“In un momento in cui molti pensano all'islam come nemico, il gesto di chi si lascia sgozzare amando proprio carnef
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Italian Pages 284 [294] Year 2010
Table of contents :
1. Vocazione e Identità Monastica nel Contesto Musulmano: Le fonti esplorano in profondità come i monaci vivano la loro vocazione e identità in un ambiente dichiaratamente musulmano. Questo non è visto come un ostacolo, ma come una circostanza che affina la loro consacrazione e li riporta alle radici battesimali.
2. Relazione Chiesa-Islam: Dialogo, Amicizia e Compresenza: Viene sottolineata l'importanza della condivisione della vita con i musulmani, non tanto attraverso un dialogo teologico formale, ma attraverso la preghiera, il silenzio e l'amicizia. L'esperienza di "scavare il pozzo" insieme, trovando "l'acqua di Dio", è un'immagine potente di questa comunione spirituale.
3. Il Martirio non cercato ma Accolto: Le fonti evidenziano che il martirio non è stato un obiettivo o un desiderio dei monaci, ma piuttosto una conseguenza non voluta della loro scelta di rimanere fedeli alla loro presenza e vocazione in Algeria. Viene descritto come un "ospite" che si profilava all'orizzonte e con cui ci si era familiarizzati.
4. Speranza Radicata in Dio e nel Volto dell'Altro: La speranza è presentata non come una fuga dalla realtà, ma come una forza attiva che si manifesta nell'affrontare il peggio, nel vedere il volto di Dio nel volto di ogni vivente (inclusi gli stranieri, i poveri, i malati) e nell'accogliere l'inaspettato.
5. La Precarietà come Condizione Esistenziale e Teologica: La situazione dei monaci in Algeria è caratterizzata dalla precarietà - come stranieri, minoranza religiosa, e in un paese instabile. Questa precarietà non è solo una realtà esterna, ma viene integrata nella loro esperienza spirituale, richiamando l'orizzonte escatologico della vita religiosa.
6. Comunità e Vita Comune come Fondamento: La vita comune è vista come il luogo in cui la contemplazione si affina e la sensibilità spirituale si sviluppa, permettendo di vedere gli uomini e le cose con gli occhi di Dio. È anche il sostegno che li mantiene saldi di fronte alla violenza.
7. Fede Musulmana e Valori Condivisi: Le fonti riconoscono i valori religiosi presenti nella tradizione musulmana (preghiera, elemosine, lode, perdono) come corrispondenti agli osservanze monastiche e come stimolo reciproco nella ricerca di Dio. Vengono citati versetti coranici che condannano l'omicidio degli innocenti e sottolineano la responsabilità individuale.
Frère Christian de Chergé e gli altri monaci di Tibhirine
PIU FORTI DELL'ODIO Edizioni Qigajon Comunità
di Bose
PIÙ FORTI DELL’ODIO
Presso le nostre Edizioni
Ch. Salenson, Pregare nella tempesta. La testimonianza di frère Christian de Chergé, priore di Tibhirine H. Teissier, Accanto a un amico. Lettere e scritti dall Algeria Th. Merton, La pace nell'era postcristiana Piccola sorella Annie di Gesù, Charles de Foucauld Piccola sorella Annunziata di Gesù, Charles de Foucauld e l'islam A. Chatelard, Charles de Foucauld. Verso Tamanrasset
Aa.Vv., Charles de Foucauld. L’eloquenza di una vita secondo l’evangelo
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AUTORE: TITOLO: CURATORE: COLLANA:
Frère Christian de Chergé e gli altri monaci di Tibhirine Più forti dell'odio Guido Dotti Sequela oggi
FORMATO:
20 cm
PAGINE:
292
PREFAZIONE:
Enzo Bianchi
TITOLO ORIG.:
Sept vies pour Dieu et l’ Algérie, textes recueillis et présentés par Bruno Chenu © Bayard, Paris 1996
EDITORE ORIG.: TRADUZIONE: IN COPERTINA:
dal francese a cura di Guido Dotti I monaci di Tibhirine con padre Armand Veilleux
© 2006, 2010 EDIZIONI QIQAJON
COMUNITÀ DI BOSE 13887 MAGNANO
(BI)
Tel. 015.679.264 - Fax 015.679.290
ISBN 978-88-8227-315-6
FRÈRE CHRISTIAN DE CHERGÉ E GLI ALTRI MONACI DI TIBHIRINE
PIÙ FORTI DELL’ODIO Introduzione e traduzione con raccolta di ulteriori testi
a cura di Guido Dotti, monaco di Bose
Prefazione di Enzo Bianchi, priore di Bose
EDIZIONI QIQAJON COMUNITA DI BOSE
PREFAZIONE
... E con questo ho concluso, posso uscire di scena”. Sono state queste le parole con cui il monaco trappista Thomas Merton terminò la sua ultima conferenza pubblica — sull’identità del monaco nel dialogo con le religioni orientali — poche ore prima di morire fulminato da un apparecchio elettrico difettoso: le sue ultime parole în pubblico. Sì, a volte nell’imperscrutabile piano di Dio, ad alcuni è concesso che un loro messaggio, conforme alla testimonianza dell’intera vita, divenga inaspettatamente quello estremo e che sia profeticamente capace di condensare l'eredità spirituale lasciata. Una di queste persone è frère Christian, monaco trappista anch’egli, priore di Notre-Dame-de-l Atlas. Ad Algeri, l8 marzo 1996, meno di venti giorni prima di venire rapito assieme a sei fratelli, aveva suggerito alcune riflessioni, in occasione della quaresima, alla sempre più provata comunità cristiana locale. Aveva terminato con queste parole: “Dobbiamo essere testimoni dell Emmanuele, cioè del ‘Dio-con’. C'è una presenza del ‘Dio tra gli uomini’ che proprio noi dobbiamo assumere. È in questa prospettiva che cogliamo la nostra vocazione a essere una presenza fraterna di uomini e di donne che condividono la vita di musulmani, di algerini nella preghiera, nel silenzio e nell'amicizia. Le relazioni chiesa-islam balbetta-
no ancora perché non abbiamo za accanto a loro. Dio ha tanto dato loro il suo Figlio, la sua ‘Non c’è amore più grande che
ancora vissuto abbastanamato gli algerini che ha chiesa, ciascuno di noi. dare la vita per i propri
amici”.
Proprio di queste ultime parole — che testimoniano la consapevolezza di una vita interamente “donata a Dio ea questo paese”, già espressa da frère Christian nel testamento spirituale redatto due anni prima, subito dopo la prima, minacciosa “visita” a Tibbirine dei “fratelli della montagna” - vorrei farmi eco per scavare nel significato del legame tra vita cristiana quotidiana, monachesimo e martirio, legame che in questi ultimi anni è tornato a brillare al cuore stesso della chiesa dopo che per quindici secoli era rimasto confinato nelle estreme regioni della missione.
Il successore di Pietro, Giovanni Paolo II, nella sua
lettera Tertio Millennio Adveniente, con molta fierezza scrive che “al termine del secondo millennio la chiesa è
diventata nuovamente chiesa di martiri” e che questa testimonianza resa al Signore è patrimonio comune a tutte le confessioni cristiane, memoria da non dimenticare!. Questo ritorno della possibilità del martirio è un grande segno ber tutti: vescovi, presbiteri, religiosi, monaci, sem-
plci fedeli hanno mostrato che val la pena morire per Gesù Cristo e che essere battezzati è una cosa seria, determinante la stessa morte fisica. Da un confine all’altro della terra sangue di cristiani mostra che la fede, l’adesione al Signore Gesù è viva più che mai, viva a prezzo del sangue!
1 Cf. Giovanni Paolo II, Tertio Millennio Adveniente 37.
Questo legame tra vita cristiana quotidiana, monachesimo e martirio è davvero inscritto già nel battesimo, in quella vocazione primaria che implica ogni successivo cammino del cristiano, in quell ingresso nella morte e resurrezione di Cristo che solo definisce l'identità del cristiano: verità, questa, sovente dimenticata nei lunghi secoli della “cristianità”, nei quali era la società, la civiltà cristiana a determinare “per nascita” le appartenenze e a fornire i criteri di identità. Verità invece ben presente a chi, come i cristiani dell Algeria e i monaci dell Atlas, si trova a vivere in un ambiente dichiaratamente musulmano, non cristiano: “Qualora voleste identificarmi in modo più preciso, andate a interrogare il nostro vicino. Per lui, chi sono? Cistercense? Mai sentito! Trappista? Meno ancora. Monaco? Anche la parola araba che esprime la cosa non appartiene al suo repertorio. D'altronde, lui non si chiede chi io sia. Lo sa. Sono un rum, un cristiano. Ecco tutto. E în questa identificazione generica c’è qualcosa di sano e di esigente.
E un modo come un altro di collegare la professione monastica al battesimo”, dirà nel 1993 frère Christian al capitolo generale del suo ordine. Un’identificazione generica in cui c'è qualcosa di sano e di esigente... forse è proprio questo “qualcosa” che ha guidato il permanere dei monaci all’ Atlas nonostante i rischi sempre più evidenti. Un “qualcosa” difficile da cogliere per chi non sa nulla del radicalismo evangelico che fonda la “stabilità” monastica, il permanere, il dimorare in un luogo e con dei fratelli che il Signore ha voluto donare come ambito definitivo di vita cristiana, come “qui e ora” della fede e della sequela di Cristo. Un “qual: cosa di esigente” difficile da capire anche da parte di chi vive la stessa realtà ma in un contesto meno esposto: “Do-
po che un gruppo armato ci ha fatto visita a Natale — ha rivelato in quella stessa meditazione dell’8 marzo 1996 frère Christian — un abate cistercense ci ha scritto: ‘L’ordine non ha bisogno di martiri, ma di monaci”. Uomo prudente, questo abate, uomo di buon senso, nella linea
di un altro grande abate tiappista, “dom Gabriel Sortais, la cui chiaroveggenza era ben nota”, il quale, all’indomani dell indipendenza dell Algeria aveva detto a uno dei fratelli dell’ Atlas: “L’ordine non può permettersi il lusso di un monastero in mondo musulmano”. Ma la prudenza come norma, il buon senso come criterio di discernimento non sono sufficienti in condizioni estreme, anzi, fanno
apparire in contraddizione antitetica due realtà che sono invece strettamente correlate: è proprio per avere voluto
continuare a essere “monaci” che i fratelli dell Atlas sono divenuti “martiri”.
E in questo loro essere autenticamente monaci il mondo musulmano li ha aiutati ogni giorno. “L Algeria vi aiuta a vivere la vostra consacrazione?” era stato chiesto a loro come a tutti i religiosi in vista del sinodo sulla vita consacrata. E i fratelli dell’Atlas avevano risposto con una litania di “aiuti” ricevuti, che così si concludeva:
“E un aiuto, ancora più specifico, l'essere confrontati in ogni cosa all’onnipresenza dell’affermazione musulmana ... Essa narra Dio ovunque: costituisce un ‘microclima’ che libera la fede da ogni riguardo umano o falsa riserva. Non solo, ma la tradizione musulmana veicola valori che
ci si aspetta solitamente di trovare presso i ‘monaci’’. È proprio per avere voluto essere cristiani ogni giorno,
semplici monaci, “oscuri testimoni di una speranza”, che i fratelli dell’ Atlas sono diventati “martiri”, testimoni fino al sangue versato. Il télos, il fine ultimo di una vita donata, può a volte, per sola grazia di Dio e non per cal-
colo umano, trovare la sua piena manifestazione in una
morte violenta: quando accade, non fa che mettere in evidenza ciò che si era desiderato che la vita quotidiana stessa rendesse visibile. Appare così agli occhi di tutti quello che prima era nascosto: chi ha una ragione per morire rende manifesta la ragione che ha per vivere. E per un discepolo di Cristo questa ragione ha un nome, un volto: quello del suo Maestro e Signore, Gesù di Nazaret, morto e risorto. Martirio quindi non come impresa eroica, come gesto di uomini valorosi, bensì come “naturale” evolversi di
una vita donata: “So che non siamo migliori, né degli eroi, né nulla davvero di straordinario... C'è qualcosa di singolare nel nostro modo di essere chiesa, di reagire agli eventi, di attenderli, di viverli. C’è una certa consapevolezza, come se fossimo responsabili non di qualcosa da fare, ma di qualcosa da essere, qui, come risposta di verità, risposta di amore”. Il monachesimo, anzi, la vita cristiana nella sua essenza, è un cammino di conversione,
un percorso quotidiano di sequela: “Ci sappiamo convocati alla verità di un itinerario spirituale: lasciarci scavare per acquisire la disponibilità di un cuore povero che può offrire solo la sua fedeltà di oggi; lasciarci pervadere dalla benevolenza di Dio per questo popolo che soffre; e laSCIAYCI provocare
anche
noi, attraverso
la prova,
a un so-
vrappiù di umanità, tra noi innanzitutto, per contribuire a esorcizzare la violenza esercitando semplicemente il ministero di vivere, e di vivere insieme”. Il Signore ha disposto che questo loro ministero di vivere fosse inverato dal ministero del loro morire, e del loro morire insieme. “Fin
dove spingersi per salvare la pelle senza rischiare di perdere la vita? Uno solo conosce il giorno e lora della nostra piena liberazione in lui”, scriveva frère Paul all'abate
di Tamié nel gennaio del 1995. Come non riconoscere in quelle poche righe il paradosso evangelico: “Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt 16,25)? Il martirio, questi nostri fratelli, non lo hanno cercato e nemmeno desiderato — “Non potrei auspicare una tale morte... Sarebbe un prezzo troppo caro, per quella che, forse, chiameranno la ‘grazia del martirio’, il doverla a un algerino” —, così come non lo hanno cercato i loro fratelli e le loro sorelle della chiesa di Algeria che prima di loro erano caduti vittime di chi “dice di agire in fedeltà a ciò che crede essere l’islam”. Martirio non desiderato, quindi, eppure accettato, accolto come un ospite che da tempo si vedeva profilarsi all'orizzonte, come una presen-
za con cui da tempo ci si era familiarizzati per averla vista all'opera presso persone care: “Ci sembra che il cielo si riempia di nostri amici: relazioni preziosissime! Più ancora che non la minaccia, la loro morte ci rende familiari della nostra. Eccoci più sereni per il fatto di poter trovare in essa il gusto rassicurante della vita”. Così, quando quest’ ospite arriva, non è mai all improvviso, la porta è aperta per lui, la mano è tesa, la vita lo accoglie in sé: “(Henri) si è accasciato piegando sul petto la mano che aveva appena teso all’assassino: completava così il gesto dell’accoglienza come viene praticato qui, come a meglio significare che proviene dal cuore”. Nel suo testamento frère Christian si augurava di poter avere, nel momento della morte violenta “quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nello stesso tempo di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colbpito”. Gli eventi hanno voluto che questo “attimo” di lucidità si dilatasse per quasi due mesi, il tempo intercorso IO
tra il rapimento e l “esecuzione”. Il pudore, il rispetto per il segreto del cuore umano, per l’inviolabile intimità del rapporto di ogni uomo con il suo Creatore ci vietano di chiederci come i sette monaci hanno vissuto il tempo della loro prigionia. Ma tutto nella loro vita ci consente di affermare che non sono morti diversamente da come sono vissuti: in un incessante cammino di purificazione, în un rinnovato dono di sé e della propria vita. “Presenza della morte. Per tradizione, è assidua compagna del monaco. Questa compagnia ha assunto un'intensità più concreta con le minacce dirette, gli omicidi avvenuti vicinissimi a noi, alcune visite... Si offre a noi come un prezioso test di
verità, non certo comodo. Dopo il Natale 1993, noi tutti abbiamo scelto nuovamente di vivere qui insieme. Questa scelta (rinnovata) era stata preparata dalle precedenti rinunce di ciascuno (alla famiglia, alla comunità di origi-
ne, al paese...). E la morte brutale — di uno di noi o di tutti insieme — sarebbe solo una conseguenza di questa scelta di vita alla sequela di Cristo”. Come non sottolineare allora l’altro grande segno di questo martirio, il morire insieme di fratelli che avevano fatto voto di vivere insieme fino alla morte? Per un monaco cenobita la vita comune non è il quadro in cui trascorre la sua esistenza, non è il contenitore di valori da ricercarsi altrove, è la vita stessa, è l'elemento vitale al
di fuori del quale ogni altra pratica perde significato, è laria che respira. Il monaco cenobita sa che la sua vocazione non è solo pregare, scrivere, lavorare, ma è fare tutto questo insieme (syn), è vivere tutto questo nella reciprocità dell alleanza (allélon), fino a morire insieme: sì,
perché il cenobita struttura la sua risposta al Signore che lo ha chiamato “ad commoriendum et ad convivendum” (2Cor 7,3). II
I mass media, soprattutto in Francia, si sono fortemente interessati alle grandi differenze di età, di carattere, di provenienze e di vicende personali di questi sette fratelli, non nascondendo lo stupore nel constatare che persone così diverse potessero non solo vivere insieme, ma acquistre un comune volere e operare. Un figlio di un generale assieme a un irriducibile sessantottino, un idraulico e un fresatore assieme a un direttore di scuola superiore, un in-
faticabile “prete della strada” accanto a un medico, fratello converso per convinzione. Tre di loro erano addirittura giunti all’ Atlas provenienti dallo stesso monastero, dopo avere manifestato al loro abate l'uno dopo l’altro nell’arco di una settimana — e ciascuno a insaputa dell'altro! — il loro desiderio di essere inviati a Tibbirine... Da orizzonti diversissimi erano arrivati a contemplare insieme l’orizzonte maestoso dell Atlante. Nel leggere i loro scritti non si può non restare colpiti dal loro “sentire comune” che pure si esprime con accenti diversissimi.
Non è allora un caso se al profilarsi dell’ad-Dio questi monaci paiono affrettarsi a ritrovarsi insieme all’ Atlas: uno vi arriva dal Marocco, pochi giorni prima, per partecipare al voto per il rinnovo della carica di priore, l’altro rientra veloce dalla Francia, arriva il pomeriggio precedente il rapimento, non ha neanche il tempo di disfare le valigie per estrarne vanghe e piantine per abbellire Tibbirine, il giardino. E proprio la vita comune ha affinato la loro contemplazione, li ha portati all'autentica contemplazione cristiana: vedere gli uomini — ogni uomo, anche il nemico — e le cose — tutte le cose, anche la morte violenta — con gli occhi di Dio. E nella vita comune autentica che si affina la sensibilità spirituale, che diventa possibile il dono del discernimento, quell’abbagliante luce evangelica che I2
emana dal testamento di Christian: una luce che gli consente di discernere nel volto dell “amico dell ultimo minuto” il profilo di un ad-Dio. Non una fine ma un compimento: “Potrò immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo”. Davvero, come ha scritto frère Christian a proposito di un fratello e una sorella vittime di un agguato mortale, “quelli che hanno rivendicato il loro assassinio non potevano appropriarsi della loro morte. Apparteneva a un Altro, come tutto il resto, e da molto tempo”. Davvero, nel rendere grazie al Signore per questa testimonianza del martirio che ci ha dato e di cui non siamo degni, possiamo ripetere per i sette monaci dell Atlas quello che loro dicevano di quegli “oscuri testimoni di una speranza” che li avevano preceduti nel passaggio dalla morte alla vita: “Su di loro riposa tutto il futuro del mondo. Chi oserebbe credere a questo futuro se loro non fossero là, al nostro fianco, gomito a gomito, passo dopo passo, istante dopo
istante, pazienti e ostinati, lucidi e ottimisti, realisti e liberi, all’ infinito? Secondo il proverbio sufi ‘non hanno atteso di morire per morire’, non hanno atteso i perse-
cutori per impegnarsi nel martirio, reinventando così, nel cuore delle masse, quello che i monaci andavano a cercare nel deserto dopo l’epoca delle persecuzioni: ‘il martirio della speranza’. Questo è il ‘rischio’ che viviamo quotidianamente da queste parti... Discostandoci da questo rischio, avremmo ancora qualcosa da dire dell’evangelo nel mondo di oggi?”. In un momento in cui molti pensano all’islam come nemico, il gesto di chi si lascia sgozzare (come l’ Agnello sgozzato dell’ Apocalisse) amando il proprio carnefice, è l’estremo rifiuto della logica dell inimicizia, è l’unico 13
atto che può porre fine alla catena delle rivalse e delle vendette. E il caso serio del cristianesimo, il suo nocciolo
duro: è la croce! Con il martirio un cristianesimo che sembra incapace di comunicare agli uomini d’oggi ritrova improvvisamente la capacità di suscitare domande e di inquietare le coscienze. In effetti, come annotava alla fine
del I secolo Ignazio di Antiochia mentre martirio a Roma, è nelle situazioni în cui è odiato e avversato che emerge con forza opera di persuasione, ma di grandezza”?. Si, se un ordine religioso può non avere
era condotto al il cristianesimo che esso “non è
bisogno di mar-
tiri, è tutta la chiesa, è il mondo intero che ne ha bisogno,
ed è il mondo intero che vi ringrazia, uno per uno: Christian, Luc, Christophe, Michel, Bruno, Célestin, Paul. Sì,
grazie a voi, alcuni dei quali ho incontrato e conosciuto a Tamié e Bellefontaine, è possibile a ogni uomo sulla terra credere che l’amore è più forte dell’odio, che la vita è più forte della morte, perché solo chi ha una ragione per morire può anche avere una ragione per vivere. Enzo Bianchi priore di Bose
Bose, 29 dicembre 1996 memoria di Thomas Becket, martire
2 Ignazio di Antiochia, Ai romani 3,3.
INTRODUZIONE IL MARTIRIO DELL'AMORE
Diversi eventi si sono succeduti da quando nel 2006, in occasione del decimo anniversario della morte dei sette monaci di Tibhirine, decidemmo di editare nuovamente i loro scritti: da un lato la pubblicazione di alcuni testi dei monaci e di studi su di loro”, d’altro
lato l’avvio ad Algeri del processo diocesano di beatificazione che li accomuna agli altri dodici religiosi uccisi in Algeria tra il 1994 e il 1996}; più recentemente ancora, nell’estate 2009, il clamore suscitato dalla de-
posizione giurata del generale francese Francois Buchwalter, prestata al Tribunale di Parigi che sta indagando sulle circostanze della morte dei sette monaci, il cui verbale venne pubblicato da Le Figaro a seguito di una fuga di notizie; da ultimo, il successo di critica ottenu-
1 Frère Christian de Chergé e gli altri monaci di Tibhirine, Più forti dell'odio, a cura di G. Dotti, Qiqajon, Bose 2006 (prima ed. italiana: Piemme, Casale Monferrato 1997). 2 Per una bibliografia, cf. infra, pp. 39-41. 3 Cf. l'opuscolo predisposto dai postulatori della causa di beatificazione: Le sang de l'amour. Les martyrs d’ Algérie (1994-1996), s.l., s.d. 4 L'indagine giudiziaria è partita dalla denuncia contro ignoti presentata nel dicembre 2003 dai familiari di frère Christophe Lebreton, uno dei sette monaci uccisi, e da padre Armand Veilleux, procuratore generale dei trappisti all’epoca dei fatti, costituitisi parte civile. Per un’analisi di questi sviluppi giudiziari e delle ricadute mediatiche da essi avute, cf. la ricostruzione redatta dallo stesso Armand Veilleux: http://www.scourmont.be/Armand/writings/le_point_sur_tibhirine.htm.
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to al Festival di Cannes 2010 dal film di Xavier Beauvois, Des hommes et des dieux?, dedicato alla vicenda dei monaci di Tibhirine. Tutti questi eventi sono convergenti non solo nel richiamare l’attenzione su una luminosa testimonianza di vita evangelica, ma anche nel sottolineare che l’elemento decisivo non sta nelle modalità della loro uccisione, bensì nell’insieme della loro vita, culminata tra-
gicamente al pari di quella di migliaia di algerini in quegli anni. La doverosa ricerca delle responsabilità, il diritto a conoscere la verità dei fatti, il legittimo desiderio di sapere finalmente chi perdonare per questo massacro, non devono distogliere dalla conoscenza e dalla riflessione su quanto questi discepoli di Cristo hanno voluto affermare giorno dopo giorno attraverso le loro esistenze spese in una vita comune di preghiera, di lavoro e di solidarietà con i più deboli e indifesi. Ed è proprio questa vita che emerge dagli scritti qui raccolti. Quando a pochi mesi dal rapimento e dal martirio dei sette monaci dell’Atlas, curammo la prima edizione di questi testi, eravamo ben consapevoli della loro
portata di testimonianza cristiana per la chiesa intera e della loro dimensione profetica, come emerge dalla lettura degli eventi contenuta nella “Prefazione”. Il testo - dal titolo Una presenza di “Visitazione” - aggiunto nella seconda edizione è a sua volta estremamente rappresentativo della lettura che il priore e i monaci dell’Atlas avevano saputo fare del “segno” da loro posto in terra di islam e, nel contempo, uno strumento di
La testimonianza del generale Buchwalter era già stata raccolta, naturalmente protetta dall'anonimato, dal giornalista Valerio Pellizzari nel corso di un’accurata inchiesta giornalistica pubblicata su La Stampa il 1° giugno e il 6 luglio 2008. ? Vincitore del Grand Prix du Jury e del Prix du Jury Oecuménique.
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comprensione della vita e della testimonianza di numerosi altri cristiani presenti in paesi a maggioranza islamica: in particolare, di quanti hanno pagato con la vita il loro essere discepoli di Gesù Cristo nella mitezza e nell’umiltà di cuore, dal vescovo di Orano, padre Pierre Claverie, assassinato in Algeria pochi mesi dopo i fratelli dell’Atlas, a don Andrea Santoro e al vescovo Luciano Padovese, uccisi in Turchia. Per cogliere in profondità la portata ancora attualissima dell’appello a proseguire con tenacia sulla via del dialogo e del rifiuto di qualsiasi scontro di civiltà o di religioni, è bene allora ripercorrere le tappe di questa sequentia sancti Evangelii, di questo brano vivente di vangelo che sono state le “sette vite per Dio e pet l’Algeria”°.
Un giardino di pace Il monastero dove i sette fratelli avevano deciso di vivere il proprio impegno monastico è situato nei pressi di Médéa, nell Atlante algerino, in un villaggio di nome Tibhirine, “giardino” in arabo, ma non costituisce la prima piantagione trappista in Algeria: dal 1843 al 1904, infatti, una comunità monastica è presente a Staoueli, ed è là che trascorre qualche tempo anche Char-
é Sept vies pour Dieu et l’ Algérie (Bayard, Paris 1996): è questo il titolo originale della presente raccolta, amorevolmente curata da Bruno Chenu, allora redattore capo de La Croix, prematuramente scomparso nel 2003. Con lui, fraterno amico del nostro Monastero, avevamo concordato le integrazioni della prima edizione italiana e a lui siamo debitori anche di alcuni paragrafi di questa introduzione.
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les de Foucauld, in ricerca della propria vocazione. È però nel 1934 che alcuni monaci dell’abazia di Nostra Signora della Liberazione a Rahjenburg, nell’attuale Slovenia, sbarcano in Algeria per stabilirsi pochi anni dopo — assieme ad alcuni confratelli giunti dall’abazia di Aiguebelle in Francia - nella zona di Tibhirine, dedicando l’insediamento monastico a Notre-Dame-de-l' Atlas. Venticinque anni dopo, nel 1963, a seguito dell’in-
dipendenza conquistata dal paese, la chiesa cattolica algerina viene a trovarsi privata della quasi totalità dei suoi membri e anche la vita religiosa subisce i contraccolpi di questa nuova fase storica. Anche la comunità trappista, d’intesa con l’abazia “madre” di Aiguebelle, vota la chiusura “progressiva” del monastero, e l’abate generale dom Gabriel Sortais convalida la decisione. Una decisione tuttavia mai attuata, anche a seguito alla morte repentina dello stesso abate generale, sopraggiunta all’indomani della firma del decreto di chiusura. Su invito di monsignor Duval, arcivescovo di Algeri, le abazie di Aiguebelle e Timadeuc si mobilitano nuovamente e inviano quattro fratelli ciascuna. Così, nel 1964 la vita può ricominciare con prospettive più
ridotte ma sufficientemente solide. Anche le vaste proprietà agricole e boschive possedute dal monastero vengono cedute allo stato, riservando alla comunità solo un'estensione di terreno sufficiente a garantirle un’adeguata autonomia. Nel 1984 Tibhirine rinuncia allo statuto di abazia per diventare priorato autonomo
poter affrontare con maggior duttilità il sto sociale in cui è inserita. Così, sotto la vo priore, frère Christian, la comunità profondità la sua vocazione monastica in unica trappa allora presente in ambiente 18
e
mutato conteguida del nuopuò vivere in terra algerina, non cristiano.
La vocazione è quella di essere “segno sulla montagna”, secondo lo stemma di Tibhirine. Un segno, non
un’`imposizione: un seme di presenza e fratellanza con un popolo appartenente nella sua quasi totalità allislam. I monaci si consacrano quindi alla preghiera nell’assoluto rispetto della religione che li circonda, in un’umile sottomissione al disegno di Dio, in un servizio gratuito alla popolazione locale, in un’esigente ricerca di comunione “dall’alto”, “come eterni mendicanti d'amore”.
Verso una comunione d’intenti
Ma chi sono questi monaci provenienti da monasteri diversi, convenuti a Tibhirine in stagioni e con motivazioni diverse, ma che hanno saputo vivere insieme l’amore fino all’estremo? Uomini normalissimi, come tutti i monaci, ricchi di doni e di debolezze, nutriti di coraggio e frenati da paure, carichi di speranze e
fiaccati da disillusioni. Intellettuali alcuni, più pratici e manuali altri, alcuni dotati di capacità comunicative, altri taciturni e meditativi: uniti solo dalla ricerca di Dio in una relazione fraterna tra loro e con il popolo algerino. Cerchiamo allora di delineare le figure di questi sette monaci, facendoci aiutare anche dalle loro stesse parole”.
? Della comunità facevano anche parte frère Jean-Pierre e frère Amédée, scampati al rapimento, mentre frère Bruno era tornato a Tibhirine dal Marocco solo pochi giorni prima. Questo spiega anche perché non si hanno foto che ritraggono tutti insieme i sette monaci uccisi.
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Frère Christian de Chergé, priore della comunità, è stato l’animatore del cammino spirituale che ha portato la comunità ad accettare lucidamente l’eventualità del martirio. Nato il 18 gennaio 1937 a Colmar in Francia, è figlio di un generale dell’esercito e ha vissuto in Algeria per tre anni durante la sua infanzia e per ventisette mesi di servizio militare in piena guerra d'indipendenza: durante quest’ultimo periodo un amico musulmano gli salvò la vita e pagò con la morte quel gesto di coraggiosa solidarietà. Dopo gli studi presso il seminario dei carmelitani a Parigi, è ordinato prete nel 1964 e diventa cappellano del Sacro Cuore di Montmartre a Parigi. Entra nel monastero di Aiguebelle nell’agosto 1969 per raggiungere Tibhirine nel 1971 dove termina il suo noviziato ed emette la professione semplice. Dal 1971 al 1973 studia arabo e islamologia a Roma. Tornato in Algeria emette i voti solenni il 1° ottobre 1976. E eletto priore il 31 marzo 1984: nei giorni del rapimento scadeva il suo secondo mandato sessennale in quella carica. So di non avere altro che questo piccolo giorno di oggi da donare a colui che mi chiama per tutti i giorni, ma come dirgli sì per tutti i giorni se non gli dono questo piccolo giorno qui... Dio ha mille anni per fare un giorno; io ho solo un giorno per fare qualcosa di eterno: oggi *!
Frère Luc Dochier, fratello converso, un po’ burbero ma profondamente umano, era diventato leggenda-
* Al capitolo della comunità, 30 gennaio 1990, cf. Dieu pour tout jour, Aiguebelle, s.d., p. 221.
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rio nella regione grazie ai servizi resi ai malati come medico: per cinquant’anni, infatti, ha curato tutti, gratuitamente, senza distinzioni di religione o di schieramento. Nato in Francia nel 1914, dopo gli studi di medicina aveva prestato servizio militare in Marocco come tenente medico. Entra alla trappa di Aiguebelle nel 1941 come fratello converso. Dal 1943 al 1945 è prigioniero volontario in Germania, essendosi offerto al posto di un padre di famiglia. Nel 1946 parte per Tibhirine dove emette i voti perpetui, sempre come converso, nel 1949. Nel luglio 1959 viene rapito e tenuto in ostaggio quindici giorni dai membri del FLN (Fronte di liberazione nazionale). Le crisi d’asma degli ultimi tempi non avevano intaccato il suo humour salace: per il suo funerale aveva scelto una canzone di Edith Piaf: Non, je ne regrette rien”. Cosa può capitarci? Di andare verso il Signore e immergerci nella sua tenerezza. Dio è il grande Misericordioso e il grande Perdonatore!°. Non esiste autentico amore di Dio senza assenso incondizionato alla morte... La morte è Diot.
Frère Christophe Lebreton, il più giovane dei sette, apparteneva alla generazione del movimento studentesco del sessantotto. Nato in Francia nel 1950, settimo di dodici figli, entra a dodici anni in seminario minore, ma ne esce alla fine del liceo. Si iscrive alla facoltà ? “No, non rimpiango nulla”. Per il testo e il suo significato, cf. infra, p. 144, n. 3. 10 Lettera del 5 gennaio 1995, citato in Le sang de l'amour, p. 19. 11 Lettera del 28 maggio 1995, ibid.
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di Diritto e svolge il servizio civile a titolo di cooperazione in Algeria. Il 1° novembre 1974 entra alla trappa di Tamié e, ancora novizio parte per Tibhirine. Nel 1977 tientra a Tamié, dove emette professione solenne tre anni dopo, per tornare poco dopo a Tibhirine. Ordinato prete nel 1990, diventerà maestro dei novizi della comunità. Il suo gusto per i rapporti con i più umili va di pari passo con una caparbia volontà di spingersi sempre più lontano nella riflessione di fede e nel dono di sé.
Andiamocene da qui! Monaci in un paese non cristiano: non c’è futuro! E chiaro. Eppure, la coscienza di una Presenza da vivere qui: servizio della preghiera e dell’incontro, visitazione d’amicizia. Nulla d’importante. Quindi niente “strutture pesanti”. Ma almeno... una casa, nella casa dell’islam... Una piccola stanza amica che si apre sull’Interiore che ci unisce. Non dobbiamo forse vivere maggiormente la solidarietà e l’interdipendenza!??
Frère Bruno Lemarchand, dal 199r era superiore della casa annessa di Fès in Marocco. Uomo misurato e umile, era nato in Francia nel 1930 ma, figlio di un militare, nell’infanzia aveva conosciuto anche l’Indoci-
na e l'Algeria. Dopo gli studi secondari era entrato nel seminario di Poitiers. Dal 1951 al 1953 aveva prestato servizio militare in Algeria. Ordinato prete nel 1956, aveva insegnato fino al 1980 al collegio Saint-Charles di Thouars. Entrato alla trappa di Bellefontaine l’anno
12 Citato in H. Quinson, Prier 15 jours avec Christophe Lebreton. Moine poète,
martyrà Tibhirine, Nouvelle Cité, Bruyère-le-Châtel 2007, p. 29.
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successivo, parte per Tibhirine nel 1984 dove sei anni dopo fa professione solenne. E solo per caso - ma esiste il caso? — che si trova a Tibhirine il 26 marzo 1996, giuntovi pochi giorni prima per partecipare alle votazioni per il rinnovo della carica di priore. Tu mi guidi, Signore, nel silenzio e nella preghiera, nel lavoro e nel gioioso servizio ai miei fratelli, sull’esempio della tua vita nascosta a Nazareth”. Sono sempre felice della mia vita monastica, e di viverla in terra d’islam. Qui tutto diviene semplice: qui c'è Nazareth, con Gesù, Maria e Giuseppe!*.
Frère Michel Fleury, era un uomo semplice, per non dire schivo, ma impregnato di povertà. Lavoratore instancabile, era nato nel 1944 da una famiglia contadina della Loira-Atlantica e fino a 17 anni aveva lavorato in campagna. Entrato dapprima in seminario e poi nella congregazione religiosa del Prado, aveva lavorato come fresatore a Lione, Parigi e Marsiglia, per dirigere infine i suoi passi all’abazia di Bellefontaine. Lì sente la chiamata dell’ Algeria e parte per Tibhirine nel 1984 dove farà professione monastica due anni dopo. A Tibhirine è il cuoco della comunità e l’uomo dei lavori domestici. € suo l’abito monastico che verrà ritrovato sulla strada di Médéa il mattino dopo il rapimento. Spirito santo creatore, degnati di associarmi il più presto possibile - non la mia ma la tua volontà sia fat-
13 Appunti, 1981, citato in Le sang de l'amour, p. 21. 14 Lettera, dicembre 1995, ibid.
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ta — al mistero pasquale di Gesù Cristo, nostro Signore, con i mezzi che tu vorrai, certo che tu, Signore, li vivrai in me”.
Frère Célestin Ringeard, era nato in Francia nel 1933 ed era entrato in seminario a 12 anni. Due esperienze contrassegnano lo sfondo della sua vocazione monastica: innanzitutto il servizio militare in Algeria dal 1957 al 1959, nel corso del quale, infermiere, cura un partigiano algerino ferito che l’esercito francese avrebbe voluto finire. Poi, divenuto prete nel 1960, svolge un ventennale lavoro di educatore di strada a Nantes, in mezzo ad alcolizzati, prostitute ed emarginati di ogni tipo. A 50 anni entra a Bellefontaine e tre anni dopo parte per l’Atlas: all'aeroporto di Algeri ci sarà ad accoglierlo l'anziano militante musulmano cui trent’anni prima aveva salvato la vita. Uomo sensibile e dotato per le relazioni interpersonali, dovrà convivere con sei bypass coronarici dopo la prima visita del GIA (Gruppo islamico armato) al monastero nel Natale 1993. Signore Gesù, accetto di tutto cuore che la tua morte si rinnovi, si compia in me; io so che con te si risale dalla discesa vertiginosa dell’abisso, proclamando al demonio la sua disfatta +6.
Frère Paul Favre-Miville, era nato in Alta Savoia nel
1939. Lavora dapprima come fabbro assieme a suo padre, poi diventa un esperto idraulico. Anche lui svolge il servizio militare in Algeria, come ufficiale paracadu-
15 Atto di offerta, 30 maggio 1993, ibid., p. 20. 16 Antifona pasquale.
tista. Entra all’abazia di Tamié nel 1984, dopo la morte della madre. Nel 1989 parte per Tibhirine, dove farà professione solenne nel 1991. In monastero è l’ “uomo dell’acqua”, capace di ideare e realizzare un efficiente impianto di irrigazione per gli orti. Nel marzo 1996 era appena rientrato a Tibhirine da una sosta in famiglia, riportandone una scorta di vanghe e dei giovani faggi da piantare. Tra qualche mese cosa resterà della chiesa d’Algeria, della sua visibilità, delle sue strutture, delle persone che la compongono? Poco, pochissimo, con ogni probabilità. Eppure credo che la buona novella sia seminata, che il seme germogli ... Lo Spirito è all’opera, lavora in profondità nel cuore degli uomini. Dobbiamo essere disponibili affinché possa agire in noi attraverso la preghiera e la presenza amorosa accanto a tutti i nostri fratelli”.
Violenza chiama violenza
Uomini così diversi, accomunati dalla vocazione monastica e da un’attrazione per l'Algeria, paese che quasi tutti loro hanno conosciuto negli anni difficili del-
la guerra d’indipendenza e nel tempo di prova del servizio militare. Uomini di pace che finiscono per essere inghiottiti da una storia più grande del loro amore per quella terra. Il paese che li accoglie, l'Algeria, vive una 17 Lettera dell’ x11 gennaio 1995, cf. infra, p. 165.
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lunga discesa agli inferi. In seguito all’ indipendenza acquisita a caro prezzo nel 1962, la scelta di una via algerina al socialismo non ha dato i frutti sperati. Il fallimento della modernizzazione proposta da Boumedienne e della liberalizzazione sostenuta da Chadli Bendjedid spinge le popolazioni impoveritesi sul versante della religione o di un discorso religioso. Il controllo statale su tutta l’attività economica reca vantaggi unicamente a una nomenclatura militar-finanziaria corrotta, sopportata sempre più a fatica dal popolo. Nel 1988 le condizioni di vita si degradano a tal punto che scoppiano disordini, dapprima ad Algeri, poi in altre città. Fallimento del partito unico, crollo del prezzo del petrolio, peso del debito estero, pressione demografica, assenza di una politica degli alloggi, disoccupazione giovanile: l’appiglio diventa un certo islam, un islam tradizionalista, propagato da insegnanti - in particola-
re egiziani e irakeni - che elaborano il mito di un’età d’oro dell’islam nella quale regnavano la giustizia e la prosperità. Il terreno è pronto per l’islamismo che permette di esprimere il rifiuto del sistema regnante e di dare un’identità agli emarginati dal processo di sviluppo economico e di modernizzazione sociale. Questo islam si presenta come la soluzione a tutti i problemi, rivendica la virtù, aiuta i poveri e dichiara guerra all’occidente. Si tratta, secondo l’espressione di Joseph Maila, di “una deviazione di trascendenza”, un travestimento della religione musulmana. Ma il popolo ha l’impressione di ritrovare in esso la propria anima. L'accettazione del multipartitismo da parte del presidente Chadli e lo scontento popolare fanno sì che il Fis (Fronte islamico di salvezza) conquisti, alle elezio26
ni del giugno 1990, 835 comuni su 1351. Alle elezioni legislative del dicembre 1991, il Fis vince il primo turno e può addirittura puntare, per il secondo turno del 16 gennaio 1992, alla maggioranza dei due terzi che gli consentirebbe di modificare la Costituzione. I militari non possono permetterlo: cinque giorni prima del voto decisivo attuano un colpo di stato: le elezioni vengono annullate e il Fis disciolto. Fanno la loro apparizione nuove sigle come l’A1s (Esercito islamico di salvezza), braccio armato del Fis, e il GIA, raggruppamento più radicale — da subito sospettato di essere pesantemente infiltrato dai servizi segreti — che non esita ad attaccare civili, intellettuali, professori, giornalisti, scrittori, ricercatori e stranieri.
Dal 1992 l'Algeria è entrata nel circolo ininterrotto della violenza che risponde alla violenza. I gruppi terroristi e le forze di sicurezza ingaggiano una lotta spietata. E la comunità di Tibhirine si trova proprio sul fronte tra quelli che i monaci chiamano, per desiderio di pace, “i fratelli della montagna”, cioè i partigiani islamici, e “i fratelli della pianura”, i militari e le forze di polizia. I testi qui raccolti e sistemati in ordine cronologico sono di natura molto diversa tra loro — lettere circolari, omelie, conferenze, testamenti... - ma proprio per questo ci offrono, in modo impareggiabile, l’esperienza di persone che poco alla volta prendono coscienza del destino verso il quale si incamminano. Attraverso le confidenze dei monaci possiamo sentire crescere l’inquietudine: la neutralità è difficile da mantenere. “Nella linea di quel che ci ‘separa’, ci è stato necessario restare saldi nel nostro rifiuto di identificarci con Puno o l’altro campo, restare liberi per contestare pa-
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cificamente le armi e i mezzi della violenza e dell’esclusione”. I monaci usano questa formula sorprendente: “Di notte, quando altri prendono le armi, prendere il Libro”. Christophe non si nasconde la verità: “SÌ, ci sono dei nemici. Non ci si può obbligare a dire troppo velocemente che li amiamo, senza recare oltraggio alla memoria delle vittime il cui numero cresce ogni giorno. Dio santo, Dio forte, vieni in nostro aiuto!”. Il monastero vuol conservare il difficile equilibrio tra condivisione della prova e presenza a Dio.
Il martirio, realtà sempre più familiare Ma il regno del hirine a ripensare profondità. In una “Per tradizione, è
terrore obbliga la comunità di Tibla propria vocazione ancor più in parola: a confrontarsi con la morte. una compagna fedele del monaco”,
riconoscono. Ma questa compagnia diventa molto con-
creta quando si ha l’impressione di essere “un vivaio che costituisce una riserva di vittime facili per altre rappresaglie”. Soprattutto se si considera che la lista delle vittime cristiane, religiosi e religiose, si allunga. Dopo la prima incursione di un gruppo del GIA nel monastero, a Natale del 1993, i monaci riconsiderano la loro scelta: restare o partire? Se restano, non è per spavalderia o per gusto del martirio. Tre motivi si impongono loro: — la coscienza di una chiamata interiore. Essere là perché Cristo è là. “Dio ha tanto amato gli algerini che ha donato loro il suo Figlio, la sua chiesa, ciascuno di noi”; 28
— la solidarietà con un popolo. Un popolo che non può partire, preso tra l’incudine e il martello di due violenze. L'alleanza con questo popolo ostaggio fa parte del voto di stabilità proprio della vocazione monastica; - la comunione con una chiesa che tanto amano e che
tanto li ama. Il loro vescovo, monsignor Teissier non ha mai smesso di visitarli, di incoraggiarli, pur laesa chi ta es Qu . lta sce di à ert lib na pie o lor o and sci la e uar tin con e dev se nce fra non e na eri alg è che sua incarnazione.
iult me co e rt mo la lto sce o nn ha che e dir mo ia Poss mo testamento? Hanno ricevuto in dono la libertà stesla ma , lie tog la me o un ss ne a, vit mia “La : sto sa di Cri offro da me stesso” (Gv 10,18). Frère Michel scriveva
a suo cugino dopo il 21 maggio 1994, data del suo cinì cos e in rm te un è re ti ar “M : no an le mp co mo si te an qu ambiguo qui... Se ci succedesse qualcosa — non me lo auguro - vogliamo viverlo, qui, solidali con tutti que-
gli algerini e algerine che hanno già pagato con la vita, semplicemente solidali con tutti questi sconosciuti, innocenti...”. L’espressione più appropriata per esprimere il loro itinerario nel corso degli ultimi due anni potrebbe essere quella di “oscuri testimoni di una speranza”. I monaci di Tibhirine hanno offerto la loro vita nella speranza di un’Algeria rappacificata, di un dialogo costruttivo tra credenti, dell’autentico culto gradito a Dio. L’espressione, citata da frère Christian in occasione dell’uccisione di soeur Paul-Hélène e di frère Henri, è ripresa da un inno liturgico che merita di essere citato per intero, tanto esprime il significato di una vita donata: 29
La creazione nella tenebra geme verso di te, Dio di bontà; al suo richiamo sgorga sulle nostre labbra un grido profondo di umanità. Oscuri testimoni di una speranza che innalza a te le loro mani legate, i prigionieri della sofferenza nell’ombra hanno fame di libertà. Da più lontano della genesi, i nostri corpi se ne vanno verso la tomba; ma al crogiolo della promessa, la morte si trasforma in fuoco nuovo.
Lo Spirito d’amore riempie la terra in uno slancio misterioso; grida in noi: “Vieni al Padre! Oltrepassa la morte, vedrai Dio”.
Il compimento di una vita Nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1996, sette dei nove monaci presenti a Notre-Dame-de-l’Atlas sono rapiti da un gruppo di uomini armati penetrati nel monastero. Alcuni religiosi e ospiti, a Tibhirine per un incontro di spiritualità e alloggiati in un’altra ala del monastero, non si rendono conto di quanto sta accadendo. Per settimane non si sa nemmeno sei rapiti sono morti o vivi. Il comunicato numero 43 del GIA, del 18 aprile, fornisce la motivazione “teologica” del loro rapimento: 30
Tutti sanno che il monaco che si ritira dal mondo per raccogliersi in una cella, presso i nazareni, si chiama
eremita. E l’uccisione di questi eremiti che Ab Bakr al-Siddîq aveva proibito. Ma se un tale monaco esce dal suo eremo e si mischia alla gente, la sua uccisione diventa lecita. E il caso di questi monaci prigionieri che non si sono separati dal mondo. Al contrario, vivono con la gente e la allontanano dal cammino divino incitandola a evangelizzarsi. L'accusa contro di loro è ancora più grave.
Il comunicato successivo, datato 21 maggio, annuncia: “Abbiamo tagliato la gola ai sette monaci”. In realtà, il 30 maggio, nei pressi di Médéa, verranno ritrovate solo le teste, mentre i corpi non saranno mal rinvenuti, fornendo così un elemento non trascurabile a quanti tuttora nutrono dubbi sull’autenticità della versione ufficiale circa il loro rapimento e, soprattutto, la loro uccisione. In ogni caso, quello che la violenza brutale ha restituito dei sette monaci riposa ormai nel “giardino” di Tibhirine, là dove hanno piantato semi di fede, di speranza e di amore, quali autentici giardinieri di pace. Agli occhi dei cristiani, i due mesi del sequestro hanno accompagnato fedelmente il ritmo dell’anno liturgico, dalla fine della Quaresima a Pentecoste: passione-morte-resurrezione-discesa dello Spirito. Nella carne di questi discepoli esposti alla violenza del mondo, la sequela di Cristo diventa imitazione, e l’imitazione identificazione.
3I
Due cammini aperti
La tragica conclusione della vicenda dei monaci di Tibhirine ha suscitato un’ondata di commozione non solo nella chiesa d’Algeria e in quella francese dalla quale provenivano, ma anche nella società civile e nella comunità musulmana: alcune testimonianze della partecipazione a un evento così epifanico di morte e di vita più forte della morte sono riportate nell’ultima parte del libro. Ma il sacrificio dei monaci di Tibhirine ha assunto da subito valore di messaggio per l’umanità intera, richiedendo nel contempo un duplice sforzo di approfondimento e di comprensione della vicenda. Innanzitutto il legittimo desiderio di conoscere la verità su quanto accaduto e di affermare la giustizia in questo come negli innumerevoli atti criminali commessi in quegli anni in Algeria. “Voglio perdonare, ma prima voglio sapere chi devo perdonare”, ripete da anni padre Armand Veilleux, abate trappista di Scourmont, che come procuratore generale dell’ordine trappista era presente ai funerali e, per riconoscere le salme, pretese e ottenne, non senza resistenze, che fossero aperte le casse, scoprendo così la presenza solo delle teste dei monaci uccisi. Esigenza di verità e di giustizia che si scontra con opportunità politiche in Algeria come in Francia, considerati íi troppi interrogativi ancora aperti e i pesanti risvolti che la vicenda racchiude. L’incertezza sul reale svolgimento dei fatti permane: il rapimento è stato organizzato e gestito da gruppi islamici più o meno infiltrati oppure da servizi segreti più o meno deviati? Nell’uno o nell’altro caso, qual’era lo scopo perseguito? E l’uccisione è attribuibile a fana32
tici islamici - e motivata “teologicamente” come nel comunicato del GIA citato - oppure a un errore commesso da una pattuglia dell esercito in missione antiterrorismo? In ogni caso, questa opacità mai diradata non sminuisce minimamente la portata spirituale dell’evento e della vita che l’ha preceduto, lasciando intatto l’altro itinerario aperto da questa vicenda: la comprensione dell’intera esistenza dei sette monaci come “martirio dell'amore”, come vita donata fino all’estremo. Non a caso, il processo di beatificazione avviato dalla diocesi di Algeri accomuna deliberatamente tutti i diciannove religiosi, uomini e donne, uccisi in circostanze diverse in quegli anni di tenebra attraversati da tutto il popolo algerino: “Nella grande tormenta algerina, che ha travolto decine di migliaia di vittime, sta la chiesa di Algeria che non ha né apparenza né potenza. Essa è presente a un prezzo che è costato diciannove martiri in pochi anni: un fratello marista, sei religiose ad Algeri, quattro padri bianchi a Tizi-Ouzou, í sette monaci trappisti dell’ Atlas e Pierre Claverie, vescovo di Orano” 1, osserva la la chiesa di Dio che è in Algeria nell’offrire come patrimonio della chiesa e dell’umanità la testimonianza che alcuni suoi figli hanno vissuto fino al sangue. É così prosegue: “I nostri diciannove martiri presentano una gamma di umanità molto diversificata: vi troviamo persone miti e persone forti, mistici e poeti, attivi e contemplativi, uomini e donne dediti agli umili servizi quotidiani e pionieri della missione, persone dotate di parola potente e altre ricche
18 Le sang de l'amour, p. 27.
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di silenzio contemplativo. Tutti testimoni dell’amore, del servizio, del dialogo. Il loro sacrificio è una benedizione di pace per la piccola chiesa d’Algeria e per tutto il popolo algerino, il loro prossimo d’elezione” !°. Questa umanità, così concreta e diversificata, quotidiana e irripetibile testimonia che la barbarie non è un destino fatale e che le religioni non sono i tizzoni che alimentano i nuovi conflitti mondiali. Alla scuola del vissuto di queste persone semplici impariamo che il rispetto della vita umana è il fondamento di ogni convivenza civile, perché solo l’amore, il perdono, la comunione assicurano un futuro a ciascuno e all’umanità nel suo insieme. I monaci di Tibhirine hanno scritto giorno dopo giorno la testimonianza credibile del martirio d’amore, la verità ultima di tutte le religioni: “Non c’è amore più grande che dare la propria vita per quanti si amano”. Guido Dotti monaco di Bose
Bose, 1° agosto 2010
Anniversario dell’uccisione di padre Pierre Claverie, vescovo di Orano
19 Ibid.
CRONOLOGIA
1938
DEGLI EVENTI
Fondazione, da parte delle abazie trappiste di Rahjenburg (Jugoslavia) e Aiguebelle (Francia) del Monastero di Notre-Dame de l’Atlas a Tibhirine, presso Médéa (Algeria).
1963
L'Ordine cistercense della stretta osservanza (trappisti) decide di chiudere il monastero di Tibhirine. Decisione mai attuata.
1964
Le abazie di Aiguebelle e Timadeuc (Francia) decidono di inviare quattro monaci ciascuna per rivitalizzare il monastero.
1984
Il monastero di Tibhirine rinuncia alla statuto canonico di abazia per diventare priorato autonomo. Frère Christian de Chergé è eletto priore.
dicembre 1991
Al primo turno delle elezioni legislative il Fis riporta un successo travolgente.
II gennaio 1992
Cinque giorni prima del secondo turno elettorale, l’esercito algerino effettua un colpo di stato, annulla le elezioni e dissolve il Fis. L’Algeria piomba nella “tempesta” di un ciclo ininterrotto di violenze che vedrà cadere assassinate oltre centomila persone nell’arco di cinque anni.
14 dicembre 1993
Quattordici operai croati cristiani di un cantiere a Tamesguida (a una decina di chilometri da Tib-
hirine) vengono sgozzati da un commando di una cinquantina di persone.
24 dicembre 1993
Vigilia di Natale. Sei uomini armati si presentano al monastero e chiedono di parlare con “il papa 33
del luogo”. Il conclude con del commando minaccia di un 1° dicembre 19931° gennaio 1994
colloquio con frère Christian si l’imposizione da parte del capo di tre condizioni ai monaci e la prossimo ritorno.
Così frère Christian de Chergé data il suo testamento spirituale.
8 maggio 1994
Sul loro luogo di lavoro - la biblioteca diocesana di Algeri frequentata soprattutto da giovani della Casbah - vengono assassinati frère Henri Vergès, religioso marista, e soeur Paul-Hélène, piccola sorella dell’ Assunzione.
23 ottobre 1994
Ad Algeri, mentre si recano alla messa domenicale, vengono assassinate soeur Esther e soeur Ca-
ridad, suore agostiniane missionarie. 27 dicembre 1994
Nella loro casa di Tizi-Ouzou sono assassinati quattro Padri bianchi: padre Jean Chevillard, padre Alain Dieulangard, padre Charles Deckers e padre Christian Chessel.
3 settembre 1995
Ad Algeri, all’uscita dalla messa vengono uccise soeur Angèle-Marie e soeur Bibiane, religiose di Nostra Signora degli Apostoli.
ro novembre 1995
Sempre ad Algeri, sulla strada verso la chiesa, uno sconosciuto spara e uccide soeur Odette, pic-
cola sorella del Sacro Cuore. 26-27 marzo 1996
In piena notte un commando armato del GIA entra nel monastero di Tibhirine e prende in ostaggio sette dei nove monaci presenti.
18 aprile 1996
Dopo settimane di silenzio, il comunicato nr. 43 del Gra rivendica il rapimento e ne spiega le ragioni “teologiche”.
21 maggio 1996
Un ulteriore comunicato del GIA, firmato dall’e-
miro Djamel Zitouni e diffuso due giorni dopo, annuncia: “Abbiamo sgozzato i sette monaci”. 30 maggio 1996
Presso Médéa sono ritrovati i “corpi” dei monaci. Lo stesso giorno muore ad Algeri il novantatreenne cardinale Etienne Duval, arcivescovo emerito di Algeri.
2 giugno 1996
Solenni funerali nella cattedrale di Algeri, Nostra Signora d’Africa, dei sette monaci e del cardinale Duval. Immensa la partecipazione anche di musulmani. Prima della cerimonia padre Armand Veilleux chiede di aprire le casse per riconoscere le salme dei monaci e scopre che nelle bare ci sono solo le sette teste. I corpi non verranno mai ritrovati.
27 luglio 1996
Il GIA annuncia la morte in uno scontro a fuoco
dell’emiro Djamel Zitouni. I agosto 1996
Al rientro a Orano da una cerimonia in memo-
ria dei sette monaci di Tibhirine, un attentato fa
esplodere lauto di padre Pierre Claverie OP, vescovo di Orano: il religioso e il suo autista musulmano Mohamed Bouchiki muoiono sul colpo. Claverie è l’ultimo dei 19 religiosi assassinati in Algeria dal 1994.
settimana santa 2000
I monaci sopravvissuti e quelli della fondazione in Marocco celebrano la Settimana santa a Tibhirine.
200I
Dopo vani tentativi di ripristinare la vita monastica a Tibhirine, gli ultimi due monaci trappisti, frère Jean-Pierre e frère Amédée, lasciano l’Algeria per la fondazione di Midelt in Marocco, ormai unica presenza trappista nel Maghreb. Da allora, padre Jean-Marie Lassausse, prete diocesano, si re-
ca regolarmente al monastero per prendersi cura del luogo e collaborare con i due lavoratori agricoli musulmani che proseguono la coltivazione dei campi avviata con i monaci. Anche due suore salgono al monastero alcuni pomeriggi per tenere corsi di ricamo e artigianato per le ragazze della zona. Infine soeur Agnès delle Fraternités de Jérusalem si reca a Tibhirine da Algeri per qualche giornata di deserto.
ottobre 2007
Apertura ad Algeri del processo diocesano di beatificazione dei 19 religiosi vittime del terrorismo in Algeria dal 1994 al 1996.
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NOTA BIBLIOGRAFICA
Segnaliamo alcuni titoli usciti in questi anni sulla vicenda dei monaci dell’ Atlas e sulla chiesa in Algeria. Per quelli di cui esiste una traduzione italiana è citata solo quest’ultima. OLIVERA, B., Martiri in Algeria. La vicenda dei sette monaci trappisti, Ancora, Milano 1997. ImpPagLIAZZO, M., Giro, M., Algeria in ostaggio. Tra esercito e fon-
damentalismo, storia di una pace difficile, Guerini e Associati, Milano 1997.
Masson, R., Tibhirine. Les veilleurs de l Atlas, Cerf, Paris 1997. FR. CHRISTOPHE, Aime jusqu’au bout du fea. Cent poèmes de verité et de vie, Monte-Cristo, Annecy 1997.
CLAVERIE, P., Lettere dall Algeria, Edizioni Paoline, Milano 1998. TEISSIER, H., Accanto a un amico. Lettere e scritti dall Algeria, Qiqajon, Bose 1998.
Masson, R., Jusqu'au bout de la nuit. L’ Église d’ Algérie, Saint Augustin, Paris 1998.
Ray, M.-CH., Christian de Chergé prieur de Tibhirine, Bayard, Paris 1998.
Murer, J.-M., Les Moines de Tibhirine. “Témoins” de la non-violence, Éd. Témoignage chrétien, s.l., s.d. 39
Il soffio del dono. Diario di fratel Christophe monaco di Tibhirine, Messaggero, Padova 2001. GUITTON, R., Si nous taisons... Le martyre des moines de Tibhirine, Calmann-Lévy, Paris 200r.
DE COURTEN, F., Diario d’ Algeria (1996-1998), Rubettino, Soveria Mannelli 2003. Les Sept Dormants. Sept livres en hommage aux 7 moines de Tibhirine, Actes Sud, Arles 2004. Masson, R., Henri Vergès. Un chrétien dans la maison de l'Islam, Parole et Silence, Paris - Les Plans sur Bex 2004.
PICCOLA SORELLA ANNUNZIATA DI GESÙ, Charles de Foucauld e l'islam, Qiqajon, Bose 2005. Susını, M., I martiri di Tibbirine. Il dono che prende corpo, EDB,
Bologna 2005. QuINSON, H., Prier 15 jours avec Christophe Lebreton. Moine poète, martyr à Tibbirine, Nouvelle Cité, Bruyère-le-Chàtel 2007. SALENSON, CH., Pregare nella tempesta, Qiqajon, Bose 2008.
Dieu pour tout jour. Chdpitres de Père Christian de Chergé, Bellefontaine, Godewaesrvelde 2009.
L'autre que nous attendons. Homélies de Père Christian de Chergé (1970-1996), Bellefontaine, Godewaesrvelde 2009. LEBRETON, CH., Adorateurs dans le souffle. Homélies pour les fêtes et les solennités (1989-1996), Bellefontaine, Godewaesrvelde 2009. Minassian, M.-D., Frère Christophe Lebreton moine de Tibhirine. De l'enfant bien-aimé à l'homme tout donné, Bellefontaine, Godewaesrvelde 2009.
40
Anche alcune riviste hanno dedicato delle monografie alla testimonianza dei monaci e degli altri martiri algerini: “In memoriam. Aux 7 Frères de N.-D. De l’Atlas (+ 21 mai 1996)”, in Collectanea cisterciensia 3 (1996), pp. 195-242. PALACIOS, J., “La Comunidad de Ntra Sra. de Atlas, testimonio
de presencia cristiana contemplativa entre el Islam”, in Cistercium 205 (1996), pp. 177-232.
La vie spirituelle 721 (1996), interamente dedicato a padre Pierre Claverie.
PARTE PRIMA TESTI DEI MONACI
La mia casa è casa di preghiera per tutti i popoli.
Lc 19,46; Is 56,7
FOGLIO DI PRESENTAZIONE DEL MONASTERO AGLI OSPITI
Alcuni monaci dell’Ordine cistercense della stretta osservanza (Ocso) provenienti dalla Jugoslavia e dalla Francia scelsero, nel 1938, il quadro naturale di Tibhirine (sei chilometri a nord-ovest di Médéa) come luogo propizio alla ricerca di Dio e all’ascolto della sua Parola cui la loro vocazione li consacrava, nella solitudine e nel silenzio, sulla scia di tanti loro antenati di tutte le confessioni religiose, di Pacomio e di Antonio in Egitto, e di Cristo stesso. Oggi alcuni uomini continuano a dedicarsi, con cuore libero e sottomesso, al servizio umile e nascosto nell’onni-grandezza e l’onni-carità di Dio, nella lode delle ore, nel lavoro delle proprie mani e nella condivisio-
ne totale della vita in comunità, secondo la regola di san Benedetto (480-547 ca.), lo spirito e le costituzioni dell’ordine di Cîteaux (fondato nel 1098 a Cîteauxlès-Dijon, in latino Cistercium da cui deriva il termine “cistercensi”) e alla scuola spirituale inaugurata da san Bernardo di Clairvaux (1090-1153). Ospiti del popolo algerino, musulmano nella sua quasi totalità, questi fratelli vorrebbero contribuire a testimoniare che la pace tra i popoli è un dono di Dio fatto agli uomini di ogni luogo e di ogni tempo e che 45
spetta ai credenti, qui e ora, rendere manifesto questo dono inalienabile, in particolar modo attraverso la qualità del loro rispetto reciproco e il sostegno esigente di una sana e feconda emulazione spirituale. Accanto agli oranti dell’islam, essi fanno professione di celebrare, giorno e notte, questa comunione in divenire e di non stancarsi di accoglierne i segni, come eterni mendicanti d’amore, per tutta la loro vita, se così piace a Dio, nel recinto di questo monastero dedicato a Maria, madre di Gesù, sotto l’appellativo di Notre-Dame-de-l’ Atlas. La foresteria — o casa riservata agli ospiti — appartiene a questa stessa vocazione di accoglienza e di condivisione, di ascolto e di lode, di silenzio e di unità, nella gioiosa rivelazione di ciò che ciascuno ha di unico nei confronti dell’Unico e per la felicità dell’universo intero. Ciò significa che questa foresteria non è né una pensione familiare, né un hotel (con o senza stelle!) e men che meno un alloggio turistico. È un luogo di preghiera e di ristoro spirituale aperto a tutti, a condizione che vi si venga per cercare un clima di silenzio e di raccoglimento adatto a illuminare i
passi di un uomo o di una donna lungo il cammino della vita, coscienti o meno della presenza amorosa di Dio che orienta l’esistenza verso il suo autentico bene.
FRATELLO DI UNA SOLA NOTTE
Un quarto d’ora dopo compieta ritorno in cappella!... Silenzio della sera, spiaggia in riva alla Parola dove vengono a infrangersi come onde tutte le parole e i rumori del giorno. Penombra della notte, all'ombra di una presenza affidata alla vigilanza della lampada tremolante del Santissimo. Preghiera di abbandono, prosternato, tra l’altare e il tabernacolo: “Cercate il Signore mentre si fa trovare; invocatelo finché è vicino”, diceva il profeta Isaia (liturgia di oggi...). E poi, quest'altra presenza che si avvicina piano, insolita. Allora eri là anche tu, addossato allo stesso altare, fratello in ginocchio, prostrato. Il silenzio continua, per un lungo istante.
Un mormorio si alza, proveniente dal profondo, poi si amplifica, strappandosi a qualche abisso, come una sorgente pacifica e nel contempo incontenibile: “Allâh! (Dio!) A//4h Akbar! (il Grande!)”. Un sospiro. “Dio!”.
di nuovo, e ancora quel sospiro, come il lattante che
! Appunti del 24 settembre 1975. In questo anniversario (21 settembre 1976), non ho rivisto questo fratello di una sola notte. Esiste. Mi narra tutti gli altri
[N.d.A.].
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succhia e che si ferma appena un istante solo per riprendere fiato prima di chiedere ancora cibo; sospiro di chi sa la preghiera insaziabile, e che non si sazia di essere là, rivolto, lui così piccolo, verso il Totalmente-Altro. Silenzio. Allora ti sei voltato verso di me: “Preghi per me”. Un altro silenzio, la tua attesa. Avevamo scambiato appena qualche parola dopo il tuo arrivo, lunedì, con lui, il nostro amico comune. E tu resti lì. Mi tocca arrischiare parole che sentirò appena: Signore unico e onnipotente, Signore che ci vedi, tu che unisci tutto sotto il tuo sguardo, Signore di tenerezza e di misericordia, Dio che sei nostro, pienamente. Insegnaci a pregare insieme, tu,
l’unico maestro di preghiera, tu che per primo attiri quanti si rivolgono a te, tu, tu, tu...
Da quel momento la nostra preghiera a due voci. L’arabo e il francese si mescolano, si raggiungono misteriosamente, si rispondono, si fondono e si confondono, si completano e si coniugano. Il musulmano invoca Cristo. Il cristiano si sottomette al piano di Dio su tutti i credenti, e su uno di loro che è stato il profeta Mohammed. Poi l’uno e l’altro cercano di penetrare insieme nell’amore che narra Dio. Eccoli entrambi nella tempesta... “Le onde mi assalgono, ordina la pace!”, dici tu. “Signore, salvaci, altrimenti periamo!”. “Infondi la tua luce nel mio cuore, illumina il mio cammino”, dici tu. “Metti una luce 45
nei miei occhi, una luce sulle mie labbra, una luce nelle mie orecchie, una luce nel mio cuore... Io sono la luce del mondo... Voi siete la luce del mondo, che non
bisogna nascondere perché deve brillare per me...”. Il cammino si fa più stretto, mentre il silenzio ancor più denso si apre una strada comune verso l’amore di questo Dio condiviso. E sei tu che ti lanci. Io accolgo. “Non ti chiedo la ricchezza; non ti chiedo potenza né onori... ti chiedo solo l’amore che viene da te, perché nulla è amabile fuori di te, nessuno può amare senza di te. Voglio amarti in tutto. L'amore è la sorgente, l’occhio della religione. L'amore è la gioiosa consolazione della fede”. La lode allora deborda dal luogo e dall’ora. Dobbiamo percorrere a ritroso i tempi per scoprire tutte le tappe della lunga avventura di Dio in cerca di umanità, a cominciare da Abramo, l’amico.
E a quel punto che arriva anche lui. Ti aspettava, ti cercava, si stupiva di non vederti arrivare all appuntamento serale, per la preghiera prima del pasto del ramadan che doveva prendere assieme a te. Aveva finito di intrattenersi a lungo con alcuni ospiti, rispondendo alle loro domande sulla preghiera “nello Spirito”. Nell’oscurità della cappella, all’inizio ha percepito solo il mormorio. Incuriosito, senza troppa convinzione, è venuto avanti, e ci ha trovati all’opera, qui, insieme. Semplicemente si è aggiunto a noi. Del resto, la Parola ci è subito venuta incontro: “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro!”. Cosa chiedere di più? Il respiro della preghiera si fa più ampio, meno affannoso. Una complicità a tre, più esigente per l’orec49
chio interiore che vuole essere disponibile al cammino di ciascuno, strano, a volte sconcertante: l’impressione di uno zigzagare nella sabbia! Lasciare che la preghiera di uno ti interpelli nel profondo di un silenzio senz’altra voce, ti riprenda al volo per poi rimbalzare verso l’altro carica di una nuova eco. Nota dopo nota, la sinfonia si costruisce nella fusione di queste tre diverse espressioni di un’unica e medesima fedeltà: quella dello Spirito che è in Dio, che narra Dio! Preghiera contro le tentazioni di Satana “il lapidato”; poi, insieme, la “fàtiha”?, il Magnificat (lo ripeti, parola dopo parola), il Padre nostro (lo sai a memoria) e, ancora e sempre, la lode, l’azione di grazie.
Devo dire che ci siamo fermati? Erano le 23 passate! Dalle 20 eravamo là, fianco a fianco... tutto questo tempo, un istante, da non credere! Gioia incontenibile, ognuno per parte sua, ognuno a modo suo. Domani dirai di aver avuto voglia di danzare e di aver poi fatto per quattro volte il giro delle case, cantando. E se Dio stesso ridesse del bello scherzo che ha appena fatto a secoli di imprecazioni tra fratelli chiamati a pregarlo? E lui, voleva perlomeno sapere come tutto era cominciato! Gli hai detto: “Quando l’ho visto là, completamente solo, ho sentito che si doveva fare qualcosa. Avevo paura, poi mi sono buttato: c’era in me come una forza che mi ha spinto...”.
2 E la traduzione abituale del termine arabo rag? con il quale il Corano chiama satana; probabilmente è un termine preso in prestito dalla lingua ghe'ez che significa “maledetto”. > Letteralmente, “aprente”. E la prima sura del Corano e costituisce la preghiera più frequentemente recitata dai fedeli dell’islam.
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Prima di lasciarci, quel lunedì, abbiamo parlato d’altro. Un po’ come se quell’evento ci bruciasse ancora, come se non potesse essere detto senza perdersi. “Vernice fresca”, non si tocca, per non pasticciare tutto. Mi hai detto: “Tutto è semplice quando è Dio che guida”. Nient'altro.
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PROFESSIONE SOLENNE DI FRÈRE CHRISTIAN Un evento simile non accadeva dall’aprile 1952! Venticinque anni... il tempo di lasciar maturare la vocazione particolare che questa comunità cistercense (trappista), impiantata a Tibhirine dal 1938, avrebbe deciso un giorno di professare, nell’unanimità di un “piccolo resto”, radicando bic et nunc il suo desiderio di essere “presenza orante in mezzo a fratelli cristiani e musulmani”. Venerdì 1° ottobre, frère Christian-Marie accettava di riconoscersi per sempre in questa vocazione particolare. “Il sì di Christian era anche, in modo visibile, il sì della comunità alla decisione di essere una cosa sola”, scrive un testimone che aggiunge: “Oggi si apre un cammino di folle speranza che si fonda unicamente sull’amore del Signore e non su certezze umane”. Ponendo il proprio impegno sotto la protezione di santa Teresa del Bambino Gesù, “claustrale e missio-
naria”, “nostra sorella d’infanzia e di noviziato perpetuo”, frère Christian ha voluto innanzitutto professare con lei la pazienza, la tenerezza e la misericordia di Dio che l’avevano condotto “qui, in questo giorno”. “Qui, in questo giorno”, è anche venerdì in terra d’islam, in un momento del giorno in cui la preghiera 53
è percepita in modo più universale: “In questo giorno, voi siete qui, miei fratelli della comunità musulmana, voi che in questa stessa ora levate le mani verso l’Unico. Signore, benedici noi e conservaci insieme nella gioia sempre nuova di una professione di lode e di azione di grazie”. “Qui, in questo giorno”, è anche la partecipazione improvvisata a una celebrazione decisa rapidamente in funzione della visita canonica di dom Jean-de-la-Croix, abate di Aiguebelle. Nella sua omelia egli cita e commenta tre testi significativi nella loro complementarietà e mirabilmente applicati a questo gesto di un uomo che entra con tutto il cuore nel “sorprendente mistero della comunione dei santi”. Eccolo associato a così numerosi cercatori di Dio, qualunque sia stato il loro cammino di perfezione: “Trovando dolcissima la consolazione dello Spirito santo, acquisiranno una grande libertà di spirito quanti, per il tuo nome, imboccano la via stretta; conosceranno la grande grazia quanti si saranno sottomessi liberamente al santo servizio” (Imitazione di Cristo).
Eccolo invitato a raccogliere l’ultimo messaggio di Teresa del Bambino Gesù e del Santo Volto, al tramonto delle sua breve esistenza: “Adesso, solo l’abbando-
no mi guida. Non ho altra bussola... Non ho più altro compito, perché ora tutto il mio servizio è amare”. E infine, eccolo che vibra a sua volta alla voce di questa parola di Dio (badîth qudsi) rivolta a Yahyâ (Giovanni), figlio di Zaccaria, riletta dalla scuola mistica musulmana di Khorasan: O Giovanni, ho stabilito con me stesso che nessuno dei miei servitori potrà amarmi senza che io diventi
per lui l’udito che gli serve ad ascoltare, la lingua che 54
gli serve a parlare, il cuore che gli serve a comprendere. O Giovanni, sarò l’ospite del suo cuore, lo scopo del suo desiderio e della sua speranza. Ogni giorno e ogni notte sono un mio regalo per lui. Egli si avvicina a me, e io mi avvicino a lui per ascoltare la sua voce, a motivo dell’amore per la sua umiltà.
Un messaggio che anche il profeta Isaia aveva trasmesso, identico ed eterno, all’inizio della celebrazione (prima lettura Is 43,1-13): Tu, mio servo, che io ho scelto, discendenza di Abramo, mio amico,
tu, che io ho plasmato dalla terra, non temere, perché io sono il tuo Dio. Ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni ... Perché tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo, do uomini al tuo posto e nazioni in cambio della tua vita. Non temere, perché io sono con te!
Allora, come non lasciare che la preghiera diventi ancora universale? Voi tutti siete qui, in questo giorno, fratelli e sorelle, cristiani e musulmani, incontrati alla soglia di una preghiera o sul rude cammino quotidiano a suo tempo condiviso, assenti con il corpo ma presenti con il cuore oggi come ieri e in ogni giorno della carità che non ha mai fine: Signore, benedici e fortifica tutti coloro che hanno illuminato con la loro amicizia la nostra professione di amare! Semaine religieuse d’ Alger 8 novembre 1976
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ORANTI IN MEZZO AD ALTRI ORANTI
“Oranti in mezzo ad altri oranti”: è con queste parole che la nostra piccola comunità monastica, “relitto” cistercense in un oceano di islam, arrivava a definirsi nell’Algeria indipendente del 1975, in quell’ora in cui avevamo — così sembrava - solo otto giorni di tempo per abbandonare quei luoghi... dove viviamo tutto-
ra. Non era forse già una forma di risposta all’interrogativo sul quale ci stiamo soffermando in queste Giornate romane: “Quale progetto comune di società?”. Le poche riflessioni che tenterò di balbettare qui hanno senso solo a partire da quel luogo in cui ci sforziamo, giorno dopo giorno, dal 1934, di vivere in società. Parlerò quindi come testimone, ma il testimone che parlerà è inanzitutto una comunità, anche se, di fatto, mi è stato concesso dai miei fratelli, nell’ambito di funzioni diverse, di trovarmi in prima fila nell’incontro e nella condivisione. Nulla potrebbe spiegarsi al di fuori di una presenza comunitaria costante e della fedeltà di ciascuno all’umile realtà quotidiana, dalla porta al giardino, dalla cucina alla lectio e alla liturgia delle ore. Il dialogo che è così venuto a costituirsi ha le sue modalità, caratterizzate essenzialmente dal fatto che noi non ne assumiamo mai l’iniziativa. Mi piace quali5/
ficarlo come esistenziale. È il frutto di un lungo “vivere insieme” e di preoccupazioni condivise, a volte molto concrete. Questo significa che raramente è di ordine strettamente teologico. Abbiamo piuttosto la tendenza a fuggire le diatribe di questo genere: le considero limitate. Dialogo esistenziale quindi, cioè concernente il manuale e lo spirituale a un tempo, il quotidiano e l’eterno, a dimostrazione di quanto sia vero che l’uomo o la donna che ci sollecitano possono essere accolti solo nella loro realtà concreta e misteriosa di figli di Dio “creati prima in Cristo” (Ef 2,10). Cesseremmo di essere cristiani — e anche semplicemente uomini - se dovessimo mutilare l’altro della sua dimensione nascosta per incontrarlo solamente “da uomo a uomo”, cioè in una umanità depurata da qualsiasi riferimento a Dio, da ogni relazione personale e perciò unica con il Totalmente-Altro, privata di qualsiasi sbocco su un aldilà sconosciuto.
Così concepita, la vita professionale del monaco fa parte in modo indubbiamente più diretto della funzione profetica della chiesa, una funzione assunta qui, ma “destinata a gettare ponti altrove”, come sottolineava Giovani Paolo II rivolgendosi ai cristiani del Marocco. Assieme a molti altri cristiani, immersi anch'essi nella “casa dell’islam”, vorrei testimoniare che nell’islam
come nel cristianesimo il profetismo non è chiuso.
La speranza detta altrimenti... Tra lavere e il potere, tra una maggioranza e una minoranza, come tra il pessimismo e l’ottimismo, la fede ci dice che, qui e là, c’è posto per un “terzo mondo” inedito, quello della speranza... E se il monaco può avere qui la sua parola da dire, non è tanto come costruttore efficace della città degli uomini (anche se...)
quanto piuttosto come seguace convinto di un modo di stare al mondo che non avrebbe alcun senso al di fuori di quello che chiamiamo il “fine ultimo” della speranza (escatologia).
Un aldilà sotto il segno del tempo Più la speranza è immensa, meglio percepisce istintivamente che potrà compiersi solo investendosi risolutamente in una lunga pazienza con sé, con l’altro, con Dio stesso. É giorno per giorno che dovrà mantenersi, per vivere. Ogni piccolo gesto le serve per dirsi. Un bicchiere d’acqua offerto o ricevuto, un pezzo di pane condiviso, una stretta di mano parlano meglio di un manuale di teologia riguardo a ciò che è possibile essere insieme. Siamo segnati, gli uni e gli altri, dalla chiamata di un aldilà, ma la logica prioritaria di questo aldilà è che si può far meglio tra noi, oggi, insieme. Un mondo nuovo è in gestazione, e a noi spetta di lasciarne presentire l’anima... Dopo trent'anni che porto in me l’esistenza dellislam come una domanda lancinante, ho un'immensa 59
curiosità per il posto che occupa nel disegno misterioso di Dio. Solo la morte, penso, mi darà la risposta attesa!. Sono sicuro di decifrarla, abbagliato nella luce pasquale di colui che mi si presenta come l’unico “musulmano” possibile, dato che è solo “sì” alla volontà del Padre. Ma sono convinto che, lasciando che questa domanda mi assilli, imparo a scoprire meglio le solidarietà e perfino le complicità di oggi, comprese quelle della fede. Evito così di rinchiudere l’altro nell’idea che me ne faccio, che magari la mia chiesa mi ha trasmesso, e di ridurlo a ciò che di lui può dire attualmente, nella sua maggioranza. Infatti, anche l’eccezione mi interessa! Si dice forse che il monaco non è un “vero” cristiano con l’unico pretesto che, effettivamente, è piuttosto “raro”?
Pellegrini dell’orizzonte... Mi sembra che vivere nella “casa dell’islam” significhi sentire concretamente la difficoltà, e quindi la maggior urgenza, di quelle novità dell’evangelo che la chiesa ha tratto dal suo tesoro solo recentemente, diciamo con la svolta del Vaticano II: nonviolenza concreta, urgenza della giustizia sociale, libertà religiosa, rifiuto del proselitismo, spiritualità del dialogo, rispetto della differenza, senza dimenticare la solidarietà con i più poveri, sempre da reinventare. Nel contempo ci si rende perfettamente conto che sarebbe contrario all’evangelo voler compiere questi nuovi passi verso l’altro solo a condizione che lui stes-
! Sono espressioni riprese quasi alla lettera nel testamento; ct. infra, pp. 229-231.
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so faccia altrettanto. A volte si sente dire: “Tocca sempre a noi fare il primo passo. Adesso, basta! Si muova lui!”. Come se non fossimo debitori, in primo luogo, verso la straordinaria iniziativa presa da colui che “ci ha amati fino alla fine” (Gv 13,1). Dobbiamo sottrarci a qualsiasi costo a questa legge del taglione del do ut des che ci abita ancora in mille modi. Andare verso l’altro e andare verso Dio è una cosa sola: non posso farne a meno, e richiede la stessa gratuità. Poiché ci si profila un unico orizzonte, diventa vitale imparare a camminare insieme in nome di ciò che di migliore si ha in sé. Un versetto del Corano afferma: “Presto mostreremo loro i nostri segni, sugli orizzonti del mondo e in loto stessi” (41,53). I nostri fratelli ‘Alawiyîn di Médéa hanno citato e commentato questo versetto fin dal loro primo incontro con il Ribdt? alla festa di Ognissanti del 1980. Sembrava loro che desse fondamento all’iniziativa, assunta alcuni mesi prima, di venire a pregare con la nostra comunità dell Atlas. Fin dall’inizio ci avevano allora dichiarato: “Non vogliamo impegnarci con voi in una discussione dogmatica. Nel dogma o nella teologia ci sono molte barriere che sono questioni umane. Noi invece ci sentiamo
chiamati all’unità. Vorremmo lasciare che Dio crei tra noi qualcosa di nuovo. Questo può avvenire solo nella preghiera. E questo il motivo per cui abbiamo voluto questo incontro di preghiera con voi”. Sì, possiamo aspettarci qualcosa di nuovo ogni volta che ci sforziamo di decifrare i “segni” di Dio “all’orizzonte” dei mondi e dei cuori, mettendoci semplice-
2 Gruppo di incontro interreligioso; cf. infra, pp. 75-76.
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mente all’ascolto, e anche alla scuola dell’altro, musulmano in questo caso. È proprio questo l’ obiettivo del nostro Ribét che, fin dagli inizi - ormai dieci anni or sono (marzo 1979) — si era riconosciuto nell’intuizione di Max Thurian, così vicina a quella dei nostri amici di Médéa: “È necessario che la chiesa assicuri a fianco dell’islam una presenza fraterna di uomini e di donne che condividano il più possibile la vita dei musulmani, nel silenzio, nella preghiera e nell’amicizia. Così si preparerà a poco a poco quello che Dio vuole nelle relazioni tra chiesa e islam”. E Gesu Cristo?
Egli è appunto il grande sacramento di questo “terzo mondo” della speranza, l’iniziatore della fede nell’uomo e il suo compimento in Dio, sia oltre che dentro di noi, nascosto agli occhi del mondo dalla nube del mistero divino e nel contempo dal velo dell’incarnazione continuata. Gesù stesso ci ha avvisato: “Nessuno conosce il Figlio se non il Padre ...” (Mt 11,27). Teilhard commen-
tava questo a modo suo: “Credo che la chiesa sia ancora un bambino. Il Cristo di cui vive è smisuratamente più grande di quanto lei se lo immagini”. Non ci capita forse di dimenticarlo, e di credere che essere cristiano significhi conoscere tutto di Cristo? “Dioè più grande, Allabu Akbar!”. Cristoè più grande, inconcepibilmente più grande. Proclamarlo in una fede nuda è la miglior testimonianza (sa/4dd) resa alla sua divinità. 3 M. Thurian, Tradizione e rinnovamento nello Spirito, Ave, Roma 1979, p. 16.
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Così, per arricchire la nostra presente conoscenza
parziale, abbiamo bisogno di ciò che l’altro può aggiungervi con ciò che è, ciò che fa e ciò che crede. E quanto i nostri vescovi del Nord Africa hanno espresso in un documento del 1979 intitolato I/ senso dei nostri incontri: “Rivolti verso l'avvenire, attendiamo gli ampliamenti prodigiosi del nostro sguardo sull’uomo e su Gesù che nasceranno dall’interagire tra le culture cristiane attuali e le questioni poste dagli uomini delle altre tradizioni dell'umanità” 4.
Una società in via di sviluppo spirituale Le nostre due fedeltà sono simili a due pali paralleli; forse si incontreranno solo all’infinito, ma sono
piantati nello stesso concime: in particolare, sofferenza, malattia, morte. Eccole nella pura verticale di una stessa speranza. Giacobbe fece un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa (Gen 28,12).
Una scala? L'immagine è tradizionale, da Giovanni Climaco a Ghazzali. E un modo di esprimere il dato che il “terzo mondo” della speranza è davvero in via
4 “Chrétiens au Maghreb. Le sens de nos rencontres”, in Documentation Catholique 1775 (1979), pp. 1032-1044.
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di sviluppo, come tutti i terzi mondi, in via di sviluppo spirituale. L’uomo di questo “terzo mondo” è stato creato in piedi, e inventa la scala’, appunto, perché lo accompagni nelle sue salite; la scala, con due montanti, e dei pioli tra l’uno e l’altro, per appoggiarsi, a intervalli più o meno regolari. L’unicità dell’uomo nella sua bipolarità materiale e spirituale è come l’equivalente dell’unicità di Dio*.
Ma queste due “unicità” non possono essere mutilate da quell’intimo slancio che le porta a sposarsi. Noi contempliamo il primo frutto di questa alleanza, un “uomo nuovo” che si identifica alla scala, montanti e pioli confusi insieme, un “uomo deiforme” in verità, un uomo cruciforme dall’eternità: “In verità, in verità
vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo” (Gv 1,51).
La chiamata monastica
Poiché quest'uomo nuovo si presenta innanzitutto come “solo per il Solo”, mi sembra interessante fare una digressione sulla vita monastica. Un monachesimo che si presenta storicamente come anteriore al cristianesimo, e indipendente da esso, anche quando viene a innestarsi spontaneamente sul giovane tronco della chiesa come una testimonianza dell’assoluto forte come il martirio.
? In italiano nel testo. 6 M. Talbi, O. Clément, Un respect têtu, Nouvelle Cité, Paris 1989, p. 134.
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L’islam è nato nel deserto, come il monachesimo.
Ne porta un marchio indelebile. Il profeta restò lui stesso “incline alla meditazione e al silenzio””. E la vita rituale tende a situare il credente “solo con il Solo”, anche alla Mecca, quando i pellegrini si presentano a centinaia di migliaia. Il muezzin che chiama alla preghiera si esprime da solitario: “Io testimonio...” (aSbadu). Inoltre, in seno all’islam come nel cristianesimo, si coltiva la coscienza di essere, come Abra-
mo, nient’altro che “stranieri e pellegrini sopra la terra ... alla ricerca di una patria” (Eb 11,13-14) alla quale conducono tutti i sentieri di deserto. L’esodo di ogni lectio divina La parola di Dio si presenta agli uni e agli altri come viatico per questa attraversata del deserto. Le Scritture sono il tesoro in cui il cristiano ama cercare, giorno e notte, cose nuove e cose antiche. “Ausculta, o fili! Ascolta, figlio!” sono le prime parole della Regola di san Benedetto. “Igrà! Recita!”: quest'altro imperativo apre il Corano. Ogni musulmano lo sente rivolto a sé. Inizia allora per molti uno stesso esodo al di là della rigida lettera: “Piega l’orecchio del tuo cuore”, precisa san Benedetto. I nostri amici sufi amano citare l’evangelo che hanno voluto leggere. Tante parabole e parole di Gesù hanno un’eco vibrante nell’ambiente musulmano che conosciamo! Non si potrebbe lasciar risuonare, nella
? Ibid., p. 21.
pace di un ascolto interiore, il Libro dell’islam, con il desiderio e il rispetto verso questi fratelli che vi attingono il loro gusto di Dio? O dovremo continuare a fare orecchio di mercante nei confronti del messaggio dell’altro, contestando per principio il suo legame originale con il Totalmente-Altro? Il fatto è che mi è capitato molto spesso di veder sorgere dal Corano, nel corso di una lettura all’inizio ardua e sconcertante, come un riassunto di evangelo che diventa allora autentico cammino di comunione con l’altro e con Dio. Il Cristo pasquale, che compie tutte le Scritture, non potrebbe dare senso pieno anche a quella Scrittura, senza alterare minimamente il proprio volto? E impossibile convincersene se non si accosta il testo coranico con un cuore povero e disarma-
to, pronto a mettersi in ascolto del viandante venuto da altrove, sul cammino di Emmaus, pronto a lasciarsi spaesare anche da un universo linguistico semita al quale faremmo bene a riabituarci. Infatti, avremo mai l’audacia e la semplicità di utilizzare la stessa scala se ci rifiutiamo fin dall’inizio di credere che uno stesso Spirito di Dio ci invita a questo? “Cerca di persuadere: ‘Popoli del Libro! Perché non riusciamo a metterci d’accordo su un punto che sia comune alle nostre rispettive credenze?” (Corano 3,64).
Una via ascendente
Al di là di questa /ectio in parallelo che il contemplativo che vive in terra d’islam può sentirsi più direttamente chiamato a intraprendere, bisogna affrontare tutti quei valori religiosi della tradizione musulmana 66
che costituiscono uno stimolo innegabile per la fedeltà di cui ho fatto voto con la professione monastica. Tra le colonne dell’islam e le osservanze essenziali di ogni vita consacrata esistono evidenti corrispondenze che
ne fanno come dei pioli successivi di una comune ascesa. Il proprio del piolo, infatti, è esattamente quello di penetrare profondamente in ciascuno dei due montanti della scala e, se possibile, allo stesso livello! Quando si cerca di definire questi “livelli” di un autentico progresso spirituale, improvvisamente ci si stupisce di trovarsi così vicini.
Bisognerebbe farne un elenco: il dono di sé all’ Assoluto di Dio, la preghiera regolare, il digiuno, la condivisione dell’elemosina, la conversione del cuore, il memoriale o dikr, la fiducia nella provvidenza, l’urgenza dell’ospitalità senza frontiere, la chiamata al combattimento spirituale, al pellegrinaggio che è anche interiore... In tutte queste cose, come non riconoscere lo Spirito di santità di cui nessuno sa da dove viene né dove va (cf. Gv 3,8), da dove discende né per dove sale? Il suo compito è sempre quello di far nascere dall’alto (cf. Gv 3,7), di attirare su una “via
ascendente” (aqaba, Corano 90,12-18). Questa “via ascendente” si rivela allora come quella di una “conversione reciproca mediante la quale Dio ci impegna a poco a poco (scalino dopo scalino), a misura delle nostre fedeltà, nella venuta del suo Regno” 5. Una delle intuizioni più felici del nostro Ribét è stata quella di scegliere di vivere e di approfondire — tra un incontro e l’altro, cioè per sei mesi — un tema ap-
8 “Chrétiens au Maghreb. Le sens de nos rencontres”, p. 1043.
partenente all’una e all’altra tradizione e suscettibile
di conservarci vicini nel quotidiano: azione di grazia, dikr, alleanza, prova, la morte di Gesù, conversione, amore fraterno, unità, vita spirituale, il cammino di Maria... e infine, recentemente, “chiamati all’umiltà”. x
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Chiamati all umiltà
Al termine di questo scambio, avvenuto a Pasqua del 1989, ci sembrò chiara la necessità di cominciare sempre da questo dato ogni dialogo tra credenti in buona fede. Stabilire insieme che Dio ci chiama all’umiltà significa rinunciare logicamente a ogni pretesa di essere migliori o superiori. Significa anche tendere verso una forma di autenticità personale senza la quale non potremmo pretendere di raggiungere la verità. Noi, cristiani e musulmani, sappiamo bene che il cammino della conversione passa attraverso una maggiore unità di vita. Ma in questo, come non confessare il contrasto, spesso stupefacente, tra il mio comportamento umano e la mia affermazione di fede? Questa sete insoddisfatta di un'autentica coesione interiore e
pratica ha perlomeno il vantaggio di portarmi all’incontro con l’altro, al livello di questa esigenza spirituale che condivide con me. “Venite a me ... che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29). Questa immagine di Gesù assilla l’islam che
ha sempre atteso dei cristiani capaci di restituirgliela. Dio stesso sembra confermarlo in questa attesa, e invitarlo a ricevere questa testimonianza dai religiosi consacrati: “Troverai che i più cordialmente vicini a coloro che credono sono quelli che dicono: ‘Siamo cri68
stiani’. Questo avviene perché tra di loro vi sono preti e monaci ed essi non sono superbi” (Corano 5,82). E,
in modo ancora più chiaro, questo versetto così noto e così difficile da interpretare: “A Gesù figlio di Maria demmo l’evangelo, e ponemmo nei cuori di coloro che lo seguirono mitezza e misericordia; quanto al monachesimo fu da loro istituito (e non fummo noi a prescriverlo loro) solo per desiderio del compiacimento di Dio” (Corano 57,27). Così la vita monastica — la vita cristiana in generale — è percepita proprio come consacrazione particolare all’imitazione dell’abbassamento di Gesù. E il Corano è d’accordo sul fatto che non si tratta di un percorso obbligato, di una sarfa per tutti: “Non fummo
noi a prescriverlo ...”. Allora piomba il verdetto, a nostro giudizio inevitabile: “Non l’osservarono come andava osservato” (Corano 57,27). La trappola, in questo caso, sarebbe quella di rifiutare il verdetto. Grazie a Gesù, noi sappiamo che solo Dio è umile. I nostri poveri tentativi di restaurare l’immagine proclamano - a
modo loro, come a tentoni - ciò che l’islam professa: la trascendenza dell’Unico, anche nell’umiltà.
Un'emulazione spirituale
Spingiamoci oltre. Questa ferita aperta di una chiamata all’umiltà implica un atteggiamento reciproco che non è facile osservare. Nel corso dei suoi viaggi, Giovanni Paolo II, rivolgendosi ai musulmani - a Mindanao, in Nigeria, in Marocco e altrove - ha parlato loro del “bisogno” che noi abbiamo di ciò che essi sono, “del loro amore”. 69
Linguaggio estremamente nuovo quando tra noi pesa un passato così lungo di scontri. Bisognerà “cambiare le nostre vecchie abitudini”, ammetteva il papa nel suo discorso di Casablanca: “Dobbiamo rispettarci, e anche stimolarci a vicenda nelle opere di bene sul cammino di Dio”. Questo principio dell’emulazione spirituale non sorprende i musulmani; quando noi stessi ne parliamo, nei nostri rapporti con loro, lo facciamo riferendoci volentieri a questo versetto spesso citato: “Se Dio avesse voluto, avrebbe fatto di voi una comunità unica, ma ciò non ha fatto per provarvi in quel che vi ha dato. Gareggiate dunque nelle opere buone ...” (Corano
5,48).
La fede dell’altro è qui un dono di Dio, anche se misterioso. Pretende rispetto. Acquisterà tutto il suo significato solo in cima a quella scala che ci fa volgere insieme verso l’unico Datore. E questo dono fatto all’altro è destinato anche a me per stimolarmi nel significato di quanto devo professare. Trascurarlo significa venir meno alla cooperazione all’opera dello Spirito, e alla parte che mi compete. Eppure, non dobbiamo forse ammettere, con il pa-
dre Moubarac, che l'emulazione spirituale resta “il parente povero del dialogo islamo-cristiano”? Il testimone che così si esprime è altamente qualificato per valutare il tesoro spirituale di umanità costituitosi, nel quotidiano, tra cristiani e musulmani nel corso della storia del Libano. E se il dramma di questo paese ci colpisce al cuore, è proprio perché minaccia direttamente proprio quella convivialità spirituale alla quale non possiamo più sottrarci.
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Il fascino dello Spirito
Dopo avermi chiesto un giorno, in modo assolutamente inaspettato, di insegnargli a pregare, M. ha preso l’abitudine di venire regolarmente a discutere con me. Abbiamo così una lunga storia di condivisione spirituale. Spesso ho dovuto tagliar corto con lui, quando gli ospiti diventavano troppo numerosi e mi prendevano troppo tempo. Un giorno ha trovato la formula per richiamatmi all’ordine: “E da tanto tempo che non abbiamo più scavato il nostro pozzo!”. L'immagine è rimasta. La usiamo quando sentiamo il bisogno di dialogare in profondità. Una volta, come per scherzo, gli chiesi: “E in fondo al nostro pozzo, cosa troveremo? Acqua musulmana o acqua cristiana?”. Mi ha guardato, tra il sorridente e il rattristato: “Ti poni ancora questo interrogativo? Sai, quello che si trova in fondo a questo pozzo è l’acqua di Dio”. Questo episodio della vita quotidiana, e molti altri ancora, illustrano bene quello che il mio amico B., di professione tecnico del riscaldamento e sufi per grazia, senz'altro chiamerebbe il fascino dello Spirito. Un giorno, infatti, gli dicevo che mi ero messo a studiare i testi del Corano che parlano dello Spirito di Dio. Mi sembrava che potessero offrire la chiave del mistero che ci unisce al di là delle divergenze sulle quali immancabilmente inciampiamo. Mi rispose commentando a modo suo un versetto del Corano: “Non bisogna cercare troppo che cos'è lo Spirito ... Lo si priva del suo fascino!” (17,85).
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Verso l’aldilà
|- Con la sua cima la scala di Giacobbe toccava il cielo. E quindi venuto il momento di dare alla nostra scala del dialogo islamo-cristiano, e alla società che lo instaura, il suo punto d’appoggio verso l’aldilà. E stato necessario resistere alla tentazione di voler contemplare prima di essere saliti. Nella visione della Genesi,
come in quella annunciata da Gesù secondo Giovanni, gli angeli cominciano dalla salita, al contrario di una teologia troppo spesso “discendente”. La logica dell'incarnazione non ci lascia margine di scelta! La nostra scala è quindi fissata nella nostra comune argilla. Ira i due montanti abbiamo visto definirsi dei pioli che bisogna salire più che contare. Ed eccoci, al di là dell’orizzonte, sicuri di trovare in Dio il solido appoggio, la roccia incrollabile cantata dai salmi. Ma là vi è anche il suo mistero, opaco ai nostri occhi,
impenetrabile (4/-Sazzad, uno dei suoi nomi più belli). Affinchéi due montanti della nostra scala si appoggino saldi su di lui, è necessario che egli sia questo e quello che diciamo, gli uni e gli altri, nelle nostre fedi rispettive: Se pensi e credi quello che credono le diverse comu-
nità - musulmani, cristiani, ebrei, mazdei, politeisti e altri ancora -, sappi che Dio è quello ed è altro da quello?... La nostra scala ha voluto essere cammino di società.
Può dunque legittimamente appoggiarsi anche su que? Emiro ‘Abd al-Qàadir, citato da monsignor Teissier.
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sta realtà della fede che gli è propria, l'assemblea degli eletti che hanno fatto il passaggio da questo mondo al Padre, immensa “chiesa” che, lungi dall’essere ripiegata su se stessa, vuole essere “estatica”, secondo il
termine di Paolo VI così spesso commentato dal cardinal Duval.
Frère Christian de Chergé Comunicazione alle Giornate romane
del settembre 1989, Bollettino 73 (1990-1991) del Pontificio consiglio per i non cristiani
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PROPOSIZIONI. DEL “RIBÀT ES-SALÀM” PER CONCRETIZZARE OGGI UNA VOLONTÀ DI COMUNIONE 1. Facciamo memoria, giorno dopo giorno, del tema che scegliamo perché sia, tra un incontro e l’altro, il nostro legame di pace (Ribdt es-Saldm) nella preghiera, il servizio e la fedeltà reciproca. 2. Lasciamoci interpellare, destabilizzare, arricchire dall’esistenza dell’altro; ascoltiamolo, cerchiamo di
capire meglio la sua tradizione così come la proclama e di rispettarla così come la vive. 3. Restiamo aperti a tutto ciò che ci rende prossimi al cammino della fede, condividendo la speranza di questa unità che Dio promette alle nostre differenze. Rivestiamoci della sua pazienza in questo itinerario. 4. In questo spirito, preoccupiamoci di promuovere gruppi, per quanto modesti, di preghiera e di incontro tra uomini e donne sinceri e benevoli. 5. Nelle nostre relazioni quotidiane prendiamo apertamente le parti dell'amore, del perdono, della comunione, contro l’odio, la vendetta, la violenza che ai no-
stri giorni colpiscono tutti. Entriamo così nell’atteggiamento del Dio di tenerezza e di misericordia che è con ogni uomo che soffre. 15
6. Crediamo al dono della pace che ciascuno porta in sé, per sé, per l’altro, per il mondo intero. Impariamo a contemplarla al di là delle apparenze. Sia per noi sorgente di gioia, di fiducia e di perseveranza nel legame che ci unisce.
LETTERA CIRCOLARE
DELLA COMUNITÀ
Nel Nome che insieme ci porta, pace a voi i cui nomi sono scritti nel libro delle nostre vite! “Nel nome di Dio, ricco in clemenza, abbondante in misericordia...” “Bismi'llâh!” : così comincia ogni scritto e ogni azione di umanità nella tradizione musulmana. “In nomine Domini!” traduce la fedeltà cristiana nella Bibbia. Era il motto di Paolo VI. Prima di evocare con voi alcuni di questi nomi che quest'anno non sono più direttamente scritti nel libro aperto della nostra vita comunitaria, a Tibhirine come a Fès, dobbiamo forse presentarci con quel nome che ci indica e ci custodisce nelle vostre memorie.
Atlas- Atlante
Sì, il nome che portiamo è Atlante!, con riferimento a questa catena di montagne che attraversa tutto il
! Abbiamo preferito conservare sempre la terminologia francese per indicare il monastero (Notre-Dame-de-l’ Atlas), mentre traduciamo “Atlante” quando si trat-
ta esplicitamente della catena montuosa o del personaggio mitologico. Proprio per l’importanza che viene qui attribuita al nome, abbiamo conservato sempre i nomi
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Maghreb, passa sotto le nostre finestre, a Tibhirine, come Atlante Telliano, poi va a innalzarsi maestoso nel sud del Marocco, dopo aver aggirato Fès, come Medio Atlante. Un nome mitologico: Atlante, questo gigante condannato dagli dèi a reggere la volta stellata. Così il nome che portiamo è un buon promemoria. Infatti, se “i vostri nomi sono scritti nei cieli” (Lc 10,20), come ci annuncia Gesù, allora siamo piena-
mente Atlante solo se li portiamo tutti davanti al volto di Dio. Non serve essere un gigante per fare questo, grazie a Dio!
No, nonostante la distanza, il tempo e la nostra condizione di isolamento, i vostri nomi non sono “né radiati né cancellati davanti a noi” (Is 48,19), e noi li confessiamo con gioia e gratitudine davanti al Padre, nel nome di Gesù (cf. Gv 10,3), come la litania che ci serve di identità.
Pierre
1917-1992. Africano nero e monaco bianco. Il nome del nostro fratello è scritto per sempre su una “pietra? nera” o su una “pietruzza bianca” (Ap 2,17)? I
lunghi meandri della sua scelta radicale di Dio non cessano di tessere legami tra i mondi: razze, colori e religioni mescolate, dal Senegal al Marocco (Fès dal
1988), passando per l'Algeria dove permaneva la sua
di persona nella loro lingua originale, così come l’appellativo “frère” unito al nome proprio, dato che in francese può indicare sia un monaco (presbitero o no) che un frate o un religioso in genere. 2 In francese Pierre è sia nome proprio maschile (Pietro) che sostantivo femminile (pietra).
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“stabilità”, e soprattutto il Camerun: Koutaba, egli ha vissuto là l'essenziale monastico verso l’aldilà (1951-1988). l’Atlas nel 1948 per fedeltà all’ Africa
da del Era che
Minlaba a suo slancio entrato alallora non
aveva altri monasteri cistercensi. Mandato come pio-
niere di un monachesimo africano fin dal 1951, aprì la strada alle otto case di monaci e alle sette comunità di monache che il nostro ordine annovera ormai sulla scia di Staoueli-Atlas (1843-1934)e Koutaba. “Più in alto c'è un giardino!”. E forse questa intuizione che com-muoveva il nostro fratello Pierre, dan-
dogli nel contempo un simile ardore a dissodare l’uno dopo l’altro tanti giardini diversi e un grande desiderio di partire per continuare altrove il suo solco. Sedentario e nomade, cenobita e solitario, silenzio geloso e parola ardente, molteplici vocazioni si scontravano in lui, anche se volle essere, fino all’ultimo dei suoi
giorni “innamoratamente impegnato secondo i progetti dello Spirito”. Così, quando sopraggiunse il male maligno, non si trovò “né sorpreso né sconvolto: ‘Il cancro — scriveva — è la mia ultima e tanto beata vocazione su questa terra’””. In una lettera del 26 gennaio scriveva ancora: “La vita è concessa all’uomo solo perché si abitui a poco a poco a Dio, e finalmente si senta a suo agio, Immerso in Dio”.
Era così vivo che la morte lha sorpreso, lasciando-
gli fino all’ultimo il suo buonumore. “Il buonumore
3 È il voto che nel monachesimo occidentale “fissa” l'appartenenza di un monaco a una determinata comunità per tutta la vita. E in nome di questa “stabilità” (non solo geografica, ma “del cuore”) che i monaci di Tibhirine non hanno voluto allontanarsi dall’ Atlas nonostante i rischi sempre più gravi cui andavano incontro. Questi testi narrano meglio di qualsiasi trattato il significato spirituale della “stabilità”.
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spirituale, soprannaturale — diceva — è frutto della fede: è la convinzione profonda che Dio lavora alla nostra felicità”. Era il 2 febbraio. Cent'anni prima, un frère Albéric‘ faceva professione nel nostro ordine ad Akbès (Siria). Tra Edouard Faye e Charles de Foucauld c’è una certa complicità di vagabondaggio che concedeva loro di trovare la propria autentica stabilità solo nella lectio (una cantina di appunti!) e nell’adorazione del Santissimo, come mendicanti... Per completare il trio, orfano di Pierre, il nostro frère Jean-de-la-Croix è stato cooptato, con il suo assenso, dai nostri fratelli di Fès. Si è dunque stabilito da loro, e a nol... è arrivato Francois.
Da Louis a François
È un po’ più giovane dell’ Algeria indipendente. Ci giunge dal Belgio nella stagione dell’ Europa. Ci giunge da Orval nell’anno in cui si celebra il centenario (1892) dell’unione tra “l’osservanza di Septfonds” (madre di Orval)? e quella detta “di Melleray”, madre del nostro Atlas attraverso Aiguebelle e Rahjenburg. A contatto con una famiglia musulmana molto semplice, ha trovato in Marocco Cristo e la fede della sua in-
fanzia. Si mette allora in cerca della propria strada:
4 Era il nome assunto da Charles de Foucauld al momento della sua professione. ? L'ordine cistercense è strutturato in monasteri autonomi che tuttavia man-
tengono dei “legami di carità” (sanciti nella Carta Caritatis, redatta già dalla prima generazione ai tempi di san Bernardo) tra abbazia-madre e abbazia-figlia, legami che si manifestano in visite regolari, aiuto in caso di bisogno, sostegno fraterno, eccetera.
do
prima l’Arche di Jean Vanier, poi la vita monastica, scoperta a Orval. Là viene fissata la data per l’ingresso in comunità. Il maestro dei novizi resta impressionato per il ruolo dell’islam in questa chiamata. Con il pieno accordo del suo abate, propone un soggiorno all’Atlas. È la scoperta dell’ ottobre 1990. Poi il cammino viene intrapreso, come previsto, a Orval. Il 2 febbraio 1991, con la presa dell’abito, diventa frère Louis. Il tempo di lasciar maturare la libertà di una scelta,
l’attrazione per un’altra spoliazione, comprendente la famiglia, il paese e la comunità del primo “sì”. Il 31 maggio 1992, un altro noviziato prendeva inizio qui,
quello di frère Francois, con un padre maestro nuovo, frère Christophe. Ci si poteva chiedere cosa ci fosse di comune tra Orval nella Val d’Or e Atlas l’immigrato. L’intero merito della risposta spetta a Orval: Carta caritatis è il suo nome! Non è così facile passare dal dire al fare. Noi siamo così piccoli, ma il nostro “grazie” no. Questa presenza belga avrebbe fatto molto piacere alla signora De Smet che per vent’anni si è occupata di attività sociali tra le nostre mura. Esausta, si è spenta il 15 giugno.
All’attivo della nostra carta di carità bisogna citare anche dom Aelred, il nostro padre immediato$, che ha voluto recarsi a due riprese presso i nostri fratelli di Fès: subito dopo la morte di frère Pierre, in febbraio, e poi, recentemente, per avviare con loro la nostra visita regolare. Continua. Nello stesso spirito, abbiamo ricevuto due lettere dal nostro abate generale, padre Bernardo, che ci hané I] superiore “canonico”, cioè l’abate dell’abbazia-madre; quindi Aiguebelle per il priorato dell’ Atlas.
SI
no molto colpito. Ci hanno ricordato le esigenze di una consacrazione personale alla contemplazione e la sollecitudine per l’unità tra i diversi monasteri dell’ordine; queste dovrebbero costituire l’apporto originale dei cistercensi allo sforzo che la chiesa sta compiendo per una nuova evangelizzazione, cioè per rinnovare se stessa nel fervore, nei metodi e nell’espressione della propria presenza evangelica davanti al mondo contemporaneo.
Berdine
Gemellaggio è un altro nome della carta di carità. Quello che noi manteniamo con Berdine si rivela sem-
pre più, nella misericordia e la tenerezza condivise, come l’intercessione comune anche accanto a quanti lottano contro l’ Ams. Abbiamo intravisto tutto ciò in modo particolare in Christian, un vecchio del paese, durante i quindici giorni che ha vissuto con noi in modo discreto, semplice, felice.
Philippe
Nostro fratello. L'abbiamo lasciato partire nell’ottobre 1991. Ancora pieno di desideri. Come far dialogare i voti dell'ordine con le note più personali di una chiamata al singolare? Un anno a Beirut: ausiliare in corsia in un grande ospedale della zona cristiana, poi insegnante di francese nella zona opposta. Un’esperienza umana di maturazione spirituale. La sensazione
che il suo cammino aveva un nome: Atlas. Allora è ri82
tornato a dircelo e noi abbiamo accolto il rinnovo del suo impegno temporaneo, per tre anni. Poi abbiamo accettato che ripartisse, mandato questa volta per un anno di studio dell’arabo a tempo pieno; sempre a Beirut, per conservare i vantaggi delle relazioni intessute, in particolare con i nostri fratelli di Kesrouan (dipendenza di Latroun). Il sentimento di vivere così una comunione più concreta con un paese ancora tanto disar-
ticolato ci ha aiutato a compiere questa scelta onerosa. Il nostro legame con il Libano e il nostro legame con Philippe sono un po’ una cosa sola. Ali
Da quarant'anni di certo, probabilmente da cinquanta — non lo sa nemmeno lui - è in giardino, è di casa; è un dato scontato, per lui come per noi. Abbiamo addirittura finito per permettergli di impiantare casa sua tra due angoli del nostro giardino. Sta là, salvo quando si deve assentare, più o meno controvoglia, per sacrificare ai capricci rituali dell’amministrazione o di “casa sua” (qui va inteso “sua mo-
glie”...). Non fa rumore, salvo quando racconta i suoi guai e le sue svariate malattie: allora è tutto un universo bizzarro che si agita, lo attacca, lo colpisce qui e là, senza che lui possa afferrarlo; forze malefiche che secondo lui sono legate a questo mondo di violenza, di carestia, di guerra di cui riceve dalla televisione immagini rivoltanti, sconvolgenti. Il segreto di Ali ha un nome: si chiama pazienza! Pazienza del contadino. Pazienza di chi ha soprattutto obbedito (anche a casa propria!). Pazienza di chi non 83
si è indurito. Ne ha viste, di cose. Ne ha conosciuti, di monaci. Sa svelarvi i loro tratti secondari, i loro difetti. Ci azzecca. Può dire la verità: cos'ha da perdere? Pazienza intelligente, per saperne di più riguardo a ciò che lo interessa. E, di quello che avete detto o fatto, tutto lo interessa. Pazienza che lo predispone a lasciarsi amare: ecco il gran segreto! Ali quest'anno compie sessant’anni. Deve andare in pensione il 31 dicembre. Così sta scritto nella legge. Ma per la pazienza andare in pensione significherebbe disperare. E noi, come fare a meno di lui? Bisogna immaginare un altro contratto: non più “operaio agricolo”, ma associato, e anche maestro ($42y., come si dice a scuola). Sa talmente tante cose, cose che non si trovano sui libri... Per frère François, ammi Ali (zio Ali) è davvero
Panziano che san Benedetto chiede al novizio di prevenire di onori”. E il nostro Ali assume il suo ruolo di anziano lasciandosi prendere dall’affetto per il nostro ultimo arrivato.
Philippe Un altro Philippe ci è giunto da Tamié come fratello8, per aiutare i nostri cantori Célestin e Christophe a trovare le note adatte alla comunità. Ognuno imparerà che il canto ha un nome segreto: è un atto di fede al quale bisogna offrire la propria voce.
? Regola di Benedetto 63,10. 8 Si tratta di frère Philippe Hémon, che tanto ha collaborato a questa raccolta di testi e alla sua edizione italiana. Cf. anche la sua testimonianza infra, pp. 241-247.
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In quindici giorni tutto avrà un po’ danzato nei nostri uffici, a cominciare dai nostri Alleluja! Per il Salve Regina — ci diceva più o meno — interpretatelo come volete. E comunque sublime. Ma, per amor del cielo, non fate più sparire l’ultima parola. E un grido, non un sospiro. E un nome, e che nome: Maria! Almeno su questo l’abbiamo seguito. Molti sono addirittura arrivati a pensare a Philippe quando cantano “Maria”. E un progresso? Per fortuna san Benedetto ci invita ad accordare il cuore con le labbra senza passare forzatamente per il giudizio della ragione... Ed è proprio per aiutarci a verificare quell’accordo che anche un altro figlio di san Benedetto, monaco di En Calcat, nostro fratello André-Jean, è venuto da noi, invitandoci a tornare al nostro cuore per farvi ritiro alla presenza del Verbo, sempre insolita per l’orecchio di chi ascolta nella gratuità.
Mohammed
Qui, bisogna ammetterlo, ci sono molti Mohammed nel libro delle nostre vite. Ma si tratta sempre di un nome personale, e ciascuno è unico. E Mohammed che ci fa da custode, in modo un po’ meno professionale da quando l’unico tesoro degno di questo nome presente tra le nostre mura è la sua figlioletta Kenza (“Tesoro”). E Mohammed, un altro, il figlio di Ali, che si unisce
a noi nel giardino come per il Ribét. Il suo islam ha un nome: “apertura”. Recentemente, per la prima volta, è stato oltre mare, per accompagnare Christophe a Tamié, a Dombes, a Aiguebelle, a Berdine, presso di85
verse famiglie: ovunque accolto così fraternamente... Rientrato, confessa: “Sai, là ho incontrato degli autentici musulmani”. I cuori semplici conoscono scorciatoie capaci di sconvolgere nomi ed etichette... Ancora Mohammed, il nostro “confratello” della Jariga Alawiyà. È riuscito a svignarsela per una settimana per accompagnare frère Christian a Fès. Là ha fatto ritiro: le differenze cambiano significato quando possono dirsi, come per offrire un miglior contributo alla confessione di una comunione soggiacente, originata
da una stessa esigenza spirituale.
Ribdt Con lui e i suoi fratelli, e altri ancora, il nostro Ribât - nome comune che significa “legame” - si è imposto poco alla volta come nome proprio, quello di Ribd? es-Salàm (“legame di pace”). Dal 1979, questo grup-
po non ha smesso di riunirsi due volte all'anno: due per sette anni, fra poco, e ventotto temi per condurci successivamente da una riunione all’altra. Questa volta siamo passati dalla preghiera del giovane Samuele
- “Parla, Signore, il tuo servo ti ascolta!” — a quella del pellegrino alla Mecca: “Mio Signore, disponici all’incontro!”. Per questo incontro, ci diceva Mohammed, “bisogna fare come Mosè: togliersi i sandali. Quando si è a piedi nudi, si cammina adagio, umilmente”. E adesso è un'unica domanda che ci tiene uniti, giorno dopo
giorno, fino ad aprile: “Sentinella, a che punto è la notte?” (Is 21,11). Una domanda che trova la sua col-
locazione appropriata nel tempo di avvento. Una do86
manda lancinante quando nulla funziona più nel cuore del popolo. Mohammed è anche il presidente Boudiaf. Il suo assassinio, il 29 giugno, ha segnato drammaticamente la dolorosa tensione del paese a partire dalla brusca interruzione del processo elettorale decretato in gennaio in seguito alla netta maggioranza ottenuta dal Fis già al primo turno delle legislative il 26 dicembre. L’uomo della strada, frustrato nel suo voto, cominciava a prestare ascolto a questo grande veterano dell’indipendenza proiettato a capo dello stato dopo ventotto anni di esilio volontario in Marocco. La sua voce suonava bene quando dava al suo programma i nomi di onestà, di lavoro, di partecipazione, di unione nazionale. La coscienza popolare ci trovava dei punti di riferimento. I giovani erano sensibili a questo stile immediato. Eccoli nuovamente in un terreno incerto.
Henri
Il nome del nostro vescovo. Unito a quello del suo predecessore, Léon-Etienne (Duval), narra la nostra chiesa nel memoriale di ogni eucaristia. Una chiesa la
cui presenza è ancor più parlante in un momento in cui molti cercherebbero piuttosto di fuggire. Algerina tra gli algerini: “Qualcosa di non molto chiaro — commenta monsignor Scotto — questo è evidente!”. In una recente meditazione, monsignor Teissier evoca Maria ai piedi della croce: “Quando il popolo soffre, è già molto essere qui, per portare adesso insieme questa sofferenza. Per fare qualcosa non dobbiamo aspettare che i difficili avvenimenti che viviamo siano passati... 87
È in un momento analogo che Gesù va oltre la propria sofferenza e il grido della disperazione con un gesto di affetto filiale e di amicizia fraterna: ‘Ecco tua madre ... Ecco tuo figlio!”. E il piccolo gesto della tenerezza umana. All’apparenza non è adeguato al dramma... eppure annuncia e prepara l’avvenire”. In questo contesto abbiamo accettato di partecipare al consiglio presbiterale e anche di accogliere e animare un ritiro dei preti della diocesi (con anche il vescovo). À Fès sono i preti quelli a frequentare più volentieri la piccola foresteria. Urgenza della preghiera e del silenzio avvertita maggiormente da tutti, qui e là. Bisognerebbe citare molti nomi per dire anche tutto quello che riceviamo. Ricordiamo soltanto i seguenti. Guy
Guy Gilbert, certamente: colui che, in occasione del ritiro presbiterale, ci ha condotti su cammini dell’evangelo per cascatori dal cuore robusto. Ma Guy è stato per noi, in uno stile completamente diverso, il padre Vandevelde, allora parroco di Blida, nostro vicino. Di mese in mese, con consumata arte
pedagogica ci ha assicurato un illuminante riciclaggio filosofico. In luglio avevamo preso appuntamento per
un altro percorso annuale, questa volta in arabo liturgico. Giovane prete (35 anni), Guy ha preferito richie-
dere, alla ripresa delle attività, un ministero più classico e meno solitario, in Francia.
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Marie e Danielle
Loro hanno intrapreso piuttosto il cammino inverso, venendo a interrogare - sempre alla ripresa delle attività — la nostra chiesa e il paese su quale potrebbe essere un’inserimento della loro congregazione, recente e dinamica, nella linea della loro vocazione di attenzione fraterna alle diverse situazioni del terzo mondo. Una coppia di amici algerini, alla quale avevo chiesto come avrebbe capito la loro presenza qui, ha dato loro questa risposta: “Se è per opere umanitarie come in altri paesi del terzo mondo, non è utile. Se invece è per essere qui a testimoniare ciò che vi fa vivere, quello che voi siete, a condividere quello che noi siamo, allora, sì, vale la pena. Tutto quanto può andare nel senso di un riconoscimento autentico, reciproco
ci aiuterà a uscire dall’isolamento in cui ci rinchiude l’integrismo”. Algeria Quest'ultima testimonianza, ve ne sarete accorti, ci indica chiaramente il posto che vogliamo come no-
stro. Sollecita anche un atto di fede che vorremmo fosse vostro. Recentemente, in un libro pubblicato prima in Algeria e poi in Francia’, Jean Pelegri, nato vicino ad Algeri, fa senza dubbio molto bene quello che voi vi attendereste da noi. La sua descrizione della situazione
? J, Pelegri, Ma mère l’ Algérie, Laphomic, Alger 1989; Actes Sud, Arles 1990, pp. 82-84.
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è anche un messaggio: “Sono ritornate parole e immagini che credevamo superate per sempre: la parola ‘dolore’, la parola ‘collera’. La parola ‘sospetto’ per chi si leva contro l’ingiustizia. La parola ‘repressione” ... la parola ‘sofferenza’, la parola ‘stupore’. E, infine, la parola ‘tortura’... In nome di chi? In nome di cosa? E cos'è mai diventata quest’ Algeria che aveva reso quella parola ignobile nella coscienza delle nazioni?... Dico queste cose per l'Algeria perché, nonostante tutto, continuo a credere in lei. Perché il suo popolo è ancora disoccupato. Perché il suo avvenire le sta ancora davanti... Lo dico in una specie di preghiera al Dio clemente e misericordioso perché so che lei può finalmente diventare se stessa, questa bella parola di sette lettere — A.l.g.e.r.i.a — se, attraverso la libertà e i diritti dell’uomo e del cittadino, ritrova i suoi testi, le sue sorgenti e la sua memoria”. Dopo lo spaventoso attentato all’aeroporto di Algeri, nell’agosto scorso, quando era già lunga la lista dei
poliziotti e delle forze dell’ordine uccisi da terroristi inafferrabili, il nostro cardinale (di 89 anni) lanciava
un grido vibrante agli algerini, grido ampiamente ripreso dalla stampa e dalla radio nazionale: “Chiamo tutti gli uomini di cuore a lavorare con forza e determinazione per un rinnovamento della fiducia”. Recentemente, sollecitato da uno di noi a formulare un’intenzione di preghiera per l’ufficio che stava per iniziare, Mohammed (27 anni, il figlio del nostro Ali) ha risposto: “Apra sempre di più il cuore di tutti allo stretto cammino della fiducia!”.
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Fiducia
La fiducia: ecco il dono di Dio che dobbiamo invocare in quest'ora che permane oscura (Bosnia-Erzegovina, Sudan, Somalia...) alle soglie del 1993. Vecchio e giovane si passano il testimone per esprimere l'urgenza di questo augurio. E quello che noi formuliamo per ciascuno di voi i cui nomi sono scritti nel libro delle nostre vite sotto quel segno meraviglioso che è anche il più bel regalo di un uomo al suo fratello: fiducia, allora! Fiducia infatti è il nome infinitamente nobile che l’amore assume in questo mondo, quando la fede e la speranza si uniscono per permettergli di nascere. Che sia Natale, ogni giorno! La comunità monastica
di Notre-Dame-de-l’ Atlas a Tibhirine e a Fès Quarta domenica di avvento 20 dicembre 1992
QI
QUESTIONARIO IN PREPARAZIONE AL SINODO SULLA VITA CONSACRATA
1994
Come la nostra vita consacrata (“voti”, vita comune e
di preghiera, impegni apostolici) è segnata dal contesto specifico nel quale viviamo? La nostra realtà di stranieri condiziona le modalità della nostra presenza: effettivi limitati (fissati a dodici più uno da una convenzione con la polizia locale), dimensione relativamente ridotta dei nostri terreni
(passati da trecentosettantaquattro a dodici ettari dopo l'indipendenza), permessi di residenza da rinnovare (mentre continuiamo a fare professione di stabilità detinitiva...), dovere di riservatezza in materia politica, sociale e religiosa... L'ambiente culturale e cultuale costituisce la nostra più precisa clausura. L'accoglienza e la comprensione davvero eccezionali di un buon numero dei nostri vicini e conoscenti contribuiscono a rendere meno ermetica la rigida frontiera della ummat islamica tra loro e noi. Tuttavia, non
1! “Nazione, popolo” di Mohammed. Legami fortissimi uniscono i musulmani fra loro e li costituiscono come comunità fiera di appartenere alla gente del Profeta. In ogni musulmano, anche agnostico o “laicizzato”, c’è una coscienza precisa
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per questo si può parlare di “libertà religiosa”. L’'islam, come viene insegnato, non invita alla curiosità verso la fede cristiana come noi la professiamo. Ed è vero che le coscienze paiono evolversi a loro agio in un simile discorso. D'altronde, l’esperienza mostra che, per poter resistere dove siamo, bisogna averne accetta-
to deliberatamente la realtà musulmana. In concreto, i nostri amici più aperti restano imbarazzati: il nostro celibato, evidentemente, e forse altrettanto una vita comunitaria tra uomini, 1 nostri tem-
pi abbondanti di preghiera e la nostra preoccupazione per il silenzio, la nostra cassa comune, il disbrigo dei lavori domestici... Tutti ci sono grati per il nostro sforzo di essere discreti. Apprezzano il fatto di poter conservare l’iniziativa del rapporto: se infatti accogliamo chiunque ci si presenti, non facciamo visite, salvo rare eccezioni.
La presenza di un medico tra noi —- e dal 1946! — continua a contribuire fortemente all’immagine di qualità del monastero. La levatura umana del nostro fratello e i servizi che presta sono un punto di riferimento sia per l’esterno che per ciascuno di noi. All’indomani dell’indipendenza, la comunità ha potuto sentirsi chiamata a un maggior impegno nel settore sociale: scuo-
la elementare, mensa popolare, Pmr... Le circostanze ci hanno portato a rinunciarvi e a capire che la nostra ragione d’essere qui deve trovare un modo diverso di proporsi.
di un “sentimento di massa”. Vita familiare, sociale, politica, religiosa, benessere
immediato della vita terrena come benessere eterno di ogni credente nella vita futura, tutto si riassume in questo concetto di umma. 2 Sigla indicante il Piano per la protezione della maternità e dell’infanzia.
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Era indubbiamente necessario fornire questi limiti del nostro quadro generale per far meglio risaltare i tratti peculiari che ne conseguono per la nostra consacrazione monastica. Siamo arrivati a definirci come “oranti in mezzo ad altri oranti”. Provenienti dalla nostra campana o dal muezzin, gli inviti alla preghiera creano tra noi “una sana emulazione reciproca”. Analogamente i tempi forti costituiti dalle grandi feste musulmane (e anche Natale) così come i mesi di ramadan e della quaresima (soprattutto quando si intersecano) ci permettono di fare “un pezzo di strada insieme”. E una vera gioia vedere alcuni vicini diventare spontaneamente complici di questa forma più spirituale di convivialità. C’è poco arabo nella nostra liturgia, ma la nostra intercessione durante la liturgia delle ore o all’eucaristia, specialmente il venerdì, così come certi riti o gesti portano il segno di un’attenzione particolare all'ambiente che ci circonda. Infine, i nostri rapporti regolari dal 1980 con dei vicini di Médéa impegnati in una confraternita sufi ci aiutano a restare in ascolto delle “note che si accordano”, non senza una costante revisione di ciò che la nostra fede può dire di se stessa per non “spegnere lo Spirito” quando questi la sollecita attraverso l’altro e la sua fede. Il nostro lavoro, essenzialmente agricolo, non è concepibile in senso autarchico, nemmeno parzialmente. Ci è quindi stato necessario inventare delle modalità di associazione con alcuni vicini. Questo elemento è
vissuto in un clima di dialogo e di corresponsabilità al contempo sano ed esigente. I nostri rapporti ne guadagnano in fiducia autentica, così come hanno guada95
gnato in rispetto reciproco da quando abbiamo offerto un locale da adibire a moschea provvisoria. La maggior parte dei nostri vicini vive ancora in ristrettezze, con fatica, addossati gli uni sugli altri. Anche dalla nostra grande casa non possiamo ignorarlo: vi scorgiamo una chiamata ad accettare almeno quella forma di povertà che consiste nell’accontentarsi di quanto si trova in loco (esclusi i libri e le medicine). Accettare anche di ricevere frequenti richieste: servizi prestati, servizi ricevuti costituiscono la trama di un vissuto quotidiano in cui l’altro ci sconvolge sempre un po’. A nostro modo di vedere, in questo consiste il luogo più autentico della nostra testimonianza. Attraverso tutto questo viene a definirsi un legame privilegiato con la chiesa locale votata alla stessa condivisione. In condizioni di esistenza spesso più difficili delle nostre, la maggior parte dei cristiani residenti hanno dovuto radicarsi maggiormente nella fede e nella preghiera per poter resistere serenamente nonostante l'incertezza e gratuitamente non sapendo più bene a quale “missione” dedicarsi. La nostra accoglienza nella foresteria porta chiaramente i segni di questo bisogno più intenso di ricarica spirituale regolare. Noi avvertiamo il dovere di essere ancora più disponibili a questo. Paolo VI ci invitava all’“apostolato della vita nascosta”. Questa vocazione ci mantiene segretamente vicinissimi ai cristiani algerini che devono coniugare vita nascosta ed evangelo, restando nella mischia.
L Algeria vi aiuta a vivere la vostra consacrazione? Se sù, in cosa? Se no, quali sono gli ostacoli o le difficoltà che incontrate? 96
È un aiuto il sentirci inseriti in un tessuto compatto di umanità, pur restando separati: “Nel mondo, senza essere del mondo”. Qui siamo preservati da qualsiasi mondanità. La strada dei “benestanti” passa altrove. Non siamo più dei notabili, e nemmeno delle “conoscenze” utili... E un aiuto il nostro essere costretti a restare piccoli e dipendenti dall’ambiente che ci accoglie, obbligati a condividere la crisi e l’insicurezza del momento, senza
alcuna influenza sull’evoluzione del paese. Siamo così ricondotti a un significato primario della chiamata monastica: testimoniare che l’uomo è “straniero e pellegrino sulla terra”... L’invito a riporre la fiducia in Dio solo (tzuwvwakul), così spesso invocato qui, appartiene alla nostra consacrazione. Non potremmo stupirci di abitare “una casa incerta”. Viviamo giorno per giorno... E un aiuto il sentirci obbligati a essere coerenti con la nostra “ragione sociale” ufficiale: compito di preghiera e di modesto lavoro. Il comportamento dei nostri vicini nel complesso resta quello di gente povera e religiosa. “Sarebbe scandaloso vivere male la nostra
vocazione” in un contesto simile. Sanno praticare la condivisione. I rapporti e l’ospitalità contano molto ai loro occhi. Ci esercitiamo in questo, accettando delle lezioni... E un aiuto, ancora più specifico, l’essere confrontati in ogni cosa all’onnipresenza dell’affermazione musulmana. Come possiamo rispettarla, senza esclusioni aprioristiche, senza indebite inclusioni? Essa narra Dio ovunque: costituisce un “microclima” che libera la fede da ogni riguardo umano o falsa riserva. Non solo, ma la tradizione musulmana veicola valori che ci si aspetta solitamente di trovare presso i “mo97
naci”: preghiera rituale, preghiera del cuore (dikr), digiuno, veglie, elemosine, senso della lode e del perdono di Dio, nuda fede nella gloria di Dio e nella “comunione dei santi”. Quest’ultimo mistero, essenziale per noi, indica il luogo dell’incontro senza interferire sul cammino che vi conduce. Ci si lascia allora stimolare, e lo Spirito di Gesù resta libero di svolgere il suo lavoro tra di noi servendosi della differenza, anche di quella che ci dà fastidio. Lo riconosciamo all’opera. Dalla preghiera silenziosa vissuta a lungo fianco a fianco, in particolare con i nostri amici sufi, riceviamo un sentimento di pienezza che non inganna proprio perché sappiamo che è profondamente condiviso. “Dio ne sa di più!”. E un aiuto, ridiciamolo in conclusione, il saperci integrati in una chiesa locale costituita da persone che hanno dei volti e le cui scelte sono analoghe alle nostre. I nostri vescovi ci hanno manifestato il loro appoggio in mille modi. Quegli amici preti che vivono quasi da eremiti, quella vita cristiana completamente isolata, ci servono da punti di riferimento, assieme ad altri, per la qualità della loro presenza, del loro silenzio, della loro preghiera, del loro con-vivere. Non sono forse loro i veri “monaci”, le autentiche “monache”?
Ostacoli? Certamente esistono anche quelli e possono alimentare la tentazione dello scoraggiamento, della fuga, del rigetto globale dell’altro... C'è l’ostacolo della lingua — “croce e delizia”! e quello, altrettanto consistente, della cultura che si scontra frontalmente con i nostri pregiudizi, i nostri temperamenti, i nostri modi abituali di pensare e di agire. Si scopre perfino di avere riflessi inconsciamente razziali. Abbiamo degli approcci così diversi rispet95
to al lavoro, alla regolarità, al senso del tempo, della verità, della gratuità, perfino riguardo all’amicizia... Anche sulla sessualità, e sul rapporto uomo-donna, difficile da gestire. L'influenza di un islam integralista può essere percepita come una minaccia diretta di ulteriori ostacoli. C'è la “differenza” che rappresentiamo in seno all'ordine e alla nostra regione (Francia sud e ovest) in particolare. C'è la distanza. Uno scarto si crea velocemente a livello di quanto si sviluppa nella società (l’informatizzazione generalizzata, per esempio) e nel mondo, come a livello di ciò che si persegue o si pratica all’interno della chiesa. Come assicurare una formazione permanente con i semplici mezzi di bordo? E meno facile di un tempo credere che la saggezza consista nel “coltivare il proprio giardino”! Avete l'impressione che il carisma del vostro ordine trovi in Algeria il suo clima tradizionale? Che trovi un nuovo modo di esprimersi? In che senso?
Di fronte a questa domanda le nostre risposte sono state divergenti. Senza dubbio essenzialmente perché il nostro ordine cistercense non ha attualmente un’altra casa in ambiente prettamente non cristiano e destinato con ogni probabilità a rimanere tale. Tutte le nostre recenti fondazioni, comprese quelle in India, sono legate a un nucleo ecclesiale locale suscettibile di fornire vocazioni autoctone. All’epoca della sua fondazione, nel 1934, il nostro monastero poteva appoggiarsi sulla minoranza cristiana costituita dai coloni, così co99
). 04 19 483 (1 li ue ao St di te en ed ec pr o er st na mo il me ra ia ch e ss di le ra ne ge e at ab un , za en nd pe di in l' Dopo un di o ss lu il i rs te et rm pe ò pu n no e in rd ’o “L e: nt me si o ns se to es qu In . o” an lm su mu o nd mo in o er st na mo può parlare di “novità”. La nostra comunità sa di non poter reclutare in loco. ca vo e ar it sc su ò pu o nt sa o it ir Sp lo e ch e er ed cr ve De zioni che vengono da altrove per corrispondere a ciò che essa è. Questa fiducia è più agevole quando si constata che la maggior parte di noi ha risposto a una chiamata personale di questo tipo, anche quando c’è stata la tappa intermedia in un altro monastero dell’ordine. Tuttavia alcuni avvertono l’assenza di fratelli originari del paese come una carenza, in particolare sul piano dell’inculturazione e anche della costituzione di una chiesa locale. E vero che questa particolarità (più che “novità”) ci porta a modulare alcune costanti del carisma dell’ordine in funzione dell’ambiente circostante: equilibrio da trovare nei rapporti con il vicinato; associazione nel lavoro e non semplice rapporto di salariato; ripensamento a livello delle espressioni della preghiera e della vita di fede per accostarsi, là dove è possibile, a quanto si pratica nell'osservanza musulmana. “La nostra cultura
monastica vi può attingere e abbellirsi”, ha detto qualcuno. L’anno scorso il nostro nuovo abate generale, padre Bernardo, ci incoraggiava decisamente in questo senso: “Voi avete la missione di inculturare il carisma cistercense affinché le manifestazioni di questo mona-
chesimo possano arricchirsi di quanto voi avrete spigolato nella cultura locale”. Eppure si dovrebbe sottolineare ancor di più quanto ci colloca nel clima tradizionale dell’ordine, a volte IOO
perfino in modo più naturale che altrove (in Europa, per esempio). Semplicità, discrezione, clausura, ospitalità, gratuità senza efficacia e senza opere: tutto questo va da sé o quasi, dato che, come abbiamo detto, è sollecitato — a volte perfino a livello legislativo - dall’ambiente che ci accoglie. Gli scambi in natura sono ancora possibili, come pure un’economia di tipo rurale. La regolarità della preghiera, presente nei musulmani come riferimento a una parola di Dio e alla sua presenza costante, contribuisce anche a creare attorno a noi un clima che è il nostro. Infine siamo più o meno invitati a essere “sottomessi”... Potrebbe sembrare umiliante, ma ci è concesso in questo di ritrovare noi stessi, nella libertà di uno sguardo su Gesù “mite e umile di cuore” di cui molti attendono da noi un’imitazione più fedele. In realtà, si dovrebbe parlare anche di tradizione ritrovata grazie a quei valori autenticamente monastici
che l’altro può restituirci attraverso ciò che vive. A quanto è già stato ricordato sopra si potrebbe aggiungere il dimorare nel deserto (anche in città, come a Fès), una condizione di immigrati (e non di “coloni”).
E inoltre il richiamo del fatto che è in gioco una via (una tariga), che comporta una ricerca attiva e passiva,
una mistica del desiderio che conduce all’unione con Dio e all’unità pasquale del genere umano compiuta in Cristo, ben oltre la nostra manifesta complicità con il peccato e le sue divisioni. Non c’è da sorprendersi che l'emulazione spirituale possa essere già un autentico luogo di incontro nell’e-
videnza condivisa di essere attirati verso la stessa direzione, e nell’umile riconoscimento di restare sempre a rimorchio. IOI
La vostra presenza di consacrati nell Algeria di oggi vi sembra: rifiutata, subita, accettata, cercata, da parte degli
algerini che conoscete? Avete delle testimonianze personali o comunitarie? Presenza accettata: siamo tutti d’accordo, con tan-
tissime testimonianze sia personali che comunitarie. Da parte di alcuni addirittura presenza cercata, da molto tempo, e non necessariamente per motivi di interesse (anche se capita abbastanza spesso: il medico, il miele, altre cose ancora...). Essere accettati così — in particolare dai giovani, cui
non ci lega la stessa storia di servizi prestati e ricevuti che ci unisce ai loro genitori — sovente ci stupisce, ci commuove addirittura. Dipende certamente dal fatto che facciamo da tempo parte del paesaggio. Dipende anche dal fatto che siamo anche “religiosi”, come tutti sanno e possono vedere, e che questo ha la sua importanza in questa regione. Eppure i bambini in particolare avrebbero molte ragioni di trovare fastidioso questo corpo estraneo formato da alcuni adulti piuttosto anziani, spersi in un grande spazio verde vietato ai loro giochi! Presenza che forse contribuisce a confermare nel loro islam questi vicini che ci conoscono bene. Un islam per contro un po’ diverso, apparentemente più aperto, capace di far maggior spazio a una certa pratica di ciò che ci sta a cuore. Allora non si entra in cappella, ma si prega volentieri nel parco, si augura ai fratelli “buona preghiera!” quando suona la campana, si adorna di fiori la statua della Madonna... Ci sono anche quelli che mantengono le distanze, pronti a cogliere l’occasione per dimostrarci un diIO2
sprezzo che ci relega nella categoria dei kuffàr? piuttosto che in quella degli stranieri. Sono comunque casi relativamente rari, e il fenomeno non si è accresciuto in seguito all’irrigidimento di questi ultimi mesi, anzi. In realtà abbiamo l’impressione di essere “capiti meglio” di quanto lo siano alcuni monasteri nel loro ambiente di antica “cristianità” E poi, vano sarebbe il cercare di essere “capiti” Lasciamo l’ultima parola a un giovane vicino, molto legato a noi, il quale ha la sensazione (manifestata) di vedere in noi “dei veri musulmani” Recentemente, invitato a esprimere un’intenzione di preghiera per un
ufficio, rispondeva: “Che Dio apra sempre di più il cuore di tutti alla via stretta della fiducia!” Tibhirine, 1° gennaio 1993
3 “Apostati”
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CONFERENZA DI FRÈRE CHRISTIAN
Ho accolto l’invito a parlarvi un po’ come una trappola! Innanzitutto, avrei preferito lasciare la parola al nostro abate generale... E poi, dovrei trattare il tema dell’“identità contemplativa cistercense”: per essere molto franco, non amo molto questa espressione. In base ai documenti che ci sono stati proposti ai quattro
punti cardinali dell’ordine, con estrema competenza e apertura, credo di non essere l’unico che si interroga su questa formulazione. Devo dirvi perché mi sembra ambigua? Innanzitutto perché può far pensare che la contemplazione possa essere posseduta come un’identità, una condizione stabile. Ebbene, a mio parere la contemplazione appartiene all’ordine della ricerca, oppure non esiste. Quaggiù indica un cammino, una tensione, un esodo permanente. È l’invito fatto ad Abramo: “Cammina alla mia presenza!” (Gen 17,1)!. Cerco quindi di camminare, e confesso che questo cammino aumenta la mia fame di “vedere” la Presenza più di quanto non la sazi. E questo il luogo (in Spagna!) di lasciare che Giovanni della Croce mi consoli: “Non
! Cf. dom Frans (Rawaseneng, Indonesia), Documento preparatorio al capitolo generale, p. 4.
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tutti quelli che intraprendono seriamente il cammino dello spirito sono innalzati da Dio alla contemplazione. No, nemmeno la metà di loro. Lui solo ne conosce la ragione!” 2.
Inoltre c’è una sapienza che fa dire alla mistica musulmana: “Chi si dichiara sufi, non è veramente sufi”. Analogamente, sarà autenticamente contemplativo chi tale si dichiara? Bisognerebbe poter assicurare di averlo sempre riconosciuto al suo passare, o anche di averlo visto quando era lì nudo, malato, affamato... uno di quelli da cui si distoglie lo sguardo per non vederli (cf. Mt 25,35 ss.; Is 53,3). E poi, finché sono in cammino, non sono più in conflitto d’identità: sono io che vivo? O è Cristo in me (cf. Gal 2,20)? Anela a questa nuova identità: il nome dell’Agnello su di me, e quello del Padre (cf. Ap 3,12). Se la mia identità continua a preoccuparmi, significa che mi manca la chiara visione di colui che me la darà concedendosi lui stesso alla visione: “Quando tu ci sei, non so più di esistere”, dice l’amante all’ Amato. “Orizzonte cistercense”, propone frère Josaphat}, o “dimensione contemplativa cistercense”. Così è meglio. Si ricollega a Perfectae caritatis e al codice* che parlano di “istituti più o meno integralmente ordinati alla contemplazione”. “Essere ordinati a...” significa anche accettare fin dall’inizio che non si è ancora arrivati. “Sono stato conquistato —- dice Paolo — non però che abbia già conquistato il premio; corro ancora ver-
2 Giovanni della Croce, La notte oscura 1,9. > Frère Josaphat (Victoria, Kenya), Documento preparatorio, p. 37. 4 Cf. anche Costituzioni 2 dell’ordine cistercense.
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so la meta ...” (Fil 3,12 ss.). Certamente, il poter veri-
ficare se il nostro ordine resta “ordinato”, e quindi capace di tener desto il mio desiderio di vedere Dio, desiderio sempre minacciato di interruzioni, è cosa che ha senso per me, come ce l’ha per ciascuno di noi. Il nostro Agostino dice bene: “Tu ci hai fatto verso di te (ad Te), Signore... et inquietum cor nostrum donec requiescat in Te”?, Questo inquies fa parte della mia identità quanto la qguies — il riposo di Dio — cara ai nostri padri e alle nostre costituzioni”. Qualora, nonostante tutto, voleste identificarmi in modo più preciso, andate a interrogare il nostro vicino. Per lui, chi sono? Cistercense? Mai sentito! Trappista? Meno ancora. Monaco? Anche la parola araba che esprime la cosa non appartiene al suo repertorio. D'altronde, lui non si chiede chi io sia. Lo sa. Sono
un rum, un cristiano. Ecco tutto. E in questa identificazione generica c’è qualcosa di sano e di esigente. E un modo come un altro di collegare la professione monastica al battesimo. Scoprirete così che, volendo precisare ulteriormente, potrà tradurre questa realtà solo in base ai propri riferimenti religiosi: “Prega, crede in Dio, fa la quaresima e dona ai poveri... É quasi come noi!”. Così, dopo essere stato accolto molto bene da diversi monasteri francesi, il nostro giovane amico Mohammed mi diceva: “Sai, in Francia ho incontrato
dei veri musulmani!”. Quando ero novizio all Atlas, ho visto uno dei nostri fratelli, converso per convinzione, inchiodato alla
3 Agostino d’Ippona, Confessioni 1,1. 6 Cf., in particolare, Costituzioni 20.
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finestra alla fine di una giornata massacrante. Contemplava il tramonto. Eppure lo sapevo stremato, e anche esasperato. Lo spettacolo era davvero magnifico. E io, dietro di lui, ammiravo con pari stupore il fatto che dopo venticinque anni di presenza si fosse ancora capaci di ammirare un tramonto, al medesimo posto di tante altre volte. Alla fine, si è voltato e ha detto semplicemente: “Aspettiamo quello di domani sera per tagliare la corda!”. In un baleno ho capito cosa fosse la stabilità e molte altre cose della vita monastica. Devo aggiungere che quel fratello è ancora là, e che gli capita ancora di fermarsi davanti alla finestra, con o senza di me. In fondo, non ho nient’altro da dirvi sull’identità contemplativa cistercense...
Ritorno alla mia idea di fratello Bernardo. Sarà un “sì” dato alla sua richiesta ni. Nulla impedisce infatti quanto ci ha detto il nostro
lasciare la parola al nostro modo di confessare che il non era privo di secondi fiche io riprenda qui per voi abate generale, a Fès come
a Tibhirine, in occasione della visita che ha effettuato
nel giugno 1991. Sbarcava in suolo africano - ci diceva — “con un'intensa curiosità”. Per accoglierlo sul continente avevamo a Fès un autoctono autentico, il nostro frère Pierre (Faye), la cui corsa doveva terminare il 2 febbraio seguente. Come non restare sedotti da quel bel volto di cercatore di Dio, testimone vivente di un’anima africana plasmata dalla contemplazione molto prima di questa metà del xx secolo in cui il nostro ordine scoprì l'Africa nera, e senza dubbio molto prima anche dell’arrivo dei primi missionari dell evangelo nel nativo Senegal? Vorrei dirvi dunque che padre Bernardo ha osservato molto, ascoltato molto, condiviso tutto con noi, 108
compresa laccoglienza dei vicini, compreso il viaggio di circa mille chilometri da un paese all’altro su una Renault 4L, con il passaggio della frontiera proprio il giorno in cui in Algeria veniva dichiarato lo stato d’emergenza... E poi, un mattino, ci ha dichiarato: “Questa notte ho fatto un sogno!”. (Pare che si sogni molto di più in America Latina che non in Europa. Si sogna molto spesso anche nel Maghreb, un po’ come nella Bibbia). In quel sogno, il nostro abate generale aveva visto un monaco dell’Atlas alle prese con un confratello dell’ordine che lo prendeva per il collo, apostrofandolo duramente. Diceva: Primo, tu sprechi la tua vita di fronte a questo mondo musulmano che non ti chiede nulla e si prende gioco di te, mentre c’è tanto da fare altrove, tanti popoli che aspettano solo la tua testimonianza per arrivare alla vita contemplativa e venire a ingrossare le fila della tua comunità... Secondo, poverino, il nostro ordine non sa davvero che farsene di una fondazione come la tua: è un peso morto!
Cosa curiosa, in quel sogno era padre Bernardo che replicava: lo sventurato fratello dell’ Atlas era senz’altro troppo soffocato per potersi esprimere. Qui si ferma il sogno: l’abate generale si sveglia, prende subito carta e penna per mettere per iscritto le sue risposte. Così poté presentarcele al mattino, ancora cariche dell'emozione della lotta notturna. Quanto al sapere quale possa mai essere l’utilità per l’ordine di una fondazione come la nostra, è chiaro che noi non avremmo mai pensato di porla. Siamo una 109
realtà così piccola! Più in profondità, siamo perfettamente coscienti che a nessun monastero potrebbe bastare una ragion d’essere proveniente dall’ordine. Ciò che è primario, è la chiamata di Dio che provoca a nascere come comunità, qui e ora. E Cîteaux, come l’antica Gerusalemme, si stupisce e si meraviglia: “Chi mi ha generato costoro? ... Prima che mi venissero le doglie, ho partorito!” (Is 49,21; 66,7). I più vecchi si ricorderanno di quando, dopo l’indipendenza dell’ Algeria, la nostra sopravvivenza sembrava una scommessa,
se non un controsenso, per riprendere l’espressione, del resto non così vecchia, di un abate della nostra regione. Dom Gabriel Sortais, la cui chiaroveggenza era ben nota, rispondeva a uno dei nostri fratelli: “L’ordine non può permettersi il lusso di un monastero in mondo musulmano”.
Di fatto, costituivamo un caso.
E abbiamo l’impressione che resteremo insoliti finché il nostro ordine non avrà un’altra casa in ambiente strettamente non cristiano e destinato verosimilmente a restare tale. In realtà, tutte le nostre fondazioni recenti, comprese quelle in India, si appoggiano su un
nucleo ecclesiale suscettibile di fornire vocazioni autoctone. All’epoca della fondazione, nel 1934, il nostro monastero poteva contare sulla minoranza cristiana composta da un milione di coloni, così come il suo antenato, Staoueli, la prima fondazione cistercense in assoluto sul continente africano, nel 1843 (esattamente 150 anni fa). La nostra comunità è consapevole di
? Trattandosi della relazione tenuta da frère Christian al capitolo generale dell’ordine, è normale ritrovarvi alcune espressioni, a volte riprese alla lettera, tratte
dalle risposte al questionario in preparazione al sinodo sulla vita consacrata; cf. supra, pp. 93-103.
IIO
non poter reclutare in loco. Qui risiede il suo controsenso. Deve credere che lo Spirito santo è capace di suscitare per lei delle vocazioni provenienti da altrove, per corrispondere a quanto lo Spirito stesso attende dalla sua presenza singolare. Questa fiducia è più agevole quando constatiamo che la maggior parte di noi, adesso, ha risposto a una chiamata personale di questo tipo, anche se c’è stata spesso una tappa intermedia in un altro monastero dell’ordine. Colgo volentieri l’occasione di ringraziare anche qui quelle comunità che hanno generosamente accettato di riconoscere e di rispettare l’ulteriore chiamata che portava verso di noi uno dei loro. Da un lato, questa assenza di vocazioni originarie del paese ci pone praticamente tutti in condizione di immigrati, in questo Maghreb dove l’emigrazione verso l'Europa è così forte. Provate a immaginare lo stupore dei giovani che ci frequentano quando si rendono conto che abbiamo fatto il percorso inverso di quello sognato da loro! E un modo come un altro di suggerire una pista per “un nuovo ordine economico internazionale” di cui non si vede bene come possa nascere vivibile se non è concepito da tutti. In modo più diretto, ci si potrebbe interrogare sulla maniera in cui il monachesimo deve lasciarsi interpellare dall’urgenza di un dialogo nord-sud. Vedo in questo un’autentica sfida che il mondo contemporaneo ci rivolge, e anche un modo più concreto di porci di fronte a quelle che vengono chiamate “giovani chiese”. Queste mi sembrano definirsi soprattutto in base al loro grado di appartenenza a quello che rimane, malgrado tutto, un terzo mondo. (Un esempio soltanto: noi ci guadagnamo da vivere con il lavoro, ma la moneta locale utilizzata per III
retribuire il lavoro non ci serve a nulla se dobbiamo comperare dei libri o dei pezzi di ricambio indispensabili all’esercizio della nostra professione e introvabili in loco; per non parlare del problema di garantirsi un'assicurazione sociale...). D'altro lato, questa nostra particolarità ci porta inevitabilmente a “modulare” alcune costanti del carisma cistercense in funzione del nostro ambiente circostante: associazione nel lavoro e non semplice rapporto di salariato; clausura e apertura, in continua ricerca di un giusto equilibrio nei nostri rapporti con i vicini; ripensamento a livello delle espressioni della preghiera e della vita di fede per accostarsi, là dove è possibile, a quanto si pratica nell’osservanza musulmana. Così, nel tempo del ramadan o in occasione delle feste, c’è
sicuramente un pezzo di strada da fare insieme. C'è poco arabo nella nostra liturgia, ma la nostra preghiera di intercessione — durante l’ufficio, come all’interno dell’eucaristia, soprattutto il venerdì - reca il segno di una forma più spirituale di convivialità. Campana e muezzin, i cui richiami alla preghiera si innalzano — come sapete — dallo stesso recinto, si alleano per invitarci insieme alla lode, ben al di là di quanto possano esprimere le parole. La preghiera rituale del musulmano è breve, mette in moto il corpo, sollecita tutta l’attenzione verso l’Unico di ogni vita, si recita a memoria, assomiglia così tanto all’ufficio dei fratelli conversi di un tempo. Senza dubbio ad alcuni di noi piacerebbe che il nostro ufficio ritrovasse un po’ di questa spoglia semplicità, senza nulla perdere della sua vocazione a essere preghiera della chiesa. Padre Bernardo ci diceva: “Voi avete la missione di inculturare il carisma cistercense affinché le manifeII2
stazioni di questo monachesimo possano arricchirsi di quanto voi avrete spigolato nella cultura locale” E aggiungeva con lucidità: “Questa inculturazione può provocare una reazione di paura, quella di perdere la vostra identità monastica. Per non provare questa paura, o per liberarvene, la prima cosa da fare è approfondire la vostra cultura monastica” E quello che cerchiamo di fare, con i mezzi limitati di cui disponiamo. Scopriamo allora che la fedeltà esigente dell’altro è per noi un dono di Dio e quindi un oggetto di contemplazione suscettibile di ispirarci nuove forme di comunione. In questo senso ci sentiamo tenuti a presentare co-
me ulteriore, concreta sfida del mondo contemporaneo l'urgenza chiesta alle religioni perché imparino a dialogare proprio nel solco delle esperienze spirituali che sanno destare e nel contempo a ritrovarsi insieme, chiamate all’umiltà e interamente dipendenti dal perdono di Dio di fronte alla risposta così fredda, a volte addirittura vergognosa, che il credente, monaco compreso, è effettivamente capace di dare alle esigenze più intime del suo Signore. Nel concreto il dialogo interreligioso monastico con l’islam non è ancora intrapreso. Pochi lo ritengono possibile. Finora si è andati molto più lontani con le religioni dell’estremo oriente. Nel suo documento così ricco di prospettive, dom Frans presenta questo dialogo come l’asse portante della riflessione delle chiese d’Asia*. Se si dovesse accogliere la sua proposta di “congressi continentali” per l’ordine, il nostro cuore sarebbe tentato di battere con l’Asia (dove l’islam è nato), ma i nostri piedi sono ben
8 Dom Frans, Documento preparatorio, p. 2.
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radicati in Africa e abbiamo la testa prefabbricata in Europa. C’è di che mettere alla prova la fantasia dell'ordine nella sua intenzione di meglio compaginare le strutture. Assieme a Latroun (Israele) potremmo formare un subcontinente! Un'altra sfida che si è offerta a noi? Nel 1990, l’insolita iniziativa di una comunità di ex-tossicodipendenti e/o etilisti che sollecita uno di noi per una presenza di preghiera gratuita suscettibile, ai loro occhi, di sostenere la loro determinazione - così fragile — a uscire con la grazia di Dio dalla loro condizione. La preghiera comunitaria al mattino e alla sera e il lavoro per vivere sono le due opzioni chiave di Berdine (Francia). “Ora et labora”! Ci è parso di non aver lezioni da impartire e di doverci predisporre a riceverne. E così che abbiamo creduto di poterci impegnare in un gemellaggio che crea comunione e scambi tra di noi. Rimane la questione di fondo: “Perdi il tuo tempo — diceva il nostro aggressore notturno — tanti popoli attendono altrove la tua testimonianza...”. E padre Bernardo gli rispondeva: “La loro missione è una presenza, silenziosa, viva e vitale, quella di Gesù, quella dell’evangelo. É anche un’accoglienza del cuore nei confronti del fratello musulmano, per essere a propria volta dei cristiani migliori. E infatti in questa apertura all’islam che prenderà corpo il loro modo di essere cristiani qui e ora. Inutile cercare la reciprocità. Non bisogna aspettarla per continuare ad aprirsi: sarebbe contrario alla gratuità dell'amore. Qualora si presenti, renderanno grazie a chi la rende possibile e la dona... È chiaro che devono imparare qualcosa dal mondo musulmano perché ha dei valori culturali e religiosi che sono destinati a loro. Inoltre possono contribuire 114
a destare e motivare la dimensione contemplativa che si trova nel cuore di ogni musulmano...” . Davvero ci rendiamo perfettamente conto che lo Spirito santo può suscitare nel cuore di diversi musulmani che conosciamo un comportamento di carità come quello del samaritano della parabola, e di cui Gesù ci direbbe ancora: “Fa’ questo e vivrai!” (ct. Lc 10,37). Constatiamo anche che la tradizione musulmana sa comunicare il desiderio contagioso della visione di Dio: “Tutte le cose periranno, ma il volto di Dio non scomparirà mai”, recita un versetto del Corano (28,88). Si potrebbe arrivare a dire che tutte le prospettive dell’incontro sono sconvolte quando a me cristiano è dato di fare un’autentica esperienza spirituale attraverso quello che l’altro ha ricevuto come sua eredità per conservare in sé il gusto di Dio: chiamata alla preghiera, esclamazione “giaculatoria”, gesto di condivisione, risposta radiosa, volto pacificato da uomo di fede, versetto del Corano —- evidentemente - perché io credo sia possibile un’autentica lectio divina del Corano, soprattutto in arabo, lingua così vicina all’ambiente nativo delle nostre Scritture. E sempre un po’ doloroso vedere un uomo di preghiera e di vita interiore limitarsi alle enunciazioni della fede nel suo dialogo con l’altro e inciampare sull’opacità delle loro incompatibilità, senza arrivare a cercare l’altro nelle altezze o nelle profondità in cui lo impegna la rettitudine della sua disponibilità al lavoro dello Spirito, in lui e nel crogiolo dell’islam. La prima volta che una comunità sufi dei dintorni ha chiesto di vederci - era a Natale del 1979 — il suo rappresentante si era preoccupato di precisare che se desideravano incontrarci era per una condivisione di preghiera. II5
Non vogliamo - diceva - impegnarci con voi in un dialogo teologico, perché spesso questo ha innalzato barriere, opera degli uomini. Ora, noi ci sentiamo chiamati da Dio all’unità. Dobbiamo dunque lasciare che Dio inventi tra noi qualcosa di nuovo. Questo è possibile solo nella preghiera ... Solo un ridottissimo numero di musulmani potrà capire. E senza dubbio solo un ridottissimo numero di cristiani potrà credere a questo passo. Ma è quello che ci siamo sentiti chiamati a fare con voi. È un caso eccezionale, direte! Forse, ma questa espe-
rienza esiste e non è isolata. Mi aiuta a non rinchiudere il musulmano nell’idea che io me ne faccio o che mi viene trasmessa, e nemmeno in quello che lui può dire di se stesso oggi, in misura maggioritaria. Con il semplice pretesto che nel cristianesimo ci sono pochi monaci si può forse arrivare a dire che il monaco non è un “vero” cristiano? “L Algeria vi aiuta a vivere la vostra consacrazione? Se sì, in cosa?”, ci chiedevano recentemente i nostri
vescovi per preparare la risposta della nostra chiesa ai Lineamenta proposti per il sinodo del 1994 sulla vita consacrata. Se la consideratio, cara a san Bernardo, può essere interpretata — come fa il nostro padre Charles Dumont nel suo documento — come una “riflessione sull’esperienza di esistenza concreta”?, allora è proprio a questo che tale domanda ha provocato noi come comunità, ed è forse proprio questo che vi aspettate anche da me...
? Dom Charles Dumont (Scourmont, Belgio), idid., p. 25.
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Ebbene, sì! È un aiuto sentirci inseriti in un tessu-
to di umanità compatto, eppure “separati”, “in quel mondo ma non di quel mondo”, né persone ragguardevoli, né referenti utili. Qui siamo preservati da qualsiasi “mondanità”! E un aiuto essere costretti a restare piccoli e dipendenti, senza alcuna influenza sull’evoluzione del paese; è un aiuto essere tenuti a corrispondere alla nostra “ragione sociale” ufficiale, fatta di preghiera e di lavoro agricolo per vivere; così come è un aiuto avere sotto gli occhi il comportamento dei nostri vicini che nel complesso è quello di gente modesta e religiosa. In un simile contesto sarebbe di maggiore scandalo l’essere meno fedeli alla nostra vocazione. Loro sanno praticare la condivisione. I rapporti e l’ospitalità contano molto per loro. Anche noi ci esercitiamo in queste cose, e sovente riceviamo delle lezioni... Siamo loro com-
pagni nella situazione di insicurezza e di sgomento che in questo momento attraversa il paese. “Come potete vivere in una casa così incerta?” ci chiedeva una religiosa. Ma, a maggior ragione, come si può rimanare contemplativi in una casa troppo certa, troppo benefundata? Agli inizi dell ordine, non si è forse abbandonata una casa troppo stabile e signorile per un deserto chiamato Cîteaux “popolato di bestie selvatiche” 1°? E un aiuto - lho già detto a sufficienza — avere a che fare in ogni cosa con l’onnipresenza dell’affermazione musulmana. Come possiamo rispettarla, senza esclusioni aprioristiche, senza inclusioni indebite? Fssa narra Dio ovunque: è come una sorta di microcli-
10 Piccolo esordio 3,3.
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ma che libera la fede da ogni riguardo umano e da ogni falsa riserva. E poi ci sono quei valori veicolati dalla tradizione musulmana e che normalmente ci si aspetta di trovare presso i monaci: preghiera rituale, preghiera del cuore (dikr), digiuno, veglie, elemosina, senso della lode e del perdono di Dio, nuda fede nella gloria del Totalmente-Altro e nella “comunione dei santi”. Quest'ultimo mistero, per noi essenziale, indica chiaramente il luogo dell’incontro, senza tuttavia fornire appigli per il cammino che vi conduce. E lo Spirito di Gesù che deve operare in noi, e ho l'impressione che per fare questo si serva delle nostre differenze, comprese quelle che più ci danno fastidio. Nella preghiera gli uni accanto agli altri, vissuta a lungo, in particolare, con i nostri amici sufi ci ricordiamo di esserci impegnati su una via (una tarîqa), ordinati a una ricerca insieme attiva e passiva, in una mistica del desiderio che porta alľunione con Dio. L’emulazione spirituale diviene allora carità reciproca: ed è l'evidenza condivisa di essere attirati nella stessa direzione, è anche l’umile riconoscimento di restare, gli uni e gli altri, al traino. Inoltre è un grande aiuto saperci integrati in una
chiesa locale costituita di persone che hanno un volto
preciso, persone le cui scelte sono analoghe alle nostre. In condizioni di esistenza sovente più difficili delle nostre, la maggior parte dei cristiani stabilmente
presenti ha dovuto radicarsi sempre più nella fede e nella preghiera per poter resistere nella serenità e nella gratuità. L'accoglienza che pratichiamo nella nostra foresteria è fortemente contrassegnata da questo bisogno vitale di un ritempramento spirituale regolare. Avvertiamo il dovere di essere ancora più disponibili a questo. Paolo VI ci invitava, in quanto cistercensi, alI1$
P“apostolato della vita nascosta” 1t. Questa vocazione ci mantiene segretamente vicinissimi a quelle poche centinaia di cristiani algerini che devono associare l’evangelo alla vita nascosta, rimanendo nella mischia. Alcuni anni fa, in una bellissima lettera pastorale, i nostri vescovi del Maghreb avevano invitato i loro fedeli ad “accogliere ciò che nasce nelle chiese della regione”, In realtà potremmo dimenticare che la nostra identità cristiana è sempre più o meno in fase di nascita. E un’identità pasquale. Come potrebbe essere diverso per quella che chiamiamo la nostra “identità cistercense”? Apparterrebbe ancora all’ordine della contemplazione se temesse di affrontare nuovi orizzonti? Quelli della modernità, senza dubbio, ma anche quelli della ricerca di Dio al di fuori dei sentieri battuti della cristianità. E se questo anno trascorso sta per morire non è forse per lasciar nascere un’umanità nuova che avrà bisogno del nostro sguardo fiducioso e comprensivo come contributo al proprio parto? Rivolti verso l'avvenire - dicevano ancora i nostri vescovi in un altro importante documento —- attendiamo il dilatarsi prodigioso del nostro sguardo sull’uomo e su Gesù, dilatarsi che nascerà dall’interazione tra le culture cristiane attuali e le domande poste da uomini appartenenti ad altre tradizioni dell’umanità!.,
In questa prospettiva potrà risultare evidente che non è più possibile installare in qualsiasi posto un mo-
1! Paolo VI, Documenti capitolari OCSO (1967-1977). 12 “Réflexion des évéques d’Afrique du Nord sur les situations nouvelles dans leur église”, in Documentation Catholique 1724 (1977), pp. 679-681. 13 “Chrétiens au Maghreb. Le sens de nos rencontres”, p. 1037.
IIQ
nastero “prefabbricato” perché, più di ogni altra, la vita contemplativa scopre di essere dipendente dalle condizioni “umane” di vita di un paese, dalla sua cultura, dalla sua storia, dai suoi costumi, dalla sua tradizione religiosa. Verifichiamo concretamente, giorno dopo giorno, l’intuizione e le esigenze di questo modo di vedere le cose, sviluppato in particolare da padre Raguin a partire dalla sua esperienza dell’estremo oriente!4. Di fronte a un mondo invaso dall’ateismo teorico e ancor più pratico, il monaco si stupirà di poter restare fedele a se stesso, scoprendosi “esperto in ateismo”, secondo l’espressione, così fondata sulla tradizione, di dom André Louf. Analogamente, di fronte alle nuove invasioni dell’islam, è bene che il monaco si metta alla prova come “esperto in islam” in quanto votato a quell'esemplare sottomissione a Dio che è l'obbedienza amorosa del Figlio al Padre. In questo senso Gesù è davvero l’unico “musulmano” Ed è così ormai che io lo vedo, trasfigurando quello che si cerca di lui, in un andirivieni tra noi e i nostri vicini, là dove la sua chiamata ci ha collocati per essere i testimoni del Regno che nasce... ma “di notte”! Capitolo generale
Poyo (Spagna), 1993
!4 Cf., in particolare, Y. Raguin, Dieu”, in Spiritus 47 (1971), p. 385.
120
“La profondeur de l’homme, chemin vers
QUARESIMA E RAMADAN ASPETTIAMO UN ALTRO APPUNTAMENTO?
Da martedì, primo (o secondo) giorno del ramadan,
fino all'indomani, mercoledì delle ceneri, c’è quest’anno una buona armonia tra l’inizio del digiuno musulmano e quello della quaresima. Questo per ragioni di calendario facilmente intuibili dato che, con il nostro ciclo pasquale, siamo in un’economia lunare come lo sono tutte le celebrazioni dell’islam. La nostra domenica di Pasqua è legata al plenilunio di primavera. Non ci sarà quindi mai coincidenza con l’Aid el-Fitr! che chiude il mese di ramadan. Per tre anni consecutivi, invece, quest’ultimo inizierà circa un mese e mezzo (lunare) prima della settimana santa, cioè più o meno contemporaneamente alla quaresima. E già stato così lo scorso anno, e così sarà l’anno prossimo. Poi, per la stessa legge cronologica, durante i tre anni successivi la quaresima seguirà il ramadan. É un’occasione propizia per soffermarsi un po’ su
questa coincidenza, non fosse altro che per precisare
1 È la “festa della rottura del digiuno”
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i limiti della concorrenza. Il ramadan non è la quaresima, e viceversa. In realtà, non è poi così sicuro che
entrambi abbiano a guadagnarci da questo sincronismo. Si fa in fretta a vedere solo i segni di una deriva,
che non sono esattamente gli stessi da una parte e dalPaltra. Alcuni diranno che il “digiuno” quaresimale non è digiuno in quanto non prevede l’astinenza completa durante la giornata. Alcuni, a volte le stesse persone, diranno anche che la rottura del digiuno ogni sera, con gli eccessi alimentari che sovente porta con sé nel ramadan, toglie a questo tempo il suo valore di “prova” nella durata: un mese, d’accordo, ma un mese interrotto tutte le sere. Sì, il digiuno giova sia al corpo che allo spirito, ma a condizione di non sottomettere lo stomaco a un semplice spostamento di orario, con quanto questo provoca a livello di ritmo del sonno e di maggior pesantezza sul lavoro e nella vita sociale. Sì, i cristiani, almeno in occidente, hanno perso la nozione di digiuno, e addirittura della semplice astinenza, fino
al punto di vedersela confiscata da cure dispendiose o da scioperi della fame. Questi ultimi sono d’altronde spettacolari, e a volte efficaci, solo in ambienti benestanti ed economicamente tranquilli (a meno che non si possieda la notorietà pubblica di un Gandhi). Se ne potrebbe forse fare la propaganda in Sudan o in Somalia in questo periodo di siccità e di estrema carestia? E quale insegnamento sulla quaresima o il ramadan si potrà dare ai bambini di questi o altri paesi che chiedono il pane ai crocicchi delle strade senza che nessuno gliene possa dare (cf. Lam 2,11-12)? Una prima saggezza del digiuno, cristiano o musulmano, potrebbe essere quella di condurci all’ascolto di 122
questi piccoli, che sono i nostri giudici. Se loro lo ignorano, Dio lo sa: “Hai prestato attenzione a quello che sbugiarda il giudizio? Chi scaccia l’orfano, chi incita a non nutrire il povero” (Corano 107,1-3). Giustizia è trovarsi insieme umilmente a fianco dei più poveri, camminando per un po’ in situazione di privazione. Si rinuncia per condividere. E benedette quelle organizzazioni che accettano di essere il tramite consapevole di questi piccoli passi di gratuità nella direzione di un “nuovo equilibrio”! E infatti impossibile per noi - cristiani o musulmani — sentirci a posto con Dio in virtù della semplice osservanza scrupolosa di alcune prescrizioni rituali: “Guai a coloro che pregano senza preoccuparsi della preghiera ma solo per ostentazione, e che negano l’aiuto ai poveri” (Corano 107,4-7). “Qual è dunque il digiuno a me gradito?” (cf. Is 58,5). In Isaia, Dio stesso risponde alla propria domanda. E più sicuro. Ed è chiaro: “Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza distogliere gli oc-
chi da quelli della tua carne?” (Is 58,7). Gesù porta a compimento il senso di questa condivisione istituendola come festa: “Fratello, ho desiderato ardentemente celebrare questa Pasqua con te. Questo è il mio pane... diventi forza del tuo corpo che è mio. Questo è parte del mio sudore che si mescola al tuo sangue. Tu sei la carne della mia carne...” Non c’è qualcosa di analogo anche nell’elemosina e nell’ospitalità che segnano la rottura del digiuno nelle sere del mese di ramadan? “Gareggiate nel compiere il bene!” (Corano 5,48). L’emulazione auspicata dal Corano trova così un tem123
po privilegiato quando ramadan e quaresima si accompagnano reciprocamente. Ma, per tornare insieme al proprio cuore che ricorda loro che “non di solo pane vive l’uomo”, cristiani e musulmani sanno di doversi mettere all’ascolto di quel Dio che è là, in mezzo a loro, come parola donata. Non si può impegnare tutto il proprio amore nel digiuno senza questo viatico. Si rischierebbe di venir meno nel cammino. Recita del Corano o ritorno all’evangelo, letto meglio e meglio vissuto, sono la manna quotidiana per rimpiazzare il pasto o per variare un regime più austero: sforzo di preghiera personale e di controllo di sé, pazientemente ripreso con la lieta consapevolezza di essere sostenuti solo dalla misericordia di Dio, alla comune tavola dei peccatori. So anche di sorelle e fratelli che, associandosi alla
prassi di digiuno propria del ramadan, hanno scoperto l’eucaristia. Quando possono, celebrano l’eucaristia a metà della giornata, dedicandole tutto il tempo del pasto di mezzogiorno, in modo che sia veramente “il pane quotidiano”, nutrimento unico e vivificante per il corpo come per lo spirito. E chiaro che, prendendo alla lettera la tradizione rituale musulmana, costoro non fanno ramadan, in quanto la comunione (al pane e al vino eucaristici) basta a “rompere il digiuno”, secondo l’espressione canonica. In questo si avvicinano ai quei credenti dell’islam che si sforzano di gustare la parola e la presenza di Dio lungo tutta la giornata. E si espongono allo stupore di scoprire tutto il realismo di questo cibo e di questa bevanda che saremmo portati a considerare puramente simbolici. Nella fede prendono in parola colui che si offre a noi come “il vero pane dei forti” Il ramadan è stato per loro il cana124
le provvidenziale di questo sovrappiù di fiducia. Dopo di che è impossibile non vivere ogni eucaristia in modo un po’ diverso. Altre volte si preferirà digiunare tutto il giorno e, calata la sera, rompere il digiuno comunicando al “banchetto del Regno”: è un modo esigente di ridare valore all’antica tradizione del digiuno eucaristico.
Ci si potrebbe così immaginare l’ideale di un popolo che si ritrova nel deserto, come per vivere un lungo ritiro, un’unica avventura di morte e di vita, di conversione e di riconciliazione, gli uni di oasi in oasi, gli altri rivolti verso Cristo che cammina risolutamen-
te verso la terra promessa. Gli uni e gli altri tesi verso l’aldilà delle necessità del mondo nella “gioia di un desiderio spirituale”? che li costituirebbe di fronte al mondo come testimoni convincenti dell’immensa gratuità della vita, dono che Dio fa senza pentirsene. E la festa che li convoca al termine di questo passaggio è una festa per tutti: “Venite, benedetti dal Padre mio!” La croce inaugura il banchetto. Il mio amico Mohammed non mi diceva forse un giorno: “Il ramadan? Vuoi sapere cos'è? E un dono di Dio per attirarci a sé!” E aggiungeva: “I doni di Dio non sono sempre facili” “Innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32): questa parola di Gesù riempie di significato la nostra quaresima. Qui e là, il segreto di un’attrazione...
Digiuno, quaresima o ramadan, un Dio unico invita noi — cristiani, musulmani ed ebrei - al passaggio e alla condivisione, con lui e con la moltitudine. Appun-
2 Regola di Benedetto 49,7.
125
tamento fissato, per quest’anno, sulla linea di “partenza”
Certo non corriamo nello stesso modo, ma il cam-
mino che ci sta davanti non ci appartiene ed è talmente più grande della corsa! Aspetteremo un altro appuntamento... tra di noi5? Frère Christian de Chergé Testo del febbraio 1993 per il quotidiano La Croix
> Impossibile rendere in italiano la contraddizione dell assonanza “rendez-vous entre nous”: un appuntamento obbliga sempre a uscire da se stessi.
126
FESTA DELL’ESALTAZIONE DELLA CROCE
La presidenza e la parola di questa liturgia in onore della croce gloriosa sono state affidate a due fratelli entrambi immersi in un ambiente religioso in cui Pevangelo della croce è normalmente rifiutato: Latroun in Israele, tra ebrei e musulmani; l’ Atlas in quest’ Africa settentrionale che è “casa dell’islam” Cosa dire, qui come là, della croce, “scandalo per i giudei”, bestemmia per i musulmani? Latroun ha scelto la parte migliore: essere là, vicino a Gerusalemme, vicinissimo alla croce, con Maria. “Nostra Signora di ogni compassione”: è sotto questa protezione che si sono posti i nostri fratelli. Dovremo ricordarcene domani. Con loro, terremo presente il messaggio fondamentale per chi vuole parlare della croce: stare là, in
silenzio, come Maria, con le braccia distese per offrire tutto, gioie e sofferenze insieme, per accogliere tutto, spada e gloria nel contempo. Tutto quello che fa della croce il luogo del nostro incontro con Gesù. “Cruci fac nos consortes”: è il motto di Latroun. Se infatti la croce ci conforma alla contemplazione, è proprio perché, per noi come per Gesù, è innanzitutto - prima di essere quel segno sul nostro petto e sui nostri altari, quel simbolo la cui gloria dipenderebbe 127
dal nostro ardimento nel brandirlo in ogni circostanza — un mistero di vita interiore. Erano nostri fratelli anche quei monaci che arrivarono in Algeria proprio centocinquanta anni fa e che pensavano che per farsi capire, e magari per convertire qualcuno, sarebbe stato sufficiente aggiungere la croce al motto dei colonizzatori “Ense et aratro” Sullo stemma di Staoueli comparve così “Ense, cruce et aratro” (“Con la spada,
la croce e l’aratro”). No! La gloria della croce non ha niente a che fare con quella della spada, e nemmeno con quella dell’aratro. L'uomo infatti non è stato creato a forma di spada, e neanche a forma di aratro... e neppure a forma di palo come il serpente che ha potuto essere innalzato nel deserto ma non crocifisso. La dignità dell’uomo è di essere una croce, come constata san Bernardo!: ha proprio la forma di una croce, è cruciforme. “Stenda le mani - dice Bernardo — e questa verità diventerà più evidente” Lì comincia la sua gloria. Lì comincia la croce gloriosa: fin dalla creazione dell’uomo a immagine di Dio. “E se parlassimo della croce?” mi domandava di recente uno dei nostri amici sufi (nell’auto che ci riportava entrambi a casa dal Marocco, dove aveva voluto
fare un ritiro presso i nostri fratelli di Fès). “Se parlassimo della croce?” “Quale?” gli chiesi. “La croce di Gesù, è chiaro”
“Sì, ma quale? Quando guardi un'immagine di Gesù in croce, quante croci vedi?” E.sitava.
! Bernardo di Clairvaux, Serzzoni 4,7.
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“Forse tre... di sicuro due. Quella davanti e quella dietro” “E qual è quella che viene da Dio?” “Quella davanti...” diceva. “E quale quella che viene dagli uomini?” “Quella dietro...”
“E qual è la più antica?” “Quella davanti... Gli uomini hanno potuto inventare laltra solo perché Dio aveva già creato la prima” “E che significato ha questa croce davanti, quest uomo con le braccia distese?” “Quando stendo le braccia - diceva - è per abbracciare, per amare” “E l’altra? E lo strumento dell’amore travestito, sfigurato, dell’odio che inchioda nella morte il gesto della vita” Potremmo rifarci ai versetti del Corano che parlano della morte di Gesù (Corano 4,156-159). Versetti che costituiscono la croce degli esegeti musulmani. “(I giu” Questo è chiadei) non l’hanno affatto ucciso ro: con la morte, anche la più infamante, la vita non è tolta ma trasformata. “In verità non l’hanno crocifisso ” Sì, perché ha steso liberamente le braccia nell’ora della sua passione; è l’amore e non i chiodi che lo tiene fisso a quel patibolo che gli abbiamo costruito. Ed è lo stesso amore che ci attira verso di lui mentre perdona ai suoi persecutori. L’amico sufi aveva detto: “Forse tre” Questa terza croce non ero forse io, non era forse lui nello sforzo
che ci porta a prendere le distanze dalla croce “di dietro”, quella del male e del peccato, per aderire a quella “davanti”, quella dell’amore che trionfa? Non è forse anche l’ebreo Yitzhak Rabin e il musulmano Yasser 129
Arafat in quella sconvolgente stretta di mano che si sono scambiati ieri, con il desiderio di rinunciare finalmente alla spada e di provare il lavoro pacifico dell’aratro su uno stesso terreno?
Fratelli e sorelle, sappiamo bene gio dall’una all’altra croce è proprio e anche la nostra Via gloriae, perché innalza, assieme a lui, verso il Padre ti a braccia aperte.
che questo passagla nostra Vig crucis è da lì che Gesù ci che ci attende tut-
Frère Christian Omelia del 14 settembre 1993
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SENTINELLE, A CHE PUNTO È LA NOSTRA NOTTE? Ci siamo ritrovati attorno a questo tema che ci accompagnava da un anno intero!... piccolo gregge ridotto dal timore di affrontare strade poco sicure e anche dalle conseguenze di questo male sociale che mette degli uomini, dei credenti gli uni contro gli altri all’interno di una stessa nazione, addirittura in seno alle stesse famiglie. La notte era quindi anche lei là, al nostro incontro. E non sapevamo bene se bisognasse identificarla con le tenebre in cui ringhia il “divisore cercando una preda da divorare” (1Pt 5,8) oppure con quelle ore di vigilia che precedono l’aurora e ne portano la speranza, nella consapevolezza che con loro il giorno è già
cominciato. Non è forse all’ora del vespro (la preghiera del “tramonto”) che si apre l’oggi di domani nelle tradizioni semitiche? Impossibile non rinascere a questa luce quando, nel vuoto della notte, viene annunciata la nascita del bambino dal cuore di pace: è proprio nelle tenebre che Dio
1 Questo editoriale non firmato, scritto da frère Christian, risale a inizio dicembre 1993, subito dopo l’ultimatum lanciato agli stranieri: si fa eco di questo cammino nella notte del gruppo del Ribét, ma anche della comunità di Tibhirine e di tutta la chiesa algerina.
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è venuto alla luce. Camminando a tentoni verso questa luce, siamo ripartiti forniti di questa preghiera tesa verso di lui: “O Dio vieni a salvarmi; Signore vieni presto in mio aiuto!”2, Impossibile dimenticare questo grido: apre ogni nostro ufficio; sei volte al giorno, e poi ancora di notte, vi facciamo ritorno, rivolti a oriente, verso il sole, limite della notte: “Verso di te, a te chiediamo aiuto!” E questo grido sgorga qua e là unicamente perché sa di essere esaudito. Il bambino-Emmanuele ce lo garantisce... ma di notte. “O Dio, sei tu la nostra speranza sul volto di tutti i viventi” Ci siamo dunque trovati - davvero piccolo gregge — dal 29 al 31 marzo 1993 nel nostro luogo di riferimento, tra la pianura e la montagna. Forse per essere in modo più concreto “legame di pace” - Ribdt es-Salim — offerto ai fratelli della pianura e della montagna’. E per essere così più vicini all’ Algeria profonda che ciascuno di noi, un giorno, ha incontrato e con la quale le nostre vite hanno stretto alleanza.
È stato proprio là, nella fenditura della roccia che il nostro tema è stato vissuto in modo più intenso, come
una preghiera per tutti: “Tu sei la pace, da te viene la pace, facci vivere nella pace!” Preghiera del hagg*, come ben sappiamo, preghiera di ogni pellegrinaggio verso l’unità che Dio vuole... Davvero un piccolo gregge, dunque, per questo vasto disegno di pace!
2 Per le citazioni dei salmi e della liturgia delle ore ci si è attenuti - là dove il contesto lo permetteva - al testo ufficiale italiano del Sa/terio monastico, così come l'originale francese fa riferimento al corrispondente testo in uso all’Atlas come nella maggior parte dei monasteri francofoni. 3 Cf. supra, pp. 25-28. 4 “Pellegrinaggio” alla Mecca, uno dei “pilastri dell’islam”
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CRONOLOGIA
DEGLI AVVENIMENTI
Gennaio 1992 - Interruzione delle procedure elettorali che stavano portando alla vittoria del Fis. Assume i poteri un'istanza politica provvisoria: l’HCcE (Alto comitato di stato). In brevissimo tempo il Fis entra nella clandestinità. I suoi dirigenti vengono arrestati. Si formano dei gruppi armati (spesso addestrati in Afganistan, Iran o Sudan): attaccano le forze di polizia e alcune personalità della scienza e della cultura. Ottobre 1993 —- Vengono presi in ostaggio tre agenti
consolari francesi. Rilasciati, sono latori di una precisa minaccia del Gra destinata a tutti gli stranieri che vivono in Algeria: hanno un mese di tempo per lasciare il paese. Diverse ambasciate prendono molto sul serio l’avvertimento (Germania, Belgio, Gran Bretagna...).
La Francia non vuole rischiare di “entrare in carenza di Algeria”, ma consiglia la prudenza...
17 novembre — Frère Christian viene convocato nelPufficio del walî (prefetto). Gli viene proposto un cor-
po di guardia di polizia. Rifiuta risolutamente qualsiasi presenza armata. Accetta soltanto di non aprire di notte. 133
1° dicembre — Scadenza dell’ultimatum accordato agli stranieri. Nel giro di poco tempo vengono assassinati uno spagnolo, un francese, una donna russa (matrimonio misto), un inglese...
14 dicembre - AI calar della notte, quattordici (su diciannove) lavoratori ex-jugoslavi (quasi tutti croati) di un cantiere idraulico impiantato a Tamesguida (a 4 chilometri in linea d’aria dal monastero, sotto le no-
stre finestre), vengono sgozzati da un commando di circa cinquanta persone. Due sfuggono miracolosamente al massacro. Le vittime sono state scelte in quanto cristiani e croati, senza dubbio in rapporto al conflitto in atto in Bosnia. Li accoglievamo ogni anno nelle notti di Natale e di Pasqua. E un autentico shock per la comunità. Nota: dall’11 al 20 dicembre, frère Christophe è a Fès, accompagnato da Mohammed, il custode, e un vicino che ha fornito la sua auto. Nessun incidente.
19 dicembre — Frère Christian viene nuovamente convocato alla wi/4ya (prefettura). Colloquio di un’ora nell’ufficio del walî preoccupato di prendere misure di sicurezza per proteggere la comunità dopo il massacro di Tamesguida. Suggerisce di prendere “un po’ di vacanza in Francia”; propone un ripiego su un “albergo protetto” di Médéa per la notte, a spese della w/4y4; inoltre, armi e altro. Mezzi poco adatti, in particolare a dei religiosi. Sensazione che il pericolo non sarebbe minore, che ogni partenza provvisoria in queste condizioni rischierebbe di rivelarsi senza ritorno possibile, che i nostri vicini non capirebbero. Ci si accorda per migliorare la linea telefonica (un nuovo numero viene
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iind e all i nt te at re se es di e ) so es st no or gi il to la al inst e. nt ta os rc ci ” ma li “c dal re ni ve ro be eb tr po cazioni che le e e ur at rr se le o am zi or nf ri , oni usi ill Senza molte a nz ie sc co e ch an o am bi Ab a. ser a all to es usiamo più pr sa er nv co di i al on zi ce ec o st to ut pi ni io iz nd co re di vive e ch lo el qu e ar it ev r pe o rd co ac d’ o am Si a. ic tio monast il walî ha definito un “suicidio collettivo” n co e, ar st re di o am bi ab e ch i on gi ra le o am ci di ri Ci la consapevolezza di essere alla cerniera di due gruppi (e e nt de ci oc in e qu un ov po’ un e qui no ta on fr af che si in Medio oriente, naturalmente). 24 dicembre - “Loro” arrivano, verso le 19,15, in tre all’interno delle mura (altri tre sono all’esterno), armati, senza minacciare direttamente. Fanno irruzione nel-
la foresteria dove si trova il nostro parroco, Gilles N., assieme a tre studenti africani e il foresterario, frère Paul. Chiedono di vedere il “papa del posto” Uno di loro si introduce nel chiostro e cerca di radunare i monaci. (Due monaci fuggono senza essere visti e reste-
ranno nascosti fino alle vigilie, temendo il peggio per gli altri). Frère Christian va in foresteria. Ha un lungo colloquio con il responsabile, dopo aver fatto notare che per la prima volta delle armi entrano in una “casa della pace” dove non hanno posto alcuno. Il capo si mostra rassicurante sulle sue intenzioni immediate e future, a condizione che: 1)..., 2)..., 3)...1. Frère Christian discute. “Non avete scelta!”, la risposta. Non avevano notato che era Natale. Si è rimasti nel vago. Lo scopo era chiaramente quello di comprometterci...
tI monaci hanno volutamente omesso di menzionare la natura di queste condizioni.
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In pratica, impossibile avvisare le autorità. E evidente che è stato un Natale molto particolare. 26 dicembre - Riunione comunitaria. Una maggio-
ranza di fratelli si pronuncia per una partenza abbastanza rapida. Dubitiamo che ci venga lasciato il tempo di prendere disposizioni per assicurare il futuro. All’unanimità si valuta che non è morale soddisfare la terza richiesta. Un ingranaggio che costerebbe caro alla chiesa. Tuttavia uno dei visitatori di Natale ha precisato che il GIA operava una distinzione tra “cristiani” e “stranieri”
27 dicembre —- Visita del nostro arcivescovo, padre Teissier. Ricollocando la nostra comunità in mezzo alle altre, sottolinea l’effetto che una nostra brusca partenza avrebbe su tutti i cristiani nella prova. Suggerisce qualcosa di “progressivo” che gestirebbe una transizione con l’ambiente circostante e preserverebbe il futuro. Ma si vieta di pesare sulla nostra decisione.
28 dicembre — La comunità aderisce alla formula del vescovo. Tre fratelli si assenteranno provvisoriamente per motivi di cure o di studio. Gli altri prepareranno una partenza... In serata, il vescovo decide di avvisare il walî che qualcosa...
29 dicembre - Frère Christian viene convocato alla wildya. Lettera decisa del walî che ricorda la necessità di misure di sicurezza e che declina ogni responsabilità. Esige risposta. 30 dicembre - Risposta della comunità al walî. 136
3I dicembre - Affrontiamo una setie di votazioni comunitarie per tentare di chiarire vie comuni di decisione e di futuro. Consenso molto forte per un rifiuto di “collaborazione”, per una formula “progressiva”
che lasci aperta anche la possibilità di restare se nulla lo impedisce, dato anche che ignoriamo ciò che ci potrebbe essere sollecitato dall’“inviato” annunciato. Vorremmo anche restare insieme e riservarci un ritor-
no in Algeria, con Fès come punto d’appoggio. T° gennaio 1994 — Incontri con gli associati al giardino. Si cerca di predisporre la corresponsabilità della coltivazione. 3 gennaio — Frère Philippe scende ad Algeri per poter lavorare tranquillo al centro di studi diocesano, attualmente deserto... Passerà ad Algeri una settimana ogni due. Numerosi gesti di simpatia e di attenzione da parte dei vicini.
5 gennaio — Frère Paul e frère Célestin scendono ad Algeri. Il 6 prenderanno l’aereo per Marsiglia con l’incarico di andare ad Aiguebelle per fare il punto della situazione con il padre immediato (in contatto con l’a-
bate generale). Dovranno poi sottoporsi ad alcuni controlli medici previsti da tempo. La situazione il 5 gennaio, alle 6 del mattino - Dal settembre
1993, ventiquattro stranieri sono stati as-
sassinati, tra cui i dodici croati sgozzati insieme il 14 dicembre nel cantiere di Tamesguida. Cifra poco significativa in rapporto alle centinaia di poliziotti, guardie, militari, vittime del terrorismo, o alle decine di
personalità pubbliche o di semplici cittadini... Poco si137
gnificativa anche in rapporto alla presenza straniera in Algeria. Ma la minaccia diffusa ha dato i suoi frutti. Di certo più della metà degli stranieri residenti hanno abbandonato, almeno provvisoriamente, il paese. Il personale delle ambasciate e delle imprese è stato ridotto ed è molto “protetto” Le mogli di matrimoni misti si sentono molto vulnerabili... Tuttavia nessun prete, religioso, religiosa è stato direttamente minacciato. Forse nemmeno l’appello del GIA contro i nuovi “crociati” - diffuso dalla stampa — li riguarda direttamente. La maggior parte delle comunità sono restate dove sono, anche se il luogo è esposto. Spesso la popolazione manifesta loro molta gentilezza. Campagna o città... difficile dire dove ci si può trovare maggiormente sicuri. Indubbiamente, per ciascuno è il proprio ambiente abituale. Si ha l’impressione che i gruppi armati siano meglio organizzati e coordinati di quanto si potesse pensare. Impossibile dire come evolverà la situazione politica del paese. Una “convenzione nazionale” è stata convocata per il 25 e 26 gennaio. Ne dovrebbe scaturire una nuova, provvisoria istanza di potere per sostituire l’Hce giunto alla scadenza del suo mandato. Esiste qualcosa di praticabile senza il contributo dei sostenitori del Fis? Il popolo non ha ancora accettato di essere stato privato delle “sue” elezioni (legislative) del gennalo 1992.
In caso di “repubblica islamica”, quale sarebbe il posto della chiesa? E di una presenza come la nostra? Non bisogna dare risposte affrettate a partire da modelli esistenti... ma?! 136
Sul piano economico, il 1994 si preannuncia duro per il paese. La caduta del prezzo del petrolio, le esigenze del Fmi, il fatto di dover importare (pagandoli in valuta) prodotti alimentari di prima necessità... e la disoccupazione dei giovani. In comunità abbiamo innanzitutto vissuto un’esperienza di profonda comunione, momento dopo momento, accogliendo le parole della preghiera e le vicende della vita quotidiana come un autentico dono di Dio che ci detta ciò che è opportuno “dire e fare” qui e ora. Ruolo fondamentale di frère Luc, medico e anziano!
Per qualche settimana resteremo quindi in sei. La stagione consente meglio questa cifra ridotta. La foresteria è momentaneamente chiusa. Possiamo contare sul contributo degli associati più direttamente legati alla gestione del fondo, sotto la responsabilità di frère Christophe. Dal punto di vista materiale dovremo darci da fare per sbarcare il lunario, come i nostri vicini... Ci siamo sforzati di prevedere le maggiori urgenze in caso di “assenza” forzata. La cosa più difficile dovrebbe essere riuscire a evitare il saccheggio degli immobili. Non possiamo augurarci un’occupazione da parte dell’esercito: significherebbe la rovina di tutti i possedimenti (giardino, parco, acqua) e dell'ambiente.
In tutto questo sentiamo fortissimo l’appoggio della nostra chiesa: il vescovo, il nunzio, altre persone ancora ci telefonano di frequente.
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L’incarnazione della fede non è altro che l’inserimento di un atto nella trama
della storia spirituale dell'umanità. Guy Coq
RELAZIONE DI FRÈRE CHRISTOPHE
Questo Natale non è stato come gli altri. E ancora carico di significato. Come Maria, conserviamo tutte le cose che ci sono successe. Proseguiamo quella meditazione che lei iniziò nel suo cuore. Il signifi-
cato, come una spada, ci trafigge. Il Verbo prende questa comunità di carne e di sangue per narrarsi qui, oggi. Avevamo appena concluso il ritiro comunitario con padre Sanson. C’erano state occasioni di riflessione e occasioni di preghiera. Ciascuno, certamente, aveva
preso qualche buona risoluzione. To non ne avevo altre che la sua: risoluzione di amore fiducioso. Ogni giorno la ricevo... la prendo, la mangio, la bevo... Questo è il mio corpo, offerto per voi. Que-
sto è il calice del mio sangue sparso per voi e per tutti. Sono risolutamente vivente di lui, in lui, con lui. Siamo in situazione di epiclesi. Imparo molte cose; la scuola del servizio del Signore non conosce vacanze, men che meno a Natale. Il
Bambino è il nostro maestro. Imparo la chiesa: questa grande felicità di esserne parte, racchiuso carnalmente in questo corpo che narra qui, ora, la presenza. Quella notte c'erano con noi Gilles, il nostro parroco, e tre studenti africani. C’erano quegli uomini e quelle donne di Croazia e di Bosnia venuti per la festa I4I
di Natale del 1991. Imparo la chiesa: la vedo adorna come una sposa secondo il costume del suo sposo, il Servo sofferente. C’era Fernand, un amico della Savoia. C’eravamo noi, ciascuno di noi; e gli eventi, che ci hanno avvicinato immensamente, non hanno affatto cancellato le differenze. Al mattino, avevamo conve-
nuto che sarebbe stato stupido fare blocco. Ognuno ha vissuto questi eventi gravi. Ognuno li interpreta. Ognuno cerca di assumerli. E poi, c'è anche un “noi” che cammina, progredisce in grazia e in sapienza (!?!). Siamo spiazzati, condotti là dove non avremmo mai potuto andare nonostante tutta la nostra religiosità. ... E grande il mistero della fede... della più tenera fedeltà. Sì, sono davvero commosso di essere mem-
bro di questo corpo, senza splendore né apparenza di bellezza. Henri Teissier, il nostro pastore, è venuto a trovarci. La prima cosa che ha fatto è stato presiedere al sacrificio di lode. Dopo, abbiamo ascoltato, ci si è lascia-
ti dilatare alle dimensioni della sua inquietudine di pastore quando le pecore sono minacciate. É ripartito. Lasciandoci liberi in un’obbedienza che non aveva davanti a sé alcuna soluzione evidente. E stato necessario anche imparare l’obbedienza insieme, senza pregiudizio per la coscienza di ciascuno. Imparo anche questo, ed è un punto sul quale sono state scritte molte cose, e avevo anch’io la mia opinione in proposito: è argomento proprio al monaci.
Imparo dunque che c’è innanzitutto la chiesa, e noi siamo parte di questo corpo cristico. So che non siamo migliori, né degli eroi, né nulla davvero di straordinario. Ne ho la netta percezione, qui a Tibhirine. E poi, 142
cè qualcosa di singolare nel nostro modo di essere chiesa, di reagire agli eventi, di attenderli, di viverli. C’è una certa consapevolezza, come se fossimo responsabili non di qualcosa da fare, ma di qualcosa da essere, qui, come risposta di verità, risposta di amore. Un rimando all’eternità? Per certi aspetti. Notre-Dame-de-ľ Atlas, “segno sulla montagna” (signum in montibus) annuncia il nostro stemma.
E vedo che il nostro modo particolare di esistere - monaci cenobiti - ebbene, tiene, dura, e questo vi mantiene saldi. Così, per darvi alcuni dettagli. L’ufficio. Le parole dei salmi resistono, fanno corpo con la situazione di violenza, di angoscia, di menzogna e di ingiustizia. Sì, ci sono dei nemici. Non possiamo essere obbligati a dire troppo in fretta che li amiamo, senza offendere la memoria delle vittime il cui numero cresce ogni giorno. “Dio santo! Dio forte! Vieni a salvarci! Vieni presto in nostro aiuto!” E poi, si ricevono parole di incoraggiamento, di consolazione, parole che fanno sperare; in questi casi, leggere la Scrittura è vitale. Contiene un significato. E da accogliere, da riconoscere. Da riconoscere, si compie: tu che vieni! Ed eccoci carichi di significato. Si compie: amore in croce. C’è una persona il cui ruolo è ben evidenziato nella regola di san Benedetto: l’abate. Sì, noi crediamo che tenga il tuo posto, di te che doni la tua vita. Uno di noi tiene proprio questo posto. Ha ricevuto il titolo singo-
lare, davvero singolarissimo, di “signor Christian” E la parola d’ordine. La parola pasquale!. Questo signo! Il francese permette di legare la “parola d’ordine” (720t de passe) a un’etimologia del termine “pasqua” che lo fa derivare da “passaggio”
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re è legato a Maria?. “Ma io passerò oltre al sicuro” (Sal 140,10). Solitudine filiale e fraterna accanto alla Madre. Missione difficile. Pesa su di uno e su ciascuno. Siamo un po’ spossati, provati là, nell’incavo delle spalle. (Ci corichiamo prima!). Eh, sì: è il lavoro della fede! Monaci. Stiamo diventandolo un po’ più in verità, secondo l’evangelo di nostro Signore Gesù Cristo. E qui significa inculturazione spirituale. La simbiosi con i nostri vicini, con il paese, ci riserva grandi cose. Per esempio, lo sguardo di Ali quando cala la notte e lui ritorna a casa sua, lasciandoci fino all’indomani. Insallab! E Moussa che ieri, giorno dell’epifania, pota un melo con Philippe. Oppure la riunione con gli associati in occasione del capodanno. Mohammed che assume la sua nuova responsabilità di vice capo di coltivazione. Scusate, ma c’è ancora altro: il mangiare, il bere insieme. Ah, le patate fritte del dottore... distribuite solo su ricetta, come il miele naturale! Frère Luc? Sì, è ben esposto. Il 1° gennaio 1994, inaugurando l’anno e il mese del suo ottantesimo compleanno, in refetto-
rio abbiamo ascoltato la cassetta che lui tiene da parte per il giorno del suo funerale: Edith Piaf che canta “Non, Je ne regrette rien!”?.
2 In effetti il nome del priore è Christian-Marie. ? Per non ridurre questo desiderio di frère Luc a quello di un simpatico vecchietto un po’ nostalgico, vale la pena di riportare almeno la prima parte del testo di quella canzone: “No, nulla di nulla, non rimpiango nulla; né il bene che mi è
stato fatto, né il male; tutto questo mi è proprio uguale; no, nulla di nulla, non rimpiango nulla, perché la mia vita, perché le mie gioie, oggi, cominciano con te...”
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SE TACESSIMO, GRIDEREBBERO LE PIETRE DEL WADI... Tra venerdì 21 gennaio, in cui la nostra chiesa risponde con un digiuno all’appello di Giovanni Paolo II a favore della pace nei Balcani, e domenica 23, in cui è invitata a unirsi nella preghiera alla medesima intenzione, c’è, per noi qui, questo sabato 22 che corrisponde al quarantesimo giorno dal massacro dei nostri fratelli croati nel vicino villaggio di Tamesguida (nei pressi di Médéa). Fedeli all’uso locale, abbiamo voluto raccoglierci oggi nel ricordo di questi morti che i mass media sembrano aver sepolto così in fretta. Il quotidiano La Croix l Événement ha parlato di loro solo in un breve articolo
del suo numero del 17 dicembre, con un titolo poco compromettente: “Indebolito il potere algerino” Fortunatamente c’è stata, alla radio algerina, la parola coraggiosa del vescovo di Orano! nella sua omelia del 1° gennaio: “Diversi di noi sono stati vigliaccamente assassinati in queste ultime settimane perché cristiani e perché i loro erano in guerra contro dei musulma-
! Non va dimenticato che il vescovo di Orano, padre Pierre Claverie, cadrà a sua volta vittima di un attentato, il 1° agosto 1996, al ritorno da una liturgia in memoria dei sette monaci dell’ Atlas.
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ni in Bosnia. Lavoratori, lontani dal loro paese e dalle loro famiglie, questi uomini chiedevano solo di vivere in pace mettendo le loro conoscenze al servizio delP Algeria” Trovandoci a quattro chilometri in linea d’aria dal cantiere di Tamesguida, siamo di fatto la comunità cristiana più vicina. Impossibile ignorare quel che è successo. Impossibile anche non sentirci esposti in maniera più diretta. Ma se tacessimo, griderebbero le pietre del wåâdi ancora bagnate del loro sangue selvaggiamente versato (cf. Lc 19,40). “Per te ogni giorno siamo messi a morte, stimati come pecore da macello. Svegliati, perché dormi, Signore?” Il salmo 43 accompagnava quel mercoledì, come ogni mercoledì, il nostro ufficio di nona. Ma assumeva un’attualità sconvolgente. Avevamo appena saputo del massacro della sera precedente. Vigilia in cui, ignorando quello che sarebbe accaduto, avevamo cantato, senza dubbio meccanicamente, il versetto di un altro salmo che assumeva tragicamente senso proprio là, alla nostra porta: “Non lasciare che le fiere sgozzino la tua tortora, non dimenticare per sempre la vita dei tuoi poveri” (Sal 73,19). Martedì 14 dicembre, calata la notte, dodici uomini, dodici fratelli, cittadini della ex-Jugoslavia, sono stati seozzati all'arma bianca. Erano quattordici, ma due di loro sono stati solo feriti dal coltello del boia. Erano stati scelti in quanto croati, e in quanto cristiani. Si è voluto prima verificare questa identità. Poi li hanno legati, spogliati dei loro abiti, condotti a valle
2 Qui abbiamo tradotto alla lettera il francese, per non perdere il richiamo alla tragica “pasqua” che accomunerà i sette monaci agli operai croati.
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delle loro baracche, verso il wâdi, per esservi immolati. Passeranno delle ore prima che venga dato l’allarme... Erano uomini maturi, per la maggior parte padri di famiglia, lontani dai loro cari da diversi anni, in virtù di contratti di lavoro successivi, prima sul cantiere
stradale della Chiffa, poi per questo progetto ambizioso di un tunnel sotto la montagna, affidato alla società Hydroelektra. Uomini coraggiosi, forti lavoratori, come tutti avevano potuto constatare. Molti erano troppo lontani dalla Jugoslavia quando questa era esplosa, quando la guerra vi si era installata. Un giorno erano tornati con un’altra identità nazionale: gli uni croati, gli altri bosniaci..., ma avevano continuato a lavorare insieme, pare con buona comprensione reciproca. Le difficoltà dell’ Algeria erano sopraggiunte a complicare le cose: pagamenti rinviati, minacce, un incendio al cantiere... avevano ricevuto degli avvertimenti. L'impresa aveva deciso di liquidare tutto. Erano prossimi alla partenza. Sognavano addirittura di essere con le loro famiglie per Natale, se non il 25 dicembre, almeno per il Natale ortodosso. I loro assassini non potevano ignorarlo. In monastero li conoscevamo. Li avevamo visti arrivare una notte di Natale, mescolati agli ungheresi, agli slovacchi, ai polacchi, agli italiani che c'erano allora. Gli altri sono partiti. Loro continuavano a veni-
re, per la notte di Natale e di Pasqua. La notte, perché poi il giorno successivo dovevano essere al lavoro. L’anno scorso, a causa del coprifuoco, non avevano potuto muoversi. Ma la sera del 25, finito il lavoro, avevano fatto un pellegrinaggio alla cappella e al presepe. Si erano ricordati: quel bastone d’incenso che avevano acceso maldestramente accanto al Bambi147
no era come il gesto di adorazione dei pastori, pastori ai quali assomigliavano così tanto, perfino nel loro sguardo intenerito e un po’ umido di lacrime. Non avevano molti altri modi di partecipare alle celebrazioni; erano presenti, ma la lingua non era la loro, e molto spesso nemmeno i riti, ritenevano di non aver diritto di condividere il pane eucaristico. Ma gli piaceva la cioccolata calda distribuita alla fine, e l’accoglienza di tutti, soprattutto delle suore. Ripartivano
nella notte, felici di portare con sé un piccolo calendario o un sacchetto di lavanda. Ed ecco, tornava Natale. E, lo sapevamo, loro non sarebbero tornati. Non per il coprifuoco, apparentemente così irrisorio. Non erano più là. Non erano più. Eppure, impossibile non vederli al solito posto, non far posto per loro accanto al Bambino, in mezzo ai bastoni d’incenso che bruciano come per mascherare l’odore della carneficina. Se l’Emmanuele è nato di notte, non è forse per nascere in tutte le notti, anche in quella, vicinissima, che fu per loro l’ultima? “Strage di innocenti che precede la natività”: così aveva detto il nostro (e loro) parroco, aprendo l’eucaristia che avevamo voluto celebrare per loro il giorno dopo il dramma. Subito dopo il parroco si era recato direttamente all’ ospedale dove aveva potuto incontrare uno dei due scampati.
Da lui aveva saputo il resto. E aveva potuto dirgli, prima che venisse rimpatriato nel suo paese, di avvisare le famiglie laggiù che qui si era fatta memoria nella preghiera, e qui tutti i vicini avevano condiviso lorrore di quanti laggiù — mogli, figli o parenti - non avrebbero mai capito il perché di questa vendetta gratuita che veniva ad aggiungersi a tutte le loro disgrazie, 148
vendetta consumata lontano da sconosciuti incappucciati, estranei alla tragedia della storia jugoslava e pronti a identificarsi al braccio di Dio: A/l4h Akbar! Il ferito testimoniava: lo avevano gridato, come per incutersi forza nell’azione, prima di sgozzarli metodicamente, ritualmente. Bisognerebbe ancora narrare l'umiliazione di tutti quelli che, nel nostro ambiente, hanno percepito questo massacro come un’ingiuria fatta all’islam che professano, e questo per il duplice motivo dell’innocenza indifesa e dell’ospitalità concessa. Molti hanno voluto far riferimento al versetto coranico che afferma: “Chi ammazzerà un uomo innocente dell’altrui sangue e che mai aveva commesso delitti sulla terra, sarà considera’ (Coto come se avesse ammazzato tutti gli uomini rano 5,32). Ma è a questo punto, sembra, che Dio interviene. Nella sua misericordia non permette che gli estremismi dell’uomo snaturato trionfino completamente. La sua misteriosa influenza sugli eventi e sui cuori non può essere interamente sconfitta. Si manifesta al di là di frontiere di lingua, di razza o di religione. È stato detto a più riprese per la Bosnia. Siè rivelato vero anche in quella sera. Infatti, mentre la maggioranza delle vittime era stata sorpresa davanti al televisore in un locale comune, gli assassini (pare fossero tra i trenta e i cinquanta) avevano scoperto anche quattro tecnici in un’altra stanza. Li avevano già legati, quando uno di loro esclamò: “Sono bosniaco e musulmano” Gli si chiede di dimostrarlo immediatamente recitando la sahéddé (la professione di fede). Obbedisce, ed è determinante. Poi dichiara, indicando i suoi tre colleghi: “Qui, tutti mu-
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sulmani!” Allora, senza più verifiche, vengono abbandonati ancora legati invece di condurli con gli altri e sfuggono alla strage. Ebbene, gli altri tre erano cristiani. E al loro compagno musulmano che devono la sorte di essere ritornati vivi al loro paese. Lo stesso versetto del Corano prosegue: “ e chi salverà anche un solo uomo sarà considerato come uno che avrà salvato la vita a tutta umanità” (Corano 5,32). Anche questo non potevamo tacerlo. Il priore e i fratelli del monastero cistercense Notre-Dame-de-l’ Atlas Articolo pubblicato sul quotidiano La Croîx, 24 febbraio 1994
“OSCURI TESTIMONI
DI UNA SPERANZA”
“Il martirio a un’ora di volo da Marsiglia!” Una sorta di pubblicità turistica, più o meno di cattivo gusto. Innanzitutto, di che “martirio” si tratta? Domanda che è ancor più importante porsi dato che qui, da mesi, siamo circondati da “martiri” In uno schieramento come nell’altro, ciascuno onora i propri morti sotto quest’unico titolo (in arabo sâhid, plurale suhadé’). Il caso di quelli che muoiono con le armi in pugno. É anche dei civili assassinati. Vicinissimo a noi, per esempio, è stato il caso dei sei giovani della guarnigione sgozzati nella loro caserma, colpevoli unicamente di avere vent'anni e di aver dovuto rispondere alla chiamata alle armi. Il giorno dopo è stato il caso di
quattro infermieri dell’ospedale civile, arrestati sul lavoro da “forze speciali”, torturati, abbandonati moribondi sul selciato della strada, colpevoli solo, così pare, di aver curato un terrorista, rispondendo a un’urgenza della loro coscienza professionale. Un giorno dopo l’altro, la gente comune si ritrova negli stessi luoghi a piangere i propri morti. Si riconosce in loro. Anche Dio, pensano. Queste oscure vittime del dovere civico hanno fatto onore alla loro professione di fede musulmana, alla loro fahédd, sono degli autentici “testimoni”, dei veri Subadd”. I5I
E noi, di quale “martirio” parliamo? A lungo abbiamo inteso questo termine nel senso stretto di una testimonianza di fede esplicita verso Cristo e la dottrina cristiana, fino a versare il sangue. Alcuni “Atti” di martiri ci stupiscono perfino per questa solidità della fede. Viviamo in un’epoca in cui questa non esclude il dubbio, la messa in discussione. A volte, in questi “Atti” c'è un comportamento che ci sconcerta: questi testimoni della fede, questi “martiri”, arrivano a essere così duri con i loro giudici! Cosa pensare di questa intrepida consapevolezza di essere dalla parte dei “puri”? E di questa certezza, sovente manifestata, che il persecutore andrà diritto all’inferno? E questo l’“amare i nemici” e il “pregare per quelli che vi perseguitano” (Mt 5,44)? E strano che si sia dovuto attendere la fine del xx secolo per vedere riconosciuto dalla nostra chiesa il titolo di “martirio” a una testimonianza più di carità estrema che di fede: Massimiliano Kolbe, martire
della carità. Eppure la testimonianza di Gesù stesso, il suo “martirio”, è martirio d’amore, dell’amore per l’uomo, per tutti gli uomini, perfino per gli assassini e i carnefici, per quanti agiscono nelle tenebre, pron-
ti a trattarvi “come animali da macello” (Sal 43), oppure a torturarvi a morte perché avete delle simpatie anche per “gli altri” “Padre, perdonali! Non sanno quello che fanno!” Non c’è più grande amore di chi dona la vita per quelli che ama (cf. Gv 15,13). Meglio farlo prima, e
per tutti, come Gesù. Così chi crederà di mettervi a morte non vi prenderà la vita; già prima, a sua insaputa, questo dono era stato concesso, a lui come agli altri. Hamid, uno dei giovani frequentatori della biblio152
teca della casbah animata da frère Henri, ha potuto testimoniare: “Non gli hanno rubato la vita, l aveva già donata!”!. Resta il fatto che questo rapinatore ha commesso un omicidio e che, nella violenza deliberata del suo gesto, ha gravemente mancato all'amore che Dio ha inscritto nella sua vocazione di uomo, come nella
mia. Non posso augurare questo a nessuno. Gesù non poteva augurarsi il tradimento di Giuda. Non è forse pagare un prezzo troppo alto per quella che viene chiamata volentieri la “gloria del martirio” il fatto di doverla al gesto omicida di un fratello in umanità? Senza contare le generalizzazioni che molti saranno pottati a fare, rendendo per esempio tutti gli algerini corresponsabili del crimine commesso da alcuni... Gesù non riceve la propria gloria da Giuda. Gli viene dal Padre suo, ed è dovuta alla testimonianza che gli è assolutamente propria, quella dell'innocenza: “Egli non ha fatto nulla di male” (Lc 23,41). Di fronte a quel “martirio”, il santo e l'assassino sono solo due ladroni
che dipendono dallo stesso perdono. A volte basta pochissimo perché i loro ruoli siano intercambiabili! Tutti i partecipanti alle esequie di suor Paul-Hélène e di frère Henri nella chiesa di Notre-Dame d’Afrique saranno stati profondamente segnati dalla straordinaria sensazione di pace e di comunione che se ne sprigionava. La solennità dell’ascensione, celebrata in quel giorno, ci trasportava lontano come Gesù, attraverso la breccia aperta sull’invisibile e, contemporaneamente, ci rinviava alla quotidianità di questo popolo e di
! In questa pagina frère Christian sviluppa le riflessioni contenute nel suo testamento, che a questa data era già stato scritto; cf. infra, pp. 229-231.
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questo paese in cui sappiamo di dover ritrovare, giorno dopo giorno, la testimonianza di questa sorella e di questo fratello. La parola “martirio” non è stata pronunciata in nessun momento. Sarebbe apparsa fuori luogo. Non ne avevano bisogno né luna né l’altro per imporsi a tutti, incontestabilmente, perfino nel loro messaggio congiunto di modestia, di piccolezza: picco-
la sorella dell’assunzione, piccolo fratello di Maria... Quello che era loro capitato, questa morte brutale, si iscriveva in una continuità le cui tracce diventavano luminose. Quelli che hanno rivendicato il loro assassinio
non potevano appropriarsi della loro morte. Apparteneva a un Altro, come tutto il resto, e da molto tempo. “Fa parte del contratto — diceva Henri ridendo — e sarà quando egli vorrà. Non è certo questo che ci impedirà di vivere, andiamo!” Sono forse questi quelli che chiamiamo “cristiani in sospeso”? Henri come Paul-Hélène: un’unica costante esigenza di regolarità spirituale. Adottare i mezzi quotidiani della preghiera, che fanno sì che l’ultimo giorno non sia diverso dai precedenti. Semplicemente, si è pronti ad accogliere gli scolari (è ora), come a partire (ecco, è lora).
Henri era anche uno sguardo verso l’islam che non cessava di lasciarsi rimettere in discussione, all’interno di una ricerca di Dio sempre desta. “Mi lascio interpellare, e interpello, destabilizzo un po’ l’altro, e l’altro mi destabilizza... E come Maria: non capisco, ma custodisco. E meraviglioso quanto hanno saputo cogliere i piccoli. Quelli che la sanno lunga (sottinteso ‘sull’islam’) mi mettono i bastoni tra le ruote!” Un fratello, una sorella sono stati dunque uccisi sul posto di lavoro, al cuore della loro esistenza quotidia-
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na, in tenuta da “servitori”, in mezzo a quei giovani del quartiere che cercavano là le stesse possibilità di altri, più fortunati, per accedere alla cultura e allo sviluppo delle loro capacità intellettuali e umane. Henri era nel suo campo. In verità, abbiamo sempre conosciuto nel suo campo, anche nelle situazioni più contrapposte. Direttore didattico ritornato semplice insegnante in un liceo algerino, aveva costantemente saputo trovare il modo giusto per adeguarsi al carisma della sua congregazione insegnante, alla scuola di Maria. In biblioteca, teneva molto all’atmosfera interiore: che fosse fatta di silenzio, di lavoro e di rispetto reciproco, di fiducia; la bellezza del contesto, restaurato con tanta cura, vi si prestava bene. “Questi giovani — diceva — vivono la violenza ovunque, per strada come a casa. Bisogna che qui facciano l’esperienza della pace possibile che portano in sé” Paul-Hélène e Henri erano quindi al loro posto. Offerti, indifesi. Sapevano di essere vulnerabili. Non ignoravano la paura. Dimostravano semplicemente che questa può essere attraversata da parte a parte, e quindi superata, con l’urgenza più grande di una disponibilità all’altro. Tutto è stato rapido. Una sola pallottola per ciascuno. In pieno volto per il fratello. Si è accasciato piegando sul petto la mano che aveva appena teso all’assassino: completava così il gesto dell’accoglienza come viene praticato qui, come a meglio significare che proviene dal cuore. La suora è stata colpita da dietro, alla nuca. Aveva visto il fratello crollare. Ha alzato le braccia in un gesto di stupore che le era familiare. E morta nello stupore, come i bambini. Morte violenta, certo, eppure morte dall’apparenza così naturale: “Aveva l’aria di dormire”, dirà un testimone. Nes155
suna traccia di sofferenza né di paura. “Ogni incontro è quello con Dio”, diceva Henri, e aggiungeva: “Gli chiedo di mancarne il meno possibile!” Non avrà “mancato” quest’ultimo incontro, lasciando che noi lo prolunghiamo all’infinito mettendo in pratica la consegna che si era dato per far fronte allo sgomento circostante: “Nei nostri rapporti quotidiani, prendiamo apertamente le parti dell’amore, del perdono, della comunione, contro l’odio, la vendetta, la violenza” (let-
tera del 4 febbraio). Così, con tutti quelli che sanno di essere minacciati, con le persone più direttamente esposte, soprattutto le donne e i giovani di leva, con tutti quelli di cui non si parla mai, Paul-Hélène e Henri hanno avuto, “fino all’ultimo”, l’umile coraggio dei piccoli gesti quotidiani che assicurano la vittoria della vita su tutte le forze di distruzione. Sono proprio quegli “oscuri testimoni della speranza” di cui canta un inno feriale?. Su di loro riposa tutto il futuro del mondo. Chi oserebbe credere a questo futuro se loro non fossero là, al nostro fianco, gomito a gomito, passo dopo passo, istante dopo istante, pazienti e ostinati, lucidi e ottimisti, realisti e liberi, all’infinito? Secondo il proverbio sufi “non hanno atteso di morire per morire”, non hanno atteso i persecutori per impegnarsi nel martirio, reinventando così, nel cuore delle masse, quello che i monaci andavano a cercare nel deserto dopo l’epoca delle persecuzioni: “il martirio della speranza” Questo è il “rischio” che
“viviamo quotidianamente” da queste parti; da tempo ci si è imposto. E una scelta che deve poter resistere,
2 Cf. il testo completo, supra, p. 30.
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anche oggi. C’è da scommettere che alcuni lo fanno anche “a un’ora di volo da Algeri”! Discostandoci da questo rischio, avremmo ancora qualcosa da dire dell’evangelo nel mondo di oggi? Frère Christian-Marie Memoria dei primi martiri dell’Africa (Cartagine, 180 d.C.)
17 luglio 1994
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LETTERA CIRCOLARE DELLA COMUNITÀ
Da Fès mi è più facile rispondere agli interrogativi che alcuni si pongono e ci pongono nuovamente vedendo l’Algeria che si decompone sempre più sotto la duplice pressione del terrorismo e dell’antiterrorismo. Dopo il fallimento del dialogo con i partiti, il potere si è impegnato in una lotta a oltranza, annunciando nel contempo l’intenzione di proseguire il dialogo direttamente con il popolo. Come conciliare concretamente queste due opzioni? E come evitare che si moltiplichino le forme selvagge di violenza e di banditismo? La cifra di mille morti alla settimana, recentemente az-
zardata dalla stampa estera, potrebbe corrispondere alla triste realtà presente. La nostra chiesa si è sentita presa di mira più direttamente, e colpita, dall’attentato del 23 ottobre che è costato la vita a due religiose della congregazione spagnola delle agostiniane missionarie. Era di domenica, all’ora della messa “parrocchiale”, sulla porta della cappella del quartiere popolare di Bab al-Qued, vicino alla casbab dove suor Paul-Hélène e frère Henri sono stati assassinati l’8 maggio scorso, esattamente allo stesso modo. Era inevitabile una rimessa in discussione più globale della presenza della chiesa, nei suoi luoghi e nelle sue forme. I nostri vescovi e diversi superiori re159
gionali si sono quindi ritrovati già il 25 ottobre. Si avvia una consultazione in tutte le comunità per definire le modalità di un’eventuale “partenza obbligata” Come salvaguardare la disponibilità dei mezzi e, soprattutto, la vocazione delle persone? Fin da ora, nella diocesi di Algeri una decina di comunità hanno preso la decisione di ritirarsi “provvisoriamente” dalla loro collocazione abituale. Eccetto gli spiritani di Orano, le comunità di uomini sembrano mantenere la loro opzione di restare. Questo finoraè chiaro per i gesuiti, i
piccoli fratelli di Gesù,i padri bianchi nel loro insieme. E chiaro anche per noi. E evidente che, a Tibhirine come altrove, questa scelta presenta i suoi rischi. Ciascuno mi ha detto di volerli assumere, in un cammino di fede nel futuro e di condivisione del presente con dei vicini sempre molto legati a noi. La grazia di questo dono ci è data giorno per giorno, molto semplicemente. A fine settembre abbiamo avuto un’altra “visita” notturna. Questa volta i “fratelli della montagna” vo-
levano utilizzare il nostro teletono. Abbiamo risposto con il pretesto che era sotto controllo..., poi abbiamo fatto presente la contraddizione tra il nostro stato e qualsiasi complicità con tutto quanto potrebbe attentare alla vita di altri. Ci hanno dato delle garanzie, ma la minaccia era presente, naturalmente armata... Così hanno telefonato. Fuori dalla casa, con il telefono
portatile. Abbiamo avuto il tempo di dirci molte cose, a viso scoperto, e disarmato! Poi, in comunità, abbiamo dovuto valutare il nostro comportamento in caso
di recidiva. Abbiamo deciso che in tal caso avremmo rinunciato, dal giorno successivo, all’uso del telefono; evidentemente, avvisandoli della cosa. 160
Di fatto non sono ritornati. Tranne che negli immediati dintorni per confiscare le carte di identità. Questa pratica ha qualcosa di odioso in un paese che, dopo quarant'anni di lotta per la propria indipendenza, non è ancora riuscito a darsi un’autentica identità nazionale. In questo senso gli obiettivi del movimento berbero appaiono molto sfasati rispetto alle urgenze del momento. Così come gli eccessi dell’integralismo armato lasciano completamente smarriti tutti quelli che in buona fede ritengono che l’islam sia il principale denominatore comune di tutti gli algerini. “L’islam non è questo!” si sente ripetere ogni volta che vengono ricordati gli sgozzamenti degli uni o le torture degli altri. Le persone semplici confessano di sentirsi “perse” Umiliati, sballottati, minacciati dagli uni e dagli altri, costoro non ci capiscono nulla e si sentono come di
troppo in un conflitto in cui, finora, nessuno chiede il loro parere, salvo imporre loro di pagarne le spese. Il loro istinto dell’ospitalità basterebbe a ribadire loro che nessun paese può definirsi nel rifiuto dell’altro. In maniera più positiva, un buon numero di loro impara a riscoprire e a coltivare in se stesso l’idea di un islam diverso, che non ha bisogno degli insegnamenti del Fis o del GIA per precisarsi. Vi scorgono “una chiamata di Dio a rispetare il fratello e a costruire un’umanità solidale”, secondo l’espressione del nostro arcivescovo ai funerali delle nostre sorelle Esther e Caridad. “Vi chiedo perdono a nome degli assassini”, diceva il poliziotto alle piccole sorelle subito dopo i rilievi sul luogo dell’attentato. Siamo ben consapevoli che restando con quanti non possono far altro che restare noi onoriamo il significato che loro hanno saputo trovare IOI
alla nostra presenza, nel corso di una lunga quotidianità di condivisione e-di solidarietà alla quale tanti di noi si sono dedicati con il meglio dei loro carismi personali e comunitari. Accanto a loro in questa tormenta,
ci sforziamo di meritare la fiducia che ripongono nella nostra preghiera e nella nostra speranza per sostenere le loro, affinché “la bilancia penda finalmente dalla parte della pace e della misericordia” I nostri fratelli di Fès si uniscono a me per dirvi la nostra vivissima comunione da qui e da là... Quest'anno non manderemo la solita cronaca. Per
noi è il tempo dell’avvento tà, st prolungherà ben al di verso il lungo silenzio di un la culla. Ma la speranza che
che, con ogni probabililà del Natale, come attrabambino minacciato nelporta è più forte di ogni
minaccia...
Con un grande grazie a ciascuno per la sollecitudine che permane, e il nostro affetto di ogni giorno. Frère Christian Fès, 13 novembre 1994
162
LETTERA DI FRÈRE PAUL
Caro padre abate, cari tutti, buon, santo e felice anno con colui che è venuto ad
abitare in mezzo a noi per rivelarci il Padre, per darci la sua vita, la sua gioia, la sua pace. All’uscita della messa celebrata da padre Christian Chessel a Notre-Dame d’Afrique il 1° gennaio, i partecipanti si sono augurati semplicemente un “migliore anno” L'atmosfera era di serenità grave. Più nessuno può farsi illusioni. Ognuno sa che domani potrebbe essere il suo turno. Ognuno sceglie liberamente se restare o partire. I nostri otto martiri dell’anno 1994 non sono state
vittime del caso o di un incidente di percorso, ma di una purificazione necessaria. Mi sembra giusto chiamarli martiri perché sono stati testimoni autentici dell’evangelo nell’amore e nel servizio gratuito ai più poveri; e questo non può non suscitare interrogativi ed essere una contestazione radicale di tutti i totalitarismi e quindi risultare intollerabile agli occhi di qualcuno. La chiesa non era piena per questa cerimonia: la comunità cristiana dell’ Algeria è sottoposta al vaglio. Le piccole comunità chiudono le porte le une dopo le altre. Questo mese di gennaio le sorelle clarisse partono per Nimes. L'assassinio del loro cappellano, padre 163
Charles Deckers, ha iadubbiamente fatto precipitare la loro decisione. Questi era arrivato da appena dieci minuti per la festa di san Giovanni a Tizi-Ouzou quando i falsi poliziotti si sono presentati. Solo per caso il numero delle vittime di Tizi-Ouzou è coinciso con quello dei terroristi uccisi sull’ Airbus. L'esito del dirottamento aereo è stata solo l'occasione per dare esecuzione a un progetto messo a punto da molto tempo. A causa di un’indiscrezione, alcune affermazioni
confidenziali del nostro vescovo sono state pubblicate da un giornale italiano e ampiamente riprese qui dalla stampa e dal potere. Leggendo quello che vi è scritto, ne ho dedotto immediatamente che, se non lo era già da prima, egli sarà ora nella lista nera dei terroristi. Dobbiamo essere molto prudenti nelle nostre affermazioni, anche quando si tratta delle cose banali di cui vi scrivo. Non è opportuno che vadano più in là di Tamié: sono più che sufficienti per indicare dei “segnati” Quanto a noi, il gruppo che controlla la nostra zona,
e che alcune settimane fa ha conosciuto la ribalta della televisione francese, fino a oggi non ha ritenuto interessante inserirci nel suo albo. In caso di “ragion di stato”, gli altri possono fare pressioni su quello della nostra zona affinché tragga profitto di quel bersaglio scelto e assai facile che noi rappresentiamo. I nostri fratelli di Fès auspicavano la presenza in mezzo a loro di un fratello dell’ Atlas, soprattutto durante la prevista assenza di frère Guy. Sarà frère Célestin ad andarvi domani. Lo accompagnerà frère Philippe che proseguirà, laggiù e a Meknès, i suoi studi in un clima ancor più sereno. 164
Domenica scorsa frère Christian e frère Philippe hanno impiegato cinque ore per tornare da Algeri; un guado per autobus, che sostituisce provvisoriamente un ponte sulla Chiffa - ponte fatto crollare nel wâdi dai nostri “fratelli della montagna” quest’estate — era completamente sommerso dalle acque turbolenti dovute alle abbondanti piogge dei giorni scorsi. Sono passati accanto a un autobus bruciato, ancora fumante (un altro! Quanti hanno ormai subito la stessa sorte,
così come più di cinquecento scuole...). Hanno rischiato grosso: una differenza di dieci, venti minuti e la loro ora sarebbe giunta. Nostro Signore ce lo ha detto chiaramente: “Non temete quelli che possono uccidere solo il corpo”, oppure nel brano della Lettera agli Ebrei di oggi: Gesù “ha ridotto all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere e ha liberato così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita” (Eb 2,14-15). Fin dove spingersi per salvare la pelle senza rischiare di perdere la vita? Uno solo conosce il giorno e l’ora della nostra piena liberazione in lui. Tra qualche mese cosa resterà della chiesa d’ Algeria, della sua visibilità, delle sue strutture, delle persone che la compongono? Poco, pochissimo, con ogni probabilità. Eppure credo che la buona novella sia seminata, che il seme germogli: come dubitarne leggendo i due brevi articoli di Said Mekbel, a sua volta assassinato a inizio dicem-
bre? Questo atteggiamento non è un caso isolato. Lo Spirito è all’opera, lavora in protondità nel cuore degli uomini. Dobbiamo essere disponibili affinché possa agire in noi attraverso la preghiera e la presenza amorosa accanto a tutti i nostri fratelli. Tibhirine, 11 gennaio 1995
165
LETTERA CIRCOLARE
DELLA COMUNITÀ
Mentre mi trovo a Fès per le celebrazioni pasquali con i nostri fratelli di qui, vorrei, come nella mia lettera del 13 novembre scorso, permettervi di raggiungere la nostra comunità dell’Atlas, sballottata come tante altre nell’attuale tormenta dell’ Algeria. Sono passati cinque mesi. Senza dubbio continuate a interrogarvi. La corrispondenza tra noi è difficile da quando Air France ha rinunciato ai suoi collegamenti aerei. Le notizie sono filtrate. Quello che avviene in loco non è rassicurante. Violenze ed estorsioni confermano il fallimento del “tutto per tutto” nell’ambito della sicurezza. Era prevedibile. La crisi economica accresce i rischi di un banditismo incontrollabile. Ciò nonostante, in questi giorni la ripresa di un dialogo politico tra il potere e i rappresentanti del popolo (partiti, associazioni...) suscita una nuova speranza. Alcu-
ne categorie della popolazione, come i giornalisti e gli insegnanti, o anche le donne, pagano carissima la loro resistenza passiva alle minacce che gravano sulla loro libertà di azione e di espressione. Troppa incertezza attorno agli attentati, troppi eccessi evidenti da parte delle forze dell’ordine... La fiducia è morta. L’annuncio di elezioni presidenziali voleva ristabilirla. Per ora è un fallimento. Come immaginare una simile consul167
tazione quando l’arbitrio è sicuro di vincere dal momento che è armato? Dopo l’attentato di Bab al-Qued del 23 ottobre, di cui furono vittime due religiose agostiniane spagnole, le nostre sorelle Esther e Caridad, i nostri vescovi avevano chiesto a ogni comunità di prendere disposizioni, soprattutto materiali, in previsione di una partenza improvvisa, sempre possibile. Bisognava darsi i mezzi per un ripiegamento e una fedeltà alla nostra vocazione di chiesa, così particolare. E come prevedere una partecipazione a un piccolo “nucleo” destinato ad assumere una presenza permanente? La “grazia di Natale” 1993 ci aveva portati a rispondere in anticipo ad alcune di queste domande. Ci siamo presi il tempo per riesaminarle, e per confermare le nostre scelte con nuove votazioni. Poi è venuto il vescovo, come previsto, per completare assieme a noi questo discernimen-
to. Fu una visita in piena regola, in mancanza della “visita regolare” t. Padre Teissier ha potuto ricevere e ascoltare ogni fratello, prima di partecipare a un dibattito comunitario che includeva anche frère Robert, il nostro ospite eremita, e il nostro parroco, padre Gilles N., così vicino e attento. Nel messaggio che ci ha lasciato, il vescovo diceva: “Per grazia di Dio, avete assunto il rischio di prolungare la vostra presenza e la vo-
stra testimonianza, mentre i passaggi di gruppi armati nella vostra zona si intensificano... Vorrei dirvi quanto la vostra presenza di preghiera e di lavoro quotidia-
! Quest'ultima è la visita che periodicamente viene effettuata dal “padre immediato” per mantenere saldi i legami di carità, prendere conoscenza dell’evolversi della vita di una comunità e decidere eventuali aiuti o mutamenti da apportare; cf. supra, pp. 80-81, nn. 5 e 6.
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no a Tibhirine è significativa per tutta la nostra comunità, anche se non possiamo venire a Tibhirine, perché, tenuto conto della situazione, voi siete agli avamposti della nostra testimonianza... Vorrei dunque in-
nanzitutto ringraziarvi, e ringraziare il Signore che vi ha dato il coraggio di questa fedeltà, ma che ha anche, finora, fatto trionfare nella coscienza dei musulmani, la volontà di rispettarci...” Natale 1994 è stato soprattutto l’ansia creatasi all’aeroporto di Algeri attorno all’ Airbus di Air France. E poi l’epilogo a Marsiglia, alle 17 del 26 dicembre, seguito immediatamente, il martedì 27 dicembre a mezzogiorno, dall’uccisione di quattro padri bianchi a Tizi-Ouzou. Li conoscevamo bene, ciascuno in particolare. Una comunità intera veniva così eliminata. Impressione brutale di essere noi stessi nient'altro che un “vivaio” che assicura una riserva di facili vittime
per altre rappresaglie. Inmediatamente le autorità della wilâya (la prefettura) si preoccuparono della nostra protezione. Una notte la cosa fu anche molto invadente. I “fratelli della pianura” si sarebbero volentieri accampati all’interno delle nostre mura. Abbiamo dovuto far loro riconoscere che questa coabitazione sarebbe stata rovinosa per la nostra sicurezza, come pure per la nostra vocazione. Da allora, i nostri vicini sanno ripetere l’antifona: “È hbaram (vietato da Dio) entrare con
le armi dai padri”
Edè chiaro che questo li rassicura.
Tuttavia il nostro rifiuto è risalito (lentamente) fino
al ministero degli esteri che, ancora una volta, ha convocato la nunziatura per una nota verbale denunciante questa insubordinazione. Il sostituto del nunzio, uno zairese, ha saputo trovare la risposta adeguata di fronte al capo di gabinetto del ministro: “Lei immagini di 169
aver costruito la sua casa in cima a una montagna. Gode di una vista magnifica, con un precipizio a destra e uno a sinistra. Le chiedono di spostare un po’ la casa. Da che parte lo farebbe lei?” Questa parabola molto africana non ha avuto bisogno di ulteriori commenti... Nel frattempo la nostra chiesa si è ulteriormente ridotta. Molte partenze, individuali o collettive. Quella delle nostre ventotto sorelle clarisse di Algeri, improvvisata in tutta fretta, ci ha particolarmente colpiti. Dopo il cedimento delle suore bianche e delle figlie della carità, sono le piccole sorelle e i piccoli fratelli di Gesù a essere i meglio rappresentati. In comunità, era già previsto che frère Célestin andasse a rinforzare i nostri fratelli di Fès per il canto, approfittando nel contempo delle possibilità di controlli medici che il Marocco fornisce. Partiva quindi il 12 gennaio, ma accompagnato da frère Philippe che aveva bisogno di un ambiente meno teso per la prosecuzione dei suoi studi nel quadro della sua formazione (arabo e teologia). Frère Céle-
stin è appena rientrato a Tibhirine. Frère Philippe rimane ancora qui, fino agli esami di fine maggio a Strasburgo. Avevamo sperato di veder tornare frère François per continuare il suo noviziato tra noi a partire dalla quaresima. Ci è parso più saggio lasciarlo più a lungo presso i nostri fratelli di Orval, attraverso i quali era giunto a noi. Verso il 15 maggio dovrebbe arrivare a Fès dove troverà frère Christophe il quale sarà rimpiazzato, in luglio, da frère Paul. Questi andirivieni tra Algeria e Marocco si possono ormai compiere solo in aereo. Riusciamo a valutare sempre meglio l’importanza di questa piccola comunità “annessa” nelle misure che dobbiamo prendere per salvaguardare sia la salute che il futuro. I nostri fratelli vi si prestano con 170
grande comprensione e carità. È vero che, sul posto, il numero ridotto rende più faticoso il carico comune. Ma i nostri associati se ne rendono conto e non si risparmiano. Recentemente, hanno addirittura voluto farsi carico della tinteggiatura della nostra cappella e del nostro dispensario: “La casa di Dio e quella dei poveri Per riassumere tutto, riportiamo volentieri alcuni brani del messaggio indirizzato il 17 marzo scorso dai superiori maggiori di Algeria alle loro congregazioni: “Nonostante le nostre fragilità, siamo convinti di dover resistere. Proprio per questo, misuriamo sempre meglio il valore di quelle relazioni che continuano a offrirsi a noi, giorno dopo giorno: relazioni semplici con gente semplice, al di là degli orientamenti politici. L'islam in esse assume un volto capace di arricchire la nostra esperienza di Dio e dell’uomo... Ci sappiamo convocati alla verità di un itinerario spirituale: lasciarci scavare per acquisire la disponibilità di un cuore povero che può offrire solo la sua fedeltà di oggi; lasciarci pervadere dalla benevolenza di Dio per questo popolo 171
che soffre; e lasciarci provocare anche noi, attraverso
la prova, a un sovrappiù di umanità, tra noi innanzitutto, per contribuire a esorcizzare la violenza esercitando semplicemente il ministero di vivere, e di vivere insieme” Uno dei nostri fratelli aggiungerebbe che questa “immersione nel popolo semplice” ci sta particolarmente a cuore, tanto più che ci pare più libera, più gratuita. All’iniziativa di Sant'Egidio è mancato di saper dare voce a questa immensa folla di “piccoli”, trattati con disprezzo, e di cui noi conosciamo il buon senso e la generosità. 171
Pasqua è l’invincibile speranza di quello che Dio vuole fare per tutti gli uomini. E anche il tempo del rendimento di grazie per tutto quello che si compie in noi e attorno a noi. Il giubileo di nostro fratello Jean-de-la-Croix, celebrato qui il lunedì di Pasqua, è un ottimo invito a questo. Con lui, vi invitiamo ad as-
sociarvi a noi in un grazie pieno di fiducia in colui che ci ha in mano per la vita. E grazie a ciascuno di voi pet tanta sollecitudine! Frère Christian Fès, rr aprile 1995
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O DIO, SEI TU LA NOSTRA SPERANZA SUL VOLTO DI TUTTI I VIVENTI!
In questo tema, si tratta di Dio: “Tu, nostra speranza ” Ciechi e sordi, dobbiamo cominciare dal sentirlo che si narra a noi e, attraverso un ascolto paziente, pervenire a credere, a vedere la luce del giorno, a sperare: attendere tutto da te significa vivere di grazia. Infatti, “tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato
scritto per nostra istruzione, perché in virtù della perseveranza e della consolazione che ci vengono dalle Scritture teniamo viva la nostra speranza” (Rm 15,4). Così, per quanto mi riguarda, sono stato toccato da queste parole sconosciute - tra le altre - che a Tibhirine si offrono di notte alla mia lettura, delimitan-
do per me un angusto sentiero di speranza... (si vada dunque a vederle: Bar 3,14; Ger 9,2; 22,15-16; 24,7;
31,34; Osea: “Ti fidanzerò a me ”; anche Giobbe: “Perché i malvagi ...?”). Sono convinto che la Bibbia è un libro di speranza e che leggerlo “ha come risultato la speranza” !. Questo
1 P, Beauchamp, 69-78.
“La Bible, livre d'espérance”, in Études 381 (1994), pp.
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tema ci conduce insieme alla scuola del Verbo, e non abbiamo certo di che essere fieri! In materia di speran-
za, tutto va ripreso in mano ogni mattino: Ascolta... spera nel Signore e osserva il suo cammino. Sii forte! Rinsalda il tuo cuore e fatti coraggio! In questo tema, si tratta di Dio - il Santo, l Altissimo — ma, se lo prego, allora si tratta di te: tu, nostra speranza! E attraverso questo modo particolare di conoscenza — sperare in te — che viene posta, pro-posta, la relazione inaudita: tu, sei tu la nostra speranza. Cioè: eccoci insieme, noi che speriamo un giorno di conoscerti, di vederti in faccia. E noi allora, saremo illuminati dal tuo sguardo: con-viventi. Dopo aver scritto “Dio”, dopo averne enumerato tutti i suoi nomi più belli — pace, luce, misericordia, vita, amore — dirgli “tu” significa impegnarsi nella più folle delle avventure, la più rischiosa, la più felice. Significa cominciare a sperare a partire da nient’altro che da te: “Per essere pronti a sperare in ciò che non inganna, bisogna prima disperare di tutto ciò che inganna”‘.
Tu, speranza nostra: allora al cuore di noi stessi si apre un cammino, una pista di felicità: “Strana proprietà della speranza: non è un’incertezza, non è nemmeno un sapere. Non illumina come un faro, piuttosto brilla tremula, come una stella. Una speranza non può essere autentica se è perentoria o chiassosa” 3. Non è al
servizio dell’ambizione totalitaria di un gruppo... È l’esatto contrario della “caparbietà di un cuore malva-
2 Georges Bernanos, citato da J. Ellul, che aggiunge: “Qui c’è tutto Qohelet” 3 Cf. P. Beauchamp, “La Bible, livre d’espérance”, p. 70.
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gio” (Ger
18,12).
Si apre davanti a noi e insieme ci
espone a te: “Non c’è inganno in te, mia roccia!” Tu, l’insperato, che giungi a noi come un “buongiorno” sconvolgente, come un “ciao” sorprendente: “Ral-
legrati!” E la speranza non mente “perché l’amore di Dio è stato effuso nei nostri cuori — come prima in Maria - per mezzo dello Spirito santo” Essa opera ciò che io non riesco — mai - a fare, quel desiderio infinito di te che coinvolge nel suo slancio di vita: - un distacco, una rinuncia: il tuo amore vale più della vita! — una scelta: nessun’altra felicità che te! — una solitudine, anche, perché tu mi concedi di dimorare da solo nella fiducia! — un evento: nascere di nuovo; l’unico potere che mai si potrà conquistare è donato a chi ti accoglie (cf. Gv 1,12).
“Nascere, è nascere alla speranza” È entrare nel tuo av-venire, e offrirsi affinché avvenga in questo mondo. Che missione, questa felicità!... Affrontando il peggio”. Autentica follia: “Dio rigettato (da Israele) non rigetta (Israele). Cosa c’è di più forte per nutrire la speranza?” Il peggio, Gesù non l’ha fuggito. L’ha affrontato, l’ha desiderato fino all’angoscia e alla ribellione. Sulla croce, l’ha accettato come una tavola imbandita - preparata - da Dio, suo Padre, “di fronte al nemico” (Sal 22,5). Ci consegna allora il soffio della speranza. Al-
‘ Ibid.
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cune donne, tra cui - in piedi - Maria, sono presenti, così come il discepolo amato. È l’ora della speranza contro ogni speranza. La chiesa inizia qui: in uno sguardo di speranza verso “colui che hanno trafitto” (Gv 19,37; Ap 1,7). Trafitta anche lei, riceve la missione di portare la speranza al pieno compimento, fino alla fine (cf. Eb 6,12). “Per così Cristo, noi crediamo in Dio che l’ha risuscitato
che la nostra fede e la nostra speranza sono salde in Dio” (ct. 1Pt 1,21). Sperare, infine, è riposante: si abita insieme una terra donata, la terra dei viventi. Si abita insieme una casa aperta, la casa degli oranti. Sì, beati gli abitanti! Dalla tua mano, chi ci strapperà?
In questo tema, se lo prego e cerco di capirlo, per accordare il cuore e la mente a quello che dico, a quello che lo Spirito vuole dire in me - tu, sul volto di tutti i viventi - faccio una prima scoperta: l’intravisto da te tra tutti, scelto, eletto, guardato, amato, sono io. Se lo voglio... E gli altri, allora? Perché tutti diventino volto, tu
non puoi far altro che intravvedere? ciascuno e ciascu. pronto a chiedere il nostro aiuto, la complicità di uno sguardo puro (cf. Christian Bobin).
5 Anche frère Christophe, come farà frère Christian nel suo testamento (cf. infra, pp. 229-231), usa con valenze spirituali la pluralità di sfumature del verbo “envisager” (“prevedere, intravvedere, profilarsi”) e soprattutto il rimando immediato al “visage” (“volto”).
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Sì, innanzitutto io. Sperare è come riconoscere davanti a te “l'essere sorprendente che sono io. Proprio quando dicevo: ‘le tenebre mi coprano’, la notte è divenuta luce intorno a me” (cf. Sal 138,11-12). L'umanità è chiamata a divenire volto: “Vedranno il tuo volto
... non vi sarà più notte ... perché il Signore Dio effonderà su di loro la sua luce, e regneranno” (Ap 22,4-5). Ciascuna e ciascuno si sentirà dire: “Alzati! Rivestiti
di luce! Perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla su di te il tuo Dio sarà il tuo splendore!” (Is 60,1.19). Sì, un futuro di luce ci attende, e già si dona a vivere: figli della luce lo siamo già (cf. Col 1,23). Così scelgo di stare sulla soglia, nella tua casa (cf. Sal 83,11), è una felicità per me: Beato chi spera in te! Tu, sole, scudo di luce, di grazia, di gloria, mia luce e
mia salvezza, te ne prego: il tuo volto - sul volto di ogni vivente - si illumini (cf. Sal 118,135). Io... e gli altri? Io e te, questo faccia a faccia, se non riceve un'apertura, una breccia, rischia fortemente di essere solo un'illusione o una prigione. Non sono uscito da me stesso e ho catturato la tua gloria, l’ho ridot-
ta, prostrandomi davanti all’idolo: “io”. Ricevere da te il mio essere come volto — alla ricerca del tuo volto — è la libertà, è un’investitura che mi obbliga: impossibile sottrarmi al mio prossimo (leggere... E. Lévinas!). Nel suo volto, tu mi guardi. Straniero, prigioniero, nudo, affamato, tu fai appello alla speranza: tocca a me metterla all’opera. Spera! Rinsalda il cuore! Fatti coraggio! Spera ancora! Sii forte! Ne va della vita del tuo prossimo, ferito sul bordo della strada. Forza! La speranza, collocata così a livello dello sguardo, non può più essere un’evasione. Non è consentito sognare mentre l’altro ha fame, è malato... Sperare signi1/7
fica credere nell’ impossibile che ogni relazione autentica, giusta, in fondo attende: - speranza del perdono (cf. Sal 37) e della giustizia;
— speranza di un bacio (cf. Ct 1,1; Lc 15): giustizia e pace si abbracciano; - speranza di una parola (mi dirà... tu sei mio figlio...); — speranza di... vita!
Passare oltre, rifiutare o fuggire questo insperato che l’altro attende significa, in fondo, scegliere la morte e, peggio ancora, divenirne l’artefice (cf. Ger 12,4; 18,18). Aprirsi alla speranza di Dio, là, sul volto dell’altro, lasciarsi sconvolgere, disturbare, distogliere, significa cessare di sapere, entrare in quello che tu, tu sai (ct. Ger 29,11). La porta della speranza è la disgrazia (la valle di Akor) che si apre alla novità e mi ingiunge un comandamento nuovo, il comadamento del nuovo (cf. Osea) di cui tu vuoi farci complici, innamorati.
Sperare ci porterà via del tempo. La luce seminata per il giusto, la gioia per il cuore semplice avranno bisogno di rispetto, di attenzioni, di cure, e certo anche
di consolazione nei giorni cattivi... La speranza: una vera fatica di giardiniere! Abita la terra e resta fedele... Chi spera nel Signore possederà la terra! Un avvenire è
promesso ai pacifici (cf. Sal 36). Avanti, operatori di pace, saranno chiamati tuoi figli!
é Frère Christophe usa qui l’espressione “en marche” con la quale André Chouraqui, nella sua versione francese della Bibbia, traduce il termine greco szakarioi (normalmente reso con “beati”). Secondo Chouraqui, il termine ebraico
soggiacente (ashréi) evoca la rettitudine dell’uomo in cammino su una strada che si dirige verso il Signore.
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E un bel giorno ho scoperto queste parole di René Habachi. Mi affretto a copiarle per iscriverle in questo difficile oggi: “La speranza si riconosce dallo sguardo fermo, dal gesto audace, dalla decisione risoluta,
da quel dinamismo virile che pone degli atti anziché chiacchierare al riguardo. Che firma con mano sicura la pagina del passato e accoglie in un vasto respito il futuro che avanza. A volte assume la forma di un’impresa audace, ma anche i percorsi più umili del ritorno a casa. La sua autenticità ringiovanisce ogni cosa Sperare è corrosivo: non puoi adeguarti ai nostri pregiudizi. In fretta andremmo a “porre” la speranza dal lato del denaro, del potere, del successo... Tu invece, è nel povero che “investi” la tua speranza (amore folle!). Così: il figlio dello straniero, l’eunuco disprezzato, il pubblicano, e Maria di Magdala, Zaccheo, il ladrone... “Darò loro - prometti - un nome eterno che non sarà mai cancellato” (Is 56,5); e anco-
ra: “Li colmerò di gioia nella mia casa di preghiera che è per tutti” (Is 56,7). C’è “casa di preghiera” più aperta di Cristo stesso, innalzato in croce? Sì, questo servo umile, disprezzato, sfigurato, vedrà la luce e sarà
colmato. Lui, nel quale Dio ci è rivelato: Padre, chi spera... Questo nome di “padre” qui attribuito —- con grida e lacrime - a Dio, ci “significa” la speranza che è in Dio stesso. Dio è non solo amore, ma speranza poiché genera” Così questo giusto giustifica i molti... Si frappone come volto filiale e fraterno. Di fronte ai suoi carnefici, vulnerabile com'è all'amore del Padre, è qui il pri-
1! P. Beauchamp, “La Bible, livre d’espérance”, pp. 69-78.
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mo nato di una moltitudine di volti, che ci attira nella sua preghiera di intercessione, di interposizione, e già
di azione di grazie. E vero, noi non vediamo, dobbiamo attendere con perseveranza; gemiamo interiormente con tutto il cosmo in un’attesa impaziente. Lasciamo che lo Spirito stesso interceda, e ci insegni a pregare questo tema, in verità, a farlo eucaristia. Frère Christophe Pasqua 1995
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LETTERA CIRCOLARE DELLA COMUNITÀ
Dopo l’incontro di Melleray, abbiamo dovuto continuare a resistere nella tempesta, senza sapere bene cosa sarebbe successo alla nave, sempre più isolati come stranieri, e anche sempre più persi nella grande folla della gente del popolo che non può far altro che tacere, subire e sperare... A due riprese, da Fès, il 13 novembre e poi l’ 11 aprile, ho potuto fare il punto della situazione per le nostre famiglie, e credo che molte comunità della regione abbiano ricevuto questi messaggi. Inutile quindi ritornare su quanto detto là. Ma dobbiamo ringraziare quante e quanti tra di voi hanno voluto contrassegnare con un gesto, una chiamata, la loro sollecitudine costante per noi. Il regalo di Natale di madre Benoît, e un breve messaggio alla sua maniera, ci sono giunti dopo la sua morte. Nei momenti più dolorosi per la nostra chiesa c’è sempre stata una voce fraterna, al telefono o in altri modi. E ogni settimana, da Natale, padre Etienne ha continuato a fare da tramite. Tutto questo è stato prezioso, soprattutto durante la lunga assenza delle poste dopo l’interruzione dei voli Air France.
I due attentati del 23 ottobre e del 27 dicembre hanno provocato una forte emorragia nella nostra chieI8I
sa di Algeri. Su quattordici comunità presenti, secondo l’annuario diocesano del 1994, al di fuori della grande Algeri, ne sono sopravvissute solo due. Altre otto comunità della capitale hanno chiuso, più o meno provvisoriamente, tra cui quella delle clarisse (ventotto monache). Sei congregazioni sono rappresentate
da un solo membro. Si capisce meglio allora l’appello piuttosto sofferto dei nostri vescovi che in novembre ci chiedevano non solo di predisporre per la salvaguardia dei beni e delle vocazioni in caso di partenza forzata, ma anche di prevedere la composizione di un piccolo nucleo di persone che potrebbero rimanere per assicurare, qualunque cosa succeda, una presenza
di chiesa attorno ai suoi pastori. Un modo straziante di dirci: “Volete partire anche voi?” In comunità, abbiamo dapprima avuto la nettissima sensazione di essere chiamati insieme a far parte di questo “nucleo”, fino a quando l’ambiente circostante ce lo permetterà. E stato più difficile accettare di lasciare dietro a sé l’uno o l’altro fratello volontario per questa missione. La votazione, emersa con una buona maggioranza, conferisce a questa presenza residua il senso del nostro desiderio unanime di tornare in Algeria non appena le condizioni lo permetteranno. Un’altra votazione prevede che la comunità si ritrovi dopo un anno per valutare la situazione e decidere, se possibile, i mezzi per tornare a raggrupparsi. Due fratelli si sono dichiarati personalmente disponibili a questa permanenza solitaria. In tutta questa discussione così insolita abbiamo avuto come il sentimento di un dialogo in diretta tra una vocazione di chiesa e le nostre chiamate personali. Potremmo privare la nostra chiesa, proprio nel momento in cui è ridotta all'ombra di se stessa, di quel 182
carisma monastico in cui ha sempre riconosciuto un lineamento essenziale del proprio volto che crede di poter offrire in ambiente musulmano? Il nostro vescovo, monsignor Teissier, è venuto di persona, il 15 e 16 dicembre, ad accompagnare questa discussione. Nel corso di una vera e propria visita, ha ricevuto ogni singolo fratello, poi ha partecipato a un dibattito comunitario, prima di lasciarci una sintesi delle sue riflessioni. Questo sguardo esterno, attento e benevolo, ha potuto in parte compensare la mancanza di una visita canonica di cui sentivamo tutti il bisogno. Nel suo “biglietto da visita” ci ha detto, tra l’altro: Voi sottolineate innanzitutto il senso della vostra celebrazione eucaristica e della vostra preghiera comunitaria vissuta all’interno di questa crisi, in comunione con un popolo che soffre... Siete anche coscienti che lo spogliamento richiesto dalla situazione fa convergere la vostra vita religiosa verso l’essenziale... Riconoscete la nuova profondità dei legami da voi intessuti con l’ambiente algerino in questa situazione di grande tensione. I vostri vicini immediati non sono stati finora vittime dei disordini e degli attacchi che hanno invece subito le famiglie dei villaggi vicini. Ci sono tutte le ragioni per ritenere che questo sia dovuto alla vostra presenza che sembra aver risparmiato ai vostri vicini gli eccessi delle due fazioni... Restate coscienti della precarietà della vostra presenza che evidentemente può essere rimessa in causa a ogni istante sia da parte delle forze dell’ordine, sia da un mutato atteggiamento dei gruppi armati, sia a motivo di nuove esigenze che potrebbero venire a configurarsi. Ma, preso in considerazione tutto questo, mi sem183
bra che voi assumete nella serenità questa situazione, valutando che è possibile per voi resistere così se nessun elemento grave sopraggiunge a modificare questi dati. (Aggiungo che i mezzi per resistere passano attraverso un tempo di distacco e di distensione adattato a clascuno).
All’inizio della quaresima ci siamo presi il tempo per uno scambio prolungato sul tema: “Quali cambiamenti in noi e tra di noi in questi ultimi diciotto mesi?” Apparentemente nulla è cambiato: stessi luoghi, stesse persone! Eppure... mentre i nostri caratteri restano gli stessi, con il loro fascino e le loro durezze, c’è
tra noi una qualità nuova di armonia e di accettazione reciproca. Siamo arrivati a una maggiore capacità di ascolto, grazie all’urgenza coinvolgente delle decisioni da maturare e nella consapevolezza che dobbiamo andare avanti insieme, passo dopo passo, nella fede. Con la sensazione netta, a cose fatte, di essere stati ben ispi-
rati e di essere come accompagnati. Il pericolo è presente, nel quotidiano, diffuso; ognuno lo sa, lo avverte, per sé, per tutto l’ambiente circostante. Anche l’azione di grazie è quotidiana e include agevolmente tutti gli esempi che riceviamo. L’assenza quasi totale di ospiti e la partenza massiccia dei cristiani ci colpiscono, è certo, ma ci provocano a un incremento di attenzione verso tutti i visitatori e i nostri vicini algerini. “Mi piace molto questa immersione nella gente semplice”, dice uno di noi. E quando i nostri “fratelli della montagna” vengono a consultare il nostro fratello medico, ci sentiamo anche noi chiamati a esercitare un carisma di guarigione tra
tutti, sforzandoci di accogliere ciascuno più in là della 184
violenza di cui potrebbe essere complice. Anche in noi c’è qualcosa da disarmare. Certezza che Dio ama gli algerini e che ha senza dubbio scelto di dimostrarglielo donando loro le nostre vite. Allora: li amiamo davvero? Li amiamo abbastanza? Istante di verità per ciascuno, e pesante responsabilità in questi tempi in cui i nostri amici si sentono così poco amati. Lentamente, ognuno impara a integrare la morte in questo dono, e con essa tutte le altre condizioni di questo ministero del vivere insieme che è esigenza di gratuità totale. Ci sono giorni in cui questo appare poco ragionevole. Poco ragionevole come il farsi monaco... Frère Christian 25 aprile 1995
185
Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa. Gv 3,31-36
OMELIA DI FRÈRE CHRISTIAN
Ecco una parola che ci riconduce come per mano al tema del nostro prossimo capitolo generale che, ieri mattina, ci ha molto preoccupato: “La comunità come fondamento, verifica, manifestazione della nostra contemplazione”, secondo la formulazione di padre Bernardo. Si è voluto semplificare dicendo: “La comunità, scuola di carità”; ed eccoci a balbettare: non sappiamo bene come affrontare questo tema. Certamente perché non sappiamo bene come fare per metterci davvero a quella scuola. Una scuola elementare, addirittura materna, per i più piccolini... e noi siamo troppo grandi, soprattutto quando ci si crede “superiori” Una scuola superiore... e noi non siamo all’altezza; nessuno tra noi ha già ricevuto il titolo di “dottore” in quella scuola! E poi, cos'è la carità? Abbiamo verificato che è più facile dire cosa non è... né “marmellata”, né “gelatina” abbiamo precisato; nemmeno crema... né proprio questo o quello che faccio di bene e nemmeno precisamente questo e quest'altro che vorrei fare; non si identifica con nessuna legge, con nessun comandamento, con nessuna osservanza, anche se tutti li contiene e
li compie. 187
Non stupiamoci di tanta ignoranza e di simili balbuzie. La prima scuola di carità — veramente, l’unica — è l’ambiente trinitario, l’ambiente divino. In Dio, amore reciproco e contemplazione sono perfettamente simultanei. Impossibile farne due temi successivi per due diversi capitoli generali! L'ambiente trinitario è “scuola” di contemplazione, alla sequela del Figlio eternamente rivolto verso il Padre; è proprio questa la sua forma di obbedienza (cf. la prima lettura): Dio che obbedisce a Dio. E il Padre stesso non è che sguardo: “Vede - vide - che tutto era buono” Cuore puro del Padre che vede Dio in tutto! In tutti... L'ambiente trinitario è anche “scuola” di carità, certo, scuola di comunione, di comunicazione, di relazioni. “Il Padre ama il Figlio, e gli dona lo Spirito, senza calcoli...” Quella carità non è l’unità fusionale di cui certuni sognano: ciascuno in essa resta se stesso, nella
meraviglia di una comunità di persone liberamente e totalmente accordate. Meravigliosa ricchezza di ogni nostra comunità!... Quella carità non è nemmeno una
semplice unità superficiale. C'è forse della “marmellata” in Dio - è l’opera dello Spirito! — ma mai da sola. San Giovanni ci dice soprattutto che in Dio c’è pane: è più sostanzioso! Quello che cerchiamo tra noi, nelle nostre comunità, non è a fior di pelle, e nemmeno a fior di cuore. Finiamo per sapere che questa realtà ci
coglie nel profondo! Così è possibile la contemplazione solo là dove c’è apertura alla comunità di vita, alla comunione, all’intera famiglia umana... E cè comunità possibile solo là dove c’è disponibilità alla contemplazione delle meraviglie di Dio nascoste in ciascuno, dei segni dell’Unico 188
che vengono scritti sui nostri volti come altrettante differenze promesse alla comunione dei santi. Anche se è ancora necessario, per un po’ di tempo, che questo sia per noi difficile da vedere. Tamié, 27 aprile 1995 giovedì della seconda settimana di Pasqua
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NELLA SITUAZIONE ATTUALE, COME CI RICOLLEGHIAMO AL CARISMA DEL NOSTRO ORDINE?
Questi due anni tormentati hanno rappresentato una deriva? Ci hanno obbligati a compromessi, a transigere un po’ rispetto al nostro carisma? La nostra riflessione comunitaria su questo tema proposto all Unione dei superiori maggiori delle diocesi dell Algeria (USMDA) - caratterizzata dall’ascolto di ciascuno seguito da uno scambio molto franco — ci ha mostrato soprattutto che questo carisma è un dono di Dio senza pentimento.
L'abbiamo riscoperto tra noi, come una realtà vivente, esigente e nient’affatto stereotipata, capace di alimentare quella fedeltà all’evangelo che ci è chiesta oggi, in questo paese duramente colpito dal terrorismo, dalla repressione, da una crisi di identità e da un impoverimento molto tangibile del nostro ambiente immediatamente circostante.
IQI
Espressioni diverse per tentare di dire uno stesso carisma vissuto insieme, a Tibhirine, oggi...
Presenza
“Assicurare una presenza, non missionaria apostolica, ma contemplativa e orante in ambiente musulmano, grazie a una comunità stabile, unita e fraterna, laboriosa (assieme agli associati)” “Presenza discreta, misteriosa, separata dal mondo e in comunione con le persone, umilmente attenta ai bisogni materiali e spirituali di quanti ci circondano” “Portando il peso gli uni degli altri partecipando così alle sofferenze di Cristo e alla missione della chiesa con la speranza del Regno”!1.
Segno
“Ora et labora... essere insieme un segno di chiesa, invisibile per il mondo, ma visibile per i nostri vicini.
Testimoni di una pace e di una fraternità possibili, per grazia di Dio, attraverso le nostre diversità” L’associazione nel lavoro resta un elemento fondamentale del nostro inserimento e del nostro rapporto con i vicini. E naturalmente, il nostro medico è an-
ch'egli segno.
1 Costituzioni 3 dell’ordine cistercense.
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Contemplazione in cammino: un cammino comunitario verso lesperienza contemplativa dell’unione a Dio. Nella linea di quanto esprimeva Thomas Merton: “In realtà, il monaco non esiste per preservare alcunché, nemmeno la contemplazione, e neanche la religione ... La funzione del monaco del nostro tempo è quella di mantenersi vivo attraverso il suo contatto con Dio I monaci devono essere come gli alberi che esistono silenziosamente nell’oscurità e che, con la loro presenza, purificano l’aria”
Felicità
Una grande gioia inalterabile, nella certezza che Dio ci ha chiamato non solo a vivere la vita monastica, ma a viverla qui, a Tibhirine, e che questo è vero anche oggi. Un discernimento vocazionale continua a farsi “sul posto” e attraverso la situazione: due fratelli hanno recentemente fatto una scelta che implica di non continuare qui, sia per tornare alla vita laica, sia per raggiungere un altro monastero (uno era professo semplice e l’altro novizio). La felicità qui è a rischio, ma vera. Si assapora nella perseveranza.
E l'ordine?
Sappiamo di essere silenziosamente sostenuti dalla preghiera di un gran numero di sorelle e fratelli. Alcu193
ne comunità, alcuni superiori, hanno saputo esprimer-
ci la loro sollecitudine reale e costante. Una visita (canonica) ci avrebbe giovato. Nell’ora delle scelte difficili, la chiesa locale è stata il nostro punto di riferimento (il vescovo, il parroco di Médéa, degli amci). Dai nostri fratelli di Fès (Marocco) troviamo sempre comprensione, premura e quella disponibilità ad accoelierci che ci è così necessaria, non foss’altro che per cambiare aria.
Un carisma di chiesa sepolto in terra umana, a Tibhirine
La nostra chiesa è stata duramente scossa, soprattutto nella nostra diocesi di Algeri. Ridotta, ferita, fa l’esperienza cruda dello spogliamento e della gratuità inscritti nell’evangelo come in ciascuna delle nostre vocazioni alla sequela di Gesù. Vulnerabile, estremamente fragile, si scopre anche più libera e più credibile nel suo voto di “amare fino alla fine”
Considerazione previa Da due anni il carisma monastico non ci appare né più facile né più difficile... Siamo indubbiamente costretti a un maggior grado di verità e di umiltà di fronte alla realtà del vissuto. D'altro lato, la situazione così
difficile per la gente di ogni tipo ci provoca e ci stimola, in modo particolare a livello della preghiera e della povertà.
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La vita continua
Esperienza molto forte dell adeguamento dei nostri ritmi monastici agli sconvolgimenti attuali che pur tendono a destabilizzare tutto. In questa incertezza, c’è posto per il nostro modo quotidiano di esprimere la speranza: monaci cenobiti, viviamo in comunità. Questo è un aiuto per ciascuno, e un rimedio contro gli inevitabili fantasmi. La prova affrontata insieme ha rinsaldato i legami fraterni e ci ha fatto progredire nella concertazione e nel dialogo per pervenire insieme ai fondamenti della nostra chiamata e per assumere scelte accettate da tutti. Il carisma dell’autorità e il mistero dell’obbedienza sono stati messi alla prova e hanno dato buoni risultati: hanno potuto crescere e purificarsi in una dipendenza reciproca. Equilibrio în tensione Il carisma come orientamento si concretizza quindi in e attraverso un quadro di vita che assicura un certo equilibrio. E questo equilibrio non è stato turbato in modo sensibile (lo fosse stato, avremmo potuto restare saldi?).
Tuttavia emergono delle tensioni: a causa del nostro piccolo numero, la molteplicità degli impegni rischia di debordare sulla preghiera e sul tempo per la lectio. Dal momento che le sollecitazioni più gravi e più insistenti da parte del nostro ambiente ci lasciano inermi e impotenti, esigono da noi un sovrappiù di silenzio e di raccoglimento.
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Una “offerta di vita” allerta Presenza della morte. Per tradizione, è assidua com-
pagna del monaco. Questa compagnia ha assunto un’intensità più concreta con le minacce dirette, gli omicidi avvenuti vicinissimo a noi, alcune visite... Si offre a nol come un prezioso test di verità, non certo comodo. Dopo il Natale 1993, noi tutti abbiamo scelto nuovamente di vivere qui insieme. Questa scelta (rinnova-
ta) era stata preparata dalle precedenti rinunce di ciascuno (alla famiglia, alla comunità di origine, al paese...). E la morte brutale - di uno di noi o di tutti insieme —- sarebbe solo una conseguenza di questa scelta di vita alla sequela di Cristo (anche se non è direttamente prevista come tale nelle nostre costituzioni!). Il nostro vescovo ci invita spesso, con la parola e lesempio, a lasciarci così rinnovare nel fondamento stesso della nostra “offerta di vita”
La nota di speranza Deve emergere vittoriosa da tutto questo. È quanto ci si attende da noi prima di ogni altra cosa. Con la
pazienza che questa implica, fin nei dettagli di una vita condivisa.
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Le note, giorno dopo giorno, del carisma di sempre: un modo quotidiano di esprimere la speranza a Tibhirine...
Innanzitutto, accettare il quotidiano così com'è. Abbiamo dovuto sforzarci incessantemente di scegliere piuttosto che subire le rinunce e i condizionamenti imposti dagli eventi. Attorniati da begli esempi di questo coraggio nelle cose più banali della vita. Preghiera Un’esigenza ancora più forte: essere maggiormente dediti a Dio e alla preghiera di intercessione. “Far crescere in sé il livello di fede, speranza, carità significa farlo crescere nell’ambiente in cui viviamo. Ed è il nostro modo di offrire una soluzione alla crisi del paese” “La mia preghiera? Che dire in proposito?... Ma c’è la preghiera di Gesù. E il suo silenzio quando ‘la loro bocca si accaparra il cielo”!” “Qui mi sembra di aver ricevuto l’azione di grazie, la lode, forse anche l’adorazione (cf. la riflessione di un vicino nel dicembre del
1993: “E/ bamdulillab che voi siate ancora vivi!’). Ho ricevuto molto dal Ribét...” Alcuni elementi della nostra regola di vita trovano
qui un incremento di significato e di intensità: la priorità di una vita nella fede, che privilegia la notte... i salmi, durante l’ufficio, e spesso le letture dell’eucaristia. Alcune tappe dell’anno liturgico, alcune feste (Natale, l’ascensione...).
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Lectio divina
Di notte, prendere in mano il Libro quando altri impugnano le armi. “Nel gennaio 1994 ho letto in modo diverso l’ Apocalisse. Assaporo il salmo 93, 123, eccetera, ‘Dio che stronca le guerre’ (cf. il cantico di Giuditta). La lettura del Libro dei giudici durante le vigilie, o della conquista di Giosuè, mi hanno dato nausea!”
Lavoro
Si è rivelato un buon diversivo all’angoscia: avere qualcosa da fare senza porsi troppe domande. Rischi maggiori per alcuni incarichi: commissioni all’esterno, portineria, dispensario. Lo sappiamo, e lo accettiamo. Alcuni consigli di prudenza, ma bisogna vivere. Il lavoro in comune con i vicini è espressione di una solidarietà vissuta e di una condivisione di vita, in un clima di amicizia che disinnesca le paure. La gente non ha paura di frequentarci come in passato, anzi. Nutriamo fiducia reciproca.
Il lavoro nel giardino e con gli associati: lavori concreti di speranza!
Accoglienza: uno spazio di misericordia e di compassione
Spostamento della foresteria verso la portineria. Di fatto, l'accoglienza in foresteria è quasi inesistente da ormai due anni. L'ospitalità la si pratica nei confronti 198
dei vicini “a 360 gradi?” In molti modi: condivisione materiale, servizi prestati, ascolto nei momenti di prova: speranze, preoccupazioni, dolori, angosce, drammi familiari... tutto è presente. Sollecitudine, comprensione, compassione... il medico ne sa qualcosa!
Separazione dal mondo: un evangelo della differenza La solitudine è sempre all’appuntamento, in posti nuovi: la liturgia, per esempio. E poi, nella linea di ciò che ci “separa”, abbiamo dovuto restare saldi nel nostro rifiuto di lasciarci identificare con l’uno o l’altro campo, nel restare liberi per contestare pacificamente le armi e i mezzi della violenza e dell’esclusione. Restare quello che siamo in questo contesto significa annunciare concretamente un evangelo di amore per tutti che implica il rispetto della differenza. Questa è un’autentica buona notizia! La prossimità accresciuta dei nostri vicini, e la loro accettazione di quello che siamo, fanno sì che accogliamo da loro lo stesso messaggio. Una felicità fatta per crescere!
Legame spirituale con l'islam
Si esprime meno, è meno visibile: i nostri incontri (Ribàt, per esempio) sono un po’ accantonati. Il riferimento a Dio che ci accomuna passa maggiormente attraverso i nostri associati, i vicini, il rispetto che
nutrono per il nostro stato e il ricorso alla nostra intercessione, che molti sollecitano. Bisogno reale di saper199
si insieme nelle mani del Signore... e di aiutarsi a discernere ciò che Dio vuole e ciò che invece non può venire da lui. Equilibrio economico Dobbiamo continuare a cercarne un altro, come la
maggior parte delle famiglie. L'ospitalità assicurava un buon introito per le spese correnti... Dobbiamo contare maggiormente sul giardino e i suoi prodotti (cf. san Benedetto: “Sono veramente monaci quando vivono del lavoro delle loro mani”).
Ma il nostro numero ristretto, letà di alcuni, e gli incarichi non redditizi ma necessari (la cucina, il dispensario, la portineria...) non ci permettono di contare su un equlibrio di bilancio finanziato esclusivamente dal lavoro. La pensione degli anziani e i doni che riceviamo costituiscono un contributo — anche per le offerte che possiamo a nostra volta fare — più che mai necessario. I bisogni accresciuti dei poveri ci stimolano a uno stile di vita umile, modesto, e alla condivisione delle preoccupazioni...
La nostra presenza evangelica diventa un obbligo nei confronti di quanti ci circondano.
Protezione della natura
Il processo di degrado, avviato in modo diffuso dall’indifferenza popolare verso i beni dello stato, si è ul200
teriormente accentuato a causa della violenza. “Fratelli della montagna” e “fratelli della pianura” gareggiano nella distruzione: gli uni attaccano le unità produttive, gli altri le foreste e tutto ciò che può servire da nascondiglio, appiccandovi il fuoco. Finora lo spazio di verde che ci circonda è stato rispettato e noi ci sforziamo di provvedere alla manutenzione. Alla gente piace venirvi a respirare... Noi li invitiamo a seminare, a piantare, a rispettare i fiori e i frutti acerbi. La pace germoglia in questa contemplazione della creazione. Il nostro frère Robert, in esilio dalla sua montagna, svolge un ruolo importante in questa cura amorosa della natura.
A mo’ di conclusione
Crediamo di restare fedeli al carisma monastico del nostro ordine cercando di conservarci in un difficile equilibrio tra condivisione della prova e presenza a Dio. “È determinante. Dobbiamo afferrare la corda alle due estremità, con qualità e intensità” Una persona che un tempo amava venire a pregare con noi, e che adesso ha dovuto allontanarsi, ci ha detto che conserva di noi un’immagine che gli parla del nostro oggi: “Ac-
canto alla statua della Madonna, all’entrata della cappella, un monaco (il nostro frère Aubin, allora portinaio) che distribuisce l’acqua giorno dopo giorno...” Tibhirine, 21 novembre 1995 Presentazione di Maria al tempio
20I
LETTERA CIRCOLARE DELLA COMUNITÀ
Cari genitori e fratelli, amici e conoscenti ovunque
siate... perché non iniziare con la parola del Cantico che concludeva la nostra cronaca precedente (avvento 1993): “Ella resta salda, appoggiata al suo Amato”? Tenerci a lui ci tiene insieme e ci fa restare qui, casa della sua preghiera e della sua pace, a Tibhirine, in Algeria, oggi —- e anche a Fès, naturalmente -, ogni giorno. Durante tutto questo di “cose”! Come parlarvene? Bisogna innanzitutto tacere, more delle “cose” non dette, presse, deformate... Lasciarsi
tempo se ne sono viste
a lungo. Ascoltare il clanascoste, soffocate, retrafiggere. Stare in piedi. Un calvario da condividere. Anche una tavola, preparata per tutti, dove la speranza impara, giorno dopo giorno, a nutrirsi di quelle “cose” che ci succedono, a bere da fratelli a quella coppa che ci era più facile allontanare che scegliere.
Cose semplici... Onore al merito: il sole non cessa di levarsi - infini-
tamente benevolo - “sui buoni e sui malvagi”. Di not203
te, vegliamo. Viene a visitarci, a coinvolgerci nella sua lotta di luce e a “dirigere i nostri passi sulla via della pace” Quanto alla pioggia, anch’essa cade “sui giusti e sugli ingiusti” Grazie a loro, i semi deposti in terra nei giardini sono diventati, per la felicità e Ponore dei nostri associati, pomodori, fagiolini e fagioli, zucche e zucchini, rape e patate... E gli alberi del frutteto hanno dato il loro frutto, ciascuno secondo la sua specie, e alla sua stagione. Mohammed il custode è ormai soprannominato gira (amministratore). In questi giorni eccolo contadino, mentre un cantiere di imbiancatura lo attende all’interno. Moussa, uomo aperto, si installa tra frutteto, giardino e “varie”, trasmettendoci il suo “partito preso” di gioia: “Coraggio!” è la sua parola d’ordine e la sua decisione in umanità. Sapete uno dei soprannomi di Ben Ali? Guardatelo mentre lavora nel giardino: si sposta velocissimo sul terreno, ora tracciando una seguia!, ora sarchiando le cipolle; lo chiamano “Maradona”! Ben “sa, lui sogna delle ventole per innaffiare, dei gy4t (plurale inculturato di jeò). Tra
lui e frère Paul, il signore delle acque, la parola diviene gesto — rotatorio, naturalmente — di dolce complicità. L’anno prossimo, insallah! Sì, “la terra intera è piena del tuo amore”: ‘E/ balmdulillab! Alleluja! Il bollettino meteorologico che ci arriva da Fès è più secco: “Primavera, estate: grande siccità, calore bruciante che rovina tutti gli esperimenti di coltivazione.
La presenza di un pozzo scavato nel nostro giardino fa di noi dei privilegiati. L'acqua, ben utilizzata dalle cure di Thami, il nostro ortolano, ha tuttavia permesso ! Canalizzazione a cielo aperto che serve per l’adduzione e la distribuzione dell’acqua.
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di avere frutti e legumi. Finalmente, con i primi giorni favorevoli di dicembre, ecco un po’ di buona pioggia per seminare ovunque la speranza”
Cose belle...
Sempre a Fès, frère Bruno cura gelosamente le sue aiuole multicolori. Se così vi suggerisce il cuore, venite anche a fare un giro nel nostro parco, a Tibhirine. I fiori vi parleranno. Un viale coltivato con cura accoglierà i vostri passi. Forse vi verrà di esclamare, come quella famiglia algerina venuta per un matrimonio: “Com'è sereno!” Qui lavora Robert, ancora in esilio in mezzo a noi. Servitore sollecito e pieno di attenzioni per la bellezza di questo luogo. Dalla terrazza il suo sguardo e il suo cuore fuggono verso la montagna di fronte, l'Atlante, dove il suo eremo gli strizza l'occhio, desolato. Così la bellezza resiste, e fa fronte a tutti i disastri circostanti: foreste incendiate, alberi sradicati, distruzioni selvagge... “La tua forza, Signore, radi-
ca le montagne!” Ai nostri vicini e ai visitatori stupiti del fatto che non abbiamo né televisione né antenna parabolica, noi indichiamo l'Atlante: questa catena unica? - a colori, tridimensionale, che trasmette 24 ore su 24 — basta al nostro sguardo che non se ne stanca mal.
2 Intraducibile il gioco di parole del francese, che ha un solo termine (“chaîne”) per indicare “catena” (anche montuosa) e “canale televisivo”
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Le cose difficili (dura et aspera)
La realtà più dura è la morte che colpisce l’altro. Nel suo libro L'onore della libertà, Jacques Sommet descrive la “vita” a Dachau: “L'immagine della morte pervade tutto in maniera massiccia. Non sono più solo degli individui che muoiono; tutto il corpo umano collettivo diventa ogni giorno più mortale” Sì, proprio così. Natale 1994. Ci ricordiamo del Natale 1993, sorpresi di essere ancora qui, accanto al Bambino che suor Odette ha appena deposto simbolicamente nel suo nido di paglia. Assieme a lei, suor Janet, e anche Gilles, Robert, Fernand, i fedelissimi (l’esplosione di un treno ha bloccato Dominique). Tutto qui... ma ci sono i “pastori” dei dintorni che vegliano in foresteria, pronti a farci posto e festa dopo la messa di mezzanotte. Dalla vigilia c’è l'angoscia riguardo all’ Airbus di Air France preso in ostaggio; due passeggeri stranieri vengono uccisi, a freddo. Il 26 sera, a Marsiglia, l’assalto e la liberazione, con la morte dei quattro terroristi. L’indomani a mezzogiorno, quattro di noi, padri bianchi a Tizi-Ouzou, vengono assassinati. Un’intera comunità... Grande emozione in Cabilia, e nella nostra piccola chiesa. Due mesi prima era stata la volta delle nostre sorelle Esther e Caridad, di domenica, sulla soglia del-
l’eucaristia: “Due donne che andavano verso Dio per chiedere grazia...”, scrive Said Mekbel in uno sconvolsente editoriale del suo giornale Le Matin, poco prima di essere lui stesso vittima dell’intolleranza, come tanti
suoi colleghi e colleghe della stampa algerina. 1995. Autobombe, esplosioni selvagge, omicidi, rappresaglie... il lutto si installa, accompagnato da paure, 206
da rifiuti. La diffidenza, l’odio velato corrodono il tessuto umano delle relazioni. Nonostante tutto la vita continua, con i prezzi che si infiammano, i salari minacciati, i trasporti pubblici distrutti, senza contare le frontiere chiuse; e, molto concretamente, con i rischi di un lungo percorso verso la città, che bisogna compie-
re a piedi, ogni giorno, per andare al lavoro, o a scuola, e per tornare a casa, di notte e al freddo. Coraggio di un intero popolo di poveri! E ancora nella “loro” strada, e di domenica, dopo l’eucaristia, il 3 settembre, che vengono assassinate le nostre sorelle di Belcourt, Bibiane e Angèle-Marie. E pol, così vicino a noi, il 10 novembre, in cammino verso l’eucaristia, tocca a Odette, con al suo fianco Chantal che viene gravemente ferita (si sta lentamente riprendendo). Entrambe erano venute a celebrare la Pa-
squa con noi. Come celebrare qui la resurrezione del Signore senza la fede e il coraggio di “alcune donne delle nostre” (Lc 24,22)? Avevano annunciato la loro
presenza per Natale... Per la terza volta il nostro Ribât è colpito a morte: Henri, Christian (Chessel), Odette.
Impossibile dimenticare, voltare pagina: non sono morti per niente. Cristo ha tanto amato gli algerini che ha dato la sua vita per loro. E la nostra alla sua sequela. Abbiamo una buona memoria pasquale! E senza dubbio là che il nostro cuore addolorato ritrova tanti volti amati. Tra questi, più di recente: madre Benoît, di Echourgnac, che non sapeva cosa inventare per aiutarci, e avrebbe accettato volentieri di essere la prima monaca dell’ordine a venire a visitarci. Padre Youakim Moubarak, così disarmante nel suo attacca-
mento a quello che siamo, qui come a Fès. Il padre di frère Christophe che sapeva manifestarci con delica207
tezza la stessa sollecitudine che aveva per i suoi dodici figli. E Denis, nostro fratello di voti, tenace e appassionato fino alla fine nella sua rude lotta contro l Arps. Anche Gisèle, la “mamy” di Berdine, un po’ terribile, sempre pronta a dare tutto. E ancora: Mustafa, un vicino, nato povero, morto più povero ancora, così inerme e commovente nella sua preoccupazione per la figlia adulta handicappata. Tra i nostri anziani, frère Cyprien, originario della Tunisia, che a Aiguebelle coltivava il ricordo fedele della sua permanenza qui, tra il 1967 e il 1974. Ci sembra che il cielo si riempia di nostri amici: relazioni preziosissime! Più ancora che la minaccia, la loro morte ci rende familiari della nostra.
Eccoci più sereni per il fatto di poter trovare in essa il gusto rassicurante della vita. Riguardo a queste cose “dure e contrarie”, bisognerebbe interrogare anche il nostro fratello medico, e il suo pesante segreto. Certi giorni, si vede proprio che non sa più come rincuorare. I portinai si sforzano di aiutarlo, consapevoli che l’accoglienza ricade quasi interamente su di loro dopo che il foresterario è diventato disoccupato “tecnico” E questi “ospiti della soglia” non mancano mai, con le loro disgrazie e le loro confidenze da ascoltare. Per tutte queste “dura et aspera” san Benedetto invita la coscienza ad abbracciare la pazienza. Ci si allena reciprocamente.
> Cf. supra, p. 82.
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Le cose buone...
Ogni giorno, sul nostro nuovo altare, proveniente da Bab al-Oued dopo la chiusura della fraternità delle piccole sorelle di Gesù, Parola e Pane. E una gioia riceverle e gustarle qui: “cose” sante, e presenza sicura. Provenienti dal giardino, altre ottime “cose” ci vengono preparate con amore dai nostri due cuochi, il medico e il suo aiutante, frère Michel. Nella notte tra
giovedì e venerdì, frère Luc trama il suo complotto fraterno: abbondanza di patate fritte alla tavola comune. Gilles viene regolarmente a contendercele. Anche il nostro fornaio sa trovare l’occasione per viziarci con qualche dolcezza... fuori programma. Zohr, quando può venire per una visita medica, continua a prepararci kesra, kuskus o “tommina”; torna a casa carica di altro... E quando un matrimonio sopraggiunge a rallegrare, nonostante tutto, il cuore dei nostri vicini, questi non mancano mai di associarci alla festa: ‘idnà ‘îdkum! (“La nostra festa è la vostra festa!”). Nelle sue commissioni a Médéa, fatte con regolarità immutabile, frère JeanPierre riceve sempre una buona accoglienza dai negozianti: “Ancor più gentili e cortesi”, assicura.
In assenza di prezziamo ancor civescovo, padre ne-Geneviève di
ospiti (che ne è dei cristiani?), apdi più le visite regolari del nostro arTeissier, e di alcuni fedeli (suor AnGrandchamp, per esempio ) più auda-
ci (alcuni dicono “temerari”); spesso vengono accom-
pagnati in auto dal nostro parroco il cui computer può memorizzare tutto tranne i legami che ci uniscono a lui. Il telefono permette ad altri di raggiungerci: le no209
stre famiglie, alcuni monasteri della “regione”, “reduci” dell Algeria emigrati oltremare per forza di “cose” cattive. Anche la posta funziona, con la sua tempistica alquanto scoraggiante (quest’estate, anche due o tre mesi per arrivare dalla Francia!). Attraverso tutto questo ci sentiamo legati, circondati di preghiera e di amicizia. É un autentico scudo, che fortunatamente ci risparmia altri sistemi di difesa. “Noi e voi, siamo insieme nelle mani di Dio”, dice la fede dei nostri vicini. Ciascuna e ciascuno trovi qui il nostro più protondo grazie!
Per frère Michel è stato eccellente poter rivedere, dopo più di cinque anni, la sua famiglia e i “nostri” fratelli di Bellefontaine (così nostri, ogni settimana!) e quelli di Aiguebelle, come pure i suoi fratelli del Prado a Marsiglia. Le soste trascorse a Fès sono certamente dello stesso genere. Qui lasciamo la parola ai nostri fratelli marocchini: “L’anno è stato segnato innanzitutto dalla venuta di alcuni dei nostri fratelli dell’ Atlas. “Da metà febbraio a fine marzo, frère Célestin, pur riposandosi per rimettere in sesto la sua salute molto provata, ci ha molto aiutato a migliorare la nostra preghiera delle ore. “Frère Christian, il nostro priore, ha voluto celebra-
re con noi la settimana santa e la resurrezione del Signore: celebrazioni corroborate dalla partecipazione del noviziato delle piccole sorelle di Gesù (che tornerà a ringiovanirci in autunno). Il lunedì di Pasqua c’è stata la festa del giubileo di padre Jean-de-la-Croix: cinquant’anni di vita monastica intrapresa a Notre-Dame-du-Désert. 2IO
“Nel mese di maggio sono arrivati frère Christophe e poi frère François da Orval, in Belgio, dove continua il suo noviziato per l’Atlas. Ci ha accompagnato con la sua kora fino al 15 agosto. Christophe, partito alla fine di giugno, veniva sostituito per un mese da frère Paul: giusto in tempo per assaporare con noi il gran caldo, e per fare alcuni lavoretti molto apprezzati. “Per tutto questo periodo frère Philippe risiedeva soprattutto a Meknes, per i suoi studi di arabo. Tutti questi fratelli ci hanno dato molto, ciascuno con il proprio carisma. La loro presenza concretizzava fortemente il nostro legame con la comunità dell’ Atlas e anche con il popolo dell’ Algeria, duramente provato”
E per finire, le cose... da seguire La parola ancora a Fès per segnalare due altri fatti significativi: “Innanzitutto, la chiusura del sinodo diocesano della diocesi di Rabat, dopo due anni di lavori sul tema ‘Quale chiesa, oggi, in Marocco? Il nostro arcivesco-
vo, monsignor Hubert Michon, aveva scritto alle tre comunità monastiche presenti in Marocco per affidare alle loro preghiere questa iniziativa della chiesa diocesana. Frère Bruno e frère Guy hanno partecipato, la domenica di pentecoste, alla grande assemblea del popolo di Dio in cui sono stati promulgati gli atti del sinodo. È poi, alla fine di quest'anno, dom Armand Veilleux è venuto da Roma quale delegato del nostro abate generale (e del padre immediato ad interim, dom Rémi, 2II
di Port-du-Salut) per fare la visita canonica alla nostra
comunità, annessa di Notre-Dame-de-l’ Atlas, dove si recherà il prossimo gennaio. È un tempo in cui ciascuno si pone nuovamente la domanda: ‘Perché sono venuto qui?” È il tempo di ricominciare. In quest’occasione è tornato tra noi il nostro priore, e proseguiamo con lui questa profonda revisione di vita. Alla prima domenica di avvento ci lascia, e noi entriamo in ritiro, con la consapevolezza di vivere un lungo tempo di grazia. In cui nessuno è dimenticato” A Tibhirine, le “cose da seguire” hanno indubbiamente a che fare con la speranza. A questo titolo ve le attidiamo. All’inizio dell’estate c’è stata la partenza del nostro frère Philippe, professo temporaneo, dopo nove anni di un percorso complicato durante i quali aveva assunto tra noi una collocazione ben precisa. Continua i suoi studi di arabo in Marocco, per ottenere il certificato di idoneità all’isegnamento di secondo grado (CAPES). Inoltre frère Francois, al termine della sua sosta a Fès, ha scelto di continuare a radicarsi nella vita monastica in Belgio. La Polonia e lo Zaire ci da-
ranno qualche rinforzo? Ci è dato di crederci. Diciamo anche che il gemellaggio con Berdine è certamente contrastato dagli eventi; ma frère Jean-de-laCroix ha potuto sostarvi quest'estate, e i fratelli di Fès sono stati felici di accogliere Éliane. La salute degli uni e degli altriè certamente tra le “cose da seguire” Flebite di frère Célestin in agosto, con ricovero in ospedale a Médéa; serio affaticamento di frère Luc con il gran caldo; principio di polmonite di frère Amédée all'arrivo dei primi freddi... A parte questo, “quaggiù, niente di male!” Quindi, si va avanti, grazie a Dio! La vita difficile dei più poveri at212
torno a noi relativizza enormemente i nostri guai e le nostre preoccupazioni. Le elezioni presidenziali del 16 novembre e la campagna elettorale che le hanno precedute, effettivamente pluraliste entrambe, hanno segnato una tappa importante e insperata per la nostra zona come per tutto il paese. Questa alta partecipazione al voto è stata innanzitutto una parola libera e coraggiosa di un intero popolo: rifiuto pacifico della violenza da qualunque parte provenga; desiderio maggioritario di camminare verso un'autentica democrazia su vie nuove; testimonianza sotto i nostri occhi di un’identità algerina che è alla ricerca di se stessa e sta maturando, soprattutto nel suo rapporto con l’islam. Non è forse un primo passo, fragile ma reale, verso un futuro riconciliato di giustizia e di pace per tutti? La nostra presenza laboriosa e la nostra preghiera silenziosa vogliono essere un accompagnamento nella prova che continua, come nella speranza... Vi auguriamo un Natale di fiducia e di gioia e, per avere un anno di autentica felicità, accogliamo con voi questa parola di vita di nostra sorella Odette (all’incontro del Ribét di Ognissanti del 1994): “La fedeltà ri-
chiesta è quella del momento presente. Dio ci dona solo questo momento per vivere perdono, amore, speranza e pace” I vostri fratelli di Notre-Dame-de-l’ Atlas, qui e là, nella memoria di san Giovanni della Croce, 14 dicembre 1995, secondo anniversario dell’uccisione dei nostri dodici fratelli croati cristiani
nel vicino villaggio di Tamesguida
213
Allora Dio disse alla vittima:
tu sei mio figlio. A noi di riconoscerci in lui!.
SPERANZA A PERDITA DI VITA
Liturgia di speranza
4 settembre, vigilie. Come prima cosa, nella notte, pri-
ma dell’inizio dell’ufficio, il fatto brutale che irrompe, davanti a noi, reale come l’altare, vero come la croce. Christian ha detto semplicemente: “Due nostre sorelle sono state assassinate, ieri sera, a Belcourt: suor Bibia-
ne e suor Angèle-Marie, di Notre-Dame-des-Apéòtres” L’ufficio ha avuto inizio. Dobbiamo allora porre insieme l’atto del credere, l’atto del canto, dare voce al Verbo assassinato: “Signore, apri le mie labbra! Signo-
re, apri... Signore...! E la mia bocca canterà la tua lode! Lode: di giorno, di notte. Un giorno non ci sarà più notte” (cf. Ap 22,5). Allora ci siamo lasciati portare dalle parole dell’inno (facevamo memoria, quel 4 settembre, di san Mosè, come a Gerusalemme): Coloro che il roveto ardente affascinava,
han trovato posto accanto a te nel tuo Regno.
1 J. Grosjean, Lecture de l’ Apocalypse, Gallimard, Paris 1994, p. 71.
215
Cercavano il tuo volto,
lo contemplano così com'è; il loro desiderio ti contempla, e diventa comunione.
Il giorno precedente, nell’evangelo, tu dicevi di “prendere l’ultimo posto” É così è stato per Bibiane e Angèle-Marie. Avevano appena preso posto alla mensa, accanto a te. Sulla strada, accanto al popolo, così come nel corso della loro vita, non hanno voluto prendere il posto di nessuno, ma semplicemente non hanno voluto lasciare vuoto il tuo posto di servitore e di amico.
E cibo di speranza Dopo le vigilie di quel lunedì dell’“ordinario” leggevo “Svelamento di Gesù Cristo ...” (Ap 1,1). Sì, quello
che è successo ieri, quello che succede ogni giorno, sei tu: svelamento nella notte della storia. In te la mia speranza. Vieni presto! “Speranza dei confini della terra e dei mari lontani” (Sal 64,6). Sei tu la nostra speranza
sul volto di Bibiane. Sei tu manifestato sul volto di Angèle-Marie. Sei tu la nostra speranza a perdita di vita, sul volto del popolo assassinato. Ieri, sulla strada: manifestazione d’amore. Nella notte prendo il Libro. Altri prendono le armi. E leggo: “Beatitudine del leggere e ascoltare le profezie e di spiarne il testo, perché questo è il momento: pronti, lettori!” (ct. Ap 1,3)?. 2 Cf. supra, p. 178, n. 6.
216
Cammin facendo ho incontrato queste parole di Qohelet: “C’è speranza per chi è legato a tutti i viventi”
(9,4). In refettorio è stato il Dalai Lama a dirci, quel 4 settembre: Vorrei condividere con i miei lettori una breve preghiera che è per me una grande fonte di coraggio e di ispirazione: Fino a quando durerà lo spazio e con esso le creature viventi, possa anch’io concorrere, a cancellare i dolori del mondo?!
Nella vita comune, e in giardino, si trattava ancora (e insieme) di speranza: lavori pratici! Coraggio! Sei in mezzo a nol, tu, nostra speranza!
Jom Kippur: 5 ottobre, ad Ancona Sul volto osservato all’infinito di mio padre morente, Signore, tu sei la nostra speranza! Verso di te cerca, fino a morirne, il soffio di vita.
Ricordati di lui e prendilo con te, oggi, nel tuo Regno. Come ieri, in Palestina,
quel gruppo di oranti accanto alla croce,
3 Dalai Lama, La libertà nell’esilio. La mia vita, Frassinelli, Varese 1990, p. 304.
siamo qui, accanto al letto di un morente. E qui, accanto a un popolo sofferente, ancor più vicini a te, il Vivente.
Lo guardo. È il tuo volto. Lo contemplo nella notte. E vederti così ci fa vedere quell’altro che tu chiami abba! Papà! In questa relazione, tutto è compiuto. Tutto è semplice, allora diciamo: Padre nostro... e in quel frattempo Pierre, tuo servo, ti affida l’ultimo respiro. La morte è vinta. Alleluja! Riposa nella vita: grazie, e sì! E in piedi, noi prega per noi abbiamo detto: “Rallegrati, Maria adesso e nell’ora della nostra morte”
É ancora
“Fino a quando, Signore santo e verace?
” (Ap
6,10). Il mattino di venerdì 10 novembre, avevo avuto un
conflitto con un fratello durante una riunione: situazione senza sbocco. Quand’ecco, per grazia dell’uno e dell’altro, la violenza fu superata, vinta, appena in tempo per lasciarci andare a pregare insieme. E Pufficio di terza. Christian, chiamato al telefono, ci raggiunge. Dopo la salmodia ci annuncia l’uccisione delle nostre due sorelle Odette e Chantal a Kouba, poco prima (solo dopo tre ore abbiamo saputo che Chantal era solo ferita). 218
L'omicidio insistente e la morte insopportabile fanno di nuovo irruzione in coro. Creano il vuoto, come una fossa spalancata, qui in mezzo a noi. Lacrime e si-
lenzio assieme a un intero popolo si fanno intercessione. Christian riprende il salmo 12 che abbiamo appena cantato. Salmo ri-detto. Salmo aperto, a voce cruda. Fino a quando, Signore? Fino a quando, Signore, continuerai a dimenticarmi? Fino a quando mi nasconderai il tuo volto? Fino a quando nell’anima mia proverò affanni, tristezza nel cuore ogni momento? Fino a quando su di me trionferà il nemico? Guarda, rispondimi, Signore mio Dio, conserva la luce ai miei occhi,
perché non mi sorprenda il sonno della morte, perché il mio nemico non dica: “L’ho vinto! e non esultino i miei avversari quando vacillo. 1?
Nella tua misericordia ho confidato. Gioisca il mio cuore nella tua salvezza
e canti al Signore, che mi ha beneficato.
A mezzogiorno Gillesè con noi per fare eucaristia: san Leone Magno! È la grandezza delle nostre piccole sorelle ad attirarci, in Gesù offerto.
Domenica 12 novembre: in questo giorno del Signore mi è caro rileggere il Cantico dei cantici. Lo faccio dopo le vigilie, nello scriptorium. Odette è lì che mi aspetta: un appuntamento di amicizia vivente. Sì, nella notte. Più forti del rumore delle armi, sento queste parole d’amore: “Alzati, amica mia, mia bella. Va’ verso te stessal” (Ct 2,10). 219
Queste parole fanno vivere, sempre. A condizione di essere pronunciate fino al punto in cui l’amore è crocifisso, assassinato. Ne va dell’onore dell’ Amato che
assuma il rischio di questa folle dichiarazione: Eccoti, Odette, sei bella! Hai intrapreso il tuo cammino. Io sono con te, verso di te. E il tuo popolo è il mio amato. Sei arrivata a te stessa. Alzati, in me. Perché, ecco, l’inverno è passato... i fiori sono apparsi nei campi... il tempo del canto è venuto. Alleluja! Frère Christophe gennaio 1996
220
RIFLESSIONI DI FRÈRE CHRISTIAN PER LA QUARESIMA
Dobbiamo trovare nell’incarnazione le vere ragioni della nostra presenza pasquale in Algeria. Pasqua inizia dalla partecipazione di Dio alla finitudine dell’uomo. Tutto è pasquale nella vita del Figlio. Dobbiamo avere una visione ampia del mistero pasquale. Morte e resurrezione fanno parte del mistero dell’incarnazione che consiste nel prendere l’umanità per introdurla nella gloria di Dio. Dobbiamo trovare nel mistero dell’incarnazione le vere ragioni della nostra presenza. Nella Pasqua di Cristo, la redenzione è il motivo, ma l'incarnazione è il modo. Dopo la prima visita di un gruppo armato in monastero, il Natale del 1993, abbiamo celebrato la messa di mezzanotte. Dovevamo accogliere questo Bambino indifeso e già minacciato. Attraverso questi eventi ci siamo sentiti invitati a “nascere” La vita di un uomo passa di nascita in nascita. Giovanni, l’evangelista dell’incarnazione - “e il Verbo si è fatto carne” (Gv 1,14) -, era l’unico discepolo pre-
sente ai piedi della croce. Ci presenta l’intera vita di Cristo come un mistero di incarnazione. Nella nostra vita c'è sempre un bambino da mettere al mondo: il figlio di Dio che noi siamo. “Bisogna rinascere”, ha detto a Nicodemo. 22I
Questa nascita ci è proposta nella chiesa. La chiesa è il proseguimento dell’incarnazione. Essa non ha che noi, qui, per continuare l’incarnazione. Nel bene e nel
male. Dopo che un gruppo armato ci ha fatto visita a Natale, un abate cistercense ci ha scritto: “L'ordine non ha bisogno di martiri, ma di monaci” Il coraggio del quotidiano è quello che ci prende più alla sprovvista. Uno studente africano, tornato al suo paese durante l’estate, ha chiesto a suo nonno se avesse dovuto tornare in un’Algeria che conosce una crisi violenta. Rispo-
sta del nonno: “Dove bisogna lottare per vivere, là devi essere, perché è là che approfondirai la tua vita” Come vivere questo mistero dell’incarnazione? San Francesco di Sales rispondeva: “Bisogna ricevere tutto con identico amore”. L’incarnazione ci raggiunge ovunque. La Regola di san Benedetto, nel brano riguardante il commercio, conclude le sue riflessioni con questa frase di san Paolo: “Affinché in ogni cosa Dio sia glorificato” Per questo bisogna stare saldi nella pazienza, partecipare mediante la pazienza alle sofferenze di Cristo, senza sconfinare nel futuro che appartiene solo a Dio. C’è speranza solo là dove si accetta di non vedere il futuro. Pensiamo al dono della manna. Era quotidiano. Ma non se ne poteva tenere per il giorno dopo. Voler immaginare il futuro è fare della fanta-speranza. Gli apostoli erano preoccupati perché avevano un pane solo. Non capivano che era sufficiente. Noi sappiamo chi è il pane. Se è con noi, il pane sarà moltiplicato. Non appena pensiamo il futuro, lo pensiamo come il passato. Non abbiamo l’immaginazione di Dio. Domani sarà un’altra cosa e noi non possiamo immaginarla. Questa si chiama “la povertà” “Dio mio, so222
no pienamente provvisto di questo legame che tu vuoi offrirmi” Il futuro appartiene a Dio che, in ogni modo, vuole colmarci. La nostra grande grazia, come chiesa in Algeria, è che in questo abbandono noi siamo assimilati ai giovani di questo paese, di questo continente, che non vedono qual è il loro futuro. E vorremmo, noi, avere altre certezze? Dobbiamo essere testimoni dell’Emmanuele, cioè del “Dio-con” C'è una presenza del “Dio tra gli uomini” che proprio noi dobbiamo assumere. E in questa prospettiva che cogliamo la nostra vocazione a essere una presenza fraterna di uomini e di donne che condividono la vita di musulmani, di algerini nella preghiera, nel silenzio e nell’amicizia. Le relazioni chiesa-islam
balbettano ancora perché non abbiamo ancora vissuto abbastanza accanto a loro. Dio ha tanto amato gli algerini che ha dato loro il suo Figlio, la sua chiesa, ciascuno di noi. “Non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici” Frère Christian 8 marzo 1996
223
LETTERA DI FRÈRE LUC
Qui la violenza è sempre allo stesso livello, nonostante la censura voglia nasconderlo. Come venirne fuori? Non penso che la violenza possa estirpare la violenza. Non possiamo esistere come uomini se non accettando di farci immagine dell’ Amore, come si è manifestato nel Cristo che, giusto, ha voluto subire la sorte dell’ingiusto. 24 marzo 1996
DAGLI SCRITTI DI FRÈRE CHRISTOPHE
Io sono suo e seguo le sue orme; vado verso la mia piena verità pasquale. Vista la direzione che prendono le cose e la piega degli avvenimenti... vi dico, in piena verità, va tutto bene. La fiamma si è piegata, la luce si è inclinata... Posso morire eccomi qui.
Testamento di frère Christophe Il mio corpo è per la terra, ma, per favore, nessuna barriera tra lei e me.
Il mio cuore è per la vita, ma, per favore, nessuna smanceria
tra lei e me.
Le mie braccia per il lavoro, saranno incrociate
molto semplicemente. Per il mio volto:
rimanga nudo per non impedire il bacio, e lo sguardo lasciatelo vedere! P.S. Grazie.
228
TESTAMENTO SPIRITUALE DI FRERE CHRISTIAN QUANDO SI PROFILA UN AD-DIO
Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese. Che essi accettassero che l’unico Padrone di ogni vita non potrebbe essere estraneo a questa dipartita brutale. Che pregassero per me: come potrei essere trovato degno di una tale offerta? Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato. La mia vita non ha più valore di un’altra. Non ne ha neanche meno. In ogni caso non ha l’innocenza dell'infanzia. Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male che sembra, ahimè, prevalere nel mondo, e anche di quello che potrebbe colpirmi alla cieca. Venuto il momento, vorrei avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nel tempo stesso di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito.
Non potrei auspicare una tale morte. Mi sembra importante dichiararlo. Non vedo, infatti, come potrei rallegrarmi del fatto che questo popolo che amo sia in-
distintamente accusato del mio assassinio. Sarebbe un prezzo troppo caro, per quella che, forse, chiameranno la “grazia del martirio”, il doverla a un algerino, chiunque egli sia, soprattutto se dice di agire in fedeltà a ciò che crede essere l’islam. So il disprezzo con il quale si è arrivati a circondare gli algerini globalmente presi. So anche le caricature dell’islam che un certo islamismo incoraggia. E troppo facile mettersi a posto la coscienza identificando questa via religiosa con gli integralismi dei suoi estremisti.
L’Algeria e l’islam, per me, sono un’altra cosa: sono un corpo e un’anima. L'ho proclamato abbastanza, credo, in base a quanto ne ho concretamente ricevuto, ritrovandovi così spesso il filo conduttore dell’evangelo imparato sulle ginocchia di mia madre, la mia primissima chiesa, proprio in Algeria e, già allora, nel rispetto dei credenti musulmani. Evidentemente, la mia morte sembrerà dar ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo o da idealista: “Dica adesso quel che ne pensa!” Ma costoro devono sapere che sarà finalmente liberata la mia più lancinante curiosità. Ecco che potrò, se piace a Dio, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione e il ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze. 230
Di questa vita perduta, totalmente mia, e totalmente loro, io rendo grazie a Dio che sembra averla voluta tutta intera per quella gioia, attraverso e nonostante tutto.
In questo grazie in cui tutto è detto, ormai, della mia vita, includo certamente voi, amici di ieri e di oggi, e voi, amici di qui, accanto a mia madre e a mio padre, alle mie sorelle e ai miei fratelli, e ai loro, centuplo accordato come promesso! E anche te, amico dell’ultimo minuto, che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo grazie e questo 4ad-Dio da te previsto. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due. Amen! Insallah. + Christian Algeri, 1° dicembre 1993 - Tibhirine, 1° gennaio 1994
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PARTE SECONDA TESTIMONIANZE
UN ALBERO CHE ESISTE SILENZIOSAMENTE NELLA NOTTE
Abbiamo atteso, da oltre quattro settimane, che i nostri fratelli trappisti ci fossero restituiti. Speravamo sempre che sopraggiungesse questa liberazione. Fin tanto che questo non fosse avvenuto, ci sembrava impossibile parlarvi di altro, anche solo pensare ad altro. Non avevamo nient'altro da scrivere. Ed ecco che i mass media diffondono un comunicato che afferma che sono vivi, ma che la loro vita continua a essere minacciata. Vogliamo credere, come molti nostri amici ad Alge-
ri, a Médéa e ovunque ci rechiamo, che la loro vita sarà rispettata. Vorremmo allora raggiungerli, nella loro lotta spirituale per restare fedeli con loro alla vocazione che loro hanno manifestato in mezzo a noi, fin nei suoi valori estremi: quella dell’abbandono fiducioso nelle mani del Padre, quella della fedeltà ai vicini e ai fratelli, a loro volta nella prova, quella del mistero di morte e di resurrezione in cui sono radicati il loro battesimo e la loro consacrazione religiosa. Li raggiungiamo anche in questa intensa preghiera che fanno salire a Dio, fin dall’inizio della crisi, perché cessino le violenze e ci sia data finalmente la pace. Abbiamo vissuto con loro, nella comunione dei cuo-
ri, la settimana santa, portando la nostra croce comu237
ne e meditando questa passione di Cristo in cui l’offerta di sé trionfa sulla violenza umana e fa della prova un sacrificio per tutti. Ed ecco: Pasqua è giunta, e le settimane di Pasqua, senza che potessimo gustarne la gioia, se non nella fede e nella speranza che Dio può dare la vittoria alla vita sulla morte e alla pace sulla violenza. E un invito a vivere il mistero di Pasqua con più realismo, più verità, più fede. Per pudore e per rispetto del segreto della loro lotta interiore, non osiamo esprimere a noi stessi cosa ha potuto essere la loro settimana santa e cosa è ora il loro cammino pasquale. Christian ci aveva fatto meditare in anticipo, in occasione del ritiro predicato ad Algeri durante la quaresima, sul nesso spirituale che stabiliva tra Natale e Pasqua. Pasqua era già a Natale, ci diceva, perché Gesù viene, fin dai primi istanti dell’incarnazione, per salvare e dare la sua vita per la moltitudine. Natale era già Pasqua, perché ogni condivisione della condizione umana è un cammino pasquale di morte e di resurrezione. E per loro Natale ha raggiunto Pasqua, poiché la prima visita di un gruppo armato è avvenuta la sera del Natale 1993, e l’altra visita, quella del loro rapimento, ha avuto luogo all’approssimarsi
della Pasqua 1996. Ritroviamo sulle nostre labbra la parola angosciata di Maria Maddalena che non sa come credere al messaggio di Pasqua: “Donna, perché piangi?” Rispose loro: ‘Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto’” (Gv 20,13). Nel loro radicamento, la nostra chiesa è stata colpita al cuore. Incarnavano la nostra vocazione, spingendo-
la fino al suo vertice. Una vocazione a vivere la fedeltà cristiana come l’esigenza di una fraternità che cerca i fratelli il più lontano possibile, anche là dove nulla 238
di comune poteva essere colto a priori. Una vocazione a vivere la nostra identità cristiana fino al cuore del suo mistero, rimanendo nel contempo vicini e semplici nel rapporto quotidiano con dei fratelli che ignorano il nostro segreto. Avevano posto questa vocazione sulla montagna nel silenzio di Dio, nel grande compito della preghiera della chiesa per tutti, nei lavori della vita cistercense, nella generosità dell’accoglienza. Provavamo così tanta gioia, tutti noi, a nutrire la nostra povera preghiera, e la nostra risposta personale alla chiamata di Dio, al cuore della loro preghiera e della loro ospitalità, spirituale e fraterna. Non sappiamo come la nostra chiesa potrà ancora assumere la sua vocazione e la sua missione se il segno che loro ci davano, a Notre-Dame-de-l’ Atlas, non può più esserci presentato per un certo tempo o, sacrificio ancor più grande, per molto tempo. In questa sofferenza e in questa attesa siamo in profonda comunione con le loro famiglie, che sopportano assieme a noi questa prova troppo grande, e anche con tutto l’ordine cistercense trappista, in particolare i monasteri dei loro inizi: Aiguebelle, Bellefontaine, Tamié.
Prima del loro rapimento, vivevano nascosti nel luogo della loro offerta interiore. Il monastero era conosciuto, nella società algerina, solo da alcuni amici privilegiati e dagli abitanti di Tibhirine e di Médéa. Ed ecco che, attraverso la loro prova, la vocazione della loro comunità è stata resa manifesta in tutta l’ Algeria e, attraverso i mass media, ben al di là, a tutti coloro che hanno saputo la notizia del loro rapimento. Molti hanno scoperto il luogo nascosto in cui vivevano e, nel contempo, la fedeltà cistercense della preghiera delle ore o della solidarietà contadine che li portava al ver239
tice della comunione spirituale islamico-cristiana. All’improvviso la lampada nascosta di cui parla l’evangelo è stata messa ben in vista (cf. Mc 4,21-22). Il loro fratello più vicino, padre Gilles Nicolas che, da Médéa, li raggiungeva a ogni occasione, ci ha parlato il venerdì santo, dopo la lettura della Passione, della loro libertà nella prova. Il capo di un gruppo armato aveva detto loro a Natale, esponendo le sue pretese: “Non avete scelta” Non sapeva, ci diceva padre Nicolas, che anche sotto coercizione si può restare liberi. Non posso dubitare, aggiungeva, che accettando di seguire i loro rapitori i nostri fratelli monaci abbiano fatto atto di libertà. Nella nostra angoscia e nella nostra attesa ci aggrappiamo a questa convinzione di Pasqua. “La violenza che i nostri fratelli hanno sempre ricu-
sato, in mezzo a questo mondo in cui essa sembra regnare sovrana, l'hanno vinta e, noi lo crediamo, questa vittoria della nonviolenza sulla violenza sarà un giorno riconosciuta da molti” Vivendo questa attesa, quale miglior segno porre davanti ai nostri occhi di questa immagine evocata ancora da padre Nicolas e che Christophe aveva attinto da un altro trappista, Thomas Merton: “I monaci sono come gli alberi che esistono silenziosamente nella notte e grazie ai quali l'atmosfera torna a essere respirabile” Voglia il Signore che possiamo respirare di nuovo un giorno, grazie a loro, l’aria pura di Notre-Dame-del’Atlas. E una supplica affidata alla preghiera di tutti. Monsignor Henri Teissier arcivescovo di Algeri!
! H. Teissier, “Incontri”, in La semaine religieuse d’Alger, aprile 1996, pp. 83-84.
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ERANO MIEI FRATELLI, ERANO MONACI...
Non si parla di monaci nei nostri paesi. Non se ne parla più. D’altronde, loro, ne parlano? Quando se ne vedono, è nelle pubblicità televisive che rattristano alcuni ma che io trovo, per parte mia, abbastanza divertenti, anche se piuttosto scontate: sono su alcune scatole di camembert o su bottiglie di birra, negli scaffali dei negozi di dischi, e poi, almeno alcuni, anche nelle sfilate del Fronte nazionale, purtroppo, oppure, sempre gli stessi, nei commando antiaborto. Testa rasata, profilo presuntuoso (o ascetico, a seconda dei bisogni),
liquori per signore, affari, canto gregoriano... che altro? Un altro mondo, ecco, di cui d’altronde non si sa
se esiste ancora veramente da queste parti, ma che tuttavia fa ancora fantasticare più d’uno. E poi, all’ improvviso, la notizia: sette monaci francesi sono stati rapiti nelle montagne dell Atlante, non si sa da chi, né perché. Dunque c’erano ancora dei francesi là, vicinissimi, per non dire in mezzo, al pericolo, vicino a Médéa, il covo islamico dell Algeria! Sembra che ad Algeri, la maggior parte della gente ignorasse la loro presenza. Il governo francese non aveva forse raccomandato di rientrare a tutti i suci cittadini residenti là? 241
Alcuni giornali hanno allora insinuato che non avrebbero mai potuto restare là senza qualche complicità con i “fratelli della montagna” (i partigiani islamici armati che popolano le alture dell’ Atlante). Così ci è mancato poco che questi sette fratelli, già prigionieri dei loro anonimi rapitori, diventassero anche ostaggio dei discorsi più o meno teleguidati che si facevano sul loro conto. Finalmente ciascuno si è però un po’ ricreduto ricordandosi che quei francesi in realtà non sono altro che dei poveri monaci, dei monaci di qui! Siccome non ha praticamente nulla da mettere sotto la penna dopo il loro rapimento, dato che le informazioni non filtrano al di fuori della cerchia più ristretta, la stampa, da un lato e dall’altro del mare, ricama un po’ attorno a questi personaggi enigmatici e si in-
forma dove può. In ogni caso le siamo fortemente debitori per aver saputo, ancora una volta, “scrivere contro oblio”, come dice la bella campagna di Amnesty International. E così si scopre che questi monaci sono gente come
noi, tra i quarantacinque e gli ottantacinque anni, che hanno una storia, come noi, una famiglia, degli amici. Che sono andati laggiù, come altri vanno altrove, perché avevano conosciuto quel paese in un modo o in un
altro, e gli erano rimasti visceralmente attaccati. Si comincia a capire perché non hanno mai voluto lasciare quella gente, quei luoghi che li avevano accolti come si sa ancora fare in quei paesi ricolmi di sole. La prima volta che sono andato a trovarli là, a Tibhirine, era una sera di dicembre. Pioveva, faceva freddo, la neve non era lontana. Che dire, era triste... Ebbene, appena arrivato in quella casa, la loro casa, povera e calorosa insieme, ho sentito subito nascere nel mio in242
timo la convinzione che i veri monaci di oggi erano loro. Tutto, nella loro esistenza, era contrassegnato dal sigillo della precarietà. Precarietà della loro situazione di stranieri più volte espulsi e riammessi. Precarietà della situazione economica e politica del paese... Precarietà del loro statuto di minoranza religiosa... E pensavo a Johannes-Baptist Metz che un giorno ha scritto che la vita religiosa non potrà mai essere capita al di fuori del suo orizzonte escatologico. Senza questo fondamento, si installa... fino a morirne. Quanta libertà ho sentito in questi uomini, spogliati di tutto, che non avevano altro da offrire se non quello che, in loro, li rendeva ogni giorno più umani. Così come non dimenticherò mai quel mattino presto, verso le 6, quando ho aperto la mia finestra sulle montagne del Tamesguida. Il giorno cominciava a spuntare, faceva abbastanza freddo... Presto ci sarebbe sta-
to l'ufficio di lodi, mi stavo preparando quando, alimprovviso - e risale forse a quel giorno l’emozione più grande della mia vita —- ho sentito salire in cielo la voce del muezzin: bella, orante, pacificata, rappacificante... E vero: Dio abita innanzitutto la lode del suo popolo! La moschea? E un edificio del monastero che i monaci hanno messo a disposizione dei loro vicini. Tutti i pomeriggi vi si sentono i bambini della scuola coranica che declamano i loro versetti cadenzati. Non ho mai percepito nelle loro diligenti cantilene la minima traccia di violenza... Purtroppo per tutti, la situazione in Algeria si è rapidamente degradata da quei giorni del 1988 che hanno acceso quel braciere che ha finito a poco a poco per accerchiare anche il monastero. Chiaramente ai monaci sono state proposte tutte le vie di uscita possibili per
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sfuggire al disastro. Non le hanno rifiutate, perché non erano temerari. Ma, come uomini d’onore in mezzo a un naufragio, hanno pensato: “Prima le donne e i bambini” Non mancavano, attorno a loro, donne e bambini, primi prigionieri di questa violenza quotidiana, che non avevano possibilità di scelta tra partire e restare. Allora anche i monaci sono restati. “E bella,
un'esistenza fedele —- mi diceva Christophe, il mio fratello monaco di laggiù - la loro, la nostra. Un’esistenza che ha della tenuta, ma non in apparenza. Si tratta della tenuta di servizio. Quella che, a poco a poco, con il passare dei giorni, ci riveste di bellezza e di quella verità che dura senza indurirci” Ho potuto constatare di persona fino a che punto gli abitanti di Tibhirine si erano sentiti sostenuti nella loro disgrazia dal fatto che questi semplici monaci, che vivevano in mezzo a loro da tutti quegli anni, avessero scelto anche di non andarsene nel momento della prova. E ora che l’islam dei loro padri subisce agli occhi di tutti quell’umiliazione che sappiamo, è per loro infinitamente prezioso sapere che i monaci lo hanno fatto in nome della loro fede nel Dio unico, il Clemente, il Misericordioso. Jean Daniel, direttore del Nouvel Observateur, nel suo ultimo librot si chiede se quel Dio non sia invece, se non il più fanatico, per lo meno il più grande istigatore del fanatismo nella storia. Se l'Assoluto al quale fanno riferimento i monoteismi non sia di sua natura il rifugio stesso dell’inumano. La risposta a questa do-
1 J. Daniel, Dieu est-il fanatique? Essai sur une religieuse incapacité de croire, Arléa, Paris 1996.
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manda non la si improvvisa. Ci sono troppe prove di questo fanatismo “divino” sulle rovine ancora fumanti delle nostre storie, anche di quelle più recenti. La “malia” che egli suppone essere il motore di più d’uno di questi comportamenti collettivi quasi isterici, infatti, non è mai lontana. La stessa storia della chiesa non
è mai stata priva di schiere di monaci da mettere al servizio di tutti i suoi integralismi inquisitori che sono altrettanti peccati contro lo Spirito. I monaci, dal canto loro, non fanno carriera. Né nella chiesa, né nel mondo...
e nemmeno
nell’esercito!
Tutta la fatica della loro esistenza, quella dei padri del deserto d’Egitto nel iv secolo come quella di questi sette trappisti dell’ Algeria odierna, consiste, al contrario, nel cercare — se possibile — di sradicare dal cuore dell’uomo ogni volontà di potenza. L’ambizione di questo programma è tutta nelle parole semplicissime della sconvolgente preghiera quotidiana del mio fratello Christian, il priore del monastero di Notre-Damede-l’ Atlas: “Signore, disarmami; Signore, disarmali”
Jean Daniel ha messo in apertura del suo libro una citazione di Paul Ricoeur che esplicita, forse in modo assolutamente pertinente, il senso della vocazione monastica dei nostri fratelli monaci d’ Algeria: “Se davvero le religioni devono sopravvivere... dovranno innanzitutto rinunciare a qualsiasi tipo di potere che non sia quello di una parola disarmata; dovranno inoltre far prevalere la compassione sulla rigidità dottrinale; bisognerà soprattutto — ed è la cosa più difficile — cercare proprio nel profondo dei loro insegnamenti quel sovrappiù non detto di grazia, in virtù del quale ciascuno può sperare di raggiungere gli altri; non è infatti con manifestazioni superficiali, che restano delle com-
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petizioni, che avvengono gli autentici ravvicinamenti: è solo in profondità che le distanze si accorciano” Potrei aggiungervi anche quello che il mio fratello Christophe mi scriveva poco prima del suo rapimento: “Non siamo forse entrati adesso, io e te, nella ‘pazienza” che non ha di mira nulla? E poi quella responsabilità alla quale non dobbiamo sottrarci, con il pretesto che non abbiamo nessuna responsabilità...” Ma se un giorno si volesse capire perché sono rimasti laggiù, non si potrà continuare a dimenticare che sono diventati anch'essi i discepoli di un uomo la cui divinità è apparsa evidente ai suoi stessi compagni di esistenza solo quando hanno dovuto raccogliere da terra il suo cadavere. Traversata rude davvero, che fa dire a Jean Daniel che “la fede è innocente solo in una mistica individuale” Forse, in effetti. In ogni caso non potrà sbocciare facendo economia di quello “sconvolgimento”: è questo che ci guarisce una volta per tutte da ogni volontà di potenza. Tutte le strategie cosidette
“pastorali” non potranno farci nulla: solo da vicino a vicino il fuoco dell’amore fa indietreggiare la notte. Il mio fratello Christophe, ostaggio, mi diceva poco tempo fa: “La fede? Forse comincia e ricomincia ogni giorno, fino al suo ultimo soffio, con questa preghiera: ‘Signore, aumenta in noi la fede” Ma questa è già una buona notizia: avvertire che ciascuno di noi può fare dei progressi in questo campo; non in forza di meriti, ma offrendosi, come un servitore qualunque, non insolente, non orgoglioso, né imbevuto dei propri diritti o di non so quale superiorità, ma fecendo semplicemente, umilmente, lui stesso dei progressi. La fede, ecco, a forza di domande, anche di attenzione, ecco che ci arriva come la linfa nella notte dell’albero. 246
Come qualcosa in noi che aumenta, che cresce, che cresce...” Per il momento, come Jacques Juillard, nascondiamo come possiamo il nostro dolore, anche la nostra collera, dietro a questa lancinante domanda: ma allora cos'è mai questo islam che non rispetta nemmeno la preghiera degli altri? Frère Philippe Hémon monaco trappista abazia di Tamié?
2 Testo integrale dell’articolo pubblicato parzialmente in Le Nowvel Observateur, 16 maggio 1996.
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FATWÂ DEL CONSIGLIO NAZIONALE DEGLI IMAM
Nel nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso, la comunità musulmana in Francia! manifesta il suo grande dolore di fronte agli avvenimenti che attraversano l’ Algeria e che hanno assunto una nuova piega dopo il rapimento di uomini della chiesa cristiana, esposti così al pericolo, senza che abbiano commesso peccati. Ritiene che questo sia un grave precedente tenuto conto delle seguenti considerazioni: 1. Gli uomini di religione cristiana non hanno mai partecipato al conflitto in Algeria. Averli implicati nel
gioco politico mostra l'impotenza e la debolezza dei loro rapitori, poiché hanno scelto persone disarmate e sprovviste di qualsiasi protezione. Tutti fatti in contraddizione con i principi della gloriosa religione dell’islam, che conferiscono ai loro autori un'immagine deplorevole e aprono la breccia a ogni sorta di mali, tra cui l’ingranaggio della vendetta.
1 Una fatwé è un giudizio espresso su una questione di attualità con riferimento al Corano e alla tradizione islamica. Il Consiglio nazionale degli imam è l’istanza teologica dell'Alto consiglio dei musulmani di Francia (HCcMF), creato nel di-
cembre 1995, che raduna alcune centinaia di associazioni locali.
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2. L’islam tollera la libertà di culto per tutte le religioni del cielo e non ha mai accettato di costringere qualcuno a rinunciare alla sua religione. Dio ha detto: “Non ci sia coercizione in materia di libertà religiosa” (Corano 2,256). Il Corano non ignora elogi sia dei presbiteri che dei monaci: “Troverai che i più disposti ad amare i credenti sono coloro che dicono ‘Siamo cristiani’ Tra di loro infatti vi sono presbiteri e monaci e non si gonfiano di orgoglio” (Corano 5,82). 3. L’islam ha ordinato di trattare bene le genti del Libro. Dio ha detto: “Di’: Genti del Libro, giungete a una parola comune tra noi e voi: che adoriamo solo Allah, senza associargli nulla” (Corano 3,64). 4. L’islam ha anche riconosciuto l’esistenza di edifici religiosi per i non-musulmani in terra islamica, ha ordinato di proteggerli e di non recare loro danno. Storicamente, il movimento di espansione dell’islam ha rispettato le chiese e i monasteri. Così il califfo Omar ibn al-Khattàb (634-644) si ri-
fiutò di recitare la preghiera nella chiesa di Gerusalemme, per timore che i musulmani vi si affezionassero e la sottraessero ai suoi proprietari. E Omar ibn Abd al-Azîz (717-720) ordinò la ricostruzione, con fondi provenienti dal tesoro musulmano, di una chiesa demolita sotto la sua responsabilità. A proposito dei luoghi di culto, Dio ha detto: “Se Allah non cacciasse alcune persone per mezzo di altre, sarebbero distrutti i monasteri, come pure le chiese, le sinagoghe e le moschee, dove il nome di Allàh è molto invocato” (Corano 22,40). 5. Se è la soddisfazione di Dio che si cerca mediante il rapimento di questi monaci, allora si deve sapere che Dio è giusto e non accetta l’oltraggio. Non perdonerà a 250
chiunque è detto in no vietato L'islam uomo per to: “Ogni
nuoccia a un musulmano o a un dimmî. Così un dadîth godossi?: “Miei servitori, io mi sol’oltraggio e l’ho vietato tra di voi” ha anche messo al bando la punizione di un una colpa commessa da un altro. Dio ha detanima è responsabile di ciò che ha fatto”
(Corano 74,38).
Dio ha anche proibito l'assassinio in modo generale. “Chi ucciderà un uomo che a sua volta non ha ucciso o che non ha commesso violenza sulla terra, sarà considerato come se avesse ucciso tutti gli uomini; e chi salverà un solo uomo sarà considerato come se avesse salvato tutti gli uomini” (Corano 5,32). L’illegalità, da noi decretata, dell’aggressione contro i monaci non è altro che il giudizio pronunciato da tutti i testi coranici e le affermazioni profetiche. C’è un consenso di tutta la nazione musulmana in tutte le tappe della sua storia a questo riguardo. Nessuno dei suoi saggi si è dissociato da questa visione, oggi come nel passato, e chiunque si allontani da questa via si dirige verso l’inferno. Era nostro dovere fornire questa precisazione. Dio ci aiuti. 7 maggio 1996
2 L’hadîth è un testo della tradizione coranica intorno ai detti e ai fatti di Mohammed.
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COSTERNAZIONE E PERPLESSITÀ
Numerosi musulmani di Francia, in particolare tra i rappresentanti dell’islam, si sono accontentati di replicare alle dichiarazioni fatte dal cardinale Lustiger subito dopo l’annuncio dell’esecuzione dei sette trappisti di Tibhirine, e si sono astenuti dal pronunciarsi sui problemi di fondo sollevati dall’arcivescovo di Parigi!. Certamente il lapsus dell’arcivescovo di Parigi la dice lunga sullo stato d’animo di una parte dell’opinione pubblica che continua a manifestare il suo scetticismo riguardo al dialogo islamico-cristiano, ventun anni dopo la creazione di un organismo come il Segretariato per i rapporti con l’islam. E molti musulmani, sottolineando queste difficoltà, hanno cercato di ricordare la
mancanza di sollecitudine di una parte dell’opinione pubblica francese nel condannare, fermamente e prontamente, tutte le aggressioni di cui l’islam è regolar-
! I musulmani di Francia sono rimasti negativamente colpiti dalle dichiarazioni rese dal cardinale Lustiger la sera dell’annuncio della morte dei monaci. Il cardinale chiedeva ai musulmani di “scacciare l’odio” e di “aprire il loro cuore e la loro mente” A questo hanno replicato: “Siamo spiacenti che una così eminente personalità cattolica ci assimili agli psicopatici criminali dell'Algeria. Costoro non sono dei nostri. Pretendono di uccidere in nome di Dio, ma di quale Dio si tratta? Di certo non è il Dio nel quale crediamo noi. Pietà, monsignore, non ci confonda con loro”
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mente vittima: deportazione nei campi del sud algerino di decine di migliaia di innocenti, assassinio nella sua moschea dell’imam del XVIII arrondissement di Parigi a opera di un commando tuttora in libertà, stupri di massa di musulmane bosniache in nome della “pulizia etnica”, massacro dei ceceni da parte dell’esercito russo...
Queste obiezioni non sono prive di fondamento e dovrebbero essere prese in considerazione da quella parte dei mass media che, agli occhi dei musulmani, continuano a praticare un’indignazione selettiva. Ma questo non deve fornire una giustificazione per quei musulmani di Francia che insistono a volersi risparmiare una riflessione e un esame di coscienza imposti dai contrasti provocati dalla deriva di una parte delPislam politico radicale. Questi contrasti sono dovuti allo shock che luso del Corano per giustificare la violenza provoca sulla comunità dei fedeli che si sforza di restare attaccata ai valori di un islam pacifico, concepito come lo stabilizzatore insostituibile della coscienza del credente e il fornitore delle norme che consentono di mettere a punto i rapporti con gli altri. E a questo islam che Charles de Foucauld (di cui i trappisti di Tibhirine erano degli ammiratori, prima di conoscere, ottant'anni dopo, il suo stesso tragico destino), Ernest Psichari e Louis Massignon devono il loro ritorno alla fede cristiana. I valori di questo islam hanno sedotto anche il dottore Grenier, il pittore Dinet e il positivista Christian Cherfils. L'equilibrio instabile provato dai musulmani pacifici che sono sconvolti dagli eccessi del khomeinismo - sciita o sunnita che sia - ha portato molti praticanti a smettere di frequentare le moschee e a pregare con discrezione a casa propria.
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La vicenda dei trappisti ha portato al parossismo la costernazione e la perplessità dei musulmani che persistono nel considerare la fede religiosa come una forza interiore e non come una minaccia per gli altri, musulmani per i quali l'integrazione delle genti del Libro nella società musulmana - il cui carattere multiconfessionale è stato voluto dal Profeta fin dalla redazione della prima carta promulgata subito dopo essersi installato a Medina - costituisce uno dei motivi di fierezza dell’islam. Quali che siano le valutazioni dei politologi, sono dei musulmani — che provenissero dagli ambienti estremisti islamici oppure che agissero per conto di officine specializzate nella manipolazione di frange di un movimento effervescente - che hanno assassinato, in terra
d’islam, dei religiosi, ai quali il diritto pubblico musulmano medievale raccomandava di destinare degli aiuti finanziari, e che si dedicavano ad attività nobili come la preghiera, lo studio e la coltivazione di quella terra che i disastri dei socialismi agrari e il progresso dell’affarismo nelle mentalità hanno seriamente svalutato agli occhi degli algerini.
E questo tipo di misfatti, che vengono regolarmente commessi dai primi anni ottanta, ad aver provocato in molti musulmani, pervenuti de facto alla laicità, un turbamento reso ancora più vivo dal fatto che l’islam di Francia è ancora senza una direzione spirituale che abbia la volontà e, soprattutto, le competenze per aiutare la comunità dei fedeli a superare la costernazione e la perplessità. I troppo numerosi portavoce — paracadutati o autoproclamatisi tali - hanno preferito sostituire la disputa per la tassa halal al dibattito di idee. E la loro triplice dipendenza — finanziaria, politica e 255
teologica — che li lega a degli stati o a degli organismi sovranazionali musulmani rimasti refrattari a qualsiasi desiderio di laicizzazione (a causa delle loro opzioni che subordinano il religioso al politico o che mettono il potere nelle mani dei teologi), li rende incapaci di riallacciarsi a quella libertà di pensiero che non fu una formula vuota nel sistema politico-giuridico-religioso dell’islam medievale. Tenuto conto di questa triste constatazione di carenza, non si può che dare ragione al padre Lustiger quando deplora l’assenza di interlocutori musulmani di qualità con i quali poter avviare una reale e duratura concertazione interreligiosa. Solo l’apertura di uno “spazio scientifico dell’islam garantito dallo stato laico” (Mohammed Arkoun) potrebbe fornire un inizio di soluzione a questa crisi cronica della rappresentanza dei musulmani di Francia. Per far questo ci vorrebbe una rottura definitiva con le esitazioni e le imprecisioni che contribuiscono a ricordarci i cavilli in nome dei quali i poteri coloniali rifiutarono di applicare la legge del 1905? all’islam algerino, indubbiamente per continuare a “mantenere il culto musulmano sotto il controllo della polizia” (Louis Massignon).
Resta da sapere se le autorità delle altre religioni sono disposte a raccomandare che l’islam cessi di essere un culto di seconda categoria. L'atteggiamento adottato da alcune di loro quando i professori Nidas A. Mrad
2 È la cosiddetta “legge doveri in materia di libertà essere applicata anche nei pendenza). In realtà venne
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di separazione tra chiesa e stato” che definisce diritti e religiosa. Come legge della repubblica francese doveva tre dipartimenti francesi dell’ Algeria (prima dell’indi“adattata” per tener conto della realtà locale.
e Mohammed Arkoun hanno proposto - invano - l’apertura di istituti di insegnamento superiore musulmano autorizza ancora interrogativi che meritano chiarimenti convincenti. Sadek Sellam’
3 Articolo pubblicato in La Croix, 6 giugno 1996. Sadek Sellam è autore di Étre musulman aujourd’hui, Nouvelle Cité, Paris 1989.
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LETTERA A MONSIGNOR TEISSIER E ALLA COMUNITÀ CRISTIANA DI ALGERIA DI UNA DONNA MUSULMANA Dopo da noi, re e di fratelli
la tragedia e il “sacrificio” vissuto da voi e dopo le lacrime e il messaggio di vita, di onotolleranza trasmesso a voi e a noi dai nostri monaci, ho deciso di leggere il testamento di
Christian, ad alta voce e con profonda commozione,
ai miei figli perché ho sentito che era destinato a tutti e a tutte.
Volevo dire loro il messaggio di amore per Dio e per gli uomini. La solidarietà umana e l’amore dell’altro è un itinerario che va fino al sacrificio, fino al riposo eterno, fino in fondo. Io e i miei figli siamo molto toccati da una così grande umiltà, un così grande cuore, dalla pace dell’anima e dal perdono. Il testamento di Christian è molto più di un messaggio: è come un sole che ci è trasmesso, ha l’inestimabile valore del sangue versato. Nostro compito è quello di continuare il cammino di pace, di amore di Dio e dell’uomo nelle sue differenze. Nostro compito è innaffiare i “semi” affidatici dai nostri fratelli monaci affinché i fiori crescano un po’ ovunque, belli nella loro varietà di colori e profumi. 259
La chiesa cristiana con la sua presenza tra noi conti-
nui a costruire con noi l’ Algeria della libertà delle fedi e delle differenze, l’universale e l’umanità. Sarà un bel mazzo di fiori per noi e una grande opportunità per tutti e tutte. Grazie alla chiesa di essere presente in mezzo a nol oggi. Grazie a ciascuno e a ciascuna.
Grazie a voi monaci per il vostro grande cuore: continui a battere per noi, sempre presente, sempre tra nol...
É ora riposino tutti in pace, a casa loro, in Algeria. Lettera firmata Orano, 1° giugno 1996
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LETTERA A MONSIGNOR TEISSIER DI UN AMICO MUSULMANO DI FRERE HENRI VERGES
Alla soglia del nuovo anno 1997 questo messaggio vuole essere un atto di affetto e di amicizia. Desidero porgere i miei auguri più sinceri a lei e a tutti i mebri della comunità cristiana che vive in Algeria. Vorrei, mediante questo messaggio, esprimervi il grande sentimento di amicizia, di simpatia e di rispetto che provo per la vostra comunità che continua a vivere in Algeria e a condividere con il popolo algerino le sue sofferenze e le sue disgrazie. In questi momenti sacri che coincidono con le solennità del Natale per i cristiani e lavvicinarsi del mese del ramadan per i musulmani, non possiamo non pensare a Henri Verges e a soeur Hélène, ai monaci trappisti, ai religiosi di Tizi-Ouzou e pregare Dio in tutta la sua clemenza e la sua misericordia affinché accolga nella sua pace le anime di tutti coloro che ci hanno lasciati; preghiamo affinché il loro sacrificio acceleri il ritorno della pace in Algeria. Questi martiri che ci hanno profondamente segnati con la loro fede e la loro umiltà hanno davvero capito che il messaggio di Dio è di portare i credenti a condividere sulla terra l’amore, e non l'odio. Henri Verges un giorno mi disse che dovevamo scegliere chiaramente il par261
tito della pace, del perdono, della fratellanza e della tolleranza, e io penso che sia giunto il tempo di lavorare insieme per porre fine agli errori del passato e per preparare, attraverso la fratellanza, il perdono e la tolleranza, il futuro dei nostri figli, e di restituire a ogni religione la sua vera dimensione spirituale. I santi e gli uomini di Dio sono coloro che confortano i cuori feriti e che incoraggiano le anime spezzate. E nella comunione dei santi che gli uomini di Dio si ritrovano e attraverso la fede in Dio riescono a penetrare il mistero divino grazie al dono della dedizione che viene accordato loro. Solo Dio può far mutare i cuori e le menti. E attraverso la fede che noi possiamo scoprire la nostra forza. Lettera firmata Algeri, dicembre 1996
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IL DRAMMA DI UN AMORE PORTATO FINO ALL’ESTREMO OMELIA PER LA VEGLIA DI PREGHIERA
“Verrà l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio” (Gv 16,2). Questa predizione di Gesù ai suoi discepoli si è realizzata ancora una volta per i nostri sette fratelli di Notre-Dame-de-l’ Atlas. Dei credenti che dicono di essere i folli di Dio hanno assassinato altri credenti pur conosciuti, anch'essi, come degli appassionati di Dio. Gesù ci aveva avvertito di questo tragico malinteso: “Non stupitevi se il mondo vi odia: prima di voi ha odiato me” (Gv 15,18). É neanche Gesù se ne stupisce. Non condanna nemmeno gli assassini. Quasi li scusa: “Faranno ciò — dice —
perché non hanno conosciuto né il Padre né me” (Gv 16,3). E il giorno in cui cadrà lui stesso vittima di un analogo malinteso, pregherà il Padre suo in favore dei suoi carnefici: “Padre, perdona loro, non sanno quello che fanno” (Lc 23,34). E forse l'aspetto che più ci colpisce nel dramma che ha preso con sé i nostri sette fratelli: la sua impressionante somiglianza con il dramma che ha visto soccombere Gesù stesso, il dramma di un amore portato fino al limite estremo; un duplice amore, l’amore per i suoi e l’amore per il Padre suo. 263
“Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13,1). Christian e i suoi fratelli si
erano dedicati interamente alla gente in mezzo alla quale si erano ritirati. Christian parlava la loro lingua, aveva studiato le loro tradizioni e i loro testi sacri, era
vicino alle loro necessità quotidiane. E quando i vicini, come loro, si erano trovati esposti ai colpi di un terrorismo cieco, allora essi hanno scelto, in modo quasi naturale, di condividere fino alla fine i rischi comuni,
senza avvalersi di uno statuto politico diverso per sfuggire alle minacce. Si sentivano algerini con gli algerini, coinvolti allo stesso titolo dei loro fratelli musulmani. Come anche per Gesù, un simile amore aveva la propria sorgente nell’amore per il Padre. Gesù era andato verso la sua passione, come diceva, “perché il mondo sappia che io amo il Padre” (Gv 14,31). Anche 1 fratelli si erano legati a quella terra e a quel popolo, per diffondervi con discrezione l’amore che avevano ricevuto da Dio e per condividerlo con dei fratelli a loro volta amici di Dio, che avevano fatto l’esperienza dello stesso amore di uno stesso Dio unico, attraverso i riti e i
testi della loro cultura religiosa, diversi, sì, ma anche, a volte, così sorprendentemente simili.
Come la testimonianza di Gesù non è stata accolta dai suoi e ha finito per portarlo alla morte, così quella dei nostri fratelli ha potuto portare tutto il suo frutto solo attraversando la morte. Anche qui, niente di sorprendente perché, a detta di Gesù stesso, non c’è amore più grande che dare la vita per coloro che si amano. Questa morte non ha altro senso. Come lo furono poche morti o martìri, la loro morte è stata totalmente trasparente, oserei dire evangelicamente pura: il messaggio e l'esempio di Gesù, nient'altro. Non ci si po264
trebbe augurare una morte più bella. Nessuno può appropriarsi di una morte simile, nessuno può ascriverla a proprio onore, né un paese, né un partito politico e nemmeno un'istituzione religiosa, qualunque sia. Prima del loro rapimento, frère Christian aveva affermato che, se fossero stati presi in ostaggio, si sarebbero comunque rifiutati di presentare una richiesta di liberazione a un governo, francese o algerino, in cambio di qualsiasi cosa. La loro morte non appartiene a nessuno, eccetto a Gesù, e agli umili e ai piccoli, i vicini in mezzo ai quali i nostri fratelli vivevano, e a tutti i poveri di qualunque nazionalità o religione, coloro che Gesù stesso ha sempre prediletto. A costoro appartengono anche i primi frutti della loro morte, come un giorno apparterranno anche ai rapitori e ai carnefici. Anche i carnefici di Gesù avevavo creduto di rendere gloria a Dio mettendolo a morte, ma, così facendo, diventarono a loro insaputa strumenti della redenzione. E qualcuno di loro addirittura lo riconobbe già sul Calvario, semplicemente vedendolo spirare. Anche questa volta, osiamo sperare che i carnefici dei nostri fratelli siano stati gli esecutori inconsapevoli, e senz'altro ingenui e innocenti, di una nuova Pasqua dalla quale sgorgherà un’insperata fraternità tra autentici credenti da una parte e dall’altra, tutti figli dello stesso Dio, grande e misericordio-
so. Attraverso il dolore della separazione, possiamo già renderne grazie a colui che un giorno ci riunirà tutti nel suo amore. Dom André Louf abate di Mont-des-Cats 29 maggio 1996
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UNA PRESENZA DI “VISITAZIONE”
L’idea di raccogliere i testi di frère Christian de Chergé sul mistero della Visitazione mi è venuta dopo aver avuto tra le mani due scritti in cui ho colto che,
per frère Christian, questo mistero esprime al meglio il senso della nostra presenza cristiana in terra d’islam. Da qui un primo motivo di interesse per studiare quello che ha detto o scritto in proposito. Un secondo motivo, che del resto si riallaccia al primo, per me monaco dell’Atlas, è che per due volte, in due omelie, frère Christian dice: “Questo mistero della Visitazione
è una festa ‘quasi patronale’ della comunità, fin dalle origini” Non si tratta quindi di un’idea, di una “trovata” di
frère Christian, ma proprio di una vocazione specifica di Notre-Dame-de-l’ Atlas, percepita e vissuta già da una quarantina d’anni — al momento in cui per la prima volta evoca questo tema — considerato che i primi monaci arrivarono a Tibhirine nel 1938. Ma su questo torneremo. Il primo testo che possiedo, e che a mia conoscenza è anche il primo in ordine di tempo, risale appunto al 1977. Si tratta di una lettera scritta da frère Christian a una suora delle missionarie d’Africa con la quale aveva seguito i corsi di arabo letterario e di islamo267
logia al Pisar! dal 1972 al 1974. All’epoca della lettera, la suora si trovava nello Yemen. Voglio lasciar parlare soprattutto frère Christian: il suo pensiero mi pare chiaro. Così scrive, in risposta a quanto la suora gli confidava sulla sua esperienza nello Yemen: Come non minciato a isolamento segue, con
sentirmi interpellato da quello che hai covivere lì, con le tue due sorelle? Questo per e con Lui; questo popolo che Lui pere attraverso noi: questo piccolo popolo sul
quale si è intenerito, meravigliato, e che è stato, anche
per Lui, portatore dello Spirito: “Ti rendo grazie, Padre, perché ”; questo servizio, così paragonabile a quello di Maria nella sua Visitazione: Maria, anche lei portava nel suo intimo, nel silenzio della contemplazione, un segreto che non spettava a lei rivelare (il che la rassicurava, perché non avrebbe saputo come fare il legame e che parole trovare per dire l’Inafferrabile); questa presenza, necessaria, a chi vuole ascoltare “l’altro”?, salutare come Elisabetta, con quelle parole di annunciazione, con quei gesti di evangelo che solo lo Spirito rivela e che restituiscono la buona novella a colui che la porta in sé (il suo segreto, dicevo!); questa eucaristia che celebra allora la vita comunicata e che fa cadere le barriere come dei “credo” per entrare nel cerchio delle età e degli spazi e dei figli d’ Abramo. Maria, nell’ora del Magnificat non è più la ragazza di Nazaret alla quale è successo qualcosa di inaudito; è il cantore privilegiato dell’azione di grazie nata nel dono del Figlio: la “comunione dei santi” comincia a prendere corpo nel suo seno. Ormai lo sa vi
! Pontificio istituto per gli studi arabo-islamici a Roma. 2 Quando frère Christian usa il termine “altro”, si tratta normalmente del musulmano.
268
acconsente; da Cana al Golgota, lei sarà là, ed è tutto... è tutto.
In questi ultimi tempi mi sono convinto che questo episodio della Visitazione è il vero luogo teologicoscritturistico della missione nel rispetto dell’“altro” che lo Spirito ha già investito. Mi piace una frase di Sullivan che riassume molto bene tutto questo: “Gesù è ciò che accade quando Dio parla senza ostacoli nel cuore di un uomo” In altri termini, quando Dio è libero di parlare e di agire senza ostacoli nella rettitudine di un uomo, quest'uomo parla e agisce come Gesù: c’era da aspettarselo! Cerca di essere “senza ostacoli” e non cesserai di meravigliarti... di eucaristizzarti (beh, non è molto eufonico!).
Trovo molto bello questo testo. Vent'anni prima di dare la propria vita per colui che gliela avrebbe presa, frère Christian aveva già un’idea molto chiara, e forse anche già definitiva, su quello che deve essere la presenza della chiesa in terra d’islam. Il secondo testo che ho tra le mani è l’omelia di frère Christian per la professione semplice di frère Philippe, il 31 maggio 1989. Un testo non meno bello del precedente. Ecco Maria “professa semplice” (il suo sì è recentissi-
mo): si lancia sulla strada verso la montagna per fare il noviziato della sua maternità universale... Maria, votata a portare Cristo in sé, fuori da casa sua, come ciascuno di noi. E a servire umilmente affinché lo Spirito faccia trasalire il figlio di Dio ancora in gestazione nel “totalmente altro” ‘Tu, Philippe, hai già saputo questo: basta essere là, con tutta la propria fiducia, 269
perché “Paltro” si apra più avanti. E tu intuisci che Pislam stesso può rivelarsi nel suo legame al Cristo che tu vorresti portargli, per poco che tu gli offra, nell’incavo di una Visitazione permanente, un cuore disponibile all’impossibile che ci viene da Dio.
Il terzo testo che vorrei citare precede di poco più di un anno quello appena letto. L’ho trovato nel Bulletin du Ribàt?. Ribât significa “legame di pace”: è un gruppo “islamo-cristiano” i cui membri si incontrano due volte all’anno e condividono il proprio vissuto nei sei mesi appena trascorsi, su un tema che si ritrova in entrambe le tradizioni religiose e che è stato scelto nell’incontro precedente. Frère Christian era il co-fondatore del Ribdt assieme a Claude Rault, l’attuale vescovo del Sahara. Anche adesso il Ribét continua a riunirsi: il tema scelto per la riunione di aprile 2005, per esempio, è “Io cerco il suo volto nel profondo dei vostri cuori”. Ma torniamo al resoconto della riunione di gennaio 1988. Lì frère Christian afferma: Se gli eventi ci sconvolgono, lasciamo che ci sconvolgano! Lo Spirito santo è colui che fa saltare le frontiere. Saper riconoscere la presenza dello Spirito santo che agisce nel cuore dell’“altro” gli conferisce fascino e fa evolvere e crescere qualcosa in me: “Tu non sei lontano dal Regno e hai permesso anche a me di avvicinarmi ad esso” Siamo quindi invitati a essere continuamente in stato di Visitazione, come Maria accanto a Elisabetta, per magnificare il Signore per e in me. quanto ha compiuto nell’“altro” 3 Bulletin du Ribàt 8, gennaio 1988, p. 3. Sul Ribét cf. anche supra, pp. 75-76.
270
Il quarto testo venne presentato da frère Christian alle Giornate romane del settembre 1989, solo tre mesi dopo la professione di frère Philippe. In questo ampio testo, un passaggio evoca nuovamente il mistero della Visitazione. Frère Christian afferma: Questo mistero è proprio quello dell’ospitalità reciproca più completa, come mi diceva un amico musulmano commentando il “cammino di Maria”: lo Spirito santo è sempre con chi prende Maria con sé. E bene che la chiesa metta questo mistero della Visitazione sempre più al cuore della “fretta” che porta verso “l’altro” (cioè verso ogni essere umano).
E allora
che scopre la propria missione, come diceva padre Jean-Marie Raimbaud, vescovo del Sahara: “La missione sotto lazione dello Spirito santo è la confluenza di due grazie, l’una concessa all’inviato, l’altra al chiamato Il cristiano si sforza di leggere ciò che Dio gli dice attraverso la persona del non cristiano, si sforza anche di essere lui stesso con la sua comunità un segno visibile, una parola la più chiara possibile di Dio, Padre, Figlio e Spirito “Il regno di Dio è qui, in mezzo a voi. Avremo cuori di poveri per accoglierlo?” Cuori di poveri da cui può sgorgare il Magnificat ripetuto all’infinito in eucaristia.
Il quinto testo non è scritto, ma registrato: si tratta di un ritiro che frère Christian ha predicato alle piccole sorelle di Gesù in Marocco nel novembre 1990, avente per tema “Il Cantico dei cantici e l’Apocalisse” Il 21 novembre, in occasione della festa della Presentazione
di Maria al tempio, all’inizio di una meditazione, frère Christian ritorna, e a lungo, su questo mistero della Visitazione: è il testo più ampio che abbiamo su que271
sto tema, e anche il più sviluppato. Frère Christian esordisce affermando: “E assolutamente evidente che dobbiamo privilegiare questo ‘mistero’ nella nostra chiesa” Poi immagina che noi ci troviamo nella situazione di Maria che va a trovare la cugina Elisabetta portando dentro di sé “un segreto vivente”, una “buona notizia vivente” Si immagina l’imbarazzo di Maria che non sa come fare per rivelare questo segreto, che è anche il segreto di Dio: bisogna dirlo? E come? Bisogna tenerlo nascosto? Ed ecco che accade qualcosa di simile nel grembo di Elisabetta: anche lei porta un bambino... Quello che Maria non sa è di essere proprio lei il legame, il rapporto tra i due bambini. Sa che esiste un legame, perché è il “segno” che le è stato dato: “Ecco, anche tua cugina Elisabetta ’ (Lc 1,36). E così prosegue frère Christian:
Lo stesso accade per la nostra chiesa che porta in sé una buona notizia. E la nostra chiesa siamo ciascuno di noi. Anche noi siamo venuti un po’ come Maria, innanzitutto per rendere un servizio: è il suo primo intento... Ma portiamo anche questa buona notizia, e come fare per dirla? E sappiamo che coloro che siamo venuti a incontrare sono un po’ come Elisabetta: portatori di un messaggio che viene da Dio. E la nostra chiesa non ci dice — non lo sa — qual è il legame esatto tra la buona notizia che portiamo e quel messaggio che fa vivere “l’altro” In fondo la mia chiesa non mi dice qual è il legame tra Cristo e l’islam. E io vado verso i musulmani senza sapere qual è il legame. Ed ecco che quando Maria arriva, è Elisabetta a
parlare per prima... Anzi, non esattamente, perché Maria ha salutato sua cugina, le ha detto: “Pace, la pace sia con te” E questo è qualcosa che possiamo 272
fare. Questo semplice saluto ha fatto vibrare qualcosa, “qualcuno” in Elisabetta. E in questo sussulto “qualcosa” è stato detto, qualcosa che era la buona notizia, non “tutta” la buona notizia, ma ciò che di essa si poteva percepire in quel momento. “A che debbo che il bambino che ho in grembo abbia sussultato?”, dice Elisabetta. E con ogni probabilità anche il bambino che era nel grembo di Maria ha sussultato. E chi dei due ha sussultato per primo? In fondo, l’evento si è prodotto tra i bambini...
Tutte le parole usate da frère Christian sono “importanti”, sono “portatrici” di senso per cogliere il suo pensiero: ci basta trasporre quanto è accaduto tra Maria ed Elisabetta, tra Gesù e Giovanni Battista, al rapporto tra la chiesa e l’islam, tra noi e i musulmani. Così prosegue frère Christian, con una riflessione intensa e profonda: Elisabetta ha liberato il Magnificat di Maria. Se siamo attenti e se ci situiamo a quel livello, ponendo il nostro “incontro” con “l’altro”, il musulmano, in un’attenzione, una volontà di raggiungerlo e anche in un bisogno di ciò che lui è e di ciò che ha da dirci, allora, verosimilmente, ci dirà “qualcosa” che andrà a collegarsi con quello che noi portiamo, con la buona notizia, mostrando che vi è una connivenza e permettendoci di elargire la nostra eucaristia: la prima eucaristia della chiesa è il Magnificat di Maria.
E per terminare questo commento alla Visitazione, frère Christian racconta la storia ben nota del pozzo*.
4 Cf. supra, p. 71.
213
Un giovane musulmano, loro vicino, aveva chiesto a frère Christian di insegnargli a pregare nella fede musulmana. Così si ritrovavano regolarmente, fino al giorno in cui, dopo un periodo di assenza di frère Christian, il giovane gli dice: “È da tanto tempo che non abbiamo più scavato il nostro pozzo” E queste parole dell’ “altro” hanno vibrato in frère Christian e hanno liberato un Magnificat (nella cassetta si sente frère Christian esclamare commosso: “Era così bello ”). Da quel momento, l’espressione “scavare il pozzo” era rimasta lì tra loro due. Finché qualche tempo dopo, scherzando, frère Christian aveva chiesto al giovane amico: “E in fondo al nostro pozzo, cosa troveremo? Acqua musulmana o acqua cristiana?” E il giovane, che non aveva preso sul ridere la domanda, rispose: “Insomma, ci conosciamo da così tanto tempo e tu ti poni ancora questo interrogativo? Sai, quello che si trova in fondo a questo pozzo è l’acqua di Dio” “Non credo ci sia risposta migliore”, concludeva frère Christian rievocando la vicenda con le piccole sorelle. Sì, trovo bello e significativo che frère Christian stesso termini il suo commento al mistero della Visitazione con la sua storia del pozzo e con il nesso che richiama: il “segreto” di Maria, liberato da Elisabetta, che esplode nel Magnificat; il “segreto” di frère Christian, liberato dal suo amico musulmano, che a sua vol-
ta esplode in un Magnificat. In entrambi i casi un Magnificat possibile solo grazie all’azione di tutti e due: del resto, nel Maghreb si può scavare un pozzo a mano solo se si è in due, uno che scava dentro il buco e l’altro che dall’esterno del pozzo tira fuori la terra con un secchio e una corda.
274
Un sesto testo è l’omelia per la festa della Visitazione il 31 maggio 1993. E siccome quell’anno la Visitazione coincideva con l’Aid, frère Christian, come ci si po-
teva facilmente immaginare, tracciò un parallelo tra le due feste. Riprenderò qui solo la fine dell’omelia, che riguarda il nostro tema: È qui che può e deve compiersi la Visitazione della chiesa al popolo dei musulmani. Come? La chiesa è venuta in questo paese per un’urgenza di servizio o già di presenza (non bisogna dimenticarlo in questo tempo di smarrimento): un parto nel dolore. Come Maria, porta in sé Emmanuele. È il suo segreto. Non sa come dirlo. Anzi, deve davvero dirlo? Ed ecco che spesso è “l’altro”, il musulmano, che prende l’iniziativa della salvezza, come Elisabetta che parla per prima nella libertà dello Spirito di cui sappiamo quanto è capace di svelare della comunione profonda, oltre tutte le frontiere e le differenze. Allora qualcosa si libera anche in noi, una parola irresistibile, quella di un Magnificat, un cantico a due voci (un pozzo scavato a due mani, potremmo aggiungere) e a volto unico (quello dello Spirito), preludio alla riconciliazione che è sacrificio e dono di sé, preludio all’eucaristia che è mistero della fede e viatico per umanità in pellegrinaggio verso quel Dio che non cessa di compiere meraviglie: “Santo è il suo Nome!”
Sono testi di tale densità... C’è da restare senza fiato a seguire frère Christian. E, al contempo, c’è anche di che meravigliarsi, di esplodere in un Magnificat di fronte al suo pensiero, così ricco, così profondo... e anche così profetico. Vorrei ora citare un ultimo testo, il settimo. Si tratta del famoso brano intitolato “Fratello di una sola not275
te”. Frère Christian era rimasto in cappella per pregare dopo compieta, alla fine della giornata. Quand’ecco che un ospite, un musulmano, si avvicina e prega anche lui, in cappella... Dopo un lungo silenzio, si leva un mormorio di preghiera dalla parte del musulmano, intercalato da sospiri. Poi, quel musulmano chiede a frère Christian di pregare per lui. Allora si intreccia una preghiera a due voci: l’arabo e il francese si mescolano, si raggiungono misteriosamente, si rispondono, si fondono e si confondono, si completano e si coniugano. Il musulmano invoca Cristo. Il cristiano si sottomette al piano di Dio su tutti i credenti ... La lode allora deborda dal luogo e dall’ora.
Ed ecco che arriva in cappella il fratello foresterario, venuto a cercare l’ospite. Quando li scorge tutti e due, frère Christian e il musulmano, non osa quasi crederci, ma molto semplicemente si unisce a loro. La Parola ci è subito venuta incontro: “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro!” Nota dopo nota, la sinfonia si costruisce nella fusione di queste tre diverse espressioni di un’unica e medesima fedeltà: quella dello Spirito che è in Dio, che narra Dio! Avevo paura, poi mi sono buttato: c’era in me come una forza che mi ha spinto...
È io aggiungo: una forza come quella che ha fatto sussultare il bambino in grembo a Elisabetta. Il giorno
? Cf. supra, pp. 47-51.
276
successivo il musulmano confesserà di aver avuto voglia di danzare e di aver poi fatto per quattro volte il giro delle case, cantando, perché: “Tutto è semplice quando è Dio che ci guida” In questo testo di frère Christian non c’è alcuna allusione al mistero della Visitazione eppure è proprio quello che si è vissuto. Questo episodio è un vertice per cogliere nel vissuto ciò che frère Christian ha commentato negli altri brani citati. E proprio “l’incontro” tra la chiesa e l’islam che è avvenuto in quella “notte di fuoco”. E questo “incontro” è sfociato nello sgorgare di un Magnificat a due voci — anzi, a tre - mosso da un solo e unico Spirito. Sì, questa “esperienza vissuta” di frère Christian con un fratello musulmano sembra essere come il punto di arrivo di una lunga ricerca, di molteplici tentativi in quest'ambito del dialogo islamo-cristiano. Ed ecco che, viceversa, questa “esperienza” si situa all’inizio del suo cammino: è senz’altro da lì che è scaturita tutta la riflessione di frère Christian sulla presenza cristiana in terra d’islam, è questa esperienza che gli ha dato la certezza che il mistero della Visitazione è quello che meglio la esprime. E questa esperienza che è all’origine della riflessione di frère Christian perché l’episodio risale al 24 settembre 1975: poco più di un anno dopo che frère Christian era ritornato dal PISAI; e in nota a questo testo, un anno dopo, frère Christian aggiunge, non senza nostalgia: “Non ho rivisto questo fratello di una sola notte. Esiste. Mi narra tutti gli altri”
211
*
*
Vorrei tornare un momento su quella frase di frère Christian che ho citato all’inizio di queste riflessioni: “Questo mistero della Visitazione è una festa ‘quasi patronale’ di Notre-Dame-de-l' Atlas” Ho fatto qualche ricerca, ed ecco la mia conclusione.
Nella sua omelia del 31 maggio 1993, frère Christian precisa che è “forse sotto l’ispirazione di frère Charles che i primi monaci dell’Atlas hanno fatto di questa festa, una festa ‘quasi patronale’”. Effettivamente, sappiamo da numerosi testi che questa era un'intuizione forte di padre de Foucauld: per quanto mi risulta, l’eremita di Tamanrasset è stato il primo ad aver capito che è proprio questo “mistero” che siamo chiamati a vivere in terra d’islam. E “Notre-Dame-de-l' Atlas”, la statua che reca questo nome, si trova sulla montagna in un luogo molto elevato, visibile da tutta la contrada: domina il monastero e l’intera regione. E una statua che proviene da Staoueli, il primo monastero trappista presente in Al-
geria dal 1843 al 1904. Troviamo testimoniato che padre de Foucauld, avendo vissuto per un certo tempo a Staoueli, ha pregato davanti a questa statua. Ben presto, quindi, i nostri primi fratelli dell’ Atlas hanno fatto il collegamento tra frère Charles de Foucauld, questa statua, il mistero della Visitazione - che gli era così caro — e il loro motto. Non dimentichiamo che padre de Foucauld è stato fatto conoscere al mondo dal libro di René Bazin nel 1921. Di quel volume abbiamo ereditato diversi esemplari, la cui condizione mostra che sono stati molto 278
letti. Il motto dell’Atlas è “un segno sulla montagna” Questo segno, nello stemma del monastero, è la croce, sulla cima dei monti dell’ Atlante. Ma, più discreta, nell’angolo sinistro dello stemma, vi è anche una stella, e la stella, come ben sappiamo, rappresenta Maria. Ebbene, i nostri primi fratelli, invece di conservare questa statua che proveniva da Staoueli all’interno delle mura del monastero, un anno dopo il loro arrivo a Tibhirine, sono andati a collocarla su un basamento di cemento alto quattro metri, sulla vetta della montagna. E per loro Maria divenne davvero “il nuovo segno sulla montagna” Non Maria da sola, ma Maria con Gesù. Non Gesù nelle braccia di Maria, ma Gesù nel grembo di Maria. Infatti questa statua, “Notre-Damede-l’ Atlas” rappresenta, caso abbastanza raro, una Vergine incinta sulla cui cintura vi è la testa di un piccolo angelo: Maria che porta Gesù, Maria nella sua Visitazione, nella sua “fretta” verso “l’altro” Nostra Signora nella sua Visitazione: sì, Notre-Dame-de-l’ Atlas
ha adempiuto la sua “missione” I nostri sette fratelli sono stati rapiti all’indomani della celebrazione dell’ Annunciazione, il 26 marzo 1996, e i loro resti, le teste, sono stati ritrovati alla vigilia della festa della Visitazione, il 30 maggio 1996. I nostri fratelli sono rimasti nascosti tutta la loro vita, ma più ancora durante i loro ultimi cinquantasei giorni: nascosti come nel grembo di una madre. Poi, la testimonianza del dono della loro vita per amore è stato il “segno”, il sussulto che ha sprigionato una moltitudine di Magnificat ovunque nel mondo e, innanzitutto, in mezzo “all’altro”, l’islam. Se l’Atlas in Algeria è un “segno” che rimane, questo segno va ancora dato ovunque nel mondo, fino al 279
a ri Ma , sa te at ta es qu In . to is Cr di vo ti ni fi de ritorno si“vi a re ua in nt co mo ia bb do lei n co i no e continua, onu e nt me te an ss ce in o in gh or sg hé nc fi af , o” tr al l’ tare mo ia ss po ” ro lt ’a ll “a e em si as , hé nc fi af , at ic if gn vi Ma “scavare i nostri pozzi” e trovarvi l’acqua di Dio. Frère Jean-Pierre Flachaire as*® Atll' priore di Notre-Dame-deConferenza tenuta a Marsiglia il 5 marzo 2005
6 Nonostante il vivo desiderio di molti - nella chiesa algerina come nel mondo monastico e tra gli abitanti musulmani della regione - e qualche tentativo, la vita monastica non ha più potuto riprendere a Tibhirine dopo il rapimento e l’uccisione dei sette monaci. Nel frattempo, la piccola presenza che Tibhirine aveva a Fès in Marocco si è spostata in un luogo maggiormente in disparte, a Midelt, dove ha ripreso il nome di Notre-Dame-de-l’ Atlas, dando al luogo originario dell'Algeria, dove riposano i corpi dei sette fratelli, il nome di Notre-Dame-de-Tibhirine.
280
INDICE
PREFAZIONE 15 I7 IQ 25 28 30 32
35 39
Introduzione IL MARTIRIO DELL'AMORE Un giardino di pace Verso una comunione d'’intenti Violenza chiama violenza Il martirio, realtà sempre più familiare Il compimento di una vita Due cammini aperti CRONOLOGIA DEGLI EVENTI NOTA BIBLIOGRAFICA
43
PARTE PRIMA TESTI DEI MONACI
45
FOGLIO DI PRESENTAZIONE DEL MONASTERO AGLI OSPITI
FRATELLO DI UNA SOLA NOTTE PROFESSIONE SOLENNE DI FRÈRE CHRISTIAN ORANTI IN MEZZO AD ALTRI ORANTI La speranza detta altrimenti... Un aldilà sotto il segno del tempo Pellegrini dell’orizzonte... E Gesù Cristo? Una società in via di sviluppo spirituale La chiamata monastica L’esodo di ogni lectio divina Una via ascendente Chiamati all’umiltà Un’emulazione spirituale Il fascino dello Spirito Verso l’aldilà 281
75
PREPOSIZIONI DEL “RIBÂT ES-SALÂM” PER CONCRETIZZARE OGGI UNA VOLONTÀ DI COMUNIONE
77
LETTERA CIRCOLARE DELLA COMUNITÀ
77 78 80 82 82 83 84 85 86 87 88 8o 8o ox
Atlas-Atlante Pierre Da Louis a François Berdine Philippe Ali Philippe Mohammed Ribat Henri Guy Marie e Danielle Algeria Fiducia
93
QUESTIONARIO IN PREPARAZIONE AL SINODO 1994 SULLA VITA CONSACRATA
105
CONFERENZA DI FRÈRE CHRISTIAN
121
QUARESIMA E RAMADAN. ASPETTIAMO UN ALTRO APPUNTAMENTO?
127
FESTA DELL’ESALTAZIONE DELLA CROCE
131
SENTINELLE, A CHE PUNTO È LA NOSTRA NOTTE?
133
CRONOLOGIA DEGLI AVVENIMENTI
141
RELAZIONE DI FRÈRE CHRISTOPHE
145
. SE TACESSIMO, GRIDEREBBERO LE PIETRE DEL WADI...
151
“OSCURI TESTIMONI DI UNA SPERANZA”
159
LETTERACIRCOLARE DELLA COMUNITÀ
163
LETTERA DI FRÈRE PAUL
167
LETTERA CIRCOLARE DELLA COMUNITÀ
173
O DIO, SEI TU LA NOSTRA SPERANZA SUL VOLTO DI TUTTI I VIVENTI!
282
IŜI
LETTERA CIRCOLARE DELLA COMUNITÀ
187
OMELIA DI FRÈRE CHRISTIAN
IQI
192
192 192 193 193 193 194 194 195 195 196 196 197 197 198 198 198 199 199 200 200 20I
203 203 205 206 209 2II 215 215 216 217 218 221I
NELLA SITUAZIONE ATTUALE, COME CI RICOLLEGHIAMO AL CARISMA DEL NOSTRO ORDINE? Espressioni diverse per tentare di dire uno stesso carisma vissuto insieme, a Tibhirine, oggi... Presenza Segno Contemplazione Felicità E l’ordine? Un carisma di chiesa sepolto in terra umana, a Tibhirine Considerazione previa La vita continua Equilibrio in tensione Una “offerta di vita” all’erta La nota di speranza Le note, giorno dopo giorno, del carisma di sempre: un modo quotidiano di esprimere la speranza a Tibhirine... Preghiera Lectio divina Lavoro Accoglienza: uno spazio di misericordia e di compassione Separazione dal mondo: un evangelo della differenza Legame spirituale con l’islam Equilibrio economico Protezione della natura A mo’ di conclusione
LETTERA CIRCOLARE DELLA COMUNITÀ Cose semplici... Cose belle... Le cose difficili (dura et aspera) Le cose buone... E per finire, le cose... da seguire
SPERANZA A PERDITA DI VITA Liturgia di speranza E cibo di speranza Jom Kippur: 5 ottobre, ad Ancona E ancora
RIFLESSIONI DI FRÈRE CHRISTIAN PER LA QUARESIMA 283
225
LETTERA DI FRÈRE LUC
227 227
DAGLI SCRITTI DI FRÈRE CHRISTOPHE
229
TESTAMENTO SPIRITUALE DI FRÈRE CHRISTIAN QUANDO SI PROFILA UN AD-DIO
235
PARTE SECONDA TESTIMONIANZE
237
UN ALBERO CHE ESISTE SILENZIOSAMENTE NELLA NOTTE
Testamento di frère Christophe
ERANO MIEI FRATELLI, ERANO MONACI...
249
FATWA DEL CONSIGLIO NAZIONALE DEGLI IMAM
253 259
COSTERNAZIONE E PERPLESSITÀ LETTERA A MONSIGNOR TEISSIER E ALLA COMUNITA CRISTIANA DI ALGERIA DI UNA DONNA MUSULMANA
261
LETTERA A MONSIGNOR TEISSIER DI UN AMICO MUSULMANO DI FRERE HENRI VERGES
263
IL DRAMMA DI UN AMORE PORTATO FINO ALL’ESTREMO. OMELIA PER LAVEGLIA DI PREGHIERA
267
UNA PRESENZA DI “VISITAZIONE”
284
QIQAJON
EDIZIONI
DI BOSE
- COMUNITÀ
13887 MAGNANO
(BI)
TEL. 015.679.115 —- FAX 015.679.49.49 e-mail: [email protected] www.gigajon.it VOLUMI
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COMMENTI
2010
BIBLICI
D.ATTINGER, Parlare di Dio o parlare con lui? Il libro di Giobbe
E. BrAaNcHI, Magnificat, Benedictus, Nunc dimittis
A. MELLO, Geremia
E. BIANCHI, L. MANICARDI, La carità nel-
E. BIANCHI, L'Apocalisse di Giovanni INDICE
CONCETTUALE
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la chiesa DEL
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SPIRITUALITÀ BIBLICA D. ATTINGER, Atti degli apostoli: la Parola cresceva... P. BEAUCHAMP, Testamento biblico E. BIANCHI, Adamo, dove sei? Commen-
to esegetico-spirituale a Gen 1-11
E. BIANCHI, Ascoltare la Parola. Bibbia e
Spirito: la “lectio divina” nella chiesa Y.-M. BLANCHARD, C. FOCANT, D. GERBER, D. MARGUERAT, J.-M. SEVRIN, Ritratti di Gesù
L. Bouyer, La Bibbia e il Vangelo. Il senso della Scrittura: dal Dio che parla al Dio fatto uomo F.G.BRAMBILLA, Chi è Gesù? Alla ricerca del volto G. Bruni, Mi chiameranno beata
L. MANICARDI, Guida alla conoscenza della Bibbia L. MazzincHI, Tobia: il cammino della coppia A. MELLO, Evangelo secondo Matteo A. MELLO, Leggere e pregare i Salmi A. MELLO, La passione dei profeti A. MELLO, I Salmi: un libro per pregare M. M. Morfino, Leggere la Bibbia con la vita J.-M. PoFFET, Beato l’uomo F. Rossi DE Gasperis, Maria di Nazaret. Icona di Israele e della Chiesa
A. WENIN, Dalla violenza alla speranza AaA.Vv., La lectio divina nella vita religiosa
J. Corgon, La gioia del Padre V. Fusco, La casa sulla roccia
Gruppo DI DoMBES, Maria, nel disegno di Dio e nella comunione dei santi
AA.Vv., La pace: dono e profezia AA.Vv., La Parola edifica la comunità
SPIRITUALITÀ EBRAICA A.-C.Avri,
P.LENHARDT,
La
lettura
ebraica della Scrittura
M. BuBER, I/ cammino dell’uomo A. CHOURAQUI, Gesù e Paolo
Commenti rabbinici allo Shema‘ Jisra'el P. DE BENEDETTI, Ciò che tarda avverrà Detti di rabbini. Pirgè Avot J.ELICHAJ, Ebrei e cristiani. Dal pregiudizio al dialogo
R. FABRIS, Uno nella mia mano. Israele e Chiesa in cammino verso l’unità R. GIRARD, La pietra scartata
J. HEINEMANN, La preghiera ebraica A.J. HEscHEL, I canto della libertà A.J. HEScHEL, La discesa della Shekinah A.J. HEscHEL, L'uomo alla ricerca di Dio A. KACYZNE, Le perle malate RABBI JISHMA EL, I/ cantico presso il mare
Rasni ni Troyes, Commento al Cantico dei cantici PADRI
risorto. Omelie pasquali inedite ANTONIO IL GRANDE, Secondo il vangelo. Le venti lettere tradotte dall’arabo Detti inediti dei padri del deserto Pacomio e i suoi discepoli: regole e scritti Parole dal deserto. Detti inediti di Iperechio, Stefano di Tebe e Zosima
DI CESAREA, Le regole misericordia. Virtù di san Macario PonNTIcO, Trattato pratico Pontico, Contro i pensieri mal-
vagi EvaGrIO PonTICO, Per conoscere Lui
PseuDo-MACARIO, Spirito e fuoco. Omelie Nella tradizione basiliana. Costituzioni ascetiche, ammonizione a un figlio spirituale Cercare Dio nel deserto. Vita di Caritone PADRI
Letture dal midrash sui Salmi ORIENTALI
PADRI DELLA CHIESA D'ORIENTE, Cristo è
BASILIO Umiltà e EvaGRIO EvacrIO
Un mondo di grazia, Midrash Tebillim.
Nel deserto accanto ai fratelli. Vite di Gerasimo e Giorgio di Choziba GIOVANNI CLIMACO, La scala Isacco DI NINIVE, Discorsi ascetici. Terza collezione Isacco DI NInIVE, Discorsi spirituali e altri opuscoli Teoporo STUDITA, Nelle prove, la fiducia. Piccole catechesi
NICOLA DELLA SANTA MONTAGNA, Alle origini dell Athos. Vita di Pietro lA-
thonita NERSsEs DI LAMBRON,
Il primato della
carità. Discorso sinodale TEOLEPTO DI FILADELFIA, Lettere e discorsi
GREGORIO PALAMAsS, discese”. Omelie
“Abbassò i cieli e
I PADRI ESICASTI, L'amore della quiete. L’esicasmo bizantino tra XII e XV sec.
OCCIDENTALI
Giovanni Cassiano, Abba, cos'è la pre-
ghiera? Conferenze sulla preghiera GIOVANNI CASSIANO, Le istituzioni cenobitiche CESARIO D'ARLES, Predicare la Parola
GrecorIo Magno, Crescere nella fede ATTONE DI VERCELLI, Omelie BRUNO DI QUERFURT, Storia di cinque compagni
STEFANO DI MuRreET, L'evangelo e nienaltro I PADRI CAMALDOLESI, Privilegio d’amore. Fonti camaldolesi I PADRI VALLOMBROSANI, Ne/ solco dell’evangelo. Fonti vallombrosane I PADRI CISTERCENSI, Una medesima carità. Gli inizi cistercensi I PADRI CERTOSINI, Una parola dal silenzio. Fonti certosine, I. Le lettere I PADRI CERTOSINI, Fratelli nel deserto. Fonti certosine, II. Testi normativi, testimonianze documentarie e letterarie
PADRI MONASTICI DEL XII SECOLO, La sa-
pienza del cuore I PADRI OLIVETANI, Per una rinnovata fedeltà. Fonti olivetane RUPERTO DI DEUTZ, Commento al Cantico dei cantici RUPERTO DI DEUTZ, Dio è buono GUGLIELMO DI SAINT-THIERRY, Conterz-
plazione
GUGLIELMO DI SAINT-THIERRY, Natura
e grandezza dell’amore GUGLIELMO
DI SAINT-THIERRY,
meditazione alla preghiera
Dalla
GUGLIELMO DI SAINT-THIERRY, Cormzmento al Cantico dei cantici GUGLIELMO DI SAINT-THIERRY, Lettera d’oro GueRRICcO D'IGNY, Serzzoni
BaLpoviNO DI Forp, Perfetti nell'amore Guico II CerTtoSsINO, Tornerò al mio cuore Regole monastiche d’occidente, da Agostino a Francesco d’ Assisi
SPIRITUALITÀ ORIENTALE P. DESELLE, I/ vangelo nel deserto. Un itinerario di spiritualità N.DevILLIERS, Antonio e la lotta spirituale P. Desene, E. BIANCHI, Pacormio e la vita comunitaria
AaA.Vv., Abba, L. REGNAULT, scoste in Dio L. REGNAULT, deserto
dimmi una parola! I/ deserto parla. Vite nae aperte al prossimo Ascoltare oggi i padri del
B. Warp, Donne del deserto
D. BURTON-CHRISTIE, La parola nel deserto. Scrittura e ricerca della santità
J. CHRyYssaAvGIS, A/ cuore del deserto. La spiritualità dei padri e delle madri del deserto
G.GouLp, La comunità. I rapporti fraterni nel deserto Fuoco ardente. Guida spirituale P. MIQUEL, Lessico del deserto. Le parole della spiritualità AA.Vv., Basilio tra oriente e occidente G. Bunce, Akedia. Il male oscuro
G. BUNGE, La paternità spirituale. Il vero “gnostico” nel pensiero di Evagrio G. BUNGE, Vasi di argilla. La prassi della preghiera personale G. Bunce, Vino dei draghi e pane degli angeli. Dall’ira alla mitezza S.CHiarà, Abramo di Kashkar e la sua comunità
I. ALFEEV, La forza dell'amore. L’universo spirituale di Isacco il Siro M. NicoLini-ZANI, La via radiosa per l'oriente I. HausHERR, Philautia. Dall’amore di sé alla carità J. MEYENDORFF, Lo scisma tra Roma e
Costantinopoli Ignazio E Teoposrio DI MANJAVA, Sotto-
messi all’evangelo. Vita di Iov di Manjava, Testamento di Teodosio, Regola Parsg VELICKOvsKI, Autobiografia di uno starec
Racconti di un pellegrino russo S. SALVESTRONI, Dostoevskij e la Bibbia
P. Evpoxmov, Serafim di Sarov, uomo dello Spirito N. Arsenev, V. Lossky, Padri nello Spi-
rito. La paternità spirituale in Russia J. B. DunLor, Arvrosij di Optina P. A. FLORENSKJ, Il sale della terra. Vita dello starec Isidoro
I. ALFEEV, La gloria del Nome. L’opera dello schimonaco Ilarion e la controversia athonita sul Nome di Dio
H. DESTIVELLE, La chiesa del concilio di Mosca (1917-1918)
J.-C.LArcHET, San Silvano del Monte Athos SILVANO DELL’ ATHOS, Non disperare! Scritti inediti e vita S. MERLO, Una vita per gli ultimi. Le missioni dell’archimandrita Spiridon N. KAUCHTSCcHISCHWILI, Mat’ Marija. Il cammino di una monaca. Vita e scritti
S. SALVESTRONI, I/ cinema di Tarkovskij e la tradizione russa V.LossKky, Conoscere Dio
G. FLorovsKy, Cristo, lo Spirito, la chiesa M. LoT-BORODINE, Perché l'uomo diventi Dio P. Evpoxmov, Il matrimonio, sacramento dell'amore
AA.Vv., L’occidente visto dall’oriente
I. BALAN, Volti e parole dei padri del deserto romeno
A. SCRIMA, I/ padre spirituale MATTA EL MESKIN, Comunione nell'amore MATTA EL MESKIN, I/ cristiano: nuova creatura
MATTA nella Cantare della
EL MESKIN, L'esperienza di Dio preghiera la gloria del Signore. Preghiere liturgia bizantina
I. ZIZIOULAS, Il creato come eucaristia
I. ZIZIOULAS, Eucaristia e regno di Dio O. CLEMENT, Occhio di fuoco K. WARE, Dire Dio oggi. Il cammino del cristiano K. Ware, Riconoscete Cristo in voi?
Icnazio IV, L'arte del dialogo G. Kuopr’, Nella nudità di Cristo
AA.Vv., Santità: vita nello Spirito AA.Vv., Lo Spirito e la chiesa Aa.Vv., Il deserto di Gaza. Barsanufio, Giovanni e Doroteo AA.Vv., Giovanni Climaco e il Sinai
AA.Vv., Giovanni di Damasco. Un padre al sorgere dell'Islam AA.Vv., Simeone il Nuovo Teologo e il monachesimo a Costantinopoli AA.Vv., Monte AA.Vv., turgia AA.Vv.,
AA.Vv., calia AA.Vv., AA.Vv., AA.Vv., AA.Vv.,
Atanasio e il monachesimo al Athos Nicola Cabasilas e la divina li-
Amore del bello
Nicodemo l’Aghiorita e la FiloSan Sergio e il suo tempo Andrej Rublev e l’icona russa Nil Sorskîij e l’esicasmo Paisij, lo starec
AA.Vv., San Serafim: da Sarov a Diveevo AA.Vv., Silvano dell Athos AA.Vv., La grande vigilia AA.Vv., L'autunno della Santa Russia AA.Vv., La notte della chiesa russa AA.Vv., Forme della santità russa AA.Vv., Vie del monachesimo russo AA.Vv., La preghiera di Gesù nella spiritualità russa del x1x secolo AA.Vv., Optina Pustyn’ e la paternità spirituale AA.Vv., IL concilio di Mosca AA.Vv., Le missioni della chiesa ortodossa russa
AA.Vv., Il Cristo trasfigurato nella tradizione spirituale ortodossa AA.Vv., La paternità spirituale nella tradizione ortodossa
AA.Vv., La lotta spirituale nella tradizione ortodossa
SPIRITUALITÀ OCCIDENTALE M. I. ANGELINI, Niente è senza voce. La A. Lour, La vita spirituale vita monastica oggi PICCOLA SORELLA ANNIE DI GESÙ, Charles de Foucauld PICCOLA SORELLA ANNUNZIATA DI GESÙ, Charles de Foucauld e l'islam E. BIANCHI, I mantello di Elia
E. BrancHI, Non siamo migliori. La vita religiosa nella chiesa, tra gli uomini A. CHATELARD, Charles de Foucauld. Verso Tamanrasset B. CHENU, Tracce del volto C. FaLcumı, Volto del monaco, volto dell’uomo. Saggio di antropologia monastica nella “Regola” di Benedetto C. GENNARO, Chiara d’ Assisi D. GonnerT, Anche Dio conosce la sofferenza L.-A. Lassus, Elogio del nascondimento J. LECLERCQ, San Bernardo e lo spirito cistercense
A. Lour, Generati dallo Spirito. L'accompagnamento spirituale oggi A. Lour, Sotto la guida dello Spirito A. Lour, Lo Spirito prega in noi
L. ManicarpI, L'umano soffrire. Evangelizzare le parole sulla sofferenza M. MaravicLia, Don Primo Mazzolari. Con Dio e con il mondo
TH. MATURA, Celibato e comunità
TH. MATURA, E lasciato tutto lo seguirono TH. MATURA, Spirito
Francesco,
Tu. MATURA,
Incontri
maestro nello con
Francesco
d’ Assisi Tu. MERTON, Ur vivere alternativo
G. MiccoLi, Seguire Gesù povero L. Mirri, La dolcezza nella lotta. Donne e ascesi secondo Girolamo
SoRELLA MARIA, P. MAZZOLARI, L'’ineffabile fraternità. Carteggio (1925-1959) SorELLA MARIA, G. M. VANNUCCI, I/ canto dell’allodola. Lettere scelte
F. VARILLON, L’umiltà di Dio
AA.Vv., Charles de Foucauld. L’eloquenza di una vita secondo l’evangelo
LITURGIA
E. BIANCHI, Dare senso al tempo. Le feste cristiane
L. BouvER, Architettura e liturgia CENTRO DI PASTORALE LITURGICA FRAN-
CESE, Ars celebrandi. Guida pastorale per un'arte del celebrare O. CLÉMENT, Le feste cristiane A. CONTESSA, Gerusalemme, promessa e
profezia J. CORBON, Liturgia alla sorgente P.DE CLERCK, Liturgia viva F.-X. DURRWELL, Eucaristia ed evangelizzazione A. GERHARDS, La liturgia della nostra fede C. GrrAUDO, Conosci davvero l’eucaristia?
M. GITTON, Iniziazione alla liturgia romana R.JOHANNY, L'eucaristia, cammino di resurrezione
P. Miquet, La liturgia un’opera d’arte H. MoTTU, Il gesto e la parola A. NOCENT, Liturgia semper reformanda PREGHIERA
M. ARNOLD, Bonboeffer e la preghiera E. BIANCHI, Via Crucis
A. BLOOM, La preghiera giomo dopo giorno A. BLOOM, Ritornare a Dio
A.BLoom, Scuola di preghiera M. GourcuEs, I/ Padre nostro. Parola su Dio, parola su di noi C. Massa, I/ tempo del vivere C. Massa, I/ tuo volto, Signore, to cerco
G. PIANA, Pregare e fare la giustizia SEQUELA
L. BasseT, I/ senso di colpa. Paralisi del cuore
J.BASTAIRRE, Eros redento. Amore e ascesi C. BENDALY, I/ digiuno cristiano E. BiANCHI, Lettere a un amico sulla vita spirituale A. BLooM, Vivere nella chiesa
E VITA
A. SCHMEMANN, L'eucaristia. Sacramen-
to del Regno A. SCHMEMANN, Quaresima: in cammino verso la Pasqua Segno di unità. Le più antiche eucaristie delle chiese
J.-M. R. TLARD, Carne della chiesa, carne di Cristo. Alle sorgenti dell’ecclesiologia di comunione J. Turck, Eucaristia e servizio dell’ uomo C. VALENZIANO, L'anello della sposa G.ZANCHI, La forma della chiesa I. ZIZIOULAS, L'essere ecclesiale AAn.Vv., L'altare. Mistero di presenza, opera dell’arte Aa.Vv., L'ambone. Tavola della parola di Dio Aa.Vv., Assemblea santa. Forme, presen-
ze, presidenza AA.Vv., Il battistero AA.Vv., Chiesa e città
Aa.Vv., Spazio liturgico e orientamento AA.Vv., Vincolo di carità E VITA
MATTA EL MESKIN, Consigli per la preghiera Preghiere della tavola. Benedizioni per i pasti
CH. SALENSON, Pregare nella tempesta. La testimonianza di fr. Christian de Chergé B. STANDAERT, O. CLEMENT, Pregare il Padre nostro
Un raggio della tua luce. Preghiere allo Spirito santo J.-P. VAN SCHOOTE, J.-C. SAGNE, Miseria e misericordia OGGI
D. BONHOEFFER, Mezzoria e fedeltà
M.-R. Bous, Imparare ad amare G. BRUNI, Servizio di comunione
M. pe CERTEAU, Mai senza l’altro Fr. C. DE CHERGÉ E
GLI ALTRI MONACI
DI TIBHIRINE, Pià forti dell’odio
R. Rerore, L'umiltà della chiesa M. RonDET, Chiazzati alla resurrezione B. STANDAERT, Le tre colonne del mondo.
B. E B. CuovELon, L'avventura del ma-
trimonio. Guida pratica e spirituale D.F. Forp, Dare forma alla vita. Suggerimenti spirituali per la vita quotidiana
Vademecum per il pellegrino del xxI
G. HAMMANN, Storia del diaconato D. HAMMARSKJÖLD, Tracce di cammino
secolo H. TEISSIER, Accanto a un amico. Lettere
X. LACROIX, Il corpo e lo spirito. Sessua-
e scritti dall Algeria X. THÉvENOT, Le ali e la brezza. Etica e vita spirituale X. THÉVvENOT, Avanza su acque profonde!
lità e vita cristiana F. Lovsky, Verso l’unità delle chiese R. MANCINI, I/ silenzio, via verso la vita R. MANCINI, Sperare con tutti R. MANCINI, L'umanità promessa. Vivere il cristianesimo nell'età della globalizzazione R. MANCINI, L’uomo e la comunità J.-P. MENSIOR, Percorsi di crescita umana e cristiana
J.-M.R.TiLLarp, La morte: enigma mistero? C. VALENZIANO, Vegliando sul gregge
M. Van Parys, Uno con tutti. Essere monaci oggi
R. WILLIAMS, I/ giudizio di Cristo. Il processo di Gesù e la nostra conversione
TH. MERTON, La pace nell'era postcristiana D. MoncILro, Per lo Spirito in Cristo al
R. WiLLIAMS, Ragioni per credere R. WiLLiAMS, Resurrezione. Interpretare l’evangelo pasquale S. Xeres, Una chiesa da riformare. Nostalgia di evangelo
Padre
M. NICOLINI-ZANI, I nostri fratelli cinesi. Le comunità cattoliche nella Cina con-
temporanea
J. NieuviIARTS, Cor il passo del pellegrino. Manuale per chi cammina Paul Ricoeur: la logica di Gesù J.-M. PLoux, Dio non è quel che credi T.RADCLIFFE, Testimoni del vangelo TVEVUATIXOL
BARTHOLOMEOS I, Gloria a Dio per ogni cosa A. BLoom, Alla sera della vita O. CLÉMENT, I volti dello Spirito o tt fa i ha ne e Ch , AY AR EG CH ET . R. CARD di Cristo? A, HI OC TI AN DI A RC IA TR PA IV O ZI NA IG Un amore senza finzioni
o
AA.Vv., L'avventura dell'amicizia
Aa.Vv., La solitudine: grazia o maledizione?
AA.Vv.,
Thomas Merton.
Solitudine
e
comunione
—
SPIRITUALI
A. Lour, Cantare la vita
Tu. MERTON, La contemplazione cristiana
ARCHIMANDRITA SOFRONIO, La preghiera: un’opera infinita E. Tımanis, Chiamzati alla libertà
M. Van Parys, Incontrare il fratello
SYMPATHETIKA
. ce ri at cc pe e a nt sa sa ie Ch , GO RI BE AL G. Conversione della chiesa?
G. ANGELINI, Le ragioni della scelta M. AssENZA, Ricollocarci nel vangelo E. BIANCHI, Ai presbiteri E. BIANCHI, Aids. Vivere e morire in comunione
BIANCHI, BIANCHI, BIANCHI, BIANCHI, chia E. BIANCHI, E. E. E. E.
to
Come evangelizzare oggi Come vivere il giubileo Presbiteri: Parola e liturgia R. mons. CORTI, La parrocL. MANICARDI, Accanto al ma-
E. BrancHI,
C.M.caARD. MARTINI,
Pa-
rola e politica CH. BoBIN, L'uomo che cammina F. CAssIncENA-TRÉvEDY, La bellezza del-
la liturgia L.-M. CHAUVET, L'arte del presiedere la liturgia B. CHENU, Dio e l’uomo sofferente S.CHIALÀ, “Discese agli inferi” O. CLÉMENT, I potere crocifisso. Vivere la fede in un mondo pluralista COMUNITÀ DEI SANTI BASILIO E GREGO-
RIO, Una vita comune di presbiteri
P. De BENEDETTI, E /’asina disse M. Do, Amare la chiesa F.-X. DURRWELL, L'eucarestia presenza di Cristo
A. Lour, Consigli per la vita spirituale A. Lour, L'umziltà A. Lour, L'uomo interiore
nuncio
S. NATOLI, I/ cristianesimo di un non credente Povertà e condivisione nella chiesa
T. RADCLIFFE, Amare nella libertà. Sessualità e castità G. Ravasi, Il linguaggio dell'amore G. Ravasi, Qobelet e le sette malattie dell’esistenza A. Rizzi, Dio a immagine dell’uomo?
G. ROUTHIER, La chiesa dopo il concilio A. SCHMEMANN, Dov'è, o morte, la tua vittoria?
J.-P. SONNET, I/ canto del viaggio. Camminare con la Bibbia in mano B. SPINELLI, Ricordati che eri straniero
P. STEFANI, “È Natale ancor”
L. MANICARDI, I/ corpo. Via di Dio verso l’uomo, via dell’uomo verso Dio PADRI
A. MELLO, L'amore di Dio nei Salmi J.MoInGT, Gesù è risorto! Storia e an-
DELLA
X.THÉVENOT, Ha senso la sofferenza? J. VANIER, Vincere la depressione
CHIESA:
VOLTI
E VOCI
I PADRI DEL DESERTO, Detti editi e inediti
Il cammino del monaco. La vita monasti-
Massimo IL CONFESSORE, In tutte le cose la “Parola”
ca secondo la tradizione dei padri I PADRI DELLA CHIESA, Un testo al giorno. Letture dei padri d'occidente per i tempi
Isacco DI NInIve, Un’umile speranza
di Avvento, Natale, Quaresima, Pasqua
La Filocalia, amore del bello
O. CLEMENT, Nuova filocalia. Testi spi-
I PADRI DELLA CHIESA, L'atto del leggere
rituali d’oriente e d’occidente
PATERIKA
Misericordia sempre. Casta meretrix, in alcuni testi dei padri della chiesa
Uomini e animali. Visti dai padri della chiesa
POESIA
D. BONHOEFFER, Poesie
Brucia, invisibile fiamma. Poesie per ogni tempo liturgico
D. Cur, Non basta la terra. Poesie R. M. Rike, Vita di Maria
A. CASATI, Nel silenzio delle cose S. CHIALÀ, Parole in cammino
O. SEDAKOVA, Solo nel fuoco si semina il fuoco. Poesie Siamo fragili, spariamo poesia
R. A. ALves, Parole da mangiare L. Coco, Piccolo lessico della modernità E. De Luca, Ora prima
L. GOBBI, Lessico della gioia A.JoLLien, Elogio della debolezza A.JOLLIEN, Il mestiere di uomo
Finito di stampare nel mese di settembre 20r0 Stampatre, Torino
PIÙ FORTI DELL’ODIO “In un momento in cui molti pensano all'islam come nemico, il gesto di chi si lascia sgozzare amando il proprio carnefice è l'estremo rifiuto della logica dell’inimicizia, è l'unico atto che può porre fine alla catena delle rivalse e delle vendette. È il caso serio del cristianesimo ... Con il martirio un cristianesimo che sembra incapace di comunicare agli uomini d'og-
gi ritrova improvvisamente Ía forza di suscitare domande
e di inquietare
le coscienze.
Gli scritti dei
sette monaci sono dettati da un amore più forte dell’odio, dalla vita più forte della morte: nella loro forza ed essenzialità ci mostrano che solo chi ha una
ragione per morire ha anche una ragione per vivere”.
posano nel piccolo cimitero di Tibhirine, vegliati dagli amici musulmani che essi non avevano voluto abbandonare negli anni più violenti della barbarie in Algeria.
I
zo 1996: furono tutti sgozzati il 21 maggio seguente. Ora ri-
88881
confratelli venne rapito da fondamentalisti islamici il 26 mar-
9GLELZ
pista di Notre-Dame de l'Atlas in Algeria. Assieme a sei suoi
III
Fr. Christian de Chergé era il priore del monastero trap-
9-GLE-/038-88-826 NESI
6
(dalla “Prefazione” di Enzo Bianchi, priore di Bose)