Per una nuova interpretazione di Platone alla luce delle «Dottrine non scritte» [22 ed.] 8845265498, 9788845265495

La nuova interpretazione di Platone si è imposta come un unicum a livello internazionale. Infatti non era mai accaduto p

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Per una nuova interpretazione di Platone alla luce delle «Dottrine non scritte» [22 ed.]
 8845265498, 9788845265495

Table of contents :
Copertina
Frontespizio
Copyright
Dedica
Nuova introduzione per l’edizione Bompiani
1. Una breve premessa
2. I problemi di fondo che sollevano le «Dottrine non scritte»
3. L’accusa rivolta contro Platone di aver combattuto una «battaglia di retroguardia» con la critica alla scrittura
4. Platone ha criticato la scrittura e nello stesso tempo l’ha adeguatamente difesa
5. Le caratteristiche della tradizionale forma di «oralità mimetico-poetica» e la nuova forma di «oralità dialettica»
6. La particolare rivoluzione portata da Socrate alle sue estreme conseguenze nell’àmbito dell’oralità
7. Mediante la dialettica Socrate ha messo in crisi in modo definitivo la tecnologia della comunicazione mimetico-poetica
8. La posizione assunta da Platone che anticipa in nuce scoperte della moderna ermeneutica
9. Il «circolo ermeneutico» in cui si collocano i rapporti fra gli scritti platonici e le sue «Dottrine non scritte»
PARTE PRIMA Premesse metodologiche essenziali
Capitolo primo
Capitolo secondo
Capitolo terzo
Capitolo quarto
PARTE SECONDA La "seconda navigazione" e i due livelli della metafisica di Platone
Capitolo quinto
Capitolo sesto
Capitolo settimo
Capitolo ottavo
Capitolo nono
Capitolo decimo
Appendice al capitolo decimo
PARTE TERZA I nessi strutturali fra la teoria delle Idee e la protologia
Capitolo undicesimo
Capitolo dodicesimo
Capitolo tredicesimo
Capitolo quattordicesimo
Capitolo quindicesimo
PARTE QUARTA La dottrina dell'Intelligenza demiurgica e i suoi rapporti con la protologia
Capitolo sedicesimo
Capitolo diciassettesimo
Capitolo diciottesimo
Capitolo diciannovesimo
Capitolo ventesimo
Appendice al capitolo ventesimo
Capitolo ventunesimo
Postfazione
Appendici
Appendice I
Appendice II
Appendice III
Appendice IV
Appendice V
Appendice VI
Appendice VII
Appendice VIII
Appendice IX
Appendice X
Appendice XI
Appendice XII
Indici generali
I. Indice generale dei passi di Platone citati
II. Indice dei passi di altri autori antichi citati
III. Indice generale delle opere espressamente utilizzate e citate
IV. Indice generale dei nomi degli autori moderni
V. Indice analitico dei concetti trattati
VI. Indice analitico della materia trattata
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1-09-2010

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Pagina 1

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IL PENSIERO OCCIDENTALE

“Questo libro considerevole è per tutti i platonisti irrinunciabile.” J.F. Balaudé, “Revue des Études grecques” “Questo nuovo paradigma ha il merito di restituirci un Platone di una profondità metafisica senza precedenti.” L. Rizzerio, “Revue Philosophique de Louvain”

GIOVANNI REALE PER UNA NUOVA INTERPRETAZIONE DI PLATONE ALLA LUCE DELLE “DOTTRINE NON SCRITTE”

“Il libro è un capolavoro nel genere delle monografie filosofiche.” G. Figal, “Internationale Zeitung für Philosophie”

GIOVANNI REALE

PER UNA NUOVA INTERPRETAZIONE DI PLATONE ALLA LUCE DELLE “DOTTRINE NON SCRITTE”

“Reale deve essere considerato uno dei più eminenti storici della filosofia in Italia.” K. Albert, “Philosophischer Literaturanzeiger” “Siamo di fronte a un libro di un profondo conoscitore di Platone.” R. Ferber, “Neue Zürcher Zeitung” “Giovanni Reale è il massimo studioso di Platone esistente in Italia.” M. Cacciari, “Amica”

ISBN 978-88-452-6549-5

25,00

www.bompiani.eu

“[...] È uno dei saggi più notevoli scritti sul pensiero platonico (a partire da un punto di vista sistematico) negli ultimi decenni [...] un saggio che offre una bella lezione di classicismo e di spirito scientifico.” M Canto, “Revue philos. de la France et de l’Étranger” “Questo libro è realmente un punto di riferimento irrinunciabile per gli studiosi di Platone.” F. O’ Farrell, “Gregorianum” “L’opera è una autentica summa dell’esegesi platonica secondo il nuovo paradigma.” O Ballériaux, “L’Antiquité Classique” “Il libro di Giovanni Reale [...] è il più ricco di successo che la storia della ricerca platonica conosca.” H. Krämer, “Rivista di Filosofia neoscolastica” “In forza dei suoi meriti questo libro può considerarsi un capolavoro, anzi, forse la più chiara e globale interpretazione di Platone che mai sia stata proposta.” J. Seifert, “Postfazione alla traduzione tedesca”

BOMPIANI

“Reale supera l’interpretazione di Tubinga e le conferisce una collocazione storica.” C.F. Wezsäcker, “Platon, ein Versuch”

In copertina: Raffaello, La scuola di Atene (part.). Cover design: Polystudio.

“Il massimo esperto mondiale di Platone, Giovanni Reale.” D. Mineva, “L’Espresso”

Con i testi greci di tutti i passi citati

Giovanni Reale è uno dei massimi studiosi del pensiero antico e autore di fondamentali contributi su Presocratici, Socrate, Platone, Aristotele, Seneca, Pirrone, Plotino, Proclo e Agostino. Ha composto una Storia della filosofia greca e romana (in dieci volumi, Bompiani 2004) che si è imposta come un punto di riferimento. Per una nuova interpretazione di Platone è la sua opera di maggior successo, come dimostra lo straordinario numero di edizioni, le traduzioni in varie lingue e i giudizi dati dagli studiosi a livello internazionale.

BOMPIANI IL PENSIERO OCCIDENTALE

“Il principale merito di Reale si colloca nella presentazione ponderata, didatticamente esemplare e riassuntiva, dello stato della ricerca di Platone della Scuola di Tubinga, cui tuttavia non si nega il tratto personale dell’autore.” W. Wieland, “Farnkfurter Allgemeine Zeitung”

IL PENSIERO OCCIDENTALE

GIOVANNI REALE PER UNA NUOVA INTERPRETAZIONE DI PLATONE ALLA LUCE DELLE «DOTTRINE MANOSCRITTE» Ventiduesima edizione

BOMPIANI

ISBN 978-88-58-76190-8 © 2010 R.C.S. Libri S.p.A., Milano I edizione digitale Bompiani Il Pensiero Occidentale gennaio 2014

Dedico la nuova edizione di questo mio libro a Hans Krämer a Thomas Szlezák e alla memoria di Konrad Gaiser e di Hans-Georg Gadamer

Nuova introduzione per l’edizione Bompiani

1. Una breve premessa La fortuna che ha avuto questo mio libro non poteva essere in alcun modo prevedibile, soprattutto per il fatto che ha avuto in passato non pochi avversari, e alcuni colleghi avevano deciso – per dirla con una metafora – di metterlo fra i libri «proibiti», per le novità che introduceva e per i complessi problemi che esse implicavano. All’inizio ho pubblicato le prime quattro edizioni (1984-1986) con una cooperativa gestita da studenti, per avere la libertà di fare e rifare il testo via via, nel modo che ritenevo opportuno. Le successive diciassette edizioni (1987-2003) le ho pubblicate presso l’editrice Vita e Pensiero, aggiungendo ogni volta vari ritocchi, e novità nelle appendici. A partire dalla ventiduesima edizione pubblico l’opera (su richiesta dell’editore) in questa collana, e penso a buon diritto, in quanto essa ha avuto non solo una grande diffusione in Italia, ma anche in varie parti del mondo: è stata tradotta in tedesco (1993; 20002), in inglese (1996), in portoghese (1997), in spagnolo (2003), in ceco (2005); sono in avanzata elaborazione le traduzioni in romeno e in polacco; il capitolo decimo è stato tradotto e pubblicato in serbo). Io ho iniziato a occuparmi a fondo Platone a partire dalla metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, studiando a Marburg le interpretazioni che i Neokantiani davano del filosofo e in particolare della teoria delle Idee. E da allora ho proseguito senza interruzione, scrivendo e facendo scrivere da vari autori opere su Platone, di cui il lettore interessato potrà trovare le dettagliate indicazioni che fornisco nel volume Autotestimonianze e rimandi dei dialoghi di Platone alle “Dottrine non scritte”, edito in questa stessa collana (2008, pp. 245-259), nel quale spiego anche le novità che ho introdotto nell’ambito del nuovo paradigma ermeneutico creato dalla Scuola di Tubinga, in sintonia con esso.

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GIOVANNI REALE

Qui mi limiterò, pertanto, a riassumere in breve le ulteriori idee che ho maturato su Platone e che completano quanto dimostro in questo libro. Sono idee da me espresse soprattutto nell’opera Platone alla ricerca della sapienza segreta (edito dalla Rizzoli nel 1998 e riedito dalla BUR nel 2004).

2. I problemi di fondo che sollevano le «Dottrine non scritte» Si può ben dire che, oggi, non c’è nessuno studioso di buon senso che neghi l’esistenza di «Dottrine non scritte», ossia di quelle dottrine che Platone esponeva nelle sue lezioni nell’Accademia (che si intitolavano «Sul Bene»), ma che non metteva per iscritto. Le auto-testimonianze di Platone stesso e le testimonianze dei discepoli (a cominciare da quelle di Aristotele) sulla teoria dei «Principi primi e supremi» al di sopra delle Iddee sono incontrovertibili. I problemi nascono dalla interpretazione che di tali dottrine si possono e si devono dare. Su questo punto gli interpreti sono assai divisi. a) Una prima ipotesi è stata formulata da Eduard Zeller (ma da nessuno seguita), secondo il quale quelle dottrine sono state formulate dall’ultimo Platone, e non sono state scritte per il motivo che il filosofo, ormai vecchio, non aveva più le forze fisiche e spirituali per farlo in modo adeguato. b) Una ipotesi più ragionevole – seguita da molti – è stata quella di considerare le «Dottrine non scritte» come espressioni, sì, del tardo Platone, ma di una certa consistenza e di un certo spessore teoretico, e durate per alcuni anni. Di esse ci sono infatti innegabili cenni e allusioni in tutti i dialoghi posteriori alla Repubblica (a partire quindi dal Parmenide). c) Dal punto di vista ermeneutico le «Dottrine non scritte» non sarebbero decisive per intendere i dialoghi, eccezion fatta per i dialoghi dialettici. d) La teoria delle Idee espressa da Platone nei dialoghi sarebbe comunque, secondo alcuni, più interessante rispetto alla teoria dei Princìpi primi e supremi. e) Il peso dato alle «Dottrine non scritte» dalla nuova interpretazione comporterebbe la svalutazione degli scritti, e sostanzialmente ne diminuirebbe il valore. Contro queste tesi la Scuola di Tubinga e di Milano hanno precisato quanto segue. a) La presenza delle «Dottrine non scritte» è dimostrabile in modo

INTRODUZIONE ALL’EDIZIONE BOMPIANI

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preciso a partire già almeno dal Simposio (e per cenni anche prima, a partire dal Protagora), e nella Repubblica è riscontrabile in maniera veramente massiccia. b) Dal punto di vista interpretativo, la teoria dei Princìpi primi è determinante per intendere tutti i passi di rimando che si trovano nei dialoghi (i cosiddetti «passi di omissione»), in cui Platone rinvia la soluzione del problema ad altro momento (ma questo momento decisivo non si trova negli scritti). c) Le «Dottrine non scritte» arricchirebbero i dialoghi scritti, e ne mostrerebbero l’effettivo spessore teoretico. d) La stessa teoria delle Idee rimane problematica di per sé, in quanto la molteplicità del numero delle Idee richiede comunque una ulteriore giustificazione, fornita appunto dai Princìpi primi, considerati come fonte da cui derivano. e) Il giudizio sul valore della dottrine dei Princìpi rispetto a quello della dottrina delle Idee è una questione meta-ermeneutica, ossia è di carattere squisitamente teoretico, e quindi dipende dalle posizioni teoretiche che sono proprie dell’interprete. Di questi problemi il lettore trova ampia discussione in questo libro. Ma proprio dal punto di vista ermeneutico sorgono altri problemi che in questo libro non ho trattato e che ho discusso invece più di recente, e che qui riassumo.

3. L’accusa rivolta contro Platone di aver combattuto una «battaglia di retroguardia» con la critica alla scrittura Un problema che in generale viene mal posto e quindi mal risolto, riguarda la precisa posizione di Platone nei confronti della scrittura. Infatti, la posizione di Platone è ambivalente, o meglio a due facce. Platone critica la scrittura e la considera nettamente inferiore all’oralità; ma, nello stesso tempo, non solo accetta la scrittura, ma la difende, e indica anche quali sono le giuste regole da seguire per scrivere in maniera perfetta. Su questo punto anche insigni studiosi sono caduti in errore. Eric Turner, a conclusione del suo saggio I libri nell’Atene del V e del IV secolo (Laterza, Roma – Bari 1975; nuova edizione 1989; 19922), dopo aver riassunto la critica di Platone alla scrittura contenuta nel finale del Fedro, trae le seguenti conclusioni: «È impossibile non

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accorgersi che Platone, pur essendo un accanito lettore, sta combattendo una battaglia di retroguardia contro l’effetto inibitore che la parola scritta ha sul pensiero […]. Col primo trentennio del IV secolo i libri si sono saldamente affermati, e la loro tirannia continua» (p. 24). Ma Turner si sbagliava sia nel giudicare la «posizione di retroguardia» di Platone, sia nell’affermare che la tirannia del libro continua. Che oggi siano in crisi proprio il libro e la cultura della scrittura a causa della diffusione sempre crescente della cultura dell’immagine e dei mezzi di comunicazione mediante gli strumenti tecnologici sempre più raffinati, è a tutti chiaro. Inoltre la posizione di Platone nel criticare la scrittura e nel difendere l’oralità dialettica, lungi dall’essere di pura «retroguardia» si rivela essere – sotto certi aspetti – di sorprendente profetica avanguardia, come vedremo. Havelock, poi, nel suo importante libro (Cultura orale e civiltà della scrittura, Laterza, Roma – Bari 1973; riedizione 1983; 19952; titolo originario Preface to Plato, 1963) ha di fatto ignorato le «autotestimonianze» contenute nel finale del Fedro e nell’excursus della Lettera VII (che nell’àmbito della sua tesi costituivano una «anomalia» e addirittura una sorta di «controfatto»); ma in una nota riprende e ribadisce proprio quel giudizio: «Giustamente Turner osserva, a proposito di Fedro 274, che Platone combatte una “azione di retroguardia”. Infatti, la sua preferenza per i metodi orali era non solo conservatrice ma illogica, dal momento che la episteme platonica che doveva soppiantare la doxa [...] doveva essere tenuta a battesimo dalla rivoluzione della scrittura» (p. 272, nota 17). Ma anche fini studiosi di letteratura greca forniti di notevoli conoscenze delle tecnologie di comunicazione nel mondo antico, come Bruno Gentili e Giovanni Cerri, ribadiscono il giudizio di Turner. Gentili scrive: «Il fatto che Platone proclamasse esplicitamente la sua preferenza per il discorso orale, in realtà significa soltanto che egli non poteva cogliere tutte le implicanze storiche delle due diverse tecnologie della comunicazione orale e scritta, in un momento in cui era in atto un passaggio dall’una forma all’altra. Di qui la sua contraddittoria posizione di retroguardia a difesa dell’oralità e contro l’uso della scrittura, alla quale poi egli di fatto affidava la trasmissione del suo pensiero dialettico». (Prefazione a G. Cerri, Platone sociologo della comunicazione, Lecce 19962, p. 54). Cerri, in un bel saggio critico sul libro di Havelock (in «Quaderni Urbinati», 1969), ribadisce: «Platone vide con grande chiarezza che il nemico da battere è per lui la cultura poetica, mitica e formulare; non si rende invece conto, né

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forse avrebbe potuto, del legame esistente tra questa cultura e l’oralità, come non si accorge che la sua nuova verità, critica e dialettica, ha bisogno della scrittura». E in nota soggiunge: «Giustamente il Turner definisce l’avversione di Platone per la scrittura “azione di retroguardia”» (p. 124, n. 11).

4. Platone ha criticato la scrittura e nello stesso tempo l’ha adeguatamente difesa Platone, in realtà, non ha solo criticato la scrittura, ma l’ha anche difesa da par suo. a) Ha dimostrato che coloro che la criticano assumono tale atteggiamento nei confronti di essa perché amerebbero scrivere, però non lo sanno fare. 2) Ha individuato e teorizzato in modo veramente esemplare le regole dello scrivere in modo adeguato. A questo riguardo il testo di riferimento è il Fedro, che si impone addirittura come un vero e proprio manifesto programmatico. Il Fedro è opera della prima vecchiaia, composto da Platone fra i sessanta e i sessantacinque anni, ossia all’incirca fra il 368 e il 363 a.C. In questo dialogo egli prende precisa posizione nei confronti di coloro che si presentavano maestri dello scrivere oltre che del parlare, ossia dei retori, con alla testa Lisia (che da molti era considerato il maggior scrittore di quel tempo). E in una maniera veramente provocatoria, con una straordinaria abilità artistica e drammaturgica, dimostra di essere al di sopra di questi presunti maestri, e addirittura di essere proprio lui il maggiore degli scrittori del momento, sia di fatto sia anche di diritto (si veda il mio commentario a questo dialogo che ho pubblicato per la Lorenzo Valla – Mondadori, Milano 1998; 20094). Platone ci fornisce una eloquente prova di essere di fatto superiore ai retori dei suoi tempi, mettendo in scena una vera e propria «gara oratoria»: prima, fa leggere dal giovane Fedro il discorso scritto da Lisia sull’Eros, e subito dopo fa pronunciare da Socrate un primo discorso in cui sostiene la stessa tesi errata di Lisia (che critica Eros senza adeguato fondamento), ma con un impianto logico e un metodo senza paragone più corretti; poi fa pronunciare da Socrate un secondo discorso perfetto su Eros, sia nel contenuto sia nella forma, raggiungendo vertici dell’arte dello scrivere fra i più alti di tutti i tempi. Platone, inoltre, ci fornisce la prova di essere superiore ai maestri

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dello scrivere non solo di fatto ma anche di diritto, mediante una dettagliata spiegazione teorica di quelli che devono essere i fondamenti e le regole dello scrivere e del parlare. Dimostra anche, in modo dettagliato e preciso, l’insufficienza e l’inadeguatezza delle regole presentate dai retori. In particolare, dimostra che la vera arte dello scrivere può fondarsi solo sull’«arte dialettica», e quindi sulla filosofia, che si basa appunto sul metodo dialettico, e che pertanto può essere vero scrittore solamente chi è filosofo. Il culmine del discorso sta nelle conclusioni del Fedro, dove Platone, dopo averci dimostrato mediante l’agone oratorio di essere il più grande scrittore del momento, e dopo averci spiegato che egli è tale perché possiede l’arte dialettica del filosofo, ci dice che chi affida tutto quanto agli scritti è un «poeta», un «legislatore», uno «scrittore di discorsi», ma non è un filosofo. Infatti, il filosofo è tale, solo se non affida agli scritti quelle cose che per lui sono «le cose di maggior valore», e le comunica solamente nella dimensione dell’oralità dialettica, ossia se non le scrive nei rotoli di carta, ma nelle anime degli uomini, come vedremo con ampiezza (cfr. infra, il capitolo terzo, passim). L’arte di fare discorsi veramente persuasivi e di scrivere in modo corretto – come sopra dicevo – risulta essere possibile solo sulla base della dialettica, ossia sulla filosofia. E la dialettica segue un duplice procedimento nel modo che segue. a) Il primo procedimento consiste nel cogliere una molteplicità di cose forniteci dall’esperienza in una unica Idea, al fine di definire la cosa su cui si vuole parlare e scrivere. b) Il secondo consiste nell’esaminare l’Idea ottenuta mediante il primo procedimento, individuarne le articolazioni e dividerla secondo queste articolazioni (ossia con quali idee risulta connessa), fino a raggiungere le singole Idee non più ulteriormente divisibili (di questo argomento parleremo a più riprese e in modo approfondito nel corso dell’opera). Solo sulla base di questo duplice procedimento dialettico si può pervenire alla definizione della cosa di cui si vuole parlare. Ma per fondare l’arte dello scrivere in modo corretto questo non basta ancora. Infatti, dice Platone, «se uno vuole trasmettere discorsi fatti con arte a qualcuno, dovrà dimostrare con precisione l’essenza della natura di ciò a cui rivolgerà i suoi discorsi: e questo sarà l’anima» (270 E). E dovrà rendersi conto che l’anima è multiforme, e quindi prendere atto delle varie forme in cui l’anima si articola e comportarsi di conseguenza.

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E sulla base di queste premesse, Platone non esita ad affermare: «Dire espressioni giuste non è cosa facile; ma come bisogna scrivere, se si vuole farlo con arte, per quanto è possibile, voglio dirtelo» (271 C). La potenza del discorso consiste nella capacità di «guidare le anime». Quindi, una volta che si sia acquisita la conoscenza dell’anima e delle sue varie forme, bisogna acquisire anche la conoscenza delle varie forme di discorsi, e di conseguenza si dovrà stabilire quali tipi di discorsi siano in grado di persuadere certe anime e quali no, e quindi quali siano i tipi di discorsi da presentare ai particolari tipi di anime. Insomma, il vero scrittore dovrà possedere quste tre prerogative: 1) dovrà conoscere nel modo migliore possibile l’essenza della cosa di cui vuole parlare; 2) dovrà conoscere la natura dell’anima e delle sue varie forme; 3) dovrà costruire i suoi discorsi in funzione delle capacità di recepirli da parte di quei particolari tipi di anime cui intende rivolgerli. Ecco le conclusioni che Platone trae, mostrando chiaramente di ritenersi un vero maestro dell’oratoria (dell’arte del dire e dello scrivere): «Dunque, dopo aver considerato queste cose quanto basta, chi vuole essere oratore, osservando in realtà come queste cose esistano e operino, deve essere capace di tenere dietro a esse con acuta sensibilità, altrimenti in lui ci saranno solo i discorsi che aveva ascoltato a suo tempo, quando frequentava la scuola. Quando, poi, sia in grado di dire in modo adeguato quale uomo da quali discorsi venga persuaso, e, quando quest’ultimo si trovi a essere presente, sia capace di accorgersene e di dire a se medesimo: “questo è quel dato uomo e questa è la natura intorno alla quale a suo tempo si riferivano i discorsi, e poiché ora è di fatto qui presente, a essa bisogna fare questi discorsi in questo modo, per convincerla di queste determinate cose”. Quando, dunque, in possesso di tutte queste cose sia in grado di cogliere il momento giusto per parlare e quello per tacere, e sappia discernere l’opportunità o la non opportunità dello stile conciso e dello stile commovente, di quello dell’indignazione e di quante altre forme di discorsi abbia imparato, allora l’arte è realizzata in modo perfetto; ma prima no. Ma se gli manca qualcuna di queste cose quando parla, insegna o scrive, e d’altra parte dice di parlare con arte, vince chi non si lascia persuadere» (271 D-272 B). Ed ecco, infine, come Platone, verso la fine del dialogo, richiama e riassume le tre regole auree: «1) Prima bisogna che uno sappia il vero su ciascuna delle cose sulle quali parla o scrive, e sia in grado di definire ogni cosa in se stessa, e, una volta definita, sappia dividerla nelle sue specie fino ad arrivare a ciò che non è più ulteriormente divisibile.

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2) E dopo essere penetrato nella natura dell’anima, ritrovando allo stesso modo la specie adatta per ciascuna natura, 3) bisogna che costruisca e ordini il suo discorso in modo corrispondente, dando a un’anima complessa discorsi complessi e che comprendano tutte le armonie, e a un’anima semplice discorsi semplici. Prima di questo non sarà possibile che si tratti con arte, nella misura in cui convenga per natura, il genere dei discorsi, né per insegnare né per persuadere» (277 BC). Sono testi, questi, che gettano le basi dell’arte della comunicazione al più alto grado nella cultura occidentale. Ma sono anche testi che, in particolare, rivelano i precisi criteri secondo cui Platone ha composto i propri scritti. In effetti, Platone nei suoi scritti applica esattamente le regole sopra esposte, e, in particolare, mette in atto quanto è stabilito dalla terza regola. Nei singoli dialoghi egli presenta una discussione sulla cosa di cui tratta non in astratto, ma in concreto, ossia secondo la dimensione imposta dalle capacità dell’anima dell’interlocutore, e quindi in giusta proporzione con le caratteristiche e con le capacità dell’anima di tale interlocutore, sia dal punto di vista quantitativo sia da quello qualitativo. E proprio per questo i dialoghi platonici hanno nella maggior parte come titolo il nome non del protagonista, ma del deuteragonista (del personaggio cui sono rivolti i messaggi, sulla base delle sue capacità di recepirli), come ha dimostrato in modo esemplare Thomas A. Szlezák nel suo libro (Platone e la scrittura della filosofia, da me tradotto e introdotto, Vita e pensiero, Milano 1988; 19923). Si ricordi, inoltre, che il dialettico è stato caratterizzato (in un passo sopra letto) come colui che è «in grado di cogliere il momento giusto di parlare e quello di tacere». E in non pochi casi «il tacere» assunto da Socrate in vari dialoghi è dovuto proprio a questa regola: con il tipo di personaggio con cui parla, Socrate – come vero dialettico – deve tacere, perché l’anima di quel personaggio con cui in quel momento sta parlando non è in grado di recepire gli sviluppi del problema e la sua soluzione. Si scopre, in questo modo, che tutte le aporie dei dialoghi platonici hanno una funzione drammaturgica e dipendono in modo strutturale da precise regole dello scrivere e quindi rientrano in una tattica metodologica ben precisa. Siamo di fronte a un vero e proprio grande maestro della scrittura. E allora, come mai studiosi ben preparati nel loro campo sono caduti nell’errore di accusare Platone di aver preso una posizione di

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«retroguardia» nei confronti della scrittura, in quanto dichiara l’oralità superiore alla scrittura? La ragione che fa cadere in tale errore è ben precisa, e dobbiamo ora indicarla. In effetti ci sono due forme di «oralità», 1) quella tradizionale che consisteva nel tramandare mediante la memorizzazione dei poeti tutto il patrimonio culturale, e 2) una nuova forma di oralità, quella dialettica creata dai filosofi, di cui dobbiamo parlare.

5. Le caratteristiche della tradizionale forma di «oralità mimetico-poetica» e la nuova forma di «oralità dialettica» Per comprendere in modo adeguato questo punto molto importante – su cui mi sono soffermato, oltre che sull’ultimo volume su Platone, anche nel volume Socrate alla scoperta della sapienza umana (Rizzoli 2000; BUR 2001, 20073) – occorre fare alcune precisazioni. a) In primo luogo occorre acquisire adeguata conoscenza della tecnologia della comunicazione e delle modalità che sono proprie della diffusione e della conservazione orale della cultura nel mondo antico fondata sui poeti, ossia dell’oralità mimetico-poetica. b) In secondo luogo, occorre rendersi ben conto del fatto che i filosofi in generale e Socrate in particolare hanno capovolto le forme e i contenuti che erano propri di quella cultura, portando alle estreme conseguenze il passaggio rivoluzionario da una oralità mimetico-poetica a una oralità concettuale-dialettica, con tutta una serie di conseguenze che questo comportava. La cultura dell’oralità è rimasta, di fatto, dominante in Grecia fino a gran parte del quinto secolo a.C. Solo negli ultimi tre decenni di tale secolo e soprattutto nella prima metà del quarto (ossia proprio nel periodo in cui visse di Platone) la scrittura si è imposta come mezzo di comunicazione in maniera definitiva. Lo strumento principale di comunicazione nell’àmbito della cultura dell’oralità era in prevalenza la poesia, che si imponeva dal punto di vista funzionale come indispensabile mezzo formativo e informativo. La poesia svolgeva, quindi, un ruolo ben differente rispetto a quello che essa svolge nel mondo moderno e contemporaneo. Essa – come è stato giustamente detto – costituiva una vera e propria «enciclopedia» non solo della saggezza morale, ma anche del sapere tecnico, e il suo linguaggio era il linguaggio di riferimento della comunità colta.

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Inoltre, il rapporto del poeta con il pubblico non era quello tipico dello «scrittore» con il «lettore», in quanto il pubblico non leggeva Omero, Esiodo e i tragici, ma li «ascoltava» dagli aedi, dai rapsodi e dagli attori, in vari modi, in varie occasioni e a più riprese. In tal modo, il patrimonio culturale espresso dalla poesia veniva fissato nella memoria. I maestri recitavano i poeti per istruire i giovani; i rapsodi recitavano i poeti nei simposi e nelle feste, in abitazioni private così come nella piazza del mercato; gli attori presentavano le tragedie e le commedie nei grandi teatri, ma solo secondo modi, ma anche secondo tempi ben precisi. L’asse portante di questo tipo di cultura era quindi «Mnemosyne», ossia la dea Memoria, con una serie di regole ben determinati. Si pensa che nelle scuole dell’Attica l’introduzione della scrittura a livello primario iniziasse come prassi comune all’incirca alla fine della guerra del Peloponneso. Per i primi due terzi del quinto secolo a.C. Atene passa attraverso una fase di «semi-alfabetismo», e solo nell’ultimo terzo del quinto secolo viene introdotto l’uso della scrittura nelle scuole a livello primario. Pertanto, nella prima metà della sua vita Socrate viveva in quel clima culturale di «semi-alfabetismo», e nella seconda metà della sua vita assistette all’introduzione della scrittura a livello primario nelle scuole. Ma solo dopo la sua morte, ossia nel corso della prima metà del quarto secolo a.C., nacque e si diffuse una comunità di lettori, anticipata in certa misura dall’opera di alcuni filosofi e soprattutto dei Sofisti, e giunta a maturazione specialmente con gli Oratori. L’attività di Socrate si è svolta seguendo la prassi tradizionale, ossia sempre e solo nella dimensione dell’oralità: nei simposi, nelle palestre, nella piazza del mercato, nelle botteghe degli artigiani, per le vie della città, però con una nuova forma di oralità, quella dialettica, che si sostituiva alla precedente, di cui dobbiamo dire.

6. La particolare rivoluzione portata da Socrate alle sue estreme conseguenze nell’àmbito dell’oralità Socrate, dunque, ha svolto la sua attività di filosofo per intero nell’àmbito dell’oralità; ma proprio in questo stesso àmbito ha portato a conclusione una rivoluzione di straordinaria portata, con cui veniva a concludersi una lunga storia, iniziata addirittura con il primo dei filosofi, Talete.

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In ogni caso, va tenuto ben presente quanto segue: ciò che Socrate portava a compimento nell’àmbito dell’oralità non avrebbe potuto essere conservato e sviluppato se non mediante la scrittura, ma, di per sé, non dipendeva dalla scrittura stessa. In effetti, è stata proprio la rivoluzione concettuale nata all’interno dell’oralità che, ad un certo punto, ha imposto l’alfabetizzazione e la diffusione della scrittura in modo sistematico; anche se, ovviamente, proprio la diffusione della scrittura ha a sua volta rafforzato e imposto il nuovo modo di pensare, che comunque non dipendeva dalla scrittura se non in maniera indiretta. La tesi che ora abbiamo enunciato capovolge, in certo senso, alcuni dei concetti-chiave espressi da Havelock nella sua opera, e precisamente i seguenti quattro: 1) il modo di pensare dipenderebbe in toto dalla tecnologia della comunicazione e muterebbe solamente con il mutare di essa; 2) sarebbe stato l’imporsi della tecnologia della comunicazione mediante la scrittura che avrebbe mutato radicalmente il modo di pensare dei Greci; 3) in particolare sarebbe stato il nascere della prosa connessa con la nascita della scrittura che avrebbe creato il modo di pensare per concetti astratti e avrebbe portato al superamento del modo di pensare per immagini tipico della poesia, strumento-base di comunicazione nell’àmbito dell’oralità; 4) proprio nella rivoluzione prodotta dall’imporsi della scrittura consisterebbe quel momento da cui è nata la civiltà moderna, in quanto la cultura mediante la scrittura si sarebbe mossa su un binario del tutto nuovo rispetto all’oralità. Insomma, sarebbe stata la tecnologia della scrittura che da sola avrebbe reso possibile l’eliminazione del pensare per immagini con la connessa terminologia e con la conseguente sintassi, e l’acquisizione di concetti astratti con la nuova sintassi ad essi connessa. Queste tesi, a nostro avviso, vanno radicalmente modificate; non respinte ma ridimensionate in modo strutturale, come vedremo.

7. Mediante la dialettica Socrate ha messo in crisi in modo definitivo la tecnologia della comunicazione mimetico-poetica In base a quanto abbiamo già precisato, risulta chiaro che una mutazione della tecnologia della comunicazione come quella avvenuta in

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Grecia fra il quinto e il quarto secolo a.C. si è imposta in modo irreversibile in parallelo al nascere di un nuovo modo di pensare e di esprimersi, e di conseguenza si è diffusa a livello di cultura generale per soddisfare a nuovi bisogni spirituali, e, naturalmente, creandone anche dei nuovi. Particolarmente significativo, a nostro avviso, è il fatto che la tecnologia della comunicazione mediante la scrittura abbia impiegato più di trecento anni a imporsi. Infatti, per il suo imporsi dovette nascere nel frattempo e svilupparsi il nuovo modo di pensare per concetti, il quale non poteva essere comunicato, conservato e riutilizzato mediante gli strumenti tradizionali della cultura dell’oralità. In altri termini, è stato il nascere, nell’àmbito dell’oralità stessa, di enunciati concettuali astratti e della connessa nuova sintassi a mettere in crisi il tradizionale modo di pensare per immagini, e a imporre la necessità della scrittura. Dunque, le rivoluzioni sono state due, sia pure fra di loro strettamente connesse e con analoga finalità. 1) La rivoluzione avvenuta all’interno dell’oralità con il nascere di una nuova terminologia e di una nuova sintassi che ha messo in crisi le sue potenzialità e le sue capacità. 2) La rivoluzione provocata dall’imporsi della tecnologia della scrittura, che sola risultava essere in grado di soddisfare ai nuovi bisogni. 3) Proprio la rivoluzione dell’oralità dialettica portata da Socrate alle estreme conseguenze ha provocato una vera e propria esplosione di scritti, ossia dei cosiddetti logoi sokratikoi, ossia dei dialoghi socratici. Per la sua complessità dialettica, in effetti, i discorsi socratici non potevano essere conservati e riutilizzati mediante la memoria, e si imponeva di necessità lo strumento della scrittura. Ci viene detto che i vari discepoli di Socrate scrissero un numero assai rilevante di dialoghi, di cui ci sono pervenuti – purtroppo – solo quelli di Senofonte e di Platone. Ci viene addirittura riferito che il ciabattino Simone, nella cui bottega Socrate spesso discuteva, mise per iscritto trentatre discorsi socratici. Dunque, non è stata la scrittura – o, per meglio dire, la sola scrittura – a mettere in atto questa rivoluzione. Essa è stata invece messa in atto e sollecitata da una forma di oralità che si opponeva a una forma di oralità antitetica e tendeva a sostituirla. Va in ogni modo tenuto ben presente il fatto che tale rivoluzione

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culturale, anche se non è stata prodotta dalla scrittura in quanto tale, non avrebbe potuto comunque proseguire se non mediante la scrittura.

8. La posizione assunta da Platone che anticipa in nuce scoperte della moderna ermeneutica Come è ormai emerso chiaramente soprattutto nella seconda metà dello scorso secolo sulla base delle ricerche sulla tecnologia della comunicazione nel mondo antico, la posizione di Platone fu determinante nell’imposizione del nuovo modo di pensare creato dai filosofi e nel superamento radicale della oralità mimetico-poetica. Il bando di Omero dalla Città ideale proposto da Platone significava la fine del pensare per miti e per immagini e l’avvento del pensare per concetti, ossia di quel modo di pensare da cui è nata la civiltà moderna. Omero viene bocciato da Platone non come poeta (di cui, anzi, egli riconosce la grandezza), ma come l’educatore degli Elleni, che con i suoi poemi creava il modo di pensare e di vivere degli uomini della Grecia. E con Omero veniva eliminata proprio quella formazione spirituale dei Greci basata sull’oralità mimetico-poetica, che consisteva nell’apprendere a memoria il maggior numero possibile di versi di Omero, di Esiodo e di altri poeti; e in sostituzione di essa veniva introdotta quella formazione su base rigorosamente razionale, che iniziava dalla matematica e per gli uomini di cultura al più alto livello giungeva alla dialettica. Havelock sostiene la tesi che proprio la scrittura ha reso possibile e anzi necessario Platone e il Platonismo (la teoria delle Idee sarebbe stata una vera e propria «necessità storica»). Lo studioso sostiene addirittura che il corpus degli scritti platonici costituisce lo spartiacque del pensiero greco e nel suo genere il primo nella storia del genere umano. In un’opera pubblicata postuma scrive: «Il grande spartiacque nella storia del pensiero teoretico greco, sia che considerasse la natura, o l’uomo, coincide non già con il periodo della attività socratica – ciò che sarebbe sul piano storico un’ipotesi assurda – bensì con la prima metà del IV secolo a.C., quando un uomo originario di Atene, combinando l’arte letteraria nata nella sua città – cioè l’arte drammatica – con l’impresa intellettualmente iniziata nella Ionia e accolta da Socrate, introdusse nel mondo greco – come pure in quello dei suoi eredi culturali – un consistente corpus di scritti destinati a let-

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tori, nel suo genere il primo nella storia della nostra specie» (Alle origini della filosofia greca, Laterza, Roma – Bari 1996, p. 20). Ma allora, come può un uomo che non solo è stato teorico dell’arte dello scrivere, e che con i suoi scritti ha cambiato la storia della cultura greca e quella dei suoi eredi culturali, sottoporre proprio gli scritti a una serrata critica? Come si può spiegare che nel Fedro e nell’excursus della Lettera VII, Platone affermi addirittura – come vedremo – che su certe cose (su quelle che per lui erano di maggior valore, ossia sui fondamenti del suo sistema) non solo non c’era fino a quel momento un suo scritto, ma che non ci sarebbe mai stato neppure in futuro, dando preminenza all’oralità per quelle cose che per il filosofo sono «di maggior valore»? La risposta a queste domande, a mio giudizio, è la seguente. In primo luogo, va tenuto ben presente che l’oralità di cui Platone parla è la nuova forma di «oralità dialettica». Ma questo ancora non basta per la comprensione della profondità della posizione assunta da Platone. In effetti, Platone per primo si è accorto di ciò che nella scrittura – insieme a suoi grandi vantaggi – veniva a mancare. Lo scritto, per essere compreso, presuppone un rapporto con colui che lo ha scritto, e quindi implica qualcosa di più della semplice lettura. Presuppone «preconoscenze», ossia un apprendimento attuato per altra via di ciò che rende possibile la sua comprensione. Platone ha intuìto quello che solo in tempi a noi molto vicini ha compreso l’ermeneutica, e in particolare quello che viene chiamato «circolo ermeneutico», che Gadamer ha approfondito e sviluppato in modo pressoché perfetto nel suo capolavoro Verità e Metodo (che il lettore interessato trova in questa collana con testo originale a fronte). Gadamer ha dimostrato che il «circolo ermeneutico» costituisce una spiegazione positiva della maniera in cui si attua la comprensione interpretativa. Ogni interpretazione di un testo non può se non iniziare da «pre-concetti», «pre-conoscenze», che devono essere via via rielaborati e riformulati a confronto con il testo. E il testo viene sempre meglio compreso nella misura in cui i pre-concetti e le pre-conoscenze si dimostrano non inconsistenti e le nostre aspettative si adeguano vieppiù alla cosa. Senza «pre-conoscenze», una comprensione del testo non risulta possibile. Leggiamo i due passi del Fedro in cui Platone presenta la più sorprendente anticipazione del «circolo ermeneutico», e in cui sostiene la tesi che la comprensione degli scritti (si intende: l’adeguata compren-

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sione degli scritti) può essere attuata solamente da chi ha «pre-conoscenze» di quelle cose di cui parla lo scritto. In primo luogo scrive: «Chi ritenesse di poter tramandare un’arte con la scrittura, e chi la ricevesse convinto che da quei segni scritti potrà trarre qualcosa di chiaro e di saldo, dovrebbe essere colmo di grande ingenuità, e dovrebbe ignorare veramente il vaticinio di Ammone [scil. che la scrittura non dà memoria ma solo capacità di richiamare alla memoria, né sapienza ma solo opinione], se ritiene che i discorsi messi per iscritto siano qualcosa di più di un mezzo per richiamare alla memoria di chi sa le cose su cui verte lo scritto» (275 C-D). E in modo marcato ribadisce: «veramente i migliori degli scritti non sono altro che mezzi per aiutare la memoria di coloro che sanno» (278 A). In un incontro che ho avuto con Gadamer a Vaduz nel Liechtenstein nel 1986 gli ho detto che uno di questi passi io lo vedrei come un motto epigrafico del suo capolavoro Verità e Metodo, come un anticipo appunto del «circolo ermeneutico». E con sorpresa mi sono sentito rispondere che avevo ragione. E la stessa cosa mi ha ripetuto in un successivo incontro nel 1996 a Tubinga in una discussione sulla nuova interpretazione di Platone, e da ultimo anche nell’ultimo incontro che ho avuto con lui nel 2000 ad Heidelberg. Allora, Platone, nella critica alla scrittura, non si pone su «posizioni di retroguardia», come alcuni dicono, ma – a suo modo – su posizioni di straordinaria e sorprendente avanguardia!

9. Il «circolo ermeneutico» in cui si collocano i rapporti fra gli scritti platonici e le sue «Dottrine non scritte» La scrittura ha bisogno, per comunicare i suoi messaggi, del «soccorso» dell’autore, dice Platone. Szlezák ha dimostrato che l’impianto di tutti quanti i dialoghi è imperniato proprio sulla dinamica della «struttura-di-soccorso», ossia sul soccorso che il dialettico porta via via nel corso del discorso, superando le difficoltà che emergono, in funzione della dialettica della domanda e risposta, il che corrisponde perfettamente – a nostro giudizio – alla dinamica che comporta il «circolo ermeneutco». In effetti, questa «struttura-di-soccorso» costiuisce una messa in atto proprio del «circolo ermeneutico», in vari sensi. In primo luogo, si mostra nello scritto stesso ciò di cui l’interpretazione dell’oggetto in discussione ha bisogno per essere sempre meglio inteso, ossia una de-

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terminata «pre-conoscenza». In secondo luogo si fa rimando ad un ulteriore soccorso, che verrà fatto altra volta: talora in altri dialoghi, ma per quelle cose che per il filosofo sono di «maggior valore» nella dimensione dell’oralità dialettica. I cosiddetti «passi di omissione», ossia quei passi in cui Platone si astiene dal dire proprio ciò che risulterebbe risolutivo della questione trattata e che quindi ci aspetteremmo, sono un punto-chiave del platonico «circolo ermeneutico», come dimostreremo nell’analisi dei vari dialoghi e dei passi più significativi al riguardo. Allora è chiaro in che cosa consista il «circolo ermeneutico» in cui è necessario entrare per intendere Platone: la lettura degli scritti richiede quei «pre-giudizi» e quelle «pre-conoscenze» che ci vengono fortunatamente offerti dalla tradizione indiretta. Ma la dinamica di questo «circolo ermeneutico» non si ferma con il soccorso che l’oralità che è conservata – sia pure solo in parte – dalla tradizione indiretta rende più chiaro lo scritto; ma gli stessi scritti portano soccorso alla tradizione indiretta. Come lo scritto tramandatoci dalla tradizione indiretta «soccorre» gli scritti platonici, per converso a loro volta gli scritti rendono comprensibili le dottrine non scritte. Quelle pre-conoscenze devono essere continuamente rivedute sulla base di ciò che risulta dall’impatto con i testi. Non poche volte accade che certe scarne notizie tramandate dalla tradizione indiretta e che non offrono più che lo scheletro delle dottrine orali, riacquistano straordinaria vitalità proprio in conseguenza di questo impatto con i dialoghi, con la feconda dinamica circolare che ne consegue (lo scritto, soccorso dal non scritto, soccorre a sua volta la tradizione indiretta sul non-scritto). Platone, in quel momento della svolta epocale della cultura che passava dal predominio dell’oralità a quello della scrittura, aveva ben compreso che la scrittura, come mezzo di comunicazione dei messaggi filosofici, ha bisogno di un soccorso strutturale che è proprio di quella «oralità dialettica» da cui era nata, secondo quel «circolo ermeneutico» di cui abbiamo detto. Si tratta dunque di una oralità che è ben diversa da quella «poetico-mimetica» dell’epos, e anche di quella oralità messa in atto dai retori e dai sofisti, ed è appunto quella «oralità dialettica», con la dinamica dell’arte del domandare e del mettere alla prova, ossia dell’arte di chi sa scrivere le cose che per il filosofo sono di maggior valore non nei rotoli di carta, ma nelle anime degli uomini. Si può, ovviamente, rimproverare a Platone di aver spinto troppo innanzi questo criterio dell’«aiuto» o «soccorso», addirittura con la de-

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cisione di non voler mettere in modo adeguato per iscritto quelle «cose di maggior valore», che sono proprio quelle cose che danno il senso ultimativo a ciò che ha affidato ai suoi dialoghi, anche se, peraltro, queste cose sarebbero riassumibili «in pochissime parole». E, certamente, se i discepoli non lo avessero contrastato in questo, noi non avremmo a disposizione proprio il «soccorso» ultimativo, e quindi non avremmo a disposizione la giusta chiave per intendere i passi-di-omissione di molti dialoghi, come vedremo nel corso di questo libro in modo dettagliato. Va in ogni caso tenuto ben presente che è solo la svolta culturale epocale in atto a quel tempo – con il decisivo passaggio alla civiltà della scrittura – e inoltre il rapporto con il maestro Socrate – che fu l’eroe per eccellenza dell’oralità dialettica –, che ci fanno ben comprendere l’atteggiamento assunto da Platone nei confronti dell’oralità e della scrittura, che costituisce, di fatto, un unicum nella storia della cultura occidentale.

Milano, maggio 2010

N.B. Nella quarta di copertina riportiamo il particolare di un busto che raffigura Platone con tratti del volto che fanno richiamo al dio Apollo (con cui la tradizione lo aveva connesso per varie ragioni). L’originale del busto è stato ritrovato nella Villa dei Papiri a Ercolano e si trova nel Museo Archeologico di Napoli. La bella fotografia è un omaggio che ci è stato donato dall’«Istituto Italiano per gli Studi Filosofici», che ringraziamo vivamente. G.R.

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Nuova Introduzione per l’edizione Bompiani

Al centro di questa foto sta Hans-Georg Gadamer, con alla sua sinistra (per chi guarda) Giovanni Reale e Hans Krämer, e alla sua destra Thomas A. Szlezák e Maurizio Migliori. La foto è stata scattata a Tubinga il 3 settembre 1996, nell’intervallo di un incontro con Gadamer degli studiosi di Platone della Scuola di Tubinga e di Milano. Gadamer è convinto della validità del modello interpretativo che punta sul nesso strutturale fra gli scritti e le “Dottrine non scritte” di Platone – sia pure limitatamente alla comprensione delle dottrine scientifiche –, verso cui egli si era mosso a partire dagli anni Venti.

Konrad Gaiser, Hans Krämer e Giovanni Reale al lavoro in una stanza del «PlatonArchiv» dell’Istituto Filologico dell’Università di Tubinga. In questa foto (aprile 1987) gli studiosi stanno esaminando il dattiloscritto della traduzione italiana curata da Reale del nuovo libro di Gaiser, La metafisica della storia di Platone (Vita e Pensiero, Milano 1988, 19912 ). Reale ha tradotto anche lo scritto di Gaiser, L’oro della sapienza (Vita e Pensiero, Milano 1990, 1995 4). Konrad Gaiser (nato nel 1929) è morto improvvisamente il 3 maggio 1988. L’imponente raccolta di alcune decine di migliaia di schede del «Platon-Archiv» (distribuite in diverse stanze), è oggi superata dall’opera che raccoglie in un volume cartaceo e in cd tutto quel materiale (con ulteriori vantaggi offerti dai nuovi sistemi elettronici). Tale opera è stata curata da Roberto Radice (allievo di Reale e suo successore alla cattedra di Storia della Filosofia antica dell’Università Cattolica di Milano): Lexicon I. Plato, edited by Roberto Radice in collaboration with Ilaria Ramelli and Emmanuele Vimercati, electronic edition by Roberto Bombacigno, Biblia, Milano 2003.

Al centro della foto (fra Reale e Krämer) sta Thomas A. Szlezák, che è succeduto a Konrad Gaiser. Questo gruppo di studiosi rappresenta quella che Krämer chiama «Scuola di Tubinga e Scuola di Milano» (cfr. Appendice II). La fotografia è stata scattata in una stanza del «Platon-Archiv» dell’Istituto Filologico dell’Università di Tubinga il 30 aprile del 1994, a conclusione del convegno platonico in onore di H. Krämer, per festeggiare il suo sessantacinquesimo compleanno. Sul tavolo sta il dattiloscritto della traduzione fatta da Vincenzo Cicero del volume di Konrad Gaiser, La dottrina non scritta di Platone, con Presentazione di G. Reale e Introduzione di H. Krämer (edita da Vita e Pensiero, Milano 1994).

Nella foto accanto G. Reale sta intervistando H.G. Gadamer (3 settembre 1996; cfr. Appendice XI). Alle spalle sta il dott. Giuseppe Girgenti che ha registrato e sbobinato il colloquio. Reale ha intervistato Gadamer una seconda volta a Heidelberg (11 maggio 2000). Il testo di questa seconda intervista (che per ragioni tecniche non è stato possibile includere anche nel presente volume) è stato riedito nell’opera G. Reale, Autotestimonianze e rimandi dei dialoghi di Platone alle “Dottrine non scritte”, in questa collana, pp. 539-550). Nella foto sotto (2 settembre 1996) H.G. Gadamer e G. Reale stanno discutendo sulla nuova interpretazione di Platone e preparando i temi dell’intervista.