Perché l'Italia amò Mussolini (e come è sopravvissuta alla dittatura del virus) 880473230X, 9788804732303

Questo libro racconta la storia di due dittature, quella di Benito Mussolini e quella del signor Covid (come lo chiama l

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Perché l'Italia amò Mussolini (e come è sopravvissuta alla dittatura del virus)
 880473230X, 9788804732303

Table of contents :
Copertina
L’immagine
Il libro
L’autore
Frontespizio
Premessa
Perché l'Italia amò Mussolini
Il racconto di due dittature
I. Come lo Stato diventò fascista
II. Churchill disse: «Sono affascinato da Mussolini»
III. L’impronta del regime sulla società italiana
IV. Cinque gerarchi, cinque storie diverse
V. Il mito
VI. Le donne del Duce
VII. Claretta
VIII. La guerra d’Etiopia e la nascita dell’impero
IX. La dittatura del virus
X. La strage nella Bergamasca, la vittoria del Veneto
XI. Dalla Cina all’Italia, l’apocalisse virale
XII. La guerra di trincea contro un virus misterioso
XIII. La maggioranza, tra il nuovo attacco del Covid e i miliardi da spendere
XIV. Salvini, Meloni e Berlusconi, uniti con riserva…
Volumi citati
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Il libro

Q

, Benito Mussolini e quella del signor Covid (come lo chiama l’autore). Si apre con una passeggiata a piazza Venezia: stracolma per i grandi proclami del Duce negli anni del consenso (1925-1936), deserta durante il drammatico lockdown della primavera 2020. Entrambe le di ature hanno soppresso o limitato la libertà degli italiani (il Covid-19, a 2 miliardi di persone), ma se allora Mussolini ebbe un’enorme popolarità interna e internazionale, l’Italia ha resistito al virus con un odio sordo, sconfiggendolo con la disciplina in primavera e rivitalizzandolo con la confusione in autunno. Nella parte sul fascismo, Bruno Vespa mostra come, superato il trauma dell’opinione pubblica per il deli o Ma eo i, Mussolini abbia conquistato il consenso mondiale per aver annientato il socialismo filosovietico in Occidente, ma anche perché i treni arrivavano in orario e per la bonifica pontina, che ispirò alcune iniziative del presidente americano Roosevelt. Gli italiani apprezzarono le grandi opere urbanistiche, la messa in sicurezza dell’economia dopo la crisi del 1929 e, sopra u o, le iniziative sociali: se imana lavorativa di 40 ore, dopolavoro, sostegno alla maternità, colonie marine. La guerra d’Etiopia e la nascita dell’impero guadagnarono poi al Duce perfino il plauso degli antifascisti. Ma il Vespa storico racconta anche la vita privata di Mussolini, dalla condizione di separato in casa a villa Torlonia alle innumerevoli amanti frequentate anche durante la lunga relazione con Clare a Petacci. Nella parte sul Covid ritroviamo il grande cronista, che ha voluto osservare con i propri occhi lo strazio di Codogno, Nembro, Alzano,

le terapie intensive e il cimitero di Bergamo, parlando con sindaci, medici, sacerdoti, ci adini che hanno visto sconvolta la loro vita. Vespa me e a confronto le opinioni di eminenti scienziati, ironizza sui virologi da talkshow e prova a distinguere tra allarme e allarmismo, che nell’autunno 2020 ha davvero rischiato di me ere in ginocchio il paese. Negli ultimi capitoli, incontra il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e tu i i leader politici, testandone la capacità di utilizzare l’enorme quantità di denaro messo a disposizione dall’Europa per rilanciare un’Italia che non cresce da vent’anni. Conte illustra a Vespa i timori per la ripresa dell’epidemia, la speranza di un vaccino ormai prossimo, i suoi rapporti con il potere e la strategia per rilanciare il paese. Segue un’analisi dei mutati rapporti di forza tra un Pd rinvigorito dalle elezioni regionali e amministrative d’autunno e un M5S che rischia di perdere Casaleggio e Di Ba ista. L’imprevedibile movimentismo di Renzi e la corsa di Calenda a sindaco di Roma. La svolta europeista di Salvini, la crescita costante di Giorgia Meloni e la fermezza di Berlusconi, uscito dal Covid, nel rivendicare il ruolo determinante di Forza Italia, seppure ele oralmente ridimensionata.

L’autore

Bruno Vespa ha cominciato a 16 anni il lavoro di giornalista. Dopo la laurea in legge con una tesi sul diri o di cronaca, nel 1968 si è classificato al primo posto nel concorso che lo ha portato alla Rai. Dal 1990 al 1993 ha dire o il Tg1. Dal 1996 la sua trasmissione «Porta a porta» è il programma di politica, a ualità e costume più seguito. Per la prima volta nella storia, vi è intervenuto un papa, Giovanni Paolo II, con una telefonata in dire a. Tra i premi più prestigiosi, ha vinto il Bancarella (2004), per due volte il Saint-Vincent per la televisione (1979 e 2000) e nel 2011 quello alla carriera; nello stesso anno ha vinto l’Estense per il giornalismo. Tra i volumi editi da Mondadori: Storia d’Italia da Mussolini a Berlusconi, Vincitori e vinti, L’Italia spezzata, L’amore e il potere, Viaggio in un’Italia diversa, Donne di cuori, Il cuore e la spada, Questo amore, Il Palazzo e la piazza, Sale, zucchero e caffè, Italiani voltagabbana, Donne d’Italia, C’eravamo tanto amati, Soli al comando, Rivoluzione e Perché l’Italia diventò fascista.

Bruno Vespa

PERCHÉ L'ITALIA AMÒ MUSSOLINI (e come è sopravvissuta alla di atura del virus)

Premessa

Chi avrebbe de o che sarebbe andata a finire così? Che i bagni estivi, le escursioni, le movide, la riscoperta dell’Italia Felix, con le terapie intensive vuote dopo le stragi di primavera e i contagi rido i all’osso, ci sarebbero andati di traverso allo scoccare dell’autunno? Certo, i medici sanno ormai dove me ere le mani, chi a marzo sarebbe morto, a o obre quasi sempre è sopravvissuto. Il signor Covid, insinuante e vigliacco, si è accanito all’83 per cento su chi aveva almeno due patologie gravi. Il vaccino miracoloso si avvicina, perché mai nella storia dell’umanità tanti cervelli e tanti qua rini sono stati impiegati nella stessa direzione. Ma l’esplodere dei contagi, i ba ibecchi tra virologi, autentiche star mediatiche, il dilagare di un federalismo disordinato, la ripresa dei coprifuoco a scacchiera, il duello sulla scuola tra governo e regioni, i ritardi e l’incertezza sulla spesa dei tanti soldi in arrivo dall’Europa hanno avvolto l’Italia in una cappa grigia e pesante. Il 21 o obre 2020 il «British Journal of Medicine» ha scri o: «Se qualcuno vi dà delle certezze sul Covid, non credetegli». Ce la faremo. Ma quando e a che prezzo? Quando mai avremmo pensato di affiancare il peso della di atura di un virus a quella che l’Italia ha subìto per vent’anni nel secolo scorso? B.V. Roma, 24 o obre 2020

Perché l'Italia amò Mussolini

Ad Augusta, mio lockdown volontario da 45 anni

Il racconto di due di ature

Il Balcone, con la B maiuscola, è stre o fra il tricolore e la bandiera d’Europa che ballano al ritmo del ponentino. È così basso che sembra fa o per abbracciare la piazza. Ma, alle 18 di domenica 3 maggio 2020, ultimo giorno di lockdown per l’epidemia da Covid19, piazza Venezia è deserta. Venendo a piedi da via del Corso, ho incrociato tre autobus: il 64 con due persone a bordo munite di mascherina, il 62 con una persona, il 60 vuoto. I «mezzi» corrono sulla strada irregolare con la baldanzosa arroganza di chi vive l’esperienza nuova ed eccitante di trovarsi di fronte il vuoto. Sfilano davanti a una processione di saracinesche abbassate e di vetrine teneramente ricolme di abiti, ibernate in un inverno nucleare dal 10 marzo, quando il decreto di chiusura totale ha avuto l’effe o tardivo della nube di Hiroshima, che continuò a uccidere gli uomini lasciando inta e le cose. Si rincorrono i cartelli di scuse: semplici o burocratici, rammentando decreti e accendendo speranze. Una mano femminile, in uno stampatello triste e ordinato, scri o con il cuore, si augura una sollecita riapertura «in una situazione diversa per il bene di tu i». Passa un ciclista. Poi nessuno. Poi un ragazzo con lo zaino. Ancora nessuno. Una coppia con la mascherina si avvicina alla cancellata dell’Altare della Patria e fotografa i due soldati di guardia al Milite ignoto. Immobili, come sempre. Soli, come mai. Le campane di San Marco suonano a distesa per chiamare gente che non c’è a una messa che non si celebra. Deserta via dell’Impero, aperta nel 1932 per farsi largo tra i Fori Imperiali, che poi l’hanno riba ezzata. Deserta via del Plebiscito, senza il presidio fisso a tutela di Silvio Berlusconi, da un paio di mesi in Francia dalla figlia Marina.

Lo sguardo d’insieme è offeso dal cantiere della metropolitana, che per essere completata sta impiegando ben più di un ventennio. Ma il vuoto intorno è sufficiente per notare quanto il novecentesco palazzo delle Assicurazioni Generali sia gemello del suo dirimpe aio qua rocentesco: stessa altezza, stessa larghezza, stessa torre, stessa merlatura, stesso balcone proie ato sulla piazza dal piano nobile, con la differenza che quello di palazzo Venezia è sormontato da un bassorilievo con il Leone di San Marco, salvato a Padova da una razzia barbarica. Tra i due «gemelli», all’angolo con il Corso, palazzo Bonaparte, anch’esso con il balcone basso, de o in romanesco «mignano», ha le persiane abbassate, come sempre, quasi che dietro vi si nasconda ancora Letizia Ramolino. La madre di Napoleone si rinchiuse qui nel 1818, in odio alla nuora Maria Luisa, e rimase ogni giorno a osservare per ore il passeggio, fino alla morte nel 1836. Né la cecità le mutò l’abitudine: sempre seduta, sempre nascosta dalle persiane, accanto alla governante che le raccontava i «movimenti» lì so o. Ho scelto di iniziare in questa piazza – in questo giorno e a quest’ora – il racconto di due di ature. Esa amente o ant’anni fa, il 10 giugno 1940, alle 6 del pomeriggio, il Duce del fascismo si affacciò al balcone della Sala del Mappamondo di palazzo Venezia per annunciare all’Italia e al mondo la tragica decisione di associarsi alla guerra di Hitler contro la Francia e l’Inghilterra. In piazza Venezia, manco a dirlo, gli altoparlanti avevano richiamato una «folla oceanica», com’era avvenuto giusto qua ro anni prima, il 9 maggio 1936, alle 22.30, con la proclamazione dell’impero. Dopo Perché l’Italia diventò fascista, ci proponiamo di proseguire la storia con un titolo insidioso: Perché l’Italia amò Mussolini. Perché, purtroppo, lo amò. E lo amò molto più di quanto il comune le ore d’oggi possa immaginare. Riprenderemo il racconto dal discorso del 3 gennaio 1925, che segnò l’inizio della di atura fascista vera e propria, e ci fermeremo, qui, alla proclamazione dell’impero, perché da allora cominciò il declino che porterà all’ignominia delle leggi razziali e alla follia della guerra (ma, all’inizio, né alle leggi razziali né alla guerra si ribellarono in molti),

di cui ci occuperemo nel terzo volume della nostra trilogia mussoliniana. Nel me erci in guardia da tu i gli uomini soli al comando – quelli più ruvidi e quelli più eleganti – questo libro viene pubblicato dopo che il nostro paese ha subìto una «di atura democratica» che mai avremmo immaginato nei tempi moderni. La «spagnola», la pandemia influenzale diffusasi tra il 1918 e il 1920, era stata infa i archiviata come irripetibile preistoria. Come abbiamo vissuto so o il regime che ha soggiogato il mondo con la sigla Covid-19? Come abbiamo affrontato un’impensabile e drastica riduzione delle più elementari libertà personali?

I

Come lo Stato diventò fascista

Mussolini: «Con l’amore, se possibile, o con la forza, se necessario» «Spunta il sole e canta il gallo / o Mussolini monta a cavallo» rimava scanzonato Curzio Malaparte. La ma ina dopo il Capodanno del 1925 il capo del governo italiano non mancò l’appuntamento a villa Borghese con Camillo Ridolfi, suo vecchio maestro d’armi e, da poco, anche di equitazione. L’inconsapevole cavallo Ululato l’aveva sbalzato a terra più di una volta, come accade a ogni principiante. Ma in poche se imane Mussolini l’aveva chetato e ora poteva saltare gli ostacoli a beneficio dei fotografi e delle signore già adoranti. Bombe a grigia, camicia bianca con il colle o rigido, crava afoulard, giacche a corta sui pantaloni da equitazione: un perfe o gentiluomo. Nei pasti festivi di fine anno, magri come d’abitudine, il Duce aveva rimasticato con furiosa amarezza l’affronto di Aldo Tarabella, capofila dei trentatré consoli della Milizia che gli si erano parati davanti senza preavviso a palazzo Chigi la sera di San Silvestro. («Che capo di una rivoluzione siete se vi impressionate di un cadavere [Ma eo i]? Quale amara delusione! Ancora una volta voi avete disperatamente tesa la mano alle opposizioni. Ma con questo non fate che dilazionare la vostra miserevole fine…») Certo, la sorte di Tarabella e di Enzo Galbiati, l’altro console che gli teneva bordone, era segnata: pochi mesi e sarebbero stati espulsi dalla Milizia (per poi esservi riammessi in seguito). Ma come erano potuti arrivare a tanto? Mentre tro ava in sella a Ululato (il galoppo non aiuta le decisioni, le segue), Mussolini ripensò a Dante Alighieri. Giunto a

palazzo Chigi, convocò Paolo Orano, capo della redazione romana del «Popolo d’Italia» e gran conoscitore del sommo poeta. «Dimmi un po’» chiese al giornalista, che si aspe ava di essere stato chiamato per tu ’altro. «Dante parla mai bene degli italiani nella Divina Commedia?» «No» rispose Orano, che raccontò poi l’episodio a un collega francese. «L’ha notato anche Machiavelli. Dante parla bene della terra italiana, non degli italiani.» «Da qualche tempo in qua» riprese Mussolini «non lascio la Divina Commedia. Ne leggo un canto ogni giorno, al ma ino. Il programma spirituale della nazione è proprio tu o qui dentro. Dante ha preparato il destino morale d’Italia. Bisogna che facciamo questo popolo degno di lui…» Così, la ma ina del 3 gennaio, nell’aula «sorda e grigia» di Montecitorio, mutilata dell’Aventino, arringò i suoi fedeli, sfidando un’opposizione che non c’era. «L’articolo 47 dello Statuto dice: “La Camera dei deputati ha il diri o di accusare i ministri del re e di tradurli dinanzi all’Alta corte di giustizia”. Domando formalmente se in questa Camera, o fuori di questa Camera, c’è qualcuno che si voglia valere dell’articolo 47.» Dopodiché ricordò le «profonde parole di vita» che aveva pronunciato il 7 giugno 1924: «Avevo stabilito i termini di quella necessaria convivenza senza la quale non è possibile assemblea politica di sorta. E come potevo … dopo un successo così clamoroso, che tu a la Camera ha ammesso, comprese le opposizioni, per cui la Camera si riaperse il mercoledì successivo in un’atmosfera idilliaca … come potevo pensare, senza essere colpito da morbosa follia, non dico solo di far comme ere un deli o, ma nemmeno il più tenue, il più ridicolo sfregio a quell’avversario che io stimavo perché aveva una certa crânerie [spavalderia], un certo coraggio, che rassomigliavano qualche volta al mio coraggio e alla mia ostinatezza nel sostenere le tesi? [Eppure, qualche giorno prima del rapimento, “Il Popolo d’Italia” aveva scri o in un corsivo: “Se Ma eo i si troverà un giorno con la testa ro a dovrà ringraziare solo se stesso e la sua testardaggine”.] «Fu alla fine di quel mese, di quel mese che è segnato profondamente nella mia vita,» continuò Mussolini «che io dissi: “voglio che ci sia la pace per il popolo italiano”; e volevo stabilire la normalità della vita politica italiana. Ma come si è risposto a questo

p p q mio principio? Prima di tu o, con la secessione dell’Aventino, secessione anticostituzionale, ne amente rivoluzionaria. Poi con una campagna giornalistica … immonda e miserabile che ci ha disonorato per tre mesi. Le più fantastiche, le più raccapriccianti, le più macabre menzogne sono state affermate diffusamente su tu i i giornali.» Quindi, la fucilata: «Io dichiaro qui al cospe o di questa assemblea e al cospe o di tu o il popolo italiano che assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tu o quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello e non invece una superba passione della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, se tu e le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico, morale, a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l’ho creato con una propaganda che va dall’intervento fino ad oggi». E la conclusione, retoricamente enfatica e minacciosa: «L’Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa; gliela daremo con l’amore, se è possibile, o con la forza se sarà necessario. Voi state certi che nelle quaranto ’ore successive al mio discorso, la situazione sarà chiarita su tu a l’area». La Camera, senza l’opposizione aventiniana, gli diede carta bianca. E lui fu di parola. La no e stessa del 3 gennaio il ministro dell’Interno Luigi Federzoni inviò ai prefe i due telegrammi che ordinavano il divieto di manifestazioni, comizi, cortei, la chiusura dei circoli antifascisti e la rigorosa applicazione delle misure restri ive sulla stampa. «Dopo il linguaggio della paura, la Camera ascoltò quello della ia anza» ricorda Pietro Nenni in Vent’anni di fascismo. «Il capo del governo era sicuro del re, sicuro della sua maggioranza, sicuro dell’esercito, sicuro della milizia. Non temeva l’opinione pubblica.» Già, il re. L’indomani del discorso, tre ministri moderati (Alessandro Casati, Aldo Oviglio, Gino Sarrocchi) si dimisero. Un’iniziativa della Corona sarebbe bastata in quel momento a

q me erlo in crisi, afferma Renzo De Felice in Mussolini il fascista, in accordo con Nenni. Giovanni Amendola, tra gli artefici più generosi dell’Aventino, crede e davvero che il sovrano si muovesse. «Sorga finalmente il re!» recitava il suo appello. Ma Vi orio Emanuele III non volle sorgere e restò nell’ombra della cautela costituzionale. Eppure, la situazione era tale che quello stesso 3 gennaio tornarono a incontrarsi, dopo dieci anni, Antonio Salandra e Giovanni Gioli i: avevano interro o i rapporti nel 1915, quando il secondo accusò il primo di tradimento per essersi convertito all’interventismo. Coinvolsero anche Vi orio Emanuele Orlando («Tre secoli della vecchia Italia» li beffeggiava Mussolini) per tentare una soluzione alternativa di governo, ma restarono con il cerino acceso in mano. Lo stesso Gioli i, alla fine, ci crede e talmente poco che evitò agli altri due una gita al Quirinale, giudicandola perfe amente inutile.

Il «duro» Farinacci alla guida del partito Per un mese si ebbe l’impressione che Mussolini si fosse spaventato di quanto aveva de o: era, infa i, molto di più di quel che voleva dire. È vero che per un paio di se imane furono sospesi molti giornali di partito (pessimo segnale), ma la Camera restava aperta, si diba eva su una nuova legge ele orale e il capo del governo prome eva una nuova consultazione a breve. A Giuseppe Antonio Borgese che si sarebbe stracciato le vesti denunciando nel suo Golia che, dopo il 3 gennaio, «in meno di due anni fu spazzato via dall’Italia ogni vestigio di ciò che era stata la civiltà moderna od occidentale», Paolo Monelli replicava beffardo nel suo Mussolini piccolo borghese che «in quei due anni non fu spazzato via un bel niente. Se non fu più la luna di miele, furono ancora anni di matrimonio fra coniugi che si volevano ancor bene, anche se l’uno cominciava a scorgere i dife i dell’altro. La di atura si rafforzò a poco a poco, subdola, inavvertita, traverso spontanee dichiarazioni d’amore fra di atore e popolo, in un’atmosfera di ebbrezza (che diventò qualche volta sbornia), esaltato l’uno per trovarsi a capo di

così docile nazione, e l’altro persuaso d’essere il più intelligente, il più laborioso, il più amabile e savio popolo del mondo». A metà del 1925 ci fu un furioso a acco alla massoneria: un massone uccise un fascista e i fascisti risposero uccidendo alcuni massoni e saccheggiandone case e uffici. Ma l’Italia non s’indignò più di tanto, e anzi ai ca olici l’a acco alle logge non dispiacque affa o. L’apparente inerzia di Mussolini nel dare forte seguito alle minacce di sfracelli annunciate il 3 gennaio inquietò come al solito la parte intransigente del partito, sempre timorosa di un colpo d’ala del Duce che riavviasse i mai sopiti tentativi di conciliazione nazionale. Per guarirne i pericolosi mal di pancia, Mussolini usò uno sciroppo infallibile: Roberto Farinacci, il più puro dei puri. Il 12 febbraio 1925 il Gran Consiglio nominò all’unanimità il ras di Cremona segretario del Partito nazionale fascista. Molisano trapiantato in Lombardia, ferroviere e poi avvocato, socialista, fascista della prima ora, in Perché l’Italia diventò fascista lo abbiamo sempre visto a capo dell’ala più dura del partito, quella che impedì al Duce qualunque tentativo di pacificazione e – meno che mai – di apertura ai socialisti. Ambizioso senza confini, Farinacci era estimatore di se stesso oltre ogni ragionevole soglia. Un giorno, racconta Guido Nozzoli in I ras del regime, disse a Mussolini: «Vedi, Benito, a governare l’Italia bastiamo io e te». S’immagini quanto questo connubio potesse lusingare il Duce. Usava il suo giornale «Cremona Nuova» per bastonare non solo gli avversari politici, ma anche i camerati più concilianti, lo stesso Mussolini e perfino il re («Sire, siate meno generoso» lo ammonì, quando Vi orio Emanuele osò incontrare gli uomini dell’Aventino). Il Duce non lo amava affa o, ma se ne servì per intimorire gli avversari, spegnere i mugugni dell’estrema destra interna e me ere ordine anche nell’organizzazione del partito, che nel 1926 – prima che il ras di Cremona fosse rimosso dall’incarico – aveva raggiunto i 950.000 iscri i. La nomina di Farinacci si rivelò provvidenziale, perché un intervento chirurgico per ulcera duodenale, un disturbo che lo tormentava da anni, ridusse Mussolini in condizioni

estremamente critiche (si pensò che morisse) e, comunque, lo tolse dalla circolazione per oltre un mese tra il febbraio e il marzo 1925. Il ras di Cremona evitò sbandamenti nel partito. E il 2 o obre successivo, a palazzo Vidoni, sede del consiglio nazionale del Partito fascista, fu il padrone di casa della cerimonia in cui la Confindustria si consegnò al regime. «Essa riconosce» si legge nel protocollo del pa o «nella Confederazione delle Corporazioni fasciste e nelle organizzazioni sue dipendenti la rappresentanza esclusiva delle maestranze lavoratrici.» Era la morte del sindacalismo libero, ma la Cgl (progenitrice dell’odierna Cgil) non riuscì a organizzare nemmeno una manifestazione di protesta. Ed è impressionante leggere nei verbali del sindacato il bolle ino della disfa a, ci à per ci à, categoria per categoria. Le corporazioni fasciste erano nate nel 1922, richiamandosi alle corporazioni rinascimentali d’arti e mestieri, ma anche alla concezione solidaristica nei rapporti di lavoro, che è alla base dell’enciclica sociale Rerum novarum promulgata da papa Leone XIII nel 1891. Le corporazioni avrebbero trovato una loro sistemazione giuridica solo nel 1927, con la pubblicazione della Carta del lavoro e, poi, con l’istituzione di un ministero che accorpava a grandi linee le competenze degli a uali ministeri del Lavoro e dello Sviluppo economico. Come scrive Giordano Bruno Guerri in Fascisti, costituivano «un serio proposito, almeno teorico, di migliorare le condizioni di vita e di lavoro». La Carta stabiliva che, nella scelta dei disoccupati da assumere, i datori di lavoro dovessero dare la preferenza a coloro che appartenevano al partito e al sindacato fascisti, ma sosteneva i diri i di tu i i lavoratori su orari, festività, ferie, indennità di licenziamento o morte, divieto di licenziamento per mala ia, periodo di prova, lavoro a domicilio. Un sistema molto avanzato per l’epoca. Il sindacato fascista, grazie all’abilità di Farinacci, si era conquistato sul campo una grande popolarità nel marzo 1925 durante una vertenza tra la Fiom, braccio metalmeccanico della Cgl, e la OM , una grande azienda bresciana. Proclamò all’improvviso uno sciopero che si estese fino a Milano, prese in mano le redini

della tra ativa e la portò a termine con successo, strappando agli industriali importanti concessioni. La conseguenza fu il trasferimento in massa degli iscri i alla Cgl al sindacato fascista.

La «ba aglia del grano» e l’«invenzione della virilità» La pacificazione con il mondo dell’industria, che aveva finanziato il fascismo in modo cospicuo, arrivò dopo un periodo di relazioni agrodolci. Ministro delle Finanze e poi del Tesoro nei primi tre anni del governo Mussolini era Alberto De Stefani, economista liberale e fascista fin dalle origini. De Stefani affidò una radicale revisione del fisco a una commissione presieduta da una star dell’economia liberale, Maffeo Pantaleoni. La riforma favorì le classi benestanti abolendo la tassa di successione per i familiari e riducendola fortemente per gli altri, aumentò le imposte indire e in favore di quelle dire e di cui furono diminuite le aliquote, ingraziò la Chiesa al regime abolendo la nominatività dei titoli azionari (vecchia ba aglia del Vaticano e del Partito popolare) e chiedendo in cambio di comprare con il «sacro denaro» titoli di Stato: investimento vantaggioso perché esentasse (per tu i) per venticinque anni, come quello sugli immobili. La produzione manifa uriera crebbe del 10 per cento all’anno, il reddito nazionale del 20 per cento tra il 1922 e il 1925. Tra la fine del 1922 e la fine del 1924, i disoccupati scesero da 380.000 a 150.000. La drastica riduzione dei dipendenti pubblici (65.000 in due anni) e della spesa pubblica (dal 35 al 15 per cento del pil, un terzo dei giorni nostri), grazie al forte taglio al se ore militare e l’affidamento ai privati di alcuni servizi fino ad allora gestiti dallo Stato, in meno di tre anni ribaltò la situazione dei conti pubblici fino a portare in avanzo il bilancio, con grande plauso del liberale più prestigioso, Luigi Einaudi. Eppure, problemi e tensioni non mancarono. Aumentarono i prezzi, il carico fiscale (nonostante la riduzione delle imposte dire e) crebbe del 5 per cento in un anno, la lira s’indebolì, la

speculazione finanziaria s’impadronì della borsa, facendo schizzare in maniera irrazionale i titoli azionari. De Stefani intervenne sul mercato con mano durissima e, nel giro di pochi giorni, il valore dei titoli crollò. Il ministro aveva già litigato con gli industriali perché era contrario al protezionismo, da essi sempre invocato. Per di più, esigeva che reinvestissero i profi i per rendere più solido il sistema economico. Così, Confindustria e le associazioni delle società quotate in borsa e delle banche protestarono con Mussolini, accusando De Stefani di aver scosso con i suoi interventi «l’equilibrio degli affari finanziari». Il 10 luglio 1925 il Duce diede il benservito al suo ministro, sostituendolo – come da richiesta nominativa di Confindustria – con un altro liberale, vicinissimo al mondo finanziario, Giuseppe Volpi di Misurata, il conte veneziano che nel 1932 avrebbe fondato la Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, la prima al mondo nel suo genere. Scrivendo il giorno precedente l’avvicendamento ministeriale alla sua compagna Anna Kuliscioff, Filippo Turati rivelava che De Stefani non aveva nessuna voglia di andarsene e che le dimissioni gli furono imposte personalmente da Farinacci: «Se non scrivi la le era,» lo minacciò il ras di Cremona «la scrivo io fascisticamente!». Lo squilibrio dei conti con l’estero era determinato dalle importazioni di grano. Tra il 1911 e il 1921, la popolazione italiana era cresciuta di quasi 4 milioni, la stessa cifra dei nostri ultimi trentacinque anni. D’altra parte, quando il capo del fascismo prese il potere, ogni donna aveva in media 3,74 figli contro l’1,34 di oggi… Crescevano a vista d’occhio le bocche da sfamare e si produceva meno grano che all’inizio del secolo. Fu così che con il primo (forse) dei suoi proclami duceschi, il 14 giugno 1925 Mussolini annunciò all’agenzia Stefani, l’unico «social» di allora, che avrebbe assunto personalmente il comando della «ba aglia del grano». Nel 1914 Mussolini e la moglie Rachele avevano comprato a San Martino in Strada, a 8 chilometri da Forlì, una casa colonica con un piccolo podere dove Benito piantava un albero alla nascita di ogni figlio. Chiamata «villa Carpena» e poi «villa Mussolini» (oggi sede di un museo), la casa e il podere annesso furono il teatro di posa

p p della personale ba aglia granaria del Duce. Vennero seminate qualità innovative di frumento e Mussolini si faceva ritrarre – a beneficio di fotografi e cinegiornali – mentre mieteva a torso nudo, berre o bianco e pantaloni chiari, o mentre trebbiava con il suo tra ore Fiat 700. Nacque allora quella che lo storico Sandro Bellassai ha definito «l’invenzione della virilità». Una gigantesca operazione di propaganda, certo. Ma, come riconosce nel suo Mussolini uno storico sicuramente antifascista come Pierre Milza, «la ba aglia del grano fu sicuramente un successo. I rendimenti aumentarono del 50 per cento in pochi anni e la produzione passò da 50 milioni di quintali del 1924 a circa 80 milioni all’inizio degli anni Trenta, il che consentì all’Italia di coprire interamente il proprio fabbisogno». Anche se furono trascurate le altre colture, con qualche danno collaterale.

L’a entato Zaniboni e le «leggi fascistissime» Tito Zaniboni aveva 42 anni, capelli e baffi nerissimi, sguardo febbrile. Tre medaglie d’argento e una di bronzo, era un eroe di guerra. Deputato socialista riformista, aveva partecipato alle tra ative di pacificazione tra il suo partito e i fascisti. Il deli o Ma eo i gli cambiò la testa e la vita: nella disperata ricerca del corpo del compagno assassinato, una no e era andato a scoperchiare tredici tombe al cimitero romano del Verano. Fu allora che decise di uccidere Mussolini. Il 4 novembre 1925, se imo anniversario della Vi oria, il Duce – durante una sosta del corteo, mentre si recava a rendere omaggio al Milite ignoto in piazza Venezia – avrebbe dovuto pronunciare un breve discorso affacciandosi dalla logge a della «Galleria Deti» di palazzo Chigi (si sarebbe trasferito a palazzo Venezia solo nel 1929). Zaniboni aveva prenotato una camera all’albergo Dragoni, esa amente di fronte a palazzo Chigi, in una posizione perfe a per centrare l’obie ivo a raverso un’apertura praticata nelle persiane chiuse della finestra. Aveva comprato un fucile austriaco di

precisione con cannocchiale e un’automobile veloce e lussuosa, la Lancia Lambda, identica a quella con cui fu rapito Giacomo Ma eo i, parcheggiata poco distante per fuggire subito dopo il deli o. Alle 6 del ma ino si presentò al ricevimento dell’albergo in alta uniforme da maggiore dell’esercito, con il pe o grondante di decorazioni, e in compagnia di un giovano o che aveva prenotato la stanza a nome di Domenico Silvestrini. Fu il proprietario dell’albergo in persona, Romano Dragoni, ad assegnargli la stanza numero 90, che corrispondeva perfe amente alla richiesta, convinto che quell’ufficiale volesse assistere da posizione privilegiata al saluto del Duce rivolto alla folla convenuta in via del Corso e in piazza Colonna. La cerimonia era prevista per le 10. Alle 9 il vicequestore Errico Belloni, scortato da alcuni agenti di polizia, bussò alla porta della camera 90, trovò nell’armadio il fucile di precisione e arrestò sia Zaniboni sia il suo giovane accompagnatore, Carlo Quaglia, studente di giurisprudenza e collaboratore del «Popolo», il giornale del Partito popolare. Era stato proprio Quaglia a fare il doppiogioco e a informare per tempo la polizia, che comunque teneva Zaniboni so o controllo da un anno. A Torino fu arrestato per complicità il generale Luigi Capello, uno dei più alti ufficiali dell’esercito durante la prima guerra mondiale. Al comando della 2a armata aveva conquistato la Bainsizza, ma nel 1917 fu uno dei responsabili del disastro di Capore o ed era perciò stato messo a riposo. Zaniboni e Capello furono condannati a trent’anni di carcere. Il generale si dichiarò innocente e nel 1937 fu liberato, sia per l’età ormai avanzata (78 anni) sia perché Mussolini aveva sempre nutrito dubbi sulla sua piena responsabilità. Dopo un primo periodo di fermezza, Zaniboni cede e, confessò, si pentì e scrisse al Duce le ere molto garbate. Questi ricambiò con aiuti alla famiglia e finanziò gli studi universitari della figlia, che gli fece dono della sua tesi di laurea. Scarcerato nel 1943, rifiutò di entrare nel governo Badoglio da cui ebbe, comunque, incarichi importanti, fra cui quello di alto rappresentante per l’epurazione nel 1944.

pp p p Mussolini sfru ò l’a entato con grande abilità politica e si prese una giornata per orchestrare la reazione. La notizia diventò pubblica soltanto l’indomani, quando fu «strillata» dai giornali del pomeriggio. Quello stesso 4 novembre Pietro Nenni arrivò a Roma per ba ersi a duello con Kurt Suckert, cioè Curzio Malaparte. Seppe di Zaniboni dai compagni che andarono a prenderlo alla stazione. Ecco come racconta, in Vent’anni di fascismo, «una rapida conversazione sul terreno del duello con Italo Balbo, testimonio del mio avversario»: «Osate dunque prendervela anche col nostro capo?» «Sembra di sì», risposi con molta calma. «Non vi accorgete di camminare su dei carboni ardenti?» «Forse è vero, ma per voi come per noi.» «Un a entato simile avrebbe potuto scatenare un massacro.» «Non ne dubito. Ma non si sarebbe tra ato soltanto del nostro massacro.» «Cosa vuoi dire?» «Voglio dire che la misura è colma, che tu o si paga e chi semina vento raccoglie tempesta.» «Siamo stati troppo generosi con voi.» «Dovete dirlo ai figli di Ma eo i, di Piccinini o di Pilati… [Il sindacalista Antonio Piccinini e il deputato socialista Gaetano Pilati, uccisi dai fascisti.]» «Se sarà necessario saremo senza pietà.»

(Nel duello, Nenni fu ferito due volte e, alla fine, rifiutò la riconciliazione prevista dal codice cavalleresco.) Tu i sapevano che il gesto di Zaniboni era quello di un isolato. Aveva provato a innescare a destra e a manca la miccia dell’insurrezione trovando sempre un piede pronto a schiacciarla e a spegnerla. Eppure, la macchina della propaganda fascista riuscì a trasformare l’a entato individuale nel complo o di un’opposizione ormai disperata dopo il fallimento dell’Aventino. Da un lato, il Duce tenne a bada gli ultrà del regime che invocavano la pena di

g g p morte («Offromi come boja per decapitare arrestati» telegrafò un capo squadrista di Bologna), dall’altro emanò le «leggi fascistissime» che strinsero i bulloni della di atura. Furono smantellate le logge massoniche (il Grande Oriente d’Italia aveva in Capello uno dei fratelli più eminenti), sciolto il Partito socialista unitario, dal quale peraltro Zaniboni era stato espulso, chiusi alcuni giornali politici di opposizione, costre i all’obbedienza i quotidiani più importanti. (In Perché l’Italia diventò fascista abbiamo raccontato come Luigi Albertini, dire ore del «Corriere della Sera», dove e dime ersi e cedere le sue quote di proprietà del giornale ai fratelli Crespi, gli azionisti di maggioranza.) Mussolini diventò «Capo del governo e Duce del fascismo», assumendo la totalità dei poteri esecutivi e facendo del Parlamento un’aula davvero «sorda, grigia» e vuota di ogni potere. Furono sciolti i consigli comunali e il potere trasferito a un podestà nominato dal governo. Roma ebbe il suo governatore, scelto dall’esecutivo fascista. Per legge, gli impiegati pubblici non allineati potevano essere sostituiti, i beni degli antifascisti confiscati. Tu o questo avvenne senza un fiato. L’opinione pubblica era infa i turbata dall’a entato e le stesse opposizioni rimasero frastornate: alcuni deputati tornarono in aula in punta di piedi. Inutilmente, ormai.

Mussolini: «Se avanzo, seguitemi. Se indietreggio, uccidetemi. Se muoio, vendicatemi» Nel giro di un anno il Duce subì altri tre a entati. Ciascuno avrebbe potuto essergli fatale, ma ne restò sempre pressoché illeso. Il 7 aprile 1926 aveva inaugurato in Campidoglio un congresso di chirurgia. Uscendo, rispose con il saluto fascista a un gruppo di giovani. Renzo De Felice annota in Mussolini il duce che, nel farlo, ritrasse il capo e questo lo salvò. Violet Albina Gibson, una segaligna cinquantenne figlia del Lord Cancelliere d’Irlanda, aveva preso bene la mira, ma quel gesto fece sì che il colpo di rivoltella lo

ferisse soltanto di striscio al naso. Sull’istante, Mussolini non diede peso alla cosa e, secondo il figlio Romano, si allarmò solo quando vide avventarsi su di lui decine di chirurghi usciti dall’aula del congresso. «Stavano per soffocarmi» si lamentò al telefono con Rachele. Riemerse dalla mischia con un vistosissimo cero o rosso che dal naso si estendeva fin sulle guance. (In realtà, la Gibson, che aveva intenzione di uccidere anche il papa, era una squilibrata: giudicata tale pure dal Tribunale speciale, fu espulsa dall’Italia e rinchiusa in un manicomio inglese dove sarebbe morta trent’anni dopo.) I messaggi di solidarietà piovvero addosso a Mussolini come coriandoli in un veglione. Pio XI, dimenticando per un momento le violenze fasciste contro tanti preti, condannò «i nefandi a entati» e gli partecipò la «gioia immensa per saperLa salva e incolume interamente per ispeciale protezione di Gesù Cristo». Il quotidiano ca olico «L’Avvenire d’Italia» mise la divina assistenza addiri ura nel titolo di prima pagina: Dio protegge l’Italia. L’on. Mussolini di nuovo salvo da un criminoso a entato. Una giovine a di 14 anni si disperò: «Quale ignominia,» gli scrisse «quale viltà, quale obbrobrio! Ma è una straniera e tanto basta! … O, Duce, perché non vi ero? Perché non ho potuto strangolare quella donna assassina, che ha ferito Te, divino essere?». E ancora: «Quando ho appreso la triste notizia, ho creduto di morire perché Ti amo profondamente come una piccola fascista della prima ora. … Duce, la mia vita è per te». Si chiamava Clare a Petacci. Più sobriamente Gabriele d’Annunzio lo denominò «Fortebraccio da Predappio». Nel pomeriggio, al dire orio fascista riunito a palazzo Vidoni, Mussolini lanciò una delle sue frasi rimaste celebri: «Se avanzo, seguitemi. Se indietreggio, uccidetemi. Se muoio, vendicatemi». L’indomani, nonostante le perplessità dei medici, mantenne il programma di andare in Libia. E a chi alludeva alla ferita sul volto rispose: «Ho già pronto il foro per farmi me ere l’anello al naso, come nelle nobili tribù negre». L’11 se embre l’automobile con a bordo Mussolini, che proveniva da via Nomentana ed era dire a a palazzo Chigi, all’altezza di Porta Pia fu colpita da una bomba, esplosa dopo aver

p p p urtato la parte superiore del finestrino posteriore destro. O o persone furono ferite, il Duce rimase illeso. L’a entatore, salvato dal linciaggio, era Gino Luce i, un marmista toscano di 26 anni, anarchico, che era emigrato in Francia ed era tornato con il proposito di uccidere Mussolini. Anche in questo caso ci fu una pioggia di messaggi di solidarietà, a cominciare da quello del papa. Nonostante i partiti di opposizione si sbracciassero nel condannare l’episodio, i fascisti chiesero il ripristino della pena di morte per chi a entava alla vita dei reali e del capo del governo. Mussolini lasciò cadere la proposta, per non rafforzare l’ala intransigente del partito. Crispo Moncada, capo della polizia, dove e cedere il posto ad Arturo Bocchini, che lo conservò per qua ordici anni. Ma so o schiaffo andò il ministro dell’Interno Federzoni, leader dei nazionalisti, che i fascisti duri e puri tolleravano sempre meno. L’ultimo a entato del 1926 avvenne a Bologna cinquanta giorni dopo, il 31 o obre. Il quarto anniversario della marcia su Roma fu celebrato con grande solennità in tu a Italia. Dopo aver sepolto il 28 o obre nella capitale il vecchio Stato liberale «agnostico e paralitico», il 31 il Duce si trasferì a Bologna, dove inaugurò il grande campo polisportivo Li oriale fa o costruire dal ras bolognese Leandro Arpinati con una raccolta di contributi tra le aziende ci adine (lo stadio sarebbe stato poi intitolato a Renato Dall’Ara, storico presidente del Bologna Football Club). Mussolini vi entrò a cavallo indossando l’alta uniforme grigioverde di generale della Milizia. Visitò poi la Casa del Fascio, presiede e l’apertura di un congresso scientifico e, all’uscita, salì su un’Alfa rossa accanto ad Arpinati, al posto di guida; sui sedili posteriori si sistemarono Dino Grandi e il sindaco di Bologna, Umberto Puppini. Mentre l’auto imboccava via Indipendenza da via Rizzoli, dire a verso la stazione ferroviaria, rallentando all’altezza del Cantone dei Fiori, il Duce fu raggiunto da un colpo di pistola che lacerò la fascia dell’Ordine Mauriziano e, so o di essa, il gilet dell’uniforme di gala. Il colpevole fu identificato in Anteo Zamboni, un ragazzo di 15 anni e 6 mesi che fu linciato sul posto con percosse, 14 coltellate e una revolverata. La famiglia di Anteo era – o meglio era stata –

g g anarchica, ma poi il papà Mammolo, tipografo, sembrava essersi convertito al fascismo ed era amico di Arpinati. Il ragazzo era balilla, anche se in casa sua furono trovati scri i inneggianti al regicidio. Fu questo l’a entato più misterioso. Un giovane ufficiale del servizio d’ordine dichiarò che il braccio di Zamboni si era allungato sulla sua spalla per sparare. Lo stesso Mussolini raccontò alla moglie Rachele, che l’aveva seguito nella visita con la figlia Edda, di aver «visto fendere la folla e avvicinarsi a lui un ragazzo scarmigliato, pallidissimo, il quale spara con una piccola rivoltella nella mia direzione». Eppure non sono mai stati cancellati i dubbi di un a entato maturato all’interno del regime. Si pensò addiri ura allo stesso Arpinati e a uomini di Roberto Farinacci, che alcuni mesi prima aveva perso la carica di segretario del partito. Il Duce non aveva sopportato nel 1925 un eccidio in Toscana addebitato a Farinacci e lo licenziò quando, come avvocato, assunse la difesa di Amerigo Dumini (pronuncia Dùmini), il capo della squadraccia che aveva sequestrato e ucciso Ma eo i. È un fa o che il padre di Anteo e la zia materna Virginia Tabarroni, condannati come complici a trent’anni di reclusione, furono graziati solo sei anni dopo su richiesta di Mussolini al re per intercessione di Arpinati. In ogni caso, nel dopoguerra Mammolo Zamboni, confidandosi con il grande giurista ca olico Arturo Carlo Jemolo, rivendicò la responsabilità del figlio nell’a entato.

Nenni, Turati, Gobe i, Gramsci: esilio e morte La no e del 31 o obre 1926 il comunicato ufficiale sull’accaduto recitava: «Il colpevole del mancato a entato è stato linciato dalla folla. Bisogna adesso smascherare e punire severamente i complici». «I complici eravamo noi» scrive Nenni in Vent’anni di fascismo. «Avvenne così che la risposta al colpo di pistola di un giovane fanatico, il quale aveva maturato il suo a entato in una solitudine arida e seguendo l’impulso di una giovane coscienza in rivolta, si tradusse nelle leggi eccezionali, molte volte rinviate,

considerate sempre, in ogni caso, la suprema salvaguardia della di atura. Le leggi eccezionali entrarono in vigore il 9 novembre, e da eccezionali a poco a poco diventarono definitive.» Nenni riporta le parole con cui Mussolini illustrò il nucleo di queste leggi: «Dopo il trascurabile incidente di Bologna sono stato io a de are la sera stessa le misure da prendersi: revisione di tu i i passaporti per l’estero; ordine di sparare contro chiunque fosse sorpreso a varcare la frontiera clandestinamente; soppressione di tu i i giornali antifascisti, quotidiani o periodici; scioglimento di tu i i gruppi, associazioni, organizzazioni antifasciste o sospe ate di antifascismo; deportazione di quanti fossero ritenuti antifascisti o che svolgessero a ività antigovernativa; creazione di una polizia speciale in tu e le regioni; creazione di uffici d’investigazioni segrete e di un tribunale speciale». Furono saccheggiati case, uffici, studi, ambulatori di antifascisti. «I fascisti che invasero il mio appartamento in corso XXII marzo 29 a Milano» racconta Nenni «incontrarono sulle scale una delle mie figliole la quale usciva per andare al ginnasio con la cartella so o il braccio. Le strapparono i libri di mano, glieli stracciarono, la lasciarono piangente minacciandola di far fare a suo padre “la fine di Ma eo i”.» (Vi oria Nenni entrerà nella Resistenza a Parigi con il marito Henri Daubeuf. Lui sarà fucilato, lei deportata ad Auschwi , dove morirà il 15 luglio 1943. «Dite a mio padre» scrisse «che ho avuto coraggio fine alla fine e che non rimpiango niente.») «Scelsi l’esilio» conclude Nenni. Raggiunse la Francia a raverso la Svizzera grazie a Carlo Rosselli e Ferruccio Parri. Espatriarono anche Claudio Treves e i dire ori dei principali fogli di opposizione socialista e repubblicana. Filippo Turati scappò in motoscafo da Savona: l’aiutarono Parri e Rosselli, ritornati in Italia dalla Corsica, e Sandro Pertini. Quest’ultimo accompagnò Turati a Parigi, poi rientrò da Nizza, ma fu arrestato e condannato a dodici anni di reclusione. Anche Parri e Rosselli vennero arrestati: il primo se la cavò alla fine con dieci mesi di carcere, mentre il secondo andò in confino a Lipari per cinque anni. Rosselli sarà ucciso nel 1937, insieme al fratello Nello, in una località termale transalpina da sicari della destra francese su mandato, si disse, di Galeazzo Ciano.

Il socialista Giuseppe Saragat riparò in Svizzera con la moglie Giuseppina, sposata da poco, e il figliole o di 5 mesi. Fuggì dall’Italia una moltitudine di intelle uali e politici antifascisti: da Giuseppe Donati, dire ore ca olico del «Popolo», a Gaetano Salvemini, da Ignazio Silone a Randolfo Pacciardi. Si parlò, complessivamente, di 10.000 persone. Piero Gobe i, l’enfant prodige della politica liberale e dell’editoria italiana, li aveva preceduti a Parigi nell’esilio (la moglie Ada e il figliole o Paolo, invece, erano rimasti in Italia) e nella morte (15 febbraio 1926, a 25 anni). Fierissimo oppositore del fascismo, resiste e ai sequestri sistematici delle sue riviste (ultima, la «Rivoluzione liberale») e alle bastonature patrocinate dai prefe i obbedienti al comando di Mussolini di «rendere difficile la vita a questo insulso oppositore di governo e fascismo». Scelse di proseguire in Francia la sua ba aglia editoriale, ma morì per una crisi cardiaca successiva a una bronchite. Le violenze subite ne avevano indebolito il fisico, già esile. Eugenio Montale, che con la casa editrice di Gobe i aveva pubblicato Ossi di seppia, era andato a salutarlo appena prima della partenza. Francesco Saverio Ni i e Giuseppe Prezzolini gli furono accanto negli ultimi giorni. Antonio Gramsci fu arrestato in casa sua a Roma la sera dell’8 novembre 1926, poche ore prima che entrassero in vigore le leggi eccezionali. Un mandato di ca ura era stato emesso già nel 1923, quando lui era a Mosca come rappresentante del giovane Partito comunista d’Italia al IV congresso dell’Internazionale. Quando i compagni andarono a cercarlo al lugubre hotel Lux e trovarono la sua stanza vuota, pensarono al peggio (Stalin non andava per il so ile). Finalmente «Nino» ricomparve e lasciò tu i interde i dicendo: «Per una no e ho voluto fare soltanto l’innamorato». (La sua donna era Giulia Schucht, una delle cinque figlie di un aristocratico russo antizarista. Il loro matrimonio ebbe risvolti drammatici, che abbiamo raccontato in L’amore e il potere. Ele o in Parlamento nel 1924, Gramsci avrebbe voluto che Giulia lo seguisse in Italia, dove rientrò coperto dall’immunità parlamentare. «Troverei le cose più ingegnose per farti sorridere» le scriveva. «Farei orologi di sughero e violini di cartapesta … e poi ti

g g p p abbraccerei e ti bacerei tante volte per sentirti tu a vivente in me, vita della mia vita come sei.» Ma Giulia – o Julca, come la chiama lui – non lo seguì.) La solitudine di Gramsci non era soltanto sentimentale: era un isolato nel suo stesso partito, di cui era diventato clandestinamente il segretario. Le sue polemiche con Stalin e Toglia i non gli avevano giovato e lo stesso storico ufficiale del Pci, Paolo Spriano, riconosce nel suo Gramsci e Gobe i che il partito non lo protesse. Mussolini ne valutava perfe amente la dimensione politica: «Quel sardo gobbo professore di economia e filosofia» disse «è un cervello indubbiamente potente». Dello stesso avviso furono i magistrati che nel 1928 l’avrebbero condannato a vent’anni e qua ro mesi di reclusione da scontare nel carcere di Turi: «Quel cervello non deve funzionare per vent’anni». Non c’erano carte a dimostrare che fosse lui il capo del Partito comunista d’Italia fino a quando, in quello stesso 1928, la prova la fornì un compagno, Ruggero Grieco, il quale gli scrisse una le era (ovviamente interce ata dalla polizia fascista) che ne rivelava il ruolo. Gramsci ne uscì distru o (le era «criminale, scellerata, famigerata» la definì). All’inizio degli anni Trenta il Duce scrisse alla segreteria di Stato vaticana di essere pronto a concedere la grazia a Gramsci, se l’avesse chiesta. Lui non lo fece, per non fornire al regime una formidabile occasione di propaganda. Il Vaticano patrocinò uno scambio di prigionieri con la Russia, ma il Cremlino non mosse un passo. Il 7 dicembre 1933, a Gramsci fu concesso di lasciare il carcere per la clinica Cusumano di Formia e, l’anno dopo, chiese e o enne la libertà condizionale. Alla fine, però, preferì restare in clinica, ormai libero dai piantonamenti. Fu poi trasferito alla casa di cura Quisisana, una delle più prestigiose di Roma, dove il 21 aprile 1937 gli fu comunicato che era un uomo libero. Amnistie e indulti avevano rido o a undici i vent’anni di reclusione. Sei giorni dopo, il 27 aprile, morì per un’emorragia cerebrale. Aveva 46 anni.

L’opposizione espulsa dalla Camera Mussolini giocò la partita con il consueto acume politico. La sua regola era di non cambiare mai programma dopo un a entato. Così come se n’era andato in Libia con il naso ferito dalla Gibson, dopo l’a entato di Bologna trascorse i previsti tre giorni di riposo nella sua Romagna. A chi chiamò villa Carpena, la casa di campagna dove si ritirava dopo le cerimonie, Rachele rispondeva: «Tu o passato. Sta suonando il violino…». Edificava così, pietra su pietra, il suo monumento. Tra il 5 e il 9 novembre venne scardinato quel che restava del contenuto liberale dello Statuto albertino. L’episodio più grave e definitivo fu la perdita del seggio dei deputati aventiniani. La proposta venne da Farinacci, e De Felice racconta che nemmeno una vecchia volpe come Antonio Salandra capì la gravità della situazione, pensando che i deputati dimissionati sarebbero stati rimpiazzati dai primi dei non ele i. Non aveva capito che il fascismo voleva parlare con una voce sola. In Vicende socialiste, Ezio Riboldi sostiene che Farinacci avrebbe voluto risparmiare i comunisti, che erano rimasti sempre corre amente in aula. Questa tesi, sposata da Indro Montanelli e Mario Cervi nel loro libro L’Italia li oria, non convince De Felice e altri storici. Secondo Riboldi, il re avrebbe insistito per la loro decadenza, non volendo fare figli e figliastri. La dolorosa realtà è che, ancora una volta, Vi orio Emanuele III non ba é ciglio. Più dignitoso il voto contrario di una decina di deputati e di una cinquantina di senatori quando le leggi eccezionali vennero so oposte al parere dell’aula sulla mozione proposta dal nuovo segretario del Pnf, Augusto Turati. Non ci furono fremiti d’indignazione nemmeno nella gran parte dell’opinione pubblica. I giornali politici di opposizione erano ormai scomparsi e i grandi quotidiani d’informazione, a cominciare dal «Corriere della Sera», erano in mani domestiche. Basti leggere l’edizione del quotidiano milanese del 10 novembre 1926. Titolo: La Camera delibera la decadenza dal mandato di 120 deputati d’opposizione e approva con 341 voti contro 12 il disegno di legge

sulla pena di morte (che Mussolini, bontà sua, non volle retroa iva). Fin qui la cronaca. Ma è il tono dell’articolo a far capire che i tempi erano cambiati. «La mozione Turati» si legge «è il corollario logico di una situazione assurda e paradossale.» Gli aventiniani venivano cacciati perché avevano «sabotato l’istituto parlamentare»; i comunisti perché, «pur avendo abbandonato l’Aventino, hanno nel loro programma il sovvertimento dello Stato e dei suoi organi costituiti». Un altro articolo (Dall’ovazione a Mussolini alle votazioni) dava conto dei lavori, non trascurando di riferire che un deputato socialista presentatosi all’ingresso di Montecitorio era stato cacciato dai fascisti, e un altro, che aveva preso posto nella tribuna degli ex parlamentari, aveva dovuto seguirlo. Lo stesso tra amento avevano subìto nel gennaio 1926 alcuni deputati aventiniani quando erano entrati alla Camera per la cerimonia funebre in onore della regina Margherita, vedova di Umberto I, e ne erano stati cacciati dai colleghi fascisti. L’opinione pubblica acce ò l’instaurazione della di atura con rassegnazione e, in buona parte, perfino con favore. I rapporti di polizia conservati nell’archivio del ministero dell’Interno dicono che le nuove leggi («severe ma giuste») furono in genere accolte «favorevolmente, con disciplina e con sollievo» sia dalla borghesia sia dai ceti proletari. Dai carteggi sindacali emerge una forte rassegnazione («Non possiamo che inchinarci»). Gli a entati a Mussolini avevano profondamente impressionato la gente e l’idea che si potesse tornare alla guerra civile di qualche anno prima spegneva ogni embrione di ribellismo.

E il Gran Consiglio scelse i deputati e ridusse i poteri del re Fra le tre grandi di ature nate in Europa nel secondo e nel terzo decennio del Novecento, l’unica a dover convivere con una monarchia fu il fascismo. L’Unione Sovietica di Stalin e la Germania di Hitler erano infa i repubblicane. (Anche la di atura di Franco in

Spagna era filomonarchica, ma quel paese non fu mai una «grande potenza».) Sappiamo che Vi orio Emanuele III non è mai stato un ostacolo alla nascita del fascismo e al suo consolidarsi come di atura. Eppure, la necessità di convivere con l’istituto monarchico ha invertito i rapporti tra il partito e lo Stato rispe o agli altri due più importanti regimi di atoriali. Renzo De Felice è stato il primo a rifle ere sul fa o che sia in Unione Sovietica sia nella Germania nazista lo Stato sarebbe stato fagocitato dal partito, mentre nell’Italia fascista si sviluppò un processo inverso: al centro del regime era lo Stato, con il partito confinato in una posizione subordinata e pronto, semmai, a essere sacrificato alla ragion di Stato. Anche se Mussolini e Vi orio Emanuele non si sopportavano, al Savoia faceva comodo restare al suo posto, sia pure con il progressivo abba imento delle proprie prerogative, e al Duce faceva comodo simulare un dualismo che tenesse a bada gli eccessi del suo partito. Sarebbe paradossale dire che Mussolini non si fidasse del fascismo, ma fu sempre abilissimo a distinguere i ruoli. A ento alla costruzione del proprio mito, non gli dispiaceva che molti dei suoi gerarchi fossero impopolari. Naturalmente, Mussolini fascistizzò lo Stato. Lo fece affidando ai prefe i – con i quali ebbe sempre un rapporto dire o – il ruolo di guardiani del regime. Ma, a enzione: i prefe i rispondevano al governo e non al partito. Essi avevano l’ordine di moderare gli squadristi, quando necessario, e di controllare che le iniziative locali non contrastassero con gli indirizzi del potere centrale. La fascistizzazione dello Stato raggiunse il culmine alla fine del 1928 quando il Gran Consiglio del fascismo diventò organo costituzionale. Il re s’imbufalì vedendo che l’amato Statuto albertino diventava carta straccia. Arrivando al Senato, la legge incontrò un forte fuoco di sbarramento. Per rispondere agli avversari (tra i più accesi, l’ormai ex dire ore del «Corriere della Sera» Luigi Albertini), Mussolini riesumò un celebre articolo della Dichiarazione dei diri i dell’uomo e del ci adino, approvata nel 1789 durante la Rivoluzione francese: «Tu e le costituzioni sono rivedibili perché nessuna generazione ha il diri o di assogge are alle sue leggi le generazioni che seguiranno». E si chiese

gg g g sarcasticamente che senso avesse continuare a fare la guardia al Santo Sepolcro: «Il Santo Sepolcro è vuoto. Lo Statuto non c’è più, non perché sia stato rinnegato, ma perché l’Italia d’oggi è profondamente diversa dall’Italia del 1848». Per chetare gli ultrà, il Duce fece una solenne dichiarazione di fedeltà monarchica. Ma poi raccontò che, da quel momento, egli ebbe nel Savoia un freddo e risoluto avversario. In realtà, il re mancò ancora una volta l’appuntamento con la dignità acce ando che il Gran Consiglio lo privasse della prerogativa di scegliere il capo del governo. Tra i poteri del nuovo organismo, infa i, c’era quello di so oporre al sovrano il nome del primo ministro e la lista stessa dei ministri. D’altra parte, la definitiva eliminazione di ogni apparenza democratica veniva certificata dal fa o che era il Gran Consiglio (e non più i partiti) a compilare le liste ele orali.

L’Ovra e la tela del «ragno» Bocchini La stru ura militare del fascismo si rafforzò con la riforma generale a uata dopo gli a entati al Duce del 1926, ai quali ne sarebbero seguiti altri negli anni successivi. Due furono le iniziative principali. La Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, nata nel 1923 per ingabbiare le camicie nere in una cornice paraistituzionale, diventò nel 1924 una forza armata come le altre e, all’inizio della guerra, sarebbe arrivata a contare 350.000 effe ivi. Il suo comandante era Benito Mussolini, e questo dice tu o. Fu poi istituita l’Opera di vigilanza e di repressione dell’antifascismo, un nome più morbido della sigla, Ovra, che al solo pronunciarla dava l’idea di un mostro implacabile. L’Ovra era la polizia politica del regime fascista, con 700 agenti che rispondevano al potentissimo capo della polizia Arturo Bocchini. Bocchini era il prototipo del meridionale intelligentissimo, abile, manovriero, prudente di cara ere, deciso all’occorrenza. Aveva fa o una carriera strepitosa, diventando giovanissimo prefe o: prima a Brescia, poi a Bologna (dove fu apprezzato da Arpinati) e

infine a Genova, dove lo pescò Federzoni per proporlo a Mussolini. Aveva soltanto 46 anni. Bocchini svecchiò la polizia, vietò ai funzionari di prendere la tessera del Pnf (cosa già proibita ai prefe i) ed ebbe il privilegio assoluto di riferire dire amente al capo del governo, che lo fece prima consigliere di Stato e poi senatore – sempre conservando l’incarico poliziesco – e gli mantenne il posto per qua ordici anni, fino alla morte prematura che lo colse nel 1940 all’età di 60 anni. Ogni agente dell’Ovra aveva i suoi informatori. Così, sull’Italia fu stesa una ragnatela di confidenti tipica di ogni di atura: portieri di condominio e d’albergo, tassisti, camerieri e quant’altro. La polizia politica aveva anche relazioni raffinate: vedremo nei prossimi capitoli i cospicui finanziamenti elargiti dal fascismo ad artisti e le erati. E quando qualcuno resisteva, o comunque si muoveva in modo sospe o, entravano in azione personaggi insospe abili. Il più abile spione fu il conte veneziano Giacomo Antonini, raffinato agente le erario. Roberto Festorazzi gli ha dedicato un libro, Il segreto del conformista, indicandolo come uomo chiave della trappola che costò la vita a Carlo e Nello Rosselli. Alla sua figura si sarebbe ispirato Alberto Moravia che, in Il conformista, parla di un agente segreto italiano che in Francia collabora all’individuazione dei fratelli Rosselli, poi uccisi da sicari francesi. Amicissimo di Mario Soldati – oscillante tra intimo antifascismo e collaborazione a riviste li orie –, Antonini fu un informatore di prima classe. La cosa sorprendente è che il conte non pagò mai pegno per la sua a ività spionistica. Nel dopoguerra, come agente le erario rappresentò in Francia, tra gli altri, lo stesso Moravia, che pure era cugino dei Rosselli, ed Elio Vi orini. Nulla sfuggiva agli agenti dell’Ovra: interce avano telefonate, aprivano le ere, vigilavano su tu i i conta i stranieri delle persone sospe e. Per testare l’umore dei ci adini, non mancavano di annotare le scri e nei bagni pubblici. «L’Italia» scrivono Montanelli e Cervi «fu avvolta da una fi a rete al centro della quale, come un ragno sornione e astuto, stava appunto Bocchini, che sapeva sempre tu o, e sovente non agiva pur sapendo.» Nessuno in periferia poteva compiere un arresto senza il suo consenso. Lasciava

p p apparentemente libertà di manovra ai personaggi minori dell’antifascismo affinché li conducessero ai capi. Bocchini, com’è ovvio, si sentiva personalmente responsabile della sicurezza di Mussolini. Qua ro a entati in dodici mesi non sono pochi. E se altri non furono mai portati a compimento, fu perché per molti anni l’antifascismo restò in sonno e perché la vigilanza sul Duce si era molto rafforzata. Da quando, il 22 luglio 1925, Mussolini lasciò il vecchio appartamento di via Rasella per trasferirsi a villa Torlonia, il percorso – non breve, prima per palazzo Chigi e poi per palazzo Venezia – fu presidiato a ogni passaggio da decine di agenti della «presidenziale». Gli stessi che servivano ai banche i in divisa da valle i, nuotavano accanto a lui in mare, si mescolavano tra la folla nelle manifestazioni. Una volta, a un raduno campestre erano così numerosi che dal palco il Duce sbo ò: «Si facciano avanti i veri agricoltori…». I rapporti della polizia politica, che non rispondeva a prefe i e questori ma solo al Duce per il tramite di Bocchini, finivano al Tribunale speciale per la difesa dello Stato, composto di se e membri: un presidente scelto tra i generali delle forze armate (ce ne furono soltanto tre fra il 1926 e il 1943), cinque consoli della Milizia e un magistrato militare, che fungeva da relatore senza diri o di voto. Le denunce dell’Ovra venivano valutate dalla sezione istru oria del Tribunale: potevano concludersi con il proscioglimento dell’imputato, il suo rinvio a giudizio dinanzi alla magistratura ordinaria o – nei casi più gravi – dinanzi al Tribunale speciale stesso. In diciasse e anni di a ività, il Tribunale esaminò 5584 casi (o 5619, secondo altre fonti), una media di 328 l’anno: 988 persone furono assolte, 4596 condannate, in media a sei anni di carcere. Durante il fascismo ci furono se e amnistie. Quella del 1932, nel decennale della marcia su Roma, mise in libertà migliaia di detenuti politici condannati dal Tribunale speciale o in a esa di giudizio (scesero complessivamente da 1581 a 405) o inviati al confino. Fino all’autunno del 2020 il numero acquisito delle sentenze di morte eseguite nei diciasse e anni di a ività del Tribunale speciale

g p erano 31, di cui 26 a carico di ci adini italiani di lingua slovena che comba evano per riportare le loro terre ai confini precedenti la prima guerra mondiale e 5 ai danni di responsabili di reati schie amente politici (fra i condannati a morte c’erano due a entatori di Mussolini). Poi, in Giustizia fascista, lo storico Leonardo Pompeo D’Alessandro ha rifa o i conti a ingendo ai 17 volumi di sentenze pubblicate dall’ufficio storico del ministero della Giustizia: le sentenze capitali pronunciate dal Tribunale speciale salgono a 77, di cui 62 eseguite (resta fermo il numero di 26 esecuzioni di ci adini di lingua slovena, autori di incendi ad asili e scuole, oltre che di omicidi e tentati omicidi contro le forze dell’ordine e della Milizia). Inoltre, D’Alessandro ha allargato lo spe ro: si vede così che tra il 1928 e il 1940 le esecuzioni furono soltanto 11 (quasi tu e ai danni di ci adini delle terre orientali), mentre le altre avvennero durante la guerra per reati come spionaggio e sabotaggio. Nel suo libro D’Alessandro riporta l’osservazione della storica e filosofa tedesca Hannah Arendt, fuggita negli Stati Uniti per scampare alle persecuzioni naziste, sul «numero sorprendentemente basso e la relativa mitezza delle condanne infli e agli avversari politici» dal fascismo italiano, per poi concludere come ciò fosse «assolutamente inconcepibile in un regime di terrore totalitario».

II

Churchill disse: «Sono affascinato da Mussolini»

L’olio di ricino rinforzò la lira Mussolini scelse Pesaro per caso. La sua famiglia trascorreva come sempre le vacanze a Riccione, e lui ne approfi ava per girare qui e là, tra San Marino e Cagli, spesso sulla sua automobile rossa, intra enendosi con i casellanti quando il passaggio a livello era chiuso. Lo seguivano da vicino operatori dell’Istituto Luce, la prima azienda pubblica di dida ica e propaganda cinematografica al mondo, che aveva fondato nel 1925. Il 18 agosto 1926 il Duce decise di fermarsi qualche ora a Pesaro dove, dal balcone del palazzo delle Poste, pronunciò un discorso brevissimo che diede una forte scossa ai mercati finanziari: «Voglio dirvi che noi condurremo, con la più strenua decisione, la ba aglia economica in difesa della lira. Da questa piazza a tu o il mondo civile dico che difenderò la lira fino all’ultimo respiro, fino all’ultimo sangue». («La lira è veramente la mia ossessione» si era sfogato in quei giorni con Gabriele d’Annunzio.) L’Italia non stava male. Prima di essere licenziato per far posto al conte Giuseppe Volpi di Misurata, il ministro del Tesoro Alberto De Stefani aveva portato in tre anni il bilancio dello Stato in avanzo. L’italiano medio era arrivato a consumare 3000 calorie al giorno: è vero che l’alcol ne era una componente essenziale, ma quel livello calorico – sia pure con un’alimentazione enormemente migliorata – sarebbe stato di nuovo raggiunto soltanto nel 1967, alla fine del «miracolo economico». Eppure, l’Italia soffriva di una grave fragilità finanziaria di fondo. Tra la metà del 1925 e la metà del 1926 erano fallite 35 piccole banche, e dall’estero si guardava con preoccupazione alla debolezza della lira.

Quando Mussolini andò al potere, per comprare 1 sterlina occorrevano tra le 90 e le 93 lire. In qua ro anni, il cambio era precipitato a 150, e i nemici del Duce si erano messi a mangiare pop corn, diremmo oggi, per assistere in poltrona alla disfa a economica del regime. I profeti di sventura avevano uno sponsor di straordinaria autorevolezza, John Maynard Keynes: «La lira non obbedisce nemmeno a un di atore, né si può darle per questo l’olio di ricino». In Mussolini, l’uomo e l’opera, due agiografi del regime fascista come Giorgio Pini e Duilio Susmel affermano che, appena il Duce ebbe pronunciato l’ultima parola del discorso di Pesaro, la sterlina cominciò a deprezzarsi, come il muto che tornò a parlare un istante dopo che il Signore ebbe scacciato il demonio che lo possedeva (Ma eo 9,32-34). In realtà, occorsero due se imane perché il cambio scendesse da 148 a 134, per precipitare o o mesi dopo (aprile 1927) a 86 lire e stabilizzarsi poi intorno a «quota 90», che era il benchmark della vi oria. Per raggiungere questo risultato, l’economia italiana dove e ingoiare fiumi di olio di ricino. Come annotammo in Il Palazzo e la piazza, la formidabile stre a creditizia bancaria portò alla ricerca della liquidità per altre vie: la vendita di azioni, che provocò un crollo dei valori di borsa, e una forsennata richiesta di rimborso dei titoli di Stato in scadenza. Il Tesoro reagì convertendo tu i i titoli di durata inferiore ai 7 anni in un prestito forzoso con rendita annua del 5 per cento (il cosidde o «prestito del Li orio»). E i risultati furono clamorosi: in dieci mesi il valore del debito a breve termine in possesso di banche e ci adini precipitò da 27 a 6 miliardi di lire, e la bilancia commerciale fece registrare un apprezzabile miglioramento, dovuto a un calo delle importazioni ne amente superiore a quello delle esportazioni. Per affrontare questa sfida, Mussolini si avvalse dell’opera di un geniale uomo di economia e di finanza, Alberto Beneduce, che incontreremo a lungo nel prossimo capitolo. Per raggiungere la famosa «quota 90» con la sterlina, scrivemmo in Il Palazzo e la piazza, Beneduce – su mandato del nuovo ministro delle Finanze Volpi di Misurata – «prima negoziò con la J.P. Morgan un prestito

p p g g p obbligazionario di 100 milioni di dollari, il più ingente passato in quegli anni sul mercato americano, poi scoraggiò le grandi banche dalla speculazione contro la nostra moneta nazionale, operazione giudicata essenziale da Mussolini. Convinse, infine, il governatore della Banca d’Inghilterra a far entrare la lira nel sistema aureo e a recedere alla richiesta della “quota 100 lire per una sterlina”, che gli inglesi consideravano la loro “linea del Piave”, infliggendo così uno smacco memorabile alla Francia, che penava assai più di noi sui mercati finanziari internazionali. (Per inciso, Beneduce fece tu o questo conoscendo soltanto qualche parola d’inglese, lingua peraltro del tu o ignota al governatore della Banca d’Italia Bonaldo Stringher.)». Il costo sociale dell’operazione fu elevato. Le imprese aumentarono le ore di lavoro a parità di salario, o ridussero la paga di una percentuale oscillante tra il 20 e il 30 per cento. I disoccupati, che nei primi anni del regime erano scesi a 100.000, triplicarono. I prezzi all’ingrosso crollarono del 30 per cento e i de aglianti furono «patrio icamente» convinti a adeguarsi. Nonostante Luigi Einaudi sostenesse che in un paese come l’Italia, ancora agricolo per oltre il 50 per cento, fosse facile reimpiegare nei campi una parte dei disoccupati, il malcontento era forte e Mussolini, molto preoccupato, scriveva a Volpi di Misurata: «Bisogna evitare di morire per troppa salute rivalutativa». Nel 1928, quando fu sostituito da una personalità più docile, Volpi di Misurata rivendicò «l’avanzo chiaro e definitivo» del bilancio dello Stato, la riduzione e il consolidamento del debito pubblico, la chiusura dei grandi conti di guerra e dopoguerra, la «ristabilita parità aurea della moneta». In L’economia dell’Italia fascista Gianni Toniolo gli rimprovera di aver dimenticato i costi sociali dell’operazione, ma riconosce che «rispe o agli obie ivi che si proponeva, la deflazione selvaggia del 1927 ebbe un innegabile successo». Nonostante nel giro di un anno la lira si fosse rivalutata del 52 per cento, gli interventi su prezzi e salari «produssero l’incredibile risultato di una lira nuovamente so ovalutata rispe o alla parità di potere d’acquisto con il dollaro. L’olio di ricino aveva prodo o il suo effe o».

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Spargo: «Mussolini, l’uomo più straordinario del mondo» Malgrado la stre a finanziaria per la rivalutazione della lira, nei primi se e anni del regime (1922-29) l’Italia visse una sorta di «miracolo economico». Il reddito nazionale crebbe del 20 per cento e la produzione industriale raddoppiò (da 100 a 202, secondo l’indice di Confindustria). Una robusta campagna di propaganda politica, unita a una cinica gestione dei dazi, aveva fa o esplodere i consumi di beni nazionali. I treni arrivavano in orario, stupendo gli osservatori stranieri. E, quel che è più sorprendente, il completo risanamento delle ferrovie (riorganizzazione del sistema e rinnovo degli impianti) portò dapprima al pareggio di bilancio e, nel 1925, a un utile di 350 milioni di lire. Nel 1929 la linea ele rificata aveva raggiunto i 2100 chilometri, il triplo rispe o a quella di quindici anni prima. Furono ingranditi e potenziati i porti di Genova, Trieste e Napoli, oltre alla zona industriale di Marghera. Nel 1928 nacque l’Azienda autonoma strade statali (antenata dell’Anas), che due anni dopo faceva investimenti per 1,2 miliardi: sommati ai 2 miliardi stanziati per opere pubbliche nel biennio precedente, annota Salvatore La Francesca in La politica economica del fascismo, costituiscono una cifra rilevantissima, visto che il bilancio dello Stato era di soli 20 miliardi. «In complesso gli anni Venti» scrive l’economista Vera Zamagni in Dalla rivoluzione industriale all’integrazione europea «furono abbastanza positivi per l’economia italiana, che vide la sua produzione industriale aumentare un po’ in tu i i se ori, particolarmente in quello chimico.» Ma già trent’anni prima, nel suo libro L’economia italiana. 1945-1970, un maestro di scuola marxista come Augusto Graziani aveva riconosciuto che «nel corso del ventennio fascista l’industria italiana aveva subìto alcune sensibili modificazioni qualitative, e, accanto ai se ori tradizionali, aveva sviluppato alcune produzioni più moderne, specie nel se ore della chimica, dei prodo i petroliferi e delle fibre sintetiche». Nonostante nel 1927 fosse ormai a tu i gli effe i un di atore, Mussolini era apprezzato da statisti e giornali stranieri. Il 15 gennaio riceve e a palazzo Chigi Winston Churchill, in quel

momento cancelliere dello Scacchiere, cioè ministro delle Finanze del governo britannico. Churchill «si presentò senza sigaro, né mai ne accese uno durante il colloquio che durò un’ora di orologio» racconta Quinto Navarra in Memorie del cameriere di Mussolini. (In realtà, Navarra non è mai stato il cameriere di Mussolini. Era primo commesso al ministero degli Esteri, quando nel 1922 il Duce ne prese l’interim. Fu amore a prima vista e Navarra lo seguì fino a Salò, presidiando la sua anticamera. Finita la guerra, fu ricercato dai partigiani che, per errore, fucilarono un altro al suo posto. Lo scovarono, paralizzato dal terrore, Indro Montanelli e Leo Longanesi, che aveva appena aperto una casa editrice. Parola dopo parola, ne cavarono alla fine un fiume di ricordi, raccolti in un libro fondamentale per conoscere cara ere, abitudini, amori di Mussolini. A cose fa e, Longanesi sentenziò: «Mussolini non sarà l’eroe di cui parla Navarra, ma nemmeno il coglione che volevamo noi…».) Ma torniamo a Churchill. L’indomani il Duce ne ricambiò la visita all’ambasciata britannica e fu l’ultima volta che i due s’incontrarono. In una conferenza stampa tenuta qualche giorno dopo, il cancelliere britannico dichiarò di apprezzare la vi oria italiana contro «gli appetiti bestiali del leninismo», sostenne che «è perfe amente assurdo dichiarare che il governo italiano non si posi su una base popolare o che non sia sorre o dal consenso a ivo e pratico delle grandi masse». Concluse dicendosi «affascinato» da Mussolini: «È facile accorgersi che l’unico suo pensiero è il benessere durevole del popolo italiano». Sempre nel gennaio 1927 George Bernard Shaw scrisse sul «Daily Mail»: «Il popolo era tanto stanco dell’indisciplina e della vacuità parlamentare, che sentiva il bisogno di una tirannia efficace. L’onorevole Mussolini è il suo adorato tiranno». E il 18 maggio lo storico John Spargo – biografo di Karl Marx e cofondatore del Partito socialista americano, poi passato ai repubblicani – si profuse in complimenti sul «New York Times»: «Mussolini oggi è l’uomo più straordinario del mondo e la sua figura è così dominante che nessuno studioso di storia può considerarla con indifferenza».

Samuel Sidney McClure, celebre giornalista investigativo americano di origine irlandese, si recò a Milano a esaminare o o annate del «Popolo d’Italia», dal 1914 al 1922. Scrisse ad Arnaldo, fratello di Benito e dire ore del giornale, che la storia di quegli anni era «stupefacente» e concluse: «Amo vostro fratello più di ogni altro uomo che io abbia incontrato, ecce uato Theodore Roosevelt, che ho servito per trent’anni». Perché accadeva tu o questo? Ancora una volta occorre guardare la carta geografica. L’Italia è sempre stata considerata un paese strategico per gli equilibri mondiali. Se nel primo dopoguerra nel Partito socialista italiano avesse prevalso la maggioranza leninista, il nostro paese sarebbe stato perduto per l’Occidente. Per politici e osservatori occidentali, quindi, la soppressione della libertà politica in Italia per opera di un di atore amico dell’Occidente era preferibile alla scelta bolscevica, che difficilmente avrebbe garantito la diale ica democratica.

Ossequio e fedeltà dei giornalisti al Duce Come ogni di atura che si rispe i, anche il fascismo non prevedeva il dissenso. O meglio, non prevedeva il dissenso contro il regime, perché all’interno del regime il dissenso c’era, eccome. I ras si comba evano tra loro e nel partito esistevano perfino linee politiche diverse, raccordate dalla mediazione del Duce. «L’opposizione non è necessaria al funzionamento di un sano regime politico» diceva Mussolini. «È stolta, superflua, in un regime totalitario come il regime fascista. In Italia non c’è posto per gli antifascisti: c’è posto solo per i fascisti e gli afascisti quando siano ci adini probi ed esemplari.» Le libere professioni erano appunto «libere», ma senza la tessera del Partito fascista certe carriere pubbliche erano precluse. La stampa doveva muoversi di conseguenza. I dire ori di giornale erano rigorosamente fascisti. Il 28 novembre 1925, costre o a lasciare con il fratello Alberto la direzione e la gerenza del «Corriere della Sera», Luigi Albertini scrisse nell’editoriale di

commiato di essere stato forzato alla resa. Non aveva mezzi sufficienti per acquisire la quota maggioritaria dei fratelli Crespi e, quand’anche l’avesse avuta, il «Corriere» avrebbe dovuto prevedibilmente sospendere le pubblicazioni. Ad Albertini succede ero Pietro Croci, corrispondente da Parigi, e, qua ro mesi dopo, Ugo Oje i. Ebbene, ecco il telegramma che un intelle uale raffinato come Oje i scrisse a Mussolini quando dove e a propria volta cedere la direzione del giornale: «Lascio la direzione del “Corriere della Sera” alla quale due anni or sono ebbi l’onore di essere chiamato dalla fiducia di Vostra Eccellenza. A Lei, Capo del Governo e del Fascismo, ripeto oggi il mio ossequio e la mia fedeltà». Nella risposta Mussolini gli diede a o di aver portato il giornale «sempre più vicino alla realtà incrollabile del Regime». Così stavano le cose. Il 26 se embre 1928 venne inviata ai prefe i una circolare sulla «Disciplina delle pubblicazioni periodiche». Scontato che per i discorsi del Duce, per quelli del segretario del Partito fascista e per le riunioni del Gran Consiglio i giornali dovessero a enersi scrupolosamente ai comunicati ufficiali trasmessi dall’agenzia Stefani (madre della democratica Ansa), la circolare proibiva di parlare di suicidi, tragedie passionali, violenze e a i di libidine su minorenni, nudi femminili e perfino degli incidenti ferroviari. Il 10 o obre Mussolini chiamò a rapporto se anta dire ori di quotidiani e li accarezzò con queste parole: «Le vecchie accuse sulla soffocazione della libertà di stampa da parte della tirannia fascista non hanno più credito alcuno. La stampa più libera del mondo intero è la stampa italiana [sic]». La sua tesi era questa: altrove la stampa è asservita a plutocrati e partiti, condannata alla pubblicazione di notizie eccitanti. Meglio «il giornalismo italiano che è libero perché serve soltanto una causa e un regime». Ancora: «I giornali sono come gli elementi di un’orchestra: qui gli archi, là gli o oni. Quando si dà il “la”, prorompe la piena e divina armonia». E chi dava il «la»? Il regime, naturalmente. Nel suo discorso ai dire ori, Mussolini si occupò certamente di linea politica e cose affini («Non servono il regime coloro i quali, non controllandosi, forniscono alimento alla causa degli

g avversari»), ma da consumato giornalista entrò nei de agli degli argomenti da evitare. Rimproverò l’«eccessivo spazio alla cronaca nera che deve essere lasciata ai commissari verbalizzanti delle Questure». Protestò per la morbosità con cui veniva rilanciata la vecchia storia della morte misteriosa di Rodolfo d’Asburgo, 31 anni, trovato cadavere come la sua amante di 17 nel castello di Mayerling. Si scandalizzò per lo spazio riservato alla «Venere nera» Joséphine Baker, e altro ancora. L’indomani i grandi giornali fecero a gara nell’inginocchiarsi. Basti per tu i il «Corriere della Sera». Apertura su cinque colonne in prima pagina: La missione del giornalismo illustrata dal Duce ai se anta dire ori dei quotidiani del Regime. Per loro stessa ammissione, i giornali erano parte integrante del regime fascista. Titolo dell’articolo di fondo: Una lezione di vita. La gratitudine dei giornalisti per il fascismo aveva anche motivazioni pratiche: fu Mussolini a istituire l’albo professionale, il contra o di lavoro, l’istituto di previdenza. I dire ori (e non solo) venivano pagati benissimo: quando nel 1929 Andrea Torre lasciò la direzione della «Stampa», dopo poco più di due anni, il senatore Giovanni Agnelli gli corrispose in ventiqua r’ore una liquidazione pari a 800.000 euro al cambio statistico, cifra assai superiore se si guarda al potere d’acquisto. I grandi industriali proprietari dei giornali erano a entissimi a ingraziarsi il regime e, quando provavano a prendersi qualche libertà, accadevano equivoci come quello tra Agnelli e Torre, raccontato da Paolo Murialdi in La stampa italiana nell’età fascista. «Lei mi dichiarò più volte di non essere fascista e di non volere un giornale fascista» scrisse Torre ad Agnelli. «Io dichiarai che per coscienza e dovere avrei fa o un giornale sinceramente fascista.» Agnelli, ovviamente, smentì: «Dissensi politici non sono stati possibili, perché io non reputai mai opportuno comunicare a Lei le mie opinioni». Al posto di Torre, il senatore scelse Curzio Malaparte: esa amente la scelta intelligente e stravagante che avrebbe fa o, se fosse stato al suo posto, il nipote Gianni. Malaparte era la figura più geniale del regime, interprete, insieme a Leo Longanesi e Mino Maccari, del fascismo strapaesano e di «sinistra». Ma dove e me erlo alla porta due anni dopo perché profumava di eresia.

p p p p A Torino, Malaparte aveva conosciuto Virginia Agnelli, la bella e raffinata moglie di Edoardo, figlio del senatore, e madre di Gianni. Quando il marito morì nel 1935, Virginia avviò con lui una lunga e appassionata relazione, fortemente ostacolata dal suocero, che fece di tu o per toglierle la potestà sui figli, senza riuscirvi. I fratelli Crespi fecero una scelta meno geniale, di certo però più solida, chiamando alla direzione del «Corriere della Sera» Aldo Borelli, fascista convinto (era seniore della Milizia), ma anche giornalista di larga e consolidata esperienza. Come racconta in Da Mussolini alla Callas Emilio Radius, che lavorò con lui, Borelli era un gran borghese meridionale, colto, abile, «amaramente realista e ricco di umanità». L’ideale per servire il regime e, al tempo stesso, accontentare la borghesia milanese, che nel «Corriere» si è sempre riconosciuta. I Crespi lo pescarono alla «Nazione» di Firenze, che dirigeva, e lo tennero per qua ordici anni. Mussolini resiste e, invece, alle pressioni dei fascisti più duri che volevano dagli editori Perrone il licenziamento del dire ore del «Messaggero» Pier Giulio Breschi in cambio di favori nell’industrializzazione di Ostia. Breschi era forse massone e, comunque, «un fascista di cui fidarsi poco», ma il Duce lo salvò.

Margherita Sarfa i, madre e amante del fascismo «Guai se non vi fosse la valvola di sicurezza della compagnia femminile nella vita di un uomo destinato a salire e perciò isolato, alieno all’ambiente in cui vive.» Margherita Sarfa i scrisse questa citazione autobiografica in Dux, una biografia in presa dire a di Mussolini che tra il 1925 e il 1926 contribuì in modo determinante alla sua popolarità internazionale. Una generazione di giornalisti entrò in sonno con l’avvento della di atura e un’altra fiorì so o il controllo occhiuto del regime. Margherita fu una primula. Se Benito fu il padre del fascismo, lei ne fu la madre e la musa per dicio ’anni, dal 1918 al 1936. Mussolini frequentò un esercito di donne, ma nessuna ebbe con lui un rapporto così intenso e decisivo. «L’amore di Benito per quella

scri rice fu nuovo e profondo a mio parere» scrive una fonte insospe abile come la sorella del Duce, Edvige, in Mio fratello Benito «perché riuscì a domare le disposizioni più vere del suo animo e della sua mente, perché egli amò, in quella occasione, anche le qualità o i dife i femminili verso cui era rimasto prima, e sarebbe tornato dopo, sprezzante.» Rachele la odiava, ma nel suo libro di memorie Benito il mio uomo fu costre a ad amme ere: «Ho tanto sofferto per quella donna. Non che avessi paura di lei. Fino all’ultimo Benito mi ripeté che se avesse avuto una moglie troppo istruita, magari una professoressa, non avrebbe potuto salire come con me al suo fianco. Ma molti venivano a dirmi: “Mussolini si lascia influenzare dalla Sarfa i” e questo proprio non lo sopportavo». Si erano conosciuti nel 1912, quando Benito era da poco diventato dire ore dell’«Avanti!». Fu il marito di Margherita a presentarli. Lei aveva 32 anni, tre più di lui. Esponente di una ricca famiglia di ebrei veneziani, inquieta fin dall’adolescenza, per fuggire dalla prigione dorata di palazzo Bembo, sul Canal Grande, aveva sposato a 18 anni, dopo tre di fidanzamento, Cesare Sarfa i, avvocato ed ebreo anche lui, con qua ordici anni più di lei. La villa di campagna della Sarfa i, Il Soldo, sul lago di Como, era frequentata dalla crema degli intelle uali che vivevano a Milano o vi transitavano: Umberto Boccioni e Luigi Pirandello, Ada Negri e Corrado Alvaro, Alfredo Panzini e Medardo Rosso. Mussolini la raggiungeva spesso al volante di un’auto sportiva e, qualche volta, portava Margherita a spasso in giri romantici senza altra meta che una locanda dove passare il pomeriggio o la no e. Il matrimonio non vincolava la Sarfa i, come non vincolava il marito. Sarà nella villa dei Sarfa i che verrà programmata la marcia su Roma e sarà Margherita a pagare il biglie o del vagone le o che, la no e sul 30 o obre 1922, portò Mussolini a Roma per ricevere dal re l’incarico di formare il nuovo governo. All’inizio del 1918 la morte eroica di Roberto, il maggiore dei suoi tre figli, volontario degli alpini a 17 anni, la consacrò alla ba aglia nazionalista al fianco del futuro Duce. L’amore tra i due esplose subito, travolgente.

p g Nata a Milano, la relazione amorosa si trasferì nella capitale. All’inizio era Margherita ad andare al Grand Hotel dove abitava il Duce, ma il viavai fu presto scoperto e il piano dove si trovava la camera di Mussolini si affollò di polizio i travestiti da camerieri, fa orini, inservienti. Benito fu costre o a traslocare in un appartamento di via Rasella, fra il Tritone e il Quirinale, dove una governante energumena, Cesira, scelta dalla Sarfa i e denominata da Gabriele d’Annunzio «Suor Salutevole», filtrava il traffico femminile. Margherita non era gelosa: non voleva l’esclusiva del corpo di Benito, ma della sua testa. Lui, d’animo più semplice, diede di ma o quando scoprì un suo flirt con il giovane e bellissimo pi ore futurista Emilio No e, ordinandole di non recensirne più l’opera sul «Popolo d’Italia». Anche la casa romana della Sarfa i in via dei Villini, al Nomentano, era un crocevia culturale di primissimo livello. La sua collaborazione all’organo di stampa del regime fu lunga e prestigiosa. Nel fra empo Rachele bolliva come una pentola e si esercitava al tiro con la pistola nel giardino di villa Torlonia, dove la famiglia si era trasferita nel novembre 1929, rispondendo a chi gliene chiedeva le ragioni: «Mi alleno per ammazzare quell’ebrea…». Bugiardo come tu e le persone con una doppia vita, Benito aveva giurato alla moglie che la Sarfa i aveva cessato la collaborazione al «Popolo d’Italia» e aveva percepito la liquidazione. Nel 1931 Rachele scoprì la menzogna. Lesse la firma proibita mentre si trovava a Merano con la madre di Galeazzo Ciano, il marito di sua figlia Edda, per curare un esaurimento nervoso. Corse a un ufficio postale e riempì il modulo dei telegrammi d’insulti disumani. Quando l’impiegata lesse che quelle righe erano indirizzate al capo del governo, si rifiutò di trasme erle fino a quando Rachele l’assalì gridando: «Sono la moglie del Duce!». (Dieci anni prima, quando nel 1921 Mussolini si ferì seriamente in un incidente di volo, la Sarfa i gli era piombata in casa. In quella circostanza Rachele pensò seriamente di bu arla dalla finestra, come confessa lei stessa in Mussolini privato.)

In parecchie occasioni la Sarfa i si rivelò indispensabile al Duce: dall’insegnamento delle buone maniere a tavola ai consigli d’abbigliamento per evitargli di esplodere dentro un tight, dal conforto per l’ina esa sconfi a ele orale nel 1919 al determinante sostegno psicologico dopo il deli o Ma eo i nel 1924. Un anno dopo quel momento tremendo la Sarfa i pubblicò in Inghilterra The Life of Benito Mussolini, di cui Giuseppe Prezzolini fu lo sponsor editoriale. Il successo fu travolgente. Il libro venne trado o in dicio o lingue, compreso il turco e il giapponese, e vende e parecchi milioni di copie. Alcuni gerarchi insorsero, considerandola un’operazione sbagliata. Il Duce, che aveva rivisto le bozze con grande cura e scri o la prefazione, diede loro un contentino, e Arnoldo Mondadori, che se ne era assicurato i diri i italiani, dove e aspe are il 1926 per pubblicarlo so o il titolo ben più intrigante di Dux, dal nome del celebre busto di Adolfo Wildt riprodo o nel libro. Vendendone 1 milione di copie. «Questo libro mi piace perché mi proporziona nel tempo, nello spazio e negli eventi» scrive il protagonista nella prefazione, dopo aver celiato di detestare le proprie biografie. «A Benito il libro non piacque» scrive invece Rachele nelle sue memorie. È una bugia, con due a enuanti: la gelosia e la rabbia per i colossali diri i d’autore riscossi dall’amante di suo marito grazie a suo marito. «Il valore del libro» so olinea Pierre Milza nella sua biografia di Mussolini «sta anche nello scoprire, in un’opera destinata a trasfigurare in eroe il fondatore del fascismo, alcuni passaggi che rivelano determinate debolezze del suo cara ere, si tra i della sua incapacità di circondarsi di veri amici, della sua ossessione per il tradimento, della sua eccessiva tendenza all’autocompassione e, sopra u o, della sua immensa superstizione.» Nel 1935, alla vigilia della campagna d’Etiopia, la Sarfa i scrisse a Mussolini: «Lei ha abbastanza già da colonizzare nelle Puglie, in Sicilia e in Calabria … Se Lei va in Abissinia, allora cadrà nelle mani dei tedeschi e Lei è perduto». Come sappiamo, il Duce andò per la sua strada, nonostante lei si fosse sbracciata nell’aprirgli solide relazioni occidentali. Il loro rapporto finì in modo umiliante per Margherita. Nella tarda

pp p g primavera del 1936 la Sarfa i si presentò a palazzo Venezia, dove negli anni precedenti il commesso Navarra aveva fa o acrobazie per non farla incontrare con Clare a Petacci. Dopo due ore di anticamera, le comunicò che il Duce non l’avrebbe ricevuta. Espatriata in seguito alle leggi razziali, rientrò in Italia nel 1947. Ai giornalisti che l’assalirono dichiarò: «Ho creduto in Mussolini fino a quando ha dimostrato di essere coerente. Dopo la guerra d’Africa, non più». Vende e per 120.000 dollari (pari a circa 200 milioni di euro) a un chirurgo plastico americano le le ere che Mussolini le aveva scri o. Bruciante il commento di Rachele: «A un americano? Non me ne meraviglio. Era una donna interessata». Margherita Sarfa i morì nel 1961, a 81 anni, nella sua villa sul lago di Como. Ricordandola sul «Giornale d’Italia», Irene Brin commentò: «Su di lei sono state scri e tante inesa ezze. Ad esempio nessuno ha spiegato che è stata bellissima…».

La campagna demografica e la tassa sul celibato Il terzo obie ivo che il Duce si propose a metà degli anni Venti, dopo la rivalutazione della lira e la «ba aglia del grano», fu lo stimolo all’incremento demografico. «Il numero è potenza» disse nel discorso dell’Ascensione il 26 maggio 1927. Due anni prima aveva lanciato la «modernizzazione della maternità», ordinando che in ogni comune italiano ci fossero un consultorio materno e un ambulatorio ostetrico con sala parto e sala operatoria. Il 90 per cento dei parti avveniva in casa, con la sola assistenza dell’ostetrica (quando c’era) e in condizioni igieniche spesso alquanto approssimative. Di qui il dilagare delle infezioni neonatali. Non tu e le levatrici erano in grado di affrontare situazioni critiche e la mortalità infantile era elevatissima. (Nel 1927, in Italia, 200 bambini su 1000 morivano prima dei 5 anni, contro i 130 della Francia e i 75 della Svezia. Oggi siamo so o il 6 per 1000 ovunque.) A tutela di madri e figli in difficoltà fu istituita l’Opera nazionale per la maternità e l’infanzia, che ebbe fortuna

anche nel dopoguerra, tanto da essere soppressa soltanto nel 1975, quando la sua a ività fu assorbita dal Servizio sanitario nazionale. Il regime aprì scuole d’ostetricia, stimolò la specializzazione dei medici in quel se ore, moltiplicò gli asili pubblici, istituì le camere di alla amento nelle fabbriche. Certo, i suoi sforzi non furono sufficienti, ma la maternità beneficiò ogge ivamente di maggiori tutele e la qualità dell’assistenza migliorò radicalmente. Ci furono anche premi di natalità, contributi alle famiglie numerose e matrimoni colle ivi, per risparmiare sulle spese e prestarsi alla propaganda dei cinegiornali. Nel 1927 fu istituita la tassa sul celibato, rimasta in vigore fino al governo Badoglio. Il contributo più oneroso (tra i 25 e i 35 anni) era di 100 lire (85 euro), che si dimezzava a 50 anni e si annullava dopo i 65. Successivamente tale imposta fu aumentata in proporzione al reddito personale. Negli anni Venti l’Italia aveva 40 milioni di abitanti, Mussolini puntava ad arrivare a 60 milioni nella seconda metà del Novecento. (Il traguardo sarebbe stato raggiunto solo nel primo decennio degli anni Duemila.) Nella no e tra il 26 e il 27 se embre 1927, nel pieno della campagna demografica, Rachele diede alla luce Romano. Arrivò nove anni dopo Bruno, preceduto a sua volta da Edda e Vi orio, e seguito due anni dopo da Anna Maria. Romano era il primo figlio del regime. Il papà di Bruno e di Vi orio (1916) era soltanto il dire ore del «Popolo d’Italia», il papà di Edda (1910) soltanto il segretario della federazione socialista di Forlì, il papà di Romano era il «Capo del Governo e Duce del Fascismo». 
Allora non esistevano le ecografie e non era possibile conoscere il sesso del nascituro prima del parto. Ma Mussolini ordinò che fosse maschio, e così fu: «Voglio che il bambino – perché sono sicuro che sarà maschio – nasca in Romagna. Deve essere un romagnolo, come suo padre e suo nonno». Quando si sentì prossima al parto, Rachele lo avvertì, e il marito ne approfi ò per divorare con la sua Alfa Romeo rossa i 400 chilometri che separano Roma da Carpena, dove c’erano villa e tenuta. Portò un corredino e un fascio di telegrammi di felicitazioni già pervenuti. Scrisse Mussolini nel suo diario: «A mezzano e la porta della mia stanza si apre. Una fantesca irrompe con una creatura tra le

p p braccia e grida: “Signor presidente, è nato! È un maschio! Un bel maschione!” … Vado nella stanza di mia moglie. È esangue, ma tranquilla e fiera» (Giorgio Pini e Duilio Susmel, Mussolini, l’uomo e l’opera). «Era più emozionato di quanto volesse sembrare» ricorderà Rachele in La mia vita con Benito. «Aveva una sorpresa: un podere a Carpena, fru o del suo lavoro perché acquistato con i proventi dei suoi articoli pubblicati in America.» Arrivò da mezzo mondo una quantità mostruosa di regali. Rachele racconta che dagli Stati Uniti fu inviato abbigliamento da 0 a 6 anni sufficiente per vestire una tribù: «Con quei soli regali Romano sarebbe vissuto con agiatezza per tu a la vita, ma essi vennero offerti quasi tu i in beneficenza». Tu o contribuiva alla costruzione del mito.

Cesare Mori, il «prefe o di ferro» Quando Mussolini diventò padre per la quarta volta, in Sicilia regnava – come proconsole del Duce – Cesare Mori, il «prefe o di ferro». Mori era un polizio o nato. Ebbe un’infanzia difficile: i genitori naturali lo ritirarono dal brefotrofio di Pavia quando aveva ormai 8 anni. Dopo aver studiato all’accademia militare di Torino e aver prestato servizio come tenente dell’esercito a Taranto, si arruolò in polizia. E a 32 anni, nel 1903, fu mandato nel Trapanese dove cominciò la sua fortuna. «Finalmente abbiamo un uomo che colpisce la mafia là dove si alligna» disse il procuratore generale di Trapani. Ci tornò nel 1916 per contrastare duramente il brigantaggio e, di striscio, la mafia. Tu avia, avvertendo qualche differenza tra i due fenomeni e giudicando la seconda ben più pericolosa del primo, dichiarò: «Il vero colpo mortale alla mafia lo daremo quando ci sarà consentito di rastrellare non solo tra i fichi d’India, ma negli ambulacri delle prefe ure, delle questure, dei grandi palazzi padronali e, perché no, di qualche ministero» (Arrigo Petacco, Il Prefe o di ferro). Mori si era guadagnato la fama di uomo duro ed equanime quando fu prefe o a Bologna, dove nel 1921 fece rinviare a giudizio

sia fascisti sia socialisti. L’anno successivo usò la polizia per bloccare le rappresaglie fasciste dopo l’assassinio di un camerata, e la cosa non andò a genio a qualche pezzo grosso del regime. «Stiamo lo ando contro i partiti antinazionali prote i ignominiosamente dal prefe o Mori» gridò Italo Balbo. Mori fu perciò trasferito a Bari e, poi, «messo a disposizione», cioè senza incarichi, per quasi due anni. A metà del 1924 Mussolini rientrò sconvolto da un viaggio in Sicilia. La mafia spadroneggiava ovunque, ben oltre la decenza. Sapeva che gli «uomini d’onore» avevano incoraggiato la sua ascesa al potere, ma ora diventavano passeggeri ingombranti e troppo esigenti sul carro del vincitore. «Se vuoi un uomo che me a a posto la mafia» gli suggerì il quadrunviro Emilio De Bono «ci sarebbe il prefe o Mori.» Il Duce fece due conti: sapeva che, se necessario, Mori avrebbe colpito anche interessi fascisti in Sicilia, ma non era de o che fosse un prezzo inacce abile. Nel maggio 1924 lo nominò prefe o di Trapani e nell’o obre 1925 prefe o di Palermo. «Vostra eccellenza ha carta bianca» gli annunciò. «Se le leggi in vigore la ostacolassero, noi faremmo nuove leggi. L’autorità dello Stato deve essere assolutamente, dico assolutamente, ristabilita in Sicilia.» (Promesse identiche vennero fa e nel 1982 al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, nominato prefe o di Palermo con lo stesso mandato di Mori. Ma Dalla Chiesa, i poteri, non li ebbe mai. La mafia capì quanto fosse isolato e lo uccise pochi mesi dopo insieme alla giovane moglie.) Affinché la magistratura fosse altre anto severa, Mussolini fece nominare capo della Procura generale di Palermo Luigi Giampietro, inflessibile procuratore di Roma. Mori assestò il colpo più duro alla mafia il giorno di Capodanno del 1926, quando cinse le eralmente d’assedio Gangi, un bellissimo borgo alla periferia di Palermo. Arrestò un enorme numero di mafiosi non badando ai mezzi: per convincere i più rio osi alla resa, ne sequestrò mogli e figli. Si guadagnò così la fama di «prefe o di ferro», definizione che Arrigo Petacco usò come titolo della sua biografia di Cesare Mori. «Era più uno sceriffo che un prefe o» scrive. Non si può dargli torto: le donne dei latitanti non avevano scampo e il loro bestiame veniva

p macellato in piazza a beneficio dei poveri. Gli fu a ribuita questa frase: «Se i siciliani hanno paura dei mafiosi, li convincerò che io sono il più mafioso di tu i». Mori mirò in alto, arrivando dove nessuno aveva mai osato: fece processare il generale Antonino Di Giorgio, ex ministro della Guerra (poi assolto), e il principale referente del fascismo nell’isola, Alfredo Cucco. Fece arrestare i «capi dei capi» Calogero Vizzini e Genco Russo, ingabbiò e spedì all’ergastolo Vito Cascio Ferro, l’assassino di Joe Petrosino. Costrinse molti capimandamento a fuggire in America, per cercare rifugio tra i mafiosi che operavano oltreoceano. La sua popolarità diventò immensa, seconda solo (e non di molto) a quella del Duce. Mussolini, però, era sommerso dalle lamentele. A giudizio di Petacco, non reggendo alle pressioni e a un diluvio di le ere anonime contro Mori, nel 1929 lo mise in congedo nominandolo senatore del Regno, come il procuratore Giampietro. La mafia, finalmente, respirò. Ma nel fra empo aveva subìto una bo a micidiale.

La Conciliazione e l’«uomo della Provvidenza» Gli orologi del palazzo apostolico lateranense suonarono i rintocchi dell’Angelus a mezzogiorno dell’11 febbraio 1929, mentre un vecchio cardinale e un giovane capo di governo firmavano il documento che, dopo sessant’anni, ristabiliva la pace tra lo Stato italiano e la Santa Sede. Pietro Gasparri, segretario di Stato di Sua Santità, aveva 77 anni. Benito Mussolini, 46. Entrambi figli di contadini, l’uno marchigiano, l’altro romagnolo, erano perfe amente consapevoli di essere protagonisti di un evento che sarebbe passato alla storia. Gasparri, pur essendo uomo di scorza dura e di vastissima esperienza, era molto emozionato. Si alzò in piedi per leggere le proprie credenziali. Mussolini lo pregò di restare seduto, ma il cardinale dove e interrompere la le ura per l’emozione, completata da un monsignore della segreteria di Stato, Francesco

Borgongini Duca. Firmato il documento, Gasparri regalò la sua penna d’oro al Duce e scoppiò in lacrime. La Chiesa rinunciava per sempre al proprio potere temporale, lo Stato italiano diventava titolare legi imo dell’intera penisola, dopo secoli in cui le potenze straniere avevano giocato i papi contro i re e viceversa. I Pa i Lateranensi erano composti da tre documenti. Il Tra ato riconosceva la sovranità della Santa Sede entro i confini della Ci à del Vaticano e poneva fine alla «questione romana», nata nel 1870 quando, con la breccia di Porta Pia, i Savoia avevano occupato Roma e Pio IX si era dichiarato prigioniero politico, reclamando la restituzione dei territori del vecchio Stato pontificio. Nel 1871 non aveva riconosciuto la «legge delle guarentigie» con cui l’Italia aveva in via unilaterale limitato confini e diri i della Santa Sede («Libera Chiesa in libero Stato»). Il Concordato riconosceva nella religione ca olica, apostolica, romana la sola religione dello Stato, legi imava gli effe i civili del matrimonio religioso e la competenza dei tribunali ecclesiastici nelle cause di nullità, ordinava l’insegnamento religioso nelle scuole statali ed escludeva ogni a ività politica dell’Azione ca olica. I vescovi dovevano peraltro giurare fedeltà allo Stato italiano nelle mani del suo capo, il re. Infine, la Convenzione finanziaria riconosceva il versamento da parte dello Stato italiano alla Santa Sede di una somma forfe aria (1 miliardo 750 milioni di lire), a saldo delle indennità stabilite unilateralmente dall’Italia nel 1871 e mai incassate dalla Santa Sede. Renzo De Felice sostiene che, con i Pa i Lateranensi, Mussolini o enne il successo più importante della sua intera carriera politica, che da un giorno all’altro ne aumentò il prestigio in tu o il mondo. All’estero, la Conciliazione suonò come il più autorevole riconoscimento che il potere del Duce aveva basi reali e sarebbe durato a lungo. La Conciliazione era un’operazione volta a «spuntare politicamente le armi in mano agli avversari», come disse più tardi Mussolini al suo giovanissimo biografo Yvon De Begnac, che lo riferì in Palazzo Venezia. Storia di un regime. La Chiesa aveva

g sostenuto il fascismo ben prima della marcia su Roma, nel timore che i socialisti portassero i soviet in Italia. Ma i Popolari, dopo un’iniziale adesione al governo Mussolini, erano passati all’opposizione con l’Aventino e una parte dello stesso mondo ecclesiastico era assai tiepida nei confronti del nuovo regime. La Conciliazione tagliò le gambe alle residue resistenze ca oliche grazie alla clamorosa sponsorizzazione di Pio XI. «Siamo stati nobilmente assecondati» disse il papa ai professori e agli studenti dell’Università Ca olica del Sacro Cuore. «Forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza ci ha fa o incontrare. Un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale, per gli uomini della quale tu e le leggi … erano altre anti feticci e, proprio come i feticci, tanto più intangibili e venerandi quanto più bru i e deformi.» Eppure, gli statisti dell’Italia liberale – da Camillo Cavour a Be ino Ricasoli a Giovanni Lanza – avrebbero voluto firmare loro la Conciliazione, come osservò il Duce nella replica al Senato dopo il diba ito parlamentare. Ricordò l’invocazione di Cavour a padre Carlo Passaglia – un teologo che si era assai speso per l’unità d’Italia – al culmine di una tra ativa poi fallita: «Portatemi il ramoscello d’olivo prima della Pasqua». «Egli sentiva che questa era la suprema esigenza della coscienza e del divenire alla Rivoluzione nazionale» disse Mussolini. «Oggi, onorevoli camerati, noi possiamo portare questo ramoscello d’olivo sulla tomba del grande costru ore dell’unità italiana perché soltanto oggi la sua speranza è realizzata, il suo voto è compiuto.» Pensò così di aver chiuso la partita anche con i liberali, dispiaciuto per il voto contrario di Benede o Croce e per le critiche di Giovanni Gentile, filosofo pure a lui assai vicino. Mentre nel 1938, nel suo libro La questione romana, Arturo Carlo Jemolo, grande storico ca olico liberale, fermo sostenitore della laicità dello Stato, avrebbe fornito retrospe ivamente al Duce un clamoroso assist: «Nel 1929 quest’uomo dominava ormai da se e anni la vita italiana e la sua figura già si levava poderosa sul cielo d’Europa: mercé sua … la questione romana fu definitivamente consegnata agli archivi della storia».

Il «plebiscito» fascista del 1929 Mussolini sostenne di aver pensato fin dal 1921 a riavviare il dialogo con la Santa Sede. Ma le tra ative – segrete – ripresero soltanto nel secondo semestre del 1926 con una serie di incontri tra il consigliere di Stato Domenico Barone e l’avvocato Francesco Pacelli, fratello maggiore del futuro Pio XII, allora nunzio apostolico a Berlino. E proseguirono con brevi soste per due anni, nello sce icismo di Vi orio Emanuele III, anticlericale fin nel midollo. Lo stesso Mussolini racconta in Storia di un anno che, all’inizio, il re non credeva affa o alla soluzione della «questione romana», poi mise in dubbio la sincerità del Vaticano e si sciolse solo quando prese a o che cadevano le pretese pontificie su Roma. Si compiacque all’idea di un incontro con Pio XI da capi di Stato reciprocamente riconosciuti e gongolò quando una schiera di vescovi andò a prestargli giuramento. L’annuncio della firma dei Pa i arrivò all’improvviso. Eppure, una piccola folla fece in tempo a radunarsi so o la pioggia dinanzi al palazzo lateranense, antica residenza dei papi, portando bandiere e cantando inni, mentre le chiese scioglievano le campane. Il monsignore apparso sulla soglia del palazzo apostolico per diffondere il comunicato fu dapprima sopraffa o dai cronisti, poi lesse il foglie o «con voce tonante, come se parlasse da un pulpito», annotò il cronista del «Corriere della Sera». Frati e seminaristi a capo scoperto intonarono il Te Deum, al quale rispose via via quasi tu a la piazza. Pochi sapevano che la Santa Sede aveva scelto la data dell’11 febbraio perché era il se antunesimo anniversario dell’apparizione della Madonna a Lourdes. Dopo cinquantanove anni di volontaria clausura, il 25 luglio un pontefice poteva tornare in piazza San Pietro acclamato dalla folla. Il 5 dicembre re Vi orio Emanuele e la regina Elena andarono in Vaticano per la loro prima visita di Stato. Il sovrano non sapeva come esprimere a Mussolini la sua gratitudine. «Le ho dato il collare dell’Annunziata [massima onorificenza dei Savoia] quando Fiume diventò italiana. Vuole un

titolo nobiliare?» gli chiese. «Grazie maestà, ma mi sentirei ridicolo…» E la cosa finì lì. Gran Maestro del cerchiobo ismo, Mussolini incassò i benefici – interni e internazionali – della Conciliazione, ma cominciò subito a prenderne le distanze per chiarire che, tra il papa e lui, aveva vinto lui. «Un conto è la Ci à del Vaticano, un conto è il Regno d’Italia» disse in un discorso di tre ore a Montecitorio. Respinse la pretesa vaticana di rimuovere da piazza Campo de’ Fiori la statua di Giordano Bruno, difese il monumento a Garibaldi sul Gianicolo e, per soprammercato, ne aggiunse uno equestre per Anita. «Pareva quasi che Egli traesse l’ispirazione e la forza dalla storia d’Italia dell’ultimo secolo e che sentisse l’enorme responsabilità di parlare non solo in suo nome, non solo in nome del fascismo, ma nel nome di tu i i martiri, di tu i gli eroi che hanno creato la Patria.» Così (e con altre alatissime parole) Mario Missiroli commentò il discorso del Duce, al quale aveva assistito da una tribuna di Montecitorio. (Missiroli, giornalista geniale fin dalla prima giovinezza, dire ore nella sua vita di qua ro grandi quotidiani, aveva sempre criticato Mussolini, chiedendone le dimissioni dopo il deli o Ma eo i. Il Duce lo aveva fa o licenziare dalla «Stampa» e radiare dall’albo dei giornalisti. Nel 1929 scriveva qui e là senza poter firmare i suoi articoli. Ma anche i migliori scendevano a compromessi per poter rientrare nel giro…) Il papa, come prevedibile, non apprezzò il discorso. Lamentò subito i dispe i (e anche iniziative più gravi) dei fascisti contro i giornali ca olici e ribadì la superiorità della Chiesa e della famiglia sullo Stato nell’educazione dei giovani. L’altro, naturalmente, non se ne intese. Sull’onda del trionfo lateranense, Mussolini passò all’incasso indicendo per il 24 marzo 1929 le prime elezioni politiche «fasciste», fa e cioè senza una libera consultazione popolare. Si parlò infa i, giustamente, di «plebiscito». Il regime era stato legi imato dalle elezioni del 1924 in cui il Duce – pur «aiutato» da intimidazioni e violenze – aveva o enuto un successo che nessuno si sentì di contestare fino in fondo. Il suo «listone» aveva preso il 64,9 per cento dei voti contro il 9 dei Popolari e il 5,9 dei socialisti.

p p Nel 1929 cambiò tu o: la sovranità popolare era sostituita dalla sovranità dello Stato, che s’identificava a sua volta in un solo partito. La lista dei 400 candidati ad altre anti seggi della Camera era stilata in parte dalle corporazioni fasciste, in parte dal Gran Consiglio. Le corporazioni avevano inserito nel listone tu e le categorie produ ive, datori di lavoro e lavoratori. Il corpo ele orale fu rido o di 2,5 milioni di persone rispe o al 1924 (da 12 milioni a 9 milioni 600.000). Votarono soltanto gli uomini e, in pratica, furono esclusi i poveri: erano abilitati, infa i, soltanto gli impiegati pubblici, chi pagava un minimo d’imposte, i sacerdoti dei culti ammessi dallo Stato. Impressionante la corsa ai seggi: votò quasi il 90 per cento degli aventi diri o. Il voto non era segreto: all’ingresso, l’ele ore prendeva due schede: Sì e No. I Sì superarono il 98 per cento. Ma ci furono 135.000 eroi che dissero No. Erano prevalentemente operai metalmeccanici del Nord. Prima del «plebiscito», il capo della polizia Arturo Bocchini aveva provveduto a una «bonifica» degli avversari politici. Erano state denunciate 5046 persone: 3904 furono assolte (non sappiamo quanti finirono al confino), 1 condannata alla pena capitale, 23 a pene superiori ai vent’anni, 482 a pene inferiori ai cinque anni.

La doppia vita a villa Torlonia Il 1929 si chiuse con due traslochi importanti. Dopo la nascita in se embre del quinto figlio, Anna Maria, nella tenuta di Carpena, Rachele si trasferì finalmente con la famiglia a Roma, raggiungendo il marito che si era insediato a villa Torlonia, un grande edificio neoclassico sulla via Nomentana, a 5 chilometri da palazzo Chigi. Il principe Giovanni Torlonia, che da tempo l’aveva offerta in uso a Mussolini in cambio del canone simbolico di 1 lira, si sistemò in un palazzo vicino. La villa è circondata da un parco di 14 e ari, con i viali ornati da statue e obelischi, un laghe o e un bosco di pini romani. Appena arrivata, Rachele pretese il licenziamento della governante Cesira, di cui era gelosa per due ragioni: la prima

perché nella vecchia abitazione di via Rasella qualche volta aveva forse scaldato il le o di Benito, la seconda (e più importante) perché era stata scelta dalla Sarfa i per controllare quali amanti occasionali avessero accesso all’abitazione del capo del governo. Cesira fu liquidata con generosità ed ebbe una pensione. A villa Torlonia i coniugi Mussolini presero alloggio in due ali diverse dell’edificio. Il Duce si era riservato l’ala destra, totalmente indipendente. Al primo piano c’era un salo o, uno studio, una camera da le o matrimoniale e un bagno. Al pianterreno, le sale di rappresentanza e gli alloggi di servizio. Quest’ala era collegata dire amente con il parco e la strada, in modo che Mussolini potesse ricevere gli ospiti (e, sopra u o, le ospiti) senza che la moglie se ne accorgesse. Rachele e i bambini occupavano l’ala sinistra della villa. Mangiavano presto, secondo le abitudini romagnole. Benito rientrava tra le 14 e le 15 e pranzava come sempre da solo, tranne la domenica. Pasti frugali, a causa dell’ulcera. Quasi mai carne. Pochi spaghe i e un po’ di pesce a pranzo, con molta fru a e verdura; una minestra a cena, sempre con fru a e verdura. Consigliava di bere vino, poco, ma lui quasi non lo assaggiava. Badava alla «dieta fisica e morale» sua e degli italiani. La sera non rientrava tardi, e non molto dopo le 11 era a le o dove restava fino alle 7 di ma ina. Prima di andare in ufficio, cavalcava nel maneggio ricavato nel parco, sempre con il suo vecchio maestro d’armi e di equitazione Camillo Ridolfi. Mussolini fece adibire una dépendance di villa Torlonia a sala cinematografica. Ma un uomo maniaco della comunicazione come lui teneva so ’occhio innanzitu o la radio. Il monopolio delle trasmissioni radiofoniche fu affidato alla Eiar (Ente italiano audizioni radiofoniche), che dopo la guerra avrebbe cambiato il nome in Rai (Radio audizioni italiane). La televisione del tempo era il cinegiornale dell’Istituto Luce. Il Duce visionava i filmati prima che andassero nelle sale, tagliava le immagini che non gli piacevano, le espressioni che spesso lo rendevano ridicolo. Si spazientiva dinanzi a montaggi sgraditi, urlando in sala che doveva proprio occuparsi di tu o. Altre anta cura me eva nella scelta delle foto. Con il passare degli anni limitò le espressioni truci e guerresche in favore di immagini più rilassate. Naturalmente,

g g p talvolta venivano proie ati anche dei film. Mussolini preferiva i comici: Stanlio e Ollio, Charlie Chaplin, Ridolini. La domenica la famiglia Mussolini si trasferiva nella sala cinematografica in formazione patriarcale: il gruppo era guidato ovviamente da Benito, seguivano Rachele e i figli, poi la servitù e qualche collaboratore. Rachele conduceva una vita molto semplice. «Mi sembrava quasi incredibile» ha raccontato nelle sue memorie «che io, la contadinella di Salto, sarei andata a vivere nella villa di un Torlonia.» Quando da ragazza lavorava nei campi, non immaginava che un giorno avrebbe avuto un proprio giardino, un proprio orto, un proprio pollaio, perfino uno stabbiolo per l’allevamento di un maiale. Ma li curava come aveva sempre fa o pure a villa Carpena, anche se adesso c’erano il custode Eraldo Pistoni e la moglie a darle una mano. In tu o, cinque persone di servizio. Il pane veniva co o ogni giorno nel forno di casa: lei ne preparava personalmente l’impasto. Una giovane conterranea di Rachele, Irma Morelli, si occupava del vestiario del Duce: aveva poche pretese e quel che indossava non riusciva a valorizzarne il fisico. I Mussolini non facevano vita mondana. Quando i figli maggiori crebbero, lui li accompagnava volentieri al teatro dell’Opera di Roma, indossando il frac e prendendo posto nel palco numero 11, che pure non era dei più centrali, ma gli consentiva di essere ammirato anche dalla platea. «Amo il lirismo guerriero e passionale di Verdi e di Wagner, la giocondità di Rossini» disse a un giornalista. Ma, durante l’opera, spesso la stanchezza prevaleva sulla passione musicale e il Duce cedeva al sonno.

La Sala del Mappamondo, cuore del potere Contemporaneamente all’arrivo della famiglia a Roma, il 16 se embre 1929 Mussolini aveva trasferito il suo ufficio da palazzo Chigi, in piazza Colonna, a palazzo Venezia, nella piazza omonima. Solido palazzo merlato d’impianto qua rocentesco, costruito su commissione del cardinale Pietro Barbo (poi papa Paolo II), fu sede prima degli ambasciatori veneziani presso la Santa Sede, quindi di

quelli austriaci, finché ne vennero espropriati nel 1916 dallo Stato italiano per protesta contro i bombardamenti su Venezia compiuti dall’esercito asburgico. Il Duce scelse per il suo studio l’immensa Sala del Mappamondo (ogge o scomparso da tempo), affrescata da Andrea Mantegna in onore del suo inquilino, il cardinale Giovanni Ba ista Cybo, diventato poi papa Innocenzo VIII. Si narra che il pontefice sia morto proprio in questa sala, avvelenato forse (ma non ci sono prove) da Rodrigo Borgia, padre di Cesare e Lucrezia, che non a caso gli succede e sul soglio pontificio come Alessandro VI. Mussolini occupava un’enorme scrivania sistemata in fondo alla sala completamente vuota, lunga 20 metri e larga 14, in modo che il visitatore dovesse compiere un lungo percorso in stato di soggezione verso l’illustre inquilino che lo squadrava di so ecchi, mai alzandosi per andargli incontro, a meno che non fosse un ospite di particolare riguardo. Sul tavolo c’erano un calamaio di bronzo con due leoni ai fianchi (il Duce non usava la stilografica), un orologio-barometro, un vase o di porcellana per le matite (che temperava fino a esaurirle), un tagliacarte d’argento, un tampone per asciugare l’inchiostro, una lampada con il paralume di seta gialla, un piccolo ritra o della madre Rosa. La poltrona era a dondolo. (In Mussolini piccolo borghese Paolo Monelli racconta che un giorno il Duce aveva convocato il prefe o di Firenze per annunciargli la destituzione. «Quando il povere o gli arrivò davanti, ste e a guardarselo a lungo con gli occhi feroci, puntando le mani all’orlo della scrivania e dondolandosi all’indietro sul seggiolone. Esplosero finalmente le parole: “Vi caccio via perché…”. Ma a questo punto il seggiolone si rovesciò all’indietro, e Mussolini scomparve e il poveruomo non sapeva se accorrere ad aiutarlo a districarsi, o chiamare l’usciere e intanto non si muoveva. Soffiando e sbuffando finalmente il di atore si rimise in piedi, e accennando alla porta disse: “Andatevene, e un’altra volta portatevi meglio”.») Quando (lo vedremo più avanti) la relazione con Clare a Petacci diventerà solida, su quel tavolo così severo comparirà un gingillo con la scri a: «Una capanna e il tuo cuore».

p Accanto alla poltrona con lo schienale alto c’erano tre telefoni: uno collegato con il centralino della presidenza del Consiglio, uno per le interurbane e il terzo per le chiamate dire e di cui si vuole che soltanto il capo commesso Navarra conoscesse il numero (che Mussolini, peraltro, dimenticava spesso). Di fronte al tavolo, lungo 4 metri, c’erano due poltrone Savonarola per gli ospiti di riguardo. Il Duce teneva nel casse o una pistola carica e del denaro per le esigenze immediate di qualche postulante. I gerarchi restavano in piedi per riferire rapidamente. Mussolini non fumava e non consentiva che si fumasse, nemmeno durante le riunioni del Gran Consiglio: una tortura micidiale in un paese che aveva una percentuale elevatissima di fumatori. Arrivava in ufficio tra le 8 e le 9.30, dopo aver le o i giornali con la cura e la severità di uno che conosceva bene il mestiere. Riceveva poi, in rapida successione, i comandanti dei carabinieri, dell’Ovra, della polizia, il so osegretario della presidenza e i ministri degli Esteri, dell’Interno e della Cultura popolare. Voleva sapere tu o di tu i. A igua alla Sala del Mappamondo era la vecchia Sala del Concistoro, che aveva fa o affrescare con immagini delle ba aglie vi oriose della prima guerra mondiale e, per questo, veniva chiamata Sala delle Ba aglie. C’era poi l’enorme Sala Regia, che il Duce utilizzava per le riunioni plenarie dei suoi gerarchi. L’anticamera dello studio presidenziale si apriva su altre qua ro magnifiche sale rinascimentali, tra cui la Sala del Pappagallo, dove si riuniva il Gran Consiglio del fascismo. La Sala del Mappamondo, al piano nobile del palazzo, ha un balcone affacciato sulla piazza, oggi inaccessibile ma allora palco di storici annunci. Piazza Venezia, per ampiezza e simbologia (guarda il Colosseo e i Fori), valeva assai più di piazza Colonna e del Corso, su cui si affacciava il balcone d’angolo di palazzo Chigi. Nella diarchia al vertice dello Stato, la figura del re via via si rimpiccioliva, mentre quella del Duce era sempre campeggiante, osserva Antonio Spinosa in Mussolini. Quel palazzo merlato di piazza Venezia era una rappresentazione plastica dell’ascesa mussoliniana e si poteva dire che il Duce avesse voluto

p contrapporre al Quirinale della monarchia il Quirinale del fascismo. Tra il Campidoglio e il Foro Romano, il Vi oriano e il palazzo Bonaparte, «questa piazza» diceva Mussolini «è il cuore di Roma e quindi il cuore d’Italia». Di no e, dalle finestre di palazzo Venezia filtrava sempre la luce: era la lampada da tavolo della scrivania. Mussolini lavora giorno e no e, diceva la gente, ignara che il Duce stava invece dormendo tranquillamente a villa Torlonia.

III

L’impronta del regime sulla società italiana

L’arretratezza favorì l’Italia Il 24 o obre 1929, mentre si trovava in visita ufficiale a Bruxelles, il principe ereditario Umberto di Savoia subì un a entato da parte di un giovane antifascista di 21 anni, Fernando De Rosa, che gli sparò un colpo di pistola ma mancò il bersaglio. L’indomani il «Corriere della Sera» e gli altri giornali italiani dedicarono all’evento le prime pagine, ignorando completamente il catastrofico crollo di Wall Street del giorno precedente. Nei giorni successivi, la nostra stampa minimizzò la crisi finanziaria: la borsa americana era salita troppo, niente di cui preoccuparsi. E anche quando dove e occuparsene seriamente, lo fece dando ampio spazio alle disgrazie americane («Le troppe vendite a rate hanno fa o saltare il sistema») e a quelle inglesi, francesi e tedesche. Renzo De Felice sostiene che Mussolini, in realtà, si rese rapidamente conto di quanto stava accadendo, ma, come Luigi Einaudi, era convinto che da noi le conseguenze sarebbero state meno pesanti perché la nostra economia era ancora prevalentemente basata sull’agricoltura, al contrario di quella dei paesi più industrializzati. Il Duce vide, perciò, nelle campagne un forte ammortizzatore sociale. I dati sono dalla sua parte, come spiega Vera Zamagni in Dalla rivoluzione industriale all’integrazione europea. Fa o 100 il prodo o interno lordo italiano nel 1929, nel 1932 era sceso appena al 98, contro il 73 degli Stati Uniti, il 77 della Germania, l’86 della Francia e il 95 della Gran Bretagna. Ciononostante, agli italiani – dopo l’olio di ricino distribuito dal regime durante la «guerra della sterlina» – fu somministrata una seconda purga. Il taglio medio ai redditi di operai e impiegati fu del

10-12 per cento. Gli agricoltori furono ancor più penalizzati, ma si deve tener conto che fino alla prima guerra mondiale non avevano pagato imposte, come peraltro gli operai. In compenso, i prezzi al consumo crollarono. Furono notevolmente inasprite le imposte indire e, mentre quelle dire e rimasero basse. Come riporta Sergio Steve in Il sistema tributario e le sue prospe ive, la tassazione dei redditi da terreni oscillava tra l’1,50 e il 3,50 per cento, e quella dei redditi da fabbricati si aggirava sul 10 per cento. Negli anni della crisi, le imposte sul reddito di capitale erano del 20 per cento. L’aliquota sui salari degli operai era del 4 per cento, quella sugli stipendi degli impiegati dell’8, mentre le aliquote per i redditi da lavoro professionale erano più alte di quelle da lavoro dipendente, perché si dava per scontata una bella fe a di evasione fiscale. Il regime provò a introdurre una sorta di redditometro (presunzione del reddito in base al tenore di vita), ma l’evasione continuò a rimanere gigantesca. Alle tasse sulla «ricchezza mobile», che aveva una franchigia per i redditi più bassi, si era aggiunta nel 1923 un’imposta «complementare», con aliquote che partivano dall’1 per cento per salire al 10 per i redditi annui superiori al milione. (Questo sistema tributario sarebbe sopravvissuto fino alla riforma fiscale del 1973 e, fa i i confronti, un secolo dopo il tasso di evasione è rimasto immutato.) Malgrado tu o questo, negli anni di crisi il potere d’acquisto degli italiani finì con l’aumentare. Nel suo contributo al volume pubblicato in occasione del centenario dell’unità nazionale, L’economia italiana dal 1861 al 1961, Cesare Vannutelli ha sostenuto che 100 lire di retribuzione reale nel 1928 erano salite a 115 nel 1929 e a 117 nel 1935, consentendo a De Felice di affermare che, durante la Grande Crisi, le condizioni di vita dei lavoratori dell’industria e dei dipendenti pubblici non erano affa o peggiorate. (Sorte diversa, abbiamo visto, toccò agli agricoltori.) Prima della crisi, il 32 per cento del pil era destinato alla difesa e il 14 alle opere pubbliche. Ebbene, gli stanziamenti per la difesa furono rido i del 20 per cento (del 30, quelli per la polizia e la giustizia), mentre venne raddoppiato lo stanziamento per le opere pubbliche e non fu toccato quello dell’istruzione.

q Il picco degli aumenti fiscali si registrò nel 1934 con l’aggravio delle imposte sugli scambi (la nostra Iva) e sulle successioni. Fu allora che Mussolini disse basta: «La pressione fiscale è giunta al suo limite estremo e bisogna lasciare per un po’ di tempo assolutamente tranquillo il contribuente italiano e, se sarà possibile, bisognerà alleggerirlo, perché non ce lo troviamo schiacciato e defunto so o il pesante fardello».

Alberto Beneduce, l’antifascista che salvò le banche Nonostante l’Italia se la cavasse meglio di altri paesi più industrializzati, la crisi richiese interventi energici nel se ore industriale e finanziario. E qui fu decisivo l’intervento di Alberto Beneduce, che abbiamo incontrato nel capitolo precedente impegnato nella «ba aglia della sterlina». Beneduce era socialista, massone e risolutamente antifascista. Nato a Caserta nel 1877 (sei anni prima di Mussolini), si coniugò all’età di 20 anni e non ba ezzò nessuno dei suoi cinque figli. (Una, Idea Nuova Socialista, avrebbe sposato Enrico Cuccia.) Grazie all’affiliazione massonica, Beneduce aveva raggiunto ben presto Francesco Saverio Ni i al ministero del Tesoro. Con lui fondò nel 1912 l’Istituto nazionale delle assicurazioni (Ina), di cui diventò amministratore. Come scrivono Mimmo Franzinelli e Marco Magnani nella biografia di riferimento (Beneduce. Il finanziere di Mussolini), l’Ina «rappresenta il prototipo degli “enti Beneduce”, istituzioni finanziarie pubbliche gestite con criteri privatistici volte a stabilire un canale dire o tra risparmio nazionale e investimenti industriali, dotate di grande autonomia organizzativa, personale rido o e ben pagato e dirigenti (spesso gli stessi) della medesima matrice culturale». (I «nipotini» di Beneduce sopravvivono da un secolo, benché a ranghi più rido i, e sono tu ora il cardine della Banca d’Italia e di molte istituzioni finanziarie.) Nel 1919 Beneduce inventò il Consorzio di credito per le opere pubbliche (Crediop), nato per agevolare finanziamenti a grandi infrastru ure, con mutui

coperti da obbligazioni da collocare sul mercato, che sarebbe sopravvissuto come istituto autonomo. Quando il fascismo prese il potere, Beneduce pensò seriamente che Mussolini andasse assassinato. Dopo il deli o Ma eo i, nel 1924, sognò un colpo di Stato da affidare al generale (e massone) piemontese Luigi Capello, che abbiamo visto poi coinvolto nell’a entato al Duce compiuto da Tito Zaniboni. Ma Beneduce era uomo di mondo. Senza rinnegare niente e senza diventare fascista, con l’aiuto del dire ore generale della Banca d’Italia Bonaldo Stringher, nello stesso anno ideò e costituì l’Istituto di credito per le imprese di pubblica utilità (Icipu, altra macchina statale sopravvissuta a lungo) e ne diventò presidente. Nel 1926, mentre Capello e Zaniboni pensavano di ammazzare Mussolini, lui veniva nominato presidente della Bastogi, il più colossale centro di potere finanziario italiano. Sommando questa carica a quelle del Crediop, dell’Icipu e dell’Istituto per il credito navale (Icn), diventava il più potente boiardo di Stato, con la benedizione di un regime che non amava. Nel 1931 la crisi finanziaria tagliò i fondi alle imprese. Il nostro creò allora l’Istituto mobiliare italiano (Imi), per la concessione di credito a medio e lungo termine, sopra u o alle imprese di medie dimensioni, che nel 1998 si sarebbe fuso con il San Paolo di Torino e poi con Banca Intesa. Il suo capolavoro fu, tu avia, la creazione dell’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri), che sarebbe sopravvissuto fino al 2002. L’Iri nacque nel 1933 per salvare il sistema bancario italiano, ma già due anni prima – per me ere in sicurezza il Credito italiano – Beneduce ne aveva scorporato la gestione finanziaria da quella bancaria, com’era già avvenuto per il Banco di Roma, creando quella che oggi chiamiamo una «bad company», sempre controllata dallo Stato. La stessa trafila seguì la Banca commerciale italiana (Comit), che controllava 327 società per azioni, travolta da una crisi internazionale provocata dal fallimento di una grande banca austriaca, che aveva inquinato il sistema finanziario tedesco costringendo perfino la sterlina a uscire dal sistema aureo internazionale. Beneduce fece partorire dall’Iri una serie di sub

p holding, come la Stet per la telefonia, la Finsider per l’acciaio, la Finmare per le compagnie di navigazione, la Fincantieri per la cantieristica, ancora operativa. «In quel momento» scrisse «cessò, per virtù del Regime Fascista, una tradizione di soggezione dello Stato alle banche le quali per lunghi anni avevano so ra o allo Stato il comando degli organi essenziali della politica del credito.» Poco dopo, la rivoluzione del sistema finanziario italiano venne completata da Beneduce con la nascita della nuova Banca d’Italia. L’istituto diventò la «banca delle banche», esercitando la vigilanza su di esse, e fu l’unico a eme ere moneta e a regolarne la circolazione, fino a quando nel 2002, con la nascita dell’euro, queste funzioni passarono alla Banca centrale europea. Il nostro pensò di garantire l’autonomia del governatore della Banca d’Italia dal potere politico introducendo la carica a vita: questa norma cadde nel 2006, dopo la polemica che coinvolse Antonio Fazio per lo scandalo dell’Antonveneta. Colpito da un grave ictus, nel 1936 Beneduce fu premiato con un seggio senatoriale e poté sedere accanto a Benede o Croce, Luigi Einaudi ed Enrico De Nicola, che avevano anch’essi potuto convivere con il fascismo senza prendere la tessera del partito. Soltanto nel 1940, qua ro anni prima di morire, s’iscrisse all’Unione nazionale fascista del Senato, alla quale aderivano 425 senatori su 454. (In verità, nel 1931 Einaudi aveva giurato fedeltà al fascismo per non perdere la ca edra. Lo fece, su consiglio di Croce, «per non lasciare l’insegnamento in mano ai più pronti ad avvelenare l’animo degli studenti». Anche Palmiro Toglia i consigliò ai suoi di firmare per fare a ività politica dall’interno del regime. Su oltre 1200 professori, soltanto 12 eroici docenti non giurarono e persero il lavoro.)

L’orario se imanale di 40 ore La lunga sopravvivenza degli «enti Beneduce» dimostra la straordinaria modernità e lungimiranza del manager casertano, che mise in sicurezza le colonne portanti del nostro sistema economico

e finanziario. Ma la diffusione pandemica della crisi americana del 1929 diede, anche in Italia, un duro colpo all’occupazione. Negli anni in cui il fenomeno fu più acuto, fra il 1931 e il 1935 – hanno scri o gli economisti Francesco Piva e Gianni Toniolo in un saggio fondamentale pubblicato dalla «Rivista di storia economica» nell’o obre 1987 –, su 5 milioni di lavoratori dell’industria il numero di disoccupati oscillò fra il 17 e il 25 per cento. Il malcontento era forte e gli stessi sindacati fascisti, che difendevano gli interessi dei lavoratori molto meglio di quanto non si pensi oggi, proclamarono qualche sciopero, immediatamente sconfessato dal Duce. Scrisse Mussolini nel 1931 al prefe o di Ferrara: «Scioperare quando ci sono 700.000 disoccupati che cercano invano lavoro da mesi è a o di incoscienza sovversiva che … va immediatamente stroncata». A Torino, dove la disoccupazione alla Fiat e nelle altre fabbriche era più alta, molte donne sfilarono nel centro della ci à con i figliole i in braccio gridando: «Viva il Duce, ma noi vogliamo mangiare!». La polizia politica si dava un gran daffare per stroncare i focolai della protesta, ma questo non impedì al Partito comunista clandestino di triplicare i propri iscri i, toccando il numero di 10.000: un record inarrivabile, perché alla caduta del fascismo si sarebbe rido o della metà. Eppure Paolo Spriano, lo storico di riferimento del Pci, nella sua monumentale storia del partito scrive che le agitazioni non acquistarono un sapore antifascista. Nel mondo produ ivo era infa i entrata una nuova generazione «indo rinata, stordita dai motivi fascisti sin dai banchi di scuola». Per arginare la disoccupazione, Mussolini promosse un grande piano di opere pubbliche che, tra il 1931 e il 1934, diede lavoro a un numero di persone variabile tra le 150.000 e le 250.000 all’anno. Per difendere l’occupazione maschile, i sindacati fascisti discriminarono quella femminile con lo slogan «Le donne a casa!», mentre chiesero l’abbassamento dell’età pensionabile e l’elevazione di quella minima per accedere al lavoro, un uso ragionevole degli straordinari e la riduzione dell’a ività lavorativa domenicale. Ebbero un grande successo, o enendo – primi al mondo – la se imana lavorativa di 40 ore. Quando fu formulata la proposta nel

p p 1931, gli industriali ovviamente protestarono perché, dicevano, il costo del lavoro sarebbe diventato insostenibile. Furono rimbeccati dai sindacati, che ricordarono loro i vantaggi o enuti dalle imprese con la politica dei dazi e da altre provvidenze governative, e smentiti da una clamorosa intervista di Giovanni Agnelli all’agenzia americana United Press, in cui il proprietario della Fiat sollecitava addiri ura la se imana lavorativa di 36 ore, nella convinzione che, allargando la platea dei lavoratori, sarebbero aumentati i consumi. La sua proposta fu accantonata, ma nell’autunno del 1932 la spinta decisiva all’introduzione dell’orario se imanale di 40 ore venne da un documento approvato dall’Ufficio internazionale del lavoro di Ginevra. La proposta del delegato italiano, Giuseppe De Michelis, giustificata con il progresso tecnologico, fu approvata con il voto dei rappresentanti sindacali dei diversi paesi. Tu i gli imprenditori votarono contro, con l’eccezione dell’italiano Gino Olive i, un illuminato massone ebreo che fondò Confindustria e ne fu il primo segretario generale, costre o nel 1939 ad abbandonare l’Italia per le leggi razziali. Secondo i sindacati fascisti, nei primi tre mesi di applicazione, dal dicembre 1934 al marzo 1935, la legge produsse il riassorbimento di 222.963 operai, di cui 59.300 donne. (La «se imana corta» sarebbe stata abolita nel 1936 per far fronte alle sanzioni economiche, ristabilita nel 1937 con stipendi rido i, abolita di nuovo nel 1940 per la guerra e ado ata definitivamente nell’«autunno caldo» del 1969.)

Le colonie marine e il successo del dopolavoro Mussolini deve la sua popolarità, sopravvissuta anche nei momenti più difficili, alle iniziative del regime in campo sociale. Nel 1933 fondò l’Istituto nazionale fascista della previdenza sociale: l’Infps, sopravvissuto fino a oggi con la sola eliminazione di una le era nell’acronimo. Dotato di gestione autonoma, fu la colonna portante di una serie di ammortizzatori sociali, come l’indennità di disoccupazione, gli assegni familiari, l’integrazione salariale per i lavoratori sospesi o a orario rido o.

In Mussolini il duce De Felice stila un lunghissimo elenco di iniziative sociali promosse dal regime. Per compensare i lavoratori delle riduzioni salariali, fu predisposta «una serie di servizi sociali e … di possibilità ricreative, sportive, culturali, sanitarie, individuali e colle ive, sino allora sconosciute o quasi in Italia e che influenzarono largamente il loro a eggiamento verso il fascismo e sopra u o quello dei giovani e dei giovanissimi che più ne usufruirono». Pensiamo alle colonie estive. Quanti bambini non solo non potevano perme ersi una vacanza al mare, ma addiri ura non l’avevano mai visto? Nel 1930 ne andarono in colonia 150.000, un numero che aumentò di anno in anno fino ad arrivare nel 1934 a 475.000. Grande popolarità ebbe l’Opera nazionale dopolavoro, che nel 1926 contava 280.000 iscri i, dieci anni dopo 2 milioni 780.000 e, alla vigilia della seconda guerra mondiale, 5 milioni. Gli aderenti (per due terzi lavoratori manuali) potevano partecipare a prezzi scontati a una vasta gamma di a ività culturali, ricreative e sportive. Nel 1936 il dopolavoro aveva associato 1227 teatri, 771 sale cinematografiche, 2066 filodrammatiche, quasi 7000 tra orchestre, bande e cori, 6500 biblioteche. C’erano poi 11.000 sezioni sportive con 1 milione 400.000 praticanti ordinari e 4700 con circa 250.000 praticanti agonistici. I soci del dopolavoro avevano sconti su ogni tipo di a ività ricreativa, dai viaggi alle balere, dagli abbonamenti a giornali e riviste alle partite di calcio. Gli iscri i godevano anche di una polizza assicurativa contro la morte e gli infortuni. I bambini venivano inquadrati nell’Opera nazionale balilla, poi assorbita dalla Gioventù italiana del li orio. Tu i – anche i non iscri i – se bisognosi avevano diri o alla refezione scolastica, a libri e quaderni gratuiti, all’accesso a colonie marine, ai campeggi estivi e invernali, all’assistenza nei centri antitubercolari (gli iscri i, però, erano curati meglio). In Mille lire al mese Gian Franco Venè ricorda che l’iscrizione a queste organizzazioni giovanili non era obbligatoria. «Non aderire, però, era cocciutamente provocatorio (una provocazione della quale il bambino avrebbe subìto le conseguenze crescendo) perché inopportuno dal punto di vista assistenziale.» E racconta che una coppia di padre e madre

pp p antifascisti impose alla figlia di non iscriversi, ma a scuola la bambina si sentiva così umiliata che alla fine la maestra la iscrisse clandestinamente. Emilio Radius, testimone del tempo, scrive in Usi e costumi dell’uomo fascista: «L’a ività prevalente del dopolavoro era la distensione, lo stirarsi e me ersi in libertà… il tornare a essere se stessi ma in tanti, colle ivamente, sul piano nazionale … come non era stato mai prima di allora». Eppure, annota Venè, «gli impiegati di discreto livello, quelli di una certa età e i laureati con famiglia e bambini, aderivano raramente alle escursioni dopolavoristiche. Gli schiamazzi e il linguaggio dei gitanti non erano ada i alle signore e agli innocenti». Ci fu, in quegli anni, un’evoluzione del costume anche in cucina. Emanuela Scarpellini ricorda in L’Italia dei consumi che, nel 1931, la prima guida gastronomica d’Italia edita dal Touring Club presentò l’intero paese come luogo di meraviglie culinarie, varcando per la prima volta i confini centrose entrionali tracciati alla fine dell’O ocento dal mitico Pellegrino Artusi in La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene. In La cucina italiana Alberto Capa i e Massimo Montanari rilevano che fu allora che cominciò la valorizzazione del Meridione con le sue spiagge, ma anche con le sue primizie, il pesce fresco, la pasta e l’olio. Nasceva, insomma, la «dieta mediterranea», che dall’Italia fu esportata gradualmente in Germania dopo l’alleanza con Hitler.

Il consenso di Roosevelt e la grande bonifica pontina Come annotammo in Il Palazzo e la piazza, Mussolini rivendicava la superiorità della «terza via fascista» rispe o al supercapitalismo americano e al colle ivismo sovietico. La sua ammirazione per Franklin Delano Roosevelt fu perfe amente ricambiata fino al 1935, quando la guerra d’Etiopia isolò l’Italia rispe o alle democrazie occidentali. Wolfgang Schivelbusch, che in 3 New Deal ha messo a confronto il protocollo economico del presidente americano con le iniziative prese in quegli anni nello stesso campo da Mussolini e

Hitler, ricorda che Roosevelt confidò a un corrispondente accreditato alla Casa Bianca: «Non mi perito di dirle, in confidenza, che mi tengo in conta o piu osto stre o con quel degno gentleman italiano». Lo faceva a raverso Breckinridge Long, ambasciatore a Roma, che gli trasme eva dire amente i suoi rapporti senza passare per il dipartimento di Stato. È sorprendente che anche Rexford Tugwell, l’uomo più a sinistra dell’amministrazione Roosevelt (ammirava la pianificazione sovietica), pur essendo agli antipodi dell’ideologia fascista riconoscesse che il regime stava ricostruendo l’Italia «materialmente e in modo sistematico. Mussolini ha senza dubbio gli stessi oppositori di Roosevelt, ma controlla la stampa e così costoro non possono strillare le loro fandonie tu i i giorni. Governa un paese compa o e disciplinato, anche se con risorse insufficienti. Almeno in superficie, sembra aver compiuto un enorme progresso … Il fascismo è la macchina sociale più scorrevole e ne a, la più efficiente che io abbia mai visto». Commenta Schivelbusch: «L’indignazione dei liberali davanti alle violenze compiute dai fascisti ai danni degli avversari politici era da tempo svaporata, lasciando il posto all’ammirazione per la puntualità con cui la rete ferroviaria italiana rispe ava gli orari … Negli anni Venti, gli intelle uali americani, scoraggiati dai fallimenti del liberalismo, si lasciarono tentare dall’idea che il fascismo rappresentasse la realizzazione dei propri ideali». E siccome Roosevelt era comunemente definito un «di atore democratico», in The Coming American Revolution, pubblicato nel 1934, il dire ore liberale di «New Republic» George Soule poteva affermare: «Stiamo sperimentando l’economia fascista senza averne sofferto i guasti sociali e politici». Mussolini guardava con interesse anche all’esperienza sovietica. Due grandi giornalisti dell’epoca, Curzio Malaparte e Luigi Barzini, scrissero reportage favorevoli dalla Russia, pur ribadendo ovviamente il primato dell’esperienza fascista. Il Duce rimase affascinato dalla gigantesca diga sul Dnepr fa a costruire da Stalin nel 1927 e, tre anni dopo, diede l’avvio a una delle sue opere più riuscite: la bonifica della pianura pontina, a sudest di Roma. Pur

p p essendo distante anche allora poco più di mezz’ora di treno dalla capitale, l’Agro pontino – fertilissimo ai tempi dell’impero romano – era diventato una palude malsana e aveva resistito a più di un tentativo di bonifica da parte di papi e aristocratici proprietari terrieri. Come scrisse «Civiltà fascista», la zona era «una regione completamente selvaggia. Gli abitanti, poche centinaia, erano creature disperate che tiravano avanti convivendo con gli animali». In verità, Mussolini aveva deciso di bonificare le paludi pontine (800 chilometri quadrati) fin dal 1926, ma dove e superare le resistenze dei latifondisti proprietari dei terreni elargendo cospicui indennizzi. Con la bonifica, osserva Schivelbusch, il Duce intese dare vita a una nuova società agricola, un mix di individualismo e colle ivismo. Furono create aziende agrarie di proprietà comunale, dotate di magazzini, officine meccaniche, veicoli pesanti e macchine agricole che nessun contadino avrebbe potuto perme ersi. I coloni provenivano dalle aree più povere del Nord, sopra u o dal Veneto (ma furono trasferiti nelle paludi anche confinati politici), e abitavano in casali. Ogni azienda agricola serviva 100 casali, che costituivano un borgo, intitolato ai luoghi delle celebri ba aglie della prima guerra mondiale: Borgo Piave, Borgo Sabotino, Borgo Grappa, Borgo Montello, Borgo Podgora… Nomi tu ora esistenti.

Mussolini: «È l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende» La scarsa esperienza dei coloni dell’Agro pontino portò all’inizio risultati molto modesti, finché non si decise di affidare la gestione della bonifica all’Opera nazionale comba enti, che pagava i lavori di bonifica (fru o di un’ingegneria idraulica di o imo livello), costruiva borghi e ci à, assegnava le abitazioni. Ai 26.000 coloni della prima ondata si affiancarono nei tre anni successivi 250.000 lavoratori, che allentarono la stre a della disoccupazione nel momento peggiore della crisi.

Mussolini non sarebbe stato Mussolini se non avesse «romanizzato» la bonifica. Come i padri fondatori dell’Urbe, tracciò personalmente con l’aratro i confini di cinque nuove ci à («È l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende»). Nacquero così, all’interno e ai margini della palude, Li oria (l’odierna Latina), Pontinia, Sabaudia, Aprilia e Pomezia. Annotò ammirato nel 1934 Corrado Alvaro, allora fascistissimo, in Terra nuova: «Mai prima un territorio tanto vasto era stato riplasmato in un tempo così breve, da un giorno all’altro. Solo in guerra si era visto qualcosa di simile». Lo scri ore «fasciocomunista» Antonio Pennacchi, discendente di coloni veneti per parte materna, ha raccontato nella saga famigliare Canale Mussolini l’arrivo dei veneti nel Lazio e in Fascio e martello ha ironizzato sulla so ovalutazione che ha cara erizzato a lungo l’opera urbanistica di Mussolini: «Ma a te pare che uno storico di professione possa continuare a dire per quarant’anni che il Duce ha fa o 12 ci à, senza accorgersi che ne ha fa e almeno 147, tra grandi e piccole?». I maggiori urbanisti italiani fecero a gara per aggiudicarsi la proge azione dei nuovi insediamenti in diverse regioni italiane, ma sopra u o nel Lazio e nella «Roma imperiale», dai monumenti di regime alle case per gli impiegati statali, in una quantità e con una qualità urbanistica purtroppo mai più eguagliata. Da Le Corbusier a Marcello Piacentini, da Luigi Piccinato a Gio Ponti, da Adalberto Libera a Luigi More i e a Vi orio Ballio Morpurgo – che in larga parte ritroveremo tra gli antifascisti del dopoguerra – i migliori urbanisti prestarono volentieri la loro opera al Duce, che spesso visitava di persona i cantieri. Due critici severi del fascismo come Emilio Gentile (Fascismo di pietra) e Paolo Nicoloso (Mussolini archite o) riconoscono l’imponente lavoro svolto da Mussolini in campo urbanistico. Alcuni studiosi sostengono che fu la bonifica pontina a convincere Roosevelt nel 1933 a firmare il Tennessee Valley Act, un colossale piano di rinascita e sviluppo delle aree depresse di sei Stati federati per complessivi 100.000 chilometri quadrati, oltre cento volte la superficie dell’Agro pontino.

Per l’intera durata del regime, il Duce fece della bonifica pontina la sua stella polare. Dirà nel 1939, celebrando a Pomezia il diciasse esimo anniversario della marcia su Roma: «Se il Regime fascista nei suoi primi diciasse e anni di vita non avesse al suo a ivo altra opera che quella della bonifica delle paludi pontine, ciò basterebbe per raccomandarne la gloria e la potenza ai secoli che verranno». Guardando con gli occhi di oggi alla bonifica e alla gigantesca opera urbanistica che l’accompagnò, si penserebbe a un vistosissimo disavanzo pubblico. E invece, consultando L’economia dell’Italia fascista di Gianni Toniolo, si scopre che «nel complesso, l’azione del governo fascista in campo monetario e fiscale a uava con rigore gli orientamenti prevalenti, all’inizio della crisi, di tu e le cancellerie europee: tanto da a irare l’a enzione e il plauso dell’autorevole “The Economist” (12 se embre 1931) secondo il quale l’Italia in tal modo poteva essersi posta “in una posizione tale da affrontare la depressione con maggiore successo di molti altri paesi”». E anche quando nel triennio successivo si registrò in tu a Europa una maggiore larghezza monetaria e il deficit sfondò il 3 per cento del pil per arrivare al 5, Toniolo ritiene che l’Italia si sia mossa «sostanzialmente in linea con l’ortodossia finanziaria del tempo». Perciò De Felice può scrivere che la politica economica messa in a o per fronteggiare la Grande Crisi finì ogge ivamente per rafforzare il regime. Mussolini aumentò il peso dello Stato nell’economia nazionale (anche se esagerava quando sosteneva di controllarne tre quarti) più di quanto accadesse negli altri paesi europei. La politica economica ado ata dal regime fascista, scrive De Felice in Mussolini il duce, «contribuì a far compiere all’economia italiana quel salto qualitativo che le permise di assumere finalmente una dimensione “moderna e progressiva” non solo per un effe ivo, futuro progresso civile del paese, ma anche per rendere in qualche misura plausibile agli occhi del mondo la stessa pretesa mussoliniana di far giuocare all’Italia fascista il ruolo di “grande potenza”».

L’apertura di via dell’Impero e la nascita della «terza Roma» Da piazza Venezia si scorgevano il Colosseo e i Fori imperiali, ma per raggiungerli bisognava addentrarsi in un dedalo di vie che si erano affastellate dal Medioevo in poi. Nella seconda metà del Cinquecento il cardinale Michele Bonelli bonificò la zona tra il Foro di Nerva e la Colonna Traiana e fece sorgere un quartiere de o «Alessandrino» in omaggio alla ci à d’origine del porporato, con una via omonima che collegava il Foro di Traiano alla basilica di Massenzio. Ne nacque una zona piena di vita e di colore, che aveva la sua parte più romantica in piazza Montanara, ai confini dei rioni Sant’Angelo e Campitelli, dove c’erano bo egucce d’ogni genere e dove si davano convegno uomini in cerca di lavoro a giornata e scrivani al servizio di chicchessia. Se è vero che Mussolini aveva bisogno di una via dell’Impero per associare la propria grandezza a quella dell’antica Roma, è altre anto vero che fin dall’unità nazionale si avvertiva l’esigenza di collegare il centro ai quartieri Celio, Esquilino e Laterano e al mare. Il 21 aprile 1925 era stata potenziata la ferrovia che, in 30 minuti, portava dal centro di Roma a Ostia, e tre anni dopo, il 28 o obre 1928, veniva aperta l’autostrada de a «Via del Mare». In poco più di dieci anni i 119 residenti del borgo marinaro erano diventati 3500. La via Cavour, costruita dopo l’unità d’Italia, s’interrompeva davanti ai Fori e al quartiere Alessandrino. Si fantasticò persino di una sopraelevata che a raversasse i Fori, proge o poi complicato nel primo decennio del Novecento dalla costruzione del gigantesco complesso del Vi oriano. E già nel 1913 Corrado Ricci, dire ore generale delle Antichità e Belle Arti, aveva immaginato proprio la liberazione dei Fori dalle casupole che li soffocavano. Mussolini realizzò questi vecchi proge i nell’o ica di esaltare i fasti di Roma antica, isolandone i monumenti dalle superfetazioni successive e costruendo l’archite ura della «terza Roma», per la quale gli archite i del regime diedero il meglio di sé. «Bisogna liberare dalle deturpazioni mediocri tu a la Roma antica,» disse il Duce «ma

accanto all’antica e alla medievale, bisogna creare la monumentale Roma del XX secolo.» I lavori di sventramento – aperti da Mussolini, che diede il primo colpo di piccone – durarono soltanto un anno, tra polemiche vivacissime perché ogni urbanista aveva la sua soluzione. Furono demolite centinaia di casupole e 4000 residenti vennero deportati in zone periferiche allora prive di ogni servizio. Una pregiata area archeologica è stata perfe amente conservata nel so osuolo di quella che oggi si chiama «via dei Fori imperiali» ed è visitabile in un percorso assai suggestivo. Luigi Salvatorelli, diventato nel dopoguerra uno dei maggiori storici antifascisti, salutò la nuova opera come «un insieme che offre allo sguardo, tra pini e oleandri, avanzi possenti, taluni dalle linee pure e superbe, e tu ’intorno incombe un giro grandioso e vario di eminenze monumentali». «Metà di Roma è in demolizione! Nel cuore della ci à eterna case su case vengono abba ute per liberare il monumento a re Vi orio Emanuele II e aprire una nuova grande strada che raggiungerà il Colosseo costeggiando i Fori: la Via dell’Impero» annotava Paule Herfort in Chez les Romains fascistes. Aggiunge Emilio Gentile in Fascismo di pietra: «Gli stranieri che visitavano la capitale all’inizio degli anni Trenta erano impressionati dalle demolizioni in corso, affascinati dall’antica Roma che il duce stava resuscitando, stupiti dalla nuova Roma che egli stava costruendo». La via dell’Impero – lunga 900 metri e larga 30 – fu aperta da Mussolini su un cavallo bianco il 28 o obre 1932, alla testa di una legione di mutilati e di camicie nere. Aveva realizzato il suo sogno: congiungere piazza Venezia al Colosseo abba endo l’altura della Velia, così come Traiano aveva abba uto il colle che univa il Campidoglio al Quirinale per costruirvi il suo Foro.

Giovanni Gentile e l’Enciclopedia Treccani Come opera simbolica del regime, Mussolini volle affiancare alla liberazione dei Fori e alla nascita di via dell’Impero la pubblicazione dell’Enciclopedia Italiana, considerata per giudizio

unanime la più importante del XX secolo insieme all’Enciclopedia Britannica. L’iniziativa fu di un mecenate, l’industriale tessile e senatore Giovanni Treccani, subito affiancato da Giovanni Gentile, che fu il dire ore scientifico della prima edizione. Al filosofo di Castelvetrano va ascri o il merito di aver chiamato il meglio della cultura e della scienza italiane, senza sostanziali discriminazioni. Lui stesso disse di volere «tu i gli studiosi italiani di più alta e meritata riputazione scientifica». L’elenco dei 3266 collaboratori è pieno di intelle uali ebrei e anche di antifascisti, non soltanto quelli che lo sarebbero diventati dopo il 25 luglio 1943, e persino di docenti che nel 1931 avevano perso la ca edra per essersi rifiutati di giurare fedeltà al fascismo, come l’arabista Giorgio Levi Della Vida e lo storico dell’antichità Gaetano De Sanctis, che fu anche membro del consiglio dire ivo dell’Enciclopedia. Tra gli autori troviamo il socialista Rodolfo Mondolfo, e lo stesso Ugo La Malfa, arrestato e poi rilasciato, poté lavorare all’opera. Se si pensa all’autorevolezza dei contributi, colpisce la rapidità di pubblicazione dei 35 volumi, più 1 di indici, al ritmo di qua ro all’anno, dal 1929 al 1937. «Niente enciclopedia fascista» dirà nel dopoguerra lo storico Gioacchino Volpe, liberale e fascista moderato, «se si intende con questo epiteto un’opera con cui ogni pagina sia coordinata e subordinata a una certa do rina, come a suo tempo l’Encyclopédie francese, che fu l’enciclopedia dell’Illuminismo.» Voci come «Dante», «Rinascimento», «Romanticismo» e moltissime altre hanno opposto una superba resistenza all’invecchiamento, e la gran parte, pure invecchiando, ha goduto in origine di una rigorosa neutralità scientifica, mentre quelle più stre amente ideologiche recano la ferrea impronta filosofica del regime fascista e dello stesso Mussolini. Fu il Duce ad affidare a Gentile la redazione della prima parte della voce «Do rina del fascismo» («Idee fondamentali») e a scrivere di suo pugno la seconda parte («Do rina politica e sociale»), firmando con il filosofo l’intera voce. A questo proposito, De Felice osserva che Mussolini smentiva la sua

vecchia affermazione secondo cui il fascismo non si sarebbe mai fa o imbrigliare in uno schema do rinario. Gentile non aveva la sensibilità politica di Mussolini, che si trovò quindi in seria difficoltà con la Chiesa quando l’11 giugno 1932 uscì il volume con la voce «Fascismo». La Santa Sede s’infuriò quando lesse nella copia staffe a le considerazioni filosofiche su guerra e pacifismo. Il Duce ordinò di ritirare i pochi esemplari distribuiti e li fece ristampare con una versione più acce abile. L’incidente è curioso perché, mentre su tu e le voci le erarie e scientifiche gli studiosi poterono muoversi in totale autonomia, su quelle che coinvolgevano la Chiesa c’era la stre a sorveglianza – e talvolta persino la censura – di un comitato di ecclesiastici presieduto da padre Pietro Tacchi Venturi, che aveva avuto un ruolo importante nelle tra ative per la Conciliazione. Giovanni Gentile è stato il fiore all’occhiello dell’intellighenzia fascista. Enfant prodige dell’accademia filosofica italiana, libero docente a 27 anni, ordinario a 31, amico e sodale di Benede o Croce, fu chiamato da Mussolini al ministero dell’Istruzione già nel suo primo governo del 1922. Come ricorda Giovanni Belardelli in Il Ventennio degli intelle uali, la sua nomina venne accolta «con generale favore e diffuse aspe ative» per l’a esa riforma della scuola superiore. Il 26 novembre 1922 l’antifascista Augusto Monti scriveva all’antifascista Gaetano Salvemini: «Gentile rappresenta gran parte delle nostre idee in questo campo e ora un colpo di fortuna lo ha messo in grado di a uarle». Il filosofo era convinto che uno dei mali principali della scuola italiana fosse il numero eccessivo di studenti, e che, dunque, fossero necessarie una forte selezione e un’accesa concorrenza tra scuola pubblica e privata. Gentile immaginò il liceo come scuola per la classe dirigente, in quanto «vivaio di tu a la sostanza della vera cultura nazionale». Nel 1945 Charles De Gaulle fondò l’École nationale d’administration, di livello universitario, per formare la crema della burocrazia francese. Ebbene, le ambizioni di Gentile erano più ampie: con una selezione durissima fin dal ginnasio, voleva formare i migliori italiani di domani. Esagerò in severità: in due anni il numero degli studenti delle scuole secondarie pubbliche passò da 277.000 a 185.000 e, ai

p p primi esami di maturità fa i con il nuovo sistema, nei licei classici di Milano soltanto il 25 per cento degli studenti fu promosso. (Negli anni Cinquanta ho avuto insegnanti gentiliani: i 31 studenti della mia quarta ginnasio si ridussero a 23 dopo le vacanze di Natale.) Ci fu una rivolta, e Mussolini dove e acce are le dimissioni di Gentile e sostituirlo prima con Alessandro Casati, un autorevole modernista liberale amico di Croce, e subito dopo con Pietro Fedele, illustre storico del Medioevo, di manica assai più larga.

Trionfo e assassinio di un intelle uale di regime La riforma Gentile, benché centrata sulla valorizzazione del liceo classico, diede un’organizzazione rigorosa a tu o il sistema scolastico: nacquero l’obbligo di frequenza fino ai 14 anni, la durata dell’anno scolastico di dieci mesi e un’archite ura complessiva che sarebbe sopravvissuta fino al 1962, data d’istituzione della scuola media unica. Come avrebbe fa o per l’Enciclopedia Treccani, da ministro dell’Istruzione Gentile si circondò anche di intelle uali di rango non fascisti. Pur rifiutando la direzione generale dell’istruzione universitaria, Piero Calamandrei si dichiarò pienamente solidale con l’azione riformatrice «di quei pochi uomini di fede operosa, dai quali soli l’Italia può sperare una profonda rinnovazione spirituale». Gentile si dimise da ministro dell’Istruzione il 1° luglio 1924, dopo il deli o Ma eo i, ma restò legatissimo al regime. La sua ro ura con Croce avvenne nel 1925, quando scrisse un «Manifesto degli intelle uali fascisti agli intelle uali di tu e le nazioni» per scuotere un mondo rimasto alla finestra, invitandolo anche a «fare fascismo contro il fascismo» per la creazione di una nuova Italia. (Esa amente quello che nell’immediato secondo dopoguerra avrebbe fa o Toglia i aprendo le porte del Pci a tanti intelle uali che, fino al giorno prima, erano stati fascisti militanti.) Croce gli rispose con un documento perfe amente antitetico e il dissidio tra i due non fu più sanato.

Per buona parte degli anni Trenta, Gentile fu il dominus della cultura italiana. Fondò l’Accademia d’Italia, per depotenziare quella dei Lincei, gremita di intelle uali non fascisti, e diresse la Scuola Normale Superiore di Pisa e decine di altre istituzioni. (Mussolini fu sempre astutamente generoso con gli intelle uali: un accademico percepiva un ge one di 3000 lire al mese, cifra all’epoca più che ragguardevole.) La differenza tra Gentile e Mussolini in ambito culturale consisteva sostanzialmente in questo: il primo voleva dare una sistemazione organica e ideologica alla cultura fascista, mentre il secondo badava sopra u o ad avere in squadra nomi altisonanti. E non gli mancavano, se fin da giovane gli veniva riconosciuta una grande a enzione alle avanguardie (Carlo Carrà e Giuseppe Ungare i, Filippo Tommaso Marine i, Giuseppe Prezzolini e Ardengo Soffici), se Luigi Pirandello decideva di iscriversi al Pnf dopo il deli o Ma eo i, se Guglielmo Marconi andava a presiedere il Consiglio nazionale delle ricerche. Nel suo saggio, Belardelli sostiene che se da ministro Gentile esonerò molti presidi e insegnanti, lo fece sopra u o perché non ne considerava adeguate le competenze dida iche e morali (anche se non mancarono affa o le epurazioni politiche clamorose come quella di Arturo Labriola, primo nella terna a un concorso per la ca edra di Economia politica). Ci furono pesanti intrusioni nella vita privata di uomini e, sopra u o, donne, che appannano la figura del filosofo. In ogni caso, Gentile non fu un epuratore, e non lo furono nemmeno i suoi successori, se si pensa che nel 1928 il ministro dell’Istruzione Giuseppe Belluzzo, geniale proge ista di turbine a vapore, respinse gli inviti a calcare la mano arrivati dal segretario del partito, Augusto Turati, con queste parole: «Se si facesse piazza pulita degli ostili e degli aderenti poco sinceri al fascismo, le ca edre che si renderebbero disponibili tu e in una volta nelle università sarebbero parecchie, onde si correrebbe il rischio di lasciare, in qualche caso, gli studenti senza professore, o senza un professore in grado di insegnare la materia con profi o». Alla caduta del fascismo, il 25 luglio 1943, Gentile si complimentò con alcuni ministri del governo Badoglio, ma si tenne in disparte. Acce ò quindi di malavoglia la presidenza

p q g p dell’Accademia d’Italia della Repubblica di Salò offertagli con insistenza da quel Carlo Alberto Biggini, costituzionalista, che da ministro repubblichino aveva consentito a Conce o Marchesi, latinista insigne e comunista militante, di conservare la ca edra a Padova in nome dell’insindacabilità dell’ateneo. I tedeschi, indispe iti per l’a eggiamento moderato del filosofo, si rivalevano sul figlio Federico, prigioniero di guerra in Germania, l’unico a non poter ricevere le ere e pacchi viveri da casa. Finalmente Gentile cede e al rica o e il 19 marzo 1944, nel discorso tenuto all’Accademia in occasione del bicentenario della morte di Giamba ista Vico, lodò l’alleanza dei fascisti con i nazisti. Federico fu liberato il 30 marzo e il 15 aprile il filosofo fu ucciso sulla porta della sua abitazione di Firenze. Toglia i approvò a cose fa e il deli o e si trovò isolato nel movimento antifascista, che invece lo deplorò. Si sapeva che l’omicidio era maturato nell’ambiente comunista fiorentino, ma il Pci e i suoi storici di riferimento lo avevano negato per cinquant’anni. Finché nel 1996 Paolo Paole i, autore del libro Il deli o Gentile. Esecutori e mandanti, non raccolse la confessione in ospedale di Giuseppe Martini, uno degli assassini. E il 6 agosto 2004 Teresa Ma ei, iscri a al Pci fiorentino dal 1942, rivelò ad Antonio Carioti del «Corriere della Sera» i nomi dei mandanti: suo marito Bruno Sanguine i (erede delle industrie Arrigoni), Giuseppe Rossi, segretario del Pci fiorentino, e Ranuccio Bianchi Bandinelli, notissimo archeologo, talmente fascista da aver accompagnato come guida nel maggio 1938, per tre giorni, Hitler e Mussolini in visita ai tesori di Roma e di Firenze.

La «cavallina ma a» sposa Galeazzo Ciano Mentre uscivano i primi volumi dell’Enciclopedia Treccani, la vita di Mussolini veniva allietata dalle nozze della figlia maggiore Edda e ra ristata dall’improvvisa scomparsa del fratello Arnaldo. Prima di occuparsi del matrimonio di Edda, il Duce aveva dovuto pensare ai figli di Vi orio Emanuele III. La coppia reale voleva dare in moglie

la primogenita Iolanda al principe di Galles (poi diventato re d’Inghilterra con il nome di Edoardo VIII), ma lei non volle saperne. S’innamorò, invece, di un semplice ufficiale di cavalleria, il conte Giorgio Carlo Calvi di Bergolo, ge ando i genitori nella disperazione. Vi orio Emanuele chiese a Mussolini, presidente del Consiglio, di dissuaderla, ma non ci fu verso. E fu, peraltro, un matrimonio felice. Il re decise allora di far sposare Umberto con Maria José del Belgio: poiché anche in questo caso l’interessato non voleva saperne, Mussolini fu pregato d’intervenire e il principe cede e. Il matrimonio, celebrato l’8 gennaio 1930 con grande sfarzo nella cappella Paolina del Quirinale, fu un assoluto disastro. Poco dopo, Edda sposò Galeazzo Ciano. Mussolini le era legato da un affe o morboso. Edda era figlia della miseria e di una situazione famigliare molto tormentata. Vide la luce nel 1910, tre anni prima che esplodesse la relazione del padre con Ida Dalser dalla quale sarebbe nato un bimbo, Benito Albino, destinato come la madre a una tristissima sorte. Mussolini corse ai ripari sposando Rachele con il solo rito civile (erano tempi in cui l’uomo destinato a firmare i Pa i Lateranensi mai avrebbe messo piede in una chiesa). Quando nel 1916 le nacque un fratello, Vi orio, Edda ne fu gelosissima. Voleva scappare con gli zingari di un circo, il padre cercò di addolcirla facendole prendere lezioni di violino, ma lei continuò a comportarsi da ragazzaccia ancora da adolescente, facendo giochi da maschio con i maschi. Così, per il suo temperamento indocile, venne chiamata in famiglia «cavallina ma a», nomignolo che le rimase appiccicato per decenni. Appena ebbe l’età per innamorarsi, Edda lo fece in modo disordinato e travolgente. Non era bella: un naso importante penalizzava gli occhi luminosi, che piantava in faccia agli uomini senza mai abbassare per prima lo sguardo. Però, la sua prorompente femminilità e il fascino indiscusso le moltiplicarono i corteggiatori. Tra questi, il capostazione di Ca olica, dove i Mussolini andavano in vacanza, e un bellissimo indiano seguace di Gandhi di nome Sundaram, di cui s’innamorò durante una crociera in Oriente dove il padre l’aveva imbarcata per farle imparare un po’ d’inglese.

g In I figli del Duce, Antonio Spinosa ricostruisce, sulla base del racconto di Vi orio, fratello di Edda, l’accurata scelta del marito compiuta dalla famiglia. I Mussolini volevano un buon partito di ceto elevato, senza però dare l’idea di approfi are della figlia per propiziare la propria ascesa sociale. Furono perciò esclusi i rampolli dell’aristocrazia romana e la stessa Casa reale (si parlò a sproposito dell’abbozzo di una relazione tra Edda e Umberto). Ci fu un momento in cui Edda ebbe due fidanzati: uno più o meno ufficiale, Pier Francesco Mangelli, un ricco forlivese di buoni natali, e l’altro misterioso, di cui si seppe soltanto che era ebreo. Ma questo non le impedì di flirtare durante l’estate del 1929 con un paio di giovani che la polizia si affre ò a catalogare come pessimi sogge i. Il fidanzamento con Mangelli (sul quale era stato mantenuto un riserbo assoluto) si sarebbe concluso probabilmente con il matrimonio se il giovano o non avesse commesso una gaffe imperdonabile. Invitato a colloquio da Mussolini a palazzo Venezia, chiese al futuro suocero a quanto ammontasse la dote di Edda. Il Duce sgranò gli occhi alla Mussolini e soffiò in faccia all’incauto: «Mia figlia non avrà una dote, come non l’ebbe sua madre». Poi lo mise alla porta, ordinandogli di scomparire per sempre. E poiché lo sciagurato fu visto ronzare a orno a villa Torlonia, la polizia lo minacciò di arresto. Benito pregò allora il fratello Arnaldo di fare uno scouting più accurato. Un deputato salernitano, Giacomo Medici del Vascello, gli suggerì il nome di Galeazzo Ciano, figlio di Costanzo, eroe della prima guerra mondiale che Mussolini conosceva benissimo. Il ragazzo era stato scapestrato e persino antifascista. Poi, avviato alla carriera diplomatica, era rientrato come fascista a 24 carati da una missione in America latina e in Giappone. La giovane marchesa Resy Medici del Vascello combinò l’incontro in un ricevimento e Edda s’innamorò. Il 15 febbraio 1930 Galeazzo si presentò a villa Torlonia per chiedere in sposa la ragazza. Prima incontrò Mussolini da solo, poi furono introdo e Rachele e Edda. Ciano porse l’anello e Rachele l’avvertì: «Dovete sapere che mia figlia non sa rifarsi nemmeno il le o…».

Ceffoni in viaggio di nozze Il fidanzamento fu breve e movimentato. Movimentato da Mussolini, gelosissimo della figlia. Spinosa racconta che, una sera, il bel giovane aveva condo o la ragazza in un locale no urno di Roma. L’indomani fu chiamato a rapporto dal futuro suocero, che lo accusò apertamente di aver compromesso l’onorabilità della figlia: «Il vostro gesto è deplorevole e inqualificabile. Cercate di non ripeterlo più». Il Duce scrisse a mano sul rovescio di una vecchia partecipazione di nozze l’annuncio della nuova da mandare in tipografia. Il ricevimento nuziale fu fissato per il pomeriggio del 23 aprile 1930 nei giardini di villa Torlonia. Il matrimonio sarebbe stato celebrato il ma ino successivo nella chiesa di San Giuseppe, sulla via Nomentana, a pochi passi dalla villa. Edda aveva 19 anni, Galeazzo 27. Il ricevimento fu sontuoso. Vi orio Mussolini contò 510 persone: ambasciatori d’ogni paese, il nunzio apostolico in Italia, la crema dell’aristocrazia romana, ministri, parlamentari, dire ori di giornale. Il papa Pio XI inviò in regalo un rosario d’oro e malachite (che, per un refuso d’agenzia, diventò un «rasoio d’oro» e, come tale, fu riportato da molti giornali). Il re regalò alla sposa una spilla d’oro con pietre preziose, Gabriele d’Annunzio un mantello di velluto dipinto a mano e donò 500 lire a ogni bambino nato quel giorno a Roma, a Predappio e in altre qua ro località legate in qualche modo alla coppia. («A me papà regalò una bellissima tovaglia ricamata» racconterà Edda in La mia vita. «Mi sarei aspe ata di tu o, tranne un regalo del genere. Papà mi ha sempre fa o pochi regali, non ci pensava nemmeno al compleanno o all’onomastico. Quando riceveva lui dei doni, li dava a qualcun altro. In certi casi allo Stato…») Gli uomini indossavano frac e cilindro, le donne abito da mezza sera. Mussolini controllò personalmente l’assegnazione dei posti: volle al suo tavolo il nunzio apostolico. (L’ex socialista rivoluzionario aveva regolarizzato la sua posizione con Rachele

sposandola in chiesa nel 1925.) Suonava un quarte o dell’Accademia chigiana. Dopo la cerimonia nuziale, Edda si cambiò d’abito: lasciò quello bianco e ne indossò uno sportivo ripreso dai figurini della rivista «Le Jardin des Modes». Salutò romanamente padre e invitati e si mise alla guida di un’Alfa Romeo bianca, accanto al marito. Qualcuno vide Mussolini impallidire. Poi, di sca o, spinse Rachele dentro la sua auto sportiva e partì all’inseguimento della figlia. Dopo alcuni chilometri la rincorsa finì per iniziativa di Edda, che bloccò la sua ve ura aspe ando il padre. «Fin dove vuoi arrivare, papà?» gli chiese. «Sei ridicolo e mangi solo polvere.» «Stavo per tornare indietro» mentì l’altro imbarazzato. «Fu allora che mia madre mi mise in tasca mille lire» racconterà Edda «e disse: “Se tu avessi bisogno di qualche cosa…”. Questo fece morire dal ridere Galeazzo, perché lui era stato educato in una famiglia borghese, e gesti simili non riusciva a capirli. Noi invece eravamo dei proletari di tradizione socialista … Galeazzo si era stupito molto anche quando gli avevo mandato l’anello di fidanzamento a raverso un polizio o. Io non osavo darglielo, non sapevo come fare e allora incaricai un agente: “Senti, prendi questo anello e portalo al conte Ciano”.» Il viaggio di nozze della coppia non fu un esempio di romanticismo né di passione. Arrivarono a Capri con un vapore o e c’era, ovviamente, tu a l’isola ad aspe arli. («Per la vergogna mi sarei suicidata» racconta Edda.) Si chiusero nell’albergo Quisisana dove la sposa ordinò un’enorme quantità di cibo per tardare il momento di andare a le o, finché il maître non avvertì che la cucina era chiusa. «Lì cominciò il mio dramma» prosegue Edda. «Perché non sapevo che cosa fare. Ero molto spaventata. Quando arrivò il momento di andare a le o, mi infilai nel bagno e mi chiusi dentro.» Ciano bussò, lei gridò che se avesse insistito si sarebbe bu ata dai faraglioni, lui obie ò che dal Quisisana i faraglioni si vedevano, ma non erano lì, so o le finestre. «A quel punto scoppiammo a ridere e incominciò la nostra prima no e di nozze che, francamente, non fu molto divertente. Trovavo terribile tu o. In seguito le cose sono migliorate, ma c’è voluto del tempo.»

g p Da Capri la coppia andò a Rodi, dove s’imbarcò sullo yacht del conte Volpi di Misurata. Edda incontrò un vecchio corteggiatore e l’abbracciò. «Galeazzo non la prese bene. Scendemmo subito dallo yacht e quando giungemmo in albergo mi de e due ceffoni. Non che mi picchiasse, intendiamoci, ma qualche ceffone…» Qua ordici anni dopo, Galeazzo Ciano sarebbe stato fucilato per alto tradimento, in esecuzione della sentenza di condanna a morte emessa dal Tribunale speciale al termine del processo di Verona (810 gennaio 1944). Mussolini non mosse un dito. E tu i i disperati tentativi di Edda di salvarlo fallirono.

La morte di Arnaldo, la solitudine di Benito L’allontanamento da casa di Edda e la scomparsa del fratello Arnaldo precipitarono Mussolini in una profonda solitudine. La morte del fratello arrivò l’anno successivo al matrimonio della figlia e fu una perdita importante per il Duce e per il fascismo. Il 21 dicembre 1931, in un pomeriggio freddo e nebbioso com’erano quelli della Milano di una volta, dopo aver accompagnato alla stazione centrale la sorella Edvige che rientrava a casa in Romagna, Arnaldo fu stroncato da un infarto in automobile. Aveva 46 anni, due meno di Benito. In gioventù insegnante di agraria, so otenente nella prima guerra mondiale, Arnaldo aveva condiviso la passione politica del fratello e, dal 1922, lo sostituì alla direzione del «Popolo d’Italia». Fisicamente assomigliava al Duce, anche se in certe pose con gli occhiali lo si scambierebbe piu osto per Toglia i. «I tra i imperiosi di Benito si addolcivano in Arnaldo, l’impianto massiccio diventava pinguedine. L’a eggiamento abituale di Arnaldo non era dinamico, ma meditativo» scrivono Indro Montanelli e Mario Cervi in L’Italia li oria. «Tu avia non mancava di cara ere, né – entro i limiti concessigli – di iniziativa.» In realtà, secondo Renzo De Felice, Arnaldo fu il dire ore effe ivo del «Popolo d’Italia», con una propria linea politica autonoma da quella del fratello, anche se sicuramente non

antagonistica. Era, in un certo senso, il «moderatore» di Benito, la sua coscienza critica: ne limava gli eccessi, gli suggeriva prudenza, come durante le complesse tra ative per la Conciliazione o nei mesi che precede ero la sua morte, quando gli scontri politici con la Santa Sede erano ripresi. Ed era un uomo talmente saggio da censurare sul suo stesso giornale gli articoli troppo apologetici nei confronti del Duce. Arnaldo era, inoltre, il collegamento discreto con il mondo lombardo che contava, in particolare quello economico. Ma, sopra u o, era l’unico vero amico di Mussolini, il solo di cui lui potesse davvero fidarsi. I due fratelli si sentivano ogni sera verso le 22, commentavano la vita del giornale, la vita politica e la vita familiare. (Arnaldo, fra l’altro, era il cassiere della famiglia Mussolini, sempre vissuta prevalentemente con i denari del «Popolo d’Italia».) Se è vero, come sostiene De Felice, che la sua sopravvivenza difficilmente avrebbe impedito al fratello di compiere le scelte sbagliate, è accertato che la sua morte influì in modo molto negativo sul cara ere di Benito. Solitudine e diffidenza crebbero in lui in modo patologico e nessuno lo protesse più dall’assalto degli adulatori.

IV

Cinque gerarchi, cinque storie diverse

Tre segretari di partito in due anni Fra il 1930 e il 1932, tre uomini si alternarono alla segreteria del Partito nazionale fascista, rendendone via via più fragili le fondamenta. Nel 1926, quando l’Italia era ancora in subbuglio per il deli o Ma eo i, per arginare gli eccessi di Roberto Farinacci fu nominato segretario, su indicazione di Mussolini, Augusto Turati. Con un mandato inferiore ai cinque anni, secondo Renzo De Felice fu il miglior segretario nella storia del Pnf. Ufficiale valoroso nella prima guerra mondiale, giornalista capace e brillante oratore, uomo moderato e favorevole alla «conciliazione nazionale», ebbe l’incarico di me ere ordine nel partito. E lo fece in modo inflessibile, acquisendo grande potere e forte autorevolezza. Mussolini non lo temeva, avendone sperimentato l’assoluta fedeltà, ma si era irritato per il suo rifiuto di espellere dal partito Farinacci (che gli manifesterà, peraltro, tu a la sua ingratitudine) e la corrente giudicata dal Duce troppo estremista. Inoltre, Turati aveva una propria visione su alcuni aspe i decisivi della politica economica. Temeva la crisi più di Mussolini: avrebbe rinunciato volentieri ai tanti sacrifici, sociali e monetari, necessari a mantenere «quota 90» con la sterlina e avrebbe voluto destinare i capitali disponibili a provvidenze dire e all’industria e all’agricoltura, anziché impiegarli nella realizzazione di grandi opere pubbliche e nella lo a alla disoccupazione. (Un giorno il Duce sbo ò: «Vuol dire che doma ina io manderò i disoccupati a casa sua!».) Si giunse, perciò, a un punto di ro ura, e il 14 se embre 1930 Turati si dimise. Dopo essere diventato membro del Gran Consiglio, andò a dirigere «La Stampa» di Torino, su chiamata di Giovanni Agnelli.

Due anni dopo Achille Starace, che era stato suo vice e gli rimproverava di considerarlo una nullità (quale era), s’impegnò a ivamente nella campagna scandalistica a sfondo sessuale lanciata contro di lui da Farinacci grazie alle confidenze e alla complicità di Paola Marcellino, una maîtresse che gestiva una lussuosa casa d’appuntamenti frequentata da entrambi. Turati fu accusato di essere bisessuale e di partecipare a quelli che poi sarebbero stati chiamati «balle i verdi» (per distinguerli dai «rosa», eterosessuali). Non si ebbe mai la prova di nulla, ma fu perseguitato e dove e lasciare la direzione della «Stampa», nonostante l’energica difesa da parte del senatore Agnelli. Arrestato, fu mandato prima in manicomio e poi al confino a Rodi, tu e angherie subite con grande dignità. Molti anni più tardi, nel 1937, chiese e o enne la riammissione nel Partito fascista. Dirà Mussolini al suo biografo (fascista) Yvon De Begnac: «La voce pubblica, agitata da Roberto Farinacci, venne catapultata su Turati, che, dal punto di vista dei rapporti con l’altro sesso, non era e non è un cherubino. Finché guidò le sorti del partito lo sostenni. Farinacci, da anni, a endeva il momento per sistemarlo una volta per sempre. Voi mi dite, Yvon, che Turati fu sommerso dalla calunnia, e che la sua omosessualità fu una fosca favola inventata dall’uomo di Cremona ai suoi danni. Ma, in Italia, quando la voce pubblica, comunque organizzata, colpisce, nulla è possibile per renderla inoperante» (Taccuini mussoliniani).

Achille Starace, macchie a tragicomica al potere Mussolini fece sostituire Turati con Giovanni Giuriati, irredentista, già capo di gabine o di Gabriele d’Annunzio a Fiume, onesto, gran lavoratore, uomo di poche parole e di molto senso pratico. Gli fu assegnato il compito di ripulire il partito dagli anziani troppo intransigenti e dai giovani troppo opportunisti, di allargarlo agli universitari e alle donne, di creare un «clima duro» che unisse gli italiani so o le insegne del Duce. Giuriati prese il compito troppo alla le era: Mussolini si aspe ava 10.000 epurati e se ne ritrovò

dieci volte tanti. Così, dopo appena qua ordici mesi, l’8 dicembre 1931 fece l’errore di chiamare alla guida del partito Achille Starace, che vi rimase o o lunghissimi anni. Pugliese di Sannicola, allora frazione di Gallipoli, rampollo di un’agiata famiglia di armatori e commercianti napoletani, Starace è stato da subito un ragazzaccio. Scrive Antonio Spinosa nella sua biografia: «Bastava un fischio per raccogliere intorno a sé, sul sagrato della ca edrale barocca di Sant’Agata, una masnada di ragazzacci pronti a menar le mani. Torace e muscoli d’acciaio, li vinceva tu i nella corsa intorno ai bastioni, era chiamato il “pieveloce”, li ba eva nella lo a e nel braccio di ferro. Era un discolo che amava più la strada e il mare che le ombrose stanze del palazzo paterno di via Fontò o i banchi della scuola. Bu ava i libri in un angolo della sua camere a, lasciava il ginnasio per la ginnastica, cui si dedicava con tu a l’anima». Abbandonati gli studi per la carriera militare, si ba é con valore nella prima guerra mondiale (una medaglia d’argento, qua ro di bronzo, due croci di guerra italiane e una francese), fu un fascista della prima ora (mandato in Trentino a domare gli irredentisti filogermanici) e uno dei fondatori della Milizia. E fin qui tu o torna: se si tra ava di comba ere e di menar le mani, Starace era l’uomo giusto. Il problema era la sua assoluta mediocrità, che lo rendeva davvero inada o a ruoli di leadership politica. La sua nomina lasciò di sale quasi tu o il partito. Leandro Arpinati, vice di Mussolini al ministero dell’Interno, gli disse: «Starace è un cretino». «Lo so,» fu la celebre risposta del Duce «ma è un cretino obbediente.» Secondo Indro Montanelli e Mario Cervi, «proprio i suoi dife i più evidenti, la superficialità, la limitatezza di orizzonti culturali, la propensione per una pompa pseudoguerriera e in effe i piu osto sudamericana, la docilità agli ordini, fecero cadere su di lui la scelta di Mussolini» (L’Italia li oria). E in Mussolini il duce De Felice aggiunge: «Che Starace fosse un uomo di scarsa intelligenza, animato da una mentalità stre amente militaresca e niente affa o politica, che lo portava a scambiare la forma esteriore, l’apparenza delle cose con la loro sostanza, è pacifico. Da qui il suo appagarsi ed entusiasmarsi per risultati apparentemente grandiosi ma in realtà

p pp g effimeri, quali un inquadramento di masse di anno in anno sempre più numerose ma organizzate con criteri esclusivamente burocratici, una partecipazione di esse alla vita del regime solo su basi emotive e coreografiche (in parte coa ive), uno “stile di vita” che – mancando di contenuti veramente sentiti ed espressi dall’intima consapevolezza di operare per una società nuova e di poter contribuire al suo formarsi con un proprio apporto creativo – era quasi sempre il fru o solo di un generico ada amento, esteriore, superficiale e spesso opportunistico, ad un rituale, ad una retorica, ad una pianificazione dall’alto dei successivi gradi del cursus fascista, che, pertanto, erano sentiti come qualcosa di estraneo e di imposto e suscitavano, a seconda dei casi, noia, insofferenza, sce icismo, irrisione». Nel 1931, quando assunse la carica di segretario del partito, Starace aveva 42 anni, ma ne dimostrava meno. «Ha il culto del Duce,» annota Roberto Gervaso in I Destri «ma anche della propria persona. La ma ina passa un’ora in bagno, è sempre pimpante, sca ante, infaticabile. Non avendo abbastanza intelligenza per capire quanta gliene manchi, non legge nulla, credendo di sapere tu o. Fa tanta ginnastica e molto sport: maneggia gli a rezzi con olimpionica bravura … Il meglio di sé lo dà nel salto – in alto, in lungo, triplo – in motocicle a, in bicicle a, in sella a un baio o a un sauro.» La no e non è mai solo. Gli piacciono le donne, e lui a loro. S’incapriccia di una cantante, Pierisa Giri, che frequentava i tanti dopolavoro con un Carro di Tespi, come venivano chiamate le stru ure teatrali itineranti ideate per allestire spe acoli di prosa e opere liriche negli angoli più sperduti della provincia italiana. Lui la riempie di fiori e di no i infuocate, la impone alla Scala e al San Carlo. Ma lei vuole sempre di più. Racconta Spinosa: «O mi fai cantare il Rigole o all’Opera di Roma e mi assicuri l’intervento e gli applausi del Duce, o ti lascio». De o, fa o. Il Duce va, si spella le mani, ma la storia finisce, e Pierisa cede il posto a una soubre e, a una contessa e così via.

Saluto al DUCE e salto nel cerchio di fuoco Lo studioso e diplomatico A ilio Tamaro ha ricostruito in Venti anni di storia il debu o di Starace nella nuova carica il 12 dicembre 1931. I maggiori gerarchi del partito si riunirono in una sala di palazzo Venezia per ascoltare comunicazioni di Mussolini. Quando furono seduti, Starace disse che si doveva fare una prova generale affinché l’accoglienza al Duce venisse davvero bene. Gli astanti restarono di sale. Starace proseguì parlando in terza persona: «Il segretario del partito, come il Duce sarà entrato, farà qua ro passi per andargli incontro. Si fermerà quindi sull’a enti e, tenendo il braccio ben teso, dirà forte “Saluto al Duce!”: i presenti risponderanno “A noi!”, curando di essere bene all’unisono, come un grido solo. Dopodiché la fanfara eseguirà o o ba ute di Giovinezza». Il principe Francesco Boncompagni Ludovisi, governatore di Roma, esterrefa o sussurrò a Giuriati, predecessore di Starace: «Questo segretario non resterà tre mesi in quel posto». Giuriati, che conosceva bene sia il successore sia Mussolini, replicò: «Vi sbagliate, egli vi starà per dieci anni». Sbagliò di poco. Quella che sembrava una sceneggiata, diventò la regola. Il saluto al DUCE (da allora la parola andò scri a sempre e soltanto con tu e maiuscole) andava fa o con il braccio destro teso a 170 gradi e le dita della mano destra bene unite. E poi, il «voi» al posto del «lei» (con fior di le erati che si affannarono a giustificare grammaticalmente la scelta), la mania degli esercizi ginnici, dei salti nel cerchio infuocato o su una siepe di baione e. Il ridicolo catalogo dei comportamenti: la stre a di mano era sospe a («mollezza anglosassone»), la parola «insediare» andava abolita in quanto richiamava la sedia, cioè la poltrona, cioè la sete di potere. Le parole straniere dovevano essere abolite: il garage diventava «autorimessa», il bar «mescita» e così via. Fu istituito il «sabato fascista», al quale tu i i gerarchi dovevano presentarsi in divisa; i giovani erano chiamati alle adunate sportive, mentre le classi popolari venivano coinvolte nei «sabati teatrali» (iniziativa lodevole) per migliorarne le basi culturali. Con lo stesso spirito che imponeva alla lampada della stanza di Mussolini a palazzo Venezia

di restare accesa tu a la no e, così le sezioni del partito dovevano rimanere aperte fino alle 23. Erano una sorta di pronto soccorso ideologico, utile anche a rispondere a esigenze pratiche. Leo Longanesi, anima critica del fascismo, impiccò Starace al divieto di inamidare il colle o della camicia nera. Ancor peggio la crava a dello stesso colore: se non bene annodata, faceva anarchia, quindi ostracismo. Mussolini cercò di temperarne gli eccessi più ridicoli, come l’ordine di concludere anche le le ere private con «Viva il DUCE!»: scri o alla fine di un messaggio di condoglianze o so o una le era di licenziamento, diventava gro esco. Tu avia, lo utilizzò per la costruzione del proprio monumento propagandistico. Basta leggere il «Popolo d’Italia» del 12 o obre 1932: «È il DUCE che in ogni cosa, in ogni nostra manifestazione che lo riguardi, appare più grande, più luminoso, più distanziato da noi dal suo passo, dal suo genio, dal suo cuore, dalla sua passione, che sempre più ingigantiscono, sì che la nostra pur incommensurabile fede e tu a la nostra inesauribile passione non ci consentono di raggiungerlo, ma anzi ogni giorno di più ci danno la sensazione di quanto poca cosa noi siamo di fronte a lui, che è tu o per noi, è tu o per quarantadue milioni d’italiani…». Provate a sostituire la parola DUCE con la parola DIO e vedrete come anche a un uomo prudente e pragmatico come Mussolini fosse facile perdere la testa. «È fuori dubbio» conclude De Felice «che la presenza di un tale uomo a capo del Pnf incise alla lunga su tu o il tessuto morale del regime ed ebbe su di esso una influenza indubbiamente negativa. Su questo tipo di valutazione non è possibile non concordare con i critici anche più radicali di Starace.» Mussolini lo mandò alla guerra d’Etiopia per le sue qualità militari, bene a ento a non turbare il delicato equilibrio tra l’ala filomonarchica del regime e quella più stre amente legata al partito. Lo sostituì nel 1939 – e per un breve periodo – con E ore Muti. Starace aveva molti nemici, e qualcuno andò a dire a Mussolini che il segretario era pederasta e ie atore: due a ributi insopportabili per il Duce. Calunnie, forse. Ma Mussolini, che non si aspe ava l’invasione della Polonia (fa a da Hitler senza

informarlo), capì che il momento era troppo drammatico per far guidare il partito a una macchie a. Fedele e anche onesta (non si trovarono prove di ruberie), ma pur sempre una macchie a. Gli comunicò il siluramento tornando in automobile da una visita a Pomezia. Starace non se l’aspe ava e restò basito. Odiava – ricambiato – il suo successore, ma dove e rassegnarsi. Mussolini lo rispedì alla guida della Milizia, da dove lo sollevò durante la guerra per la mediocre prestazione nella campagna di Grecia. Allontanato definitivamente dal Duce nel periodo di Salò, Starace andò a vivere a Milano, senza nascondersi. Il 29 aprile 1945 un gruppo di partigiani lo sorprese mentre usciva di casa in tuta da ginnastica. «Dove vai, Starace?» gli chiesero. E lui, come se niente fosse: «A prendere un caffè…». Lo processarono sommariamente e lo condussero a piazzale Loreto, dopo averlo portato in giro per la ci à perché tu i potessero insultarlo. Prima di essere fucilato, salutò romanamente il cadavere di Mussolini appeso accanto a quello di Clare a Petacci.

Italo Balbo, il grande trasvolatore La popolarità internazionale di Mussolini, sopra u o negli Stati Uniti, crebbe enormemente all’inizio degli anni Trenta grazie alle trasvolate transatlantiche di Italo Balbo. Balbo era nato per fare la star. Alunno precocissimo, poi perdutosi negli studi fino a una laurea tardiva in scienze sociali all’università Cesare Alfieri di Firenze, fu un acceso interventista, un alpino e ardito valoroso nella prima guerra mondiale (due medaglie d’argento e una di bronzo). Sposò la contessina Emanuela Florio alla morte del padre di lei, sempre fieramente contrario al matrimonio. Trovandosi senza lavoro, acce ò l’impiego di segretario del Fascio ferrarese, passando presto al soldo degli agrari che volevano essere difesi dagli squadristi nel «biennio rosso» (1920-21). Nel 1922 Mussolini si sdebitò nominandolo quadrunviro al momento della marcia su Roma.

Simpatico, compagnone, sfacciato, arrogante, Balbo era l’unico tra i gerarchi che si perme eva di dare del tu a Mussolini, chiamandolo «Presidente» e non «Duce». Il denaro della moglie gli consentiva una vita agiatissima, ma lui rimase sempre un guascone. Scrive Pierre Milza in Mussolini: «Balbo è un condo iero del Rinascimento. Ne ha la magnificenza, la litigiosa arroganza, la generosità sele iva, la crudeltà vendicativa verso quanti si sono resi colpevoli di qualche mancanza nei suoi confronti. Il suo comportamento oscilla tra le maniere di un principe e quelle di un masnadiero. Ama il vino, le donne, gli scherzi da caserma, i modi virili, le barzelle e quando hanno per ogge o i suoi rivali all’interno del Gran Consiglio e gli vengono raccontate in diale o ferrarese». Eppure, nella guida degli affari pubblici, Balbo era rigoroso e intransigente. Sulla facciata del Palazzo Aeronautica fece incidere il mo o «Chi vola vale, chi non vola non vale, chi vale e non vola è un vile». Nel 1925 fondò il ministero dell’Aeronautica come arma autonoma, due anni dopo prese il breve o di pilota e nel 1928, con 61 idrovolanti, in una se imana fece una crociera di 2800 chilometri nel Mediterraneo occidentale, sorvolando la Francia e la Spagna. Comandante della crociera era l’asso dell’aviazione Francesco De Pinedo, ma, pur tributandogli ogni onore, al rientro gli soffiò la promozione a generale di squadra aerea (Balbo era ancora capitano degli alpini), gli negò il grado di so ocapo di Stato maggiore della neonata aeronautica e, nel 1929, lo retrocesse al rango di semplice pilota nella crociera del Mediterraneo orientale, anch’essa conclusa con successo. La frustrazione di De Pinedo era, quindi, perfe amente motivata. Schivo e riservato per quanto l’altro era estroverso e guascone, De Pinedo aveva aperto, insieme ad Arturo Ferrarin, istru ore e compagno di volo di Gabriele d’Annunzio, l’era delle grandi trasvolate transatlantiche, tanto da essere definito da Mussolini «messaggero d’italianità». Ufficiale di marina prestato all’aeronautica quando questa non era ancora un’arma autonoma, ritenne che il velivolo migliore per le lunghe trasvolate non fosse un aereo tradizionale, bensì l’idrovolante, in grado di a errare su

g superfici d’acqua di ogni genere. Il 20 aprile 1925, insieme al motorista Ernesto Campanelli, decollò dall’idroscalo di Sesto Calende (sede della Savoia-Marche i, che aveva costruito l’aeroplano) e volò per 370 ore a raverso tre continenti. Come racconta lo stesso De Pinedo nel suo libro Un volo di 55.000 chilometri, l’impresa si articolò in tre fasi: da Sesto Calende a Melbourne, in 33 tappe per 161 ore e 23.500 chilometri; da Melbourne a Tokyo, in 22 tappe per 90 ore e 30 minuti e 13.500 chilometri; da Tokyo a Roma, in 25 tappe per 118 ore e 30 minuti e 18.000 chilometri. L’ultimo tra o (Tokyo - Shanghai - Hong Kong Hanoi - Saigon - Calcu a - Delhi - Karachi - Persia - Egeo) si concluse il 7 novembre 1925, con tre giorni di ritardo sulla data prevista del 4, se imo anniversario della Vi oria. L’ammaraggio avvenne nel Tevere, in un tripudio di folla. De Pinedo aveva 35 anni e aveva volato con il suo compagno in condizioni estreme: volto all’aria, bassa quota, velocità di 100-250 chilometri all’ora, difficoltà e imprevisti di ogni genere, comprese le imbarcazioni di tu i i tipi che affollavano la zona di ammaraggio dell’idrovolante. Pochissimo spazio per i bagagli (eppure servivano anche abiti da sera per l’infinità di cerimonie di festeggiamento), alimentazione più che frugale (uova e marmellata). Un gran colpo di teatro per Mussolini e per la tecnologia italiana. Il bell’ufficiale, di famiglia aristocratica napoletana (l’idrovolante si chiamava Gennariello, in onore del prote ore della sua ci à), diventò ben presto l’idolo delle donne: andò subito di moda per i vestiti femminili «l’azzurro De Pinedo», dal colore della sua divisa. Ma il contrasto con Balbo – nominato nel fra empo ministro dell’Aeronautica – prima lo relegò al ruolo di adde o aeronautico in Argentina e, poi, lo portò alle dimissioni. Nel 1933 De Pinedo morì per un errore inconcepibile per un pilota della sua esperienza. Il 3 se embre partì da New York per un’altra missione spe acolare: raggiungere Baghdad in monoplano con una crociera di oltre 10.000 chilometri. Sovraccarico di cherosene, l’aereo non riuscì a decollare e andò a schiantarsi in fondo alla pista, mentre il pilota, sbalzato dall’abitacolo, morì tra le fiamme sprigionate dall’incendio del carburante.

p g

Mussolini: «Balbo? L’unico capace di uccidermi» Balbo voleva ormai conquistare il continente americano. Tra il 17 dicembre 1930 e il 15 gennaio dell’anno successivo guidò la prima crociera transoceanica di massa, con 4 squadriglie di aerei e 14 idrovolanti, partenza da Orbetello e arrivo a Rio de Janeiro. Tre aerei furono vi ime di incidenti, anche mortali, ma il successo dell’impresa fu il lancio per la successiva: la trasvolata del 1933 per il decennale della nascita della Regia Aeronautica. La destinazione era Chicago, dove si svolgeva il Century of Progress, una grande esposizione internazionale per festeggiare il centenario della ci à. I postumi della crisi del 1929 avevano limitato a 9 i padiglioni stranieri presenti, e l’Italia fu il paese che destò la maggiore curiosità grazie a un notevole esempio di archite ura razionalista stre amente ispirata al regime. Il colpo di teatro fu la donazione alla ci à di Chicago di un’antica colonna romana, sistemata all’ingresso del padiglione e lasciata sul posto in nome dell’amicizia italiana e a ricordo della manifestazione. La crociera aerea Orbetello - Chicago - New York - Roma iniziò il 1° luglio 1933 e si concluse il 12 agosto. Vi parteciparono 25 idrovolanti, assistiti da una vera e propria piccola flo a aerea. Ne tornarono 24, con 2 uomini d’equipaggio in meno, morti in due gravi incidenti. La ro a prevedeva tappe in Olanda, Irlanda del Nord, Islanda, Canada e il sorvolo delle coste del Labrador, prima dell’approdo negli Stati Uniti. L’accoglienza fu trionfale. Il se imanale «Time» dedicò a Balbo la copertina, il sindaco di Chicago proclamò il 15 luglio «Italo Balbo’s day» e chiamò la Se ima Strada, vicino al lago Michigan, «Balbo Avenue». (Nell’immediato dopoguerra l’ambasciatore italiano Alberto Tarchiani, antifascista, protestò per la dedica della strada a un gerarca. E il sindaco, candidamente, gli rispose: «Perché? Non l’ha fa a Balbo la trasvolata atlantica?».) La tribù dei pellerossa delle praterie lo incoronò con un copricapo di penne d’aquila, come fosse un capo Sioux. Ragazzi e ragazze della tribù lo onorarono con una danza propiziatoria chiamandolo «Grande Capo Aquila Volante».

L’ammaraggio del ritorno a Orbetello, come prevedibile, fu trionfale. In La radio italiana nel periodo fascista, Franco Monteleone ricorda l’entusiastica radiocronaca che ne fece Filippo Tommaso Marine i: «Ronza, brilla e ride fra gli scintillii turchini dell’orizzonte l’ampia musica di Balbo e degli Atlantici. O belle ventiqua ro voci del nuovo coro di macchine … Coro celeste e prepotente di raggi e suoni spaccanti che magistralmente dirige Mussolini, lontano vicino onnipresente, con telefono telegrafo e radio, regolati sempre dal genio italiano di Volta Marconi … Ora scendete con belle spirali sentimentali fra gli altoparlanti d’Italia che gonfiano di rombanti singhiozzi la loro voce bruna … Splende su ogni capo la reboante aureola dell’elica … L’incrociatore Diaz spara a salve … Il sole rassomiglia al genio creatore italiano. La folla delirante urla: “Eccoli, eccoli, eccoli! Duce! Duce! Italia! Italia!”. Rombo, rombo, rombo dei motori…». L’immensa popolarità di Balbo (de o «Pizzo di Ferro» per la sua barba corta, che poi fu chiamata la «barba alla Balbo») dava naturalmente parecchio fastidio a Mussolini, che vide in lui un potenziale successore. E poiché non aveva in programma di diventare un ex Duce, cominciò a neutralizzarlo. Intendiamoci: in apparenza, non fece niente per scalfirne la popolarità. Al ritorno dagli Stati Uniti, lo fece passare so o l’Arco di Costantino come un condo iero romano reduce da una campagna vi oriosa e lo promosse «maresciallo dell’Aria». Ma, in concreto, gli tagliò le gambe. Balbo voleva riunire le tre armi in un solo ministero, com’è oggi. L’avrebbe guidato Mussolini e lui sarebbe stato il capo di Stato maggiore generale, con poteri più ampi di quelli detenuti da Pietro Badoglio, che occupava quella carica. Il Duce non solo non gli diede il posto, ma dalla sera alla ma ina lo spedì in Libia come governatore. La notizia lo raggiunse mentre stava per inaugurare a Roma il nuovo circolo degli aviatori. Farinacci, che era presente, lo descrisse come «tramortito». È vero che Balbo si curò poco della preparazione bellica dell’industria aeronautica italiana, privilegiando le iniziative spe acolari, ma era un organizzatore formidabile e ne diede prova anche in Libia, trasformando completamente la colonia. Uomo assai

p aperto e non razzista, ebbe un eccellente approccio con le popolazioni locali, che desiderava elevare oltre il livello coloniale. Propose addiri ura di concedere con maggior larghezza la ci adinanza italiana (proposta respinta in gran parte da Mussolini) e portò in Libia 1800 famiglie che vi sarebbero rimaste fino al 1970, quando furono espropriate e cacciate su due piedi da Gheddafi. Nella colonia creò villaggi all’italiana, promosse il turismo e costruì migliaia di chilometri di strade sulla litoranea e nel deserto, a rezzandole con case cantoniere per due famiglie perché ne curassero la manutenzione. Balbo mantenne sempre un’assoluta libertà di pensiero: disse a Mussolini che l’alleanza con Hitler era un errore, criticò apertamente le leggi razziali e tentò senza fortuna di portare il Duce nel campo anglofrancese e di evitare il confli o. Mussolini non sopportava questa sua dissidenza ideologica. Un giorno, parlando con Galeazzo Ciano, sbo ò: «Balbo sarà sempre quel porco democratico, oratore della loggia Girolamo Savonarola a Ferrara», dalla quale peraltro si era dimesso già nel 1923. La seconda guerra mondiale durò per Balbo soltanto 18 giorni. Il 10 giugno 1940, quando il Duce decise di entrare nel confli o, era in Libia. Il 28 era in azione contro gli inglesi e tentò di a errare là dove salivano colonne di fumo. Non avvertì la base e il suo aereo fu centrato dalla contraerea italiana, che lo scambiò per un velivolo nemico. Così, almeno, si disse. Balbo morì con tu o l’equipaggio. Gelido il commento di Mussolini: «Un bell’alpino, un grande aviatore, un autentico rivoluzionario. Il solo che sarebbe stato capace di uccidermi». Badoglio, che gli era vicino quando apprese la notizia, raccontò che il Duce non dimostrò il minimo turbamento.

Galeazzo Ciano, il delfino sciupafemmine Se mai, davvero, Balbo si fosse illuso di sostituire Mussolini, avrebbe dovuto guardarsi da quello che per un certo periodo ne fu considerato l’erede naturale, se non altro per ragioni familiari: Galeazzo Ciano. Dopo il matrimonio con Edda, il giovano o fu

inviato in Cina come incaricato d’affari a Shanghai, dove visse con la moglie tre anni dorati, allietati nel 1931 dalla nascita del primogenito, tra mollezze d’ogni genere. Due anni dopo Edda restò di nuovo incinta, e il Duce, che soffriva da tempo per la sua lontananza, richiamò Ciano a Roma e gli affidò l’incarico di capo dell’ufficio stampa della presidenza del Consiglio (un ruolo delicatissimo, visto il controllo maniacale esercitato da Mussolini sui giornali), trasformandolo in una macchina propagandistica che sarebbe cresciuta fino a diventare, nel 1937, il ministero della Cultura popolare, il famoso Minculpop. Al di là del quadre o idilliaco di facciata, la vita matrimoniale di Edda e Galeazzo era molto movimentata, se non addiri ura tempestosa. L’affascinante, garbato e signorile diplomatico, in casa era talvolta un uomo violento che brutalizzava la moglie, oltre a tradirla in maniera seriale. Anche Edda, però, aveva i suoi vizi. Il gioco, innanzitu o. In Cina giocava (e perdeva). Continuò a giocare (e a perdere) a Roma. Le somme erano rilevanti e ben presto non fu in grado di onorare i debiti. All’Archivio centrale dello Stato è conservato un suo telegramma dall’hotel Quisisana di Capri a Osvaldo Sebastiani, segretario particolare del Duce: «Caro Sebastiani, desidererei, se fosse possibile e all’insaputa di mio padre e di mio marito, che lei mi mandasse la somma di L. 15.000. Ho avuto delle spese straordinarie e avrei bisogno di un po’ di denaro per non rimanere in pegno all’oste». Sebastiani provvide, naturalmente dopo aver chiesto il permesso a Mussolini. I soldi venivano a inti dal cospicuo fondo messo periodicamente a disposizione della famiglia Mussolini dal «Popolo d’Italia», di cui era proprietaria. La stessa cosa avvenne in circostanze successive, consentendo al Duce di tenere d’occhio la figlia predile a anche restando nell’ombra. Deda – come veniva chiamata in famiglia – era quel che si dice una donna «moderna». In spiaggia indossava il due pezzi, che per l’epoca era un costume inconsueto, fumava accanitamente, guidava a tu a velocità auto sportive. Aveva anche il dife uccio di condurre una vita sessuale sfrenata e certamente inadeguata al ruolo di figlia di suo padre e di moglie di suo marito. Nella biografia del «genero

p g g g di regime», Eugenio Di Rienzo annota che i rapporti delle questure documentavano la frequentazione da parte di Edda di «sogge i di pessima condo a, cacciatori di dote, dissipatori di patrimoni, cocainomani sospe i di essere stati affe i da mala ie sessuali, perfino giovani ebrei». I pe egolezzi ai suoi danni si sprecavano e le voci ingigantivano la realtà, peraltro già cospicua. Si parlò a sproposito di orge, di amori a pagamento con giovani gigolò. Sembrano certi, invece, i flirt con un capostazione, un maestro di sci, una guida alpina, lo stilista Emilio Pucci. Rimasta vedova a 34 anni, al termine della guerra Edda fu mandata in confino a Lipari, dove nacque la sua storia d’amore con il partigiano comunista Leonida Bongiorno. Anche Galeazzo si dava da fare. Non a caso, la moglie lo chiamava «Gallo» (stesso soprannome, per le stesse ragioni, del capo partigiano Luigi Longo, poi segretario del Pci). A 23 anni, come giovanissimo viceconsole a Rio de Janeiro e poi a Buenos Aires, aveva fa o stragi di donne sposate, al punto di dover cambiare sede. Trasferito in Cina come segretario di legazione nel 1927, a 24 anni, mentre il paese era devastato dalla guerra civile sperimentò le mollezze orientali, frequentando bordelli di lusso. Una voce insistente, anche se sempre smentita da Edda, vuole che in una di queste «case del canto» abbia conosciuto Wallis Simpson. Nella sua biografia della Simpson, Anne Sebba riporta la diceria che, durante la relazione con Ciano, la donna restò incinta, perdendo a causa dell’aborto la capacità di procreare. Il matrimonio non cambiò affa o le sue abitudini sessuali. Edda minacciò di ripagarlo con la stessa moneta, e lui si sentì ancora più libero. Citando una pila di libri con aneddoti sulle conquiste di Ciano, Di Rienzo fa i nomi di a rici affermate come Elsa Merlini, stelline della nascente Cineci à come Diana Varè e Mariella Lo i, amiche della moglie (Delia Di Bagno, Lola Berlingieri Giovannelli, Marozia Borromeo d’Adda), con una mancanza di delicatezza che esasperò la pur navigata Edda. Non mancarono, ovviamente, le consorti di ambasciatori: il furbacchione preferiva le donne sposate, evitando complicazioni con giovani che avrebbero potuto inguaiarlo. Questo non giovò alla sua reputazione.

g g p A le o, poi, non era affa o riservato sugli affari di Stato, al punto che nel 1939, anno cruciale per la storia d’Europa, da ministro degli Esteri ebbe una fama tale che l’ambasciatore statunitense a Londra, Joseph Kennedy (padre di John, il futuro presidente americano), anche lui incallito sciupafemmine, dichiarò che da Ciano si sarebbe potuto o enere molto di più inviandogli una dozzina di a rice e che non una schiera di diplomatici o qualche squadrone di aerei da guerra. Galeazzo non mancò di corteggiare le dame dell’aristocrazia romana, incontrate nel prestigioso salo o di Isabelle Colonna in piazza Santi Apostoli. La principessa, prima signora di Roma, era un’autentica autorità, dotata di una formidabile influenza politica. Fu lei, di sentimenti profondamente antitedeschi, a puntare su Ciano per un passaggio morbido dal fascismo di Mussolini a un regime filo-occidentale. Ma il conte di Cortellazzo perse tragicamente la partita.

Dai trionfi diplomatici alla fucilazione Tornando al soggiorno cinese di Edda e Galeazzo – la lunga luna di miele di Shanghai –, secondo Di Rienzo furono due gli episodi che segnarono la ro ura della coppia: quando lei, incinta del secondo figlio, scoprì che il marito aveva una relazione stabile con una bellissima prostituta cinese e, contemporaneamente, aveva sedo o una sua amica, Angelica De Bono, giovane moglie di un segretario della legazione italiana. All’inizio Deda entrò in una crisi profonda, meditando il suicidio. Poi si riprese, accantonò gelidamente ogni forma di gelosia, rese ufficiale il divorzio di fa o e la nascita della «coppia aperta», non ebbe più rapporti sessuali con Galeazzo e trasformò l’amore per il marito «in bene fraterno, amicizia, affe o profondo, protezione reciproca», come lei stessa scrisse nelle sue memorie. In Cina, Ciano si rivelò un o imo diplomatico in un momento tremendamente difficile e Edda diede prova di grande coraggio: nel 1932 fu l’unica consorte di un adde o d’ambasciata a rimanere

accanto al marito durante il furibondo a acco giapponese di febbraio. Lo fece per esaltare «i valori dell’Italia fascista» e fu chiamata «la signora di Shanghai». E se cominciò a bere molto e a giocare ancora di più, si rivelò però un’eccellente padrona di casa, accrescendo la reputazione della diplomazia italiana. Il Duce conosceva i dife i del genero. Per riassumerli con le parole di Cervi e di Montanelli, che non lo amavano: «Intelligente ma superficiale, velleitario più che virile, fatuo più che brillante, smanioso di imitare Mussolini, ma privo della testa, della grinta, dell’intuito di lui». Ma ne apprezzava il rigore sul lavoro, mentre Ciano non sopportava i ritmi stressanti imposti dal Duce, come confidò al gerarca scri ore Nino D’Aroma: «Tu capisci, con quest’uomo non si riesce a dormire, né a mangiare. Legge tu o. Sa tu o. Ti mitraglia appena entri nel suo salone con domande che non ti aspe i. L’ambasciatore più pignolo e assurdo diventa un paradiso, un angelo. Scombina regolarmente tu i i nostri programmi serali. Nonostante tu i gli elogi che mi fa, anche Edda è stanca ed è d’accordo con me» (Mussolini segreto). Sapendo che i nemici lo chiamavano «ducellino», «generissimo», il «conte genero» o, addiri ura, «il cretino arrivato», Ciano stava molto a ento a non mostrarsi troppo confidenziale con il Duce, al quale dava del «voi», mentre l’altro gli dava del «tu». Giuseppe Bastianini, un diplomatico che gli fu molto vicino, nelle sue memorie (Uomini, cose e fa i) scrive che «dinanzi a Mussolini e perfino quando gli parlava al telefono il suo a eggiamento era sempre quello di prammatica: busto ere o, sguardo diri o, risposte ferme e brevi: “Sì, Duce!”, “Provvederò subito, Duce!”, “Già disposto, Duce!”». Mantenendo l’incarico di capo ufficio stampa sino alla fine della guerra d’Etiopia, Ciano si costruì un vero centro di potere: l’ufficio stampa della presidenza del Consiglio disponeva, infa i, di fondi cospicui per finanziare sia giornalisti debu anti che si affidavano al regime per veder pubblicati i loro articoli, sia intelle uali e artisti particolarmente vicini al mondo fascista. Quando nel 1935 iniziarono le ostilità contro l’Etiopia, Ciano avrebbe ne amente preferito rimanere a Roma, ma Mussolini

p pretese che tu i i gerarchi andassero in comba imento e lui non poté so rarsi. Guidò una squadriglia di aerei, «La disperata», che ebbe una decina di caduti. Guadagnò due medaglie d’argento e – costituito l’impero – l’11 giugno 1936 si ritrovò, a 33 anni, ministro degli Esteri. (In quell’occasione Mussolini si liberò di tre dei se e ministeri di cui era titolare: Colonie, Corporazioni e, appunto, gli Esteri, mantenendo per sé l’Interno e i tre ministeri militari.) Secondo De Felice, designandolo alla guida della diplomazia italiana, il Duce aveva scelto il suo successore e gli stava aprendo la strada. Non avendo davvero stima e fiducia di nessuno, scelse il marito di Edda e il figlio di Costanzo, allora presidente della Camera, uno dei suoi pochissimi amici con una notevole influenza sul figlio Galeazzo. Con la nomina del genero a capo di un ministero chiave, è scontato che un uomo come Mussolini pensasse di poter dirigere per interposta persona le scelte principali di politica estera. Formidabile conoscitore delle masse ma, per sua stessa ammissione, ca ivo conoscitore di uomini, pensando di poter manipolare i secondi come sapeva fare con le prime, Mussolini aveva compiuto – a giudizio di De Felice – una scelta assolutamente sbagliata: cara ere incerto, assenza di senso morale, scarsa esperienza diplomatica. La nomina di Ciano lasciò perplesse le cancellerie europee, le gerarchie fasciste e quella parte di opinione pubblica che non sopportava né lui né Edda, pur confermando la propria fedeltà al Duce. Le ere anonime conservate negli archivi statali accusano lui di arricchimenti illeciti e la moglie di mostrarsi in pubblico troppo scollata e sbracciata, vestendosi addiri ura (le era di una donna) come «una maiala». Gaetano Salvemini accusò Ciano, con fondamento, di aver autorizzato il capo dei servizi segreti a commissionare ai fascisti francesi l’assassinio di Carlo e Nello Rosselli nel 1937. Nel condividere l’accusa, De Felice lo a ribuisce alla leggerezza del ministro degli Esteri che, dopo il benestare iniziale, non avrebbe seguito gli sviluppi della vicenda e non sarebbe poi riuscito a evitare il deli o che ebbe conseguenze pesantissime sull’immagine internazionale del Duce e del fascismo. Favorevole all’invasione

dell’Albania nell’aprile 1939, Ciano – passato su posizioni apertamente antitedesche – fu l’ispiratore dello sterminato (e gro esco) elenco di armamenti richiesti nel periodo di non belligeranza da Mussolini a Hitler come condizione per poter entrare in guerra. Ideatore della sciagurata campagna italiana di Grecia, il 25 luglio 1943 Ciano fu tra i firmatari dell’ordine del giorno Grandi che portò alla destituzione e, poi, all’arresto del Duce. La sua scelta fu, ovviamente, la più rilevante e sorprendente. La fece convinto, come Dino Grandi, di poter gestire una successione non traumatica. Invece tardò a me ersi in salvo. Respinto dal Vaticano, al quale aveva chiesto protezione, cercò di riparare in Spagna a raverso la Germania, ma fu arrestato e consegnato alla Repubblica sociale italiana. La sua condanna a morte, a conclusione del processo di Verona, fu l’unica approvata all’unanimità dal Tribunale speciale. Ciano chiese tardivamente la grazia, e Mussolini non lo salvò. Al sacerdote che lo assiste e prima dell’esecuzione disse: «Faccia sapere ai miei figli che muoio senza rancore per nessuno. Siamo tu i travolti dalla stessa bufera». Lo fucilarono alla schiena l’11 gennaio 1944. Due mesi dopo avrebbe compiuto 41 anni.

Dino Grandi, l’avversario del Duce che diventò ministro degli Esteri Tu ’altra tempra aveva Dino Grandi. Intelligente, coraggioso ma non spericolato, dotato di un’acuta sensibilità politica che gli ha sempre fa o capire in anticipo l’andamento delle cose, è stato probabilmente il migliore dei gerarchi fascisti. Di famiglia contadina e romagnola come quella di Mussolini, ma assai più benestante, aveva dodici anni meno del Duce. Quando nel 1914 l’allora dire ore dell’«Avanti!» voltò gabbana convertendosi all’interventismo, il giovanissimo Grandi gli scrisse una le era adorante. Si arruolò subito volontario come alpino, guadagnandosi una medaglia d’argento e una di bronzo. Nel dopoguerra aprì uno

studio di avvocato, che fu devastato da militanti di sinistra in un agguato in cui rimase ferito. Con l’aiuto di Italo Balbo cercò di sostituire Mussolini con d’Annunzio, ma il Vate si ritirò, e allora decise di candidarsi in prima persona alla guida del fascismo. Giocò la sua partita al III congresso dei Fasci italiani di comba imento, tenutosi a Roma nel novembre 1921. Mussolini, pur riconosciuto come capo del movimento, controllava soltanto un terzo dei 3000 delegati. Un altro terzo seguiva le posizioni sindacaliste e movimentiste di Grandi. Il resto era ondeggiante e aspe ava di schierarsi con il vincitore. In quel momento l’Italia era scossa dalle violenze del «biennio rosso» e Mussolini sognava un pa o di pacificazione nazionale. Grandi era ne amente contrario: lo considerava un errore e un pericolo per l’unità del fascismo. «È archiviato e sepolto» disse dalla tribuna. Poiché la base rumoreggiava per l’andamento della discussione, Mussolini salvò capra e cavoli: «È sepolta la discussione, non il tra ato, il quale ha già dato effe ivamente la pacificazione». Rinunciando a me ere ai voti il pa o, aveva salvato l’unità del movimento. Grandi, sollevato, corse ad abbracciarlo. Il Partito nazionale fascista nasceva così nel segno dell’unità. L’anno successivo, nelle ore precedenti la marcia su Roma, Grandi tentò di impedirla, insieme a Cesare Maria De Vecchi e a Costanzo Ciano. Ma Mussolini bocciò l’idea di un governo Salandra di coalizione, e le cose andarono come sappiamo. L’a eggiamento di Grandi non piacque al Duce, che lo emarginò per un paio d’anni. Nel 1924 il nostro si tenne alla larga dai sommovimenti interni al partito che seguirono il deli o Ma eo i. Mussolini gliene fu grato e lo nominò prima so osegretario all’Interno e poi – dalla primavera del 1925 – so osegretario agli Esteri. Il Duce, che era titolare di entrambi i portafogli, quando lo chiamò a palazzo Chigi, allora sede del ministero degli Esteri, gli promise: «Se ti comporti bene, potrai essere il mio successore». Cosa che avvenne nel 1929. Il compito di Grandi come so osegretario fu quello di «fascistizzare» il ministero degli Esteri. De a così, l’espressione è brutale e forse inadeguata al cara ere di un uomo che, pur dimostrando in quegli anni un’assoluta fedeltà al regime e al Duce,

q g g considerava in fondo il fascismo come una lunga parentesi della storia. Nella sua o ica, quindi, «fascistizzare» il ministero significava svecchiarlo, eliminando la patina di apparati ancora o ocenteschi, e adeguarlo a un’epoca in cui la politica internazionale era febbrile e in continuo movimento. Grandi aveva sposato nel 1924 (l’anno in cui era entrato in Parlamento) Antonie a Brizzi, orfana di un facoltoso imprenditore emiliano, che gli aveva portato in dote beni e denaro per un valore di un paio di milioni. Nonostante l’agiatezza familiare, dava il tormento a Mussolini per avere un aumento di stipendio. Aveva dovuto contrarre un mutuo per comprare casa a Roma e – a suo dire – allo stipendio annuo di 40.000 lire ne mancavano 10.000 per poter affi are uno studio «decente» (dove decente significava un appartamento di buona rappresentanza). «Perché il senatore De Vecchi osa lamentarsi visto che il suo stipendio annuo è di 260.000 lire?» protestava. La protesta cessò di colpo il 12 se embre 1929, quando appunto il Duce gli cede e il posto di ministro degli Esteri.

Il fallimento della politica antitedesca Il 1929 era stato un anno di svolta per il regime. Come abbiamo visto, i Pa i Lateranensi avevano enormemente aumentato il prestigio di Mussolini e, sopra u o, avevano convinto l’opinione pubblica mondiale del fa o che il fascismo non era un incidente di percorso nella storia italiana. Il Duce aveva quindi bisogno di una persona fidata, di livello pari a quello dei ministri degli Esteri dei paesi più importanti, che lo rappresentasse nelle sedi internazionali. Grandi imparò in fre a un o imo inglese e si fece apprezzare in ogni occasione. Il presidente americano Herbert Clark Hoover arrivò a salutarlo romanamente, ma questo clamoroso omaggio – anziché inorgoglire Mussolini – lo allarmò non poco. La visione della politica internazionale del ministro degli Esteri italiano si manifestò sempre più confliggente con quella del capo del governo. Grandi sapeva bene che l’Italia era più debole degli altri paesi europei, innanzitu o in fa o di armamenti. Tentò invano

di convincere la Francia a ridurre i propri, ma poiché i rappresentanti dell’esecutivo parigino avevano fa o un gran parlare di disarmo bilanciato, quando nella conferenza navale di Londra dove ero retrocedere si trovarono spiazzati. Tu i i maggiori paesi avevano possedimenti coloniali molto più importanti dei nostri. Grandi era convinto che il futuro dell’Italia fosse in Africa, anche per allentare la pressione demografica interna, ma sperava di arrivarci tra ando nella Società delle Nazioni di Ginevra, senza confli i. Inoltre, era convinto che il tempo dei blocchi contrapposti fosse finito e che l’Italia dovesse tra are con tu i senza allearsi con nessuno. Una posizione moderata e di grande buon senso, ma il vento della Storia soffiava in direzione contraria. Finite le estenuanti tra ative per le riparazioni di guerra, la Germania aveva rialzato la testa con governi conservatori minacciosi, anche se Adolf Hitler era ancora lontano dal potere. Francia e Inghilterra si erano perciò riavvicinate e il nostro paese si trovò presto nel classico ruolo di vaso di coccio tra vasi di ferro. In L’Italia li oria, Cervi e Montanelli riportano quanto disse Mussolini a Roberto Cantalupo, deputato fascista e, poi, monarchico nel dopoguerra: «In tre anni Grandi ha sbagliato tu o. Si è lasciato imprigionare dalla Lega delle Nazioni, ha praticato una politica pacifista e societaria, ha fa o l’ultrademocratico e il super ginevrino, ha portato l’Italia fuori da un binario rigido di una politica, ha compromesso alcune ambizioni della nuova generazione, è andato a le o con l’Inghilterra e con la Francia, e siccome i maschi erano quelli, l’Italia era rimasta gravida di disarmo». Nel luglio 1932 Grandi perse il posto nel giro di poche ore. «Vengo doma ina alle 8 a palazzo Chigi a riprendermi la delega» gli comunicò il Duce. E lo nominò ambasciatore a Londra. A onore di Grandi va la riforma della rete consolare italiana, con un’organizzazione sopravvissuta nel dopoguerra e un forte sostegno ai nostri emigrati. In Inghilterra mantenne eccellenti rapporti con Winston Churchill e s’illuse di portare Londra dalla nostra parte. Ma era, appunto, un’illusione. Rientrò in Italia nel 1939 quando il «pa o d’acciaio» tra il regime fascista e il Terzo

q p g Reich era ormai una tragica realtà. Diventò ministro della Giustizia e diede una sistemazione definitiva ai codici penale e civile con l’aiuto di prestigiosi giuristi antifascisti, come Piero Calamandrei e Francesco Messineo. Come abbiamo de o, questo libro si ferma sulla soglia dell’abisso (leggi razziali, alleanza con Hitler, guerra) e non può quindi addentrarsi nei meandri che portarono Dino Grandi a presentare alla riunione del Gran Consiglio del 25 luglio 1943 l’ordine del giorno che determinò la caduta del fascismo. Al contrario di Galeazzo Ciano, lui riuscì a salvarsi, nonostante l’identica sentenza di condanna a morte emessa dal Tribunale speciale della Repubblica di Salò. Riparò in Spagna e poi in Portogallo, rientrando negli anni Cinquanta in Italia, dove diventò ascoltato consigliere dell’ambasciata americana e mediatore di affari tra i due paesi. Dopo un soggiorno in America latina, morì nella sua casa di Bologna il 21 maggio 1988, all’età di 93 anni.

Giuseppe Bo ai, il fascista più colto e più controverso Giuseppe Bo ai fu senz’altro il più colto e il più ecle ico dei gerarchi maggiori, ma anche il più controverso. Non si capisce, infa i, come un uomo che ha fondato e dire o le due riviste più importanti e raffinate del regime («Critica fascista» e «Primato»), chiamando a collaborarvi la crema dell’intellighenzia dell’epoca (passata poi nel dopoguerra quasi tu a in blocco al Pci), sia stato dopo il 1938 uno dei più implacabili fautori delle leggi razziali. Bo ai nacque nel 1895, come Grandi, da un commerciante di vini toscano trapiantato a Roma, repubblicano e ateo. Fu ba ezzato di nascosto da una balia e prese la prima comunione soltanto da adulto. Acceso interventista, ammiratore di d’Annunzio, interruppe gli studi di giurisprudenza (ripresi e conclusi nel dopoguerra) per arruolarsi volontario come so otenente degli Arditi. I compagni di trincea lo ricordano, nei momenti di riposo, piegato su libri e riviste del movimento futurista. Lui stesso scrisse nel suo Diario di aver maturato la propria formazione politica

grazie a quel reparto, che descrive come «fenomeno guerresco più ci adino che rurale, più operaio che contadino … composto da uomini provenienti da partiti estremi o da estreme posizioni di pensiero: ex anarchici, sindacalisti, socialisti, nazionalisti integrali passati a raverso il vaglio rigoroso della guerra». Ele o per errore deputato nel 1921 nelle liste fasciste e decaduto perché troppo giovane, Bo ai partecipò alla marcia su Roma da protagonista, guidando la colonna che entrò in ci à da porta San Lorenzo Tiburtina (fu una semplice parata, perché Mussolini aveva già preso il potere). Tornò alla Camera nel 1924, per restarvi fino al 1943. Fu tra i pochissimi Arditi a sostenere il pa o di pacificazione proposto da Mussolini e bocciato dai maggiorenti del partito. Come scrive Giordano Bruno Guerri, suo biografo, Bo ai fece parte di coloro che dopo la vi oria del fascismo ne preconizzarono la normalizzazione, l’abbandono dei toni violenti e l’instaurazione di uno Stato etico, naturalmente autoritario ma fondato su una solida base do rinale. Aveva soltanto 28 anni quando fondò «Critica fascista», un quindicinale pubblicato fino al 1943 e seguito con a enzione da Mussolini. Secondo Pierre Milza, Mussolini non lo amava. Ne stimava l’intelligenza e le capacità organizzative, ma diffidava del suo intelle ualismo e della sua tendenza a voler so oporre il regime a un esame di coscienza permanente. Eppure, le aperture intelle uali non impedirono a Bo ai di manifestare sempre una fedeltà assoluta e costante al Duce, che si rivelò la sua polizza assicurativa. Allevò una nidiata di pulcini scalpitanti e tendenzialmente dissenzienti, ma mantenuti dalla chioccia all’interno dell’ortodossia. Così, annotano Cervi e Montanelli, «Bo ai poté apparire nello stesso tempo il più ortodosso e insieme il più irrequieto tra i capi fascisti». Tant’è vero che si mantenne a galla per l’intera durata del regime. Nel 1926 Mussolini lo chiamò a fare il so osegretario al dicastero delle Corporazioni e, tre anni dopo, lo promosse ministro. Bo ai fu l’ideologo del corporativismo: basta, diceva, con un fascismo interpretato solo come antisocialista; il corporativismo è il segnale di una nuova politica economica e sociale, con un maggiore intervento dello Stato in tu i i se ori della vita economica e con

una rivalutazione dei sindacati. E ce l’aveva con tu i: con gli imprenditori, accusati di gre ezza e di a eggiamento tiepido nei confronti del fascismo, ma anche con la parte più arretrata e meno flessibile del regime. Bo ai diresse il ministero delle Corporazioni nel pieno della crisi economica provocata dal crollo di Wall Street nell’o obre 1929. Era convinto che il vecchio ordinamento capitalistico fosse scomparso e che «l’organizzazione dell’impresa è responsabile dell’indirizzo della produzione dinanzi allo Stato». Evocando Charles-Augustin Sainte-Beuve, sentenziava che «la proprietà è un privilegio di cui è d’uopo, a ogni generazione, rinnovare e giustificare i titoli con il lavoro». Nasceva, di fa o, un ministero della Programmazione economica, con vincoli assai più stringenti per le imprese di quelli che ci sarebbero stati in diversi momenti del secondo dopoguerra.

Dal ministero delle Corporazioni alla Legione straniera Renzo De Felice osserva che il consenso goduto dal fascismo nella prima metà degli anni Trenta all’estero e, sopra u o, negli Stati Uniti si dove e in buona parte al corporativismo, al quale fu collegata anche la successiva esperienza dell’Iri. Mussolini non era contrario al capitalismo (amava la piccola impresa: è l’orgoglio italiano, diceva), ma diffidava del mondo bancario e della grande industria. Aveva inventato lo slogan: «Tu o nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato», ma poi non ebbe il coraggio di andare fino in fondo, come avrebbe voluto Bo ai, facendo del ministero delle Corporazioni uno strumento di reale controllo dell’economia. Tant’è vero che, come abbiamo visto, nel 1933 affidò la creazione dell’Iri a un uomo lontano dal corporativismo come Alberto Beneduce. Secondo De Felice, la politica economica messa in a o per fronteggiare la crisi non indebolì il regime, anzi, finì per rafforzarlo, sia perché estese il controllo dire o e indire o dello Stato sull’economia, sia perché le permise di assumere «una dimensione moderna e progressiva».

Quando nacque l’Iri, Bo ai era stato licenziato da sei mesi e Mussolini aveva ripreso dire amente la delega delle Corporazioni, del cui spirito si considerava il solo interprete autentico. Lo riteneva l’unico sistema per non cadere nel supercapitalismo o nel comunismo, tracciando la via dell’accordo e dell’equilibrio tra le diverse categorie sociali dei produ ori e tra esse e lo Stato, rappresentante dei consumatori. Quando Bo ai era il ministro in carica, la grande impresa lo tallonava fisicamente: si diceva che Giovanni Agnelli sostasse nel suo studio come se fosse lui il titolare del dicastero. Le pressioni degli industriali e i dissensi con il Duce – favorevole a un’interpretazione meno rigida del corporativismo – contribuirono al licenziamento di Bo ai, che il 20 luglio 1932 restituì il portafoglio a Mussolini e venne diro ato alla presidenza dell’Istituto nazionale fascista della previdenza sociale e, poi, alla carica di governatore di Roma. Circolò voce che il Duce si fosse alquanto irritato per un convegno che Bo ai organizzò a Ferrara nel maggio 1932. Al filosofo Ugo Spirito, allievo di Giovanni Gentile, fu affidato il tema: «Individuo e Stato nella concezione corporativa». A suo giudizio, nel sistema corporativo capitale e lavoro si sarebbero fusi per arrivare a una «corporazione proprietaria». In questo modo il corporativismo diventava una sintesi di «liberalismo assoluto e comunismo assoluto». I lavoratori avrebbero dovuto essere rappresentati nei consigli d’amministrazione delle aziende e partecipare agli utili. Nonostante Mussolini avesse preventivamente approvato la relazione di Spirito, lo scandalo che ne derivò fu tale che lo stesso Bo ai fu costre o a parlare di «costruzioni arbitrarie e ipotesi personali». Ma i tempi erano ormai maturi per un cambio della guardia. Bo ai non ba é ciglio. Scrisse a Mussolini una le era garbatamente adorante e restò a galla in a esa di diventare, al rientro dalla guerra d’Etiopia, ministro dell’Educazione nazionale. E qui si rileva una profonda, drammatica contraddizione nel comportamento di Bo ai, il quale il 25 luglio 1943 firmò l’ordine del giorno Grandi che portò alla destituzione di Mussolini. Perché giustificò quel gesto parlando di tradimento dello spirito fascista

g q g p p dopo il 1936, se restò ministro fino al 1943? Perché professò sentimenti antitedeschi e, al tempo stesso, fu uno dei più feroci e convinti sostenitori delle leggi razziali? Caduto il fascismo e condannato ovviamente a morte al processo di Verona, Bo ai rimase nascosto per quasi un anno in un convento. Nel 1944 si arruolò nella Legione straniera per espiare la colpa «di non aver saputo fermare in tempo la degenerazione fascista». Condannato all’ergastolo nell’Italia democratica e amnistiato nel 1947, visse a Roma fino al 1959, collaborando con alcuni giornali. Ai suoi funerali partecipò anche Aldo Moro, allora ministro della Pubblica Istruzione, perché suo padre aveva collaborato con il gerarca defunto.

V

Il mito

I Colloqui con un «somaro» «Il vostro Ludwig è un somaro!» Pubblicando nel 1950 la terza edizione del libro di Emil Ludwig Colloqui con Mussolini, Arnoldo Mondadori racconta nella nota introdu iva di aver percorso con comprensibile trepidazione i venti metri di lunghezza della Sala del Mappamondo senza che il Duce, come d’abitudine, sollevasse la testa dai fogli che stava scorrendo. «Solo quando mi trovai a qualche passo da lui mi squadrò da capo a piedi e, dopo avermi dato il buongiorno, agitando le bozze del volume che teneva fra due dita nella mano destra, proruppe in queste inaspe ate, incredibili parole: “Il vostro Ludwig è un somaro!”.» Parlando della Vita di Gesù di Ernest Renan, mai si sarebbe sognato di affermare che ogni forma di misticismo gli fosse estranea, né tantomeno che le apparizioni soprannaturali possano verificarsi rimanendo nell’ambito delle leggi naturali. «Non sono avvezzo a dire sciocchezze del genere: o non mi ha capito o mi ha inteso male» sentenziò il Duce. «Comunque,» soggiunse in tono questa volta compiaciuto «il libro è interessante e risponde per il novantanove per cento al mio pensiero e a quanto ho de o.» Quando mise piede per la prima volta nella Sala del Mappamondo nel tardo pomeriggio del 23 marzo 1932, Emil Ludwig era uno dei giornalisti più importanti d’Europa. Le sue biografie di Goethe, Bismarck, Napoleone e Gesù gli avevano procurato larga notorietà, ma la ragione che indusse Mussolini a incontrarlo dodici volte nell’arco di dodici giorni fu l’intervista che aveva realizzato pochi mesi prima con Iosif Stalin. «Entrava ogni giorno in questa sala con la pistola in pugno, me la puntava contro e

mi chiedeva: “Che opinione ha dell’Europa? Della morte? Della gloria?”.» Così rispose il Duce a un giornalista francese che gli chiedeva nel 1932 dei Colloqui con Mussolini, pubblicati quello stesso anno con gran rumore editoriale e politico. Nel libro fotografico Dux, di Pasquale Chessa, c’è l’immagine dell’ultimo incontro (4 aprile 1932): la scrivania di Mussolini è, come al solito, sgombra di carte, mentre Ludwig gli siede davanti su una poltrona Savonarola stringendo fra le mani un taccuino chiuso e una penna. Eppure, si vuole che nei pa i ci fosse il divieto assoluto di prendere appunti e l’obbligo per il povero intervistatore, uscito da palazzo Venezia, di correre a piazza del Popolo e chiudersi nella sua stanza all’hotel de Russie per stendere il resoconto del colloquio. Una richiesta straordinaria, vista la complessità delle citazioni. E lo stesso Ludwig racconta che la prima stesura avveniva addiri ura nel taxi che percorreva il chilometro e mezzo che separava l’ufficio del Duce dall’albergo. Ludwig consegnò la versione tedesca del libro a Mussolini dopo quindici giorni. Lui l’approvò in tre e autorizzò la traduzione italiana, che fu immediata. Fece poche, ininfluenti correzioni («Dicio o parole» precisò l’autore) e acconsentì la stampa. Ma quando le prime due copie staffe a arrivarono sulla lunga scrivania di palazzo Venezia, Arnoldo Mondadori fu investito da una telefonata di Gaetano Polverelli, capo dell’ufficio stampa del Duce, che intimava il blocco della distribuzione, non autorizzata – disse – da Mussolini. Era una bugia: l’editore aveva le bozze con le sue correzioni autografe. Siccome il libro era stato prenotato da tredici editori, per evitare lo scandalo fu messa in vendita la prima edizione con una tiratura di 20.000 copie e divieto di ristampa. Andò a ruba: costava 25 lire e arrivò a 1000 al mercato nero. (La censura fascista era curiosa. Alcuni libri francesi proibiti in Italia venivano importati a decine di migliaia di copie, così i librai li vendevano insieme ai vocabolari bilingue. E poiché niente è più appetibile del proibito, Mondadori avvertì palazzo Venezia che sarebbe accaduta la stessa cosa con l’imminente versione francese dei Colloqui. Di qui l’autorizzazione alla vendita.) Più tardi

Mussolini spedì all’editore una versione purgata, ma lui si limitò a stamparne 3000 copie di cortesia.

Mussolini: «L’antisemitismo non esiste in Italia» Perché Mussolini aveva avuto questo ripensamento? Ludwig spiegò che «il suo interesse spirituale e il desiderio di apparire un pensatore tollerante prevalse sul calcolo pratico» e che «i gerarchi fascisti lo costrinsero poi a quella pietosa ritirata». In Mussolini il duce Renzo De Felice afferma che la versione originale dei Colloqui era perfe amente a endibile e sostiene che Mussolini si pentì «perché nelle conversazioni con Ludwig … era stato troppo brutalmente sincero e si era lasciato andare a dire cose che politicamente sarebbe stato meglio si fosse tenuto per sé». L’opinione, per esempio, che aveva delle masse: «La massa ama gli uomini forti. La massa per me non è altro che un gregge di pecore, finché non è organizzata … Bisogna reggerla con due redini: entusiasmo e interesse … Musiche e donne sono il lievito della folla e la rendono più leggera. Il saluto romano, tu i i canti e le formule, le date e le commemorazioni, sono indispensabili per conservare il pathos ad un movimento. Così è stato nell’antica Roma». Mussolini dichiara di aver imparato da Napoleone una cosa sola: «Egli ha preventivamente distru e tu e le illusioni che mi sarei potuto fare sulla fedeltà degli uomini. Su questo punto io sono a prova di bomba … [“Gli uomini meritano più compassione che disprezzo” dirà alla fine della conversazione.] Io amo Cesare. Egli solo riuniva in sé la volontà del guerriero con l’ingegno del saggio … Cesare, il più grande dopo Cristo tra quanti siano mai vissuti». E poi una frase che sarebbe stata studiata a lungo negli anni successivi: «Non esistono razze pure. Da felici mescolanze deriva spesso la forza e la bellezza di una nazione … L’antisemitismo non esiste in Italia. Gli ebrei italiani si sono sempre comportati bene come ci adini e come soldati si sono ba uti coraggiosamente. Essi occupano posti elevati nelle università, nell’esercito, nelle banche».

Profetica la frase finale del libro: «Ognuno muore come – secondo il suo cara ere – deve morire». Il livello dei Colloqui è elevato. Si è discusso a lungo sulla cultura di Mussolini, che risulta non organica. (I compagni del Partito socialista ne avevano ammirato «la cultura non comune, profonda e sicura come provata è la tempra del suo cara ere».) Ma non sono molti gli uomini politici italiani che, discorrendo alla pari con un intelle uale del livello di Ludwig, sarebbero o sarebbero stati capaci di passare dalla filosofia alla musica, dalla le eratura all’antropologia e, ovviamente, dalla politica alla storia. L’intervistatore gli aveva so oposto in anticipo i temi generali della conversazione, ma leggendo il libro non si ha l’impressione di un’erudizione all’amatriciana. Il Duce, fra l’altro, parlava correntemente il tedesco, pronunciava discorsi in inglese e si perme eva di correggere qualche errore di pronuncia francese dell’interlocutore. Nell’introduzione scri a nel 1946 per la ristampa dell’edizione originale, Ludwig non gli perdona gli errori commessi dalla guerra d’Etiopia in poi, affermando che avrebbe potuto costruire l’Europa anziché contribuire a distruggerla: «Chi dubita che se nel ’40 Mussolini fosse rimasto neutrale, oggi sarebbe ancora al governo, più sicuro che mai e con più consensi che non il povero Franco disprezzato da tu o il mondo? Per più di un decennio Mussolini è stato l’europeo più popolare in America e di fronte a lui l’opinione pubblica mondiale non ha provato il disgusto suscitato da Hitler perché egli non ha mai parlato della superiorità del popolo italiano sugli altri, ma ha predicato anzi, come risulta in molti punti dei colloqui, la tolleranza verso gli altri che non è ammessa nella concezione nazista. Tu i sapevano che i deli i del regime fascista rispe o a quelli dei nazisti erano nella proporzione di uno a cento. Sapevano che a Roma le caricature di Trilussa circolavano liberamente … che Croce ed altri notevoli avversari erano rimasti senatori per un buon ventennio, mentre l’odio di razza dei tedeschi a erriva il mondo». Colpisce il paragone con Hitler: «I colloqui dimostrano che Mussolini aveva esa amente riconosciuto i limiti entro i quali può

q p essere rido a la libertà di un popolo sano, esperto e ironico, mentre Hitler non poteva offrire tu o, e perciò anche togliere tu o, a un popolo isterico, infatuato, pervaso, come su motivi wagneriani, dall’idea del predominio mondiale. Il primo aveva trovato una nazione sce ica che si lasciò ammansire lentamente e malvolentieri; il secondo trovò una nazione assetata di guerra e di vende a che aspe ava il nuovo domatore e gareggiava con volu à nell’obbedire. Il primo aveva trovato un mondo spirituale, nel quale l’ultimo professore prestò il giuramento al regime soltanto dopo o o anni, l’altro invece uno nel quale cinquemila professori, nel giro di o o se imane, giurarono fedeltà a un barbaro nuovo e sconosciuto senza che neanche una mezza dozzina di loro vi si rifiutasse di propria iniziativa». Epigrafe finale: «È rimasto in me il ricordo di un uomo di Stato che superò per qualità e coltura la maggior parte di quelli che professano i miei stessi principi, mentre Mussolini proprio nei colloqui si rivelò sempre più ai miei antipodi».

Mussolini? «Mazzini e Garibaldi insieme» Due anni prima di Ludwig, il Duce aveva incontrato lo storico tedesco-americano George Sylvester Viereck (poi sostenitore di Hitler), che ne fece un ritra o apologetico. In Glimpses of the Great – fru o di incontri con grandi personaggi, da Sigmund Freud ad Albert Einstein – ne parla non come di «un di atore dalla mente o usa, ma come di uno statista costru ivo e lungimirante che lo ava per liberare l’umanità dalle catene del capitalismo così come del lavoro». Osserva Luisa Passerini, in Mussolini immaginario, che l’a eggiamento del Duce nei confronti dell’interlocutore straniero «è di misurata e piena padronanza di sé, da uomo di Stato costru ivo e pacato, con momenti di grandezza e di distacco da se stesso». Uguale solennità aveva manifestato in alcuni momenti dei colloqui con Ludwig, studioso di Goethe, che teneva sempre il grande tedesco a modello: «Nella visita all’Agro Pontino fa vedere a

Mussolini la conclusione del Faust a proposito della bonifica; il di atore ne è commosso e legge “lentamente ad alta voce” i versi tedeschi, ovviamente con perfe a pronuncia (in precedenza aveva citato Nie sche “in puro tedesco”)». (Ludwig verrà accusato nel dopoguerra da Gaetano Salvemini di prostituzione morale nei confronti del Duce.) Nota la Passerini: «È interessante che la nuova immagine mussoliniana sia presentata come la più lontana possibile dalla spontaneità. È costruita e il personaggio stesso accredita la sensazione che essa sia il fru o di una serie di performance studiate: “Ho sviluppato – amme e – tu o il mio contegno in questo decennio in grande stile”». Anche uno storico straniero certamente antifascista come Pierre Milza, sia nella corposa biografia di Mussolini sia nel Dizionario dei fascismi (scri o con Serge Berstein), dà conto della popolarità del Duce all’estero: «Gran parte dell’opinione pubblica internazionale era ormai acquisita all’idea dei meriti storici dell’Italia fascista: un paese che aveva spezzato l’offensiva rivoluzionaria in uno degli anelli deboli della democrazia europea, che aveva ristabilito la “pace sociale”, che aveva spianato la strada alla riconciliazione con la Chiesa ca olica». Ma più del fascismo, secondo Milza, «era la figura di Mussolini ad affascinare una parte delle élite europee». Riferendosi al ritra o «globalmente lusinghiero» di Ludwig («un ebreo pacifista costre o poi all’esilio per sfuggire alle persecuzioni naziste»), lo studioso francese annota che non era il solo «a considerare Mussolini come una delle più forti personalità del secolo, e forse il più grande statista vivente». Se lo scri ore tedesco riconobbe nel Duce una personalità del livello di Stalin (ma precisando che quest’ultimo non possedeva né l’immaginazione dell’italiano, né la sua malleabilità, né, sopra u o, le sue qualità magnetiche), un giornalista della «Tribune de Genève» nel 1932 lo paragonò a Lenin, mentre sul «Sunday Times» si poteva leggere che egli era «Mazzini e Garibaldi insieme: una combinazione senza precedenti». Dopo essere stato ricevuto con ogni riguardo a palazzo Venezia (fu dato perfino un concerto in suo onore a villa Torlonia), Gandhi parlò del loro

incontro come di un «avvenimento storico», e il Duce ricambiò definendo il Mahatma «un genio e un santo». Abbiamo accennato alla simpatia di Winston Churchill e di Franklin Delano Roosevelt per Mussolini. Ricordando il so ile lavoro diplomatico di Margherita Sarfa i per avvicinare il Duce ai democratici americani, Milza so olinea che la vi oria di Roosevelt alle elezioni presidenziali fu salutata dal Duce come quella di una «terza via tra le ingiustizie del capitalismo e la brutalità del comunismo», e quindi come un omaggio reso alla sua stessa politica. Quanto al presidente americano, confidò una volta a Guido Jung, ministro delle Finanze italiano in visita a Washington, di considerare Mussolini il suo unico potenziale alleato nell’impegno per mantenere la pace mondiale e l’Italia come la sola vera amica dell’America in Europa. Anche in Francia le simpatie per Mussolini erano forti. Lì viveva una cospicua comunità di antifascisti costre i all’esilio e la loro stessa presenza testimoniava quale fosse il prezzo di una di atura. Apprezziamo i treni in orario, le grandi opere pubbliche e la sistemazione della Roma archeologica – dicevano i francesi – ma la perdita della libertà non ha prezzo. Eppure, due elementi giocavano in favore del Duce: la convinzione che il fascismo non fosse esportabile in Francia e che aver spazzato via il pericolo comunista dall’Europa valesse qualche sacrificio. Nel 1935 il viaggio in Italia del ministro degli Esteri francese Pierre Laval fu trionfale e si dove e a endere l’alleanza con Hitler per suscitare i primi, forti ripensamenti a Parigi. A conferma che il quinquennio 1929-34 fu il periodo di massimo consenso e di massima solidità per Mussolini e il fascismo, De Felice cita I fru i del fascismo, un libro scri o durante la seconda guerra mondiale – e quindi non sospe abile di simpatie verso il regime fascista – da Herbert L. Ma hews, corrispondente dall’Italia per il «New York Times»: «Il Duce ebbe realmente in quegli anni un enorme consenso popolare, tributo che veniva pagato più a lui personalmente che al regime … Gli italiani sono un popolo pratico e realistico, che doveva sostenere o avversare il fascismo in proporzione del suo successo o fallimento materiale … In quegli

p p q g anni il fascismo nel complesso soddisfaceva le esigenze della maggior parte degli italiani, dai quali non ci si poteva aspe are che intendessero i cara eri distru ivi del sistema che stava per condurli alla rovina». Nel 1931 Giorgio Amendola scriveva che «tu a la borghesia era stre a intorno al fascismo», cercando di limitare il consenso alla fascia alta della popolazione per incitare il proletariato alla rivolta e all’instaurazione in Italia della propria di atura. Tu avia, come abbiamo visto sia in questo libro sia in Perché l’Italia diventò fascista, dopo l’ascesa di Mussolini al potere non ci fu alcun movimento di massa che vi si oppose.

Il Duce: «Il re? Una vecchia gallina» Nel suo libro controcorrente Mussolini. A New Life, destinato al pubblico britannico, Nicholas Farrell ricorda che in Vino e pane, pubblicato in Svizzera in lingua tedesca nel 1936, Ignazio Silone – comunista eretico – racconta che un militante del suo partito, rientrato clandestinamente in Italia negli anni Trenta per verificare la possibilità di un’insurrezione, riscontrò scarsissimo interesse tra i suoi stessi compagni. Aveva quindi ragione Luigi Barzini jr a scrivere di Mussolini nel dopoguerra, a uso del le ore anglosassone, che «il suo successo sembrava incredibile. Fu popolare in Italia come nessuno lo era stato e probabilmente lo sarebbe stato» (The Italians). Affermazione purtroppo profetica. Ci fu la corsa all’iperbole, tra gli italiani e gli stranieri. Nel 1927, in una conferenza al Circolo di Roma, l’antropologo Enrico Ferri sosteneva che «la statura bassa è propria sopra u o degli uomini di azione; la statura alta è più frequente negli uomini di pensiero contemplativo. Mussolini ha statura non alta come l’ebbero Giulio Cesare, Napoleone, Cavour, Garibaldi, Lenin…». Paolo Orano, fondatore della scuola di giornalismo fascista e teorico dell’antisemitismo: «Il suo passo posato sugli alluci costringe alla più ritmica e stilizzata corre ezza l’intiera persona

che è intiera monisticamente, intiera sempre nella cosa che chiude la possibilità della decisione» (Mussolini da vicino). Curt Gutkind, un filologo tedesco che ha studiato e insegnato all’università di Firenze, ne esalta la capacità di ada arsi a seconda dell’interlocutore: «Il suo gesto e tonalità diventano decorativopatetici coi napoletani, parchi e velati coi montanari dell’Abruzzo, sentimentali e focosi presso i sardegnoli, ardenti e travolgenti presso i siciliani» (Mussolini e il suo fascismo). «Non è più un uomo, è una statua» sbo ò un giorno Galeazzo Ciano dopo un’udienza. Gli elogi sperticati, annota la Passerini, avevano l’effe o di lusingare una vanità cui lo stesso Mussolini indulgeva come mezzo di autoaffermazione e di soddisfazione libidica. (Il Duce era fierissimo di ripetere lo stesso discorso in inglese, francese e tedesco). Il commesso Quinto Navarra racconta nelle sue memorie che Mussolini aveva continuamente bisogno di farsi vedere, affinché il popolo potesse constatare fisicamente l’esistenza della sua persona. In treno, nei viaggi ufficiali, non si staccava mai dal finestrino. «Tu i debbono potermi vedere!» ripeteva e, secondo Navarra, appagava così in parte le sue esigenze affe ive: «In viaggio il suo interesse per le donne diminuiva; il continuo conta o con la folla osannante saziava completamente ogni suo particolare desiderio e durante le ovazioni il suo viso si trasfigurava. Chi gli era intorno veniva del tu o dimenticato». Naturalmente, questa enorme popolarità rendeva più complicati i rapporti tra Mussolini e Vi orio Emanuele III. «Per vent’anni si sono guardati, sorvegliati l’un l’altro, come due schermidori sulla pedana, col ferro in linea» diceva Dino Grandi. Due cara eri opposti, i loro. L’uno formatosi sul campo, l’altro di antica tradizione dinastica. L’uno estroverso e orgoglioso della propria prestanza fisica, l’altro timido e complessato (non sopportava – e si capisce – la definizione di «piccolo re»). Sul piano protocollare, il Duce non sbagliava un colpo. Per vent’anni, due volte alla se imana, si presentò in marsina al Quirinale per riferire al re sull’a ività di governo. Come abbiamo visto, lo tenne al corrente in maniera maniacale durante le tra ative

per la Conciliazione. E badò sempre che nelle cerimonie ufficiali l’inno reale fosse eseguito prima di Giovinezza. Ma, in privato, si lasciava andare a giudizi impietosi. Esemplare quello citato da Giovanni Artieri in Cronaca del Regno d’Italia: «È una vecchia gallina cui si devono strappare le penne una a una perché non strilli». Nel 1940 Mussolini confidò a Nino D’Aroma: «Non è un’aquila, ma è impastato di un solidissimo realismo e di poche opinioni, tu e concrete, pratiche, che guardano sempre a uno scopo … L’uomo, tu avia, anche se di sovente è meschino, con i suoi rancori antitedeschi, il suo anticlericalismo da circolo rionale, ha tu avia due qualità importanti: buonsenso radicato, continuo e scarsa impressionabilità» (Mussolini segreto). Il Duce non dimenticò mai che Vi orio Emanuele aveva spalancato le porte al fascismo, e il re che gli conveniva galleggiare sulla popolarità dell’altro. I rapporti tra i due si guastarono dopo il 1936, ma la storia raccontata in questo libro si fermerà proprio a quell’anno.

Tre a entati (falliti) contro il superuomo «L’anno 1932 può essere indicato come quello in cui si perfezionò il transito da Mussolini uomo a Mussolini superuomo o semidio; dall’on. Mussolini al Duce degli italiani, da una persona che era ancora una come le altre, pure se al sommo della gerarchia, ad una specie di papa laico che non si poteva vedere se non alla ringhiera, o imbozzolato in fondo a una serie di doviziosi saloni, o avvolto e quasi portato in aria da una nuvola sempre più densa di gerarchi e di polizio i; da un ci adino vestito come gli altri a un manichino perpetuamente in uniforme, di fascista, di generalissimo, di giocatore di tennis, di cavallerizzo, e all’occorrenza, di mietitore e minatore e aviatore.» Questo ritra o di Paolo Monelli è vero solo in parte. In realtà, fino alla guerra d’Etiopia del 1935 Mussolini compariva in pubblico regolarmente in borghese e riceveva in marsina gli ospiti stranieri. Poi si vestì quasi sempre da guerriero. Avevamo conquistato l’impero con una guerra, no?

La vicinanza alla folla fu sempre una delle ragioni della sua popolarità e del suo successo, anche se con il passare degli anni alcune distanze fisiche dalla massa furono imposte non solo per incastonare la divinità in una nicchia distinta e sopraelevata, ma anche per ragioni di sicurezza. All’inizio degli anni Trenta i fuorusciti dell’antifascismo furono gli ispiratori di alcuni a entati terroristici che la polizia (e non solo) a ribuì al movimento Giustizia e Libertà. Il 2 luglio 1931, alla stazione Tiburtina di Roma si verificò un’esplosione che uccise due dipendenti delle ferrovie. Lo stesso giorno furono interce ati due plichi esplosivi dire i al «Popolo d’Italia» e al «Corriere della Sera», a Milano. Un altro modesto a entato avvenne il 25 giugno 1933 nel porticato della basilica di San Pietro. Scoppiò una bomba a orologeria senza provocare danni e furono arrestate tre persone legate a Giustizia e Libertà: protestavano contro la politica vaticana allineata al fascismo. Ma ad allarmare la polizia furono, sopra u o, tre falliti a entati contro il Duce. Michele Schirru, anarchico sardo di 32 anni, emigrato in America e rientrato in Europa per riunirsi agli esuli di Parigi, si accomiatò da Emilio Lussu che, nel gennaio 1931, aveva accompagnato al treno per Roma. Prese alloggio in un albergo in posizione strategica per monitorare i movimenti di Mussolini, ma dopo due se imane di appostamenti, invaghitosi di una bella ballerina, sembrò rinunciare. Arrestato il 3 febbraio (non si sa se sia stata la donna a tradirlo), tentò di uccidersi con la pistola. Davanti al Tribunale speciale manifestò odio verso fascismo e comunismo. E nonostante l’a entato non fosse mai stato compiuto, venne condannato alla fucilazione. Simile la sorte di Angelo Sbardello o, un giovane anarchico che entrò per tre volte in Italia dal Belgio e dalla Francia armato di pistola e di bombe a mano per vendicare la morte di Schirru uccidendo Mussolini. Non riuscì mai nemmeno ad avvicinarlo. Arrestato mentre girovagava per piazza Venezia con i ferri del mestiere, confessò di voler uccidere il Duce. Fu fucilato anche lui. Il terzo a entatore era Domenico Bovone, antifascista piemontese di 29 anni. Fu scoperto perché, mentre armeggiava con

p p p gg le bombe in casa, ne fece accidentalmente scoppiare una che uccise sua madre. Accusato di terrorismo, venne condannato a morte dal Tribunale speciale. Comunisti e socialisti rimasero estranei a questa a ività terroristica e criticarono Giustizia e Libertà, che poi abbandonò la via dell’opposizione violenta. In seguito, Mussolini dichiarò di valutare diversamente questi suoi tre avversari. «Avrei usato clemenza a Sbardello o e a Schirru» dirà al suo biografo Yvon De Begnac. «Non ho mai pensato di usarla nei riguardi di Bovone, cieco esecutore di a i terroristici dire i a fare il vuoto fra le masse le quali nulla avevano a spartire con la politica. Ma Sbardello o ventiduenne che rispose all’invito del magistrato a firmare la domanda di grazia dichiarando di rimpiangere solo di non aver eseguito l’a entato; ma Schirru anarchico, o imo comba ente della grande guerra che grida la sua fede dinanzi al plotone di esecuzione, sono uomini veramente degni di un destino migliore di quello che la sorte ha loro riservato.» Si tra a, peraltro, di tre delle rarissime condanne a morte eseguite durante il Ventennio che, come abbiamo de o, riguardarono per il resto soltanto irredentisti slavi. A questo pensava Silvio Berlusconi quando nell’estate del 2003 disse a Nicholas Farrell, che lo intervistava per il se imanale britannico «Spectator»: «Mussolini non ha ammazzato nessuno. Ha mandato soltanto i dissidenti in vacanza al confino». Venne sommerso da un’ondata di proteste e accusato di apologia del fascismo. Ora, se è vero che Ponza, Ventotene e le Eolie sono luoghi magnifici, è difficile che i confinati potessero considerare il loro soggiorno una vacanza. Secondo una statistica stilata nel 1940, dall’inizio della di atura i confinati erano stati 12.310, dei quali 9806 erano stati liberati, 97 erano morti mentre scontavano la pena e 2504 risultavano ancora al confino. (Di questi ultimi, 719 erano «apolitici», quasi tu i mafiosi condannati per reati comuni.) Gli anni violenti del fascismo furono i primi. Con il consolidarsi della di atura – e con il consenso di massa di cui stiamo parlando – Mussolini allentò i freni. Ci furono anche numerose amnistie: nel solo 1938 vennero liberate 500 persone in carcere o al confino.

Nell’intervista allo «Spectator» Berlusconi faceva il confronto fra Mussolini e Saddam Hussein. Ma anche il paragone con i grandi di atori del passato si risolve a vantaggio del Duce. Scrive Milza: «Si è ben lontani dal terrore di massa e dalle procedure di eliminazione non solo degli avversari politici più determinati, ma di intere frange del corpo sociale che cara erizzano, negli stessi anni, il regime hitleriano e staliniano». E aggiunge: «Totalitario per il suo proge o di creazione di un “uomo nuovo” e di fascistizzazione della società civile, il fascismo italiano non risponderà mai, su un punto essenziale, alla definizione che Hannah Arendt e compagni danno del totalitarismo, nel senso che non cercherà mai di smantellare ciò che rimane dello Stato di diri o e non darà mai vita a un vero e proprio Stato poliziesco … Quanto a Mussolini, non ha nulla del tiranno sanguinario».

«Il Partito socialista ti espelle, l’Italia ti accoglie» Se è vero che la straordinaria macchina propagandistica del fascismo serviva ad amplificare il culto del Duce, sarebbe sciocco ritenere che per la maggioranza degli italiani questo a eggiamento di devozione – piaccia o no – non fosse spontaneo. Il carisma di Mussolini fu indiscusso fin dall’inizio della sua a ività politica. Gaetano Salvemini, rigido e autorevole antifascista poi costre o all’esilio, scrisse nel 1912 e nel 1914 due articoli sull’«Unità» in cui lo giudicava «un uomo forte e diri o … di quelli che parlano come pensano, e operano come parlano e perciò portano con sé tanta parte dei destini futuri d’Italia». Addiri ura nel 1922, subito dopo la presa del potere da parte dei fascisti, nel suo risentimento per l’impotenza dei liberali e dei socialisti moderati arrivò a dire: «Bisogna augurarsi che Mussolini goda di una salute di ferro, fino a quando muoiano tu i i Turati e non si faccia avanti una nuova generazione liberatasi dalle superstizioni antiche». In Mussolini e il fascismo, Emilio Gentile ricorda che Mussolini diventò un «personaggio» quasi improvvisamente al XIII congresso nazionale del Psi nel 1912, a Reggio Emilia: «Era alla sua prima

esperienza (aveva 29 anni) e il congresso fu affascinato dalla sua oratoria e si riconobbe nella sua posizione. Alla fine del ’12 il nostro diventò dire ore dell’“Avanti!”, lo portò a un forte successo editoriale e consolidò il suo carisma al congresso di Ancona del 1914. Giovanni Zibordi, che pure sosteneva una posizione contraria a quella di Mussolini, scrisse su “Critica sociale” che Mussolini aveva “istituito una di atura che ha basi individuali e basi successive psicologiche, o meglio sentimentali … e poteva far ingerire alle masse tu o quel che voleva, grazie al prestigio irresistibile della sua comba ività aspra ma elevata e al fascino delle sue doti personali di credente e di milite”». Alla marcia su Roma mancavano ancora o o anni. In Torino operaia nella grande guerra Paolo Spriano riporta le parole dell’operaio comunista Mario Montagnana, cognato di Palmiro Toglia i: «Noi giovani eravamo tu i entusiasti di Mussolini; un po’ perché era, relativamente, un giovane anche lui; un po’ perché aveva sbaragliato i riformisti e, finalmente, perché i suoi articoli sull’“Avanti!” ci parevano forti e rivoluzionari». Quando Mussolini diventò interventista e fu espulso dal partito, perdendo anche la direzione dell’«Avanti!», sul quotidiano socialista apparvero parole di rimpianto. «In lui la gioventù socialista aveva trovato, dopo una lunga e ansiosa a esa, non soltanto la buona tempra del comba ente a parole e a scri i, ma anche l’anima eroica del rivoluzionario di azione» scriveva Italo Toscani, dire ore dell’«Avanguardia», organo della Federazione giovanile socialista. «L’uomo, in altre parole, era diventato il simbolo.» In Fascismo. Storia e interpretazione, Gentile riporta un rosario di dichiarazioni adoranti, anche dopo la conversione interventista di Mussolini. Carlo Carrà, alla fine del 1914, dichiarò: «In lui vi è il dramma di tu a la nostra generazione. Ammiriamolo se non altro per il coraggio che va dimostrando». Filippo Corridoni, sindacalista nazionalista, nell’autunno del 1915 lo definiva «il nostro duce spirituale». Torquato Nanni, il suo primo biografo socialista, scrisse nel 1915: «È uno spirito d’acciaio, al servizio di una formidabile volontà, un uomo invulnerabile, un marxista colto e convinto, homo

novus del socialismo, cuore pulsante del partito, idolo della massa che istintivamente sentiva in lui impersonate le sue migliori qualità di entusiasmo, di fede, di sacrificio». La biografia di Nanni, commenta Gentile, «coglieva la figura di Mussolini nel passaggio dal mito socialista al mito del rinnovatore nazionale». Se Gioli i e la scuola liberale rappresentavano il passato, il socialismo e la sua reincarnazione nel primo fascismo venivano visti da una fascia crescente di intelle uali e di militanti come la speranza della nuova Italia. Nacque così la famosa invocazione partita dal gruppo che si stringeva intorno alla rivista «La Voce», dire a da Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini: «Il Partito socialista ti espelle, l’Italia ti accoglie». Nel 1915 Mussolini era la «figura bella ed eroica», modello di rinnovamento morale della nazione. La nascita del «Popolo d’Italia», come ricorda Carlo Carrà nelle sue memorie, diventò il punto d’incontro degli intelle uali d’avanguardia. Il suo dire ore «non era solo un uomo politico notevole, ma anche un paladino delle le ere, delle arti e della filosofia, un temperamento che condensava in sé i tra i dell’uomo moderno e partecipava al ritmo della modernità». Non immaginando che l’anno successivo ci sarebbe stata la marcia su Roma, ma avvertendo la necessità di una soluzione salvifica, nel 1921 il grande meridionalista liberale e antifascista Giustino Fortunato scriveva: «Tu i avvertono che l’Italia si avvia alla guerra civile … Tu i perciò invocano, come ne’ momenti d’estremo pericolo, il provvidenziale intervento di un Uomo – con l’u maiuscola – che sappia portare finalmente il paese nell’ordine» (Dopo la guerra sovvertitrice). E addiri ura dopo il rapimento di Ma eo i, Ferruccio Parri riconosceva sul «Caffè» (1° luglio 1924) che Mussolini, una volta conquistato il potere, era stato posto dalla gente comune su «un piedistallo di fiducia inconscia, di ammirazione ingenua e quasi fisica, di stupore estatico sul quale larga parte del popolo italiano contemplava il suo duce dinamico agitarsi e recitare». Quello stesso anno Prezzolini non nascondeva la sua ammirazione: «Mussolini è l’uomo della velocità, del meccanismo, del capitalismo, che guida l’automobile, che vola in aeroplano, che telegrafa a Spalla per le sue vi orie, che pone lo

p g p p p sport nell’orario della sua giornata: il primo uomo di Stato italiano, insomma, che non sia in arretrato di almeno trent’anni con i gusti del proprio tempo» (Benito Mussolini).

Al Duce i pregi, al fascismo i dife i «Elemento costante del mito» scrive Gentile in Fascismo. Storia e interpretazione «fu la presenza nella personalità di Mussolini di un fascino carismatico e di eccezionali qualità pubbliche, che egli stesso seppe valorizzare con l’osservazione e l’esperienza, per adoperarli consapevolmente negli anni della maturità del suo personale potere. [Ma aggiunge: «Mussolini legò la sua azione al mito di se stesso fino al punto da rimanerne avviluppato, perdendo il senso della realtà».] … La maggior parte degli italiani che applaudivano Mussolini nelle piazze non era fascista, ma era affascinata dal nuovo presidente del Consiglio, giovane, energico, dinamico, dai tra i “napoleonici” o “cesarei”, dotato di una oratoria semplice, efficace, persuasiva. … Per l’opinione pubblica borghese era il salvatore della patria dall’anarchia, il cavaliere che aveva ucciso il drago rosso in Italia e aveva salvato l’Occidente dal bolscevismo. Nei ceti popolari che non avevano subito la violenza fascista, le manifestazioni di simpatia andavano verso il figlio del popolo che era diventato capo del governo senza mutare o nascondere, anzi ostentando, le sue origini popolane e perciò circondato dalla fiducia e dalla speranza per la sua opera risanatrice delle ingiustizie e dei mali dell’esistenza.» Piero Gobe i e Carlo e Nello Rosselli, che avevano il naso fino, capirono come sarebbe andata a finire: gli italiani non erano maturi per vivere liberi da tutele. È sorprendente come da acclamato duce dei socialisti Mussolini sia passato, seguendo una linea re a senza scosse né interruzioni, a diventare il Duce degli italiani. Ben prima che la «fabbrica del consenso» gli desse gli ultimi ritocchi, il monumento era già costruito. E quando alcune cose non funzionavano, alcune ingiustizie venivano compiute o non riparate, la gente non dava mai la colpa a lui, ma ai gerarchi. Dopo la visita di Mussolini a Napoli

nel 1931, un anonimo informatore della polizia esalta in un appunto destinato alla riservatezza «la folla in delirio, epperciò in istato di grazia … questa folla affamata, indisciplinata, anarcoide, che non ha “sentito” né “compreso” il Fascismo predicato da piccoli uomini faziosi e miserevoli, avvicendatisi in questo primo decennio, “sente” e “comprende” il Duce a raverso il divino dono di una fantasia e sensibilità … Epperciò ieri gli ha decretato l’apoteosi, tra lo stupore e il panico dell’Alto Commissario per la provincia di Napoli e del segretario federale della ci à» (Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione). Il fascismo diventò presto una cosa diversa dal Duce, e con lui identificabile soltanto nei pregi, raramente nei dife i. Il conta o fisico con le masse dell’uomo che nuota, cavalca, gioca a tennis, scia, pilota aerei e motoscafi, semina e trebbia, ama negli anni centinaia di donne pur rientrando ogni sera in famiglia, costruì fatalmente il monumento. L’efficienza della sua segreteria nello sbrigare pratiche e distribuire sussidi rafforzò l’immagine salvifica di Mussolini. In un libro pure durissimo sul regime, Il fascismo, lo storico siciliano Salvatore Lupo riconosce che il fascismo spezzò le chiusure elitarie della società italiana e «ritagliò spazi inediti per i ceti inferiori nella vita colle iva. La se imana lavorativa di 40 ore e il “sabato fascista” (cioè non lavorativo) crearono la dimensione del tempo libero che enti come l’Opera Nazionale Dopolavoro concorsero a valorizzare». Lupo ricorda i cimenti sportivi di massa, gli incontri con l’altro sesso ai circoli rionali del partito, le vacanze nelle colonie marine. E poi, l’apprezzamento per le grandi opere pubbliche, l’ammirazione per i record transatlantici delle squadriglie guidate da Balbo. «Abbiamo dunque qui un grande spazio sociale per il consenso» è la conclusione. Naturalmente, scavando nei so erranei del consenso, si trovano anche indifferenza e opposizione latenti, adesione conformistica e antifascismo militante. E Lupo osserva che «le troppe sconfi e e la pesante repressione indussero i se ori nei quali si manteneva una coscienza antifascista a restare nascosti nelle pieghe della società». Tu avia, dà a o che nelle ci à in cui più forte era la base operaia, Torino e Milano, il consenso al fascismo nacque anche dal

q salvataggio statale di aziende a rischio (come la Sip) e dalla massiccia assistenza sociale gestita dire amente dalla federazione del partito. Nel 1930 il Pnf assisteva 12.000 famiglie milanesi e d’inverno un solo posto di ristoro distribuiva dagli 800 ai 900 pasti giornalieri. Lo storico siciliano ricorda una circostanza poco conosciuta: la «modernità» del regime prevedeva largo spazio allo sport femminile. E poiché le donne che praticano sport devono usare un certo abbigliamento, l’episcopato condannava i pericoli dello sport femminile «spinto all’eccesso, pericoli a suo tempo percepiti perfino dai lussuriosi pagani». Occorre citare, poi, le sorprendenti concessioni fa e ad alcune donne antifasciste. In Donne in ogge o, Giovanni De Luna racconta la storia di Tina Pizzardo, condannata nel 1927 come militante comunista e, appena due anni dopo, incaricata di dirigere una colonia marina a Rimini. Mantenne il posto pur essendosi rifiutata di iscriversi al partito, dopo aver ricevuto la solidarietà dell’importante Fascio milanese. Nel riferire l’episodio, Lupo annota che Mussolini non solo non era contrario a iniziative del genere, ma le considerava un’utile valvola di sfogo per istituire un rapporto tra regime e masse che sfuggisse al grigiore delle gerarchie.

Un «semidio» vicino alle masse Come abbiamo visto, il consenso al fascismo crebbe ininterro amente per tu a la prima metà degli anni Trenta, e lo stesso Toglia i ammise che, dopo la firma dei Pa i Lateranensi, in Italia si stabilì un «regime reazionario di massa». Massa, appunto, perché c’era consenso. Carlo Rosselli, nel saggio La lo a per la libertà, scri o al confino di Lipari e pubblicato nel 1930 in Francia dove sarebbe stato ucciso per conto dei fascisti, fece una valutazione realistica e rassegnata del regime: «La forza bruta, da sola, non trionfa mai. Ha trionfato perché ha toccato sapientemente certi tasti ai quali la psicologia media degli italiani era

straordinariamente sensibile. Il fascismo è stato in certo senso l’autobiografia di una nazione che rinuncia alla lo a politica, che ha il culto dell’unanimità, che rifugge dall’eresia, che sogna il trionfo della facilità, della fiducia, dell’entusiasmo». Nel 1933 un anonimo le ore, rispondendo a un questionario di «Giustizia e Libertà», scrisse: «Il culto del duce … influisce ancora notevolmente sugli animi mantenendo, anche in opposizione ai fa i, la fiducia nell’infallibilità dell’uomo, cosicché si acce a tu ora senza discutere l’idea della sua genialità». Come osservò Corrado Alvaro, fascista fin nel midollo prima di dichiararsi perseguitato da Mussolini, «il popolo aveva incarnato nel duce un antico ideale di giustizia ed era convinto che – se ne fosse venuto a conoscenza – avrebbe riparato ogni ingiustizia e sanato ogni torto». Riassume Emilio Gentile: per la gente comune Mussolini rappresenta «la figura di un semidio o di un mortale dotato di poteri straordinari, quasi divini, ma fisicamente vicino alle masse, continuamente in conta o con esse, prossimo alla loro anima, interprete delle loro aspirazioni; un grande uomo di Stato che meditava sulle sorti del mondo e vegliava sul destino d’Italia, che voleva grande e potente ma nello stesso tempo curava come un padre amorevole la sorte di tu i i suoi figli; un “uomo della Provvidenza” che era tramite di grazie divine per tu o il popolo, promessa e garanzia di sicurezza e di benessere nei tempi a venire». A un certo punto, ci si cominciò a rivolgere a Mussolini con il linguaggio che si usa per la divinità. Nel Breviario dell’Avanguardista, pubblicato nel 1928, si legge: «Tu non sei, Avanguardista, se non perché prima di te, con te e dopo di te, Egli e soltanto Egli è». Questa adorazione del Duce fu addiri ura sistematizzata nel 1930 mediante l’istituzione della Scuola di mistica fascista, fondata a Milano da Niccolò Giani, un giovane studente di giurisprudenza. Scopo della Scuola, che sarebbe cessata soltanto il 25 luglio 1943, era di mantenere vivo lo spirito delle origini, vivendo il fascismo misticamente. Non a caso, l’iniziativa nacque dopo la firma dei Pa i Lateranensi ed ebbe importanti

legami con il mondo ca olico, nonostante lo zoccolo duro di quest’ultimo rifiutasse la totale omologazione al fascismo. Nell’appendice al suo Il lungo viaggio a raverso il fascismo, Ruggero Zangrandi – giovanissimo protagonista di quegli anni –, dopo aver ricordato i diba iti critici che accomunavano altri giovani destinati al successo culturale (fra cui Vi orio Sereni, Carlo Bo, Giancarlo Vigorelli), racconta: «Conformisti di età matura che si valevano di codesta scuola per appendere corone al regime, sviluppare tesi ultraortodosse e oltranziste (per fare carriera) erano, senza tema di ridicolo, certi professori d’Università e uomini di cultura cui venivano affidate le Lecturae Ducis, da tenere a rassegnati e sonnolenti uditorii di provincia, e simili manifestazioni». D’altra parte, una delle ba ute del tempo era «chi non mistica, non mastica», un «bisogna pur vivere» all’italiana che lascia intuire una buona dose di opportunismo. In ogni caso, i giovani come Zangrandi, a ra i dal fascismo, erano centinaia di migliaia. Scrive Salvatore Lupo: «A parte gli elementi militanti del fascismo e quelli più segnati da perduranti tradizioni antifasciste, la maggior parte dei giovani degli anni Trenta considerarono il fascismo l’espressione di un’Italia nuova al pari della loro personale età: un costru ore di modernità, ovvero un modello di modernità per noi forse contraddi orio per la fortissima enfasi sul disciplinamento, ma che fu comunque quello tipico del nostro paese in quegli anni».

Intelle uali a libro paga Al forte consenso al regime contribuirono le generose elargizioni del governo al mondo intelle uale. In L’Italia di Mussolini in 50 ritra i, Paolo Mieli e Francesco Cundari ricordano lo sterminato esercito di beneficiari reso noto nel dopoguerra, quando si scoprì anche l’elevato numero di voltagabbana che si erano prontamente riciclati salendo sul carro dei nuovi vincitori. Giuseppe Ungare i, uno dei più celebri «assistiti», giustificava così il suo a eggiamento: «Era una sovvenzione che s’usava dare – è uso esistente in tu i i

paesi del mondo – e la riceve ero persone onorevolissime perché potessero proseguire con tranquillità il loro lavoro … L’acce avo perché essa ai miei occhi non aveva diverso cara ere della sovvenzione dello Stato all’agricoltore perché possa portare a termine lavori di bonifica». Lo storico Giovanni Sedita, in Gli intelle uali di Mussolini, pubblica le petizioni rivolte dagli scri ori ai gerarchi per o enere il sussidio, quasi sempre generoso. Vincenzo Cardarelli chiede a Galeazzo Ciano una sovvenzione fissa («Solo un soccorso non momentaneo potrebbe me ermi al riparo dalla miseria in cui mi diba o»). Salvatore Quasimodo: «L’urgenza di essere aiutato in qualsiasi modo interessa nel vivo i più elementari bisogni cotidiani di vita». Vitaliano Brancati denuncia «quegli scri ori mediocri e di passato antifascista che vengono aiutati dal regime». Elio Vi orini, diffidato per frequentazioni antifasciste, si difende con energia: «Il so oscri o resta fortemente sorpreso nella sua qualità di fascista non recente e di scri ore fascista che sin da quando ha preso la penna in mano l’ha adoperata al servizio delle idee fasciste su giornali fascisti». (Nell’o obre 1942 Vi orini partecipò a Weimar al convegno degli intelle uali nazisti, si iscrisse contemporaneamente al Partito comunista clandestino e nel 1945 diresse «l’Unità» di Milano.) Assegni importanti vengono elargiti a Filippo Tommaso Marine i, che li o iene anche per futuristi del suo gruppo, a Fortunato Depero, Pietro Mascagni, alle a rici Paola Borboni e Andreina Pagnani, a Corrado Alvaro, a Giovanni Ansaldo (geniale voltagabbana). Alla «Ruota», rivista che alimenta la propaganda razzista e antisemita, collaborano dopo il 1940 Mario Alicata, Renato Gu uso, Conce o Marchesi, Carlo Musce a, che nel dopoguerra faranno tu i parte della crema del Pci. L’Oscar dei voltagabbana va comunque alla scri rice Sibilla Aleramo: durante il regime e fino al 1943 chiede soldi in maniera ossessiva a Mussolini e a Ciano, ma già nel 1945 – parlando di una conversazione tra intelle uali – scrive: «Io ero la sola a parteggiare senza restrizioni per l’avvenire che la Russia ci prepara di giustizia e di pace, quando

tu i avremo acce ato i suoi principi (rivoluzione francese più marxismo)».

«Ci fu consenso al regime», e De Felice venne aggredito Nel 1932 fu inaugurata a Roma una Mostra della Rivoluzione fascista. In quell’occasione, O avio Dinale, vecchio amico di Mussolini, che lo aveva anche nominato prefe o, diede così il suo contributo al misticismo del capo: «La sua figura spicca, già monolitica, nell’a ualità, nella storia, nelle proiezioni dell’avvenire, dominante uomini e cose, come principe degli uomini di Stato, come genio della Stirpe, come salvatore dell’Italia … Mussolini è tu o l’Eroe in una luminosità solare, è il Genio ispiratore e creatore, è l’animatore che trascina e conquista, è Lui: l’interezza massiccia del mito e della realtà». Alla mostra venivano accompagnate tu e le autorità straniere in visita a Roma. Con la perfidia del giovane fascista deluso, Zangrandi racconta che ogni giorno un diverso drappello era obbligato a fare la scorta d’onore alla rassegna: «Balilla e avanguardisti, deputati e senatori, gerarchi di periferia e italiani venuti dall’estero, generali e magistrati, ministri e accademici d’Italia, scri ori, poeti, artisti, filosofi, scienziati: a ognuno toccò il suo turno. Indrappellati, in divisa o in orbace, distinti in “mute” per darsi il cambio, all’esterno o all’interno dell’edifizio, uomini con i capelli grigi e magari con la pancia si alternavano in posizione di presentat-arm nei punti stabiliti. E, tra mezzogiorno e il tocco, venivano condo i in giardino, a consumare il rancio, invero eccellente, a base di rigatoni al sugo e carne lessa». E confessa di non essersi divertito affa o, da diciasse enne, a vedere con i propri occhi lo spe acolo di queste fiumane discendere per via Nazionale. Ma, la delusione maggiore, la ebbe dal mondo dell’accademia. Come abbiamo visto, soltanto 12 professori universitari su oltre 1200 rifiutarono di firmare fedeltà al regime fascista. Come esempio di trasformismo tra fascismo e postfascismo, Zangrandi fa il nome di uno dei maggiori storici italiani, Luigi Salvatorelli. Non dove e

giurare (non insegnava all’università) e, pur essendo stato antifascista fino al 1925, si allineò al regime dagli anni Trenta all’inizio dei Quaranta. Nel Corso di Storia per i licei del 1935, ristampato da Einaudi fino al 1942, Salvatorelli ignorò fra l’altro completamente sia il deli o Ma eo i sia la protesta dell’Aventino, due eventi chiave della prima fase del fascismo. Naturalmente, l’edizione del 1952 fu di tu ’altro tono. Zangrandi dà a o a molti intelle uali di non essersi so omessi al fascismo, pagando con la galera o l’esilio (da Gaetano Salvemini a Guido De Ruggiero, da Piero Calamandrei al ca olico Giuseppe Donati, all’azionista anticlericale Ernesto Rossi), ma pubblica anche lo sterminato elenco di chi aderì alla fascista Accademia d’Italia, ricco di nomi di luminari della scienza e delle arti: Riccardo Bacchelli, Pietro Canonica, Francesco Cilea, Enrico Fermi, Gabriele d’Annunzio, Guglielmo Marconi, Filippo Tommaso Marine i, Pietro Mascagni, Ada Negri, Giovanni Papini, Marcello Piacentini, Luigi Pirandello, Ildebrando Pizze i, O orino Respighi, Ardengo Soffici, e tanti altri, tra cui persone che sarebbero state monumenti del diri o italiano, come Pietro De Francisci, Giuseppe Ugo Papi, Santi Romano. Eppure nella pubblicistica, anche autorevole, del dopoguerra, ogni accenno al consenso popolare nei confronti del fascismo scomparve. L’intero Ventennio fu archiviato come un corpus unico, una di atura instaurata con la violenza e mantenuta con la violenza. Nessun italiano avrebbe condiviso quel che faceva Mussolini – tu ’al più, l’avrebbe sopportato – e, se l’avesse fa o, sarebbe stato perché vi ima di un «lavaggio del cervello». Nicholas Farrell spiega ai le ori anglosassoni che questo a eggiamento era fru o dell’egemonia culturale della sinistra nei primi decenni del dopoguerra di cui fece pesantemente le spese Renzo De Felice, primo grande storico revisionista. De Felice aveva una formazione storiografica ineccepibile, basata sulle lezioni di due grandi maestri di scuole di pensiero opposte: il liberale Federico Chabod e il marxista Delio Cantimori. Fu il primo a stabilire quella che dovrebbe essere un’ovvietà: lo storico deve analizzare gli avvenimenti, non giudicarne la morale.

g g Già nel 1965 fece rumore il primo volume della sua monumentale biografia del Duce (Mussolini il rivoluzionario), poiché la stessa accezione di «rivoluzionario» suonava eretica per un personaggio del genere. La forza delle tesi di De Felice consisteva nelle migliaia di documentatissime pagine, fru o di decenni di ricerche negli archivi. Ma quando, nel 1974, uscì Mussolini il duce. Gli anni del consenso, la reazione fu furibonda. E crebbe d’intensità l’anno successivo quando Laterza pubblicò la celebre Intervista sul fascismo, fru o dei colloqui di De Felice con lo studioso conservatore americano Michael A. Ledeen. Come ricordò Claudio Siniscalchi sul «Giornale» del 4 novembre 2015: «L’interpretazione defeliciana [del consenso al regime] venne bollata da Leo Valiani, sul “Corriere della Sera”, di insensibilità morale. Paolo Alatri sul “Messaggero” imputò a De Felice incompetenza storiografica. Il colpo più duro lo assestò Nicola Tranfaglia. Su “Il Giorno” scrisse che nell’intervista De Felice sosteneva tesi pericolose, capaci di indurre nelle giovani generazioni gravi guasti. La rivista “Italia contemporanea” promulgò addiri ura un appello contro la “storiografia afascista” e il “qualunquismo storiografico” di De Felice, “ritenendoli indizio di un orientamento storiografico e culturale che ormai scopre apertamente i suoi risvolti politici, travasando nel campo storiografico le strumentalizzazioni della teoria degli opposti estremismi”». Denis Mack Smith, uno storico inglese allora molto apprezzato in Italia, arrivò a definire l’opera di De Felice «un monumento al Duce». Erano gli anni in cui più forte si avvertiva l’egemonia comunista sulla cultura italiana. Oggi nessuno storico serio avallerebbe giudizi del genere. Ricorda Pierre Milza, autore della prefazione alla versione francese del libro di De Felice sul consenso: «Davanti a una tale levata di scudi, perché la discussione perdesse la sua aggressività fu necessario l’intervento di uno dei capi dell’antifascismo, Giorgio Amendola, il quale si schierò in favore della tesi del consenso». La contestazione a De Felice (che in gioventù era stato trozkista ed era uscito dal Pci nel 1956 dopo i fa i d’Ungheria) proseguì anche all’università di Roma, dove insegnava Storia contemporanea, e

g p durò fino alla morte, avvenuta a 67 anni nel 1996. Tre mesi prima del decesso, la sua abitazione nel quartiere romano di Monteverde fu bersagliata da bombe molotov.

VI

Le donne del Duce

Sciupafemmine, fin da ragazzo Tra le donne, il consenso popolare per il Duce toccò punte di idolatria. La famiglia Mussolini trascorreva le vacanze estive a Riccione, dove ogni tanto lui la raggiungeva. Scrivono Giorgio Pini e Duilio Susmel nella loro agiografia: «Uscire di casa in calzoncini, a raversare rapidamente la spiaggia e tuffarsi in acqua, era per lui tu ’uno col richiamare un infrenabile afflusso di bagnanti dimentichi d’ogni discrezione. Né valeva spingersi al largo perché quelli – uomini e donne, italiani e stranieri – profi ando del luogo aperto, lo inseguivano fi i e lo circondavano a nuoto, in barca, in moscone, frenetici d’entusiasmo e di felicità». Le donne andavano oltre. Racconta Rachele nelle sue memorie: «Una volta un nugolo di donne giovani e anche anziane si lanciò in acqua per seguirlo, incuranti di tu o; e poiché erano in abito da passeggio, ricordo ancora i veli e le borse e che galleggiavano sull’acqua. Tre signore furono ripescate in serio pericolo d’annegare». E testimonia il capo commesso Quinto Navarra: «Le tedesche, le jugoslave, le ungheresi erano le più fanatiche ammiratrici di Mussolini. Ad alta voce facevano favorevoli commenti sulle forme atletiche del duce». Ha puntualizzato Paolo Monelli nel dopoguerra: «Molto si è de o e scri o in questi ultimi anni a questo proposito, del suo ardore amoroso, delle molte donne che riceveva, del suo andare per le spicce in questi incontri. Fa i, episodi, a eggiamenti sono stati naturalmente ingigantiti dalla leggenda popolare; perché il popolo ama fantasticare per tali personaggi amori sovrumani e molteplici e orge indescrivibili, immagina per essi una vita colma di volu à

enormi, proibite, quasi per consolarsi dello squallore della propria; ed a queste fantasie indulgono spesso anche storici e critici, da Svetonio in poi». (Monelli è stato uno dei migliori giornalisti italiani del Novecento. Bell’uomo e anch’egli amante delle donne, sposò a 72 anni l’ancora bellissima Palma Bucarelli, dire rice della Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, che ne aveva diciannove di meno. Nel suo delizioso Mussolini piccolo borghese, usa toni agri nei confronti del Duce. Felice ripensamento, perché fino al 25 luglio 1943 fece parte di quel nutritissimo e autorevole gruppo di intelle uali che scrivevano su «Primato», la rivista di Giuseppe Bo ai, uomo di larghe vedute ma razzista tra i più feroci. E le leggi razziali erano in vigore ormai da cinque anni.) Non sappiamo se nelle descrizioni degli amplessi compulsivi di Mussolini ci siano state delle esagerazioni. È un fa o che, anche quando non era nessuno, fu uno sciupafemmine patentato. L’assalto selvaggio, da vero ardito del sesso, è stato sempre una sua cara eristica. Ecco come raccontava la seduzione giovanile di una Virginia «discreta e generosa, di pelle fresca e bianca»: «Un bel giorno, la presi lungo le scale, la ge ai in un angolo dietro una porta e la feci mia. Si rialzò piangente e avvilita e tra le lacrime mi insultava. Diceva che le avevo rubato l’onore. Non lo escludo. Ma di quale onore si parla?». La ragazza dove e farsene una ragione se successivamente, racconta il sedu ore, «ricambiò poco con l’anima, assai con la carne». Maestro supplente al primo impiego in una frazione di Gualtieri (Reggio Emilia), primo comune socialista d’Italia, sedusse Giulia Fontanesi, una bella ventunenne con il marito militare a Sulmona. La sedusse con biglie i d’amore che sembravano una chiamata alle armi di Marte a Venere. Al primo appuntamento «salimmo le scale e per due ore fu mia. Poi tornai a casa ebbro d’amore e di volu à». La cosa si riseppe in paese, il marito lontano la ripudiò, lei andò a vivere in una camera ammobiliata con il figlio piccolo. E l’amore esplose ancora più impetuoso: «Tu e le sere io andavo a trovarla. Ella mi aspe ava sulla porta. Talora andavamo in campagna e ci abbracciavamo sui

p p g prati lungo le rive del Po. Furono mesi incantevoli. Disponevo di lei a mio piacere». Mussolini era gelosissimo e pretendeva che Giulia restasse segregata in casa (la stessa cosa avrebbe fa o con Rachele). Lei si ribellò e lui la ferì sulla coscia con il coltello a serramanico che portava sempre con sé. Il rapporto, tu avia, restò solido. Secondo Antonio Spinosa (Mussolini. Il fascino di un di atore), fu lei a dissuaderlo dal suicidio quando cadde in depressione, costre o a vivere in un piccolo borgo mentre il cervello volava.

Prese Rachele, pistola in pugno Nel 1902, a 19 anni, le idee rivoluzionarie di Mussolini lo portarono in Svizzera, dove s’industriò in mille mestieri e incontrò la prima donna importante della sua vita, Angelica Balabanoff, un’esule russa più anziana di cinque anni. Angelica era «bru a, buona e sincera», gli dava lezioni di tedesco che, a sua volta, Benito rivendeva ad allievi volenterosi. Fu lei a sedurre lui, superando il disagio per la scarsissima igiene del giovane italiano. La relazione durò una decina d’anni, durante i quali, naturalmente, Mussolini fu tu ’altro che monogamo, e cessò traumaticamente nel 1914 per il tradimento di lui: non sessuale – ovviamente – ma politico, perché il giovane agitatore socialista si era convertito all’intervento dell’Italia nella prima guerra mondiale. Arruolato suo malgrado come bersagliere nel 1904, dopo l’amnistia concessa per i renitenti alla leva, Benito tornò a Predappio per la morte della madre. Durante la licenza non perse tempo e amò «fortemente» due maestre di Forlì, Paolina Dianti e Virginia Salvolini. Poco tempo dopo acce ò una supplenza a Tolmezzo, in Friuli, dove prese alloggio nella locanda Alla Scala e intrecciò subito una relazione con la locandiera, Luigia Paje a Nigris, una prosperosa trentenne de a «la Gigia». E poiché era una donna sposata, venne alle mani con il marito. La relazione proseguì tra le continue scenate di gelosia di lei. Una volta, leggendo sugli appunti dell’amante Anassagora, Anassimene e Talete, la Gigia li

scambiò per nomi di donne, e Benito ebbe il suo bel daffare per convincerla che si tra ava di filosofi greci. Nel 1908 Mussolini se ne tornò in Romagna dove il padre, rimasto vedovo, aveva smesso di fare il fabbro e aveva aperto una locanda, che gestiva insieme a una vecchia amante, Anna Guidi. La figlia di Anna, Rachele – de a «Chile a» –, aveva 18 anni, Benito 25. Si erano conosciuti quando lei frequentava la seconda elementare (e lì si era fermata) e lui, appena diplomato, era andato a sostituire come supplente la mamma maestra. «Se c’era al mondo qualcuno che poteva domarmi» dirà Rachele nelle sue memorie (Benito il mio uomo) «questi era “il figlio della maestra”. I suoi occhi mi persuadevano ad obbedirgli in qualunque momento. Erano acuti, penetranti, con le pupille che parevano mandare lampi. Io dicevo che erano “fosforescenti”. Certo, e lui lo sapeva, esercitavano su tu i un potere incredibile, che non sono mai riuscita a spiegarmi.» La fulminò con gli occhi al primo incontro, nell’autunno del 1908. Poco dopo le disse: «Domani parto. Al ritorno diventerete mia moglie». E poiché Anna, la madre di lei, e Alessandro, il padre di lui, non erano affa o d’accordo, Benito tirò fuori una rivoltella: «Un colpo è per Chile a, gli altri sono per me». Cede ero. La coppia andò ad abitare in due stanze ammobiliate. Benito guadagnava 120 lire al mese, delle quali 20 erano per il partito e 15 per l’affi o. Rachele chiese in prestito alla madre pia i, posate e lenzuola. La miseria durò fino al 1912 quando, grazie alla Balabanoff, Mussolini diventò dire ore dell’«Avanti!» e il suo stipendio salì a 500 lire. A Milano, sede del quotidiano socialista, Benito conobbe tre donne: l’anarchica pistoiese Leda Rafanelli, l’ebrea veneziana Margherita Sarfa i e la trentina Ida Dalser. La prima non gli cede e, nonostante un incontro in casa di lei tra cuscini orientali e un braciere che diffondeva profumo d’incenso e di sandalo. La seconda, come abbiamo visto, sarebbe diventata tra il 1918 e il 1936 la donna più importante della sua vita. La terza, prima gli salvò e poi gli complicò l’esistenza.

La tragedia di Ida Dalser, moglie e madre segreta Ida Dalser era una donna intraprendente, che aveva iniziato la carriera professionale come cameriera per poi diventare governante e infermiera presso una ricca famiglia milanese, i Taveggia. Si comportò così bene che, morendo, la sua padrona le lasciò in eredità 1 milione di lire, una cifra favolosa per l’epoca. Ida se ne andò a Parigi dove aprì un salone di bellezza, che poi trasferì a Milano. Il «Salone Orientale d’Igiene e Bellezza Mademoiselle Ida» ebbe uno straordinario successo. La Dalser conobbe il giovane dire ore dell’«Avanti!» in un salo o milanese e cadde tra le sue braccia. Si vedevano ogni pomeriggio e fra un incontro e l’altro Mussolini trovava il tempo di farle recapitare le ere infuocate. Era uno dei suoi amori impetuosi, che gli tornò comodo quando nel 1914, diventato interventista, perse il posto di dire ore dell’«Avanti!». In a esa di fondare il «Popolo d’Italia», il trentenne Benito era alla fame. Fu Ida a mantenerlo in tu o e per tu o, tanto che lui dimenticò completamente di avere una moglie e una figlia, Edda, che aveva allora 3 anni. Per amore dell’amante, la Dalser vende e il salone di bellezza e si ridusse in miseria. Le cose precipitarono quando, il 31 agosto 1915, Mussolini partì per il fronte. Da qui si snoda un labirinto di avvenimenti in cui ci fanno da guida le ricerche di Alfredo Pieroni, un giornalista trentino poi diventato una delle prime firme del «Corriere della Sera». Negli anni Cinquanta trovò un documento in cui il sindaco di Milano certificava che «la famiglia del militare Mussolini Benito era composta dalla moglie Dalser Ida e da figli numero uno». Il figlio – Benito Albino – sarebbe nato soltanto l’11 novembre successivo, ma evidentemente Benito falsificò i dati anagrafici per assicurare alla consorte un piccolo sussidio. Ma Ida Dalser era stata davvero la moglie di Mussolini? In Il figlio segreto del Duce, Pieroni sostiene di sì, sulla base della testimonianza del parroco di Sopramonte (Trento), perché è convinto che il matrimonio sia stato celebrato e la trascrizione eliminata nel 1925 dai registri parrocchiale e comunale per opera di

alcuni gerarchi fascisti. Fa o sta che, quando riceve e un telegramma dall’ospedale militare di Treviglio con l’annuncio che «Bersagliere Mussolini qui ricoverato per i ero catarrale», la povera donna vi si precipitò con Benitino al collo, sentendosi rinnovare promesse d’amore eterno. Il problema è che il giorno precedente, in quello stesso ospedale, Mussolini aveva sposato con rito civile Rachele, incinta del secondo figlio Vi orio. La tragedia avvenne quando le due donne s’incontrarono in corsia. Ascoltiamo il racconto di Rachele: «Nella stanza in cui si trovava mio marito mi aggredì gridandomi in faccia: “Sono io la moglie di Mussolini, e solo io ho il diri o di restargli vicina”. I soldati presenti si divertivano un mondo. Allora mi scatenai e mi avventai … a me erle le mani a orno al collo e cominciai a stringere. Dal suo le o, come una mummia avvolta dalle bende, che gli impedivano di fare il minimo movimento, Benito cercava di intervenire. Si ge ò addiri ura giù dal le o per fermarci. Per fortuna alcuni medici ed infermieri intervennero, altrimenti credo che l’avrei strangolata. Alla fine la Dalser scappò via, mentre io scoppiavo a piangere». Un mese dopo, nel gennaio 1916, Mussolini riconosceva Benitino, dichiarando però che la Dalser non era sua moglie. Lei gli fece causa, e il giudice lo condannò a versarle 200 lire al mese per il mantenimento del figlio. Ida non si chetò e mise in giro la voce che l’ex amante fosse diventato interventista nel 1914 perché finanziato dal governo francese. Se non fu certo questa l’unica ragione della clamorosa capriola politica di Mussolini, è un fa o – ricordato dallo stesso Pieroni – che il 17 gennaio 1914 lui aveva incontrato a Ginevra l’ex primo ministro francese Joseph-Marie Caillaux, che gli aveva accreditato presso il Banco Jarach la somma di 1 milione. È da quel conto, sostiene Pieroni, che veniva prelevato il mensile per Benitino, finché il 19 gennaio 1925 la questione economica fu risolta con l’assegnazione al bambino di un capitale di 100.000 lire a garanzia di una rendita annua del 5 per cento. Nel 1926 l’insistenza della donna a seguire ogni movimento di Mussolini ne determinò l’internamento in un manicomio. Ida, naturalmente, non era pazza, ma dove e aspe are se e anni prima

p p p di poter incontrare i parenti, nel 1933. Due anni dopo riuscì a evadere dal manicomio segando le sbarre della finestra della sua stanza e calandosi con le lenzuola bagnate e arrotolate, ma fu ripresa e rinchiusa di nuovo. Morì a 54 anni la sera del 1° dicembre 1937. Benitino aveva, allora, 22 anni e viveva so o la tutela degli zii materni. Da questo momento in poi, la sola fonte sulla sua sorte è il libro di Pieroni. Il questore di Trento avrebbe convocato lo zio del ragazzo, Riccardo Paicher, imponendogli la rinuncia alla tutela del nipote, divenuto nel fra empo maggiorenne, e di cederla a un funzionario di polizia. Allo scontato rifiuto, accadde un episodio incredibile: Benitino fu rapito da due funzionari di polizia e spedito prima al «Ricovero dei dereli i» di Sant’Ilario, vicino Rovereto, poi trasferito in Piemonte, in un elegante collegio di Moncalieri. Raggiunta la maggiore età, il giovane avrebbe potuto incassare le 100.000 lire, che però nel fra empo erano scomparse. Infine, anche lui fu internato in manicomio a Mombello, vicino Milano. Come scrivemmo in L’amore e il potere, si dice che sia stato so oposto a insulinoterapia e a ele roshock, sia andato in coma nove volte, abbia temuto di essere ucciso e, per questo, sia impazzito. Benitino morì il 26 agosto 1942, all’età di 26 anni. Diversa la versione data nel 1944 da Mussolini a Elena Curti, figlia (forse) sua e di Angela Cucciati, una delle amanti più fedeli di cui ci occuperemo più avanti. Incontrandola a Salò, le confessò: «Ebbi un figlio, durante la guerra 1915-18. Quello sì, che era mio figlio. È morto in un sanatorio, di tubercolosi».

Sesso sul tappeto e nel vano della finestra Quinto Navarra, il ciambellano di palazzo Venezia, nelle sue memorie è categorico: Mussolini ha ricevuto una donna al giorno, tu i i giorni, per vent’anni, fino all’ultimo istante di potere. Destituito la no e del 24 luglio, fece rinviare l’incontro con la signora S. di Ferrara fissato per l’indomani. Per indicare questo genere di interlocutrici – chiamiamole così – Navarra ha coniato

una definizione rimasta celebre: «visitatrici fasciste». Scrivevano a migliaia da tu ’Italia per incontrare il Duce: alcune per esporre seri problemi familiari, altre per avere un piccolo sussidio, che spesso ricevevano in via dire a. Mussolini prelevava contanti da un casse o della scrivania o, preferibilmente, me eva le banconote tra le pagine di un libro che poi faceva recapitare a domicilio. Altre donne arrivavano a palazzo Venezia soltanto per conoscerlo, sopra u o in senso biblico. Un ufficio smistava la corrispondenza e, ovviamente, nella Sala del Mappamondo venivano ammesse soltanto quelle che offrivano garanzie di sicurezza. Non erano giovanissime (l’unica eccezione fu Clare a Petacci), né necessariamente belle. Avevano una sola cara eristica comune: le forme morbide. Ed erano quasi tu e donne borghesi. Mussolini non ha mai amato l’aristocrazia e non ha mai frequentato i salo i della nobiltà romana, che pure facevano a gara per invitarlo. Né era a ra o dal proletariato: la sola, fedelissima amante di quella estrazione sociale fu la milanese Angela Cucciati. Le «visitatrici» si tra enevano per non più di mezz’ora: metà del tempo era destinata a un amplesso furioso, consumato sul tappeto che copriva il pavimento davanti all’enorme scrivania, o su un cuscino scarla o nel vano di una delle finestre qua rocentesche affacciate su piazza Venezia. In rarissime occasioni (per la Cucciati e per la Petacci) Navarra faceva accomodare le ospiti nella piccola Sala dello Zodiaco dell’appartamento Cybo, dal nome del cardinale Lorenzo, nipote di Innocenzo VIII, che lo abitò alla fine del Qua rocento. Lì – testimone un soffi o decorato con immagini di astri – i convegni erano più romantici. Monelli ironizza sulla tempistica e la qualità degli incontri descri i da Navarra. «Il buon uomo esagera» annota, amme endo, peraltro, che il cameriere «doveva ogni tanto sprimacciare il materassino collocato sul sedile di pietra so o la finestra della Sala del Mappamondo o racca are dal tappeto che stava davanti alla scrivania qualche forcina. Con le vecchie amanti che tornavano periodicamente a visitarlo pare che andasse subito a finire sul tappeto (antica abitudine fin da quando stava in via Rasella dove non c’erano tappeti e la coppia si rotolava sul duro impiantito). Ma

pp pp p con le donne nuove, e con le visitatrici solo vagamente disposte all’avventura, non è de o che la cosa dovesse finire sempre sull’appiccicoso.» Lo stesso Mussolini tendeva a non ingigantire le sue doti amatorie. Confidò all’amico Nino D’Aroma: «In fa o di donne, ho la mia esperienza uguale a quella di tu i gli uomini sani che nella vita fanno la loro parte né più né meno degli altri, perché se io, Mussolini, dovessi addossarmi tu e le donne che mi si a ribuiscono, francamente avrei dovuto essere, più che un uomo, uno stallone». Il Duce non era generoso con le sue ospiti. Non offriva un tè, un cioccolatino, una bibita. Mai un regalino. Non usava profumi (ma molta acqua di Colonia) e non li cercava nelle donne. («Mi piacciono allo stato brado» confessò una volta a Clare a.) Se era di buonumore, dopo l’amplesso – e sempre all’interno della mezz’ora prevista – si esibiva in un pezzo al violino. Il quarto d’ora di sesso era imprevedibile. Una donna che era stata spesso da lui ha raccontato a Monelli: «Sapeva essere brutale, sgarbato, violento, iniziava il colloquio con bestemmie e parolacce, porco questo, porca quella, boia qui, boia là. Ma sapeva anche essere tenero, carezzevole, addiri ura paterno». Nonostante la rapidità dell’incontro, non riusciva a mantenere lo stesso umore: brusco e volgare all’inizio, zuccheroso alla fine. E viceversa. «Non era l’amante silenzioso e delicato: per tu o il tempo che si teneva la donna tra le braccia urlava, sbraitava, commentava la vicenda con esclamazioni, con imprecazioni, con rauchi gridi.» (Per fortuna Navarra, che stava in anticamera, era sordo.)

La spia sedu rice e le 300 foto del Duce Naturalmente le giornaliste, sopra u o se straniere, avevano un accesso privilegiato. Magda de Fontanges era un’a rice molto intrigante già nel 1925 quando, all’età di 20 anni, cominciò a frequentare i salo i parigini. Decise poi di diventare giornalista e nel 1935 si fece accreditare come corrispondente da Roma del

quotidiano «Le Matin». Il suo scopo principale non era quello d’intervistare Mussolini, ma di andarci a le o (si fa per dire). Un giorno Magda si recò a palazzo Venezia con un gruppo di giornalisti e subito dopo Navarra fu avvertito che la donna sarebbe tornata nel pomeriggio. Mussolini le concesse una prima intervista, che fu pubblicata dal «Matin», e altre – privatissime – che rimasero riservate, s’immagina per volere del Duce. Risulta che Magda si fosse sinceramente e furiosamente innamorata. «I suoi occhi» scrisse di Mussolini «hanno uno splendore incomparabile, affascinante, e io sfido chiunque ad affrontarlo per la prima volta senza restarne profondamente turbato.» Lui ricambiò portandola con sé in cerimonie come quella in cui con l’aratro a motore tracciò i confini della nuova ci à di Aprilia. Ma se ne stancò abbastanza presto e la rispedì in Francia con una liquidazione di 15.000 lire. Lei non si rassegnò. Prima tentò (davvero) il suicidio con i barbiturici e fu salvata da una lavanda gastrica, poi si vendicò pubblicando sulla rivista americana «Liberty» i de agli delle loro sedute di sesso a palazzo Venezia so o il titolo My love affair with Mussolini. Magda immaginò che la sua caduta in disgrazia dipendesse dall’ambasciatore francese a Roma, il conte Charles de Chambrun. Il diplomatico ne aveva parlato al Duce come di una donna pagata da quelli che noi chiameremmo i servizi segreti «deviati» della Repubblica francese coinvolti nell’affaire Stavisky, una torbida questione politico-finanziaria che aveva turbato l’opinione pubblica. Così, la sera del 17 marzo 1937, si appostò alla stazione della Gare du Nord a Parigi e sparò all’ambasciatore colpendolo «nelle parti basse», come testimonia Galeazzo Ciano nel suo diario. Un’irruzione nel suo appartamento lasciò la polizia di stucco: c’erano trecento foto di Mussolini. Su una il Duce aveva scri o: «Per un’ora con te darei tu a l’Etiopia». Il problema è che le donne gli credevano. Quando i tedeschi occuparono Parigi, Magda – spregiudicata e doppiogiochista come sempre – si mise al loro servizio nelle vesti di agente segreto.

Mussolini: «Angela, tu sei il mio riposo» La relazione di più lunga durata di Mussolini fu quella con Angela Cucciati: cominciò nel 1921 e finì a Salò. Angela aveva 22 anni ed era molto bella. La sua storia è raccontata dalla figlia Elena, rimasta nel dopoguerra unica testimone vivente del momento in cui, il 27 aprile 1945, Mussolini si tolse il cappo o di caporale d’onore della Milizia per indossare un pastrano tedesco, che non fu sufficiente a ingannare i partigiani di Dongo. Angela aveva sposato da poco Bruno Curti, un tipografo socialista che aveva conosciuto Mussolini a Milano ed era rimasto coinvolto in un episodio della guerra civile del biennio rosso. Bruno, che aveva comba uto negli Arditi, aveva aderito al fascismo e fa o parte di una squadraccia che aveva ucciso un professore di idee politiche opposte. Arrestato e incarcerato, pregò la moglie di chiedere aiuto a Mussolini. Fu il padre, socialista della prima ora, ad accompagnare Angela nella sede del «Popolo d’Italia». Mussolini la notò e la fece tornare con il pretesto di concordare una strategia per la liberazione del marito. Si rividero spesso. Si amarono. «In lui c’era passione, mai volgarità. Sapeva farla sognare» racconta Elena in Il chiodo a tre punte. «Mia madre era affascinata da quest’uomo interessante, famoso come comba ente, oratore, sindacalista, rivoluzionario, giornalista e che pure era capace di sussurrarle, mentre la riaccompagnava a casa: “Vorrei che questa strada non finisse mai”.» Il 19 o obre 1922 nacque una bimba, che sostiene di essere «la figlia segreta del Duce». Non ne abbiamo la prova, ma l’a eggiamento di Mussolini nei confronti della ragazza, anche negli anni difficili di Salò, è più affe uoso di quello che ci si aspe erebbe verso la figlia di un’amante, sia pur di lunghissimo corso. Elena sostiene che la relazione s’interruppe nel marzo 1922, dopo un ultimo incontro in febbraio, quando sua madre era rimasta da poco incinta, e che, in seguito alla partenza di Mussolini per Roma, i due non si rividero più, fino al 1929. Noi ne dubitiamo. Quando lui andava a Milano, la chiamava, e lei qualche volta lo raggiungeva a Roma. In ogni caso, ci fu una pausa nella relazione,

che poi riprese intensamente all’inizio degli anni Trenta. Angela non procurava a Benito alcun problema e lui, assediato dalle richieste o dalla gelosia delle altre, le confessava: «Tu sei il mio riposo». Quando arrivava a palazzo Venezia, Angela aveva il privilegio di essere introdo a da Navarra nella Sala dello Zodiaco. Vi si alternava qualche volta con Clare a, e il capo commesso dove e dar prova di grande perizia nell’evitare l’incontro. Risulta che soltanto in un’occasione il Duce l’abbia portata in pubblico: sulla spiaggia della tenuta reale di Castelporziano, la fece salire su un motoscafo dal nome dannunziano di Alcione e la condusse al largo a folle velocità. Elena racconta di aver conosciuto Mussolini nella primavera del 1929 a Milano, quando si recò con la madre a una cerimonia di beneficenza: «Arrivato alla nostra altezza si fermò di colpo, guardò per un a imo la mamma, poi abbassò lo sguardo verso di me, sorrise leggermente e mi accarezzò i capelli». La separazione di Angela dal marito era stata traumatica. Quando incontrò Mussolini per la prima volta, aveva già un bambino di 2 anni, ma Bruno non si era mai rassegnato alla perdita della figlia. Elena racconta che nel 1930, approfi ando della visita al collegio che ospitava il fratello, il padre la «rapì», la caricò su un taxi e, dopo un giro presso parenti a lei sconosciuti, la riportò al collegio delle Orsoline a Milano dove lei dice di aver trascorso i nove anni più sereni della sua vita. Il padre, che comba eva in Etiopia, le spediva racconti appassionanti della natura africana che le suore le facevano leggere ad alta voce. Il rientro in famiglia dalla madre, a 17 anni, fu freddo. Poi, una sera d’estate del 1942, piccata per i rimproveri di un amico di famiglia, Elena sbo ò: «Neanche fosse mio padre…». Fu allora che Angela le disse: «E se tuo padre fosse Benito?». «Mamma, che cosa dici? Tu lo devi sapere. Se non lo sai tu…» A quel punto lei le raccontò la storia, ma Elena ne dubitò. Eppure doveva ben sapere che quella tra sua madre e il Duce era ben più di una semplice amicizia. Un anno prima Angela, che aveva 37 anni ed era ancora una splendida donna, era tornata a palazzo Venezia portando con sé un

p p p pacco di fotografie della figlia: voleva aprirle le porte di Cineci à. Non sappiamo se sia vero quel che sostiene Elena, cioè che la madre e il Duce non si vedessero dal 1936 per via della Petacci. Comunque, Mussolini fu più che lieto della visita e, guardando le foto della ragazza, le avrebbe de o: «Mi piace Elena, ha la mascella quadrata, come la mia … Ah guarda, qui assomiglia a Vi orio [il suo secondogenito]». Poi le diede un consiglio paterno: le confidò che l’ambiente di Cineci à era corro o, le star del momento – Alida Valli e Amedeo Nazzari – avevano una vita privata troppo disinvolta. Insomma, «Elena è un fiore e non va sciupato». Quando seppe che la ragazza era interessata alla filosofia, disse che gli sembrava la scelta perfe a. Il giorno di Pasqua del 1942, Angela e la figlia furono ricevute a palazzo Venezia. Mussolini donò alla ragazza una sua foto con dedica. Una volta rientrata a Milano, Elena riceve e la visita del colonnello Camillo Ridolfi, maestro di scherma e di equitazione del Duce, che le consegnò una Storia della filosofia greca con le annotazioni manoscri e di Mussolini, fa e, come di consueto, con la matita rossa e blu. Dentro il libro c’era una mazze a di banconote, che il colonnello mostrò alla madre della ragazza: «Sua Eccellenza dice che sono per gli studi di Elena». Un anno dopo, nuova visita, nuovo libro e nuovo denaro. Ma questa volta il regalo era davvero straordinario, anche se la ragazza allora non poteva saperlo: Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi. Elena me e nel conto di non essere creduta, anche perché afferma che la copia è andata perduta insieme ad altre cose durante un trasloco a Parigi nel 1960. Tu avia, il suo racconto è troppo singolare per essere inventato di sana pianta. Elena ricorda che si tra ava di un libro in una veste editoriale comune, ma con la scri a «Edizione speciale». In teoria è possibile che Einaudi, che aveva pubblicato parecchi testi so o il regime, abbia inviato a palazzo Venezia una copia da so oporre alla censura. Ma se davvero le fu regalato nella primavera del 1943, come sostiene, andrebbe corre a la data di stesura del romanzo di Levi, che viene fa a risalire al dicembre dello stesso anno, dopo la caduta del fascismo. Quando la ragazza tornò a palazzo Venezia con la madre, Mussolini le chiese

g p immediatamente se avesse le o il libro. La ragazza, mentendo, gli disse di sì. E lui: «Sai, è tu o vero, tu o vero. Tragicamente vero», alludendo alle drammatiche condizioni del Mezzogiorno. Dal gennaio 1944 Elena si trasferì a Gargnano (Brescia). Mussolini le propose di lavorare negli uffici della Repubblica di Salò e lei acce ò. E fece parte della sventurata comitiva che il 27 aprile 1945 accompagnò il Duce nell’ultimo viaggio.

La bellissima Romilda e il figlio misterioso A Mussolini furono a ribuite anche storie mai avvenute, come quella con l’a rice Alida Valli o con Alwine Glienke, moglie del cancelliere austriaco Engelbert Dollfuss, che nell’estate del 1934, quando il marito fu ucciso dai nazisti, era a Riccione, ospite della famiglia Mussolini. Il Duce rifuggiva da relazioni con persone troppo note. Preferiva, come ricorda Navarra, una qualunque signora C. di Milano («bruna, robusta, alta, né troppo fine, né troppo volgare») o la contessa R. di Rovigo, bella, bionda e procace, della quale doveva essersi veramente invaghito perché, appena arrivava a Roma, faceva recapitare un biglie o a palazzo Venezia e veniva ricevuta subito. Mussolini ebbe anche una comodissima relazione con Romilda Ruspi. Comodissima perché la Ruspi era sorella di Renata, un’impiegata dell’amministrazione di villa Torlonia, che aveva gli uffici nella Casina delle Cive e, il villino dove si era ritirato il principe Giovanni dopo aver ceduto alla famiglia Mussolini la residenza principale, ubicata all’interno del parco dove il Duce passeggiava e cavalcava. Sia Renata sia Romilda erano molto belle e Mussolini le corteggiò entrambe, finché la seconda, che era sposata con due figli, non cede e. Poco dopo Romilda ebbe un terzo figlio. La paternità fu a ribuita subito al Duce dalla madre stessa, ma non se ne ebbero mai le prove e si dubita persino che la donna ne abbia mai parlato al figlio. Naturalmente Rachele sapeva, ma aiutò a soffocare lo scandalo. Lei stessa ne conoscerà i de agli nel dopoguerra

leggendo una le era di 11 cartelle speditale da Ruggero Minardi, un italiano emigrato in Francia, che aveva trovato lacunosi alcuni punti delle sue memorie pubblicate nel 1957 su «France-Soir». Romilda aveva un fisico e un portamento aristocratici, nonostante fosse figlia di uno scalpellino del cimitero del Verano. Il marito era dirigente di un istituto farmacologico romano e, poiché il tradimento avveniva so o i suoi occhi, non poteva non vedere. Mal gliene incolse. La polizia non gli diede pace, tanto che fu addiri ura accusato di aver a entato con le sue scenate al prestigio del capo del governo. Alla fine dove e pagare gli alimenti alla moglie adultera, quando questa chiese e o enne la separazione incolpandolo di gelosia morbosa. Per evitare il peggio, il poveruomo espatriò in Francia dove raccontò a Minardi la sua versione dei fa i. Che è quella qui riportata. La relazione era nota anche a Clare a Petacci, gelosissima di qualunque donna potesse, sia pure teoricamente, interessare Benito. Per la Ruspi lo torturò, estorcendogli confessioni annodate a bugie di cui è pieno il diario (Mussolini segreto) che riporta i colloqui con il suo uomo, desecretati dall’Archivio centrale dello Stato a se ant’anni dalla stesura. Il 22 maggio 1938 Mussolini le dice: «Ti sono fedele dal primo marzo. Ti ho tradito una sola volta con la Pallo elli [un’altra amante del Duce che incontreremo tra poco]. Quella signora [la Ruspi] non l’ho più vista». Annota Clare a: «Lo faccio ridere, dimentica i particolari, s’imbroglia, gli tiro fuori la verità: l’ha vista ancora il 21 aprile. Sono certa che è stato anche il 20 maggio. Lui nega risolutamente. Poi però dice: “La tua psicologia è so ile e finissima. Mi prendi in castagna e mi fai cantare. Ti farò dell’Ovra [la polizia politica] accidenti, sei terribile … Ci sono cascato come un merlo. Però ti dico tu o, vedi? … Sono andato a darle i denari per la villeggiatura. Voleva prendere un quartierino ad Ostia per i ragazzi. Le ho dato ben diecimila lire … Le ho de o: rifa i una vita. E lei: me la farò”». Mussolini racconta poi a Clare a di non essere stato brillante a le o («Non gliela facevo, non funzionavo») e di aver fa o sesso in altro modo, ge ando la Ruspi nella disperazione («Non sono più buona, la mia carne non ti dice

più nulla…»), tentando di far credere a Clare a che la donna fosse diventata perfino bru a. L’amante «ufficiale» teneva stre amente so o controllo le altre donne di Benito. Impedì che la Ruspi andasse in vacanza a Ostia: troppo vicina a Roma. Stessa cosa con Pesaro: troppo vicina a Riccione, dove avrebbe villeggiato la famiglia Mussolini. Riuscì a spedirla a Viareggio («Mi costerà un po’ di più» bofonchiò il Duce). Telefonò addiri ura a casa Ruspi per accertarsi della partenza di Romilda. Incrociò a messa la sorella Renata con un bambino piccolo, il supposto «fru o del peccato» («Non assomiglia affa o a lui»). Monitorava i presunti pericoli come il periscopio di un sommergibile che scruta in tempo di guerra la superficie del mare. «Vedo a messa una signora con un vestito verde e gli occhi neri. Avrà quarant’anni, bella ma matura. Ha un cappello verde con una vele a marrone dietro. Deve essere stata molto bella, e lo è ancora. Sento che è stata una sua amica. La guardo per non dimenticarla. Lei si allontana, non so se si è accorta che la osservavo…» Romilda era un vero incubo per Clare a. Confessò lei stessa a Benito di temere la sua dolcezza, dopo che lui le raccontò quel che gli aveva de o: «Ha parlato di te quasi con affe o. Diceva: “Ti capisco, sei arrivato a un’età che ti ci vuole la gioventù. È carina, è bella, con i ricce i e direi che io non le voglio male”». La Ruspi, in realtà, si ribellava alla di atura sentimentale di Clare a e della sorella Mimì che, pur giovanissima, ne era complice. Quando il Duce tentò di impedirle di tornare da Viareggio a Ostia, si sfogò: «Le due sorelle ti hanno talmente stregato, le due streghe, che non vuoi neanche vedermi? … Ciò che fai è ingiusto. Ti sono stata sempre fedele, così ricompensi una fedeltà di anni?». Romilda s’illudeva ancora di ritagliarsi un posto esclusivo nel cuore di Mussolini. Il 20 novembre 1938 Benito confidava a Clare a: «Ho telefonato alla Ruspi perché erano trenta giorni che non ne sapevo nulla. L’ho trovata molto aggressiva. Mi ha de o che è stanca, che vuole sapere a cosa a enersi, che è ancora giovane, ha diri o alla vita». Mussolini ha sempre mentito a Clare a, ma a volte è stato di una franchezza sconcertante: «La Ruspi la tengo per senso di possesso … Ormai non tira più, la carne è sfa a, sciupata. Lei

p p p dice che acce a tu o, mi ama. Allora io dico: “Stai ad a endermi. Ti me o la cintura di castità e non potrai farti prendere da un altro. Solo da me…”. Non l’amo più. È possesso. È una cosa mia. Dato che la mantengo non voglio che si dia ad altri». La storia andò avanti per parecchi anni. Alla fine, per liquidare la bella Romilda, le fu comprato un appartamento in largo Amilcare Ponchielli, a un passo da villa Borghese. In più, le furono donati un garage con annessa pompa di benzina nella nuova ci à di Li oria (Latina) e un assegno che il ministero dell’Interno le versava mensilmente a ingendo a fondi riservati.

E Clare a scoprì Benito nella villa di Alice Per giustificare con Clare a la sua bulimia sessuale, vivacissima anche dopo aver superato da tempo i 50 anni, Mussolini le raccontava che subito dopo il trasferimento a Roma, quando abitava ancora in via Rasella, aveva 14 donne e arrivava a possederne anche 4 in un giorno, collocando la Sarfa i tra un appuntamento e l’altro. In quel periodo nacque la relazione con Alice de Fonseca Pallo elli, una splendida signora anglofiorentina, sposata e con due figli. «La Pallo elli non l’ho mai amata» raccontò nel 1938 Benito alla gelosissima Clare a. «La conobbi a Genova poco dopo aver preso il governo. Era nell’albergo con il marito, mi mandò un mazzo di fiori: “Un’italiana con gratitudine”. Poi la vidi l’indomani nella hall. Parlammo e piano piano cominciò.» L’incontro deve essere avvenuto subito dopo la marcia su Roma, se è vero che già nel dicembre 1922 lei si fece trovare alla Victoria Station di Londra per salutare il Duce insieme al primogenito, Virgilio, che aveva 6 anni. Non è vero, come si è scri o, che fosse figlio di Mussolini e che Benito e Alice si siano conosciuti addiri ura prima della Grande Guerra. Figli suoi, invece, furono gli ultimi due della donna, Duilio e Adua. Lo confessò lui stesso a Clare a il 10 dicembre 1938: «Ieri sono andato dalla signora Pallo elli dalle due e un quarto alle due e cinquanta. Ho veduto i bambini, e sono contento di avere constatato che sono miei.

Quando li ho stre i fra le braccia mi sono commosso. La piccola è bellissima, la più bella bambina di Roma. È deliziosa, somiglia molto all’Anna [Anna Maria, figlia quintogenita di Mussolini e Rachele]. Tu vuoi sapere tu o, e io te lo dico». A ilio Tamaro, all’epoca ministro plenipotenziario a Berna, scrive in un appunto del 1942 che Alice Pallo elli è stata l’amante di Mussolini per nove anni, «durante il periodo più splendido del Duce». In realtà, lo è stata almeno per sedici, perché lui confessa di aver fa o l’amore con lei «per l’ultima volta» nel 1938. Benito dice a Clare a di aver sospeso la frequentazione con la Pallo elli verso il 1924-25 e di averla ripresa alcuni anni più tardi. La sospensione, in realtà, non fu volontaria. Alice era sposata con il conte Francesco Pallo elli Corinaldesi, impresario del pianista russo Vladimir de Pachmann, il grande interprete di Chopin scomparso nel 1933, e negli anni della sospensione era all’estero con il marito per seguire i concerti di Pachmann. Ma negli Stati Uniti, aiutata dalla padronanza dell’inglese (sua seconda lingua madre per parte di nonna), diventò quella che i giornalisti americani chiamarono la «Giovanna d’Arco del fascismo». Si presentava alla stampa americana come «personal representative of Premier Mussolini of Italy» e organizzò convegni e iniziative benefiche in favore del fascismo, «per chiarire al popolo del Nord America che cosa è realmente accaduto quando i fascisti guidati da Mussolini hanno preso le redini del governo in Italia». Nei suoi ritorni in Italia, Alice si recava spesso in visita al Vi oriale e fu per un breve periodo l’amante di Gabriele d’Annunzio. («Buona no e mio dolce Ariel» scrive una sera al Vate dal suo albergo di Gardone. «Io rimango nascosta tra i cuscini, cercami e mi troverai…») Mussolini, ovviamente, lo seppe e non gradì. Ma la relazione con il Duce continuò, anche se lui minacciò di troncarla dopo aver scoperto il tradimento. La Pallo elli, oltre che patriota, è anche quella che Gianni Scipione Rossi, autore di Storia di Alice. La Giovanna d’Arco di Mussolini, chiama «donna madre». Quando, nel 1926, Mussolini ebbe una crisi particolarmente grave di ulcera, fu lei a far venire da Londra Aldo Castellani, luminare della ba eriologia e della

g medicina tropicale, che nel 1917 era stato elogiato dal «British Medical Journal» per le sue ricerche, condo e insieme al collega inglese Frank Taylor. Castellani riuscì a guarire Mussolini senza intervento chirurgico e Alice se ne a ribuì il merito. Clare a era follemente gelosa di Alice per più di una ragione. Non solo perché lei la considerava un’intrusa, le faceva la guerra e aveva dato due figli a Mussolini, ma, sopra u o, perché, con il suo fiuto poliziesco, li aveva scoperti in flagrante. Accadde il 2 aprile 1938. Al telefono Benito dice a Clare a di comprare il se imanale «Omnibus» per un articolo sulla principessa di San Faustino. La tranquillizza sulle sue intenzioni nei riguardi della nobildonna («È vecchia, eh?») e si rifiuta di vederla: «Mi pare eccessivo tu i i giorni, non umiliarmi, non sono un mandrillo». Clare a non lo vede da tre giorni. Troppi. Aggancia la corne a e «mi precipito dopo cinque minuti in via Nomentana alla villa della Pallo elli. La sua macchina è dentro la villa, dinanzi alla porta, la scorta è lì vicino. Mi sento impazzire, piangendo a endo che lui esca. Sta venticinque minuti. Quando passa lo rincorro, lo sorpasso, rallento. Mi vede, si spaventa della mia corsa, non torno a casa fino alle undici e mezzo. Lui telefona 10-15 volte, grida, urla, s’inquieta, soffre, si dispera con mamma e Mimì. Poi io non voglio rispondere al telefono. Va a dormire esasperato, ma telefona però la no e. Sto male, mi sento morire, piango tu a la no e. Perché mi fa tanto soffrire? Non ne posso più». Le telefonate a vuoto di Mussolini riprendono la ma ina successiva. Finalmente, lei si decide a rispondere a mezzogiorno e va a trovarlo alle 3. Lui è insolitamente sbrigativo: «Concludiamo. Decidi. Io sono nelle tue mani, fai di me ciò che vuoi. Prendimi, lasciami, come credi. Alla fine sai che mi è indifferente. Ho tanti pensieri, non posso perdere tempo con te, con queste cose. Vado incontro a dei periodi difficili in cui ho bisogno di tu a la mia calma per non sbagliare». (La Germania ha annesso l’Austria da un mese, le sanzioni per la guerra d’Etiopia colpiscono l’Italia severamente e il capo del governo e Duce del fascismo deve districarsi tra le gelosie dell’amante ufficiale e i desideri da «mandrillo», come dice

lui, per le altre.) «Ti prego di avere pazienza. Sono un animale. Lascia che ti ami ancora.» Prova a dire che è andato dalla Pallo elli per portarle 5000 lire in un momento di difficoltà, poi amme e di aver avuto voglia di vederla perché non accadeva da qua ro mesi. «Ci sono stato dodici minuti…» «Ventiqua ro» riba e lei. «Bene, ventiqua ro allora, la cosa è stata rapida. Capirai, è una donna passata d’età. Dopo 17 anni non c’è entusiasmo, è come quando prendo mia moglie…» («Dopo 17 anni» vorrebbe dire che la relazione iniziò nel 1921, mentre, come abbiamo visto, in un’altra occasione Benito rivela a Clare a di aver incontrato Alice solo nel 1922, una volta conquistato il potere.) Poi, le scuse e la sorpresa per l’agguato: «Amore perdonami, non lo farò più. Sputami in viso, ma amami … Come fai a sentire che ti tradisco? Vai a colpo sicuro, come un proie ile, parti e vieni alla villa della Pallo elli. È un mistero. Ci indovini sempre. Questo è un segno dell’amore. Non capisco, non posso nasconderti nulla. Ma dopo te l’avrei de o. Senti nell’aria non solo il tradimento, ma anche la persona, con un fiuto da sbalordire. Sono stordito e a errito. Non dovevo farlo, ma non riesco a frenarmi. È l’abitudine. Ho 54 anni». Il tragico destino di Mussolini volle che ad accompagnarlo nell’ultimo viaggio, tra il 26 e il 27 aprile 1945, fossero i figli di due amanti: Elena Curti, la figlia di Angela e (forse) di Benito, e Virgilio, il primogenito di Alice Pallo elli, nato nel 1916 e tenente d’aviazione. Ne danno notizia Giorgio Pini e Duilio Susmel, biografi del Duce. Elena prese posto nell’automobile di Virgilio, inquadrata nella gigantesca colonna di 200 camion con i soldati di Salò organizzata da Alessandro Pavolini, il famigerato comandante delle Brigate nere che sarebbe stato fucilato il 28 aprile a Dongo. Il marito di Alice, inabissatosi durante il fascismo, riemerse dopo il 25 luglio 1943 come commissario del comune di Fabriano, dove la famiglia aveva una villa. Alice si sarebbe poi trasferita a Roma, dove morì l’11 se embre 1973.

Con la contessa Giulia? Sul tappeto, sulla poltrona… Giulia Ma avelli, figlia di un postino della provincia di Como e sarta a Milano, dove e la sua fortuna, come racconta Giampaolo Pansa in Eia eia alalà, all’incontro in negozio con il conte Cesare Carminati Brambilla, che la sposò insediandola nel castello di Semiana, in Lomellina (Pavia). Quando incontrò Mussolini, nel 1921, era una splendida trentenne, già molto infedele al marito. «Un volto da principessa pronta a cavarsi le mutande» la descrive Pansa. «Bionda, formosa, un pe o smagliante, l’incarnato roseo e sopra u o molto disinvolta.» Domenica 8 maggio il Duce era arrivato a Mortara per pronunciare un discorso ele orale e ricevere un premio. Durante un pranzo in suo onore all’albergo Tre Re, Giulia gli consegnò una medaglia d’oro dicendo: «Questo omaggio è per il nostro alfiere». Dopo cena l’ospite chiese di poter rientrare a Milano per chiudere l’edizione del «Popolo d’Italia», ma poi ci spedì il fratello Arnaldo e acce ò di restare per un ballo al Teatro comunale. E con chi ballò? Con Giulia. A un certo punto i due scomparvero e tornarono un’ora dopo. Testimoniò una cameriera dell’albergo Tre Re: «Non si ha idea di come abbiamo trovato la camera numero 5. Siamo abituate alle coppie e danarose che passano una no e di bagordi al Tre Re, non però al caos che avevano combinato Mussolini e la contessa Giulia. La stanza era so osopra come se ci fosse passato un ciclone. Quei due avevano fa o l’amore perfino sul tappeto e sopra la poltrona accanto alla finestra…». La contessa Brambilla alternava le visite a Roma con qualche scappatella con i ras del Pavese, dicendo al marito che in questo modo gli garantiva la benevolenza dei vincitori. Pur avendo commesso l’errore di sparlare di Clare a, Mussolini continuò a frequentarla. Il 6 marzo 1938 riceve e una le era di Giulia che accusava la Petacci di essere andata a Bologna da Ferdinando Gazzoni Frascara, il quale le avrebbe pagato il viaggio. Lei ovviamente negò, Benito e Clare a fecero l’amore e, mentre ascoltavano l’Eroica di Beethoven eseguita da Victor de Sabata, lui le disse di non aver visto Giulia per dieci anni dopo l’episodio di

Mortara e di averla reincontrata nel 1933. «Non l’ho mai amata, è stata una cosa puramente fisica. Sopra u o per lei. È ma a, però può farti del male. Le altre si sono rassegnate educatamente, questa ci darà filo da torcere. È l’ultima, la più aspra e pericolosa, perché è in uno stato di esasperazione.» Dunque, ancora nel marzo 1938 Giulia, ormai prossima alla cinquantina ma sempre bella, continuava ad accusare Clare a di ogni nefandezza, senza che il Duce sme esse di incontrarla. Ma la cosa davvero incredibile è che il 13 dello stesso mese, poche ore dopo che Hitler aveva annesso l’Austria alla Germania rifilandogli, con l’Anschluss, un sonoro ceffone politico-militare, Mussolini abbia convocato d’urgenza Clare a per discutere di una nuova le era della Brambilla. Il 20 marzo, nonostante il parere contrario di Mussolini, la Petacci si presentò in tribuna autorità a piazza di Siena per assistere a un concorso ippico. C’era anche Giulia, che poi scriverà all’amante una le era di fuoco contro di lei: «Non c’è donna più bru a, più orrenda, più volgare di quella. È vestita non so come, un orrore. La faccia ca iva e lo sguardo malizioso, velenoso, dimostrano un cara ere pessimo. Quando sta con la sorella, poi, fanno il paio … Se penso che hai potuto toccare una donna simile sono terrorizzata di te. Tu i i gerarchi sono indignati. Pensano che è ora che tu la finisca … Ma io, che ti dico la verità a costo di tu o, ti salverò. Non la mollerò fino a quando non scoprirò la seconda vita che ha». Non si capisce davvero perché il Duce leggesse questa roba alla sua amante ufficiale, peraltro amatissima. Sta di fa o che, quando sentì che la Brambilla le augurava un cancro, Clare a esplose, insultandola con epiteti che soltanto una donna innamorata può usare contro una rivale, e disse tra le lacrime al suo uomo: «Quel che devi me erti bene in testa è che io non sono la tua amante: sono il tuo amore, il che è una cosa ben diversa. E tu per me sei come mio marito». Così Mussolini si decise a liquidare definitivamente la Brambilla.

Una escort a palazzo Venezia Una relazione abbastanza lunga, ma con pochi sentimenti che andassero oltre il sesso, fu quella con Cornelia Tanzi, poetessa e, insieme, mondana d’alto bordo. «Faceva una vita strana e misteriosa» raccontò Mussolini a Clare a. «Ha un prozio che dev’esserne l’amante e proprietario del bordello della madre. Poi un altro amante, un certo avvocato che le ha pagato la macchina. Basta, basta. No, non è bru a, ma neanche bellissima. Ha gambe lunghe lunghe, è esile, so ile, alta, bruna. Ma frigida, fredda fino all’inverosimile. Figurati che non ha sentito nulla neanche con me. Veniva lì, si spogliava, faceva cadere la camicia, si vedevano queste due gambe lunghe, si me eva lì e via, senza scomporsi. Sempre indifferente, si rivestiva e andava via. Tu o in meno di mezz’ora. Ti dico la verità: l’ultima volta è stata per me una cosa laboriosa e faticosa, perché non mi andava. Poi non so, aveva un profumo quel giorno, un odorino disgustoso. Non l’ho mai amata e sentivo di essere un miserabile … sono un animale. E poi mi tradisce … Ha diversi amanti, anche Trilussa, e prende danari. Fa marche e, insomma, come ha sempre fa o. Spargeva la voce di essere la mia moglie morganatica e che io facevo ciò che lei voleva. Così troncai.» Il Duce la liquidò una prima volta dopo aver le o un’interce azione telefonica in cui la Tanzi raccontava le confidenze di un amante e scoprì che in un albergo aveva de o: «Sì, io ho tanta intimità con il Duce che gli ho lasciato il rosse o sulle labbra». «Allora la chiamai e le dissi: “Sentite, voi mi avete reso ridicolo. Adesso vi allontanerete per due o tre anni da Roma, andate in esilio. Se non ci volete andare con le buone, vi ci manderò con i carabinieri. Andrete in Piemonte”. Tornò dopo tre anni.» Si rividero il 14 febbraio 1936. Nel 1938 Mussolini sostiene di aver troncato definitivamente la relazione per la bru a fama della Tanzi «e poi perché è una scri rice ed io ne avevo già abbastanza della Sarfa i. Il più grande errore della mia vita. Averle permesso di scrivere un libro su di me è al di là di ogni comprensione. Non so come abbia potuto legare per sempre il nome di quella donna al mio. Nella storia passerà

come mia biografa». Quando la Tanzi gli propose di scrivere qualcosa su di lui, «le dissi di essere già stato spu anato dalla Sarfa i. Tra me pensai: questa è una nemica. E l’allontanai». La Tanzi se ne lamentò con un’amica al telefono: «È finita. Non posso neanche scrivere … Quando gli uomini hanno un’altra donna si dimenticano di quelle che hanno e hanno avuto. Il cuore? Quello ce l’hanno tra le gambe…».

VII

Clare a

Clare a Petacci, diversa da tu e le altre «Una sola variante c’è stata, con l’età, ai suoi costumi affe ivi e amatori: d’essere passato dalle molte donne a una sola donna, la Petacci, amante ormai riconosciuta, con guardia di carabinieri alla porta di casa, onore e sorveglianza ad un tempo.» Questa sentenza degna di Tacito, scri a da Giuseppe Bo ai nel suo Diario, è largamente imprecisa. Come abbiamo visto, Mussolini ha sempre continuato ad avere numerose amanti e con alcune ha avuto una relazione profonda. È vero, però, che la storia con Clare a Petacci è stata molto diversa da tu e le altre: una vera storia d’amore suggellata dal tragico destino condiviso nell’esecuzione di Dongo. Abbiamo ricordato che Clare a scrisse al Duce una vera le era d’amore già all’età di 14 anni, dopo che lui era rimasto ferito nell’a entato di Violet Gibson. Il primo incontro fra i due avvenne sei anni dopo, il 24 aprile 1932. La nuova via del Mare, che collegava Roma a Ostia, era stata inaugurata da poco e aveva enormemente valorizzato il litorale laziale. In quella bella giornata di primavera, sull’autostrada correva l’auto della famiglia Petacci, con a bordo, oltre all’autista, Clare a, la sorella Myriam, di 9 anni, e la mamma, Giuseppina Persiche i, discendente di una famiglia di possidenti romani. (Nel suo diario, Mussolini segreto, curato da Mauro Su ora, Clare a non cita il fidanzato, il so otenente dell’aeronautica Riccardo Federici, presente secondo altre fonti.) L’auto fu sorpassata a gran velocità da un’Alfa Romeo rossa guidata da un uomo che indossava guanti e occhialoni da pilota, e seguita da una ve ura nera (la scorta presidenziale). «È il Duce! È il Duce!» gridò Clare a, ordinando all’autista di stargli a ruota.

Arrivato al piazzale di Ostia, Mussolini si fermò e Clare a corse a raggiungerlo. Nel primo anniversario, ricorderà così nel diario l’incontro che le avrebbe cambiato la vita: «Ostia, 24 aprile: in una giornata di libeccio, mentre fugacemente a tra i rideva il sole, Ella mi ha parlato per la prima volta. Tremavo, ma non faceva freddo. Sublime meraviglioso istante, indimenticabile perla mia. Un sorriso di sole, in una raffica impetuosa». «Sono Clare a Petacci» si presentò. Mussolini conosceva il cognome. «Siete parente del medico del Vaticano?» le chiese. «È mio padre.» (Nel diario di Clare a, Su ora ne parla come del medico personale di Pio XI, ma Renzo De Felice esclude che fosse archiatra pontificio.) «Che fate?» «Scrivo, suono il violino…» Lei aveva 20 anni, lui 49. Chiese un appuntamento e fu ricevuta a palazzo Venezia. Stando al racconto che una sua amica fece a Paolo Monelli, i primi incontri nella Sala del Mappamondo «furono convegni romantici, colloqui sentimentali, seduti sul duro sedile di marmo so o il finestrone, guardando il crepuscolo che scendeva sulla piazza, parlando di rondini e di poesia; l’uomo che soleva bu arsi sulle visitatrici appena la porta si chiudeva loro dietro, brancicandole subito nel più morbido, al primo appuntamento con la giovine a si contentò di farle una confessione sdolcinata, che non aveva dormito pensando a lei». Da allora, per qua ro anni, il rapporto corse su un filo di ambiguità che mai, tu avia, sfociò in una relazione. Mussolini era compiaciuto dell’adorazione della bella ragazza e la alimentava confermandone le speranze. Telefonava personalmente a Clare a, verificava se davvero stesse chiusa in casa ogni giorno tra le 18 e le 19 ad aspe are lo squillo da palazzo Venezia. Insomma, una fidanzata virtuale. Lei ne approfi ò per raccomandare il padre Francesco e lo spregiudicato fratello Marcello, di due anni più grande, medico come il padre, che sarebbe stato il vero «profi atore di regime», anche lui fucilato dai partigiani a Dongo nell’aprile 1945. I Petacci non venivano dal nulla. Il papà di Clare a non era archiatra pontificio, come lo era stato invece lo zio Giuseppe, ma

p pp aveva una buonissima clientela privata di cardinali e dignitari pontifici, vista la sua fama di valente clinico. Il nonno paterno, Edoardo Petacci, era stato un importante funzionario dell’impero o omano, dove istituì il servizio postale e telegrafico. Anche nella famiglia della madre non mancavano i medici. I Persiche i erano lontani parenti di Pio XI e un nipote di Giuseppina, Raffaele, guadagnerà una medaglia d’oro alla memoria restando ucciso il 10 se embre 1943 nell’eroica difesa di porta San Paolo dai nazisti, che avevano occupato Roma. Perciò, Monelli iscrive d’ufficio la famiglia Petacci, che non usava il titolo marchesale, al famoso «generone» romano: famiglie della borghesia che, secondo la tradizione capitolina, «vivevano in agiatezza, ricoprivano uffici quasi ereditari nei dicasteri pontifici, possedevano una vigna e tenevano carrozza».

«Vi amo ogni giorno di più» Il regolamento militare non consentiva al so otenente Federici di sposarsi, ma le asfissianti insistenze di Clare a convinsero il Duce a chiedere una deroga. Mussolini acce ò, perché non voleva allacciare la relazione con una donna nubile. Ecco il brano di un loro colloquio a palazzo Venezia nel marzo 1934. Benito: «Perché sei venuta? È assurdo, ridicolo, senza senso». Clare a: «Mi avevate promesso… È una tortura, sapete». Benito: «Ma cosa vieni a fare? Io sono vecchio, tu una bambina». Clare a: «Se fossi sposata?». Benito: «Allora sarebbe diverso. Sei signora, giovane ma signora». Clare a: «Allora fatemi sposare». Clare a e Federici si sposarono il 27 giugno 1934, tre mesi dopo il colloquio con Mussolini. Il matrimonio fu celebrato nella basilica di San Marco, già cappella di palazzo Venezia ai tempi della Serenissima. Visto il ruolo del do or Petacci in Vaticano, il celebrante fu nientemeno che il segretario di Stato Pietro Gasparri, che nel 1929 aveva firmato i Pa i Lateranensi. La coppia di neosposi si trasferì a Orbetello, presso la base aerea dove prestava servizio Federici. E Clare a entrò in una depressione profonda.

Sorprendentemente, nel suo de agliatissimo diario, Clare a non descrive l’inizio della relazione vera e propria con Mussolini. Su questo punto, abbiamo due versioni diverse. La prima è di un amico della donna, Pasquale Donadio, che nell’autunno del 1962 rivelò molti retroscena in un racconto a puntate sul se imanale «Tempo» (Una tragica storia d’amore). Secondo Donadio, la Petacci «fu convocata telefonicamente a palazzo Venezia dalla segreteria particolare del Duce. Vi si recò da sola, di pomeriggio, guidando personalmente la propria macchina e fu accolta ancora nella Sala del Mappamondo. Dopo brevi convenevoli, Mussolini, che andava ormai per i cinquantaqua ro anni, entrò in argomento senza so intesi … Fra l’altro disse che, essendo separata da Federici, era padrona di se stessa. Clara annuì, lui divenne tenero, stringente, incalzante. Ella si abbandonò con gioia al gioco amoroso, perché era proprio quello l’uomo che aveva sognato, idolatrato, voluto. Così e non altrimenti Clara divenne l’amante del Duce». Secondo Su ora, il primo rapporto tra i due avvenne invece nelle se imane intorno al 9 maggio 1936, in cui Mussolini era al massimo del trionfo dopo la proclamazione dell’impero. Clare a era ancora sposata con Federici, che soltanto in luglio avrebbe dato il consenso alla separazione. Il matrimonio era, comunque, agli sgoccioli. Scrive infa i la Petacci in primavera: «Vi amo ogni giorno di più, sono nella vostra divina atmosfera d’amore, non posso più essere toccata da lui». Aggiungendo il 19 giugno: «[Mio marito] è un essere che non so più se più detesto o più disprezzo, che finge, che mentisce, che mi impedisce con la sua presenza di correre da Voi». Ma già il 31 maggio aveva usato per la prima volta l’espressione «Amore mio», segno che il rapporto aveva fa o un salto di qualità, e il 2 giugno aveva usato il «tu». «Questa sera eri aggressivo come un leone.» (Clare a aveva un pe o molto florido, e le amanti di Mussolini erano a errite perché lui era solito schiacciare i loro seni «quasi fossero trombe di un’automobile».) Infine, ecco la versione confidata dall’amica della Petacci a Paolo Monelli: «Voci erano giunte all’orecchio di Mussolini che la ragazza, già separata dal marito, se l’intendeva con un certo giovano o; la mandò a chiamare, la riceve e con grinta feroce, la tra ò da

g sgualdrina e peggio, le de e due schiaffi: “Mentre io rispe avo in voi prima la fanciulla e poi la sposa voi tradivate vostro marito con il primo venuto, siete una qui, siete una là e giù parolacce e bestemmie” … La ragazza pianse, si proclamò innocente e cadde vinta tra le sue braccia». Se non avesse già avuto marito, annota malizioso Monelli, uscendo più tardi dal portone del palazzo avrebbe potuto ripetere i versi della canzoncina di Ofelia: «Lui s’alzò e si vestì / poi la porta della stanza aprì / fece entrare la fanciulla che / mai più da fanciulla uscì» (William Shakespeare, Amleto, a o IV).

Una collezione di vestaglie nell’appartamento Cybo La sorella di Clare a, Myriam, racconta nelle sue memorie (Chi ama è perduto) che Federici picchiava la moglie. Anche Mussolini, quando era molto arrabbiato, perdeva il controllo. Sopra u o, quando sua figlia Edda gli sba eva sul tavolo dossier sui loschi traffici di Marcello Petacci. (Un giorno il Duce chiamò nell’appartamento Cybo il fido Quinto Navarra, che trovò Clare a svenuta. Gli ordinò di convocare subito il padre medico e se ne tornò nella Sala del Mappamondo per le udienze. Quando rinvenne, la donna confidò al padre le ragioni dell’ecchimosi che le veniva tamponata: «Per Marcello… mi ha dato un pugno!». Il do or Petacci, uomo d’esperienza, non ba é ciglio: «Un pugno passa…».) In ogni caso, per evitare che il giovane Federici, benché separato da Clare a, andasse in giro per l’Italia come imbarazzante terzo incomodo, con una clamorosa promozione di ruolo fu spedito nello stesso 1936 come adde o aeronautico a Tokyo, dove sarebbe rimasto fino al 1945. Quando iniziò la storia tra Benito e Clare a, i Petacci avevano lasciato un bell’appartamento in corso Vi orio Emanuele, non lontano dal Vaticano, per trasferirsi in uno altre anto signorile in via Spallanzani, al Nomentano: non si sa per quale caso, le finestre erano affacciate sul parco di villa Torlonia, e così si potevano

ammirare al ma ino presto le passeggiate e cavalcate del capo del governo. Clare a faceva una vita comoda, agiata, ma noiosissima. Cagionevole di salute, si alzava tardi, pranzava in famiglia e – da impiegata dell’amore – tra le 15 e le 16 si presentava a palazzo Venezia, dopo aver comprato un mazze o di fiori freschi per la scrivania di quello che ormai chiamava «Ben». Navarra la faceva accomodare nell’appartamento Cybo, composto da un’anticamera, uno studio dove Mussolini – quando non tornava a villa Torlonia – consumava un pasto frugalissimo, e dalla Sala dello Zodiaco. Di qui si accedeva alla stanza da bagno: water, bidet, lavabo con asciugamano e sapone a. Né vasca da bagno né doccia: a quanto pare, nessuno dei due amanti ne faceva uso quotidiano, nemmeno in casa propria. C’era, in compenso, un grande armadio di cui Navarra conosceva ogni segreto: ci ha raccontato, perciò, di una ricca collezione di vestaglie (10, 15…) di colori vivacissimi, di velluto con pelliccia, di merle i e fiori dipinti. Clare a ingannava il tempo leggendo riviste e interrogando Navarra, che ogni tanto le serviva il tè, sulle amanti del suo uomo, e ricevendone solo bugie. Ascoltava musica classica e, più spesso, musica leggera, che il Duce detestava. Una volta la sorprese mentre sul grammofono c’era un disco di Alberto Rabagliati: Mussolini non ne riconobbe la voce, e quando Clare a gli disse chi era, lui tolse il disco e lo scaraventò a terra. Siccome gli avevano riferito che in America non aveva parlato bene del fascismo, sbo ò: «Se ne torni lì. Non abbiamo bisogno né di lui, né di Toscanini», che era emigrato nel 1939 proprio negli Stati Uniti in segno di protesta contro le leggi razziali.

Il Duce, un uomo solo Se Navarra era prodigo di bugie, Clare a lo affliggeva di confidenze piene d’amarezza. Scrive il «cameriere» del Duce: «Si è parlato di trepide a ese; di un Mussolini idilliaco e sognante che passava con Clara ore e ore a parlare d’amore … Al contrario, non ci fu mai

amante più schivo e sfuggente di quello che fu Mussolini per la Petacci. Si può dire che fino all’ultimo Clare a sia vissuta con un orgasmo quotidiano, con una continua paura che qualcun’altra glielo portasse via; il che dimostra quanto poco lo dominasse». Come abbiamo visto in questo capitolo, ciò è vero solo in parte. Mussolini amava Clare a in modo ossessivo, una passione tanto più autentica in quanto non contaminata dalla paura di perderla. Era molto a ra o da lei fisicamente e sopportava scenate che soltanto un uomo – nella sua posizione e con la sua possibilità di scelta – molto innamorato avrebbe sopportato. Secondo De Felice, l’amore per una donna che aveva quasi trent’anni meno di lui era per Mussolini «un modo per sentirsi ancora giovane, per trovare qualche momento di distensione e riempire in qualche misura la solitudine umana con un rapporto il più possibile semplice, disinteressato e sicuro» (Mussolini il duce). Nonostante fosse idolatrato da milioni di uomini e, sopra u o, da milioni di donne, Mussolini era infa i un uomo solo. Confessò a Yvon De Begnac: «Non ho un amico. Non conosco la società. Mi guardo bene dal frequentarla». (Sono impressionanti le analogie con la solitudine di Berlusconi, se ant’anni dopo. Blindato tra la villa di Arcore, la Sardegna e palazzo Grazioli a Roma, di fianco a palazzo Venezia, ha trovato nelle compagnie femminili e nelle sciagurate «cene eleganti» con signorine meno disinteressate della Petacci l’unica divagazione a una vita che più monotona sarebbe difficile immaginare.) Malgrado le visite quotidiane di Clare a a palazzo Venezia fossero note a molti, la sua storia con il Duce rimase segreta per anni. Rachele, come vedremo, la conobbe soltanto a Salò. Con i primi mormorii nei salo i romani, la fantasia popolare si scatenò. Si favoleggiò di un meraviglioso guardaroba che Benito avrebbe via via rinnovato alla sua amante. Navarra testimonia, al contrario, che il Duce regalava a Clare a non più di due o tre vestiti all’anno, ma senza strafare, visto che le allungava ogni tanto un biglie o da 500 lire: «Le somme elargite per tale bisogna erano ridicolmente esigue. E non perché Mussolini fosse avaro, ma perché non aveva mai saputo quanto, in realtà, potesse costare una tole a femminile».

p q p De Felice – e con lui, ormai, la maggior parte degli storici – sostiene che le poche spese per la sua amante venivano coperte dai dividendi (assai cospicui) del «Popolo d’Italia» grazie ai quali viveva anche la famiglia Mussolini, con i diri i d’autore per gli articoli che gli venivano richiesti dalla stampa estera o con somme ricavate dalla vendita di buoni del Tesoro in cui il Duce investiva i suoi risparmi. Paolo Monelli, pur fortemente antipatizzante verso Mussolini, gli dà a o di un totale disinteresse per il denaro. Quando a Gargnano, nella Repubblica di Salò, il suo segretario gli recapitò un decreto del Consiglio dei ministri che gli assegnava un appannaggio mensile di 125.000 lire, andò su tu e le furie: «Che volete che me ne faccia io di tanto denaro? Me ne basta assai poco per vivere a me. Non ho mai voluto dallo Stato stipendi di sorta [per l’intero Ventennio aveva rinunciato allo stipendio di capo del governo]. I miei diri i editoriali mi sono stati, in passato, più che sufficienti». E aggiunse: «Non mangio nulla, vestiti non mi occorrono, bastano cento lire al giorno». Chi era con lui dopo l’arresto e il confino a Ponza, alla Maddalena o al Gran Sasso, non lo ha mai visto spendere un centesimo. Quando gli arrivò una busta non richiesta di denaro, diede 1000 lire al parroco di Ponza per una messa in suffragio di suo figlio Bruno, caduto in guerra. Nicola De Cesare, suo segretario dal 1941 al 1943, raccontò che il Duce gli consegnava tu i i lasciti e le elargizioni che gli pervenivano: «Andavano, fino all’ultima lira, in sussidi e beneficenza. Distribuivamo circa dicio o milioni all’anno. Milioni di allora». Silvio Bertoldi, giornalista e storico di fede socialista, in Mussolini tale e quale ha scri o: «Avrebbe avuto facoltà, pur che avesse voluto, di costruirsi una fortuna. Invece quando morì, alla vedova non lasciò quasi nulla: la già citata villa Carpena, una case a a Riccione e basta. La sua famiglia uscì ne a da qualsiasi indagine della commissione per gli illeciti arricchimenti».

Mussolini: «Maria José di Savoia, nuda, accanto a me»

Monelli afferma che la Rocca delle Caminate, vicino a Predappio, regalata a Mussolini nel 1927, fu restaurata a spese dello Stato, e sappiamo che qualche fondo riservato del ministero dell’Interno è servito, oltre a molte opere di beneficenza, anche a dare la paghe a a qualche amante da liquidare. Ma questo è tu o. È una favola smentita ormai da tempo quella che vorrebbe edificata a spese dello Stato la grande villa dei Petacci alla Camilluccia. Tra le diverse ricostruzioni, la più accurata è senz’altro quella di Monelli. Nella collina di Roma Nord che prende il nome dal principe Camillo Borghese, cognato di Napoleone, che per primo vi aprì una strada, Francesco Petacci comprò per pochi soldi un terreno e affidò il proge o della villa a due giovanissimi archite i della nuova scuola che s’ispirava a Le Corbusier. Uno dei due era amico di Clare a, e questo autorizzò la famiglia a non dare loro un soldo. L’idea di proge are la prima casa moderna di Roma sarebbe stata di per sé eccitante, se non si fosse messa in mezzo la madre della ragazza, Giuseppina, un cocktail di invadenza e ca ivo gusto. I due giovani archite i furono espropriati di fa o del loro contributo perché lei tra ò dire amente con il capomastro (la villa era costruita in economia), e mollarono il lavoro. L’edificio di 32 stanze con terrazza affacciata sulla ci à era stato immaginato come l’abitazione di una favorita. L’intero pianterreno era riservato a Clare a, con un enorme salone per ricevimenti, con vasche e zampilli, una stanza da le o interamente ricoperta di specchi, una stanza di marmo nero con piscina, divisa in due vani da un tramezzo mosaicato. E mentre la gente fantasticava di chissà quali orge, Clare a non dormì mai in quella stanza a specchi, né mai usò quel bagno sontuoso, preferendo una stanza al piano superiore accanto a quella dei genitori, pronta a ricevere le immediate cure del padre, vista la sua salute piu osto cagionevole. Mussolini andò alla Camilluccia solo per assistere l’amante quando questa si ammalò gravemente. Giuseppina gli chiese: «Vi piace la villa?». E lui rispose di no. Clare a amava dipingere, e il Duce fu lesto a organizzarle una mostra personale nelle sale dei Cultori d’Arte, in piazza del Collegio Romano. Visto che la ragazza non aveva poi così tante

g g p opere da esporre e i tempi stringevano, si dice che abbia richiesto l’aiuto del suo maestro Giuseppe Rondini, un pi ore naturalista siciliano. Ne risultò un’esposizione di quadre i ameni, che il critico Pietro Scarpa recensì con prevedibili accenti lirici. Il Duce frequentava l’opera e voleva che Clare a prendesse posto in un palco dove lui potesse guardarla. La guardavano, naturalmente, anche le signore romane, che non lesinavano giudizi taglienti: «La signorina Petacci, suo ultimo amore, benché abbia belle gambe e piedi incredibilmente piccoli come chi l’ha preceduta, non era la compagna appropriata per un capo di Stato. L’ho vista una volta all’opera e l’ho trovata molto a raente. Ma aveva troppi riccioli e il suo trucco innaturalmente pesante. La sua pelliccia di visone era troppo ampia; i suoi gioielli troppo vistosi; però era innegabile che richiamasse l’a enzione». Così annota Franco Bandini, uno dei primi biografi di Clare a. Mussolini, pur ribadendo continuamente a Clare a di amarla, non mancava occasione per ingelosirla. Un giorno le disse a bruciapelo: «Ho trovato una ragazza di 22 anni che ha marito. Credo che ti lascerò per lei». Fu un a imo, ma alla Petacci venne un colpo. Il suo amante fu anche prodigo di particolari sulla corte subita da Maria José di Savoia, moglie di Umberto. Se la trovò sdraiata accanto – e sempre più audace – per qua ro giorni consecutivi al capanno della tenuta di Castelporziano. «Il primo giorno fece cadere il vestito … Era quasi nuda, un paio di mutandine cortissime e due piccoli strati sul seno. Io rimasi meravigliato … Mi invitò a fare il bagno, ogni tanto toccava le mie gambe, non so se lo facesse apposta … L’indomani era ancora qui nuda, più succinta … Mi fece capire di essere sola … Si me eva in tu e le posizioni, ventre so o, culo per aria, si muoveva, mi sfiorava le gambe e mi guardava … Il terzo giorno cominciò a parlare di sesso … A volte era provocante. Le ho veduto perfino il pelo quando piegava le gambe. E poi il sole, il caldo … È eccitante una donna nuda così vicino che mi toccava sempre le gambe. Soli in una capanna, dico, io non sono di legno. Eppure ero di legno. Non mi si è mosso neanche un pelo. Io non ero un uomo, ero un politico.»

La gravidanza segreta della «bella Pompadour» Nell’estate del 1940 Clare a rimase incinta. I Mussolini villeggiavano a Riccione, i Petacci si tenevano a rispe osa distanza, alloggiando al Grand Hotel di Rimini. Un giorno la donna ebbe dolori violentissimi e le fu diagnosticata una gravidanza extrauterina con minaccia di peritonite. Aveva 28 anni. C’era urgenza di un intervento chirurgico, ma anche la necessità di mantenere il riserbo più assoluto. Nella villa alla Camilluccia fu allestita, quindi, una sala operatoria, come accadeva per i pontefici e i sovrani. L’intervento riuscì, ma all’inizio di se embre una complicanza mise di nuovo in pericolo la vita di Clare a. Mussolini corse alla Camilluccia. Raccontò la sorella Myriam alla rivista «Oggi» (2 marzo - 18 maggio 1961): «Se ne stava seduto in un angolo, immobile, con gli occhi sbarrati che fissavano il vuoto … Sembrava un pezzo di marmo. “Lo sai che quel giorno ho pregato per te?” confidò un giorno a Clare a. “È stata una cosa strana. A un certo punto mi son sorpreso a ripetere: Signore, non fatemela morire. Era la seconda volta della mia vita che pregavo”». Nel 1941 Clare a chiese e o enne il divorzio, con una complicata operazione giuridica internazionale maturata a Budapest. Mussolini, che ovviamente era d’accordo, chiarì subito: «Per me, divorziata o separata è la stessa cosa. Ricordatevelo». Lui non pensò mai di separarsi da Rachele. Anzi, non ci fu giornata in cui si trovasse a Roma che la sera non tornasse a casa. La stessa Clare a confessò all’avvocato Gino Sotis, che l’assisteva nella pratica di divorzio: «Lì, nell’appartamento Cybo, nove volte su dieci l’a endo fino alle nove e mezza della sera per vederlo pochi istanti. “Vado a casa” mi dice. “Finalmente non c’è più nessuno e il mio tavolo è sgombro.”». Navarra immagina che i due abbiano dormito insieme al Terminillo, la nuova stazione sciistica vicino Roma. E Roberto Gervaso annota questi incontri romantici citando i ricordi di Clare a quando fu rinchiusa con la famiglia nel carcere di Novara, subito dopo il 25 luglio 1943, perché il padre era accusato del traffico illecito di un tappeto persiano: «Ti ricordi Ben quella sera al

tramonto la neve che scricchiolava come piccoli cristalli iridescenti, che volavano leggeri e felici? E il camine o dalla calda fiamma ristoratrice? E poi… Ricordi? Quando mi tiravano su perché il mio piccolo cuore non reggeva alla rapida salita e tu mi davi lo zucchero bagnato di cognac … e lo dividevi come un fanciullo felice … e ancora la guerra era lontana? Ed i ritorni insieme in auto? Ricordi?». Conoscendo le abitudini di Mussolini (rientro sempre a villa Torlonia) è probabile che i due si limitassero a sciare e a trascorrere insieme il pomeriggio, magari ballando la polka che tanto piaceva alla coppia. L’unica no e insieme è stata certamente quella prima della morte. Nel suo diario, Clare a parla infa i di «pomeriggi d’amore» a palazzo Venezia, al Terminillo e sulla spiaggia della tenuta reale di Castelporziano, dove nella bella stagione, come abbiamo visto, il Duce aveva a disposizione un capanno-ufficio. Gino Sotis, padre della giornalista Lina, era allora l’avvocato matrimonialista più famoso d’Italia. Fece prendere alla Petacci la ci adinanza ungherese, che le consentì di trasformare in divorzio la separazione dal marito. (Siccome era un bell’uomo, Mussolini, geloso, non volle che lei me esse piede nel suo studio romano.) Poiché il suo avvocato ungherese l’aveva chiamata «la bella Pompadour del nostro secolo», Clare a si sfogò a lungo con Sotis: «Se sapesse che per pagarmi le spese di viaggio mio padre si è fa o anticipare dal “Messaggero” lo stipendio di un anno, la sua impressione sarebbe diversa … Mussolini mi copre d’oro, mi tempesta di gioielli; io non debbo far altro che chiedere e affondo le mani in forzieri pieni di denaro e pietre preziose. È così, vero, che pensa la gente? … Non sanno che sono povera, che sono costre a a litigare per i centesimi … Ha una assoluta insensibilità anche ai miei più modesti bisogni. Non per ca iveria e avarizia: semplicemente perché non ci pensa … Un’automobile lussuosa che mi a ende, e mi conduce, mollemente sdraiata su morbidi cuscini, al misterioso e profumato nido d’amore di palazzo Venezia, dove Mussolini mi a ende dimentico degli ambasciatori, dei generali, degli uomini politici che affollano la sua anticamera … Il più delle volte, la lussuosa macchina a o o cilindri è una motocarrozze a e

io giungo a palazzo Venezia impolverata o infreddolita o bagnata a seconda del tempo». In realtà, povera, Clare a non è mai stata. La sua famiglia, come abbiamo visto, era benestante, ma lei non ha mai avuto disponibilità di contante. Il suo galante avvocato ungherese le offrì di cambiarle dei soldi per fare acquisti nelle boutique di Budapest, e dato che lei declinò la proposta, pensò che fosse tirchia, mai immaginando che non avesse denaro da cambiare. In compenso, gioielli, vestiti di lusso e pellicce le arrivavano dal fratello Marcello, il quale riceveva munifici compensi da industriali che, grazie a lui, o enevano – o speravano di o enere – particolari favori. Monelli racconta che, due anni dopo la morte di Clare a, l’autorità di pubblica sicurezza di Milano, alla ricerca di un fantomatico tesoro nascosto con la salma, la fece riesumare e trovò al suo dito un brillante di circa 4 carati, regalatole da un industriale lombardo che aveva a ribuito alla sua influenza la conclusione di un affare. Lei era, in genere, di pretese più modeste. Quando, durante la guerra, segnalò a Mussolini che un gruppo di speculatori stava per me ere le mani su un’industria francese so o sequestro, l’operazione fu sventata e – alla richiesta di come sdebitarsi – Clare a scelse una confezione di profumo Fleur de Rocaille e due reggiseni Scandale. Al di là di questo, il suo interessamento per gli affari di Stato non andò. Né lei sognò mai di essere consigliera dell’amante (come lo fu la Sarfa i), né mai Mussolini glielo avrebbe consentito. Il padre Francesco, una brava persona che certo non fu mai sfiorato dall’idea di contrastare la relazione della figlia, ne ebbe il solo vantaggio di una collaborazione molto ben remunerata al «Messaggero». Prima 1000 lire al mese per due articoli, poi 2000 per la stessa prestazione, anche se non venivano pubblicati. Gli articoli, a quanto pare, erano prolissi e modesti. Gli fu tu avia riservata una collocazione allora prestigiosa, la terza pagina del giornale. Il giorno in cui uscì il suo primo articolo, un reda ore chiese ad alta voce chi fosse il Petacci che aveva scri o quella «pappardella». Sfortunatamente, il professore era presente. Tirato da parte dai colleghi e informato su chi fosse l’autore, il reda ore andò a casa, si

g mise a le o e chiese di essere curato da Petacci in persona: «Lei è il più grande clinico di Roma, non si va più in là. Lei solo mi può salvare, sono nelle sue mani…». Assai valorizzata fu, invece, la sorellina Myriam. Valeva poco o nulla come a rice, ma le furono spalancate le porte di Cineci à per pellicole di scarsissimo successo.

Rachele: «Finirete a piazzale Loreto» Sembra incredibile, ma per se e anni Rachele Mussolini non seppe dell’esistenza di Clare a. Lo scoprì per caso a Gargnano, dove la famiglia del Duce si era trasferita alla nascita della Repubblica di Salò. E ne soffrì molto, come scrive nelle sue memorie: «Non esito a confessare che per nessuna donna ho sofferto tanto come per Clare a Petacci». Nel 1943 Rachele aveva 53 anni, l’amante del marito 31. «Ma debbo aggiungere che c’erano molte esagerazioni su quello che si diceva sui rapporti tra lei e mio marito. Benito fu sempre non solo il migliore dei padri, ma anche uno sposo a ento e affe uoso che, fino all’ultimo, mi circondò di ogni premura. Mai, posso giurarlo, passò una no e fuori di casa, mai si permise di presentare Clare a a qualcuno della nostra famiglia.» L’incontro tra le due donne avvenne nell’autunno del 1944, dopo che l’11 gennaio era stato fucilato a Verona Galeazzo Ciano, marito di Edda. Quest’ultima aveva sempre odiato Clare a e messo in guardia inutilmente il padre da lei (per la verità, senza motivo, a parte le ragioni affe ive). Sul Garda, la situazione precipitò. Mussolini ordinò ai Petacci, che avevano preso casa a Gardone, di trasferirsi a Merano. Clare a o enne di restare accanto a lui e andò ad abitare in una villa de a la «casa dei morti», perché non usciva né entrava mai nessuno: la donna vi si era sepolta. Un giorno Rachele pretese di conoscerla, e chiese a Guido Buffarini Guidi, ministro dell’Interno della Repubblica di Salò, che fin dall’inizio della storia a Roma aveva mantenuto rapporti eccellenti sia con la moglie sia con l’amante del Duce, di accompagnarla. Del colloquio abbiamo due versioni in

larga parte diverse, a inte dalle memorie di Myriam Petacci e da quelle di Rachele. Secondo la ricostruzione di Myriam, Rachele suonò il campanello, ma nessuno rispose. Allora cominciò a scavalcare il cancello e soltanto allora Clare a le aprì. «Siete signora o signorina?» l’apostrofò a bruciapelo. «Sono sposata» rispose l’altra, tacendo della separazione. «Volevo vedere proprio voi per dirvi che dovete andarvene» disse Rachele. «Qui non c’è bisogno di voi, che non vi vuole nessuno. Andatevene e lasciate in pace mio marito.» La versione di Rachele è più sfumata, ma, conoscendone il cara ere fumantino, si è portati a dare maggiore credibilità a quella riferita dalla sorella di Clare a: «Voi credete di aver fa o perdere la testa a mio marito, ma mi fate ridere, perché ne ha avute tante, ma tante, sapete, e siete stata tradita anche voi, non soltanto io, e forse ha tradito più voi che me … Perché non vi vuole mica bene, sapete? Me lo ha de o ieri che non vi vuole bene, e che se vi levate dai piedi gli fate un favore, e adesso voi vi levate dai piedi e fate un piacere a tu i, capito? Perché a voi non vuole bene, vuole bene soltanto a me, capito?». Quando Clare a accennò ai figli e si sentì rispondere da Rachele, ignara della sua dolorosa vicenda, che lei, con quel fisico minuto, forse non avrebbe potuto averne, scoppiò a piangere, secondo entrambe le versioni. E svenne. Buffarini Guidi perse la testa e iniziò a girare per la stanza con in mano una bo iglia di cognac per rianimare la sventurata. Una volta riavutasi, Clare a fece di peggio: disse che non poteva andarsene, perché Mussolini non avrebbe potuto vivere senza di lei. Allora Rachele, furiosa, telefonò al marito. E qui le versioni sono opposte. Secondo Rachele, Benito avrebbe condiviso il suo invito. Secondo Myriam, dopo la telefonata la moglie di Mussolini diventò una belva, scaricando sulla rivale un’irriferibile salva di insulti e arrivando addiri ura a minacciarla che uomini della X Mas erano pronti a ucciderla per far cessare lo scandalo. Un omicidio del genere, viceversa, avrebbe avuto risonanza mondiale, visto che le interce azioni degli Alleati si accavallavano a quelle tedesche e che ovunque pullulavano le spie.

Alla fine, Rachele se ne andò, lanciando contro Clare a un profetico anatema: «Finirete male, signora! Vi porteranno a piazzale Loreto». Qui, il 10 agosto 1944, erano stati fucilati dai nazifascisti 15 partigiani per rappresaglia contro un fallito a entato a un camion tedesco, in cui erano rimasti uccisi 6 civili milanesi. Per L’amore e il potere, Maria Scicolone, sorella di Sophia Loren e moglie di Romano Mussolini, mi raccontò: «In vent’anni di dialogo e di passeggiate verso la Rocca delle Caminate, quando parlava di lei donna Rachele diventava rossa come i papaveri che incontravamo lungo la strada. I suoi occhi colorati come i fiori del rosmarino cominciavano a roteare. Piangeva lacrime cocenti, diverse dalle altre. Eppure…». Eppure? «Eppure, pur non avendola mai perdonata, mi diceva: “Lo sai che ogni sera dico un’Ave Maria per quella povere a? Come poteva resistergli?”.»

VIII

La guerra d’Etiopia e la nascita dell’impero

Mussolini: «Grido di giustizia, grido di vi oria» «Il giorno 2 O obre 1935-XIII – in ogni ci à d’Italia, in ogni piccolo centro, da un capo all’altro della penisola – il suono delle sirene, la radio, le campane a stormo, alle ore quindici precise avvertirono che il popolo italiano era mobilitato. Ogni lavoro fu interro o e tu i corsero all’appello. La radio portò in ogni parte d’Italia la voce del Duce.» Così la solenne introduzione che l’editore milanese Hoepli dedicò alla pubblicazione del discorso in cui Mussolini annunciava la campagna d’Etiopia. Erano le 18.45 quando il Duce si affacciò al balcone della Sala del Mappamondo di palazzo Venezia. Parlò per venticinque minuti alla folla che nereggiava sulla piazza, «la più vasta adunata di popolo che la stessa Roma avesse mai veduto»: «Ascoltate! Un’ora solenne sta per scoccare nella storia della Patria. Venti milioni di uomini occupano in questo momento le piazze di tu a Italia. Mai si vide nella storia del genere umano spe acolo più gigantesco. Venti milioni di uomini: un cuore solo, una volontà sola, una decisione sola. Da molti mesi la ruota del destino, so o l’impulso della nostra calma determinazione, si muove verso la meta … Dopo la Vi oria comune, alla quale l’Italia aveva dato il contributo supremo di 670.000 morti, 400.000 mutilati e un milione di feriti, a orno al tavolo della pace esosa non toccarono all’Italia che scarse briciole del ricco bo ino coloniale. Abbiamo pazientato 13 anni, durante i quali si è ancora più stre o il cerchio degli egoismi che soffocano la nostra vitalità. Con l’Etiopia abbiamo pazientato 40 anni! Ora basta! … Alle sanzioni economiche opporremo la nostra disciplina, la nostra sobrietà, il nostro spirito di sacrificio. Alle sanzioni militari

risponderemo con misure militari. Ad a i di guerra risponderemo con a i di guerra». L’Italia «proletaria e fascista», l’«Italia di Vi orio Veneto», rispose con un urlo gigantesco al «grido di giustizia, grido di vi oria» lanciato dal Duce e rivolto a quel che restava, alla sua destra, dei fasti della Roma imperiale. Nel discorso di Mussolini ci sono due riferimenti cronologici ben precisi: «abbiamo pazientato 13 anni», «abbiamo pazientato 40 anni». Cominciamo dal secondo, che ci riporta all’ultimo spicchio dell’O ocento. Francia, Inghilterra, Belgio, Olanda, Portogallo e Germania si erano spartite Asia, Africa e Oceania. L’8 se embre 1868 il governo di Luigi Federico Menabrea aveva stipulato un accordo di 28 anni con il governo tunisino: un accordo pacifico, essendo allora il nostro un gabine o antimilitarista. Il 3 maggio 1881, con uno sfacciato a o di forza, la Francia s’impadronì della Tunisia sostenendo che, siccome le dovevamo ancora dei soldi per le guerre d’indipendenza, lo sfra o senza preavviso era più che meritato. Fu chiamato «lo schiaffo di Tunisi» e ci fece molto male. Nessuno si mosse per darci una mano. Anzi, l’Inghilterra si affre ò a occupare l’Egi o e gli immigrati italiani in Tunisia presero la ci adinanza francese. Grazie a una serie di complessi intrighi con gli inglesi e con l’armatore genovese Raffaele Ruba ino, che si era portato avanti acquistando diri i mari imi per poi rivenderli al governo di Roma, gli italiani riuscirono a prendersi due lingue di terra, una sul mar Rosso (l’Eritrea) e l’altra sull’oceano Indiano (una parte della Somalia, lasciando il resto a inglesi e francesi). Trascurammo in quel momento la Libia, che faceva parte dell’impero o omano e interessava poco perché non si era ancora scoperto il petrolio, e pensammo di allargarci nel Corno d’Africa conquistando l’Etiopia (1 milione 100.000 chilometri quadrati, quasi il quadruplo dell’Italia) e, per di più, di religione cristiana. Ma gli etiopi erano buoni guerrieri, dotati di o ime armi di fabbricazione inglese europea, e vennero a darci la prima lezione nel 1887 a Dogali, nella «nostra» Eritrea.

Gli italiani presidiavano un forte e a endevano l’arrivo di 540 bersaglieri al comando del tenente colonnello Tommaso De Cristoforis. Il ras Alula, uno dei dignitari etiopi che disponevano di potenti armate personali, gli tese un agguato e gli scagliò contro 7000 uomini. Nonostante un’eroica resistenza, che costò agli abissini più di 1000 morti, la ba aglia si concluse con una strage di soldati italiani (soltanto 118 i superstiti). Lo shock fu tremendo, aggravato dal fa o che il nostro primo ministro Agostino Depretis, che aveva tacitato le proteste pacifiste dei socialisti contro la guerra parlando di «passeggiata» africana, non avrebbe saputo trovare sulla carta geografica la malede a località dov’era avvenuto il massacro.

L’Etiopia e il fantasma di Adua Non desistemmo. Un paio d’anni dopo il ras Alula fu sconfi o dal generale Antonio Baldissera, che si era ba uto con valore so o la bandiera austriaca durante le guerre d’indipendenza e adesso dava prova delle stesse virtù so o la nostra. Baldissera occupò Asmara, nei pressi del confine tra Eritrea e Etiopia, e cominciò ad allungare lo sguardo verso Adua, un po’ più a sud. In Squadrone bianco, Domenico Quirico elogia il generale per aver avuto l’idea di aggregare alle truppe italiane gli indigeni più comba ivi, che chiamò «ascari» (il termine arabo per «guerriero»). Di età compresa fra i 16 e i 35 anni, venivano messi alla prova con una marcia di 60 chilometri, seguita da visita medica. Piedi nudi e divisa elegante, portavano con sé donne e masserizie, e in ba aglia avevano il solo dife o di essere troppo irruenti. Nel fra empo era stato nominato capo del governo Francesco Crispi, che aveva una gran fre a di conquistare l’Etiopia. Baldissera lo aveva pregato di pazientare, e perciò fu sostituito dal generale Oreste Baratieri, ambizioso amico personale del presidente del Consiglio. Tra l’Italia e l’Etiopia venne so oscri o il tra ato di Uccialli (2 maggio 1889), che ebbe due interpretazioni opposte, a causa della doppia stesura in italiano e amarico, per quanto

concerneva il cruciale articolo 17: secondo il nuovo negus Menelik, l’Etiopia poteva farsi rappresentare all’estero dall’Italia; secondo Crispi, doveva. Questo avrebbe significato me ere il paese africano so o il nostro prote orato. Istigato dalla stampa italiana, che accusava il negus di voltafaccia, e dalle canzoni popolari («O Menelicche / le palle son di piombo / e non pasticche»), il primo ministro ordinò l’a acco. I nostri soldati si erano spinti fino al monte Amba Alagi, convinti che le tradizionali liti tra i ras locali non avrebbero mai consentito agli etiopi di allestire una forza militare consistente. Andò diversamente. Un contingente di circa 2000 ascari al comando del maggiore Pietro Toselli, rimasto esposto a causa di ordini contraddi ori e tardivi, fu annientato dai 30.000 abissini del ras Maconnen, comandante dell’armata imperiale. Toselli cadde in ba aglia e, secondo l’uso locale, il suo cadavere fu castrato. Tu avia, poiché la popolazione locale era di antica tradizione cristiana, all’ufficiale fu concessa in segno di rispe o la sepoltura presso la chiesa copta di Beil Mariam. Ringalluzzito dall’imprevisto successo, Maconnen provò a sfra are definitivamente gli italiani. Nel suo delizioso Facce a nera, Arrigo Petacco riporta il dialogo epistolare tra il ras e il maggiore Giuseppe Galliano, comandante del forte di Macallè, dal tono perfino fraterno, vista la comune fede religiosa. «Come stai?» scriveva Maconnen. «Io sto bene, grazie a Dio. I tuoi soldati stanno bene? I miei stanno bene. A nome del mio Imperatore ti prego di andartene, altrimenti mi costringi a fare la guerra. Sarei dolente di dovere spargere sangue cristiano. Ti prego quindi di andartene con i tuoi soldati. Tuo amico Maconnen.» «Come stai?» rispose Galliano. «Io sto bene grazie a Dio e i miei soldati stanno benissimo. Il mio Re ha ordinato che io stia qui e io non mi muoverò. Fa’ pure quello che credi, ma ti avverto che qui con me ho degli o imi fucili e dei buonissimi cannoni. Tuo amico Galliano.» L’a acco abissino cominciò la no e del 7 gennaio 1896. L’assedio al forte di Macallè durò dodici giorni e gli italiani furono stremati dalla mancanza d’acqua, visto che il nemico aveva conquistato il

q q controllo dei due pozzi che rifornivano il forte. Invece dei rinforzi, Galliano riceve e l’ordine di resa. Le truppe italiane o ennero dagli abissini l’onore delle armi e sfilarono passando in rassegna, con enorme frustrazione, reparti africani schierati sugli a enti, ma la sostituzione del tricolore con la bandiera etiopica ge ò Crispi e l’Italia intera in una profonda depressione. («Questa non è una guerra, è una tisi militare» si sfogò il presidente del Consiglio.) Come i giocatori che pensano di annullare le perdite con una mossa arrischiata, la reazione di Crispi portò meno di due mesi dopo l’amico Baratieri alla tragedia di Adua. Le ragioni di quella fre a sciagurata sommano probabilmente la premura del primo ministro italiano di risca are l’onore nazionale perduto e quella di Baratieri di non essere rimpiazzato dal redivivo Baldissera. «Mandatemi 10.000 uomini e vi porterò Menelik impagliato!» disse il generale sbruffone. Anche in questo caso, come spesso è accaduto nella storia militare italiana, l’eroismo dei subordinati fu sacrificato dalla miopia o dall’avventatezza dei comandanti. A favore di Baratieri c’è il mancato arrivo dei rinforzi, tra cui il mitico Mosche o 91 a sei colpi, che avrebbe sostituito il fucile Ve erli 1870 a colpo singolo e che sarebbe stato usato per decenni dal nostro esercito. Contro di lui gioca la fre a di ingaggiare ba aglia troppo presto, nell’illusione che gli abissini avessero bisogno di più tempo per completare lo schieramento. Il generale Baratieri si mosse il 29 febbraio 1896 (anno bisestile) in una no e senza luna. Aveva 15.000 uomini destinati a ba ersi contro 100.000 abissini. Per equivoci e malintesi, le tre colonne italiane non arrivarono insieme al punto di concentramento. La brigata indigena del generale Ma eo Albertone (4000 uomini comandati da ufficiali e graduati italiani) si spinse troppo avanti ed entrò in conta o con il nemico prima del previsto. Quando fu assalita, si difese con le mitragliatrici e contra accò all’arma bianca. Gli abissini stavano per soccombere quando furono richiamati dall’imperatrice Taitù, che seguiva i comba imenti. «Odiava gli italiani» racconta Petacco «e aveva fa o voto di portare una pesante pietra al collo fino al giorno della loro sconfi a.» Gridò: «Coraggio! Cosa vi è preso? La vi oria è nostra!». E così fu. Poco dopo la

p p brigata indigena non esisteva più e il generale Albertone fu ca urato. Quando la brigata al comando del generale Vi orio Emanuele Dabormida (4000 uomini) arrivò a destinazione, invece di Albertone trovò 50.000 guerrieri di Maconnen, che avevano fa o a pezzi lui e i suoi reparti. Il resto del corpo di spedizione, guidato da Giuseppe Arimondi e Giuseppe Galliano, l’eroico difensore di Macallè, fu massacrato poco dopo. (Sulla morte di Galliano si sono alimentate leggende: si va da una semplice, barbarissima esecuzione al trascinamento nel mercato di Adua con un ferro di cavallo tra i denti, prima di essere bruciato vivo.) Baratieri, invece, riuscì a fuggire. L’indignazione nel paese fu enorme. Perfino un uomo di pace come Benede o Croce sarebbe insorto: «L’Italia patrio icamente dolorante chiamava vende a». Si capisce ora da dove sia partito, trentanove anni dopo, Benito Mussolini.

Le ambizioni coloniali del Duce Se i 40 anni di pazienza evocati in piazza Venezia si riferiscono al fantasma di Adua, i 13 anni di pazienza richiamano invece l’idea di espansione coloniale che Mussolini aveva in testa fin da quando, nel 1922, aveva preso il potere. «Siamo quaranta milioni serrati in questa nostra angusta e adorabile penisola, che ha troppe montagne ed un territorio che non può nutrire tu i quanti. Ci sono a orno all’Italia paesi che hanno una popolazione inferiore alla nostra ed un territorio doppio del nostro. Ed allora si comprende come il problema dell’espansione italiana nel mondo, sia un problema di vita o di morte per la razza italiana. Dico espansione … in ogni senso: morale, politico, economico, demografico.» Quando, fin dal 1919, parlava di «imperialismo», il Duce lo immaginava «non necessariamente aristocratico e militare. Può essere democratico, pacifico, economico, spirituale». L’ambizione coloniale era viva anche nei governi prefascisti. Con Giovanni Amendola ministro delle Colonie nei mesi che

precede ero la marcia su Roma s’iniziò la riconquista della Tripolitania, completata negli anni successivi dai governatori fascisti che, tra il 1928 e il 1931, unificarono la Libia accorpando, pezzo per pezzo, Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. Come ricorda Gaetano Salvemini in Mussolini diplomatico, la so omissione della Cirenaica fu o enuta con mezzi durissimi dal vicegovernatore Rodolfo Graziani, che si fece una gran bru a fama. Costruì una specie di Muro di Berlino in filo spinato lungo tu o il confine con l’Egi o e deportò i nomadi in accampamenti organizzati e controllati dal governo italiano. Il 24 gennaio 1932 il governatore Pietro Badoglio poteva annunciare che la ribellione in Cirenaica era «completamente e definitivamente stroncata». In Libia, in quel momento, erano presenti soltanto 859 famiglie italiane. Sulle ragioni che hanno spinto Mussolini a trasformare la penetrazione pacifica nell’impero del negus in un’operazione militare, gli storici sono divisi. Il francese Pierre Milza osserva che «per la storiografia di ascendenza marxista o marxisteggiante, a lungo dominante in campo intelle uale e universitario italiano, e che conserva sostenitori tra gli autori anglosassoni, le ragioni economiche e gli obie ivi di politica interna sarebbero stati determinanti nella decisione di invadere l’Etiopia». Eppure, nella loro Storia d’Italia nel periodo fascista, due autorevoli storici antifascisti, Luigi Salvatorelli e Giovanni Mira, scrivono: «Poiché Mussolini si era ficcato in testa che per l’Italia ci voleva un impero coloniale … era naturale, e diciamo pur ragionevole, ch’egli pensasse all’Etiopia, regione ove poteva credere d’incontrare un minimo di resistenza e difficoltà internazionali». Anche se precisano che queste difficoltà furono poi ampiamente so ovalutate. La tradizione storiografica marxista individua le ragioni principali della guerra d’Etiopia nella crisi dell’economia italiana e nelle difficoltà incontrate dal regime fascista nel mantenere il controllo delle masse. Milza concorda invece con Renzo De Felice, il quale smonta queste tesi sostenendo che, a quella data, le conseguenze della Grande Depressione avevano perso buona parte del loro impa o e che la base popolare del consenso non era affa o

p p p intaccata. Anzi, secondo De Felice, le operazioni militari iniziarono in quello che, so o il profilo della politica estera, sembrava il momento più opportuno. La Germania, alla quale l’Italia guardava con profonda diffidenza, non era ancora tanto forte per approfi are dell’impegno militare italiano in Africa e tirarci bru i scherzi ai confini se entrionali. E se la Francia e l’Inghilterra non avrebbero mai consentito di regalarci l’Etiopia, si sarebbero comunque dovute rassegnare alla nostra occupazione. Cosa che all’inizio non avvenne, sia pure nell’ambito di una colossale e ipocrita commedia degli equivoci. I rapporti tra l’Italia e l’Etiopia erano assai singolari. Nel 1928 era stato so oscri o un pa o ventennale che stabiliva «pace costante e amicizia perpetua», escludeva qualunque ricorso alle armi in caso di controversia e assicurava a entrambi i paesi un proficuo sviluppo dei rapporti commerciali. Inoltre, gli italiani avrebbero realizzato una camionabile per collegare con l’Etiopia, priva di sbocchi mari imi, il porto eritreo di Assab. Il pa o fu firmato dal giovane reggente dell’impero etiopico, Tafari Maconnen, figlio di quel ras Maconnen che ci aveva strapazzato ad Amba Alagi e a Macallè. Quando nel 1930, alla morte dell’imperatrice, Maconnen diventò negus (re dei re) con il nome di Hailé Selassié, il principe di Udine, Ferdinando di Savoia-Genova, cugino di Vi orio Emanuele III, partecipò all’incoronazione. In quell’occasione, Mussolini riceve e il Gran Cordone di Salomone, la più prestigiosa onorificenza etiopica. Grazie all’Italia, poi, l’Etiopia era stata ammessa alla Società delle Nazioni, dominata da Francia e Inghilterra.

Mani libere sull’Etiopia Che accadde, allora, perché la pace si trasformasse in guerra? Accadde, per giudizio pressoché unanime degli storici, che gli abissini cominciarono a infastidirci. Giudicando gli italiani troppo invadenti, bloccarono una concessione ferroviaria concordata nel

1925 tra Italia e Inghilterra, fecero un accordo con il Giappone per privilegiare gli interessi americani rispe o ai nostri e moltiplicarono gli incidenti di frontiera. Nel 1932 Mussolini pensò a un’azione risolutiva, contando sulla silenziosa complicità dell’Inghilterra. E lì cominciò un gioco delle parti che durò tre anni. Londra aveva acce ato le necessità espansionistiche dell’Italia fin dal 1925, quando i principali paesi si erano riuniti a Locarno per sistemare i confini postbellici con la Germania, illudendosi di averla convinta a una pace durevole. E quando, nell’aprile 1935, Italia, Francia e Inghilterra si ritrovarono a Stresa perché Hitler aveva cominciato a suonare i tamburi di guerra minacciando l’Austria, la delegazione britannica – pur conoscendo le intenzioni del Duce in Africa – aveva deliberatamente ignorato la questione etiopica. Come afferma De Felice, Mussolini faceva una politica antifrancese per giungere a un accordo con la Francia. Il suo slogan era: litigi spesso, ro ura no. La gestione del ministero degli Esteri, affidata al giovane Dino Grandi dal se embre 1929 al luglio 1932, finì con l’imbrigliare il Duce in un diplomatismo che non gli apparteneva. Grandi ebbe momenti felici: l’Italia fu, con l’Inghilterra, il primo paese europeo a riconoscere il regime sovietico e a stabilire un eccellente rapporto con la Russia di Stalin. Era pienamente convinto dell’opzione etiopica, ma secondo Mussolini, come abbiamo già ricordato, era «andato a le o con l’Inghilterra e con la Francia, e siccome i maschi erano quelli, l’Italia è rimasta gravida di disarmo». Il Duce giocava molto sulla divisione tra le due star della politica internazionale e, come abbiamo visto, quando queste nel luglio 1932 stipularono un accordo bilaterale, spedì Grandi come ambasciatore a Londra e si riprese il ministero degli Esteri. Eppure, anche con la Francia le cose sembravano essersi messe al meglio. La sera del 4 gennaio 1935 Mussolini andò a ricevere alla stazione Termini il ministro degli Esteri francese Pierre Laval. Al di là delle ovazioni di una folla bene orchestrata, la simpatia tra i due fu immediata, grazie anche alla comune origine socialista. Scopo principale dell’incontro era di contenere l’ormai pericoloso

p p p revanscismo tedesco, ma l’Italia o enne una piccola striscia di Ciad da anne ere alla Libia italiana, un villaggio della Somalia francese da anne ere all’Eritrea e, sopra u o, «mani libere» sull’Etiopia. La sera dell’Epifania ci fu un colloquio a qua r’occhi tra Mussolini e Laval sul quale non esistono documenti. All’inizio del 1936, a guerra etiopica già iniziata, il Duce disse che il ministro francese gli aveva dato carta bianca per la conquista dell’Etiopia. Laval non lo smentì, ammise di aver usato l’espressione «mani libere», ma sostenne di riferirsi solo a una penetrazione economica, senza risvolti militari. L’occasione per agire venne fornita al Duce da una serie di gravi e ripetuti incidenti. Gli abissini cercarono in ogni modo di frenare lo sviluppo italiano, mentre gli italiani si comportarono talvolta come se l’Etiopia fosse un loro prote orato. Salvatorelli e Mira contano 8 incidenti tra le due parti fra il 1928 e il 1933, ai quali aggiungono una quindicina di violenze e offese contro le nostre rappresentanze diplomatico-consolari.

Mussolini: «Hitler è ma o. Un maniaco sessuale» Fra il 1933 e il 1934 gli incidenti furono 7. Quello più grave avvenne il 5 dicembre 1934 a Ual-Ual, una località nel deserto dell’Ogaden, al confine tra l’Etiopia e la Somalia italiana, in cui sorgevano 359 pozzi d’acqua, il cui controllo era evidentemente strategico. (I due paesi si sono sempre contesi la titolarità di quell’area, al punto che ancora nel 1977 ci hanno fa o una guerra.) Nel dicembre 1934 i reparti indigeni so o il comando italiano che presidiavano Ual-Ual furono a accati da truppe irregolari abissine, che lasciarono sul campo un centinaio di uomini contro una trentina dei nostri. Come sempre accade in questi casi, non si è mai capito chi abbia sparato il primo colpo di fucile. Sia l’Italia sia l’Etiopia ricorsero alla Società delle Nazioni, che insabbiò il caso. Ma, so o la cenere, la brace ormai ardeva. Era fallito il «pa o a qua ro», ideato da Mussolini in un weekend di marzo 1933 alla Rocca delle Caminate e formalizzato in giugno, che prevedeva un dire orio delle qua ro

grandi potenze europee (Regno Unito, Francia, Italia e Germania), ispirato alla non belligeranza e finalizzato ad arginare l’ormai galoppante riarmo tedesco. E qui dobbiamo aprire una parentesi su Adolf Hitler, diventato prepotentemente il quarto incomodo. Fin da quando aveva stru urato il Partito nazionalsocialista, nel 1925, il Führer aveva il mito del Duce, al punto di tenerne un busto nella Casa bruna di Monaco. Mussolini non lo amava e non gli dava re a, respingendo perfino la sua richiesta di una fotografia con autografo. Dove e prestargli a enzione nel 1930 allorché i nazisti diventarono il secondo partito della Germania, con 6,5 milioni di voti e la conquista di 107 seggi al Reichstag, contro i 12 delle elezioni precedenti, tenute solo due anni prima. A futura memoria, vale la pena ricordare tre episodi. Il primo è un editoriale del «Popolo d’Italia», a ribuito a Mussolini, in cui si scherniva la presunta superiorità razziale dei nordici, sostenendo che di questo passo il primato sarebbe toccato ai lapponi. Il secondo è l’udienza accordata dal Duce nell’aprile 1933 al Gran Rabbino di Roma Angelo Sacerdoti, che andava a lamentarsi per le persecuzioni subite in Germania dai suoi correligionari. Il terzo è la visita ricevuta, sempre nell’aprile 1933, dal capo del movimento sionista mondiale Chaim Weizmann, che gli chiese interventi rassicuranti presso il capo del governo tedesco. A dimostrazione degli eccellenti rapporti tra Mussolini e il mondo ebraico c’è da segnalare la vicenda – pochissimo conosciuta – della nascita in Italia, a Civitavecchia, della marina israeliana. Nell’o obre 1934, grazie a un’intesa tra il Duce e Vladimir Ze’ev Jabotinsky, leader della destra revisionista sionista, 28 allievi ufficiali ebrei provenienti da diverse nazioni raggiunsero la Scuola mari ima della ci à laziale per essere addestrati. Nel giro di tre anni si diplomarono 200 ufficiali. Sulla divisa portavano un’àncora, la Menorah (il candelabro a se e bracci) e il fascio li orio, e nelle cerimonie ufficiali facevano il saluto romano. Fu acquistato un veliero a motore di 60 metri, riba ezzato Sarah I, che al suo arrivo in Palestina fu accolto con grandi festeggiamenti dalla comunità ebraica: era la prima unità mercantile della futura flo a israeliana. Nel 1938, dopo la promulgazione delle leggi razziali, gli allievi

p p g gg g israeliani della Scuola mari ima di Civitavecchia furono aiutati a nascondersi dal comando locale della marina militare. Dopo lo scambio di visite di Giuseppe Bo ai a Berlino e di Hermann Göring a Roma, era inevitabile che i due di atori s’incontrassero. Mussolini andò a ricevere Hitler la ma ina del 14 giugno 1934 all’aeroporto di Venezia-Lido. Fu una scena memorabile. Il Duce si presentò con un’impeccabile divisa, il Führer con un misero impermeabile color mastice, che lo fece descrivere da un testimone come un impiegato in gita domenicale. Al momento di stringersi la mano, Hitler non riuscì a nascondere l’emozione e Mussolini la scarsa simpatia istintiva che provava per l’ospite. Si trasferirono per il pranzo a villa Pisani, sontuoso edificio sul Brenta, e il Duce insiste e perché il colloquio avvenisse senza interpreti. Mal gliene incolse: è vero che parlava e capiva bene il tedesco, ma non era preparato ad arginare lo tsunami di parole e grida esaltate con cui lo investì «l’impiegato in gita domenicale». Quell’Hitler «è uno spiritato» disse dopo. «Un pulcinella! È ma o, è ma o … È un maniaco sessuale. Invece di parlare di problemi politici, mi ha raccontato a memoria il suo Mein Kampf, quel ma one che non sono mai riuscito a leggere». L’indomani le due delegazioni si trasferirono al Lido di Venezia e si ripeté la stessa scena. Partendo, il di atore tedesco disse: «Uomini come Mussolini nascono una volta ogni mille anni. Per la Germania è una fortuna che egli sia italiano e non francese». Il Duce si gonfiò come un tacchino, ma la sua antipatia nei confronti del collega restò immutata. Hitler fece capire che «nell’immediato» non voleva prendersi l’Austria, ma solo controllarla. Tant’è vero che un mese dopo, il 25 luglio 1934, i nazisti austriaci tentarono un colpo di Stato ammazzando il cancelliere Engelbert Dollfuss, amico di Mussolini, che in quei giorni, come abbiamo visto, ne ospitava moglie e figli a Riccione. Il Führer disconobbe gli autori del golpe perché avevano fallito e Mussolini reagì inviando qua ro divisioni tra il Brennero e la Carinzia, illudendosi che l’Austria sarebbe diventata intoccabile. I giornali italiani furono liberi di scatenarsi contro la Germania e il Duce, inaugurando il 6 se embre la Fiera del Levante – dove visitò

g il padiglione ebraico –, usò toni molto forti: «Trenta secoli di storia ci perme ono di guardare con sovrana pietà talune do rine di oltr’Alpe, sostenute dalla progenie di gente che ignorava la scri ura, con la quale tramandare i documenti della propria vita, nel tempo in cui Roma aveva Cesare, Virgilio e Augusto». Due mesi prima di questo discorso e due se imane dopo gli incontri con Mussolini in Veneto, nella no e tra il 30 giugno e il 1° luglio 1934 Hitler aveva liquidato i vertici delle S A (Sturmabteilungen), le Squadre d’assalto, la prima organizzazione paramilitare nazista guidata da Ernst Röhm, uccidendo 85 persone identificate e molte altre sfuggite ai conteggi nella cosidde a «no e dei lunghi coltelli». Accusate di eccessiva intransigenza e poco amate dai «poteri forti» tedeschi, le S A furono sterminate dalle S S (Schu staffeln), le Squadre di protezione, una milizia totalmente asservita al Führer. Mussolini non se ne faceva capace. «Come ha potuto ammazzare chi lo ha aiutato tanto?» diceva. «Sarebbe come se io facessi la stessa cosa con Balbo, Grandi, Bo ai.»

Il bluff navale della «perfida Albione» «Non ho mai visto un cretino vestito così bene.» L’unica cosa di Anthony Eden apprezzata da Mussolini fu l’abbigliamento con cui il gentiluomo inglese si presentò a palazzo Venezia il 24 giugno 1935. Bello, alto, biondo, 38 anni, formazione a Eton e, poi, alla Scuola di studi orientali di Oxford, sir Anthony era l’astro nascente della politica britannica. Era arrivato a Roma come ministro per i Rapporti con la Società delle Nazioni, ma di lì a poco sarebbe diventato ministro degli Esteri (e, nel dopoguerra, primo ministro). All’antipatia reciproca tra i due contribuì un incidente avvenuto a palazzo Venezia: mentre percorreva la lunga Sala del Mappamondo per raggiungere la scrivania di Mussolini, Eden inciampò in un tappeto e rotolò in terra, e il Duce non trovò di meglio che esplodere in una risata. Mussolini fece di peggio l’indomani, quando, come racconta Richard Collier in Duce! Duce!, di ritorno dal relax di Castelporziano

si presentò al ricevimento in onore dell’ospite all’hotel Excelsior in pantaloni bianchi e giacca rinforzata ai gomiti, ignorando palesemente Eden al punto di non salutarlo. Completò l’affronto durante una colazione formale a Castel Fusano, alla quale si fece rappresentare con un pretesto dal so osegretario agli Esteri Fulvio Suvich. A fine pranzo, ricorda Luigi Federzoni in Memorie di un condannato a morte, gli ospiti furono richiamati dal rombo assordante di un motore. Guardarono verso il mare e, a pochi metri dalla riva, videro un motoscafo che esponeva a prua, come una polena, un Mussolini beffardo. Di rado il Duce aveva cadute di stile così clamorose, ma in questo caso ebbe ragione Eden a dire: «Il signor Musso [sic] non è un gentleman». Le due giornate di colloqui italo-britannici furono disastrose. Eden propose una serie di soluzioni pasticciate delle questioni territoriali che avrebbero dato all’Etiopia l’accesso al mare, che non aveva, e rafforzato alla fine la posizione inglese. Tant’è vero che un diplomatico di lungo corso come Raffaele Guariglia (un tecnico non fascista destinato a fare il ministro degli Esteri nel governo Badoglio) avrebbe scri o nelle sue memorie: «Non si poteva dire se dominasse l’o usità, l’improntitudine o il disprezzo assoluto, non tanto verso la politica italiana, quanto verso il popolo italiano, fascista o non fascista che fosse», arrivando al punto di ammirare la calma e la pazienza di Mussolini. Non mancarono nel corso dei colloqui le ba ute brillanti. Quando Eden gli offrì l’Ogaden, il Duce rispose: «Non intendo passare alla storia come un collezionista di deserti». E, alla minaccia di far entrare in forze la flo a inglese nel Mediterraneo, la replica fu: «Dipenderà, poi, da noi se potrà uscirne…». Gli inglesi inviarono effe ivamente una flo a nel «mare nostro», ma era poco più di una pistola ad acqua, giacché si tra ava di navi di vecchio tipo. I servizi segreti italiani, secondo gli archivi del Duce consultati da De Felice, erano riusciti a infiltrare un agente nell’ambasciata britannica a Roma, che aveva fotografato documenti dai quali risultava l’estrema modestia bellica delle navi britanniche, in grado di fare fuoco con efficienza solo per mezz’ora. Fu facile, quindi, per il Duce andare a vedere il bluff e umiliare la «perfida

q p p Albione», come la chiamò rispolverando un’antica definizione francese. In realtà, Londra era preoccupata che un indebolimento dell’esercito italiano nella madrepatria indebolisse la coalizione antihitleriana, ma, da parte sua, senza chiedere permesso nemmeno alla Francia, aveva autorizzato Hitler a rinforzare la propria flo a. Insomma, un pasticcio. Gli inglesi, inoltre, non volevano che gli italiani, dopo aver ben piantato gli stivali sul terreno africano, dessero noia ai possedimenti britannici. In Francia il buon Laval, primo ministro e amico personale di Mussolini, stava dalla parte dell’Italia, ma aveva un’opinione pubblica fermamente contraria, anche per la presenza nel suo paese di molti antifascisti. Un estremo tentativo di asservire l’Etiopia a un prote orato italiano fu respinta con sdegno dal negus e, alla fine, anche da Mussolini, che si era ormai tagliato i ponti alle spalle. «Non avrei acce ato nemmeno dieci mesi fa» disse il Duce. «Non lo faccio certo adesso che ho mandato in Africa 280.000 uomini», compresi i civili dell’intendenza. Per «fascistizzare» la guerra, Mussolini aveva nominato comandante in capo delle forze armate il vecchio quadrunviro Emilio De Bono, a pochi mesi dai suoi 70 anni. Lo fece ge ando nella costernazione gli alti gradi militari, a cominciare da Badoglio, che fremeva per avere quell’incarico. Nel ruvido linguaggio di militare poco coltivato, De Bono esplodeva nel suo diario: «Quel porco di Badoglio ha cercato di farmi un tiro. Gli tirava il roccolo di venire lui a fare l’operazione. Ma ora ha dovuto sme ere l’idea. Mussolini che qui gioca il tu o per tu o (me lo ha de o lui!) non perme erebbe certo che qualcuno gli si me esse davanti. La gloria, se sarà gloria, deve essere tu a sua. È troppo persuaso che il regime ha bisogno della gloria militare» (Franco Fucci, Emilio De Bono, il maresciallo fucilato). È vero: Mussolini voleva essere lui l’effe ivo comandante in capo e De Bono era uomo ubbidiente. In genere, gli ufficiali sul campo chiedono risorse che i governi cercano di ridimensionare. Nella guerra d’Etiopia accadde il contrario. Già nel marzo 1935 Mussolini scriveva al generale: «Tu mi chiedi tre divisioni per fine o obre. Io te ne mando dieci». All’inizio del confli o, l’esercito italiano

disponeva di 150.000 uomini, 156 carri, 126 aerei, 7000 mitragliatrici, 600 cannoni e centinaia di camion guidati da civili (tra cui ci sarebbero state molte vi ime). Era il più grande esercito europeo mai schierato prima di allora in Africa. Complessivamente, in Italia erano so o le armi 800.000 uomini, distribuiti in 4 armate e 19 divisioni.

Margherita Sarfa i: «Vinceremo la guerra e lui perderà la testa» Alle 10 di ma ina del 2 o obre 1935 Mussolini salì al Quirinale. Vi orio Emanuele III, fino a quel momento molto perplesso sulla guerra (non voleva litigare con gli inglesi), gli diede il via libera: «Duce, vada avanti: ci sono io alle sue spalle. Avanti le dico!». Alle 18.45 Mussolini si affacciò al balcone di piazza Venezia. Mentre la folla lo acclamava, Margherita Sarfa i, che assisteva al discorso dal palazzo delle Assicurazioni Generali, dirimpe o a palazzo Venezia, confidava a Renato Trevisani: «È il principio della fine». «Perché dice così?» obie ò il giornalista. «Crede che la perderemo, questa guerra d’Africa?» «No, dico così perché, purtroppo, la vinceremo … e lui perderà la testa.» De Bono mosse il suo esercito alle 5 del ma ino del 3 o obre. L’avrebbe comandato soltanto per un mese e mezzo, prima di essere rimosso il 14 novembre. Per un giorno e mezzo dall’inizio delle operazioni, a Roma non arrivarono informazioni, cosa che ge ò il Duce nello sconforto e nell’irritazione più assoluti. Poi seguirono le buone notizie: la modestissima resistenza degli abissini consentì agli italiani di conquistare già il 6 o obre Adua, vendicando la bruciante sconfi a di quarant’anni prima. In Italia l’annuncio fu accolto in un tripudio di sincero entusiasmo. All’opinione pubblica non si raccontò che l’impresa ci era costata soltanto un morto e un pugno di feriti. Badoglio, geloso di De Bono e conoscitore dei luoghi per esservi già stato, commentò acido: «Siamo stati fortunati. Se al posto di quel solenne minchione di ras

Sejum avessimo avuto un ras Alula [il massacratore di Dogali] certamente avremmo avuto alcune migliaia di perdite». Mussolini era raggiante («Oggi è una grande giornata per il fascismo») e voleva chiudere al più presto la partita. Si aspe ava perciò una guerra-lampo con a acchi continui, mentre De Bono preferiva a endere che fosse l’esercito abissino a presentarsi per logorarlo, contando sulle sue difficoltà di rifornimento. Un’ispezione del maresciallo Badoglio e del so osegretario alle Colonie Alessandro Lessona indispe ì molto il generale, che finalmente si risolse a obbedire di malavoglia agli ordini del Duce e conquistò Macallè, riempiendo i giornali italiani di titoli evocativi delle passate disgrazie ormai vendicate. In Etiopia era in vigore la schiavitù. Appena arrivati, gli italiani l’abolirono provocando due reazioni sgradevoli: il prevedibile fastidio dei proprietari di schiavi e l’ina eso sconcerto degli ex schiavi, che chiesero subito chi li avrebbe sfamati. I militari abissini non si facevano vivi in forze per due ragioni. La prima era la loro sostanziale disorganizzazione: non solo nelle loro file si alternavano pessimi condo ieri a uomini abili e di grande valore, ma erano schierati in eserciti feudali che talvolta si erano comba uti tra loro ed erano incapaci di un effe ivo coordinamento. La seconda è che il negus, buon diplomatico, voleva lasciare una visibile fascia di rispe o (30 chilometri) tra le sue avanguardie e gli italiani per dimostrare alla Società delle Nazioni che gli aggressori eravamo senz’altro noi. La vicenda era finita fin dal 7 o obre sul tavolo dell’organizzazione ginevrina, che aveva sempre contato poco e contava ancor meno da quando, nel 1931, il Giappone aveva invaso la Cina in Manciuria senza pagare pegno, instaurandovi poi un governo fantoccio che sarebbe sopravvissuto fino alla fine della seconda guerra mondiale. L’invasione italiana violava gli accordi internazionali e andava sanzionata. Ma come? La risposta non era scontata, per i suoi riflessi politici e diplomatici. Alcuni paesi minori si so rassero. La Francia era dubbiosa, anche perché Mussolini disse a Laval che avrebbe chiesto a Hitler i prodo i non più forniti dal tradizionale mercato transalpino. Gli stessi inglesi

p p g erano divisi, anche perché erano note le simpatie per il fascismo del principe di Galles Edward Windsor, il futuro Edoardo VIII. (L’Inghilterra avrebbe potuto inginocchiarci chiudendo il canale di Suez e togliendoci i rifornimenti di petrolio: Mussolini temeva sopra u o questa mossa, che non arrivò.) Germania, Stati Uniti e Unione Sovietica, invece, si dissero contrari a sanzioni pesanti. Per il resto, visto che dalle sanzioni erano esclusi molti metalli, la lana e il cotone, più che un ceffone ricevemmo un energico buffe o.

Oro alla patria. Poi Wanda Osiris diventa Osiride Eppure accadde qualcosa di ina eso e clamoroso. Se i primi successi militari avevano motivato anche i se ori minoritari dell’opinione pubblica e delle stesse camicie nere all’inizio freddi verso un ritorno alle armi, le sanzioni strinsero gli italiani intorno al Duce in quella che Pierre Milza chiama «una potente ondata di esaltazione colle iva. Mai più Mussolini susciterà, intorno alla sua persona, un fervore patrio ico così vivace». Persino gli antifascisti fuorusciti solidarizzarono con il governo. Il socialista Arturo Labriola andò a partecipare la propria solidarietà all’ambasciata italiana di Bruxelles, prima di rientrare in patria e di schierarsi su posizioni filofasciste, e il drammaturgo Sem Benelli, che contrastava il regime da una decina d’anni dopo il deli o Ma eo i, si arruolò volontario per comba ere in Africa. Il culmine dell’adesione al regime fu raggiunto il 18 dicembre 1935, quando venne celebrata la «Giornata della Fede». A cominciare dal re e dalla regina, da Mussolini e da Rachele, milioni di italiani donarono la loro fede nuziale ricevendone in cambio una di ferro. Molti senatori, da Benede o Croce a Luigi Albertini, che aveva pagato il suo antifascismo con la perdita della direzione del «Corriere della Sera», donarono le medaglie e d’oro simbolo della carica. Il cardinale di Milano Ildefonso Schuster offrì il suo anello vescovile dopo aver celebrato solennemente la messa sul sagrato del Duomo il 28 o obre, anniversario della marcia su Roma, per onorare «un nuovo capitolo nella storia della penisola, anzi della

Chiesa ca olica in Italia». Insomma, come scrive il grande storico azionista Federico Chabod in L’Italia contemporanea, gli inglesi «riuscirono a rendere popolare una guerra che altrimenti non lo sarebbe mai stata». E intanto la fantasia italiana ricavò la lana dal la e, il carbone fu sostituito dalla lignite, l’orbace sardo – robusto panno di lana – fu lanciato da Achille Starace per le divise dei gerarchi e per altro, il carcadè abissino sostituì il tè. L’avversione per i francesi e per gli inglesi portò Starace, allora segretario del Partito fascista, a dare il meglio di sé nella gro esca italianizzazione dei nomi stranieri: i magazzini Standard diventarono (e restarono) Standa, Saint-Vincent fu trado o in San Vincenzo, Courmayeur in Cormaiore; le sigare e Giubek e i sigari London furono riba ezzati Giuba e Firenze; Wanda Osiris mutò la sua «divinità» in quella di una dea egizia e diventò Vanda Osiride. I servizi segreti trascrissero un’esilarante conversazione telefonica tra Starace e il federale di Roma, Vezio Orazi. Il segretario del Pnf voleva assolutamente cambiare nome al celebre albergo Eden di via Ludovisi: era insopportabile che si chiamasse come sir Anthony, che ci odiava. Il federale provò a dire: «Eccellenza, la parola Eden non è anglosassone, ma latina … a meno che non si voglia considerare straniera anche la lingua parlata dai nostri progenitori». «Mica volete scherzare?» s’inalberò Starace, piu osto debole in materia. «Per carità, Eccellenza. Il fa o è che Eden, in latino, significa paradiso…» «Sì, sì, lo so» finse bruscamente Starace. «Il fa o è che la gente è così ignorante che può finanche pensare che si tra i del nostro nemico numero uno o almeno un antenato del fautore delle bieche sanzioni.» «Su questo sono perfe amente d’accordo» si rassegnò il federale. E il nome dell’albergo fu cambiato.

E Montanelli «comprò» e «sposò» la giovanissima Destà

Il generale De Bono, intanto, aveva perso da un mese il posto di comandante in capo delle forze armate italiane in Africa e si consolava, nel gennaio 1936, con la nomina a maresciallo d’Italia. Fin dal primo giorno Mussolini non aveva condiviso il suo temporeggiare: aveva fre a di chiudere la partita prima che le pur deboli sanzioni facessero troppi danni, per tornare da protagonista al centro della scena internazionale. Dopo la conquista di Macallè, ordinò a De Bono di andare a riprendersi un’altra stazione della vecchia via crucis: l’Amba Alagi. Lui aveva bisogno di simboli, l’altro obie ò che, dal punto di vista strategico, quella montagna del Tigrè non valeva nulla, e ci rimise il posto. In L’Italia li oria, Mario Cervi e Indro Montanelli hanno descri o la differenza di cara ere e di modi tra Emilio De Bono e Pietro Badoglio, che lo rimpiazzò. L’anziano generale aveva tra i paternalistici e da gentiluomo delle armi: ordinò all’aviazione di colpire soltanto obie ivi militari e truppe in movimento, risparmiando gli insediamenti civili. Pur essendo più giovane di soli cinque anni, Badoglio era un professionista con scrupoli minori: a accò anche obie ivi civili e, come vedremo, fece uso dei gas. Montanelli è un testimone dire o di quella guerra, perché vi partecipò come so otenente. Caldeggiò la sua domanda presso il federale di Firenze, Alessandro Pavolini, e il 22 aprile 1935 partì da Napoli a bordo del piroscafo Saturnia, dire o in Africa orientale. Prima d’imbarcarsi, racconta Stefano Poma sul giornale online «L’Universale» (12 giugno 2020), inviò una le era al grande scri ore britannico Rudyard Kipling che terminava così: «Sappia che io parto per colpa sua. Perché io vado in Abissinia per aver le o Kipling». E il destinatario, ormai se antenne e in ca ive condizioni di salute (morì un anno dopo), rispose: «Se non fossi vecchio e malato, partirei con lei». All’arrivo in Africa, Montanelli fu assegnato a un reparto di truppe coloniali, il 20° ba aglione eritreo, ed ebbe ai suoi ordini un centinaio di uomini con i quali faceva lunghi giri di perlustrazione, faticando a seguire a dorso di mulo i velocissimi subordinati. Montanelli aveva a disposizione uno sciumbasci, un graduato che, tra le varie mansioni, aveva anche quella di tenere i rapporti tra gli

q pp g italiani e le popolazioni locali. Il giornalista italiano, che aveva 26 anni, gli mise a disposizione 1000 lire per «comprare» una donna e un cavallo. La ragazza, anzi la bambina, si chiamava Destà, aveva 12 anni e, per gli usi locali, era considerata in età da marito: perciò, il padre impose nel contra o che Montanelli provvedesse a dotarla di una case a con pollaio, che l’avrebbe elevata al ruolo di «madama», cioè di moglie. Destà, come le altre ragazze etiopi nella sua condizione, ogni quindici giorni spariva con la biancheria sporca e tornava con quella pulita. Visto che i soldati si muovevano, il giornalista confessò di non aver mai capito come facesse a raggiungerlo senza apparenti indicazioni. Fino alla fine della guerra, quando Montanelli rientrò in Italia deluso dall’esperienza coloniale, la giovane restò con lui. Poma racconta che, prima d’imbarcarsi, acconsentì alla richiesta del suo sciumbasci di sposarla. Tornato in Etiopia per un reportage nel 1952, il giornalista andò a trovare la coppia, che gli presentò un ragazzo di 14 anni: era uno dei loro figli e si chiamava Indro. Nel giugno 2020, sull’ondata di proteste per l’uccisione a Minneapolis da parte della polizia americana del nero George Floyd, l’organizzazione di sinistra i Sentinelli propose di abba ere la statua di Montanelli nei giardini di porta Venezia, a Milano, per la storia di Destà. Proposta respinta con sollevazione pressoché unanime: a parte la statura giornalistica, è impossibile giudicare con gli occhi di oggi avvenimenti maturati in un contesto storico e sociale tanto diverso. Successivamente la statua fu imbra ata di vernice rossa dagli studenti del gruppo Rete Studenti Milano con la scri a «Razzista stupratore». Destà aveva effe ivamente 12 anni, come rivelò lo stesso Montanelli nel 1969 nella trasmissione televisiva «L’ora della verità» di Gianni Bisiach, in cui fu a accato duramente da Elvira Bano i, eritrea per parte di madre e fondatrice del movimento Rivolta femminile, presente fra il pubblico in sala. Il giornalista si difese sostenendo che, per le donne abissine, 12 anni era un’età da matrimonio. Successivamente, nel 1982 con Enzo Biagi e nel 2000 nella sua «Stanza» sul «Corriere della Sera», Montanelli elevò a 14

anni l’età di Destà, ma crediamo che faccia fede la rivelazione del 1969. A difesa del giornalista, nel giugno 2020 Alberto Malvolti, presidente della Fondazione Montanelli Bassi, ha de o che il matrimonio gli fu «proposto dalla popolazione locale e celebrato secondo gli usi e i costumi abissini». Dal 1937 queste unioni furono proibite dal governo italiano per non «inquinare» la razza bianca.

Badoglio subentra a De Bono, ma… Pietro Badoglio, che aveva preso il posto di De Bono, trovò una situazione meno agevole del previsto. Mussolini, che si aspe ava una rapida marcia trionfale verso la vi oria, dove e prendere a o che la guerra d’Etiopia non sarebbe stata una passeggiata. «Vostra Eccellenza e tu o il Paese non devono avere sorprese» gli scrisse Badoglio per calmarlo. La sorpresa gliela diedero, prima del previsto, gli abissini: era impensabile che si lasciassero conquistare senza reazioni. E infa i, il 15 dicembre 1935 – tre giorni prima della raccolta dell’oro per la patria –, gli uomini del ras Immirù a accarono con bombe a mano un’avanguardia italiana di carri e finirono con la sciabola gli equipaggi: rimasero uccisi 31 tra ufficiali e soldati italiani e 370 ascari del migliaio che li accompagnava. Da allora e per quaranta giorni gli abissini lanciarono un fortissimo contra acco e Badoglio fu costre o a ritirarsi verso Macallè, abbandonando – quel che è peggio – un’ampia area conquistata da De Bono, che certo non nascose la propria soddisfazione. Tu avia, il generale non si lasciò intimidire e si riorganizzò per un’offensiva che sarebbe stata lunga e decisiva. Ma a sollevare Mussolini dalla depressione pensò Rodolfo Graziani, che presidiava il fronte meridionale, ai confini con la Somalia. Gli diede una mano il giovane e spericolato ras Destà, genero del negus, che costrinse 70.000 uomini a una marcia di 400 chilometri nel deserto nella speranza di cogliere gli italiani di sorpresa. Graziani lo aspe ava con 14.000 uomini, ma con armamenti migliori e, sopra u o, con

un supporto aereo che gli abissini non avevano. Gli scontri avvennero a Neghelli, sulla strada che dalla Somalia porta a Addis Abeba, e la ci à fu occupata dagli italiani. Fu qui che, per la prima volta, vennero usati dal Regio esercito i gas letali, banditi dalle convenzioni internazionali. Il Duce ne aveva autorizzato l’uso su richiesta di Badoglio scrivendogli in un telegramma che avrebbe potuto farlo solo per «supreme ragioni di difesa», cioè quando non c’erano altri mezzi per non soccombere. Badoglio sostenne di dover rispondere, scoraggiandola, alla «barbarie abissina». Secondo lo storico britannico James Strachey Barnes, ripreso da Arrigo Petacco in Facce a nera, gli italiani «lo fecero legalmente quando gli abissini violarono altre convenzioni: l’evirazione dei prigionieri, l’impiego delle pallo ole esplosive e l’abuso del simbolo della Croce Rossa». Barnes era un ex ufficiale dei servizi segreti inglesi convertito al fascismo e la sua visione è ridu iva. Come lo è, ovviamente, quella dello stesso Mussolini, che in un’intervista dell’8 maggio 1936 al quotidiano britannico «Daily Mail» – a guerra ormai vinta – dichiarò: «Quanto ai gas, Aloisi [Pompeo Aloisi, capo di gabine o alla Società delle Nazioni], a Ginevra, ha parlato molto chiaro sull’argomento. Il do . Winkler, della Croce Rossa olandese, ha curato su centinaia di feriti “uno solo” che si riteneva colpito da gas. Quanto ai metodi di guerra impiegati dagli etiopi sono sempre gli stessi e hanno fa o inorridire il mondo. Se la massa degli inglesi vedesse le fotografie degli operai massacrati del cantiere Gondrand, si farebbe finalmente un’idea chiara del livello di crudeltà a cui gli scioani possono arrivare». Nella no e tra il 12 e il 13 febbraio 1936, al confine con l’Eritrea italiana, quasi tu i gli operai (68 italiani e 17 eritrei) di un cantiere impegnato nella costruzione di una strada furono massacrati ed evirati. L’ingegnere capo Cesare Rocca, prima di soccombere, uccise a colpi di pistola la moglie Lydia Maffioli, sapendo a che cosa sarebbe andata incontro. I superstiti furono soltanto 2, e i soldati italiani, esasperati, si abbandonarono a una durissima rappresaglia, uccidendo molti abissini, donne comprese.

L’«inutile errore» dell’uso di gas venefici Torniamo a Rodolfo Graziani, governatore della Somalia nel periodo della guerra d’Etiopia. Questo generale, che seguì Mussolini a Salò pur non avendo un passato fascista, sempre distintosi per le maniere forti spesso sconfinate nella crudeltà, diede un’interpretazione estensiva alle disposizioni del Duce e usò i gas venefici per dare il colpo finale a un’armata abissina giunta stremata allo scontro con gli italiani. Si giustificò invocando il diri o di rappresaglia per la morte atroce del pilota Tito Minniti, ca urato in territorio nemico, torturato, castrato e decapitato. L’uso dell’iprite non fu tu avia sistematico, come lascia invece intendere Angelo Del Boca, al quale va comunque ascri o il merito di aver approfondito fin dagli anni Sessanta questo aspe o della guerra d’Etiopia, sia in La guerra d’Abissinia sia in opere successive. (Nel saggio La verità sui gas italiani nella guerra d’Etiopia, apparso sulla rivista «Storia in rete» nel maggio 2011, Pierluigi Romeo di Colloredo Mels toglie a Del Boca la primogenitura della denuncia e dimostra che due testimoni del tempo, la medaglia d’oro Paolo Caccia Dominioni e Giuseppe Bo ai nel suo diario, parlarono subito dell’uso di gas asfissianti e del tentativo dei militari italiani di coprire le conseguenze dell’a o proibito.) In Il colonialismo italiano da Adua all’Impero, Luigi Goglia e Fabio Grassi riferiscono, sulla base di testimonianze dire e, che l’impiego dei gas era ignorato da molti soldati italiani, in perfe a buonafede. Tra questi, anche Montanelli, che da giovane ufficiale non si accorse di nulla, ma diede conto dell’uso di gas in L’Italia li oria (1976). La sua polemica con Del Boca, autore nel 1995 di una biografia di Hailé Selassié (Il Negus. Vita e morte dell’ultimo re dei re), fu sulle dimensioni del fenomeno, di certo superiori a quelle indicate da Montanelli, ma, a quanto pare, inferiori a quelle ribadite da Del Boca. Ricostruendo la vicenda, Dino Messina sul «Corriere della Sera» del 2 aprile 2016 ricorda che Giorgio Rochat (a mio giudizio, il nostro migliore storico militare) ha segnalato lo scarso impa o delle granate caricate ad arsine e sganciate sull’Amba Aradam e

quello assai maggiore delle bombe a iprite, che vennero usate però su fronti in cui non c’erano soldati italiani (i quali, perciò, potevano ignorarne l’impiego), contro colonne isolate del nemico e negli anni successivi alla guerra, per comba ere la guerriglia anti-italiana. Va quindi escluso, ci par di capire, il loro impiego per favorire l’inseguimento del nemico da parte delle nostre truppe, che non dovevano essere contaminate e non hanno mai fa o uso di maschere antigas, al contrario di quanto era accaduto nella prima guerra mondiale, quando i gas venefici furono usati da tu i. (In Passo Uarieu. Le Termopili delle camicie nere in Etiopia, Colloredo Mels cita il giornalista britannico Anthony Mockler il quale, nel suo libro Haile Selassie’s War, assai critico verso gli italiani, riconosce che «il gas costituiva un grosso problema, ma causava più spavento che danni … Anche quando i gas arrivavano a conta o della pelle, le sco ature potevano essere evitate».) I gas venefici furono usati, e non erano certo carezze. (Scrisse il ras Cassa, ricordando la decisiva ba aglia del Tembien: «All’improvviso si videro alcuni uomini lasciar cadere le loro armi, portare urlando le loro mani agli occhi, cadere in ginocchio e poi crollare a terra. Era la brina impalpabile del liquido corrosivo che cadeva sulla mia armata».) Ma chiedersi se si sia tra ato di un «genocidio razziale» come fa addiri ura Milza, o ritenere che i gas siano stati determinanti per la vi oria italiana, sembra storicamente scorre o. Come lo è sposare integralmente le denunce abissine, dimenticando la ferocia di certe esecuzioni e l’impiego di pallo ole dum-dum, con il loro effe o devastante. La tesi più convincente, anche per i tempi in cui fu scri a, ci appare quella di un altro testimone, il duca Luigi Pignatelli della Leonessa, che partecipò alla guerra. Già nel 1965, in La guerra dei se e mesi, Pignatelli scrive: «Dobbiamo ritenere (e a Ginevra non lo smentimmo) che nel corso della campagna fu fa o talvolta uso, dai bombardieri italiani, di bombe all’iprite. L’impiego di questa terribile arma, che con altre simili e peggiori era stata largamente utilizzata da entrambe le parti belligeranti nella guerra 1914-1918, fu limitato a particolari casi e se non mancò di avere effe o psicologico, fu ben lontano, come è ovvio, dall’agire risolutivamente

p g g sulle sorti della campagna. Sconsigliato a suo tempo dagli ufficiali esperti della guerra coloniale, fu, senza alcun dubbio, un inutile errore».

Badoglio alla stampa: «A acchiamo!» Il 21 gennaio 1936 una colonna di circa 2000 camicie nere comandata dal console Filippo Diamanti era uscita in perlustrazione dalla postazione rinforzata del passo strategico Uarieu e aveva proseguito senza difficoltà. Petacco a ribuisce a un errore del generale Umberto Somma, comandante della divisione di camicie nere 28 O obre, l’ordine a Diamanti di spingersi oltre. Il reparto fu a accato e decimato dagli abissini: furono uccisi, quasi tu i all’arma bianca, 19 ufficiali e 245 camicie nere, compreso il cappellano Reginaldo Giuliani, finito a sciabolate mentre impartiva l’estrema unzione a un moribondo. I superstiti, tra cui 300 feriti, riuscirono a tornare al passo e a difenderlo con il grosso della divisione 28 O obre. Se non ci fossero riusciti, l’armata del ras Cassa avrebbe sfondato verso Adua e l’Eritrea, infilandosi nelle retrovie dell’esercito italiano. In quel momento gli abissini si convinsero di poter vincere la guerra. Anche se la realtà era meno tragica per gli italiani di quanto non risultasse dai trionfali bolle ini del negus, Badoglio trascorse ore tremende. Riuscì a far cadere da un aereo sul forte assediato un dispaccio scri o a mano e destinato al generale Somma, che difendeva la posizione dopo aver mandato allo sbaraglio gli uomini di Diamanti: «Coraggio, mio Somma, Vaccarisi [il generale Achille Vaccarisi, comandante della 2a divisione eritrea] è vicino». Racconta Paolo Monelli, uno dei giovani giornalisti inviati al fronte: «Rimase tu a la no e [tra il 23 e il 24 gennaio] nella tenda del comando accanto al telefono. Seduto sopra uno sgabello, il cappo o indosso, la mantellina sulle ginocchia come una coperta. Ascoltava muto le rare comunicazioni, il viso impietrito nella luce cruda della lampada a incandescenza. Ogni tanto de ava un ordine. Tu a la no e non si mosse, non disse una parola che non fossero quei brevi

ordini, quelle domande al telefono. Quando sull’alba giunse la notizia che aspe ava, l’ombra di un sorriso gli distese il volto». Gli uomini di Vaccarisi avevano raggiunto la 28 O obre, e Badoglio vinse la prima ba aglia del Tembien, costata agli abissini oltre 5000 morti. Con l’aiuto dei gas… Rincuorato, il maresciallo decise di sferrare prontamente l’a acco che, nel giro di poco più di tre mesi, gli avrebbe consentito di chiudere la partita. La ma ina del 9 febbraio Badoglio convocò i giornalisti. Era la prima volta che le truppe italiane avevano al fronte un numero assai cospicuo di reporter, connazionali e stranieri. Tra i nostri, c’erano giovani inviati che sarebbero diventati grandi firme: il già citato Monelli, Giovanni Artieri, Luigi Barzini jr, Max David, Enrico Emanuelli, Virgilio Lilli, Gian Gaspare Napolitano, Ercole Pa i, Bruno Roghi, Alfio Russo, oltre all’onnipresente Filippo Tommaso Marine i. Tra gli inviati stranieri si distinguevano due donne: una virago britannica, Muriel Currey, e un’affascinante reporter francese, Marie-Édith de Bonneuil: pantaloni corti, stivali, pistola alla cintura. Paolo Caccia Dominioni racconta in Ascari K7 che la Bonneuil, avventuratasi da sola verso una piccola postazione avanzata, vi trovò una trentina di eritrei e un solo italiano: un tenente romano di 25 anni, stremato da dieci mesi di solitudine, le cui delizie sessuali furono copiosamente narrate da Marie-Édith a una compatriota. Badoglio aveva intuito l’importanza della stampa: avrebbe comunque dovuto elogiare le sue imprese, per via della censura, ma c’era modo e modo di farlo. Annunciò, dunque, l’a acco di 70.000 uomini contro 150.000 abissini per la conquista dell’Amba Aradam (altro nome evocativo). Dopo cinque giorni di ba aglia, la bandiera italiana fu issata sulla sommità del grande massiccio montuoso coperto di piante tropicali, punto strategico per raggiungere Addis Abeba. Gli alpini della divisione Pusteria furono i primi a toccare la ve a, ma per esigenze di propaganda dove ero cedere il passo alle camicie nere della 23 Marzo. Italo Pietra, destinato a grande fortuna giornalistica e allora comandante di un ba aglione (guadagnò una medaglia di bronzo), ha raccontato che per tre giorni ai suoi soldati

g p g fu ordinato di costruire un autentico fortino, salvo scoprire poi che sarebbe servito come set fotografico per un gruppo di gerarchi arrivati sul posto in tu a comodità. L’armata del ras Mulughietà, la prima ad avere uno scontro frontale con gli italiani, fu annientata: lasciò sul campo 5000-6000 uomini (contro 657 italiani) e la ro a abissina fu così caotica e drammatica da far coniare l’espressione «ambaradam», entrata nel linguaggio comune. Il massacro fu completato dalla tribù degli Azebo Galla, ferocissimi guerrieri esperti in castrazione del nemico, che in odio a Hailé Selassié si erano alleati con gli italiani. Uccisero prima il figlio e poi lo stesso Mulughietà, corso a vendicarlo agitando il glorioso scudo di pelle di rinoceronte che era il suo simbolo da quando nel 1896 aveva sconfi o gli italiani a Adua. Nel 1996 il ministro della Difesa Domenico Corcione rivelò che, in questa ba aglia, gli italiani sganciarono bombe all’iprite in alcuni passaggi strategici del fronte.

Il lungo derby Graziani-Badoglio Badoglio decise di forzare i tempi e, alla fine di febbraio, tu i i 250.000 uomini del corpo di spedizione italiano erano in azione. L’obie ivo era la distruzione delle armate dei ras Cassa (protagonista della prima ba aglia del Tembien) e Immirù, che il negus aveva scatenato contro gli italiani. Cassa aveva il suo rifugio sulla ve a della «Montagna d’oro» del Tembien. Nella no e sul 27 febbraio un reparto misto di alpini, camicie nere e ascari – 130 uomini armati di mosche o, pugnale e bombe a mano – scalarono la montagna e si presentarono all’alba davanti alle sentinelle del ras, che fece appena in tempo a scappare lasciando sui fornelli il carcadè in ebollizione. Noi perdemmo 600 uomini, gli abissini 8000. Il 29 febbraio, sulla cima dell’Amba Alagi sventolava il tricolore (il podestà di Vi orio Veneto, Camillo De Carlo, aveva inviato un tricolore per ricordare il sacrificio del maggiore Pietro Toselli sulla stessa montagna nel 1895).

A nostro favore giocarono l’aviazione, una migliore conoscenza cartografica e la capacità di interce are le comunicazioni radio del nemico. Ma il negus non era uno sprovveduto. Innanzitu o comba eva in casa, su un territorio per noi assai ostile, poi aveva consiglieri militari belgi, svedesi e svizzeri, e o ime armi inglesi. Inoltre, gli abissini erano guerrieri di antico valore. Anche un critico irriducibile del regime fascista come Del Boca ha riconosciuto che la vera ragione della sconfi a etiopica non va cercata nell’uso dei gas da parte italiana, ma nella pretesa del negus di ba ersi in campo aperto anziché privilegiare tecniche di guerriglia che ci avrebbero messo molto in difficoltà e che, nelle guerre moderne, avrebbero portato alla sconfi a degli americani in Vietnam e dei russi in Afghanistan. Il ras Immirù impegnò le nostre truppe più del previsto perché gli abissini capirono finalmente che, invece di andare all’assalto degli italiani, dovevano a irarli nelle loro trappole. Così accadde in quella che fu chiamata la ba aglia dello Scirè: asserragliati in una postazione di montagna assai prote a con 25-30.000 uomini, gli abissini colpirono prima una colonna che si era avventurata nella zona so ovalutando il pericolo e, poi, reagirono con grande forza agli a acchi nemici. Alla fine gli italiani vinsero, ma con il maggior numero di vi ime in una sola ba aglia: 1000 caduti, compresi gli ascari, che si ba evano sempre con grande valore e assoluta disciplina. Mentre i soldati delle tribù abissine, alle bru e, si disperdevano tentando magari di raggiungere i loro villaggi, gli ascari seguivano gli ufficiali italiani fino al termine del comba imento, tenendo per quanto possibile in ordine le loro splendide divise. Il fronte se entrionale era ormai interamente controllato da Badoglio. Nella ba aglia dello Scirè, per la prima volta i servizi d’informazione abissini funzionarono meglio di quelli italiani, grazie alla formidabile rete dei preti copti di Axum. Da questa antica ci à i nostri tornarono con un gigantesco obelisco dei primi secoli dopo Cristo, alto quasi 24 metri e del peso di 150 tonnellate. Sistemato il 28 o obre 1937 davanti al ministero delle Colonie (oggi sede della Fao), dopo molte polemiche l’obelisco fu restituito

p p all’Etiopia nel 2005 e, grazie al lavoro di restauratori italiani, ricollocato accanto a una stele gemella nella valle del Tigrè nel 2008. Pur essendo inferiore di grado a Badoglio e so oposto ai suoi ordini, Graziani soffriva per essere relegato al fronte meridionale, confinante con la Somalia. Desiderando arrivare a Addis Abeba prima del suo superiore, prese a pretesto l’inseguimento di un’armata abissina di 30.000 uomini comandata dal generale turco Wehib Pascià, uno dei tanti consiglieri militari del negus, che detestava gli italiani. Fece così una marcia di 1300 chilometri inseguendo lo zuccherino di Wehib, che sperava di sfinirlo per poi massacrarlo. Accadde esa amente il contrario, ma le condizioni ambientali diventarono così proibitive da fermare Graziani e il suo sogno di gloria.

Gli aiuti segreti di Hitler all’Etiopia Agli aiuti stranieri al governo etiopico di cui abbiamo de o bisogna aggiungere quelli segreti di Hitler, che voleva indebolire l’Italia per o enere campo libero all’agognata annessione dell’Austria. Frustrato il suo invito al negus di a accare all’inizio del 1935 Eritrea e Somalia per sorprendere Mussolini, il Führer aveva regalato a Hailé Selassié materiale bellico tedesco per un valore di 3 milioni di marchi. Ne aveva fa o cancellare il marchio di fabbrica e l’aveva spedito in Etiopia con navi messe a disposizione dal governo inglese, sempre pronto a indebolire il governo italiano. Il vento mutò il 7 marzo 1936, quando le truppe tedesche – violando gli accordi di Versailles – invasero la Renania. Questa regione al confine con la Francia era germanica, ma, dopo la prima guerra mondiale, ne era stata imposta la smilitarizzazione per ragioni di sicurezza. La Francia ne fu molto turbata e Mussolini ne approfi ò per evitare un inasprimento delle sanzioni. Prima cercò di rassicurare l’ambasciatore francese Charles de Chambrun: «Non intendo diventare alleato di Hitler neppure se mi ci tirano per i capelli,» gli disse accarezzandosi il cranio pelato «ma qualsiasi aggravamento delle sanzioni rige erà l’Italia in un isolamento dal

quale il suo governo avrà il dovere imperioso di farla uscire». Poi fu ancora più franco con l’ex ministro e senatore Louis-Jean Malvy, che andò a trovarlo: «La situazione a uale mi obbliga a cercare altrove le sicurezze che ho perduto dal lato della Francia e dal lato dell’Inghilterra. A chi indirizzarmi se non a Hitler? … se io m’intendo con Hitler … sarà l’Anschluss a breve scadenza. Poi, con l’Anschluss, la Cecoslovacchia, la Polonia … Sarà la guerra, inevitabilmente … Ma se prossimamente l’a eggiamento del governo francese e di quello inglese a mio riguardo, a riguardo del regime fascista e dell’Italia non si modifica e non mi darà le assicurazioni di cui ho bisogno … l’Italia diventerà alleata della Germania». Come ultimo gesto di buona volontà, Mussolini offrì una soluzione negoziata che lasciasse al negus il nucleo centrale dell’Etiopia, mentre i tre quarti del paese sarebbero rimasti so o il controllo italiano. L’Inghilterra rifiutò, allora il Duce ordinò a Badoglio l’offensiva finale. Fin dall’inizio della guerra gli italiani erano stati tecnologicamente più forti degli abissini, ma numericamente assai inferiori. Ora, nella ba aglia conclusiva, il negus aveva assunto personalmente il comando delle operazioni, ma gli erano rimasti soltanto i 20.000 uomini della Guardia imperiale e altri 30-35.000 soldati perfe amente addestrati, con armi acquistate sul mercato europeo. Sul fronte opposto, 40.000 soldati italiani ed eritrei agli ordini di Badoglio, che poteva contare anche sull’aviazione. Se avesse trascinato gli italiani in una trappola di guerriglia di centinaia di chilometri quadrati su un terreno ostile, il negus avrebbe potuto ba erli. Seguì invece la coraggiosa e poco proficua tradizione del Leone di Giuda, simbolo degli imperatori d’Etiopia (secondo un’antichissima tradizione, discendenti della tribù ebraica di Giuda), e volle a accarli in campo aperto. A suo cugino Menelik era andata bene a Adua, ma era stata un’eccezione. E Hailé Selassié se ne accorse a proprie spese. Come annota Del Boca, in un dispaccio spedito a Roma Badoglio scrisse che, se il negus avesse ripiegato per un centinaio di chilometri verso Dessié, lui sarebbe

stato «fri o». Sarebbe sca ato allora il piano B, che prevedeva il bombardamento di Addis Abeba. Il negus sapeva di rischiare molto. Le sue le ere all’imperatrice Menen sono tenerissime e, in fondo, disperate: «Poiché la nostra fede è riposta nel nostro Creatore, avendo noi deciso di avanzare e di entrare nelle loro fortificazioni e dato che l’unico nostro aiuto è Dio, confida in segreto questa nostra decisione … ai ministri e ai dignitari e rivolgete a Dio le vostre decise preghiere». La ba aglia del 31 marzo a Mai Ceu, nella regione del Tigrè, non fu una passeggiata. L’a acco degli abissini fu così massiccio che gli aerei non poterono usare i gas perché gli italiani erano troppo vicini e dove ero limitarsi a colpire le retrovie nemiche per non combinare guai con il fuoco amico. Finì con un comba imento all’arma bianca. I nostri soldati erano guidati dal ba aglione eritreo intitolato all’eroico maggiore Pietro Toselli, ucciso ed evirato sull’Amba Alagi. Ci furono perdite molto pesanti da ambo le parti (un migliaio di caduti, tra morti e feriti, italiani e ascari, parecchie migliaia tra gli abissini), ma alla fine Hailé Selassié dove e ritirarsi con i superstiti del suo esercito in direzione di Addis Abeba: una marcia drammatica, perché agli a accanti italiani si erano sostituiti gli Azebo Galla, storici nemici degli scioani, che non gli diedero tregua.

E Badoglio entrò in Addis Abeba, ma senza cavallo Per 800 chilometri, l’avanguardia italo-eritrea comandata dal generale Alessandro Pirzio Biroli e quel che restava dell’armata del negus percorsero strade parallele che da Mai Ceu portano a Addis Abeba. Hailé Selassié si fermò due giorni nella ci à santa di Lalibela, celebre per le dodici chiese monolitiche scavate nella roccia che la leggenda vuole costruite da san Giorgio, accolto da monaci copti interde i per la visita ina esa. Perse tempo prezioso, mentre l’aeronautica italiana ne decimava le retrovie. Dopo che il 15 aprile le truppe di Pirzio Biroli conquistarono facilmente Dessié, a poco più di 300 chilometri a nord della

capitale, Mussolini ordinò a Graziani di marciare su Harar, 500 chilometri a est. («Vi troverete il bastone da Maresciallo d’Italia» gli scrisse, me endogli nei piedi le ali dell’ambizione. E aggiunse: «Visto che gli abissini continuano a impiegare le pallo ole dumdum, autorizzo V.E. all’impiego dei gas … esclusa l’iprite».) Il grosso dei due gruppi di armate italiane s’incontrò a Dire Daua, vicino Harar, il 10 maggio. Ma era già accaduto tu o quel che doveva accadere. Raggiunta Addis Abeba, il 1° maggio Hailé Selassié mise ai voti nel vertice di governo l’alternativa se abbandonare il paese o resistere agli italiani con la guerriglia. Vinse l’espatrio, per 21 voti contro 3, e l’indomani il convoglio imperiale si avviò in treno verso Gibuti: con Hailé Selassié viaggiavano la moglie Menen, i tre figli, le due figlie e un codazzo di dignitari. Un incrociatore britannico accompagnò poi il gruppo a Haifa e, prima di partire per l’esilio londinese, l’imperatore volle visitare l’ala copta del Santo Sepolcro, a Gerusalemme. Gli inglesi, di fa o, lo ignorarono, come la Società delle Nazioni, che lasciò cadere nel nulla il suo legi imo grido di dolore e il 4 luglio si affre ò a togliere le sanzioni all’Italia. La fuga del negus aveva lasciato Addis Abeba nel caos. Asserragliati nelle legazioni inglese e francese, i ci adini europei aspe avano ormai gli italiani come salvatori. I diplomatici scongiurarono Badoglio di arrivare prima possibile. Graziani, cuore di pietra, chiese il permesso di bombardare il convoglio di Hailé Selassié, ma Mussolini glielo negò. L’ultima parte dell’avanzata italiana fu una marcia trionfale. Non per affe o della popolazione locale verso i nostri soldati, ma per sollievo, visto che l’esercito abissino in ritirata aveva saccheggiato ogni villaggio. Arrivato alla periferia di Addis Abeba, Badoglio scrisse su un quaderno a quadre i il celebre telegramma: «Oggi, 5 maggio, alle ore 16, alla testa delle truppe vi oriose, sono entrato in Addis Abeba». Achille Beltrame disegnò una celebre copertina della «Domenica del Corriere» con l’ingresso di Badoglio a Addis Abeba in sella a un cavallo. E così dissero tu i. In realtà, il cavallo era pronto, ma

diluviava al punto che il maresciallo dove e accontentarsi di prendere posto su una ve ura blindata e armata di mitragliatrici. In seguito Badoglio chiese un compenso favoloso: voleva un ducato, e Vi orio Emanuele lo nominò duca di Addis Abeba; lo stipendio a vita di viceré, e gli fu concesso con una legge un appannaggio di 1 milione di lire all’anno (quando lo seppe, De Bono, che avrebbe voluto stare al suo posto, sbo ò: «Che ganassa…»); una villa, e gli furono dati 5 milioni per costruirsi una sontuosa residenza ai Parioli (quella dove l’avrebbero svegliato due ufficiali dei servizi segreti americani la no e dell’8 se embre 1943); infine, la promozione per il figlio diplomatico, ma questa gli fu negata. La campagna d’Etiopia diede a molti gerarchi l’occasione per me ersi in mostra. «Si scopron le tombe, si levano i morti / i nostri gerarchi son tu i risorti…» scriveva beffardo Paolo Monelli. Mussolini voleva che tu e le personalità più in vista del regime si arruolassero come volontari. Lo fecero i suoi figli Vi orio e Bruno, e il figlio di suo fratello Arnaldo, Vito. Lo fece, ovviamente, il genero Galeazzo Ciano. In Facce a nera, Petacco rivela un esilarante esempio di agiografia. Francesco Stanco, professore di latino, inserì in un volume o a uso scolastico la seguente versione: «Digni qui laudentur sunt Bruno et Victorius Ducis filii, qui cum administro G. Ciano audacter hostium propugnacula demoliti sunt, dum plumbeis glandibus ferreisque globis excipiuntur» (Sono degni di lode i figli del Duce, Bruno e Vi orio, che con il ministro G. Ciano audacemente distrussero le fortificazioni nemiche, mentre venivano bersagliati con pallo ole di fucile e proie ili di cannone). Ciano aveva addiri ura il suo agiografo personale. Così Alessandro Pavolini, suo compagno di volo, destinato a diventare ministro della Cultura popolare, ne esaltava le gesta sul «Corriere della Sera»: «Ogni volta che gli era dato di … sbizzarrirsi di mitragliatrice o di carabina, in lui brillavano polso, occhio e brio». Volontari anche sei duchi della Real Casa e la principessa ereditaria Maria José (moglie di Umberto), arruolata come crocerossina.

Il corpo più ambito era, naturalmente, l’aeronautica: grande prestigio, pochissimi rischi, vista la debolezza della contraerea abissina. Roberto Farinacci, E ore Muti, Alessandro Pavolini acce arono di essere degradati da colonnelli (l’equivalente militare di console della Milizia) a tenenti, pur di salire su un aeroplano. Le medaglie furono distribuite con grande generosità. Ne guadagnò una d’argento anche Farinacci, che pure tentò di contrabbandare le lesioni riportate per l’uso incauto di una bomba a mano durante una pesca di frodo per un incidente di servizio. Decine di migliaia, tu avia, furono i volontari arruolatisi per puro spirito patrio ico. Ne furono inquadrati 4000, sui 12.000 ci adini italiani residenti all’estero che avevano fa o domanda.

Il Duce: «L’Etiopia è italiana!». E nacque l’impero Alle 17.45 del 5 maggio 1936 Adelchi Serena, vicesegretario e reggente del partito in assenza di Achille Starace, ancora in Etiopia, ordinò che in tu a Italia fossero sciolte le campane e suonassero le sirene delle fabbriche. Piazza Venezia si gremì all’istante, come piazza del Duomo a Milano e le piazze di ogni ci à, mentre automobili con altoparlanti raggiungevano paesi e borghi. Alle 18.30 Mussolini si affacciò al consueto balcone: «Camicie nere della rivoluzione! Uomini e donne di tu a Italia! Italiani e amici dell’Italia al di là dei monti e al di là dei mari! Ascoltate! Il maresciallo Badoglio mi telegrafa …». Le ura del breve dispaccio. La piazza esplose. Mussolini aspe ò prima di riprendere: «Durante i trenta secoli della sua storia, l’Italia ha vissuto molte ore memorabili, ma questa di oggi è certamente una delle più solenni. Annuncio al popolo italiano e al mondo che la guerra è finita. Annuncio al popolo italiano e al mondo che la pace è ristabilita». Ancora una pausa e, poi, il bo o: «L’Etiopia è italiana». Quel che accadde in tu a Italia è immaginabile. Basti dire che il «Corriere della Sera», sobrio anche negli entusiasmi, uscì in edizione straordinaria con un titolo così grosso che non restava quasi spazio per il resto.

Caddero come per incanto tu e le riserve internazionali. Scrive Arrigo Petacco, socialista non sospe abile di simpatie per il fascismo: «Per quanto si sia cercato di svilirla, la guerra d’Abissinia fu effe ivamente la più grande guerra coloniale comba uta, e l’averla vinta rappresentava un vanto per l’Italia. Tanto più apprezzabile per il fa o che era costata la vita di soli 3357 italiani: 1304 morti in comba imento, 1600 per cause di guerra, più 453 caduti tra operai e camionisti. Cifre, come si vede, paragonabili a quelle delle “guerre intelligenti” dei nostri giorni e non a quelle cui si era abituati allora» (Facce a nera). Naturalmente, l’uso dei gas (sebbene non sistematico) e, sopra u o, l’aviazione avevano dato alla vi oria italiana un contributo rilevante. Eppure, la rapidità della conquista aveva sorpreso tu i. Gli strateghi inglesi avevano previsto cinque anni di guerra (e si può dubitare che l’Italia avrebbe resistito alle sanzioni). Il capo di Stato maggiore tedesco, Werner von Blomberg, che aveva illuso Hitler, dove e amme ere: «Era impossibile che una piccola e povera nazione, peraltro so oposta a embargo e ostacolata dalla potenza superiore britannica, potesse portare a compimento quella conquista a 6 o 7000 chilometri di distanza dalle sue basi di rifornimento». Drastica la conclusione del maresciallo di Francia Philippe Pétain: «Un capolavoro». Il fronte antifascista non cercò di minimizzare il successo di Mussolini. Scrisse Carlo Rosselli su «Giustizia e Libertà» il 15 maggio 1936: «Meglio riconoscere con franchezza virile che il fascismo, almeno sul piano interno, esce rafforzato, consolidato da questa crisi. Molta gente che ancora riteneva possibile una rapida soluzione e conservava vivi dei rancori si convertirà al fascismo. Altri si rassegneranno. L’urto sociale sarà deviato e contenuto». I comunisti andarono oltre. Messa da parte l’idea di abba ere il regime, con la benedizione del Comintern (cioè di Stalin) fecero un appello alla «riconciliazione del popolo italiano», cercando di coinvolgere la base fascista nella lo a alle oligarchie finanziarie: «Noi tendiamo la mano ai fascisti, nostri fratelli di lavoro e di sofferenze, perché vogliamo comba ere assieme ad essi la buona e santa ba aglia del pane, del lavoro e della pace … contro i suoi

g p p nemici che l’affamano e l’opprimono, contro il pugno di parassiti che domina il nostro bel paese» («Lo Stato operaio», giugno 1936). Mussolini doveva chiudere in fre a la faccenda anche sul piano internazionale. Il negus era l’imperatore d’Etiopia e, nella dissoluzione del suo Stato, il titolo spe ava a Vi orio Emanuele III. Se non fosse stato compiuto quest’ultimo passo, l’Italia avrebbe dato l’impressione di non considerare definitiva la conquista del grande paese africano. Tu avia, il Duce incaricò l’ambasciatore a Londra, Dino Grandi, di compiere un sondaggio riservato, e l’ex gerarca rispose che non sarebbe successo nulla, a parte un po’ di malcontento. D’altra parte, poco dopo Grandi fu ricevuto a Buckingham Palace dal nuovo re Edoardo VIII, che gli fece i complimenti alla presenza di Anthony Eden, il quale avrebbe preferito non subire questa umiliazione. (Forse proprio in odio a Eden, Vi orio Emanuele III invitò Mussolini a chiudere la faccenda prima che l’Inghilterra si riavesse dallo shock.) La nascita dell’impero fu annunciata alle 22.30 di sabato 9 maggio 1936. Piazza Venezia era, ovviamente, gremita. (La folla era «tanto immobile e compa a» scrisse Ugo Oje i «che solo le teste appaiono, senza spalle, accostate come i cio oli di un accio olato». «Una scatola di pallini da caccia» sembrò a Orio Vergani.) Il Duce parlò per pochi minuti e fu interro o dagli applausi 42 volte: «Dopo quindici secoli, l’impero è riapparso sui colli fatali di Roma». Ne consegnò la titolarità al re-imperatore e gridò: «Ne sarete voi degni?», venendo sommerso da un uragano di «sì». Vi orio Emanuele non stava nei panni all’idea di essere diventato reimperatore. Propose a Mussolini di farlo principe, ma lui declinò: «Le generazioni dei Mussolini sono state sempre generazioni di contadini». Volle però la carica di «primo maresciallo dell’Impero», cosa che indispe ì il sovrano, perché non acce ava che il Duce avesse un grado pari al suo. Italo Balbo suggerì al Duce di indire subito libere elezioni: «Sarà un plebiscito e me eremo così tu e le cose a posto». Sarebbe stato un colpo «democratico» e definitivo contro le opposizioni. Più pratica Rachele: «Abbiamo avuto tanta fortuna. Non può durare.

Ritiriamoci in tempo. Andiamocene alla Rocca delle Caminate». Non fu ascoltata.

IX

La di atura del virus

La tosse non passa, la febbre sale, l’ospedale ti inghio e, i medici vedono i tuoi polmoni scomparire come non hanno mai visto, si guardano increduli. Non vedi più persone, né volti. Solo occhi che spuntano da una maschera prote a da una visiera. Quegli occhi, dolci e disperati, sono la tua unica finestra sul mondo. Ti mostrano ai tuoi cari con l’iPad – se e quando possibile – per l’ultimo saluto. Ti restituiscono in un’urna. Ti seppelliscono senza funerale. Con le campane che suonano solo a morto. Nelle ci à deserte, senza rumore che non sia quello delle ambulanze.

Ma ia: «Do oressa, sto morendo?» «Do oressa, sto morendo? Io non posso morire, perché ho una moglie incinta all’o avo mese.» «No, Ma ia, stia tranquillo. Lei non morirà.» Annalisa Malara mi fissa con i suoi occhi grigioverde: «Non riesco a capire perché gli abbia fa o quella promessa. Non l’avevo mai fa a prima, e non la farò mai più». La seconda di atura di questo libro – la di atura del Covid-19, che ha sconvolto la vita dell’Italia, primo paese dopo la Cina, e poi il resto del mondo – comincia con la storia di qua ro persone. Ma ia Maestri, 38 anni, milanese, laurea in scienze alimentari alla Statale di Milano, impiegato nel se ore ricerca e sviluppo della Unilever di Casalpusterlengo («La divisione si chiama Consumer Technical Insight. Studiamo i nostri prodo i per la casa, tipo Svelto, e li confrontiamo con quelli della concorrenza»). Un marcantonio tu o muscoli, atleta, maratoneta, calciatore e quant’altro.

Valentina Maestri, 34 anni, di Codogno, moglie di Ma ia, insegnante di educazione fisica in una scuola media locale. Capelli neri, sguardo dolce, fisico sportivo. Per capire come si muove la coppia, i due hanno percorso senza soste in ventiqua r’ore la Via degli Abati, un itinerario Cai di 125 chilometri (con un dislivello complessivo di oltre 6000 metri) da Bobbio (Piacenza) a Pontremoli (Massa Carrara): «I miei genitori» mi racconta «mi seguivano a raverso il geolocalizzatore sul pe orale». Annalisa Malara, 38 anni, single, anestesista rianimatrice. Capelli biondi, anche lei in perfe a forma fisica. Un passato nell’atletica leggera sui 400 metri e la staffe a sulla stessa distanza. In seconda elementare la maestra le chiese come si vedeva da grande, e lei si disegnò in camice bianco e stetoscopio. («Ho fa o medicina cercando di specializzarmi nell’assistenza di pazienti in pericolo di vita.») Si divide tra gli ospedali di Lodi e di Codogno. Raffaele Bruno, 54 anni, calabrese di Cosenza, laureato all’università di Pavia, dove è professore associato di Mala ie infe ive. Dirige il reparto della stessa specialità all’ospedale San Ma eo di Pavia. Ha studiato a Chicago ed è autore di oltre 200 pubblicazioni scientifiche. La storia inizia a Codogno, provincia di Lodi, sabato 15 febbraio 2020. Ma ia: «Quel pomeriggio andai a giocare una partita di calcio nel Cremasco. Sono centrocampista del Picchio Pub di Somaglia, 7 chilometri da Codogno. Pareggiammo 1-1. La sera, con Valentina e una coppia di amici, andammo a cena al ristorante Bellaria di Rivergaro, in provincia di Piacenza, mezz’ora d’auto da casa. Mangiammo pisarei e fasö (gnocche i con sugo di fagioli) con tartufo. Il 16 era la domenica di carnevale. Non uscii, il carnevale non mi fa impazzire, e poi avvertivo stanchezza, ero un po’ debole». Valentina: «Nella no e sul lunedì 17, Ma ia stava male. Gli suggerii di non andare in ufficio. Tossiva…». Ma ia: «Non ricordo di aver tossito, ma non ricordo tante cose. Comunque, la febbre saliva e chiamammo il nostro medico di base [poi contagiato anche lui e curato al Sacco di Milano]. Mi visitò, auscultò i polmoni e tu ora giura che non avevo la polmonite,

p g p anche se poi si è sentito in colpa. Mi prescrisse la tachipirina. La febbre, intanto, era salita a 40. Martedì pomeriggio la temperatura non era scesa e chiesi a Valentina di accompagnarmi al pronto soccorso dell’ospedale di Codogno. Diagnosticarono una lieve polmonite. “Nei sogge i giovani” mi disse il medico di turno “noi preferiamo la cura a casa, ma se vuole la ricoveriamo.” Il medico è lei, gli dissi, decida lei. “Noi suggeriamo di stare a casa.”».

Annalisa Malara: «Le prome o che non morirà» Valentina: «La no e tra martedì 18 e mercoledì 19 febbraio la febbre salì a 41. Ma ia aveva una gran tosse, sembrava che non riuscisse a respirare. Preparammo la borsa e tornammo al pronto soccorso». Ma ia: «Era cambiato il medico di turno e il nuovo mi disse: “Ma come, lei ha firmato per uscire e adesso è di nuovo qui?”. Risposi che avevo la febbre a 41 e non mi andava di discutere. Lui brontolò che non aveva posto per ricoverarmi e io dissi che avrei aspe ato. Mandai a casa Valentina, con il pancione di o o mesi. La ma ina di mercoledì 19 mi portarono in reparto. Non ricordo niente di quel giorno. Forse non mi controllarono affa o, non so. Forse stavo un po’ meglio, vennero a trovarmi Valentina e i miei genitori. La sera ste i malissimo. Nel le o accanto al mio c’era un signore anziano assistito da una figlia. Lei mi vide così male che chiamò qualcuno». Annalisa Malara: «La ma ina del 20 febbraio ero di turno all’ospedale di Codogno. Erano le 10. Prima di incontrare Ma ia avevo studiato le immagini radiografiche dei suoi polmoni ed ero rimasta impressionata dallo sviluppo rapido e drammatico della mala ia. In due soli giorni la piccolissima polmonite registrata nel polmone destro al pronto soccorso era diventata una polmonite bilaterale devastante. Dei polmoni era rimasto pochissimo. Quando vidi Ma ia, aveva la mascherina facciale e il sacche ino dell’ossigeno. Mi colpirono due cose: gli occhi inie ati di sangue e un relativo benessere nel respiro, nonostante il quadro tac fosse drammatico. Avremmo imparato a riconoscere questi de agli in tu i gli ammalati di Covid. Dico a Ma ia che la sua polmonite è

peggiorata molto, dobbiamo ricoverarlo in rianimazione e intubarlo. Lui è spaventato, si commuove: “Do oressa, sto morendo? Io non posso morire, perché ho una moglie incinta all’o avo mese”. È allora che gli prome o che non morirà». Ma ia: «Io sono per i giudizi molto ne i. O è bianco o è nero. Per un a imo ho pensato che fosse finita. Ma è stato solo un a imo. Mi sono fa o forza: mi risveglierò, sarò un uomo libero. Pensavo a Valentina, a Giulia che doveva nascere, ai miei genitori». Valentina: «Ricevo la telefonata in cui mi si dice di andare in ospedale quando ero a un minuto da lì. Stavo andando a un corso preparatorio al parto. Mi dicono subito che Ma ia si è aggravato e che non si riesce a capire perché i valori si siano alterati così rapidamente. Indosso la mascherina, entro in reparto, Ma ia ha ancora il casco prima di essere intubato, ma riesce a farsi capire. Mi chiede di avvisare i suoi genitori e di non farli preoccupare troppo».

Bomba atomica a Codogno Annalisa Malara: «Stavo pensando a una polmonite di origine virale, quando mi chiama Laura Ricevuti, la collega internista che aveva avuto Ma ia in reparto. “La moglie di Ma ia dice di ricordare una cena con un amico tornato dalla Cina…” Valentina entra agitatissima nel mio studio. Non riesce a parlare. Tra una frase e l’altra tra iene il respiro, temo che svenga. In quel momento è di una fragilità estrema, cerco di usare parole caute per non spaventarla ulteriormente. Le dico che ci sono tante possibilità per aiutare suo marito e che il ricovero in terapia intensiva è la scelta migliore. Valentina si tranquillizza e racconta della cena avvenuta due se imane prima del ricovero del marito. Tra le tante persone c’era un collega del marito che era tornato dalla Cina quindici giorni prima. Era stato a un migliaio di chilometri da Wuhan, in una zona non epidemica. Per di più, quella sera era seduto distante da Ma ia. Quel collega, peraltro, stava bene, non aveva nessuna sintomatologia.

«Il collegamento era molto labile, ma la polmonite di Ma ia era strana, mai vista. Avverto il mio primario, Enrico Storti. Anche lui trova singolare lo sviluppo di questa mala ia. Vorrei fare un tampone, ma non è previsto dal protocollo. Anzi, fino a pochi giorni prima l’Istituto superiore di sanità prevedeva la possibilità di fare tamponi in caso di polmoniti gravi senza una causa nota, ma poi il protocollo era stato corre o: il tampone era riservato ai pazienti tornati dalla Cina nelle due se imane precedenti o affe i da Coronavirus. Ma ia non rientrava in nessuna delle due categorie, ma dico a Storti che non possiamo escludere che sia stato raggiunto dal virus. “Se pensi che sia una polmonite virale, facciamo il tampone” mi risponde. Tu avia ci poniamo il problema di non creare allarmismo. «Chiamiamo l’ospedale Sacco a Milano e l’Ats Lombardia, l’Agenzia per la tutela della salute. Mi ripetono che il protocollo non prevede tamponi. Alla fine, tra l’incredulità e lo sce icismo, mi dicono: se ritiene di doverlo fare, lo faccia. Isoliamo Ma ia come se fosse positivo, noi ci bardiamo come si conviene e gli facciamo il tampone. Alle 12.30 di giovedì 20 febbraio il tampone parte per il Sacco. Alle 21 mi chiama Valeria Micheli, virologa di guardia all’ospedale milanese: “È positivo”. Una soddisfazione professionale? Sì, ma un colpo durissimo sul piano personale: ho sperato fino all’ultimo di essermi sbagliata». Maria Rita Gismondo, dire ore del laboratorio di Microbiologia e virologia dell’ospedale Sacco di Milano: «Quando alle 21 Valeria mi gridò al cellulare “Prof, è positivo!”, non so se ci siamo salutate o de e qualcosa. Il primo ricordo è l’arrivo in ospedale, l’a esa infinita davanti all’ascensore, lo scampanellio alla porta. Gli infermieri hanno iniziato a consegnarci incessantemente tamponi da analizzare. Cinquecento in una no e… Quando alzo gli occhi verso la finestra del laboratorio, vedo la luce del giorno. Si erano fa e le 7 e mezzo del ma ino e non ce n’eravamo accorti». Valentina: «Avevo trascorso l’intero pomeriggio fuori dal reparto di terapia intensiva. La sera, mezz’ora dopo che ero tornata a casa, mi richiamarono. Pensai subito che Ma ia non ce l’avesse fa a. Invece: “Suo marito ha il Coronavirus”. Mi sembrava di essere in un

film. Nell’ospedale di Codogno è come se fosse scoppiata una bomba atomica. Arrivano i medici del Sacco per fare i tamponi a me, ai miei genitori, a mio fratello. Soltanto io sono positiva. Mi infilano in un’ambulanza senza nemmeno il tempo di fare una borsa. Corriamo verso Milano. Io sdraiata, sola, come ubriaca. Loro mi guardano a raverso il vetro. Giulia ba e forte da tu e le parti e credo che si sia girata nella pancia [guarda il marito] proprio durante questa corsa di un’ora. Mi diranno che non capiscono come non sia nata durante il tragi o. A che pensavo in quei momenti? A Giulia: avrebbe risentito della mia positività al virus? Come l’avrei fa a crescere da sola?». Annalisa Malara: «Ma ia non poteva essere trasferito subito. L’avevamo messo a pancia in giù, con i polmoni a riposo per limitare l’infiammazione, curato con i farmaci usati per le polmoniti virali e con una terapia diuretica. Rimasi accanto a lui 36 ore, dal giovedì ma ina al venerdì sera. Nella no e tra venerdì 21 e sabato 22 febbraio fu trasferito al San Ma eo di Pavia, dove mi ero laureata». Raffaele Bruno: «Andò a prenderlo nella no e il professor Giorgio Io i e alle 6 del ma ino lo ricoverò in rianimazione dove restò 18 giorni. Stava molto male e fu aiutato dalla giovane età e dal fisico eccellente. Un’altra persona più adulta, magari in sovrappeso e con la pressione alta, sarebbe morta. Come tu i i malati di Covid, alternava improvvisi miglioramenti a peggioramenti importanti. Finalmente riuscì a respirare spontaneamente, passò al subintensivo e, poi, venne da me in reparto».

Bruno: «Il lockdown ci ha fa o capire il valore della normalità» Ma ia: «Mi svegliai in reparto lunedì 16 marzo. Ero talmente agitato che avevo bisogno di sedazioni continue e non ricordo nulla. Anzi, sì. Un’infermiera mi disse: “La spostiamo in reparto”. Non ricordavo che giorno fosse. Mi chiedevano ripetutamente: “Dove si

trova?”, e io sbagliavo sempre: Lodi, Milano, Codogno… All’inizio mi avevano de o di Pavia, ma non riuscivo a ricordare. Eppoi non vedevo nessuno dei miei: mia moglie, i miei genitori. Pensavo che mi avessero abbandonato. Chiesi di parlare con qualcuno. Un’infermiera mi diede il suo cellulare e riuscii finalmente a chiamare Valentina». Valentina: «Fu una telefonata di soli pianti. Lui era l’unica persona sulla terra a non sapere nulla di nulla. Poi gli dissero che aveva il Coronavirus, ma non realizzava di essere il “paziente uno”. Alternava momenti di lucidità a momenti di confusione. Mi chiedeva perché lo avessimo abbandonato». Raffaele Bruno: «In realtà, Valentina veniva a trovarlo in segreto. Io parlavo tu i i giorni con la mamma di Ma ia e con lei, che aspe ava questa telefonata con il suo pancione di o o mesi. Quando Ma ia ebbe finalmente il cellulare, trovò un’infinità di messaggi e cominciò a riprendere lentamente conta o con la realtà. Provò a chiamare il padre, ma il padre non gli rispondeva…». Ma ia: «Il cellulare rappresentò la svolta, mi consentì di riconne ermi con il mondo, anche se non avevo riacquistato la piena lucidità. Venivo da giorni tremendi. Sembrava di essere in un ospedale di guerra. La luce sempre accesa, gente che andava e veniva. Prima che Valentina mi facesse avere il telefono, il do or Roberto Rizzardi, dirigente medico del pronto soccorso, mi spiegò che l’epidemia stava provocando centinaia di morti. Io sono un tipo freddo. Riuscii a non agitarmi. Mi sentivo prote o come in una scatola. Ma intorno a me accadevano cose terribili. Nella mia camera, un prete si spogliava e ge ava via la maschera dell’ossigeno. Sarebbe morto poco dopo. Un altro paziente cadde e ruppe gli occhiali. Delirava, diceva che stava andando via. Rizzardi si è preso anche lui il virus e si curava da solo, perché non c’era personale. Ma Bruno mi ripeteva: “A te non deve accadere niente”. Avrei capito dopo di essere un simbolo di resistenza». (Un inciso personale: nella redazione di «Porta a porta» la prima domanda di ogni giorno era: come sta Ma ia?) Valentina: «Giovedì 19 marzo ebbi finalmente il permesso di vederlo. Ero uscita da alcuni giorni dalle due se imane di ricovero

g al Sacco, ma non potevo avvicinarmi a Ma ia. Il professor Bruno mi accompagnò a un balcone che si affacciava sulla stanza dove era ricoverato mio marito. Fu un gran regalo, quello di farmelo vedere. Potei restare pochissimo, lui non era ancora lucido. Mi chiese se eravamo stati in vacanza. Ripensai a quando diceva che, se gli fosse venuta una mala ia, sarebbe riuscito a perdere un po’ di peso…». Ma ia: «Il 19 marzo, festa del papà, seppi che il mio era morto. Il giorno prima, al suo telefono aveva risposto la mamma. Non mi meravigliai, perché accadeva spesso. Seppi che lui non stava bene, ma non immaginavo la sua via crucis: si era preso il Covid ed era passato da Castiglione d’Adda a Cremona e, poi, a Varese. Il 19 la mamma mi disse che papà non ce l’aveva fa a. Aveva 78 anni». Raffaele Bruno: «Avevo de o io alla mamma che bisognava informare Ma ia. Facemmo una lunga chiacchierata con il figlio. Gli dissi che la vita si toglie e si dà: doveva pensare a Giulia, che stava per nascere. Un piccolo balsamo in una situazione difficile. Ma ia voleva tornare a casa a ogni costo. Lo dimisi il 21 marzo, un mese esa o dopo l’esplosione del Covid. Con la promessa che ci saremmo sentiti al telefono due volte al giorno». Valentina: «Andai a prenderlo. Si mosse con le sue gambe, ma era debolissimo. Riusciva a fare soltanto pochi passi. In ospedale avrebbero voluto tra enerlo, ma lui faceva il ma o. Sentiva sempre molto freddo, pure a le o con qua ro coperte addosso. La sua preoccupazione era di non assistere alla nascita di Giulia». Ma ia: «Il 7 aprile riuscii ad accompagnare Valentina al Buzzi, l’Ospedale dei Bambini di Milano. Il marito viene chiamato, in genere, quando si pensa che manchino un paio d’ore al parto. Giulia è nata in un’ora e mezza. Tre chili giusti. Quando vedemmo la bambina, pensammo a un premio: ce l’avevamo fa a tu i». Raffaele Bruno: «Ma ia mi chiama continuamente. Dice che sono il suo secondo padre. L’empatia tra persone nasce da meccanismi ignoti. Per noi fu immediata e naturale. Lui fu il primo paziente: lo curammo con le terapie per l’Hiv che stavano usando in Cina. Poi capimmo che non erano un granché. In tu o il mondo la curva di apprendimento dei medici è stata fa a insieme ai pazienti. In genere, quando un malato arriva in ospedale, i medici sanno quel

g q p q che devono fare. Qui la comunità scientifica internazionale si è trovata per la prima volta di fronte a cose che non conosceva. Ma ia era un paziente simbolo, ma per noi sono tu i “pazienti uno”. Al San Ma eo abbiamo avuto 1500 ricoverati per Covid, 600 nel mio reparto. Ma la vera scoperta di questi mesi è che la normalità è un privilegio. Il lockdown ha fa o capire a tu i che la passeggiata con un amico non ha prezzo a fronte della privazione della libertà che abbiamo subìto». Annalisa Malara: «Non avevamo mai percepito prima di questo momento quanto sia importante il lavoro di squadra e un cocktail fa o di passione, dedizione e senso del dovere. Abbiamo imparato che anche le minacce più lontane possono riguardarci. La nomina a Cavaliere della Repubblica per iniziativa del capo dello Stato? Una bella sorpresa. Il dolore più forte? La morte di un paziente di 49 anni che non siamo riusciti a salvare. Il mio futuro? La rianimatrice. Nessuno vuole fare questo lavoro. 3000 euro al mese, 300 ore all’anno non pagate a me e ai miei colleghi. Tre weekend su qua ro sacrificati. Non puoi fare lavoro privato. Non diventi ricco. Ma la soddisfazione…».

Passerini: «Eravamo soli, completamente soli» Codogno è una ci à di 16.000 abitanti (in crescita nell’ultimo ventennio), ignota alla gran parte degli italiani (come del resto Alzano e Nembro, altre due ci adine tragicamente colpite dal di atore virale). Molti all’inizio la confondevano con Cologno Monzese. Arrivandoci dall’uscita della A1 Basso Lodigiano (la vecchia Piacenza Nord), si viene affiancati da una processione di capannoni nient’affa o tristi, spesso seminascosti dagli alberi, che prosegue ininterro amente per quasi 5 chilometri fino a Casalpusterlengo: tu a logistica. Si capisce, perciò, l’enorme quantità di traffici, di conta i, di possibili contagi. A Codogno si avverte subito il profumo del benessere pulito e silenzioso delle ci adine del Nord. Non a caso, il comune ha il bilancio in a ivo ed è tra i più virtuosi d’Italia. Calpestando

pavimenti di legno antico ben curato del vecchio palazzo municipale, si arriva nello studio del sindaco. Francesco Passerini ha 36 anni, è scapolo, ha pochi capelli e il sorriso simpatico. Guida il municipio dal 2016, è militante della Lega dal 2006 ed è anche presidente della provincia di Lodi. Quando Ma eo Salvini era ancora consigliere comunale di Milano, lui gli regalò la maglie a «Cudogn». «Non dimenticherò mai la no e tra giovedì 20 e venerdì 21 febbraio 2020. Avevamo finito alle 23.30 una riunione sul piano urbanistico e mi ero fermato a mangiare qualcosa con il consigliere comunale Luigi Bassi. Alle 24.10 squilla il cellulare e vedo il nome del prefe o. Oddio, che è successo? Pensai subito all’incidente ferroviario del 6 febbraio: a Lodi era deragliato un Frecciarossa, uccidendo i due macchinisti. E invece: “C’è un caso di Coronavirus all’ospedale di Codogno. Mantenga il silenzio assoluto”. Congedai il mio amico con un pretesto, corsi a casa e mi misi al telefono. Avrei rivisto il le o tre giorni dopo. Sono affe o da una mala ia autoimmune. Non sarei dovuto uscire di casa, ma come facevo? Convocai la giunta comunale per l’indomani ma ina alle 6.30. Durante la no e c’era qualcosa dentro di me che diceva: chiudi tu o, chiudi tu o. E oggi non so che cosa sarebbe successo se non l’avessi fa o. La ma ina firmai l’ordinanza: chiusi le scuole e tu e le a ività commerciali e artigianali (non avevo il potere per chiudere le fabbriche). «Corsi a Milano all’unità di crisi della Regione. Dapprima solo, poi mi raggiunsero i sindaci di Casalpusterlengo e di Castiglione d’Adda che, dopo di me, avevano firmato la stessa ordinanza. Trovammo il ministro Roberto Speranza, che mi chiese: “Ha già firmato l’ordinanza?”. E poi, per tre volte, mi domandò se ero sicuro di aver fa o bene. Ebbi la sensazione che temesse una mossa ele orale in favore di Salvini. Ma la sera stessa il ministro e A ilio Fontana, presidente della Regione, firmarono un’ordinanza che istituiva la zona rossa per Codogno e altri 9 comuni. Due giorni dopo il presidente del Consiglio Giuseppe Conte la rafforzava estendendo la zona rossa a Vo’ Euganeo. In 24 ore fu allestito il blocco militare. Nessuno entrava, nessuno usciva. 14 check-point

p per una comunità di 50.000 persone. 3400 aziende bloccate di cui 1700 a Codogno, comprese parecchie multinazionali. Un paradosso: la M TA, microcomponentistica meccanica montata su quasi tu e le automobili, era chiusa da noi e aperta in Cina… «Furono giorni tremendi. Il 26 il sindaco Beppe Sala diceva: “Milano non si ferma”. Il 27 il sindaco di Bergamo Giorgio Gori voleva “rigenerare fiducia”. Sabato 29 un centinaio di commercianti mi aspe ò sul sagrato della chiesa: “Se non ci sono più posti negli ospedali, speriamo che ce ne siano in galera…”. Eravamo soli, completamente soli. Abbiamo raccolto le prime 4000 mascherine facendo la colle a tra le aziende della zona. Poi ne comprammo 12.000 a Como con i soldi della nostra indennità. Me emmo in piedi quello che fu definito il “modello Codogno”: una cabina di regia territoriale per dare risposte a tu i, protezione civile comunale e molti volontari civici che hanno gestito l’emergenza per 104 giorni, fino al 4 giugno. Lo stesso giorno in cui è stato riaperto il pronto soccorso dell’ospedale, chiuso il 21 febbraio per l’intasamento da malati di Covid. La “zona rossa” è rimasta a iva fino al 9 marzo ed è stata riaperta troppo presto: ci furono subito molti contagi. «Fino al 2 giugno – visita del capo dello Stato – non abbiamo visto nessuna autorità politica. Conte si è fa o vivo il 29 febbraio con una videochiamata allargata al sindaco di Terranova dei Passerini e a due famiglie. Ha parlato pochissimo e sono rimasto insoddisfa o, come dopo la visita a Lodi del 28 aprile. Eppure abbiamo avuto tanti morti. Nel periodo peggiore, tra il 21 febbraio e il 18 maggio, all’anagrafe comunale risultano 224 defunti. Nello stesso periodo degli anni precedenti, il massimo storico era di 90. Non passava giorno senza un morto di Covid. Abbiamo dovuto vuotare la Chiesa del Cristo per me ere le bare, come accadde dopo un incidente ferroviario del 1957 con 15 morti. «Il nome “Codogno” ha seminato a lungo il panico. Gente che veniva da Codogno è stata messa in quarantena senza ragione. Perfino persone che dal documento d’identità risultavano nate a Codogno. All’arcivescovo Rino Fisichella, che si trovava negli Stati

Uniti, è stato impedito di tenere una conferenza perché dal passaporto risultava nato qui. Su un treno ci furono scene di panico per un presunto positivo di Codogno. Non aveva niente, ma fu fa o scendere alla stazione di Bologna. Adesso è tornata la serenità e conserviamo le maglie e che abbiamo venduto per raccogliere fondi: “Non per vantarmi ma… sono di Codogno”.»

Nembro e Alzano, cuore della tragedia Nembro e Alzano fanno, insieme, 25.000 abitanti. Sono parte di una «ci à lineare» di 100.000 abitanti che, in 21 chilometri, unisce Bergamo a Colzate a raverso paesi e ci adine che sono altre ante stazioni della via crucis del Covid-19. Il sindaco di Nembro, Claudio Cancelli, 65 anni, è stato docente di Fisica al liceo scientifico di Alzano Lombardo e, dal 2012, guida un’amministrazione di centrosinistra. Il sindaco di Alzano, Camillo Bertocchi, 44 anni, è geometra e, dal 2016, è a capo di una giunta di centrodestra a trazione leghista. Anche queste due ci adine sono un esempio dell’Italia migliore: 376 aziende che guardano in particolare all’estero, 3700 dipendenti, 800 milioni di fa urato. Ma, sopra u o, una grande coesione sociale, parrocchie che funzionano, a ività culturale vivacissima. Sindaco di Nembro. Dal bel palazzo comunale che fu Casa del Fascio («L’avvenire è nostro. Nel segno del li orio abbiamo vinto, nel segno del li orio vinceremo» recita ancora l’iscrizione) guarda lo splendido auditorium razionalista che fu Casa del Balilla («Una iniziativa culturale ogni tre giorni»). Nella piazza che divide i due palazzi, gruppi di bambini si bagnano alle fontane. «Sono le piscine dei poveri» mi dice. «La cosa più impressionante del lockdown è stata questa piazza deserta.» Sindaco di Alzano: «Il 23 febbraio mi svegliai alle 6.30 e lessi di Codogno. Nel pomeriggio era in programma la sfilata di carnevale. Era prudente farla con quel che stava accadendo a 60 chilometri di distanza? Chiamai tu i i sindaci delle ci à vicine: Nembro, Pradalunga, Villa di Serio, Ranica, Albino… Era la domenica di

carnevale, sfilate dappertu o. Decidemmo di sospenderle. Nel pomeriggio, l’ospedale di Alzano segnala due casi. A Bergamo, un altro, e uno a Seriate. La sera erano 7». Sindaco di Nembro: «I 243 sindaci della provincia di Bergamo si riunirono alle 18 nell’auditorium dell’“Eco”, il giornale locale. Altro che assembramento! Qua ro o cinque di noi indossavano già la mascherina, ma tu i si stringevano la mano. Così il prefe o, il questore, il dire ore sanitario dell’Azienda per la tutela della salute si ammalarono. Nessuno di noi era consapevole di quello che stava succedendo». Sindaco di Alzano: «Ci dissero che in tu a la Lombardia c’erano stati 112 casi. Poco dopo ci fu l’ordinanza del ministro Speranza e del governatore Fontana che chiudeva le scuole per una se imana. Sarebbero state riaperte solo a se embre… Per noi sindaci era difficile ado are le misure giuste. Chi parlava di una normale influenza, chi di un’epidemia serissima. Molta gente fu presa dal panico». Sindaco di Nembro: «Il supermercato Esselunga di Nembro fu preso d’assalto. Sembrava l’accaparramento del tempo di guerra. In poche ore non restò niente dei generi alimentari e dell’alcol per disinfe are». Mariangela Carlessi, archite o, professore a contra o al Politecnico di Milano, assessore alla Cultura e all’Istruzione al comune di Alzano: «Nessuno di noi aveva la percezione di quello che stava accadendo. Il sindaco ci ha convocato qui fin dal 23 febbraio, io portai la mascherina da cantiere, gli altri cercarono di procurarsela in qualche modo. Vivemmo in una situazione surreale. Fino al giorno prima ci si abbracciava, si scherzava. Improvvisamente ci trovammo a imporre a tu i, a cominciare dai familiari, un radicale cambiamento di vita. Tu i capirono che il rischio era troppo forte». Sindaco di Alzano: «Uscivo di casa alle 6 di ma ina e rientravo a mezzano e. Non mi avvicinavo a nessuno dei miei. Mi facevano pochissime domande, avevo la testa altrove». Sindaco di Nembro: «A mezzogiorno di quel 23 febbraio sono andato a un brunch per la festa dell’artiglieria. Il presidente

p g p dell’associazione, Ilario Lazzaroni, 83 anni, si è ammalato ed è morto di Covid il 3 marzo. Io ho scoperto di essere positivo il 1° marzo, mi sono isolato e ho fa o tre riunioni di giunta comunale al giorno per via telematica. Perché sono andato a quel pranzo? Perché avevamo l’impressione che tu o fosse so o controllo. Ce lo ripeté il dire ore generale dell’Agenzia della salute il 26 febbraio in videoconferenza con i 18 sindaci della media e bassa val Seriana: non dovete chiudere i centri per disabili e anziani. Chi chiude è responsabile di interruzione di pubblico servizio. D’altra parte, il 27 febbraio Confindustria Bergamo annunciò: “Noi non ci fermiamo”. Il 1° marzo il governatore Fontana disse: “Speriamo che ci sia un calo nei contagi, così domenica 8 marzo potrò andare a vedere Milan-Juventus”».

Cancelli: «Poi, d’improvviso, i militari scomparvero» Sindaco di Alzano: «Iniziammo ad a rezzarci come potevamo. Me emmo in piedi un centro acquisti con 30 dipendenti comunali e 70 volontari. Cominciammo a me ere da parte le scorte di ossigeno per i medici di base. Con il contributo delle aziende comprammo 50.000 mascherine e 100.000 dispositivi sanitari. Dalla Cina ne prendemmo 22.000, e senza speculazione. Demmo un primo stock di 3 mascherine a ogni famiglia». Sindaco di Nembro: «Per un mese ci siamo arrangiati da soli. Uno studio dentistico e uno studio medico ci hanno fornito i dispositivi di protezione per i medici di base. La sera del 26 febbraio cominciai a mandare messaggi alla popolazione. Registravo un testo con la mia voce e lo caricavo su Alert System, che fa 2700 telefonate. Le famiglie di Nembro sono 4800… Sono andato avanti per 107 giorni, fino al 9 maggio. Poi ho trasmesso ogni due giorni, fino a rallentare. Nell’era di Facebook scoprimmo quanto fosse efficace la vecchia telefonata. Domenica 15 marzo morirono persone amiche. Preparai il comunicato come ogni giorno, ma non riuscivo a registrarlo, perché continuavo a interrompermi per la commozione. L’avrei le o il 23 giugno, a

qua ro mesi esa i dal 23 febbraio, quando era cominciata la tragedia. (“Dobbiamo farci forza, anche se talvolta vorremmo addormentarci e dimenticare…”) Leggemmo i nomi di tu i i 188 defunti e ogni nome era accompagnato dal tocco della campana». Sindaco di Alzano: «Le se imane centrali di marzo sono state le più tremende. La carenza di ossigeno è stata la più drammatica e la più difficile da acce are. Quando ti chiamano e ti dicono: “Mio padre non respira”, “Mia madre non respira”, avverti il massimo dell’impotenza. Noi abbiamo 12 medici di base, che dovevamo proteggere per consentirgli di entrare nelle case. Ma il sistema era collassato. Tu e le sere trasme evamo via Facebook un bolle ino su quello che stava accadendo. Un gruppo di volontari e 3 psicologhe dei servizi sociali del comune telefonavano a casa delle persone sole». Assessore alla Cultura e all’Istruzione di Alzano: «Eravamo stremati. Non sapevamo dove sistemare i corpi dei defunti. Dovevamo assicurare due paia di guanti e due mascherine ai loro congiunti per proteggersi. Era difficile regolare l’afflusso della gente all’anagrafe per la denuncia di morte. Era terribile stare accanto ai familiari di chi moriva in ospedale senza un saluto e senza un funerale». Sindaco di Alzano: «Se ripenso alla solitudine di quei giorni, avverto ancora un brivido. Nessuno ci ha cercato, nessuno ci ha chiesto quale fosse la situazione, di che cosa avessimo bisogno. Chiamavamo e nessuno rispondeva. Chiedevamo mascherine e nessuno ci dava re a. Chiamavo la prefe ura, la protezione civile lombarda: non abbiamo dispositivi, non abbiamo informazioni. La “leale collaborazione” tra comuni, Regione e Stato dovrebbe essere l’elemento fondamentale per far fronte alle emergenze. E invece fummo lasciati tremendamente soli. E nessuno ci avvertì quando, nei primissimi giorni di marzo, iniziammo a vedere in giro dei carabinieri». Sindaco di Nembro: «Cominciano a diventare martellanti le notizie sull’istituzione di una “zona rossa” ad Alzano e Nembro. Si vedono i militari in giro a fare sopralluoghi per stabilire dove me ere i posti di blocco. Telefoniamo in prefe ura e ci dicono:

p p “Non sappiamo niente, aspe iamo le decisioni di Roma”. Stessa cosa con il questore e con il comandante dei carabinieri…». Sindaco di Alzano: «Vedevamo l’esercito nelle strade. I carabinieri ci dicevano informalmente che avrebbero chiuso da un momento all’altro. La popolazione era completamente disorientata». Assessore di Alzano: «La gente sentiva parlare di chiusura alla televisione. Chiedeva a noi, e noi non sapevamo che cosa rispondere». Sindaco di Alzano: «Non potevamo annunciare la chiusura per evitare l’esodo in massa, ma nemmeno raccontare stupidaggini per essere credibili. Il rischio maggiore era di non tenere concentrata la popolazione sul pericolo della propagazione del contagio». Sindaco di Nembro: «Poi, d’improvviso, il 6 marzo i militari scomparvero».

Perché non fu istituita la «zona rossa»? Tra il 3 e il 7 marzo 2020 Nembro e Alzano e i loro 25.000 abitanti sono stati gli ostaggi inconsapevoli di un surreale braccio di ferro tra presidenza del Consiglio, Regione Lombardia e Comitato tecnico-scientifico della Protezione civile. È ancora più sorprendente che il governo avesse secretato le informazioni su quanto accadde in quei giorni e che la verità, peraltro incompleta, sia venuta fuori soltanto il 6 agosto, quando una fondazione politica d’ispirazione liberale intitolata a Luigi Einaudi ha vinto al Tar il ricorso contro il governo che si opponeva alla liberatoria delle carte. Il pasticcio che ne è derivato ha spiegato – ma certo non giustificato – la malaccorta secretazione. Abbiamo visto che il 3 marzo le due ci adine della val Seriana erano già in piena emergenza. Tra novembre 2019 e gennaio 2020, secondo quanto riportato dall’«Eco di Bergamo», all’ospedale Fenaroli di Alzano Lombardo sarebbero state chiuse almeno 110 cartelle cliniche con la dizione: «Polmonite, agente non specificato». Di qui un’inchiesta della Procura della Repubblica bergamasca.

Quando viene lanciato il primo allarme, il 23 febbraio, nell’ospedale di Alzano sono ricoverati da giorni in condizioni preoccupanti due pazienti ai quali sarebbe stato diagnosticato tardivamente il Coronavirus e che, fatalmente, hanno infe ato alcune persone entrate in conta o con loro. Tra questi c’è Ernesto Ravelli, il primo paziente della Bergamasca morto ufficialmente per Covid. Nel primo pomeriggio il pronto soccorso viene chiuso su richiesta di un medico che ha appena visitato un paziente sospe o, per affrontare l’improvvisa emergenza epidemiologica. L’area viene sanificata. Alle 20.46, sulla chat interna del personale arriva un messaggio del coordinamento infermieristico che annuncia la riapertura, diffidando gli operatori sanitari dal comunicare dati sui pazienti. Come vedremo dalla testimonianza della figlia di una delle vi ime riportata nel prossimo capitolo, nell’ospedale ci furono momenti di panico per il timore di contagi. La Regione Lombardia dirà che, fa a la sanificazione degli ambienti, sarebbe stato impossibile tenere chiuso un reparto strategico. Nel giro di una se imana, i contagi salgono a una dozzina ad Alzano e al doppio a Nembro. Numeri significativi per la modesta entità della popolazione e per la rapidità di diffusione del virus. «Avevamo verificato» mi dice l’assessore alla Sanità della Regione Lombardia Giulio Gallera «che solo nel Lodigiano e nel Cremonese eravamo arrivati a 350 casi. L’escalation era spaventosa. In un paio di giorni, i 215 contagiati del 27 febbraio nelle due province erano saliti a 373.» Il 1° marzo il presidente del Consiglio firma un decreto che prolunga la «zona rossa» a Codogno e a Vo’ Euganeo, in provincia di Padova, e limita alcune a ività in Lombardia e, in particolare, nelle province di Bergamo, Lodi, Cremona e – per l’Emilia – Piacenza, che è a un passo da Codogno, mentre nel fra empo i 35 infe ati della Bergamasca erano già saliti a 110. «Il 2 marzo» prosegue Gallera «prendiamo a o che il provvedimento non è sufficiente. Nel pomeriggio del 3 ci colleghiamo in vivavoce con il presidente dell’Istituto superiore di Sanità e membro del Comitato tecnico scientifico, Silvio Brusaferro, e gli diciamo che la crescita esponenziale dei contagi in provincia di

g p g p Bergamo, saliti nel fra empo a 129, impone una riflessione da parte dei tecnici. Brusaferro vuole dati precisi sui contagi, che io gli mando divisi per comune, e ci assicura: “Trasme o un verbale alla presidenza del Consiglio”.» Inviando i dati, Gallera scrive: «Se i tecnici ci diranno che l’unico modo per arginare il virus è istituire un’altra zona rossa, ne prenderemo a o. Ci affidiamo alla scienza». La scienza risponde subito. Brusaferro riunisce il Comitato tecnico scientifico e viene steso un verbale in cui «acquisiti i dati relativi ai comuni di Alzano Lombardo e Nembro … sentiti l’assessore Gallera e il dire ore generale [dell’assessorato al Welfare] Cajazzo che confermano i dati relativi all’aumento … il Comitato propone di ado are le opportune misure restri ive già ado ate nei comuni della zona rossa [Codogno e Vo’ Euganeo] al fine di limitare la diffusione dell’infezione nelle aree contigue. Questo criterio ogge ivo potrà, in futuro, essere applicato in contesti analoghi». Il documento viene spedito agli uffici di palazzo Chigi, che lo ricevono. Ma il presidente del Consiglio, interrogato il 12 giugno dal procuratore di Bergamo Maria Cristina Rota come persona informata sui fa i, dice di non averne mai preso visione. Il 2 aprile, in un’intervista al «Fa o Quotidiano» cita un documento del Comitato. Dopo la pubblicazione delle carte o enuta dalla Fondazione Einaudi, Conte amme e di aver visto soltanto la versione del 5 marzo. Perché un documento a esissimo ed essenziale per poter prendere una decisione sarebbe stato tenuto nascosto per due giorni alla massima autorità politica? Il 4 marzo il governo è amletico: chiudere soltanto Nembro e Alzano o estendere il provvedimento all’intera Lombardia e alle altre aree interessate? Quel giorno i contagi nella sola provincia di Bergamo sono 423, ai quali si aggiungono i 127 di Brescia. Nelle due province si contano 12 morti. «Il 4 marzo» ricorda Gallera «chiamiamo il ministro Speranza, che arriva nel pomeriggio con il dirigente dell’unità di crisi. A mio giudizio, non hanno capito fino in fondo la gravità della situazione. Gli mostro delle slide puntate sul secondo focolaio in val Seriana, dopo quello di Codogno. Bisogna fare una seconda zona rossa. Speranza ci dice: “Vado a Roma e ne parlo”.»

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Tre giorni persi, poi chiusura totale «Vidi il documento del Comitato tecnico scientifico la ma ina del 4 marzo» mi dice il ministro della Salute Roberto Speranza. «Nel pomeriggio andai a Milano, venni a conoscenza della nuova situazione e della richiesta di assumere provvedimenti più rigidi. C’era bisogno di molto personale e autorizzammo il superamento dei te i sulle assunzioni stabilito nel 2004. La sera rientrai a Roma e il 5 ma ina incontrai Conte. Valutammo l’ipotesi di chiudere Nembro e Alzano. Convenimmo che non bastavano poche righe di verbale del Comitato tecnico scientifico per assumere una decisione del genere e chiedemmo a Brusaferro una relazione più estesa. Il documento arrivò intorno alle 21 del 5 marzo, mentre l’aereo della Brussels Airlines delle 17.30 a errava a Bruxelles dove, su nostra richiesta, era stata fissata per l’indomani una riunione dei ministri della Salute dell’Unione europea. Avevo intanto parlato con Conte e con il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, che si era a ivata con le forze dell’ordine per l’eventuale blocco.» Il 5 marzo la provincia di Bergamo conta 651 contagiati, contro i 110 di una se imana prima. I morti, con quelli di Brescia, salgono a 33. Gallera fa capire che gli scienziati sono favorevoli alla chiusura e dichiara: «Anche noi siamo dell’idea di creare una zona rossa, ma tocca al governo, che dovrà allertare prefe ura e forze armate». Lo stesso giorno il presidente dell’Istituto superiore di sanità Brusaferro scrive a Speranza (prot. 0007093) una le era che reca all’ogge o: «Alzano Lombardo e Nembro – Proposta di estensione della zona rossa». L’arrivo di 370 militari lascia immaginare che la chiusura sia imminente. E invece no. «La ma ina del 6 marzo, mentre io sono a Bruxelles,» mi racconta il ministro della Salute «Conte partecipa a una riunione del Comitato presso la sede della Protezione civile e verifica che anche gli scienziati ritengono che la diffusione del virus è ormai troppo estesa e non ha più senso blindare due comuni, ma è necessario un provvedimento più ampio.» In realtà, dalla loro prima richiesta sono passati tre giorni preziosi: nella sola Nembro, tra il 3 e il 6 marzo sono morte 22 persone.

Gli scienziati prendono a o che la loro richiesta del 3 marzo di chiudere Alzano e Nembro non è stata accolta e suggeriscono due livelli di intervento: uno più rigido sulla Lombardia e su alcune province di Emilia Romagna, Piemonte e Veneto dove più alti sono i contagi, uno più blando sul resto d’Italia. Alle 3 del ma ino dell’8 marzo vengono chiuse le 14 province delle regioni sopra indicate, prima tra tu e Bergamo. Ma la decisione era filtrata già alcune ore prima e migliaia di persone – di origine prevalentemente meridionale – avevano preso d’assalto treni e autostrade per raggiungere il Sud. Per l’intera giornata, governo e regioni si erano scambiati la bozza ed era fatale che la stampa ne entrasse in possesso. La sera del 9 marzo Conte annuncia la chiusura di tu a l’Italia a partire dall’indomani. L’Istituto superiore di sanità e il Comitato tecnico scientifico ne avallano la decisione il 10 marzo, giudicandola «coerente» con la situazione. L’Italia, primo paese nel mondo, resterà isolata per quasi due mesi, fino al 3 maggio. In seguito, però, si scoprirà che il Comitato tecnico scientifico sarebbe stato più favorevole a una chiusura parziale, salvaguardando l’intero Centro-Sud. Le ricadute polemiche di tale scoperta furono rilevanti, perché il Sud – economicamente più debole – pur essendo stato meno danneggiato dal Covid fatica più del Centro-Nord a riprendersi dalla devastante crisi provocata dal lockdown. «Il Sud temeva che l’ondata di trasferimenti dal Nord facesse dilagare i contagi» mi dice Speranza. «Per questo, in poche ore decidemmo la chiusura nazionale, salvo verificare dopo che la contaminazione è stata molto rido a.» Si è lungamente discusso sulla possibilità che la Regione Lombardia decidesse da sola la chiusura di Alzano e Nembro. Il 6 aprile l’assessore Gallera dichiarò che una decisione regionale sarebbe stata possibile, ma che l’aveva considerata inutile, visto che nei giorni caldi la presenza dei militari lasciava intuire l’imminente istituzione di posti di blocco. Quando gli contesto questa affermazione, replica: «È stata una mia interpretazione della legge, fa a so o la pressione psicologica di quei giorni. D’altra parte, l’8 marzo il ministro dell’Interno Lamorgese ricordò in una circolare

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che la responsabilità dell’ordine pubblico è di esclusiva competenza dell’autorità nazionale e provinciale di pubblica sicurezza». «Non voglio polemizzare,» mi dice Speranza «ma noi abbiamo autorizzato tu e le richieste di chiusura che ci sono pervenute dalle regioni: Fondi nel Lazio, Tricarico in Basilicata, Medicina a Bologna, alcuni comuni della Campania…»

Pierino Persico e «il mondo cambiato in dieci giorni» Si è molto parlato di forti pressioni esercitate dagli imprenditori per evitare la chiusura: la val Seriana è uno dei distre i industriali più importanti d’Italia. Tu avia sembra ormai assodato che tali pressioni non siano state significative: lo ha de o Confindustria, me lo hanno ripetuto i sindaci. Altra cosa sono le preoccupazioni per i danni al mercato e i favori alla concorrenza internazionale. Esemplare in questo senso è la vicenda di Pierino Persico, casa e bo ega in val Seriana dalla nascita. Il Covid gli ha portato via 8 cugini e 3 zii. Ha cominciato a lavorare a 14 anni, nel 1961, dopo un primo ciclo di studi di avviamento professionale. «Si può dire che avessi ancora i pantaloni corti. Lavoravo il giorno e studiavo la sera da modellista meccanico. Prima dell’arrivo dei computer, per ogni pezzo dell’automobile veniva realizzato a mano un modellino in legno, poi in resina e in metallo. Nel gennaio 1976, a 29 anni, mi sono messo in proprio…» Adesso ha 500 dipendenti negli stabilimenti di Nembro, della Baviera (vicino a Salisburgo, in Austria), di Stoccarda e Detroit. Tecnologia d’avanguardia. «Abbiamo fa o 800 barche [la più celebre è “Luna Rossa”], ma il 75 per cento del nostro lavoro è nel se ore automobilistico: 90 per cento di fa urato estero, dal co-design alla proge azione di impianti per produrre la pannellatura esterna dell’auto.» Ci sono stati momenti in cui Persico ha pensato che tu o questo castello gli crollasse addosso. «La sera di venerdì 6 marzo, quasi metà dei nostri dipendenti sono usciti portando con sé workstation, computer, scatoloni, in modo da poter lavorare da casa. Non

immaginavano di doverlo fare fino a giugno, e qualcuno anche per molto altro tempo. Avevo fa o sanificare l’azienda e diviso gli operai – che lavoravano 8 ore – in due turni di 6 in condizioni di assoluta sicurezza, come è scri o nei documenti trasmessi anche al sindacato. L’ultima se imana di febbraio, quando il Covid è entrato a Nembro, l’ufficio del personale mi ha de o che avevamo lo stesso numero di assenti per mala ia dello scorso anno. La prima se imana di marzo vedevo la gente in giro senza mascherine, i bar aperti e mi domandavo: perché devo chiudere? «I nostri clienti all’estero rumoreggiavano, lamentando che se avessimo chiuso avrebbero subìto danni per milioni. Una grossa multinazionale ci ha chiesto quale fosse il nostro massimale assicurativo per i danni causati ai clienti. Abbiamo davvero temuto per il futuro della nostra azienda. Mi dicevo: noi siamo gli appestati, i nostri concorrenti tedeschi e americani lavorano regolarmente, e allora noi siamo rovinati. Abbiamo provato a dire: le fabbriche sono tu e lungo il fiume, non nel centro della ci à. Poi abbiamo dovuto chiudere. Per tu o il lockdown non ho più messo piede in fabbrica. Vederla chiusa, per me era come vederla fallita. Ho visto che le aziende del se ore alimentare continuavano a produrre. Anch’io avrei potuto continuare a farlo, in condizioni di assoluta sicurezza. «Le mie aziende tedesche non si sono mai fermate e gli operai non portano nemmeno la mascherina. La indossano solo quando vanno al bar e al ristorante. Per il nostro stabilimento di Detroit, lo Stato del Michigan ci ha chiesto quanti danni avessimo subìto, noi li abbiamo documentati e ci siamo impegnati a riassumere gli operai, loro si sono presi sei mesi per la verifica (lì, se sbagli sui soldi, vai in galera) e in quindici giorni ci hanno accreditato 900.000 dollari sul conto corrente. Ma qui, con due mesi senza fa urare, abbiamo perso una dozzina di milioni al mese…» Adesso Persico guarda alla ripresa con l’o imismo dell’imprenditore e il pessimismo di chi ha visto «in dieci giorni cambiare il mondo». «Noi stiamo pedalando forte per soddisfare i vecchi ordini. Ma il futuro è complicato. Per una grossa commessa americana, sulla quale eravamo in ritardo, abbiamo spedito i pezzi

q p p in aereo: costo 400.000 dollari. Ma sono rimasti lì per mesi. Noi non potevamo andare, per il rischio della doppia quarantena: due se imane arrivando lì, due se imane tornando qui. In Germania la Ford ci ha annullato un grosso ordine. Noi non conosciamo il tipo di automobile che avevano proge ato di far uscire fra tre anni. Lavoriamo su un codice. Ma quella macchina non uscirà più: le case hanno i piazzali pieni, l’ele rico guadagna terreno su diesel e benzina. Tu i stanno rivedendo gli investimenti: la nautica da competizione, la stessa Formula 1 delle automobili. E poi, sa che le dico? Molte aziende cercano di organizzarsi in proprio per evitare di dipendere dall’estero, in un mondo che da un giorno all’altro può chiudere. E noi non credo potremmo sopravvivere a un altro lockdown.»

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La strage nella Bergamasca, la vi oria del Veneto

«Papà aveva i polmoni bianchi»: il primo morto di Nembro Mentre era in a o questa frenetica triangolazione tra palazzo Chigi, Regione Lombardia e Comitato tecnico scientifico, in val Seriana le famiglie venivano decimate dal Covid-19. «Era come se fosse in corso un improvviso a acco di terroristi invisibili che uccidevano a caso» mi racconta Laura Lazzaroni, figlia di Ilario, il presidente dell’Associazione artiglieri di Nembro con cui, in quel fatidico 23 febbraio, ha pranzato il sindaco Claudio Cancelli. Gli zii paterni di Laura sono morti entrambi nel giro di due se imane. «Domenica 23 febbraio,» continua Laura «quando papà andò al pranzo della festa dell’Associazione degli artiglieri di cui era presidente da ventise e anni, io accompagnai al pronto soccorso mio zio Mauro, 85 anni, agente di commercio e fondatore del motoclub Careter. Mi dissero che aveva una polmonite. A ora di pranzo scoppiò il finimondo: si erano accorti che un paio di pazienti erano positivi al Covid. Tu i gridavano, c’era un’agitazione incredibile e nessuno di noi parenti capiva nulla. Alle 18 ci mandarono a casa, perché dovevano chiudere l’ospedale. Alle 18.30 mi telefonarono: lo zio era morto per un infarto, anche se in seguito venne catalogato tra le vi ime del Covid. Ci consentirono, comunque, di portarlo a casa e di fargli un funerale normale. «Per tre giorni mio padre fu un po’ giù di tono per la morte del fratello, al quale era molto legato, così non lo mandammo al funerale. Giovedì 27 febbraio ebbe un po’ di febbre, sabato pomeriggio alle 17 lo accompagnai al pronto soccorso di Alzano. Due ore dopo mi dissero che gli restava poco da vivere: aveva i

polmoni bianchi, completamente bruciati dal virus. Lo tennero un giorno al pronto soccorso, domenica 1° marzo lo trasferirono al reparto Covid, lunedì consentirono a sua sorella, monaca di clausura, completamente bardata, di accompagnarlo alla morte. Fu il primo morto di Nembro. «Papà era cosciente, anche se sedato. I polmoni non potevano sopportare ormai un’intubazione, e lui disse alla sorella di togliergli l’ossigeno e di lasciarlo andare. Mia zia suora si è presa il Covid ed è rimasta un mese da noi. Io pure l’ho preso e ce l’ho fa a. Mia madre, che ha dormito sempre con papà, niente. E nemmeno mia figlia di 12 anni. L’altra sorella di papà, Mirella, 84 anni, si è ammalata appena lo zio Mauro è morto. È rimasta in casa fino al 5 marzo. Ricoverata in ospedale, è deceduta due giorni dopo. Dieci giorni dopo la morte di papà, ci hanno portato l’urna con le ceneri. Non averlo salutato, non aver fa o il funerale, il terrore di quelle se imane, ci hanno mandato tu i in psicoterapia. In estate ho riaperto il negozio, fra tante bo eghe vuote. Ma senza papà, che me lo aveva avviato, anche il mio è vuoto. Lui veniva, puliva, sistemava…» Altre famiglie non hanno reagito al lu o con altre anta forza. A.Z., 54 anni, con moglie e tre figli giovanissimi, mai avrebbe pensato che un po’ di diabete e qualche scompenso cardiaco lo avrebbero portato alla morte in un ba er d’occhi. E invece, febbre alta, il medico di famiglia che pensa a un’influenza, e poi la fine improvvisa, senza neppure avere il tempo di salire sull’ambulanza che aspe ava so o casa. Nell’autunno successivo la sua famiglia era ancora completamente chiusa in se stessa, come un centinaio di altre che, per tanti e tanti mesi, hanno avuto bisogno del sostegno di psicologi e assistenti sociali. «Il Covid ha provocato tanti morti, ma anche tanti morti vivi» mi dice Silvana Carrara, 46 anni, infermiera all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Forse Silvana esagera un po’ perché suo marito Giovanni, geometra di 56 anni, ha visto la morte negli occhi, anche se poi l’ha scampata ed è tornato in famiglia e al lavoro. Ma certo non è più la stessa persona di prima.

p p «Giovanni manifesta i primi sintomi il 7 marzo: niente febbre, ma molto affanno. Due giorni dopo sviene a tavola. Viene ricoverato in ospedale: Covid. Il virus colpisce anche me e nostra figlia di 17 anni. Finita la quarantena, vado in ospedale e, grazie alla complicità di una collega, riesco a vederlo: intubato e sedato. Sta malissimo, mi fanno capire che non ha grosse speranze di vita. Poi, la svolta improvvisa: lo curano con eparina e cortisone, e quei polmoni che sembravano impermeabili reagiscono bene. Il 2 aprile lo estubano. Il 19 aprile, al secondo tampone negativo, lo trasferiscono in un centro di riabilitazione a Mozzo. Passa dall’immobilità alla sedia a rotelle e alle stampelle. «Il 19 giugno torna a casa e poi anche al lavoro, in orario rido o, nella di a di pavimenti e rivestimenti. Ma non è più la stessa persona di prima. Era tranquillissimo, ora è irascibile. Non riesce a salire più di venti scalini per problemi respiratori. Se cammina, non riesce a parlare. Ha aritmia cardiaca, edemi alle gambe, dolori ossei che nessuno sa spiegarsi, problemi seri di memoria a breve termine. Un esempio: decidiamo insieme che nostra figlia possa uscire. Lei esce, lui dimentica di averle dato il permesso e la sgrida. E così in mille altre occasioni. Ha fa o una cosa e dimentica di averla fa a. Dice una cosa e dimentica di averla de a. È dura, sa? Problemi economici (cassa integrazione a 300 euro nel periodo ospedaliero). Problemi psicologici (pensi alla solitudine). Capisco che Nembro era un disastro, ma nei momenti più difficili l’azienda sanitaria locale ci prome eva e non manteneva, e alla fine solo il comune si è fa o vivo.»

Una Coca-Cola come ultimo desiderio Una decina di ospiti della casa di riposo sono seduti in circolo e chiacchierano con un’assistente. Sono tu e donne, tranne uno. D’altra parte, le donne sono più longeve. (Nelle 3417 case di riposo italiane sono presenti 97.000 persone, 27.000 nella sola Lombardia.) Quando è arrivato il Coronavirus, nella Residenza sanitaria assistenziale per anziani di Nembro (è questa la definizione

corre a) c’erano 87 ospiti (età media 84 anni): 34 sono morti (età media 86 anni, parecchi novantenni e un «giovane» di 68 anni). Di Covid? Bella domanda. Quando, nel giugno 2020, l’Istituto superiore di sanità ha cercato di capire che cosa era accaduto nei tre mesi precedenti nelle Rsa italiane, soltanto meno della metà ha risposto ai questionari. Si è appreso, comunque, che delle 9154 persone morte tra la fine di febbraio e quella di maggio solo 680 erano risultate positive al tampone, mentre 3092 avevano i sintomi dell’influenza. Il problema è che a pochissimi ospiti era stato fa o il test. A nessuno nella Rsa di Nembro. Perché? «Perché non li avevamo. Continue richieste, continue risposte negative dall’Azienda per la tutela della salute di Bergamo. Solo all’inizio di aprile, dopo il marzo tremendo, abbiamo ricevuto i tamponi per primi, visto il disastro di Nembro, e li abbiamo fa i al personale e a una decina di ospiti. E solo da fine aprile abbiamo potuto farli a tu i.» Barbara Codalli, fisico sportivo e spalle professionalmente larghe, è da sei anni dire ore sanitario della Rsa di Nembro, dove la re a varia dai 53 ai 63 euro al giorno, con un contributo regionale che va da 29 a 52 euro a seconda delle condizioni economiche dell’ospite. «Tra dicembre e gennaio» mi racconta «abbiamo avuto 10 decessi, ma non vi abbiamo dato un peso eccessivo, anche confrontandoci con altre stru ure, per la consueta impennata invernale. Perché non abbiamo chiesto l’autopsia? Perché non avevamo il sospe o che fossero ammalati di Covid. La crisi è iniziata il 24 febbraio. Quando si è saputo del primo caso ad Alzano, ero in vacanza a Napoli. Mi hanno chiamato dalla stru ura: “Un parente è venuto a trovare la persona cara e ci ha de o che un suo vicino di casa lavorava con un uomo deceduto per Covid nella Bergamasca”. Ho chiamato il parente, l’ho pregato di non entrare più in Rsa e lo stesso giorno ho vietato le visite dei familiari. L’Azienda di tutela della salute di Bergamo ha invitato tu e le stru ure come le nostre a restare aperte, sia pur allestendo canali per filtrare le visite, minacciando severi controlli della vigilanza e la possibile perdita dell’accreditamento. Capisco che non si volesse creare allarmismo, ma ho inviato una mail a Bergamo dicendo che,

g come dire ore sanitario, non me la sentivo di riaprire. Non avevo idea di che cosa stesse accadendo, non volevo rischiare. Non ho ricevuto altri solleciti, ma da quel giorno fino alla fine di marzo abbiamo avuto decessi quotidiani.» Perché, se avevate sbarrato le porte a possibili contagi? «Tu i gli ospiti sono di Nembro e questa è una comunità molto aperta. Le a ività sociali sono vivissime. La stru ura è sempre stata piena di familiari, gli ospiti uscivano, andavano dal parrucchiere, la domenica pranzavano con le famiglie. I bambini venivano con le maschere di carnevale. Quando è stata sospesa la sfilata in maschera, qualcuno ha proposto di farla in oratorio. Ho obie ato: “Bene, è proibita all’aperto e la facciamo al chiuso?”. La verità è che nessuno sospe ava quel che sarebbe accaduto.» Alla fine di febbraio, la prima certezza sul Covid. «La prima e unica» precisa la Codalli. «Per un ospite sospe ammo un’embolia polmonare. È morto all’ospedale di Seriate. Gli fecero un tampone, dal quale risultò positivo. Ma nemmeno loro avevano capito all’inizio che si tra asse di Covid. Ai primi di marzo mandammo un altro ospite all’ospedale di Alzano. Era affe o da insufficienza respiratoria acuta. Non gli fecero il tampone e lo dimisero poche ore dopo. È morto di Covid? Non gli hanno fa o né esami del sangue né radiografie.» Intanto era iniziato il caos. «Non si trovavano ambulanze, non si trovava ossigeno. I familiari dei pazienti andavano a Brescia e a Milano alla ricerca di una bombola. Era difficile trovare un’agenzia di pompe funebri che non fosse già oberata di lavoro. In questo clima arrivò la dire iva che ci invitava a non portare più in ospedale pazienti di oltre 75 anni. Le stru ure erano al collasso, incapaci di gestirli. Lo abbiamo fa o noi, nei limiti del possibile. Qui non sono mai mancati ossigeno e morfina, gli ospiti anche in condizioni gravi sono stati sempre lavati, cambiati e assistiti da una mano amica. Sono abituata a gestire malati terminali oncologici. Ho imparato a gestire quelli colpiti dal Covid. Abbiamo visto i nostri ospiti ammalarsi senza poter far nulla di decisivo per salvarli, ma li abbiamo accompagnati alla morte con dignità, in confronto a tante

situazioni verificatesi negli ospedali al collasso dove i pazienti restavano a lungo nei corridoi.» Quanti si sarebbero salvati se fossero andati in ospedale? «Non lo so. Molti sono andati e sono morti. Il nostro presidente [Giuseppe Pezzo a] e il nostro medico del lavoro [Marino Signori], un uomo sportivo, sono stati ricoverati e sono morti. Con le conoscenze di oggi, qualcuno in più si sarebbe salvato.» E i parenti tenuti fuori? «L’ingresso era blindato, il personale si è comportato in modo impeccabile e i familiari degli ospiti hanno capito, salvo casi sporadici. Ho fa o con il mio cellulare moltissime telefonate e videochiamate. Un figlio ci aveva chiesto di salutare la mamma, il tempo di organizzare la videochiamata, di vedersi e, proprio in quel momento, lei è morta. Qualche familiare ha preferito una foto alla videochiamata, temendo di non reggere l’impa o emotivo. A ogni aggravamento facevamo una telefonata, non per illudere i parenti, ma per ribadire che noi c’eravamo e che i loro cari non sarebbero morti soli. Un paziente abbastanza giovane (68 anni), pieno di amiche che venivano a trovarlo, ci ha chiesto come ultimo desiderio una Coca-Cola. L’ha bevuta e, poco dopo, se n’è andato.» Il virus ha camminato. «Sono anche responsabile di un hospice in val Brembana. All’inizio dicevamo: meno male che qui non è arrivato. E invece… In una casa di riposo della val Brembana, collegata con noi, ci sono stati 28 decessi.» La Rsa di Nembro è stata chiusa ai parenti per molti mesi. Soltanto dall’inizio di luglio 2020 i familiari hanno potuto parlare con i loro cari a raverso una finestra e da una distanza di 3 metri, con l’assistenza di un’educatrice. Una lezione? «Godere dell’a imo presente, annullare la proge ualità a lungo termine. L’esperienza del Covid nella casa di riposo ci ha insegnato che, in un mondo senza confini, non esiste più il “lontano”. È successo in Cina, e quindi non ci tocca? No, dobbiamo sentirci meno forti e meno superbi nell’immaginare che a noi non possa accadere.»

Lorini: «Abbiamo fa o i preti, benede o i moribondi» Il Covid è un assassino invisibile e discreto: uccide con il silenziatore. Ma è anche un assassino beffardo. Ti dà la speranza e poi te la toglie. È il caso di un uomo di 34 anni, Cristian P. di Casnigo, in val Seriana. «Un ragazzo pieno di luce» ricorda chi lo ha conosciuto. Era uscito a cena con tre amici, tu i uccisi dal virus. Quando, nell’estate del 2020, sono andato a visitare l’ala destinata alla rianimazione nell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, prima linea di questa guerra devastante, dopo qua ro mesi di lo a Cristian sembrava avercela fa a. Era l’ultimo paziente ricoverato in questo lazzare o di dolore, pronto per essere dimesso. Un mese dopo è morto. «Il Covid lo ha a accato al pancreas, dopo che Cristian era guarito dal virus ai polmoni» mi dice il professor Luca Lorini, dire ore del dipartimento di Emergenza urgenza e area critica del Papa Giovanni. Lorini era appena arrivato nel 2002 quando gli chiesero di pensare alla rianimazione del futuro. «Vorrei, per i grandi anziani del 2040, 100 postazioni per pazienti intubati» disse. Li ha sperimentati, purtroppo, con vent’anni di anticipo. «76 posti in tempo di pace, diventati 100 durante la guerra del Covid, con 111 anestesisti e 250 infermieri.» L’ospedale Papa Giovanni è stato inaugurato nel 2012: 1080 posti le o, 4600 dipendenti. Funziona benissimo: nel momento peggiore – quello dei 4000 contagi a se imana nella sola provincia di Bergamo – 3 su 4 dirigenti di vertice (il dire ore generale Maria Beatrice Stasi, il dire ore sanitario Fabio Pezzoli e quello sociosanitario Fabrizio Limonta) risultati positivi al Covid hanno guidato l’ospedale collegandosi da casa. Lorini, invece, l’ha scampata e mi conduce a visitare i 12 saloni di questa meraviglia sanitaria: tu i uguali con 8 postazioni ciascuno, tu i con i macchinari e gli strumenti negli stessi posti e negli stessi casse i, in modo che ci si possa muovere a occhi chiusi. Quando pensi che per gli italiani tu o questo è gratuito, ti viene voglia di pagare le tasse (poi ci sono anche situazioni che te la tolgono, ma è un altro discorso).

«Siamo stati sommersi da uno tsunami improvviso» mi racconta. «Il 23 febbraio arrivarono un signore di 83 anni e uno di 84. Morti in tre giorni. Una cosa così non l’avevamo mai vista. Ci siamo accorti più tardi che il Ma ia di Codogno non era il paziente uno. Ce n’erano stati forse già 20 o 30.000 prima di lui. Ho avuto questa sensazione ricevendo dalle dieci alle venti telefonate al giorno che mi dicevano che cosa stava succedendo al marito, a un fratello, a un parente. In una se imana ne avrò contate un centinaio. Ho capito così che i 400 malati della prima se imana di marzo andavano moltiplicati per 10. I test sierologici dei mesi successivi hanno dimostrato che nella Bergamasca la mala ia ha colpito tra il 20 e il 40 per cento della popolazione. A Nembro, il 40 per cento della popolazione ha avuto il Covid. Ad Alzano, il 50. Nell’area larga della Bergamasca, su 1 milione di persone, 300.000 si sono infe ate, magari senza accorgersene. Il miglior vaccino del mondo è: nessuno incontri nessuno. Se il 2 marzo avessimo avuto i tamponi per separare i positivi dai negativi, sarebbe stata tu a un’altra storia. Forse bisognava chiudere prima.» Lorini ricorda: «Intorno all’8-10 marzo gli interventi chirurgici e le cure ordinarie negli altri reparti dell’ospedale sono cessati quasi completamente. I colleghi venivano qui a uno a uno e chiedevano: “Possiamo dare una mano?”. Ogni giorno, due ore erano dedicate a insegnare agli internisti come ventilare i malati. R.G., chirurgo vascolare di 48 anni, ha imparato come usare i casche i per l’ossigeno. Purtroppo si è preso il Covid, quello più ca ivo. I primi giorni aveva chiesto di non essere intubato. Poi ha avuto un pneumotorace, cioè gli si sono ro i i polmoni, e per 67 giorni è vissuto grazie al polmone artificiale. Guardi l’ecografia. [Stringe con lo zoom e mostra un’enorme chiazza bianca.] Questo è il polmone di un paziente che deve morire. E invece si è salvato. Come? Abbiamo provato a curarlo con antimalarici, eparina, cortisone: è risultato il cocktail vincente, ma all’inizio non lo sapevamo». Quando R.G. è andato a casa, era l’ultimo paziente a lasciare la rianimazione del Papa Giovanni. «Ci siamo salutati in due minuti: uno di silenzio e di commozione, uno di applausi. Nemmeno il tempo di un’aranciata. Ma la foto ha fa o il giro del mondo.»

p g Era l’8 luglio 2020. Dalla fine di febbraio, all’ospedale Papa Giovanni di Bergamo sono arrivati 3000 malati di Covid: 2400 sono stati ricoverati, 350 sono arrivati in terapia intensiva, con punte giornaliere di 100 pazienti. «La mortalità è stata del 34 per cento in terapia intensiva (negli Stati Uniti hanno superato il 50 per cento) e dell’11 per cento sui ricoverati» mi spiega Lorini. «Una delle più basse. I cinesi hanno de o un mucchio di bugie: 3 per cento di mortalità su 85.000 contagiati? Ma se da noi ne muoiono di più con l’influenza… Prima bugia: è impossibile che sugli 11 milioni di abitanti di Wuhan ci siano stati solo 85.000 contagi. Devono essere stati almeno dieci volte tanto, almeno 1 milione. La seconda bugia che ci hanno de o i cinesi è quella sul 3 per cento di morti. In Occidente, chi ha avuto meno morti ha toccato il 7 per cento. In Italia siamo al 13, stesso numero della Francia. La Gran Bretagna è al 15. La Germania ne ha avuti meno, ma con malati diversi. Quando la mia terapia intensiva era piena, ho dovuto mandare 35 pazienti in Germania. La mortalità è stata la stessa che da noi. Per il resto, loro hanno avuto malati con carica virale più bassa. La verità è che dovremmo fare causa alla Cina, dove i medici non hanno potuto dire la verità per le ragioni che conosciamo.» È di Lorini la frase: «Bergamo è stata lavata dalle lacrime». «In ciascun salone c’era uno di noi che per due ore parlava con i parenti o mostrava loro i ricoverati con l’iPad. Quando la situazione precipitava, ci collegavamo per l’ultimo saluto. Abbiamo fa o i preti, abbiamo benede o i moribondi. Non ero io a dare forza al mio plotone, erano loro a darmi la carica che restituivo…» Rivolgo al professor Lorini la domanda più spinosa: quante volte avete deciso chi doveva morire e chi poteva essere salvato? «Le rispondo ricordando proprio il caso di papa Giovanni XXIII. Quando si scoprì che aveva un tumore allo stomaco, i medici più famosi dichiararono che non aveva senso operarlo, e lui disse di lasciar perdere. Ogni ma ina, quando arrivavano i pazienti dal pronto soccorso, dovevamo decidere da dove cominciare. E abbiamo cominciato da quelli che avrebbero beneficiato di più del nostro intervento. Sapesse quante sere sono andato a casa parlando da solo: non siamo capaci di curarli, non siamo capaci di curarli.

p p Ricordo quella del 16 marzo, il giorno peggiore: uscendo, sono passato al pronto soccorso. C’erano 70 persone che non respiravano bene e dovevamo sistemare. Dissi: se continua così, la fortezza cederà di schianto. Poi il 23, 24, 25 marzo i contagi sono cominciati a scendere e ce l’abbiamo fa a.» Perché il malato di aprile era meno grave del malato di marzo? Perché il numero dei ricoverati in terapia intensiva è crollato fino a scomparire, per riprendere in autunno con cifre assai più basse? «C’è stato un momento in cui giravano in questa zona 100.000 persone positive al virus. Se una persona si avvicinava a 5 contagiati con carica virale 100, si beccava una carica da 500. Oggi, se lo incontra, ne incontra uno solo. Un virus fa male quando ha una forte velocità di replicarsi. La velocità di replica da aprile e maggio è stata infinitamente più bassa. Questo ci ha dato il tempo di curare meglio i malati, come è accaduto nella piccola ripresa dei ricoveri tra la fine dell’estate e l’autunno. Molti positivi al tampone non hanno la mala ia.» Possono contagiare, anche con una carica virale molto bassa? «I francesi ritengono che, dopo una se imana, non contagino più. Noi stiamo studiando, per convivere con il virus fino alla diffusione di massa del vaccino.» Era possibile far meglio? «No, ma sarebbe inacce abile farsi trovare impreparati la prossima volta.» Lorini – e tanti come lui – sono andati avanti con «la forza del sorriso», ma non hanno mai taciuto la verità. «All’inizio avevo paura di dirla. Ma l’ho de a ugualmente. I colleghi irlandesi ci hanno ringraziato sul “New York Times” per aver dato loro il tempo di provvedere.»

Il forno crematorio acceso giorno e no e «Sono lì…» mi dice un guardiano, indicando alcune file di tombe basse nel campo comune al cimitero monumentale di Bergamo. Qui è tu o ordinatissimo. Il cimitero dei bambini, con i gioca oli che stringono il cuore. Il cimitero delle suore, una fila di croci bianche

tipiche dei cimiteri di guerra. Ma i segni della guerra comba uta mentre stava per sbocciare la primavera 2020 sono poco più in là. Centocinquanta tombe. Tu e uguali. Vi ime del Covid sepolte so o una coperta di brecciolino. Qua ro assi di legno a delimitare lo spazio, una lapide di carta, una foto. Foto di persone anziane, morte quasi tu e nel marzo 2020. Marzo… marzo…. marzo… marzo… Le ho guardate una per una. Nemmeno nei cimiteri di guerra è facile trovare una tale concentrazione di date. In marzo, nella Bergamasca sono morte 5900 persone. Nessuna Marzabo o, nessuna Sant’Anna di Stazzema è all’altezza di questa strage compiuta da un nemico invisibile, che uccide senza odiare. Incrocio una signora che indossa magnificamente i suoi 90 anni. E, infa i, non li nasconde. Si aggira tra le tombe alla ricerca di amici. Una ragazza rinfresca i fiori su quella del padre. Era ospite di una casa di riposo in cui sono morte 27 persone. Sembrava che lo avessero tirato fuori in tempo, invece è morto a luglio. Le vi ime so o la coperta di brecciolino sono le sole raccolte in una bara. Altre 3000 sono state cremate. Eccolo, il forno crematorio. Un cilindro gigantesco. Nemmeno quelli dei campi di sterminio nazisti hanno lavorato a questo ritmo, ventiqua r’ore su ventiqua ro, 25 defunti cremati ogni giorno. Ma, a metà marzo, a Bergamo morivano 50 persone al giorno, 350 alla se imana. Così, mercoledì 18, di sera, sono sfilati i primi dieci camion dell’esercito per trasferire le bare a Bologna, Ferrara, Modena, Firenze, Pordenone, Varese, Cuneo… Ogni camion ne portava in media 7. «Le immagini che hanno fa o il giro del mondo si riferiscono al primo trasporto» mi dice padre Marco Bergamelli, da dodici anni cappellano della chiesa Ognissanti del cimitero monumentale. «Ma i camion militari sono tornati altre undici volte. E ogni volta caricavano dalle 50 alle 70 bare.» Padre Marco è un cappuccino alto e agile («Noi siamo i frati dei Promessi sposi, i Minori sono quelli dello “Zecchino d’oro” a Bologna, i Minori conventuali stanno ad Assisi, nella basilica con gli affreschi di Gio o»). Mi porta all’interno della chiesa di Ognissanti. Accanto c’è un cippo commemorativo della strage del Covid-19 che reca scolpita

pp g p una poesia di Ernesto Olivero, lo scri ore laico fondatore del Servizio missionario giovani. La chiesa – costruita negli anni Sessanta a forma di nave, senza finestre e con bei mosaici – è ovviamente piena di banchi, con le sedute «distanziate». «Li togliemmo tu i per riporli nel famedio» racconta padre Marco. «Qui dentro c’erano 132 bare per volta. In totale, abbiamo sfiorato le 600. Lo strazio maggiore per tu i è aver accompagnato un familiare all’ambulanza ed essersi visti restituire le ceneri in un’urna. Senza essergli stato accanto al momento della morte, nemmeno la soddisfazione di averlo vestito con l’abito buono…» Il municipio (120.000 abitanti) sta nella Ci à Bassa, il centro direzionale, simbolo della ricchezza ci adina: Bergamo è una delle dodici province italiane con un prodo o pro capite superiore alla media europea. (Alcune ci à del Sud producono la metà, qui la disoccupazione giovanile è un terzo di quella meridionale.) Ma prima di bussare alla porta del sindaco Giorgio Gori sono salito nella Ci à Alta, uno dei centri storici più belli d’Italia. Vederlo semideserto di turisti nel pieno della stagione stringeva il cuore. Troppi negozi chiusi. Troppi alberghi e ristoranti chiusi. Solo Da Vi orio, un angolo di paradiso a Brusaporto (tre stelle Michelin), c’era il tu o esaurito. Purtroppo non fa testo. Giorgio Gori è un bel ragazzone di 60 anni, ha festeggiato le nozze d’argento con Cristina Parodi, condu rice televisiva («Se non ti avesse incontrato,» gli dico «sarebbe venuta con me al Tg1»). Laureato in archite ura, ha lasciato la casa di produzione Magnolia per fare, dal 2014, il sindaco di Bergamo. È stato impiccato a un appello di cui riporto le righe finali: «È come se il nostro spirito a ivo e positivo fosse improvvisamente spento e intimidito. La ci à sembra sospesa. Io credo sia giusto seguire le indicazioni, ma al tempo stesso dobbiamo andare avanti con intelligenza e buon senso, senza allarmismi. Sono convinto che un virus non fermerà Bergamo, né oggi né in futuro, e noi che amiamo questa ci à dobbiamo ridarle presto coraggio e vivacità. Con questo spirito ho proposto a mia moglie Cristina di venire a cena da Mimmo per

passare una bella serata insieme e dare un piccolo segnale: per dire a noi stessi, e per dire a tu i, Forza Bergamo!».

Gori: «I camion con le bare aprirono gli occhi al mondo» Era il 27 febbraio 2020. Da una se imana, Codogno e poi Nembro e Alzano (periferia di Bergamo) erano in emergenza. Ma Gori mi snocciola una serie di prove a discarico: «Il 22 febbraio, il giorno dopo la scoperta del primo paziente a Codogno, Giovanni Maga, dire ore del Cnr per l’area molecolare, dice: “Fuori della zona rossa il ci adino può continuare a condurre una vita assolutamente normale”. Il 23, Maria Rita Gismondo, dire rice del laboratorio [di Microbiologia clinica, virologia e diagnostica delle bioemergenze] del Sacco di Milano: “È una follia questa emergenza”. Il 25, A ilio Fontana, presidente della Regione Lombardia: “È poco più di una normale influenza”. Il 27, Beppe Sala: “Milano non si ferma”, seguito da Zingare i che brinda sui Navigli e incita a raccogliere il suo invito, e da Ma eo Salvini: “Torniamo alla normalità”. Lo stesso giorno, il virologo Roberto Burioni: “Niente panico. Non sto facendo niente di diverso dalla mia vita normale. Adesso uso solo un po’ più di a enzione: la stessa che uso per non prendere l’influenza”. La verità è che, a fine febbraio, il mondo scientifico non aveva messo affa o a fuoco quello che stava accadendo». È so o accusa la partita di calcio Atalanta-Valencia, giocata il 19 febbraio allo stadio di San Siro. «Andai a vederla con mio figlio Alessandro e altri 40.000 bergamaschi. C’erano assembramenti, come si dice oggi, e gruppi d’ascolto nei bar e nelle case. Se è vero che il virus girava da gennaio, certamente quella partita ha accelerato la moltiplicazione dei contagi.» Nella se imana a cavallo tra febbraio e marzo, ogni giorno si saliva un gradino nella scala della consapevolezza. Fino a giovedì 5 marzo: «Alle 23» mi racconta Gori «mi scrive sulla posta privata un esponente autorevole del mondo sanitario: “Sindaco, forse lei non sa che ogni persona positiva al Covid a Bergamo ne infe a altre 3. Se continua così, non saranno sufficienti tu i i posti in terapia

intensiva dell’intera Lombardia”. Fu il primo di una serie di messaggi lasciati nella bo iglia. Fino al 17 marzo, quando un medico importante dell’ospedale Papa Giovanni mi scrive questa mail: “Non avete idea di quello che sta succedendo”. Nei giorni a cavallo della metà di marzo, a Bergamo ci furono 300 morti». Fino a quando, il 18 marzo, arrivarono i camion militari a portare via le troppe bare. Erano le 9 di sera quando Emanuele Di Terlizzi, 28 anni, steward della Ryanair, sentendo un rumore inconsueto si affacciò al balcone di casa e sca ò con il cellulare una foto poi postata su Instagram che, in pochi istanti, diventò drammaticamente virale. «Fino alla diffusione di quell’immagine, che ha aperto gli occhi al mondo, Bergamo ha dovuto giocare da sola la sua partita tragica. Da quel momento si è moltiplicata l’a enzione dei media italiani e internazionali, tu i hanno capito la gravità di quanto stava succedendo e hanno cercato di me ersi al riparo.» Eppure, la strage era in corso da quasi un mese. Secondo i dati Istat, dal 20 febbraio al 31 marzo 2020 i morti in provincia di Bergamo sono stati 6238, con un incremento del 568 per cento rispe o allo stesso periodo dei cinque anni precedenti. L’incremento è stato del 391 per cento a Cremona, del 371 a Lodi, del 291 a Brescia, del 264 a Piacenza. A Bergamo ci à, in marzo sono morte 670 persone contro le 128 della media 2015-2019 nello stesso mese, a Nembro 151 contro 12, ad Alzano 109 contro 10, ad Albino (18.000 abitanti, il comune più popoloso della val Seriana) 146 morti contro 14. Ci sono piccolissimi centri con numeri spaventosi. A Gandosso (1500 abitanti), in marzo morivano in media 0,2 persone: nel 2020 ne sono morte 8, con un incremento del 3900 per cento. A Ubiale Clanezzo (1400 abitanti), dallo 0,2 si è passati a 7 (+3400 per cento). A Zogno (9000 abitanti, in val Brembana), gli 88 morti di marzo (3 al giorno) convinsero un parroco a non suonare più le campane per non moltiplicare l’angoscia. Per mesi, i dati ufficiali della Regione Lombardia sono stati più bassi, dal 50 al 75 per cento in meno. «La differenza tra i nostri dati e quelli emersi successivamente» mi dice l’assessore regionale al

q g Welfare Giulio Gallera «deriva dal fa o che a noi arrivavano i dati dagli ospedali che facevano i tamponi. Mancavano le persone morte senza fare il tampone nella propria abitazione o nelle case di riposo.» Aggiunge Gallera, 51 anni, avvocato, recordman di preferenze per Forza Italia: «Dall’indagine epidemiologica fa a dal governo emerge che il 7,5 per cento della popolazione lombarda ha avuto il Covid. Siamo 10 milioni, quindi si parla di 750.000 colpiti dal virus».

Quelle tredici pagine di necrologi «Guarda qua» mi dice Alberto Ceresoli, dire ore dell’«Eco» di Bergamo, il giornale-istituzione di proprietà della curia che, dal 1880, informa la ci à. E sfoglia il quotidiano alle pagine dei necrologi. Qui, vivaddio, non ci sono le poche righe degli altri quotidiani. Qui c’è la foto del defunto e una commemorazione con tu i i crismi. Il dire ore sfoglia una, due, tre … se e, o o, nove (ma quanti sono i morti ricordati oggi?), dieci, undici, dodici, tredici pagine… Tredici pagine di morti in una sola giornata. «Non s’è mai visto al mondo» commenta Ceresoli. Mentre tu i, anche a Bergamo, pensavano che il Coronavirus si fosse fermato a Codogno, provincia di Lodi, a lui frullava qualcosa nella testa. «Da trent’anni seguo la medicina per una mia vecchia passione personale. E nel pomeriggio di venerdì 21 febbraio 2020 mando un messaggio a un medico del Papa Giovanni: “Non riesco a credere che tu non abbia nemmeno un malato di Covid”. “Noi siamo pronti” mi risponde. “Ma ti assicuro che non abbiamo un solo caso.” Così alle 21 me ne vado a Stezzano, alle porte di Bergamo, a vedere un docufilm all’Officina della comunicazione. Comincia il film e il cellulare vibra. È lui: “Ho un sospe o Covid”. Rientro subito al giornale e ci chiediamo come dare la notizia. Per non spararla troppo grossa, facciamo il titolo principale su Codogno e so o ci me iamo a “catenaccio”: “Caso sospe o di Covid al Papa Giovanni”. Non ti dico le reazioni del sabato ma ina.

La più gentile era: “Non è da te fare terrorismo”. Da domenica sono cominciati i morti.» Vedremo nel prossimo capitolo a che punto sono arrivate le indagini sull’origine e la diffusione del virus. «Noi» precisa Ceresoli «siamo risaliti a metà gennaio e abbiamo trovato un primo caso a Curno, 3 chilometri in linea d’aria dall’ospedale. Ma è possibile che il ceppo di Alzano, più aggressivo di quello di Codogno, fosse in giro già da fine o obre. Due schermitrici della val Seriana sono rientrate da Wuhan dopo i giochi olimpici militari (18-27 o obre 2019, 170 atleti italiani, 30 medaglie) durante i quali parecchi atleti sono stati male. Chissà. È difficile ignorare che nell’aeroporto di Orio al Serio (terzo scalo italiano, 14 milioni di passeggeri all’anno prima della crisi, quasi il 10 per cento del pil della Bergamasca) ogni se imana passavano centinaia di persone che andavano e venivano dalla Cina e dal Sudest asiatico per gli scambi con la val Seriana per il tessile e altro. E poi, a Codogno le aziende sono distanziate, a Nembro e Alzano sono a accate.» E aggiunge: «L’età media nella val Seriana è più alta della media provinciale e si sa che gli anziani vengono colpiti per primi. Salvo casi molto particolari, la polemica contro le case di riposo, le Rsa, non è giustificata. Se un bambino va a trovare i nonni, è possibile che li infe i. Non è corre o dire che le tante vi ime di quelle stru ure sono state fa e morire, anche se è comprensibile che i comitati dei familiari lo dicano oppure lamentino che i loro cari, deceduti in totale solitudine in ospedale, non abbiano avuto il conforto di una parola sussurrata nell’orecchio al momento del trapasso e nemmeno la dignità di un funerale». Il dire ore dell’«Eco» sostiene che «di fronte a 6000 morti nella Bergamasca, per capire quel che è accaduto bisogna astrarsi e valutare con freddezza. Maggioranze e opposizioni fanno il loro mestiere, ma la polemica tra Regione Lombardia e governo ha aggravato inutilmente una situazione già pesante. E non è giusto nemmeno prendersela con la Regione Lombardia per i ritardi nella consegna delle mascherine, visto che abbiamo un sistema industriale che ha deciso di delegare alla Cina e al Vietnam le

produzioni di scarso valore aggiunto. La verità è che siamo stati tu i vi ime di uno tsunami che ci ha travolto». Il sistema sanitario lombardo non ha funzionato? «Se il sistema è andato in tilt, qualche domanda bisogna porsela» mi risponde Ceresoli. «La riforma Maroni [presidente leghista della Regione Lombardia dal 2013 al 2018] ha caricato l’assistenza sugli ospedali, indebolendo la medicina territoriale. Se si dice che i medici di famiglia si sono trovati spiazzati, non avevano le mascherine e quant’altro, le critiche sono giuste. Ma la verità è che nelle prime se imane tanta gente moriva perché non si sapeva come curarla. E, a mio giudizio, anche con un sistema territoriale efficiente le cose non sarebbero cambiate radicalmente.» Torniamo a sfogliare il giornale. Le tredici pagine di necrologi sono separate l’una dall’altra da pagine di storie e di commenti. Queste testimonianze hanno colpito papa Francesco, che il 14 aprile ha telefonato a Ceresoli: «Il giornale, con punte di 700.000 visitatori unici sul sito al giorno nei momenti più drammatici e vendite in edicola che non si vedevano da oltre dieci anni, è stato il punto di riferimento della ci à. E il papa è rimasto colpito dal dolore, dalla pietà, dalla solidarietà che emergeva da centinaia di ritra i di persone note e ignote, l’imprenditore e il ne urbino, il volontario e il medico che, magari, moriva per curare i suoi malati. Siamo diventati per tu i un amico di famiglia, e il pontefice l’ha notato».

Il derby sanitario Lombardia-Veneto Perché la Lombardia, accreditata con qualche buon motivo come la regione italiana con la sanità migliore, ha avuto nell’epidemia Covid-19 un numero tanto maggiore di vi ime rispe o al Veneto, pure colpito duramente dalla prima ondata? In Mai più eroi in corsia, Riccardo Iacona dà conto di una ricerca pubblicata il 18 aprile 2020 (quando la violenza del virus si era appena a enuata) sulla rivista online «Scienza in rete» da qua ro donne di scienza: Nancy Binkin (università di San Diego), Francesca Russo (dire ore della Direzione Prevenzione, Sicurezza

Alimentare, Veterinaria della Regione del Veneto), Federica Michiele o (che opera nella stessa Direzione) e Stefania Salmaso (a lungo epidemiologa dell’Istituto superiore di sanità). Le studiose hanno effe uato un confronto accuratissimo tra le due regioni: uguali per età media (45,9 in Lombardia e 45,4 in Veneto), aspe ativa di vita (84 anni), presenza di aeroporti internazionali, flussi commerciali verso l’estero, posti le o ospedalieri per acuti (3,05 e 3,01 per 1000 abitanti). Simile la spesa sanitaria pro capite e il numero di adulti per ogni medico di base (1400 in Lombardia, 1342 in Veneto). Le differenze aumentano in favore del Veneto quando si parla di sanità pubblica. In Lombardia ci sono 3 laboratori in questo se ore (1 ogni 3 milioni di abitanti), contro i 10 nel Veneto (1 ogni 500.000 abitanti). Gli 8 dipartimenti di prevenzione sanitaria lombarda servono ciascuno 1,2 milioni di abitanti, mentre i 9 dipartimenti veneti sono tarati su 500.000 abitanti ciascuno. L’assistenza domiciliare è assai più diffusa in Veneto (3,5 persone ogni 100.000 abitanti) che in Lombardia (1,4 persone ogni 100.000 abitanti). Analizzando la prima se imana dello tsunami Covid-19, le autrici della ricerca annotano che, tra il 24 febbraio e il 2 marzo 2020, il numero dei casi è aumentato in Lombardia di 6,5 volte, passando da 166 a 1077, mentre in Veneto, nello stesso periodo, i casi sono passati da 32 a 271, aumentando di 8,5 volte. Iacona sostiene che questo dato smentirebbe la vulgata che la Lombardia è stata colpita da un’ondata di Covid molto più violenta di quella veneta. Ma se si tiene conto che la popolazione lombarda è il doppio di quella veneta, il ragionamento non regge, visto che i contagi sono il quadruplo. Più convincente è l’analisi delle studiose sulla differenza di approccio all’emergenza nelle due regioni: in Veneto si è proceduto subito a differenziare gli ospedali dedicati ai pazienti non Covid da quelli dedicati agli infe i, mentre in Lombardia «in assenza di altre opzioni [rispe o alle terapie intensive] i pazienti sono stati inviati in ospedale sovraccaricando le risorse umane e i le i esistenti e diluendo inevitabilmente la qualità delle cure». Situazione aggravata dalla «non disponibilità dei centri di accoglienza per

gg p g p coloro che non avevano bisogno di cure acute, ma di un monitoraggio continuo». A giudizio delle ricercatrici, l’immediata separazione dei luoghi di cura Covid ha prodo o al 1° aprile 2020 il contagio del 4,4 per cento degli operatori sanitari veneti, contro il 14,3 per cento dei colleghi lombardi, con un tasso di mortalità enorme per i medici di medicina generale in Lombardia (17 casi al 1° aprile, contro nessuno in Veneto; a fine emergenza saranno 92 in Lombardia e 4 in Veneto). È stato, perciò, messo so o accusa il sistema sanitario lombardo centrato sul paziente, come peraltro usa in molti altri paesi, e non sulla comunità e sulla medicina territoriale, come quello veneto. La Lombardia è stata imputata di aver fa o degli ospedali, pubblici e privati, il centro della galassia sanitaria. Il 4 maggio 2020 il quotidiano online «Il Post» pubblicò un’inchiesta sulla sanità lombarda, ripresa dal dire ore scientifico dell’ospedale Spallanzani di Roma, Giuseppe Ippolito, nel libro Cosa sarà, scri o con Salvatore Curiale. Nell’inchiesta si afferma che nel 2010 il governo regionale lombardo riceve e dai propri tecnici una relazione estremamente critica sul modo con cui era stata gestita a livello regionale l’epidemia influenzale del 2009, la cosidde a «influenza suina», la prima pandemia influenzale mondiale di questo secolo, «prova generale» della pandemia 2020. «Il Post» scrive che, secondo i tecnici della regione, c’erano stati gravi dife i di comunicazione con la popolazione e con gli operatori sanitari, non erano stati a ivati adeguati sistemi statistici e il coordinamento con la rete di medicina territoriale – i medici di famiglia e gli ambulatori – era stato del tu o insufficiente. Nessuna procedura specifica, infine, per le case di cura e le residenze per anziani. La conclusione dell’inchiesta è che la giunta regionale approvò il documento, lo chiuse in un casse o e non fece nulla, trovandosi perciò con i problemi aggravati all’arrivo del Covid-19. Nessun accenno alla riforma Maroni. Eppure, rileggendo la filosofia ispiratrice della legge varata nel 2015 dalla giunta di centrodestra guidata dall’avvocato leghista emerge l’esa o contrario. Basta con lo strapotere degli ospedali dell’era Formigoni titolavano i giornali. E Maroni: «Passiamo dal curare al prenderci

g p cura», all’«integrazione dell’ospedale con il territorio anticipando il futuro». Invece di 15 Asl nacquero 8 Agenzie sociosanitarie territoriali di tutela della salute, tant’è vero che negli ospedali lombardi accanto al dire ore sanitario c’è il dire ore sociosanitario, per assicurare il prosieguo delle cure a casa del paziente. E allora, che cosa non ha funzionato? «Rifarei la riforma esa amente come l’ho fa a» mi dice Roberto Maroni, tornato a esercitare la professione di avvocato ma con un piede pronto a rientrare in politica. «Era tarata sul futuro, nel prevedere la gestione del progressivo invecchiamento della società. Chiesero all’allora ministro della Salute Beatrice Lorenzin di impugnare la nostra riforma perché modificava il sistema sanitario nazionale affidando agli ospedali il compito di occuparsi del territorio. Lei non lo fece, perché, se avesse superato il monitoraggio, avrebbe portato alla revisione dell’intero sistema nazionale [“Una grande regione con i parametri a posto ha il diri o di fare una sperimentazione,” mi dice la Lorenzin “ma era chiaro che, se non avesse funzionato, avrebbe dovuto fermarsi. Noi suggerimmo dei corre ivi e già nel 2017 erano emerse criticità. Poi cambiarono ministro, governo, e giunta regionale”].» «Se non ci fosse stato il Covid,» puntualizza Maroni «la riforma sarebbe andata avanti benissimo, anche se ci sono voluti due anni per me erla a regime, con molte resistenze da parte dei centri di potere (le Asl) che venivano soppressi o rido i. Ma il vero punto critico è stato il rapporto con i medici di base: prima il referente era l’ospedale, oggi, con l’espansione dei servizi ospedalieri sul territorio, i medici temono di perdere il loro ruolo entrando in competizione con l’ospedale. Il rapporto con la regione è poi reso difficile dal fa o che i medici di base non dipendono da noi, ma hanno un contra o nazionale di lavoro. È corre o dire che non c’è stata tra loro e la regione un’interlocuzione molto efficace, ma sostenere che abbiamo smantellato la medicina territoriale è una fesseria.» Osservazione finale dell’ex governatore: «La campagna contro la Regione Lombardia è partita quando Gallera ha de o di candidarsi a sindaco di Milano…». (Il 25 marzo l’assessore regionale al Welfare, in un’intervista alla «Repubblica», disse: «Se

servirà candidarmi, non mi tirerò indietro», salvo smentire poche ore dopo.)

La vera storia dei tamponi a tu a la popolazione di Vo’ «Adriano Trevisan non è un numero, non è la prima vi ima italiana del Coronavirus, non è un nome e un cognome sul giornale. Adriano Trevisan è mio papà. Un leone allegro, a 78 anni guidava la macchina e usciva da solo. Viaggi? Macché… in pensione si divideva tra casa e il bar di Vo’, dove giocava a carte. Pensi che quando in ospedale ci hanno chiesto se di recente fosse stato all’estero, mia madre ha risposto che neanche le aveva fa o fare il viaggio di nozze…» Così Vanessa Trevisan, sindaco di Vo’ («Non chiamatelo Vo’ Euganeo, Vo’ e basta») fino alla primavera del 2019, all’inviato della «Repubblica» Fabio Tonacci. «Con la sua impresa edile, insieme a qua ro amici, ha costruito mezza provincia di Padova. Comunista fino all’osso, faceva certe discussioni con me, che la penso esa amente all’opposto. Insomma, vorrei che fosse ricordato per come è vissuto, non per come è morto.» Ha ragione Vanessa. Ciascuno dei 36.000 morti di Covid-19 in Italia avrebbe una vita da raccontare. Eppure, Adriano Trevisan passa alla storia come la prima vi ima europea del Coronavirus. Cardiopatico, debilitato, si ammala il 13 febbraio 2020. Il medico di base non va a visitarlo, supponendo al telefono che sia affe o da una banale influenza. Domenica 16 peggiora, lo ricoverano all’ospedale di Schiavonìa. I medici non capiscono che cosa abbia, perché in questo caso il tampone – come abbiamo visto a Codogno – non è previsto dal protocollo nazionale. Alla fine, anche lì una do oressa insiste, e giovedì 20 gli fanno il tampone. Venerdì 21 la risposta: è positivo. La no e muore per una crisi cardiaca. «È morto 54 minuti dopo la mezzano e sul 22 febbraio» mi racconta Luca Zaia. «Il pomeriggio precedente sono in auto quando mi chiama Carlo Parmeggiani, il mio portavoce: “Abbiamo il primo caso di Covid nel Veneto, a Schiavonìa”. Corro a Padova, trovo il sindaco Sergio Giordani e Francesca Russo, specialista in Igiene e

Sanità pubblica e a capo della Direzione Prevenzione, Sicurezza Alimentare, Veterinaria della Regione del Veneto. La Russo aveva a ivato già in gennaio una task force regionale per la prevenzione e il controllo dell’epidemia da Coronavirus. (La stessa Russo aveva preparato in passato i protocolli per l’Aviaria, la Sars e anche per la West Nile, un’infezione virale trasmissibile dalla zanzara, anche se nessuno ne parla.) Decido tre cose: fare i tamponi a tu i i 3500 ci adini di Vo’, aprire tende riscaldate fuori da tu i gli ospedali provinciali [nascono i primi ospedali Covid in Italia], chiudere l’ospedale di Schiavonìa. La do oressa Russo mi avverte che i tamponi sono contro le linee guida, e quindi rischiamo di finire davanti alla Corte dei conti, ma decidiamo di procedere. Su 3304 ci adini so oposti a tampone, 88 risultano positivi – quasi tu i asintomatici – e 11 vengono ricoverati in ospedale. Vo’ era la vera bomba virale. Dovevamo impedire che il virus arrivasse a Venezia, dove c’è una forte osmosi sociale. E a Venezia l’ondata non è arrivata.» Per 140 giorni, a partire dal 22 febbraio, nella sede di Marghera è stato svuotato un piano della Protezione civile per far posto a una «war room» collegata ogni ma ina, tra le 8 e le 9, con tu i i dire ori generali delle aziende sanitarie per studiare le strategie. «È nato così» mi dice Zaia «il modello Veneto, che ha fa o scuola.» Geniale è stato anche il metodo con cui il Veneto ha affrontato la carenza di mascherine. «Nelle se imane cruciali abbiamo incontrato tu i i lazzaroni del mondo» racconta il governatore. «Ma non abbiamo preso nemmeno una fregatura. Poi si è fa o vivo Fabio Franceschi [patron di Grafica Veneta, è uno dei maggiori stampatori del mondo]. “Vorrei fare qualcosa” mi dice. Le prime prove di mascherine su carta non funzionano. Finché decidiamo di lavorare con bobine di tessuto - non tessuto da 200 grammi e abbiamo risolto il problema. Franceschi ci ha regalato 13,5 milioni di mascherine con il logo della Regione del Veneto.» Da molti mesi si dava per scontato che Zaia sarebbe stato riele o con grandissimo margine per la terza volta governatore del Veneto. Ma se alle elezioni del 20-21 se embre 2020 è schizzato al 76,8 per cento, lo si deve alla gestione vi oriosa dell’epidemia. Gestione

g p fru o di un piano antico. Nel 2012 fu approvato un piano regionale «per la preparazione e la risposta a emergenze di sanità pubblica con particolare riferimento a quelle di natura infe iva». In ogni Asl fu istituito un comitato per l’emergenza, con l’assegnazione a ciascuno di compiti precisi. Nel 2014-15 furono approvati protocolli operativi per le emergenze di natura infe iva e non infe iva. Nel gennaio 2020 è stata istituita presso la Direzione Prevenzione, Sicurezza Alimentare, Veterinaria una task force regionale per la prevenzione e il controllo dell’epidemia Covid-19: decreto del 30 gennaio, ventiqua r’ore prima che il Consiglio dei ministri proclamasse lo stato d’emergenza nazionale e lo stesso giorno in cui una coppia di turisti cinesi ospite dell’hotel Palatino di Roma era risultata positiva al virus.

Chi ha salvato il Veneto? Crisanti?«No, Francesca Russo» L’11 febbraio il «Corriere del Veneto», so o il titolo Analisi a chi rientra dalla Cina, pubblica un’intervista ad Andrea Crisanti, rientrato dall’Imperial College di Londra per occupare la ca edra di microbiologia e virologia all’università di Padova e dirigere il laboratorio dell’ospedale ci adino. Crisanti sostiene che la comunità cinese ha chiesto di so oporre ad analisi non soltanto chi presenta sintomi compatibili con quelli del Coronavirus, ma anche tu i coloro che sono rientrati nel Veneto dopo un viaggio in Cina. In regione puntualizzano che Crisanti, o imo microbiologo, ha ereditato dal suo predecessore Giorgio Palù, già presidente dei virologi europei, una «Ferrari sanitaria»: Padova ha il più importante dei 14 laboratori di microbiologia distribuiti su 3000 metri quadrati in tu o il territorio veneto. Ebbene, né il dire ore generale della sanità veneta, Domenico Mantoan, né il dire ore generale dell’azienda padovana che unisce ospedale e università, Luciano Flor – da cui dipende Crisanti –, sanno alcunché dell’iniziativa del professore di effe uare tamponi

alla comunità cinese. Mantoan ricorda che iniziative del genere sono al di fuori di ogni protocollo, vanno concordate e, comunque, non sono coperte finanziariamente. In una le era inviata a Mantoan il 12 febbraio, Crisanti si affre a a precisare che le sue dichiarazioni «sono state travisate dagli organi di stampa» e lo rassicura sulla sua adesione alle dire ive ministeriali. Alla regione affermano che il professore non ha mai inviato un proge o scientifico sul tipo di analisi alle quali so oporre i cinesi e ha partecipato in modo sporadico alle riunioni del Comitato tecnico scientifico regionale presieduto da Mantoan. Insomma, i rapporti tra i due sono sempre stati confli uali. Il 21 febbraio il Veneto entra in emergenza e il laboratorio di Padova non basta per fare tu i i tamponi necessari. Viene validato, perciò, anche quello dell’ospedale di Schiavonìa. Il 24 febbraio vengono chiusi Vo’ e Codogno. L’indomani Crisanti chiama Zaia (i due non si conoscono) per chiarire definitivamente la polemica nata sui giornali e già sopita con la sua le era a Mantoan. Una se imana più tardi, nuova telefonata di Crisanti: «Lei,» dice a Zaia «con i tamponi a tu a la popolazione di Vo’, ha fa o una cosa unica al mondo. Mi finanzia una ricerca epidemiologica per rieseguire tu i i tamponi alla fine della quarantena?». Il governatore trova l’iniziativa «utile e interessante». Il 2 marzo c’è un incontro in assessorato e la giunta regionale stanzia 150.000 euro. Crisanti procede con i tamponi, ma le autorità sanitarie venete lamentano di non aver ricevuto i risultati della nuova ricerca. Li leggono, per contro, sulla prestigiosa rivista inglese «Nature» e notano che il professore si a ribuisce la paternità anche del primo giro di tamponi, eseguito invece dall’azienda sanitaria di Padova, per decisione di Zaia, tra il 23 e il 29 febbraio. Crisanti scrive che questa iniziativa è fondamentale per la strategia del Veneto nella lo a al virus. Lui stesso, come abbiamo visto, ne a ribuisce la paternità a Zaia, ma nel suo articolo su «Nature» non vi fa cenno. (In autunno la Regione del Veneto spedisce a «Nature» una durissima le era di replica firmata da Francesca Russo, dire ore della Prevenzione. «La pubblicazione» si legge «ha alterato i fa i,

p gg distorcendo la realtà e mistificando quanto è accaduto a Vo’. Tu e le decisioni rilevanti su come affrontare il focolaio hanno avuto origine dall’Ospedale di Schiavonìa, dove sono stati ricoverati i primi due pazienti residenti a Vo’ positivi per Sars-CoV-2, e sono state assunte dal Presidente della Regione del Veneto di concerto con la Direzione Prevenzione e Sanità Pubblica della Regione e con le autorità sanitarie dell’Azienda Ulss 6 Euganea. Tu o questo è accaduto ancor prima che lo studio di Vo’ fosse concepito. Infa i, l’effe uazione dei tamponi è iniziata dopo che l’Ospedale era già stato evacuato e dopo che fosse disposto l’isolamento e il lockdown del Comune di Vo’. Inoltre, il lockdown era ancora in corso al momento del secondo campionamento.» E ancora: «Non corrisponde al vero che “due indagini sulla popolazione residente di Vo’ sono state condo e a meno di due se imane di distanza, per indagare l’esposizione della popolazione a Sars-CoV-2 prima e dopo il lockdown”. … Non è vero che … “questo studio ha guidato la strategia ado ata dalla Regione del Veneto” e che “questa strategia di testing and tracing ha avuto un impa o notevole sul corso dell’epidemia in Veneto rispe o alle altre regioni italiane”. Il caso di Vo’ ha avuto un impa o strategico minimo sull’approccio della Regione del Veneto nell’affrontare l’epidemia, dal momento che conta, finora, solo 5 morti e 83 casi positivi nel comune mentre altri focolai sono simultaneamente scoppiati in comunità molto più grandi e la strategia di “testing and tracing” era già in a o». In conclusione la Russo rivendica che «la Regione del Veneto, a differenza delle altre regioni italiane, I) ha mantenuto una tradizione di distribuzione territoriale capillare delle stru ure di prevenzione e controllo; II) ha istituito, sin dall’inizio della pandemia, un sistema biologico, clinico ed epidemiologico di tracciamento dei conta i e monitoraggio dei casi; III) ha istituito punti di pronto soccorso, reparti e ospedali dedicati a Covid-19. Questa organizzazione ha determinato i risultati di sanità pubblica, non lo studio di Vo’». Perciò, la pandemia è stata «affrontata con largo anticipo rispe o a uno studio proge ato e intrapreso a posteriori che non ha avuto il minimo impa o sulle scelte

strategiche di sanità pubblica». Andrea Crisanti non è mai citato, ma è a lui che è indirizzata la smentita.) In maggio, la polemica sulla primogenitura dei tamponi si riaccende. Crisanti dichiara che il dire ore della Direzione Prevenzione Francesca Russo (cioè la Regione del Veneto) non aveva un piano tamponi e la Russo risponde che il professore voleva limitarli ai soli cinesi. Zaia interviene di nuovo: «Crisanti è una colonna portante della sanità veneta,» dice «ma un conto è l’a ività scientifica del professore, altro è il piano sanitario del Veneto per l’emergenza Covid». In sostanza, Crisanti appare nei media (con i quali ha un eccellente rapporto) come il salvatore del Veneto, mentre secondo Zaia il modello vincente veneto è fru o di un lavoro decennale di prevenzione e di organizzazione ideato e svolto sopra u o da Francesca Russo. A Crisanti, Zaia riconosce il merito non indifferente di aver segnalato una macchina olandese in grado di produrre 9000 tamponi al giorno. È entrata in piena operatività in aprile, mentre il Veneto, prima regione italiana, partiva con i test sierologici di massa e validava, con l’ospedale Spallanzani di Roma, l’utilizzo del tampone rapido (3-4 minuti per la risposta). Nuova polemica in agosto, quando in Veneto sono stati già effe uati 1 milione 250.000 tamponi (un quarto della popolazione residente). Crisanti lamenta che la competenza scientifica venga sacrificata alla fedeltà politica, e intanto alcuni giornali scrivono che il laboratorio di microbiologia di Padova, da lui dire o, dovrebbe fare riferimento a quello di Treviso, guidato da Roberto Rigoli, vicepresidente dei microbiologi italiani. In realtà, precisa quest’ultimo, il coordinamento dei 14 laboratori veneti («la manovalanza da laboratorio») è sempre stato in capo a Treviso. In ogni caso, se il laboratorio di riferimento regionale resterà quello di Padova, «ciò non deve impedire che se qualcuno raggiunge risultati importanti con la propria a ività, questi debbano essere silenziati». Rigoli si riferisce a una sua felicissima intuizione. «Fino a oggi» disse a Zaia «per fare 5 o 10 tamponi usiamo altre ante prove e. Me iamoli tu i in una sola prove a: se qualcuno è positivo,

andremo a rivederli uno per uno. Ma se il risultato è negativo, avremo risparmiato molti reagenti.» Nella nostra conversazione, il governatore Zaia non scivola nella polemica sull’operato della Regione Lombardia. «Loro sono stati molto sfortunati, perché investiti da una dose spaventosa di virus. E poi, un conto è fare 3500 tamponi in tre giorni, un altro è farli rapidamente a 1 milione di persone.» Uno dei drammatici effe i secondari del virus è stata la sostanziale interruzione delle cure tradizionali. «Quando nell’estate del 2020 sono cominciati i primi bilanci, si è constatato che molti cardiopatici o malati oncologici non sono stati curati come avrebbero dovuto. Il Veneto è orgoglioso di aver salvato i trapianti: durante l’emergenza, non ne è stato rinviato neppure uno.»

XI

Dalla Cina all’Italia, l’apocalisse virale

I dieci minuti che hanno sconvolto il mondo «Io non ci riesco a scrivere questa storia. Ci vorrebbe Omero…» Il 20 luglio 1969 Oriana Fallaci udì questa frase da uno dei duemila giornalisti che seguivano da Houston la conquista della luna. Bene, scusate se mi sento nelle medesime condizioni. Sapevamo che un giorno saremmo andati sulla luna. Non potevamo immaginare che nel 2020, improvvisamente, 2 miliardi di uomini e donne sarebbero stati costre i dal Covid-19, un di atore sconosciuto e dall’origine incerta, a comportarsi nello stesso identico modo. Non uscire di casa. Lavarsi spesso le mani. Non avvicinarsi troppo agli altri e, sopra u o, indossare la medesima divisa: una maschera leggera che copre il volto dal naso al mento. Nessun Cesare, imperatore o di atore di ogni secolo nella storia dell’umanità aveva avuto il potere del signor Covid. L’impero romano regnava su 58 milioni di persone. L’impero britannico su 500 milioni. I sovietici non raggiunsero mai il mezzo miliardo di sudditi, pure sommando ai 290 milioni di Stalin gli abitanti dell’intero blocco orientale. I cinesi non arrivano al miliardo e mezzo. Ad aprile 2020 il signor Covid aveva ucciso 150.000 persone, a giugno mezzo milione, ad agosto 800.000, in o obre oltre 1 milione. La febbre «spagnola» fece da 20 a 50 milioni di morti tra il 1918 e il 1920, ma non sconvolse le abitudini delle persone come il Covid. La vita sociale e produ iva non fu sospesa per mesi, le ci à non furono mai deserte. L’armata dei vaccini, scesa in campo alla fine del 2020, è di efficacia incerta, mentre nessuno è in grado di stabilire se e quando

le abitudini di vita e di lavoro sconvolte dal virus torneranno mai ai «vecchi tempi». Intere categorie sociali sono state rido e, dall’oggi al domani, all’indigenza. E chi ha alleviato la nostra solitudine portandoci tu o a casa e finendo con il decidere che cosa avremmo comprato (Amazon), o moltiplicando i conta i web data l’impossibilità di quelli fisici (Facebook, Instagram, Twi er), ha visto volare i propri profi i. Jeff Bezos (Amazon), in pochi mesi, ha fa o lievitare il patrimonio personale da 104 a 202 miliardi di dollari. Quello di Mark Zuckerberg (Facebook), nello stesso arco di tempo, è passato da 55 miliardi di dollari (fine 2019) a 114, mentre l’impennata degli strumenti di comunicazione digitale e la svolta ecologica hanno incrementato le ricchezze di Bill Gates (Microsoft, da 110 a 124 miliardi) e addiri ura fa o esplodere l’ammontare di quelle di Elon Musk (auto ele riche Tesla, da 25 a oltre 100 miliardi). «Il mondo è cambiato in dieci minuti» mi ha de o il capo della rianimazione dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Purtroppo è vero.

Tu o cominciò con pipistrelli e cavalli australiani «Siamo stati noi a generare l’epidemia di Coronavirus. Potrebbe essere iniziata da un pipistrello in una gro a, ma è stata l’a ività umana a scatenarla.» Questa dichiarazione di David Quammen al «New York Times» è stata usata dall’editore Adelphi per rilanciare Spillover, un libro scri o nel 2012 dal ricercatore del National Geographic che sembra la sceneggiatura di un film dell’orrore. («Spillover» è il salto di un patogeno da una specie all’altra – quindi da un animale all’uomo – e il radicamento infe ivo nel nuovo organismo.) Il racconto comincia il 7 se embre 1994 in un allevamento di cavalli in un sobborgo di Brisbane, in Australia. Una splendida puledra muore misteriosamente tra sofferenze atroci. Ha contagiato altri dodici cavalli, che muoiono l’uno dopo l’altro. Muore anche il padrone dell’allevamento. I medici trovano nelle vi ime un virus mai visto e risalgono alle foglie di un albero so o il quale i cavalli si

riparavano dal sole nella calda estate australiana. Quell’albero era frequentato da pipistrelli. Gli stessi pipistrelli venduti al mercato degli animali di Wuhan, in Cina. In Spillover viene ripercorsa la storia angosciosa delle zoonosi, cioè delle mala ie infe ive trasmesse dagli animali all’uomo: peste bubbonica, febbre spagnola, Ebola, rabbia, Aids, Sars e molte altre patologie poco note. Il so otitolo della versione inglese del libro è «Infezioni animali e la prossima pandemia umana», che Quammen previde – parlando con alcuni scienziati – come prodo a da un Coronavirus, un virus di forma sferica con l’affascinante aspe o di corona colorata che abbiamo imparato a conoscere bene. Il Coronavirus causa mala ie respiratorie e, nell’uomo, una Sars (Sindrome respiratoria acuta grave), cioè una polmonite atipica. La prima Sars fu individuata nel 2002 da Carlo Urbani, un microbiologo marchigiano che lavorava per l’Organizzazione mondiale della sanità e per Medici senza frontiere. Anche in quel caso, l’origine era cinese. Urbani la individuò in Vietnam e cercò inutilmente di a ivare l’Oms. Impose la quarantena ai vietnamiti e li salvò. La Sars colpì in tu o il mondo soltanto 8000 persone (4 in Italia) e ne uccise 774, tra cui lo stesso Urbani. Quammen non è certo l’unico ad aver previsto l’arrivo di Sars-2, cioè Covid-19. Sul numero di luglio-agosto 2020 di «Foreign Affairs», il dire ore Gideon Rose ha ricordato che fin dal 2005 la prestigiosa rivista aveva pubblicato un saggio dal titolo Prepariamoci alla prossima pandemia, dopo i casi Sars-1 e Aviaria. Tornandoci nel 2007 (Impreparati per una pandemia) e nel 2017, dopo Ebola, Mers e Zika (Pronti per una pandemia globale? L’amministrazione Trump potrebbe essere tristemente impreparata). Non era impreparato solo Donald Trump, che ha negato la pandemia fino all’inverosimile, arrendendosi soltanto dinanzi alle prime migliaia di morti americani e, sopra u o, dinanzi al suo ricovero in ospedale all’inizio di o obre 2020. Né solo Boris Johnson, che vagheggiava di far infe are tu i per avere presto l’immunità di gregge e poi è finito lui stesso in terapia intensiva. Né il presidente brasiliano Jair Bolsonaro, convinto che tu o fosse riconducibile a una gripezinha, una «influenzina», salvo poi essere

g p p costre o a so oporsi a un tampone (positivo) perché aveva abbracciato l’ambasciatore americano. Per i politici, scrive il dire ore della Microbiologia clinica dell’ospedale Sacco di Milano, Maria Rita Gismondo, in Ombre allo specchio «investire per prevenire un evento che, molto probabilmente, avverrà oltre il proprio incarico è improdu ivo in termini di guadagno di voti. Diventa una spesa senza un impa o immediato». E ricorda che, tra il 2001 e il 2019, negli Stati Uniti sono state compiute qua ro esercitazioni su come affrontare pandemie del genere. L’ultima (o obre 2019) era dedicata esplicitamente a un nuovo Coronavirus. Ma niente di concreto è stato fa o per prevenire il disastro. Per scaricarsi delle responsabilità, i leader politici in tu o il mondo hanno dato la colpa della pandemia alla globalizzazione, all’eccesso di connessione. «Quello che ci sta uccidendo» scrive Gideon Rose «non è la connessione: è la connessione senza cooperazione. Medici e scienziati in tu o il mondo hanno agito diversamente: me endo insieme talenti e risorse hanno dimostrato che una vera comunità globale può funzionare bene. Per questo molti politici hanno cercato di me ergli la museruola.» Il dire ore di «Foreign Affairs» si riferisce sopra u o all’incredibile polemica negazionista di Trump con Anthony Fauci, il più celebre immunologo americano, peraltro suo consulente. Ma per trovare le «museruole» mortali dobbiamo andare in Cina.

Bugie cinesi e museruole mortali L’epicentro del sisma che ha sconvolto il mondo è nella ci à di Wuhan, 11 milioni di abitanti, capitale della provincia di Hubei, nella Cina sudorientale. Storia antichissima, testimoniata da pagode secolari che si alternano ai gra acieli degli ultimi decenni, da quando Deng Xiaoping decise di farne un avamposto della moderna Cina avveniristica e internazionale. Strategia potenziata dal nuovo imperatore Xi Jinping.

Wuhan, sorta alla confluenza del Fiume Azzurro e del fiume Han, ha un celebre wet market (le eralmente «mercato umido») dove, accanto al pesce, si vendono animali vivi – tra cui pipistrelli –, che vengono squartati davanti al cliente con un diluvio di sangue e interiora, senza la minima precauzione igienica. Secondo l’opinione prevalente, qui è nato il contagio, anche se l’ipotesi della scheggia impazzita fuoruscita da un prestigioso laboratorio (BS L-4 ) di Wuhan è stata rilanciata nell’autunno 2020 da Giorgio Palù, già presidente dei virologi italiani ed europei. Esaminando la sequenza dei geni del Covid, Palù e i suoi colleghi di un comitato spontaneo internazionale hanno scoperto «siti unici» che il virus del pipistrello non ha. Di qui i dubbi. La stessa Gismondo, nel libro citato, ricorda che «le ricerche effe uate escludono la volontaria manipolazione in merito all’origine del virus, ma sono non risolutive circa l’ipotesi della disseminazione involontaria o volontaria». Visto che di incidenti di laboratorio è piena la pubblicistica scientifica degli ultimi anni. Il laboratorio BS L-4 , inaugurato nel febbraio 2017 a Wuhan da Bernard Cazeneuve, primo ministro francese, è fru o di una sofisticata collaborazione scientifica e finanziaria tra i due paesi per lo studio dei virus. Shi Zhengli, la virologa che lo dirige, specializzatasi in Francia, è chiamata «la donna pipistrello» per i suoi studi su questo inquietante mammifero. Nel 2007 Shi pubblicò uno studio sui pipistrelli che hanno trasmesso all’uomo il virus della Sars nel 2003. Il salto di specie potrebbe essere accaduto anche stavolta. È la tesi, fra gli altri, dell’immunologo americano Fauci, mentre Trump – dopo aver abbandonato la teoria del complo o – parla di «terribile errore» da parte cinese (che ha rifiutato di aprire agli americani il laboratorio di Wuhan). Il 15 luglio 2020, sulla rivista «Science», Shi Zhengli ha smentito che il Covid-19 sia sfuggito dal suo istituto, invitando Trump a scusarsi per averlo sostenuto, mentre Pechino ha accusato gli Stati Uniti di aver introdo o dolosamente il virus nel corso dei Giochi mondiali militari del 2019.

Durante e dopo le «Olimpiadi» militari svoltesi a Wuhan dal 18 al 27 o obre 2019 alcuni atleti – anche italiani – avvertirono malesseri che successivamente avrebbero fa o pensare al Covid. Ma non c’è alcuna prova di una connessione. È molto probabile che già in novembre il virus circolasse in Cina e che da lì sia stato fin da allora esportato in alcuni paesi europei (Germania e Francia, innanzitu o) e negli Stati Uniti. A fine dicembre una pneumologa dell’ospedale di Wuhan, la do oressa Zhang Jixian, dispone l’isolamento delle prime persone infe e per una polmonite diversa dalle altre. Ma non c’è alcun allarme generale, nonostante l’esperienza della Sars abbia fa o predisporre un largo sistema di prevenzione e di controllo. Un’altra do oressa dello stesso ospedale, Ai Fen, dire ore del pronto soccorso, riscontra nuovi casi di un Coronavirus diverso dalla prima Sars. Si allarma, ha la certezza che i pazienti si siano infe ati al wet market locale, condivide esperienze e timori con alcuni colleghi, tra cui un oculista di 33 anni, Li Wenliang. «Se e casi confermati di Sars sono stati segnalati al mercato del pesce di Huanan, a Wuhan.» Nel pomeriggio del 30 dicembre 2019, Li Wenliang lancia l’allarme su WeChat, il popolarissimo social media proibito negli Stati Uniti da Trump nell’autunno 2020 perché controllato dal governo cinese. E infa i il 3 gennaio il giovane do ore viene convocato dalla polizia, che lo ammonisce per aver diffuso notizie false su Internet. Pochi giorni dopo in ospedale Li Wenliang s’infe a. Muore di Covid-19 il 7 febbraio 2020, lasciando la moglie incinta del secondo figlio. In aprile il governo cinese lo proclamerà «eroe e martire». Troppo tardi. Tra la fine di dicembre e i primissimi giorni di gennaio il regime di Pechino – di fronte al moltiplicarsi di casi – bonifica il mercato di Huanan, eliminando ogni traccia dell’accaduto e soffoca l’allarme assicurando che la situazione è so o controllo e, sopra u o, che il virus non si trasme e da uomo a uomo. I cinesi di Taiwan non si fidano: fin dai primi di gennaio misurano la temperatura ai passeggeri provenienti da Wuhan e si salvano dall’epidemia. L’Oms, sensibile al vento di Pechino, ancora il 12 gennaio sostiene che non ha evidenza la tesi del contagio possibile da uomo a uomo.

g p Xi Jinping viene informato di quanto sta avvenendo al più tardi il 7 gennaio 2020. Risulta dalla rivista ufficiale del comitato centrale del Partito comunista cinese che in quella data il capo supremo dà disposizioni su come affrontare l’emergenza. In quei giorni il centro di riferimento per le mala ie infe ive di Shanghai isola il virus Covid-19. La comunicazione pubblica avviene l’11 gennaio per opera del suo vicedire ore, Zhang Yong, ma il regime non apprezza e Zhang Yong viene messo so o inchiesta. Tu avia, a Pechino sanno che la situazione sta diventando incontrollabile e spediscono a Wuhan Zhong Nanshan, vecchio e prestigiosissimo pneumologo, l’uomo che aveva insegnato alla Cina, e in qualche modo anche al mondo, come affrontare la prima Sars. Tornando da un secondo viaggio nell’area colpita, il 20 gennaio l’autorevole professore annuncia in televisione che il pericolo del Covid-19 è stato ampiamente so ovalutato e ammonisce che una solida quarantena per gli infe i è assolutamente indispensabile. Poco prima di lui, lo stesso giorno compare in televisione Xi Jinping in persona ordinando di fare il possibile per contenere l’epidemia. Il velo è squarciato. Troppo tardi.

Coppia cinese infe a a Roma, stato d’emergenza in Italia Mentre il presidente della Cina annuncia al suo paese e al mondo la tragedia del Covid-19, una distinta coppia di coniugi che abita a Wuhan sta preparando i bagagli per un piacevole viaggio di gruppo in Italia. Il professor X è un ingegnere biochimico in pensione. Ha 66 anni e insegna alla South Central University for Nationalities di Wuhan. Sua moglie Y ha 65 anni ed è docente universitaria. X è un raffinato umanista e ha programmato con cura il suo itinerario. I coniugi XY arrivano all’aeroporto milanese di Malpensa alle 5.35 di giovedì 23 gennaio con un volo dell’Air China da Wuhan via Pechino. Danno subito un’impronta culturale al loro viaggio, che diventa individuale. Trascurando Milano, vanno a Verona, Parma, Firenze.

Il 27 gennaio il professore avverte i primi sintomi influenzali. La coppia prosegue per Roma dove prende alloggio al Grand Hotel Palatino, un qua ro stelle con duecento camere e tre sale da pranzo, a pochi minuti a piedi dal Colosseo. Il 28, anche la moglie si ammala. La coppia resta chiusa in camera fino al 29, quando il personale dell’albergo – temendo che non si tra i solo di influenza – chiama il 118. Alle 18.06 i coniugi XY salgono su un’ambulanza assistiti da personale che indossa tute prote ive e li accompagna all’Istituto nazionale per le mala ie infe ive, inaugurato nel 1936 e intitolato al grande biologo gesuita Lazzaro Spallanzani. «Era una coppia molto scrupolosa» mi dice Giuseppe Ippolito, dire ore scientifico dell’Istituto. «E noi eravamo preparati perché, fin dall’inizio di gennaio, avevamo stabilito i protocolli d’accoglienza.» Durante la degenza le cose si me ono male, il marito sta peggio della moglie, entrambi vengono ricoverati in terapia intensiva. Le cure con farmaci antivirali e antinfiammatori funzionano e, dopo 49 giorni, vengono trasferiti al San Filippo Neri per una riabilitazione di due mesi. Poco dopo la metà di giugno, il ritorno in patria e la gratitudine all’Italia manifestata con una donazione di 40.000 euro allo Spallanzani per aiutare la ricerca. Il 30 gennaio è una giornata di svolta per l’Italia: i tamponi eseguiti sui coniugi cinesi risultano positivi al Covid-19. «Li mandiamo immediatamente all’Istituto superiore di sanità per la validazione e il risultato viene confermato» mi racconta il ministro della Salute, Roberto Speranza. «La sera stessa vado a palazzo Chigi e porto l’ordinanza per bloccare i voli dalla Cina. Ricevo un diluvio di telefonate di protesta, mentre il console generale della Repubblica popolare cinese a Milano rilascia una dichiarazione molto dura. Suggerisco in ogni caso a Giuseppe Conte e ai capi delegazione dei partiti di maggioranza di decretare lo stato d’emergenza nazionale fin dall’indomani, 31 gennaio.» Speranza dimostra meno dei suoi 41 anni. Ha la faccia del bravo ragazzo meridionale, un po’ secchione, che ha vinto una borsa di studio per fare l’università al Nord. In realtà, come molti lucani (è nato a Potenza), si è laureato a Roma (scienze politiche alla Luiss, con un do orato di ricerca in storia dell’Europa mediterranea) e ha

p mantenuto solide radici nella sua regione. Fidanzamento a 16 anni con una qua ordicenne del luogo, poi sposata, due figli. Pane e politica da sempre nella Sinistra giovanile e nel Pd, fino alla scissione con Bersani del 2017 e la nascita di Articolo Uno. L’infortunio salviniano del Papeete lo ha portato inopinatamente nel 2019 a fare il ministro della Salute. Ruolo importante, ma abitualmente non di serie A, con l’emergenza Covid è diventato in assoluto il più strategico. E là dove si sono bruciate star come Trump, Johnson e Bolsonaro, Speranza se l’è cavata bene. Sempre giacca e crava a, come usa tra le persone educate del Sud, espressione un po’ triste (talvolta troppo), ha dato agli italiani l’impressione di essere in buone mani. Gli eccessi di restrizioni, con quel che in autunno è accaduto nel resto dell’Europa, si sono risolti a suo vantaggio, anche se alcune posizioni sono state giudicate troppo rigide. Speranza si è blindato per mesi nel suo ufficio di lungotevere Ripa, a Trastevere, dove si apriva il grande porto fluviale romano, concedendosi – lui amante della buona cucina – soltanto un pia o di pasta con melanzane, provola e gamberi mandatogli dall’Osteria La Gensola, che è a due passi dal ministero. «Dal 22 gennaio» mi racconta «ogni ma ina alle 9 abbiamo riunito la task force che era l’embrione del Comitato tecnico scientifico, anche se l’Organizzazione mondiale della sanità dichiarava il giorno dopo che non c’era un’emergenza globale, salvo cambiare avviso la se imana successiva. E nonostante ancora il 12 febbraio il Centro europeo per il controllo delle mala ie infe ive sostenesse una bassa possibilità di contagio da persona a persona.» Il 31 gennaio Giuseppe Ippolito (ospedale Spallanzani), citando il Centro europeo per il controllo delle mala ie infe ive, affermava: «Il rischio di ulteriori limitate trasmissioni da persona a persona all’interno dell’Unione europea è da basso a molto basso». Il 1° febbraio l’Oms registrava che l’Italia ospitava soltanto 2 (la coppia cinese) dei 20 casi apparsi in Europa. Sembrò pertanto eccessivo che la nostra fosse l’unica nazione europea a dichiarare lo stato d’emergenza. Gli effe i sull’immagine del paese furono negativi: eravamo gli untori, i soliti italiani indisciplinati che non sono

g p riusciti a scansare il pericolo e rischiano di me ere nei guai il resto del mondo. Poi andò diversamente.

Chi comanda nel Comitato tecnico scientifico Il 5 febbraio 2020 la task force del ministero della Salute viene sostituita da un Comitato tecnico scientifico (Cts) che, pur non avendo ovviamente poteri decisionali, ha condizionato per l’intero anno il comportamento degli italiani. Dopo qualche andirivieni, nella sua formazione definitiva il Comitato è composto da venti persone. Tredici sono figure istituzionali: i presidenti dell’Istituto superiore di sanità (il braccio operativo del ministero) e del Consiglio superiore di sanità (l’organismo di alta consulenza), il dire ore scientifico dello Spallanzani, i dire ori generali di se ori chiave legati alla salute pubblica, il rappresentante della Conferenza Stato-Regioni. Se e sono esperti: un rianimatore, un geriatra, uno pneumologo, un pediatra, uno specialista di medicina delle catastrofi, il capo della prevenzione delle mala ie infe ive del ministero della Salute e un rappresentante dell’Organizzazione mondiale della sanità. Manca un virologo, cioè lo scienziato che studia e isola i virus. Circostanza segnalata in televisione da Massimo Clementi, ordinario di virologia all’università Vita-Salute San Raffaele di Milano. E, in effe i, è una stravaganza, visto che il disastro è stato combinato da un virus. Coordinatore del Comitato è Agostino Miozzo, medico e, fino al 15 giugno 2020, vicedire ore della Protezione civile. Non esiste un presidente, ma, anche se l’interessato lo nega (e formalmente ha ragione), il ruolo è ricoperto di fa o da Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di sanità. Udinese di 60 anni, moglie e due figlie, appassionato di montagna, ordinario di Igiene nell’università ci adina, all’inizio del 2019 è diventato prima commissario e poi presidente dell’Iss in una situazione traumatica. Il suo predecessore Walter Ricciardi, ordinario di Igiene alla Ca olica di Roma, si era dimesso giudicando «antiscientifico» l’a eggiamento di alcune personalità del governo M5S-Lega, ma era rimasto

rappresentante italiano presso il board dell’Oms, per poi diventare consigliere del ministro Speranza. Il lavoro del Cts è stato condizionato da due decisioni prese dal governo senza il suo parere: la chiusura totale di scuole e università (4 marzo 2020) e il lockdown totale (9 marzo). Sentitosi scavalcato sul piano della severità, il Comitato ha scavalcato a sua volta il governo per eccesso di rigore. Il ministro Speranza non aspe ava altro che sentirsi sommerso da una gigantesca coperta di Linus e, da quel momento, ogni flebile obiezione, nelle aziende, sui media o altrove, è stata perdente. Con questa copertura, Giuseppe Conte ha potuto eme ere a raffica i famosi Dpcm (Decreti del presidente del Consiglio dei ministri) che hanno regolato per mesi la vita della nazione, suscitando qualche perplessità perché la natura dei provvedimenti esclude qualunque controllo parlamentare. Nel Comitato hanno fa o valere la propria posizione sopra u o Franco Locatelli, il bravo onco-ematologo dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma in qualità di presidente del Consiglio superiore di sanità, Giuseppe Ippolito, dire ore scientifico dello Spallanzani, e Sergio Iavicoli, sconosciuto al grande pubblico, ma potentissimo e inflessibile dire ore del dipartimento di Medicina, epidemiologia, igiene del lavoro e ambientale dell’Inail. È stato lui, per esempio, con i suoi calcoli, a limitare in autunno a 1000 persone il numero dei tifosi ammessi sugli spalti degli stadi, sconfiggendo chi (il viceministro della Salute Pierpaolo Sileri, tra gli altri) proponeva una quota proporzionale alla capienza.

Lo «studio segreto» rivelato in ritardo Nel suo ufficio all’Istituto superiore di sanità, Silvio Brusaferro conserva una maschera del «medico veneziano della peste». Per almeno tre secoli, dalla metà del Trecento alla metà del Seicento, la ci à fu periodicamente sconvolta dalle pestilenze, nonostante l’estrema cura nell’evitarle. La peste veniva da Oriente, con le navi dei commerci della Serenissima, e per proteggersi i veneziani inventarono la quarantena. Per quaranta giorni i marinai

provenienti dal Levante non potevano scendere dalla nave e a volte capitava che non scendessero più, essendosi contagiati gli uni con gli altri. Alcune isole della laguna furono trasformate in lazzare i. Quando qualcuno sfuggiva al controllo e la peste entrava in ci à, i medici indossavano un mantello nero di tela cerata, guanti, cappello e una maschera con un lungo naso a becco contenente fiori secchi di lavanda, timo, mirra, ambra, foglie di menta e di canfora, chiodi di garofano, ma anche aglio e spugne imbevute di aceto. Resistevano così al tremendo fetore esalato dagli appestati, che non venivano toccati se non con un bastone. La peste decimò la popolazione veneziana: 50.000 morti nel 1576 e addiri ura 150.000 in tu o il dogado nel 1630, al punto da spingere i veneziani alla costruzione di una magnifica chiesa barocca (la basilica di Santa Maria della Salute) quando finalmente l’epidemia cessò. Ma in tempi di diba iti su lockdown e sospensione delle a ività economiche, vale la pena ricordare che durante la pestilenza i commercianti veneziani non smisero nemmeno per un istante la loro a ività: decine di famiglie gentilizie preferirono la decimazione e addiri ura la propria estinzione alla perdita perpetua degli affari. Discorrendo amabilmente di epidemie e di quarantene, mentre visitiamo lo splendido museo intera ivo nella sede dell’Iss accolti dal saluto virtuale di Rita Levi Montalcini ed Enrico Fermi, il dialogo con Brusaferro scivola sui «segreti» che il Cts – e con esso il governo – avrebbero nascosto agli italiani. Facciamo un passo indietro. Il 22 gennaio il ministero della Salute commissiona alla Fondazione Bruno Kessler di Trento un’analisi sulle prospe ive di diffusione del Covid-19 dalla Cina. Il 12 febbraio lo studio è pronto e viene illustrato al Cts dal matematico Stefano Merler. I dati sono molto allarmanti: la previsione di morti per l’Italia varia da 35.000 a 60.000. I contagi previsti da 1 a 2 milioni, i casi gravi tra 200.000 e 400.000, il fabbisogno di le i in terapia intensiva tra 60.000 e 120.000. (In quel momento ne avevamo soltanto poco più di 5000, passati a 9000 nel giro di un paio di mesi. I posti le o Covid nei reparti di mala ie infe ive e di pneumologia sono saliti da 31.092 a 37.617. L’unico

p g dato dello studio rivelatosi credibile è quello sul numero dei morti, arrivati a fine o obre 2020 a oltre 36.000.) Il 19 febbraio i membri del Cts approvano un piano d’intervento e decidono di mantenerlo segreto. Il giorno successivo il piano viene illustrato al ministro Speranza da Alberto Zoli, dire ore dell’Azienda regionale emergenza urgenza della Regione Lombardia, designato a far parte del Cts dal presidente della Conferenza Stato-Regioni, Stefano Bonaccini. Il 20 aprile il «Corriere della Sera» pubblica un’inchiesta in cui accusa il governo di ritardi nella gestione dell’emergenza. Il 21 aprile Andrea Urbani, dire ore generale della programmazione sanitaria del ministero della Salute, in un’intervista a Monica Guerzoni per il «Corriere» rivela che un piano era pronto «già dal 20 gennaio», ma era stato secretato «per non spaventare la popolazione e lavorare per contenere il contagio». Il piano, come abbiamo già visto nel nono capitolo, viene «desecretato» soltanto in agosto, dopo il ricorso al Tar del Lazio da parte della Fondazione Einaudi. È confermata la data del 12 febbraio come quella in cui il Cts viene in possesso dello studio della Fondazione Kessler, e il 5 se embre Ma eo Salvini scrive al «Corriere» chiedendo perché il documento non venne diffuso. Il ministro Speranza gli risponde il giorno dopo, confermando le ragioni di prudenza esposte da Urbani, ma aggiunge: «Lo studio del Cts mi è stato presentato da un delegato delle regioni che è un esponente della principale regione del nostro paese in termini di abitanti che, come è noto, non appartiene alle forze che sostengono il nostro governo». Come a dire: se ce l’aveva lui, non poteva non esserne a conoscenza anche il presidente della Regione Lombardia, A ilio Fontana. Il riferimento è a Zoli, che giustamente s’infuria: «Il mio ruolo all’interno del Cts è di rappresentante di tu e le regioni. Mai avrei potuto rivelare alla Lombardia la presenza di un documento su cui mi è stata imposta riservatezza assoluta». Dunque? «Mi sento di definire Zoli un vero eroe» mi dice Brusaferro. «Una persona eccezionale, con un altissimo senso del dovere.»

Durante il nostro incontro chiedo, perciò, a Speranza se non sia stato grave lasciarsi trascinare nella polemica politica con la Regione Lombardia accusando un professionista di prim’ordine di aver violato il segreto. Lui schiva il colpo e ritra a con eleganza: «Io non ho mai accusato Zoli. È una persona molto seria e ha operato bene come capo dell’emergenza in Regione Lombardia. Non voglio entrare in questa polemica». Speranza prende le distanze anche dal piano. «Un piano diventa tale se qualcuno lo approva» precisa. «Questo era soltanto uno studio. Il governo non ha secretato nulla. Sono gli stessi estensori ad aver giudicato opportuno tenerlo riservato, perché gli scenari erano molto diversi. Uno di questi, per esempio, prevedeva che avremmo potuto avere 1000 casi entro 200 giorni, e invece sono arrivati quasi subito. Il lavoro di studio è proseguito analizzando diverse possibilità, fino alla bozza definitiva del 4 marzo.» «È vero che le ipotesi peggiori parlavano di 600-800.000 morti,» chiarisce Brusaferro «ma erano basate sulla velocità di diffusione dell’epidemia se non ci fosse stato alcun intervento per fermarla. Gli interventi ci sono stati e la curva si è modificata.»

Borrelli disse: «Io non indosso la mascherina» Il presidente dell’Iss ricorda venerdì 21 febbraio come il momento peggiore. Stava partendo per la se imana bianca sulle amate montagne del Nordest, quando fu chiamato a Milano dopo il caso Codogno e avrebbe rimesso piede a casa soltanto a fine aprile. «Istituendo la zona rossa» mi racconta «ci rendemmo conto di essere il primo paese democratico a decidere una restrizione molto forte della libertà di movimento delle persone.» E rivendica che «la situazione non ci è mai scappata di mano per la grande risposta di un Servizio sanitario nazionale che ci dava garanzie e per la convinta partecipazione dei sindaci e della popolazione». Ma, su mia richiesta, conferma che il Cts dapprima era contrario a me ere so o chiave l’Italia intera: «All’inizio valutammo la possibilità di garantire una maggiore circolazione, chiudendo soltanto le zone

più colpite. Si è deciso alla fine di ado are una misura più radicale che, a conti fa i, si è rivelata positiva». «È vero che il 7 marzo il Cts ci aveva chiesto di chiudere soltanto una parte d’Italia» mi conferma Speranza. «Io ho assunto subito una posizione più dura. Volevo evitare che il virus dilagasse nel Sud. Le immagini della no e sul 9 marzo che annunciavano un’ondata gigantesca di trasferimenti verso il Mezzogiorno ci hanno convinto a chiudere. Senza quello shock, forse avremmo chiuso più tardi, ma a ripensarci è stato un bene aver agito così.» Come abbiamo visto più sopra, questo scavalcamento da parte del governo ha portato all’irrigidimento a oltranza dei tecnici. Giro al ministro della Salute il caso, illustrato nel nono capitolo, di Pierino Persico e dei tanti imprenditori che avevano organizzato le loro aziende per lavorare in sicurezza e che sono rimasti bloccati. «Avevamo concordato con sindacati e Confindustria la possibilità di lasciare aperte alcune aziende e abbiamo autorizzato i prefe i a far operare i se ori strategici» mi risponde. In realtà, hanno avuto questo permesso soltanto il se ore agroalimentare e quelli coinvolti nelle forniture di emergenza. Avrebbero potuto operare, invece, sia il singolo artigiano senza conta i con l’esterno, sia le imprese stru urate – come l’azienda che ha costruito Luna Rossa – dopo aver concordato con il sindacato le misure di sicurezza. Per Speranza il momento più difficile è arrivato alla metà di marzo. «Avevamo ado ato misure durissime e non se ne vedevano gli effe i» mi dice. «Abbiamo temuto che la pressione sul Servizio sanitario nazionale si rivelasse troppo forte. Avevamo in tu a Italia 5179 posti in terapia intensiva e 4060 ricoverati nei le i per Covid. Con il decreto “Rilancio” abbiamo disposto un incremento del 115 per cento rispe o alla dotazione iniziale: 11.000 posti fissi e 300 mobili.» Nonostante il 31 gennaio fosse sca ato lo stato d’emergenza e il 12 febbraio lo studio della Fondazione Kessler facesse previsioni apocali iche, tre giorni dopo, sabato 15, partiva dall’area militare dell’aeroporto di Brindisi un carico di 18 tonnellate di mascherine e altri dispositivi sanitari dire i in Cina. In verità, 16 tonnellate erano state raccolte dall’ambasciata cinese in Italia e soltanto 2 erano un

dono del nostro ministero degli Esteri. Ma quel preziosissimo materiale presente in Italia ci sarebbe stato di straordinaria utilità poco tempo dopo. «In quei giorni il Centro europeo per il controllo delle mala ie infe ive sosteneva che le probabilità di contagio erano basse» mi spiega Speranza. «Un nostro partner come la Cina era in difficoltà e ci è parso giusto aiutarlo. La nostra solidarietà ci è stata ricambiata in misura cento volte maggiore.» «Cento volte» è un’immagine romantica. Ma è vero che la Cina ci ha aiutato, facendo arrivare a metà marzo 9 medici specializzati in Covid-19 e 31 tonnellate di materiali sanitari. Il discorso su mascherine e materiali sanitari ci porta alle due persone che hanno guidato la nave nella tempesta: Angelo Borrelli e Domenico Arcuri (del quale parleremo nel prossimo capitolo). Angelo Borrelli, 56 anni, sposato senza figli, è dal 2017 il (quinto) capo della Protezione civile italiana, costituita nel 1974 dall’allora so osegretario agli Interni Giuseppe Zamberle i e diventata fortissima nel decennio (2001-2010) di Guido Bertolaso (al suo secondo incarico dopo quello del 1996-1997), per poi essere in parte destru urata per scarsa, colpevole disa enzione di ministri e governi. Borrelli è do ore commercialista e revisore dei conti. Si è occupato, perciò, a lungo dei bilanci della Protezione civile, pur essendo stato in prima linea in tu i i terremoti che, purtroppo, in Italia non sono mancati. Nel suo libro Maria Rita Gismondo sostiene che al posto di Borrelli («uomo serio e preparato») sarebbe dovuta andare una figura di spicco nell’ambito delle bioemergenze e che il governo scelse una persona nota al pubblico per il suo intervento nelle catastrofi naturali quando non immaginava la portata della tragedia Covid-19. Speranza difende quella scelta. «Quando il 1° febbraio chiamammo Borrelli,» mi dice Speranza «ci fu un lungo confronto tra lui e Giuseppe Conte. Alla fine fu trovato un punto di equilibrio. Borrelli garantiva la capacità organizzativa e logistica con la Protezione civile a iva in tu e le regioni, il Comitato lo avrebbe affiancato garantendo la copertura scientifica.» (Ma alla fine, per gli approvvigionamenti, fu necessario ricorrere ad Arcuri.)

Così, per due mesi, ogni sera alle 18 Borrelli compariva in dire a televisiva per leggere il bolle ino di guerra affiancato da un membro del Cts. Si è de o che l’annuncio serale giungeva dopo che l’ansia aveva logorato le persone per l’intera giornata. (In Germania i dati venivano comunicati al ma ino, e nessun paese, fino alla crisi autunnale, dava il bolle ino giornaliero.) L’ultima conferenza stampa avvenne il 30 aprile. Allora i casi giornalieri erano so o i 2000 (quella cifra sarebbe stata largamente superata in autunno), ma i morti e i ricoverati in terapia intensiva erano dieci volte maggiori di quelli che avremmo avuto sei mesi dopo. Il 4 aprile Borrelli dichiara in televisione: «Io non uso la mascherina, ma rispe o le distanze». Una manna per i negazionisti, anche se la tesi sarebbe tecnicamente giusta. «La forte raccomandazione per usare le mascherine si è consolidata con il tempo» lo giustifica Speranza. «Nessuno aveva mai incontrato questo virus, non c’era un manuale d’istruzioni né per le scelte politiche, né per gli stessi tecnici. C’era un diba ito tra scienziati.» E infa i il 6 aprile l’Organizzazione mondiale della sanità la giudica obbligatoria soltanto per malati e sanitari, e il 7 aprile anche la virologa Ilaria Capua confessa di non indossarla.

XII

La guerra di trincea contro un virus misterioso

Arcuri: «Abbiamo vinto la guerra contro gli speculatori e anche contro i “liberisti da divano”» Sin dalla fine di febbraio il governo capì che ci sarebbe stato un gran bisogno di mascherine. Provò a cercarle a raverso i canali ordinari come la Consip, la gigantesca centrale acquisti per lo Stato. Ma capì anche che, «seguendo la strada della burocrazia ordinaria, saremmo morti tu i», come disse Domenico Arcuri. Ancora una volta (e giustamente) si fece ricorso alla corsia preferenziale delle emergenze, e il 17 marzo Arcuri fu nominato commissario straordinario per l’a uazione delle misure anti-Covid: mascherine e respiratori, innanzitu o. La ragione di fondo è questa: la Protezione civile italiana è tra le migliori del mondo, se non la migliore, ma è a rezzata per gestire eventi drammatici, come un terremoto o un’alluvione, che si esauriscono in un giorno, pur lasciando conseguenze devastanti. Sono «tragedie statiche», come le chiama Arcuri. Il Covid-19, invece, ha provocato un flusso continuo e imprevedibile di emergenze. Perciò è stato necessario un cambio di passo. «Il 16 ma ina avevo un appuntamento alle 8.30 in piazza del Popolo. Abito in centro e decisi di andare a piedi» ricorda Arcuri. «Durante il tragi o mi chiamò il presidente del Consiglio: “Abbiamo bisogno di un commissario che si occupi primariamente, ma non esclusivamente, di approvvigionamenti”. Acce ai e dissi che avrei svolto il compito senza compenso. Da quel momento sino a fine luglio sono vissuto blindato nella sede della Protezione civile a via Vitorchiano, sulla Flaminia.»

Domenico Arcuri, 57 anni, calabrese, una figlia diciannovenne avuta dalla giornalista televisiva Myrta Merlino, era per il governo una figura rassicurante. I suoi concorrenti erano Gianni De Gennaro, già capo della polizia e presidente di Leonardo Spa, e Guido Bertolaso, uomo simbolo della Protezione civile ai tempi di Berlusconi e di Prodi. Nomi ingombranti, per Angelo Borrelli e, forse, anche per Giuseppe Conte. Arcuri è un bravo manager e, pur non rifiutando i rifle ori, è riuscito a ritagliarsi un profilo istituzionale che, dal 2007, gli ha consentito di convivere con se e presidenti del Consiglio e o o governi come amministratore delegato di Invitalia, l’Agenzia per lo sviluppo del paese. Allievo di E ore Bernabei («Ogni due se imane lui mi insegnava il passato e io gli raccontavo il presente»), esperienze all’Iri e in società di consulenza private, portato a Sviluppo Italia (vecchio nome di Invitalia) da Massimo D’Alema (lui dice che fu Prodi a chiamarlo), affidò le relazioni istituzionali a Stefano Andreani, ombra di Giulio Andreo i e navigatore navigatissimo. Ha curato la vendita di Termini Imerese alla Blutec e dell’Ilva ad ArcelorMi al, ed era pronto al salto ai vertici di Cassa depositi e prestiti o di Leonardo Spa, quando il presidente del Consiglio gli ha chiesto di occuparsi di respiratori e mascherine. Ma dall’autunno 2020, tornato nella sede di Invitalia dove ha riservato due piani al commissariato Covid, si è dedicato anche alla difficile tra ativa per l’Ilva di Taranto. «Le prime se imane furono terribili» mi dice Arcuri. «L’Italia non produceva niente. Nessuna mascherina, e pochi respiratori da una sola azienda. Ci trovammo in un’inaspe ata guerra commerciale con tu i i governi del mondo, comba uta con le regole della guerra: arrivare primi e con i soldi in mano. Il nostro governo ha deciso di non pagare acconti. Alcune regioni lo hanno fa o e si sono trovate talvolta senza mascherine o con mascherine non certificate.» Ci furono bru e sorprese. «Avevamo a disposizione aerei della Difesa per andare a prendere mascherine dovunque e abbiamo scoperto, qualche no e, che non c’erano le mascherine e nemmeno l’aereo. Oppure ci è capitato di prenotare no etempo una fornitura

pp p p p di ventilatori e sentirci dire, al momento della consegna, che l’avevano ceduta a un altro governo il cui emissario si era presentato con una valigia piena di soldi.» È successo di tu o: dai tentativi di portare sul mercato italiano mascherine prive di certificazione a donazioni pericolose, come quella di un privato che ha comprato in Cina 620.000 pezzi destinati ai medici di base e bloccati in tempo da Filippo Anelli, presidente dell’Ordine dei medici, perché utili soltanto a non respirare polvere. «In ogni caso,» prosegue il commissario «siamo riusciti a stipulare accordi con i governi cinese e vietnamita per avere mascherine senza pagare somme in acconto e con il governo tedesco per i ventilatori. Poi, cosa avvenuta in nessun altro paese, in pochi giorni con il decreto “Cura Italia” abbiamo messo 133 imprese italiane in condizione di produrre mascherine fino all’autosufficienza. Due aziende, l’Ima di Bologna e Fameccanica di Chieti, hanno costruito 51 macchine in grado di fabbricare 30 milioni di mascherine al giorno. Oggi siamo in condizione di soddisfare completamente il fabbisogno nazionale e di aiutare altri paesi in difficoltà.» L’orgoglio di Arcuri, in questo campo, è di aver stabilito il prezzo fisso per le mascherine. «Due sole volte era avvenuto nella storia sanitaria italiana: per il chinino e la penicillina. Abbiamo vinto la guerra contro gli speculatori e anche contro i “liberisti da divano”, i campioni del liberismo snob centrifugato. Non era acce abile che venisse venduto a 5 euro un prodo o che costa 12 centesimi.» Nel mese di marzo (l’abbiamo visto nelle pagine precedenti) le mascherine non c’erano. Il 12 marzo la guardia di finanza verificò che a Campobasso una commerciante aveva comprato mascherine chirurgiche a 0,85 centesimi e le rivendeva a 13 euro, mentre altrove le più sofisticate FFP3 venivano proposte a 60 euro. Anche nel mese di aprile si assiste e a fenomeni speculativi, tanto più gravi perché avvenuti in una situazione drammatica, mentre quasi tu e le farmacie d’Italia esponevano all’ingresso il cartello «Mascherine non disponibili».

«Una domenica di fine aprile» mi racconta Arcuri «entrai in una tabaccheria del centro e vidi sul banco mascherine chirurgiche al prezzo di 5,99 euro l’una. Il prezzo di produzione è di 12 centesimi. Aggiungiamo l’ammortamento delle macchine per produrle, una ventina di centesimi di margine per le aziende, da 2 a 4 centesimi per le farmacie. E si arriva ai 50 centesimi del prezzo a uale al pubblico.» Ancora ai primi di maggio, un’indagine a campione di Altroconsumo verificò che soltanto in una farmacia su qua ro erano disponibili mascherine al prezzo corre o. Il rapporto del commissario con le farmacie all’inizio fu confli uale. «Riunii i rappresentanti di Federfarma e delle altre associazioni dei titolari di farmacie e dissi: dovete aiutarmi a vendere le mascherine a 50 centesimi per calmierare il mercato. “Bene,” mi risposero “ma noi le abbiamo comprate a un prezzo più alto.” Quanto? “80 centesimi.” D’accordo, dissi, vi rimborso il maggior costo. Quante mascherine avete in magazzino? “18 milioni.” E invece erano 3. La verità è che non riuscivano a controllare i distributori. Accordai un margine di 12 centesimi e, poco dopo, l’accordo funzionò.» In autunno, ogni giorno sono stati distribuiti 11 milioni di mascherine in quasi 19.000 istituti scolastici. «In una scuola della Campania» mi racconta il commissario «hanno rubato mascherine e gel disinfe ante. La ma ina dopo, alle 7.30, abbiamo fornito tu o di nuovo. Se perme e, siamo i soli al mondo a fare queste cose. Lo Sda di Poste italiane ha fa o un lavoro eccellente.»

La corsa per i banchi scolastici Arcuri ha curato anche l’approvvigionamento dei ventilatori per le rianimazioni. Si è de o che nelle sue mani c’è stata la vita e la morte delle persone. «Ogni sera alle 19 veniva una funzionaria del ministero della Salute con un foglio. In una colonna erano elencate le regioni, nelle altre il numero dei ricoverati in terapia intensiva, dei morti e dei ventilatori già distribuiti. Ne restava una in bianco con i ventilatori da distribuire quel giorno.»

E lei come si regolava? «Seguivo la curva dei contagi e, se potevo, anticipavo i contagi futuri mandando ventilatori anche nelle regioni del Sud. Siamo stati capaci di non inseguire il virus, ma di riconoscerlo e di interce arlo appena aveva colpito le persone.» Ricordo ad Arcuri i forti contrasti che ha avuto in qualche momento con il Comitato tecnico scientifico, tanto che alcuni suoi membri hanno minacciato le dimissioni. «Il tempo è stata la variabile critica del nostro lavoro. Noi dovevamo correre forsennatamente, loro non erano abituati. Così, a proposito della certificazione dei materiali, a un certo punto ho de o: se voi non rispondete subito alle domande che vi faccio, sarete responsabili del ritardo. “Se le cose stanno così, ci dime iamo” hanno risposto alcuni. Ma, poi, tu o è rientrato rapidamente.» Il momento più difficile? «È stato una sera di aprile, quando due dei miei collaboratori sono stati colpiti dal virus. Ricordo di avergli lasciato sulle scale di casa due saturimetri, per misurare la quantità di ossigeno nel sangue. Ho pensato: se ci infe iamo tu i, è finita. È andata bene.» Chiedo ad Arcuri come gli sia saltato in mente di prome ere 2 milioni 400.000 banchi per l’8 se embre 2020, quando poi non sarebbero stati disponibili prima del 31 o obre. «Siamo stati troppo o imisti» risponde. «In Italia si producono 200.000 banchi all’anno. A noi ne servivano dodici volte tanto. E, infa i, la prima gara (consegna a metà se embre) è andata deserta per i tempi troppo stre i. Ho cercato di non utilizzare quasi mai i poteri commissariali per l’aggiudicazione dire a. Anche per i banchi abbiamo fa o una gara accelerata: una commissione di soli membri esterni al commissariato, tranne uno, verifica le condizioni di prezzo e le cara eristiche della fornitura e, se le valuta adeguate, aggiudica. Poi passa le carte al responsabile unico del procedimento, che controlla i requisiti del fornitore.» Com’è possibile che sia stata invitata una di a come Nexus Made Srl, che ha promesso di fornire in tempo utile 180.000 banchi con un solo dipendente in cassa integrazione? «Nexus ha mostrato i banchi alla commissione ed erano idonei. Ma il responsabile del

procedimento ha visto che l’azienda non aveva la capacità di onorare gli impegni e il contra o non ha avuto corso.» Come si sono comportate le regioni nelle richieste? «In modo molto variabile», e Arcuri sorride. «La Valle d’Aosta ha chiesto banchi nuovi per l’8 per cento della popolazione scolastica. Il Veneto, per il 14 per cento. L’Emilia Romagna, per il 15. Il Lazio, per il 52. La Campania, per il 61. La Sicilia, per il 69. È chiaro che queste ultime regioni ne approfi ano per rifarsi le scuole…» Il commissario mi confida di non essersi mai sentito solo. «Ho avuto un sostegno fortissimo da parte del governo, ho stre o amicizie solide con persone che non conoscevo, come accade soltanto in guerra, e devo dare a o agli italiani di essersi comportati magnificamente. L’esercito ci è stato di grande aiuto. I primi banchi sono stati consegnati a Nembro, Alzano, Codogno, Vo’, i centri più colpiti dal Covid. Quando i camion non riuscivano a entrare in strade troppo stre e, i banchi sono stati trasferiti su mezzi più piccoli dell’esercito. Gli uomini venuti a marzo a caricare bare tornavano per consegnare i simboli della rinascita.» Nel mese di o obre la polemica sui banchi è stata superata da quella, furiosa, sulle modalità d’insegnamento e sulla gestione delle classi. Negli asili e alle elementari è bastato un raffreddore senza febbre per tenere i bambini a casa. Il contagio di un genitore ha fa o me ere in quarantena la classe intera. C’è stato uno scontro furibondo tra il ministro dell’Istruzione, Lucia Azzolina, che ha rivendicato la necessità dell’insegnamento «in presenza», e alcuni presidenti di regione che hanno disposto l’insegnamento a distanza per le classi superiori o chiesto la chiusura di tu e le scuole, pur sapendo di escludere centinaia di migliaia di ragazzi che, sopra u o al Sud, non hanno un computer e/o una rete Internet affidabile. Unita al gioco di scacchi dei «coprifuoco» regionali, comuni a molti paesi europei, insieme all’ogge iva impossibilità di previsioni sullo sviluppo dell’epidemia, questa confusione ha prodo o una fatale caduta di consensi per il governo, accusato dai sindaci di non reggere sempre con mano ferma le briglie della crisi. La ripresa autunnale dei contagi ha fa o temere che l’epicentro lombardo di marzo-aprile si trasferisse in Campania, dove una certa

p p dose di indisciplina cara eriale ha fa o assumere al governatore Vincenzo De Luca (confermato alle elezioni regionali del 20-21 se embre 2020, grazie all’emergenza Covid, con quasi il 70 per cento dei voti) provvedimenti da «lanciafiamme». La Campania è una regione con un’enorme densità di popolazione, sopra u o in alcune aree, e con un sistema sanitario assai più debole di quello lombardo. La recrudescenza del virus ha indo o a portare a 200.000 il numero dei tamponi giornalieri in tu a Italia, di qui l’invito rivolto agli italiani di scaricare l’applicazione Immuni per tracciare i conta i. Confesso ad Arcuri di condividere la freddezza dei miei compatrioti su Immuni. La burocrazia delle Asl ha sequestrato per se imane, e talvolta per mesi, legioni di asintomatici. Fino a quando il 21 o obre, in un’intervista a Rai News 24, Luca Foresti, che ha creato l’applicazione Immuni, ne ha spiegato l’inefficienza con un errore di caricamento del sistema. Soltanto l’accorciamento della quarantena e l’immediatezza dei test possono convincere la gente a collaborare. Arcuri concorda e comincia un’altra corsa: ai test salivari affidabili. Il Veneto, come sempre, guida il gruppo. Verso la fine di o obre, quando i contagi erano ripresi in maniera massiccia, si è accesa una polemica sui ritardi nella predisposizione di nuovi le i in terapia intensiva. Il commissario Arcuri è stato accusato di aver ricevuto i proge i dalle regioni in luglio e di aver dato le deleghe per i lavori soltanto il 9 o obre. Abbiamo chiesto una spiegazione al ministero della Salute e la risposta è stata questa: «Anticipando i termini previsti dalla norma, il ministero ha approvato entro il 17 luglio i piani delle regioni. Poi questi sono stati trasmessi alla Corte dei conti, dove sono stati esaminati per alcune se imane. Poi il commissario Arcuri ha dovuto confrontarsi sui piani con ciascuna regione, al fine di costituire i capitolati di gara e quindi decidere con esse se lasciare la delega come sogge o esecutore al presidente di regione oppure tenerla lui stesso. Alcune regioni, come Veneto ed Emilia Romagna, hanno deciso di prendere la delega e diventare perciò sogge i a uatori. Altre hanno preferito lasciare lo stesso Arcuri sogge o a uatore».

Un girone burocratico infernale. Chiedo ad Arcuri il perché di questo garbuglio se, con i suoi poteri commissariali, avrebbe potuto decidere da solo in pochi giorni. «Questa procedura, purtroppo, è stata prevista dal decreto “Rilancio”» risponde. «Ma le difficoltà maggiori sono venute dalla durata media dei piani regionali. Era di 27 mesi, cioè 2 anni e 3 mesi. Tre regioni – curiosamente del Mezzogiorno – hanno presentato un piano di 6 mesi. Una ha presentato un piano di 87 mesi.» Evidentemente pensava di essere a lungo al sicuro. Com’è finita? «È finita che ho rifa o i piani da capo e, entro qualche mese, arriverà tu o.» Riepilogando: all’inizio della pandemia, come abbiamo già visto, i posti in terapia intensiva erano 5179. Ne abbiamo a ivati 3109. Ma 1600 di questi non erano «scomparsi» nel passaggio tra Stato e regioni? «Stanno finalmente arrivando. Ne ho pronti intanto altri 1300, per un totale di 9588. Tenga conto che, al 23 o obre, ne erano occupati 1049 in tu a Italia.» Il ministero mi ha parlato di 10.600 altri posti in terapia subintensiva, molti dei quali possono essere convertiti in intensiva. «Infa i,» precisa Arcuri «il problema non è nei reparti di emergenza, ma nei le i ordinari. Il problema è che i medici mandano in ospedale troppe persone che hanno soltanto la febbre a 38.»

Galli, l’intransigente sempre sullo schermo Dalla fine di febbraio 2020 sino all’autunno e oltre, gli italiani hanno smesso di seguire la vita e le gesta di calciatori e personaggi dello spe acolo per me ersi in poltrona e scegliere per quale squadra di scienziati tifare: rigoristi o aperturisti? La maglia rosa del presenzialismo televisivo tocca a Massimo Galli, milanese di 69 anni, sposato, una figlia. Il 30 se embre 2020 ha lasciato l’incarico di dire ore del dipartimento di Scienze biomediche e cliniche presso l’ospedale Luigi Sacco di Milano, uno dei 33 dipartimenti dell’Università Statale di Milano al quale fanno capo 70 docenti, ma

è rimasto ordinario della materia perinde ac cadaver, come ama dire lui stesso. Secondo l’Agcom, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, nei mesi di marzo e aprile 2020 Galli è stato al secondo posto come «tempo di parola» tra le figure considerate «istituzionali», alle spalle del presidente del Consiglio: 14 ore e 27 minuti. Con quasi 2 ore di presenza in meno, lo segue Fabrizio Pregliasco, che lavora come virologo nel dipartimento di Scienze biomediche per la salute della stessa università. Nella top ten troviamo subito dopo altri tre medici: Giovanni Rezza, allora all’Istituto superiore di sanità; Roberto Cauda, infe ivologo del Gemelli; Walter Ricciardi, rappresentante italiano presso il board dell’Oms e consigliere del ministro Speranza. Su Raidue, Roberto Burioni, virologo al San Raffaele di Milano, legato da un contra o alla trasmissione di Fabio Fazio «Che tempo che fa», è al secondo posto, dopo Conte e prima del ministro della Salute, Speranza. Quando ci sentiamo in una giornata d’o obre, Galli mi dice: «Oggi ho avuto se e proposte di interventi televisivi. Ne farò uno, due al massimo. Sto diradando il più possibile. Durante il lockdown eravamo un punto di riferimento per rassicurare la gente; in autunno, con la nuova fase acuta, facciamo la stessa cosa. I politici da rotocalco chiedono dove trovo il tempo di lavorare. Allora stia a sentire: il 22 novembre 2019 ho avuto una bru a embolia polmonare, sono rientrato in ospedale l’11 gennaio e, tre o qua ro giorni dopo, sono arrivate le prime notizie su questo virus. E a proposito di lavoro, in questo periodo il mio gruppo ha curato 25 pubblicazioni scientifiche, oltre ad aver fa o giorno e no e a ività assistenziale. Posso assicurarle che non sono abituato a firmare pubblicazioni di cui non mi sono occupato. E il mio compito principale era di organizzare il lavoro del dipartimento di cui fino a se embre sono stato responsabile». A proposito di lavoro comune, all’inizio di o obre la rivista «Science» ha associato il suo nome all’isolamento di due potenti anticorpi in grado di proteggere i criceti dal Covid-19. «Il merito» precisa Galli «è sopra u o del mio collaboratore Agostino Riva, che ha una forte vocazione per la ricerca e ha lavorato anche con il

p gruppo di Tony Fauci. Da tempo si stava occupando di anticorpi neutralizzanti dell’Hiv. Non avendo da soli le forze per portare avanti il proge o, abbiamo iniziato una collaborazione con Alejandra Tortorici dell’università di Sea le. L’obie ivo è di isolare anticorpi in grado di bloccare le parti del virus che si a accano alle cellule umane. Insomma, stiamo cercando di sba ere la porta in faccia al Covid-19. Se, andando oltre gli esperimenti sui criceti, riuscissimo a costruire un farmaco, avremmo uno strumento di lo a più potente ed efficace del plasma preso dai convalescenti. Insomma, abbiamo messo il nostro piccolo ma oncino per la costruzione di un grande edificio.» Gli chiedo come spiega l’impreparazione in cui si è trovato il mondo, nonostante i tanti avvertimenti degli anni scorsi. «L’a enzione alle possibili pandemie ha riguardato sempre un gruppo ristre o di adde i ai lavori, che non hanno avuto udienza nelle stanze che contano perché tu i si auguravano che queste cose non capitassero mai. Vede, quando noi eravamo giovani, nel 1960, il mondo aveva 3 miliardi di abitanti. Adesso siamo 7 miliardi e mezzo: un aumento epocale so o il profilo storico. Miliardi di persone ogni anno prendono l’aereo. La ciliegina sulla torta è la globalizzazione, associata alla sovrappopolazione tipica di alcune aree. Se si aggiunge lo stupro della natura, che continua, non possiamo meravigliarci degli spillover, dei “salti di specie”. Di virus che ci saltano addosso dal mondo animale ne abbiamo quanti ne vogliamo e ne abbiamo già visti in quantità spaventose. Eppure, alle voci clamanti nel deserto si è risposto: sì, certo, ma intanto occupiamoci d’altro.» Galli è feroce con i negazionisti e con chiunque so ovaluti il pericolo del Covid-19. A cominciare da Trump e «dagli a eggiamenti sconsiderati nei comportamenti individuali. La madre degli sprovveduti è molto fertile. La somma delle buone intenzioni autoreferenziali (apriamo i palazze i dello sport e così via) provoca il disastro». Il professore ricorda la peste veneziana del 1576, quella che portò via Tiziano. «Quando si verificò una ripresa della mala ia in primavera [la peste era scoppiata a Venezia nell’estate del 1575 e fece la

p p pp f sua comparsa a Padova nel maggio 1576], due illustri professori dell’università di Padova a suon di zecchini giurarono che non si tra ava di peste. Un’ordinanza della Repubblica stabiliva che una persona con sintomi dovesse andare a registrarsi in parrocchia dove qualcuno avrebbe verificato la reale consistenza del malessere. Poi a casa, aspe ando l’arrivo del medico. Di casa in casa, la peste si diffuse e ci furono 50.000 morti. Certe volte la cecità è strumentale…» Galli rappresenta l’ala più intransigente degli scienziati. «Per età e non avendo problemi di carriera, ho un’indipendenza che mi perme e di rappresentare anche le opinioni della parte ultramaggioritaria dei miei colleghi che la pensa allo stesso modo.» Galli è tra quelli che dicono che il virus, con il passare dei mesi, non è affa o diventato più buono. «I virus hanno la capacità di nascondersi mantenendo una violenza inalterata. Salgono sul tram e continuano la corsa fino al capolinea. A differenza dell’amore, per esempio, il virus erpetico dura davvero tu a la vita. Il microba erio della tubercolosi ci accompagna da 40.000 anni e ha mantenuto la capacità di trasme ere la mala ia risvegliandosi dopo essersi nascosto a lungo in cellule in cui ha fa o il nido. I virus dell’influenza seguono una strategia diversa. Hanno un grandissimo parco giochi tra gli uccelli acquatici, per esempio le anatre. Il loro sistema è come un domino a o o tessere. O o geni che possono operare in modo multiforme oppure scambiarsi le tessere, riuscendo a infe are l’uomo utilizzando come mediatori dei mammiferi, per esempio i maiali. Nell’influenza del 2009 il riassortimento di qua ro virus diversi produsse un virus pandemico nei suini. Noi esperti dicemmo: ci aspe avamo l’anatra e ci hanno servito il maiale.» E il Covid-19, gli domando, come si comporterà? «Per il momento non è cambiato in modo significativo» mi risponde. «Adesso è un terrorista. Un giorno, forse – ma non sappiamo quando –, diventerà un ragazzo un po’ fastidioso con cui comunque si potrà convivere. Per ora speriamo di condizionarne la crescita rompendogli le uova nel paniere.» E conclude: «Ma tu o dovrà cambiare. Non si può tornare alla vita di prima come se nulla fosse accaduto. Noi

p privilegiati dei paesi ricchi saremo in grado di affrontare la realtà con diversa capacità organizzativa. Ma dobbiamo potenziare la medicina territoriale. E non mi si dica che faccio un discorso ideologico se sostengo che la medicina privata deve avere una funzione complementare a una sanità pubblica universalistica nell’offerta e nell’accoglienza».

Quando Zangrillo disse: «Il virus non esiste più» «Clinicamente il virus non esiste più.» A questa frase, pronunciata il 31 maggio, fu impiccato il professor Alberto Zangrillo, dire ore dell’unità operativa di Anestesia e rianimazione del San Raffaele di Milano. Gli si affiancò Ma eo Basse i, dire ore della clinica di Mala ie infe ive all’ospedale San Martino di Genova, ma il plotone d’esecuzione fu implacabile. «Assoluto sconcerto» sentenziò Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di sanità, a ingendo al suo magnifico italiano. Genovese, 62 anni, moglie e tre figli, noto al pubblico per essere il medico personale di Silvio Berlusconi, Zangrillo non si è mai pentito di quella frase. «Mi sono confrontato con i miei colleghi di altri ospedali» mi dice «e tu i hanno convenuto che il malato in rianimazione di o obre non è minimamente comparabile con quello di marzo. Soltanto chi non è mai entrato in una rianimazione può sostenere che il virus oggi procura le stesse conseguenze di ieri. Certo, i medici di mala ie infe ive ci accusano di non essere esperti in questo campo, ma il paziente si gioca la sua vita in rianimazione e noi sappiamo come sta. Questo fiorire di virologi ed epidemiologi che si esprimono in termini assoluti senza aver mai conosciuto la drammaticità della mala ia mi lascia molto perplesso. Guardiamo i numeri e capiremo perché con Luciano Ga inoni, il padre della terapia intensiva moderna [è stato dire ore scientifico del Policlinico di Milano e presidente della Società mondiale di terapia intensiva], e Giuseppe Remuzzi, virologo e dire ore dell’Istituto Mario Negri, valutiamo diversamente da altri la forte crescita autunnale dei contagi. Abbiamo calcolato che il 95 per cento delle

persone positive al virus che si presentano al pronto soccorso possono essere curate a casa. Il 4,5 per cento dei ricoveri avviene per ragioni sociali: si tra a di immigrati che non riceverebbero nessun tipo di assistenza. Questo vale per Milano, ma credo per tu e le grandi ci à italiane. Resta uno 0,5 per cento di malati gravi che, in marzo, sarebbe morto entro due o tre giorni e che adesso quasi sempre riusciamo a curare. In ogni caso, anche con il forte incremento autunnale, il 23 o obre 2020 in tu a la Lombardia ci sono 184 ricoverati in rianimazione contro i 1600 della punta di marzo. Anche se si guarda alla Francia e alla Spagna, non c’è correlazione fra l’altissimo numero di contagi e il numero di persone che vengono ricoverate con sintomi gravi.» Perché il virus fa meno male? «Io non sono un virologo, ma svolgo la mia a ività nel primo istituto di ricerca in Italia e, se dicessi castronerie, virologi e immunologi che lavorano qui mi avvertirebbero. Bene, dalle nostre discussioni è emerso che questo virus è un microrganismo patogeno che, per sopravvivere, deve interagire con l’ospite. Sta accadendo che questo tipo di interazione è più favorevole. È vero che abbiamo maggiore conoscenza delle terapie ed è verissimo che le misure di tutela hanno limitato fortemente la diffusione del contagio, ma sarebbe troppo semplicistico a ribuire solo a questo il merito dei progressi. Non dovremmo rallegrarci se il virus sta dimostrandosi meno ca ivo di prima, anche se sviluppa una capacità di contagio maggiore?» Zangrillo stima il ministro Speranza e il suo vice Pierpaolo Sileri, e si dichiara dispiaciuto per certe posizioni che giudica estremiste. In ogni caso, lui resta fermo sulle sue.

Remuzzi: l’immunità pregressa e la luce dopo la tragedia «Dobbiamo usare tu e le cautele possibili, ma non possiamo ignorare che dalla primavera all’autunno 2020 è cambiato tu o.» Giuseppe Remuzzi, 71 anni, moglie e tre figli, è da due anni dire ore dell’Istituto farmacologico Mario Negri di Milano. Nefrologo, si è occupato di trapianti per tu a la vita e ha dire o il

dipartimento di Medicina della Statale di Milano. Per quindici anni è stato l’unico italiano membro del board editoriale internazionale del «New England Journal of Medicine» ed è l’unico italiano a ricoprire lo stesso incarico nella rivista inglese «The Lancet». Bergamasco, durante l’emergenza Covid è tornato in trincea all’ospedale Papa Giovanni della sua ci à. «È stata un’esperienza drammatica» mi racconta. «Mai visto niente di simile. Il primo giorno vedi al pronto soccorso pochi pazienti che respirano male, il secondo molti di più, il terzo sono così tanti che non sai dove me erli. In certi momenti abbiamo avuto il terrore di veder morire tu i i pazienti, i medici, gli infermieri. Abbiamo assistito al dramma delle rianimazioni in cui c’erano troppi pazienti per poterli curare. Poi, nel giro di pochi giorni, è cambiato tu o. 2500 operatori di ogni specialità hanno imparato un altro mestiere ed è accaduta una cosa meravigliosa di cui non si parla più: sono giunti in corsia studenti e specializzandi. Tanta gente è morta con un giovanissimo medico che gli stava accanto. Questo ci ha fa o capire che gli specializzandi devono frequentare meno l’università e venire in ospedale. Ormai s’impara tu o con i corsi online, ma l’esperienza in corsia è fondamentale. E anche persone meno giovani, in questa circostanza, hanno imparato molte cose che non sapevano.» Ho cercato Remuzzi perché, al di là del suo prestigio internazionale, è un uomo che guarda lontano e sa bilanciare rischi e opportunità. Mi segnala un’inchiesta apparsa in giugno sul «Washington Post». Raccogliendo studi fa i negli Stati Uniti e in Olanda, in Germania e a Singapore, il giornale registra che molte persone mai venute in conta o con Covid-19 si sono scoperte immuni. «È accaduto grazie ai linfociti della memoria che viaggiano nel nostro torrente circolatorio per difenderci dagli invasori e potrebbero ricordare di aver visto in passato qualcosa di simile al Sars-Cov-2. Per esempio, i Coronavirus da raffreddore che condividono con Covid-19 alcune proteine, non identiche ma molto simili. Secondo alcuni esperti, potrebbe bastare il 10-20 per cento della popolazione che ha gli anticorpi a garantire un’immunità naturale alla comunità. Altri si spingono al 50 per cento. In o obre

p g p un nostro studio ha accertato che il 36 per cento della popolazione in provincia di Bergamo (1 milione di abitanti) era immune. Al contrario di quanto si vede nelle statistiche ufficiali, riteniamo che 450.000 persone in quell’area siano entrate in conta o con il virus. La percentuale più alta del mondo. Per questo, a fine o obre, nell’ospedale Papa Giovanni XXIII avevamo solo una decina di ricoverati in terapia intensiva e 200 casi in tu a la Lombardia, contro i 1444 del 3 aprile, giorno del mio compleanno. Dove il virus ha circolato, nell’autunno 2020 abbiamo avuto meno malati rispe o al Sud.» Il professor Remuzzi mi mostra un grafico pubblicato dall’«Economist» (fru o della collaborazione con la Johns Hopkins University, le Nazioni Unite e l’Organizzazione mondiale della sanità). «Come vede, in aprile i contagi giornalieri toccavano i 6 milioni al giorno. A fine o obre, 1 milione 200.000. In Europa morivano 50.000 persone alla se imana, a fine o obre 7000. Certo, la situazione è imprevedibile. L’onda che in estate si era ritirata, ha ripreso vigore. Il 21 o obre il “British Journal of Medicine” ha scri o: “Se qualcuno vi dice di avere certezze su questo virus, non credetegli”. In ogni caso, dobbiamo rispe are le regole fino in fondo, ma il terrorismo non ha senso.» A proposito di regole da rispe are, Remuzzi ci ricorda che «se al ristorante al tavolo accanto al nostro c’è una tavolata di gente che canta, ride o parla a voce molto alta, da questa possono partire piccole particelle di aerosol che circolano nell’aria per minuti, o addiri ura per ore, senza cadere in terra come fanno le goccioline più pesanti. Quindi, anche se nessuno tossisce, ci si può infe are. Perciò, al ristorante bisogna rispe are le distanze di sicurezza e parlare a bassa voce». Remuzzi ha dichiarato che, per i bambini, il rischio di contrarre l’infezione è pari a quello di avere un incidente in motorino e inferiore a quello di un incidente durante un’immersione subacquea. «Negli Stati Uniti,» mi spiega «dall’inizio della pandemia a giugno 2020 sono morti a causa del virus 28 bambini. Nello stesso periodo ne sono morti 9650 per altre mala ie e per incidenti domestici e stradali. In un istituto scolastico francese, al

piano superiore c’è un liceo e a quello inferiore una scuola elementare: al liceo ci sono stati studenti positivi al virus, alle elementari nessuno. In Gran Bretagna, 1 milione 600.000 alunni sono rientrati a scuola il 1° giugno. Si sono infe ati 70 bambini, pari allo 0,004 per cento. Nessuno ha avuto bisogno di cure ospedaliere, mentre hanno contra o il virus 128 membri del personale scolastico.» Che differenza c’è tra il contagio e la mala ia?, gli chiedo. «Il contagio avviene quando entriamo in conta o con il virus senza avvedercene. Svilupperemo degli anticorpi e non potremo considerarci ammalati. Se invece ci ammaliamo, potremo curarci in casa nella gran parte delle situazioni, a pa o che il medico venga a trovarci.» Il discorso cade, così, sull’esercito degli asintomatici. «Le segnalo un bellissimo articolo del “Washington Post”: sono gli asintomatici quelli che diffondono il virus o saranno loro a far cessare l’epidemia? Non tu i gli asintomatici trasme ono la mala ia. Il problema è che non sappiamo quanti lo fanno.» Rilevo che c’è una folta tribù di asintomatici che si trascinano per mesi tamponi positivi, pur stando benissimo. «Il problema è di quantificare la carica virale che c’è sui tamponi positivi» osserva lui. «È come quando ci dicono che abbiamo la glicemia alta. Vogliamo sapere quanto è alta: un conto è averla a 200, un altro è averla a 400.» Il professor Remuzzi, come molti suoi colleghi, è preoccupato che «gli eccessi di ansia, se non addiri ura di isteria, per il Covid-19 ci facciano dimenticare le altre patologie che curiamo poco o niente da troppo tempo. Una morte per Covid ci impressiona, una per tumore non fa più notizia». In o obre Remuzzi mi segnala una dichiarazione stilata a Great Barrington, un piccolo centro del Massachuse s, da tre docenti universitari (Martin Kulldorff di Harvard, Sunetra Gupta di Oxford e Jay Bha acharya di Stanford) e so oscri a da decine di accademici, prevalentemente angloamericani. La dichiarazione prende spunto dallo stesso conce o espresso nell’ultima riflessione di Remuzzi: il lockdown ha avuto conseguenze devastanti

g sull’intera sanità pubblica, dall’abbassamento dei tassi di vaccinazione infantile alla mancata cura e prevenzione delle mala ie cardiache, oncologiche, mentali. La nostra migliore conoscenza del virus, dicono gli studiosi, ci ha consentito di stabilire che il Covid-19 ha un tasso di letalità mille volte superiore negli anziani e negli infermi che nei giovani, e che per i bambini è meno pericoloso di un’influenza. A questo punto, si proteggano scrupolosamente le persone a rischio (anziani, sopra u o) e si lascino libere le persone non vulnerabili di fare una vita normale. Le semplici norme igieniche – dal lavaggio delle mani al restare a casa se si è malati – servono ad abbassare la soglia dell’immunità di gregge. Gli studenti vadano di persona a scuola o all’università, i giovani adulti a basso rischio lavorino normalmente. Restino aperti uffici, negozi e ristoranti. Si riprendano le a ività musicali e sportive. L’impennata autunnale dei contagi in tu a Europa, aggiungiamo noi, ha messo in pericolo il pieno ritorno alla normalità. Che sarebbe, anzi è, possibile se tu i rispe assimo le regole.

Mantovani: «Abbiamo fa o cose mai viste al mondo» Quando chiedo ad Alberto Mantovani se, dinanzi a un virus sconosciuto, un grande immunologo ne abbia avvertito il fascino scientifico o abbia provato paura, lui torna alla sua formazione classica: «Socrate diceva: so di non sapere. Eraclito: la natura ama nascondersi». Mantovani è dire ore scientifico dell’Humanitas di Milano, nella cui università è stato ordinario di Patologia generale. Milanese, 72 anni, sposato, qua ro figli e o o nipoti, è il ricercatore italiano più citato nella le eratura scientifica internazionale. «Il secondo sentimento procuratomi dal Covid-19» mi racconta «è stata la preoccupazione per quanto accadeva in Cina. I miei legami con quel paese sono forti: vi andavo una volta all’anno, ho tenuto corsi di formazione per i medici di Wuhan. Quando, il 24 gennaio, ho le o sul “New England Journal of Medicine” l’esa a descrizione di quanto era avvenuto in Cina, con la quota reale delle

persone finite in terapia intensiva, ho capito che la situazione era davvero molto seria. Il terzo sentimento è stato di sfida. La sfida a un nemico nuovo. Da immunologo ho scoperto geni importanti nelle mala ie infe ive, e ci siamo messi al lavoro. Ho avuto la grande fortuna del sostegno finanziario di Dolce e Gabbana, che ci hanno dato fiducia. Quarto sentimento: non dimenticherò mai il viso dell’infermiera, a fine turno, che ha seguito un mio carissimo amico, che ho perso. Infine, mai come in questa occasione ho avvertito così forte il sentimento di appartenenza a una comunità nella lo a al nemico. Ho passato giorni a comunicare quel poco che sapevamo dalla Cina all’Australia, dagli Stati Uniti al Sudamerica. Un mio seminario ha coinvolto 35.000 medici. «Il nostro Maurizio Cecconi» continua Mantovani «ha avuto il merito di aver lanciato un tempestivo segnale d’allarme al mondo. Quando ha visto i primi casi si è scatenato, coinvolgendo in un seminario le unità di terapia intensiva di tu i i paesi: al suo seminario hanno partecipato 135.000 medici. Mai accaduto niente di simile. Per questo, Cecconi è stato indicato come uno dei tre eroi della ba aglia contro il Covid da “Jama”, il “Journal of American Medical Association”, insieme a Li Wenliang [il medico cinese che fu punito per aver denunciato la presenza del virus a Wuhan e poi è morto di Covid] e Anthony Fauci [il celebre immunologo americano consulente di Donald Trump, con il quale è entrato frequentemente in confli o].» (Cecconi, a soli 43 anni, è presidente della Società europea di terapia intensiva. A Londra, dove si è fermato per tredici anni, è stato capodipartimento di una delle più grandi unità di terapia intensiva d’Europa. Rientrato in Italia nel 2018, dal febbraio 2020 ha assunto il ruolo di ordinario di Terapia intensiva e di capodipartimento della stessa specialità all’Humanitas di Milano.) «L’altra occasione in cui ho sentito forte il sentimento di comunità» ricorda Mantovani «è stato all’inizio, quando mancavano i tamponi. Chi fa ricerca biomedica conosce la tecnologia della diagnosi molecolare. Bene, ho chiesto ai ragazzi della ricerca di andare a fare la diagnostica. C’è stata una risposta così forte che ho avuto l’imbarazzo della scelta.»

Quali farmaci hanno funzionato?, gli domando. «All’inizio ci hanno mandato fuori strada la Cina e l’Organizzazione mondiale della sanità dicendo di non usare cortisonici come il desametasone. Poi, il nostro pneumologo Michele Ciccarelli dell’Humanitas e Alessandro Rambaldi, ematologo del Papa Giovanni XXIII di Bergamo, ci hanno de o che era una sciocchezza. Infine, il Servizio sanitario inglese ha dimostrato che, se usato nella finestra giusta, questo farmaco funziona.» E la famosa idrossiclorochina consigliata da Trump? «Non solo da Trump. Ne hanno fa o uso anche in Francia e in Brasile. Vede, noi ci siamo comportati come medici di guerra, e coniugare urgenza e rigore non è facile. Quindi, bisogna rispe are anche gli errori. Ma, come si dice?, sbagliare è umano, perseverare… Si è finito per dare solo tossicità ai pazienti.» Cosa pensa degli anticorpi monoclonali? «Fanno parte della grande storia dell’immunologia. Ci sono dati incoraggianti, ma tre sperimentazioni fa e in Cina, Olanda e India non hanno dimostrato l’efficacia della terapia con il plasma. Per me, anche qui bisogna trovare la finestra giusta…» Pure Mantovani riconosce che le patologie pregresse sono state fatali nella gran parte dei decessi. «I maschi che oggi sono anziani hanno fumato molto più delle donne e partono per la scalata con uno zaino appesantito dai sassi. Problemi polmonari, vascolari, la stessa obesità, perché il tessuto adiposo disorienta completamente le cellule del sistema immunitario. Non ci ha sorpreso la buona resistenza delle donne, perché il loro sistema immunitario risponde meglio di quello maschile. I geni dell’immunità che si trovano nel cromosoma X sono regolati dall’ormone femminile. Qui si evidenzia anche un aspe o evolutivo. Uno dei regali che ci ha fa o la mamma è di passarci i suoi anticorpi a raverso la placenta.» Nell’autunno 2020 il virus è diventato meno aggressivo? «No» risponde con ne ezza. «Si è fa a confusione tra virus e mala ia. Il virus è relativamente stabile, e questa è una buona notizia perché, se fosse mutato come l’Hiv, non saremmo in grado di trovare un vaccino. La mala ia, invece, è diversa. In estate i virus respiratori tendono a scomparire. Noi ci comportiamo bene, portiamo la

p p p mascherina e proteggiamo gli anziani. Siamo più seri di quanto pensiamo di essere. Facciamo le diagnosi prima. Le persone con insufficienza respiratoria non restano più a casa. La saggezza del clinico ci aiuta nella diagnostica. Ci aiutano le Tac e, nei casi dubbi, la sierologia. Facciamo meglio la terapia e la morte ha già falciato i più deboli. Perciò, il quadro ci sembra meno grave. Ma se guardiamo i dati…» Il professor Mantovani invita a superare la diffidenza che molti hanno nei confronti dei vaccini: «È importante fare i vaccini che già abbiamo: antinfluenzale, contro la polmonite da pneumococco, contro l’herpes. Sopra i 60 anni dovrebbero farli tu i. Ho scri o sul “New England” che questo è un buon allenamento per il sistema immunitario, irrobustisce la prima linea di difesa insieme ad assenza di fumo, dieta con molta fru a e verdura, esercizio fisico moderato e a enzione alla bilancia».

Vaccini italiani, panico immotivato A che punto siamo con il vaccino contro il Covid-19?, chiedo a Mantovani. «Ci sono 320 candidati e, tra i 10 finalisti, c’è anche un cavallo completamente italiano: il vaccino in fase 1 in sperimentazione allo Spallanzani con la collaborazione dell’azienda romana ReiThera. Non importa arrivare primi, conta arrivare bene. Mi auguro che più di un cavallo arrivi al traguardo. A fine se embre 2020 l’Africa e il mondo si sono definitivamente liberati dalla poliomielite. Questo risultato è stato o enuto grazie a due vaccini con cara eristiche diverse usati in modo complementare. Dobbiamo trovare vaccini che ci proteggano per almeno sei mesi.» Nel campo dei vaccini l’Italia, primo produ ore farmaceutico d’Europa, è all’avanguardia. Le sperimentazioni più avanzate sono quelle del vaccino ideato dallo Jenner Institute di Oxford, testato e distribuito dal colosso anglosvedese AstraZeneca e realizzato in collaborazione con l’azienda Irbm Science Park di Pomezia. Specializzata in biotecnologie molecolari, nel 2013 Irbm ha studiato e prodo o il vaccino anti-Ebola. L’Italia ha prenotato 70 milioni di

dosi dei 400 milioni di vaccini anti-Covid destinati all’Unione europea al prezzo di 2,50 euro cadauna. In un altro piccolo centro del Lazio, Anagni, dove sono nati qua ro pontefici, lo stabilimento italiano della multinazionale francese Sanofi provvederà al confezionamento di 300 milioni di dosi – destinate all’Europa – di un altro vaccino. Una corsa contro il tempo in tu o il mondo, con un target realistico di diffusione globale nella prima metà del 2021. Resta da chiedersi che cosa cambierà nella sanità italiana dopo il tornado del Covid-19. «Tu o» risponde il ministro della Salute, Roberto Speranza. «Punto primo: si chiude per sempre l’epoca dei tagli. Negli ultimi quindici anni la spesa sanitaria è rimasta bloccata ai livelli del 2004, con un’ulteriore so razione dell’1,4 per cento, nonostante l’invecchiamento della popolazione italiana. Abbiamo pensato che il libero mercato potesse risolvere ogni problema e che non fosse necessario avere lo Stato in prima linea. Fu un errore. Durante il Covid, in cinque mesi abbiamo trasferito alla sanità l’equivalente degli ultimi cinque anni. Punto secondo: abbiamo necessità di rafforzare la sanità pubblica sul territorio. Non basta l’ospedale d’eccellenza, serve una presenza più radicata, a partire dall’assistenza domiciliare. Oggi ne gode soltanto il 4 per cento della popolazione con età superiore ai 65 anni. Con il decreto “Rilancio” abbiamo destinato alla domiciliare 1 miliardo di euro, la stessa cifra riservata nei bilanci 2018 e 2019 per rinforzare l’intera spesa sanitaria nazionale. Passeremo così a una copertura del 6,5 per cento della popolazione anziana. La media Ocse è del 6 per cento. La Germania e la Svezia sono al 9 per cento. Il nostro obie ivo è di arrivare al 10 e di essere il primo paese in Europa.» Nel piano sanitario presentato dal governo italiano all’Europa trova posto anche un grosso investimento per la telemedicina e la teleassistenza, essenziali per le persone che vivono in zone disagiate come le isole e alcune aree montane. Com’è ovvio, andrà rifinanziata la prevenzione: la prima voce tagliata abitualmente dai bilanci della sanità. Infine, la collaborazione con i privati nella ricerca: entro il 2025 sono previsti investimenti di 1000 miliardi di euro nell’industria farmaceutica. Quanti riuscirà ad averne l’Italia?

La buona gestione del Covid-19 ha trasformato, nel giro di sei mesi, il Belpaese dal solito ragazzaccio da evitare nel primo della classe. La coccarda ce l’ha appuntata sul grembiule Angela Merkel il 29 se embre: «Si può viaggiare in Germania e si possono fare le vacanze in Italia, dove ci si comporta con grandissima cautela». (Ma a fine o obre ha indicato nuovamente alcune nostre regioni a rischio.) Già il «Financial Times» aveva esaltato il successo italiano dovuto «all’alta adesione alle prescrizioni sanitarie, ai controlli severi, all’uso generalizzato della mascherina, ai tamponi gratuiti». Gli hanno fa o eco altre prestigiose testate. «Foreign Policy»: «Il mondo potrebbe imparare alcune cose dall’Italia». «Le Figaro»: «L’Italia apripista dell’Europa». Il «New York Times», che già in estate aveva esaltato «la capacità degli italiani di unirsi mentre l’America si frantuma», è tornato in autunno a dire che quello che era «un paria globale adesso dà lezioni al resto del mondo». Bene, abbiamo saputo utilizzare questa meritata e imprevista campagna pubblicitaria? A mio giudizio, no. S’intenda: le raccomandazioni a stringere le cinture di sicurezza dinanzi alla ripresa autunnale dei contagi (sia pure in misura per fortuna incomparabile con la primavera) sono doverose. Ma perché non dire che solo meno di un quarto dei nuovi casi è sintomatico, mentre un terzo viene scoperto con i tamponi programmati e il resto entra nel conto per caso, dal momento che il test è fa o a chiunque per qualunque ragione si ricoveri in ospedale? Perché non dire che soltanto il 30 per cento dei ricoverati ha bisogno di ossigeno, con rarissimi casi di intubazione? Perché, a proposito delle stragi nelle Rsa, non ricordare che l’età media degli ospiti è di 87 anni, con una maggioranza affe a da demenza? Le cose accadute in Italia, purtroppo, si sono verificate in tu o il mondo, ma soltanto da noi sono diventate un caso. Il Covid-19 entra nell’organismo dalla porta dei polmoni e gira alla ricerca degli organi fragili. L’80 per cento delle persone decedute soffriva di almeno una delle seguenti patologie: disturbi cardiaci, insufficienza renale, tumori, diabete, obesità. Nessuno lo ricorda, ma la straordinaria ondata di calore del 2003, che ebbe il picco nella prima quindicina di agosto, uccise 70.000 persone in

p p q g p Europa, al 90 per cento anziane. L’anno successivo la Comunità di Sant’Egidio fece un censimento: in Italia, i morti in sovrannumero rispe o alla media furono 12.633, quasi tu i con patologie pregresse, aggravate dalla solitudine. Tra marzo e maggio 2020 l’età media dei tantissimi morti era di 80 anni. Dall’inizio di maggio è salita a 82 anni e, in estate, ha sfiorato gli 83. Allora, mostrarci come un paese terrorizzato è sbagliato e controproducente.

XIII

La maggioranza, tra il nuovo a acco del Covid e i miliardi da spendere

A colloquio con Giuseppe Conte. Indossando la mascherina Caro presidente, in questo libro sugli anni del consenso per Mussolini ricordo che la popolarità del Duce era maggiore di quella per il fascismo. I sondaggi dicono che lei è molto più popolare del governo. Dunque, c’è qualche somiglianza… Giuseppe Conte sgrana gli occhi, che emergono dalla mascherina chirurgica, si distende sulla sedia alzando le gambe unite e spara: «Vuole vedermi a testa in giù?». È il terzo anno che incontro Conte a palazzo Chigi per i miei libri sulla storia italiana. La nostra conversazione avviene dopo il suo decreto (Dpcm) del 18 o obre 2020, il numero 19 dall’inizio di marzo, al quale si affiancano altre anti decreti legge. Siamo nel pieno della seconda ondata del Coronavirus e, nonostante ci separino due metri, Conte non si toglie la mascherina per l’intera ora del colloquio e, naturalmente, io non mi azzardo a proporglielo. L’ho fa o con tu i i leader e con tu i i medici che ho incontrato nello stesso periodo (mi hanno spiegato che due metri è una distanza arcisicura), ma capisco che il gesto è simbolico. È un momento psicologicamente difficile, reso più drammatico dalla richiesta di coprifuoco venuta dalla Lombardia, subito acce ata dal governo. Conte è convinto che ce la faremo, ha resistito alle proposte di Roberto Speranza e di Dario Franceschini che avrebbero voluto misure più dure, ma ritiene, a ragione, che il rigore assoluto nel rispe o delle prescrizioni assunte, più «moderate», per così dire, possa salvare il paese da chiusure totali

che darebbero il colpo definitivo alla sua tenuta economica, sociale e psicologica. Chiedo al presidente del Consiglio se, dopo i grandi sacrifici della primavera, non abbiamo fa o bene i compiti delle vacanze. «Non direi» risponde Conte. «Il governo non è mai andato in vacanza. Abbiamo continuato anche questa estate a lavorare per garantire un ritorno in sicurezza, a scuola, dei nostri ragazzi. Non abbiamo mai so ovalutato i rischi di una ripresa della circolazione del virus. Abbiamo lavorato nel se ore dei trasporti, abbiamo potenziato le terapie intensive, assunto medici e infermieri, ci siamo garantiti la produzione e la distribuzione quotidiana di mascherine più di altri paesi. Avremmo dovuto mantenere l’Italia in lockdown anche nei mesi estivi con una curva dei contagi molto bassa? Abbiamo calibrato le decisioni sulla base delle evidenze epidemiologiche. Sarebbe stato illiberale e impensabile costringere gli italiani a rinunciare alle vacanze e impedire loro di rifiatare dopo mesi così duri. In ogni caso, abbiamo sempre mantenuto alta la soglia di prudenza. Un esempio: per la normativa nazionale, le discoteche anche questa estate dovevano rimanere chiuse. Sono stati alcuni rappresentanti degli enti locali a disporne l’apertura.» Che cosa non ha funzionato? «Se guardiamo anche agli altri paesi europei, constatiamo che le pandemie sviluppano delle ondate che è difficile contenere senza vaccini e terapie con anticorpi monoclonali. L’unico modo per contrastare questa nuova fase pandemica sarebbe stato mantenere la chiusura generalizzata, una soluzione insostenibile. Adesso dobbiamo impegnarci a contenere i contagi con le misure precauzionali che già conosciamo e dosando le misure restri ive in modo da non piegare l’economia. «L’Ema, l’Agenzia europea per i medicinali, ha avviato i rolling reviews, le procedure di controllo di alcuni vaccini. Nel giro di alcune se imane, forse già all’inizio di dicembre, potrebbe dare il via libera. Questo significherebbe poter disporre subito dei primi 2 o 3 milioni di dosi. Altri milioni di dosi arriveranno subito dopo. La Commissione europea si è garantita la disponibilità, con 4-5 società farmaceutiche che sono in fase avanzata della ricerca, di varie centinaia di milioni di dosi. È ragionevole ipotizzare, però, che

g p p dovremo a endere la primavera per iniziare a constatare gli effe i del contrasto della pandemia tramite l’utilizzo dei vaccini.» Ripercorriamo i momenti drammatici della prima emergenza. «Quando scoprimmo il focolaio di Codogno, capii che saremmo andati incontro a una stagione difficile. D’altra parte eravamo stati già allertati con il ricovero della coppia dei pensionati cinesi a Roma. E già il 31 gennaio proclamammo quello stato d’emergenza che avremmo poi prolungato per un anno.» Conte non ama riandare ai giorni drammatici – dal 3 al 5 marzo – in cui il governo tardò a istituire la «zona rossa» a Nembro e Alzano. L’ha fa o in interviste e davanti ai magistrati di Bergamo. «Fui informato il giorno 5 della richiesta del Cts, di qui l’approfondimento chiesto la sera stessa al professor Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di sanità» taglia corto «e la decisione del 7, dopo un confronto con il Cts, di assumere provvedimenti ancora più drastici per l’intera Lombardia e varie province del Nord.» I momenti più dolorosi? «L’aumento costante del numero dei decessi. Giorno dopo giorno. I camion dell’esercito che portavano via le bare di Bergamo. Le drammatiche telefonate con alcuni dirigenti degli ospedali lombardi…»

«Galleggiare? Ma se abbiamo risolto problemi vecchi di anni» Abbiamo visto nel capitolo precedente le contestazioni, provenienti da fonti diverse, relative ai ritardi che hanno portato alle difficoltà esplose nel mese di o obre, al consueto rimpallo di responsabilità. Il presidente del Consiglio ritiene che il governo abbia fa o tu o quello che doveva e guarda avanti, verso un orizzonte salvifico che non gli appare lontano. E mentre il suo portavoce Rocco Casalino ha gli occhi inchiodati ai sondaggi d’opinione, lui mi dice di non farci caso (sarà vero?). Prende a o, tu avia, che la sua popolarità durante la prima fase della pandemia è aumentata, salvo scendere

nell’ultima parte di o obre, quando la gente si è sentita smarrita dinanzi alla confusione della seconda ondata. Faccio notare al premier che non sono poche dodici conferenze stampa, spesso nel prime time serale, quando vanno in onda i telegiornali e gli spe acoli più a esi. «Non le ho contate. Ma spalmate su o o mesi – da marzo a o obre – sono il minimo sindacale per offrire alla popolazione un’informazione doverosa e necessaria, considerata la situazione drammatica che l’Italia ha vissuto e le scelte dolorose che abbiamo dovuto ado are.» Conte si meraviglia quando gli dico che lui parla superando la linea politica dei partiti che lo sostengono: «Stia pur certo che le decisioni comunicate al paese sono state sempre il fru o di una valutazione collegiale con gli altri ministri e sono state assunte tenendo conto con scrupolo della posizione delle forze di maggioranza». Quando gli ricordo che è stato rimproverato di abusare dei decreti presidenziali, ignorando opposizione e Parlamento, lui, con il puntiglio dell’avvocato e del professore, riba e: «Avremmo dovuto ado are decine e decine di decreti legge, con il risultato di intasare ancor più il Parlamento? Nella nostra Costituzione non esiste una norma che regoli lo stato d’emergenza. Lo abbiamo proclamato, però, in linea con le previsioni del codice della Protezione civile. Quanto alle misure restri ive, la nostra legislazione ordinaria consentiva di disporle con ordinanza del ministro della Salute. Abbiamo preferito intervenire con alcuni decreti legge, che hanno de ato la cornice, e poi calibrare le singole misure restri ive con i decreti del presidente del Consiglio, che prevedono un iter che assicura maggiore collegialità rispe o all’ordinanza di un singolo ministro». Le contestano di aver ignorato l’opposizione. Al massimo, una telefonata prima di andare davanti alle telecamere… «Al di là di specifiche telefonate, io stesso e il ministro della Salute ci siamo recati numerose volte in Parlamento per illustrare e discutere le misure contenitive del contagio.» Anche se si è trovato a palazzo Chigi perché Luigi Di Maio, nella primavera del 2018, lo presentò a Ma eo Salvini in un albergo di

p p g Milano, Conte è di scuola democristiana, pur non essendo mai stato iscri o a quel partito. Il suo mentore era il cardinale Achille Silvestrini, cappellano della sinistra dc. E pur essendo il cardinale Fiorenzo Angelini, uomo chiave della sanità romana, il prelato di riferimento di Giulio Andreo i, Silvestrini non era affa o lontano dal Divo Giulio. È perciò a lui che penso quando me o sul tavolo di Conte, superato il distanziamento di rito, l’accusa di «galleggiare», esercizio di cui i democristiani in genere, e Andreo i in particolare, erano assoluti maestri. «Galleggiare? Be’, vengo anche accusato di eccesso di decisionismo. È difficile me ere tu i d’accordo.» Allora me iamola così: Nicola Zingare i, segretario del Partito democratico, sostiene che il governo non può tirare a campare fino all’inizio del 2022, quando si dovrà eleggere il successore di Sergio Ma arella. «Ha perfe amente ragione» mi risponde. «E infa i stiamo varando tante misure di politica economica e sociale, e abbiamo sciolto vari nodi che si trascinavano da tempo.»

«I soldi del Mes? Uno stigma per l’Italia» Be’, insomma. Faccio notare che i dossier su Alitalia, Autostrade, Ilva e altri sono invecchiati in queste stanze come i buoni vini pugliesi che tanto gli piacciono in omaggio alla sua terra. «Le dispiace se cammino mentre le parlo?» Si alza e misura a lunghi passi la stanza affacciata su piazza Colonna. «Allora, vediamo un po’. La nuova Alitalia finalmente marcerà sulle proprie gambe. Ha un management assolutamente affidabile ed è pronta a superare una congiuntura difficile con una prospe iva di sviluppo e di equilibrio economico e finanziario. Abbiamo salvato con un intervento pubblico la Banca popolare di Bari, anche tramite il sostegno di Mediocredito Centrale, assicurando un polmone finanziario indispensabile per sostenere le imprese e le famiglie del Sud. Abbiamo portato a termine nell’o obre 2020 due grosse operazioni come le nozze tra Sia e Nexi, che me ono in mani italiane un colosso europeo dei pagamenti, e quelle tra Euronext e

Borsa italiana, che ne fa il maggiore veicolo di contra azioni in Europa. Come si può dire che stiamo galleggiando?» Sono ancora in sofferenza due grossi dossier come Alitalia e Ilva… «Sul primo ho già anticipato» mi spiega Conte «che abbiamo creato le condizioni perché possa mantenersi autonoma sul mercato e non sia più un carrozzone che continui a pesare, anche in futuro, sul bilancio pubblico. Quanto all’acciaieria tarantina, ricordo che abbiamo siglato con ArcelorMi al, nello scorso mese di marzo, un accordo che prevede il coinvolgimento di capitale pubblico nella società. Proprio in queste se imane Invitalia, la società pubblica da noi individuata, sta negoziando con ArcelorMi al per definire il nuovo asse o societario e la stru ura di governance. Ma anche qui siamo in diri ura.» E gli appalti? E i cantieri, grandi e piccoli? Lei aveva promesso in giugno che lo «sblocco», parola magica e abusata, sarebbe avvenuto entro l’estate. Nell’autunno si a ende ancora. Quale maledizione colpisce questo se ore nel paese che è maestro geniale nella realizzazione di grandi opere nel mondo e anche da noi, se si pensa al miracolo della ricostruzione del ponte di Genova? «Non possiamo più agire per singole opere,» replica il presidente del Consiglio «ma stabilire una volta per tu e una linea d’intervento diffusa e risolutiva. Anche per questo è importantissimo il complesso di norme del decreto “Semplificazioni”, che snellisce procedimenti amministrativi e procedure di gara. Un problema serio rimane, però, quello rappresentato dalle difficoltà di proge azione che abbiamo ai vari livelli dell’amministrazione pubblica, in particolare a livello locale.» Ricordo a Conte che il ministro dell’Economia del suo precedente governo, Giovanni Tria, voleva costituire una task force centrale di proge isti che supplisse alle deficienze del Genio civile, in soccorso delle amministrazioni locali. «Sì, ma non credo che potremo sopperire alle carenze che abbiamo sul piano proge uale con professionisti mandati dal centro. È giunto il momento di ridurre e concentrare il numero di stazioni appaltanti sul territorio e di rinforzarle con professionisti ben a rezzati.»

Parliamo del Mes, il vecchio Meccanismo europeo di stabilità, oggi trasformato in uno strumento che assegnerebbe all’Italia circa 36 miliardi per rinnovare la sanità. Su questo punto il presidente del Consiglio è stato ondeggiante. «Le decisioni politiche sull’utilizzo degli strumenti di finanziamento che sono stati messi a disposizione dall’Unione europea» mi risponde «si prendono al tavolo di maggioranza dopo un confronto approfondito. La domanda sul Mes mi viene ormai rivolta quotidianamente. Di fronte all’ennesima ho risposto l’altro giorno fornendo chiarimenti tecnici in modo da contribuire a deideologizzare questo tema. I soldi del Mes sono un prestito che andrebbe a incrementare il debito pubblico e non servirebbe per finanziare spese aggiuntive. Il piano per continuare a finanziare la sanità si giova di 4 miliardi stanziati nella legge di bilancio e delle risorse che verranno dal Recovery Fund. Se poi avremo bisogno di intervenire finanziariamente con altri strumenti, ne discuteremo in seno alla maggioranza e poi ci recheremo in Parlamento per un diba ito franco e trasparente.» Prendendo il Mes per l’emergenza Covid, l’Italia farebbe una bru a figura, visto che finora nessun altro paese lo ha preso? «Non è questione di bella o bru a figura. Se l’andamento dei flussi di cassa ci imponesse di far ricorso al Mes, non mi preoccuperei di questioni “estetiche”. Piu osto dovremmo valutare l’effe o “stigma”, di cui ha parlato anche il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco. Io non so quantificare questo rischio, perché non saprei prevedere le reazioni dei mercati finanziari. Sul Sure [il fondo europeo per finanziare la cassa integrazione] hanno reagito bene. Ma il Sure lo hanno preso in molti, oltre una decina di paesi. Il Mes, sino a ora, non l’ha preso nessuno. Se fossimo i soli a prenderlo, questo potrebbe far sca are un segnale di a enzione nei confronti dell’Italia.» Torniamo all’emergenza Covid-19 e ai guasti provocati dalla seconda ondata autunnale. Gli alberghi sono stati massacrati dall’assenza di turismo straniero e dalla scarsissima mobilità italiana, con la sola pausa di agosto nelle località marine e montane. I ristoranti, nello slalom di semichiusure nazionali e regionali,

g possono essere raffigurati come quei grandi quadri di ba aglie in cui vivi e morti si abbracciano in maniera indistinta. Il turismo congressuale e il mondo dei ricevimenti e dei matrimoni sono defunti da tempo. Tendo a loro nome la mano a Conte, sperando che ci me a una moneta. «È evidente che la cassa integrazione non può essere l’unica misura da offrire per il se ore turistico e a quelle categorie professionali, penso anche al se ore della cultura, ai cinema, ai teatri, che più stanno soffrendo per questa crisi economica. Sono previste per loro risorse aggiuntive nella legge di bilancio, per evitare che intere filiere che costituiscono la forza del “sistema-Italia” vengano piegate dall’emergenza e non riescano a rialzarsi.»

«Mai un mio partito, e valigia sempre pronta» Avete ecceduto in assistenzialismo nella prima parte dell’emergenza? Il presidente di Confindustria Carlo Bonomi ha parlato di Sussidistan… «Le rispondo con quel che ha scri o sul “New York Times” Paul Krugman, premio Nobel per l’economia, che ha riconosciuto alla politica italiana il merito di aver consentito a imprese e famiglie, a raverso misure sociali e di sostegno all’occupazione, di affrontare adeguatamente la fase terribile della prima ondata. Se noi, nel terzo trimestre del 2020, abbiamo avuto un rimbalzo di crescita pari a una V quasi perfe a, è anche grazie alle misure messe in campo tempestivamente. Non c’è dubbio, però, che, superata la prima fase dell’emergenza, le misure vanno adesso calibrate in modo più sele ivo, perché non abbiamo più risorse per intervenire con meccanismi “a pioggia”.» I «salvati» torneranno prima o poi a sorridere. C’è, tu avia, una massa ancora indistinta, ma rabbiosa e angosciata, di «sommersi» che, tra l’inverno del 2020 e la primavera del 2021, premerà alle porte di questi palazzi. Con quale spirito si prepara ad affrontarli?, gli chiedo. «Siamo dinanzi a una delle crisi globali e delle recessioni più gravi della storia. È ovvio che ci saranno conseguenze negative importanti. Bisogna continuare a perseguire politiche d’intervento

e di protezione quanto più mirate alla conservazione del tessuto economico e sociale del paese. E lavorare per creare le premesse e favorire tu e le condizioni perché l’Italia possa vivere una stagione di ripresa e di rilancio che ci faccia dimenticare il “ventennio perduto”. «Finora» rifle e Conte «abbiamo subìto politiche di austerità che hanno finito per comprimere la crescita economica e lo sviluppo sociale, con indesiderate ma inevitabili ripercussioni negative anche sulla riduzione del debito.» Che idea di paese si è fa a? Come pensa davvero di spendere i miliardi del Recovery Fund? «Dobbiamo rafforzare l’intera filiera dell’offerta formativa, dall’asilo, alla scuola, all’università e alla ricerca. Dobbiamo investire somme importanti sul digitale per recuperare i forti ritardi che il paese ha accumulato e per conne ere le aree interne più svantaggiate; dobbiamo imprimere una forte spinta alla transizione energetica.» Resta irrisolta l’emergenza immigrazione. Durante il Conte 2 sono più che raddoppiati gli sbarchi rispe o al Conte 1. «La pandemia ha acuito la crisi economica in paesi come la Tunisia, con la conseguenza che sono aumentati questi viaggi della speranza. Prima, infa i, i flussi erano solo dalla Libia, negli ultimi mesi si sono intensificati i flussi dalla Tunisia, da cui arrivano sopra u o tramite barchini. Lei dice che Francia e Inghilterra vanno a Tunisi a prendersi i migliori? La regolazione dei flussi migratori su base europea, con possibilità di definire il contingente di manodopera che serve di volta in volta a ciascun paese, è prevista anche nei tra ati. Ma noi che siamo a poche miglia mari ime dalle coste africane continueremo a misurarci anche in futuro con questa emergenza, almeno sino a quando non riusciremo a definire un accordo europeo davvero efficace e risolutivo.» Conte si è rivelato un abile negoziatore europeo, anche quando si è tra ato di dividere la torta dei contributi, ma sulla redistribuzione dei migranti l’Italia è ancora molto penalizzata. «La revisione del Pa o di asilo e immigrazione è ormai nell’agenda europea. Abbiamo una proposta della Commissione europea che costituisce un primo punto di partenza. Mi sono confrontato anche con la

p p p presidente Ursula von der Leyen e le ho comunicato che dobbiamo ancora lavorare per rendere ben bilanciata questa riforma. Dobbiamo riequilibrare, in particolare, le responsabilità che gravano sui paesi di primo approdo, come l’Italia, rispe o ai meccanismi di solidarietà che devono diventare più efficaci, sia con riguardo alla redistribuzione, sia con riguardo ai rimpatri.» Conte ha condo o il governo per mezza legislatura guidando due governi di segno politico opposto. Nel momento di maggiore popolarità si è parlato di un suo partito. I precedenti non portano bene. I sondaggi incoraggiarono, nell’arco di quasi un ventennio, due «tecnici» come Lamberto Dini e Mario Monti a costituire una loro formazione. Non andò benissimo. Il professor Conte resisterà alla tentazione? «Non intendo fare un mio partito» risponde secco. «Non ci penso affa o.» Qualcuno glielo ha suggerito? «Non raccolgo suggerimenti del genere.» Ha mai sentito traballare la poltrona? «Francamente, in alcuni momenti particolari c’è stato un chiacchiericcio molto vivace. Fa parte del gioco tu o italiano della politica. Ma non mi sono mai sentito realmente in pericolo.» Non credo che Conte tornerà all’università e all’avvocatura. Il virus della politica, gli dico, il profumo inebriante del potere quasi sempre anestetizza le migliori volontà di resistenza. E il professore, legi imamente, il potere lo esercita eccome. Quanti suoi uomini ha collocato in posizioni strategiche?, gli domando. «Non ho mai indicato un “mio uomo” per nessuna posizione, e parenti e amici rimarranno i più penalizzati finché avrò questo incarico pubblico. Quanto alla tentazione del potere, ritengo che la migliore condizione per mantenersi liberi sia tenere sempre pronta la valigia. Diversamente, si diventa deboli e fragili. Bisogna sempre restare lucidi e vigili: evitare di guardare alla politica dall’angusta visione di una prospe iva personale, ma proie are sempre le valutazioni e le scelte verso un destino comune.»

Zingare i: «Lo shock quando mi dissero che non c’era cura per il Covid» Nicola Zingare i è soddisfa o. È stato dichiarato vincitore politico delle elezioni regionali e amministrative dell’autunno 2020 e, o o mesi dopo essere stato colpito dal Coronavirus, gli anticorpi sono ancora molto forti. Buon segno. Si ammalò sabato 7 marzo. Era venuto a «Porta a porta» il mercoledì precedente e, nonostante ci fossimo mantenuti a distanza regolamentare, la Rai mi mise in quarantena malgrado un tampone negativo, con una decisione affre ata per la quale poi si scusò. È inevitabile, quindi, cominciare la nostra conversazione nel suo luminoso ufficio al Nazareno partendo dal Covid-19. «Lo shock» mi racconta Zingare i «è stato sentirsi dire al telefono, dall’infermiere che mi seguiva, la verità: guardi, non c’è una cura. A quel punto mi sono sentito solo con la mala ia. Per fortuna, non ho mai avuto bisogno di ossigeno. I momenti peggiori sono durati tre o qua ro giorni, poi c’è stato un progressivo miglioramento.» Oltre che segretario del Pd, Zingare i è governatore del Lazio. «L’obie ivo era di proteggere, oltre al Lazio, Roma, grande area metropolitana con un’alta densità di popolazione, e l’abbiamo raggiunto, salvando la capitale dalle tragedie che hanno colpito New York e Londra, Barcellona e Parigi. Avere all’inizio dell’epidemia la coppia di turisti cinesi ricoverata allo Spallanzani ci ha aiutato a me ere in campo, prima di altri, pratiche di protezione rivelatesi strategiche. L’immediato tracciamento dei conta i ci consentì di individuare a Cassino il gruppo con il quale aveva viaggiato la coppia cinese e di isolarlo. Utilizzando questa esperienza, abbiamo sperimentato un metodo che poi ha funzionato.» E continua: «In marzo la Regione Lazio aveva commissionato alla società EcoTech 35 milioni di mascherine ad alta protezione per circa 13,5 milioni di euro. Le mascherine non sono mai state consegnate e abbiamo denunciato tu o alle autorità competenti, siamo parte lesa. Il contra o è stato risolto e la società sta

restituendo a rate l’anticipo (a fine o obre, 3 milioni e mezzo)». Poi mi mostra la sentenza dell’Autorità nazionale anticorruzione, che riconosce la corre ezza della procedura amministrativa. Il Covid-19 è stato ambasciatore di pace tra Zingare i e Ma eo Renzi, che non si parlavano dalla scissione di Italia Viva nell’autunno del 2019. «Mi ha scri o un messaggio di auguri in marzo, quando mi sono ammalato di Covid» ricorda il segretario del Pd. «Da allora il rapporto si è ristabilito e ne sono contento. A mio giudizio, all’inizio ha commesso un errore. Lui diceva che ci avrebbe distru o, come Macron ha fa o con i socialisti francesi. Dopo un anno di tentativi, forse ha preso a o che quello non può essere un obie ivo che giustifica l’esistenza di un partito. Grazie alla nostra politica, sono gli eventi ad aver risolto il problema. All’inizio del 2019 ho vinto il congresso non dicendo che noi e i 5 Stelle siamo la stessa cosa, ma che la Lega e il M5S non erano la stessa cosa. Abbiamo disarticolato quel blocco e, oggi, il bipolarismo vede noi e altri da un lato e la Lega dall’altro. Renzi lo ha riconosciuto.» Ma non ha rinunciato a fare la guerriglia. A metà o obre ha sbloccato la legge per estendere il voto dei dicio enni al Senato. Vuole un rimpasto, alza la posta. Zingare i glissa. «Renzi, ma anche noi,» puntualizza «spingiamo per un pa o di legislatura. Una visione comune sulle cose da fare. Io lo vivo non come un problema, ma casomai come un’evoluzione positiva del quadro politico.» Poi il discorso scivola sulla complicata alleanza con il M5S. «In agosto, per la prima volta, i 5 Stelle, votando sulla pia aforma Rousseau, hanno fa o cadere il pregiudizio che non potessimo allearci nei territori. Il Movimento ha riconosciuto la fragilità della tesi secondo cui si può governare insieme l’Italia, ma non un paese della Lombardia o dell’Abruzzo. Alle elezioni amministrative abbiamo raccolto i fru i di un anno di semina. Il Pd ha una proposta politica di governo.»

«Al governo con il M5S per l’intera legislatura» La vi oria al referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari vi ha aiutato, faccio notare a Zingare i. «Se al referendum avesse vinto il No,» mi spiega «avremmo avuto un problema enorme con i 5 Stelle alle elezioni amministrative di se embre. Così, invece, c’è stata un’importante convergenza al ballo aggio. Abbiamo vinto in terra leghista a Saronno, a Legnano, a Lecco. Abbiamo vinto a Matera con il loro candidato. Zingare i troppo zi o? Zingare i boh? E invece Zingare i faceva politica, tra le persone. Non ho mai replicato, ma ho ritenuto infondate e ingenerose le accuse di aver abbandonato il Nord o che eravamo subalterni ai 5 Stelle. Poi abbiamo vinto nel cuore della Lombardia leghista, siamo diventati il primo partito italiano [nelle elezioni amministrative del se embre 2020] e siamo il baricentro di una proposta politica al paese. La strada è ancora lunga e complessa, ma è quella giusta. Certo, il pomeriggio di lunedì 21 se embre, in a esa dei risultati, questi corridoi del Nazareno erano deserti. Poi c’è stato un affollamento…» Darà a o che un Parlamento di 600 membri, da solo, resta appeso al nulla. «Infa i, serve una nuova legge ele orale e corre ivi per la piena rappresentanza di tu i i territori. Un proporzionale con sbarramento al 5 per cento sarebbe, comunque, la premessa per arrivare presto a un bicameralismo differenziato. Dopo anni di tentativi falliti, forse dobbiamo prendere a o che gli italiani non amano le grandi riforme costituzionali. Preferiscono una revisione fa a a piccoli passi. E va coinvolta anche l’opposizione, visto che la vi oria del Sì è stata bipartisan.» Eppure, nella storia del Pd c’è la vocazione maggioritaria, rinverdita ogni tanto da Romano Prodi e da Walter Veltroni. «La storia ci dice che la teoria sulla no e in cui si elegge il premier perché c’è il maggioritario non ha avuto sempre molta fortuna. Meglio un proporzionale con una forte correzione maggioritaria. Garantisce, a mio giudizio, maggioranze più stabili, visto che entrerebbero in Parlamento soltanto forze politiche più omogenee.»

Dai calcoli del Pd ne entrerebbero soltanto 6, rendendo più gestibile la macchina parlamentare. Nella tarda estate del 2019 Zingare i, che avrebbe preferito le elezioni, acce ò l’alleanza con il M5S puntando a completare la legislatura. Dopo molte difficoltà, il rapporto con Di Maio si è irrobustito. «È la persona che più sta scomme endo sull’evoluzione politica in a o. Ha capito che la salvezza del M5S non sta nel rinnegarne l’identità, ma nel riposizionarlo nella fase nuova che si è aperta. L’errore dei 5 Stelle era il no a prescindere. Era sbagliato, come sarebbe sbagliato il sì sempre. Discutendo sui singoli candidati, si proporrà un nuovo centrosinistra. Un partito destinato a non eleggere più nessuno, grazie all’alleanza con noi ha vinto a Matera e in alcuni centri della Campania.» Si può parlare di alleanza strategica? «Queste sono chiacchiere. Adesso conta governare insieme fino alla fine della legislatura, con una visione e un programma comuni, avere una comune posizione sul presidente della Repubblica e gestire il Recovery Fund.»

Tentazioni e rischi del rimpasto di governo State provando a candidare sindaci comuni nelle grandi ci à. Lei punta su una grande Roma per Expo 2030 e per il bimillenario della morte di Cristo nel 2033. È complicato portare avanti questo disegno con chi non ha voluto le Olimpiadi?, chiedo a Zingare i. «In molti nel centrosinistra stanno so ovalutando la figura del sindaco di Roma. È importantissima. Credo persino che sarà la figura politica italiana più in vista sul piano internazionale nei prossimi anni.» Il 18 o obre 2020 Carlo Calenda si è candidato a sindaco di Roma. Il Pd non l’ha presa bene. Calenda è un forte elemento di disturbo, e infa i Zingare i non risponde alla mia domanda su questo tema. C’è poi la questione dei soldi del Mes. Perché anche il ministro Gualtieri è tanto freddo? «Non è proprio così» risponde il segretario del Pd. «La discussione è quanti dei soldi che arrivano

debbano aumentare il debito e quanti vadano a coprire spese già programmate. Sono convinto che le spese per la sanità siano un investimento ad alto valore aggiunto: a raverso il benessere e la sicurezza personale aiutano anche la crescita della ricchezza materiale. Dobbiamo pensare a un nuovo modello per la sicurezza della salute, altrimenti avremo percentuali sempre maggiori di popolazione esposta al collasso. Dobbiamo distinguere gli ospedali dedicati alla cura delle grandi patologie dai presidi sociosanitari sui territori e dalla sanità domiciliare che eviti ricoveri inappropriati. Il Covid ci ha insegnato come curare a casa molti malati. Ho in programma di dotare le case popolari del Lazio di banda larghissima che, con la telemedicina, consenta, per esempio, di controllare la pressione con il cellulare. La telemedicina può davvero migliorare i livelli essenziali di assistenza. È il sistema più idoneo a migliorare l’inclusione sociale, rendendo i servizi alla persona più uguali per tu i.» Zingare i ritiene anche che un grande investimento nella Green Economy porti con sé un allargamento della sfera dei diri i e dell’inclusione sociale. Come? «Ogni giorno 600.000 persone entrano a Roma dalle vie consolari, subendo intasamenti drammatici e un’enorme perdita di tempo. Collegare con la metropolitana i centri maggiori della provincia sarebbe una vera svolta sociale. Come estendere finalmente a tu o il Mezzogiorno l’alta velocità ferroviaria.» Il segretario del Pd non risponde alla domanda sui rapporti con il governo Conte. Sono troppo oscillanti. Si è imbufalito quando il presidente del Consiglio ha fa o capire di non voler prendere i soldi del Mes («Gli portiamo l’acqua con le orecchie» si sfogano i suoi «e lui ci tra a così»), salvo poi ricomporre tu o con un nuovo pa o di legislatura. Zingare i viene spinto a entrare nel governo, anche se non ne ha una gran voglia, perché dovrebbe lasciare la guida della Regione Lazio. Ma il governo va irrobustito: ha molti ministri fragili, nel M5S e non solo. A Conte farebbe comodo averlo dentro, magari come ministro dell’Interno. Meno come vicepresidente del Consiglio in coppia con Di Maio. Si sentirebbe il fiato sul collo.

g pp Ma arella, invece, non vorrebbe muovere niente. L’esperienza gli ha insegnato che i rimpasti si sa come cominciano, ma non come finiscono.

Di Maio: «Mi fanno male gli a acchi sul terzo mandato» Anche se non si può dire, anche se le a ribuzioni di capo politico ad interim del M5S sono di Vito Crimi, che non ama affa o essere chiamato «reggente» (ma di fa o lo è), Luigi Di Maio si è ripreso il partito, pardon, il MoVimento. Ha imparato da Andreo i che, per comandare, non è necessario essere segretario del partito, né capo della delegazione quando il presidente del Consiglio non è della famiglia. E infa i, se Crimi porta la croce di dover stringere le briglie a un movimento inquieto, Alfonso Bonafede si è caricato quella di dover tra are ogni virgola di ogni provvedimento con Franceschini, Speranza e Teresa Bellanova, che rappresentano la maggioranza di governo, e naturalmente con il presidente del Consiglio, che è un prestigiatore di altissima classe. Adesso, come abbiamo visto, Di Maio va perfe amente d’accordo con Zingare i in nome di una ritrovata unità nella prospe iva delle elezioni locali del 2021 e del 2022. «Gli accordi con il Pd dell’estate 2020» mi dice il ministro degli Esteri a fine o obre 2020, tra un viaggio e l’altro, «ci hanno consentito di conquistare con candidati condivisi 5 importanti comuni della Campania, oltre ai sindaci di Matera e di Termini Imerese. In undici anni di vita del Movimento, abbiamo conquistato soltanto 45 comuni su 8000, e nessuna regione. Abbiamo vinto solo dove le coalizioni avversarie erano spaccate. Non potevamo andare avanti così. Il tema vero non è un’alleanza per sempre con il Pd, di cui non ho mai parlato con Zingare i, ma nel 2021 si vota per i sindaci di Roma, Milano, Torino, Bologna, Napoli e Trieste (la sola governata dall’opposizione). Nel 2022, per quelli di Genova e Palermo e, nell’autunno del 2022, per la Regione

siciliana. Al governo stiamo insieme per decidere come spendere i soldi del Recovery Fund, a livello comunale e regionale dobbiamo concordare i candidati.» A Roma, faccio notare, c’è il problema di Virginia Raggi, che si è già ricandidata. «Virginia è e va sostenuta dal Movimento. Trovo inopportuno parlare di nomi: con il Pd dobbiamo parlare di programmi.» I sindaci del M5S sono stati candidati per la terza volta. Tu i danno per scontato che la stessa cosa varrà per i parlamentari. Sarebbe quindi singolare che ministri uscenti non si ricandidassero. «Questa discussione è malsana. Abbiamo ancora due anni e mezzo di governo e verremo giudicati dal Movimento alla fine della legislatura. Mi fa male che al nostro interno partano a acchi sulla storia del terzo mandato che, in ogni caso, deve essere all’ordine del giorno degli Stati generali.» Capo politico o gestione collegiale? La figura del capo politico è prevista dalla legge ele orale, osservo. «Stiamo lavorando a una legge ele orale proporzionale: il Movimento correrà da solo e, al momento opportuno, sarà indicato il capo della forza politica. Oggi non credo che una sola persona possa sintetizzare tu e le anime del Movimento. Due anni fa era più semplice. Oggi serve un organismo sul quale scaricare valutazioni e proposte diverse. Saranno gli Stati generali a decidere se istituire questo organismo collegiale.» Davide Casaleggio ricorda che voi avete già un organismo collegiale, il Team del futuro: 200 persone di cui 18 con incarichi operativi. «Queste persone stanno facendo un grande lavoro,» precisa Di Maio «ma si occupano di se ori tematici. Noi stiamo parlando di un sogge o collegiale che assuma decisioni politiche.» Assomiglia in tu o e per tu o alla segreteria politica di un partito. «Non ci stiamo trasformando in un partito. Dopo undici anni dobbiamo dotarci di una stru ura organizzativa senza perderci in una ba aglia di parole. Nel 2009 Beppe Grillo disse che il M5S nasceva per poi scomparire. In seguito siamo andati al governo e ci siamo accorti che cinque anni non sono sufficienti a realizzare tu o il nostro programma. Abbiamo l’ambizione di

p g restarci anche nella prossima legislatura e dobbiamo dotarci di un’organizzazione idonea. Constatiamo che il confronto del governo con regioni e comuni è sempre più importante e non possiamo restare con zero regioni e 45 sindaci su 8000.»

«Casaleggio non incide sulle scelte politiche» Con questo tipo di organizzazione simil-partitica rischiate di perdere Casaleggio e Di Ba ista, faccio notare al ministro degli Esteri. «C’è una differenza tra i due» risponde. «Li stimo entrambi e quello che propongo non è mai contro qualcuno. La democrazia dire a è compatibile con una certa organizzazione. E, nelle decisioni importanti, gli iscri i possono votare pure per le scelte territoriali. Nell’era delle coalizioni occorrono anche persone sul territorio che siano in grado di gestire la complessità di certi processi.» Torniamo a Casaleggio e Di Ba ista… «Alessandro non ha messo in discussione l’alleanza nelle coalizioni, e noi alle elezioni del 2023 ci presenteremo da soli. Davide si è messo sempre a disposizione, ma non incide sulle decisioni politiche. Anche il sistema Rousseau evolverà con il Movimento. Il capo politico deciderà se so oporre al voto degli iscri i la nascita dell’organismo collegiale.» (Altra grana per il povero Crimi.) Casaleggio vorrebbe far votare gli iscri i anche sui vostri rappresentanti nelle società partecipate dallo Stato. «Ho visto che Davide ha già smentito quello che lei riporta. [In realtà, Casaleggio lo conferma in questo stesso capitolo.] In ogni caso, in un governo di coalizione individuare i profili dei candidati è un’a ività supercomplessa, visto che dobbiamo discuterli con gli altri tre alleati della coalizione. Sono preoccupato che negli Stati generali ci si confronti soltanto su una linea identitaria e non ci si aiuti ad avere la responsabilità di un programma realistico da realizzare il giorno dopo.» Non avverte qualche refolo di scissione?, gli chiedo. «No. Il Movimento ha mostrato grande capacità di resilienza e ha superato

anche importanti stress test.» Chi ha la titolarità del simbolo? «Il capo politico, cioè oggi il reggente, con diri o di prelazione da parte del garante, cioè Beppe Grillo.» Se Casaleggio se ne andasse, potrebbe portare via il simbolo? «Ma Casaleggio non vuole andarsene e noi dobbiamo restare tu i uniti.» È in corso una tra ativa per la cessione della pia aforma Rousseau da Casaleggio al Movimento. Si parla di una richiesta superiore al milione di euro. Crimi nicchia. «Crimi non ha ricevuto una proposta per comprare Rousseau, ma per la fornitura dei servizi a una certa cifra. Oggi gli ele i versano una cifra a Rousseau. Senza alcuno spirito di contrapposizione, si vorrebbe che gli ele i versassero il loro contributo al Movimento, che lo userebbe per pagare i servizi di Rousseau.» Parliamo di governo. Il confronto dei 5 Stelle con il Pd e Italia Viva è estenuante. Dossier importanti come Alitalia, Autostrade, Ilva sono stati paralizzati per mesi. «Questo deriva in parte dal potenziato intervento dello Stato nell’economia. Fabrizio Palermo, amministratore delegato di Cassa depositi e prestiti, ha portato a termine nell’o obre 2020 due operazioni di grosso calibro come Nexi e Borsa italiana [sulle quali abbiamo appena riportato l’opinione del presidente del Consiglio]. Non deve meravigliare che in dossier di grosso calibro ci siano divergenze di vedute tra alleati di governo. Non bisogna vergognarsi per questo. Il problema è la lentezza.»

«Prendere il Mes ci indebolirebbe sui mercati» Perché siete così contrari a prendere i 36 miliardi del Mes destinati alla sanità?, chiedo a Di Maio. «Lo spread è ai livelli più bassi da quando siamo al governo: possiamo finanziare la sanità a ingendo al mercato dei capitali e al Recovery Fund. Tra l’altro, nessun paese li ha chiesti in Europa per l’emergenza Covid. Perché dovremmo farlo noi e, dunque, dare un segno di debolezza verso i mercati?»

A proposito, sui 209 miliardi del Recovery Fund in arrivo deciderete da soli come al solito o coinvolgerete finalmente le opposizioni? «Non sono soldi nostri, ma soldi degli italiani. Dovremo coinvolgere il più possibile le opposizioni, decidendo in un clima di unità nazionale quali proge i finanziare. Non possiamo dimenticare che il centrodestra governa nella maggior parte delle regioni.» A proposito del Recovery Fund, non è facile me ersi d’accordo sulle priorità. «Ci sono state richieste per 600 miliardi, contro una disponibilità di 200. Al di là dell’o ima scrematura fa a dal ministro Vincenzo Amendola, dobbiamo concentrarci su digitalizzazione e Green Economy, sostenendo aziende pubbliche e private. Parliamo di investimenti e non di spese fini a se stesse. Per quel che mi riguarda, incoraggerò le dinamiche concorrenziali per spendere velocemente e al meglio i fondi che ci sono stati assegnati.» Di Maio vede nella legge di bilancio per il 2021 il primo strumento per sbloccare gli investimenti senza aumentare le imposte. «Potremo superare la crisi economica in arrivo soltanto a raverso una forte riforma fiscale. Non potremo accontentare tu i, con il rischio di non accontentare nessuno. La nuova fiscalità deve far risparmiare le famiglie, ma deve al tempo stesso sostenere proge i di riconversione del paese.» Come va riformato il reddito di ci adinanza?, gli domando. «Mi lasci innanzitu o dire che chi ha strumentalizzato il reddito di ci adinanza, in una fase tanto critica e delicata, lo ha fa o solo ed esclusivamente per una mera questione politica. Preferisco pensare ai racconti di vita reale: sono tante le persone che ho incontrato e che ci hanno de o grazie, perché il reddito di ci adinanza così come il reddito di emergenza sono stati essenziali, sopra u o nella fase del lockdown. Il reddito di ci adinanza, poi, più in generale, ha ridato speranza e dignità a chi non le aveva più, ha permesso a padri di poter sfamare i propri figli. Certo, tu o è migliorabile. A tale proposito, voglio ricordare che i perce ori di reddito, oltre a lavorare per il bene della colle ività, dovranno, per esempio, dare sostegno alle piccole e medie imprese, linfa vitale della nostra

g p p economia. Questa è una misura su cui stiamo lavorando. Ovviamente, alla luce del periodo che stiamo a raversando, credo sia necessario adeguare tu i i diversi strumenti messi in campo dal governo per dare sostegno ai ci adini.» Luigi Di Maio è il ministro degli Esteri del governo Conte nel momento in cui i nostri rapporti con la Cina (la «Via della Seta», promossa sopra u o dal M5S) inquietano assai gli Stati Uniti. «Nell’incontro con il segretario di Stato americano Mike Pompeo, abbiamo convenuto su quanto siano forti i rischi per la nostra sicurezza nazionale dovuti a interferenze su alcune reti strategiche di comunicazione e a certi a acchi predatori ai nostri porti.» Si riferisce agli interessi cinesi su Taranto e Trieste? «Il dossier su Taranto si è raffreddato e su Trieste, se le cose non evolvono in modo rassicurante per noi, siamo pronti a esercitare il golden power per fermarle. Noi accogliamo volentieri tu i gli investitori, ma controlliamo quelli che hanno interessi estranei al business. L’Italia sta nella Nato e nell’Unione europea, e il Movimento sostiene una linea di fedeltà. Naturalmente, essendo un paese esportatore, abbiamo interesse ad avere buoni rapporti con tu i.» In Libia, che sta sull’uscio di casa nostra, ci siamo assai indeboliti. «Il tema è molto semplice. Né noi né l’Unione europea possiamo intervenire con le forze armate in soccorso di al-Sarraj. Turchi, egiziani e russi possono muoversi liberamente in quello scacchiere. Un passo in avanti è stato compiuto quando Tripoli e Tobruk hanno acce ato di basare a Sirte le istituzioni provvisorie. Per questo è stato determinante l’intervento americano, che per un anno ho sollecitato a Pompeo. La pace in Libia non è soltanto un interesse italiano. La Libia è vicina alla base siciliana di Sigonella. E in Libia ci sono i Mig e i Sukhoi. È in gioco la sicurezza della Nato.» Erdog˘ an ha intenzione di ricostituire dopo cent’anni l’impero o omano, caduto nel 1922? «La Turchia ado a posizioni che irritano molti paesi dell’Unione europea. Ho de o al ministro degli Esteri turco che noi siamo disponibili al dialogo, ma devono cessare le provocazioni. Sappiamo bene, però, che per chiudere una porta basta un a imo e per riaprirla occorrono dieci anni.»

Di Ba ista: «Mai il terzo mandato per i parlamentari» «La politica, per me, non deve essere una professione, ma un’a ività per un tempo limitato a sostegno della colle ività. È l’unica a ività umana che fai peggio se la eserciti da professionista.» Così Alessandro Di Ba ista mi spiega, due anni dopo, la sua decisione di non candidarsi alle elezioni del 2018. «Certo, se non fosse nato mio figlio Andrea a ridosso delle elezioni del 2018, qualche tentazione forse l’avrei avuta. Ma sono felice che sia andata così. Fare un lungo viaggio on the road con Sahra e con il bimbo piccolo è stata un’esperienza esaltante.» Sahra è la giovane franco-algerina, cresciuta a Parigi, conosciuta da Di Ba ista nel 2017 in un locale vicino piazza Mancini, a Roma. «È rimasta incinta di Andrea dopo qua ro mesi. Poi, il 4 agosto 2020, giorno del mio compleanno, è nato Filippo…» Per non confondere politica e professione, gli chiedo, lei è contrario a estendere il terzo mandato dei sindaci anche ai parlamentari? «Il lavoro dei sindaci in una grande ci à, come quello di Virginia Raggi a Roma o di Chiara Appendino a Torino, non è un privilegio, nemmeno economico. Hanno bisogno di più tempo per realizzare i loro programmi. Per un parlamentare è diverso. Se si fanno dieci legislature come Casini o nove come la Bonino, fatalmente si pensa più a se stessi che alla lo a politica. Se la politica diventa un lavoro, è umano fare qualsiasi cosa per non perderlo. Io non sono fa o così. Ho restituito anche il 100 per cento del Tfr. È incredibile che fare un lavoro normale, come dare una mano d’estate al bar di mio cugino, sembri quasi un’onta. Avrei dovuto farmi assegnare un posto in una società partecipata? Crede che, se avessi voluto fare il ministro, non sarebbero bastate un paio d’interviste moderate, con una strizzatina d’occhi al potere finanziario, per farmi acce are dal Sistema?» Se il Movimento dovesse decidere per un terzo mandato anche ai parlamentari, lei come reagirebbe? «Non sarebbe più il Movimento in cui mi ritroverei. Nel 2007, nel primo V-Day di Grillo, furono stabiliti tre princìpi: no al ritorno delle preferenze, via i condannati dal Parlamento e due mandati per gli ele i. Restare fermi ai due

mandati non è un’opzione, ma una regola fondativa del Movimento.» Perché ritiene che il M5S si stia indebolendo? «Perché sta tornando il bipolarismo. Il M5S è nato per ostacolare il bipolarismo, che è un sistema, grazie al principio della finta alternanza e della spartizione di potere con le nomine, più gradito all’establishment.» E dunque, qual è l’alternativa? «Andare alle elezioni da soli e, poi, decidere con chi andare al governo. Ma un conto è fare una tra ativa stando al 33 per cento, un conto farla con l’8 per cento. Perché quella è la percentuale che il Movimento prenderebbe arrivando alle elezioni in coalizione con il Pd. Infa i, se fossi un dirigente del Pd, farei di tu o per stare in coalizione con noi. Perciò, rifiuto questa ipotesi.» Cioè, quella che lei ha chiamato la «morte nera»? «È esa amente quello che penso. Ma parlerei di “morte nera” anche in caso di alleanza stru urale con la Lega.»

Di Ba ista: «Se il M5S diventa un partito, me ne vado» Quale strategia suggerisce al Movimento?, domando a Di Ba ista. «Il Covid ci ha insegnato che gli interventi dello Stato vanno rafforzati. L’epidemia ha rafforzato i grandi e indebolito i piccoli. Il proprietario di Amazon ha moltiplicato il suo patrimonio, McDonald’s non chiude, la tra oria di vicinato sì. La grande catena di abbigliamento in genere resiste, il negozie o no. Io rimprovero al Pd di aver fa o negli anni Novanta gli interessi dei grandi gruppi, con la svendita del patrimonio pubblico ai tempi di Prodi e D’Alema, con Mario Draghi dire ore generale del Tesoro. Il Pd ha indebolito i piccoli, tradendo la sua missione storica. Credo che andrebbe incoraggiato lo spopolamento delle periferie urbane in favore dei piccoli centri dove si vive meglio, come ci ha dimostrato il lockdown. Di qui la necessità di una capillare campagna di manutenzione e di ammodernamento dell’urbanistica esistente, senza bisogno di grandi opere.»

Eppure, faccio notare, lei sa che questo paese ha bisogno anche di grandi infrastru ure. «Certo, se parliamo di portare l’alta velocità al Sud, tra Roma e Pescara, tra Palermo e Catania. Non opere inutili come il Tav, al quale resto fermamente contrario.» Perché ha pensato di poter lasciare il Movimento?, domando. «Come le ho de o, la carriera politica non fa per me. Se condivido il proge o del Movimento, resto; se non lo condivido, me ne vado.» Ma, in caso lo condividesse, sarebbe pronto a ricandidarsi? «Oggi mi candiderei per un Movimento estraneo alle coalizioni di destra e di sinistra, che si presenti da solo con un programma preciso.» E cioè, quale programma? «Aiutare la piccola impresa e rafforzare lo Stato imprenditore nelle politiche ambientali. Infine, un grande sostegno alla famiglia, non necessariamente legato a convinzioni religiose, come fa la destra.» Quando lamenta l’occupazione delle istituzioni da parte dei partiti si riferisce anche al M5S? «Ricorda l’intervista di Scalfari a Berlinguer del 1981?» mi chiede Di Ba ista. «Il leader del Pci disse: i partiti non fanno più politica, occupano le istituzioni e lo Stato. Il M5S è nato come un Movimento basato sulla restituzione di parte delle indennità parlamentari, su deputati e senatori intesi come portavoce, su una pia aforma che decide le candidature. Questo ci differenziava dai partiti. È evidente che se il M5S diventasse un partito come gli altri, come quelli denunciati da Berlinguer, io non mi ci riconoscerei e me ne andrei.» Come spiega la crisi del sistema Rousseau e la sostanziale ro ura dei principali dirigenti del Movimento con Davide Casaleggio? Se lo strappo diventasse definitivo, lei lascerebbe? «Rousseau non è affa o in crisi. Il problema non è Casaleggio, con il quale conservo un o imo rapporto. Il problema è che alcune persone vogliono stru urare il Movimento in partito. Questo, per me, sarebbe un errore inacce abile.» Lei è contrario a una gestione collegiale del Movimento? «Io avrei preferito che si nominasse un capo politico, e so che una parte del Movimento è contraria perché teme che possa essere io a ricoprire questo ruolo. E invece io non ho mai avuto particolare interesse a farlo. Un organo collegiale non mi scandalizzerebbe, e

g g anche qui io non ho alcun interesse a farne parte. A me interessa capire qual è l’agenda politica del Movimento per i prossimi dieci anni.» È possibile una scissione? «Io non farò mai nulla del genere. Io non voglio indebolire il Movimento. Lo amo troppo. Io sono grato al M5S. Gianroberto Casaleggio per me è stato un secondo padre. Con Beppe, qualche volta non sono d’accordo, ma mi lega a lui il valore della riconoscenza.»

Casaleggio: «Se il MoVimento diventa partito, me ne vado» Il 13 febbraio 2020 Davide Casaleggio fu ospite di «Porta a porta». Mi fece chiedere la disponibilità a ospitarlo e io acce ai, naturalmente, molto volentieri. Casaleggio è merce mediatica assai rara: rilascia pochissime interviste ai giornali, non va quasi mai in televisione. Ero molto interessato a incontrarlo, perché Di Maio (sapendo che, ovviamente, non lo avrei creduto) me ne parlava come di una specie di supertecnico informatico, il gestore del sistema Rousseau. I retroscenisti della carta stampata lo consideravano il Grande Vecchio che, in accordo con Beppe Grillo, dominava il Movimento. Il «New York Times» lo aveva definito l’uomo più potente d’Italia, in quanto gestore dello strumento di controllo del partito più importante. La prima domanda per questo libro è, perciò, chi sia il «proprietario» del M5S. «A detenere il “potere” nel Movimento 5 Stelle» risponde Casaleggio «sono gli iscri i e lo esercitano tramite Rousseau. Da quindici anni abbiamo ado ato varie modalità di sostegno economico del sistema e altre ancora per Rousseau. Solo negli ultimi due anni i parlamentari contribuiscono con 300 euro mensili. Alcuni, oggi, pensano sia opportuno condurre la loro ba aglia politica interna al Movimento sme endo di versare e sostenere il proge o.»

I parlamentari in ritardo con i pagamenti sono 163, oltre la metà di quanti siedono alla Camera e al Senato. Questo l’ha costre a a tagliare alcuni servizi? «Abbiamo limitato alcuni impegni e abbiamo disde o il contra o d’affi o per una parte dell’ufficio di Milano per continuare a pagare gli stipendi ai nostri collaboratori.» Quando faccio anche a Casaleggio la domanda sulla cessione di Rousseau al M5S, lui mi mostra un WhatsApp con il bilancio dell’associazione: il servizio costa 1 milione 200.000 euro. È questa, quindi, la somma che il Movimento deve corrispondere, se vuole il servizio. Il problema è che la gran parte dei parlamentari non si riconosce in Rousseau. E questo significa picconare le colonne portanti del M5S. Nel nostro incontro televisivo di febbraio, ricordo a Casaleggio, lei mi confermò che Rousseau e M5S sono inscindibili. «Oggi il sistema è a ivo, e quindi si può votare su Rousseau. Rousseau è un metodo che ha ereditato dal Blog un ecosistema di strumenti che consentono la partecipazione degli iscri i alle scelte del Movimento. È un metodo di partecipazione dal basso scri o in tu e le carte fondative del Movimento 5 Stelle.» Che succede se cade Rousseau? «Sento voci e vedo anche dichiarazioni pubbliche di alcuni che vorrebbero spostare il flusso del potere e centralizzarlo» mi risponde. «Vorrebbero decidere a Roma che cosa deve accadere nelle periferie. Ma questo sistema è tipico dei partiti. Vede, io presto da quindici anni gratuitamente la mia opera insieme a migliaia di volontari che hanno consentito di coinvolgere gli iscri i nelle scelte del Movimento. La tendenza a centralizzare mi preoccupa, perché vedo la volontà di trasformare il Movimento in partito.» Lei è stato uno dei primi due iscri i al M5S. Se avvenisse questa trasformazione, resterebbe? «Non entrerei in nuovi contesti partitici. Rimarrei nel Movimento.» Casaleggio pensa che, se dovesse rimanere nel Movimento, ne uscirebbero gli altri. Ma quando gli chiedo insistentemente di chi sia la titolarità del simbolo, lui bu a la palla in tribuna, limitandosi a rispondermi che quello depositato per le elezioni del 2018 è

intestato all’associazione Movimento 5 Stelle, con sede a Roma. Che significa per il futuro? Torno a chiedere: Rousseau e Movimento non sono scindibili? «Il metodo di partecipazione dal basso è inscindibile dal conce o stesso di Movimento. Altrimenti si passa all’organizzazione di partito.» Il M5S può trasformarsi in partito? «Se la maggioranza delle persone decidesse di farlo, dubito che ci sarebbe un’unità d’intenti con la minoranza.» In questo caso, quindi, ci sarebbe una scissione. «Se qualcuno vuole costituire un partito, credo che seguirebbe l’esempio di altri fuorusciti che hanno cercato nuovi simboli.» Come giudica i risultati del Movimento alle ultime elezioni regionali? «Anche nel confronto con le regionali precedenti, che è il criterio più corre o, c’è stata una caduta importante di consenso. Molte persone sono rimaste deluse da un metodo di partecipazione diverso dal passato. In Liguria si erano interpellati gli iscri i su una possibile alleanza con il Pd, poi questa è avvenuta senza approfondimento e senza un programma. Si è creato un limbo difficilmente comprensibile. Non è forse un caso che i tre più votati dagli iscri i come candidati abbiano abbandonato il Movimento. In Campania, all’inizio dell’anno c’era stata una grande riunione in presenza in cui gli iscri i avevano espresso la volontà di non fare alleanze.» Che poi non si sono fa e… «Sì, ma prima di votare la nostra candidata presidente sono passati sei mesi e questo l’ha messa in grande difficoltà.»

«Gli iscri i dicano la loro anche sui manager delle società di Stato» Quando chiedo a Casaleggio che cosa pensa dell’ipotesi di un’alleanza nazionale con il Pd per scegliere insieme i candidati sindaci del 2021, mi risponde: «Ad agosto 2020 è stato votato un

documento in cui gli iscri i dovrebbero esprimersi sulle alleanze comune per comune, e non necessariamente con il Pd. Ritengo che sarebbe meglio guardare alle liste civiche che non ai partiti. È difficile imporre dall’alto alleanze locali. La differenza tra partito e movimento è proprio questa. Nei partiti, tre persone si riuniscono a Roma e decidono che cosa fare in un paesino della Valle d’Aosta. Abbiamo visto come sia stato difficile fare alleanze in Campania o in Emilia Romagna, dove il M5S aveva sempre comba uto contro le politiche portate avanti dal Pd, come per esempio in materia di inceneritori o di acqua pubblica». Capo politico o gestione collegiale? «Prima delle scorse elezioni politiche fu varata una legge per me ere in difficoltà il M5S. Si è stabilito che ogni partito dovesse avere un capo politico come rappresentante legale. Quindi, per rinunciarci, dovrebbe cambiare la legge.» Potrebbe esserci un primus inter pares… «A gennaio 2020 abbiamo votato per la nascita di un Team del futuro di 200 persone, tra cui 18 ricoprono incarichi chiave: 12 le aree tematiche (per esempio, l’ambiente) e 6 le aree funzionali (per esempio, le campagne ele orali). La collegialità c’è già. Vede, noi ci siamo dati un’organizzazione olocratica, come quella di supporto infermieristico Buur org in Olanda o l’azienda di a rezzature sportive Patagonia negli Stati Uniti. Organizzazioni di persone senza la tradizionale stru ura gerarchica che coltivano colle ivamente idee e azioni anche grazie alla rete. Collegialità significa applicare le decisioni degli iscri i.» Quindi, un capo politico sarebbe il portavoce degli iscri i? «Direi di sì.» Casaleggio non crede all’ipotesi di una segreteria allargata. «Se parliamo di collegialità, ci sono gli iscri i e c’è il Team del futuro. Le segreterie appartengono al modello partitico.» Come immagina sul piano operativo la gestione della volontà degli iscri i? «Mi piacerebbe un maggior coinvolgimento degli iscri i anche sulle nomine: da quella dei ministri a quella dei rappresentanti del Movimento nelle società partecipate dallo Stato.»

Si riconosce in quello che fa il governo?, gli domando. «In alcune iniziative sì, in altre meno. Bene il reddito di ci adinanza, la legge spazzacorro i, la riduzione del numero dei parlamentari. Male il prolungarsi della soluzione del problema Autostrade o le nuove provvidenze all’editoria alle quali siamo stati sempre contrari. Ma presumo siano il risultato della contra azione con le altre forze politiche al governo.» Nessuna deroga ai due mandati per i parlamentari? «No, è uno dei princìpi cardine del Movimento. Il parlamentare svolge un servizio civico per un tempo limitato, non per carriera.» Se ci fosse una deroga, Di Ba ista andrebbe via. Anche lei? «Se il Movimento si chiama movimento, è perché ci sono regole fru o della partecipazione dal basso. Se queste regole cambiassero, se il M5S si trasformasse in un partito, io non mi ci riconoscerei. Finora ho prestato la mia opera gratuitamente. Tornerei a coltivare altri interessi.»

Renzi, il sogno della Nato e l’odierna impopolarità Quando ci vedemmo a fine o obre 2019 per il libro Perché l’Italia diventò fascista, Ma eo Renzi era reduce da una doppia capriola: aveva costre o il Pd a fare un governo con i 5 Stelle, mentre Nicola Zingare i avrebbe preferito le elezioni proprio per togliersi di torno un bel po’ di renziani, e, un minuto dopo il giuramento dei so osegretari, si era dimesso dal partito fondando Italia Viva. Un anno dopo corre voce che, tra un a entato anarchico al governo Conte e l’altro, pensi a scappare candidandosi alla segreteria generale della Nato. Lui mi smorza chiarendo che «sì, potrebbe toccare all’Italia occupare il posto di Jens Stoltenberg, ma il suo mandato scade nel se embre 2022». In una bella ma inata dell’o obre romano 2020, Renzi mi riceve in un angolo del delizioso piccolo a ico di un palazzo gentilizio affi ato nel cuore del cuore di Roma («È la mia prima casa romana, finalmente»).

L’idea della fuga nasce dal fa o che oggi ha un tasso di impopolarità che va ben oltre i suoi errori, che non sono pochi. «È ormai un genere le erario» ironizza lui. «Roba del passato. Un tempo c’era un consenso pazzesco sulla mia persona e grande incertezza su come lo avrei utilizzato. Eppure, il biennio 2015-2017 è stato l’unico in cui il paese ha avuto una visione. Jobs Act, Industria 4.0, legge sul “dopo di noi” e sull’autismo, la rete dappertu o con Open Fiber… Oggi questi risultati vengono riconosciuti, ma non mi vengono a ribuiti. Ma ormai sono talmente in pace che non mi arrabbio nemmeno più. Sorrido e vivo la mia nuova vita con molta tranquillità.» Bene, allora dove ha sbagliato?, gli chiedo. «Nel non preoccuparmi del consenso giorno per giorno. Ho trado o la visione in provvedimenti concreti, anche con una certa dose di arroganza. Comunque, preferisco avere le ricadute sui risultati e non sul consenso personale. Non potrei fare quello che fa Giuseppe Conte con Rocco Casalino, che guarda i sondaggi minuto per minuto. Se avessi guardato i sondaggi, non avrei fa o la legge sui diri i civili, né il Jobs Act e forse nemmeno il 4.0. Ma capisco che sarebbe stato meglio guardarli un po’ di più.» Ecco che il discorso cade sul presidente del Consiglio. È noto che Renzi preferirebbe un altro al suo posto, ma certo non può amme erlo. «Abbiamo un rapporto altalenante» racconta. «Lui per tanti aspe i è il mio opposto: molto a ento alle forme, rassicura senza sfidare. Lui fa le task force, io decidevo. La sua è una leadership più avvolgente, più rotonda. Con me a palazzo Chigi c’era il timore dell’uomo solo al comando, oggi trionfa l’a itudine democristiana del troncare e sopire, sopire e troncare. Normale che i salo i romani si sentano molto più al sicuro: c’è uno di loro, non l’alieno fiorentino. Però la Dc non c’è più e le personalità del passato erano decisamente più autorevoli. L’a itudine democristiana al rinvio ha senso se hai una visione. Siamo sicuri che questa oggi ci sia? Serve qualche dire a Facebook in meno e qualche proge o a lunga scadenza in più. I paesi più innovativi sanno che cosa fare da qui al 2030, noi non sappiamo come arrivare al Natale.»

Un tempo gli avrei chiesto se sarebbe rientrato nel Pd con Stefano Bonaccini al posto di Zingare i, ma alla fine del 2020 l’ipotesi non è realistica. «Non tornerei nel Pd a nessuna condizione. Al contrario di quel che si dice, Italia Viva sta funzionando. La nostra scuola di formazione è il vivaio più forte di tu i i partiti. Due nostri giovani sindaci, due avvocati, hanno vinto con l’80 per cento: Isabella Conti, ex Dc, a San Lazzaro di Savena (Bologna), e Ciro Buonajuto, ex Pci, a Ercolano (Napoli). È gente che sta sul territorio a costruire Italia Viva. Visto il basso livello al quale ci danno i sondaggi, raddoppiare è un obie ivo realistico. Davanti a noi c’è uno spazio politico enorme. La legge ele orale? Preferisco il maggioritario, però se vogliono il proporzionale con lo sbarramento del 5 per cento, a noi va bene, ma allora dobbiamo rime ere le preferenze.»

«Noi al mercato? Ci hanno dato quel che ci spe a» Ma lei non voleva il sindaco d’Italia?, gli domando. Come si è convertito al proporzionale? «Continuo a volerlo. Ma se gli altri non ci stanno, va bene pure il proporzionale. Anche le amministrative dimostrano che si può creare un sistema bipolare se c’è un accordo di maggioranza. Quindi, va bene anche il proporzionale, a pa o che ci siano le preferenze. Ci sono nei comuni, nelle regioni, nelle elezioni europee, e non capisco perché non debbano esserci alle elezioni politiche. Altrimenti, nelle liste contano solo i capibastone. Con le preferenze Italia Viva può arrivare al 10 per cento.» Bum! «Facciamo due conti. Nel nuovo Parlamento ci saranno 400 seggi alla Camera, quindi 400 candidati nostri. Se ogni candidato guadagna 4000 voti, ecco che ne prendiamo 1 milione 600.000, il 5 per cento solo con il voto organizzato…» Lei voleva essere determinante per far vincere Eugenio Giani in Toscana e far perdere Michele Emiliano in Puglia. Non lo è stato né in un caso né nell’altro. «Noi siamo stati determinanti in molti comuni. E abbiamo ele o i primi sindaci. È solo l’inizio, vedrà. Comunque, io non volevo far perdere Emiliano: semplicemente,

non voglio averci nulla a che fare. Se avessi fa o la campagna di Emiliano, i magistrati avrebbero aperto almeno tre fascicoli sul mio conto… In Toscana, è stato molto diverso. Lì siamo andati so o le nostre aspe ative, ma è accaduto un fa o impressionante. Fino a dieci giorni prima delle elezioni, i sondaggi assegnavano la vi oria alla Lega. Davvero pensavo di perdere. Dall’11 se embre è cominciato nel retropalco della Leopolda un lavoro certosino di mobilitazione. Anche psicologica (“Pontassieve non si Lega!”). Il Pd si è mosso, ha mandato i rinforzi da Roma, tanta gente più del previsto è andata al voto. Abbiamo vinto, ma Italia Viva è stata penalizzata dall’alta affluenza.» A Renzi, so o so o, non va giù che Zingare i venga acclamato sui giornali come il vincitore delle elezioni regionali di se embre. Quando si sfoga con i suoi, ricorda che nel 2015, dopo le elezioni regionali, il Pd e il centrosinistra avevano 17 regioni su 20. E rimproveravano a Renzi di aver perso la Liguria. Oggi il Pd ha 5 regioni su 20. Ma ormai su questo, in pubblico, non si fa beccare. C’è un ritrovato rapporto d’amore tra lui e Zingare i e un’intesa su tanti temi importanti, a cominciare dalla richiesta del famoso Mes. «Con l’aumento costante dell’età media,» precisa «occorrono grandi investimenti nella sanità. Non prendere i 36 miliardi del Mes sarebbe deli uoso.» Destra e 5 Stelle dicono che non li prende nessuno. Perché dovremmo farlo noi? «Perché nessuno è nelle condizioni dell’Italia e mi meraviglio che Roberto Gualtieri, persona che stimo, dica no al Mes per pagare un tributo ideologico ai 5 Stelle. Pensa che Prodi e Berlusconi avrebbero rinunciato a un risparmio di 270 milioni all’anno? Il Covid ha so oposto l’Italia a una prova durissima. Il vaccino studiato a Pomezia dalla Irbm di Piero Di Lorenzo e il farmaco studiato a Siena dalla Tls di Rino Rappuoli fanno dell’Italia una capitale mondiale della ricerca. Perciò dobbiamo investire in questo se ore.» All’inizio dell’anno, ricordo a Renzi, lei faceva minacce continue di aprire la crisi di governo. L’hanno placata con un paio di presidenze di commissioni parlamentari? «Non scherziamo. Noi abbiamo avuto quel che ci spe ava. Anzi, siamo so odimensionati.

q p Con 50 parlamentari e un ruolo decisivo al Senato, abbiamo 2 ministri e 1 so osegretario. LeU, con 16 parlamentari, ha il ministro della Salute e 3 so osegretari. Comunque, i posti non m’interessano. Ho acce ato di ritirare la mozione di sfiducia a Bonafede in cambio dei provvedimenti per la famiglia e del decreto “Sbloccacantieri”. Adesso che ho l’animo pacificato, fare politica è divertentissimo.» Come usciremo dalla di atura del Covid-19? «Dobbiamo aspe are che arrivi il dopoguerra. Il 2021 sarà un anno di transizione molto complicato, anche se ci saranno i vaccini e il turismo americano tornerà nella seconda parte dell’anno. Ma la crisi dell’occupazione sarà molto forte nella moda, nella valigeria, nel turismo e in tu o l’indo o. Conte, qualche segnale di a enzione, l’ha dato, ma occorre offrire al paese una visione chiara del futuro. Avrà la grande occasione di presiedere il G20 nel 2021 e ciascun ministero potrà dare le linee guida, dalla sicurezza alla difesa fino al mondo agricolo.» Come spenderebbe i soldi del Recovery Fund? «Non come ha cominciato a fare il governo, collazionando dal basso i proge i. Io suggerisco alcune linee di sviluppo. 1. Sbloccare i cantieri per le grandi infrastru ure. (I soldi li abbiamo: basta seguire gli esempi di Expo e ponte di Genova.) 2. Investire nell’università e nei centri di ricerca. (Noi siamo leader mondiali nella robotica e nell’intelligenza artificiale. Dobbiamo approfi arne.) 3. Sostenibilità ambientale senza pale i ideologici. (Eni, Enel, Maire Tecnimont sono campioni dell’economia circolare. Ma abbiamo campioni anche in aziende minori: Francesco Borgomeo con Saxa Gres ricava pietre dalle ceneri dei termovalorizzatori.) 4. Facciamo della Sicilia e della Sardegna un paradiso fiscale come il Lussemburgo e l’Irlanda, abbassando le tasse a chi ci investe. 5. Nessuno al mondo ha la nostra rete di volontariato, che dà da mangiare a chi ha bisogno. Trasformiamo il “terzo se ore” nel primo se ore nel creare posti di lavoro.» Chiudiamo parlando del M5S e del rinvigorito rapporto con il Pd dopo le elezioni di se embre 2020. «Italia Viva e il Pd dovrebbero fare con i 5 Stelle un contra o di governo. È meglio di un rinvio

g g costante su ogni problema. Il 2020 lascia in mano al Movimento una bomba il cui innesco è partito. Il M5S non esiste più. Avevano Rousseau come idolo e, di fa o, lo hanno abba uto. Dicevano no alle alleanze e le hanno fa e. Erano pauperisti e vanno in giro con le auto blu. Hanno impedito le Olimpiadi a Roma e ora le acce ano altrove. La nostra vi oria politica sta nell’aver portato Conte dal sostenere i grillini che incontravano i “gilet gialli” a me ersi sulla scia di Macron. La verità è che noi, Conte, lo abbiamo salvato sia dopo il Papeete sia su Bonafede. A me non interessa Conte, interessa il paese. In questa stagione mi pare ci sia più serenità e spero che finalmente si possa me ere al centro ciò che serve agli italiani, stoppando le polemiche di parte. Penso che Conte lo abbia capito e adesso tocca a lui convocare il tavolo politico di maggioranza che scriverà il futuro dei prossimi due anni.»

Carlo Calenda e il sogno di governare Roma Domenica 18 o obre Carlo Calenda ha annunciato la propria candidatura a sindaco di Roma. Me lo aveva anticipato qualche giorno prima. «Prendo a o che il Pd non mi vuole. Se mi ritenesse il candidato giusto non farebbe le primarie. Io le primarie non voglio farle perché in tempi di Covid andrebbero a votare solo le truppe cammellate: i militanti che non mi considerano uno dei loro e non mi voterebbero mai. Quindi corro da solo.» I sondaggi lo incoraggiano. Se il Pd non raggiungesse un accordo con il M5S e non avesse un candidato forte, Calenda potrebbe andare al ballo aggio con il candidato di centrodestra, ammesso che questo sia forte. E infa i, il Pd ha accolto l’annuncio con un fi o fuoco di sbarramento. Intanto ci godiamo il sole dell’o obrata romana nella terrazza del piccolo appartamento del suo partito, Azione. «È di 150 metri quadrati e ormai ci stiamo stre i. Siamo in 30 e ci trasferiamo in uno più che doppio. Siamo un partito benestante, perché abbiamo raccolto 1 milione 700.000 euro in un anno, e stiamo benissimo.» Azione è nata il 21 novembre 2019, dopo che il 28 agosto, per

protestare contro l’alleanza con i 5 Stelle, Calenda aveva annunciato le dimissioni dal Pd, nel quale era entrato dopo la sconfi a alle elezioni europee dello stesso anno. Romano, 47 anni, ha tre figli e una moglie, Violante, che ha affrontato a viso aperto un tumore dal quale sta uscendo («Spero di essere alla sua altezza» disse il marito), ministro dello Sviluppo economico con Renzi e Gentiloni. Sarà perché ha lavorato a lungo con Luca Cordero di Montezemolo, Calenda e il suo partito mi fanno pensare a una Ferrari con i motori che rombano, ma che va a passo d’uomo in a esa dello sca o. I sondaggi danno Azione intorno al 3-4 per cento, come Italia Viva di Renzi. Poco, per grandi ambizioni. «E invece arriveremo al 10 per cento» prome e il suo fondatore. Con Emma Bonino? «Piano piano, quelli che non si riconoscono nei populisti e nei sovranisti si aggregano al partito più grosso, con una legge ele orale proporzionale che me e lo sbarramento al 5 per cento.» Allora vi unirete anche a Renzi? «Il 99 per cento degli italiani non lo sopporta. È una punizione immeritata, ma le cose stanno così. Gli rimproverano arroganza e spregiudicatezza. Eppure, in privato Ma eo è simpatico e autoironico. I sondaggi mi dicono che l’87 per cento dell’ele orato potenziale di Azione non vuole l’alleanza con lui. Sono più numerosi quelli che preferirebbero l’alleanza con la Lega. Cosa per me impossibile, ma serve a capire…» Calenda non riesce proprio a comprendere perché Renzi abbia fa o la scissione dal Pd. «Voleva fare il Macron italiano. Ne avevamo parlato. Saputo che avrei fondato Azione, ha accelerato i tempi della ro ura con il Pd. È stato per quasi mille giorni un presidente del Consiglio che ha portato il suo partito al 40 per cento alle elezioni europee del 2014, ha fa o riforme importanti, ha condo o il Pd sulle proprie posizioni nell’estate del 2019 evitando le elezioni, e invece di fare il Grande Vecchio del Pd, che fa? La scissione! Bah…» E lei perché se n’è andato?, gli chiedo. «Per il massimalismo del Pd. Non si può andare con i 5 Stelle…»

Secondo i sondaggi, se alle elezioni Azione si alleasse con il Pd salirebbe al 9,5 per cento. «Raggiungeremmo questa percentuale perché sarebbero voti contro Salvini. Ma questa è la fine dell’Italia perché, invece di votare persone che amministrano bene, si vota chi sta contro qualcun altro. Mi dicono: io condivido tu o quello che dici, ma sono di sinistra. Oppure, condivido ma sono di destra. Eppure, un paese non può reggere se voti a destra perché sennò arrivano i migranti e a sinistra perché sennò arrivano le destre. Ragionano tu i come se stessimo al Palio di Siena, in cui non è importante vincere, ma far perdere la contrada nemica.» Insomma, sta seduto sulla spalle a del Tevere aspe ando… «Aspe ando che si sgretolino Italia Viva e Forza Italia per costruire con Emma Bonino e un pezzo di voto centrista una forza politica che può perfino aspirare a un 15 per cento, senza il quale non può formarsi nessun governo.»

«La crisi sociale e finanziaria spazzerà via Conte» Calenda non ama la Lega, ma dalla Lega ha imparato quanto sia importante calpestare il territorio. «Io visito in media due ci à al giorno: 450 persone registrate per gli obblighi Covid alle 10 di sera a Cuneo, 1100 a Milano. La politica si fa sul territorio, incontrando gli amministratori locali anche dei piccoli centri. E una parte significativa di queste persone vota Pd. Quando mi dicono “lei è un bravo tecnico”, rispondo: grazie, ma io sono un bravo politico.» E prosegue: «Conte è un bravissimo uomo di relazioni, ma è un teorico, non sa fare la gestione. Abbiamo già disponibili 105 miliardi. Ebbene, le misure previste non sono partite. Dei 4 miliardi stanziati per la ricapitalizzazione delle piccole e delle medie imprese non è stato speso niente. I soldi stanno lì, parcheggiati. Le aziende sono scoraggiate dalla complicazione. Ma lo sa quanti sono 4 miliardi? Se li me essimo nella ricerca, raggiungeremmo la Francia. O potremmo raddoppiare il cuneo fiscale. La Sace [società del gruppo Cassa depositi e prestiti, specializzata nel se ore finanziario] doveva garantire investimenti per 100 miliardi. Ne ha garantiti 13,

di cui la metà è andata alla Fiat. La cassa integrazione è stata pagata in ritardo, i bonus non hanno funzionato…». Calenda non concepisce che il governo abbia temporeggiato così a lungo sui fondi del Mes, i 36 miliardi destinati alla sanità. Quando gli giro l’obiezione che un vecchio tra ato ci vincola a regole che potrebbero portare i «paesi frugali» a me erci in difficoltà, la risposta è questa: «Il board del Mes ha deliberato la concessione del prestito insieme con i ministri dell’Economia. Non è un’interpretazione del tra ato. È il nuovo tra ato. Eppoi i 209 miliardi del Recovery Fund sono so oposti paradossalmente a condizioni maggiori del Mes. Se non fai bene le cose, ti bloccano subito i soldi». Il leader di Azione teme che la «ricreazione» dei soldi facili finisca presto. «Le regole della Banca centrale europea prevedono che la Bce non possa comprare titoli di un paese in misura maggiore della quota che quel paese ha nel capitale della Banca. L’Italia ha il 13,8 per cento, ma la Bce ha comprato nostri titoli come se avessimo il 20. Quando fu ado ata questa decisione sulla prima onda del Covid, nel marzo 2020, la Germania andò in minoranza. Subito dopo la Merkel, che è un genio, s’inventò con Macron il Recovery Fund. Quando arriveranno i primi soldi, a giugno 2021, la Germania chiederà il ritorno alle vecchie regole. Saranno quindi rido i gli acquisti di titoli italiani: 100 miliardi in meno all’anno. L’Italia corre il pericolo, perciò, di esporsi ai rischi del mercato finanziario, con un forte incremento dello spread. In quel caso potrebbe arrivarci addosso la “troika” [Banca centrale europea, Commissione europea, Fondo monetario internazionale]. E sarebbero guai.» Soluzione? «Spendere subito i soldi non spesi. Quando, nel 2014, arrivai al ministero dello Sviluppo economico, trovai 10 miliardi stanziati e non spesi. Con 7,5 ho fa o Industria 4.0: lo Stato ti pagava il 36 per cento dell’investimento automaticamente. Fu il momento in cui la ricerca privata nelle aziende italiane superò quella della Germania.» E adesso? «Siamo il paese più ignorante dell’Occidente. Quindi, grandi investimenti su scuola, università e ricerca. E sviluppo degli

g pp g istituti tecnici superiori. Oggi un saldatore guadagna più di un ingegnere, perché è merce rara. La Germania ne sforna 800.000 all’anno.» Calenda è convinto che il secondo governo Conte non finirà la legislatura. «Il Covid ci ha portato a una grave crisi economica. Seguirà una pesante crisi sociale. Se nella primavera 2021 ci sarà, come temo, una crisi finanziaria, dovrà esserci un nuovo governo. Mario Draghi? Certo, ma con un governo politico. Il problema è che, qui, tu i vogliono fare il presidente della Repubblica perché fare il capo del governo è una grossa grana.»

XIV

Salvini, Meloni e Berlusconi, uniti con riserva…

La goccia scava la pietra Gu a cavat lapidem, la goccia scava la pietra, dicevano i latini. Ci sono voluti almeno un paio d’anni perché la goccia europeista non fosse respinta dalla folta capigliatura di Ma eo Salvini e cominciasse ad accarezzargli l’ancor giovane cranio. Il 4 marzo 2018 la Lega conquistò alle elezioni politiche il 17,4 per cento dei voti, 1 punto so o il Pd, 3,5 sopra Forza Italia, 13 sopra la lista di Giorgia Meloni. Salvini diventò il leader del centrodestra e sposò Luigi Di Maio (M5S, al 32,7 per cento), dando vita al primo governo sovranista d’Italia. Sovranista significa «Prima gli italiani», che andrebbe benissimo e sarebbe perfino scontato se l’Italia non fosse paese fondatore dell’Unione europea (bei tempi quando eravamo in sei…) e non fosse legata all’Europa da vincoli (e benefici) economici insuperabili. Ci fu un impazzimento generale. Di Maio, giovane vicepresidente del Consiglio e ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, voleva mandare a giudizio per alto tradimento il presidente della Repubblica e, per costruirsi una buona reputazione in Europa, volava con Alessandro Di Ba ista a Parigi (5 febbraio 2019) per incontrare il leader dei gilet gialli Christophe Chalençon. Salvini, giovane vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno, si faceva fotografare davanti ai manifesti «No Euro» insieme a Claudio Borghi, presidente della commissione Bilancio della Camera e grande teorico dell’uscita dalla moneta unica. Passò un anno e, alle elezioni europee del 2019, la Lega fece il bo o: 34,3 per cento, 12 punti sopra il Pd, il doppio dei 5 Stelle, qua ro volte Forza Italia, cinque volte il partito della Meloni. I

rapporti di forza parlamentari non avevano più senso. Salvini voleva le elezioni anticipate, andò sulla spiaggia romagnola del Papeete per annunciarle e commise l’errore di chiedere «pieni poteri». Lo accusarono di voler imitare Mussolini, ma era una stupidaggine. Pieni poteri democratici li aveva avuti Ma eo Renzi, usandoli male, a volte. Li aveva avuti Silvio Berlusconi, che non se ne accorse o, comunque, Gianfranco Fini glieli limò assai e, in ogni caso, non li esercitò. Nicola Zingare i era d’accordo sulle elezioni anticipate: avrebbe preso più parlamentari e avrebbe tolto di mezzo parecchi renziani. Ma si mossero l’Apparato, i Poteri Forti (quel poco che ne è rimasto), i Giornaloni: non era possibile consegnare il paese a un antieuropeista imparentato con Marine Le Pen e con i populisti antidemocratici di Visegrád. E pazienza se il centrodestra aveva con sé la maggioranza assoluta degli italiani. Nacque così il governo giallorosso, con il M5S che aveva risciacquato i panni europeisti a Bruxelles e, con una fantastica e intelligente operazione di chirurgia estetica, si era rivelato decisivo (decisivo!) nell’elezione di Ursula von der Leyen a presidente della Commissione europea. Invano Salvini ripeteva che mai, con lui, l’Italia sarebbe uscita dall’euro: il rapporto con l’Europa era troppo confli uale. E se è vero che le istituzioni comunitarie sono state spesso troppo occhiute e ingenerose con noi italiani, confrontarci in un duello ideologico permanente non ci avrebbe giovato. Così, la goccia ha cominciato a scavare la pietra. Giorgia Meloni è apprezzata perché ha saputo aprirsi al mondo non rinnegando niente della sua storia: viene da Alleanza nazionale, che viene dal Movimento sociale italiano. Ma quando ha dovuto scegliersi un gruppo al Parlamento europeo, è andata con i Conservatori e riformisti europei, insieme – per capirci – ai conservatori britannici. Non con Marine Le Pen, con la quale certo condivide le origini. Anche perché – udite! – quando An confluì nel Popolo delle Libertà, era finita con Berlusconi nel Partito popolare europeo. Chi è andato con la Le Pen? Ma eo Salvini. Ma la Lega è nata antifascista, e Salvini, da giovane, era nella minoranza leghista come leader dei Comunisti padani. E allora? Da un paio d’anni,

p p ogni volta che Salvini viene a «Porta a porta» gli dico: che cosa ha da spartire, lei, con quelli là? E anche con i sovranisti di Visegrád, che ci fanno le pulci sull’economia e non si pigliano un migrante che è uno? Cambiano i tempi. È vero che nei sondaggi dell’autunno 2020 la Lega è so o di 8 punti rispe o alle elezioni europee del 2019 (7 dei quali, però, sono andati alla Meloni), ma, nonostante l’indebolimento di Forza Italia, tu e le proiezioni concordano nel sostenere che, con la riduzione del numero dei parlamentari (da 945 a 600) e qualunque legge ele orale, il centrodestra conquisterebbe la maggioranza assoluta. Si aggiunga che, come abbiamo visto in questo libro, il signor Covid ha cambiato il mondo, il pareggio di bilancio europeo è saltato per alcuni anni e l’Italia ha avuto da Bruxelles una quantità di soldi mai immaginata. Perciò, se Salvini aspira a essere presidente del Consiglio, deve necessariamente cambiare strategia. Così, mercoledì 23 se embre 2020, a «Porta a porta», Salvini ha de o: «Per noi, anche in Europa ci saranno novità importanti». Per poi aggiungere il 7 o obre, nella stessa trasmissione, rispondendo a una mia domanda sulla possibile adesione al Partito popolare europeo: «Abbiamo conta i riservati a tu i i livelli, in Europa».

Salvini, ringiovanito, si avvicina lentamente al Ppe Lo rivedo a o obre inoltrato nella bella mansarda dove ha il suo studio, nel palazzo del Senato a piazza San Luigi dei Francesi. Da quando è fidanzato con Francesca Verdini (28 anni), Salvini è ringiovanito. «Ci siamo conosciuti il 13 marzo 2019 in una cena con amici a casa mia. Abbiamo affi ato un appartamento a Roma Nord. Per lei è la prima convivenza. Tornare a casa la sera dopo una giornata di ba aglie e trovare un sorriso mi dà molta serenità.» Quando li vedi cantare insieme brani di Roberto Vecchioni e Fabrizio De André – non proprio due leghisti doc – hai la sensazione di una coppia molto innamorata.

Riprendiamo il discorso sull’Europa, e Salvini – che, come tu i i politici, ha una forte difficoltà ad amme ere di aver cambiato idea – insiste (apparentemente) sul punto. «A Strasburgo siamo nel gruppo Identità e Democrazia e lì rimaniamo. Per ora…» Che significa «per ora»? «Significa che vogliamo vedere dove vanno i tedeschi della Cdu al loro prossimo congresso. Se insistono nell’alleanza con i socialisti, amen; se fanno una scelta diversa, vedremo.» In Germania le elezioni politiche si terranno nel 2021 e la Merkel non correrà per il suo quinto mandato. Il suo partito, i cristianodemocratici, designa in genere il candidato alla Cancelleria, ma sta prendendo piede la candidatura di Markus Söder, governatore della Baviera per il partito ca olico conservatore Csu, alleato indissolubile della Cdu. Söder ha moderato i toni populisti durante la pandemia e la sua leadership si è molto rafforzata. Per la Lega sarebbe un o imo interlocutore. Nel fra empo Salvini si era portato avanti consolidando da ministro dell’Interno il rapporto con il suo omologo tedesco Horst Seehofer, predecessore di Söder alla guida della Baviera. Dalla Csu viene anche Manfred Weber, sconfi o da Ursula von der Leyen alla guida dell’Unione, ma forte candidato alla successione, nel 2021, di David Sassoli come presidente del Parlamento europeo, in nome dell’alternanza tra socialisti e democristiani. La Lega lo voterebbe? «Siamo disposti a ragionare con tu i.» Così Salvini nasconde il suo sì. «Abbiamo intanto programmato un giro nelle capitali europee e siamo già al lavoro con qualche commissario di Bruxelles, all’Agricoltura e alle Infrastru ure.» L’Europa non è l’unico problema per la Lega. Racconto a Salvini che nel 2019 l’ambasciatore degli Stati Uniti mi fece uno sfogo, giudicando il suo partito sostanzialmente asservito alla Russia. Il recupero con Washington è complicato… «È inutile che ripeta che non siamo asserviti a nessuno. La nostra posizione sulla Russia è chiara. Il vero pericolo è la Cina, che ci controlla tu i con i suoi satelliti. Non è meglio che Stati Uniti ed Europa abbiano rapporti migliori con la Russia per allontanarla dalla Cina? Ne ho parlato

g p p anche con il vicepresidente americano Mike Pence e con il segretario di Stato Mike Pompeo. In ogni caso, noi siamo per la fedeltà atlantica. Con gli Stati Uniti abbiamo un rapporto costante e dire o. Con loro e con Israele. Guardi l’unica foto che è qui nel mio studio: sono con il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Israele è un modello di bellezza, efficienza, innovazione. I nemici di Israele sono miei nemici.» Al di là delle raccomandazioni di Giancarlo Giorge i, che incontreremo più avanti, c’è una persona che più di altre ha contribuito alla «rivoluzione liberale» di Salvini. È Marcello Pera, ex presidente del Senato, uno dei professori che Berlusconi volle con sé all’inizio della sua avventura politica. Già ordinario di Filosofia della scienza all’università di Pisa, Pera conosceva da molti anni Denis Verdini, padre di Francesca, di cui il filosofo ha rivelato di ricordare «i riccioli biondi» di bambina. Verdini e la figlia hanno fa o incontrare Salvini e Pera, che ha suggerito al leader della Lega di rilanciare il «partito liberale di massa» che aveva immaginato per Forza Italia.

«Gli imprenditori candidati sindaci nelle grandi ci à» Facciamo un passo indietro. Quante volte Salvini ha ripensato al Papeete e alla crisi dell’agosto 2019? «Vuol dire se rimpiango un governo con Toninelli e Bonafede? Assolutamente no.» Ma avrebbe potuto fare un forte rimpasto a trazione leghista… «Il Movimento libero e rivoluzionario che ho conosciuto non esisteva più. Già nella fase finale del nostro governo i suoi ministri erano incollati alle poltrone. Non si faceva più un passo su riforma del fisco e della giustizia, niente sull’autonomia, mentre anche sull’immigrazione cominciavano a tentennare.» Salvini ha messo mano alla riorganizzazione della Lega dopo aver perso le elezioni regionali dell’autunno 2020. Lui fa notare che chi ha perso le Marche, qua ordicesima regione su diciannove (a parte la Valle d’Aosta), è stato il Pd. E se si fa il raffronto con le regionali del 2015, si vede il Pd passare dal 24,7 al 19,8 per cento, il

Movimento 5 Stelle dimezzarsi dal 15,7 al 7,6, la Lega salire dal 9,5 al 13,8, Fratelli d’Italia schizzare dal 3,9 al 10,6 (primo partito del centrodestra nel Sud) e Forza Italia crollare dall’11,4 al 5,4. Però, il centrodestra ha ceduto al centrosinistra una decina di comuni importanti e ha perso alcuni sindaci lombardi, come ha rilevato Zingare i nel capitolo precedente. La Lega, sopra u o, fino a una se imana prima delle elezioni pensava di sfondare in Toscana e il centrodestra era convinto di vincere in Puglia. Ha perso entrambe le partite ed è stato facile per Zingare i proclamarsi vincitore politico della competizione ele orale, visto anche il crollo del suo partner di governo. I candidati del centrodestra erano sbagliati, si è convenuto con il senno di poi. Stefano Caldoro (Campania) e Raffaele Fi o (Puglia) non hanno dato un impulso di novità, e Susanna Ceccardi (Toscana), che ha perso pure il comune di Cascina di cui era sindaco, non era forte come il suo avversario Eugenio Giani, intorno al quale nell’ultima se imana si è mobilitato tu o l’apparato del Pd. «Gli ele ori hanno sempre ragione,» riconosce Salvini «ma se penso che la Ceccardi ha preso 718.000 voti e che abbiamo vinto in cinque province della Toscana su dieci non posso dirmi insoddisfa o.» Lasciati da parte i politici, il centrodestra ha deciso di prendere dalla «società civile» i candidati alla guida di Roma, Milano, Torino, Napoli, Bologna, Trieste e di altri quindici capoluoghi di provincia tra gli oltre 1300 comuni in cui si vota nel 2021. «Io faccio il politico e sono orgoglioso del mio lavoro» mi dice Salvini. «Non esiste necessariamente il politico ca ivo e l’esponente della società civile buono. Ma il Covid ha fa o saltare i bilanci di tanti comuni e c’è bisogno di gente che abbia creato lavoro. Si prenda Macerata: noi avevamo un buon candidato, ma abbiamo preferito sostenere un manager come Sandro Parcaroli, che ha vinto.» Alle regionali vi siete divisi le candidature: questa regione a te, questa a me… «Stavolta saremo più laici. Io sono milanese e la Lega

a Milano è il partito più forte. Ma se c’è un candidato migliore del mio, sceglieremo quello. Così faremo dovunque.» Se Pd e 5 Stelle correranno insieme, per voi sarà dura… «Finora l’hanno fa o in Liguria con risultati catastrofici. Staremo a vedere. » I modelli per il futuro sono Luigi Brugnaro, un imprenditore confermato sindaco di Venezia, e Marco Bucci, sindaco di Genova, che ha gestito magnificamente come commissario la vicenda del ponte Morandi. «Bucci non l’avevo mai sentito nominare» confessa Salvini. «L’ho incontrato in una terrazza romana, era stato un manager importante in una multinazionale e l’abbiamo scelto.»

La voglia di collaborare al Recovery Fund e i processi Per razionalizzare il lavoro, la Lega si è organizzata in dipartimenti «come il vecchio Pci», dice Salvini, dove i diversi se ori erano autentici ministeri re i da un ministro «ombra». (Si pensi al ruolo di Ugo Pecchioli, potentissimo ministro ombra dell’Interno del Pci ai tempi del sequestro Moro.) Visto il pur cauto avvicinamento della Lega all’Europa, chiedo al leader leghista come mai abbia messo alla guida del dipartimento economico Alberto Bagnai, un brillante economista che non ha mai creduto nella permanenza dell’Italia nell’euro. Deludendo il più moderato Massimo Garavaglia, già viceministro dell’Economia nel governo gialloverde. «La questione euro è ormai archiviata» mi risponde. «Ci siamo e ci resteremo. Quanto a Bagnai, è stato descri o dal Pd come un sovversivo quando ha de o che la Banca centrale europea doveva stampare moneta e comprare titoli di Stato in grandissima quantità, ed è quello che la Bce sta facendo da Draghi in poi. Comunque, Bagnai dialoga con tu i.» Immigrazione. Salvini è finito so o processo, con l’accusa di sequestro di persona aggravato, per aver fermato nel luglio 2019 la nave della guardia costiera Gregore i con 131 migranti a bordo, in a esa che l’Europa ne decidesse la redistribuzione. E di aver fa o la stessa cosa nell’agosto successivo con la nave Open Arms, di una Ong catalana, con 164 migranti a bordo. Nel primo caso, il governo

era connivente, come emerge dalle carte del processo apertosi il 3 o obre 2020 a Catania. Nel secondo (crisi in corso) il governo prese le distanze dal suo ministro, ma il collegio di difesa di Salvini ha citato il caso del nuovo ministro Luciana Lamorgese che, prima delle elezioni umbre del 27 o obre 2019, tenne ferma al largo della costa siciliana per 11 giorni un’altra nave Ong, la Ocean Viking. Salvini ha manifestato soddisfazione, perché il giudice di Catania ha chiamato il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e la Lamorgese a testimoniare. Comunque, si sia o no d’accordo con la politica della Lega sull’immigrazione, accusare un ministro dell’Interno di un reato per il quale è prevista una condanna fino a quindici anni di reclusione è del tu o surreale. I dati del 2020 danno ragione a Salvini. Nei mesi del primo governo Conte (1° giugno 2018 - fine agosto 2019) sono sbarcati in Italia 15.075 migranti. Durante il secondo governo Conte (dal 5 se embre 2019 alla metà di o obre 2020) ne sono arrivati 31.641. «O o migranti su dieci» mi dice il leader della Lega «non scappano da guerre, ma cercano in Europa una vita migliore, passando purtroppo per l’Italia. E quasi sempre restandoci. L’unico modo per arginare gli ingressi è la so oscrizione da parte europea di accordi a suon di miliardi con Nigeria, Tunisia, Bangladesh e altri paesi, che prevedano la costruzione di scuole, ospedali e quant’altro, aggiungendo una clausola: la riammissione di chi arriva. Punto. Finora gli accordi di Malta del 2019 non sono serviti a nulla e l’annunciata revisione del tra ato di Dublino (migranti da sbarcare nel più vicino porto sicuro, cioè in Italia) non ha portato a niente.» Veniamo all’emergenza Covid: Salvini rispe a le prescrizioni degli scienziati, ma dissente fortemente dalla politica economica del governo. «Sono d’accordo con il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, che si sono spesi i primi 100 miliardi senza una misura di rilancio delle imprese. E poi, per dirla tu a, è normale che il capo dell’opposizione debba leggere sui giornali i contenuti dei decreti del presidente del Consiglio dei ministri, i famosi Dpcm? Non sarebbe elegante una telefonata? L’opposizione è stata totalmente ignorata.»

g Negli anni in cui ci saranno da gestire i 209 miliardi (a rate) del Recovery Fund, il capo della Lega si dice pronto a collaborare. Vorrebbe scrivere regole e stabilire se ori d’intervento insieme al governo, «sentite tu e le associazioni di produ ori e di imprenditori. Cosa mai avvenuta». Salvini resta contrario a che l’Italia prenda a costo zero i 36 miliardi del Mes, destinati nel dopo Covid alla sanità. Teme che il Mes, figlio di un tra ato vecchio e superato politicamente, ma non giuridicamente, possa portare in futuro la Commissione a farci le pulci su debito e bilancio. «Che necessità c’è, se ormai vendiamo i titoli di Stato a un tasso d’interesse ridicolo?» Venite accusati di non avere una visione, gli dico. «Gli altri ondeggiano, ma noi – piaccia o non piaccia – una visione ce l’abbiamo» mi risponde. «Famiglia, lavoro. Chiediamo una revisione costituzionale che preveda l’elezione dire a del presidente del Consiglio in una repubblica federale. Io reintrodurrei anche le province, dopo quello che ha combinato Renzi, che ci ha lasciato province senza personale. Investimenti nell’università, nella scuola, nella formazione, potenziando gli istituti tecnici e le facoltà scientifiche. Me erei il numero chiuso alle facoltà umanistiche, che producono troppi disoccupati, e lo toglierei a medicina, ingegneria e alle facoltà tecnologiche. Lo faremo quando saremo al governo. Prima del 2023.» Resta da affrontare un’ultima spina: l’arresto il 10 se embre 2020 di Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, due commercialisti vicinissimi alla Lega. Di Rubba dirige l’amministrazione del gruppo leghista al Senato, Manzoni è revisore dei conti del gruppo alla Camera. Sono accusati di peculato per aver comprato da una società un immobile a Cormano (Milano Nord) per 400.000 euro e di averlo rivenduto al doppio alla Lombardia Film Commission, presieduta al tempo dallo stesso Di Rubba. A metà o obre sono state sequestrate due ville e a Sirmione acquistate dai due, secondo l’accusa, «con il profi o del peculato». «Conosco Di Rubba e Manzoni» mi dice Salvini «come due persone perbene, oneste, grandi lavoratori. Non ho mai visto gli altri coinvolti nell’inchiesta. Ho le o sui giornali la storia del

g capannone, ma so di due perizie che hanno stabilito la corre ezza del prezzo al quale è stato rivenduto [una è stata mostrata durante la trasmissione di Nicola Porro “Quarta Repubblica”]. Mi chiedo se non ci sia la volontà di colorire questa vicenda per altri obie ivi. Stiamo a enti alle accuse. Ricorda l’inchiesta di San Marino sull’ex so osegretario delle Infrastru ure Armando Siri? Bene, per due volte ha avuto ragione in Cassazione [Siri era accusato di autoriciclaggio per aver o enuto un prestito di 1 milione di euro senza garanzie da una banca di San Marino per comprare una casa alla figlia. La Cassazione, che già aveva annullato il sequestro di telefono e computer al parlamentare, ha respinto il ricorso della Procura di Milano contro la sentenza di assoluzione]. Sapesse quanti magistrati, in privato, mi dicono di dissociarsi dalla campagna giudiziaria contro la Lega…»

Giorge i e la riconversione euroatlantica Sulla questione dei commercialisti entro più in de aglio con Giancarlo Giorge i, il vice di Salvini. Partiamo da Francesco Belsito, tesoriere della Lega di Bossi, che fece investimenti strani, perfino in diamanti, ed è stato condannato in via definitiva a un anno e o o mesi per appropriazione indebita. «Da allora» mi racconta Giorge i «ci siamo affidati a commercialisti esterni a raverso il nostro segretario amministrativo Giulio Centemero. È difficile che abbiano combinato pasticci con la Lega. Il capannone di Cormano non c’entra niente con la Lega, così come la Lombardia Film Commission. Io non so se i due commercialisti abbiano preso iniziative all’interno della loro a ività professionale. Se qualcuno ha fa o la cresta, la Lega non c’entra. Ricordo ancora» ironizza «di quando i famosi 49 milioni sparirono so o gli occhi della guardia di finanza e della Procura di Milano…» Giorge i è, sopra u o, il responsabile Esteri del partito e, con le sue mani esperte, sta ricostruendo i rapporti della Lega con gli Stati Uniti e con l’Unione europea. Quando lo incontro nella sala di le ura del gruppo leghista alla Camera (la stessa dai tempi di Bossi), si sfoga: «L’Italia rischia grosso, ma soltanto a pensare ti

procuri guai. Analizzi problemi, avanzi proposte e ti saltano tu i addosso. È un meccanismo che non fa bene al paese». Avete smesso di flirtare con i russi?, gli chiedo. «Me iamola così: non siamo mai stati camerieri dei russi e non abbiamo mai de o che saremmo usciti dall’euro. Guardiamo i fa i. Non coltiviamo più i rapporti con la Russia, che sono stati soltanto politici. Salvini non ha mai fa o un intervento formale che sancisse questa svolta, ma la svolta c’è, anche se chi non ha interesse a registrarla la ignora.» Perché c’è stato questo allentamento? «Certo, non per le inchieste giudiziarie per storie di cui Salvini non sa un tubo. Credendo nella rivoluzione liberale e nella libertà individuale, ha maturato la convinzione che, in un mondo di nuovo polarizzato, non può andare in direzione della Russia né tantomeno della Cina.» Quando Salvini ha capito che stare troppo vicino alla Russia non gli giovava? «Lui voleva rafforzare il ponte tra Russia e Occidente. Quando è nata la “Via della Seta” e il pericolo cinese si è fa o più concreto, Salvini e l’allora ministro degli Esteri Moavero Milanesi hanno capito che dovevamo sposare una causa ne a di libertà.» Come è potuto accadere che il vostro gruppo al Parlamento europeo si astenesse nella censura dell’Unione europea al di atore bielorusso Lukashenko? «Un errore fru o della mancanza di coordinamento. La Lega a Strasburgo ha 28 parlamentari, il gruppo più forte d’Europa insieme alla Cdu. Il clamoroso risultato delle elezioni, come accade sempre in questi casi, ha fa o eleggere anche persone prive di esperienza. Salvini non ne sapeva niente e ha pagato il prezzo di essere considerato al servizio di Putin. Ha poi condiviso la mia analisi secondo cui in Bielorussia, come in Venezuela, mancano le libertà fondamentali. Adesso abbiamo messo in piedi un meccanismo molto stre o di raccordo per capire quel che accade.» Salvini mi ha de o che, in Europa, per ora restate nel gruppo di Identità e Democrazia, insieme a Marine Le Pen e Alternative für Deutschland. Dunque, niente svolta ancora? «Con la Le Pen c’è un rapporto consolidato, nato nel 2014 quando eravamo appena arrivati. Con AfD non ci sono rapporti. Loro sono ai nostri antipodi

e tra i più rigoristi contro l’Italia. Stare con loro non ha senso. Non c’è, comunque, disciplina di gruppo e ognuno vota come gli pare.» La strategia per andarsene dipende dalla Cdu… «Il Partito popolare europeo va dove va la Cdu. Torna al centro? Weber al posto di Sassoli? Io proporrei di votarlo. In ogni caso, io non sono popolare, ma popolarista. Voglio rafforzare il mio rapporto con il popolo.»

«Perché non rieleggere Ma arella per poi votare?» Intanto fate il giro delle Cancellerie europee… «In tempi di Covid non è semplice. Salvini, nella sua a ività di governo, ha costruito molte relazioni personali e punterà su queste. Abbiamo buoni rapporti con tu i gli ambasciatori. Il punto vero è che il mondo è molto cambiato. In ventiqua ro mesi sono venuti giù tu i i tabù costruiti negli ultimi trent’anni. Fino alla fine del 2018, nessuno me eva in discussione l’ordine neoliberale. Adesso sta riprendendo fiato la teoria per cui, se il debito pubblico è buono, va bene, la Banca centrale europea stampa denaro perché non c’è inflazione. Le politiche espansive, se non sono proprio un neokeynesianesimo, rappresentano un cambiamento radicale rispe o alle teorie prevalenti fino a poco tempo fa. La Bce, con Draghi, è diventata prestatore di ultima istanza e ha aperto la strada alla politica espansiva della Lagarde. Gli aiuti di Stato fino a due anni fa erano peccato mortale e adesso sono tollerati. Anzi, consentiti. Anzi, sollecitati. Come si fa a dire che l’Europa non è cambiata?» Il mio interlocutore si toglie alcune piccole soddisfazioni. «Chi ha sostenuto la precedente Costituzione europea? Il Pd sì, noi no. Noi non abbiamo votato il “fiscal compact”. Adesso tu i dicono che bisogna cambiarlo. Io sono stato bullizzato in aula e sui social anche dai 5 Stelle perché avevo votato per il pareggio di bilancio, perché sapevo che i margini di flessibilità ci sono. E, infa i, è quello che ci ha permesso di sfondare qua ro volte il deficit per 100 miliardi con una votazione a maggioranza qualificata.»

Anche Giorge i ritiene che non sia il caso di prendersi i 36 miliardi del Mes. «Mes e Recovery Fund hanno lo stesso padre e due madri diverse. Il Mes è nato prima del Covid, il Recovery Fund dopo. Se puoi andare sul mercato a comprare il denaro a un prezzo molto basso, puoi trovare anche una trentina di miliardi per la sanità. Il problema non è trovare i soldi. È come spenderli. E questo, francamente, non l’ho capito.» Giorge i preferisce chiamare il Recovery Fund con il nuovo nome di Next Generation. «Sono soldi da destinare al futuro. Dobbiamo costruire le basi per l’incremento demografico. Altrimenti non capisco come possa restare in piedi un’Italia vecchia con pochi che lavorano. Non è un caso che i soldi del Recovery Fund debbano essere restituiti tra il 2030 e il 2040. Dobbiamo costruire un paese in cui, prima di quegli anni, si possa creare uno sviluppo adeguato. Un esempio per tu i: se noi promuoviamo le auto ele riche, facciamo un favore alla Cina, mentre in Italia siamo molto bravi nelle ricerche sull’idrogeno…» Gli chiedo come abbia ricostruito i rapporti con gli Stati Uniti. «Io li ho sempre mantenuti. Ho cominciato con Obama e proseguito con Trump. È chiaro che con l’amministrazione repubblicana le cose sono migliorate, passando dalla cordialità alla simpatia. Sopra u o con il ministro del Tesoro Mnuchin e con il genero di Trump Kushner, a ivo sul Medio Oriente. Il rapporto non cambierebbe con la nuova amministrazione, anche se la logica è diversa. Trump ragiona da uomo d’affari: ti minaccio, ti me o i dazi e poi faccio l’accordo. I democratici vogliono le relazioni multilaterali in nome della pace e del bene nel mondo, ma per portarceli sono loro che fanno le guerre.» Giorge i cita l’America anche a proposito di immigrazione. «Dobbiamo gestirla come fanno gli Stati Uniti e la Svizzera, che non sono due paesi illiberali. Sanno far rispe are le loro leggi. Da noi, quando Salvini faceva il ma o si è cominciato a discutere di ricollocamenti. Da quando ha smesso di fare il ministro dell’Interno, non ne parla più nessuno.» Poi chiude a sorpresa il nostro incontro: «A mio giudizio, dovremmo votare nel 2022».

È improbabile, obie o, che il nuovo capo dello Stato appena ele o sciolga il Parlamento. «Per questo, la cosa migliore sarebbe rieleggere Ma arella, con l’intesa che possa presto riallineare il Parlamento all’ultimo referendum costituzionale. In questo modo il suo successore verrebbe ele o dal Parlamento rinnovato di 600 membri. È assurdo che un corpo ele orale delegi imato di 1000 componenti elegga un capo dello Stato destinato a restare in carica se e anni.» E su questo terreno il centrodestra, che con la maggioranza dei delegati regionali è molto competitivo, vuole giocarsi fino in fondo la sua partita. «Abbiamo il 46 per cento del corpo ele orale. E se troviamo una personalità che possa prendere voti anche dall’altra parte, con lo scrutinio segreto possiamo farcela.»

Zaia e la sanità veneta, in utile da dieci anni «Preme o che io non sono esperto di cose europee» precisa Luca Zaia. Il governatore del Veneto, confermato per il terzo mandato con un plebiscito, si tiene lontanissimo dai temi politici. Sa che i nemici di Salvini lo vogliono usare contro il Capitano e si guarda bene dal dargli corda. La manifestazione del 29 se embre a Venezia insieme a Salvini per festeggiare la vi oria ele orale è stata enfatizzata per me ere la pietra tombale su qualunque remota ipotesi di polemica. Così, per spiegare la svolta moderata della Lega, Zaia a inge ai ricordi. «Fin dai tempi di Bossi, la Lega ha costruito il consenso investendo sugli amministratori. E gli amministratori, per loro natura, sono moderati perché pragmatici. Un partito di governo che aspiri a guidare l’Italia deve necessariamente guardare all’area moderata che, in questo momento, è priva di un riferimento solido. Questo spiega pure le forti flu uazioni che vediamo alle elezioni. Per me ha votato anche gente che non è della Lega. Nemmeno a livello nazionale esistono più due poli blindati. Il ci adino non compie più le sue scelte indossando una casacca ideologica. Questo

spiega il successo di Renzi ieri e di Salvini oggi. Prendono voti quando parlano al cuore della gente.» Zaia ha preso i voti che ha preso perché gli viene riconosciuto di saper amministrare bene e perché ha sventolato una bandiera magica: autonomia. Che cosa significa autonomia per una regione che produce 160 miliardi di pil (il 9 per cento, più o meno, di quello nazionale) e lascia allo Stato 15 miliardi di «residui fiscali», cioè la differenza tra quanto la regione prende e quello che versa nelle casse centrali? Zaia sa che, in un paese lungo e diseguale come l’Italia, se lui tirasse troppo la coperta a Nord, lascerebbe il Sud con i piedi scoperti. Non rivendica, quindi, i soldi che versa in più, ma vorrebbe organizzare in proprio alcuni servizi che oggi sono forniti dallo Stato. «Facciamo l’esempio della sanità» precisa il governatore. «La spesa sanitaria nazionale è di 110 miliardi. A noi ne toccano 9 miliardi 360 milioni, l’8 per cento. Da dieci anni il nostro bilancio sanitario è in utile. Il vero tema e la vera disparità tra le regioni sta nella qualità dell’amministrazione. Molte regioni stanno rientrando dai buchi di bilancio che hanno fa o. Non voglio fare polemiche, ma perché, a parità di popolazione, il numero dei dirigenti diverge? Perché alcune regioni hanno i magazzini pieni di roba scaduta? A noi non scappa un codice. Io sono in grado di ricostruire il viaggio di ogni siringa. Perché altrove non è così?» Le materie sulle quali il Veneto invoca competenza sono 23. La più importante è la scuola. Qui la regione si trascina dietro molti anni di polemiche. Si è parlato di programmi veneti e di insegnanti solo veneti: e ciò sarebbe in palese contrasto con la Costituzione, oltre che con il buon senso. Zaia non ha in mente niente di tu o questo. «C’è solo un problema di organizzazione scolastica. Perché in Trentino Alto Adige le cose funzionano meglio che da noi, a cominciare dalle supplenze? Perché hanno autonomia. Noi non tocchiamo palla. Abbiamo 707.000 studenti e 95.000 tra insegnanti e operatori scolastici. Non crede che, se non fosse tu o gestito dalla casa

madre, le cose andrebbero meglio? Se avessimo l’autonomia, sa quanti milioni risparmieremmo?» E la storia degli insegnanti solo veneti? «Non esiste. Non avrebbe nessun senso. Il Veneto è una regione cosmopolita, anche so o il profilo culturale. Ma abbiamo 16.000 posti vacanti e ogni anno è uno strazio. Non andiamo da nessuna parte se arrivano insegnanti meridionali che, appena posata la valigia, pensano al trasferimento. Vorremmo persone che decidono di costruire qui un proge o di vita. O, almeno, dovremmo fare come con i militari. Prima di un congruo numero di anni non si può chiedere il trasferimento.» Altro tema caldo, l’ambiente. «Apriti cielo ogni volta che chiediamo l’autonomia sui vincoli paesaggistici. Guarda che, se gliela concedi, Zaia costruisce gra acieli sulle colline del prosecco… Ma quando mai? Guardiamo ai modelli federalisti che funzionano, come la Germania e gli Stati Uniti. I veneti amano la loro terra e vogliono proteggerla. Ma non possiamo andare avanti con statuti medievali.» Nel 2026 si svolgeranno le Olimpiadi invernali Milano-Cortina. «L’autonomia arriverà molto prima del 2026» assicura il presidente della Regione del Veneto.

La «ragazza tosta della Garbatella», leader dei Conservatori europei Quante volte si è voltata indietro per riguardare il suo passato? La «ragazza tosta della Garbatella» guarda Roma dallo splendido terrazzo del suo studio di Montecitorio. «Lo faccio quasi ogni giorno» risponde. «Era l’estate del 1992 e c’era stata la strage di via D’Amelio in cui erano morti Paolo Borsellino e gli uomini della sua scorta. [Nel 1990 Borsellino aveva partecipato alla Festa nazionale del Fronte della gioventù a Siracusa.] Avevo 15 anni. Presi l’elenco del telefono e chiamai la sede centrale del Msi. Abito alla Garbatella, dissi. Dov’è la sede più vicina del Fronte? Era in via Guendalina

Borghese, dietro casa mia. L’avevano appena riaperta dopo un a entato. Adesso è una sezione di Fratelli d’Italia.» Giorgia Meloni ritiene che la sua forza a uale derivi dalle ba aglie giovanili. «Io sono timida. Per sconfiggere le mie insicurezze sono diventata molto coraggiosa e anche secchiona, perché, se non fossi stata preparata fin dai primi anni, la gente non mi avrebbe preso sul serio. D’altra parte, che cosa aspe arsi da un Capricorno con ascendente Leone? Nata il 15 gennaio, giorno dell’eroismo inevitabile. Se mi si dice che una cosa non si può fare, la faccio. E sposo le cause impossibili.» Una di queste fu presentarsi alle elezioni politiche del febbraio 2013 con un partito fondato meno di due mesi prima, il 21 dicembre 2012. «C’era la soglia del 2 per cento e noi arrivammo all’1,97. Nessun ele o al Senato, 8 deputati alla Camera grazie al ripescaggio dei “migliori perdenti”. E tanti restammo fino al 2018, quando abbiamo preso 32 deputati e 18 senatori. Intanto c’era stata la delusione del 2014 quando, alle elezioni europee, per la debolezza delle liste non prendemmo niente, mancando per 70.000 voti la soglia del 4 per cento. Ci siamo rifa i nel 2019 con 6 parlamentari.» Non deve essere stato facile ripartire da zero, dopo essere stata nel 2006, a 29 anni, vicepresidente della Camera per il Popolo delle Libertà e, a 31, ministro della Gioventù nel quarto governo Berlusconi. «L’aula è ca iva con chi non sa reggerla. Studiavo le videocasse e di Nilde Io i quando era presidente. Vinsi uno scontro con Franceschini, capogruppo dell’Ulivo, a norma di regolamento…» E, a proposito di coraggio, ricorda la drammatica sera del 13 novembre 2011 quando, per festeggiare le dimissioni del governo Berlusconi, una folla di suoi avversari circondò minacciosamente palazzo Grazioli: «Uscii dall’ingresso principale. Naturalmente venni insultata. Ma se scappi ti rincorrono, se impa i non ti toccano». Ci vediamo quando il Covid è tornato a diffondersi inquietando la gente, rallentando i movimenti, paralizzando la vita sociale. Domando alla Meloni se la bella collezione di angeli raccolta nel suo studio le avrebbe fa o far meglio di Conte, se lei fosse stata al

g governo. «I fa i dicono che quando, a fine febbraio, Sala e Zingare i prendevano l’aperitivo a Milano-non-si-ferma, noi chiedevamo la quarantena a chi arrivava dalla Cina. Quando si negava l’emergenza Covid e Di Maio mandava i dispositivi di protezione in omaggio alla Cina, noi li chiedevamo per l’Italia insieme al potenziamento delle terapie intensive. Chiesi a Conte di fare il lockdown dieci giorni prima di quando è stato fa o. Lui mi rispose: ti rendi conto di quanti miliardi perdiamo? Sì, ma allora non farlo tra due se imane. Io lo avrei limitato a due se imane per tu a l’Italia e poi avrei agito per zone rosse localizzate. Screening a tappeto, individuazione e isolamento dei focolai. Eppoi Schengen: non esiste un protocollo unico. Chiesi a Conte di imporsi con l’Unione europea per sapere esa amente come andassero le cose negli altri paesi. Ma, si sa, l’Italia è la Cenerentola d’Europa.» Adesso Giorgia Meloni si gode il successo nei sondaggi, che la portano al 15 per cento, lo stesso livello del M5S e di quello glorioso di Alleanza nazionale a metà anni Novanta. Alle elezioni regionali del 2015 Fratelli d’Italia prese il 3,4 per cento dei voti e il 4 alle politiche del 2018. Il partito è salito al 6,4 per cento alle europee del 2019 e al 10,6 per cento alle regionali del 2020. Ha conquistato le Marche, storica roccaforte del centrosinistra, e ha perso in Puglia, dove ha pensato fino all’ultimo di poter vincere con Raffaele Fi o. La candidatura di Fi o è fru o anche della gratitudine della Meloni verso chi ha sdoganato il suo partito in Europa. «Quando Raffaele uscì da Forza Italia nel 2015, fondò Conservatori e riformisti, che l’anno dopo aderì a Conservatori e riformisti europei. Ci aiutò a entrare nel gruppo.» Il 29 se embre 2020 la Meloni è stata ele a con voto unanime presidente del partito dei Conservatori e riformisti europei: unica donna alla guida di un partito continentale. Affiliati al partito sono i repubblicani americani, i conservatori britannici, australiani e canadesi, gli israeliani del Likud. Lei incassa e cerca di restare con i piedi per terra, memore dei voli mortali dei tanti Icaro della politica italiana. «Il consenso, in politica, spesso è basato sulla moda e sull’effimero. Dovrebbe invece nascere dalla consapevolezza, dall’adesione ideale e non da una ba uta più o meno felice. In

p questo, le donne hanno un piccolo vantaggio. Gli uomini cedono più facilmente all’ubriacatura della celebrità.»

«Quando finirà il metadone del divieto di licenziare» Naturalmente, questo successo ha subito alimentato sui media la competizione con Salvini. «Ma io non ci sto. Ricordo bene quando Fini, fascista impresentabile, diventò un grande statista perché giocava contro Berlusconi. La stessa cosa provano a fare con me contro Ma eo. Tentativo stucchevole. Io voglio andare al governo e, certo, non posso andarci da sola. Voglio crescere a scapito dei miei avversari, facendo la corsa sui 5 Stelle e poi sul Pd. Mai sulla Lega.» La Meloni sa dimenticare. «Salvini aprì la crisi nell’agosto 2019 senza avvertirmi. Volevo realizzare un vecchio sogno da sub: vedere gli squali balena in Messico. Mentre preparavo la valigia, il 7 agosto scrissi: tu o tranquillo o cade il governo? Salii in aereo, mangiai, dormii e, al risveglio, Conte era andato giù.» Secondo me, le dico, Salvini era d’accordo con Zingare i per andare alle elezioni anticipate. «Ma il presidente della Repubblica non voleva e il Pd, che lo ha ele o, non poteva ignorarne il parere. Eppoi, i gruppi parlamentari erano contrari. Ci ho rimesso i soldi della vacanza, ma da allora con Salvini non ci sono stati gravi momenti di incomprensione. Certo, ogni tanto litighiamo, ma non ci divideranno mai.» Per intervenire sui principali dossier economici, la Meloni si fa assistere da Domenico Lombardi, che, partendo dall’ufficio studi della Banca d’Italia, è diventato membro del consiglio esecutivo del Fondo mondiale internazionale e della Banca mondiale, e ha incarichi importanti in Canada e in Gran Bretagna. È vicino al mondo conservatore inglese. «Stiamo costruendo una nuova classe dirigente, a ingendo alle intelligenze migliori di Azione Giovani che hanno esperienza politica e allargando a nuove competenze. Ci me iamo continuamente in discussione, con l’obie ivo di guidare il popolo e non di farci guidare.»

Lombardi l’ha convinta a sostituire il Mes, per esempio, con i diri i speciali di prelievo, che sono l’unità di conto del Fmi, politicamente meno rischiosi del Meccanismo europeo di stabilità. «A mio giudizio, so o il Mes si nasconde una fregatura. Viene da lei un signore a proporle un affare rifiutato da tu i gli altri. Perché gli altri non lo vogliono? Perché lei dovrebbe acce are? Il Mes è figlio di un vecchio tra ato che non è mai stato abrogato. La ricreazione finanziaria dell’Europa cesserà nel 2022, quando sarà finita la pandemia. Allora sca eranno le famose condizionalità, cioè la sorveglianza, fino a quando non avremo restituito il 65 per cento. Se vuoi risparmiare, comincia a tagliare i 200 milioni del bonus monopa ino…» Quando parla di Europa, la Meloni si scalda. «Perché dobbiamo comportarci come quelli che devono dire sempre grazie? Olanda, Irlanda e Lussemburgo sono paradisi fiscali che so raggono all’Italia ogni anno 8 miliardi di euro di imposte. I paesi comunitari dell’Est ci fanno concorrenza con il gap salariale. La Germania ha un surplus commerciale largamente fuori delle regole europee e nessuno dice niente. Noi ci siamo dissanguati dando i soldi alla Grecia per salvare le banche francesi e tedesche che erano piene di derivati. Invece di salvare gli Stati, la Merkel ha salvato le sue banche. E a noi niente?» (Eppure, sui 209 miliardi del Recovery Fund non è andata male…) La leader di FdI è un fiume in piena: «La Merkel arriva ai tavoli europei e dice: “Io ho un mandato parlamentare, oltre non vado”. Noi abbiamo governi deboli che non hanno il coraggio di me ere seriamente sul tavolo il tema dei paradisi fiscali e non usano l’opposizione per presentarsi più forti. Come puoi pretendere di tra are da pari a pari se ti comporti da servo? Bisogna me ersi in testa che, senza di noi, l’Europa non esiste. L’Italia deve far parte del tavolo che conta e costituire un’alternativa per arginare lo strapotere franco-tedesco. A proposito di Francia, ha visto che sta succedendo in Libia, dove l’Italia ha sbagliato tu o? I francesi stanno cercando – e non da oggi – di scalzare l’Eni per potenziare le loro società petrolifere».

Concludiamo la nostra conversazione parlando di un sistema che garantisca una solida governabilità in Italia. Giorgia Meloni è da sempre favorevole al sistema maggioritario. «Il proporzionale è una vergogna. Noi abbiamo proposto di ridisegnare i collegi a uali tagliando la quota proporzionale, in modo da aumentare il maggioritario. È un piano che andrebbe elaborato insieme agli alleati [ma è noto che Berlusconi preferisce il proporzionale per salvaguardare Forza Italia]. È ovvio che, se ci fosse un premio di maggioranza, alla coalizione andrebbe meglio.» Ma questa ipotesi è da escludere, visto che il pa o tra Pd e 5 Stelle prevede che ciascuno vada per proprio conto. Con il proporzionale, appunto. Nonostante alcune diversità di vedute, il rapporto con Berlusconi è buono. «Lui sa stare al gioco della politica. Mi ha fa o i complimenti per la guida del partito conservatore europeo. Guarda la nostra crescita e non ne soffre, almeno non lo dà a vedere. Mi dice ogni tanto: “Perché non facciamo un partito insieme? Io presidente e tu segretario?”.» Poi la mia interlocutrice osserva dalla terrazza i palazzi del potere e mi dice: «Non è scontato che per votare si debba aspe are il 2023. Non ci rendiamo ancora conto della forza con cui si abba erà su di noi la crisi economica. La cassa integrazione e il divieto di licenziamento sono il metadone. Quando sarà finito, con un governo senza una visione la crisi sarà terribile. La pausa del Covid ha soltanto cloroformizzato i nostri problemi».

Il primo anno con il Cavaliere al telefono, causa Covid Silvio Berlusconi è l’unico leader che ho incontrato per 26 anni ogni autunno per il mio libro sulla storia italiana. È accaduto spesso nella sua villa di Porto Rotondo, con l’immancabile visita al parco arricchito ogni anno di una nuova area, fosse il giardino di piante grasse o l’hortus conclusus. Quando ci andai per la prima volta nel 1994, il parco misurava 8 e ari. Dieci anni dopo erano 80. Adesso credo che abbiano superato il centinaio. Nel 1994 la figlia Barbara

aveva 10 anni, Eleonora 8, Luigi 6. Sguazzavano in piscina ed erano troppo piccoli per venire a tavola con noi e con Veronica. Clima assai diverso in Sardegna nel 2006. Il Cavaliere aveva perso per 24.000 voti le elezioni, il dubbio (fondato) sui brogli lo angosciava ed era inutile ricordargli che, con pochi voti di margine, un suo governo non avrebbe re o. (E infa i arrivò la riscossa del 2008…) Ma trovai un uomo diverso, forse depresso, certamente intristito. Nel fra empo le compagnie femminili aumentavano, anticipando poi il pasticcio degli anni successivi. Eppure, quell’anno Berlusconi corse a Marrakech, travestendosi da arabo per consegnare in un locale alla moglie un sontuoso regalo per i suoi 50 anni. Ma le lesioni erano ormai evidenti. Anche se, nella mia visita segreta del 2007 a Macherio per raccoglierne lo sfogo, Veronica mi disse: «La solidità del nostro rapporto si è costruita nel tempo. Siamo come il Duomo di Milano i cui lavori non finiscono mai», confidandomi peraltro di non sopportare più le sfrenate scappatelle del marito. Qualche autunno ci siamo visti con Berlusconi ad Arcore, in momenti sereni e in momenti drammatici. Mi colpì l’affiatamento iniziale di un circolo ristre o, regolato con mano sicura dall’ineccepibile segretaria Marinella Brambilla, rimpianta da tu i, che filtrava incontri e telefonate con la signorile, efficiente abilità di un diplomatico. Ricordo l’armonia dei loro pasti a mezzogiorno in cucina, prima del nostro in sala da pranzo. Era un circolo di persone ancora incredule che il Do ore fosse arrivato a palazzo Chigi, ma che non si erano montate la testa. Poi, la ro ura traumatica del 2009. L’apoteosi del 25 aprile a Onna da «padre della patria» e l’incauta visita a Casoria per festeggiare i 18 anni di Noemi Letizia. Il divorzio da Veronica («Ciarpame senza pudore»), che avrebbe poi abusato del ruolo di moglie separata chiedendo risarcimenti irreali, in seguito ridimensionati dai tribunali. Ricordo le mie continue visite, fino al 2019, nella sala da pranzo delle «cene eleganti»: «Vede?, non c’era niente di male…». E io a dirgli inutilmente: il presidente del Consiglio non deve perme ersi certe frequentazioni.

Infine, palazzo Grazioli. Solenne, aristocratico, ma buio, triste, affacciato sulla grigia parete destra di palazzo Venezia, le luci sempre accese, la casa ufficio affollata di questuanti a ogni ora («Ma come fa a vivere segregato qui dentro, lei che potrebbe perme ersi gli a ici più belli di Roma?»). Qui, nell’autunno 2013, il Cavaliere misurava a larghi passi i saloni del palazzo dopo la sentenza colpevolista della Cassazione per frode fiscale chiedendosi: «Come hanno potuto condannarmi?». E l’amarezza per il «tradimento» dei ministri di centrodestra rimasti nel governo Le a e di Angelino Alfano, con il quale oggi ha ripreso un rapporto amichevole e, a tra i, perfino affe uoso.

Il pa o di fedeltà e la sirena del Quirinale Nel 2020 il signor Covid ci ha impedito di vederci. Berlusconi si è ammalato il 2 se embre. Se i siti di tu o il mondo hanno messo all’istante in rete la notizia, abbiamo la vistosa conferma che il Cavaliere non viene considerato un «ex». Non a caso, con una scelta pure sorprendente, qualche giorno prima il se imanale francese «L’Express» gli aveva dedicato la copertina: espressione da angiole o furbacchione, corona d’alloro intorno al capo e il titolo: Il migliore dei populisti europei. (Nel 2018, mentre ovunque si parlava di ritorno del fascismo, Madeleine Albright, segretario di Stato della seconda amministrazione Clinton, ricordava in Fascismo. Un avvertimento uno sterminato elenco di presidenti americani, democratici e repubblicani, che hanno rivendicato con orgoglio di essere «populisti»: «Se populista è chi crede nei diri i, nella saggezza e nelle virtù della gente comune,» scrive la Albright «bene, io appartengo alla categoria».) Come riconosce «L’Express» nello sterminato servizio dedicatogli, Berlusconi è stato fin dall’inizio populista nel senso più nobile. Ha intuito il devastante rapporto con i partiti di un’opinione pubblica sconvolta da Tangentopoli, ma nient’affa o pronta a

consegnarsi ai «comunisti» e, con il suo carisma comunicativo, ha fa o sposare da Forza Italia Popolo e Potere. È l’unico leader di partito in un paese occidentale a essere in carica da 27 anni. I suoi dieci anni scarsi a palazzo Chigi lo collocano subito dopo Giovanni Gioli i come durata di mandato in un regime democratico. Nonostante la modesta percentuale di voti accreditatagli dai sondaggi, il Cavaliere oggi vale molto più di quanto i suoi stessi seguaci – spesso lacerati da miopi giochi di corrente e da tentazioni voltagabbana – siano disposti a riconoscergli. È un elemento di equilibrio nel centrodestra italiano ed è un punto di riferimento del Partito popolare europeo, che teme gli strappi a destra di quel Viktor Orbán i cui a eggiamenti autocratici me ono in ombra il ruolo straordinario che ebbe in Ungheria poco prima della caduta del Muro. Si spiega così l’insospe abile unanimità degli affe i che ha circondato il Cavaliere nel ricovero al San Raffaele di Milano dal 3 al 14 se embre. Non è soltanto il rispe o per una persona d’età, né l’onore delle armi reso al «nemico di ieri». È la consapevolezza, ammessa so o voce, che Berlusconi guida con largo margine la lista – ristre a a meno delle dita di una mano – dei leader della Seconda Repubblica destinati a entrare nei libri di storia. Questa situazione gli crea, peraltro, un problema. Durante il lockdown il Cavaliere si era un pochino smarcato dagli alleati, assicurando a Conte l’appoggio di Forza Italia in caso di necessità (molti dei suoi non aspe avano altro…). Salvini e Meloni lo hanno richiamato al vincolo di coalizione e hanno molto insistito perché anche Forza Italia partecipasse alla manifestazione comune del 2 giugno, nonostante lui nicchiasse. Sanno, infa i, che i voti di Forza Italia – pur reduci da una robusta cura dimagrante – restano determinanti per una maggioranza di centrodestra. Il pa o di fedeltà reciproca (anti-inciucio), so oscri o dai tre alla vigilia delle elezioni regionali di se embre, si spiega con un retroscena mai reso pubblico. Salvini e Meloni hanno assicurato a Berlusconi che, se Forza Italia fosse rimasta fedele alla coalizione, loro lo avrebbero votato come capo dello Stato all’inizio del 2022. Questa è una vecchia e legi ima aspirazione del Cavaliere. Ma la

g p salita che porta al Colle è da sempre molto accidentata e piena di voragini, che si aprono all’improvviso. Inoltre, gli anni passano. Pertini salì al Quirinale quando ne aveva 82 e non si rassegnò mai a non aver avuto la conferma a 89. Berlusconi ne avrebbe 85 e mezzo e chiuderebbe il suo mandato a 92. Noi siamo fermamente convinti della sua immortalità (se anche morisse, tornerebbe da noi dopo due giorni, per ba ere il record dell’Altro), ma un problema di età ogge ivamente si porrebbe. In ogni caso, i franchi tiratori, che in queste occasioni danno sempre il meglio di sé, occuperebbero per quantità anche le tribune del pubblico. Il Cavaliere non è nato ieri. Eppure, questa proposta diabolica gli ha accarezzato il cuore e il pa o di coalizione regge magnificamente.

Zangrillo: «A marzo Berlusconi sarebbe morto» Quando lo sento al telefono, un mese dopo il ritorno a casa ormai guarito, il primo sfogo istintivo è per lo scampato pericolo: «I primi tre giorni sono stati i peggiori della mia vita. Non riuscivo a trovare una posizione stabile nel le o, avevo la febbre alta, non respiravo. Il 90 per cento delle persone di età superiore agli 80 anni e nelle mie condizioni fisiche non ce l’ha fa a. A me, invece, è andata bene». «A marzo, Berlusconi sarebbe morto» mi dice Alberto Zangrillo, suo medico personale. «È una certezza assoluta. Solo chi non ha mai visto un paziente – e sono tanti tra i medici che parlano in televisione – può dubitarne. È vero che il presidente aveva una carica virologica robusta, da podio, si può dire, come ha confermato il professor Clementi, virologo del San Raffaele. Una carica elevata su un individuo fragile. Ebbene, Berlusconi è arrivato alla guarigione clinica nel giro di una se imana, a dimostrazione che – al contrario di quanto sostengono alcuni soloni – il virus di se embre-o obre è completamente diverso da quello di marzo.» Zangrillo è una delle poche persone vicinissime al Cavaliere che ha piena libertà e indipendenza di giudizio. «Quando il presidente

è stato ricoverato la no e sul 3 se embre, abbiamo a uato una procedura replicata in centinaia di pazienti: immediatezza della diagnosi, riscontro di una positività, approfondimento radiologico, che ha permesso di riscontrare una polmonite bilaterale in un individuo di 84 anni.» Come è stato curato Berlusconi? «Abbiamo usato un antibiotico, l’Azitromicina; il Remdesivir, l’unico antivirale autorizzato per comba ere il Coronavirus; una terapia anticoagulante già usata per il presidente Berlusconi portatore di valvola biologica. E – fino a quando è servita – una terapia antifebbrile. Il miglioramento è stato rapido, con i test ematici abbiamo monitorato i parametri della risposta infiammatoria. Quando questi parametri recedono, la curva fle e. E Berlusconi è stato dimesso alla decima giornata.» La conversazione con il Cavaliere parte dal modesto risultato o enuto, sopra u o da Forza Italia, alle elezioni regionali e amministrative di se embre 2020. «Non parlerei di sconfi a. A livello regionale il centrodestra è cresciuto quasi ovunque, confermandosi la maggioranza naturale in Italia» tiene a precisare. «Per quanto ci riguarda, mi pare evidente la nostra indispensabilità numerica e politica nella coalizione per ba ere la sinistra e per governare. Alle amministrative dell’autunno 2020 Forza Italia si è presentata con due handicap: la mancanza di risorse – da quando una legge “contra personam” mi impedisce di provvedere ai bisogni del movimento che ho fondato – e l’assenza del leader in campagna ele orale, per i noti problemi sanitari. Proprio per questo sono determinato a tornare fa ivamente in campo nel più breve tempo possibile. Per quanto riguarda la nostra identità e il nostro ruolo nella politica italiana, voglio ricordare che Forza Italia, in Italia, è l’unico movimento politico fondato sulla storia e sui princìpi dell’Occidente. I nostri valori sono la libertà, il cristianesimo, il garantismo, la solidarietà, il libero mercato, l’europeismo. Siamo il partito dell’impresa e del lavoro. Siamo contro l’oppressione giudiziaria, l’oppressione fiscale, l’oppressione burocratica. E siamo parte integrante della grande famiglia della democrazia e della libertà in Europa che è il Partito popolare europeo.»

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Berlusconi: «La Lega nel Partito popolare europeo? Ci vuole tempo» Ha notato la svolta di Salvini in Europa? «Sono stato io a spiegare a Salvini che non si può andare contro l’Europa, che con la signora Le Pen si finisce in un vicolo cieco, che se si vuole contare bisogna avere un rapporto decente con il Partito popolare europeo.» E continua: «I nostri rapporti personali? O imi, come sempre. Ma eo è una persona a enta, anche nei rapporti umani. Quando ero in ospedale, mi ha chiamato quasi ogni giorno per chiedermi come stavo. La sua leadership nella Lega è solida. Sono sicuro che Zaia e Giorge i non abbiano alcuna intenzione di me erla in discussione». Ma il Partito popolare europeo è pronto ad accogliere la Lega? Lei sarebbe d’accordo? «Ovviamente sarei felice di ricostruire in Europa, all’interno del Ppe, l’alleanza che esiste oggi in Italia. Ma un processo politico così importante, per essere credibile in Europa, deve avere i suoi tempi. Parlare oggi di ingresso della Lega nel Ppe, credo sia prematuro. Tu avia, un percorso è cominciato e io confido che porti dei fru i.» Giorgia Meloni ha fa o un bel passo avanti diventando presidente dei Conservatori e riformisti europei. «Mi fa molto piacere: significa che è diventata più europeista, che ha acquisito autorevolezza e che si sta allontanando da quel sovranismo che non ci porta da nessuna parte.» Pensa che un giorno la Meloni potrà candidarsi alla guida del paese?, gli chiedo. «Nel momento in cui il suo partito fosse il più forte della coalizione, avrebbe diri o, in base alla regola che ci siamo dati, di indicare il candidato premier da proporre al capo dello Stato. Io la stimo e le auguro di riuscirci, come lo auguro a ogni nostro alleato: il successo di ciascuno è un bene per tu i.» Forza Italia appare molto divisa. Dopo le amministrative di se embre 2020, le lo e interne, seppure so erranee, si sono acuite. Come pensa di intervenire? «Non do troppa importanza ai pe egolezzi, né alle piccole dispute. Non possiamo perme erci di correre dietro ai personalismi, se ci sono. Forza Italia ha un compito

indispensabile, decisivo e, per realizzarlo, dobbiamo ricostruire l’area politica liberale, cristiana, garantista nel nostro paese. Un’area politica ben distinta da quella dei nostri alleati, anzi in positiva competizione con loro per crescere tu i. Non ci sono alternative e non c’è tempo per altro. Posso garantirle che la stragrande maggioranza dei nostri militanti, dirigenti, ele i, la pensa come me ed è come me infastidita da quello che ogni tanto si legge sui giornali.» Pensa di operare cambiamenti anche nella vicepresidenza del partito, nella guida dei gruppi parlamentari, nei dirigenti che la seguono più da vicino? «Ci stiamo rifle endo. Alcuni cambiamenti ci saranno, anche per premiare la lealtà e l’impegno, e coinvolgere, come ho sempre voluto fare, persone nuove ed energie fresche. Tu avia, nessuno deve temere – e nessuno deve sperare – epurazioni o ro amazioni che non appartengono al nostro costume e delle quali, comunque, non abbiamo nessun bisogno. Tu i i miei collaboratori, tu i i dirigenti di Forza Italia operano nel rispe o delle dire ive della presidenza e delle decisioni che abbiamo assunto insieme.» Chiedo a Berlusconi se anche lui è del parere che il centrodestra debba presentare come candidati sindaci delle grandi ci à persone del tu o estranee alla politica, come è avvenuto per Brugnaro a Venezia e Bucci a Genova. «Quelli che lei ha citato sono modelli che funzionano» mi risponde. «Il grande consenso che ha o enuto il sindaco Brugnaro, per il quale ho molta stima, quando ha chiesto ai suoi ci adini la riconferma, lo dimostra. Noi saremmo in grado di esprimere degli o imi candidati sindaci fra i nostri militanti, ma la nostra intenzione è quella di chiamare i migliori protagonisti della società, dell’impresa, delle professioni, del lavoro, della cultura ad assumere un ruolo pubblico, invece di delegarlo a politici di professione. È quello che ho fa o io stesso quando sono sceso in campo ed è quello che dobbiamo cercare di fare ancora.»

«Conte è molto abile. Prenda i soldi del Mes»

Anche Giuseppe Conte è un professionista che viene dalla «società civile». Che rapporto ha con lui? «Sul piano personale, i rapporti sono cordiali. Do a o al professor Conte di essere molto abile nel pervenire a degli accordi all’interno della sua variegata maggioranza. Altra cosa è il giudizio politico su una coalizione che ci vede coerentemente e responsabilmente all’opposizione.» Se il governo si trovasse in difficoltà, Forza Italia gli darebbe una mano per non andare alle elezioni anticipate? «Come abbiamo dichiarato più volte, noi, di fronte all’emergenza che ci ha colpito, siamo disponibili a una collaborazione costru iva per sostenere il paese, non certo per sostenere una maggioranza dalla quale ci dividono molte cose.» Fosse lei al governo, come spenderebbe i soldi del Recovery Fund? «Se potessi, risponderei con poche, pochissime parole: scuola, università e ricerca, infrastru ure, imprese. E aggiungerei tre riforme di portata generale: digitalizzazione, semplificazione burocratica, giustizia. Non parlo, naturalmente, di sanità, perché per quella c’è il Mes, e mi auguro che nessuno sia tanto irresponsabile da rinunciarvi. Ma, in effe i, il problema è più complesso. Il Covid ci lascia una situazione molto pesante e non mi pare che il governo abbia fa o finora le cose necessarie per risalire la china. Bisogna demolire il codice degli appalti e invertire il criterio dei controlli: si facciano a opera finita, e chi ha sbagliato deve rimediare. La politica assistenziale deve essere corre a: tampona le criticità, ma impedisce la crescita. Ci vuole una formidabile politica di investimenti pubblici e privati, facilitati questi ultimi da un’idonea politica fiscale. Le aliquote Irpef vanno almeno riviste e quella massima non può rimanere al 43 per cento, fermo restando che il nostro obie ivo dopo le elezioni rimane la “flat tax”. Sollecito per l’ennesima volta una riforma della burocrazia e della giustizia: anche recenti fa i di cronaca sono stati la documentazione esemplare di ciò che accade all’interno della magistratura e dei pregiudizi politici che vi albergano.» Eppure, presidente, lei è stato al governo per un decennio. Fisco, burocrazia e giustizia non hanno avuto grandi riforme durante i suoi mandati… «Lei conosce bene la storia dei miei governi. Ho

g sempre dovuto fare i conti con le posizioni dei partiti con cui ci siamo dovuti alleare per raggiungere la maggioranza, che mi hanno bloccato.» Quando a raversano fasi drammatiche della vita, capita agli uomini di riesaminare la propria esistenza. È accaduto anche a lei?, chiedo a Berlusconi. «Sì,» mi dice «ma devo deluderla: davvero non riesco a trovare qualcosa di rilevante da rimproverarmi. Mi sono sempre impegnato nella direzione giusta, pur essendomi trovato ad affrontare enormi difficoltà, sia come imprenditore che come politico. Certo, negli ultimi dieci anni il mondo è molto cambiato. Pensi alla televisione italiana: oggi esistono più di duecento canali televisivi ed è evidente come, messi insieme, abbiano profondamente modificato le percentuali di ascolto di Rai e Mediaset sull’ascolto totale.» A proposito di televisione, Mediaset resterà italiana? «Certamente sì. Ovviamente, non entro nel merito di scelte industriali che, da quando sono entrato in politica, ho lasciato totalmente nelle mani dei miei figli e di alcuni bravissimi manager, che hanno tu o il mio appoggio e il mio sostegno. Però, Mediaset è e rimarrà un patrimonio del nostro paese, anche se, naturalmente, dovrà cercare le opportune sinergie in Europa per competere in un mercato che è ormai globale.» Tu avia, Mediaset sembra interessata all’acquisizione di La7. Enrico Mentana ha de o che si dime erebbe, se l’affare andasse in porto… «Sinceramente non mi risulta alcun interesse di Mediaset per La7. Apprendo, perciò, da lei anche questo commento del dire ore Mentana e – se non fosse il do or Vespa a riferirmelo – farei davvero fatica a crederci. [Lo ha de o il 15 se embre 2020.] Enrico Mentana ha avuto per diversi anni incarichi giornalistici di primo piano nel gruppo Mediaset – compresa la direzione del telegiornale – e lui stesso ha sempre riconosciuto che gli è stata garantita la massima libertà e il massimo rispe o per la sua professionalità. Lo stesso vale, del resto, per tu i i giornalisti e gli autori che hanno lavorato con noi e che lo possono testimoniare. Sono davvero stupito e voglio credere che ci sia stato un fraintendimento.»

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g Zangrandi, Ruggero, Il lungo viaggio a raverso il fascismo, Torino, Einaudi, 1948; Milano, Feltrinelli, 1962; Milano, Mursia, 1998.

Abbiamo lavorato come se fosse un anno normale. Non c’erano isolamento (lockdown) o lavoro agile (smart working) che potessero me ere qualche granellino di sabbia in un meccanismo perfe o. Nicole a Lazzari, come fa da venticinque anni, ha chiuso il libro qua ro giorni prima che uscisse in libreria. Il Guinness dei primati ci ignora, pazienza. Dire ancora grazie a lei e alla sua splendida squadra è stucchevole. Li amo. Grazie alla perfe a compagine editoriale di Mondadori, la migliore. Grazie a Paola Miletich, per il consueto contributo ad alcune ricerche, e ad Anna Campi, che per la prima volta non ha rischiato l’infarto. Grazie al Padreterno, sempre così generoso con me.

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Indice

Copertina L’immagine Il libro L’autore Frontespizio Premessa Perché l'Italia amò Mussolini Il racconto di due di ature I. Come lo Stato diventò fascista II. Churchill disse: «Sono affascinato da Mussolini» III. L’impronta del regime sulla società italiana IV. Cinque gerarchi, cinque storie diverse V. Il mito VI. Le donne del Duce VII. Clare a VIII. La guerra d’Etiopia e la nascita dell’impero IX. La di atura del virus X. La strage nella Bergamasca, la vi oria del Veneto XI. Dalla Cina all’Italia, l’apocalisse virale XII. La guerra di trincea contro un virus misterioso XIII. La maggioranza, tra il nuovo a acco del Covid e i miliardi da spendere XIV. Salvini, Meloni e Berlusconi, uniti con riserva… Volumi citati Copyright