Più saggi con Lucio Anneo Seneca 9788861906723

"Affido alle mie pagine consigli salutari, come se fossero ricette di medicamenti utili. Ne ho sperimentata l'

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Più saggi con Lucio Anneo Seneca
 9788861906723

Table of contents :
Indice......Page 175
Frontespizio......Page 7
Presentazione......Page 3
Luci Anneo Seneca......Page 9
Ritratto......Page 4
Abbreviazioni......Page 10
Prefazione di Massimo Cirri......Page 11
Prima parte - Affrontate le vostre debolezze......Page 14
I mali di ieri sono i mali di oggi......Page 15
Quando le debolezze prendono il sopravvento......Page 16
Come curare le vostre debolezze......Page 17
Che cos’è la rabbia......Page 19
Una malattia che stravolge corpo e mente......Page 20
Prevenite la rabbia agendo sul corpo......Page 21
Prevenite la rabbia agendo sulla mente......Page 22
Come curare la rabbia......Page 24
Conseguenze della rabbia......Page 25
Che cos’è l’invidia......Page 26
Come prevenire e curare l’invidia......Page 27
Non avete niente da invidiare agli altri......Page 28
Che cos’è l’ambizione......Page 29
Come prevenire e curare l’ambizione......Page 30
Quando lo stress ha un prezzo troppo alto......Page 31
Che cos’è l’avidità......Page 32
Come prevenire l’avidità......Page 33
Come curare l’avidità......Page 34
Che cos’è la lussuria......Page 35
Come curare la lussuria......Page 36
Imparate a riconoscere la gelosia e l’amore nocivo......Page 37
4. Il vero amore non cerca vendetta......Page 38
5. Il vero amore non fa ammalare......Page 39
Come curare la gelosia e i mali d’amore......Page 40
Che cos’è la paura......Page 41
1. Primo esercizio: fai una lista......Page 43
2. Secondo esercizio: dividi le paure in tre gruppi......Page 44
Parole chiave per gestire la paura......Page 46
L’insegnamento del saggio......Page 47
Che cos’è la vera felicità?......Page 48
Primo obiettivo: pieno controllo su voi stessi......Page 49
Secondo obiettivo: vivere il presente......Page 50
La medicina migliore: la ragione......Page 51
Seconda parte. Siate padroni di voi stessi......Page 52
Non conformatevi......Page 53
Smettete di mentire......Page 54
Che cosa volete davvero?......Page 55
Primo passo: fate pace con voi stessi......Page 57
Secondo passo: imparate a stare bene da soli......Page 58
Terzo passo: ritagliatevi momenti solo per voi......Page 59
3. Fermati: quale senso hanno le tue azioni?......Page 61
4. Fissa un obiettivo chiaro a cui tendere......Page 62
La vostra meta è stare bene: fate passi ⠀愀渀挀栀攀 瀀椀挀挀漀氀椀猀猀椀洀椀) ogni giorno......Page 64
Fate un check-up quotidiano......Page 65
Imparate a credere in voi......Page 67
Le difficoltà sono tutte nella vostra testa......Page 69
Siete ancora distanti dalla libertà?......Page 70
Che cos’è la libertà?......Page 71
Come impossessarsi della libertà......Page 72
Terza parte. Fatevi guidare dal destino......Page 73
Prendete bene la mira......Page 74
Non potete controllare tutto ⠀昀愀琀攀瘀攀渀攀 甀渀愀 爀愀最椀漀渀攀)......Page 75
Imparate a essere flessibili......Page 76
Guardate gli imprevisti con altri occhi......Page 78
Suggerimenti per superare le difficoltà......Page 79
Periodaccio? Ne avete vissuti di peggiori......Page 80
Il lato positivo delle difficoltà......Page 81
Ricordatevi che non siete soli......Page 82
Non isolatevi......Page 83
Non ingigantite i problemi......Page 84
Applicate solo i vostri parametri......Page 85
Imparate a vedere di cosa avete davvero bisogno......Page 86
E ora circondatevi solo di quello......Page 88
Il superfluo è una droga......Page 90
L’importante è imparare a non farne un dramma......Page 91
Non prendetevi troppo sul serio......Page 92
3. Non metterti allo stesso livello......Page 93
Prendete a esempio l’autoironia degli antichi......Page 94
Quarta parte. Vivete intensamente......Page 95
Fate del tempo che scorre un alleato......Page 96
La vita è breve ma essenziale......Page 97
Imparate a utilizzare il tempo al meglio......Page 98
Pensate a come e quando sprecate il tempo......Page 99
Decidete cosa fare ora per ora......Page 100
Esercizio pratico: stilate una lista......Page 102
Smettete di temere la vecchiaia......Page 103
Come arrivare preparati alla vecchiaia......Page 104
Anche se il corpo decade, l’animo migliora......Page 105
La saggezza arriva con l’età......Page 106
Gli altri sono sempre un valido antidoto......Page 107
Seneca da sempre convive con la malattia......Page 108
È utile guardare la morte da vicino......Page 109
Davanti ai dolori acuti, il corpo si anestetizza......Page 111
Il corpo accetta di rinunciare al superfluo......Page 112
Non lamentatevi e la sofferenza diminuirà......Page 113
I mali passati sono passati, non commiseratevi......Page 114
State con chi vi fa stare bene......Page 115
Coltivate l’animo anche se il corpo si ammala......Page 116
La morte esiste......Page 117
Accettate la morte e imparerete a vivere bene......Page 118
Considerate la morte un processo......Page 119
Rendetevi padroni del vostro tempo......Page 120
La differenza tra passare il tempo e vivere......Page 121
Distinguete lo stare in vita dal vivere......Page 123
Quando a morire sono i nostri cari......Page 124
Allenate la tranquillità......Page 126
Primo esercizio: ricordatevi che siete umani......Page 127
Secondo esercizio: stilate una lista......Page 128
Terzo esercizio: imparate a dire no......Page 129
Quarto esercizio: mantenetevi saldi......Page 130
3. Scegli bene i compagni di viaggio......Page 131
Sesto esercizio: non mentitevi......Page 133
Gli altri sono fondamentali......Page 134
Ancora più essenziali gli amici......Page 135
Quinta parte. Usate i vostri punti forti......Page 136
Individuate la vostra missione......Page 137
Smettete di trovare giustificazioni......Page 138
Primo esercizio: le visualizzazioni negative......Page 139
Secondo esercizio: cambiate punto di vista......Page 140
Se fosse solo questione di pigrizia?......Page 141
Che cos’è la felicità?......Page 142
E dove si trova?......Page 143
Cercatela con i giusti strumenti......Page 144
Cos’è questa cosa chiamata virtù?......Page 145
1. Autonomia, detta anche prudenza......Page 146
2. Giustizia, detta anche onestà......Page 147
3. Coerenza, detta anche tenacia......Page 148
4. Libertà, detta anche temperanza......Page 150
Generosità e gratitudine: le due parole chiave......Page 151
Gli oggetti, la base della fragilità......Page 152
Doniamo: la ricchezza verrà raddoppiata......Page 153
L’importanza di dire grazie......Page 154
E lasciate perdere se non vi viene detto!......Page 155
Il bene torna indietro......Page 156
La vera ricchezza? Gli altri!......Page 157
Non siete isole......Page 159
3. Scegli gli amici con attenzione......Page 160
5. Curane la crescita e goditi i frutti......Page 161
Una ricetta per tutti......Page 163
Pillola 1: Non possedere più del necessario......Page 164
Pillola 2: Allenare la mente......Page 165
Pillola 3: Prendere per mano il destino......Page 167
Pillola 4: Diventare bravi amministratori......Page 169
Pillola 5: Liberarsi dalle catene......Page 170
La felicità è del saggio, il saggio è felice......Page 171
Postfazione di Matteo Nucci......Page 172

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Presentazione Noi tutti vogliamo essere felici, ma per essere felici dobbiamo per prima cosa tenere a bada le nostre angosce, guardare la realtà e poi accettarla con serenità o con altrettanta serenità cercare di cambiarla. In una parola per essere felici dobbiamo diventare saggi. Se c’è uno che di saggezza se ne intende quello è Seneca: tanti gli insegnamenti che sono disseminati in tutti i suoi scritti e distillati in Più saggi con Seneca: un frizzante vademecum con esempi pratici, pillole di benessere, suggerimenti per stare bene. Il vocabolario di Seneca è quello di un vero personal trainer dell’anima: l’uomo deve infatti essere allenato per affrontare il mondo nella sua interezza proprio come “chi impara a tirar d’arco” che in un primo tempo mira sì “a un bersaglio prefissato e addestra la mano a dirigere i dardi che dovrà scagliare” ma “quando con l’apprendimento e l’esercizio ha acquisito tale abilità, li utilizza per lanciarli dove vuole”. Per stare bene da subito con suggerimenti antichi ma modernissimi, un farmaco senza data di scadenza da assumere in gocce o bere tutto d’un fiato, per conoscere noi stessi, vivere meglio o addirittura essere felici. Ilaria Rodella nasce a Mantova, nel 1984. A Milano, consegue una laurea in Filosofia ermeneutica con una tesi sul concetto di continuum; a New York conduce una ricerca, nelle sezioni didattiche di alcuni musei (dal Metropolitan al Moma, passando per il Children Museum di Brooklyn), qui approfondisce i metodi della didattica dell’arte e si convince che anche i concetti difficili possono essere resi comprensibili a tutti. Da questa esperienza, insieme a Francesco Mapelli, fonda i Ludosofici, laboratori di filosofia per bambini, e tiene laboratori nelle scuole, nelle biblioteche, nelle librerie, al Museo Poldi Pezzoli e al Museo della Scienza e della Tecnica di Milano, Mart di Rovereto, Mambo di Bologna, al Festivaletteratura di Mantova e al Festival della Mente di Sarzana. Nel 2014, con l’editore Corraini, pubblica Tu chi sei? Manuale di filosofia, domande ed esercizi per bambini e adulti curiosi. Da altre esperienze nascono Stella e Matilde, da cui nascono nuove domande da cui nasce anche questo libro.

www.chiarelettere.it facebook.com/chiarelettere @chiarelettere www.illibraio.it © Chiarelettere editore srl Soci: Gruppo editoriale Mauri Spagnol S.p.A. Lorenzo Fazio (direttore editoriale) Sandro Parenzo Guido Roberto Vitale (con Paolonia Immobiliare S.p.A.) Sede: Via Guerrazzi, 9 – Milano ISBN 978-88-6190-672-3 Progetto grafico di copertina: David Pearson www.davidpearsondesign.com Fotocomposizione: Compos 90 S.r.l - Milano www.compos90.it Prima edizione digitale 2014 Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

PIÙ SAGGI CON LUCIO ANNEO SENECA

Lucio Anneo Seneca (4 a.C.-65 d.C.)

Nato a Cordova – capitale della Spagna Betica, una delle più antiche colonie romane fuori dal territorio italico – nel 31 viene introdotto a Roma presso la corte di Caligola. Intraprende la carriera forense, ma prima si allontana i favori dell’imperatore a causa di un’orazione, poi – coinvolto in un intrigo di corte – viene esiliato in Corsica. Nel 49 l’imperatore Claudio lo richiama dalla Corsica e Agrippina gli affida l’educazione del figlio Domizio (il futuro Nerone). Assunto al trono Nerone nel 54, Seneca cerca di guidarne la politica, ma la lotta che si scatena tra la madre Agrippina e il figlio non riesce a essere controllata dal maestro. Nel 62 Seneca decide di ritirarsi a vita privata; trascorre gli ultimi tre anni di vita nello studio e nella meditazione, cercando di assolvere nel silenzio del ritiro quel dovere di filosofo stoico che aveva perseguito anche, ma senza successo, nella politica e nella società. Scoperta nel 65 la congiura di Pisone, Seneca è denunciato come complice e si dà la morte.

Abbreviazioni

Cons. ad Helv. = Consolatio ad Helviam matrem, Consolazione alla madre Elvia Cons. ad Marc. = Consolatio ad Marciam, Consolazione a Marcia Cons. ad Pol. = Consolatio ad Polybium, Consolazione a Polibio De ben. = De beneficiis, Sui benefici De brev. vit. = De brevitate vitae, Sulla brevità della vita De const. sap. = De constantia sapientis, Sulla fermezza del saggio De ira = De ira, Sull’ira De otio = De otio, Sulla vita ritirata De prov. = De providentia, Sulla provvidenza De tranq. an. = De tranquillitate animi, Sulla tranquillità dell’animo De vita beata = De vita beata, Sulla felicità Ep. = Epistulae morales, Lettere a Lucilio Herc. Oet. = Hercules Oetaeus, Ercole Eteo Med. = Medea, Medea Phae. = Phaedra, Fedra

Prefazione di Massimo Cirri Seneca soffriva d’asma, è appurato. Scrive di «un attacco brevissimo e simile a una tempesta. Finisce per lo più nel giro di un’ora: e chi mai potrebbe resistere di più senza respirare?» (Epistulae ad Lucilium, VI, 54, 1-4). Ci sono poi indizi di una salute cagionevole fin dall’adolescenza: «La mia giovinezza sopportava agevolmente e quasi con spavalderia gli accessi della malattia. Ma poi dovetti soccombere e giunsi al punto di ridurmi in un’estrema magrezza» (Epistulae ad Lucilium, VIII, 78, 1-2). Così tocca immaginarlo, Lucio Anneo Seneca, maestro del pensiero, come un bambino un po’ malaticcio, probabilmente rincorso dalle preoccupazioni della mamma. L’apprensiva madre italiana, si sa, discende direttamente dalla romana mater ansiosissima. Poi eccolo ragazzino delicato e gracile, infine adulto che si confronta con le fragilità del corpo inseguendo medicamenti e rimedi. Fino a passare molti anni in Egitto per curare con il clima secco le crisi di asma che non smettono di tormentarlo e la bronchite diventata cronica. Ne approfitta, di quel periodo sulle rive del Nilo, per confrontarsi con una cultura distante e una religione differente, ampliando la visione del mondo e delle cose. Ne tornerà più dotto, con idee sulle libertà civili così innovative che Roma ne resterà abbagliata e con una capacità oratoria ancor più brillante, ma laggiù tra le piramidi, lontano da casa molto più di quanto possiamo noi oggi riuscire a immaginare, Seneca non c’è andato per un Erasmus, ci è finito per curarsi. Così viene da pensare, e questa è una illazione, che l’immensa capacità di Seneca nell’indagare, descrivere, intrecciare e poi distinguere, mettere in ordine senza ridurle, restituendo sempre alla dimensione umana le umane cose, c’entra un po’ con le sue malattie e le sue fragilità. Forse un bel po’. Sappiamo che una malattia pesante, di quelle che interrogano sulla vita e i suoi limiti, lascia in chi l’ha attraversata una diversa visione di sé e degli altri. Molti la descrivono come una sterzata brusca, un prima e un dopo, uno stop prima di ripartire, un ri-pensarsi. Ed è un pensiero, quello della malattia, che ritorna. Con timore (A ripensarci mi vengono i brividi), incredulità (A ripensarci non mi sembra vero ) o stupore (Non lo so neanch’io, ripensandoci, come ho fatto a uscirne). Altri preferiscono smettere di pensarci: allontanarsi un po’, dimenticare. Che è pure questo molto molto umano. Ma ri-pensarsi,

provare a pensare meglio i propri pensieri, alla fine conviene sempre. Mi pare ci insegni questo Lucio Anneo Seneca, ex bambino di debole costituzione: o ci pensi, ai tuoi pensieri, o loro si prenderanno te. Ne diventi preda. Perché non è un caso se nella nostra lingua pensiero sta per riflessione, meditazione, idea, concetto, giudizio e quindi mente e intelligenza. Ma con la stessa parola declinata al p l u r a l e , pensieri, indichiamo anche preoccupazioni, ansie, inquietudine e timori, angosce, assilli che ritornano, incubi a occhi aperti, fisime e paturnie. Brutti pensieri. Quindi pensare ai propri pensieri. Entrarci dentro piano piano, poco alla volta se non siamo abituati a farlo e all’inizio vien paura. Succede uguale quando si entra in mare, l’acqua è freddina e la pancia si contrae e tu ti tiri sù sulle punte dei piedi. Ma poi trovi il coraggio, ne serve poco, e ti tuffi. Con un brivido che è anche di piacere: si può sguazzare nel mare dei nostri pensieri, gioiosamente. Nuotarci, abbandonarsi alla corrente e farsi portare: ricordi belli, timori, paure tante, isole di debolezza, spiagge di vergogna. Ma sempre meglio fare il bagno che restare seduti sulla riva, a guardare il fiume della nostra vita che scorre comunque. Senza provare a nuotarci dentro. C’è il rischio di andare qualche volta sotto e sentirsi soffocare, è vero, perdere di vista le sponde, rimanere impantanati in qualche secca o farsi travolgere dalla corrente. Ma si può fare. Per uscire dalle metafore acquatiche e tornare sulla terra: le nostre città sono piene di palestre, villaggi fitness e centri benessere. Vi si fanno tutte le ginnastiche del corpo per tenerlo in salute, bello e tonico. Mancano invece luoghi dove fare ginnastica della mente e delle emozioni, provare a sciogliere i sentimenti, riscaldare le passioni, fare esercizi sulle nostre umane debolezze e rinforzarle. Perché? Un po’ per il modello di sviluppo che ci è capitato, dove la solitudine serve a consumare di più. Ma le merci non ci sfamano davvero. Quindi meglio cominciare a fare ginnastica dei sentimenti e dei pensieri in casa – Seneca è un ottimo personal trainer – e poi uscire e iscriversi a una qualsiasi palestra della mente. A me vengono in mente i tanti gruppi di self help, dove le persone che hanno una questione che interroga la vita si trovano in un’aula di biblioteca o all’oratorio, per scambiare informazioni ed emozioni. Più le seconde delle prime e tutto a costo zero. Ma ci sono tante altre di palestre delle emozioni. Basta andare in giro a cercarle, con Seneca sottobraccio come una

baguette.

Prima parte

Affrontate le vostre debolezze

Come vincere le vostre debolezze con Seneca

I mali di ieri sono i mali di oggi Denaro, fama e ambizione sembrerebbero essere i mali tipici dell’uomo di oggi, invece, leggendo Seneca, ci accorgiamo che affliggevano già i suoi contemporanei. Anche noi, come loro, siamo allettati da beni appariscenti ma ingannevoli, e noi, ancora più di loro, soffocati dal trionfo del consumismo e dalla paura del vuoto, rincorriamo falsi desideri individuali. Denaro, posizione sociale, potere, passioni intense ma di breve durata ci ingannano perché «si ottengono con fatica, si guardano con invidia, finiscono per schiacciare quelli stessi che se ne fregiano; sono più una minaccia che un vantaggio; sono labili e incerti, e mai il loro possesso è tranquillo: anche a prescindere da ogni timore per l’avvenire, la stessa conservazione di una grande fortuna è genera ansia» (Cons. ad Pol., 9, 5-6). Seneca paragona la nostra esistenza al mare e alla sua imprevedibilità: le bonacce si alternano alle tempeste, le basse maree alle alte, il mare è tanto fonte di nutrimento quanto di morte improvvisa: «Tuffati in questo mare profondo e agitato dall’altalena delle maree, che ora ci solleva di colpo ora ci precipita ancora più in basso e non ci lascia un attimo di pace, non poggiamo mai il piede su terreno fermo, siamo sospesi e fluttuanti e sbattuti l’uno contro l’altro» (Ep., IV, 39, 5). Certo, è inutile restare sulla riva, ma spesso, invece di appigliarci al salvagente della ragione, ci lasciamo trascinare ancor di più dall’imprevedibilità delle passioni descritte come i peggiori nemici dell’uomo: rabbia, ambizione, sete di potere, invidia, avidità inevitabilmente oltrepassano i limiti stabiliti dalla natura diventando fatalmente smisurate e incontrollabili. A volte invece non abbiamo il coraggio di buttarci in mare e nuotare, immobilizzati dalla paura: quella di non trovare un lavoro perché c’è la crisi, paura del diverso, del vuoto, di non essere all’altezza, di restare soli.

Quando le debolezze prendono il sopravvento Le passioni incontrollate e la paura che immobilizza sono mali che indeboliscono l’uomo, ieri come oggi. Seneca descrive le passioni come vere e proprie malattie dell’anima che spingono l’uomo a compiere azioni terribili le cui conseguenze si abbatteranno sugli stessi colpevoli. Ancor peggio, le paragona a droghe che assuefanno i sensi di chi ne fa uso, i quali giungono persino ad amare il proprio male (vedi Ep., IV, 39, 6). Quante volte anche noi non siamo stati in grado di spegnere il cellulare e di rimandare la lettura delle mail, appellandoci a un apparente senso di responsabilità? E, presi dall’ambizione, ci siamo lasciati andare a vuote fantasie in cui facevamo le scarpe al collega fastidioso o ricevevamo immeritati scatti di stipendio e di carriera. A tal proposito Seneca ci ammonisce dicendo: «L’uomo moderato trova nella natura il suo limite, mentre le vuote fantasie che nascono dalle passioni sono sconfinate» (Ep., IV, 39, 5). O ancora, accecati dalla gelosia verso il nostro compagno, non abbiamo voluto ascoltare ragioni, alimentando un insano istinto di vendetta che cresceva man mano che la ragione veniva relegata in un angolo buio dell’animo. Insomma, il vortice delle passioni è inarrestabile e si autoalimenta del male che produce, impedendo all’uomo di moderarsi. Tant’è che Seneca scrive: «Se non siamo capaci d’impedire alle passioni di nascere, non saremo neppure capaci di moderarle: una volta che abbiamo permesso loro di nascere, cresceranno con le cause che le produssero e acquisteranno quella forza che riceveranno dalle cause stesse» (Ep., XI, 85, 12). E spesso lo fa poi sprofondare nella tristezza o nell’apatia. Altrettanto pericoloso il contrario delle passioni, la paura: «Se quelle ci inducono ad attaccare, questa ci spinge a fuggire» (De ira, II, 3). Per Seneca, è naturale che l’uomo abbia paura, ma deve riuscire a non farsi accecare e affrontarla, in modo che non gli impedisca di vivere: in palio c’è la vita stessa.

Come curare le vostre debolezze Appelliamoci alla ragione, prendiamo tempo e non lasciamoci ingannare dalla forza delle passioni. Impariamo a conoscerle meglio e vederle per cosa sono realmente. Apriamo gli occhi e rendiamoci conto che la loro è solo una bellezza apparente e del tutto momentanea: l’uomo che agisce in preda all’istinto prima o poi cadrà sotto il peso delle proprie azioni che nulla hanno di sublime o di alto: «Tutti coloro che l’animo folle esalta al di sopra degli umani pensieri, credono di spirare un non so che di alto e di sublime: ma sotto non c’è nulla di solido, e le costruzioni che non hanno fondamenta sono pronte a franare» (De ira, I, 20). Sempre grazie allo strumento della ragione, guardiamo in faccia le nostre paure. Dividiamole in due gruppi: quelle nostre e quelle indotte dall’esterno. A q uesto punto, mettiamo le nostre paure sotto la lente d’ingrandimento della ragione: distingueremo le paure dai semplici problemi del vivere quotidiano che, se affrontati con gli strumenti adeguati, saranno del tutto risolvibili. Facciamolo seguendo le parole di Seneca e gli esercizi che lo stoicismo ci suggerisce. Purtroppo, l’istinto di animi esaltati ha portato e, tuttora porta, alla rovina interi popoli. Si pensi alla guerra per antonomasia, la guerra di Troia, scatenata dall’invidia tra due dee, dalla passione di un uomo per la bellezza di una donna e dalla rabbia di un popolo in cerca di vendetta. Per dieci anni, due popoli hanno combattuto una guerra che, nata da passioni banalmente umane, ha portato morte e distruzione: schema che si è ripetuto invariato di generazione in generazione. Una soluzione però ci sarebbe: soffocare sul nascere le passioni di qualsiasi natura esse siano, non dare loro ossigeno perché, come braci a una prima folata di vento, potrebbero riaccendersi e propagarsi nel nostro animo: «Ed è facile cogliere le proprie passioni non appena sorgono; i sintomi dei mali arrivano in anticipo. Come prima d’una tempesta e d’una pioggia ne arrivano gli indizi, così ci sono dei segnali premonitori dell’ira, dell’amore e di tutte queste burrasche che sconvolgono l’animo» (De ira, III, 10). Seneca è però ottimista e crede nella forza della ragione, tant’è che scrive: «Eppure nulla è tanto difficile e arduo che la mente umana non lo superi e il continuo allenamento non ce lo renda familiare, e nessuna passione è tanto selvaggia e indipendente da non essere

completamente domata dall’educazione» (De ira, II, 12). È convinto che noiuomini, dotati dalla natura di quello strumento straordinario che è la ragione, se avremo la fermezza di allenarci e di seguire con costanza i suoi insegnamenti e consigli, avremo anche la possibilità di piegare questi vizi così umani al nostro volere e di controllare le paure, permettendo alla ragione di tenere il comando. E l’idea di Fedra, secondo cui la ragione nulla può contro il furore che la forza a seguire il peggio, viene con forza respinta da Seneca: solo la ragione può procurare beni, «solidi e duraturi, che non possono perire, né decrescere, né affievolirsi. Tutti gli altri sono beni apparenti» (Ep., VIII, 74, 16).

Come gestire la rabbia

Che cos’è la rabbia Cos’è la rabbia e come la si cura? Seneca le dedica un dialogo, il De ira, sviluppato in tre libri e destinato al fratello Novato. Si tratta di una vera e propria malattia, che attacca l’uomo, forse la più pericolosa (vedi De ira, I, 1) e come tale la affronta: Seneca fa una diagnosi attenta, sviscerando le cause palesi e quelle latenti, registrando sintomi e fenomenologie, e quindi propone alcune terapie. Innanzitutto la rabbia è un’affezione che stravolge l’uomo, accecandolo e allontanandolo dalla sua vera natura: «Nessun essere, più dell’uomo, ama il prossimo, e nulla è più ostile dell’ira. L’uomo è nato per darsi reciproco aiuto, l’ira mira alla rovina; egli vuole vivere in comunità, essa starsene isolata; l’uno giovare, l’altra nuocere; l’uno portare aiuto anche agli sconosciuti, l’altra aggredire persino le persone più care; l’uno è pronto addirittura a sacrificarsi per il bene altrui, l’altra è pronta a scendere in campo, pur di trascinare giù altri» (De ira, I, 5). E non cadiamo, come Aristotele, nell’illusione che sia in qualche modo di incitamento all’azione, che sproni l’animo: la rabbia è del tutto inutile e tutti i benefici che procura sono illusori ed effimeri. La natura dell’uomo, infatti, è volta al bene e alla solidarietà comune – «Che cosa c’è di più mite dell’uomo, quando la sua mente persevera nel giusto?» (De ira, I, 5), mentre la rabbia gli toglie lucidità, spingendolo a infliggere il male in chi gli sta accanto – «L’ira, come ho già detto, è tutta protesa a esigere il castigo, e (come tale) è un desiderio nefasto che, per natura, non può di certo albergare nel candido e pacifico cuore dell’uomo» (Ibidem) –, che sia stata mossa un’ingiuria reale, o sia stata solo sospettata (De ira, II, 1).

Una malattia che stravolge corpo e mente Capiamo che la rabbia è una malattia perché come una malattia stravolge i lineamenti dell’uomo: «Ora pallido per il sangue che refluisce all’interno, ora rossastro e sanguigno, perché tutto il caldo e l’eccitazione si riversano sul volto, con le vene turgide, con gli occhi ora inquieti e fuori dell’orbita, ora fissi e immobili nello sguardo; [...] il respiro affannoso e i gemiti tratti dal profondo, il corpo vacilla, le parole incerte per urli improvvisi, le labbra tremanti e talora sigillate, che emettono sibili sinistri» (De ira, III, 4). L’uomo in preda alla rabbia è inquietante e ridicolo, lo era nella Roma di Seneca e lo è oggi: pensiamo a quelle signore, magari distinte ed eleganti, che vediamo camminare per strada urlando al cellu-lare improperi che farebbero impallidire anche gli ultras durante un derby. La rabbia non solo ci rende ridicoli ma ci spinge anche a commettere azioni ridicole e inutili: quante volte abbiamo dato un calcio alla sedia contro cui eravamo andati a sbattere? O abbiamo scaraventato via il libro «perché scritto in caratteri troppo piccoli [...], quanto è stolto arrabbiarsi con questi oggetti che non hanno meritato la nostra ira e non la possono avvertire!» (De ira, II, 26).

Prevenite la rabbia agendo sul corpo Ma «vediamo ora come la si può guarire» (De ira, II, 18). Seneca mette a fuoco due soluzioni, ovvero la prevenzione e, se questa non basta, una possibile cura: «Dobbiamo badare a non cadere in preda a essa e a non peccare in stato d’ira» (Ibidem). Innanzitutto prevenire. Ci sono soggetti inclini alla rabbia per natura, altri che si fanno sopraffare dall’ira a causa di una malattia o della stanchezza. E Seneca ha ricette valide per gli uni e per gli altri: si possono evitare gli attacchi di rabbia «limitando il vino» (De ira, II, 19), evitando l’eccesso di cibo, perché «il corpo ingrasserà e col corpo si gonfierà anche l’animo» (De ira, II, 20); non eccedendo con l’attività sportiva «si allenino con fatica senza arrivare alla spossatezza» (Ibidem), mentre «gioveranno anche i giochi, poiché un moderato piacere conferisce all’animo distensione ed equilibrio» (Ibidem). Quindi, moderare cibo e alcol; sport sì, ma senza eccedere.

Prevenite la rabbia agendo sulla mente Tuttavia, se è utile tenere sotto controllo il corpo, è fondamentale frenare la mente, perché lo scatto d’ira parte proprio da lì. Come fare? Per prevenire l’accecamento della ragione, dobbiamo mettere a fuoco quali sono le situazioni che ci fanno arrabbiare e tenercene alla larga. Innanzitutto, prima che agli altri, dobbiamo fare attenzione a noi stessi. Se è vero che a volte è «l’ira che viene da noi, è altrettanto vero che più spesso siamo noi che le andiamo incontro» (De ira, III, 12). E quali sono le situazioni nelle quali incappiamo o, meglio, i trabocchetti che noi stessi ci tendiamo? Evitiamo anche di lasciarci influenzare dalle calunnie e di credere alle maldicenze, ovvero evitiamo di prendere per buono tutto quello che sentiamo dire, soprattutto sul nostro conto e su quello delle persone a noi care. Non dobbiamo credere di «aver ricevuto un torto» (De ira, II, 22) se non ne abbiamo le prove, e arrabbiarci contro colui che ci dicono avere parlato male di noi «poiché certe menzogne hanno apparenza di vero [...] Non prestiamo orecchioai maldicenti: è un vizio dell’umana natura credere volentieri a ciò che si ascolta malvolentieri» (De ira, II, 22). Meglio ancora sarebbe evitare proprio di ascoltare le maldicenze e fare come fece «il grande Cesare, che vinta la guerra civile si valse della vittoria con grande clemenza: scoprì gli scrigni delle lettere spedite a Pompeo da coloro che sembravano aver militato nel partito opposto [...] e li bruciò. Benché fosse solito tenere l’ira sotto controllo, preferì non avere l’occasione di adirarsi» (De ira, II, 23). Evitiamo di lasciarci influenzare dai sospetti: «Il colmo è che ci lasciamo influenzare non solo dalle calunnie, ma anche dai sospetti, diamo interpretazioni malevole a uno sguardo e a una risata altrui e ci arrabbiamo con chi non ha colpa» (De ira, II, 22). Pensiamo a tutte le volte che ci siamo arrabbiati perché abbiamo sospettato il falso, alimentando il nostro senso di insicurezza, o perché abbiamo dato troppo peso a cose di poco conto. Quante volte la dimenticanza di un compleanno da parte di un caro amico ci ha fatto infuriare, facendoci scordare tutte le volte che, invece, era lì a darci conforto in un momento difficile? E quante volte ancora abbiamo rimuginato su fatti che, a posteriori, non avevano alcuna rilevanza: «Quel tale mi ha salutato con poca cortesia; colui non ha ricambiato il

mio bacio; l’altro ha troncato di colpo ciò che stava dicendo; un altro non m’ha invitato a cena; lo sguardo di un altro ancora mi è parso un po’ ostile» (De ira, II, 24). Dicerie, sospetti... Ma cosa succede se effettivamente ci è stato fatto un torto e ne abbiamo le prove? Come mantenere il controllo di noi stessi se «di alcuni fatti siamo testimoni»? (De ira, II, 30). L’unico modo è ripeterci che, come gli altri stanno oggi sbagliando, magari anche noi tante volte abbiamo sbagliato: «Alcuni reati li abbiamo commessi, altri pensati, altri desiderati, altri incoraggiati; in certi casi siamo innocenti perché le cose non sono andate come avremmo voluto. Riflettiamo su questo, mostriamoci benevoli con chi sbaglia» (De ira, II, 28).

Come curare la rabbia E se tutto questo non basta? Se l’ira ci assale? Se non riusciamo a prevenire, allora passiamo a curare. Seneca offre la cura nel secondo libro, all’inizio del paragrafo 29: «La cura più efficace contro l’ira sta nel prendere tempo». Forse ci calmeremo, forse no, ma certo prendendo tempo limiteremo i danni e magari riusciremo a prendere le cose dal lato buono, perché «al sospettoso non mancheranno mai indizi mentre invece dobbiamo essere schietti e considerare le cose dal lato buono» (De ira, II, 24). Quindi, qualunque sia il motivo per cui ci siamo arrabbiati, prendiamoci del tempo perché non c’è cura più efficace contro l’ira che «la dilazione in modo che si plachi il suo primo bollore, e si dissolva o sia meno fitta la nebbia che offusca la mente. Per riprendere possesso di noi stessi non servirà tanto tempo, basterà anche una sola ora» (De ira, III, 12). Se prendiamo tempo, possiamo evitare di commettere azioni di cui potremmo pentirci. A monito, Seneca ci riporta un episod io in cui Platone, invece di punire direttamente lo schiavo che aveva disubbidito, chiede a un amico di farlo al suo posto: «Non lo frustò proprio per quella ragione per cui un altro lo avrebbe frustato. “Sono arrabbiato,” disse “farò più del dovuto, lo farò troppo volentieri: questo schiavo non sia in potere di chi non è padrone di se stesso.” Vorrà q ualcuno affidare a una persona adirata il compito di punire, visto che Platone rinunciò di proposito alla suaautorità? Nulla ti sia consentito mentre sei adirato. Perché? Perché vorresti che tutto ti fosse consentito» (Ibidem).

Conseguenze della rabbia La rabbia acceca e ha conseguenze nocive: «La tristezza è compagna dell’iracondia, e ogni forma d’ira si risolve in essa, sia dopo il pentimento sia dopo l’insuccesso» (De ira, II, 6). La rabbia porta sempre con sé tristezza: aver offeso il collega, aver sgridato eccessivamente il figlio, aver detto parole che non si pensano al marito, sono tutte cose di cui, presto o tardi, ci pentiremo e il pentimento porta sempre con sé tristezza, malessere e senso di colpa. Ancora una volta, quando stiamo per arrabbiarci, ricordiamoci di respirare e contare a lungo prima di fare e dire qualsiasi cosa anche solo, egoisticamente, per non dover combattere poi anche con il rimorso. E di fronte a qualsiasi avversità che in qualsiasi modo ci irrita, ripetiamo come un mantra queste parole di Seneca: «Lotta con te stesso: se vuoi vincere l’ira, essa non può vincere te» (De ira, III, 13).

Come gestire l’invidia

Che cos’è l’invidia «Se uno è stato più generoso con un altro, dobbiamo gioire di quanto abbiamo avuto senza fare confronti, poiché non sarà mai felice chi si struggerà per la maggior felicità di un altro.» Così Seneca ci presenta l’invidia, nel De ira (III, 30), il male che sempre ci fa sentire insoddisfatti e ci avvelena l’esistenza. Chissà se alcuni grandi delitti della storia, come i fratricidi di Abele e Remo, si sarebbero evitati se Caino e Romolo avessero incontrato sul loro cammino un Seneca pronto a ricordar loro questa massima di saggezza. Senza arrivare ai delitti archetipici sopra citati, spesso questo sentimento insidioso e biforcuto si insidia nei nostri pensieri e, per quanto si cerchi di tacitarlo, è davvero difficile estirparlo. Il confronto con gli amici, con fratelli o sorelle, con conoscenti diventa spesso motivo di riflessione sulla nostra condizione attuale, costellata tanto di successi quanto di insuccessi. Una separazione, un dissesto finanziario, un lavoro inferiore rispetto alla nostra preparazione, uno stipendio modesto: solo alcuni fra i tanti motivi che ci potrebbero far riflettere sulle nostre capacità, sulla nostra vita, sulle possibilità che il destino ci ha offerto, sulle occasioni avute e non sfruttate pienamente.

Come prevenire e curare l’invidia Seneca ci invita però a non desiderare «che uno diventi infelice e a provare gioia per i mali della sorte» (De ira, III, 5). Un esercizio utile per sedare quest’arma «perniciosa che rende doppiamente infelice colui che è invidiato e che, a sua volta, invidia» (Ep., XI, 84, 11) è quello di ripassare le basi della matematica. Sì, avete capito bene, la cura sta nella matematica: spesso il nostro difetto maggiore è quello di sbagliare i conti perché stimiamo molto quello che hanno gli altri e poco ciò che riceviamo. Tant’è che Seneca scrive: «Chi guarda alla roba altrui non è mai soddisfatto della sua; per questo ce la prendiamo anche con gli dèi se qualcuno ci precede, dimenticandoci che molta gente viene dopo di noi, e che chi invidia i pochi che precedono ha alle spalle tanta gente che invidia lui. Tuttavia l’insaziabilità umana è tanto grande che, per molto che ci sia stato dato, l’aver potuto ricevere di più diventa un torto subìto» (De ira, III, 31).

Non avete niente da invidiare agli altri Stupidi, invece, se invidiamo qualcuno per il maggiore benessere economico o la più elevata posizione sociale: rispetto a loro godiamo della libertà e del tempo, le uniche vere ricchezze di cui possiamo godere. Lo stesso Seneca scrive: «Esamina tutte le giornate di costoro, osserva il tempo che impiegano a far calcoli, a studiare inganni, a temere, a dare e ricevere onori, a impegnarsi a comparire in processo per sé e per altri, a banchettare, perché i banchetti, a quel punto, diventano dei doveri: constaterai che le loro attività, buone o cattive che siano, non concedono loro respiro» (De brev. vit. , 7, 2). E a questo aggiunge: «“Avrai meno danaro.” Sì, ma anche meno molestie. “Diminuirà il tuo prestigio.” Sì, ma anche l’invidia. Considera attentamente tutti codesti beni che ci fanno perdere la sanità mentale, e che tuttavia non sappiamo lasciare senza piangere: ti accorgerai che non ci affligge il danno in sé, ma la falsa opinione di soffrire un danno» (Ep., V, 42, 9). Arrendiamoci: l’invidia nasce dalla nostra incapacità di fare i conti in quanto diamo valore a cose che, in realtà, non ne hanno. E infine ricordiamoci che «gli uomini che sono invidiati per il loro successo presto scompaiono dalla scena; alcuni saranno abbattuti, altri cadranno. La prosperità non dà mai pace, si agita da sé. Essa sconvolge il cervello in vari modi: suscita negli uomini passioni diverse: in questi il desiderio di potenza, in quelli la lussuria: gonfia gli uni di orgoglio, rammollisce e snerva completamente gli altri. “Ma” dirai “c’è qualcuno che sopporta bene la sua fortuna.” Sì, come si sopporta bene il vino. Non lasciarti convincere da costoro che sia felice chi è assediato da molti: accorrono a lui come si va ad attingere a una fonte, finché s’inaridisce o s’intorbida» (Ep., IV, 36, 1-2).

Come gestire l’ambizione

Che cos’è l’ambizione All’inizio del De ira, tra i vizi più turpi che sconvolgono l’animo umano, Seneca cita anche l’ambizione, la smania di avere sempre più, che lascia sempre insoddisfatto chi ne è attanagliato: «Non le bastano le cariche annuali; se fosse possibile vorrebbe che le liste dei magistrati recassero solo il suo nome, che il mondo intero fosse pieno delle sue iscrizioni onorifiche» (De ira, I, 21). La vita sarebbe lunga ma diventa breve e insopportabile se permettiamo all’ambizione di logorarci, così nel De brevitate vitae, nell’elenco di quegli individui che la vita non se la vivono bene per niente cita anche loro, i malati di ambizione: «Uno è stressato dall’ambizione, che dipende sempre dai giudizi altrui [...] Questo corre dietro a quello, quello a quell’altro, nessuno appartiene a se stesso» (De brev. vit., 2, 4). Non importa quante vette abbiamo toccato o quanti obiettivi prefissati abbiamo raggiunto, se ci facciamo dominare da questa passione, ci sentiamo sempre gli occhi degli altri puntati addosso e non c’è successo che ci appaghi: anzi, più riceviamo più vogliamo. Tuttavia, bisogna fare una distinzione. C’è un’ambizione sana, che Seneca definisce «naturale», e una malata che ci acceca; come fare per capire quale delle due ci muove? Per comprendere se i nostri «desideri sono secondo natura oppure ciechi», Seneca ci invita a fare questo esercizio: consideriamo se il nostro desiderio del momento (avanzamento di carriera, popolarità, carriera politica) ha «un termine dove arrestarsi ma se, andando avanti nel soddisfare un desiderio, senti sempre più lontano il suo appagamento, sappi che non è un desiderio naturale» (Ep., II, 16, 9) e in questo caso deve essere contrastato.

Come prevenire e curare l’ambizione L’unica cura sta nello smettere di confrontarci con i successi altrui e godere di quello che abbiamo raggiunto grazie all’impiego delle sole nostre forze: «Ma poi, che t’importa degli altri? L’importante è che hai fatto progressi su te stesso» (Ep., II, 15, 10). Se questo non ci dovesse guarire, allora proviamo ad analizzare con attenzione proprio quei beni che tanto desideriamo. Siamo proprio convinti che ci facciano del bene? Per la verità, alcuni «sono migliori nel desiderio che nella realtà. Se in essi vi fosse qualcosa di consistente, finirebbero per appagare: intanto eccitano la sete in chi beve» (Ep., II, 15, 11). Proprio come le bevande dolci e gassate, così anche questi beni – fama, denaro, potere... – anziché soddisfare la nostra sete, la calmano solo momentaneamente per poi tornare con ancora maggiore virulenza.

Quando lo stress ha un prezzo troppo alto Altri beni richiedono un prezzo così alto che è meglio chiedersi prima se è conveniente desiderarli. Ce lo dice Seneca nel ventesimo libro del De brevitate vitae, facendoci ancora una volta vedere uomini dalle cariche prestigiose che si affaccendano continuamente: «Quando vedrai pertanto una pretesta già più volte indossata, un nome celebre nel foro, non provare invidia: sono cose che si ottengono a scapito della vita» (De brev. vit. , 20, 2). Il prezzo, molte volte, è la vita stessa: «Certuni, prima di scalare la vetta della loro ambizione, tra le prime difficoltà li abbandonò la vita; a certuni, fattisi strada attraverso mille disonestà per coronare la carriera, venne l’amaro pensiero di aver faticato per l’epitaffio» (De brev. vit. , 20, 3). E poi, quante volte, raggiunte cariche prestigiose, sballottati da continui appuntamenti di lavoro e riunioni, con mille email alle quali rispondere, ci chiediamo: «“Quando ne verrò fuori?” Quell’avvocato è conteso in tutto il Foro [...] ma dice: “Quando ci saranno le ferie?”» (De brev. vit., 20, 7). Gli unici beni a cui dobbiamo veramente ambire sono la piena soddisfazione di noi stessi e l’essere in pace con la nostra coscienza senza ricercare una vana e vaga approvazione dall’esterno: «Dobbiamo soddisfare la nostra coscienza e non cercare di diventar famosi; ci accompagni pure una cattiva fama, purché ci siamo comportati bene» (De ira, III, 41).

Come gestire l’avidità

Che cos’è l’avidità «La natura non ci predispone affatto al vizio: essa ci ha fatto nascere innocenti e liberi; essa non ci ha posto davanti agli occhi niente che potesse eccitare la nostra avidità. Anzi, essa ha messo l’oro e l’argento sotto i nostri piedi; ella ci ha dato da calpestare e da schiacciare proprio quei metalli per cui siamo calpestati e schiacciati. Essa ha rivolto i nostri visi verso il cielo, perché i nostri occhi potessero contemplare tutte le sue opere magnifiche e meravigliose. [...] Ma l’oro e l’argento e quel ferro che, per loro causa, non sta mai in pace, essa ce li ha nascosti, come se fosse pericoloso affidarceli» (Ep., XV, 94, 56). Nello scrivere a Lucilio, Seneca spiega al giovane amico come la natura abbia saggiamente nascosto oro e argento sotto terra e abbia rivolto lo sguardo dell’uomo verso il cielo. Ma non basta: il genere umano continua a compiere ogni sorta di nefandezza nel tentativo di sedare la propria sete di ricchezza; lo dirà anche nel Dialogo destinato al fratello Novato, l’avidità «mette i figli contro i padri, propina tazze avvelenate, arma sia i boia che le legioni; esso è bagnato del nostro sangue, per esso mariti e mogli passano la notte a litigare, e i tribunali dei magistrati sono pieni di gente, i re infieriscono e fanno rapine e radono al suolo città costruite col lavoro di lunghe generazioni, per andare a cercare fra le rovine fumanti l’oro e l’argento» (De ira, III, 33).

Come prevenire l’avidità L’avidità è un male che attanaglia da secoli l’uomo, sia come singolo sia come comunità, e forse per questo più difficile da controllare di altri. Su quante stragi, ancora oggi, cala un silenzio omertoso da parte di un Occidente avido che, dietro scuse diplomatiche di varia natura e genere, preferisce non perdere la propria supremazia e salvaguardare interessi di natura economica? E la nostra avidità non si accontenta di annientare i nostri simili, ma anche l’ambiente naturale in cui abitiamo. Invece di ingegnarci per utilizzare al meglio le risorse che la natura ci offre, confermiamo ogni giorno, con azioni prive di qualsiasi lungimiranza, le parole di Seneca: «Fino a quando non ci sarà un lago in cui non si specchino le vostre ville? Un fiume sulle cui rive non sorgano i vostri palazzi? Dovunque scaturiranno polle di acque termali, ivi s’innalzeranno nuovi lussuosi alberghi. Dovunque il lido s’incurverà in un’insenatura, voi getterete nuove fondamenta, e, non contenti della terraferma, costruirete anche sul suolo artificiale che avrete sottratto al mare. [...] A che servono tante stanze? Ne basta una per dormire. Non sono vostre quelle dove non siete» (Ep., XIV, 89, 21). Oggi non è più necessar io difendere l’uomo dalla natura, ma la natura dall’uomo.

Come curare l’avidità Razionalizziamo e guardiamoci intorno: quelli che «tu scambi per felici, se li osservi non dall’aspetto esterno, ma da quanto non appare, sono esseri meschini, gretti, turpi, ben rifiniti in superficie come le pareti delle loro case» (De prov., 6, 3-4). Ricordiamoci invece che ben diversa è la felicità e smettiamola di lasciarci sottomettere dalla «folle avidità degli uomini [che] divide tutte le cose in possessi e in proprietà esclusive, e pensa che ciò che è un bene comune non sia anche di ciascuno. Ma il saggio niente considera maggiormente suo che quel bene di cui ha in comune la proprietà col genere umano» (Ep., VIII, 73, 7). Solo così, forse, saremo in grado di evitare tutte le brutture e le cattiverie che la folle avidità ci spinge in continuazione a compiere. Lo insegna anche il samurai Hojo Shigetoki: «Un cuore puro non conosce l’avarizia e l’assenza di avarizia sarà d’aiuto nella vita futura. Si dovrebbe capire che questo mondo è un sogno che passa in un istante».

Come gestire la lussuria

Che cos’è la lussuria «Ma non chiamo sapiente chi ha qualcosa sopra di sé, tantomeno il piacere» (De vita beata, 9, 1). Seneca non critica la ricerca del piacere in sé, ciò che condanna è che ci si faccia comandare da questi anziché dalla ragione: «La virtù vada avanti per prima e sia lei a portare le insegne. Avremo comunq ue il piacere ma potremo dominarlo e farne uso moderato: qualche volta ci indurrà a cedere ma mai potrà costringerci» (De vita beata, 14, 1). Tra i vizi che possono dominare l’uomo e farne il loro schiavo c’è proprio la lussuria, la libido di cui parla nel De brevitate vitae: «Tra i primi annovero quelli che hanno tempo solo per il vino e la libidine: nessuna occupazione è più vergognosa» (De brev. vit ., 7, 1). Ma non solo quello legato al sesso è un piacere da controllare, la ricerca del piacere, di qualunque natura esso sia, dovrebbe sempre essere sottomessa alla nostra capacità raziocinante; in caso contrario, le conseguenze potrebbero essere devastanti. Pensiamo al cibo: un conto è goderne, un altro è abusarne. Non è un caso che le malattie più diffuse nei paesi ricchi siano legate all’obesità, ciò che prima era fonte di piacere si è trasformato nel suo opposto. Per chiarire meglio la sua idea, Seneca fa l’esempio della caccia: «Con fatica e non senza pericolo andiamo a caccia di fiere e, anche dopo averle catturate, dobbiamo stare molto attenti perché spesso sbranano i padroni; così sono i grandi piaceri: vanno a finire in grandi disgrazie e chi li possiede ne è posseduto» (De brev. vit. , 14, 3). Quindi, non si deve evitare ciò che ci procura piacere e inseguire una vita ascetica, non andando cioè a caccia, ma distinguere chiaramente i ruoli tra chi comanda e chi obbedisce, solo così potremo evitare spiacevoli inconvenienti.

Come curare la lussuria «Ma dopo che, in luogo di cercare il cibo per placare la fame, si ricorse a esso per solleticarla, e dopo che furono trovati migliaia di condimenti per eccitare l’ingordigia, quello che era alimento per lo stomaco affamato è diventato un peso per lo stomaco pieno. Di qui il pallore, il tremito nervoso degli avvinazzati, la magrezza dei dispeptici, più miserabile di quella degli affamati; di qui il vacillare sui piedi malfermi e un continuo barcollare come in un eccesso di ubriachezza; di qui l’infiltrarsi di umori malsani che si diffondono sotto la pelle, e il ventre gonfio per la viziosa abitudine di ricevere più di quanto possa contenere» (Ep., XV, 95, 15-16). Assecondando il piacere, altro non facciamo che ripetere il mito dell’Idra di Lerna: tutte le volte che Ercole la tagliava, dal moncherino ne ricrescevano altre due; così accade anche con il piacere se non viene maneggiato in maniera corretta: più tentiamo di soddisfarlo, più aumentiamo la sua insaziabilità. Seneca ci invita, al contrario, a non permettere che sia il piacere a guidare le nostre azioni; in caso contrario, non solo rischiamo di perdere la nostra libertà, in quanto la lussuria è una passione che come tale ci incatena, ma anche il piacere stesso che, se non viene guidato da mani salde e sicure, rischia o di «soffocare» se in eccesso, o di «tormentare» se in difetto, proprio come una droga.

Come gestire la gelosia e i mali d’amore

Imparate a riconoscere la gelosia e l’amore nocivo «Chi all’amore, al suo sorgere, sa opporsi e respingerlo, è al sicuro, e vittorioso; chi alimenta, blandendolo, questo dolce male, troppo tardi rifiuta di patire il giogo a cui da sé si è sottomesso» (Phae., 132-135). Tramite le parole di Fedra, sembra che Seneca ci voglia mettere in guardia verso questo sentimento di cui, prima o poi, tutti cadiamo vittima. Ma siamo sicuri che Seneca ci voglia mettere in guardia proprio dall’amore? Di che cosa sta parlando davvero? In una lettera, in cui si interroga sulla possibilità di togliersi la vita quando le condizioni di salute non sono più dignitose, scrive: «Chi non ama tanto la moglie o l’amico da sacrificarsi per loro a una vita più lunga, ma si ostina a voler morire, è uno spirito fiacco. Bisogna imporsi anche questo, quando lo esiga il bene dei propri cari; e non solo se uno ha deciso di morire, ma se sta già ponendo in atto il suo proposito, deve ritrarsene per coloro che ama. È segno di magnanimità tornare a vivere per il bene degli altri, e ciò fecero spesso uomini illustri. [...] Infatti, non è per te motivo di viva gioia essere tanto caro alla moglie che per essa tu ami di più te stesso? Perciò sono debitore a Paolina sia delle preoccupazioni che ella ha per me, sia di quelle che ho io stesso ho per lei» (Ep., XVII, 104, 4). Seneca in questa lettera indirizzata a Lucilio scrive che è nell’amore della moglie che trova lo stimolo per prendersi cura di se stesso, non permettendo alla vecchiaia e ai suoi malanni di impossessarsi completamente di lui. L’amore fa bene, q uindi. Lungi da Seneca proporci una vita ascetica, in cui l’amore viene bandito perché portatore di malesseri dell’animo. Quindi, in Phaedra, Seneca vuole metterci in guardia da un sentimento che solo apparentemente possiamo chiamare amore. In quello come in molti altri casi «amor» vuol dire ben altro, ci parla di quelle relazioni portatrici di passioni malsane che nulla hanno da spartire con il sentimento dell’amore e che ogni giorno riempiono le cronache. Per vederlo in maniera approfondita analizziamo, insieme a

Phaedra, un’altra tragedia di Seneca, Medea. 1. Il vero amore non chiede prove estreme Sebbene l’esempio di Medea – che, per «amore» di Giasone, uccide il fratello – sia estremo, non diverso da quello cantato De André nella Ballata dell’amore cieco, drizziamo le orecchie nel caso in cui ci vengano richieste prove d’amore, come l’allontanamento dalla famiglia o dagli amici. «Questo Giasone poté fare, dopo avermi / strappato padre, patria, regno, ora lasciarmi, / spietato, sola in terra straniera?» (Med., 118120). 2. Il vero amore non deve avere secondi fini Se non siamo sicuri che l’unico motivo della nostra relazione sia l’amore, meglio scappare a gambe levate. Sempre Medea insegna: lei, innamorata, aiuta Giasone a impossessarsi del vello d’oro, lui invece non si fa scrupoli a lasciarla per sposare Creusa e diventare così re di Corinto. 3. Il vero amore non è geloso Se il nostro è vero amore, dobbiamo avere fiducia nel nostro compagno: se un pizzico di gelosia è comprensibile, una gelosia morbosa è indice di malessere. Anche in questo caso gli eroi tragici ci sono d’esempio. Deianira è accecata dalla gelosia, sospetta che il marito Ercole la stia per lasciare per Iole: «Iole, la prigioniera, ai figli miei / darà fratelli e, serva, diverrà nuora di Giove? [...] Non me ne andrò invendicata [...] c’è qualcosa di peggio dell’Idra: il rancore di una sposa adirata. Che fuoco tanto grande infuriò in cielo / dell’Etna ardente? Tutto ciò che è da te stato vinto, questo mio cuore lo supererà. Una prigioniera dovrà sottrarmi il talamo?» (Herc. Oet., 282-287). Ma, nel tentativo di riavvicinarlo, involontariamente lo uccide: gli fa indossare una tunica cosparsa dal sangue del centauro Nesso, che lei credeva pozione d’amore ma che invece si rivela un potentissimo veleno. 4. Il vero amore non cerca vendetta Può capitare di essere traditi dall’amato, l’importante è uscirne con onore, o almeno non farsi assalire da una cieca sete di vendetta.

Medea ci insegna infatti che la vendetta porta solo a eventi tragici. Lei, non sapendo contenere la rabbia per il tradimento di Giasone, fa consegnare alla rivale Creusa, come dono di nozze, abiti intrisi di veleno «che appena ella avrà indosso, una fiamma serpeggi e bruci le più intime midolla [...] si insinui il calore nel petto e nelle vene, le membra stillino, fumino le ossa e con la chioma in fiamme superi le sue stesse fiaccole la nuova sposa» (Med., 836-839). Moriranno così Creusa e il padre di lei. Sappiamo bene come finisce il mito: la furia di vendetta che ha accecato Medea la porterà ad assassinare i suoi stessi figli, per distruggere definitivamente Giasone che l’aveva tradita. 5. Il vero amore non fa ammalare Se, a causa dell’amore, stiamo imbruttendo, allora nella relazione c’è qualcosa di malsano. Se ci guardiamo allo specchio e ci troviamo più brutti, invecchiati, troppo dimagriti o invece gonfi, c’è qualcosa che non va e il nostro corpo ci sta mandando dei segnali. Pensiamo a Fedra che, respinta da Ippolito, figlio del marito, non ha più alcuna cura di se stessa. La nutrice così la descrive: «Nulla di identico piace all’esitante / variamente il dolore incerto agita gli arti / vacilla ora in debole passo quale morente / e sul collo oscillante regge il capo / ora torna alla quiete e, del sonno dimentica / in lamenti trascorre la notte: ordina di levarle / il corpo e poi di distenderlo di nuovo, e di sciogliere i crini / e di nuovo acconciarli: sempre mal sopportandosi / cambia aspetto e postura. Pensiero alcuno ormai / di cibo non la tocca o di salute; vaga con passo incerto / ormai privo di forze. Non ha più alcun vigore / non il purpureo rossore che tingeva il bel volto [...] / e gli occhi, che avevano il segno della luce di Febo / più non brillano in nulla della stirpe del padre» (Phae., 362-383).

Come curare la gelosia e i mali d’amore Prendendo spunto da queste vere e proprie tragedie, dove passioni di vario genere vengono erroneamente e genericamente ascritte sotto la categoria dell’amore, proviamo a imparare insieme a Seneca a distinguere i segnali del vero amore da quelli che con l’amore non hanno nulla da spartire. L’amore porta tristezze, ma sono tristezze che fortificano l’animo. In una parola: l’amore deve fare bene, altrimenti non è amore.

Come gestire la paura

Che cos’è la paura Quando abbiamo paura smettiamo di essere vecchi o giovani, uomini o donne: la paura ci rende tutti molto simili. Non vergognamoci quindi di questo sentimento così umano perché «è caratteristico dell’uomo grande il costringere alla resa le disgrazie e le paure dei mortali. Invece, l’esser sempre felici e trascorrere la vita senza che nulla mai ti roda l’animo, è ignorare l’altra metà del mondo» (De prov., 4, 1). Per Seneca, il nostro problema non sta nel provare paura ma nel modo in cui affrontiamo, o non affrontiamo, i nostri timori. E purtroppo, alcuni di noi passano tutta la vita nella paura, sospettando di tutto e tutti: «V’è chi vive così chiuso nel suo guscio, da vedere un oscuro pericolo in tutto ciò che sta alla luce del sole» (Ep., I, 3, 6). Come spesso ci conformiamo all’opinione della maggioranza nel giudicare le cose, tendendo a degli obiettivi non per soddisfare la nostra personale ricerca della felicità ma per compiacere gli altri, così facciamo anche con le paure: «Sono inconsistenti fantasmi tutte le cose che ci lasciano attoniti e spaventati. Nessuno di noi ha accertato che cosa ci fosse di vero, ma la paura si è trasmessa dall’uno all’altro. Nessuno ha avuto il coraggio di esaminare da vicino il suo turbamento, di conoscere la natura e il valore morale della sua paura. [...] Prendiamoci la pena di guardare bene: subito ci apparirà quanto passeggero, incerto e privo di pericoli sia l’oggetto della nostra paura» (Ep., XIX, 110, 5). Anche i nostri timori tendono il più delle volte a conformarsi a quelle che sono le paure della maggioranza e del sentito dire, e accade così che tutti abbiamo paura degli immigrati perché rubano il lavoro a noi italiani e violentano le donne, degli zingari perché rubano, dei vaccini ai bambini perché li rendono autistici... Poco importa poi che la maggior parte delle violenze avvengano dentro le mura domestiche, che pochi di noi abbiano voglia di curare i nostri anziani o fare i turni notturni, che gli zingari rubino tanto quanto gli italiani e che i rischi

correlati ai vaccini siano simili a quelli che si corrono assumendo qualsiasi altro farmaco. Tend iamo a fare proprio come dice Seneca: «Spesso infatti noi ci affanniamo per semplici sospetti, e ci lasciamo trarre in inganno da quelle dicerie che, come hanno la forza di mandare in rovina gli eserciti, tanto più possono abbattere i singoli» (Ep., II, 13, 8) e ancora: «Ci lasciamo trasportare da ogni soffio di vento; paventiamo il dubbio come certezza; non abbiamo il senso della misura nel valutare i fatti, e subito il dubbio si volge in paura» (Ep., II, 13, 13). Anzi, a volte, le paure sono quasi delle rassicuranti certezze fungendo da freni al nostro naturale impulso di conoscere l’ignoto.

Come curare la paura Se vogliamo smettere di avere paura, proviamo a togliere la maschera alle cose che temiamo, restituendo loro la legittima identità senza arbitrarie deformazioni. Proviamo a seguire ancora una volta il suggerimento di Seneca: «Ricordati, anzitutto, di vedere tutte le cose nella loro semplice realtà, senza esterne deformazioni: ti renderai conto che in ogni avvenimento non c’è niente che debba far paura, se non la stessa paura. [...] Bisogna togliere la maschera non solo alle persone, ma anche alle cose, e restituire loro il vero volto» (Ep., III, 24, 12-13). 1. Primo esercizio: fai una lista Per smascherare e guardare in faccia le nostre paure, proviamo a fare un esercizio molto semplice: pensiamo alle cose che più ci preoccupano, mettendole in ordine ascendente di gravità. Partiamo con le piccole preoccupazioni quotidiane: arrivare preparati a un appuntamento importante, pagare con puntualità tutte le bollette, riuscire a rispettare le consegne del progetto, vincere la gara...? Per poi passare in rassegna le grandi paure esistenziali, quelle che condividiamo con il resto dell’umanità, al di là del tempo e dello spazio: povertà, malattie, incidenti, morte. Ora, guardiamo ognuna di queste paure negli occhi e ci accorgeremo con Seneca che «Sono più, o Lucilio, le cose che spaventano, che quelle che ci fanno effettivamente male; e noi siamo più spesso in angustie per le apparenze che per fatti reali» (Ep., II, 13, 4). Seneca non si stanca di ribadire che se usassimo la ragione, che d’altronde è lo strumento di cui la natura ci ha dotati per poter sopravvivere in questo mondo, in modo corretto, saremmo anche in grado di capire che la maggior parte delle nostre paure non ha alcun motivo di esistere. Preferendo nasconderle e soffocarle nel nostro intimo, otteniamo l’effetto contrario a quello desiderato. Quante volte un tonfo insolito ci ha svegliati e, suggestionata dalle ombre della notte, la nostra fantasia ha trasformato quel rumore insolito in, a seconda della situazione, antipatici roditori, ladri che svaligiavano casa, assassini sanguinari, spiriti di antichi inquilini... Quanti batticuore avremmo evitato se, semplicemente, avessimo acceso la luce e cercato la fonte del rumore, accorgendoci che a cadere altro non era stata che quella scatola appoggiata maldestramente sul

bracciolo del divano? Abbiamo paura delle cose perché proprio come dice Seneca: «Non cerchiamo di veder chiaro nei nostri timori, né abbiamo il coraggio di scacciarli, ma voltiamo le spalle trepidanti, come chi fugge dal campo solo per aver visto la polvere sollevata da un branco di pecore. [...] Non so perché, ma le cose immaginarie turbano di più. Le cose vere hanno i contorni ben definiti, mentre tutto ciò di cui non si ha certezza è in balìa dei giudizi arbitrari e fallaci di un animo atterrito» (Ep., II, 13, 8-9). 2. Secondo esercizio: dividi le paure in tre gruppi Proviamo, invece, a prendere un pennarello a punta grossa e marcare il contorno delle cose cercando di dare loro una definizione chiara e precisa. Per riuscire nell’intento possiamo mettere in atto un vero e proprio esercizio stoico: prendiamo la lista delle nostre paure e proviamo a suddividerle in tre categorie. Nella prima faremo rientrare tutte le cose sulle quali possiamo esercitare il pieno controllo. Ad esempio, nel caso della puntualità basterà partire molto prima, onde evitare le problematiche connesse al traffico, al parcheggio, al tempo: sarà la nostra capacità organizzativa a sedare questo timore. Alla seconda categoria apparterranno, invece, tutte quelle cose sulle quali il nostro controllo è parziale: ad esempio, nel caso di una gara di corsa, per quanto ci saremo allenati, non potremo essere sicuri di vincere. Condizioni metereologiche avverse, cadute impreviste, preparazione degli avversari... sono tutti fattori che sfuggono al nostro controllo. Infine, nella terza categoria rientreranno tutte le cose sulle quali non possiamo avere alcun controllo, come nel caso delle malattie e, ovviamente, della morte. Per Seneca man mano che avremo la forza e il coraggio di guardare dentro alle nostre paure, capiremo che «sono meno da temere proprio quelle cose che fanno più paura. Nessun male è grande quando è definitivo» (Ep., I, 4, 3). E finché non ci troviamo in una di queste situazioni, proviamo a non preoccuparcene perché l’unico effetto che otteniamo è quello di renderci inutilmente infelici prima del tempo «perché i mali che hai temuto imminenti forse non verranno mai, in ogni caso non sono venuti. Per alcune cose noi ci angustiamo più di quello che dovremmo, altre ci crucciano prima del necessario, altre senza alcuna necessità. O ci aumentiamo noi stessi il dolore, o lo anticipiamo, o lo creiamo con la nostra immaginazione»

(Ep., II, 13, 4-5).

Parole chiave per gestire la paura Quando veniamo assaliti dalla paura, ripetiamoci queste parole: «Che bisogno c’è di guastarsi il presente col timore del futuro?» (Ep., III, 24, 1). Continuare ad alimentare paure su eventi sui quali non possiamo esercitare alcun controllo è stupido e inutile: «Gli stolti non hanno mai pace. Per essi c’è motivo di timore sia dall’alto che dal basso; la paura domina sia a destra che a sinistra; i pericoli sorgono sia dietro che davanti. Essi tremano di fronte a tutto; sono sempre impreparati e si spaventano persino all’arrivo dei soccorsi» (Ep., VI, 59, 8). La medicina che propone Seneca, l’unica in grado di portare noi malati alla guarigione definitiva, senza continue ricadute, è l’esercizio continuativo della saggezza perché «il saggio è sempre ben difeso e pronto contro ogni assalto. Egli non indietreggerà mai se lo assalgono la povertà, i lutti familiari, il disonore, il dolore: impavido, andrà contro queste forze avverse e anche in mezzo a esse» (Ep., VI, 59, 9).

L’insegnamento del saggio E il saggio cosa farebbe per evitare di temere le cose sulle quali non è possibile esercitare alcun controllo? Semplice, si impegna a vivere al meglio il tempo presente senza nutrire inutili speranze o paure per ciò che avverrà: «Come la stessa catena unisce il prigioniero e la guardia, così codesti sentimenti tanto dissimili vanno insieme: la paura tiene dietro alla speranza. Né ciò mi meraviglia: l’una e l’altra tengono l’animo sospeso, l’una e l’altra lo rendono ansioso nell’attesa del futuro. [...] Le bestie fuggono i pericoli che vedono, ma, una volta che li hanno evitati, stanno tranquille» (Ep., I, 5, 7-8).

La saggezza rende liberi

Che cos’è la vera felicità? Tutti noi inseguiamo una gioia durevole e profonda, sebbene tendiamo a confonderla con una felicità effimera, apparente e di breve durata. Nel tentativo di raggiungere la meta, prendiamo scorciatoie ingannevoli o strade sbagliate: «C’è chi la cerca nei banchetti e nella lussuria, chi nell’ambizione e nel farsi seguire da una turba di clienti, chi in un’amante, chi nella vana ostentazione della sua cultura e negli studi letterari che non apportano alcun giovamento. Tutti costoro sono ingannati da diletti illusori e fugaci, come l’ubriachezza che compensa un’ora di folle allegria con una lunga nausea, o come il favore di una folla acclamante, che si acquista e si espia con angosciose inquietudini» (Ep., VI, 59, 15-16). Chi però vorrà trovare la vera felicità, sebbene «non sempre andrà con lo stesso passo, seguirà però sempre la stessa strada» (Ep., II, 20, 2) perché consapevole della gioia che troverà una volta raggiunta la meta. Tanti di n oi, invece, sono convinti di poter trovare la vera felicità in beni che, se guardati dalla giusta prospettiva, si mostrano in tutta la loro evanescenza: chi cerca la gioia nei soldi, chi nella fama, chi in una carriera di successo, chi in storie piene di passione ma senza amore.

Primo obiettivo: pieno controllo su voi stessi Per Seneca il primo passo per raggiungere la vera felicità starebbe nell’esercitare il pieno controllo su noi stessi, vincendo quei vizi e quelle passioni che tanto ci agitano: solo così potremo essere «saldi, sicuri e contenti di noi stessi» (Ep., IV, 32, 5). Seneca paragona la posizione di colui che è riuscito in questa impresa a un ipotetico abitante della luna, perché là nel mondo lunare c’è sempre il sereno (Ep., VI, 59, 15-16) e sereno è colui che non si fa piegare dalle passioni, di qualunque natura esse siano. Le mura che difendono il saggio sono a prova d’incendio e di assalto, non presentano brecce, sono eccelse, inespugnabili, alte quanto gli dei (De const. sap., 6, 8) e questo perché «ha riposto tutto dentro se stesso, non ha affidato nulla alla fortuna, conserva i suoi beni al sicuro, è contento delle virtù» (De const. sap., 5, 4). Questo non significa che, per trovare la serenità e la felicità, l’unica via perseguibile sia la solitudine; non dobbiamo astrarci dal mondo ma riconoscere e tenere a distanza i suoi beni apparenti ed essere ben consci del nostro valore e della nostra forza.

Secondo obiettivo: vivere il presente Il più delle volte, come abbiamo visto, a farci paura non è la cosa in sé ma la sua proiezione e, da analfabeti delle regole prospettiche, non la interpretiamo correttamente prendendo per realtà la sua illusorietà. Per non cadere in questo tranello prospettico, Seneca ci invita a vivere il momento presente, evitando di essere «in ansia sia per il futuro che per il passato. Molte nostre qualità possono nuocerci: la memoria infatti ci rinnova il tormento della passata paura e ce lo anticipa la nostra attitudine a prevedere il futuro. Nessuno è infelice solo per il presente» (Ep., I, 5, 9). Quando la paura ci assale, identifichiamo le nostre paure con le ombre descritte da Platone nel mito della caverna: non sono reali ma solo immagini riflesse deformate. E se ancora avessimo bisogno di conferme, appelliamoci alla saggezza del samurai Yamamoto Tsunetomo: «Nel percorrere la V ia, il samurai deve concentrarsi sul momento presente e non esitare, né avere pensieri terreni o essere schiavo delle passioni. Ciascun istante è rilevante, perciò devi concentrarti sempre sul momento presente».

La medicina migliore: la ragione Dobbiamo avere ben chiaro che, se useremo la ragione in modo onesto, nulla, tra le tante avversità che affronteremo nel corso della nostra vita, ci potrà veramente abbattere: se riceveremo colpi, tuttavia li vinceremo, faremo guarire e chiuderemo le ferite (De const. sap., 10, 4) e conseguiremo «la forza di sopportare e di spossare ogni forza nemica» (De const. sap., 9, 5). La nostra unica arma sarà la ragione «salda, eterna, obbediente, né a doppio taglio né tale che possa essere rilanciata contro il padrone» (De ira, I, 17). Quando le passioni sembrano avere la meglio su di noi, proviamo a fare come fa Seneca: appropriamoci di quelle caratteristiche che normalmente appartengono ad altri elementi. Immaginiamo perciò di possedere la durezza di certe pietre che resistono al ferro, di essere come l’acciaio che «non si lascia segare, incidere, limare, ma ricaccia da sé gli attrezzi, o come quei corpi che non possono essere consumati dal fuoco, ma conservano la propria consistenza e forma anche in mezzo alle fiamme» (De const. sap., 3, 5). E ricordiamoci sempre che «la vera saggezza non concede spazio al male» (De const. sap., 5, 3): dobbiamo controllare la paura e trattare rabbia, ambizione, avidità e invidia come veri e propri tumori che vanno curati con fermezza per evitare che si propaghino come metastasi anche agli organi sani.

Seconda parte

Siate padroni di voi stessi

Come essere voi stessi e vivere felici

Non conformatevi «Soprattutto bisogna fare attenzione a non seguire, come pecore, il gregge di chi ci precede, perché non si va dove si deve andare, si va dove vanno tutti. Del resto non c’è cosa che per noi comporti mali peggiori del conformarsi all’opinione pubblica, considerando migliore quello che è accolto da più largo consenso» (De vita beata, 1, 3). È facile e rassicurante seguire il gregge: il gruppo ci conforta e ci deresponsabilizza. Da adolescenti ci conformiam o ai nostri coetanei diventando, a seconda delle generazioni, metallari, paninari, yuppie, alternativi, hypster, tamarri... In famigliasi accettano le decisioni prese per noi, per non deludere le aspettative dei genitori. Si annuisce al capo sempre, perché così la vita è più facile, si accetta di sposare il fidanzato o la fidanzata e magari di dire sì a un figlio, perché accontentarli ci regala un paio di sere senza discussioni. È la cosiddetta dittatura del s i di cui ha scritto un altro filosofo nostro contemporaneo, Martin Heidegger, quella del penso come s i pensa, giudico come si giudica, desidero quel che s i desidera: il simbolo di un’esistenza non autentica. Non nostra. Se ci affidiamo in tutto alle mode, alla corrente del momento, al giudizio degli altri, perdiamo il senso vero delle cose e soprattutto di noi stessi. «È facile cedere ai gusti della maggioranza» (Ep., I, 7, 6), ma la domanda che resta inevasa è: dove finiamo noi?

Smettete di mentire Spesso, quando ci confrontiamo con il resto del mondo, indossiamo una maschera anziché mostrarci per quello che siamo. Viviamo una vita costruita per essere esibita. Interpretiamo il ruolo così fedelmente da dimenticare noi stessi. Viviamo con l’ansia di essere smascherati, abbiamo paura di mostrare le nostre fragilità e insicurezze agli altri e, quando la forza degli eventi ci mette a nudo, la paura del giudizio altrui cresce a dismisura: e ora cosa penseranno di me? Ingannarsi è comune. È un’arte, un processo creativo in cui ci autoconvinciamo di qualcosa su di noi o sul mondo attraverso manovre di cui spesso nemmeno ci rendiamo conto. E nel tentativo di portare avanti la messinscena sia con gli altri ma soprattutto con noi stessi «si passa da un’iniziativa all’altra, da spettacolo a spettacolo». Come dice Lucrezio: «Tutti in tal modo sempre fuggono se stessi». Ma a che pro, se tanto non riusciamo mai del tutto a sfuggirci? L’io insegue se stesso e incalza. «Compagno insopportabile» lo definisce Seneca (De tranq. an., 2, 14). Certo, è «fonte di tormento la continua osservazione di se stessi, e alimenta il timore di essere scoperti diversi da come si è soliti presentarsi» (De tranq. an., 17, 1-2) Allora è molto più facile scappare che non guardarsi dentro. Ma attenzione perché il benessere, la gioia, non quella passeggera ma quella «durevole e profonda», può arrivare solo dai «veri beni». Quali sono i veri beni? Come riconoscerli? Innanzitutto, cercando di conoscere meglio noi stessi, per poi aderire alla nostra vera natura, «non deviare da quella e formarsi alla sua legge e al suo esempio, questa è sapienza». Il primo passo è capire chi siamo e che cosa vogliamo veramente, viaggio faticoso e complesso perché porta a fare i conti con le parti più intime e non sempre piacevoli di noi.

Conoscete voi stessi insieme a Seneca

Che cosa volete davvero? La felicità durevole e profonda di cui scrive Seneca non viene da fuori, nasce e si espande da dentro. Ma dentro, cosa siamo? Chi siamo? Non è un caso che sia proprio nel De vita beata, ossia nel dialogo dedicato al raggiungimento di una vita felice, che Seneca scriva: «Allora vivere felici e secondo natura è lo stesso. Ti spiego cosa intendo: se sapremo conservare con cura e serenità le doti fisiche e le inclinazioni naturali come beni di un solo giorno e fugaci, se non saremo loro schiavi né soggetti al potere delle cose esterne [...] allora di certo saranno utili alla mente» (De vita beata, 8, 2). Seneca non usa mezzi termini, la nostra felicità dipende dalla nostra adesione a quelle che sono le nostre inclinazioni naturali. Anche la Costituzione italiana sembra concordare con Seneca, tanto da imporre ai genitori di «istruire, educare e assistere moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni» (Art. 147). Più facile a dirsi che a farsi: il problema, infatti, sta nel fatto che noi stessi il più delle volte ignoriamo quali sono le nostre aspirazioni più profonde e verso cosa tendano le nostre naturali inclinazioni. A causa di questa insicurezza di fondo, prendiamo una strada a caso fino a quando ci accorgiamo che era quella sbagliata, allora torniamo indietro e, senza pensarci troppo, ne prendiamo un’altra che magari ci riporta al punto di partenza. Ecco, questo è il destino di coloro che vagano a caso: la fonte di tutto questo malessere nascerebbe dal fatto che «nessuno si pone il problema di che cosa volere, e, qualora se lo ponga, non persevera in esso, ma salta ad altro; e non soltanto cambia direzione, ma torna indietro e si volge nuovamente a ciò che aveva abbandonato e condannato» (Ep., II, 20, 4). Troppe volte abbiamo evitato di guardarci dentro e chiederci cosa volevamo veramente e, quando lo abbiamo fatto, spesso era troppo tardi perché «purtroppo gli uomini sanno quello che vogliono solo nel momento in cui lo vogliono: nessuno ha stabilito una volta per sempre il suo volere e il suo non-volere. Ogni giorno si cambia la propria opinione per seguire

quella opposta, e i più prendono la vita come un gioco» (Ep., II, 20, 6). E così accade che finita la scuola, uno dei momenti più delicati della nostra vita, stretti nella morsa delle pressioni esterne, non ci prendiamo il tempo necessario per guardarci dentro e capire bene cosa vogliamo dalla vita. Così succede che magari proseguiamo negli studi, ritrovandoci a fare una vita a cui sentiamo di non appartenere: e poi, un giorno, magari dopo una gita fuori porta, ci rendiamo conto che nulla ci rende più felici che lo stare in campagna a coltivare vigneti, lontani dal traffico e dalla confusione. Ecco abbiamo capito, cosa vogliamo fare da grandi! Non esitiamo né indietreggiamo, troviamo il coraggio necessario a compiere quel viaggio descritto dallo scrittore Julio Cortazar nel Gioco del mondo con spirito senecano: «Lanciarsi dentro se stessi con una tale violenza che il salto finisca tra le braccia di un altro». Non fuggire se stessi ma trasformarsi assolvendo il compito che ci viene imposto dalla ragione e «che cosa esige da lui questa ragione? Una cosa molto facile: che egli viva secondo la natura che gli è propria» (Ep., IV, 41, 8). Ora non ci resta che metterci in gioco e realizzare pienamente quello che la nostra natura ci impone e, quando avremo la tentazione di tornare sui nostri passi perché la sfida ci pare troppo difficile per poter essere vinta, ricordiamoci che niente ci renderà più infelici che vivere vita non nostra: «Chi vuole cambiare la propria natura e impiega la propria intelligenza nell’escogitare vari espedienti inevitabilmente attrarrà su di sé disgrazie. Si dice che la cornacchia che imita il cormorano finisce per bere tanta acqua», come dice il samurai Issai Chozanshi.

Come diventare padroni di voi stessi

Primo passo: fate pace con voi stessi Prima di avventurarci in questo lungo viaggio alla ricerca della nostra natura più profonda, la prima cosa da fare è far pace con noi stessi, accettarci e amarci perché «solo chi disprezza se stesso può essere disprezzato da un altro» (Cons. ad Helv., 13, 6) dobbiamo pian piano imparare ad «afferrare tutto ciò che di buono è intorno a noi», anzitutto noi stessi perché «è misero, anche se è padrone del mondo, chi non è contento di sé» (Ep., I, 9, 20). È importante volerci bene ed essere convinti di doverci prendere cura di noi stessi, altrimenti saranno del tutto inutili i trucchi che escogiteremo per essere accettati e apprezzati dagli altri: nessuna scarpa firmata, nessuna ritocco estetico, nessun complimento avrà veramente valore, finché non prendiamo consapevolezza che «la nostra condizione è buona al momento della nascita; è colpa nostra se la peggioriamo. La natura ha agito in modo che non ci vuole molto per vivere bene: ognuno è in grado di rendersi felice. Poca importanza hanno le cose esteriori» (Cons. ad Helv., 5, 1).

Secondo passo: imparate a stare bene da soli Approfittiamo pertanto del dono che ci ha fatto la natura che, come scrive Seneca, «ci ha dato un carattere curioso e, consapevole della sua abilità e bellezza, ci ha generati come osservatori di sì grandi spettacoli naturali» (De otio, 5, 3). Innanzitutto guardiamo verso noi stessi e la nostra anima: è questo il primo spettacolo naturale che possiamo e dobbiamo indagare. Solo conoscendo la nostra natura più profonda, saremo in grado di capire cosa veramente vogliamo da noi stessi dando una direzion e ai nostri desideri e alle nostre aspirazioni più profonde, senza adeguarli alle aspettative imposte dalla famiglia o dalla società, ricordando sempre queste parole: «Molti ti lodano; che motivo hai di compiacerti di te stesso, se poni la tua soddisfazione solo nel fatto che la moltitudine riconosce i tuoi meriti? È alle intime soddisfazioni che devi aspirare» (Ep., I, 7, 12). Proviamo perciò a imparare a stare in compagnia anche solo di noi stessi, cosa tutt’altro che facile: «Rievoca nella memoria quando sei stato saldo nei tuoi propositi, quanti pochi giorni hanno avuto l’esito che volevi, quando hai avuto la disponibilità di te stesso, quando il tuo volto non ha battuto ciglio, quando non ha tremato il tuo cuore» (De brev. vit. , 3, 3). Guardiamoci allo specchio e, «tralasciando ogni altra preoccupazione, attendiamo costantemente a renderci ogni giorno migliori» (Ep., I, 5, 1) perché è solo combattendo contro l’avversario più duro, ossia noi stessi, che prenderemo coscienza della nostra forza e della nostra vera natura (vedi De prov., 4, 3) perché «è molto più importante della stima altrui quella che tu hai di te stesso» (Ep., III, 29, 11). Insomma, per conoscere il mondo ed essere in grado di fronteggiarlo al meglio, è necessario conoscere anzitutto noi stessi perché: «Se conosci il tuo avversario e conosci te stesso, potrai combattere cento volte e cento volte vincerai. Se non conosci il tuo avversario e conosci te stesso, le possibilità di vittoria saranno pari alle possibilità di sconfitta. Se non conosci il tuo avversario e non conosci te stesso, conoscerai solo sconfitte» come insegna Sun-tzu nell’Arte della guerra.

Terzo passo: ritagliatevi momenti solo per voi «Si può avere il coraggio di lamentarsi dell’altrui superbia, quando non si trova tempo da dedicare a se stessi? Eppure, quello talvolta ti ha guardato, chiunque tu sia, magari con aria distaccata, o ha teso l’orecchio alle tue parole, o ti ha ammesso al suo fianco: tu non ti sei mai degnato di guardarti dentro, di darti udienza» (De brev. vit., 2, 5). Non è mai né troppo presto né troppo tardi per dedicare tempo a noi stessi; imparare per tutta la vita a vivere è l’allenamento quotidiano a cui tutti noi dovremmo dedicarci con costanza. Perciò la prossima volta che vi sentirete in colpa perché vi sarete fatti una bella passeggiata per la città in compagnia unicamente di voi stessi, anziché sbrigare commissioni per familiari e amici, giustificatevi con le parole di Seneca per il quale il vagare vorticosamente è sintomo di malattia: «Tu non vai qua e là, né ti agiti cambiando continuamente luogo. Quest’irrequietezza è propria di uno spirito malato; e io considero come primo indizio di un animo equilibrato il sapere restar fermo e raccolto in se stesso» (Ep., I, 2, 1). Quante volte in preda a una sorta di inspiegabile tristezza, abbiamo ciondolato dal divano al letto cercando di continuare a studiare o lavorare ma senza fare nulla ottenendo, come unico risultato, un’intensificazione del malessere? «Di qui quella noia e quel disgusto di sé, e l’irrequietezza dell’animo che non trova mai un dove» (De tranq. an., 2, 2). Allora riprendi possesso di te e dedicati del tempo: pensa a una cosa che ti piace fare e falla. Leggere un libro, uscire a correre, fare un cruciverba, guardare un vecchio western, fare un bagno caldo, telefonare a un’amica: fallo e non sentirti in colpa perché stai ritagliando del tempo per te. Se continuiamo a trascinarci e ci lasciamo andare alla tristezza siamo come quei capitani di nave che si lasciano strappare il timone dai flutti, lasciano le vele in balia del vento, abbandonando l’imbarcazione alla tempesta (vedi Cons. ad Marc., 6, 2). Noi, invece, dobbiamo opporci ai flutti con tutte le nostre energie, senza cedere alla forza del mare. A volte basta poco per disinnescare il meccanismo: basta sapere cosa ci fa stare bene e farlo. Ma per fare questo è necessario conoscersi davvero, serve quindi un lungo allenamento.

La posta in gioco è alta: dalla cura di noi stessi e del nostro benessere consegue anche il benessere di chi ci sta attorno, della nostra famiglia, dei nostri figli, dei nostri amici: «All’uomo si richiede appunto questo, che giovi agli altri uomini; se è possibile, a molti, se no, a pochi, se neanche questo può avvenire, giovi a chi gli è più vicino, se non è possibile, a se stesso. Difatti, quando si rende utile agli altri, compie un’opera di interesse comune. [...] Chiunque renda un buon servizio a sé, per ciò stesso giova agli altri» (De otio, 3, 5).

Esercizi pratici per una felicità duratura Quindi, basta poltrire, alzatevi dal divano e cominciate l’allenamento. Questi gli esercizi da fare per trovare una felicità duratura e non illusoria. 1. Non farti spaventare dalle difficoltà Nessuna difficoltà è insormontabile perché se «si possono raddrizzare i tronchi degli alberi, per quanto incurvati; le travi malamente contorte possono livellarsi al calore ed essere trasformate secondo le nostre esigenze, convinciamoci anche di quanto più facilmente può essere modellato l’animo, che è docile e flessibile più di qualunque liquido!» (Ep., V, 50, 6). Perciò: «Insisti, dunque, nei tuoi iniziali propositi, e forse giungerai alla vetta, o, almeno, più su del punto raggiunto da qualunque altro» (Ep., II, 20, 6). 2. Pensa prima alla mente e poi al corpo Proviamo a conquistare un benessere profondo, concentrandoci per prima cosa sulla salute dell’animo: «Se vorrai stare veramente bene, preoccupati anzitutto della salute dello spirito, poi anche dell’altra, che non ti costerà molta fatica» (Ep., II, 15, 2). Infatti «chi è schiavo del corpo, chi si preoccupa troppo per esso e lo pone al centro dei suoi interessi, diventa schiavo di molte cose. Nella nostra condotta dobbiamo essere convinti, non già di dover vivere per il corpo, ma di non poter vivere senza il corpo» (Ep., II, 14, 1-2). Palestra, parrucchiere, estetista, dieta a zona poi quella proteica passando per quella del minestrone: quanto tempo perdiamo nel cercare di aderire a un modello che non è quello di un vero benessere, sia pure solo corporeo, ma della rivista patinata? Ricordiamoci però che sono gli ignoranti a non cercare «le soddisfazioni dell’animo perché pensano solo al corpo. Ma l’uomo saggio, distinguendo l’anima dal corpo, s’intrattiene con quella sostanza divina che è la parte migliore di se stesso, mentre della querula e fragile parte corporea si occupa non più di quanto è strettamente necessario» (Ep., IX, 78, 8). 3. Fermati: quale senso hanno le tue azioni? Non illudiamoci con soluzioni temporanee perché anche se «corpo e anima non sono soci in parti uguali», tuttavia per «dare fermezza al

tuo animo, devi prima arrestare la fuga del corpo» (Ep., VII, 69, 1). Cosa intenderà dire Seneca con queste parole? Troppo spesso inganniamo noi stessi illudendoci che sarà la vacanza verso paesi esotici o in spa lussuose a farci ritrovare la giusta carica, sarà il viaggio mistico a permetterci di disintossicarci dagli altri e da noi stessi perché avremo finalmente il tempo necessario per prenderci cura del nostro spirito: «E tu, che hai l’animo in tante parti spezzato e contorto, credi di poterlo guarire cambiando paese? Il male è troppo grave perché lo si possa curare in lettiga. [...] Dunque, correggi te stesso, sgravati dal peso delle tue colpe, trattieni i tuoi desideri entro limiti ragionevoli, per poi liberartene del tutto; sradica dall’anima ogni disonestà. Se vuoi godere la gioia del viaggiare, devi anzitutto sanare il compagno che è in te» (Ep., XVII, 104, 18-19). E se ancora non siamo convinti dell’inutilità del viaggio come cura dell’animo, pensiamo che anche Socrate consigliò questo a un tale che si lamentava di non aver avuto nessuna utilità dai viaggi: «È naturale che sia così; tu viaggiavi in compagnia di te stesso. Oh, quanto gioverebbe a certe persone se potessero allontanarsi da sé! In realtà sono oppresse da se stesse, si angustiano, si danneggiano, si sgomentano. Che giova attraversare i mari e andare di città in città? Se vuoi sfuggire ai mali che ti assillano, non devi andare in un altro luogo; devi essere un altro uomo» (Ep., XVII, 104, 7-8). 4. Fissa un obiettivo chiaro a cui tendere «Infatti coloro che saltano da un proposito all’altro o, peggio, si fanno trascinare da una qualunque circostanza, sempre incerti e vaganti, come possono avere una condotta sicura e stabile?» (Ep., III, 23, 7). Chiediamo perciò a noi stessi quali aspetti del nostro carattere vorremmo migliorare. Utile potrebbe essere lo stilare una lista e provare ogni giorno a spuntare l’obiettivo che ci eravamo prefissati. Obiettivo: Essere meno permalosi Cura: di fronte a una battuta, non prendiamocela ma ridiamoci sopra. Obiettivo: Essere più socievoli Cura: in coda al supermercato attacchiamo discorso con uno sconosciuto. Obiettivo: Essere più tolleranti Cura: chiamare la suocera e chiederle come sta. Obiettivo: Essere più umili

Cura: chiedere aiuto per aggiustare il tubo del lavandino che perde da mesi.

La vostra meta è stare bene: fate passi (anche piccolissimi) ogni giorno Se avremo la costanza di allenarci, seguendo pian piano questi piccoli esercizi, sarà più facile superare le insicurezze che troppo spesso costituiscono il motivo del nostro malessere. Spesso, infatti, è proprio l’insicurezza a immobilizzarci e a condannarci a una fastidiosa inerzia di fronte alla vita: è la mancanza di una meta chiara e l’incoerenza esistente tra azioni e propositi a infiacchirci: «Nessuno mette innanzi a sé una meta precisa; e se anche lo fa, non è costante, ma cambia strada; e non soltanto la cambia, ma torna indietro e rivolge i suoi passi a ciò che aveva abbandonato e condannato» (Ep., II, 20, 4). Solo se avremo il coraggio di curarci, di allenare duramente il nostro animo giorno per giorno in modo tale che sia in grado di mantenere saldamente il timone della nave, potremo essere veramente felici e padroni di noi stessi perché: «Tutti i beni che derivano dalla fortuna possono procurare gioia e utilità solo se il suo possessore è anche padrone di sé e non è schiavo delle sue cose» (Ep., XVI, 98, 1). Infatti «per quanto essa [l’anima] sia saggia, per quanto agisca sempre dopo maturo esame, per quanto stia attenta a non tentare niente al di sopra delle sue forze, non otterrà quel bene inalterabile e sicuro da ogni minaccia se non avrà da opporre ben salda la sua certezza all’incertezza delle cose» (Ep., XVI, 98, 2). L’allenamento richiesto per questo tipo di gara è veramente duro e ogni tanto potrà accadere di essere assaliti dallo sconforto. Ricordiamoci però che tanto avremo già fatto, se ogni giorno riusciremo a smussare qualche nostro difetto, grande o piccolo che sia, e per darci forza ripetiamoci questa massima: del maestro Yagyu Munenori: «La polvere e il sudiciume offuscheranno la luccicanza di una pietra preziosa, se questa non è ancora stata levigata. Una volta levigata, la pietra preziosa rimarrà pura in mezzo al fango. Il gioiello della mente si leviga attraverso la disciplina».

Fate un check-up quotidiano «Quale tua malattia hai guarito oggi? A quale vizio hai opposto resistenza? Sotto quale aspetto sei migliorato?» (De ira, III, 36). Queste erano le domande che Seneca si rivolgeva tutte le sere prima di dormire. Una pratica appresa dallo stoico romano Sestio, in grado di rimetterlo in pace con la sua coscienza, predisponendolo a un buon sonno. Noi non siamo stoici e, con Seneca, stiamo imparando a essere saggi, ma non lo siamo ancora. Quindi dobbiamo prendere con grande cautela questo suggerimento, senza pretendere troppo da noi stessi, o almeno non tutto e subito. Quindi, la sera a letto, chiudiamo gli occhi prima di dormire e proviamo a visualizzare la nostra giornata. Magari non avremo guarito malattie, non avremo portato a termine chissà quali affari, ma forse avremo evitato di accendere l’ennesima sigaretta dopo pranzo, o ci saremo iscritti al corso di sommelier che desideravamo da sempre, o avremo accettato un invito a cena, il primo dopo il divorzio. Guardiamo quel successo: per quanto piccolo, è un successo. Lo abbiamo fatto per noi e per il nostro bene. Sera dopo sera, vittoria dopo vittoria, oltre a una buona dormita, impareremo a trovare in noi la forza necessaria per raggiungere un nuovo successo il giorno dopo. Quindi anche noi possiamo provare a seguire l’esempio di Seneca, presentandoci al «tribunale della nostra coscienza» e chiedendoci: «Quale tua malattia hai guarito oggi? A q ual vizio hai opposto resistenza? Sotto quale aspetto sei migliore? [...] Che c’è mai di più bello di questa abitudine di pesare l’intera giornata? Che bel sonno viene dopo l’esame di se stesso. [...] Mi avvalgo di questa facoltà e ogni giorno compaio al tribunale della mia coscienza. [...] Io esamino attentamente la mia intera giornata e passo in rassegna le mie azioni e le mie parole: nulla mi nascondo, su nulla chiudo un occhio. Perché dovrei temere qualcuno dei miei errori, potendo dire: “Bada di non farlo più, per questa volta ti perdono”» (De ira, III, 36). Durante la giornata abbiamo fatto cose di cui non siamo soddisfatti? Siamo esseri umani e siamo sulla via della saggezza, non dobbiamo abbatterci ma ripeterci che ci impegneremo a non ripetere l’errore e ogni tanto, oltre a esercitare la funzione di accusatore e di giudice, concediamoci anche quella dell’avvocato difensore, come

suggerisce Seneca a Lucilio alla fine della ventottesima lettera. In quest’esame di noi stessi, non concediamo spazioai disfattisti, a coloro che ritengono inutile qualsiasi cambiamento perché tanto la perfezione non è raggiungibile: magari non raggiungeremo la saggezza perfetta, quella che ci permette di mantenere quella gioia costante e duratura, ma l’esserci migliorati anche di poco, giorno dopo giorno, è un risultato di cui essere molto fieri, che ci dimostra quan to siamo vicino agli dei. Perciò a coloro che ci ripetono che è inutile la fattura all’elettricista perché tanto i veri evasori sono altri, la raccolta differenziata perché tanto in discarica tutto viene mescolato, il parcheggiare negli appositi spazi e chissenefrega della mamma con la carrozzina o peggio di chi sulla carrozzina è costretto a stare tutta la vita, a costoro ribattiamo: «Intanto non sono da disprezzare le parole buone e l’animo colmo di buone intenzioni. Coltivare benefiche inclinazioni è comunque lodevole al di là del risultato. Niente di strano se non arriva in cima chi ha tentato una scalata difficile. Se sei un uomo guarda con rispetto a chi si cimenta in grandi prove, anche se fallisce» (De vita beata, 20, 1). Perciò, prima di spegnere la luce, di fronte a qualche piccolo fallimento ricordiamoci che almeno ci abbiamo provato e «abbiamo camminato verso gli dei e anche se non li abbiamo raggiunti almeno siamo caduti in un’ardita impresa» (De vita beata, 20, 5).

Non arrendetevi mai: voi siete la vostra cura

Imparate a credere in voi Ricordate il cartone animato Dumbo? Era l’elefantino che, grazie alle grandi orecchie, era in grado di volare sebbene attribuisse questa capacità ai poteri della piuma magica donata dall’amico Timoteo. Durante un’esibizione di volo, Dumbo perde la piuma e sembra che lo schianto al suolo sia inevitabile fino a quando l’amico gli rivela che la piuma non è mai stata magica e che pertanto è ancora in grado di volare. Dumbo, grazie alla riconquistata fiducia in sé, riesce a tirarsi fuori dalla picchiata e volare intorno al circo di fronte a un pubblico stordito che guarda con stupore. «Tirati su, respira a pieni polmoni e, se ce la fai, supera questo pendio tutto d’un fiato» (Ep., IV, 31, 4). Così Seneca esorta l’amico Lucilio, e noi con lui, ad affrontare la vita e subito aggiunge: «Non voglio che tu ti arrendi o ceda». Quindi dobbiamo riuscire ad abbandonare la piuma come Dumbo e imparare a credere in noi stessi, infatti «una delle cause delle nostre miserie è che noi viviamo seguendo l’esempio altrui e, invece di regolarci secondo ragione, ci lasciamo trascinare dalla consuetudine. Se fossero pochi a fare una cosa, noi non avremmo voglia di imitarli; ma una volta che s’è generalizzata una moda, la seguiamo, nella convinzione che una cosa diventi onorevole se è fatta da molte persone. Così per noi l’errore prende il posto dell’azione retta quando è diventato l’errore di tutti» (Ep., XX, 123, 6). Spesso è la scarsa fiducia che nutriamo in noi stessi a renderci schiavi delle consuetudini e del modo di pensare della maggioranza: è come se fossimo in un bosco e seguissimo il sentiero già tracciato, senza chiederci se è l’unica strada possibile. E così, ecco che ci troviamo a studiare in una facoltà che non ci piace perché con la musica non si paga l’affitto, ci teniamo stretto il lavoro a tempo indeterminato perché troppo rischioso metterci in proprio e investire tutti i risparmi in una pasticceria, non ci sposiamo perché non solo abbiamo poca fiducia in noi stessi ma anche nel nostro compagno/a, non facciamo figli perché oltre a non

avere fiducia in noi e negli altri ne nutriamo molto poca anche nel futuro. Ogni qualvolta, dobbiamo prendere una decisione che ci faccia deviare dalla strada battuta, proviamo a pensare a questo: «L’animo raggiunge tutte le mete che si propone: [...] chi ha rinunciato al vino, chi all’amore, chi a ogni bevanda; c’è chi si contenta d’un breve sonno e prolunga la veglia senza sentire stanchezza; c’è chi ha imparato a correre su funi sottilissime e tese e a portare pesi che la forza umana regge a fatica e a discendere a grandi profondità, resistendo sott’acqua senza alcuna possibilità di respirare. Ci sono mille altri casi in cui l’ostinazione vince ogni ostacolo e dimostra che non ci sono difficoltà, quando la mente si impone da sola la sopportazione» (De ira, II, 12). E ancora: «Perché non dovremmo aver fiducia? Tutto quello che altri furono capaci di fare, anche noi possiamo farlo, purché purifichiamo il nostro cuore e seguiamo la natura. Chi invece si allontana dalla natura, cadrà in balìa delle cupidigie, delle paure e dei capricci della sorte» (Ep., XVI, 98, 14). Quindi è in noi stessi che dobbiamo trovare la forza per andare avanti, dobbiamo fidarci delle nostre capacità perché è in noi che dobbiamo cercare quel baricentro che ci spinge ad avanzare e ricordarci che «l’unico bene, che è la condizione fondamentale per una vita felice, è la fiducia in se stessi» (Ep., IV, 31, 3). Solo se saremo convinti del nostro valore saremo in grado di affrontare tutte le prove che la vita ci presenta perché: «Tutte le disgrazie che fanno paura agli altri, se costituiscono il prezzo dovuto per una nobile impresa, [il saggio] non solo le sopporta, ma le abbraccia; e preferisce sentirsi dire non “che uomo felice!” ma “che uomo coraggioso!”» (Ep., VIII, 71, 28).

Le difficoltà sono tutte nella vostra testa E se ancora una volta non facessimo il «salto», quello che ci permetterebbe di cambiare una vita che, per come l’abbiamo costruita, non ci piace perché ci sta stretta o, peggio, non ci assomiglia, perché condizionati ancora una volta dall’opinione altrui? Perché gli altri pensano che sia «difficile»? Ma siamo sicuri che sia poi così difficile e la difficoltà non sia solo una nostra costruzione mentale? Lo stesso Seneca ipotizza questa possibilità: «Tante volte m’imbatto in coloro che considerano inattuabile tutto quello che essi non riescono a fare e affermano che noi parliamo di cose troppo ardue perché la natura umana possa sopportarle. Ma io ho di loro una migliore opinione: anch’essi hanno la capacità di fare queste cose, ma non ne hanno la volontà. [...] Non le affrontiamo non perché siano difficili; ma sono difficili perché non le affrontiamo» (Ep., XVII, 104, 25-26). Dello stesso parere è il saggio Miyamoto Musashi: «Al principio tutte le cose sono difficili. L’arco è difficile da tendere, la spada è pesante da brandire, ma quando ti sei abituato a maneggiare l’arma, questa diventa un’estensione del tuo corpo». A volte è solo la difficoltà, reale o apparente, a spaventarci impedendoci di metterci alla prova. Niente ansia, ci dice Seneca cosa fare: se siamo giunti al punto di capire che questa non è la vita che fa per noi, che questa facoltà ci fa solo perdere tempo, che questo lavoro, oltre allo stipendio, non ci darà nient’altro, allora siamo già a metà strada sulla via della conquista della fiducia in noi stessi, pronti a mollare la presa dalla piuma. Concentriamoci allora sulle parole di Seneca che di «cambiar vita» ha una certa esperienza: «L’uomo non deve lasciarsi corrompere né sopraffare dalle cose esterne, deve puntare esclusivamente su se stesso, fiducioso nelle sue capacità e pronto anche a risultati indesiderati, artefice della sua vita. La sua fiducia sia accompagnata dal sapere, il suo sapere dalla fermezza» (De vita beata, 8, 3).

La libertà è il bene più grande

Siete ancora distanti dalla libertà? • Se siamo riusciti a stare in compagnia di noi stessi senza la paura di guardarci allo specchio; • Se abbiamo accettato di curare quelle parti di noi che meno ci piacciono; • Se abbiamo acquisito quella costanza che ogni giorno ci spinge ad allenarci perché consapevoli che «imparare a vivere» è la gara più dura; • Se abbiamo preso fiducia in noi stessi tanto da virare il timone in direzione contraria alla rotta inizialmente decisa; allora siamo arrivati a impossessarci del bene più grande: la libertà che «non la possiede né chi l’ha comprata né chi l’ha venduta; bisogna che tu stesso ti provveda questo bene; chiedilo a te stesso» (Ep., XI, 80, 5).

Che cos’è la libertà? Per Seneca, la libertà è una questione che riguarda unicamente se stessi e la propria anima e consiste nel «non essere schiavo di nulla, di nessuna necessità, di nessun caso della vita, anche spiacevole, costringere la Fortuna a confrontarsi con armi pari» (Ep., I, 8, 7) o «nell’innalzare l’animo al di sopra delle offese e nel formare se stesso in modo tale che soltanto da sé scaturisca tutto il bene di cui bisogna gioire, nel separare da sé le cose esterne, affinché non si debba condurre una vita inquieta temendo il riso di tutti, la lingua di tutti» (De const. sap., 19, 3). La vera libertà consiste nell’essere totalmente padroni di sé e della propria vita, non permettendo a niente e nessuno di «viverci», perché gli unici timonieri siamo noi o come dice Seneca: «Vuoi sapere che cos’è quest’assoluta libertà? Non temere gli uomini né gli dèi, non volere né la disonestà né gli eccessi; esercitare un assoluto potere su se stessi. È un bene inestimabile arrivare ad appartenersi interamente» (Ep., IX, 75, 9). E non nascondiamoci dietro la scusa che non ce lo possiamo permettere perché la vera libertà «è un bene che non è posseduto né da chi compra, né da chi vende. Te lo devi dare tu; a te devi ch iederlo. Anzitutto, lìberati dalla paura della morte, che t’impone il suo giogo; poi dalla paura della povertà» (Ep., IX, 80, 4-5).

Come impossessarsi della libertà Questa potrebbe essere la ricetta di Seneca per chi cerca la libertà: •Disporre di se stessi grazie a una profonda conoscenza del proprio animo; •Fare in modo che la mente trovi un punto di appoggio, sia sicura di sé e si piaccia; •Discernere tra beni effimeri e beni reali; •Disprezzare quelle cose che ci imprigionano. Se queste pratiche e i consigli di Seneca non bastassero, possiamo farci aiutare dall’alleata numero uno: la filosofia, intesa molto semplicemente come esercizio della nostra innata e naturale propensione alla conoscenza, all’essere curiosi di fronte al mondo e alla vita. E ogni volta che dubiteremo delle nostre capacità filosofiche, potremo sempre rileggere questo brano di Seneca, in cui ci vengono ricordate tutte le cose belle che abbiamo a disposizione: «La natura ci ha dato un carattere curioso e, consapevole della sua abilità e bellezza, ci ha generati come osservatori di sì grandi spettacoli naturali [...] Affinché tu sappia che essa ha voluto che noi la contemplassimo, non soltanto la guardassimo, vedi quale posto ci ha assegnato: ci ha collocati nella sua parte centrale e ci ha concesso la facoltà di guardarci tutt’intorno; non solo ha dato all’uomo la statura eretta, ma per renderlo anche atto alla contemplazione [...] lo ha dotato di una testa elevata e l’ha posta su di un collo flessibile; poi, facendo avanzare sei costellazioni zodiacali di giorno e sei di notte, ha dispiegato ogni sua parte, di modo che, attraverso queste realtà offerte alla vista dell’uomo, gli accendesse il desiderio di conoscere anche le altre. [...] Il nostro pensiero penetra nei baluardi del cielo e non si accontenta di conoscere ciò che si manifesta: “Esploro” dice» (De otio, 5, 3-5).

Terza parte

Fatevi guidare dal destino

Di cosa parliamo quando parliamo di destino

Prendete bene la mira «Nessun pittore, per quanto abbia pronti tutti i colori, potrà ritrarre qualcosa se non conosce l’oggetto che vuol rappresentare. Noi tutti siamo in errore, poiché prendiamo sempre le nostre decisioni sui particolari della vita, mai su tutta la vita. Chi vuol scagliare il dardo deve sapere qual è il bersaglio; e allora potrà prendere la mira e regolare con la mano il tiro» (Ep., VIII, 71, 2-3). Quindi, per prima cosa mettiamo a fuoco gli obiettivi che vogliamo raggiungere e con tenacia perseguiamoli. Scegliamo arco e frecce con cura, mettiamoci nella posizione giusta, puntiamo il bersaglio e scagliamo la freccia. La nostra esecuzione è attenta, ma spesso non basta. Non abbiamo messo in conto un aspetto fondamentale che Seneca conosce bene: il destino.

Non potete controllare tutto (fatevene una ragione) Dobbiamo quindi convincerci di questo: le possibilità che abbiamo di controllare il futuro sono nulle. Non tutto andrà secondo i nostri piani: dal banale smarrimento delle chiavi di casa alla perdita del treno che ci avrebbe portato finalmente in vacanza, a eventi più tragici, come la malattia o la morte di una persona cara. Inesorabilmente e senza alcun preavviso le cose accadono. Non è detto però che l’inaspettato porti con sé solo eventi seccanti o tristi: spesso, infatti, accade anche il contrario o potrebbe, se ci predisponessimo ad accettare l’inatteso. Nel Verbale scritto Bruno Munari a proposito del caso dice: «Il caso è l’imprevisto / a volte terribile / a volte piacevole / l’incontro con una persona / con la quale si stabilisce subito / un contatto di simpatia o di amore, / l’esplosione di un’idea risolutrice / la scoperta di un fenomeno». Dovremmo imparare dalla filosofia orientale: accettare che le cose avvengano, traendo da queste il massimo profitto possibile, proprio come i surfisti che cavalcano le onde e, più sono alte, più permettono all’atleta di dimostrare la propria abilità. Così dovremmo provare a fare anche noi: dopo aver accettato che presto o tardi l’onda arriverà, dobbiamo affrontarla con coraggio, imparando pian piano a planare lungo la parete dell’onda. A questo proposito Issai Chozanshi: «Vita e morte, b uona e cattiva sorte sono materia del destino. Se provi desiderio, ingombri la mente con l’attaccamento; se provi odio, la rendi sofferente. Rattristarsi per qualcosa che non sei capace di fare o per un sapere che ti è precluso è l’apice della stupidità. Semplicemente non fare resistenza e sii soddisfatto di quanto ti accade».

Imparate a essere flessibili Per quanto sia importante avere obiettivi chiari, manteniamoci flessibili e pronti ad accogliere cambiamenti di rotta senza andare noi in frantumi. La nostra quotidianità ogni giorno viene messa alla prova sia dalle conseguenze dirette di nostre azioni sia da eventi sui quali non possiamo esercitare alcun controllo: nel primo caso rientra l’urlata del capo qualora ci scopra a fare un solitario mentre avremmo dovuto essere in altro affaccendati; nel secondo, invece, la febbre di nostro figlio il giorno in cui avremmo dovuto partire per le vacanze. Se avremmo potuto facilmente evitare la sfuriata del capo e quindi siamo noi gli unici responsabili, nel secondo caso, invece, l’unica cosa da fare è non farsi prendere dal panico e gestire al meglio la situazione: possiamo posticipare il volo? Sta davvero così male da non partire? Dobbiamo riuscire a bilanciare gli obiettivi a cui tendere con le altre variabili che la vita ogni giorno ci presenta: l’importante è essere pronti a gestire l’imprevedibilità. Anche Seneca ne è convinto e ci suggerisce un metodo: «È la legge della tua esistenza: ogni cosa che può accadere, pensiamola come cosa che debba accadere» (Ep., III, 24, 15): ancora meglio sarebbe assurgerla a regola di vita, proprio come fa lo stesso Seneca: «In tutte le vicende che mi sembrano avverse e dolorose, ecco la regola che mi son fatto: non obbedisco, ma consento alla volontà divina; la seguo spontaneamente, non per necessità. Non mi accadrà mai nulla che io accolga con animo triste e con volto corrucciato; pagherò sempre volentieri il mio tributo» (Ep., XVI, 96, 2). Alleniamo ogni giorno la nostra flessibilità, senza farci prendere dalla rabbia davanti agli imprevisti, ma adattandoci alle circostanze e trovando piccole strategie alternative, saremo così pronti a reagire anche alle difficoltà più grandi «poiché non è gran cosa comportarsi da forte nella buona fortuna, quando la vita va a gonfie vele; anche la maestria del pilota non si rivela col mare calmo e il vento in poppa: ci vuole un’avversità che metta il cuore alla prova. E dunque non piegarti, anzi pianta saldo il piede e sostieni tutti i pesi che ti cadono addosso, senza farti atterrire oltre il fracasso del primo colpo. Nulla fa più dispetto alla fortuna di un animo sempre uguale» (Cons. ad Marc., 5, 5). Quindi, anche se abbiamo perso il treno e gli amici ci aspettano, a

nulla serve arrabbiarsi eccessivamente: convinciamoci che la vacanza non è rovinata ma solo posticipata. Grazie a (e non a causa di) questo imprevisto possiamo: andare a comperare i libri da leggere sotto l’ombrellone (non avevamo fatto in tempo perché troppo impegnati tra la preparazione delle valigie e il finire di rispondere a tutte le email), organizzare con l’amico che non vediamo da tempo quella cena rimandata da mesi, goderci la casa senza l’ansia di dover far qualcosa, perché già tutto ordinato in vista della partenza... Insomma, il ventaglio delle possibilità è infinito a patto di essere in grado di trarre il massimo profitto dalle circostanze, soprattutto se inaspettate. L’importante però è non farsi sopraffare dagli eventi e cercare di essere ottimisti perché spesso quella che all’inizio sembra una disgrazia si rivela poi essere l’inizio di una brillante fortuna! «Quante volte quella che consideravamo una disgrazia è stata causa e principio di prosperità!» (Ep., XIX, 110, 3).

Guardate gli imprevisti con altri occhi Potrebbe, infatti, accadere che proprio su quel treno, quello che non avremmo dovuto prendere, incontreremo l’amore tanto atteso o ritroveremo quell’amico da tempo perso di vista o semplicemente viaggeremo più comodi e in silenzio perché tutti sono partiti il giorno prima. Per vivere il più possibile sereni, convinciamoci dell’illusorietà e dell’impossibilità di controllare gli eventi, proprio come ci invita a fare lo stesso Seneca: «Com’è stolto chi vuol disporre di tutta una vita, se non è padrone neppure del domani! Come sono pazzi coloro che danno inizio a vasti e ambiziosi programmi! “Farò quell’acquisto; costruirò quella casa; farò quel prestito; riscuoterò quella rendita; percorrerò quella carriera. Poi, giunto alla vecchiaia, stanco ma soddisfatto, potrò riposare.” Tutto è incerto, credimi, anche per chi ha successo, e nessuno può assicurarsi l’avvenire. Anche quello che abbiamo fra le mani ci sfugge e un accidente qualunque tronca l’attimo che stiamo vivendo» (Ep., XVII, 101, 4-5). E quindi, se ogni tanto proviamo uno strano fastidio misto a invidia verso tutti coloro che a dicembre hanno già programmato le vacanze estive, mentre noi facciamo fatica a organizzare il weekend, consoliamoci con le parole di Seneca che li definisce dei gran superficialoni, perché illusi di poter controllare il futuro: «Ci può essere mente più superficiale di quella di certi uomini e, in particolare, di coloro che si vantano programmatori? Si sono accollati un’occupazione troppo impegnativa. Illusi di poter vivere meglio, spendono la vita nel programmarsene una. [...] L’aspettare è il peggiore ostacolo al vivere, perché è condizionato dal domani e perde l’oggi. Il tempo che è nelle mani della fortuna lo programmi, e intanto lasci perdere quello che è in mano tua. Dove guardi? A che tendi? Tutto il futuro giace nell’incertezza: vivi subito» (De brev. vit., 9, 1).

Come affrontare i rovesci di fortuna

Suggerimenti per superare le difficoltà Purtroppo non c’è nulla di più democratico che un rovescio di fortuna, un brutto periodo in cui tutto sembra andar male, perché a «chiunque può capitare ciò che può capitare a qualcuno» (De tranq. an., 11, 8). Tuttavia tutti abbiamo le armi giuste per superare le avversità. Ovviamente, sebbene nessuno di noi sia così incosciente da augurarsi la perdita del lavoro, una malattia e un qualsiasi altro disagio piccolo o grande che sia per provare a se stesso e agli altri di «essere forte», tuttavia ricordiamoci che è sempre dentro di noi che dobbiamo trovare quella forza che ci permetterà di sopportare e resistere al vento che soffia in direzione contraria. O, per usare le parole di Seneca: «Io preferisco tener lontani da me i tormenti, ma, se debbo subirli, desidero comportarmi da uomo forte, virtuoso, coraggioso. Preferisco senza dubbio che non scoppi una guerra. Ma se scoppia, desidero sopportare con coraggio ferite, fame e tutte le sue fatali conseguenze. Non sono così pazzo da augurarmi una malattia, ma, se debbo ammalarmi, sarà mio desiderio evitare ogni atto d’impazienza e ogni debolezza femminile. Così, non sono i disagi che noi dobbiamo desiderare, ma è desiderabile la virtù che ce li fa sopportare» (Ep., VII, 67, 4). Così, quando per l’ennesima volta ci sarà stato rifiutato un prestito dalla banca perché in possesso di un contratto di lavoro atipico, quando nessuno tecnico saprà dirci perché il telefono comperato il mese prima non funziona, quando la ruota dell’auto si forerà proprio durante un temporale estivo e noi non sapremo da dove iniziare per ripararla, quando saremo assaliti da un generale stato di frustrazione perché niente sta andando per il verso giusto, respiriamo e proviamo ad applicare i suggerimenti di Seneca.

Periodaccio? Ne avete vissuti di peggiori «Spesso a una sciagura tien dietro una maggiore prosperità: molte cose che erano cadute sono risorte più grandi ancora» (Ep., XIV, 91, 13). Ma se pensare questo non basta a tirarci su, allora guardiamo alle nostre spalle e facciamo una rapida valutazione della nostra vita trascorsa; ci renderemo conto che già in passato abbiamo affrontato problemi più o meno gravi e ci accorgeremo che, in fin dei conti, siamo stati in grado di superare ogni situazione. E quindi perché ora non dovremmo più riuscirci? Convinciamo noi stessi che non è la prima difficoltà che abbiamo affrontato e, come ne siamo venuti fuori una volta, ce la faremo anche ora. Per farci coraggio, proviamo a pensare a noi stessi come il gladiatore citato da Seneca che «giudica vergogna l’essere messo a combattere con un avversario più debole [...] Altrettanto fa la sorte: si sceglie come degni antagonisti i più forti. Certuni li ignora per disdegno, assale invece tutti i più risoluti e i più fieri» (De prov., 3, 4).

Il lato positivo delle difficoltà Forse ci può aiutare pensare a noi come a dei grandi alberi che il vento colpisce di frequente: è grazie a queste folate che, giorno dopo giorno, ci irrobustiamo, conquistando quella solidità che ci permette di affrontare gli eventi della vita, perché «non c’è albero solido e robusto, se il vento non lo colpisce di frequente: quel tormento lo rende più compatto e gli abbarbica più saldamente a terra le radici» (De prov., 4, 16). Ora, rafforzati da questa immagine, proviamo a guardare la situazione attuale con altri occhi e godiamoci la libertà che un debito lungo una vita ci avrebbe inevitabilmente sottratto, un pomeriggio lontano dagli scocciatori grazie al telefono rotto e rilassiamoci ascoltando il nostro cd preferito fintanto che aspettiamo il carro attrezzi che sostituirà il copertone forato.

Ricordatevi che non siete soli Se non riusciamo a trovare in noi stessi una motivazione abbastanza forte a cui aggrapparci per uscire da una situazione ovviamente più difficile rispetto a quelle menzionate sopra, proviamo allora a cercare questa forza nelle persone che amiamo, perché «chi non vive per nessuno, non vive neppure per sé» (Ep., V, 55, 5). Ci siamo appena separati da colui che pensavamo essere il compagno della vita e non riusciamo a trovare in noi quella forza sufficiente per voltare pagina? Del tutto normale. Magari però abbiamo dei figli e per loro abbiamo il dovere di ritrovare quella serenità perduta; ma anche se non dovessimo avere figli, ci saranno sicuramente delle persone, genitori o amici, che soffrono nel vederci stare male. Anche Seneca consiglia alla madre questa terapia: sarà nell’affetto del nipotino, della nipote e degli altri figli che dovrà trovare la forza necessaria per affrontare la sua lontananza (pensiamo che la lontananza a quei tempi non veniva mitigata da telefono, internet o anche solo dalla posta celere). Con grande dolcezza, Seneca scrive alla mamma: «Pensa ai miei fratelli: sinché stan bene non hai il diritto di accusare la fortuna. [...] Rivolgi poi il pensiero ai nipoti: a Marco, un amore di bimbo: quando c’è lui nessuna tristezza può durare; non c’è afflizione grande o recente che resista alle sue moine. Quali lacrime non asciugherebbe la sua allegria? Quale cuore stretto dall’angoscia non si aprirebbe alle sue monellerie?» (Cons. ad Helv., 18, 3-5). E più avanti scrive, riferendosi alla zia: «È questo, mia cara mamma, il conforto in grado di risollevarti: attaccati a lei più che puoi, stringiti saldamente al suo petto. Chi soffre ha l’abitudine di fuggire le persone più care per sfogare in libertà il suo dolore: tu, qualunque sia il tuo proposito, rifugiati in lei: che tu voglia perseverare in questo stato d’animo o uscirne, troverai in lei o la fine o una compagna del tuo dolore» (Cons. ad Helv., 19, 3).

Non isolatevi Qualsiasi sia l’avversità che ci accingiamo ad affrontare, non isoliamoci, perché «la solitudine consiglia sempre il male» (Ep., III, 25, 5); non crediamoci soli, usiamo le persone care sia chiedendo loro aiuto sia trovando in loro la motivazione per trovare la forza necessaria per uscire dalla tempesta perché «se eliminiamo ogni frequentazione degli altri e rinunciamo al genere umano e viviamo concentrati unicamente in noi stessi, farà seguito a questo stato di solitudine priva di ogni interesse la mancanza di cose da fare» (De tranq. an., 3, 7). In ogni situazione, perciò, cerchiamo di essere ottimisti perché «anche la sorte avversa è volubile: forse ci sarà, forse non ci sarà; e tu, fin tanto che non c’è, ripromettiti il meglio» (Ep., II, 13, 11).

Come dare ai problemi il giusto peso

Non ingigantite i problemi «Nessuna delle parole che ascoltiamo è innocua; ci nuoce chi ci fa un complimento; ci nuoce chi impreca contro di noi; come queste imprecazioni provocano nel nostro animo vani timori, così l’affetto di chi ci augura il bene ci vizia, poiché ci fa desiderare beni lontani, incerti e vaghi, mentre possiamo trovare in noi stessi il motivo per essere felici» (Ep., XV, 94, 53). Mentre andiamo alla ricerca di noi stessi, una delle prime cose da fare è convincerci che non è negli altri o negli eventi esterni che dobbiamo cercare la felicità ma solo dentro di noi. Anzi, facciamo attenzione a non fare nostre le convinzioni altrui, e a non conformarci agli altri. Ma non è cosa ovvia, in molti preferiscono nascondere un aspetto fondamentale della propria personalità e adeguarsi alla massa, dal momento che è opinione comune che la diversità, qualsiasi essa sia, porti inevitabilmente all’infelicità. Anche di fronte alle conseguenze di un incidente, indipendentemente dalla gravità, l’atteggiamento può essere duplice: o convincersi, insieme a tutti coloro che ci compatiscono, che nulla sarà più come prima o rimboccarsi le maniche e seguire l’esempio di coloro che hanno trovato, magari nello sport, un’occasione di rivincita sul destino. Seneca saggiamente suggerisce di «tollerare pazientemente quelli che non sono mali se non per chi mal li sopporta» (De prov., 4, 16). Saremo noi a trasformare un graffio in una profonda cicatrice o una profonda cicatrice in un graffio: dipenderà da noi e dal nostro atteggiamento capovolgere situazioni avverse in occasioni di riscatto, magari prendendo spunto da chi si è già trovato in situazioni simili riuscendo nell’impresa.

Applicate solo i vostri parametri Continuiamo a ripeterci, come fa Seneca, che «non è felice chi non crede di esserlo» (Ep., I, 9, 21) e che spesso non ci riteniamo tali solo perché non aderiamo ai parametri di felicità imposti dalla maggioranza. Quante volte la zia di turno si è detta dispiaciuta per noi perché siamo ancora single? O perché, invece di perseguire una brillante carriera, abbiamo preferito un lavoro più modesto che ci permette però di avere più tempo per noi? O perché siamo grassi? O perché, al contrario, troppo magri? Nei momenti in cui siamo assaliti dal dubbio, in cui dubitiamo di noi e delle nostre scelte e sottoponiamo a esame la nostra intera vita chiedendoci cosa sarebbe stato se..., cerchiamo sempre di guardarci dentro e valutare il nostro grado di serenità solo e unicamente tramite i nostri parametri, proprio come ci suggerisce Seneca: «Ogni volta che ti vengono intorno per persuaderti che sei un infelice, non prendere in considerazione quello che hanno detto gli altri, ma quello che tu senti, esamina la tua situazione con serenità e domanda a te stesso, poiché ti conosci meglio degli altri: per quale ragione costoro mi compiangono, sono in ansia per me, e hanno persino paura di starmi vicino, come se la mia sventura potesse contagiarli? È essa un male reale o piuttosto una falsa congettura?» (Ep., II, 13, 6). Perciò la prossima volta che dovremo affrontare una scelta o decidere quale strada intraprendere, facciamo come le stelle: non guardiamo «che cosa gli uomini giudichino turpe o misero, non seguiamo la via della massa, ma, come gli astri indirizzano il loro corso in senso contrario a quello del cielo, così egli [il saggio] procede contro l’opinione comune» (De const. sap., 14, 4).

Rendetevi conto che state meglio con meno

Imparate a vedere di cosa avete davvero bisogno «Disgraziati gli uomini dal palato sensibile solo ai cibi più costosi! E li fa costosi non la squisitezza del sapore o un piacere della gola, ma la rarità e la difficoltà di procurarli. Altrimenti, se volessero rinsavire, che bisogno ci sarebbe di tante attività finalizzate al ventre? Che bisogno di commerci? Di devastare i boschi, di frugare il fondo dei mari? Sono a portata di mano gli alimenti che la natura ha disseminato in ogni luogo; ma passano oltre come ciechi e percorrono tutte le regioni, varcano i mari e, pur potendo calmare la fame con quattro soldi, la stuzzicano a peso d’oro. [...] Non riflettete com’è piccolo il vostro corpo? Non è follia e il colmo dell’aberrazione contenere così poco e desiderare tanto? [...] Quando vi sarà andato bene un affare, quando le campagne militari vi avranno reso molto, quando avrete ammassato cibi da ogni parte, vi mancherà spazio per le vostre provviste. Che senso ha andare in cerca di tante cose?» (Cons. ad Helv., 10, 5-6). Proviamo a fare questo esperimento: apriamo il frigorifero e contiamo tutte le confezioni di cibo scadute o aperte e che sappiamo non finiremo mai. Bene, proviamo a fare lo stesso esperimento aprendo l’armadio, la scarpiera o semplicemente guardandoci intorno nella stanza. Senza farci assalire da immotivati sensi di colpa buonisti nei confronti di chi sta peggio, prendiamo semplicemente coscienza del fatto che compriamo e possediamo molto di più di quello che ci serve mentre, come dice Seneca, il limite della ricchezza sarebbe quello di «avere anzitutto l’indispensabile, poi ciò che basta» (Ep., I, 2, 6). Tutte le volte che a malincuore rinunceremo a un nuovo paio di scarpe, alla cena al ristorante, alla vacanza all’estero, a cambiare l’auto, pensiamo stoicamente, proprio come ci suggerisce Seneca, al fatto che i limiti imposti dalla legge di natura per vivere una vita dignitosa sono quelli di non soffrire la fame, né la sete, né il freddo. Lui stesso scrive: «Quello che la natura esige possiamo procurarcelo facilmente. Eppure ci affanniamo per il superfluo: per il superfluo ci logoriamo le vesti,

diventiamo vecchi negli accampamenti, ci avventuriamo in terre straniere; mentre ciò che basta ci è a portata di mano. Chi va d’accordo con la povertà è ricco» (Ep., I, 4, 10-11).

E ora circondatevi solo di quello Come nel caso della felicità, per cui spesso non ci consideriamo felici solo perché tale è l’opinione altrui, così vale anche nel caso della ricchezza. Il più delle volte, infatti, i parametri di valutazione del benessere economico vengono imposti dall’esterno e così ci sentiamo «poveri» perché trascorriamo le ferie dai parenti al mare invece di fare un viaggio all’estero. Vergognamoci perché «non abbiamo ancora il coraggio di vivere apertamente con semplicità, ma continuiamo a preoccuparci di quello che pensano i passanti» (Ep., XI, 87, 5). Gli esempi sarebbero infiniti e come dice Seneca: «È povero non chi possiede poco, ma chi brama avere di più» (Ep., I, 2, 6). Non siamo noi che dobbiamo invidiare i «ricchi», ma al contrario sono i «ricchi» che devono invidiare noi: l’essere «poveri» infatti ci rende liberi da un sacco di seccature! Seguiamo l’esempio di Seneca: «Osserviamo con un sorriso benevolo la vita affannosa dei ricchi e il correre qua e là di coloro che inseguono le ricchezze» (Ep., II, 17, 10). E se non siamo del tutto convinti: Grande villa con giardino? Manutenzioni a non finire, tasse sulla proprietà, paura per le possibili incursioni dei ladri... IL SUV? Difficoltà di parcheggio, uno stipendio che ogni volte se ne va per il carburante, grande produzione di inquinamento a danno delle generazioni future, gli insulti (giusti!) degli ambientalisti... Vacanze esotiche? Assicurazioni sui bagagli, malattie, stanchezza all’andata e al ritorno a causa del jet lag... Gioielli? Lo sanno tutti che sono pacchiani! Ristoranti? La salute e il fegato vi ringrazieranno! Seneca non risparmia neppure chi si vanta di essere compratore compulsivo di libri. Tant’è che scrive: «Solo così come per molti ignari anche di sillabari per l’infanzia i libri non rappresentano strumenti di studio ma ornamento delle sale da pranzo. Dunque ci si procurino libri nella quantità necessaria, non per rappresentanza. [...] Ormai infatti tra i bagni e le terme si tiene lustra anche la biblioteca

come un ornamento necessario della casa» (De tranq. an., 9, 7).

Il superfluo è una droga Infine pensiamo alle cose che compriamo come a delle vere e proprie droghe, dove l’ultimo acquisto porta inevitabilmente a un ulteriore acquisto in una catena senza fine. Convinciamoci che una scarpa con il tacco ci porterà all’inevitabile acquisto di un’ulteriore scarpa con il tacco che, come la precedente, verrà indossata una sola volta per poi restare confinata nell’armadio fino a quando risulterà fuori moda e verrà perciò gettata. L’atteggiamento mentale che abbiamo verso il superfluo ricorda da vicino quello descritto da Seneca: «C’è sempre stato qualcuno che, dopo aver avuto tutto, bramò ancora qualcosa: tanta è la cecità umana e tanto facilmente si dimentica il punto di partenza una volta che si è andati avanti sulla via del successo. Quegli che poco prima, non senza contrasto, era signore di un piccolo regno, raggiunti gli estremi confini della terra, si rammarica di dover tornare indietro attraverso il mondo ormai suo» (Ep., XX, 119, 9). Se siete però così sfortunati da appartenere alla categoria dei ricchi, siate perlomeno abbastanza saggi da ritenere le ricchezze che avete «leggere e volatili, senza lasciare che diventino un peso né per gli altri né per voi» (De vita beata, 23, 4) perché «non c’è niente di mirabile, eccetto l’anima; e se essa è grande, null’altro può esservi di grande» (Ep., I, 8, 5).

L’ironia rende liberi

L’importante è imparare a non farne un dramma Grazie a Seneca, stiamo pian piano diventando bravi surfisti, capaci di cavalcare anche le onde più alte e nessuna tempesta, per quanto forte, ci spaventa. Stiamo anche imparando a scavare dentro di noi per cercare la felicità, senza essere schiavi dell’opinione altrui, degli eventi e delle circostanze. Perciò, rilassiamoci perché siamo già a buon punto sulla strada della felicità vera, quella che non svanisce come un sogno al risveglio. Ora l’unica cosa che manca è imparare a ridere, o almeno a sorridere, perché nessuna medicina risulterà essere più benefica di una bella risata. Proviamo perciò a prendere spunto da Seneca che scrive: «La maggior parte delle occasioni mettiamole sul piano del gioco e dello scherzo» (De ira, III, 11). Seneca a tal proposito ci fa l’esempio di Democrito ed Eraclito: mentre Eraclito piangeva sempre perché vedeva in ogni cosa una disgrazia, Democrito rideva perché ogni cosa gli pareva una sciocchezza. «Occorre dunque saper sdrammatizzare ogni cosa e sopportarla con animo indulgente: è più degno di un uomo ridere della vita che piangerne. Aggiungi che acquista meriti maggiori per il genere umano chi ride piuttosto che chi piange: quello lascia a esso una qualche speranza, costui invece piange stoltamente delle cose che dispera possano essere corrette» (De tranq. an., 15, 2-3). Riflettiamo sulle parole di Seneca ascoltando e facendo nostre anche quelle dello scrittore francese Romain Gary: «L’iron ia è una dichiarazione di dignità. È l’affermazione della superiorità dell’essere umano su quello che gli capita».

Non prendetevi troppo sul serio Non basta sorridere della realtà e degli avvenimenti esterni, è necessario imparare a sorridere di noi stessi: più impareremo a essere autoironici, meno gli altri potranno offenderci perché «non si è mai esposto al ridicolo chi ha cominciato con il ridere di se stesso» (De const. sap., 17, 2) soprattutto: «Se voglio trastullarmi con qualche buffone, non devo cercarlo lontano: rido di me» (Ep., V, 50, 2). Quante litigate, musi lunghi, silenzi avremmo potuto evitare se avessimo risposto con una bella risata anziché offenderci? Spesso ci sentiamo offesi solo per il fatto che alcune cose, indipendentemente dal fatto che siano vere o meno, vengano dette di fronte a un pubblico: «Ci si è presi gioco della mia calvizie e della malattia degli occhi e della gracilità delle gambe e della statura: che contumelia è mai sentir dire ciò che è evidente? Ridiamo di qualche cosa se detta a tu per tu, ci indigniamo se detta in presenza di più persone, e ad altri non lasciamo la libertà di dire quello che noi stessi ci siamo abituati a dire contro di noi» (De const. sap., 16, 4). Con Seneca dovremmo perciò imparare a trasformare gli «insulti» in occasioni per farci una risata perché l’ironia è una delle armi più potenti che abbiamo per affrontare il mondo.

Esercizi pratici per riderci su Sebbene la maggior parte di noi non veda nulla di così complicato in una bella risata, in realtà è molto più difficile di quanto possa apparire a un occhio inesperto. Da Seneca possiamo apprendere qualche tecnica che ci faciliterà nel compito di trasformare un insulto in una risata. 1. Renditi conto che spesso gli insulti sono sfoghi Chi ci sta insultando pensa veramente quello che sta dicendo? Magari è stato mal informato oppure parla solo per sfogare la propria rabbia o frustazione: non vale certo la pena offendersi. Sorridiamo quindi di lui e della sua ignoranza, lasciamoci scivolare addosso la sua ira. 2. Non fare il permaloso Quanto stimiamo la persona che ci sta offendendo? Se ne abbiamo stima, fermiamoci e riflettiamo su quello che ci sta dicendo. Per esempio: sto imparando a cucinare e chi mi sta criticando è il mio insegnante di cucina? Sarei molto stupido a offendermi! Dovrei piuttosto ringraziarlo perché le critiche costruttive non sono insulti. Se al contrario non ho alcuna stima della persona che mi sta criticando, dovrei sentirmi sollevato: se disapprova la mia condotta, allora quello che sto facendo è sicuramente giusto! 3. Non metterti allo stesso livello Pensiamo a chi ci insulta come a un bimbetto saputello e comportiamoci come farebbe la sua mamma: non diamo peso a quello che sta dicendo perché ci metteremmo al suo stesso livello. O come dice Seneca: «Quanto è meglio prendere la strada opposta e non contrapporre colpa a colpa! Potrebbe forse pensare d’essere sano di mente uno che risponde coi calci ai calci d’una mula e coi morsi ai morsi d’un cane?» (De ira, III, 27).

Prendete a esempio l’autoironia degli antichi Prendiamo esempio da Catone che a uno sputo in faccia rispose con una battuta: «O Lentulo, dichiarerò a tutti che si sbagliano coloro che dicono che tu non hai bocca» (De ira, III, 38) o da Socrate che, a uno schiaffo ricevuto del tutto inaspettatamente, si limitò a dire che era uno guaio non sapere quando si doveva uscire indossando l’elmo (De ira, III, 11) o da Vatinio del quale Seneca scrive: «Si tramanda che Vatinio, uomo di natura tale da essere sia deriso che odiato, fu un buffone fine e mordace. Egli stesso sparlava moltissimo dei suoi piedi e della sua gola tagliata: così aveva evitato l’arguzia dei suoi nemici, che aveva in quantità superiore alle malattie, e soprattutto di Cicerone» (De const. sap., 17, 3). Quindi: «Dovremmo farci delle gran risate su ciò che invece ci fa piangere!» (De ira, III, 33) e ricordiamoci che, come dice Nietzsche in Così parlò Zarathustra: «Non con la collera, col riso si uccide».

Quarta parte

Vivete intensamente

Come imparare a sfruttare bene il tempo

Fate del tempo che scorre un alleato «Questo mondo impermanente è davvero un sogno nel sogno. Gli uomini di ieri non ci sono più oggi, e non è certo che quelli che vivono oggi ci siano domani. Il destino dell’uomo non si cura di attendere il tempo di un respiro. Il sole sorto al mattino cala dietro la vetta di una montagna di sera, e la luna sorta la sera segna l’inizio del nuovo giorno. I boccioli fioriti aspettano l’arrivo del temporale. Da tutte queste cose si capisce che la transitorietà non si limita alla vita dell’uomo» queste le parole del samurai Hojo Shigetoki. Il tempo corre: più lo rincorriamo, più sembra sfuggirci e quando crediamo di averlo finalmente acciuffato, ecco che ci sfugge ancora e perdiamo la presa. Seneca è consapevole di tutto questo, sa che il tempo non può né deve essere rincorso, e lo accetta con la consueta saggezza: «Parlo della nostra vita, che, ben lo sappiamo, si srotola con incredibile rapidità? Conta i secoli delle città: vedrai quanto poco durarono anche quelle che si vantano della loro antichità. Le cose umane sono tutte brevi e caduche, neanche un attimo del tempo infinito» (Cons. ad Marc., 21, 1-2). Seneca riflette continuamente sulla finitudine della vita, lo fa anche nelle lettere che scrive a Lucilio: «Della totalità del tempo a noi tocca meno di quella che si potrebbe chiamare una minima parte, poiché la minima parte è pure una qualche parte. La durata della nostra vita coincide quasi col nulla; e tuttavia – o, quale follia è la nostra! – vorremmo disporre di essa come se durasse a lungo» (Ep., XVI, 99, 31).

La vita è breve ma essenziale Per accettare con tranquillità e serenità questo flusso incessante da cui anche noi siamo travolti, incapaci di opporre alcuna resistenza, Seneca ci invita a fermarci e a riflettere. Proviamo a immaginare noi stessi come degli ingranaggi: se uscissimo dall’ordine prestabilito del tempo, la grande macchina del cosmo potrebbe smettere di funzionare a dovere. L’essere nel tempo e del tempo fa parte delle regole del gioco a cui stiamo partecipando che, in quanto gioco, ha un regolamento a cui attenersi. Il gioco è tale proprio perché ha delle regole da rispettare, quando le regole saltano anche il gioco salta. E così anche la vita. A illuderci sull’effettiva lunghezza della vita è la natura che, scandendone la scala in fasi, ce la fa apparire molto più lunga di come non sia in realtà: «La nostra vita è un attimo, anzi meno di un attimo; ma la natura, illudendoci, ci fa apparire come un lungo periodo di tempo quello che, in realtà, è brevissimo. Dividendo la vita in più parti, ha creato l’infanzia, la fanciullezza, la gioventù, l’età che va declinando dalla gioventù alla vecchiaia, la stessa vecchiaia. Quanti gradini ha posto in una scala così corta!» (Ep., V, 49, 3).

Imparate a utilizzare il tempo al meglio Il nostro vero problema non consisterebbe però né nella fugacità né nella brevità del tempo ma nell’utilizzo che ne facciamo. Il più delle volte buttiamo e sprechiamo il tempo a nostra disposizione senza neppure renderci conto della gravità della nostra azione: sembriamo dei bambini che si divertono ad annegare le formiche, riunendo in un solo gesto crudeltà, stupidità e ingenuità. Siamo crudeli non solo verso noi stessi ma anche verso gli altri: chi ci dice che anche domani avremo tempo per fare quella telefonata? Stupidità perché ci sentiamo superiori al resto del mondo e ingenuità perché crediamo di poter disporre del tempo a nostro piacere. «Abbastanza lunga è la vita e data con larghezza per la realizzazione delle cose più grandi, se fosse tutta messa bene a frutto; ma quando si perde nella dissipazione e nell’inerzia, quando non si spende per nulla di buono, costretti dall’ultima necessità ci accorgiamo che è passata senza averne avvertito il passare. Sì: non riceviamo una vita breve, ma tale l’abbiamo resa, e non siamo poveri di essa, ma prodighi. Come ricchezze grandi e regali in mano a un cattivo padrone si volatilizzano in un attimo, ma, per quanto modeste, se affidate a un buon amministratore, aumentano con l’impiego, così la durata della nostra vita per chi sa bene gestirla è molto estesa» (De brev. vit ., 1, 4): insomma, la vita è tutt’altro che breve, se vissuta intensamente.

Pensate a come e quando sprecate il tempo Siamo così immersi nelle attività di tutti i giorni, dal lavoro alla famiglia, da non renderci conto della preziosità del tempo che abbiamo a nostra disposizione. E la cosa peggiore è che il più delle volte lo sprechiamo facendo cose inutili o stando con persone che neppure stimiamo. Quante volte di ritorno da una serata, una volta a casa nel silenzio della notte, ci siamo chiesti di cosa abbiamo parlato, tanto la conversazione era inconsistente e vacua. Oppure, questo accade spesso nei fine settimana, ci siamo trascinati da una parte all’altra della casa senza fare proprio nulla? E soprattutto, quanto tempo perdiamo su Facebook e simili a farci i fatti altrui? Se sono persone che non vediamo da tanto tempo, ci sarà sicuramente un motivo: o non abbiamo niente in comune o i casi della vita ci hanno portato a percorrere strade diverse. In quest’ultimo caso, se davvero ci piacerebbe ristabilire una relazione, perché, invece di stare sulla soglia, non approfittiamo dell’occasione e ci mettiamo davvero in contatto? I consigli di Seneca mantengono freschezza e lucidità anche in quest’epoca 2.0 e i mezzi che abbiamo a nostra disposizione, se usati con criterio, possono darci l’opportunità di recuperare tempo e reinvestirlo in attività interessanti. Pensiamo a quanto tempo in passato avremmo dissipato per ritrovare una persona persa di vista: lettere, passaparola, sentito dire. Ora con una ricerca di un paio di minuti abbiamo la possibilità di ritrovare persone conosciute anni prima durante un viaggio dall’altra parte del mondo. Tutto si è velocizzato. Per alcuni è un bene, per altri un male: forse, come avrebbe detto Seneca, non è né l’uno né l’altro. Dipende solo da noi e dalla nostra capacità di usare il tempo e qualsiasi altro mezzo in modo intelligente. Seneca non accetta di vedere tanto spreco: «Perciò sono tanto più indignato nel vedere che alcuni sprecano in cose inutili la maggior parte di questo tempo, che non basta neppure per le cose necessarie, anche quando è speso con molta cura» (Ep., V, 49, 5).

Decidete cosa fare ora per ora La nostra vera colpa nella gestione del tempo starebbe però in quell’inerzia che ci rende schiavi degli eventi, facendoci perdere quel controllo che dovremmo invece avere su noi stessi e sulla nostra vita. Non siamo più noi a pilotare la nave ma le correnti che, approfittando della nostra pigrizia, ci spingono a caso nel flusso della vita. Seneca ci implora, attraverso l’amico Lucilio, di dare un taglio a questo atteggiamento: «Renditi veramente padrone di te e custodisci con ogni cura quel tempo che finora ti era portato via, o ti sfuggiva. Persuaditi che le cose stanno come io ti scrivo: alcune ore ci vengono sottratte da vane occupazioni, altre ci scappano quasi di mano; ma la perdita per noi più vergognosa è quella che avviene per nostra negligenza. Se badi bene, una gran parte della vita ci sfugge nel fare il male, la maggior parte nel non fare nulla, tutta quanta nel fare altro da quello che dovremmo» (Ep., I, 1, 1). Per Seneca, alla pigrizia aggiungiamo spesso anche una cattiva gestione, perché regaliamo il nostro tempo a caso: «Nessuno, che abbia cagionato perdita di tempo agli altri, pensa di essere debitore di qualcosa, mentre è questo l’unico bene che l’uomo non può restituire, neppure con tutta la sua buona volontà» (Ep., I, 1, 2). Agiamo come se il tempo non avesse alcun valore, salvo poi rendercene conto quando ormai è troppo tardi: «Mi fa sempre meraviglia vedere alcuni chiedere tempo e chi ne è richiesto così arrendevole; l’uno e l’altro guardano allo scopo per cui si chiede il tempo, nessuno dei due al tempo in sé: lo si chiede come fosse niente, lo si dà come fosse niente. Si gioca con la cosa più preziosa di tutte» (De brev. vit., 8, 1). Dal momento che macchine del tempo capaci di restituire quello perduto non sono ancora state inventate, l’unica soluzione che ci rimane è far tesoro di tutto il tempo che ci è stato concesso: siamo padroni di noi stessi solo se viviamo intensamente il tempo a nostra disposizione: «È un uomo davvero felice e ha il pieno dominio di sé, colui che aspetta l’indomani senza trepidazione. Chiunque può dire: “Ho vissuto”, s’alzerà l’indomani per guadagnare una nuova giornata» (Ep., I, 12, 9). Impariamo perciò a non vivere nell’indolenza, lasciando che il tempo sfugga via, prendiamo coraggio e impariamo a dare ordine alle

nostre giornate, vivendo il presente nel modo più intenso possibile, prendendo spunto anche dalla filosofia orientale: «Nella vita esiste solo lo scopo particolare del momento. Tutta la vita è formata da istanti che si susseguono. Una volta compreso questo principio, il samurai non deve mostrarsi impaziente e prefiggersi altri scopi».

Esercizio pratico: stilate una lista Un esercizio utile potrebbe essere quello di visualizzare nella nostra mente una lista delle cose veramente importanti da fare, quelle che, se anche la nostra vita finisse ora, non rimpiangeremmo. Perciò, non rimandiamo una chiamata che da tempo dobbiamo a fare, chiediamo scusa a coloro a cui abbiamo fatto un torto, andiamo a trovare una persona che non vediamo da tempo, non dimentichiamo di dire una parola di conforto a chi ci sta vicino, troviamo il tempo per farci una risata, facciamo un regalo a una persona a cui vogliamo bene per ricordarle che è speciale, dedichiamo tempo alle persone che più amiamo. Proviamo a fare come ci suggerisce Seneca, che non si stanca di ripetere che l’unica soluzione allo scorrere inesorabile del tempo è godere il più possibile di ogni istante che ci è concesso, e tutte le volte che abbiamo bisogno di un incoraggiamento rileggiamo le massime senecane che, con lucidità e acume, ci ricordano che la vita va vissuta qui e ora senza alcun indugio.

Come accettare la vecchiaia

Smettete di temere la vecchiaia «Nessuno di noi nella vecchiaia è lo stesso uomo che fu nella giovinezza; nessuno di noi è oggi quello che fu ieri. I nostri corpi vengono portati via come le acque dei fiumi. Tutto quello che vedi corre al ritmo del tempo: nessuna delle cose che vediamo è stabile. Io stesso, mentre dico che queste cose mutano, sono mutato» (Ep., VI, 58, 22), il tempo trascorre e, nonostante l’ineluttabilità, la vecchiaia rimane una delle nostre paure più grandi, tant’è che siamo infastiditi dal solo pensiero. Anche i nostri avi pare provassero lo stesso ribrezzo verso i capelli bianchi, tant’è che Seneca scrive: «Taluni malvolentieri sentono parlare della loro vecchiaia e della canizie» (De const. sap., 17, 3). Al di là delle rughe e dei capelli bianchi, la vecchiaia porta inevitabilmente con sé il decadimento fisico, la perdita delle persone amate e la morte: sembrerebbe perciò avere tutte le carte in regola per essere evitata il più possibile. Eppure per Seneca le cose non starebbero affatto così. Se siamo giovani, evitare di pensare al momento in cui saremo vecchi è un atteggiamento stupido e inutile perché, per quanti ritocchi, abbigliamento giovanile, intrugli miracolosi per la ricrescita dei capelli, tinture... prima o poi vecchi diventeremo. E come cerchiamo di arrivare a un esame o a un colloquio di lavoro preparati al meglio, così dovremmo fare con la vecchiaia: «C’è dunque dubbio che i migliori giorni fuggano ai mortali sventurati, ossia affaccendati? Sui loro animi ancora infantili piomba la vecchiaia, cui giungono impreparati e inermi, non avendola mai prevista: ci sono cascati di sorpresa, non si accorgevano che si avvicinava ogni giorno» (De brev. vit., 9, 4).

Come arrivare preparati alla vecchiaia Come fare? Com’è possibile arrivare preparati a un appuntamento tanto importante? Per Seneca la ricetta è sempre una: «Dove ti proietti? Tutto quello che deve avvenire è incerto: vivi senza indugio. Ecco, grida il più grande dei poeti e come per divina ispirazione canta un canto di salvezza: “I migliori giorni della vita sono i primi a fuggire per gli sventurati mortali”. “Che indugi?” dice “Che aspetti? Se non te ne impossessi, fuggono.” E anche quando te ne sarai impossessato, fuggiranno: bisogna dunque gareggiare in velocità col tempo e attingere presto come da un torrente rapido e non perenne» (De brev. vit., 9, 1-2). La vita fugge, non dobbiamo perdere tempo: corriamo e viviamola al meglio perché l’unico modo per arrivare preparati è vivere pienamente, essere padroni di noi stessi in ogni momento, convincerci che non siamo in balia degli eventi ma che, se lo vogliamo, possiamo dar loro una direzione, e tenere sempre in mente quali sono le vere priorità, le cose che ci rendono veramente felici. Ricordiamoci perciò le parole che Seneca rivolge all’amico: «Ti scongiuro, carissimo Lucilio, fa’ la sola cosa che può darti la felicità: disprezza e calpesta codesti beni che vengono dal di fuori, che ti sono promessi da questo o che speri da quello; mira al vero bene e gioisci di ciò che ti appartiene. Mi domandi che cosa ti appartiene? Sei tu stesso e la parte migliore di te. Anche questo nostro povero corpo, senza il quale non possiamo far niente, consideralo una cosa piuttosto necessaria che importante» (Ep., III, 23, 6). Per cui corriamo, sì, ma liberi dalle passioni e ricordando che la felicità viene dall’interno.

Anche se il corpo decade, l’animo migliora È proprio nel corpo che la vecchiaia si manifesta in tutta la sua evidenza. Non è detto però che a un corpo segnato dal tempo corrisponda uno spirito altrettanto ferito, anzi Seneca di se stesso scrive: «Tuttavia mi rallegro con me stesso: non sento nel mio spirito l’offesa degli anni, sebbene la senta nel corpo. Sono invecchiati solo i vizi e gli strumenti dei vizi. Ma l’animo è vigoroso e gode di non aver molto in comune col corpo; ha deposto gran parte del peso corporeo. È baldanzoso e discute volentieri con me sulla vecchiaia: dice che proprio ora egli fiorisce. Crediamogli e lasciamolo godere del suo bene. Esso mi invita a ragionare e a distinguere quanta parte di questa tranquillità e moderazione di costumi io debba alla saggezza, quanta all’età» (Ep., III, 26, 2-3). E a chi gli fa notare il peso di un corpo che non funziona come un tempo risponde che è un male apparente se impariamo a considerare il corpo come uno strumento necessario e non come un fine in sé: «In ogni caso, però, torna presto dal corpo all’animo e tienilo in allenamento notte e giorno; per il corpo basta un’attività moderata. Né il freddo, né il caldo, e neppure la vecchiaia, potranno impedire di esercitare le forze dell’animo: cura dunque questo bene, che diventa migliore col passare degli anni» (Ep., II, 15, 5).

La saggezza arriva con l’età Se apparteniamo alla cosiddetta terza o quarta età, seguiamo l’esempio di Seneca che, vantandosi di non appartenere più alla categoria dei vecchi bensì a quella dei «decrepiti, quelli che sono sull’orlo della tomba», ci suggerisce di godere di questo periodo della vita perché: «Devi pensare che non c’è alcuna età più adatta per conseguire la saggezza di quella che ha conquistato il dominio di se stessa a prezzo di molte esperienze, dopo lunghe prove e frequenti pentimenti; di quella età in cui l’uomo, calmato il tumulto delle passioni, può pensare ai rimedi. Noi ci troviamo in questo prezioso periodo della vita. Chiunque è giunto vecchio alla saggezza, ci è giunto attraverso il corso degli anni» (Ep., VII, 68, 13). Dall’alto dei suoi anni, Seneca può anche permettersi di rimproverare i suoi coetanei che, dimenticandosi di tutte le cose belle di cui hanno goduto, si crogiolano nelle loro malinconie: «È ingrato chi chiama torto la fine di un godimento, stolto chi crede solo alla fruibilità dei beni presenti, chi non si appaga anche di quelli passati e non li ritiene più sicuri perché non c’è timore che finiscano. [...] Perciò bisogna indirizzare il pensiero verso il tempo passato, riattualizzare e rimeditare di frequente tutto ciò che ci ha mai dato diletto: è più duraturo e fedele il ricordo che la presenza dei piaceri» (Cons. ad Pol., 10, 3). Quindi ricordiamo i bei momenti del passato: non dobbiamo essere malinconici perché sono trascorsi, ma riportali alla mente e riviverli.

Gli altri sono sempre un valido antidoto Come quando cerchiamo di mantenere alto il morale per non dare dispiacere ai nostri cari, così potremmo provare a fare quando siamo anziani. Renderemmo tristi i nostri amici e parenti se ci vedessero sempre assorti nelle nostre malinconie o nel dolore: «È segno di magnanimità tornare a vivere per il bene degli altri, e ciò fecero spesso uomini illustri. Ma, secondo me, dà prova di una grande sensibilità umana chi ha cura della propria vecchiaia, se sa che ciò è gradito e utile a qualcuno dei suoi cari, per quanto il massimo vantaggio di tale età sia nel vivere senza usarsi troppi riguardi» (Ep., XVII, 104, 4). E gli altri, a loro volta, possono farci del bene con la loro presenza: condividere una passeggiata, badare ai nipoti, fare volontariato in modo da essere a contatto con gli altri e sentirci utili: ognuno, a seconda delle proprie inclinazioni, può trovare la strada migliore per assecondare e, a volte riscattare, uno dei fini principali per cui siamo su questa terra, vivere per l’altro: «Come tutte le membra vanno d’accordo fra di loro, poiché è interesse del tutto che le singole parti siano salve, così gli uomini risparmieranno i singoli perché sono nati per la vita associata, e la società non può esser salva se non con la tutela e l’amore delle parti che la compongono» (De ira, II, 31). Ancora una volta, è il nostro essere stati creati per vivere in una società, il nostro bisogno di essere circondati dall’affetto di familiari e amici a darci quella forza per sopportare gli eventi della vita, come la vecchiaia.

Come accettare la malattia

Seneca da sempre convive con la malattia Spesso chi è malato si rinchiude in se stesso e nel proprio dolore pensando che nessuno lo possa capire davvero. Soffrendo di una malattia cronica, come l’asma, che gli rendeva difficoltosa la respirazione, Seneca ha le carte in regola per poter dare una mano a tutti coloro che sono malati: «La malattia, che mi aveva concesso un lungo congedo, mi ha di nuovo assalito. “Che genere di malattia?” chiederai. Hai ragione di fare questa domanda: infatti io le conosco tutte, le malattie. Tuttavia ce n’è una alla quale son quasi votato; non so perché si debba chiamarla con un nome greco, mentre posso ben definirla difficoltà di respiro. L’assalto del male è di breve durata; simile a un temporale, passa, di solito, dopo un’ora. Chi, infatti, potrebbe sopportare a lungo quest’agonia? Ormai ho provato tutti i malanni e tutti i pericoli, ma nessuno per me è più penoso. E perché no? In ogni altro caso si è ammalati; in questo ci si sente morire. Perciò i medici chiamano questo male “meditazione della morte”: talvolta, infatti, tale mancanza di respiro provoca il soffocamento» (Ep., VI, 54, 1-3). Seneca quindi riflette spesso sulla malattia, innanzitutto per sé, per farne tesoro per i posteri poi. Nelle sue lettere, arriva a teorizzare come alla base della sofferenza che caratterizza ogni malattia ci siano tre fattori comuni: la paura della morte, il dolore fisico, l’interruzione dei piaceri. Per contrastarli, Seneca si trasforma in un vero e proprio medico dell’anima, prescrivendo ricette e medicine.

È utile guardare la morte da vicino Le malattie ci fanno così paura perché ci portano inevitabilmente a confrontarci con il pensiero della morte. Seneca ne è ben consapevole e, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, reputa il memento mori della malattia una ricchezza, invitandoci a non sottrarci al confronto con la morte, ma a cercarlo. Chi è stato sul punto di morire, tornato alla vita la assapora e la vive in maniera più ricca e più consapevole. La medicina più utile per lenire le sofferenze, non solo fisiche, ma soprattutto spirituali consisterebbe nel guardare la morte da vicino: «Da parte mia, eccoti un consiglio che costituisce il rimedio non solo di questa malattia, ma di tutta la vita: disprezza la morte. Niente più ci rattrista, se ci liberiamo della paura della morte» (Ep., V, 79, 5). Se conosciuta e accettata, anche la morte e il pensiero della morte possono aiutare a vivere meglio e, addirittura, prolungare la vita: «A molte persone le malattie prolungarono la vita, e l’impressione di morire che esse ebbero fu salutare» (Ep., V, 79, 6). Lo stesso pens iero lo ritroviamo nelle parole di Daidoji Yuzan: «Chi aspira a essere un samurai deve costantemente tenere in mente la morte, notte e giorno, dal momento in cui prende le bacchette per consumare il primo pasto del nuovo anno fino alla sera dell’ultimo giorno dell’anno». Per fortuna la maggior parte di noi non ha avuto malattie tanto gravi da essere a un soffio dalla morte, ma tutti noi, bene o male, ci siamo trovati in situazioni che ci hanno spinti a riflettere sui pericoli scampati, per esempio una forte polmonite può farci meditare sulle nostre abitudini malsane e sulla scarsa cura che dedichiamo a noi stessi: quante volte abbiamo trascurato un sintomo perché impegnati in altro? Quante volte noi stessi abbiamo gettato le basi di quella malattia, magari accendendo l’ennesima sigaretta senza pensare al male che ci stavamo arrecando? Anzitutto consoliamoci perché siamo in buon compagnia. Anche Seneca, sebbene sia un maestro di saggezza, fece lo stesso: «[Il mio male] lo trascurai: la mia giovinezza sopportava agevolmente e quasi con spavalderia gli accessi della malattia» (Ep., V, 79, 1). Dandoci uno scossone, la malattia potrebbe essere addirittura benefica, incoraggiandoci a correggere tendenze malsane. In questo modo prolungheremo la vita e ritarderemo la morte: la malattia ci

stimolerà così a smettere di fumare o mangiare più sano o a bere con moderazione e a non rimandare la visita dal dottore. Stessa cosa potrà avvenire dopo un incidente: il ricordo di una clavicola rotta ci farà rallentare in auto, una gamba rotta ci farà prestare maggiore attenzione ai sensi unici in bicicletta, non saliremo più su una scala con le ciabatte e smetteremo di sopravvalutare le nostre doti calcistiche durante la partita con gli amici.

Davanti ai dolori acuti, il corpo si anestetizza Per quanto riguarda le sofferenze fisiche, Seneca scrive che la natura ci ha dato gli strumenti necessari per sopportarle: «Essa procura molte sofferenze, che però sono tollerabili, perché non sono continue. L’accesso violento di un dolore finisce presto: chi soffre molto non soffre a lungo. La natura, nella sua sollecitudine verso di noi, ci ha conformato in modo che il dolore fosse o tollerabile o breve» (Ep., IX, 78, 7). Quindi traccia il dolore, secondo la sua esperienza: «I più violenti dolori hanno sede nelle parti più magre del corpo; i nervi, le articolazioni e qualunque altra parte sottile nel nostro organismo ci dolgono acutamente quando il germe del male si raccoglie nel loro ristretto ambito. Ma presto queste parti s’intorpidiscono e perdono la sensibilità per l’eccessivo dolore, sia che lo spirito vitale, alterato e impedito nella sua funzione, resti affievolito e privo di ogni vigore, sia che l’umore corrotto, non avendo più dove sfociare, rimanga bloccato, togliendo la sensibilità alle parti che ha invaso» (Ep., IX, 78, 8). Insomma, il dolore acuto interessa parti ristrette del corpo; quindi prende in esame vari malanni: «Così nella podagra [ovvero l’artite acuta che interessa i piedi, nda], nella chiragra [l’artrite acuta che interessa le mani, nda] e in ogni dolore delle vertebre e dei nervi, quando gli organi prima tormentati perdono la sensibilità, ci sono intervalli senza sofferenze. La prima manifestazione di tutti questi mali fa molto soffrire, ma col tempo gli attacchi si placano, il dolore cessa e subentra un senso di torpore. Il mal di denti, e così pure il mal di testa e i disturbi agli occhi e alle orecchie, sono molto violenti appunto perché si manifestano in organi molto delicati; ma, se diventano eccessivi, si convertono in uno stato di assopimento. Pertanto un dolore acuto dà questo conforto: se lo si sente troppo, si finisce, di necessità, col non sentirlo affatto» (Ep., IX, 78, 9-10). Quindi mal di denti, mal di testa, artrosi, mal d’orecchi: il corpo resiste ai dolori acuti, anestetizzandosi. A q uesta difesa naturale aggiungiamo gli antibiotici, gli antidolorifici, le pratiche anestetiche e tutti i progressi raggiunti dalla medicina negli ultimi sessant’anni e scopriremo che, rispetto a Seneca, abbiamo di che consolarci.

Il corpo accetta di rinunciare al superfluo Spesso una malattia ci porta a dover rinunciare, a volte solo temporaneamente, altre volte per sempre, a piccoli piaceri quotidiani. Anche in questo caso, Seneca si comporta da bravo medico trovando una parola di conforto per il paziente: la rinuncia ci peserà solo per breve tempo perché piano piano ciò che ci procurava piacere, come la sigaretta dopo il caffè, ci farà storcere il naso per il disgusto: «“Ma” dirà qualcuno “è triste dover rinunciare ai piaceri abituali, astenerci dal cibo, soffrire la sete e la fame.” In un primo tempo – è vero – queste privazioni pesano; poi i desideri cominciano ad affievolirsi, perché si indeboliscono e vengono meno le cause che a essi danno origine e, poco alla volta, lo stomaco perde l’appetito e l’avidità del cibo si converte in nausea» (Ep., IX, 78, 11). Quindi può capitare che proprio una malattia o un malessere generale (fatica a fare le scale, esami del sangue sballati...) sia la molla che ci spinge a un cambiamento sostanziale della nostra condotta. Perciò la prossima volta che ci ammaliamo, pensiamo alla malattia come a una sfida e poco per volta proviamo ad alzare l’asticella. Abbiamo diminuito il numero di sigarette per ridurre il rischio di un tumore o di caffè per far abbassare la pressione? Bene, ma non accontentiamoci e trasformiamo il risultato raggiunto in un nuovo punto di partenza per temprare il nostro spirito di fronte alle avversità, senza farci travolgere dagli eventi. Abbiamo diminuito il numero delle sigarette da 15 a 10? Ottimo perché ora è giunto il momento di ridurle a 5 e, se riusciremo in questa sfida, saremo in grado si smettere definiti-vamente.

Non lamentatevi e la sofferenza diminuirà O almeno non aumenterà. Sì, infatti, perché un altro sbaglio che facciamo spesso quando siamo malati è lamentarci. Per Seneca è un errore gravissimo, perché intensificherebbe la sofferenza. Non è un caso che il dolore si acutizzi di notte quando, sospese le normali attività e immersi nel silenzio, rimaniamo in compagnia di noi stessi. In questi momenti il dolore sembra impossessarsi di noi e i lamenti, ben lungi da fungere da calmanti, non fanno che suggestionarci in negativo: «Non aggravare i tuoi mali con il peso dei tuoi lamenti: il dolore è lieve, se non è accresciuto dalla suggestione. Se tu cominci a farti coraggio dicendoti: “Non è niente; è cosa di poco conto; resistiamo; passerà presto”, renderai il dolore realmente lieve, finché lo stimi tale. Tutto dipende dalle impressioni soggettive: come l’ambizione, la lussuria e l’avarizia, anche la nostra sofferenza è soggetta al gioco della suggestione» (Ep., IX, 78, 13).

I mali passati sono passati, non commiseratevi In alcuni la malattia ha l’effetto di una vera e propria scossa, in altri, invece, produce un effetto contrario, arrestando il malato in uno stato di infermità prolungata, impedendogli di voltare pagina, bloccandolo a quel punto della sua vita. Questo accade quando assecondiamo quella malsana tendenza a vederci come vittime di un destino avverso, anziché parti attive del processo. Per Seneca siamo vittime nella misura in cui ci sentiamo tali e, pertanto, ci invita a evitare qualsiasi atteggiamento di autocommiserazione. Non rimuginiamo su quello che è stato. Siamo sopravvissuti a una brutta malattia o a un incidente? Non rimaniamo prigionieri del passato, ripensando al pericolo scampato o temendo che il vecchio male presto o tardi possa tornare a bussare. Non ne ricaveremmo alcun giovamento, proprio come ci ricorda lo stesso Seneca: «Ognuno è infelice nella misura in cui si crede tale. Per quanto riguarda i mali già passati, asteniamoci da questi lamenti. [...] Anche se tutto ciò fosse vero, ormai è passato. Che gusto hai a rivangare i dolori passati e a voler essere infelice perché lo sei stato? Ognuno tende a esagerare i suoi mali, mentendo a se stesso» (Ep., IX, 78, 14). E ribadisce che aver superato una malattia o un brutto momento fa bene, ma senza scivolare nell’autocommiserazione: «E poi, ciò che fu doloroso sopportare è piacevole dopo che lo si è sopportato: è naturale che uno goda della fine delle sue sofferenze. Dunque, dobbiamo astenerci sia dal timore del male futuro, sia dal ricordo di quello passato: il primo non mi riguarda ancora; il secondo non m’interessa più» (Ibidem).

State con chi vi fa stare bene Circondiamoci delle persone che ci fanno stare bene. Grazie a loro, troveremo l’energia necessaria per sopportare, nel miglior modo possibile, il dolore: «Hanno molto contribuito alla mia guarigione gli amici che mi recavano sollievo con l’assistenza, con le loro esortazioni e con i discorsi. Niente, mio caro Lucilio, reca tanto giovamento a un malato quanto l’affetto degli amici; niente fa tanto dimenticare l’attesa e il timore della morte» (Ep., IX, 78, 4). Ancora una volta, per Seneca non c’è antidoto più potente per affrontare una malattia che l’affetto di amici e parenti, proprio come avviene nel caso della vecchiaia o dei cosiddetti «periodacci».

Coltivate l’animo anche se il corpo si ammala Ricordiamo a noi stessi, in ogni momento, che a essere malato non è il nostro spirito ma il nostro corpo: «“Ma” si dirà “la malattia non mi lascia far niente; mi ha sottratto a ogni occupazione.” La malattia ha colpito solo il tuo corpo, non il tuo animo. Perciò potrà trattenere i piedi del corridore, potrà paralizzare le mani del calzolaio o del fabbro, ma se tu hai l’abitudine di esercitare lo spirito, continuerai a dare consigli, a insegnare, ad ascoltare, a imparare, a interrogare, a ricordare. [...] L’uomo forte si riconosce anche sotto le coltri. Hai anche tu un impegno: lotta coraggiosamente contro la malattia. Se essa non riuscirà a ottenere nulla da te, avrai dato un grande esempio» (Ep., IX, 78, 20-21). Non consideriamo la malattia del corpo alla stregua di una prova generale della morte, il nostro spirito è ancora pieno di vigore, se incoraggiato al raggiungimento di quello scopo.

Come accettare la morte ascoltando Seneca

La morte esiste «La Via del guerriero è la ferma accettazione della morte» dice il samurai Miyamoto Musashi. «Perciò disponiamoci a volere tutto quello che le circostanze esigeranno; e soprattutto abituiamoci a pensare senza tristezza alla nostra fine. La preparazione alla morte deve precedere la preparazione alla vita» (Ep., VI, 61, 3). Così scrivono il saggio giapponese e quello latino a distanza di 1500 anni: «Ecco che viene la morte a rendervi uguali» (De ira, III, 43) sancisce Seneca al di là delle epoche e dei luoghi. Sono molti i motivi per cui si teme la morte. Alcuni la temono perché non sanno cosa ci sia dopo: il nulla, una nuova vita, luoghi paradisiaci o fuochi e fiamme? Altri la fuggono perché temono di arrivare all’appuntamento senza aver goduto a pieno di questa vita: relazioni interrotte, sogni non realizzati, cose lasciate a metà... Più della morte, sono gli obiettivi mancati a farci male. La soluzione proposta da Seneca è quella di prendere anzitutto coscienza che la vita non è infinita e che i nostri giorni, per quanti siano, hanno un inizio e una fine. Di fronte a questa certezza, non lasciamoci prendere dall’angoscia: i nostri giorni sono contati, ma ognuno di essi può diventare fonte di gioia, di crescita, di conoscenza, di stupore... Se saremo pronti a morire, saremo anche pronti a godere di ogni giornata che ci viene concessa: «Fa’ che io non fugga la morte e intanto non mi sfugga vanamente la vita. Confortami di fronte alle difficoltà, di fronte all’inevitabile, allunga la brevità del mio tempo, insegnandomi che il bene della vita non consiste nella sua durata, ma nell’uso che se ne fa, e può avvenire, anzi molto spesso avviene, che proprio chi è vissuto a lungo sia vissuto poco» (Ep., V, 49, 10): facciamo tesoro e ripetiamoci queste parole di Seneca: «Il bene della vita non consiste nella sua durata, ma nell’uso che se ne fa».

Accettate la morte e imparerete a vivere bene Seneca non smette di incoraggiarci, di spronarci, di incitarci: è un grande allenatore nella gara della vita. Sebbene non smetta mai di parlarci di morte, le sue parole non hanno niente di cupo o pessimistico: ci incita a spremere la vita, senza sprecare nulla perché «non solo non c’è da temere la morte, ma la sua meditazione ci consente di non temere più niente» (Ep., III, 24, 11). Non è augurandoci una vita lunghissima che riusciremo a essere felici o a vivere bene: «Non può godere una vita tranquilla chi pensa troppo a prolungarla e annovera fra i grandi beni il vivere a lungo. Tu, invece, sii sempre pronto a lasciare con animo sereno questa vita, a cui tanti si attaccano, come chi è travolto da un vorticoso torrente tenta di aggrapparsi a ogni arbusto» (Ep., I, 4, 4). Paradossalmente solo chi accetta di morire, può vivere: «Chi non vuole morire si rifiuta di vivere, perché la vita ci è stata data a patto di morire. La morte è il termine certo a cui siamo diretti e temerla è da insensato, poiché si aspetta ciò che è certo e solo l’incerto può essere oggetto di timore» (Ep., IV, 30, 10-11). Come il principio dei vaccini sfrutta il concetto di memoria immunologica, anche noi dovremmo fare lo stesso nel caso della morte. Se proviamo a familiarizzare con l’idea della morte poco per volta, questa ci spaventerà con sempre minore virulenza.

Considerate la morte un processo Sulla via dell’accettazione della morte, Seneca ci invita a pensare alla morte non come al capolinea ma come a una fermata intermedia: «Nessuna cosa finisce, ma tutte sono collegate in uno stesso giro: si fuggono e si inseguono. Il giorno è cacciato dalla notte, la notte dal giorno; l’estate ha fine con l’autunno, questo è incalzato dall’inverno, che a sua volta è chiuso dalla primavera: così tutto passa per tornare. Non faccio né vedo mai niente di nuovo» (Ep., III, 24, 26). Siamo immersi nel fluire della vita, il nostro esserci e andarcene è parte di un tutto. Tutto si trasforma eppure tutto torna: sembra un paradosso eppure le cose stanno proprio così. Abituati a pensare alla morte come all’evento conclusivo della nostra vita, che accade in un certo punto a un certo momento. Seneca propone un nuovo punto di vista: la morte accade tutti i giorni, perché giorno dopo giorno ci avviciniamo «all’ultima morte». Ogni giorno che passa, strappiamo un foglio dal calendario giornaliero della nostra vita. Seneca a tal proposito scrive: «Dal momento in cui sei nato, tu sei avviato alla morte. Dobbiamo avere sempre in mente tali pensieri, se vogliamo aspettare sereni quest’ultima ora, la cui paura ci rende inquiete tutte le altre» (Ep., I, 4, 9). E ancora: «Moriamo ogni giorno: ogni giorno, infatti, ci è tolta una parte della vita; anche quando il nostro organismo cresce, la vita decresce. Abbiamo perduto l’infanzia, poi la fanciullezza, poi la gioventù. Tutto il tempo passato fino a ieri è morto per noi: questo stesso giorno che stiamo vivendo lo dividiamo con la morte» (Ep., III, 24, 20); «E perciò mi meraviglio della nostra stoltezza, che ci fa amare una cosa così fugace, il corpo, e ci fa temere che un giorno moriremo, mentre ogni momento è la morte della precedente condizione di vita. Non devi temere che avvenga una volta ciò che avviene ogni giorno» (Ep., VI, 58, 23). Invitandoci a riflettere sulla quotidianità della morte e sulla fugacità della vita, Seneca non intende dar voce a un sentimento di pessimismo leopardiano, tutt’altro! Ogni discorso sulla morte che fa è un discorso sulla vita: sapendo che i nostri giorni sono contati e non infiniti il nostro unico scopo deve essere quello di vivere.

Rendetevi padroni del vostro tempo La durata della nostra vita non dipende da noi, ma l’utilizzo che ne facciamo. Seneca ci mette continuamente in guardia sul rischio che corriamo a sovrapporre il significato di tempo con quello di vita: una cosa è l’età anagrafica, un’altra è l’utilizzo che se ne fa. Tuttavia, dimentichiamo troppo spesso questa distinzione, preoccupandoci di cose che hanno scarso valore, e quando arriva il nostro momento, il panico ci assale: «Considera chi vuoi; giovani, uomini di mezza età, vecchi: li troverai ugualmente timorosi della morte, ugualmente ignari della vita. [...] Ha raggiunto la saggezza chi può morire serenamente, come è nato. Noi, invece, all’avvicinarsi di un pericolo, siamo presi dallo smarrimento, perdiamo ogni coraggio, cambiamo colore e versiamo inutili lacrime. [...] Ci sentiamo privati di tutti i beni e soffriamo nel lasciare quella vita di cui non ci rimane neppure una piccola parte: passa e scompare» (Ep., III, 22, 16-17). Seneca punta il dito contro una debolezza umana: desideriamo una vita lunga ma non ci preoccupiamo, con altrettanto slancio, della sua pienezza. Vogliamo vivere a lungo, ci fa paura morire: chiediamoci piuttosto come viviamo, come stiamo spendendo il tempo che ci è dato.

La differenza tra passare il tempo e vivere Per Seneca la sete di potere, l’ambizione, l’avidità, le passioni sfrenate, l’indifferenza di fronte agli eventi, il voler apparire a tutti i costi... sono ostacoli che non ci permettono di godere veramente della vita, tant’è che alle successioni di eventi dominati dai vizi sopra citati non darebbe il titolo di vita ma semplicemente di tempo: «Perché ci lagniamo della natura? Si è comportata generosamente: la vita, se sai usarne, è lunga» (De brev. vit. , 2, 1). Quindi elenca i tipi umani che sprecano la propria vita senza rendersene conto: «Uno è in preda a un’avidità insaziabile, uno alle vane occupazioni di una faticosa attività; uno è fradicio di vino, uno è abbrutito dall’ozio; uno è stressato dall’ambizione, che dipende sempre dai giudizi altrui, uno dalla frenesia del commercio è condotto col miraggio di guadagni di terra in terra, di mare in mare [...]; molti non pensano che a emulare l’altrui bellezza o a curare la propria; i più, privi di bussola, cambiano sempre idea, in balia di una leggerezza volubile e instabile e scontenta di sé; a certuni non piace nessuna meta, a cui dirigere la rotta, ma sono sorpresi dalla morte fra il torpore e gli sbadigli, sicché non dubito che sia vero ciò che in forma di oracolo si dice nel più grande dei poeti: “Piccola è la parte di vita che viviamo”. Sì: tutto lo spazio rimanente non è vita, ma tempo» (De brev. vit ., 1, 1-2). Sprecano tempo, vivono male e, cosa peggiore di tutte, neppure se ne accorgono. Soprattuto quando siamo giovani, tendiamo a considerare il tempo che abbiamo da vivere come infinito. Oltre all’imprudenza nel maneggiarlo, tendiamo a procrastinare a un domani indefinito decisioni importanti: non abbiamo il coraggio di assumere responsabilità che vadano oltre il semplice decidere il locale dove fare l’aperitivo, incolpiamo gli altri per i nostri personali fallimenti, ci autoinganniamo sul fatto che la strada intrapresa sia l’unica possibile. Viviamo nell’inerzia senza capire che in realtà ogni giorno che passa è un’occasione in meno per vivere: «Puoi indicarmi qualcuno che dia un giusto valore al suo tempo e alla sua giornata, e che si renda conto com’egli muoia giorno per giorno? In questo c’inganniamo, nel vedere la morte avanti a noi, come un avvenimento futuro, mentre gran parte di essa è già alle nostre spalle. Ogni ora del nostro passato appartiene al dominio della morte» (Ep., I, 1, 1). Seneca lo ripete al giovane amico Lucilio: la vita è adesso, spendila, non sprecarla.

Come tutti gli stoici, Seneca non proibisce la possibilità di porre volontariamente fine alla vita, tuttavia scrive che spesso ci si ricorre perché ancora una volta non siamo stati in grado di valutare con attenzione il nostro tempo: «E non vedi per quali frivoli motivi essa [vita] viene disprezzata? C’è chi s’impicca davanti alla porta dell’amica; un servo si getta dal tetto per non sentire i rimbrotti del padrone; un altro si caccia un pugnale nel petto per non tornare a quel lavoro servile da cui era fuggito» (Ep., I, 4, 4).

Distinguete lo stare in vita dal vivere Se vivere significa godere del tempo a disposizione in maniera appagante, nel momento in cui non ci sono più le condizioni per farlo allora si può porre fine a questa sequenza di eventi a cui, per i motivi sopra citati, non possiamo più dare il nome di vita. Tant’è che a sostegno di questo Seneca scrive: «Non rinuncerò alla vecchiaia, se mi conserverà tutto intero; voglio dire intero nella parte migliore del mio essere. Ma se essa comincerà a farmi vacillare la mente e a offuscarmela, se non mi lascerà la vita, ma solo un soffio di vita fisica, balzerò fuori dall’edificio putrido e cadente. Non fuggirò la malattia con la morte, purché mi sia possibile guarire e lo spirito non ne resti menomato. Non volgerò le mani contro me stesso per paura del dolore: in tal caso, darsi la morte significa lasciarsi vincere. Ma se saprò di dover soffrire senza termine, me ne verrò fuori dalla vita non per le sofferenze in se stesse, ma perché vedrò in esse un ostacolo a tutto ciò che costituisce la ragione di vivere. È debole e vile chi si dà la morte per timore di soffrire; è stolto chi vive per soffrire» (Ep., VI, 58, 35-36). La vita deve essere vissuta fino in fondo, ma Seneca sostiene anche che a essa si debba, in certuni casi, porre fine volontariamente. In questi ultimi decenni, sembra che la pratica medica dia maggiore importanza alla vita meccanica rispetto a quella cerebrale e spirituale. Siamo sicuri che in questo consista il progresso? E se provassimo a tornare a questa antica saggezza, dove viene riconosciuta la differenza sostanziale tra «l’essere in vita» e il «vivere»?

Quando a morire sono i nostri cari Questi alcuni dei vaccini per poter pensare alla nostra morte nella maniera più serena possibile. Tuttavia, spesso a farci paura non è tanto il pensiero della nostra morte quanto quella delle persone care. Seneca lo sa bene, tant’è che dedica molte pagine all’argomento. Nel tentativo di consolare Lucilio che ha perduto l’amico, Seneca scrive che, non potendo noi sapere quanto tempo ci verrà concesso, l’unica cosa che possiamo fare è godere quanto più possibile delle persone a cui vogliamo bene: «Cessa di interpretare male i doni della fortuna: essa ha tolto, ma aveva dato. Godiamo intensamente le gioie dell’amicizia, perché è incerto quanto essa possa durare. Pensiamo che spesso abbiamo lasciato gli amici per fare qualche lungo viaggio, o siamo stati a lungo senza vederli, pur vivendo nella stessa città: ci accorgeremo che, quando essi erano vivi, è stato molto di più il tempo in cui non abbiamo goduto della loro compagnia. Potresti tu tollerare costoro che sono così trascurati con gli amici in vita, per piangerli poi sconsolatamente quando sono morti?» (Ep., VII, 63, 7-8). Seneca non si stanca di dirci che è solo accettando di morire che possiamo veramente vivere perché «noi siamo approdati a un regno duro e invincibile, il regno della fortuna» (Cons. ad Marc., 10, 6), regno sul quale non possiamo esercitare nessun controllo, tranne che su una cosa: «Godere dei vostri figli e a farli godere di voi, tracannate senza indugio ogni gioia» (Cons. ad Marc., 10, 4). Lo stesso discorso, ovviamente, vale per tutti le persone che amiamo: troppo spesso sprechiamo delle occasioni, salvo pentircene quando è troppo tardi. La prossima volta che saremo invitati a un pranzo di famiglia cui partecipa tutto il parentado, ma proprio tutto, dalla nonna agli zii, dal cugino di mamma al cognato dello zio, proviamo a non inventare scuse inverosimili per evitarlo e partecipiamo. Sarà l’occasione per conoscere un po’ meglio lo zio o per ascoltare il nonno e i suoi racconti magari già sentiti ma a cui mai abbiamo davvero prestato la dovuta attenzione: potremo scoprire cose nuove o, se già note, dar loro un significato rinnovato, non affaticato dall’abitudine. Così facendo, avremo la possibilità di rinsaldare un rapporto oltre la relazione parentale e, in futuro, probabilmente questa giornata ci aiuterà ad alleviare il dolore della perdita. Ancora una volta è il pensiero della morte a spronarci a vivere!

Tuttavia quando verremo assaliti dal dolore per la morte di una persona cara e nessuna riflessione, per quanto razionale, chiara e lineare, potrà confortarci, consoliamoci pensando che anche Seneca, di fronte alla morte dell’amico, venne sopraffatto dal dolore: «Ti scrivo queste cose proprioio, che ho pianto il mio carissimo Anneo Sereno tanto fuor di misura che merito purtroppo di passare come esempio di chi si è lasciato sopraffare dal dolore» (Ep., VII, 63, 14).

Il modo migliore per stare bene: la tranquillità

Allenate la tranquillità «Dunque noi ci chiediamo in che modo gli stati d’animo possano seguire un andamento sempre regolare e favorevole e l’animo sia propizio a se stesso e guardi con contentezza a ciò che lo concerne e non interrompa questa felicità, ma rimanga in uno stato di benessere, senza mai esaltarsi o deprimersi: questo costituirà la tranquillità» (De tranq. an., 2, 4). Per Seneca per assicurarsi la felicità, una delle tappe intermedie, in vista della meta, è la conquista della tranquillità, che si raggiunge grazie a un grande lavoro su se stessi, consolidando quel delicato equilibrio esistente tra tutto ciò che è contingente e imponderabile e ciò che, invece, si può dominare attraverso lo strumento della ragione. Ma non basta. Per questo, da bravo maestro qual è, Seneca ci offre qualche ricetta pratica per trovare la pace: «Offriamo all’animo quella pace che è data dalla riflessione continua su massime salutari, dalle buone azioni e da uno spirito bramoso unicamente di ciò che è rispettabile» (De ira, III, 41). In questo cammino, Seneca non ci lascia soli neppure nell’adempimento di questo obiettivo e, proprio come farebbe un bravo maestro con i propri alunni, ci dà i compiti da fare a casa che, se seguiti con attenzione e costanza, ci aiuteranno a raggiungere la meta.

Primo esercizio: ricordatevi che siete umani Il primo compito che ci dà Seneca è quello di tenere sempre a mente che siamo esseri umani e, in quanto tali, facciamo parte della natura e siamo sottoposti alle sue leggi, necessarie quanto temibili: «La legge con cui la natura governa questo regno che tu vedi è il cambiamento: alle nuvole tiene dietro il sereno; il mare si agita dopo la bonaccia; i venti ora spirano in un senso, ora in quello opposto; il giorno segue alla notte [...]. L’animo nostro si deve adattare a tale legge; la segua, le obbedisca, si convinca che ogni evento doveva avvenire e non gli salti in mente di prendersela con la natura. La cosa migliore è tollerare ciò che non si può correggere, e accettare senza lamenti la volontà divina, che tutto dispone» (Ep., XVII, 107, 8). Siamo immersi nella natura, siamo parte di essa. Tutto cambia e non possiamo farci molto. Accettando questo, saremo anche in grado di affrontare con più serenità tutto il resto, comprese le avversità. Ci accorgeremo poi che più riusciremo a stare tranquilli e meno risentiremo degli sbalzi d’umore: «La più attendibile prova di grandezza la fornisci quando non può accadere nulla che ti tocchi. La parte dell’universo più alta, più armoniosa e vicina alle stelle non si addensa in nubi, non si scatena in tempesta, né si agita in vortice; è esente da ogni disordine: sono le zone più basse che vengono colpite dai fulmini. Allo stesso modo l’animo eccelso, sempre sereno e assegnato a un posto di guardia tranquillo, calcando sotto i piedi tutte le cause dell’ira è equilibrato, rispettabile e ordinato» (De ira, III, 6).

Secondo esercizio: stilate una lista Il secondo compito consiste nell’allenarci a non farci turbare dalle futilità quotidiane, magari facendo proprio una lista delle cose per cui non vale la pena arrabbiarsi: «Ne consegue pure che non dobbiamo essere contrariati per ragioni futili e disdicevoli. È una follia agitarsi se lo schiavo è poco svelto, se l’acqua da bere non è abbastanza fresca, se il letto è in disordine o la mensa è stata imbandita con poca cura» (De ira, II, 25). Se la solerzia dello schiavo non è più, per fortuna, un nostro problema, quante volte, invece, ci siamo irritati perché l’acqua non era stata messa in frigorifero o perché la casa era in disordine o perché il pieno non era stato fatto dopo che avevamo prestato la macchina o perché il tubetto del dentifricio non era stato chiuso o perché...? La lista sarebbe lunga ma esercitiamoci a farla e ad accantonarla. Sono seccature quotidiane, sciocchezze, che hanno come unico risultato quello di farci perdere serenità, tempo e pazienza. Nel tentativo di recuperare la calma perduta, potremmo focalizzarci sulla bella l’immagine utilizzata dal monaco giapponese Tak uan Soho: «Devi essere come il fior di loto, che non è contaminato dal fango in cui nasce. Anche se il fango esiste, non dovremmo rattristarci. La mente deve essere come un cristallo ben levigato, che non perde la sua purezza anche se viene messo nel fango».

Terzo esercizio: imparate a dire no Terzo compito importante in questa scalata verso la tranquillità è imparare a dire dei no perché «la tranquillità consiste nel non sobbarcarsi, sia nella vita privata che in quella pubblica, impegni numerosi e superiori alle nostre forze» (De ira, III, 6). Spesso la reale motivazione di un’agenda zeppa di appuntamenti è la nostra affannosa ricerca della felicità, illudendoci di poterla trovare nell’approvazione delle persone che ci circondano. Per Seneca vero è il contrario: «Considero come primo indizio di un animo equilibrato il sapere restar fermo e raccolto in se stesso» (Ep., I, 2, 5) perché «chi vuol essere dappertutto, non sta in nessun luogo» (Ep., I, 2, 2). Lui stesso racconta che quando un incidente lo turba, quando non tutto scorre secondo i piani, quando impegni di poco conto gli fanno perdere troppo tempo, la soluzione migliore consiste nel tornare a casa e, nella quiete domestica, respirare: «Quando qualcosa colpisce il mio animo non avvezzo a essere urtato, quando mi si presenta qualche situazione spiacevole, come ce ne sono molte nella vita di ognuno, o di quelle che procedono poco agevolmente, oppure occupazioni di non gran conto mi richiedono troppo tempo, mi concedo del tempo per me e, come succede anche ai greggi stanchi, torno più velocemente verso casa. Mi piace chiudere la vita tra le sue pareti» (De tranq. an., I, 11-12). Ricordiamoci che è possibile uscire dal vortice degli impegni a patto, ovviamente, di volerlo sul serio. Se stiamo correndo dal lavoro alla lezione di cinese, passando per la palestra, forse non è il resto del mondo a non darci il tempo necessario da dedicare a noi stessi. Dovremmo riconsiderare l’ipotesi che noi e solo noi siamo responsabili del nostro tempo e di conseguenza della nostra tranquillità, proprio come scrive Seneca: «Nessuno è incalzato dalle occupazioni; sono gli uomini che vi si immergono, convinti che esse siano un mezzo per essere felici» (Ep., XVII, 106, 1). D’altro canto, non usiamo Seneca per giustificare la nostra pigrizia: dobbiamo sempre mediare, trovare il giusto mezzo tra una vita troppo piena e una troppo vuota: «Infatti il continuo agitarsi di una vita tumultuosa non è sana operosità, ma irrequietezza di una mente esaltata; e il considerare molesta ogni attività non è vera quiete, ma sintomo di inettitudine» (Ep., I, 3, 5).

Quarto esercizio: mantenetevi saldi Il quarto compito da adempiere è «che tu abbia fiducia in te stesso e creda di procedere per la strada giusta, non facendotene assolutamente distogliere dalle orme incrociate dei molti che vagano in tutte le direzioni, di alcuni che sbandano proprio ai margini della strada» (De tranq. an., 2, 2). Per questo motivo, Seneca rimprovera tutti coloro che «sono tormentati dall’incostanza», incapaci di fissare la meta a cui tendere: un giorno vogliono diventare ballerini di flamenco, il giorno seguente astronauti. Seneca rimprovera anche tutti coloro che continuano a cambiare «stato», sia esso professionale, sentimentale, relazionale: «Aggiungi quelli che si agitano non diversamente da quanti hanno il sonno difficile e si mettono in questa o in quell’altra posizione finché non trovano pace per stanchezza: cambiando di continuo modo di vivere da ultimo si fermano in quello in cui li sorprende non il fastidio per i cambiamenti ma la vecchiaia restia ai rinnovamenti» (De tranq. an., 2, 6). Tuttavia, attenzione anche allo stato opposto all’incostanza che Seneca individua nell’inerzia. È sbagliato essere poco duttili «non per colpa della loro fermezza, ma per colpa della loro inerzia, e vivono non come vogliono, ma come hanno cominciato» (Ibidem). Se incapaci di mantenere fede ai nostri impegni, anche e soprattutto quelli presi con noi stessi, il rischio che corriamo è essere scontenti di noi, andando in contro a un terribile senso di frustrazione: «Di qui quella noia e quel disgusto di sé, e l’irrequietezza dell’animo che non trova mai un dove, e la triste e penosa sopportazione del proprio ozio, soprattutto quando si ha ritegno nell’ammetterne le cause e il pudore ha ricacciato dentro le ragioni del tormento, mentre le passioni bloccate in uno spazio angusto si soffocano a vicenda senza trovare sbocchi» (De tranq. an., 2, 10). Ricapitolando, per essere soddisfatti di sé ed evitare desolanti frustrazioni, Seneca ci suggerisce, nell’ordine: fissare una meta a cui tendere, essere costanti negli impegni assunti, attivi e flessibili di fronte alla vita e ai suoi imprevisti.

Quinto esercizio: analizzate tre elementi Il quinto compito che ci può aiutare nel mantenere la serenità di fronte a una scelta importante, sia essa la facoltà da intraprendere o un nuovo lavoro, è un’analisi attenta di tre elementi. 1. Valuta la tua indole Non sforzarti di essere chi non sei «perché un genio forzato rende male; è inutile affaccendarsi in contrasto con le inclinazioni naturali» (De tranq. an., 6, 4). Seneca ci vuole facilitare il compito ancora di più e, allo scopo, ci dà una griglia di caratteristiche in cui provare a rispecchiarci: «Il riserbo di alcuni poco si addice alla politica, che richiede sicurezza di atteggiamenti; la fierezza di altri non si confà alla vita di corte; alcuni non sanno governare la collera e una qualsiasi occasione di indignazione li trascina a parole temerarie; alcuni non sanno trattenere l’ironia e non si astengono da pericolose battute salaci: a tutti costoro la vita ritirata è più utile delle occupazioni pubbliche; una natura indomita e ribelle evita le sollecitazioni di una franchezza destinata a nuocerle» (De tranq. an., 6, 3-4). 2. Decidi quante energie vuoi investirci Se decidi che il vecchio lavoro non fa più per te perché sottrae troppo tempo ed energie alla tua vita privata, non illuderti che, aprendo un’attività tutta tua, riavrai il tempo perduto! Se scegli una facoltà particolarmente impegnativa, riconsidera attentamente la possibilità di diventare una rockstar: cerca di valutare bene i pro e i contro di entrambe le professioni, alla luce dei tuoi sogni, delle tue aspettative, della tua testardaggine, delle tue fobie... Seneca utilizza una bellissima metafora per aiutarci a visualizzare tutto questo: «In secondo luogo occorre valutare i compiti che intraprendiamo e confrontare le nostre forze con le imprese che vogliamo tentare. Infatti devono esserci sempre più forze nell’esecutore che nell’opera: è inevitabile che schiaccino i pesi che sono maggiori di chi li sostiene» (De tranq. an., 6, 5). Scegliamo bene i pesi da portare quindi. 3. Scegli bene i compagni di viaggio E prendi le tue decisioni anche in base alle persone con cui ti imbarcherai in questa nuova avventura: «Bisogna comunque scegliere

le persone, se sono degne che noi dedichiamo loro una parte della nostra vita, o se sono toccate dal sacrificio del nostro tempo» (De tranq. an., 7, 1). Anche nel lavoro, il rapporto con l’altro è essenziale per la propria serenità.

Sesto esercizio: non mentitevi Il sesto consiglio, uno dei più importanti, per essere veramente sereni è avere «una buona coscienza» (Ep., VI, 56, 6): ovvero, non raccontarci menzogne. Seneca ci fa l’esempio di un certo Antenodoro che, a suo avviso, avrebbe rinunciato ai suoi sogni troppo presto: «E io non sono qui a escludere che a un certo punto ci si debba ritirare, ma arretrando a poco a poco e con le insegne intatte, salvaguardando l’onore delle armi: risultano più rispettati e più sicuri quanti si consegnano ai nemici con le armi in pugno» (De tranq. an., 4, 1). Insomma, per Seneca, la tranquillità starebbe nell’avere la «coscienza a posto» certi, nonostante l’esito degli eventi, di aver fatto tutto il possibile per realizzare i nostri sogni: «Non gli è permesso prestare servizio militare: si candidi a cariche pubbliche. Deve vivere da privato cittadino: faccia l’oratore. È costretto al silenzio: aiuti i cittadini con una assistenza legale tacita. Gli è pericoloso anche l’ingresso nel foro: nelle case, agli spettacoli, durante i banchetti, faccia il buon compagno, l’amico fidato, il convitato sobrio. Ha perduto gli incarichi del cittadino: svolga quelli dell’uomo» (De tranq. an., 4, 3): c’è sempre una seconda e anche terza, quarta e quinta possibilità per realizzarsi.

Gli altri sono fondamentali Non siamo riusciti a fare il lavoro dei nostri sogni, quello per cui ci eravamo preparati tanto, quello a cui aspiravamo fin da bambini? Per Seneca questo cambio di direzione non è motivo sufficiente per dichiarare il proprio fallimento: non falliamo se tentiamo una strada senza avere successo, ma se non la tentiamo neppure o, cosa ben peggiore, se ci teniamo lontani dal sostenere altri uomini che come noi stanno provando. Secondo Seneca, infatti, siamo anzitutto uomini che vivono insieme ad altri uomini e, come tali, dobbiamo provare a cercare il nostro riscatto nella cura dell’altro: «Anche se altri occuperanno la prima fila, e la sorte ti avrà posto fra i triarii [i veterani che formavano l’ultima linea di battaglia nelle legioni manipolari, nda] combatti dunque con la voce, con l’esortazione, con l’esempio, con il coraggio: anche con le mani tagliate colui che tuttavia resiste e fa opera di sostegno con le grida trova nella battaglia modo di aiutare il suo partito. Fa’ qualcosa di simile: se la sorte ti allontanerà dalla posizione di primo piano nello Stato, resisti tuttavia e fa’ opera di sostegno con le grida e, se qualcuno ti chiuderà la bocca, resisti tuttavia e fa’ opera di sostegno col silenzio» (De tranq. an., 4, 6-7). A questo aggiunge l’importanza di non recare danno a nessuno né con le parole né con le azioni perché si ripercuoteranno, inevitabilmente, su di noi: «Un requisito essenziale per vivere tranquilli è non fare male a nessuno: sono i prepotenti che hanno una vita inquieta e piena di preoccupazioni: quanto più male fanno, tanto più si accresce la loro paura, e non hanno mai un momento di pace. Ogni loro malefatta li rende più inquieti e trepidanti: la loro coscienza non permette loro di attendere ad altre attività, ma, senza tregua, li chiama a rispondere al suo tribunale. Chiunque si aspetta un castigo ha in questa attesa il suo castigo; e s’aspetta il castigo chiunque se lo è meritato. Qualche volta chi ha dei rimorsi può essere al sicuro, ma non sarà mai tranquillo. Anche se non è stato scoperto, teme di essere scoperto; si agita nel sonno» (Ep., XVII, 105, 7).

Ancora più essenziali gli amici «Nulla tuttavia delizierà tanto l’animo quanto un’amicizia fedele e dolce. Che bene prezioso è l’esistenza di cuori preparati ad accogliere in sicurezza ogni segreto, la cui coscienza tu debba temere meno della tua, le cui parole allevino l’ansia, il cui parere renda più facile una decisione, la cui contentezza dissipi la tristezza, la cui stessa vista faccia piacere!» (De tranq. an., 7, 2). Fondamentali gli amici ed essenziale sceglierli bene, prosegue infatti Seneca: «Questi li sceglieremo naturalmente liberi, per quanto sarà possibile, da passioni; infatti i vizi serpeggiano e si trasmettono a chiunque sia più vicino e nuocciono per contatto. Dunque, come in una pestilenza, occorre badare a non sedersi accanto a chi è già stato aggredito ed è divorato dal male, perché ne trarremo pericolo e lo stesso respiro ci farà ammalare, così nello scegliere gli amici faremo in modo di prendere quelli il meno possibile contaminati: è l’inizio della malattia mescolare sano e malato. [...] Tuttavia si evitino soprattutto quanti sono malcontenti e si lagnano di tutto, per i quali non c’è un solo motivo che non sia buono per lamentarsi» (De tranq. an., 7, 3-4). Insomma, anche per Seneca vige la regole: chi va con lo zoppo impara a zoppicare. Come nella sopportazione di un dolore, anche in questa circostanza, dove la serenità e la tranquillità dello spirito sono il nostro obiettivo da raggiungere, a fare la differenza saranno gli altri, gli amici, i familiari, il compagno o la compagna: la nostra non è e non può essere una serenità solitaria.

Quinta parte

Usate i vostri punti forti

Le chiavi del successo sono già in voi

Individuate la vostra missione «Ogni strumento vale per il fine a cui è destinato e che gli è proprio. Dunque, anche nell’uomo non conta né l’estensione dei campi, né l’entità dei capitali, né il numero dei clienti, né il prezzo del letto in cui riposa o della tazza in cui beve; conta la sua bontà» (Ep., IX, 76, 15) e ancora: «Prima di tutto rifletti che la volontà di nuocere è brutta, abominevole e del tutto estranea all’uomo, il quale ammansisce persino le bestie feroci con la sua bontà» (De ira, II, 31). Non si tratta di ipocrisia né di superficialità buonista: Seneca ne è convinto, l’uomo è buono per natura. In questa visione profondamente ottimistica, quella del «cattivo» sembra essere una condizione che va contro natura. Guardiamoci attorno. Tutti i giorni, ogni qualvolta dobbiamo prendere una decisione, sia pur inconsciamente, riflettiamo sulla differenza che intercorre tra bene e male. Anche quando compiamo qualcosa di sbagliato o di proibito, ci affrettiamo a inventare scuse o a nascondere la malafatta a noi stessi prima ancora che agli altri, per giustificarci o per sminuire la gravità della nostra azione. «Tuttavia, sappi che anche nelle anime più depravate c’è un fondo di buoni sentimenti: esse non ignorano ciò che è male; anche se non fanno niente per combatterlo» (Ep., XVI, 97, 12); la consapevolezza di ciò che è bene e ciò che è male è presente in ogni essere umano, tant’è che «tutti gli uomini dissimulano le loro azioni disoneste, e anche quando hanno successo cercano di nasconderle, pur godendone i vantaggi». Quando agiamo male, cerchiamo di occultare in tutti i modi il nostro fallo, al contrario, nessuna paura della luce del sole, quando la nostra coscienza è in pace con se stessa e non ha nulla di cui rimproverarsi perché «una buona coscienza volentieri si fa avanti e si offre agli sguardi; il vizio ha paura persino delle tenebre» (Ibidem).

Smettete di trovare giustificazioni Parcheggiamo nel posto riservato agli handicappati, sul marciapiede o sulle strisce pedonali? Siamo consapevoli che stiamo facendo qualcosa di deprecabile tant’è che proviamo subito a giustificare la nostra azione di fronte a quel giudice (si spera severo) incarnato dalla nostra coscienza che, inesorabilmente, è lì a ricordarci la differenza tra bene e male. E così, proviamo ad azzittirlo, rassicurandolo che è solo per cinque minuti o addirittura che non stiamo facendo nulla di grave dal momento che tanti di coloro che esibiscono il permesso, in realtà lo possiedono non per un reale bisogno, ma perché hanno corrotto qualche funzionario poco edotto in questioni morali. In questo stupido tentativo di mitigazione della colpa, cerchiamo goffamente di minimizzare i nostri piccoli reati quotidiani inserendoli in una scala di gravità. Quindi, cosa vuoi che sia parcheggiare dove non si dovrebbe di fronte al reato di corruzione? È un terreno sdrucciolevole e scivoloso che rende il passo incerto e malsicuro portandoci, presto o tardi, a cadere. Che la caduta consista in una multa o in una coscienza piena di rimorsi poco importa a Seneca che, anzi, ravvisa in questa seconda possibilità la punizione più severa: «Le azioni malvagie trovano la punizione in una coscienza oppressa e tormentata da continui rimorsi, che non può sperare di riacquistare la serenità» (Ep., XVI, 97, 15). Riprendendo l’esempio precedente, non dovrebbe essere la paura della multa a farci agire correttamente ma la simpatia innata che nutriamo verso le altre persone perché «la vita dell’uomo si fonda sulle buone azioni e sulla concordia, ed è spinta al patto di comune aiuto non dalla paura ma dall’amore reciproco» (De ira, I, 5).

Primo esercizio: le visualizzazioni negative Anche se abbiamo i minuti contati e l’unico parcheggio disponibile sembrerebbe proprio essere quel rettangolo giallo contrassegnato dal simbolo della carrozzina, proviamo a mettere in pratica un esercizio mentale utilizzato anche da Seneca, quello delle visualizzazioni negative. Questo esercizio può essere eseguito in più circostanze a seconda delle necessità. Nel caso specifico, lo utilizzeremo per indossare, anche solo per pochi istanti, i panni di un altro individuo con tutto il fardello, sia fisico sia emotivo, che l’altro è costretto a trascinare con sé, sempre e ovunque. Immaginiamoci quindi affetti da un handicap motorio e proviamo a figurarci una giornata qualsiasi costellata, per lo più, da azioni banali: lavarsi, vestirsi, fare colazione, prendere la macchina o un mezzo pubblico, abbracciare una persona, fare la spesa, fare l’amore e così via... Ci sentiamo ancora così «leggeri» nel parcheggiare in quello spazio riservato? Le giustificazioni che ci eravamo dati reggono ancora alla luce di questi fotogrammi mentali? Allora riprendiamo fiato e, consci che dieci minuti in più di cammino non ci faranno male, cerchiamo parcheggio altrove perché «l’uomo buono compirà i suoi doveri senza incertezza e paura, e farà azioni degne d’un uomo dabbene in modo da non commettere nulla che sia indegno dell’uomo» (De ira, I, 12).

Secondo esercizio: cambiate punto di vista Nel nostro piccolo, in questo cammino verso la saggezza e quindi verso la felicità, proviamo ogni giorno, prima di compiere qualsiasi azione, ad assumere il punto di vista di un’altra persona, meglio se sconosciuta. Stiamo per legare la bicicletta a un palo? Prima di farlo assicuriamoci che non blocchi il passaggio a nessuno, ma proprio a nessuno: immedesimiamoci nella mamma con il passeggino, nel non vedente, nella signora che porta la spesa... Man mano che faremo questi esercizi di «immersione» nell’altro, diventeremo non solo abilissimi nell’individuare il punto migliore dove legare la bicicletta senza infastidire nessuno, ma soprattutto aderiremo, anche in azioni molto banali, alla nostra natura più intima e più vera: «Nessun essere, più dell’uomo, ama il prossimo, e nulla è più ostile dell’ira. L’uomo è nato per darsi reciproco aiuto, l’ira mira alla rovina; egli vuole vivere in comunità, essa starsene isolata, l’uno giovare, l’altra nuocere, l’uno portare aiuto anche agli sconosciuti, l’altra aggredire persino le persone più care, l’uno è pronto addirittura a sacrificarsi per il bene altrui, l’altra è pronta a scendere in campo, pur di trascinare giù altri» (De ira, I, 5).

Se fosse solo questione di pigrizia? Per Seneca compiere azioni sbagliate è anche sintomo di pigrizia e di scarsa autonomia di giudizio. Cercando di addossare le nostre colpe agli altri, come agli amministratori e alla loro incapacità di gestire il traffico per giustificare il nostro parcheggio, non alleggeriremo la nostra colpa, ma dimostreremo solo una grande debolezza di spirito perché «i buoni faticano, si impegnano, si lasciano impegnare, e ben volentieri. Non si fanno trascinare dalla sorte: la seguono e ne sanno tenere il passo. Se conoscessero la meta, sorpasserebbero» (De prov., 5, 4). Non permettiamo all’esasperazione e alla fretta di prendere il posto della nostra umanità tesa a stringere i nostri consimili in un grande abbraccio perché «la natura ci ispirò il reciproco amore e ci fece socievoli. [...] Ci sia sempre nell’animo e sulle labbra quel verso famoso: “Sono uomo e non c’è cosa umana a cui mi senta estraneo.” Che i nostri beni siano comuni: siamo nati per vivere in società. La nostra società è molto simile a una volta di pietre; essa cadrebbe se le pietre non si sostenessero a vicenda, sostenendo così tutta la volta» (Ep., XV, 95, 52-53).

Per essere felici dovete capire cos’è la virtù

Che cos’è la felicità? Seneca ci mette in guardia: la felicità, duratura e profonda, quella che non svanisce in poche ore come una scadente acqua di colonia, quella che, una volta conquistata, non ci abbandona più, è difficile da possedere soprattutto perché non sappiamo esattamente in che cosa consista e quali ne siano le caratteristiche peculiari. «Quando si parla della vita felice, non mi puoi rispondere come per le votazioni: “La maggioranza sta da questa parte.” Infatti è la parte peggiore. Per le faccende umane non funziona così: le cose migliori sono sgradite ai più. La folla è la peggiore conferma. Chiediamoci, allora, cosa sia meglio fare e non quale sia il comportamento più comune, cosa ci faccia ottenere una felicità duratura e non ciò che riscuote l’approvazione del volgo, pessimo interprete della verità; e per volgo intendo chi indossa la clamide al pari di chi porta la corona» (De vita beata, 2, 1). Non facciamo l’errore di pensare che le cose che rendono felici i più abbiano lo stesso effetto su di noi: resistiamo alla dittatura della maggioranza!

E dove si trova? Diffidiamo con Seneca dall’opinione dei più che vedono nella ricchezza, nella fama, nel potere e nel prestigio la fonte originaria della felicità: il luccichio per Seneca è apparente, «splendono di fuori ma dentro sono misere» (De vita beata, 2, 4). Procuriamoci una bella torcia potente e cominciamo a ricercare «un bene non apparente ma solido costante e bello soprattutto dentro: portiamolo alla luce. Non è lontano. Lo troveremo, basta solo sapere dove stendere la mano» (De vita beata, 3, 1). Ancora una volta, sono le parole di Issai Chozanshi a suggerirci una risposta: «La Somma Felicità è dentro di te. Se la cerchi senza risparmiarti, la conseguirai di sicuro». La saggezza orientale e quella occidentale concordano sul medesimo punto: anche per Seneca dobbiamo ricercare la vera felicità nel nostro intimo, scendendo nel nostro io più profondo e rovistando lì, convinti che abbiamo «uno strumento migliore degli occhi e più affidabile che mi permette di distinguere il vero dal falso: il bene dell’animo deve trovarlo l’animo» (De vita beata, 2, 2). A questo punto non resta che dare un nome a questo bene, tanto importante quanto misterioso: è la virtù, che Seneca così definisce: «Piuttosto cerca intorno a te qualche bene che possa durare; i beni che l’animo non trova in se stesso sono inconsistenti. Solo la virtù procura una gioia sicura e costante; anche se c’è qualche difficoltà, questa agisce come una nube che si frappone alla luce del giorno, ma non la vince» (Ep., III, 27, 3).

Cercatela con i giusti strumenti Come degli speleologi che si calano in una grotta, anche noi, in questa spedizione verso la felicità, dovremo prestare la massima cura e attenzione all’attrezzatura che porteremo con noi. Così, invece di assicurarci che le torce funzionino a dovere, controlleremo la rettitudine e l’onestà del nostro spirito che, ogni giorno, viene messo alla prova dalle circostanze esterne; invece dell’affidabilità del casco, verificheremo la fermezza del nostro carattere; anziché alla manutenzione delle corde provvederemo a mantenerci sempre liberi e indipendenti. Per provare a essere felici, ovviamente intendendo sempre quel tipo di felicità non esultante ed euforica ma profonda e duratura, dobbiamo riscoprire il significato della parola «virtù», termine tanto desueto da risultare quasi superato, un po’ demodé: se però proviamo a dargli una rinfrescata, ammodernandolo un po’, riscopriremo quanto sia essenziale per la riuscita di questa spedizione.

Cos’è questa cosa chiamata virtù? Seneca ci dà un ventaglio di definizioni tra cui scegliere: «La fermezza di un animo saldo e la sua previdenza e la sua elevatezza e il suo equilibrio e la sua libertà e la sua armonia e la sua dignità» (De vita beata, 9, 4). Nelle lettere a Lucilio ne definisce gli effetti: «Come la luminosità del sole annulla gli astri minori, così, di fronte alla superiorità della virtù, sono eliminati e scompaiono dolori, disagi e offese. Dovunque ella splende, si estingue tutto ciò che appariva in sua assenza; e le difficoltà, quando s’imbattono nella virtù, non fanno più danno di un temporale che si scateni sul mare» (Ep., VII, 66, 20). Quindi ci istruisce sulla ricetta e gli ingredienti necessari per mantenerla accesa e pronta: «Perché la virtù sia perfetta, occorre aggiungere alla fatica un comportamento sempre uguale e coerente con se stesso; ideale irraggiungibile, se non si ha la scienza e la conoscenza delle verità umane e divine» (Ep., IV, 31, 8).

La lista degli strumenti necessari La virtù porta alla felicità. Così ripete il saggio Seneca ed è ciò che dobbiamo imparare. Al pari di uno speleologo che si prepara ad affrontare una discesa, anche noi, uomini e donne impegnati nella pratica della virtù, stiliamo una lista degli strumenti/virtù necessarie per giungere alla felicità tanto più che, a ben guardare, mezzo e fine in questo caso sembrano coincidere: «Chi racchiude ogni bene nella virtù ha in se stesso la sua felicità» (Ep., VIII, 74, 1). La strada potrebbe essere lunga e accidentata e avremo perciò bisogno di tante energie: usiamo le parole di Seneca al pari di barrette energetiche: «Una virtù priva d’avversario si snerva: tutta la sua grandezza e la sua forza emergono, quando essa mette in mostra la sua capacità di sopportazione. Devi renderti conto che agli uomini buoni spetta di fare altrettanto: non temere vicende dure e difficili, non lamentarsi del destino, vedere di buon occhio tutto quello che accade e volgerlo al proprio bene» (De prov., 2, 4). Quando, a causa della stanchezza, staremo per mollare, facciamo appello a tutte le nostre forze e ripetiamoci che la fatica verrà sicuramente ripagata dalla bellezza della meta. Ecco dunque l’attrezzatura da portare con noi. 1. Autonomia, detta anche prudenza La virtù della prudenza veniva anticamente descritta come quella capacità di distinguere il vero dal falso e il bene dal male, smascherando, attraverso questa stessa virtù, i beni apparenti. Dare una definizione certa di cosa sia bene e cosa sia male è molto difficile perché «tutte le cose tranne la virtù cambiano nome, ora sono mali ora beni» (Ep., IX, 94). La stessa azione può essere buona o cattiva, a seconda dello scopo che vogliamo ottenere mettendola in atto: «Uno assiste l’amico ammalato: è una bella azione. Ma se lo fa per farsi nominare erede, è un avvoltoio che aspetta il cadavere. La stessa azione può essere onesta o disonesta secondo lo scopo e la maniera in cui si è compiuta» (Ep., XV, 95, 43). I confini tra bene e male, tra giusto e sbagliato, sono incerti e labili e lo scorrere del tempo dimostra in continuazione che cose ritenute un tempo sbagliate ora non lo sono più e, viceversa, atteggiamenti considerati giusti ora vengono addirittura puniti. In più, seppur a fatica, stiamo pian piano accettando l’idea che la nostra cultura non sia

né l’unica né tantomeno la migliore. In questo contesto, le suggestive immagini, proposte dal maestro Yamamoto Tsunetomo, per distinguere la ragione dall’errore non sono più utilizzabili: «La ragione ha quattro angoli e non si muove mai. L’errore è rotondo e, non discernendo tra bene e male, tra giusto e sbagliato, rotola ovunque, da una parte all’altra». In questo mondo, dove le rette vie sono molteplici e la ragione è tutt’altro che immobile, per ridare vigore e slancio a questa antica virtù dobbiamo sviluppare una capacità di giudizioautonoma e indipendente, senza vivere «imitando gli altri. [...] È pericoloso, infatti, appoggiarsi a chi precede e, dal momento che ciascuno preferisce affidarsi piuttosto che esprimere un parere proprio, in particolare riguardo alla vita non si esprime mai un parere, ci si affida sempre. [...] Ci roviniamo a seguire l’esempio degli altri» (De vita beata, 1, 3-4). Alleniamo la prudenza: almeno un giorno a settimana, per tre mesi, proviamo a confrontare tra di loro almeno cinque versioni della stessa notizia. In questo modo ci abitueremo alla relatività delle cose che ci circondano, allenando la nostra indipendenza di giudizio. 2. Giustizia, detta anche onestà A questa virtù, Seneca dedica un posto d’onore: «Chiunque vuol essere felice non deve riconoscere che un sol bene: l’onestà» (Ep., VIII, 74, 10). Tuttavia, essere onesti non è cosa di poco conto: «L’uomo onesto farà ciò che ritiene onesto anche se gli costa fatica, anche se gli reca danno, anche se è faticoso» (Ep., IX, 76, 18). È faticoso ma ne vale la pena: «La virtù, invece, non puoi incontrarla accidentalmente. Né si arriva a conoscerla con lieve fatica; ma vale la pena di affaticarsi per acquistare in una volta tutti i beni che si riassumono in uno solo: l’onestà» (Ep., IX, 76, 6). E chi di noi può dirsi davvero onesto? Magari non siamo ladri, non mentiamo, non tradiamo, non diamo mazzette in giro, ma quasi tutti alleviamo nel nostro intimo il tarlo dell’indifferenza che, purtroppo, azzoppa e rallenta la marcia verso l’onestà. A Natale facciamo la donazione a una Onlus, ma quanti di noi si fermano davanti a quel bambino che, invece di essere a scuola, è sempre per strada a chiedere l’elemosina? Non rubiamo ma consideriamo furbi coloro che hanno trovato il modo di evadere le tasse senza correre il rischio di venire scoperti. Non ci scandalizziamo neppure più che a

ricoprire incarichi pubblici non siano individui capaci, ma raccomandati o persone abili a trovare valide monete di scambio, poco importa se si tratta di case, denaro, favori sessuali, false testimonianze... È difficile mantenersi sempre vigili sulla strada dell’onestà, per questo motivo abbiamo bisogno di maestri che, con il loro esempio, ci diano coraggio esortandoci a credere che sia possibile farcela, proprio come ci invita a fare lo stesso Seneca: «Decidiamo, allora, dove vogliamo andare e per quale via, ma non senza un esperto che già conosca la strada che cominciamo a percorrere» (De vita beata, 1, 34); «È dunque necessario che un consigliere di grande saggezza ci ammaestri; che in mezzo al chiasso tumultuoso delle menzogne una voce alfine si faccia sentire» (Ep., XV, 94, 55). Gli esempi per fortuna non mancano: procuratori di mafia, giornalisti, medici, insegnanti... tante sono le persone che, invece di girarsi dall’altra parte, preferiscono ogni giorno percorrere la strada più accidentata. Anche solo cambiando pizzeria in odore di riciclaggio o evitando di dare il cinque per mille a una finta non profit, potremo dirci più vicini a Seneca che intanto ci esorta a non mollare: «Quanto a quelli che si affaticano per fini onesti, più vi si dedicano senza prendere riposo e senza lasciarsi abbattere, più li ammirerò e farò loro animo dicendo: “Su, coraggio! Aspira l’aria a pieni polmoni e supera l’erta d’un fiato.” La fatica è l’alimento degli spiriti generosi» (Ep., IV, 31, 4). E se avessimo ancora bisogno di conferme per rinvigorire il nostro coraggio, ricordiamoci che «per fare un uomo, che debba esser nominato con rispetto, ci vuole un ordito più resistente. E non camminerà in pianura: dovrà salire e scendere, sentirsi sbattuto dai flutti e pilotare la nave nella tempesta, dovrà tenersi in rotta contro la sorte avversa. S’imbatterà in tante difficoltà e asprezze, ma dovrà essere lui ad ammorbidirle e appianarle» (De prov., 5, 9). Alleniamo l’onestà: almeno un giorno a settimana, per tre mesi, invece di voltarci dall’altra parte, proviamo a prendere le parti di chi si trova in una posizione di difficoltà, piccola o grande che sia. In questo modo, ci abitueremo a prenderci cura dell’altro, intaccando pian piano le basi dell’indifferenza. 3. Coerenza, detta anche tenacia La tenacia è la capacità di porsi un obiettivo e, in virtù di questo,

resistere alle avversità, non scoraggiarsi dinanzi ai contrattempi, andare avanti senza lasciarsi vincere dalla pigrizia, dalla viltà, dalla paura: «Poniamoci davanti agli occhi il fine del sommo bene, a cui devono tendere tutti i nostri sforzi, verso cui devono orientarsi tutti i nostri atti e le nostre parole, così come occorre che una stella diriga il corso di una nave» (Ep., XV, 95, 45). Proviamo a essere determinati, anche se consapevoli delle difficoltà, e cerchiamo di non farci spaventare perché «il saggio, costruttore del suo destino, secondo le circostanze stabilisce quello che c’è da respingere o da scegliere; ma, se ha un animo grande e indomito, non teme quello che respinge, né è preso da ammirazione per quello che sceglie» (Ep., IV, 31, 6). Una volta deciso di percorrere una strada, non indietreggiamo, impariamo a essere coerenti con noi stessi e ad andare fino in fondo perché «non c’è niente di più riprovevole del comportamento di chi, indeciso ed esitante, torna paurosamente sui suoi passi» (Ep., XV, 95, 45-46). Per raggiungere lo scopo è necessario avere fiducia in noi e nelle nostre capacità, così avremo la forza di resistere ai colpi avversi del destino: «L’uomo non deve lasciarsi corrompere e dominare dagli eventi esterni e deve fare affidamento solamente su se stesso, sicuro di sé e pronto a tutto, insomma artefice della propria vita. La sua sicurezza non manchi di conoscenza e la conoscenza di costanza. Siano sempre saldi i suoi princìpi e le sue decisioni non subiscano modifiche» (De vita beata, 8, 3). E se ancora dubitassimo delle nostre forze, ascoltiamo il suggerimento del maestro samurai Hirayama Shiryu: «L’esercito vittorioso è simile all’acqua: sfalda e vince tutto ciò che tocca. Se qualcosa di delicato e debole come l’acqua al suo passaggio può disgregare l’arida roccia, è perché la sua natura è quella di seguire un unico cammino e perciò il suo tocco è puro. Un guerriero dovrebbe intuire questa verità». Se anche un elemento così delicato può distruggere la roccia, allora perché noi non ne dovremmo essere capaci? Alleniamo la tenacia: diamoci un tempo e, in quel lasso di tempo, proponiamoci di raggiungere lo scopo prefissato. Si può partire con una semplice dieta, per poi arrivare a imparare una lingua straniera o scalare una montagna... Importante non è a cosa si tenda, ma la determinazione con cui la si persegue.

4. Libertà, detta anche temperanza Seneca definisce saggio e quindi felice l’uomo libero che ha imparato a vivere secondo natura: «Allora vivere felici e secondo natura è lo stesso. Ti spiego cosa intendo: se sapremo conservare con cura e serenità le doti fisiche e le inclinazioni naturali come beni di un solo giorno e fugaci» quindi se li sapremo apprezzare senza ritenerli ovvi o eterni «se non saremo loro schiavi né soggetti al potere delle cose esterne, se le occasionali gioie del corpo per noi avranno lo stesso posto che hanno le truppe ausiliarie e quelle armate alla leggera nell’esercito (devono servire non comandare), allora di certo saranno utili alla mente» (De vita beata, 8, 2). Vivremo secondo natura solo q uando ci saremo liberati da tutti quei lacci che, in molteplici modi, ci trattengono a terra impedendoci di spiccare il volo. Quei lacci altro non sono che falsi piaceri che ci blandiscono con l’illusione di procurarci la vera felicità, mentre ci rendono a loro succubi. Proviamo con Seneca a liberarci da tutti quei piaceri effimeri e inconsistenti e che, oltre a infiacchirci, portano i nostri difetti alla necrosi: «Ma chi è che non sa che sono proprio i più stolti a essere stracolmi dei vostri piaceri, che la malvagità è ricca di soddisfazioni e che l’animo stesso suggerisce tanti tipi di piaceri vergognosi? Prima di tutto l’arroganza e l’eccesso di stima di sé, l’orgoglio che disprezza tutti e l’amore cieco e incauto per le sue cose, l’esaltazione per i più piccoli e futili motivi e poi la maldicenza e la superbia che si compiacciono di offendere, l’inerzia e l’indolenza dell’animo che, fiaccato dalla profusione dei godimenti, si addormenta su se stesso» (De vita beata, 10, 2). Scrolliamoci di dosso la superbia, l’avarizia, il desiderio di compiacere gli altri e tutti quei pesi che ci trattengono: solo quando avremo fatto questo, potremo definirci veramente liberi perché «chi mischia la virtù col piacere anche se non alla pari, indebolisce il vigore che c’è in un bene con la fragilità di un altro e manda sotto il giogo la libertà [...] Ne consegue una vita piena di ansie, sospetti e trepidazioni, timorosa degli eventi e condizionata dalle circostanze» (De vita beata, 15, 3). Alleniamo la temperanza: dopo aver individuato il difetto peggiore che ci caratterizza, proviamo poco a poco a smussarlo. Anche se di poco, il semplice riconoscimento del problema ci avrà comunque resi delle persone più libere, nonché più umili.

Imparate a raggiungere la virtù

Generosità e gratitudine: le due parole chiave «Che cos’è, dunque, un beneficio? Un’azione benevola che procura gioia e gioisce nel procurarla, accompagnata da un’inclinazione e da una disposizione d’animo a compierla» (De ben., I, 6, 1), quindi un’azione generosa che fa del bene a chi la fa e a chi la riceve. E chi ne è destinatario a sua volta sarà mosso a fare del bene perché «bisogna far di tutto per manifestare la massima gratitudine possibile» (Ep., X, 81, 19). Generosità e gratitudine sono i due poli della relazione alla base del dono: da un lato la generosità del donatore e dall’altro la gratitudine del beneficiario. Per Seneca, però, il dono racchiude un significato che va oltre la semplice relazione, in quanto ha un effetto liberatorio. Per farci comprendere meglio cosa intenda, ci riporta le parole di Marco Antonio: nel momento in cui si rende conto che la buona sorte che lo aveva accompagnato in tutti quegli anni lo stava pian piano abbandonando, pronuncia queste parole: «Ho quello che ho donato». L’accumulo di «cose», oltre a essere faticoso perché ci fa perdere sonno e serenità, prima nel tentativo di possederle e poi nell’ansia di conservarle, è inutile: non ci rendiamo conto che di tutte queste cose non siamo che gli amministratori, per di più pro tempore; oltre al fatto che compromettono severamente la nostra lucidità.

Gli oggetti, la base della fragilità Seneca lo spiega bene: «Tutte queste cose che vi gonfiano d’orgoglio e vi innalzano al di sopra dell’umanità, vi fanno dimenticare la vostra fragilità, [...] queste cose per le quali devastate le città, senza sapere con quanti colpi la fortuna vi assalirà le spalle, queste cose per le quali spezzate tante volte i legami di parentela, di amicizia, di società, tutto il globo fu diviso fra due contendenti, non sono vostre. Le avete in deposito e aspettano da un momento all’altro un nuovo padrone» (De ben., VI, 3, 2). Seneca, molto saggiamente, ci descrive prima immagini di devastazione su grande scala: con questo esempio macroscopico ci rende più facile comprendere l’insensatezza di guerre e carneficine in vista del possesso di terre sulle quali noi molto probabilmente non metteremo neanche mai piede e di cui magari ignoriamo anche l’esatta ubicazione sul globo terrestre. Poi, però, passa sul piano del privato e qui vacilliamo: immedesimarsi in colui che ha subito il torto di un’eredità spartita in modo iniquo è per noi molto più semplice e immediato che non calarsi nelle vesti di chi governa e difende interessi che vanno ben oltre il nostro privato. Riusciamo a capire bene, invece, la rabbia di chi è stato ingannato dal proprio socio o di chi non è stato nominato in un’eredità. E se prima era quasi scontato concordare con Seneca sull’idea della transitorietà dei beni, ora non è più così semplice. Il senso della proprietà privata sembra essere qualcosa di davvero duro da estirpare, tanto è radicato in noi: se qualcuno ha dimestichezza con bambini di due-tre anni, sa quanto sia difficile la fase dell’«è tutto mio», quando il bimbo cerca di affermare la propria identità attraverso il possesso.

Doniamo: la ricchezza verrà raddoppiata Sebbene nel corso del tempo, poco a poco, impariamo a non strillare e a non litigare come bambini a cui il gioco è stato tolto, tuttavia l’idea che qualcosa ci venga sottratto continua a procurarci l’orticaria. Ancora una volta Seneca ha la soluzione: «Chiedi come rendere tue tutte queste cose? Donandole. [...] Queste cose che ammiri, grazie alle quali pensi di essere ricco e potente, finché le possiedi hanno nomi volgari: casa, schiavo, soldi; quando le hai donate sono un beneficio» (De ben., VI, 3, 3-4). Oltre la gioia che si accompagna alla generosità e la gratitudine di un’altra persona, otteniamo anche di liberarci di cose il cui possesso è del tutto illusorio. Inaspettatamente, tanto più doneremo tanto più ci arricchiremo!

L’importanza di dire grazie La gratitudine, a sua volta, è fonte di gioia perché «colui che gioisce di aver ricevuto gode di un piacere costante e perenne e gioisce pensando non alla cosa ricevuta, ma all’intenzione di chi l’ha donata» (De ben., III, 17, 3). È anche un sentimento «pluridisciplinare», come fa notare lo stesso Seneca: «Eppure, la gratitudine è un aspetto sia dell’amore che dell’amicizia; anzi, è un sentimento più comune e diffuso dell’amicizia» (Ep., X, 81, 12). Pensiamo alla gioia che proviamo quando riceviamo un regalo: magari non ci piace ma il solo fatto che quella persona vi abbia dedicato del tempo pensando a noi, ci rende in qualche modo felici. Non vergogniamoci di manifestare tutta la nostra gratitudine e riconoscenza a chi ci ha fatto un dono: non conta se a essere donato sia il tempo, siano delle attenzioni o anche solo un pensiero fugace, ciò che conta è l’intenzione da parte di un’altra persona di volerci rendere più felici, come peraltro afferma lo stesso Seneca: «Un dono materiale viene sostituito da una volontà incline e bramosa di ricambiare. E se la disposizione d’animo non ha valore per dimostrare la riconoscenza se non è unita a un dono materiale, allora nessuno è riconoscente verso gli dèi ai quali si offre solo la volontà» (De ben., VII, 15, 4). Seneca ci ricorda anche che non c’è cosa peggiore che permettere al tempo e alla nostra presunzione di obliare la riconoscenza: «Quando la brama di cose nuove sminuisce il valore del dono che si è ricevuto, anche il suoautore non è apprezzato. [...] Subito cade nell’oblio ciò che prima giudicavamo un beneficio, e non guardiamo alle cose che ci mettevano al di sopra degli altri, ma solo a quelle che ci mostra la fortuna di coloro che stanno al di sopra di noi» (De ben., III, 1, 2). Dimentichiamo il dono fatto come dimentichiamo chi ci ha fatto quel dono ma fermiamoci e diciamo grazie.

E lasciate perdere se non vi viene detto! Per nostro conto, invece, Seneca ci sprona a non pentirci mai di aver donato, anche di fronte all’ingratitudine. A tal proposito, ci invita a sottoporci a un piccolo esame di coscienza: siamo sicuri, ma proprio sicuri, di aver dimostrato, a nostra volta, riconoscenza tutte le volte che avremmo dovuto? «Chiediti, dentro di te, se hai dimostrato la tua riconoscenza a tutti coloro con i quali eri in debito, se non sia andato perduto nessuno dei benefici che hai ricevuto, se il ricordo del bene che ti è stato fatto ti accompagni sempre. Ti renderai conto che i benefici che ti sono stati fatti quando eri bambino, li hai già dimenticati prima dell’adolescenza, quelli che ti sono stati concessi nella giovinezza non sono durati nella memoria fino alla vecchiaia» (De ben., VII, 28, 1). Quello che descrive Seneca viene purtroppo confermato costantemente, ma ancora una volta è la sua parola a soccorrerci, trovando la soluzione al problema: «È ingiusto che tu ti adiri per una colpa comune a tutti, è stolto per una colpa tua: per essere assolto, perdona. Sopportando un ingrato, lo renderai migliore, rimproverandolo, invece, lo renderai peggiore» (De ben., VII, 28, 3). Non riteniamoci superiori agli altri: anche noi spesso facciamo lo stesso!

Il bene torna indietro Al di là quindi dei risultati, Seneca ci invita a non smettere mai di fare azioni, anche se piccole e banali, che però fanno stare bene chi ci circonda e donare a fondo perduto. Sembra che non ci si scampo: l’essere fonte di gioia per gli altri è l’unico mezzo duraturo che abbiamo per trovare il nostro posto nel mondo: «Anche quando incontriamo l’ingratitudine, non dobbiamo stancarci di fare il bene: bisogna seminare anche dopo un cattivo raccolto. Spesso, tutto quello che era andato perduto per l’ostinata sterilità del terreno ingrato, lo restituisce l’abbondanza di una sola annata. Vale la pena sperimentare anche l’ingratitudine per trovare un uomo riconoscente» (Ep., X, 81, 1-2). Anche in quest’occasione dobbiamo provare a sfoggiare quell’ottimismo che, forse non ci abbiamo mai fatto caso, contraddistingue il genere umano: «Diamo ad altri e diamo a quegli stessi che ci hanno causato delle perdite. Il crollo di una casa non ha mai dissuaso nessuno dal costruirne altre e quando il fuoco ha distrutto un’abitazione, gettiamo le fondamenta sul terreno ancora tiepido e spesso affidiamo intere città allo stesso suolo su cui sono bruciate: a tal punto l’animo continua a essere ottimista. L’attività umana sulla terra e sul mare cesserebbe, se non avessimo voglia di ritentare ciò che la prima volta è andato male» (De ben., VII, 31, 5).

Siete felici se sapete stare con gli altri

La vera ricchezza? Gli altri! «Chi non vive per nessuno, non vive neppure per sé» (Ep., V, 55, 5). Abbiamo visto che per Seneca un obiettivo imprescindibile da raggiungere, in vista della felicità, è la tranquillità. Più facile a dirsi che a farsi, soprattutto quando si ha a che fare con le altre persone. Non c’è momento della giornata, in cui non entriamo in contatto con l’altro: genitori, figli, compagni, coinquilini, colleghi, sconosciuti... Alcune di queste relazioni ci procurano emozioni tra le più intense e belle che la vita ha da offrirci, come l’amore e l’amicizia; altre, quando va bene, si limitano a infastidirci, quando va male, ci rattristano o addirittura ci addolorano. Malgrado il potere degli altri di influire sulla nostra tranquillità, Seneca è convinto della natura sociale dell’essere umano: non solo siamo fatti per stare in mezzo alle altre persone, ma abbiamo il dovere di stringere tra di noi relazioni, perché vivere significa proprio questo, come lui stesso scrive: «Vivere significa essere di giovamento agli altri, traendo profitto da se stessi. Ma quelli che rimangono chiusi nel torpore stanno nella loro casa come in un sepolcro. Nel marmo della soglia puoi benissimo incidere il loro nome. Essi hanno anticipato la loro morte» (Ep., VI, 60, 4). Seneca concorderebbe sia con Musonio, suo coevo, che paragona la natura umana a quella delle api (come le api anche gli uomini, se vivessero da soli, morirebbero nel giro di poche ore), sia con Marco Aurelio che, a sua volta neiColloqui con se stesso, scrive: «Le relazioni umane sono il motivo stesso della nostra creazione». Nessuno sembra poter fare a meno del contatto con l’altro, neanche «il saggio [che] è pago di se stesso; ma, per quanto basti a se stesso, desidera avere amici, vicini di casa, compagni di studio» (Ep., I, 9, 3); oltre al fatto che, se questo stesso saggio cercasse di non mettersi in gioco, evitando di stabilire relazioni con le altre persone, comprometterebbe anche la sua presunta saggezza: «Se mi fosse concessa la saggezza, a patto di tenerla nascosta in me, senza comunicarla ad altri, la rifiuterei: nessun bene ci dà gioia, senza un

compagno» (Ep., I, 6, 4). Vero sagg io, invece, è colui che «vede in ogni uomo un amico; lo stolto non vede l’uomo neppure nell’amico» (Ep., V, 4, 4).

Non siete isole In questo mondo, in cui nessuno può ritenersi un’isola in mezzo all’oceano, Seneca ci invita a plasmare ogni nostra azione in vista della felicità altrui perché: «Nessuno può vivere felice se pensa solo a se stesso, se rivolge tutto a suo vantaggio. Vivi per il prossimo, se vuoi vivere per te. Questo sentimento sociale che unisce gli uomini fra loro e conferma l’esistenza di una legge fondamentale valida per tutta l’umanità, se è rettamente inteso giova moltissimo per sviluppare anche quella società più raccolta di cui ti parlavo: l’amicizia. Chi sente di avere molto in comune con ogni uomo avrà tutto in comune con l’amico» (Ep., V, 48, 2-3). E, ovviamente, questo sentimento sociale trova il suo massimo dispiegamento nell’amicizia, verso cui si è spinti da «un impulso naturale; come per altri beni spirituali, anche per l’amicizia sentiamo un’attrazione istintiva. Come si odia la solitudine e si desidera la compagnia, come l’istinto naturale avvicina l’uomo all’uomo, così un intimo stimolo ci fa desiderare gli amici» (Ep., I, 9, 17). Sembra che nessuno di noi possa sottrarsi a questo impulso che ha come massimo scopo la «vera amicizia che né speranze, né timori, né alcuna preoccupazione del proprio interesse riescono a spezzare; quell’amicizia che non cessa con la morte e per la quale gli uomini sono disposti a morire. Potrei citarti molti ai quali non mancarono gli amici, ma mancò l’amicizia: ciò non può accadere quando gli animi sono uniti da un concorde desiderio di bene. E questo non è forse possibile? Sanno infatti di avere tutto in comune, e soprattutto le sventure» (Ep., I, 6, 2-3).

L’amicizia, la grande opera Saggiamente Seneca ci invita a distinguere nettamente l’amicizia dal semplice «essere in buoni rapporti»: teniamo ben presente che «chi passa la vita in un continuo vagabondaggio, troverà molti ospiti, ma nessun vero amico» (Ep., I, 2, 5). L’avere una rubrica piena di numeri di telefono, il conoscere molte persone, l’essere «popolari» non equivale ad avere molti amici. Piuttosto di cercare l’approvazione continua di colleghi, conoscenti e vicini indossando gli abiti giusti, facendo il lavoro giusto, abitando nella casa giusta, andando dall’hair stylist giusto, vivendo di conseguenza nell’ansia di fare da un momento all’altro un passo falso, proviamo a investire tempo ed energia nella ricerca della vera amicizia, di quella che rimane al di là dello scorrere del tempo. Seneca ci fa notare che è un’operazione tutt’altro che semplice, che richiede da parte nostra accortezza e intuito. 1. Curane la nascita Proprio come facciamo quando un amore sta per sbocciare, proviamo a dedicare le stesse cure e attenzioni alla fase iniziale di un’amicizia, perché se le basi sono solide, anche il resto dell’edificio lo sarà: «Perché non è soltanto la consuetudine di un’amicizia antica e sicura che dà grande piacere, ma anche il momento iniziale e l’acquisizione di un’amicizia nuova. [...] Il filosofo Attalo soleva dire che dà più piacere farsi un amico che averlo, “come al pittore dà più soddisfazione dipingere un quadro che averlo già fatto.” L’ansia e l’impegno nel lavoro procurano per se stessi un grande diletto. Non ne prova uno simile chi ha terminato di dare l’ultima mano all’opera sua: ora si gode il frutto della sua arte; quando dipingeva, si godeva la sua stessa arte» (Ep., I, 9, 6-7). 2. Circondati di persone positive Le persone che ci stanno vicine devono infonderci energia e tranquillità, la loro vicinanza deve farci stare bene: «Dobbiamo vivere con persone assai tranquille e affabili e nient’affatto ansiose e scontrose; siamo portati a prendere il carattere di chi vive con noi, e come certe malattie del corpo si trasmettono per contagio, così l’animo trasmette i suoi difetti a chi gli sta vicino» (De ira, III, 8). 3. Scegli gli amici con attenzione

Se saremo molto selettivi all’inizio, eviteremo delusioni successive: «Rifletti a lungo se devi accettare qualcuno fra i tuoi amici, ma, presa la decisione, accoglilo di tutto cuore; e, quando parli con lui, sii schietto come con te stesso. [...] è l’amico che devi mettere a parte di tutti i tuoi pensieri e di tutte le tue preoccupazioni. Credi alla sua fedeltà: te lo renderai fedele» (Ep., I, 3, 2-3). 4. L’amicizia deve essere il fine Non un mezzo: «Chi pensa solo a sé e a questo scopo stringe amicizia è in grave errore. Come fu l’inizio, tale sarà la fine: si è fatto un amico che lo soccorresse nella prigionia, ma questi lo abbandonerà al primo rumore di catene. Sono queste le amicizie dette comunemente di circostanza: le amicizie fatte per opportunismo saranno gradite finché saranno utili» (Ep., I, 9, 8-9) e se ancora non ne fossimo convinti, sempre nelle lettere a Lucilio, Seneca aggiunge: «Se, infatti, bisogna cercare l’amicizia per sé, senza secondi fini, può tendere a essa chi basta a se stesso. “E come la cercherà?” Come la cosa più bella, non per desiderio di ricchezza, né per timore di mutamenti di fortuna. Toglie all’amicizia ogni dignità chi la ricerca per conseguire vantaggi materiali» (Ep., I, 9, 12). 5. Curane la crescita e goditi i frutti Come all’inizio abbiamo curato il germoglio della pianta, ora dobbiamo coltivare e coccolare la pianta che ne è nata godendo e prendendoci cura dei suoi fiori e frutti: «Godiamo intensamente le gioie dell’amicizia, perché è incerto quanto essa possa durare. Pensiamo che spesso abbiamo lasciato gli amici per fare qualche lungo viaggio, o siamo stati a lungo senza vederli, pur vivendo nella stessa città: ci accorgeremo che, quando essi erano vivi, è stato molto di più il tempo in cui non abbiamo goduto della loro compagnia. Potresti tu tollerare costoro che sono così trascurati con gli amici in vita, per piangerli poi sconsolatamente quando sono morti?» (Ep., VII, 63, 8). E non dimentichiamo di annaffiare e, ogni tanto, concimare questa pianta! Prendiamone atto: non potremo essere felici fino a quando non avremo trovato un amico vero. Scrive Seneca: «Nulla tuttavia delizierà tanto l’animo quanto un’amicizia fedele e dolce. Che bene prezioso è l’esistenza di cuori preparati ad accogliere in sicurezza ogni segreto, la cui coscienza tu debba temere meno della tua, le cui parole allevino

l’ansia, il cui parere renda più facile una decisione, la cui contentezza dissipi la tristezza, la cui stessa vista faccia piacere!» (De tranq. an., 7, 3).

Il vademecum della felicità

Una ricetta per tutti «Dunque che cos’è la Somma Felicità? Essere senza desideri e sapere di avere abbastanza, essere equo e disinteressato, non disputare nelle questioni su che cosa è giusto e sbagliato, cogliere il vero fondamento della propria mente, non essere confuso dalla vita e dalla morte o dalla buona e dalla cattiva sorte, affidare la vita alla vita e usare ogni potere per seguire la Via, quindi affidare la morte alla morte ed essere contento di quel ritorno (non devi invidiare gli altri), ma piuttosto accettare la buona e la cattiva sorte, l’ascesa e il declino così come si presentano, e gioire serenamente nella creazione e nel cambiamento. Ecco qual è la Somma Felicità sotto il cielo.» Non è Seneca a scrivere questo breve vademecum della felicità ma il maestro samurai Issai Chozanshi... Eppure la ricetta orientale e quella occidentale sono veramente simili tra di loro. Se non ne siete convinti, continuate a leggere per credere!

Pillola 1: Non possedere più del necessario Issai Chozanshi: «Essere senza desideri e sapere di avere abbastanza»; Seneca: «Non ti dico che tu non debba possederle, ma vorrei che le possedessi serenamente; e otterrai ciò solo se ti convincerai di poter vivere felice anche senza di esse; se guarderai ad esse come a cose effimere» (Ep., II, 18, 13). E se non fosse abbastanza convincente, ascoltiamo un altro passo delle lettere all’amico Lucilio: «A soddisfare le esigenze della natura basta la natura stessa. Ma ci ha allontanato da essa il lusso, che giorno per giorno si pungola da sé e cresce col passare delle generazioni e si serve dell’intelligenza per fomentare i vizi. Ha cominciato a desiderare le cose superflue, poi quelle nocive e, in ultimo, ha reso l’anima schiava del corpo, mettendola al servizio dei suoi bassi istinti» (Ep., XIV, 90, 18-19). Anche il nostro maestro ne è convinto: per essere felici non dobbiamo possedere più del necessario. Analizzando da vicino le cose «assolutamente necessarie», ci accorgeremo di come in realtà non lo siano affatto e di come spesso sia l’abitudine a rendercele tali. Oltre a ciò, teniamo sempre ben presente che, nell’ansia di possedere queste fantomatiche cose «assolutamente necessarie», compromettiamo quelli che sono i veri e unici beni, primi tra tutti: noi stessi perché «c’è niente di mirabile, eccetto l’anima; e se essa è grande, null’altro può esservi di grande» (Ep., I, 8, 5); il nostro tempo perché è un «bene sommamente fuggevole, ma ce lo lasciamo togliere dal primo venuto» (Ep., I, 1, 2); e la nostra tranquillità «data dalla riflessione continua su massime salutari, dalle buone azioni e da uno spirito bramoso unicamente di ciò che è rispettabile» (De ira, III, 41). Cura: indicare non più di cinque cose materiali che riteniamo essere assolutamente necessarie per la conduzione di una vita dignitosa. Confrontiamo questa lista con quella delle cose realmente possedute: traiamone le dovute conseguenze e rivalutiamo le priorità!

Pillola 2: Allenare la mente Issai Chozanshi: «Essere equo e disinteressato, non disputare nelle questioni su ciò che è giusto e sbagliato, cogliere il vero fondamento della propria mente»; Seneca: «Hai ben ragione di voler diventare sapiente dal momento che egli [il saggio] non è mai senza gioia. Questa gioia non nasce se non dalla coscienza delle proprie virtù: non può gioire se non chi è forte, giusto, temperante. [...] Al contrario, quella gioia che accompagna gli dei e gli emuli degli dei non si interrompe, non cessa. Cesserebbe se avesse la sua origine in altri; ma, non essendo un dono di altri, non è soggetta all’arbitrio altrui» (Ep., VI, 59, 16-17). Per Seneca felicità e saggezza coincidono, tant’è che solo il saggio o, per dirla secondo la filosofia orientale, «colui che ha trovato il fondamento della propria mente», può trovare la gioia e la tranquillità dell’anima. Al contrario, «gli stolti non hanno mai pace. [...] Essi tremano di fronte a tutto; sono sempre impreparati e si spaventano persino all’arrivo dei soccorsi». Il saggio, invece, grazie all’infallibile arma della ragione che gli permette di non indietreggiare di fronte agli eventi del destino, «è sempre ben difeso e pronto contro ogni assalto» (Ep., IV, 59, 8). Per essere sempre pronti ad affrontare il destino nel modo più saggio, dobbiamo esercitare e mantenere sempre in allenamento la saggezza: convinciamoci che è un esercizio troppo faticosa da fare da soli. Noia, pigrizia, stanchezza sono i peggiori nemici da combattere quando si decide di allenarsi in modo costante. E così come ci iscriviamo in palestra o in piscina più volentieri se possiamo condividere l’impegno con un amico, così accade anche quando decidiamo di allenare la mente. Da soli non possiamo farcela: i nostri compagni d’avventura saranno allora libri, film, concerti, spettacoli, musei... ma anche dei «maestri» il cui esempio è da stimolo al nostro miglioramento. In questo percorso, ancora una volta sono le parole del maestro Issai Chozanshi a venirci in aiuto: «Se cerchi di fissare la mente su ciò che vedi con gli occhi e senti con le orecchie, scopri che ogni cosa in cielo e in terra può racchiudere un insegnamento. Non esiste nulla sotto il cielo che non possa essere il tuo maestro. Tutto è importante, però

cerca. Quando riterrai che non ci sarà più nulla che valga la pena cercare, per te non sarà rimasto più niente da ricevere dall’umanità». Cura: due volte alla settimana, per almeno sei mesi, sforziamoci di imparare qualcosa di nuovo. Nessuna importanza ha il mezzo scelto per adempiere alla cura prescritta. Avvertenze: Una volta che la nostra mente si sarà assuefatta a questo esercizio, non ne potrà più fare a meno e se le verranno a mancare i dovuti stimoli per troppo tempo, andrà di sicuro incontro a una crisi d’astinenza.

Pillola 3: Prendere per mano il destino Issai Chozanshi: «Non essere confuso dalla vita e dalla morte o dalla buona e dalla cattiva sorte»; Seneca: «È felice chi è contento della sua condizione, qualsiasi essa sia, e gode di quello che ha. È felice chi affida alla ragione la condotta di tutta la sua vita» (De vita beata, 6, 1-2). Altro tassello sulla via della felicità è accettare attivamente la nostra condizione, più o meno buona che sia, e da lì partire per la costruzione di una vita che rispecchi le nostre aspirazioni più profonde e i nostri sogni. Seneca ci sta incoraggiando a non permettere al destino di avere la meglio su noi e sulla nostra vita: nonostante l’impossibilità di evitare le tempeste, abbiamo la capacità di mantenere il controllo della nave, senza permettere alle correnti, alle piogge, alle maree e ai flussi di avere la meglio. Seneca non è un inguaribile ottimista ma un severo «razionalista»: avremo pieno controllo della nostra esistenza solo quando impareremo a usare la ragione, anziché una cieca emotività. Italo Calvino nel racconto «Il Conte di Montecristo» scrive: «Ora che, passati gli anni, ho smesso d’arrovellarmi sulla catena d’infamie e fatalità che ha provocato la mia detenzione, una cosa ho compreso: che l’unico modo di sfuggire alla condizione di prigioniero è capire come è fatta la prigione». Anche Calvino ci invita a smettere di farci angustiare da ciò che è stato: finché non avremo il coraggio di darci una scrollata dai calcinacci di un destino poco generoso, continueremo a essere in una condizione di sudditanza psicologica verso di esso. Nel momento in cui avremo, invece, la forza di analizzare le pareti delle nostre prigioni, avremo già riconquistato parte della nostra libertà. Essendo noi umani, come lo stesso Seneca riconosce, è certo che non arriveremo a eguagliare l’esempio del filosofo Stilpone che, nonostante gli fosse stato portato via tutto, non solo la casa e tutte le sue ricchezze, ma anche la famiglia, sosteneva di non aver perduto nulla perché gli unici beni sono quelli interiori. Non assomiglieremo (per fortuna!) mai a questo prototipo di saggio, modello inarrivabile di freddezza e di autocontrollo davanti a ciò che fa tremare e piangere l’uomo comune. Tuttavia, potremmo imparare insieme a Seneca a non lasciare che sia il destino a prenderci per mano, ma essere noi a condurre, decidendo consapevolmente la strada da percorrere, anche

quando le sfide saranno particolarmente complesse. Così saremo non solo più saggi, ma anche più vicini al raggiungimento della felicità. Cura: proponiamo a noi stessi delle piccole sfide in cui modificheremo delle abitudini sedimentate e consolidate. Consapevolmente e coscientemente, cambieremo così il corso degli eventi, preparandoci ad affrontare sfide ben più grandi e complesse! Tutte le volte che l’emotività sarà sul punto di sabotare l’impresa, prendiamo fiato, rintaniamoci in un luogo tranquillo e stiliamo una lista di tutte le motivazioni che ci spingono a non mollare. La ragione sta educando la nostra emotività, oltre a darci prova della nostra tempra. Esempio: abbiamo deciso di smettere di fumare, ma è veramente molto difficile. Stiamo per accendere quella sigaretta. Fermiamoci, respiriamo e facciamo un elenco di tutti i motivi, dal più serio al più futile, per cui è saggio smettere: 1) troppo costoso, 2) nocivo alla salute, 3) causa danni non solo a noi ma anche a chi ci sta vicino, 4) un mozzicone è un rifiuto tossico il cui smaltimento richiede moltissimi anni... Se usata nel modo giusto, la ragione ci darà un grandissimo aiuto nel contrastare la nostra debolezza.

Pillola 4: Diventare bravi amministratori Issai Chozanshi: «Affidare la vita alla vita e usare ogni potere per seguire la Via, e affidare la morte alla morte ed essere contento di quel ritorno»; Seneca: «È un uomo davvero felice e ha il pieno dominio di sé, colui che aspetta l’indomani senza trepidazione. Chiunque può dire: “Ho vissuto”, s’alzerà l’indomani per guadagnare una nuova giornata» (Ep., I, 12, 9). Dal momento che non abbiamo nessun super potere per trasformare la nostra condizione mortale in immortale, continuare ad arrovellarsi sulla questione risulta essere solo una grande perdita di tempo. Dovremmo, invece, imparare pian piano a trasformare la paura della morte, che è più timore dell’ignoto, nel suo esatto contrario, ossia gioia di vivere. Sapere che il nostro tempo sulla terra è limitato, ha cioè un inizio e una fine, dovrebbe stimolarci a succhiare ogni stilla di vita che ci viene concessa, perché delittuoso ne è lo spreco. Cura: almeno due volte alla settimana, per due mesi, facciamo qualcosa che da sempre ci ripromettevamo di fare, ma non avevamo mai avuto il coraggio o il tempo di compiere.

Pillola 5: Liberarsi dalle catene Issai Chozanshi: «Non invidiare le ricchezze e onore, non disprezzare la povertà e gli umili natali, non distinguere ossessivamente tra felicità e rabbia, preferenze e avversioni»; Seneca: «La ragione stessa, cui vengono affidate le redini, è padrona di sé finché è libera dalle passioni» (De ira, I, 7). Ricordiamo anzitutto che non c’è felicità senza libertà: «Cosa, infatti, ci impedisce di affermare che la vita felice è il risultato di un animo libero, elevato, impavido e costante, al di sopra di ogni timore, al di sopra di ogni passione, per cui l’unico bene è la dignità, l’unico male la disonestà e tutto il resto un mucchio di cose che non tolgono né aggiungono niente alla vita felice, che vanno e vengono senza aumentare o diminuire il sommo bene?» (De vita beata, 3, 3). Essendo i nostri peggiori difetti le nostre più pesanti catene, quando finalmente riusciremo a scrollarcele di dosso allora avremo anche conquistato la libertà. Sono queste le catene che ci impediscono di vivere una vita veramente felice perché solo tesa al compiacimento, al confronto, alla lotta, al controllo dell’altro, anziché alla sua cura. Perciò «cerca di sviluppare in te, al più presto e con tutte le tue forze, una retta coscienza: se trovi qualche impaccio, sciogliti dai suoi lacci, o spezzali» (Ep., II, 17, 1). Cura: due volte alla settimana, per almeno un mese, ogni qualvolta ci rendiamo conto di avere invidiato, essere stati prepotenti, non aver condiviso con gli altri, aver provato gelosia... proviamo a chiedere scusa. In questo modo non solo avremo avuto modo di riflettere e rielaborare i nostri difetti, ma avremo fatto anche qualcosa di buono nei confronti di un’altra persona realizzando il fine per cui siamo stati creati: «Grandezza e bontà non si possono separare: sarà anche buono, o non sarà neppure grande, perché per grandezza d’animo intendo quella imperturbabile, interiormente salda, stabile e robusta dalle fondamenta, che non può trovarsi in indoli malvagie. Esse possono essere spaventose, agitate e funeste, ma non avranno mai la grandezza, di cui è sostegno e forza la bontà» (De ira, I, 20).

La felicità è del saggio, il saggio è felice E se ancora avessimo dei dubbi su come trovare la felicità, rileggiamo questo passo di Seneca che, da bravo maestro, non si stanca di ripetere la lezione in modo quasi ossessivo affinché anche lo studente più distratto, captandone una sola parola, possa trovare l’ispirazione necessaria per dare un senso alla propria vita. «Guarderò in faccia la morte con lo stesso stato d’animo che ho quando ne sento parlare, sopporterò qualsiasi fatica con forza d’animo, disprezzerò le ricchezze, ci siano o non ci siano e non sarò più triste o più superbo a seconda che brillino intorno a me o altrove. Tratterò con indifferenza la sorte favorevole e quella avversa. Guarderò tutte le terre come se fossero mie, le mie come se fossero di tutti. Vivrò nella convinzione di essere nato per gli altri e ringrazierò la natura per questo: come avrebbe potuto agire meglio nel mio interesse? Ha dato me a tutti gli altri e tutti gli altri a me solo. Se poi avrò qualcosa non sarò spilorcio ma neanche scialacquatore. Crederò veramente mio quello che ho fatto bene a donare e non valuterò i benefici dal numero o dal peso ma dalla stima che avrò per chi li riceve: non sarà mai troppo quello che potrò dare a chi lo merita. Farò tutto secondo coscienza senza basarmi sull’opinione degli altri e, anche se sarò solo io a sapere quello che faccio, mi comporterò come se tutti mi potessero vedere. Mangerò e berrò soltanto per soddisfare i miei bisogni naturali e non per riempirmi e svuotarmi lo stomaco. Sarò affabile con gli amici e mite e indulgente con i nemici. Cercherò di prevenire ogni richiesta dignitosa e di anticipare ogni preghiera. Considererò il mondo la mia patria e gli dèi la mia guida, loro che sempre sono presenti e giudicano ogni mio gesto e ogni mia parola. E quando la natura verrà a riprendersi la mia anima o sarà la ragione a decidere di lasciarla libera, me ne andrò potendo dire di aver sempre amato la rettitudine morale e i nobili intenti senza aver mai limitato la libertà di nessuno e tanto meno la mia. Chi si prefiggerà questi obiettivi, desidererà di raggiungerli e farà tutto il possibile, percorrerà la strada che porta al cielo e, anche se non conquisterà la vetta, tuttavia sarà caduto nel mezzo di una grande impresa» (De vita beata, 20, 35).

Postfazione di Matteo Nucci Quando parliamo di filosofi, oggi, oscilliamo tra due idee assolutamente opposte. Da una parte sta l’uomo tutto dedito agli studi, chino sui libri, perso in astrazioni metafisiche. Dall’altra sta chi sa vivere alla giornata, sa prendere le cose per il verso giusto, dimostra saggezza pratica, ha il buon carattere di chi è abile nell’adeguarsi alle situazioni. La nostra idea del filosofo rimbalza fra le altissime mura erette dalla riflessione filosofica tedesca dei secoli XVIII e XIX, quando pensatori come Kant e Hegel divennero modello di un pensiero sistematico, esposto in grandi trattati di difficile comprensione, e le basse mura, incompiute e grezze, della vita quotidiana, dell’affaccendarsi per riuscire a trovare la maniera migliore di tirare avanti attraverso i dolori e le angustie che ci propone il nostro passaggio terreno. Per recuperare un equilibrio fra questi opposti, dobbiamo abbandonare la parola «filosofo» e recuperare il verbo «filosofare» per come esso era inteso nell’antichità. I greci coniarono il termine unendo due parole piene di significato: amare (philein) la sapienza, la saggezza (sophia). Tendere dunq ue con tutte le forze verso una conoscenza decisiva. Ma decisiva per che cosa se non per conquistare quel che tutti gli uomini cercano durante la vita, ossia la felicità? Possiamo dire, in effetti, che non esistevano filosofi, nell’antichità, ma uomini dediti a una pratica, un impegno quotidiano che consisteva tutto nello sforzo di raggiungere i mezzi per vivere una vita felice. L’esempio massimo di questa tensione, nella Grecia antica, fu Socrate. Non scrisse nulla, si limitò a girare per le strade e le piazze della sua città natale, Atene, domandando e domandandosi cosa fosse il giusto, il bene, il vero, pur di essere capaci di vivere nella maniera migliore possibile. Non offrì risposte, Socrate, ma le sue domande indicano dove guardare. Si tratta infatti di domande da porre soprattutto a se stessi per indagare dentro la propria anima. La saggezza si raggiunge curando se stessi. La filosofia è una pratica analoga alla medicina. Questa cura il corpo, quella cura l’anima. L’esempio di Socrate scintilla senza mai spegnersi nella riflessione di uno dei pensatori più celebri dell’antichità latina: Seneca. Era nato a Cordova quasi quattro secoli dopo la morte di Socrate avvenuta nel

399 a.C. Nel frattempo erano passati sulla scena del «filosofare» i discepoli di Socrate e soprattutto Platone, poi il seguace più celebre e meno discepolo di Platone, Aristotele, poi le cosiddette «scuole ellenistiche»: scetticismo, epicureismo e stoicismo. Mai si era spenta l’idea delle origini, ossia che filosofare significa percorrere una strada che ci conduca alla felicità. Su quella strada si mise Seneca, seguendo principalmente la via aperta dallo stoicismo antico nelle declinazioni che esso prese attraverso le correnti di pensiero più vicine al suo tempo. Della enorme mole di riflessioni vitali, assolutamente pratiche, ispirate a idee forti di conoscenza, abbiamo appena avuto un’idea perdendoci nei meandri della precettistica senecana, e cioè tutti quei consigli e quelle indicazioni per trovare una via nel caos delle vicende in cui siamo immersi ogni giorno. Non c’è nulla di storicamente passato in quel che Seneca ci racconta, ispirandosi soprattutto a una semplice certezza: poiché non possiamo modificare ciò che è fuori di noi, l’unico spazio di azione riguarda noi stessi e la prospettiva con cui valutiamo le cose. La nostra ragione ci deve aiutare non in sottigliezze inutili ma nel compito costante di eliminare tristezze, paure, e tutto ciò che impedisce la vita tranquilla e felice. La nostra ragione, il nostro logos, è ciò che ci distingue dagli animali e ciò che realizza la nostra umanità. La virtù che ci spetta (virtù nel senso antico del termine, ossia come attuazione perfetta dell’essenza di una cosa) è la realizzazione della nostra ragione. La felicità sta nella virtù. Chi è virtuoso, ossia pienamente se stesso, è felice. Non è affatto semplice, però, vivere una vita del genere. Le vicende di Seneca ci raccontano molto sull’uomo e sulla rincorsa pratica dei princìpi a cui s’ispirò. Di famiglia colta – un padre amante dell’oratoria e una madre saggia e ricca di famiglia – Lucio Anneo Seneca lasciò Cordova per Roma ancora adolescente. Si formò con ottimi maestri e filosofi e, debole di salute, seguì la zia materna in Egitto dove era prefetto il marito. Doveva avere circa venticinque anni, respirò l’aria secca del paese assieme alla sua cultura e quando tornò a Roma cominciò la sua carriera politica come questore eppoi senatore. Nel 37 Caligola saliva al trono, Seneca sfuggiva a una condanna a morte, ma nel 41, morto Caligola e sostituito da Claudio, fu vittima di un’accusa di adulterio da parte di Messalina, moglie di

Claudio, e venne esiliato in Corsica. Per otto anni, Seneca visse lontano da amici e parenti (aveva già perso la moglie e un figlio giovanissimo) e soffrì una solitudine spietata. Scrisse molto, finché nel 48, dopo che a Roma Messalina era stata uccisa e Agrippina, sorella di Caligola e madre di Nerone, aveva sposato Claudio, Seneca fu richiamato in città per educare Nerone. Sognò allora di modellare nel giovane il futuro sovrano illuminato come già molti filosofi avevano immaginato di poter fare. Nel 54, morto Claudio avvelenato, Nerone, sedicenne, salì al potere. Assieme ad Afranio Burro, Seneca ne diventò il consigliere. I primi tempi lasciarono ben sperare. Ma già dopo un anno, Nerone imboccò la china che lo avrebbe reso celebre. Omicidi, nefandezze, fino all’uccisione della madre Agrippina di cui Burro e Seneca furono probabilmente al corrente fin dalla sua orchestrazione. Il filosofo, dopo essersi rivelato già ambiguo con Claudio, si mostrò debolissimo di fronte a Nerone, mentre veniva accusato di approfittare delle ricchezze con cui il sovrano ne metteva a tacere la coscienza. Solo nel 62 trovò il coraggio di abbandonarlo. Tre anni dopo, in seguito a una congiura sventata della cui complicità il filosofo fu accusato, arrivò la condanna a morte per mezzo del suicidio. Seneca, come tutti sanno, la affrontò coraggiosamente. Chi ha sottolineato i passaggi più controversi della sua attività politica e accusa il filosofo di incoerenza rispetto ai suoi scritti, ignora una cosa, per noi oggi decisiva. «Non sono un saggio» scrisse ne La vita felice «né lo sarò». Sta tutto qui infine il senso del filosofare antico di Seneca. Una continua tensione verso la sapienza, con la consapevolezza che la perfezione in questa vita non si può raggiungere. Quel che conta, come aveva scritto Platone, non è possedere la sapienza, perché quando la si possiede non la si desidera più. Quel che conta è inseguirla senza requie. Si ama solo ciò che non si possiede. L’amore filosofico, la spinta incessante alla conoscenza e alla sapienza è la vera pratica con cui curiamo la nostra anima. Senza mai fermarci.

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Frontespizio Presentazione Luci Anneo Seneca Ritratto Abbreviazioni Prefazione di Massimo Cirri Prima parte - Affrontate le vostre debolezze Come vincere le vostre debolezze con Seneca I mali di ieri sono i mali di oggi Quando le debolezze prendono il sopravvento Come curare le vostre debolezze Come gestire la rabbia Che cos’è la rabbia Una malattia che stravolge corpo e mente Prevenite la rabbia agendo sul corpo Prevenite la rabbia agendo sulla mente Come curare la rabbia Conseguenze della rabbia Come gestire l’invidia Che cos’è l’invidia Come prevenire e curare l’invidia Non avete niente da invidiare agli altri Come gestire l’ambizione Che cos’è l’ambizione Come prevenire e curare l’ambizione Quando lo stress ha un prezzo troppo alto Come gestire l’avidità Che cos’è l’avidità Come prevenire l’avidità Come curare l’avidità Come gestire la lussuria Che cos’è la lussuria Come curare la lussuria Come gestire la gelosia e i mali d’amore Imparate a riconoscere la gelosia e l’amore nocivo 1. Il vero amore non chiede prove estreme 2. Il vero amore non deve avere secondi fini 3. Il vero amore non è geloso 4. Il vero amore non cerca vendetta 5. Il vero amore non fa ammalare

Come curare la gelosia e i mali d’amore Come gestire la paura Che cos’è la paura Come curare la paura 1. Primo esercizio: fai una lista 2. Secondo esercizio: dividi le paure in tre gruppi

Parole chiave per gestire la paura L’insegnamento del saggio La saggezza rende liberi Che cos’è la vera felicità? Primo obiettivo: pieno controllo su voi stessi Secondo obiettivo: vivere il presente La medicina migliore: la ragione Seconda parte. Siate padroni di voi stessi Come essere voi stessi e vivere felici Non conformatevi Smettete di mentire Conoscete voi stessi insieme a Seneca Che cosa volete davvero? Come diventare padroni di voi stessi Primo passo: fate pace con voi stessi Secondo passo: imparate a stare bene da soli Terzo passo: ritagliatevi momenti solo per voi Esercizi pratici per una felicità duratura 1. Non farti spaventare dalle difficoltà 2. Pensa prima alla mente e poi al corpo 3. Fermati: quale senso hanno le tue azioni? 4. Fissa un obiettivo chiaro a cui tendere

La vostra meta è stare bene: fate passi

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Fate un check-up quotidiano Non arrendetevi mai: voi siete la vostra cura Imparate a credere in voi Le difficoltà sono tutte nella vostra testa La libertà è il bene più grande Siete ancora distanti dalla libertà? Che cos’è la libertà? Come impossessarsi della libertà Terza parte. Fatevi guidare dal destino Di cosa parliamo quando parliamo di destino Prendete bene la mira Non potete controllare tutto Imparate a essere flessibili Guardate gli imprevisti con altri occhi Come affrontare i rovesci di fortuna Suggerimenti per superare le difficoltà Periodaccio? Ne avete vissuti di peggiori Il lato positivo delle difficoltà Ricordatevi che non siete soli Non isolatevi Come dare ai problemi il giusto peso Non ingigantite i problemi Applicate solo i vostri parametri Rendetevi conto che state meglio con meno Imparate a vedere di cosa avete davvero bisogno E ora circondatevi solo di quello Il superfluo è una droga L’ironia rende liberi L’importante è imparare a non farne un dramma Non prendetevi troppo sul serio Esercizi pratici per riderci su 1. Renditi conto che spesso gli insulti sono sfoghi 2. Non fare il permaloso 3. Non metterti allo stesso livello

Prendete a esempio l’autoironia degli antichi Quarta parte. Vivete intensamente Come imparare a sfruttare bene il tempo Fate del tempo che scorre un alleato La vita è breve ma essenziale Imparate a utilizzare il tempo al meglio Pensate a come e quando sprecate il tempo Decidete cosa fare ora per ora Esercizio pratico: stilate una lista Come accettare la vecchiaia Smettete di temere la vecchiaia Come arrivare preparati alla vecchiaia Anche se il corpo decade, l’animo migliora La saggezza arriva con l’età Gli altri sono sempre un valido antidoto Come accettare la malattia Seneca da sempre convive con la malattia È utile guardare la morte da vicino Davanti ai dolori acuti, il corpo si anestetizza Il corpo accetta di rinunciare al superfluo Non lamentatevi e la sofferenza diminuirà I mali passati sono passati, non commiseratevi State con chi vi fa stare bene Coltivate l’animo anche se il corpo si ammala Come accettare la morte ascoltando Seneca La morte esiste Accettate la morte e imparerete a vivere bene Considerate la morte un processo Rendetevi padroni del vostro tempo La differenza tra passare il tempo e vivere Distinguete lo stare in vita dal vivere Quando a morire sono i nostri cari Il modo migliore per stare bene: la tranquillità

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Allenate la tranquillità Primo esercizio: ricordatevi che siete umani Secondo esercizio: stilate una lista Terzo esercizio: imparate a dire no Quarto esercizio: mantenetevi saldi Quinto esercizio: analizzate tre elementi 1. Valuta la tua indole 2. Decidi quante energie vuoi investirci 3. Scegli bene i compagni di viaggio

Sesto esercizio: non mentitevi Gli altri sono fondamentali Ancora più essenziali gli amici Quinta parte. Usate i vostri punti forti Le chiavi del successo sono già in voi Individuate la vostra missione Smettete di trovare giustificazioni Primo esercizio: le visualizzazioni negative Secondo esercizio: cambiate punto di vista Se fosse solo questione di pigrizia? Per essere felici dovete capire cos’è la virtù Che cos’è la felicità? E dove si trova? Cercatela con i giusti strumenti Cos’è questa cosa chiamata virtù? La lista degli strumenti necessari 1. Autonomia, detta anche prudenza 2. Giustizia, detta anche onestà 3. Coerenza, detta anche tenacia 4. Libertà, detta anche temperanza

Imparate a raggiungere la virtù Generosità e gratitudine: le due parole chiave Gli oggetti, la base della fragilità Doniamo: la ricchezza verrà raddoppiata L’importanza di dire grazie E lasciate perdere se non vi viene detto! Il bene torna indietro Siete felici se sapete stare con gli altri La vera ricchezza? Gli altri! Non siete isole L’amicizia, la grande opera 1. Curane la nascita 2. Circondati di persone positive 3. Scegli gli amici con attenzione 4. L’amicizia deve essere il fine 5. Curane la crescita e goditi i frutti

Il vademecum della felicità Una ricetta per tutti Pillola 1: Non possedere più del necessario Pillola 2: Allenare la mente Pillola 3: Prendere per mano il destino Pillola 4: Diventare bravi amministratori Pillola 5: Liberarsi dalle catene La felicità è del saggio, il saggio è felice Postfazione di Matteo Nucci

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