Platone. Vita, pensiero, opere scelte [Vol. 2]

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l GRANDI FILOSOFI Opere scelte da Armando Massarenti

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l GRANDI FilOSOFI Opere sc:elte da Armando Massarenti

2 - Platone © 2006 Il Sole 24 ORE S.p.A

Edizione speciale per Il Sole 24 ORE

2006

ll Sole 24 ORE Cultura

Direttore responsabile: Ferruccio Il Sole 24 ORE S.pA

De Banali

Via Monterosa, 91 - 20149 Milano Registrazione Tribunale di Milano n. 542 del 0 8-07-2005 Settimanale- n. l9/2006

A cura di:

Armando Massarenti

Per

"La

vita", il glossario,le schede di approfondimento,la cronologia

Testi di: Alessandro Ravera Per "Il pensiero" e

"La

storia della critica"

Testi di: Francesco Adomo,lntroduzione a Platone

© 1978 Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Pubblicata su licenza di Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Per "/testi"

Platone - Opere complete

l - Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, Fedone

Traduzione di Manara Valgimigli

!!:l 1966 Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari & Figli Spa, Roma-Bari

Pubblicata su licenza di Gius. Laterza Platone- Simposio

Traduzione di Guido Calogero

© 1946 Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Pubblicata su licenza di Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Progetto grafico copertine:

Marco Pennisi

& C.

Opera realizzata da ANIMABIT S.r.l. Coordinamento editoriale: Elena Frau, Paolo Parlavecchia Coordinamento redazione: Lorenzo Doretti, Bruno Facciola Redazione: Giulio Belzer, Cinzia Emanuelli Progetto grafico: Serena Ghiglino, Marce Ila Paladino Impaginazione: Marcella Paladino Ricerca iconografica,fotolito: Alessandro Ravera Richiesta arretrati: i numeri arretrati possono essere richiesti

direttamente al proprio edicolante di fiducia al prezzo di copertina Finito di stampare nel mese di ottobre 2006 presso: Officine Grafiche Calderini S.p.A. Via Tolara di Sotto, 117 (Ponte Rizzoli)

40064 Ozzano Emilia (BO)

Platone

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Il vento di Platone soffia ancora di Armando Massarenti

Udite udite: i Dialoghi di Platone, quei capolavori della scrittura e del pen­ siero alcuni dei quali vi ritrovate in questo istante nelle vostre mani, altro non sono che mera divulgazione. Di alto livello, per carità. Ma ciò che dav­ vero Platone credeva, e insegnava ai suoi allievi, non lo metteva certo per iscritto. Costituiva invece il corpus delle, ben più profonde, , delle quali, nelle opere, si trova solo qualche esile traccia . La tesi è sorprendente. Ha avuto notevole eco sui media, ma è contesta­ ta dalla maggior parte degli studiosi. Però ha almeno il pregio parados­ sale di farci vedere Platone nella sua giusta luce: quella del grande divul­ gatore, appunto. Anzi, grandissimo. E, diciamolo subito con chiarezza. comunque stiano le cose, questo a noi basta e avanza, perché non sen­ tiamo proprio il bisogno di inventarci, al di là del suo splendido modo di argomentare, dialogico e costitutivamente aperto, dottrine e verità defi­ nitive, nonché destinate a pochi adepti. Lasciamo/o fare a quei dogma­ tici che, in quanto tali, non possono certo appagarsi del susseguirsi di tesi ugualmente plausibili e forti ma contrapposte, delle quali non è mai chiaro quale sia quella giusta. Noi sapremo goderci invece questi testi così come sono perché, sul piano morale e conoscitivo, sanno darci moltissimo /asciandoci felicemente insoddisfatti. Così ne vorremo di più, e ancora di più, e poi ancora e ancora di più: di pensiero, di argo­ menti, di dialoghi, di Platone e di altri pensatori. Saremo così entrati cioè, con lo spirito giusto, nel gioco della filosofia.

E capiremo anche lo strano incoraggiamento che toccò a Francesco Ador-

no quando, giovanissimo, si aggirava in una libreria fiorentina in cerca di testi platonici: > (Fedone, 90d-e). Non a caso, così, nel Fedone , le prove per dimostrare l ' immortalità del­ l ' anima, senza di cui neppure si potrebbe sostenere che la virtù è scien­ za («non si ha virtù vera se non è accompagnata dal sapere>> : 69b), non sono dimostrazioni vere e proprie, ma ragionevoli avvicinamenti, sul piano della 'riduzione delle ipotesi ' , mediante cui porre non contradditoriamen­ te, e cioè in forma omologa, sia che l ' anima è attività per sé, sia che tale attività non sarebbe se non scandendosi entro i termini che permettono i giudizi (idee). Si capisce, perciò, perché Platone neghi che l ' anima sia armonia degli elementi corporei (come vorrebbe il pitagorico Simmia:

Fedone, 85d sgg.) , e che l'anima pur cadendo nei corpi , pur passando dal­ l ' uno all' altro, si venga consumando e disfacendo sì come un mantello, che per sopravvive ai suoi indossatori (abbiezione di Cebete amico di Sirn­ mia). Il problema, in realtà, è un altro: ciò cui Platone tende è dimostra­ re che l'anima in quanto tale, cioè in quanto esperienza di vitalità e di atti­ vità non è affatto una sostanza, una cosa, una realtà per sé, ma è attività (tale è la sua essenzialità) e giudizio, senza di cui neppure sarebbe la sen­ sibilità; è da un lato capacità di conoscere e, dal l 'altro lato , di costituire in unità quella realtà dispersa e molteplice nell' apparire sensibile. Tale la ragione per cui l ' anima non è sostanza, ma essenza, non è armonia di elementi corporei, ma costitutrice de li' armonia dei dati sensibili e. quin­ di, non è corporea proprio perché attività e vitalità. Fuori del contesto vivissimo e drammatico del Fedone, fuori da un' espo­ sizione minuziosa del procedimento per ipotesi, esporre le quattro prove - in effetti una sola

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è cosa impossibile anche perché continuamen-

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te Platone interseca, interpretando simbolicamente (e lo dice lui stes­ so) , certi significati dei ' misteri ' , che il più delle volte ha fatto scam­ biare per affermazione teologico-mistica, quella che, in realtà, è una ricer­ ca metodologica, o dialettica: logica; si badi che in Platone il termine ' logica' non c ' è proprio perché non si tratta di una scienza; la dialetti­ ca è qui intesa da un lato come arte del ragionare e, dall'altro lato, come arte del sapere ordinare le nozioni raggiunte, in un'articolazione che per­ mette la scienza, come strumento ordinante. In realtà Platone prende le mosse da una constatazione e dalla esperienza di un conflitto: mondo della sensazione , dei dati , del patire , del l ' opinione , del l ' incompeten­ za, della corporeità (molteplice e dispersiva) e, perciò, della morte , da un lato; e, dall'altro lato, esperienza di sé come attività giudicante, capa­ ce di dominare , di assumere competenza, come vita: morte-vita, dun­ que . Di qui la prima affermazione che dal no nasce il sì e dal sì i l no, in un processo reciproco; tutte le cose si generano dal proprio contra­ rio, e, dunque, dalla vita la morte e dalla morte la vita. Il contrario della morte è la vita. L'esperienza che l ' uomo, come tale, è vita, in quanto attività razionale (anima razionale) implica che il morire alla corporei­ tà è vivere, e che, perciò, la coppia vita-morte e morte-vita implica, a ' sua volta, il vivere , che si scandisce nei due termini morte e vita, per cui la vita è sempre , in quanto circolarità dei due termini stessi; vita­ morte-morte-vita sono il circolo uno della vita, per cui sempre è l 'ani­ ma in quanto attività (cfr. 12a-b). Sembra così chiaro come questo primo argomento (i contrari) suppon­ ga l 'argomento della reminiscenza, trattato nel Menone (cfr. Fedone, 72e). Nel Menone il motivo della reminiscenza dà luogo a proporre l ' ipotesi che l ' anima nella sua attività riscopre in sé le guise mediante cui giu­ dica, rivela a sé le condizioni del giudizio, che sono intese come ciò senza di cui una cosa non è (cause e, perciò, essenze), rivela la «verità degli enti>> , per cui tali condizioni unificano più cose date qualificandole (cogliendo l'aspeno unico di più dati, l'idea: sotto questo angolo le qua­ lità, gli aspetti , le idee non sono più questa o quella cosa, sono anzi prima , il ciò senza di cui le cose stesse non esisterebbero), e si articolano tra di loro permettendo così i l passaggio dalle singole opinioni alla possi­ bilità del sapere come condizione prima delle singole scienze e delle tec-

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niche. Si costituisce in tal modo la virtuosità di ciascun uomo, tale in quanto sappia pensare, assumendo così consapevolezza delle proprie competenze (e in ciò sarà, appunto, buono e virtuoso). Nel Fedone, attra­ verso l 'argomento dei contrari, il motivo della reminiscenza , nel ritro­ vare l ' anima come attività, come capacità di giudizio, di determinare la 'verità degli enti' (cfr. 90d 6) e perciò l ' esistere stesso delle cose , impli­ ca che l'anima è sempre e che l ' anima da sempre ha la possibilità di giu­ dicare; e allora, ipoteticamente, si può dire che l ' anima prima di cade­ re in questo nostro attuale modo di vivere ha veduto le forme , le essenze, le condizioni senza di cui nulla è . D ' altra parte, posto che il giudizio esi­ ste e che implica l ' attività dell'anima in quanto razionalità, nulla vieta di porre, sia pure ipoteticamente («se - importante è il se ipotetico veramente esiste ciò di cui facciamo tanto discorrere ... , cioè ogni essen­ za)) 76d) , ma non contraddittoriamente che le cose ci sono e si ricono­ scono in quanto sono i «ciò senza di cui)) (essenzialità: il termine usato da Platone è usia) , le cose non sarebbero quello che sono (cfr. 76d-e). Per altro verso nulla sarebbe se non vi fossero i due momenti: la sensi­ bilità e le percezioni (sensibilità=corporeità: «ricercare mediante il corpo è come dire ricercare mediante i sensi)) 79c), da un Jato; e; dal­ l'altro Jato, le idee (le 'forme' e ' aspetti' senza di cui il molteplice resterebbe tale, cioè non esisterebbe, e per cui un complesso di dati si possono dire belli o buoni , uguali o disuguali , rotondi e così via); esse non solo permettono l ' unità, l' aspetto di un complesso, ma dovrebbe­ ro permettere anche il 'discorso' , cioè il passaggio da idea a idea e l ' ar­ ticolarsi, nel giudizio, dell'una idea all' altra, in una sola trama e inte­ laiatura in cui, alla fine, consisterebbe la scienza e la possibilità delle singole scienze e tecniche. Nel Fedone la seconda questione non è chiaramente approfondita (il pro­ blema si delinea nella Repubblica, per divenire il problema di fondo dal

Fedro in poi), mentre sono poste con decisione le 'condizioni senza di cui' , ossia le 'essenzialità' , che la ragione ritrova nel suo dialogare con se stes­ sa, e che permettono l'esserci di complessi di cose in unità. Tale 'unità'

(aspeno, o idea) non è, dunque, questa o quella cosa, non è dato sensibi­ le, divisibile (corporeità), ma è 'termine ' , non più divisibile e, perciò, sem­ plice, invisibile all'occhio del senso, presente solo all' intelligenza, e ,

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perciò, incorporeo , logicamente trascendente le singole cose da esso uni­ ficate e togliendo il quale la cosa stessa non sarebbe (cfr. 79c-d, 81 a). E allora, le condizioni logicamente trascendenti (idee), che l ' anima trova in sé, nella sua attività dialogica, come condizioni perché ci sia l ' anima stessa, in quanto giudizio, e l ' unità della molteplicità, cioè la stessa esi­ stenza delle cose, nell'attività della stessa anima, implicano che l ' anima è 'simile' alle idee, cioè non divisibile, con corporea, ma semplice, non mutabile, non fluida, non mortale (come è, invece, la corporeità, la sen­ sibilità). L'anima (non certo, questa o quella singola anima), dunque, è sempre . Dall 'argomento dei 'contrari' a quello della 'reminiscenza' , si passa così , nel Fedone, ali' argomento della ' simiglianza' (cfr. 78b-84b) . Di qui si capisce come Platone possa negare con forza che l ' anima sia armonia di dati corporei, o abbia una sua 'cosalità' (replica a Simmia e a Cebete, cfr. sopra), e ch'essa, invece, è sempre in quanto razionalità, intelligenza, e che, perciò, è immortale nella sua 'formalità' , per cui , in effetti, l ' anima razionale è sempre e non è mai: è sempre in quanto intel­ ligenza e scienza, realizzando con ciò la propria capacità, ossia virtù; non è mai in quanto sensibilità pura, scompiglio di sensazioni in l ibertà (otti­ mo l 'esempio del l ' anima ebbra: Fedone, 79c), in quanto opinione, per cui non realizzando la propria capacità è male, viziosità, puro patire, pas­ sionalità. Miticamente allora è chiaro in che senso Platone sottolinei che l ' anima buona, cioè l ' anima che sappia pensare, che si realizzi come intel­ ligenza è simile agli dèi, e separata dal corpo, viva vicino all'eterno, men­ tre l 'anima passionale, presa dalle cose, l'anima viziosa, patisca e sia con­ dannata: tale , sembra , i l significato del mito finale del Fedone . L'essenzialità dell'anima sta , dunque, nel suo essere attività e non pas­ sione, vita e ' giudizio ' , senza di cui le cose non sarebbero. Entro questi termini, in quanto capacità di scienza, l ' anima è dominante, ha la capa­ cità di dominare le cose, ed in ciò, nel suo sapersi liberare, emendare, puri­ ficare è virtuosità e bene (cfr. 80a-84b). Non solo, ma obbiettivamente l 'anima, non in quanto passionalità (anima irascibile e anima concupiscibile), ma in quanto attività che nella sua stes­ sa attività, nel riflettere su di sé, rintraccia in sé le guise, le cause, senza di cui i dati del l ' esperienza rimarrebbero fluidi e opinabili , si rende conto, nel giudizio, della ragion d'essere delle cose e delle azioni, del loro

Platone Il pensiero

fine, di come è bene che cose e azioni siano, andando oltre il porre ' ipo­ tesi ' che spieghino solo l 'esserci necessario di cose e azioni. Di qui , se da un lato Platone accetta il metodo di Anassagora e dei medici empiri­ ci , dall' altro lato ne discute le conclusioni, ché esse restano pur sempre sul piano dell 'opinione ' , sì come , nell'ambito dei rapporti umani, resta­ no sul piano delle opinioni e non della scienza le conclusioni di certa sofi­ stica, che rimane, dunque, 'privata' e non pubblica (cfr. per Anassago­ ra,

Fedone 97b - 99d) . E così , ancora una volta, il postulato dell 'anima

come formalmente eterna nella sua capacità di

giudizio e, perciò, di

dominio, porta Platone a proporre , di contro all'opinione, la funzione del­ l ' unica forma del sapere (scienza), mediante cui si determinino i singo­ li campi delle scienze. Certo è che nel

Fedone, Platone , puntando sull'esperienza dei contrari:

non più il caldo e il freddo, il secco e l ' umido, e così via, ma patire (cor­ poreità-sensibilità-passioni)- agire (consapevolezza di sé come attività, anima, come capacità di giudizi mediante forme e cause qualificanti che l'anima coglie nel suo stesso dispiegarsi) , chiude esattamente il cir­ colo della sua dimostrazione , sottolineando che, appunto , I 'essenza del­ l ' anima è l'esperienza che l ' anima ha di sé nel suo essere dialogo come attività, cioè come vita, per cui i contrari si risolvono nell' unica tensio­ ne tra i due termini , in cui consiste l ' unica vita (che in sé non ha dunque contrari) . Se l ' anima, perciò, è vita, essa partecipa dell' idea di vita, per cui non può accogliere in mento:

sé l'opposta idea, l' idea della morte (quarto argo­

l'anima come vitalità). All'obbiezione che nella prima argomen­

tazione si sosteneva che i contrari si generano reciprocamente, si rispon­ de che mentre là si trattava di sostenere che «da cosa contraria nasce cosa contraria», qui si dice che il «contrario in sé non può

mai divenire con­

trario a se stesso»; là si trattava «delle cose che hanno in sé i contrari , ora si ragiona dei contrari in sé», che escludono che i contrari siano contra­ ri di se stessi, per cui l ' anima essendo vitalità (e perciò essere), non può accogliere in

sé il non essere , la non vitalità , la morte; che pur è nella ten­

sione vita-morte, la cui circolarità è la vita che, dunque , è

sempre (cfr.

l03a-b), per cui 'sempre' sono le ' forme' senza le quali neppure sareb­ be la vita e la possibilità d'esserci delle cose, nel giudizio, e, quindi , nel ' discorso' .

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1 1 1 . DAL : Menone, Fedone) le condizioni senza di cui (cause, idee) non si pensano le cose , cioè non sono le case stesse; ma nel Convito v'è qualcosa di più, che va oltre il Menone e il Fedo­

ne. Oltre le idee, condizioni e cause («essenzialità» , che rendono possibi­ le la definizione omologa delle cose), perché quelle 'essenze' , quelle forme

(idee) non restino atomi mentali , idee accanto a idee a sé, e dunque, anco­ ra una volta, opinioni, o mere ipotesi, e perciò 'private ' , è necessario che di là da esse vi sia una condizione unica (una unica ragion d'essere). Essa deve permettere a sua volta l 'esserci delle idee e l ' articolazione e il coordinamento di esse, sì che ciascuna sia là dove è ' bello' che sia. in un tutt'uno armonico-dialettico (bellezza) che è Io stesso discorso della ragione; meglio, essa deve permettere la ragione come discorso , che oltre le idee-immagini coglie sé , intuitivamente , come capacità unificatrice (e perciò come scienza) e tensione (amore) a realizzare quell'unità della molteplicità, condizione prima e fine ultimo. ln altri termini , la raziona-

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lità, e, perciò, la scienza, scaturendo dallo stesso discorso, in cui, per quel che abbiamo già detto , si risolve la stessa esistenza della realtà e trova fondamento l'esserci delle cose, implica una condizione prima - meglio richiede, postula una condizione prima in assoluto - da cui tutto segue in una divisione dei molti aspetti del discorso (singole scienze, ciascu­ na in sé valida per ciò che le compete) , ma che ritrovano la loro unifi­ cazione in quell'unica ragion d'essere - colta nell'intelletto che tutte le ordina in unità, come, appunto, è bello che siano, per cui alla fine la scien­ za suprema è scienza del bene e del bello, senza di cui non sarebbero le altre scienze. Solo allora le stesse altre scienze, le singole competenze, divengono beni, nell'unico bene comune, per cui hanno significato solo nell'unità corretta della divisione delle competenze, nella molteplice unità armonica che è la politèia, la res-publica. Nel Convito, forse, non v'è ancora tutto questo, ma è indubbiamente nel

Convito che si profila quello che nella Repubblica sarà da un lato il con­ cetto del Bene (il Bello del Convito) e del , giusto, e delle scienze, signi­ ficanti e feconde solo neli ' organizzazione pubblica e, dali' altro lato, il valore nuovo che assume la dialettica, come la via mediante cui si coglie, pensando, dialogando, l'unità molteplice (dialogica) del tutto, una con lo stesso corretto (giusto) e, perciò, universale modo di pensare . Nel Convito, intanto, eros filosofo , figlio di ricchezza e di povertà

(pòros e penia), né bello né brutto , né sapere assoluto («nessun dio è filosofo , o desidera diventare sapiente, ché lo è già»: 204a), né igno­ ranza assoluta («chi non avverte la propria deficienza non può deside­ rare ciò di cui non sente il bisogno» : 204a), è posto come il termine medio («Si trova a mezza strada tra la sapienza e l ' ignoranza»: 204a), tra la mera opinione e la scienza, nell' esigenza di determinare il fon­ damento unico dei singoli universi di discorso (le ipotesi verosimili), per cogliere di là da essi, e di essi condizione, la condizione prima in una màthesis unica («apprendimento unico»), attraverso il dialogo.

Ed è attraverso il dialogo che, ogni volta, rinasce la tensione ad ope­ rare secondo bellezza (a 'procreare nel bello' : 206b), cioè secondo armo­ nia, secondo quell'unità che articola in un solo discorso armonico il mol­ teplice pensato (e armonia è bellezza: cfr. 206c-207a), in una teoria

(visione) che è, ad un tem po , pòiesis (fare), in una rivelazione improv-

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visa exàiphnes (dove va tenuta presente la scintilla che improvvisa bril­ la nell'anima della VII lettera , cui abbiamo fatto cenno), che è molla a fare bene, secondo bellezza («l'amore è amore di possedere il bene»:

207a). E amore sarà dapprima, per l'uomo mortale, esigenza di una spe­ cie di eternità che si realizza nel procreare , nel lasciare dopo di sé alui esseri simili a sé; e sarà desiderio e amore dei corpi belli e poi della bel­ lezza uguale in tutti i corpi , per cui sarà amore della corporeità bella, e poi ancora amore delle anime belle ed esigenza di procreare , attra­ verso discorsi, anime belle, una vita socialmente armonica; mediante ciò si giungerà a contemplare il bello che è nelle istituzioni e nelle leggi, passando quindi alle scienze (cfr. 207a- 2 1 0c) . Chi sia stato educato fin qui nelle questioni d ' amore, attraverso la contemplazione graduale e giusta delle diverse bellezze, giun­ to che sia oramai al grado supremo dell'iniziazione amorosa,

all'improvviso [exàiphnes] gli si rivelerà una bellezza meraviglio­ sa per sua natura, quella stessa in vista della quale ci sono state tutte le fatiche di prima: bellezza eterna, che non nasce e non muore , non s ' accresce né diminuisce, che non è bella per un verso e brutta per l'altro, né ora sì e ora no; né bella o brutta secon­ do certi rapporti; né bella qui e brutta là, né come se fosse bella per alcuni, ma brutta per altri. In più questa bellezza non gli si rive­ lerà con un volto né con mani, né con altro che appartenga al corpo [non cioè in immagine , non cioè come esistente per sé], e neppu­ re come discorso o scienza [in quanto condizione prima dei con­ cetti , e della scienza come discorso] , né come risiedente in cosa diversa da lei, per esempio in un vivente, o in terra, o io cielo, o in altro, ma come essa è per sé e con sé, eternamente, univoca, mentre tutte le altre bellezze partecipano di lei io modo tale che, pur nascendo esse o perendo, quella non si arricchisce né scema, ma resta intatta. Ecco che quando uno, partendo dalle realtà di que­ sto mondo e proseguendo in alto attraverso il giusto amore dei fan­ ciulli, comincia a penetrare questa bellezza, non è molto lontano dal toccare il suo fine. Perché questo è proprio il modo giusto di avanzare o di essere da alui guidato nelle questioni di amore:

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cominciando dalle bellezze di questo mondo, in vista di quell'ul­ tima bellezza salire sempre , come per gradini , da uno a due e da due a tutti i bei corpi e dai bei corpi a tutte le belle occupazioni , e da queste alle belle scienze e dalle scienze giungere infine a quel­ la scienza che è la scienza di questa stessa bellezza, e conoscere al l ' ultimo gradino ciò che sia questa bellezza presa a sé [ . . . ) nel­ l 'unicità della sua forma (Convito , 2 l 0e - 2 I l e). E qui Platone chiaramente dice , come già nel Menone (S i a sgg .), che la teoria esposta non è affatto di Socrate e che , anzi, siamo oltre l 'orizzonte socratico: «ora, fino a questo grado dei misteri d ' amore , Socrate , tu avresti forse potuto iniziarti anche da te; ma in quelli per­ fetti e contemplativi cui questi servono d'introduzione per chi vi si ini­ zii rettamente non so se saresti capace)) (209e-2 1 0a). Amore, dunque, è desiderio di ciò che non abbiamo, ma che dovrem­ mo avere .

È vero che amore è esigenza di puro dominio (discorso di

Fedro: 178a- 1 80b) e di oltrepassare l ' istintivo desiderio immediato di possesso («amore volgare)) o meramente fisico, che porta ad amare solo i corpi , sia dei fanciulli che delle donne), per amare chi è capace di sapienza, per cui si trova unità e accordo di anime («amore celeste))): tale amore è volto ai maschi , ché le femmine non sono capaci di sape­ re (qui va tenuta presente la posizione delle donne nell' ambito della Grec ia; non a caso certe donne, come Aspasia, ad esempio, non sono più considerate come donne; l 'amore per i maschi non è, dunque, né pederastia né omosessualità, ma altro: discorso di Pausania, 1 80c- 1 84c); è vero che amore è tensione al l ' equilibrio e all ' armonia tra gli oppo­

sti , sì come si rivela non solo tra gli uomini, ma in tutta la real tà, nei suoi rapporti di simpatie biologiche, per cui amore sfrenato è squili­ brio e malattia, amore ordinato è salute e giustizia (discorso del medi­ co Eurissimaco: 1 84e- 1 89c); è vero che amore è ricerca di ciò che ci manca, desiderio di riunire la metà che ciascuno di noi è con l ' altra metà che originariamente faceva un solo circolo con la prima metà, circo­ lo spezzato poi da Zeus , secondo l'efficace racconto pronunciato da Aristofane ( 1 89c- 1 93e): «parlando di tutti quanti , uomini e donne, io dico che noi potremmo essere felici solo se conducessimo a perfezio-

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Scena conviviale.

Nel mondo greco, i conviti rappresentavano uno dei momenti più importan­

ti della vita sociale; non a caso ai giovani diventati maggiorenni veniva regalata una coppa per il vino come simbolo def loro ingresso nella societa degli adulti.

ne il nostro amore e se ciascuno di noi si imbattesse con l 'essere gemel­ lo, restaurando così . l ' antica natura•• ( 1 93c); e amore può anche tra­ volgere in un infiammato discorso retorico, in un inghirlandato flui­ re di fascinose parole (discorso di Agatone , 1 94e- 1 97 e , di tipo gorgiano). Tutto questo è vero, ed è una rappresentazione accurata dei modi di pensare e delle concezioni proprie dei fisici e dei medici del­ l ' ultimo scorcio del V secolo, insieme al modo d ' impostare la proble­ matica dei rapporti uman i , del ineata da certa sofistica (Gorgia). Sotto questo aspetto, particolare significato assumono i discorsi del medi­ co Eurissimaco e di Aristofane , con cui Platone sottolinea ancora una volta il motivo degli opposti e dei contrari e della realtà che scaturi­ sce , sana e buona, dal loro equil ibrio . Solo che , come già nel Meno­

ne e nel Fedone , Platone sottolinea, a differenza dei fi sici e dei reto­ ri , che l ' armonia dei contrari non è nelle cose stesse , non sta in un abile giuocare delle parole muovendo in un senso o nel l ' altro gli affetti umani (sofistica), ma si ri vela, attraverso l ' attività del pensiero . nel

giudizio, mediante cui la realtà si costituisce in un'ordinata misura sin-

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fonica (bellezza), in un corretto (giusto) 'discorso' delle cose; e se cia­ scuna cosa è quella che è, lo è per la sua idea , in un coordinato

(bello) 'discorso delle idee ' . Sembra chiaro così perché , secondo Platone, le singole scienze resta­ no sul piano dell 'opinione (si tratti della fisica e della medicina come della matematica e della geometri a), qualora si rinchiudano nel pro­ prio e singolare 'discorso ' , fondato su ipotesi che costituiscano le premesse lecite di ciascuna scienza, a meno che di là dal singolare 'discorso' di ogni scienza non si trovi l a condizione prima che le arti­ coli tra di loro . Solo allora ciascuna si realizzerebbe come è bene, cor­ rettamente , in un rapporto che ne costituisce la propria misura in rec i­ proche relazioni . Tutte le scienze si possono così riportare ad un solo modo di sapere , in tale senso universale, e, perciò, non più opinabile ( 'privato ' ) , ma proprio di tutti ( ' pubblico ' ) . Per altro verso, se è vero che tutto deriva solo dal senso e dalle mol­ teplici impressioni, o - come già si è vi sto - l ' uomo si perderebbe nel fluire immediato del mero sentire , oppure se v'è accorgersi di sentire e perciò memoria dei dati e delle impressioni ricevute, le cose , risolvendosi in ricordi di affetti e di impression i , si tradurrebbero esclusivamente in ' immagini' particolari e queste, per poter essere dette o pensate, in ' nomi ' , in parole, cioè in ' segni' di quelle immagini stesse . Sotto questa prospettiva, ogni discorso , basandosi sulle impres­ sioni-ricordi, che sono immagini e parole (nomi) , assumerebbe sì una sua verità nell' ambito del proprio dire , ma evidentemente resterebbe chiuso in sé , vero in sé , apponibile ad altri ambiti di discorso, altret­ tanto veri, per cui veri tutti i discorsi, nessuno sarebbe vero. Al mas­ simo ciascun discorso sarebbe ' verosimile' , come, secondo Platone, restano le concezioni della fisica e di certa medicina, basate su ipote­ si, sì come, per altro aspetto, i 'discorsi ' della matematica e della geometria, chiusi nelle loro ipotesi . Non solo, ma sul piano dei rap­ porti umani , per chi sa abilmente giuocare sulle premesse, per chi sa scivolare da una premessa all' altra, in giuochi grammaticali e scam­ biando significati di parole, nel la contesa (eristica) dei discorsi, faci ­ le diviene i l ribaltamento d i ogni 'discorso' , sempre i n reciproca con­ traddizione, annullando ogni possibilità di scienza. Tal i , per Platone ,

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le conseguenze estreme delle antilogie protagoree e delle confutazio­ ni linguistico-grammaticali proprie di certa sofistica tarda (probabil­ mente Platone aveva presenti le aporie logiche di Antistene). Su que­ sto piano si muove l' Eutidemo, in cui per bocca di due sofisti di Chio, Eutidemo e Dionisodoro, si mostrano i possibili equivoci linguistici (sofismi}, nei quali necessariamente ci si involge se il sapere si fonda solo sui modi in cui si possono articolare le parole, in puri giuochi lin­ guistico-grammaticali e in scambi di significati , senza trovare di là dalle parole le 'forme' che costituiscono un possibile sapere universale . La funzione data da Platone ai due sofisti di Chio è assai seria, partico­ larmente per ciò che riguarda il continuo richiamo alla precisione del li nguaggio e dei termini usati entro l ' ambito della rettitudine del discorso che si fonda sull'accezione precisa e concordata, non equi­ voca, o multivoca, di termini-premesse , da cui molti , entro quelle certe 'regioni ' di discorso (o tòpoi), i discorsi veri , e, perciò, altrettan­ to non veri . È un appello, attraverso i molti sofismi che ne scaturisco­ no, alla continua attenzione alle premesse, e all 'accezione linguistica delle premesse stesse. Solo che anche questo non basta per uscire fuori dalla opinione , per sapere usare bene i dati e le stesse parole (nomi), in funzione dell'agire bene e del buon uso delle cose, domi­ nandole. Di qui, ancora una volta, l' appello alla ' scienza' . Nulla divie­ ne e si fa bene e utilmente , se non v'è un sapere di sapere come è bene che cose e azioni siano. Ecco il capo della questione: finisce che tutte quelle doti che sopra dicevamo beni non è forse esatto discorrerne come se fos­ sero per sé beni in natura ma, sembra, altrimenti sta la cosa; se loro guida è l' ignoranza sono ancora più mali dei loro contrari, di tanto quanto più potenti sono gli strumenti che mettono a disposizio­ ne della loro cattiva guida; se invece hanno a guida prudenza e sapere sono beni maggiori : in sé e per sé nessuno di essi è un valo­ re (Eutidemo, 28 l d) . [E, allora, l']unica cosa che possa fare l ' uomo felice e fortunato è di filosofare [di ricercare il sapere] (282c). La filosofia consiste in un possesso di scienza [ ... ] e la scienza

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acquisita è quella che possa esserci utile (288d-e). [Non bastereb­ be avere la scienza matematica, la medicina, la stessa scienza del­ l ' immortalità se non sapessimo servircene .] Abbiamo, dunque, bisogno di una scienza in questo modo, che il fare coincida con il sapersi servire di quello che si fa (Eutidemo, 289b). Abbiamo, dunque, bisogno di una scienza in cui il fare coincida con il

sapersi servire di quello che si fa , cioè, come è detto nel Convito (206b), di un sapere che permetta di fare , di procreare nel bene e nel bello, e, perciò, giustamente . In altri termini, per andare di là dalle opi­ nioni e dalle ipotesi , o di là dai termini linguisticamente intesi , è neces­ sario cogliere la condizione prima che permette un sapere per cui tutto si ordina nel giudizio come è bene, bello, giusto che sia, universalmen­ te, in un giusto e logicamente corretto coordinarsi delle idee, le qual i , essendo ciò senza d i cui cose e azioni non sono, sono causa ed essen­ za delle cose e delle azioni . Ogni idea, dunque, in quanto essenza di più cose che fa che quelle cose siano quello che sono, è unità di cose e , per­ ciò, trascende le singole cose che, se mai , sono quello che sono perché partecipano (metèssi) dell' idea o ne sono a simiglianza (mimèsi). E allo­ ra sembra chiaro perché Platone insista nel sostenere che le idee non sono immagini, e che, pur essendo le condizioni , i termini senza di cui non v'è corretto pensare , non sono nomi; perciò, altrove (Crati/o), Platone, riprendendo la lunga discussione, iniziatasi con Prodico, con Protagora, con Democrito, se i nomi siano per convenzione o per natu­

ra, tende a sostenere che i nomi non sono né per natura, né per conven­ zione, ma che per quanto è possibile servono a evocare, a ' imitare' i l significato d i c i ò senza di cui le cose non sono, cioè il significato della natura (idea) delle cose e delle azion i . E così non è un caso che nella

Repubblica Platone giunga a esclamare quando si arriverà a discorre­ re delle scienze particolari e della scienza che permette le altre scien­ ze: ((ma a me sembra che la questione non sia nei nomi, quando ci si proponga un'indagine su problemi tanto grandi come quelli che ci stanno innanzi [ ... ] . Un nome ci basta che con chiarezza evochi ciò che l ' anima vive» (Repubblica , 533d-e). Le idee, dunque, anche se intellezioni e , perciò, ' visioni' del l ' intellet-

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to, in quanto condizioni senza di cui non si pensano le cose . e senza di cui le cose non sono, per cui le idee si pongo­ no come causa ed essenza delle cose , non sono immagini nom i , dovuti all 'esperienza sensibile, né sono pure guise di pensare . Esse , per ciò, non si possono interpretare come 'con­ cetti ' , ma neanche come entità per sé . In realtà la questione è molto complessa ed è soprattutto complessa per lo stesso Pla­ tone. Platone è giunto alle idee per le vie che abbiamo visto. Esse, almeno in princi­

Giovane che si lava in una palestra. Alla fine del Convito, Socrate si reca al Liceo per rinfrescarsi, mentre gli altri suoi compagni sono crollati esauti.

pio, sono state poste da Platone, di contro al metodo dei fisici e dei sofisti , come condizione perché sia possibi­ l e la scienza, cui si giunge attraverso l a confutazione dialettica, in un rintraccio di termini universali ( ' idee ' , costituenti , appunto, gli aspet­

ti, le specie di ciò di cui si discorre) che permettono un corretto e giu­ sto 'discorso' . Sotto questo punto di vista, le idee, mantenendo il loro significato etimologico, sono aspetti o specie, 'essenze' di una molte­ plicità di cose per cui quella molteplicità di cose esiste, e, perciò, tra­ scendono le cose e sono 'termini' (visibili all 'occhio dell' intelletto) che permettono il giudizio e la definizione. Non solo, ma in quanto essen­

ze , per cui ciascun complesso di cose è quello che è , le idee sono cia­ scuna una unità (un òlon) e sono, perciò, non divisibi l i , cioè semplic i , incorporee , in sé non esprimibi l i , indenominabil i . Per questo Platone sostiene ch'esse, in quanto essenze, e in quanto condizioni del 'discor­ so' (universali), sono sempre (cioè sono eterne e i mmutabili) e non hanno ' luogo ' . E così nel Fedro (247c sgg .) dirà, con un mito, ch'esse sono

nel l ' iperuranio, cioè oltre il cielo (in greco uranòs: dal sanscrito varu­ nas=var=coprire), significando con cielo la volta che racchiude , che copre tutto ciò che è visibile all'occhio fisico, e con ' sopracielo ' , ipe­

ruranio, il mondo intelligibile (obbietto solo di intelletto), cioè il com­ plesso delle idee, delle essenze, aspaziali (sopracelesti) e atemporali (essenze eterne) .

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Rappresentazione di un banchetto.

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La scena rappresentiJtiJ in una tomba di Paestum sembra ricalcare fedelmentf! gli stf!ssi tennini del dialogo platonico.

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2. La «Repubblica» . a ) Il 'giusto pensare ' , il 'ben pensare' e il giusto. Saper ragionare significa ragionare correttamente, giustamente, secon­ do regole universali ; significa ragionare bene, e, quindi, in modo bello, sapendo distinguere e coordinare. Bene, bello, giusto, uguale e disuguale e così via (termini oggetto di ricerca nei dialoghi fino a tutta la Repub­

blica), non vanno intesi come mere indagini di estetica, di etica, di mate­ matica, e via di seguito. Anzi, è attraverso il saper ragionare , ragionan­ do scientificamente, che sapremo come è bene agire , in che consiste la bontà e l 'utilità di ciascuna scienza e quindi anche la virtuosità di ciascu­ na scienza, di ciascuna tecnica, di ogni azione . È solo nel saper pensare e nella scienza che si risolvono tutte le virtù e assumono significato le singole virtù . Solo che, a sua volta, tutto ciò implica dei termini che per­ mettono il 'discorso ' , implica le idee-termini. E questo significa che il bello, il giusto, il bene, l 'uguale e il disuguale, e così via, non sono e non permetterebbero il giusto esserci delle scienze, delle tecniche e delle azio­ ni, in un comune articolarsi; ove ciascuna scienza e tecnica ed azione trova il suo giusto posto, se non avessimo anche idee costituenti i complessi di più cose e senza di cui non vi sarebbe il 'discorso' unico. Il ben pen­ sare, il giusto pensare, il bel pensare, senza di cui non vi sarebbe il vive­ re bene , l'agire bene, il fare bene ciascuno ciò che gli compete , in un solo bene comune, rimandano alle singole idee (indefinibili, se non per imma­ gini); e le singole idee rimandano, a loro volta, ad una comune ragion d'es­ sere, al Bello del Convito, all' indefinito Bene della Repubblica (505b sgg.), a quell' essenza 'senza forma' (figura) di cui si parla nel Fedro (241b-d).

È entro questi termini che, nella Repubblica , la 'dialettica' , pur rimanen­ do legata all'originario significato di 'arte del ragionare ' , assume un valo­ re particolare; essa cioè assume il significato di scienza di scienza: scien­ za di come è che le idee si costituiscono in un corretto, e, perciò, vero, 'discorso' , in un saper passare dalle idee alle idee, dando così ragione delle ipotesi da cui in realtà si formano le singole scienze. Sotto questo aspet­ to sembra chiaro perché vero politico non sia il sofista o l ' oratore lega­ to al giuoco delle opinioni, ma il dialettico, cioè il filosofo , colui che,

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sapendo ragionare , è giunto alla scienza del bene, per cui sa qual è il bene e I' ordine su cui tutto si scandisce. È questo il tema centrale della Repub­

blica in cui si viene ad avere l'identificazione tra dialettica-fllosofta e poli­ tica e tra politica e scienza di scienza, condizione perché ogni scienza sin­ gola, ogni tecnica, ogni funzione e competenza si realizzi utilmente, come è bene, in un solo e giusto ordinamento.

b) Conoscenza sensibile-percettiva e conoscenza intelligibile (opinione e scienza) . All'opposizione tra retorica e dialettica si sostituisce ora l'opposizione tra conoscenza sensibile-percettiva (mondo dell 'opinione) e conoscen­ za intelligibile (mondo della scienza), tra mondo del sensibile e mondo dell 'intelligibile, di cui si rende ragione mediante la dialettica. Da tale opposizione si è venuto formando il cosiddetto «dualismo» platonico. E di «dualismo» certamente si tratta, ma non tra due piani opposti di real­ tà: il mondo delle cose e, di contro, altro da quello, su altro livello, il mondo delle idee , il mondo intelligibile. In Platone questo non c'è, se non mediante miti e, perciò, per evocare altro. Ci sono piuttosto due nostri modi di atteggiarci nei confronti dell'unica realtà, che è una e moltepli­ ce, dialetticamente coordinata, nell ' atto ch'essa viene compresa, e che resta invece molteplice, fluida, disordinata finché si resta sul piano della sensibilità e dell'opinione. I vari momenti della conoscenza - senso, per­ cezione, intelligenza - culminano in un atto intellettivo che rivela come l'un momento s' integra e s' invera nell' altro, in un sol 'discorso' , che, ren­ dendo conto dell'uno e dell' altro momento, permette di ridiscendere nel mondo del sensibile e della percezione, che illuminati cessano di esse­ re tali. Processo ascensivo (gradi della conoscenza) e processo discen­ sivo (dialettica) sono così due momenti di un unico processo. Il momento ultimo del processo conoscitivo, cioè , l ' intellezione del fon­ damento della stessa scienza (il bene), che costituisce il tutto in unità, non è un atto mistico: anzi , è ciò che rende possibile il 'discorso' scientifico (la discesa), 'discorso' universale e necessario, e che coordina il tutto come è bene e giusto che sia. È così che Platone, nella sua polemica contro I.so­ crate e contro il modo di fare politica in Stati che, in realtà, non sono Stati

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perché somme di opinioni e aleatori equilibri di parti , propone ora quali siano le condizioni perché vi sia lo Stato, ossia perché vi sia la 'res-publi­ ca' , tale in quanto si fonda sulla 'scienza del bene ' . Nelle pagine culminanti della Repubblica Platone, dopo essere giunto a mostrare in che senso solo i filosofi hanno la capacità di costituire la 'res-publica' , lo Stato, in quanto hanno l a scienza del Bene , allego­ ricamente descrive (mito della caverna) e spiega il processo conosciti­

vo, per proporre poi il processo discensivo o ' dialettico' , ove struttura del 'discorso' , costituente nel giudizio la trama su cui il tutto si ritma, e ' dialettica' , come capacità di ripercorrere le trame del discorso stes­ so, vengono a coincidere . Ed è, appunto, attraverso la ' discesa' che Platone chiude il circolo della dimostrazione.

c) La 'giustizia' , tema della Repubblica . Lo Stato, il tutto e la condizio­ ne del 'bene comune' Il punto di partenza della Repubblica è la decisa affermazione che non si sarebbe potuto intendere cosa è giustizia nel singolo - questo il tema pro­ prio della Repubblica, sin dal I-II (366b) libro, ove si propongono le definizioni storiche della 'giustizia' - se non ricercandola nello Stato e in ciò che fonda lo Stato (cfr. Repubblica, II, 367e-369b). Solo che, vice­ versa, ci si rende conto alla fine che se è vero che v ' è uomo giusto, tec­ nica giusta, scienza giusta, solo in quanto si risolvono nello Stato , è altrettanto vero che non v'è Stato se non sono giusti i singoli; solo allo­ ra divengono giuste attraverso i cittadini stessi le scienze, le tecniche, e così via, in quanto opera di uomini giusti. E i singoli divengono giusti in quanto da singoli, da individui, da frantumati nel conflitto delle opinio­ ni (come tali sempre 'private') e, quindi, presi dal complesso delle imme­ diatezze sensibili, si risolvono, in sé e in rapporto agli altri , in interiore equilibrio e misura, cioè in 'ragione' , e in un equilibrato rapporto di misura, cioè di ragione, nei rispetti degli altri . Gli altri, anzi , non sono più altri, ma la stessa possibilità della misura di ciascuno, in un ordine e in un giusto modo di esserci che vengono oltrepassando i singoli e si attua­ no neli' esistenza dello Stato, a sua volta esistente in quanto ciascuno, rela­ tivamente alle proprie funzioni, e in relazione alle funzioni degli altri, attua

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bene, cioè giustamente, quel che gli compete. L'impalcatura o, meglio, la struttura della Repubblica, nell'articolazione dei suoi dieci libri, si scan­ disce pendolarmente dali' ascesa alla discesa: dali' analisi di quali sono gli elementi da cui nasce uno Stato allo studio di quali sono le leggi che gover­ nano lo Stato perché sia uno e non una molteplicità di Stati in conflitto nello Stato, fino alla legge suprema, al Bene; e dalla legge suprema ai sin­ goli aspetti senza di cui non vi sarebbe lo Stato , ripercorrendo dialettica­ mente le sue trame e dialetticamente riunificando i momenti diversi in una sola unità. A parte ora il I libro (una specie di introduzione storica), i libri II-V (47 1 c) si presentano come una prima parte ove si studia come è che si costituisce e deve costituirsi una palitèia per essere giusta; i libri V (da

47 1 c)-VII , seconda parte , propongono le possibilità per cui è lo Stato giu­ sto come idea; i libri VIII e IX, terza parte, si occupano delle forme dege­ neri dello Stato (gli Stati di fatto); nell' ultima parte (libro X), dopo avere delineato lo Stato felice in cui non può aver posto )"arte mimetica' , si discu­ te sul significato di libertà (mito di Er). Se l'uomo è, per sua natura, rapporto, se già in sé è relazione, ciò impli­ ca che non v'è rapporto umano, cioè societas, se non v'è la legge che gover­ na il rapporto stesso secondo un giusto ritmo, per cui la legge trascende i singoli, sì come la giustizia trascende i singoli . E allora, finché si resta sul piano delle 'opinioni' , finché ogni aspetto di cui si costituisce ciascun uomo rimane sganciato (àlogos) e dis�icolato dall 'altro, fmché uno non si articola con l'altro come in un solo 'discorso' (lògos), non abbiamo giu­ sto rapporto e, perciò, non abbiamo Stato. Si spiega così , nello studio di che cosa è giustizia nel singolo, il passaggio platonico allo studio della giu­ stizia nello Stato (367e-369b) , e, ad un tempo, si spiega perché secondo Platone le parti e gli aspetti che costituiscono i singoli e lo Stato presup­ pongono la forma dello Stato, l' idea Stato, ossia l'idea giustizia e l ' idea bene, che, sotto questo aspetto, sono, dunque, prima . In altri termini , con molta chiarezza Platone sottolinea che lo Stato non è il risultato di una somma di parti , ma che le parti e gli aspetti e le funzioni ci sono solo in quanto vi sia il disegno, la 'forma' dello Stato, ossia la ragione dello Stato e, perciò, dei singoli; è solo tale ragione che può determinare i nessi e i rapporti che intercorrono tra l'uno e l'altro aspetto, in una sola intelaia­ tura dialettica, la quale rappresenta, ad un tempo, l 'ordine e il fine.

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II nostro scopo nel fondare lo Stato non è di rendere felice un unico tipo di cittadini , ma che sia felice quanto più è possibile lo Stato nella sua totalità [ . . .] . Non dobbiamo distinguere nello Stato una parte di pochi cittadini da rendere felici , ma vogliamo la felicità di tutti

(Repubblica , 420b-c) . [Gli altri Stati , gli Stati attual i, non sono Stato.] Un più ampio nome dovremmo dare agli altri Stati , poiché ciascuno di essi non è uno, ma più Stati insieme [ . . .] . In ogni caso ne avremo sempre due in uno, l'uno nemico dell'altro, lo Stato dei poveri e quello dei ricchi , e ciascuno dei due si suddivide a sua volta in molti ancora. Se li consideri come uno Stato solo non colpiresti certo nel segno [ . . . ] (Repubblica , 422c-423a).

d) ' Privato' e 'pubblico ' . Le tre virtù e la giustizia. Tutto ciò implica da un lato l ' abolizione , o la limitazione, della proprie­ tà privata, sì che nessun gruppo sia troppo ricco o troppo povero, e, dal­ l 'altro lato, insieme, l 'abolizione delle singole, per così dire, 'proprietà' di pensiero, o modi di concepire , in conflitto tra di loro. Sembra, così , evidente perché secondo Platone non v'è Stato se non in un assorbimen­ to di ciascun individuo nell'unica ragione, che, governando lo Stato, gover­ na a un tempo i singoli, per cui quella ragione trascende le private ragio­ ni dei singoli e dei gruppi . Tale rag� one , dunque, non è affatto il risultato della somma delle singole ragioni o opinioni . E sì come in ciascuno la ragione trascende e ordina in equilibrio le varie parti (le molteplici pas­ sioni in conflitto) in una sola ragione, così nello Stato la ragione trascen­ de e coordina in un giusto equilibrio i vari aspetti in cui si suddivide lo Stato, sì che ciascuno faccia ciò che gli compete. E allora, come i sin­ goli si risolvono nei gruppi , e singoli e gruppi nello Stato, così lo Stato si attua nei singoli, o meglio nei gruppi, l ' uno in funzione dell' altro, tutti in funzione dell' unico Stato, a sua volta capace di realizzare il bene comu­ ne, e, perciò, la felicità di ciascuno in rapporto all ' altro. Come unico uomo è simile Stato. Se, ad esempio, ci siamo feriti un dito tutto l ' insieme del corpo e del l ' anima, tutto accordato sotto il governo unico del principio che dà armonia, sente dolore e soffre

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insieme alla parte colpita, ed è proprio per questo che diciamo di avere male al dito: e così, per ogni altra parte del corpo, ugualmente si dice che è l'uomo che soffre o che è l ' uomo che sta bene se quella parte guarisce [ ... ]. Lo Stato migliore è, dunque, lo Stato che più assomi­ glia all' uomo singolo. Qualunque cosa avvenga, in bene o in male, a un solo cittadino, uno Stato simile io penso sia il primo a dire che il caso di quel singolo è come suo, e gioirà o piangerà con lui

(Repubblica, 462c-d) . Questo il punto di fondo della Repubblica . Il rapporto uomo-Stato è un rapporto intrinseco all ' uomo stesso. L'uomo è da un lato passioni e conflitto di passioni (anima concupiscibile e anima irascibile) , sen­ sibilità e corporeità, e dal l ' altro lato è capacità (virtù) di porre equi­ librio tra le passioni, governando sé , di modo che ciascun aspetto ha la capacità (virtù) di compiere ciò che gli compete, in un dominio di sé in cui consiste la razionalità (anima razionale); come capacità (virtù) di giudizio, di 'discorso ' , e quindi di dominio. L'uomo stesso, allora, si come lo Stato, in quanto misura, è unità dialettica: ed è tale in quanto ciascun aspetto compie ciò che gli compete, temperantemen­

te, in quanto ognuno sappia indirizzare a un fine comune i desideri e gli appetiti ragionevolmente, con temperanza (sophrosyne), che è quindi la virtù propria della concupiscibilità; l ' uno aspetto, l ' uno appetito non deve sorpassare l'altro, disordinatamente, ma si deve avere il coraggio (andrèia: virtù propria dell ' irascibilità), volta a volta, di sapersi adeguare al governo della ragione , sì che ogni volta si sappia agire razionalmente avendo la consapevolezza che è bene far bene , cioè secondo ragione, ciò che compete , per cui la virtù propria dell ' anima

razionale è il sapere (sophia). Temperanti debbono, dunque, essere tutti e tre gli aspetti del l ' anima, sì da non essere presi dalle passioni , uni­ lateralmente, ma, volta a volta, avendo il coraggio di essere raziona­ li, cioè avendo il coraggio di non essere determinati (molto più faci­ le è farsi vivere che vivere; per vivere , cioè per rifiutare l ' immediato se stesso, ci vuole coraggio). La stessa razionalità non è, perciò, mera teoreticità, ma consapevolezza che di volta in volta ogni nostro ano deve essere razionale in un giusto equilibrio delle tre parti , ' pruden-

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temente ' . La giustizia (dikaiosjne) così non è una virtù accanto alle altre virtù, una capacità propria dell 'una o del l 'altra parte dell ' anima, ma è quella capacità unica che rende virtuose le virtù, per cui ciascuna fa ciò che le compete , compie bene, giustamente (e perciò sapientemente) ciò che le è proprio (cfr. 427d-445e). Tale è anche lo Stato, che in sé non c'è, se non come tennine di realizza­ zione, che si attua nei cittadini. Lo Stato è uno e molteplice; o, meglio, è tale in quanto si costituisce come unità di una molteplicità. Non v'è Stato se non vi sono i lavoratori , i demiurghi, i tecnici, i contadini e gli avvoca­ ti, i medici e gli scienziati e così via, e se, ad un tempo, non v'è chi difen­ de l 'unità razionale dello Stato (i 'difensori '), e chi (il 'filosofo'), in quan­ to ha la scienza delle scienze, l ' idea di Stato, ha la capacità di governare, di realizzare l'unità dello Stato, dialetticamente, come è bene che sia, sì come un qualsivoglia scienziato (artigiano) nei confronti del proprio lavoro.

e) Le tre parti dello Stato e la sua unità dialettica nella giustizia. Tre generi diversi di cittadini, dunque, quanto a competenza: un solo Stato in cui tutti sono ugual i , ché ciascun genere di cittadino (o ciascun citta­ dino) è uguale all'altro nel suo svolgere ciò che gli compete diversamen­ te dall'altro, in funzione dell'unico bene comune. Cittadino giusto e Stato giusto, dunque, coincidono, e come le tre parti di ciascun uomo (anima concupiscibile, irascibile e razionale), quando davvero l ' uomo è uomo, si coordinano nel giusto sapere ciò che a cia­ scuna parte compete, così le tre classi , o, meglio, i tre generi di citmdi­ ni (in greco il tennine che traduciamo 'classe' è ghènos o èthnos, che non va quindi confuso con il nostro concetto di classe) si risolvono, quando davvero vi sia Stato, in unità dialettica, così ciascuna classe fa ciò che le spetta, in relazione all ' altra in funzione del bene comune: l "ordo' dei lavoratori , cioè di tutti coloro che hanno una funzione produttiva nello Stato, corrispondente all'anima concupiscibile, ossia che appetisce a realizzare qualcosa, e la cui virtù è la temperanza; dei difensori, cioè di tutti coloro che hanno la capacità di difendere la razionalità dello Stato, corrispondenti all ' anima irascibile, la cui virtù è il coraggio; dei filoso­ fi, o governanti , cioè di coloro che hanno la capacità di coordinare dia-

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letticamente lo Stato, sì che ciascuna parte faccia ciò che le compete , cor­ rispondenti all'anima razionale, la cui virtù è, appunto, il 'sapere' . E tutto ciò non in una somma di volontà particolari , ma in una relazione che rispecchia una sola volontà, e cioè la razionalità una dello Stato, in un dominio, o governo, di se stessi e in un dominio, o governo, dello Stato su di sé, unico e molteplice a un tempo, sì come organismo vivente.

Le tre 'classi ' platoniche non sono, dunque, una superiore o inferiore all 'al­ tra, così come non lo sono le tre parti dell 'anima. O meglio, le une e le altre sono tutte uguali nel loro sapere compiere funzioni disuguali, cia­ scuna secondo giusta misura, ciascuna al suo giusto posto (superiore o inferiore) in una uguale giustizia. In realtà, qualora lo Stato sia giusto, per Platone non esistono 'classi' , ma funzioni , tipi, generi di cittadini che hanno, neU 'unità dialettica, funzioni diverse; non si tratta, come negli Stati attuali , aristocratici o democratici, contro cui polemizza Platone, di una parte o di un'altra, in conflitto tra loro, in una preminenza dell 'una sul­ l'altra, o in una vittoria di una sola parte (cfr. libri ill -V). f) Le 'classi' e l'unità dialettica e mobile dello Stato. D cosiddetto 'comu­ nismo platonico' . Entro questa prospettiva sembra si precisi la questione delle 'classi ' . che si distinguono quanto a competenze, ma che si risolvono nell'unità dia­ lettica dello Stato, in armonia, senza conflitti di poteri, svolgendo ciascu­ na la propria funzione. Platone sa con questo di avanzare una proposta paradossale relativamente al modo in cui sono costituiti gli Stati del suo tempo (cfr. 450 sgg.). Egli in realtà sottolinea che tutti gli uomini sono uguali, sono tutti fratelli e che le distinzioni non sono dovute né a privi­ legi di nascita né al fatto d'essere figli di governanti o di operai . Se un figlio di operaio nasce dalla razza aurea (cioè con le capacità d' essere un governante) sarà governante, sì come uno che, figlio di difensore (razza d' argento) o di governante, abbia in sé la razza di ferro e di rame (ope­ raio) sarà lavoratore , nel senso più lato (contadino, tecnico, scienziato, avvocato, maestro e così via). Ciascuno deve essere se stesso, ma l'es­ sere ciascuno sé, sapere ciò che a ciascuno compete, sapendo che è bene fare bene il proprio mestiere, non è un dato, ma una conquista. Sotto que-

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sto aspetto lo Stato non è costituito di classi; esso è uno in un articolar­ si di funzioni diverse, in vista dell'unico fine che è il bene comune, che consiste nella coscienza dello Stato (cfr. 414b-4 1 5d) . Di contro alla situazione politica di fatto, di contro agli Stati quali sono - in effetti non Stati, perché conflitto di Stati nello Stato, di parti , di grup­ pi , di individui, in contrasti di potere - , la Repubblica è scritta per l'av­ venire (cfr. 4 1 5d), per modificare, mediante l'insegnamento e il ragiona­ mento, la situazione di fatto, per trasformare gli uomini da quello che sono - conflitti di passioni, ebbri, disarmonici, dispersi - in cittadini, cioè, alla fine, non in uomini di fatto, ma di diritto. Di qui, quale logica deriva­ zione della distinzione ed armonia delle classi, che più che classi sono in realtà funzioni dello Stato, in un reciproco rispetto delle funzioni di cia­ scuna, si sviluppa il motivo delle tre virtù (temperanza , coraggio, sapien­

za), proprie di ciascun aspetto dello Stato e di ciascun aspetto dell'anima, e della giustizia come retta armonia delle tre parti , sia del singolo, sia dello Stato (427d-445e); e di qui anche, altrettanto coerentemente, si sviluppa il tema - in contrasto con la concezione di fatto, storica, della famiglia, della donna e dei beni personali - della parità delle donne e degli uomi­ ni in un comune lavoro, della comunanza di donne, figli e beni , tema in principio avanzato da Platone per la sola classe dei difensori , ma che in futuro, nello Stato quale dovrebbe essere, ha da risolversi in funzione di tutto lo Stato (449a-466d) . L'abolizione del concetto tradizionale della fami­ glia, dell'uomo pater, del patrimonio privato, implica ancora una volta da un lato un'eguaglianza di partenza (nessuno sa di chi è figlio, nessuno sa chi è suo figlio) che permette, dall'altro lato, non una distinzione e discri­ minazione dovute a privilegi di classe, di famiglia, di censo, di poteri , ma una realizzazione di sé, delle proprie funzioni e capacità, in senso qualita­ tivo, a seconda di quelle che sono le proprie doti , secondo giustizia, sì che ciascuno in ciascun gruppo attui bene, giustamente, la propria funzione.

g) Lo Stato come unità vivente e razionale: 'cosa-pubblica' . Greci e barbari . Platone giunge così a costituire lo Stato: unità armonica in cui ogni clas­ se come ogni cittadino viene a porsi in funzione del tutto, in una giu-

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sta connessione e articolazione dialettica. Questo lo Stato, la cosa pub­

blica, ove ciascuno , non più 'privato' , attuando pienamente la propria funzione , non soverchiando gli altri, si pone in relazione con l ' altro, sì che il tutto, uno e molteplice, si attua a guisa di un sano organismo vivente. Di qui, sempre in considerazione di una situazione storica pre­ cisa, il passo che ora Platone tenta: dallo Stato giusto agli Stati giu­ sti, dall' armonia dialettica dello Stato all ' armonia dialettica degli Stati , in cui nessuno degli Stati negherebbe sé, ma insieme agli altri , ciascuno attuando la sua funzione, attuerebbe una più vasta armonia e perfezione, l ' unità di un popolo tutto che parla la stessa lingua, ha la stessa origine, un'unica religiosità (cfr. 470b-c, d-e, 47 l b) . Come ogni Stato-città (nella sua ampiezza non troppo grande perché se ne mantenga l ' unità e la possibilità del dialogo tra le parti cfr.: 42 l b-424c;

Leggi, 745b, 705a, 737d-738a, 740b sgg . , 728e sgg . , 744d sgg.) deve essere se stesso in un' armonia di parti , come ogni Stato è tale in quanto sia simile ad una sinfonia in cui ogni suono pur realizzando se stesso è retto da una sola legge che governa il tutto , e se una nota va fuori tono tutta la sinfonia si spezza; così ogni Stato in rapporto all ' al­ tro tanto più sarà se stesso, uno e molteplice a un tempo, quanto più sarà in rapporto sinfonico con gli altri , in un governo che sarà né di singoli né di parti , ma dovuto alla ragione . Solo sotto questo aspetto sarà per Platone possibile salvare l ' unità della Grecia, salvare la Gre­ cia, il mondo che parla greco, dalla minaccia del dispotismo stranie­ ro, di chi non parla greco (barbari) , o dalla minaccia di un governo pri­ vato , sia di uno (monarchia) sia di una parte (cfr. 47 l b; guerra sarà detta solo quella contro i barbari : 470c sgg .) .

h) Situazione storica ed esigenza dello Stato come 'cosa pubblica' . I 'filo­ sofi re' . Di fronte alla disperata situazione storica, l'esigenza di un'articolazio­ ne delle parti e di un panellenismo era diffusa. In Isocrate e in altri , spe­ cialmente dopo Antalcida (386) , è chiaro l ' appello ad una soluzione monarchica. Isocrate , è stato detto , mostra un vivace interesse per il vecchio problema di una riforma autoritaria della costituzione ateniese,

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L' i d ea l i s m o p lato n i co " Dopo le suddette filosofie venne la dottrina di Platone che in generale le seguì, ma in alcuni casi fornì un contributo proprio, distaccandosi dalla filosofia degli italici " ; già Ari­ stotele, nella sua Metafisica, individuava il pensiero platonico come un'elaborazione ori­ ginale, nata da quelle che erano le due principali scuole del pensiero presocratico: la scuo­ la ionica e quella italica (o eleatica). Conosciamo questo rapporto tra Platone e le principali correnti filosofiche presocratiche non solo attraverso la testimonianza di Ari­ stotele, ma anche grazie a diversi dialoghi che vedono, tra i personaggi principali: disce­ poli della scuola ionica, Crati lo - di cui lo stesso Platone era stato per qualche tempo disce­ polo -, e i più importanti esponenti della scuola italica, Parmenide e Zenone. Secondo Aristotele, in gioventù Platone aveva stretto amicizia con il filosofo ionico Cratilo - lo stesso che ritornerà nel dialogo omonimo -, da lui avrebbe appreso gli insegnamenti del più importante maestro della scuola ionica, Eracli­ to. Forse influenzata da contatti con il pensiero orientale, la speculazione ionica verteva sulla con­ statazione che, in natura, le cose mutano con­ tinuamente: l'accettazione del divenire e la dot­ trina dell'unità degli opposti costituiva il tratto distintivo di questi filosofi. La scuola eleatica di Parmenide, al contrario, postulava la necessità

dio egizio Theuth (o Thoth) era considerato il dio della scrittura e patro­ no degli scribi; nel Fedro, Platone ne fa il protilgonista di un mito teso a illustra­ re la sua inclinazione verso il dialogo rispetto all'uso della parola scritta. Il

di un ente di cui non era possibile predicare la non esistenza (intesa come il divenire di qual­ cosa che non è), giudicando assurde le conclu­ sioni fondate su presupposti diversi. l'inconciliabilità di queste posizioni portò Pia-

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tone al superamento attraverso la dialettica di entrambe le scuole: nel Crati/o Socrate stigmatizza lo scetti­ cismo implicito nella scuola ionica verso le possibilità di una qualche conoscenza, nel Parmenide, il giova­ ne Socrate espone a Parmenide la dottrina delle idee, ribattendo alle critiche del maestro eleate seguen­ do lo stesso procedimento di reduc-

Aristotele, nella Metafisica, riconobbe l'ascen­ denza del pensiero platonico dalla scuola ita/ica.

tio ad absurdum che era proprio della scuola italica. Più tardi, nel Sofista, Socrate farà completare proprio ad un discepo­ lo di Parmenide la concezione della dottrina delle idee, portandolo ad accettare la loro mol­ teplicità; la definizione di "parricidio" che Platone ha usato relativamente a questo pas­ saggio ben rappresenta l'importanza da lui attribuita al pensiero parmenideo. Certo travalicando gli insegnamenti socratici, nei dialoghi Platone ha voluto mostrare nel pensiero del suo maestro - e nella sua stessa vita - la natura stessa dell ' u idea M, qual­ cosa in grado di conciliare il divenire dei fisiologi ionici e l'immutabile dei seguaci di Par­ menide. Nelle sue opere successive, Platone sembra aver voluto rispondere anticipata­ mente alla futura critica aristotelica circa l'inconoscibilità del mondo delle idee da parte del soggetto - in mancanza di un termine medio (metax}1 -, ammantando di un signi­ ficato particolare il daimon socratico e introducendo una speciale concezione dell'ani­ ma che, per la sua stessa natura, sarebbe partecipe del mondo delle idee. In questo senso, l'enfatica affermazione di Whitehead secondo cui tutta la metafisica occidentale non è che una conseguenza del pensiero platonico appare pienamente giustificata. In realtà, negli scritti platonici non esiste una trattazione esplicita dell'idealismo, a dif­ ferenza di quanto accade per la politica o per l'educazione (Repubblica e Leggi, da sole, costituiscono circa la metà del corpus tramandatoci delle opere di Platone). Questa situazione, oltre a riflettere in parte gli interessi del filosofo, è anche da attribuire ad una precisa scelta metodologica che Platone raccoglie da Socrate, esposta didascalicamen­ te nel Fedro con il mito del dio egizio Theuth, inventore della scrittura: se interrogata, la parola serina dà invariabilmente la stessa risposta a tutti, mentre certe forme di cono­ scenza possono essere raggiunte solo dialetticamente. Probabilmente in quest'ottica devo­ no essere interpretati i riferimenti ai cosiddetti àgrapha dògmata, le lezioni orali impar­ tite all'Accademia di cui parla Aristotele.

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e proprio quando esprime zelantemente buoni sentimenti democratici dimostra di accogliere antiche tendenze oligarchiche. L'esigenza platonica è per molti rispetti assai simile a quella di Isocra­ te, solo che rovesciata è la soluzione . Di contro a uno Stato democrati­ co (dovuto al conflitto dei 'demi' e dei singoli, in cui la soluzione sta nel prevalere di un demo sull ' altro, o nel prevalere dell'opinione di un sin­ golo su quella di altri , in forme che sboccano in dispotismo o tirannide); o di contro a uno Stato aristocratico-oligarchico, o monarchico (la cui solu­ zione è sempre relativa alla forza di un gruppo o di uno solo); Platone prospetta lo Stato razionale. Nello Stato razionale il governo è, appun­ to, non di uno o di una parte, né è il frutto di un abile giuoco, di ragio­ nevoli composizioni di opinioni, indipendentemente da ogni 'scienza ' , come, invece, riteneva e insegnava Isocrate (sotto questo aspetto sem­ bra proprio, che l' Accademia, fondata da Platone , sia il contraltare della Scuola di Isocrate), ma il governo è costituito dalla stessa ragione; sotto questo aspetto lo Stato è prima , è la forma che forma e che ne permette la costituzione, ed è la condizione senza di cui non vi sarebbe giustizia, o, meglio, senza di cui ogni azione come ogni sapere non si realizzereb­ bero giustamente: ogni azione, come ogni sapere resterebbero opinioni e perciò private e non pubbliche. In altri termini non vi sarebbe Stato. Ma eccoci così arrivati - risposi - a quello che ho rassomiglia­ to all' ondata più grande: lo dirò ugualmente però, mi dovesse pur la parola sommergere , come rumorosa risata di onda, nel ridicolo e nella vergogna. Esamina dunque ciò che sto per dire. - Parla ! - A meno che - i o dissi - negli Stati non divengano re i filo­

sofi, o coloro che oggi si dicono re e sovrani non divengano veri e seri filosofi , e che non si vedano riuniti in un solo individuo il potere politico e la filosofia, a meno che d' altra parte quei molti che oggi separatamente tendono ali ' uno e all'altra, non siano asso­ lutamente eliminati, non vi sarà rimedio alcuno ai mali degli Stati [ . . . ] , e neppure , quind i , a quelli dell' umanità: mai se non a questa condizione , la struttura dello Stato che abbiamo idealmente deli­ neato potrà nascere per quanto è realizzabile , né mai vedrà la luce del sole. Ecco ciò che da tempo esitavo a dire, vedendo come sia

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estremamente paradossale a dirsi; sarà difficile, infatti , per molti , capire come tanto la felicità comune , quanto la felicità privata, non siano possibili se non nel nostro Stato (Repubblica , 473c-e; cfr. anche VI/ lettera , 324b-326b). Emergono, approfonditi , qui, due dei punti di fondo della problematica platonica. Da un Jato l'uomo qual è: conflitto di passioni, di opinioni , estra­ neo a se stesso, disperso, e l 'uomo quale dovrebbe essere, governo di sé, di volta in volta, coordinamento di passioni in una armonia che costitui­ sce la razionalità, Ja legge; e, dall'altro lato, gli Stati quali sono, specchio degli uomini quali sono, e lo Stato quale dovrebbe essere, ordine e misu­ ra, specchio dell'uomo quale dovrebbe essere, il cui governo è la legge razionale, e i cui governanti, dunque, non possono non essere che i 'filo­ sofi ' , non gli amici delle opinioni (filodossi) .

i) La polemica politica di Platone . Il ' Bene' . Chiara la polemica platonica nei confronti della filosofia e delle conce­ zioni politiche di Isocrate e della sua scuola, già ampiamente discusse nel

Gorgia, altrettanto chiara è ora la polemica di Platone non solo nei con­ fronti della 'democrazia' ateniese del suo tempo - in realtà un mero con­ flitto di opinioni e di poteri - , ma anche nei confronti della monarchia - in realtà sempre potere di un privato, sì come potere di privati è la 'democrazia' - ; e così risulta evidente che il disprezzo di Platone verso il 'popolo bestione' (Rep., 493a sgg.) non è disprezzo verso il 'popolo ' , i più, ma verso chi retoricamente usa i più pe r il proprio potere, i n solu­ zioni che non sono affatto di rapporti umani e di rispetti, ma in soluzio­ ni ove la reciproca seduzione annulla e i più e i seduttori . Governo di ' un solo' certo, ' monarchia' certo , ma non di un privato, di un singolo, bensì della 'ragione' , di cui tutti possono partecipare , ma non singolarmente, privatamente, ché, allora, non sarebbe 'ragione ' . Sotto questo aspetto non sembra troppo azzardato dire che Platone, proiettando come termine di realizzazione, sempre aperta, l'unità dialettica dello Stato, propone, in netto contrasto con la situazione storica del suo tempo, quella che sarà detta la ' sovranità popolare' . E possiamo dire questo pensando al fano che per

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Platone non si tratta di porre al potere un gruppo, un partito, un singo­ lo, ma i 'filosofi' , che rappresentano la 'razionalità' , cioè nessuno in modo particolare e privato, ma tutti , in quanto capacità di essere ciascuno sé in rapporto all ' altro, costituendo una res-publica . E qui non si può fare a meno di pensare alla ' volontà generale' di Rousseau, e non tanto per­ ché Platone precorra Rousseau - sarebbe stupido dirlo - , ma perché Rousseau cita e ha presente Platone, che discute e propone una soluzio­ ne in un preciso e per un preciso momento storico. In questo consiste il 'ben pensare ' , la 'ragione' : essa non è una realtà per sé, ma una 'capacità' (virtù) che permette l ' istituirsi ordinato (pubblico) delle varie facoltà e scienze. È chiaro, dunque, perché il Bene sia per un aspetto il fondamento deli' esserci , deli' esistere del tutto nel suo ritmo logi­ co, e, per altro aspetto, perché esso sia indefinibile, non sia un ' idea (forma, definizione) come le altre, ma la condizione senza di cui non vi sarebbe corretto ragionare e, perciò, nel giudizio, un corretto modo di esser­ ci , esistere delle singole idee e, quindi, dei singoli 'discorsi ' e dei singo­ li modi di vita, sì che ognuno sia come deve essere, in una reciproca arti­ colazione, in funzione del bene comune, risolventesi in unità dialettica. E allora, come il molteplice, il disarticolato, il fluire della vita quotidia­ na non sono di fuori , ma di dentro, così l ' unità, l 'ordine, il giusto, non sono estrinseci , ma interiori : sono nella capacità del saper pensare. Abbiamo usato i termini 'dentro' e ' fuori ' per meglio intenderei. Non dovremmo usarli. Essi rispondono ad una concezione molto posteriore a Platone . In realtà dovremmo dire che tutto è molteplice e uno, ad un tempo; molteplice e disordinato , passionale e opinabile neli' insipienza; uno, ordinato, sinfonico, come deve essere, governo di passioni , nel sapere . Il sapere , dunque, trascende i singoli e viene a porsi oltre i sin­ goli, o si pone , di fronte all ' uomo qual è di fatto, come termine di rea­ lizzazione, come 'fine' , che è sempre (e mai), e, quindi, come liberazione dalla passività, cioè come moralità realizzantesi in un giusto rapporto socia­ le, termine ultimo, aperto all ' infinito (cfr. libri V-VI). Per altro verso se le cose, quali che esse siano, cominciano ad esistere solo nel giudizio, nella definizione, per cui l 'essenza (ciò senza di cui una cosa non è) è l'idea, e ciascuna idea è in quanto si pone in rapporto con altre idee, è chiaro perché il 'bello' (Convito), il 'bene' (Repubblica), cioè il 'vero', non

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Cavaliere ateniese. Nelle

Poleis

greche (come in tutto il mondo classico) la divisione in classi

rispondeva a criteri sia censuari sia difensivi: i cavalieri erano i cittadini abbastanza ricchi da poter­ si permettere il mantenimento di un cavallo da battaglia. Platone propose una suddivisione meno articolata fondata piuttosto sulle attitudini personali.

sono essere, non sono idee come le altre idee, ma è il Bene (bello e vero) che permettendo il giudizio (l'essere delle idee) e, quindi, il 'discorso' tra le idee (l'intelligibilità) è fonte dell'essere e dell'intelligibilità, rimanendo il Bene indefinibile. Indefinibile, dunque, del Bene non si può parlare se non per immagine, evocandone con un' immagine il significato (506e-507a): esso sta al mondo intelligibile come il sole sta al mondo visibile. Ciò che, dunque, spande la luce della verità sulle conoscenze acqui­ site, ciò che dà all'anima la facoltà di conoscere, di ' pure che è l' idea del Bene. Essa è il principio della scienza e della verità, in quanto appartengono ali' intelligenza, ma per quanto belle siano - la scien­ za e la verità - l ' idea del Bene ne è distinta e sarai nel giusto se la riterrai di gran lunga più bella. E come nel mondo visibile è giusto credere che la luce e la vista abbiano una qualche analogia col sole , ma sbaglieremmo se le prendessimo per il sole stesso, così nel

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mondo intelligibile è giusto credere che la conoscenza e la verità siano simili al sole, ma sbaglieremmo se la credessimo lo stesso Bene: anco­ ra più in alto è da porsi il Bene. - Di una infinita bellezza tu parli ! , esclamò, se d i conoscenza e verità è causa, e se conoscenza e veri­ tà supera in bellezza: ché certo qui tu non intendi parlare del piace­ re . - Non bestemmiare ! , dissi . Ma considera la sua immagine ancora meglio, in questo. - Come? - Sarai d'accordo, no?, io credo, nel dire che il sole dà agli oggetti visibili non soltanto la possibili­ tà di essere veduti, ma dà anche vita, sviluppo e nutrimento, pur non essendo il sole né vita né generazione.

-

E come no? - Così gli

esseri conoscibili dirai che non hanno dal bene soltanto la possibi­ lità di essere conosciuti, ma anche il loro essere e la loro essenza, per quanto il Bene non sia affatto essenza, ma qualcosa di molto più elevato del l 'essenza, in dignità e potenza (Repubblica, 508d-509b). Il Bene, dunque, è la condizione del ' vero' e, perciò, della 'scienza' . Del Bene quindi non si dà defmizione, e la scienza del Bene non è scienza come le altre scienze. Ad esso si giunge poi, ma per trovare che, in quanto con­ dizione del sapere, è prima in assoluto. Non vi sarà allora sapere , né distin­ zione dei campi del sapere (scienze singole e tecniche), né distinzione delle singole competenze e delle singole capacità, sì che ciascuno sia sé, rea­ lizzando bene ciò che a ciascuno compete, se non v'è scienza del Bene. Il Bene, dunque, è non solo il fondamento primo che deve possedere chi ha il governo dello Stato, perché esso sia davvero 'cosa pubblica' , ma pro­ prio in quanto condizione di ogni altro sapere (scienze o tecniche in senso stretto) il Bene è formale, ossia ha significato solo se si rivela quale forma prima che rende possibili i 'discorsi' di ogni scienza e di ogni tecnica particolare (geometria, matematica, fisica, retorica, poetica, poli­ tica). Ogni scienza e tecnica ha le sue premesse e si fonda su proprie ipo­ tesi; solo che tutte, oltre i propri campi, debbono trovare la condizione prima che le accomuna e dialetticamente le distingue dando a ciascuna il suo signi­ ficato e la sua verità. Solo così ciascuna scienza, trovando un fondamen­ to comune, non resta entro l 'ambito del proprio universo, non resta esclu­ siva, sganciata dall' altra, e, dunque, non resta ' privata' , ossia opinione, ma trova nel Bene la sua ragion d'essere prima e la propria ' verità' .

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[) Il mito della caverna. I momenti del conoscere. Ascesa e discesa. Le scienze e la 'cosa pubblica' . Sembra ora chiaro i n che senso potevamo dire che processo ascensivo (dalla sensazione alla percezione, al momento discorsivo dei dati , all'in­ tellezione) e processo discensivo (dali' intellezione del Bene al discorso tra le idee, e da questo alle singole scienze) sono due facce di un solo pro­

cesso. Evidentemente il processo conoscitivo non va confuso con quel­ lo discensivo, con la dialettica, ossia con la scienza di scienza, che rende possibili le singole scienze e che tuttavia si fonda sull'intellezione del fon­ damento primo, che, dunque, non è un atto mistico-intuitivo, in cui tutto si perderebbe, ma il fondamento del processo scientifico, delle possibi­ li deduzioni, l'atto primo senza di cui non vi sarebbe scienza, o meglio non vi sarebbero le scienze.

In realtà Platone non nega affatto il momento empirico: anzi, la conoscen­ za è sempre empirica (ed essa non è né vera né falsa, ché il vero e il falso stanno nel giudizio). Platone nega che il giudizio, da cui scaturisce, nella definizione, l 'essenza (l'idea) sia il risultato di una somma di dati empirici . Essi sono necessari per giungere al giudizio; solo che essi stessi non sarebbero se non vi fosse il giudizio. Il fondamento primo del conoscere sono le sensazioni. Esse sono oscure e umbratili, immagini riflesse. Certo, fin quando si resta presi dalla mera sensazione ci confon­ diamo con l'immagine di ciò che sentiamo, per cui opiniamo reale l 'im­ magine riflessa di noi stessi complessi di sensazioni (questo il primo grado che Platone chiama, perciò, il grado dell 'immaginazione o eikasia). Senonché quando c i rendiamo conto che il sentire è modificazione, per cui non sentiremmo se non ci sentissimo diversi da ciò che ci modifica, poniamo ciò che sentiamo come altro da noi, in obbietti nella cui esisten­ za assumiamo fede (questo il secondo grado, che Platone chiama, appun­ to,fede o pistis). I due momenti (immaginazione efede), l'uno integran­ tesi nell' altro, per cui il primo s'invera nel secondo, costibliscono il mondo del sensibile, e, insieme, determinano il fluido mondo dell' opi­

nione (dòxa): abbiamo qui insiemi molteplici ma disarticolati, ché siamo ancora presi dalle cose quali ci appaiono nella loro singolarità: proiezio­ ni, obbietti di noi stessi. Questo è il mondo esbinseco, sensibile, corpo-

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reo, in quanto ci limita e non è giudicato, che subiamo e che opiniamo reale per sé. E tale è l'uomo quotidiano, che si accontenta di ciò che avvie­ ne (degli eventi) , che prende per reali e le immagini e le immagini­ obbietto, e che, dunque, è tutto passività, spinta di passioni e giuochi di passioni e di opinioni. Sono questi i due momenti del conoscere sensi­ bile su cui si costituisce l 'opinione che Platone , per meglio fare inten­ dere , corposamente chiarisce con il paragone della caverna . Gli uomini quotidiani, il cui conoscere si scandisce tra l ' immaginazione e la fede, sono uomini che vivono in un mondo umbratile, di apparenze, di imma­ gini e di immagini riflesse in oggetti, sì come in una sotterranea caver­ na (cfr. libri VI e VII). Nella sotterranea caverna Platone immagina che stiano incatenati fin dal­ l' infanzia uomini legati in modo da poter guardare soltanto verso la parete di fondo, opposta all 'ingresso, senza mai volgere il capo all ' intor­ no e all'indietro. Alle loro spalle, alta, lontana risplende la luce di un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri passa in alto una strada e lungh 'essa è costruito un muricciolo, simile allo schermo che i burattinai innalzano tra sé e gli spettatori. Lungo la strada vanno degli uomini che portano su di sé oggetti di ogni sorta; gli uomini non si vedono, ma sì gli oggetti eh' es­ si hanno sulle spalle: statuine di legno o di pietra raffiguranti cose, ani­ mali, e così via. I prigionieri della caverna non vedranno altro che le om­ bre di queste statuine riflesse sulla parete loro antistante e non potranno certo immaginare che quelle ombre siano vera realtà o tanto meno che derivino da oggetti solidi e reali di cui per il momento non hanno nes­ suna conoscenza, tutti presi e fusi come sono dalle ' immagini' (è questo il momento della eikasfa). Se però uno dei prigionieri venisse sciolto e potesse finalmente volgere il capo, stenterebbe, in un primo tempo, a rico­ noscere di avere sempre creduto reali soltanto delle ombre, e in un secondo momento avrebbe, invece, 'fede' che reali , obbiettive, fuori di sé, sono le statuine che passano sopra il muro (ed è questo il momento della pistis) (cfr. 5 1 4a-515e). Aveva detto prima Platone che «nella parte relativa al mondo visibile», o sensibile, si ha ((una prima sezione, quella delle immagini» e un'altra sezione, quella degli obbietti, quali si definiscono nella proiezione delle immagini; esse sono le cose quali appaiono, fuori di noi. E così (d ' im-

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magine sta all 'oggetto di cui essa è immagine come l 'oggetto dell 'opi­ nione sta a quello della conoscenza»

(509e-5 10a). Sui dati dell 'esperien­

za, sulle fluide opinioni si fonda, dunque, la possibilità della conoscen­ za vera e propria. I dati non bastano. Essi vanno giudicati , definiti , coordinati nel 'discorso ' . E la ' verità' non sta nei dati , né scaturisce da una somma di dati o di opinioni. La ' verità' sta nel giudizio. E la capa­ cità del giudizio, mediante cui coordinare un certo complesso di dati in un insieme che spieghi e renda intelligibili i dati stessi, è dovuta all ' at­ tività dell' intelletto , alla funzione propria della ragione, mediante cui il mondo del sensibile e dell'opinione - disarticolato e disordinato , estrin­ seco finché si resta presi dai dati , finché si resta nella caverna - si

tra­

muta in mondo intelligibile, in armonico e giusto 'discorso' . Certo , dap­ prima, il 'discorso' avviene tra i dati, tra le immagini-oggetto , sia pur cercando di determinare , oltre quelle, le leggi che governano ciascuno dei singolari 'discorsi' (scienze), per ciascuna scienza risalendo a ipote­

si che permettono una corretta deduzione. Tu saprai certamente che coloro che si occupano di geometria, di aritmetica e di altre questioni del genere , suppongono il pari e il dispari , le figure, tre specie di angoli e altre cose simili,

a secon­

da dell 'oggetto della propria ricerca , e, ammesse per conosciute queste cose, le erigono a ipotesi e ritengono di non doverne dare più ragione né a sé né agli altri , come se fossero princìpi

assioma­

tici per tutti , e, partendo da questi , passano a trattare tutto il resto deducendo così di conseguenza in conseguenza quella conclusio­ ne in virtù della quale avevamo preso le mosse [ . . . ] . Sai anche che si servono di figure visibili e che ragionano su queste figure , senza tuttavia pensate ad esse in quanto visibili , ma alle altre, a quel­ le di cui queste sono immagine: e cioè discorrono di quello che è il quadrato in sé , della diagonale in sé, e non della diagonale ch'essi tracciano; e lo stesso si ripeta di tutte le altre figure: di que­ ste figure che modellano e disegnano [ . . . ] si servono come di immagini, per giungere invece a cogliere altre forme , ciò che è, e che non altrimenti si potrebbero vedere se non attraverso il

siero discorsivo (Repubblica, 5 10c-5 1 1a).

pen­

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Solo che ancora, pur essendo a livello scientifico e non più a quello del­ l'opinione, rimaniamo nell' ambito di scienze separate da scienze, in una molteplicità di discorsi, avente ciascuno le sue regole , «a seconda del­ l'oggetto della propria ricerca» , che si fondano su ipotesi, che, se non più controvertibili, vengono assunte per princìpi . Ed è questa la diànoia. Questo aspetto, dunque, io l'ho detto intelligibile, ma tale che l ' ani­ ma, in questa sua ricerca dell'intelligibile, è costretta a servirsi di ipo­ tesi, non per andare al principio, ché oltre le ipotesi non può risali­ re , ma usando a mo' d ' immagine quegli stessi oggetti che nella sezione inferiore [opinione] sono a loro volta oggetto di immagini , e che, ora, rispetto a quelle immagini di prima, vengono giudicati come realtà e tenuti in onore di realtà (Repubblica , 5 1 1 a). E qui va sottolineato che Platone non nega valore al metodo ipotetico­ assiomatico delle singole scienze, per cui ciascuna deve trovare , basan­ dosi sui propri dati (linee, rette, angoli, ad esempio, per la geometria; sin­ tomi, singolari fenomeni, per la medicina; proporzioni , numeri e così via per l'aritmetica) , le proprie relative premesse, formalmente vere, donde trarre le necessarie conseguenze. Anzi , come abbiamo visto, almeno fino al Fedone e al Menone, Platone, indipendentemente dal contenuto di una, o altra scienza, in funzione del come è che correttamente si ra­ giona e di certe sue dimostrazioni , ha usato il metodo proprio della geo­ metria, cioè la riduzione delle ipotesi, che poste come tal i , ma non più controvertibili, e perciò assunte come assiomi o postulati , servono da necessarie premesse di ragionamenti che debbono giungere a necessarie conclusioni . Sotto questo aspetto Platone riconosce la validità dell' ipo­ tesi assiomatizzata su cui si costituisce, a seconda dell'ambito della pro­ pria ricerca, ciascuna scienza particolare (o tecnica) . Qui si tratta di altro: non di questa o di quella scienza; qui si tratta del giusto e di come è possibile l' istituirsi dell 'uomo in rapporti pubblici , cioè in respublica. Ma l'uomo non esiste in astratto: esiste come avvocato, con­ tadino, artigiano, matematico, geometra, medico, difensore, politico. E allora non si tratta solo di considerare entro l' ambito di ciascuna tecni­ ca le condizioni che la rendono vera in sé entro i termini del proprio uni-

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verso di discorso, ma anche di cogliere, di là dalle ipotesi , il principio unico, la ragione che fa sì elle ogni scienza (o tecnica) non escluda l 'al­ tra, non si ponga accanto all ' altra, disarticolatamente, rimanendo con ciò mera convenzione e opinione. Si tratta di cogliere (ed è questo il momen­ to dell' intellezione , o nòesis , oltre il momento discorsivo, o diànoia, pro­ prio di ciascuna scienza) la ragione prima e unica che articola tra di loro le scienze. Il procedimento proprio di ciascuna scienza è dianoetico, cioè 'discorsivo·, per cui dalla riduzione delle ipotesi si giunge agli 'assiomi' e da questi si ridiscende ordinando i dati propri di ciascuna scienza, in una unificazione discorsiva, valida per ciascun tipo di ricerca, ma sem­ pre in un ordine estrinseco; l'atto, invece, con cui dalle ipotesi di ciascu­ na scienza si coglie l 'unica ragione che unifica il tutto in un solo 'discor­ so' è noetico; non si tratta più, cioè, di un insieme di 'discorso' . ciascuno vero in sé, e che si basa su propri assiomi, convenzionalmente accetta­ ti , ma di un' intellezione (nòesis) che coglie l 'unità vivente del tutto, che, perciò, è indefinibile, se non vedendo tale unità dispiegarsi nell ' artico­ lazione dei suoi molti aspetti . Si coglie allora non solo la ragione prima per cui ciascuna scienza è buona in sé (nella sua formalità), ma anche l 'uni­ ca ragione per cui ciascuna scienza compie bene, in rapporto all'altra, ciò che le compete, in funzione dell'unico bene. Solo così ciascun uomo (avvo­ cato, medico, contadino, operaio, ingegnere, geometra, e così via) potrà fare bene il proprio mestiere, attuare bene la propria tecnica, ma non più isolatamente, a scompartimenti stagni, bensì in rapporti reciproci, ciascu­ no essendo momento di un solo 'discorso' . che costituisce il tutto in unità, in un solo governo che si deve, perciò, incarnare in coloro che hanno tale scienza di scienza. Ogni scienza, o tecnica, dunque, non ha validità e concreta utilità, se non si coglie, oltre la premessa propria a ciascuna, il principio unico che tutte le fa essere vere in rapporto alle altre, per cui ciascuna scienza assume un suo valore etico e pubblico, cioè civile (politico) e resta aperta, ossia non chiusa entro i termini delle proprie premesse assunte quali princìpi e non quali ipotesi, che possono cangiare se più non rispondono al Bene che le governa. Dall ' immediata sensazione (mera passività: immagini) alla pen:ezione (fede nell'esistenza di cose accanto a cose), per cui opiniamo reale il mondo quale

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ci appare e ci limita, fluente , mobile, non definito (immaginazione=eika­

sia efede=pistis, costituenti , nell'inverarsi della prima nella seconda, il mondo dell 'opinione, dòxa), al 'discorso' delle varie scienze con cui, sia pure ancora attraverso immagini e simboli, si detenninano i nessi e le arti­ colazioni che intercorrono tra i dati di ciascuna scienza, in forma discor­

siva (diànoia), sì come avviene nel procedimento proprio della geome­ tria e dell'aritmetica, all atto intellettivo (nòesis) , con cui si coglie il '

principio primo, l 'idea delle idee, che permette il "trascorrere da idea a idea" e di raccogliere, distinguendo, il tutto nell'unità dell'unico 'discor­ so' . Momento discorsivo=diànoia e intellezione=nòesis, nell ' inverarsi del primo nel secondo e nell' inverarsi della immaginazione e della fiducia nella

diànoia e di questa nella nòesis, costituiscono il mondo della scienza e del­ l 'intelligibile. Tale il processo della conoscenza culminante nella condi­ zione prima di ogni sapere, in quella luce che, discendendo, illumina di sé e rende intelligibili gli aspetti molteplici, rivelandoli, nella loro distin­ zione, momenti dell' unico discorso (cfr. 5 1 1 b-d) . Per esplicare il processo conoscitivo evocandone il significato scientifi­ co mediante una narrazione, proseguendo il paragone con la caverna, Pla­ tone sottolinea che come i due primi momenti (eikasia e pistis) , costituen­ ti il mondo dell'opinione (dòxa) , sono rappresentati dall'uomo prigioniero nella caverna, così i due secondi momenti (diànoia e nòesis) , costituen­ ti il mondo dell 'intelligibile e della scienza (epistème), sono rappresen­ tati dall'uomo che, faticosamente uscito fuori dalla caverna alla luce del sole, dapprima, abbagliato, vede e comprende le cose reali nelle loro imma­ gini riflesse (come, appunto, il geometra che si vale di figure visibili pur sapendo che il ragionamento non vale solo per questa o quella figura sen­ sibile), finché gradualmente giunge a contemplare direttamente il sole e la luce, fonte di vita e di essere (cfr. 5 1 5e-5 1 7c) . Ma Dio sa se poi sia vero. Ad ogni modo io ritengo che così sia dav­ vero, che cioè nel mondo intelligibile l' idea che ha in sé il fine ulti­ mo sia l' idea del Bene, che soltanto dopo lunga fatica si riesce a vede­ re , ma una volta che l ' abbiamo compresa per necessità logica dobbiamo concludere che essa è l ' universale ragion d'essere di tutto ciò che c'è di bello e di buono, che nel mondo visibile ha gene-

Platone Il pensiero

rato la luce e della luce il signore, che nel mondo intelligibile, essa idea sovrana, attua verità e intelligenza: e che chiunque nella vita voglia agire saggiamente, sia in pubblico sia in privato, deve guar­ dare all'Idea del Bene (Repubblica, 5 1 1b-c) .

m) Ascesa e discesa: le scienze e la 'dialettica' . Il processo ascensivo, dunque, ove le varie tappe s'inverano l ' una nel­ l'altra, e che culmina, mediante l'atto intellettivo, nel cogliere l'unità viven­ te, il Bene, non avrebbe alcun significato se si compisse nella mera con­ templazione di ciò che sta al fondamento del tutto . In altri tennini

l'intel/ezione (nòesis) non è un'intuizione, un atto mistico con cui si oltre­ passa se stessi, perdendoci nell'Essere. In realtà il Bene, o l'Essere, in Platone non c'è. C'è sì una ragion d'essere, che è logicamente prima, ma questa c'è in quanto si dispiega in un sol discorso i cui termini sono le definizioni, le idee (costituenti nel giudizio l'esistenza delle cose). E allo­ ra quel mondo che nell'immediatezza sensibile appare molteplice e disperso, e che via via attraverso il sapere scientifico, di riduzione in ridu­ zione delle ipotesi , si viene come unificando nei singoli 'discorsi' delle singole 'scienze' (che finemente Platone tende dalla Repubblica in poi a non chiamar più scienze, ma tecniche), si risolve ora, in quanto com­ preso, in un solo discorso, che dà significato e verità a tutto. Mondo del sensibile e del divenire sì, in quanto passività e limitazione; mondo del­ l' intelligibile sì, in quanto comprensione e intelligenza delle cose: ma non due mondi anticamente per sé e opposti . Il 'discorso' uno, dunque, non è un qualcosa che è, ma è dialetticamente vivente nel suo rivelarsi a se stesso, cioè nell'esser colto attraverso la dialettica dello stesso pensiero. Giunti così dialetticamente alla prima luce, proprio in quanto tale prin­ cipio si pone come condizione di ogni sapere, di qui ha inizio la scien­ za, che, dunque, non sarebbe possibile se non discendendo da esso, ripercorrendo le trame con cui dialetticamente si costituisce e si ribna l'uni­ co discorso. Altrimenti l' intellezione suprema, fonte della scienza e del sapere, sarebbe intellezione di niente (cfr. VII libro da 5 1 7a-b). Momento ascensivo e momento discensivo sono due facce di uno stes­ so processo, costituenti il 'discorso' uno, e dove il primo presuppone il

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secondo: non vi sarebbe l'ascesa, se non si supponesse il 'principio' . Esso vien quindi posto da un lato come il 'prima' (sempre) e dall'altro lato come fine , che volta a volta si realizza in quanto si sappia pensare, in quanto dialetticamente si giunga al fondamento primo e da esso si sappia ridi­ scendere in un altrettanto processo dialettico, per cui la stessa realtà e i suoi moltepl ici aspetti (cose risoltesi nelle idee) appaiono dialettica­ mente costituiti; e dall'altro lato si perde o in quanto si è presi dalle cose, si è passivi, ci disperdiamo nella molteplicità disarticolata delle opinio­ ni e anche delle singole scienze finché restano mere convenzioni unila­ terali, o nella contemplazione di un Essere, di una ragione suprema, che se non viene continuamente e criticamente dialettizzata, se attraverso essa, scienza di scienze, non si vengono dominando le scienze particolari e le tecniche in un ordinamento dialettico, in funzione dell' unica ragion d 'essere, resta una mera e lirica, inutile entificazione. Tale la ragione per cui Platone sottolinea con forza che se, da un lato, è in tutti , attraverso il dialogo dell'anima con l ' anima la , meglio, alla vita autentica. Solo che a ciascuno spetta scegliere il proprio destino, entro l ' ambito della propria sorte (cfr. libro X). Di qui il mito di Er. con cui si chiude la Repubblica, non a caso prece­ duto da una breve dimostrazione del l ' immortal ità dell'anima (608c-

6 1 2a). che ha senso solo se inquadrata nel complesso della Repubblica: tutto ciò che nasce muore del proprio male, l ' anima non muore del pro­ prio male - cioè dell' ingiustizia - , dunque l'anima è immortale . L'es­ sere ingiusto consiste nella dispersione, nell'unilateralità, nel disordine delle passioni, nel sopravalere unilaterale dell'una scienza sul l ' altra, dell'una opinione sull ' altra, nel frantumarsi adialettico dell'anima, non nella morte dell'anima.

È nella dispersione , nell'obliarsi dell'anima,

che stanno la molteplicità, i limiti, l'esser passivi. L'opposto è l'esser giu­ sti . L'anima allora nel suo estremo disperdersi e patire sarà in eterno come dannata e nel suo essersi deformata come il Glauco marino (oramai irri­ conoscibile: 6 1 1 c-d) sarà in eterno nel male; se, invece. attraverso se stes­ sa, sia pur decaduta, ricordandosi di sé, della sua retta forma, saprà esse­ re giusta, riuscirà a sollevarsi dalla caverna, sarà in eterno compensata, sarà nel suo essere giusta, in eterno, felice. L'uomo, dunque, cittadino dei due mondi , il sensibile e l 'intelligibile, sempre rinasce e sempre muore, per cui agli estremi limiti stanno miticamente l'eterno male e l'eterno bene. Solo che il bene e il male non sono in sé, ma sono dovuti all ' anima stes­ sa, che, dunque, è sempre. Platone, nel mito, immagina che Er, un guerriero di Panfilia, caduto in battaglia, sia ritornato miracolosamente alla vita poco prima che il suo cadavere fosse, secondo la consuetudine, bruciato su di una pira. Que­ sto è avvenuto per volere degli dèi , perché Er, tornando tra gli uomini , potesse raccontare loro quanto aveva visto nell'aldilà, in modo che ne traes­ sero ammaestramento. Er narra quale sia il giudizio delle anime dopo la morte , quali i premi e le punizioni, che in eterno resteranno dannate le anime di coloro (i tiranni) che non sono mai riusciti ad avere consape­ volezza di sé; egli poi narra quale sia la struttura dell'universo e, infine,

Platone Il pensiero

come le anime, chiamate dalla Necessità (attorniata dalle Parche). scel­ gano il loro ulteriore destino. Vi sono tre donne, sedute in circolo ad eguali interval l i , ciascu­ na su di un trono, le figlie della Necessità, le Parche . di bian­ co vestite , il capo coronato di bende , e sul l ' armonia delle Sire­ ne [l'octocordo , che riproduce in un solo suono l 'armonia di tutti i cieli] cantano, Lachesi il passato, Cloto il presente, Atropo l 'av­ venire. Cio to [cioè colei che fila i destini umani; da k/òto ] , con la mano destra sul fuso, a intervall i , aiuta a girare il cerchio ester­ no; Atropo [da a e trèpo , è colei che fa sì che sia impossibile tornare i ndietro] . con la mano sinistra, i cerchi intern i ; Lacbe­ si [da lanchàno, è colei che assegna le sorti per mezzo dell'aral­ do divino] a volta a volta l ' uno e gli altri , con l ' una e l ' altra mano. Appena le anime furono arrivate si dovettero subito pre­ sentare a Lachesi. Un divino araldo le mise innanzi tutte in ordi­ ne , poi , prendendo sulle ginocchia di Lachesi le sorti e i model­ li delle diverse condizioni umane, montò su di una specie di palco elevato , e così parlò: «Ordine della vergine Lachesi , figlia della Necessità: anime passeggere , nuova vita , nuova condizione umana vi aspetta nel suo correre verso l a morte . La sorte non vi assegnerà il vostro dèmone: ciascuna di voi sceglie­ rà il suo. Colui che sarà designato dalla sorte come primo, pe r primo sceglierà la s u a vita a c u i sarà poi legato irrevocabilmen­ te . La virtù altro non dipende che da se medesima: ed ognuno sarà più o meno virtuoso , secondo se più o meno l ' avrà in onore o se ne scorderà. Ciascuno è responsabile della propria scelta: la divinità non ne ha colpa » . Con queste parole gettò a tutti le sorti ed ognuno raccolse quella che era caduta più vici­ na [ ... ] Aveva aggiunto l ' araldo: «Colui che per ultimo sarà chia­ mato a scegliere , quando sappia scegliere con giudizio e poi sap­ pia nella vita vivere con adeguata misura, anch'egli può sperare in una situazione accettabile e non cattiva. Con grande atten­ zione scelga dunque il primo e non si perda di coraggio l ' u lti­ mo» (Repubblica , 6 1 7 c - 6 1 9h) .

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Per chi idealmente, miticamente , oltre i sensi e il tutto - come Er e le altre anime - si ponga al di fuori dell 'Universo, l 'Universo appare come im­ merso in una purissima luce, che su tutto si diffonde, più pura di quella dell' arcobaleno per forza di luminosità, diritta come una colonna (nel senso figurato che come una colonna non può deflettere), luce che il tutto fascia, in unità, come la fasciatura delle triremi, ed entro cui la circonfe­ renza dell 'universo si scandisce secondo il suo ritmo, che viene quindi ad essere il perno (il «fuso della Necessità>> o del mito) dell' universo stes­ so, che si risolve nell'unità vivente dell' unico 'discorso' . Tale , appunto, nel mito, il principio e il fine . i due termini divini che si chiudono in un solo eterno circolo, a cui si giunge e da cui si decade, e che si pone come termine di realizzazione. Ecco perché chi resta sul piano dell' esteriorità, chi dimentica assolutamente se stesso è dannato per sempre . Anzi, Er ha narrato che colui che neppure lontanamente è rientrato in sé, il malvagio autentico, mai vedrà la luce e la legge eterna simbolizzata dal fuso: egli come Ardieo (615c sgg .) non avrà mai la possibilità di uscire dal Tartaro e con le altre anime venire a contemplare il divino (6 1 6c sgg.) . Ciascu­ no in quanto nasce ha la sua sorte. Ma altro è questo, altro, nella singo­ lare situazione di ciascuno, attuare o no giustizia, essere ciascuno giusto per ciò che gli compete, cogliendo così , oltre sé, quella misura logica, la legge razionale , che il tutto ordina come è bene. Virtù non consiste nel­ l'oltrepassare i propri limiti, ma nell'assumerne coscienza ed entro quel­ li essere volta a volta se stessi (6 1 8c-d - 6 1 9a-b). Male è da un lato la pigri-

Ricostruzione del santuario di Delo. Sede della Lega de/io-attica e sacra al dio Apollo, De/o ospitava un santuario che rivestiva un 'importanza politica quasi analoga a quello di Delfi.

Platone /l pensiero

zia, anche la pigrizia come abitudine ad essere buoni («pur avendo pra­ ticato virtù , virtuoso era stato per abitudine e non per filosofia»: 6 1 9d), e male è, dall'altro lato, la hybris, la tracotanza, come ignoranza dei pro­ pri limiti e, dunque, delle proprie possibilità. Questo il senso dell 'affer­ mazione platonica che la virtù non ha padroni , ma che ciascuno, nella pro­ pria situazione, è lui a scegliersi la propria sorte, il proprio destino.

p) Le scienze, l"arte imitativa' e la 'cosa pubblica' . All 'opposizione tra mondo del sensibile e dell 'esperienza immediata (opinione) e mondo dell' intelligibile (scienza) possiamo far corrispon­ dere ora l 'opposizione tra piano della retorica e piano della dialettica nel significato più largo che essa ha assunto nella Repubblica. Una volta posto che l'unico Stato possibile è lo Stato assoluto, in quanto razionale, o meglio lo Stato entro cui si risolvono le ragioni di ciascuno in una sola ragione che il tutto governa come è bene, in funzione del bene comune, entro quel­ l'unica ragione debbono necessariamente rientrare ed essere coordinate anche le singole scienze e tecniche. Esse, perciò, pur dovendo rintraccia­ re le proprie autonome condizioni ('ipotesi') che danno a ciascuna la pro­ pria autonoma validità, per non restare a sé indipendenti le une dalle altre, escludenti le altre, assumendo le proprie ipotesi per assiomi (come avvie­ ne oggi dice Platone), per non restare avulse dalla vita comune e perciò anch'esse private, spezzando l ' unità dialettica dello Stato, debbono oltre le proprie ipotesi fondarsi sull ' unica ragion d'essere su cui si costituisce lo Stato. Esse assumono solo così significato e utilità, in quanto anch'es­ se sotto il controllo dell'unico governo. E allora, se da un lato, come vede­ vamo, anche le singole scienze restano, nel loro ambito, storicamente aper­ te, nella possibilità di mutare ciascuna le proprie ipotesi, dall'altro lato le scienze sono condizionate dalla dialettica, che in quanto scienza del bene implica che ciascuna scienza è buona e utile solo in funzione dello Stato, cioè del bene comune. Aveva già detto Platone: Le scienze che possono cogliere un certo aspetto dell'Essere, la g� metria e le altre che seguono, ci siamo accorti come somigli a un sogno la loro conoscenza dell' essere, e come sia impossibile che da

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sveglie ne raggiungeranno la visione fino a che si servono di ipote­ si che non discutono affatto non sapendone rendere ragione. Se si prende per principio una cosa che non si conosce, e la proposizio­ ne finale e quelle intermedie si tessono con un filo sconosciuto, può essere benissimo che il tutto meccanicamente tomi, ma come di qui potrà mai nascere una scienza? [ . . . ] Soltanto il metodo dialettico è, dunque, capace di elevarsi togliendo di mezzo le ipotesi [ . . . ] (Repub­

blica, 533b-c). Se ciò vale per le scienze che possono cogl iere un certo aspetto dell'es­ sere e del vero, tanto più ciò vale per le tecniche che si muovono esclu­ sivamente sul piano delle opinioni: Non esiste altro procedimento, se non il metodo dialettico, che sul­ l' essenza di ogni cosa possa metodicamente determinare quel che ciascuna è in sé e per sé [in relazione alle altre] . Le scienze, inve­ ce, a carattere tecnico, non si preoccupano che delle opinioni e delle passioni umane, oppure si sviluppano solo in virtù della pro­ duzione e della fabbricazione , o per conservare le cose che la natu­ ra o l'arte producono (Repubblica, 533b). Tra le tecniche che si muovono esclusivamente sul piano delle opinioni e delle passioni sono evidentemente le arti figurative e poetiche per un verso e, per altro verso, le arti della convinzione e del discorso, cioè la retorica. Platone non nega né le une né le altre , qualora si basino sulle premesse proprie di ciascuna e sulle proprie tecniche, senza invadere il campo altrui (cfr. ione per la poesia e Gorgia per la retorica); solo che anche la poetica e la retorica debbono rientrare sotto il controllo della dia­ lettica, assumendo così una funzione non disgregatrice , in un giuoco di parvenze e di affetti , ma una funzione educatrice e scientifica volta all'armonia e al coordinamento dell' unità dialettica dello Stato (Repub­

blica, III , sull'educazione ginnica e musicale). Di qui, nella Repubblica (X libro) la condanna delle arti poetiche e figurative quali secondo Pla­ tone si praticano «oggi» (arti mimetiche), e, nel Fedro, la ripresa, rispet­ to al Gorgia (in cui si nega un tipo di retorica), del significato della reto-

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rica alla luce di quanto si è venuto discutendo, relativamente alla dialet­ tica, nella Repubblica. Per quanto riguarda la poetica (musica, epica, lirica, tragedia, comme­ dia) e le arti figurative (pittura, scultura, scenografia) va sottolineato che Platone si riferisce sempre non all'Arte (anche il concetto di arte è sto­ rico), ma all'arte di oggi e che l'arte di oggi egli la definisce come arte

mimetica. Anche qui Platone è ben calato nella storia e la sua discussio­ ne ha significato preciso entro i termini di quelle che erano le tecniche artistiche del suo tempo. E così il termine mimèsi, in riferimento all 'ar­ te, non è tanto un termine coniato da Platone , quanto un termine dive­ nuto comune per indicare un certo modo di intendere la rappresentazio­ ne artistica volta alla ricerca di tecniche capaci di creare opere che diano

l 'apparenza della realtà in ciò che la realtà appare, che diano della real­ tà quale appare un' imitazione il più possibile adeguata. La 'poesia' (nel senso più lato: poesia vera e propria e arti figurative), in quanto espressione e rappresentazione di modi di concepire e di stati d'ani­ mo, in produzioni (poièo) che si realizzano in parole o in segni raffigu­ rativi, viene a indicare, attraverso le sue produzioni, quali sono stati e quali sono i modi di concepire le passioni degli uomini. Così, ad esempio, men­ tre Omero ed Esiodo hanno nella loro poesia rappresentato un modo di concepire 'mitico' di una certa età, tanto da divenire i formatori , i poeti di un popolo, in una certa visione della divinità e dell 'ethos umano (gli dèi simili agli uomini, passionali e despoti , e così via), oggi, sottolinea Platone, in cui, di contro alla tradizione, altra è la concezione, dovuta, ad esempio, alla sofistica e alle scienze 'moderne' , per cui reale è solo ciò che 'appare' , la poesia, e in particolare modo la pittura e la scenografia, tendono a creare opere che imitano le apparenze del reale, giuocando mediante certe tecniche (la prospettica , l' impasto dei colori , e così via) sul l'immediato sentire e sugli affetti umani , simpateticamente. Si capi­ sce così come per Platone sia la poesia che risale ad Omero e ad Esio­ do, sia l'arte espressiva delle nuove concezioni, negano, anzi ostacola­ no la corretta formazione dell'uomo quale Platone ha indicato, in relazione allo Stato uno dialettico. Esse con le loro tecniche e con i loro miti giuo­ cano sugli affetti e sulla immediatezza sensibile dell'uomo, sì come con fanciulli (l'uomo della caverna), e così lo allontanano dal vero (l' imita-

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zione della realtà quale appare è imitazione di cose reali , a loro volta imi­ tazione del vero, delle essenze o idee) e, per simpatia, gli scompigliano l'anima, suscitando le passioni e spezzando il filo collegante della razio­ nalità, che risolve le passioni stesse in un'armonia, ove ciascuna attua ciò che è giusto, realizzando in tal modo lo Stato giusto. Sia l'antica poesia (epica e lirica) , sia l'arte moderna (una certa tragedia, la commedia, la pittura prospettica), dunque, espressione, per un verso o per l'altro, di con­ cezioni di chi ancora è legato e prigioniero della caverna, vanno esclu­ se (censura) dallo Stato quale dovrebbe essere. «Primeggiare [ . . . ] sia pur per la poesia non è prezzo con cui si paghi la giustizia e le altre virtù (608b­

c) . Eppure , quella stessa 'poesia imitativa' per chi si rende conto ch'es­ sa è espressione di stati d'animo, di quali sono i suoi princìpi , di quale è il suo posto tra le tecniche, per chi ne comprende la funzione e l 'illu­ sione non è affatto da negare: «Tutte le opere di questo genere sono una rovina per l ' intelligenza di chi le ascolta, quanti non abbiano come con­ travveleno la conoscenza di ciò che veramente sono quelle opere>> (595b) . Per altro verso, invece, se la poesia fosse espressione e in questo senso

imitazione di uno stato d'animo bello e giusto, del vero, se avviasse alla costituzione dello Stato, alla costruzione (pòiesis) dello Stato, conducen­ do mediante le sue tecniche alla visione dialettica del tutto , allora la poe­ sia, sotto il controllo dello Stato, avrebbe la sua funzione. Non a caso, perciò, all ' illusionismo dell'arte 'realistica' del suo tempo, alla ' prospet­ tiva' , detta da Platone raffigurazione o 'mimesi fantastica' , egli contrap­ pone la raffigurazione o ' mimesi icastica' , cioè quella rappresentazione che tenta non di imitare il 'reale' , ma il ' vero' (Repubblica, 484c, 377e;

Softsta , 235d sgg.). E così , sia detto tra parentesi , mentre Platone con­ danna la poesia antica di Omero e di Esiodo, e la pittura 'moderna ' , pro­ spettica e sofistica (interessante è il paragone fatto da Platone tra il pit­ tore e il sofista, detti ambedue 'illusionisti' : thaumastòs è definito il sofista, in Softsta , 235b, e thaumastòs è detto l ' ingegno del pittore, in Repubbli­

ca, 596d), ha delle simpatie per la pittura e la scultura arcaiche: non pro­ spettiche, ma geometriche, statiche, in cui i colori non sono a impasto, ma distesi ciascuno per quello che è. Invece oggi (nùn) gli artefici dicendo addio alla verità, non le proporzio­ ni effettive, ma quelle che sembrano essere belle elaborano nelle loro

Platone /l pensiero

immagini

(Sofista, 235d-236a). La 'poesia' , dunque, in quanto median­

te le sue tecniche, per quel che le compete , è formativa (poietica) di modi di sentire non può essere neutra (e mai in realtà essa è stata neutra); è chia­ ro, perciò, perché per Platone essa deve ora divenire formatrice del nuovo modo di concepire lo Stato , sì come già lo è stata e lo è per altri modi di concepire l'uomo e i suoi rapporti . Entro questi termini di note­ vole interesse sono queste parole che Platone scriverà nelle

Leggi:

E relativamente ai poeti seri , come li chiamano, e cioè gli autori di tragedie, se alcuni di essi per un caso venissero da noi e press 'a poco ci ponessero queste domande: ospiti , possiamo frequentare o no la vostra città e il vostro paese? - quale saggia risposta potremmo dare in proposito a questi uomini divini? Questa, io credo:

- Ottimi ospi­

ti, risponderemmo, anche noi siamo compositori della più bella e ad un tempo della migliore tragedia che sia possibile comporre: lo Stato nostro, tutto, altro non è che imitazione della migliore vita, della vita più bella, ed è in questo che per noi consiste davvero la trage­ dia più vera. Voi siete poeti e anche noi lo siamo, poeti di uno

stes­

so genere, vostri rivali nella vostra arte , competitori vostri nel com­ porre il dramm a più bello, quel dramma che

soltanto la vera legge

può condurre al suo ultimo fine secondo le nostre speranze

(Leggi,

8 1 7b-c; cfr. anche 967a-d).

IV. DAL « FEDRO)) AL « SOFISTA )) l . 'Retorica ' e 'dialettica ': nuove prospettive. /l «Fedrm> . Se ciò vale per la ' poetica' - e anche per le scienze - , tanto più ciò vale ora - dopo la Repubblica

-

per la 'retorica' , il cui significato datole da

Gorgia e, particolarmente dopo Gorgia, dalla rinnovata 'democrazia' ate­ niese, Platone aveva a lungo discusso nel

Gorgia. Là, accettando che la

retorica ha una funzione politica, e ch'essa è un tipo di discorso le cui premesse non sono scientificamente date, ma eh' essa giuoca sugli affet­ ti umani e sulle opinioni, Platone con forza, sottolinea che proprio per questo la retorica non può essere ' neutra' . Essa anzi, proprio perché ha

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per oggetto il rapporto umano, il costituirsi della vita comune, in altri ter­ mini la vita politica, che si svolge nei tribunali , nella piazza, nel Consi­ glio, deve essere usata per ciò che le compete e entro i suoi termini , al fine di realizzare quell'ordine e quel giusto, che Platone , di contro al modo di concepire i l rapporto umano 'oggi ' , già dal Gorgia sottolineava che si colgono per altra via, mediante il saper ragionare (dialettica) e non attra­ verso la retorica stessa. In realtà se il Gorgia nega un tipo di retorica in quanto nega un tipo di condotta politica, fondata su di una certa conce­ zione, non nega affatto la retorica in quanto strumento di un 'altra con­ cezione politica, fondata su solide ragioni . Due - esclama Platone nel Gorgia - , sono le forme di oratoria, l 'una delle due rimane sempre ((adulazione» e brutta demagogia, mentre bella è l 'altra, questo tentativo cioè che, quanto più è possibile, migliori divengano le anime dei cittadini , e questo lottare, dicendo sempre il meglio, piacevole o spiacevole esso sia per gli ascoltato­ ri; ma simile retorica tu non la vedesti mai ! [ ...] . Sarà , dunque, tenen­ do l'occhio fisso a tutto questo che quel tipo di rètore , il bravo e buon rètore, rivolgerà alle anime ogni suo discorso, e a tale fine volgerà ogni sua azione , e tutto ciò che concederà al popolo, quando lo con­ cederà, tutto ciò che proibirà, quando proibirà, tutto farà avendo sempre il pensiero a quest' ultimo scopo, che nelle anime dei suoi con­ cittadini s'ingeneri la giustizia e l 'ingiustizia scompaia, s'ingeneri ogni altra virtù ed il vizio venga estirpato (Gorgia, 504d-e) . La retorica, dunque, è al servizio della dialettica e deve essere volta a gui­ dare le anime (psicagogia) verso quell' amore ordinato e quella conoscen­ za di sé , mediante cui, secondo i risultati della Repubblica , tutto si coor­ dina nell'unico discorso dialettico. Dall'analisi svolta nel Gorgia derivava che il discorso retorico è un tipo di discorso diverso da quello scientifi­ co, eh 'esso non ha contenuti e che fondandosi di volta in volta sull'opi­ nione comune, su dati empirici , giuocando sui quali si tende a compor­ re insieme quei dati , sì che i più si avviino a risolversi in un senso piuttosto che in un altro, ' seduttivamente' , in realtà essa non ha alcuna forza persuasiva, perché non razionale, o meglio perché non ha presen-

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te a sé il fine da persuadere. E il fine non può scaturire dallo stesso discor­ so retorico se esso non è già in principio. Posto ora, attraverso la Repub­

blica, il «fine» in «principio», e posto pure - sotto questo aspetto in accor­ do con Gorgia e Isocrate - che la retorica è un abile saper giuocare con gli affetti, le passioni e le opinioni, e che gli affetti e le opinioni sono pro­ pri del mondo umano e relativi a tipi di esperienze e di 'culture' , la reto­ rica come arte, avente le sue condizioni e i suoi limiti, torna ad essere fon­ damentale. Essa mediante le proprie tecniche e conoscendo l'oratore le anime (gruppi o persone) con cui si parla, serve per avviare ' i più' a quei 'princìpi' che per l'uomo di fatto , l'uomo storico, per il prigioniero della 'caverna' , si pongono come tini da realizzare. La retorica cioè, da 'mirne­ si fantastica' , qual è 'oggi ' , deve divenire 'mimesi icastica' , ossia imi­

tare, attraverso rappresentazioni verbali, il vero - campo della retorica è, perciò, il verosimile - , quel 'vero' colto dai pochi filosoficamente , dia­ letticamente, e in cui consiste 'sapere ' . Il retore dovrà, dunque, sapien­ temente scegliere, volta a volta, a seconda degli uomini, i miti utili, le paro­ le che servono a ' incantare ' e ad equilibrare le anime, sia relativamente a ciò che riguarda più strettamente il rapporto umano, sia relativamente all'ordine dialettico su cui si fonda lo Stato. Anche i discorsi retorici, dun­ que, se presi a sé nella loro funzione storica, possono cangiare, possono restare aperti , qualora di volta in volta servano a rendere conto dell'uni­ co discorso dialettico del tutto, in una evocazione ' icastica' , verosimile, mediante parole e immagini, in una rappresentazione sensibile dell'or­ dine logico, che viene evocato dalla parola e dal mito . La parola assu­ me così, in relazione all'armonia e all' equilibrio delle anime, la stessa funzione terapeutica della medicina, in relazione all 'equilibrio e all'ar­ monia (alla salute) dei corpi. Solo che, sia pur basandosi sui fenomeni e sui dati, tanto nel caso della medicina quanto nel caso della retorica psi­ cagogica, è necessario avere già un quadro entro cui far rientrare per com­ prenderli e dominarli i molti dati e i molti fenomeni. Si tratta ora, per Platone, di riprendere il motivo della retorica, giustifi­ candone le premesse e le funzioni, e, ad un tempo, di approfondire il signi­ ficato della dialettica, nella più ampia accezione datale nella Repubbli­

ca, determinandone il metodo. Tale la problematica affrontata nel Fedro. Il fine del Fedro è, in altra prospettiva, cioè sul piano della funzione della

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retorica, lo stesso di quello della Repubblica. In altri termini, il passag­ gio dal mondo del sensibile e della limitazione al mondo dell' intelligi­ bile, che pur è la condizione del sensibile, e il ritorno intelligente al sen­ sibile e al particolare, mediante la discesa dialettica unificante e articolante, si ripetono nel Fedro. Il Fedro si divide in tre parti. L'una e l 'altra parte non sono giustapposte, ma abilmente si articolano tra loro, sì che l'una si invera nell'altra. Il Fedro , come il Convito, ha per argomento l'amo­

re , cioè una passione . Solo che a seconda di come si definisce la passio­ ne (la sensibilità immediata, il 'delirio' amoroso) avremo uno o altro tipo di discorso su amore; avremo per convincere o non convincere ad amore, pur usando le stesse tecniche retoriche, una o altra premessa su cui si basa l 'argomentazione retorica. Platone nella prima parte finge che il giovane Fedro, entusiasta per il bel dire, riporti e legga, trascinato Socrate in campagna, lungo le rive del­ I 'IIisso, un discorso su amore del celebre oratore Lisia. E qui va subito detto che Platone, prima di passare a esporre il discorso di Lisia, sotto­ linea con forza la sua avversione a interpretare i miti sulla natura in senso razionalistico, sì come fanno molti sapienti (certi fisici e sofisti: si pensi, ad esempio, a Crizia): ogni interpretazione in tal senso resterebbe sem­ pre una ipotesi. I cosiddetti fenomeni naturali non esistono per sé finché non sono giudicati e definiti. È questa, sembra, una spia molto indicati­ va per intendere il resto del dialogo: il mito non è, avvolto in un certo lin­ guaggio, discorso scientifico sulla natura, ma è una forma di discorso e, perciò, di linguaggio, diversa dalla forma del discorso filosofico; il mito è, di volta in volta, espressione poetica (avente le sue regole e la sua veri­ dicità) dei momenti diversi dell'anima, ed è , quindi, a sua volta, rivela­ zione diversa della natura. Sotto questo aspetto il mito - come appari­ rà dal seguito del Fedro

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potrà essere il corpo della retorica, e avviare

al discorso scientifico. Non solo, ma proprio perché il mito non spiega affatto la natura che non è per sé, ma è in quanto si risolve nei vari gradi con cui l'anima si manifesta a se stessa (dal senso all ' intellezione e viceversa) e perciò anche miticamente , la natura per sé va, almeno per metodo, accantonata, per prima conoscere se stessi e solo attraverso ciò tornare alla natura. E così , se Platone può far dire a Socrate che da un lato il > (Sofista , 2 l 9a). Nel primo aspetto, costituendone l' essenza (o forma, èidos), rientrano tutte quelle arti (agricoltura, medi­ cina, artigianato, poetica) che non hanno per oggetto una realtà di fatto: sapendo usare i dati, rielaborandoli, mediante tali arti , ciascun tecnico rie­ sce, nella propria arte, afare (poièo) qualcosa che non era in natura: arti , nel loro complesso, si possono definire arte del fare (poietica) . Nel secondo aspetto rientrano tutte quelle arti (le tecniche dell 'apprendere, del conoscere , quelle del guadagno, della lotta, della caccia) il cui ogget­ to non è prodotto , ma già dato; l' arte relativa consiste , in questo caso, nel sapere impossessarsi e nel sapere usare tale oggetto, dominandolo; a que­ ste arti nel loro complesso si può dare il nome di arte dell 'acquisire. Assunto un 'tutt'uno' del tutt'uno, di divisione in divisione, si viene a defi­ nire, distinguendo, tra i molti aspetti del tutt'uno, l 'oggetto della ricer­ ca. Tale metodo, posto che il sofista abbia una sua arte , va applicato all 'ar­ te del sofista, sì da coglierne l'essenza. Ora, l'arte del sofista la possiamo far rientrare, genericamente, in quella della caccia (un aspetto della poli­ tica). L'arte del cacciare si divide in caccia di animali terrestri e di ani­ mali acquatici. L'arte del sofista rientra in quella del cacciare animali ter­ restri . Di divisione in divisione, dalla caccia di animali terrestri si giunge alla caccia che si esercita sull'animale più domestico, cioè l'uomo. Tale caccia si attua mediante la persuasione privata e ricavandone guadagno con il pretesto di insegnare la virtù. Questa è la prima definizione della 'sofistica ' . Solo che se si prendono altre possibili suddivisioni deli' arte acquisitiva (ad esempio l'arte di acquisire mediante scambio e com­ mercio, o quella di acquisire qualcosa mediante la lotta, o mediante lo sceverare ciò che serve da ciò che non serve) si giunge a dare della 'sofi­ stica' altre quattro definizioni: commercio di cognizioni; commercio al minuto di virtù di prima e di seconda mano; arte del disputare (lottare) per guadagno; arte del purificare (la ' nobile sofistica' , ove, probabilmen­ te si allude al Socrate protrettico e confutatorio: «purificazione dell'ani-

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ma dalle opinioni che sono d' impedimento alla acquisizione delle cogni­ zioni»:

23 l e) (su questa prima parte cfr. 2 1 9a-23 l e).

A parte ora l'esemplificazione dicotomica, l a presa d i posizione di Pla­ tone è chiara, così come chiaro è l' intento: il metodo dicotomico è utile in quanto serve a distinguere , non a confondere, e a definire ciò che è pro­ prio di ciascuno. Ogni arte

è, dunque, tale se da un lato rientra nell'uni­

ca 'forma' dell'arte, e, dall'altro lato, se si specifica nella propria 'forma' . non riducibile ulteriormente ad altro, in relazione ad altra arte, ma senza invademe il campo , e senza spacciarsi per l ' unico sapere che in sé risol­ ve tutti gli altri . Così ogni azione implica una propria tecnica e la sua vir­ tuosità sta nell 'adempiere compiutamente , sapendo l'arte , ciò che le spetta, ossia la propria forma. Se per un'azione usiamo le tecniche atte a realizzare altra azione volta ad altro fine, avremo un sicuro insucces­ so. E allora se ogni uomo è tale in quanto agisce (sia egli agricoltore, ope­ raio, medico , poeta, o costruttore di qualcosa, e così via), ogni uomo deve avere le proprie tecniche ed essere competente in un proprio sapere , rela­ tivamente a ciò per cui è quello che è (operaio, agricoltore, avvocato, poli­ tico, medico, e via di seguito): altrimenti, senza realizzare

il proprio com­

pito specifico, in relazione ad altri compiti, e volendo, per mancanza di un preciso sapere , essere competente su tutto e fare tutto , prevaricando dal proprio compito , sarà un cattivo uomo e vorrà piegare a sé tutti gli altri , vincendo e non 'convincendo' . La polemica contro le ' incompetenze' e un sapere non specifico, e con­ tro il sapere specifico che, tuttavia, dimentica l ' unico quadro entro cui rientrano le specifiche competenze ,

è,

ancora una volta, presentata con

forza da Platone. Non a caso, infatti, Platone subito rileva che impossibile

è determinare

è apparso possedere ad un tempo più è da mettere in rilievo l'arte del contraddire (antilogia), pur

la specie del sofista, ché il sofista arti , tra cui

essendo denominato da un'arte sola (la

sofistica) (cfr. 232a).

Solo che perché il sofista possa apparire competente in più arti , egli deve possedeme una sola, cioè l ' arte del contraddire; sapendo oppor­ re ad ogni argomento altro argomento, deve abilmente apparire supe­ riore a tutti, competente in tutte le

arti e capace di sapere fare tutto.

Tale l ' arte che gli permette di apparire come «Uomo che ha scienza di

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tutte le cose» (233a); «che possiede una scienza apparente su tutto, ma è privo della verità» (233d). Il sofista, dunque , non rientra più in una o altra delle divisioni dell ' 'arte acquisitiva ' , ma in una delle divisioni dell' 'arte del fare , della poietica, ed in particolare dell"arte dell' imitazione ' . Ora, poiché ! " arte dell'imi­ tazione' si divide a sua volta in icastica (l'arte che riproduce il vero in tutte le sue proporzioni) e in fantastica (l'arte che esegue non una ripro­ duzione della realtà qual è nella sua essenza, o verità, ma una ' parven­ za ' , un fantasma, mediante giuochi illusori e la 'prospettiva ' , come avviene nella pittura, nella scultura, nella scenografia), l'arte mimetica del sofista rientra nella fantastica, attuata mediante giuochi di parole e di immagini, in inganni prospettici (cfr. 233d-236b) . Il sofista, dunque, è un 'fantastico ' , una specie di giocoliere, di presti­ giatore, di incantatore (sesta definizione), consumatissimo nell"arte dell'apparenza' , cioè nell'arte di fare 'apparire' quello che non è. Solo che anche con questo il sofista sfugge. Innanzi tutto, per poter sostene­ re che il sofista è l'uomo dei falsi , colui che fa apparire quello che non è, dovremmo distinguere il vero dal falso, l'essere dal non essere. E que­ sto, sottolinea Platone, perché per poter ammettere il 'falso' , dovremmo «ammettere che è ciò che non è» (237a), venendo meno all'affermazio­ ne del ((grande Parmenide ' mai tu costringerai ad essere ciò che non è' (237a). Se è vero che il non essere, che non è, non si può dire, è impos­ sibile il giudizio (affermare o negare qualcosa di qualche altra cosa), e, pertanto, è impossibile dire i! falso e dire il vero, per cui, ancora una volta, secondo le conclusioni del Parmenide e del Teeteto, impossibile è la scien­ za, la distinzione e la definizione, finché si resta o sul piano dell'essere (comunque inteso: uno, costituito di due dementi, o di più elementi , o 'uno tutto' massiccio), o sul piano delle opinioni che si formano dalla sensi­ bilità: o secondo l'ipotesi di Antistene, o quella degli atomisti, o secon­ do l'ipotesi di coloro - 'gli amici delle idee' - che pongono, oltre la realtà visibile, spiegazione di quella, un' infinita serie di atomi idee, incomunicabili tra loro, in cui sono forse da vedere o estreme conseguen­ ze di Zenone o l' ipotesi degli atomi di Democrito (cfr. 237a-246a). Di motivo in motivo, Platone giunge così al centro della sua problema­ tica, emersa dai dibattiti storicamente precisabili, e, nel Sofista, propo-

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sti in opposizione, intorno alla possibilità o meno di dire l'essere, e, quin­ di, di rendere possibile la 'definizione' : ora, o si concluda che l ' Essere è Uno, o insieme di 'essenze' , o eh' esso è incorporeo o corporeo, è. alla fine, la stessa cosa: in tutti i casi risulta l ' indiscorribilità dell'essere, e, dunque , impossibile il giudizio e la definizione. Sia pur con altro taglio e per altro interesse, Platone si rifà qui al centro della sua originaria pro­ blematica. Se è vero che non possiamo dire nulla di nulla se rimania­ mo presi dalla sola immediatezza sensibile , persi nelle passioni e nelle opinioni , svolazzanti come spaurite colombe (Teeteto, 1 97a sgg.), è altrettanto vero che non potremmo dire nulla di nulla se, pur ponendo le 'essenze' , come condizioni dell 'esistere, rimanessimo presi nell'uni­ ca via dell'Essere Uno, indiscorribile (Parmenide), se non tradissimo il 'padre' Pannenide (Sofista, 24 l d, 258c). All'estremo le due posizioni vengono a coincidere: nell ' uno e nell'altro caso non rimarrebbe che il silenzio, nell'uno e nell' altro caso rimarremmo passivi, o annullando­ ci nelle cose, o annullandoci nell'Essere. Non ci renderemmo conto, inve­ ce, d'essere, per un verso e per l 'altro, mera passività, se non sperimen­ tassimo noi stessi come attività, cioè come anima. E allora se l ' anima è ciò senza di cui non saremmo, essa è la nostra essenza e, pertanto, è

prima di noi stessi in quanto corporeità e limite. La più profonda con­ trarietà si rivela, dunque , in noi, tra attività (anima) e passività (corpo­ reità). Posto allora, sia con gli empiristi più convinti sia con coloro che risolvono tutto nell 'Uno immobile o nelle incomunicabili forme per sé immobili e incorporee, che v'è tanto una passività e un divenire , quan­ to un 'quid' che è sempre e senza di cui neppure sarebbero le cose , non è contraddittorio sostenere che l'essenza del tutto è l'anima, per cui l'Es­ sere, in quanto essere , non può essere un che d' immobile e per sé stan­ te, ché resterebbe solo 'pensato' , cioè passivo. Anzi, proprio perché l 'Es­ sere è, deve essere vita, cioè attività (incorporeità) e quindi, intelligenza e anima. L'essere, dunque , in quanto tale, è da un lato sempre (e sotto questo aspetto è immobile) e dall'altro lato è potenza di moto e di vita. per cui è principio di movimento e di distinzione e, perciò, di esisten­ za. E allora non solo l 'essere è quiete, ma è anche moto e continua pos­ sibilità di esistenza. L"essere dunque è in quanto è moto , intelligenza.

anima' (cfr. 248a-249b).

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Se ciò è vero , ne viene che tanto la 'quiete' quanto il 'moto' sono: ed essi sono opposti , ma l 'uno non potrebbe essere senza l'altro. L'Essere , allo­ ra, non può essere né la quiete né il moto, ma un terzo tennine, che per­ mette l'uno e l 'altro, che permette, cioè, di dire è dell'uno ed è dell'al­ tro. E allora, per evitare l'aporia che l'essere sia ad un tempo quiete e moto, si può fare l'ipotesi che l'essere abbia funzione predicatrice, ch'esso cioè sia la condizione che permette di attribuire più predicati ad uno stesso sog­ getto, compreso il medesimo essere (249d-25 l a). Ora, la predicazione implica tre possibilità: o che tutto si predica di tutto, o che nulla si può predicare , o che alcuni tennini si predicano di altri e altri no. Se fosse vera la prima ipotesi il moto si dovrebbe predicare della quiete e la quiete del moto; si dovrebbe cioè poter dire che il moto è quiete e che la quiete è moto (il che è contraddittorio); se fosse vera la seconda ipotesi nulla si potrebbe dire del moto e nulla della quiete, per cui sarebbero inesisten­ ti . Solo non contraddittoria è, dunque , la terza ipotesi . Ora, come la grammatica e la musica sono le arti mediante cui il grammatico riesce a determinare quali sono le regole che permettono d'intendere quali lette­ re si uniscono ad altre e quali no, e il musico quali le regole che permet­ tono l'unione dei suoni, per sapere quali 'generi' (si badi che Platone non usa il termine ' idea') si predicano di altri e quali no, ci vuole un'arte, o meglio, una scienza adatta. Tale scienza è la dialettica, ossia la tecnica propria del filosofo (252e-253e). Sembra ora opportuno sottolineare che qui si tratta di una 'tecnica' e non di una descrittiva dell'essere e della realtà, quale che sia concepita, e dal­ l'altro lato che Platone, con precisione, distingue 'generi ' (ghène) da 'idee ' , o 'specie' (èidos). E ciò in funzione della stessa 'dialettica' come arte dell'unire e del distinguere - indipendentemente da qualsivo­ glia entità già pensata e non definita attraverso la stessa analisi del pensie­ ro come attività pensante. Platone non nega le 'idee ' . Egli mantiene l' ipo­ tesi delle idee , intese come 'il ciò senza di cui' un insieme di cose molteplici non sarebbe , per cui le idee sono il sempre e il prima , laforma di un com­ plesso di cose esistenti e di esse costituiscono la 'specie', che, dunque, rela­ tivamente a quel complesso è sempre quella che è, identica a sé. Solo che ogni specie non sarebbe quella che è se non si riferisse ad un genere' (o specie più estesa: 'più grande' , dice Platone: 254b) entro cui si detenni•

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nano dispiegandosi le stesse 'specie' , l'una diversa dall'altra nell' unico 'genere' , per cui ciascuna cosa si coglie in quanto se ne vede il genere pros­ simo e, appunto, la differenza 'specifica' . I 'generi', dunque, in quanto 'spe­ cie' più estese, non sono idee, essenze per sé, ma le condizioni delle specificazioni, le condizioni che permettono il discorso, ossia il giudizio per cui non si scambia l 'una specie con l'altra, non si affenna ciò che dovreb­ be esser negato e non si nega ciò che dovrebbe essere affermato. ln tale senso è chiaro perché, per Platone, l'Essere non è una 'specie' , non è un essere, non è un genere , ma il genere che abbraccia e distingue, mediante cui si specifica l'essere di ciascuna cosa, e per cui questa specie è quella che è perché non è un'altra specie. L'Essere, dunque, non può essere definito come unità per sé, nel senso parmenideo, escludente per ciò stesso il 'non esse­ re' . Non contraddittorio, invece, è porre l 'essere come discorso uno (intel­ ligenza), cioè come attività e vita, come anima (e qui va ricordato il signi­ ficato dato ali' anima nel Fedro e il significato dato al Bene nella Repubblica): ((vuoi tu negare all'essere che compiutamente è, moto e vita e anima e pen­ siero (phrònesis)?» (248e). Solo così è possibi­ le la 'dialettica' , cogliendo il genere 'essere' e i generi dell'essere (ogni essere è in 'quiete' o in 'movimento'), mediante cui si defmiscono le specie, ciascuna quella che è, 'identica a sé' , in quanto 'diversa' dal l ' altra, ripercorrendo i momenti dell'unico e vivente discorso. Per tale ragione i generi sono: il ciò che è (essere), quie­ te, movimento, non essere (come il diverso) e identità . Di qui il vero e il falso che non sta

nelle cose, nell'essere o nel non essere, ma nel corretto giudizio (cfr. 253b-255b). È questo un momento decisivo: rappresenta più che una svolta una soluzione della proble­ matica della storia interna del pensiero plato­ nico e della storia della fLiosofia. Esso serve per renderei conto di molte aporie , oscillazioni, e anche contraddizioni proprie dei dialoghi pre­ cedenti , in particolare relativamente alle defi-

Euripide scrisse parte delle sue tragedie negli anni della Guerra del Peloponneso; il senso di incertezz.3 e di sfiducia che traspare dalle sue opere è lo st!sso che c:ar.Jtrerizza alcune � affermazioni sofìstiche.

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nizioni e al significato delle idee, e per intendere un nuovo modo di impo­ stare il problema dell'essere e delle ipotesi relative alla realtà e alla conoscenza quale si era delineato nel pensiero precedente Platone e di Platone contemporaneo. Non solo, ma esso apre alla comprensione di come Platone viene oramai impostando la propria discussione dopo il Sofista , per un verso nel Politico e, per altro verso, nel Filebo e, poi, nel Crizia­ Timeo e nelle Leggi. Ma c'è di più: da questi passi del Sofista, in cui sono messe in chiaro le condizioni che permettono il dire ('generi' ) e le condizioni senza di cui la realtà stessa non è, si muoverà da un lato la lunga discussione sul signi­ ficato di quelle specie e, dall'altro lato, sul significato logico di quei gene­ ri . Da qui e da alcuni testi del Filebo sul 'definito' e !"indefinito' , che sono uno sviluppo del Sofista, prenderà le mosse la critica e il modo di interpretare Platone da parte di Aristotele, e, dall' interno di Platone, la strutturazione della logica di Aristotele, che rifacendosi proprio al testo del Sofista , sottolinea la propria soluzione, vedendo in Platone l' inizio della nuova problematica, scaturita dalla «maniera antica di porre il pro­ blema)) (Aristotele, Metaf., XIV, l 088b 35- l 089a I O). L'affermazione aristotelica che il problema dell"essere' e del 'non esse­ re' era stato posto da Platone «in maniera arcaica)) riconduce proprio all'at­ tualità della discussione di Platone, impegnato a uscir fuori dall 'antico 'impasse' di porre o l 'Essere per sé uno, in cui tutto si annulla, o una mol­ teplicità di entità per sé (siano atomi o idee), o una molteplicità fluente di dati accanto a dati: che l 'Essere sia, o siano gli enti, o siano i dati imme­ diati, ognuna di tali ipotesi resta per sé vera, per cui tutte le ipotesi rela­ tive alla realtà restano opinioni . Platone ribalta la questione; egli ricon­ duce l ' Essere allo stesso pensare , cioè al 'discorso ' ; tutto sta non nell'essere o meno delle cose, ma nel come, correttamente discorrendo, si sostituiscono i rapporti tra le specie e tra le specie e i generi , che sono le condizioni che permettono di dire, di specificare di ogni oggetto di pen­ siero quello ch'esso è in rapporto all'altro, distinguendo e unendo le spe­ cie stesse. Il falso, dunque, sta nel dire di una specie che è un' altra, cioè nel dire è di una cosa che ha altro essere, per cui diviene, è ciò che non è. Sotto questo aspetto le idee sono come i termini (nomi-immagini) di un discorso: ogni termine a sé è quello che è e in sé non dice che se stes-

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so (cane, corre, verde , uomo); ognuno, invece, assume significato e può essere vero o falso in quanto si lega o si disgiunge da altro mediante un verbo (essere) che afferma o che nega, in corretti rapporti di soggetti e predicati verbali . Indicativo è cosl il parallelo che qui Platone fa tra il 'discorso' come 'pensiero' e il 'discorso' come frase o 'proposizione' . Ma più indicativo ancora è che Platone sottolinei che, oltre i cinque generi ('ciò che è ' , 'identità' , 'movimento' , 'quiete' , 'ciò che non è' come altro da), vi è un altro genere dell 'essere , che li risolve tutti in sé, e cioè il 'discorso' stesso.

Lo slegare ogni cosa da ogni altra è il più completo annullamento di ogni discorso; il nostro discorso nasce infatti dal reciproco collega­ mento (symplokè) delle specie (èide) [ ...] . Lo stesso discorso è uno dei

generi delle cose che sono [ ... ]. Discorrere delle cose che non sono, questo è, direi, il falso nel pensiero e nei discorsi [ ... ] . Il pensiero, dun­ que, e il discorso sono la stessa cosa (Sofista , 259e-260a, 260c, 263e). Posto che il 'discorso' è «uno dei generi delle cose che sono il ' vero' e il 'falso' non stanno nelle cose, ma nel ' giudizio' , cioè nello stesso 'discorso', nel saper pensare. E saper pensare significa saper classifica­ re - mediante i ' generi ' de li' essere - , discorrendo, le specie e le spe­ cie delle specie, distinguendo e collegando l'un complesso all'altro, si che una specie non sia confusa con l ' altra, o per contraffazione e igno­ ranza, mediante immagini, non si spacci una specie per altra, dicendo del­ l'una quello che è dell 'altra, e che essendo altro da ciò che è, è , relati­ vamente, non essere, ossia un fare apparire ciò che non è, sì come avviene nella 'mimesi fantastica' (cfr. 263d-264b) . Di qui il motivo unità (idea-specie) di una molteplicità (ciò che appare nella immediatez­ za sensibile) e unità vivente (il 'discorso') di una molteplicità di idee, che si articolano, mediante i generi , e il motivo essere e non essere (qualità limitanti e quantità indeterminata), che si realizzano nell esistenza , ad un '

tempo essere e non essere, cioè divenire motivi che, per un verso, si svi­ lupperanno nel Filebo e, per altro verso, nel 1imeo. Qui, nel Sofista , la questione si sviluppa, invece, in relazione all'inten­ to del dialogo: la definizione del 'sofista', per altro impossibile se non

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P l ato n i s m o e n eop l ato n i s m o Alla morte di Platone, l'Accademia - retta da Steusippo e Senocrate - accentuò il carattere matematico dei propri studi, dando origine al cosiddetto "medio platonismo"; solo molto più tardi (111 secolo d.C. ) il pensiero del filosofo sarebbe stato alla base di una completa rielabo­ razione, grazie alle figure di Platino, Giamblico e Proco. Platino accentuò i caratteri impliciti nella concezione platonica dell'Uno - inteso come somma entità trascendentale - e stabilì di conseguenza una precisa gerarchia tra le forme intelligibili; pare anche che abbia cercato di dar vita ad una comunità retta secondo i dettami del maestro, Platonopoli, ma senza suc­ cesso. Giamblico e Proda provarono a riassumere in un unico pensiero sincretico le correnti platoniche e aristoteliche, a partire dal pensiero plotiniano: la scuola di pensiero che ne deri­ vò, chiamata neoplatonica, sarebbe stata l'ultima importante scuola filosofica del mondo greco. Prima della definitiva chiusura dell'Accademia da parte di Giustiniano (529) si era poi affer­ mata una lettura del pensiero platoni­ co ispirata dal cristianesimo, che ne metteva in risalto quegli aspetti, come la concezione del bene o l'immortalità dell'anima, che meglio sembravano pre­ starsi ad un'interpretazione dottrinale. In particolare, affermazioni contenute nel Tlmeo (il demiurgo che crea il mondo "intessendo il mortale con l'immortale" e divenendo " un dio sensibile", propo­ sizioni probabilmente nate come confu­ tazioni dell'atomismo) fecero sì che Pla­ tone potesse persino essere letto in

•dotta ignoranza • di cui parla il ff!ologo tedesco è un'evidente ff!miniscen­ za delle dottrine soaatiche esposte da Platone. Nicola c..ano. La

chiave cristologica: secondo Sant'Ago­ stino nessun altro filosofo classico risultava così affine al cristianesimo.

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S. Agostino (tavola di Simone Martini, 1320 ca.). Il filosofo di lppona inretpiPIIÒ il pensiero platonico rilevando notevoli affinità con quello cristiano.

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CJ" .

Con il Sofista Platone risponde alle aporie delineate nel Parmenide e nel Teeteto. Egli ribalta la questione in termini di 'giudizio' , risolvendo il sape­ re sul piano del corretto 'discorso' , tale in quanto dialettico e definito­ rio. Platone definisce così 'filosofo' come il 'dialettico' , e, dunque , come colui che sapendo ragionare sa coordinare e dialetticamente articolare in generi e specie l'oggetto della ricerca come in un solo tessuto; di contro al ' filosofo ' . Platone pone il 'sofista' , contraffazione del 'filosofo' e del 'dialettico' . In tale modo, mediante rigorosi ragionamenti , e perciò con-

Platone Il pensiero

vincenti , - «e se c'è uno il quale si rifiuta di ammettere tutte queste rela­ zioni e distinzioni, costui deve studiare la cosa e dire qualche cosa di più solido di quello che noi ora abbiamo detto»: Sofista , 259b-c - , sgom­ bratosi il terreno dai demagoghi e da coloro che spacciano le loro tecni­ che ingannatrici come sapere filosofico e politico, rimanendo ancorati ai conflitti di opinioni private, alla sopraffazione degli ignoranti, Platone può ora, riallacciandosi al Sofista, determinare e definire chi sia uomo di Stato, il politico e, di conseguenza, il filosofo. Il Filosofo, promesso al princi­ pio del Sofista (2 1 7a), non fu mai scritto, o è andato perduto. Probabil­ mente non fu mai scritto, ché, nel Politico, defmendo l' uomo di Stato come 'dialettico' , si viene, ad un tempo, a ritornare sulla definizione del 'filo­ sofo', colui che, in quanto dialettico, coincide con il ' filosofo re' della

Repubblica . Cosi se nella Repubblica (492b) Platone poteva dire che i sofisti sono rimestatori e ciurmatori, che per interessi privati e di cricche, con i loro discorsi suscitatori di passioni fuorviano chi non sa, può ora, dopo il Sofista, esclamare nel Politico:

Lì per n sono rimasto perplesso nel vedere qual coro di gente si affac­ cendi , intorno agli affari politici [ ...] , il coro di tutto l'insieme dei sofisti , grandissimo stregone e consumatissimo in quest'arte, colo­

ro che bisogna tenere ben separati da chi sia veramente politico e regio - e tale distinzione è quanto mai difficile - se vogliamo vedere chiaro l'oggetto della nostra ricerca (Politico, 29 l c). Tutti costoro vanno, dunque, eliminati , perché non sono uomini politici, ma dei faziosi; e poiché si fan guida di grandissimi vuoti fantasmi , tali sono essi medesimi, e, poiché sono ad un tempo insigni mimi e ciarlatani, divengono tra i sofisti i sofisti più grandi (Politico , 303c). Chiaro è perché Platone ha collegato il Sofista al Parmenide e al Teete­

to; altrettanto chiaro è, ora, perché fa seguire al Sofista il Politico: deli­ neata la «figura del sofista» (Politico, 257a), dobbiamo «cercare di defi­

nire l'uomo politico» (258b). Colto il sofista, si tratta adesso , con lo stesso

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Platone Il pensiero

rigore metodologico usato nel Sofista, mediante il procedimento logico del dividere - dicotomia - e dell 'unire - coinonia - (285a), di defi­ nire il politico, quale sia la tecnica o scienza propria dell'uomo di Stato. Molto significativo sembra ora che mentre nel Sofista l'esempio del metodo 'dialettico' per giungere a delineare la figura equivoca del sofista è tratto dall ' arte acquisitiva (dalla caccia, come capacità di possesso) e da quella poietico-fantastica , nel Politico l'esempio per defi­ nire il politico, determinando in quale classe o specie rientri , e quale sia la sua specifica arte, è tratto dagli aspetti in cui si divide la scien­ za (cfr. 267d-268a).

Qui Platone vuoi definire il 'politico' uomo tra uomini, colui che ha la tecnica di far sì che ciascuno sia se stesso in una tensione a un ordine, a una dialettica di competenze, istituendo, giorno per giorno, un rapporto di misura, per cui il politico non è né un individuale e privato 'sedutto­ re' degli altri (il sofista) , né un 'padre ' , né un 'divino pastore' (275b-c): sono questi i due termini estremi di un 'ciclo' , di cui l'uomo reale è a mezzo ed in cui se presi a sé, separatamente, né nell'uno né nell' altro avremmo lo Stato, vita politica, ma silenzio o nell'unità divina, o nel 'gran mare della dissimiglianza' (273d-e). E ciò Platone chiarisce con il 'mito delle due età' (268d-274e), il mito sull'età di Crono e l'età di Zeus, non a caso posto tra la definizione del re 'pastore' e l 'impossibilità di tale defi­ nizione per il politico, uomo tra uomini. L'età di Crono rappresenta l'epoca in cui il dio direttamente governava il mondo e gli uomini: è l'epoca dell 'ordine e della misura. L'età di Zeus è l'epoca del disordine e della caduta. Ancora una volta il mito è una rappresentazione che serve ad evocare qual­ cosa di più e di più profondo (cfr. 277c), Platone stesso dice ch'egli fa qui uso di altri miti e leggende, ma che va oltre le sue stesse fonti, e che le usa in funzione del proprio ragionamento, e di una visione e conce­ zione del tutto che va al di là dei singoli miti della tradizione, delle sin­ gole concezioni del passato (cfr. 269b-c) . La realtà tutta corporea - e in quanto corporea generata - si scandi­ sce in un ritmo di due periodi, ché alternativamente essa è mossa diret­ tamente dal dio o è abbandonata a se stessa e costretta a rifare da sé, in senso inverso, il proprio percorso, finché non si esaurisca l'impulso

Platone

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/l pensiero

Stele commemorativa dei caduti in guerra di un demo ateniese. Il V secolo era sram caratterizzato oltre dallo splendore dei monumenti, da un susseguirsi inintfYrotto ti combilttimert­ ti: in questa stele le parole •CADUTI /N UN SOLO ANNO• sono spaziare in nrockJ da dare loro maggior ris-alto.

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Platon.e Il pensiero

divino. Due periodi, o, meglio, un ciclo solo che si scandisce in due momenti, costituendo come l 'unità di un pendolo. Movimenti opposti che si articolano nell' unità del tutto. Sotto questo aspetto il 'discorso uno' e dialettico è miticamente rappresentato nella divinità. Platone per espli­ care il mito stesso sembra tenesse presente «un apparecchio rappresen­ tante i moti del cielo, bene equilibrato e mobile su di un perno» (P. M . Schuhl, Sur le mythe du 'Politique «Rev. de Mét. et de Morale>> , 1 932, p. 49). Tale apparecchio doveva essere sospeso a un gancio mediante un filo e messo in movimento rotatorio con un colpo di mano (l' impulso ori­ ginario dato dal dio), «simile a quello che danno le Parche nella Repub­ blica (6 1 7c)>> (Schuhl, op . cit., p. 50). L'apparecchio ruotando fa sì che il filo si attorcigli: poi, quando la mano cessa di dare il suo impulso, per un certo momento l 'apparecchio seguita a ruotare nella stessa direzione: quindi dopo qualche turbamento e scossa, dovuti ai due impulsi opposti (273a), il filo si srotola e l' apparecchio ruota ora in senso opposto a quel­ lo di prima; infine, quando ancora non si è esaurito del tutto il movimen­ to, la mano dà un nuovo colpo e così via di seguito: poi il dio, prima che il mondo si perda «nel mare della dissimiglianza>> , riprende in mano il ' .

timone (273d-e).

L'uomo vive ora nel momento in cui l' universo va da sé, abbandonato da Dio (cfr. 269a sgg., 273b): ed è questo il momento dell'uomo, né per­ duto nell'unità divina e neppure nel gran 'mare della dissimiglianza' , ma tensione e conflitto, corpo ed anima. Miticamente l'ordine, la misura, 'discorso uno' , il divino 'bene' fu e sarà (cfr. 269d-e), e il cosmo è quin­ di mosso da Dio a intervalli, e a intervalli è abbandonato a se stesso. Miti­ camente l'ordine, la misura, il divino, dunque, fu e sarà: di fatto non è . Di fatto ci troviamo nel ciclo di Zeus, nel limite, nel disuguale, nell'in­ definito, per cui veniamo ad essere termini staccati , individui che non si articolano: i 'deliranti ' negativi del Fedro. Da un lato, dunque, il fatto , la situazione, l 'incomprensibile, il disordine; dall' altro lato la possibili­ tà della misura, del discorso uno, del divino; da un lato adialetticità, dal­ l'altro la dialettica, la possibilità di riprendere ogni volta in mano la barra del timore (cfr. 272e-273a). Questo il significato deU'aspetto cosmologico del Politico, che difatti s'in­ treccia con il motivo dell'uomo, che un tempo - l'età di Crono, all'epo-

Platone Il pensiero

ca in cui tutto era governato dal Dio, in cui davvero Dio era pastore poteva nell'ordine divino vivere una vita beata (27 1 d sgg .). Dopo che il dio abbandonò il mondo, dapprima gli uomini vissero di quel governo, poi, via via che il tempo passò, sempre più si dimenticarono di quel gover­ no, sempre di più prevalendo l 'elemento corporeo, ossia il disordine , tanto che gli uomini si sarebbero totalmente dispersi, se Dio non avesse di nuovo preso in mano il timone (cfr. 273c-e: anche il finale del

Crizia) .

Torna ancora, qui, in termini diversi, i l motivo dei due cicli: al principio dell'uno, al fondo dell' altro neppure sarebbe l ' uomo. Al principio non v'era bisogno di costituzioni politiche, non v'era bisogno di donne e di figli (una sola

è la madre, la Terra), non lavori , perché tutto era prodot­

to in abbondanza e via di seguito (27 I e-272a). Così

è da sottolineare che

qui Platone non vuole giudicare se questa vita sia più felice dell' attua­ le, in cui siamo travagliati, impauriti , in cui abbiamo bisogno delle

arti

(272c-d, 274c-d) . Di fatto , dunque, quel governo perfetto, quell'aurea età non sono mai stati, ché in essi neppure era vita politica; miticamente ser­ vono come termini di riferimento , per un governo che si prospetta in avan­ ti (cfr. anche il mito del

Protagora, il Crizia, il

III e il

IV

delle

Leggi).

Anche gli uomini sono molti e diversi (nel senso della 'diversità' del Soft­

sta), e come attraverso il dialogo e la confutazione il pensiero si scopre uno e molteplice, uno e diverso a un tempo, dialetticità, ossia ' 'discor­ so uno' , per cui lo stesso essere (o il divino), non è né l ' uno (in senso par­ menideo) né il diverso, ma l ' uno dialettico, in un intreccio comune, così politicamente l'arte

regia (l' arte del reggere) consiste nel sapere intrec­

ciare i simili e i di vers i . La tecnica del politico

è, dunque , la

per cui ' politico' e ' filosofo' sono la stessa cosa.



dialettica' ,

D politico non è, dun­

que, pastore di uomini, pastore come il divino pastore durante il primo ciclo, perché, a parte che più non siamo, come allora, neppure la stessa ragion d'essere del tutto, il bene, dopo il

Parmenide, il

Teeteto e il

Sofi­

sta , è unità massicc ia, ma è tensione, conflitto, che si risolve in un sapiente , prudente, intessere il simile e il diverso. Tale anche

l ' ane poli­

tica e la morale. Discendono di qui chiaramente la seconda e la terza

parte del Politico

(277b-287b; 287b-3 l l c). Attraverso l'esempio dell'arte tessile (cfr. 287b sgg.) - che non

è né l'arte del cardare né quella del lavorare la lana, né

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Platone Il pensiero

quella del filare e così via, ma che di queste si serve (esse sono con-cause: 28 ld-283a) per giungere a porre tutto là dove è bene ed opportuno che sia - l'arte politica viene paragonata all 'arte del tessere; ed il politico ad un abile tessitore di sé e degli altrui caratteri e funzioni, indipenden­ temente da grandiosi miti, ma con semplici e precisi schemi da prende­ re a modello (cfr. già 277a sgg.). Il ragionamento platonico culmina così nella discussione sulla giusta misura (283b-287b), misura di arti e di funzioni. Come nel So.fista, ove abbiamo costretto il non essere ad essere , dal momento che solo per questa via il nostro ragionamento poteva avere una soluzione, dovremo anche qui [nel Politico] costringere il più e il meno a divenire misurabili non solo fra di loro, ma anche in rap­ porto al giusto mezzo che bisogna produrre . Non è certo possibile ammettere l'esistenza dell'uomo politico o di altri che sia indiscu­ tibilrnente competente nell'azione se non venga ammesso questo [ .. ] . Effettivamente bisogna ammettere tanto che esistono tutte le arti quanto che il più e il meno si misurino insieme, non solo recipro­ camente, ma anche in rapporto alla produzione della giusta misura. .

Se tale rapporto esiste, esistono infatti anche le arti e se le arti esi­ stono anche il rapporto esiste, mentre se l'uno dei due termini non esiste, non può esserci neppure l 'altro (Politico , 284b-d) .

Ogni arte , ogni 'tèchne' , non è tale se in sé non trova la sua misura e la sua legge, e se, per altro, verso, non si contempera con le altre, in una sola legge e misura che tutte le articola in giusti rapporti. Tale l'arte del 'politico' . Quella che nella Repubblica era la 'giustizia' diviene qui la 'misura'. E tanto più chiaro si fa allora il paradigma dell'arte tessile, attra­ verso il quale diviene manifesto in che consiste l'ane regia e l'uomo regio (cfr. 306 sgg .). Come la giustizia non è nessuna delle virtù, ma è la virtù che rende virtuose le altre, così ! ' ' arte regia' non è nessuna delle arti, che pur si occupano del mondo umano (arte militare, arte del persuadere o retorica, arte giudiziaria), ma è l ' arte mediante cui ciascuna arte, l ' una diversa dali' altra, assume il posto e la funzione che le compete, costituen­ do il tessuto umano, simile al tessuto del tutto, ossia al 'discorso uno ' ,

Platone Il pensiero

per cui il 'cosmo politico' e la 'politèia cosmica' s'intrecciano in unità. All'epoca del Politico Atene e Sparta erano oramai finite. Solo apparen­ te era la forza di Tebe. La battaglia di Mantinea è del 362. Lo stesso Epami­ nonda, che in quella battaglia lasciò la vita, più che un politico fu un abile stratega. In questo periodo, è noto, dallo Jerone e dalla Ciropedia di Seno­ fonte all'A Nicocle di Isocrate, l'esigenza di un governo monarchico forte che accentrasse in sé le parti in lotta era assai diffusa. «Nessun uomo esclamerà, invece, Platone nelle Leggi - può, per sua natura, adegua­ tamente governare, con potere assoluto, tutte le cose umane, senza rigon­ fiarsi di tracotanza e di ingiustizia» (7 1 3c).

E nel Politico, dove tale preoccupazione è presente e drammatica, Pla­ tone, dimostrando come il politico è in effetti un abile tessitore e com­ positore sinfonico, distinguendo dall"arte regia' le altre cosiddette arti politiche (retorica, arte militare, arte giudiziaria), vuoi far vedere come queste valgano, ma solo in quanto strumenti , organi in funzione di un tutto che singolarmente le trascenda e dà loro significato e intelligenza (cfr. 304 sgg .) . Probabilmente Platone polemizza qui contro il possibile sopravvento unilaterale dei rètori , dei militari , dei legislatori puri. Non per niente, poco più sopra, Platone aveva detto che dobbiamo soprattut­ to riflettere che lo Stato veramente giusto non è lo Stato governato da pochi o da molti , dai ricchi o dai poveri , accettato volontariamente o per forza. ma che il governo veramente tale è quello che sia retto da chi abbia ' scien­ za' (cfr. 292c-d) . Il ' politico' , dunque, uomo tra uomini , è il 'dialettico' , colui che di l à da ogni unilateralità sa manovrare l a situazione di fatto per intrecciare e ristabilire i fili rotti del tessuto, in funzione di un 'bene comu­ ne' . E, perciò, in uno Stato di uomini - non «di dèi o di figli di dèi

»:

Leggi, 732e, 853c-d - ci vorranno leggi scritte: solo che come duttili , aperte , debbono essere, in funzione della dialettica, le arti , la poetica, la retorica, così duttili , aperte in funzione della dialettica, debbono essere le leggi. Le stesse leggi scritte debbono poter mutare . Nel Politico. con­ siderato in sé l ' uomo regio, il problema di dettare le leggi resta il mede­ simo che nella Repubblica (50 l a , 54 l a , 425a) . Se chi dirige lo Stato è 'politico' , per costui, per un simile legislatore non c'è bisogno di leggi

scrine, di attenersi alla lettera di un determinato, inflessibile e storico codi­ ce. Anzi «relativamente al governo, la cosa migliore è che non le leggi

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Platone Il pensiero

si facciano valere , ma che piuttosto si faccia valere l 'uomo che veramen­ te s'intende di governo , il cosiddetto uomo regio» (294a). «La legge infat­ ti non potrebbe mai prescrivere, e con esattezza per tutti , ciò che è meglio e più giusto, ' aggiungendovi anche ciò che è più conveniente [ ... ] . è impossibile, dunque, che ciò che sempre resta assoluto, s i adatti a ciò che assoluto non è» (294b-c). Volta a volta il «legislatore emanerà la legge che conviene di più e nella

maggior parte dei casi» (295a; cfr. anche 297a-b). Le stesse leggi, dun­ que, si possono rompere , in nome di quella ' misura' che si può realizza­ re e che volta a volta può rispondere ad una certa situazione storica, ma che ogni volta, realizzata che sia, può divenire muta come i discorsi scrit­ ti del Fedro (215d-e). Solo che l 'uomo non è un dio, né un figlio di dio

(Leggi, 139d-e, 853c-d). La città perfetta, retta dai filosofi, che non ha bisogno di leggi, realizzazione di ciò che dovrebbe essere e non è - la Città della Repubblica

-,

«questa bisogna separarla da tutte le altre, come

un dio dagli uomini» (Politico, 303b); ma questa deve tenere presente il 'politico', che in quanto dialettico, attraverso l 'educazione e le stesse leggi scritte, abilmente intessendo, deve tendere a porre in atto lo Stato uno, articolato in un solo 'discorso' . Se siamo uomini e si deve operare tra uomi­ ni, per il politico la legge scritta è valida, come avviamento e come per­ suasione , come indice stesso di rinnovamento, per non cadere nel con­ flitto di poteri (Stati nello Stato) e, perciò, poi, nella tirannide. Di fronte a tale pericolo meglio allora la legge scritta , che il tessitore politico ten­ derà ad emanare «quale imitazione della verità» (300c, e 300a-c). Nel Poli­

tico, ove, attraverso l'educazione dell "uomo regio', e la sua corretta 'defi­ nizione ' , si tratta di avviare all' ideale 'politèia' , e di inserirsi nella situazione storica, il problema della legge scritta ha la massima impor­ tanza.

È chiaro così come qui , nel Politico, Platone, accanto all' ideale

forma di governo retta da un uomo solo o da pochi, gli ottimi (àristoi), dai filosofi (dialettici), ponga sei costituzioni, più o meno buone a secon­

da che più o meno si avvicinano all'archetipo. D governo monarchico retto con leggi, il monarchico senza leggi, che è il peggiore e che sfoci a nella

tirannide; l' aristocratico retto con leggi; l'aristocratico senza leggi (l'oli­ garchia e la 'timocrazia' della Repubblica); i l democratico retto da leggi; il democratico senza leggi (30 I c-303e).

Platone Il pensiero

La legge, dunque, ha la funzione di far rispettare le parti e di contempe­ rarle in quell'unico e vario tessuto, di cui solo capace è chi abbia l'arte politica. Evidenti risultano così le ultime parole del Politico: Questo, dunque, diremo è il fine del tessuto della prassi politica, un perfetto intreccio fra i caratteri degli uomini coraggiosi, e dei pru­ denti, ottenuto quando l 'arte regia, riunendo la loro vita in comune consenso ed amicizia, realizzando così il più stupendo e il più pre­ zioso fra tutti i tessuti, includendovi il popolo tutto che vive negli Stati , servi e liberi, insieme racchiuda entro questa rete, e, per quan­ to ad una città è dato d'essere felice, non trascurando nulla che tenda a questo fine, la governi e la guidi (3 l l c) . 2. II bene e il piacere . Nuovi concetti. L"essere ' come 'esistere ' . /l « File­

bo ». Le lezioni sul 'Bene ' ( 'àgrapha dògmata ') . Il Filebo

-

composto forse tra il 360 e il 354, negli anni del Ttmeo

-

è

uno scritto molto difficoltoso . Esso assume un suo significato se letto al lume degli ultimi esiti dei concetti di 'dialettica' , di 'genere' e del 'bene' inteso come l"unico genere dell'essere ' , ossia 'discorso' , e dell 'ultimo concetto di 'misura' e di 'tessitura' (cfr. in particolare Sofista e Politico). Non solo, ma un suo più preciso significato lo assume

in

un giusto

inquadramento delle pagine in cui Platone conduce ad estreme conseguen­ ze da un lato il senso della polivocità dei nomi e del rapporto uno-molti

( 1 2a- 1 8b), e, dall'altro lato, riduce i 'generi' della realtà a quattro: ' limi­ tato', 'illimitato' , 'misto' , 'causa' (23b 3 l a) . -

D como del dilemma che si presenta nel Filebo sta nella iniziale contrap­ posizione tra la tesi di Polemarco (già difesa da Filebo), secondo cui pia­ cere (edonè) e bene si identificano, e la tesi di Socrate , secondo cui intelligenza e apprendimento (tò phronèin, tò noèin) fanno un tutt'uno con il bene ( l l a-d). Solo che si potrebbe proporre una terza ipotesi e, cioè, che intelligenza-scienza e piacere non sono il bene, ma le une e l'altro, ciascuno simile per genere e per nome, diversi per specie e anche dissi­ mili tra loro (scienze e scienze, piaceri e piaceri), sono, per ciò che riguarda ciascuno (intelligenza e piacere) diversi e in sé compiuti, e

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Platone Il pensiero

L'Accademia di Platone in un mosaico di epoca romana.

Platone

229

/l pensiero

Sul contenuto delle lezioni rxali tradizionalmente tenute dal filosofo à smo tinasre solo spo1Ddw testimonianze, tra cui quella di Aristotele.

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Platone Il pensiero

pertanto non sono il bene, se non per il fatto che scienza-intelligenza e piacere si costituiscono tali, in quanto ciascuno è come è bene che sia, onde 'partecipa' (ha) del bene. Sotto questo aspetto il dialogo è sul bene: o, meglio, è un approfondimen­ to da parte di Platone del concetto di 'bene' , maturatosi dopo le discus­ sioni dei dialoghi 'dialettici ' precedenti, ed è, ad un tempo, una proba­ bile risposta di Platone a una doppia interpretazione data del ' bene' e del ' piacere' di lui da parte degli scolari . Se giusta potrebbe essere l 'affer­ mazione che piacere e bene coincidono, evidentemente bisognerebbe prima, metodologicamente e correttamente, definire cosa è il ' piacere' che pur andando sotto un unico nome è molteplice, che pur essendo unico come genere ha specie molto varie e diverse, per cui in sé non è ricon­ ducibile al 'bene' unico. E così se giusta potrebbe essere l'affermazione che per l 'uomo il bene sta nel pensare e nel l' intelligenza (che potrebbe­ ro essere il 'vero piacere'), evidentemente bisognerebbe prima, metodo­ logicamente e correttamente, definire il 'sapere' , che, pur uno per gene­ re, si divide in molte specie anche diverse tra loro, e ridurlo poi al 'bene' ( I l d- 14b). Che tale doppia interpretazione del bene (bene uguale piace­ re e bene uguale pensare e sapere: l'uno e l'altro modo considerati come ' piacere') fosse presente nell' ambito della scuola di Platone (da Speu­ sippo a Eudosso di Cnido) è testimoniato da Aristotele (cfr. Etica Nico­ machea, VII, 1 1 52b- 1 1 54a; X , 1 1 72b sgg.). Certo, dal Filebo non risul­ ta una definizione del bene. Dalla Repubblica in poi , di approfondimento in approfondimento, si giunge a porre il 'bene' come uno dei 'generi del­ l 'essere ' , cioè 'discorso' , o, meglio il 'giusto saper pensare' , e, pertan­ to, a porre il 'bene' come possibilità di saper pensare (non come lo stes­ so 'pensare'), del saper porre per ciascun 'discorso' le giuste premesse , in cui alla fine consiste la giusta ' misura' , il corretto intrecciare i fili del 'tessuto ' . Del 'bene ' , dunque, non si può scrivere nulla. II 'bene' non è dicibile, se non in traduzioni proporzionali-numeriche, perché ne risul­ ti la sua ' misurabilità'. Esso, pertanto, non è da chiudere in formule defini­ tive, poiché è dallo stesso saper pensare che discendono poi le giuste pro­ porzioni, e di esso non si può, dunque, parlare che per i pochi, oralmente. Ogni definizione del bene sarebbe una negazione del bene. Come risul­ ta da appunti , ripresi dalle lezioni di Platone - le testimonianze sulle 'dot-

Platone Il pensiero

trine non scritte' , àgrapha d6gmata, di Platone si vedano in Plmoru unge­

schriebene Lehre di K. Gaiser, Stuttgart 1 963 - , sembra che tale fosse il contenuto delle 'lezioni' di Platone sul bene, in cui, proprio perché orali , si potevano assumere, per evocare ciò che sta al di là delle proporzioni matematico-geometriche, molte delle distinzioni, delle diadi, delle misu­ razioni, anche grafiche, dei secondi pitagorici, salva restando quell'uni­ tà prima e indivisibile del discorso, dicibile solo nello stesso saper discorrere. Sotto questo aspetto è chiaro perché il Bene di Platone non ha nulla a che fare con l'etica (nel senso etimologico del termine), come, per altro, molto bene sottolinea Aristotele: Etica Nicomachea, I , 1 096a

4 sgg.: cfr. oltre, p. 1 %, né con l'essere, né col pensiero, ma sì con le 'virtù' (intese come capacità umane), in quanto, appunto , esso viene ad essere la suprema capacità umana, ossia la capacità del 'saper pensare ' , e, in que­ sto senso, la 'virtù' delle 'virtù' . Entro questi termini risultano vere tutte e due le posizioni (bene uguale piacere; intelligenza e sapere uguale pia­ cere) , qualora sappiano integrarsi nell'unico modo di ' saper pensare' e nell'unità-molteplicità della scienza e del piacere. Il 'saper pensare ' , realizzando l ' uomo come è bene, lo rende felice, ossia gli dà i l 'piace­ re' che compete a ciascun genere diverso di discorso (scienza-scienze) e di azione (piacere-piaceri), ove il piacere si ritrova nelle corrette scien­ ze

(quali che siano) sì come nelle misurate azioni e passioni (quali che

siano). Si capisce cosl perché Platone dapprima torni sul più generale pro­ blema uno-molti , o meglio tomi a proporre il problema del rapporto tra l' unità di una cosa (sottolineamo che Platone qui usa per uno e unità il termine ende e monade) e la molteplicità delle cose nelle specie del genere (idea), per cui in ogni cosa veniamo ad avere il ' finito ' , il com­ piuto, e )" infinito' , l 'illimitato (cfr. Filebo , 1 6c- 1 7a). Calzantissimi per spiegare il rapporto unità-molteplicità, entro I' ambito di ciascuna unità, sì che entro ciascuna unità si trovino i rapporti tra i molti modi d' essere di quell'unità, ciascuno a sua volta per sé unità, sono gli esem­ pi riferiti da Platone, sull'unità della voce, del suono-voce, e sulla molte­ plicità dei suoni (> . ll 'cosmo ', la .fisica matematica e il 'democritismo ' pla­ tonico. L' 'anima mundi ' . n passo al 1imeo è , oramai, breve, e breve il passo all'esposizione di come si costituisce il mondo, che, per le ragioni dette prima, non poteva esse­ re che in termini di 'mito' in senso platonico, in traduzioni matematico­ geometriche dei dati quali appaiono mediante l ' esperienza. Sotto questo aspetto

è

chiarÒ che la 'fisica' di Platone non

'discorso' intorno alle condizioni che

è

una 'fisica' , ma un

permettono di rendersi conto non

contraddittoriamente del costituirsi della 'natura' . Tutto

è ordinato e guidato da una mente, da una meravigliosa mente

che tutto coordina (Filebo,

28d). E sembra giusto dire che 'ciò che

fa' e 'ciò che è causa' sono una sola cosa [ . ]. E, allora, ciò che viene ..

fatto e ciò che viene all'essere non differiscono in null 'altro se non nel nome [ . .. ]. E ciò che fa è sempre, per natura, ciò che precede, men­ tre ciò che viene fatto sempre, nel suo venire all'essere, segue a quel­ lo

(Filebo, 27a).

'Natura naturans ' , dunque , da u n lato , e 'natura naturata' , dall'altro lato: insieme l ' una e l 'altra; logicamente prima la 'natura naturans' . E allora, se, sotto questo aspetto, è a sé indicibile la 'natura naturans' e a sé indi­ cibile

è la 'natura naturata'

- in sé esistono mentalmente - si può par­

lare solo del 'misto ' , ossia dell"esistente' , del probabile, qualora se ne colgano le condizioni traducibili in termini di proporzioni e di

misure.

Essi perderanno la vita de li' essere, ma sono l 'unico modo per avvicinar­ si al 'discorso uno' che vive e si manifesta nei singoli momenti , nelle stes­ se leggi su cui si scandisce il tutto. Entro questa prospettiva Platone mantiene la sua critica nei confronti dei 'pitagorici ' , o meglio dei matematici, che, dopo Pannenide ed Eraclito, hanno tentato di risolvere tutta la realtà in termini matematici e geome­ trici, ponendo oltre il pari (infinito) e il dispari (finito), il 'parimpari ' , l'uno primo donde tutto diadicame nte deriva, e nei confronti di Anassagora per un verso e di Democrito per l'altro verso; l ' uno e l'altro accantooaro l ' Es­ sere in quanto massiccia unità, o in quanto mero fluire, hanno tentato di

231

238

Platone Il pensiero

spiegare i fenomeni coi fenomeni senza uscire dall'esperienza, il primo con l' ipotesi dei 'semi ' , il secondo con l'ipotesi degli atomi (idee atomi), che, indipendentemente da ogni superiore ragione, sono la condizione dei molti possibili mondi e che a seconda di come si costituiscono determi­ nano i possibili modi di 'esistere' , in possibili riduzioni matematico-geo­ metriçhe. Solo che, una volta risolto per Platone il contrasto Parrnenide­ Eraclito sulla possibilità o meno di 'dire' l'essere; risolto l'essere uno nel suo stesso esplicarsi , per cui l'Uno è lo stesso 'discorso' del tutto, in una molteplicità, che compresa e ripercorsi nei suoi momenti e nelle sue leggi, torna all 'Uno, che è, dunque, in principio e infine, e che sotto questo aspet­ to è ad un tempo il divino bene e l'anima; una volta giustificati i singo­ li 'discorsi' e trovate per ciascuno le sue leggi; sembra chiaro come Pla­ tone possa ora riprendere dai matematici suoi contemporanei (i nuovi 'pitagorici ' , da Acchita a Teodoro a Teeteto a Timeo di Locri che sem­ bra abbia scritto un libro sulla natura) , e entro l'ambito della spiegazio­ ne del costituirsi delle cose, dal cosiddetto ' materialismo' di Democri­ to, e dal suo modo, una volta articolatisi gli atomi, di assolvere i rapporti in termini numerico-geometrici. Evidentemente sia la soluzione pitago­ rica sia quella democritea - che indubbiamente ritroviamo nel 7imeo non vengono accettate da Platone per quel che avevano di descrittivo, di 'racconto' della realtà, ma in quanto l'una e l ' altra potevano servire, vero­ similmente, a interpretare e a razionalizzare, in termini di discorso cor­ retto sulla natura , la condizione prima e ultima (faticosamente di volta in volta raggiunta attraverso il dialogo) che è l'Uno tutto, il bene, 'model­ lo' primo su cui si scandisce a sua immagine il rapporto 'natura naturans' e 'natura naturata' . Tale rapporto implica non infiniti possibili mondi (come per Democrito), ma in un sol mondo, uno nella sua razionalità - sotto questo aspetto buono - , molti mondi in un solo universo, molti 'discor­ si' in un solo 'discorso uno ' . E allora, posto che scienza si dà solo del­ l'universale, la scienza relativa alla 'natura naturata' , la 'fisica', non è pos­ sibile: sarà possibile solo se, prendendo le mosse dall'esperienza, dal corporeo, dal mondo del 'misto ' , si cercherà di determinare i modi uni­ versali, le leggi , traducibili in numeri e misure, con cui, modello il mondo uno e ' buono' , si costituisce nell'incontro tra 'finito' e ' indefini­ to' (qualità e quantità, intelligenza e necessità, atomi-punti e definirsi di

Platone Il pensiero

essi nello spazio, nella mera estensione), il mondo dell"esistere'. del pro­ babile. Entro questi termini - nell'ambito del ' misto' - l 'ipotesi pita­ gorica e quella democritea potevano incontrarsi, sì come si incontrano il 'finito' e !" indefinito', salva restando la condizione prima, che dà fon­ damento e validità, alle ipotesi verosimili sul costituirsi in 'sistema' della 'natura' . Ancora una volta, anche se in altra prospettiva, risulta, la tesi di Plato­ ne che non sia tratta di due mondi, il mondo intelligibile e perfetto, in sé conchiuso nell'unico 'discorso di idee'. e il mondo del sensibile, dell'opi­ nione, del divenire, ma di due nostri modi di atteggiarsi nella tensione a comprendere la realtà, tale solo se si traduce in giudizi e corretti discor­ si. Indubbiamente l 'uomo si trova di fronte al mondo del sensibie, del mutevole; a un mondo di apparenze: solo che se assume tale mondo a base della sua interpretazione, pur ammettendo che v'è in noi una capacità di ordinare e articolare i dati , tale mondo si rivela come costituito a caso (senza causa: cfr. 28a) , e, qualsivoglia ricostruzione se ne dia, resta opi­ nabile, irrazionale. Altrettanto indubbio è che in noi esiste una cipacità di giudizio, modi di pensare uguali in tutti, mediante cui si rintracciano le guise razionali, le 'forme' che permettono il giudizio e senza di cui nep­ pure esisterebbero le cose defmite, ché il tutto si perderebbe nel mero flui­ re delle irrelate (alogiche) sensazioni. Per Platone, dunque, l'un mondo non c'è senza l'altro. Più volte Platone per spiegare ciò è ricorso a degli esempi, in particolare tratti dal lavoro degli artigiani, specchio del tipo di società per cui scriveva e discuteva, e che ora riprende qui, nel Tuneo , con il mito dell"artigiano (demiurgo) divino' . Ogni artigiano, quale che sia il suo mestiere, non solo deve avere presen­ te e conoscere il tipo di materiale su cui operare, ma deve, ad un tempo, avere , l"idea' , la ' forma' , il 'disegno' , che vuole e può realizzare in quel materiale. Ma non basta. 'Materia' e 'forma' (che è l"inventio') sono tt»­ ricamente distinte. La 'forma' rappresenta il 'tutt'uno compiuto' . il 'ciò senza di cui ' , il ' modello' da realizzare, che non è se non in quanto 'pensato' , 'ritrovato'; il ' materiale' rappresenta ciò conoscendo cui è pos­ sibile, con sforzo, rendere il prodotto fmito a regola d'arte. ln realtà, forma e materia si costituirono in unità mediante la ' tecnica' dell'artigiano. E allora, si tratti di politica o di poetica, di retorica o di pittura o di seui-

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Platone

I l s i m pos i o L'ascesa di un Wittelsbach al trono di Grecia, nella prima metà del XIX secolo, è alla radi­ ce del profondo interesse - formale e filologico - che attraversa tutta la cultura tedesca dell'Ottocento, combinandosi e sovrapponendosi agli accenti preromantici che aveva­ no caratterizzato l'inizio del secolo. l'effetto più immediato è la trasformazione di gran­ di brani delle due più importanti città tedesche, Monaco e Berlino, secondo i canoni del doricismo che un'intera generazione di architetti tedeschi impara a conoscere direttamen­ te dalle rovine del Partenone; Schinkel alla corte prussiana e leo von Klenze a quella bava­ rese inaugurano tutta una serie di templi, propilei e gliptoteche che culminano invaria­ bilmente in statue monumentali (la Bavaria a Monaco o la dea Berolina in riva alla Sprea), il cui modello di riferimento è la scomparsa Atena pramachas di Fidia che, secondo le ricostruzioni antiche, doveva campeggiare al centro dell 'Acropoli. Tanto il mondo della filosofia quanto quello della filologia non sono immuni da questa ondata di filellenismo, che culmina nel trentennio tra il 1 860 e il 1 890: le vicende umane di Schliemann e di Nietzsche mettono in evidenza quanto i tedeschi dell'epoca di Bismarck sentissero loro affine, o meglio complementare, la cultura greca.

Il Walhalla di Leo Von Klenze in un acquerello ottocentesco. La paradossale

soluzione simbolia del tempio greco eretto a dimora degli dei nordici viene intPrpretata roman­

ticamente attraverso la sublimazione del contrasto con il castello diroccato sullo sfondo.

Platone

241

Ifigenia in Tauride (tela di Anselm Feuerbach. 1871). La SOt1e d ....,. la t9ia d Agamennone che - dopo essere sfuggita al saaffic:io - WKw nella lontnJ regiare nonlal d!lla TiMiide (Crimea), aKWaffascinatD fii artisti tl!desdri frn diiSetf!aJJfl:J, qsrdo GoefheSl7iJi!;p Cft1 personale �della trage6a d Elljide; Feuerbadl dpi!;eben Ile M!rSiDd�SOJPGl

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Platone

Tra il 1 869 e il 1 873, Anselm Feuerbach, uno dei più noti artisti del tempo, dipinge due versioni di una tela ispirata al Convivio di Platone: nel 1 866 i l pittore scrive: " come un trionfo della mia arte aleggia davanti a me, giorno e notte, la gioia serena di quel Simposio, il cui compimento sarà la reden­ zione del mio talento " . La critica moderna non può essere molto lusinghiera sulla tela,

Il Liceo di Aristotele (affresco di Gustav Adolph Spangerberg, 1888). L 'interesse della rulrura tedesca per la filo­

sofia e la filologia ispirò il ritorno alle forme dassiche andle nelle arti figurative; le gran­ di scuole del passiJto - Accademia e Liceo furono tra i soggetti preferiti per la deco­ razione all'interno deigrandi edifid univer­ sitilri costruiti vetSO la fine del XIX secolo. -

che risente del gusto " pompiere" del tempo assai più che dell'influsso del mondo clas­ sico, tuttavia - fatte le debite proporzioni essa ci fornisce un interessante spaccato di come la cultura tedesca (ed europea) del XIX secolo percepisse la grecità. Il quadro è scandito da due zone distinte: a destra viene mostrato il gruppo intento a discu­

tere attorno a Socrate; a sinistra l'arrivo improwiso di Alcibiade e dei suoi amici, che, di lì a poco, si uniranno alla discussione. Mediatrice tra i due gruppi è la figura del padrone di casa, Agatone. secondo Heinrich Meier ( 1 994) "Feuerbach ce lo mostra nella sua bellezza statuaria, ben strutturato come il suo discorso, di aspetto imponente e in un atteggiamen­ to come raggelato che rispecchia la vacuità della sua arte retorica, influenzata dai sofisti Gorgia e Prodico"; Reinhard Brandt (2000), a sua volta sottolinea come l'intero quadro appa­ ia come "raggelato" secondo un canone di bellezza che affonda le proprie radici nel trat­ tato De/ Sublime: tanto Meier quanto Brandt rimarcano come l'ambiente artistico e cultu­ rale della Germania ottocentesca avesse assimilato la produzione letteraria greca, anche se la sintesi formale sembrava orientata maggiormente ad una ripresa meramente forma­ le. In effetti, al di là di alcune figure centrali - evidentemente ispirate ai modelli (comun­ que rielaborati e restaurati) forniti dalla scultura greca - l'impianto della tela sembra esse­ re maggiormente debitore a David che all'arte classica; in particolare, la figura seduta in secondo piano, immediatamente alle spalle di Agatone pare riecheggiare il personaggio cen­ trale nella Morte di Socrate (probabilmente una rappresentazione allegorica dello stesso Platone), che volge pensosamente le spalle all'esecuzione del maestro; in Feuerbach l'uo­ mo appare di profilo e sembra non interessarsi né al gruppo dei "pensatori " raccolti attor­ no a Socrate né a quello dei ·gaudenti· attorno ad Alcibiade. Questa figura centrale (non

Platone

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a caso posta alle spalle del mediatore tra i due gruppi principali) non è ancora stata defi­ nitivamente chiarita dalla critica, potrebbe rappresentare Pausania, uno degli amici di Socrate citati nel Convivio, o ancora simboleggiare - come in David - proprio l'autore del dialogo (Platone) e, in senso traslato, anche l'autore del quadro. Lo spettatore moderno può rimanere sconcertato di fronte a una tale ridda di ·signifi­ canti" all'interno di una tela sostanzialmente abbastanza modesta; va rimarcato come - forse inconsciamente - Feuerbach radicalizza un conflitto latente tra Socrate e Alcibia­ de, mostrandoceli non solo agli estremi opposti del quadro ma anche in pose e atteg­ giamenti assolutamente diversi. Questa opposizione, del tutto aliena al dialogo origina­ le, discende forse dalla contrapposizione, a volte molto netta, tra il mondo intellettuale e quello militare che ha caratterizzato la Germania bismarckiana (e poi guglielmina). facm­ do di Socrate e di Alcibiade rispettivamente i campioni delle due parti; l'episodio, più volte ricordato, del Kaiser accolto freddamente durante la sua visita all'ateneo berlinese in occa­ sione del centenario della sua fondazione e congedato dai docenti con la frase · meno male che non se ne vedrà un altro per altri cent'annt sembra trasporre concretamente la freddezza del cenacolo socratico nei confronti di Alci biade. Significativamente, questa lettura del rapporto tra il filosofo e lo stratega, legata a un dibattito interno al mondo tedesco, avrebbe influenzato l'interpretazione del Convivio per tutto il Novecento.

Ausstellungsgeb neMa Kinigsplm di Monaco (leo .... ....... 1--1KZ).

Leo von Klenze fu il più autorevole portilvoce del cJassidsmo alla � ITIOIJaCMSe dft Wittelsbach, cui apparteneva il nuovo re di Glf!Cia, Ottone l; gli edfflci della � Kooigsplatz erano destinati ad ospitare le collezione di antichità dft stNratti.

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Platone

Il simposio (tela di Anselm Feuerbach, 1873).

Platone

Il pittore awova già tNiizzato anche se meno magniloquente.

una

prima

� di ques10

245

dP"fo nel 180, quasi

d!nDca

246

Platone Il pensiero

tura, di costruire navi o spole, di coltivare la terra o di navigare, di fab­ bricare strumenti musicali , e così via, si tratta sempre di avere da un lato un materiale (un certo materiale) e dall'altro lato una 'idea' , una 'forma' , ma anche le capacità tecniche e lo studio di come si possono dominare certi materiali per realizzare qualcosa a regola d'arte. Sotto questo aspet­ to l'artigiano è sempre un termine medio nel suo tentativo, conoscendo I' arte, di realizzare bene ciò che è suo mestiere fare. Non solo, ma un buon artigiano non si limita, ad esempio, a copiare una nave già fatta (il 'modello nato' di cui parla Platone nel Ttmeo, 28b), ma per poter fare una nave deve ogni volta tornare all "essenza nave' a ciò per cui una nave è nave, alle leggi della nave, a 'modello buono' e non 'nato' del 7imeo (28c29a); col tempo, in 'invenzioni' nuove, può fabbricare navi che con l'originaria nave copiata non hanno più nulla a che fare, pur trattandosi sempre di 'nave' e non di qualche altra 'invenzione' . Ogni artigiano, dun­ que, dovrà avere i suoi materiali, le sue nozioni , i suoi 'piani' di realiz­ zazione (che sono prima e che si traducono in calcoli, in formule, in pro­ porzioni), che gli permettono, nel proprio campo, di saper lavorare bene;

tutti , quale che sia il proprio mestiere (anche il politico, si è visto, è un artigiano, simile al tessitore), debbono, di là dalla propria singola arte, avere presente, ciascuno per ciò che gli compete, un certo metodo di lavo­ ro che si adegui al modo comune con cui ciascun'arte è scientifica e assu­ me il suo posto in un sol contesto di rapporti in buona e, perciò, bella maniera. Evidentemente tutto ciò implica un margine (dovuto ai dati imme­ diati e ai materiali) di irriducibilità ai piani' e alle modificazioni positi­ ve, in cui consiste il 'negativo' , o platonicamente la 'fortuna' (tyche), il 'necessario' (animche), il ' male', in quanto irriducibile all'ordine, alla misura, al calcolo. Posto tutto ciò, se invece di volerei rendere conto di come è che si fa buona politica o si fanno bene vasi e spole e navi, o si fa un buon discorso, e così via, ci si vuoi rendere conto di come è che si costituisce da sempre la 'natura' nel suo intrinseco rapporto di ' natura naturans' e 'natura natu­ rata' , senza dover ricorrere, prendendo le mossi dalla mera esperienza, a pure descrizioni e racconti, o ipotesi , che pur restano sempre 'opinio­ ni', più 'verosimile' è, per analogia, tenere presenti gli elementi che ser­ vono a qualsivoglia artigiano: la razionalità che si traduce in 'piani' e 'dise-

Platone Il pensiero

gni' (la 'provvidenza'), il materiale su cui lavorare e da 'informare ' , tecniche mediante cui realizzare fine.

le

Di qui l ' ipotesi (mito verosimile)

dell "artigiano divino' (demiurgo), ché ora non si tratta più di umani, ma di cose naturali, viventi o meno, costituite

arte/acta

sempre secondo

'arte ' , ma altra da quella umana, che pur ad essa deve adeguarsi per fare bene. Certo, una volta risolta la realtà nel suo 'esistere' in

termini com­

prensibili, in quanto si traduca il tutto in numeri , in proporzioni , in misu­ re si perdono le ragioni della vita del tutto - dalle forze dei moti cele­ sti, all'esserci di un albero, di un uomo, di un animale qualsiasi, del mare, della terra; di un sasso. Chiaro è, allora, perché per Platone, è impossi­ bile una ' fisica'

o

una 'cosmologia' , come scienza (non a CMO dirà che

mai egli ha scritto sulla ' natura ' , perché inadeguato è il linguaggio, «ehé immobili sono le parole come avviene per i caratteri scritti»:

Vll lene­

ra, 341 b-343a). Lo si potrà solo per analogia e per evocazione, da un lato ricorrendo al · mito' , dall'altro lato presupponendo l ' ' anima ' . come atti­ vità vitale prima, da cui tutto deriva in gradi diversi fmo al limite dei corpi e ali' esaurirsi della forza vitale, dal razionale fino al limite deli ' irrazio­ nale.

La 'dialettica' così non serve più, se non dopo, come metodo per i Tuneo

possibili calcoli e le possibili distinzioni e misure. Non a caso sia nel

che nelle Leggi, in cui il motivo dell" anima' o forza vitale prima e, per­ ciò divina, da cui seguono moti e corpi (cfr. X libro delle Legg1), è anco­ ra più accentuato, il termine 'dialettica' non è usato . Termine medio, dunque, il 'divino artigiano' ,

il mito sta ad indicare che.

sia pur su di un piano diverso , la stessa realtà naturale è come un'opera d'arte che assume la fisionomia di un grande organismo vivente, che fu e sarà sempre, uno nella sua totalità, coordinato in facce diverse e mol­ teplici, nei suoi aspetti particolari , in un tutt'uno d'anima e Non al caso, dunque, è affidato il costituirsi della realtà

corpo.

né a una

mera

meccanicità, ma ad un 'piano' uno ed universale , che è nel suo realizzar­ si, e che costituisce un tutto ordinato e misurato, in formule e numeri. pertanto suppone, come dicevamo , e come già era accennato nel e, più a fondo, sarà detto nelle Leggi, un'attività

prima.

Esso

Fedro

l "anima' . una

intelligenza, che è nel suo stesso esplicarsi e coordinarsi

in gradi e

momenti diversi, dall a uniformità e circolarità razionale dei corpi cele­ sti , ritmantesi in leggi, ai limiti dei corpi; e, per altto

veno, suppone un

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248

Platone Il pensiero

materiale indefinito, fluido e ribelle, impensabile, finché non si qualifi­ ca in ordini e misure, in figure geometriche, che, dunque, presuppongo­ no a loro volta una pura 'estensione ' (chòra) su cui si definiscono i corpi (non a caso , per Platone, il triangolo è la prima figura costituente i corpi ed aria, terra, acqua, fuoco non sono più elementi primi). II Timeo sviluppa da un lato le condizioni che permettono il costituirsi dell 'universo' , dall'altro lato, entro l'universo 'nato' , il suo scandirsi dal Cielo agli uomini agli animali alle pietre; e per ogni aspetto si vedono cause e concause e fini, in formulazioni geometriche, e si considera l'attività del demiurgo simile a quella di un architetto e l'opera compiuta a quella di un'opera d'arte, alla poiesis di un poieta, uno con la sua stes­ sa opera. E allora come dall' analisi di un'opera compiuta si risale a comprenderne le ragioni, a ritrovare i nessi che articolano il tutto in unità, e i 'piani' e le 'formule' che sono serviti a costruirla, fino a coglierne I " intelligenza' motrice, l"anima', che, quindi, è prima , e che pur non è se non si esplica dando ordine e misura al presupposto materiale; così dal­ l' analisi della realtà di fatto, corporea e solida, di grado in grado, di ritro­ vate misure e proporzioni in altre misure e proporzioni, si risale alla con­ dizione prima, all"anima mundi' , che è prima, e che animando il tutto, a tutto dà vita; anch'essa costituendosi in misure e proporzioni, legan­ do l' identico e il diverso , ordinando, all'interno di un sol moto circola­ re, i moti opposti. Sappiamo che al tempo di Platone i ' matematici ' , o meglio coloro che si occupavano di aritmo-geometria, erano particolar­ mente impegnati , indipendentemente dallo studio di supreme ragioni ed essenze, a risolvere , entro i termini delle proprie premesse, il problema degli irrazionali, la misurabilità delle figure piane e solide (stereometria) e le leggi (traducibili in numeri e proporzioni geometriche e armoniche) che regolano i moti dei solidi (astronomia). Platone, per spiegare il costituirsi del mondo, formato di corpi, visivamente regolati da norme, per non cadere in una mera descrittiva, ma per rendere conto delle leggi mediante cui si costituisce il tutto, ricorre indubbiamente alle più recen­ ti problematiche dei matematici del suo tempo, come ali ' epoca del Fedo­ ne si rifaceva alla tesi della 'riduzione delle ipotesi' di lppocrate di Chio. Qui egli si rifà ad Archita, a Timeo, a Teodoro, a Teeteto, ad Eudosso di Cnido, a Democrito e ai democritei. Non è un caso che, ad esempio, la

Platone Il pensiero

'stereometria' , appenna accennata nella Repubblica (528b-e), sia discus­ sa in pieno nel Timeo (53c-55e). Solo che per i matematici (compreso Democrito) non ha tanto significato la ricerca del principio vitale, delle cause, delle 'forme essenziali ' , quanto la possibilità di discorrere delle cose in calcoli e misure, spiegando i fenomeni senza uscire dai fenome­ ni. Per Platone, invece, ciò che interessa, per non restare nell 'ambito del­ l' opinione, è cogliere le ragioni e le cause prime, o meglio le stesse guise universali del pensare e del comprendere, che permettano il riferimento a una sola scienza, sia pur distinguentesi in scienze diverse, autonome in relazione alle proprie premesse. Ma una volta colta la scienza una, i modi che permettono di pensare bene relativamente a ciascuna scienza, per la scienza della natura (in sé impossibile) potevano servire benissi­ mo i modi di interpretare degli scienziati mediante calcoli, proporzioni, misure. E sono tali calcoli e proporzioni che, per analogia, Platone pre­ sta al 'divino artefice ' . Basterebbe qui riferirsi a come, nel Timeo, Pla­ tone spiega il costituirsi dei solidi e le figure piane e solide dai punti e dalla relazione dei punti in cinque specie di solidi (corpuscoli e atomi democritei) (cfr. 53c-55c); e come, per altro verso, dimostra il modo con cui si esplica e si ordina l "anima mundi ' (cfr. 34b-37a), in un tutt'uno vivente che ha in sé la possibilità di tutte le cose (indivisibile-divisibile, medesimo-altro) .

Viene di qui che il divenire e i movimenti della realtà si ritmano secon­ do un ordine immobile nella sua circolantà una, e una loro misurabile dura­ ta che è il tempo, «immagine mobile dell 'eternità» (37d). Poiché, dun­ que, il 'tempo' è l' unità della durata, esso non sarebbe se non si scandisse in un ritmo di passato(era) -futuro(sarà) che suppone l' unità dello scor­ rere che è sempre ( l 'è), ossia l' unità vi vente del tutto, segnata dal moto misurabile degli astri (37c-39e). Misurabile, dunque, il mondo corporeo, esso è riducibile a punti e linee, che suppongono una pura 'estensione' , la 'necessità' e a numeri e a proporzioni matematico-geometriche (espres­ ,

sione del!' attività dell' Intelligenza) (cfr. 47e-56c) : Intelligenza e Neces­ sità, il sostrato originario e l'ordine, lo spazio come ricettacolo e le idee , Essere e Divenire, gli elementi originari . Entro questi termini Platone tenta di dare una spiegazione sistematica del costituirsi degli dèi, momenti fisi­ ci del ritmo delle stelle (39e-4 ld), delle anime, momenti del definirsi e

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Platone Il pensiero

delimitarsi dell 'anima mundi, fino al limite dei corpi e della dispersione dall'unità (4 1d-44d), dei corpi umani (44d-47e), del rapporto intelligen­ za-necessità, dello spazio, della materia, del rapporto degli elementi (47e6 1 c), della meccanica delle impressioni sensibili e del loro generarsi, in gran parte ripresa da Democrito (6l c-69a), di come si costituisce l'ani­ ma mortale (irascibile, nel petto; concupiscibile, nel fegato), di come si costituisce la struttura anatomica dei corpo umano, di quale sia la gene­ si dei mali e della salute relativamente ai corpi e alle anime, del princi­ pio fondamentale della medicina, del generarsi delle donne e degli ani­ mali, della metempsicosi (69a-92c), con cui si conclude il 1imeo. È stato già detto che Platone per esplicare il mito del Politico suli' età di Crono e di Zeus doveva tenere «presente un apparecchio rappresentan­ te i ' moti ' del cielo, ben equilibrato e mobile su di un perno» (cfr. sopra, p. 1 82). Nulla vieta di pensare che anche per il mito del Timeo, partico­ larmente per ciò che riguarda il tutto ordinantesi nei due cerchi del­ l'anima e nelle divisioni interne e moti del cerchio dell" altro ' , Platone avesse costruito sia pure a parole: 29c - un apparecchio, un 'modelli­ no ' , che servisse da rappresentazione visibile del come si costituisce il tutto in unità vivente. Sotto questo aspetto )"artigiano', il demiurgo, sareb­ be lo stesso costruttore dell' apparecchio che avrebbe, appunto, bisogno da un lato dell' idea dell'ordine e di quelle che sono le leggi universali mediante cui si attua il ragionamento, e, dall'altro lato, un materiale (lami­ ne, ad esempio, da mettere in forma di x e poi piegare in due cerchi e così via). Di qui l 'esigenza, per costruire un 'modello' a immagine del tutto uno e intelligente (il 'modello primo'), di usare calcoli , rapporti, propor­ zioni e formule geometriche, traducibili in numeri , a seconda delle più recenti scoperte e invenzioni degli scienziati del tempo, ove non vanno scordate certe conclusioni cui erano giunti i medici sulla scia del meto­ do ippocratico. Il 'discorso' sull'esistenza e su ciò che permette l'esisten­ za (l'essenza una o 'forma') diveniva così possibile in quanto non più 'discorso' tra qualità, ma tra quantità. In tale maniera il modello divie­ ne quello del metodo aritmo-geometrico, cui vanno ricondotti anche i dati deli' esperienza. Il circolo esperienza-discorso numerico-illuminazione deli' esperienza attraverso l ' intelligenza del numero, che si traduce fisi­ camente in termini geometrici, poteva, per analogia e ipoteticamente, sia

Platone l/ pensiero

pure in forma astratta e artificiosa, spiegare le guise del costituilsi del tutto. Entro questa dimensione il mito del 1imeo doveva assolvere alla funzio­ ne di evocare, per via visiva e descrittiva, l'indescrivibile e indicibile rap­ porto anima-intelligenza e strutturarsi della 'natura' , nei tennini dell'uni­ tà 'natura naturans'(anima)-'natura naturata'('natura' in senso proprio), in una interpretazione del costituirsi del tutto secondo i resultati del

Sofista e del Filebo . In effetti il perno su cui ruota il 1imeo consiste nel tentativo di mostra­ re che le 'forme', nell'unità del 'discorso' intelligente, costituenti l ' Es­ sere, visibili con l'occhio della mente, se da un lato si pongono come idea­ le modello, dall ' altro Iato non sarebbero principi d'ordine, di proporzione e di misura, se non si realizzassero informando e ordinando le cose in giu­ ste proporzioni e relazioni. Il che, d'altra parte, suppone che, idealmen­ te, accanto alla prima causa (l'Intelligenza) vi sia un'altra causa del mondo quale appare, il sostrato originario, la Necessità, che non ha nes­ suna forma, perché possa assumere tutte le forme. E allora, proprio per­ ché il pensiero è essere ed è tale in quanto si costituisce bene secondo un intelligente ordine (per cui è, ad un tempo, il divino), pensiero, essere, bene, divinità non sarebbero se non fossero ordine di, se non avessero un contenuto da ordinare. Ma se il pensiero-intelligenza-Essere è ordine, il suo opposto è inintelligenza-irrazionalità, non-essere. II tutto ordinato, dunque, da un lato presuppone l'Essere-Anima-Intelligenza, l'ordine; dal­ l' altro lato l'irrazionale, il non-Essere, che neppure possiamo dire disor­ dine, che neppure possiamo pensare, di esso non essendovi immagine alcu­ na, se non ' un ragionamento bastardo' (52b) e che è lo ' spazio' . Intelligenza, fmalità da un lato; Necessità, limite, fluire dall'altro laro. MitK:arnente v'è da una parte il mondo dell'Essere, l ' Intelligenza, il modello (il padre, 50d); dall' altra parte l' indefinito, la milteria primor­ diale, la stoffa comune, che in quanto materia su cui si formano le cose , a somiglianza del modello, non ha nessuna forma, sì come oro fluido su cui si possono plas mare infinite cose (50b), e di tutto è ricettacolo (la

madre, 50d), che, a sua volta, presuppone una estensione pura, un inde­ finito spazio (chòra) che la contenga e che si identifica con la stessa mate­ ria indefinita. E allora, per mantenere le immagini di Plarone, poiché vi è sempre stato un primo padre e una prima madre

-

primi logicamen-

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te - , vi è sempre stato un generato, il figlio (50d), che rappresenta la real­ tà di fatto, il mondo quale appare , che ha 'natura intermedia' (50d), che è ordine e disordine a un tempo, divenire nell'unità immobile, circolo di

vita e di morte, nell'unità della vita e del 'discorso' uno del tutto, che si pone, dunque, sempre e ogni volta, come termine e fine da raggiungere. 5.

Significato del 'lògos ', delle tecniche e dell 'artigianato come scien­

za. /1 cosmo. Sotto questo aspetto è chiaro perché Platone abbia sottolineato che il mondo è come una vivente opera architettonica e che, per analogia, abbia sostenuto ch'esso è come il frutto di un artigiano divino - divi­ no perché capace di costituire il tutto nei termini di un solo ' sapere' ma sempre 'artigiano' , ossia operante secondo il modo in cui si rivela nelle loro opere (per ciascuno la sua) il ' sapere' degli artigiani in genere, dei matematici, dei geometri , degli architetti, dei medici . Il paragone è non casualmente con il sapere degli artigiani, ossia di chi ha 'scienza ' , e non con l'apparente ingannevole sapere dei sofisti e dei politici del tempo. Già nel Gorgia Platone lodava come buoni gli artigiani perché sanno con ordine disporre le parti del proprio lavoro, cercando che ogni parte si adatti e si armonizzi con l'altra, finché il tutto risulti come un'opera bella per l'ordine e la proporzione (Gorgia, 503e-504b).

E così , non sembra di poco conto che Platone nel Filebo giunga a dire che l'architettura è la più perfetta delle scienze applicabili , e che l'archi­ tettura è la prima tra le altre arti: quanto all 'arte del costruire (tektonikè), che fa uso di molte misu­ re e strumenti , io credo che proprio questo fatto che ad essa forni­ sce molta precisione la fa essere la più tecnica della maggior parte delle scienze . Nella costruzione delle navi, delle case e in molte altre specie della lavorazione del legno essa fa uso, infatti , io credo, del regolo, del compasso di ftlo e di legno, del ftlo a piombo [ ] (File­ ...

bo,

55d-56c).

Platone Il pensiero

E nel Politico aveva sostenuto che l' architetto .. partecipa della scienza conoscitiv!l)) (260a), in quanto le cognizioni proprie dell 'architetto sooo il calcolo e la misura, che rientrano nelle «arti speculative,. (259e), e che l'architetto non è un artefice materiale, poiché mediante la sua scienza comanda gli esecutori materiali dell'opera (259e, 260a); e all 'architet­ to veniva paragonato il politico. Si capisce così perché il mondo qual è, di fatto, nella sua esistenw, con i suoi limiti e le sue ragioni (lògoi), venga paragonato all'opera, frutto di competenti artigiani (scienziati); ma anche perché da un lato Platone possa, paragonare la 'città umana' all ' intessersi della città cosmica di fatto e

all'opera frutto di chi sa l'arte politica, simile, ad altro livello, e con altre

premesse e materiali , alla tecnica degli artigiani e degli architetti che sanno, appunto, «con ordine disporre le parti del proprio lavoro,.; e dall 'altro laJo perché Platone per costruire una città che si ordini secondo le leggi delle

proporzioni e delle misure, aspetti dell' unico Lògos dispiegantesi in lògoi, in una composizione armonica, sottolinei la funzione positiva degli artigiani; negando, per il bene comune, le smisurate anività com­ merciali e finanziarie degli Stati e le esagerate attività marinare (cfr. leggi,

704d sgg.): in altri termini , negando, ancora una volta, il prevalere del 'privato' sul 'pubblico' che implica la rovina degli Stati.

6. Il 'cosmo ' e / ' 'uomo ' . Regina del tuno e della 'politèia' la legge. 'Anima mundi ' e astronomia. Entro quest'ultima prospettiva va inquadrato per un verso il Crizia rima­ sto interrotto e per altro verso, l'ultima (la più lunga: in dodici libri) opera di Platone, le Leggi.

a) Il Crizia. Il Crizia , di proposito, si riallaccia al Timeo e avrebbe dovuto esserne la prosecuzione. Nel Timeo, Timeo ha raccontato, con un mito, come è chi si costituisce questo mondo visibile, nel suo ordine e nei suoi limi­ ti, a immagine dell'ordine intelligibile e uno. Crizia - nel Crizia

-

come già era stato preannunciato nel Timeo (27a-b), dovrebbe , ripren-

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Platone Il pensiero

dendo la narrazione di Solone (il legislatore, poeta della misura poli­ tica), far vedere , dopo avere descritto Atene preistorica e ideale (dimen­ tica di sé per i ricorrenti cataclismi: cfr. Crizia, I 09d-l iOa), ed un pre­ sunto preistorico regno di Atlante, come è che i due Stati sono entrati in guerra, e come, di fatto, è l 'Atene di oggi; ma dovrebbe quindi mostrare quale avrebbe da essere per riemergere e adeguarsi non tanto al 'primo modello' divino, ma all'ordine , alla misura, alle leggi del mondo quale si è costituito, qual è nella sua 'esistenza' , secondo il 'mito verosimile' di Timeo. Cri zia descrive prima Atene preistorica e ideale ( l 09d- 1 1 2e), abbastanza piccola, agricola e artigianale (non a caso Platone sottolinea che uno degli dèi che presiedeva Atene è Efesto, il dio delle 'arti '), misurata e 'sapiente' (non a caso l'altra divinità, che con Efesto ebbe in sorte di presiedere la città, è Atena, la dèa del 'sapere ' : > , 1942); G. Ed i­ son, Plato and Freud, , 1946; più i nteressan­ ti sono le pagine dedicate a Platone nell'opera The Greeks and the lrra­ tional di E. R . Dodds, Berk eley-Los An geles 1951 (trad . it., Fire nze 1959) e di P. Lain-Entralgo, Die platonische Rationalisierung der Berspre­ chung und die Erfindung der Psychotherapie durch das Wort, «Her-

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La storia della critica

mes» 1958. Si vedano inoltre: G. Toumey,Eros, Plato und Freud, «Jour­ nal of the History of Behavioral Sciences», 1966, pp. 256-272; E. Jung,

Direction de recherche sur l 'incoscient chez Platon, «Bulletin Associa­ tion G. Budé», 1971, pp. 581-645; A. N. Zakopoulos, Plato on Man. A

Summary and Critique ofHis Psichology Wìthe Special Reference to Pre­ platonic, Freudian, Behavioristic and Humanistic Psychology, New York 1975; P. Livet,Entre Platon et Freud, ((Les Etudes philosophiques», 1976, pp. 13 sgg. S'ispira, invece, entro l'ambito della tradizione oxoniense, alla 'filoso­ fia del linguaggio' l'opera di A. Wedberg,Plato 's Philosophy of Mathe­

matics, Stoccolma 1958 (per le opere più recenti sul linguaggio cfr. Bibliografia). 6. Discutendo gli studi su Platone dello Stenzel e dello Jaeger,che hanno cercato di interpretare Platone entro l'ambito della sua epoca e nel suo indubbio atteggiamento più specificamente politico, educativo ed etico, sembra opportuno riferire che dopo l'ultimo conflitto mondiale, tra il1945 e il 1955 circa, in particolare sulla scia di Jaeger, si è proposto , - e se ne capiscono le ragioni - una lettura dei testi platonici esclusivamente entro i termini di una problematica etico-politica. Abbiamo veduto di con­ tro - e se ne capiscono ugualmente le motivazioni - come, prenden­ do spunto da altre concezioni ed esigenze individualistiche e antistori­ cistiche si sia rimesso in discussione il Platone politico sostenendo un Platone 'dittatoriale' , 'antidemocratico', 'conservatore': sono ingenuità. ma di cui si comprendono le ragioni in precisi ambienti e climi storici. Ma,accanto a questo,va ora sottolineato che,via via che, nell'ambito delle varie 'culture', è venuto meno l'interesse umanisticamente etico-politi­ co, ove anche la politica diviene tecnica di ideologie univoche, soprat­ tutto dall960 in poi,ci si è rivolti a indagini di carattere sociologico,antro­ pologico, a interessi per la storia - in cui la storia ha poi molto poco a che fare - per rintracciare in una presunta storia del pensiero e della scien­ za i propri punti di vista e le proprie 'filosofie', a ricerche fondate uni­ lateralmente sulla 'logica' , sulla 'dialettica' ,sul 'metodo',sulla episte­ •

mologia', sulle condizioni che permettono le tecniche in funzione di strutture sociali, sulle condizioni delle scienze. Entro questi termini,

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anche negli studi platonici si è assistito al variare di interpretazioni , ognuna delle quali talvolta assai buona per s é (soprattutto alcuni contri­ buti particolari), ma che riducendo ancora una volta tutto Platone solo a questo o a quell 'angolo visuale, hanno, crediamo, ancora una volta, mancato la diversa, fluida, duttile, una e molteplice a un tempo, temati­ ca platonica, per cui, ancora oggi , ad un Platone si può opporre altro Pla­ tone. Per altro verso, enucleare uno o altro motivo platonico ed estender­ lo poi a tutto l ' arco dei dialoghi, ha portato con sfumature diverse a non preoccuparsi più né di un'evoluzione di tipo idealistico o storicistico del pensiero platonico, né della possibilità di rintracciare entro lo stesso Platone più Platoni ; in maniera strettamente storica. E ciò ha condotto, come che venga letto Platone, quale che sia il taglio dato (sociologico, antropologico, politico, etico, basato sulle scienze, logico, analitico-lin­ guistico, metodologico) a discorrere del l 'unità della 'filosofia' platoni­ ca, o, meglio, a ridurre la svariata vivezza dell' 'oralità dialogica' di Pla­ tone ad una sola 'filosofia' basata su di un solo aspetto (sociologico, dialettico, logico, linguistico, scientifico e così via), e, perciò, per quan­ to se ne dica, di nuovo a una posizione astorica (in questo senso 'meta­ fisica' ). II che non vuoi dire che ciascuno di questi lavori non illumini un aspetto autentico di Platone come non vuoi dire che nessuno si sia mosso per rintracciare in Platone lo storiografo e una sua sicura filoso­ fia della storia, oppure, anche qui troppo unilateralmente, I'asistemati­ cità di Platone, in esasperate problematiche. Sotto questo profilo (e negli anni tra il '60 e i l '70), si capisce come si sia potuto , riprendendo la tradizione aristotelica delle 'dottrine non scrit­ te ' (àgrapha dògmata) di Platone, rifacendosi agli studi sulla dialettica del numero di Platone dello Stenzel (cfr. sopra), parlare di un Platone 'esso­ terico' che si manifesta nei dialoghi , nelle opere scritte (asistematiche, in funzione etico-educativa e retorica, enucleando dalle tante tesi e ipo­ tesi di Platone una sola dottrina cui ridurre le altre, e che apre la via ad intendere il vero' e nascosto pensiero di Platone) e di un Platone 'eso­ tetico' , che sempre, fin dal principio, avrebbe esposto ai pochi, oralmen­ te, la propria dottrina in un sol 'sistema' da cui avrebbe preso le mosse Aristotele per giungere discutendo le 'idee' e le 'idee numeri' alla pro­ pria dottrina dei 'princìpi ' . E così si è ricostruito un 'sistema' platonico

Platone lA storia della critica

Iogico-ontologico-matematico, utilissimo per intendere, più che Plarone, la formazione della filosofia aristotelica (cfr. G. E. L. Owen, The Plato­

nism of Aristotle. Studies in the Philosophy of Thought and Action, Oxford 1968; H. J. Kramer, Das Verhiiltnis von Platon und Aristoteks

in neuren Sicht, «Zeitschrift fiir philosophische Forschung», 1972, pp. 239 sgg.; H. J. Kriimer, Aristoteles und die akademische Eidoskhre. Zur

Geschichte des Universalienproblems im Platonismus , «Archi v fur Geschichte der Philosophie)), 1973, pp. 119 sgg.). Delineando i primi momenti della critica platonica da parte di Aristotele e dei primi Acca­ demici, hanno approfondito questa prospettiva tra il1959 e il1963, il Krii­ mer, con il suo studio intitolato Arete bei Platon und Aristoteks. Zum

Wesen und zur Geschichte der platonischen Ontologie. Heidelberg 1959, 19672 e K. Gaiser, con la sua opera Platons ungeschriebene Lehre (in fon­ do al volume sono raccolte le testimonianze relative alle dotbine non scrit­ '

te' di Platone), Stuttgart1963. I due studi del Kriimer e del Gaiser si spie­ gano anche, com'è stato sottolineato dal Reale (op . cit., p. 1 8 8), con il fatto della rinascita degli studi aristotelici, in particolare degli studi sul primo Aristotele. Aggiungeremmo anche con il fatto che di contro all'Ari­

stotele di Jaeger, tutta una corrente interpretativa, ispirata a posizioni reli­ giose, sostiene )"unità' compatta della filosofia aristotelica; e, perciò, sostiene anche, attraverso l'interpretazione aristotelica degli 'àgrapha dòg­ mata', l'esistenza di una concezione 'segreta' di Platone. consistente in un compatto sistema ontologico-rnaternatico. E ciò, ancora una volta, negli anni 1966, contro la tesi, anch'essa certo unilaterale, di un Platone esclu­ sivamente 'politico'. Ad ogni modo è indubbio che le opere del Kriimer e del Gaiser hanno aper­ to nuove discussioni sul pensiero platonico, che si risolverebbe in una vera e propria posizione 'ontologica' (per unta bibliografia dei lavori sulle dot­ trine non scritte di Platone, cfr. A. Solignac - P. Aubenque, Une rwllVel­

le dimension du platonisme: la doctrine non écrite de Platon , «Archives de Philosophie 1965, pp. 251 sgg., e, in particolare, l. Wippem,Das Pro­

blem der ungeschriebenen Lehre Platons. Beitriige zur Verstiindnis der platonischenk Prinzipienphilosophie, Dannstadt 1972, e G. Giannanto­ ni, Bibliografia su Platone. in Storia della filosofia, diretta da M. Dal Pra,

III, lA filosofia greca, Milano 1975 , pp. 436 sgg.; si veda, dopo il197 2,

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F. Franco-Repellini, Gli 'àgrapha dògmata 'di Platone: la loro, recente ricostruzione e i suoi presupposti storico-filosofici, «A cme)) , 1 973, pp. 5 1 sgg., ma anche Note sul del terzo umanesimo, « < l Pen­ siero)), 1 -3, 19772, pp. 90 sgg .; G. Watson, Plato 's Unwritten, Dublin 973; A . Graeser, Kritische Retraktationen zur esoterischen Platon . lnterpre­ tation, «Arch Gesch Philos.)) 1 974 , pp. 7 1-87; J . N. Findlay, Plato. The Written and Unwritten Doctrines; London ; 1 974) . Accanto ad altri studi s u Platone più manualistici e narr ativi s i sono così venuti delineando, tre fi loni fondamentali di ricerca: il primo che svol­ ge, senza grandi aggiunte o probanti conf erme, la tesi del Kra mer e del Gaiser (cfr . il citato, W ippern e la bibliografi a del Giannantoni), il secon­ do basato, su di un ritorno ali 'unica e sistematica fi losofi a di Platone (in parallelo al ritorno all 'unica e sistematica fi losofia di Aristotele), fi loso­ f ia platonica fondata su di una visione ontologico-sistematica del tutto scande ntesi in trame di ide e ordinate come è bene e giusto che siano: sotto questo aspetto si veda il notevole studio di O. W ichmann, Platon. lde­ elle Gesamtdarstellung und Studien Werk, Darmstadt 1 966, che incen­ tra tutta la fi losofi a platonica sulle ide e che, dai primi scritti al De Bono, si determinano entr o l 'idea del Bene (si vedano inoltre, E. A . Wj ller, Der spiite Platon, Tti bingen 1 965 , Hamburg 1 970 - di contro cf r. A . Soli­ gnac , Vues nouvelles sur la dernière philosophie de Platon, «Archives de Philosophie)), 1 97 1 , pp. 475-93 -; Idee und zahl, Studien zur plato­ nischen Philosophie, a cura di H . G. Gadamer, Heidelberg 1 968; H . E. Pester, Platons bewegte Usia, W iesbaden 1 97 1 ; L. Paquet, Platon. La médiation du regard. Essai d'interpretation, Leiden 1973; R. H . Wein­ gartner, The Unity ofthe P/atonie Dialogue, l ndianapolis 1 973; R. Mar­ ten, Platons Theorie der Idee, Freiburg i. Br. 1 975). Il terz o fi lone, assumendo motivi diversi di Platone, ricerca l 'unità della fi losofi a platonica unilateralmente: o nella dialettica che si stru ttura in forme logico-linguistiche e logico- matematiche da un lato e logico-reto­ riche e mediche dall'altro lato, assumendo o il modello della geometria e della matematica, o quello della medicina, entr o l'ambito delle attua­ li ricerche epistemologiche; o nella funzione data alle tecniche in vista di stru tturazioni socio1ogiche (si veda in particolare G. Cambiano, Pla­ tone e le tecniche, Torino 197 1 ); o nella dottrina delle idee, o nell' Essere

Platone Lo. storia della critica

che è nel suo stesso esistere, per cui si è molto indagato sul concetto di materia in Platone e sui suoi rapporti con Democrito,in una ricostruz� ne aritmo-geometrica della realtà (si vedano in tale direzione gli scritti più recenti sull 'ultimo Platone dal Parmenide al Filebo e al1imeo: cfr. in particolare C. Diano, Il problema della materia in Platone, in C. Diano, Studi e saggi di filosofia antica, Padova 1 973, pp. 229- 78); o in una logica che, di derivazione eleatico-megarica, risolverebbe nella dia­ lettica l'ordinarsi degli 'uni' parmenidei senza discioglierli nell'Uno Essere. Sorvoliamo qui su molti aspetti del pensiero platonico che, in questi ulti­ mi anni sono stati messi in luce, sia pur unilateralmente, ma che hanno un loro significato e che giustificano modi diversi di interpretare il plu­ ricorde e vario pensiero di Platone. E così sorvoliamo sugli studi parti­ colari relativi a particolari punti di particolari dialoghi . Diremo solo che molto indicativo è che non pochi di questi studi si rivolgono a passi del

Crati/o , del Filebo, del1imeo, delle Leggi. Mentre, per altra via, anco­ ra una volta,anche se in termini diversi dal passato, è da un lato riemer­ so il motivo della 'politica' platonica, ma considerata nel più ampio concetto di un tentativo di fare scienza dello Stato e del rapporto umano in senso etico e sociale,e, dall'altro lato, si è proposta un'interpretazio­ ne unitaria di Platone sotto il segno teologico-ontologico, in una visio­ ne

cosmologica di sfondo ed entro i termini di un 'universo chiuso', anche

se umanamente aperto. Sotto questo aspetto sembra molto indicativo lo spostarsi di alcune ricerche dalla Repubblica al Politico e alle Leggi. Ma qui non citiamo alcun autore,ché,la problematica è in discussione e, come sempre, Platone si ripropone in interpretazioni ogni volta aperte. Sottolineati qui alcuni temi della attuale storiografia platonica, riman­ diamo per le indicazioni e le citazioni di opere uscite in questi ultimi anni sui singoli punti e motivi sopra accennati, alla Bibliografia aggior­ nata (VI a-b). Quanto agli studi posteriori al 1 968 che trattano di Platone io generale sono da vedere ancora: M. Alexander, Lecture de Platon, Paris 1968; E. Schmalzriedt, Platon , Miinchen 1 969; V. Goldschmidt, Questions pla­

toniciennes, Pari s 1970; V. Descombés, Le platonisme, Louvain-Paris 197 1; A . Vuieux-Reymond, Platon, Paris 197 1; P. Kuschar.iki, As�cts

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de la spéculation platonicienne, Paris 1 971 ; C. J . De Vogel , Plato. Baam 1972; K. Bonnann, Platon , Freiburg i. Br. 1 973; J . C. B. Gosling , Plato, London-Boston 1973; L. Paquet , Platon, Leiden 1973; G. K. Plochmann,

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La storiiJ della critica

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La storia della critica

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loghi di Platone, Napoli 1996. c) Sulla teoria platonica delle idee-numeri , riferita da Aristotele, cfr. in particolare , oltre gli studi sulla matematica platonica: Robin L., La théorie platonicienne des ldées et des Nombres d'après Ari­

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che bei Plato, «Danish Yearbook of Philosophy», 1973, pp. 7 sgg. Come già detto, il problema delle idee-numeri si è venuto complicando con il problema delle 'dottrine non scritte' di Platone , dopo i lavori di H. J. Kraemer, Arete bei Platon und Aristoteles. Zum Wesen und zur Geschi­

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Platone lA storia della critica

1963. Su tutta al questione degli àgrapha dògmata e sulla portata del pro­ blema, cfr. sopra «Storia della critica>� . pp. 272 sgg. (cfr. anche A . Soli­ gnac - P. Aubenque, Une nouvelle dimension du platonisme . lA doctri­ ne non é crite de Platon, «Archives de Philosophies» , 1965, pp. 25 1 sgg.). La discussione relativa agli agrapha dogmata e a un sistema platonico logico-ontologico-matematico si è protratta in positivo e in negativo dagli anni '70 agli anni '90 (cfr. sopra "Storia della critica"). Come già detto si sono convinti del "Platonbild" di Kramer e di Gaiser, Giovanni Reale con l'opera, Per una nuova interpretazione di Platone. Rilettura della metafisica dei grandi dialoghi alla luce delle 'dottrine non scrit­ te ', Milano 1984 (19875 ) e Thomas Al . Szlezak, Platon und die Schrif­ tlichkeit der Philosophie, Berli n 1 985. Cfr. inoltre: Owen G. E. L., The Platonism ofAristotle . Studies in the Philosophy of Thought and Action, Oxford 1 968. Kramer H. l., Das Verhiiltnis von Platon und Aristoteles in neuren Sicht, «Zeitschrift fiir philosophische Forschung�� . 1972, pp. 239 sgg. (anche in «Archiv. fiir Geschichte der Philosophie», 1973 , pp. 1 1 9 sgg.). Wippem l., Das Problem der ungeschriebenen Lehre Platons [ ... ] . Dar­ mstadt 1972. Franco-Repellini F., Gli 'dgrapha dogmata ' di Platone: la loro recente ricostruzione e i suoi presupposti storico-filosofici, «Acme», 1973, pp. 51 sgg. (anche ne «Il pensiero», 1972, pp. 90 sgg.) . Kramer H. l., Aristoteles und die akademische Eidoslehre . Zur Geschi­ chte des Universalienproblems im Platonismus, «Archi v fiir Geschichte der Philosophie», l 973, pp. 1 1 9 sgg. Watson G., Plato 's Unwritten teaching, Dublino 1 973. Findlay l. N., Plato . The Written and unwritten Doctrines, London 1 974 (trad. it. e intr. di G . Reale; trad. inglese di R. Davies), Milano 1994. Graeser A., Platons ldeenlehre. Sprache, Logik und Metaphysik, Bem­ Stuttgart 1975 (vedi anche: Kritische Retraktationen VJT esoterischen Pia­ ton Interpretation, , 1985, pp. 1 -26. Bortolotti A . , La religione nel pensiero di Platone , 2 voli ., Firenze

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Platone

l test i D IALOG H I

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352

Platone l testi - Autenticità e cronologia degli scritti di Platone

AUTE NTI C ITÀ E C R O N O LOG IA D E G LI S C R ITTI D I PLATO N E Il corpus a noi pervenuto delle opere di Platone è composto dall'Apolo­ gia, da 34 dialoghi e da un gruppo di 1 3 Lettere, in tutto 36 titoli , clas­ sificati in 9 tetralogie. Questa disposizione in tetralogie risale al gram­ matico Trasillo, vissuto al tempo dell ' imperatore Tiberio (l sec. d. C.), ma certamente fu preceduta da altri ordinamenti del genere: risulta infat­ ti che già Aristofane di Bisanzio (Il sec . a. C.) aveva ordinato le opere di Platone in trilogie e che Dercillide, contemporaneo di Cesare, le aveva raggruppate in tetralogie (cfr. Diogene Laerzio, III 56-62; per la raccolta e la discussione di tutte le fonti antiche su questo problema, è ancora fon­ damentale E. Zeller, Die Philosophie der Griechen, II 1 5 , pp . 436-40). L'ordinamento di Trasillo, seguito ancora oggi nelle edizioni critiche di Platone, è il seguente: tetralogia 1: Eutifrone, Apologia, Critone e Fedo­

ne; tetralogia II: Crati/o, Teeteto, Sofista e Politico; tetralogia III: Par­ menide, Filebo, Simposio e Fedro; tetralogia IV: Alcibiade primo, Alci­ biade secondo, lpparco, Amanti; tetralogia V: Teage, Carmide , Lachete , Liside; tetralogia VI: Eutidemo, Protagora, Gorgia e Menone; tetralo­ gia VII: lppia maggiore, lppia minore, /one, Menesseno; tetralogia VIII:

Clitofonte, Repubblica, Timeo, e Crizia; tetralogia IX: Minasse, Leggi, Epinomide, Lettere . Non è possibile, allo stato attuale delle nostre cono­ scenze , farsi un 'idea precisa dei criteri che hanno suggerito un simile ordi­ namento: in qualche caso esso è basato certamente sulle indicazioni dello stesso Platone, che ha voluto stabilire legami esteriori di continui­ tà tra alcuni dei suoi dialoghi (così , ad esempio, per il Teeteto, il Sofista e il Politico, cui doveva far seguito il Filosofo, rimasto però allo stato di progetto; così ancora - ma questo caso è alquanto più problematico per la Repubblica, il Timeo e il Crizia); in qualche altro caso è l ' affini­ tà del contenuto e delle circostanze in cui si situa il dialogo (come, ad esem­

pio, per i quattro dialoghi della prima tetralogia, ambientati nelle vicen­ de dell 'incriminazione, del processo, della permanenza in carcere e della morte di Socrate). Tuttavia in molti casi l' ordinamento ci appare immo­ tivato e arbitrario.

Platone l testi - Autenticità e cronologia degli scritti di Platone

Oltre a questi dialoghi e fuori dell'ordinamento tetralogico, ne sono stati conservati sei (Del giusto, Della virtù, Demndoco, Sisifo, Erinia e Assio­ co) che erano considerati come «sospetti» già neli' antichità: un giudizio cui anche la critica moderna quasi concordemente consente. Non platoni­ che sono altresì le Definizioni, uno scritto di scuola giunto fino a noi e per la cui paternità è stato fatto il nome di Speusippo. Egualmente fuori discus­ sione è la non autenticità di quei dialoghi perduti , di cui conosciamo i tito­ li (Midone, Alcione, Feaci ecc.; cfr. Diog. Laer. III 62) e di altri scritti. Per completare la rassegna, infine, ricordiamo il libro sulle Divisioni, di cui parla Aristotele (cfr. De gen. et corr., B 3, 330b 15; De part. anim., A 2, 642b l O) e che forse non era nulla più che una specie di nomenclatura scolasti­ ca; e quel complesso di dottrine indicato come Àgrapha dògmaw (insegna­

menti non scritti, cioè orali), di cui ci parla ancora Aristotele (Phys.,

f/.

2,

209b 13) ed intorno a cui la critica moderna ancora discute se debbano iden­ tificarsi o no con i famosi Discorsi sulla .filosofia e sul bene, che si trova­ no ricordati presso i commentatori greci di Aristotele. Per una sorte fortunata, quindi, possiamo dire di possedere tutto quel­ lo che Platone destinò alla pubblicazione. Ma è possibile ritenere sen­ z'altro come platonico tutto quello che ci è pervenuto, o dobbiamo piut­ tosto sospettare l'infiltrazione di opere non autentiche? Fin dall'antichità erano stati sollevati dubbi sull'autenticità di alcuni dialoghi: questo, ad esempio, è il caso dell'Alcibiade secondo, attribuito a torto da Ateneo (Xl 506c) a Senofonte; dell ' Epinomide, attribuito a Filippo di Opunte

(cfr., per esempio, Diog. Laer. III 37); degli Amanti (Trasillo, presso Diog. Laer. IX 37) e dell' /pparco (Eliano, Var. hist., VITI 2). Anche in questa valutazione la critica moderna si è mostrata generalmente d'ac­ cordo (ad eccezione dell ' /pparco , per la cui autenticità sono stati fatti valere buoni argomenti), e anzi per l' autore dell'Epinomide è stata quasi unanimemente accettata l' identificazione con Filippo di Opun­ te, l 'editore delle Leggi platoniche. Da parte sua, la critica moderna è propensa a non riconoscere come platonici neppure l 'Alcibiaik primo, il Clitofonte (anche se per questi due sembra da preferire la tesi deU'au­ tenticità) , il Minosse, il Teage. Tutti gli altri dialoghi ordinati da Trasillo, invece, vengono oggi consi­ derati autentici, sia per la sicurezza della tradizione. sia per la g aranzia

35 3

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I testi - Autenticità e cronologia degli scritti di Platone

offerta dalla testimonianza aristotelica (anche in questo caso la miglio­ re raccolta delle indicazioni è quella in E. Zeller, op. cit., pp. 447-70), non trovando più alcun credito non solo le arbitrarie atetesi antiche di Pro­ cio a proposito della Repubblica e delle Leggi (c fr /n Plat. proleg ., 26, .

p. 2 1 9 , 17 sgg.) e di Panezio a proposito del Fedone (presso Asclepio,

In Arist. Metaph., p. 90 = p. 127 van Straaten), ma anche la tendenza iper­ critica manifestatasi ad un certo momento nella storiografia moderna e che ha avuto il suo campione nello Schaarschmidt, risoluto negatore del­ l 'autenticità dei 3 /4 del corpus platonicum. Tipico è a questo proposito il caso delle Lettere, per lungo tempo ritenute spurie in blocco e poi inve­ ce tutte autentiche, senza che la critica sia ancora giunta ad un risultato sicuro e accettato da tutti . D'altra parte la questione dell'autenticità si è ben presto congiunta a quel­ la della cronologia relativa delle opere e della filosofia platonica. Non è neppure possibile tentare in questa sede di dare conto di tutti i problemi che la storiografia moderna ha sollevato in merito e della sterminata let­ teratura che ne è conseguita. Basterà soltanto accennare al fatto che fin­ ché la filosofia di Platone veniva studiata obbedendo a criteri di astrat­ ta «sistematicità» , esprimentesi di volta in volta solo parzialmente nei singoli dialoghi , è stata sempre molto vivace la tentazione di ritenere come non autentico tutto ciò che a quei criteri non corrispondesse. Anche la cro­ nologia veniva modellata su questi criteri «sistematici»: un dialogo così maturo e complesso come il Fedro poté essere considerato come il primo scritto da Platone, non per le ragioni addotte da Diogene Laerzio (III 38), ma perché sarebbe stato il «programma>> di una esposizione completa della filosofia, via via attuata nei singoli dialoghi. Da quando però si è andata sempre più affermando l 'idea che la filosofia platonica non è un qualcosa di dato una volta per tutte, ma un pensiero che si è andato sviluppando in un arco di tempo di cinquant'anni, attraverso oscillazioni , ritorni e nuove conquiste speculative, ha nettamente preval­ so

la tendenza di considerare i vari dialoghi come documenti testimonian­

ti le tappe in cui concretamente questo sviluppo veniva realizzandosi attra­ verso la trattazione di determinati problemi . E in tal modo si è acquistata altresì la possibilità di spiegare storicamente le «divergenze» tra i vari dia­ loghi come momenti diversi di una evoluzione continua, senza essere

Platone I testi - Autenticità e cronologia degli scritti di Platone

costretti ad eliminarle arbitrariamente ricorrendo all'atetesi . Vari sono stati i criteri seguiti per conseguire questo scopo: l'utilizzazione dei dati esterni della tradizione e delle fonti antiche (specialmente Aristotele), lo studio del contenuto filosofico e della formazione artistica e dramma­ tica dei diversi dialoghi, l'analisi dei vari riferimenti platonici a perso­ ne e fatti contemporanei, dei rinvii interni tra un dialogo e l'altro e soprat­ tutto del ruolo del ((personaggio>> Socrate e della sua eclissi finale. Ma, fra tutti, il criterio metodico che si è rivelato più fecondo e che più nettamente ha imposto i suoi risultati, confermando in pari tempo i risul­ tati più attendibili raggiunti dalla ricostruzione dello sviluppo filosofi­ co di Platone, è stato quello > della verità delle idee, tanto più , allora, anche la forma dialogica diventa qualcosa di puramente dimostrativo. È per questo che gli interlocutori del dialogo, se da un lato non sono mai dei puri ((simboli>> o momenti dia­ lettici , da un altro lato diventano sempre più irrilevanti: certamente essi non sono mai scelti a caso, ma se nei primi dialoghi ci affascina il modo con cui Platone riesce a rendere, a volte con poche battute e anche con una sola notazione, la personalità, il carattere , oltre che le idee, di un inter­ locutore; negli ultimi dialoghi la funzione di questi è ridotta a quella di assentire o di chiedere spiegazioni o di permettere una pausa nel corso di una serrata dimostrazione. E lo stesso Socrate, che nei primi dialoghi

è non solo il protagonista, ma il suscitatore e l'anima della discussione,

Platone I testi - Autenticità e cronologia degli scritti di PlatofU!

diventa nei dialoghi della maturità il maestro, e finisce addirittura, nelle ultime opere, per non essere più il protagonista o per scomparire del tutto . Eguali considerazioni potrebbero essere fatte circa i rapporti tra mito e filosofia: il mito, in quanto «discorso lungo,, ha la sua celebrazione più completa nei dialoghi della maturità; ma in quanto è «racconto"' di cose cui la filosofia non può giungere con la sua forma dialettica, esso torna ad illanguidirsi nelle ultime opere, per celebrare, infine, il suo ultimo trion­ fo, nel 1imeo.

Non è possibile concludere questi brevi cenni sugli scritti di Platone senza toccare rapidissimamente un problema che di recente è tornato di attua­ lità. È noto che Aristotele, discepolo per venti anni di Platone nell' Ac­ cademia, dal 367 alla morte del maestro, ci dà un'esposizione della dot­ trina delle idee, nota tradizionalmente sotto il nome di «dottrina delle idee-numeri», di cui non si trova traccia nei dialoghi di Platone; d'altro lato, sempre Aristotele ci parla di un insegnamento orale, di «dottrine non­ scritte» (àgrapha dògmata), che Platone avrebbe esposto ai suoi più vicini scolari nell'ultimo periodo del suo magistero nella Accademia: cele­ bre, in questo ambito, sarebbe stato il corso «sul bene». È stato facile, per molti critici, identificare nella dottrina delle idee-numeri l'oggetto del­ l'insegnamento orale di Platone. Ma vi è di più: dal Protagora, al Fedro, alla VII Lenera, Platone ha sempre ribadito, in fllosofia, la superiorità del >; e così pallido e macilento che un altro poeta comico, Eupò­ lide, Io diceva ; e stava sempre rinchiuso, non usciva che di sera, e lo chiamavano "il pipistrello".

17 Hanno detto: - Ai giudici democratici Socrate ricorda la sua amicizia col democratico Cherefonte: captatio benevolentiae!

-

È una malignità stolta. Socra­

te anche ricorda che, quando Cherefonte esulò, egli rimase in Atene: e questo ricor­ do poteva essere a Socrate assai più nocivo che non giovevole l'altro della sua ami­ cizia con Cherefonte.

1 8 Probabilmente quel Cherècrate di cui parla XEN. Mem. U, 3 , l . Il quale a que­ sto punto, nell' Apologia realmente pronunciata , avrebbe dovuto farsi avanti e reca­ re la sua testimonianza.

19 Noi diciamo "artisti " , generalmente, pittori scultori architetti; ma anche diciamo "artisti", non meno bene, fabbri falegnami vasai . ] Greci non facevano, di solito, questa distinzione; e qui si intendono così gli uni come gli altri .

20 Dunque la miseria di Socrate fu conseguenza, appunto, di codesto suo ser­

vigio al dio; né egli dové, prima, essere povero, se dal 432 al 424 servì come opli­ ta nell'esercito ateniese (cfr. 28 e).

2 1 Non venuti dopo Melèto, come intendono alcuni, pensando che Ànito e

Licòne si unirono poi a Melèto, o parlarono dopo di lui nel tribunale; ma venuti dopo quei primi e quasi anonimi accusatori di cui s'è discorso fin qui.

22 È notabile che qui Socrate non legge egli il testo, né lo fa leggere, come era

costume, dall' ufficiale addetto; e in questa supposta citazione a memoria Plato­ ne finge che Socrate sposti i capi dell'accusa, ponendo primo quello che nel testo depositato e giurato era ultimo. 23 Con speciale riferimento qui e più oltre (57 a), alla dottrina socratica che nes­ suno commette colpa volontariamente. Il Bumet nega questo riferimento; e non vedo perché.

24 Citazioni un po' libere da Omero, Il. XVII I , 96, 98 , 1 04.

25 Campagna e assedio di Potidèa dal 432 al 429; battaglia di Delo nel 424; di Amfipoli nel 422. Sul contegno di Socrate soldato, singolarissimo e nobilissimo, si leggano le lodi di Alcibiade nel Simposio platonico, 2 1 9 sgg.

26 Che la morte sia il maggiore dei beni dimostra il Fedone; qui e più avanti è

detto solo che non è un male. E comunque, poiché Socrate non sa se la morte è male, e sa invece che è male disobbedire al dio, egli non poté disobbedire al dio per paura della morte.

27 Questo prendersi cura dell'anima era fondamentale e capitale nell' insegna­

mento di Socrate; che primo, pare, dei Greci, concepì l'anima come sede della cono­ scenza e quindi della virtò: cfr. piò avanti .

Pl atone l testi - Apologia di Socrate 28 Perché male è fare , non ricevere ingiustizia: Critone (49 a sgg.) , e il Gorgio. 29 Dice così , perché non crede che Melèto abbia potuto sul serio e con verità porre codesto 9t:T6v "tl Kaì OOtJ16vtov tra le accuse; e non solo per la contraddizione da Socrate stesso scherzosamente rilevata poco prima (27 e sgg .). Melèto non poteva ignorare che questo segno o spirito o voce era cosa al tutto intima e personale di Socrate, come ognuno del resto, in certi casi e momenti della vita, pub sperimentare più o meno sensibilmente per conto proprio; non soggetta per tanto a essere comunicata altrui , non argomento di istruzione e quindi di corruzione. Se non che Melèto volle realmente tra le accuse includere codesto segno, benché noto o appunto perché noto, sfruttandolo abilmente e simulatamente: e Socrate capi questo, e lo dice; come lo dice sùbito anche Euti­ frone (Euthyphr. 3 b), appena dell'accusa è informato. 30 Il Consiglio dei Cinquecento, la flouì..f) . Durava in carica un anno; era costi­ tuito dai rappresentanti delle dieci tribù attiche, cinquanta per ciascuna; anche, i cinquanta membri di ciascuna tribù, a turno, e secondo un ordine stabilito dalla sorte, costituivano la Giunta, una specie di commissione permanente del Consi­ glio, la quale, negli anni normali di dodici mesi, teneva codesto ufficio per tren­ tacinque o trentasei giorni e, tra le altre cose, determinava quali questioni si dovevano portare davanti all'assemblea generale o ÉKKÀTJ(Jia. l membri di que­ sta commissione si chiamavano npu"téxvEtç, Prìtani . 31 La tribù Antiòchide era una delle dieci tribù o cpi>ì..at di Atene, e ne faceva parte il demo di Alòpece dov'era nato Socrate. E dunque in quel momento Socra­ te era Prìtano. Che fosse anche Énta"téx"tTtç , o capo dei Prìtani , non risulta: anzi risul­ ta il contrario perché , se fosse stato É1tlO""tcl"tT)ç, si sarebbe rifiutato di mettere ai voti la proposta di Callisseno, e invece dové contentarsi di votare contro. Si trat­ ta del famoso processo contro i generali dopo la battaglia delle Arginùse (agosto 406). Il processo è narrato assai ampiamente da Senofonte (Hel/. 1 . 7). 32 Due anni dopo, nel 404. 33 Edificio rotondo dove abitualmente risiedevano e anche mangiavano i Prì­ tani; e dove risiedettero i Trenta nei pochi mesi che furono al governo. 34 Questo fatto, così come lo racconta Platone, ci è anche attestate da Andoci­ de (l, 94), da Lisia (XII, 52; XIII, 44) e da Senofonte (Hel/. U , 3 . 39: Mem . IV. 4. 3); e non è che una delle scelleraggini innumerevoli che compirono i Trenta durante il loro breve governo: soltanto, poiché Leonte era uomo singolarmente rag­ guardevole e stimato, più di ogni altra la condanna sua destò indignazione e fu ricor-­ data. Non è strano che i Trenta invitassero proprio Socrate a partecipare a code­ sta impresa: sapevano che egli non era amico della democrazia; e di fatti non si era allontanato da Atene . come altri moltissimi avevano fatto. quando essi prese­ ro il potere: ma non sapevano che nimicizia della democrazia non voleva dire. per Socrate , amicizia della tirannide, e di così bieca tirannide. 35 Uno di questi quattro era quel Melèto che accusò Andòcide di empietà (cfr.

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l testi - Apologia di Socrate ANDOC. I, 94). Lo stesso che accusa di empietà Socrate? Può parere strano che Socrate a codesta complicità di Melèto nell'arresto di Leonte né qui né altrove allu­ da minimamente. 36 Per esempio, dicevano, Crizia e Alci biade. Ma l 'accusa è riferita ai calunnia­ tori anonimi , non agli accusatori ufficiali; i quali neanche avrebbero potuto, mas­ sime dopo l'amnistia del 403, insistere su questo punto. Del resto, scolari di Socrate non furono, in verità, né l'uno né l'altro. 37 Dei vaticinii ricordiamo sopra tutti l 'oracolo di Delfo. Quanto ai sogni , a cui Socrate attribuiva gran valore, ricordiamo quello del Fedone (60 e), che esortò Socrate a fare musica; e quello del Critone (44 a) che gli predisse il giorno della morte . Questi sogni sono tracce di orfismo: la dottrina ortica diceva che l'anima è desta quando il corpo è addormentato . 38 Critone era del demo di Alòpece (vicinissimo ad Atene, a nord-est, sotto il Licabetto). come Socrate, e della stessa sua età. Quanto al figliolo suo Critobù­ lo, sappiamo che fu discepolo di Socrate e che si trovò presente, nel carcere, insie­ me col padre, alla sua morte (Phaed. 59 b). 39 Èschine di Sfetto (un demo attico nella strada fra Atene e il capo Sunio), cono­ sciuto comunemente col nome di Èschine il socratico, per distinguerlo da È schi­ ne l'oratore. Scrisse dialoghi socratici di cui ci restano titoli e frammenti. Pare fosse poverissimo. 40 Lo stesso Epìgene che Platone ricorda anche nel Fedone (59 b) come presen­ te alla morte di Socrate: un giovane malaticcio, cui Socrate, dice Senofonte (Mem. III , 12) , aveva consigliato di fare ginnastica. Il padre suo non è da confon­ dere con Antifonte l 'oratore , che era del demo attico di Rarnnunte. Cefisia è un demo attico sul Cefiso, a nord di Atene. 41 Sono ricordate quattro coppie di fratelli: di ciascuna, chi ebbe familiarità con Socrate fu il fratello minore; e della natura e degli affetti di codesta familiarità è chiamato a testimoniare il fratello maggiore, come per gli altri nominati prima il padre. Dei quattro fratelli minori due sono presenti, Platone e Apollodoro; gli altri due, Teòdoto e Tèage , erano morti. Di questa prima coppia non sappiamo nien­ te; e nemmeno del padre loro Teozòtide. 42 Anche di questi sappiamo poco. Dal Tèage ( 1 27 e: uno dei dialoghi pla­ tonici ritenuti spurii) possiamo argomentare che Demòdoco era più vecchio di Socrate e che esercitò alte magistrature; forse è lo stesso Demòdoco che fu stratego nel 425-4 (cfr. THUCID. IV, 75). Del figliolo suo Tèage sappiamo dalla Repubblica (496 b) che era malaticcio, e da questo luogo che era già morto nel 399. Dell'altro figlio Paràlio, maggior fratello di Tèage, non sappiamo nien­ te del tutto. 43 Questo è uno dei tre luoghi dove Platone nomina se stesso: un altro è più oltre (38 b); e un terzo è nel Fedone (59 b), dov'è detto che egli era ammalato il gior­ no che Socrate morl . Anche si capisce di qui, ed esplicitamente più avanti (34 b),

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I testi Apologia di Socrate -

che il fratello Adi manto era assai più vecchio di Platone; il quale, nel 399, aveva circa ventotto anni.

44 Questo Apollodoro è il narratore del Simposio platonico; e fu uno dei più devo­ ti e amorosi discepoli di Socrate. Ed era temperamento malinconico, facilissimo alla commozione e al pianto: si veda il

Fedone, massime 59 a, 1 1 7 d.

45 Questo appello alla misericordia dei giudici, presentando al tribunale figli e congiunti, non era cosa illegale, e anzi consentita e consueta; ma Socrate la ritie­ ne indegna di sé e di Atene.

46 Cfr. HOM. Od. XIX, 163. Come spesso, il verso è adattato, non citato esat­ tamente .

47 Il maggiore era Làmprocle, cosl chiamato dal padre della madre; quello di mezzo Sofronlsco, dal nome del padre di Socrate; e il minore Menèsseno: il quale era tuttavia piccolissimo se Santippe se lo portò seco in braccio , quando andò a salutare Socrate nel carcere l'ultimo giorno (cfr. Phaed. 60 a). Evidentemente Socrate sposò Santippe assai tardi, e l 'ultimo figlio lo ebbe che era quasi setran­ tenne . Che poi Santippe fosse quella donna bisbetica e difficile e aspra quale la leggenda raffigurò , non risulta da nessuna testimonianza di contemporanei: e anzi da Platone risulta che essa fu devota e affezionata al marito; e pare anche, massime dal nome del padre , che fosse di famiglia aristocratica.

48 A questo punto, terminata la difesa di Socrate , si viene ai voti; non già anco­ ra per stabilire la pena, che sarà stabilita dopo, alla fine della parte seconda, ma per dichiarare se Socrate è colpevole o no. E la maggioranza dei giudici dichia­ ra Socrate colpevole. Allora Socrate riprende la parola.

49 Socrate fu condannato, pare , con 280 voti contrari: cosicché, ammesso che i votanti furono 500 , e data perciò una parità di voti 250

-

e a parità di voti Socra­

te sarebbe stato assolto - la differenza fu appunto di 30 voti, e

220 coloro che

votarono in favore . Quanto a Melèto, era legge che se l' accusatore non otteneva almeno un quinto della totalità dei voti, doveva pagare mille dramme di multa. Socrate qui fa conto, non senza la sua consueta ironia, che se si dividono tra i tre accusatori , Melèto Ànito e Licòne, i altri

280 voti contrarii, ne toccano a uno 94 e agli

93; e che quindi Melèto, se non era aiutato dagli albi due, non avendo rag ­

giunto da sé solo il quinto dei voti , cioè

100, avrebbe dovuto pagare la multa delle

mille dramme.

50 Il Pritanèo era ai piedi dell' Acròpoli, a nord-est; iv i erano mantenuti, a spese dello stato, i grandi cittadini benemeriti della pattia, generali, vincitori dì Giochi Olimpici, discendenti di famiglie particolarmente rinomate , e simili.

51 Per esempio, a Sparta. 52 Erano dieci magistrati , eletti a sorte ciascuno da ciascuna delle dieci ttibù; più un cancelliere , o un segretario . Si occupavano delle carceri e dei carcerali ; cura­ vano l'esecuzione delle pene capitali , ecc. La elezione si rinnovava ogni

anno.

53 A questo punto i giudici votano una seconda volta per l'applicazjone della pcua.

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l testi - Apologia di Socrate Dovevano scegliere fra la pena proposta da Melèto e la multa proposta da Socra­ te. Dice Diogene Laerzio (II, 42) che Socrate fu condannato a morte con ottanta voti in più di quelli che lo avevano dichiarato colpevole; e dunque, posto, come dicemmo, che fosse stato dichiarato colpevole con 280 voti contro 220, fu con­ dannato a morte con 360 contro 140. 54 Credevano gli antichi che tanto più l'anima vedesse quanto meno fosse lega­ ta al corpo: massimamente, dunque, nel sonno, o poco prima di morire. Si ricor­ dino, p. es. le profezie di Patroclo e di Ettore nell'Iliade (XXI, 85 1 sgg., xxn. 358 sgg.); e si veda Plwed. 84 e sgg. 55 Per esempio, se alzarsi da sedere e andarsene oppure no, come neii 'Eutide­ mo (227 e); se attraversare I 'IIisso oppure no, come nel Fedro (242 b). 56 Questa della trasmigrazione era dottrina particolarmente orfica e pitagorea; la opinione volgare era l 'altra. 57 Nella tenda di Palamède erano state nascoste, per opera di Odisseo, certa quan­ tità di oro e una lettera di Priamo; e Palamède fu accusato di tradimento e lapi­ dato. Il mito, ignoto ad Omero, fu argomento di tragedie a Eschilo a Sofocle e a Euripide; e perciò era notissimo nell 'Attica. Aiace si uccise da sé, ma in conse­ guenza dell'ingiusto giudizio che lo aveva privato delle armi di Achille. 58 La speranza della immortalità qui è appena accennata e presentita; nell'ulti­ mo colloquio del Fedone sarà dimostrata.

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C RITO N E Traduzione di Manara Valgimigli

Persone Socrate

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SOM MARIO Critone va a trovare Socrate, che ancora sta dormendo, per inforrnarlo che è imminente l'arrivo della nave di Delo e che, quindi, il giorno dopo dovrà morire (l 43a-d). Socrate racconta il sogno da lui avuto e che gli fa presagire che ancora non è giunto l 'ultimo giorno (11 43d-44b). Cri­ tone esorta Socrate a fuggire, preoccupato che il volgo dica che gli amici, pur potendo farlo fuggire, non lo hanno fatto. Socrate lo esorta a preoccuparsi dell'opinione dei buoni, non di quella del volgo, incapace di fare grandi mali perché incapace di fare grandi beni (III 44b-d). Cri­ tone cerca di persuadere Socrate a fuggire. Non deve aver preoccupazio­ ne degli amici: tutti sono pronti a mettere i loro averi e le loro persone a disposizione (IV 44d-45c). Né Socrate deve fare il gioco dei suoi nemici o abbandonare i figli senza educarli (V 45c-46a). Socrate rispon­ de: sempre io ho dato retta solo a quel ragionamento che, all'esame, appa­ ia il migliore e così anche farò ora. Non dell'opinione dei molti, ma di quella degli uomini assennati bisogna tener conto (VI 46a-47a). Tanto per il corpo quanto per l'anima è solo l'opinione del competente che meri­ ta considerazione (Vll 47a-d). L'anima è più importante ed onorabile del corpo e quindi tanto più importante è tener conto soltanto di colui che s'in­ tende del giusto e dell'ingiusto, che è tutt'uno con la verità, e non del volgo.

È vero che il volgo può uccidere, ma non è importante vivere, ma vive­ re bene, cioè secondo giustizia (VIII 47d-48b) . È giusto fuggire? Que­ sto è il punto da esaminare (IX 48b-49a). In nessun caso si deve com­ mettere ingiustizia, nemmeno per restituirla quando la si sia ricevuta. È ben convinto Critone di questo concetto e pronto ad accettarne le con­ seguenze? (X 49a-e) . Fuggendo, si commette ingiustizia verso qualcu­ no? Socrate immagina che le leggi gli parlino e gli chiedano conto di quel che sta facendo (Xl 49e-50c). Che cosa ha da rimproverare Socrate alle leggi? Per esse egli è nato, è stato nutrito ed educato: egli è loro figlio e servo, e quindi non c'è pariteticità di diritto tra le leggi e Socrate. Alle leggi, più che al padre e alla madre, si deve rispetto e ubbidienza per qua­ lunque cosa ordinino, oppure si devono persuadere: ma far loro violen­ za

non si deve in alcun caso (XII 50c-5 1c). Le leggi danno la possibili­

tà a chiunque di scegliere: o accettarle e ubbidire a loro, oppure andarsene

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(Xlll 5 1c-52a). Ma Socrate non si è mai allontanato da Atene, dimoslcan ­ do con ciò, più di chiunque altro, il suo attacn came to alla città e alle leggi: come può pensare ora di annullare il patto stretto con loro e distrugger­ le? (XIV 52a-53a). E quale mai sarà la vita di Socrate, una volta fuggi­ to? Quali mai saranno i discorsi che egli farà? (XV 53a-54b). Né, se fug­ girà, la sua sorte sarebbe migliore nell'Ade, dove regnano altre leggi , sorelle di quelle della città. Non dalle leggi ma dagli uomini Socrate ha ricevuto ingiustizia: non si lasci perciò persuadere da Critone a fuggire

(XVI 54b-d). Perciò Socrate non fuggirà dal carcere (XVI1 54d-e).

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C RITO N E [43a] I. SOCRATE. Perché vieni a quest'ora, o Critone? non è ancor presto?

CRITONE. Sì , è ancor presto . SOCR. E che ora è precisamente? CRIT. È l'alba appena. SOCR. Io non capisco come il custode del carcere abbia voluto lasciar­ ti entrare . CRIT. Mi conosce, o Socrate, per questo mio venir qui così spesso; e ha anche avuto qualche beneficio da me. SOCR. Da poco tempo sei qui o da molto? CRIT. Da molto, piuttosto. SOCR. E allora perché non [43b] mi hai svegliato sùbito, e invece ti sei seduto qui, accanto a me, in silenzio? CRIT. Oh no, Socrate, ché neanch'io, al tuo posto, avrei voluto esser sve­ glio, in una circostanza cosa dolorosa! E poi anche, da un pezzo, ero qui mera­ vigliato a guardarti come dormivi placidamente; e appunto per questo non ti svegliavo, perché tu seguitassi a startene così, quanto più potevi, placida­ mente. Già anche prima, più volte, nel corso della tua vita, io ebbi per il natu­ rale tuo a giudicarti felice; ma ora assai più di prima, in questa sventura che ti sovrasta, a vedere come facilmente e tranquillamente la sopporti . SOCR. Ma sarebbe cosa fuori di tono, o Critone, se io a questa mia età, [43c] mi rammaricassi di dover morire .

CRIT. Anche altri o Socrate, di codesta tua età, si trovano in simili congiunture; eppure a costoro niente impedisce l'età di dolersi della sorte in cui sono caduti. SOCR. È vero. Ma perché dunque sei venuto così presto? CRIT. A recarti, o Socrate , una notizia dolorosa: non per te, come sem­ bra, dolorosa, ma per me e per tutti gli amici tuoi dolorosa e grave; la quale io, sento, potrò sopportare assai più gravemente di ogni altro. SOCR. Che notizia è questa? forse [43d] è arrivata la nave da Delo l , al cui arrivo bisogna che io muoia? CRIT. Non ancora, veramente , è arrivata; ma pare che arriverà oggi , a quel che annunziano certuni che sono giunti dal capo Sunio2 e che l'hanno lasciata colà. È chiaro dunque, a quel che annunziano costoro, che arrive-

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rà oggi: e allora sarà proprio domani , o Socrate, che dovrà finire la tua vita. II. SOCR. Ebbene, o Critone, con fortuna buona! Se così piace agli dèi, così sia. Non credo però che la nave [44a] arriverà oggi. CRIT. Da che lo argomenti codesto? SOCR. Te lo dirò. Perché io devo morire, tu lo sai, il giorno dopo a quel­ lo in cui la nave sia giunta. CRIT. Così dicono infatti coloro che hanno il comando di queste cose3. SOCR. Non credo dunque che proprio in questo giorno che nasce ella giun­ gerà, ma domani. E lo argomento da un sogno che ho avuto poco fa, que­ sta stessa notte: si direbbe che hai còlto giusto a non sveglianni ! CRIT. E quale fu questo sogno? SOCR . Io vidi come venirmi dinanzi una donna bella e di piacevole aspetto, in candida veste; e mi [44b] chiamava per nome, e mi diceva: O Socrate , nel terzo dì da questo a Ftia tu giungerai, ricca di zolle4. CRIT. Strano sogno codesto, o Socrate. SOCR. Chiarissimo però , almeno mi sembra, o Critone. III. CRIT. Oh sì, anche troppo, a quello che pare. Via, amico Socrate, anco­ ra una volta, làsciati persuadere , e mettiti in salvo. Ché io, se tu muori. non una sventura soltanto avrò da patire: ma, a parte che resterò privo di un amico come te, quale nessun altro riuscirò mai a trovare, anche parrà a molti, a tutti coloro i quali non conoscono (44c] bene né me né te, che io, pur potendo salvarti solo che avessi voluto spendere danari, non mi sia curato di farlo. E può esserci più brutta voce di questa, che passar per uno il quale faccia più conto delle ricchezze che degli amici? Certamen­ te non si persuaderà la gente che tu sei stato a non voler uscire di qui . nooo­ stante tutta la nostra buona volontà. SOCR. Ma perché, o buon Critone, dobbiamo preoccuparci tanto della opinione della gente? Gli uomini migliori, quelli dei quali val la pena di darsi pensiero, crederanno che le cose sono andate appunto così come saranno andate.

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CRIT. Ma tu vedi bene, o Socrate, [44d) che anche della opinione del volgo non è possibile non tener conto. Lo dice chiaro la circostanza medesima in cui ci troviamo ora , che il volgo è capace non già solo di fare un poco di male appena, ma sì di commettere addirittura i mali più gravi, se uno venga a cadere in mezzo alle loro calunnie. SOCR . Oh veramente, o Critone, fosse capace il volgo di commettere i più grandi mali, sicché fosse pur anche capace di fare i più grandi ben i ! Gran bella cosa sarebbe! Ma in realtà non sono capaci costoro n é d i male né di bene, non avendo potere di rendere alcuno né savio né stolto; e ope­ rano così , come loro càpita.

(44e) IV. CRIT. Sia pur così come credi. Ma questo dimmi, o Socrate. Che forse ti preoccupi di me e degli altri amici , e temi che, se vai via dal car­ cere , i sicofanti5 ci diano delle noie immaginando che siamo stati noi a farti fuggire di qui ; e che quindi si sia costretti a rimetterei tutti i nostri averi , o almeno a sborsare di molti denari , o a dirittura a soffrire qual­ che cosa di peggio ancora? Se è questo che [45a) temi, lascia andare . È ben giusto, alla fine, che per metterti in salvo si corra questo pericolo; e anche un pericolo maggiore di questo, se sia necessario. Dammi retta dun­ que, e non fare altrimenti . SOCR . Di que�to, sì , mi preoccupo, o Critone: ma anche di parecchie altre cose ancora. CRIT. Di codesto dunque non temere. Anche perché non è neppur molto il danaro che pretenderebbero certi tali che sono disposti a salvarti e a condurti via di qui . E poi , non li vedi questi sicofanti come sono a buon mercato? Non ci sarà bisogno di gran denaro per loro. E [45b] per te è a tua disposizione tutto il mio: sufficiente , credo. Che se poi , per tuo riguardo verso di me , tu pensassi di non dover spendere del mio, ci sono, qui a Atene, questi forestieri pronti a spendere . E anzi uno di loro ha portato con sé , appunto per questo scopo, il danaro occorren­ te , Si m mia di Te be; e anche Cebète è disposto a spendere6, e altri mol­ tissimi. Cosicché, ripeto, non !asciarti turbare da queste preoccupazio­ n i , e non rinunc iare a metterti in salvo; e neanche ti dia pensiero quello che dicevi i n tribunale , che non sapresti che fare di te una volta partito da Atene: perché dappertutto , anche fuori di qui, dovun-

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que tu vada, [45c) ti accoglieranno amichevolmente, e, se vorrai anda­ re in Tessaglia, ci sono colà ospiti miei i quali faranno gran conto di te e ti offriranno asilo sicuro, per modo che nessuno, in nessuna parte della Tessaglia, ti recherà molestia. V. Aggiungi, o Socrate, che neanche mi pare giusto quello che hai in animo di fare, e cioè di perdere te stesso quando è possibile che tu ti salvi. E ti dài premura perché avvenga di te proprio quello di cui si daranno premura, se mai , i tuoi nemici; come se ne sono data infatti , essi che t i vogliono morto. Oltre d i ciò, anche, mi pare tu tradisca [45d) i tuoi propri figlioli: che mentre ti sarebbe possibile allevarli e educar­ li, ecco che tu te ne vuoi andare abbandonandoli; e così , per quanto sta in te , si troveranno in balia della sorte: si troveranno cioè, com'è naturale, in quella condizione in cui sogliono trovarsi gli orfani , pri­ vati di ogni sostegno . E in verità, o non bisogna fare figlioli , o biso­ gna faticare e stentare fino in fondo per allevarli e per educarli . Tu inve­ ce mi hai l ' aria di scegl iere la via più comoda; mentre si deve scegliere quella che sceglierebbe un uomo dabbene e virtuoso, massimamente uno come te che dice non essersi curato mai d'altro in tutta la vita che

[45e) della virtù. Tanto che io mi vergogno per te e per noi , che siamo tuoi amici; e non vorrei che tutta questa faccenda del tuo processo non paresse ai più essere avvenuta per non so quale dappocaggine tua e nostra: sia l ' aver lasciato che si portasse la causa davanti al tribuna­ le, che ci fu portata mentre era possibile non fosse; sia l' andamento stesso del processo, nel modo che andò; e sia finalmente quest'ultima scena qui , che è come lo scioglimento ridicolo dell' azione [46a], dove noi si fa la parte d'esserci scansati per non so quale viltà e codardia. noi che non abbiamo salvato te né più né meno che neanche tu abbia salvato te stesso, mentre era fac ile e agevole, solo che ci fosse stato un aiuto anche piccolo da parte di ciascuno di noi. Vedi dunque. o Socra­ te, che tutto questo, oltre che di danno, non sia anche cagion di ver­ gogna a te e a noi. Perciò risolvi: sebbene anzi non sia più tempo ormai di risolvere, ma d' aver già risoluto. E la risoluzione è una sola. Nella notte che viene tutto ha da essere fatto. Se indugeremo ancora un poco, non sarà più possibile , e ogni tentativo sarà vano. Or via. sen­ z'altro , o Socrate , dammi retta e non fare di versamente .

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[46b] VI. SOCR . O buon Critone, la tua premura è lodevole molto; quan­

do sia accompagnata da retto giudizio: se no, quanto più grande ella è, tanto più m 'è cagione di pena. Bisogna considerare se questo che tu proponi si deve fare oppure no. Perché io, non ora per la prima volta, ma sempre, sono stato siffatto da non dare ascolto a nessun'altra cosa di me se non alla ragio­ ne: a quella, dico, che, ragionando, mi sembri la ragione migliore . E i ragio­ namenti che solevo fare nel tempo passato, non posso ora buttarli via per­ ché m'è capitato questo caso, ma su per giù mi sembrano [46c] gli stessi, e quindi ne ho venerazione e rispetto non meno di prima; e se non sap­ piamo in questo momento trovare altro di meglio, tu devi essere persua­ so che io non consentirò mai a quello che mi proponi, neanche se la po­ tenza del volgo, che già m' infligge catene e morte e spogliazione di beni, vorrà farmi paura come si fa ai ragazzi, con lo spauracchio di mali anche peggiori di questi . Quale sarà dunque il modo migliore di esaminare la cosa? Questo: se anzi tutto riprenderemo il ragionamento che tu stai facendo intor­ no alle opinioni, ed esamineremo se s' aveva ragione o no, tutte le volte che se ne parlava, di dire che [46d] ad alcune di queste opinioni bisogna dar mente, ad altre non bisogna. O che forse, prima che io dovessi mori­ re, si diceva bene, e ora s'è fatto manifesto che allora si diceva così per dire, senza costrutto, e che il nostro ragionare era in verità un vano gioco da ragazzi? Io desidero vivamente, o Critone, considerare insieme con te se codesto ragionamento ci sembri in qualche cosa mutato ora che mi trovo in questa condizione, o se è lo stesso; e allora, o lo saluteremo o gli dare­ mo retta. - Si è sempre detto , mi pare, da coloro che pensano dir qual­ che cosa, allo stesso modo che dicevo ora io, che cioè delle opinioni degli uomini alcune [46e] sono da tenere in gran conto, altre in nessuno. E que­ sto, o Critone, non ti pare sia detto bene? Tu sei fuori ora dal pericolo, alme­ no secondo ogni probabilità umana, di dover [47a] morire domani ; e per­ ciò a te non dovrebbe far velo il caso in cui mi trovo io presentemente. Considera dunque. Non ti pare detto bene che non tutte le opinioni degli uomini bisogna stimare, ma alcune sì, altre no? e nemmeno di tutti gli uomi­ ni, ma di alcuni sì, di altri no? Che dici? Questo non è detto bene? CRIT. È detto bene. SOCR . E dunque, che le buone opinioni bisogna stimare, le cattive non bisogna?

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CRIT. Appunto. SOCR. E buone non sono le opinioni degli uomini di senno, e cattive quel­ le degli uomini senza senno? CRIT. E come no? Vll . SOCR. Dimmi ora se si ragionava bene o male su [47b] quest'altra que­

stione. Uno che eserciti ginnastica, e neU' atto che la eserciti realmente, atten­ derà egli alla lode e al biasimo e insomma al giudizio di uno qualunque, oppure di quello soltanto che sia medico o maestro di ginnastica? CRIT. Di quello soltanto. SOCR. E allora bisognerà che egli tema il biasimo e abbia cara la lode di quello solo, e non dei più. CRIT. È chiaro. SOCR. E dunque gli bisognerà comportarsi, e cioè fare ginnastica e sì anche mangiare e bere , nel modo che piacerà a quell'unico che di code­ ste cose è maestro e se ne intende, e non nel modo che piaccia a tutti gli altri insieme. CRIT. È così . SOCR. Sta bene. Ma chi di quell' unico non si cura, e ha in dispregio [47c] l'opinione sua e le sue lodi, e invece ha in pregio le lodi dei più anche se questi non s'intendono di nulla, non si troverà costui a patire alcun male? CRIT. Certo: come no? SOCR. E che è questo male? e dove mira, e in quale parte potrà colpire colui che di quell' unico non si cura? CRIT. Chiaro che nel corpo: questa è la parte che codesto male a poco a poco distrugge. SOCR. Tu dici bene. Non bisognerà dunque anche di ogni altra cosa, o Cri­ tone, per non perderei a esaminarle tutte, giudicare allo stesso modo; e quin­ di, naturalmente, anche del giusto e dell' ingiusto, del brutto e del bello. del buono e del cattivo, che sono l' argomento intorno a cui stiamo ora delibe­ rando? dovremo seguire l'opinione della moltitudine e di (47d] quella pre­ occupare i, oppure di quell' unico, dato che ci sia, il quale se ne intenda. e di lui solo sentir vergogna e timore, anzi che di tutti gli altri insieme? Che se noi non daremo retta a costui, verremo a distruggere e a contaminare quel­ la parte di noi che col giusto, come dicevamo, diventa migliore, e con l'in­ giusto perisce. O non ha senso tutto questo che io dico?

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CRIT. Credo anzi che abbia senso, o Socrate. VITI. SOCR. Orbene , se quella parte di noi che con ciò ch'è salutare diven­ ta migliore e con ciò ch'è nocivo si corrompe noi la distruggeremo per seguire non già l ' opinione di coloro che se ne intendono ma degli altri, ci sarà (47e] più possibile vivere, una volta ch'ella sia guasta e corrotta? Questa parte , direi, è il corpo: o non è? CRIT. Si, è il corpo. SOCR. E dimmi, ci è possibile vivere con un corpo rovinato e guasto? CRIT. No, affatto. SOCR. Ma allora ci sarà possibile vivere quando sia corrotta quella parte di noi a cui l ' ingiustizia reca danno e la giustizia giovamento? o vogliamo credere che sia da meno del corpo [48a) codesta parte , qualun­ que ella sia di noi , a cui pertengono l 'ingiustizia e la giustizia? CRIT. No, affatto. SOCR. Anzi , è più onorabile? CRIT. Molto più onorabile, certo. SOCR . E dunque, o carissimo, noi non dobbiamo affatto preoccupar­ ci di quello che potrà dire di noi il volgo, bensì di ciò solo che potrà dire colui che s ' intende del giusto e dell'ingiusto, giudice unico, ch'è tutt'uno con la verità? . Cosicché, anzi tutto, tu non muovi per questa parte da retto criterio quando dici che dobbiamo preoccuparci della opi­ nione del volgo in questioni che riguardano il giusto il bello il buono e i loro contrari . Ma ecco, si potrebbe [48b] dire, codesto volgo è pur capace di mandarci a morte . CRIT. Chiaro, veramente, anche questo; si potrebbe dire così , o Socra­ te. Hai ragione. SOCR. Se non che, mio buon amico , il ragionamento che s'è fatto ora a me pare sia lo stesso di quel che si fece prima; e tu allora vedi anche que­ sto se tuttavia rimane fermo per noi o no, e cioè che non il vivere è da tenere nel più alto conto , ma il vivere bene. CRIT. Si, riman fermo. SOCR. E che vivere bene è la stessa cosa che vivere secondo onestà e secondo giustizia, questo rimane fermo o no? CRIT. Rimane fermo.

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IX. SOCR. Dunque , a partire da quello che insieme s'è convenuto , biso­ gna vedere se sia giusto che io tenti di [48c] uscire di qui pur contro il vole­ re degli Ateniesi , o se non sia giusto: e, se ci paia giusto, tentiamo pure; altrimenti, lasciamo stare. Riguardo poi a quelle considerazioni che tu fai e sullo spender denari e su quello che dirà la gente e sul modo di alle­ vare i figlioli, bada che più veramente , o Critone , codesti non siano i soli ­ ti modi di ragionare del volgo, di quei tal i, dico, che con facilità man­ dano a morte e con la stessa facilità resusci terebbero in vita se ne fossero capaci, e sempre senza nessuna ragione al mondo. Ma quanto a

noi, poiché la ragione vuole così , a niente altro si deve mirare se non

a quello che dicevamo poc 'anzi , se cioè , sborsando denari e obbligan­ doci di gratitudine a coloro che [48d] mi trarranno fuori di qui . opere­ remo secondo giustizia: noi , dico, così quelli che mi vogliono trarre . come io che mi lascerei trarre; o se per verità non commetteremo ingiustizia gli uni e gli altri facendo tutto questo. E se sarà chiaro che così operan­ do si commetta ingiustizia, allora ricòrdati che bisogna rimanere fede­ li al proprio posto e aspettare con animo tranquillo, e non darsi pensie­ ro né se si debba morire né se si debba qualunque altro male patire . piuttosto che commettere ingiustizia. CRIT. Tu ragioni bene, mi sembra, o Socrate; ma vedi che cosa dobbia­ mo fare . SOCR. Vediamo insieme, carissimo: e se tu hai qualche cosa da oppor­ re al mio ragionare, opponi, e io ti [48e] obbedirò; ma se non hai . cessa allora, beato amico, di ripetermi sempre lo stesso discorso , che bisogna io venga via di qui , pur contro il volere degli Ateniesi. Perché io faccio gran conto di comportarmi in questa faccenda con la persuasione tua e non tuo malgrado. Ora vedi dunque se il punto fondamentale della nostra ricerca ti pare saldo [49a] sufficientemente; e pròvati a rispondere alle mie domande, come meglio tu credi . CRIT. Sta bene, mi proverò. X. SOCR. In nessun caso diciamo che volontariamente si deve commet­ tere ingiustizia, oppure che in alcun caso si può e in altro non si può? o diciamo addirittura che il commettere ingiustizia non è mai né buono né bello, come già più volte anche nel tempo passato riconoscemmo (e

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come si diceva anche poco fa] ? Oppure tutti quei nostri ragionamenti nei quali allora eravamo d'accordo, si sono in questi pochi dì rovesciati e dile­ guati; e dunque, per tanto tempo che siamo stati a disputare fra noi con tanta serietà, [49b) non ci è mai capitato di accorgerci , così vecchi, o Cri­ tone, come siamo , che codesto disputare non differiva minimamente da un vano gioco di ragazzi? O piuttosto la cosa sta così come si diceva allo­ ra, sia che i più ne convengano sia che non ne convengano, e sia che s'ab­ biano da patir mali anche più gravi di questi o anche meno gravi; e che, insomma, nonostante tutto, il fare ingiustizia è, per chi fa ingiustizia, cosa brutta e turpe in ogni caso? Diciamo così o no? CRIT. Diciamo così . SOCR. Per nessuna ragione dunque si dee fare ingiustizia. CRIT. Per nessuna ragione. SOCR. E dunque, neanche se ingiustizia ci è fatta, si deve rendere ingiu­ stizia, come pensano i più , poiché è stabilito [49c] che mai per nessuna ragione si ha da fare ingiustizia. CRIT. Così pare. SOCR. E ancora, far male altru i , o Critone, si deve o non si deve? CRIT. Certo non si deve , o Socrate. SOCR . E ancora, render male chi male abbia sofferto, come dicono i più,

è giusto o non è giusto? CRIT. No affatto. SOCR. Perché far male altrui, diciamo pure, non differisce niente dal fare ingiustizia. CRIT. Tu dici bene . SOCR . Dunque , né si deve rendere ingiustizia né far male ad alcuno degli uomini, neanche chi abbia qualsivoglia male patito da costoro. E tu sta bene attento, o Critone, se dici di essere d'accordo con me in tutto que­ sto, [49d] che tu non lo dica contro la tua stessa opinione. Perché io so bene che ad alcuni pochi soltanto questi principi sembrano e sembreran­ no giusti. Ora , tra quelli che si sono fissi in una opinione di questo gene­ re e quelli che no , non è possibile deliberare nulla in comune; e anzi non potranno fare a meno costoro che disprezzarsi a vicenda, vedendo gli uni le contrarie deliberazioni degli altri . E però, dico, considera anche tu molto attentamente se proprio sei d'accordo con me e hai la medesima opinio-

Pl atone l teati - Critone

ne mia; e allora cominciamo pure a deliberare movendo da questo punto, che cioè non è mai cosa retta né fare ingiustizia né rendere ingiustizia, né, chi soffra male, vendicarsi restituendo male. Oppure ti scosti da me e insomma non partecipi di questo [49e) punto? Perché io, come già da tempo ero di questa opinione, così anche ora; ma se tu hai opinione diver­ sa, parla e istruiscimi. Se poi rimani fermo in quello che s'è detto prima, allora ascolta quello che ne consegue. CRIT. Resto fermo a quel che s ' è detto e sono d'accordo con te. E dun­ que parla. SOCR. E allora ti dirò quello che ne consegue: o meglio, ti farò delle domande . Dimmi: se uno si trovi d 'accordo con un altro nel riconosce­ re che una cosa è giusta, questa cosa colui la deve fare, o deve cercare di eludere l'altro e non farla? CRIT. La deve fare. XI.

SOCR. Muovi dunque di qui e drizza bene la mente. Se io me ne vado

via da questo carcere contro il [50a) volere della città, faccio io male a qualcuno, e precisamente a chi meno si dovrebbe, o no? Ancora: restia­ mo fermi in quei princìpi che riconoscemmo insieme essere giusti, o no? CRIT. Non so rispondere, o Socrate, alla tua domanda, perché non capisco. SOCR. Bene: considera la cosa da questo lato. Se, mentre noi siamo sul punto... sì, di svignarcela di qui, o come altrimenti tu voglia dire, ci venis­ sero incontro le leggi e la città tutta quanta, e ci si fermassero innanzi e ci domandassero: "Dimmi, Socrate, che cosa hai in mente di fare? non medi­ ti forse, con codesta [50b) azione a cui ti accingi, di distruggere noi. cioè le leggi , e con noi tutta insieme la città, per quanto sta in te? o credi possa vivere tuttavia e non essere sovvertita da cima a fondo quella città in cui le sentenze pronunciate non hanno valore, e anzi, da privati cittadini. sono fatte vane e distrutte?", - che cosa risponderemo noi, o Critone, a que­ ste e ad altre simili parole? Perché molte se ne potrebbero dire, massima­ mente se uno è oratore, in difesa di questa legge che noi avremmo viola­ ta, la quale esige che le sentenze una volta pronunciare abbiano esecuzione . O [SOci forse risponderemo loro che la città commise contro noi ingiusti­

zia e non sentenziò rettamente? Questo risponderemo, o che altro? CRIT. Questo, sicuramente, o Socrate.

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XII. SOCR. E allora, che cosa risponderemmo se le leggi seguitassero

così: "O Socrate , che forse anche in questo ci si trovò d'accordo, tu e noi; o non piuttosto che bisogna sottostare alle sentenze, quali elle siano, che la città pronuncia?". E se noi ci meravigliassimo di codesto loro parla­ re , elle forse riprenderebbero così: "O Socrate, non meravigliarti del nostro parlare , ma rispondi: sei pur uso anche tu a valerti di questo mezzo, di domandare e rispondere . [SOd] Di ' , dunque, che cosa hai da reclamare tu contro di noi e contro la città, che stai tentando di darci la morte? E anzi tutto, non fummo noi che ti demmo la vita, e per mezzo nostro tuo padre prese in moglie tua madre e ti generò? Parla dunque: credi forse non siano buone leggi quelle di noi che regolano i matrimoni, e hai da rimprove­ rare loro qualche cosa?". - "Non ho nulla da rimproverare", risponde­ rei io. "E allora, a quelle di noi che regolano l 'allevamento e la educa­ zione dei figli, onde fosti anche tu allevato e educato, hai rimproveri da fare? che forse non facevano bene, quelle di noi che sono ordinate a que­ sto fine prescrivendo a tuo padre che ti educasse nella musica [SOe] e nella ginnastica?". - "Bene", direi io. "E sia. Ma ora che sei nato, che sei stato allevato, che sei stato educato, potresti tu dire che non sei figliolo nostro e un nostro servo e tu e tutti quanti i progenitori tuoi? E se questo è così, pensi tu forse che ci sia un diritto da pari a pari fra te e noi, e che, se alcu­ na cosa noi tentiamo di fare contro di te, abbia il diritto anche tu di fare altrettanto contro di noi? O che forse, mentre di fronte al padre tu rico­ noscevi di non avere un diritto da pari a pari , e così di fronte al padrone se ne avevi uno; il diritto, dico, se alcun male pativi da costoro, di ricam­ biarli con altrettanto male; e [Sla] nemmeno se oltraggiato di oltraggiar­ l i , e se percosso percuoterli , né altro di questo genere: ecco che invece, di fronte alla patria e di fronte alle leggi , questo diritto ti sarà lecito; cosic­

ché, se noi tentiamo di mandare a morte te, reputando che ciò sia giusto, tenterai anche tu con ogni tuo potere di mandare a morte noi che siamo le leggi e la patria, e dirai che ciò facendo operi il giusto, tu, il vero e schiet­ to zelatore della virtù? O sei così sapiente da avere dimenticato che più della madre e più del padre e più degli altri progenitori presi tutti insie­ me è da onorare la patria, [Slb] e che ella è più di costoro venerabile e santa, e in più augusto luogo collocata da dèi e da uomini di senno? e che la patria si deve rispettare, e più del padre si deve obbedire e adorare, anche

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nelle sue collere; e che, o si deve persuaderla o s'ha da fare ciò che ella ordina di fare, e soffrire se ella ci ordina di soffrire , con cuore silenzio­ so e tranquillo, e (asciarci percuotere se ella ci vuole percuotere , e (asciarci incatenare se ella ci vuole incatenare , e se ci spinge alla guer­ ra per essere feriti o per essere uccisi, anche questo bisogna fare . poiché questo è il giusto; e non bisogna sottrarsi alla milizia, e non bisogna indie­ treggiare davanti al nemico, e non bisogna abbandonare il proprio posto, ma sempre, e in guerra e nel tribunale e dovunque, [Sic] bisogna fare ciò che la patria e la città comandano, o almeno persuaderla da che parte è il giusto; ma far violenza non è cosa santa, né contro la madre né con­ tro il padre, e molto meno ancora contro la patria?". Che cosa risponde­ remo noi, o Critone, a queste parole? che le leggi dicono il vero o no? CRIT. A me sembra che le leggi dicano il vero. XIII. SOCR. "E ora vedi, o Socrate", potrebbero seguitare le leggi, "se

è vero questo che noi diciamo, che cioè non è giusto tu faccia contro di noi quello che ora appunto hai in animo di fare. Perché noi che ti gene­ rammo, noi che ti allevammo, noi che ti educammo, noi che ti mettem­ mo a parte di tutti quei beni che erano in nostro potere , e te [Sld] e tutti gli altri concittadini; noi, dico, nonostante ciò, ti abbiamo pur anche fatto capire in tempo, col dame licenza a chiunque degli Ateniesi lo desideri , dopo che sia stato inscritto nel ruolo dei cittadini e già conosca il gover­ no della città e le sue leggi, che se a taluno queste leggi non piacciono è libero di prender seco le cose sue e di andarsene dove vuole. E a que­ sto nessuna di noi frappone ostacoli; né a chiunque de' cittadini voglia recarsi, per fastidio di noi e della città, in qualcuna delle nostre colonie. o voglia addirittura andar a vivere altrove in paese forestiero, nessuna di noi gli impedisce di andare dove gli piaccia [Sle] e portar seco bJtte le cose sue. Ma chi di voi rimane qui , e vede in che modo noi amministria­ mo la giustizia e come ci comportiamo nel resto della pubblica amministra­ zione, allora diciamo che costui si è di fatto obbligato rispetto a noi a fare ciò che noi gli ordiniamo; e se egli non obbedisce, diciamo che commet­ te ingiustizia contro noi in tre modi: primo, perché non obbedisce a noi che lo abbiamo generato; secondo, perché non obbedisce a noi che lo abbiamo allevato; terzo, perché essendosi egli obbligato a obbedirci . né

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ci obbedisce né si adopra , caso che facciamo alcuna cosa non bene; di persuaderei altrimenti , (52a] nonostante che noi, quello che gli diciamo di fare , gli si proponga benevolmente, e non già duramente gli s'imponga; che anzi , mentre noi gli lasciamo libertà di scegliere delle due cose l'una, o di persuaderei o di fare quello che gli diciamo, egli non fa né l'una cosa né l 'altra . XIV. "Queste sono le accuse alle quali anche tu, o Socrate , ti troverai espo­ sto se farai quello che hai in mente; e non meno tu degli altri Ateniesi, ma assai più, anzi , di tutti gli altri ." E se io allora chiedessi: "E perché questo?" , - giustamente, credo , le leggi mi darebbero addosso, ri­ cordandomi che proprio io più di tutti gli altri Ateniesi mi sono trovato d'accordo con loro nell'accettazione dei patti stabiliti . E di fatti mi potrebbero dire cos1 : "O Socrate , l52b] grandi prove noi abbiamo di que­ sto, che a te non eravamo sgradite, né noi né la città: ché tu non avresti , più di tutti gli altri Ateniesi , in questa città dimorato, se a te , più che a tutti gli altri senza paragone, questa città non fosse piaciuta; né mai uscisti dalla città per partecipare a cerimonie solenni , se non una volta che andasti all 'lstmo8; né mai ti recasti in altro luogo, se non per qual­ che spedizione militare9; né mai facesti viaggio in paese straniero, come pur fanno gli altri uomini; e nemmeno ti prese mai desiderio di vedere altra città o di conoscere altre leggi, perché [52c] eravamo tutto per te noi e la città nostra: cos1 fortemente ci prediligevi, e avevi accettato di vive­ re qui, sotto la nostra disciplina, la tua vita di cittadino; e qui appunto eser­ citasti tutti i tuoi diritti civil i , e qui anche generasti i tuoi figl iol i , prova sicura che la città ti piaceva. Oltre a ciò t'era lecito, nel corso stesso del processo, condannarti da te all'esilio, se volevi; e ciò che mediti ora di fare contro il consenso della città, potevi allora farlo col suo consenso. Ma tu allora facevi il bello che non t'incresceva di dover morire, e anzi preferivi , come dicevi , all'esilio la morte I O. Ed ecco che ora né senti ver­ gogna di quelle tue parole, né [52d] di noi leggi ti curi , e tenti distrugger­ ci , e fai quello che farebbe il più vile dei servi , tentando di svignartela contro ai patti e agli accordi secondo i quali avevi pur convenuto con noi di regolare la tua vita di cittadino. Innanzi tutto, dunque, rispondi a noi su questo: Diciamo o non diciamo la verità quando affermiamo che tu ,

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realmente e non a parole, avevi convenuto di regolare secondo noi la tua vita di cittadino?" . - Che cosa dobbiamo rispondere a queste parole, o Critone? Non dovremo consentire che le leggi dicono la verità? CRIT. Necessariamente, o Socrate. SOCR. "O allora", potrebbero seguitare le leggi, "che altro fai tu se non trasgredire ai patti e agli accordi che avevi [52e) con noi? Né questi patti tu avevi concordato con noi perché forzato da necessità o perché fuor­ viato da inganno; e neanche perché costretto a risol vere in breve tempo. ma in uno spazio di settanta anni, nei quali saresti stato pur libero di andar­ tene se noi non ti piacevamo e se i patti concordati non ti parevano giu­ sti . E tu invece non preferivi né Lacedèmone né Creta, le quali dici pure ogni momento che sono rette da buone leggi , né alcun ' altra città elleni­ ca (53a) o forestiera; che anzi tu sei sempre uscito meno volte da questa città che non gli zoppi e i ciechi e gli altri storpi , tanto questa città ti era cara più che a tutti gli altri Ateniesi; e quindi , si capisce, anche noi , le leggi. perché a chi potrebbe essere cara una città senza leggi? E tu dunque, ora, non vuoi restar fedele ai patti? Sì, purché tu resti obbediente a noi , o Sacra­ te; e non vorrai tirarti addosso il ridicolo scappando dalla città. XV. "E ora considera quali benefici , trasgredendo a questi patti e mac­

chiandoti di simile colpa, procaccerai a (53b) te stesso e ai tuoi amici. Che i tuoi amici correranno il rischio di essere anch'essi cacciati in esilio e di esser privati dei diritti civili e di perdere i loro averi , su questo, direi , non c'è dubbio. E quanto a te, primamente , se andrai in qualcuna delle città più vicine, come a Tebe o a Mègara, - sono ben governate tutt'e due, - vi sarai accolto, o Socrate , come un nemico del loro governo: e quanti hanno a cuore la loro propria città, ti guarderanno di mal occh io reputandoti un corruttore di leggi; e così rinsalderai a favore dei giudi­ ci la pubblica opinione, onde tutti crederanno aver essi giudicato retta­ mente: perché , chi è corruttore 153c) di leggi, a più forte ragione può esser ritenuto corruttore di giovani e di gente senza senno. O che allora fug­ girai le città ben governate e gli uomini meglio costumati? e ti varrà pro­ prio la pena di vivere per fare questo? Oppure ti a'V'Viciner.U a codesti uomi­ ni dabbene , e non avrai vergogna di attaccar discorso con loro . . . quali discorsi, o Socrate? Quelli che facevi qui , che la vinù e la giustizia sono

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il più alto pregio per gli uomini, e così il rispetto alle leggi e le leggi? E non pensi che potrà apparirne [S3d] assai deformata la figura di Socra­ te? Bisogna pure pensarlo. Ma sì, tu ti toglierai via da codesti luoghi, e te ne anderai in Tessaglia, dagli ospiti di Critone: perché colà è veramen­ te massimo disordine e massima dissolutezza I l ; e avranno piacere colà, io credo , a sentirti raccontare come buffonescamente te la svignasti dal carcere, tutto ravvolto in una palandrana o coperto di una mastrucca o d'al­ tro abito simile a quelli onde sogliono camuffarsi coloro che scappano, e insomma con tutta la tua persona trasfigurata. E che tu, vecchio, al quale rimane oramai, come [S3e] è verosimile, così poco tempo da vivere, non abbia avuto vergogna di restare attaccato così tenacemente alla vita fino a violare le leggi più sante, non ci sarà nessuno che lo dirà? Forse nes­ suno, se tu non sarai di fastidio a nessuno; ma se no, avrai da ascoltar­ ne molte, o Socrate, di queste parole, e assai umilianti per te . E vivrai la tua vita inchinandoti qua e là a uomini di ogni sorta, e come un servito­ re ... e poi , facendo che cosa? forse spassandotela, come s'usa in Tessa­ glia, tra feste e banchetti, quasi che tu ti fossi trasferito in Tessaglia apposta per banchettare? E quei tuoi ragionamenti su la giustizia e su le altre virtù, [S4a] dimmi, dove anderanno? Ma tu dici che pe' tuoi figlio­ li vuoi vivere, per allevarli e per educarli . . . O come? E tu, tirandoteli die­ tro proprio in Tessaglia te li alleverai e li educherai , facendoli stranieri alla loro patria, perché anche questo bel regalo abbiano da te? O non farai questo, e, seguitando essi ad essere allevati qui , saranno meglio alleva­ ti e meglio educati solo perché tu sei vivo, anche se non sei più con loro? Si, perché i tuoi amici, dirai, se ne prenderanno cura. O che forse , se tu emigri in Tessaglia se ne prenderanno cura, se tu emigri nell'Ade non se ne prenderanno più? In verità, se qualche cosa di bene possiamo [S4b] aspettarci da codesti che si professano tuoi amici, bisogna pur credere che se ne cureranno egualmente. XVI. "Or via, Socrate, dà retta a noi che siamo le nutrici tue; e dei figli e della vita e di ogni altro bene non fare maggior conto che della giusti­ zia, affinché, giunto nell'Ade, tu abbia tutto questo da dire in tua difesa davanti ai reggitori di laggiù . Perché come qui in terra non sembra che fuggire sia per te cosa più profittevole che restare, né più giusta né più

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santa, e nemmeno per alcun altro de' tuoi amici e congiunti; così nean­ che laggiù, appena tu vi giunga, potrà certo recarti un profitto migliore. E ora dunque tu te ne vai nell'Ade, se così risolvi, ingiustamente offe­ so , è [54c] vero, ma non da noi offeso, dalle legg i , bensì dagli uomini: che se invece fuggirai di qui così ignominiosamente , ricambiando ingiustizia per ingiustizia e male per male, venendo meno ai patti e agli accordi che avevi con noi , e facendo male proprio a coloro cui meno si dovrebbe , cioè a te stesso e ai tuoi cari e alla patria e a noi , né noi lasceremo di affl iggerti finché tu viva, né colà le nostre sorelle. le leggi dell 'Ade , ti accoglieranno benevol mente , sapendo che anche noi tentasti distruggere per quanto era in te. Ebbene, che non riesca Crito­ ne a persuaderti di fare ciò [54d] ch'egli dice, più che non riusciamo a persuaderti noi". XVII. Queste sono, tu lo sai , o mio dolce amico Critone, le parole che mi sembra di udire, allo stesso modo che ai seguaci dei Coribanti l 2 sembra di udire i l suono de flauti e dentro di m e risuona tuttavia l'eco di questi ragionamenti, e m'empie così del suo murmure ch'io non posso altre parole ascoltare. E anzi sappi , per quello almeno che ora mi pare, che se alcuna cosa vorrai dire in contrario dirai invano. Comunque,

se

credi di poterrni tuttavia persuadere, parla. CRIT. Oh, mio Socrate, io non ho nulla da dire! SOCR. E allora lascia, o Critone; e andiamo per [54e] questa via: ché que­ sta è la via per cui ci conduce Iddio.

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CRITONE: NOTE l Cfr. Phaed. 58 a.

2 Promontorio a mezzodì dell' Attica. 3 Gli Undici, che avevano la sorveglianza delle carceri e curavano la esecuzio­ ne delle sentenze penali .

4 HOM . J/. IX, 363 (mutato, naturalmente, ilcoijlT)V i n tJCoto). Cioè l'anima, par­ tendo dal corpo, tornerà alla sua patria, come Achille a Ftia. Il richiamo fu sug­ gerito sopra tutto dall'TiJla'tt. .. 'tpn'tél't(!l .

5 Si dicevano cruJCoq>civ'tat in Atene dei denunciatori di professione i quali erano assai spesso veri e propri ricattatori , spaventando i galantuomini con false accu­ se le quali non ritiravano se non a prezzo di denaro. Dapprima si chiamarono così, pare , i denunciatori di chi esportava fichi ('tà crùJCa) dall'Attica contro la legge.

6 Simmia e Cebète , ambedue di Tebe e filosofi e amicissimi di Socrate, sono tra i principali personaggi del Fedone.

7 Il gìudice unico e infallibile del giusto e dell' ingiusto è la Verità in persona, Dio.

8 Cioè ai Giuochi Istmici. La notizia è attestata anche da Ateneo (V, 55 , 2 1 6 b), né è contraddetta da Phaedr. 230 d.

9 Socrate combatté a Potidea (432), a Delio (424) e ad Amfipoli (422); cfr. Apo/. 28 e.

I O Cfr. Apo/. 3 7 c, e altrove.

I l Mala fama ebbero i Tèssali di loro dissolutezza e scioperataggine; cfr. XEN. Mein. I , 24; ATHEN. IV, 1 37; X , 4 1 8 , e sopra tutto, ibidem, XII, 527.

1 2 I Coribanti erano sacerdoti della dea frigia Cibele, la quale veneravano con riti orgiastici di danze e musiche fremebonde; e l ' iniziato, preso in mezzo a quel­ la vertigine, credeva anche dopo di udire entro sé il tumulto delle voci e lo stre­ pito dei cimbali e dei timpani , e il lungo suono dei flauti.

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F E DO N E Traduzione di Manara Valgimigli

Persone del dialogo diretto Echecrate Fedone

Persone del dialogo raccontato Critone Socrate Ce bete Simmia Apollodoro Fedone Il messo degli undici

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SOM MARIO

Fedone racconta ad Echecrate le ultime ore di Socrate, alle quali fu pre­ sente di persona. Per quale motivo la morte avvenne tanto tempo dopo la condanna (l 57a-58c). Sentimenti contrastanti di Fedone al cospet­ to di Socrate in procinto di morire. Quali amici erano presenti in quel momento (li 58c-59c). Prima parte: il giorno destinato alla morte gli amici si ritrovano per tempo per andare da Socrate, il quale, al loro arri­ vo, congeda rapidamente Santippe. Socrate, liberato dalle catene , fa alcu­ ne considerazioni sul legame che sempre tiene uniti dolore e piacere (III 59c-60c). Le poesie composte da Socrate in obbedienza ad un sogno che gli ordinava di > .

Platone l testi Simposio -

8 6 Calogero espunge probabilmente i l sostantivo 'tpuq�ijç, delicatezza, sulla scorta di Usener, Schanz, Hug. 87 Il discorso di Agatone è caratterizzato da una altissima frequenza di figu­

re retoriche. Cfr. tra le altre l'antitesi (es. 1 97 D l , D 4), l'epifora (es . 1 94 E 4-5 ), la metafora ( 1 96 C 2-3 , 1 97 D 6-7 ecc .), il chiasmo (es. 1 96 8 6-7 ) . la figura etimologica (cfr. n . 52; es. 1 95 8 l ) , il poliptoto, cioè l a ripetizio­ ne del medesimo termine con una diversa flessione (es . 1 95 8 5. 8 6, 1 96 8 7), l 'omeoteleuto, cioè l' uguaglianza fonica della terminazione di voca­ boli successivi ( 1 97 D l , D 4, D 4-5 ecc . ) . Queste figure retoriche, spesso associate tra loro, si fanno particolarmente frequenti nella sezione finale del discorso: 197 D-E. Per una rassegna più completa degli artifici retorici del discorso cfr. Léveque , op. cit., pp. 1 29-34. 88 L' affermazione contiene un evidente gioco di parole tra Gorgia e Gor­ gone. Le Gorgoni erano terribili figure mitologiche con serpenti al posto dei capelli, enormi denti , ali d 'oro e mani di bronzo. In Omero, Odissea Xl . 633635 , Odisseo si allontana dagli Inferi perché teme che Persefone gli mandi contro la testa di una Gorgone, Medusa, che aveva la capacità di impietri­ re chi la vedesse (Pindaro, Pitica X , 46-48; Eschilo, Prometeo 798-800), e che fu decapitata da Perseo (Esiodo, Teogonia 274 sgg ., Lo scudo di Era­ cle 2 1 6 sgg .). 89 Cfr. Euripide, lppolito 6 1 2; i l verso viene parodiato da Aristofane in Te­ smoforiazuse 275-276 e in Rane 1 0 1 - 1 02 . 90 La contrapposizione tra la verità e l a retorica disgiunta dal vero è un tema ricorrente in Platone; cfr. per esempio Apologia 1 7 A- 1 8 A, Fedro 259 E sgg . Nel Gorgia (458 E-459 E) Platone sottolinea inoltre, come nel caso del Simposio ( 1 99 A 1 -2), il fatto che la retorica che prescinde dal vero può risul­ tare persuasiva solo per coloro che non conoscono la verità, non per chi sa (cfr. anche Repubblica 598 C-D). 9 1 In questo passo Socrate intende stabilire se Eros sia sempre in relazio­ ne a qualche oggetto o possa intendersi anche in modo assoluto. Chiede per­ tanto se amore sia amore di qualcosa, cioè abbia un oggetto, specificando però che ciò che gli interessa non è sapere di quali oggetti in specifico sia amore, del padre o della madre, perché sarebbe un problema ridicolo, ma solo se sia sempre in relazione a qualche oggetto così come un padre è sempre padre di un figlio o di una figlia (cfr. Robin, op. cit., p. LXXIII-LXXIV). l genitivi 11TJ'tp6c; e Jta'tp6c; sono quindi da intendersi in senso oggettivo . Diverse le interpretazioni del passo di 8ury, op . cit., ad loc ., e Rosen, op. cit., pp. 2 1 1 - 1 5 . 9 2 Un' argomentazione simile compare anche nel Liside 221 D-E. 9 3 Non si sa se si tratti di un personaggio storico o di una figura inventa­ ta da Platone; in questo caso il suo nome potrebbe contenere un valore allu-

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l testi - Simposio sivo, in quanto Diotima rimanda etimologicamente al significato di "onora­ to da Zeus". 94 Si tratta probabilmente della peste di Atene del 430, descritta da Tucidide nel Il libro delle Storie. 95 Sull 'opinione retta cfr. Menone 97 A-98 C . . 96 I l termine greco è 't Ò o v : c i ò che è. 9 7 Il termine greco è cppÒVTJEi"oç , mentre Burnel accoglie l 'emendamento, non necessario, di Parmentier i! 9Eoç (celibe). 1 1 4 Personaggio in parte leggendario, Licurgo fu considerato il creatore delle leggi spartane. Oltre che salvatore di Sparla, qui è detto anche salvatore della Grecia probabilmente per il ruolo svolto da Sparla nelle guerre persiane. 1 1 5 Vissuto tra VII e VI secolo, poeta e uomo politico, Solone fu autore di un importante ordinamento legislativo di Atene . 1 1 6 Si potrebbe anche intendere: «a questi misteri avresti potuto essere ini­ ziato anche tu» . 1 1 7 Questi attributi appartengono solitamente alle idee; cfr. Fedone 7 8 D . In seguito (2 1 1 E ) , il Bello sarà detto divino, puro, non mescolato, unifor­ me , anche questi attributi propri delle idee, per i quali cfr. Fedone 66A , 79 D, 80 A-B, Fedro 250 C . Cfr. anche Parmenide, fr. 8 D.K., e Anassagora, fr. 1 2 D.K. Su questo passo si veda Di Benedetto, op. cit., pp. 42-43 . 1 1 8 Per la methexis cfr. Fedone 1 00 C- 1 0 1 C, Repubblica 476 C-D; cfr. anche la discussione del Parmenide 1 30 E sgg . 1 1 9 Cioè con l' intelletto. Cfr. per es. Fedone 65 E-66A , 79 D, Fedro 247 C , Repubblica 532 A-B . 1 20 E ra consuetudine dei simposi che uno dei convitati svolgesse la fun­ zione di simposiarca, colui cui spettava stabilire le proporzioni della misce­ la tra acqua e vino, decidere il numero delle coppe da bere , così come gli

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l testi - Simposio intrattenimenti da intercalare al vino. Prima del l 'ingresso di Alcibiade que­ sto ruolo era stato svolto, senza esplicito incarico, principalmente da Eris­ simaco (cfr. 176 C sgg .), il quale non rinuncia nemmeno ora a questa fun­ zione, cercando di indurre anche Alcibiade a pronunciare un encomio di Eros. 1 2 1 11 termine greco è KOtUA.TI. cotile, che corrisponde all'incirca ad un quar­ to di litro. 1 22 È un verso tratto da Omero, lliade XI, 5 1 4. 1 23 I sileni erano esseri mitologici, dall'aspetto per lo più umano, con capel­ li ricci e naso camuso, ma dotati di alcuni tratti animaleschi: le orecchie, la coda e le corna. Facevano parte del seguito di Dioniso e si caratterizzava­ no per la passione per il vino ed i piaceri afrodisiaci . Talvolta venivano iden­ tificati con i satiri, esseri mitologici dal medesimo aspetto dei sileni e facen­ ti parte anch'essi del corteggio di Dioniso. Tra questi la tradizione ricorda il satiro Marsi a , noto per avere sfidato Apollo in una gara musicale. nella quale il dio con la cetra ebbe la meglio sul sa tiro con il suo flauto; in seguito il dio lo scorticò vivo per punirlo del suo orgoglio. 1 24 I coribanti erano sacerdoti della dea Cibele, in Frigia, che danzavano in modo sfrenato e selvaggio nel corteo per la dea. Cfr. Critone 54 D e Ione 533 E-534 A , 536 C . 1 25 Pericle era rinomato per l e sue capacità oratorie; a questo proposito cfr. Protagora 329 A , Fedro 269 E-270 A ; cfr. anche Tucidide , I l , 65 . 8-9, Aristofane, Acarnesi 530 sgg . , Eupoli , Demi, fr. 98 Edmonds. 1 26 Allusione al celebre episodio dell Odisseo (XII, 39 sgg. e 1 5 8 sgg .). 1 27 Dovevano esistere due versioni del proverbio, l'una che accostava vino e verità, l 'altra che collegava vino, fanciulli e verità, nel senso che i fan­ ciulli, come gli ebbri, dicono la verità. Per la prima cfr. Alceo, fr. 57 Bergk. 1 2 8 Allusione all'episodio dell Iliade (VI, 232-236) in cui in nome dei vin­ coli di ospitalità (ibid. VI, 1 1 9 sgg.) Glauco, a cui Zeus aveva tolto il senno, offre a Diomede le sue armi d'oro in cambio delle armi di bronzo di quest'ul­ timo. 1 29 I termini greci che indicano in questo passo le virtù sono am�ppoauv11, la temperanza, àvlipeia, la fortezza, �pp6vllatç, l' intelligenza, Kapupia, la fermezza. 13 0 Aiace, figlio di Telamone, era uno dei più forti eroi greci, dotato di uno scudo molto grande (cfr. Omero, Iliade VII, 2 1 9-223); in seguito fu consi­ derato invulnerabile come Ulisse; cfr. Eschilo, fr. 83 Nauck2 , e Pindaro, /stmi­ ca VI, 45-48. 1 3 1 Il passo si riferisce alla conquista di Potidea da parte degli Ateniesi nel­ l'inverno 430-29, in seguito alla ribellione della città, membro della Lega delioattica, al predominio ateniese. La partecipazione di Socrate alla batta­ glia è menzionata anche in Apologia 28 E, Carmide 1 5 3 A-C . '

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Platone I testi - Simposio 1 3 2 Cfr. Omero, Odissea IV, 242. 1 33 Nella battaglia di Potidea. 1 34 Nella battaglia di De lio, combattuta nel 424, gli Ateniesi furono

sconfitti dai Beoti. 1 35 Lachete era un generale ateniese. Attivo in Sicilia nel 426, era poi stato uno degli autori della pace con Sparla nel 42 1 . Morl nel 4 1 8 durante la bat­ taglia di Mantinea. È il protagonista del dialogo omonimo, nel quale loda il coraggio di Socrate nella ritirata di Delio (Lachete 1 8 1 A-B). 1 3 6 È una citazione non letterale delle Nuvole di Aristofane (362). 1 37 Celebre generale spartano, nel 424.

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C ro n o l og i a 388 a.C. ca.

427 a.C. Primo viaggio in Sicilia

Nasce ad Atene -

406 a.C.

387 a.C.

Fine della Guerra

la Pace di

del Peloponneso

Antalcida con­ clude la Guerra di Corinto

Q) (O Q) � N O c

V'l

a.J O

41 3 a.C. ca.

399 a.C.

Nasce a Sinope

Processo e morte

Diogene

di Socrate

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