che la cosa più tremenda del carcere consiste nelle pass ioni del corpo, i n quanto chi è legato contribuisce lui stesso in sommo grado a farsi avvinghiare; ebbene, come di cevamo, questi uom i n i che amano il sapere sanno che la filosofia, prendendo la loro anima che si trova i n tale condizione, dà a essa consiglio e cerca di discioglierla, dimostrando che l' i ndagi ne che si conduce mediante gli occhi è piena di i ngann i e così anche l ' i ndagine che si conduce mediante gli orecch i e gli altri sens i , persuadendola ad abbandonare questi , se non per quel tanto che è necessario far uso di ess i , ed esor­ tandola a raccogl iersi e a concentrarsi tutta i n se stessa e a non credere a nient'altro se non a se stessa e a tenere per vero solo ciò che essa da sé i n tende e da sé sola, quale che sia fra gli esseri puri che sono i n sé e per sé quello che essa vogl ia di per sé pensare, e a non credere i n n ulla vero ciò che vede con altri mezzi e che con t i n uamente muta col mutare delle ci rcostanze, perché mentre questo è sensibile e visibile, ciò che i nvece essa da se medesi m a vede è i n telligibile e d eterno. E l ' a n i m a d e l vero filosofo,

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non ri tenendo di dover co ntrastare a questa l iberazione, si as tiene dai piaceri, dai desideri e dalle paure il p i ù pos­ sibile, considerando che colui che si lascia prendere ol tre mis ura dai piaceri o dai timori o dai dolori o dalle pass io­ ni non riceve un male così grande come se si ammalasse, o cons umasse parte delle sue sostanze per soddisfare alle sue passioni, ma riceve il male p i ù grande che si possa immaginare, e non se ne rende co n to » . « E quale è questo male, o Socrate ? » , disse Cebete. « È che l ' anima del l ' uomo, provando un forte piacue o un forte dolore a causa di qualche cosa, è spinta per questo a credere che ciò che le fa provare queste sue affezi o n i sia concretissimo e verissimo, mentre non è così . Ora, questo ci accade specialmente con le cose visi b i l i . O n o ? » « Certamente » . « E n o n è forse p e r queste s u e affezioni c h e l ' anima è so­ prattutto legata al corpo ? » « E perché ? » « Perché o g n i piacere e o g n i dolore, come se avesse u n chiodo, inchioda e conficca l ' anima a l corpo e l a fa diven­ tare quasi corporea e le fa credere che sia vero ciò che il corpo dice essere vero. E da questo avere le stesse o p i n io­ n i del corpo e da questo suo godere degli stessi godi menti del corpo, io penso , è costretta anche ad acquistare gli stessi modi e le stesse tendenze del corpo, e quindi a di­ ventare tale da non poter giungere pura all'Ade; ma usci rà dal corpo tutta piena di desiderio corporal e , cosicché ca­ drà subito n uovamente in un altro corpo , e, come se fosse semenza, ivi germoglierà, e, per questo , non potrà mai avere in sorte la p artecipazione all ' essere divi n o , puro , uniforme» .

[Fedone, 82E-83E] 129

F I LOSOFIA ESERCIZIO DI MORTE «Sembra che ci sia un sentiero che ci porti, mediante il ra­ gionamento, direttamente a questa considerazione: che, cioè, fino a quando noi possediamo il corpo e la nostra anima resta invischiata in un male siffatto, noi non raggiungeremo mai in modo adeguato ciò che ardentemente desideriamo, vale a dire la verità. Infatti il corpo ci procura innumerevoli preoccupa­ zioni per la necessità del nutrimento; e poi le malattie, quan­ do ci piombano addosso, ci impediscono la ricerca dell'esse­ re. Inoltre, esso ci riempie di amori, di passioni, di paure, di fantasmi di ogni genere e di molte vanità, di modo che, come suol dirsi , veramente, per colpa sua, non ci è neppure possi­ bile fermare il nostro pensiero su alcuna cosa. Infatti guerre, tumulti e battaglie non sono prodotti da null' altro se non dal corpo e dalle sue passioni. Tutte le guerre nascono per brama di ricchezze, e le ricchezze noi dobbiamo di necessità pro­ cacciarcele a causa del corpo, essendo asserviti ai bisogni del corpo. E così noi siamo distolti dalla filosofia, per tutte queste ragioni. E la cosa peggiore di tutte è che, se riusciamo ad ave­ re dal corpo un momento di tregua e riusciamo a rivolgerei alla ricerca di qualche cosa, ecco che, improvvisamente, esso si caccia in mezzo alle nostre ricerche e, dovunque, provoca turbamento e confusione e ci stordisce, sì che, per colpa sua, noi non possiamo vedere il vero. Ma risulta veramente chiaro che, se mai vogliamo vedere qualcosa nella sua purezza, dob­ biamo staccarci dal corpo e guardare con la sola anima le cose in se medesime. E allora soltanto, come sembra, ci sarà dato di raggiungere ciò che vivamente desideriamo e di cui ci di­ ciamo amanti, vale a dire la conoscenza suprema: cioè quando noi saremo morti , come dimostra il ragionamento, mentre, fin che si è vivi, non è possibile. Infatti, se non è possibile

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conoscere nulla nella sua purezza mediante il corpo, delle due l'una: o non è possibile raggi ungere il sapere, o sarà possibile solo quando si sarà morri: infatti, solamente allora l'anima sarà sola per se stessa e separata dal corpo, prima no. E nel tempo in cui siamo in vita, come sembra, noi ci avvicineremo tanto più al sapere quanto meno avremo relazioni col corpo e comunione con esso, se non nella stretta misura in cui vi sia imprescindibile necessità, e non ci lasceremo contamina­ re dalla natura del corpo, ma dal corpo ci manterremo p uri, fino a quando dio stesso non ci abbia sciolto da esso. E, così , liberati dalla stoltezza che ci viene dal corpo, come è verosi­ mile, ci troveremo con esseri puri come noi e conosceremo, nella purezza della nostra anima, rutto ciò che è puro: questa è forse la verità. Infatti a chi è impuro non è lecito accostarsi a ciò che è puro» . [Fedone, 66B-67B]

POESIA E F I LOSOFIA

L'incidenza delle idee nel mondo umano è davvero pervasi­ va, poiché coinvolge tanto la funzione cognitiva quanto quella morale. Ma non si esaurisce in questo: la morale per Platone e per i Greci non ha come limite l'i nteriorità dell'u omo, ma il suo fine nella pedagogia e nella società politica. Tutto ciò che non è intelligibile non può entrare nella cultura condivisa e non può far parte della città ideale. Questo spiega l'avversione del primo Platone per l'arte poetica. Ma nello stesso tempo la politica è considerata un'estensione della psicologia e dell'etica, tanto è vero che per Platone esiste una città interiore (lo stato ideale) e una città esteriore (lo stato reale). M11 è in questo 131

campo che l'u omo si realizza pienamente, ed è qui che le idee concludono il loro dominio: prima nella natura, poi nell'i n­ teriorità dell'u omo e infine nel mondo umano e nella storia. LA RETORICA COME DISSIMULAZI ONE La distinzione fra arte e pratica

Socrate: «Non mi pare che la culinaria sia un'arte ma una pratica, mentre un'arte è la medicina; e dicevo che l' una, la medicina, ha indagato la natura di ciò cui essa rivolge la sua cura e la ragione di ciò che fa ed è quindi in grado di rendere conto di ciascuna di queste cose; invece l'altra, quella che riguarda il piacere, e che al piacere rivolge tut­ ta la sua cura, si di rige a esso in modo del tutto cas uale, senza prima indagare la natura del piacere né la causa di esso, in maniera del tutto irrazionale, senza nulla calcolare, ma solamente conservando con la pratica e l'esperienza il ricordo di ciò che suole avvenire, e in tal modo procu­ ra i piaceri . Esamina dunque, in primo luogo, se ti pare che queste cose siano state dette i n modo appropriato e se anche nei confronti dell'anima ci siano altre attività dello stesso genere, le une aventi il carattere dell' arte, in quanto provvedono al bene dell'anima, le altre, invece, incuranti di questo, e protese solo a ricercare, come nell' altro caso, il piacere dell'anima, e il modo di poterlo ottenere; e a proposito dei piaceri , quali siano migliori e quali peggiori , non i ndagano, perché a loro non i mporta altro che di pro­ durre piacere, sia esso bene o sia male. A me, Callide, pare che ce ne siano e affermo che questo tipo di attività è una lusi nga o del corpo o dell'anima o di qualunque altra cosa in cui si prociuca piacere , senza considerazione del meglio

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e del peggio. Ora, condividi anche tu questo nostro parere intorno a tali cose, o hai qualcosa da obiettare ? » Callide: «Io no, m a t e l o concedo perché i l tuo discorso giun­ ga a conclusione e per fare piacere a Gorgia)) . Socrate: «Forse questa lusinga si rivolge a un'anima sola, e non a due o a molte insieme?» Callide: «No, ma anche a due e anche a molte insieme» . Socrate: « Dunque, è possibile procurare piacere anche a molte persone insieme senza curarsi di ciò che è il loro bene?• Callide: «Credo di sÌ» . Socrate: « M i sai dire, allora, quali sono l e attività che produ­ cono questo? O piuttosto, se desideri, ti interrogo io, e tu, se qualcuna ti sembra che rientri fra queste, di' di sì, e se non ti sembra, di' di no. Esaminiamo in primo luogo l'auletica. Non ti pare che essa sia tale da avere di mira solo il nostro p iacere, e che non si curi d'altro?» Callide: «Mi pare di sÌ» . [ . . . ] [ Gorgia, SOOE-5030] Anche l'Epica è una specie di retorica

Socrate: « E quest'arte solenne e meravigliosa che è la poesia tragica a quale fine tende? Non ti pare che il suo sforzo e il suo i mpegno altro non siano se non quelli di far piacere al pubbli­ co? Oppure ti pare che essa si sforzi di fare in modo che non si dica ciò che può fare piacere ed essere gradito al pubblico ma che può essere dannoso, e che si dica e si canti ciò che è sgradevole ma giovevole, sia che il pubblico provi piacere, sia che no? In quale di questi due modi ti pare che si comporti la poesia tragica?» Callide: « È chiaro, o Socrate, che essa tende maggi ormente a piacere al pubblico e a divertirlo» . 133

Socrate: «Ma non abbiamo detto poco fa, o Callide, che que­ sto genere di attività è una lusinga?)) Callide: «Certamente)) , Socrate: «Ebbene, se si togliessero da tutta la poesia la mu­ sica, il ritmo e il metro, che cosa rimarrebbe se non dei puri discorsi?)) Callide: «Necessariamente)) , Socrate: «E questi discorsi non si tengono davanti a numerosa folla e al popolo?)) Callide: «Sì)), Socrate: . «Va bene», disse. « E poi)) , aggiunsi, «non è forse vero che queste facoltà farebbe­ ro l'interesse dell'anima e del corpo custodendoli dai nemici esterni nel modo migliore, l' una con la sua capacità di decide-

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re, e l'altra con la sua capacità di combattere e la disponibilità a obbedire alla parte che comanda, dando coraggiosamente esecuzione alle sue deliberazio ni?» « È davvero cosÌ». «A mio giudizio, quindi, ciascuno sarà detto valoroso sulla base di questa parte dell'anima; e ciò avverrà quando la sua facoltà irascibile riuscirà a mantenere intatto nel dolore e nei godimenti il criterio proclamato dalla ragione di ciò che va temuto e di ciò che non va temuto». « Ben detto». «E così pure uno sarà sapiente per la piccola parte che in lui svolge funzioni di comando, impartendo quelle disposizioni di cui si è detto, grazie al fatto che proprio essa possiede la scienza per riconoscere l' utile di ciascuna parte e dell'insieme costituito dalle sue tre parti». « Indubbiamente» «E poi l'uomo non sarà temperante grazie all'armonia e all'ac­ cordo di queste medesime facoltà, quando, da un lato la parte egemone, dall'altro le due sottomesse concordano nel ritenere che si debba obbedienza alla ragione e non mai ribellarsi a essa? •• « Del resto» , osservò lui, «la temperanza sta esattamente i n questo, sia a livello di stato che di singolo individuo » . «Infine, un uomo sarà giusto nello stesso modo e alle stesse condizioni che più di una volta abbiamo espresso» . «Non potrebbe essere altrimenti» . «E che?», obiettai. «C'è forse qualcosa che ci appanna l a vista nel trattare della giustizia, sì che essa ora non ci appaia più come era nella città?» « Direi di no», rispose. «E in effetti» , notai, «se ancora ci fosse nella nostra anima un'ombra di dubbio, potremmo definitivamente cancellarla adducendo prove del tutto evidenti». 149

«Quali?» «Supponi che si debba dare un giudizio comune su questa cit­ tà e sul cittadino generato e allevato in conformità con le sue leggi; ebbene, ti sembra questo il tipo da non voler restituire un deposito d'oro o d'argento che abbia ricevuto? O non pen­ si che a ritenerlo capace di far ciò sia piuttosto chi è di natura diversa dalla sua?» «Certo, nessun altro», ne convenne. «E allora anche riguardo al sacrilegio, al furto, al tradimento, nella cerchia degli amici o, pubblicamente, nei rapporti con le istituzioni, quest'uomo sarebbe al di sopra di ogni sospetto?» «Senz'altro, al di sopra di ogni sospetto)) . «E così egli non potrebbe neppure mancare alla parola data, o a suggello di un giuramento, o di altri patti)) . «E come potrebbe?)) «Alla stessa maniera non c'è persona a cui meno si addicano l'adulterio, l'abbandono dei genitori, la trascuratezza nel ren­ der il culto agli dei». «Decisamente)) , disse. [Repubblica, IV, 44 1 C-443A]

L'anima sta all'u omo come la morale sta allo stato: vale a dire che se si perde l'o rdine statua/e tutto va perso, tanto la salute dell'anima quanto quella del cittadino. Ma: lo stato soffre ogni volta che la sua coesione e la sua unità sono messe alla prova. In tal caso si allenta l'educazione, si affievoliscono i vincoli sociali; sconosciuti desideri e passioni si presentano e portano alla ricerca del piacere e all'egoismo. Qui, nell'egoismo, morale e politica muoiono insieme. Lo stato ideale, in quanto perfetto, non deve essere mai riformato: esso, in verità, non ha storia perché nelle idee - a cui con la mediazione del filosofo-reggitore si ispira -, 150

nulla cambia, esattamente co me avviene nei teoremi della geometria. Lo scopo sarà allora quello di istituire una costituzione che impedisca all'o rigine qualsiasi egoismo, togliendo di mezzo ogni forma di tentazione. Platone non ha dubbi a questo pro­ posito e ritiene che i semi dell'egoismo si trovino nella famiglia e nella ricchezza, e quindi decide di ''socializzare " ambedue. Per essere precisi, il filosofo crede che avidità e fomilismo si cancellerebbero una volta per tutte se alla molteplicità t/elle famiglie si sostituisse una sola famiglia - quella della cit­ tà-stato -, e alla proprietà individuale si sostituisse quella collettiva - da qui il concetto di comunismo platonico -, e oltre a ciò si giunga a una totale parificazione dei diritti/ doveri degli uomini e delle donne. A queste condizioni si rea­ lizza una completa unità dello stato e quindi la sua assoluta saldezza per il bene di tutti. Bisogna però notare che tale unità costa un impegno con­ siderevole, in fotto di prevenzione, di censura e di repressione, che pesa sulle spalle dei filosofi-reggitori e sulla classe dei mili­ tari. Questi ultimi sono fisicamente impegnati a garantire la sicurezza dai nemici esterni e da quelli interni, che, con idee o iniziative irrazionali, potrebbero incrinare l'o rdine dello stato. Insomma Platone, insieme alla città ideale, ha inven­ tato anche le forze dell'ordine, che lui d'abitudine chiama­ va custodi .

L'UNITÀ DELLO STATO

Socrate: «Ora consideriamo come possibile base d'accordo l'eventuale definizione del più grande bene immaginabile per

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la costituzione di uno stato, un bene al quale il legislatore è tenuto a guardare nel momento in cui fissa le leggi. Parimenti chiediamoci quale sarà il male peggiore, e poi controlliamo se quello che si è finora delineato corrisponde alle orme del bene e non a quelle del male>> . «Perfettamente)) , disse. «E crediamo che possa esistere un male peggiore per lo stato di quello che lo frantuma e che da uno qual era lo rende mol­ teplice? E quale bene maggiore può esserci di quello che lo tiene unito e lo rende uno?)) «Non l'abbiamo)) . «Ora, il fatto di mettere in comune piaceri e dolori non è forse potente forza di coesione, soprattutto quando la totalità dei cittadini si rallegra e si rattrista insieme per gli stessi eventi felici o infausti?)) «Assolutamente)) , ne convenne. «E, viceversa, non è forse il frantumarsi dell'unità di questi sentimenti a dissolvere lo stato, quando una parte dispera e l'altra si rallegra per le stesse vicende che toccano il paese e i suoi cittadini?)) > . «Quello che sostieni mi sembra ragionevole>> , ammise. [Repubblica, V, 466B-467E]

DALLO STATO PERFETTO ALLO STATO REALE

Poco alla volta, a seguito di molte delusioni e di una cono­ scenza più realistica dell'indole umana, Platone si accorse che il passaggio dalla bontà personale alla giustizia collettiva non era così immediato come pensava, e che forse i difetti di un uomo si aggiungono a quelli di un altro uomo più facilmente di quanto si assommano le virtù. Così collocò lo stato ideale nella sfera dei modelli utopici, come fosse una città di ''dei o figli di dei ", e prese in considerazione - soprattutto nel Poli­ tico e nelle Leggi - un altro piano di riforma. Questo non era più interamente basato sul potere del filosofo come nello stato ideale, bensì sulle leggi; e le leggi non realizzano la giu­ stizia in quanto tale, ma il "giusto mezzo " che le circostanze permettono. Ateniese: «La prossima mossa, nella istituzione delle leggi , [ . ] per il fatto di essere inconsueta, sulle prime lascerà sba­ lordito l'uditorio. Però, a chi ragiona sulla base dell'esperien­ za, risulterà evidente che noi intendiamo fondare uno stato secondo, rispetto a quello che in assoluto è il migliore. Forse .

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qualcuno rifiuterà un tale stato perché non è abituato a conce­ pire un legislatore che non sia anche completamente padrone della situazione, ma ciò non toglie che la soluzione migliore resta quella di esporre la struttura dello stato perfetto e poi dello stato secondo e del terzo, disponendo poi che la scel­ ta venga lasciata a chi ha responsabilità politiche. Proprio in questa logica noi ci muoviamo, illustrando la costituzione che per virtù è prima, poi quella che è seconda e, infine, quella che è terza. Oggi la scelta sarà lasciata a Clinia, ma in futuro la riserveremo a chiunque altro volesse impegnarsi in questa medesima decisione, presentandosi a noi con l'intenzione di mantenere quella parte delle leggi patrie a cui è personalmen­ te affezionato. « Lo stato primo, la costituzione e le leggi più perfette si tro­ vano là dove l'antico detto "i beni degli amici sono davve­ ro beni comuni" trova la sua più completa realizzazione in tutto lo stato , sia che essa avvenga oggi, i n qualche posto, sia che avvenga nel futuro. Con questo, m i riferisco alla co­ munanza delle donne, dei figli e di ogni ricchezza, grazie alla quale con ogni mezzo e in ogni modo la cosiddetta sfera pri­ vata viene del tutto estromessa dal vivere civile, facendo ogni sforzo per rendere in qualche maniera comune anche ciò che per natura è legato alla persona, come ad esempio gli occh i , l e orecchie e le mani, di modo che si abbia l'impressione d i vedere, ascoltare e fare i n comune; e p o i anche l'approvare, il disapprovare, soffrendo e rallegrandoci tutti assieme per le medesime cose quasi fossimo un solo essere. «Ora, se tali leggi riusciranno a rendere i n massimo grado uni­ tario lo stato, si stia pur certi che a proposito della elevazione verso la virtù, nessuno potrebbe formulare un'altra definizio­ ne più calzante e più precisa di questa. « S i a dunque così lo stato. Ma se per caso in esso rrovas161

sero dimora dei o figli di dei in un certo numero, ess i , vivendo in conformità con queste norme, vi abiteranno godendo di autentica felicità. Quindi, non s i tratta d i ispi rarsi a un al tro modello di stato preso chissà dove , ma di attenersi a questo cercandone soprattutto uno che sia il p i ù poss ibile simile. Ora, quella costituzione che an­ diamo elaborando, posto che s i realizzi, sarebbe appunto la p i ù pross ima a tale modello i mmortale, e quindi sarà seconda quanto a valore» . [Leggi , V, 739A-E]

IL POTERE DELLA FILOSOFIA OLTRE LA MORTE: I L M ITO DI ER

L'intero capitolo della morale, della politica, della natura degli uomini in vita e dopo la morte, cioè l'escatologia, e perfino del destino che tocca a ciascuno nella sua esistenza, viene espresso in un unico quadro simbolico nel mito di Er. Qui, sullo sfon­ do della dottrina della metempsicosi, e in un ideale rapporto con il mito della biga alata del Fedro - che metteva a fuoco il tema della conoscenza-reminiscenza (cfr. pp. l 08-1 09) - si sanziona l'o nnipotenza della ragione e l'o nnipresenza delle idee nella sfera umana. Anche ciò che si riteneva effetto del caso e della sorte è in verità il risultato di una scelta che se è dettata dalla retta ragione produce esiti jèlici, altrimenti produce un destino infausto. Se ne deduce che la filosofia e la virtù guidano l'uomo in eterno, anche quando la vita terrena è conclusa o non è ancora comparsa: neppure il Fato - forza che i Greci ritene vano ineluttabile - può resister/e, perché ciascuno è artefice del proprio destin o. 162

Socrate: «Non ti farò certo il discorso di Alcinoo, ma di un uomo di valore, Er figlio di Armenio, panfilo di origine. Que­ sti a suo tempo morì in combattimento, e mentre, dopo dieci giorni, si raccoglievano i cadaveri ormai decomposti, lui fu raccolto ancora intatto. In seguito, riportato a casa per essere seppellito, quando già era adagiato sulla pira, ritornò a vive­ re, e, ripresa vita, raccontò quello che aveva visto nell'aldilà. Disse che, come l'anima si era separata da lui, si era messa in viaggio insieme a molte altre, finché non giunsero in un luo­ go meraviglioso, nel quale si aprivano, a poca distanza l'una dall'altra, due voragini sulla terra e, in perfetta corrisponden­ za, altrettante su nel cielo. «In mezzo sedevano dei giudici, i quali, a ogni loro senten­ za, ordinavano ai giusti di dirigersi in alto a destra, attraver­ so il cielo - non prima, però, di aver appeso davanti a loro il referto del giudizio -, e agli ingiusti di muovere verso la parte sinistra in basso, avendo anch'essi il resoconto di tutte le loro azioni appeso di dietro. Come fu il suo turno, gli fu comunicato che avrebbe dovuto essere per gli uomini relatore delle cose di laggiù, e per questo gli ordinarono di osservare e ascoltare tutto quanto avveniva in quel posto. In tale maniera poté assistere al dipartirsi delle anime appena giudicate da due delle voragini del cielo e della terra. Invece, per quanto con­ cerne le altre due voragini, da una sbucavano anime sudice di terra e di polvere, dall'altra scendevano anime diverse, del tutto pure, provenienti dal cielo. E quelle che continuamente arrivavano davano l'impressione di aver concluso un lungo viaggio e nel giungere sul prato avevano l'aria felice come se si dessero convegno per una festa di paese. Così le anime che già si conoscevano si salutavano cordialmente, e quelle reduci dalla terra si informavano, chiedendo notizie della vita di là, mentre le altre, provenienti dal cielo, chiedevano informazio163

ni della vira di qua. In tal modo, ognuna raccontava alle altre la sua vicenda. Le une, ricordando quali e quante sof­ ferenze avevano patito e visto patire nel millenario viaggio sotto terra, sconsolatamente piangevano, le altre, quelle che venivano dal cielo, raccontavano di esperienze e visioni di straordinaria bellezza. Erano a tal punto numerose, Glau­ cone, che a raccontarle tutte ci vorrebbe troppo tempo; tut­ tavia, il succo della vicenda è il seguente. Per quante colpe ciascuno avesse commesso o per quanti uomini avesse of­ feso, per tutto ciò, puntualmente, doveva subire una pena decupla per ogni capo di accusa. Siccome ogni volta l'unità di misura della pena era di cento anni - in quanto tale si considera la durata della vita umana - le anime risul tavano pagare il fìo della loro colpa dieci volte. [ . . . ] Per converso, se altri avevano compi uto buone azioni, ed erano stati onesti e pii, si vedevano moltiplicata nella stessa proporzione la ricompensa meritata. [ . . . ] «E dopo la permanenza di una settimana in quel prato, l'ottavo giorno ciascuna anima doveva levarsi da lì e met­ tersi in cammino, per giungere, in seguito a un viaggio di quattro giorni, in una località da cui si poteva vedere una luce dir i tra, a forma di colonna, che si protendeva dall'alto attraverso tutto il cielo e la terra: questa era molto simile all' arcobaleno, ma ancor più splendente e pura. In prossimi­ tà di essa si giungeva dopo una giornata di cammino, e da quella posizione si potevano scorgere, in mezzo alla luce, le estremità dei legami protendersi dal cielo; in effetti tale luce è il legame del cielo, la forza che tiene unita la volta celeste, come fanno le fasce della chiglia delle trireme. Fra queste estremità era teso il fuso della Necessità, da cui dipendono tutti i moti di rivoluzione. [ . . . ] Il fuso girava sulle ginoc­ chia della Necessità. In alto, su ognuno dei suoi cerchi , si

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muoveva una Sirena, anch'essa trasci nata dal moto circolare . Ciascuna emetteva una sola voce, di un solo tono, cosicché da tutte otto quant'erano risultava un' unica armonia. Altre tre figure sedevano tutt' intorno, ciascuna sul suo trono, a uguale distanza l' una dall'altra; si trattava di Lachesi, Cio to e Atropo, figlie della Necessità, le Moire di bianco vestite e con l'infula sul capo, le quali cantavano sull'armonia delle Sirene: Lachesi cantava il passato, Cloro il presente, e Atro­ po il futuro. Cloto, ritmicamente toccando con la clatra il cerchio più esterno del fuso, aiutava a farlo girare ; Atropo faceva altrettanto coi cerchi interni, con la mano sinistra. Lachesi, infine, toccava ora l' uno ora gli altri con ambedue le mani. ((Come giunsero in quel l uogo dovettero presentarsi a La­ chesi. Qui un interprete del dio per prima cosa le dispose in ordine, e poi, dopo aver raccolto dalle ginocchia di Lachesi le sorti e i paradigmi delle vite, montato su un palco rialzato, parlò in questo modo : " Parola della vergine Lachesi , figlia di Necessità. Anime caduche, eccovi giunte all' inizio di un al­ tro ciclo di vita di genere mortale, in quanto si conclude con la morte. Non sarà il demone a scegliere voi , ma voi il de­ mone. Il primo estratto sceglierà per primo la vita alla quale sarà tenuto di necessità. La virtù non ha padroni; quanto più ciascuno di voi la onora tanto più ne avrà; quanto meno la onora, tanto meno ne avrà. La responsabilità, pertanto, è di chi sceglie. Il dio non ne ha colpa" . «Ciò detto , egli gettò i n mezzo a tutti le sorti e ognuno rac­ colse quella che gli era caduta vicino; tutti, tranne Er a cui non fu concesso. Raccolta la sorte, fu noto il posto che a ciascuno spettava. A tal punto, di nuovo il sacerdote dispose per terra, dinanzi a loro, i paradigmi delle vite, molti di più di quanti fossero i presenti. Ce n'erano di ogni tipo: vite di 165

tutti gli esseri animati e vite umane di ogni specie. Fra que­ sti modelli c'erano perfino tirannidi, alcune durevoli , altre interrotte a metà e concludentisi nell'indigenza, nell'esilio e nella miseria. Si trovavano anche vite di uomini famosi, vuoi per l'aspetto, la bellezza, la prestanza fisica in ogni campo e in particolare in quello agonistico, vuoi per la nobiltà di origine e per le virtù degli antenati. Infine, non mancavano nemmeno modelli di vi te per questi aspetti oscure e, nella stessa proporzione, vite di donne. D'altra parte non c'era una gerarchia fra le anime, perché ciascuna, scegliendo un certo tipo di vita, per forza di cose si trasformava completa­ mente. Per il resto, ricchezza e povertà, malattia e salute si trovavano fra loro mescolate, insieme ai loro stati intermedi. «Ebbene, caro Glaucone, proprio qui si annida ogni rischio per l'uomo, e per questo qui bisogna concentrare ogni im­ pegno. Piuttosto, trascuriamo tutte le altre conoscenze per farci ricercatori e cultori solo di quella che metta in grado di riconoscere e di scovare l' uomo che saprà conferire la ca­ pacità, pratica e teorica, di scegliere sempre e in ogni caso la miglior vita possibile, dopo un attento discernimento di ciò che è utile e dannoso. E, inoltre, sulla scorta di tutti quei principi che or ora si sono esposti sia nel rapporto reciproco, sia specificatamente in relazione alla virtù, quell' uomo dovrà insegnarci quali effetti nel bene o nel male produca la bellez­ za unita a povertà o a ricchezza, o accompagnata da questo o quel carattere dell'anima; e poi ancora quali conseguen­ ze causano, quando si trovino mescolati insieme, la nobiltà e l'oscurità dell'origine, il fatto di essere privati cittadini o uomini di potere, di essere vigorosi o deboli, intelligenti o ottusi, e tutti gli altri caratteri simili a questi che inerisco­ no all'animo o per natura o per costume acquisito. In tal modo, un uomo, traendo le debite conclusioni da tutto ciò

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e non perdendo di vista la natura dell'anima, sarà in grado di fare una scelta fra la vita migliore e peggiore, intendendo come peggiore quella che lo porterebbe al risultato di essere più ingiusto e, viceversa, come migliore quella che lo por­ terebbe verso comportamenti più gius �i . E tutto il resto lo lascerà salutandolo caramente, dato che - e l'abbiamo pur visto - questa è la scelta vincente, sia per la vita terrena sia per l'altra. I nsomma, è necessario scendersene all'Ade aven­ do ben saldo un tale convi ncimento, al fine di rhucire a resistere anche laggiù alla tentazione delle ricchezze e alle altre tentazioni del genere, e allo scopo di non cadere nella scelta di tirannidi o di modi di vita analoghi per non com­ piere molti mali irreparabili, esponendosi al rischio di subir­ ne di altrettanto gravi . Al contrario, si dovrà saper scegliere la vita intermedia fra queste e fuggire gli eccessi in un senso e nell'altro, per quanto è possibile, non solo in questa vita, ma anche per ogni altra vita a venire. I n tale modo, infatti , l' uomo sarà in sommo grado felice. «E il nostro nunzio di laggiù riferì ancora queste parole dell'interprete del dio: "Anche chi capita per ultimo, purché scelga con giudizio e viva coerentemente a questa scelta, può aspettarsi di avere una vita soddisfacente e per nulla malva­ gia. Pertanto , chi sceglie per primo non sottoval uti la scelta, né si perda d'animo chi fi nisce per ultimo" . [ . . . ] «A detta di Er era uno spettacolo degno d i essere visto, quel­ lo delle anime che sceglievano ciascuna la propria vita: era una scena a volte pietosa, a volte buffa e a volte m eravigliosa. La scelta dipendeva per lo più dalle vicende della vita prece­ dente, sicché Er riferì di aver visto l'anima che un tempo fu di Orfeo scegliere la vita di un cigno, onde evitare di venire alla luce generato da una donna - in effetti egli odiava il genere femminile, che era responsabile della sua morte. [ . . . ] 167

> , risposi, «ma interroga anche tu. I n ogni modo l'hai già sentito non poche volte; ma ora non ci rifletti o stai pensando di crearmi difficoltà, facendo obiezioni. E io sono portato a credere che sia quest' ultima la tua intenzione; infat­ ti, che l' idea del Bene sia la conoscenza massima, servendosi della quale le cose giuste e le altre diventano utili e giovevoli, l'hai sentito dire mille volte. E anche ora tu sai abbastanza bene che voglio dire questo e, oltre a ciò, che noi non cono­ sciamo tale idea a sufficienza. E se noi non la conosciamo, posto anche che conoscessimo, al più alto grado possibile, tutte le altre cose, ma non essa, tu sai che per noi da questo non deriverebbe alcun vantaggio e così anche se possedessimo qualsiasi cosa senza il Bene. O credi che ci sia un vantaggio ad avere ogni possesso, se poi tale possesso non è buono? O che si possa intendere tutte le altre cose senza il Bene, e non intendere per nulla il Bello e Bene?>> «Per Zeus! lo no>> , esclamò. [ . . . ] «E poi non ti risulta anche che per quanto riguarda il Giusto e il Bello molti si accontenterebbero dell'apparenza piuttosto che della sostanza sia in relazione a ciò che devono fare, sia a ciò che vogliono possedere o anche opinare, mentre, in rela­ zione ai beni , nessuno si accontenterebbe di possedere beni apparenti, e anzi ognuno ne cercherebbe di autentici, in que­ sto caso disprezzando la semplice opinione?>> 171

« È proprio cosÌ» , disse. «Ora, l' ideale che ciascuna anima persegue e al quale finalizza ogni azione, col presentimento che pur abbia un valore - e tuttavia, si noti , in questo essa è nel dubbio, per il fatto che non ha la capacità di cogliere con sufficiente chiarezza l'essen­ za del Bene e neanche di contare su quella stabile certezza che pure ha in rapporto alle altre cose, correndo con ciò il rischio di perdere ogni altro vantaggio, se mai esso ci sia -; un ideale di tale portata e rilevanza, saremo disposti a tollerare che resti nell'ombra anche per quelli che eccellono nello stato e nelle cui mani senza riserve ci consegniamo?» «Ma niente affatto», disse. [ . . . ] «E poi», ripresi, «non ti rendi conto che le opinioni senza la scienza finiscono tutte male? Le migliori fra esse sono cieche. E, infatti , non diresti che in nulla differiscano da ciechi che camminano dritti per la strada quelli che hanno opinioni vere non unite a intelligenza?» «In nulla» , rispose lui. «Vuoi dunque stare a vedere ciò che è brutto, cieco e contorto, quando ti si offre la possibilità di ascoltare dagli altri cose belle e splendenti?» «Per Zeus, Socrate!», esclamò Glaucone. «Che non ti venga in mente di sparire proprio ora che siamo prossimi al traguardo! In fondo a noi basterebbe che tu trattassi del Bene come hai trattato della giustizia, della temperanza e delle altre virtÙ» . «Caro amico>> , gli replicai, «a dire il vero anche a me bastereb­ be, ma temo di non esserne all'altezza, e spingendomi troppo innanzi non vorrei meritarmi lo scherno altrui. Ma benedetti amici , che cosa effettivamente sia il Bene in sé lasciamolo per ora da parte - infatti la possibilità di giungere a quello che io ne penso ora mi sembra superiore a ciò che miriamo al presente - ma di quello che mi pare figlio del Bene e somi-

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gliantissimo a lui, voglio parl arvi, se voi pure lo desiderate; se no, lasciamo stare». E lui: «Suvvia, parla: pagh erai un'altra volta il debito della presentazione del padre» . «Davvero», dissi, «vorrei essere in grado di pagare quel debi­ to, e che voi lo riscuotiate e non, come ora, !imitarmi a dare solamente gli interessi. Nel frattempo, però, prendete que­ sto frutto e questo figlio del Bene in sé. Fate però attenzione affinché io, senza volerlo, non vi inganni facendo un conto inesatto degli interessi». «Staremo all'erta» , replicò, «quanto più è possibile. Ora, però, non hai che parlare». «Parlerò solo dopo essermi messo d'accordo con voi» , dissi, «e dopo avervi ricordato ciò che è stato detto prima in altre occasioni, di frequente'' · «Che cosa?,, domandò. E io: «Noi ammettiamo l'esistenza di molti oggetti belli e buoni e di altre singole realtà di genere analogo e pure queste cose le definiamo razionalmente'' · «Infatti diciamo cosÌ». «E anche il Bello stesso e il Bene stesso, e così tutte le altre realtà che prima abbiamo considerato come molte, le riferia­ mo in seguito, una per una, a un'idea, e così , ponendole in relazione con questa sola, noi diciamo ciò che è ciascuna'' · « È vero». «E le une sosteniamo che vengono vedute, ma che non ven­ gono pensate; e invece diciamo che le idee vengono pensate e non vedute. [ . . ] «Ebbene, pur essendo presente negli occhi la vista e accingen­ dosi chi la possiede a farne uso e pur essendoci, d'altra parte, i colori negli oggetti , se non si aggiunga un terzo genere di realtà, proprio per sua natura destinato in modo particolare a .

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questo, sai bene che la vista non vedrà nulla e i colori saranno invisibili» . « E che cos'è quest'altra cosa d i cui parli?», chiese. « È quella» , risposi, «che tu chiami luce». « È vero», ammise. «Non con una piccola idea, dunque, il senso del vedere e la possibilità di essere veduto sono stati riuniti da un vincolo di maggior valore degli altri accoppiamenti, se la luce per te non è priva di valore». « È tutt'altro che priva di valore>> , disse. «E allora, quale degli dei che sono nel cielo tu puoi indicare come signore di questo, la cui luce fa sì che la nostra vista veda nel modo più bello e che le cose visibili siano vedute?» «Quello che indicheresti pure tu» , rispose, «e anche gli altri: infatti è chiaro che tu mi domandi del sole» . [Repubblica, VI , 504C- 509C]

LA METAFORA DEL SOLE Socrate: «E allora la vista rispetto a questo dio non ha per sua natura questo rapporto?» «Quale?» «La vista non è il sole; e non lo è né essa, né ciò in cui si genera e che noi chiamiamo occhio» . «No di certo». «Ma io credo che l'occhio di tutti gli organi di senso sia il più simile al sole» . «Di molto» . «E la facoltà che ha non la possiede somministrata e come affiueme dal sole?»

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« Precisamente» . «Peraltro neanche il sole è la vista; tuttavia, poiché è causa di essa, è da essa veduto>> . « È cosh , ammise. «Questo, pertanto>>, conclusi, «ritieni pure che sia quello che dico figlio del Bene, che il Bene generò analogo a se stesso: ciò che è il Bene nel mondo intelligibile rispetto all'intelletto e agli intelligibili, così è il sole nel visibile rispetto alla vista e ai visibili>>. «Come?>> , domandò. ((Spiegami ancora>> . «Tu sai>> , ripresi io, «che quando gli occhi non sono più rivolti a quelle cose sui cui colori si estende la luce del giorno, ma a quelle su cui si estendono solo i chiarori della notte, hanno una visione offuscata e sono quasi ciechi, come se non ci fosse in essi una vista pura>> . «E come!>> , disse. . «Ebbene?>> > . «Assomiglia, in effetti>>. « Questo, pertanto, che fornisce la verità alle cose conosciute e al conoscente la facoltà di conoscerle, devi dire che è l' idea del Bene. Ed essendo essa causa di conoscenza e di verità, ritienila conoscibile. E poiché sono belle e l' una e l'altra, la conoscenza e la verità, se tu riterrai quello come diverso da queste e ancor 175

più bello, riterrai giustamente. E mentre la scienza e la verità allo stesso modo che la luce e la vista è giusto ritenerle simili al sole, ma non ritenerle sole, così anche qui, considerarle simili al Bene ambedue è giusto, ma pensare che o l'una o l'altra siano il Bene non è giusto, perché la condizione del Bene va giudicata ancora maggiore» . «Di straordinaria bellezza, tu parli», disse, «se essa procura scienza e verità, ma essa stessa per bellezza è al di sopra di que­ ste. Infatti, tu non dici certamente che ciò sia il piacere!» «Zitto!», esclamai. «Considera la sua immagine in questo modo». «In che modo?» «Il sole non soltanto dirai, io credo, che fornisce ai visibili la capacità di essere veduti , ma anche la generazione e la crescita e il nutrimento, pur non essendo esso generazione». «E come lo sarebbe?» «E così anche ai conoscibili dirai che proviene dal Bene non solo l'essere conosciuti, ma anche l'Essere e l'Essenza proven­ gono loro da questo, pur non essendo il Bene Essere, ma anco­ ra al di sopra dell'Essere, superiore a esso in dignità e potere» . E Glaucone, molto comicamente: «Apollo! » , esclamò, «che divina superiorità!»

Di questo passo straordinariamente denso di significato dob­ biamo sottolineare i seguenti punti: a) Socrate crea un'aspet­ tativa straordinaria sul concetto di Bene dicendo che senza di esso tutto il discorso sulle virtù e sulla politica non ha alcun valore; b) afferma che senza il Bene non ci sarebbe alcuna verità, ma solo opinione; c) quando è messo alle strette per definirlo non dà una risposta precisa, ma approssimativa: ossia non parla del Bene, ma del "figlio del Bene': cioè il sole; d) in pratica instaura questa proporzione: il sole - in quanto dà la luce (cioè rende visibili le cose sensibili, tanto che senza il sole 176

gli occhi sarebbero inutili), ossia 'Jornisce la verità alle cose conosciute e al conoscente la facoltà di conoscerle". Allo stesso modo l'idea del Bene dà visibilità intellettuale alle idee e senza l'idea del Bene, in tutto paragonabile al sole, non si capireb­ bero le idee, e l'intelletto sarebbe inutile; e) anzi, sfruttando al massimo l'immagine del sole, Platone suggerisce anche che l'idea del Bene 'Jornisce ai visibili non solo la capacità di essere veduti, ma anche la generazione': Dunque se le idee esistono è perché esiste il Bene; f) ma se, come già sappiamo, le idee sono Essere, che cosa mai sarà il Bene che produce l'Essere? Sarà ­ dice espressamente il filosofo - ''ancora al di sopra dell'Essere, superiore a esso in dignità e potere ': È questo l'annuncio della sfera dei principi che Platone, data la difficoltà e la scarsa evidenza, non vuole mettere per iscritto, ma riservare ai discorsi orali tenuti nella sua Ac­ cademia - e ciò si desume dall'espressione "l'hai già sentito non poche volte" -, fra gente dedita alla ricerca, esperta di filosofia, e pronta a seguir/o fino oltre ogni evidenza sensibile e intellettuale. Questo spiega l'uso della metafora del sole al posto di una definizione filosoficamente precisa. Del resto non è forse vero che il sole dà tanta luce e cono­ scibilità a tutte le cose, eppure esso stesso non si lascia afferrare e, abbagliante com'è, resta non direttamente conoscibile dai nostri occhi?

LA TEORIA DEI P RINCIPI

Che cosa sarà mai questo principio che va al di là del­ la verità e al di là dell 'Essere? Nei Temi ne abbiamo già trattato, e qui forniremo solo alcuni passaggi, ricordando 177

però che la pretesa di andare oltre all'Essere non è un atto di presunzione, ma in un certo senso una necessità. Plato­ ne si trovava alle prese con due mondi: uno assolutamente immobile, quello delle idee, e l'altro assolutamente mobile, quello delle cose. Il primo, non senza buone ragioni, l'a veva definito il mondo dell'Essere, e il secondo mondo del Dive­ nire. Siccome questi due mondi vengono a coesistere nell'uo­ mo - che in quanto mente ragiona sull'Essere, e in quanto senso coglie il Divenire - doveva pur arrivare a una sintesi. Così pensò a un principio che accomunasse ambedue: im­ presa non facile, perché due principi assoluti insieme non potrebbero stare, altrimenti almeno uno dei due non sa­ rebbe tale. Ma Platone inventò il principio polare, ossia quella realtà che "è unica ma ha due poli ", ciascuno dei quali non può esistere senza l'altro. Non diciamo forse di avere una sola pila o una sola calamita, anche se ognuna ha due poli contrapposti, uno positivo e uno negativo? E se dovessimo rompere la calamita, non avverrebbe che un polo si divide dall'altro, ma ciascun frammento li manterrebbe ambedue, segno evidente che sono parti essenziali della pro­ pria natura. In conclusione, ogni realtà - tanto sensibile, quanto soprasensibile - avrebbe in sé una forza che tende ad aggregarla (l'Uno) e una forza che tende a disgregarla (la Diade). Quando vedo una cosa stabile è perché in quel momento le due forze in essa sono in equilibrio, oppure perché il suo equilibrio va modificandosi molto lentamente, così da apparire immobile. Siccome Platone non ha voluto mettere per iscritto questa parte della sua dottrina, la testimonianza che riportiamo è indiretta e risale ad Aristotele nella versio ne di due suoi com­ mentatori, Alessandro di Afrodisia e Simplicio (corrisp onden­ ti ai frr. 1 0A, 1 1, 13). 178

Alessando dice: «Secondo Platone, i principi di tutte le cose e delle idee medesime sono l' Uno e la Diade indeterminata, che egli chiamava grande e piccolo, come anche nei libri Sul Bene Aristotele ricorda» . [fr. 1 3] Platone pensa che la Diade divide tutto ciò cui viene ap­ plicata; è per questo motivo che egli l'ha denominata du ­ plicativa. Infatti , trasformando in due ciascuna delle cose alle quali essa si applica, in qualche modo la d ivide, in quanto non le permette di rimanere ciò che essa era; e questa divisione è l'origine dei numeri. Come le impronte e i modelli rendono a loro simili tutte le cose in cui ven­ gono impressi, così anche la Diade , essendo in certo senso matrice, diventa generatrice dei n umeri che a essa fanno seguito, rendendo due o duplice ciascuna cosa a cui viene applicata. Infatti , quando essa viene applicata all'l, produ­ ce il 2 (in quanto due volte l fa 2) , quando è applicata al 2 , produce 4 ( i n quanto 2 volte 2 fa 4) , quando è applicata al 3 , produce il 6, in quanto 2 volte 3 fa 6 . E allo stesso modo in tutti gli altri casi [ . . . ] . E siccome a Platone [ fr. l OA] "sembrava che il numero fosse per natura il primo di tutti gli altri esseri [ . . . ] , pensò che esso fosse principio, e che i principi del primo numero fossero altresì principi di ogni numero" e questi sono " l ' Uno e il Grande e i l Piccolo. Ora, la dualità contiene in sé molteplicità e pochezza: i n fatti, in quanto c'è in essa il doppio, c'è anche la molteplicità (in­ fatti il doppio è molteplicità, eccesso e grandezza) , invece , in quanto in essa c'è la metà c'è pochezza. Perciò vi sono nella dualità eccesso e difetto, grande e piccolo , per queste ragioni" . [fr. l l ] [M . D . Richard, L'insegnamento orale di Platone, pr. P. Hadot, tr. it. G. Reale, Bompiani, M ilano 2008] 179

Come si può notare, la Diade è chiamata grande e piccolo, molteplicità e pochezza, eccesso e difetto, perché è l'origine della moltiplicazione, cioè è ''duplicativa': Da qui si comprende che la fonte di questa dottrina è propriamente la matematica. Ma siccome per Platone il numero è fondamento delle idee, e le idee lo sono della realtà, ecco che, a cascata, il loro potere si estende a tutta la realtà.

LA SINTES I MITI CA I L MITO DELLA CAVERNA

Se la dottrina dei principi costituisce la sintesi filosofica del pensiero di Platone, il mito della caverna ne costituisce la sin­ tesi mitologica. Qui Platone è riuscito a collegare tutti i temi di cui si è occupato nella sua ricerca filosofica usando come sfondo gli ambiti della metafisica e come protagonisti le condi­ zioni etiche e intellettuali dell'u omo. Il primo ambito è quello della caverna, che rappresenta il mondo sensibile: un mondo che lascia minima libertà di azione - patisce i condiziona­ menti delle passioni e delle emozioni - e minima capacità di comprensione, in quanto patisce la scarsità di luce e i limiti dell'esperienza sensibile. Infatti, dice Platone, qui gli uomini "possono guardare solo davanti ': sono "incapaci di muoversi " e incatenati e non vedono che ombre. Anzi, sono ombre di una copia della realtà {cioè sono la proiezione di una luce innatu­ rale, accesa dall'u omo, di simulacri del mondo reale) e quindi distano due livelli dal vero. Gli uomini della caverna sono come bambini che quando vedono "i loro spettacoli di buratti­ ni " credono di assistere a un fotto reale. 180

In questa prima inquadratura è messo in gioco il campo del­ la conoscenza. Si noterà il nesso: gli uomini possono guardare solo le ombre e sono incatenati. Secondo la filosofia di Platone questo è l'ejfètto dell'intellettualismo etico, che necessariamente estende il campo della conosenza a quello della morale. «Dopo di ciò», dissi, «paragona a una condizione di questo genere la nostra natura per quanto concerne l'educazione e la mancanza di educazione. Immagina di vedere degli uomini rin­ chiusi in un'abitazione sotterranea a forma di caverna che abbia l'ingresso aperto verso la luce, che si estende in tutta la sua am­ piezza per tutta quanta la caverna; inoltre, che si trovino qui fin da fanciulli con le gambe e con il collo in catene in maniera da dover stare fermi e guardare solamente davanti a sé, incapaci di volgere intorno la testa a causa di catene, e che dietro di loro e più lontano arda una luce di fuoco. Infine, immagina che fra il fuoco e i prigionieri ci sia, in alto, una strada lungo la quale sia costruito un muricciolo, come quella cortina che i giocatori pongono fra sé e gli spettatori, sopra la quale fanno vedere i loro spettacoli di burattini» . «Vedo», disse. «Immagina, allora, lungo questo muricciolo degli uomini por­ tanti attrezzi di ogni genere, che sporgono al di sopra del muro, e statue e altre figure di viventi fabbricate in legno e pietra e in tutti i modi; e inoltre, come è naturale, che alcuni dei portatori parlino e che altri stiano in silenzio». «Tratti di cosa ben strana» , disse, «e di strani prigionieri» . «Sono simili a noi», ribattei. «Infatti, credi innanzi tutto che vedano di sé e degli altri qualcos'altro, oltre alle ombre proiet­ tate dal fuoco sulla parte della caverna che sta di fronte a loro?» «E come potrebbero», rispose, «se sono costretti a tenere la testa immobile per tutta la vita?»

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«E degli oggetti portati non vedranno pure la loro ombra?)) «E come no?)) «Se, dunque, fossero in grado di discorrere fra di loro, non credi che riterrebbero come realtà appunto quelle che vedono?)) «Necessariamente)) . «E se il carcere avesse anche un'eco proveniente dalla parete di fronte, ogni volta che uno dei passanti proferisse una parola, credi che essi riterrebbero che ciò che proferisce parole sia altro se non l'ombra che passa?)) «Per Zeus!>> , esclamò. «No di certo)) . «In ogni caso)) , continuai, «riterrebbero che il vero non possa essere altro se non le ombre di quelle cose artificiali)). «Per forza)) , ammise lui. [Repubblica, VII , 5 1 4A- 5 1 5 D]

Ci vuole un atto sovversivo ed eroico per uscire dalla caverna, non un impegno metodico e graduale: qualcosa come una con­ versione che "subito costringe ad alzarsi ': All'inizio l'u omo non è contento di aver lasciato la caverna, ma è spaesato, accecato e confitSo; e oltre tutto solo e isolato dagli altri. La sua condizione interiore migliora man mano che si rende conto della condizione in cui versava, che, paragonata alla realtà fuori della caverna, ora gli appare orribile e miseranda. Come mettere a confronto la precisione ed esattezza della cono­ scenza fondata sulle idee - il vero Essere che equivale al mondo reale - con l'oscura visione nel fondo della caverna? Lo sforzo e la sofferenza della liberazione ora danno frutto. «Considera ora)) , seguitai , «quale potrebbe essere la loro li­ berazione dalle catene e la loro guarigione dall'insensatezza e

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se non accadrebbero loro le seguenti cose. Poniamo che uno fosse sciolto e subito costretto ad alzarsi, a girare il collo, a camminare e a levare lo sguardo in su verso la luce e, facendo tutto questo, provasse dolore, e per il bagliore fosse incapace di riconoscere quelle cose delle quali prima vedeva le ombre; ebbene, che cosa credi che risponderebbe, se uno gli dicesse che mentre prima vedeva solo vane ombre, ora, invece, essen­ do più vicino alla realtà e rivolto a cose che hanno più Essere, vede più rettamente, e, mostrandogli ciascuno degli oggetti che passano lo costringesse a rispondere facendogli la doman­ da "che cos'è?"? Non credi che egli si troverebbe in dubbio e che riterrebbe le cose che prima vedeva più vere di quelle che gli si mostrano ora?» «Molto», rispose. «E se uno poi lo sforzasse a guardare la luce medesima, non gli farebbero male gli occhi e non fuggirebbe, voltandosi indietro verso quelle cose che può guardare, e non riterrebbe queste veramente più chiare di quelle mostrategli?» « È cosÌ», disse. E io di rimando: «E se di là uno lo traesse a forza per la salita aspra ed erta, e non lo lasciasse prima di averlo portato alla luce del sole, forse non soffrirebbe e non proverebbe una for­ te irritazione per essere trascinato e, dopo che sia giunto alla luce con gli occhi pieni di bagliore, non sarebbe più capace di vedere nemmeno una delle cose che ora sono dette vere?» «Certo», disse, «almeno non subito». [Repubblica, VII , 5 1 5D-5 1 6A]

Fuori dalla caverna il nostro uomo non ha più nessuno che i ''costringa ad alzarsi·: a "guardare solo davanti ·: e nessuno che "i 183

tragga a forza per la salita aspra ed erta': Ora è libero "di poter vedere le cose che sono al di sopra': di ''guarddre il sole': di "trarre le sue conclusioni ': perché non ci sono più a frenarlo i lacci delle sensazioni e i condizionamenti delle passioni, ma si è affiddto alla sua ragione, cioè a se stesso. Ilfotto che la ragione cerchi sempre la causa e il principio nel mito si traduce nella metafora del sole, che è la stessa metafora che Platone usa per il Bene. Dunque mira all'idea del Bene e capisce che "è proprio lui che produce e governa tutte le cose che sono nella regione visibile': Ora noi sappiamo che le idee sono sterili, e dd sé non realizzano nulla. A produrre le stesse idee e le cose - cioè la realtà - sono i principi di cui abbiamo appena letto. È ragionevole credere che proprio a questo guardi l'u omo libero ddi sensi. «Dovrebbe, invece , io credo , farvi abitudine, per riuscire a vedere le cose che sono al di sopra. E dapprima, potrà vedere più facilmente le ombre e, dopo queste , le immagin i degli uomini e delle altre cose riflesse nelle acque e, d a ulti­ mo, le cose stesse. Dopo di ciò potrà vedere più facilmente quelle realtà che sono nel cielo e il cielo stesso di notte, guardando la luce degli astri e della luna, invece che di giorno il sole e la l uce del sole». «Come no?» «Per ultimo, credo, potrebbe vedere il sole e non le sue imma­ gini nelle acque o in un luogo esterno a esso, ma esso stesso di per sé nella sede che gli è propria, e considerarlo così come esso è». «Necessariamente» , ammise. «E, dopo questo, potrebbe trarre su di esso le conclusioni, ossia che è proprio lui che produce le stagioni e gli anni e che governa tutte le cose che sono nella regione visibile e che, in

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certo modo, è causa anche di tutte quelle realtà che lui e i suoi compagni prima vedevano» . « È evidente» , disse, «che, dopo le precedenti, giungerebbe proprio a queste conclusioni>) . [Repubblica, VII, 5 1 6A-C]

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La biografia

Particolare della Scuola

};Atene,

aftiesco dipinto da IWfaeDo Sauzio per papa Giulio Il tra il 1 508 e ii i S l l .

A sinistra Platone Jatone realizzate per il cam panile di Giotto

( 1 437-39) .

c

Aristotele in wta delle formelle

I viaggi iniziarono subito dopo la morte del maestro con destinazione Megara. Qui si recò con altri compagni pres­ so il filosofo Euclide, anch'egli discepolo di Socrate ma con una particolare attenzione ai problemi logici suscitati dalla filosofia di Parmenide. Poi fu la volta di Siracusa (che visi­ tò per ben tre volte) e dell'Italia meridionale (388 a.C.) per incontrare le comunità di Pitagorici, e in particolare Archita di Taranto. La scelta in favore della filosofia portò, nel decennio suc­ cessivo alla morte di Socrate, alla composizione dei cosid­ detti dialoghi socratici: l'Apologia di Socrate, il Critone (sul dovere) , 1'Eutijrone (su1 santo) , Ione (sull' Iliade) , l'Ippia mi-

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nore (sulla falsità) , il Carmide (sulla temperanza) , il Lachete (sul coraggio) , il Liside (sull'amicizia) , l'Alcibiade maggiore (sulla natura dell'uomo) , l'Alcibiade minore (sulla preghie­ ra) , il Protagora (sui Sofisti) , il Clitofonte (protrettico, cioè che esorta allo studio della filosofia) , l' lpp ia Maggiore (sul bello) , il Gorgia (sulla retorica) . Non sappiamo però se quest'ultimo dialogo è immediatamente precedente o im­ mediatamente successivo al primo viaggio in Sicilia. Poi, nel 3 8 8 a.C. , si recò a Siracusa presso il tiranno Dionigi il Vecchio , che probabilmente pensava di poter convertire alla causa della giusta (cioè ispirata dalla filo­ sofia) politica. I..: impresa non gli riuscì, e anzi sembrò sor­ tire l'effetto contrario: irritò il sovrano a tal punto che - a quanto riferisce Diogene Laerzio - questi lo fece vendere come schiavo a Egina, isola di fronte ad Atene. Fortuna volle che un altro Socratico , Anniceride di Cirene, lo ri­ scattò. A compenso di queste vicissitudini, però, Platone aveva conosciuto Dione, cognato di Dionigi, con il quale strinse una salda amicizia e che divenne suo discepolo. E nella Lettera VII offre questo profilo del giovane: (( Dione, che era un giovane di per sé perspicace in tutti i sensi , ma soprattutto a riguardo dei ragionamenti che io gli facevo, 195

mi prestò attenzione con una intelligenza ed un impegno da me mai risco ntrati in nessuno dei giovani che la sorte mi ha fatto incontrare, tanto che, da quel momento in avanti , decise di vivere la sua vita in modo diverso dalla maggior parte degli Italici e dei Siciliani, amando egli la virtù, più del piacere e di ogni alta effeminatezza. Così , da allora fino alla morte di Dionisio I, la sua condotta di vita fu sempre più avversata da coloro che trascorrevano l'esistenza come si usa nelle tirannidi» . Nel 387 a.C. Platone tornò ad Atene e qui fondò l a sua Scuola, in un parco dedicato all'eroe Accademo e che per questo prese il nome di Accademia: fin dall'origine essa si configurava come un centro di studi, di discussioni e di ricerca in comune, con una particolare predilezione per la politica.

La fama di Platone, l'apertura intellettuale dei docenti dell'Accademia nella loro varietà d'i ndirizzi e di studi (vi si trovavano insigni matematici , astronomi , medici , e natu­ ralmente filosofi) e il suo carattere di Scuola superiore di fi­ losofia politica, attrasse moltissimi giovani, anche se doveva

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Leo von Klcrrze fu inv itato da Ottone l di Grecia a in tervenire nello sviluppo urbanistico di Atene. Akropolis

(I 846) è

un

omaggi o alla ci ttà.

confrontarsi con l'agguerrita Scuola concorrente di Isocrate che all'apparenza aveva lo stesso obiettivo (formare la classe dirigente della città) ma che si basava sull'uso della retorica e non della filosofia. Fu un periodo di intensa attività per il filosofo che nel frattempo, nell'arco di circa un ventennio, compose i dialoghi cosiddetti della maturità: Menone (sulla virtù), Menesseno (l'epitafio), Pedone (sull'anima) , Simposio (sull'amore), Rep ubblica (sulla giustizia, in 1 0 libri) , Fedro (sulla bellezza), Eutidemo (sull'eristica, l'arte della disputa dialettica), Crati/o (sulla correttezza dei nomi) . Nel 367 a.C. morì Dionigi il Vecchio e gli successe Dio­ nigi il Giovane il quale, molto più tollerante e sensibile 197

alla filosofia del padre, convinse Platone a ritornare per la seconda volta a Siracusa. Ma di lì a breve il nuovo tiranno litigò con lo zio Dione e lo mandò in esilio, trattenendo Platone a viva forza presso di sé. Platone riuscì a tornare ad Atene nel 365 a.C. e nei quattro anni successivi scrisse alcuni dei suoi dialoghi più i mpegnativi - Parmenide (sul­ le idee, logico) , Teeteto (sulla scienza) e Sojìsta (sull'esse­ re) . Inoltre, pose mano al Politico (sull'arte di governare) , Filebo (sul piacere) , Timeo (sulla natura) , Crizia e Leggi (sulla legislazione, in 1 2 libri) . Nel 36 1 a.C. fu per la terza volta a Siracusa con l'intenzione di rappacificare Dionigi il Giovane e l'amico D ione, ma con scarso successo , se è vero che dopo pochi mesi egli stesso si salvò a stento dall'ira del tiranno, solo grazie all'intervento di Archita e dei Tarantini. Ancora una volta lo stato d'animo di Plato­ ne in questo terzo soggiorno a Siracusa si trova illustrato nella Lettera VII. Di lì a poco Dione organizzava un corpo di spedizione contro il nipote e con il supporto dei Cartaginesi, non­ ché la connivenza dei governi di Atene e Corinto, fece ingresso trionfale a Siracusa ( 3 5 7 a.C. ) , senza però riu­ scire a battere completamente il tiranno , che si era ri-

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fugiato nelle fortificazioni dell'isola Ortigia edificate dal padre. Dione, però, non ebbe vita facile e per contrastare le continue divisioni nel suo campo finì per compo rtarsi anch'egli da tiranno affidandosi alla fo rza dei mercenari. Alla fine cadde vittima dell'Accademico Callippo che lo fece assassinare dalle sue stesse guardie. Non si può dire che la filosofia di Plato ne abbia avuto , in questa occasio­ ne, gli esiti che meritava. Platone morì nel 347 a.C. all'età di circa ottant'anni, lavorando fino all'ultimo alla revisione dei suoi dialoghi e alla stesura, rimasta incompiuta, delle Leggi. Questo im­ portante dialogo fu edito , alla morte del maestro , dal di­ scepolo Filippo di Opunte che lo divise i n dodici libri e lo completò con un tredicesimo, l' Epinomide (Consiglio notturno , Filosofo) , che in lingua greca significa appunto "dopo le leggi" . Forse fu proprio verso la fine della vita che Platone scrisse la sua famosa Lettera VII (sempre che non sia di qualche suo diretto discepolo) , fonte p reziosa di in­ formazioni sul suo pensiero e sulla sua esperienza umana. Gli scritti platonici ci sono giunti ordinati in nove te­ tralogie ad opera di Trasillo (I secolo d . C . ) sulla base del contenuto. Questa classificazione è divenuta canonica. 199

La bibliografia

Scritti di Platone TUTTI GLI SCRITTI a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 201 4 L'ordine delle opere segue l'edizione originale: del filosofo medio­ platonico Trasillo che raggruppava gli scritti per similitudini te­ matiche - talvolta, in verità, piuttosto tenui - in 9 tetralogie (cioè gruppi di quattro) , per un totale di 36 scritti. Nella collana Testi a Fronte (Bompiani) è stata pubblicata gran parte dei dialoghi, con introduzioni specifiche e apparati più ampi, e con il testo greco. CRITONE a cura di G. Reale, La Scuola, Brescia 2013 FEDONE a cura di G. Reale, La Scuola, Brescia 201 6 GORG IA a cura di G. Reale, La Scuola, Brescia 2013 PROTAGORA a cura di G. Reale, La Scuola, Brescia 2013

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Testi su Platone

STO RIA DELLA F I LOSOFIA GRE CA E ROMANA di G. Reale, Bompiani, Milano 2004

INTRODUZIONE A PLATONE di F Adorno, Laterza, Roma-Bari 2000 INTRODUZIONE A PLATON E di FD. E. Schleiermacher, Morcelliana, Brescia 1994 STUDI PLATONICI di H. G. Gadamer, Marietti, Casale Monferrato 1 998

DIALOGO CON PLATONE. COME ANALIZZARE UN TESTO F I LOSOFICO di S. Cazzato, Armando Editore, Roma 20 l O

PLATONE: UN'INTRODUZIONE di M. Erler, Einaudi, Torino 2008

INTERP RETARE PLATONE di V. HiMe, Guerini e Associati, Milano 2008

PLATONE ALLA PO RTATA DI TUTTI . UN PRI M O PAS SO PER COMPREND ERE PLATONE di B. Projfitt e G. Stelli, Armando Editore, Roma 2006

LES DIALOGUES D E PLATON : STRUCTURE ET M ÉTHODE D IALECTIQUE di V. Goldschmidt, Edizioni PUF, Parigi 1963

204

PLATO NIC STUD I ES di G. Vlastos, Princeton University Press, 1973

La summa degli studi di Vlastos su metafisica, epistemologia, eti­ ca e altri temi del pensiero platon ico, con una particolare atten­ zione al Sofista, di cui tenta un'approfondita spiegazione. PLATON E di L . Robin, Cisalpino, Milano 1988

PLATON E E LA TEORIA DELLE I D EE di D. Ross, Il Mulino, Bologna 20 I l

PLATON E di F. Tra batto n i, Carocci, Roma 200 l

Uno degli studi più aggiornati sul pensiero e l'opera del filosofo greco, con una sottile critica all' interpretazione della scuola di Tubinga e piuttosto l' idea che la ricerca filosofica sia una questio­ ne costantemente aperta. QU INDICI LEZI ONI SU P LATON E di M. Vegetti, Einaudi, To rino 2003

PLATON E di P. Friedlander, Bompiani, Milano 2004

Una monumentale impresa del filologo tedesco che rilegge te­ stualmente e storicamente tutta la produzione platonica. I M ITI DI PLATON E di F. Ferrari, BUR, Milano 201 0

PLATON , LES M OTS ET LES MYTHES di L. Brisson, La Décou verte, Parigi 1994

205

LECTURES DE PLATON di L. Brisson, Vrin, Parigi 2000

PLATONE E I FON DAMENTI DELLA METAF ISICA di H. Krdmer, Vita e Pensiero, Milano 1982

IL DISORDINE ORDINATO . LA F I LOSOFIA DIALETTI CA DI PLATONE di M. Migliori, Morcelliana, Brescia 2013

Presentazione del pensiero di Platone a tutto tondo, partendo dalla teoria dei principi come è intesa dalla scuola di Tubin­ ga-Milano di cui Migliori è rappresentante. L'autore riconosce che il pensiero platonico è un sistema aperto, cioè "dogmatico" per quanto riguarda il metodo, ma in evoluzione (dialettico) per quanto riguarda le conclusioni: sia perché Platone non dice mai le cose "di maggior valore" , sia perché la conoscenza scientifica è sempre e comunque umana e cioè limitata. PER UNA NUOVA INTERPRETAZIONE DI PLATONE ALLA LUCE DELLE « DOTTRIN E NON SCRITTE )) di G. Reale, Bompiani, Milano 20 l O

Reale incrocia l'interpretazione "sistematica" del pensiero plato­ nico della Scuola di Tubinga, con la teoria epistemologica dei Paradigmi di Kuhn, e con la teoria evolutiva della comunicazione dall' oralità allo scritto nella Grecia antica elaborata da Havelock. Modificando e correggendo queste due posizioni sulla base dei testi platonici , dà forma a una versione più generale della scuola tubinghese di Platone. LA FILOSOFIA DI PLATON E di F. von Kutschera, Vita e Pensiero, Milano 20 l O

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I brani com p resi nella p resente pubblicazione sono tratti da: © Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Bom p iani, Milano 20 1 4 © Critont, a cura d i G . Reale, La Scuola, Brescia 20 1 3 © Ftdont, a cura d i G . Reale, La Scuola, Brescia 20 1 6 © Gorgia, a cura d i G. Reale, La Scuola, Brescia 20 1 3 © Protagora, a cura di G . Reale, La Scuola, Brescia 20 1 3

Finito di stam p are nel mese di novembre 2020 a cura di RCS Mediagrou p S. p .A. p resso A Grafica Veneta S. p .A. (PD) Printed i n !tal y