Piano d’evasione

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ROMANZO

PREMIO CERVANTES

Adolfo Bioy Casares

Piano d’evasione «Casares è sempre stato il più grande specialista nello scoprire l’irrealtà presente nelle nostre vite e nel trasporla in storie emozionanti che ci insegnano a vivere in un modo diverso.» Octavio Paz (Premio Nobel)

cavallo di ferro

Sembrava incredibile non essere pazzi e vedere quegli uomini, quelle

quattro figure di cera che formavano un tableau vivant in quattro celle

isolate. Sembrava incredibile che il governatore fosse stato lucido e avesse dipinto le celle con quella caotica profusione.

«Casares è uno degli scrittori più importanti di tutta l’America Latina. Nella sua vasta opera la fantasia e la realtà si fondono in un’armonia magistrale.» Jorge Luis Borges

ISBN 9788879070461

cavallo di ferro

9 788879 070461

Scritto dopo L’invenzione di Morel, questo

straordinario romanzo di Bioy Casares

ci narra la storia di Henri Nevers, che il 27 gennaio 1913 si è imbarcato sul ba­ stimento «Nicolas Baudin» diretto alla

leggendaria e infernale colonia penale di Caienna, dove avrebbe ricoperto fin-

carico di amministratore. Perché Henri vi è stato mandato? Quali

sono gli oscuri motivi che gli hanno fatto abbandonare la giovane e amatissima

Irene? E, soprattutto, qual è il senso dei segni enigmatici e minacciosi che Henri va man mano scoprendo, e quali le inten­

zioni del misterioso Castel, il governatore dell’arcipelago, con cui Henri ingaggia fin da subito un duello mentale? Che

torbido e incomprensibile piano segreto sta perseguendo Castel nei confronti dei prigionieri?

La risposta al lettore. Ma, addentrandosi nel diario di Henri, qualcosa farà luce su

tutti gli indizi singolari e diabolici che popolano quelle isole perdute nei mari

tropicali - le strane mutazioni, le «mime­ tizzazioni», i detenuti dementi, gli eccen­ trici personaggi —, fino all’insperata rivela­ zione finale, che con la sua carica visio­

naria e l’intensità dell’invenzione colloca questo libro tra i massimi risultati della letteratura fantastica.

Adolfo Bioy Casares (1914-1999) è uno dei più influenti scrittori del xx secolo. Fu amico e assiduo collaboratore di Jorge

Luis Borges, che lo considerava «inventore di trame perfette». Ha vinto numerosissimi

premi, tra i quali il Cervantes alla carriera. Dello stesso autore Cavallo di Ferro ha

pubblicato il romanzo Diario della guerra al maiale. Di prossima pubblicazione il volume di racconti inediti in Italia, L’eroe delle donne.

15.00 € Progetto Grafico di Miss Sushie

Piano d'evasione

Titolo originale: Pian de evasion

® Heirs of Adolfo Bioy Casares, 1945 ® 2009, Cavallo di Ferro, srl, Roma www.cavallodiferro.it prima edizione, gennaio 2009 ISBN: 978-88-7907-046-1

Adolfo Bioy Casares

Piano d'evasione traduzione di

Romana Petri

cavallo di ferro

A Silvina Ocampo

Whilst my Physitians by their love are growne Cosmographer, and I their Mapp... John Donne, Hymne to God my God, in my Sicknesse

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27 gennaio 22 febbraio Non ho ancora trascorso un intero pomeriggio in queste iso­ le, e già mi sono scontrato con qualcosa di cosi grave che ti devo chiedere aiuto, e direttamente, senza molta delicatezza. Cerche­ rò di spiegarmi con ordine. Questo è il primo paragrafo della prima lettera di mio nipote, il tenente di vascello Henri Nevers. Tra gli amici e i parenti, non mancherà di certo chi dirà che le sue inaudibili e terrificanti av­ venture giustificano il tono delTallarme, ma in realtà loro, «gli intimi», sanno che è dovuto al suo carattere pusillanime. In quella frase ci trovo la giusta proporzione di verità ed errore cui possono aspirare le migliori profezie; e poi non trovo giusto de­ finire Nevers un vigliacco. È vero che è stato lui stesso il primo a riconoscere di essere un eroe ben poco adeguato alle catastrofi che gli sono successe. Non bisogna però dimenticare quali fos­ sero le sue vere preoccupazioni e i fatti che gli sono capitati. Dal giorno in cui sono partito da Saint-Martin,fìno a oggi, in modo irresistibile, come in delirio, ho pensato a Irene, dice Ne­ vers con la sua solita mancanza di pudore: Anche agli amici ho pensato, alle lunghe notti trascorse tra i cupi specchi di un caf­ fè di rue Vauban, ai confini illusori della metafisica. Penso alla vita che ho abbandonato e non so se odiare di più Pierre o me stesso. Pierre è il mio fratello maggiore; in qualità di capo famiglia

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è stato lui a decidere l’allontanamento di Henri. Su di lui ricada dunque la responsabilità. 1127 gennaio 1913, mio nipote si imbarcò sul Nicolas Baudi, diretto a Caienna. I momenti migliori del viaggio li ha passati in compagnia dei libri di Jules Verne, o con un testo di medicina, Le malattie tropicali alla portata di tutti, o scrivendo la sua Ad­ denda alla Monografia sui Giudizi di Oléron: quelli più ridicoli, evitando le conversazioni sulla politica o la prossima guerra che in seguito deplorò lui stesso di non aver ascoltato. Nella stiva c’erano una quarantina di deportati; a quanto poi confessò, di notte immaginava (prima come una favola per dimenticare il suo triste destino; poi, involontariamente, con un’insistenza quasi fastidiosa) di scendere nella stiva e spingerli ad ammuti­ narsi. In colonia non si corre il rischio di ricadere in simili fan­ tasie, dichiara. Confuso dall’angoscia di vivere in una prigione, non faceva differenze: secondini, ergastolani, liberati. Provava per tutti la stessa repulsione. Il 18 febbraio sbarcò a Caienna, accolto dall’aiutante Legrain, un uomo sporco e malvestito, una specie di barbiere di campa­ gna, capelli ricci biondi e occhi azzurri. Nevers gli domandò del governatore. — È alle isole. — Andiamoci. — Bene — disse con calma Legrain. — Abbiamo il tempo di andare alla residenza, bere qualcosa e riposare. Finché non sal­ pa lo Schelcher, non c’è maniera di arrivarci. — E quando parte? - Il 22. Mancavano quattro giorni. Salirono su una carrozza sgangherata, cupa e con la capote. Nevers contemplò faticosamente la città. Gli abitanti erano ne­ gri, o bianchi dalla pelle olivastra, con camicie troppo grandi e larghi cappelli di paglia. Gli abiti dei forzati erano a righe bian­ che e rosse. Le abitazioni erano piccole case di legno, color ocra o rosa, oppure verde bottiglia o azzurre. Le strade non erano a­

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sfaltate, e di tanto in tanto venivano avvolte da una nuvola di polvere rossastra. Nevers scrive: La modesta residenza del go­ vernatore deve la sua fama ai suoi due piani e al legname del paese, duro come pietra, usato dai gesuiti per costruirla. Gli in­ setti e l’umidità cominciano ora a intaccarla. Quei giorni passati nella capitale della colonia gli parvero una stagione all’inferno. Ripensava alla propria debolezza, al momento in cui, per evitare discussioni, aveva accettato di an­ dare a Caienna, di allontanarsi per un anno dalla sua fidanzata. Aveva paura di tutto: di una malattia, di un incidente, di man­ canze disciplinari che avrebbero potuto rinviare se non impedi­ re il suo ritorno, perfino di un inconcepibile tradimento di Irene. Pensò di poter essere condannato a simili sventure per aver per­ messo, senza opporre resistenza, che altri disponessero del suo destino. Tra forzati, liberati e carcerieri, si sentiva un forzato. Alla vigilia della sua partenza per le isole, i signori Frinziné lo avevano invitato a cena. Chiese a Legrain se poteva declinare l’invito. Ma Legrain rispose che erano «gente molto solida» e che non era il caso di farseli nemici. Poi aggiunse: - Del resto, sono già dalla sua parte. Il governatore ha offe­ so tutta la buona società di Caienna. È un anarchico. Cercai una risposta sdegnosa, brillante, scrive Nevers. Non la trovai, e così dovetti accettare il suo consiglio, compromettermi con quella politica vile ed essere ricevuto alle nove in punto dai signori Frinziné. Cominciò a prepararsi con molto anticipo. Preso dalla paura che potessero interrogarlo, o forse da una diabolica ansia delle simmetrie, studiò la voce «prigioni» nel Grande Dizionario Uni­ versale di Larousse. Erano circa le nove meno venti quando scese la scalinata della residenza. Attraversò la piazza circondata di palme, si fer­ mò ad osservare il brutto monumento a Victor Hugues, accettò i servizi di un lustrascarpe e, aggirando l’orto botanico, raggiun­ se la casa dei Frinziné. Era una casa grande e verde, con le pare­ ti spesse, di mattoni.

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Una cameriera molto cerimoniosa lo guidò per lunghi corri­ doi, attraverso la distilleria clandestina, e sulla soglia di una sa­ la di tappeti purpurei, dalle pareti incrostate di dorature, gridò il suo nome. C’erano una ventina di persone. Nevers ne ricordava poche: i padroni di casa - il signor Felipe, l’innominata signora, e Cariota, la figlia di dodici o tredici anni - tutti obesi, piccoli, lucidi, rosei; un signor Lambert, che lo inchiodò contro una montagna di paste e gli chiese se non pensava che la cosa più importante per l’uomo fosse la dignità (Nevers si rese conto con spavento che stava aspettando una risposta, ma intervenne un altro invitato: «Ha ragione, l’atteggiamento del governatore...». Nevers se la squagliò. Voleva scoprire il «mistero» del governa­ tore, ma non voleva immischiarsi in intrighi. Ripetè la frase del­ lo sconosciuto, poi quella di Lambert, si disse: qualunque cosa è simbolo di qualunque cosa, e ne rimase inutilmente soddisfat­ to). Ricorda anche una signora Wernaer, che faceva una langui­ da ronda, e Nevers le rivolse la parola. Fu immediatamente in­ formato circa la carriera di Frinziné, oggi re delle miniere d’oro della colonia, ma ieri sguattero in una bettola. Seppe anche che Lambert era il comandante della guarnigione delle isole; che Pierre Castel, il governatore, si era stabilito alle isole e aveva mandato a Caienna il comandante. Gesto criticabile: la residen­ za del governatore era sempre stata a Caienna. Ma Castel era un sovversivo, voleva stare solo con i detenuti.... La signora accusò Castel anche di scrivere, e di pubblicare brevi poemetti in prosa su prestigiosi periodici. Passarono in sala da pranzo. Alla destra di Nevers sedette la signora Frinziné, e alla sinistra la moglie del presidente della Banca della Guiana; di fronte, dietro quattro garofani che si inar­ cavano dentro un alto vaso di vetro azzurro, Cariota, la figlia dei padroni di casa. All’inizio vi furono risate e grande animazione. Poi Nevers si accorse che intorno a lui la conversazione comin­ ciava a languire. Ma confessa che quando gli rivolgevano la pa­ rola, lui non rispondeva, cercava di ricordare cosa aveva studia­ to quel pomeriggio sul Larousse. Poi superò l’amnesia, la sua

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gioia trapelò nelle parole, e con orribile entusiasmo parlò del gentile Bentham, autore della Difesa dell’usura e inventore del calcolo edonistico e delle carceri panoptiche, evocò anche il si­ stema carcerario di lavori inutili di Aubum. Gli parve di notare che le persone approfittassero delle sue pause per cambiare ar­ gomento. Più tardi gli venne in mente che forse non era il caso di parlare di carceri in quell’occasione; rimase confuso, senza riuscire ad ascoltare le poche parole che gli venivano rivolte, finché udì dalle labbra della signora Frinziné [proprio come di notte veniamo svegliati dalle nostre stesse grida) un nome: René Ghill. Nevers spiega: Io, anche se inconsciamente, potevo ricor­ dare il poeta, ma che lo citasse la signora Frinziné era inconcepi­ bile. Le chiese con impertinenza: — Lei ha conosciuto Ghill? - Sì, e molto bene, anche. Sapesse quante volte mi ha tenuta sulle ginocchia, nel caffè di mio padre, a Marsiglia. Allora ero una bambina... insomma, una ragazzina. Con improvvisa venerazione, Nevers le domandò cosa ricor­ dava del poeta dell’armonia. - Io non ricordo nulla, ma mia figlia potrà recitarci qualche splendido verso. Bisognava agire, e Nevers parlo immediatamente dei Giudi­ zi di Oléron, quella grande raccolta di leggi che aveva fissato il diritto dell’oceano. Cercò di accendere i commensali contro i rinnegati stranieri che attribuivano i Giudizi a Riccardo Cuor di Leone. Li prevenne anche contro la candidatura più romantica, ma altrettanto errata, di Eleonora d’Aquitania. No, disse, quei gioielli (come gli immortali poemi del bardo cieco) non erano opera di un unico genio, erano il parto dei cittadini delle nostre isole, diversi ed efficaci come ogni singola goccia di un’alluvio­ ne. Ricordò infine il leggero Pardessus e ammonì i presenti a non lasciarsi traviare dalla sua eresia, brillante e perversa. An­ cora una volta mi toccò mandar giù che i miei argomenti non fossero molto interessanti, confessa, ebbe pietà degli ascoltato­ ri e chiese:

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— Il governatore vorrà aiutarmi nelle mie ricerche sui Giudizi? La domanda era assurda; ma volevo dar loro panem et cireenses, la parola «governatore» perfarli contenti. Discussero la cultura di Castel, si accordarono sul suo «fascino personale». Lambert lo paragonò al protagonista di un libro che aveva letto, un debolissimo vecchio che voleva far saltare in aria VOpéra Co­ mique. La conversazione slittò sul prezzo dell’Opera Comique e sulla preminenza teatrale d’Europa o d’America. La signora Frinziné disse che i poveri secondini pativano la fame pervia del giardino zoologico del governatore. — Se non avessero i loro pollai privati... — aggiunse alzando la voce per farsi sentire. Tra i garofani, Nevers guardava Cariota che non apriva boc­ ca, gli occhi timidamente fissi sul piatto. A mezzanotte uscì in terrazza. Appoggiato alla balaustra, contemplando vagamente gli alberi dell’orto botanico, scuri e mercuriali nello splendore della luna, recitò versi di Ghill. Si in­ terruppe, gli parve si sentire un leggero rumore, si disse: deve essere il rumore della giungla americana; ma sembravano piut­ tosto scoiattoli o scimmie. Allora vide una donna che gli faceva dei cenni dal parco. Cercò di contemplare gli alberi e di conti­ nuare a recitare le poesie di Ghill. Sentì la donna ridere. Prima di andarsene rivide Cariota nella stanza dove erano ammucchiati i copricapo degli invitati. Cariota gli tese un brac­ cìno con il pungo chiuso, l’aperse. Nevers vide confusamente un bagliore, poi una sirena d’oro. — Te la regalo — disse la bambina con semplicità. In quel momento entrò qualcuno. Cariota chiuse la mano. Quella notte non riuscì a dormire, pensava a Irene e gli appa­ riva Cariota, oscena e fatidica. Dovette promettersi che non sa­ rebbe mai andato alle isole della Salute, che con la prima nave sarebbe tornato a Re. Il 22 si imbarcò nel rugginoso Schelcher. In mezzo a una grande confusione di negre impallidite e sconvolte dalla nausea e grandi gabbie di pollame, ancora indisposto per la cena della

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sera prima, raggiunse le isole. Chiese a un marinaio se non c’era altro mezzo di comunicazione per Caienna. — Una domenica lo Schelcher, l’altra il Rimbaud. Ma quelli dell’amministrazione non si possono lamentare, hanno la loro lancia... Fu tutto orrendo fin dal momento in cui salpai da Re, scrive, ma alla vista delle isole provai un’improvvisa angoscia. Spesso si era immaginato lo sbarco, ma quando sbarcò sentì di aver perso ogni speranza. Ormai nessun miracolo e nessuna sventu­ ra gli avrebbero impedito di occupare il suo posto nella colonia penale. Più avanti riconoscerà che l’aspetto delle isole non è poi così sgradevole. Anzi: con i loro palmeti e le rocce, erano l’im­ magine delle isole che aveva sempre sognato con Irene, tuttavia, in modo quasi irresistibile, gli ripugnavano, e la nostra povera casa di Saint-Martin gli si illuminò nel ricordo. Alle tre del pomeriggio sbarcò all’isola Reale. Scrive: Sul molo mi aspettava un ebreo bruno, un certo Dreyfus. Gli dà su­ bito del «signor governatore». Un guardiano gli sussurra al­ l’orecchio: — Non è il governatore, è Dreyfus, il liberato. Dreyfus non dovette sentire, perché rispose che il governato­ re era assente. Lo condusse nel suo appartamento e palazzo del­ l’amministrazione. Non aveva il romantico, decaduto splendore della residenza di Caienna, ma era abitabile. — Sono ai suoi ordini — gli disse Dreyfus aprendo le valigie. — Il mio compito è di assistere il signor governatore e lei, tenen­ te. Comandi. Era un uomo di statura media, dalla carnagione olivastra, gli occhi minuscoli e brillanti. Parlava senza muovere nemmeno un dito, con dolcezza assoluta. Quando ascoltava socchiudeva gli occhi e tendeva appena la bocca: Dalla sua espressione trapela un evidente sarcasmo, una repressa sagacia. — Dov’è il governatore? — All’isola del Diavolo. — Andiamoci.

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- Impossibile, tenente. Il signor governatore ha proibito l’ac­ cesso all’isola. — E lei mi proibisce di uscire a passeggio? La frase era debole, ma Nevers uscì sbattendo la porta. Im­ mediatamente Dreyfus gli apparve al fianco. Gli domandò se poteva accompagnarlo e sorrìse con nauseante dolcezza. Nevers non rispose, passeggiarono insieme. L’isola non è un luogo ame­ no: ovunque c’è l’orrore di vedere ergastolani, l’orrore di vedersi liberi tra gli ergastolani. — Il governatore è ansioso di vederla — disse Dreyfus. — So­ no certo che questa sera stessa le farà visita. A Nevers sembrò di cogliere una sfumatura di ironia. Si chie­ se: è solo il suo modo di fare, o la sua perspicacia di ebreo gli ha rivelato che maledico il governatore? Dreyfus elogiò il governa­ tore, si congratulò per la fortuna di Nevers (passare un po’ di an­ ni della sua giovinezza all’ombra di un capo così saggio e ama­ bile) e per la propria. — Spero che non siano anni — esclamò Nevers con audacia. Poi si corresse. - Spero che non dovremo passeggiare insieme per anni. Raggiunse le enormi rocce a picco sul mare. Scorse l’isola di San Giuseppe, di fronte all’isola del Diavolo più lontana, fra le onde. Era convinto di essere solo. All'improvviso, Dreyfus gli parlò col suo tono più dolce. Sentì le vertigini e la paura di cade­ re in mare. — Sono solo io. Dreyfus continuò: — Ora vado, tenente. Ma stia attento. È facile scivolare sul muschio delle rocce, e laggiù, ad aspettarla, ci sono i pescecani. Continuò a guardare le isole (con maggior cautela, dissimu­ lando la maggior cautela). Poi, rimasto solo, fece l’atroce scoperta. Gli parve di vedere degli enormi serpenti fra la vegetazione dell’isola del Diavolo; dimentico del pericolo in agguato nel mare, fece qualche passo e vide in pieno giorno, come Crawley nella notte astrologica del

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lago Neagh, o come il pellerossa nel lago dei Forconi, un anima­ le antidiluviano verdastro. Assorto si spinse ancora avanti. La nefasta verità si rivelò: l’isola del Diavolo era «mimetizzata». Una casa, un cortile di cemento, alcune rocce, un piccolo padi­ glione, erano «mimetizzati». Che significa? scrive Nevers. È un perseguitato il governato­ re? Credeva nell’ipotesi della guerra: avrebbe chiesto il trasferi­ mento. Passerò qui tutto il tempo della guerra, lontano da Irene? Oppure diserterò? Aggiunge in un post scriptum: sono qui da otto ore. Non ho ancora visto Castel, non ho potuto interrogarlo su quelle «mimetizzazioni», non ho ancora potuto ascoltare le sue menzogne.

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23 febbraio Nevers esplorò le isole Reale e San Giuseppe (nella lettera del 23 mi dice: Non ho ancora trovato una scusa per presentarmi al­ l'isola del Diavolo). Le isole Reale e San Giuseppe hanno, più o meno, una super­ fìcie di tre chilometri quadrati ciascuna. Quella del Diavolo è un po' più piccola. Secondo Dreyfus, la popolazione ammontava a settecentocinquanta abitanti circa: cinque all’isola del Diavolo (il governatore, il suo segretario e tre detenuti politici), quattrocento all’isola Reale e poco più di trecentoquaranta all’isola di San Giuseppe. Gli edifìci principali si trovano sull'isola Reale: l’amministrazione, il faro, l’ospedale, le officine, i magazzini, il «capannone rosso». Sull'isola di San Giuseppe ci sono un ac­ campamento circondato da un muro, e un edificio - il «castello» - composto da tre bracci: due per i condannati all’isolamento e uno per i pazzi. Nell'isola del Diavolo c’è un fabbricato con del­ le terrazze, che sembra nuovo, qualche capanna col tetto di pa­ glia e una torre decrepita. I detenuti non sono costretti a lavorare; vagano in libertà per le isole quasi tutto il giorno (salvo i reclusi nel castello che non escono mai). Vide i reclusi: Isolati in piccolissime celle piene di umidità, con una panca e uno straccio, assordati dal fragore del mare e dall'Incessante urlo dei pazzi, stremati dalla fatica di scrivere sulle pareti un nome, un numero, con le unghie, ormai quasi dementi. Vide i pazzi: Nudi e urlanti tra i rifiuti di verdure.

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Tornò all’isola Reale, visitò il capannone rosso. Godeva la fa­ ma di essere il luogo più corrotto e sanguinario della colonia. Carcerieri e detenuti aspettavano la sua visita. Tutto era in ordi­ ne in una sporcizia e una miseria indimenticabili, commenta Nevers con eccessivo sentimentalismo. Entrando nell’ospedale rabbrividì. Era un luogo quasi grade­ vole. Vide meno malati che nel castello e nel capannone rosso. Chiese del medico. - Medico? È da tanto che non l’abbiamo - gli rispose un se­ condino. - Ai malati ci pensano il governatore e il suo segretario. Anche se in questo modo otterrò solo l’inimicizia del gover­ natore, scrive, tenterò di aiutare i detenuti. Poi azzarda questo pensiero: Agendo in questo modo mi renderò complice dell’esi­ stenza delle prigioni. Aggiunge che cercherà di evitare qualsiasi cosa che possa ritardare il suo ritorno in Francia.

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Il governatore era sempre all’isola del Diavolo, occupato in mi­ steriosi lavori che Dreyfus ignorava o diceva di ignorare. Nevers decise che avrebbe scoperto se nascondevano qualche pericolo. Doveva agire con cautela. Per approdare all’isola non era suffi­ ciente il pretesto di portare rifornimenti o corrispondenza. È ve­ ro che c’erano una lancia e molti canotti, ma c’era anche una te­ leferica e l’ordine di usarla. Dreyfus disse che quel marchinge­ gno (dove c’entrava a malapena un uomo) veniva utilizzato per­ ché intorno all’isola del Diavolo il mare era quasi sempre molto tempestoso. Lo guardarono: era calmo. Allora Dreyfus gli chie­ se se la teleferica era stata installata per ordine di Castel. — Era già stata montata quando sono arrivato qui - aggiun­ se. — Sfortunatamente mancavano ancora molti anni perché fosse nominato governatore il signor Castel. - E chi c’è sull’isola? - domandò Nevers (distratto: Dreyfus gliel’aveva già detto il 23). — Il governatore, il signor De Brinon e tre detenuti politici. Ce n’era anche un altro, ma il governatore l’ha fatto trasferire al capannone rosso. Un’azione simile (mettere un detenuto politico tra i delin­ quenti comuni) doveva essere stata causa di un’indignazione aperta e generale; tanto generale che Nevers la intuì anche nel­ le parole di quel fanatico seguace del governatore. Nevers ne fu molto turbato, e disse a se stesso che non avrebbe tollerato una simile infamia. Poi capì che l’accaduto gli offriva l’opportunità meno pericolosa di scoprire cosa stesse succedendo all’isola del

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Diavolo, pensò che il detenuto non avrebbe fatto fatica a parla­ re (caso mai, sarebbe bastato simulare avversione per Castel). Domandò a Dreyfus il nome del trasferito: - Farreol Bernheim - e aggiunse un numero. Nevers tirò fuori dalla tasca un taccuino e scrisse quei dati sotto gli occhi di Dreyfus. Poi gli chiese chi fosse De Brinon. - Una bellezza, un Apollo - rispose Dreyfus con un entusia­ smo sincero. - È un giovane infermiere, di famiglia nobile. 11 se­ gretario del governatore. — Perché, non ci sono medici nelle isole? - Un tempo uno ce n’è stato, ma ora il governatore e il si­ gnor De Brinon si occupano loro dei malati. Nessuno dei due era medico. Si potrebbe ribattere che non lo era nemmeno Pasteur, commenta Nevers in modo petulante. Non so se sia prudente incoraggiare i guaritori. Nel castello e nel capannone rosso vide ogni genere di malati, dall’anemico al lebbroso. Condannava Castel, pensava fosse suo dovere allonta­ nare i malati dalle isole, mandarli in un ospedale. Scoprì anche che quella sua fervente riprovazione non era esente da un certo puerile timore del contagio, la paura di non rivedere più Irene, di dover restare nelle isole per qualche mese, fino alla morte.

IV

3 marzo

Oggi ho commesso un’imprudenza, dice nella sua lettera del 3 marzo. Aveva parlato con Bernheim. Nel pomeriggio era an­ dato al capannone rosso e l’aveva fatto chiamare. Era un omino con la faccia rasata, dal colore di un vecchio pallone di gomma, gli occhi scuri, molto profondi, e uno sguardo canino che veni­ va da lontano, ma dal basso, e umile. Si mise sull’attenti come un soldato tedesco e cercò di irrigidirsi. Riuscì a guardare Ne­ vers in modo obliquo. — Cosa desidera? — la voce era altera, lo sguardo molto triste. — L’autorità per me è tutto, ma con l’autorità attuale non voglio avere altri contatti che... Nevers fece un gesto di stupore. — Non sono responsabile di quello che è successo prima del mio arrivo — rispose offeso. — Ha ragione — riconobbe Bemheim, abbattuto. - Allora, cos’è successo? — Niente - replicò. - Niente, quel topo di fogna che scredita l’autorità mi trasferisce dall’isola del Diavolo per mettermi in­ sieme ai delinquenti comuni. — Avrà commesso qualcosa, una mancanza. — Certo — disse quasi urlando. — È quello che gli ho chiesto anch’io. Ma lei conosce i miei doveri: primo, raccogliere noci di cocco; secondo, tornare puntuale alla capanna. Glielo giuro: non è ancora nato un uomo più puntuale di me.

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— Cercherò di farla tornare sulla sua isola. — Non intervenga, tenente. Non voglio dovere nulla al signor governatore. Io sono una piaga nella coscienza della Francia. Assurdamente, Nevers scrive: Bernheim sembrava affascina­ to, fissava la mia cicatrice. La gente crede che questa ferita sia il ricordo di chissà quale rissa. È bene che i detenuti pensino che sia un segno di aggressività. Non avrebbe dovuto fare allusione con tanta leggerezza a uno sfregio che, a parte le donne (sospetto le attragga), non pia­ ce di certo al genere umano. Nevers sa bene che non è un segno di aggressività. Dovrebbe sapere che è il segno di un’idiosincra­ sia che lo distingue, forse, nella storia della psicologia morbosa. La vera origine di quel segno è questa: Nevers avrà avuto dodi­ ci o tredici anni. Stava studiando in giardino, accanto a un om­ broso chiosco di allori, quando vide una bambina, con i capelli tutti arruffati, uscire proprio dal chiosco. Piangeva e sanguina­ va. La vide che se ne andava e un’allucinata forma di orrore gli impedì di aiutarla. Pensò di andare a ispezionare il chiosco; non osò. Pensò di scappare; lo trattenne la curiosità. La bambina abi­ tava poco lontano, i suoi fratelli, tre bambini che avranno avuto più o meno l’età di Nevers, apparvero immediatamente. Entraro­ no e uscirono subito dal chiosco. Gli chiesero se per caso non avesse visto qualcuno. Rispose di no. I ragazzi se ne stavano an­ dando. Sentì una disperata curiosità e gridò: «Non ho visto nes­ suno perché ho passato tutto il pomeriggio nel chiosco». Mi dis­ se di aver dovuto gridare come un pazzo, altrimenti quei ragaz­ zi non lo avrebbero creduto. Gli cedettero e lo lasciarono a terra mezzo morto. Ma torniamo al racconto di quel 3 marzo, nelle isole. Usciro­ no a passeggiare. Avevano già parlato parecchio quando Nevers capì che la sua condotta non era prudente. L’istintiva franchez­ za di Bemheim lo aveva conquistato. Si ritrovò a ritenere giuste, o quanto meno a tollerare senza ribattere, le invettive contro il governatore e la giustizia francese. Poi si ricordò che non si tro­ vava lì per condividere l’indignazione di quell’uomo, né per di­

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fenderlo dalle ingiustizie, bensì per interrogarlo, perché temeva che il mistero dell’isola del Diavolo nascondesse qualcosa che poteva ritardare il suo ritorno. Riuscì a formulare tali ragiona­ menti intanto che Bernheim lo assediava con la sua eloquenza, lamentandosi di nuovo delle sue disgrazie e ripetendo di essere la peggiore delle vergogne della nostra storia. Nevers decise di interromperlo: — E adesso che ha terminato con le «mimetizzazioni», cosa sta facendo il governatore? — Sta «mimetizzando» l’interno della casa -. Poi aggiunse: — Ma vedremo a cosa gli serviranno le «mimetizzazioni» quando... Nevers non lo ascoltava più. Se Castel aveva «mimetizzato» Pintemo della casa, era pazzo. E se era pazzo, lui poteva mette­ re da parte i suoi timori. Era soddisfatto del colloquio. Tuttavia, pensò, il governatore non lo deve sapere. Devo guardarmi dai suoi cavilli e astuzie da malato. Tornando all’amministrazione, vide un uomo camminare tra le rocce e le palme dell’isola del Diavolo. Lo seguiva un piccolo branco di animali eterogenei. Un carceriere gli disse che quel­ l’uomo era il governatore.

V

Il 5 scrive: Anche se mi stava aspettando con ansia, il governato­ re non c’era ancora. La mia urgenza di vedere quell’uomo ha i suoi limiti: vorrei sapere, per esempio, se la perdita della ragione è totale o meno; se devo farlo rinchiudere o se il suo disordine mentale è circoscritto a un ’unica mania. Voleva chiarire anche al­ tri punti: che faceva De Brinon? Curava i malati? Li maltrattava? Se il governatore non era totalmente pazzo, Nevers l’avreb­ be consultato sull’amministrazione che, al momento, nemmeno esisteva. Quali ipotesi formulare? Follia? Disinteresse? In questo caso il governatore non sarebbe una persona disprezzabile. Ma come non diffidare di un uomo che per vocazione ha quella di dirigere un penitenziario? Tuttavia, osserva, il fatto che io sia qui non vuol certo dire che vi sia stato condotto dalla vocazione. La biblioteca di Castel comprendeva libri di medicina, di psi­ cologia, e alcuni romanzi dell Ottocento. I classici scarseggiava­ no. Nevers non era uno studioso di medicina. L’unico vantaggio che ricavò da Le malattie tropicali alla portata di tutti fu un pia­ cevole ma effimero prestigio presso i domestici: questo almeno ciò che credeva il 5 marzo. Nella lettera di quel giorno mi ringrazia per certi libri che gli ho mandato, e mi dice che suo cugino Xavier Brissac è stato l’uni­ co membro della famiglia che è andato a salutarlo il giorno del­ l’imbarco. Sfortunatamente, scrive, la nave si chiamava Nicolas Baudin; Xavier ha approfittato dell’occasione per ricordarmi che tutti gli abitanti di Oléron e di Re, in tutte le possibili combi­ nazioni intorno ai tavoli del Café du Mirage, ribadiscono che Ni-

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colas Baudin è il vero artefice delle scoperte attribuite agli ingle­ si a Flinders. Xavier avrebbe poi aggiunto che dal soggiorno di Nevers in quelle isole, propizie all’entomologo come all’insetto, si aspettava, per la gloria della Francia, lavori altrettanto consi­ stenti di quelli di Baudin, ma non lavori da entomologo. Lavori più adatti alla natura di Nevers. Poi parla di Dreyfus: Devo ammettere che è meno opprimen­ te nel suo arcipelago che nella nostra letteratura. L’ho appena visto, quasi non l’ho sentito, ma è stato corretto e puntuale in tutto. Ad eccezione del caffè. Ottimo. Subito si chiede se questa riconciliazione non sia fatidica, se non sia Finizio di una ricon­ ciliazione con il destino, e aggiunge: Qualche volta, nell’inson­ nia, ho conosciuto questa paura: il rilassamento, provocato dai tropici, arrivare al punto di non desiderare il ritorno. Ma come alludere a questi pericoli? Temerli è un ’illusione. Significa voler credere che non esistono il clima, gli insetti, quelTincredibile carcere, la minuziosa mancanza di Irene. Quanto al carcere, agli insetti, e anche alla mancanza di Ire­ ne, non farò obiezioni. Riguardo al clima, credo che esageri. I fatti di cui ci stiamo occupando avvennero in febbraio, marzo e aprile; in inverno. È vero che da quelle parti si suole intercalare un’estate in marzo, è vero che l’inverno della Guiana è soffo­ cante come l’estate parigina... ma Nevers, contro la volontà dei suoi, ha trascorso più di un’estate a Parigi, e non se n’è mai la­ mentato. Continuava a cercare una spiegazione alla condotta del go­ vernatore. A volte credeva di aver addirittura accettato con fa­ ciloneria l’ipotesi della follia. Si propose allora di non dimenti care che si trattava solo di un’ipotesi, fondata solo sulle parole di Bernheim, forse su un’espressione del tutto casuale, come quando aveva detto: «Sta “mimetizzando” l’interno», che poteva voler dire che lo stava dipingendo in modo bizzarro. 0 forse si trattava di un errore di osservazione, o di una deficienza dell’os­ servatore. Se le macchie che Castel sta dipingendo all’intemo sono identiche a quelle esterne, pensò, non sarebbe logico de-

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dume che in nessuno dei due casi si tratta di «mimetizzazione»? Forse è un esperimento, qualcosa che né io né Bemheim riuscia­ mo a capire. Comunque, afferma con patetica speranza, c’è una probabilità che quel ridipingere non sia il presagio di una pros­ sima guerra.

VI

Una sera, in terrazzo, mentre Dreyfus gli serviva il caffè, Nevers intavolò una discussione con lui. Dal momento che mi nausea tutto ciò che c'è in questa colonia, sono stato ingiusto con il po­ vero ebreo, scrive. Dreyfus era una persona di certo non priva di cultura - conosceva i titoli di quasi tutti i volumi della bibliote­ ca - versato in storia, naturalmente portato a parlare il francese e lo spagnolo con un’eleganza sentenziosa, con un’ironia sotti­ lissima, efficace. L’uso di certi arcaismi poteva far sospettare che il suo modo di esprimersi fosse studiato. Nevers optò per una spiegazione meno fantasiosa: Dreyfus doveva essere un ebreo spagnolo, uno di quelli che aveva vissuto a II Cairo o a Salonic­ co: circondati da popolazioni di altre lingue, avevano continua­ to a parlare lo spagnolo che usavano in Spagna quando erano stati cacciati, quattrocento anni prima. Forse i suoi antenati era­ no commercianti o marinai, e forse dalla sua bocca Nevers sta­ va ascoltando idiomi medioevali. Pensava che il gusto letterario di Dreyfus non fosse proprio squisito. Inutilmente cercò di fargli promettere (non gli costava nulla e avrebbe tranquillizzato la mia coscienza) di leggere le opere di Teocrito, di Mosco, di Bione, o, anche, di Marinetti. In­ vano cercò di evitare che gli raccontasse II mistero della camera gialla. Secondo Nevers, le fatiche storiografiche della sua ordinan­ za non si limitavano alla lettura sedentaria. Aveva compiuto certe ricerche personali sul passato della colonia, e promise che gli avrebbe mostrato cose di notevole interesse. Nevers non gli

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disse che il suo interesse era quello di ignorare il presente e la storia di quello sciagurato paese. Poi gli chiese perché c’erano tanti pazzi nelle isole. — Il clima, le privazioni, le malattie - rispose Dreyfus. - Non creda che tutti fossero sani come lei quando hanno messo piede qui. La cosa, comunque, provoca le calunnie peggiori: le diran­ no che se un governatore vuole liberarsi di qualche aiutante, non deve fare altro che dichiararlo pazzo e farlo rinchiudere. Per cambiare argomento, Nevers domandò cosa facesse il governatore con gli animali. Dreyfus si coprì il volto, e con vo­ ce tremante e incerta rispose: - Sì, è tremendo. Lei vuole che io riconosca... Però è un grand’uomo. Nevers dice che la controllata agitazione di Dreyfus aumen­ tava sempre più, e che lui stesso cominciava a sentirsi nervoso, come se prevedesse un’atroce rivelazione. — Lo so - continuò Dreyfus, - ci sono cose che è meglio non dire. Meglio dimenticarle, dimenticarle e basta. Nevers non osò insistere. Commenta: Si può considerare un cane come la vanitosa appendice di tante Brissac. Ma come con­ siderare, e qual è il limite dello schifo che non si può superare quando si ha a che fare con un uomo che si circonda di branchi di bestie maleodoranti? L’amicizia con un animale è impossibi­ le. La convivenza mostruosa, continua mio nipote, in cerca di qualche originalità. Lo sviluppo sensoriale degli animali è diver­ so dal nostro. Non possiamo immaginare le loro esperienze. Pa­ drone e cane non sono mai vissuti nello stesso mondo. La pre­ senza degli animali e la tensione di Dreyfus suggeriscono qual­ cosa, dichiara in modo sibillino mio nipote, di difforme dalla re­ altà. Ma Castel non era uno scienziato incompreso o sinistro; era un pazzo, o un sordido collezionista che sprecava gli ali­ menti dei detenuti nel proprio giardino zoologico. Nonostante ciò afferma: Non scriverò ai giornali. Per il mo­ mento non denuncerò Castel. Che un governatore avesse consi­ derato pazzo un suo nemico, poteva anche essere una calunnia

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anonima o una slealtà di Dreyfus. Ma inimicarsi il governatore di un penitenziario non era prudente, soprattutto se il peniten­ ziario era un’isola in mezzo al mare. Un giorno sarebbe tornato in Francia, e se voleva scegliere la delazione... Ma avrebbe ritro­ vato Irene, sarebbe stato felice, e le infuocate intenzioni di quel momento sarebbero annegate nel sogno dell’isola del Diavolo, un sogno atroce e sepolto. Era come se si fosse svegliato in pie­ na notte: capiva che si sarebbe riaddormentato e che per qual­ che ora avrebbe continuato a sognare, ma diceva a se stesso di non prendere le cose troppo sul serio, di mantenere la più fluida delle indifferenze (nel caso dimenticasse che stava sognando). Si sentiva rasserenato, certo di non commettere nuove im­ prudenze.

*

VII

Dice che la sera del 9 marzo era così stanco da non riuscire nem­ meno a interrompere la lettura del De Iside et Osiride di Plutar­ co per andare a letto. Ricordava quella prima visita del governatore come un inci­ dente sognato. Aveva sentito qualche passo in cortile, si era af­ facciato, non aveva visto nessuno, con la naturale astuzia del subalterno aveva nascosto il libro e si era messo a sfogliare un rapporto. Il governatore entrò. Era un vecchio sorridente, con la barba bianca, occhi rannuvolati e azzurri. Nevers pensò che doveva difendersi dalla facile tentazione di considerarlo pazzo. Il go­ vernatore spalancò le braccia e con voce da topo, o da giappo­ nese, gridò: - Finalmente, caro amico, finalmente! Quanto l’aspettavo. Quel galantuomo, Pierre Brissac, mi ha parlato di lei in una lun­ ga lettera. Ed eccomi qui in attesa della sua collaborazione. E continuò a gridare mentre lo abbracciava, battendogli sul­ le spalle e tornando ad abbracciarlo. Gli parlava molto da vici­ no. Nevers cercava di eludere quel volto così immediato, quel­ l’alito palpabile. // governatore è professionalmente simpatico, dice, ma con­ fessa di averlo guardato fin dal primo momento con ostilità. Questa durezza è un atteggiamento nuovo di mio nipote. Forse l’errore di mandarlo alla Guiana non è stato poi così grande. Il governatore gli affidò le isole Reale e San Giuseppe. Gli consegnò le chiavi dell'archivio e dell’armeria

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— La mia biblioteca è a sua disposizione. 0 meglio, quel che resta della mia biblioteca: i volumi che i guardiani non hanno ancora dato a nolo. È un vecchio sgradevole, scrive Nevers. Con gli occhi spalan­ cati, come se fosse meravigliato, cercava di continuo i miei, per fissarmi. Deve essere un imbecille o un ipocrita. Nevers riuscì a dirgli che aveva visto le «mimetizzazioni». Il governatore non capì o finse di non capire. Nevers domandò: - Sono esperimenti? Ma subito si pentì per avergli offerto quella spiegazione. — Sì, esperimenti. Ma non una parola di più. Lei mi sembra stanco. Esperimenti, mio caro amico, esperimenti. Era stanchissimo. Quasi già sonnecchiando, credette che il governatore, per non parlargli delle «mimetizzazioni», gli instil­ lasse quella tremenda stanchezza. Il governatore guardò il rapporto ed esclamò: — Lavorare a quest’ora di notte! Non c’è dubbio: il lavoro ap­ passiona. Mio nipote lo guardò sorpreso. Gli occhi del governatore si erano fatti affettuosi. - Non dico il lavoro in generale... — spiegò. — Né penso che questa roba possa interessarla. Dopo una pausa continuò: — E il nostro lavoro che appassiona, dirigere un penitenziario. — Questione di gusti... — rispose Nevers. La replica era debole, non inutile; lo salvava dal simulare (per viltà, per mera viltà) un infamante assenso. Tuttavia, non era sicuro che il tono fosse di sdegno: — Forse ho parlato troppo in fretta — disse il governatore. - Forse - gli fece eco Nevers, ormai deciso nella sua ostilità. Il governatore lo guardò con i suoi occhi azzurri e umidi. Anche mio nipote lo guardò: esaminò la sua fronte ampia, gli zigomi rosei e infantili, la sua bianchissima barba insalivata. Gli parve che fosse indeciso se andarsene sbattendo la porta o ten-

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tare di nuovo una spiegazione. Deve aver pensato che il profitto che si aspettava da me valesse un’altra spiegazione, oppure pre­ valse la sua terrìbile dolcezza. — C’è un punto, caro amico, in cui saremo d’accordo. Sarà la nostra base. Non nota in me una certa ansia di arrivare a un’in­ tesa con lei? L’aveva notata e ne era irritato. — Sono franco - continuò Castel, - ho riposto in lei tutte le mie speranze. Avevo bisogno di quanto di più difficile ci fosse da trovare qui: un collaboratore colto. Il suo arrivo elimina ogni problema, salva l’opera. E per questo che l’ho salutata con un entusiasmo che forse le è sembrato strano. Non mi chieda il per­ ché, man mano che ci conosceremo ci spiegheremo meglio, ve­ drà, quasi senza accorgercene. Nevers non rispose. Castel proseguì: — Torno a ciò che abbiamo assunto come base del nostro accordo. Per la maggior parte degli uomini - i poveri, i malati, i detenuti - la vita è spaventosa. C’è un altro punto su cui pos­ siamo concordare: il nostro dovere è cercare di migliorare quel­ le vite. Nevers annota: Avevo già notato che dietro l’ansia del vec­ chio ci fosse la politica. Ora scopriva un nuovo errore: a secon­ da della sua risposta, avrebbero potuto parlare della politica o dei sistemi di detenzione. Tacque. - Noi abbiamo l’opportunità, la difficile opportunità di agi­ re su un gruppo di uomini. Ci pensi bene: siamo praticamente li­ beri da ogni controllo. Non importa che il numero sia ristretto, che si perda tra «coloro che sono infiniti nel numero e nella mi­ seria». Il nostro dovere è quello di salvare il gregge che vigilia­ mo, salvarlo dal suo destino. Castel aveva fatto molte affermazioni ambigue e preoccupan­ ti; l’unica cosa che mio nipote colse fu la parola «gregge». Dice che quella parola lo fece arrabbiare così tanto che si svegliò. — Perciò — concluse il governatore, — credo che la nostra qualifica di carcerieri possa essere molto gradita.

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— Tutti i carcerieri dovrebbero ragionare così — mormorò prudentemente Nevers. E subito dopo, a voce alta: - Se si potes­ se fare qualcosa... — lo credo che qualcosa si possa fare. E lei? Nevers non gli fece l’onore di rispondergli. Poi si ricordò della sua intenzione di chiedere il permesso di visitare l’isola del Diavolo, ma il governatore se n’era già andato.

Vili

21 marzo, pomeriggio Nevers passeggiava lungo la costa, di fronte all’isola del Dia­ volo. Il pretesto era quello di studiare i possibili punti di appro­ do per un furtivo (e inverosimile) sbarco. Meno pericoloso (e più impraticabile) sarebbe stato presentarsi apertamente a Castel. Era distratto, e Bernheim sbucò da dietro una roccia. Nevers non ebbe nemmeno il minimo soprassalto: ecco il solito cane ba­ stonato. Bernheim gli chiese di nascondersi tra le rocce, Nevers commise l’imprudenza di obbedire. - Il mio intuito non falla - gridò Bernheim. — So quando posso fidarmi di una persona. Nevers non lo ascoltava. Fece una piccola scoperta: la striden­ te incompatibilità tra il tono altero di Bernheim e la sua espres­ sione così triste. Allora si sentì chiedere: - Lei è un fantoccio di Castel? Rispose negativamente. - Lo sapevo - esclamò Bernheim, - lo sapevo. La conosco appena ma le rivelerò una cosa che metterà il mio destino nelle sue mani. In cima a certe rocce più alte, a una ventina di metri, appar­ ve Dreyfus. Sembrò non vederli, e si allontanò fissando un pun­ to del mare. Nevers voleva liberarsi del tarato. - Ecco Dreyfus - disse, e risalì le rocce. Quando lo vide, Dreyfus non manifestò nessuna sorpresa. Do­ po pochi passi gli chiese:

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- Vede quella torre? La torre era sull’isola del Diavolo, costruita con tronchi di­ pinti di bianco, era alta circa otto metri e finiva in una piattafor­ ma. Nevers chiese a cosa serviva. — A niente — rispose Dreyfus con amarezza. — Perché alcuni abbiano memoria della storia e altri se ne beffino. Fu costruita dal governatore Daniel, nel 1896 o ’97. Ci mise su una sentinel­ la e un cannone Hotchkis, e se il capitano cercava di fuggire: fuoco! - Il capitano Dreyfus? - Sì, Dreyfus. Salga lassù: dall’arcipelago sembra minuscolo. Nevers gli chiese se era parente di Dreyfus. — Non ho questo onore — rispose. — Ci sono molti Dreyfus. - Non lo sapevo — esclamò con interesse. — Il mio nome è Bordenave. Mi chiamano Dreyfus perché dicono che parlo sem­ pre del capitano Dreyfus. — La nostra letteratura la imita. - Davvero? - disse spalancando gli occhi e sorridendo in mo­ do strano. — Se vuole vedere un piccolo museo del capitano... Nevers lo seguì. Gli chiese se era nato in Francia. Era nato in Sudamerica. Poi contemplarono il museo Dreyfus: una valigia gialla di fibra che conteneva: la busta di una lettera della signo­ ra Lucie Dreyfus a Daniel, governatore del penitenziario; il ma­ nico di un temperino con le iniziali J.D. (Jacques Dreyfus); alcu­ ni franchi della Martinica e un libro, Shakespeare était-il M. Ba­ con, ou vice-versa?di Novus Ovidius, autore delle Métamorpho­ ses Sensorielles, membro dell’Académie des Médailles et d’in­ scriptions. Nevers fece per andarsene. Dreyfus, guardandolo negli oc­ chi, lo trattenne. — Lei non crede — gli domandò, — che Victor Hugo e Zola siano stati i più grandi uomini di Francia? Nevers scrive: Zola si capisce: scrisse J’accuse, e Dreyfus è un fanatico di Dreyfus. Ma Victor Hugo... L’uomo che per il suo

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fervore sceglie nella storia della Francia, più ricca di generali che non la più piccola delle repubbliche sudamericane, due scrit­ tori, merita almeno il fuggitivo omaggio della nostra coscienza.

IX

La notte del 22 non potè dormire. Durante l’insonnia, la rivela­ zione che non aveva voluto ascoltare da Bernheim assunse un’importanza enorme. Confusamente, temette anche una pu­ nizione per non avergli dato retta. Tra la stanchezza e l’eccita­ zione, pensò di andare a visitare il capannone rosso. Ma riman­ dò fino all’alba con un sforzo di volontà. Di queirimpensabile impresa si occupò fin nei dettagli: come svegliarsi dopo una notte insonne; come attaccare discorso con Bernheim; come riallacciarsi al colloquio precedente. All’alba si addormentò. Di nuovo partiva da Saint-Martin, di nuovo sentiva il dolore di ab­ bandonare Irene, e quel dolore lo scriveva in un’altra lettera. Ri­ cordava la prima frase: Ho ceduto, mi allontano da Irene, quelli che possono evitare... Di quello che veniva dopo gli era rimasto in mente solo il senso, più o meno quanto segue: quelli che po­ tevano evitare il suo ritorno dicevano che non lo avrebbero evi­ tato. Non dimenticava la frase finale (dice che nel sogno era ir­ refutabile, ma immagino fosse una certezza della sua inquieta veglia): Poiché non vi sono motivi di dissentire, temo di non po­ ter tornare, di non rivedere più Irene. 11 mattino seguente Dreyfus gli portò due lettere: una di Ire­ ne, l’altra di Xavier Brissac. Suo cugino gli dava una notizia che Nevers considerava me­ ravigliosa. Il 27 aprile l’avrebbe sostituito. Questo voleva dire che Nevers poteva essere di ritorno in Francia verso la metà di mag­ gio. Gli annunciava anche un messaggio di Irene. Nevers affer­ ma che la cosa non lo incuriosì. Non poteva essere né spiacevo­

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le, né importante. La lettera di Irene era posteriore a quella di Xavier, e non alludeva affatto a tali notizie. Era felice; si credeva equanime. Cercava di giustificare Pier­ re (gli dava ragione: nessuno era degno di Irene, e lui, pallido conversatore da caffè, meno di altri). Ricordiamo i precedenti di questo esilio alla Guiana: avven­ ne il fatto che tutti sanno (si persero certi documenti di non tra­ scurabile importanza per l’onore e per le saline della famiglia; le apparenze accusavano Nevers); Pierre lo ritenne colpevole; cer­ cò di salvare Irene... Nevers gli parlò, e - assicura - venne cre­ duto. Trascorse due settimane di perfetta felicità: tutto si era ri­ solto. Poi Pierre lo chiamò, gli parlò con violenza [forse per na­ scondere una coscienza poco tranquilla) e gli ordinò di partire per la Guiana. Lasciò addirittura balenare, quasi vergognando­ sene, una minaccia di ricatto: se non obbediva avrebbe raccon­ tato tutto a Irene. Aggiunse: «Tra un anno tornerai e potrai spo­ sare Irene; almeno avrai il mio consenso». Secondo Nevers, que­ sto prova che Pierre lo considerava innocente. Come spiega, allora, che lo mandasse alla Guiana? In modo confuso. Accumulando ogni tipo di argomento: le accuse, anche infondate, contagiano, vedi il caso del capitano Dreyfus (molti di quelli che non lo consideravano colpevole rifiutavano co­ munque di considerarlo esente da ogni colpa); Tillusione che il viaggio e la dura vita della Guiana cancellassero la sua sgrade­ vole personalità di nottambulo; la speranza che Irene cessasse di amarlo. E non spiega in modo soddisfacente nemmeno il suo strano comportamento con Irene (non le disse mai una sola parola del­ l’oscuro affare in cui era coinvolto). Condotta che rese possibile la mossa di Pierre. Qui di seguito le sue testuali parole: Se ho convinto te, se ho convinto Pierre, che preferiva non credermi, che problemi pote­ vo avere con Irene, che mi ama? (scrivo queste parole con super­ stiziosa e umiliante viltà)... L’unica discolpa della mia perversi­ tà con Irene è la mia stupidità e la mia perversità con me stesso.

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Sembra che Nevers abbia scritto a Irene questi versi:

Chère, pour peu que tu ne bouges, Renaissent tous mes désespoirs. Je crains toujours — ce qu’est d’attendre! Quelquefuite atroce de vous'.

Irene gli rimprovera (e a ragione) di scriverle simili versi, vi­ sto che è stato proprio lui a lasciarla. Gli chiede anche se voglia insinuare che la distanza tra di loro non sia puramente geogra­ fica (nel primo verso le dà del tu, nel quarto del lei) ; ma è soltan­ to una battuta (forse leggermente pedante): la lettera è lucida e tenera come chi l’ha scrìtta. Era felice; nel giro di un mese ogni preoccupazione sarebbe scomparsa. Tuttavia la lettera di Xavier lo irritava un po’. Perché mai Irene gli mandava un messaggio attraverso quell’idiota? Forse l’uso di un mezzo di comunicazione tanto rudimentale si spiega con il suo desiderio di non perdere la minima occasione per farmi piacere, di ripetermi che mi aspetta e che mi ama. Questo era il messaggio. Questo l’importante messaggio di tutte le lettere di Irene. Tuttavia, confessa, in certi momenti di assur­ da sensibilità (qui non rari, chissà, forse per l’ambiente o il cli­ ma) mi abbandono a vergognosi timori. Non dovrei parlare di questi sentimenti di poco conto: ne parlo per vergognarmene, af­ finché scompaiano.

1 I versi non sono di Henri Nevers, ma di Paul Verlaine [n.d.t.].

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