Pensare come un antropologo 9788858428931

Intrecciando esempi e teorie provenienti da tutto il mondo, Matthew Engelke ci presenta dell'antropologia un quadro

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Pensare come un antropologo
 9788858428931

Table of contents :
Indice analitico......Page 330
Frontespizio......Page 3
L’autore......Page 348
Il libro......Page 347
Introduzione. Familiarità ed estraneità......Page 5
Il primo contatto: una storia personale......Page 9
L’antropologia vera e propria......Page 13
La nascita di una disciplina scientifica......Page 19
Caveat emptor!......Page 22
I. Cultura......Page 29
Occhiali culturali......Page 32
Limiti della cultura......Page 48
Via dalla cultura......Page 56
II. Civiltà......Page 60
Da selvaggio a civilizzato......Page 62
III. Valori......Page 87
Onore e vergogna......Page 88
Olismo e individualismo......Page 102
Un caso di tormento morale......Page 112
IV. Valore......Page 117
Il kula......Page 121
Il dono e il dono gratuito......Page 123
Soldi, soldi, soldi......Page 128
Debito......Page 133
V. Sangue......Page 139
Una sola goccia......Page 143
Fratelli di latte......Page 150
Il sangue non mente......Page 153
VI. Identità......Page 164
La razza, ci risiamo......Page 171
L’identità dei Mashpee......Page 175
Ideologia linguistica......Page 179
Dall’essere umano all’esibizione......Page 185
Mashpee oggi......Page 190
VII. Autorità......Page 193
«Problemi con le donne»......Page 195
Genere e generazione......Page 198
Dai vivi ai morti......Page 203
Rito e autorità / l’autorità nel rituale......Page 206
Argomentare con un canto......Page 213
Autorizzare l’autorità......Page 214
Con stato e senza stato......Page 219
VIII. Ragione......Page 224
Ragione e linguaggio......Page 226
«Noi siamo pappagalli rossi»......Page 232
Stregoneria e buon senso......Page 236
Ritorniamo ai Bororo......Page 241
Un altro punto di vista......Page 245
Vita esposta......Page 249
IX. Natura......Page 254
Con in mente Lévi-Strauss......Page 256
Limiti della natura?......Page 260
Con in mente la morte......Page 265
Scienza/fiction......Page 269
I geni sono noi......Page 273
Le nostre storie naturali e sociali......Page 276
Conclusioni. Pensare come un antropologo......Page 283
Note......Page 290
Bibliografia......Page 309
Breve bibliografia selezionata......Page 325
Ringraziamenti......Page 329

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Matthew Engelke

Pensare come un antropologo Traduzione di Luigi Giacone

PENSARE COME UN ANTROPOLOGO

A Rebecca

Introduzione Familiarità ed estraneità

Nell’estate del 1879, Frank Hamilton Cushing lasciò la sua scrivania presso la Smithsonian Institution per intraprendere tre mesi di ricerca nel Nuovo Messico. La sua missione, patrocinata dal Bureau of Ethnology, era quella di scoprire tutto ciò che poteva «su una tipica tribú degli indiani Pueblo» 1. Cushing si ritrovò cosí tra gli Zuni, una comunità di amerindi appartenenti ai popoli Pueblo. Rimase profondamente affascinato dai metodi di coltivazione e irrigazione e allevamento, dalla grande maestria nell’arte della ceramica e dalle elaborate danze cerimoniali. Soggiornò presso la tribú ben piú di tre mesi, anzi, molto piú a lungo, dato che alla fine vi rimase quasi cinque anni. Nel 1884, al suo ritorno a Washington, parlava fluentemente la lingua dei nativi, era un vasaio piuttosto abile e si fregiava del nuovo titolo di «Primo capo guerriero degli Zuni», oltre a quello di Assistant Ethnologist degli Stati Uniti. Sul periodo trascorso con gli Zuni, Cushing pubblicò diversi saggi, tra cui una serie di scritti dal titolo alquanto prosaico: Zuñi Breadstuff, ovvero «Cereali per panificazione degli Zuni». L’atteggiamento degli Zuni verso l’alimentazione e le loro coltivazioni era tutt’altro che insulso o scontato. Ciò che apprendiamo dagli scritti di Cushing non è solo come gli Zuni dissodavano la terra o cuocevano il pane di farina di mais. Nei suoi svariati saggi, infatti, l’etnologo poneva in risalto l’importanza dell’ospitalità presso la tribú, spiegava come i nonni inculcassero già nei bambini piccoli i valori della pazienza, del rispetto e del duro lavoro, e vedeva emergere nel ricco simbolismo delle feste del Kâ’-Kâ l’importanza della pratica matrilocale (il

termine tecnico matrilocalità, o uxorilocalità, indica l’usanza per cui l’uomo va a vivere nella fattoria della moglie) 2. Quanto affiora dalla descrizione delle tradizioni e dei costumi alimentari degli Zuni è la chiara esposizione della cultura di un popolo, dei modi in cui una società, chiusa in un ambiente naturale spesso ostile e implacabile, fiorisce grazie a legami comunitari e pratiche di mutuo soccorso. «Mio paziente lettore, perdonami per aver cosí a lungo indugiato nei campi di grano degli Zuni, – scrive Cushing a un certo punto. – Considerate le regole e le pratiche dei loro coltivatori, tuttavia, per quanto attentamente potessimo osservare il progressivo verdeggiare di queste colture, pronte a raggiungere la loro giusta doratura, a malapena riusciremmo a coglierle con lo sguardo» 3. Nel 2000, Caitlin Zaloom partí da Berkeley, in California, per recarsi a Londra e intraprendervi una ricerca sulle negoziazioni di contratti futures. Nel 1998, la Zaloom aveva già trascorso sei mesi come commesso alla Borsa Valori di Chicago. L’importanza di questa figura aveva ormai superato la prova del tempo: i commessi erano infatti le persone che attraversavano correndo, letteralmente, i locali in cui avvenivano le negoziazioni, stringendo in mano i foglietti accartocciati con gli ordini comunicati dai clienti all’altro capo di un telefono. Nella sala contrattazioni della Borsa di Chicago si creava un’autentica «mischia finanziaria», scrive Caitlin Zaloom. «I commessi facevano spesso a gomitate per farsi largo» e «il baccano era assordante» 4. A rendere inquieti quegli ambiziosi capitalisti, tuttavia, non era il caos che regnava nella sala, bensí l’imminente avvento dell’era elettronica. Il commercio elettronico stava infatti emergendo e avrebbe trasformato radicalmente la natura del loro lavoro nel giro di pochi anni. Come a Chicago, anche a Londra la Zaloom si alzava all’alba e partiva subito per la City. Una volta arrivata, però, non si trasformava in un commesso della Borsa né cominciava a fare a gomitate con i suoi colleghi presenti nella sala contrattazioni. «Trascorrevo nove ore al giorno con gli occhi fissi sul mio schermo, con le dita appoggiate leggermente sul mouse, pronta a

cliccare nel secondo stesso in cui appariva un’opportunità di profitti» 5. Rispetto a un campo di grano degli Zuni, i futures obbligazionari del Tesoro tedesco potrebbero essere considerati senza dubbio qualcosa di molto piú vicino ai meccanismi del potere, ma difficilmente sarebbero un argomento altrettanto affascinante. Per Caitlin Zaloom, invece, la compravendita dei futures rappresenta una finestra aperta sul grande mondo dei mercati, sulla moralità e sui concetti di razionalità. Offrivano altresí uno squarcio sui processi della globalizzazione, sostenuta a sua volta da nuove tecnologie, regimi di mercato e sistemi di scambio culturalmente specifici. Per la Zaloom, ciò che rendeva particolarmente interessante la negoziazione elettronica era la misura in cui essa prometteva di creare un mercato veramente «libero», basato sulla razionalità di transazioni elettroniche incorporee, anziché su esseri umani che farfugliavano nervosamente tra loro. Una volta usciti dalla sala delle contrattazioni, prometteva l’e-trading, sarà come foste usciti dalla cultura, sarete liberi da pregiudizi e fattori ambientali che potrebbero ostacolare i vostri profitti. Come afferma chiaramente Caitlin Zaloom, tale promessa non è stata mantenuta, in gran parte perché risulta impossibile uscire dalla cultura: non si possono scambiare futures in una zona senza cultura. Frank Hamilton Cushing nel pueblo degli Zuni; Caitlin Zaloom a Londra: questa è antropologia. Negli ultimi 150 anni, la disciplina dell’antropologia ha trovato la propria forza motrice nella curiosità per le espressioni, le istituzioni e i doveri culturali dell’umanità. Che cosa ci rende umani? Qual è la cosa che tutti noi condividiamo e che cosa possiamo ereditare dalle circostanze sociali e storiche? Dettagli apparentemente piccoli, come il significato culturale del granturco o il nostro uso del computer, che cosa possono dirci su chi siamo? L’antropologia ha sempre operato all’intersezione tra natura e cultura, universale e particolare, modelli e diversità, somiglianze e differenze. Il modo in cui essa svolge esattamente questo lavoro è cambiato nel tempo. All’epoca di Cushing, le teorie dell’evoluzione

sociale, modellate sulle scoperte di Charles Darwin nel campo della biologia, influenzavano il modo in cui la nuova disciplina dell’antropologia, allora emergente, si accostava alla diversità culturale; a quel tempo, si pensava che gli Zuni appartenessero a una fase diversa e piú antica dello sviluppo dell’umanità. Oggi, un’antropologa come Caitlin Zaloom avrebbe molte piú probabilità di sostenere che l’economia di baratto e scambio di società di piccole dimensioni debba essere analizzata nella stessa cornice dell’e-trading nel cyberspazio. Sono risultati dominanti in antropologia anche altri approcci, ed esistono tuttora impostazioni metodologiche ben distinte: vi sono gli antropologi cognitivi e quelli post-moderni; i marxisti e gli strutturalisti; la maggior parte degli studiosi – me compreso – non aderirebbe però a nessuna etichetta, preferendo usare la farina del proprio sacco. Ciò che in ogni caso lega tutte le diverse scuole è l’attenzione per l’elemento culturale. Questo libro si concentra principalmente sul tipo di lavoro svolto da Cushing e Zaloom, chiamato spesso antropologia sociale o culturale. Esso rientra nello stesso genere di studi antropologici che conduco anch’io – e questo spiega pertanto il mio punto di vista. Non tutti gli antropologi, tuttavia, lavorano con esseri umani in carne e ossa, residenti in luoghi o comunità particolari. In diverse tradizioni di studio nazionali, gli aspetti biologici ed evolutivi dell’uomo sono considerati accanto a quelli culturali. Anche l’archeologia e la linguistica rappresentano spesso ambiti importanti dello studio antropologico. In altre parole, certi antropologi si concentrano sui denti e le ossa dell’anca; altri su ciò che determinati modelli di insediamenti preistorici possono dirci sulla nascita dell’agricoltura, sulla lavorazione del ferro e sulla formazione dello stato; altri ancora si focalizzano sugli aspetti tecnici delle classi dei sostantivi e della fonologia Bantu (ovvero lo studio dell’organizzazione dell’uso del suono nella lingua). Per quanto riguarda l’archeologia e la linguistica, i legami con la cultura sono abbastanza evidenti: l’archeologia, a conti fatti, si occupa di quella che spesso chiamiamo «cultura materiale»;

lingua e cultura sono due lati della stessa moneta (inoltre, la maggior parte degli antropologi linguisti studia l’uso della lingua, piuttosto che la sua morfologia astratta, il che significa studiarla in luoghi e tempi particolari, come fanno gli antropologi culturali). Comunque sia, anche per gli antropologi specializzati negli studi anatomici ed evolutivi, i blocchi costitutivi di una cultura sono di primario interesse. Le dimensioni del nostro cervello, la nostra struttura dentale e la forza dei nostri femori sono studiate dagli antropologi biologici per ciò che esse possono dirci riguardo alle origini del linguaggio, all’utilizzo di utensili e allo sviluppo del bipedismo. In una parola: cultura.

Il primo contatto: una storia personale. Ricordo molto bene il primo testo di antropologia che ho letto. Ero uno studente al primo anno di università, rintanato in biblioteca in una fredda sera di Chicago. Me ne ricordo cosí bene perché mi aveva mandato nel pallone. Quel testo, infatti, rappresentava una sfida al modo stesso in cui pensavo al mondo. Potrei dire che mi causò un piccolo shock culturale. Era un articolo intitolato The Original Affluent Society (L’originaria società opulenta), di Marshall Sahlins, una delle figure piú significative della disciplina. In quell’articolo, Sahlins esponeva in dettaglio le ipotesi alla base delle moderne concezioni occidentali di razionalità e comportamento economico, come descritto, per esempio, nei classici manuali di economia. L’autore chiariva in tal modo un certo pregiudizio e un evidente equivoco nei confronti dei cacciatori-raccoglitori: quei piccoli gruppi di persone che nel deserto del Kalahari, nelle foreste del Congo, in Australia e altrove conducono uno stile di vita nomade, tutti con pochi beni personali e nessuna cultura materiale elaborata. Genti che cacciano fauna selvatica, raccolgono bacche e si spostano secondo le necessità.

Come Sahlins dimostrava, l’assunto dei classici libri di testo era che quelle persone vivessero in estrema miseria, denutrite e costrette a lottare ogni giorno per la sopravvivenza. Basta guardarle: indossano al massimo dei perizoma; non hanno propri insediamenti; non possiedono quasi nulla. Tale presupposto di totale povertà deriva da un’altra, piú fondamentale assunzione: gli esseri umani vogliono sempre di piú di quanto abbiano. Mezzi limitati per soddisfare desideri illimitati! Stando a questo modo di pensare, non c’è dubbio che i cacciatori-raccoglitori non possano fare niente di meglio; sicuramente vivono cosí non per scelta ma per necessità. Secondo tale prospettiva occidentale, il cacciatore-raccoglitore risulterebbe «armato di impulsi borghesi e di arnesi paleolitici», per cui «la sua situazione ci sembra disperata in partenza» 6. Attingendo a una serie di studi antropologici, tuttavia, Sahlins dimostrava che il «desiderio» aveva ben poco a che fare con il modo in cui i cacciatori-raccoglitori conducevano la loro vita. In molti di questi gruppi, in Australia e in Africa, per esempio, l’adulto medio doveva lavorare non piú di tre o cinque ore al giorno per soddisfare i propri bisogni. Quello che gli antropologi che studiano queste società hanno capito è che le persone avrebbero potuto lavorare di piú, ma non volevano. Non avevano alcun impulso di tipo borghese. I loro erano valori diversi dai nostri. «I popoli piú primitivi del mondo hanno pochi beni, – concludeva l’autore, – ma non sono poveri. […] La povertà è uno status sociale e in quanto tale un’invenzione della civiltà» 7. Dopo aver letto Sahlins, non riuscivo piú ad ascoltare i discorsi sull’«opulenza» nello stesso modo di prima, né avrei mai potuto sentirmi ancora a mio agio con le mie ipotesi personali circa il significato della ricchezza, o con il modo in cui quei miei stessi presupposti si ammantavano spesso dell’abito quanto mai pericoloso del buon senso comune. Quella lezione di Sahlins fu solo la prima di molte altre riguardanti parole di cui pensavo di conoscere uso e significato intellettuale. Da studente, ho imparato rapidamente che l’antropologia ha la straordinaria capacità di mettere in discussione sia

concetti sia il «buon senso comune». Uno degli stereotipi divenuti una sorta di marchio di fabbrica della disciplina è che noi antropologi rendiamo strano ciò che ci è familiare e familiare ciò che ci è strano. Certo, si tratta di un cliché, ma non per questo meno vero. Quello stesso processo con cui si mettono in discussione concetti assodati e si ribaltano le cose possiede un valore che dura nel tempo. Nei capitoli seguenti, prendo una pagina del libro di Sahlins – in realtà da ogni libro di un buon antropologo – e cerco di esplorare e mettere in discussione dei concetti. Non sono concetti tecnici, e appartengono tutti a generi che sono familiari al lettore. Si tratta infatti – intenzionalmente – di parole di uso comune. Di regola, gli antropologi sono molto interessati alle cose di ogni giorno. Io comincio da quello che è l’interesse fondamentale dell’antropologia – la cultura – per poi proseguire prendendo in considerazione un piccolo numero di altri concetti: la civiltà, i valori, il valore, il sangue, il senso di identità, l’autorità, la ragione e la natura. È un elenco alquanto scabro, e sono pienamente consapevole di tutto ciò che viene lasciato fuori. Che dire allora della «società»? Che dire allora del «potere»? Ma non vedo alcun motivo di voler essere esaustivo in questa sede: vi sarebbe immancabilmente qualche altro termine da aggiungere. Questo volume è una mappa con alcuni punti di orientamento. È destinato a fornire un’utile guida per addentrarsi in un territorio piú vasto – il territorio della nostra vita –, che è e sarà sempre definito dall’importanza di tener conto della vita degli altri. L’antropologia non punta soltanto a formulare delle critiche, né indica semplicemente i modi in cui le nostre interpretazioni di «ricchezza», «civiltà» e «sangue» risultano specificamente legate a una data cultura, o risentono addirittura dei punti ciechi del nostro buon senso. L’antropologia offre anche spiegazioni. Essa spiega innanzi tutto come e perché la cultura sia fondamentale per la nostra formazione di esseri umani. Non siamo automi. Non siamo governati da una forte «natura umana», né siamo il semplice prodotto dei nostri geni. Facciamo delle scelte. I cacciatori-raccoglitori hanno avuto a

disposizione delle scelte e spesso, storicamente, hanno scelto di coltivare il valore dell’egualitarismo e ridimensionare quello della proprietà, al fine di mantenere il loro modo di vita. L’esistenza nomade dei cacciatori-raccoglitori dipende da entrambi questi elementi: condividere le risorse e scoraggiare lo status sociale e l’accumulazione (la roba, in fondo, pesa parecchio quando ci si deve spostare). Fino agli anni Sessanta, per esempio, gli Hadza, un gruppo di cacciatori-raccoglitori che vivono in Tanzania, avevano scelto di non adottare il modo di vita dei popoli vicini, dediti alla pastorizia. Le nostre «scelte», naturalmente, sono spesso vincolate. L’ambiente svolge un ruolo preciso, come pure le tradizioni culturali (non sono certo frutto di pure fantasie) e le piú ampie correnti della politica e della società. Sahlins pubblicò L’originaria società opulenta nel 1972. In quegli anni, la capacità di condurre uno stile di vita nomade si era seriamente ridotta. L’espansione coloniale aveva spesso portato all’appropriazione o alla ridistribuzione delle terre da cui dipendeva l’esistenza di gruppi nomadi. Se quindi troviamo effettivamente dei cacciatori-raccoglitori che vivono in miseria, osserva Sahlins, dobbiamo considerarlo come il risultato dello «sfacelo prodotto negli ultimi due secoli dall’imperialismo europeo», che li ha trascinati nell’orbita della «civiltà» 8. Questo è ciò che intende Sahlins quando dice che la povertà è un’invenzione della civiltà. Le costrizioni continuano ancora oggi, anche se il piú delle volte sotto l’egida della globalizzazione. Negli ultimi cinquant’anni, gli Hadza hanno perso l’accesso al 90 per cento delle terre che sfruttavano tradizionalmente per le loro battute di caccia 9. Storie analoghe si possono trovare in tutto il mondo, dal deserto del Kalahari in Namibia alle foreste della Malesia. Ai cacciatori-raccoglitori non restano ormai molte scelte di questi tempi. Un’altra cosa che ho imparato leggendo L’originaria società opulenta è proprio questo: nessuna cultura esiste isolata dal resto. Nessuna cultura è mai veramente originaria; ogni cultura, potremmo dire, vive sempre in una realtà nomadica.

L’antropologia vera e propria. Prima di intraprendere le nostre analisi con una maggiore messa a fuoco, sarà utile fornire qualche informazione in piú sull’antropologia come disciplina scientifica. Questo libro non vuole essere una storia dell’antropologia, anche se nei vari capitoli metterò in evidenza alcune figure, percorsi e tendenze fondamentali, poiché la storia della nascita e dello sviluppo dell’antropologia ci dice cose importanti sulle moderne discipline accademiche piú in generale. Una visione complessiva torna altresí utile dato l’accento posto in questa sede su alcuni sottocampi dell’antropologia sociale e culturale, che non vantano la stessa notorietà dell’archeologia e dell’antropologia biologica. Io sono un antropologo culturale, ma alcuni dei miei parenti piú stretti pensano ancora che la mia attività sia quella di scavare pezzi di vasellame o misurare teschi. Inoltre, anche quando le persone sono consapevoli delle tradizioni socioculturali, esse pensano spesso che competenza degli studi antropologici siano tribú come quella degli Zuni, non certo la città di Londra – al contrario, la capitale del Regno Unito, che si trova in Occidente e merita forse anche l’epiteto di metropoli «moderna», è argomento di studio della sociologia. Benché sia vero che gli antropologi hanno teso tradizionalmente a concentrarsi sul mondo non occidentale, non sono mancate notevoli eccezioni: esiste per esempio un grande studio antropologico su Hollywood pubblicato nel 1950 10. Non si è mai trattato solamente di giungle e tamburi. L’antropologia come oggi la conosciamo ha circa 160 anni. Il Royal Anthropological Institute di Gran Bretagna e Irlanda fu costituito nel 1848. Qualche anno dopo, nel 1851, Lewis Henry Morgan, un avvocato di New York, pubblicò il suo League of Iroquois (La Lega degli Ho-de’-no-sau-nee, o Irochesi) e continuò a produrre una serie di studi fondamentali sui legami consanguinei basandosi sul lavoro svolto con popoli nativi americani. In Francia, la prima cattedra in antropologia fu istituita nel 1855 al Muséum national d’histoire

naturelle di Parigi 11. Questo per quanto riguarda le origini degli studi antropologici a cui la moderna genealogia può ragionevolmente risalire. In ogni caso, non è insolito che gli antropologi rivendichino come antenati figure piú antiche: Michel de Montaigne (1533-92), per esempio, ma anche Erodoto (484-426 a.C.) – dotati entrambi di quella che è poi divenuta nota come «sensibilità antropologica». Erodoto, che viaggiò in terre lontane, ci fornisce ricche descrizioni di popoli che per i greci rappresentavano l’«Altro da sé»; Montaigne non aveva viaggiato cosí tanto, ma per il suo importante saggio Des Cannibales (Dei cannibali) si era preso la briga di colloquiare con tre indios Tupinambá (originari di quello che è oggi il Brasile) che erano stati portati in Francia e che egli aveva incontrato a Rouen. Nel saggio, Montaigne esortava i lettori a non essere troppo frettolosi nel giudicare la loro presunta ferocia di selvaggi (si diceva che i Tupinambá mangiassero i portoghesi fatti prigionieri), spronandoli a cogliere un’immagine piú olistica delle loro consuetudini e modi di vita. In ognuno di questi prototipi, come nei casi di studi propriamente antropologici che abbiamo considerato brevemente, si distinguono due aspetti fondamentali: (1) l’importanza del lavoro sul campo; (2) il principio del relativismo culturale. Non si può capire l’antropologia senza comprendere questi due aspetti. Il lavoro sul campo rappresenta da tempo il fondamentale rito di passaggio dell’antropologo. Benché alcuni padri fondatori della disciplina vengano descritti piuttosto come «antropologi in poltrona» (perché si basavano principalmente sul lavoro e sulle relazioni di altri) e benché alcune tradizioni di studio vantino da lungo tempo divisioni piú nette tra la ricerca empirica e la formulazione teorica (per esempio nel caso dei francesi), un antropologo, in genere, non viene preso molto sul serio se non ha trascorso un anno o piú tra la gente che sta studiando. Alcuni antropologi iniziano la loro carriera in questo modo, direttamente sul campo, finendo però per non tornarvi spesso, o anche mai; essi continuano i loro studi rivolgendosi a interessi piú teorici o

concettuali. In realtà, alcuni dei piú importanti pensatori antropologi non si dedicano a una dura attività sul campo. In quasi tutti i casi, però, è cosí che hanno cominciato, il che dovrebbe confermare la loro buona fede. L’aspetto principale del lavoro sul campo è l’osservazione partecipe. Il significato esatto di tale aspetto può assumere varie differenze. Se l’antropologo si trova in un pueblo degli Zuni, o in uno sperduto villaggio dello stato di Chhattisgarh, nell’India centrale, un’osservazione partecipe dovrebbe significare quasi un’immersione totale. Lo studioso dovrebbe vivere con gli abitanti del luogo, mangiare con loro, impararne la lingua e prendere parte al maggior numero possibile delle loro attività. In breve, e per dirla in termini decisamente non scientifici, l’antropologo dovrebbe bazzicare con l’oggetto del suo studio e darsi parecchio da fare. Se si è a Londra, l’immersione totale può essere leggermente piú impegnativa. Ovviamente, non tutti gli operatori di Borsa a caccia di futures vivono in un villaggio simile a un pueblo, e potrebbero anche non invitarvi regolarmente a casa loro per spezzare insieme il pane. Non che l’ospitalità non abbia importanza in Inghilterra, ma non è comunque quella degli Zuni del 1879. Sull’esempio di Caitlin Zaloom, ci si deve piuttosto tuffare nel pieno della realtà che si sta studiando (che si tratti di una comunità religiosa o del gioco d’azzardo o di qualunque altra cosa su cui vi stiate concentrando): si deve cercare di trarre il massimo profitto con le nostre forze, giacché quello che dobbiamo valutare è come pensano, agiscono e vivono le persone che stiamo studiando. Una cosa che dico sempre ai miei dottorandi è che lavorare sul campo è un po’ come essere uno di quei bambini che a scuola vogliono sempre giocare con tutti: «Ehi, che cosa succede qui? Posso giocare anch’io?» Questa è la vita di un antropologo sul campo. Può correre una linea sottile tra il momento in cui si osserva in modo partecipe e quello in cui ci si trasforma del tutto nell’oggetto studiato. Un antropologo, per esempio, non dovrebbe mai «diventare il nativo» a che studia. Trasformarsi in un nativo può privare lo

studioso di quella distanza critica indispensabile a un’analisi accurata, e può perfino porre delle sfide di ordine etico. Durante il suo lavoro sul campo, Cushing si avvicinò a tale completa trasformazione in parecchie occasioni (in realtà, superò del tutto la linea di cui parlavamo): sparò ai ponies dei Navajo (che, a suo dire, erano stati portati ingiustamente sulle terre degli Zuni), condusse un attacco contro dei ladri di cavalli (con la conseguente morte di due uomini) e arrivò perfino a esigere lo scalpo di un Apache. Cushing era stato eletto «capo guerriero» dagli indigeni suoi ospiti, ed esigere lo scalpo era quanto si richiedeva a un uomo nella sua posizione. Cushing, inoltre, causò quasi un colpo apoplettico a un senatore americano denunciando come fraudolenta la rivendicazione di terre da parte del genero – un gesto che costrinse il Bureau of Ethnology a richiamare urgentemente Cushing. «Se un uomo bianco civilizzato può ora ottenere – pagando – solo 65 ettari di terreno per la sua fattoria e un indiano può ottenerne piú di 400 a titolo gratuito, – scrisse infuriato il senatore, – l’uomo bianco non avrebbe fatto meglio a adottare le idee di Cushing e diventare un indiano Zuni?» 12. Cushing poteva benissimo farsi paladino degli Zuni contro i loschi affari dell’élite politica, ma non bisogna dimenticare che egli restava un impiegato del governo degli Stati Uniti e che era arrivato nel Nuovo Messico non molto tempo dopo alcuni dei capitoli piú brutali e sanguinosi dell’espansione americana verso l’Ovest. Nel 1994, l’artista di etnia Zuni Phil Hughte pubblicò una serie di vignette su Cushing, riuscendo a cogliere perfettamente la realtà conflittuale dell’antropologo. Alcune delle vignette esprimono ammirazione per la dedizione di Cushing alla causa degli Zuni; altre comunicano invece sentimenti di maggiore ambiguità, perfino di rabbia, verso quelli che Hughte e molti altri Zuni consideravano tradimenti e prepotenze – inclusa la rappresentazione di alcuni momenti di un rito segreto dinnanzi ai colleghi di Washington. L’ultima vignetta del libro di Hughte è dedicata alla scomparsa di Cushing, che nel 1900 era rimasto soffocato da una lisca di pesce durante una cena in Florida,

dove stava conducendo uno scavo archeologico. La vignetta porta come titolo The Last Supper (L’ultima cena) e, a quanto affermò Hughte: «Quello sí che era stato un disegno divertente da fare» 13. La Schadenfreude di Hughte, ovvero il suo compiacimento malevolo, non è difficile da capire. L’antropologia è stata spesso identificata come l’ancella del colonialismo, e per alcuni aspetti essa assunse – e può assumere – forme neocoloniali e neoimperialiste. Nel caso degli Stati Uniti, questo andò dagli «affari indiani» nel XIX secolo a una serie di discutibili operazioni speciali e programmi antinsurrezionali nell’America Latina e nel Sudest asiatico negli anni Sessanta; dal 2006 al 2014, inoltre, gli Stati Uniti hanno condotto un altro controverso programma di azioni antinsurrezionali in Iraq e Afghanistan – programma ideato in gran parte da un antropologo e con la partecipazione attiva di molti altri 14. Nel Regno Unito, in Francia, in Germania, in Belgio, nei Paesi Bassi e in Portogallo, gli antropologi lavorarono spesso per lo stato o comunque al fianco di funzionari coloniali all’epoca dei rispettivi imperi (molti funzionari coloniali britannici avevano perfino una preparazione in antropologia). Eppure, anche nelle prime generazioni, l’impegno verso lo studio antropologico e i legami che gli antropologi seppero creare con i popoli che studiavano riuscirono spesso a mettere in ombra i programmi coloniali – se non addirittura a operare contro di essi. Per molti aspetti, Cushing incarnò il meglio e il peggio di ciò che gli antropologi possono fare. E non dobbiamo ovviamente dimenticare il peggio. Oggi, però, molti antropologi sono senza dubbio attivi difensori delle comunità che studiano (e non esigono neppure lo scalpo dei nemici). Essi promuovono i diritti del gruppo, criticano apertamente progetti di governi e di perniciose Ong che risultano deleteri o controproducenti e protestano contro gli interessi delle compagnie minerarie e delle grandi segherie in Papua Nuova Guinea e nelle foreste pluviali dell’Amazzonia. Il medico e antropologo Paul Farmer è stato tra i cofondatori della Partners in Health, una Ong

medica, nonché dell’Institute for Justice and Democracy a Haiti. Nel Regno Unito, decine di antropologi portano la loro testimonianza nei tribunali che concedono il diritto d’asilo, condividendo la loro esperienza del paese di provenienza del rifugiato nei casi riguardanti Afghanistan, Sri Lanka, Zimbabwe e altre nazioni. Se il lavoro sul campo è il metodo che piú contraddistingue l’antropologia, il relativismo culturale è la modalità che la contrassegna. In un modo o nell’altro, tutta l’antropologia si fonda su quest’ultimo. Detto in poche parole, il relativismo culturale è la consapevolezza critica del fatto che i nostri termini di analisi, comprensione e giudizio non sono universali e non possono essere dati per scontati. Queste «poche parole», tuttavia, non sempre sono utili; il relativismo culturale è infatti uno degli aspetti maggiormente fraintesi della sensibilità antropologica – perfino, vorrei aggiungere, da parte di alcuni antropologi. In realtà, non tutti gli antropologi sono relativisti culturali, ma tutti ricorrono al relativismo culturale per svolgere il loro lavoro. Spesso è utile spiegare il relativismo culturale chiarendo innanzi tutto che cosa non è. Uno dei saggi piú importanti sull’argomento, scritto da Clifford Geertz, porta infatti come titolo Anti AntiRelativism (Anti anti-relativismo). Neppure un autore come Geertz – scrittore di grande talento – è riuscito ad avere un approccio diretto a un tema cosí delicato. Il relativismo culturale non ci impone di accettare tutto ciò che gli altri fanno e che normalmente troveremmo ingiusto o sbagliato. Relativismo culturale non significa mancanza di solidi valori, né tanto meno che non si possa mai affermare, come studioso (o come poeta o prete o giudice), nulla di vero, o anche solo di generale, sulla condizione umana, o nulla da potersi riferire a un contesto multiculturale. Il relativismo culturale non richiede di censurare i dati statistici, farsi beffa della Dichiarazione universale dei diritti umani, accettare la pratica dell’infibulazione o dichiararsi atei. Sono appunto di tale fatta le critiche spesso lanciate contro i «relativisti», accusati di

negare l’esistenza di dati incontrovertibili o non conoscere limiti morali e forse neppure norme morali. Niente di tutto questo ha a che fare con il modo in cui gli antropologi ricorrono al relativismo nella ricerca e nel loro tentativo di comprendere la condizione umana. Un altro modo di porre la questione è vedere il relativismo culturale come la sensibilità che colora il metodo. È un’impostazione, uno stile. È ciò che aiuta gli antropologi a proteggersi dal pericolo di presumere che il loro senso comune o persino delle conoscenze approfondite – su giustizia, ricchezza, paternità o forme elementari di vita religiosa – siano realtà ovvie o universalmente applicabili. Per un antropologo, è fondamentale capire, eventualmente, in che modo la giustizia, la ricchezza, la paternità o la religione siano interpretate in loco. Non è raro infatti che il popolo studiato da un antropologo confonda i termini dell’analisi proposta: L’arte? E che cosa sarebbe? La religione? Boh. Edipo? Che importanza ha? La libertà? Quella a noi non sembra affatto libertà. Abbiamo già avuto un’anticipazione di tutto questo nello studio di Sahlins sull’originaria società opulenta. Nella sua forma fondamentale, il relativismo dovrebbe permettere una chiara valutazione di quello che Bronisław Malinowski, di cui parleremo tra poco, definiva «il punto di vista dell’indigeno, il suo rapporto con la vita»; l’obiettivo è «capire la sua visione del suo mondo» b 15.

La nascita di una disciplina scientifica. Sono occorse un paio di generazioni affinché l’antropologia rendesse professionale una ricerca della conoscenza originariamente amatoriale oppure appannaggio di «gentiluomini» della buona società. Quando Cushing partí alla volta del pueblo degli Zuni, negli atenei americani non esistevano dipartimenti di antropologia; il moderno sistema universitario, in cui le scienze sociali vennero a occupare un ambito distinto, era ancora in fase di sviluppo. Cushing aveva

frequentato la Cornell University, senza però conseguire la laurea. In Gran Bretagna, Edward Burnett Tylor, che alla fine avrebbe occupato la cattedra di antropologia all’Università di Oxford, non aveva mai compiuto studi universitari ed era divenuto «antropologo» in parte perché, a causa della salute cagionevole, era stato mandato nei Caraibi dai genitori, dei quaccheri appartenenti al ceto medio in grado di permettersi la spesa del viaggio, nella speranza che il figlio potesse trarre giovamento dal clima. Fu lí che Tylor incontrò Henry Christy, un autentico gentiluomo-esploratore; insieme andarono in Messico, dove Tylor provò a cimentarsi con un famoso genere letterario dell’epoca vittoriana: il libro di avventure esotiche. Il suo lavoro dedicato ai viaggi in America Latina riscosse un certo successo e portò a uno studio piú sistematico e ambizioso, Primitive Culture (Alle origini della cultura), del 1871. All’Università di Cambridge, la prima grande spedizione «antropologica» fu intrapresa nel 1898 da un piccolo gruppo di studiosi con una formazione in psichiatria, biologia e medicina. I primi paladini dell’antropologia lottarono duramente affinché la disciplina fosse inclusa tra gli insegnamenti del sistema universitario. Bronisław Malinowski, da tutti riconosciuto come il fondatore dell’antropologia sociale britannica (benché né lui, né molti dei suoi studenti fossero inglesi), scrisse una critica appassionata della ricerca amatoriale e un manifesto che propugnava «la legge e l’ordine del metodo». Malinowski non aveva tempo da perdere con quel genere di gentiluomini-esploratori che si trovavano nella Gran Bretagna vittoriana, né tanto meno con qualsiasi funzionario coloniale o missionario pieno di buone intenzioni, ma le cui osservazioni «presentavano l’indigeno come una caricatura distorta e infantile dell’essere umano: questa immagine è falsa e come tante altre menzogne è stata uccisa dalla scienza» 16. Malinowski diede una veste istituzionale a ciò che Cushing aveva fatto trent’anni prima: il lavoro sul campo accompagnato dall’osservazione partecipe. Nel suo studio classico, Argonauts of the Western Pacific (Argonauti del Pacifico

occidentale), del 1922, basato sui suoi due anni di attività sul campo nelle isole Trobriand, Malinowski seppe trarre il massimo dalla sua esperienza in tenda, piantata in medias res, direttamente sulla spiaggia di Nu’agasi. La comoda veranda degli ufficiali coloniali non faceva per lui. Negli anni Venti e Trenta, alla London School of Economics, preparò e in qualche modo influenzò quasi tutte le grandi figure della generazione successiva: personalità come E. E. Evans-Pritchard e Edmund Leach (in effetti loro erano molto inglesi), Raymond Firth (neozelandese), Isaac Schapera e Meyer Fortes (entrambi sudafricani). Firth e Schapera proseguirono l’attività alla London School of Economics; Evans-Pritchard andò a Oxford mentre Leach e Fortes lavorarono a Cambridge, sviluppando in entrambe le università importanti dipartimenti di antropologia. Negli Stati Uniti, l’emigrato tedesco Franz Boas realizzò alla Columbia University ciò che Malinowski aveva fatto alla London School of Economics, questa volta per un periodo ben piú lungo, dal 1896 al 1942. Tra i suoi studenti figuravano Margaret Mead, Ruth Benedict, Melville Herskovits, Zora Neale Hurston, Edward Sapir, Robert Lowie e Alfred Kroeber, alcuni dei quali – in particolare Margaret Mead – divennero nomi molto conosciuti e autori ampiamente letti. Altri proseguirono nella creazione di nuovi centri di antropologia, tra cui, per esempio, il dipartimento dell’Università della California, a Berkeley, dove Kroeber insegnò per oltre quarant’anni e Lowie per piú di trenta. Herskovits ebbe una carriera altrettanto lunga presso la Northwestern University c. Per queste prime generazioni di antropologi, specialmente negli Stati Uniti, la missione di un’«etnografia di salvataggio» rappresentava spesso una motivazione importante: registrare i modi di vita di popoli in via di estinzione, a causa sia della loro distruzione fisica sia della loro assimilazione negli ingranaggi della modernità. L’idea di tale missione risalta in modo particolare in uno dei principali studi di ricerca di Kroeber, che negli anni Dieci lavorò per un certo periodo a stretto contatto con un uomo di nome Ishi, l’ultimo membro

ancora in vita del popolo Yahi della California. Insieme con altri colleghi di Berkeley, Kroeber si impegnò a fondo per registrare quanto piú poteva da quest’ultimo «uomo selvaggio», come veniva chiamato all’epoca. Franz Boas, a sua volta, è spesso ricordato per la prodigiosa quantità di documentazione da lui prodotta. Gli appassionati di storia dell’antropologia citano il suo «metro e mezzo di libreria», riferito agli scaffali occupati dai libri e articoli di cui fu autore, alcuni dei quali figuravano come studi ormai classici sui sistemi di scambio e baratto tra i nativi americani della costa nordoccidentale; altri includevano invece le loro ricette per i muffin al mirtillo. Anche se Boas mancava del tocco di Cushing nel trattare tali argomenti, egli rimane una figura canonica, poiché non solo preparò molte delle prime generazioni di antropologi, ma modellò anche il paradigma metodologico dell’antropologia con cui ancora oggi lavoriamo, o a cui ci aggrappiamo.

Caveat emptor! Un’introduzione all’antropologia non è cosa facile, per la semplice impossibilità di trattare esaurientemente l’argomento. Stia dunque in guardia il lettore e sappia bene ciò che ha davanti a sé. Ho già sottolineato che nelle pagine che seguono mi concentrerò soprattutto sull’antropologia sociale e culturale, piuttosto che su altri sottocampi della disciplina. Inoltre, come appare chiaro dal secondo ambito di studi citato, mi concentrerò in larga misura anche sulle tradizioni di studio formatesi nel Regno Unito e negli Stati Uniti. Vanno tuttavia tenuti a mente alcuni punti fermi. Il primo è che la sezione britannica e quella americana, pur avendo esordito a tutti gli effetti come tradizioni di studio già ben definite, conobbero entrambe un cambiamento e si adattarono nel tempo a maggiori aperture. Malinowski e Boas erano personalità forti e avevano programmi solidi, che condussero il loro lavoro alquanto

lontano e ne facilitarono una certa diffusione. Entrambi sono autori letti ancora oggi, soprattutto Malinowski (anche se è probabilmente il lascito di Boas a fare maggiore presa sul grande pubblico). Malinowski e Boas, tuttavia, non furono mai le uniche figure dominanti, tanto che ora, viste le molte diramazioni in cui la disciplina si è dispiegata, sarebbe impossibile individuare una qualche coesione di idee. Non mancano tutt’oggi degli aspetti in cui l’«antropologia culturale americana» e l’«antropologia sociale britannica» differiscono, anche se molti americani insegnano nel Regno Unito e molti inglesi insegnano negli Stati Uniti; anche la formazione dei dottorandi nei migliori dipartimenti risulta assolutamente multinazionale e cosmopolita (e va ben al di là del mondo angloamericano). Né dobbiamo dimenticare, naturalmente, che il fondatore dell’antropologia sociale britannica era di origini polacche e che il fondatore dell’antropologia culturale americana era tedesco. Questo ci porta al secondo punto, ovvero la continua presenza di abbondanti scambi internazionali. Sotto questo aspetto, un’altra figura chiave fu l’inglese A. R. Radcliffe-Brown, per certi versi l’erede di Malinowski in Gran Bretagna (non so se Malinowski l’avrebbe vista in questo modo) nonché figura estremamente influente anche negli Stati Uniti, dove insegnò all’Università di Chicago negli anni Trenta. Da allora, Chicago ha ospitato un Dipartimento di antropologia tra i piú autorevoli e ha sempre cercato di arricchire il corpo docente con personaggi di spicco non appartenenti alla tradizione americana. Radcliffe-Brown insegnò inoltre in Australia e in Sudafrica. Anche l’altro paese con un’influente tradizione di studi antropologici – la Francia – coltivò stretti legami con la Gran Bretagna e con l’America, in particolare con quest’ultima durante l’esilio di Claude Lévi-Strauss nel periodo bellico. Lévi-Strauss trascorse parte degli anni Quaranta a New York e il suo lavoro fondamentale sullo strutturalismo venne reso in parte possibile dagli studi rigorosamente etnografici di Boas e dei suoi studenti. L’affinità tra Boas e Lévi-Strauss, nonostante il tipo estremamente diverso di antropologia da loro prodotto, sembra

trasparire da un momento di insuperabile simbolismo: nel 1942, infatti, Lévi-Strauss era presente al pranzo ufficiale durante il quale Boas morí; a detta dello studioso francese, Boas era addirittura spirato tra le sue braccia. Molti anni dopo, tuttavia, fu l’antropologo sociale inglese Edmund Leach a diventare nel mondo accademico britannico il principale esponente e sostenitore delle idee di Lévi-Strauss. Anche Mary Douglas, un’altra figura importante dell’antropologia britannica, attinse fortemente allo strutturalismo. Vale la pena ricordare, infine, l’importanza di altre tradizioni che svolgono un ruolo notevole negli studi antropologici, come quelle di Brasile, Olanda, Belgio, Canada, Sudafrica, Australia, India e ciascuno dei paesi scandinavi (anzi, proprio questi ultimi, nonostante il loro ridotto peso demografico, svettano da decenni ben al di sopra delle altre nazioni). Attualmente, una delle figure piú influenti è l’antropologo brasiliano Eduardo Viveiros de Castro, di cui in seguito prenderemo in considerazione alcune idee. Esistono poi ulteriori presenze e legami internazionali piú stratificati, con noti studiosi tedeschi che lavorano per esempio nelle università olandesi, oppure il fatto che un britannico, un americano, un belga e un olandese dirigano i vari dipartimenti di antropologia dei prestigiosi Istituti Max Planck in Germania. Un altro eminente antropologo contemporaneo, Talal Asad, nato in Arabia Saudita, è cresciuto in India e Pakistan, ha studiato nel Regno Unito e ha ottenuto grande fama negli Stati Uniti. In poche parole, dopo questa introduzione, il lettore dovrebbe avere chiara la difficoltà di collocare storicamente l’antropologia nel mondo degli stati nazionali. L’antropologia, inoltre, è ben di piú di una disciplina accademica, e lo abbiamo visto dai vari brevi esempi forniti finora – dai nemici scotennati (pratica sconsigliabile, vorrei ripetere) alle Ong nate a Haiti. Piú in generale, tuttavia, quella che viene spesso chiamata «antropologia applicata» è identificabile in numerosissimi settori e livelli operativi della nostra società. Come ho già osservato, vi sono antropologi che mettono le loro competenze a disposizione delle forze

armate statunitensi; altri che diventano consulenti di professione e avviano propri studi che offrono «soluzioni etnografiche» a svariati problemi, che possono includere qualsiasi cosa, dall’aiuto prestato a una cooperativa di edilizia popolare per riconoscere i segni di violenze domestiche tra gli inquilini ai consigli su come un’azienda di cosmetici francese potrebbe commercializzare al meglio i propri prodotti in Giordania. All’Università di Copenaghen è anche possibile ottenere un master in «antropologia aziendale e organizzativa» e andare poi a lavorare per la ReD Associates, una società danese che offre consulenze in ambito antropologico. La ReD ha ben chiaro che la cultura è importante e che può essere venduta. Pubblica anche articoli di grande interesse, per esempio Perché la cultura è importante per la strategia delle case farmaceutiche. Christian Madsbjerg, direttore dell’Ufficio relazioni con i clienti della ReD, ha affermato in un’intervista online per la «Harvard Business Review» che il problema di un marketing di tali dimensioni (un settore da 15 miliardi di dollari l’anno, ci informa Madsbjerg) è che troppo spesso non colloca il prodotto «nel suo contesto culturale, nella sua situazione media e quotidiana». Sembra di essere nell’episodio della serie televisiva americana Community intitolato Anthropology 101 17. Ci sono poi i transfughi; per concludere la parte iniziale di questa introduzione, potrei anche sottolineare che alcune persone famose, e altre che si sono fatte una reputazione in altre professioni, hanno alle spalle una formazione antropologica. In fondo, si tratta di una «piccola» disciplina e abbiamo bisogno di tutta la pubblicità che possiamo ottenere. Il principe Carlo ha una laurea in antropologia. Gillian Tett, eminente giornalista e caporedattrice del «Financial Times», ha conseguito un dottorato di ricerca in antropologia a Cambridge. La regista Jane Campion ha studiato antropologia, e la madre di Barack Obama, Ann Dunham, ha fatto l’antropologa in Indonesia. Nick Clegg, ex vice primo ministro britannico e leader del Partito liberaldemocratico, ha una laurea in antropologia. Lo scrittore e saggista americano Kurt Vonnegut è stato espulso dal corso di

dottorato di ricerca in antropologia dell’Università di Chicago, e forse è stato meglio cosí: anche se molti studi antropologici hanno fatto la differenza nel mondo, è bello avere negli annali della letteratura opere come Mattatoio n. 5 e Ghiaccio-nove. Jomo Kenyatta, primo presidente del Kenya indipendente, conseguí il dottorato in antropologia presso la London School of Economics. Kenyatta, accanto al suo impegno in politica, seppe produrre un classico studio antropologico sul popolo Kikuyu: Facing Mount Kenya, La montagna dello splendore. (Kenyatta fu dunque uno dei primi «antropologi nativi»). Ashraf Ghani, presidente dell’Afghanistan, ha conseguito il dottorato di ricerca in antropologia presso la Columbia University e ha insegnato per qualche tempo presso la Johns Hopkins University. L’antropologia è una disciplina a cui, a giudicare dalle apparenze, si potrebbe attribuire uno scarso valore pratico o professionale. Nel clima intellettuale di oggi, è qualcosa che deve essere sempre piú spiegato o giustificato, e che procura ancora un occasionale brivido esistenziale. La disciplina dell’antropologia, in realtà, offre un modo profondamente utile di riflettere sul mondo moderno. In un’intervista del 2008, Gillian Tett ha raccontato come sul suo ingresso nel mondo del giornalismo finanziario abbia influito positivamente la sua formazione antropologica. C’era appena stato il crollo del 2008. «Mi è capitato di pensare che l’antropologia offra una brillante preparazione per osservare il mondo della finanza, – ha detto Gillian Tett. – In primo luogo, sei addestrato a guardare in modo olistico come operano le società o le culture, per cui osservi in che modo tutti i pezzetti si muovono insieme. E la maggior parte degli operatori della City non lo fa. […] L’altro elemento interessante è che se si arriva con una formazione in antropologia, si cerca di porre anche la finanza in un contesto culturale. Ai banchieri piace immaginare che il denaro e il profitto siano una motivazione universale, come la forza gravitazionale. Pensano che sia fondamentalmente un dato assodato e che sia completamente impersonale. Mentre non lo è affatto. Quello che fanno nel mondo della finanza si basa tutto sulla cultura e

l’interazione» 18. Rispecchiando il classico studio di Marshall Sahlins e riproponendo su un registro piú popolare ciò che possiamo trovare nel lavoro di Caitlin Zaloom, Gillian Tett non fa che mettere in primo piano quella sensibilità antropologica di cui parlavamo. Che il nostro interesse sia per il mondo finanziario della City di Londra, o che sia per qualcos’altro – magari la vita tradizionale sulle isole Trobriand, oppure certi rituali induisti; o perché alcuni progetti di sviluppo delle Ong non vadano in porto e altri abbiano invece successo; come vendere hamburger a Hong Kong o comprendere l’uso dei social media in Turchia; o ancora, come individuare piú facilmente e poi aiutare le vittime di violenza domestica in un complesso di case popolari –, il fatto di attenervi a questa visione olistica e di saper valutare le dinamiche culturali in gioco, molto probabilmente giocherà a vostro favore.

a. A meno che non sia un «nativo». L’antropologa giapponese Emiko OhnukiTierney («Native» Anthropologists, in «American Ethnologist», XI, n. 3), per esempio, ha studiato il «suo popolo» a Kobe. La categoria degli antropologi indigeni richiede tuttavia parecchia tensione e molta fatica e ha generato numerosi dibattiti. Di solito, il problema viene sollevato solo se il termine «nativo» significa non essere un bianco né un occidentale. Pertanto, se si è giapponesi e si studia il Giappone, ebbene sí, questo è da «nativi». Ma se si tratta di un bianco americano che studia, tanto per dire, Hollywood, probabilmente non verrà di certo definito un «antropologo nativo». Come vedremo, dibattiti di questo genere ci dicono parecchie cose importanti sulla storia coloniale dell’antropologia. In ogni caso, il motivo principale per cui «diventare un nativo» è oggetto di condanna è che un antropologo non dovrebbe semplicemente presentare il mondo in base alle persone che si stanno studiando. Affinché sia almeno un vero studio antropologico, deve esservi mantenuta una certa distanza critica. b. Abbiamo incontrato varie volte le parole «nativo» e «indigeno», termini che possono risultare stridenti. E cosí dovrebbe essere. Essi evocano per molti

aspetti l’immagine dei tempi coloniali resa famosa da scrittori come Rudyard Kipling e Joseph Conrad, con frasi come «gli indigeni si stanno facendo irrequieti» e cose di questo genere. Fino alla Seconda guerra mondiale, e anche per qualche tempo dopo, il termine «indigeno» era usato liberamente dagli antropologi per riferirsi ai sudditi coloniali, sottolineando un rapporto di potere sbilanciato; non si trovavano mai espressioni come «indigeno di Berlino» o «indigeno di San Francisco». Negli ultimi decenni, tuttavia, molti antropologi si sono riappropriati del termine, permeandolo di ironia e (auto)critica e applicandolo proprio agli indigeni di Berlino e San Francisco. Quello che tali antropologi stanno cercando di dimostrare è che ognuno di noi è un «indigeno», in un modo o nell’altro, e che il mandato dell’antropologia riguarda l’intera umanità. c. Come in altri campi e professioni accademiche, anche nell’antropologia le donne si scontrarono, soprattutto in quei primi periodi, con la discriminazione di genere. Né Margaret Mead né Ruth Benedict ottennero posizioni universitarie di prestigio, nonostante la loro fama e i formidabili risultati ottenuti.

Capitolo primo Cultura

La cultura è il concetto piú rilevante dell’antropologia, ed è al tempo stesso il piú difficile da riassumere. Offrirne una definizione essenziale mi è impossibile e, in assenza di essa, permettetemi allora di tentare ciò che potrebbe risultare la cosa migliore, ovvero narrarvi un episodio del mio lavoro sul campo da cui sia chiaro, almeno in parte, in che modo è da intendersi tale concetto. Il mio primo progetto di lavoro sul campo fu in Zimbabwe. Anche se la maggior parte della mia ricerca avveniva nelle aree urbane, trascorsi piacevolmente parecchio tempo a Chiweshe, dapprima nell’ambito di uno scambio di studenti universitari. Situata a un’ora di auto a nord della capitale Harare, Chiweshe si trova in una splendida zona del paese, segnata da colline ondulate e affioramenti rocciosi e punteggiata da piccoli gruppi di capanne di paglia, ciascuno dei quali ospita una fattoria (o musha, nella lingua locale shona). Durante quello scambio di studenti, soggiornai per una settimana presso una famiglia e feci rapidamente amicizia con il mio fratello ospitante, di nome Philip. Da allora siamo rimasti regolarmente in contatto e nel corso degli anni Novanta ho visitato quel musha parecchie volte. Non era un momento dell’anno particolarmente impegnativo per i lavori agricoli che la famiglia di Philip doveva svolgere, per cui trascorrevamo i giorni in un piacevole ozio. Facemmo diverse passeggiate sulle colline dietro alla fattoria, da dove potevamo spaziare con lo sguardo sulla piana sottostante e osservare le tribú di babbuini che si affaccendavano tutto intorno. L’inglese di Philip non era granché, e il mio shona, all’epoca, era perfino peggiore, sicché le

nostre conversazioni erano piuttosto basilari. Facevamo ciò che spesso fanno due persone provenienti da luoghi radicalmente diversi, ovvero parlare del posto in cui vivono abitualmente. Philip voleva sapere dell’America e io volevo sapere com’era la vita nelle aree rurali dello Zimbabwe. A un certo punto di quel cicaleccio di basso livello ma culturalmente motivato, Philip mi chiese se mi piaceva il cricket. Disse proprio cosí: Do you like cricket? Da attento studente della storia coloniale e post-coloniale, e ben consapevole della popolarità di cui quello sport godeva tra la gente dello Zimbabwe, vidi affiorare nella mia mente l’immagine di un gruppo di uomini in maglioncino bianco, uno dei quali impugna qualcosa di vagamente simile a una mazza da baseball, mentre un altro lancia la palla (o meglio «è al servizio», come saprei dire ora). Da buon americano, però, non possedevo nessuna nozione fondamentale su quel gioco, se non che era una specie di baseball piú veloce ed eccitante (mi sembrava anche di ricordare vagamente che le partite di cricket si interrompono non appena il cielo si fa nuvoloso e che possono durare diversi giorni). Come qualsiasi persona di buone maniere e di buon senso, scagliata nei recessi piú profondi di un programma di scambi studenteschi, riuscii a mormorare a Philip un tiepido ma educato «Sí». Perché no? «Ottimo!», disse con un balzo, e mi chiese di seguirlo giú per il pendio e fare ritorno alla fattoria. Supponevo che mi sarei ritrovato con una mazza o una palla in mano (se non addirittura con il classico maglioncino bianco) e che avremmo fatto un po’ di tiri. Arrivato alla fattoria, Philip scomparve nella capanna che fungeva da cucina, dove la madre e la nonna sembravano impegnate in un ciclo apparentemente senza fine di attività culinarie per la famiglia. Non feci molto caso a quel dettaglio, cioè che si trattava della capanna adibita a cucina; del resto, molti americani tengono le loro attrezzature sportive proprio vicino alla cucina, o sul retro della casa, tanto per dire. Invece, quando Philip uscí, non portava con sé una mazza o una palla, bensí una piccola ciotola di metallo che conteneva, come

vedevo chiaramente, un grillo, cioè un insetto. Appena fritto nell’olio. Philip aveva un enorme sorriso stampato sul volto 1. Mi ero messo davvero in un bel pasticcio. Avevo fatto un madornale errore di categoria semantica. Gli usi legati all’ospitalità sono abbastanza comuni in tutto il mondo e, se mi fosse stato offerto quel grillo in una diversa situazione, probabilmente non avrei avuto difficoltà ad accettarlo. A quel punto, naturalmente, tutto acquistava senso. Sapevo per esempio che i bruchi erano una leccornia locale, quindi perché non i grilli? Anzi, i grilli occupano un posto ancora piú alto nell’elenco delle prelibatezze perché sono estremamente difficili da catturare. Quell’offerta voleva onorarmi. Mentre prendevo quella creatura e la portavo alla bocca, mi si spalancò all’improvviso nella mente un anno e mezzo di corsi di antropologia: il cibo è un costrutto culturale. Sapete che alcuni popoli mangiano carne di cane, carne di cavallo e persino il cervello delle scimmie. È una cosa che potete gestire: ormai siete dei veri antropologi! Tutto il sapere dei libri che esistono al mondo, tuttavia, non può annullare venti anni di vita – che rappresentano un apprendimento di tipo diverso. Non appena misi in bocca il grillo, cominciai a masticarlo (era troppo grande per ingoiarlo intero) e lo inghiottii, il mio corpo ebbe una scossa, il petto si piegò all’interno e, nel volgere credo di tre secondi, il grillo, insieme con la mia colazione, risalí dallo stomaco e si ritrovò di nuovo fuori. Questa non voleva essere una definizione di cultura, ma un suo esempio – un esempio contenente buona parte di ciò che riveste importanza nell’interpretazione antropologica del termine. La cultura è un modo di vedere le cose, un modo di pensare. La cultura è un modo per dare un senso. È ciò che impedisce ad alcune persone anche solo di pensare che i grilli possano classificarsi come «cibo». La cultura è inoltre ciò che riempie la nostra testa mentre elaboriamo il pensiero in un particolare modo: i dettagli della storia coloniale, della storia coloniale britannica (contrapposta a quella francese, tanto per

dire, o portoghese), delle attività dei contadini dell’Africa in determinati periodi del ciclo agricolo. La cultura è una cosa in sé. O anche, se non una cosa sola, un insieme di cose, e spesso di certi tipi di cose: case, forni, dipinti, libri di poesia, bandiere, tortillas, il tè della colazione all’inglese, spade di samurai, mazze da cricket nonché, ebbene sí, grilli. La cultura possiede un aspetto materiale che prende corpo e vita. Quel grillo l’avevo vomitato, ma non a causa di un qualche virus gastrointestinale. In questo senso, non si era trattato di una reazione «naturale» o «biologica». Lo avevo vomitato perché il mio corpo in sé è culturale, o acculturato. E nella mia cultura non si mangiano grilli. Mi piace pensare che questo sia tutto ciò che si deve sapere come introduzione all’idea antropologica di cultura. E scommetto che niente di tutto questo rappresenta una sorpresa né richiede un particolare esercizio mentale. Queste stesse idee, infatti, variamente combinate, permeano la maggior parte della conoscenza quotidiana, da Kansas City a Kolkata. Siamo abituati a pensare alla cultura come a un punto di vista, o come se si concretizzasse nelle cose, o fosse addirittura legata a reazioni viscerali che ci inducono a pensare alla forza della natura. Gli antropologi, tuttavia, non si fermano qui. La cultura si colloca nella paradossale posizione di essere in antropologia il termine piú comunemente usato e quello piú comunemente contestato.

Occhiali culturali. PUNTI DI VISTA SUI PUNTI DI VISTA

L’approccio antropologico alla cultura che ha avuto maggiore durata la eleva a una sorta di percezione. Non dimentichiamo che per Bronisław Malinowski l’intera questione dell’antropologia si riduceva a cogliere «il punto di vista dell’indigeno, il suo rapporto con la vita

[…] la sua visione del suo mondo». In questo senso, avere un «punto di vista» non significa semplicemente avere una certa opinione. Non si tratta della preferenza dell’indigeno per i tuberi di taro rispetto a quelli di yam, per le auto decappottabili o per il Partito laburista. In questo contesto, un punto di vista ha un valore ben piú globale, che si riflette in ciò che accettiamo come buon senso o come l’ordine corretto delle cose. Per esempio non pensare ai grilli come possibile alimento. La figura piú importante nello sviluppo di questo ambito della teoria culturologica fu Franz Boas. Nato e cresciuto in Germania, solo successivamente intraprese la carriera dell’antropologo negli Stati Uniti. Spesso chiamato «papà Franz» dai suoi studenti, e da loro molto amato, Boas risultava anche essere per molti una figura enigmatica, soprattutto per i giornalisti che si interessavano al suo lavoro. Joseph Mitchell, uno dei piú grandi giornalisti e cronisti della vita quotidiana newyorchese verso la metà del XX secolo, era riuscito alla fine degli anni Trenta a ottenere un’intervista da Boas, ormai in pensione. Mitchell lo descrive come un uomo «dallo sguardo penetrante e con un progressivo diradamento di una folta chioma di capelli bianchi», un uomo «difficile da intervistare», ma che faceva comunque la felicità dei giornalisti «borbottando con il suo forte accento tedesco parole come “nonsense” o “strampalato” quando gli veniva chiesto di commentare una qualche dichiarazione di questo o quel portavoce della propaganda nazista» 2. In origine, Boas aveva studiato fisica all’Università di Kiel, in Germania, ma a quel tempo si era in un’epoca in cui non era cosí facile mantenere salda la distinzione tra le scienze naturali e quelle umane. Con un buon bagaglio di letture in vari campi dello scibile, rimase notevolmente influenzato dall’opera di Wilhelm von Humboldt, uno dei principali architetti della moderna teoria della cultura. Nel pensiero tedesco, la cultura (Kultur) era divenuta un concetto di particolare rilevanza all’inizio del XIX secolo tra quanti contestavano gli eccessi del discorso illuministico. Gli esponenti di

tale controcultura non nascondevano il loro scetticismo verso un approccio universale e totale alla ragione e alla storia; per Humboldt e altri, ogni data entità nazionale andava onorata e compresa in base al suo genio specifico. Per Humboldt o, per esempio, per Johann Gottfried Herder, die Kultur era divenuta un concetto organizzatore con cui esprimere tale impegno verso la particolarità. Non è un caso che Humboldt fosse anche un grande linguista che aveva studiato la lingua basca, diversi idiomi dei nativi americani, sanscrito e kawi (una lingua letteraria di Giava), esprimendo e incoraggiando cosí il suo appassionato interesse per le diversità presenti nel genere umano. Con il tempo, finí per considerare il linguaggio e la cultura come fenomeni intimamente legati. «La lingua è la rappresentazione esteriore del genio dei popoli», scrisse Humboldt 3. La tesi discussa da Boas nel 1881 a Kiel portava il titolo Beiträge zur Erkenntnis der Farbe des Wassers, ovvero «Contributi alla conoscenza del colore dell’acqua», con particolare riferimento all’acqua di mare. Nel 1883, come parte di ulteriori ricerche, Boas partí per la Terra di Baffin, dove manifestò subito un maggiore interesse per il popolo degli Inuit che per le acque polari. Quel viaggio segnò la sua conversione al nascente campo dell’antropologia. Cosí come era accaduto a Malinowski, che aveva piantato la sua tenda nel bel mezzo della spiaggia di Nu’agasi, il momento in cui Boas prese coscienza della sua missione racchiudeva due elementi fondamentali. Il primo riguardava l’importanza di lavorare sul campo, uscire dal chiuso del laboratorio al fine di comprendere la realtà delle cose «nelle condizioni in cui esse si realizzano effettivamente nell’esperienza umana», come scrisse lo stesso Boas nella sua tesi di dottorato 4. Vorrei sottolineare che questo primo elemento non è solo di ordine metodologico, ma ci informa direttamente sulla natura del concetto analitico fondamentale dell’antropologia. Allorché l’antropologia iniziò a godere dello status professionale, il lavoro sul campo serví anche a rimarcare l’importanza di «essere presenti», poiché la cultura doveva essere osservata in situ: cultura e luogo erano

due facce della stessa moneta. Il secondo elemento, strettamente legato al primo, era il valore primario della percezione, della visione. Come scrittore, Boas non possedeva forse lo stile lussureggiante di Malinowski né tendeva all’opera di divulgazione a ogni giro di frase. In compenso, seppe rendere in modo piú prosaico e particolareggiato il caratteristico impegno di Malinowski nel cogliere il punto di vista dell’indigeno. Boas non offrí mai in realtà una definizione indiscutibilmente memorabile o autorevole del concetto di cultura (e, se per questo, neppure Malinowski). Il suo approccio alla cultura emergeva dalle sue tante opere affastellate sul famoso scaffale da un metro e mezzo, cosí come nell’attenta decantazione dei lavori dei suoi numerosi studenti. Nonostante la fumosità di tale approccio alla cultura, in esso era presente un forte accento su quelli che Boas chiamava Kulturbrille, gli «occhiali culturali» che tutti indossiamo. È attraverso queste lenti che diamo al mondo un senso e un ordine. Nell’interpretazione di Boas, la cultura riguarda il significato. La «percezione» ha a che fare con l’ordinamento del mondo in base a un certo insieme di termini ben localizzati. Non ci limitiamo a vedere semplicemente il mondo: lo possiamo vedere come una giovane donna delle isole Salomone, o, per essere ancora piú specifici, come una giovane donna della Chiesa anglicana dell’isola di Makira. Spesso, almeno fino agli anni Sessanta, tutto questo veniva espresso solamente in termini particolari: gli antropologi scrivevano della cultura Kwakiutl, della cultura balinese o della cultura dell’isola di Dobu in Papua Nuova Guinea. Scrivevano anche in termini piú generali, riferendosi per esempio alla cultura mediterranea, alla cultura melanesiana, a quella islamica o addirittura semplicemente a quella «primitiva». In tal modo, l’interpretazione sottaciuta era che tali termini generali si riferivano a una serie variegata di culture piú specifiche, legate dal fatto di possedere «occhiali culturali» simili – lenti con il medesimo potere diottrico, se vogliamo. Riferendosi alla cultura mediterranea, per esempio, qualsiasi bravo studente di

antropologia di quel periodo avrebbe concentrato l’attenzione sull’analisi di concetti come onore e vergogna, spesso studiati come valori strutturali. Boas ebbe decine di studenti, molti dei quali ritenuti a buon diritto figure estremamente autorevoli. Se parliamo però di cultura, come stiamo facendo ora, la personalità piú influente emersa dopo Franz Boas fu quella di Clifford Geertz. Geertz svolse la propria attività dagli anni Cinquanta in avanti, ma fu la pubblicazione di una sua raccolta di saggi nel 1973 a segnare un nuovo spartiacque. Geertz, com’è noto, si riferiva alla cultura come a un «testo» che gli antropologi leggono guardando sopra le spalle dei nativi. In tal senso è anche possibile vedere i diversi modi in cui gli antropologi trattarono la cultura come un oggetto – argomenti che affronteremo tra non molto. Nella metafora della cultura come testo, tuttavia, è soprattutto la percezione a rivestire importanza, poiché ciò che facciamo con tali testi (e ciò che ne fanno anche i nativi) è interpretarli. Geertz definiva «semiotico» il suo approccio alla cultura, sostenendo che l’antropologia «non è una scienza sperimentale in cerca di leggi, ma una scienza interpretativa in cerca di significato» 5. Anche se il legame di Geertz con Boas non era altrettanto diretto come per altri della sua generazione, il primo attinse a molte delle stesse tradizioni di pensiero e impostazioni analitiche del secondo. Per Geertz, come per Boas, se si voleva capire che cosa «significava» una cultura, se si voleva capire che cosa in essa rivestiva importanza, che cosa la rendeva gravida di significati, che cosa le conferiva rilievo e (per quanto possibile) ordine, ci si doveva concentrare prima di tutto sul particolare, non sul generale. Questo approccio alla cultura permea tutt’oggi molti studi contemporanei di antropologia. È appunto la cultura, in tal senso, ciò che gli antropologi sono spesso particolarmente attenti a sottolineare. Nell’ambito dell’antropologia medica, per esempio, si sono condotte numerose ricerche su come i fattori culturali possano influire sulla

diffusione, la diagnosi, il trattamento e perfino la manifestazione di determinate condizioni sanitarie o di malattie. In Cina, il medico antropologo Arthur Kleinman ha osservato che quanti soffrono di depressione hanno maggiori probabilità di sperimentare tale condizione patologica attraverso sintomi fisici, anziché psicologici; e il piú delle volte è la noia, non la tristezza, quella che meglio esprime il disturbo nello sguardo dei cinesi 6, anzi, è un disagio che non è neppure riconosciuto necessariamente come tale. In Cina non esiste quel linguaggio della depressione che troviamo per esempio negli Stati Uniti. I caratteri cinesi per indicare la depressione sono limitati sostanzialmente al contesto medico. Non sorprende quindi che tutto questo possa creare problemi agli emigrati: i cinesi che vivono negli Stati Uniti, per esempio, potrebbero trovare «insignificante sulla base della loro esperienza» una diagnosi di depressione formulata da un medico americano. «La cultura influenza l’esperienza dei sintomi, il linguaggio usato per riferirli al medico, le decisioni circa il trattamento, l’interazione medico-paziente, la probabilità di esiti infausti come il suicidio e la pratica stessa dei professionisti, – spiega Kleinman. – Di conseguenza, alcune condizioni sono universali e altre culturalmente distinte, ma tutte significative all’interno di particolari contesti» 7. GLI OGGETTI DELLA CULTURA

Nel progetto di studio antropologico, la cultura è da sempre legata alle cose. L’espressione «cultura materiale» è un termine comune quasi quanto la parola «cultura». Anche se l’aggettivo «materiale» può avere una valenza qualificativa per il nome, è utile pensare alle due parole come fossero simbiotiche, e in effetti è certamente cosí che esse vengono spesso intese. Poiché gli antropologi sono innanzi tutto degli osservatori, sarebbe impossibile non considerare l’aspetto materiale di una cultura. Incontreremmo certamente grosse difficoltà a trovare una società in

cui non rivesta importanza la reificazione – letterale e figurativa – della cultura. Gli esseri umani utilizzano la cultura materiale e altre «cose» (alberi, rocce, oceani) per dare un senso complessivo ed espressione a ciò che essi sono. Uno dei miei esempi preferiti in tal senso appartiene a uno studio del nazionalismo Québécois. All’apice del movimento indipendentista, negli anni Settanta, era fondamentale per i nazionalisti favorire un forte attaccamento a una cultura particolarmente Québécois. Uno dei modi per raggiungere tale scopo fu quello di promuovere l’idea di un patrimonio nazionale (le patrimoine), una lunga lista di «beni culturali» di proprietà del popolo ed espressione della sua identità. Alle «cose vecchie» era dato orgogliosamente il posto d’onore nell’elenco, che si trattasse di famosi edifici storici o, piú semplicemente, di antichi aratri o sedie d’antiquariato. La lista comprendeva tuttavia anche animali – per esempio il cavallo del Canada (diretto discendente della razza equina mandata in Canada da Luigi XIV alla fine del XVII secolo) – e perfino il patrimonio linguistico. «Allo stesso modo della nostra storia e degli uomini che l’hanno scritta, – affermava un partigiano del nazionalismo Québécois, – allo stesso modo di palazzi, mobili, utensili, opere d’arte, canzoni e racconti […] la lingua è una parte importante del nostro patrimonio, della proprietà comune dei Québécois» 8. Sappiamo rendere «cose» anche le parole. Rendiamo concreta la lingua nei progetti nazionalisti che cercano di ancorare il significato di determinate parole o frasi; oggettiviamo la lingua anche nei rituali, soprattutto nelle formule ripetute piú e piú volte (pratica che ha l’effetto sociale di renderle «piú veritiere» di quanto potremmo altrimenti pensare). Naturalmente, non occorre essere un nazionalista per farsi animare da una simile oggettivazione della cultura. Basta anche essere semplicemente un inglese (o meglio, un britannico) che va matto per lo stilton cheese, tanto per dire, e per il quale questo delizioso formaggio friabile e salato racchiude qualcosa della sua stessa personalità. In Georgia, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, un

antropologo rilevò che la campagna di edilizia ecclesiastica intrapresa dalla Chiesa ortodossa era accolta con grande scetticismo dalla gente del posto, convinta che una chiesa potesse essere un vero luogo di culto soltanto se molto antica 9. Queste qualità hanno il loro peso. È chiaro che il significato, o il valore, costituisce un legame tra i due aspetti della cultura finora discussi. Per certi versi, potremmo anche concludere che il carattere materiale della cultura consegue da quanto detto sui Kulturbrille: non sentiremmo che quella sedia antica su una bancarella della città di Québec esprime le patrimoine nazionale a meno di non essere dei nativi del luogo con un punto di vista ben preciso. Questo non è tuttavia l’unico modo in cui la teoria antropologica della cultura è stata elaborata con un preciso riferimento agli oggetti materiali. Esistono altri modi fondamentali in cui la concretezza della cultura assume importanza, e uno di essi è applicato al meglio in archeologia. Gli archeologi hanno fatto piú di molti antropologi per sottolineare la centralità della cultura materiale nello sviluppo della storia umana. Uno studioso tra i piú autorevoli ha descritto l’archeologia come «lo studio dei popoli passati basato sulle cose che hanno trasmesso ai posteri e sui modi in cui hanno lasciato la loro impronta nel mondo» 10. Nelle parole di James Deetz, si tratta dello studio delle piccole cose dimenticate: resti di vasellame da cucina, fondamenta di case, tubi di argilla, strade, pozzi, tumuli sepolcrali e perfino discariche di rifiuti (eccellenti per conoscere le diete alimentari dell’antichità) – il tutto attentamente scavato, spazzolato con cura e, quando possibile, rimesso insieme pezzo per pezzo, di solito da un piccolo gruppo di studiosi molto abbronzati che lavorano sul campo (l’archeologia può rivendicare come proprio metodo di studio il «lavoro sul campo» nel senso piú letterale). Che il discorso sulle «cose» avvenga in un registro popolare o colloquiale, oppure venga articolato nel registro piú accademico della «cultura materiale» o dei «manufatti», il punto è chiaro: le cose rivestono un’importanza da non

sottovalutare, e rappresentano una risorsa preziosa per scoprire il nostro passato. L’attenzione degli archeologi verso la cultura materiale ci aiuta a tracciare lo sviluppo delle società umane. Dalle piccole bande nomadi di cacciatori-raccoglitori alle origini dell’agricoltura e degli insediamenti sedentari, gli archeologi hanno esaminato di tutto per fare luce sul corso della preistoria, dalle sculture in osso (i cui mucchi possono indicare aggregazioni stagionali di gruppi nomadi) alla dislocazione dei depositi di carbone (che possono essere utili per determinare una certa densità demografica). E tutto questo va ben al di là del riportare semplicemente alla luce delle cose. L’impostazione metodologica utilizzata da Fiona Coward nelle sue ricerche nel Levante, per esempio, include la creazione di modelli geospaziali con il Geographic Information System (Gis), al fine di calcolare la portata delle reti sociali nel periodo Epipaleolitico e nel primo Neolitico. Usando il Gis, la Coward traccia l’estensione dei ritrovamenti di resti di cultura materiale con caratteristiche simili in una determinata area. I suoi primi risultati suggeriscono che tali reti non si espandevano necessariamente mano a mano che i gruppi sociali si ingrandivano: i cacciatori-raccoglitori sfidano ancora una volta il senso comune moderno, secondo cui una «civiltà» ha un orizzonte piú ampio di un gruppo «primitivo» 11. L’oggetto di studio e le scoperte dell’archeologia racchiudono un’importante lezione: il punto non è semplicemente che la cultura materiale è un veicolo di significati, nel modo in cui i nazionalisti Québécois riescono a incanalare i sentimenti per la loro causa; il punto è che la cultura stessa – la capacità di essere un «nativo» e avere in primo luogo un proprio punto di vista – risulta impossibile senza questa infrastruttura materiale. Sono le cose che contribuiscono a creare le condizioni in cui si rende possibile il significato. Quelle cose sono parte del complesso di creazione semantica. Nella generazione che precedette Boas e Malinowski, il progetto di studio antropologico era legato molto piú strettamente a un preciso

interesse per il lungo raggio d’azione della storia (e della preistoria). L’archeologia contribuí a soddisfare tale interesse. Nella prima teoria antropologica basata sulla cultura materiale esiste tuttavia un altro importante filo conduttore: l’evoluzionismo sociale. L’evoluzionismo sociale ha rappresentato il primo importante approccio metodologico dell’antropologia, ispirato dalla teoria di Darwin sull’evoluzione per selezione naturale. Sull’origine delle specie di Charles Darwin (1859) ebbe un profondo impatto sull’emergente disciplina dell’antropologia. Come Darwin aveva fatto con i cirripedi e le falene, si pensava, cosí altri avrebbero potuto fare con la vita sociale. La storia sociale era come la storia naturale. Tanto il popolo della tribú Zuni quanto gli inglesi potevano essere compresi in base a un «albero della vita» darwiniano, non solo in termini di fisiologia e anatomia, ma anche attraverso i sistemi di parentela, le forme di organizzazione politica e le conquiste tecnologiche. La cultura, quanto la biologia, era da intendersi come soggetta a leggi precise e classificabile in base a un sistema universalmente applicabile a. L’americano Lewis Henry Morgan e i britannici Herbert Spencer e Edward Burnett Tylor furono sostenitori particolarmente influenti dell’evoluzionismo sociale all’interno dell’antropologia dagli anni Sessanta del XIX secolo fino ai primi decenni del XX . Anche molti altri esponenti delle discipline allora nascenti di antropologia e sociologia furono evoluzionisti; di fatto, l’evoluzionismo fu l’idioma del mondo accademico alla fine dell’Ottocento. Furono questi stessi uomini a stabilire la maggior parte del paradigma metodologico e ad applicarsi duramente per sottolineare l’equivalenza tra organismo naturale e organismo sociale. Di questi «materialisti» – termine a volte utilizzato per descriverli, e senza dubbio illuminante –, Spencer era particolarmente risoluto a dimostrare la bontà di quella equivalenza. Il suo lavoro sull’«evoluzione della società» è pieno di analogie con il mondo della biologia. Egli passa con estrema facilità, e spesso all’interno della stessa frase, da una discussione sulle cellule epatiche,

l’esfoliazione dell’epidermide, spore, germi e ossa all’analisi di sistemi di governo, identificazione di gruppi sociali, cerimonie religiose e densità demografica. Tutto ritorna a Madre Natura. Fu soprattutto Tylor ad applicare alla cultura la maggior parte degli elementi teorici evoluzionisti, usando il concetto di evoluzione per descrivere quelle che egli chiamava «le fasi della cultura», cioè tappe che potevano essere classificate e conosciute secondo misure materiali. A un livello elementare, Tylor e gli altri discutevano in termini di stato selvaggio, barbarie e civiltà – intesi ciascuno come denominazione di qualcosa facilmente individuabile attraverso un semplice calcolo materiale: vi sono perizoma, utensili in legno, vita nomade o stanziale in capanne di fango? Si tratta di stato selvaggio. Troviamo cappelli a cilindro, macchine a vapore e case di città? Si tratta di civiltà. In base a tale impostazione, ogni aspetto della «cultura» era trattato come se fosse un fagiolo da contare. Vi è un errore estremamente grave nell’evoluzionismo sociale (vi sono anche molti altri difetti piuttosto seri, ma per quelli dovremo aspettare). Nelle opere di questi scienziati sociali, a differenza di Darwin, l’evoluzione assume una connotazione teleologica, ha un preciso disegno e una finalità – cosí come una pesante dose di sapore morale. L’uomo con il cappello a cilindro, infatti, non è soltanto culturalmente piú evoluto del selvaggio in perizoma, non è soltanto un «organismo piú complesso»: egli è migliore. L’evoluzionismo sociale non è che una filosofia morale mascherata da scienza. A Darwin non sarebbe mai capitato di storcere il naso davanti a un cirripede solo perché non era una balenottera azzurra! Sotto questo aspetto, figure come Tylor si rifacevano a un altro importante e ancora attuale uso del concetto di cultura, definito da Matthew Arnold, poeta e saggista contemporaneo di Tylor, «il migliore che sia stato pensato e conosciuto nel mondo di oggi, ovunque» 12. Tale concetto viene spesso chiosato come una definizione della cultura «da teatro dell’opera» e trova un riflesso nei giudizi di persone ritenute «colte» o «piú colte» di altre. In tale

rappresentazione stereotipata, la «cultura», in questa accezione, significa Mozart, non Madonna. Quest’ultima, se mai fosse da designarsi come personaggio culturale, farebbe forse parte della «cultura pop». Non c’è dubbio che Tylor e altri nutrissero grande interesse per la musica, ma la cultura, nella definizione piú capillare di Tylor, corrispondeva a «quel tutto che include conoscenza, credenze, arte, legge, morale, usanze e ogni altra abilità e abitudine acquisite dall’uomo come membro di una società» 13. Boas criticò apertamente l’evoluzionismo sociale, che dagli anni Venti era stato relegato ai margini dell’antropologia accademica. L’evoluzionismo sopravvisse in forma piú vaga, e lo si può ancora trovare indirettamente in qualche lavoro. L’aperto moralismo e l’insistito fervore con cui si teorizzava che un francese e un mollusco bivalve potevano realmente essere compresi nello stesso senso finirono per perdersi. L’evoluzionismo sociale non perse mai in ogni caso tutti i suoi sostenitori. Esso conobbe infatti una rinascita negli anni Cinquanta e Sessanta, per esempio nell’opera di Leslie White e Julian Steward. Nonostante i loro notevoli disaccordi, White e Steward non rifiutarono mai del tutto il linguaggio generale sviluppato nel XIX secolo da Tylor, Morgan e altri. Ritenevano inoltre che, dopo Boas, l’antropologia si fosse troppo immersa nei dettagli della cultura. In effetti, con tutte quelle ricette per i muffin… Anche per White e Steward, la scienza continuava ad avere un accento autorevole, mentre molti degli studenti di Boas avevano sensibilità piú umanistiche. È da notare che gli evoluzionisti sociali operavano piú strettamente con gli archeologi e con un esplicito interesse per il reperto archeologico; nel corso del tempo, le impostazioni metodologiche boasiane e quelle a esse correlate abbandonarono la passione per i lunghi periodi storici. Nell’archeologia in sé, l’evoluzionismo sociale rimase una parte in secondo piano: figure come V. Gordon Childe nel Regno Unito e Gordon Willey negli Stati Uniti, che stimolarono entrambi dibattiti e interessi, lavorarono sempre con in mente l’evoluzionismo, anche se

non con la stessa aria di superiorità che caratterizzava i loro predecessori vittoriani. CULTURA E/COME NATURA

Esistono svariati modi in cui un approccio globale alla cultura può combinare aspetti diversi di quanto abbiamo finora considerato. Il fatto di ragionare innanzi tutto in termini di Kulturbrille non significa sconfessare gli aspetti materiali della cultura e viceversa. Si rilevano comunque delle tensioni tra le diverse teorie della cultura. Boas, come abbiamo visto, aveva serie riserve riguardo all’approccio di Tylor e all’evoluzionismo sociale in generale. Leslie White, da parte sua, avanzava spesso forti critiche nei confronti di Boas, ritenendolo un teorico che lasciava molto a desiderare (perché era cosí concentrato sul particolare) e uno studioso non particolarmente abile nel lavoro sul campo (ponendo cosí in discussione, con una punta di stizza personale, l’alta opinione che si aveva dell’etnografia di Boas). L’ambito piú significativo che alimenta tensioni ed è fonte di dibattito sulla teoria della cultura non è collegato all’idea di doverci concentrare sul significato simbolico della ceramica o di qualsiasi altro oggetto di vasellame, ma riguarda se mai molto di piú il punto in cui si colloca il nostro approccio globale rispetto al terzo filo conduttore della teoria culturologica da me individuato, ovvero quello che concerne l’eterna questione se siamo creature della natura o dell’educazione. Sono gli stimoli biologici a plasmarci, il nostro hardware mentale, i nostri geni? O è come siamo cresciuti? Le condizioni in cui viviamo e i valori dominanti della nostra società? La biologia e la natura hanno quasi sempre avuto un ruolo di secondo piano nelle concezioni antropologiche della cultura. Perfino White, che voleva parlare di calorie e della soddisfazione dei bisogni (che egli identificava sia come «materiali» sia come «spirituali»), sottolineava il primato della cultura: «Nell’uomo, – scrisse, – il fattore biologico è irrilevante per i vari problemi di interpretazione culturale, per esempio le differenze tra culture, e per i processi di cambiamenti

culturali in generale e dell’evoluzione della cultura in particolare» 14. Non sorprenderebbe piú di tanto se una disciplina dedicata all’esplorazione e all’importanza della cultura – delle diverse tradizioni storiche ed espressioni sociali dell’umanità – avesse tale inclinazione. Eppure, non tutte le teorie della cultura sono cosí culturali come altre. La tradizione boasiana, ancora una volta, appare la piú autorevole all’estremità dello spettro della cultura. All’interno di questa tradizione, Ruth Benedict ha offerto l’argomentazione piú famosa. Nel suo Patterns of Culture (Modelli di cultura), del 1934, ha sferrato un attacco totale al determinismo biologico (qualcuno potrebbe perfino dire alla biologia). Attingendo a una vera cornucopia di casi di studio e ponendo consapevolmente le sue osservazioni in relazione sia al dato etnografico sia allo scenario contemporaneo americano, la Benedict si è prodigata per collocare tutte le culture nella medesima cornice, al fine di sgombrare il campo da ogni divisione noi-loro e dall’impostazione da «capsula di Petri» di alcuni dei suoi predecessori antropologi. «Una delle conseguenze piú importanti è l’irrilevanza del comportamento trasmesso per via biologica, e la funzione fondamentale del processo di trasmissione del patrimonio tradizionale attraverso la cultura» 15. Il bersaglio piú immediato della Benedict era il razzismo. Boas e molti dei suoi studenti erano particolarmente attivi in ambito accademico e sociale nella lotta contro il razzismo (molto prima di definire «strampalati» i nazisti, Boas aveva denunciato il razzismo e l’eugenetica negli Stati Uniti). In America, come altrove, la disciplina antropologica era spesso parte integrante del tentativo di legittimare le differenze razziali su base scientifica. Questo appare evidente in un arco di tempo che va dai lavori dell’archeologo ed etnologo Daniel Brinton, che occupava negli anni Novanta del XIX secolo posizioni di rilievo in numerose società accademiche, fino a Carleton S. Coon, professore di antropologia fisica all’Università di Harvard, che negli anni Sessanta aderí alla logica segregazionista. Boas criticò il lavoro e le idee di entrambi, svolgendo un fondamentale ruolo di collegamento

tra la sua cerchia alla Columbia University e la National Association for the Advancement of Colored People (Naacp). Boas lavorò inoltre a vario titolo con i colleghi di Booker T. Washington e William E. B. Du Bois. Come sostiene l’antropologo Lee D. Baker, l’impatto della personalità di Boas non fu sempre immediato e diretto, anche se nella prima metà del XX secolo i suoi sforzi e le alleanze accademiche e politiche contribuirono ad attuare sulla scena americana due distinti cambiamenti: uno di carattere paradigmatico all’interno del mondo accademico, e uno a livello giuridico riguardante direttamente la categoria di razza 16. Naturalmente, non tutte le teorie della cultura gravate dall’elemento naturale, se posso esprimermi cosí, puntarono sulla razza. In effetti, quello che fu probabilmente il meno culturale di tutti i teorici della cultura, Claude Lévi-Strauss, era come Boas fortemente antirazzista. Lévi-Strauss, il padre dell’antropologia strutturalista, aveva nei confronti della cultura un atteggiamento decisamente paradossale. Da un lato, provava un intenso interesse per la cultura, se con essa intendiamo ogni minimo particolare dei miti del popolo Tlingit, le pratiche sciamaniche degli indios Kuna e perfino conoscenze e conquiste tecnologiche; nutriva un profondo apprezzamento per il lavoro di Boas e dei suoi allievi proprio per i dettagli enciclopedici. Dall’altro lato, tutto questo dettaglio e particolarismo culturale non forniva altro che dati da usarsi per porre in evidenza quello che era il suo autentico interesse, ovvero la struttura universale della mente umana. Per Lévi-Strauss, la giusta unità di analisi non era il punto di vista dell’indigeno, bensí, potremmo dire, lo schema mentale dell’indigeno. A livello basilare, tale schema mentale era costante e universale. In questa tradizione della teoria culturologica, l’obiettivo primario non era la celebrazione o il riconoscimento della differenza per il puro piacere della differenza, ma piuttosto la scoperta dell’architettura mentale che univa tra loro tutti i popoli. Come egli scrisse: «Il pensiero selvaggio è logico, nello stesso senso e nello stesso modo del

nostro» 17. In un altro testo, egli attinse alle immagini della cultura materiale per arrivare al medesimo risultato, capovolgendo i criteri seguiti dagli evoluzionisti sociali del XIX secolo. Pensiamo a un’ascia di pietra e a un’ascia d’acciaio. Potremmo dire che l’acciaio è piú resistente della pietra, e quindi, in tal senso, «migliore». Il compito dell’antropologia, tuttavia, non è concentrarsi sul materiale di cui sono fatte le cose, ma sul modo in cui sono create. Se osserviamo abbastanza da vicino, sosteneva Lévi-Strauss, ciò che vediamo è che le due asce in realtà sono uguali. È la mente, piuttosto che il corpo, a interessare negli ultimi decenni i sostenitori piú naturalistici della teoria della cultura. Gran parte di questo lavoro si colloca in un ambito noto come antropologia cognitiva, su cui convergono un diverso insieme di influssi e interfacce: lo strutturalismo, vari settori della psicologia, la linguistica, perfino la filosofia. In generale, tuttavia, l’approccio alla conoscenza e alla cultura si trova a lottare con le modalità in cui i meccanismi della mente plasmano espressioni, valori e concetti culturali. Siamo dunque dei dualisti per natura? Vale a dire, tutti gli esseri umani pensano in termini contrapposti, binari o accoppiati? Esistono altri universali nella percezione o nella concettualizzazione – per esempio i colori o le relazioni tra consanguinei? Come vengono trasmesse le conoscenze culturali? Tanya Luhrmann lavora appunto seguendo questo filone di pensiero, posto all’intersezione tra antropologia e psicologia. In effetti, nel corso della sua carriera, ha studiato di tutto, dalle streghe dell’Inghilterra agli psicologi stessi e al modo in cui la loro formazione riflette e rafforza determinate interpretazioni della mente. Il suo libro piú recente, sulla Chiesa neopentecostale negli Stati Uniti, porta questa attenzione rivolta alla mente a un nuovo livello, incorporando una serie di esperimenti, quasi da laboratorio, su come la pratica della preghiera influenzi l’esperienza di Dio di questi cristiani. Lavorando con oltre 120 partecipanti, la Luhrmann diede loro un iPod su cui erano stati caricati modelli di preghiera in stile

ignaziano, accompagnati da un gradevole sottofondo musicale. Quest’attenzione cosí concentrata, ha scoperto la studiosa, accresceva l’intenso realismo con cui i partecipanti all’esperimento riferivano della presenza di Dio, secondo un processo definito dalla Luhrmann «assorbimento» (un concetto preso a prestito dalla psicologia). «La capacità di vedere ciò che la mente immagina come piú reale del mondo che si conosce è la capacità che costituisce il nucleo dell’esperienza di Dio» 18. Effettivamente, una delle cose che piú ha destato l’interesse della studiosa rispetto a questi cristiani è che non si sognano di contestare l’autorità della scienza e della logica laica di fatto e finzione, realtà e irrealtà. L’antropologia cognitiva solleva importanti sfide per quanti, come me, sono cresciuti con il mantra del primato e del potere della cultura. Per troppo tempo gli antropologi hanno ignorato (nella migliore delle ipotesi) se non rinnegato (nella peggiore) i risultati e le impostazioni delle scienze cognitive. In alcuni settori questo sta cominciando a cambiare. Allo stesso modo, benché molti antropologi cognitivi vogliano farci vedere la storia della cultura in un piú stretto rapporto con la storia naturale, è importante riconoscere che la maggior parte di loro non si è certo liberata del tutto della cultura. I migliori antropologi cognitivi rimangono in sostanza degli antropologi, restando diligentemente consapevoli del valore a lungo termine dei dati qualitativi e impegnati nello studio protratto nel tempo di un particolare popolo in un luogo particolare (pur non eseguendo di persona questo lavoro sul campo). Non si accontentano di esperimenti estemporanei o di laboratorio. In tal senso, quindi, sostengono il valore della cultura esattamente come i loro predecessori.

Limiti della cultura. Il termine «cultura» non è una parola magica. Non è un concetto che risponde a tutti i problemi posti dalla storia e dalla società. E può

rivelarsi oscuro tanto quanto illuminante. È un fatto che gli antropologi che lo usano maggiormente e lo sostengono attivamente hanno sempre riconosciuto. La cultura, per altro, ha anche i suoi detrattori, e, ancor piú, altri studiosi che le sono indifferenti. A metà degli anni Novanta, alla fine di un decennio di tentativi particolarmente insistenti di espellere del tutto il termine – sulla base della critica post-coloniale e post-moderna –, uno studioso documentò non meno di quattordici modi in cui il concetto di cultura era ritenuto manchevole 19. Non intendo citarli tutti ma ritengo che questo lungo elenco potrebbe essere suddiviso in tre principali elementi di interesse, tutti in circolazione da parecchio tempo. Prima di tutto, è importante non prendere troppo alla lettera la connessione tra cultura e luogo. Vale la pena in tal senso riflettere brevemente sull’etimologia della parola. Nei suoi primi usi nella lingua inglese, secondo l’Oxford English Dictionary, il termine culture si riferiva alla lavorazione della terra; le sue radici (e mi scuso del gioco di parole) sono evidenti in termini come coltivazione, agricoltura, orticoltura e cosí via. Per i teorici della cultura nella Germania del XIX secolo, questo era uno dei suoi aspetti piú affascinanti, ovvero il fatto di affondare in un luogo e in un tempo che sfidava la logica universale e astratta di gran parte del pensiero illuminista. Questo legame con il luogo è un elemento fondamentale della conoscenza antropologica. Avere un punto di vista significa avere un proprio luogo, una propria collocazione. E come insistevano sia Malinowski sia Boas, per capire una cultura si doveva essere in quel preciso luogo che la ospitava. Il problema in tal senso è che non è sempre facile capire dove finisce quel «preciso luogo» e dove ne inizia un altro. In Argonauti del Pacifico occidentale, Malinowski parla tutto il tempo di un certo numero di popoli – «culture» – come se essi fossero distinti e separati. Al tempo stesso, tuttavia, il contributo piú duraturo del libro è lo studio dell’Anello del kula, un sistema di scambio simbolico di doni che interessava diverse isole sparse per centinaia di chilometri. Le

«culture», in altre parole, stabiliscono tra loro almeno un contatto. Prendono in prestito l’una dall’altra, si infiltrano una nell’altra, al punto che, in alcuni casi, tutti questi prestiti e infiltrazioni ci inducono a domandarci se si debba veramente parlare di «cultura» tout court. Vi è un’altra considerazione da fare: agli inizi del XX secolo, le isole Trobriand erano una cosa, la vita era plasmata in parte dall’Anello del kula; esisteva un certo traffico «tra culture», con qualche aspetto piú fluido e altri piú sfocati. Quel traffico di «cultura», tuttavia, era lontanissimo da ciò che possiamo trovare oggi nell’era di Internet, o anche solo nell’era della radio, o con la presenza di aerei, treni e automobili. Che cosa diremmo di Singapore all’inizio del XXI secolo? O di Londra? O che dire se volessimo anche essere piú specifici? Possiamo davvero parlare di una «cultura londinese»? O dovremmo essere piú precisi e parlare di britannici di terza generazione originari del Bangladesh e residenti nel quartiere di Tower Hamlets, oppure dei polacchi che si sono trasferiti a Ealing nel 2005? O della famiglia Smith che ha sempre vissuto a Catford? E ancora, dobbiamo necessariamente definire «britannici di terza generazione originari del Bangladesh» coloro i cui nonni arrivarono a East London da Sylhet negli anni Settanta? E se a loro, ormai, neppure interessassero le loro origini ancestrali? Se si considerassero dei londinesi «nativi»? Queste sono tutte domande giuste e pertinenti sui meccanismi della cultura. La cultura, pertanto, non è legata a un luogo. Questa è la prima e principale critica, dalla quale consegue in modo naturale la seconda: la cultura non è fissa nel tempo. Le culture cambiano, benché gli antropologi – spesso romantici (come molti dei pensatori loro antenati) – non sempre abbiano saputo prenderne atto, tant’è che un teorico contemporaneo della cultura sostiene che gli antropologi cadono ancora regolarmente su questo punto 20. Tale visione romantica trovò spesso espressioni particolarmente grossolane nell’epoca coloniale. Consideriamo per esempio l’opera classica di Victor Turner, uno dei miei antropologi preferiti di tutti i tempi (per la sua meravigliosa scrittura, le sue immense letture e

l’effervescenza delle sue idee). Turner trascorse i primi anni Cinquanta con la tribú Ndembu, in quella che al tempo era la Rhodesia Settentrionale, producendo con la moglie Edith alcuni dei piú importanti studi sui rituali di tutta la storia dell’antropologia. La tribú Ndembu è presentata come un popolo incontaminato, quasi non avesse semplicemente registrato nessuno degli enormi cambiamenti politici ed economici che stavano avvenendo. Abbiamo di fronte dei nativi fuori dal tempo. In molti dei loro saggi, autentici classici, i Turner, in effetti, menzionano appena il contesto coloniale. Questo appare ancor piú sbalorditivo se pensiamo che negli anni Cinquanta e Sessanta la Rhodesia Settentrionale era simile a un vero e proprio laboratorio antropologico, affollata di antropologi che studiavano i cambiamenti culturali e le dinamiche sociali nei centri urbani allora emergenti, in particolare nella zona del Copperbelt, dove le miniere spuntavano come funghi e attiravano mano d’opera da tutta la regione. Molti di questi antropologi vantavano uno stretto legame con un carismatico professore dell’Università di Manchester, Max Gluckman, ispiratore della «Scuola di Manchester», favorevole all’impostazione marxista e molto piú impegnato nello studio dei cambiamenti e dei conflitti sociali di quanto fosse comune in Gran Bretagna a quel tempo. Infatti, vi furono molti studi della Scuola di Manchester – per altro eccellenti – in cui il colonialismo e la modernizzazione figurano in maniera preponderante. Vale tuttavia la pena notare che, tra tutti questi lavori, gli studenti di antropologia leggevano soprattutto le opere di Victor e Edith Turner, che avevano comunque un maggiore impatto. Nell’immagine della tribú Ndembu offertaci dai Turner viene a mancare in effetti qualsiasi analisi di macrolivello riguardante aspetti politici o cambiamenti. Il terzo filone di critica concerne la coerenza culturale. Tutto il flusso, i mutamenti e la frammentazione del colonialismo e della globalizzazione lasciano intendere una questione piú basilare, ovvero l’ipotesi che la cultura, soprattutto se intesa come associazione di idee ed espressione di propri punti di vista, rappresenti in qualche modo un

tutto perfettamente ordinato. Non era certamente insolito negli anni Cinquanta che gli antropologi offrissero nei loro scritti delle generalizzazioni alquanto indiscriminate di ciò che le persone appartenenti a una data «cultura» credevano, sentivano o pensavano. Tali illazioni e attribuzioni finirono per diventare sempre piú difficili da giustificare, non solo a causa dell’impatto del colonialismo e della globalizzazione, ma perché si presumeva che la «cultura» fosse un fenomeno assoluto e olistico. Perfino all’interno di una comunità su un’isola remota, incontaminata da influenze esterne, non dovremmo presumere né troveremmo necessariamente tale coerenza e uniformità. Talvolta, inoltre, la versione ufficiale di una cultura – ovvero ciò che viene scritto dagli antropologi – risulta in pieno disaccordo con quanto sta realmente avvenendo. È spesso un’idea malsana quella di interrogare delle persone sulla loro cultura, chiedere loro che cosa «credono» o «pensano» o perfino farsi spiegare il significato di qualcosa (per esempio un certo rituale, gli attributi della paternità o la vibrazione trascendentale della sillaba Om). Il problema è che probabilmente quelle persone vi diranno comunque qualcosa, ma potrebbero benissimo inventarselo o dirvi la prima cosa che passa loro per la testa; in alcuni casi, è perfino accaduto che un indigeno rispondesse alla domanda di un antropologo facendo riferimento a un libro scritto da un altro antropologo che aveva vissuto nel villaggio quarant’anni prima. Tutto questo può portare a un’esposizione eccessivamente linda e ordinata, vale a dire pessima. In sintesi, tutti e tre i filoni di critica che destano maggiore attenzione – assenza di vincoli con un determinato luogo; assenza di specificità temporale; accuratezza e precisione non eccessive – si legano perfettamente al nodo dell’essenzialismo, ovvero «la fede nell’essenza reale e autentica delle cose, in proprietà invariabili e fisse che definiscono appunto l‘”essenza” di una determinata entità» 21. L’essenzialismo può essere molto pericoloso, e quello culturale spesso lo è. Nei capitoli successivi avremo la possibilità di considerare i rischi del discorso culturale. L’essenzialismo tende ad

auspicare – forse perfino a esigere – una certa immobilità delle cose, evocando stereotipi e perfino espliciti pregiudizi. Questo, almeno, è ciò che capita spesso quando la cultura si muove oltre i confini della torre d’avorio e raggiunge il pubblico piú vasto. Ed è questo il caso abominevole di un’ideologia politica particolarmente riprovevole: l’apartheid. Nel Sudafrica dell’apartheid, infatti, la cultura era un argomento molto importante per i nazionalisti che puntavano alla segregazione totale: Le culture africane vanno conservate intatte! Esse hanno bisogno di loro zone riservate; cosí come anche noi bianchi abbiamo bisogno dei nostri spazi. Non è certo un’ironia da poco, anzi, se mai è doloroso pensare che a meno di un decennio dalla morte di Boas (un antropologo che aveva dedicato gran parte della sua energia ad articolare un concetto culturale esplicitamente antirazzista) gli architetti del National Party del Sudafrica potessero sfruttare la cultura per tenere gli africani «al loro posto». Ho accennato di sfuggita al fatto che queste e altre problematiche assunsero particolare rilievo negli anni Ottanta, quando alcuni grandi antropologi, attingendo al femminismo, agli studi post-coloniali, al post-modernismo e a determinate tradizioni della sociologia, cominciarono ad abbandonare e persino rinnegare il concetto di cultura, spesso proprio a causa dei diversi rischi connessi all’interpretazione essenzialista del termine. Le idee di Michel Foucault e Pierre Bourdieu offrivano visioni alternative e autorevoli. L’interesse di Foucault per il potere e la soggettività, e la sua analisi del «discorso» come strategia per inquadrare euristicamente un dato, aderivano perfettamente a quelle impostazioni emergenti. Lo stesso valeva per la «teoria della pratica» di Bourdieu, incapsulata nel suo uso del termine habitus, equivalente per molti aspetti alla parola «cultura», ma da intendersi come concetto piú labile. Nell’esposizione di Bourdieu, l’habitus è una tendenza che si traduce in un sistema di schemi percettivi, di pensiero, azione e progettazione nel contesto di una struttura, ma che non è mai del tutto determinato da quella struttura. In una frase ormai divenuta famosa, egli definí gli habitus

come «sistemi di disposizioni durature e trasferibili, strutture strutturate, predisposte a funzionare come strutture strutturanti». In altre parole, siamo plasmati dal mondo in cui viviamo, ma non siamo sempre legati a consuetudini e abitudini. Per dirla con Bourdieu, ciò che facciamo non è né una «reazione meccanica» né il frutto di «un qualche libero arbitrio creativo» 22. Non tutti gli antropologi che iniziarono ad avvertire un piú esplicito interesse per il potere o a scrivere sull’habitus smisero del tutto di fare riferimento alla cultura. In realtà, perfino alcuni dei critici piú rispettati usano ancora la «cultura» in un’accezione che potremmo definire piú debole – cioè non come un importante termine analitico, bensí come elemento del processo di descrizione o contestualizzazione. L’antropologo Arjun Appadurai, per esempio – uno degli esponenti di maggiore esperienza in questo ambito di studi che lavorò principalmente in India –, mise in guardia dalla rigidità e dall’obiettività del concetto di cultura – questo però in un libro che aveva come sottotitolo le «dimensioni culturali della globalizzazione» 23. Lila Abu-Lughod, un’altra figura di primo piano, tra i massimi esperti dell’Egitto e studiosa di identità di genere e media, dichiara tra i suoi principali interessi «il rapporto tra forme culturali e potere» 24. Abu-Lughod è anche autrice di un importante saggio pubblicato nel 1991 e intitolato, in modo alquanto diretto, Writing against Culture – un’opera in cui viene realmente a cristallizzarsi il fascino esercitato da Foucault e Bourdieu su molti della mia generazione 25. Ciò che Appadurai e Abu-Lughod stanno realmente facendo, pertanto, è chiederci di pensare di piú in termini di aggettivi che di sostantivi. Ciò che infonde vera linfa in tali impostazioni è l’allontanamento da concetti oggettivi simili a cose concrete. Gran parte del dibattito sulla cultura ha avuto svolgimento nel mondo accademico nordamericano. In Gran Bretagna, in realtà, la cultura era caduta ormai da lungo tempo in disuso, almeno come esplicito termine analitico. Malinowski, come ho sottolineato, aveva

offerto dei contributi alla teoria della cultura, ma aveva lasciato la London School of Economics per la Yale University alla fine degli anni Trenta ed era morto a New Haven poco piú tardi. Un reale interesse britannico per la teoria della cultura scomparve con lui, per lo meno in ambito antropologico. Tale interesse, tuttavia, era riemerso altrove, soprattutto nei lavori di critici letterari e sociali come Richard Hoggart, Raymond Williams e, leggermente piú tardi, Stuart Hall. Tali lavori divennero noti come «studi culturali»; i loro autori, però, non partirono per le isole Trobriand. Piuttosto essi si domandavano in che modo fattori come razza, classe sociale, genere, sessualità e gioventú plasmassero la società contemporanea occidentale, contrapponendosi alle esigenze e aspettative dei detentori del potere e dei responsabili dei programmi politici. In buona parte del loro lavoro, questi autori si richiamavano a Marx, al critico sociale italiano Antonio Gramsci e, piú tardi, a Foucault. Dopo la partenza di Malinowski per l’America, in Gran Bretagna salí alla ribalta Alfred R. Radcliffe-Brown, che si rese famoso con una serie di saggi in cui il termine chiave dell’analisi e l’oggetto di primario interesse non era tanto la «cultura» quanto la «società». Radcliffe-Brown non nascondeva un chiaro disprezzo per il concetto di cultura, da lui definito una «vaga astrazione» 26. Da allora in poi, l’antropologia britannica – spesso definita antropologia sociale, non dimentichiamolo – non dimostrò mai grande impegno verso la teorizzazione culturale, anche se i suoi rappresentanti non abbandonarono completamente il termine, anzi, basta sfogliare uno qualsiasi dei testi fondamentali dell’antropologia sociale britannica apparsi dagli anni Quaranta in avanti per scoprire che le parole «cultura» e «culturale» vi compaiono regolarmente. È certamente vero, tuttavia, che qualche antropologo britannico del dopoguerra reputava la controparte americana leggermente ossessionata dalla «vaga astrazione» e, dopo Geertz, da una particolare attenzione al linguaggio figurativo, al simbolismo e alla semiotica che quell’astrazione sembrava richiedere. I britannici si concentravano

maggiormente su quelle che Radcliffe-Brown definiva strutture sociali o istituzioni sociali, intendendo con esse rapporti di parentela (come comportarsi con la suocera, la natura specifica dei legami tra padre e figli), strutture e ruoli della politica (per esempio le dinamiche tra cittadini e autorità in società prive di stato), pratiche religiose (mantenimento dei tabú, funzione del sacrificio) e via dicendo. In generale, però, la maggior parte degli antropologi formatisi in Gran Bretagna non si preoccupava nemmeno di avanzare critiche al concetto di cultura, limitandosi a procedere con la loro missione e attingendo a combinazioni di idee tratte dai teorici sociali dell’Europa continentale del XIX secolo e degli inizi del XX (Émile Durkheim, Marcel Mauss e Karl Marx). In realtà, già nel 1951, Raymond Firth, successore di Malinowski alla London School of Economics, si permetteva di rimproverare con il dovuto tatto quei colleghi che dimostravano un «inutile atteggiamento censorio» nei confronti di quegli «antropologi che definiscono in termini di cultura il loro materiale di studio e la loro piú importante intelaiatura teorica» 27. Per Firth, era chiaro che «“società” e “cultura” sono concetti i cui elementi significativi si compenetrano uno nell’altro». Molto assennato.

Via dalla cultura. Nel 1988, James Clifford, uno storico delle idee che ci ha offerto alcuni dei migliori saggi sul pensiero antropologico, scrisse: «Quella della cultura è un’idea profondamente compromessa di cui non riesco a fare a meno» 28. A mio giudizio, e alla luce di tanti lavori contemporanei, la disciplina antropologica non può ancora farne a meno. Né tanto meno dovrebbe. Possiamo dire che sia l’alfa e l’omega di tutto? Ovviamente no. Tutti i miei colleghi abbracciano tale idea? Direi di no. Alcuni ne parlano ancora in termini niente affatto elogiativi. All’alba del XXI secolo, tuttavia, la maggior parte di

quanti avevano dedicato il loro tempo alla sua detronizzazione ha iniziato a perseguire altri programmi. Alcuni l’hanno considerata una battaglia persa, per cui si sono ritirati in buon ordine. Altri ancora, invece, hanno continuato, senza tanto baccano, a mantenere la cultura, o qualcosa di molto simile, mai troppo lontana dalla loro mente, anche se il concetto non affiorava in ogni pagina né compariva spesso sulle loro labbra (un leggero rossore imporpora il viso ogni volta che un antropologo accademico usa espressioni come «cultura italiana» o «culture islamiche» o cose simili. Sembra cosí semplicistico, perfino ingenuo. Quando qualche giornalista ci pone delle domande a riguardo, in cuor nostro sogghigniamo. Quando sono dei parenti a farlo, li perdoniamo). Un obiettivo della parte successiva di questo libro è quello di mettere in bella mostra che cos’è la cultura, nel bene e nel male. Personalmente, mi affianco ad Appadurai e ad Abu-Lughod, che hanno messo in guardia dalle tendenze a oggettivare la cultura. Mi affianco però anche a Malinowski, che nel 1926 aveva riconosciuto che «la realtà culturale umana non è uno schema logico coerente ma una mistura in fermento di principî contrastanti» 29, e a Robert Lowie, uno dei primi allievi di Boas, che nel 1935 aveva dichiarato senza mezzi termini che «come non esiste una razza pura al 100 per cento, cosí non esiste nessuna cultura pura al 100 per cento […] I popoli aborigeni hanno preso in prestito elementi uno dall’altro per migliaia di anni, e cercare di isolare una cultura totalmente indigena è cosa decisamente da sciocchi» 30. Devo notare a onor del vero che, secondo i due principali luminari americani di quel tempo, il 1952, la tendenza dominante era riconoscere: «(1) le interrelazioni delle forme culturali; (2) la variabilità e l’elemento individuale» 31. Non esiste semplicemente nessun altro termine che possa fungere da copertura sotto il quale considerare le lezioni dell’antropologia o la diversità di approcci e prospettive in essa esibiti. Non tutti gli antropologi di cui parlerò condividono o condividerebbero la mia posizione. Manco a parlarne. E non tutti i dibattiti, le analisi e gli

interessi nascono dalla «teoria della cultura» o ruotano attorno a essa. Tutti gli antropologi, però, condividono un medesimo impegno: prestare profonda attenzione, un’attenzione molto profonda, alle storie sociali dell’umanità ed essere molto cauti nel fare appello al senso comune, alla natura umana e alla ragione. Sono questi ultimi elementi, infatti, a intorbidare il discorso, piú del concetto stesso di cultura, e non sempre perché risultino degli inopportuni o stupidi sproloqui di marca occidentale, o perché siano pericolosamente ridicoli, ma perché sappiamo dall’evidenza etnografica che essi possiedono tutti una propria storia sociale. Uno dei motivi per cui è importante insistere sulla cultura nasce dalla misura stessa in cui altre discipline si avvalgono troppo o troppo poco del ruolo centrale che essa ha nella vita umana. A una delle estremità troviamo i politologi, che trattano la cultura come elemento primordiale e immutabile. La sola lettura di certe teorie sui rapporti internazionali può far saltare i nervi a un antropologo. È come se una nazione, o una cultura nazionale, fosse definita e solida come una roccia. All’altra estremità ci sono gli psicologi che conducono esperimenti su piccoli gruppi di persone per poi estrapolare dati circa la capacità cognitiva o la natura dell’uomo. Poi però, a uno sguardo piú attento, si scopre che quel piccolo gruppo di persone era composto, guarda caso, da studenti dell’università dove insegnano quegli stessi psicologi. Nella mente di un antropologo che si rispetti scatta immediatamente una domanda: davvero possiamo estrapolare da un gruppo di universitari di Harvard dei dati validi per il resto dell’umanità? Nel porre questa domanda, l’antropologo si sta riferendo al concetto di cultura. Ed è un bene che lo faccia.

a. L’evoluzione non fu un’idea unicamente di Darwin; essa stava infatti prendendo piede ormai da tempo. Lo studioso della società Herbert Spencer aveva pubblicato in forma anonima un articolo sull’evoluzione organica già

sette anni prima della pubblicazione di Sull’origine delle specie.

Capitolo secondo Civiltà

Nel pensiero antropologico, cultura e civiltà erano strettamente legate. Una non poteva esistere senza l’altra. Per Edward Burnett Tylor, i termini erano sinonimi. Durante tutta l’era vittoriana esse furono collegate quanto meno per necessità, anzi, probabilmente, gli antropologi di quel periodo erano piú interessati alla civiltà che alla cultura. E perché no? Chi non sarebbe interessato alla civiltà? Quando pensiamo a una civiltà, pensiamo a grandi monumenti (antichi e moderni), a biblioteche (nell’antica Alessandria e nella Londra contemporanea), a università, tribunali, ospedali, lampioni e strade ben pavimentate. Essere civilizzati significa essere moralmente integri: devolvere il proprio impegno ai valori che sono alla base di biblioteche, tribunali e ospedali, vale a dire libertà di pensiero, senso di giustizia e assistenza al malato. Inoltre, se si è persona civilizzata, si hanno buone maniere a tavola. I vittoriani erano fortemente interessati a tutto ciò perché collegavano tali segni di civiltà al progresso morale. Senza dubbio, vi sono casi in cui riconosciamo il rovescio di tutto questo; degli uomini hanno dovuto erigere quei grandi monumenti, e forse neppure sopravvissero per beneficiare dei risultati ottenuti (ogni scolaro sa che non erano stati certo i faraoni a trascinare quelle mastodontiche pietre e a posizionarle per costruire le piramidi). Le strade ben asfaltate, dal canto loro, tendono a intasarsi di traffico. Troviamo però delle personalità ispirate che ci costringono a mettere in discussione i simboli esteriori e le narrazioni ufficiali della civiltà –

figure come quella di Henry David Thoreau, che si ritirò sulle tranquille rive del lago Walden; riconosciamo debitamente anche la potente opera di Joseph Conrad, tanto per fare un nome, il cui romanzo Cuore di tenebra mise a nudo le atrocità del colonialismo nello stesso momento in cui degli antropologi comodamente seduti in poltrona raccoglievano le informazioni fornite proprio dagli agenti coloniali. Quando Conrad pubblicò Cuore di tenebra nel 1899, la forza della civiltà era estremamente potente, e difficilmente quel libro avrebbe potuto fermarla. Come Conrad, tuttavia, uno sparuto numero di antropologi di quel periodo – in primo luogo Boas – iniziò a porre sub judice l’idea della civiltà come forza animatrice dell’antropologia. Il punto non è che volessero tornare per sempre sulle rive del lago Walden a, ma cominciavano a rendersi conto che il lavoro dell’antropologia non poteva svolgersi correttamente partendo da tale idea. La connotazione indelebilmente morale del termine «civiltà» ha dato filo da torcere all’antropologia piú di ogni altra parola chiave di questo libro. Ha dato filo da torcere perché quella connotazione non è mai veramente scomparsa. Non c’è dubbio che, con la notevole eccezione degli archeologi (e ne parlerò alla fine del capitolo), non troveremo molti antropologi contemporanei che pensino o scrivano esplicitamente in termini di civiltà. La grammatica che si cela però dietro ai termini è spesso implicita o influenza in vario modo la struttura stessa dell’antropologia o la sua analisi. Oggi, la scienza antropologica appare abbastanza coerente nella sua critica alla «civiltà», benché sia indubbio che quest’ultima sia stata un elemento centrale nell’ambito degli studi antropologici e che le discussioni che la circondano meritino particolare attenzione. Questi dibattiti ci permettono infatti di analizzare importanti dettagli del passato dell’antropologia e del suo rapporto con il piú vasto mondo. Essi ci permettono altresí di esplorare una delle missioni dell’antropologia che è rimasta ancora oggi per lo piú infruttuosa,

ovvero abbandonare del tutto tale linguaggio e forma di pensiero. In realtà, infatti, anche se faremmo enorme fatica a trovare molti antropologi contemporanei che sostengano l’idea di «civiltà», se ascoltiamo il linguaggio di politici, giornalisti e commentatori attivi sulla scena moderna sentiremo confermare che la retorica della civiltà è viva e vegeta. E altrettanto, sfortunatamente, lo è la logica che soggiace a tale idea. Nel dicembre del 2016, dopo l’attacco al mercatino di Natale a Berlino, Donald J. Trump ha twittato: «Il mondo civilizzato deve cambiare modo di pensare!» 1. Trump dice cose che molti altri non dicono o non direbbero, ma questo non è uno di quei casi: qui non si fa che tirare acqua al mulino dei discorsi politici. Civiltà è, o almeno è diventata, una parola pericolosa, molto piú pericolosa della cultura. Per valutarne appieno le cause, dobbiamo tornare agli albori della disciplina antropologica e considerare il posto che la civiltà occupava all’interno del paradigma dell’evoluzionismo sociale.

Da selvaggio a civilizzato. Dopo la permanenza nei Caraibi e in Messico, Edward Burnett Tylor pubblicò un resoconto dei suoi viaggi che riscosse grande popolarità; i vittoriani, infatti, amavano questi racconti d’avventura, spesso intrecciati con osservazioni e commenti di tipo etnografico. Fu nei suoi lavori successivi, tuttavia, soprattutto nel suo opus magnum Primitive Culture (1871), che Tylor si guadagnò la fama di protagonista nel campo allora emergente dell’antropologia. Anche se in gioventú, provenendo da un ambiente anticonformista, non aveva potuto frequentare nessuna delle due grandi università britanniche, grazie alla sua ricerca arrivò a occupare a Oxford una delle piú alte posizioni accademiche in ambito antropologico. All’epoca, Tylor non era l’unico pioniere dell’antropologia. Anche Herbert Spencer e Lewis Henry Morgan, entrambi poco piú vecchi di

Tylor, furono figure estremamente influenti. Morgan era un avvocato dello stato di New York. Non si spinse mai cosí lontano come i Caraibi, ma con alcuni giovani fondò un circolo, i cui membri condividevano il fascino per i nativi americani, chiamato The Grand Order of the Iroquois. Fu appunto la necessità di dare uno statuto al circolo che spinse Morgan a esaminare a fondo gli accordi politici riguardanti la Lega degli Irochesi, la famosa confederazione di cinque nazioni indiane che, diffusa dallo stato di New York fino al Canada, sarebbe diventata uno degli argomenti di maggiore interesse dell’antropologia 2. Tylor, Morgan e altri dello stesso periodo lavoravano in un’epoca segnata soprattutto da Darwin, anche se è importante ribadire che le teorie dell’evoluzione sociale (come del resto quelle dell’evoluzione biologica) precedettero la pubblicazione di Sull’origine delle specie. Anche se la misura in cui Darwin influenzò direttamente certe figure dell’era vittoriana poteva variare a seconda dei casi, tutte usavano il linguaggio dell’evoluzione, applicandola al mondo sociale cosí come essa era intesa nel mondo naturale (di molluschi e felci). In Primitive Culture, Tylor riconosce che il fatto di collocare vegetali ed esseri umani nella medesima cornice potrebbe essere di disturbo per alcuni dei suoi lettori piú devoti alla religione. «A molte menti colte, – scrive Tylor, – sembra esservi qualcosa di presuntuoso e ripugnante nell’idea che la storia dell’umanità sia parte integrante della storia della natura, che i nostri pensieri, desideri e azioni siano in accordo con delle leggi precise come quelle che governano il moto delle onde, la combinazione di acidi e basi e la crescita di piante e animali» 3. Per Tylor e altri, tuttavia, fisica, chimica, biologia e antropologia erano un insieme omogeneo. Spencer, come già ho fatto notare, poteva parlare di cellule epatiche e istituzioni politiche nella medesima frase; anche in Tylor abbondano i prestiti dal linguaggio delle scienze naturali. Egli sosteneva per esempio che l’antropologo doveva rapportarsi ad arco e frecce come fossero delle «specie», rimarcando che ogni determinata

cultura doveva essere «sezionata» nei suoi elementi particolari. Per lui era come essere un volenteroso studente nell’aula di biologia, che piazzava una cultura sul tavolo e la tagliava in tanti pezzi accuratamente etichettati. L’idea di trapiantare l’evoluzione nella sfera sociale richiedeva tuttavia almeno un nuovo corredo di termini, organizzato attorno a un concetto di civiltà. Una delle cose piú importanti da tenere a mente riguardo alla civiltà è il suo carattere comparativo: essa acquista davvero un senso se si hanno altre condizioni di vita e punti di vista a cui contrapporla. Nel XIX secolo, i due concetti piú significativi erano la barbarie e la selvatichezza. Di per sé, la civiltà era di conio abbastanza recente (viene spesso fatta risalire al XVIII secolo), ma gli altri due erano ben piú antichi. Greci e romani le menzionavano per distinguersi dagli altri popoli. La parola greca barbaros era un termine dispregiativo, usato per descrivere la lingua di popoli che sembravano parlare con una sorta di «balbettio», non solo incomprensibile, ma neppure sviluppato. Il termine «selvaggio» deriva invece dal latino sylva, «bosco», a indicare persone che, in altre parole, conducevano una vita piú simile a quella degli animali 4. Furono questi termini a plasmare il primo approccio evolutivo agli studi sociali. Laddove la classificazione tassonomica del biologo spiegava il mondo in termini di Regno, Phylum, Classe, Ordine e cosí via, quella dell’antropologo operava a livello piú grossolano, preoccupandosi di differenziare tra uomo selvaggio, barbaro e civilizzato. Morgan si atteneva a un’impostazione particolarmente dettagliata al momento di determinare in quale delle sette fasi si collocava una società. La vita selvaggia e la barbarie possedevano ognuna delle fasi inferiori, mediane e superiori; la civiltà, al contrario, appariva uniforme (anche se questo non spiega il fatto che quegli angloamericani si ritenessero certamente piú civilizzati rispetto, tanto per dire, ai popoli dell’Europa meridionale; un italiano cattolico non era esattamente identico a un inglese o a un americano di fede

protestante). Gli stadi inferiore e mediano dello stato selvaggio si differenziavano, per esempio, per l’uso del fuoco; lo stadio superiore presentava invece l’introduzione di tecnologie come l’arco e la freccia. La fase superiore della barbarie era segnata dalla capacità di fondere il ferro. La civiltà era iniziata con l’alfabeto fonetico e l’uso della scrittura 5. All’interno di tali fasce, come sarebbe logico attenderci, esistevano molte piccole differenze. Leggendo Ancient Society (La società antica) di Morgan, per esempio, arriviamo ad apprezzare la differenza tra la ceramica lasciata essiccare all’aria e quella cotta in fornace e impariamo che quest’ultima rappresenta un passo in avanti nella scala evolutiva. In base a uno schema del genere, la classificazione diventava un compito semplice. Perizoma e vita nomade? Senza dubbio un selvaggio. Capanne di canniccio tinteggiate alla buona, utensili di ferro? Sicuramente barbaro. Pasta di frumento, forse, oppure polvere da sparo, o un’autorità politica centrale organizzata in base a testi scritti? Benvenuti nella civiltà. Lo schema permetteva a figure come Morgan di offrire immagini nitide e precise del mondo: «Cosí, mentre l’Africa presentava già, come presenta tuttora, una sorta di caos etnico dove si accostano selvatichezza e barbarie, – osserva en passant l’autore, – l’Australia e la Polinesia si mantenevano nello stato selvaggio puro e semplice, con le tecniche e le istituzioni proprie di quella condizione» b 6. Non c’è dubbio che l’idea di un’evoluzione sociale e la retorica della civiltà fossero modellate dalla sensibilità morale. Anche se queste prime figure di studiosi non denigravano del tutto i popoli «piú primitivi» – Morgan nutriva un sincero apprezzamento per la cultura irochese –, in quello schema non c’era molto spazio per il Buon Selvaggio à la Jean-Jacques Rousseau c. Ciò risulta evidente tra l’altro nell’afflato di questi uomini per una visione progressista della storia e persino, come ho già notato, per un’impostazione teleologica. Il fatto che l’umanità, come dice Tylor, fosse soggetta a leggi precise tanto quanto il moto ondoso conferiva a quel paradigma un’inclinazione

fortemente deterministica. Al centro di tale approccio, con tanto di leggi fisse, vi era il principio dell’«unità psichica dell’umanità». Tylor e Morgan erano convinti sostenitori dell’idea che le capacità mentali del selvaggio fossero le stesse del gentiluomo civilizzato; l’umanità era costituita da un’unica razza e, al centro di essa, vi era una sola mente. Questo è un principio significativo per due ragioni. Prima di tutto, offriva agli evoluzionisti sociali ciò di cui necessita ogni uomo di scienza, cioè una costante. Presupponendo l’unità psichica, diveniva possibile costruire una storia e persino una preistoria dell’umanità con quello che fu definito «metodo comparativo» (non si può dire che il termine fosse molto originale o specifico!) In secondo luogo, esso facilitava un approccio che poteva trovare fondamento in un’analisi quantificabile e basata su singole parti. «Se da qualche parte vi è una legge, essa è ovunque», scriveva Tylor 7. Sostenendo che una cultura poteva essere sezionata nei suoi elementi particolari, Tylor intendeva esattamente questo. L’inventario di arti e istituzioni riproduceva, a un microlivello, ciò che lo schema generale di selvaggi-barbari-civiltà proponeva a un macrolivello. Se per esempio stiamo analizzando una cultura con tale metodo comparativo, un elemento particolare, ovvero un «dettaglio» che dovremmo considerare, è il rapporto tra consanguinei, un legame istituzionalizzato che non poteva mancare in questo genere di interpretazione antropologica e che richiedeva allo studioso di calcolare semplicemente a che punto della scala evolutiva si collocasse. Non tutti i dettagli collimavano sempre alla perfezione. Esistevano tuttavia delle regole generali (in realtà delle semplici presupposizioni, ma ne parleremo piú avanti). Un sistema patrilineare, pertanto, doveva considerarsi come piú evoluto di un sistema matrilineare e lo si poteva quindi spuntare, come una casella su un modulo, nel calcolo complessivo di una condizione sociale piú evoluta. Ma perché? Ebbene, la discendenza patrilineare è chiaramente piú progredita – cosí ragionavano i vittoriani –, poiché si

basa su una certa rettitudine morale, stabilità e complessità sociale. Non potendo sapere se un dato uomo sia il padre biologico di un bambino con la stessa certezza per cui una donna è per forza la madre biologica, il sistema patrilineare indica uno stato evoluto di relazioni sessuali e parentali. Selvaggi e barbari, dopo tutto, non controllano i loro impulsi sessuali, per cui una loro donna potrebbe avere rapporti sessuali con diversi uomini e non sapere – o nemmeno curarsi di sapere – chi sia il vero padre. Il principio dell’unità psichica consentiva anche una certa libertà di azione rispetto all’elemento temporale. Dal momento che esiste tale unità psichica, e dal momento che la legge, come abbiamo visto, è ovunque, e poiché noi, come le onde, siamo soggetti alla legge del flusso e riflusso della marea, gli evoluzionisti sociali potevano trattare Irochesi, Caribe e Hadza come fossili viventi, osservando i quali si è in grado di prendere atto del nostro oscuro e primitivo passato. «I nostri piú lontani antenati attraversarono fasi identiche, una dopo l’altra, e possedettero – senza alcun dubbio – istituzioni identiche o molto simili, con molti degli stessi usi e costumi» 8. Seppure plasmato sotto un certo aspetto da un chiaro interesse per la storia piú profonda – lo sviluppo dell’umanità nel corso di decine di migliaia di anni –, sotto un altro aspetto l’evoluzionismo sociale si rivelava profondamente astorico. Tale astoricismo era alla base del malcontento di Boas. In un articolo apparso nel 1896, Boas criticava il lavoro degli evoluzionisti perché affermavano l’esistenza di leggi che governavano lo sviluppo sociale e culturale dell’umanità. Il problema, replicava Boas, era che cosí si ignorava la misura significativa in cui è assodato che tratti culturali e modelli di socialità sono spesso presi in prestito e adattati. L’accento posto sulle leggi dell’evoluzione elaborate da Tylor e altri aveva inoltre generato un approccio deduttivo. Essi lavoravano passando dal generale al particolare, e questo, sosteneva Boas, era cattiva scienza, un po’ come iniziare dalle conclusioni e lavorare a ritroso. L’antropologia deve essere invece un campo di indagine

induttiva e ha bisogno di costruire le proprie tesi passando dal particolare al generale. Come abbiamo già visto, questa enfasi sulla storia e la specificità costituisce la base concettuale della cultura boasiana. Tale antefatto ci consente di comprendere appieno come e perché Boas reputasse insensata la «dissezione» di una cultura nei suoi «dettagli» da parte degli evoluzionisti sociali. Per sezionare una cultura è indispensabile ucciderla. Nelle sue conclusioni Boas fu inesorabile: «Il metodo comparativo, nonostante tutto ciò che è stato detto e scritto in sua lode, si è rivelato notevolmente sterile di risultati precisi, e credo che non diventerà fecondo fino a quando denunceremo il vano tentativo di costruire una storia sistematica e uniforme dell’evoluzione della cultura» 9. Sorgeva anche un altro problema. L’evoluzionismo sociale vittoriano era una filosofia morale mascherata da scienza. Ancor prima di procedere alla sua analisi e valutarne ulteriormente le caratteristiche, è importante non semplificare eccessivamente l’impegno di Tylor, Morgan e altri, o leggere il fenomeno in modo anacronistico. Un punto oggi spesso ignorato negli agguerriti seminari universitari dedicati a questi studiosi di epoca vittoriana è il carattere progressista del loro principio onnicomprensivo. Il solo fatto di asserire, negli anni Settanta del XIX secolo, che per un «boscimane» del Kalahari e un «gentiluomo» londinese valeva la stessa unità psichica significava sfidare una logica di razzismo e discriminazione razziale che manteneva da lungo tempo (e mantiene tuttora) una forza indiscussa: i popoli bianchi e quelli non-bianchi hanno capacità mentali qualitativamente diverse. Su questo punto, in realtà, lo stesso Boas si sarebbe trovato spalla a spalla con i suoi antenati vittoriani. Non era affatto insolito a quel tempo contestare l’idea che gli africani fossero mentalmente in grado di realizzare qualsiasi cosa che potesse sembrare una «civiltà». Pertanto, allorché le autorità coloniali e i missionari europei trovarono sistemi politici statali in Africa centrale, dovettero darne una qualche spiegazione. I Tutsi, per esempio, che costituivano il nucleo di un sistema monarchico in

Ruanda, non erano veri africani. Attingendo a piene mani alla storia biblica di Cam, molti colonialisti conclusero che i Tutsi dovevano essere una tribú perduta di Israele. Argomenti analoghi vennero avanzati per l’impero scomparso di Monomotapa nell’Africa meridionale; le magnifiche rovine del Grande Zimbabwe, si sosteneva (anche da parte degli archeologi), non potevano essere state create da un popolo di colore. Ho parlato di «una logica di razzismo» perché ne esistono molte, e l’evoluzionismo sociale vittoriano finí per promuoverne e legittimarne una diversa. L’impianto logico dei vittoriani era giustificato da differenze non tanto qualitative quanto quantitative ed era imperniato sulla temporalità, piuttosto che sulla biologia. In questo schema evolutivo, gli «altri» non erano creature del tutto diverse; erano ciò che noi eravamo stati in precedenza, come dei bambini che un giorno avrebbero potuto diventare uguali a noi, ma che avevano ancora una lunga strada da percorrere. Questo tipo di paternalismo era perfettamente congeniale agli scopi dell’impero. Cosí come i nuovi professori di antropologia erano impegnati nei loro studi a tracciare la traiettoria seguita da popoli selvaggi, barbari e civilizzati, una miriade di altri attori ottocenteschi – viceré britannici, troupes coloniales francesi, missionari pietisti tedeschi – si stava appropriando della logica e della grammatica della civiltà per giustificare l’imperialismo. La missione civilizzatrice, o mission civilisatrice, è un aspetto onnipresente nella storia dell’era coloniale, anzi rappresenta il contesto stesso in cui deve leggersi l’esperienza coloniale. Non è necessario sfogliare molte pagine di qualsiasi diario di viaggio, rapporto di missionari o circolare coloniale per imbatterci nella forza della missione civilizzatrice. Qualsiasi studente di storia coloniale non può che essere consapevole delle volute retoriche dei missionari della London Missionary Society, o delle dichiarazioni di politici come il primo ministro francese Jules Ferry, pronto a proclamare il diritto e il dovere della Francia di diffondere gli «ideali della civiltà nel loro piú

alto significato» 10. Uno degli studi che meglio coglie le dinamiche della missione civilizzatrice appartiene a Jean e John Comaroff 11. Esperti del popolo Tswana del Botswana e del Sudafrica, essi documentano in grande dettaglio il modo in cui, nel corso del XIX secolo, la retorica di «cristianesimo, commercio e civiltà» modellò l’incontro coloniale e la rappresentazione occidentale dell’Africa come il «continente nero». Combinando le ricerche sul campo da loro svolte negli anni Settanta e Ottanta con fonti archivistiche e letture della cultura popolare, i Comaroff ricostruiscono quella che essi chiamano la «lunga conversazione» tra i missionari (originari in gran parte di ambienti non conformisti; uomini come Robert Moffat e David Livingstone) e il loro gregge di futuri fedeli. Il fatto che gli autori si concentrino sui missionari anziché su funzionari coloniali o mercanti non significa che queste altre figure non fossero importanti. In realtà, però, erano spesso i missionari ad arrivare per primi (qualunque fosse il posto), si fermavano a lungo e si facevano un’idea della situazione (fino a quando non arrivarono gli antropologi finanziati dai governi, naturalmente). In ciò che ci viene mostrato dai Comaroff, un elemento importante è rappresentato dal modo in cui l’opera di civilizzazione andava intesa e realizzata rispetto sia a Dio sia al mercato, come anche al mondo correlato di costumi, norme etiche e disposizioni di legge. Buona parte di ciò che i missionari fecero nell’Africa coloniale andava ben oltre l’opera di evangelizzazione in sé. I missionari riorganizzarono quasi tutto, non solo pratiche rilevanti come gli usi legati alle unioni matrimoniali (la poligamia causava a innumerevoli missionari una vera e propria sofferenza morale), ma anche dettagli apparentemente secondari, come la planimetria di un villaggio o l’uso di utensili. Essere civilizzati significa anche essere civili, ovvero concretizzare una società educata e attenersi ai suoi costumi. I missionari si fecero spesso paladini della scienza, cercando di eliminare dalla realtà indigena tutto ciò che veniva inteso come irrazionalità e superstizione.

Fondarono ospedali e scuole per curare il corpo e allenare la mente. La «colonizzazione» non fu mai una cosa sola, non fu mai un unico progetto controllato da un vescovo o da un primo ministro o da un avventuroso magnate. I Comaroff e molti altri attenti studiosi della storia imperiale e coloniale lo hanno abbondantemente dimostrato. Ciò che essi palesano, tuttavia, è anche la straordinaria forza assunta da quella che potremmo chiamare la grammatica della civiltà. I Comaroff definiscono tale grammatica la «colonizzazione della coscienza», intendendo con essa il fatto che i sudditi dell’impero sottoposti all’opera di evangelizzazione erano chiamati, volenti o nolenti, a prendere parte a una lunga conversazione in cui dovevano accettare come termini di discussione quelli stabiliti dagli europei e dagli americani. In un capitolo di un’opera dei Comaroff spesso citato, gli autori illustrano tale momento discutendo un passaggio del lavoro di David Livingstone, probabilmente il piú grande e piú popolare missionario-esploratore dell’era vittoriana (il suo corpo è sepolto nell’abbazia di Westminster; il suo cuore, tuttavia, riposa in Africa, come egli desiderava). Nel passaggio in questione, Livingstone racconta di un vivace scambio di vedute avuto con un uomo di etnia Tswana. Livingstone vi recita la parte dell’«uomo della medicina» (non dimentichiamo che spesso questi uomini di Dio erano anche uomini di scienza al servizio di Dio), mentre l’indigeno Tswana viene definito un «mago della pioggia». Nello scambio di idee, Livingstone fa appello alla scienza, alla ragione e alla teologia nel tentativo di convincere il mago della pioggia che i suoi sforzi sono vani – nella migliore delle ipotesi può iniziare a piovere per pura coincidenza; nel peggiore dei casi, si tratta di invocazioni della pioggia lanciate con cinico tempismo (non appena all’orizzonte si addensano delle nuvole). Il mago della pioggia, in realtà, non intende demordere, rifiutandosi di soccombere a molti dei punti che Livingstone segna a proprio favore e rimarcando perfino l’ipocrisia del missionario. Livingstone, dunque, ci presenta dell’«Altro» l’immagine di un uomo che oppone resistenza, non certo un primitivo infantile e passivo. Nondimeno, alla

fine, la conversazione viene a svolgersi nei termini posti da Livingstone, in cui sono scienza, ragione e teologia a modellare i parametri di ciò che è grammaticale e di ciò che è sgrammaticato. La civiltà vince. Quella conversazione ebbe davvero luogo? Può essere. Avvenne esattamente come riferisce Livingstone? Ne dubito. Egli sta raccontando la propria versione, che deve essere quanto piú avvincente possibile per il suo pubblico, tanto piú con le secche repliche del permaloso indigeno. Come sostengono i Comaroff, tuttavia, il racconto è rappresentativo di uno «scontro tra due culture», già in atto e ben piú diffuso 12. Non si tratta affatto che la «cultura occidentale» abbia vinto. L’idea stessa che possa esservi stata una vittoria del genere è qualcosa che i Comaroff e i piú rispettabili antropologi respingerebbero in toto, come spero che l’ultimo capitolo di questo libro spiegherà chiaramente. In realtà, come chiariscono i dati etnografici, ogni scambio di vedute, o perfino ogni scontro, è sempre a doppio senso, o a senso multiplo. Buona parte di ciò che i Comaroff documentano nella loro antropologia storica corrisponde, di fatto, a un’africanizzazione del pensiero occidentale – nella misura in cui perfino queste denominazioni acquistano senso solo se messe in rapporto l’una con l’altra. Il dato etnografico, tuttavia, chiarisce anche che la grammatica della civiltà ebbe un effetto potente e spesso pernicioso sulle dinamiche coloniali e post-coloniali e sull’immaginario culturale. Quasi un secolo dopo quello scambio di idee riportato nel diario di viaggio di Livingstone, un altro medico offrí una diagnosi lungimirante della condizione coloniale. Frantz Fanon era uno psichiatra originario della Martinica che aveva studiato in Francia e aveva poi proseguito facendo pratica presso un ospedale in Algeria, trovandosi cosí coinvolto, in seguito, nella lotta algerina per l’indipendenza. Nel suo testo ormai classico del 1952, Peau noire masques blancs (Pelle nera, maschere bianche: il nero e l’altro), Fanon lancia un grido di battaglia a coloro che stanno dietro al mago

della pioggia Tswana, colpendo al viso con un fulmineo schiaffo sia il padrone coloniale sia il suddito coloniale, cogliendo in fallo l’ipotesi che «il negro è una fase della lenta evoluzione dalla scimmia all’uomo» (con buona pace del carattere progressista del principio dell’unità psichica!) Prosegue Fanon: «Ogni popolo colonizzato, cioè ogni popolo in cui si sia instaurato un complesso di inferiorità a causa dell’avvenuta distruzione dell’originalità culturale locale, è posto di fronte al linguaggio della nazione civilizzatrice, cioè della cultura metropolitana. Il colonizzato si allontanerà tanto maggiormente dalla “foresta” che gli è propria, quanto piú avrà fatto suoi i valori culturali della metropoli. Sarà tanto piú bianco quanto piú avrà rigettato la sua nerezza, la sua “foresta”» 13. Un diverso esempio dell’effetto «foresta», cronologicamente piú vicino a noi, è offerto dallo studio degli indios Ese Ejja della Bolivia settentrionale 14. Il popolo degli Ese Ejja, che parlano una lingua del gruppo Tacanan, conta meno di 1500 individui, sparsi in varie zone della Bolivia e del Perú; cacciano, pescano, praticano un’agricoltura nomade del tipo «taglia e brucia» e vivono in villaggi (oggi organizzati attorno a campi da calcio). Come molti piccoli gruppi indigeni, hanno spesso sofferto per mano dei colonizzatori europei, rimanendo emarginati in villaggi remoti o sfruttati come manodopera nelle miniere. Durante il lavoro sul campo condotto nel 1999-2001, Isabella Lepri sentí spesso ripetere dagli Ese Ejja che essi non si giudicavano «un popolo come si deve», che vivevano ancora allo stato selvaggio, mentre i bianchi e i meticci boliviani delle città erano gente civilizzata. Effettivamente, nella lingua locale, i bianchi sono chiamati dejja nei (gente vera / molto bella / reale / come si deve). Per molti aspetti, riferisce Lepri, gli abitanti del villaggio da lei incontrati volevano essere come i bianchi delle grandi città. Nel villaggio, una donna che l’antropologa conosceva cucinava «cibo dei bianchi», come cipolle e cumino. Voleva che la studiosa le comprasse del formaggio quando andava in città e insisteva perché si pranzasse a

«mezzogiorno» (anche se Lepri precisa che l’ora non aveva molta relazione con il mezzogiorno segnato dall’orologio). Localmente, non mancavano neppure alcune alterazioni culturali: i giovani che giocavano a calcio – gioco che ha un successo enorme presso gli Ese Ejja – cercavano di scimmiottare quello che sapevano dalla cultura popolare su come si giocava, come ci si vestiva e come si agiva sul campo. Vi era tuttavia una differenza notevole: un goal non era mai accompagnato da manifestazioni di spavalderia e neanche di semplice gioia; tradizionalmente, per gli Ese Ejja, vincere o battere un altro significa innescare un conflitto e fanno quindi il possibile per evitare qualsiasi scontro (in una partita degli Ese Ejja, la squadra vincente non si concentra sul punteggio finale; i giocatori si limitano a dire di quanti goal avrebbe bisogno l’altra squadra per pareggiare). I giovani, piú in generale, erano considerati comunque «quasi dei dejja», cioè piú avanti lungo il percorso verso una vita civile. Gli Ese Ejja hanno dunque interiorizzato la grammatica della civiltà, né possono ritenersi dei «miserevoli selvaggi» in senso assoluto. Per altri aspetti, il loro atteggiamento nei confronti dei boliviani dalla pelle bianca rivela un quadro piú complesso. Questi indios possono anche desiderare di essere «civilizzati», ma non vorrebbero essere dei bianchi boliviani né vivere nelle città, che considerano sporche, pericolose e violente. Nel villaggio, dicono, si vive bene e le persone si prendono cura l’una dell’altra. Il cibo è abbondante e condiviso. Piú gli Ese Ejja entrano in contatto diretto con gli estranei, piú questo orgoglio locale sembra manifestarsi, invertendo i valori della conoscenza con l’Altro. Tali cambiamenti nel processo di autoidentificazione e autovalutazione non sono inusuali, ma, nel contesto amazzonico, numerosi studi condotti di recente sulle culture locali hanno ipotizzato una specificità regionale di tale dinamica, chiamata «prospettivismo». Tratterò questo approccio antropologico nel capitolo VIII , visto che negli ultimi venti anni ha attirato molta attenzione. Mi limito per ora a far notare semplicemente che, insieme con la passione per il calcio, è evidente che «gli Ese Ejja

vogliono diventare dei dejja, ma alle loro condizioni e attraverso un’imitazione selettiva, escludendo cioè quel genere di comportamento che contraddice alla loro etica» 15. Gli studi sugli Ese Ejja sembrano indicare che il linguaggio che contrappone stato selvaggio e civiltà è sopravvissuto tra noi fino a oggi. Un aspetto centrale di tutto questo trova espressione non solo nell’uso esplicito di tali termini, ma anche in ciò a cui ho fatto riferimento in precedenza come cardine temporale del pensiero evolutivo. Tale cardine può risultare spesso ben nascosto e ben oliato, ma sapere che esiste è fondamentale al fine di comprendere come funziona la logica. Al posto di imbarazzanti e scomode osservazioni riguardo a quelli che non sono «un popolo come si deve», troviamo molto piú spesso persone che definiscono gli altri (e talvolta loro stessi) come arretrati, indietro coi tempi, bloccati nel tempo eccetera. Questo modo di parlare è comune non solo in situazioni coloniali o post-coloniali, ma ovunque. Se uno vive nel Galles rurale o nelle campagne dell’Idaho, quelli che abitano a Cardiff o a Seattle non avrebbero difficoltà a dire che è rimasto indietro nel tempo, anzi, potrebbe essere quello stesso contadino del Galles o dell’Idaho a dirlo, vedendolo come motivo di orgoglio. Quello che voglio dire è che questi giri di frase, benché spesso usati in battute innocenti e di dubbio gusto, esprimono la logica dell’evoluzionismo sociale tanto quanto l’auto-denigrazione degli Ese Ejja. Tale logica entra in azione non solo nei detti scherzosi sulla gente delle campagne gallesi, o nelle analisi antropologiche degli indigeni dell’Amazzonia. Prendiamo per esempio la «Guerra globale al Terrore», un modo di vedere le cose che abbiamo considerato all’inizio del capitolo parlando dei tweet di Trump. Subito dopo gli attacchi dell’11 settembre, la retorica della civiltà ha vissuto una rigogliosa fioritura. In tutto l’Occidente, e in alcuni casi ben al di là dei suoi confini, politici e analisti esperti lanciavano appelli al mondo civilizzato affinché opponesse una salda resistenza ai barbari attacchi dei terroristi. In questo non c’è niente di cosí eccezionale: l’«Altro»,

come nemico, sarà sempre barbaro o selvaggio per certi aspetti. Date uno sguardo ai manifesti della propaganda americana durante la Prima guerra mondiale: i tedeschi – o meglio, gli Unni – non sembrano granché civilizzati, anzi, a volte non sono neppure raffigurati come esseri umani ma come scimmie spaventose. Ciò che tuttavia assume particolare rilievo nella Guerra al Terrore è il concetto stesso di civiltà, soprattutto nell’interpretazione di Samuel P. Huntington, docente di scienze politiche all’Università di Harvard. Nel 1993, Huntington pubblicò un articolo molto autorevole, The Clash of Civilizations?, ripreso anni dopo nel volume The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order (Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale), in cui esponeva la sua visione della futura politica mondiale 16. Conclusasi la guerra fredda, sosteneva Huntington, la geopolitica non sarebbe piú stata definita dalla lotta ideologica tra socialismo e capitalismo; in realtà, lo stesso linguaggio che parlava di Primo, Secondo e Terzo Mondo aveva ormai perso ogni rilevanza. All’ordine mondiale della guerra fredda si sarebbe sostituito uno scontro di civiltà. Huntington definisce la civiltà come «il piú vasto raggruppamento di uomini e il piú ampio livello di identità culturale che l’uomo possa raggiungere dopo quello che distingue gli esseri umani dalle altre specie» 17. Nell’uso da parte di Huntington dei termini «cultura» e «civiltà» si riscontrano parecchi slittamenti. La prima è annidata all’interno della seconda e presenta maggiori elementi specifici a medio e microlivello, anche se in molti casi l’autore usa i due termini come fossero intercambiabili. In questo senso, cosí come nella misura in cui la sua definizione si basa sul principio dell’unità psichica, l’interpretazione di Huntington è notevolmente simile a quella di Tylor. Per entrambi, infatti, è la civiltà, e la narrazione morale dietro di essa, ciò che piú conta. Quel che è certo è che Huntington non parla di «razze primitive» né di selvaggi o barbari. La civiltà è il minimo comun denominatore dell’umanità – una «grande civiltà» potrebbe esistere perfino in

Africa, ci dice l’autore (cosa che i vittoriani invece non dicevano). Le civiltà differiscono l’una dall’altra sia per «elementi oggettivi comuni, quali la lingua, la storia, la cultura, la religione, i costumi e le istituzioni, sia [per] il progetto soggettivo di autoidentificazione dei popoli» 18. Tali differenze sono reali e basilari e, pur non essendo predestinate allo scontro né totalmente immuni a cambiamenti e sfumature, costituiscono una fonte di pericolo non trascurabile. E il piú grande di tali pericoli, nell’impressione di Huntington, era uno scontro tra Occidente e Islam. L’articolo apparve nel 1993. Cinque anni dopo, con gli attacchi in Africa orientale orditi contro due ambasciate americane da un certo Osama bin Laden, cominciò a intuirsi in Huntington la dote della perspicacia; dopo l’11 settembre, le sue parole sembrarono decisamente profetiche. Non che la «coalizione dei volenterosi» approvasse in toto le idee di Huntington. Nella narrazione ufficiale la Guerra globale al Terrore non venne mai intesa come uno scontro di civiltà. Di certo, non sarebbe stato opportuno che George W. Bush parlasse apertamente in questi termini. Il messaggio era sempre che gli atti dei terroristi erano una perversione dell’Islam. Quando però Bush si riferí un giorno al piano militare con la parola «crociata» – evocando quindi l’immagine medievale –, i responsabili della Casa Bianca per i rapporti con la stampa e i mass media pensarono bene di correre a ripari 19. Comunque fosse, Huntington aveva ben poco tempo per i neoconservatori che progettavano le campagne in Afghanistan e Iraq. Come molte frasi a effetto, tuttavia, quelle di Huntington indicano una mentalità e uno stato d’animo piú diffusi. La Guerra globale al Terrore è una dimostrazione pratica di come l’evoluzionismo sociale continui a esercitare il suo fascino. Questo apparve evidente quando le azioni militari, soprattutto in Afghanistan, vennero legate a una missione civilizzatrice. La campagna in Afghanistan ha sempre goduto di un impeto morale particolarmente forte a causa dei talebani, visti come puri e semplici barbari, in particolare per il trattamento da loro riservato alle ragazze e

alle donne. Gli afgani dovevano essere salvati. In Iraq, invece, si trattava di portare la democrazia, considerata dai suoi paladini il sistema politico piú civile ed evoluto (dopo tutto, le democrazie sono sistemi politici dotati di società civile, giusto?) Ancora una volta, il fatto che in un conflitto una delle parti affermi la propria superiorità morale sull’altra non è certo nuovo. La moderna concezione della civiltà, tuttavia, ha anche attinto copiosamente al linguaggio figurativo del tempo. Al pari degli antropologi vittoriani, gli attori chiave della Guerra al Terrore si accostarono all’Altro come a un fossile vivente, bloccato nel passato. A mio giudizio, una delle affermazioni piú illuminanti a conferma di tale mentalità appartiene a un colonnello dell’esercito americano: «Nell’Iraq occidentale è come vivere sei secoli fa, con i beduini nelle loro tende di pelli di capra» 20. Non sono uno stratega militare, ma se lo fossi, metterei sicuramente in chiaro che questo è un pessimo modo – un modo molto pericoloso – di pensare ai beduini. Se ripensiamo ad alcune delle guerre combattute con minor successo dagli americani nel recente passato – Vietnam, Iraq, Afghanistan –, non è difficile vedere con quale frequenza sia stata mal riposta la fiducia nella superiorità tecnologica degli Stati Uniti. Dietro tali errori vi è l’idea culturalmente condizionata che il potere di una potente civiltà avrà sempre la meglio su ciò che può fare una società o un nemico meno sviluppato. Esiste un’espressione per tale fenomeno, coniata dall’antropologo tedesco Johannes Fabian: la «negazione della contemporaneità», ovvero negare che stiamo vivendo nella stessa epoca di qualcun altro. Fabian ideò l’espressione negli anni Ottanta come una critica al modo in cui gli antropologi spesso trattavano i loro soggetti di studio. A quel tempo, ovviamente, ogni esplicita adesione all’evoluzionismo sociale era stata quasi universalmente abbandonata. Nella sua argomentazione, Fabian si riferiva al trattamento dell’Altro come un tipo di antichi campioni fossili sopravvissuti in altri paradigmi teorici. L’antropologia, scriveva Fabian, è vissuta come una «macchina del

tempo» 21. Quando l’antropologo lascia gli studi universitari, si trova nel Tempo del presente; quando inizia a lavorare sul campo, si trova in un Tempo del passato. Fabian aveva assolutamente ragione. Anche se il suo libro si rivelò fondamentale per dissipare tale negazione della contemporaneità, quest’ultima rappresenta tuttora un pregiudizio antropologico. Essa nasce per lo piú da una sorta di sensibilità romantica, forse anche abbastanza innocua. Eppure, un lavoro svolto in Africa, o nelle grandi pianure del Sud America, o nelle steppe della Mongolia gode spesso di maggiore prestigio che una ricerca condotta negli Stati Uniti o in Germania d. Questo perché l’antropologia è ancora, almeno in parte, sotto l’influenza dell’idea che per capire veramente la condizione umana abbiamo bisogno di eliminare tutti i simboli esteriori della civiltà e della modernità. Il retaggio dell’evoluzionismo sociale presenta anche aspetti meno duri. La parola «modernità» potrebbe non richiamare progetti di guerra, ma piuttosto piani di sviluppo e di pace. Dopo la Seconda guerra mondiale, alcuni antropologi furono coinvolti nell’elaborazione e attuazione di una «teoria della modernizzazione». All’inizio della sua attività professionale, per esempio, Clifford Geertz diresse all’Università di Chicago il Committee for the Comparative Study of New Nations. Fondamentalmente, si trattava di un tentativo su basi socio-scientifiche di capire in che modo le ex colonie (si pensi alle nazioni da poco divenute indipendenti, come Ghana, Indonesia, Marocco eccetera) avrebbero potuto e dovuto modernizzarsi. Che cosa poteva portare queste nazioni nell’ovile del mondo contemporaneo? Di quante strade, ospedali e architetti esperti avrebbero avuto bisogno? Molti teorici della modernizzazione erano convinti che la conoscenza delle varie culture fosse vitale, da cui il valore attribuito agli antropologi coinvolti nel progetto. Il punto non era che si volessero conservare altre culture, anche se un po’ di colore e di sapore locale sarebbe stato utile. Il punto, se mai, era come massimizzare il potenziale di progresso e integrazione nel sistema

mondiale (ovvero occidentale). Questi teorici – economisti come Walt Rostow e sociologi come Talcott Parsons e Shmuel Eisenstadt – proposero idee neoevolutive in termini di sviluppo, rendimento e prodotto interno lordo. Lo sviluppo a livello internazionale – come attuale risultato della modernizzazione – è ora un importante campo di studi, con una gamma di impostazioni metodologiche in continua crescita, cosí come il suo perno morale. Oggigiorno, non c’è una sola delle grandi società transnazionali che non possieda una divisione o una squadra dedicata alla «responsabilità sociale d’impresa»; società minerarie attive in Sudafrica e Papua Nuova Guinea costruiscono scuole, sostengono cooperative femminili di tessitura e cosí via, tutto per dimostrare di essere dei buoni concittadini. Queste iniziative sono spesso pubblicizzate alla stregua di una forma di «autovalorizzazione locale». Come hanno dimostrato due eminenti personalità dell’antropologia dello sviluppo, la modernizzazione di vecchia scuola presumeva un effetto a cascata: era sufficiente cooperare con l’élite post-coloniale del luogo e con le nuove istituzioni statali e i benefici si sarebbero diffusi anche ai contadini sui gradini inferiori della scala sociale 22. In realtà, come controbattono gli antropologi dello sviluppo, molti di questi programmi sono falliti o hanno addirittura peggiorato la situazione di partenza, spesso perché, nonostante l’impegno ribadito dai modernizzatori, ignoravano completamente ogni questione di ordine culturale. Ammesso che alcune iniziative di sviluppo sono migliorate e hanno dimostrato maggiore sensibilità ai problemi dell’autovalorizzazione e ai valori locali, resta comunque notevole fino a che punto si siano oggi radicati la grammatica della civiltà e l’evoluzionismo sociale. È vero, ritroviamo tali elementi soprattutto nel lavoro dei falchi della scienza politica e nei teatri di guerra – che è esattamente quello che dobbiamo aspettarci, diranno i lettori di sinistra e progressisti. Eppure, basta dare una scorsa al quotidiano «The Guardian» – quel venerabile periodico del giornalismo progressista – per imbatterci in questi stessi

elementi. Nel 2008, «The Guardian» ha lanciato un esperimento triennale di aiuti in collaborazione con la Barclays Bank e l’Amref (African Medical and Research Foundation), un’organizzazione non governativa con base in Africa focalizzata sull’assistenza sanitaria. Il progetto aveva la propria sede a Katine, un villaggio dell’Uganda settentrionale. Uno delle caratteristiche distintive del programma era la sua apertura al grande pubblico, grazie anche al fatto che «The Guardian», durante lo svolgimento del progetto, curava sul web una vasta raccolta di articoli, video, relazioni, registrazioni di seminari e commenti dei lettori 23. Si tratta di un incredibile archivio di materiali che rivela la complessità dell’opera di sviluppo, soprattutto quando c’è da costruire qualcosa di sostenibile. L’archivio ci mostra sia i successi sia i fallimenti e gli intoppi, e di risultati positivi ce ne sono indubbiamente stati: maggiore disponibilità di acqua potabile pulita, introduzione di nuove colture, tassi di immunizzazione infantile e creazione di società di risparmio e prestito. Come afferma Ben Jones, uno degli antropologi coinvolti nella valutazione dell’esperimento, il progetto può aiutarci a capire «perché lo sviluppo sia al tempo stesso difficile e necessario» 24. Il progetto di Katine rappresentava uno sforzo ben ponderato e innovativo. Eppure, la prima impressione che ebbi del progetto mi lasciò sconcertato. Il giorno del suo lancio pubblico – sabato 20 ottobre 2007 –, comprai come al solito il mio «Guardian» e l’occhio mi cadde sul titolo in prima pagina: Riusciremo, insieme, a sollevare un villaggio dal Medioevo? A cui seguiva come sottotitolo: Per il lancio di un ambizioso esperimento di aiuti del «Guardian», Alan Rusbridger vola per poche ore da Londra e si ritrova indietro nel tempo di 700 anni 25. Rusbridger, all’epoca caporedattore di «The Guardian», aveva tratto la metafora del Medioevo da Paul Collier, un economista dell’Università di Oxford. Nell’articolo, Rusbridger ampliava ulteriormente l’immagine, dicendo che il progetto intendeva «contribuire a cambiare delle vite ancora intrappolate nel XIV secolo».

Questo è perfino peggiore e perfino piú pericoloso delle osservazioni fatte in Iraq dal colonnello dell’esercito americano. Dobbiamo pensare che Rusbridger – o Collier, la sostanza non cambia – sia semplicemente una nuova incarnazione di E. B. Tylor, o una qualche versione secolarizzata di David Livingstone? No. Il progetto rivela nel suo complesso una sfumatura di pensiero, un livello di cognizione e una consapevolezza molto piú profonda dei pericoli del paternalismo rispetto ai vittoriani o ai modernizzatori. Ma è proprio per questo, piuttosto che nonostante questo, che dovremmo sentirci particolarmente demoralizzati dal florilegio della retorica di Rusbridger. Molte persone non interpretano questi svolazzi come metafore: li vedono come letterali. Pensano che gli africani dell’Uganda rurale siano davvero intrappolati nel XIV secolo. La negazione della contemporaneità gode di ottima salute. Perché tutto questo è cosí pericoloso? Perché ci impedisce di vedere che le vite degli abitanti del villaggio di Katine non sono affatto intrappolate nel XIV secolo, ma trascorrono la loro intera esistenza in un mondo appartenente al XXI secolo, modellato da un’infinità di dinamiche economiche e politiche, coloniali e postcoloniali. Katine vive nella contemporaneità perché è plasmato dal lascito della politica coloniale britannica, dal regime di Idi Amin, da un’insurrezione regionale tuttora in atto, dalle sovvenzioni agricole dell’Unione Europea, dai piani strategici del Fondo monetario internazionale e da altro ancora. Se riusciamo a collocare l’«Altro» africano in un’era passata, non dobbiamo affrontare pienamente le ragioni per cui la sua vita non assomiglia alla nostra. Vivere nel XXI secolo non significa avere accesso a un ospedale funzionante, a Internet e a un’urna elettorale senza brogli. In questa immagine dell’«adesso» – ovvero di ciò che rappresenta le conquiste della civiltà – si scambia una parte per il tutto; si rifiuta di riconoscere che l’«adesso» è costituito da molto di piú di ciò che un euro-americano immagina come modernità. Nell’ultimo capitolo cerco di difendere il concetto di cultura da

quanti vorrebbero liberarsene, di certo come elemento che inquadra l’analisi antropologica. In tal senso, sarebbe disonesto da parte mia bandire a mia volta un altro termine, forse quello che – come ho detto – ha i piú stretti legami con la cultura. La parola «civiltà» sembra essersi scatenata. È usata oggi in modi che spesso suggeriscono una superiorità sotto quasi tutti gli aspetti: tecnologico, morale ed etico. In maniera esplicita o meno, il suo uso tradisce spesso un debito verso gli schemi dell’evoluzionismo sociale che animarono i primi tempi dell’antropologia e diedero via libera al colonialismo europeo. Nel concludere questo capitolo, tuttavia, vale la pena considerare ciò che si perde o resta oscurato se ce ne liberiamo del tutto. Va al di là di ogni ironia il fatto che proprio in Iraq il nostro colonnello americano abbia evocato l’immagine medievale dei beduini nelle loro tende di pelle di capra. Come ogni archeologo saprà dirvi, le capre furono uno dei primi animali domestici. Nella visione grandangolare della preistoria, le capre sono una testimonianza della civiltà, non un segno della sua assenza. In piú, l’Iraq, come spesso si impara già alle elementari, è il «luogo di nascita della civiltà», corrispondente all’antica Mesopotamia. Fu nelle fertili terre tra i fiumi Tigri ed Eufrate che ebbe inizio quella che chiamiamo «civiltà». Insieme con l’Antico Egitto, pensiamo a questa mezzaluna fertile nel Vicino Oriente come alla culla della storia, contrassegnata in primo luogo dallo sviluppo della scrittura e dagli insediamenti urbani nel IV millennio a.C. In archeologia, la «civiltà» ha da lungo tempo questa connotazione piú descrittiva. Essa sottintende l’urbanizzazione, e non – necessariamente o soltanto – maniere piú educate e valori piú alti. David Wengrow, archeologo dello University College London, ha cercato recentemente di affrontare la complessità storica e le diverse occorrenze del termine. «Che cos’è a creare la civiltà?», si è domandato Wengrow 26. Concentrando l’attenzione sull’antico Vicino Oriente, egli offre una risposta composta di diverse parti. Innanzi tutto, sostiene l’autore, una civiltà non è definita dai suoi confini. Mesopotamia e Antico Egitto devono essere considerati come entità

separate e distinte, ma è una distinzione segnata in parte da una storia di importanti interazioni e scambi attraverso la regione. Per Wengrow, una civiltà è tale, e non in piccola parte, in virtú della qualità e profondità dei suoi rapporti con l’esterno. Egli basa questa conclusione su un’attenta lettura della documentazione archeologica in continuo arricchimento, limitandosi a seguire quanto fossero estesi nel III millennio a.C. la circolazione e il commercio di materie prime e merci (dai lapislazzuli ai cereali). Da Troia e dal Mediterraneo a Occidente, alla regione montuosa di Chagai e alla valle dell’Indo a Oriente, era tutta una fitta rete di interscambi. Giungendo a tale conclusione, Wengrow mira all’idea di Samuel Huntington che le civiltà siano a tal punto simili a oggetti da avere la propensione a schiantarsi e scontrarsi. Wengrow vuole anche distogliere l’attenzione degli studi sulla civiltà dall’elemento monumentale e spettacolare a quello meno appariscente e quotidiano. Le piramidi e le ziggurat sono senza dubbio opere impressionanti di ingegneria e la scrittura ha rappresentato certamente una svolta tecnologica. Eppure, piú che a esse, dovremmo prestare attenzione alle semplici pratiche della vita di ogni giorno – cucina, abbellimenti ornamentali del corpo, situazioni domestiche –, di cui l’archeologia, oltre tutto, può raccontarci con sempre maggiore accuratezza. Siamo dinnanzi a un’altra versione del motto dell’archeologia che ho riportato nel capitolo precedente: studiare le piccole cose dimenticate. Riguardo al Vicino Oriente dell’antichità, una delle conclusioni piú sorprendenti che possiamo trarre grazie a questo spostamento di attenzione, è come esso rafforzi e approfondisca la considerazione del carattere peculiare delle visioni del mondo egizia e mesopotamica. Paradossalmente, nonostante la portata delle interazioni riscontrabili in questo grande «calderone di civiltà», per quasi 4000 anni dominò un approccio relativamente distinto all’ordine simbolico del mondo 27. In Mesopotamia, tale ordine era organizzato intorno al valore dell’abitazione, mentre nella valle del Nilo ruotava attorno al valore

del corpo. La lezione da trarre è quella di apprezzare il «profondo attaccamento delle società umane ai concetti che sono alla base della loro vita» 28. Le conclusioni di Wengrow sollevano ulteriori domande per l’antropologia. Se le due discipline – archeologia e antropologia – concordano nel ritenere che i modelli di civiltà e cultura che vanno da Tylor a Huntington sono imprecisi e sbagliati, questo come si può conciliare con il fatto che i concetti che sono alla base della nostra vita possano essere cosí precisi e duraturi? In fondo, 4000 anni sono un tempo ben lungo anche per un archeologo. E se quanto abbiamo visto negli ultimi 6000 e piú anni di storia umana non è un’evoluzione sociale, allora che cos’è? La risposta alla seconda domanda è piuttosto semplice: è cambiamento. In alcuni casi potremmo voler chiamare questo cambiamento «sviluppo», o forse perfino mettere in campo termini ineleganti come «complessificazione». Definire però tale cambiamento come evoluzione sociale significa distorcere il meccanismo della cultura. Quanto alla prima domanda, direi che abbiamo già esordito bene, visto che questo capitolo e il successivo ruotano intorno a un termine importante che ci aiuta a capirlo: valori. Ed è appunto ai valori che ora ci rivolgiamo.

a.Lo stesso Thoreau si ritirò sul lago Walden solo per un periodo di tempo limitato. «Vissi là due anni e due mesi e ora sono tornato nuovamente tra gli uomini civili», comunica al lettore l’incipit di Walden ovvero Vita nei boschi, Einaudi, Torino 2015, p. 3. b. Non che l’Africa fosse imperscrutabile; essa era un «caos etnico» per via dell’estrema varietà di formazioni sociali ivi trovate. Gli Hadza dell’Africa orientale, per esempio, erano classificati come selvaggi cacciatoriraccoglitori, mentre gli Nguni dell’Africa meridionale erano considerati barbari perché traevano i mezzi di sussistenza dalla pastorizia e avevano un sistema politico basato sui clan; i barbari, dopo tutto, avevano animali

domestici e gerarchie politiche. c. Scrive Tylor in Primitive Culture: «I Caribe sono descritti come una razza allegra, timida, gentile, e cosí onesti tra di loro che se perdevano qualcosa da un’abitazione, dicevano con totale naturalezza: “Di qui deve essere passato un cristiano”. Eppure, la ferocia maligna con cui queste persone per altro stimabili torturavano i loro prigionieri di guerra con coltelli, tizzoni ardenti e peperoncino rosso, per poi cuocerli e mangiarseli facendo veri bagordi, ha fatto sí che il nome Carib (cannibale) diventasse a buon diritto la denominazione generica dei mangiatori di uomini nelle varie lingue europee» (p. 30). d. A meno che la ricerca negli Stati Uniti o in Germania non riguardi un soggetto definibile chiaramente come «Altro»: magari gli immigrati clandestini messicani, oppure la comunità turca a Berlino. Qualcosa che possa considerarsi esotico o marginale.

Capitolo terzo Valori

La maggior parte degli aspetti che abbiamo considerato riguardo alla cultura e alla civiltà può essere ulteriormente suddivisa in base a un preciso interesse per i valori. La cosa appare di lampante ovvietà se pensiamo alla civiltà – di per sé un termine con cui diamo una valutazione dell’«Altro», ammesso che sia possibile. Se chiedete a un americano di scegliere tra aria condizionata e libertà, sceglierà la libertà. «Vivi libero o muori», recita il motto dello stato del New Hampshire. Lo stesso accadrebbe anche in Texas, dove senza aria condizionata la vita si fa difficile. In termini di cultura, quando gli antropologi scrivono sugli Zuni, o sugli operatori della Borsa londinese interessati ai futures, o sugli indios calciatori in Bolivia, tutto si riduce in buona parte all’analisi dei valori: ospitalità, successo o uguaglianza. In effetti, gli antropologi hanno spesso usato i valori per spiegare i tipi o i generi delle culture studiate. Attraverso tutti gli studi etnografici, troverete discussioni e animati dibattiti sulla natura delle «società egualitarie», sulle «culture dell’onore» e via dicendo. Tendiamo a pensare ai valori come a elementi duraturi, fissi ed evidenti. In tal senso, però, ciò che l’antropologia ci insegna sui valori solleva piú di una domanda. In realtà, infatti, quando si tratta di studi empirici, quello che vediamo è prima di tutto quanto i valori possano risultare creativi e flessibili, il che non vuol dire che essi siano facilmente mutevoli, relativi, fragili o perfino abbandonati non appena appaiono scomodi. Che cosa tuttavia significhi esattamente la «libertà» per un americano, o chiunque altro, non dovrebbe essere

dato per scontato. Potremmo analizzare questo punto in quasi ogni buon studio etnografico. A vari livelli, infatti, quasi ogni studio ci dirà qualcosa sui valori, o, anche piú precisamente, sui valori in azione. Nella maggior parte dei casi, però, i valori non sono l’obiettivo esplicito di una ricerca, e in altri piú rari gli antropologi lavorano con qualcosa che assomigli a una teoria assiologica. Ci sono tuttavia alcune notevoli eccezioni a questo stato di cose, due delle quali mi torneranno utili per inquadrare la discussione in questo capitolo. La prima eccezione è rappresentata da un corpus di opere sui popoli e sulle culture del Mediterraneo, che esplorano i valori dell’onore e della vergogna, ritenuti, almeno da alcuni antropologi, elementi costitutivi di una certa identità regionale. La seconda è costituita dal progetto, perfino piú esplicito teoricamente, dell’antropologo francese Louis Dumont, che ha dei valori un concetto di particolare significato antropologico, meritevole di essere posto al centro della scena.

Onore e vergogna. Una delle discussioni piú importanti sui valori è nata tra gli antropologi che lavorano nell’area del Mediterraneo. Alla fine degli anni Cinquanta, questi antropologi iniziarono a pensare con piú ampio respiro al fatto che le persone che essi studiavano – fossero abitanti dei villaggi degli altopiani greci, berberi algerini o contadini andalusi – sembravano organizzare la propria vita attorno ai valori di onore e vergogna. In alcuni resoconti etnografici del periodo, uomini e donne (anche se spesso soprattutto uomini) sembrano quasi esclusivamente preoccupati di promuovere e proteggere il loro onore. A volte si tratta di onore personale, a volte è l’onore della famiglia; talora, poi, è l’onore del gruppo. In molti casi, i problemi sono innescati da minacce subite o trasgressioni compiute dalle donne, in particolare sorelle o figlie.

Molti di questi antropologi impegnati in Grecia, Algeria, Sicilia, Egitto e Spagna scoprirono anche delle comunità in cui la vita sociale sembrava ruotare attorno a una serie di atteggiamenti e norme contraddittorie: le persone erano incredibilmente ospitali, ma anche profondamente sospettose verso gli estranei; professavano un’etica di indipendenza e uguaglianza, ma vivevano secondo forti gerarchie sociali e dipendevano da protettori; gli uomini enfatizzavano la loro devozione e fedeltà, ma affermavano al tempo stesso la loro virilità e il maschilismo. Le dinamiche e le relazioni sociali presentavano dunque elementi in comune, e molti di questi rapporti paradossali sembravano innescare problematiche di onore e vergogna. Non è difficile evocare a questo punto un’immagine stereotipata, e pertanto problematica come la maggior parte degli stereotipi: per esempio quella dell’uomo siciliano, petto in fuori, estremamente ospitale ed educato, molto orgoglioso e sicuro di sé, ma il cui fascino e la buona disposizione d’animo possono lasciare il posto in pochi secondi a un attacco di furia cieca in seguito a una qualche mancanza di riguardo – forse qualcuno sotto di lui nella gerarchia sociale ha parlato a sproposito; oppure un altro, piú in alto di lui nella piramide gerarchica, lo ha umiliato in qualche modo; o forse un pretendente ha messo in imbarazzo la sorella. Potere, status sociale, sesso: sono queste le ricorrenti preoccupazioni legate all’onore. Da tale stereotipo Hollywood ha ricavato ingenti guadagni. E naturalmente il problema è proprio questo, e riprende in vario modo quanto abbiamo discusso nel precedente capitolo. Lo sapete anche voi, quegli europei del Sud… quegli arabi… proprio non sanno controllare le loro emozioni… non cosí bene come… l’uomo civilizzato. Tornerò in seguito su alcuni di questi problemi, con particolare riferimento a come sono stati riconosciuti e analizzati dagli antropologi della regione. Alla fine degli anni Ottanta, i rischi politici ed etici di false rappresentazioni contribuirono a far sí che gli studi abbandonassero il tema dell’onore e della vergogna. Non c’è dubbio

però che questo corpus di letteratura possa aiutarci a capire l’elemento assiologico, cioè che cosa significhi organizzare la propria vita e le proprie azioni in accordo con determinate idee. Esso serve inoltre come una dimostrazione pratica di due delle sfide che l’antropologia è perennemente costretta ad affrontare: in primo luogo, in che modo bilanciare affermazioni generali con risultati particolari; in secondo luogo, come essere sinceri e precisi nei confronti delle persone oggetto di studio. Il vero momento fondamentale per questo genere di lavoro lo si ebbe nel 1959, quando un gruppo di antropologi si riuní in un castello in Austria per discutere di ciò che avrebbe potuto unire i loro progetti apparentemente cosí disparati a. Tutti quegli antropologi lavoravano in paesi dell’area del Mediterraneo, cosa che, a prima vista, potrebbe sembrare casuale. Dopo tutto, l’area del Mediterraneo è enorme e diversificata, anche tenendo conto delle secolari rotte commerciali e di altri legami che si intersecano nell’intero bacino. Stiamo parlando di una regione che ospita i principali centri delle tre fedi abramitiche, che comprende una mescolanza di antiche società dedite all’agricoltura e alla pastorizia in cui troviamo un’intera gamma di strutture connesse alla consanguineità, e le cui popolazioni parlano lingue appartenenti a non meno di tre ceppi linguistici (indoeuropeo, camito-semitico e turco). Nondimeno, l’organizzatore dell’incontro, J. G. Peristiany, era convinto dell’esistenza di un filo conduttore, poiché, ovunque si andasse nella regione, era opinione comune tra i vari partecipanti al seminario che l’assillo dell’onore e della vergogna fosse immancabilmente in cima ai pensieri della gente. Questi valori, sosteneva Peristiany, erano elementi costitutivi del «modo di pensare mediterraneo» 1. Il libro che risultò dal seminario austriaco, Honour and Shame: The Values of Mediterranean Society, venne pubblicato nel 1965. Con capitoli a sé stanti dedicati a Spagna, Algeria, Egitto, Grecia e Cipro, è uno di quei testi in cui il tutto è maggiore della somma delle sue parti. Esso ha lasciato certamente un segno indelebile sull’antropologia del

Mediterraneo. Uno dei capitoli piú prestigiosi del libro appartiene a Julian PittRivers. L’autore, formatosi a Oxford e con una passione per la Spagna insolita per quei tempi, divide in due sezioni principali il suo saggio Honour and Social Status. La prima è una stimolante combinazione di considerazioni che offrono un’ampia visione d’insieme della storia del concetto di onore, densa di appassionanti riferimenti alle opere teatrali di Shakespeare e ai racconti su El Cid. La seconda è un’analisi piú mirata e comprovata della situazione presente nel villaggio andaluso in cui lo studioso aveva condotto il lavoro sul campo. Per gli addetti ai lavori, il saggio solleva un certo interesse anche perché Pitt-Rivers proviene da uno dei mondi che descrive, e non è quello dei contadini spagnoli. Julian Alfred Lane-Fox Pitt-Rivers era di origini aristocratiche. Il suo bisnonno, anch’egli formatosi a Oxford, era un nobile, nonché esperto archeologo, che aveva fondato il Museo di antropologia annesso all’università (suo padre, sfortunatamente, era un patito dell’eugenetica e un simpatizzante nazista e aveva trascorso parte della Seconda guerra mondiale rinchiuso nella Torre di Londra). Un giorno uno dei piú stretti collaboratori di Pitt-Rivers si domandò perché si prendesse tanto disturbo per ottenere un incarico accademico; nel corso della sua carriera, ricoprí varie posizioni negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Francia. Sicuramente, per qualcuno del suo rango e condizione sociale, un impiego poteva essere solo una distrazione dal vero lavoro! Pitt-Rivers sembrava offrire la classica versione dell’ambivalenza di un insider. Nelle sue riflessioni di ampio respiro sui codici d’onore, uno dei primi parallelismi che egli traccia è tra l’atteggiamento degli aristocratici e quello dei gangster. Per entrambi, ovviamente, l’onore è fondamentale, ma questo perché si considerano l’eccezione alla regola. Sia gli aristocratici sia i gangster si considerano al di là della legge: i primi pensano di esserne al di sopra; i secondi di esserne al di fuori. In entrambi i casi, i codici d’onore sono incompatibili con i

modelli di giustizia e diritto imposti dallo stato, che dovrebbero sostenere il mondo moderno. Il potere relativo dello stato è stato spesso considerato un fattore chiave della forza acquisita da una cultura dell’onore. Piú forte è lo stato – e quindi piú forte è il sistema di un’autorità politica centrale, organizzata attorno a un apparato impersonale e a un modello di giustizia –, minore è l’importanza acquisita dall’onore come valore fondamentale. Il fatto che tra i paesi del Mediterraneo vi sia stata la tendenza ad avere degli stati deboli rappresentava pertanto un termine decisivo dell’equazione in questo lavoro antropologico legato ai valori. Come rimarcavano molti antropologi che lavoravano in tali contesti, l’autorità risiedeva soprattutto nella forza dell’unità famigliare. Le esibizioni di potere avvenivano nelle singole persone e attraverso di esse, anche quando facevano capo a identità aziendali o societarie. Tali manifestazioni di forza e status sociale avvenivano spesso sotto forma di atti spavaldi e, a volte, di crude affermazioni di potere, dal furto di pecore (pratica abbastanza comune tra molti pastori mediterranei) alla risoluzione di un disaccordo o di una trasgressione personale con il ricorso alla violenza. Pitt-Rivers intendeva inoltre sottolineare il potente legame esistente tra l’onore e il corpo fisico. È appunto tale legame a fare della violenza un mezzo cosí importante di riparazione o vendetta per chi si è sentito disonorato. Prendiamo per esempio i rituali connessi al conferimento o al riconoscimento dell’onore. Tali momenti cerimoniali hanno spesso il loro fulcro «corporeo» nella testa, dall’incoronazione di un monarca al conferimento della laurea a Oxford (i laureati vengono toccati sulla testa con il Nuovo Testamento, benché oggi il tocco possa anche essere quello di un’opera alternativa secolare). Per riverire lo stato onorevole di qualcuno, è uso tradizionale levarsi il cappello o chinare leggermente il capo. Nel caso dei soldati, basta pensare al saluto militare. Coprirsi la testa, sia per gli uomini sia per le donne, è un modo di proteggere e comunicare l’onorabilità della propria persona e condizione sociale.

Ormai siamo avvezzi ad associare il velo con un certo tipo di devozione femminile tra i musulmani; eppure, se vi capita, date un’occhiata a qualche vecchia fotografia di donne cattoliche in Sicilia o di religione ortodossa in Grecia: hanno il capo coperto da un velo o da un fazzoletto (e probabilmente anche gli uomini indosseranno dei cappelli). Come rovescio della medaglia, Pitt-Rivers ci ricorda che, per buona parte della moderna storia europea, la forma piú vergognosa di condanna capitale era la decapitazione. «Che gli sia mozzata la testa!» non è una crudeltà ingiustificata. Nel saggio di Pitt Rivers, la rigorosa analisi condotta in Andalusia aggiunge alcuni stupefacenti dettagli e tratti particolari al grande quadro d’insieme. Nella cittadina di Sierra de Cádiz, ci informa l’autore, l’onore è sulle labbra di tutti. In questa parte del mondo esso funziona da collante sociale; in assenza di un impianto giuridico solido e formale, l’attenzione attribuita all’onore e alla sua importanza è ciò che consente transazioni economiche e sociali senza intoppi. Tale convenzione presenta tuttavia dei limiti. Si deve agire onorevolmente nei rapporti con gli altri, specialmente con quelli con cui si sono creati o con cui si spera di creare dei legami stretti: famigliari, amici o anche soci in affari. Quando però si tratta di allacciare rapporti con l’autorità o altri istituti piú astratti, come lo stato, tutto cambia. Gli andalusi di cui parla Pitt-Rivers non hanno alcuna vergogna a imbrogliare lo stato, visto che l’istituzione statale non consente quel tipo di legami personali richiesti dal codice d’onore. Gli aspetti piú importanti del materiale trattato da Pitt-Rivers, tuttavia, riguardano piuttosto le dinamiche a volte contraddittorie dell’onore e della vergogna, per esempio il modo in cui un certo «valore» può portare a richieste paradossali, o finire addirittura per travalicare nel suo esatto contrario. Pitt-Rivers lo spiega in alcune osservazioni disseminate qui e là e riguardanti un particolare soggetto da lui conosciuto, un uomo di nome Manuel. Per dirla senza mezzi termini, Manuel era basso, grasso, brutto e

sposato. Un giorno, racconta Pitt-Rivers, durante una fiesta nella valle, una bella ragazza passò accanto a Manuel senza prestargli la minima attenzione. Manuel si rivolse a Pitt-Rivers e disse: «Se non fosse per l’anello che porto a questo dito, non permetterei a quella ragazza di passarmi accanto come ha fatto» 2. Come ci spiega PittRivers, in questo modo Manuel «salva capra e cavoli»: può dimostrare di essere nell’animo un uomo virile, pieno di desideri ed energia mascolina, ma, all’atto pratico, egli è prima di tutto un uomo di famiglia, attento all’onore di sua moglie. Si salva da un certo tipo di onta dicendo qualcosa di quasi spudorato (quasi perché è subito redento dalla sua onorevole fedeltà). Ciò ha tutta l’apparenza di essere una richiesta contraddittoria imposta a tutti gli uomini del villaggio. Devono essere sempre su di giri e al tempo stesso puritani; è il carattere plurivalente dell’onore a renderlo possibile. Basso, grasso, brutto, sposato e pure povero. Sembra che vada sempre peggio per Manuel, visto che risulta anche di umili origini e di condizione disagiata. In compenso aveva una cosa dalla sua parte: un vero talento per l’agricoltura. Manuel sapeva tutto di coltivazioni e si beava della fama di esperto a cui gli altri si rivolgevano per avere dei consigli. Manuel, purtroppo, aveva fatto il passo piú lungo della gamba: Pitt-Rivers ci racconta infatti che offriva le sue raccomandazioni su una gamma molto piú ampia di argomenti rispetto alla semplice consulenza in materia di agricoltura, perfino quando non gli era richiesto alcun consiglio. Le culture dell’onore tollerano spesso alti livelli di vanteria; è un modo di affermare e difendere la propria reputazione. Anche la vanteria ha però i suoi limiti, e sembra che Manuel li avesse superati. «Non ho molta fortuna, – gli piaceva dire, – ma possiedo dentro di me qualcosa che vale piú della fortuna: il mio onore» 3. A questo punto, la linea tra onore e vergogna diventa davvero molto sottile e, agli occhi della sua comunità, Manuel sembra averla cancellata del tutto. Le osservazioni di Pitt-Rivers a tale proposito sono davvero paradigmatiche e appartengono alla grande antropologia. Egli ci

dimostra infatti che i valori che piú contano risultano stabili e al tempo stesso flessibili. È molto importante riconoscerlo, non solo per capire le culture dell’onore del Mediterraneo, ma anche i valori di ogni cultura o società. Non dovremmo trattare i valori come punti fissi, anche se spesso pensiamo che lo siano. I valori sono come delle banderuole: sono «fissi», ma spesso si spostano o cambiano a seconda di ciò che si muove nell’aria. Questa è una delle grandi lezioni da trarre dallo studio antropologico dei valori. Non tutti i partecipanti alle prime discussioni sulle culture dell’onore erano disposti ad accettare senza battere ciglio che i concetti attorno ai quali organizziamo la nostra vita fossero soggetti a una certa ambiguità e fluidità. Per Jane Schneider, una ben nota e rispettata studiosa della Sicilia, Pitt-Rivers e gli altri pionieri dello studio sull’onore e sulla vergogna non avevano saputo guardare al di là di tutto quanto e domandarsi «Perché?» Perché quando parliamo dell’importanza di questi valori riscontriamo una tale continuità in tutta l’area mediterranea? Jane Schneider offre una risposta molto semplice: l’ecologia. La studiosa sostiene che le culture dell’onore tendono a svilupparsi tra i pastori, e non tra tutti i pastori, ma tra quelli che nel corso del tempo si sono sentiti minacciati dall’influenza degli agricoltori e hanno quindi affrontato vari tipi di insicurezza rispetto all’accesso alle risorse. E questo, però, non tra tutti i pastori schiacciati dall’avanzata dell’agricoltura, ma solo tra quelli che vivevano in luoghi e tempi in cui risultava assente o relativamente debole un’autorità politica centrale (occorre dire che in Honour and Shame Pitt-Rivers accennava anche a questo). Quella del pastore è una vita dura. Richiede parecchi spostamenti, molti dei quali neppure cosí sicuri, perché non si sa se le tue pecore o capre avranno libero accesso ai prati su cui hanno bisogno di pascolare. Qualcuno potrebbe provare a fermarle, o addirittura rubare le bestie per il proprio profitto. Il furto in tali contesti diventa spesso una virtú; nelle giuste circostanze, è perfino un gesto onorevole. «In

Sardegna, un pastorello di nove anni o dieci che non abbia ancora rubato un animale viene chiamato un chisineri, una femminuccia che non si allontana dalle ceneri del fuoco acceso dai pastori» 4. La vita pastorale incoraggia un’organizzazione sociale altamente flessibile. L’unità base è il nucleo famigliare, che può espandersi o contrarsi a seconda delle risorse disponibili. In tempi di abbondanza, le famiglie possono ingrandirsi; in tempi di magra, possono frammentarsi, disperdersi, o perfino estinguersi. Pensare in termini di famiglia è una forma di assicurazione sociale: si è obbligati a condividere ciò che si ha soltanto con coloro che vivono sotto lo stesso tetto (o tettoia, a seconda dei casi). Gli altri rapporti sono una cosa a parte. Un’esistenza transumante o nomade, in cui è essenziale la facile mobilità del gruppo, richiede anche una buona dose di autonomia politica ed economica. Tra i gruppi di pastori, gli adulti (specialmente gli uomini) rispondono unicamente a loro stessi, oppure devono sottomettersi sollecitamente all’autorità di altri. La vita pastorale, pertanto, è caratterizzata da una forte enfasi sulla famiglia nucleare, anche se per molti aspetti tale attenzione alla famiglia maschera soltanto forme di iper-individualismo. Queste dinamiche della vita pastorale possono riscontrarsi quasi in ogni regione del mondo. Le ritroviamo, per esempio, anche nelle steppe della Mongolia. A rendere diverso il Mediterraneo, sosteneva Jane Schneider, è stata la prevalenza di un certo tipo di comunità agricole su entrambe le sponde del mare, nelle zone aride e montuose. Fondamentalmente, in termini di struttura parentale e organizzazione politica, queste comunità agricole erano organizzate all’incirca come quelle dei pastori: notevole frammentazione; attenzione incentrata sulla famiglia; tendenza a conflitti interni e preoccupazioni connesse alla sicurezza alimentare. L’ipotesi della Schneider era che queste particolari comunità agricole fossero un tempo formate da pastori e che avessero semplicemente tramutato la loro vita in perenne movimento in un’esistenza piú sedentaria in fattorie e villaggi. Il

problema era che questo modo di vita mal si adattava alla realtà degli uliveti. Una questione particolare sorgeva dalla consuetudine diffusa nell’area mediterranea e nota come eredità divisibile (ovvero destinare il patrimonio a tutti gli eredi) b. Tale consuetudine poteva creare complicazioni allorché si trattava di dividere dei terreni agricoli, creando dispute tra fratelli circa i confini dei terreni, l’accesso ai pozzi e cosí via (poteva funzionare meglio in un contesto puramente pastorale: dieci capre, cinque figli = due capre ciascuno). È quindi dura fare il pastore, cosí come è difficile fare i contadini quando nel proprio animo si è rimasti pastori. Fate cozzare queste comunità l’una contro l’altra, in terre con un suolo scarsamente fruttuoso e ripide pendenze, combinate tutto questo con un forte impegno ideologico nei confronti del nucleo famigliare (minato tuttavia da un impegno ancora piú forte verso se stessi), e ciò che otterrete, conclude Jane Schneider, è un mondo di relazioni sociali «ben piú complicato e conflittuale» che in molti altri contesti 5. Eppure, queste comunità non vanno in pezzi, non finiscono nel caos o in violenze sfrenate, in una lotta di tutti contro tutti per il possesso di pecore e giovani donne. Le famiglie in realtà mantengono una loro logica coerente; la cooperazione esiste; la violenza non è cosí comune come si potrebbe pensare; non sempre pecore e cammelli vengono rubati. Questo perché le società di questo genere possiedono codici d’onore e vergogna molto forti, codici in grado di regolare le tensioni e i rischi di scisma e dissoluzione. Alla fine, non sono certo che la risposta della Schneider alla domanda «Perché?» ci porti molto lontano. Si pone infatti un’altra domanda: perché onore e vergogna? Esiste qualcosa in questo abbinamento di valori che si riveli particolarmente adatto o naturale tra tali gruppi sociali fissipari? Nel suo curriculum, l’antropologia non eccelle nella spiegazione delle origini di un fenomeno, con tanto di cause alla radice ed effetti connessi. Non è certo colpa di Jane Schneider, naturalmente, e abbiamo già visto i pericoli e le aporie di un approccio basato su

analisi che partono da presupposte leggi; la cosa non ha funzionato granché bene per Tylor e gli evoluzionisti sociali, né per molti altri. Questo ci lascia però con le questioni che abbiamo appena posto. Una risposta comune a queste domande, e altre simili, è colta in modo eccellente da un’altra figura chiave di questo dibattito: Michael Herzfeld. In un saggio pubblicato nel 1980, egli sosteneva che la risposta doveva risiedere in parte nel fatto che la domanda stessa era fuorviante. Questo perché, se esaminiamo la gamma di termini dissimulati nella lingua inglese dalla parola honour, «onore», ciò che troviamo è una varietà di significati, sfumature e particolarità distintive ben piú vasta di quanto avremmo potuto prevedere 6. In altre parole, nell’area del Mediterraneo non esiste nulla che possa definirsi una cultura dell’«onore e della vergogna», a meno che non si prenda l’«onore» come un termine quasi vuoto di significato. In sostanza, Herzfeld stava compiendo un passo ulteriore rispetto a Pitt-Rivers. Dove però quest’ultimo aveva considerato virtuoso il fatto di riconoscere l’ambiguità e la fluidità dell’onore e della vergogna come idee, Herzfeld vi scorgeva un vizio, quello della generalizzazione. Per sostenere la sua tesi, Herzfeld attinse al suo lavoro sul campo in due comunità della Grecia tra loro molto diverse: Pefki, sull’isola di Rodi, e Glendi, nella parte occidentale di Creta. In entrambe, la filotimia, ovvero l’amore per la time, l’«onore», o il suo «valore sociale», rivestiva un’importanza determinante. Le sue leggi e la sua cultura, tuttavia, apparivano radicalmente differenti in ciascuna comunità. Gli abitanti di Pefki, asseriva Herzfeld, erano cittadini sobri e rispettosi della legge; quelli di Glendi, al contrario, avevano fatto una virtú delle loro azioni illegali: rubavano le pecore, giocavano d’azzardo, giravano armati e in genere mostravano disprezzo per le autorità. A Pefki, quindi, la filotimia era plasmata dall’obbedienza ai diktat dello stato e dall’interesse per la comunità nel suo complesso. Durante i periodi di siccità, il sindaco rimproverava pubblicamente le poche famiglie che usavano troppa acqua per i loro raccolti; esse dovevano «mostrare filotimia», ma non facendolo, si dimostravano

egoiste. A Pefki la filotimia non aveva nulla in comune con l’egoismos, o «interesse personale» o «la considerazione di sé». I greci di Pefki mantenevano dunque un comportamento decoroso e orientato al bene della comunità; era questo a definire la loro cultura dell’onore e della vergogna. A Glendi, al contrario, l’egoismos era quasi un prerequisito della filotimia; la persona non aveva un valore sociale a meno che non esprimesse un’opinione molto alta di se stessa (messa in luce in tutto quel gioco d’azzardo e furti di bestiame). Se mai ci fosse stata una siccità a Glendi, non avremmo dovuto aspettarci i toni passivoaggressivi del sindaco nelle sue allocuzioni alla cittadinanza. C’era piuttosto da guardarsi le spalle e tenere d’occhio le proprie riserve d’acqua. A Glendi, pertanto, la cultura dell’onore e della vergogna non avrebbe potuto sembrare piú diversa da quella di Pefki. Dal che nasce la domanda: perché tanta preoccupazione di chiamare queste le «culture dell’onore e della vergogna»? A prima vista, non sembra che esse esprimano innanzi tutto proprio questi due valori. Il tentativo di arrivare a una definizione piú specifica divenne sempre piú frequente tra gli studiosi dell’area mediterranea degli anni Ottanta: dallo sforzo di pensare a un’«area culturale» definita da un certo insieme di valori, si passò a un’analisi di una grana piú fine, spesso volta a dimostrare l’espressione di valori diversi anche all’interno di una determinata tradizione o gruppo linguistico c. Le ricerche degli anni Ottanta prestarono sempre maggiore attenzione anche alle caratteristiche di genere delle analisi e dell’etnografia: nei lavori precedenti, si aveva spesso l’impressione che fosse il sesso maschile a detenere e accumulare onore; tutto ciò che le donne sembravano in grado di fare era portare vergogna a se stesse e alle loro famiglie. Nel 1986, tuttavia, Lila Abu-Lughod pubblicò una stupenda monografia, basata sul suo lavoro con i beduini in Egitto, in cui dimostrava quanto l’onore fosse un elemento centrale anche per le donne, espresso nell’idioma del pudore ed esplorato dalla studiosa attraverso una raffinata analisi delle tradizioni locali di poesia 7.

L’approccio alla cultura dell’onore si perse alla fine degli anni Ottanta, per tre ragioni principali: in primo luogo – e qui torniamo all’argomento Hollywood –, per via degli stereotipi problematici che esso generava. Sotto certi aspetti, infatti, vediamo prendere piede una certa logica evolutiva, cosí come una androcentrica; in secondo luogo, a causa di un cambiamento piú generale nelle ambizioni e nei programmi di molti antropologi; come ho appena fatto notare, il problema degli anni Ottanta non era semplicemente il fatto che generalizzare delle tesi riguardo alle culture poteva suggerire delle differenze caricaturali, ma piuttosto che l’abitudine a generalizzare apparteneva prima di tutto a studi scientifici di cattiva qualità. Come tutti i pendoli, tuttavia, anche questo continuò a oscillare, segno ne sia il fatto che certi atteggiamenti verso le ricerche sull’onore (o su filotimia, egoismos eccetera) si stanno attenuando e avvertono nuovi stimoli 8. Questo appare evidente anche nel lavoro in aree correlate, per esempio in un autorevole volume pubblicato nel 2012 e dedicato all’antropologia dell’ospitalità – un altro importante valore presente nell’area del Mediterraneo, spesso collegato a problematiche perfino piú serie legate all’onore e alla vergogna 9. È tuttavia in un saggio sulla «politica domestica» in Giordania che troviamo alcuni argomenti di particolare interesse che chiariscono perché dovremmo rimettere in campo l’onore e la vergogna. Durante il lavoro svolto in Giordania negli anni Novanta, Andrew Shryock notò sbalordito fino a che punto quella che egli chiamò «politica domestica» definiva la sensibilità morale della gente con cui entrava in contatto. Nel regno hashemita, infatti, è in essere una forte politica famigliare, evidente perché le relazioni sociali e politiche vengono inquadrate in termini di famiglia. Il linguaggio figurato appartiene a un idioma direttamente correlato alla consanguineità. Il re risulta pertanto una figura paterna e, in una certa misura, il padre appare come un re. Non si tratta certo di un fenomeno riscontrabile unicamente in Giordania, ovviamente, o solamente nel mondo arabo, ma nel nostro caso viene a combinarsi con un insieme particolare di

problematiche connesse all’onore e alla vergogna che ne fanno un dato di riferimento essenziale. In Giordania, gli «ideali dell’onore ricreano continuamente una cultura politica in cui famiglie, tribú e stati-nazione sono garanti dello stesso tipo di ragionamento morale» 10. È opinione di Shryock che in Giordania sarebbe impossibile immaginare la politica senza prestare attenzione a questo dato di riferimento, anzi, ignorarlo significherebbe trascurare fervori e interessi ideologici in ragione di quello che egli definisce un persistente «disagio intellettuale» nei confronti – in primo luogo – dell’intera idea di culture dell’onore. Ancora una volta, un imbarazzo in stile Hollywood! Quando si è un antropologo che lavora sul campo e quando le persone che si stanno studiando trasferiscono concetti come onore, reputazione e dignità «in quasi ogni contesto immaginabile» (come Shryock lo definisce), i timori di un disagio intellettuale devono essere affrontati con la ferma determinazione di una precisa attenzione ai fatti sociali. Il fatto non è semplicemente che gli antropologi devono tener conto del punto di vista dell’indigeno; oltre tutto, ne abbiamo già parlato. Ciò che Shryock intende dimostrare – elemento di fondamentale importanza – è che se rifiutiamo di riconoscere la politica domestica per quello che è, insistendo invece a rispettare la lingua e i termini che meglio si adeguano alla sensibilità accademica occidentale, finiamo per impoverire la nostra stessa base analitica. Il problema, in altre parole, non è la politica famigliare o un codice d’onore, pur con tutte le particolarità di un ambiente greco, giordano o iberico. Qui si tratta dell’incapacità di valutarne correttamente la logica, la forza e la pertinenza come qualunque altra cosa che non rispetti gli standard euro-americani. Ho accennato a tre ragioni principali per cui l’idea di una cultura dell’onore è svanita, ma ne ho menzionate soltanto due. La terza, che potrebbe essere la piú importante, è che nessun esempio di questa letteratura ha mai beneficiato di una struttura sistematica. Nessuno di

questi antropologi ha mai teorizzato i valori di per sé. Nella miscellanea di Peristiany Honour and Shame, nessuno degli autori ci ricorda ciò che un attento esame dei valori può dirci sulla natura di una cultura o di una società. Per Pitt-Rivers e molti altri della sua generazione, i valori avevano un ruolo funzionale nel mantenimento di una cultura; essenzialmente, essi sostenevano che in area mediterranea gli ideali di onore e vergogna erano valvole di sfogo della pressione accumulata – pressione che non poteva essere rilasciata o gestita diversamente (per esempio grazie alla presenza di uno stato forte). Per Jane Schneider, d’altro lato, i valori sono un indice di tutti i vari fattori ecologici, economici e politici che influenzano il corso della vita di un gruppo sociale. Eppure, in realtà, potremmo perfino domandarci se la Schneider sia interessata in primo luogo proprio ai valori. Nel suo fondamentale articolo sull’onore e la vergogna, la studiosa non usa mai la parola «valore», riferendosi all’onore e alla vergogna come a un’«ideologia», a «ideali», «regole» e «codici», ma mai come a valori. Scopriamo molto sui valori da questo ricco lavoro sul Mediterraneo, che, tuttavia, non ci fornisce ancora una «teoria dei valori». Questo non è necessariamente un problema, non ultimo perché è quasi sempre l’elemento etnografico e non tanto la sua confezione teorica a resistere alla prova del tempo. E ciò che otteniamo dagli studi etnografici sull’onore e la vergogna nell’area mediterranea è una sensazione consistente e ricca di sfumature della natura fissa e insieme flessibile dei valori (o della loro idea, o ideologia) che contribuiscono a modellare la vita sociale. Nello stesso periodo in cui avvenivano queste numerose disamine della cultura dell’onore, era in corso un tentativo piú sistematico di teorizzare i valori. È a questa iniziativa, guidata da Louis Dumont dalla sua base parigina, che ora vorrei rivolgermi.

Olismo e individualismo.

Louis Dumont è noto soprattutto per un importante libro pubblicato nel 1966 sul sistema delle caste in India, Homo Hierarchicus. Secondo l’autore, «il sistema delle caste è innanzi tutto un sistema di idee e valori» 11. Prima di analizzare in dettaglio il suo approccio all’argomento, vorrei spendere qualche parola sull’idea di casta cosí come viene interpretata dagli antropologi (naturalmente, potreste benissimo ottenere delle spiegazioni diverse da qualche sacerdote induista). In spagnolo, portoghese, inglese e altre lingue sia romanze sia germaniche, la parola «casta» significava in origine razza, gruppo esclusivo, tribú o «propriamente qualcosa di non mescolato» 12. Nella maggior parte delle lingue indiane (hindi, bengali, tamil, telugu), il termine corrispondente è jāti, tradotto spesso come «tipo» o «specie». Esistono migliaia di caste, non sempre rigidamente fisse d. Al tempo stesso, però, tutti sanno che non è possibile spostarsi da una casta a un’altra. Le caste sono solitamente legate a un’occupazione o a un’abilità tradizionali. Nel subcontinente indiano troviamo caste di falegnami, conciatori, vasai, fabbricanti di mattoni e via dicendo. Si tratta di distinzioni importanti, tanto che in alcuni luoghi sono esclusivamente gli appartenenti alla casta dei conciatori a lavorare la pelle. Scopriamo inoltre che le caste inferiori, inclusi i Dalit (persone spesso sprezzantemente definite «intoccabili»), svolgono i lavori meno salubri, come spazzare le strade e spurgare le fogne. Ai vertici della gerarchia delle caste vi sono i bramini, ovvero i sacerdoti e i maestri indispensabili in molti dei rituali necessari a preservare la coerenza e la purezza del sovrastante sistema castale. I bramini dovrebbero costituire l’elemento che meglio rappresenta l’intero sistema induista. La realtà delle caste può risultare spesso piú palpabile e concreta nell’organizzazione e interazione della comunità. In un villaggio o in una piccola città dell’India rurale, tutti i membri di una determinata casta possono trovarsi a vivere nello stesso quartiere, relativamente ben circoscritto, a bere dal medesimo pozzo (e non da altri) e a riunirsi

negli stessi spazi pubblici. Tutto questo appare anche evidente nei momenti conviviali, cioè chi mangia con chi: la «commensalità» è controllata molto strettamente, dato che implica alcune forme di intimità o contatto. I modelli, ovviamente, risultano sempre piú netti della realtà. Negli ultimi due secoli possiamo risalire a un buon numero di fattori storici, sociali e culturali che hanno riconfigurato e a volte sfidato il sistema delle caste. I missionari cristiani hanno trovato per lungo tempo degli ascoltatori particolarmente attenti tra i Dalit, per esempio, poiché il messaggio evangelico offriva nuove forme di autovalorizzazione basate sull’individualismo. Progetti di riforme sociali e politiche, guidati da personalità famose come Gandhi e B. R. Ambedkar, hanno contribuito a plasmare la percezione popolare cosí come la legislazione; esiste ora una nutrita serie di misure governative volte ad aiutare le caste inferiori, e la stessa Costituzione indiana contiene articoli che dovrebbero favorire in tal senso qualcosa di simile a un’azione assertiva (attraverso la designazione di «Scheduled Castes» e «Scheduled Tribes»). L’istruzione scolastica di stile occidentale (spesso gestita da missionari), insieme con l’urbanizzazione e la globalizzazione, ha influenzato anche le distinzioni di casta. In ogni caso, non ci sono jāti tra i programmatori di computer e tra i piloti di linee aeree. Gli antropologi hanno studiato la maggior parte di questi cambiamenti, andando anche oltre. In uno studio ormai classico, condotto negli anni Cinquanta, l’antropologo M. N. Srinivas tracciò i diversi modi in cui i contadini erano divenuti la casta dominante di un villaggio dell’India meridionale, grazie in gran parte all’istruzione e all’ottenimento di impieghi governativi; questo aveva permesso loro di acquistare molti terreni del posto, sottraendo il vantaggio economico a quanti erano sopra di loro nella gerarchia delle caste, compresi i bramini. Questi ultimi, pertanto, pur mantenendo la loro superiorità nel piú vasto quadro cosmologico – solo loro, infatti, potevano eseguire determinati rituali, necessari, per esempio, al

corretto funzionamento della vita sociale –, facevano ben attenzione a consultarsi sempre con i contadini, i veri benefattori del villaggio, poiché erano loro ad avere l’ultima parola 13. Esiste in ogni caso un consenso unanime sul fatto che le caste, qualunque cosa esse possano essere – dogmi dell’antica teologia induista; diktat ideologici imposti dall’élite dei bramini; o un costrutto imperiale britannico –, appartengono a una realtà post-coloniale. «La casta, – scrive un esperto, – non è un principio astratto e nascosto dell’organizzazione sociale; essa è una dimensione ben visibile della vita quotidiana dell’India rurale e fa parte dell’identità sociale e personale di ognuno in un senso molto concreto. Anche ora che le distinzioni di casta hanno un peso minore che in passato, esse non mostrano alcun segno di una prossima scomparsa completa. Questo vale anche per le città, piccole e grandi, nonostante il fatto che buona parte dell’attività sociale urbana coinvolga degli stranieri del tutto estranei al sistema castale» 14. Che la casta sia o meno una dimensione visibile della vita di tutti i giorni, Dumont rivolse altrove il proprio interesse personale, ovvero ai valori del sistema. Il suo approccio antropologico non si concentrava sul fatto che i bramini di un certo villaggio indiano possedessero tutta la terra oppure che se ne fossero appropriati i contadini. Dumont era uno strutturalista, e come tale si accostò al fenomeno delle caste quasi come un architetto al tecnigrafo, piuttosto che un topografo in un cantiere edile. L’interesse di Dumont si rivolgeva alle caste in quanto insieme di valori, e i valori sono soprattutto un atteggiamento della mente, un’ideologia e delle idee 15. Tali valori hanno una valenza sociale e, come egli scrive, «la società è presente nella mente di ogni uomo» 16. Visioni di questo tipo, inoltre, risultano straordinariamente durature. Come struttura, la casta c’è e non c’è allo stesso tempo. E per Dumont essa non sarebbe scomparsa in tempi brevi. Qualsiasi apparente modifica che si sia in grado di documentare – contadini proprietari terrieri; bramini senza terre; Dalit che rinascono nella fede cristiana –,

risulterebbe, a suo dire, «un cambiamento nella società, non un cambiamento della società» 17. Un approccio del genere guadagnò a Dumont parecchie critiche, sia dagli accademici che vedevano ignorata la reale situazione in loco, sia dagli attivisti politici che vi scorgevano un pretesto per giustificare un insieme di disuguaglianze radicate. Molti antropologi che lavorano in India non tollerano l’analisi di Dumont. Una volta mi trovavo a cena a Oslo con alcuni colleghi e, per qualche ragione, il discorso finí su Dumont. Il mio ospite quasi rimase soffocato dal pezzo di selvaggina che aveva in bocca pur di dare voce alla propria avversione nei suoi confronti. Per Dumont, invece, preoccupazioni di quel tipo – per quanto legittime possano essere e per quanto possano avere una loro collocazione in termini «politici» – impedivano di vedere il quadro complessivo, che significava innanzi tutto comprendere i valori alla base del sistema delle caste in sé. La gerarchia, ovviamente, è uno dei valori di tale sistema, cosí come lo è la purezza, ed è infatti una precisa attenzione alla purezza che Dumont pone spesso in evidenza nel suo lavoro, citando tutte quelle regole severe riguardanti la persona con cui possiamo condividere la tavola o anche solo interagire, oppure su come mantenere in ordine un tempio, un santuario e cosí via. L’interesse di Dumont per la gerarchia si manifestava tuttavia a due livelli, e ad attirare la sua attenzione era soprattutto il livello piú alto anziché il livello piú basso, quello che potremmo considerare come il livello della vita di tutti i giorni. La gerarchia, sosteneva Dumont, non dovrebbe essere confusa con la stratificazione sociale, che era appunto ciò che, a suo giudizio, facevano spesso i critici occidentali del sistema delle caste. A livello strutturale, infatti, ogni sistema di valori è gerarchico, incluso quello che troviamo, tanto per dire, nella Dichiarazione universale dei diritti umani o, sull’altra sponda dell’Atlantico, nella Dichiarazione di indipendenza americana. A livello teorico, la gerarchia non è che «il principio in base al quale agli elementi di un tutto viene assegnato un posto in rapporto a quel

tutto» 18. Per Dumont, quindi, alcuni dei critici occidentali del sistema delle caste, seppure pieni di buone intenzioni, si tagliavano le gambe da soli perché non riconoscevano i meccanismi dei loro stessi sistemi di valori. Potrebbe essere utile a questo punto porre il lavoro di Dumont sull’India in rapporto con il suo piú vasto e ambizioso programma di mettere a confronto i valori occidentali con quelli non occidentali. Dumont ha scritto molto sull’argomento – interi volumi e lunghi articoli dedicati alla nascita dell’individualismo, per esempio nell’Europa cristiana. Il suo lavoro Homo Hierarchicus era solo una parte di un piú ampio progetto comparativo. Nella sua trattazione sui valori occidentali, Dumont si impegnò a smontare alcune delle tesi piú tronfie che possiamo trovare circa l’importanza e l’apparente autosufficienza di quello che egli considerava il valore cardine dell’Occidente: l’individualismo. Per prima cosa, infatti, l’individualismo è chiaramente parte di una gerarchia, essendogli attribuito piú valore che a qualsiasi altra cosa nella «gerarchia delle idee» 19. In Occidente, osserva Dumont, la libertà è un prerequisito essenziale per l’individualità, ed è per questo, in parte, che gli occidentali trovano ingiusto il sistema delle caste. Esso infatti non consente scelte libere o mobilità sociale, vanificando cosí l’autorealizzazione dell’individuo. Consideriamo questo punto tornando a quegli occidentali che probabilmente, almeno nella loro retorica, difendono la libertà piú di chiunque altro: gli americani. Il già citato motto dello stato del New Hampshire «Vivi libero o muori» riassume quasi perfettamente ciò di cui sta parlando Dumont. La libertà è ciò per cui dovremmo morire, contrapposta, per esempio, alla cooperazione o al rispetto. Questo rappresenta appunto una gerarchia di valori. Come sottolinea Dumont, tuttavia, l’imperativo categorico della libertà – cioè essere un individuo libero – appare segnato da due conseguenze paradossali. Innanzi tutto, esso significa che dobbiamo essere liberi, il che, di per sé, non è una scelta granché libera. In secondo luogo, significa che siamo davvero tutti uguali: in

fondo, siamo tutti individui, pronti a esprimere la nostra individualità spesso in modo abbastanza uniforme, e probabilmente solo sulla base della cooperazione e del rispetto da parte di tutti gli altri individui che godono della medesima libertà. In un certo senso, questo ci riporta alla natura fluida del significato che i valori possono assumere in luoghi e momenti particolari, come si riscontra chiaramente in particolari lingue. Ritorniamo, in altre parole, ad alcuni dei punti importanti che si ritrovano negli antropologi interessati all’onore e alla vergogna nelle culture del Mediterraneo, quegli stessi punti che Pitt-Rivers e Herzfeld stavano provando a porre in chiara evidenza. Ciò che offre Dumont, tuttavia, è un’intelaiatura concettuale che ci permette di riflettere in modo piú sistematico sui rapporti tra i diversi valori. Al centro di questa sua impostazione vi è la tesi secondo cui tutte le società possiedono dei valori dominanti che «avvolgono» quelli minori o inferiori. È appunto questo ciò che egli intende come gerarchia di valori, ed è anche l’aspetto teorico dei suoi studi che ha avuto il maggiore impatto sugli altri antropologi. Tornando in India e al sistema delle caste, Dumont afferma che il suo valore fondamentale è l’olismo. Ciò che conta non è mai una singola parte (sia essa una casta, o un individuo), ma il tutto – un tutto composto non di parti tra loro contrapposte o antagoniste, bensí complementari, espressione di unità e armonia e chiamate a lavorare tutte assieme per realizzare il bene supremo: l’olismo stesso. È come se si trattasse di un coerente sistema simbolico con proprie regole che esprime un certo ordine del cosmo – un tipo di ordine, oltre tutto, che appartiene non solo all’India ma anche alla maggior parte del mondo non occidentale. Decisamente in linea con la metafora strutturale, Dumont si riferisce spesso ai sistemi di valori in termini di livelli. In un sistema come quello delle caste, ciò significa che in determinati contesti le relazioni sociali si possono invertire o modificare. Ne è un esempio comune il tradizionale rapporto tra bramini e re (le società indiane erano governate da re; anche se ora non è piú cosí, essi rimangono

comunque un simbolo potente). A livello cosmologico o religioso, i bramini sono la rappresentazione piú completa e piú pura dell’umanità; sono una parte del tutto, ma al tempo stesso, per importanti aspetti, sono anche quella che meglio rappresenta il tutto, almeno a livello religioso. In termini di potere politico, tuttavia, i bramini sono sottomessi ai re e devono rimettersi al loro giudizio. In un contesto politico, pertanto, si ha una disconnessione tra lo «status» (che i bramini possiedono) e il «potere» (che i re esercitano). Nella recente storia indiana, potremmo dire che il potere economico ha superato il potere monarchico. Tornando per esempio al racconto di Srinivas, possiamo notare che i contadini da lui studiati in un villaggio dell’India meridionale detenevano il potere economico, ed era un potere che aveva il suo peso in termini di rapporti interni del villaggio; i bramini, dal canto loro, si assicuravano di consultare sempre i pezzi grossi della comunità, ovvero i contadini. Ancora una volta, dunque, si ha un contesto in cui stato e potere non sono pienamente allineati. In ogni caso, però, secondo il modello di Dumont, i bramini saranno sempre considerati superiori in virtú della loro purezza spirituale. Il valore della purezza, quindi, «avvolge» i valori della forza politica o del successo economico. Dinamiche simili sono in atto in molti contesti occidentali, ed è importante tenere a mente che l’individualismo non sempre la spunta sugli altri valori. Neanche nel New Hampshire. In realtà, alcuni degli americani a cui continuo a fare riferimento e che vogliono vivere come individui liberi o morire, potrebbero tranquillamente dire: «Okay, certo, la libertà e l’individuo hanno la loro importanza, ma ce l’ha anche la mia famiglia!» I valori famigliari hanno un ruolo di primo piano negli Stati Uniti, non c’è dubbio. Questo tipo di «olismo», tuttavia, perde spesso – e sempre piú frequentemente – terreno rispetto al valore dominante dell’individualismo, come possiamo vedere in una precisa gamma di esempi: da quello tipico (gli adolescenti ribelli), a quello tragico (l’intervento dello stato per il bene di un bambino trascurato), fino a quello ancora apparentemente

assurdo (un tredicenne di Rochester, New York, ha fatto causa ai genitori per essere nato con i capelli rossi) e. Buona parte dell’interesse di Dumont è rivolto alle differenze tra il mondo occidentale e quello non-occidentale. A suo giudizio, tuttavia, le differenze riguardano altresí l’essere moderni o non moderni. Il percorso dell’individualismo occidentale, sostiene Dumont, emerge dalla storia europea, soprattutto attraverso le sue correnti religiose (cristiane) ed economiche (capitaliste). C’era stato un tempo in cui i ragazzi dai capelli rossi non potevano denunciare i genitori, nemmeno negli Stati Uniti. In questa sede, lo spazio non è sufficiente per analizzare i dettagli di questa storia. Tuttavia, nel caso siate degli appassionati della serie televisiva di successo Downton Abbey, creata dallo scrittore inglese Julian Fellowes, ne conoscerete almeno una versione condensata. Inutile dire che esistono enormi differenze tra lo Yorkshire (dove la serie è ambientata) e l’India, e il sistema organizzativo non si basa sulle caste ma sulle classi sociali. Eppure, è un paragone utile (caste e classi possono rappresentare sistemi diversi, ma condividono alcune somiglianze). La serie Downton Abbey segue il declino dell’aristocrazia inglese negli anni attorno alla Prima guerra mondiale. Il vento del cambiamento sta spazzando l’Europa, con la Rivoluzione russa, il suffragio femminile e l’ascesa delle classi medie, dotate di un maggiore senso degli affari (e del denaro) rispetto all’élite di sangue blu. Downton Abbey, residenza del conte di Grantham e della sua famiglia, rappresenta una realtà sempre piú rara: una grande proprietà immobiliare aristocratica, e perfettamente funzionante. Tuttavia, anche la prestigiosa dimora è messa sotto pressione in vari modi, e in verità sopravvive solo perché Sua Signoria ha sposato una ricca ereditiera americana. Alla fine, però, il conte perde anche tutti i soldi della moglie, avendo investito il denaro in un fallimentare progetto ferroviario canadese; a salvare Downton sarà poi il cugino di Manchester del conte Grantham, avvocato e appartenente alla classe

media. Downton sta dunque vivendo con i giorni contati, mentre i vari membri della famiglia e i loro servitori esibiscono e promuovono diverse versioni dell’ordine sociale dell’epoca. Alcuni dei servi, e perfino qualche membro della famiglia, desiderano un nuovo mondo di libertà e cambiamento – un mondo di moderno individualismo; altri trovano non solo conforto ma, a quanto sembra, anche una sorta di serena giustizia nel vecchio modo di vita: nell’olismo. Nel complesso, sembra vincere un’immagine nostalgica della tenuta aristocratica, in cui ognuno ha il proprio posto e lo sa, ma tutto è perfetto, tutto funziona: i servi sono rispettati e accuditi come parte della famiglia, sulla loro tavola hanno formaggio e perfino vino e a qualcuno viene promesso addirittura un cottage al momento della pensione. E hanno accesso all’avvocato di famiglia di Londra quando è necessario. La cosa piú importante, dunque, è che gli aristocratici si prendono cura degli altri e sentono il richiamo del dovere nei confronti dell’intero ecosistema, che comprende non solo le persone «al loro servizio» (cuochi, cameriere e valletti) ma anche i fittavoli e di fatto gli abitanti del villaggio vicino. In modo davvero olistico, Lord Grantham dice spesso di prendersi semplicemente cura di Downton; egli è un amministratore e non un proprietario, nel rozzo senso di un individualismo possessivo. Il dramma di Downton Abbey si dipana nel continuo rimescolamento di valori in un mondo che cambia – senso del dovere, onore, libertà, lealtà –, innescando una sorta di competizione tra i valori fondamentali dell’olismo e dell’individualismo. Lentamente, nel corso delle sei stagioni della serie, l’olismo del sistema aristocratico perde terreno dinnanzi all’individualismo del moderno stato-nazione. Ma non senza lacrime per qualcosa di irrimediabilmente perduto. Per comprendere il meccanismo dei valori in azione, Downton Abbey potrebbe offrire un esempio perfino piú variopinto della descrizione dell’India di Louis Dumont. La serie televisiva, per altro,

svolge di certo un lavoro migliore di Homo Hierarchicus nel mostrare quanto il dramma della vita abbia le tinte dei valori a cui la gente si attiene. Nondimeno, vi sono studi antropologici che fanno buon uso delle idee teoriche di Dumont senza sacrificare i dettagli e il dramma della vita. Uno di questi lavori riguarda un piccolo gruppo di indigeni degli altopiani di Papua Nuova Guinea che alla fine degli anni Settanta vissero un drastico cambiamento di rotta.

Un caso di tormento morale. Gli Urapmin sono un gruppo di circa 390 individui che abitano nelle estreme regioni occidentali di Papua Nuova Guinea. La maggior parte dei territori di questo paese è particolarmente remota ancora oggi a causa di alte catene montuose e fitte foreste. Per tutto il periodo coloniale, questo significò che molti gruppi melanesiani ebbero pochissimi contatti diretti con gli estranei – di certo molti di meno rispetto ad altre regioni come il Sudest asiatico, l’Africa e la maggior parte del Sud America (fatta eccezione per l’Amazzonia). In parte come risultato di tale isolamento, ancora negli anni Settanta gli Urapmin non avevano mai avvertito il pieno impatto dell’attività missionaria. Ciò nonostante, un esiguo gruppetto di uomini Urapmin aveva ricevuto un’istruzione nella scuola missionaria regionale e, al ritorno a casa, la loro opera di evangelizzazione indusse la comunità a una conversione di massa. Quasi tutti gli indigeni divennero cristiani. Quando Joel Robbins partí per studiare gli Urapmin all’inizio degli anni Novanta, non si aspettava certo di trovarsi dinnanzi al fervore di persone rinate a nuova fede 20. Robbins intendeva studiare le tradizioni locali della segretezza rituale – un argomento fondamentale nella letteratura sulla Melanesia. Trovò invece dei cristiani devoti, per i quali molti dei rituali non avevano piú valore. Si trattava di una forma di cristianesimo molto carismatica, in cui il peccato e la salvezza

incombevano sull’uomo in modo inquietante, ed era stato proprio questo a spingere gli Urapmin ad abbandonare gran parte del loro sistema rituale tradizionale, inclusi i tabú a esso correlati. Per essere buoni cristiani, ragionavano gli indigeni, dovevano rinunciare ai loro modi pagani; dovevano invece, a sentir loro, vivere nel lecito, ovvero seguire i precetti del cristianesimo cosí come li avevano capiti. Questa enfasi su liceità e salvezza cristiana richiedeva un nuovo modello di personalità, giacché la salvazione (almeno in questo tipo di tradizione evangelica conservatrice) doveva essere personale, doveva essere sinceramente accettata dall’individuo nel profondo del suo cuore. Come disse un uomo urapmin: «Mia moglie non può spezzare un pezzo della sua fede e darlo a me» 21. L’individualismo era dunque diventato un valore dominante. Questo aveva funzionato egregiamente in molti ambiti esistenziali, tanto che la Chiesa locale aveva avuto piena fioritura. Come Robbins osservò, tuttavia, essa si poneva in totale disaccordo con l’idea pre-cristiana di socialità, in cui essere «un individuo» non aveva alcun senso. Come hanno sostenuto molti illustri antropologi della Melanesia, il valore tradizionalmente dominante non è né l’individualismo né l’olismo, bensí il «relazionalismo», intendendo dire con questo che ciò che i melanesiani apprezzano maggiormente è stabilire relazioni con altre persone. Le relazioni in sé sono ciò che rendono felice la vita – dunque non essere un individuo, come nel New Hampshire, né essere parte di un tutto cosmico, come nel Kerala. Come ogni valore, anche il relazionalismo conosce momenti difficili. Piú sono i rapporti che una persona stabilisce, piú si mettono in pericolo quelli esistenti. Affinché ogni relazione sia significativa ha bisogno di impegno e attenzioni. Ma esiste una quantità ben determinata di scambi di opinioni o di consigli per il giardinaggio in cui una persona può impegnarsi con dei nuovi conoscenti prima che i vecchi si sentano trascurati. Per gli Urapmin, queste difficoltà sono interpretate come la tensione tra comportamento «intenzionale» (il desiderio di creare nuove relazioni) e comportamento «lecito» (il

riconoscimento che le relazioni esistenti necessitano di regolari attenzioni e cure). Il desiderio intenzionale e la liceità di un comportamento sono pertanto dei valori avvolti all’interno del valore fondamentale del relazionalismo. Il cristianesimo aveva lasciato pochissimo spazio al desiderio intenzionale, richiedendo invece nuovi tipi di liceità. Un comportamento intenzionale nelle questioni del villaggio può spesso portare a tensioni, rabbia e gelosia – tutti elementi considerati non cristiani. Ciò che sotto il vecchio sistema rappresentava pertanto un fatto accettabile della vita (almeno in misura adeguata) era divenuto incondizionatamente peccaminoso e, come risultato, tormentoso. La situazione degli Urapmin era ulteriormente complicata dal fatto che mentre alcuni momenti della vita potevano confluire senza difficoltà nel sistema assiologico cristiano, la cosa non era altrettanto facile quando si trattava di molti aspetti legati a consanguineità e unioni matrimoniali, cosí come alla produzione del cibo e ai rapporti tra i vari villaggi. In questi ambiti fondamentali, inoltre, il relazionalismo continuava a dominare incontrastato, per cui gli Urapmin dovevano vivere in quella che Robbins definisce una cultura «bilaterale». Il lavoro di Robbins sui valori ha esercitato una notevole forza di attrazione. La situazione degli Urapmin è diventata uno di quei casi di studio discussi da molti altri antropologi, non solo rispetto alla teorizzazione dei valori, ma anche ad argomenti piú specifici come cristianesimo, cambiamento culturale e moralità. Ciò che il caso degli Urapmin può aiutarci a valutare meglio – quasi a «sentire» meglio grazie ad alcune delle descrizioni etnografiche piú dettagliate fornite da Robbins – è proprio la centralità della «lotta tra i valori» nel comportamento di noi esseri umani. Non sempre nel mondo si creano situazioni cosí penalizzate o conflittuali come quella della comunità Urapmin; è piú facile che un cambiamento di tale intensità si inneschi, si alimenti e si renda evidente in una comunità di 390 individui sugli altopiani di Papua Nuova Guinea che in società piú grandi e piú diversificate. Né capita sempre che si possa parlare di qualcosa di

simile a una cultura bilaterale. Detto questo, però, è bene ricordare che quanto accade in questo angolo remoto di Papua Nuova Guinea non è affatto insolito né unico nel suo genere. I valori sottolineano l’importanza degli esseri umani come animali attenti alla costruzione di significato. I valori non sono solo centrali per l’organizzazione della vita, ma anche per il modo in cui ne valutiamo la qualità. Essi svolgono un ruolo funzionale; pur non essendo mai del tutto definiti o prevedibili, certi valori si adattano piú di altri a determinate forme di organizzazione sociale. Una tenuta come Downton Abbey non avrebbe mai potuto sopravvivere una volta affermatosi il senso morale dell’individualismo. Ecco perché essa muore e perché fa da sfondo a una bella serie televisiva. Quando impariamo a conoscere i valori delle persone, apprendiamo anche le strutture e i contesti delle loro vite in senso piú generale: i loro sistemi politici, le sensibilità religiose, i rapporti famigliari e sociali, le reti economiche e cosí via. Nondimeno, i valori non possono essere ridotti alla loro utilità o «funzione» sociale. Come dimostra il caso degli Urapmin, a volte gli esseri umani sostengono certi valori anche quando generano sofferenza morale. Il significato viene valutato con piú di un’unità di misura, e una vita tranquilla e senza incidenti potrebbe non essere la cosa piú importante. In realtà, le persone vivono spesso le loro vite in modi che sfidano qualsiasi ragionevole definizione del percorso di minor resistenza. Questo è un punto che analizzeremo passando al nostro prossimo argomento.

a. Il castello in Austria era di proprietà della Wenner-Gren Foundation for Anthropological Research, con sede a New York, che è probabilmente la piú importante istituzione del mondo che finanzia e supporta esclusivamente l’antropologia (tutti e quattro i suoi sottocampi). Da allora, ahimè, il castello è stato venduto, ma il centro finanzia ancora, tra molti altri programmi, degli importanti workshop. Negli ultimi anni, i documenti elaborati in questi seminari sono apparsi su numeri speciali della rivista «Current

Anthropology». Gli stessi numeri sono accessibili al pubblico online. b. Anziché, per esempio, rispettare il diritto di primogenitura e lasciare tutto al figlio maggiore. c. Non dimentichiamo che il 1980 segnò il massimo splendore dell’antropologia interpretativa. A dominare, di certo negli Stati Uniti dove lavoravano Herzfeld e Abu-Lughod, era l’interesse per la lingua, la cultura e il significato – un’impostazione metodologica talora definita «approccio semiotico alla cultura». Si parla spesso di Geertz come di uno studioso «particolarista», intendendo dire con questo che egli non amava le generalizzazioni e pensava che l’antropologia, per essere tale, dovesse rappresentare lo studio di una cultura inserita nel contesto. d. Alcuni antropologi (per esempio Nicholas Dirks nel suo libro Castes of Mind del 2001) hanno persino sostenuto che il Raj britannico contribuí a fissare le categorie castali piú che i precedenti mille anni di pensiero e pratica induista. I governi coloniali amano identità sociali e legali il piú nette possibile; questo facilita parecchio l’amministrazione di un impero, specialmente su un territorio coloniale come l’India, che era circa dieci volte piú complesso, diversificato e intricato di quello della Gran Bretagna. e. Quest’ultimo esempio è tratto da un post sul sito web del – pensate un po’! – Center for Individual Freedom, con sede in Virginia; http://cfif.org/v/index.php/jesters-courtroom/3068-a-colorful-lawsuit.

Capitolo quarto Valore

Nel 1983, nel villaggio di Mashai, in Lesotho, morí il 40 per cento del bestiame. L’area aveva sofferto di una grave siccità e gli animali erano morti di fame. Il governo aveva fatto tutto ciò che poteva per avvertire le persone di quel rischio – non che la popolazione locale non sapesse valutare da sola il pericolo, visto che l’allevamento rappresentava da lungo tempo la base del sostentamento dell’etnia Basotho. Un funzionario del luogo aveva esortato gli abitanti del villaggio a svendere le loro mandrie prima che fosse troppo tardi; cosí facendo, avrebbero potuto ottenere almeno qualcosa in cambio del loro patrimonio. Eppure, nei mesi piú duri della siccità – giugno e luglio –, in molte zone del Lesotho le vendite di bestiame subirono in realtà un calo. La gente rifiutava di vendere per minimizzare le perdite. Come disse un uomo all’antropologo James Ferguson, quel comportamento era dovuto al fatto che il bestiame «è la cosa piú importante» 1. Ferguson stava conducendo ricerche sul campo a Mashai proprio durante la siccità. Prima ancora di rendersene conto, quell’uomo gli stava parlando di ciò che l’antropologo avrebbe poi definito la «mistica del bestiame». Non si tratta di accettare incondizionatamente qualcosa di sacralizzato e intoccabile. I bovini sono speciali, nessuno lo nega, ma la mistica ha piú a che fare sia con il modo in cui il bestiame influisce sui rapporti sociali e famigliari sia con il bestiame in sé. I bovini sono preziosi per una serie di ragioni, soprattutto per gli uomini. Prima di tutto, dato che gli uomini del villaggio di una certa età lavoravano per lo piú come emigranti nelle miniere sudafricane, la

proprietà del bestiame a casa fungeva da memento della loro autorità. In secondo luogo, il bestiame era fondamentale per la creazione e il mantenimento di una serie di relazioni sociali. Forse era vitale soprattutto in questo senso data la consuetudine presso i Basotho della «ricchezza della sposa», per cui la famiglia dello sposo cedeva parte del bestiame alla famiglia della donna come forma di una compensazione matrimoniale. Piú in generale, un uomo con del bestiame poteva – anzi, era previsto che lo facesse – prestare le sue bestie ad altri membri della comunità. Analoghi sistemi di protezione e clientela sono comuni in molte parti dell’Africa. In terzo luogo, questo sistema di radicamento sociale assumeva ulteriore importanza allorché un uomo tornava dal suo lavoro nelle miniere; per lui, il bestiame rappresentava una sorta di fondo pensionistico, migliore di qualsiasi altro disponibile. Infine, come elemento correlato, le norme parentali e famigliari stabilivano che, anche se il bestiame faceva parte della ricchezza complessiva della famiglia, erano gli uomini ad avere l’ultima parola in merito all’uso e al destino degli animali. Quello che Ferguson ci dice è che se un uomo torna a casa con del denaro, molti della sua famiglia, non ultima sua moglie, possono reclamarlo, cosa che non può invece avvenire se l’uomo converte la somma in capi di bestiame. Ferguson precisa una serie di punti nella sua analisi. Una delle conclusioni di maggiore rilievo è che la «mistica del bestiame» è ovviamente di genere e favorisce soprattutto gli interessi degli uomini. In sostanza, Ferguson intende sconfessare l’idea che i contadini africani si comportino in modo irrazionale e antieconomico. La questione non è che agli abitanti del villaggio servano lezioni sugli elementi basilari dello sviluppo, su che cosa succede quando non piove, o sulle leggi della domanda e dell’offerta. Nella pratica in uso tra i Basotho vi è una logica precisa. Ferguson vuole anche chiarire che tale «mistica» non nasce da qualche antica usanza tradizionale, sacra e incontestabile. Essa risulta, abbastanza chiaramente, parte integrante del piú vasto mondo a cui i Basotho partecipano: il

«moderno» mondo dell’economia del lavoro salariato, organizzato attorno a merci scambiate a livello globale. Ciò che la «mistica del bestiame» ci consente di apprezzare è la stretta connessione tra i valori, discussi nel capitolo precedente, e il valore, esaminato qui in un senso piú economico. Il nocciolo della questione del Lesotho è infatti un problema che ha sempre affascinato gli antropologi: il tema dello scambio. E per valutare il punto di vista antropologico sul valore, il tema dello scambio offre un utile argomento per iniziare. La «mistica del bestiame» sembra ricordarci quel sentimento colto perfettamente (per quelli che ne sanno piú di rock and roll che di bestiame) nella canzone dei Beatles Can’t Buy Me Love (Non possono comprarmi l’amore). Certe cose – quelle piú importanti – non possono essere ridotte a merci da comprare e vendere. L’amore non è una scatola di piselli, né lo è, in molte parti del mondo, il bestiame. È qui che i «valori» (amore, fiducia, prestigio, sicurezza) plasmano di piú il «valore». La verità racchiusa nella canzone dei Beatles, o in ciò che i Basotho rifiutano di vendere, è ulteriormente rafforzata da tendenze nel mondo contemporaneo che vanno nella direzione opposta. Nella versione piú semplice, l’idea è che tutto ha un prezzo; nella versione piú cinica, è che è inevitabile che tutto venga mercificato. Possiamo non aver ancora monetizzato l’amore, ma abbiamo certamente imboccato tale strada nel campo dell’istruzione, in cui si attribuisce sempre piú agli studenti universitari di tutto il mondo occidentale il peso morale di «clienti» (in parte, probabilmente, perché sono costretti a pagare tasse universitarie salatissime). Una terminologia del genere, presente nei vari documenti che circolano nelle amministrazioni universitarie, manda su tutte le furie il corpo docente. Studiare Shakespeare in classe non è come comprare un’auto dal concessionario locale, non lo è in alcun modo e in nessuna forma! Il regno delle «cose speciali» – che si tratti di animali d’allevamento, dell’amore o della tesina di uno studente sull’Amleto,

o, perfino, della spilla d’argento acquistata da vostra nonna nel 1923 – affascina da tempo gli antropologi. Le «cose speciali» ci permettono di mettere alla prova le regole che governano consuetudini importanti come il baratto e, insieme, la creazione stessa delle relazioni sociali. Nel caso del bestiame in Lesotho, il fatto di scambiare i propri animali per denaro è esattamente ciò che manderebbe in rovina il tessuto delle relazioni sociali. Come sostiene Ferguson, la ricchezza sociale fornita dal bestiame (prestando ad altri gli animali o usandoli per forgiare alleanze tra famiglie attraverso i vincoli del matrimonio) è molto piú preziosa della ricchezza economica che una vendita potrebbe produrre, perfino nel caso che quella ricchezza sociale venisse decimata da una siccità. La «mistica del bestiame» è una sorta di test sui generis che mette alla prova le regole di cui parlavamo, e in base alle quali le persone non fanno qualcosa che spesso, a giudizio di un osservatore esterno, dovrebbero invece fare. In fondo se c’è una siccità, perché non vendere il bestiame per ridurre le perdite? Non sembra una cosa razionale. Nella storia dell’antropologia, tuttavia, a suscitare interesse e dibattiti sono spesso casi che si collocano all’altra estremità dello spettro, cioè quando le persone fanno qualcosa che, spesso, a giudizio di un osservatore esterno, non dovrebbero proprio fare – o che sembra almeno non servire ad alcuno «scopo reale», non avere alcun «valore pratico» e apparire piuttosto come uno «spreco». Non c’è dubbio che in tutto il mondo la gente faccia cose di ogni genere che paiono sfidare la logica del buon senso economico – lo stesso tipo di buon senso che nel 1983 aveva spinto il governo del Lesotho a raccomandare agli abitanti del villaggio di Mashai di vendere il bestiame. Possiamo attenderci il percorso di minor resistenza nel regno della fisica, ma non sempre in quello della cultura. Tali pratiche apparentemente illogiche vanno dal potlatch – la cerimonia praticata presso molte culture native americane lungo la costa nord-occidentale del Pacifico, in cui un gruppo legato dalla medesima discendenza dà via o brucia tutte le sue proprietà – al costo

medio di un moderno matrimonio britannico (tanto per riprendere il tema dell’amore), che, secondo una ricerca del 2013, ammonta a 30 111 sterline 2. Nello stesso anno lo stipendio medio era di 27 000 sterline 3.

Il «kula». Uno dei casi piú famosi di apparente ostentazione costituisce il nucleo del lavoro svolto da Bronisław Malinowski nelle isole Trobriand. Esso riguarda lo scambio di collane di conchiglie rosse e braccialetti di conchiglie bianche nelle isole che si estendono per centinaia di chilometri al largo della costa orientale di Papua Nuova Guinea, divenute note in letteratura come «l’Anello del kula». Malinowski descrive il kula come una «forma di scambio […] il cui obiettivo principale è di scambiare articoli che non hanno utilità pratica» 4. Le collane (soulava) e i braccialetti (mwali) circolano lungo l’Anello in direzioni opposte: le prime si muovono in senso orario, i secondi in senso antiorario. Come osserva Malinowski, si tratta non solo di oggetti privi di una qualche «utilità pratica», ma anche di qualità scadente dal punto di vista ornamentale, tanto che in realtà non vengono mai indossati; molti dei braccialetti sono in effetti troppo piccoli da portare, perfino per dei bambini. A prima vista, quindi, sembrano essere totalmente inutili. Per i popoli che partecipano al kula – trobriandesi, dobuani, sinaketani e altri –, essi possiedono tuttavia un valore tale che gli uomini intraprendono traversate lunghe e pericolose per scambiare alcuni di quei gioielli con altri. Anche questo può sembrare curioso a un primo sguardo, dato che le collane e i braccialetti piú ricercati hanno storie molto particolari e suscitano associazioni di idee ben precise – perfino nomi –, tanto che ognuno di quegli ornamenti risulta «un inesauribile veicolo di importanti associazioni sentimentali» 5. Perché allora voler dare via un bene cosí prezioso? (La maggior parte viene conservata per non piú di un anno o

due). Lo scambio del kula è in effetti un fenomeno piú complesso. Lo scambio reale di collane con braccialetti, e viceversa, è avvolto in un’atmosfera cerimoniale e formale, con la regola, tra l’altro, che esso non deve avvenire contemporaneamente – quindi l’oggetto non viene scambiato, ma piuttosto donato. Questo particolare del dono è altresí rimarcato dal fatto che un ricevente (che ha già offerto il suo dono) non metterà mai apertamente in discussione l’equivalenza di valore di ciò che ottiene in cambio. E a effettuare lo scambio è sempre un «lui»: solo gli uomini infatti partecipano al kula. Non è difficile intuire l’idea di qualcosa dotato di un «valore sentimentale» che non concorda per altri aspetti con il suo valore effettivo. Possiamo pertanto parlare senza difficoltà di qualcosa che detiene parecchio valore sentimentale ma nessun «valore d’uso» o «valore di scambio». Una fotografia ormai a brandelli di vostra nonna, per esempio, che indossa la sua spilla d’argento preferita, è senza prezzo e potreste considerarla inestimabile. Essa ha per voi un «significato». Eppure, il carattere cosí elaborato della cerimonia dell’Anello del kula pone in assoluto rilievo proprio la questione del valore, poiché comporta palesemente parecchi elementi direttamente collegati alle dinamiche generali della socializzazione. Malinowski formulò riguardo al kula delle conclusioni che potrebbero apparire contraddittorie, in quanto pertinenti la natura delle relazioni sociali. Da un lato, sostenne chiaramente che lo scambio del kula era «effettuato per se stesso, per soddisfare un desiderio profondo di possesso» 6; dall’altro lato, asseriva con una sfumatura di misticismo che «possedere è donare» 7. Allo stesso modo, la sua enfasi iniziale sulla mancanza di uso pratico degli oggetti di valore scambiati nel kula è tradita dalla sua conclusione che tale scambio ciclico stabilisce importanti legami sociali tra uomini di isole e comunità diverse; le collane e i braccialetti accrescono inoltre la reputazione dei loro proprietari. In poche parole, un braccialetto kula non è un oggetto pratico come può esserlo una canoa o un’ascia, ma al momento buono

anche i legami sociali e la reputazione possono rivelarsi parecchio utili. La discussione di Malinowski sul valore, nel caso del kula, innescò una serie di dibattiti sulla natura delle relazioni sociali che domina ancora oggi l’attenzione degli antropologi. Al centro vi è la domanda: perché gli esseri umani si scambiano le cose? Può mai trattarsi veramente di un gesto compiuto «per il puro piacere di farlo», o sottintende sempre la speranza di ottenere qualcosa in cambio? Un altro modo di porla potrebbe essere: gli esseri umani sanno davvero essere altruisti, o in realtà tutto ciò che fanno è per un puro interesse personale?

Il dono e il dono gratuito. La domanda appena posta acquista particolare rilevanza nel mondo contemporaneo, in cui il «mercato» regna sovrano. È lo stesso motivo per cui le canzoni d’amore dei Beatles e di altri sono cosí diffuse e popolari. A esprimere meglio il problema, tuttavia, piuttosto che i Fab Four potrebbe essere l’economista Milton Friedman, soprattutto quando asserisce che «nessun pasto è gratis» 8. I principî del libero mercato enunciati da Friedman, e sostenuti da un forte interesse personale, colgono le idee relative agli scambi commerciali piú generalmente diffuse. Per Friedman, non è un problema che nessun pranzo sia gratis. L’interesse personale è ciò che muove il mondo, e non c’è nulla di cui vergognarsi. Io ti do dei panini, esatto – o magari perfino un’insalata di aragosta –, ma tu mi aiuterai a pulire il giardino, o a fare il trasloco, oppure offrirai qualche buon consiglio a mio figlio su come ottenere un impiego nel settore della pubblicità (magari nell’azienda di cui tu sei socio). Perché questa dovrebbe essere una brutta cosa? Non possiamo essere semplicemente onesti con noi stessi e accettare che è questa la base della vita sociale? Per un sostenitore del libero mercato come

Friedman, la questione dell’interesse personale contrapposto all’altruismo ha come semplice risposta il fatto che essi sono in realtà la stessa cosa. Nella tradizione del pensiero economico occidentale, questa enfasi sull’interesse personale ha dominato a lungo ed è alla base delle prime teorie moderne sul contratto sociale. Essa viene spesso ulteriormente elaborata in una teoria della natura umana in cui il nostro desiderio di avere di piú (sesso, denaro, potere, carte Pokemon eccetera) non ha limiti. È questo il punto in cui meglio si inserisce l’argomentazione di Marshall Sahlins circa «l’originaria società opulenta», di cui si è parlato nell’introduzione. Ciò che Sahlins dimostra nella sua analisi delle piccole società di cacciatori-raccoglitori in Australia e in Africa è, in sostanza, il fatto che l’affermazione di Malinowski circa il «profondo desiderio di possesso» degli indigeni delle isole Trobriand deve essere intesa come un’elaborazione culturale. Come l’autore sostiene altrove, questa linea di pensiero rientra nel «ricorrente tentativo di fare dei bisogni e dell’avidità individuale la base della socialità» 9. A questo punto, però, la domanda diventa: a chi appartiene tale elaborazione culturale? È solo di Malinowski, oppure condivide qualche elemento con la gente delle isole Trobriand? Tre anni dopo la corposa descrizione del kula offerta da Malinowski, l’antropologo francese Marcel Mauss pubblicò il lungo saggio The Gift (Saggio sul dono), in cui affrontava appunto tali domande. Attingendo a una serie di studi etnografici, incluso quello di Malinowski, Mauss concludeva che la formulazione stessa del problema – l’interesse personale contrapposto all’altruismo – era sbagliata. Il punto non è come le persone «calcolino» realmente (o rifiutino di calcolare) i processi di scambio e le relazioni sociali che essi creano. Uno dei modi migliori per capire e valutare tale fatto è rivolgere l’attenzione a quei generi apparentemente esotici e donchisciotteschi di «economie del dono», come le chiamava Mauss, reperibili un po’ ovunque in Melanesia, Polinesia e tra le culture dei nativi americani del Pacifico nord-occidentale.

Molti antropologi considerano il Saggio sul dono il piú importante contributo alla nostra comprensione della reciprocità e dello scambio. Decine di libri e saggi sono stati dedicati a quanto discusso da Mauss – in parte, come riconoscono anche i suoi lettori piú affezionati, perché il problema non è sempre chiaro. Si è speso inoltre molto inchiostro riguardo al significato di quei termini indigeni che risultano fondamentali per la sua analisi, in particolare la parola maori hau che, sovente tradotta come «lo spirito del dono», sembra abbia sviluppato una vita propria (torneremo ancora su questo punto). La tesi centrale del Saggio sul dono è che nessun regalo è gratis – non lo è mai e in nessun luogo. Ci aspettiamo un qualche ritorno, anzi, esso è obbligatorio. Di primo acchito, ci sembra una cosa giusta. Nella nostra vita, sappiamo tutti che esiste un’aspettativa non scritta, e spesso inespressa a parole, di essere ricambiati. Quanti di voi, cari lettori, si sono sentiti in imbarazzo perché non avevate un regalo per un cugino che vedete raramente (visto che lui vive alle Hawaii e voi in Belgio), o per i suoi figli, mentre lui ne aveva uno per voi? Il motivo del vostro imbarazzo è probabilmente una qualche combinazione di quanto segue: (a) state dimostrando (o siete preoccupati di dimostrare) che non vi importa molto di quel cugino o dei suoi figli; (b) state dimostrando (o siete preoccupati di dimostrare) che non vi importa molto neppure di vostro zio (fratello di vostra madre) e quindi, per estensione, neanche di vostra madre; forse (c) il fatto di non avere a vostra volta un regalo dimostra semplicemente che siete una persona di minor valore perché non potete permettervi di comprare regali (in questo caso esiste anche un imbarazzo inverso, cioè quando il vostro regalo è troppo pretenzioso o personale; in ufficio, per esempio, è meglio non riempire di regali il capo) a. Allo stesso tempo, se siamo noi quelli che facciamo un regalo ma non ne riceviamo, ci affrettiamo a dire: «Oh, ci mancherebbe! Non ti preoccupare! Non essere sciocco, è giusto un pensierino», tentando di sollevare nostro cugino dal suo imbarazzo. Potremmo anche essere sinceri, e magari insistere come minimo sul fatto che è possibile

essere sinceri, cioè che sappiamo dare senza aspettarci o desiderare qualcosa in cambio. È importante chiarire che Mauss non sta pensando ai «regali» solo in questi termini, come a quelli che si ricevono a Natale, per Hanukkah, per un compleanno o un matrimonio. Questo genere piú comune di doni rappresenta solo una parte del quadro complessivo: si tratta di cose regalate che sottintendono un rapporto personale. Lo stesso vale per l’Anello del kula, a cui Malinowski, in base alla sensazione di Mauss, si era accostato come a un particolare tipo di scambio di regali perché tale sembrava da un punto di vista occidentale, caratterizzato da una forte differenziazione tra dono e merce (con buona pace del punto di vista dell’indigeno). Per Mauss, tuttavia, la conclusione apparentemente poco romantica e fredda che nessun dono è gratis risente di piú dell’insistenza con cui il moderno Occidente tenta di isolare certi tipi di scambi o relazioni da altri. Riecco quindi la frase «Non possono comprarmi l’amore», a cui Mauss potrebbe replicare: Non possono comprarmi l’amore. Questo è certo. Non possono neppure comprarmi qualche patata dolce. Se analizziamo le testimonianze provenienti dagli isolani delle Trobriand, dai Maori, o dai Kwakiutl, abbiamo dinnanzi un punto di partenza completamente diverso. Entrambi gli scambi (amore e patate dolci, se prendiamo il caso delle Trobriand) possiedono in sé qualcosa di personale e impersonale insieme, di gratuito e vincolato, di interessato e disinteressato. Ciò che Mauss vuole enucleare dalla categoria del dono è un modello di economia e società basato sul chiaro riconoscimento di legami che generano un impegno. Nella sua essenza, afferma Mauss, lo scambio dovrebbe sempre riguardare la solidarietà, il legame tra esseri umani. L’espressione usata – dovrebbe sempre – è mia, ma va direttamente al cuore di ciò che Mauss intendeva. Egli, ben di piú della maggior parte degli antropologi, sentiva l’obbligo di mettere in luce le conclusioni morali derivanti dal suo lavoro. Mauss era un socialista che ha ispirato negli altri studiosi di antropologia un forte impegno

politico – non parlo soltanto di altri socialisti, ma anche di anarchici, cattolici devoti e perfino qualche incallito giocatore d’azzardo. Piú di ogni altra cosa, è stata l’analisi di Mauss del termine maori hau a comprovare il fattore della solidarietà e del legame. Come abbiamo detto poco sopra, la parola hau significa qualcosa del tipo «spirito del dono» o «spirito della cosa» e assume per Mauss particolare importanza perché coglie perfettamente la misura in cui i Maori vedono in qualsiasi oggetto donato qualcosa della persona che dona. «Donde deriva che regalare qualcosa a qualcuno equivale a regalare qualcosa di se stessi» 10. Per Mauss, è appunto questo il motivo per cui ci sentiamo obbligati a ricambiare un dono; esprimendo tale concetto in un modo che potrebbe sembrarci strano, egli parlava di un dono desideroso di essere restituito al suo donatore, al suo proprietario. Mauss sosteneva che una logica simile è evidente nell’Anello del kula. Gli oggetti di valore scambiati nel kula, non dimentichiamoci, sono strettamente associati ai loro proprietari e si ritiene che ne contengano una sorta di biografia; sono appunto queste biografie a sottolineare il valore sentimentale dello scambio. Se ci fermiamo a riflettere, però, tutto questo non è completamente separato dalla storia dei legami tra persone e cose in Occidente. Le cose speciali della nostra vita – che siano dei bovini o la spilla d’argento di nostra nonna oppure una sciarpa che abbiamo lavorato ai ferri – portano in sé e con sé qualcosa di noi. Risiede in questo gran parte delle ragioni per cui non vogliamo venderle, o trattarle come tratteremmo il filone di pane acquistato dal fornaio. Certo, anche il produttore di quel pane, specialmente se è un produttore artigiano che tira avanti con piccole infornate, potrebbe benissimo sentire in quel filone una parte di sé. In questo caso, però, paghiamo un sovrapprezzo per quel pane perché, in sostanza, stiamo acquistando l’esperienza e l’abilità di qualcuno. In realtà sta tutta qui la particolarità di marchi e prodotti «di qualità», il che non è poi cosí diverso, in linea di principio, da ciò che intendeva Mauss riferendosi allo hau dei Maori b. Anche se Mauss non definiva il problema in questi termini, il

principio è collegato a quella che Karl Marx aveva descritto nella sua opera come l’alienazione del lavoro. Nelle sue osservazioni sulla Rivoluzione industriale, Marx sosteneva che i lavoratori delle fabbriche, in sostanza, rinunciavano al loro legame personale con i beni che producevano. Il padrone della fabbrica si limitava a dire: «Questo lo fate per me. Io ne sono il proprietario e sarò io a venderlo. In cambio, eccovi sei penny». Questa è la base dell’alienazione, e ha come premessa l’idea che in merito al chi siamo noi viene a perdersi qualcosa di prezioso allorché i frutti della nostra fatica sono monetizzati. Il Saggio sul dono, in effetti, racchiude un’aperta critica di ciò che Mauss considera il meccanismo «crudele» e «senza cuore» del moderno sistema capitalista – e dei sistemi legali che lo sostengono, attraverso i quali l’autore identifica la separazione tra le persone e le cose. Mauss non esita a offrire delle conclusioni di ordine morale, né ritiene che la causa sia irrimediabilmente persa: «Non tutto, per fortuna, è ancora esclusivamente classificato in termini di acquisto e di vendita. Le cose hanno ancora un valore sentimentale oltre al loro valore venale, ammesso che esistano valori soltanto venali» 11. «Venale» è una parola forte. Se le associazioni immediate del termine hanno a che fare con la corruzione morale, esso può anche significare qualcosa come «acquistabile» o «comprabile». È a questo punto che il denaro fa la sua comparsa nelle discussioni riguardanti il valore.

Soldi, soldi, soldi. Esiste un interesse antropologico di lunga data nei confronti del denaro. Lo studio di Caitlin Zaloom sugli operatori di borsa che trattano i futures rappresenta solo la punta dell’iceberg. Se riflettiamo sulla storia passata della disciplina, cosí come sull’andamento degli affari mondiali a partire dal loro inizio alla metà del XIX secolo, tale interesse appare perfettamente giustificato. Era l’epoca in cui il

commercio si diffondeva a ritmi senza precedenti, spesso seguendo prima di tutto le linee e le direttive dell’espansione coloniale. Per molti luoghi, questo significò introdurre sistemi monetari là dove non ne esisteva nessuno. Per altri luoghi, comportò il passaggio da sistemi di scambio basati su conchiglie, perline o altri oggetti atti allo scopo. Prendiamo per esempio il caso del Lesotho. I bis-bis-bis-bisnonni dei Basotho con cui James Ferguson entrò in contatto negli anni Ottanta vivevano in un mondo senza denaro, un mondo senza il lavoro nelle miniere sudafricane, senza negozi di sapone, sardine in scatola e Coca-Cola. Il lavoro in miniera e le sardine fanno parte del «moderno mercato globale», reso possibile grazie al denaro. In quanto catalizzatore cosí importante del cambiamento culturale, il denaro è un obiettivo naturale dello studio antropologico. Una delle osservazioni antropologiche piú comuni circa il denaro è quanto esso possa alterare radicalmente le relazioni sociali. Riceviamo altri suggerimenti in tal senso dall’esempio di Ferguson, considerando fino a che punto la «mistica del bestiame» risulti legata all’emigrazione di lavoratori e alle trattative tra mogli e mariti circa la gestione del denaro del nucleo famigliare. In molti casi, la ragione è che il denaro – inteso come denaro contante – rappresenta un mezzo impersonale di scambi e transazioni. I soldi, potremmo dire, sono privi di spirito. Nessuno hau. Questo, ovviamente, può rivelarsi parecchio utile, permettendo innumerevoli modalità di transazione veloci ed efficienti. Quando compriamo un filone di pane, non abbiamo certo voglia di impelagarci in qualche lungo rituale, né qualcuno ci chiede di rinunciare a una parte di noi stessi per averlo (abbiamo già parlato di ciò che il nostro artigiano fornaio finisce per cedere, ma questo rientra nella piú vasta equazione del valore). Inoltre, possiamo utilizzare la stessa banconota da 5 sterline per comprare pane, gelatine dolci, aspirina, fusibili da 13 A, sementi per il giardino o un biglietto dell’autobus (anche se ovviamente sull’autobus è meglio avere gli spiccioli!) Felici e contenti della nostra banconota da 5 sterline, l’ultima cosa che vorremmo

sapere è che cosa abbiano fatto con essa le quarantasette persone che l’hanno posseduta prima di noi c. Dentro di sé, la banconota non conserva nulla di quelle persone, ed è proprio questo il motivo per cui chi compra qualcosa di illegale, o paga «sottobanco», preferisce usare contanti. La transazione risulta impersonale e anonima, il che può essere molto utile. Non si dovrebbe mai comprare cocaina con una carta di credito, né lasciare una scia di estratti conto bancari o ricevute se si vuole imbrogliare il fisco. Altre caratteristiche del denaro hanno la loro importanza rispetto a come esso riesce a strutturare gli scambi e le relazioni sociali. Il denaro, ovviamente, ha un valore nominale. Non ci sono in circolazione banconote della Banca d’Inghilterra che dicano: «Questa banconota vale la tal cosa». E i valori nominali sono universalmente applicabili; possono essere usati per contrassegnare il prezzo – in termini monetari, ovviamente – di una chiave inglese (2,50 sterline) e di una Mercedes-Benz (43 000 sterline). Questa capacità di denominare un certo valore rende tutto commensurabile. Almeno in teoria. Per cui, se possedete 17 200 chiavi inglesi, sarà come avere una Mercedes-Benz. Capite da soli perché la cosa sia uguale solo in teoria; eppure è proprio quell’«in teoria» che riveste importanza rispetto a come il denaro contribuisca a strutturare regimi di valore. A prima vista, queste caratteristiche del denaro – la sua impersonalità e universalità – sembrano la ricetta perfetta per un disastro, almeno quando si tratta della sopravvivenza di una determinata cultura. In effetti, molte delle lotte sul denaro sono precisamente di questa natura – del tipo Basotho, per intenderci –, visto che questo particolare mezzo di scambio e unità di valore minaccia di cancellare ciò che è distintivo di un particolare stile di vita imponendo ovunque le proprie condizioni. Se la maggior parte degli studi antropologici sul denaro lo analizzano in contesti specifici, ve ne sono anche altri molto autorevoli che riguardano il suo valore simbolico e le sue associazioni culturali. Keith Hart ne ha scritti diversi. In uno dei suoi saggi ormai

classici prende in esame la comune moneta come esempio pratico 12. Se osservate tra gli spiccioli che avete in tasca, dice Hart, vedrete che le monete hanno un recto e un verso, chiamati anche testa e croce. Lo sappiamo tutti. Il recto, cioè «testa», beh, di solito reca la testa di qualcuno – nel Regno Unito e in buona parte del Commonwealth è quella del sovrano; negli Stati Uniti, è quella di un presidente (oppure, per le monete da un dollaro, quella di Susan B. Anthony o di Sacagawea). L’effigie è un simbolo del valore della moneta e contrassegna l’autorità che l’ha emessa: essa è cioè il marchio dello stato a cui essa appartiene e quindi dell’arena sociale in cui ha avuto il suo «corso» originale. Sul verso della moneta, cioè «croce», troviamo indicato il suo valore nominale: cinque penny, dieci penny, cinque centesimi, dieci centesimi e cosí via. La tesi di Hart è che, nel mondo contemporaneo, il recto della moneta abbia sempre meno importanza. È facile ormai dimenticare il lato delle cose connesso alle relazioni sociali, il fatto che questo mezzo di scambio sia collegato, sotto un certo aspetto tutt’altro che irrilevante, a precise personalità e comunità. In realtà, è sorprendente la forza racchiusa nel verso della moneta, per lo meno se consideriamo quanto riesca ad attrarre la nostra attenzione. A chi importa se la moneta riporta l’effigie di un sovrano? Quello che vogliamo sapere è se il suo valore è 5, 10, 20 o 50. Nel caso delle banconote della Banca d’Inghilterra, le persone simbolicamente rappresentate contano ancora meno. Tutte le banconote hanno l’immagine del sovrano, lo sanno tutti d. Eppure, troviamo raffigurate anche altre persone, per esempio Adam Smith e Charles Darwin, che tuttavia passano per lo piú inosservate. Ciò su cui cade la nostra attenzione è il numero piú o meno grande: 5, 10, 20. Sul piano simbolico, tuttavia, quelle personalità non rappresentano soltanto la grandezza della nazione, ma soprattutto il fatto – ed è realmente un fatto – che banconote e monete possiedono un dato valore unicamente perché tutti confidiamo che la Banca d’Inghilterra, in teoria, promette di pagare a vista il portatore. Come Hart e molti

altri antropologi amano sottolineare, il denaro è un indice dei rapporti umani costruiti sulla fiducia. Abbiamo già visto almeno in parte che altre forme del moderno commercio di beni tentano di rimuovere la persona; nel caso degli scambi di futures alla Borsa di Chicago e di Londra, questo è avvenuto, direi piuttosto letteralmente, trasferendo gli scambi dalla «sala delle contrattazioni» al computer, come sostiene Caitlin Zaloom. Il rapporto in questo caso dovrebbe passare dal genere da-persona-apersona a quello da persona-a-cosa (computer), per arrivare infine, come ben sappiamo dal mondo della finanza, a una serie di puri algoritmi. In effetti, oggi alcuni investitori usano proprio il «commercio algoritmico» per prendere le loro decisioni: vi sono piccoli investitori che scrivono da casa il loro codice telematico, ed è poi il computer a prendere tutte le decisioni circa il momento in cui comprare, vendere eccetera. Tali cambiamenti rispondono a un’estensione logica del vecchio detto che «gli affari non sono personali», cioè che per avere successo negli affari bisogna avere quel genere di gelida determinazione e sangue freddo descritti da Mauss. Hart ha esplorato questo punto – con fare direi piú scherzoso – prendendo in esame i vari modi in cui questo cliché alimenta tanta parte dell’azione drammatica dei film. Attingendo alle pellicole di gangster sia di Hollywood sia di Bollywood, Hart indica quello da lui definito «il dilemma del killer» 13. La scena la conosciamo tutti: il sicario è davanti alla sua vittima, pistola in mano. Prima di sparare, dice: «Niente di personale, amico. Sono solo affari!» Bang! Bang! Bang! Perché lo dice? Ebbene, perché ha una coscienza umana e sa che sta per mettere fine alla vita di qualcuno. Lo dice perché la cultura in cui vive impone che ci debba essere una linea di separazione tra il personale e l’impersonale. «A un certo livello, quindi, la questione riguarda la priorità relativa da accordare alla vita e agli ideali. Trattandosi di un incontro tra due esseri umani vivi, esso assume all’istante un carattere personale, per cui il killer si sente in dovere di

avvertire la sua vittima (e forse anche se stesso) di non prenderla in modo personale. Sembrerebbe che il personale e l’impersonale siano difficili da separare nella pratica. La nostra lingua e la nostra cultura racchiudono la storia mai interrotta di questo tentativo di separare la vita sociale in due sfere distinte» 14. Il denaro aggrava la questione di tale separazione, e questo vale sia per quelli che di soldi ne hanno tanti sia per quelli che non ne hanno. Siamo arrivati cosí a un altro elemento fondamentale degno di studio.

Debito. Mentre svolgevo il mio lavoro sul campo in Zimbabwe, talvolta vedevo dei giovanotti e i loro genitori preoccupati per il costo della «ricchezza della sposa» (spesso chiamato lobola). Philip, il mio amico di Chiweshe, non era ancora sposato, pur avendo superato da qualche tempo i vent’anni, e questo non era considerato una buona cosa (anzi, solo una generazione prima, sarebbe stato un fatto inaudito). Il problema era che la sua famiglia semplicemente non disponeva delle risorse per far fronte ai costi della ricchezza della sposa. È probabile che preoccupazioni di questo genere siano sempre esistite, ma esse si sono esacerbate nel corso degli anni Novanta a causa della crescita delle aspettative delle famiglie circa la ricchezza della sposa. Capitava di leggere sul giornale fino a che punto arrivavano alcuni genitori della ragazza in questione nelle loro richieste esorbitanti: il bestiame non bastava piú; tutti si aspettavano denaro contante, telefoni cellulari, a volte perfino delle auto. Tutto questo poteva creare parecchia irritazione e disapprovazione, benché la maggior parte della gente ribadisse che la «tradizione» era tutt’altro che morta e che quelle storie erano state sicuramente esagerate. Alcuni cittadini dello Zimbabwe, in ogni caso, erano insofferenti a quella stretta del mercato matrimoniale. Come mi spiegò un caro amico, il lobola non veniva mai pagato per intero; una

famiglia poteva anche fissare un prezzo, ma non si aspettava che venisse interamente pagato, anzi, neppure l’avrebbe voluto. Se il prezzo veniva assolutamente rispettato, la cosa era considerata un segno di ostilità o di disprezzo. Perché mai tagliare dei legami che vincolano? Vorrebbe dire rescindere i rapporti sociali. Questo è un aspetto comune di tali pratiche in tutta l’Africa subsahariana: i debiti possono avere una valenza sociale positiva. Ciò che ora vediamo in molte parti dell’Africa meridionale, al contrario, è una sfida ai vari tipi di «mistica del bestiame». Il particolare valore del bestiame viene eclissato dall’ascesa di una cultura dei beni materiali e dalla monetizzazione della vita. Christine Jeske, un’antropologa che studia gli Zulu, spiega che le automobili stanno iniziando a creare una loro mistica particolare; giovani uomini e donne che la studiosa ha conosciuto vedevano nella macchina – anziché in un kraal pieno di bestiame – il vero segno del successo 15. Si tratta inoltre di un diverso tipo di successo, basato non sui legami reciproci che i bovini creano, ma piuttosto su un risultato individuale e atomizzato, piú resistente alle pretese di famigliari e vicini di casa. Come le disse un giovane uomo: «Oh, sapesse! Oh! L’auto è tutto! È tutto, tutto, tutto, tutto!» 16. Questa recente valutazione è lontana mille miglia da quella riscontrata da Ferguson nel 1983, non molto distante da dove lavora Christine Jeske. In linea con ciò che mi hanno detto molti abitanti dello Zimbabwe, anche la Jeske segnala la resilienza del bestiame in alcuni ambiti; ella riferisce per esempio che le automobili non rivestono un’importanza di primo piano negli eventi esistenziali piú significativi, come il matrimonio. A quanto sembra, neppure le persone piú follemente appassionate di automobili considerano un bene di questo tipo come appropriato alla «ricchezza della sposa». «Le macchine sono beni legati al denaro, non a processi sociali riconosciuti a cui partecipano le famiglie e la comunità» 17. Eppure, quello a cui si assiste nel KwaZulu-Natal (la provincia sudafricana dove lavora la Jeske) è anche un calo significativo dei matrimoni,

diminuiti del 20 per cento dal 1970 18. Ciò è dovuto, a livelli affatto trascurabili, alla misura in cui l’economia di mercato ha riconfigurato la forma delle usanze tradizionali (perfino quando queste si erano già completamente modernizzate). Si pensava che l’abolizione del regime di apartheid avrebbe aperto nuove opportunità economiche per i sudafricani. L’ascesa di una borghesia nera, per esempio, era tra le aspirazioni piú sentite. La realtà si è rivelata invece piú problematica, visto che non è emersa alcuna significativa classe sociale. Quanti hanno dato la scalata al successo, inoltre, lo hanno fatto a caro prezzo, accumulando spesso debiti considerevoli con banche e micro-finanziatori. Anche la ricchezza della sposa ha risentito di tali dinamiche. Offrendoci una visione molto piú ampia dell’attuale clima socioeconomico del Sudafrica, Deborah James ha scritto dei principali cambiamenti verificatisi dopo che i neri sudafricani hanno cominciato ad aspirare al successo 19. In termini di ricchezza della sposa – e di matrimonio piú in generale –, le difficili condizioni economiche, cosí come il declino dell’economia del dono e dei legami patrono-cliente, hanno creato parecchia incertezza riguardo alla scalata sociale in diversi professionisti e aspiranti borghesi. Le famiglie spesso insistono ancora che la ricchezza della sposa (incluso il bestiame) venga pagata come parte di un accordo matrimoniale, il che per i giovani uomini significa contrarre prestiti per onorare l’impegno. Tale pratica finisce per confondere ulteriormente le acque tra cultura dei beni materiali e usanze, rendendo persino piú difficile sostenere l’idea che simili «usi tradizionali» abbiano tuttora una loro collocazione nel mondo della modernizzazione e globalizzazione. Ai debiti «virtuosi» legati al bestiame, potremmo dire che si vanno sostituendo i «cattivi» debiti legati al denaro contante. E non sono solo i giovani uomini a preoccuparsi; la James presenta nel suo studio il caso di una giovane donna estremamente riluttante a sposarsi perché non intendeva iniziare una vita famigliare con un marito indebitato fin dal primo giorno di nozze con la banca e con i suoi genitori. «Il quadro che

emerge dalla moderna [ricchezza della sposa], quindi, ci parla di considerevoli limiti finanziari e di legami morali a lungo termine che il debito non può che confermare» 20. Questo concetto di debito virtuoso e di credito inesigibile assume particolare importanza nella ricerca antropologica sul valore. Esistono decine di studi come quelli di James e Jeske che tracciano i vari modi in cui forme di valore tra loro diverse – quelle dell’economia e quelle della cultura, potremmo dire – entrano in conflitto e vengono riconfigurate. Tali processi si stanno verificando ovunque nel mondo, dal Sudafrica alla Mongolia, e rappresentano il moderno parametro di quegli stessi problemi che Malinowski e Mauss cercavano di comprendere. Secondo David Graeber, uno dei piú eminenti teorici del significato antropologico del valore, il debito si è rivelato particolarmente utile per illustrare il nesso tra i nostri affari economici e la vita morale. Rimanendo nell’alveo della tradizione di Mauss, per il quale, come abbiamo visto, tutti i mercati sono morali – e, in un certo senso, ogni morale è commercializzata –, Graeber ha dedicato gran parte della sua carriera a esplorare questo punto. Lavorando sul campo, ha studiato la politica e l’autorità a livello locale in Madagascar, analizzando la vita di un villaggio degli altopiani, i cui abitanti discendevano in parte da famiglie aristocratiche e in parte da schiavi 21. Ciò che piú balzava agli occhi in questo studio particolare era che, nel corso di molti decenni (prima dell’arrivo di Graeber), gli ex schiavi erano riusciti ad appropriarsi dei diritti sulla maggior parte delle terre, oltre a rivendicare l’accesso alle fonti del potere magico e soprannaturale. Seppure non esplicitamente inserito nelle ricerche sul debito, questo primo lavoro etnografico prefigura buona parte dei successivi interessi di Graeber per il debito, il valore, la moralità e l’autorità. Tali interessi furono riuniti dall’autore nel suo libro del 2011, Debt: The First 5,000 Years (Debito: i primi 5000 anni), che, dopo parecchi decenni, è stato lo studio di antropologia piú vicino a diventare un bestseller. Debito non è etnografia, ma usa i dati etnografici, insieme

con una mescolanza di storia, economia e riflessioni personali – che spaziano dalle chiacchiere durante le feste estive di Westminster all’elaborata procedura per acquistare un maglione in un bazar malgascio –, per analizzare e contestare alcuni dei miti piú persistenti sulla natura dello scambio e dei rapporti economici 22. In uno dei punti principali del libro, Graeber evidenzia in parte ciò che abbiamo analizzato in questo capitolo: il fatto di considerare ogni scambio in termini di reciprocità equivale ad avere una visione impoverita delle relazioni sociali umane. Ciò accade quando la reciprocità è totale e conclusiva. Come abbiamo già discusso, uno degli odierni vantaggi di comprare una pagnotta di pane con i soldi è che il giorno dopo non abbiamo bisogno di accertarci della felicità e della buona salute della cassiera a cui abbiamo pagato il pane. In molti casi, tuttavia, uno scambio cosí completo e definitivo non è né garantito né desiderato; esistono innumerevoli tipi di scambio, in altre parole, in cui ciò che desideriamo è il debito – desideriamo cioè creare o incoraggiare una relazione e una connessione sociale. In un certo senso, come sostiene Graeber, questo significa che «scambio» è la parola sbagliata per indicare ciò che sta accadendo, poiché tendiamo a pensare allo scambio «unicamente come a un rapporto di equivalenza», in cui ogni cosa è controbilanciata 23. Questo spiega perché i «debiti» legati alla ricchezza della sposa non vengano mai interamente riscattati e perché vengano spesso tradotti in termini di bestiame e non di denaro contante; i contanti risolvono il debito senza alcuna ambiguità, sono troppo precisi e impersonali. Questo spiega anche perché lo scambio nell’Anello del kula avvenga in quel suo modo ben particolare: gli oggetti scambiati sono sempre in circolazione; il loro valore individuale non viene mai messo apertamente in discussione; i due momenti dello scambio devono essere scaglionati, anche solo simbolicamente, di una manciata di minuti. È anche per questo che continuiamo a cantare Can’t Buy Me Love!

a. Le gerarchie sociali svolgono un ruolo importante nei tipi di reciprocità consentiti. Io, per esempio, offro spesso il caffè ai miei dottorandi – a volte perfino una fetta di torta – quando ci incontriamo per discutere del loro lavoro. Non mi aspetto però mai che mi offrano un caffè, perché sono io quello che prende uno stipendio e per di piú sono il loro relatore (non che come relatore io tenga particolarmente alla gerarchia o cose simili, ma c’è poco da fare: cosí deve essere). Ricordo però che anche i miei supervisori, molto tempo fa, mi offrivano il caffè, quindi esiste comunque una forma di reciprocità che si perpetua. David Graeber, di cui prenderò in esame alcuni lavori piú avanti in questo capitolo, parlerebbe in questo caso di una forma relativamente «aperta» di reciprocità, il che significa che il dono non viene ricambiato entro un periodo di tempo prestabilito, o non viene necessariamente ricambiato, o non viene ricambiato alla persona originaria. Esso può andare piuttosto a qualcun altro all’interno di una comunità – in questo caso alla comunità in continua espansione degli antropologi. b. Tale idea dello «spirito» dei marchi di qualità appartiene all’antropologo William Mazzarella, che l’ha esposta nel suo studio del 2003 su un’agenzia pubblicitaria di Mumbai. L’autore ci offre una consistente e stimolante analisi di come lo hau possa risultare utile per fare luce sul fascino esercitato dai marchi moderni. I marchi di qualità riescono a sfocare la separazione tra soggetto e oggetto. Voi siete una persona Armani o una persona Burberry? c. Quando ero un adolescente, uno dei miti urbani di quel tempo era che il 50 per cento delle banconote da 20 sterline in circolazione (o una percentuale comunque elevata, ora non ricordo, ma non è questo che conta) era stato usato per sniffare cocaina. Male. Molto male. Oggi, c’è almeno un economista di spicco (Kenneth S. Rogoff, The Curse of Cash, Princeton University Press, Princeton 2016; trad. it. La fine dei soldi. Una proposta per limitare i danni del denaro contante, il Saggiatore, Milano 2017) che vorrebbe fare piazza pulita di tutto il denaro contante perché in mano, per la maggior parte, di elementi della società indesiderabili. Nel 2016, il governo indiano procedette in qualche modo verso tale decisione, dichiarando senza valore, da un giorno all’altro, le banconote piú grosse. Si generò un enorme caos, dato che la gente doveva cercare di cambiare le banconote entro una determinata finestra di tempo. d. Anche se questo avviene soltanto dalla metà del XX secolo. Sulle monete, tuttavia, l’uso di un’effigie è abbastanza antico, essendo una pratica già diffusa nell’antica Grecia e a Roma.

Capitolo quinto Sangue

Di tutti i concetti che stiamo considerando, il sangue si distingue per qualcosa di diverso. Intanto, ne abbiamo uno solo, e nessun altro. Rispetto al «sangue», dove finiscono la cultura, l’autorità o il raziocinio? Dov’è in questo caso, per l’amor del cielo, lo hau? Per il progetto antropologico, la realtà del sangue è sia utile sia inutile. Da un lato, essa ci fornisce un insieme di denominatori comuni, forse anche universali, rammentandoci per sempre di che cosa è costituito l’essere umano. Dall’altro lato, quando si tratta di valutare gli aspetti culturali connessi alla nostra struttura fisica e alla consanguineità, questi stessi elementi in comune possono indurci in un rischioso autocompiacimento. Allorché è il momento di definire i nostri reciproci legami con gli altri, la realtà del sangue ci porta spesso a sentirci piú sicuri di quanto dovremmo. Nel 1871, Lewis Henry Morgan pubblicò Systems of Consanguinity and Affinity of the Human Family (Sistemi di consanguineità e affinità della famiglia umana), che rimane il testo fondamentale degli studi sulla parentela ed è tuttora apprezzato per i suoi risultati. È vero che Morgan giunse alle sue conclusioni secondo un’impostazione di evoluzionismo sociale, della cui scientificità e limiti morali abbiamo già discusso. Il suo ampio lavoro sulle terminologie parentali, tuttavia, in particolare tra i nativi americani, forniva altresí un modello per capire la consanguineità come sistema di idee. I dati forniti da Morgan, inoltre, si distinguevano per l’incredibile profondità e portata: egli pose realmente le basi per il futuro lavoro in quest’ambito.

Per sintetizzare il punto su cui si focalizzò l’attenzione di Morgan, potremmo anche parlare di «sistemi di sangue e matrimonio». È questo, fondamentalmente, ciò che significano consanguineità e affinità. Nell’approccio di Morgan alla parentela, il sangue venne a occupare il primo posto, e nel suo libro l’interesse per il sangue a livello letterale si intrecciava con quello a livello figurato. È divenuta largamente nota la sua definizione di famiglia come «comunità basata sul sangue» 1. È stata proprio questa enfasi particolare a suscitare l’interesse, e l’ira, di uno dei piú accaniti critici di Morgan. Negli anni Sessanta, David Schneider pubblicò un libro di modeste dimensioni intitolato American Kinship: A Cultural Account (Consanguineità americana: Un resoconto culturale), in cui puntava a smontare la tesi di Morgan 2. Benché sia trascorso mezzo secolo, ciò che Schneider intendeva mettere in luce appare rilevante ancora oggi, e non solo negli Stati Uniti, ma ovunque ci capiti di trovare concetti di parentela ricavati da quelli della biologia e della natura all’interno del piú ampio quadro della «modernità». Come affermava Schneider, gli americani considerano i «rapporti di sangue» fondamentali e duraturi: nonni, zie e zii, cugini a. Gli americani pongono in chiara evidenza anche il legame tra sangue e geni; all’atto di spiegare determinati comportamenti o tratti della personalità, dicono frasi del tipo: «Ce l’ho nel sangue». Nonostante il carattere metaforico di tale affermazione, essa racchiude spesso tutta la forza del significato letterale, tanto da aver ormai perso di certo la natura di un ardito balzo figurativo. In questo resoconto sull’America, i rapporti di parentela non sono limitati ai rapporti di sangue; come nella maggior parte degli altri posti, essi si creano anche attraverso il matrimonio. I vincoli nati da un’unione matrimoniale appaiono tuttavia soggettivi e dissolubili, mentre i rapporti di sangue non lo sono e definiscono i termini di riferimento piú in generale. Quando parliamo di un «fratello acquisito», quindi, stiamo dicendo che quel legame fraterno non

rientra in un rapporto di sangue. Quando parliamo di una «sorellastra», stiamo dicendo che i due fratelli condividono un genitore, che sono fratelli di sangue «per metà». Il sangue è la forma primaria di identità, ed è in base a esso che ogni altro rapporto rientra in una determinata categoria. Schneider afferma anche a un certo punto che i rapporti di sangue assumono una valenza «quasi mistica» nella cultura americana 3. Secondo l’analisi di Schneider, l’aspetto piú notevole di questo sistema culturale è la gerarchia delle relazioni biologiche e sociali. La biologia – il sangue – rappresenta sempre la vera realtà, il terreno sul quale si costruiscono gli altri rapporti – con fratelli acquisiti e suoceri, per esempio, per non parlare di padrini o, tanto per dire, di fratelli per patto di sangue b. In questo sistema americano e, come ho suggerito, in quello che potremmo definire piú in generale la visione moderna, parentela e biologia convergono in un singolo punto. La consanguineità riguarda effettivamente l’aspetto biologico e la realtà della procreazione. È la biologia a stabilire immancabilmente i termini del sistema di parentela. Ed è qui che, secondo Schneider, convergono l’antropologia di Morgan e gli usi americani. Oggi si stanno scrivendo parecchie note a piè di pagina – perfino nuovi capitoli – in questa storia del regno della natura. Dopo tutto, essere moderni significa in parte godere dei progressi della scienza, come quelli avvenuti nel campo delle nuove tecnologie riproduttive. Le fecondazione in vitro (quando un ovulo viene inseminato non nell’utero ma in una provetta) e la maternità surrogata (quando una donna porta l’ovulo fecondato di un’altra donna) sono solo due dei tanti modi in cui la scienza sta sfidando i limiti della biologia. Esiste forse qualcosa che potrebbe essere piú culturale di un «bambino concepito in provetta»? Anche il matrimonio tra individui dello stesso sesso ci sta costringendo a ripensare a questa gerarchia fatta di scatole cinesi. Entrambi i casi sono buoni esempi di come le distinzioni tra natura e cultura siano in eterno mutamento. L’istituzione della parentela è un ottimo capofila per apprezzare tale realtà.

Anche se Schneider non affronta direttamente il problema, la logica della parentela da lui esaminata assume una certa rilevanza anche per la logica della razza. Ritornerò tra non molto sull’argomento, ma vorrei intanto cercare di spiegare perché nell’esposizione di Schneider risulti assente l’argomento razziale. Il fatto che in American Kinship egli non abbia del tutto affrontato il problema razziale in America influisce in maniera determinante sul modo in cui interpretiamo l’etichetta «americano» da lui usata. Nonostante i molti meriti dell’analisi di Schneider, da essa traspare la difficoltà di fornire un «resoconto culturale» (il termine è suo) separato da situazioni e rapporti sociali e dalle vite dei singoli individui. La fonte principale dei dati di Schneider era infatti costituita da interviste a persone della «classe media bianca» 4. L’autore precisava in ogni caso che tra le altre sue fonti erano inclusi materiali su afroamericani, nippoamericani e qualche altro gruppo minoritario, come anche su individui di tutte le classi e di tutte le regioni degli Stati Uniti. È inoltre chiaro che il suo approccio è focalizzato su simboli e significati a un livello molto generale. Ma appena sotto tale livello, dobbiamo essere consapevoli di possibili differenze e condizionamenti. Ne offre un buon esempio lo studio ormai classico di Carol B. Stack All Our Kin (Tutte le nostre parentele), che parla di una comunità di afroamericani chiamata «The Flats» in una piccola città del Midwest (la ricerca venne condotta negli anni Sessanta, nello stesso periodo di quella di Schneider). L’analisi della Stack mostra che i legami di sangue che Schneider vede come fondamentali non vengono considerati tali tra i Flats: come scrive l’autrice, quando si tirano le somme, certe «parentele personali», basate su reali rapporti sociali di assistenza e mutuo soccorso, hanno la meglio su quelle di sangue 5. Al tempo stesso, come osserva la studiosa, le famiglie dei Flats sanno che il loro sistema di relazioni «alla portata di tutti» non è riconosciuto dallo stato, che aderisce piuttosto al modello di Schneider. Questo ci aiuta in parte a chiarire che il modello di Schneider intende presentare la versione normativa della parentela

americana, spiegandola forse cosí com’è, in molti contesti, ma, cosa piú importante, come dovrebbe essere (secondo lo stato, gli esperti di scienze sociali, le autorità morali e cosí via).

Una sola goccia. Nel prossimo capitolo prenderò in considerazione in modo piú approfondito i fondamentali contributi offerti dall’antropologia alla nostra comprensione del genere umano, rifacendomi a quello che è stato giustamente definito «il mito della razza» 6. La razza, come viene spesso intesa in termini quotidiani, è un’assurdità scientifica. Non esiste una «razza bianca», né una «razza africana», né una «razza cinese», o altre che vi vengono in mente. Dal momento in cui però accettiamo tali distinzioni, esse non possono che essere culturali. Detto questo, non possiamo certo dormire sonni tranquilli, né fare affidamento sulle prove della genetica per chiarire le cose una volta per tutte. C’è molto da imparare se tracciamo i vari modi in cui tali distinzioni razziali, in tempi e luoghi particolari, sono state «naturalizzate». Negli schemi culturali, per esempio, sangue e razza sono spesso intimamente legati tra loro. In tutta la storia americana, le «leggi sul sangue indiano» e il criterio di «una sola goccia [di sangue]» sono stati usati per definire (cioè costruire) l’identità razziale delle persone. Il principio di «una sola goccia» è di certo il piú noto e il piú infame: esso sottintende che se avete «una sola goccia» (cioè anche un solo antenato) di «sangue» africano allora siete un «nero». Alcuni stati americani hanno usato questo criterio come base di una legislazione volta a sostenere una certa idea di purezza razziale. Ecco come lo presentava il cancelliere dello stato della Virginia nel preambolo al Virginia’s Racial Integrity Act del 1924: Si stima che ci siano nello stato da 10 000 a 20 000 persone, forse

anche di piú, di pelle quasi bianca, delle quali si sa che possiedono una mescolanza di sangue colorato, in alcuni casi in misura minima, questo è vero, ma comunque sufficiente a impedire che possano considerarsi dei bianchi. […] In realtà, queste persone non sono bianche, né lo diventano in base alla nuova definizione di questa legge. […] Non è esclusa infatti la possibilità che nella loro prole ricompaiano in modo chiaro i tratti negroidi, perfino dopo la scomparsa di ogni apparente evidenza di una mescolanza 7.

Il Racial Integrity Act fu dichiarato incostituzionale dalla Corte Suprema degli Stati Uniti nel 1967, ma questo non significa che questo tipo di mentalità sia scomparso, negli Stati Uniti o altrove. In versioni molto piú edulcorate, esso ha perfino goduto del valore di intrattenimento leggero: durante il famoso show della Bbc Who Do You Think You Are?, Boris Johnson, già sindaco di Londra e segretario agli Esteri, ha ripercorso il proprio albero genealogico fino a risalire ad Ali Kemal Bey, politico e giornalista turco, nonché a varie famiglie reali europee. «È interessante vedere quanto io mi senta inglese, – ha detto Johnson, – e fino a che punto, in realtà, io sia effettivamente un incrocio, una composizione ibrida. Questo mi insegna che i nostri geni fanno pulsare davvero le nostre vite» 8. L’intento, in questo caso, era chiaramente diverso da quello del cancelliere dello stato della Virginia, eppure la logica generale è la medesima, basata sull’idea comunemente accettata che il «rapporto di sangue […] è formulato concretamente in termini biogenetici» 9. Se il Racial Integrity Act della Virginia può essere oggi consegnato alla storia, i libri riportano ancora altre «leggi sul sangue indiano». Formulate inizialmente dai coloni americani, e divenute successivamente uno strumento del governo degli Stati Uniti, tali leggi sono state usate come criterio per determinare l’appartenenza a nazioni di nativi americani, che in alcuni casi godono di un sostegno da parte del governo federale e del riconoscimento di sovranità. Dalla metà del XX secolo, molte nazioni di nativi americani hanno incorporato le «leggi sul sangue indiano» nelle rispettive costituzioni

tribali (spesso perché è lo stesso governo degli Stati Uniti a richiederlo per rilasciare il riconoscimento federale di «comunità tribale»). La «quantità» di sangue richiesta può differire, ma è sempre molto piú di «una sola goccia»: un ottavo o un quarto in alcuni casi, a volte anche metà. La tribú Washoe del Nevada e della California è una di queste nazioni. Oggi i Washoe sono un gruppo relativamente piccolo, con meno di 1500 individui che vivono nella zona del lago Tahoe e attorno a essa. Possiedono alcune colonie residenziali e qualche appezzamento di terreno montuoso. Nel 1937, i Washoe ottennero il riconoscimento federale dal Bureau of Indian Affairs, dopo aver accettato il criterio che subordinava l’appartenenza alla tribú alla presenza di almeno un quarto di «sangue Washoe». Oggi è possibile scaricare dal sito ufficiale il modulo per l’appartenenza tribale; ai candidati viene chiesto di precisare il loro «grado di sangue Washoe» e di «altro sangue indiano», insieme con quello di genitori e nonni 10. Come dimostra uno studio sui Washoe, tali leggi rappresentano un’arma a doppio taglio 11. Da un lato, esse aiutano a garantire l’accesso alle risorse e ai riconoscimenti federali; dall’altro, il loro particolare modello per sancire un rapporto di sangue è completamente estraneo alle tradizioni Washoe (e a quelle di molti altri nativi americani), per le quali il sangue conta meno di determinati rapporti e ruoli sociali. La precisione matematica con cui si intende stabilire l’identità tribale nel caso appena citato è illuminante. Come avrebbe potuto fare Schneider, si trasforma il sangue (e l’identità, di cui parleremo nel prossimo capitolo) in un elemento concreto – per esempio un numero (1,0, 0,5, 0,25) – che fornisce risposte nette. Poiché il modo in cui si ottengono le varie combinazioni «ematiche» non ha importanza – si può avere una sola nonna «con sangue puro al 100 per cento» oppure quattro bisnonni «al 100 per cento», o magari dei genitori «mezzosangue» –, diventa valida qualsiasi permutazione matematica. Eppure, essa è un prerequisito per ogni riconoscimento ufficiale.

Se ci soffermiamo a pensarci, tutto questo appare abbastanza assurdo. Supponiamo che i vostri bisnonni fossero di sangue Washoe «al 100 per cento»; supponiamo poi che si siano trasferiti a Los Angeles – una destinazione comune nelle migrazioni dei Washoe – e abbiano avuto dei figli, nati però da unioni «esterne» (magari con un uomo irlandese-americano di terza generazione, o magari con un latino, o perfino con qualcuno la cui famiglia proveniva originariamente da Guangdong). In seguito, i vostri diversi discendenti continuano nello stesso modo, andandosene qua e là (Seattle, Piscataway), sposandosi con ogni sorta di americani di sangue misto – gli «incroci», come direbbe il Molto Onorevole Boris Johnson – e specializzandosi come meccanici di automobili o avvocati, cantanti jazz, o chissà cos’altro. Forse nessuno di questi discendenti finirebbe per scegliere sulla mappa una colonia Washoe, o, per quel che ne sappiamo, neppure il lago Tahoe. A questo punto arriviamo a noi: immaginate un apprendista spazzacamino di Piscataway, nel New Jersey, che si è perdutamente innamorato di una brava ragazza ebrea, adeguandosi quindi alla sua storia famigliare, perfettamente inserita nel melting pot americano. Eppure, in base al criterio seguito nelle «leggi sul sangue indiano», egli è un Washoe. Sul lago Tahoe, in compenso, la sua quarta cugina di terzo grado, che è tra l’altro un’autorità sull’estetica stilistica di Maggie Mayo James, la grande creatrice Washoe di cesti intrecciati degli inizi del XX secolo, e parla fluentemente la lingua della tribú, non è una Washoe perché il suo particolare albero genealogico comprende tra le connessioni consanguinee «sbagliate» una stilla di troppo di sangue nativo Paiute e Miwok, nonché di un mormone dallo spirito ribelle dello Utah. Fino al 1860 circa, quando cominciò a prendere piede questa interpretazione del legame di sangue, sarebbe stato del tutto assurdo pensare in tali termini. Anzi, si discute perfino se prima della metà del XIX secolo esistesse realmente una «tribú» o una «nazione» Washoe, intesa cioè come quel gruppo stabile e ben delimitato che il governo degli Stati Uniti avrebbe preferito. A quel tempo, chiunque imparasse

la lingua Washoe sarebbe stato riconosciuto a tutti gli effetti come un membro della tribú. E se un uomo di lingua Washoe prendeva in sposa una donna Miwok o Maidu, quest’ultima sarebbe stata accolta a tutti gli effetti nella tribú purché adottasse gli usi e il modo di vita dei Washoe. In breve, il sangue aveva ben poco a che fare con l’idea di parentela o identità. Lo stesso vale per quanto riguarda la famiglia o i consanguinei, e in questo caso alcuni dei vecchi modelli di parentela hanno ancora il loro peso. Tradizionalmente, la famiglia nucleare non costituiva necessariamente un elemento di forza; i Washoe vivevano in «gruppi» e attribuivano spesso a zie e zii la stessa importanza dei genitori; questi «figli» di una zia o di uno zio – che per i Washoe potremmo definire come «cugini primi» – mantenevano lo stesso grado di parenti stretti, tanto da essere definiti dallo stesso termine che indicava i fratelli e le sorelle. Come in molte tradizioni dei nativi americani, anche l’adozione era una pratica comune, e ridimensionava ulteriormente l’importanza del sangue in sé 12. Vediamo dunque che al sangue è attribuito un ruolo particolare a seconda delle diverse interpretazioni culturali della parentela e della razza, che alla fine quasi si confondono – o dovrei forse dire si trasfondono? Per il momento non intendo soffermarmi sulla categoria della razza, su cui torneremo nel prossimo capitolo. Non c’è dubbio, tuttavia, che l’implementazione delle «leggi sul sangue indiano» da parte del governo degli Stati Uniti fosse legata a quelle idee del XIX secolo su cultura, razza e civiltà che abbiamo già menzionato. Sotto questo aspetto, i funzionari responsabili della stesura delle «leggi sul sangue indiano» erano dei perfetti vittoriani. Citando il caso dei Washoe, cosí come il Racial Integrity Act della Virginia, e perfino il nostro Boris Johnson, appare evidente fino a che punto un’ideologia culturale rivesta un ruolo preciso nel determinare il senso di identità delle persone. Di fatto, però, al di là di ogni particolare elaborazione culturale, ciò che sappiamo dagli studi di antropologia biologica è che anche a questo livello, che si vorrebbe

cosí reale, la razza è in effetti un mito, un errore di categorizzazione. D’altra parte, volendo analizzare tale elemento piú in profondità rispetto al nostro prossimo argomento – l’identità –, è indispensabile riconoscere il ruolo che il linguaggio del sangue ha avuto in tale mitopoiesi. Ma torniamo ai parenti. I dati antropologici abbondano di casi in cui la realtà biologica della parentela assume un ruolo secondario o persino minore. Un altro ottimo esempio ci è fornito dagli Iñupiaq, nativi dell’Alaska 13. Presso gli Iñupiaq, il legame esistente tra genitori, figli e fratelli non è necessariamente solido né crea un forte senso di obblighi o rapporti reciproci assoluti. L’autonomia in questo caso rappresenta un valore culturale cosí fondamentale che perfino i bambini piú piccoli possono prendere decisioni autonome di una certa importanza. Sappiamo di un bambino di sette anni che aveva deciso di trasferirsi a casa dei nonni, a quasi cento chilometri di distanza, premurandosi di portare con sé i suoi documenti scolastici, in modo da poter accedere alla nuova scuola. La madre aveva considerato quella decisione del figlio in modo molto pratico e realistico 14. Gli Iñupiaq parlano perfino del parto in termini analoghi: anziché dire che la madre «ha dato alla luce» preferiscono dire che il bambino «ha preso vita». A quanto pensano gli Iñupiaq, sono i bambini che scelgono di nascere. Anche l’adozione è molto diffusa tra questi nativi dell’Alaska: i bambini possono spostarsi da una famiglia all’altra, o perché sono loro a volerlo (come nel caso del bambino di sette anni che è andato dai nonni), o perché una famiglia ha molte figlie femmine e nessun maschio, per cui se li scambiano. Tutto questo non significa affatto che le varie forme di solidarietà di gruppo non contino; in realtà, esse mantengono intatta la loro importanza, non solo all’interno della famiglia, ma anche, per esempio, tra gli equipaggi delle baleniere. Si tratta dunque di una cultura in cui ha perfettamente senso un’affermazione come «Una volta era mio cugino» 15. Al di fuori dell’orbita della modernità euro-americana, il sangue

non è certo irrilevante, né appare assente la «biologia». Un preciso interesse per il sangue non è solo reperibile lungo i canali del colonialismo e della globalizzazione, o nei progressi della scienza, anche se tale interesse non sempre coincide con quello che troveremmo nel programma «Sessualità e rapporti interpersonali» di una prima media di Bristol. Gli Iñupiaq, per esempio, possono riconoscere come tali i loro fratelli «biologici» e sono ben consapevoli dei meccanismi della procreazione. E abbiamo già visto, però, che non considerano la biologia come un fattore determinante o necessario di quella relazione. Nella pagina in cui ho appena descritto gli usi degli Iñupiaq ho usato la parola «famiglia» in pochi casi, il che deve considerarsi tuttavia come una sorta di scorciatoia multiculturale, dato che nella lingua di questi indigeni non esiste in realtà un vero equivalente di tale termine. È importante quindi capire che i Washoe e gli Iñupiaq creano direttamente i loro rapporti di parentela, non solo attraverso il matrimonio, ma anche a livello di una struttura famigliare ancora piú elementare. Le relazioni famigliari vengono «rappresentate», e quando non lo sono, scompaiono. A un certo livello, ovviamente, tutti i rapporti famigliari rientrano in una «rappresentazione». La consanguineità può essere estraniata, ignorata, trascurata, addirittura persa e ritrovata. Il famoso scrittore di romanzi Ian McEwan ha scoperto solo nel 2002, quando aveva già compiuto cinquant’anni, di avere un fratello, di nome David, che i suoi genitori avevano dato in adozione. Durante un’intervista, alla domanda se avvertisse un «legame fraterno» con David, McEwan rispose: «Sí, ma rimane tutto un po’ astratto quando non si è cresciuti insieme. Gli ho parlato ieri e abbiamo fatto una lunga chiacchierata al telefono». Lo scrittore si era poi fermato a riflettere prima di concludere: «Be’, non è una cosa che farei con un qualsiasi altro muratore di Wallingford» 16. La pausa di McEwan era stata indotta dal potere culturale che il sangue riveste nell’interpretazione britannica della parentela. Anche cosí, tuttavia, il sangue non è l’unica sostanza corporea che

conta. Il corpo stesso, come modello sia letterale sia metaforico, non è mai troppo lontano dalle nostre elaborazioni culturali. Ecco perché ho sottolineato che la cultura non è solo un’idea; essa possiede una precisa concretezza, dipende ed è perfino legata a dei semplici insetti come i grilli – come abbiamo visto in precedenza –, ma ancor di piú al sangue e a tutto ciò che compone i nostri corpi o ne è secreto: fegato, cuore, capelli, unghie, sperma e forse, piú di tutto, il latte materno. In effetti, il latte è un candidato assolutamente speciale e merita ulteriore attenzione.

Fratelli di latte. Non molto tempo fa, l’antropologa egiziana Fadwa El Guindi si trovava nel suo ufficio alla Qatar University, dove stava tracciando l’albero genealogico della sua collega Laila, originaria del Qatar e presente in quel momento. Un altro collega, anch’egli del Qatar, Abdal Karim, entrò nell’ufficio e, non appena vide ciò che le due studiose stavano facendo, annunciò che non avrebbe mai potuto sposare Laila, perché era «suo zio da parte di padre, suo cugino da parte di madre e al tempo stesso suo fratello» 17. La stessa El Guindi, un’esperta in quel campo, si vide costretta a fare un passo indietro e riflettere. Il sangue può risultare estremamente utile per decodificare una simile congerie di rapporti di parentela. Eppure, per mettere definitivamente ordine abbiamo bisogno di… latte. Per farla breve, e per risparmiarvi il grafico della parentela che normalmente accompagnerebbe una spiegazione antropologica, si tratta di questo: Abdal Karim era stato allattato al seno dalla donna che aveva sposato il suo fratellastro; la stessa donna, la cui sorella aveva sposato il padre di Abdal Karim, era la madre di Laila (e aveva allattato anche lei). Nella tradizione islamica, la parentela di latte è una consuetudine di lunga data e crea tra le persone un legame riconosciuto

giuridicamente. Sotto l’aspetto piú generale, tale legame sottintende affetto, cura e sostegno reciproco. Secondo la legge islamica, tuttavia, un rapporto di latte comporta anche un divieto matrimoniale: un uomo e una donna che sono stati allattati al seno dalla stessa donna non possono sposarsi tra loro, benché «non condividano lo stesso sangue». Tradizioni del genere continuano a essere diffuse in varie parti del mondo islamico. In realtà – tralasciando per un momento l’esempio particolare della shari’a –, non è difficile notare che le consuetudini legate all’allattamento sono diffuse in tutta la storia umana 18. Nei giorni precedenti il latte in polvere e in mancanza di balie (che sicuramente erano presenti a Downton Abbey), che cos’altro potevamo aspettarci? L’esatta codificazione delle pratiche legate alla suzione del latte può variare parecchio tra le diverse culture. Non sempre si arriva per esempio a vietare il matrimonio, neppure all’idea di essere legati come dei consanguinei. Nella cornice dell’islam, al contrario, è cosí. Ogni buon musulmano sa che non potrà sposare una persona con cui esiste un rapporto di latte. Un matrimonio del genere costituirebbe una trasgressione a una delle tre relazioni di «vicinanza» (qarābah): sangue, matrimonio e latte 19. Come per altre tradizioni esaminate, il declino dell’allattamento al seno della balia può essere attribuito a una serie di fattori, molti dei quali connessi con la modernizzazione e la globalizzazione. In Libano, per esempio, l’allattamento è meno comune perché i modelli residenziali si sono modificati per avvicinarsi maggiormente alla famiglia nucleare. Anche le balie sono poche e sparse sul territorio, sia perché le madri usano il latte in polvere sia perché, in un’economia di mercato, le balie sono costose. Le «banche del latte», sempre piú diffuse in molte parti del mondo, hanno creato particolari ansie in contesti musulmani, poiché la gente vede con preoccupazione la possibilità a lungo termine che un figlio possa sposare senza saperlo una persona che è stata nutrita dalla stessa fonte di latte. Questo ha portato alcuni studiosi islamici ultraconservatori a chiedere che vengano conservati gli elenchi di tutte le donatrici di latte, in modo

che ogni cliente possa conoscere la provenienza del suo nutrimento neonatale. Come abbiamo visto nel capitolo precedente per il caso del bestiame e della ricchezza della sposa, tuttavia, il cambiamento di collocazione e valore della parentela di latte in Libano non ha portato a una sua scomparsa. In realtà, la parentela di latte ha ricevuto nuova linfa con l’avvento delle tecniche di riproduzione assistita, che hanno posto una serie di sfide all’interpretazione islamica della maternità. Gli studiosi islamici sono generalmente a favore dei progressi medici che possono aiutare la procreazione. Pratiche come la fecondazione in vitro sono ampiamente accettate e possono essere molto richieste; come in gran parte del mondo, le unioni matrimoniali sono sottoposte a forti pressioni affinché procreino. Alcune tecniche di riproduzione assistita pongono tuttavia delle sfide ben specifiche. Riguardo alla gestazione d’appoggio, o gravidanza surrogata, per esempio, si è aperto un dibattito giuridico, specialmente nella tradizione sciita, volto a determinare se la madre surrogata possa rivendicare la maternità e che cosa accadrebbe in tal caso. Secondo uno dei pareri legali, ella non può rivendicare alcuno di questi diritti o legami; altri studiosi ritengono invece che tale gestazione sia in effetti una sorta di super-concentrato di allattamento al seno e che il principio alla base della parentela di latte (cioè il rapporto che si crea attraverso la nutrizione) si estende anche a questa nuova possibilità di gestazione surrogata. La parentela di latte, pertanto, sopravvive cosí e in altri modi. In questo libro, essa fornisce il modello per capire i nuovi tipi di rapporti resi possibili dai progressi avvenuti nella scienza e nella tecnologia. Detto ciò, uno dei punti da non sottovalutare, con il quale ogni antropologo deve fare i conti, è che, nonostante la loro indubbia importanza, il genere di legami creati dalla suzione risulta spesso secondario rispetto ai rapporti di sangue. Questo è appunto il caso riscontrabile all’interno della tradizione islamica, chiaramente dimostrato dal fatto che i parenti di latte non figurano nell’asse

ereditario; a determinare la successione dei beni, infatti, sono comunque i rapporti di sangue, in quel senso alquanto vago che Schneider poteva attribuire agli americani. Possiamo dunque allontanarci dal sangue, inteso dal punto di vista sia biologico sia culturale, e riconoscere facilmente le varie e numerose modalità in cui esso figura nella comprensione umana della parentela. Gli studi antropologici dimostrano al tempo stesso che il sangue rappresenta qualcosa di speciale.

Il sangue non mente. La scomposizione dei vari elementi costitutivi della parentela presso gli americani ha generato un rapido cambiamento allorché si è trattato di studiare la consanguineità in termini piú generali. È apparso evidente che il fatto di concentrarsi sulla parentela di sangue – e perfino sui vincoli del matrimonio – può limitare la nostra comprensione di come le persone, specialmente a livello di «famiglia», pensino a se stesse in qualità di «parenti». Abbiamo già osservato la flessibilità dei rapporti parentali nell’esempio degli Iñupiaq, e potremmo trovarne innumerevoli altri. Abbiamo anche visto che istituzioni come la parentela di latte possono creare forme di solidarietà, legame e identificazione. In tutti questi casi, tuttavia, il sangue si pone simbolicamente come un modello e una risorsa dotati di straordinaria longevità, come un elemento attraverso cui le comunità umane in spazi e tempi diversi hanno potuto esprimere un nucleo fondamentale di valori e interessi. Tra i concetti piú generali in tal senso emergono questioni legate alla vita e alla morte, spesso connesse a loro volta a nozioni di purezza e impurità. Il modo esatto in cui tali problematiche vengono articolate può differire enormemente: in molte culture, per esempio, al sangue è anche attribuito un genere come sostanza femminile, cosa che contribuisce ulteriormente a plasmare le dinamiche sociali e culturali

in questione. Ritorniamo pertanto al legame tra il biologico e il corporeo, da un lato, e il sociale e culturale dall’altro. Una delle figure piú rappresentative che hanno messo in luce tale legame è stata Janet Carsten, docente di Antropologia sociale e culturale presso l’Università di Edimburgo. La maggior parte dei suoi studi è concentrata sulla Malesia, sia rurale sia urbana, e vi si analizzano vari aspetti di quelle che l’antropologa ha definito a suo tempo «culture di parentela» 20, in cui il sangue riveste una parte importante. Seppure riconosciuta spesso come una figura di spicco degli studi antropologici sulla parentela, la Carsten è stata condotta dal suo interesse per il sangue in ambiti come medicina, politica e in quello dei fantasmi. Janet Carsten è stata profondamente influenzata dall’approccio di Schneider all’analisi antropologica, pur attingendo al tempo stesso all’opera pionieristica di Marilyn Strathern, i cui studi sulla parentela in Papua Nuova Guinea e nel Regno Unito hanno definito intere aree di ricerca su consanguineità e genere 21. Recentemente, tuttavia, la Carsten ha articolato un approccio analitico che mira a dare una nuova collocazione alla prospettiva di una spiegazione culturale. Ciò che a suo giudizio dobbiamo infatti tenere in considerazione è che «il sangue non mente» 22. L’uso di tale espressione da parte della Carsten non è privo di ironia; il proverbio «il sangue non mente» significa che il «vero temperamento» di una persona (il sangue) alla fine si rivela sempre. Il senso parrebbe piú in linea con l’idea di «ce l’ho nel sangue» di cui parlavamo in precedenza. Al contrario, non è affatto questo ciò che intende la Carsten. La studiosa si allinea ancora una volta con figure come Schneider e Strathern, che mettono in dubbio la «datità» della parentela. Per lei, tuttavia, la frase in questione consentirebbe di evidenziare una sottile sfumatura del fatto che non tutti i simboli sono arbitrari, cioè che le proprietà materiali di un determinato simbolo possono rivestire una loro importanza rispetto al significato del simbolo stesso. Abbiamo molto da imparare dalla realtà del corpo

fisico. A questo punto, possiamo concederci una breve digressione nel campo della semiotica, o scienza dei segni. Si tratta di un’area importante della ricerca antropologica, sia linguistica sia culturale, ed è rilevante in tutta una gamma di spunti e ambiti di studio. Eppure, introducendola nella nostra discussione sul sangue, essa ha, come vedremo, ben poco da offrire. Per gli antropologi, la scienza dei segni è sempre legata all’opera del linguista svizzero Ferdinand de Saussure, il cui libro Corso di linguistica generale, pubblicato postumo nel 1916, è tuttora oggetto di grande interesse (il libro è in realtà una raccolta di dispense delle lezioni di Saussure fatta dai suoi studenti – il sogno di gloria di ogni docente!) Come indica il titolo stesso, l’attenzione di Saussure era concentrata sul linguaggio, in particolare sulla lingua come sistema di segni (piuttosto che sul loro uso in situazioni ben distinte). Esistono in effetti molti tipi di segni – o, in termini piú tecnici, di forme semiotiche –, ma iniziamo dalla lingua. Secondo la definizione di Saussure, «il segno linguistico unisce non una cosa e un nome, ma un concetto e un’immagine acustica» 23. La parola «albero», per esempio, è un’immagine acustica che richiama alla mente qualcosa di grande e fluttuante, fatto di legno e coperto di foglie. Fin dai tempi di Saussure, la posizione dominante in antropologia è stata in favore dell’arbitrarietà del segno, che è come dire che le parole che usiamo (gatto, albero, casa, amore) per definire concettualmente le cose del mondo (gatti, alberi, case, amore) sono prodotti di una convenzione. Se smettessimo di chiamare «gatti» i gatti, e decidessimo di comune accordo di chiamarli «filipoli», la cosa funzionerebbe altrettanto bene. Per certi versi, questo non è né straordinario né cosí sorprendente. Va da sé che tali segni siano convenzionali. Non dobbiamo neppure sforzarci a inventare parole, è sufficiente indicare i fatti della diversità linguistica: gatto, in italiano; cat, in inglese; chat, in francese; Katze, in tedesco; myšyk, in chirghiso; popoki, in hawaiano, e cosí via. Ovviamente, tali parole

sono spesso correlate etimologicamente e risentono di specifici rapporti storici c. Comunque sia, siamo ben contenti di riconoscere in esse il criterio di una convenzione. Abbiamo visto che le cose si fanno leggermente piú complicate quando consideriamo termini come «famiglia». Nella lingua degli Iñupiaq, per esempio, come ho già detto, non esiste una parola esattamente equivalente. Anche «religione» rientra tra questi concetti fragili. Oppure basta ricordare quanto detto nel capitolo II a proposito degli indios Ese Ejja, presso i quali neppure il generico termine «umano» ha senso. Questi casi difficili – e ve ne sono molti – possono generare questioni piú esistenziali e perfino teologiche sull’ordine delle cose. Essi ci rammentano che, a livello di segni, non si tratta semplicemente di reperire tutti gli esatti significanti in ogni data lingua (parole come «famiglia», «gatto», «amore») in modo che corrispondano precisamente a tutte le varie cose che essi significano (cioè «vere» famiglie, «veri» gatti o «veri» momenti amorosi). Le lingue non sono tutte delle differenti versioni di un puzzle che, benché frammentato in pezzi leggermente diversi, alla fine ci fornisce la stessa immagine. In realtà, questo è un ambito in cui la discussione sull’arbitrarietà del segno ha avuto effettivamente enormi implicazioni. In parole povere, tutto ciò rientrava nel piú generale smantellamento dell’autorità del pensiero cristiano-giudaico. Il Corso di linguistica generale, come Sull’origine delle specie prima di esso, ha rappresentato una sorta di spartitraffico sulla strada delle scienze sociali secolari. Nell’atto della Creazione, come descritto nella Genesi, Dio nomina il cielo e la terra, il giorno e la notte, e cosí via; poi, nel Giardino dell’Eden, Dio raduna tutti gli animali davanti a Adamo, che dà loro un nome. Sopraggiunge in seguito la Caduta dell’uomo, che esclude Adamo ed Eva dallo stato edenico. In seguito, nella Genesi, tutti i popoli del mondo erigono in una grande città un’enorme torre che arriva quasi a toccare il cielo e che Dio prende come un segno di arroganza e mancanza di rispetto da parte dell’uomo (la famosa Torre

di Babele). Come punizione, disperde i popoli e confonde «il loro linguaggio, in modo che non si intendano piú gli uni con gli altri» 24. In questi primi esempi di creazione e storia cristiano-giudaica appare evidente un approccio al linguaggio e alla nascita dei segni fondamentalmente diverso da quello antropologico appena delineato. In esso, ogni cosa ha la sua esatta denominazione, collocazione e significato. Qualche anno fa, mentre nel Regno Unito era in corso il dibattito sulla legalizzazione delle unioni matrimoniali tra membri dello stesso sesso, la Conferenza dei vescovi cattolici di Inghilterra e Galles pubblicò una lettera, firmata dal presidente e dal vicepresidente della conferenza episcopale, in cui si sosteneva che il matrimonio è un sacramento e non si può cambiare il suo significato 25. Ora, i vescovi non si riferivano ovviamente alla parola inglese marriage, cioè «matrimonio», ma parlavano dell’istituzione in sé. La logica sottostante, tuttavia, era identica a quella che ho descritto poco sopra, vale a dire che i significati delle cose (parole, istituzioni e cosí via) non sono arbitrari – cioè non sono, in definitiva, un prodotto di decisioni umane. Ciò che il matrimonio significa «non riguarda l’opinione pubblica», scrivevano i vescovi, esortando tutti i cattolici a «fare in modo che il vero significato del matrimonio non vada perduto per le generazioni future» d. Esistono pertanto modi diversi per accostarsi al meccanismo dei segni. In generale, come ho detto, l’impostazione antropologica si attiene ai principî di convenzione e arbitrarietà. La maggior parte degli antropologi non direbbe mai che il matrimonio possiede un «significato assoluto». In questo caso, è palese un’affinità con l’enfasi sulla cultura intesa come costruzione. Se però ci spostiamo dalla lingua in sé e passiamo a considerare le cose «materiali», tale principio comporta una riserva, ed è appunto in tal senso che l’opera del filosofo americano Charles Sanders Peirce è stata particolarmente influente, in parte perché Peirce – a differenza di Saussure – era interessato a qualcosa di piú della lingua, e certamente

di piú della lingua intesa in un senso astratto e formale. Peirce ha dimostrato un grande interesse per le proprietà materiali e le qualità delle forme semiotiche, e questo perché immagini e oggetti non funzionano né esistono nello stesso modo dei concetti e delle immagini acustiche. Importa, per esempio, che i Dieci comandamenti siano stati scritti su tavole di pietra? Importa eccome: la pietra significa durabilità e fissità. È la pietra a comunicare che i comandamenti «sono davvero importanti». Vi immaginate se fossero stati scritti sulla sabbia? Non era certo la stessa cosa. Il fatto non è che le proprietà materiali determinino il significato di alcuni segni, ma che possono modellare o dirigere – o «indicizzare», come avrebbe detto Peirce – determinati significati e associazioni di idee. A questo punto possiamo tornare al sangue – Blut, in tedesco; dugo, in filippino; ropa, in lingua shona, eccetera –, dato che la sua reale sostanza appartiene proprio allo stesso genere di cose di cui abbiamo testé parlato. Le sue proprietà materiali, infatti, come il colore (rosso), la forma (liquida) e l’origine (il corpo), plasmano e indirizzano verso determinati significati e associazioni ideali. Lo stesso dicasi per il fatto di essere un elemento indispensabile alla vita. Come nota Janet Carsten, per esempio, il suo stato liquido può contribuire a spiegare perché esso rivesta un ruolo cosí centrale in una vasta gamma di ambiti, non solo in quello della parentela, come abbiamo discusso a lungo, ma anche in quelli del genere, della religione, della politica e dell’economia 26. Permettetemi di esaminare ciascuno di questi ambiti al fine di dare un senso a ciò di cui stiamo parlando. Genere. Il sangue non è sempre di genere, ma se lo è, di solito è del genere femminile a causa delle sue associazioni di idee con il parto e le mestruazioni. In Nuova Guinea, rituali e pratiche che comportano salassi sono stati di uso comune tra gli Iatmul, i Sambia, i Gururumba e altre etnie. Spesso si tratta di rituali di gruppo celebrati per ragazzi adolescenti e si pensa che possano eliminare la loro femminilità; in alcuni casi, anche gli uomini praticano una forma di salasso privato

quando le mogli hanno le mestruazioni 27. L’isolamento delle donne mestruate, cosí come il loro divieto di cucinare e avere rapporti sessuali, è una pratica molto diffusa in tutto il mondo. Perfino in contesti sociali in cui queste pratiche stanno cambiando, il principio rimane spesso confermato. Tra i bramini Vathima, le donne erano confinate nella parte posteriore dell’abitazione per tre giorni durante le mestruazioni, senza poter cucinare né fare il bagno o uscire. Questo era considerato fondamentale per mantenere puro l’ambiente domestico. Ultimamente, tuttavia, molte giovani donne Vathima, specialmente quelle che vivono in città o all’estero, per esempio negli Stati Uniti, rifiutano di attenersi a tali regole cosí severe. L’antropologa Haripriya Narasimhan ha rilevato che molte di queste donne limitano la loro reclusione a poche ore durante la mattina, o riservano solo alla cucina la zona di divieto 28. Questo ci offre un ennesimo esempio di «modernità nella tradizione», come la ricchezza della sposa nell’Africa meridionale; piú le cose cambiano, piú rimangono immutate. Eppure, il sangue non viene sempre connotato in questo modo rispetto al genere. In molte culture, esistono categorizzazioni del sangue alquanto precise. Non si può parlare semplicemente di sangue in generale. Tra gli Ndembu dello Zambia, per esempio, vi sono cinque categorie di sangue: quella del parto e delle donne (in generale) – quindi di genere femminile –, ma anche quella dell’uccisione/omicidio; degli animali; e della stregoneria 29. Religione. Avendo appena scritto del cristianesimo, potremmo benissimo iniziare dal sangue di Cristo. Non c’è bisogno di guardare oltre: il sangue è centrale in ambito religioso. All’interno del cristianesimo, naturalmente, troviamo anche il suo consumo simbolico, accompagnato in alcuni momenti dalla transustanziazione. In entrambi i casi – la crocifissione e la comunione –, si tratta di atti di purificazione e redenzione. Il sangue purifica piuttosto che contaminare. Come ho detto, non c’è bisogno di guardare oltre, ma se lo facciamo, vedremo quanto sia comune in tutto il mondo che le forme piú significative di sacrificio abbiano come loro momento

fondamentale lo spargimento di sangue – sangue non umano, nella maggior parte dei casi, anche se non mancano esempi di ciò che uno studio (quello sui Čukči della Siberia) definisce il «sacrificio estremo». Piú comunemente, però, si tratta del sangue di un animale di valore, come una mucca, una capra o una renna. Nel caso dei Čukči, se il sacrificio estremo potrebbe essere quello di togliersi la vita – come l’eutanasia volontaria in vecchiaia –, in realtà ciò si verifica molto raramente. È molto piú diffuso il sacrificio di una renna della mandria e. Se questo non è possibile, verrà sacrificata (cioè distrutta) una salsiccia di renna. Se neppure questo è possibile, si colpirà con un coltello un legnetto che assomigli a una salsiccia di renna. A legare questa catena di associazioni metonimiche e metaforiche è immancabilmente il sangue 30. Politica. Un altro tipo di sacrificio estremo è la morte di un soldato per il proprio paese. In questo caso, vengono a confondersi consanguineità, religione e politica. Abbiamo innumerevoli esempi di politici e retori che innalzano lodi a quanti hanno «versato il sangue» per la loro terra, come esistono innumerevoli esempi di slogan antimilitaristi e forme di protesta che cercano di capovolgere la medesima immagine. «Nessun sangue in cambio di petrolio» era la parola d’ordine predominante durante la guerra del Golfo del 1991. Tornando ancora una volta all’India, esiste un genere di pittura in cui gli eroi della nazione sono raffigurati nell’atto di versare il loro sangue, cosí come troviamo un tipo di ritrattistica in cui è il sangue, e non i colori, a diventare – letteralmente – il mezzo di espressione: sangue di donatori che considerano il loro gesto come un sacrificio patriottico 31. Piú in generale, non è insolito che alcuni stati conducano campagne per donazioni di sangue piú o meno obbligatorie tra soldati, polizia e personale ospedaliero. Sugli altopiani di Papua Nuova Guinea, tra le varie ragioni per cui i Sambia praticavano i salassi rituali (fino agli anni Sessanta), vi era la convinzione che essi trasformassero i giovani in guerrieri 32. Economia. Se gestite una banca o un’azienda, avete bisogno di

liquidità. Questa è una metafora tratta dal sangue, poiché il denaro (o il credito) è la linfa vitale del sistema economico. A volte, le aziende hanno bisogno di «trasfusioni» di denaro contante. Si può parlare del cuore dell’economia. Il legame tra sangue e denaro non è sempre buono: i «soldi sporchi di sangue», per esempio, sono generati da uno scambio illecito (denaro in cambio della vita). I Nuer, che vivono nel Sud Sudan, hanno una visione alquanto vaga del denaro, espressa attraverso l’idioma del sangue: «Il denaro non ha sangue», dicono, il che significa che i soldi non possono sostenere o neppure incoraggiare lo sviluppo dei rapporti sociali; il denaro manca di vitalità – quella stessa vitalità che i Nuer trovano invece nelle persone e negli animali che allevano. Come per altri gruppi di cui abbiamo già parlato, per i Nuer i bovini occupano un posto speciale nel sistema del valore, e parte di quest’ultimo è legata al sangue delle bestie, fonte di vitalità dotata di capacità generativa. I Nuer non vedono nel denaro un buon investimento; vivendo in un paese che è stato tormentato quasi continuamente da conflitti dalla metà degli anni Cinquanta, il denaro non è mai stato davvero collegato a una potenziale capacità di produrre «interessi». Tutto ciò che i soldi sembrano fare è perdere costantemente valore a causa dell’inflazione 33. In Thailandia, dopo la crisi finanziaria globale del 2008, i manifestanti si guadagnarono il soprannome di «Camicie rosse» perché imbevevano gli abiti del loro stesso sangue per manifestare sia il loro sacrificio per il bene della nazione sia la sensazione di essere stati traditi dal governo nella gestione delle attività economiche sottoposte a nuove pressioni; le Camicie rosse spruzzavano il loro sangue anche sugli edifici governativi 34. Tutti questi esempi del significato materiale e metaforico del sangue racchiudono perfettamente alcune fondamentali lezioni antropologiche. Innanzi tutto, ancora una volta, il fatto che non è cosí facile distinguere ciò che chiamiamo «natura» da ciò che chiamiamo «cultura». Questa lezione può anche essere estesa fino alle linee di demarcazione esistenti tra consanguineità e genere, tra politica ed

economia e religione. Tutte queste etichette e denominazioni risultano inadeguate, e nessuna di esse delimita uno spazio ben separato. I legami materiali e simbolici del sangue in tutti questi ambiti non lasciano dubbi. In secondo luogo, nei simboli stessi si combinano spesso associazioni di idee apparentemente polarizzate o antitetiche. Il sangue è vita. Il sangue è morte. Il sangue purifica. Il sangue contamina. Questo particolare elemento legato al simbolismo è stato colto con particolare precisione da Victor Turner nella sua disamina dei simboli che compaiono nei rituali degli Ndembu 35. Nel caso del sangue, la vitalità potrebbe essere il tema generale che riunisce quella che l’autore denomina «significanza disparata». Questa visione del simbolismo non è roba per gli scettici che rilevano in tutti questi discorsi soltanto bizzarrie e follia, preferendo piuttosto fatti incontestabili. Eppure, la forza dei simboli e la logica delle loro associazioni di idee potrebbero rappresentare il fatto piú incontestabile di tutti. Infine, il corpo stesso e la materia che lo compone costituiscono le risorse principali dell’immaginazione figurata. Ovunque guardiamo, troviamo esseri umani che usano i loro corpi come modelli metaforici e metonimici al fine di consolidare, espandere ed esplorare ciò che essi sanno di loro stessi, i loro rapporti reciproci, il mondo che li circonda e il cielo che li sovrasta. Questo lo osserviamo soprattutto – o piú diffusamente – nel caso del sangue, ma anche con il latte, il cuore, il fegato, la pelle, la testa, le mani (con la frequente distinzione tra destra e sinistra), gli occhi e altro ancora. Le nostre culture sono la nostra carne e il nostro sangue.

a. Si tratta di una terminologia che, in un registro professionale, sarebbe considerata segno di assoluta e totale incompetenza, fatta di formulazioni al tempo stesso subdole, culturalmente specifiche e vaghe al massimo grado.

Nello studio della parentela interviene una sorta di vocabolario tecnico, con l’«ego» al centro, attorno al quale troviamo la costellazione formata da «madre», «padre», «sorella» e «fratello», ma non da «zio» o «zia» e neppure «nonna», in quanto tali gradi di consanguineità devono essere indicati come «fratello della madre» (uno zio) o «madre della madre», «madre della madre della madre» e cosí via. Tutti questi termini, ovviamente, si basano sull’idea di unità minime che possono essere combinate in una gamma di possibilità. Sono come numeri primi, divisibili solo per loro stessi. Gli studi sulla parentela, inoltre, sono spesso corredati di grafici, simboli e segni che descrivono in dettaglio i vari gradi e rapporti di consanguineità. Non tutti gli antropologi gradiscono tale impostazione. Bronisław Malinowski esprimeva cosí il suo disappunto: «Devo confessare francamente che non esiste un singolo studio sulla parentela che non susciti in me una certa perplessità di fronte a questa riduzione matematica, falsamente scientifica e ampollosa, di elementi legati alla parentela» (Malinowski, Kinship, in «Man», 1930, n. 30, p. 20). b. Anche il termine «acquisito» assume in questo caso un particolare significato, in quanto suggerisce che abbiamo bisogno della forza di un sistema giuridico per accostarci a quel tipo di rapporto che si ottiene «naturalmente» con la comunanza di sangue. c. In termini tecnici, si parla di parole affini per origini o «imparentate», indicate nella lingua inglese come cognates-words, dal latino cognatus, cioè «consanguineo». Come si vede, le metafore corrono in profondità. d. Troviamo spesso lo stesso tipo di sentimento e di approccio nelle campagne contemporanee per i diritti umani, anche se l’aspetto metafisico potrebbe risultare molto diverso o assente del tutto. Tali campagne, tuttavia, operano spesso con la medesima premessa di fissità assoluta: la tortura è tortura è tortura. e. Tra i Čukči, il sacrificio stesso è visto come un’offerta agli antenati, che detengono un notevole potere nel mondo terreno. Il sacrificio ha spesso un carattere propiziatorio, benché in alcune visioni del mondo questo elemento sia negato o svalutato. Non dovrebbe sorprendere in ogni caso che Marcel Mauss abbia scritto a lungo sulla logica del sacrificio, poiché molte sue forme rivestono una funzione simile a quella dello scambio di doni.

Capitolo sesto Identità

Non possiamo iniziare questo capitolo appellandoci all’autorità accademica dei nostri predecessori. Gli studiosi di epoca vittoriana, infatti, non scrissero praticamente nulla sull’identità. Non è un termine da sempre ricorrente sulle pagine delle riviste di antropologia, ed è certamente una di quelle parole – come famiglia – che richiede un certo impegno se vogliamo tracciare eventuali parallelismi tra le diverse culture. Al lettore questo potrebbe risultare strano, considerando quali siano oggi l’importanza e la persistenza del termine. Attualmente, un gran numero di studi di antropologia sono dedicati all’identità, e cosí è stato fin dagli anni Ottanta. Una delle ragioni di maggiore rilievo di tale cambiamento è che ovunque nel mondo le persone si sono trovate a riflettere in termini di «identità» e a usare questa parola con una certa consapevolezza. L’identità è uno degli strumenti decisivi per definire il proprio Io, per la mobilitazione e l’azione politica, per l’autorità di governo e, naturalmente, come sa bene qualsiasi adolescente con la luna storta, per la riflessione filosofica. Chi sono io? Identità non è tuttavia un neologismo, tanto che alcuni dei suoi principali usi nel mondo contemporaneo vantano una lunga storia. La prima definizione di «identità» nell’Oxford English Dictionary è «qualità o condizione per cui si è sostanzialmente uguali». Tale definizione può riferirsi a qualsiasi cosa – numeri, pomodori, stelle –, ma negli ultimi cinquanta o sessant’anni ha assunto un significato primario nel nostro vocabolario per indicare un elemento relativo

all’Io o a un gruppo. L’Oxford English Dictionary sottolinea inoltre che tale elemento deve risultare continuo nel tempo. Questo secondo aspetto dell’identità appare altrettanto importante. Si ritiene spesso che sia stato il lavoro dello psicologo Erik H. Erikson a innescare tale cambiamento. Fu lui per esempio a coniare l’espressione «crisi d’identità» in un libro pubblicato per la prima volta nel 1968: Identity: Youth and Crisis (Gioventú e crisi d’identità) 1. All’interesse di Erikson per i giovani faceva da sfondo l’epoca che vedeva l’ascesa del movimento per i diritti civili, del Black Power, del femminismo e, in un contesto forse piú generale, delle proteste antimilitariste e di quelle contro l’establishment che nel 1968 si diffusero dal Messico alla Cecoslovacchia. In tutti questi diversi momenti, la politica dell’identità divenne un potente strumento di critica e definizione dell’Io. Possiamo prendere come esempio Malcolm X, che aveva assunto tale nome per dichiarare che il suo nome anagrafico, Malcolm Little, non apparteneva né a lui né alla sua famiglia, ma era piuttosto un’eredità della tratta degli schiavi, durante la quale i suoi antenati venivano venduti e i loro veri nomi cancellati. Questo accento particolare sul nome è uno dei modi piú comuni per accostarsi al problema dell’identità: si tratta di qualcosa che riteniamo spesso dimori nelle profondità del nostro Io, anche se le circostanze o le forze della storia cercano di reprimerlo o cancellarlo. Possiamo altresí rilevare un preciso interesse per l’identità nell’opera di Frantz Fanon e di altri intellettuali anticolonialisti. La politica dell’identità divenne infatti un elemento centrale per il movimento anticoloniale, nonché nella lotta dei popoli indigeni nel contesto dei loro rapporti con gli stati-nazione, dal Brasile e Botswana al Guatemala e Stati Uniti. La carriera professionale di Erikson può risultare utile per valutare in che modo si realizzarono nel corso del tempo i cambiamenti nella rappresentazione dell’identità, anche in periodi relativamente brevi. Se le idee di Erikson sull’identità e la gioventú si offrivano da un lato a un’analisi dello Zeitgeist degli anni Sessanta, dall’altro trovavano in

realtà il loro fondamento in un interesse piú classicamente antropologico. Negli anni Trenta, agli esordi della sua vita professionale, Erikson lavorò per un certo periodo con l’antropologo H. S. Mekeel a uno studio sull’educazione e la psicologia infantile nella riserva degli Oglala Sioux. Il lavoro di Erikson sugli indiani Sioux appare interessante sotto diversi aspetti, non ultimo per la posizione critica da lui assunta nei confronti degli effetti della «missione civilizzatrice» sul benessere psicologico dei bambini Oglala. Erikson espose parte del suo studio in quello che molti considerano il suo lavoro piú autorevole, Childhood and Society (Infanzia e società), pubblicato per la prima volta nel 1950. Il libro contiene piú di un riferimento al problema dell’identità, inclusa la preoccupazione di Erikson per la misura in cui ai Sioux era stata «negata la possibilità di organizzarsi socialmente, e con ciò gli fu negata quella condizione di sanità in cui l’individuo deve trarre il suo statuto d’essere sociale» 2. In un articolo del 1939, tuttavia, fresco della ricerca condotta con Mekeel, nessuna delle sue analisi faceva un riferimento esplicito al problema dell’«identità» 3. In seguito, però, nel 1968, l’identità divenne l’argomento principale. Che cos’era dunque cambiato in quel trentennio? Se consideriamo il lavoro di Erikson come indicatore di una tendenza, che cosa ci indica esattamente? Uno degli elementi è la misura in cui abbiamo cominciato a pensare a noi stessi come a individui con dei diritti. Sotto questo aspetto, quei trent’anni furono oltremodo importanti. Possiamo individuare il moderno linguaggio dei diritti risalendo all’Inghilterra del XVII secolo e, ovviamente, alla Rivoluzione francese e a quella americana. Eppure, la piena fioritura di tale linguaggio appartiene piuttosto alla Dichiarazione universale dei diritti umani, uno dei documenti piú importanti di tutto il XX secolo – e, piú precisamente, un ottimo indice di quello che potremmo chiamare il «soggetto moderno». Ratificata dalle Nazioni Unite nel 1948, la Dichiarazione universale propone una visione molto specifica dell’umanità, la cui unità fondamentale è rappresentata dal singolo

individuo. Quasi tutti gli articoli della Dichiarazione universale dei diritti umani iniziano con la formula «ogni individuo»: ogni individuo ha diritto alla vita, alla libera espressione, alla libertà di credo, allo sviluppo della sua personalità, alla libertà di movimento, alla proprietà privata, alla libertà di unione, al lavoro e persino alle ferie retribuite (art. 24). Anche lo stato e la cultura sono menzionati nella Dichiarazione universale, è vero, ma solo come elementi in grado di contribuire a realizzare il riconoscimento dei diritti di ogni individuo, o a impedirne eventualmente la loro soppressione. Anche la famiglia compare velocemente (come «nucleo naturale e fondamentale della società») e, verso la fine del documento, si accenna altresí ai doveri dell’individuo (molto diversi dai diritti in quanto richiedono un’azione da parte della persona). È tuttavia il singolo individuo a contare piú di tutto. Nella Dichiarazione universale, l’individuo a cui si fa riferimento è la singola persona a. Nella mia stessa enfasi sull’individuo, tuttavia, io non intendo esclusivamente la persona in carne e ossa distinta e separata dagli altri. Mi riferisco infatti anche all’idea di un gruppo o di una cultura circoscritta. Solitamente, parliamo di «individui» quando abbiamo in mente singole persone, come John, Luisa o Tomoko. Il fatto che spesso «individuo» e «persona» si equivalgano come sinonimi è la prova di quanto siano importanti le associazioni di idee incentrate sulla persona. Ragionando in base alla lingua inglese, non dobbiamo dimenticare che la parola individual, che traduce appunto «individuo», è spesso usata non come sostantivo ma come aggettivo, nel significato di «singolo, individuale», per cui possiamo parlare di singole mentine Tic Tac, singole scarpe e, perché no, anche singoli gruppi. Questo è importante perché negli anni Settanta divenne chiaro che i diritti del gruppo – talora chiamati anche diritti culturali – erano un’esigenza altrettanto pressante quanto i diritti umani (individuali). L’incapacità di affrontare quest’ultimo aspetto è un grave difetto della Dichiarazione universale, redatta in un modo che lascia intendere che le persone possono esistere al di fuori di un contesto culturale. Alcuni

dei primi detrattori della Dichiarazione dell’Onu furono i boasiani, per i quali un atteggiamento del genere non aveva assolutamente senso. A lasciarli sbalorditi era anche il fatto, per loro assurdo, che i diritti fossero inquadrati come se tutti fossimo operai di una fabbrica di Manchester o Detroit (per carità, le ferie pagate sono un’ottima cosa, non fraintendetemi. Ma se siete un contadino che lavora la terra nello stato messicano di Oaxaca, sono una sciocchezza bella e buona). Questo ci porta a un altro importante cambiamento avvenuto verso la metà del XX secolo: la coscienza di sé e del gruppo divenne sempre piú inquadrata in rapporto a quella che ora chiamiamo globalizzazione. In antropologia, la globalizzazione è stata definita come il processo di creazione di un «mondo intensamente interconnesso, in cui i rapidi flussi di capitali, persone, beni, immagini e ideologie coinvolgono porzioni sempre piú grandi del pianeta in reti di interconnessione, comprimendo cosí il nostro senso del tempo e dello spazio e facendo apparire il mondo piú piccolo e le distanze piú brevi» 4. In tal senso, c’è molto da dipanare. Per ora, tuttavia, ciò che voglio precisare è che uno degli effetti dell’intensità dell’interconnessione è quello di imporre a tutti il problema dell’identità. Stiamo diventando tutti uguali? La globalizzazione sta costringendo la differenza a lasciare il posto all’identità, intesa come uniformità totale? Di fronte a tali problematiche, una delle reazioni è stata quella di affermare una forte identità culturale. Possiamo citare a proposito un esempio offerto dal Belize 5. Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, un segmento sempre piú grande della popolazione del Belize iniziò ad avere accesso alla televisione satellitare. In un lasso di tempo relativamente breve, i legami che il Belize manteneva con la Gran Bretagna, suo ex padrone coloniale, vennero ad allentarsi. La gente del posto non dipendeva piú da un palinsesto televisivo offerto dall’emittente di stato di carattere post-coloniale, che riciclava buona parte di trasmissioni vecchie e obsolete della Bbc e delle reti americane. Fu importante per la gente del Belize iniziare a sentirsi

connessa con il piú vasto mondo e, se vogliamo, vivere nella stessa epoca di tutti gli altri popoli. La televisione satellitare era in diretta: non era mediata né in differita, cosa che aveva contrassegnato il popolo del Belize come «arretrato» – una persistente immagine della realtà coloniale. All’improvviso, quello stesso popolo aveva avuto accesso ai canali di notizie via cavo e alle partite di baseball negli Stati Uniti (sport molto popolare in Belize). La televisione satellitare è servita come indicatore dell’ingresso del paese sull’arena globale, e questo, per aspetti decisamente non trascurabili, conferiva potere. Eppure, quel fatto suscitò anche forti preoccupazioni sull’«identità» del Belize, che ci appaiono evidenti in un altro cambiamento che ebbe luogo nello stesso periodo: l’aumento di popolarità delle tradizioni musicali del paese, incluso lo stile «punta rock» (un genere simile al calypso). Se in base al vecchio modello di rapporti coloniali quella musica locale rappresentava un buffo ritorno al passato, ora era divenuta fonte di autentico interesse e orgoglio nazionale. Era un’arte distintiva, una vetrina per i talenti locali e un contributo al genere «world music» in continua espansione, che però Mtv non trasmetteva b. Una prima lezione, in tal senso, è che la globalizzazione non comporta necessariamente la cancellazione delle differenze culturali. Gli antropologi scoprono regolarmente che la minaccia di un’omogeneizzazione culturale, reale o immaginaria, è il modo migliore per garantire una nuova fioritura della cultura. A volte, si tratta di tradizioni riportate in vita, come nel caso della musica in Belize; altre, sono tradizioni inventate; il piú delle volte si tratta di una combinazione di entrambe. Un violino è anche un fiddle. Da un violino potremmo attenderci un magnifico concerto, se veniamo da Vienna, ma nelle mani di un virtuoso della contea di Cork, o di Elkins, in West Virginia, il risultato artistico è ben diverso. La diffusione degli strumenti a corda non è stata al centro dei dibattiti sulla globalizzazione, ma ciò che intendo sottolineare con quest’esempio vale per molte altre cose: dalla televisione ai telefoni cellulari, dalla

Coca-Cola agli opuscoli con il testo della Dichiarazione universale dei diritti umani distribuiti dalle agenzie delle Nazioni Unite e dalle Ong per i diritti umani. Ho citato l’esempio di una realtà decisamente lontana, e da tale distanza è facile ammettere che un’identità nazionale possa subire dei mutamenti. Tutte le identità cambiano nel tempo, in parte per fattori storici e sociali. Se collocato sullo sfondo del dominio coloniale britannico e messo in primo piano da una globalizzazione, perfino qualcosa di apparentemente semplice come un nuovo palinsesto televisivo può contribuire a tale cambiamento. Gli eventi contano sempre nell’equazione dell’identità, e lo stesso vale per le circostanze, il punto di vista e la collocazione geografica. Ogni sociologo che abbia scritto sull’identità sembra arrivare a tale conclusione: l’identità è relativa e tarata sull’Altro da noi. Quando sono in Ghana, dico che vengo dagli Stati Uniti (ma che vivo a Londra); quando mi trovo sulla costa orientale degli Stati Uniti, dico di essere di New York, ma se sono in California, potrei dire semplicemente che vengo dalla East Coast; quando sono a New York, dico di venire dal distretto della capitale; se sono nel distretto della capitale (cioè la zona di Albany, capitale dello stato di New York), dico che arrivo da Schenectady (pronunciato \skə-’nek-tə-dē\, nel caso non lo sappiate; toponimo derivato da un termine Mohawk che significa «al di là dei pini»); quando sono a Schenectady, dico che abito nei pressi del parco o che ho frequentato la Linton High School e cosí via. Se in uno di questi posti sto parlando con un altro antropologo e arriviamo fino a Schenectady, potrei anche ricordargli che Lewis Henry Morgan vi aveva frequentato il college. Queste sono tutte «identità» – o almeno tentativi di identificazione –, e mi appartengono tutte. Dobbiamo poi confrontarci con la crescita dei social media online. Questo fa sí che, rispetto a Schenectady e Lewis Henry Morgan, le mie identificazioni situazionali sembrino un gioco da ragazzi. Gli studi condotti dagli antropologi sulla vita sociale e i mondi virtuali

online dimostrano che nel cyberspazio e sugli altri media diamo libero sfogo alla creazione di nuove identità. Consideriamo per esempio Second Life, uno dei mondi virtuali piú longevi, che conta attualmente piú di un milione di iscritti. Sul sito di Second Life, le persone sono invitate a aderire creando il loro «avatar» – la loro personalità online, per cosí dire. «Create, personalizzate e cambiate completamente la vostra identità virtuale in qualsiasi momento», ci viene detto sul sito 6. Un antropologo che ha lavorato sul campo su (e in) Second Life, Tom Boellstorff, ci racconta di uomini che assumono le sembianze di scoiattoli chipmunk, elfi e donne voluttuose, e perfino di un adulto che si identifica con un bambino e viene addirittura adottato «virtualmente» 7. Ciò che gli studi antropologici hanno chiarito del mondo virtuale, tuttavia, è che tutto questo non significa che esso non sia reale, o che sia tutto un gioco e quindi privo di importanza. «L’avatar rappresenta chi sento di essere veramente dentro di me», dice una donna in un video promozionale di Second Life 8. Le identità virtuali, notano Boellstorff e altri, stanno diventando reali, e rappresentano in effetti una tendenza piú generale a pensare a noi stessi come a creature pronte a realizzare il nostro self-fashioning, cioè a costruirci un’identità e una personalità pubblica secondo determinati standard socialmente accettabili. Quella domanda stereotipata tipica dell’adolescente – chi sono io? – viene ora sempre piú integrata da un altro interrogativo aperto a molteplici risposte e tipicamente post-moderno: chi voglio essere?

La razza, ci risiamo. Eppure, benché sia stato ampiamente riconosciuto che le identità possono cambiare ed essere situazionali, vi è una tendenza persistente – perfino nel mondo in via di globalizzazione, affollato di individui ben consapevoli dei loro diritti e che si esprimono liberamente – a pensare all’identità come a qualcosa di fisso, duraturo e immutabile.

Non dimenticate: «ce l’abbiamo nel sangue!», ma non nel sottile significato sottolineato da Janet Carsten, bensí nel senso per nulla elusivo che ritroviamo nella logica del razzismo e della regola di «una sola goccia». Desidero riprendere l’argomento della razza perché esso ha posto agli antropologi una delle sfide piú significative al momento di analizzare i problemi legati all’identità. Da un lato, la ricerca antropologica può essere usata per dimostrare che, biologicamente parlando, la razza è un mito; dall’altro lato, trattandosi appunto di un mito, essa racchiude in sé – come tutti i miti – numerosi e importanti significati culturali. La razza potrà anche essere un mito, ma rappresenta ugualmente una potente categoria concettuale. Uno degli studi divenuti una pietra miliare in questo ambito di ricerca è il libro di Ashley Montagu: Man’s Most Dangerous Myth: The Fallacy of Race (La razza: analisi di un mito), pubblicato nel 1942. Dopo aver studiato con Franz Boas e Ruth Benedict (anche se si accostò all’antropologia durante il seminario londinese di Bronisław Malinowski), Montagu svolse le proprie ricerche in una gamma incredibile di discipline, dalle scienze biologiche alla storia delle idee – una storia che denuncia abbastanza chiaramente quanto la moderna concezione della razza sia radicata nel colonialismo europeo. In termini scientifici, ovviamente, le prove alla base degli argomenti esposti nel 1942 non erano cosí ampie come oggi. Fu solo negli anni Novanta che gli antropologi fisici e i genetisti dimostrarono chiaramente che, in termini biologici, esiste soltanto un’unica razza umana; non ci sono cioè «sottospecie» umane, per usare un linguaggio piú specialistico. La diversità genetica tra le popolazioni umane è praticamente trascurabile, soprattutto rispetto ad altre specie di grandi mammiferi. Le ipotesi su distinti lignaggi evolutivi (africano, eurasiatico eccetera) – assai piú diffuse ai tempi di Montagu – sono state sconfessate dai progressi ottenuti tracciando la storia evolutiva attraverso la genetica molecolare. Come afferma uno dei principali ricercatori in questo campo: «Tutta l’umanità [appartiene a] un unico

lignaggio e condivide un comune destino evolutivo a lungo termine» 9. Nel capitolo I , ho ricordato la posizione di Ruth Benedict a sostegno di questo stesso ragionamento. La Benedict, naturalmente, non disponeva dei dati sulla genetica e sulla biologia evolutiva disponibili oggi; il suo discorso si dipanava pertanto piú lungo le linee della cultura e del costume. Si trattava tuttavia di argomentazioni di primaria importanza, dirette contro le tesi del cancelliere di stato della Virginia, la cui posizione in merito ai cosiddetti incroci di razze trovava fondamento nell’affermazione razzista che, alla fin fine, il «tipo negroide» sarebbe potuto emergere in chiunque avesse anche una sola goccia di «sangue colorato». Per contrastare la tesi secondo cui la razza e il comportamento culturale erano strettamente connessi, la Benedict cita come esempio un’ipotetica adozione «interrazziale». Scrive la studiosa: «Un bambino orientale adottato da una famiglia occidentale impara l’inglese, assume verso i suoi genitori adottivi gli atteggiamenti comuni fra i compagni di giochi, e si prepara alle stesse professioni che quelli scelgono. Fa suoi tutti gli elementi di costume della società in cui vive, e il costume del gruppo cui appartengono i suoi veri genitori non ha nessuna influenza sul suo comportamento» 10. L’esempio punta a confermare la posizione antirazziale e antirazzista dell’antropologa: «La cultura non è un complesso che si trasmetta per via biologica» 11. Il sangue questa volta mente. Non esiste una vera identità razziale nera, bianca, occidentale, orientale o di altro genere. Eppure, la presa di posizione della Benedict nei confronti della cultura al fine di fare piazza pulita di qualsiasi «biologia della razza» è fuorviante. In America, o in Gran Bretagna, o in qualsiasi altro luogo moderno in cui persiste un lascito di impronta orientale o occidentale, possiamo essere certi che i «tratti culturali» dei «veri genitori» di un bambino giocheranno un ruolo di primo piano nel determinarne l’identità, e questo non perché il sangue non mente, ma perché molti degli occidentali che attorniano quel bambino pensano – che lo dicano apertamente o meno – che il sangue giochi la sua parte, costringendo

il bambino a ragionare in rapporto a una precisa identità razziale, anche se questo potrebbe significare non essere né carne né pesce. Nella precedente discussione su razza e cultura, ho fatto anche riferimento al recente lavoro di Lee D. Baker, docente presso la Duke University. Gran parte dei suoi scritti riguarda la storia dell’antropologia, in particolare il coinvolgimento di Boas e dei suoi studenti nel dibattito su razza e cultura. Ciò su cui intendo concentrarmi per il momento, tuttavia, è qualcosa che emerge dalla stessa biografia di Baker, che egli usa in uno dei suoi libri per giungere a un’importante conclusione sull’identità 12. Baker, afroamericano, è stato adottato da una famiglia di bianchi (svedesi luterani) ed è cresciuto in una comunità dell’Oregon quasi interamente bianca. Fin dalla tenera età, tuttavia, aveva cominciato a pensare in termini di razza, e al fatto di essere nero. Tutto era cominciato vedendo gli spazzini, gli unici altri neri che incontrava e che nel 1969 il suo Io di tre anni chiamava «hegros», storpiando la parola. Quell’identificazione non si era formata quindi dall’interno, ma da ciò che era intorno a lui, da ciò che veniva detto e non detto – amorevolmente e con le migliori intenzioni dai suoi genitori, a volte crudelmente dai compagni di scuola. Nel corso della sua infanzia e poi al college, racconta Baker, si era «applicato con il massimo impegno a essere un nero». «L’idea che uno deve imparare a comportarsi da bianco o prendere a modello i neri era sempre predominante nei miei momenti di socializzazione», scrive Baker 13. Egli non avrebbe potuto essere l’ipotetico bambino adottato di cui parlava Ruth Benedict. Se nel quadro generale presentato dalla studiosa gli antropologi possono festeggiare che la razza sia stata ridotta a una costruzione culturale, esiste in realtà il pericolo di presumere che questa nostra conoscenza abbia un carattere definitivo e sia riconosciuta in tutto il mondo. Come sostiene Baker, «negli Stati Uniti, la razza è al tempo stesso un’illusione totale e una realtà materiale» 14. Invenzione biologica e fatto culturale. Anche genetisti e biologi antropologi lo riconoscono. In un recente articolo apparso su

«Science», un team di ricercatori ha ribadito esattamente il paradosso a cui si riferisce Baker. Non possiamo ignorare fino a che punto le identità razziali abbiano un significato culturale, argomentano i ricercatori, ma «le varie accademie nazionali americane – delle Scienze, di Ingegneria e di Medicina – dovrebbero formare tra gli studiosi di scienze biologiche, scienze sociali e scienze umanistiche un gruppo di esperti che raccomandino in che modo condurre le ricerche sulla diversità biologica del genere umano, abbandonando per sempre l’elemento razziale come strumento di classificazione, sia in laboratorio sia nelle ricerche cliniche» 15.

L’identità dei Mashpee. Pochi casi attestano meglio l’attuale marasma di identità rispetto a quello degli indiani Mashpee 16. Mashpee è una cittadina sulla penisola di Cape Cod, nel Massachusetts. Nel 1976, alcuni delegati del MashpeeWampanoag Tribal Council, Inc., che rappresenta approssimativamente 300 membri della tribú, si rivolsero alla Corte distrettuale federale reclamando i diritti su circa tre quarti della terra su cui sorgeva l’agglomerato urbano. L’azione del Consiglio tribale Wampanoag rientrava all’epoca in un piú ampio progetto dei nativi americani per rivendicare terre e sovranità, soprattutto negli Stati Uniti nord-orientali. In realtà, era il principio di un’ondata di iniziative con cui gruppi indigeni di tutto il mondo presero a rivendicare diritti su territori e sovranità, dal Brasile all’India fino all’Australia. Nei primi anni Ottanta, i diritti culturali erano emersi accanto ai diritti umani come una questione di primaria importanza, dotata di un indiscusso vigore morale. La forza delle rivendicazioni dipendeva spesso dalla vitalità della politica identitaria che scendeva in campo. Molti di quegli sforzi hanno avuto successo. Nel 1976 e 1981, furono approvate in Australia importanti leggi sui diritti fondiari. In Brasile, i diritti degli indigeni vennero formalmente riconosciuti nella

Costituzione del 1988 (cosa che non portò comunque a cambiamenti immediati). In Guatemala, Rigoberta Menchú Tum divenne probabilmente il primo «nativo di fama globale», dopo la pubblicazione nel 1983 della sua autobiografia Me llamo Rigoberta Menchú (Mi chiamo Rigoberta Menchú), che attirò l’attenzione dell’opinione pubblica sulle condizioni di vita dei gruppi Maya. Nel caso degli indiani Mashpee Wampanoag, tuttavia, si apriva una questione preliminare: innanzi tutto, potevano essere riconosciuti a buon diritto come un gruppo indigeno? Possedevano una loro identità culturale? A Mashpee era stato riconosciuto lo status di «città indiana» nel 1869, e da allora la zona era stata sempre associata a un gruppo di nativi un tempo chiamati – fin dall’epoca dei puritani – gli «indiani del Mare meridionale». Il riconoscimento dei Mashpee Wampanoag come gruppo indigeno era avvenuto in forma non ufficiale, rafforzato però dal fatto che fino agli anni Sessanta la politica municipale era stata dominata da famiglie indiane, cosa che aveva permesso loro di godere di un qualche tipo di sovranità e autodeterminazione. Negli anni Sessanta, tuttavia, quando Cape Cod cominciò a diventare una meta sempre piú ambita da turisti e pensionati, l’equilibrio demografico della città iniziò a spostarsi e gli indiani persero sia il controllo politico sia la loro maggioranza numerica. Fino agli anni Sessanta, il rapporto tra nativi e bianchi era di 3:1; alla fine di quel decennio, era ormai prossimo a 1:4, con un completo rovesciamento. Anche se gli indiani avevano inizialmente accolto con favore le nuove fonti di entrate fiscali e commerciali legate al turismo, il cambiamento aveva ben presto dato luogo a denunce per l’eccessivo sviluppo dell’edilizia residenziale e soprattutto per la perdita di terre normalmente usate dai nativi per la caccia e la pesca. Nel 1972 il Consiglio tribale fu registrato come società commerciale, e nel 1974 presentò una petizione al Bureau of Indian Affairs per il riconoscimento ufficiale del gruppo indigeno. A garantire un senso di identità di gruppo era stato il controllo

politico a lungo esercitato dai Mashpee Wampanoag. La maggior parte della popolazione della zona riconosceva e accettava tale controllo come un dato di fatto. Al di là di questo, tuttavia, non vi erano molti aspetti distintivi di un’effettiva cultura tribale Mashpee Wampanoag. Benché vi fossero stati momenti di rinascita culturale, essi avevano avuto per lo piú un carattere occasionale, e anche se alcune tradizioni culturali sopravvivevano o conferivano alla vita qualche sfumatura piú pittoresca, esse erano comunque rare e disomogenee. Le stesse strutture politiche non avevano in sé un carattere «tribale»; gli indiani esercitavano in gran parte il loro governo in accordo con le regole della cittadina e delle leggi dello stato. La lingua indigena, Wôpanâak o Massachusett, era morta nel XIX secolo, per cui non rappresentava un elemento vincolante. Non vi era neppure una forte tradizione di culti indigeni, visto che la maggior parte degli indiani era di fede battista. Alla Corte federale il caso venne discusso per quarantun giorni, durante i quali i richiedenti si sforzarono di dipingere il quadro di un’identità tribale che non era andata persa, bensí sommersa e sensibile alle piú ampie dinamiche sociali e politiche del New England. Facendo riferimento all’epoca puritana, il Consiglio tribale sostenne che la conversione al cristianesimo era stata necessaria ai fini della sopravvivenza, cosí come era stato necessario integrarsi nell’economia locale regionale e prendere parte alla vita socioeconomica del Massachusetts. In che modo avrebbero potuto esistere altrimenti? Per corroborare le loro ragioni, gli indiani poterono indicare quei periodi in cui si era avuta una rinascita culturale, come negli anni Sessanta dell’Ottocento e negli anni Venti del Novecento. Per i richiedenti, in altre parole, la propria identità indiana non aveva avuto cesure ed era stata realmente conservata, seppure priva di molti segni esteriori a causa degli squilibri di potere spesso affrontati dai popoli colonizzati. Gli avvocati dello stato seguirono una linea molto diversa, sostenendo che ciò che i rappresentanti del Consiglio tribale avevano

dipinto come uno sforzo per mantenere intatto il nucleo dell’identità indiana di fronte alle pressioni esterne non era, in realtà, che l’ennesima versione della storia americana. Gli indiani di Mashpee erano diventati americani, si erano integrati nel sistema e non potevano avanzare rivendicazioni di sorta. Dov’era la loro cultura? I richiedenti convocarono diversi antropologi in qualità di esperti. Gli avvocati dello stato (per non parlare del giudice) finirono per massacrarli, dato che gli antropologi rifiutavano di rispondere con i semplici sí/no richiesti dal sistema giudiziario. La cultura, come cerco in ogni modo di spiegare in questo volume, non è una cosa facile da descrivere o definire; l’identità culturale non può essere ridotta a risposte date spuntando semplicemente una casella. Per farla breve, gli avvocati dello stato sostennero che nel caso in esame non esisteva nessuna particolare identità indigena. Nei termini stabiliti dall’immaginario popolare americano, i Mashpee Wampanoag non sembravano indiani, non suonavano indiani, non si comportavano come indiani. In poche parole, i Mashpee non erano abbastanza culturali. E a vincere fu proprio questo: i Mashpee persero la causa. Il caso dei Mashpee Wampanoag si colloca nella zona grigia della politica identitaria indigena. Altri casi piú marcatamente in bianco e nero, atti a soddisfare la definizione di identità riportata nell’Oxford English Dictionary – «qualità o condizione continua nel tempo per cui si è sostanzialmente uguali» –, hanno avuto maggiore successo. Quando a tribunali, rappresentanti dell’élite politica o membri dell’opinione pubblica piú tradizionale viene chiesto di considerare delle rivendicazioni come quelle dei Mashpee, spesso quello che ci si aspetta di vedere è la pittoresca manifestazione di chiare differenze. Se vuoi essere indigeno, devi essere diverso. Devi rispettare la tradizione ed esibire sulla fronte – direi quasi letteralmente – il marchio della tua cultura. La stessa logica vale per il turismo globale. Se vi è capitato di soggiornare in un safari lodge in Kenya, o in un luogo di villeggiatura a Bali, è assai probabile che, scendendo dall’autobus, abbiate avuto il benvenuto di una troupe di «indigeni»

che ballavano sulle note di qualche musica tradizionale, pronti ad accogliervi a braccia aperte. Ciò di cui probabilmente vi sarete resi conto, soffermandovi un attimo a pensarci, è che tra l’arrivo di un autobus e il successivo, quegli stessi nativi stavano controllando Facebook sui loro smartphone. L’identità, come la razza, è al tempo stesso un’illusione totale e una realtà materiale. E l’identità, come la razza, è qualcosa che trattiamo al tempo stesso come natura e artificio. Noi supponiamo che essa si trovi nel profondo di un essere umano, ma dovremmo anche riconoscerla come un elemento esibito – a volte letteralmente –, per esempio dai Masai che danzano in un safari lodge del Kenya, o magari da quell’uomo che su Second Life si è scelto per avatar uno scoiattolo chipmunk –, e talvolta piú come un elemento per orientarsi tra le aspettative sociali nella vita di tutti i giorni, come racconta di aver fatto Baker diventando un americano maggiorenne.

Ideologia linguistica. Se negli anni Settanta i Mashpee avessero ancora parlato la lingua Massachusett – magari sopravvissuta anche solo tra qualche anziano che l’aveva tenuta in vita nella comunità –, le loro possibilità di vincere la causa sarebbero state innegabilmente maggiori. La lingua e la cultura, infatti, sono spesso considerate come due facce della stessa medaglia. Come il sangue, si pensa che la lingua racchiuda l’essenza della persona e rappresenti l’elemento costitutivo dell’identità, come il naso per un viso. Madrelingua; latte materno; sangue: la catena simbolica è chiara. All’interno dei quattro ambiti dello studio antropologico, l’antropologia socioculturale e l’antropologia linguistica hanno spesso avuto i legami piú forti, cosa che, dal punto di vista degli antropologi sociali e culturali, acquista certamente un utile senso pratico. Si possono condurre progetti di lavoro sul campo a Londra o a Lagos

senza dover ricorrere necessariamente ai dati della paleopatologia o alla datazione al carbonio. In compenso, non si possono condurre senza prestare la dovuta attenzione alla lingua. Non tutta l’antropologia linguistica comporta il lavoro sul campo, o una particolare attenzione alla lingua parlata. Quello che possiamo apprendere in astratto – cioè da fonti e documenti testuali –, studiando la grammatica, la sintassi o, tanto per dire, l’analisi comparativa delle classi dei nomi nelle lingue Bantu, è senz’altro prezioso, ma ci dice anche qualcosa di ben preciso rispetto allo studio dell’uso della lingua nella vita di tutti i giorni. Questo viene a volte indicato come la differenza tra lo studio di langue (lingua) e parole (discorso), categorie concettuali che risalgono all’opera di Saussure (che si era concentrato sulla langue). L’antropologia linguistica, tuttavia, svolge buona parte del lavoro concentrandosi sull’uso della lingua – parole –, definendosi a volte anche sociolinguistica o, piú tecnicamente, pragmatica. Nell’alveo di questa tradizione, uno degli interessi della ricerca è rivolto al valore culturale attribuito a una lingua da coloro che la parlano. Negli ultimi quarant’anni, uno dei campi piú fecondi della ricerca sull’uso della lingua è stato quello che gli specialisti chiamano «ideologia del linguaggio» (o talvolta «ideologia linguistica») 17. Vorrei soffermarmici un momento, dato che può rivelarsi molto utile per valutare correttamente l’approccio culturale al problema dell’identità. In effetti, piú in generale, se sappiamo qualcosa dell’ideologia del linguaggio, riusciamo a lanciare un fantastico sguardo nei meccanismi stessi della cultura. Possediamo tutti un’ideologia del linguaggio. Potremmo non saperlo, o non pensarci, ma ce l’abbiamo. Fondamentalmente, questo significa che tutti noi avanziamo delle ipotesi, o ci atteniamo a determinate convinzioni, riguardo alla struttura, al significato e all’uso del linguaggio. Le nostre ideologie linguistiche ci dicono qualcosa su come interpretiamo il richiamo che hanno per noi l’ordine delle cose e la natura dell’autorità, i valori realmente importanti e perfino la nostra

idea di realtà. Un esempio popolare di ideologia del linguaggio «in azione» è quello che ho fatto varie volte riportando le definizioni di determinate parole dall’Oxford English Dictionary 18. Questo cosa ci dice? Forse che penso – o magari penso che voi pensiate – che le definizioni del dizionario ci diano il vero significato delle parole. Questo a sua volta ci dice che io – o forse voi, o magari noi – presumo che la verità o la realtà abbia il benestare di fonti testuali prodotte da esperti. Se il mio scopo era fare in modo che la definizione assumesse per voi un significato definitivo, non potevo certo scrivere: «Come mi ha detto un bel giorno mia mamma, per identità intendiamo quella qualità o condizione per cui si è sostanzialmente uguali». Quando sono in ballo questioni di questo tipo, nutriamo piú fiducia nei libri che nella gente e piú negli esperti che nelle persone comuni – incluse le mamme (soprattutto se gli esperti sono quelli della Oxford University Press). A tale proposito, possiamo citare un altro esempio che compare spesso e a cui sono ricorso anch’io nel presente volume: risalire all’origine etimologica di un termine. Nel capitolo II , ricordo di aver scritto qualcosa del genere: «Nella sua accezione piú antica, derivata dal latino, il termine “selvaggio” significava…» Questo che cosa ci dice? Forse che penso – o magari penso che voi pensiate – che una qualche parte del significato reale di una parola è anche collegata al suo uso originario, e che spesso, nell’uso di una parola, riemerge qualcosa di quella Ur-forma sepolta. Prendiamo per esempio la parola «religione»: essa deriva dal latino religare, «legare, vincolare», e religio, «santità, venerazione». Ah ecco! La religione riguarda quindi sia la comunità – e il legame tra gli umani e il divino! – sia la sacralità. Questo riassume praticamente il significato della parola. In Occidente, naturalmente, il latino e il greco godono di un prestigio speciale (che ci conferma a sua volta il valore ulteriore del mondo antico). Ci viene altresí suggerito che la consistenza metafisica del significato sopravvive nella nostra coscienza collettiva. Gli atei che tanto strepitano non devono illudersi che soltanto i vescovi cattolici

possano pensare che il sacramento del matrimonio possiede un «vero significato». Vi è una miriade di altri esempi. Uno dei miei favoriti riguarda appunto un ateo: il comico, attore e musicista australiano Tim Minchin. Si tratta di quel tipo di non credente per il quale l’ateismo è una causa per cui combattere; non è il semplice ateo del «vivi e lascia vivere». Un giorno, per dimostrare che al di fuori della realtà non esisteva nulla di soprannaturale o di mistico, disse a una platea gremita di fan durante un festival letterario: «Spero che mia figlia muoia domani in un incidente d’auto» 19. Il pubblico sussultò visibilmente. Nel pronunciare quella frase, Minchin stava mettendo in luce alcune caratteristiche delle ideologie linguistiche del mondo anglofono. Innanzi tutto, in ciò che diciamo dobbiamo essere sinceri; tendiamo cioè a considerare la lingua come un mezzo per affermare la verità: «Parla come pensi e pensa come parli». Non era esattamente questo ciò che Minchin cercava di dimostrare, ma lo aveva fatto comunque. Il punto che gli stava piú a cuore era legato a un secondo aspetto della nostra ideologia linguistica, cioè che quanto diciamo può avere un effetto concreto non solo sugli altri ma anche sul corso degli eventi. «Se non hai niente di bello da dire, non dire niente». È per questo stesso motivo che diciamo «toccare ferro», o addirittura tocchiamo realmente qualcosa di ferro, quando parliamo di qualcosa che temiamo possa o non possa avvenire. «Otterrà quel lavoro! Tocchiamo ferro!» Non molti sanno esattamente perché si dica «toccare ferro», ma la cosa non è rilevante in questo caso: ciò che assume vera importanza è quella sorta di incantesimo racchiuso in una certa espressione, il suo effetto «magico». Era esattamente questa credenza che il nostro ateo convinto intendeva sfidare. Minchin stava cercando di dare una scossa al torpore pieno di superstizione e linguisticamente ideologizzato del suo pubblico. Egli puntava a convincere l’uditorio che: (a) non esiste alcuna forza soprannaturale intenta ad ascoltare, aspettando soltanto di sentirci dire qualche frase sconsiderata; (b) tali espressioni, in ogni caso, non hanno

assolutamente alcun effetto sul corso degli eventi futuri (è anche per questo che gli atei militanti ritengono che la preghiera sia cosí irrazionale). Negli ultimi vent’anni, molti antropologi linguisti hanno contribuito a mappare a un macrolivello il terreno delle ideologie linguistiche delle moderne società occidentali 20. Detto in parole semplici, sostengono questi antropologi, nell’Occidente contemporaneo si riscontrano due tipi principali di ideologia: quella dell’autenticità e quella dell’anonimato. Benché per certi aspetti esse siano ben distinte l’una dall’altra, condividono in realtà una base comune in quello che Kathryn Woolard ha definito «naturalismo sociolinguistico» in un importante saggio recentemente dedicato all’ideologia linguistica e alla politica dell’identità della Catalogna 21. Tornerò ancora su alcuni particolari di questo studio, limitandomi per ora a considerare gli argomenti generali. L’ideologia dell’autenticità è legata a un buon numero di elementi di cui abbiamo già parlato in questo capitolo. Essa si basa sull’essenzialismo e sembra indicare che la nostra lingua esprime qualcosa in grado di integrare ciò che siamo, individualmente e corporativamente. «Il significato primario della voce autentica è rappresentato da ciò che essa suggerisce riguardo a chi siamo, non tanto a ciò che dobbiamo dire» 22. Nella cultura popolare esistono in tal senso alcune immagini stereotipate: il francese charmant la cui naturalezza va di pari passo con le sue melliflue paroline dolci; o il poeta russo di animo profondo le cui intense meditazioni, e la capacità di esprimere a parole ciò che si nasconde nella fioca luce invernale, sono legate alla musicalità dei suoi versi. Spesso, tuttavia, lo slancio con cui si tende a enfatizzare l’autenticità deriva dal fatto di essere in una posizione di minoranza. Lo si è visto come elemento fondamentale, per esempio, nei progetti nazionalisti in Québec e Bretagna, e lo si ritrova abitualmente anche nelle comunità minoritarie, soprattutto nelle aree urbane piú povere. La classe sociale può essere a sua volta un fattore determinante, che trova un riflesso in

un particolare accento e pronuncia. In tutti questi casi, il registro linguistico indica un’identità locale comunitaria, saldamente radicata in un luogo e spesso espressione di un carattere o di una sensibilità particolare. Lo possiamo riscontrare nell’accento Cockney a Londra, nei tratti distintivi del rap newyorchese o della West Coast, o nell’assoluta particolarità dello slang di Soweto. Come potremmo aspettarci, un’autenticità del genere non si può apprendere. O ce l’hai o non ce l’hai, il che non impedisce a qualcuno di cercare di «calarsi nella realtà» o «abbassarsi» al livello di qualcun altro. Sotto questo aspetto, i politici tradizionali riescono a mettersi seriamente in imbarazzo. In tutta la sua carriera politica, Tony Blair venne deriso per la sua abitudine di glissare sulla qualità eccelsa dell’inglese di Oxford e Westminster per adeguarsi alla lingua tipica della zona dell’estuario del Tamigi, cioè all’inglese piú vicino al sale della terra, parlato da persone autentiche, per lo piú della classe operaia. In quei momenti, Blair stava cercando di assumere le sembianze di qualche ragazzo di Basildon, nell’Essex, anche se ogni volta che lo faceva riusciva unicamente a irritare ancora di piú l’uditorio. L’ideologia dell’anonimato è ciò che sta dietro alla legittimità delle lingue dominanti. L’inglese, come lingua dominante, vanta la piú ampia diffusione. In molti contesti, non è previsto che esso appartenga a un luogo preciso, ma che piuttosto trascenda il luogo, diventando la lingua di ogni luogo e di nessun luogo. Parlando ormai una lingua franca globale, i madrelingua inglesi – soprattutto in Inghilterra – hanno dovuto cedere su alcune delle piú forti rivendicazioni di autenticità proprio a causa del valore globalmente riconosciuto della loro lingua. Senza dubbio, molte persone, forse soprattutto tra gli americani, amano un buon accento inglese, ma quegli stessi anglofili americani non penserebbero mai che l’inglese appartenga a loro meno che a Hugh Grant o addirittura alla regina Elisabetta II. Tale ideologia è cruciale per il corretto funzionamento di una determinata sfera pubblica. Non parliamo quindi solo di lingue globali, come l’inglese o lo spagnolo, ma del fatto che qualsiasi lingua dominante funziona

all’interno di un’arena politica che comprende diversi gruppi o comunità. L’indonesiano offre un altro buon esempio, essendo stato «costruito» nel tentativo di creare un veicolo linguistico comune in una nazione di isole in cui si parlano oltre 300 idiomi. Come possiamo chiaramente vedere, le ideologie di autenticità e anonimato si applicano spesso a una stessa lingua; le distinzioni sono rilevanti a seconda del grado di lontananza o del contesto. Se siete di Basildon, nell’Essex, è assolutamente possibile che: (a) vi sentiate irritati quando Tony Blair cerca di parlare come se fosse cresciuto nella casa a fianco alla vostra; (b) sosteniate al tempo stesso l’uso dell’inglese come lingua franca alle Nazioni Unite perché siete disposti ad ammettere che essa appartiene a tutti allo stesso modo. In effetti, se il segretario generale delle Nazioni Unite pronunciasse un discorso pubblico in portoghese, coreano o in lingua Akan, soprattutto se in ambito internazionale o globale, la cosa potrebbe essere vista come un atto divisivo volto a escludere una parte del mondo. Alla base di entrambe queste ideologie vi è appunto quello che la Woolard definisce «naturalismo sociolinguistico». Ciò significa che l’ideologia in questione è considerata naturale. È un dato di fatto. Esattamente cosí com’è. In altre parole, il potere riconosciuto all’autenticità o all’anonimato di una lingua non viene visto come il risultato di decisioni umane, ingegneria politica o circostanze economiche.

Dall’essere umano all’esibizione. Se nel periodo tra gli anni Trenta e Sessanta abbiamo assistito a un ricorso sempre piú frequente all’identità, dopo di allora si sono verificati altri cambiamenti. In termini di ricerca scientifica, ancora oggi gli antropologi scoprono spesso che ci si attende o si dà per scontato che l’identità culturale sia ciò che è e non possa essere cambiata in alcun modo. Si riconosce ancora un alto valore alle

differenze esotiche, con i Masai che possono guadagnare qualche soldo extra nei safari lodge esibendosi in danze per i turisti inglesi. All’inizio del XXI secolo, tuttavia, ha cominciato a esercitare una certa forza di attrazione e ad acquistare maggiore credibilità un approccio all’identità di tipo piú performativo. Ciò appare evidente non solo nei mondi virtuali degli avatar di Second Life, ma anche là dove meno ci si aspetterebbe di trovarlo, mi riferisco ai movimenti nazionalisti europei. In Europa, il nazionalismo non si è sempre conquistato una buona fama. A parte qualche eccezione, la maggior parte dei movimenti nazionalisti appartengono a schieramenti di destra e, spesso, perfino all’ala di estrema destra dello spettro politico: Jobbik in Ungheria, il Front National in Francia, il British National Party nel Regno Unito, tanto per citarne qualcuno. Questo genere di partiti specula sulla xenofobia, apertamente o con tattiche poco trasparenti. Hanno una visione dell’identità molto novecentesca, del genere «il sangue non mente», cosí come la loro interpretazione e uso della lingua hanno per presupposto un’ideologia dell’autenticità e il naturalismo sociolinguistico. Il British National Party arriva addirittura a integrarli ricorrendo a un linguaggio imperiale rovesciato: uno dei messaggi del sito web del partito asserisce che il quartiere londinese di Tower Hamlets è stato «colonizzato» dai migranti del Terzo Mondo, che hanno cacciato la «popolazione indigena» 23. La Catalogna è invece un caso diverso. Nel 1978, dopo la caduta della dittatura di Francisco Franco, la Spagna adottò una nuova Costituzione. La Catalogna divenne cosí una delle diciassette «comunità autonome» a cui era riconosciuta la facoltà di esercitare un considerevole potere in piena autonomia e godere di un forte grado di autogoverno. E tra esse è una delle piú grandi, in termini demografici, e anche una delle piú ricche. La lingua regionale, il catalano, si distingue nettamente dallo spagnolo (o castigliano, com’è generalmente noto in Spagna), e non va considerata, come a volte si crede, un dialetto dello spagnolo. Verso la metà degli anni Ottanta,

l’autorevolezza del catalano si basava proprio sul tipo di ideologia dell’autenticità che abbiamo descritto: catalani si nasceva, non si diventava. Nel corso del tempo, tuttavia, tutto questo è cambiato, e il valore assoluto riconosciuto alle radici autoctone e alla «lingua materna» ha ceduto il passo a un senso molto piú flessibile di appartenenza e identità, in cui l’autenticità non era solo data per natura ma poteva anche essere creata. La Woolard iniziò a studiare la politica dell’identità catalana nel 1979, proprio all’inizio del periodo post-franchista. A un antropologo linguista si offriva una brillante scelta di siti in cui lavorare sul campo. Come lingua, il catalano vanta uno zoccolo duro, ampio e stabile di individui madrelingua; esso ha anche avuto un ruolo centrale nella politica partigiana volta ad affermare il carattere distintivo della Catalogna. Per di piú, dato che l’economia catalana è piuttosto forte rispetto a quella di altre aree della Spagna, la lingua e l’identità della Catalogna godono di un certo prestigio. I madrelingua catalani, però, non rappresentano solo una minoranza a fronte del piú ampio contesto della Spagna; all’interno della stessa comunità autonoma, circa i tre quarti della popolazione sono formati da immigrati, con un flusso iniziato nel 1900. Ancora oggi, meno di un terzo della popolazione parla il catalano come prima lingua; il 55 per cento degli abitanti è rappresentato da abitanti che hanno come lingua madre il castigliano 24. Dai primi giorni dell’autonomia, il nuovo governo della Catalogna inaugurò una serie di politiche linguistiche atte a sostenere un chiaro senso di identità nazionale. Buona parte di tutto questo venne attuata attraverso il sistema scolastico. Nel corso degli anni Ottanta, si richiese sempre piú alle scuole di offrire lezioni in catalano, dapprima come materia facoltativa, infine come principale veicolo linguistico della didattica. Nel primo decennio del nuovo secolo, la maggior parte del programma di studi veniva condotto in catalano. Data l’importanza della politica educativa per quella che la Woolard definisce l’«identità progettuale» della Catalogna, non

sorprende che la studiosa abbia condotto nelle scuole buona parte del suo lavoro sul campo. Nel 1987 la Woolard ha studiato una classe di adolescenti di un istituto superiore generalmente percepito di vedute filocatalane. La scuola attirava studenti appartenenti a un vasto spettro sociale, sicché ospitava la giusta commistione di ragazzi provenienti da famiglie di lingua catalana e lingua castigliana. In quest’ultimo caso, gli studenti tendevano a essere figli o nipoti di operai emigrati dalle altre regioni della Spagna. In linea generale, quanto scoperto dalla Woolard confermava ciò che vediamo in altri contesti in cui la politica dell’identità è condotta in base a un chiaro essenzialismo. I ragazzi che avevano come lingua materna il catalano o il castigliano erano quasi sempre ben distinti gli uni dagli altri, e i secondi non erano considerati «del posto» (nemmeno se risiedevano in Catalogna da un paio di generazioni). Nelle sue conversazioni con gli adolescenti, la Woolard si rese conto che i ragazzi di lingua castigliana erano piú rozzi, piú sgarbati e meno raffinati dei catalani. «Quelli che parlano castigliano sono persone di scarsa cultura, se cosí vogliamo dire», commentò uno dei ragazzi 25. Seppur quell’uscita accese un vivace dibattito, il concetto venne tuttavia confermato dalla frequenza con cui i madrelingua castigliani denunciavano un senso di emarginazione da parte delle istituzioni (cosí come da gruppi di coetanei). Come dissero anche alcuni dei ragazzi di lingua castigliana, quando si trovavano a parlare in catalano avvertivano un senso di imbarazzo e vergogna, quasi stessero fingendo o non avessero alcun diritto di parlare quella lingua. Nel 2007, la Woolard riuscí a rintracciare molte delle persone che aveva incontrato la prima volta come studenti negli anni Ottanta. Tra la maggior parte di quelli la cui prima lingua era il castigliano, molti dei quali avevano espresso in precedenza la sensazione di essere esclusi dall’identità progettuale dei nazionalisti, la studiosa ne trovò alcuni che avevano ora un atteggiamento nettamente diverso. Avendo ormai superato la trentina, uomini e donne avevano finito quasi tutti per identificarsi con i catalani, di cui parlavano la lingua con sempre

maggiore sicurezza, perfino con un senso di appartenenza. La sofferenza di quegli anni adolescenziali non era scomparsa: il senso di esclusione che avevano provato restava significativo e reale. In generale, tuttavia, lo relegavano all’inquietudine esasperata dell’esistenza adolescenziale. Per loro, oltre tutto, il fatto di aver adottato un’identità catalana non era necessariamente legato a piú vasti progetti o dichiarazioni di ordine politico; in realtà, essi rimarcavano in maggioranza che si trattava di un fatto personale e deridevano i proclami piú energici di stampo nazionalista. Nel loro approccio all’identità si erano attenuti a un «modello di vita del genere “l’uno e l’altro” anziché “o l’uno o l’altro”» 26. Ritornando in Catalogna nel 2007, la Woolard non solo riuscí a monitorare molti dei suoi originari informatori ma ripeté nella stessa scuola la ricerca che aveva condotto a suo tempo. S’imbatté in una situazione molto diversa, dove le baruffe per trovare la propria strada non erano scomparse, ma non riguardavano piú la lingua parlata in famiglia. Da quel secondo studio risultava che gli adolescenti non pensavano al mezzo linguistico come a un elemento costitutivo dell’identità nello stesso modo del 1987; catalano e castigliano avevano perso il loro ruolo iconico. Quando Woolard chiese ai ragazzi in che modo esprimessero la loro identità, nessuno di loro citò come indicatore l’appartenenza linguistica. Tutto ruotava attorno allo stile: vestiti, musica e altri accessori di interesse adolescenziale. Come lingua, in altre parole, il catalano era diventato piú anonimo, proprio nei termini di cui abbiamo parlato in precedenza: qualcosa a cui chiunque poteva accedere. Come elemento identitario, esso si era aperto a chiunque decidesse di adottarlo, mentre il criterio principale dell’identità era l’impegno a rispettare e preservare le caratteristiche precipue dell’identità stessa. «Non abbiamo nessun problema in tal senso», sentí ripetere infinite volte la Woolard 27. La studiosa è ben consapevole di ciò che mascherano queste dichiarazioni tanto toccanti: la situazione della Catalogna è assai piú complicata, e sappiamo di abitanti di lingua castigliana che non si

sentono né a proprio agio né accettati e avvertono ancora un senso di emarginazione. Per non parlare delle piú recenti ondate di arrivi in Catalogna dall’Africa e altri paesi. Eppure, tanto a livello interpersonale – il microlivello – quanto a livello di politica nazionale – il macrolivello –, i cambiamenti risultano notevoli. Il presidente della Catalogna in carica dal 2006 al 2010 proveniva da una famiglia operaia con lontane origini andaluse ed era spesso preso in giro per la sua parlata catalana, che indubbiamente lasciava molto a desiderare. Nondimeno, era diventato presidente. Dal 2010, i catalani hanno iniziato a manifestare per ottenere l’indipendenza dal resto della Spagna. Nel settembre del 2012 piú di un milione e mezzo di persone hanno marciato per le strade di Barcellona chiedendo a gran voce il «diritto di decidere» del loro futuro. Sugli striscioni si leggeva, ovviamente in catalano: Catalunya, nou estat d’Europa, «Catalogna, nuovo stato dell’Europa». In quella manifestazione, e in molte campagne successive, erano in prima fila non solo i figli della terra catalana, nel classico spirito nazionalista: con loro sfilavano anche catalani di lingua castigliana.

Mashpee oggi. La causa giudiziaria del 1976 non pose fine alle iniziative del Consiglio tribale di Mashpee. I suoi membri non si diedero per vinti e nel 2007 ottennero il riconoscimento federale come tribú con una sentenza del Bureau of Indian Affairs (Bia). Nella sua delibera conclusiva, il Bureau si riagganciava diffusamente alla causa legale degli anni Settanta, sostenendo che, contrariamente all’opinione espressa a quel tempo, un distinto carattere culturale non era un criterio indispensabile per riconoscere una comunità ben distinta dalle altre. A tale riguardo, la delibera conclusiva dava un taglio netto alle prove che specialisti ed esperti avevano presentato a sostegno della difesa dello stato: quelle prove erano astratte e non realistiche: astratte

perché i regolamenti del Bureau of Indian Affairs «non impongono che un richiedente, al fine di avere il riconoscimento di tribú o comunità indiana, conservi una precisa “distinzione culturale”»; non realistiche perché non è chiaro che cosa si richieda a una cultura di non mutare assolutamente. Su questo punto la delibera conclusiva rivelava particolari perplessità in merito all’opinione di uno storico «esperto» (che il giudice del 1976 aveva accettato e la giuria aveva poi confermato), in base alla quale «si richiedeva una cultura immutata, che conservasse tra l’altro la religione tradizionale e mantenesse essenzialmente una totale autonomia sociale dal tessuto sociale non indiano» 28. Nel 2001, un’eminente antropologa del diritto pubblicò un articolo su cultura e diritti in cui rilevava una situazione sconcertante 29. Da un lato, in ambiente accademico era ormai una conoscenza scientificamente comprovata che la cultura è sempre mutevole e fluida. Gli studiosi, cosí come le Nazioni Unite, avevano da lungo tempo riconosciuto che anche la nostra interpretazione dei diritti è soggetta a mutamenti, modifiche e ampliamenti. Dalla Dichiarazione universale del 1948, con la sua enfasi sul singolo individuo, la comunità internazionale ha ratificato una serie di dichiarazioni e convenzioni basate su identità piú specifiche e nette, inclusi i bambini, le donne e le comunità indigene. Dall’altro lato, nonostante questi vari riconoscimenti, nell’ambito dell’attivismo e delle iniziative politiche sui diritti umani, la cultura e i diritti erano spesso considerati antitetici e, come sempre, immutabili. Non so se gli autori della delibera conclusiva del Bureau of Indian Affairs sui Mashpee abbiano letto molto sulla teoria culturologica dell’antropologia, ma qualsiasi docente di questa disciplina rimarrebbe estasiato nel vedere respinta con tanta severità l’idea che gli indiani debbano avere una «cultura immutata» al fine di essere riconosciuti come una comunità ben distinta e dotata di tutti i diritti di un gruppo a sé stante. La cultura, in ogni caso, è tutt’altro che un elemento accessorio per

il senso di comunità e identità dei Mashpee. Dalla sua fondazione negli anni Settanta, il Consiglio tribale ha posto la cultura al centro degli sforzi per ottenere la sovranità e il riconoscimento di comunità indiana. Nel 1993 fu lanciato un progetto per rivendicare la lingua della tribú. Secondo le parole del promotore dell’iniziativa, «rivendicare la nostra lingua è un modo per riparare il cerchio spezzato dalla perdita culturale e dalle sofferenze. Essere in grado di parlare e capire la lingua significa vedere il mondo come lo hanno visto per secoli le nostre famiglie. Questo è solo un percorso per mantenerci legati al nostro popolo, alla terra, alle filosofie e alle verità che ci ha dato il Creatore» 30. Nel 2009, il Consiglio tribale ha istituito un Dipartimento linguistico, al fine di «riconoscere la centralità della lingua per preservare le consuetudini, la cultura e il benessere spirituale della nostra gente» 31. Potremmo vedere in tutto questo un’ideologia linguistica dell’autenticità. Se cosí è, essa si combina ora con il riconoscimento che tale autenticità deve essere coltivata attivamente. Non viene dal nulla.

a. Il primo significato di «individuo» nell’Oxford English Dictionary è «un singolo essere umano distinto e separato nella sua sostanza da ogni altro gruppo», vicino quindi a essere sinonimo di «identità». b. La «world music», ovviamente, rappresenta una categoria onnicomprensiva in cui rientra la musica prodotta al di fuori dell’Occidente. Michael Jackson non appartiene alla «world music»; Thomas Mapfumo, un cantante popolare dello Zimbabwe, invece sí. La stranezza, però, se ci pensiamo, è che è la musica di Michael Jackson a godere di popolarità in tutto il mondo, e questo sia detto senza alcuna mancanza di riguardo nei confronti dell’eccellente lavoro artistico di Thomas Mapfumo. Da questo, tuttavia, possiamo capire chi riesce ad avere la meglio e a raggiungere le grandi etichette discografiche.

Capitolo settimo Autorità

Quando nel 1971 Annette Weiner arrivò per la prima volta nelle isole Trobriand, seguendo le orme del grande Bronisław Malinowski, scomparso nel 1942, rimase colpita dalle lacune presenti nell’esposizione e nell’analisi del grande antropologo. Tutte le figure piú eminenti hanno i loro detrattori, cosí come tutte le narrazioni antropologiche peccano di parzialità, benché l’immensa sicurezza con cui sono presentante – come nel caso di Malinowski – possa suggerire il contrario. Eppure, sbaglieremmo se considerassimo completo – e autorevole – lo studio di Malinovski, che, come chiarisce la Weiner, esclude aspetti e momenti importanti della vita nelle Trobriand, compresi molti di quelli riguardanti le donne 1. Leggendo Malinowski, potremmo pensare per esempio che le donne di quelle isole non abbiano niente a che spartire con il mondo della produzione e degli scambi. Il grande antropologo poneva infatti l’accento sull’Anello del kula e sugli scambi secondari che avvenivano in tale ambito. Tutti questi scambi erano effettuati da uomini. Potremmo pensare che il caso delle isole Trobriand confermi semplicemente uno stereotipo comune sui ruoli sessuali e di genere: gli uomini si occupano della produzione, le donne della riproduzione; gli uomini agiscono nella sfera pubblica, le donne in quella privata; gli uomini si dedicano alla «cultura» (in attività come la politica e il lavoro), le donne alla «natura» (come nella gravidanza e nella preparazione del cibo). Eppure avremmo torto. In merito al caso delle isole Trobriand, la Weiner evidenzia svariati problemi connessi con questa linea di pensiero. Uno di essi è la mancata descrizione della

situazione empirica. Anche le donne infatti producono, per esempio creando stoffe con foglie e fibre di banano. Sono sempre le donne a controllarne la loro circolazione. Questo tipo di stoffa è estremamente prezioso perché è fondamentale per il mantenimento di una salda discendenza matrilineare (a cui appartiene la cultura delle Trobriand) e per la sua stabilità politica. In base a tale sistema di discendenza uterina, alla morte di un parente le donne distribuiscono la ricchezza rappresentata dalla stoffa per estinguere i debiti accumulati dal defunto con la società nel corso della sua vita. Idealmente, la stoffa è nuova e mai usata (al contrario degli oggetti del kula, che, come ricordiamo, acquistano valore con il passare del tempo e il passaggio da un’isola all’altra), poiché è appunto il fatto che essa non è mai passata di mano in mano a simboleggiare la purezza della discendenza matrilineare. Pur non essendo una forma di autorità politica o economica diretta, la stoffa garantisce comunque alle donne un mezzo importante per affermare una sorta di partecipazione e autonomia. In altre parole, la gerarchia dei rapporti tra i generi non è cosí netta come potrebbe sembrare. Un altro punto precisato dalla Weiner è che Malinowski riproponeva i pregiudizi della sua stessa educazione. In breve, la sua esposizione era androcentrica. «Nel mio caso, – scrive Annette Weiner, – la prima domanda che mi posi nelle isole Trobriand fu se Malinowski avrebbe ignorato la ricchezza femminile costituita dalle foglie di banano anche se fossero stati gli uomini a produrla e scambiarla» 2. In termini di autorevolezza etnografica, è fondamentale prestare attenzione al fatto che i «nativi» possono avere anche piú di un punto di vista. In tutto questo libro, ho fatto riferimento alla famosa sintesi della missione antropologica formulata da Malinowski: presentare «il punto di vista dell’indigeno». Adesso possiamo sicuramente riconoscere che una sintesi migliore, seppure non cosí accattivante e frizzante, sarebbe i punti di vista degli indigeni, non solo la «sua [di lui] visione del suo [di lui] mondo», come Malinowski ha continuato a proporre dal 1922 attraverso l’aggettivo possessivo di

genere maschile, ma anche – tanto per cominciare – la «sua [di lei]». Ho iniziato il capitolo con una sorta di ritorno non tanto ai risultati dell’antropologia quanto ai suoi meccanismi, alle sue modalità di rappresentazione. Questo è importante perché quando si parla di «autorità», l’antropologia offre sempre il meglio di sé allorché prende in considerazione la propria autorità, oltre a chiarire come essa venga a essere distribuita e interpretata all’interno delle dinamiche generali della vita sociale e culturale. A tale proposito, Malinowski ci offre una meravigliosa dimostrazione pratica. I suoi svolazzi retorici e la sua prosa senza tentennamenti lasciano poco spazio ai dubbi circa l’autorità della sua analisi. Eppure, ecco l’ironia: ciò che vediamo nei suoi scritti è una forma di autorità – l’autorità etnografica – che corre il rischio di rafforzare un insieme piú generale di premesse sull’autorità in sé e per sé.

«Problemi con le donne». La produzione di stoffa nelle isole Trobriand rappresenta solo l’inizio della storia. Come nota Annette Weiner, ciò che troviamo nelle testimonianze etnografiche è che la stoffa funge spesso da simbolo fondamentale dell’autorità e del potere politico, dai mantelli e dalle stuoie dei capi tribali alle vesti della regalità, dai paramenti clericali ai sacri sudari dei morti. E sono le donne, in linea di massima, a produrne tutti i vari tipi. Sotto questo aspetto, in effetti, il caso delle isole Trobriand appare relativamente minore; in molte parti della Polinesia e della piú ampia regione del Pacifico, infatti, la stoffa è un simbolo persistente del potere, del prestigio o dell’autorità. La Weiner sostiene perfino che per capire a fondo la tesi di Mauss sul dono – cioè che ogni dono richiede a sua volta un dono in cambio, in virtú del suo «spirito» (o hau, secondo il famoso esempio dei Maori) – dobbiamo valutare correttamente l’importanza politica dei mantelli

maori, che, come gli oggetti di valore nell’Anello del kula, possiedono in sé una sorta di personalità e di presenza attiva 3. A parte qualche opinione discordante, tuttavia, molti degli esempi etnografici che abbiamo considerato finora pongono effettivamente la questione del predominio del patriarcato. È vero, Malinowski riservò alle donne scarsa importanza nella sua analisi. Ma la stessa Weiner osserva che l’autorità e la capacità d’azione di cui godono le donne attraverso la produzione della stoffa sono alquanto limitate rispetto a quelle degli uomini. Allo stesso modo, consideriamo il complesso significato antropologico dell’onore e della vergogna, che risulta spesso correlato in modo inequivocabile al genere, nel senso che gli uomini si fanno onore mentre le donne lo perdono. C’è poi il caso dei Basotho, con la loro «mistica del bestiame», in cui le donne non hanno certo un grande ruolo. La mistica che si crea attorno ai bovini, infatti, è usata dai maschi Basotho per affermare la propria autorità all’interno della famiglia e della comunità. E si potrebbe riprendere l’idea stessa della ricchezza della sposa, su cui poggia buona parte della «mistica del bestiame»? Molti critici, dai missionari di epoca vittoriana alle attiviste dei moderni movimenti femministi, hanno visto in tutto questo la consuetudine di trattare le donne come beni che possono essere comprati e venduti. Ma che dire allora dei sistemi di discendenza matrilineare? Si tratta indubbiamente di una forma di autorità definita dalle donne. Al tempo stesso, leggendo le descrizioni dei rapporti politici nelle società matrilineari, non credo che saremmo da biasimare pensando che tutto sembra ridursi in realtà ad accettare che il potere sia affidato a uomini diversi: non ai mariti delle donne, bensí ai loro fratelli. E che dire piú in generale del «sangue»? Abbiamo visto che il sangue è un potente simbolo di vitalità e di vita, ma anche che viene associato alla contaminazione femminile, al pericolo e alla morte. Sappiamo che oggi le giovani donne della casta braminica Vathima hanno riconfigurato la durata e le modalità dell’isolamento e dei tabú connessi al ciclo mestruale, ma la pratica dell’esclusione permane tuttora. Oltre tutto, sono molte le donne che

insistono loro stesse sull’isolamento. Possiamo dunque affermare che le culture siano sempre, in ultima analisi, dei sistemi patriarcali? E che le donne siano il secondo sesso? La risposta secca è «no». Quella leggermente piú lunga è: «stiamo ponendo le domande sbagliate». Nessuna delle due risposte intende negare o minimizzare i tanti modi in cui il ruolo e la posizione sociale femminile – per non parlare delle donne stesse – sono stati oscurati da quelli degli uomini, né intende sorvolare sul potere abietto spesso conseguito in tal modo. Ma se prendiamo per buona la risposta «no», è necessario chiarire che non possiamo naturalizzare i rapporti tra i generi; da buoni antropologi, non possiamo dire in tutta coscienza, oltre che sulla base delle prove etnografiche, che l’Anello del kula o la «mistica del bestiame», o perfino le consuetudini e le leggi sulla successione che danno forma al dramma di Downton Abbey, siano elementi indicativi del fatto che gli uomini si trovano sempre – ora e per saecula saeculorum – in cima alla piramide sociale. Se prendiamo invece per buona la risposta «stiamo ponendo le domande sbagliate», dobbiamo considerare due punti. Il primo è una semplice questione di prospettiva, del modo cioè in cui la politica del valore informa i nostri giudizi su autorità, prestigio e potere. Che cosa succederebbe infatti se mettessimo la produzione di stoffa al centro della nostra analisi? Oppure la gravidanza? O anche il ruolo degli insegnanti di scuola elementare, la maggior parte dei quali è costituita da donne? Se esiste un qualche «sistema patriarcale», fuori e dentro di noi, esso riflette qualcosa di simile a ciò che abbiamo osservato in uno dei capitoli precedenti parlando dell’incontro tra i missionari europei e gli africani: una colonizzazione delle coscienze. Il secondo punto è meno semplice, ma potrebbe essere addirittura piú importante, poiché in certi casi non è nemmeno una questione di prospettiva, bensí se esista effettivamente qualcosa di fisso e immutabile da percepire. Per alcuni antropologi, l’errore sta nel supporre che «uomini» e «donne» siano pezzi di una scacchiera che stanno giocando lo stesso nostro gioco, o che si trovano bloccati nella

medesima nostra lotta. Tale argomento, avanzato da un buon numero di antropologi, trova un’espressione fondamentale nel lavoro di Marilyn Strathern. Il suo libro, The Gender of the Gift: Problems with Women and Problems with Society in Melanesia (Il genere del dono: problemi con le donne e problemi con la società in Melanesia), pubblicato nel 1988, ne ha infatti definito limpidamente i contorni. I «problemi» a cui si riferisce la studiosa nel sottotitolo del libro riguardano le premesse da cui partono gli analisti occidentali – in primo luogo antropologi, femministe e antropologhe femministe – per parlare dei rapporti di genere in Melanesia. Secondo la Strathern, molte delle critiche occidentali rivolte alle relazioni tra i generi e al dominio maschile sulle donne non si spingono cosí lontano nel considerare il punto di vista dell’indigeno – suo di lui o di lei. In realtà, è come se Marilyn Strathern volesse allontanarci del tutto da quella metafora di partenza, in quanto essa presuppone che tutte le differenze che possiamo catalogare affondano comunque le loro radici nello stesso terreno. Nella maggior parte di quanto segue, vorrei attenermi a questioni di prospettiva, anche se in due degli esempi (uno studio sulla fatwa in Egitto e uno sui cacciatori-raccoglitori di lingua Chewong) ci imbattiamo in approcci che riecheggiano quelli della Strathern. Consideriamo dunque il problema della prospettiva tornando alla consuetudine della ricchezza della sposa, dal momento che essa illustra sicuramente la questione dell’autorità in relazione a un certo «problema con le donne».

Genere e generazione. Per «ricchezza della sposa» si intende quella pratica per cui, in occasione di un matrimonio, una parte (di solito i genitori o i parenti dell’uomo) offre determinate cose (di solito non soltanto dei beni, nell’accezione quotidiana del termine, o del denaro, ma anche cose

speciali) a un’altra parte (di solito i genitori o i parenti della donna). Ho già ricordato che l’espressione «ricchezza della sposa» potrebbe colpire alcuni lettori contemporanei come una sorta di eufemismo politicamente corretto che sottintende, di fatto, la consuetudine di trattare le donne alla stregua di merci da vendere o comprare. Se nella lingua inglese odierna ricorre l’espressione bridewealth, cioè «ricchezza della sposa», in tempi precedenti l’usanza era denominata appunto brideprice, cioè «prezzo della sposa», in cui potremmo ravvisare una maggiore onestà. Già nel 1931, tuttavia, il famoso antropologo E. E. Evans-Pritchard aveva suggerito di eliminare del tutto il termine brideprice, in quanto decisamente fuorviante a. Il suo suggerimento venne formulato nel contesto di un dibattito che occupò per due anni le pagine di un’autorevole rivista e che vide proporre diversi termini possibili, alcuni dei quali decisamente bizzarri. EvansPritchard sostenne che bridewealth era senza dubbio il migliore, rallegrandosi in ogni caso che la parola brideprice avesse pochi sostenitori: Almeno su un punto, sembra esserci tra gli specialisti un accordo quasi totale, in particolare sull’indesiderabilità di mantenere l’espressione «prezzo della sposa». Ci sono molte buone ragioni per eliminare tale termine dalla letteratura etnologica, poiché esso, nella migliore delle ipotesi, non fa che enfatizzare solo una delle funzioni di questa ricchezza – quella economica –, escludendo altre importanti funzioni sociali; e poiché, nel peggiore dei casi, esso incoraggia i profani a pensare che il «prezzo» usato in questo contesto sia sinonimo di «acquisto», almeno nel comune inglese parlato. Troviamo quindi persone convinte che in Africa le mogli vengano comprate e vendute, piú o meno come sui mercati europei avviene la compravendita delle merci. Non è difficile valutare appieno quale danno arrechi agli africani un’ignoranza di questo genere 4.

Evans-Pritchard aveva ragione. Come i suoi lavori successivi avrebbero ulteriormente sottolineato, non possiamo presumere che

l’interpretazione occidentale di fenomeni come scambi tra gli esseri umani, rapporti di genere e personalità sociale abbiano un valore universale. È necessaria una lettura molto specifica di ciascuno di questi fenomeni al fine di vedere nella ricchezza della sposa un incontestabile segno di subordinazione delle donne, di status sociale di second’ordine o di mercificazione. C’è tuttavia anche altro da dire sull’argomento. Quando si affrontano infatti questioni relative all’autorità, ciò che la ricchezza della sposa evidenzia principalmente non è una divisione di genere bensí una divisione generazionale. Il fatto di concentrare l’attenzione sulla sposa è fuorviante sotto diversi aspetti, non ultimo perché, nella maggior parte dei casi, la ricchezza della sposa non passa alla sposa ma piuttosto ai suoi genitori. In effetti, potremmo benissimo sostenere che, se vogliamo trovare una disuguaglianza di fondo nelle società umane, dobbiamo allora pensare alle fasce d’età, non al sesso o al genere. Sono quasi sempre i piú anziani a dettare legge. Non dobbiamo neppure dimenticare quei casi in cui la ricchezza della sposa si traduce per le donne in una fonte di autoaffermazione. Prendiamo per esempio in considerazione un caso di ricchezza della sposa in Cina. Da oltre trent’anni, Yunxiang Yan si dedica allo studio delle trasformazioni della vita sociale e culturale di un villaggio situato nella Cina nord-orientale. In termini piú generali, tali mutamenti possono essere caratterizzati da quella che egli definisce «l’individualizzazione della società cinese» 5. Molti di questi cambiamenti hanno avuto luogo a partire dagli anni Ottanta, quando la Cina ha iniziato a riallineare la propria economia lungo linee piú marcatamente legate alle leggi di mercato. Tale riallineamento ha risentito sempre piú delle dinamiche della globalizzazione, compresi il flusso delle idee e la retorica dell’individualismo. Come Yan inoltre sottolinea, con una punta di ironia, fu lo stesso Partito comunista cinese a implementare fin dal 1949 quelle politiche che ora contribuiscono ai cambiamenti – politiche ovviamente basate sui principî socialisti di comunitarismo e mutualità b.

Una delle iniziative politiche di cui abbiamo parlato riguardava appunto l’abolizione della ricchezza della sposa. Il partito vietò i pagamenti matrimoniali negli anni Cinquanta. Per i comunisti, la ricchezza della sposa era un’usanza tradizionale e arretrata che ostacolava la modernizzazione socialista. Il Pcc voleva riorientare i legami sociali, allontanarli dalla tipica famiglia allargata e indirizzarli verso un’ideale famiglia nucleare, in cui lo stato avrebbe potuto svolgere un ruolo piú significativo. Uno degli altri fattori in gioco era la forte tradizione dell’«amore filiale», che, soprattutto in zone importanti della Cina dove predominava il confucianesimo, imponeva la totale obbedienza ai propri genitori. Questo significava non solo rispettarne i desideri e averne cura nella vecchiaia, ma anche prendere decisioni nella propria vita (per esempio chi sposare) che riflettessero i loro interessi (vale a dire gli interessi della famiglia in senso lato) e desideri. Sotto uno stato con forti funzioni direttive, un valore di quel tipo poteva ovviamente contrastare la piena obbedienza al volere del partito. L’obiettivo del Pcc, infatti, era quello di sostituire (o come minimo integrare) l’amore filiale con quello che un’antropologa ha chiamato «nazionalismo filiale» 6. Come abbiamo già notato, non è affatto raro che dei leader politici incoraggino il popolo a pensare alla nazione in termini di consanguineità. La ricchezza della sposa non scomparve dalla Cina. Dopo che l’usanza venne dichiarata illegale negli anni Cinquanta, la gente si limitò semplicemente a escogitare nuove forme di transazioni matrimoniali allo scopo di aggirare il bando ufficiale. Le campagne del Pcc avevano avuto tuttavia il loro effetto e durante la Rivoluzione culturale determinarono forzatamente un cambiamento cruciale nella struttura stessa della pratica. Per alleviare la pressione e il controllo politico, negli anni Settanta le famiglie iniziarono a trasferire la ricchezza della sposa alla sposa stessa. Tale spostamento dalla famiglia della sposa alla futura moglie, intesa come individuo a sé stante, si rafforzò nei decenni successivi grazie al crescente impatto dell’apertura ai mercati e della globalizzazione. Negli anni Novanta,

le giovani donne del villaggio studiato da Yan possedevano ormai un nuovo vocabolario con cui sostenere la loro condizione, un lessico ricavato dalla retorica della libertà, della scelta e dei diritti. Quelle donne avevano dalla loro anche quattro decenni di sforzi del Pcc per contestare la legittimità della famiglia tradizionale e la logica dell’amore filiale, un tempo inconfutabile. Grazie a una strana combinazione di principî comunisti e capitalisti – quasi una commistione in parti uguali tra il presidente Mao e Milton Friedman –, la ricchezza della sposa è divenuto per le giovani donne un veicolo per affermare ed esercitare una reale autorità. Se non altro, i giovani in generale hanno acquisito molta piú voce in capitolo in merito a chi decidono di sposare. Le statistiche sono impressionanti: negli anni Cinquanta, il 73 per cento dei matrimoni celebrati nel villaggio studiato da Yan era combinato; negli anni Novanta, non ce n’è stato neppure uno 7. Questo nuovo dato, tuttavia, a detta di Yan, appare perfino piú straordinario all’interno dell’equazione della sposa. In vari momenti degli anni Novanta e nel primo decennio del nuovo secolo, Yan ebbe modo di osservare delle promesse spose intente a condurre transazioni estremamente difficili con i loro futuri suoceri, negoziando e rinegoziando i termini della ricchezza della sposa – per non parlare del sostegno ricevuto dalla propria famiglia. L’amore filiale non è scomparso, ma è controbilanciato dall’idea dell’«affetto genitoriale»: madri, padri e suoceri disposti a cedere ai desideri e in alcuni casi alle richieste dei loro figli. A giudizio di Yan, spicca il caso di una ragazza di ventidue anni. Si era rivelata una negoziatrice cosí spietata nei confronti dei suoceri che nel villaggio qualcuno la giudicava un’egoista. A lei non importava. «Guardi che cosa è successo da allora, – aveva detto a Yan. – Ho un figlio adorabile, due mucche da latte, a casa ho tutti gli elettrodomestici, e un bravo marito che mi dà ascolto! I suoceri mi rispettano e spesso mi aiutano nelle faccende domestiche. Non avrei potuto avere tutto questo se non avessi avuto una mia personalità. Le ragazze del villaggio mi ammirano tutte» 8.

Si tratta davvero di «egoismo»? Ebbene, è tutto questione di prospettiva. Tanto per cominciare, anche se non sentiamo parlare molto questo bravo marito dal comportamento irreprensibile, occorre dire che lo sposo offre spesso pieno sostegno alle tattiche inesorabili messe in atto dalla sua sposa, dal momento che anche lui finirà per trarne beneficio. Queste nuove forme di transazioni matrimoniali, pertanto, sono di aiuto alla coppia, non al singolo individuo. Un diverso tipo di unità aziendale – la famiglia nucleare – ha fatto i suoi progressi a fianco di un’organizzazione piú antica: quella del clan patrilineare. Generando un figlio, inoltre, una coppia come questa si sta dimostrando all’altezza di alcune aspettative molto «tradizionali», la piú importante delle quali, per il marito e padre (e i suoi genitori), è la continuazione della discendenza patrilineare. Vedendo emergere questa nuova gioventú, lo stesso Yan confessa un senso di perdita e qualcosa di vicino al rimpianto. Nel lavoro di un altro antropologo, tuttavia, avvertiamo la valutazione di tali cambiamenti nell’autorità come sforzi sinceri per vivere eticamente dinnanzi alle grandi trasformazioni politiche ed economiche 9. Ciò nonostante, ancora una volta, lo sforzo di essere moderni si affida spesso ai simboli esteriori della tradizione secondo modalità apparentemente contro-intuitive.

Dai vivi ai morti. Non è soltanto nell’ambito delle usanze legate alle unioni matrimoniali che si obbedisce al richiamo della modernità rimodellando l’idea di personalità individuale. In realtà, questo avviene non solo nel regno dei vivi: anche i morti fanno la loro parte. La ricchezza della sposa era solo una delle tante usanze «arretrate» che il Pcc si era impegnato a estinguere. Piú in generale, molte altre forme di rituali divennero un bersaglio, in parte perché lesive della piena obbedienza allo stato (i rituali e la religione suggerivano infatti

forme diverse e piú elevate di autorità rispetto al Partito comunista), in parte perché la loro carica emotiva – variamente intensificata da musiche roboanti, danze, fanatismo o pianto – vanificava l’ideale del contadino razionale e socialista. Per svariati decenni del governo comunista, quindi, la ricchezza della sposa e le nenie rituali risentirono di notevoli pressioni. In molte parti della Cina, come in altri paesi, le litanie rituali vengono ancora oggi eseguite durante i funerali e nei periodi di lutto. A un estraneo, tali nenie potrebbero apparire come pianti e lamenti esagerati e incontrollati, levati al cielo da gruppi di donne che ricordano le antiche prefiche (sono spesso loro infatti a espletare questa particolare azione rituale). In realtà, si tratta di forme di espressione poetica attentamente calibrate e ben consolidate dalla tradizione. Le lamentazioni sono un mezzo eccellente per elaborare il dolore, non solo per le prefiche, ma anche per le altre persone in lutto. Gli osservatori esterni si chiedono a volte quanto siano sincere quelle lacrime. Quelle donne sono davvero cosí sconvolte dal dolore? Forse non lo sono tutte, non c’è dubbio, ma questo perché la lamentazione possiede solo in parte un proprio valore terapeutico e consolatorio. I lamenti, infatti, sono anche un mezzo per dare voce ai dubbi della collettività in merito alla piú ampia situazione sociale o politica. Essi permettono alle persone di esprimere preoccupazioni e critiche attraverso l’evento di una morte (che è un’altra ragione per cui il Pcc non ha sempre dimostrato troppo entusiasmo nei loro confronti). Oltre a esprimere quindi apprensioni di carattere piú prosaicamente terreno, le lamentazioni collettive rientrano in un piú vasto complesso di momenti rituali che veicolano il rispetto verso gli antenati e riconoscono l’ordine cosmico delle cose. In tutti questi diversi modi, i lamenti rendono «buona» una morte appena avvenuta. Il desiderio di rendere buona la morte è molto comune e difficilmente lo si potrebbe considerare un fenomeno diffuso soltanto tra i contadini cinesi, che provoca l’imbarazzo dei funzionari del Partito comunista. È appunto per questo motivo che il governo degli

Stati Uniti, per esempio, ha investito cosí tanto denaro per recuperare i resti dei militari uccisi in azione in Vietnam; l’amministrazione americana, cosí come le famiglie dei caduti, vuole riavere quei resti perché all’interno del sistema culturale degli Stati Uniti (come nella maggior parte dei sistemi culturali) il corretto trattamento delle spoglie è considerato essenziale per accettare la perdita e concedere al defunto il riposo eterno (nel caso del governo, questo pone anche in evidenza il potere e l’autorità dello stato). Analogamente, nei casi tragici delle persone scomparse in Cile o nel rapimento e omicidio di un bambino in un sobborgo di Londra, Bath, o Bangkok, ciò che le famiglie chiedono immancabilmente e prima di tutto sono i resti dei loro morti, in mancanza dei quali l’elaborazione della buona morte risulta sempre incompleta, sempre infestata da fantasmi. Tornando ai lamenti rituali in Cina, vediamo che, tradizionalmente, essi avevano un significato che andava ben oltre la singola persona defunta. Anzi, sotto questo particolare e importante aspetto, nel corso delle stesse lamentazioni l’individualità del morto era, per cosí dire, minimizzata. È certamente proprio questo che Erik Mueggler riscontrò durante il lavoro sul campo condotto all’inizio degli anni Novanta in una valle di montagna della provincia dello Yunnan c. Come in tutto il resto del paese, negli anni Novanta gli abitanti dello Yunnan ebbero la possibilità di rivisitare e riportare apertamente in vita determinati aspetti della cultura tradizionale. Molti di loro erano fortemente intenzionati a riprendere l’usanza a lungo derisa delle lamentazioni funebri, ed erano ben determinati a rispettare il piú possibile le antiche forme rituali. Tutto ciò che importava davvero erano l’autenticità e l’accuratezza, il che significava che il lamento funebre doveva sminuire il defunto come singolo individuo. Nella sua analisi del rito, Mueggler trovò una ricca serie di metafore e di immagini che enfatizzavano soprattutto i ruoli sociali e famigliari 10. Il carattere formale di questa poesia orale male si adatta a una commemorazione funebre fatta su misura per un particolare defunto. Ciò che conta è infatti una «concentrazione convenzionale di relazioni

sociali» 11. Quando Mueggler tornò nello Yunnan nel 2011, trovò una situazione molto diversa. Le lamentazioni funebri erano ancora popolari e rispettate, ma il loro scopo e centro di attenzione erano stati radicalmente alterati. Analogamente a quanto sperimentato da Yan all’estremità opposta del paese, Mueggler riferisce, parlando delle regioni sud-occidentali della Cina, che il desiderio di modernità, plasmato dalle riforme economiche a livello statale e dalle dinamiche della globalizzazione, ha fatto emergere l’individualità. I lamenti funebri si concentrano adesso sulla persona defunta, sugli sforzi degli Yi di manifestare la loro modernità concentrandosi sulla personalità del morto, su ricordi specifici legati al trapassato ed eventi che hanno influito sulla sua vita. La stessa arte del lamento è cambiata. Le manifestazioni piú potenti del lutto non sono apprezzate in base all’abilità tecnica, ma, piuttosto, all’esibizione di una sincera emozione. Nel XXI secolo, dunque, è la sincerità, non la competenza formale, a rendere efficaci questi rituali.

Rito e autorità / l’autorità nel rituale. Direi che è arrivato il momento di fermarsi e prendere in considerazione alcuni elementi basilari del rito. Gli antropologi adorano studiare i rituali, perché tendono a pensare che racchiudano una mappa del territorio che stanno esplorando, non importa quanto vasto sia. Se decifri il rituale, hai la chiave della cultura. Non tutti gli antropologi la vedono in questo modo, è vero, ma molti sí. Vorrei tuttavia porre tra parentesi tale aspetto degli studi sui rituali e concentrarmi maggiormente su ciò che questi ultimi possono comunicarci circa i meccanismi dell’autorità 12. Il rituale comporta spesso un elemento di spettacolo o di esibizione. Alcuni rituali sono piú colorati, profumati e rumorosi di altri, ma tutti sono contrassegnati in un modo che li distingue dal

corso ordinario della vita. Questa qualità coreografica è un elemento su cui si sono soffermati molti antropologi, in gran parte perché solleva la questione dell’autorità. Nel corso di un rituale, chi è – o che cosa è – a dettare legge? E a quale scopo? Non esiste pieno consenso sulle risposte a queste domande. In linea generale, l’opinione degli antropologi si colloca in qualche punto dello spettro. A una delle estremità, troviamo la tesi secondo cui il rituale trasmette essenzialmente l’autorità, è uno strumento della tradizione, un espediente usato dal potere in essere per tenere il popolo in riga; all’altra estremità dello spettro, vi è la tesi secondo cui il rito consente una partecipazione attiva, si pone come un veicolo di creatività umana e critica, diviene il mezzo attraverso cui si può effettuare un reale cambiamento e dare voce a reali opinioni. Ciò su cui la maggior parte degli antropologi è d’accordo è la natura del rituale stesso: la sua separazione da tutto il resto. Riconosciamo un rituale appena lo vediamo: persone che fanno cose non ordinarie, come danzare o emettere lamenti, oppure fanno cose ordinarie in modi non ordinari, come parlare con voce cantilenante o muoversi sui gomiti e le ginocchia. Il rituale è spesso contrassegnato anche da ciò che le persone indossano (o non indossano affatto): abiti particolari, trucco pesante, corpi dipinti, copricapo costosi e talvolta surreali, maschere o gioielli. In termini di comunicazione culturale, questi aspetti della natura del rituale veicolano un messaggio di metalivello: «Quello che sta avvenendo qui ci comunica qualcosa di importante sull’ordine delle cose». In altre parole, se vogliamo capire «il significato» di un rituale, non dobbiamo limitarci a ciò che gli officianti del rito dicono o fanno, ma dobbiamo anche pensare a come lo dicono e lo fanno. La tesi secondo cui il rituale trasmette l’essenza dell’autorità e mantiene le persone al loro posto non è certo difficile da accettare e apprezzare. Quando si partecipa a un rituale, si può spesso avvertire su di noi tutto il peso della tradizione, mentre gli eventi stessi della nostra esistenza individuale – pensieri, sentimenti e opinioni – sono

come attutiti da un’esigenza collettiva. Ovviamente, molte persone apprezzano proprio tale sensazione, il sentirsi parte di qualcosa di piú grande, forse perfino piú grande della vita stessa. Se però non abbiamo mai partecipato a un culto in una chiesa anglicana (1), o ci siamo trovati inaspettatamente a intonare l’inno nazionale a un evento sportivo (2), se non siamo cristiani (1), e neppure dei nazionalisti o patrioti (2), ci saremo comunque detti: «Un momento, questo non sono io (1), eppure eccomi qui a cantare lodi a Dio e a ripetere “Signore abbi pietà di noi. Amen”»; oppure: «Aspettate un attimo, (2) non so se sono d’accordo con questo ritornello “Dio salvi la Regina” o con questo verso “sulla terra dei liberi e la patria dei coraggiosi”». Il rituale a senso unico esercita tale autorità – a senso unico perché cosí disciplina i partecipanti – proprio perché usa un copione predefinito: preghiere formali, momenti liturgici, inni nazionali eccetera. Maurice Bloch, uno dei massimi teorici della ritualità di questa tradizione, descrive il problema con parole memorabili: «Non puoi metterti ad argomentare con un canto» 13. La presenza di un copione preimpostato, tuttavia, oltre a una serie di azioni di routine – come inginocchiarsi davanti a un altare, fare il segno del Namaskara o del Namaste (il saluto che gli indú rivolgono al superiori di alto rango), lanciare riso agli sposi che escono dalla chiesa –, svolge un’altra importante funzione. Esso colloca infatti l’autorità della stessa azione rituale al di là dell’officiante. In un rituale, non è previsto che escogitiate nulla di nuovo mentre procedete nella sua celebrazione. Quando gli antropologi chiedono a coloro che partecipano a un rituale perché stiano facendo una certa cosa – Perché vi fate tre volte il segno della croce? Perché lo sciamano ha il volto dipinto di bianco? Perché gli adolescenti di sesso maschile devono rimanere isolati per tre giorni? –, la risposta che ricevono è di solito del tipo «Perché è cosí che va fatto», oppure, piú categoricamente, «Non lo so», o anche: «Oh, questo dovrebbe chiederlo allo sciamano». È quel genere di domanda che gli antropologi sembrano obbligati a porre, anche se la risposta è quasi del tutto inutile – se non

per il fatto che conferma che quanto sta avvenendo è una cerimonia rituale, i cui «ideatori» si perdono nelle nebbie dell’autorità. Bloch definisce tutto questo come «deferenza» rituale 14. Consideriamo per esempio il culto della Chiesa anglicana. Osservate la liturgia. Non c’è scritto chi ne è l’autore. Chi ha scritto il copione? Di chi è l’autorità? Non certo del sacerdote. L’officiante che vediamo in piedi di fronte alla congregazione non è che una semplice persona, seppure con una formazione ben precisa, ordinata al sacerdozio e forse anche molto devota. Noi tuttavia non guardiamo questa persona credendo che ciò che sta dicendo siano parole sue. Se il sacerdote se ne uscisse cosí: «Ebbene, cari fratelli, secondo me, a pensarci bene, il Signore è il Dio onnipotente…», la chiesa si svuoterebbe. L’autorità di quelle parole si colloca al di là di ogni singolo essere umano, il che le conferisce una qualità senza tempo o trascendentale. Piú un rituale può contare sul fatto di essere senza tempo, o di esprimere qualcosa che va oltre l’hic et nunc, piú esso acquista autorevolezza. Anche la ripetizione può svolgere questa funzione. Il punto non è che ripetendo piú volte qualcosa aumentino le probabilità che corrisponda alla Verità (anche se spesso è proprio questo che pensiamo). Il fatto è che la reiterazione crea uno spazio tra ciò che viene detto e chi lo dice. In un certo senso, indubbiamente importante, essa rende le parole «simili a oggetti», e pertanto svincolate dalle intenzioni e opinioni del singolo essere umano. Lo stesso vale per le azioni rituali. Un rito include spesso una serie di gesti ripetitivi. In alcuni casi, si ritiene che il valore del rituale dipenda proprio dalla corretta esecuzione di tali gesti – non necessariamente dal fatto che li si esegua con cuore puro o addirittura con fede sincera. Un effetto di tale ripetizione è quello di de-enfatizzare la presenza della persona o delle persone che li eseguono, suggerendo, o addirittura mirando a riprodurre, un piú vasto ordine gerarchico del cosmo. Esiste un forte legame tra autorità e stabilità. Lo scopo di molti rituali è quello di mantenere lo status quo – spesso riproducendo

quello stesso status quo attraverso una serie di sequenze ordinate, ripetitive e gravide di simbolismo. Spesso è questo lo scopo di funerali e riti funebri, per esempio. La morte causa una lacerazione nella comunità, ne squarcia il tessuto. Il funerale rientra nell’atto di rammendare quella lacerazione, non solo in termini di valore terapeutico ma anche come mezzo simbolico per dimostrare che la vita vince la morte. L’immaginario funebre ruota spesso attorno alla rigenerazione della vita, a segni di rinascita, ricrescita e ritorno alla vita 15. Cibo, alcol e riproduzione sono elementi fondamentali di questo immaginario. Inoltre, poiché i funerali e i riti funebri possiedono spesso un formato comune, ogni loro singola rappresentazione ha la funzione aggiuntiva di perorare la stabilità dell’ordine sociale. Una cosa sempre identica, ripetuta piú e piú volte, trasmette un senso di inalterabile continuità. I funerali rappresentano altresí un tipo specifico di rituale che ha suscitato grande interesse tra gli antropologi: il rito di passaggio. Circoncisioni, matrimoni e funerali sono tutti riti di passaggio che generano una trasformazione nello status delle persone: il bambino diventa adulto; il celibe diventa coniugato; il vivo diventa morto. I rituali, pertanto, non sono usati soltanto per mantenere lo status quo o asserire la continuità di un certo ordine sociale, ma rivestono anche un’importanza cruciale per cambiare la posizione sociale o perfino il comportamento di singoli individui o gruppi di persone. All’interno di alcuni tipi di rituali (inclusi molti riti di passaggio), anche l’autorità viene esibita attraverso un uso particolare del linguaggio. In un rituale, le parole possono avere il potere di realizzare ciò che dicono. Pensate ad alcuni degli esempi comunemente noti: «Io vi dichiaro marito e moglie», «In base alla presente sentenza io la condanno all’ergastolo». In un senso piú impalpabile (e controverso), potremmo anche includere le formule ripetute dei mantra buddisti, che dovrebbero condurre all’illuminazione. Sono esempi di atti linguistici dotati di quella che il filosofo John Austin ha chiamato «forza illocutiva» 16. L’idea di

Austin è divenuta popolare in ambito antropologico, non ultimo perché contribuisce a spiegare la capacità apparentemente «magica» delle parole di fare delle cose, del discorso come un’azione sui generis d. Questa magia è spesso vitale per il funzionamento del moderno potere statale. La politica si basa tanto sul rituale quanto sulla tradizione religiosa piú esotica e spettacolare che possiamo immaginare. Tutto questo balza agli occhi soprattutto quando tali meccanismi rituali non danno i risultati voluti. Prendiamo per esempio la prima cerimonia di insediamento alla Casa Bianca del presidente Barack Obama. Tutte le potenzialità della forza illocutiva apparvero in primo piano durante la cerimonia del giuramento nel gennaio del 2009. Per passare da presidente eletto degli Stati Uniti d’America a presidente in carica, Obama doveva prestare giuramento dinnanzi al presidente della Corte Suprema. Durante tale atto rituale, malauguratamente, il giudice della Corte Suprema scambiò senza accorgersene l’ordine delle due frasi, il che causò in Obama qualche esitazione al momento di ripeterle. Alcuni consiglieri di Obama pensarono con timore che questo potesse significare che egli non era davvero il presidente, cosí come erano senza dubbio preoccupati che i suoi avversari politici potessero avanzare le stesse riserve. Sicché, per eliminare ogni dubbio, e in nome di quello che il consigliere giuridico della Casa Bianca definí un «eccesso di cautela, visto che un’unica parola non rispettava la giusta sequenza», il giuramento venne nuovamente pronunciato il giorno dopo la cerimonia d’insediamento. L’assoluta fedeltà al copione ha la massima importanza; tutto deve essere al posto giusto 17. Obama doveva davvero prestare di nuovo il giuramento? Non c’è nessun davvero in questo caso, se non nella percezione della formula ufficiale. Austin l’aveva definita «garanzia di assorbimento» 18. In altre parole, l’autorità di un atto linguistico illocutivo dipende dalla misura in cui esso viene socialmente riconosciuto. Trattandosi di un particolare tipo di contesto e di evento, il rituale

contribuisce a legittimare tale autorità. La seconda volta che il presidente della Corte Suprema presenziò al giuramento, la cerimonia non avvenne in pompa magna, come nell’insediamento ufficiale; mancavano cioè tutti quegli elementi che ci comunicano: «Questo è un evento importante». Non vi erano centinaia di migliaia di spettatori, nessun ex presidente e nessun dignitario sul palco, non c’era Aretha Franklin che cantava, né Yo-Yo Ma con il suo violoncello. La seconda volta, il giudice della Corte Suprema si era praticamente intrufolato nella Casa Bianca, poco dopo le 7 di sera, per una rapidissima replica del giuramento. Nessuna magnificienza, nessuna ufficialità. Obama non pose nemmeno la mano sulla Bibbia. Solo una cosa appariva straordinaria: il presidente della Corte Suprema aveva effettivamente indossato la sua toga. Attraverso quella veste nera, il giudice avvertiva ancora il bisogno di comunicare che era pienamente investito del potere e dell’autorità di eseguire quell’atto performativo ben contraddistinto da tutto il resto, che richiedeva un’attenzione speciale e possedeva un significato altrettanto speciale. Anche le toghe nere dei giudici americani appaiono illuminanti in questo caso, poiché anch’esse richiedono una sorta di «assorbimento». Ma perché sono cosí importanti? Perché noi diamo per buono che lo siano. «Perché è l’abito che indossano i giudici», ci diciamo. Ancora una volta, questo è ciò che Bloch avrebbe definito deferenza rituale: tradizioni senza tempo e via dicendo. In realtà, i sistemi giudiziari degli Stati Uniti non impongono alcun obbligo di indossare abiti simili. Quindi, da dove arrivano? Nessuno sembra saperlo con certezza, ma tra i vari racconti vi è quello di Thomas Jefferson, che sembra avesse suggerito l’uso di semplici abiti neri per distinguerli dalle vesti piú elaborate della magistratura inglese 19. Di per sé, questo potrebbe considerarsi una sorta di commento sulle diverse interpretazioni dell’autorità e sui diversi atteggiamenti nei suoi confronti. Nell’Inghilterra imperiale, infatti, troviamo un’esagerata differenziazione di status e di rango – elementi che sono alla base

della logica gerarchica che ha mantenuto a lungo una posizione centrale nella società e nella politica inglese (e britannica). Anche negli Stati Uniti – la giovane nazione – vediamo riconosciuto il valore della differenza, ma esso è ridotto al minimo in base al principio di uguaglianza. Bastano delle semplici toghe nere e lo stesso aspetto per tutti i giudici.

Argomentare con un canto. È dunque vero che i rituali possono avere tra i loro effetti quello di disciplinare il comportamento e modellare le nostre azioni, reazioni e atteggiamenti culturali nel corso della vita. Allo stesso tempo, però, sappiamo anche che tale comportamento formalizzato, prescritto e designato – cioè rituale – può essere spesso una fonte di creatività, perfino di rinnovamento. Abbiamo già esaminato un esempio di tale fenomeno. Nonostante tutti gli sforzi, la pluridecennale repressione dei funerali tradizionali messa in atto dal Partito comunista cinese nella provincia dello Yunnan non riuscí a estinguere il desiderio popolare di quella particolare celebrazione di una buona morte. Come la maggior parte delle comunità, gli Yi riconoscevano a tali rituali una funzione centrale per garantire il corretto funzionamento della loro vita sociale. Le tradizioni erano state soppresse, ma non dimenticate, e non appena tornò ad aprirsi uno spazio per riportarle in vita, la reazione fu immediata, e questo significò, innanzi tutto, un ritorno della fedeltà alla forma, ovvero il bisogno di fare semplicemente le cose cosí come dovevano essere fatte. Potremmo considerare tale fedeltà una prova del potere che il rituale esercita su di noi, sottraendoci, in altre parole, la capacità di agire, scegliere e deliberare. Nondimeno, sappiamo anche che, a distanza di vent’anni, quegli «stessi» rituali erano divenuti tutt’altro. Negli anni Novanta, le lamentazioni funebri riflettevano l’ordine

generale delle cose: i rapporti tra figli e genitori erano formulati chiaramente in distici di indubbio valore semantico ma di per sé generici nel loro contenuto, dato che nelle forme di sofferenza che ognuno provava per l’altro si rifletteva un ciclo infinito di generazioni. Gli Yi non piangevano la morte di una madre in particolare: il loro lamento funebre era piuttosto rivolto alla maternità stessa. Pur basandosi su molte delle medesime strutture poetiche e degli stessi modelli formali, nel 2011 le lamentazioni rituali si erano lentamente trasformate, incorporando nuove immagini al fine di riflettere meglio sia la rivalutazione dell’individualità allora in atto sia elementi biografici del defunto e la sincerità del dolore personale. Nel 2011, Mueggler non sentí piú parlare astrattamente di figlie e di madri in lutto, ma del dolore che si era abbattuto su quella particolare madre nel suo letto di morte («mi fanno male i piedi e il dolore mi arriva alla testa»), del dolore di una particolare figlia («Grido la mia sofferenza alle montagne | il vento tra i pini delle valli mi risponde»), perfino di commenti sulla politica attuale («ora le politiche governative sono migliorate | ma troppo tardi per dare a mia madre del buon cibo | troppo tardi per dare a mia madre degli abiti caldi») 20. Talora, paradossalmente, è nei momenti dell’afflizione apparentemente piú profonda che le persone esercitano la loro facoltà di critica e spingono per l’innovazione. Si può argomentare con un canto. O, almeno, attraverso un canto.

Autorizzare l’autorità. Se consideriamo attentamente il carattere formale e strutturato del rituale, possiamo intuire parecchio sui meccanismi dell’autorità in generale, anche se la provenienza di quest’ultima sembra spostarsi tra piani diversi. In alcuni casi, l’autorità di un rituale è simile a qualcosa di trascendentale – ridotta alla pura e semplice natura delle parole e delle azioni del rito, alla sensazione apparentemente senza tempo di

un momento che ci dà conforto e insieme ci controlla. In altri casi, sembra avere un carattere alquanto terreno, come nel canto funebre di quella donna della valle di Júzò, nella Cina sud-occidentale – il lamento di una figlia insolitamente legata alla madre e cosí arrabbiata con il governo da gridare contro le montagne e criticare la lentezza del progresso economico. Eppure, anche questo esempio cosí terreno è reso possibile solo grazie ad altri fattori, primi tra tutti l’impatto della globalizzazione e il rispetto per il desiderio di una comunità di piangere sinceramente i propri morti in modo «moderno». Non esiste una formula precisa o un modo sicuro per capire perché alcuni rituali – o istituzioni, tradizioni religiose, leader politici o semplici donne contadine – suscitano interesse. Non è solo questione della loro struttura liturgica, né si tratta semplicemente di «potere», vuoi quello nascosto dietro la canna di un fucile, vuoi la minaccia del carcere, o addirittura, tanto per dire, il potere di controllare i pagamenti della pensione. Queste sono tutte forme di autorità che appartengono agli stati forti. Eppure, sappiamo che un potere di questo genere non è sempre efficace. Nemmeno il Partito comunista cinese è stato in grado di imporre ovunque il suo modo di vedere, pur essendo alla guida di un apparato statale potentissimo. L’autorità non è mai soltanto una questione di forza o di potere apertamente dichiarato. La persistenza e perfino il ritorno in grande stile della ricchezza della sposa e dei lamenti funebri in Cina ne sono la prova. Per comprendere l’autorità, quindi, dobbiamo anche capire la natura della sua legittimità, dobbiamo capire perché la gente accetti certe forme di autorità e non altre. Come viene autorizzata l’autorità? Per rispondere a questa domanda, prendiamo in considerazione uno studio antropologico condotto in Egitto da Hussein Ali Agrama, che analizza gli atteggiamenti molto diversi della gente nei confronti di due importanti istituzioni: i tribunali con giurisdizione sullo stato della persona e il Consiglio per la fatwa 21. Le corti che applicano le leggi sullo stato della persona affrontano questioni famigliari, comprese quelle relative a matrimoni, divorzi, assegni di mantenimento

(alimenti) e successioni ereditarie. Il Consiglio per la fatwa affronta problemi simili, anche se può essere consultato su una serie di altre questioni. A parte i problemi su cui esercitano la loro autorità, i tribunali dello stato della persona e il Consiglio per la fatwa risultano simili perché sono entrambi organi statali e, cosa forse piú importante, sono ambedue governati dalla shari’a islamica. I mezzi d’informazione ne parlano spesso come «legge della shari’a», commettendo cosí l’errore di accostare l’idea della shari’a alla legge intesa in senso occidentale. Benché faccia riferimento a determinate regole e comportamenti normativi, essa si fa sostanzialmente carico della questione etica riguardante il tipo di persona che bisogna essere. La shari’a è il «sentiero» che il musulmano devoto è chiamato a seguire. I tribunali e il Consiglio presentano tuttavia anche delle differenze, per esempio nel loro stesso status giuridico. La shari’a, pur non essendo riconducibile al concetto di «legge», governa comunque i tribunali dello stato della persona attraverso normative di tipo legale, tant’è che giudizi e sentenze, a differenza di quelli del Consiglio per la fatwa, sono legalmente riconosciuti. In altre parole, i tribunali rientrano nel sistema giuridico formale ed emettono sentenze vincolanti, laddove il Consiglio per la fatwa ha un carattere unicamente consultivo. Nessuna fatwa ha un valore legalmente vincolante, né in generale viene presentata come tale dagli sceicchi che la emettono. In Occidente vi sono parecchie interpretazioni fuorvianti della fatwa. Dal 1989, quando l’ayatollah Khomeini lanciò la fatwa con cui chiedeva la morte dello scrittore Salman Rushdie, il termine evoca l’immagine di un religioso furente che rilascia dichiarazioni pubbliche a favore di un islam illiberale e «politico» (come molti direbbero ora). Tale immagine si è fatta ancora piú vivida dopo l’11 settembre. La fatwa, nella maggior parte dei casi, non è niente del genere. In poche parole, essa rappresenta l’opinione o il consiglio di una figura dotta (sceicco), spesso ma non sempre di un esperto di studi islamici

(muftí). La fatwa è richiesta per lo piú da persone che sentono il bisogno di un consiglio su come vivere da buon musulmano e in pieno accordo con la shari’a. In altre parole, una fatwa ha molto spesso un carattere del tutto privato e riguarda sostanzialmente la vita e la situazione della persona in questione. In Egitto, in realtà, il Consiglio per la fatwa ha come mandato quello di offrire aiuto alla gente comune nella vita di tutti i giorni (non di denunciare pubblicamente scrittori di romanzi!) All’inizio del nuovo secolo, Agrama ha trascorso due anni al Cairo studiando i tribunali dello stato della persona e il Consiglio per la fatwa. Durante tale periodo ha rilevato un modello apparentemente curioso. Anche se entrambe le istituzioni permettevano alle persone di sottoporre varie questioni famigliari, il Consiglio per la fatwa godeva di maggiore popolarità ed era visto in modo piú positivo dei tribunali. Per di piú, benché i pareri e i consigli espressi con una fatwa non fossero vincolanti, le persone tendevano a seguirli molto piú di quanto facessero nel caso delle sentenze ufficiali e giuridicamente applicabili emesse dai tribunali. Questo accadeva perfino nel caso che una fatwa andasse contro gli interessi o i desideri delle persone che l’avevano richiesta. In linea generale, se qualcuno non è contento del consiglio contenuto in una fatwa emessa da uno sceicco, nulla gli impedisce di consultarne un altro. In base all’esperienza di Agrama, tuttavia, questo avveniva raramente. Vi fu il caso dei membri di una famiglia che si attennero alla fatwa di uno sceicco benché essa fosse costata loro molto cara in occasione di un’aspra disputa con altri parenti in merito all’eredità di alcuni terreni. Uno degli aspetti piú importanti delle scoperte di Agrama è quanto possano essere flessibili gli sceicchi nella loro applicazione della shari’a. Gli sceicchi ascoltano, ma fanno anche domande, cercando il piú possibile di ottenere il massimo chiarimento della situazione. Essi cercano anche di farsi un’idea sul carattere di una persona: quest’uomo che mi richiede una fatwa è un uomo equilibrato? E quell’altro è sinceramente contrito? Di conseguenza, può benissimo

capitare che due persone con lo stesso problema ricevano consigli completamente diversi. In un caso, una coppia che cerca di riconciliarsi dopo un divorzio può sentirsi dire che non è possibile; in un altro, invece, che la loro riconciliazione è possibile. Dipende dalla situazione, e dal modo di comportarsi della coppia (oppure dell’uomo o della donna). Uno stesso sceicco può avere atteggiamenti e approcci diversi; in alcuni casi può dimostrarsi severo, in altri giocoso, in altri pronto a dare delle belle lavate di capo. Dipende. La flessibilità è evidente anche in alcuni dei consigli offerti. A volte, quando hanno a che fare con una certa confusione morale ed esistenziale, gli sceicchi possono decidere in favore del male minore. In un caso osservato da Agrama, un giovane che aveva commesso adulterio due volte con la stessa donna si sentí dire che in futuro, qualora fosse stato tentato di rifarlo, avrebbe dovuto dedicarsi piuttosto alla «cosa segreta» (cioè masturbarsi). Il giovane uomo era rimasto molto sorpreso, dato che la masturbazione è makruh (riprovevole); è vero, aveva replicato lo sceicco, ma l’adulterio è haram (proibito), quindi è peggio 22. Questo genere di consigli appare tanto piú notevole perché si dà ampiamente per scontato che gli sceicchi abbiano almeno una parte di responsabilità per i suggerimenti che offrono. La fatwa dà inizio a un particolare tipo di rapporto che in un certo senso lega insieme lo sceicco e il richiedente. Lo studio di Agrama sulla fatwa si rivolge a questioni e dinamiche di carattere molto piú generale, nella cornice di dati antropologici il cui significato va ben al di là delle problematiche legate alla devozione religiosa. Ogni volta che analizziamo delle questioni inerenti l’autorità, molto probabilmente stiamo anche considerando delle questioni di interesse etico. La fatwa, ovviamente, ci parla di etica, visto che vuole essere d’aiuto ai musulmani per affrontare il problema di come si deve vivere. In Egitto, il Consiglio per la fatwa è investito di autorità nella misura in cui esso facilita un «percorso di educazione etica» 23. I tribunali che dirimono questioni legate allo stato della persona non svolgono invece tale funzione.

Riflettere sull’autorità pensando all’etica può esserci di aiuto per capire come mai le persone agiscano in un certo modo, perché si affidino a determinate istituzioni e non ad altre, e perché a certi valori venga riconosciuta un’importanza cardinale o primaria. Intendo tornare all’etica come argomento a sé stante nel capitolo IX ; essa è divenuta un campo di grande interesse antropologico solo negli ultimi anni. Nella sezione conclusiva di questo capitolo, tuttavia, vorrei esaminare alcuni dei punti appena toccati riprendendo uno dei casi divenuti quasi mitici nell’esperienza antropologica riguardante la problematica dell’autorità: mi riferisco al caso limite delle società egualitarie, in cui l’unica autorità è spesso nessuna autorità.

Con stato e senza stato. Lewis Henry Morgan si sentí attratto dallo studio della parentela presso il popolo irochese in virtú del suo interesse per la consanguineità e l’affinità; era altresí affascinato dalle modalità con cui l’autorità politica veniva espressa in un sistema matrilineare. A chi spetta l’autorità, e su quali basi? Per gli evoluzionisti sociali queste erano domande cruciali al fine di determinare la fase di sviluppo di una data cultura. L’evoluzionismo sociale ha perso la sua influenza già da molto tempo, ma queste domande continuano a suscitare l’interesse degli antropologi. Qualunque fosse l’argomento della ricerca – l’antropologia della parentela, l’antropologia della religione eccetera –, gli studi sulla Cina e l’Egitto da noi considerati offrono anche un contributo all’analisi antropologica della politica, e piú precisamente all’analisi antropologica dello stato. Lo stato ha sempre avuto una parte centrale nell’interpretazione antropologica dei concetti di organizzazione politica e autorità. Per molto tempo – in realtà fino agli anni Settanta –, lo stato fu in effetti un punto di riferimento essenziale. Fino ad allora, quando l’oggetto di studio era l’organizzazione politica, gli antropologi dividevano spesso

le società in due categorie: «con stato» o «senza stato», piú diverse altre che si collocavano in posizioni intermedie. Leggendo la letteratura specialistica, si incontrano riferimenti a «stati primitivi», «stati moderni», «entità statali complesse» e cosí via. Anche l’assenza di stato può presentare delle differenze. In una delle miscellanee di impianto classico, che aveva per argomento principe i sistemi politici africani, gli autori distinguevano tra (1) società in cui l’autorità politica si basava su rapporti di consanguineità e lignaggi particolari e (2) società in cui «i rapporti politici coincidono con relazioni di parentela e nelle quali la struttura di quest’ultima e l’organizzazione politica sono completamente fuse tra loro» 24. Ai nostri giorni, l’idea di tale fusione riuscirebbe ostica alla maggior parte degli antropologi, in quanto lascerebbe intendere che esiste una cosa chiamata «politica» e un’altra chiamata «parentela» che possono saldarsi insieme. Sappiamo però dalle nostre discussioni sul sangue che parentela e politica non sono «cose» di questo genere. Fusione o meno, la seconda condizione dell’«assenza di stato» risulta concettualmente la piú stimolante quando parliamo di questioni riguardanti l’autorità e i meccanismi del potere; è in culture simili che troviamo ciò che piú si avvicina all’egualitarismo all’interno della famiglia umana. Esistono alcune piccole società di cacciatoriraccoglitori in cui non è facile collocare esattamente l’autorità e le sue varie distinzioni. I Chewong sono un piccolo gruppo aborigeno della penisola malese, uno dei tanti gruppi etnici noti in Malesia come Orang Asli o «Popolo originario». Nel corso di due periodi di lavoro sul campo, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, l’antropologa norvegese Signe Howell trascorse venti mesi con i Chewong, vivendo tra loro mentre si procuravano il sostentamento nelle foreste pluviali del tropico 25. I Chewong rappresentano – o almeno rappresentavano fino alla metà degli anni Ottanta – quel tipo di società che suscita un pizzico di stupore anche negli antropologi non vittoriani, anzi perfino in quelli

piú post-moderni e. Fino al momento del lavoro sul campo di Signe Howell, nessun estraneo aveva mai vissuto tra loro e, come popolazione, avevano avuto rarissimi contatti con il resto del mondo, fatta eccezione per un guardaparco britannico che viveva nella zona negli anni Trenta. Quasi nessuno degli attrezzi concettuali dello studio antropologico fu di qualche utilità per la Howell – una situazione tutt’altro che inedita quando si rivolge l’attenzione su un popolo cosí remoto e sconosciuto. Dallo studio di Signe Howell ricaviamo forse un’idea del nostro lontano passato? No. Ci permette forse di lanciare uno sguardo su una natura umana senza orpelli e incontaminata? No. Ci aiuta però a valutare meglio la possibilità di quella che gli antropologi definiscono talvolta «alterità radicale». Il modo di vivere dei Chewong è come un diverso modo di essere, in cui risultano pressoché assenti gerarchia, stato e autorità. I rapporti sociali sono egualitari e l’autonomia è considerevolmente apprezzata 26. Come gli Ese Ejja, cosí riluttanti a vincere una partita di calcio, i Chewong evitano attivamente ogni competizione, e se qualcuno dimostra una qualche attitudine speciale in un particolare compito – magari grazie a forza fisica, destrezza o vattelapesca cos’altro –, la cosa non è mai oggetto di commenti né viene messa in mostra. I bambini non fanno giochi competitivi. Quando si tratta di sesso e ruoli di genere, vi sono alcune differenze riconosciute, ma che non sono mai stabilite gerarchicamente. La mitologia e la cosmologia dei Chewong, inoltre, mettono in particolare rilievo l’uguaglianza tra i sessi; nel loro mito della creazione, ambo i sessi vengono creati contemporaneamente e nello stesso modo; sia l’uomo sia la donna partecipano all’educazione dei figli e la madre insegna al padre come allattare al seno il bambino. Nella vita di tutti i giorni, questo senso di uguaglianza e partecipazione paritaria nell’allevare un figlio si realizza come un processo a due fasi. In effetti, uomini e donne si alternano. Durante la gravidanza, l’uomo «dà nutrimento» al bambino attraverso regolari rapporti sessuali con la moglie fino al momento del parto. Ogni

rapporto sessuale fornisce al feto lo sperma – parola che in lingua Chewong è anche sinonimo di latte –, che si pensa sia essenziale per lo sviluppo del bambino. Dopo la nascita, è la donna a pensare al nutrimento, allattando il piccolo al seno. Durante la gravidanza, tra l’altro, uomini e donne osservano gli stessi tabú alimentari 27. Per i Chewong, come in effetti per altre società di cacciatoriraccoglitori, la gerarchia e l’autorità sono elementi non tanto detestabili quanto imponderabili f. Il loro modo di vita tradizionale può aiutarci ad apprezzare quel genere di tesi avanzata da Marilyn Strathern e da noi delineata poco sopra: ci sono dei limiti a ciò che le nostre categorie – e propositi etici – possono fornirci nella nostra comprensione degli altri. Tra i Chewong non si presentano realmente questioni inerenti l’autorità, né, a quanto sembra, «problemi con le donne», come potrebbe dire la Strathern. Se la studiosa aveva cercato di bilanciare le critiche del femminismo occidentale alla subordinazione della donna con la «natura peculiare» di ciò rispetto a cui i melanesiani ritenevano di essere all’altezza, nello studio della Howell tale necessità di bilanciamento sarebbe apparsa invece del tutto inutile.

a. A quel tempo, in realtà, Evans-Pritchard non era ancora famoso; la sua stella si sarebbe levata solo piú tardi. Nel capitolo seguente toccheremo alcuni dei suoi straordinari lavori. b. Anche il lungo periodo di politica del figlio unico (per quanto non piú in vigore) può essere visto come parte dello stesso quadro, benché nel tipo di villaggio rurale studiato da Yan tale politica influisse sulle dinamiche famigliari meno che nelle aree urbane. Secondo l’antropologo finlandese Anni Kajanus (Chinese Student Migration, Gender and Family, Palgrave Macmillan, London 2015) la politica del figlio unico ha anche favorito tra le famiglie urbane un notevole investimento nell’istruzione delle figlie. c. Lo Yunnan è piuttosto lontano dalla zona in cui Yan ha studiato i mutamenti avvenuti nell’usanza della ricchezza della sposa; non a caso Mueggler non

lavorò con cinesi Han, ma con i rappresentanti di una minoranza etnica chiamata Yi, che parlano una lingua di ceppo tibeto-birmano. La stessa denominazione «Yi» è aperta a varie congetture, trattandosi di un’etichetta con cui lo stato cinese indica un’ampia gamma di popoli, che non condividono tutti la medesima identità. d. La forza illocutiva non è presente unicamente nel linguaggio rituale; si trova anche in un buon numero di interazioni e scambi di genere piú quotidiano. Essa è tuttavia particolarmente comune nei rituali, spesso eseguiti proprio per «fare» qualcosa (sposare delle persone, seppellire un defunto, purificare i peccati, restituire il potere divino alle immagini di Shiva, curare dai dolori di stomaco una giovane donna e cosí via). e. I Chewong furono insediati nei villaggi dal governo malese alla metà degli anni Ottanta. Programmi del genere, sostenuti dallo stato, hanno avuto diffusione in molti paesi, tra cui il Botswana e la Namibia, dove vivono i popoli San (Naro, Jul’hoan e altri). Spesso tali insediamenti e trasferimenti sono stati forzati e hanno indotto gli indigeni a un’accanita resistenza. f. A volte risultano invece detestabili e non imponderabili. Presso gli Hadza, un’altra società di cacciatori-raccoglitori della Tanzania, esistono forme minori di autorità, per esempio sotto forma di «leader» di gruppo simbolici. Nondimeno, l’autorità di questi «capi» è tenuta sotto controllo da una serie di fattori, tra cui la fluidità dell’appartenenza al gruppo e la mancanza di diritti di proprietà. Nessuno è tenuto ad appartenere ad alcun gruppo e nessuno può accumulare prestigio o potere. Gli Hadza e qualche altro esempio di società egualitarie africane sono l’argomento di un autorevole saggio di James Woodburn (Egalitarian Societies).

Capitolo ottavo Ragione

Si è parlato molto del punto di vista dell’indigeno, che è sicuramente la sintesi piú comune di ciò su cui l’antropologia effettua le sue ricerche. Ne esiste tuttavia anche un’altra, anch’essa con una lunga tradizione di studi: come pensano gli indigeni. Non piú lo sguardo, quindi, ma la mente. Non come le persone vedono la vita, ma come ragionano. Non si tratta di elementi che si autoescludono, del genere aut aut. In realtà, tutti i grandi fondatori dell’antropologia hanno rivolto la loro attenzione, in un modo o nell’altro, al ragionamento. Per Bronisław Malinowski, in ultima analisi, l’accento sul pensiero e la mente era probabilmente la cosa piú importante. A suo giudizio, avere un punto di vista equivale ad avere un’opinione, avere un pensiero, «vedere» qualcosa in un modo particolare. Lo stesso vale per Franz Boas con i Kulturbrille, i suoi «occhiali culturali». Certo, per la sua comprensione della cultura la percezione aveva la sua importanza, ma la mente e le capacità intellettuali rappresentavano un interesse complementare. Nel suo libro The Mind of Primitive Man (L’uomo primitivo), pubblicato nel 1911, Boas chiariva tale punto senza mezzi termini; di tutte le sue opere, inoltre, questa è una delle piú accessibili e pone in evidenza ciò che lo studioso riteneva importante che il grande pubblico sapesse. Anche quest’attenzione al pensiero è dunque alla base di quello che piú si avvicina a una dottrina antropologica: l’unità psichica dell’umanità. Gli antropologi non hanno mai avvertito un motivo valido per separare la cultura e i sensi dalla mente. Siamo nel mondo e il mondo è in noi.

È giunto pertanto il momento di affrontare le problematiche legate al pensiero e all’attività cognitiva, e vorrei farlo intrecciando insieme diversi filoni di lavoro antropologico, tutti rivolti alla questione «come pensano gli indigeni» e tutti destinati a sollevare alcuni dei problemi piú filosofici su cui si sono scervellati gli antropologi. Quando l’argomento è la ragione, ciò che spesso troviamo è un flirt antropologico con un’altra parola che inizia con la r e che appare ancora piú scoraggiante o che mette ancor di piú soggezione: la realtà. Accostiamoci quindi alla realtà considerando prima di tutto come essa sia legata al linguaggio e al pensiero. Partiamo con un esempio: immaginate due fusti di benzina, solo uno dei quali è contrassegnato come «vuoto». Qual è il piú pericoloso? Negli anni Trenta, l’ispettore di una compagnia di assicurazioni contro gli incendi del Connecticut scoprí che gli operai che lavoravano intorno a bidoni di benzina in fabbriche e depositi ritenevano spesso che quelli pieni fossero i piú pericolosi, e di conseguenza stavano piú attenti a maneggiarli. Evitavano di accendersi sigarette, li spostavano con cautela e cosí via. In realtà, un fusto vuoto è molto piú pericoloso, perché, pur non essendo pieno di benzina, ne conserva quasi sempre i vapori, altamente infiammabili ed esplosivi. Se si fuma vicino a un bidone «vuoto», è assai probabile che si verifichi un’esplosione. Il problema, concludeva l’ispettore, stava nel modo in cui erano etichettati i bidoni: marcandoli come «vuoti», affermava, i lavoratori giudicavano il livello di rischio estendendo semplicemente il significato frequentemente attribuito a tale aggettivo. Il termine «vuoto», in quel contesto, significava «niente, zero», esattamente come penseremmo che una pistola scarica, cioè «vuota», non rappresenti alcun pericolo, sia una minaccia inconsistente. In questo caso, pertanto, è il linguaggio a trarci in inganno, perché offre un’indicazione errata e fornisce un falso senso di sicurezza. Come scriveva l’ispettore, «diamo sempre per scontato che l’analisi linguistica fatta dal nostro gruppo di appartenenza rifletta la realtà

meglio di quanto riesca in effetti a fare» 1. L’ispettore in questione si chiamava Benjamin Lee Whorf e, oltre a essere molto competente nel suo lavoro per la Hartford Fire Insurance Company, era anche un esperto linguista e un antropologo dilettante. Nel suo lavoro di antropologia linguistica, Whorf – probabilmente piú di ogni altro rappresentante di tale disciplina – spiegava con cristallina chiarezza che linguaggio, pensiero e realtà sono strettamente intrecciati. Il linguaggio non rappresenta una finestra sul mondo né il pensiero si traduce in un processo che si svolge indipendentemente da quel mondo. Non è forse come dire che siamo nel mondo e il mondo è in noi?

Ragione e linguaggio. Quando non viaggiava per tutto il Connecticut come ispettore della compagnia di assicurazioni antincendio, Whorf studiava i testi di grammatica e il lessico degli Hopi, i geroglifici Maya e l’antico azteco. Era un linguista brillante e in gran parte autodidatta, pur essendo un protetto di Edward Sapir, già studente di Boas e pioniere a tutti gli effetti di questo ambito di studi. Per un anno, tra l’altro, Whorf tenne lezioni alla Yale University, dove Sapir aveva una cattedra. Nel suo saggio piú famoso, The Relation of Habitual Thought and Behavior to Language (Attinenza del pensiero e del comportamento abituale con la lingua), pubblicato nel 1939, Whorf sosteneva che la struttura della lingua che parliamo plasma i diversi modi in cui percepiamo e agiamo nel mondo. Chiariva tale tesi riportando semplicemente una serie di esempi, come quello dei fusti di benzina, tratti dal suo lavoro nell’ambiente delle assicurazioni. Le conclusioni di Whorf, tuttavia, andavano ben oltre quelle raggiunte con singoli casi di errori umani causati dalla discrepanza tra i segni linguistici («bidone vuoto») e gli stati oggettivi (bidone vuoto = bidone pieno di

fumi altamente infiammabili). Preso singolarmente, l’esempio potrebbe dirci giusto qualcosa sull’ideologia linguistica degli americani, inclini a riporre (eccessiva?) fiducia nella parola scritta. Ciò che Whorf intendeva invece suggerire è che il linguaggio modella la nostra stessa esperienza della realtà, la nostra comprensione dello spazio e del tempo. Per dimostrare la sua tesi, Whorf confrontò le espressioni di spazio e tempo della lingua Hopi con quelle delle lingue da lui definite «Standard Average European» (Sae). A detta di Whorf, se vogliamo capire in che modo il linguaggio modelli il comportamento e le esperienze della realtà, dobbiamo giustapporre le lingue appartenenti a ceppi ben distinti (in questo caso, le lingue uto-azteche e quelle indoeuropee, rispettivamente). Non serve che mi soffermi su alcune differenze interessanti, ma in ogni caso di scarso rilievo, tra l’inglese e il tedesco. Quando ci troviamo invece a confrontare delle lingue cosí lontane tra loro, possiamo notare quanto siano significative le metafore spaziali e fisiche all’interno delle lingue Sae, e possiamo vederlo tanto piú chiaramente proprio perché tali metafore sono quasi del tutto assenti nell’idioma del popolo Hopi. Le lingue Sae oggettivizzano quasi tutto. In inglese, per esempio, si riserva il medesimo trattamento alle sedie come ai giorni. Possiamo tranquillamente contarne dieci di entrambi: «ho dieci sedie»; «ho dieci giorni per dipingere la casa». Eppure, «dieci giorni» rappresentano qualcosa di chiaramente diverso da «dieci sedie», dato che un giorno è una lunghezza temporale misurata in quanto tale: come una cosa. Ma non è affatto un oggetto come una sedia. Gli Hopi sembrano riconoscere tale differenza meglio di quanto facciano coloro che parlano una lingua del gruppo Sae. Quando si tratta di giorni, in lingua Hopi non esiste alcun equivalente. Gli Hopi non possono dire «dieci giorni», ma devono esprimere la numerazione in termini di rapporto. Occorre esprimere «dieci» come numero ordinale, facendolo appunto entrare in tale rapporto. Cosí, mentre in inglese si direbbe: «Sono rimasti dieci giorni», un Hopi direbbe: «Sono partiti dopo il decimo

giorno». Un altro esempio fornito da Whorf di questo modello linguisticocomportamentale riguarda le fasi dei cicli temporali. Prendiamo l’estate, che le lingue del gruppo Sae indicano come una stagione con una data di inizio e una data di fine in base al calendario astronomico (nel 2016 andava dal 20 giugno al 22 settembre nell’emisfero boreale). Per gli Hopi, l’«estate» coincide invece con l’esperienza del calore; poiché solo i giorni caldi sono estivi, se le giornate di grande calura vengono a essere il 23 maggio e il 29 settembre – secondo il calendario gregoriano –, significa che essi sono in «estate», termine che Whorf spiega come «quando si verifica il calore». In lingua Hopi, inoltre, non si usa mai un aggettivo determinativo per indicare l’estate, bensí un avverbio. Quindi non potremmo dire «quest’estate», ma «estate ora». Nel gruppo Sae, pertanto, si rileva una struttura linguistica che predispone chi parla una determinata lingua a oggettivare esperienze soggettive, come quelle del tempo. Nella lingua Hopi, manca del tutto una tale predisposizione. La connessione tra tempo, eventi e persone è piú relazionale e soggettiva. Tutto questo non vuol dire che il moto di rivoluzione della terra sul suo asse, indicato dal sorgere e dal tramontare del sole, sia irrilevante per ciò che chiamiamo giorno. Né questo significa che gli Hopi non si rendano conto che ogni giorno porta una nuova alba a. In ogni struttura linguistica, tuttavia, esiste un modo di percepire la realtà che influenza il comportamento e i modelli di pensiero. Un piccolo esempio offerto da Whorf nel suo libro riguarda la gestualità. Chi parla una lingua del gruppo Sae usa spesso i gesti delle mani e i movimenti del corpo, soprattutto quando parla di argomenti piú astratti, come la giustizia o l’amore. Questo è dovuto alla forte enfasi posta sull’oggettivazione, come se i gesti contribuissero a concretizzare le idee. Gli Hopi, al contrario, gesticolano pochissimo. In uno studio piú recente, scopriamo che le categorizzazioni spaziali possono modellare la coscienza dell’ambiente da cui siamo

immediatamente circondati 2. Tra i Kuuk Thaayorre, una comunità aborigena dell’Australia, lo spazio è definito in base ai punti cardinali, mentre i termini direttamente correlati a chi parla non sono usati. Per un madrelingua inglese, invece, tali termini correlati sono molto comuni. Una persona è in grado di distinguere tra due alberi dicendo qualcosa come «l’albero a sinistra» o «l’albero a destra», il che presuppone, ovviamente, una certa posizione del soggetto – ancora una volta, i madrelingua inglesi spesso presumono che la propria posizione di soggetto sia quella che conta! In termini tecnici, pertanto, si tratta di una distinzione spaziale correlata al soggetto (che introduce cosí, in modo surrettizio, un’ideologia dell’individuo assoluto). È perfettamente possibile che lo stesso madrelingua inglese dica «l’albero a est» e «l’albero a ovest», riferendosi ai punti cardinali. In realtà, però, troverete probabilmente una simile precisione solo da parte di esperti di vario tipo: addetti alla cura e potatura degli alberi, o qualche ricognitore dell’esercito che indica la direzione da seguire in una foresta. Tra i Kuuk Thaayorre, al contrario, le distinzioni linguistiche sono sempre riferite ai punti cardinali, anche nel caso di situazioni banali e particolari. Non sentireste pertanto dire «ti sei macchiato con della vernice la guancia sinistra», bensí «ti sei macchiato con della vernice la guancia a ovest». In termini di sensibilità e comportamento, questo significa che in ogni momento della vita i Kuuk Thaayorre sono molto piú attenti al luogo in cui si trovano, non a caso sono eccellenti navigatori e hanno straordinarie capacità di orientamento. Nel lavoro originario di Whorf, un esempio ancora piú significativo, e potenzialmente di vasta portata, riguarda quella che egli definisce come la tendenza degli Hopi al «comportamento propedeutico». Ciò deriva in parte dal loro atteggiamento nei confronti del tempo, cosí come quest’ultimo trova riflesso nel linguaggio. Gli Hopi, ci dice Whorf, effettuano elaborati preparativi prima di intraprendere attività importanti, ad esempio la semina delle colture. I preparativi possono includere una serie di azioni, da

preghiere e momenti di meditazione personale – con riflessioni sull’attività che sta per iniziare – ad annunci pubblici (comunicati da una figura speciale chiamata «capo banditore») e varie consuetudini, in cui possono rientrare azioni che esprimono simbolicamente la solidarietà di gruppo, come gare di corsa e altre forme di intenso esercizio fisico (al fine di rendere le colture «forti» e «robuste»). Tali azioni, inoltre, sono pensate per influire sull’evento imminente. Gli Hopi ritengono che essere ben preparati a un viaggio importante o alla semina delle colture aumenti la probabilità di successo. Per questo popolo, il pensiero è una specie di forza che agisce nel mondo e «lascia ovunque tracce del suo effetto» 3. Pur non esistendo alcun legame diretto tra i loro progetti di studio, non è difficile capire che le descrizioni di Whorf della lingua e della cultura Hopi possono ricollegarsi all’interpretazione dello scambio in quelle che Marcel Mauss definisce «società arcaiche». Non dimentichiamo che nelle culture dell’Anello del kula, o tra i Maori, si ritiene che molti oggetti possiedano una capacità di azione e una propria personalità – vale a dire, sostanzialmente, che «lascino ovunque tracce del loro effetto», come avrebbe detto Whorf. I regali vengono ricambiati perché racchiudono una parte dello spirito del donatore (il già citato hau dei Maori), che richiede la reciprocità del dono. Si tratta di interpretazioni del mondo in cui i confini tra l’animato e l’inanimato, il personale e l’impersonale, lo spirituale e il materiale, sono molto piú porosi e permeabili che in un moderno contesto occidentale. In effetti, potremmo affermare che la struttura delle lingue del gruppo Sae svolge un ruolo importante nell’ideologia occidentale dello scambio, in cui, tra l’altro, tutto è reificato, in contrasto con ciò che viene invece personificato. È un ulteriore aspetto della propensione dell’Occidente all’oggettivazione. Tutto questo potrebbe contribuire a spiegare perché il capitalismo si sia sviluppato proprio in Occidente? Nella struttura linguistica del gruppo Sae esiste forse qualcosa che ha favorito lo sviluppo di un sistema economico in cui il valore delle cose poteva essere sempre piú

facilmente oggettivato e quantificato – tutto, dalla forza lavoro delle nostre braccia allo scorrere del tempo? Perfino l’amore? Whorf non arriva a conclusioni cosí radicali, né lascia intendere che il linguaggio sia l’unico fattore a plasmare modelli di pensiero e di comportamento 4. È un punto, questo, che i suoi critici sembrano spesso fraintendere. Il linguaggio, in ogni caso, è un fattore, e Whorf si sente abbastanza sicuro da offrire una riflessione intellettualmente stimolante sugli sviluppi della cultura occidentale fin dal Medioevo – sviluppi in cui la lingua, l’economia e la scienza devono essere viste come componenti mutualmente costitutive. «Il bisogno di misurare tutto nell’industria e nel commercio, – scrive Whorf, – [la] standardizzazione delle unità di misura e di peso, l’invenzione degli orologi e la misura del “tempo”, la registrazione di ogni evento, i resoconti, le cronache, le storie, i progressi della matematica e la cooperazione tra quest’ultima e le altre scienze – tutto ha contribuito a conferire al nostro mondo intellettuale e linguistico la sua forma attuale» 5. Se vogliamo capire in che modo ragionano le persone, può essere utile – molto utile – considerare il principio della relatività linguistica. Come sappiamo, ogni volta che entra in gioco la parola «relatività», i suoi detrattori gridano allo scandalo per una supposta mancanza di linee di base o per la preoccupazione che essa significhi che alla fine tutto fa brodo. Affrontando le questioni morali ed etiche, ho già detto che quando si parla di linguaggio è importante riconoscere che il criterio in questo caso non è quello di non avere dei punti di riferimento iniziali. Per Whorf, infatti, il punto di partenza è la realtà stessa. E non è nemmeno una «realtà» tra virgolette: a Whorf basta e avanza il reale, puro e semplice. Whorf sapeva tutto della realtà (in fondo, era un assicuratore). Se un fusto di benzina contiene dei fumi, può benissimo esplodere. Non importa se quel fusto di benzina si trova in un pueblo o nel punto vendita di uno stabilimento del New England. Chiaramente, però, il modo in cui in una lingua codifichiamo cose come il pericolo e il rischio può avere conseguenze

significative.

«Noi siamo pappagalli rossi». Un altro aspetto dell’attenzione al linguaggio, al pensiero e alla realtà è legato a questioni di significato e comprensione. Questo ci conduce a un perenne interesse dell’antropologia: le cose apparentemente strampalate e bizzarre che la gente talvolta dice. Gli antropologi si sono sempre gettati a capofitto nelle dichiarazioni tanto incontrovertibili quanto intriganti, di cui sono esempi classici frasi come «noi siamo pappagalli rossi» (Bororo del Brasile) e «i gemelli sono uccelli» (Nuer della valle del Nilo); in alcuni contesti, i Nuer parlano anche di un cetriolo come di un bue. Questi casi classici hanno i loro equivalenti contemporanei; tra i Makonde del Mozambico, per esempio, si parla di persone-leone, mentre tra gli Araweté dell’Amazzonia anche i giaguari sono esseri umani (cosí come molte altre specie animali, anche se non tutte). Quasi tutti questi casi sollevano interrogativi controversi e, talvolta, anche scambi di opinioni accesi e connotati politicamente: uno degli interrogativi piú noti, risalente al 1779, riguardava il fatto che fosse vero che gli hawaiani, allorché avevano ucciso il capitano James Cook, pensavano che egli fosse un’incarnazione del loro dio Lono. Piú in generale, esiste un grande interesse antropologico per certe costruzioni intellettuali e modi di dire – non necessariamente affermazioni che colpiscono l’attenzione come «noi siamo pappagalli rossi», ma, piuttosto, registri linguistici meno definiti e legati al soprannaturale, al misticismo o all’occulto. Ho partecipato a piú di un seminario di antropologia in cui ho sentito parlare di ragni cosmici, di attività di esperti di stregoneria, di ladri di grasso come i pishtacos andini, di vampiri e via dicendo. Sono stato altresí informato dell’esistenza di un esercito sotterraneo (cioè un esercito segreto di stanza sotto terra) nelle isole Salomone, di giovani di Abidjan, in Costa d’Avorio,

convinti che le camicie di Tommy Hilfiger siano dotate di una forza mistica, e di ricercatori new age in Arizona che, tra una sessione e l’altra di danza del fuoco, assorbono energia e ricavano visioni dalle linee temporanee (o linee di prateria) dentro e intorno a Sedona. Prima di procedere oltre, è importante sapere che gli antropologi non si chiedono mai l’un l’altro se «credono» ai ragni cosmici, ai vampiri o alle linee temporanee, se pensano che una di queste entità sia davvero reale. In quel seminario sui ragni cosmici (nella Cina sudoccidentale, in questo caso), al momento delle domande del pubblico, nessuno in sala si alzò dicendo: «Scusi, ma di cosa diavolo sta parlando?» Quando le persone meno diplomatiche pongono tali domande, o anche in modo piú educato, la risposta piú frequente fa appello alla realtà del «fatto sociale»: che sia reale o meno, esso riesce a plasmare il modo in cui la popolazione presa in esame interpreta il mondo e agisce al suo interno. Io stesso ho trascorso diciotto mesi in Zimbabwe studiando una chiesa in cui si tenevano esorcismi ogni settimana, e ne ho osservati decine. Non ritenevo che il mio lavoro mi assegnasse il ruolo di teologo, filosofo o acchiappa-fantasmi. Ero lí per capire in che modo chi conduceva gli esorcismi, oppure li subiva o ne era testimone, inserisse la possessione demoniaca in una piú ampia visione della personalità, della salute morale e fisica, dell’eredità del dominio coloniale e dell’etica cristiana. Niente di tutto ciò richiedeva di sapere con certezza se i demoni fossero davvero demoni. Eppure, la storia non è tutta qui, né ci consente di affrontare alcune delle domande piú importanti su ciò che l’antropologia può insegnarci su ragione e realtà. Dopo aver elencato tutta una serie di quelle che a volte vengono definite «credenze apparentemente irrazionali», vorrei tornare sui miei passi e riprendere dall’inizio, partendo dalla popolazione le cui espressioni verbali sono state studiate piú di tutte: i Bororo 6. Questi indios vivono nelle aree del bacino amazzonico che si estendono tra Brasile e Bolivia. Sono stati oggetto di interesse antropologico fin da quando Karl von den Steinen, etnologo e medico

tedesco, intraprese due spedizioni di ricerca nel centro del Brasile negli anni Ottanta del XIX secolo. Una delle cose che Von den Steinen riferí era che i Bororo dicevano «noi siamo pappagalli rossi». Tale affermazione attirò l’attenzione praticamente di tutte le figure di maggior spicco della disciplina antropologica, soprattutto negli anni Cinquanta del XX secolo: James Frazer, Émile Durkheim, Mauss, Malinowski, Edward E. Evans-Pritchard, Claude Lévi-Strauss, Clifford Geertz; tutti hanno avuto qualcosa da dire sul fatto che i Bororo sono dei pappagalli rossi. Da allora, l’interesse per questi indios è diventato piú sporadico, ma è comunque vivo. Come potete ben immaginare, non è cosí scontato ammettere che i Bororo sono inclini alla poesia. In tal caso, infatti, ne dedurremmo che una frase come «noi siamo pappagalli rossi» non è altro che una figura retorica. Non è cosí, tuttavia, che i primi antropologi la interpretarono. La loro convinzione era che quando popoli come i Bororo dicevano cose del genere – cioè popoli considerati «primitivi» – intendevano attribuire alla frase un significato letterale. Nel mondo vittoriano e nella Francia fin de siècle, la capacità di usare il pensiero e il linguaggio figurato era considerata un altro indicatore dello sviluppo evolutivo. Mentre analizzavano i sistemi di parentela, l’organizzazione politica e cosí via, Edward Burnett Tylor e i suoi contemporanei formulavano le loro valutazioni rivolgendo l’attenzione anche ai problemi riguardanti il pensiero e le capacità mentali. Nel suo lavoro Researches into the Early History of Mankind and the Development of Civilization (Studi sulla preistoria dell’umanità e sullo sviluppo della civiltà), Tylor trattò in gran parte il problema rifacendosi a quella che egli considerava l’incapacità dei selvaggi di cogliere «connessioni soggettive», termine con cui egli intendeva le connessioni simboliche tra un segno e il suo referente. Tylor citava l’esempio del ritratto di un uomo: tra i popoli primitivi, sosteneva, la differenza tra un ritratto e l’uomo raffigurato non viene riconosciuta; entrambi vengono visti come parti dello stesso insieme, per cui, se il ritratto riporterà un danno, lo stesso danno verrà subito

dall’uomo. Analogamente, si diceva che i popoli primitivi popolassero i loro mondi di «feticci»: oggetti inanimati scambiati per forze animate (per Tylor, in realtà, confusioni simili andavano ben oltre gli stadi dei popoli primitivi: perfino i cattolici romani erano caduti in questa trappola, con tutte le loro reliquie e icone). Von den Steinen, a essere precisi, aveva una visione leggermente meno elaborata. Ciò nonostante, furono proprio le sue considerazioni sul significato letterale del fatto linguistico a suscitare l’interesse di altri, in particolare del filosofo francese Lucien Lévy-Bruhl, che affrontò tali argomenti nel suo monumentale studio pubblicato nel 1910 e tradotto in inglese con il titolo How Natives Think (Psiche e società primitive) b. Come Tylor, Lévy-Bruhl sosteneva che i popoli primitivi non erano in grado di afferrare il pensiero e il linguaggio figurato. Ma a differenza di Tylor, Lévy-Bruhl trattava il problema nei termini del loro stesso modo di essere. In altre parole, egli negava ciò che quasi ogni antropologo accettava, tanto allora quanto adesso: il principio dell’unità psichica. Per Lévy-Bruhl, i Bororo non si collocavano semplicemente su un gradino piú basso della scala dell’evoluzione sociale; erano esseri completamente Diversi, con la D maiuscola. Psiche e società primitive prende in considerazione una vasta gamma di dati etnografici, anche se a quelli sui Bororo (raccolti da Von den Steinen) è riservato il posto d’onore. Lévy-Bruhl torna piú volte sulla frase «noi siamo pappagalli rossi» e sulle riflessioni di Von den Steinen a riguardo: «Non è un nome che essi si danno», scrive Lévy-Bruhl, «Non è una parentela che proclamano. Quel che essi vogliono far comprendere è un’identità essenziale» 7. L’autore spiega quest’identificazione con quella che egli definisce «legge di partecipazione», nelle rappresentazioni collettive delle «mentalità primitive [in cui] gli oggetti, gli esseri [e] i fenomeni possono essere, il che è per noi incomprensibile, contemporaneamente se stessi e altro da se stessi» 8. Lévy-Bruhl si spinge quindi oltre rispetto al suo compatriota un po’

piú giovane Marcel Mauss. Abbiamo già analizzato come Mauss sostenesse che certi oggetti possono essere «se stessi e qualcosa di diverso da sé». Possiamo perfino riconoscere questa linea di pensiero nelle società occidentali, rispetto ai cimeli di famiglia e ai tesori nazionali. Con la «legge di partecipazione», tuttavia, Lévy-Bruhl stava affermando qualcosa di ben piú significativo riguardo al funzionamento della mente e insisteva su una sorta di differenza che nemmeno gli evoluzionisti sociali avevano distinto. Lévy-Bruhl fu costantemente criticato per il suo disconoscimento dell’unità psichica del genere umano, anche da coloro che sotto altri aspetti trovavano il suo lavoro indubbiamente perspicace. Molti antropologi lo accusarono anche di esagerare le differenze tra popoli come i Bororo e popoli come gli inglesi, presentando i primi come meno esotici e i secondi meno ottusi quando si trattava del modo in cui essi, in quanto «indigeni», usano il pensiero. Ci sarebbe sicuramente molto da dire sull’argomento di un’eccessiva differenza. Per ogni volta in cui un Bororo potrebbe affermare di essere un pappagallo, è probabile ci siano nove sue affermazioni e convinzioni perfettamente ragionevoli e spesso assolutamente ininfluenti.

Stregoneria e buon senso. Uno dei critici piú importanti di Lévy-Bruhl fu Evans-Pritchard, la cui opera principale Witchcraft, Oracles and Magic among the Azande (Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande) è stata vista come una lunga replica in forma di libro alle piú sconcertanti posizioni di LévyBruhl. Il lavoro di Evans-Pritchard, in realtà, è ben piú di questo e rappresenta uno dei classici eterni dell’antropologia, un testo che ogni generazione di studenti di antropologia dovrebbe leggere e che genera tuttora dibattiti e interessi ben oltre i confini degli studi sull’Africa. Evans-Pritchard, o E-P, com’è spesso chiamato, conseguí il dottorato alla London School of Economics, dove era ricercatore negli

anni Venti del XX secolo. Dopo i soggiorni al Cairo e a Cambridge, si trasferí a Oxford, dove rimase per il resto della carriera accademica. Gran parte del suo lavoro sul campo si svolse nell’attuale Sudan e Sud Sudan. Oltre agli studi sugli Azande, è anche famoso per il lavoro svolto tra i Nuer (che abbiamo già menzionato parlando del loro atteggiamento nei confronti del denaro e del sangue). Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande si propone di spiegare il ruolo di tali pratiche all’interno della società degli Azande (tra i quali E-P si trovava alla fine degli anni Venti). A detta dell’autore, chiunque abbia modo di trascorrere qualche settimana o piú tra gli Azande si renderà conto dell’importanza di queste pratiche, che occupano un posto centrale nelle preoccupazioni e negli interessi quotidiani delle persone, convinte che disavventure e sventure siano il risultato di stregoneria, mentre gli oracoli e la magia, ciascuno secondo le proprie modalità, aiutano a proteggere o a mitigare gli effetti dell’incantesimo maligno. Benché tutti e tre questi elementi siano importanti, e interconnessi, desidero rivolgere l’attenzione su quanto sostenuto da E-P sulla stregoneria, in parte perché lo studio di quest’ultima conserva tuttora la propria centralità in ambito antropologico. In effetti, la stregoneria è una delle pratiche apparentemente «tradizionali», presenti nella documentazione etnografica, che si è perfettamente adattata alle condizioni della modernità. Non sorprenderà certo se dico che la stregoneria è praticata dalle streghe. Eppure, uno dei primi e rilevanti aspetti della stregoneria tra gli Azande è la loro scarsa preoccupazione nei confronti delle streghe in sé. Gli Azande rivelano una comprensione elaborata e sofisticata di chi – in astratto – siano le streghe, o di che cosa sia una strega. Tutti possono essere streghe o stregoni, uomini e donne; è un «tratto» ereditario che viene trasmesso di padre in figlio e di madre in figlia (ma non trasversalmente); come sostanza fisica, la stregoneria risiede nell’intestino tenue. Agli Azande poco importa delle streghe, riferisce E-P, perché la gente non sa necessariamente che la tal persona è una

strega, per lo meno non nel momento in cui essa pratica la stregoneria. In parte, questo è anche dovuto al fatto, tanto per cominciare, che viene posta molta meno enfasi sull’idea della singola personalità con caratteristiche definite e vincolanti. La stregoneria, pertanto, esiste nel discorso e nei suoi effetti. La gente ne parla – potremmo dire «pensa» con essa – e ne osserva gli influssi. In questo modo, E-P affronta la stregoneria come un idioma, un modo di parlare e ragionare sugli eventi nel mondo, in primo luogo su quelli sfortunati: malattia, morte, conflitti famigliari, cattivi raccolti, un viaggio mancato e cosí via. Tutti questi avvenimenti possono essere intesi come risultato della stregoneria. Questo non vuol dire affatto che gli Azande non sappiano riconoscere l’azione delle scienze fisiche, chimiche e biologiche – i meccanismi cioè delle leggi della natura o, ancora piú semplicemente, del mondo reale. Da tutto ciò ne deriva che gli Azande operano una rigida distinzione tra come succede qualcosa e perché succede; la stregoneria funge appunto da collante tra il come e il perché. Uno dei famosi esempi riportati da E-P riguarda il crollo di un granaio. Gli Azande conservano i loro cereali in granai leggermente rialzati, allo scopo di proteggerli dai parassiti e dagli effetti deleteri dell’umidità. La parte sottostante di questi granai fornisce un ottimo spazio ombreggiato, che gli Azande non esitano a sfruttare. In rare occasioni, tuttavia, i granai crollano – essi risentono comunque dell’umidità e anche le termiti sono un rischio –, per cui accade che qualche indigeno resti sepolto sotto un cumulo di grano. Gli Azande sanno perfettamente che i granai crollano a causa dell’umidità e delle termiti; la domanda che si pongono è perché, in un caso simile, quel certo granaio sia crollato su quella certa persona. La risposta è la stregoneria. Il malcapitato è costretto a soffrire a causa di un dispiacere o di un’offesa arrecati a una strega. Le sue azioni (di lui o di lei) e il suo benessere portano dunque il peso di rapporti di ordine morale. Nel corso dell’intera opera, E-P ricorda ai lettori che la stregoneria,

naturalmente, non esiste, non è veramente reale. Al tempo stesso, egli si impegna costantemente a presentare gli Azande non cosí esotici e il pubblico occidentale non cosí non-esotico rispetto a quanto potremmo invece concludere. Di sicuro, la cosa risulta naturalmente un po’ strana, afferma l’autore, e sfida il buon senso. Eppure, egli sostiene anche, in modo sottile e garbato, che il buon senso rientra in effetti in un certo tipo di ragionamento e che la credenza degli Azande nella stregoneria, presa per quello che è, risulta perfettamente ragionevole. Fondamentalmente, sostiene E-P, il suo scopo è quello di regolamentare i rapporti tra le persone, vale a dire rafforzare i loro valori culturali. Essa rappresenta altresí un mirabile sistema di filosofia naturale; non ci chiediamo forse tutti il «perché» di certi prodigi ed enigmi della vita? «La credenza nella stregoneria si accorda abbastanza con la responsabilità dell’uomo e con la consapevolezza dei processi razionali connessi con i fatti naturali» 9. A un certo punto, E-P suggerisce addirittura che il modo di parlare della stregoneria presso gli Azande somigli molto a come gli occidentali parlano di fortuna e sfortuna. Questo interessante tentativo di mettere al suo posto l’arrogante lettore occidentale è uno degli elementi che contraddistinguono E-P come un ricercatore cosí ricco di sfumature. In fondo, ha ragione: se fossimo seduti sotto un granaio e questo crollasse, probabilmente diremmo che si è trattato di sfortuna. Potremmo anche domandarci, come gli Azande, perché è toccato proprio a noi? Che cosa abbiamo fatto per meritarlo? In effetti, data l’ovvietà di queste domande, penso che l’idea della fortuna possa andare perfino oltre ciò che intende E-P. Egli traccia per esempio una linea quando si tratta di malattie, affidandosi senza difficoltà alla realtà dei fatti della scienza medica. Sappiamo che il cancro non è il risultato di un torto fatto a un vicino; sappiamo anche che, benché la disgrazia di contrarre l’Hiv possa derivare dall’uso della siringa infetta di un altro eroinomane, a livello morale non esiste una relazione causale tra uso di droghe e sieropositività. Nondimeno, la stigmatizzazione dei pazienti Hiv-positivi persiste; il carico morale

dell’Aids è un fatto sociale, i cui effetti sono indipendenti dalla sua base di realtà. Lo stesso vale ancora oggi per il cancro; spesso induce alla stigmatizzazione e spinge frequentemente le persone a domandarsi: che cosa ho fatto per meritarmi questo? Quindi, tornando a un tono da vecchia scuola, «noi» non siamo cosí civilizzati e «loro» non sono cosí primitivi; noi non siamo cosí moderni e loro non sono cosí tradizionali; noi non siamo cosí scientifici e loro non sono cosí mistici; noi non siamo cosí razionali e loro non sono cosí irrazionali. «L’attribuzione di una disgrazia alla stregoneria non esclude quelle che chiameremmo le sue cause reali, ma essa vi si sovrappone e conferisce agli avvenimenti sociali il loro valore morale» 10. Provate a scambiare la parola «stregoneria» con «fortuna» o «cattivo comportamento» o, già che ci siamo, con «peccato», e non sarete cosí lontani da Leeds o Colorado Springs. Gli sforzi di Evans-Pritchard per rendere meno esotici gli Azande rientrano in una lunga e pregevole tradizione antropologica che punta ad abbattere i grandi idoli dell’Illuminismo. Pur non esitando a parlare di buon senso e superstizione, nei suoi scritti E-P lascia intendere anche, molto occasionalmente, di essere aperto al mondo degli incantesimi. Nel suo lavoro sugli Azande, questo punto appare molto presto nell’analisi della stregoneria, che quando si compie – sostengono gli Azande – appare come un fuoco o una luce. «Soltanto una volta m’è accaduto di vedere la stregoneria in cammino», scrive E-P senza assolutamente scomporsi o abbandonare per un attimo la sua prosa oxfordiana, chiara e sobria. Lo studioso vide quella luce durante una delle sue abituali passeggiate notturne, senza riuscire a rintracciarne l’origine. Il mattino dopo, seppe che un vicino era morto. Forse, dice, la luce «poteva ben darsi che si trattasse di un fascio d’erba secca acceso da qualcuno che si recava a soddisfare i suoi bisogni corporali; tuttavia la coincidenza tra la direzione lungo la quale la luce si era mossa e la morte verificatasi ben si accordava con le opinioni degli Azande» 11. Molti antropologi sarebbero aperti a tali possibilità, o per lo meno

non le deriderebbero apertamente. La maggior parte, però, mai si impegnerebbe tanto da pubblicare tale pensiero, e per lo piú lavorerebbe sodo – non senza giustificazione – per suggerire un modo in cui credenze apparentemente irrazionali, forme di partecipazione mistica, stregoneria e via dicendo possano acquistare un senso per il pensiero tradizionale, che è spesso anche il nostro.

Ritorniamo ai Bororo. Il dibattito antropologico su che cosa intendessero i Bororo riferendosi a se stessi come pappagalli rossi andò certamente in questa direzione. Dopo Lévy-Bruhl, l’interesse per le affermazioni dei Bororo si rivolse direttamente alle loro possibili spiegazioni in termini di linguaggio figurato; ai Bororo, il gioco delle trasposizioni di significato non venne negato a lungo. Lévi-Strauss, per esempio, lasciò poco spazio alle conclusioni di Lévy-Bruhl, sostenendo che la frase dei Bororo era metaforica e comunicava prima di tutto l’importanza dei totem in tali culture. Poi, negli anni Settanta, un antropologo di nome J. Christopher Crocker condusse finalmente presso i Bororo quel genere di studio sul campo approfondito e da tempo necessario e aggiunse una serie di dettagli importanti c. Prima di tutto, Crocker ci informa che solo i maschi bororo affermano di essere pappagalli rossi, e lo fanno solo in determinate situazioni. In secondo luogo, i pappagalli rossi (o piú specificamente gli Ara macao, dal piumaggio scarlatto) sono associati agli spiriti, sia perché gli spiriti e i pappagalli sono entrambi colorati sia perché tali volatili nidificano normalmente in luoghi pressoché inaccessibili, su alte pareti rocciose e in cima a certi alberi. Da tutto questo consegue in parte che i pappagalli (tutti i pappagalli, non solo gli Ara macao scarlatti), e piú specificamente le loro penne, sono degli accessori importanti nelle cerimonie rituali, molte delle quali sono appunto condotte dagli uomini. Per tale motivo, le piume dei pappagalli sono

molto apprezzate; uomini e donne ne conservano collezioni personali che vengono riposte in contenitori di sicurezza, costruiti con tronchi di palma. Molte di queste piume appartengono a uccelli selvatici, ma i pappagalli sono anche gli unici animali domestici dei Bororo. Essi hanno cani, e i brasiliani introdussero polli e maiali, però nessuno di questi animali è considerato con affetto. I pappagalli sono invece amati, hanno un nome e si celebrano persino i loro funerali (a differenza degli altri animali). Detto questo, i pappagalli subiscono comunque certe forme di umiliazione: prima di celebrare in un villaggio un qualche rituale importante, a questi amati animali vengono strappate tutte le piume, il che li trasforma, almeno temporaneamente, in «patetici e nudi fagotti di carne e ossa» 12. I pappagalli, pertanto, sono chiaramente importanti, sono un nesso simbolico che lega insieme uomini, spiriti e gruppi corporativi (clan) attraverso un complesso sistema rituale. Ma ecco la chiave: tutti i pappagalli domestici sono di proprietà delle donne, come, in un certo senso, lo sono gli uomini. La società dei Bororo è infatti matrilineare ma anche matrilocale (cioè, gli uomini vivono con le famiglie delle mogli). L’uomo, quindi, viene tirato in due direzioni e ha due serie di obblighi e legami: è responsabile della cura delle sorelle e dei loro figli, nella sua casa natale, però è anche un marito per sua moglie. Benché il matrimonio nasca spesso da un legame d’amore, come asserisce Crocker, l’uomo non può fare a meno di sentirsi sempre un estraneo tra i parenti della moglie. Una delle sue possibilità di fuga si realizza appunto attraverso il sistema rituale, in cui svolge un ruolo significativo mediante la messa in scena degli spiriti. Affermando di essere dei pappagalli rossi, quindi, gli uomini operano un’associazione metaforica tra loro e i pappagalli – un’associazione basata su un numero di caratteristiche basilari che condividono con gli uccelli: come i pappagalli, sono una parte vitale dell’economia rituale; sempre come i pappagalli, tuttavia, sono una sorta di animale domestico, potente e al tempo stesso senza forza, soggetto al controllo e al tempo stesso libero. Dicendo «noi siamo dei pappagalli rossi», gli uomini

intendono «esprimere l’ironia della loro condizione di maschi» 13. La conclusione a cui è giunto Crocker non ha posto l’ultima parola a questo dibattito. Una figura di spicco nello studio antropologico dell’Amazzonia, Terence Turner, contestò l’enfasi posta da Crocker sull’aspetto metaforico e ironico, sostenendo che in questo caso ci troviamo di fronte a una sineddoche, anzi, a quella che lui chiama una «super-sineddoche» 14. Non porterò via spazio in questa sede per spiegare l’affermazione o che cosa possa fare una super-sineddoche; dirò solo che quella di Turner è un’analisi brillante che solleva tuttavia la domanda: e allora? In ogni caso, si tratta di questioni che tendono a eccitare soltanto le menti dei critici letterari piú dotati e appassionati. Non si tratta di semplici funambolismi accademici. Il dibattito sugli aspetti piú sottili della sineddoche e dell’ironia può risultare importante per il modo in cui intendiamo una logica culturale. Prestare attenzione alle espressioni figurate diffuse all’interno di una data comunità è un buon modo per apprendere non solo i valori di detta comunità, ma anche come i suoi membri mettano ordine nella conoscenza e operino distinzioni categoriali. È con il linguaggio figurato che spesso chiariamo che cosa conta per noi e che cosa no, quali distinzioni categoriali sono valide e quali no, che cosa comprendiamo e che cosa rimane invece poco chiaro o appena accennato. Uno dei miei esempi preferiti a tale riguardo è molto semplice, ma ugualmente illuminante. I missionari cristiani che lavoravano in luoghi molto diversi dal mondo mediterraneo, si trovavano a volte obbligati, in contesti coloniali e in altri post-coloniali, ancora piú remoti, a distorcere le metafore e le immagini convenzionali presenti nella Bibbia. Per i Guhu-Samane di Papua Nuova Guinea, per esempio, l’«agnello di Dio» era stato trasformato nel «maiale arrosto di Dio» 15. Gli indigeni non avevano infatti idea di che cosa fossero gli agnelli, per cui, allo scopo di trasmettere l’importanza del sacrificio di Gesú, i traduttori ricorsero ai maiali, di cui i Guhu-Samane sanno parecchio (e che sono comunemente sacrificati in Melanesia). Ecco

come funzionano la metafora e altre figure retoriche: nella predicazione è indispensabile dare un senso a ciò che non si conosce (il carattere e le qualità di Gesú) riferendosi a ciò che invece si conosce (il carattere e le qualità dei maiali). La metafora riesce appunto a evidenziare significati e associazioni di idee condivise. Naturalmente, sotto molti altri aspetti, Gesú e l’agnello, o il maiale, sono ben diversi e distinti. Quando un Guhu-Samane sente per la prima volta che Gesú è il maiale arrosto di Dio, apprende che per certi versi Gesú è come l’animale, e soprattutto è l’oggetto di un importante sacrificio. Fu la profonda conoscenza di Crocker della cosmologia dei Bororo, dei loro totem, rapporti di genere, sistemi di parentela, vita rituale e pratiche connesse agli animali domestici che gli permise di apprezzare – e comunicare – il carattere figurato di ciò che i Bororo di sesso maschile (a volte) dicono. Eppure, da tutto questo emerge comunque un problema fastidioso, che disturba alcuni antropologi: non potrebbe essere pericoloso, soprattutto quando cerchiamo di capire come pensano gli indigeni («esotici»), presumere che la differenza tra ciò che è «letterale» e ciò che è «figurato» si mantenga coerente anche tra culture diverse? Ecco che siamo tornati alla realtà. Questo è il tipo di domanda che alcuni antropologi avrebbero sempre voluto porre in occasioni di dibattiti sulla ragione e la razionalità. Se portiamo il ragionamento all’estremo, il fatto di affidarci all’analogia (parlare di stregoneria è come parlare di sfortuna) e al gioco delle trasposizioni di significato (presupponendo che gli uomini Bororo siano dotati di ironia) rischia di ridurre le differenze culturali al punto di essere incongruenti. La frase «sono davvero come noi» potrebbe sembrare rispettosa, ma potrebbe anche conferire un diverso significato alla «colonizzazione della coscienza». Trasformando ciò che gli altri dicono in elaborate figure retoriche si conferisce loro una certa «rispettabilità cognitiva», come afferma appunto la famosa antropologa Joanna Overing, ma potremmo ricavare una maggiore utilità «considerando certe affermazioni

letterali sul mondo come tali, non importa quanto strano possa essere il loro contenuto, anziché trattarle semplicemente come un altro esempio della struttura di differenziazione della mente» 16. Qualche antropologo fa appunto questo, o almeno ci prova. Alcuni, tanto per cominciare, abbandonano addirittura la differenza tra linguaggio letterale e linguaggio figurato, asserendo che il concetto in sé si basa su presupposti dati per certi. Evans-Pritchard si attiene per esempio a questo modello in alcuni momenti, andando ben oltre la sua testimonianza oculare della luce della stregoneria. Allorché spostò l’attenzione dagli Azande ai Nuer, che dicono che «i gemelli sono uccelli», cercò effettivamente di rendere tale enunciato sotto forma di espressione figurata, ma sottolineò anche (e non escluse mai completamente) che, dal punto di vista dei Nuer, né l’elemento «letterale» né quello «figurato» colgono realmente ciò di cui i Nuer stanno parlando. Anche secondo Crocker l’analisi di Lévy-Bruhl dell’affermazione dei Bororo, basata sull’idea di una reale identificazione con i pappagalli, risulta piú accurata – almeno a livello del punto di vista dell’indigeno – di quella di Lévi-Strauss, basata invece sulla rete di sicurezza metaforica della ragione universale.

Un altro punto di vista. Negli ultimi vent’anni, Eduardo Viveiros de Castro è stato uno degli antropologi piú strettamente associati allo smantellamento della rete di sicurezza metaforica. Docente presso il Museu Nacional di Rio de Janeiro, Viveiros de Castro ha condotto ampie ricerche sul campo tra gli Araweté, un gruppo amazzonico della famiglia linguistica Tupiguaraní d. Nel 1986 pubblicò uno studio autorevole sugli Araweté (comparso in traduzione inglese nel 1992), in cui tuttavia attingeva soprattutto ai dati etnografici e considerava gli indios in esame in rapporto ad altri gruppi di amerindi. Fu in questo libro, e in un saggio successivo del 1998, dedicato a quello che Viveiros de Castro chiama

«prospettivismo amerindiano», che il suo approccio scientifico risaltò in piena luce 17. In poche parole, ciò che l’autore ci chiede di fare è resistere all’impulso di rendere gli amerindi comprensibili in termini occidentali, di inserirli in un paesaggio di differenze culturali costruite su un substrato di ragione universale o di realtà assoluta. In questo tipo di antropologia, il compito dello studioso non si esaurisce nel capire come pensano gli indigeni. Questo è solo il primo passo; il secondo è quello di pensare come gli indigeni, almeno quel tanto da costringerci ad abbandonare il nostro modo normale di ragionare. Viveiros de Castro sostiene che gli Araweté, come molti altri gruppi di amerindi, coltivano un certo numero di premesse e presupposti cosmologici fondamentalmente distinti, il piú importante dei quali, considerando i diversi miti amerindiani, è che uomini e animali condividevano una condizione originaria, che, tuttavia, non corrisponde esattamente a ciò che potremmo trovare nella struttura concettuale cristiano-giudaica, in cui gli umani dominano sugli animali e possiedono una natura ben distinta; né tanto meno corrisponde a ciò che troviamo nella scienza dell’evoluzione in base alla selezione naturale, in cui anche gli umani sono animali, seppure di una specie totalmente distinta, che non ha pari nelle sue acquisizioni culturali. Nelle cosmologie amerindiane, la condizione originaria è invece l’«umanità», qualcosa che tutte le creature viventi condividono. Ciò che differenzia gli esseri umani, quindi, non è il loro sviluppo di una cultura (come accade nella visione occidentale – non importa se lo sviluppo è decretato da un essere divino o è il risultato dell’evoluzione, o di entrambi), ma piuttosto lo sviluppo della natura. In molti miti degli amerindi, troviamo animali che perdono la loro umanità, mentre nei miti e nelle scienze occidentali sono gli umani a trascendere la loro animalità. Per capire come pensano questi indigeni, sostiene Viveiros de Castro, dobbiamo prendere molto sul serio tale distinzione. Un importante elemento che essa suggerisce è che l’approccio antropologico di carattere antropocentrico, basato su un chiaro insieme di differenziazioni tra umano e non umano, cultura e

natura, soggetto e oggetto e cosí via, non appare né esaustivo né è da considerarsi l’unico modo di riflettere a fondo sulle cose. Se gli animali hanno perso la loro umanità, questo non significa che siano stati resi ciechi come creature della natura. In effetti, come hanno sostenuto Viveiros de Castro e molti altri antropologi, una caratteristica comune delle cosmologie amerindiane è l’enfasi sul «prospettivismo». Si ritiene cioè che molte specie animali mantengano una loro capacità di azione e la consapevolezza di sé; essi hanno dei loro «punti di vista» esattamente come gli umani e vivono nei loro mondi culturali. In parte, questo significa che gli amerindi hanno una visione del mondo molto piú relazionale e interconnessa. Quando pensano a quello che fanno e a come lo fanno, questo si accompagna alla coscienza e all’aspettativa che anche altre creature senzienti fanno altrettanto. Tutte queste divisioni tra umano e non umano, soggetto e oggetto, non sono cosí chiare per gli Araweté come lo sono nell’elaborazione occidentale. «Gli amerindi si mantengono ben alla larga dal grande divario cartesiano», osserva Viveiros de Castro riferendosi al dualismo mente-corpo reso famoso da René Descartes 18. Nella visione del mondo amerindiana tutto è connesso e si modella reciprocamente; i confini e le distinzioni sono molto piú permeabili che negli schemi occidentali o occidentalizzati. Il prospettivismo amerindiano è un esempio di ciò che un altro importante antropologo definisce, nello stesso ambito di studi, «non-dualismo relazionale» 19. Tutto è connesso. Pur libero dalla rete di sicurezza della metafora, Viveiros de Castro non riesce però a liberarsi della metafora in sé, osservando – senza eccessiva costernazione o ipocrisia – che le parole dei Bororo devono essere interpretate come una figura retorica. «Gli uomini Bororo e i gemelli Nuer non volano», sembra voler confermare nel suo libro sugli Araweté 20. Al tempo stesso, egli si avvicina al prospettivismo amerindiano, in cui gli animali si vedono come persone, su un piano assolutamente realistico. «Questo “vedersi come” si riferisce

letteralmente al momento percettivo e non analogicamente a quello concettuale» 21. In altre parole, non ci troviamo davanti a una metafora. O a ironia, o a una super-sineddoche. Forse il modo migliore per comprendere un approccio del tipo sia/sia è quello di ritornare all’intento che muove questo genere di antropologia. Si tratta cioè di un approccio del «punto di vista» che va al di là di quello praticato da Malinowski e molti altri – in cui il modo di pensare degli indigeni altera il punto di vista dell’antropologo. Per quanto riguarda Viveiros de Castro, ogni progetto di studio antropologico dovrebbe racchiudere al proprio interno qualcosa di alieno e diverso da noi, qualcosa che non solo mette in discussione e sconvolge i termini dell’analisi dello studioso, ma ridefinisce anche ciò che quest’ultimo intende comunicare e il lavoro intellettuale che può svolgere. Con questo approccio, l’antropologia dovrebbe sempre essere aperta alla possibilità di provare stupore e meraviglia 22. Nel lavoro di Viveiros de Castro, la chiave è capire che quando gli amerindi parlano di se stessi come pappagalli rossi o, diciamo, come giaguari, non dovremmo pensare a pappagalli e giaguari (unicamente) come animali del mondo, a cui ci riferiamo con quelli che chiamiamo «nomi comuni» e. Nella prospettiva amerindiana, il termine «giaguaro» corrisponde piú a una qualità di azione che a un nome comune. La parola «giaguaro» significa in realtà qualcosa piú vicino a «diventare giaguaro» – un’espressione piuttosto goffa, almeno nella lingua inglese, non c’è dubbio, ma che esprime molto meglio il fatto che l’attenzione dovrebbe focalizzarsi su «una certa qualità del verbo, non sul suo predicato» 23. Leggere i lavori di antropologi come Viveiros de Castro è come leggere l’opera di un romanziere che sfida le convenzioni della forma: James Joyce, Gertrude Stein o David Foster Wallace. È impossibile capire realmente quale sia il loro intento senza dedicarsi a essi completamente, arrendendosi, in un certo senso, ai loro mondi. Questo accade perfino nel caso di quegli antropologi che sembrano scrivere in una prosa cristallina. Prendiamo Marilyn Strathern. Se leggiamo il suo

lavoro, l’inizio è sempre rassicurante. La scrittura è relativamente semplice e facile da digerire. Ogni frase del suo capolavoro, The Gender of the Gift, per esempio, dovrebbe essere perfettamente comprensibile. Proseguendo però nella lettura di un paragrafo completo, con quelle sue frasi assolutamente tranquillizzanti, iniziamo a perdere l’orientamento. Dopo un intero capitolo del libro, potremmo cominciare a strapparci i capelli. L’autrice non sta usando normalmente la lingua inglese: si è lasciata contagiare dalla Melanesia e sta chiedendo ai suoi lettori di pensare in un modo diverso. Per comprendere veramente quello di cui sta parlando, pertanto, dobbiamo abbandonarci alla logica della sua prosa. In un modo o nell’altro, tutti gli approcci presentati in questo capitolo stanno ottenendo lo stesso risultato. Dall’anticonformismo di un linguista come Benjamin Lee Whorf al ragionevolmente ragionevole Sir Edward Evans Evans-Pritchard, fino al sedicente radicale Eduardo Viveiros de Castro, il punto è che non possiamo considerare come ovvie le nostre categorie e ambiti di conoscenza. L’ordine delle cose è a volte anche un flusso dell’essere. Per la maggior parte degli antropologi, ciò equivale a catalogare altri stili di vita. Per alcuni, tuttavia, apre anche altri modi di vivere.

Vita esposta. A tale proposito, desidero fornire un ultimo esempio, che ci porta lontano dalle foreste dell’Amazzonia e dall’umidità che regna sotto i granai degli Azande 24. Ritengo comunque utile includerlo, in quanto è in grado di mostrarci, se non altro, come l’ordine delle cose possa essere radicalmente riconfigurato e come il buon senso e la ragione siano condizionati culturalmente – anche quando, come in questo caso, la «cultura» viene quasi annientata, in senso letterale e figurato. Nell’aprile del 1986, nel cuore della notte, una delle unità del reattore nucleare di Černobyl’, in Ucraina, esplose, lanciando un

pennacchio radioattivo a otto chilometri di altezza. L’esplosione era stata il risultato di un esperimento fallito degli ingegneri che volevano testare per quanto tempo il reattore avrebbe funzionato senza una fornitura di vapore. Nei giorni che seguirono, mentre le autorità sovietiche cercavano di contenere la situazione, il danno fu aggravato sia dal modo in cui i responsabili della centrale cercarono di spegnare il nucleo di grafite che bruciava (scaricando su di esso tonnellate di sabbia, dolomite e altre sostanze ignifughe, il che serví solo a intensificare il calore) sia dal silenzio da parte del Cremlino: del disastro, infatti, l’opinione pubblica mondiale venne informata ufficialmente soltanto diciotto giorni dopo. In quel periodo, decine di migliaia di persone rimasero esposte allo iodio radioattivo -131, tanto che in quattro anni i casi di cancro alla tiroide aumentarono vertiginosamente. Gli sforzi sanitari dei sovietici si concentrarono su 237 lavoratori del sito, tutti portati in un ospedale specializzato di Mosca. Complessivamente, tuttavia, si stima che 600 000 persone siano morte o abbiano sofferto di gravi problemi di salute a causa dell’incidente nucleare. Nel 1992, Adriana Petryna iniziò una ricerca antropologica sul disastro di Černobyl’, concentrandosi sulla fitta rete di rapporti tra scienziati, medici specialisti, politici e, soprattutto, le vittime stesse – tra le quali molti pompieri, soldati e operai impiegati per ripulire successivamente il sito, che iniziarono solo in un secondo tempo a denunciare problemi di salute legati alla contaminazione radioattiva. Petryna iniziò le sue ricerche sul campo subito dopo il crollo dell’Unione Sovietica, rivolgendo parte del suo interesse di studiosa al modo in cui l’Ucraina, ormai uno stato post-sovietico da poco indipendente, stava affrontando la perdurante crisi. Fino al crollo del sistema sovietico, era stato mantenuto un rigoroso riserbo al fine di limitare qualsiasi ammissione degli effetti avuti dal disastro di Černobyl’. Nella nuova Ucraina indipendente, tale riserbo venne cancellato, e lo stato abbassò significativamente gli standard in base ai quali si era riconosciuti come vittime effettive. Nel corso degli anni

Novanta, il 5 per cento della popolazione ucraina – 3,5 milioni di persone – presentò domande di indennizzo e richieste di forme speciali di sostegno da parte dello stato. Nello stesso periodo, il 5 per cento del bilancio nazionale annuale fu incanalato nella gestione del dopo-Černobyl’ e dei suoi effetti collaterali, ambientali e umani. Quasi il 9 per cento del territorio dell’Ucraina fu considerato contaminato, e a tutt’oggi esiste una zona chiusa di trenta chilometri attorno al sito. Evans-Pritchard narra che non gli ci volle molto per cominciare a pensare come gli Azande: «Dopo qualche tempo mi familiarizzai con l’idioma particolare proprio del loro pensiero e feci ricorso alle nozioni di stregoneria con la loro stessa spontaneità, in situazioni alle quali il concetto era attinente» 25. Ciò che egli intende dimostrare è molto semplice: ci adattiamo subito al mondo che ci circonda. Gli studi su catastrofi come quella di Černobyl’ ci arricchiscono di un’ulteriore osservazione, ovvero che tali mutamenti possono avvenire anche a livello della società. Sono eventi sintomatici, che tradiscono sia la fragilità sia la flessibilità della vita, a livello culturale e biologico f. In Ucraina, come rileva Petryna, tutto questo equivalse a una totale riconfigurazione di ciò che significava appartenere a una nazione – cioè essere un cittadino. Le richieste rivolte allo stato, che in casi «normali» sono intese come prerogative di un diritto di nascita o di naturalizzazione, arrivarono a essere definite in termini di sofferenza. Petryna definisce tale fenomeno «cittadinanza biologica». In quel decennio, riuscire a campare nella vita di tutti i giorni – e ottenere qualcosa dallo stato – dipendeva dalla capacità dell’individuo di tenersi informato sulle conoscenze scientifiche, mediche e legali riguardanti l’avvelenamento da radiazioni. Si richiedeva un nuovo linguaggio, un nuovo modo di pensare e un nuovo buon senso. Il disastro di Černobyl’ è un esempio particolarmente drammatico, tragico e al tempo stesso lampante della misura in cui «il modo di pensare degli indigeni» è modellato da fattori culturali. Esso è tuttavia anche un promemoria di come un tale evento, seppure creato

dall’uomo, non possa essere separato dalla realtà di cui parlava Whorf. Per quanto «culturale» possa essere questo esempio, esso risulta altresí profondamente naturale, profondamente dipendente dai meccanismi e dalle leggi della natura stessa. È alla natura, infatti, che ora ci rivolgeremo.

a. Questo è un punto molto importante. Sappiamo che all’interno di ogni determinata cultura le persone possono intendere diversamente il tempo o l’esperienza della temporalità. Vedi Nancy Munn, The Cultural Anthropology of Time: A Critical Essay, in «Annual Review of Anthropology», n. 21 (1992), pp. 93-123. Il senso fondamentale della linearità e della causalità temporale è inoltre una caratteristica generale della cognizione. Vedi Maurice Bloch, Anthropology and the Cognitive Challenge, Cambridge University Press, Cambridge 2012. Gli antropologi devono ancora scoprire una cultura in cui le persone mangiano le uova sode e dopo le fanno bollire. b. In realtà, il titolo originale francese è Les fonctions mentales dans les sociétés inférieures. La traduzione inglese apparve soltanto nel 1926, e il suo titolo riflette maggiormente l’inclinazione anglo-americana per il termine «nativo», pur non pregiudicando l’interesse dell’originale francese per il pensiero e la mentalità. In effetti, l’antropologia francese ha mostrato una particolare attenzione alla mente, come vedremo quando arriveremo a Claude LéviStrauss. c. Fino a quel momento, il dibattito si fondava sulle prime osservazioni di Von den Steinen, alcuni studi condotti da preti cattolici e qualche scritto di LéviStrauss, che trascorse solo poche settimane con i Bororo negli anni Trenta. d. Gli indigeni in questione non si attribuirono mai il nome Araweté, che fu dato loro nel 1977 dalla Fundação Nacional do Índio. Gli Araweté si erano sempre riferiti a se stessi come bïde, che significa «esseri umani» o «persone». e. Viveiros de Castro non si dilunga molto sui pappagalli, ma fa spesso riferimento ai giaguari, che sono creature (persone) importanti in molte cosmologie amerindiane, tra cui quella degli Araweté. Nel suo libro, si concentra su un unico caso, a titolo d’esempio, in cui un capo tribú aveva detto a un esploratore tedesco del XVI secolo «Io sono un giaguaro». f. Gli antropologi lo hanno anche dimostrato nei loro studi sull’esplosione

dell’impianto chimico di Bhopal, in India, nel 1984 (vedi Veena Das, Critical Events: An Anthropological Perspective on Contemporary India, Oxford University Press, Oxford 1995), e sullo tsunami del 2004 nell’Oceano Indiano, che devastò una vasta regione del Sudest asiatico e in particolare Aceh, in Indonesia (vedi Annemarie Samuels, After the Tsunami: The Remaking of Everyday Life in Banda Aceh, Indonesia, tesi di dottorato, Leiden University, 2012).

Capitolo nono Natura

Il critico letterario palestinese Edward W. Said, il cui lavoro si concentrava sul colonialismo e l’impero, era un grande appassionato e uno zelante studioso della musica classica occidentale. Fu dai suoi studi musicali che sviluppò lo stile divenuto il marchio di fabbrica della sua opera: la «lettura contrappuntistica» 1. Nella teoria musicale, il moto contrappuntistico si basa sulla relazione e connessione tra diverse linee melodiche. Esse sono ben distinte tra loro, e possono essere suonate separatamente, ma prese insieme possono diventare qualcosa di piú della somma delle loro parti. Per Said, la migliore critica letteraria deve produrre qualcosa di simile, qualcosa che non può essere ridotto a un’unica linea melodica o a una sola voce (un vero pericolo, sosteneva, se si legge per esempio la narrativa occidentale ambientata nell’età dei grandi imperi). Nelle pagine del presente volume, «cultura» e «natura» possono essere viste come le linee melodiche dell’antropologia, il cui moto contrappuntistico conferisce alla disciplina il suo carattere distinto. A dire il vero, gran parte di ciò che abbiamo analizzato pone soprattutto l’accento sulla cultura, mentre la natura è presente come una sorta di costante ronzio di fondo. Tale norma è venuta a cadere in alcune occasioni, dalla trattazione del sangue alle piú recenti discussioni sulla ragione. In alcuni degli esempi, in altre parole, la natura sembra sollevare la testa – brutta o meno – e affermarsi. Il sangue non è solo una sostanza come tante altre. Le leggi della chimica, della biologia e della fisica hanno la loro importanza; i bidoni di benzina «vuoti» sono pericolosi, il cancro alla tiroide è mortale e gli uomini bororo non

possono volare. Potrebbe sembrare che, per molti antropologi, la natura sia una linea melodica alquanto sinistra, qualcosa che essi si sforzano di far tacere piú che possono. Figure come Ruth Benedict, Clifford Geertz e Marshall Sahlins sono acclamate per la loro appassionata difesa delle specificità culturali, sociali e storiche e per aver riconosciuto fino a che punto la realtà non sia qualcosa a cui potremo mai avere un accesso non mediato. In tutti i casi in cui questa passione è stata guidata da posizioni politiche, soprattutto da ciò che una volta Sahlins definí l’«uso e abuso della biologia» 2, il momento piú serio è stato quando Ruth Benedict, Franz Boas e colleghi hanno affrontato la scienza fallace della razza. Vale anche la pena di notare che, mentre gli antropologi hanno un intero cassetto pieno di definizioni di cultura, lo stesso non si può dire per la natura. Non ricordo che nei miei corsi universitari mi sia mai stata offerta una definizione di natura – definizione per altro difficile da trovare anche nella letteratura oggi esistente. Dove appaiono tali definizioni, esse sono spesso formulate rispetto alla cultura e, in alcuni casi, perfino in termini culturali (la costruzione della natura, il suo carattere discorsivo e cosí via). A quanto sembra, la situazione è cosí chiara che la piú grande associazione professionale di antropologi ha recentemente escluso la «natura» da un elenco di oltre 100 parole chiave. Nel 2011, in occasione delle assemblee dell’American Anthropological Association, i relatori che volevano registrare i loro contributi erano tenuti a usare questo glossario controllato di termini per classificare i loro interessi, per cui, chiaramente, non si aveva nemmeno il permesso di inserire la natura tra gli argomenti di una ricerca 3. Attivismo, Africa, Confini, Ceramica, Educazione, Evoluzione… la lista continua, ma non compare la Natura. Si è tentati di dire che l’assenza della natura sia il sintomo di un certo disprezzo antropologico, però questo non sarebbe del tutto preciso. Non dobbiamo dimenticare che Boas iniziò la sua carriera di

antropologo in gran parte per il suo interesse verso l’ambiente della Terra di Baffin e verso il campo della fisica. Bronisław Malinowski fu ancor piú legato alla natura mediante la biologia umana, tanto da accostarsi a ogni forma di vita culturale in termini di bisogni biologici. Egli propose tra l’altro la teoria del «funzionalismo», secondo la quale, sotto tutte le bizzarre e meravigliose elaborazioni culturali di ogni dato popolo, vi è un corpo umano spinto da bisogni e desideri. Anche cosí, tuttavia, la natura è rimasta nel complesso quel ronzio di fondo di cui parlavamo. Claude Lévi-Strauss rappresenta un’eccezione importante a questa regola. Per lui, non dimentichiamolo, la grande diversità delle culture non costituisce di per sé l’interesse principale dell’antropologia. Ciò che conta davvero è quanto sta dietro a tale diversità, di cui egli parla a volte in termini di caos e disordine. Questa forma di struttura interna è una questione di natura, un fatto della mente.

Con in mente Lévi-Strauss. Claude Lévi-Strauss nacque nel 1908 e morí poco prima di compiere 101 anni. Visse la maggior parte della sua vita a Parigi, ma trascorse periodi formativi in Brasile e negli Stati Uniti. Fu appunto in Brasile, negli anni Trenta del XX secolo, che prese a interessarsi all’antropologia, benché avesse studiato in precedenza legge e filosofia alla Sorbona. Questa sorta di formazione antropologica fu in certo modo completata durante la Seconda guerra mondiale, trascorsa per la maggior parte in esilio a New York, andando a caccia di informazioni sui nativi americani (del Nord e del Sud) negli infiniti volumi della Public Library e assimilando la sapienza e la sensibilità di Franz Boas. Nella sua vita, nonostante la costante reverenza nei confronti di Boas e l’uso del suo lavoro e di quello dei suoi studenti, Lévi-Strauss non condusse quasi nessun lavoro sul campo, se escludiamo pochi mesi in giro per l’entroterra brasiliano – un periodo

che oggi, come minimo, non si qualificherebbe come un serio lavoro sul campo. Il soggiorno presso i Bororo, di cui non imparò mai la lingua, poté forse essere di poche settimane. Benché io abbia enfatizzato l’importanza metodologica del lavoro sul campo, e benché l’approccio salottiero dei vittoriani sia stato ampiamente screditato, una discussione su Lévi-Strauss mi offre l’opportunità di ribadire che non tutti gli antropologi ritengono che il lavoro sul campo sia la condicio sine qua non della disciplina. Esistono tuttora tradizioni di studio in Francia, per esempio, in cui il lavoro sul campo è secondario, e molti dei testi piú autorevoli della tradizione inglese sono analisi interamente teoriche o concettuali. Mary Douglas, per esempio, studiò in Africa un gruppo chiamato Lele, ma quasi nessuno legge il suo libro su di loro; la gente legge se mai Purity and Danger (Purezza e pericolo), buona parte del quale è un’analisi strutturalista dei libri dell’Antico Testamento, ispirandosi piú a Marcel Mauss e a Lévi-Strauss, che hanno svolto poco lavoro sul campo, che a Malinowski, che lo poneva invece al centro della sua visione dell’antropologia (personalmente posso assolutamente raccomandare Purezza e pericolo, è un grande libro). Fu Lévi-Strauss a sviluppare lo strutturalismo in antropologia, un’impostazione metodologica adattata da Ferdinand de Saussure e da un’altra importante figura della linguistica come Roman Jakobson (un altro ebreo in esilio a New York che Lévi-Strauss conobbe nei primi anni Quaranta). Lévi-Strauss nutriva un’enorme ammirazione per la linguistica e sosteneva che l’antropologia aveva bisogno di modellarsi in modo analogo. La linguistica strutturale aveva ragione su diversi punti, sosteneva Lévi-Strauss. Innanzi tutto, essa si concentra su quella che egli definisce come l’«infrastruttura inconscia» del linguaggio, qualcosa di cui il parlante stesso potrebbe non avere la minima idea. In secondo luogo, colloca il significato non nelle parole stesse – «gatto è gatto» (miao) – bensí nei rapporti tra le parole – «gatto, non cane» (miao, non bau). Terzo, tali rapporti si collocano all’interno di un sistema, ordinato e strutturato. Infine, la linguistica

strutturale cerca di estrapolare delle leggi generali 4. Se passerete a leggere qualsiasi testo di antropologia strutturale, vi sembrerà molto diverso dalla maggior parte degli altri studi antropologici. Probabilmente, non presenterà molti personaggi pittoreschi e pieni di vigore: il capo Chiweshe, per esempio, o Janet, l’infermiera del reparto maternità della cittadina di Scunthorpe; quasi senz’altro, conterrà molte informazioni enciclopediche, per esempio sulle tassonomie popolari dei marsupiali nell’Australasia; potrebbe benissimo essere incentrato sui miti – che sono stati fonte di vivo interesse per gli strutturalisti, poiché, sostengono, rendono manifesti i meccanismi di molte «infrastrutture inconsce»; se cosí è, non aspettatevi una bella fiaba dei fratelli Grimm: aspettatevi se mai una dissezione chirurgica. Lo stesso Lévi-Strauss non è un narratore di fiabe, e il punto non è quello di godersi una favola meravigliosa, ma capire come il mito, scomposto nelle sue parti costituenti, ci dica qualcosa sia sul sistema della cultura da cui è tratto sia, ancor piú, sul funzionamento della mente. In effetti, tutti questi elementi saranno usati per sostenere la tesi di Lévi-Strauss sulle strutture universali di pensiero, cognizione e classificazione. Potrebbe forse sembrare un affronto alla grandezza di Lévi-Strauss il fatto di rivolgersi a qualcun altro nel tentativo di riassumere cosa sia lo strutturalismo. Dal fatto poi che tale sintesi sia stata scritta piú di un secolo prima che Lévi-Strauss definisse la sua posizione potrebbe perfino trasparire l’intenzione di voler aggiungere un insulto all’offesa. Eppure, non sono certo io il primo a farlo, visto che è lo stesso Lévi-Strauss a porre questa citazione del filosofo August Comte come epigrafe al suo breve saggio Totemism (Il totemismo oggi). Comte scrive: «Le leggi logiche, che governano in ultima analisi il mondo intellettuale, sono – per loro natura – essenzialmente invariabili e comuni, non solo in tutti i tempi e luoghi, ma anche per qualsiasi soggetto, senza alcuna distinzione, perfino tra quelli che chiamiamo reali e chimerici; esse si osservano, in fondo, anche nei sogni…» 5.

La frase di Comte riassume quasi alla perfezione lo strutturalismo. Che si tratti di un essere umano «primitivo» o «civilizzato», di un Bororo o di un cittadino britannico, di uno sciamano o di un uomo di scienza, a livello di struttura mentale o di capacità cognitiva non esiste alcuna differenza. Ciò che l’antropologia deve fare è vagliare tutte le diversità di rilievo e le divisioni apparentemente incommensurabili tra le culture al fine di scoprire gli elementi universali della condizione umana. In La pensée sauvage (Il pensiero selvaggio), uno dei suoi libri piú famosi, Lévi-Strauss espone diffusamente la propria tesi. «Il pensiero selvaggio è logico, nello stesso senso e nello stesso modo del nostro», conclude l’autore dopo 280 e piú pagine di analisi riguardanti un po’ tutto, dalla classificazione dell’Artemisia nelle Americhe ai necronimici (che identificano una persona in rapporto a un parente morto) dei Penan del Borneo, fino alle competenze e all’approccio del moderno ingegnere alla filosofia di Jean-Paul Sartre 6. Lévi-Strauss è una delle rare figure dell’antropologia che possa considerarsi un naturalista sui generis. Egli non sminuí né abbandonò mai l’dea dell’importanza delle differenze culturali, intendendole però all’interno di un registro piú basilare di cognizione e pensiero. Maurice Bloch ha riconosciuto in Lévi-Strauss «il primo antropologo moderno a considerare seriamente la necessità di studiare appieno le implicazioni dei meccanismi mentali» 7. Il primo antropologo moderno e non certo l’ultimo, anche se l’interesse per la mente, almeno nel senso inteso da Bloch, ha innescato all’interno dell’antropologia solo delle ricerche di minore portata. Buona parte di tali studi, inoltre, sono stati condotti in rapporto alla scienza cognitiva, un campo che – forse sorprendentemente – Lévi-Strauss coltivò poco. Per Bloch, divenuto uno dei massimi esponenti dell’antropologia cognitiva, questa mancanza di coinvolgimento nella scienza della cognizione ha indebolito fortemente la disciplina antropologica, rendendo sempre piú difficile riconoscere la collocazione del genere umano all’interno della storia naturale.

Per molti antropologi, tuttavia, il punto d’arresto è rappresentato dal fatto che il richiamo al naturalismo si è sempre presentato raramente. L’evoluzionismo sociale, nonostante la sua prepotenza, produsse ben poco a cui si possa riconoscere un valore duraturo. Parimenti, il lavoro di Lévi-Strauss non ha dimostrato per molti antropologi una vera capacità di resistenza, almeno in termini assoluti. Pur non avendo rivali quanto a erudizione, la sua opera presenta nondimeno frequenti momenti in cui sembrano avere luogo dei balzi di fede o dei giochi di prestigio: le interpretazioni del mito, per esempio, risultano alquanto difficili da giustificare. Per la maggior parte degli antropologi, una questione ancora piú seria riguarda la misura in cui lo strutturalismo sembra erodere la possibilità che l’azione dell’uomo realizzi un genuino cambiamento all’interno di un sistema dato. Questa è la sfida che si erano posti Marshall Sahlins e Pierre Bourdieu: rimaneggiare lo strutturalismo affinché tenesse conto della storia e dell’azione umana – di qualcosa cioè di effettivamente strutturato ma in grado di accogliere cambiamenti. In seguito vorrei prendere in considerazione alcuni lavori di antropologia cognitiva, come anche un altro modo in cui gli antropologi stanno tentando oggi di riconciliare l’attenzione verso la cultura con l’attenzione verso la natura. Prima di passare a questo argomento, tuttavia, ritengo utile esaminare ulteriormente perché alla natura venga dato cosí poco credito.

Limiti della natura? Alla maggioranza delle persone, nella maggior parte delle epoche e dei luoghi, i confini tra natura e cultura, ammesso che esistano, appaiono confusi, nella migliore delle ipotesi. In molti luoghi, poi, essi non entrano nemmeno in gioco. Questo è uno dei punti fondamentali dello studio sulla Melanesia di Marilyn Strathern. I gruppi sociali della Melanesia non pensano come gli occidentali. Tra

le tribú del distretto di Hagen, nella Regione delle Terre Alte di Papua Nuova Guinea, tra le quali la Strathern condusse il proprio lavoro sul campo, le classificazioni avvengono in termini di selvatico e domestico, piuttosto che di natura e cultura. Tale approccio contraddice quelle che assumeremmo di norma come linee di demarcazione tra natura e cultura. I maiali, per esempio, vengono considerati non in base alla loro essenza suina – cioè alla loro «natura animale» –, ma piuttosto a seconda che siano domestici o selvatici. Laddove noi potremmo dire «d’accordo, certi animali sono domestici o tenuti come animali da compagnia che amiamo, ma sono comunque animali, fanno comunque parte del mondo della natura», a un abitante del distretto di Hagen questo non verrebbe mai in mente. Non è possibile equiparare il selvatico (rømi) alla natura e il domestico (mbo) alla cultura. Si tratta di un modo fondamentalmente diverso di suddividere il mondo e le relazioni al suo interno. I popoli del distretto di Hagen non sono certo i soli. Senza dubbio, nel caso di molte società vissute storicamente cosí «vicine alla natura», non dovremmo sorprenderci che il concetto di cultura eserciti cosí poca attrazione o sia cosí poco importante. Se si trascorre la maggior parte del tempo con dei maiali, oppure in un orto, o a caccia nella foresta, o a pesca, o ad accudire il bestiame, l’dea di appartenere a un qualche ordine culturale non ha necessariamente senso. Perfino all’interno delle tradizioni di pensiero occidentali, in realtà, il fatto di ribadire una divisione tra natura e cultura appartiene a tempi assolutamente recenti. Fu infatti nel corso del XVIII e XIX secolo che tale separazione assunse le sue forme attuali. Si tratta di una concezione della natura in cui tutti gli esseri viventi sono connessi tra loro, ma all’interno della quale si crea al tempo stesso una sorta di anello isolante attorno al genere umano. Ciò che avviene dentro tale anello è reso possibile grazie alle capacità uniche dell’umanità – capacità molteplici ma tra cui quelle dominanti sono le facoltà cerebrali. L’essere umano viene pertanto a distinguersi in virtú delle sue capacità di possedere e creare

una cultura. Sotto molti aspetti, ovviamente, questo comporta l’addomesticamento della natura: coltivare determinate piante, allevare determinati animali, produrre medicamenti e fabbricare ripari e abiti. Una delle conclusioni a cui si giunse nel periodo in esame, tuttavia, fu che la natura, in ultima analisi, rappresentava un regno autonomo. Lentamente, con il trascorrere del tempo, la mano divina l’aveva allontanata da noi, lasciandoci soli ad affrontarla. La natura, in tal senso, è da intendersi sia come termine moderno sia come una condizione della modernità, accompagnata da un buon numero di associazioni di idee e contrapposizioni. Al riparo della separazione tra natura e cultura, abbiamo anche iniziato a pensare in termini di oggetto e soggetto, realtà data e realtà creata, non umano e umano, passivo e attivo, non intenzionale e intenzionale, immanente e trascendente e cosí via. Per certi versi, non si può dire che tali divisioni fossero nuove o addirittura esclusive del pensiero occidentale (anche se si pensava che fosse la mente dell’Occidente ad averle comprese al meglio e in modo assolutamente unico). Piú importante ancora di tutto questo, in effetti, era la convinzione che l’uomo moderno fosse in grado di mantenere i due ambiti ben separati e distinti. Ritorniamo per un attimo al pensiero di uomini come Edward Burnett Tylor e Lucien Lévy-Bruhl: la loro tesi circa il pensiero primitivo – il pensiero premoderno – era che esso confondesse e mescolasse le cose perché non era in grado di gestirne la separazione. Tale pensiero non era sofisticato e si era evoluto giusto quel tanto da elaborare le informazioni attraverso canali chiari e comprensibili. Il trionfo della modernità sta nell’aver riconosciuto il vero ordine delle cose. Peccato però che non sia cosí. La realtà non è soltanto che l’«uomo moderno» ha imposto a tutti il suo modo di pensare al mondo – ignorando del tutto le specifiche differenze degli Araweté, dei popoli del distretto di Hagen, dei Nuer o, già che ci siamo, dei cinesi Han –, ma anche che non ha saputo dimostrarsi all’altezza di ciò che propugnava. Come afferma l’antropologo francese Bruno Latour, in

realtà «non siamo mai stati moderni». In un libro di modeste dimensioni, pubblicato nel 1991, Latour riuscí a scuotere le scienze umane come raramente accade. Nous n’avons jamais été modernes (Non siamo mai stati moderni) è quasi un sermone – un ammonimento rivolto a «noi» – sui difetti, e sull’ipocrisia dell’Occidente. Spaziando dalla storia della scienza agli studi antropologici in Amazzonia, dai cambiamenti climatici (che facevano già titolo nel 1991) alla caduta del Muro di Berlino, Latour individua i vari modi in cui, a partire dal XVII secolo, l’esistenza umana cominciò a essere definita dalla rottura con il passato da parte dell’uomo – con la tradizione in patria e con altre modalità all’estero. Nella storia di tale rottura, Dio muore (o viene almeno depennato), nasce la scienza e prende piede la politica democratica. Emerge un nuovo ordine mondiale, in cui le strade fangose e caotiche del passato – e altre non occidentali – vengono abbandonate in nome di un approccio razionale e ragionevole al rapporto tra natura e cultura. Senza dubbio, si tratta di un rapporto in cui ciascuna delle due parti mantiene il proprio decoro evitando di ricadere nell’altra e rendendo difficile distinguerle. Dopo tutto, è ciò in cui i nostri antenati fallirono, come del resto continua a fare buona parte del mondo. È una storia che amiamo raccontarci, sostiene Latour, ma che non corrisponde a verità. Non siamo mai riusciti realmente a tenere distinte e pure la natura e la cultura, né abbiamo mai ceduto completamente al magico fascino delle rassicurazioni della scienza. La cerimonia d’insediamento del presidente degli Stati Uniti si colloca ai vertici della moderna ritualità, attingendo alle ricche tradizioni della democrazia liberale e ai valori dell’Illuminismo – tranne il fatto che essa rimane legata allo stesso potere magico delle parole che potremmo aspettarci di trovare in un rito induista. Gli affari sono affari, non dimentichiamolo; non c’è niente di personale. Peccato che le cose non stiano in questo modo: non siamo affatto capaci a tenere separati gli affari dai nostri legami umani. Un regalo è un regalo e le merci sono merci: sono cose molto diverse. In verità, sappiamo che

non è affatto cosí. Facciamo ancora un esempio, direi rilevante, che ci riporta ai rapporti tra umani e non umani: il caso degli animali domestici. Amiamo tenere degli animali da compagnia, e sappiamo che si tratta di animali; eppure, non occorre essere un antropologo o un etologo di provata esperienza per sapere che molti proprietari di animali domestici – forse perfino la maggior parte di loro, e di certo quelli piú coscienziosi e gentili – trattano i loro animali in modo assolutamente umano: danno loro un nome, gli parlano, li fotografano, comprano cose per loro (giocattoli, cappottini, assicurazioni), li adorano alla follia e, quando giunge il momento, piangono disperati la loro scomparsa. Ci sono persone, la maggior parte delle quali vedi caso non possiede animali (mi riferisco soprattutto ai cani, che rappresentano senza dubbio il migliore animale da compagnia del mondo occidentale), che giudicano questo modo di trattare le bestie per quello che è: una flagrante violazione della separazione esistente tra natura e cultura. Per loro si tratta di effusioni irrazionali che andrebbero rivolte a esseri umani (con dispendio di affetto, denaro, tempo e vita sociale) e sono invece incanalate verso esseri non umani. Eppure, anche se queste teste quadrate si dimostrano convenientemente moderne quando si tratta di cani, capita spesso che esse deludano le richieste della modernità in altri campi (magari non hanno fiducia nei dottori, oppure pregano i santi, o detestano volare perché sembra loro una cosa cosí «innaturale», oppure mangiano la carne di animali che loro stessi uccidono, anziché comprarla, come dovrebbero, già confezionata in tagli oppure macinata e opportunamente avvolta in fogli di polietilene). Talvolta, non è in una presunta retroguardia della modernità che troviamo sottoposta alle maggiori pressioni la demarcazione tra natura e cultura, bensí nella sua avanguardia. Non essere del tutto moderni è una conclusione scontata se siete un cattolico o vi rammendate i calzini o avete un’attività di famiglia. La cosa tuttavia riguarda anche i medici e i filosofi morali, come ben sappiamo da uno studio

antropologico sulla donazione degli organi.

Con in mente la morte. Margaret Lock è un medico antropologo della McGill University di Montréal. Ha iniziato la sua specializzazione studiando la medicina tradizionale in Giappone. Il suo interesse per la donazione degli organi è sorto successivamente, legato non tanto a ciò che accadeva negli Stati Uniti e in Canada quanto alla varietà di dibattiti che circondavano l’argomento 8. La differenza era che in Canada e negli Stati Uniti non esisteva quasi nessun dibattito tout court, soprattutto riguardo alla condizione sempre piú riscontrata, grazie ai progressi della tecnologia medica, di pazienti affetti da «morte cerebrale». In stato di morte cerebrale, ai pazienti possono essere espiantati i loro organi sani, dato che in tale condizione patologica le funzioni dell’organismo non vengono interrotte. In Giappone, al contrario, la Lock rilevò non solo una forte resistenza alla donazione degli organi, ma anche il fatto che molti, tra cui medici ed esperti di questioni etiche, rifiutavano di accettare che la morte di un essere umano fosse determinata in rapporto alle sue capacità mentali. Nel Nord America, scrive Margaret Lock, il successo delle donazioni di organi e l’accettazione della morte cerebrale sembrano derivare da un tentativo di considerare l’espianto come l’ultimo dono: il «dono della vita» a. Benché tale linguaggio attinga ai concetti di carità cristiana e a tradizioni sacrificali, esso è reso possibile anche dal passaggio, avvenuto agli inizi dell’età moderna, dalla morte come materia religiosa alla morte come materia della medicina. Oggi, per esempio, vale la pena ricordare che, per quanto concerne lo stato (americano, canadese o, perché no, britannico), il decesso viene stabilito dal medico, non dal prete. È il medico, o l’istituzione sanitaria, a essere investito sia dell’autorità legale sia del dovere di dichiarare l’avvenuta morte di una persona. Naturalmente, i sacerdoti,

o altre figure religiose, svolgono ancora un ruolo di primo piano durante il funerale. Non dobbiamo però dimenticare che nelle esequie non avviene assolutamente nulla di carattere legale. Lo stato non richiede che si celebri un funerale, e in molti paesi occidentali esso può essere celebrato da chiunque, cioè non deve essere necessariamente un sacerdote regolarmente ordinato. Se lo desiderate, a celebrare il funerale può anche essere vostro zio Ernesto, oppure, per quel che vale, perfino qualche famoso clown di vostra conoscenza. La «medicalizzazione della morte», a sua volta, riesce a rendere possibile strutturalmente la percezione di un corpo come un corpo, come una cosa, o un insieme di cose, inclusi quegli organi che potrebbero adempiere ancora a una nobile missione in altri corpi di persone ancora vive. In questo caso viene ad assumere particolare importanza la personalità individuale, e non è difficile capire, vista buona parte di ciò che abbiamo già discusso, perché proprio al cervello, in quanto motore delle nostre facoltà mentali, dovrebbe essere riconosciuto un valore fondamentale per definire una personalità. Nel Nord America, l’individualismo è un valore supremo; ciò che le persone hanno piú a cuore sono la libertà, l’autonomia e la possibilità di scegliere – vale a dire tutto ciò per cui «vivono». Rientra in tutto questo anche la libertà di pensiero e di coscienza, per cui, se un essere umano non è in grado di pensare, non è cosciente né controlla il proprio corpo come ingranaggio per compiere azioni, quell’essere umano non è piú una persona a tutti gli effetti. Quando si parla di morte cerebrale, la metafora che usiamo è oltremodo eloquente: essere in uno stato di morte cerebrale equivale a trovarsi in un «persistente stato vegetativo». In situazioni di tipo piú quotidiano, può capitare che un parente vi dica che preferirebbe morire piuttosto che vivere come un «vegetale». Forse anche voi la pensate nello stesso modo. È quel genere di argomento che trattiamo con i nostri cari alla fine di un pranzo in un giorno di festa, quando i discorsi vengono rivolti alle grandi questioni dell’esistenza, oppure dopo aver saputo che qualcuno

dei vostri conoscenti ha subito un tremendo trauma cerebrale in seguito a un incidente d’auto. Per molti di noi, essere umani significa possedere una mente, essere consapevoli e attori del nostro destino. Nel Nord America, la morte cerebrale trasforma il corpo da qualcosa di culturale a qualcosa che tale non è piú. La morte cerebrale ci riduce allo stato di natura, dove non c’è posto per la persona. In questo stato, l’unico e ultimo gesto che ci è concesso è offrire a qualcun altro quel «dono della vita». In Giappone predominano valori e tradizioni di pensiero molto diversi. Forse, inevitabilmente, la visione del mondo è anche plasmata dalla secolare preoccupazione di mantenere integre e distinte la cultura e la Weltanschauung giapponese. Il Giappone è una nazione decisamente moderna, con un’economia che fa parte dei G-8, una popolazione alfabetizzata e con un elevato livello d’istruzione e una tecnologia tra le piú avanzate – è perfino piú progredito tecnologicamente degli Stati Uniti e del Canada. Ciò nonostante, il Giappone rappresenta ancora l’Altro da noi, la cui modernità è tuttora intesa in rapporto e come risultato dell’influenza occidentale. Non è soltanto attraverso la cultura che possiamo cercare di capire la differenza tra il Giappone e il Nord America: è anche attraverso la politica della cultura, nella misura in cui, nel dibattito sulla morte cerebrale, troviamo personalità pubbliche che ricorrono alla «tradizione nipponica» per dare man forte a sentimenti nazionalisti del genere «Noi contro di Loro». Come sottolinea Margaret Lock, tuttavia, e come possiamo valutare noi stessi in base a quel poco che abbiamo detto, anche nel Nord America sono all’opera la cultura e la politica della cultura. Il fatto è che la loro mobilitazione ha avuto semplicemente maggiore successo, sicché (ci) sembra che la posizione americana sia ormai un dato di fatto e corrisponda al reale buon senso. Eppure non c’è niente di predefinito o di naturale nel pensare a una persona in stato di morte cerebrale come a un «cadavere vivente». Margaret Lock indica diversi valori che orientano l’atteggiamento di molti giapponesi. In Giappone, riferisce la studiosa, la morte non è

intesa come qualcosa che avviene in un momento scisso da tutto il resto o dipendente dalla condizione binaria vivo/morto: la morte è un processo. La maggior parte dei giapponesi, inoltre, non privilegia la facoltà cognitiva come sede della personalità; il corpo svolge esattamente la medesima funzione. Legata a tutto questo vi è l’idea che l’individuo non è autonomo, ma appartiene a un tutto ben piú vasto rappresentato dalla famiglia. Le famiglie giapponesi, e perfino singoli individui all’interno di esse, non sono inclini ad accettare la morte come qualcosa di atomistico o avulso dalla collettività. Infine, benché la professione medica goda di un ottimo status e abbia avuto un eccellente sviluppo, la scienza della medicina non possiede quell’aria di prestigio e autorevolezza che ha in Nord America. La morte non ha subito un pieno processo di medicalizzazione, né il corpo è stato altrettanto naturalizzato. Tutto questo rende difficile pensare a un cuore, a un fegato o a un rene come a qualcosa di molto simile a un comune «oggetto». La Lock ha perfino rilevato che alcuni professionisti della medicina minimizzano il diritto di fare affermazioni del genere. Un medico le disse: «Non penso che riusciamo a capire esattamente che cosa avvenga nel cervello al momento della sua morte, e, per come la vedo io, una morte che può essere rilevata soltanto da un medico non è una morte» 9. Come abbiamo visto parlando delle nuove tecnologie riproduttive nel caso del Libano (nel capitolo V ), bastano un respiratore, una scodella di ghiaccio, e una sala operatoria a sollevare questioni fondamentali sul confine tra natura e cultura, tra vita e morte. La stessa idea del «cadavere vivente» è un perfetto esempio del perché non siamo mai stati moderni, come direbbe Latour. L’idea suonerebbe a molti come un ossimoro: un corpo morto che non è morto (Latour lo definisce un «ibrido»). Non appena abbiamo la chiara comprensione di qualcosa di naturale e privo di qualsiasi ambiguità biologica come la «morte», ecco che in tale comprensione avvengono immediatamente dei cambiamenti. La morte, pertanto, non è piú ciò che era, e i progressi della tecnologia scientifica, cosí come nuovi

argomenti in campo etico, si offrono per garantirne nel lungo periodo una reinvenzione e ridefinizione. Visto attraverso le lenti del progresso della medicina, «è improbabile che riusciremo mai a stabilire una linea di demarcazione tra natura e cultura» 10.

Scienza/fiction. Un’altra ragione per cui gli antropologi si sono rivelati scettici sul valore della natura è data dalla misura in cui certi studiosi si prendono delle libertà in virtú dell’autorità scientifica loro attribuita. Gli uomini di scienza sono tenuti senza dubbio in grande considerazione. Secondo un sondaggio condotto nel 2015 nel Regno Unito, la professione «medica» risultava quella piú apprezzata; lo scienziato si collocava al quarto posto, dopo l’insegnante e il giudice (al quinto posto si piazzava il parrucchiere!) 11. Da una ricerca analoga svolta negli Stati Uniti risultò che infermieri, farmacisti e medici occupavano le prime tre posizioni, seguiti dagli insegnanti di scuola superiore 12. Se consideriamo che medici, infermieri e farmacisti hanno una preparazione in biologia, chimica e farmacologia, appare evidente che la scienza rappresenta un ambito straordinario, ricco di valore e virtú. In alcuni momenti mi sono riferito all’antropologia come a una scienza, quale in effetti essa è. Si tratta però di una scienza sociale, non di una scienza naturale (talora la si definisce una «scienza molle», per distinguerla dalla «scienza dura»). Questo le conferisce un minore valore sociale e, poiché il suo argomento di studio è legato alla cultura e alla società, è vista necessariamente come una disciplina soggettiva e interpretativa o, come minimo, non oggettiva quanto le scienze naturali o la «scienza dura». Oggigiorno, in realtà, molti antropologi sociali non considerano per nulla ciò che fanno come un’attività scientifica; molti si sentono piú a loro agio tra i filosofi e gli storici che tra i biologi o i geologi. Già nel 1950, E. E. Evans-Pritchard aveva criticato l’idea dell’antropologia come scienza, avanzando invece

come modello la storia. Abbiamo già accennato ad alcune delle critiche rivolte da figure come Boas al modello dell’evoluzionismo sociale, da lui ritenuto «cattiva scienza». Le sue qualità negative erano: 1) l’errata analisi della cultura umana come un corpo umano; 2) la caparbia glorificazione, talora perfino fonte di imbarazzo, della scienza come suprema risposta a ogni cosa. Gli evoluzionisti sociali si sforzavano di infilare dei pioli quadrati in buchi rotondi, per altro con scarsa coscienza critica. Né Boas né Malinowski abbandonarono il modello scientifico in sé, anzi, il secondo levò lodi tanto smaccate a tale metodo quanto Tylor o Herbert Spencer. Nel corso del XX secolo, tuttavia, gli antropologi si resero sempre piú conto che le pretese di obiettività scientifica dovevano essere almeno limitate. In certi casi, tali pretese risultavano perfino pura presunzione, dato che nessuna conoscenza – riguardante i meccanismi del corpo, del mondo o del cosmo – era esente dal dato culturale. Ora, non c’è dubbio che se di questi tempi parlate con molti fisici, difficilmente descriveranno il loro lavoro in termini di «oggettività». Molti di loro, in tal senso, hanno rinunciato in varia misura al concetto di realtà. In modo analogo, ingegneri strutturali, chimici, genetisti e sicuramente molti altri uomini di scienza sono spesso consapevoli del fatto che il loro lavoro non si realizza in un vuoto culturale, o che la conoscenza assoluta fluisce semplicemente all’esterno e brilla luminosa. Oltre tutto, non conosco nessun antropologo che sia anche luddista, che ritenga la penicillina un «fatto sociale» o una «costruzione culturale», o che assista un malato di Ebola senza adeguate protezioni, che non apprezzi il valore e la comodità di un congelatore e dei viaggi aerei, oppure, a tale proposito, che non consideri con preoccupazione quanto la scienza climatica ci dice sugli effetti che congelatori e viaggi in aereo hanno sull’ambiente. Nondimeno, l’autorevolezza sociale della scienza può creare dei punti ciechi, delle caratterizzazioni bizzarre e, talvolta, delle tesi assolutamente fantasiose su argomenti importanti come la biologia, la

cultura e la natura umana. Il momento di scrivere sui «dati di fatto» ha rappresentato appunto uno di questi punti problematici. Nel 1991, l’antropologa Emily Martin pubblicò un articolo sulla riproduzione umana, analizzando i vari aspetti in cui i testi di biologia degli Stati Uniti applicavano i ruoli e gli stereotipi di genere culturalmente dominanti ai ruoli riproduttivi dell’ovulo e degli spermatozoi 13. La studiosa ha ricavato un quadro oltremodo interessante e sbalorditivo della misura in cui si possa ricorrere a un linguaggio di genere e perfino sessista per veicolare la conoscenza dei dati scientifici. Tale caso esemplare chiarisce fino a che punto il pensiero culturale possa plasmare la nostra conoscenza della «natura». Emily Martin rilevò che quasi tutti i libri di testo presentavano il contributo maschile alla riproduzione in una luce positiva e quello femminile in una luce negativa – e mai il contrario. Come scoprí la studiosa, uno degli aspetti piú sconcertanti di questa presentazione standardizzata era la descrizione del processo di oogenesi (la produzione delle cellule uovo), di cui risaltava l’inefficienza. Uno dei libri di testo affermava perfino in modo netto che tale processo rappresentava uno «spreco». Ora, è vero che, nella vita di una donna, dei circa sette milioni di cellule uovo prodotte nelle ovaie soltanto 400 o 500 diverranno ovuli perfettamente formati. Magnifico! Ma si tratta di una goccia in un oceano se si pensa a ciò che accade con gli spermatozoi. Secondo una stima per altro cauta, si valuta che in una sola giornata un uomo produca 100 milioni di spermatozoi, vale a dire piú di due trilioni nel corso di una vita. Eppure, tale fatto non viene mai descritto come uno «spreco», nemmeno semplicemente come «strano», anzi, viene presentato come prova della produttività maschile. Ammesso e non concesso che una coppia abbia in media due figli, non potremmo allora affermare che le donne sono in realtà molto meno «sprecone» degli uomini, con tutti i loro microscopici spermatozoi? Su ogni 200 ovuli prodotti, la donna procrea un figlio, con un rapporto di 200:1. Nell’uomo, al contrario, il rapporto verrebbe

a essere di 1 trilione:1. Un altro aspetto di queste descrizioni che risentono di pregiudizi di genere riguarda la passività dell’ovulo e l’attività dello spermatozoo. Si dice infatti che gli ovuli rimangono praticamente a oziare mentre gli spermatozoi sono impegnati nella loro «missione» di «penetrare» nell’ovulo. La Martin trovò perfino un libro di testo che descriveva l’ovulo in questi termini: «una bella addormentata in attesa del magico bacio del suo compagno, che instillerà in lei lo spirito che la riporterà alla vita» 14. Il caso vuole che il periodo in cui furono scritti molti di questi libri di testo, cioè gli anni Ottanta, abbia conosciuto numerosi cambiamenti nelle conoscenze riguardanti l’inseminazione. I ricercatori cominciarono infatti a capire che nel processo di riproduzione l’ovulo svolge un ruolo ben piú attivo e che gli spermatozoi non sono neppure lontanamente cosí «forzuti» come prima si pensava. Il processo iniziò a essere interpretato come parte di una reazione chimica, legata tanto all’ovulo quanto allo spermatozoo. Come riferisce Emily Martin, tuttavia, lo spermatozoo continuò a essere descritto come il partner maggiormente attivo. In certi casi, inoltre, le nuove scoperte spostarono semplicemente l’accento sugli stereotipi di genere. Gli ovuli cominciarono a essere presentati come delle «trappole» per spermatozoi. Poveri piccoli spermatozoi! Gli ovuli passarono cosí dall’immagine di donzelle in pericolo a quella di megere o sirene. Come se tutto questo non fosse già di per sé abbastanza pericoloso, la Martin rileva anche che il fatto di adottare delle dramatis personae a questo microlivello rischia di insinuare la personalità ancora piú all’interno del corpo umano. Dimenticatevi del cervello e di tutta la controversia a esso legata riguardo alla definizione di ciò che è vita. Portato alle sue estreme conseguenze logiche, tale tipo di linguaggio dei libri di testo scientifici sembrerebbe indicare che il vero oggetto dell’antropologia è visibile solo sotto la lente di un microscopio. Gli sciagurati isolani delle Trobriand sappiano che un approccio di questo genere trasforma in nativi anche gli spermatozoi. Donzelle in pericolo.

Uomini in missione. «Il fatto che simili stereotipi compaiano in forma scritta a livello di cellule rappresenta un’abile mossa per farli sembrare cosí naturali da non poter subire alterazioni» 15. Le cellule, tuttavia, si sono rivelate le protagoniste del XX secolo. Ormai abbiamo raggiunto livelli ben piú microscopici. L’intero impianto logico di quanto descrive Emily Martin è stato recentemente trasferito ai geni, e quasi non ce ne siamo accorti.

I geni sono noi. La genetica è divenuta un aspetto assolutamente centrale del progetto antropologico, in special modo negli svariati ambiti in cui operano gli antropologi sociali e fisici: dibattiti sulla razza, distribuzione tra la popolazione di determinati disturbi ereditari (come l’anemia falciforme), sviluppo demografico e perfino uno studio condotto nella Repubblica democratica del Congo sugli effetti che lo stress della guerra causa nell’espressione genica delle donne in gravidanza 16. Per alcuni autori, tuttavia, tra cui un certo numero di psicologi evolutivi di tutto rispetto e loro sostenitori, la genetica è divenuta simile a un sistema crittografico segreto, in grado di dare finalmente un senso ai misteri non solo della struttura dell’essere umano ma anche del suo comportamento. Se capiamo i geni, capiamo l’uomo. Dalla natura trae origine la cultura. Nel 2005, l’antropologa Susan McKinnon condusse un’analisi esaustiva di questa svolta verso la genetica come chiave per accedere a ogni conoscenza. Come dimostra la studiosa, tale mutamento finisce per dirci di piú sulle posizioni culturali e ideologiche degli autori che sul genoma umano 17. La McKinnon definisce tale approccio «genetica neoliberista», vale a dire che il quadro della natura umana da essa offerto ricorda in modo sorprendente sia la visione del mondo di Milton Friedman e Margaret Thatcher sia ciò che spinge l’uomo a farsi attore della realtà

economica. L’elemento piú impressionante, tuttavia, è che gli psicologi evolutivi che dipingono tale quadro del comportamento umano si muovono liberamente tra il presente e la preistoria, dipingendo con la stessa pennellata l’uomo medio dell’America contemporanea e un cacciatore di 200 000 anni fa, quando, durante il Pleistocene, comparve per la prima volta l’homo sapiens. In base a tale impostazione, quello che conta veramente è l’individuo, mentre la società e la storia risultano elementi secondari. La libertà e la possibilità di scelta sono viste positivamente; il controllo e la regolamentazione in modo negativo. L’interesse personale e la volontà di massimizzare i profitti o i privilegi della posizione sociale sono virtú che guidano ogni nostro processo decisionale. A innescare e mantenere viva questa tendenza sono appunto gli ultimi elementi: l’interesse personale e la massimizzazione dei profitti. Come sottolinea la McKinnon, l’impegno comune che si ravvisa in tale approccio è una particolare interpretazione dell’impulso sessuale e, con esso, dei ruoli di genere, matrimonio e famiglia. La parentela è tutta incentrata sulla genetica. All’interno di tale cornice, uomini e donne cercano entrambi di «massimizzare» le rispettive posizioni, il che si riduce poi alla procreazione. L’idea, cioè, è che uomini e donne abbiano sviluppato (o piuttosto programmato attraverso il codice genetico) determinati «meccanismi preferenziali» nella scelta del compagno/compagna. Si dice che gli uomini siano alla ricerca di femmine giovani, di bell’aspetto e attraenti b. Delle donne si dice invece che posseggano ciò che questi psicologi evolutivi definiscono l’«interruttore Madonna/puttana». Fondamentalmente, gli uomini desiderano sposare una Madonna e fare, a latere, un sacco di sesso con un buon numero di puttane. Cosí facendo, avrebbero la possibilità di assicurare continuità al loro patrimonio genetico (cioè la famiglia) e soddisfare al tempo stesso il bisogno innato di diffondere il piú possibile il loro seme (la presenza e disponibilità di puttane appare tuttavia curiosa, dato che si pensa che le donne vogliano limitare il loro «investimento riproduttivo» soltanto a uno di questi

ambiziosi uomini alfa. Se ne deduce pertanto che esse non possono essere portatrici di un gene della prostituzione, che risulterebbe maladattivo, per cui tutte le puttane avrebbero dovuto certamente estinguersi nei 200 000 anni trascorsi!) Oltre a determinati «interruttori» catalogati senza dubbio in base a storiche tipologie caratteriali cristiane e medievali, questi psicologi evolutivi sostengono altresí l’esistenza di geni ultra-specifici, o almeno cosí sembra. Sulle basi di ciò che sappiamo della genetica, essi riconoscono infatti l’impossibilità di individuare precisi legami tra geni e determinati comportamenti umani, tratti della personalità o inclinazioni personali. Poi, però, proseguono attenendosi esattamente a tali fantasie, che includerebbero il gene della fedeltà, quello dell’altruismo, della passione per i club, della predisposizione ad aiutare i parenti, non parliamo poi del gene che ha portato un bambino a uccidere la sorellina appena nata, e ancora, di un gene della vergogna, un gene dell’orgoglio, fino ad arrivare al mio gene favorito: quello della contabilità fraudolenta 18! La McKinnon fornisce decine di esempi tratti dai dati etnografici per obiettare a ogni singola storia in questo ambito – a ogni contabilità fraudolenta, potremmo dire. Alcuni esempi sono tratti da casi che anche noi abbiamo considerato, tra cui i Chewong, gli Iñupiaq e gli abitanti delle isole Trobriand. La McKinnon rileva, per esempio, che Malinowski sembra non aver individuato l’«interruttore Madonna/puttana» tra gli abitanti delle isole Trobriand: uomini e donne risultano infatti abbastanza aperti nei loro rapporti e incontri sessuali; le donne delle Trobriand non rientrano nelle categorie di Madonna o puttana. Questo linguaggio cosí carico di valenze, che alcuni psicologi evolutivi vogliono iscrivere nel genoma stesso, era semplicemente irrilevante nelle isole Trobriand, sia per gli uomini sia per le donne. In breve, però, il punto è che questo approccio alla genetica è semplicemente l’ultimo della ricerca di una storia naturale dell’umanità, semplice e universale.

Le nostre storie naturali e sociali. È piuttosto difficile trovare nel comportamento e nei processi cognitivi dell’uomo degli elementi universali che contengano molto in termini di sostanza. Dai dati antropologici emergono poche prove di una natura umana perfettamente programmata. Certo, possiamo individuare una sorta di «parentela» o, piú descrittivamente, di «correlazione» in ogni gruppo umano conosciuto, ma il fatto di riunire i Chewong, i cinesi Han, gli Irochesi e i Bavaresi sotto lo stesso ombrello non ci dice poi molto. Gli antropologi sarebbero felici di essere il futuro gruppo di studiosi a trovare tali valori universali: se una cosa è vera, è vera, quindi perché non lavorare con quella? Ciò che però gli antropologi in realtà non amano per niente è quando «scienza» e «natura» sono aggiogate insieme senza troppa attenzione all’evidenza o all’autoriflessione critica. Le prodezze degli spermatozoi e l’«interruttore Madonna/puttana» sono solo due delle ragioni che determinano il forte impegno dell’antropologia a chiarire l’importanza delle particolarità culturali, del contesto sociale e delle dinamiche storiche. Sono senz’altro ottime ragioni, eppure Bloch è nel giusto quando afferma che la disciplina antropologica ignora a suo rischio e pericolo i risultati delle scienze cognitive e naturali. Se non riusciamo a dare una collocazione all’«interruttore Madonna/puttana», o a qualsiasi altro tipo di alternanza, all’eredità di Lévi-Strauss, cosí come al piú generale interesse dell’antropologia verso l’unità psichica del genere umano, è piú che doveroso prendere sul serio il naturalismo. Nel concludere questo capitolo, vorrei evidenziare due aree di ricerca in cui questo sta appunto avvenendo con risultati produttivi. Uno di tali ambiti di studio riguarda la combinazione dei tradizionali metodi di lavoro sul campo con esperimenti di psicologia cognitiva 19. Rita Astuti ha studiato per quasi trent’anni una piccola comunità di pescatori, i Vezo, sulla costa del Madagascar. Nei primi anni Duemila, dopo aver pubblicato una serie di importanti lavori

sulle relazioni di parentela, i mezzi di sostentamento e l’identità dei Vezo, iniziò un progetto comparativo con due psicologi cognitivi chiamati ad analizzare le rappresentazioni concettuali nei campi della biologia e della sociologia popolare. I tre studiosi volevano comprendere meglio l’interpretazione quotidiana e la razionalizzazione di processi come l’ereditarietà biologica: che cosa pensavano i Vezo riguardo ai processi dell’ereditarietà? A chi si diceva che assomigliasse un bambino, e perché? In che modo quell’identificazione influiva sulle possibili azioni del bambino? E cosí via. Seguendo le risposte, ottenute sullo sfondo del prolungato lavoro sul campo di Rita Astuti attraverso una serie di test psicologici appositamente progettati (alle persone venivano fatte domande ipotetiche sull’ereditarietà e l’identità personale), veniva a porsi una domanda piú basilare: esistevano dei vincoli allo sviluppo concettuale? In altre parole, esistono determinate categorie della conoscenza, o della comprensione dei «fatti della vita», che risultano strutturate entro i processi cognitivi dell’uomo? È «davvero noto a tutti» che da un’anatra nasce un’anatra, da una tigre nasce una tigre e che dal signor e la signora Rossi nasce un piccolo Giovanni Rossi? (Anche se quell’anatra viene allevata da un’oca, la tigre viene allevata da un elefante e il piccolo Giovanni viene allevato dal signor e dalla signora Bianchi?) Chiaramente, queste domande sui limiti dello sviluppo concettuale possono essere sollevate nel contesto di alcuni dei principali dibattiti antropologici che abbiamo considerato in questo libro, per esempio in ciò che Ruth Benedict e Lee D. Baker evidenziano in merito a adozione e educazione, nell’analisi di Lewis Henry Morgan della terminologia riguardante la parentela o, volendo, in ciò che intendono gli uomini bororo quando dicono di essere dei pappagalli rossi. Tali quesiti risultano di particolare interesse nello studio di Rita Astuti perché tra i Vezo è diffuso un approccio fortemente performativo all’identità e ai vincoli di parentela 20. Come avviene in molte altre piccole società non occidentali che abbiamo considerato,

chi e che cosa siamo è legato a che cosa facciamo e a quali relazioni sociali siamo in grado di sviluppare c. I Vezo non sono Vezo perché tali sono nati: sono Vezo perché agiscono in un modo ben preciso. Per essere un Vezo, si devono fare cose da Vezo, la maggior parte delle quali ruota attorno alla famiglia, alla pesca e al mare. Questo approccio performativo e socialmente orientato all’identità è cosí forte che i Vezo sostengono addirittura che se una donna incinta intrattiene una buona amicizia nel corso della gravidanza, il bambino, crescendo, assomiglierà a quell’amica/amico. Gli esperimenti cognitivi, tuttavia, non sembravano concordare con questo resoconto etnografico. Sembra che i Vezo sappiano perfettamente che certi «fatti della biologia» influiscono in modo importante in termini di ereditarietà intergenerazionale. Negli esempi ipotetici presentati nei test, gli adulti Vezo fornirono una chiara indicazione di sapere benissimo che un bambino ricavava il suo «modello» (come lo chiamavano) dai genitori biologici. In altre parole, riconoscevano che la genetica e gli aspetti fondamentali di «ciò che siamo» non sono costrutti sociali né dipendono da atti performativi. Ciò che i tre ricercatori rilevarono, tuttavia, fu anche una sistematica negazione di tale consapevolezza da parte dei Vezo quando il discorso riguardava la propria vita. Nelle loro comunità, un’eccessiva enfasi sulla correlazione biologica era considerata antisociale e possessiva; urtava contro il valore fondamentale della vita della comunità, cioè avere il maggior numero possibile di relazioni (cioè «parentele»). La Astuti e i suoi colleghi hanno scoperto che i Vezo «non badano a ciò che noi sappiamo che loro sanno» 21. Per Rita Astuti e i suoi collaboratori, questi risultati sollevavano un punto importante, vale a dire che gli antropologi che non prendono seriamente ciò che possono arrivare a comprendere circa la cognizione e lo sviluppo concettuale non fanno che darsi la zappa sui piedi. Se lo scopo dell’antropologia è capire il punto di vista dell’indigeno, a tale obiettivo non contribuisce forse soltanto una qualche conoscenza dei vincoli che limitano lo sviluppo concettuale?

Chiaramente, essi non tolgono alcun significato alla cultura, dal momento che i Vezo li «scavalcano». Al contrario, quindi, potrebbero in definitiva suggerire perfino quanto la cultura e i valori siano significativi per la nostra personalità. La stessa Ruth Benedict potrebbe essere incoraggiata da questa recente ricerca. Dopo tutto, il suo esempio di adozione «interrazziale» affronta sostanzialmente lo stesso problema: che cos’è che ci rende ciò che siamo? Eppure, ciò che il caso dei Vezo sembra indicare non è l’esistenza di un modello culturale fortemente strutturato e rigidamente prescritto. Esso indica al contrario che potrebbe esserci qualcosa di ben saldo dentro di noi che ci permette di riconoscere i «fatti della vita», ma che è chiaramente subdeterminato e dipendente dalle elaborazioni culturali. Un altro ottimo esempio che funge da ponte tra l’impostazione delle storie naturali e quella delle scienze sociali deriva dall’antropologia dell’etica 22. Si tratta di un sottocampo di studi che ha conosciuto una certa crescita negli ultimi anni, con una serie di contributi da cui traspare una seria attenzione all’opera di Aristotele, Immanuel Kant, Michel Foucault e altri esponenti della grande tradizione filosofica. In questo ambito, la ricerca si è concentrata praticamente su tutto, dai progetti etici altamente elaborati di soggetti religiosi – come abbiamo visto con gli esempi dei richiedenti della fatwa al Cairo e dei pentecostali in Papua Nuova Guinea – alle eterne battaglie dei tossicodipendenti fino all’«etica ordinaria» della vita di tutti i giorni. La maggior parte dei lavori riflette l’accento posto dall’antropologia sulle questioni riguardanti le costruzioni sociali e culturali. Nel suo recente libro Ethical Life: Its Natural and Social Histories, l’antropologo Webb Keane, uno dei piú apprezzati antropologi culturali di oggi, mette in discussione la capacità effettiva di tale impostazione socioculturale, tanto piú che l’etica è uno degli ambiti di ricerca piú importanti nel settore della psicologia e dello sviluppo evolutivo. Buona parte di quest’opera ha un orientamento piú naturalistico e si rivolge all’annosa questione se i nostri valori morali

e il nostro ragionamento etico siano innati. Keane non rifiuta l’importanza della storia sociale e del contesto culturale. Lungi da questo. Entrambi rimangono elementi centrali nella sua esposizione, e l’autore dedica parecchio tempo a osservare in che modo i progetti etici vengano a svilupparsi in contesti tanto diversi come il Vietnam rivoluzionario, il movimento della religiosità islamica al Cairo e le campagne di sensibilizzazione delle femministe in Occidente. Keane segue inoltre con estrema attenzione la dimensione etica delle interazioni personali, cioè come gli scambi interpersonali nelle situazioni quotidiane e ordinarie possano rivelare qualcosa sugli interessi e i valori delle persone. Le regole d’inferenza che seguiamo durante una conversazione, gli scambi che abbiamo su Facebook e la frustrazione che proviamo dopo essere stati corretti da un barista di Starbucks per l’uso scorretto del vocabolario per ordinare un caffè (ristretto, lungo, grande, venti, con latte scremato…) possiedono tutti una valenza etica e si possono studiare opportunamente con i metodi antropologici dell’osservazione e dell’analisi sociolinguistica. Keane si dedica tuttavia anche alla psicologia e allo sviluppo evolutivo, in quanto tali aree di ricerca possono dirci parecchio su alcune delle componenti fondamentali di ogni vita etica. Lo studio include l’importanza del gioco, dell’empatia e dell’altruismo, il momento in cui i bambini iniziano a fare distinzioni tra loro e gli altri, quello in cui i bambini cominciano a riconoscere l’esistenza di altre menti e la capacità di assumere una prospettiva in terza persona. L’evidenza sembra indicare che i bambini non hanno bisogno di imparare a essere empatici, che sviluppano la propensione a cooperare e a condividere anche quando non è in gioco alcun interesse personale e che apprezzano il senso di giustizia. Storia famigliare, istruzione e altri modi di socializzazione non sono pre-condizioni per l’espressione di tali forme di conoscenza intuitiva. Al tempo stesso, come avverte Keane, questo non rende tali azioni o reazioni «etiche» in se stesse. Anziché considerarle come intuizioni

o impulsi, dovremmo ritenerle una affordance – termine che egli prende in prestito dallo psicologo James Gibson per esprimere il modo in cui esperienze e percezioni rendono possibili determinate cose. Adattando uno degli esempi offerti da Keane, potremmo dire che se stiamo facendo una lunga camminata e cominciamo a sentirci stanchi, una roccia piatta e liscia che abbia la stessa altezza di un sedile potrebbe fungere benissimo da sedia improvvisata su cui possiamo fermarci a riposare. Non è una sedia vera e propria, ma ne possiede l’affordance, cioè «si offre» come tale e serve allo stesso scopo. Allo stesso modo, in circostanze diverse, una sedia potrebbe «darsi» come una scala a pioli o un attrezzo con cui domare un leone. Nessuno di questi usi è fisso o predeterminato: essi derivano da una combinazione di fattori oggettivi e contingenti. La roccia non può che essere una roccia, e un certo tipo di roccia (liscia, dell’altezza giusta). Anche noi però dobbiamo essere stanchi e non vedere l’ora di sederci. Ciò che Keane intende dimostrare è che gli aspetti preculturali della cognizione e del ragionamento umano sono molto simili a quella roccia, cioè componenti necessarie ma non sufficienti per una «vita etica». Per essere etici, questi impulsi e intuizioni richiedono degli input sociali, che possono presentarsi sotto forma di educazione famigliare, istruzione, studio della Bibbia, lettura del Manifesto comunista, di Thomas Mann, cantilena del mantra del Sutra del cuore, ascolto di Bob Dylan, di un discorso di Gloria Steinem o Naomi Klein, l’epica Ramayana sceneggiata dalla televisione nazionale indiana nonché un numero indeterminato di interazioni ed esperienze quotidiane ordinarie che una persona può avere, dall’ordinare un caffè medio (cioè un caffè con filtro alto) da Starbucks alle barzellette raccontante durante un picnic. La conclusione di Keane è semplice, ma non per questo meno significativa: «Senza le sue storie sociali, la vita etica non sarebbe etica; senza le sue storie naturali, non sarebbe vita» 23. Come la letteratura post-coloniale, la storia umana richiede una lettura contrappuntistica.

a. La studiosa si concentra sul Nord America ma l’argomento potrebbe riguardare anche numerosi contesti dell’Europa occidentale. b. Di bell’aspetto? Considerando ciò che sappiamo della storia e preistoria umana, per non parlare di numerosi canoni estetici moderni non occidentali, la modella che mediamente vorremo vedere sulla nostra passerella corrisponde a tutto meno che alla norma desiderata. Formosità e circonferenza abbondante sono state ritenute spesso caratteristiche di considerevole fascino. Per uno studio su grassezza e bellezza nel Sahel, si veda Rebecca Popenoe, Feeding Desire: Fatness, Beauty and Sexuality among a Saharan People, Routledge, London 2004. c. Questo vale anche per i catalani, naturalmente, almeno negli ultimi anni.

Conclusioni Pensare come un antropologo

Dopo aver tanto parlato di cultura, corriamo il rischio di restare abbagliati. Abbiamo analizzato una vasta gamma di visioni del mondo e modi di vita: musulmani devoti del Cairo che cercano di migliorarsi attraverso il consiglio degli sceicchi; indios boliviani ossessionati dal gioco del calcio, ma non dalla vittoria in una partita; operatori della Borsa di Londra a caccia di futures convinti che le transazioni per via telematica promettono un mercato piú vicino alla perfezione; indigeni melanesiani pronti a mettersi in mare su piccole canoe alla ricerca di collane e braccialetti che non potranno indossare; ucraini le cui vite e il cui mondo sono stati irrimediabilmente distrutti dal disastro nucleare di Černobyl’; spose intraprendenti e figlie arrabbiate con il governo in Cina, le prime determinate a negoziare il loro bottino nuziale, le seconde decise a ricordare i torti subiti dalla madre appena morta e a onorarla con un canto funebre. Nel mondo esistono ancora molte differenze. Il colonialismo non è riuscito a fare piazza pulita, né ha saputo plasmare a colpi d’accetta un’interpretazione inattaccabile del cristianesimo, del commercio o della civiltà. Non ha reso americani gli indiani Mashpee né ha reso britannico lo Zimbabwe, dove il primo significato della parola inglese cricket non è immediatamente cosí ovvio. Neppure la globalizzazione ha eliminato le differenze. In Belize, la Tv satellitare non ha spazzato via la cultura locale, anzi, se mai, questo veicolo di flussi d’informazione globali è riuscito soltanto a infonderle nuovo vigore, o forse ha perfino contribuito a reinventarla. La differenza per il puro piacere della differenza, tuttavia, non è il

punto essenziale dell’antropologia. Se lo fosse, saremmo davvero abbagliati, perfino accecati. Anche se l’antropologia si propone di documentare la differenza – e spesso offrirne una testimonianza diretta –, essa intende altresí dare un senso a quelle differenze. L’antropologia cerca di offrire delle spiegazioni. Il «punto di vista dell’indigeno» non è un semplice problema di prospettiva; esso rappresenta questioni di logica e modi di ragionare, rivelandoci almeno in parte «come pensano gli indigeni». Imparare qualcosa sulla consuetudine cairota di richiedere una fatwa significa quindi apprendere anche che nell’islam la libertà è definita in rapporto all’autorità, non nel contrapporsi a essa. Gli Ese Ejja della Bolivia ridimensionano la competitività nel gioco del calcio in virtú della loro adesione all’egualitarismo, un valore che spesso troviamo altamente sviluppato in piccole società senza stato che hanno tradizionalmente ridotto al minimo l’importanza della proprietà privata. Gli operatori di Borsa a caccia di futures nella City di Londra si rivolgono alla tecnologia perché operano in un sistema che cerca di disumanizzare gli scambi di mercato. Se gli affari non sono affari e non c’è nulla di personale, allora si fa di tutto per liberarsi delle persone. Gli uomini delle isole Trobriand partecipano allo scambio del kula perché lo scambio dei doni li rende rinomati, ma anche perché esso garantisce un supporto alla logica della socializzazione, in cui l’Io individuale è valutato in termini di rapporti con gli altri. Per le vittime della fusione nucleare di Černobyl’, strette tra il regime politico e scientifico del defunto impero sovietico e lo scoppiettante farfugliare dello stato post-socialista, la sofferenza ha finito per determinare le condizioni dell’intera esistenza. Quello delle vittime di Černobyl’ rappresenta un caso particolarmente limpido di come, in molti contesti contemporanei, stiamo assistendo all’emergere di una cittadinanza biologica, le cui rivendicazioni non si basano sulla condizione umana ma su condizioni di salute pubblica. Le spose di quel villaggio nella Cina nord-orientale e le manifestazioni di lutto di giovani figlie nella valle di Júzò hanno riportato in vita il linguaggio

dell’individualismo, senza tuttavia produrre una semplice eco di un elemento tradizionalmente occidentale. Quelle giovani donne stanno usando qualcosa di nuovo per puntellare, rinvigorire e reinventare cose piú vecchie. Questi esempi riguardanti la Cina sono solo due dei tanti presenti nel libro che ci aiutano a capire fino a che punto tradizione e modernità non siano elementi fissi ma termini fluidi e relazionali. Naturalmente, non si tratta del semplice fatto che l’antropologia «cerchi di spiegare». Dopo tutto, anche le scienze politiche, la filosofia e la sociologia offrono spiegazioni. Ciò che conferisce all’antropologia il suo carattere ben distinto è la misura in cui tali spiegazioni dipendono dalla conoscenza di una realtà locale. La parola hau non è solo un termine della lingua dei Maori: ormai da quasi un secolo, essa rappresenta un termine tecnico dell’antropologia, atto a rammentarci che le linee di demarcazione tra le persone e le cose non sono cosí chiare come spesso presumiamo. Il prospettivismo, analogamente, non caratterizza soltanto determinate visioni del mondo amerindiane; è piuttosto un rompicapo che impone agli antropologi di domandarsi se sia possibile (e doveroso) ripensare a ciò che rientra nei confini dell’umanità e del genere umano. Molte spiegazioni antropologiche, in altre parole, comportano un rovesciamento della figura-sfondo percepita, invertendo tra loro il primo piano e lo sfondo di ciò che si sta guardando. Per ottenere una spiegazione olistica, l’antropologia deve spesso ribaltare il buon senso e mettere in dubbio ciò che viene dato per scontato. L’antropologia ci spinge a riconsiderare non solo ciò che noi pensiamo di conoscere – che cosa significa essere ricchi, perché il sangue conta, che cosa costituisce la ragione –, ma anche i termini con cui noi conosciamo la realtà. Essa racchiude elementi di stranezza e sorpresa. Ai popoli del distretto di Hagen in Papua Nuova Guinea, come abbiamo visto, sembra piú sensato pensare in termini di selvatico/domestico che natura/cultura. Natura e cultura non sono dunque distinzioni binarie rigidamente strutturate. Sono concetti dotati

di storie particolari. Per gli Araweté, natura e cultura risultano termini piú adeguati e confacenti, ma i loro rapporti devono essere invertiti. Laddove in Occidente pensiamo in termini di una sola natura e di molte culture, in questa cosmologia amerindiana avviene l’esatto contrario. Gli Iñupiaq non tengono in gran in conto quel «sangue» che americani, britannici e molti altri popoli hanno cosí a cuore quando si tratta di parentela. Tra Iñupiaq è perfettamente normale dire: «Una volta era mio cugino». Neppure la morte è quella che era un tempo. In Canada e negli Stati Uniti, i progressi della tecnologia medica, le dinamiche della secolarizzazione e una certa retorica persuasiva del «dono della vita» hanno contribuito a legittimare l’idea della morte cerebrale di un paziente. In questi contesti, la donazione degli organi è un modo per concedere a quel paziente «morto» la possibilità di compiere un ultimo gesto. Forse non si tratta piú di uno spirito che agisce nel mondo, ma potrebbe esserne comodamente l’equivalente moderno – il che non significa che siano le possibilità tecnologiche a determinare i confini tra la vita e la morte. In Giappone, per esempio, un sistema sanitario altrettanto sviluppato non ha dato origine alla medesima separazione tra corpo e mente: i giapponesi riconoscono l’idea di un «cadavere vivente» per l’ossimoro che è. Spero che facciate vostri almeno alcuni di questi dettagli. I fatti, sociali o altri (anche se forse non «alternativi»), contano ancora qualcosa a. È utile saperne un po’ di piú sul sistema induista delle caste, su che cos’è (e non è) una fatwa, e magari essere informati che al mondo esiste un luogo chiamato isole Trobriand – dove il turismo culturale e i predicatori pentecostali suscitano ora altrettante preoccupazioni quanto le antiche tradizioni dell’Anello del kula e lo scambio di stoffa in fibre di banano ai funerali b. L’approccio antropologico alla conoscenza ha sempre avuto una dimensione etica. Siamo persone migliori se ne sappiamo di piú sugli altri. Il fatto poi che questi «altri» abitino in un pueblo degli Zuni o a Londra non ne muta il valore, che per il progetto antropologico resta identico. Quanto Ruth Benedict sosteneva nel 1934 appare altrettanto rilevante oggi:

«Mai la civiltà ha avuto maggiore bisogno di individui sinceramente consci del diritto all’esistenza di culture diverse, capaci di guardare oggettivamente, senza timori e senza recriminazioni, il comportamento socialmente condizionato di altri popoli» 1. Piú che qualche gustosa informazione antropologica, tuttavia, mi auguro che il lettore possa assimilare un certo grado di sensibilità antropologica – cioè conservare un approccio antropologico per sopportare il mondo che ci circonda, il che equivale a dire: pensare da antropologo. Alcuni progetti antropologici potrebbero sembrare piú rilevanti di altri per quel mondo e per le nostre apprensioni: per esempio gli studi sui mercati finanziari di Chicago e di Londra, o l’etica della donazione di organi e della cura per il fine vita. Si tratta di progetti che hanno una facile applicabilità, forse perfino delle implicazioni pratiche. Grazie alla sua ricerca sui trapianti di organi, Margaret Lock ha assunto un ruolo chiave nell’International Forum for Transplant Ethic. Insieme con un filosofo e un avvocato, la studiosa lavora da diversi anni con chirurghi e altri professionisti della medicina per promuovere un approccio piú globale alla dimensione etica dell’espianto e trapianto di organi. Questa è l’antropologia che conta, che fa la differenza. Un lavoro di questo tipo rientra direttamente nell’alveo di una piú ampia tradizione di sensibilizzazione pubblica e politica che risale agli interventi di Franz Boas nei dibattiti sulla razza. Ciò che ho anche cercato di dimostrare è che l’importanza dell’antropologia nasce ben al di là di questi casi specifici. Sapere della «mistica del bestiame» tra i Basotho è altrettanto pertinente e applicabile a una conoscenza del nostro mondo quanto l’etica medica, i mercati finanziari e la scienza nucleare in Occidente. È un esempio di come persone e luoghi a noi remoti siano tuttavia intimamente connessi. La «mistica del bestiame» ci parla dei Basotho, ma ci offre altresí delle informazioni sull’industria mineraria globale, su come le persone usino il denaro e altri beni per negoziare rapporti di genere, e su come le tradizioni possano essere grandi fonti di creatività e

innovazione. Nei prossimi decenni, reiterando uno studio sulla «mistica del bestiame» potremmo anche attingere a informazioni sui cambiamenti climatici; dopo tutto, è stato un lungo periodo di siccità che ha posto per la prima volta in evidenza l’importanza di tale «mistica». In uno studio recente sull’epidemia di Ebola del 2013-15 nell’Africa occidentale, l’antropologo Paul Richards ha sottolineato l’osservazione di un politico britannico, Norman Tebbit, che aveva affermato un giorno che «il contribuente non poteva permettersi oltre di finanziare irrilevanti studi antropologici sulle pratiche prenuziali nell’Alto Volta» 2. Eppure, è proprio grazie allo studio di molti di questi fenomeni apparentemente irrilevanti, esoterici o banali – che potremmo definire curiosità culturali – che spesso troviamo cose di valore, cose trascurate o date per scontate che in realtà rivestono grande importanza. Richards conduce da oltre quarant’anni le sue ricerche in Sierra Leone, il secondo paese con il piú alto numero di vittime per l’epidemia di Ebola secondo il bilancio ufficiale. La sua analisi dell’epidemia riserva la dovuta attenzione ai dati epidemiologici, alla realtà e ai dati della patologia nonché ai punti di forza e di debolezza della risposta a livello internazionale. Buona parte dei capitoli centrali del suo libro è dedicata a dettagliate descrizioni etnografiche delle pratiche di sepoltura nei villaggi di Mende e Temne. Perché? Perché la preparazione del defunto per la sepoltura era uno dei momenti di massimo contagio. Le persone volevano che i loro cari fossero lavati e curati nel miglior modo possibile, ma questo era anche uno dei modi piú probabili per entrare in contatto con i fluidi corporei che trasmettono il virus Ebola. Una qualche conoscenza delle tradizioni di sepoltura dell’Africa occidentale, quindi, e, cosa ancora piú importante, dei modi in cui la gente del luogo adattava le proprie azioni per rispettare sia le esigenze di salute pubblica sia le tradizioni culturali, era divenuta un indispensabile prerequisito per fermare l’epidemia. Certo, le tute protettive erano essenziali, quanto i fluidi di reidratazione, le

ambulanze, gli ospedali da campo e il coraggioso lavoro di medici specialisti e volontari nazionali e internazionali. Eppure, altrettanto essenziale è stata la conoscenza delle pratiche locali, delle tradizioni legate alla cura, alla commemorazione e al senso comune. Quindi, in altre parole, hanno fornito un aiuto indispensabile anche la cultura e una certa scienza sociale chiamata antropologia.

a. Nel gennaio del 2017 la consigliera di Donald J. Trump, Kellyanne Conway, ha coniato l’espressione «fatti alternativi» in un’intervista rilasciata a «Meet the Press», il programma di informazione della Nbc che va in onda la domenica mattina. Si veda il video su http://www.nbcnews.com/meet-thepress/video/conway-press-secretary-gave-alternative-facts-860142147643 (ultimo accesso al sito il 14 marzo 2017). Non penso che l’espressione della Conway entrerà a far parte del lessico dell’antropologo come termine tecnico. b. Quando Michelle MacCarthy si recò nelle Trobriand per condurre delle ricerche per il suo PhD all’Università di Auckland, negli anni Duemila, il turismo culturale era diventato per gli isolani un’importante fonte di sostentamento. La MacCarthy ne discute ampiamente nella sua tesi di dottorato, vedi Michelle MacCarthy, Contextualizing Authenticity: Cultural Tourism in the Trobriand Islands, University of Auckland, 2012. Nei viaggi successivi, scoprí che alcune donne delle isole Trobriand, attratte dai messaggi dei predicatori pentecostali, avevano smesso di produrre le stoffe di fibra di banano; i pentecostali sostengono infatti che è solo una perdita di tempo. Vedi Michelle MacCarthy, Doing Away with Doba? Women’s Wealth and Shifting Values in Trobriand Mortuary Distributions, in Anna-Karina Hermkens e Katherine Lepani (a cura di), Sinuous Objects, Anu Press, Canberra 2017.

Note

Introduzione. Familiarità ed estraneità 1. FRANK H. CUSHING, Zuni: Selected Writings of Frank Hamilton Cushing, University of Nebraska Press, Lincoln-London 1978, p. 46. 2. Ibid., p. 319. 3. Ibid., p. 279. 4. CAITLIN ZALOOM, Out of the Pits: Traders and Technology from Chicago to London, University of Chicago Press, Chicago 2006, pp. 9, 8. 5. Ibid., p. 10. 6. MARSHALL SAHLINS, The Original Affluent Society, in ID. , Stone Age Economics, Aldine Atherton, Chicago 1972, pp. 1-40 [trad. it. L’originaria società opulenta, in L’economia dell’Età della pietra. Scarsità e abbondanza nelle società primitive, Bompiani, Milano 1980, pp. 13-51, cit. pp. 16-17]. 7. Ibid., p. 50. 8. Ibid., p. 20. 9. http://www.survivalinternational.org/galleries/hadza, consultato il 19 dicembre 2016. 10. HORTENSE POWDERMAKER, Hollywood: the Dream Factory. An Anthropologist Looks at the Movie Makers, Secker & Warburg, London 1951. 11. ROBERT PARKIN, The French-speaking Countries, in FREDRIK BARTH et al., One Discipline, four Ways: British, German, French, and American Anthropology, University of Chicago Press, Chicago 2005, p. 169. 12. Citato in JESSE GREEN, Cushing at Zuni: The Correspondence and Journals of Frank Hamilton Cushing, 1879-1884, University of New Mexico, Albuquerque 1990, p. 12; si vedano inoltre pp. 10-11. 13. PHIL HUGHTE, A Zuni Artist Looks at Frank Hamilton Cushing, University of New Mexico Press, Albuquerque 1994. 14. Per altre informazioni sul ruolo dell’antropologia nelle operazioni

antinsurrezionali, cfr. il pamphlet di ROBERTO J. GONZALEZ, American Counterinsurgency: Human Science and the Human Terrain, Prickly Paradigm Press, Chicago 2009. 15. BRONISŁAW MALINOWSKI, Argonauts of the Western Pacific: An Account of the Native Enterprise and Adventure in the Archipelagoes of Melanesian New Guinea, Routledge, London 1922; il corsivo e il genere maschile dell’aggettivo possessivo sono nell’originale [trad. it. Argonauti del Pacifico occidentale. Riti magici e vita quotidiana nella società primitiva, Bollati Boringhieri, Torino 2011, p. 33]. 16. Ibid., p. 20. 17. L’intervista a Madsbjerg dell’«Harvard Business Review» è disponibile al sito https://hbr.org/2014/03/an-anthropologist-walks-into-a-bar. 18. http://www.theguardian.com/business/2008/oct/31/creditcrunch-gillian-tettfinancial-times.

I. Cultura

1. L’equivoco nasce dall’omonimia nella lingua inglese tra il gioco del cricket e la parola cricket, cioè «grillo» [N.d.T.]. 2. JOSEPH MITCHELL, «Man-with Variations»: Interviews with Franz Boas and Colleagues, 1937, Prickly Paradigm Press, Chicago 2017, pp. 33-34. 3. Citato in MATTI BUNZL, Franz Boas and the Humboldtian Tradition: from «Volksgeist» and «Nationalcharakter» to an Anthropological Concept of Culture, in GEORGE W. STOCKING JR (a cura di), «Volksgeist» as Method and Ethic: Essays on Boasian Anthropology and the German Anthropological Tradition, «History of Anthropology», vol. VIII, University of Wisconsin Press, Madison 1996, pp. 17-32, cit. p. 32. 4. Citato in GEORGE W. STOCKING JR, From Physics to Ethnology, in ID., Race, Culture, and Evolution: Essays in the History of Anthropology, University of Chicago Press, Chicago 1968, pp. 133-61, cit. p. 136. 5. CLIFFORD GEERTZ, Thick Description: Toward an Interpretive Theory of Culture, in ID. , The Interpretation of Cultures: Selected Essays, Basic Books, New York 1973, pp. 3-30 [trad. it. Verso una teoria interpretativa della cultura, in Interpretazione di culture, il Mulino, Bologna 1998, pp. 9-42, cit. p. 11]. 6. ARTHUR KLEINMAN, Culture and Depression, in «New England Journal of

Medicine», CCCLI (2004), pp. 951-53. 7. Ibid., p. 951. 8. Citato in RICHARD HANDLER, Nationalism and the Politics of Culture in Quebec, University of Wisconsin Press, Madison 1988, p. 141. 9. PAUL MANNING, Materiality and Cosmology: Old Georgian Churches as Sacred, Sublime, and Secular Objects, in «Ethnos», LXXIII (2008), n. 3, pp. 327-60. 10. JAMES DEETZ, In Small Things Forgotten: An Archaeology of Early American Life, Anchor Books, New York 1995, p. 4. 11. FIONA COWARD, Grounding the Net: Social Networks, Material Culture, and Geography in the Epipalaeolithic and Early Neolithic of the Near East (~21000-6000 cal BCE), in CARL KNAPPET (a cura di), Network Analysis in Archaelology: New Approaches to Regional Interaction, Oxford University Press, Oxford 2013 pp. 247-80. 12. MATTHEW ARNOLD , Culture and Anarchy (1869), Cambridge University Press, Cambridge 1932 [trad. it. Cultura e anarchia, Einaudi, Torino 1975, pp. 44-45]. 13. EDWARD B. TYLOR, Primitive Culture: Researches into the Development of Mythology, Philosophy, Religion, Art, and Custom, John Murray, London 1871, p. 1. 14. LESLIE WHITE, The Evolution of Culture: The Development of Civilization to the Fall of Rome (1959), Left Coast Press, 2007, p. 12. 15. Cfr. RUTH BENEDICT, Patterns of Culture, Houghton Mifflin Harcourt, New York 1934 [trad. it. Modelli di cultura, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 20]. 16. LEE D. BAKER, The Location of Franz Boas within the African-American Struggle, in FRIEDRICH POHL e BERNHARD TILG (a cura di), Franz Boas: Kultur, Sprache, Rasse, Lit Verlag Baker, Wien 2011, pp. 111-29, in particolare p. 122; per maggiori dettagli sull’argomento si vedano inoltre ID. , From Savage to Negro: Anthropology and the Construction of Race, 18961954, University of California Press, Berkeley 1998, e GEORGE W. STOCKING JR , From Physics to Ethnology cit. 17. CLAUDE LÉVI-STRAUSS , The Savage Mind, University of Chicago Press, Chicago 1966 [trad. it. Il pensiero selvaggio, il Saggiatore, Milano 2011, p. 288]. 18. TANYA LUHRMANN, When God Talks Back: Understanding the American Evangelical Relationship with God, Vintage Books, New York 2012. 19. ROBERT BRIGHTMAN, Forget Culture: Replacement, Transcendence,

Reflexification, in «Cultural Anthropology», X (1995), n. 4, pp. 509-46. 20. JOEL ROBBINS, Continuity Thinking and the Problem of Christian Culture: Belief, Time, and the Anthropology of Christianity, in «Current Anthropology», XLVIII (2007), n. 1, pp. 5-38. 21. DIANA FUSS, Essentially Speaking: Feminism, Nature and Difference, Routledge, New York 1989, p. XI . La Fuss, pur non essendo un’antropologa bensí una critica letteraria, ha scritto un libro davvero eccellente sul concetto di essenzialismo. 22. PIERRE BOURDIEU, Outline of a Theory of Practice, Cambridge University Press, Cambridge 1977 [trad. it. Per una teoria della pratica, Raffaello Cortina, Milano 2003, pp. 206-7]. 23. ARJUN APPADURAI , Modernity at Large: Cultural Dimensions of Globalization, University of Minnesota Press, Minneapolis 1996 [trad. it. Modernità in polvere: dimensioni culturali della globalizzazione, Raffaello Cortina, Milano 2012]. 24. http://anthropology.columbia.edu/people/profile/347; sito consultato l’ultima volta il 28 marzo 2016. 25. LILA ABU-LUGHOD , Writing against Culture, in RICHARD G. FOX (a cura di), Recapturing Anthropology: Working in the Present, School of American Research Press, Santa Fe 1991, pp. 137-62. 26. ALFRED R. RADCLIFFE-BROWN , On Social Structure, in «Journal of the Royal Anthropological institute», LXX (1940), n. 1, pp. 1-12. 27. RAYMOND FIRTH, Contemporary British Social Anthropology, in «American Anthropologist», LIII (1951), n. 4, pp. 474-89. 28. JAMES CLIFFORD, Introduction: the Pure Products Go Crazy, in ID. , The Predicament of Culture: Twentieth-century Ethnography, Literature, and Art, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1988, pp. 1-18 [trad. it. I frutti puri impazziscono: etnografia, letteratura e arte nel secolo XX , Bollati Boringhieri, Torino 1993, p. 23]. 29. Malinowski citato in BRIGHTMAN , Forget Culture cit., p. 534. 30. ROBERT H. LOWIE, The Crow Indians (1935), University of Nebraska Press, Lincoln 2004, pp. XXI-XXII . 31. ALFRED L. KROEBER e CLYDE KLUCKHOHN, Culture: A Critical Review of Concepts and Definitions, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) London 1952, p. 357.

II . Civiltà

1.

Messaggio su Twitter del 19 dicembre 2016; https://twitter.com/realDonaldTrump? ref_src=twsrc%5Egoogle%7Ctwcamp%5Eserp%7Ctwgr%5Eauthor; ultimo accesso al sito il 20 dicembre 2016. 2. THOMAS R. TRAUTMANN, Lewis Henry Morgan and the Invention of Kinship, University of California Press, Berkeley 1987, p. 10. 3. TYLOR , Primitive Culture cit., p. 2. 4. Si veda GEORGE W. STOCKING JR, Victorian Anthropology, The Free Press, New York 1987 [trad. it. Antropologia dell’età vittoriana, Ei Editori, Roma 2000]. 5. LEWIS H. MORGAN, Ancient Society; Or, Researches in the Lines of Human Progress from Savagery, through Barbarism to Civilization, Kerr and Company, Chicago 1877 [trad. it. La società antica: le linee del progresso umano dallo stato selvaggio alla civiltà, Feltrinelli, Milano 1970, pp. 6-9]. 6. Ibid., p. 11. 7. TYLOR , Primitive Culture cit., p. 24. 8. MORGAN , La società antica cit., p. 141. 9. FRANZ BOAS, The Limitations of the Comparative Method of Anthropology, in «Science», IV (1896), n. 103, pp. 901-8, cit. 908. 10. JULES FERRY, Speech before the French National Assembly (28 July 1883), in ALFRED ANDREA e JAMES OVERFIELD (a cura di), The Human Record: Sources of global history, Wadsworth, Boston 2012, vol. II, pp. 295-97, cit. 295. 11. Cfr. JEAN COMAROFF e JOHN COMAROFF, Of Revelation and Revolution: Christianity, Colonialism, and Consciousness in South Africa, University of Chicago Press, Chicago 1991, vol. I; Of Revelation and Revolution: The Dialectics of Modernity on a South African Frontier, University of Chicago Press, Chicago 1997, vol. II. 12. Ibid., p. 213. 13. FRANTZ FANON, Black Skin, White Masks (1952), Grove Press, New York 1967 [trad. it. Pelle nera, maschere bianche: il nero e l’altro, Marco Tropea Editore, Milano 1996, pp. 26-27]. 14. ISABELLA LEPRI, Identity and Otherness among the Ese Ejja of Northern Bolivia, in «Ethnos», LXXI (2006), n. 1, pp. 67-88. 15. Ibid., p. 75. 16. SAMUEL P. HUNTINGTON, The Clash of Civilizations?, in «Foreign Affairs»,

LXXII (1993), n. 3, pp. 22-49 [cfr. The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, Simon & Schuster, New York 1996; trad. it. Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 1997]. 17. HUNTINGTON , Lo scontro delle civiltà cit., p. 48. 18. Ibid. 19. http://georgewbushwhitehouse.archives.gov/news/releases/2001/09/20010916-2.html, consultato il 5 maggio 2016. 20. Citato in MONTGOMERY MCFATE, The Military Utility of Understanding Adversary Culture, in «Joint Force Quarterly», XXXVIII (2005), pp. 42-48, cit. p. 46. 21. JOHANNES FABIAN, Time and the Other: How Anthropology Makes its Object, Columbia University Press, New York 1983 [trad. it. Il tempo e gli altri. La politica del tempo in antropologia, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2000, p. 69]. 22. KATY GARDNER e DAVID LEWIS, Anthropology of Development: Challenges for the Twenty-first Century, Pluto Press, London 2015. 23. https://www.theguardian.com/katine, sito consultato l’ultima volta il 19 ottobre 2016. 24. http://www.theguardian.com/katine/2010/oct/30/story-katine-anthropologistben-jones, sito consultato l’ultima volta il 5 maggio 2016. 25. https://www.theguardian.com/katine/2007/oct/20/about, sito consultato l’ultima volta il 19 ottobre 2016. 26. DAVID WENGROW, What makes Civilization?: The Ancient Near East and the Future of the West, Oxford University Press, Oxford 2010. 27. Ibid., p. XVIII . 28. Ibid., p. 175.

III. Valori

1. J. G. PERISTIANY (a cura di), Honour and Shame: The Values of Mediterranean Society, Weidenfeld and Nicolson, London 1965, p. 9. 2. Citato in JULIAN PITT-RIVERS , Honour and Social Status, in PERESTIANY (a cura di), Honour and Shame cit., pp. 19-77, cit. p. 52. 3. Ibid., p. 41. 4. JANE SCHNEIDER, Of Vigilance and Virgins: Honor, Shame and Access to

Resources in Mediterranean Societies, in «Ethnology», X (1971), n. 1, pp. 124, cit. p. 4. 5. Ibid., p. 17. 6. MICHAEL HERZFELD, Honour and Shame: Some Problems in the Comparative Analysis of Moral Systems, in «Man», XV (1980), n. 2, pp. 339-51. 7. LILA ABU-LUGHOD , Veiled Sentiments: Honor and Poetry in a Bedouin Society, University of California Press, Berkeley 1986. 8. NAOR BEN-YEHOYADA , Mediterranean Modernity?, in PEREGRINE HORDEN e SHARON KINOSHITA (a cura di), A Companion to Mediterranean History, John Wiley & Sons, Oxford 2014, pp. 107-21. 9. MATEI CANDEA e GIOVANNI DA COL (a cura di), The Return to Hospitality, in «Journal of the Royal Anthropological Institute», XVIII (2012), numero speciale. 10. Per gentile concessione dell’autore, cito dalla versione inglese di questo saggio tuttora inedita. Il saggio è apparso in francese: ANDREW SHRYOCK, Une Politique de «Maison» dans la Jordanie des Tribus: Réflexions sur l’Honneur, la Famille et la Nation dans le Royaume Hashémite, in PIERRE BONTE, EDOUARD CONTE e PAUL DRESCH (a cura di), Émirs et Présidents: Figures de la Parenté et du Politique en Islam, Cnrs, Paris 2001, pp. 331-56. 11. LOUIS DUMONT, Homo Hierarchicus: The Caste System and its Implications (1966), University of Chicago Press, Chicago 1970 [trad. it. Homo hierarchicus. Il sistema delle caste e le sue implicazioni, Adelphi, Milano 1991, p. 120]. 12. Ibid., p. 100. 13. MYSORE N. SRINIVAS, The Dominant Caste in Rampura, in «American Anthropologist», LXI (1959), n. 1, pp. 1-16. 14. CHRISTOPHER FULLER, The Camphor Flame: Popular Hinduism and Society in India, Princeton University Press, Princeton 1993, pp. 13-14. Il libro di Fuller offre un’eccellente introduzione antropologica all’induismo. 15. DUMONT , Homo hierarchicus cit., p. 120. 16. Ibid., p. 76. 17. Ibid., pp. 352-54. 18. Ibid., p. 73; nell’originale è in corsivo. 19. Ibid., p. 396. 20. JOEL ROBBINS, Becoming Sinners: Christianity and Moral Torment in a Papua New Guinea Society, University of California Press, Berkeley 2004. 21. Ibid., p. 295.

IV. Valore

1. Citato in JAMES FERGUSON, The Bovine Mystique: Power, Property and Livestock in Rural Lesotho, in «Man», XX (1985), n. 4, pp. 647-74, cit. p. 652. 2. http://www.bridesmagazine.co.uk/planning/general/planningservice/2013/01/average-cost-of-wedding; consultato l’ultima volta il 5 ottobre 2016. 3. http://www.ons.gov.uk/employmentandlabourmarket/peopleinwork/earningsa ndworkinghours/bulletins/annualsurveyofhoursandearnings/2013-12-12; consultato l’ultima volta il 5 ottobre 2016. 4. MALINOWSKI , Argonauti del Pacifico occidentale cit., pp. 91-92. 5. Ibid., p. 95. 6. Ibid., p. 513. 7. Ibid., p. 102. 8. There’s No Such Thing as a Free Lunch è il titolo del libro di MILTON FRIEDMAN pubblicato nel 1977; trad. it. Nessun pasto è gratis, Centro di ricerca e documentazione Luigi Einaudi, Torino 1978 [N.d.T.]. 9. MARSHALL SAHLINS, The Sadness of Sweetness: The Native Anthropology of Western Cosmology, in «Current Anthropology», XXXVII (1996), n. 3, pp. 395-428, cit. p. 398. 10. MARCEL MAUSS, The Gift: The Form and Reason for Exchange in Archaic Societies (1926), W. W. Norton and Company, London 1990 [trad. it. Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino 2002, p. 20]. 11. Ibid., p. 117. 12. KEITH HART, Heads or Tails? Two Sides of the Coin, in «Man», XXI (1986), n. 4, pp. 637-56. 13. ID. , The Hit man’s Dilemma: Or, Business, Personal and Impersonal, Prickly Paradigm Press, Chicago 2005. 14. Ibid., p. 4. 15. CHRISTINE JESKE, Are Cars the New Cows? Changing Wealth and Goods and Moral Economies in South Africa, in «American Anthropologist», CXVIII (2016), n. 3, pp. 483-94. 16. Ibid., p. 485. 17. Ibid., p. 486.

18. Ibid., p. 490. 19. DEBORAH JAMES, Money from Nothing: Indebtedness and Aspiration in South Africa, Stanford University Press, Stanford 2015. 20. Ibid., p. 55. 21. Cfr. DAVID GRAEBER, Lost People: Magic and the Legacy of Slavery in Madagascar, Indiana University Press, Bloomington 2007. 22. ID. , Debt: The First 5,000 Years, Melville House Publishing, New York 2011 [trad. it. Debito: i primi 5000 anni, il Saggiatore, Milano 2012]. 23. Ibid., pp. 101-3.

V . Sangue

1. LEWIS H. MORGAN, Systems of Consanguinity and Affinity of the Human Family, Smithsonian Institution, Washington 1871, p. 10. 2. DAVID M. SCHNEIDER, American Kinship: A Cultural Account, Chicago University Press, Chicago 1968. 3. Ibid., p. 25. 4. Ibid., p. 13. 5. CAROL STACK, All Our Kin: Strategies for Survival in a Black Community, Basic Books, New York 1976, pp. 45-61. 6. ROBERT SUSSMAN, The myth of race: The troubling persistence of an unscientific idea, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2015. 7. https://s3.amazonaws.com/omekanet/3933/archive/files/a21dd53f2a098fca5199e481433b4eb2.pdf? AWSAccessKeyId=AKIAI3ATG3OSQLO5HGKA&Expires=1474327752&S ignature=4VgjdKhdCrZpipb4bpQkiGROVe4%3D, sito consultato il 20 settembre 2016. 8. http://www.telegraph.co.uk/news/politics/2499036/Mayor-of-London-BorisJohnson-is-a-distant-relative-of-the-Queen.html, sito consultato il 22 settembre 2016. 9. SCHNEIDER , American Kinship cit., p. 23. 10. https://www.washoetribe.us/contents/images/documents/EnrollmentDocumen ts/WashoeTribeEnrollmentApplication.pdf, sito consultato il 22 settembre 2016. 11. PAULINE T. STRONG e BARRIK VAN WINKLE, «Indian Blood»: Reflections on

the Reckoning and Refiguring of Native North American Identity, in «Cultural Anthropology», X (1996), n. 4, pp. 547-76. 12. I particolari sulle usanze dei Washoe sono tratti da STRONG e VAN WINKLE, «Indian Blood» cit., e WARREN D’AZEVEDO, Washoe, in WILLIAM STURTEVANT (a cura di), Handbook of North American Indians: Great Basin, Smithsonian Institution, Washington (D.C.) 1986, vol. XI, pp. 466-98. 13. BARBARA BODENHORN, «He Used to Be My Relative»: Exploring the Bases of Relatedness among Iñupiaq of Northern Alaska, in JANET CARSTEN (a cura di), Cultures of Relatedness: New Approaches to the Etudy of Kinship, Cambridge University Press, Cambridge 2000, pp. 128-48. 14. Ibid., p. 147, n. 11. 15. Ibid., p. 136. 16. https://www.theguardian.com/books/2016/aug/27/ian-mcewan-authornutshell-going-get-kicking; sito consultato il 23 settembre 2016. 17. FADWA EL GUINDI, Milk and Blood: Kinship among Muslim Arabs in Qatar, in «Anthropos», CVII (2012), n. 2, pp. 545-55, cit. p. 545. 18. L’argomento è analizzato con dovizia di particolari in PETER PARKES, Fosterage, Kinship, and Legend: When Milk Was Thicker than Blood?, in «Comparative Studies in Society and History», XLVI (2004), n. 3, pp. 587615. 19. MORGAN CLARKE, The Modernity of Milk Kinship, in «Social Anthropology», XV (2007), n. 3, pp. 287-304, in particolare p. 289. Il materiale sul Libano che segue è tratto dalla ricerca di Clarke. 20. JANET CARSTEN (a cura di), Cultures of Relatedness: New Approaches to the Study of Kinship, Cambridge University Press, Cambridge 2000. 21. Cfr. MARILYN STRATHERN, The Gender of the Gift: Problems with Women and Problems with Society in Melanesia, University of California Press, Berkeley 1988; ID. , After Nature: English Kinship in the Late Twentieth Century, Cambridge University Press, Cambridge 1992. 22. JANET CARSTEN (a cura di), Blood Will Out: Essays on Liquid Transfers and Flows, in «Journal of the Royal Anthropological Institute», XIX (2013), numero speciale. 23. FERDINAND DE SAUSSURE, Course in General Linguistics, Open Court, Chicago 1983 [trad. it. Corso di linguistica generale, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 83-84]. 24. Genesi, 11.7. 25. http://www.catholicherald.co.uk/news/2012/03/06/full-text-english-and-

welsh-bishops-letter-on-same-sex-marriage/; sito consultato il 28 settembre 2016. 26. CARSTEN (a cura di), Blood Will Out cit. 27. GILBERT HERDT, Sambia Nosebleeding Rites and Male Proximity to Women, in «Ethos», X (1982), n. 3, pp. 189-231. 28. HARIPRIYA NARASIMHAN, Adjusting Distances: Menstrual Pollution among Tamil Brahmins, in «Contributions to Indian Sociology», XLV (2011), n. 2, pp. 243-68. 29. VICTOR TURNER, The Forest of Symbols: Aspects of Ndembu Ritual, Cornell University Press, Ithaca 1967, p. 70. 30. L’esempio dei Čukči è riportato in RANE WILLERSLEV, The Optimal Sacrifice: A Study of Voluntary Death among the Siberian Chukchi, in «American Ethnologist», XXXVI (2009), n. 4, pp. 693-704. 31. JACOB COPEMAN, The Art of Bleeding: Memory, Martyrdom, and Portraits in Blood, in «Journal of the Royal Anthropological Institute», XIX (2013), numero speciale, pp. S149-S171. 32. GILBERT H. HERDT (a cura di), Rituals of Manhood: Male Initiation in Papua New Guinea, University of California Press, Berkeley 1982. 33. Queste informazioni sui Nuer sono tratte da SHARON ELAINE HUTCHINSON, Identity and Substance: The Broadening Bases of Relatedness among Nuer of Southern Sudan, in JANET CARSTEN (a cura di), Cultures of Relatedness: New Approaches to the Study of Kinship, Cambridge University Press, Cambridge 2000, pp. 55-72. 34. Queste particolari connessioni tra sangue e finanza sono argomento di un magnifico saggio di KATH WESTON, Lifeblood, Liquidity, and Cash Transfusions: Beyond Metaphor in the Cultural Study of Finance, in «Journal of the Royal Anthropological Institute», XIX (2013), numero speciale, pp. S24-S41. 35. TURNER , The Forest of Symbols cit.

VI. Identità

1. ERIK H. ERIKSON, Identity: Youth and Crisis, W. W. Norton & Company, London 1994 [trad. it. Gioventú e crisi d’identità, Armando Editore, Roma 1984]. 2. ID. , Childhood and Society, W. W. Norton & Company, London 1963 [trad. it.

Infanzia e società, Armando Editore, Roma 1978, p. 143]. 3. ID. , Observations on Sioux Education, in «The Journal of Psychology», VII (1937), n. 1, pp. 101-56. 4. JONATHAN XAVIER INDA e RENATO ROSALDO, Tracking Global Flows, in ID. (a cura di), The Anthropology of Globalization: A Reader, Blackwell Publishing, Oxford 2002, pp. 3-46, cit. p. 4. 5. L’esempio è tratto da RICHARD WILK, Television, Time and the National Imaginary in Belize, in FAYE D. GINSBURG, LILA ABU-LUGHOD e BRIAN LARKIN (a cura di), Media Worlds: Anthropology on New Terrain, University of California Press, Berkeley 2002, pp. 171-86. 6. http://secondlife.com, sito consultato il 14 ottobre 2016. 7. TOM BOELLSTORFF, Coming of Age in Second Life: An Anthropologist Rxplores the Virtually Human, Princeton University Press, Princeton 2008, p. 8. 8. https://www.youtube.com/watch?v=3-LBFeJlc4&list=PLI0b2jAH3oFvr6J0AhWroB9lmOXRN2xLV&index=1, sito consultato il 14 ottobre 2016. 9. ALAN TEMPLETON, Human Races: A Genetics and Evolutionary Perspective, in «American Anthropologist», C (1998), n. 3, pp. 632-50, cit. p. 647. Un’altra ottima fonte di informazioni sull’argomento è rappresentata da ROBERT SUSSMAN, The Myth of Race: The Troubling Persistence of an Unscientific Idea, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2015. 10. BENEDICT , Modelli di cultura cit., p. 18. 11. Ibid., p. 19. 12. LEE D. BAKER, Anthropology and the Racial Politics of Culture, Duke University Press, Durham 2010. 13. Ibid., p. XI . 14. ID. , From Savage to Negro cit., p. 1. 15. MICHAEL YUDELL, DOROTHY ROBERTS, ROB DESALLE e SARAH TISHKOFF, Taking Race Out of Human Genetics: Engaging a Century-long Debate about the Role of Race in Science, in «Science», CCCLI (2016), n. 6273, pp. 56465, cit. p. 565. 16. Si tratta di un esempio ben noto in campo antropologico, menzionato in un saggio fondamentale su cultura e identità di JAMES CLIFFORD, Identity in Mashpee, in ID. , The Predicament of Culture cit., pp. 277-343. Clifford, che per formazione è uno storico delle idee e culturologo, scrive spesso di antropologia e antropologi.

17. BAMBI B. SCHIEFFELIN, KATHRYN A. WOOLARD e PAUL KROSKRITY (a cura di), Language Ideologies: Practice and Theory, Oxford University Press, Oxford 1998. 18. Questo esempio sull’etimologia e il successivo sono tratti da MICHAEL SILVERSTEIN , Language Structure and Linguistic Ideology, in PAUL R. CLINE, WILLIAM F. HANKS e CAROL L. HOFBAUER (a cura di), The Elements: A Parasession on Linguistic Units and Levels, Chicago Linguistic Society, Chicago 1979, pp. 193-247; si tratta di un saggio che ha effettivamente inaugurato l’intero settore di ricerca. 19. http://www.telegraph.co.uk/culture/hay-festival/9308062/Hay-Festival-2012Tim-Minchin-breaks-taboos.html, sito consultato il 14 ottobre 2016. 20. SUSAN GAL e KATHRYN A. WOOLARD (a cura di), Languages and Publics: The Making of Authority, St Jerome Publishing, Manchester 2001. 21. KATHRYN A. WOOLARD, Singular and Plural: Ideologies of Linguistic Authority in 21st Century Catalonia, Oxford University Press, Oxford 2016. La maggior parte degli spunti che analizzo in dettaglio sono tratti da questo lavoro della Woolard. 22. Ibid., p. 22. 23. https://www.bnp.org.uk/news/national/video-—-pain-indigenouscommunity-ignored, sito consultato il 14 ottobre 2016. 24. WOOLARD , Singular and Plural cit., pp. 3-7. 25. Citato ibid., p. 223. 26. Ibid., p. 296. 27. Ibid. p. 254. 28. https://www.bia.gov/cs/groups/xofa/documents/text/idc-001338.pdf, sito consultato il 17 ottobre 2016. 29. SALLY E. MERRY, Changing Rights, Changing Culture, in jANE K. COWAN, MARIE-BÉNÉDICTE DEMBOUR e RICHARD A. WILSON (a cura di), Culture and Rights: Anthropological Perspectives, Cambridge University Press, Cambridge 2001, pp. 31-55. 30. Dichiarazione di Jessie «Little Doe» Baird, http://www.wlrp.org, sito consultato il 18 ottobre 2016. 31. http://www.mashpeewampanoagtribe.com/human_services, sito consultato il 18 ottobre 2016.

VII. Autorità

1. ANNETTE WEINER, Inalienable Possessions: The Paradox of Keeping-WhileGiving, University of California Press, Berkeley 1992. 2. Ibid., p. 12. 3. Ibid., pp. 63-64. 4. EDWARD E. EVANS-PRITCHARD , An Alternative Term for «Bride-price», in «Man», XXXI (1931), pp. 36-39. 5. YUNXIANG YAN, The Individualization of Chinese Society, Bloomsbury, London 2009. 6. VANESSA FONG, Filial Nationalism among Chinese Teenagers with Global Identities, in «American Ethnologist», XXXI (2004), n. 4, pp. 631-48. 7. YAN , The individualization of Chinese society cit., p. 170. 8. Citato ibid., p. 164. 9. CHARLES STAFFORD, The Punishment of Ethical Behaviour, in MICHAEL LAMBEK (a cura di), Ordinary Ethics: Anthropology, Language, and Action, Fordham University Press, New York 2010, pp. 187-206, in particolare pp. 204-5. 10. ERIK MUEGGLER, Cats Give Funerals to Rats: Making the Dead Modern with Lament in South-west China, in «Journal of the Royal Anthropological Institute», XX (2014), n. 2, pp. 197-217. 11. Ibid., p. 213. 12. In questa parte del libro, attingo ad argomenti spesso delineati nei seguenti testi: MAURICE BLOCH, Ritual, History and Power: Selected Papers in Anthropology, Athlone, London 1989; ROY RAPPAPORT, Ritual and Religion in the Making of Humanity, Cambridge University Press, Cambridge 2000; VICTOR TURNER, The Forest of Symbols cit. Questi sono soltanto tre dei maggiori studiosi della teoria della ritualità. Si vedano inoltre altri utili testi generali, dedicati in particolare ai rituali e al linguaggio religioso, tra cui WEBB KEANE, Religious Language, in «Annual Review of Anthropology», XXVI (1997), pp. 47-71, e RUPERT STASCH, Ritual and Oratory Revisited: The Semiotics of Effective Action, in «Annual Review of anthropology», XL (2011), pp. 159-74. 13. BLOCH , Ritual, History and Power cit., p. 37. 14. MAURICE BLOCH, Ritual and Deference, in ID. , Essays on Cultural Transmission, Berg, Oxford 2005, pp. 123-37. 15. Una classica analisi di questi momenti è offerta in MAURICE BLOCH e JONATHAN PARRY (a cura di), Death and the Regeneration of Life, Cambridge University Press, Cambridge 1982.

16. JOHN L. AUSTIN , How to Do Things with Words (1962), Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1975 [trad. it. Come fare cose con le parole, Marietti, Bologna 1987]. 17. A proposito del piccolo intoppo durante la cerimonia d’insediamento, si veda http://www.nytimes.com/2009/01/22/us/politics/22oath.html, sito consultato il 28 ottobre 2016. 18. AUSTIN , Come fare cose con le parole cit., pp. 86, 88 e 131. 19. Questi particolari riguardanti le toghe nere sono oggetto di riflessione da parte dell’ex giudice della Corte Suprema Sandra Day O’Connor, http://www.smithsonianmag.com/history/justice-sandra-day-oconnor-on-whyjudges-wear-black-robes-4370574/?no-ist, sito consultato il 28 ottobre 2016. 20. MUEGGLER , Cats Give Funerals to Rats cit., pp. 212-13. 21. HUSSEIN ALI AGRAMA , Ethics, Tradition, Authority: Toward an Anthropology of the Fatwa, in «American Ethnologist», XXXVII (2010), n. 1, pp. 2-18. 22. Ibid., p. 11. 23. Ibid., p. 13. 24. EDWARD E. EVANS-PRITCHARD e MEYER FORTES (a cura di), African Political Systems, Oxford University Press, Oxford 1940, pp. 6-7. 25. SIGNE HOWELL, Society and Cosmos: Chewong of Peninsular Malaysia, University of Chicago Press, Chicago 1989. 26. Ibid., pp. 37-38. 27. Ibid., pp. 52-53.

VIII . Ragione

1. BENJAMIN LEE WHORF, The Relation of Habitual Thought and Behaviour to Language, in JOHN B. CARROLL (a cura di), Language, Thought and Reality: Selected Writings of Benjamin Lee Whorf, Mit Press, London 1956, pp. 13459, cit. p. 137. 2. LERA BORODITSKY, How Does Our Language Shape the Way We Think?, in Max Brockman (a cura di), What’s Next? Dispatches on the Future of Science: Original Essays from a New Generation of Scientists, Vintage Books, New York 2009, pp. 116-29. 3. WHORF , The Relation of Habitual Thought and Behaviour to Language cit., p. 151. 4. Su questo punto, e per un ottimo panorama dei recenti studi su Whorf, si veda

NICK ENFIELD, Linguistic Relativity from Reference to Agency, in «Annual

Review of Anthropology», XLIV (2015), pp. 207-24. 5. WHORF , The Relation of Habitual Thought and Behaviour to Language cit., p. 151. 6. DAN SPERBER, On Anthropological Knowledge: Three Essays, Cambridge University Press, Cambridge 1985. 7. LUCIEN LÉVY-BRUHL , How Natives Think (1926), Washington Square Press, New York 1966 [trad. it. Psiche e società primitive, Newton Compton, Roma 1975, p. 105]. 8. Ibid., p. 104. 9. EDWARD E. EVANS-PRITCHARD , Witchcraft, Oracles and Magic among the Azande (1937), Oxford University Press, Oxford 1976 [trad. it. Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande, Raffaello Cortina, Milano 2002, p. 35]. 10. Ibid., p. 30. 11. Ibid., p. 13. 12. J. CHRISTOPHER CROCKER, My Brother the Parrot, in J. DAVID SAPIR e J. CHRISTOPHER CROCKER (a cura di), The Social Use of Metaphor: Essays on the Anthropology of Rhetoric, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1977, pp. 164-92, cit. p. 184. 13. Ibid., p. 192. 14. TERENCE TURNER, We are Parrots, Twins are Birds: Play of Tropes as Operational Structure, in JAMES W. FERNANDEZ (a cura di), Beyond metaphor: The Theory of Tropes in Anthropology, Stanford University Press, Stanford 1991, pp. 121-58. 15. COURTNEY HANDMAN, Critical Christianity: Translation and Denominational Conflict in Papua New Guinea, University of California Press, Berkeley 2014, p. 282, n. 3. 16. JOANNA OVERING, Today I Shall Call Him, «Mummy»: Multiple Worlds and Classificatory Confusion, in ID. (a cura di), Reason and Morality, Routledge, London 1985, pp. 152-79, cit. p. 154. 17. EDUARDO VIVEIROS DE CASTRO, From the Enemy’s Point of View: Humanity and Divinity in an Amazonian Society, University of Chicago Press, Chicago 1992; ID. , Cosmological Deixis and Amerindian Perspectivism, in «Journal of the Royal Anthropological Institute», IV (1998), n. 3, pp. 469-88. 18. VIVEIROS DE CASTRO, Cosmological Deixis and Amerindian Perspectivism cit., p. 475. 19. MICHAEL W. SCOTT, The Anthropology of Ontology (religious science?), in

«Journal of the Royal Anthropological Institute», XIX (2013), n. 4, pp. 85972. 20. VIVEIROS DE CASTRO, From the Enemy’s Point of View cit., p. 271. 21. ID. , Cosmological Deixis and Amerindian Perspectivism cit., p. 470. 22. SCOTT , The Anthropology of Ontology cit. 23. VIVEIROS DE CASTRO, From the Enemy’s Point of View cit., p. 271. 24. La parte su Černobyl’ che segue è tratta da ADRIANA PETRYNA, Life Exposed: Biological Citizenship after Chernobyl, Princeton University Press, Princeton 2003; l’espressione «vita esposta» appartiene all’autrice. 25. EVANS-PRITCHARD , Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande cit., p. 23.

IX . Natura

1. EDWARD W. SAID, Culture and Imperialism, Vintage Books, New York 1993 [trad. it. Cultura e imperialismo: letteratura e consenso nel progetto coloniale dell’Occidente, Gamberetti, Roma 1998]. 2. MARSHALL SAHLINS, The Use and Abuse of Biology: An Anthropological Critique of Sociobiology, University of Michigan Press, Ann Arbor 1976 [trad. it. Una critica antropologica della sociobiologia, Loescher, Torino 1981]. 3. L’elenco in questione è riportato su Savage Minds, un popolare blog di antropologia, http://savageminds.org/2011/04/17/anthropological-keywords2011-edition/, sito consultato il 7 dicembre 2016. 4. Si veda CLAUDE LÉVI-STRAUSS , Structural Anthropology, Basic Books, New York 1963 [trad. it. Antropologia strutturale, il Saggiatore, Milano 2015, p. 15]. 5. AUGUSTE COMTE, Cours de Philosophie Positive, LII , citato in CLAUDE LÉVISTRAUSS , Totemism, Merlin Press, London 1964 [trad. it. Il totemismo oggi, Feltrinelli, Milano 1983, p. 4]. 6. LÉVI-STRAUSS , Il pensiero selvaggio cit., p. 288. 7. MAURICE BLOCH, Anthropology and the Cognitive Challenge, Cambridge University Press, Cambridge 2012, p. 53. 8. MARGARET LOCK, Twice Dead: Organ Transplants and the Reinvention of Death, University of California Press, Berkeley 2002. 9. Ibid., p. 279. 10. Ibid., p. 51.

11. https://www.ipsosmori.com/researchpublications/researcharchive/3685/Politicians-are-stilltrusted-less-than-estate-agents-journalists-and-bankers.aspx#gallery[m]/0/, sito consultato il 12 dicembre 2016. 12. Sondaggio condotto dalla Gallup nel dicembre 2015, http://www.gallup.com/poll/1654/honesty-ethics-professions.aspx, sito consultato il 12 dicembre 2016. 13. EMILY MARTIN, The Egg and the Sperm: How Science Has Constructed a Romance Based on Stereotypical Male-female Roles, in «Signs», XVI (1991), n. 3, pp. 485-501. 14. Ibid., p. 490. 15. Ibid., p. 500. 16. Lo studio di epigenetica riguardante la Repubblica democratica del Congo è riassunto in Connie Mulligan, Social and Behavioral Eepigenetics, in «American Anthropologist», CXVII (2015), n. 4, pp. 738-39. Si veda lo stesso numero di «American Anthropologist» per alcune visioni d’insieme della genetica antropologica. 17. SUSAN MCKINNON, Neo-liberal Genetics: The Myths and Moral Tales of Evolutionary Psychology, Prickly Paradigm Press, Chicago 2005. 18. Ibid., pp. 29-33. 19. RITA ASTUTI, GREGG SOLOMON e SUSAN CAREY, Constraints on Conceptual Development: A Case Study of the Acquisition of Folkbiological and Folksociological Knowledge in Madagascar, in «Monographs of the Society for Research in Child Development», LXIX (2004), n. 3. 20. RITA ASTUTI , People of the Sea: Identity and Descent among the Vezo of Madagascar, Cambridge University Press, Cambridge 1995. 21. ASTUTI, SOLOMON e CAREY , Constraints on Conceptual Development cit., p. 117. 22. WEBB KEANE, Ethical life: Its Natural and Social Histories, Princeton University Press, Princeton 2015. 23. Ibid., p. 262.

Conclusioni. Pensare come un antropologo 1. BENEDICT , Modelli di cultura cit., p. 16. 2. PAUL RICHARDS, Ebola: How a People’s Science Helped End an Epidemic,

Zed Books, London 2016, p. 8. L’osservazione di Norman Tebbit era stata formulata durante un interessante scambio di vedute con il direttore del Royal Anthropological Institute, vedi JONATHAN BENTHALL, The Utility of Anthropology: An Exchange with Norman Tebbit, in «Anthropology today», I (1985), n. 2, pp. 18-20.

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Breve bibliografia selezionata

Ci sarebbe una quantità di ulteriori letture da citare in bibliografia, molte delle quali consentono degli utili approfondimenti. Vorrei tuttavia offrire al lettore un breve elenco di libri – in tutto dieci – che potrebbero rivelarsi interessanti e facilmente accessibili anche ai non specialisti. In effetti, una cosa che tutti questi libri hanno in comune è che i loro autori sono ottimi scrittori. Metà di questi volumi forniscono una visione d’insieme, rivelandosi al tempo stesso opere sintetiche e spesso polemiche; l’altra metà è costituita da studi etnografici focalizzati su questioni di ampio significato sociale e di rilevanza politica. RUTH BENEDICT, Patterns of Culture, Houghton Mifflin Harcourt, New York 1934 [trad. it. Modelli di cultura, Laterza, Bari 2010]. Come avrete capito, è da sempre uno dei miei testi preferiti. I primi due capitoli, in particolare, costituiscono tutt’oggi le argomentazioni migliori, le piú appassionate e articolate riguardo all’importanza della cultura nel nostro comportamento. ADAM KUPER, Culture: The Anthropologist’s Account, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1999. Mi sembra giusto suggerire l’opera di un collega per il quale la cultura non è quel termine indispensabile che io sostengo sia. Kuper è il grande scettico della cultura, in parte per il modo in cui il termine viene usato – e abusato – nei grandi dibattiti pubblici, in parte perché, a suo giudizio, è impossibile aggirarne le connotazioni ideologiche. DANIEL MILLER, Stuff, Polity Press, Cambridge 2009 [trad. it. Per

un’antropologia delle cose, Ledizioni, Milano 2013]. Le cose della cultura materiale. Jeans, case, telefoni, automobili, sari: Miller è interessato a qualsiasi cosa possa essere considerata un manufatto umano. L’autore è una figura di spicco nello studio della cultura materiale, e questo libro è un insieme condensato e facilmente accessibile di riflessioni su tutte le cose da lui studiate, toccate, indossate, guidate, osservate in azione e pensate dai primi anni Ottanta. DAVID GRAEBER, Debt: the First 5,000 Years, Melville House Publishing, New York 2011 [trad. it. Debito: i primi 5000 anni, il Saggiatore, Milano 2012]. È un altro libro di cui ho già parlato. Straordinario in questo lavoro è l’uso del dato antropologico al fine di mettere in discussione alcuni dei nostri presupposti fondamentali su una vasta gamma di cose: non solo il debito e il suo peso morale, ma anche l’invenzione del denaro e il ruolo dello stato nella società moderna. Leggendolo, vi formerete una visione molto particolare per capire la crisi del credito globale del 2008 e la successiva adozione di misure di «austerità». LILA ABU-LUGHOD , Do Muslim Women Need Saving?, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2015 [Le donne musulmane hanno bisogno di essere salvate?] No, in poche parole, non ne hanno bisogno: leggete questo libro e scoprirete perché. Esso vi fornirà inoltre un commento sul perché il relativismo culturale sia un modo cosí prezioso di affrontare le spinose questioni sociali e politiche del mondo contemporaneo. Dalle sue pagine risulta anche molto chiaramente fino a che punto la domanda stessa sia legata al progetto coloniale di «civilizzazione» del mondo. JASON DE LEÓN, The Land of Open Graves: Living and Dying on the Migrant Trail, University of California Press, Berkeley 2015; e RUBEN ANDERSSON , Illegality, Inc.: Clandestine Migration and the Business of Bordering Europe, University of California Press,

Berkeley 2014. Due libri che potreste voler leggere insieme. Nel caso di León, l’attenzione è rivolta al confine tra Stati Uniti e Messico; in quello di Andersson, si parla degli africani che approdano in Spagna attraversando il Mediterraneo. Ciò che entrambi i lavori mettono in evidenza è il lato umano della migrazione. Essi narrano con profondo interesse e sguardo solidale storie di individui che ci aiutano a capire la logica e le motivazioni che spingono una persona a correre rischi cosí seri. Nel libro di León, vi farete anche un’idea di come l’antropologia culturale possa combinarsi con l’archeologia e l’antropologia biologica, dal momento che alcuni dei suoi dati piú importanti si ricavano appunto da questi altri sottocampi. ILANA GERSHON, Down and Out in the New Economy: How People Find (or Don’t Find) Work Today, University of Chicago Press, Chicago 2017. Dettato in parte dalle preoccupazioni espresse dagli studenti dell’Università dell’Indiana che si stavano affacciando al mercato del lavoro dopo il college, il libro di Gershon analizza in modo affascinante come i giovani in cerca di lavoro debbano fare sempre piú affidamento sulle nuove tecnologie multimediali, oltre che presentarsi non come individui, ma come mini-imprese ambulanti e parlanti con tanto di «marchio di fabbrica». È uno studio sull’economia e al tempo stesso su come l’idea di personalità stia cambiando nel XXI secolo. KIM TALLBEAR, Native American DNA: Tribal Belonging and the False Promise of Genetic Science, University of Minnesota Press, Minneapolis 2013. TallBear riprende due argomenti che ho evidenziato in diversi capitoli: il potere del sangue e il potere dei geni nella politica della razza e dell’identità culturale. Nel libro scopriamo che molti gruppi di nativi americani stanno iniziando a pensare (e, per certi versi, sono costretti a pensare) in termini di Dna e genetica.

In the Shadows of the State: Indigenous Politics, Environmentalism, and Insurgency in Jharkhand, India, Duke University Press, Durham 2010. Negli ultimi decenni, si è registrata un’importante spinta all’affermazione dei diritti di gruppo in India, il cui nobile intento è sollevare gruppi indigeni emarginati dalla povertà e dall’esclusione sociale. Come Shah documenta, tuttavia, nello stato di Jharkhand tali sforzi hanno spesso peggiorato la situazione, imponendo un modello idealizzato di come le persone dovrebbero vivere in «armonia» con la natura che le circonda. Un ottimo libro da leggere se siete interessati allo sviluppo e ai diritti umani.

ALPA SHAH,

Ringraziamenti.

Se mai mi aveste chiesto: «Ha mai pensato di scrivere un’introduzione all’antropologia?», avrei risposto: «Neanche per idea!» Che follia! Poi, però, Casiana Ionita, che sarebbe diventata la mia editor alla Penguin, mi chiese di cimentarmi in quest’impresa per una delle meravigliose eredità che il XX secolo aveva lasciato al mondo dei libri: la collana «Pelican». Be’, a quel punto la questione cambiava. Poche settimane dopo aver accolto la sfida, Fred Appel, della Princeton University Press, mi domandò durante un pranzo in una piovosa giornata di settembre se l’antropologia necessitasse o meno di qualcosa di simile a un’introduzione, rivolta non solo agli studenti ma forse a un pubblico piú vasto. Quando si dice la fortuna! Devo a Casiana e Fred un’enorme riconoscenza: per tutto il tempo, sono stati dei fantastici editor e interlocutori. Un buon numero di amici e colleghi hanno letto il manoscritto, in tutto o in parte, e mi hanno riferito le loro impressioni: Jon Bialecki, Maxim Bolt, Geoffrey Hughes, Rebecca Nash e quattro revisori anonimi incaricati dalla Princeton University Press di curare l’edizione americana. Durante la stesura, mi sono avvalso dei consigli dei colleghi, delle loro riflessioni su varie realtà culturali di cui sapevano molto piú di me, di favori e cosí via. Non posso nominarli tutti, ma a ciascuno va il mio sincero ringraziamento. Vorrei anche ringraziare Hannah Cottrell per l’aiuto fornitomi per la bibliografia e Jane Robertson, che si è occupato del copy-editing. Nessuna di queste brave persone è responsabile per eventuali errori o gaffe presenti nel volume. Cosa non meno importante, tuttavia, vorrei ringraziare tutti coloro che mi hanno insegnato l’antropologia, e devo includervi non soltanto i miei docenti ufficiali presso l’Università di Chicago e l’Università della Virginia, ma anche i miei colleghi e studenti della London School of Economics and Political Science, il cui lavoro e passione per l’antropologia sono una continua fonte di ispirazione.

Indice analitico

Abu-Lughod, Lila. Adamo. Afghanistan. Africa: – africanizzazione del pensiero occidentale; – «Altro» africano; – centrale; – Lesotho; – meridionale; – «mistica del bestiame»; – orientale; – subsahariana. Agrama, Hussein Ali. allattamento al seno: – suzione. Vedi anche consanguineità. alterità radicale. altruismo. Ambedkar, Bhimrao Ramji. American Anthropological Association. Amerindi. Vedi anche Araweté; Bororo. Amin, Idi. amore. Amref (African Medical and Research Foundation). Andalusia. animale-umano, rapporto: – animali domestici. anonimato, ideologia dell’. antropologia:

– applicata; – biologica; – cognitiva; – colonialismo; – culturale e sociale; – linguistica; – negazione della contemporaneità; – pensiero nativo; – e psicologia; – e romanticismo; – Scuola di Manchester; – strutturale. Vedi anche autorità; civiltà; cultura; etica; identità; lavoro sul campo; lingua/linguistica; ragione; razza; razzismo; rituale; evoluzionismo sociale. Appadurai, Arjun. Araweté, popolo. archeologia. Vedi anche civiltà; cultura. Aristotele. Arnold, Matthew. Asad, Talal. Astuti, Rita. Austin, John. Australia. Vedi anche Kuuk Thaayorre. autenticità, ideologia dell’. automobili. autorità. Vedi anche donne; etica, rituale. Azande, popolo. Baker, Lee D. Banca d’Inghilterra. barbarie. Barclays Bank. Basotho, popolo. Beatles. beduini. Belgio. Belize.

Benedict, Ruth. Bin Laden, Osama (Usāma ibn Lādin). Black Power, movimento. Blair, Tony (Anthony Charles Lynton). Bloch, Maurice. Boas, Franz: – The Mind of Primitive Man (L’uomo primitivo); – tradizione boasiana. Boellstorff, Tom. Bororo, popolo. Bourdieu, Pierre. Brasile. Brinton, Daniel. British National Party (Bnp). Bureau of Indian Affairs (Bia). Bush, George Walker. cacciatori-raccoglitori. Camicie rosse. Campion, Jane. Canada. capacità d’azione. capitalismo. Caribe, popolo. Carlo Windsor, principe del Galles. Carsten, Janet. Catalogna. Chewong, popolo. Childe, Vere Gordon. Cina: – amore filiale; – confucianesimo; – lamentazioni funebri; – Partito comunista cinese (Pcc). Vedi anche ricchezza della sposa. Christy, Henry. Chiweshe. cittadinanza biologica.

civiltà: – archeologia; – grammatica della; – missione civilizzatrice; – scontro di. Clegg, Nick (Nicholas). Clifford, James. Collier, Paul. colonialismo: – «colonizzazione delle coscienze»; – movimenti anticoloniali; – paternalismo. Vedi anche antropologia; civiltà; razza. Comaroff, Jean. Comaroff, John. «commercio algoritmico». Comte, August. Conrad, Joseph: – Cuore di tenebra (Heart of Darkness). consanguineità/parentela: – adozione; – culture del Mediterraneo; – discendenza matrilineare; – discendenza patrilineare; – nazionalismo filiale; – parentela di latte; – rapporti famigliari; – strutture sociali. Vedi anche genere; matrimonio; sangue. contratto sociale. Conway, Kellyanne. Cook, James. Coon, Carleton Stevens. cosmologia: – amerinda. Coward, Fiona. Creazione del mondo. cristianesimo: – Chiesa anglicana, culto della;

– Conferenza dei vescovi cattolici di Inghilterra e Galles, – conversioni di massa; – e individualismo; – linguaggio figurato; – missionari; – neopentecostali; – preghiera; – tradizione cristiano-giudaica. Crocker, J. Christopher. Čukči, popolo. cultura: – e civiltà; – «da teatro dell’opera»; – diritti culturali; – essenzialismo culturale; – Kultur nel dibattito tedesco antilluminista; – Kulturbrille; – materiale; – e natura; – nazionalismo Québécois; – omogeneizzazione culturale 39; – relativismo culturale; – «studi culturali»; – turismo culturale. Vedi anche consanguineità; identità; prospettivismo; rituale. Cushing, Frank Hamilton. Darwin, Charles: – teoria dell’evoluzione; – Sull’origine delle specie. Vedi anche evoluzionismo sociale. Descartes, René. Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo. diritti: civili; – umani. Vedi anche cultura. Dobuani, popolo. donne:

– autorità; – femminismo; – Madonna/puttana; – mestruazioni; problemi con le –; – Trobriand, isole. Vedi anche consanguineità; genere; ricchezza della sposa; Vathima. dono: – economie del dono; – hau. Vedi anche valore di scambio. Douglas, Mary. Downton Abbey. dualismo cartesiano. Du Bois, William Edward Burghardt. Dumont, Louis. Dunham, Ann. Durkheim, Émile. Ebola. economia di mercato. Eden, Giardino dell’. Egitto: – fatwa. Eisenstadt, Shmuel. El Guindi, Fadwa. empatia. Erikson, Erik Homburger. Erodoto. Ese Ejja, popolo. esorcismo. essenzialismo. etica: antropologia dell’–; – e autorità; – trapianto/espianto di organi. etnografia di salvataggio. Evans-Pritchard, Edward Evan:

– Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande (Witchcraft, Oracles and Magic among the Azande). evoluzionismo sociale. Vedi anche Darwin, Charles. Fabian, Johannes. Fanon, Frantz. Farmer, Paul. Fellowes, Julian. Ferguson, James. Ferry, Jules. filotimia. Firth, Raymond. Fondo monetario internazionale. Fortes, Meyer. Foucault, Michel. Francia. Frazer, James George. Friedman, Milton. funzionalismo. Gandhi, Mohandas Karamchand. Geertz, Clifford. genere: – genetica; – gerarchia; – onore e vergogna; – e sangue; – stereotipi; – uguaglianza. Vedi anche donne; femminismo; ricchezza della sposa. Geographic Information System (Gis). gerarchia: – di casta; – di relazioni; – di valore; – sociale e reciprocità. Vedi anche genere. Ghani, Ashraf Ahmadzai. giaguaro.

Giappone. Glendi. globalizzazione. Gluckman, Max. Graeber, David: – Debt: The First 5 Years (Debito: i primi 5000 anni). Gramsci, Antonio. «The Guardian». Guerra globale al Terrore. Guhu-Samane, popolo. Gururumba, popolo. habitus. Hadza, popolo. Hagen, distretto. Hall, Stuart McPhail. Hart, Keith. Hashemita, regno. Hawaii. Herder, Johann Gottfried. Herskovits, Melville. Hoggart, Richard. Hollywood. Hopi, popolo. Howell, Signe. Hughte, Phil. Humboldt, Wilhelm von. Huntington, Samuel P. Hurston, Zora Neale. Iatmul, popolo. identità: – Belize; – Catalogna; – ideologia culturale; – ideologia linguistica; – personalità;

– virtuali. Vedi anche consanguineità; genere; Mashpee; razza; sangue. India: – caste. individualismo. Iñupiaq, popolo. Iraq. Irochesi, popolo. Vedi anche Morgan, Lewis Henry. Ishi (ultimo membro del popolo Yahi). islam: – parentela di latte; – shari’a. James, Deborah. Jefferson, Thomas. Jeske, Christine. Johnson, Boris. Jones, Ben. Kajanus, Anni. Kant, Immanuel. Karim, Abdal. Katine, villaggio. Keane, WebbKenyatta, Jomo. Khomeini, Ruhollah. Kipling, Rudyard. Kleinman, Arthur. Kroeber, Alfred. Kuuk Thaayorre, popolo. KwaZulu-Natal, provincia. Latour, Bruno. lavoro sul campo: – archeologia; – psicologia cognitiva; – osservazione partecipe. Leach, Edmund. Lepri, Isabella.

Lévi-Strauss, Claude: – La pensée sauvage (Il pensiero selvaggio); – strutturalismo. Lévy-Bruhl, Lucien. Libano. lingua/linguistica: – identità catalana; – ideologia linguistica; – langue/parole; – linguaggio figurato; – lingue Sae (Standard Average European); – linguistica strutturale; – semiotica; – sessismo; – sociolinguistica. Vedi anche Hopi; Kuuk Thaayorre. Little, Malcolm, vedi Malcolm X. Livingstone, David. Lock, Margaret. London Missionary Society. Lowie, Robert. Luhrmann, Tanya. MacCarthy, Michelle. Madagascar. Madsbjerg, Christian. Makonde, popolo. Malcolm X (Malcom Little). Malinowski, Bronisław: – Anello del kula; – donne; – funzionalismo; – Trobriand, isole. mantra. Maori, popolo. Vedi anche dono. Martin, Emily. Marx, Karl. Masai, popolo.

Mashai, villaggio. Mashpee, popolo. matrimonio: – missionari; – parentela; – poligamia; – sacramenti. Vedi anche ricchezza della sposa. Mauss, Marcel. McEwan, Ian. McKinnon, Susan. Mead, Margaret. Mekeel, Haviland Scudder. Melanesia. Menchú Tum, Rigoberta. mercificazione. Mesopotamia. Minchin, Tim. «mistica del bestiame». Mitchell, Joseph. Moffat, Robert. Monomotapa, impero di. Montagu, Ashley. Montaigne, Michel Eyquem de. Morgan, Lewis Henry 227: – Ancient society (La società antica); – League of Iroquois (La Lega degli Ho-de’-no-sau-nee, o Irochesi); – Systems of Consanguinity and Affinity of the Human Family [Sistemi di consanguineità e affinità della famiglia umana]; – The Grand Order of the Iroquois. morte: – cerebrale; – donazione di organi; – funerali; – in Giappone; – lamentazioni funebri; – medicalizzazione; – e natura.

Mueggler, Erik. musica: – «world music». Narasimhan, Haripriya. National Association for the advancement of Colored People (Naacp). naturalismo: – sociolinguistico. natura: – Lévi-Strauss; – storie naturali e sociali. Vedi anche animale-umano, rapporto; cultura; morte; Darwin, Charles. nazionalismo. Vedi anche consanguineità. Ndembu, popolo. Nguni, popolo. Nilo, fiume. Nuer, popolo. Nuova Guinea, isola. nuove tecnologie riproduttive: – fecondazione in vitro; – maternità surrogata (o gestazione d’appoggio). Obama, Barack Hussein. Ohnuki-Tierney, Emiko. Olanda, vedi Paesi Bassi. olismo. opulenza. Vedi anche Sahlins, Marshall. Paesi Bassi. Paesi scandinavi, vedi Scandinavia. pappagalli: – Ara macao. Vedi anche Bororo. Papua Nuova Guinea. Vedi anche Guhu-Samane; Urapmin. Parsons, Talcott. Partners in Health. Pefki, villaggio. Peirce, Charles Sanders. Petryna, Adriana.

Pitt-Rivers, Julian Alfred Lane Fox. politica: – della cultura; – stato; – strutture politiche parentali. Vedi anche consanguineità. post-modernismo. povertà. preghiera. Vedi anche cristianesimo; islam. prospettivismo: – percezione e «occhiali culturali». Radcliffe-Brown, Alfred Reginald. ragione: – e lingua; – significato e comprensione; – e stregoneria. Vedi anche pappagalli; Viveiros de Castro, Eduardo Batalha. razza: – apartheid; – antirazzismo; – colonialismo; – diversità genetica; – identità e mito della; – razzismo; – e sangue; – Virginia’s Racial Integrity Act (1924). reciprocità. ReD Associates. relazionalismo. Rhodesia Settentrionale (oggi Zambia). «ricchezza della sposa» (bridewealth): – brideprice («prezzo della sposa»). Richards, Paul. rituale: – autorità; – creatività; – forza illocutiva;

– riti di passaggio; – salassi rituali. Vedi anche Bororo; morte. Robbins, Joel. Royal Anthropological Institute of Great Britain and Irland. Rusbridger, Alan. Rushdie, Salman. Sahlins, Marshall: – L’originaria società opulenta (The Original affluent society). Said, Edward W. Sambia, popolo. sangue: – di Cristo; – e economia; – «Il sangue non mente»; – «leggi sul sangue indiano»; – e politica; – salassi rituali; – «una sola goccia», principio di. Vedi anche donne; genere; razza. Sapir, Edward. Saussure, Ferdinand de. Scandinavia. Schapera, Isaac. Schneider, David. Schneider, Jane. Second Life. selvaggio: – da selvaggio a civilizzato; schema mentale del –. sesso: – fra i Chewong; – impulso sessuale; – mestruazioni; – riproduzione; – sessismo. Vedi anche consanguineità; genere. Shryock, Andrew. Sierra Leone.

simbolismo: – e caste; – valore simbolico. Sioux, popolo: – Oglala Sioux. social media. soldi: – monetizzazione della vita; – e sangue. Spencer, Herbert. Srinivas, Mysore Narasimhachar. Stack, Carol B. Stati Uniti d’America. stato: – e politica; – potere statale; – società senza stato. Steinen, Karl von den. Steward, Julian. Strathern, Marilyn: – The Gender of the Gift: Problems with Women and Problems with Society in Melanesia. stoffa: – banano, foglie e fibre di. studi post-coloniali. Sudafrica. tabú. Tebbit, Norman. terrorismo. Tett, Gillian. Thoreau, Henry David. Torre di Babele. Trobriand (oggi Isole Kiriwina), isole. Trump, Donald John. Tupinambá, popolo. turismo.

Turner, Edith. Turner, Terence. Turner, Victor. Tutsi, popolo. Tylor, Edward Burnett: – Primitive Culture (Alle origini della cultura); – Researches into the Early History of Mankind and the Development of Civilization [Studi sulla preistoria dell’umanità e sullo sviluppo della civiltà]. Uganda. Ucraina: – Černobyl’, disastro di. unità psichica. Vedi anche cosmologia. Urapmin, popolo. valore di scambio: – altruismo e interesse personale; – Anello del kula; – debito; – denaro; – reciprocità; – ricchezza sociale; – solidarietà; – valore simbolico. valori: – famigliari; gerarchia di –; – libertà; – onore e vergogna; – purezza. Vedi anche cristianesimo; India; individualismo; olismo; relazionalismo; valori di scambio. Vathima, casta braminica. Vezo, popolo. Viveiros de Castro, Eduardo Batalha. Vonnegut, Kurt. Washington, Booker Taliaferro.

Washoe, popolo. Weiner, Annette Barbara. Wengrow, David. Wenner-Gren Foundation for Anthropological Research. White, Leslie. Whorf, Benjamin Lee. Willey, Gordon. Williams, Raymond. Woolard, Kathryn A. Yan, Yunxiang. Yi, minoranza etnica cinese. Zaloom, Caitlin. Zimbabwe. Zulu, popolo. Zuni, popolo.

Il libro

C

OS’È L’ANTROPOLOGIA? COSA PUÒ DIRCI DEL MONDO? PERCHÉ,

insomma, è importante? Per oltre un secolo, gli antropologi culturali hanno fatto il giro del globo, da Papua Nuova Guinea alle periferie delle nostre città e dalla Cina alla California, portando alla luce informazioni sorprendenti su come gli esseri umani organizzano le loro vite ed esprimono i loro valori. In questo modo, l’antropologia ha cercato piú di ogni altra disciplina di comprendere cos’è la cultura. Intrecciando esempi e teorie provenienti da tutto il mondo, Matthew Engelke ci presenta dell’antropologia un quadro vivace, sempre accessibile, talvolta irriverente, che attraversa una vasta gamma di approcci e temi, classici e contemporanei, e chiama in causa il contributo dei suoi protagonisti. Presentando una serie di casi esemplari, il volume invita il lettore a riflettere su alcuni concetti chiave attraverso i quali l’antropologo si propone di decifrare il mondo: da cultura, civiltà e natura ad autorità, sangue e identità. Lungo il percorso, si chiarisce il ruolo centrale ricoperto da questa disciplina: un sapere di frontiera che ci aiuta a penetrare culture lontane e punti di vista diversi, svelando contemporaneamente qualcosa di noi stessi e del nostro modo di vivere.

L’autore

MATTHEW ENGELKE insegna Antropologia alla London School of

Economics and Political Science. Ha vinto numerosi premi, è stato curatore del «Journal of the Royal Anthropological Institute».

Titolo originale Think Like an Anthropologist © 2017 Matthew Engelke. All rights reserved. The Author has asserted his moral rights. Original English Language edition published by Penguin Books Ltd., London © 2018 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino In copertina: Robert Delaunay, Rhythme n. 3, decorazione per il Salon des Tuileries, olio su tela, 1938, particolari. Parigi, Musée d’Art moderne de la Ville de Paris. (Foto © Agence Bulloz / RMN-Réunion des Musées Nationaux / distr. Alinari). Progetto grafico di Fabrizio Farina. Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo cosí come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo. www.einaudi.it Ebook ISBN 9788858428931