Pensare l'uomo e la follia

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Henri Maldiney Pensare l'uomo e la follia

A cw·a di Federico Leoni

Biblioteca Einaudi

Indice

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Henri Maldiney. Una fenomenologia deUa follia di Federico ùoni Nota al testo

Pensare l'uomo e la follia Psicosi e presenza Crisi e temporalità nell'esistenza e nella psicosi

;

I.

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n.

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m. Evento e psicosi

,33

IV.

Comprendere

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Henri Maldiney. Una fenomenologia della follia

Henri Maldiney è nato a Meursault, nella Cote d'Or, il 4 agosto 191 2. Si è trasferito ancora bambino nella Franche-Comtée, a Besançon ha frequentato il Liceo e a Lione ha compiuto gli studi universitari. Importante, in questi anni di formazione, la figura di Pierre Lachièze-Rey, ricordando la quale Maldiney traccerà, in uno scritto della fine degli anni Cinquanta, un ritratto che, per certi versi, è anche un autoritratto: 1.

Concentrò la sua attenzione sul paradosso della coscienza, di cui il logicismo e lo psicologismo, l'idealismo e l'empirismo si dividono i due momenti senza poterli fondare in unità: in che modo la trascendenza del senso è tutt 'uno con l'immanenza a sé della presenza?'.

Gli anni Quaranta portarono la guerra e con la guerra, anche per Maldiney, vennero i giorni terribili dei campi tedeschi: La prigionia avrebbe potuto annientarci. La semplice disposizione delle cose e l'azione stessa del tempo s'intrecciavano nel machiavellismo dei campi di concentramento. [...] Il tempo mangiava la vita come un ingranaggio. [ ... ] Quante volte ho desiderato il morso di una pietra di montagna! [... ]Sapevo che la mia libertà sarebbe stata contemporanea della realtà delle cose. Saremmo nati nello stesso tempo, lei e io, in una conoscenza non piu simbolica, ma immecliata' .

Poi la l';,iberazione. He~i Maldiney ha insegnato dapprima a Gand, all'Ecole des Hautes Etudes, piu tardi all'Università di Lione, sulla cattedra che era stata di Maurice Merleau-Ponty. Fino al r 980 ha tenuto i corsi di Filosofia generale, Antropologia fenomenologica ed Estetica. Oggi vive nel Sud-Ovest della Francia. Continua a scrivere e a insegnare, proseguendo quella che è stata una 'H. Maldiney, In Memoriam Pierre uzchihe-Rey (1885 -1957), in «Kant-Studien», L (1958•59), n. 3, pp. 26o-61. 'Id., La demièn: porte, in AA.VV., Le, Vivan/S. Cahim publii s par /es pritonnim et déportés, Boivin, Paris 1945, pp. 18-19.

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parabola intellettuale appartata, lontana dai clamori suscitati in Francia, e in Europa, da altri pensatori e da altre correnti di pensiero. Non è un caso, dunque, se, prima della presente edizione di Pensar(? l'uomo e la follia, solo due brevi saggi erano disponibili in Italia, le schegge brevi e smaglianti di Cézanne et Sainte-Victoire.

Peinture et vérité> e Ceroino•. La coerenza e la radicalità del percorso di Maldiney hanno tuttavia fatto scuola sin dalla metà degli anni Cinquanta del secolo scorso. Hanno lasciato tracce importanti in almeno due generazioni di filosofi, come Mikel Dufrenne, che ne ricorda e discute la fi. gura nel Trattato di estetica', e Gilles Deleuze, che in piu di un'occasione riprende espressamente la lezione maldineyana'. Ma anche in figure di artisti, psicoanalisti, psichiatri, come Jacques Schotte o Pierre Fédida. Originalissimo è, infatti, in Maldiney, l'intreccio di temi antropologici, riflessioni estetiche e analisi psicopatologiche. Pionieristico il dialogo da lui istituito, e spesso coronato da rapporti di amicizia e personale frequentazione, con Francis Ponge e André du Bouchet, Pierre Tal Coat e Nicolas de Stael, Erwin Straus e Ludwig Binswanger, Roland Kuhn e Hubertus Tellenbach. Saggista e critico suggestivo, rigoroso e insieme erratico, dalla scrittura ora secca e scabra, ora lirica, melodiosa, quasi intenta a ritmare e mimare la vita delle cose e delle esperienze, Maldiney ha pubblicato sulle piu importanti riviste francesi, tedesche e svizzere del dopoguerra. I suoi testi sono stati a piu riprese raccolti in volumi, tra i quali vanno ricordati almeno Regard Parole Espace (Lausanne 1973), Les legs des choses dans l'ceuvre de Francis Ponge (Lausanne 1974), Aftres de la langue et demeures de la pensée (Lausanne 1975), Penser l'homme et la /olie (Grenoble 1991), L'art, l' éclair del' €tre (Seyssel-sur-Rhone 1993), Aux déserts que l' histoire accable. L'art de Tal Coat (Cognac 1995), Ouvrirlerien, l'artnu (La Versanne 2000), e l'autobiografia In media vita (Seyssel-sur-Rhone 1988). Numerosi, a partire dagli anni Settanta, sono stati i riconoscimenti e gli omaggi che il percorso di Maldiney ha ricevuto da parte di discepoli e studiosi sparsi in tutto il mondo. Al di là dei contri'Trad. it. Cézan~eSainte-Victoire.Pitturaeveritd, in •Pratica filosofica», n. 10 (1993). 'Trad . it. Tararà, Verbania 2000. 'D. Formaggio e M. Dufrennc, Trat/lJlo di e>lelica, Mondadori, Milano 1981. •Cfr. in particolare G. Delcuze, FronciJ Bacon. Logique de la sensalion, Seui!, Paris r989 (trad. it. FronciJ Bacon . Logica della sensazione, Q uocllibct, Macerata 199~).

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buti che ne approfondiscono singoli aspetti e linee tematiche, tre sono le Festschriften che possono offrire utili spunti critici d' insieme: Présent à Henri Maldiney (Lausanne 1973), Existence, crise et création. Rencontres avec Henri Maldiney (La Versanne 2001), Henri Maldiney. Une phénoménologie à l'impossibile (Paris 2002). 2. La storia della psichiatria novecentesca ha conosciuto uno dei suoi punti piu alti con l'opera di Ludwig Binswanger. Quella che ali' epoca si chiamava ancora «alienistica» era in larga parte appiattita, all'epoca degli esordi di Binswanger, su schemi teorici di derivazione organicista, tanto rozzi sul piano teorico quanto inefficaci sul piano terapeutico, e su modalità d'intervento sostanzialmente limitate alla reclusione e alla repressione di ciò che, inspiegato sul piano della causalità neurologica e incompreso sul piano del significato - per cosi'. dire - antropologico, non poteva che presentarsi come mera devianza da contenere, insensata, anormalità da censurare, inquietante minaccia da neutralizzare. E il panorama su cui si disegnano i primi passi di Binswanger, il cui progetto obbedisce a una «mossa» di fondo che potrebbe essere intesa anzitutto come una domanda intorno al senso della follia, una traversata della follia come domanda intorno al senso o alla catastrofe del senso. Lo spunto decisivo per questo cammino, che per tanti versi non ha cessato, a tutt'oggi, di rivendicare la propria urgenza, di moltiplicare i propri effetti, viene a Binswanger fin dai primi anni Venti del secolo scorso dall'incontro con la corrente filosofica della fe. nomenologia: in un primo momento nella sua formulazione husserliana, in un secondo momento nella sua declinazione heideggeriana, infine, se si sta a una scansione per lo pio condivisa dagli studiosi, di nuovo in un'accezione prevalentemente husserliana. E ciò che l'approccio fenomenologico consente a Binswanger è, inultima analisi, proprio questo sguardo inedito sul territorio della pratica psichiatrica. Egli osa per primo, o tra i primi, guardare all'esperienza della follia non come a una malattia, peraltro inspiegabile e incurabile, non come a una devianza sociale, peraltro ineliminabile e ingestibile, se non in termini fondamentalmente carcerari, ma come a un evento di senso. Come a un'esperienza, cioè, in cui la dimensione del senso non solo non è assente, ma anzi è al centro della scena, è ciò che piu radicalmente si trova in questione, è ciò intorno a cui un'esistenza gravita senza sosta, nocciolo inesauribi-

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le e inaggirabile anche quando si dà nella forma limite di un silenzio, di un'!)mbra, di un vuoto. Per Binswanger fenomenologia significa, dunque, alla lettera, ciò che fenomenologia significava già per Husserl: una via e un metodo che consentano di tornare «alle cose stesse», alla dimensione di un'esperienza colta a monte della sua ricostruzione teorica, della sua risoluzione in problema specialist ico, della sua codificazione in gergo diciplinare, della sua traduzione in procedura esclusivamente «tecnica». Ciò che le scienze avevano ridotto a problema, senza peraltro poter propqrre soluzioni, tornava a essere, per usare ancora una volta questa classica distinzione heideggeriana, una domanda. Ciò che la medicina aveva risolto in un insieme di sintomi, e in un destino per lo piu senza ritorno, tornava a vivere di fronte alla psichiatria e allo psichiatra come un «caso>>, una voce ogni volta inconfondibilmente singolare, un corpo il piu delle volte offeso e ferito, un volto a cui tornare a rivolgere uno sguardo non anonimo. Mutamento d'atteggiamento, questo, variamente specificatosi nel corso dell'attività e dell'opera di Binswanger, ma che, se si guarda alle grandi opere cliniche degli anni della maturità, all'insieme delle monografie dedicate a casi clinici divenuti poi celebri - quelli di Ellen West, Suzanne Urban, Lola Voss - si raccoglie in fondo in una cifra, in uno stile, in una movenza che è quella della fenomenologia di Heidegger, della fenomenolqgia nella declinazione propria di un'opera come Essere e tempo. E questa, scrive Binswanger in una lettera a Heidegger, l'opera che gli ha «aperto gli occhi», che gli ha donato «un altro orizzonte»'. L'indagine psicopatologica di Binswanger e la strategia terapeutica della «sua» Daseinsanalyse sono, cioè, incentrate su un esercizio di ascolto e di comprensione di ciò che Heidegger aveva chiamato l' «esserci», l' «essere nel mondo» di ogni uomo e di ogni donna; non troveremo, qui, elenchi di sintomi, sommarie descrizioni di un delirio, rapide annotazioni dei contenuti di un'esperienza allucinatoria, brevi estratti di cartelle cliniche, ma ininterrotte analisi che per cerchi concentrici si avvicinano via via all'enigma del modo d'essere nel mondo di volta in volta «fondamentale» in una certa esistenza, una certa esperienza di follia, una certa biografia

lii.

'L. Binswanger e M. Heidegger, Bricfwechsel, in L. Binswanger, Au,gewiihlte Werke, M. Herzog, Asanger, Heidelberg 1994; lettera del(,

Vortrage umi Au/fiil7.e, a cura di marzo 1947.

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catturata dalla catastrofe della sofferenza psichica. Sono le strutture dell' «essere nel mondo» di Ellen West o di Suzanne Urban, o di Vincent Van Gogh o August Strindberg, a guadagnare di volta in volta il centro dell'attenzione di Binswanger. Sono le figure essenziali della spazialità in cui si dispiega una certa vicenda dischizofrenia, le figure essenziali della temporalità o della corporeità in cui vive una certa esperienza di malinconia, a diventare l'oggetto privilegiato dell'esercizio fenomenologico binswangeriano, e per quella via il tramite dell'approccio terapeutico della Daseinsanalyse, come Binswanger la definisce. Si legge ad esempio, ancora in un' opera tarda come Delirio, a proposito del «caso» Strindberg discusso in quelle pagine: Per quanto ciò suoni strano, non possiamo cominciare l'interpretazione fenomenologica delle modalità di esperienza di August Strindberg a partire dalle sue intuizioni deliranti e dalle sue idee fisse, ma dobbiamo prendere le mosse dalla sua modalità di esperienza corporea•.

Il corpo diventa, qui, la condizione di possibilità di un senso, la matrice di un modo di abitare il mondo i cui turbamenti, i cui stravolgimenti si riflettono nella deriva dei significati di cui è popolato il mondo di Strindberg, di cui si riveste il suo incontro con gli altri, in una parola di cui si intesse la sua intera esistenza. Proprio «l'esistenza» costituisce non solo l'oggetto ma il terreno o il destino della psichiatria, rispetto a cui la psichiatria e lo psichiatra si riconoscono per la prima volta tutt'altro che estranei, tutt'altro che «disinteressati spettatori», per usare un'espressione di Husserl. 3. Il mondo, insegna la fenomenologia, è un esistenziale. Non è una cosa, non è l'insieme complessivo di tutte le cose, non è un grande oggetto posto «là fuori», di fronte al soggetto, al modo di un affresco piu o meno grandioso o di uno sconfinato magazzino di oggetti sussistenti «in sé». Il mondo è, piuttosto, il correlato e.ssenziale di un essere nel mondo, di un «esserci», come dice Heidegger, ogni volta peculiare, ogni volta irripetibile nel suo evento, ogni volta singolare nella sua apertura. Mondo ed essere nel mondo fanno, per cosf dire, tutt'uno; non si dà mondo se non nell'apertura di un essere nel mondo, non si dà mondo se non come orizzonte di un certo progetto di mondo. Ma è vero anche il rovescio di questa ve• L. Binswanger, Wahn, Neske, Pfullingen 1965 (trad. it. Delirio, a cura di E. Borgna, Marsilio, Venezia 1990, p. 119).

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rità; non si dà esserci, non si dà esistenza se non in un mondo e a partire da un mondo, se non tra le cose che sono «alla mano» e nella resistenza incontrata da un certo fare e progettare e maneggiare il mondo stesso, se non tra i volti e le voci familiari o impreviste di un certo nostro costitutivo essere-con gli altri. I due lati di questo intreccio vanno pensati, vanno intesi nella loro perfetta coincidenza, nella loro perfetta corrispondenza, nella loro perfetta «cospirazione» - come Leibniz diceva con un'espressione che lascia intravedere una questione, quella del respiro, del soffio, del ritmo di un' aereo scambio tra dentro e fuori, assolutamente centrale anche in Henri Maldiney'. Originaria non è né la dimensione del mondo - che risulterebbe altrimenti un mondo in sé, un mondo il cui essere è ciò che è indipendentemente da ogni eventuale esperienza se ne abbia, un mondo dunque fenomenologicamente inindagato e filosoficamente impensato nella sua costituzione e nel suo essere - né la dimensione del soggetto, come la metafisica moderna l'aveva chiamato, facendo del suo spazio d 'eccezione il ricettacolo ultimo del senso, il punto inestesa che non è cosa ma significato perduto tra le cose, anima gettata nell'insensatezza di un mondo che le è estraneo in quanto appunto è «in sé»: ricorrente tentazione gnostica, questa, che di nuovo è d'ostacolo a ogni possibilità di tematizzazione genuinamente fenomenologica della dinamica di un'esperienza che è da subito in presa sulle cose, che è da sempre intessuta di un senso che è in gioco fuori di sé, nell' oscillazione di una soglia in cui coincidono il margine del mondo e il margine del soggetto, il bordo del mondo e il bordo del nostro essere nel mondo. Né il mondo è in sé, né il soggetto è in sé, o, se si vuole, è «un» sé, come si potrebbe intanto azzardare. Proprio a quest'altezza si apre, infatti, la fessura che attraversa da cima a fondo la posizione e l'opera di Binswanger. Egli pensa - lo si è detto poco fa di sfuggita - l'essere nel mondo come discesa tra le cose del mondo, come divenire-mondano di qualcosa che Q0n è dunque fatto, originariamente, della stessa stoffa del mondo. E questo il ferro ligneo, il cerchio quadrato sulla cui base paradossale egli costruisce l'edificio teorico della sua Daseinsanalyse, della sua analisi dell'esserci o dell'essere nel mondo. La coerenza del 'Cfr. ad esempio i saggi ra=l•i in L'att, Ne/aire~ l'itre, Comp'act, Seyssel 1993. L'espressione di Leibniz - tutto co-spira, ty11pnoia pa,rta - riprende un detto cli Ippocrate; si rrovaal paragrafo 6 1 dellaMo,rado/ogia (cd. a cura di S. Cariati, Bompiani, Milano 2001).

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suo percorso ne risulta minata alla radice, come Heidegger non smette di rilevare nelle poche ma significative lettere che indirizza in risposta ad altrettante missive di Binswanger'0 ; e come i Seminari di Zo!likon, interamente dedicati da Heidegger alla questione «filosofica» della psichiatria e delle scienze umane, testimoniano con ininterrotta, inusitata asprezza. Che Binswanger pensi l'essere nel mondo come un essere che «poi,> si dispiega nel mondo, che il mondo venga ad aggiungersi a una soggettività la cui essenza viene a mala pena scalfita dal supplemento di questo predicato in ogni senso accidentale, questo è l'addebito fondamentale di Heidegger a una concezione che egli giudica, per questo, ancora interamente metafisica, astrattamente intellettualistica, solo superficialmente fenomenologica. Binswanger «non svela», si legge nei Seminari, in che modo un trascendere, nel senso sopra menzionato, potrebbe accadere, in che modo, cioè, una soggettività, rappresentata primariamente in quanto immanenza, sarebbe in grado di avere anche solo il minimo presagio di un mondo esterno. L'essere-nel-mondo non è mai affatto la qualità propria di una soggettività rappresentata come che sia".

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Il «trascendere», per Heidegger, non è, in altri termini, un fenomeno ontico. Non è un'azione del soggetto. Non è una propriefà della coscienza. Il «trascendere» è un fenomeno «ontologicq». E, per-cosf dire, il gesto o l'operazione fondamentale dell'essere. E l' essere,stesso come gesto o operazione del trascendersi. E l'essere a trascendere se stesso e a trascinarci con sé nella sua trascendenza, non viceversa. È la trascendenza ad «averci» come sue figure interne, non noi ad «avere» la trascendenza come una nostra «capacità» o «facoltà» o «proprietà». Lo stesso si dovrebbe dire dello spazio e del tempo, che non sono lo spazio e il tempo >, da «fuori>>, dal «due» cli cui parla Du Bouchet, dall'«altro» di cui parlano, ciascuno a suo modo, Lacan o Lévinas. Ogni mio gesto accade «qui» provenendo anche da '0 • L'esistenza è discontinua in sé, fatta di momenti critici che segnano altrettante faglie, punti in cui viene strappata a se stessa, rinviata al bivio in cui si decide della sua scomparsa o della sua rinascita. Ciò che la rinvia è sempre un evento. E un evento non può che essere subito. Cosa vivere e subire, d'altra parte, se non l'evento? La forma prima del subire è il sentire, di cui per la prima volta Erwin Straus ha mostrato, in Vom Sinn der Sinne, il senso: il senso dei sensi. Nel sentire, un evento viene alla luce, viene alla mia luce: luce che non si leva se non si leva la luce dell'evento, que11

lbid., p. 170, trad. it. p. 240. lbid., p. 184, trad. it. p. 258. "lbid., p. 171, trad. it. p. 241. ,..,._ du Bouche,, Là,aux lèvres,l'incohlrence, Hachettc, Paris 1979 (Fuori, sempre al centro [...), non ancora, lo voglio dire, e che resti non ancora]. 11

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st'apparizione irrefutabile e ingiustificabile. È Weizsacker a sottolinearne l'imprevedibilità: Qualcosa ci è data, appare, ed ecco che improvvisamente noi l'abbiamo, espulsa dall'ignoto come dal cratere di ciò che non esiste per noi, quasi dilagasse, dolce, da una fonte che lentamente cresce - violenza patita o dono ricevuto, nuovo e unico, un evento [Emgnis] accade".

L'interpretazione dell'evento è una trasformazione. Scrive Erwin Straus: Non divengo se non in quanto qualcosa accade, e qualcosa accade, mi accade, solo in quanto io divengo. L'ora del sentire non appartiene all'oggettività né alla soggettività, ma a entrambe. Nel sentire si dispiegano, per colui che lo vive, allo stesso tempo l'io e il mondo, sé con il mondo, sé nel mondo".

Questo «e», questo «con», questo «nel» designano insieme la piega che, spiegandosi, si dispiega in io e mondo. Ma il sentire di un esistente non è quello di un semplice vivente. L'esistente si sente essere e sente essere il mondo. La piega entro cui l'io e il mondo sono originariamente intricati è la piega di un esser-ci [y etre]. Esser-ci significa, per l'esistente, essere capace dell'ente, esserne capace in quanto luogo in cui tutto ha luogo. Ma, prima di esser consegnato e appropriato al mondo, l'esserci è consegnato e appropriato all'evento. L'evento non si produce mai nel mondo, è il mondo ad aprirsi ogni volta a partire dall'evento. L'evento è getto di mondo. Ogni evento trasforma il nostro esser-ci e noi stessi sentiamo un evento soltanto in questa trasformazione. Trasformazione propriamente catastrofica, quando non integrata dal sé, e nel sé, a titolo di trasformazione costitutiva in cui il sé perqe la propria apertura all'evento e a se stesso. E quanto accade nella psicosi. La crisi non superata recide la possibilità stessa di ogni altra crisi. La metamorfosi dell'esistenza che costituisce l'evento stesso della psicosi diventa anche l'unica metamorfosi possibile per quell'esistenza. Nella psicosi non si dà piu,,propriamente, evento. E il presente il punto d'articolazione della crisi e della temporalità, il momento, cioè, in cui l'essere in crisi attraversa la trasformazione costitutiva con cui il sé genera la propria stessa forma temporale. Cosi, è a partire dal presente che diviene possibile com-

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prendere la difettività caratteristica della temporalità psicotica, in modo peraltro difforme da quello delle abituali interpretazioni della temporalità melanconica e maniacale, che chiamano in causa nel primo caso il passato, nel secondo il futuro. Il melanconico, si dice infatti, è rivolto al passato, risucchiato nel passato, privo qi apertura al futuro. Incapace di protenzione, è tutto ritenzione. E indefinitamente trattenuto da un passato che non passa. Il maniacale, al contrario, è tutto protenzione. Incapace di ritenzione, anticipa l'avvenire senza prendere appoggio nel passato: un passato che passa istantaneamente, senza che nessuno, si potrebbe dire, passi attraverso di lui. Si suole aggiungere: ogni perturbamento che colpisca una qualsiasi regione temporale infiçia la struttura stessa del tempo, quindi anche le altre sue regioni. E vero. Ma qualsiasi torsione della temporalità chiama in causa in primo luogo e piu in profondità il presente. Perché è a partire dal presente che la forma stessa della temporalità si costituisce.

Che ne è della temporalità melanconica? La temporalità melanconica ha tonalità depressiva, ed è questa tonalità che Erwin Straus studiava, nel 1928, nel suo saggio Il vissuto temporale nella depressione endogena". Per chiarirne la natura, Straus prende avvio dalla distinzione stabilita da Honigswald tra tempo trascendente e tempo immanente al vissuto. Nei giorni felici non vediamo trascorrere il tempo e , la sera, la giornata ci sembra sia stata lunga. Nei giorni meno felici il tempo si trascina, guardiamo l'orologio di continuo e, la sera, la giornata ci appare breve, ridotta quasi a nulla. Il tempo immanente al vissuto è il tempo implicato nella nostra attività, il tempo dell'io che si sviluppa nel senso della propria storicità. Il tempo trascendente è il tempo delle cose e degli altri, della Umwelt e della Mitwelt che noi incontriamo. Il tempo trascendente passa, il tempo dell'io progredisce, cresce con la storia della persona. [... ] I processi e gli eventi esterni non «significano» se non in quanto inscritti entro la storia della vita individuale. [... ]A differen• za del tempo trascendente, il tempo dell'io è storicamente orientato".

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" Id., Das Zeiterkbnis in derendogenen Depres,ion und ptychopathischen Ventimmung,

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in «Monatschrift fiir Psychiatric und neurologie., n. 68 (1928); poi in Id., Psychologieder menschlkhen Welt cit., pp. 126-99. " Ibid., p. I 29.

V. von Wcizsickcr, Anonyma cit., S 3, p. u. E. W. Straus, Vom Sinn der Sinne, Ein &itn>g zur G111ndkgung der Prychologie, Sprin• gcr, Bcrlin-Go11ingcn•Hcidclbcrg 19,6, p. }7••

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A partire da questa distinzione, Straus svolge un'analisi differenziale della depressione e della noia. Nell'una come nell'altra l'armonia tra i due generi di temporalità si spezza: il tempo immanente è in ritardo, o in anticipo, sul tempo trascendente. La noia nasce quando ci troviamo nell'impossibilità di assegnare allo scorrere del tempo trascendente u.n contenuto correlato con la nostra storia".

Piu rigorosamente: la noia prende piede quando l'impossibilità di assegnare un contenuto al tempo trascendente viene sperimentata insieme al nostro poter-agire, alla nostra spinta a realizzarci".

Nella depressione e nella melanconia proprio questo potere fa difetto. Il tempo immanente al vissuto è rallentato, frenato, bloccato. Scrive Straus: Con questo blocco, viene meno la possibilità di liberarsi delle esperienze vissute mettendosi in cammino verso il futuro".

Benché la parola depressione ricopra, in Straus, tanto l'ambito della depressione propriamente detta, tanto quello della melanconia, l'analisi strausiana della temporalità consente di differenziare i due piani. Ciò di cui il melanconico non può liberarsi non è il suo passato, come accade al depresso, ma l'evento. L'evento qualsiasi, l'evento in quanto evento. Il melanconico non riesce a far presa sul tempo del mondo, sia esso il tempo degli altri o il tempo delle cose. Una paziente di Roland Kuhn, che questi descrive in un testo inedito, non riesce a muoversi se non quando partecipa, da danzatrice, a un balletto: allora i suoi movimenti, sul filo del ritmo della musica e della coreografia, entrano in risonanza con i movimenti degli altri. Un'altra paziente sprofonda nell'impotenza quando si trova a dover scegliere un bicchiere, nella credenza, per servire un liquore: non sa piu rispondere all'appello delle cose, alle istanze che le rivolgono, all'impegno della serie di azioni legate a una data situazione. Una situazione non può che esserci presente in una appresentazione, ma proprio di questo il melanconico è incapace. Quella paziente, che non chiede nulla se non questo, che " lbid. [ci atteniamo alla traduzione, piuttosto libera, che di questo passo dà lo stesso Maldiney in francese). UUJ ,, "l"'

p.

130.

"Ibid., p. 133.

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non le venga chiesto nulla, si dice costretta a un carosello di pensieri il cui turbinio ciclico corrisponde esattamente alla struttura della temporalità che essa vive. Sono esempi che mostrano come l'armonia o la dissonanza tra tempo immanente e tempo trascendente non siano questioni di velocità relativa, ma di mutua risonanza, che si realizza (o non si realizza) attraverso la tensione di durata che di volta in volta li caratterizza. Straus lo intravede per un istante. Dice: Nel tempo immanente non è questione della sua articolazione dell'ordine dei suoi momenti, ma del suo stesso dispiegarsi". '

Detto altrimenti, è questione di cronogenesi, non di cronotesi. Di genesi del tempo, non di distinzione del tempo in segmenti. Per questo è necessario parlare, prima che di futuro e di orientamento al futuro, della temporalità implicata nel processo stesso del vissuto, cioè di quella tensione di durata che costituisce la sua incidenza interna. Tale incidenza è dell'ordine dell'aspetto". Cioè della dimensione costitutiva del verbo, di ciò che fa del verbo un verbo e che lo definisce attraverso una serie di opposizioni - compiut:zza e incom~iutezza, in-vista della compiutezza e in-stato di compiutezza, già-sempre accaduto e perpetuamente eveniente, incidenza e decad~nza, subitaneità della prima volta o indefinita perseverazione - ciascuna delle quali implica una peculiare tensione di durata. (La tensione di durata, la dimensione dell'aspetto sono di importanza decisiva in gerontologia). L'impotenza del melanconico, incapace di entrare in risonanza con il tempo del mondo e di integrarne gli eventi fondatori nel m~v_imento di autog~ne~i di_ sé, si esprime e si svela nel proprio significato attraverso il nmp1anto. Sola forma d'azione che gli sia ancora disponibile, surrogato della dimensione della crisi della decisione, il rimpianto rende prigioniera la presenza di ur: enunciato puramente verbale, cui nulla nel mondo corrisponde davvero. Il melanconico, infatti, non rimpiange propriamente nulla. Il suo rimpianto non fa che girare su se stesso. Il motivo del rimpianto ,. !bui., p. ,,,. "Sulla distinzione tra aspetto e tempo, cfr. G. Guillaume, Immanence et tramcendatu:e dans la :4tégorie d~ verb~. Esquisse d'~~• thiorie psycholagique ,k I'as~cl, in «Journal dc psycholog,c», genna,o-ap,ilc 19,>; poi in Id., Langage et scitntt du langage Nizet . P,esscs Universitaires de Lavai, Paris-Quibec 1964, pp. 46 sgg. '

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muta, nel corso del tempo, e con esso mutano sia il punto di partenza sia il punto d'arrivo del rimpianto stesso. Ma di slittamento in slittamento, quelle variazioni convergono in direzione di un io, per un verso, e, per un altro, in direzione di un qui, che solo alla fine emergono compiutamente, quando, cioè, il rimpianto perviene alla sua forma canonica: «Ah, se io non avessi fatto questo, o quello, non mi troverei qui, in questa situazione!» I due termini si ricongiungono in quell'io e in quel qui, in modo tale che tra i due nulla piu accada, nulla piu possa essere accaduto. Il rimpianto si sviluppa, cosi, tra due presenti, contrassegnati l'uno dallo Ah! esclamativo iniziale, l'altro dal qui della constatazione finale . . L'esclamazione ha le sue radici nel presente del melanconico, quasi egli tentasse di sollevarsene in essa e con essa. L'aspetto di quel presente è stativo, è cioè l'aspetto di un presente sotteso da un perfetto, di un presente che altro non è che il limite che il perfetto stesso si assegna in quanto indica un che di compiuto: «Ah, se ... » Mentre l'Ah!, prolungandosi, tende a ricadere su di sé come un ahimè!, il se ritaglia uno spazio di gioco, apre il campo di un'ipotesi. Evoca un atto del soggetto da cui risulterebbe il suo stato attuale, e mira quindi a sostituire ali' aspetto stativo un aspetto risultativo, cioè un aspetto in cui, al contrario di quanto accade nello stativo, è il perfetto a essere sotteso al presente (un presente ormai passato, in questo caso, responsabile del suo karma) . Se il melanconico si riportasse davvero all'atto evocato dal suo rimpianto, si riconoscerebbe come colui che ha piantato l'albero di cui ora mangia il frutto amaro, e si esprimerebbe allora in modo molto diverso. Direbbe ad esempio: «E dire che ho fatto questo o quello! » (il che non costituirebbe piu un rimpianto, propriamente, ma un lamento). Ma altro è il tentativo messo in atto dal rimpianto. Il melanconico mira s{ a sostituire ali' aspetto stativo, di cui soffre, un aspetto risultativo, tale da garantirsi un margine di libertà dal proprio karma. Egli tenta però di far questo attraverso una sorta di sviamento. Non evoca quel passato ormai compiuto, ma un passato rovesciato, che non ha mai avuto luogo: «Ah!, se non avessi ... » Cosi facendo, dà vita a un anti-mondo libero dall'evento in questione, libero dal tempo, e a partire da quell'irreale evento passato può infine abbandonarsi alla dimensione della protenzione (della protenzione vuota, come la definisce Binswanger'°, a cui non sarebbe '° L. Binswangcr, Melanchofie und Manie, Ncske, Pfullingcn 196o, p. 27 (trad. it. Melanconi4 e mani4. Studi/enomenologici, Bollati-Boringhicri, Torino 2oo6, pp. 32-,,).

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errato ricondurre, ad esempio, la struttura, il senso, il clima di un film come L'année demière à Marienbad di Alain Resnais). Inscritto entro un nuovo ordine, consegnato di fatto al destino, l'io si rivela ora a se stesso sotto un aspetto risultativo, primo margine d'indipendenza strappato all'implacabile compattezza della sua condizione. Ma ecco che, riattraversato lo specchio, ritornato dall'anti-mondo al mondo abitualmente subito, l'io del melanconico si arena nuovamente nella sua condizione iniziale: «non mi ritroverei qui» - qui dove mi trovo. Tale è il lungo periplo di questa sterile operazione. , «Non mi ritroverei qui ... » E un futuro ipotetico. Mentre il futuro categorico si apre all'uscita dal presente, il futuro ipotetico si schiude, nel presente, all'uscita dal passato. Si tratta di un presente non chiuso, ma neppure aperto. Di un presente senza tensione: puramente estensivo, ma di un'estensione simile, piuttosto, a una distesa: entro cui il tempo non cresce piu. Il fatto che si dia compiuta identità tra presente e futuro testimonia di una condizione ormai stazionaria del tempo, di un tempo ormai incapace di temporalizzarsi. «Non sarei qui, non mi ritroverei qui ... » Ha ragione, il melanconico, quando con queste parole convoca, nel suo discorso, il passato: «non mi ritroverei qui, dove sono arrivato». Ma essere «arrivati qui» significa essere arrivati senza essere partiti: essere già sempre arrJvati senza mai essere in arrivo, senza mai essere stati in arrivo. E questa circostanza a rivelare il presente della melanconia nella sua mostruosa eccezione. La lingua francese dispone di due presenti di diverso aspetto: un presente di pura, incidenza e un presente la cui incidenza tende alla decadenza. E su questa base che si spiega la differenza tra demain fe m 'en vais e fe m 'en vais au vent mauvais qui m 'emporte''. Non si dà, tuttavia, un presente di pura decadenza. Con l' eccezione del presente della melanconia. È nel presente, e a partire dal suo presente, che la melanconia sconta il proprio vizio di fondo. Presente non-eveniente, già sempre accaduto, in cui il già compiuto transita infinitamente nel già compiuto: perché nulla accade, perché non c'è evento. Presente senza ritenzione: perché non vi è nulla da ritenere. Passato che sprofonda in se stesso, mai modificato, in questo sprofondare, dalla ritenzione di nuovo presente: perché non vi è nulla di nuovo.

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" • Do mani me ne vado», «Me ne vado trascinato via da un vento crudele» (N.d.T.].

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La mania pone la questione del presente con peculiare radicalità. Se non si dà presente maniacale, è perché la forma dell'esistere maniacale non è quella dell'emergere entro una trasformazione costitutiva. Nel Gestaltkreis - Il ciclo della forma, poi tradotto in francese come Il ciclo della struttura - Von W eizsiicker scrive a proposito della forma biologica che essa:

Il nuovo è invece proprio della mania? La «fuga delle idee» maniacale potrebbe indurre a pensare a un perpetuo rinnovamento. Ma proprio lo studio di Ludwig Binswanger ci disinganna": il rinnovamento è solo apparente, perché a esso fa difetto il momento di realtà. Il maniacale vive in un mondo privo di resistenza, in cui tutto è accessibile e nulla fa problema, in cui tutto è noto ed esseri e cose sono a portata di mano, senza distanza, nel semplice qui-eora. Il maniacale non si trova mai presso gli altri o presso le cose, e ancor meno presso di sé. Impossibile coglierlo in flagrante delitto di esser-ci. Nel clima di festa dell'immaginazione sbrigliata, l'immediatezza si sostituisce alla prossimità, l'istantaneità al presente, di cui il maniaco è privo. La forma di vita maniacale è caratterizzata da un aspetto inversivo, che richiama direttamente ciò che Gustave Guillaume, nel quadro del sistema verbale, definisce come «tema d'inversione infinita»>>. Il tempo sembra, cioè, provenire dal futuro, e il pensiero reagisce risalendone il corso, quindi rovesciandolo. Il movimento si ripete senza fine, trovando sempre di nuovo, davanti a sé, un tempo incidente a partire dal futuro, e indefinitamente capovolgendo quel futuro incidente. Ciò comporta, tuttavia, la mancata discriminazione tra tempo incidente, che viene, e tempo decadente, che se ne va, possibile soltanto a partire dalla posizione di un presente in certo senso bifronte; sicché, quando questa discriminazione diventa impossibile, impossibile diventa anche il sorgere di un autentico presente, cui il tema inversivo è, per essenza, ostile. All'incidenza del futuro, il maniacale oppone dunque un contro-movimento inversivo. Con ciò egli non intende affatto sopravanzarlo, ma scongiurarlo. Ogni suo atto è rivolto contro ciò che potrebbe accadere, contro la possibilità che qualcosa avvenga, contro la possibilità stessa dell'evento. Il giocoso ottimismo del maniacale nasconde, in realtà, la negazione che lo segna nel profon. do e che lo rende, con le parole di Leopold Szondi, prossimo alla morte. "L. Binswanger, 0/m Idun/lucht, in «Schweizcr Archiv fiir Neurologie und Psychiatric», XXVII-XXX (1931 -3,), poi 01el Fussli, Ziiricb 1933 (m,d. it. u/uga tklle idee, a cura di S. Mistura, Einaudi, Torino zoo3). "G. Guillaumc, ungoge ti stù,u;e d,, langage cit., pp. 61-70 (in particolare nota •~• p. 70).

da un punto di vista spaziale, è in realtà il luogo dell'ircontro tra organÌsmo e Vmwelt; [ ... ] da un punto di vista temporale, deve ·essere considerata di volta in volta come genesi del presente".

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. La forI?a biologica esis~e e~ energeiai in ciascuno dei suoi singoli momenti, e questa peculiare ururianenza delle forme automoventesi a ciascuno dei momenti della loro genesi trova espressione in una legge_specifica, la legge della «costanza del tempo figurale»". Tracciare un cerchio o un'ellisse, ad esempio, richiede sempre, quali che siano le loro dimensioni, una durata pressappoco identica. Non che questa legge assoggetti il cerchio o l'ellisse dall' esterno, costringendoli a una struttura cinetica data, come se questa app~tenesse allo_ sl?a~io in generale o al tempo in generale. Lo spazio-tempo a cw s~ rifà questa legge è uno spazio-tempo operativo, g~i:erato dal movm~e!lto stesso. Il tracciato della figura, che ne anticipa ~a forma, anticipa allo stesso tempo la propria durata, senza che chi lo esegue debba rappresentarselo o, come si suol dire debba farsene un'«idea». Non deduce affatto la velocità dalla durata (che è cos~ante), né dalle dimensioni (che sono variabili): ogni consegna al riguardo sarebbe destinata al fallimento . Sin dal primo momento assume una data velocità e, insieme a essa assume in sé in qualche modo, l'intera operazione. La totalità dei'tracciato è in~ scritta in ciascuno dei suoi momenti. Ma questa totalità non è data «in sé»: è all'opera nel movimento stesso, in ogni sua fase. Quel tracciat_o è il suo unico sistema di riferimento. Ogni operazione è determmata dalla forma della successiva, e questa a sua volta da un'altra, tutte integrate in una stessa struttura ge~etica che si ~viluppa a partire da, e intorno a, un : un ora che non rappre~enta affatto un punto situato nel tempo, perché è piutto~to ~u~ll ora a ge1;1erare la propria forma temporale, ad appropriarsi _d1 sé come di un presente, a venire e avvenire a sé nel generare il tempo stesso. La genesi del tempo è co-originaria con quella del presente. ~ V. von Weizsiickcr,

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DerGcst4ltlueis cit., p. 141, trad. it. p. 2o6. lbid., p. 1n, trad. it. p. 199 [N.d.T.J.

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È l'analisi del movimento biologico stesso a suggerirci di riconoscerne la priorità rispetto allo spazio. [... ]Il movimento non si afferma attraverso determinazioni di luoghi (e di tempi) nello spazio, ma al contrario il movimento o, pi6 propriamente, l'organico è ciò che produce una formazione spaziotemporale".

Non è quindi il movimento dell'organismo a svolgersi nello spazio e nel tempo, ma l'organismo a muovere spazio e tempo. Il presente del tempo ha in sé la genesi del presente. Il presente è il punto-sorgente, il punto-esplosione del tempo, e la sua genesi è tutt'uno con le trasformazioni costitutive dell'esistenza, o, piu precisamente, del sé. È tutt'uno, anzitutto, con le trasformazioni a cui conduce la crisi. Perché è nella crisi che il sé si ritrova di fronte alla possibilità di scomparire, in una lacerazione priva di domani, o di rinascere di slancio, al prezzo di una trasformazione che, con le parole di Kierkegaard, è un «divenire altro». Là dove non accade trasformazione, l'essere in crisi, l'essere prigioniero del campo chiuso della crisi, abbandona la propria apertura all'evento. Nulla lo può mostrare meglio della schizofrenia.

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Per lungo tempo, da Kronfeld a Binswanger, la questione dominante {ma di rado dominata) nell'ambito della psicopatologia della schizofrenia è stata quella del delirio primario. L'inconfutabilità del delirio schizofrenico, di cui si era fatto un sintomo positivo, faceva tutt'uno con la sua inaccessibilità. In un saggio del r 93 r, J limiti del!' interpretazione psicopatologica del delirio, Hans Kunz indicava le ragioni di questo stato di cose: La potenza e la profondità dcli' evento che si ripercuote e si ritraduce in delirio primario è tale da non poter avere alcun rapporto, neppure lontanamente adeguato, con la sua espressione verbale".

Non si tratta, tuttavia, di semplice difformità, ma di vero e proprio occultamento: L'evento di cui parla il delirio ne nasconde un altro: è una copertura di ciò che accade al di sotto, in vece del quale esso ha luogo. Lo schizofrenico sente che qualcosa gli sta accadendo; ma non sa che cosa".

"lbid., p. 143, uad. i,. (lievemente modificata) p. 208 [N.d.T.). " H. Kunz, Die Grenu der psychopathologjschen Wahninterpretation, in «Zeicschrift for die Gesamte Neurologie und Psychiatrie», CXXXV (1931), p. 682. "lbid., p. 681 .

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Cosi, l'elemento originario del delirio non è il contenuto delirante stesso, ma l'evento della metamorfosi di una presenza che non è piu essere-nel-mondo in-vista-di-sé. Una presenza, un esser-ci ferito nel proprio poter-essere è ferito, inevitabilmente, in quella peculiare dimensione esistenziale che è la temporalità. La temporalità schizofrenica è stata oggetto di analisi tanto varie e dettagliate che si rischia di smarrire la via, se non si procede disvelando di pari passo le strutture della temporalità schizofrenica e quelle del tempo in generale. Sappiamo che uno schizofrenico, colpito nella sua dimensione di storicità, non ha piu futuro né passato. E tuttavia, sappiamo davvero tutto questo di un sapere che sa comprendere? Di un sapere che sa anche, com'è necessario, che cosa sia il proprio presente? Lo scarto è sottile e, insieme, immenso. Quando uno schizofrenico rievoca una figura del suo passato - una casa, una scena della sua adolescenza, della sua giovinttzza che cosa vive propriamente, un ricordo o una reminiscenza? E presente, lui, in quel passato? Vi ha accesso «a partire da qui, dal suo presente» - da un presente, cioè, capace di passato? Oppure «quel frammento di passato è trasportato in blocco nel presente» - al modo di un quadro d'altri tempi che, attraversato un lasso di tempo neutro, si ritrovi d'un tratto nel mondo d'oggi? Identici sono gli interrogativi sollevati dalla spazialità schizofrenica, benché il fenomeno risulti, in questo caso, piu facile ad

apprendersi. Uno schizofrenico, seduto in una stanza, pensa a un altro luogo. Ecco che lo vede, trasportato qui, attraverso uno spazio oggettivo, che egli non abita in alcun modo. Semplice traslazione, da laggiu fino a qui, e non trasformazione a partire dal suo qui. Se in generale è possibile evocare il proprio passato, è perché esso è già sempre aperto come dimensione della propria presenza. Il nostro presente non è semplice attualità. La lingua tedesca consente di distinguere un presente che è limite-del-tempo, Gegenwart, e un presente che è origine-del-tempo, estatico rispetto al futuro e al passato: Anwesen, essere-sé-presso qualcosa o qualcuno. Se non fossi presente al mio passato o al mio futuro, come potrei riconoscerli come tali, come miei? Come potrei anche soltanto evocarli? Ciò vale anche per lo spazio. Non appena entro in una stanza, io sono qui-rivolto-a tutta la sala, capace di tutto lo spazio nel!' orizzonte del mio «io posso» corporeo, nell' ~nticipazione di tutte le mie implicite possibilità di movimento. E ciò che Robert De-

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launay chiamava «simultaneismo», e che una parola di Heidegger ancor piu esatta indica come Durchstehen: essere in-piedi-attr.averso - attraverso tutto lo spazio. Il presente è il punto d'esplosione di un tempo orientato. Cosi come lo spazio di ogni mio attraversare è sotteso da uno schema infra-spaziale inattraversabile, allo stesso modo uno schema infra-temporale, estatico rispetto al tempo, ne sottende le tre estasi del passato, del presente, del futuro. Schema che si radica precisamente nell'Anwesen, nel presente aperto a ogni tempo che si apre inhµ. E davvero possibile parlare di atemporalità schizofrenica in generale, senza con ciò misconoscere le differenze, le singolarità esistenziali degli schizofrenici, ciascuno dei quali, insiste Binswanger, viene colpito nella sua peculiare storicità? Certamente no. E tuttavia c'è, in loro, un tratto comune, che esprime appunto il loro peculiare scacco. La temporalità schizofrenica è scossa nella sua falda piu profonda. Lo schema infra-temporale, e lo schema infraspaziale, sono in lui come pietrificati. Ricordiamo le parole di un paziente di Minkowski: «Sf, ricordo come sono venuto qui, ma "qui", per me, non vuol dire nulla». Non .«ci-è» piu, non è piu il «ci» di nulla, neppure del nulla stesso. Questo vale anche per il tempo: «Ora, per me, non vuol dire nulla». Perché? Perché di quell'ora non può fare un presente, il presente di una presenza. La sua presenza gli è stata sottratta da denµo, da un altro che ha preso possesso del suo «luogo>~ (aitres). E quest'invasione da dentro, l'evento della psicosi. E questa metamorfosi della presenza e del sé, che implica un aspetto difficile a cogliersi direttamente, ma connesso, in ogni caso, alla frattura e all'intreccio segreto che nella sua esistenza si produce tra due diversi generi di temporalità, quello della vita quotidiana e quello del delirio. Ciò che caratterizza la vita quotidiana dello schizofrenico è l' assoluta mancanza di continuità. La sua non è piu un'esistenza capace di dispiegarsi nell'orizzonte di una storia, perché ormai interamente votata all'istantaneità. Tra istante e istante, nessun tempo proprio gli è dato. Per altro verso, la dissociazione schizofrenica dell'immagine corporea, mirabilmente messa in luce da Gisela Pankow", è lega" G. Pankow, Structuration dynamiquedam '4 schizophrtfnie, Hubcr, Bern 1956; Id., L'homme et ,a psychose, Aubie.r, Paris 1973; Id., L'itre-là du schizophrtne, Aubier, Paris 1981.

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ta alla dissociazione della sua immagine del mondo. Sono due facce di una medesima dissociazione, che colpisce lo schizofrenico nel suo esser-ci come essere-nel-mondo attraverso il corpo proprio. Si tratta ancora, essenzialmente, di una dissociazione dello schema temporale: le azioni dello schizofrenico si succedono, l'una dopo l'altra, senza mai giungere a intrecciarsi in una successione. Si tratta di un'incessante frammentazione del suo essere-nel-mondo. Il percorso temporale del mondo non è piu un attraversamento, e come il tempo ha ormai cessato di trasformarsi in se stesso, cosi il mondo ha cessato di farsi-mondo40 • Lo schizofrenico patisce un tempo detemporalizzato, un tempo scalare, immobile, che gli si impone in blocco a ogni istante separato e subito. Il mondo ha perduto la sua toumure. Si può comprendere, allora, l'ideale impossibile, ossessivo, di un paziente di Roland Kuhn: «riunire l'inizio e la fine»". Egli tenta di fare questo nel suo delirio e per mezzo del suo delirio. All'immutabilità di un tempo scalare, che regna ma non governa, che non sa ormai piu ricomporre un'esperienza in frantumi, egli oppone l'ordine di un tempo ciclico, fatto di periodiche ripetizioni. L'esistenza di questo paziente, di nome Franz Weber, non si temporalizza piu in modo da dar vita a una storia. Non è piu possibile, per W eber, fondare la propria esistenza dandole fondamento nel corso del mondo che lo circonda. Incapace di entrare in risonanza con il corso del mondo, e con ciò che del mondo scorre in lui, egli tenta quindi di dare vita a un altro mondo, di cui è legislatore e suddito insieme. Come a ogni delirio schizofrenico, anche al suo si attaglia la frase di Faust che Freud cita a proposito di Schreber: «Hai distrutto il mondo bello .. . ricostruiscilo nel tuo cuore»". Questo nuovo mondo sembra sottrarlo al mondo in cui si trova gettato dalla sua quotidianità, ma quest'ultimo non cessa di richiamarlo a sé. La lotta intrapresa per vincerlo, dunque, non fa che ritorcersi contro di lui. Nella sua vita di tutti i giorni, dice, non riesce a ricongiungere il «nazionale» e !'«internazionale», il .. Cfr. J'espressione hcidcggeriana «die Wel1 wcltet»: il mondo accede alla mondità entro il progetto dell'esserci e in quanto l'esserci è essere-nel-mondo. " R. Kuhn, Daseinu,nalyti,che Studie iiber die Bedeutung von Grenzen im Wahn, in «Monatschrift fiir Psychiatrie und Neurologie», CXXIV (1962), nn. 4•5-6. " S. Freud, Psychoana[ytische Bemerltungen iiber einen autobiographisch lmchriebenen Fallvon ParanoiJJ, in Id., Geu,mme~ Werlte, Fischcr, Frsnk!urt am Main 1999, voi. VIII, p. 307 (trsd. it. Osservaxioni psicoanautiche su un caso di paranoiJJ (li Presiderrte Schrtber), in Id., ~ . sotto la direzione di C. Musatti, voi. VI, Borinshieri, Torino 1974, p. }96).

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«privato» e il «pubblico»", cioè l'esistenza personale e l'esistenza in comune. Ma ciò che rende la comunicazione tra quelle diverse istanze impossibile, non è tanto la distanza quanto la confusione. Il «tra» unisce e separa, ma la comunicazione non è separatezza né fusione . Ogni co-presenza è presenza a sé e alla propria spazialità, nell'orizzonte e nella mediazione dell'altro e della spazialità dell'altro, ed è, insieme, presenza all'altro e alla spazialità dell'altro nell'orizzonte e nella mediazione di sé e dello spazio proprio. Ora, per Franz Weber, il proprio e l'estraneo non sono l'orizzonte l'uno dell'altro, ma la costante contaminazione dell'uno attraverso l'altro - quella contaminazione di cui Bleuler faceva uno dei tratti essenziali della schizofrenia. Accade che il paziente stesso non si accorga di essere stato toccato, tanto poco quel corpo è suo, e che sia invece sconvolto dal fatto che una sedia davanti a lui venga spostata, tanto profondamente le cose intorno a lui sono carne della sua carne. Il delirio di W eber è una difesa. Prende forma nel progetto di una città, di una città modello, unica, di cui egli traccia i piani con cura estrema. Il suo progetto - progetto architettonico, ma anzitutto architettura d'esistenza - realizza l'antitesi della condizione che egli sente di subire. All'infinita contanùnazione dello spazio proprio e dello spazio estraneo egli oppone, cosf, l'iper-delinùta• zione di un altro mondo. Le vie o i palazzi della sua città sono tanto rigorosamente separati gli uni dagli altri da risultare del tutto incomunicanti. Le case, allineate lungo le mura della città, sono ridotte a quadrati, a caselle ciascuna delle quali è, alla lettera, occupata dal nome che vi è inscritto. Si tratta di nonù che, sistematicamente disposti nella città, rinviano alle piu diverse regioni dell'esperienza: merci, scienze, tecniche, professioni, luoghi geografici, unità politiche, ideali ... I nonù, qui, hanno lo statuto di cose, e le cose lo statuto di nonù. Tutto e tutti sono ridotti al comune denominatore della condizione di oggetti. In un mondo simile è impossibile fare presa su alcunché, avere un qualsiasi oggetto alla mano (zuhanden), stare al passo con il movimento delle cose. Tutto è là di fronte (vorhanden), come nelle vetrine di un'esposizione universale. Kuhn riassume ed esplicita la situazione con una frase di Heidegger: «Das All des Vorhan"R. Kuhn, DaseinsanalytischeStudie cit., p. 3,7.

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denen wird Thema>>, «il tutto della semplice presenza è costituito a tema»". L'esistenza stessa, tematizzata in forma d'oggetto, figura nei piani della città con questo titolo: &istenzzentrum, centro d'esistenza. Di quest'esistenza, l'intera città è proiezione. Lo spazio e il tempo che il paziente si concede, nel proprio delirio, sono inscritti a loro volta nella struttura della città, perché dipendono da una stessa operazione di oggettivazione. Come lo spazio della città è fatto di aree che non diventano mai «luoghi», cosf il tempo è fatto di momenti che non giungono mai a costituire dei «presenti». A dispetto dell'assoluta dipendenza dall'altro in cui si trova, o dall'altro che si trova in lui e che agisce in lui, W eber concepisce la sua città (in cui inscrive se stesso, facendo di sé uno degli oggetti del suo delirio) come città assolutamente autarchica, affrancata da qualsiasi scambio con l'esterno. Al «fuori» Weber nega ogni possibilità di essere. Rinchiude la sua città nel perimetro-confine di una frontiera unilaterale, il cui unico lato è rivolto a essa. Tutto il resto è no man's land, è nulla. Ciò che la chiusura è per lo spazio, la ripetizione è per il tempo. L'una come l'altra strutturano quello spazio-tempo grazie al quale Weber può tentare di «riunire l' inizio e la fine». Prima di intraprendere la progettazione della città, aveva disegnato i piani di un battello destinato, diceva, a fare il giro dei laghi della Svizzera. Questo gli avrebbe consentito di combinare due movimenti circolari: «si può fare il giro del battello mentre il battello fa il giro del lago», scrive. Ma il giro stesso del lago si inscrive poi nel piano di una crociera che, idealmente, disegna anch'essa un cerchio. Il triplo moto circolare che ne risulta, per tre volte richiuso su se stesso, senza soluzione di continuità è sempre e ovunque in partenza, sempre e ovunque in arrivo. Non vi si possono distinguere un qui e un là, un adesso e un dopo. Qui scompare la nascita, qui scompare la morte, qui scompare ogni evento. L'ultimo progetto che Weber ha potuto realizzare introduce nella città il tempo ciclico di cui si è detto nella forma di una processione che, ogni sei mesi, compie il periplo dell'abitato riappropriandosi della frontiera. La ripetizione sempre identica a sé del tempo ciclico si sostituisce alla palingenesi del presente, esclude ogni possibilità di divenire-altro e, con essa, ogni capacità di accogliere l'evento. In questa processione rituale di chiusura dei con"limi., p. >73; cfr. M. Hcidcggcr, Sein 11nd Zeit, Nicmaycr, Tiibingcn , 927, p. 362 (trad. it. Essete e tempo, Longancsi, Milano 1970, p. 434).

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fini non si può non riconoscere, d 'altra parte, la similitudine con una delle tre forme di esistenza schizofrenica studiate da Binswanger, il manierismo0 • Il senso del manierismo, mi disse una volta lo stesso Binswanger, è la posa. Nell'atelier di un pittore o di uno scultore, la modella deve mantenere la posa senza trasgredire i limiti entro cui il suo corpo è ritualmente inscritto. La modella che si mantiene in posa non va al di là di sé verso il mondo. Ma proprio questa esigenza contraddice l'essere-nel-mondo in ciò che ha di piu proprio: il non fare esperienza del limite altro che varcandolo. Si dice manierato un uomo che adotta, come una posa, le maniere di un qualsiasi personaggio e che non si cura d'altro che di questo rapporto di proiezione. Nel manierismo schizofrenico ci si fa attori del proprio personaggio, ma il personaggio stesso diviene l'attore che lo impersona. Imprigionata in questo schema d'immanenza, la presenza va e viene circolarmente, e indefinitamente, tra quei due poli, fatti l'uno a immagine dell'altro. La trascendenza, dimensione costitutiva dell'esistenza, decade ad ambivalenza. E di tale decadenza la temporalità schizofrenica è, insieme, il principio e il tratto distintivo. Per sfuggire, infatti, alla pura istantaneità della propria frammentazione temporale, l'esistenza dello schizofrenico tenta di assegnarsi un tempo ciclico, la cui ripetitività surroga la genesi trasformatrice del presente. Il delirio, tuttavia, evolve. Attraversa fasi diverse. Le principali, nell'analisi di Binswanger, sono quella «atmosferica», segnata dall'angoscia, e quella «oggettiva», segnata dalla paura". Il paziente passa dall'angoscia provata di fronte all'indeterminatezza del terrificante alla paura suscitata da un mondo terrifico, le cui minacce si fanno avanti con le precise fattezze di figure che lo perseguitano. Si ritrova allora come caduto-nel-mondo (Verfallen)" e abbandonato a esso. A differenza di questa prima fase atmosferica, in cui la presenza è in balia di se stessa, nella successiva si produce, d'altra parte, una sorta di oggettivazione, che assicura al paziente una certa distanza di fronte al terrificante (anche se non va dimenticato che queste fasi, quale che ne sia il numero, scaturisco•

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no piuttosto le une dalle altre come immagini oniriche, le une intrecciate alle altre in un medesimo orizzonte: come il mondo, anche il sogno è già sempre iniziato). A differenza del sognatore, lo schizofrenico si assegna da sé quell'orizzonte. Disperatamente. Il delirio dispiega appunto un orizzonte entro il quale qualcosa cpme un senso sia di nuovo possibile. Ha la forma del progetto. E l'altro del progetto. Del progetto in senso forte, quello della parola tedesca Entwurf impiegata da Heidegger. Il verbo corrispondente, entwerfen, è composto da werfen, che significa gettare, lanciare; e dalla particella ent, che, dice Heidegger, sostiene e decide del significato dell'intera espressione. Ent indica un essere significa, semplicemente, «io». Intitolando il suo -saggio del 1927 Lebensfunktion und innere Lebensgeschichte, Binswanger attribuisce alla vita i due registri del funzionale e del personale. E nella vita, dunque, che egli colloca la cesura decisiva. In essa si intrecciano due giurisdizioni, storia della vita interiore e storia della vita esteriore - l'una esteriore, l'altra interiore, appunto, rispetto a un sé che decide del proprio essere. La storia della vita interiore è fatta di reazioni a eventi o a situazioni, a vincoli o stimoli che possono venirci da tutto ciò che, in noi o intorno a noi, ci assegna alla passione del tempo. Un lutto, una perdita, un impulso, un timore - tutti i traumi psichici, insomma, che come Kant dice sono stati «patologici» del senso interno - sono altrettanto estranei all'autogenesi del sé di un grido udito d'un tratto per strada (che, peraltro, potrebbe decidere del nostro essere piu radicalmente di ogni altro evento). Il «pulsionale» ha a che vedere con la storia della vita esteriore - che, rispetto al sé, nella sua radicale im-proprietà, risulta propriamente destinale. La vera cesura si pone, dunque, tra storia e destino. L'evento e la storia della vita interiore hanno in comune il fatto di essere irripetibili. Il loro incontro è unico e segna la genesi del presente. Irripetibili lo sono, storia e destino, come ogni frase che ci parli autenticamente, in quanto autenticamente risponde alla situazione in cui accade. Come ogni frase, evento e storia della vita interiore sono dotate di senso. In che consiste allora il senso del vissuto di un evento? Senso e vissuto sono indissociabili: un evento non è vissuto entro la storia della vita interiore se non quando questa, nell'evento, si fa interiore a sé, aprendosi la propria via. E questo non in una continuità priva di fratture, ma nella lacerazione di quell'istante vertiginoso in cui evento e vissuto si cercano e si sfuggono, entrambi in anticipo su di sé, come domanda e risposta. L'integrazione dell'evento è, in questo senso, una trasformazione costitutiva.

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Ciò di cui Erwin Straus intende studiare la peculiare efficacia sono degli eventi decisivi, drammatici, sconvolgenti, che colpiscono l'uomo nella storia della sua vita interiore. Tra evento e vissuto, tuttavia, non c'è una relazione causale. L'incontro - il loro incontro, che è il luogo stesso entro cui essi accadono - avviene all'interno di uno spazio di senso. Straus mette in luce tutto questo attraverso l'analisi differenziale del vissuto di un incidente". Un uomo viene investito e ucciso da un'auto. Giace sulla strada. Tra quanti si accalcano intorno al corpo vi sono un medico, che da tempo non si lascia piu impressionare da simili spettacoli, per lui abituali, e un giovane che si trova invece_per la prima volta, all'improvviso, in presenza di un uomo morto di morte violenta. Una presenza ambigua, quella del giovane, in scacco. Il medico fa con calma professionale tutto ciò che la situaziÒne richiede. Non ne è coinvolto interiormente. Nel suo vissuto non si fa strada la minima risonanza. Il giovane, al contrario, per settimane è incapace ~ dimenticare la vista del morto. Tutto, nel suo comportamento, cambia. E oppresso, silenzioso, a.ngosciato, apprensivo. Non vuole piu trovarsi solo per strada. Tale occasionale impressionabilità evolve via via in una crescente suscettibilità, in una profonda angoscia di fronte alla prospettiv_a della morte e alle sue molteplici figure: l'invecchiamento, l'agonia, lo sfionre, la povertà. ~ non è tutto. Molte delle impressioni sensoriali presenti nel vissuto originario di quella scena, come la qualità della luce e dell'ombra, degli odori e del vento, assumono ora un carattere particolarmente repellente, via via resosi autonomo rispetto al fenomeno iniziale. Potranno riemergere in qualsiasi mo• mento, anche ad anni di distanza, con un'azione straordinariamente intensa, incomparabile a quella di qualsiasi stimolo analogo 0 •

Se uno stesso evento ha avuto esiti tanto differenti, nei due uomini, ciò si spiega col fatto che, in verità, non c'è stato affatto uno stesso evento: l'evento è accaduto loro, cioè attraverso di loro si è messo in luce, in un'impressione originaria che, nell'uno e nell'altro, da subito è stata differente. Per il medico, il cadavere che giace davanti a lui è un uomo qualunque, un esemplare della specie homo sapiens. li suo sguardo non si sping~ fino a sfiorare la persona, l'individuo la cui esistenza è appena stata annientata. L'individuo non appare che ai congiunti, agli amici, nella commozione con cui come Antigone per Polinice, vivono quel lutto. Per il medico, in quell'in'cidente si è realizzato ancora una volta, nient'altro che l'universale: la morte, la mortalità degli ;sseri umani, che da lungo tempo gli sono familiari e che per natura non possono non accadere di quando in quando. [... )

I .

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u E. W. Straus, Ge1chehnu und Erkbnis cir., p. "lbid., p. 13.

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sgg.

Evento e psicosi

Henri Maldiney

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Ma se il vissuto del medico può essere riassunto nella formula «un uomo è stato vittima di un incidente», per il vissuto del giovane altro dovrà essere il motto: «l'uomo può morire». L'evento ha, per lui, tutt'altro significato. C:iò che_ gli si dischiude, attraverso il singolo incidente, è un'intera costellaz1one d1 senso, quella della morte, della mortalità, della precarietà".

Minacce sempre incombenti sull'essere-per-la-morte dell'uomo come tale. Con il vissuto di questo tema per lui nuovo, universalmente significativo, anzi esistenzialmente significativo, l'intero orizzonte d'esperienza del giovane si trasforma in pr9fondità. Gli si fa presente la morte, potenza sempre in agguato come nel dipinto di una danza macabra. E con essa gli si fa presente il rischio che grava sulla sua stessa esistenza personale''.

Tuttavia né il significato universale della morte né la percezione oggettiva di un cadavere sono in sé sconvolgenti. Possono esserlo soltaqto quando essi si danno in un rapporto particolarmente intimo. E in un simile rapporto che il giovane di cui parla Straus si è trovato implicato: non un rapporto che egli ha istituito, ma un rapporto che ha vissuto e, in questo senso, subito. La vista del cadavere non ha sconvolto il giovane elevandone il pensiero alla conoscenza logico-teorica della mortalità umana e precipitandolo poi al suo caso individuale, come nella conclusione del classico sillogismo: «l'uomo è mortale, io sono un uomo, dunque io sono mortale». Non si dà, qui, termine medio, «io sono un uomo». Piuttosto qualcosa come «un uomo, sono io» viene alla luce o sprofonda nel1'ombr~ davanti a quel cadavere nella vertigine della mortalità, dice ~rwm Straus, che esso rappresenta. E dunque dalla funzione rappresentativa di quel vissuto che dipende la sua forza sconvolgente. Ma tale funzione non ha nulla a che vedere con una sorta di schematismo trascendentale, che offre a un dato concetto la sua immagine. Non si tratta di concetti. La condizione della mortalità implica una fatticità che non è né fatto né idea, né, ancora, passaggio dal fatto all'idea. Non ha nulla che la rappresenti e nulla da rappresentare. Se quel giovane è sconvolto, è perché in quell'evento egli stesso viene innalzato alla propria presenza o a essa viene strappato, attraverso la storia della sua propria vita interiore. Perciò Straus non si appella soltan~o alla funzione «rappresentativa» del vissuto, ma alla sua