Picasso a Napoli. Una «Montmartre arabe»
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INDICE

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arte contemporanea

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MASSIMO BIGNARDI

PICASSO A NAPOLI

Una “Montmartre arabe” Presentazione di Gérard-Georges Lemaire

LIGUORI EDITORE

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978 – 88 – 207 – 6722 – 8 (a stampa) 978 – 88 – 207 – 6723 – 5 (eBook)

1. Arte del XX secolo

2. Jean Cocteau

I. Titolo

II. Collana

III. Serie

Aggiornamenti: 23

22

21

20

19

18

17

10

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INDICE

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• PREFAZIONE

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Gérard-Georges Lemaire

• INTRODUZIONE

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• NAPOLI E IL ‘RIDEAU DE SCÈNE’ PER PARADE L’incontro con Cocteau - Il “tour italiano”, del 1917 -

17

Napoli e Pompei: «Le nourriture, Dieu et la fornication» - Il ‘rideau de scène’ per Parade - Picasso-von Marées: rileggere il ‘classico’

• APPENDICE

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• RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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Massimo Bignardi

Pablo Picasso Autoritratto, Roma 1917, acquerello su carta, mm 90×110 c. Succession de l’artiste

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PICASSO A NAPOLI, UNA “MONTMARTRE ARABE”

PREFAZIONE

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Gérard-Georges Lemaire

Sarebbe ingiusto, ed anche sbagliato, affermare che Pablo Picasso sia stato il più grande artista del XX secolo. Ma è senza dubbio il più celebre, grazie ai tre musei a lui dedicati (Parigi, Barcellona ed Antibes) ed alla vastità della bibliografia che lo riguarda, continuamente alimentata da sempre nuovi cataloghi (Jean Clair, storico direttore del museo Picasso di Parigi, mi confidava che una gran parte del lavoro suo e dei suoi collaboratori, consisteva nella gestione delle mostre che si tenevano in tutto il mondo) e da nuovi studi che vanno dalla biografia alle analisi le più approfondite della sua opera. In questo libro dedicato al soggiorno di Picasso a Napoli nel 1917, Massimo Bignardi, che se ne occupa pienamente già da diversi anni, non ha cercato di sviluppare una nuova, stravagante o sorprendente tesi. Egli riferisce ciò che dovrebbe essere evidente per tutti gli amatori competenti, che si sono assunti l’onere di esaminare i suoi quadri, i suoi disegni, le sue sculture, le sue stampe, non tralasciando le ceramiche, a cominciare dagli inizi fino alla fine. Ma il carattere pletorico, se non bulimico, del lavoro picassiano, gli incessanti cambiamenti di stile (arriva, in certi periodi, ad usare contemporaneamente due stili diversi, se non opposti), la sua capacità di impadronirsi dello spirito delle opere dei suoi contemporanei e a riproporli secondo la sua personale visione ( è così che, durante gli anni trenta, divenne il più grande dei surrealisti, non essendoci che Salvator Dalì a competere con lui), fanno sì che si perda il filo d’Arianna nel lavoro di decodificazione delle sue opere. Questo filo, indispensabile per

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Massimo Bignardi

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capire il percorso estetico delle sue idee, passa per il classicismo. Se questo filo d’Arianna consente di orientarci lungo il suo percorso plastico, anche quando ricorre a tecniche di composizione molto innovative, addirittura offensive (spesso si è posto al limite della più feroce derisione e del grottesco), non abbandona mai questa divorante passione per l’arte classica e l’idea di bellezza che le è propria (a rischio di maltrattarla, o addirittura violentarla, pur di realizzare il suo intento). In effetti egli rivaleggia, a posteriori, con Jean-Auguste-Dominique Ingres con una maestria che è un gusto esasperato per il disegno virtuoso, epurata con un gesto della mano (ciò che si era preso in prestito da Raffaello Sanzio), nel bel mezzo della Grande Guerra. Egli non è stato l’ultimo a rivendicare il «ritorno all’ordine», ma, al contrario, è stato uno dei primi. Il che è ancora più stupefacente per l’uomo che ha rivelato al mondo il “cubismo”! Questo stile improntato al passato, egli non ne fa, come molti suoi colleghi, l’espressione di una profonda nostalgia (che si concentra nell’opera di Derain, nei membri del gruppo Novecento, nella Scuola Romana etc.). È ciò che sottende l’intemperanza e l’irriverenza della sua mancanza di rispetto nei riguardi dell’arte pittorica. Ma bisogna prendere in considerazione anche altri elementi, come la sua illuminata ammirazione per i maestri del passato, come, ad esempio, Eugène Delacroix che gli è stato paragonato nella contraddizione, e Edouard Manet, (altra figura sorprendente). Infine, circa i temi scelti che spesso sono tratti dalla mitologia Greco-Latina (il Minotauro della Suite Vollard) e anche le deliziose scene bucoliche con Fauni e Ninfe, sotto il sole mediterraneo, con quei colori che esaltano la festosità pagana e una sensualità gioiosa a fior di pelle, appositamente dipinte per le sale del museo d’Antibes. Il soggiorno italiano di Picasso, che aveva già conosciuto Diaghilev, prima a Roma, in compagnia di Jean Cocteau per la scenografia di Parade, dove incontra Olga Koklova, che diverrà sua moglie, poi a Napoli, dove sarà raggiunto da Stravinsky e Massine, è per lui l’occasione di studiare le opere antiche e, soprattutto nella città partenopea, di avere l’intuizione di come accoglierle nella sua opera (gli affreschi pompeiani lo hanno molto impressionato).

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PICASSO A NAPOLI, UNA “MONTMARTRE ARABE”

Secondo Bignardi, i giorni trascorsi a Napoli hanno avuto su di lui la stessa influenza che ebbe per Paul Klee la scoperta di Tunisi. D’altra parte, lo stesso Picasso lo ha raccontato a Gertrude Stein, che era divenuta per lui, stranamente, una specie di confidente (è a lei che scrive quando la sua compagna Eva Gouël si è ammalata e morta nel dicembre del 1915). A Napoli non mancò di acquistare, durante questo periodo souvenir, cartoline con incisioni, stampe che gli saranno molto utili in seguito. Ha fatto anche numerosi schizzi che riprenderà nel 1920, quando farà le scene del Pulcinella. Gertrude Stein ha sottolineato più tardi, nel suo libro intitolato Picasso, l’importanza di questo viaggio a Roma e soprattutto a Napoli, dove ha concepito «ritratti assolutamente realistici». Dello strano Le peintre e son modèle, con la prospettiva falsata e quel corpo femminile volutamente deformato, in parte, progettato ad Avignone (incompiuto) e la Femme nue couchée et tête del 7 aprile 1973, la veglia della sua morte, che è l’ultimo di una lunga serie di quadri sconcertanti per la loro espressione (quelle del declino nell’imminenza della morte), che tratta per la maggior parte del pittore e della sua modella che egli non ha smesso di replicare in vesti diverse, per materia, per forma e sensibilità, Massimo Bignardi ci mostra la profonda realtà di questa assoluta quiete intransigente che è quella di riscrivere la storia della sua disciplina secondo i criteri che si metamorfosizzano in funzione delle sue esigenze interiori, ma anche delle esigenze del gusto di un’epoca (per lusingarlo, talvolta, ma soprattutto per contrastarlo). Le pagine che ha scritto con grande chiarezza, preoccupandosi di non adottare un modo pedante o recondito, raccontano la storia di questo filo d’Arianna che rivela la natura di un artista che, in fin dei conti, non ha smesso di essere, talvolta, il barbaro ribelle e il più fine conoscitore dei secoli passati. É talvolta anarchico e conservatore risultando impossibile separare il primo aspetto della sua personalità dal secondo. La esposizione «Picasso et ses maîtres», allestita al Grand Palais di Parigi nel 2008, ha mostrato, piuttosto maldestramente, il sottile rapporto intrattenuto con Goya, così come con Rembrandt e Puvis de Chavannes (la lista di quelli che ha plagiato o «imi-

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Massimo Bignardi

tato» sarebbe troppo lunga, senza parlare delle sue «citazioni» di Cézanne). Ma il fatto è irrefutabile: Picasso ha voluto lasciare il segno di un grande iconofilo e di un grande iconoclasta e Massimo Bignardi ci offre un eccellente vademecum per comprenderne i complessi meccanismi, con quel senso innato della concisione che è esercizio di essenzialità.

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Parigi, febbraio 2017

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PICASSO A NAPOLI, UNA “MONTMARTRE ARABE”

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PICASSO A NAPOLI

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PICASSO A NAPOLI, UNA “MONTMARTRE ARABE”

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INTRODUZIONE

Picasso continua ad allertare i miei interessi. A distanza di tempo l’attenzione verso temi della sua esperienza artistica, torna a farsi largo nei miei studi; lo è unitamente all’approfondimento di eventi che hanno segnato momenti della sua vita, nonché dei ‘viaggi’ immaginifici che il vasto catalogo delle sue opere propone. ‘Viaggi’ diretti verso territori sfuggiti, in qualche caso, all’analisi storico-critica che, da oltre un secolo, viviseziona la sua opera e la sua vita. Tornare su Picasso e, in particolare, sul suo ‘soggiorno napoletano’ nella primavera del 1917, è stata una scelta dettata dalla ricorrenza del centenario che in quest’anno si compie. Tempo addietro avevo manifestato all’editore Liguori che, nel 2008, aveva pubblicato Le stanze del Minotaturo. Scritture su Picasso, di ripubblicare, a mo’ di quaderno, il saggio che avevo dedicato al viaggio italiano e al rapporto tra il ‘rideau de scène’ per Parade e il ciclo di affreschi, dipinto da Hans von Marées sulle pareti della Biblioteca della Stazione zoologica di Napoli. Il saggio, nell’edizione del 2008, riprendeva con aggiornamenti bibliografici e con l’apparato di note, quanto avevo anticipato Nell’ombra di una ‘pergola’, un breve testo inserito all’interno di una raccolta di scritti pubblicata dalle Edizioni 10/17 nel 2002, con il titolo Altri viaggi a sud. Artisti sulle Divine Coste, introdotta da una ‘sentita’ prefazione di Emilio Tadini. Dal 2008 ad oggi nuove letture, ma anche nuove riflessioni sollecitate dal confronto con amici, tra queste lo scambio di idee avuto con Franco Purini nei trascorsi di alcune serate senesi, quando insegnavamo presso la Scuola di Specializzazione in Beni storico artistici, mi hanno indotto a riconsiderare nuove possibilità di lettura. Ricordo la suggestiva ipotesi di Franco che,

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nel profilo della montagna stagliata sull’azzurro cielo di Parade, vi leggeva quello di Monte Cavo, inquadrato da Picasso dalle finestre del suo studio in via Margutta, dal quale poteva ammirare anche Villa Medici. Letture, discussioni che mi hanno dunque portato ad estendere il campo di ‘ricerca’ al di là della ‘figura’ Picasso: di qui l’approfondimento di Cocteau, di ulteriori suoi scritti al di là delle lettere inviate dall’Italia alla madre, alle quali avevo già attinto, ma anche dei ricordi di Léonide Massine al tempo coreografo e ballerino, di Ernest Ansermet, direttore d’orchestra, di Stravinskij, tutti coinvolti nell’ ‘impresa’ dei Ballets Russes di Sergej Diaghilev. Utili informazioni, altresì, mi sono state offerte dalla lettura della biografia di Picasso scritta da André Fermigier ripubblicata nel 1996, di quella, più recente, di Philippe Dagen, apparsa in edizione aggiornata nel 2011, del piccolo volume di Paula Izquierdo, Picasso y las mujeres, nell’edizione italiana del 2014 e, infine, di alcune lettere dell’artista pubblicate per la cura di Elena Pontiggia nel 2008. Altro aspetto, non marginale, è stato il ruolo di quegli artisti che, dal 1915, avevano dato vita al “Secondo futurismo” e che Enrico Crispolti ha, giustamente, inquadrato come svolgimento ‘sintetico’ del dinamismo plastico; in tal senso penso a Giacomo Balla, Fortunato Depero ed Enrico Prampolini, artisti che Picasso incontrerà nella capitale in quella primavera, in parte coinvolti nell’esperienza dei Ballets Russes: il riferimento è alla scenografia realizzata da Balla per Feu d’artifice e al lavoro di Depero per i managers di Parade. Per tale ambito sono stati di aiuto alcuni studi sul futurismo, tra questi il primo volume, “Cataloghi di esposizioni” dei Nuovi Archivi del Futurismo, curati da Enrico Crispolti, apparso nel 2010 per i tipi dell’editore De Luca di Roma e Giacomo Balla. Genio futurista, di Fabio Benzi, edito da Mondadori-Electa nel 2007. Certamente le occasioni di riprendere e di chiarirmi alcuni nodi sono state diverse, tra le quali non va sottaciuto il dibattito emerso nel corso delle presentazioni del citato Le stanze del Minotuaro: suggerimenti che ho accolto, dapprima come invito a rivedere, a Parigi, il grande sipario, poi a rileggere, una ad una, le figure che ne animano la scena. Figure che ho posto a confronto con

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PICASSO A NAPOLI, UNA “MONTMARTRE ARABE”

il vasto repertorio di stampe ottocentesche raffiguranti scene di osterie popolari, divenute ‘topos’ dell’imagerie del Grand Tour. In particolare l’attenzione è stata rivolta alle incisioni ricavate dai disegni di Bartolomeo Pinelli e di Achille Vianelli, dai cui impianti compositivi - secondo quando ha sostenuto Werner Spies nel saggio Parade: la démonstration antinomique.Picasso aux prises avec les “Scene popolari di Napoli” d’Achille Vianelli apparso nel 1987, nel volume “Il se rendit en Italie”: études offerts à André Chastel - Picasso ha tratto l’incipit della conviviale raffigurata nel rideau per Parade. Un’analisi che mi ha maggiormente convinto a guardare oltre la traccia ‘iconografica’, oltre il rapace sguardo di Picasso: cioè a dare un senso più profondo alle corde di un sentimento pervaso di malinconia che trova riscontro nell’aria che avvolge i quadri finali, i Rematori e la Pergola, del ciclo di affreschi di Hans von Marées, realizzato nel 1873. Per questa nuova edizione, in gran parte riscritta, importante è stato il forte legame con Napoli e il desiderio di ‘incontrarla’ dopo anni di assenza: un legame con la città della mia formazione, silenzioso ma forte, come tutti i rapporti segnati dall’amore e dalla passione. Napoli è la città che, ad ogni incontro, tiene viva la mia memoria, degli anni trascorsi, delle giornate felici, degli artisti, degli intellettuali che sono parte della mia vita. Questo piccolo contribuito che si va ad aggiungere alla sconfinata bibliografia picassiana, è, innanzi tutto, l’omaggio a Napoli, al suo essere ‘luogo’ nella cui profonda anima si è specchiata e si specchia la cultura del ‘mondo’ moderno e contemporaneo. Oltre Annamaria Bignardi Gasparini e Gennaro Gasparini che hanno svolto un prezioso lavoro di editor, vorrei ringraziare Ada Patrizia Fiorillo e Corradino Pellecchia per i preziosi suggerimenti; Franco Purini per avermi fatto da “guida” nei luoghi del soggiorno romano di Picasso; Enzo Ricciardi per la cura delle immagini e per la grafica. Inoltre a Claudia di Somma e a Massimiliano Maja, rispettivamente responsabile e archivista del Museo, Archivio Storico e Biblioteca della Stazione Zoologica Anton Dohrn di Napoli, un sentito ringraziamento per l’attenzione e la disponibilità mostratami. Un grazie particolare, va a Gérad-Georges Lemaire, per i suoi utili consigli e per quanto ha scritto nella prefazione e ai responsabili dell’Archivo del Musée National Picasso di Parigi. Un affettuoso e commosso ricordo è per un’amica che non c’è più: Maria Lluïsa Borràs, alla quale devo molte delle mie conoscenze dell’ “universo picassiano” tra Parigi e Barcellona.

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Lettera di Picasso a Guillaume Apollinaire da Roma, febbraio 1917 Paris, Archives, Musée National Picasso

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NAPOLI E IL ‘RIDEAU DE SCÈNE’ PER PARADE

«Sono da compatire gli artisti che, per consolarsi del disordine, debbono fare il viaggio ad Atene. L’Acropoli mi parlerebbe una lingua morta»1. Con questa frase Cocteau sintetizza il clima artistico parigino, tra la fine degli anni dieci e i primi del decennio successivo. Anni nei quali si avrà la svolta che Picasso imprimerà alla sua pittura. Una svolta che Cocteau trascrive nei tempi di quel suo ‘intimo viaggio’ che lo avvicinerà all’«avvenimento Picasso». Il ‘viaggio’ ha inizio con l’incontro nello studio di rue Schoelcher a Montparnasse2, tra l’estate e l’autunno del 1915, ossia nei momenti cruciali della sofferenza dell’artista per la sua amata ‘Eva’, morta di lì a poco il 14 dicembre3. Continuerà con l’assidua frequentazione prima nella nuova dimora a Montrouge, ove il pittore si sarebbe trasferito nell’agosto del 19164. Infine in rue de la Boëtie, all’indomani delle nozze con Olga Koklova, celebrate nel luglio del 1918, nella parigina chiesa russa di rue Daru, testimoni Cocteau, Max Jacob e Guillaume Apollinaire. Un ‘viaggio’, che scandisce i tempi di un nuovo importante momento dell’esperienza artistica ed umana di Picasso. Infatti sul piano esistenziale, segnato dal drammatico epilogo del suo rapporto con Eva, pur distratto da altre fugaci relazioni amorose, elencate da Paula Izquierdo5, impronterà di malinconia la sua immaginazione. Su quello specifico della pittura, invece, avrà trovato posto la figurazione che affiorava dalle composizioni di quel periodo, incautamente definito da Alfred Barr, “cubismo rococò”. Momento nel quale si collocano dipinti quali Nature morte dans un paysage (Paris, un tempo nella collezione Berggruen), Homme à la pipe (Chicago, Art Institute), Guitare sur

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une cheminée (New York, MoMA), tutte del 1915, ma anche Partition musicale et guitare sur une cheminée (Saint Louis, City Art Museum), del 1916. Una figurazione che era affiorata, tra gli spessori e le sagome dei tableaux reliefs, dalla fine dell’autunno del 1914, data alla quale penso che vada restituita la citata tela Le peintre et son modèle6– opera dalla quale l’artista non si è mai staccato –, significativa per comprendere quanto accadrà in seguito e, al tempo stesso, perché ci offre un’ulteriore chiave interpretativa della scena raffigurata sul grande ‘rideau de scène’ per il balletto Parade, così come vedremo più avanti. Nella primavera del 1916, a Montparnasse, Picasso conoscerà il musicista Erik Satie, l’autore delle musiche di Parade, anch’egli coinvolto dalla travolgente esperienza dei Ballets Russes, compagnia messa su da Sergej Diaghilev, impresario teatrale russo presentato al pittore da una sua giovane ‘amica’, la cilena Eugenia Errazuriz7. «Un giorno arriva Picasso e con lui – ricorda Gertrude Stein – appoggiato alla sua spalla, un giovanotto elegante e smilzo. È Jean, – annuncia Pablo – Jean Cocteau: partiamo insieme per l’Italia. Picasso s’era lasciato trasportare all’idea di dipingere le scene di un balletto russo, di cui Satie avrebbe scritta la musica e Jean Cocteau le parole. Tutti gli altri erano alla guerra, la vita a Montparnasse per niente allegra; Montrouge neanche con una serva affezionata era troppo viva: aveva bisogno [Picasso, n.d.a.] anche lui di un mutamento. Era tutto animato dall’idea di andare a Roma. Ci dicemmo tutti arrivederci e ce ne andammo ciascuno per la sua strada»8. Il lavoro commissionatogli da Diaghilev, le scene, i costumi e il rideau per il balletto Parade, offre a Picasso l’occasione per il suo primo viaggio in Italia. Segna l’inizio di una nuova stagione della sua pittura che, se pur non chiude definitivamente i ponti con l’esperienza cubista, ne segna un’ulteriore trasformazione significativa. Ciò sarà determinante per gli sviluppi di quel rappel à l’ordre che segnerà gli anni venti e per i riflessi che esso avrà sulla cultura europea. I nuovi orizzonti immaginativi offerti da una rilettura del ‘classico’ che, dalla linea pura di Ingres, approda alle figure arcaizzanti, di memoria pompeiana dei primi del decennio, stimolarono la capacità di trasformare e rendere attuale l’idea d’immettere nella cultura moderna la forza di un’identità

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che si nutre di un’anima mediterranea, intesa come sostanza moderna e frontale rispetto alla storia9. Picasso e Cocteau giungono a Roma il 19 febbraio del 1917, dopo «mille aventures – scrive Cocteau alla madre – de voyage dont la moindre n’était pas sleeping cassé, nuit debout»10 . Dal 20 febbraio alloggeranno al Grand Hôtel de Russie in via del Babuino, mentre l’atelier di Picasso sarà poco distante, in via Margutta. Diaghilev, che li aveva preceduti, impianta il quartier generale della compagnia in Palazzo Theodoli, in via del Corso, con il resto della troupe, ricorda Palau i Fabre, «Ansermet, Bakst, Larianov, Grigoriev, Natalia Gontcharova»11 il coreografo Massine, le ballerine e i ballerini all’Hôtel Minerva. Nella compagine a seguito di Diaghilev figurava anche Igor Stravinskij, ospite a Palazzo Theodoli12. Agli occhi di Cocteau, Roma si presenta come «une ville de province» ove c’è «un seul café où tout le monde se rencontre. Saint-Pierre ressemble à un hôtel des postes d’exposition américaine». La critica lascia, però, subito il posto alla meraviglia per la maestosità della Città Eterna e per la sua storia: «Le Coliseum est sublime. Nous l’avons vu la niut. La ruine n’ajoute rien du reste à ce chef-d’œuvre d’architecture – énorme réservoir des siècles qu’on voudrait voir vivre, plein de foule et de fauves et de marchands de coco»13. A Roma visitano i Musei Capitolini con i resti della statuaria romana; si soffermano sulle forme, su quei frammenti di grandi corpi in marmo; la Sistina dell’«quels chef-d’oeuvre! quel peintre! quel portraitiste! Michel-Ange était un futuriste de son époque»14 e, innanzi tutto, le Stanze vaticane affrescate da Raffaello: «Il dirige l’œil» – commenta Cocteau – «Rome semble faite par lui. Picasso ne parle que de ce maître qui nous touche plus que les Italiens enragés de grandiose»15. Sarà anche il Teatro dei Piccoli, ad attrarre la loro attenzione, o momenti di vita mondana, come la colazione da Diaghilev con la Marchesa Casati «le beau serpent du Paradis terrestre»16 e, soprattutto, per Picasso, le ‘allegre’ frequentazioni: «A Rome le soir – scrive ad Apollinaire – les femmes font le ruisseau en voiture – au pas – elles acostent les amateurs avec des sourires et des si-

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gnes et arretent leur voiture pour traiter du prix»17. A Gertrude Stein scriverà: «je connais toutes les dames romaines»18. Picasso e Stravinskij – ricorda Ernest Ansermet – gironzolavano per le strade, visitavano musei, facevano scoperte varie, fornendo al gruppo informazioni sulle cose da vedere19. A Roma Picasso e Cocteau incontrano «gli allegri futuristi»20: Balla, impegnato per la scenografia di Feu d’artifice di Stravinskij, commissionatogli da Diaghilev ed andato in scena la sera del 9 aprile al Teatro Costanzi21, Depero, il quale ebbe una collaborazione più diretta nella realizzazione tecnica dei costumi dei “managers” di Parade22 e, infine, il ‘geniale’ Enrico Prampolini che, anni dopo, con qualche incertezza e imprecisione, così ricorderà quei giorni: «L’incontro folgorante ‘con Roma’ Picasso lo ebbe nella primavera del 1917 in Vaticano, quando si trovò a tu per tu con le opere dell’ arte classica e rinascimentale: con Raffaello e Michelangelo. Fu un avvenimento di eccezionale importanza nello spirito del ‘malagueño’, perché quell’incontro gli rivelò una direttiva fra le più tipiche della sua evoluzione pittorica. Ricordo l’estatica commozione dalla quale fu preso l’artista dinanzi agli affreschi della Sistina e più ancora davanti a quelli delle Stanze di Raffaello. Era l’incontro tra l’incantesimo umanistico della figuratività oggettiva rinascimentale ed il mondo soggettivo della speculazione geometrica proprio dei rapporti formali della pittura cubista, da lui allora seguita. Il divario e il dramma che si profilava era complesso. L’incantesimo che emanavano le opere degli antichi maestri, con la loro forza riassuntiva, unitaria, con l’idea che si identifica col concetto della forma-colore, aveva sconvolto l’ideologia rivoluzionaria ed iconoclastica del pittore di Place Ravignan. Fu un ritorno? Per Picasso non esistono ritorni. Il suo slogan non è forse quello che afferma: “Io non cerco, trovo”? Fu infatti il richiamo all’ordine dei valori figurativi, delle certezze plastiche secolari ormai acquisite, al fascino delle grandi proporzioni dell’arte classica e rinascimentale che fece oscillare il diaframma tentacolare del credo “cubista”. Nella settimana di Pasqua di quell’anno Picasso, che alloggiava in Via del Babuino all’Albergo di Russia, mi fece vedere i suoi primi disegni così detti “classici”, che egli aveva creato nel sereno ed imponente clima di Roma.

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Da un ritratto di Cocteau a tratto-diretto, il primo di una serie di disegni figurativi, si passava a quello noto delle “Tre donne” e ad altri ancora in cui figuravano gruppi di danzatrici, ispirati alle prove – che egli seguiva – dei “Balletti Russi”, tenute nella sala Taglioni a Palazzo Venezia. In quei disegni si rivelava, indirettamente, il ritmo compositivo di ispirazione rinascimentale. L’adesione al mondo della realtà umanistica era un fatto compiuto nello spirito appassionato di Picasso. Il processo formativo della creazione artistica picassiana aveva acquistato nuovi valori concettuali; valori che egli non lascerà più. Il temperamento ardente ed insaziabile di conquiste plastiche, che caratterizza la personalità di questo maestro, si svelava anche in quel suo desiderio di conoscere, assimilare ed esaurire quanto lo impressionava e trovava identità con il suo spirito. Lasciata Roma, Picasso si recò anche a Napoli e Pompei per conoscere direttamente la pittura romana. E la “seppe vedere”. Tornato a Roma, compose dopo i disegni, le sue pitture figurative-classiche, d’ispirazione antica»23. In occasione delle quattro serate, dal 9 al 12 aprile nelle quali la compagnia dei Ballets Russes va in scena al Teatro Costanzi di Roma, la sera della prima nel foyer viene inaugurata l’esposizione delle opere della “Collection de Tableaux de Leonide Massine”, mostra alla quale si riferiva Folgore nella citata lettera inviata a Soffici. Sulle pareti della sala erano state allestite cinquantuno opere fra dipinti, disegni ed acquerelli, tra queste: il ritratto del coreografo eseguito da Leon Bakst nel 1914; Le printemps, La guerre, dipinti entrambi nel 1916, e l’autoritratto del 1917 nel folto gruppo di opere di Giacomo Balla; di Braque una costruction del 1916; mentre di Carrà figuravano tra le altre il Café du Faubourg, la Nature morte e Le siphon, tutte del 1914. Seguivano i dipinti di de Chirico (Nostalgie d’ingénieur, 1917), di Depero con alcuni lavori del 1916, tra questi La vitesse, il disegno di Danseurs, di André Derain, di Albert Gleizes con un ritratto del 1916, di Nathalie Gontcharova della quale erano in mostra tre dipinti, tra questi l’Espagnole (1916), di Gris (Jardin de province, 1916), uno studio di Larionov insieme a due disegni e al dipinto Sortie de Ballets russes (del 1914) di Fernand Lèger, di André Lhote, di Diego Rivera (Ultima

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hora, 1916), di Gino Severini con Faïences, del 1917, di Leopold Survage. Chiudevano l’elenco, pubblicato nella brochure che accompagnava l’esposizione, le opere del pittore messicano Angel Zarraga, al tempo attivo sulla scena parigina, di cui figuravano in mostra Le dieu vert e La bougie, entrambe del 1917. Di Picasso erano esposte sei opere, in gran parte disegni, tra queste il ritratto di Massine (con molta probabilità quello realizzato nel viaggio verso Napoli, così come ricorda il coreografo24), l’Arlequin del 1917, Nature morte del 1916 nonché Peinture pompéienne, in catalogo datata 1916 ma da ritenere uno dei disegni eseguiti nel soggiorno napoletano come vedremo più avanti. Il 9 marzo Picasso, Cocteau, Diaghilev, Massine ed Igor Stravinskij si recano a Napoli e da qui fanno un’escursione a Pompei: si fermeranno nella città di Partenope fino al 13 marzo, alloggiando al Grand Hotel Vesuvio. Picasso trova posto nella camera “114”, uno degli appartamenti che affacciano sul borgo marinaro di Castel dell’Ovo che l’artista ritrae in uno schizzo del “Carnet, n.19” (Paris, Musée National Picasso). Con Massine, Diaghilev (impegnati nella tournée napoletana della compagnia dei Ballets Russes, in scena al Teatro San Carlo) e Cocteau visita Pompei. Picasso – ricorda Massine – «era eccitato da quelle maestose rovine e si arrampicava senza sosta sui fusti delle colonne spezzate per esaminare i frammenti della statuaria romana»25. Napoli solleciterà la sua fantasia e i suoi ‘interessi’: «A Naples – scrive ad Apollinaire sul retro di una cartolina postale inviata il 10 marzo – toutes les femmes sont belles. Tout est facile ici»26. Al loro rientro a Roma, il 13 di quel mese, Cocteau scrive alla madre: «Je n’imagine pas qu’aucune ville du monde puisse me plaire mieux que Naples. L’Antiquité grouille toute neuve dans ce Montmartre arabe, dans ce désordre énorme d’une kermesse qui ne ferme jamais. La nourriture, Dieu et la fornication, voilà les mobiles de ce peuple romanesque. Le Vésuve fabrique tous les nuages du monde. La mer est bleu marine. Il pousse des jacinthes sur les trottoirs»27 . Del ‘viaggio italiano’ più che Roma, Firenze e Milano – ove seguirà la compagnia –, saranno Napoli e Pompei a suggestionare

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Copertina della brochure dell’esposizione “Collection de Tableaux de Leonide Massine” Roma, Foyer del Teatro Costanzi aprile 1917

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l’immaginario di Picasso e ad aprire definitivamente la ‘strada’ verso una rinnovata visione del ‘classico’ che, nei primi anni venti, segnerà una nuova, se pur breve, stagione della sua pittura. A Pompei si lascerà sedurre dalle pitture della Casa del Centenario e da quelle della Villa dei Misteri. A Napoli s’immerge nella quotidianità di una città solare e drammatica, nel ventre di una «Montmartre arabe», come affermava Cocteau; una realtà sollecitata da un’energia viva, nel perenne teatro che scandisce il tempo. Acquista souvenir, maschere di Pulcinella, cartoline, vecchie fotografie, stampe che affianca, sovrappone, nella fantasia, ai disegni, ai rapidi appunti che traccerà sul taccuino. Si tratta di scorci urbani, la secentesca fontana del Nettuno di piazza della Borsa (immagine che ritornerà, nel 1920, nei bozzetti di decoro per il Pulcinella: Paris, Musée National Picasso), la citata veduta del borgo marinaro di Santa Lucia con il Castel dell’Ovo e la figura di Pulcinella, schizzata a matita sulle pagine dello stesso “Carnet” (Paris, Musée National Picasso). Poi brani di scene erotiche, disegni che l’artista, in una lettera inviata a Gertrude Stein, definisce «fantaisies pompeyennes qui sont un peu lestes»28 – quali ad esempio un disegno erotico oggi in collezione privata a Parigi che reca la firma e la dedica «pour Barbara un dessin fait a Pompei en 1917»29. Inoltre, disegni di motivi mitologici, ispirati alle ben note pitture ammirate al Museo Nazionale Archeologico di Napoli tra queste Piritoo salva Ippodamia dal centauro Eurytion, che suggerirà i disegni titolati Nesso et Deianira, eseguiti nel settembre del 1920. Ne è esempio quello un tempo nella collezione di Lillie P. Bliss ed oggi al MoMA, nonché Pan e le Ninfe, una pittura su muro proveniente dalla Casa dell’Amor fatale di Pompei, alla quale si richiama Le flûte de Pan, del Musée National Picasso di Parigi, una grande tela eseguita a Cap d’ Antibes nell’estate del 192330. Della ‘città sepolta’ lo incuriosiscono quei corpi fermati dall’evento naturale, i calchi dei loro ‘estremi’ gesti di vita che la cenere e la lava hanno reso eterni e, più tardi, gli suggeriranno le arrotondate ed arcaizzanti forme del suo ‘classicismo’, ma anche l’essenzialità della forma di alcune prove scultoree degli anni trenta31. Infine, come Klee32 nel breve soggiorno nella primavera del

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1902, Casorati, al suo arrivo nel 1908 o Boccioni a Napoli nel 191433, visiterà più volte, con Stravinskij, la Stazione Zoologica Anton Dohrn e la sua biblioteca con il grande ciclo di affreschi eseguito da Hans von Marées nel 1873. Sarà, come argomento più avanti, l’impianto compositivo, la velata ‘nostalgia’ che pervade la scena della Pergola, posta sulla parete est della sala, a ispirare il grande ‘rideau de scène’ per il balletto Parade. Cocteau, in Poésies 1917-1920, una raccolta di liriche apparse per le Éditions de la Sirène – che aveva la sede nella stessa rue La Boétie ove nel 1920 avevano già preso dimora i coniugi Picasso – pubblicata tre anni dopo ‘le voyage en Italie’, due brevi poemi a Roma e a Napoli. In quest’ultimo si legge: «Ce matin il n’y a rien de plus mouillé/ que ce moracea de mer/ le rameur/ s’écahappe à coups de dos sans entendre/ les mille petits cris d’étoiles qui se niente/ sous le lustre d’Avril/ plumage de nuées/ Naples fume/ lentamente/ son Vésuve/ A Rome on entrevoit Pie X prisonnier/ ici Dieu frétille/ partout sur la mer/ / un ange sort du Vésuve/ […]»34. Il rientro a Roma è un tuffo nel lavoro: l’atelier di via Margutta si popola di disegni, studi di figure in costume, ‘scene popolari’ suggestionate da vecchie cartoline abbozzate sulla carta. Esegue i dipinti L’Italienne (Zürich, Fondation Collection E. G. Bührle) preceduto dall’acquerello dall’omonimo titolo, oggi al The Hakone Open-Air Museum e Arlequin et femmes au collier (Paris, Musées National d’Art Moderne Centro Georges Pompidou, lascito baronessa Gourgaud). Nell’atelier, dalle cui finestre si poteva ammirare Villa Medici, prendono forma le scene, i costumi e i bozzetti del ‘rideau’ per Parade. Ricorda Cocteau: «Sul tavolo, di fronte a Villa Medici, Picasso dipingeva il Cinese, i Managers, l’Americana, il cavallo che sembra un albero che ride» e «gli acrobati azzurri che Marcel Proust ha paragonato ai Dioscuri»35. Una ‘modernità’ proposta con a lato le sue ‘origini’, non un ‘classico’ che è riscontro di una «Grèce reconstituée, mais d’une Grèce revécue»36. È la sottesa anima che affiora dalle imagerie popolari, dalle stampe ottocentesche che, come già nel 1987 aveva avanzato Werner Spies nel saggio ‘Parade’: la démonstration antinomique. Picasso aux prises avec les “Scene popolari di Napoli”d’Achille Vianelli37, avevano alimentato

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l’impaginato compositivo del ‘rideau’ per il balletto andato in scena a Parigi la sera del 18 maggio al Théâtre du Châtelet. Nella Città Eterna, Picasso conoscerà e s’innamorerà di Olga Koklova, figlia di un colonnello russo, una delle giovani «danseuses» della compagnia dei Ballets Russes che l’artista ritrae in diversi disegni, come scrive alla Stein38. L’idillio amoroso con Olga Koklova trova una più concreta definizione, sul finire del mese di marzo, scandendo il grande entusiasmo dell’ultimo periodo del soggiorno italiano. A metà di aprile (quasi certamente il giorno 12) Cocteau era già rientrato a Parigi; Picasso resterà a Roma, almeno fino al 28, in compagnia di Olga, con la quale tornerà a Napoli. Il 18 dello stesso mese, comunica ad Apollinaire: «je suis de nouveau à Naples. Ne m’ecris plus. nous nous parlerons à Paris à ma rentré. Je accompagne la troupe attendant que les lions mangent le donteur»39. Il disegno Souvenir de notre promenade à Naples, datato “20 aprile 1917” (Paris, Musée National Picasso), eseguito sulla carta da lettera del Grand Hôtel Victoria di Napoli, ove alloggiava, sintetizza la travolgente passione che avvolge quei giorni: l’artista si raffigura con la pipa, insieme ad Olga, su una carrozzella che corre per via Scarlatti, sullo sfondo di un golfo popolato di vele, con il Vesuvio fumante, il celebre pino, un gruppo di romantici suonatori di serenate. «Picasso – ricorda ancora la Stein – tornò dall’Italia e, liberato di Parade che aveva appena finito di creare, divenne pittore realista, fece persino alcuni ritratti con modello, ritratti assolutamente realisti»40. Nella sua memoria, resteranno impresse le linee che contornano la forma proprie delle figure di Raffaello (un esempio è la tela raffigurante le tre Grazie, del 1925, oggi in collezione privata a Parigi, che, idealmente, richiama le celebri Grazie dell’urbinate, del Musée Condé di Chantilly), ridisegnate, però, con lo sguardo interessato al linearismo puro e sensuale del ‘neoclassicismo’ accademico di Ingres, alla cadenzata scansione dello spazio, ripresa da von Marées negli affreschi napoletani e, in particolare, alla pittura pompeiana, espressione di una città ‘viva’, reale, nella quale la natura intreccia sentimenti e passioni, amore ed eros.

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Jean Cocteau L’oiseau du Bénin a Rome [ritratto di Picasso], Roma 1917 mina di piombo su carta, mm 280×210 Paris, Musée National Picasso

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«Abbiamo preparato Parade – ricorda ancora Cocteau – in una osteria di Roma, l’Osteria Taglioni, dove la compagnia studiava la parte. Abbiamo passeggiato al chiaro di luna con le ballerine, abbiamo visto Napoli e Pompei. Abbiamo conosciuto gli allegri futuristi»41. Cos’è Parade? André Fermigier lo riassume come uno spettacolo che mette in scena la storia di saltimbanchi che non hanno nulla del ‘sentimentalismo’ del “periodo rosa”: Picasso stravolge le prime indicazioni date da Cocteau che insistevano su «le côté occulte» del circo, sul «prolongement des personnages, sur le verso de notre baraque foraine»42. Per il pittore sarà una scena di vita reale: egli, evidenzia Fermigier, ha voluto dare l’impressione di assistere ad una scena semplice, vera, come s’incontra sulla strada o “sur le trottoir” di un boulevard parigino. Parade è un balletto ambientato tra «le case di Parigi, una domenica – si legge nel programma dei Ballets Russes –. Teatro ambulante. Tre numeri di varietà fanno da sfilata d’apertura»43: il soggetto è di Cocteau, le musiche di Erik Satie, le coreografie di Léonide Massime, con costumi e scenografie di Picasso, messo in scena dalla compagnia dei Ballets Russes con la regia di Serge Grigoriev e la direzione di Ernest Ansermet. Nella presentazione Apollinaire parla di un ‘balletto realista’, come propongono i decori e i costumi disegnati da Picasso. «Ce réalisme, continua Apollinaire, ou ce cubisme, comme on voudra, est ce qui a le plus profondément agité les arts durant les dix dernières années»44. Un balletto che si propone, scrive qualche giorno dopo la prima Juan Gris a Maurice Raynal, come «tentative de faire quelque chose de tout à fait nouveau dans le théâtre»45. Il rideau de scéne per Parade è un grande ‘tableau’, anche se può suonare insolita tale definizione, sul quale Picasso traccia la soglia di una nuova avventura dell’arte moderna, ossia – precisa ancora Apollinaire – l’affermazione dell’ «esprit nouveau». Il rideau non «poteva essere che la rappresentazione – rileva Jean Cassou – della commedia italiana, che è fatta di improvvisazione, di spontaneità bizzarra e gratuita, di festa per il gusto della festa, di esteriorizzazione totale. Non un’ombra, il riso in piena luce, il genio sulla scena» 46.

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La lettura critica avanzata da Spies muove dal confronto dell’impianto picassiano con alcune ‘scene’ (direi veri e propri topos) del repertorio iconografico delle stampe italiane dei primi del XIX secolo, legato al Grand Tour. Se da un lato ci fa comprendere lo spirito dell’artista nel suo primo soggiorno italiano, evidenziandone la sua capacità di ‘rapace’ predatore di immagini, dall’altro costeggia ancora la ben nota letteratura sull’ ‘universo dei giocolieri e dei saltimbanchi’. L’impianto compositivo della parte centrale del sipario, vale a dire la raffigurazione della compagnia seduta al tavolo di un’osteria, per Spies trova i rimandi nelle stampe ottocentesche con scene popolari tratte da disegni di Bartolomeo Pinelli o di Achille Vianelli, soffermandosi soprattutto sull’analisi di Taverna, un poco noto dipinto di quest’ultimo, al tempo (segnala l’autore) sulle pareti del Museo di San Martino a Napoli. In essa vi è raffigurata una conviviale con sette figure al tavolo di un’osteria tipica, con un gruppo di musici sulla sinistra, sotto una pergola e con sullo sfondo il profilo fumante del Vesuvio e il mare47. Tale tesi, sull’immediato, sembra trovare riscontro, almeno sul piano iconografico più che sull’opera del Vianelli (anche nei disegni destinati alle stampe raffiguranti scene e costumi popolari), in quella di Bartolomeo Pinelli, dedicate alle usanze e al folclore della campagna romana, ma anche della Campania48. Resta, però, la diversa atmosfera, la velata malinconia che traspare dal rideau, quell’umore tutto picassiano che non si sottrae alla memoria. Voglio dire che restano ancora poco chiari i motivi di fondo attivati dall’immergersi in una realtà di vita che gli ricorda la sua Barcellona e che Picasso tradurrà scompaginando l’unità dello spazio scenico, lasciando coabitare in esso sia le persistenze di un cubismo radicale, espresse in particolare dalle scenografie e dagli studi dei manager, sia l’insorgenza di un rinnovato dettato figurale, ben leggibile nelle figure degli acrobati e principalmente nell’impianto del ‘rideau de scène’49. L’attenta analisi di Spies si ferma, però, alla sola esperienza che l’artista ‘vive’ nel suo incontro con l’Italia, isolandola da quella che gli amici dell’ ‘allegra compagnia’, con la quale condivide il viaggio, ha avuto nei giorni vissuti tra Roma, Napoli e Pompei. Per meglio comprendere i livelli del simbolico, che sottendono

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all’impianto del rideau, è necessario estendere l’attenzione agli scritti e ai disegni di Cocteau, di Stravinskij, ai ricordi di Massine, di Ansermet e degli altri coinvolti nel lungo soggiorno italiano. È il caso, tra le ‘informazioni’ di maggior rilievo, dei ricordi che Stravinskij riporterà nelle sue Chroniques, innanzi tutto quelli legati ai quattro giorni trascorsi a Napoli, la visita alla città in compagnia di Picasso, all’acquario dove, annota il musicista, «indugiavamo delle intere ore», attratto dalle rare specie di fauna, di flora mediterranea e, senza ombra di dubbio, dalle grandi pareti affrescate dal von Marées. Rileggendo la pagina che Stravinskij dedica a Napoli, si fa avanti un’ulteriore ipotesi, cioè che il dettato compositivo del rideau per Parade, abbia tratto motivi d’ispirazione dall’incontro con la pittura di Hans von Marées o, meglio ancora, con la scena della Pergola che raffigura, anch’essa, una conviviale, posta sulla parete est del grande ciclo di affreschi, eseguito nel 1873 da quest’ultimo per quella che poi sarà la Biblioteca della Stazione Zoologica di Napoli. Stravinskij scrive: «A Napoli, invece del sole e dell’azzurro che mi aspettavo, trovai un cielo di piombo e sulla cima del Vesuvio una piccola nuvola immobile e inquietante. Conservo un piacevole ricordo della quindicina di giorni trascorsi in questa città, metà spagnola e metà orientale (Asia Minore). […] Essendo in ozio, ne approfittai per visitare la città, per lo più in compagnia di Picasso. Ci attirava soprattutto il celebre Acquario. Vi indugiavamo delle intere ore. Appassionati entrambi dei vecchi guazzi napoletani, durante le nostre frequenti passeggiate facevamo delle vere razzie in tutte le piccole botteghe e presso i rigattieri»50. La scena della Pergola, affrescata dall’artista tedesco, amico di Fiedler e di Hildebrand, raffigura un angolo di Napoli, precisamente di Posillipo, con un gruppo di figure sedute al tavolo di un’osteria del borgo marinaro; sullo sfondo, le architetture di Palazzo Donn’Anna, incorniciate dall’azzurro del cielo e da trionfanti nuvole bianche. Al centro della scena l’ostessa, ferma nel suo gesto d’attesa; ai piedi della scala un cane attento a puntare un cesto di pesci; sulla destra, incastrata nell’angolo basso, una vecchia venditrice di pesce, avvolta nel suo silenzioso apparire, che per effetto della luce disposta in diagonale,

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Pablo Picasso L’Italienne, Roma 1917 olio su tela, cm 149,5×01,5 Zürich, Fondation Collection E.G. Bührle

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inclinata per squadrare il viso esaltandone i valori luminosi e l’unità dei toni, con una certa suggestione, ricorda la Mendicante romana (Birmingham, City Museum) dipinta da Degas al suo arrivo a Roma nel 1857. Sulla sinistra v’è il gruppo di figure, composto da cinque uomini seduti al tavolo, e dall’ostessa seduta su in alto alle poche scale che danno accesso all’osteria51. Al centro della conviviale Charles Grant, maestro di Hildebrant a Jena; a lato, sulla sinistra, Dohrn e Kleinenberg, l’unico della “compagnia” che è in piedi. A destra, von Marées, che si ritrae assieme all’amico Hildebrant, proposto di profilo. Christian Lenz, nel saggio dedicato agli affreschi napoletani dell’artista tedesco, propone un’analisi che ci consente di leggere sia i richiami simbolici, sia, in filigrana, il pensiero di Fiedler, vero ispiratore e finanziatore dell’opera52. Hans Von Marées, in fondo, scrive Lenz «ci offre la chiave nella figura di Dohrn: infatti questi si piega melanconicamente sul lato in cui si trovano i due quadri dei pescatori. Egli incarna la dolorosa convinzione di non poter prendere parte a questa vita libera, di non appartenere a questo mondo antico e genuino, una convinzione che pesa su quegli uomini così pieni di nostalgia verso quel passato»53. È la nostalgia del Mediterraneo, dei suoi valori, assunti quale espressione della capacità di declinare, nella quotidianità della vita “moderna”, i miti del mondo classico e, al contempo, tendere a ‘scompaginare’ la diffusa idealizzazione della natura d’impronta romantica in virtù di una conoscenza di essa, quella che von Marées ‘vede’ negli impaginati raffaelleschi che traducono l’idea del rapporto uomo-natura, lo stesso che presiede alla formazione del pensiero scientifico di Dohrn54. Il sipario per Parade presenta chiare analogie compositive. La prima, la più evidente, è l’idea del gruppo di figure disposte intorno al tavolo, la cui articolazione riprende, con alcune varianti, l’impianto poc’anzi descritto. Infatti la presenza della statuaria figura del servitore di colore, l’unica in piedi, richiama sia quella di Kleinenberg, sia l’immagine dell’ostessa con le braccia quasi conserte. Lo è anche, con maggiore evidenza, quella del cane con le macchie bianche del manto; l’architettura che fa da sfondo è molto simile, con i ruderi di un arco a tutto sesto, al diroc-

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Pablo Picasso Paysage de Rome, Roma 1917 matita su carta, mm 155×235 Collezione privata

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Pablo Picasso Massine, Bakst e Diaghilev, Roma [1917] gouache su carta, mm 197×273, senza data e firma Paris, Musée National Picasso

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Picasso, Massine e Diaghilev a Napoli, 1917 fotografia Paris, già coll. M.me Larianov Jean Cocteau Picasso e Léonide Massine nel giardino della casa di Marco Lucrezio a Pompei,1917 fotografia

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Pablo Picasso Acrobatie érotique, [Pompei 1917] inchiostro su carta, mm 265×200 Paris, coll. privata

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Pablo Picasso Pulcinella, Napoli [1917] matita su carta quadrettata, mm 175×120 senza data e firma, dal Carnet, n.19 Paris, Musée National Picasso

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Pablo Picasso Veduta del borgo marinaro di Santa Lucia, Napoli [1917] matita su carta quadrettata, mm 175×120 senza data e firma, dal Carnet, n.19 (f. 74 v.) Paris, Musée National Picasso

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Bartolomeo Pinelli Baccanale di Roma in Testaccio, 1809 acquaforte con coloritura coeva, mm 215×310 Roma, Galleria Trinca

Pablo Picasso Progetto del ‘rideau de scène’ per Parade, [Roma, primavera 1917] mina di piombo su carta, mm 247×300 senza data e firma Paris, Musée National Picasso

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Hans von Marées Pergola, 1873 parete est del ciclo di affreschi Napoli, Biblioteca della Stazione Zoologica Anton Dohrn

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Pablo Picasso Rideau de scène per il balletto “Parade”, 1917 pittura a colla su tela, cm 1050×1640 Paris, Musée National d’Arte Moderne Centre Georges Pompidou

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Hans von Marées Barca con rematori, 1873 parete nord del ciclo di affreschi Napoli, Biblioteca della Stazione Zoologica Anton Dohrn Pierre Puvis de Chavannes Marsiglia, porta de l’Oriente (particolare) 1869 Marseille, Musée des Beaux-Arts

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Pablo Picasso Rideau de scène per il balletto “Parade” (dettaglio dell’opera di p. 41), 1917

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Pablo Picasso Souvenir de notre promenade à Naples 20 aprile 1917 inchiostro su carta Paris, Archives, Musée National Picasso

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Pablo Picasso Bozzetto di decoro per “Pulcinella” Parigi 1920 mina di piombo su carta, mm 210×275 senza data e firma Paris, Musée National Picasso

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Pablo Picasso Bozzetto di decoro e dettagli per “Pulcinella” Parigi 1920 mina di piombo su carta, mm 200×270 senza data e firma Paris, Musée National Picasso

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Pablo Picasso Bozzetto di tre decori per “Pulcinella” Parigi 1920 mina di piombo su carta, mm 195×265 senza data e firma Paris, Musée National Picasso

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Pablo Picasso Bozzetto di decoro per “Pulcinella” Parigi 1920 gouache, inchiostro di China e mina di piombo su carta, mm 216×260 senza data e firma Paris, Musée National Picasso

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cato Palazzo Donn’Anna, ugualmente ritagliato sull’azzurro cielo. Quest’ultimo incornicia il profilo di una montagna a forma di cono, coronato da nuvole bianche. La montagna raffigurata da Picasso è, a mio avviso, il Vesuvio ‘visto’ con gli occhi di Cocteau che, nella citata lettera alla madre, lo aveva descritto come la fabbrica di «tutte le nuvole del mondo» ed è la stessa immagine che tornerà, qualche anno più tardi, nel 1920, sul fondo di una prospettiva di palazzi (il richiamo è a via Toledo), nei citati studi eseguiti da Picasso per le scenografie del Pulcinella55. Al di là dei riferimenti compositivi v’è una chiave narrativa lirico-simbolica, che avvicina le due opere: è la nostalgia di quel suo essere ‘mediterraneo’ – come anni più tardi, nel 1936, Eugenio d’Ors gli ricorderà nella “lettera aperta” apparsa sulla rivista “D’Aci i D’Alla” – che aspira alla visione di un «universo infinito come ideale», preannunciato da Apollinaire nel 191256. Per il volto dell’Arlecchino, seduto di spalle al pubblico, e per quello dell’Arlecchino-Pierrot che abbraccia una giovane donna ‘innamorata’ (la coppia al centro del gruppo), Picasso – come nelle opere che aprono al periodo rosa – ricorre ad una ‘figura/ autoritratto’. I due profili, anche se non somiglianti, evidenziano alcune affinità: il disegno del naso tagliente ma carnoso, la scura capigliatura che incornicia la testa. Un modo di raffigurarsi, per certi versi, molto simile alle caricature che Cocteau gli dedica nel breve soggiorno romano: penso a Portrait de Picasso: “L’oiseau du Bénin à Rome” (Paris, Musée National Picasso), oppure Portrait de Picasso à la pipe, un disegno ad inchiostro fino agli anni novanta nella collezione della Galerie Doria. Poco rilievo è stato dato alla coppia al centro del gruppo, per intenderci l’amoroso Pierrot che abbraccia la sua giovane compagna che, con tenerezza, poggia la testa sulla sua spalla. La giovane indossa un vestito bianco e il suo sguardo è perso nel vuoto, proprio di chi è assente dal ‘contesto’ e l’unico gesto che la fa partecipe, è l’abbraccio amoroso del suo uomo. L’ovale del volto, i tratti delicati, la leggera piega degli occhi, quasi a ‘mandorla’ e, soprattutto, il vistoso ‘ciuffo’ di capelli che si staglia sulla fronte, hanno molto in comune sia con quello della figura di donna del citato Le peintre et son modèle, del 1914, ossia la sua amata Eva scomparsa di recente, sia con il volto

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della sorella Conchita, che l’artista aveva schizzato a matita nel secondo “Album La Coruna” (Barcelona, Museu Picasso), a fine autunno del 1894 e ripetuto a memoria nel gennaio del 1895, negli ultimi giorni di vita di Conchita57. È un’immagine carica di dolcezza e al tempo stesso di una nostalgia che s’insinua nella vita dell’artista e pervade l’intero registro ‘narrato’ dalla composizione: nostalgia, malinconia che impone di ‘rivolgere’ lo sguardo al ricordo, così come von Marées lo sintetizza nella figura di Dohrn. Come per l’impianto del von Marées, nel quale il gesto di torsione, appena accennato da Dohrn, assume il valore di chiave narrativa dell’intero ciclo di affreschi, per il rideau lo è quella dell’Arlecchino che si ‘specchia’ nel Pierrot, in pratica Picasso stesso. Se il pittore tedesco rivolge lo sguardo – spiega Lenz – «verso l’osservatore come se dovesse comunicargli la serietà della propria condizione solitaria, melanconica, tesa e demoniaca»58, l’allegra compagnia picassiana guarda verso sinistra, verso la misteriosa e magica composizione, facendosi interprete, con la figura dell’Arlecchino, di una melanconia più profonda, intesa come un moto leggero e silenzioso dell’animo. L’Arlecchino-Picasso volge, quasi a ricalcare la posa di Dohrn, lo sguardo verso una cavalla bianca alata (il riferimento a Pegaso figura della mitologia è palese), con le ali legate da una fascia rossa, raffigurata nel gesto materno di leccare il puledrino che le è al fianco. È, tradotta con un richiamo allegorico, la tenera complicità che lega le figure della donna e del ragazzo (in parte nascosto dal pilastro) che von Marées pone nella parte estrema della barca, nella scena dei Rematori, sulla parete nord, nell’immediata sinistra della Pergola59. Il richiamo a Pegaso, figura del repertorio della mitologia classica, rimarca il dettato simbolico: questa figura, con il dorso e il collo curvati, ricorda, rileva Cortenova, il celebre Ritratto di Mlle E[ugénie] F[iocre] (New York, Brooklyn Museum), dipinto da Edgar Degas fra il 1867 e il 1868, al quale, penso vada affiancata, una certa curiosità – mai nascosta da Picasso – per il mondo mediterraneo evocato da Puvis de Chavannes60. È, dunque, anche l’opera di Degas ad intrecciare gli interessi di Picasso, a tessere il sotteso ordito della ‘trama’ narrativa e

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a fare da ponte con quel classicismo che guardava alla pacata semplicità della vita quotidiana verso il quale Puvis de Chavannes aveva indirizzato l’arte moderna. Questo contribuisce a chiarire, ulteriormente, la libera interpretazione che Picasso dà al nuovo ‘classicismo’, cioè senza declinazioni di maniera, anzi cercandolo nell’incanto umile e popolare della quotidianità ed esprimendo, in un momento di rappel a un ‘classicismo’ – visto come desiderio di un ritorno ad un ordine immutabile – una concezione globale del mondo. In pratica, osserva Argan, «dello spazio e del tempo, anche se il suo mondo era un universo di frammenti, il suo spazio un insieme di punti, il suo tempo un’assurda contemporaneità di istanti»61. Guardare contemporaneamente (o uno attraverso l’altro) Degas e Puvis de Chavannes significa riproporre l’attenzione sul valore compositivo della pittura, in primis sull’unità dei toni, cifra maggiormente evidente nelle opere realizzate da Picasso qualche anno più tardi – si veda, ad esempio, L’enlèvement, del 1920 (New York, MoMA), ispirato da Raffaello –, nonché riconsiderare l’attività del simbolico. Questo vuol dire farsi tentare dall’idea di regolare proporzioni e composizioni attraverso procedimenti rinascimentali – idea che anima anche von Marées nel suo primo arrivo a Roma a metà degli anni sessanta del XIX secolo e poi in quelli trascorsi a Firenze subito dopo l’esperienza napoletana62 –, seguendo, con un’angolazione più diretta, la strada iniziata da Puvis de Chavannes: trae, cioè, da quest’ultimo sia la novità di uno stile decorativo, costruito dalla semplicità di soggetti classici, sia le ambientazioni idilliache guardate alla tradizione italiana rinascimentale. Puvis de Chavannes e von Marées condividono, anche se il secondo con un’impronta mitologica-archeologizzante, una comune aspirazione ad un classicismo che trova fondamento nella natura. Va detto inoltre che l’artista tedesco aveva avuto modo di vedere, nel soggiorno parigino del 1869, opere quali Marseille, porte de l’Orient e Marseille, colonie grecque (Marseille, Musée des Beaux-Arts), che Puvis de Chavannes espone, in quell’anno, al Salon de la Société des Artistes Français63. Sarà proprio il lavoro di quest’ultimo a segnare profondamente la strada di una nuova rinascita del ‘classico’, ad indirizzare, sulla soglia del XX secolo,

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le ricerche di Matisse, di Picasso e, prim’ancora, di Cézanne. Si pensi ad esempio all’influenza che avranno L’Été (Paris, Musée d’Orsay) – la figura della donna con il velo in groppa ad un asino sarà ripresa da Picasso nell’Italienne, (Zervos III, 363) una tela eseguita a Parigi nel 1919 – e Vision antique (Lyon, Musée des Beaux-Arts) – la cui figura centrale del suonatore di siringa ritornerà nel citato dipinto Le flûte de Pan, e in vari disegni realizzati da Picasso nel 1923 –, eseguiti da Puvis de Chavannes rispettivamente nel 1873 e nel 1885, oppure alla soave dolcezza che pervade La Charité, una piccola tela del 1887, tratti ripresi da Picasso in Maternité (München, Bayerische Staatsgemäldesammlungen), dipinta, forse, a Fontainebleau nel 1921. È, dunque, l’aura di un nuovo respiro classico, la chiave che fa leggere il rinnovato desiderio (nostalgia?) di mediterraneità che spinge Picasso verso il recupero della figura: essa non è la misura di una ricercata referenzialità delle immagini, bensì la volontà di attivare i fluidi processi della memoria. Dalla Pergola di Hans von Marées prende l’avvio una nuova stagione della creatività picassiana, così come anni prima era stato Cézanne a sobillare le scelte che sostengono l’impalcatura delle Demoiselles d’Avignon. Va detto prontamente, lo ha segnalato di recente Maria Rosaria De Rosa riprendendo la lucida analisi di Fegers, che il pittore tedesco e il maestro di Aix-en-Provence non sono distanti. Per entrambi lo spazio «è un elemento dato insieme alle figure, è l’ordine e la relazione tra esse, è la loro modalità d’essere ed è l’armonia delle loro relazioni, come avviene in ogni costruzione architettonica felicemente costruita»64. Il sipario per Parade è, appunto, una grande architettura (costruzione): non è un sipario, ossia elemento di apertura allo spazio della scenografia, bensì parte vitale di quel complesso di elementi che l’artista mette sulla scena e che sono i costumi cubisti dei managers, i corpi classici dei ballerini, la ‘ragazzina americana’, il cavallo claunesco, il prestigiatore cinese65. È, al tempo stesso, anche una pittura decorativa monumentale, ideata seconda la visione di Puvis de Chavannes, cioè «in grado – osserva Ann Dumas – di esprimere le verità universali che erano rimaste escluse dal repertorio più legato alla realtà concreta proprio dei realisti e in seguito degli impressionisti»66. Picasso affronta, a trentasei

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anni, la grande superficie, la parete: s’interroga sulla prospettiva del palcoscenico, così come aveva fatto von Marées con la cadenzata articolazione degli elementi del decoro architettonico, disegnati da Hildebrant, o Puvis de Chavannes con gli affreschi per il Panthéon a Parigi, completati nel 1898. «L’influsso dell’Italia – conclude il racconto di Gertrude Stein –, l’influsso del ritorno di tutti dalla guerra, l’influsso di una buona dose di successo, l’influsso della gioia per la nascita di suo figlio, lo gettarono in un secondo periodo rosa, un periodo assolutamente realista che durò dal 1919 al 1927. Fu un periodo rosa, lo fu di sicuro; come il primo periodo rosa, anche questo terminò quando Picasso cominciò a rinforzare e indurire le linee, a consolidare forme e colori. Come il primo periodo rosa si era trasformato con il mio ritratto, il secondo periodo rosa si trasformò, intorno al 1920, col dipingere donne massicce, enormi. Nelle forme e nei drappeggi rimase un lieve ricordo dell’Italia che durò fino al 1923, quando esaurì i grandi quadri classici»67.

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Jean Cocteau, Il richiamo all’ordine, a cura di Paola Dècina Lombardi, Einaudi, Torino 1990, p. 177.

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Una significativa documentazione dell’atelier-casa di rue Schoelcher, ove, nei primi anni di guerra, Picasso viveva con Eva Gouël (all’anagrafe Marcelle Humbert) ci è proposta dall’artista stesso in una serie di ‘autoscatti’ fotografici, realizzata tra l’autunno del 1914 e il 1916, ora in Anne Baldassarri, Picasso e la Fotografia. Lo specchio nero, trad. Graziella Farina, Brigitte Bordas, Paola Facchina, Alinari, Firenze 1998, pp. 134-141.

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In merito rimando a quanto l’artista e la sua amata scrivono a Gertrude Stein nelle lettere inviate nel 1914 da Avignone e a quelle che Picasso spedisce da Parigi nel 1915, ora in Gertrude Stein, Pablo Picasso, Correspondance, a cura di Laurence Madeline, Gallimard, Paris 2005, pp. 165-192. Sull’argomento si veda quanto ricostruisco, sulla base della corrispondenza con la Stein, nel mio volume Le stanze del Minotauro. Scritti su Picasso, Liguori, Napoli 2008, p. 19: «Eva nei primi dell’autunno del 1914 si aggrava, affetta da un cancro e viene sottoposta a due interventi che serviranno a ben poco; il 14 dicembre del 1915, nel pieno della guerra, muore. L’artista l’8 gennaio scrive alla Stein: “Ma chere [sic] Gertrude Ma pauvre Eva est morte dans les premiers jours de Decembre. Ca a eté une grande douleur pour moi et je sais que vous la regreterez elle a eté toutjours si bonne pour moi […]”. Eva lascia la sua indimenticabile presenza nel dipinto Le peintre et son modèle (Paris, Musée National Picasso): la sua immagine esprime il sentimento puro della pittura, la sua profonda essenza che abita lo spirito ma, al tempo stesso, la verità che essa palesa, quella di testimoniare la ‘morte’ della realtà e il suo farsi immagine». A proposito del dramma che l’esercizio della pittura reitera, in un colloquio ripreso da Françoise Gilot, sua compagna della stagione di Antibes negli anni quaranta, l’artista dichiarerà: «Per me, dipingere un quadro è compiere un’azione drammatica nel corso della quale la realtà si trova lacerata. Per me questa azione drammatica ha la precedenza su qualsiasi altra considerazione. L’atto plastico puro è meramente secondario, per quanto mi riguarda. Ciò che conta è il dramma dell’atto plastico in se stesso, il momento nel quale l’universo sfugge a se stesso e incontra la propria distruzione» (Françoise Gilot e Carlton Lake, Life with Picasso, McGraw-Hill, New York; Vita con Picasso, trad. it. di Garibaldo e Liana Marussi, Garzanti, Milano 1965, p. 49).

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Si veda la lettera inviata a Max Jacob, nella quale si legge:«Mi farebbe molto piacere rivederti. Sono in pieno trasloco e arriveresti giusto in tempo per darmi una mano, come hai sempre fatto con gli amici». La lettera, tradotta, è ora in Pablo Picasso, Lettere, a cura di Elena Pontiggia, Abscondita, Milano 2008, p. 66.

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Una ricostruzione delle donne frequentate dall’artista tra il 1915 e il 1917 è proposta in Paula Izquierdo, Le amanti di Picasso. Quando il genio diventa crudeltà, trad. it. di Cinzia Buffa, Cavallo di ferro, Roma 2014.

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Cfr. il mio volume Le stanze del Minotauro, cit., p. 21 s., ove rilevo: «È nel soggiorno avignonese che Picasso dipingerà Le peintre et son modèle: una

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tela di non grandi dimensioni, eseguita ad olio e matita che raffigura, sulla sinistra, un uomo seduto, disegnato con un tratto netto e senza chiaroscuro, linea che trova continuità nel disegno del tavolo, con la citata natura morta. Al centro v’è una figura femminile nell’atto di denudarsi e, sul fondo, un cavalletto con una tela sulla quale è abbozzato un paesaggio con in alto il cielo, un vago ricordo dell’Atelier di Courbet. Solo questa parte è dipinta, mentre il resto è solo disegnato. L’artista si sofferma a descrivere, senza rinunziare al dettato plastico, l’incarnato della figura femminile, il paesaggio appena accennato da macchie color viola chiaro, verde e celeste. Inoltre ha l’accortezza di dipingere il cavalletto e la tavolozza, inconfondibili cifre del pittore e del suo atelier. È un dettato compositivo decisamente distante dalle esperienze di quel particolare momento che l’artista vive. Un dipinto che lascia pensare alla necessità, da parte di Picasso, di riconsiderare l’esplicita capacità immaginativa della pittura quando essa trascrive un pensiero figurato, attraversando la primaria strada che gli ha sempre consentito di sublimare il dramma del suo animo. Pensiero che sollecita il recupero di un esercizio originario, proiettandolo indietro nel tempo. Sul piano stilistico è una scelta che certamente non sarebbe piaciuta al suo mercante Kahnweiler, soprattutto dopo il successo incassato nelle citate mostre personali del 1913, e questo spiega il perché il dipinto non sia mai comparso, neanche quando la figura tornerà a campire le sue tele a partire dal 1917. Il realismo che avvolge le figure è l’evidenza di una situazione interiore, di un disagio che ha ben altre origini, tali da motivare la necessità di lasciare la tela come se fosse incompiuta, cioè chiara evidenza di un linguaggio che si nutre del disegno e della pittura, come pratiche immaginative poste quali processi di astrazione e di immedesimazione». 7

Gertrude Stein (Autobiografia di Alice Toklas, trad.it. di Cesare Pavese, prefazione di Giuseppe Scaraffia, Einaudi, Torino 2010) la ricorda come la «nota dama della società cilena», colei che aveva donato a Picasso, per il suo letto, «una meravigliosa trapunta di seta rosa» (ivi, p. 171).

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Ivi, p. 175.

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Cfr. quanto scrive in merito Salvatore Settis (Il futuro del ‘classico’, Einaudi, Torino 2004) che orienta l’attenzione verso una visione del “classico”, non come modello, cioè dando luogo ad una declinazione di uno stile, quindi al rinnovarsi del “classicismo”, bensì come confronto tra passato e presente ma anche fra culture diverse e distanti tra loro. Il “classico”, dunque, diviene la cifra di un processo di verifica della propria identità esistenziale nel senso di come è intesa da Enrico Crispolti (Come studiare l’arte contemporanea, Donzelli, Roma 1997), nel nostro caso dell’artista, come dello storico e critico d’arte.

10 È quanto scrive sulla cartolina postale che Cocteau invia il “19-2-1917” ora in: Jean Cocteau, Lettres à sa mère, I vol. (1898-1918), a cura di Pierre Caizergues, Gallimard, Paris 1989, p. 295. La parte del ‘carteggio’ che accompagna il viaggio in Italia, si compone di 19 tra lettere e cartoline postali

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inviate, da Roma e da Napoli, dal 19 febbraio al 6 aprile del 1917. Quelle relative al soggiorno napoletano, nella traduzione di Annamaria Bignardi Gasparini, sono qui riportate in appendice. 11 Josep Palau i Fabre, Picasso. Des ballets au drame (1917-1926), Könemann Verlagsgesellschaft, Cologne 1999, p.17.

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12 Sull’argomento resta ancora fondamentale il saggio di Giovanni Carandente, Il viaggio in Italia: 17 febbraio 1917, in Picasso. Opere dal 1895 al 1971 dalla Collezione Marina Picasso, catalogo della mostra a cura di Giovanni Carandente (Venezia, Centro di Cultura di Palazzo Grassi, 3 maggio – 26 luglio 1981), Sansoni, Firenze 1981, pp.45-57. In particolare si vedano, in nota, i riferimenti ai piccoli articoli o commenti apparsi sui quotidiani e sui settimanali pubblicati nella capitale. Sul soggiorno romano di Picasso e Cocteau, sui rapporti con i futuristi si veda inoltre l’attento e documentato saggio di Jean François Rodriguez, “Me voici à Rome…”. Echi futuristi del soggiorno romano di Picasso e Cocteau nel 1917, in Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, t. CLVII (1998-1999), Classe di Scienze morali, Lettere ed Arti, Venezia, 1999, pp. 1-88. 13 La lettera su carta del The Select Hotel è del “20-I-17”, ora in: J. Cocteau, Lettres à sa mère, cit., p. 296 14 Ivi, p. 310. La lettera è datata “22-3-17”. 15 Ivi, p. 297. La lettera è su carta intestata del Grand Hôtel de Russie, datata “22-II-17”. 16 Ivi, p. 304. Lettera del 7 marzo. 17 Picasso/Apollinaire, Corrispondance, a cura di Pierre Caizergues e Hélène Seckel, Gallimard, Paris 1992, p. 144. 18 Inviata, forse, nei primi giorni di aprile, la lettera è oggi conservata alla Yale University, Beinecke Rare Book ad Manuscript Library. Resa nota da Douglas Cooper, Picasso e il Teatro, trad. di Anna Premoli, Garzanti, Milano 1967, p. 328, è ora in: Gertrude Stein, Pablo Picasso, Correspondance, cit., p. 204. 19 Cfr.: Ernest Ansermet, Écrits, Robert Lafford, Paris 1989. 20 Secondo la definizione di Jean Cocteau, Il richiamo all’ordine, cit., p. 179. In nota Cocteau precisa il termine “futuristi”: «Parlo unicamente dei cubisti assoluti», riferendosi a Balla, Depero e Prampolini. Della compagine facevano parte anche Spadini, Papini, Francesco Cangiullo e Luciano Folgore che, nella prima delle due lettere inviate da Roma tra febbraio e i primi di aprile del 1917 ad Ardengo Soffici (cfr. Archivi del Futurismo, II, a cura di Maria Drudi Gambillo e Teresa Fiori, De Luca-Mondadori, Roma-Milano 19862, p. 375), lo informa di una mostra da allestire nella capitale. A Soffici, con il quale da ol-

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tre un decennio aveva un più stretto rapporto d’amicizia, Picasso invierà una lettera da Roma, ove si legge:«Caro Soffici, eccomi a Roma. Mi avrebbe fatto molto piacere vederti. Forse se mi fermo qui un po’ potremmo incontrarci. Papini mi ha detto che vorresti aver notizie degli amici. Apollinaire sta bene e lavora. Braque è sempre nel suo rifugio. Con Serge ci sono state delle storie amorose che ci hanno diviso. Quanto agli altri, dimmi di chi vuoi sapere. Scrivimi, caro amico, sarò molto contento di avere tue notizie. Il tuo vecchio Picasso». La lettera è ora in Pablo Picasso, Lettere, cit., pp.66-68. 21 In merito si veda la lettera, datata 2 dicembre del 1916, inviata da Diaghilev a Balla già segnalata da Giovanni Carandente (Il viaggio in Italia: 17 febbraio 1917, cit., p. 54), nella quale sono indicate (a mo’ di contratto) tutte le specifiche economiche e i tempi per la realizzazione della scenografia, ora in Archivi del Futurismo, I, cit., p.52 e quella di Michele De Semenoff, del 24 marzo del 1918, con la quale il segretario di Diaghilev dichiara di aver ricevuto da Balla «la somma cinquecento (500lire) per lo scenario fatto da lui Balla per conto del sig. Diaghilew [sic] per i Balli Russi. Vendo al Sig. Balla questo scenario con pieno consenso del sig. Diaghilew [sic] » (ivi, p. 57). Nel “Programma Musicale” riprodotto sulla ‘quarta’ di copertina della brochure della mostra dei dipinti e dei disegni della collezione di Léonide Massine, allestita tra il 9 e il 12 di aprile nel foyer del Teatro Costanzi, si legge: «È una fantasia per orchestra, non una imitazione. È un organismo puramente musicale che si svolge con lo stesso andare di un fuoco d’artificio anche nell’ordine visuale» (cfr. Nuovi Archivi del Futurismo. “Cataloghi di esposizioni”, a cura di Enrico Crispolti, De Luca, Roma 2010) . Su Balla si veda altresì Fabio Benzi, Giacomo Balla. Genio futurista, Mondadori-Electa, Milano 2007. 22 Nell’ autobiografia (Fortunato Depero nelle opere e nella vita, Trento 1940, p. 290, nota 16), l’artista di Rovereto parla dei lavori commissionati con urgenza da Diaghilev nel febbraio del 1917: «Diaghileff [sic] diede da guadagnare a me e molto di più a Bucci in altra maniera cioè dando da costruire a me 3 costumi per 400 per ballo Picasso…». Un’attenta ricostruzione dei rapporti fra Depero e Diaghilev, della collaborazione dell’artista italiano nella costruzione dei costumi di Parade, è offerta da Gabriella Belli [Depero per Parade, in: Picasso 1917-1924, a cura di Jean Clair con Odile Michel, catalogo della mostra (Venezia, Palazzo Grassi, 1 marzo – 28 giugno 1998), Bompiani, Milano 1998, pp. 69-74), richiamandosi a quanto già segnalato da Bruno Passamani (Depero e la scena da “Colori” alla scena mobile 1916-1930, Martano, Torino 1970, pp. 35-38]. Nel saggio la Belli riporta un brano della lettera che Depero invia il 15 Ottobre del 1950 a Gianni Mattioli, in merito all’autenticità di un disegno di Picasso (Studio per il cavallo e per i costumi del manager), ove si legge: «Lo schizzo è stato eseguito da Picasso al mio studio in Roma, nel 1917, mentre stavo costruendo le scene per il canto dell’usignolo di Strawinsky [sic]. Lo schizzo lo ebbe a tracciare per indicarmi come dovevo costruire (in quel tempo mi dedicavo molto alle costruzioni in carta) in piccolo le maschere per ‘Parade’ di Eric [sic] Satie – maschere di sua ideazione e che il signor Diaghileff [sic] mi aveva ordinato di costruire» (ivi, p. 72). Il citato disegno era stato pubblicato – sulla base della

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documentazione della Fondation Erik Satie – con la didascalia “Pablo Picasso. Schema costruttivo di un Manager disegnato da Picasso per Fortunato Depero che ha materialmente realizzato la costruzione a Roma nel 1917”, in: Jean Cocteau, Il richiamo all’ordine, cit., tavola n. 16.

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23 Enrico Prampolini, Incontro di Picasso con Roma, in “La Biennale di Venezia”, n.13-14, 1953, p. 53 s. Altro riferimento è offerto dalla lettera (scritta in un non perfetto francese) inviata da Prampolini a Tzara il 17 marzo di quell’anno, resa nota da Giovanni Lista, Prampolini et Tzara: inédits, in “Les Lettres Nouvelles”, n. 6, settembre-ottobre, Paris 1973, pp. 17-25, successivamente ripresa e corredata di note in Prampolini. Carteggio 1916-1965, a cura di Rossella Siligato, Carte Segrete, Roma 1992, p. 284, (qui in appendice nella traduzione italiana). Sui rapporti di Prampolini con Cocteau e Picasso nel corso di quell’anno si veda anche la lettera a Sanminiatelli, inviata da Napoli il 12 agosto, nella quale si fa riferimento alla collaborazione di questi con la rivista “Noi”, ora in Archivi del Futurismo, cit., p. 55. Nella cartolina postale inviata a Francesco Meriano il 25 febbraio 1917 Prampolini fa accenno alla visita di Picasso al suo studio, evidenziando che aveva trovato «molto interessanti delle mie invenzioni plastiche […]», “Fondo Meriano”, Fondazione Primo Conti, Fiesole, ora richiamata nel saggio di Rosella Siligato, La Casa d’Arte Italiana, ivi, p. 15. 24 Léonide Massine, My Life in Ballet, MacMillan, London 1968, p. 108, ora in La mia vita nel balletto, a cura di Lorena Coppola, trad. it. di Theodor Massine, Fondazione Léonide Massine, Napoli 1995, p. 122 25 Ibid 26 Picasso/Apollinaire, Corrispondance, cit., p. 145. 27 Jean Cocteau, Lettres à sa mère, cit., p. 306. 28 Gertrude Stein, Pablo Picasso, Correspondance, cit., p. 204. 29 Palau i Fabre (Picasso, cit., p. 249 e p. 35) documenta altri due disegni che raffigurano una scena molto simile a quella del disegno erotico: il primo, proposto con il titolo Acrobatie érotique un acquerello (color marrone) su carta, all’incirca delle stesse dimensioni, un tempo nella Succession de l’artiste, lo attribuisce all’autunno del 1920. Il secondo, Couple dansant (Paris, Musées National Picasso) eseguito a Roma nel 1917, anch’esso un acquerello su carta, fa parte di un gruppo di schizzi che raffigurano ballerini durante le prove. 30 Il Pan proveniente dalla Casa dell’Amor fatale di Pompei ha avuto un suo significativo ruolo nell’ideazione del ben noto dipinto realizzato da Picasso nel 1923. Evidenti richiami sono nei numerosi studi dedicati all’ “allégorie de la beauté” con Cupido e Pan, eseguiti nei primi mesi di quell’anno, nei quali la figura femminile, al centro del gruppo, ricorda per la posa e, particolarmente per il movimento della folta capigliatura, il Pan della citata pittura pompeiana. Altro riscontro è suggerito dall’impianto prospettico che acco-

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glie i corpi dei due giovani che dominano l’impianto del dipinto Le flût de Pan; il muro a sinistra è disposto in prospettiva ed apre alla distesa di mare azzurro, mentre quello di destra chiude frontalmente, riprendendo l’identica articolazione dello spazio sullo sfondo del Pan e le Ninfe di Pompei.

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31 Sullo specifico di Pompei si rimanda a: Anne Baldassarri, Fantasia pompeiana, una fonte fotografica del neoclassicismo di Picasso, in: Picasso 19171924, cit., pp. 79-86. 32 Cfr. quanto scrive nel “Diario italiano” (ottobre 1901- maggio 1902) ora in Paul Klee, Diari 1898-1918, trad. di Alfredo Foelkel, il Saggiatore (collana “Economici”), Milano 1995 ove si legge: «L’acquario è molto interessante. Strane bestie i suoi vecchi abitatori, polipi, stelle marine, conchiglie. E inoltre mostri un po’ rassomiglianti a serpenti, lo sguardo maligno, un muso immenso e un gozzo a guisa di sacco. […] Di sopra in Biblioteca, gli affreschi di Marée [sic]. Ancora sei mesi fa il suo genere mi sarebbe stato del tutto estraneo, adesso mi ci posso abituare. La raffigurazione mi sembra venire dal cuore. Attraverso certi lavori di Schleisshein, mi ero formato un giudizio errato di Marée (più tardi mi sono del tutto ricreduto» (ivi, p.100). 33 Nel 1914 Boccioni torna a Napoli; v’era stato qualche anno prima, nel 1910, in occasione della ‘serata futurista’ tenutasi al Mercadante, ora per la mostra e gli altri ‘eventi futuristi’ allestiti alla galleria Sprovieri a via dei Mille. In questo soggiorno esegue il dipinto Sotto la pergola a Napoli (Milano, Museo del Novecento) nel quale, se pur i richiami agli affreschi del von Marées non sono palesi, si percepisce una certa suggestione per la raffigurazione, anche se accennata, di una tavola imbandita e, soprattutto per il titolo. Nelle esperienze bocconiane di quegli anni, questa tela apre la strada ad esperienze nelle quali l’artista sperimenta il recupero di una cifra figurale o, come evidenzia il ritratto di Silva del 1915, dipinto noto con il titolo di Sintesi plastica di figura seduta (Silvia), segnerà il tendere alla ricomposizione del dato visivo, come sarà pienamente esplicato dal ritratto dello scultore Busoni. In Sotto la pergola a Napoli, l’artista futurista ritorna – osserva Calvesi – «all’origine prima del cubismo», in pratica pone una revisione della figura in chiave plastica, partendo da Cézanne. 34 Jean Cocteau, Naples, in Id., Poésies 1917-1920, Éditions de la Sirène, Paris 1920, p. 45 s. Pierre Caizergues in nota alla lettera del «14 mars 1917» (Jean Cocteau, Lettres à sa mère, cit., p. 307), sostiene che i due «poèmes sur Rome et Naples» siano stati scritti al rientro da Napoli. 35 Jean Cocteau, Il richiamo all’ordine, cit., p. 179. 36 Josep Palau i Fabre, Picasso, cit., p. 385 37 Il saggio è apparso la prima volta in “Il se rendit en Italie: etudes offerts à André Chastel”, Edizioni dell’Elefante-Flammarion, Roma 1987, pp. 679688. Il saggio sarà riproposto, con aggiornamenti in: Picasso 1917-1924, cit., pp. 61-68.

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38 Cfr. la lettera dell’aprile del 1917, richiamata alla nota 18. 39 Picasso/Apollinaire, Corrispondance, cit., p. 159. 40 Gertrude Stein, Picasso, Adelphi, Milano 19782, p. 65 41 Jean Cocteau, Il richiamo all’ordine, cit., p. 179. 42 È quanto scrive nella lettera a Paul Dermée apparsa sulla rivista mensile “Nord-Sud”, n.3-4, Paris juin-juillet 1917. Sull’evoluzione di Parade a partire già dalla fine dell’estate del 1916 si veda quanto ricostruisce Douglas Cooper, Picasso e il teatro,cit., pp.16-19. Cfr. anche André Fermigier, Picasso, Le Livre du Poche, Paris 1969 e 19912, p. 119 s. La lettera, in una diversa traduzione italiana, è in Jean Cocteau, Il richiamo all’ordine, cit., pp. 31-34.

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43 Il programma nella traduzione italiana è ora in Picasso in Italia, catalogo della mostra a cura di Giorgio Cortenova e Jean Leymarie (Verona, Palazzo Forti, 7 giugno - 9 settembre 1990), Mazzotta, Milano 1990, p. 94. 44 Guillame Apollinaire, Parade et l’esprit nouveau, testo al programma di Parade maggio 1917, ora in Pierre Cabanne Le siècle de Picasso, vol. 2 “L’époque des métamorphoses (1912-1937)”, Gallimard, Paris 1992 (edizione rivista ed aggiornata), p. 487. Il programma è stato ripubblicato nella rivista “La Table Ronde”, n° 57, settembre 1952, ripreso in: Guillaume Apollinaire, Chroniques d’art 1902-1918, a cura di LeRoy C. Breunig, (Paris 1960), ora nella traduzione italiana di Maria Croci Gulì, a cura di Vittorio Fagone, Novecento, Palermo 1989, p. 365 s. Nelle prime righe si legge:«È un poema scenico che il musicista innovatore Erik Satie ha trasposto in una musica stupendamente espressiva, così chiara e semplice che vi si riconoscerà lo spirito meravigliosamente lucido della Francia. Il pittore cubista Picasso e il più audace dei coreografi, Léonide Massine, l’hanno realizzato compiendo per la prima volta questa unione tra la pittura e la danza, tra la plastica e la mimica, che è il segno dell’avvento di un’arte completa». Per poi aggiungere: «Le scene e i costumi cubisti di Picasso testimoniano il realismo della sua arte» (ivi, p. 365). 45 Alcuni brani sono ora in: Ivi, p. 490. 46 Jean Cassou, Le rideau de Parade de Picasso au Musée d’Art Moderne, in “La Revue des Arts”, Musées de France, Paris, 1, 1957, p. 16. 47 Poche sono le analogie che la composizione del rideau per Parade ha con quest’opera, ad eccezione per il gruppo di musici che richiama lo stesso schema triangolare nel quale Picasso inscrive, la cavalla alata con il puledrino sul lato, la ballerina che spinge verso il vertice ove c’è la scimmia e la scala che segna il lato destro. In pratica tre figure, tra queste quella di un bambino all’estrema sinistra, protetto dall’amoroso sguardo del padre, cioè la figura con la lira posta al centro. Il tamburo ai piedi del gitano con la chitarra, raffigurato nel rideau, sembra ispirarsi al tamburello che, in Taverna, è al centro dell’intera scena.

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48 Al riguardo sembra più attendibile il riscontro con la stampa Baccanale di Roma in Testaccio, un’acquaforte del 1809 che l’artista romano esegue per la Raccolta di costumi pittoreschi, apparsa in quell’anno. V’è raffigurata una conviviale con sei figure intorno a un tavolo e una settima sdraiata nell’angolo basso a destra. A sinistra un uomo con cappello che suona la mandola; uno in piedi poggiato al robusto tronco di una quercia posto al centro della scena, a mo’ di colonna. Sulla destra del tavolo due donne (le uniche) sedute accanto con a lato, alzato, un uomo con cappello. In lontananza, il tenue profilo dei monti, il mare e una casa immersa, come tutta la scena, nel verde.

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49 Cfr. quanto scrive Giorgio Cortenova, Picasso in Italia, saggio introduttivo al catalogo della mostra “Picasso in Italia”, cit., pp. 11-28. 50 Igor Stravinskij, Cronaca della mia vita, trad. it. di Alberto Mantelli, SE, Milano 1999, p. 71. 51 Come ha fatto rilevare Spies in merito alle sette figure presenti nella conviviale picassiana, lo stesso numero è presente sia nella Taverna del Vianelli, sia, aggiungo, nel baccanale di Bartolomeo Pinelli. Sette sono anche le figure che compongono la scena della Pergola affrescata da von Marées. 52 Christian Lenz, Gli affreschi di Marées a Napoli, in I “Deutsch-Römer” Il mito dell’Italia negli artisti tedeschi, 1850-1900, catalogo della mostra (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, 22 Aprile – 29 Maggio 1988), Mondadori-De Luca, Milano-Roma, 1988, p. 243 s. Si veda anche il libro, apparso all’indomani dei restauri che hanno interessato l’intero ciclo, di Christiane Groeben, La sala degli Affreschi nella Stazione Zoologica Anton Dohrn. Ideatori ed Artefici, Macchiaroli, Napoli 1995, corredato da alcuni disegni preparatori, inediti e di straordinaria importanza per comprendere le fonti alle quali attinge il von Marées. 53 Ivi, p. 261. 54 In uno degli aforismi dedicati al rapporto fra arte e scienza, Konrad Fiedler (Aforismi sull’Arte, trad. it. di Rossana Bossaglia, Milano 1945, n. ed., Tea, Milano 1994) scrive: «Alcuni equivoci sull’essenza dell’arte sono stati causati dall’opinione assai diffusa che contrappone la forma esteriore delle cose alla loro interiore essenza, derivando quindi una certa inferiorità delle tendenze artistiche e una certa superiorità delle ricerche scientifiche. Si afferma che l’arte tocca solo la forma delle cose, mentre la scienza penetra la loro essenza, e non ci si rende conto come la forma non sia minimamente meno essenziale alle cose di tutto ciò che si ama chiamare la loro essenza» (ivi, p. 61). 55 Si veda: Bozzetto di decoro per “Pulcinella”, Parigi 1920 (Paris, Musée National Picasso, n. inv. M.P. 1749). 56 Si rimanda a: Eugenio D’Ors, Diario europeo, a cura di Mario Puccini, La Bussola, Roma-Barcellona 1946, p.150 s.; cfr Guillaume Apollinaire, Les Peintres

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cubistes, Paris 1912 (trad. di Franca Minoia, I Pittori cubisti, Abscondita, Milano 2003, p. 19). Quella di Picasso è un’esperienza della pittura che si ‘consuma’ nel dramma, come dichiarava a Françoise Gilot, richiamando nel presente ‘assenze’ che hanno segnato la sua vita. Il volto di Eva che si sovrappone a quello della sorella Maria de Concepción, Conchita, morta all’età di sette anni di difterite, nel 1895 quando la famiglia viveva a La Coruña; del padre, don José, deceduto nel 1913, la cui immagine l’artista richiama alla memoria con un intenso ritratto, un disegno a matita su carta eseguito, sostiene Palau i Fabre (Picasso, cit., ripr. p. 175) tra il 1919 e il 1920, in una posa che ricalca quella dei numerosissimi che Picasso dedica al padre tra il 1894 e il 1897. Così è anche per La prima comunione, del 1919 (Palau i Fabre, Picasso cit., ripr. p. 128), un olio su tela oggi al Musée National Picasso di Parigi, identica, per la figura della bambina con l’abito bianco, alla ben più nota La prima comunione del 1896, oggi al Museu Picasso di Barcellona, ove v’è raffigurata in primo piano la sorella Lola con a lato una figura che ricorda i tratti del padre. In penombra la madre dell’artista e sulla destra il volto di un chierichetto che sa tanto di un autoritratto. 57 Rimando a quanto scrivo in Le stanze del Minotauro, cit., pp.11-25 58 Christian Lenz, Gli affreschi di Marées a Napoli, cit., p. 261. 59 La donna seduta e il bambino che è alle sue spalle, entrambi nella barca verso poppa, non hanno richiamato un particolare interesse degli studiosi: la Lenz (op.cit., p. 257) indica la “donna pensierosa”, quale figura centrale della parte destra della parete nord, mentre del ragazzo dice ben poco, limitandosi a precisare che negli studi era stato raffigurato al timone (ivi, p.247, si veda la riproduzione riproduzione del disegno conservato al museo di Wuppertal). La dolcezza e la raffinatezza della donna, che la posa lascia intuire, sono le stesse che Marisa Volpi (Morte a Roma, 1887 in: Id., Il maestro della betulla, Vallecchi, Firenze, 1986) sintetizza come caratteri peculiari di Friederike Sussmann, madre di Hans von Marèes: «un’ebrea raffinata» che «ispirò al terzogenito l’inquieta voluttà del sogno con la purezza di un volo splendido e con un eloquio naturalmente evocativo per la sottigliezza di chi aderisce alla parola e al pensiero in lingue diverse» (ivi, p. 134). L’idea che von Marées abbia voluto eternare l’effige della madre nel grande affresco ‘italiano’, ci viene suggerita anche dalla stretta somiglianza che si può riscontare ponendo a confronto l’immagine della ‘donna pensosa’ con l’autoritratto, del 1863 (München, Neue Pinakotek), nel quale si raffigura insieme a Lenbach. La figura del ragazzo non offre molte possibilità di interpretazione perché, volutamente, l’artista nasconde parte della testa nel pilastro della decorazione. Dalla posa e dal viso che scorge appena possiamo intuire che tra le due figure ci sia un certo legame. La scelta di una citazione autobiografica potrebbe trovare la sua giustificazione nell’importanza che tale affresco assume nella vicenda umana ed artistica del von Marées, in un particolare momento della sua vita, vale a dire quando fa ritorno in una terra, l’Italia, che «è per così dire – scrive ad Hildebrand nella lettera inviata da Dresda nel 1872 – in noi stessi, e, prima che la si possa esprimere interiormente agli altri, non c’è da sperare in una calma interiore» (ivi, p.135).

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L’idea di un richiamo autobiografico e della citata ‘testimonianza’ di Stravinskij, come già avevo anticipato nel saggio Nell’ombra di una ‘Pergola’ apparso nel 2002 in Altri viaggi al Sud cit., sono state riprese alla lettera, senza alcun riferimento bibliografico, anni dopo da Lea Ritter Santini (In an Antique Romantic Boat in Art as Autobiography. Hans von Marees, a cura di Lea Ritter Santini e Christiane Groeben, Macchiaroli, Napoli 2008, pp. 120-122). 60 Cfr. Francesca Castellani, Maurizio Cecchetti, Edgar Degas. La vita e l’opera, Arnoldo Mondadori, Milano 1998, p. 81.

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61 Giulio Carlo Argan, Classicismo e anticlassicismo di Picasso, ora in: Id., Da Hogarth a Picasso. L’arte moderna in Europa, Feltrinelli, Milano 1983, p. 481. 62 Cfr.: Uta Gerlach-Laxner, Hans von Marées, Gemälde, München 1980. Si veda anche Marisa Volpi, op. cit., p. 153 s. 63 Thomas Gaehtgens, nel saggio dal titolo Puvis de Chavannes nella critica artistica di lingua tedesca intorno al 1900: artisti, critici, storici, apparso in Da Puvis de Chavannes a Matisse a Picasso. Verso l’Arte Moderna, a cura di Serge Lemoine, catalogo della mostra (Venezia, Palazzo Grassi, 10 febbraio – 16 giugno 2002), Bompiani, Milano 2002, dedica un breve paragrafo al rapporto fra Puvis de Chavannes e Hans von Marées ritenendo, però, poco probabile un diretto incontro, tanto meno che l’artista tedesco avesse visto dipinti del pittore simbolista. Marées, nella lettera del 13 luglio del 1869, inviata da Parigi all’amico Hildebrand, racconta di aver visto «tutte insieme, in gran quantità, le produzioni degli artisti francesi moderni» (Hans von Marées. Briefe, a cura di A.S. Domm, München-Zürich1987). L’allusione è forse al Salon del 1869? Christian Lenz (Gli affreschi di Marées a Napoli, cit., p. 263) ci informa che quando Marées «si trovava a Parigi nel 1969 vide forse le ultime opere di Delacroix a Saint-Sulpice. Probabilmente vide anche i due dipinti di Puvis de Chavannes Marsiglia, colonia greca e Marsiglia, porta d’Oriente che – appene finiti – furono esposti in società» (ivi, p. 263), senza, però, mostrare troppo interesse da parte dell’artista tedesco. Eppure negli affreschi di Napoli si respira un’aria alquanto simile, vivificata da un’identica luce fatta vibrare sul mare; da una particolare luminosità del colore blu del mare, sul quale Marées fa arricciare – con la stessa semplicità con la quale Puvis de Chavannes la dipinge in Marseille, porte de l’Orient – la schiuma bianca delle onde che vengono in avanti; nonché dall’uso di figure poste in controluce e, infine, dal cielo, dall’architettura che costruiscono le nuvole, sulle quali rimbalza una luce leggermente velata di giallo e di rosso. Un ulteriore elemento di confronto è offerto dalla giovane madre seduta con un bambino sulle ginocchia, raffigurati al centro del gruppo che Puvis de Chavannes pone sulla sinistra del grande dipinto: il volto della donna, di profilo e leggermente chinato in avanti, è invaso da una luce morbida, chiara, che disegna i tratti esili conferendole dignità regale. È una luce che scivola dalla fronte alle guance, lasciando in ombra l’altra metà del viso.

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Ha l’aria assorta, velata da un sentimento di nostalgia che trasferisce una pacata quiete all’intero gruppo. Non abbiamo elementi per poter sostenere che von Marées vi abbia tratto ispirazione per la figura di donna della scena dei rematori, anche se diversi elementi compositivi accreditano tale ’suggestione’: un’identica scelta nella raffigurazione del profilo, la stessa qualità della luce e, soprattutto, la quiete che la figura infonde al gruppo. L’idea di un richiamo autobiografico così come la citata ‘testimonianza’ di Stravinskij, come già avevo anticipato nel saggio Nell’ombra di una ‘Pergola’ apparso nel 2002 in Altri viaggi al Sud cit., sono state riprese alla lettera, senza alcun riferimento bibliografico, anni dopo da Lea Ritter Santini (In an Antique Romantic Boat in Art as Autobiography. Hans von Marées, a cura di Lea Ritter Santini e Christiane Groeben, Macchiaroli, Napoli 2008, pp. 120-122).

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64 Maria Rosaria De Rosa, Hans von Marées (1837-1887), Paparo, Napoli 2000, p. 94. 65 Apollinaire (Parade et l’esprit, cit.) così li presenta: «Le costruzioni fantastiche che raffigurano questi personaggi giganteschi e inaspettati, i managers, lungi dal rappresentare un ostacolo per l’estro di Massine, gli hanno conferito, per così dire, maggior disinvoltura...; “Un magnifico cinese da teatro di varietà darà libero corso alla loro libera fantasia…”; “L’acrobata in costume bianco e blu celebra i riti muti (della vita quotidiana) con agilità squisita e sorprendente”». I brani tradotti in italiano sono in Picasso in Italia, cit., pp. 94-96. 66 Ann Dumas, Degas e Puvis de Chavannes: la reinvenzione del classicismo, in: Da Puvis de Chavannes a Matisse, cit., p. 89. 67 Gertrude Stein, Picasso, cit., p. 73.

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APPENDICE

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Jean Cocteau: lettere alla madre* Roma: «12-3-7».[sic] Ecco gli allori di Pompei, la sfortunata piccola città. Ho acquistato questa immagine sulla strada che guarda il terribile Vesuvio che sembra fumare e osserva Napoli con la coda dell’occhio. Lascerò domani questo Eden dove è possibile lavarsi con la finestra aperta. Jean Roma: «13-3-17» Mia cara, Siamo di nuovo a Roma dopo il viaggio a Napoli (poi a Pompei in auto). Non credo che esista al mondo una città che possa piacermi più di Napoli. L’antichità pullula rinnovata in questa Montmartre araba, nell’enorme disordine di una kermesse inarrestabile. Il cibo, la religione e il sesso sono il motore di questo popolo pittoresco. Il Vesuvio fabbrica tutte le nuvole del mondo. Il mare è di un blu intenso. Sui marciapiedi spuntano i giacinti. Pompei non mi ha affatto stupito. Sono andato dritto a casa. Avevo atteso mille anni, non osando ritornare a vedere le sue povere rovine. Ti abbraccio. Jean Roma: 14 marzo 1917. Cara, Il clima politico di Roma è angosciante e i giornali annunciano molti cambiamenti. Si vive? Ci sono dei momenti in cui cerco di capire dove io mi trovi e dove si trovi il mondo. Nonostante i telegrammi e le cartoline postali dei miei cari amici, mi chiedo quali siano le novità che interessano ancora via Francesco I° [al tempo sede della ‘Censura’, n.d.a.]. Volevo partire. Diag. [Diaghilev, n.d.a.]. mi ha supplicato di non mollare e mi ha anche promesso che, come avrà occasione di trascorrere una settimana a Parigi, farà visita a te e a Blot [Philippe Berthelot, n.d.a.]. Sapendo che la mia vita è, una volta per tutte, insonne, non me ne preoccupo più. Scrivo molto per me stesso. Jean

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Roma: «16-3-17»

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Mia Cara, Dopo Napoli trovo Roma molto sporca, molto fiacca e greve. Dico fiacca a causa del clima che falcia braccia e gambe a tal punto che il pubblico dei Music-Hall non ha nemmeno la forza di applaudire le canzoni che gli piacciono. Corpechot mi porta in taxi per i Sette Colli e in certe catacombe dove spuntano funghi, mosaici d’oro e raffreddori. Preferisco ai capolavori il popolo perché da esso emergono i secoli. I napoletani sono quanto mai differenti dai romani. Passeggio e osservo. Le pulci mi divorano come le tigri del Colosseo. Comincio a capire la lingua e addirittura spiccico quattro parole. Nel mondo dell’arte, persone molto snob fanno gran festa a Picasso, che si sottrae ed ostenta una cortese ritrosia, privilegio dei veri maestri. Che esempio quotidiano di grande correttezza e laboriosa semplicità! L’ammiro e ne sono infastidito. Tento di migliorarmi, di ignorare ciò che mi infastidisce e sminuisce. Buona lettera di Lucien, Leon farà morire madame Daudet, Blanche merita proprio una lavata di testa, tuttavia è un po’ dura. Che pensa? Duello? Dove replica nel sesto volume? Ti adoro e ti abbraccio. Jean *(da: J. Cocteau, Lettres à sa mère, I vol. (1898-1918), a cura di Pierre Caizergues, Gallimard, Paris 1989).

Jean Cocteau, NAPLES* Questa mattina niente c’è di più bagnato di questo scorcio di mare il rematore s’allontana a colpi di schiena senza sentire le mille piccole grida delle stelle che annegano sotto la lucentezza di Aprile piumaggio di nuvole Napoli fuma lentamente il suo Vesuvio A Roma si intravede Pio X prigioniero qui Dio guizza dappertutto sul mare un angelo esce dal Vesuvio io sono un’apparenza tu sei un’apparenza la cornice ha ingannato il mio occhio con mille falene

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il Vesuvio è una apparenza che fuma la più grande fabbrica di nuvole al mondo Roma o mia greve sposa addio tuo occhio di gesso rotondo di gobbe mi fissava con una freschezza mortale

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ho bevuto un cocktail Martini molto secco ghiaccio olive BAR io m’increspo come il mare Napoli entra in me attraverso le vene bisca

cannone la notte è arrivata un’isola sorge imbandierata l’ascensore mi svuota il ventre Pompei chiude alle quattro Napoli mai SPETTACOLO INTERROTTO il riso delle case nella tua bocca in disordine NAPOLI la Santa Vergine ha fatto ovunque il suo nido le capre dal profilo giudeo salgono sulle case dirupate mare la baia

è qui

il vero blu marino

ti offro questo fascio di onde che s’inseguono Capri pallido scoglio un puledro grazioso come un asso di picche tutto brucia dalla punta mentre sparge intensi profumi qui è sempre il 14 luglio

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i marinai d’Aprile passeggiano a piedi nudi Semaforo i merli della fortezza sono l’ingranaggio del golfo esso gira dolcemente da sinistra a destra Viva Garibaldi! !!

!!!!

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quanto i volti della gente sono dolci alle 6 h. ½ nei porti la diga è un obitorio dove sono coricate le onde una schiera di panni svolazza panni appesi gravido il cielo stellato a Parigi questa sera è l’ora dei portieri fuori a Napoli marinai braccia sopra braccia sotto mettono a soqquadro la case mi si propone di dormire col Vesuvio i marinai entrano in case di donne la loro camera è un teatro illuminato i marinai raccontano di isole tutto quello che adorna queste stanze fasci di rose tra conchiglie tanti Gesù neri sotto le campane di vetro credenze di lacca fonografi d’oro sono queste edicole delle case all’ancora

l’urina

tu spandi il tuo odore bastimento che intriga l’oppio Pechino la peste rosa

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emozione simile a un presentimento

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l’ombra di una donna si pettina in tutta la casa di fronte si chiacchiera un piede incappa nella gabbia scialuppe agganciate cariche di passeggeri di marinai che ridono un ridere in pieno mare Dio quanto buio in questa via in pieno mare tutte le scialuppe di salvataggio le vie di fuga le scale le palme le palme le braccia che pendono le braccia che pendono lasciano i remi un sigaro un segnale d’allarme scalinate malfamate io incespico in questa fisarmonica di marce sala d’attesa dal parrucchiere i bersaglieri le piume sulle spalle le donne a Montmartre si udivano voci concitate nelle case si udivano in crescendo voci di gente che si corica la finestra aperta SONNECCHIO rientro sonno di città il mare replica il diluvio un’onda salta il muro e muore nella camera della mia infanzia a Maisons-Laffitte avevo una litografia ovale si vedeva il Vesuvio e i bengala accesi il mare cannoneggia l’ombra un capitano blu

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avvolto nei suoi galloni muore nello Champagne qui è troppo lontano la nostalgia del paese viene come il mal di mare al balcone dell’hotel scialuppa la mia mano più greve di un limone i viali del sangue dove cantano le cicale pallore la cannonata e le onde infrante io sono sospeso a questo balcone dell’Hotel Vesuvio cavallo di fiacre solo dopo la fine del mondo

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sto male cuore mio *(da: J. Cocteau, Poésies 1917-1920, Édition de la Sirène, Parigi 1920).

Enrico Prampolini: lettera a Tristan Tzara * M.me Altinger pour Tristan Tzara 21 Frumiinsterstrasse 21 Zurich Svizzera Suisse Roma 17 marzo 1917 Caro Signore, Sono molto preso dal lavoro per nuove sculture, vi chiedo scusa. Ho ricevuto ciò che mi avete inviato. Vi ringrazio per le vostre amabili frasi. Lavoro tanto. Ho trovato il vostro poema molto sensibile, lirico. Ho capito cosa desiderate per la vostra preziosa pubblicazione. Vi spedirò due tavole di miei amici pittori. Uno di questi ha già pubblicato delle opere sulla rivista “Lacerba” ed è amico di “Soffici”. Vi invio inoltre due cliché delle mie ultime opere. Circa il cliché che vi ho richiesto l’altra volta per la mia pubblicazione, lo tratterrò per tutto il mese di aprile. Abbiamo a Roma, per qualche settimana, Picasso e lo scrittore Cocteau. Questi mi ha detto che a Parigi sono molto inquieti perché voi avete pubblicato sul “Cabaret Voltaire” alcune sue opere senza permesso, così Apollinaire, l’amico Severini ecc. Farà a Roma un’esposizione dei suoi quadri. Ho avuto ‘‘onore di una visita nel mio studio, ha apprezzato la solidità e la composizione innovativa delle mie opere, augurandone il successo. Sono felice d’essere con voi. Picasso l’ho conosciuto grazie al mi amico Severini che si trova a Parigi. L’indirizzo di Picasso qui a Roma è: “Hotel di Russia. Via del Babbuino”, così gli potrete esporre e chiarire meglio la situazione.

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Conosco dei compositori celebri e audaci: Pratella, Strawinsky [sic], Respighi, Russolo ecc; ma nessuno può mandare cliché in quanto troppo noti. Vorrei sapere perché i miei quadri saranno esposti a Basilea, perché lo ignoro. Vi prego di trovare qualche ammiratore comprensivo che voglia crederci. Vi faccio i miei migliori auguri e vi prego di far sapere all’amico Janco che gli scriverò al più presto. Vogliate gradire i miei più cordiali saluti. Enrico Prampolini Via Tanaro 89 *(da: Prampolini. Carteggio 1916-1965, a cura di Rossella Siligato, Carte Segrete, Roma, 1992).

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Léonide Massine* La data della prima de Les Femmes de Bonne Humeur, al Teatro Costanzi, fu finalmente fissata per il 12 aprile. La produzione era stata così ben provata che la rappresentazione fu perfetta ed il pubblico romano ne fu rapito, sentendosi forse anche un po’ adulato dall’implicito complimento insito in questa interpretazione russa di un tema essenzialmente italiano. Il programma comprendeva anche la brillante opera orchestrale di Stravinsky, Fuochi d’artificio. Composta nel 1908, l’opera, che Diaghilev aveva avuto modo di ascoltare in Russia l’anno successivo, aveva stimolato il suo interesse verso il compositore, spingendolo a commissionargli L ‘oiseau de feu, il primo balletto integrale di Stravinsky. Fuochi d’artificio stava per debuttare in Italia e per esso Diaghilev aveva chiesto a Giacomo Balla, l’esponente di spicco dello stile pittorico del futurismo, di disegnare un fondale cubista composto da strutture trasparenti coniche e rettangolari. Dipinti di rosso e blu brillanti ed illuminati da dietro - questi oggetti luccicavano, accendendosi e spegnendosi al tempo della musica. Balla ci aveva spiegato che i suoi disegni rappresentavano lo stato d’animo dei fuochi d’artificio generato in lui dalla musica. Diaghilev stesso elaborò tutti gli effetti di luce. Fuochi d’artificio divenne molto famoso tra gli esponenti dell’avant-garde, che manifestarono anche una grande ammirazione per l’opera di Balla. Anch’io provavo interesse per i pittori futuristi, la cui opera aveva già cominciato ad influenzare la mia coreografia. A quel tempo, le loro opere non avevano ancora ottenuto un riconoscimento internazionale e potei dunque permettermi di acquistare una serie di dipinti e disegni di Balla, Depero, Carrà e molti altri. Per l’inaugurazione della nostra stagione a Roma, Diaghilev organizzò una mostra della mia collezione nel teatro. Fu senza dubbio una serata di gala, con i dipinti futuristi esposti nel ridotto e la compagnia di Diaghilev che metteva in scena due nuove opere! Positano e l’isola Dopo quattro rappresentazioni a Roma, la compagnia si spostò a Napoli, per una breve stagione al Teatro San Carlo. Poiché non avevamo ancora finito il nostro lavoro per Parade, Cocteau e Picasso vennero con noi e, durante il lungo

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e frastornante viaggio in treno, non smettemmo mai di parlare e di perfezionare le nostre idee per il balletto. Picasso, che fu molto stimolato dall’intero viaggio e dal Chianti che beveva liberamente, improvvisamente tirò fuori il suo album da disegno e fece una scommessa che, nonostante i sobbalzi del treno, sarebbe riuscito a farmi un ritratto in cinque minuti. Si mise subito all’opera e, prima che io potessi rendermi conto di ciò che stava accadendo, egli aveva completato un eccellente ritratto. Mentre eravamo a Napoli, facemmo una serie di escursioni a Pompei e ad Ercolano. Picasso, entusiasmato dalle maestose rovine, si arrampicava instancabilmente sulle colonne spezzate per restare a guardare i frammenti dell’arte statuaria romana. Diaghilev fu il meno entusiasta. Egli aveva già visitato quei luoghi in precedenza ed i lunghi pomeriggi sotto il caldo sole lo stancavano. Cocteau, invece, apprezzò tutto, completamente. Egli acquistò una macchina fotografica e scattò varie fotografie a tutti noi ripiegati sulle statue e sui blocchi di marmo in frantumi. Ero felice di essere ritornato in quella parte d’Italia, poiché amavo la ricchezza e la diversità della vita napoletana. Trascorsi molti pomeriggi passeggiando nelle strette stradine dietro Piazza Garibaldi, ammirando l’ardore e la semplicità dei cittadini che, fossero essi artigiani al lavoro o venditori ambulanti che esponevano il loro pesce e la loro frutta, svolgevano i loro compiti con grande stile, umorismo e bravura. Quando terminammo la nostra stagione al San Carlo, Mikhail Nikolaevich Semenoff mi invitò a stare con lui e con sua moglie nella loro dimora estiva, a Positano, Ci circa venti miglia a sud di Napoli. Quando giunsi in questo piccolo villaggio di pescatori, restai incantato dall’insieme di casette imbiancate, che sembrava fossero state ammonticchiate le une sulle altre in una vasta fenditura nella montagna. Diaghilev, una volta, disse che Positano era l’unico villaggio verticale che egli avesse mai visto e, di fatto, le strade non erano altro che irte scalinate che si attorcigliavano in tutte le direzioni tra le case. I Semenoff vivevano sulla cima del villaggio, in un grazioso mulino antico adattato. Durante la prima notte che trascorsi lì, guardando fuori della finestra, notai una deserta isola rocciosa a molte miglia fuori costa. Quando, il mattino seguente, chiesi notizie di essa a Mikhail Nikolaevich, egli mi disse che era la più grande delle tre isole dei Galli, essendo le due più piccole nascoste alla vista. Esse appartenevano alla famiglia locale dei Parlato, che vi si recavano solo per la caccia di quaglie in primavera. In giornata, prendemmo una barca per l’isola che avevo visto e scoprii che era formata da aspre rocce grigie prive di vegetazione, ad eccezione di pochi cespugli arsi dal sole. Fui sopraffatto dalla bellezza della vista sul mare, col Golfo di Salerno che si estendeva in lontananza. Con Paestum a sud e i tre faraglioni di Capri all’estremità settentrionale del Golfo, essa possedeva tutta la potenza drammatica ed il mistero di un dipinto di Salvator Rosa. Il silenzio era infranto solo dal mormorio del mare e da qualche grido di gabbiano. Sapevo che in quel luogo avrei trovato la solitudine che cercavo, un rifugio dalle pressioni estenuanti della carriera che avevo intrapreso. Decisi dunque, proprio lì e in quel momento, che un giorno avrei acquistato l’isola e ne avrei fatto la mia casa. *(da: L. Massine, La mia vita nel balletto, a cura di Lorena Coppola, Fondazione Léonide Massine, Napoli 1995).

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Igor Strawinskij * Diaghilev partì per Roma, dove doveva aver luogo una stagione dei «Balletti russi », e mi pregò di raggiungerlo per dirigervi L’oiseau de feu e Feu d’artifice, per il quale aveva ordinato al futurista italiano Balla una sorta di illustrazione decorativa a base di effetti luminosi. In marzo giunsi a Roma. Nell’appartamento affittato da Diaghilev trovai molte persone radunate intorno a una tavola sontuosamente imbandita. V’erano Ansermet, Bakst, Picasso, di cui feci allora la conoscenza, Cocteau, Balla, Lord Berners, Mjasin e molte altre personalità. La stagione fu aperta al Teatro Costanzi con uno spettacolo di gala a beneficio della Croce Rossa italiana. Si era all’indomani della Rivoluzione russa di febbraio. Lo zar aveva da poco abdicato e la Russia era allora retta da un governo provvisorio. In tempi normali, uno spettacolo di gala russo avrebbe dovuto essere aperto dall’inno nazionale, ma in quel momento sarebbe stato del tutto inopportuno cantare: «Dio protegga lo zar». Bisognava trovare qualcosa di diverso. Allora Diaghilev pensò di aprire lo spettacolo con un canto popolare russo. Scelse il famoso Canto dei battellieri del Volga. Ma bisognava eseguirlo in orchestra e mancava la strumentazione. Diaghilev mi supplicò di occuparmene d’urgenza. Dovetti prestarmi e, durante tutta la notte precedente lo spettacolo, seduto al pianoforte nell’appartamento di Lord Berners, strumentai questo canto per un’orchestra di fiati e dettai la strumentazione, accordo per accordo, intervallo per intervallo, ad Ansermet, che la metteva in partitura. Le parti degli strumenti furono rapidamente copiate, cosicché la mattina successiva mi fu possibile ascoltare la mia strumentazione alla prova del programma della sera, sotto la direzione di Ansermet. Lo spettacolo di gala fu così aperto dall’inno nazionale italiano e dal Canto dei battellieri, invece dell’inno russo. Io diressi L’oiseau de feu e Feu d’artifice con le scene luminose di Balla cui ho già accennato. Di quel soggiorno ricordo ancora un grande ricevimento che Diaghilev organizzò nei saloni del Grand Hotel, dove diressi alcuni frammenti di Petruika e dove fu esposta un’importante mostra di quadri cubisti e futuristi i cui autori erano amici e collaboratori di Diaghilev. Da Roma, Diaghilev, Picasso, Mjasin ed io ci recammo a Napoli. Ansermet ci aveva preceduti per preparare gli spettacoli che vi diede Diaghilev. A Napoli, invece del sole e dell’azzurro che mi aspettavo, trovai un cielo di piombo e sulla cima del Vesuvio una piccola nuvola immobile e inquietante. Conservo comunque un piacevole ricordo della quindicina di giorni trascorsi in questa città, metà spagnola e metà orientale (Asia Minore). La compagnia vi si era attardata per provare, in un locale particolarmente adatto, il secondo balletto di Mjasin, Le donne di buon umore, su musica di Scarlatti, strumentata da Tommasini. Bakst, autore delle scene e dei costumi, era giunto per seguire queste prove. L’incantevole commedia di Goldoni ebbe un’eccellente coreografia creata da Mjasin, che si rivelò improvvisamente un maestro del balletto pieno di talento. Essendo in ozio, ne approfittai per visitare la città, per lo più in compagnia di Picasso. Ci attirava soprattutto il celebre Acquario. Vi indugiavamo delle intere ore. Appassionati entrambi dei vecchi guazzi napoletani, durante le nostre frequenti passeggiate facevamo delle vere razzie in tutte le piccole botteghe e presso i rigattieri.

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Da Napoli tornai a Roma dove trascorsi una piacevole settimana presso Lord Berners. Poi ci fu il ritorno in Svizzera e non dimenticherò mai l’avventura che mi capitò quando passai la frontiera a Chiasso. Portavo con me il ritratto che Picasso mi aveva disegnato a Roma. Quando le autorità militari ispezionarono il mio bagaglio i loro sguardi caddero su questo disegno, che per nessuna ragione al mondo vollero lasciar passare. Mi chiesero che cosa rappresentasse, e quando dissi loro che era il mio ritratto disegnato da un eminente artista, non vollero assolutamente crederci: «Non è un ritratto, ma un piano» mi si rispose. «Sì, il piano della mia faccia, non altro» replicai io. Ma non riuscii a convincere quei signori. Questa discussione mi fece perdere la coincidenza e mi costrinse a restare fino all’indomani a Chiasso. Quanto al mio ritratto, dovetti spedirlo all’ambasciata britannica a Roma, indirizzandolo a Lord Berners, il quale me lo rispedì più tardi a Parigi a mezzo della valigia diplomatica. *(da: J.Strawinskij, Cronaca della mia vita, a cura di Alberto Mantelli, SE, Milano 1999).

Ernest Ansermet* Nella primavera del 1917, il direttore dei Balletti Russi, Serge de Diaghilev [sic] si trovava a Roma con il suo coreografo Léonide Massine, per preparare nuovi balletti. Secondo le sue abitudini, manteneva la tavola imbandita, in quanto, quasi quotidianamente, ospitava i suoi principali collaboratori, tra i quali anche me, direttore d’orchestra. Quell’anno gli ospiti erano di qualità: Jean Cocteau, Picasso ed Erik Satie – che preparavano il balletto Parade – Stravinsky, Bakst e il compositore italiano Tommasini che stava per orchestrare una serie di sonate di Domenico Scarlatti per farne un balletto: Le donne di buonumore. La stagione doveva iniziare con un grande spettacolo a Roma, a favore della Croce Rossa, continuando a Napoli e a Firenze, prima di andare a Parigi dove ebbe luogo la prima di Parade, poi a Barcellona, dove tenemmo una breve stagione prima di imbarcarci per l’America del sud – Montevideo, Rio, San Paolo e Buenos Aires. Picasso stava per fare la conoscenza dello straordinario ambiente di Diaghilev e dei suoi balletti russi, ove si sarebbe trattenuto a lungo. Strinse amicizia con me perché trovava che io fossi il più operoso di tutti. Non era vero, ma effettivamente, in questo periodo preparatorio, bisognava che preparassi i materiali musicali, che facessi le prove di orchestra e che assistessi, quanto più possibile, alle prove dei ballerini. Ho anche attraversato le città senza vederle, perché ero costretto in teatro. Picasso e Strawinsky se ne andavano in giro per strade e musei, tornandosene poi con tante scenette gustose e pittoresche. D’altra parte, quando Picasso lavorava alle decorazioni, andavo spesso a guardare, meravigliandomi della sicurezza del suo occhio e della sua mano. Ma un’altra circostanza rese la nostra amicizia più intima. Si era innamorato di una delle nostre ballerine che abitava nello stesso mio albergo e lui, che era senza dubbio abituato a facili conquiste, si trovò, credo per la prima volta, davanti ad

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una resistenza tenace che non cedette fino a quando non fu certo che egli fosse veramente innamorato e che il suo amore sarebbe sfociato nel matrimonio. All’uscita dei nostri pranzi, mi accompagnava spesso all’hotel, nella speranza di incontravi Olga; divenni così testimone e confidente della sua prima avventura matrimoniale. Perfettamente sicuro di sé, l’occhio vigile, lo spirito acuto e teso in tutto quello che intraprendeva, ci accompagnò a Napoli, a Firenze, a Parigi e a Barcellona, dove fece visita a sua madre. Il giorno in cui lasciammo Barcellona per l’America del Sud, Olga mancava all’appello. Mentre la nave stava per partire, la si vide arrivare sulla banchina accompagnata da Picasso. Il dado era tratto ed erano venuti a dirci addio. Al nostro ritorno, due o tre mesi più tardi, erano di nuovo là ad accoglierci. Noi avemmo ancora, durante l’autunno, una serie di spettacoli a Barcellona, poi a Madrid e ancora a Barcellona.

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*( da: E. Ansermet, Ma rencontre avec Picasso, testo pubblicato nel catalogo della mostra “Picasso, stampe 1904-1972”, Fondation Pierre-Giannada, Martigny 1981).

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