Pasolini, massacro di un poeta 8868333902, 9788868333904

Il 2 novembre 1975, all'Idroscalo di Ostia, si consuma il "massacro tribale" di uno dei maggiori intellet

582 55 26MB

Italian Pages 320 [324] Year 2015

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

Pasolini, massacro di un poeta
 8868333902, 9788868333904

Citation preview

SI MONA Z E CCHI

Finalm ente tutta la verità s u ll’agguato più doloroso della nostra storia. La firm a dei neofascisti, la manodopera crim inale, gli em issari. I documenti e le foto inedite del corpo che parla

QUESTO LIBRO RISCRIUE LA STORIA 01 UNO DEI NOSTRI CRIMINI PIÙ OSCURI. IL BRUTALE ASSASSINIO DI UN GRANDE INTELLETTUALE: E LO FA CON UNA DOCUMENTAZIONE RIGOROSA E SCONUOLGENTE. CHE RICOLLEGA QUELLA NOTTE DI SANGUE ALLA VERGOGNOSA STORIA POLITICA E CRIMINALE DI QUEGLI ANNI. UN'INCHIESTA DEFINITIVA.

«Grazie a un lavoro condotto secondo ineccepibili tecniche d’analisi investigativa, Simona Zecchi fornisce ai numerosi m tm R e x interrogativi che l’intera storia da sempre pone risposte sorrette da argomenti inattaccabili, sicché il sanguinoso mosaico dei terribili accadimenti della notte del 2 novembre si arricchisce di nuove, fondamentali tessere». dalla postfazione di Otello Lupacchini

ISBN 978-88-6833-390-4

788868 333904

Il 2 novembre 1975, all’Idroscalo di Ostia, si consuma il «massacro tribale» di uno dei maggiori intellettuali del ventesimo secolo: Pier Paolo Pasolini. L’inchiesta di Simona Zecchi riparte proprio da quella sciagurata notte e, con l’ausilio di prove fotografiche mai emerse sinora, documenti inediti, interviste e testimonianze esclusive, fa tabula rasa dei moventi ufficiali e delle piste finora accreditati - dall’«omicidio a sfondo sessuale» al «misterioso» Appunto 21 di Petrolio. Come nella Lettera rubata di Edgar Allan Poe, lo «schema perfetto» che condusse il poeta friulano fra le braccia dei suoi carnefici è sempre stato sotto gli occhi degli inquirenti e, in parte, dell’opinione pubblica: un oscuro attentato a pochi passi dall’abitazione di Pasolini la cui funzione viene finalmente svelata, un furto di bobine come espediente dai tratti inediti, la presenza di più macchine all’Idroscalo e la prova del doppio sormontamento del corpo ormai agonizzante, i testimoni che nessuno ha mai voluto veramente ascoltare, la matrice fascista dell’agguato, la direzione deH’intelligence nostrana, il ruolo depistante dell’enigmatico Giuseppe Pelosi, i tentativi di alcuni giornali, sempre ben informati, troppo informati, di trasformare Pasolini in imputato nello stesso processo che avrebbe dovuto stabilire l’identità dei suoi assassini. Tra le numerose inchieste che hanno cercato di decostruire la gigantesca opera di depistaggio messa in atto già all’indomani dell’omicidio, Pasolini, massacro di un poeta si incarica di dire la verità, tutta la verità.

Simona Zecchi, giornalista, vive a Roma. Per la rivista / quaderni de L’Ora (n. 8,2012) ha curato con la collega Martina Di Matteo un'inchiesta sulla morte di Pasolini, tema cui ha dedicato molti anni di ricerca. Ha collaborato con il manifesto e scrive sulla versione online del Fatto Quotidiano, il sito di informazione e approfondimento Gustati Generali e il quotidiano statunitense La Voce di New York, occupandosi di cronaca giudiziaria e attualità. È fra i fondatori del sito indipendente d’inchiesta Lettera35. Questo è il suo primo libro.

Il nostro indirizzo internet è: www.ponteallegrazie.it In copertina: © Ulstein Bild / Gettylmages Foto dell’autrice: © 2015 Rino Bianchi Art Direction: ushadesign

Euro 16,00

inchieste 35

nella collana inchieste:

1. Paolo Cucchiarelli, Il segreto di Piazza Pantana 2. Davide Cariucci, Giuseppe Caruso, A Milano comanda la ’Ndrangheta 3. Eric Frattini, Le spie del papa 4. Aldo Giannuli, Come funzionano i servizi segreti 5. Giulietto Chiesa, Guido Cosenza, Luigi Sertorio, La menzogna nucleare 6. Eric Frattini, I papi e il sesso 7. Andrea Kerbaker, Bufale apocalittiche 8. Marco Morello, Carlo Tecce, Io tifotto 9. Carlotta Zavattiero, Lo Stato bisca 10. Aldo Giannuli, 2012: la grande crisi 11. Ilario Martella, 13 maggio ’81: tre spari contro il Papa 12. Nunzia Penelope, Soldi rubati 13. Giulietto Chiesa, Pino Cabras, Barack Obush 14. Silvano de Prospo, Rosario Priore, Chi manovrava le Brigate Rosse? 15. Marta Chiavari, La quinta mafia 16. Ferruccio Pinotti, Finanza cattolica 17. Paolo Bracalini, Partiti S.p.A. 18. Davide Cariucci, Giuseppe Caruso, Magna magna 19. Marco Morello, Carlo Tecce, Contro i notai 20. Carlotta Zavattiero, Poveri padri 21. Aldo Giannuli, Uscire dalla crisi è possibile 22. Andrea Baranes, Finanza per indignati 23. Davide Ciccarese, Il libro nero dell’agricoltura 24. Simone Di Meo, Gianluca Ferraris, Pallone cri?ninale 25. Antonio Di Pietro, Morena Zapparoli Funari, Politici 26. Nunzia Penelope, Ricchi e poveri 27. Aldo Giannuli, Come i servizi segreti usano i media 28. Rossella Palomba, Sognando parità 29. Giuseppe Caruso, Davide Cariucci, Banche e mafia: la vera storia 30. Egidio Ceccato, Il infiltrato 31. Eric Frattini, Italia, sorvegliata speciale 32. Nunzia Penelope, Caccia al tesoro 33. Lidia Undiemi, Il ricatto dei mercati 34. Andrea Baranes, Leopoldo Nascia, Con inostri soldi

Simona Zecchi

Pasolini, massacro di un poeta Finalmente tu tta la verità sull’agguato più doloroso della nostra storia. La firma dei neofascisti, la manodopera criminale, gli emissari. I documenti e le foto inedite del corpo che parla

PONTE ALLE GRAZIE

© 2015 Adriano Salani Editore s.u.r.l. - Milano ISBN: 978-88-6833-390-4 In copertina: © Ulstein Bild /Gettylmages Art direction: ushadesign Editing: Alessandro Zardetto Redazione e impaginazione: Emiliano Mallamaci Ponte alle Grazie è un marchio di Adriano Salani Editore s.u.r.l. Gruppo editoriale Mauri Spagnol Il nostro indirizzo Internet è: www.ponteallegrazie.it Seguici su Facebook e su Twitter (@ponteallegrazie) Per essere informato sulle novità del Gruppo editoriale Mauri Spagnol visita: www.illibraio.it

P a s o l in i , m a ss a c r o d i u n p o e t a La memoria (l’atto deliberato del ricordare) è un atto di creazione voluta. Ritrovare come sia andata veramente non è uno sforzo, è ricerca. Il punto è indugiare su come qualcosa appariva e sul perché appariva in quel modo particolare. Toni Morrison, 1984

Avvertenza I personaggi citati in questa inchiesta sono stati ritenuti assolti; altri sono stati soltanto sfiorati dalle indagini. Pertanto tutti costoro sono da ritenersi giuridicamente innocenti. Per altri ancora è stato citato il risultato di giudizio. Questo lavoro, svolto tramite atti d’inchie­ sta giudiziaria, elementi sfuggiti alle ricostruzioni passate e perso­ nale ricerca e indagine, non vuole rappresentare un atto di accusa per nessuno di loro. Il compito del giornalista d ’inchiesta è quello di collegare i fatti accertandosi che questi siano avvenuti o abbiano nella loro concatenazione un’alta percentuale di verità con la spe­ ranza che possa il suo lavoro essere di supporto all’attività investiga­ tiva o giudiziaria.

Introduzione

Perché una nuova inchiesta

Indagare sulla morte di Pier Paolo Pasolini ha preso ormai da venti anni a questa parte una piega svelta e confusa. Non fa eccezione la terza e ultima serie di indagini preliminari, aperta nel marzo del 2010 dalla Procura di Roma, che, seb­ bene abbia dedicato più tempo del solito all’analisi dei fatti, non è comunque riuscita a chiarire uno dei casi più oscuri d ’Italia. Caso che si vuole confinare da sempre entro i co­ modi steccati del «mistero» e che, a questo punto, rischia di rimanere tale. Questi cinque anni di inchiesta facevano presagire un’altra conclusione, ma così non è stato: a maggio del 2015 è arrivata l’archiviazione. E con essa l’amarezza di chi sente ancora la necessità di capire cosa sia successo real­ mente quella notte tra l’I e il 2 novembre del 1975 all’Idro­ scalo di Ostia. Le premesse delle ultime indagini erano numerose. La prova scientifica, che ha costituito il principale elemento di novità, era affiancata da una numerosa serie di approfondi­ menti investigativi impensabili quarantanni fa. Dall’analisi dei capi indossati da Pasolini e Pino Pelosi (l’unico ad aver pagato per la morte del poeta) e di alcuni oggetti, sono emersi cinque nuovi profili genetici che si sono sommati a quelli dei due protagonisti di sempre: un enorme passo avanti nella ri­

I ntroduzione. P erché una nuova inchiesta

cerca della verità. Con il trascorrere del tempo, però, questa novità si è rivelata «monca». Non solo perché non si è potuta stabilire la datazione delle tracce individuate sui reperti, ma anche perché non è stato possibile abbinare i cinque profili a quelli dei sospettati presenti nelle banche dati. I passaggi monchi sono stati diversi: l’impiego esclusivo dell’esame del dna, senza il riscontro di un’altra tecnica pro­ batoria; piste investigative sbagliate, percorse senza tenere conto del contesto nel quale i fatti si sono svolti; e infine l’in­ giustificato abbandono di nuove piste che si sarebbero rive­ late fondamentali ai fini dell’inchiesta. A tutta questa distesa di verità mozzate risponde l’ur­ genza di far luce su questa vicenda e provare a ristabilire evi­ denze scomode e ricercate invano, fuori e dentro un’aula di tribunale. Tutto riparte da quell’alba assonnata, ventosa (e reduce da forti piogge) del 2 novembre 1975. Un giorno che di lì a poco non serberà più le caratteristiche di una ricorrenza qualunque, quando sarà ritrovato il corpo martoriato di Pier Paolo Pasolini. La polizia, avvisata per prima dagli abi­ tanti abusivi della zona, mentre rileva le impronte dei pol­ pastrelli, ancora non sa a chi appartengano quelle dita che non scriveranno più. Che non incendieranno più pagine, sale cinematografiche e polemiche. Il corpo sarà identifi­ cato soltanto più tardi, verso le dieci del mattino, da Gio­ vanni Davoli, in arte Ninetto. Il riconoscimento ufficiale lo effettuerà infine Nico Naldini, cugino dello scrittore e po­ eta lui stesso. E un fatto di cronaca nera che abbiamo imparato a cono­ scere negli anni. Anni attraversati da ricostruzioni troppo spesso identiche. Quell’omicidio, infatti, verrà immediata­ mente derubricato come un «fattaccio» maturato nell’am­ biente omosessuale e della prostituzione maschile. Tutto era già stato approntato. Tutto, dunque, ha un’origine che pre­ 8

I ntroduzione. P erché una nuova inchiesta

cede il racconto di quella notte: il colpevole, il movente e la dinamica, persino l’arresto. Le abitudini sessuali e private dello scrittore saranno gli ingredienti con i quali si proces­ serà e si metterà alla gogna l’uomo e l’intellettuale, grazie alla prima confessione finemente tessuta sul teorema dell’unico colpevole. Sin dai primi tempi della gestione giudiziaria, in­ fatti, appare chiaramente come la presenza di altri aggressori, oltre a Giuseppe Pelosi - l’unico imputato in tutti i gradi di giudizio fino all’ultima sentenza della Corte di Cassazione del 26 aprile 1979, che confermerà la condanna a nove anni e sette mesi di carcere, senza la formula del «concorso con ignoti», scomparsa già dal secondo grado -, sia una pista investigativa destinata a dissolversi. Un caso quasi unico in cui la vittima è stata trasformata in carnefice nello stesso pro­ cesso che avrebbe dovuto individuare i suoi numerosi killer. Vedremo quanto numerosi. Nessun’altra pista, dunque, è stata presa in considera­ zione. Fatta eccezione per quella, subito smorzata, che ve­ deva coinvolti i fratelli Giuseppe e Franco Borsellino (due giovani criminali cresciuti nella borgata romana di San Basi­ lio), portata avanti sull’onda di una controinchiesta giorna­ listica dell’Europeo, parallela a quella giudiziaria, che per il suo incalzare innervosiva la procura e gli inquirenti. Per raccontare questa storia da un’altra ottica, cercando di colmare dunque i troppi vuoti di indagine e le troppe falle giudiziarie, è giusto azzerare gran parte di quanto è stato stabilito sinora e porsi subito una domanda: è impor­ tante stabilire se la notte del delitto si sia consumato all’I­ droscalo un atto sessuale tra Pasolini e Pelosi? Sì, lo è. Lo è perché serve a fare chiarezza - attraverso l’analisi di carte processuali, perizie e testimonianze - sull’unico movente che da sempre ha guidato tutto: il sesso. Lo è perché fin troppa «tinta», come Pasolini stesso definiva il pregiudizio, è stata sparsa sulla sua figura, da più parti e senza ragione: 9

I ntroduzione. P erché una nuova inchiesta

il pregiudizio nei confronti di chi, come lui, al tempo veniva etichettato come «invertito». Il «dubbio» è l’elemento principe che guida questo viag­ gio investigativo e in parte di ricerca filologica, soprattutto dopo la scoperta di alcuni documenti. E lo stesso dubbio che Pasolini raccomandava fosse sempre presente nelle menti e nei cuori dei giovani del PCI, invito che questi giovani, di­ venuti poi adulti, non avrebbero mai raccolto; è lo stesso dubbio da instillare persino nelle ammalianti note del «com­ plotto». Dubbio che lo scrittore, poeta, regista e saggista nella celebre intervista di Furio Colombo realizzata l’ultimo giorno di vita di Pasolini e pubblicata postuma in un inserto della Stampa, Tuttolibri, l’8 novembre 1975 - invitava a farsi venire. Non perché in Italia i complotti non si verifichino, anzi, ma perché fra questi ultimi e i fatti esistono le evidenze, le sole che possano condurci alla verità tagliando via fasci di storie che, anche involontariamente, contribuiscono a con­ fondere tutto. Pasolini, nelPintervista in questione, consi­ gliava di diffidare della «cronaca bella, fatta, impaginata» e del complotto fine a sé stesso. Così, intraprendendo questo lavoro, ho cercato di fare tabula rasa di tutto ciò che potesse apparire più appetibile: le tesi non suffragate dall’analisi dei fatti di cronaca; le congetture in assenza di un raffronto con documenti e testimonianze; le piste più vicine alla fiction che alla realtà e ovviamente la verità ufficiale, quella che indicava l’origine dell’omicidio nel «mondo del vizio». Ho cominciato dagli eventi precedenti e successivi a quella notte fra l’I e il 2 novembre del 1975 per poi attra­ versarla; ho percorso strade che sembravano ormai chiuse, ho incontrato persone scomparse dal circo mediatico e ri­ succhiate dalle zone d’ombra di quel periodo. Le febbrili at­ tività professionali spingono Pasolini, in quei giorni intensi e veloci, a essere presente un po’ ovunque: Stoccolma, Pa­ rigi, Roma. La lavorazione del film Salò o le 120 giornate di 10

I ntroduzione. P erché una nuova inchiesta

Sodoma è da poco conclusa e negli intervalli fra un ciak e l’altro, fra una polemica e l’altra, Pasolini ha continuato a scrivere. Consegna a questo o a quel messo di giornale l’arti­ colo appena finito e quindi fugge verso nuovi appuntamenti e impegni. Compone saggi, romanzi - tra cui Petrolio, opera incompiuta da lui iniziata nel 1972, che sin dalla sua uscita postuma nel 1992 susciterà scandalo e polemiche - ma an­ che lettere: un impegno epistolare, il suo, condotto senza interruzioni.1 Una di queste in particolare, già edita, che pubblichiamo nella versione originale insieme ad altre ine­ dite, ha colpito la mia attenzione a un certo punto dell’inda­ gine: è datata 24 settembre 1975 e leggendola attentamente si comprende come anch’essa, alla pari del delitto, abbia un «prima» e un «dopo». Seguendo la scia temporale di quella missiva mi sono imbattuta in uno scambio epistolare, rima­ sto incompleto, fra lo scrittore e un giovane ambiguo editore con un passato a destra e una «improvvisa» vocazione socia­ lista e maoista. Un passaggio che gli valse l’accreditamento presso il mondo culturale e politico di sinistra: si tratta di Giovanni Ventura, rimasto coinvolto negli attentati che ave­ vano dato inizio alla cosiddetta strategia della tensione. Una lettera, sì, ma anche un documento giudiziario, mai pubbli­ cato prima, emerso tra gli atti riguardanti la strage di Piazza Fontana. A quel punto numerose domande si sono susseguite. L’e­ secuzione tribale di Pasolini può essere stata causata dalle informazioni pericolose di cui egli era in possesso e che avrebbe potuto rivelare, così come era avvenuto nel caso della sparizione di Mauro De Mauro, o, molti anni dopo, dell’esecuzione di Ilaria Alpi e Miran FIrovatin? Queste eventuali informazioni riguardavano forse qualcosa che non era mai emerso prima di allora? Il mistero dell’«Appunto 21» e della morte di Enrico Mattei, che insieme hanno dato l’input politico e la spinta mediatica alla riapertura, nel 2010, 11

I ntroduzione. P erché una nuova inchiesta

delle indagini sulla morte del poeta, non potrebbe rappre­ sentare uno scoglio sul quale ci si è incagliati senza riuscire a leggere in controluce tutti i lati non evidenti della vicenda? Inoltre, è corretto individuare, come sembra accadere negli ultimi tempi, un qualche ruolo della Banda della Magliana neU’omiddio, considerato che questa «banda» non era an­ cora nata al tempo (inizierà a operare solo nel 1978)? Scavando, si scopre invece che una figura interna al clan dei Marsigliesi, operante a Roma prima dell’avvento della Banda della Magliana, conosceva Pier Paolo Pasolini: era in­ fatti una delle sue fonti riguardo alle connessioni tra il mondo criminale e quello dell’estrema destra. E ancora, la lavora­ zione di una pellicola molto controversa, Salò, era circondata da un clima teso e minaccioso. Come mai? Ma soprattutto chi aveva organizzato il furto delle bobine del film, nello sta­ bilimento della Technicolor di via Tiburtina, nell’agosto del 1975? Chi, all’interno del mondo del cinema, aveva accesso al luogo esatto in cui si trovavano i negativi scomparsi? Il furto rappresentava forse l’espediente, non il movente, per l’agguato all’Idroscalo di Ostia? E quali erano i riferimenti politici dell’operazione, se di operazione si trattò? Tra le per­ sone più vicine a Pasolini c’era qualcuno che sapeva tutto sin dall’inizio, e per trent’anni non ha parlato: perché? Questo libro affronta innanzitutto la dinamica della morte e dell’ag­ guato che l’ha provocata. Lo fa attraverso un lavoro di raf­ fronto: tra le testimonianze sparse nel tempo, molte rimaste sepolte tra le cronache affastellate; tra le prime carte proces­ suali, in gran parte ignote, e le foto che vi spuntano, che da sole rivelano spesso l’evidenza dei fatti. E un lavoro che fa emergere chiaramente le manipolazioni e la negligenza nelle indagini di allora, ma anche nelle inchieste che negli anni suc­ cessivi hanno tentato di fare luce su quella mattanza. Non mancheranno, ma solo a corollario, le testimonianze di fonti che confermeranno quanto raccolto. 12

I ntroduzione. P erché una nuova inchiesta

Le nuove carte giudiziarie, che compongono l’ultima fa­ tica investigativa su quella notte di novembre, fungeranno poi da spartiacque fra i tasselli mancanti e insieme da col­ lante per la loro ricomposizione, individuando anche in questo caso le falle e le incomprensibili omissioni. Ci si ad­ dentrerà nell’esposizione di alcuni aspetti tecnici relativi alla dinamica del massacro, termine che non è stato scelto a caso: di questo si trattò, perché compiuto da più persone che agi­ rono da più fronti, a causa di meccanismi messi in moto da più parti. Vedremo come e da chi. Il libro attraverserà, infine, il contesto politico-eversivo e criminale di quegli anni, anni di cui ancora oggi si percepi­ sce il peso e dalle cui ceneri, attraverso i documenti inediti legati al caso, potrebbe emergere un’iniziale spiegazione del vero movente che condusse il poeta all’Idroscalo la notte fra l’I e il 2 novembre 1975. Come scrive lo stesso Pasolini negli Scritti corsari, sarà il lettore, nella sua «ricostruzione di questo libro», a «rimet­ tere insieme i frammenti di un’opera dispersa e incompleta. E lui che deve ricongiungere passi lontani che però si inte­ grano. È lui che deve organizzare i momenti contradditori ricercandone la sostanziale unitarietà». Non sarà certo da solo in questo viaggio. Sarà uno sforzo che faremo insieme. Buona lettura.

13

Parte prima D is e g n o d i m o r t e Non è vero, se non qualunquisticamente, che una coltellata valga un’altra coltellata. Le coltellate della malavita napoletana del dopoguerra sono ben diverse dalle coltellate dei neofascisti pariolini o dei nuovi sottoproletari romani [...] essere accoltellati da un neofascista pariolino o da un teppista di Tor Pignattara sarebbe l’ipotesi tenuta in più bassa considerazione. Non solo a Roma ma solo in Italia, intervista a Pier Paolo Pasolini, in Epoca, 18 ottobre 1975

fi

Capitolo primo

«Mi vogliono ammazzare»

Le minacce telefoniche «Mi arrivano telefonate di minaccia, io sono pronto... se mi vogliono colpire. Ma l’importante è che non parlino con mia madre».1 Le parole di Pier Paolo Pasolini sono quelle affi­ date aU’ANSA, nell’aprile del 2010, dall’ex attrice italiana di origini eritree Ines Pellegrini, che nel film II fiore delle Mille e una notte interpreta il ruolo di una schiava saggia e colta. «Pasolini aveva paura e qualche mese prima di morire fece cambiare il numero di telefono di casa perché riceveva mi­ nacce». E ancora: «Provavo da diversi giorni a chiamarlo», ricorda in un’intervista la donna, «ma non era più possibile prendere la linea. Avevo cominciato a preoccuparmi. Poi mi chiamò Pier Paolo e mi disse che aveva cambiato numero; ripeto: aveva paura e io non riuscivo a capire il perché e a chi si riferiva». Sempre Ines Pellegrini rimarca, in un documen­ tario del 2012 realizzato dal giornalista della Stampa Carlo Grande, che Pasolini «è morto male, se fosse stato un cane avrebbero avuto più pietà». Bisogna partire da qui, da queste parole, e soltanto alla fine del libro capiremo il perché. A poche settimane dalla sua morte, lo scrittore, dunque, chiede al gestore telefonico

I. D isegno di morte

che gli venga sostituito il numero di casa a causa delle mi­ nacce che riceve. Minacce che si ripeterebbero in tutte le ore del giorno e della notte. Minacce pesanti, esplicite. Minacce di morte che rimbalzano da un capo all’altro della linea. Ma da parte di chi? E perché? Nessuno ha provato a leggere in controluce la cronaca di quei giorni convulsi. Pasolini è allarmato, ha paura e in qual­ che modo vuole e deve parlare, far sapere la verità. Ed ecco che semina qua e là frammenti di risposte. Frammenti pronti a essere raccolti e letti per ciò che sono, se solo qualcuno lo volesse. Lo scenario di quelle settimane si condisce poi di un episodio molto strano: l’attentato alla centrale SIP di viale Shakespeare all’Eur, a pochi passi dall’abitazione del regista, del 13 ottobre 1975,2 a causa del quale Pasolini è costretto nuovamente a cambiare utenza: So che mi avete cercato. Vi chiamo io adesso perché il mio telefono non funziona. Il mio apparecchio è tra quelli messi fuori uso dall’attentato alla centralina dell’Eur tre settimane fa. Mi interessa la vostra tavola rotonda sulla censura in TV. Ci vengo anche per rispondere agli insulti di tanta gente. Per ora la Sip mi ha dato un numero volante e mi arrangio [...]. Sono tornato a Roma perché ho saputo che sono pronte due copie del mio film Salò e avevo fretta di vederle e discuterle con gli amici.3 Anche di questo attentato si è sempre saputo poco, troppo poco se si considerano le trame assai più complesse e inquietanti di quegli anni. Ma ecco spuntare, dall’archivio della segreteria politica della Democrazia Cristiana, un documento prezioso, con­ tenuto in un fascicolo relativo al PCI, le cui informazioni, come indicato a margine dello stesso documento, proven­ gono da fonti riservate.4 18

1. «Mi vogliono

ammazzare»

È lo schema della contrapposizione fra rossi e neri, con­ trapposizione che spesso, in quegli anni, per volere di settori dello Stato, viene eterodiretta; in altri casi, invece, è lo stesso Stato a lasciare che certi eventi si compiano: si tratta di atten­ tati sempre terribili, che però a destra, se coadiuvati da abili mani esterne, sono più precisi e sofisticati. Per realizzare il sa­ botaggio, vengono usati tre ordigni incendiari e due bombe al plastico, il tutto collegato a micce a lenta combustione. Insomma, gli «anni di piombo» si stavano affacciando per rug­ gire, mentre la strategia della tensione era al suo apice. Che relazione c’è fra questo attentato e la morte di Paso­ lini? Apparentemente nessuna: la sua funzione sarà svelata più avanti. La cosa che desta più sospetti è che, nel periodo immediatamente precedente alla sua morte, nonostante sa­ pesse di essere in pericolo anche a causa delle continue mi­ nacce, il poeta quasi scompare dal suo entourage, sfugge alle persone a lui più vicine e care, si reca fuori Roma ripetutamente, vedremo in particolare dove. I suoi amici tentano in­ vano di contattarlo. Un fatto insolito che sarà Oriana Fallaci a ricordare, dopo il massacro dell’Idroscalo, nella Lettera a Pier Paolo Pasolini,5 attraverso la controinchiesta condotta dalla giornalista sulla morte del poeta, parallela a quella ap­ pena avviata dagli inquirenti. 19

I. D isegno di morte

La vita privata di Pasolini nelle settimane che precedono l’omicidio rimane, dunque, nell’ombra, sebbene continui a lanciare messaggi molto espliciti.

L’attenzione e le aggressioni fasciste intorno a Salò Nello stesso periodo in cui avviene l’attentato alla SIP, nel corso di un’intervista rilasciata in Svezia al giornalista Fran­ cesco Saverio Alonzo, prima di tornare a Roma per visionare le copie ultimate di Salò ole 120 giornate diSodoma, alla do­ manda se temesse qualche rappresaglia da parte dei fascisti, Pasolini risponde: «Mi meraviglio che non abbiano ancora tentato di farlo, una volta per tutte». Durante la sua vita, infatti, Pasolini ha subito molte ag­ gressioni di stampo fascista, sia in Italia che all’estero. Come quella avvenuta a Parigi, nel novembre del 1974, durante un seminario sul fascismo europeo diretto da Maria Antonietta Macciocchi,6 autrice, tra l’altro, per Grasset, di un libro in­ titolato Pasolini. La Macciocchi, esponente del PCI prima e del Partito Radicale poi, trasferitasi nel 1972 nella capitale francese e divenuta nel 1979 membro della Commissione Giustizia del Parlamento Europeo, racconterà come questo volume non sia mai stato tradotto in italiano a causa dei con­ tinui dinieghi da parte degli editori e non solo. «Pier Paolo Pasolini fa ancora paura? Sì, lui e la sua morte continuano a provocare scandalo e ne ho le prove». E ancora: «Avevo proposto la traduzione italiana del libro da me curato subito dopo la sua uscita in Francia ma già allora registrai silenzi imbarazzanti. H o pensato di riproporlo ad alcuni editori te­ nendo presente l’anniversario della morte di Pier Paolo [2 novembre 1995, N.d.A.]. Tutti mi hanno detto che l’opera è interessante e bella, ritenendo però che non fosse il mo­ mento giusto per pubblicarla» dirà all’agenzia di stampa 20

1. «M i vogliono ammazzare»

Adnkronos. Ma non è il solo episodio increscioso capitato alla donna. Durante la sua direzione del settimanale Vie nuove, infatti, Togliatti le aveva chiesto di sopprimere una rubrica tenuta da Pasolini, collaborazione richiesta dalla stessa Macciocchi, malgrado lo scrittore non percepisse al­ cun compenso. La Macciocchi si rifiutò e quindi Togliatti la sollevò dall’incarico. In occasione dell’incontro del 1974 all’università parigina, viene proiettato il film Fascista di Nico Naldini, prodotto da Pasolini e Alberto Grimaldi. La pellicola, costruita con spez­ zoni di documentari dell’Istituto Luce, raccoglie applausi ma anche insulti. Parte del pubblico formato da una folla ocea­ nica frammista di rossi e di neri, francesi e italiani, dà dell’as­ sassino allo scrittore. L’episodio confermerà una convinzione sempre più radicata in lui col tempo: che il nuovo fascismo è ormai un fenomeno culturale, entrato a pieno titolo nelle menti e nella cultura degli italiani, come sin dal primo arti­ colo sul Corriere della Sera aveva avvertito Pasolini.7 Nel 2005, ai primi segnali dell’apertura di una nuova in­ chiesta, l’avvocato Nino Marazzita, che ha depositato l’i­ stanza di riapertura, dichiara all 'Unità che, pochi mesi prima di venire assassinato, Pasolini era stato aggredito da un gruppo di fascisti: «Lo volevano buttare giù da Ponte G a­ ribaldi, ma un’auto si fermò e alcune persone corsero in suo aiuto». Si tratta di un particolare poco noto e significativo per la vicinanza temporale con l’omicidio. Risalendo ancora indietro nel tempo, ci imbattiamo in un altro episodio rilevante per lo sviluppo di questa storia. Il 23 settembre del 1962, al termine della proiezione della prima di Mamma Roma, al cinema Quattro Fontane, Pasolini viene aggredito. Il primo a gettarsi sul regista è Flavio Campo (tra i giovani più vicini al nero Stefano delle Chiaie). A dare man forte a Campo interviene Serafino Di Luia, uno dei fonda­ tori dell’organizzazione nazi-maoista Lotta di Popolo,8 il 21

I. D isegno di morte

quale formerà in seguito il movimento giovanile Avanguar­ dia Nazionale insieme al fratello Bruno, attore e comparsa presso Cinecittà in molti film negli anni 70. Il giornalista Adalberto Baldoni, ammiratore di Pasolini e autore, insieme a Gianni Borgna, del bel libro Una lunga incomprensione. Pasolini fra destra e sinistra,9 ha ripercorso con chi scrive quell’episodio, riconducendolo, però, alle tipiche azioni det­ tate dalla ferocia del tempo. Come viene ricordato inoltre in un’intervista in memoria di Antonio Fiore, tra i capi militari storici di Avanguardia Nazionale (protagonista dei moti di Valle Giulia nel marzo del ’68 insieme a Mario Merlino e ai movimenti studenteschi di destra e di sinistra), sul Secolo d’I­ talia: «Il coraggio non c’è mai mancato e con Bruno Di Luia fummo ingaggiati come comparse e stuntman nei film che si giravano a Cinecittà [...]. Sono finito anche a recitare, sem­ pre come comparsa, in un film di Pier Paolo Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma».10 Alcuni di questi personaggi ricompariranno, sebbene non saranno ritenuti colpevoli, in diversi episodi collegati alla strategia della tensione, uno su tutti la strage di Piazza Fontana.11 Un episodio, quello dell’aggressione al cinema Q uattro Fontane, in relazione al quale Pasolini stigmatizzerà le falsità riportate, sia a destra che a sinistra, dai giornali in un saggio contenuto nella rac­ colta Empirismo eretico:12 Alla prima di un mio film, un fascista, un giovanotto piutto­ sto emaciato, per la verità, mi ha gridato pubblicamente un insulto in nome di tutta la sua bella gioventù:13 io ho perso la pazienza (me ne pento), l’ho schiaffeggiato e sbattuto per terra. [...] Non so per quali calcoli, i giornali che hanno ri­ portato l’episodio, l’hanno rovesciato (corredandolo di fo­ tografie false) in modo che il picchiato risultassi io.

Sarà l’occasione per il settimanale Lo Specchio di definire il regista «vate delle marrane». 22

1. «M i vogliono ammazzare»

Ma le aggressioni, come detto, sono numerose. Fra i due episodi raccontati, ne avviene un altro che tornerà utile nel prosieguo di questa inchiesta. Nel libro di Maccioni, Rizzo e Ruffini, Nessuna pietà per Pasolini,14 uno degli autori rac­ conta della partecipazione del poeta a un premio letterario catanese: Nel 1969 [Pasolini, N.d.A.] è tra i giurati del Premio Brancati, insieme ad Alberto Moravia. Nella sala di Zafferana dove si svolge la cerimonia, irrompe una banda di scrite­ riati. Sono giovani del FUAN, il gruppo universitario del MSI. Vogliono contestare gli intellettuali comunisti. Spin­ toni, insulti e infine il lancio di alcuni finocchi contro di lui. «Frocio comunista!», gli urlano in faccia. Tra quei gio­ vani squadristi all’ortofrutta, c’è anche un giovanotto alto e snello, che farà parlare di sé. Si chiama Checco Rovella [Francesco, N.d.A.]. Basteranno pochi anni perché quel nome a Catania cominci a fare paura. Il giovanotto dei finocchi di Zafferana sarà tra i primi aderenti di Ordine nuovo e finirà in carcere per aver aiutato Pierluigi Concutelli a scappare in Spagna, in fuga dal mandato d’arresto per l’assassinio del giudice Vittorio Occorsio.15

Tornando al giorno precedente alla morte di Pasolini, in­ vece, durante un’altra intervista televisiva sul film Salò, rea­ lizzata in Francia il 31 ottobre 1975, avviene uno scambio di battute con molti sottintesi fra l’intervistatore e il regista: «Perché ha circondato le riprese di Salò di tanto mistero?» «E stato girato così perché così si opera bene, nel mistero. Ho cercato di difenderla più delle altre volte perché c’erano dei pericoli immediati, incombenti, niente di speciale...» «Cosa intende per pericoli immediati?» «L’apparire di qualche moralista che rifiuta il piacere di es­ sere scandalizzato».16 23

I. D isegno di morte

Una risposta pacata, ma caratterizzata da una scelta ter­ minologica precisa, oltre che da un riferimento a «pericoli immediati». Il clima di protezione creato da Pasolini intorno al film non sembra, infatti, un mero artificio pubblicitario per accrescere l’attesa in vista dell’uscita nelle sale. Testimone diretta di quel clima è l’attrice Laura Betti, molto vicina a Pasolini anche al di fuori del set: Mi teneva lontana. In Salò non voleva né me né Ninetto [Ninetto Davoli, N.d.A.]. E vero che io stavo facendo un altro film, ma non è questo il punto. Lui m i diceva che voleva pro­ teggermi. I fascisti, i servizi segreti. Un giorno spunterà fuori tutto. Quando tutti saranno morti. Potrai leggere la storia sui giornali, sui libri. Ma anche in quel caso... non è che tutto può essere scritto».17

Non solo. La scelta delle parole per uno scrittore e un giornalista non può essere mai casuale e il lemma «pericolo» ritorna nel testo, oltre che essere integrata nel titolo, dell’ultima intervista, pubblicata sulla Stampa e rilasciata a Furio Colombo qualche ora prima della morte, fra le 16 e le 18 del pomeriggio del primo novembre 1975: «[...] Il seme, il senso di tutto. Tu non sai neanche chi adesso sta pensando di ucciderti. Metti questo titolo, se vuoi: ‘Perché siamo tutti in pericolo’». Si tratta del dialogo che ha forse consacrato pro­ fessionalmente Furio Colombo, il quale cercherà con Alberto Moravia di indagare su quella notte dopo le parole raccolte a caldo, all’alba, da un testimone dell’Idroscalo, il pescatore Ennio Salvitti,18di cui è utile riportare un passaggio: «Il mio cognome si scrive co’ due t: Salvitti Ennio. E lei tanto pe’ correttezza?» «Lavoro per La Stampa, mi chiamo Furio Colombo. «La Stampa, ah, Agnelli» «Sì, Agnelli». 24

1. «M i vogliono ammazzare»

«Scriva che è tutto ’no schifo, che erano in tanti, lo hanno massacrato quel poveraccio. Pe’ mezz’ora ha gridato mamma, mamma, mamma. Erano quattro, cinque». «Ma lei questo lo ha detto alla polizia?» «Ma che, so’ scemo...»

Colombo però non riesce a scoprire molto nel corso di quella «piccola inchiesta», come rivelerà più in là negli anni.19 La famiglia Salvitti sarà nuovamente protagonista, nelle carte delle indagini riaperte ufficialmente nel 2010 dalla Procura di Roma, come testimone di nuovi dettagli di cui in seguito ci occuperemo. Nel dialogo fra il giornalista e lo scrittore, il pericolo della violenza viene denunciato in senso generale, meno persona­ listico ma cosciente: «Lo sanno tutti che io le mie esperienze le pago di persona [...] io continuo a dire che siamo tutti in pericolo». Lungo tutto l’arco dell’intervista, inoltre, Paso­ lini fa rimbombare come un avvertimento ai suoi amici più stretti, Moravia in testa, e alla stampa tutta, rivolgendosi an­ che allo stesso Colombo, l’importanza di non restare in su­ perficie in merito agli accadimenti che riguardano il Paese: «Per voi una cosa accade quando è cronaca, bella, fatta, im­ paginata, tagliata e intitolata. Ma cosa c’è sotto?» E ancora, il giornalista inglese Peter Dragadze, che dal 1967 segue come un’ombra Pasolini, raccoglie quella vita di appunti e di incontri in un lavoro collettivo postumo, pub­ blicato sul settimanale Gente il 17 novembre del 1975.20 Dra­ gadze spiega come, durante l’ultimo dei loro confronti, lo scrittore stesse riordinando e riscrivendo interamente i suoi appunti: «Questo è quasi un testamento spirituale-intellet­ tuale. Se dovesse succedere qualcosa Dragadze lo tiri fuori. Credo che a qualcuno potrebbe interessare». Dragadze rie­ voca alcuni gesti di Pasolini: «Nell’ultimo dei nostri incontri gli sottoposi tutti gli appunti che avevo raccolto e che volevo 25

I. D isegno di morte

utilizzare per un ampio servizio dedicato alla sua vita e alla sua opera. Ebbene, Pasolini prese i fogli, li riordinò, li riscrisse a macchina, aggiunse qua e là correzioni di suo pugno». Parole che lasciano un’ulteriore, rilevante traccia di quel «pericolo immediato» più volte sottolineato nell’intervista di Colombo. Gli incontri con Dragadze hanno riguardato un po’ tutte le tematiche, care al tempo e allo scrittore, che hanno caratte­ rizzato gli ultimi anni «corsari» e in modo più specifico la rac­ colta postuma Lettere luterane. Tra le tante spicca la seguente: Sia il tentato colpo di Stato italiano del 1964 che il colpo di Stato riuscito in Grecia, sono avvenimenti accaduti nell’am­ bito della NATO. In Italia si è fatto un processo contro i gior­ nalisti dell’«Espresso» che hanno denunciato all’opinione pubblica alcuni dei responsabili del tentato colpo di Stato. L’inchiesta parlamentare è stata però bloccata dal partito cat­ tolico (democristiano) con l’appoggio dei socialisti. Eviden­ temente non si vuole risalire a responsabilità internazionali.21

La testimonianza di Dario Bellezza Dario Bellezza, poeta morto di HIV nel 1996, e segretario dello scrittore per un periodo, ritroverà il coraggio perso quando scrisse Morte di Pasolini22 con un altro libro, quasi un’abiura del primo: Il poeta assassinato:23 Lo ripeto fino alla sazietà: quando, tanti anni fa, scrissi, per esorcizzare la sua fine, Morte di Pasolini, troppo ancora emotivamente preso dalla sua atroce dipartita [...] non ebbi il coraggio di leggere tutti gli atti relativi al processo di primo grado che riguardavano la dinamica vera del delitto di gruppo, la descrizione delle ferite del corpo martoriato [...] mi intrigava il rapporto di tipo pedagogico che inter­ corse fra Pino Pelosi, il giovane erotizzante, e Pier Paolo, il poeta, prima del delitto. 26

1. «M i vogliono ammazzare»

Bellezza riporta nel suo secondò libro una testimonianza senza eguali: Pasolini mi disse un giorno, poco prima di morire, che aveva ricevuto dei documenti compromettenti su un notabile DC [...]. Io invero gli chiesi chi era e che uso ne voleva fare. Mi rispose che non era un ricattatore. Non ne avrebbe fatto nes­ sun uso. Il potente democristiano era però amico dei neofa­ scisti, della polizia... Controllava i servizi segreti, nelle sue mani c’era G ladio... Pasolini poteva essere eliminato in qual­ siasi m om ento...

Questa nota, che emerge tra le cento pagine di testimo­ nianza tardiva, verrà riportata da Adele Cambria in un ar­ ticolo del Giorno nei mesi successivi all’uscita postuma di Il poeta assassinato,24 Nessuno la riprese, ad eccezione di Carlo Lucarelli e Gianni Borgna, che la inserirono in una ricostruzione completa del caso, la prima svolta accurata­ mente dopo anni sebbene aperta a diverse ipotesi di verità.25 Resta tuttavia anomalo il disinteresse della magistratura che, a tratti e brevemente nel corso degli anni (nel 1995 e nel 2005), se ne occupa aprendo qui e lì un fascicolo per poi richiuderlo maldestramente e in fretta. Disinteresse verso queste e altre evidenze che ha caratterizzato purtroppo anche l’ultima indagine, risoltasi con un’archiviazione nel 2015.

Le parole dell’Unità e di Davoli Il messaggio del PCI pubblicato all’indomani della morte di Pasolini sul quotidiano del partito, l’Unità^6 la cui cronaca però fu sempre precisa e attenta, racchiude l’incompren­ sione e la cecità riservate da quella parte politica all’uomo che più di tutti restò un marxista e un comunista a sé:27 27

I. D isegno di morte

La «vita violenta» su cui egli ha indagato con una vivacità intellettuale forse senza eguali nel nostro paese, è divenuta ora causa terribile della sua scomparsa. Quasi che egli avesse teso a cercare questo epilogo.

Allusione che raccoglierà intorno agli anni ’80 anche Giulio Andreotti, in modo più tagliente e volgare, in una nota intervista oggi abbastanza diffusa: «Se l’è cercata».28 Poco prima di ricevere l’avviso di garanzia per concorso esterno in associazione mafiosa, Andreotti pronuncerà delle pubbliche (e tardive) scuse a Pasolini, il quale negli anni corsari aveva invocato, tra le altre cose, il «processo alla DC»: Avrei dovuto condurre il dialogo approfondendo di più i valori culturali e morali dell’analisi di Pasolini, che senza enunciarlo ricordava a me che l’uomo non vive di solo pane. Io ero forse prosaicamente radicato alla convinzione che senza pane non si vive sicuramente.29

Nella pagina interna dell’Unità, si trova un articolo nel quale compaiono le dichiarazioni di Davoli (a cui Pasolini fu molto legato) che ci riportano all’incipit di questo libro: L’attore racconta che spesso Pasolini riceveva telefonate anonime di minaccia e che periodicamente era costretto a cambiare numero di telefono. Veniva anche insultato, ag­ gredito per strada e lui aveva dovuto difenderlo più di una volta.

Poi direttamente Davoli: Ma quella che ha ucciso Paolo è una violenza diversa, as­ surda.30 28

1. «M i vogliono ammazzare»

L’attore consacrato dal poeta, però, non terrà più conto di queste considerazioni e informazioni (che si collegano a quanto da noi rilevato qui per la prima volta relativamente alle minacce) rilasciate a caldo, ma anche fresche dei ricordi di allora.

La Divina Mimesis Esiste un libro, un «documento» di Pasolini, come da lui stesso definito, pubblicato postumo e per certi versi non an­ cora terminato (lo scrittore raccolse e corresse ciò che dal 1963, fino a poco prima di morire ammazzato, aveva scritto): La Divina Mimesis*1 Pagine che nelle intenzioni iniziali di Pasolini dovevano rappresentare una riscrittura della Divina Commedia, attraverso l’artificio del manoscritto ritrovato, in­ terpretate secondo lo spirito anticapitalistico caro all’autore. E Dario Bellezza, come racconta in II poeta assassinato, a cor­ reggerne le prime bozze. Bellezza, quando arriva a leggere l’a­ neddoto del «poeta bastonato a morte a Palermo»,32 chiede a Pasolini il motivo di quella precisa descrizione. Questi gli ri­ sponde: «Potrei finire così», proseguendo con il racconto di alcune aggressioni fasciste subite nei mesi precedenti: Un blocchetto di note è stato addirittura trovato nella borsa interna dello sportello della sua macchina; e, infine, detta­ glio macabro ma anche - lo si consenta - commovente, un biglietto a quadretti [...] riempito di una decina di righe molto incerte - è stato trovato nella tasca della giacca del suo cadavere (egli è morto, ucciso a colpi di bastonate, a Pa­ lermo, l’anno scorso).33

A tale proposito, lo scrittore e critico letterario Enzo Si­ ciliano, da sempre molto legato al poeta e autore di una sua fondamentale biografia, nella post-fazione di quel «docu­ 29

I. D isegno di morte

mento» invita tutti a non interpretare il racconto del poeta bastonato come una profezia o, peggio ancora (così aveva fatto il pittore e amico Giuseppe Zigaina nel suo saggio su Pasolini),34 come la prova che il regista avesse concepito e organizzato la sua stessa morte: Il poeta ucciso a bastonate a Palermo è l’immagine di un poeta che soccombe alle polemiche letterarie che in quella città si svolsero al secondo convegno della neoavanguardia (1965): nella iconografia ingiallita c’è la testimonianza d ’una fotografia. Si tratta di un ironico gioco soltanto letterario.35

Ben diverso, infatti, è il valore di una testimonianza di­ retta delle aggressioni subite, come quella resa dal poeta a Bellezza, rispetto alle speculazioni sulla morte espresse da Zigaina, che suggeriscono una sorta di suicidio romantico ed estetico. La Divina Mimesis viene concepita proprio nel 1963, ossia l’anno di nascita di quella stessa neoavanguardia a cui lo scrittore, nella prefazione, al termine della revisione, rivolge la seguente dedica: «do alle stampe oggi queste pagine come un ‘documento’, ma anche per fare dispetto ai miei nemici: infatti, offrendo loro una ragione di più per disprezzarmi of­ fro loro una ragione di più per andare all’Inferno».

30

Capitolo secondo

Il falso movente

Tutto ciò ha dato al mio discorso sull’aborto una certa «tinta»: «tinta» che proviene da una mia esperienza particolare e diversa della vita, e della vita sessuale. Gennariello. Paragrafo terzo: ancora sul tuo pedagogo, 20 marzo 1975, in Lettere luterane

«Frodo e basta»?1 Il fascicolo numero 1466/75 del procedimento penale rela­ tivo all’omicidio di Pier Paolo Pasolini è il primo atto di una storia lunga che contiene, se non tutto, molto di ciò che si poteva e si può ancora capire sul massacro del poeta. Sono passati quarant’anni ma è tutto davvero fermo in quei faldoni ingialliti: le foto della scena del crimine, del corpo, del sangue, della terra diventata fango, della camicia a righe colorate «Missoni», dei paletti e delle fragili tavolette di legno (di cui spiegheremo la pertinenza), della macchina, di un anello e dell’olio della coppa di un’Alfa G T adeso ai ca­ pelli del cadavere. Le perizie, le analisi di laboratorio, i te­ stimoni, i carteggi di anonimi folli o consapevoli in cerca di popolarità, i riferimenti ai reperti sequestrati, gli appunti e i numeri di telefono trovati nell’auto, i messaggi da e verso il carcere dove venne rinchiuso l’unico omicida ufficiale, G iu­ seppe Pelosi. Pagine stracciate, foto e deposizioni mancanti, di cui si troverà traccia più in là in questa inchiesta e dei quali nes­ suno ha reso conto negli anni. E poi, i verbali dei commis­

I. D isegno di morte

sari di polizia utilizzati come fonti dallo scrittore prima di essere ucciso. E ancora, convocazioni di giornalisti e donne di cultura come Libero Montesi, allora direttore dell’Euro­ peo, Oriana Fallaci, Mauro Volterra e Laura Betti: da quei faldoni saltano fuori anche estratti di vita e di lavoro puri dello scrittore. Sfogliando gli incartamenti, sorprende che, tra la sfilza di intellettuali sentiti dalla magistratura, non compaia, ad esem­ pio, la deposizione di Alberto Moravia, che, secondo lo scrit­ tore Renzo Paris, accorso con lui quella mattina di novembre sulla scena del delitto, riferì agli inquirenti di come entrambi fossero stati seguiti da una moto e due centauri con indosso delle tute blu: Prima ci fermammo in un bar per chiedere meglio dove fosse il luogo, non lo conoscevamo, poi due sui quarant’anni ci seguirono quando riprendemmo la guida. Gli stessi due che ci dettero l’informazione.

Prosegue Paris: Moravia è stato sentito dai giudici sulla vicenda ma poi non se ne seppe più nulla, non l’avranno ritenuto un fatto im­ portante. Una cosa è certa e ancora vivida dei miei ricordi. Andando via dal bar, guardando dallo specchietto ci ren­ demmo conto che ci stavano inseguendo. Quando arrivai su quello spiazzo il corpo di Pier Paolo già lo avevano por­ tato via ed erano ancora per terra visibili i bastoni di legno spezzati [con i quali, poi la cronaca raccontò, sarebbe stato colpito Pasolini, N.d.A.]. Da subito la vivida impressione fu che non poteva essere stato solo lui [Pelosi, N.d.A.] ad averlo ammazzato.

Un fatto, questo dell’omissione, difficile da spiegare. Di moto e di tute blu scriverà anche Furio Colombo in un arti­ 32

2. I l falso movente

colo del 3 novembre che precede il più famoso Siamo tutti in pericolo-. Sono le quattro e un quarto di sabato pomeriggio. Sopra il citofono della palazzina di Via Eufrate, all’Eur, c’è scritto «Dr. Pasolini». [...] Nella strada incrociano due individui giovani, uno in tuta azzurra e splendore di cerniere lampo, entrambi col casco e la visiera scura davanti alla faccia. [...] Con la macchina accosto due volte. Per due volte le facce nascoste dal casco non rispondono alla domanda sulla strada e sul numero. Accelerano lievemente, due ragazzi che guidano bene. Quando esco, due ore più tardi, vedo ancora la tuta blu, la moto, le gambe ferme e divaricate, lontano in mezzo alla strada.2 Nel fascicolo è il sesso ad ammantare tutto. Ogni riferi­ mento sembra condurre in quella direzione. Senza possibi­ lità di appello. Per molti anni, infatti, l’idea che Pasolini, con i suoi gusti e le sue abitudini private, possa aver perso la vita per motivi diversi dal suo orientamento sessuale e dal modo in cui viveva la sua omosessualità non ha minimamente at­ traversato la testa e smosso la penna di molti degli intellet­ tuali e dei giornalisti che hanno speso fiumi di inchiostro al riguardo. Anche chi, solo più tardi, ha condotto ottime in­ chieste ha preferito non mettere in discussione la parte ses­ suale in sé. «Frocio e basta»: questo il senso che resta del massacro. Lo spiega bene la saggista e critica letteraria Carla Benedetti con quella locuzione da lei stessa coniata come ti­ tolo di un libro: L’idea della deriva violenta della sessualità di Pasolini potè prendere consistenza di racconto, cioè non restare solo un dato biografico di cui uno se vuole può tenere conto, ma di­ ventare una figurazione protettiva, che convalidava surretti­ ziamente la versione ufficiale dell’omicidio. 33

I. D isegno di morte

A scrivere l’incipit di quella «consistenza di racconto» è, in tutti i suoi gradi, l’unico processo che in Cassazione, nel 1979, si concluderà con la condanna del solo assassino riconosciuto, Giuseppe Pelosi, quel «Pino la rana» che la stampa, per certi versi, all’inizio trasforma quasi in una star. La versione dell’aggressione a sfondo sessuale che Paso­ lini avrebbe perpetrato su un minorenne è quella che, dif­ fondendosi sin da subito attraverso gli organi di stampa, in barba al segreto istruttorio (contrariamente a quanto in ob­ bligo durante la fase dell’istruzione sommaria), imbalsamerà le menti di milioni di italiani riconducendo il tutto, anche la supposta e giustificata reazione del ragazzo, proprio a quel «frocio e basta». L’iter processuale relativo alla morte di Pasolini è molto tortuoso. La gestione del caso passa dal Tribunale dei Mi­ nori alla Procura Ordinaria - che interrogherà Pelosi la mattina successiva al fatto motivandolo con l’assenza del giudice istruttore minorile di turno - per poi rimbalzare di nuovo al Tribunale dei Minori, fino all’avocazione da parte della Procura Generale di Roma, il 21 novembre del 1975, che successivamente impugnerà anche il «concorso con ignoti»3 presente nella motivazione della sentenza di primo grado. Tutto parte da una versione imposta e concordata sin dalla notte della tragedia. Una versione poi ingrossata e per­ fezionata dal collegio difensivo di Pelosi al cui interno, come vedremo, non mancheranno contrasti e divisioni. E la tesi del sesso marchettaro, mercenario e consumato in un luogo sporco. Ieri come oggi, questo rimane l’unico movente del crimine. Nei cinque interrogatori che hanno preceduto i dibat­ timenti in aula del processo di primo grado, che si è con­ cluso il 26 aprile del 1976, così come nelle udienze suc­ cessive, Pelosi stende il resoconto delle richieste sessuali 34

2. I l falso movente

che sarebbero arrivate insistentemente da Pasolini e che sembra fossero talmente ripugnanti per il ragazzo da co­ stringerlo a reagire in modo violento. Molte cose però, ri­ leggendo attentamente quei faldoni, sembrano poggiare su basi poco solide. La versione imposta a Pelosi ha i criteri di un copione «imparato male», come diranno in seguito gli stessi difensori di «Pino la rana», gli avvocati Vincenzo e Tommaso Spaltro: Non vorremmo che si sia accollato un delitto che non ha commesso e che stia proteggendo qualcuno [...] se si vuole strumentalizzare il processo Pasolini-Pelosi per distruggere la personalità politico-culturale, artistica e politica dello scrittore, intraprendendo una crociata aprioristica e dogma­ tica contro Pasolini omosessuale e marxista, noi ne trarremo le conseguenze e ce ne andremo. [...] È necessario e dove­ roso prescindere da qualsiasi imputazione di natura politica, e non rifiutare ogni ulteriore allargamento delle indagini im­ plicanti un ruolo diverso eventualmente giocato dal Pelosi nel delitto di cui si è autoaccusato.4I

I due avvocati, che inizialmente fanno parte del collegio difensivo di Pelosi capeggiato dall’avvocato Rocco Mangia, romperanno presto con quest’ultimo proprio perché con­ vinti che il loro assistito non dica tutta la verità. Sarà il gior­ nalista Franco Salomone, tessera 678 della P2, a consigliare i genitori di Pelosi, questa la sua versione, di allontanare i due legali. Versione di Pelosi a parte, gli articoli del giorna­ lista in quei frangenti sono frequenti e pressanti, e, come il lettore potrà verificare da sé, si nota la confidenza con la famiglia. Ma cosa fa vacillare il movente sessuale?

35

I. D isegno di morte

I I copione sbagliato di Pelosi Il 2 novembre del 1975, Pelosi è per la prima volta di fronte agli inquirenti, dopo le prime dichiarazioni rese al momento del fermo, e comincia a riportare la sua versione dal momento in cui sarebbe avvenuto il primo incontro alla stazione Ter­ mini di Roma: Il signore sceso dall’auto [...] ha fatto anche a me la pro­ posta di fare un giro in macchina dicendo che mi avrebbe fatto un regalo [...]. Siamo stati insieme dalle ore 23 alle 23.30 nella trattoria [Al Biondo Tevere, N.d.A.], poi siamo risaliti in macchina [...]. Strada facendo mi ha detto che mi avrebbe portato in un campetto isolato, che mi avrebbe fatto qualcosa e che mi avrebbe dato lire 20.000. Nel dire questo mi toccava le gambe e i genitali.

Cambio di scena, siamo all’idroscalo e Pelosi racconta prima di un rapporto orale da parte di Pasolini e poi: mi ha fatto poggiare a una rete metallica di recinzione e mi è venuto dietro premendosi a me da dietro e cercando di abbassarmi i pantaloni.

Tre giorni dopo, il 5 novembre, il ragazzo viene di nuovo interrogato. Nella pagina seguente, vediamo cosa riporta il verbale originale di quel giorno: è infatti nella scena di que­ sta seconda dichiarazione che alcuni dettagli cominciano a non tornare. Pelosi qui dichiara che: [...] la zona era completamente al buio e la zona a me com­ pletamente sconosciuta.

L’uomo, dunque, non sarebbe stato in grado di vedere nulla a causa della scarsissima illuminazione. Durante il primo in­ terrogatorio, però, aveva indicato il colore della tavoletta con cui avrebbe cominciato a picchiare il poeta «per difendersi». 36

2. I l falso movente

Stralci di interrogatorio contenuti nella sentenza di primo grado del 4 di­ cembre 1976, fascicolo n, 1466/75.1 segni a penna o a matita rappresentati nella foto sono correzioni del cancelliere che ha redatto il verbale.

Nel confronto del 2 novembre, infatti, nel descrivere l’ag­ gressione da parte di Pasolini, Pelosi aveva riferito: Il Paolo mi ha colpito col bastone, ora ricordo, era un paletto verde, e mi ha colpito alla tempia, alla testa e in varie parti del corpo. Io ho visto per terra la tavola con la scritta di cui ha descritto prima il dott. Masone e gliela ho rotta in testa [...].

La tavola verde spezzata esiste ed è quella usata da uno dei proprietari delle ex baracche per delimitare l’area e la proprietà. Sopra c’è scritto un nome, quello della moglie del proprietario, «Buttinelli A.», e un indirizzo, «via dell’I­ droscalo 93». A illuminare il luogo saranno invece dei fari di altre macchine, come leggeremo tra i pezzi scomposti di questa vicenda. Pelosi incorre nell’errore di dichiarare che il luogo era buio, malgrado riferisca il colore giusto della tavoletta. 37

I. D is e g n o d i m o r t e

Il giovane torna a depositare la sua testimonianza il 13 no­ vembre. Un altro spezzone del suo racconto, via via sempre più crudo nell’esposizione dei dettagli intimi, rivela un’ulte­ riore contraddizione: Dopo il coito orale avvenuto in macchina io non ritenni di chiedergli le 20.000 lire perché pensavo che dovevo chie­ dergliele quando avevamo finito tutto e quando mi portava verso casa.

L’atto del coito nella prima e seconda deposizione è, in­ vece, assolutamente negato. In questa nuova versione, dun­ que, non prosegue più la logica della precedente, secondo cui il ragazzo «senza esperienza» si aspettava solo delle ca­ rezze per ventimila lire:

II servizio fotografico in carcere Gli altri due interrogatori a Pelosi si svolgono il 15 novembre e il 9 dicembre del 1975. Nel secondo, il giovane si difende anche dalle accuse riguardanti le foto scattate durante l’ora d’aria nel carcere minorile di Casal del Marmo. «Pelosino», 38

2. I l falso movente

l’altro soprannome affibbiato all’imputato proveniente dalla strada, era stato protagonista, infatti, di un «mimo»: alcune foto scattate all’esterno del riformatorio mentre interpretava fisicamente i momenti del «fattaccio» a un altro detenuto. Una specie di racconto, in eclatanti gesti, dell’assassinio che comprende anche straccio e tavoletta. È il settimanale Gente a pubblicare quegli scatti.5 Il ritrarsi di Pelosi e l’aggressione di Pasolini nel vedersi rifiutare diventano gli ingredienti con i quali si rompono perfino le rigide regole della censura a cui la TV di allora era sottoposta, perché le immagini rimbalze­ ranno sugli schermi. Per quelle foto, che vorrebbero ritrarre un eroe che si di­ fende dal mostro pedofilo, si darà vita anche a un’inchiesta interna al carcere, al fine di capire se fotografo, personale o guardie carcerarie si fossero accordati per realizzare quella messa in scena. Il servizio, firmato dalla giornalista France­ sca Maria Trapani, contribuirà a influenzare l’immaginario collettivo: il buono e il cattivo, la vittima e il carnefice che si scambiano di ruolo per concludere nel «giustificato» tragico epilogo. L’ennesimo processo a Pasolini anche da morto. Sia l’autore delle foto che la giornalista saranno interro­ gati dalla Procura Generale. Il primo dichiarerà:

39

I. D isegno di morte

Nello stesso verbale, il fotografo si rende conto che la sua versione sarebbe potuta apparire, guarda caso, «poco atten­ dibile», ma confermerà di «aver detto la verità». Le stesse foto saranno pubblicate sul Tempo, il 19 novembre 1975. Azioni, quelle del settimanale e del quotidiano, che sempre più viaggiano all’unisono, in modo che il contesto squallido di tutta la vicenda possa fissarsi. Il giornalista Franco Saiomone definirà come «violento il carattere dello scrittore».6 Gli scatti pubblicati sul Tempo seguono qui a render vividi gli effetti di quella pantomima:

Foto pubblicata sul Tempo il 19 novembre 1975, e tratta dalla Biblioteca del Senato «Giovanni Spadolini» di Roma. 40

2. I l falso movente

Assenza di tracce del rapporto orale Nonostante il continuo rimando al movente sessuale, nelle carte del vecchio procedimento penale, all’interno delle perizie di parte e di ufficio, non esiste traccia biologica che confermi il risultato di un atto. Anche solo orale. La prima perizia dei medici legali Giancarlo Umani Ron­ chi, Silvio Merli ed Enrico Ronchetti, nominati dalla magi­ stratura al tempo, nella parte delle indagini di laboratorio effettuate escludono la presenza di tracce di sperma nei re­ perti esaminati: Esaminando al microscopio la zona di contatto non si sono evidenziati i cristalli di ioduro di colina che di norma abbon­ dano nelle tracce di sperma; con tecnica analoga si è tentato di identificare i cristalli di Barberio; anche in questo caso il risul­ tato è stato negativo. [...] L’esame microscopico non ha per­ messo di identificare gli spermatozoi. La assenza di immagini di questo tipo permette di escludere in modo praticamente definitivo la presenza di tracce di sperma nei reperti in esame.7

Persino i periti d ’ufficio, le cui analisi, lungo tutto l’arco del processo, concordano con quelle della difesa, in questo caso non hanno potuto ovviare alla realtà dei fatti. Dopo quasi quarantanni, gli investigatori del RIS che effettuano gli esami sul dna e sulla presenza di tracce biologiche, pur facendo riferimento, ribadendola, all’assenza di sperma ri­ levata nelle perizie di allora, nella loro ricostruzione conti­ nuano a non smentire l’atto sessuale: Gli accertamenti effettuati sui reperti 9 e 15 nonché sui pantaloni di Pelosi [Reperto 7], non hanno consentito di rilevare la presenza di sperma. Analogo responso negativo hanno fornito gli esami eseguiti nella bocca e nell’orifizio anale della vittima.8 41

I. D isegno di morte

Una contraddizione abbastanza inspiegabile caratterizza queste nuove indagini: da un lato, infatti, come vedremo, si sono approfonditi alcuni aspetti in cui mai prima si era sca­ vato; dall’altro, la base su cui si sono poggiate le cause fisi­ che della morte è stata solamente la perizia dei medici legali scelti al tempo dalla magistratura. Prima di arrivare ad Ostia, Pasolini accompagnava Pelosi presso la trattoria «Al Biondo Tevere», ubicata nel quartiere San Paolo lungo via Ostiense, dove il regista era conosciuto come cliente abituale [ore 23.15 fino alle 00.05 circa]. Da qui, dopo aver consumato un pasto, i due effettuavano riforni­ mento di benzina e si dirigevano verso Ostia dove raggiunge­ vano la zona dellTdroscalo [ora 00.30 circa]. In questo luogo, completamente al buio, reso ancor più angusto dalle pessime condizioni meteo e dal forte vento, Pasolini arrestava la mac­ china in zona defilata [nei pressi della porta di campo di cal­ cio ivi presente] ed iniziava un rapporto omosessuale orale con il consenziente Pelosi.9

L’intellettuale francese Jean-Paul Sartre interviene, ospitato dal Corriere della Sera, il 17 marzo 1976, nei giorni di poco pre­ cedenti alla sentenza di primo grado, in modo significativo: In questo processo non mi preoccupo della sorte di Pelosi che pure aveva i suoi problemi [...]. Quello che mi auguro è che non divenga il processo a Pier Paolo Pasolini [...] le ten­ denze omosessuali s’impongono fin dall’infanzia e nelle per­ sone in cui si manifestano creano una sessualità senza vera contraddizione che deve essere considerata normale così come l’eterosessualità. È vero, Pasolini cercava i suoi com­ pagni di piacere tra i ragazzi di vita delle borgate di Roma [...] ma si può rimproverarglielo quando si pensa alla quan­ tità di uomini che fa l’amore con le puttane?

Al di là della sua visione dell’omosessualità, Sartre, di cui per la prima volta riprendiamo l’intervento, coglie il senso 42

2, I l falso movente

di ciò che verrà e che rimane stagliato sino agli ultimi atti di questa vicenda. Ma non nella presente inchiesta.

Sangue e genetica Dalle indagini riaperte nel 2010 emergono delle novità rile­ vanti. L’esame del dna effettuato sugli slip neri di Pelosi, indos­ sati la notte del delitto, dà risposte, a tanti anni dal fatto, diffe­ renti dalla versione ufficiale. Sull’indumento, si legge, «sono state evidenziate diverse tracce di natura verosimilmente bio­ logica, evidenti e latenti, e ne sono state campionate nr. 3. Sulla traccia 8/3 è stata riscontrata la presenza di materiale biologico riconducibile allo stesso individuo ignoto definito 2° soggetto ignoto maschile». Attenzione: il secondo soggetto ignoto (tra i cinque estratti da tutti i reperti) è quello che compare anche sulla maglia intima indossata da Pelosi, ove, contrariamente agli slip, emergono le tracce biologiche dello scrittore. Sulla maglietta indossata da Pelosi, è presente una sola macchia di sangue appartenente a Pasolini (su un polsino):

Voto inedita della maglietta di Pelosi, fascicolo n. 1466/75. L’unica macchia ematica è visibile sul polsino sinistro della maglia (destro per il lettore). 43

I. Disegno di morte

Eppure i nuovi inquirenti, ricostruendo la scena, scrivono che gli abiti di Pelosi erano «intrisi» di sangue. Persino la sen­ tenza di primo grado aveva evidenziato la discordanza fra le piccole macchie di sangue ritrovate sugli indumenti dell’imputato e la copiosa quantità persa da Pasolini: elemento su cui la parte civile aveva giustamente molto insistito. Perché dunque? Fra le parole «intriso» e «macchiato» la differenza è rilevante, certo, ma è una contraddizione che ha ragion d ’es­ sere quando si vanno ad aggiungere due elementi impressio­ nanti che sconvolgono ogni logica. Visionando le foto che pubblichiamo qui per la prima volta, infatti, si può constatare che la maglia di Pelosi, polsini a parte, è quasi intatta mentre i pantaloni dell’ex ragazzo del Tiburtino sono davvero intrisi di sangue. I nuovi inquirenti non analizzano questa contrad­ dizione, la quale può avere due sole possibili spiegazioni, che tra poco faremo presente al lettore.

I 1

I

Foto inedita dei pantaloni di Pelosi, fascicolo n. 1466/75. 44

2 . I l falso movente

Quella traccia del «2° soggetto ignoto» che ricorre nelle nuove risultanze non può indicare un altro stralcio di di­ namica riferito a quella notte? I fatti, stando così le cose, sembrerebbero individuare due momenti diversi: eventuali incontri sessuali tra più persone, in cui sembrerebbe non comparire Pasolini, ma di certo Pelosi, e l’omicidio dello scrittore il cui sangue allaga invece la scena e i reperti tutti. Inoltre, nelle considerazioni conclusive riguardanti l’indi­ viduazione dei cinque soggetti ignoti, gli analisti del laborato­ rio affermano, in particolare in merito alle tracce biologiche: Dalle tracce biologiche evidenziate sugli slip neri (reperto 8 traccia 3) - sul fazzoletto (reperto 21) - sulla maglietta a maniche corte (reperto 23) è stato estrapolato un profilo ge­ netico riconducibile allo stesso soggetto di sesso maschile denominato «2» soggetto ignoto [...]. Lo stesso profilo genetico è stato desunto, in forma mista, in alcuni casi par­ ziale, dal reperto slip neri - dal reperto giubbino di colore rosso - dal reperto scarpe e dalla maglietta a maniche corte.

Insomma, qui non emerge nessuna traccia biologica di Pasolini. Nonostante i passi avanti compiuti nel campo dell’investi­ gazione scientifica, poi, è difficile collocare temporalmente le tracce presenti, così come riferito dagli esiti dei test sul dna, e come confermato dal biologo ed ex generale dei RIS Lu­ ciano Garofano10 (consulente, nella fase iniziale della riaper­ tura delle indagini promosse nel 2010, dell’avvocato Guido Calvi), il quale alla nostra domanda: Nel provvedimento, i pm affermerebbero che, oltre alla im­ possibilità di attribuire una paternità ai codici genetici indi­ viduati, è anche impossibile collocarli temporalmente, ossia sembra non sia possibile determinare con certezza se quelle tracce siano esattamente databili alla sera del delitto. È così? 45

I. D isegno di morte

risponde: Certo le confermo che c’è sempre la difficoltà, nonostante i mezzi odierni, di datare la formazione di una macchia di san­ gue o un’impronta sulla scena del crimine. Vi erano natural­ mente molti altri atti da esaminare e dai quali trarre ulteriori spunti di interesse investigativo, ma [come le ho detto] non è stato possibile.

Insomma, è possibile che le tracce biologiche rilevate su­ gli slip di Pelosi non risalgano alla stessa serata della morte di Pasolini, riguardo al quale, è utile ripeterlo, non vi sono riferimenti biologici che indichino rapporti sessuali o orali. L’informativa del Nucleo Investigativo di Roma alla Pro­ cura, del 5 giugno 2011, continua a fissare il ruolo di Pelosi al passato, pur dovendo ormai riconoscere, a partire dalle ulteriori indagini svolte e da ciò che molti, in varie forme, hanno sostenuto nel tempo in deposizioni e interviste, che il ragazzo quella notte non poteva aver ucciso il poeta da solo: Dalla indiretta ricostruzione dei fatti sopra riportata emerge in maniera chiara che, molto probabilmente, ad aggredire ed uccidere Pasolini erano state più persone e non solo Pelosi Giuseppe. Lo stesso nel corso degli anni, ha più volte cam­ biato la sua versione, consapevole di essere l’unico testimone oculare identificato del delitto e pertanto difficile da smentire.Il

Il movente unico sul quale tutto è confluito si sfalda, e molto probabilmente quel processo non si può più rifare. Ma è possibile ancora restituire la verità alla storia, all’uomo e al letterato. La cornice di certa cronaca che inseguiva le fasi delle udienze termina quattro anni dopo la condanna, nel 1979, quando Pelosi si fa intervistare in carcere per il settimanale Oggi. Un’altra occasione per ribadire la versione confermata nel processo. L’intervista del 1979 ricalcava infatti il leitmotiv: 46

2. I l falso movente

Non ho ucciso Pasolini volontariamente, lui mi aveva aggre­ dito per violentarmi. Gli ho sferzato un calcio nei genitali per difendermi. Poi sono scappato. [...] Non capivo più nulla, ero fuori di me. Finalmente ho raggiunto la macchina, sono salito a fatica e ho messo in moto. Non avevo mai gui­ dato quella m acchinai...] ero solo. E stata una disgrazia.11

Alla versione a lui imposta, Pelosi non farà riferimento nel 2005 (anno in cui comincerà a seminare piccole tracce di un’altra verità). Lo farà nel 2011, davanti a Walter Veltroni in una libreria di Roma, quando l’ex ragazzo prestato all’agguato ammetterà pubblicamente che, durante la detenzione, lo an­ davano spesso a trovare. E qui che ammetterà una parte di storia, riferita a un anello, la cui valenza sarà chiara più avanti: Veltroni: «La versione che lei sostenne quella notte come nacque?» Pelosi: «Diciamo che è stata imposta, perché a me hanno strappato l’anello che avevo comprato da uno steward Alitalia e loro l’hanno buttato là». Veltroni: «Imposta da chi?» Pelosi: «Da quello che mi reggeva, un uomo alto con la barba che mi ha minacciato».

E ancora: Veltroni: «Quando lei era in carcere qualcuno le è venuto a parlare?» Pelosi: «Sì, mi hanno imbruttito, mi hanno detto continua così fino all’appello che vai bene, pensa sempre alla famiglia tua».

Infine: Veltroni: «Ha parlato di tanta gente coinvolta neH’omiddio, tutti morti. Anche l’assassino è morto? O vive e non ha mai pagato? C’è qualcuno che la minaccia?» Pelosi: «Le rispondo ni».12 47

I. D isegno di morte

L’anello, tuttavia, è stato trovato a pochi metri dal corpo del poeta, mentre l’aggressione a Pelosi, che più avanti ana­ lizzeremo, si sarebbe svolta a una distanza di circa settanta metri dallo stesso. È qui che, tornando alla discrepanza re­ lativa alle macchie ematiche rinvenute sugli abiti di Pelosi, è possibile ipotizzare che chi ha organizzato l’aggressione abbia anche fatto in modo che il giovane, dopo il massa­ cro, «affondasse» parti di sé nel sangue di Pasolini gettando contemporaneamente il suo anello vicino al cadavere per rendere il tutto più credibile. Se avesse partecipato diret­ tamente all’omicidio, l’«ex rana» avrebbe avuto altre parti del corpo impregnate di sangue, mani incluse, le quali, come vedremo, non presentano invece alcuna macchia. Si tratta di una parte dell’inganno nel quale tutti, inquirenti e ma­ gistrati, sono caduti o hanno voluto inciampare, e che va a chiarire tutti i pezzi di uno schema che sarà ampiamente spiegato più avanti.

C apitolo terzo

La mutevole verità

Del resto tale «verità del potere» è già nota, ma è nota come è nota la «realtà del paese»: è nota cioè attraverso una interpretazione che «divide i fenomeni», e attraverso la decisione irrevocabile, nelle coscienze di tutti, di non concatenarli. Bisognerebbe processare i gerarchi DC, in II Mondo, 28 agosto 1975

Le prime finte verità di Pelosi Seguire Pelosi attraverso le versioni da lui fornite negli anni è un’impresa ardua che spesso può trarre in inganno. Se non si fa attenzione e non si tiene conto di alcuni frammenti di verità che lasciano intatto il puzzle, si rischia di fare solo l’ennesimo gioco depistante e la felicità di chi non fa che ac­ cusare di dietrologia chiunque svolga inchieste sul caso. Nel suo ultimo libro, Io so... come hanno ucciso Pasolinif Pino lo scrive chiaramente: «Tutto quello che dico è calcolato».2 Cal­ colato non vuol dire per forza falso, ma anche regolato a se­ conda delle circostanze e dei tempi, riversato in poche gocce o rivelato fra le righe. Un comportamento, il suo, che appare simile a una strategia e i cui motivi non si comprendono sino in fondo ancora oggi: se con l’intento di lanciare messaggi o se per rispondere a un ricatto. Forse solo per paura. Motivi, que­ sti, tutti plausibili. Giuseppe Pelosi ripete spesso che, a dover indagare e capire il movente e i mandanti dell’omicidio, non può essere lui bensì gli intellettuali, i «benpensanti», come li ha ironicamente etichettati durante una recente trasmissione

I. D isegno d i morte

televisiva sul caso rilasciata alla giornalista Franca Leosini.3 E su questo ha fondamentalmente ragione, anche se ciò che da sempre gli si chiede è di dire quello che sa e basta. Ma la legge dell’omertà non ha un tempo, non termina sempre con l’espiazione dei reati, «fare l’infame», come è definita l’azione in gergo, è sempre sconsigliato. Tornando alla violazione del segreto istruttorio, si capirà ora come questo - unitamente alla lettura del primo interro­ gatorio di Pelosi attraverso i tg nazionali - abbia permesso a chi ha avuto un ruolo testimoniale di «accomodare» le de­ posizioni sul racconto ufficiale. È un aspetto, questo, che si comprende sin dall’inizio allineando i verbali delle testimo­ nianze, in primis dei tre amici di Pelosi: Claudio Seminara, Adolfo De Stefanis e Salvatore Deidda, ricomparsi nel 2011 nel fascicolo delle nuove indagini preliminari.

Gli ex sodali Gli ex sodali di via Lanciani sono convocati dagli inqui­ renti diverse volte nel 2011. Seminara e Deidda vengono di volta in volta lasciati soli in attesa di essere chiamati a rispondere alle domande e, naturalmente agitati per quanto li attende, sembra cerchino di armonizzare i ricordi o quanto asseriscono di non ricordare. Sono consapevoli di essere ascoltati. Parlano della volontà, da parte degli inve­ stigatori, di incastrarli, sostenendo che questi possono farlo inserendo dei dispositivi sofisticati in grado di intercet­ tare le loro conversazioni anche in macchina. A un certo punto, virano sul ricordo della notte dell’omicidio di Paso­ lini e Deidda chiede a Seminara: «Come semo arivati a Ter­ mini?»4 Questa è una delle parti più significative inserite nelle trascrizioni delle intercettazioni ambientali, ma altre, lungo il corso degli incontri preliminari agli interrogatori, 50

3. L a mutevole verità

lascerebbero intendere come ci sia, da parte degli amici di un tempo, preoccupati e contrariati dal loro nuovo coin­ volgimento a quasi quarant’anni dal fatto, la volontà di non riferire versioni discordanti. Ma facciamo un salto indietro nel tempo. Fra il 3 e il 27 no­ vembre del 1975 Deidda, Seminara e De Stefanis sono inter­ rogati dal magistrato del Tribunale dei Minori: le loro versioni cambiano a seconda dei giorni in cui tutti e tre, contempora­ neamente, vengono sentiti. Il 3 novembre, ad esempio, omet­ tono di riferire di aver lasciato la saletta da ballo di via Lanciani, dove si erano incontrati nel primo pomeriggio di sabato primo novembre, a bordo della Fiat 850 coupé di Pelosi. I tre ragazzi, da lì, raggiungono la stazione Termini (così sosten­ gono nell’interrogatorio del 3) a bordo di un autobus. A un tratto vedono Pier Paolo Pasolini accostarsi: questo almeno in un primo momento perché poi affermeranno che lo scrittore li avrebbe seguiti per un tratto prima di avvicinarli. Più avanti i tre amici ammetteranno, uno alla volta, di aver omesso il par­ ticolare dell’arrivo in macchina, poiché sapevano che la stessa era stata rubata. Dettagli che emergono a piccole dosi, ma che sono fondamentali per la ricostruzione del «fattaccio». Pasolini, in attesa di Pelosi, si avvicinerà con molta diffi­ denza ai ragazzi. A raccontarlo sarà proprio Salvatore Deidda: [...] non appena io e il De Stefanis abbiamo visto una mac­ china metallizzata accostarsi al marciapiede antistante al bar, avendo riconosciuto nell’uomo che la guidava il regista Pier Paolo Pasolini, ci siamo avvicinati alla vettura, spostan­ doci allo sportello. Il regista, ricordo,5 che [sic] ha sollevato immediatamente il vetro della portiera e messo la sicura, la­ sciando lo spazio appena sufficiente perché noi potessimo infilare il braccio e potergli stringere la mano. Ricordo che il De Stefanis cogliendo l’occasione dell’incontro gli chiese se poteva fargli fare una parte in un suo prossimo film. [...] Ri­ cordo altresì che fu il De Stefanis a dire al Pasolini se ci por51

I. D isegno di morte

tava con lui in macchina avendone la risposta dal regista che non poteva farlo perché aveva un appuntamento, senza spe­ cificare con chi. [...] Quando noi abbiamo capito che non si poteva andare col regista per via di quell’appuntamento ci siamo discostati dalla macchina lasciando lì solo il Pelosi a parlare col Pasolini.6 La prima evidenza che lascia intendere di un appunta­ mento altro rispetto a quello che Pasolini aveva predispo­ sto con Pelosi è già dunque desumibile dal verbale dell’ex sodale, un importante elemento su cui non si è soffermato mai nessuno. Inoltre, la diffidenza con la quale il regista si affianca ai ragazzi di sicuro non richiama l’atteggiamento tipico di chi si accosta per rimorchiare. Pasolini si reca all’appuntamento doppio, con Pelosi e altri, con timore ed estrema attenzione. Poco prima aveva confidato a Ninetto Davoli e alla sua famiglia al ristorante Pommidoro, nel quar­ tiere San Lorenzo: «Arrivando qui alla trattoria, mi ha detto di aver camminato a testa bassa, per non guardare la gente, quasi ne avesse paura».7 Parole, queste, riferite dall’attore all 'Unità. Le minacce che riceveva continuamente il poeta e la sfiducia che nutriva verso la gioventù e la città tutta, or­ mai, alimentavano il clima cupo che quasi lo opprimeva.8 Dopo l’accostamento, Pelosi si allontana brevemente in auto con Pasolini per poi fare ritorno alla stazione Termini (fra le 21.30 e le 22 circa), prima che entrambi si dirigano al ristorante «Al Biondo Tevere» sull’Ostiense, la lunga strada che collega Roma al mare. Pelosi motiverà quel breve rien­ tro con l’esigenza di consegnare le chiavi della sua Fiat 850 coupé all’amico, perché a casa lo avrebbe poi accompagnato lo scrittore. Dopo questa prima falsa partenza, lo scrittore e «Pelosino» si avvieranno verso la trattoria: è la prima tappa di un tempo perso inutilmente o forse appositamente? Lo vedremo a mano a mano che seguiranno le pagine.

52

C apitolo q u arto

La trappola

C’è una sola cosa essenziale in un buon film: il fatto che sullo schermo passi della realtà. Appunti pasoliniani raccolti da Peter Dragadze, in Gente, novembre 1975.

Uno strano furto Fra il 14 e il 18 agosto del 1975, negli stabilimenti della Technicolor di via Tiburtina (non la sede centrale, ma quella distaccata di fronte a Casal Bruciato, quartiere ubi­ cato nella zona INA-Casa in cui «transiteremo» in queste pagine), vengono trafugati i negativi del film Salò o le 120 giornate di Sodoma: pellicola che, dopo l’anteprima a Parigi, subirà diversi sequestri prima del visto-censura definitivo. Il furto sarà reso pubblico solo la mattina del 27. Si tratta di un episodio centrale, passato in secondo piano perché in quella circostanza vengono sottratte, insieme alle bobine di Pasolini, anche quelle di Damiano Damiani, Un genio, due compari, un pollo, e di Federico Fellini, Casanova. U n’o­ perazione di camuffaggio mirata a confondere l’obiettivo: le pizze di Salò saranno le uniche ad avere un epilogo tor­ tuoso, attraverso la richiesta di negoziazione con lo scrittore dopo il ricatto. Un ricatto che condurrà il poeta alla morte. Le pellicole, in tutto ventiquattro pizze, saranno rinve­ nute dai carabinieri soltanto nel maggio del 1976 in un ca­ pannone di Cinecittà, luogo molto importante per la nostra storia.

I. D isegno di morte

Pasolini, sin da subito, si prodiga per ritrovare quelle bo­ bine, non perde tempo e sparge la voce negli ambienti della piccola malavita della borgata romana, sebbene ne diffidi ormai da tempo. A confermare la presenza del regista nelle strade periferiche del Tiburtino III è un testimone molto im­ portante, che abbiamo chiamato «Piero» per proteggerne l’identità. L’estratto di un nostro lavoro, frutto di una pre­ cedente inchiesta,1in cui un ex ragazzo di borgata fa da voce narrante per quasi tutto il tempo, è fondamentale per capire l’importanza che rivestiva per il regista quell’ultima tranche di pellicola: Un incontro di poche ore avvenuto un giorno per caso men­ tre era col suo amico Sergio Piazza, er Riccetto conosciuto anche come ’mbriachella, per l’attitudine del padre. Pasolini si accosta a loro con l’auto e chiede all’amico di salire per parlargli di una questione che gli sta a cuore: sta cercando le pizze del film Salò o le 120 giornate di Sodoma. Piero non presta molta attenzione alla conversazione, è un po’ intimo­ rito dalla presenza dell’intellettuale che tutti nel quartiere conoscevano. Sergio lo guida in auto, gli dice di imboccare una strada e poi un’altra per sviarlo. Poi accostano a un ta­ baccaio e Pasolini dà ai ragazzi 50.000 lire per comprare delle sigarette. I due ragazzi entrano nel negozio e all’uscita lanciano nell’Alfa il pacchetto di sigarette scappando con il resto del denaro. Conoscendo il Riccetto e quelle che erano le sue attività, Piero afferma che fosse molto probabile un suo coinvolgimento con i fratelli Borsellino2 per il furto. Al tempo era normale «fare il quaglio ai frosci» come si diceva, l’agguato appare senz’altro plausibile.

La testimonianza di «Piero» è finora l’unica che attesti la ricerca delle pizze da parte di Pasolini, l’unica di un testimone vivente, ed è un fatto che gli inquirenti non hanno preso in considerazione nel ripercorrere la pista delle pizze di Salò lan­ ciata da Sergio Cittì.3 I racconti di chi ha vissuto in borgata 54

4. L a T R A P P O L A

è facile che si perdano e si confondano con i sensi di colpa o con le altre voci raccolte, e che si alternino, abbandonando i confini della verità, con raggiunta qui e lì di aneddoti solo verosimilmente avvenuti. L’incontro di Piero, che a distanza di tempo conferma a chi scrive quanto riferito, può dunque sembrare solo un espediente narrativo, ma non è così. L’esi­ stenza di Sergio Piazza, inoltre, è confermata da Luca Mandrile, regista dei Malestanti, pellicola in cui lo stesso Piazza (deceduto ormai da tempo), insieme con altri attori, già tra i piccoli protagonisti di Diario di un maestroA di Vittorio De Seta, interpreterà sé stesso trent’anni dopo.5 Siamo nel quar­ tiere dell’INA-Casa, nato con altre finalità e ambizioni architettoniche, come molte zone periferiche di Roma, che ha fi­ nito poi con lo spingere tra le braccia di droga, delinquenza e miseria molti ragazzi. E il marchio della periferia che si tra­ sforma e la cui miseria progettuale Pasolini denuncia nelle sue opere. Mandrile non conosceva l’episodio relativo a Pasolini, rivelato dalla fonte, ma riconosce in quell’aneddoto il modo di agire di Piazza. Sergio, e di più il fratello, erano legati in qual­ che modo ad ambienti di bassa manovalanza criminale. Nello stesso quartiere, abitano anche i fratelli Borsellino, Johnny Lo Zingaro (di cui parleremo meglio più avanti) e, prima di tra­ sferirsi a Setteville di Guidonia, anche Pino Pelosi con la sua famiglia. «Pelosino» non si affrancherà mai da quelle strade: tutti i suoi amici più stretti risiedono o gravitano ancora lì. E proprio lui spiegherà bene a quali leggi la bassa manovalanza dovesse sottostare in quegli anni (leggi valide sempre). Le sue parole illustrano da sole alcuni avvenimenti successivi:6 D: «Perché eravate lì?» R: «Per recuperare le pizze del film [...]. Pasolini ci teneva molto erano gli originali e voleva proprio quelle». D: «Chi ti ha detto che era per le bobine l’incontro?» R: «I Borsellino». 55

I. Disegno di morte

D: «E a loro chi l’ha detto?» R: «Non lo so, quando fai certe cose non chiedi niente. Do­ vevo guadagnare due lire per portarlo lì ma non sapevo cosa sarebbe successo dopo, non sapevo dell’agguato».

L'accordo del 30 ottobre Fu giovedì pomeriggio, verso le quattro o le quattro e mezzo. Giovedì 30 ottobre. Fu al bar Grande Italia, in piazza Esedra. Nel bar ci sono due telefoni a gettone, uno per le chiamate interurbane. Io ero entrato per cercare un numero nelle pagine gialle. [...] Le Pagine Gialle stavano sotto l’apparecchio delle interurbane, quel ragazzo stava te­ lefonando dall’apparecchio accanto. Non mi ricordo tutto ciò che diceva ma ricordo queste parole: «va bene, mi fac­ cio portare al posto dove sono già stato. Se c’è solo da me­ nargli ci sto, sennò lasciamo perde». E dopo un po’ disse: «Aò, me raccomando... Solo pe’ un po’ de botte e basta». E poi disse: «Ah senti. Me servirebbe un po’ de soldi». E poi disse: «Eh no, che faccio. Aspetto fino a sabato pe’ un po’ de soldi?». E poi: «Vabbè, t’aspetto qui sotto i portici, se poi venire in piazza Esedra sotto il cinema Moderno». Attaccò il ricevitore, uscì, e quasi subito tornò. [...] Fu una telefonata breve. Disse: «Pronto, me chiami Franz». Poi disse [...]: «Senti, ci ho ripensato. Vorrei andare al cinema e se è possibile ti aspetto alle otto, otto e mezzo. Se vieni a quell’ora». E l’ultima parola che disse prima di attaccare fu: «Aò, me raccomando. Porta il dollaro».7

A parlare è Gianfranco Sotgiu, nel famoso articolo per il quale Oriana Fallaci subì un’incriminazione e una condanna per reticenza a quattro mesi di reclusione. La giornalista, nel 2005, riferirà di strani episodi e pres­ sioni: 56

4. LA TRAPPOLA La polizia prese a perseguitarmi. Mi mandava, soprattutto all’ufficio dell’Europeo di via Boncompagni, vicino a via Ve­ neto, degli strani individui che, si capiva, avevano il compito di trarmi in inganno, di tendermi trappole per farmi dire che avevo mentito e scritto cose non vere.8

E ancora: La mia scarsa stima del cosiddetto sistema giudiziario non è incominciata quando i magistrati si sono messi a fare po­ litica, ossia ad applicare gli interessi dei loro partiti, la loro ideologia politica, al Codice Penale. È incominciata proprio per l’esperienza che ho avuto dopo la morte di Pasolini.9

Del testimone che rivela quei dettagli appena sopra ripor­ tati, esistono, dunque, nome e cognome. Tuttavia, la poli­ zia, che indagherà anche sugli elementi emersi dalle pagine dell’Europeo, non riesce a rintracciarlo:

Verbale del commissario capo di Polizia Scientifica, Carlo lovinella, rila­ sciato all’allora sostituto procuratore generale di Roma Guido Guasco, il 6 dicembre 1975.

57

r I. D isegno di morte

Gianfranco Sotgiu è tuttora vivo e verrà rintracciato solo nel 2011 dagli inquirenti, che lo interrogheranno nell’am­ bito delle nuove indagini e ai quali il testimone confermerà ogni cosa. L’uomo aggiunge anzi parole più specifiche: In tale circostanza udivo nitidamente che questo giovane ra­ gazzo proferiva le testuali parole al suo interlocutore: «Mi raccomando ho un appuntamento con Pasolini fatevi tro­ vateli».10 Gli ufficiali chiederanno poi di specificare meglio il ri­ cordo di quest’aneddoto e Sotgiu confermerà la nitidezza di quanto da lui sentito e visto allora. Il 30 ottobre del 1975 è l’ultimo giorno a Stoccolma di Pasolini (si trova in città da una settimana): in Svezia è uscita la traduzione di alcuni suoi versi. Il giorno dopo si recherà a Parigi (dove spesso andava, negli ultimi tempi, per la presen­ tazione francese di Salò) rilasciando la sua ultima intervista televisiva. Ma torniamo alla telefonata. In un capitolo del suo libro, in riferimento al recupero delle pizze del film, Pelosi scrive: Chiamai a casa i Borsellino da un telefono a gettoni di piazza dei Cinquecento, mi rispose la mamma e mi disse che Franco stava salendo e di aspettarlo al telefono; passarono pochi se­ condi perché arrivasse tutto trafelato all’apparecchio.11 Nella sua versione «l’ex Rana» omette però le parole ri­ ferite dal testimone, le stesse riportate nell’articolo della Fallaci e che più di qualcuno ha preferito non ascoltare. Perché? Non si sarebbe forse evitato di sprecare tempo nel costruire la granitica convinzione che quella notte Pelosi fosse solo? Non si sarebbero evitate mille manipolazioni se chi di dovere avesse ascoltato, cercandolo davvero, quel te­ 58

4. L a

tra ppola

stimone? La voce degli avvocati Spaltro, che denunciarono il ruolo di copertura ritagliato su Pelosi, avrebbe avuto forse sbocco anche nell’attività della parte civile che stranamente non ne ha usufruito? Fatto sta che la trappola si mette in moto, con la media­ zione di Pelosi che è a conoscenza, secondo le parole del te­ stimone Sotgiu confermate ai nuovi inquirenti, della possibile lezione che potrebbe subire Pasolini. E questo soltanto uno dei passi della trappola ben ordita, il cui percorso è seminato da accordi e tappe anche precedenti alla telefonata del 30 ot­ tobre (ricordiamo che Pasolini è alla ricerca dei negativi sin dall’estate). Qui riporteremo solo quelle tappe e quei percorsi che si sono potuti debitamente ricostruire, ma, per quanto ci consta, tentativi di incontri per la restituzione delle pellicole ve ne sono stati anche in precedenza.

Uespediente I salti temporali che spesso si incontrano in questa ricostru­ zione abbracciano l’arco di quarantanni e i dettagli, come posti sotto una lente d ’ingrandimento, fanno la differenza. E il 30 maggio del 2005, il regista Sergio Cittì, molto amico di Pasolini, è gravemente malato, e pochi mesi prima di morire rilascia una testimonianza all’avvocato Guido Calvi, nell’am­ bito delle indagini difensive che si svolgeranno fino al 2007, per la seconda inchiesta aperta «nei confronti di ignoti» sull’omicidio del poeta. Una sortita, quella del 2005, seguita da una veloce archiviazione per mancanza di elementi che potessero, secondo i magistrati, riaprire le indagini vere e proprie. Riferisce Citti a verbale: Andiamo per logica. Io parlo dell’ultima volta che vidi Pa­ solini. Siamo stati a mangiare insieme a Ostia. In quell’occa59

I. D isegno d i morte

sione Pasolini mi disse che gli avevano telefonato per ricon­ segnargli le pizze di Salò, senza voler alcun riscatto. La voce, nell’ambito della borgata, che vede Citti come conoscitore di certi meccanismi della malavita è persistente e anche Pasolini, scrivendo di Citti, ne riferisce l’origine «ma­ landrina» che faceva di lui il «naif» antiborghese tanto caro al poeta. Non è dunque un’accusa questa, ma solo una con­ statazione che chiarisce la confidenza di Citti con certi am­ bienti, la stessa confidenza che gli ha permesso di rivelare, con il passare del tempo, molte cose. Inoltre, sempre Pelosi, nel suo ultimo libro, si definirà «mediatore» fra i ladri delle bobine e Pasolini, termine che, ripetuto nell’ottobre del 2014 alla giornalista Franca Leosini, due mesi dopo, quando deporrà davanti al magistrato prima dell’archiviazione, si af­ fretterà a ritirare: un ruolo già diverso da quello di semplice «esca» che si era costruito dopo la prima rivelazione a Om­ bre sul Giallo nel 2005, operazione questa che suscitò molte polemiche, dato che la Rai gli aveva corrisposto del denaro a fronte della sua partecipazione. Ma torniamo al furto, sul quale deporrà anche il poeta e cugino di Pasolini, Nico Naldini, seppure con una diversa interpretazione: Nel 1975 ero Dirigente della società PEA (Produzioni Eu­ ropee Associate) che produceva i film di Pasolini e Fellini. La sede della lavorazione era Cinecittà e nell’agosto di quell’anno avvenne un furto di pellicole cinematografiche di questi autori e del regista Damiano Damiani. A tal proposito preciso che inizialmente fummo colpiti da quel fatto inso­ lito ma in seguito il danno risultato era minimo e risolvibile, nel senso che per ciascuna pellicola esisteva un negativo da cui ricavare una copia. Dopo qualche giorno sia Pasolini che Fellini si avvidero che il danno era rimediabile, pertanto il problema fu presto accantonato.12 60

4. L a trappola

Intanto, Cinecittà, il luogo nel quale saranno ritrovate le pizze rubate, torna in questo tratto di storia. E a Cinecittà infarti che si annidano attori e comparse: i possibili basisti. Il furto, però, come abbiamo detto, è l’evento che darà l’abbri­ vio a questa storia. Cinque anni più tardi, l’importanza rivestita da quelle pizze verrà ben definita dal montatore cinematografico e te­ levisivo Ugo De Rossi: Non era vero che per Pasolini i negativi che erano stati rubati negli uffici della Technicolor di via Tiburtina non avessero al­ cun valore [...]. Ci teneva, eccome. All’Idroscalo di Ostia, in quella terribile notte del 2 novembre 1975, era stato attirato proprio dalla possibilità di rientrarne in possesso.13

Dichiarazioni che De Rossi rilascia, prima che alla stampa, all’avvocato Maccioni che segue il caso nell’ambito delle nuove indagini difensive dal 2010, insieme alla criminologa Simona Ruffini. L’affermazione di De Rossi, che come molti era allora a conoscenza del furto e del successivo ricatto (lo riferisce durante i colloqui in sala d ’attesa prima degli interrogatori, nel 2011), è stata anche una risposta implicita alla deposi­ zione di Nico Naldini, il quale aveva negato, appunto, l’im­ portanza di quelle pizze. La lavorazione di Salò era ormai giunta a termine: il film era pronto e, secondo quest’ultimo, senza nessun danno. Stando alle dichiarazioni tecniche di De Rossi, invece, non è così: si sarebbero dovute rimontare le scene con i «doppi scarti», diversi e divisi dal materiale scelto. Chi ha sottratto quelle pizze sapeva bene quale mec­ canismo avrebbe innescato. Stranamente però, nel richie­ dere l’archiviazione, la nuova procura cita soltanto la dichia­ razione di Naldini: «per ogni pellicola esisteva un negativo da cui ricavare una nuova copia». Il confronto tra i termini usati dai due sembra tuttavia portare ad altro. 61

I. D isegno di morte

Esiste infatti un’altra, rilevante testimonianza che fa fede all’importanza tecnica e non puramente nominale della per­ dita delle pizze, ed è quella del produttore del film Alberto Grimaldi e del suo avvocato Gianni Massaro, il legale del ci­ nema spentosi nel 2010.14 Entrambi, nel 1976, affermano sul Messaggero che il film era stato programmato «in una versione che risentiva della mancanza del materiale negativo rubato da ignoti».15 Nonostante ciò, Naldini resterà comunque sempre fermo sulle sue opinioni, espresse lungo il corso degli anni: Vorrei aggiungere che non credo assolutamente alla ver­ sione dell’agguato in quanto le indagini fatte hanno dimo­ strato che non esisteva altra verità. Gli interrogatori della Polizia, che io ho letto, contengono tutti gli elementi che poi hanno portato alla sentenza di condanna definitiva del Pe­ losi, che è la verità ufficiale.

Il riscatto e l’importanza del negativo L’importanza delle bobine scomparse è riflessa tutta in un termine: «negativo». Si tratta, in gergo tecnico, della parte originale dalla quale si possono trarre di volta in volta dei «positivi», ovvero scene diverse. Senza il negativo non si possiedono le scene originali insomma. Il negativo sottratto dagli stabilimenti della Technicolor vale un’esosa richiesta iniziale: due miliardi di lire. A settembre del 1975, infatti, un emissario contatta Cittì chiedendo un riscatto e coinvol­ gendo il produttore Grimaldi, il quale rifiuta la richiesta e replica con una proposta massima di cinquanta milioni. Per Pasolini tornare in possesso delle pizze sarebbe una solu­ zione fondamentale. E lo stesso Cittì a confermarlo: Devo riferire ciò che Pier Paolo mi disse a Ostia, l’ultima volta che lo vidi, a cena [...] che aveva trovato da solo un 62

4. L a trappola

contatto per riavere le pellicole del film, che nonostante lui potesse montare ugualmente il film con alcuni spezzoni di pellicola, a lui interessavano gli originali. Mi disse che aveva un appuntamento ad Acilia, la sera del primo novembre.16

Questa affermazione collima sia con le considerazioni tecniche del montatore sia con quelle rilasciate nel 1976 da Grimaldi e il suo avvocato. Cittì, tuttavia, è doveroso ripor­ tarlo, ridimensiona le proprie dichiarazioni quando i magi­ strati Italo Ormanni e Diana De Martino, nel 2005, di fronte a una nuova memoria depositata dall’avvocato Nino Marazzita, riaprendo le indagini, chiedono di sentirlo. Come Pelosi, anche Sergio Cittì, dunque, di fronte all’eventualità di ripor­ tare davvero tutto quello di cui è a conoscenza, diminuisce la portata delle sue dichiarazioni. Oltre alle parole di Grimaldi, ex produttore della PEA (sotto la cui sede, durante la lavo­ razione, compariranno delle strane scritte: «PEA fascista» e «Pasolini fascista»),17 a corroborare il valore di quei negativi per il poeta arriva la testimonianza di una regista e sceneggiatrice, Fiorella Infascelli, che riesce, dopo molte insistenze, a farsi inserire nella troupe di Salò come assistente. La Infa­ scili sarà colei che detterà al Corriere gli articoli «corsari» di Pasolini, mentre lui è impegnato a girare le scene del film: Hanno chiesto dei soldi per avere indietro i negativi, ma Gri­ maldi ha detto di no. Al momento del furto, noi stavamo an­ cora girando in nord Italia. La notizia uscì anche sui giornali. [...] Mi ricordo che Grimaldi era molto impaurito. Aveva paura di essere rapito in quel periodo. Forse in quelle pizze c’era proprio la scena del ballo che non venne montata. Ave­ vamo girato una scena che non c’è e che doveva essere il finale originale. Una scena in cui tutta la troupe ballava, e anche car­ nefici e vittime ballavano insieme. Mi ricordo che Pier Paolo ci teneva tantissimo a questa scena. Questa scena fu girata con tutti gli attori, i macchinisti. Pier Paolo che ballava insieme a noi, tutti quanti ballavamo.18 63

I. D isegno di morte

La scena finale del film sottratta al regista sarà sostituita da quella di due ragazzi che ballano, mentre fuori si gira la scena di un omicidio. La Infascelli riferisce che quella rubata era stata girata all’inizio delle riprese. E dunque una scelta di ripiego quella operata dal regista, che, come abbiamo visto, non smetterà mai di sperare di rientrare in possesso delle scene originali.

L’appuntamento Presi appuntamento con Pier Paolo a piazza dei Cinque­ cento, alle ore 22:30. Gli amici che erano al corrente che avrei fatto da trait d’union tra i Borsellino e Pier Paolo, mi accom­ pagnarono [...]. Pier Paolo arrivò [...] salutai gli amici e salii in macchina con lui.19

Un appuntamento saltato già due volte, come raccontano sia Pelosi che, parallelamente, Cittì rilasciando le dichiara­ zioni all’avvocato Calvi in quel verbale del 30 maggio 2005. Ancora una volta i due racconti si riuniscono ricostruendo un percorso omogeneo. Così «Pelosino»: Lui [Pasolini, N.d.A.] mi disse che, poiché doveva partire per andare a Stoccolma, quando tornava aveva un appuntamento con questa persona per riavere il materiale cinematografico.20

Cittì, come Pelosi, fa riferimento a un doppio accordo o appuntamento: Dissero che avevano sbagliato. Dissero solo che avevano sbagliato e che volevano riconsegnarli le pizze. [...] ricordo che qualche giorno prima venne da me un ragazzo che io co­ noscevo di nome Sergio Placidi che mi disse che il film era in mano a persone che chiedevano un riscatto per riconsegnare la pellicola in un posto concordato. 64

4. L a trappola

Il regista aggiunge un fatto di cui lui solo, tramite Placidi, può essere a conoscenza: per dimostrare al produttore che quelle persone hanno davvero in mano le bobine, i respon­ sabili del furto fanno ritrovare un pezzo di pellicola in un posto concordato. Sergio Placidi non è un personaggio di fantasia o ormai deceduto (questa è la vulgata). Placidi, per la prima volta, è tirato in ballo proprio da Cittì, nel 2005, e di lui parlerà anche Pelosi nel suo libro. I Borsellino e Pla­ cidi sembrano riflettere due mondi equidistanti che si incon­ trano solo quando l’uno è funzionale all’altro. Ancora una volta le due narrazioni, quella di Pelosi e quella di Cittì, viag­ giano sullo stesso piano trovando una loro omogeneità: C’era una volta un ricco signore di nome Sergio Placidi. Ser­ gio frequentava un locale in zona Fleming, presso il quale la sera organizzava feste sontuose [...] alcool, stupefacenti di ogni genere, gente della Roma bene [...]. Sergio era un piccolo principe. Il suo regno erano il giro di prostituzione in zona Tiburtina e lo smercio di droga [...]. Sergio mi era stato presentato dai fratelli Borsellino, una sera di fine estate, in zona Tiburtina [...]. Passarono alcuni giorni e Pino, il più grande, mi confidò che i film li avevano conse­ gnati a Sergio (Placidi), e che questi stava ai mezzi con un altro Sergio che lavorava nel cinema [...] ,21

Placidi conosce i personaggi del mondo dello spettacolo e i loro vizi: potrebbe essere l’uomo giusto inserito in un «mondo di mezzo», un universo liquido dove tutti sanno di tutti e in cui il ricatto è l’arma migliore per sopravvivere. Secondo ciò che scrive Pelosi, Placidi fissa l’accordo per il recupero delle pizze direttamente con lo scrittore. Non pos­ siamo sapere se questa sia esattamente la verità, possiamo però ricordare che anche Sergio Citti parla di una telefo­ nata e di un accordo raggiunto da Pasolini stesso con chi era in grado di recuperare per lui quelle pizze. E possibile che 65

I. D isegno di morte

Citti, che riferisce di un certo Sergio P., così come tacque per anni ciò che sapeva sulle bobine e sulle modalità di raggiro attuate intorno allo scrittore, sapesse anche con chi Pasolini aveva concordato la restituzione? L’elemento più importante che riguarda Placidi, però, re­ sta quello che riporta il personaggio ai nostri giorni. Gli in­ vestigatori, infatti, individuano finalmente l’uomo tra i sei omonimi esistenti e lo interrogano due volte a distanza di due mesi. È chiaro che non sono convinti della prima deposizione loro resa il 4 aprile del 2011, in cui Placidi sostiene di aver co­ nosciuto entrambi i fratelli Citti, «sì ma negli anni ’60», e che una volta giocarono una partita di biliardo insieme. A giugno, l’uomo corregge la sua versione, ammettendo di aver incontrato il regista «scellerato» un’altra volta dopo gli anni ’60: Voglio riferire che nel precedente verbale [verbale di som­ marie informazioni rese il 4 giugno 2011, N.d.A.] non vi ho detto che effettivamente Sergio Citti, ora non ricordo se qualche giorno prima dell’omicidio di Pier Paolo Pasolini o nei giorni seguenti, ebbe a dirmi che ignoti avevano rubato le pizze del film Salò di Pasolini [...] chiedendomi se potevo interessarmi al recupero delle predette pellicole. Preciso che l’incontro avvenne occasionalmente alla darsena di Fiumi­ cino [...]. Io non mi sono mai interessato alla ricerca delle predette pellicole tantomeno ho appreso notizie sugli au­ tori del furto. Citti non mi disse dove le pellicole erano state trafugate. Da allora non ho più parlato con Sergio Citti del furto delle pellicole.

Dunque, Placidi alla fine ammette di aver scambiato al­ cune parole con Citti sul furto delle pellicole in questione, ma nega tutto il resto. Ormai non è più possibile, quindi, de­ rubricare a labili fantasie il suo coinvolgimento nel recupero delle pizze. 66

Capitolo quinto

Fra «Fommidoro» e l’Idroscalo

Prima tappa: San Lorenzo Il quartiere San Lorenzo di Roma, soprattutto a metà degli anni 70, non è un posto qualunque. E la zona dei «rossi» e dei collettivi, in cui fa da sfondo «L’accademia del biliardo», una bisca come tante ne esistono in quegli anni, e non solo in periferia, che raccoglie un mondo sociale vasto e ben noto agli abitanti del luogo. Alcune di queste bische rappresenta­ vano poi un punto d ’incontro vero e proprio. Come quella del Tiburtino: una bisca camuffata da circolo monarchico. Pasolini, nel momento in cui Pelosi si trova presso la sala da ballo di via Lànciani, fa una prima tappa al ristorante «Pommidoro», consumando una cena veloce in compagnia di Ninetto Davoli e la famiglia. Racconta a chi scrive il gestore di allora e di oggi, Aldo Bravi: H a preso una bistecca e un’insalata: un piatto veloce e sem­ plice, come era lui. Aveva da fare.1

Perché il dettaglio del cibo è importante? «Al Biondo Tevere» sarà soltanto Pelosi a cenare: un pasto utile a ritar­ dare i tempi, ad aspettare che gli altri complici dell’agguato

I. D isegno di morte

arrivino. Aldo Bravi è stato interrogato dai nuovi inquirenti soltanto in queste ultime indagini, nel 2010. Nessuno lo fece prima di allora né successivamente, eppure il gestore e amico di Pasolini, con il quale, come ci racconta lui stesso, si fermava spesso a parlare di caccia, cani e di cose futili, ma anche delle storture di questo Paese, aveva molti elementi utili da riferire. Gli stessi che ha raccontato ai nuovi inqui­ renti,2 e a noi, con qualche dettaglio in più: Pier Paolo era arrivato intorno alle 19.30, prima di entrare si era fermato a parlare con alcuni giovani di età compresa tra i sedici e i venticinque anni. Lo circondavano, parlavano fitto: non posso dire se ci fosse Pelosi, ma al tempo, se me l’aves­ sero chiesto, avrei sicuramente potuto descriverli bene.

Pelosi, infatti, non può essere della banda: l’ex ragazzo ha appuntamento con lo scrittore alla stazione Termini e soprattutto in quel lasso di tempo (dalle 15.30 fino alle 2020.30 circa) si trova con i suoi amici in un altro luogo: la sala da ballo, come le testimonianze tutte hanno riferito. Chi sono dunque questi giovani e per quale motivo si incontrano con il poeta quella sera, prima che questi si presenti all’ap­ puntamento con Pelosi? Non erano del quartiere, cosi come non lo erano altre per­ sone, adulte questa volta, che, per venti giorni circa dopo l’omicidio, in tre-quattro sono rimasti appostati con una Fiat (non ricordo il modello) sotto casa mia [Bravi abitava e abita tu tt’ora nel quartiere, dietro il ristorante, N.d.A.]. Ogni sera questi quattro aspettavano che rincasassi: io sa­ livo su casa e avevo paura; come accendevo la luce se ne andavano. Questo è un Paese che ti ammazza, e ancora può farlo. Ora rimpiango di non aver seguito il consiglio che Pier Paolo mi diede quella sera: «Se puoi, vai via da questo Paese». 68

5. Fra «P ommidoro» e l ’I droscalo

Il gestore di «Pommidoro» ricorda anche un accenno che Pier Paolo Pasolini gli fece nei giorni precedenti alPultima notte, riguardo alle sue indagini: il petrolio e le specula­ zioni nascoste. Bravi cercava di dissuaderlo dal continuare, proteggendolo come aveva già fatto quando i ragazzi dei collettivi del quartiere, all’indomani della pubblicazione dell’estratto della poesia II PCI ai giovani (di cui si estrapolò, senza comprenderla, unicamente la difesa dei poliziotti), volevano aggredirlo: «Ma lascia perdere Pier Paolo, questo Paese t’ammazza. Ma lui mi rispose: ‘Aldo, le verità bisogna dirle’». E l’ultima, inedita e pura testimonianza della vera osses­ sione di Pasolini: la ricerca della verità. Insieme al fatto che il poeta aveva un appuntamento importante da rispettare quella sera. Al «Pommidoro» era presente anche Mirella Ac­ conciammessa,3 storica giornalista dell’Unità, che insieme al marito, critico cinematografico e teatrale, Aggeo Savioli, si trovava nel locale per cenare: la donna confermerà di aver visto quei ragazzi. Anche lei, interrogata solo nel corso delle ultime indagini, riferisce a chi scrive del rammarico di non essere mai stata verbalizzata prima e della superficialità, o ritrosia, con cui si svolsero le indagini al tempo. Per saldare il conto, lo scrittore lasciò un assegno di undi­ cimila lire: il gestore non lo incasserà mai, è ancora lì affisso nel locale a testimoniare un passaggio, l’ultimo. È probabile che al poeta non servissero altri soldi quella notte. Al tempo, infatti, dato che non esistevano i bancomat, c’era l’abitu­ dine di pagare tramite assegno una cifra più alta del dovuto, per ottenere il resto e rimanere con un po’ di liquidità. Lo faceva anche lo scrittore, come molti. Quella sera però Pa­ solini, come vedremo, aveva con sé molto contante. Il po­ eta a questo punto esce dal locale per dirigersi alla stazione Termini, tappa di cui abbiamo riferito i dettagli nei capitoli precedenti. 69

I. D isegno di morte

Acilia, il passaggio intermedio

Sergio Citti, durante la testimonianza resa all’avvocato Guido Calvi (filmata dal regista Mario Martone) e acquisita soltanto con la nuova apertura di indagine nel 2010, ricorda la ricostruzione che aveva fornito agli inquirenti appena dieci giorni dopo la morte di Pasolini. Ricostruzione basata sulle parole di un pescatore da lui sentito al tempo, un testi­ mone, che gli raccontò cosa vide quella notte all’Idroscalo. Le dinamiche riportate a Calvi fanno emergere alcuni detta­ gli inediti: [...] non so a che punto [della via Ostiense, N.d.A.] è stato preso Pasolini. Fu bloccato, spostato e non ha potuto rea­ gire; sono entrati in due, tre. Uno di loro guidava; l’hanno portato all’Idroscalo.

Stiamo parlando del passaggio intermedio, quello avve­ nuto dopo la partenza dal ristorante «Al Biondo Tevere». La dinamica riferita da Citti, invece, spiegherebbe la pre­ senza, nell’Alfa GT 2000 del poeta, di oggetti estranei sia a Pelosi che a Pasolini: un plantare destro numero 41 e un pullover color verdino. Gli stessi oggetti che a distanza di anni, nonostante gli esami del dna svolti in gran parte nel 2013 dagli investigatori, non troveranno mai i legittimi pro­ prietari. In riferimento al pullover sul quale sono stati ef­ fettuati, con le nuove tecniche a disposizione, esami di tipo chimico-merceologico4 per individuare eventuali scambi avvenuti tra un indumento e l’altro, i periti individuano diversi passaggi fra questo e il maglione grigio del poeta rinvenuto nell’auto. Poiché entrambi i maglioni sono con­ tenuti nello stesso plico esaminato dagli analisti, il corpo di reato 3257, questi ultimi negli esiti tendono a sminuire l’evidenza del trasferimento in quanto sarebbe impossibile 70

5. Fra «P ommidoro» e l ’I droscalo

determinare il momento in cui lo stesso avvenne. Tuttavia, nello stesso plico da loro esaminato è contenuto uno dei re­ perti di legno che, al contrario, non presenta alcuna traccia di fibra, ma solo una traccia di vernice rossa propria di uno steccato.5 Un indizio però nelle vecchie carte c’è. Tra i ver­ bali del tempo, emergono infatti le parole della madre dei Borsellino, la signora Lucheroni, che, su domanda degli in­ quirenti di allora, conferma che uno dei figli «possedeva un maglione verde a girocollo» proprio come quello ritrovato tra i reperti. È utile riferire qui, inoltre, che (come indicato nei risultati del RIS, per quanto attiene alle tracce indivi­ duate sui reperti e confrontate con quelle dei sospettati) le impronte digitali intestate a Franco Borsellino, De Stefanis e Mastini in particolare non risultano essere sempre com­ pletamente leggibili, quindi i risultati con esse ottenuti non possono considerarsi attendibili al cento per cento, così come la loro non compatibilità. Tra le testimonianze sepolte dagli anni, spunta anche quella, mai presa in seria considerazione dalle unità investi­ gative, che confermerebbe questa parte di dinamica, pre­ paratoria all’agguato. Il proprietario di un bar, Ubaldo De Angelis, intervistato dai quotidiani, riferisce che «Pasolini a mezzanotte era ancora vivo». Lo aveva visto fermarsi presso la stazione di rifornimento sull’Ostiense. L’Alfa GT 2000 era comparsa a sinistra della pompa di benzina. De Angelis, anche lui in sosta per fare carburante, aveva riconosciuto lo scrittore e racconta che qualcun altro riempì il serbatoio, ma non specifica chi. Il giornalista gli chiede per ben due volte se Pasolini avesse gli occhiali (da cui non si separava mai),6 e lui risponde secco «no». Poi aggiunge che non vide nessuno che li seguisse: percezione, questa, che può corrispondere solo in parte al vero, perché, se qualcuno fosse stato all’inse­ guimento dell’auto, certo non si sarebbe fatto notare in un po­ sto illuminato quale è un benzinaio. De Angelis, l’indomani 71

I. D isegno di morte

della notte del massacro, chiama la polizia per rilasciare la sua testimonianza: il vicequestore Fernando Masone lo inter­ roga e l’uomo riconosce in Pelosi il compagno di viaggio di Pasolini. Si tratta di un elemento acquisito nel fascicolo del procedimento penale, ma scartato come prova giudiziaria. Un elemento che però scalza i dubbi anche più recenti7 su chi accompagnasse realmente quella notte all’Idroscalo Pasolini. Dunque, l’«ex Rana» era della compagnia. Il nodo resta sempre la tappa intermedia, quella che lo stesso Cittì - in alcune occasioni più recenti anche lo stesso Pelosi - ha definito come la «tappa di Acilia»: ossia l’al­ tra mezz’ora che rimane oscura (oltre a quella che scorre

Foto del distributore self Service in cui sifermarono Pasolini e Pelosi, pubbli­ cata sul Tempo il 4 novembre 1975. Idimmagine, che non è stata mai ripresa da nessuna delle ricostruzioni giornalistiche dell’omicidio, è tratta dalla Bi­ blioteca del Senato «Giovanni Spadolini» di Roma. 72

5. Fra «P ommidoro» e l ’I droscalo

fra il primo avvio in macchina dello scrittore e Pelosi dalla stazione Termini verso il ristorante Al Biondo Tevere e il loro temporaneo ritorno sotto i portici «per esigenze del ragazzo») e che, in parte, può essere spiegata con la dina­ mica, affiorata dall’analisi del dna sugli slip neri di Pelosi, analizzata in precedenza.8 Ovviamente si tratta solo di una ipotesi che facciamo avendo analizzato nella prima parte le risultanze degli esami del dna svolti sui reperti. Approfon­ dimento investigativo, questo, che un proseguimento di indagini giudiziarie avrebbe potuto verificare. Una svolta importante si ha comunque nel dicembre 2013 quando, sempre Pelosi, chiarisce la discrepanza fra il verbale di rico­ noscimento del ristoratore Vincenzo Panzironi, che lo vide entrare con Pasolini quella sera prima che si avviassero verso l’Idroscalo, e i suoi connotati fisici:9 chiarimento richiesto per cercare di capire se fosse davvero lui in compagnia del poeta o non fosse già presente sul luogo dell’appuntamento: D: «Vincenzo Panzironi proprietario de ‘Il Biondo Tevere’ fece una tua descrizione che però non sembra corrispon­ derti [biondo con i capelli lunghi fino al collo...]». R: «Può darsi che Panzironi abbia fatto confusione con i giorni: il giorno prima Pasolini era in compagnia di un biondo».10

Inseriamo questa testimonianza soltanto alla fine, come corollario a quanto di sostanziale già raccolto in merito. La stessa tuttavia avrà, come vedremo, riscontro a breve.

«Jonny»: il falso «biondino» Un ragazzo dai capelli chiari, la sera prima del massacro, avrebbe realmente fatto visita alla trattoria sull’Ostiense, una sorta di sopralluogo: per questo la discrepanza nella deposi73

I. D isegno di morte

zione di Panzironi è forse un errore voluto e, per timore, non rivelato. A svelarlo, ironia della sorte, è, invece, la moglie del ristoratore, la signora Giuseppina Sardegna, allo scrittore Aldo Colonna.11Non è inverosimile che Pasolini, agganciato da quei ragazzi di malavita per il recupero delle pizze di Salò, fosse an­ dato al Biondo Tevere con qualcuno la sera precedente all’ag­ guato, mentre questi compiva il suo sopralluogo. Fra la dichia­ razione di Pelosi e ciò che riferisce la ristoratrice a distanza di tempo e con collegamenti impensabili l’uno con l’altro, il cer­ chio si chiuderà con un elemento chiave quando torneremo a parlare del vero biondino al momento opportuno. L’ingresso sulla scena di un biondo o un «biondino», come veniva chiamato dai compari di furti ed espedienti e anche ri­ portato nelle carte delle indagini preliminari, resta da sempre il mistero irrisolto, la parte di una storia che si vuole tenere sepolta. Questi è sempre stato indicato, infatti, in Giuseppe Mastini, alias Johnny lo Zingaro o «Jonny», come si legge su una cartolina sequestrata che Pelosi invia a Giuseppe Bor­ sellino dal carcere: «[...] Vai da Jonny Lo Zingaro che sta all’Ina Casa alle giostre digli di scrivermi lui lo sa». Pelosi, dal canto suo, ha sempre negato a gran voce il coinvolgimento dell’uomo nella morte del poeta. I nuovi investigatori faranno ricerche su altri con lo stesso soprannome: a Roma, in borgata soprattutto, i nomignoli spesso si ripetono, ma di Johnny lo Zingaro ne esiste solo uno. Mastini, originario di una famiglia sinti proprietaria di alcune giostre sulla Tiburtina, viene de­ scritto da chi lo ha conosciuto bene al tempo (sebbene fosse ancora un ragazzino) come «informatore delle guardie», ruolo che poi, col passare degli anni e dei crimini, ha mutato in uno più ufficiale: «collaboratore di giustizia». Venni a conoscenza del suo ruolo da certi discorsi che anche i detenuti BR facevano su certi tipi che non potevano tenere nelle carceri normali; li facevano venire nelle carceri tipo il 74

5. Fra « P ommidoro» e l ’I droscalo

nostro, lasciandogli più spazio per muoversi. Non dei veri e propri pentiti ma personaggi che non potevano stare in mezzo ad altri detenuti.12

A parlare è Paolo Dorigo, ex militante della sinistra extra­ parlamentare ed ex detenuto insieme a Mastini negli anni fra il 2000 e il 2002 nel carcere di Biella. Altre fonti della mala­ vita e della borgata confermano questo «ruolo» di Johnny. Nelle nuove carte delle indagini preliminari svolte nel corso di cinque lunghi anni, qualcosa di interessante su di lui salta fuori. I collaboratori (le cui deposizioni vengono acquisite an­ che dalla nuova procura) Walter Carapacchi e Pasquale Mer­ curio dichiarano che Mastini, nei loro rispettivi periodi co­ muni di detenzione, li aveva informati del ruolo da lui svolto nell’omicidio di Pier Paolo Pasolini. Così Walter Carapacchi: H o conosciuto Mastini Giuseppe nel 1979 quando entrambi eravamo ristretti presso la casa circondariale di Rebibbia. Per la precisione eravamo nella stessa cella. [...] Proprio perché eravamo nella stessa cella ben presto entrai in con­ fidenza con il Mastini il quale mi rivelò di aver partecipato unitamente al Pelosi all’omicidio di Pasolini. Non mi disse in che modo avvenne la partecipazione ma asserì di essere stato partecipe alla commissione del delitto.13

Dalla dichiarazione è sfuggito questo termine: «commis­ sione». Il termine si riferisce precisamente a un ordine im­ partito. Un altro collaboratore che spontaneamente volle deporre in merito all’omicidio è Pasquale Mercurio:14 Nel 1989 ero ristretto presso la casa circondariale di Spo­ leto ed in questa occasione ebbi modo di conoscere tale Ma­ stini Giuseppe, meglio conosciuto come Jonny lo Zingaro con il quale ben presto entrai in confidenza anche perché lui mi aveva rivelato una certa simpatia per la «Nuova fami­ 75

I. D isegno di morte

glia della Camorra» [Nuova Camorra Organizzata, NCO, di Raffaele Cutolo, N.d.A.].[...] Mi descrisse il Pelosi, persona che io non conoscevo, come [...] uomo che non tradiva mai i suoi amici, tanto è vero che benché fossero passati tanti anni il Pelosi non aveva mai rivelato il nome del Mastini come colui che aveva anche partecipato all’omicidio.

Nel 1996 la procura, nel richiedere l’archiviazione al giu­ dice per le indagini preliminari, scriverà che «è risultato che Carapacchi e Mastini erano a Rebibbia ma in epoche di­ verse» e che il Carapacchi «nel reparto G non è mai stato con il Mastini». Gli inquirenti nel 2011, pur prendendo in considerazióne quei risultati, svolgeranno nuovi controlli e troveranno riscontro alle parole di Carapacchi: L’Istituto di pena comunicava che da un controllo degli atti era emerso che Carapacchi Valter e Mastini Giuseppe erano stati insieme detenuti e ristretti nello stesso Reparto deten­ tivo G l i dal 14 settembre 1979 al 5 novembre 1979, e tra­ smetteva copia dei rispettivi cartellini.15

È possibile che i cartellini giudiziari inviati allora dal carcere siano stati manipolati? Vista la convergenza delle dichiarazioni di due pentiti (ne giungerà una terza che ve­ dremo più avanti), anche così particolareggiate, non era il caso di approfondire meglio invece di chiudere adom­ brando la «chiara strumentalizzazione della vicenda, fatta molto verosimilmente per acquisire notorietà personale»? Carapacchi dichiarerà, inoltre, che, a seguito di una comune detenzione fra lui e Pelosi, anche questa riscontrata, quando ebbe modo di parlargli di quella confidenza del Mastini, «Pelosino» si arrabbiò moltissimo e in seguito gli confermò la presenza dello «Zingaro» quella notte del 1975, ma non voleva che trapelasse nulla. A stringere il cerchio di questa «negligenza» anche una nota della Questura di Roma del 1995 su Mastini e Pelosi: «Nulla 76

5. Fra «P ommidoro» e l ’I droscalo

risulta circa contatti o rapporti di conoscenza tra lo stesso [Mastini, N.d.A.] e Pelosi Giuseppe».16 Il giudice per le inda­ gini preliminari accetterà infine la richiesta di archiviazione della procura senza approfondire alcunché, e la stessa cosa si ripeterà nel 2005, quando verranno di nuovo esaminate le di­ chiarazioni.17Eppure, a diversi anni di distanza da quelle chiu­ sure, nella nuova richiesta di archiviazione,18nel menzionare i passi investigativi svolti a sviluppo anche delle precedenti in­ dagini, vengono indicati soltanto gli accertamenti riguardanti il periodo di comune detenzione, senza che si sia approfondito anche qui il merito stesso delle dichiarazioni. Il livello di conoscenza pregressa, e di confidenza, fra Pelosi e Mastini era già attestato dall’esistenza della cartolina. Riper­ corriamo però l’excursus parallelo e coincidente da loro vis­ suto fuori e dentro il carcere. Pelosi fa il suo ingresso a Casal del Marmo prima dell’omicidio Pasolini, per furto aggravato e per ben tre volte, dal novembre 1974 al 13 settembre 1975. Vi rientrerà, appunto, il 2 novembre del 1975. Giuseppe Ma­ stini si trova a Casal del Marmo, anche lui per furto aggravato, dall’11 settembre al 30 ottobre del 1975. Eppure nelle pre­ cedenti aperture d ’inchiesta questa circostanza viene negata accettando le spiegazioni fornite da entrambi sin dall’inizio. Il magistrato di allora scriverà nella richiesta di archiviazione proprio questo: che i due non si erano mai conosciuti prima. Mastini, uscito dal carcere minorile il 30 ottobre del 1975 (giorno dell’ultimo accordo fra Pelosi e i Borsellino), vi farà rientro il 6 novembre, quattro giorni dopo l’omicidio, con una escoriazione al ginocchio destro. Particolare fondamentale poi, da tenere in enorme considerazione, è che «lo Zingaro» portava già un plantare al piede destro dall’età di undici anni, in seguito a una ferita provocata da uno scontro a fuoco con la polizia, mentre forzava un posto di blocco guidando un’auto rubata.19 Nel 2011 uscì la notizia che si sarebbero svolti gli esami del dna anche su quel plantare,20 l’attesa però rimarrà 77

I. D isegno di morte

sempre sospesa e i risultati secretati fino all’archiviazione, quando di riscontri in questo senso non si parlerà più. I risul­ tati emersi dalle nuove carte investigative, infatti, evidenziano la presenza, sul plantare destro rinvenuto nell’Alfa GT di Pasolini, del profilo genetico di un quarto soggetto maschile che è rimasto ignoto21 e, a parte, negli atti, è presente l’acqui­ sizione di un mozzicone di sigaretta di Mastini avvenuta nel settembre del 2011 ad Alessandria, dove allora era detenuto. Nella richiesta di archiviazione, non appare alcuna menzione al riguardo, né negli atti in nostro possesso compare il risul­ tato specifico riferito a Mastini: si può soltanto dare per scon­ tato che non esista alcuna corrispondenza. Resta singolare la modalità con cui si è proceduti ad acquisire questa prova che doveva essere così decisiva per una parte dell’inchiesta: Si rappresenta che all’atto dell’acquisizione del reperto, all’in­ terno del posacenere vi era solo la sigaretta interessata. Il ma­ teriale biologico veniva prelevato mediante l’uso di guanti in lattice ed inserito in un contenitore sterile al fine di garantirne l’integrità ed evitarne ogni possibile contaminazione.

Ci si domanda se non ci potessero essere altre modalità per acquisire un reperto così importante e tanto atteso per il risul­ tato di un esame del dna o se non potessero essere acquisiti al­ tri elementi, ad esempio una ciocca di capelli, la saliva sull’im­ pronta di un bicchiere, anziché un mozzicone di sigaretta presente nel posacenere di un ufficio in cui si può accedere dopo l’uscita del Mastini. Una modalità, quindi, soggetta a qualsiasi forma di inquinamento. L’unica occasione per acqui­ sire un tale reperto poteva presentarsi solo in quel frangente? Ciò che è certo, al contrario, è che in questo modo, una volta archiviato l’eventuale coinvolgimento nell’omicidio attraverso quest’esame un po’ traballante del suo dna, sarà quasi impos­ sibile che Johnny «lo Zingaro» rientri nelle indagini. 78

5. Fra «P ommidoro» e l ’I droscalo

Ritaglio di giornale acquisito nelfascicolo n. 1466/75. Come è possibile ve­ dere anche dalla foto in bianco e nero, i capelli del compagno di reati di Mastini‘ Mauro Giorgi, sono persino più chiari dei suoi.

Uanello USA e il passaporto scomparso Esiste una foto inedita che è parte integrante dei reperti rac­ colti dalla scientifica al tempo. Ritrae un anello con la scritta «United States Army», fatto ritrovare dalla polizia solo in un secondo momento. L’aneddoto dell’anello, e in parte an­ che del passaporto, chiude questo spicchio di ricostruzione in tappe come parte integrante e finale di una trappola pre­ cisa. Alcuni amici di Pelosi, si legge nelle testimonianze agli atti, avevano riferito dell’importanza che questo rivestiva per il loro amico e di come il ragazzo si vantasse della prove­ nienza malavitosa dell’anello. Provenienza non chiara: Pelosi, inizialmente, dirà che gli era stato regalato da un amico, un certo Johnny. E, a livello temporale, la prima volta che entra in scena la figura dello «Zingaro», la cui identità verrà svelata 79

I. D isegno di morte

poi proprio nella controinchiesta del settimanale L'Europeo. Quindi è Pelosi che tira in ballo per la prima volta Johnny in questa storia. In seguito, visto che cercherà di non coinvolgere più Mastini, Pino dirà invece che gli era stato venduto da uno steward il quale, una volta interrogato, confermerà. Ecco il finto gioiello nel dettaglio:

80

5. Fra « P ommidoro» e l ’I droscalo

Questo monile clorato, come dichiara il vicebrigadiere Vi­ tale il 6 dicembre 1975, durante un interrogatorio, viene ri­ trovato a pochi metri dal cadavere di Pasolini. Il quotidiano Paese Sera, il 6 novembre, lancia una domanda e un titolo molto pesanti: Lassassino ha voluto firmare il suo delitto? L’anello della foto, intanto, ben raffigura la deforma­ zione che l’oggetto ha subito perché sfilato a forza quella notte, come ammesso da Pelosi a Veltroni nel 2011. D u­ rante la prova fatta fare a Pelosi dal magistrato, il ragazzo di allora si contraddirà su questa deformazione e l’anello farà fatica a entrare e uscire, contrariamente a quanto accadeva prima dell’omicidio, come diverse testimonianze verbaliz­ zate hanno attestato. Il quotidiano, in quell’articolo, riferisce di come l’appuntato Starnato, prima degli agenti di polizia, fosse andato alla ricerca esplicita di un anello quando già i ca­ rabinieri erano stati esclusi ufficialmente dalle indagini. Sta­ rnato sapeva dunque della sua esistenza. L’Arma in realtà sarà sempre presente dopo il delitto e non uscirà mai di scena. Un testimone oculare, le cui dichia­ razioni saranno raccolte dal giornalista Paolo Brogi sul Cor­ riere della Sera nel 2012, riferisce via e-mail:22 La finestra nella mia stanza era parzialmente aperta. H o sentito un rumore forte e allora ho guardato fuori. H o visto parecchie persone, credo tre o quattro, sui trent’anni, vi­ cino a una piccola macchina. Un uomo era steso per terra. Allora sono corso giù per le scale e nel giro di pochi minuti il posto era pieno di gente e di carabinieri. Uno dei cara­ binieri mi ha preso il nome e ha trascritto quanto avevo visto. Non sono stato più sentito da quel carabiniere una seconda volta.

La testimonianza riportata dal giornalista è frutto di vari scambi, richieste di chiarimenti e per quanto possibile di 81

I. D isegno d i morte

verifiche. A rilasciarla è Misha Bessedorf, un ex profugo russo, ora cittadino americano, allora di passaggio a Roma. Si era appena trasferito a Ostia e aveva venticinque anni. Al tempo, sulla zona, si affacciavano già alcune palazzine, come si può tranquillamente verificare visionando uno dei filmati sull’omicidio dell’Idroscalo, disponibile su YouTube. In una di queste, risiedeva temporaneamente Mi­ sha insieme ad altri russi di Odessa. Misha dichiara che, quando scese a vedere cosa stesse succedendo, «era ancora notte fonda». Era impossibile, dunque, mettere a fuoco la scena e il let­ tore deve ben riflettere sul fatto che qualsiasi luce la illumi­ nasse era a questo punto scomparsa. Eppure la procura de­ molisce questa testimonianza confutandola, senza ascoltare il teste, con le risultanze presenti nel fascicolo originario che attestano la presenza delle forze dell’ordine solo intorno alle 7.20 del mattino. Ma, se un carabiniere lo interrogò subito, nelle ore ancora buie successive alla mattanza, ciò vuol dire che la presenza dell’Arma era di molto precedente all’orario ufficiale indicato, il che poteva essere verificato solo se il te­ ste fosse stato sentito. Vi è, inoltre, un altro oggetto che mancherà, stavolta per sempre, tra le carte e le pieghe di questa vicenda. Un oggetto che non è repertato in alcun verbale perché non è mai stato trovato: il passaporto di Pier Paolo Pasolini, sottratto molto probabilmente da chi ha firmato, senza lasciare tracce, quel massacro. Un particolare mai riferito in nessuna ricostru­ zione giudiziaria o giornalistica relativa al caso. Paese Sera sarà l’unico quotidiano a riportare la notizia, riferendo della vana ricerca che inquirenti e familiari stavano svolgendo per ritrovarlo.23 Il passaporto era servito allo scrittore per via dei continui viaggi all’estero da lui effettuati nei giorni prece­ denti alla morte. 82

5. Fra «P ommidoro» e l ’I droscalo

Sparito il passaporto di Pasolini

mammmm Restano, invece, quelle ore sospese nel buio fra l’omicidio, che si consuma tra la mezzanotte e trenta e l’una del mattino, e la comparsa sul luogo del delitto dei coniugi Principessa, a cui segue l’arrivo della polizia. Non appena Pelosi e lo scrittore giungono sul posto, accompagnati probabilmente già da qual­ cuno nel veicolo e debitamente seguiti da altri dalla stazione Termini e dal «Biondo Tevere», avvengono sia il pestaggio che il sormontamento con più auto sul corpo del poeta. Il massa­ cro dovrà riuscire a tutti i costi: per questo ognuno, nel suo ruolo, deve essere funzionale. L’obiettivo è comune a tutti ed è frutto delle cointeressenze che arrivano da più parti: la bassa manovalanza criminale per sfilare un po’ di soldi al «frodo»; i picchiatori per togliersi di mezzo il «comunista»; forse an­ che qualcuno che non accettava l’amore di Pasolini per i «ra­ gazzetti» e, in alto, qualcuno che ha ordinato una «commis­ sione», appunto. E così chi può non intervenire o non denun­ ciare i giorni successivi lo fa senza remore oppure per timore.

È stato un agguato Sergio Cittì, a distanza di tre giorni dalla tragedia, insieme al fratello Franco, protagonista d i Accattone e Mamma Roma, dichiarerà che si è «trattato di un agguato».24 Il regista però 83

I. D isegno di morte

non si spinge, come farà ben trent’anni dopo, a raccontare tutti i particolari di cui è già al corrente e quelli che poteva intuire conoscendo a mena dito le abitudini dello scrittore, il mondo della bassa manovalanza criminale e i personaggi con cui aveva avuto lui stesso a che fare come intermediatore per riavere le pizze. Pelosi fuggendo con l’auto di Pier Paolo poteva fare oltre duecento all’ora, poteva nascondersi in mille vicoli bui. No, si fa prendere dai carabinieri, così. Subito dopo cerca l’a­ nello che viene ritrovato subito lì accanto al cadavere, come fosse stato messo a bella posta. [...] Io non credo che Pier Paolo abbia preso un ragazzo sconosciuto per la strada alla stazione, mai sarebbe andato a un incontro con una persona conosciuta cinque minuti prima.

Queste altre parole, rilasciate durante il già citato filmatotestimonianza, rimarranno inascoltate. In particolare dalla magistratura di allora, che durante le indagini non valuterà mai l’idea di ascoltare l’uomo, magari confrontando queste testimonianze con quelle del tempo. Insomma, un lavoro in­ vestigativo normale di raffronto fra fonti, testi ed evidenze emerse. In quella lunga intervista filmata, segue il racconto di un pescatore. Lo stesso Salvitti intervistato da Colombo? Perché nessuno ha provato a mettere a confronto i due rac­ conti? E perché per trent’anni Sergio Citti non chiederà mai di essere ascoltato? C’è qualcosa che non poteva raccontare riguardo a quanto conosceva? E perché anche la parte ci­ vile, nel 2005, non ha fatto questi raffronti chiedendogliene conto? La storia della morte di Pasolini sembra fornire sem­ pre più domande che risposte. E ancora, esiste una testimonianza ulteriore di Citti, rile­ vata sinora solo dal regista Marco Tullio Giordana nel suo libro Pasolini, un delitto italiano, che anticiperà di qualche mese l’omonimo film-inchiesta.25 Si tratta di una dichia84

5. Fra «P ommidoro» e l ’Idroscalo

razione rilasciata pochi giorni prima che fosse resa nota la sentenza di Alfredo Carlo Moro, giudice e fratello del pre­ sidente della Democrazia Cristiana, Aldo, rapito nel 1978 e ucciso cinquantacinque giorni dopo dalle BR, la cui vicenda resta ancora non chiarita. Sibila Cittì: Certa gente mi ha rivelato cose. Ci siamo parlati franca­ mente. «Tu sei un ragazzo di vita. A te lo diciamo. Ma qui lo diciamo, qui lo neghiamo». Cose strane che se confrontate sono risultate vere. Già lo sapevo per esempio che avreb­ bero arrestato quei due. Quanti erano quella notte io non lo so. Ma so com’è andata. Come tutto è stato organizzato bene. Ci sono due mezz’ore nella faccenda. Due mezz’ore chiave distinte fra loro, e in ciascuna è accaduto un fatto de­ terminante. Pier Paolo non sarebbe mai andato là. Che biso­ gno aveva di andare là. Sì, conosco la verità che non posso dire. La dirò quando sortirà quel ragazzo.26 Le parole di Sergio Cittì sembrano quasi profetiche: nel 2005 «Pelosino», dopo trent’anni di silenzio, comincia a sve­ lare piccoli tratti di verità e Cittì lancia le sue parole in corsa.

85

»

Capitolo sesto

Un massacro tribale

A me resta tutto, cioè me stesso, essere vivo, essere al mondo, vedere, lavorare, capire. Intervista di Furio Colombo a Pasolini del primo novembre 1975, in La Stampa, 8 novembre 1975

Altre presenze P er essere catapultati nella scena del crim ine è utile partire da alcune fotografie che, confrontate per la prim a volta, rilevano tutta la loro forza visiva: sono le prim e tracce del massacro:

Foto n. 121 del fascicolo dei rilievi tecnici della Polizia Giudiziaria: le suole delle scarpe indossate da Pelosi per nulla intrise dal sangue della scena. Un 'unica macchia è infatti visibile subito dopo il tacco.

I. D isegno di morte

Foto n. 82 delfascicolo dei rilievi tecnici della Polizia Giudiziaria.

Nella prima, sono ritratte le scarpe che Pino Pelosi in­ dossava quella notte di novembre. Osservando la suola, si nota che le tracce ematiche non sono particolarmente co­ piose, considerando la pozza di sangue in cui viene ritro­ vato Pasolini. Non solo. Nella seconda istantanea, che segue, sono raffi­ gurate le piante delle calzature che aveva ai piedi il poeta la sera dell’agguato: entrambe le suole sono lisce. Quest’ultimo è un dettaglio importantissimo perché sul campetto di calcio, per la precisione nell’area di rigore sini­ stra, la scientifica, la mattina del 2, rileva invece alcune im­ pronte, ancora fresche, dalla suola righettata tipica delle cal­ zature sportive. La polizia le individua prima che l’area venga inquinata da curiosi e ragazzini che giocano a pallone: Sono arrivato sul posto alle ore 8.45 circa [...] vi erano dei ragazzi che giocavano a pallone in un campetto adiacente al campo in cui sono stati rinvenuti i reperti. Da quando sono arrivato i ragazzi sicuramente non hanno giocato nell’area di porta ove abbiamo rinvenuto le tracce di una macchina. [...] Ricordo di aver visto delle impronte di scarpe nell’area di porta ove c’era piuttosto fango ma non mi occupai molto di questo fatto perché il mio compito fu quello di appurare 88

6. U

n m a s s a c r o t r ib a l e

Foto n. 61 delfascicolo dei rilievi tecnici della Polizia Giudiziaria: impronte rilevate nell’area vicina al campetto di calcio in cui inizia la prima fase dell’aggressione.

se nelle baracche avessero dormito delle persone e avessero sentito qualche cosa.1

Questa è la testimonianza acquisita agli atti del dottor Iovinella, ispettore della Polizia Scientifica. Ma anche il dottor Masone, capo della Squadra Mobile, confermerà in sede di sopralluogo, il 16 marzo del 1976: Fino a quando il corpo di Pasolini rimase sulla radura nes­ suno giocava a pallone vicino alla salma.

La presenza di altre impronte sul terreno verrà però te­ nacemente avversata dalla Corte di Appello che, il 4 dicem­ bre 1976, successivamente alla impugnazione da parte della Procura Generale Ordinaria, precisa: 89

I. D isegno di morte

La sentenza impugnata si dà carico di escludere che le im­ pronte potessero essere state lasciate sul terreno dopo il de­ litto; trascura però di domandarsi se non potessero essere state lasciate prima, e precisamente nel corso della giornata festiva del 1 novembre.

Insomma, l’appello non ritiene di: assegnare alle impronte di scarpe gommate, solo perché iso­ labili per la loro peculiarità, alcun significato.

Ma il primo novembre a Ostia piove e ogni eventuale trac­ cia lasciata prima del delitto scompare. A raccontarlo, insieme a molte altre cose mai riprese e approfondite da nessuno, è Pallora cronista del G R l, che di lì a breve passerà alla cronaca del TG nazionale: Diego Cimara. L’ex cronista e scrittore lo riferisce in un libro che ha avuto poca o nulla diffusione: Stragi di Stato: 1968-2008.2 Cimara, allora abitante di Ostia, viene inviato all’alba sul posto dal suo ex direttore, avvisato a sua volta da Michelangelo Antonioni e Alberto Moravia (che, come il lettore ricorderà, raggiunse l’Idroscalo insieme allo scrittore Renzo Paris). Lui e un’altra cronista storica, Lucia Visca,3 saranno tra i primi a presentarsi sul luogo del delitto: Caro Cimara, sai carissimo, hai toccato forse una corda troppo sensibile. Secondo me devi fare una rettifica. All’in­ gresso c’è un gruppo di ragazzotti che pretendono dei soldi promessi [...] sì sì te ne do atto, è un omicidio politico ma in questa fase non lo possiamo dire.

Queste sono le parole dell’ex direttore del neonato gior­ nale radio, Vittorio Emanuele Chesi (co-direttore insieme a Domenico Giordano Zir prima che la riforma procedesse alla tripartizione delle testate), dopo che il giornalista ha realizzato 90

6. U

n m a s s a c r o t r ib a l e

in più giorni il suo servizio. Cosa è venuto a sapere Cimara? All’alba del 2 novembre riesce solo a raccogliere sensazioni, non indizi, né prove sulla presenza di altri aggressori oltre al ragazzo. Ma nei giorni successivi, aiutato dal suo medico con­ dotto (le cui conoscenze, com’è ovvio per via della profes­ sione, abbracciano tutti gli strati sociali) affinché gli indicasse qualche balordo della zona con cui parlare, Cimara intervista dei ragazzi in uno scantinato di piazza Gasparri, che poi lo minàcceranno con dei coltelli pretendendo soldi che il gior­ nalista al momento non ha con sé. Alcuni di loro, che quella notte dalle baracche hanno visto tutto, si erano rifiutati di rac­ cogliere il guanto di sfida per una partita di calcio da dispu­ tarsi in quel campo contro un altro gruppo proprio il primo novembre, perché a Ostia era piovuto a dirotto e tutto era ridotto a un acquitrino. Si erano quindi dati appuntamento il giorno successivo, alle 8 del mattino, per il match fra «la ciurma di via dei Traghetti e via dei Panfili». Non giocheranno mai perché ad attenderli troveranno la polizia e il corpo martorizzato dello scrittore. Si andranno dunque a unire a quel cerchio di ragazzini e curiosi immortalato nelle ormai celeber­ rime foto dell’omicidio. Quei ragazzi - «Lumunba», «Scimmietta», «Mocciolo» e «Er Gazzella» - faranno a Cimara an­ che i nomi dei Borsellino e di Mastini e riferiranno inoltre di aver visto una Giulietta Sprint bianca sul posto quella notte: «Sapessi come strillava», racconteranno di Pasolini morente quelli di via dei Traghetti al cronista, «sembrava un’aquila». Una testimonianza che, se trasmessa dai TG, non avrebbe dato modo in seguito alla Corte d’Appello di confutare l’ele­ mento delle suole sportive vicino al campo da gioco: Torniamo al Babuino [l’ex sede RAI fino agli anni ’90, N.d.A.]. Montiamo lo speciale, ma non ci rendiamo conto quali sono le corde toccate. Emerge subito inequivocabile il concorso di molti [... ] ,4 91

I. D isegno di morte

L’indomani mattina Cimara si accorgerà, andando al gior­ nale radio, di essere pedinato. Da quel momento sarà anche minacciato più volte: sempre una Giulietta Sprint bianca (modello simile all’Alfa GT 2000 dello scrittore) si appo­ sterà di notte sotto la sua abitazione. Alcuni carabinieri del comando di Ostia, a cui il giornalista per precauzione aveva raccontato tutto, giungeranno a sirene spiegate sul posto. Il giorno dopo a questo fatto, Scimmietta troverà la morte sfra­ cellandosi con quella stessa auto contro un muro. Non solo: poche ore dopo, il medico che aveva indicato al giornalista Scimmietta come possibile interlocutore, si «suiciderà» get­ tandosi dal terzo piano della sua abitazione. Due morti tra­ giche in uno strettissimo lasso di tempo, troppo strane per non essere quanto meno considerate con sospetto. Dunque, i carabinieri di Ostia sapevano di questa testimonianza le­ gata all’uccisione di Pier Paolo Pasolini: l’ennesimo elemento nascosto o fatto sparire. Il telefono del giornalista in radio, come scrive lui stesso, sarà messo sotto controllo per mesi e Cimara si vedrà costretto ad abbandonare la sua indagine al­ lontanandosi da Ostia. A chiudere definitivamente i «giochi» sulla partita di pal­ lone mai disputata il giorno precedente all’omicidio inter­ vengono anche le parole a verbale di un ex abitante abusivo, proprietario di una casetta nell’area in cui è stato rinvenuto il corpo. Il teste, giunto all’Idroscalo il primo novembre,5 chiarirà che, dalle diciotto circa (quando l’acquitrino poteva cominciare ad asciugarsi), quella zona restava sempre senza illuminazione. Più avanti si capirà perché alcune evidenze scritte restano e altre no: è un altro «gioco», questo. Il risul­ tato della pioggia frammista alla terra del campetto di cal­ cio è confermato anche dalla foto che segue delle scarpe di Pasolini, completamente incrostate. La corte di primo grado aveva indicato, infatti, questo elemento come indizio in più, che certamente da solo non poteva bastare: 92

-■

6. U

n

massacro tribale

Foto n. 68 del fascicolo dei rilievi tecnici della Polizia Giudiziaria: è qui mostrato soltanto il dettaglio utile a comprendere ciò che si sta affermando.

93

I. D isegno di morte

Il luogo del massacro, comunque sia, dalla mattina presto del 2 non verrà mai isolato per evitarne l’inquinamento, come ha dichiarato, in un’intervista rilasciata a chi scrive per un precedente lavoro d ’inchiesta, Guido Calvi, allora aggiuntosi al collegio di parte civile del procedimento contro Pelosi:6 Certo alcuni di questi errori sono da addebitarsi a casi di incultura inquisitoria del tempo. Tuttavia, sommandoli tutti e accennando qui solo a quelli più marcatamente evi­ denti - come la cancellazione della macchia sulla capotte della macchina di Pasolini, sul lato passeggero; la discre­ panza tra la risibile traccia ematica rinvenuta sulla manica della maglia di Pelosi, contro lo stato orribile in cui Pier Paolo era ridotto, e il fatto che il luogo del delitto non fosse stato, da subito, circoscritto in modo che non po­ tesse essere inquinato da altri agenti esterni, come invece fu - non si può non collegarli anche con la mole dei tempi morti passati dall’arresto del Pelosi e il ritrovamento del corpo.

Le tavolette: una falsa prova Un dato, purtroppo, è certo: i primi rilievi fatti all’Idro­ scalo non riusciranno mai a stabilire il reale numero e la tipologia di oggetti contundenti presenti sulla scena del crimine. E questo rimarrà un grande limite per la comple­ tezza dell’indagine. L’elemento che irrompe subito nella raccolta delle prove è il famoso «pezzo di legno con la scritta Via Idroscalo 93» e il «pezzo di legno con la scritta Buttinelli A.» (nella foto che segue) che, insieme ad altri reperti di legno più corti, sa­ ranno tra i primi oggetti trasmessi alla Questura di Roma e ai periti di ufficio Umani Ronchi, Merli e Ronchetti.7 94

6. Un massacro tribale

Foto n. 99 del fascicolo dei rilievi tecnici della Polizia Giudiziaria: tavo­ lette, insieme ai paletti e ai frammenti di legno provenienti dalle stesse. I reperti saranno rinvenuti lungo il tragitto fra l’area di rigore e il corpo (una distanza di circa settanta metri).

Nelle considerazioni redatte dai tre esperti, si legge in­ tanto un’«ammissione» davvero singolare: Indicazioni diagnostiche di maggior precisione [riguardo alle considerazioni sul preciso periodo di tempo trascorso dalla morte, N.d.A.] non possono essere formulate in que­ sta sede soprattutto per il mancato rilievo in sede di sopral­ luogo - da noi non effettuato - di tutti quegli elementi [...] che avrebbero potuto fornire elementi utili ai fini di una più esatta risposta al quesito.

Fatto alquanto inusuale, questo, soprattutto per un medico legale che sa bene come «il sopralluogo, in caso di omicidio, 95

I. D isegno di morte

rappresenta il primo essenziale passo per la ricostruzione della verità».8 A scrivere l’assioma in un manuale di crimino­ logia, a distanza di anni, è proprio Umani Ronchi, nominato al tempo, insieme agli altri due colleghi, dal sostituto Giunta della procura minorile. Ronchi ancora oggi è considerato uno dei punti di riferimento della medicina legale italiana. I tre, dunque, non hanno mai svolto un sopralluogo sulla scena del crimine, cosa che farà soltanto Francesco Durante, il pe­ rito della famiglia Pasolini, il quale produrrà una serie di ri­ lievi fondamentali che porteranno a concludere il processo di primo grado con la formula del «concorso con ignoti». Gli scenari che si aprono nel tempo, in realtà, sono vari e a confermarlo è sempre il professor Umani Ronchi a di­ stanza di molti anni:9 Un elemento che era di preoccupazione tra chi non la pen­ sava come Durante, e anche per noi, era il fatto che ci fosse il fratello di Moro come presidente [Alfredo Carlo Moro, presidente del processo di primo grado, N .d.A ], si pensava che allora la sentenza fosse, come dire «fatta». Era chiara la identificazione a sinistra dell’allora presidente Aldo Moro e si pensava che, nella ricerca della verità, ci potessero essere dei condizionamenti.

Alla domanda, da parte di chi scrive, se questi «condizio­ namenti» potessero essere intesi come l’individuazione di complici o mandanti, il professor Umani Ronchi risponde af­ fermativamente. Un’impostazione di tipo ideologico del pro­ cesso era dunque presente sin dall’inizio dello svolgimento delle indagini e delle perizie. Proseguendo con la lettura delle analisi di laboratorio sui mezzi contusivi usati - paletti e tavoletta (la quale, in ori­ gine, era un’unica trave di legno con le due scritte riportate) appartenenti alla baracca della famiglia Sabatini-Buttinelli - , gli stessi periti dichiarano: 96

6. U n massacro tribale

Gli effetti lesivi di maggiore gravità sempre a carico del cuoio capelluto sono certamente attribuibili all’uso del se­ condo mezzo [tavoletta]. Ciò si desume dai caratteri del mezzo, dal fatto che il mezzo è stato usato reiteratamente, dapprima a piatto, successivamente utilizzando una delle due metà dopo la sua fratturazione lungo una linea longi­ tudinale. Che dopo la frattura longitudinale sia stato usato uno solo dei frammenti derivati da questa interruzione di continuità appare dimostrato dal fatto che mentre i margini di uno dei due frammenti presenta tracce cospicue di ma­ teriale ematico con adese formazioni pilifere su entrambi i margini, l’altro frammento presenta tracce ematiche altret­ tanto abbondanti soltanto su una delle due facce. Sarebbe bastato tuttavia contrapporre a quest’analisi una doppia testimonianza, mai resa nota prima e non presente in alcuna ricostruzione, sinora stesa sul caso, riguardante questi oggetti contundenti. Da uno dei tre faldoni comprendenti il fascicolo del processo di primo grado, infatti, appare il ver­ bale della testimonianza rilasciata da Vincenzo Sabatini, la cui baracca distava pochi metri dal luogo del ritrovamento del corpo.La tavoletta era stata da lui utilizzata per indicare la sua «proprietà» agganciandola al paletto usato per chiu­ dere il cancello della propria abitazione. Sabatini dichiara: La tavoletta con la scritta del nome e dell’indirizzo di mia mo­ glie era leggermente incrinata in senso trasversale, allorché io la utilizzai [...]. Poi quando la tavoletta fu divelta da un ca­ mion in manovra, io la infilai tra due pali di cemento dai quali poteva facilmente essere estratta. Ho ritrovato poi nel luogo del delitto, a un paio di metri [...] dal cancello, il paletto di legno che mi serviva da chiusura del cancello stesso. A suggello di questa dichiarazione, si va ad aggiungere un’ulteriore testimonianza di un conoscente di Sabatini che, sentito dagli investigatori del tempo, conferma: 97

I. D isegno di morte

Ebbi occasione di parlare col Sabatini, il quale mi disse che le due tavolette ritrovate spezzate [...] erano già spezzate prima dell’assassinio poiché si erano rotte a lui allorché le inchiodava, ed egli le aveva quindi usate separatamente. I

Una prova logica e oggettiva che avrebbe dunque confu­ tato la funzione della tavoletta già di per sé molto fragile e la cui frattura non fu determinata dai colpi inferri a Pasolini. In assenza di altri mezzi contundenti più pesanti - eviden­ temente portati via dagli altri aggressori - tutto il processo, compreso quello di primo grado, resterà ancorato invece a queste considerazioni. Né le nuove indagini della procura, riaperte nel 2010, hanno dimostrato diversamente, anzi la perizia dei dottori Umani Ronchi, Merli e Ronchetti ri­ mane in assoluto quella più utilizzata come fonte di analisi per gli approfondimenti ulteriori che pure sono emersi. A prescindere dalla diversa visione delle due perizie - su quale dei mezzi contusivi abbia causato le gravi ferite infette al po­ eta prima del passaggio di un’auto sopra il corpo - , resta di estrema gravità il fatto che questo punto non sia mai emerso in tutti questi anni. Punto che avrebbe demolito anche que­ sta parte della perizia d’ufficio che affermava invece che la frattura della tavoletta era conseguente ai colpi infetti. L’evidenza che emerge spiega, al contrario, come due tavo­ lette, già di per sé fragili, usate separatamente, non avessero peso e forza sufficienti per determinare ferite così profonde. I tagli che hanno procurato la maggiore fuoriuscita di san­ gue sono stati causati nella prima fase dell’aggressione, come vedremo di seguito, quando ancora tutti si trovano vicino all’auto dello scrittore: frangente in cui non si utilizzeranno ancora le tavolette. Ma la Corte d’Appello non riterrà questo «dettaglio» importante ai fini della risoluzione del caso.

98

6.

Un m a s s a c r o

t r ib a l e

La comparsa della motocicletta Nell’intervista rilasciata ai giornalisti Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, inclusa nell’appendice del loro libro Profondo nero,10Pelosi, oltre a usare per la prima volta il termine «pic­ chiatori» in riferimento a un commando fascista presente quella notte, riporta di altre auto e di una moto sopraggiunte all’Idroscalo. Di due ruote aveva già parlato anche Oriana Fallaci nella sua controinchiesta sull’Europeo.11 La giornali­ sta e alcuni suoi colleghi del settimanale avevano ricostruito, in base alle loro fonti, la presenza sul luogo del massacro di alcuni complici provenienti dal mondo dello spaccio, i quali si sarebbero allontanati dopo il delitto, appunto, con una moto.Il12 Questi sarebbero i due fratelli Borsellino che, se­ condo Pelosi, frequentavano anche i camerati dell’MSI: In quel contesto c’era anche un certo Mauro G., un tizio ben vestito, pettinato con la riga e l’aria misteriosa. [...] Un tipo che gravitava nell’ambiente fascista e nella sezione dell’MSI di via Subiaco, a Roma.13

Il nome Mauro, riportato nel libro scritto da Pelosi nel 2011, è stato lì volutamente indicato in maniera errata af­ finché non fosse identificato. Il nome più corretto potrebbe essere però molto simile. Proprio «l’ex Rana», inoltre, dal 2008 in poi, racconterà della presenza della moto (e di altre due auto) sulla scena del delitto. Del veicolo riferirà, molti anni dopo, anche «Piero», il testimone di cui abbiamo già accennato in precedenza. Piero è un ex ragazzo di borgata che ha sempre visto svolgersi attorno a sé storie criminali senza lasciarsi coinvolgere. Parla il linguaggio della strada e sa come girano certe cose. Piero racconta di una Gilera 124, la stessa di cui scrissero la Fallaci e Mauro Volterra ripor­ tando le parole di una loro fonte: 99

I. D isegno di morte

«Dì, ma qui non si vedono più quelli che hanno la motoci­ cletta?» «Chi ce l’ha la motocicletta?» «Vuoi dire la Gilera 124? Quella ce l’ha il Roscio».14 Ma il «Roscio», secondo Piero, ha un nome e cognome precisi: «È Mimmo. Mimmo D’Innocenzo. Lui frequentava la stessa bisca di Pelosi e gli altri e aveva impicci pe’ droga. Gli pre­ sero la moto per qualche motivo, forse c’aveva un debito, non lo so bene e non so nemmeno da dove l’avesse presa, ma era la sua quella moto, gliela fecero ritrovare poi davanti a un fioraro sulla Tiburtina. Poi qualche anno dopo lo ‘suici­ darono’, lo trovarono morto per overdose in una macchina sul Lungotevere [D’Innocenzo morirà nel 1979, N.d.A.]» . Secondo Piero, Mimmo (Domenico) faceva troppe do­ mande sull’uso fatto di quella moto.

Nuovi e vecchi testimoni Un altro elemento di questa storia è ormai evidente: all’I­ droscalo qualcuno ha taciuto per molto tempo. Il 31 maggio 2010, il giornalista Claudio Marincola raccoglie sulle pagine del Messaggero le parole di un testimone che svela come molte persone abbiano avuto paura di rivelare ciò che ave­ vano visto la notte del delitto: In tanti videro e sentirono cosa accadde quella notte del no­ vembre 1975. Lo videro grazie ai fari di un’altra auto che illuminò la scena del delitto. E sentirono perché sarebbe stato impossibile tapparsi le orecchie e non udire lo strazio di Pasolini. 100

6. U n massacro tribale

E poi: Pasolini è morto davanti a tutti, ci fu anche chi quella notte prima dell’arrivo della polizia andò lì a vedere il cadavere.

Più avanti il giornalista riferisce le parole di un altro testi­ mone, Ottavio M., di cui dopo si verrà a sapere il nome: Ero piccolo ma l’ho sempre saputo. Se ne parlava in casa. So come si svolsero i fatti anche se all’epoca ero solo un bam­ bino. [...] Alfredo e Maria [Alfredo Principessa e Maria Lollobrigida, la famiglia che chiamò la polizia la mattina del 2 novembre, N.d.A.] quella notte avevano dormito all’Idro­ scalo. Sentirono Pasolini invocare aiuto e uscirono per ve­ dere cosa stava accadendo.

Il testimone è il nipote di quell’Ennio Salvitti intervistato al tempo da Furio Colombo. L’uomo racconta, dunque, che Alfredo e Maria sentirono gridare aiuto e che uscirono a con­ trollare: al contrario di quanto dichiarato dalla stessa coppia nei verbali e ai cronisti negli anni. Poi interviene anche lo zio di Ottavio, che sarà uno dei nuovi teste, il quale ricorda: Quella notte ci fu una caciara infernale. Non potevano non sentire. Pasolini affittava una casetta per portarci i ragazzi. Mio padre [Ennio, N.d.A.] mi ha sempre detto di aver raccontato anche questo. Sono cose che tutti sapevano. Mi disse anche che di auto qui all’Idroscalo quella notte ne arrivarono altre.

L’esistenza di una baracca in uso allo scrittore all’Idroscalo è una di quelle voci, mai confermate da riscontri, che hanno sempre trovato corda in alcune ricostruzioni. Esiste però una foto che riguarda un pied-à-terre utilizzato dallo scrittore al Lido di Ostia, non all’Idroscalo, notizia mai smentita. Ripro­ duciamo qui la foto che il quotidiano II Tempo (sempre molto informato al riguardo) pubblicò il 4 novembre 1975: 101

I. D isegno di morte

Una schiera di nipoti, cugini e zii, dunque, accomunati dal timore di rappresaglie da parte di qualcuno; accumunati dal timore di tradire vecchie amicizie o far emergere storie passate di tradimenti; accomunati dal timore inoltre di veder demolite le loro case costruite sul fango (cosa che avverrà comunque di lì a breve): baracche senza acqua o telefono. Timore ma anche indifferenza: Bisognava arrivare al cantiere navale e svegliare il guardiano. Nessuno lo fece. Pasolini era quello «famoso» ma questo non vuol dire che piacesse a tutti.

Di Ottavio si scoprirà poi la vera identità: Olimpio Marocchi. L’uomo morirà in un incidente stradale sulla via f02

6. Un massacro tribale

Aurelia nel luglio del 2010. In auto con lui c’è Pelosi.15 Una coincidenza, un terribile evento, seppure capitato a pochi mesi da quella testimonianza. E se la perdita del controllo del veicolo fosse stata determinata proprio da una lite furi­ bonda scaturita da quelle dichiarazioni? Troppo difficile stabilirlo al momento. Certo, però, ancora una volta a di­ stanza di anni il destino dell’ex ragazzo del Tiburtino resta imbrigliato nelle maglie di quella notte del novembre 1975. In ogni caso, questo elemento non verrà acquisito negli atti delle nuove indagini, anche solo come notizia attinente alle persone che in qualche modo hanno orbitato nelle scene di quel tempo, per escluderlo o meno come fatto collegato a questa storia. Eppure l’articolo del Messaggero che riporta i racconti de­ gli ex abusivi viene acquisito agli atti e da lì gli investigatori andranno a reperire le nuove testimonianze. Alcuni di loro verranno interrogati qualche mese dopo l’uscita della notizia sul quotidiano e finalmente tutta l’efferatezza del massacro verrà fuori.

Le testimonianze di Anna e Domenico Salvitti Le nuove dichiarazioni dei Salvitti non si fermano a quelle di Olimpio. Anna, figlia del pescatore Ennio e sorella della ma­ dre di Olimpio, riferirà, ad esempio, di aver sentito, dall’in­ terno dell’abitazione in cui si trovava, intorno a 00.30 del 2 novembre: il rumore di un’autovettura che sopraggiungeva a forte ve­ locità che frenando bruscamente arrestava la sua marcia.16

La testimone sente anche le voci di più persone che discu­ tono animatamente. A quel punto un’autovettura, secondo 103

I. D isegno di morte

la sua ricostruzione, accelera di nuovo bruscamente e subito dopo lei percepisce un forte tonfo mentre qualcuno grida: «aiuto, aiuto». La donna coglie per due volte questa improv­ visa accelerata e insieme il rumore sordo di una macchina che incontra un ostacolo, a cui segue il lamento di chi chiede aiuto per venti-trenta minuti. Questo spiegherebbe che il sormontamento del veicolo sul corpo di Pasolini, da parte di una o più auto, non fu casuale, ma volontario e ripetuto. Il poeta, già in fin di vita in una pozzanghera di sangue e fango, a quel punto non avrà più scampo. Scrivono Calvi e Nino Marazzita in una «memoria» in cui sarà anche confermata la volontà della famiglia di rinunciare a costituirsi parte civile: Tutti sono d’accordo, compresi i periti d’ufficio e compreso il consulente della difesa, che è pressoché impossibile distin­ guere altre gravi lesioni non dovute al sormontamento [...] la constatazione anatomopatologica di una emorragia cerebrale che con certezza non è stata prodotta dal sormontamento. [Riferimento al paragrafo «Le impossibilità di individuare al­ tre lesioni gravi non dovute al sormontamento», N.d.A.].

E sarà proprio la tecnica del sormontamento infatti, come vedremo, a causare volutamente la cancellazione delle le­ sioni e di altre tracce. La signora Anna, dopo il ritrovamento del corpo di Paso­ lini, viene interrogata, intorno alle 8.30-9.00 del mattino, da un poliziotto in borghese a cui riferisce quanto da lei udito la notte precedente. L’agente le chiede persino di riconoscere il cadavere. Ma nessun verbale nel vecchio fascicolo riporta di altre presenze, altri veicoli, tonfi e urla. La teste, che è sicura di quanto afferma, nel 2010 farà presente ai nuovi inquirenti che quanto dichiarato al tempo non venne trascritto in un apposito verbale. Ma è ancora possibile parlare di «errori» o superficialità nelle indagini condotte all’epoca? 104

6. Un massacro tribale

L’altra testimonianza che rafforza le parole di Anna Saivitti è quella del fratello Domenico: Fu mio padre a dirmi che Pasolini fu ucciso nei pressi della sua abitazione [...] ciò avvenne nel dicembre del 1975, cioè un mese dopo l’omicidio. In tale circostanza mio padre mi rac­ contò che nella notte venne svegliato dai forti mmori e grida provenienti dalTesterno. Quindi usciva da casa [...] e notava che nella zona del campetto di calcio vi erano più luci di au­ tovetture, lui mi disse 2-3 macchine e 3-4 persone che stavano litigando. [...] In tale occasione, non sapeva indicare i modelli e marche perché la zona era completamente buia e l’unica fonte di luce era quella prodotta dai fari di dette macchine. [...] Mi raccontava inoltre che la mattina del ritrovamento del cadavere di Pasolini dei poliziotti si erano recati a casa sua per attingere informazioni e in tale circostanza mio padre gli rac­ contava quello che aveva visto e udito quella notte. [...]17

Domenico non sa se queste dichiarazioni furono mai ri­ portate in un verbale. Noi sì: assolutamente no. Sembrerebbe il gioco, ben congeniato, di certe operazioni atte a far scomparire documenti che vanno a ingrossare dos­ sier occulti. A tale proposito, un dossier di questo genere, secondo le parole di una fonte raccolte da chi scrive in un precedente lavoro, esisterebbe davvero: Quello che ti posso confermare è che, oltre al documento che tu cerchi, ci sono una serie di altri documenti che afferiscono, citano o fanno capire che quello che cerchi esiste o, come amano dire, «esiste(va)», in quanto ci si riferiscono direttamente o indirettamente. Il blocco documentale origi­ nale credo sia off-limits per tutti, nel senso che magari starà in una cassetta di sicurezza di qualche illustre sconosciuto ai più, ma non credo che abbiano (e per questo non aiutano) il controllo certo su tutta la documentazione. 105

I. D isegno di morte

Riassumendo per quello che mi è stato dato di sapere: il malloppone ce lo abbiamo noi e ben custodito; copie o documenti che lo raccontano potrebbero essere ancora sparsi perché sfuggiti alla «censura», in quanto' hanno cam­ minato secondo strade non ufficiali e quindi non tracciate all’epoca; quello che si trova formalmente è quello che si vuol far trovare (ma anche qui qualche dubbio sull’accurata pulizia dei faldoni lo hanno); chi ne ha riferito lo descrive come un blocco documentale in cui sono raccolti atti e ma­ teriale compromettente. Sarebbe stato occultato in modo tale che il contenuto perdesse l’evidenza e l’importanza nel tem po.18

Insomma mescolare le carte, far perdere le tracce e ap­ punto le evidenze (parola usata anche da Pasolini nella citata intervista di Colombo del primo novembre 1975) e rendere tutto poco chiaro. Eppure la procura si pronuncerà così nella richiesta di ar­ chiviazione, nonostante le dinamiche rilevanti riferite dai figli del pescatore: Si tratta di dichiarazioni [quelle di Domenico Salvitti, N.d.A.] che non collimano con quelle della sorella, la quale, come detto, ha riferito che il padre quella notte era fuori a pescare e non a casa a dormire.

Al contrario, come appare evidente da quanto appena ri­ portato, si tratta di una dinamica sostanziale e vivida, pro­ veniente da testimoni diretti, riferita a quella notte, che ri­ balta la versione ufficiale ritenuta valida sin qui a dispetto dell’archiviazione. Ciò che differiva fra le due testimonianze poteva chiarirsi in sede di confronto. A questo proposito, ci sono anche le parole di una fonte, di cui per ovvie ragioni non possiamo riportare il nome. Un personaggio molto attendibile, inserito nell’ambiente della 106

6. U n massacro tribale

criminalità del tempo, che riferisce della presenza di molte persone quella notte e spiega anche perché: D: «Insomma in tredici per ammazzare Pasolini, ma per­ ché?» R: «Sì Almeno tredici... c’aveveno pauraaa.. oh ma era un brutto pesce, eh, Pasolini... c’avevano paura de lui, guarda che era spigoloso, in sei so quelli che l’hanno ammazzato però c’era un’altra macchina».19

Tredici persone, racconta la fonte, perché Pasolini era insieme temuto e rispettato, un rispetto (lo stesso che ha dichiarato di avere anche Pierluigi Concutelli, l’ex coman­ dante militare del Movimento Politico Ordine Nuovo,20 nell’ultima intervista rilasciata a chi scrive) che però non lo ha salvato dal massacro, dal massacro tribale. La fonte spiega perché con queste parole: Incuteva timore e portava rispetto e quando te faceva male era il primo a preoccupasse.

Alla nostra perplessità suscitata da questa minima spiega­ zione la fonte si altera e ribadisce: In sei so quelli che l’hanno ammazzato, però se prevede che c’era un’altra macchina. Perché l’hanno lasciata sulla Tiburtina?

È quel rispetto guadagnato da Pasolini «sul campo», sia fisico, per la sua passione per lo sport e la lotta, che critico e artistico. Lo stesso campo in cui si gettava in prima persona per raccogliere i fatti e collegare contesti, i quali sapeva poi esprimere nei suoi scritti e nei suoi interventi con la forza espressiva e la lungimiranza dell’intellettuale.

107

I. D isegno di morte

L’uomo con la barba Insieme alla comparsa della moto e di due macchine, dal 2008 fa anche capolino «l’uomo con la barba»: sui quarantanni, qualcuno che ha il polso della situazione e che minaccia «Pelosino» se non obbedisce alla regola dell’omertà. Nel video documentario firmato da Roberta Torre,21 l’ex ragazzo del Tiburtino riferisce per la prima volta delle minacce subite in carcere dall’uomo, come poi ripeterà a Veltroni nel 2011. Nell’intervista a Pelosi realizzata da chi scrive e da una collega,22 però, le domande sull’«uomo con la barba» si sono rivelate fondamentali per cominciare a capire come l’azione di più livelli e dunque la presenza congeniata di più persone sul luogo per mettere a segno il massacro fossero state deter­ minanti. In particolare, Pelosi dirà: Confermo di essere stato minacciato dall’uomo con la barba che mi ha gettato l’anello sul posto e mi ha detto di inven­ tarmi la versione. I due picchiatori non li ho visti bene, ma erano più giovani del «barbone» che all’epoca aveva quarant’anni. Quell’uomo era più importante dei picchiatori, gestiva tutto. Certo potrebbe appartenere all’altro livello.23

Nell’arco dell’intervista, Pelosi evidenzia anche il ruolo dei due «picchiatori» di cui sviscereremo meglio i tratti' più avanti. Intanto, percorriamo la parte del pestaggio, che av­ viene in due tempi, con la perizia del professor Francesco Durante: L’ipotesi dell’uso di altri mezzi contusivi si prospetta, poi, con maggiore interesse, là dove si tengano presenti alcuni elementi di sopralluogo: il punto di rinvenimento della ca­ micia di Pasolini (a circa 70 metri dal corpo), la disposizione delle macchie di sangue sulla camicia dello stesso, l’integrità 108

6. U n MASSACRO TRIBALE

di tale indumento, il luogo dove fu usata la tavoletta, e il luogo dove fu usato il bastone [...] Pasolini in un primo mo­ mento, e in un luogo situato a circa 70 metri dalla definitiva caduta del corpo, fu violentemente ferito al capo e le ferite sanguinarono abbondantemente. [...] in quella prima fase non fu usata la tavoletta la quale era sul cancello del Buttinelli a circa 70 metri di distanza [...], quindi fu usata nella seconda fase dell’aggressione.

Qui non si tratta solo di istinto di sopravvivenza: per fug­ gire Pasolini non poteva certamente essere già in uno stato di emorragia cerebrale, la fase dell’aggressione più cruenta, no­ nostante tutto, ancora doveva verificarsi. Si tratta di una delle evidenze che convinceranno il giudice di primo grado, Al­ fredo Carlo Moro, a concludere con il «concorso con ignoti» il verdetto di complicità per Pino Pelosi. Dopo il pestaggio inizia la seconda aggressione, il se­ condo tempo, prima del sormontamento, quando il poeta riesce a fuggire percorrendo tra i settanta e i novanta metri asciugandosi le ferite con la propria camicia. Poi viene rag­ giunto da un ferocissimo calcio ai testicoli: «è da precisare che si trattò di un così violento trauma da determinare una infiltrazione di sangue anche nei tessuti profondi». Così en­ trambe le perizie d’ufficio e di parte civile hanno riscontrato. Le tavolette già spezzate, appartenenti allo steccato di una proprietà abusiva distante pochi metri da dove viene rinve­ nuto il corpo, saranno quelle che in parte finiranno di pro­ durre le ferite al volto. E qui, infine, che l’altro frammento di racconto di Cittì va a incastrarsi: Pasolini avrebbe finto di essere morto per tentare di sfuggire ai suoi carnefici che invece gli passeranno sopra. Laddove più di un testimone (Pelosi, il pescatore Salvitti e i figli di questi, come abbiamo letto nel confronto delle loro testimonianze) lo sentirà ur­ lare: «Mamma, aiuto, mi ammazzano».

109

Parte seconda

LO SCHEMA PERFETTO [Per] il rapimento di un magistrato occorre un apparato criminale immensa­ mente più raffinato: e inoltre occorre almeno l’intervento della CIA. Le madonne oggi non piangono più, in Lettere luterane, 5 giugno 1975

Capitolo settimo

La mano dell’intelligence

Lo stragismo è logica bellica al servizio difinalità politiche per nulla oscure: il condizionamento della vita democratica dim a nazione, il mantenimento del potere nelle mani degli apparati più reazionari, la lotta politica concepita come scontro senza quartiere e improntata al ricatto del terrore. Intervista di Diego Cimara (TGl) a Pasolini

Una strategia precisa «Se non trovano niente nei primi dieci giorni non scopri­ ranno più la verità».1 Così confidava l’ambiguo editore di destra infiltrato a sinistra,2 Giovanni Ventura, all’amico Guido Lorenzon nei giorni di poco successivi alla strage di Piazza Fontana del 1969. Nel 1975, il procedimento giudi­ ziario sulla strage, quello che vedrà insieme anarchici e fa­ scisti alla sbarra, che si stava svolgendo a Catanzaro già dal 1972, era argomento attualissimo. Lo rimase e lo è tuttora, in realtà: l’ultima archiviazione al riguardo è avvenuta a settem­ bre del 2013. Ventura è un personaggio che ha fatto della sua ambiguità politica, a metà fra clerico-fascismo e socialismo marxista, probabilmente in parte genuina, la caratteristica perfetta per essere attirato tra le fila del SID (il vecchio ser­ vizio di sicurezza italiano attivo dal 1966 al 1977) e del mo­ vimento Ordine Nuovo capeggiato da Pino Rauti.3 La mas­ sima espressa all’amico Lorenzon è il leitmotiv che racconta il metodo ormai collaudato negli episodi di stragi, delitti o finti suicidi dell’Italia fra la Prima e la Seconda Repubblica. Un metodo trasferito da strutture atlantiche internazionali

II. LO SCHEMA PERFETTO

in Italia, nel corso degli anni della destabilizzazione, per me­ scolare le carte e dare al tutto un quadro di apparente logica, impedendo così che le verità giudiziarie arrivino a delle cer­ tezze. La logica della infiltrazione a destra come a sinistra, dunque, con effetti, ruoli e circostanze assolutamente diffe­ renti fra loro, che produrrà terrore e sangue. Il massacro di Pier Paolo Pasolini sembrerebbe veder ripetere questo modello.4 Qui i livelli coinvolti, infatti, hanno agito l’uno all’insaputa dell’altro. La manovalanza e la criminalità da un lato; certi «piccoli» picchiatori incon­ sapevoli dall’altro; chi ha richiesto la «commissione» e, in mezzo, l’azione di professionisti del pestaggio: i picchiatori «grandi». Non necessariamente ciascun partecipante deve conoscere l’identità precisa dell’altro o il ruolo che questi ri­ copre. Rubare delle pellicole perché richiesto da qualcuno, ad esempio, può rientrare nel semplice interesse del guada­ gno economico, oppure nel desiderio di dare una lezione al «frocio». Far tacere una volta per tutte «il comunista che si divertiva con i ragazzini» può aver smosso la rabbia per sé stessi fino ad accettare di spostarsi a Roma. Il balordo della strada non chiede il perché, non gli interessa e obbedisce a chi commissiona l’azione intascando quanto pattuito. E ancora: non per forza il livello più alto sarà a conoscenza dell’identità, la stessa sera, di tutti gli attori in campo. Basta che quanto ordito vada a termine lasciando che le cointe­ ressenze di tutti agiscano da sole e che il caos copra ogni elemento rilevante quando le indagini avranno inizio: chi ha reclutato la bassa manovalanza sa il fatto suo. I tre uomini adulti che, nell’auto del tutto uguale a quella dello scrittore, senza lasciare traccia e segni sul corpo del poeta, porte­ ranno a termine il «lavoro» finale sormontandolo più volte, non dovranno necessariamente sapere chi sono i «pesci pic­ coli». E quest’ultima l’azione che richiede più attenzione e precisione. I picchiatori adulti, infine (ne conosceremo poi 114

7. L a mano dellìntelligence

il numero esatto), sanno che andrà tutto come previsto e che ci sarà qualcuno che li coprirà per sempre, in quanto avrà osservato l’intera operazione. Ecco perché lo spiazzo sterrato di Ostia quella notte era così affollato. In questo schema rientra anche la comparsa di personaggi interni all’Arma, visti quella notte dall’ultimo testimone oculare vivente, e il finto arresto inscenato dopo la «fuga» del minorenne Pelosi. Tutto convoglia per confondere le di­ namiche, gli obiettivi e i mezzi con i quali si portano a ter­ mine determinate operazioni. Uno schema così complesso per ammazzare uno scrittore, un intellettuale? «Un doppio livello è possibile, verosimile, ma non può essere dimostrato in sede giudiziaria»5 ammet­ terà, a suo modo, a chi scrive l’ex «comandante» Pierluigi Concutelli. È la prima volta che l’ex ordinovista parla di quel fatto, pur mantenendo il suo ruolo di non delatore e uomo fedele alla «causa rivoluzionaria», dopo anni dall’u­ scita del film di Marco Tullio Giordana. Ma per arrivare a dimostrare questo «schema» è necessa­ rio prendere le mosse da elementi solo apparentemente di­ stanti, che partono dal livello più basso, dalla manovalanza, e da alcune «doppie presenze» che nessuno ha mai appro­ fondito o svelato, a cominciare dagli investigatori del tempo.

La doppia Alfa G T Per capire meglio quanto appena scritto è bene ricordare che la macchina di Pasolini, dopo il delitto, rimarrà sotto una tettoia nel cortile di un garage, aperta e senza sorve­ glianza, dalla domenica del ritrovamento del corpo fino al giovedì successivo. L’importanza che avrebbe potuto rive­ stire l’auto dello scrittore è tutta raccolta in queste poche considerazioni dell’ex generale Garofano:6 115

II. LO SCHEMA PERFETTO

L’Alfa è molto più che un semplice filo conduttore. Per prima cosa, l’auto è a sua volta una scena del delitto, un teatro nel teatro. È nell’interno dell’abitacolo che si apre e si chiude la vicenda. [...] Immaginate la quantità di tracce che possiamo desumere da un ambiente così piccolo e che - in parte - già allora si potevano individuare, anche perché l’auto era stata pulita da cima a fondo poche ore prima dell’omicidio.

Garofano, nell’intervista appena citata, riferisce anche delle difficoltà in cui è incorso quando nel 2010, a inizio in­ dagini, fu chiamato come consulente da Guido Calvi ad assi­ stere alle azioni peritali: Sino a quando era presente l’avvocato Calvi svolgemmo delle riunioni per decidere come affrontare il caso e parteci­ pammo ai primi rilievi e alle prime ispezioni fatte dal RIS di Roma sulle tavolette di legno, presenti tra i reperti e i corpi di reato custoditi sino ad allora dal Museo Criminologico di Roma. Purtroppo dopo l’avvicendamento del legale, non riuscimmo più a interloquire con il nuovo avvocato e dun­ que anche a seguire l’attività investigativa svolta successiva­ mente e i risultati degli esami effettuati dal RIS. Non riu­ scimmo insomma a proseguire nelle indagini.

Nella richiesta di archiviazione inviata al gip dalla Pro­ cura di Roma, nel 2015, vi è un riferimento al veicolo che vale la pena riportare per intero, perché messo in dubbio da più parti nel corso degli anni: Allo stesso modo non è stato possibile analizzare il veicolo del poeta, a bordo del quale dopo l’omicidio è stato fermato il Pelosi, in quanto demolito intorno ai primi anni ’80, a cura dell’autodemolitore Rozzi Agostino su incarico della cugina di Pasolini, Chiarcossi Maria Grazia, veicolo portato presso il centro specializzato da Davoli Ninetto.7

Un gesto inspiegabile, quello della demolizione dell’auto, restituita alla famiglia nel 1981. Si trattava infatti di un corpo 116

7. L a mano dell’intelligence

di reato, anche se dissequestrato, al cui interno erano state rilevate alcune macchie rossastre. Nessuno ne ha chiesto mai conto, malgrado la sua importanza sia stata sottolineata dalla stessa procura. Eppure era stato proprio Davoli a parlare di «omicidio diverso».8 Nel 2010 avviene però un colpo di scena. Si inizia a parlare di una seconda macchina uguale a quella di Pasolini, un’altra Alfa GT 2000. Silvio Parrello, «er Pecetto», dal nomignolo affidatogli dallo scrittore nel romanzo Ragazzi di vita,9 riferi­ sce di alcune conversazioni avute con gli abitanti del quartiere di Monteverde nuovo, in particolare della zona di via Donna Olimpia. Riporta di essere venuto in contatto con il carrozziere Luciano Ciancabilla, tramite un altro abitante della zona. Que­ sti riferisce a Pecetto la testimonianza del Ciancabilla al quale, il giorno dopo l’omicidio, tale Antonio Pinna, noto personag­ gio in odore di criminalità, aveva portato a riparare la mac­ china con cui era stato ucciso Pasolini. Pecetto si accerta della cosa andando direttamente alla fonte, il Ciancabilla, che con­ ferma. Ed è ciò che riferirà nella sue deposizioni di fronte al magistrato. Queste deposizioni avranno validità investigativa: i fatti riferiti troveranno in parte riscontro e gli inquirenti svi­ lupperanno la «pista Pinna» non trovando però elementi con­ sistenti secondo quanto riferisce la richiesta di archiviazione: Secondo quanto accertato il Pinna faceva parte della co­ siddetta Banda dei marsigliesi. Il Pinna risulta essere scom­ parso in circostanze misteriose il giorno 16 febbraio 1976 [...]. La sua autovettura (Alfa Romeo 1750 di colore ama­ ranto) è stata ritrovata presso l’aeroporto di Fiumicino il 16 aprile 1976 regolarmente chiusa a chiave. [...] Alla luce delle attività svolte in merito al coinvolgimento di Pinna An­ tonio - formalmente deceduto - va evidenziato che vi sono esclusivamente le dichiarazioni, rese a distanza di circa 35 anni dall’omicidio, delle persone sopra citate, il cui tenore è frutto [... ] di supposizioni, convinzioni e deduzioni [...]. 117

II. Lo SCHEMA PERFETTO

Il racconto di Parrello coinvolge però anche un altro carrozziere a cui si sarebbe rivolto Pinna in un primo mo­ mento: Marcello Sperati, il quale si sarebbe rifiutato di ripa­ rare l’auto perché sporca, oltre che di fango, di sangue. Spe­ rati, nel racconto dell’ex ragazzo di borgata, non specifica il modello della macchina, ma aggiunge che su quel veicolo avrebbero viaggiato i quattro uomini che poi hanno messo fine alla vita dello scrittore. Riferisce Parrello: Marcello mi disse che la sera dell’omicidio erano in quat­ tro nella macchina che uccise Pasolini, di cui tre erano morti ed uno era ancora in vita [...]. Lo Sperati mi ha confer­ mato tutte queste cose in una occasione nell’estate del 2008 quando ci siamo visti al mare a Fiumicino.

L’Alfa G T 2000 uguale a quella di Pasolini non è comun­ que intestata a Pinna. Gli inquirenti, a quel punto, fanno alcuni accertamenti, ricostruiscono le amicizie dell’uomo e anche una parte del suo percorso criminale. Si scopre che nei confronti di Pinna, conosciuto anche come «Nino er meccanico», l’ex giudice Ferdinando Imposimato (il quale per un certo periodo aveva indagato insieme al giudice Vittorio Occorsio sui legami fra i rapimenti eccellenti eseguiti dai Marsigliesi, la destra eversiva e la massoneria) ha emesso un mandato di cattura per asso­ ciazione a delinquere. Il provvedimento, seguito da un ulte­ riore ordine di carcerazione da parte della Procura Generale di Roma, non verrà più eseguito perché nel 1990 la Squadra Mobile della capitale riscontra )a morte presunta10 dell’uomo attraverso una sentenza emessa dal Tribunale Civile e Penale di Roma nel 1988. Fra l’ordine di carcerazione e il verbale della Squadra Mobile trascorrono sei anni. Sei anni per ac­ certare una morte presunta (il corpo non sarà mai ritrovato): la data formale del decesso resta, infatti, quella della scom­ parsa, avvenuta il 16 febbraio 1976, due giorni dopo l’arresto 118

7. L a mano dellìntelligence

dei Borsellino e successivamente all’ultimo rapimento della banda delle tre belve - Berenguer, Bergamelli e Bellicini meglio noti come quelli del clan dei Marsigliesi. La scomparsa di Pinna sarà denunciata dalla stessa moglie il 17 febbraio. Ciò che colpisce subito, leggendo le nuove carte, è come il carrozziere Sperati, un tempo anche socio di «Nino er meccanico», abbia in un primo momento negato l’episodio dell’auto e il fatto che si sia rifiutato di ripararla. Gli inquirenti lo ascolteranno di nuovo dopo che lo stesso comparirà davanti alle telecamere di Chi l’ha visto? e, a viso oscurato, ripeterà al giornalista Valter Rizzo quanto riferito a Parrello. Sarà proprio quest’ultimo a confermarne l’identità: così Sperati sarà costretto, questa volta davanti ai pubblici ufficiali, a dire la verità.11 La testimonianza di Parrello, dun­ que, è stata fondamentale per approfondire alcuni fatti, seb­ bene la pista in sé sia stata poi abbandonata, come vedremo. Ma è tra le carte acquisite in queste indagini che emerge un dato importante e nuovo. Quando nel 1976 viene ritro­ vata l’Alfa Romeo 1750 all’aeroporto di Fiumicino, la moglie di Pinna dichiara: Io sono proprietaria di una A.R. 2000 e di una Fiat 500. Per essere più precisa l’Alfa Romeo 2000 che tenevo nel salone

«Tuttauto» di Monteverde è stata venduta una settimana fa perla somma di lire 1.800.000.12

La famiglia Pinna dunque disponeva anche di un’Alfa 2000 venduta dopo qualche mese dal massacro di Pasolini. Eppure il processo verbale è stato acquisito dalla procura, la quale però ritiene non ci siano «elementi tali da poter procedere». Antonio Pinna era proprietario di numerosi veicoli e mo­ toveicoli, non tutti intestati a lui, la cui vendita veniva fatta gestire dall’autosalone «Tuttauto» di Monteverde e le inda­ gini su provenienze e percorsi di questi veicoli, come si evince dalla lettura, sono presenti tra le carte. Emerge che l’uomo* 119

II. LO SCHEMA PERFETTO

aveva partecipato a una serie di rapimenti eccellenti portati a termine dai Marsigliesi, alcuni dei quali hanno coinvolto anche nomi importanti dell’imprenditoria e dell’industria italiane in odore di P2. E qualcuno, forse, a un certo punto ha pensato che Pinna potesse raccontare quello che sapeva, perché, sempre nelle carte acquisite, si fa riferimento a un bi­ glietto scritto di proprio pugno in cui egli affermava questa intenzione. La scomparsa misteriosa dell’uomo è stata fatta risalire, da alcune cronache del tempo, alla mancata volontà di partecipare al sequestro della figlia di un industriale, Ma­ rina D ’Alessio, rapita dalla banda marsigliese il 12 febbraio 1976. Pinna, secondo le fonti del quotidiano: «non avrebbe partecipato al sequestro perché colto da un improvviso be­ nessere dopo uno degli ultimi rapimenti».13 Il rapporto che intercorreva fra l’uomo dei Marsigliesi e Pier Paolo Pasolini lo spiegano queste parole: Je faceva da autista: era un bel manico [sapeva guidare molto bene, N.d.A.] e gli raccontava i fatti perché quando staveno in macchina parlaveno. Lui se vantava capito? Perché poi lui [Pasolini, N.d.A.] quando cominciò a frequentà qua [Monte­ verde N.d.A.], ce lo portò er Pinna, c’aveva la carrozzeria qua che lui era un grosso preparatore de macchine. I servizi c’en­ trano dalla testa ai piedi con la sparizione de Pinna.14 Antonio Pinna è stato dunque il confidente di Pasolini: è lui che conduce lo scrittore nei luoghi che gli interessano per gli approfondimenti alle sue indagini. E lui che lo metterebbe a conoscenza di ciò che lega i rapimenti che si succedono a Roma in quel periodo e i centri di potere che si celano fra estrema destra e massoneria deviata: parte dell’indagine che Pasolini avrebbe potuto convogliare nel lungo romanzo-verità mai terminato, Vetrolio. La P2 era ancora sconosciuta all’opi­ nione pubblica: quel nuovo potere (di cui Eugenio Cefis, ex presidente della Montedison, era primo detentore allora) che 120

7. L a mano dell’intelligence

unisce diverse organizzazioni criminali e che attira a sé chi siede nei più alti scranni della politica, la magistratura e non troppo raramente le istituzioni. Ma torniamo all’auto. Un ulteriore elemento che riguarda l’ambigua dinamica dell’Alfa 2000 di Pasolini è racchiuso in quel denso, ultimo racconto reso da Citti a Calvi nel 2005, di cui qui spargiamo gli elementi più significativi: Calvi: «È vero che la polizia chiamò alle tre di notte, prima che Pasolini fosse identificato, dicendo che la macchina era stata ritrovata abbandonata sulla Tiburtina?» Citti: «Si, è vero lo ha dichiarato più volte Graziella [Chiarcossi, N.d.Ai] che la polizia le disse che alle tre di notte l’auto di Pasolini era stata ritrovata sulla via Tiburtina. Se­ condo me Pasolini doveva essere ammazzato sulla Tibur­ tina, poi non so perché hanno cambiato programma».

Nel vecchio fascicolo processuale non esiste traccia di que­ sta presunta testimonianza della Chiarcossi, né sui giornali del tempo vi si fa riferimento. Anche il verbale sarebbe sparito nel dossier occultato di cui abbiamo già parlato? Il riferimento al ritrovamento sulla Tiburtina, come può verificare il lettore stesso scorrendo indietro di qualche pagina, è stato fatto an­ che dalla fonte inserita al tempo nell’assetto criminale.

Laltro doppio: le due Fiat 850 coupé I «doppi» in questa storia sembrano seguire l’uno dopo l’al­ tro. Mai fino ad ora, infatti, era emersa la presenza di un’al­ tra auto in uso a Pelosi. Una Fiat coupé di colore azzurro acceso, utilizzata da «Pelosino» e dai suoi amici, spunta pro­ prio dalle carte degli inquirenti che, per conto della Procura di Roma, dal 2010 andranno a sondare anche le persone che frequentavano la sala da ballo in cui gli amici di piazza Win121

II. LO SCHEMA PERFETTO

ckelmann, nel quartiere nomentano della capitale, si incon­ travano. Così come ascolteranno gli abituali frequentatori delle diverse bische in cui si riunivano il gruppo dell’INACasa e quello di piazza Bologna. Seminara, Deidda, De Stefanis e Pelosino, dunque, ma anche i loro compagni di furti e avventure. In questa storia era già comparsa una Fiat 850 coupé, ma di colore bianco latte, fatta sequestrare dall’allora magistrato dopo che, dal racconto di uno dei tre ex sodali di Pelosi - Seminara - , era affiorato il particolare dell’auto in uso a Pelosi stesso, di provenienza illecita. Sul veicolo, ver­ ranno svolti i rilievi tecnici necessari e contemporaneamente sezionati gli oggetti rinvenuti. L’auto risulterà «pulita»: non saranno presenti né tracce di terriccio corrispondente ai luo­ ghi dell’Idroscalo, né tanto meno tracce ematiche. Ma questo, secondo l’approfondito lavoro investigativo degli inquirenti, è doveroso sottolinearlo, sembrerebbe essere stato lo stratagemma in base al quale la macchina di colore

Foto inedita del veicolo sequestrato a Pelosi dal magistrato della procura minorile. Fascicolo n. 1466/75.

122

7. L a mano dellìntelligence

azzurro è stata sostituita con quella di colore bianco, ufficial­ mente sequestrata dal magistrato. Scrivono infatti gli ufficiali: L’esito negativo degli accertamenti effettuati sul veicolo in argomento [la macchina di colore bianco, N.d.A.] aveva fu­ gato ogni dubbio sull’eventuale coinvolgimento dei tre amici di Pelosi [Seminara, Deidda e De Stefanis] nell’omicidio.

Queste note sono sottolineate e rese in grassetto nei rap­ porti alla procura e inserite nella ricostruzione dell’inganno nel quale il magistrato al tempo cadde.15Le testimonianze dei tre ex sodali di allora avevano, secondo le indagini dei nuovi inquirenti, in animo di nascondere l’esistenza dell’altra Fiat 850 coupé di colore azzurro, in cui erano probabilmente pre­ senti tracce dell’omicidio. Forse a questo punto, e qui però si tratta di deduzioni legittime di chi scrive, viene da pensare che la macchina contenesse gli altri oggetti contundenti. Tutti i testimoni che gravitano intorno a Pelosi in quel tempo confermano che il colore dell’auto a lui in uso è di co­ lore azzurro o scura. Tutti a eccezione di un’unica persona che riferisce di averlo visto sempre girare con la Fiat 850 bianca. Sono le testimonianze di Seminara e Deidda, rila­ sciate al sostituto procuratore Giunta nel novembre del 1975 e di cui in parte abbiamo già riferito sopra, a far entrare nella vicenda giudiziaria l’auto bianca per non farla più uscire: [...] a bordo della macchina Fiat 850 coupé di colore bianco di proprietà del Pelosi, siamo andati al centro per fare un giro e ci siamo fermati a Piazza dei Cinquecento.16

La precisazione avviene perché il racconto del 3 novem­ bre cade in contraddizione con uno degli altri due. Lo scambio fra le due auto è fondamentale poiché riesce a camuffare una volta ancora l’esatto compiersi degli eventi: 123

II. LO SCHEMA PERFETTO

nell’aprile del 1975 Pelosi e alcuni suoi amici, come indicato tra le risultanze degli accertamenti investigativi svolti, com­ piono un furto. Una Fiat 850 coupé targata Roma 880837 di colore blu. «Pelosino» acquisterà poi un’altra macchina in co-proprietà con uno dei suoi sodali (Seminara) nel luglio del 1975: sempre una Fiat 850 coupé ma, appunto, di colore bianco. Nei giorni successivi all’omicidio, i sodali di Pelosi tolgono la refurtiva dal veicolo rubato - per lo più musicas­ sette audio - e la consegnano a un loro amico, trattenendo però il libretto di circolazione. Questo perché quello bianco, sul quale viene apposta la targa dell’auto precedentemente ru­ bata, è il veicolo che deve apparire tra i verbali, pulito, senza tracce, lo stesso veicolo che il magistrato, depistato dalla de­ posizione «improvvisa» di Deidda, farà sequestrare. E come il gioco delle carte in cui a vincere è l’inganno. La carta di circolazione avrebbe potuto far individuare il colore blu della macchina, la prima in possesso del Pelosi. Spa­ rirà così'per sempre e in una sola notte un corpo di reato utile per rinvenire prove o oggetti che avrebbero condotto all’iden­ tificazione di altri colpevoli. Lo strepitare, giusto, di Pelosi ne­ gli anni più recenti contro la stampa o chi si occupa del caso, riguardo alla fine riservata all’Alfa G T 2000 di Pasolini, rottamata dalla famiglia e da Davoli, ha meno ragione d’essere di fronte a questo nuovo stralcio di dinamica. Pelosi dovrebbe spiegare che fine ha fatto quel veicolo e non rispondere blan­ damente come ha fatto davanti al magistrato nel dicembre del 2014. Così viene riferito nella richiesta di archiviazione: Con riguardo alle macchine possedute il giorno dell’omici­ dio [Pelosi, N.d.A.] ha precisato di averne solo una, la-Fiat 850 coupé di colore bianco o celeste, di provenienza illecita alla quale aveva apposto le targhe di altro veicolo.

Nulla verrà evidenziato riguardo al libretto di circola­ zione mancante e al motivo per cui il veicolo di altro colore 124

7. L a mano dellìntelligence

non è mai stato sequestrato o individuato. Così anche la Fiat blu viene inghiottita ancora una volta dal vento di quella notte e, con essa, le probabili tracce di altri complici.

Il vero biondino A questo punto c’è un altro colpo di scena. Facciamo un salto indietro tornando al «biondino» che esegue il sopral­ luogo alla trattoria sull’Ostiense la sera prima della morte di Pasolini. Sarà tale Marco, detto «Sceriffetto», di cui esistono nome e cognome, identificato dai nuovi inquirenti, a scio­ gliere il nodo sulla vera identità del soggetto. Non si tratte­ rebbe, secondo l’uomo, dello «Zingaro» bensì di un «Bion­ dino» conosciuto anche come «Stefanino»; molto probabil­ mente è lui che accompagna i fratelli Borsellino quella notte all’inseguimento di Pasolini e Pelosi. Questo non significa, però, che la partecipazione di Mastini all’omicidio, viste le convergenze delle testimonianze dei collaboratori, quelle dei testimoni e le evidenze emerse sul ruolo che uno come «Lo Zingaro» sembra avesse in certe dinamiche, sia da escludere. Gli inquirenti identificano il «nuovo» Biondino grazie a di­ versi elementi. Intanto, da una scritta che l’uomo ha tatuata sul braccio: «Amo Mamma», un appello all’amore materno presente anche sul blocknote di Pelosi rinvenuto in carcere. Normale segno, questo, della disperazione dei giovani dete­ nuti. Non solo: l’ex appuntato Renzo Sansone, quando va in borgata per scoprire qualcosa di più sui Borsellino e il loro coinvolgimento nell’omicidio, riferisce nel verbale la dina­ mica estrapolata dal racconto dei due fratelli, seppure questi aggiungeranno del piccante alla storia: un’esecuzione pub­ blica eseguita in modo spettacolare così che fosse ben com­ prensibile a tutti il contesto, quello omosessuale e di perver­ sione. Proprio in quel verbale l’appuntato riporta di un uomo 125

II. LO SCHEMA PERFETTO

che avrebbe i connotati del Biondino in questione, tatuaggio compreso, per anni scambiato per Mastini. Tutto questo farà emergere un vasto underground delin­ quenziale («il Roscio» o «il Negro» faranno anche da titolo a uno degli «Appunti» scomparsi, o mai scritti, del romanzo incompiuto Petrolio)11 che si è reso complice, solo in parte consapevolmente, del massacro. Fatto che allarga il campo anche oltre il «territorio» di Pinna.

I soldi sotto il tappetino Ricordate la telefonata di cui parla Citti, quella in cui Pasolini riceve l’assicurazione che gli sarebbero state restituite le pizze rubate? Bene, quel nuovo accordo che prevede un incontro la sera del primo novembre contemplerebbe anche una sorta di «rimborso spese» di entità molto inferiore rispetto ai due mi­ liardi di lire di riscatto inizialmente chiesti al produttore Gri-' maldi. Secondo le istruzioni che Franco Borsellino, «Bracioletta», impartirebbe a Pelosi, Pasolini deve portare con sé tre milioni. Lo scrittore accetta e trasporta la somma nasconden­ dola sotto il tappetino del posto guida. Questo nel racconto dell’«ex Rana». Tra gli oggetti ritrovati nell’auto del poeta, oltre a una serie di numeri telefonici, nomi e appuntamenti, spuntano alcune banconote di vario taglio, in particolare sotto il tappetino. Altre ancora vengono rinvenute nel portaoggetti laterale dello sportello di sinistra.18 Un posto, quello del tap­ petino, davvero insolito; meno insolito quello delle tasche la­ terali in cui spesso lo scrittore inseriva delle monete, quando si recava in borgata, lasciando la portiera dell’auto aperta af­ finché i ragazzi potessero prenderle.19 Leggendo lo stralcio di verbale che riportiamo qui sotto, sembrerebbe che qualcuno abbia lasciato delle banconote sparse nella fretta di portare via il «malloppo». 126

7. La mano dell’intelligence

Foto dell’elenco corpi di reato, busta n. 3257, fascicolo n. 1466/75.

Graziella Chiarcossi e Ninetto Davoli dichiareranno che il poeta non portava mai con sé denaro contante quando usciva, tant e che le due cene al «Pommidoro» e «Al Biondo Tevere» le pagherà con degli assegni (come abbiamo riscon­ trato andando al primo ristorante, dove un assegno di Paso­ lini è affisso tutt’oggi su una parete). E allora perché mettere dei soldi sotto il tappetino, considerando che l’auto è stata pulita dalla Chiarcossi il 31 ottobre, ossia il giorno prima dell’omicidio? Potrebbe essere la conferma delle parole di Pelosi, che racconta di una «piccola» cifra richiesta all’ultimo dai ladri per riconsegnare le pellicole? Nel verbale delle inda­ gini difensive rilasciato a Calvi nel 2003, Sergio Citti riferisce: Dissero che avevano sbagliato. Dissero solo che avevano sba­ gliato e che volevano riconsegnargli le pizze di Salò [senza voler alcun riscatto]. Anzi, ricordo che qualche giorno prima venne da me un ragazzo che io conoscevo [...].

Uno sbaglio «coperto», dunque, da una ben più misera richiesta di denaro, giusto per il disturbo. Il racconto di Citti prosegue poi nominando Sergio Placidi, di cui abbiamo par­ lato nelle pagine precedenti. 127

II. LO SCHEMA PERFETTO

Il 14 febbraio 1976, il secondo gruppo dell’Arma della questura di Monterotondo procede all’arresto di Giuseppe Borsellino. L’ex appuntato Sansone era stato inviato in mis­ sione dal capitano della questura di appartenenza, Giuseppe Gemma, la stessa che arresterà per qualche giorno i due fra­ telli.20 Gemma riferirà in un rapporto di aver ricevuto da una sua fonte una segnalazione specifica sui Borsellino in merito all’omicidio di Pasolini. Sansone, dunque, come evidenziamo qui, non scopre per caso, durante un’indagine, il coinvolgi­ mento dei due, ma si reca appositamente in zona Tiburtino III dove i fratelli vivono e si muovono, in particolare nella bi­ sca di via Diego Angeli, la base del gruppo insieme al circolo MSI della zona. Non l’unica. L’intento dell’ex appuntato è quello di carpire informazioni ben precise. Il magistrato che raccoglie la testimonianza di Gemma e Sansone non chiede chi fosse la fonte dell’iniziale segnalazione: è innegabile che si tratti di una leggerezza d’indagine che va oltre qualsiasi tutela della fonte.

Verbale della Polizia Giudiziaria del 16 febbraio 1976.

128

7. L a mano dell ’intelligence

Il Tiburtino descritto da Pasolini nel libro Una vita vio­ lenta,21 a fine anni ’60, «con le sue file tutte uguali di lotti, come magazzini, che avevano una facciata bianca illuminata dal sole, e l’altra in ombra nera», non era molto diverso da quello frequentato e vissuto dagli amici di Pelosi nel 1975. Circoli e bische a parte, che cominceranno a proliferare du­ rante i cosiddetti anni di piombo. Ma torniamo al fermo di Borsellino. Questa prima infor­ mativa che pubblichiamo termina con una raccomandazione particolare: quella di non divulgare l’arresto agli organi di stampa. Decisione non comprensibile, che si arricchisce di maggiore stranezza se si considera che i due fratelli verranno rilasciati qualche giorno dopo, il 16 febbraio, quando scom­ pare per sempre dalle scene Antonio Pinna. Non solo: un’altra informativa parla di una refurtiva se­ questrata in casa dei due fratelli del Tiburtino III, del valore di circa tre milioni di lire: la stessa cifra che Pasolini avrebbe portato con sé quella notte per lo scambio finale con il ma­ teriale cinematografico. Forse una coincidenza o forse solo l’ennesimo elemento sul quale non si è approfondito.

Verbale della Polizia Giudiziaria del 14 febbraio 1976.

129

II. LO SCHEMA PERFETTO

Queste due note, di cui abbiamo pubblicato gli originali, non sono presenti nel fascicolo numero 1466/75: erano for­ tunatamente in possesso dell’avvocato Guido Calvi, che le ha consegnate a chi scrive e alla collega che le aveva raccolte per il precedente lavoro d’inchiesta.22 U n’altra manipola­ zione sulle carte attuata per disperdere le evidenze.

Pelosi e il finto arresto Quando il corpo di Pier Paolo Pasolini viene rinvenuto alle 6.30 del mattino, Pelosi si trova ormai a Casal del Marmo, dove sta per confessare l’omicidio a un suo compagno di cella, rafforzando così, sin da subito, la successiva ammis­ sione ufficiale. La ricostruzione formale riguardo l’arresto, mai messa in discussione, parla di una macchina che sfrec­ cia in contromano sul Lungomare di Ostia: «alla guida di un’Alfa Romeo GT 2000 grigia metallizzata targata K69996». Pelosi confessa all’inizio solo il furto dell’auto. Lo fermano, raccontano i verbali, all’1.30 del mattino. A far già scricchiolare la storia dell’arresto sono le parole, riportate a verbale, di Ninetto Davoli che dichiara: Questa mattina [2 novembre, N.d.A.] ore 7.30, ho ricevuto nella mia abitazione una telefonata da parte della nipote del Pasolini, con lui convivente, in via Eufrate n. 9, di nome Graziella. La stessa mi ha fatto presente che Pier Paolo non si era ritirato a casa e che lei verso le 1.30 era stata svegliata da alcuni carabinieri i quali avevano detto di aver ritrovato l’autovettura Alfa Romeo di Pier Paolo.25I I verbali dei carabinieri che avrebbero arrestato Pelosi sul lungomare Duilio di Ostia confermano tutti l’orario del fermo. Anche il rapporto giudiziario del 3 novembre, re­ datto dal dirigente della Squadra Mobile Fernando Masone, 130

7. L a mano dell ’intelligence

riferisce della telefonata ricevuta dalla Chiarcossi all’1.30 del mattino e collega l’arresto della pattuglia dei militari di Ostia alla stessa ora. Come è possibile che, contemporane­ amente al fermo di Pelosi, i carabinieri avessero anche pen­ sato di chiamare la famiglia dello scrittore, quando ancora non avevano scoperto a chi appartenesse l’auto? E con quale mezzo? Non certo con un telefono cellulare. Il padre di Pelosi, nella sua testimonianza, dichiara che le forze dell’ordine lo hanno avvisato alle tre del mattino dicendo che il figlio era stato fermato di notte in un posto di blocco a bordo di una macchina appartenente a «uno in vista»24 (non più, quindi, dopo un inseguimento improvviso perché pro­ cedeva contromano). E utile ricordare qui che si tratta dello stesso orario, le tre del mattino, riferito da Cittì, del presunto ritrovamento del veicolo di Pasolini sulla Tiburtina. Che fosse l’auto di «uno in vista» lo scoprirà il carabiniere Cuzzupé, solo dopo l’arrivo alla rimessa: Fui io a guidare la macchina di Pasolini, subito dopo l’arre­ sto del Pelosi, per portarla alla nostra rimessa di Stazione. In quel momento non badai a quanto contenuto nell’auto­ vettura [...]. Fu qualche minuto dopo l’arrivo alla rimessa che io perquisii l’interno della macchina, per identificare il proprietario e controllare l’eventuale presenza di armi, e notai allora anche la presenza del pullover verde nel sedile posteriore [...].25 L’arresto, indicato all’1.30 del mattino, un inseguimento, seppur breve (per circa settecento-ottocento metri), l’arrivo del solo Cuzzupé presso la rimessa dei carabinieri di Ostia dove scopre la proprietà dell’auto, sono tutti elementi che non ammettono altre conclusioni: non possono aver chia­ mato la famiglia di Pasolini nello stesso orario in cui hanno arrestato il ragazzo, semplicemente perché non conoscevano ancora: il nome del proprietario. Le comunicazioni via rice­ 131

IL LO SCHEMA PERFETTO

trasmittente poi non potevano certo arrivare a casa di un comune cittadino. Eppure, la domanda relativa all’effettivo orario in cui viene avvisata la famiglia di Pasolini non è mai stata posta né alla Chiarcossi né ai carabinieri, quanto meno non è presente in nessun verbale o ricostruzione negli atti. Così anche il racconto perfetto sull’arresto di Pelosi va ad annullarsi via via. A dicembre del 2014, in un’intervista sul quotidiano online Futuro Quotidiano, Pelosi, dopo aver reso testimonianza al magistrato Minisci, dichiara: Potrei anche essere scappato sull’altra auto, quella uguale a quella di Pasolini, era notte, non si vedeva niente, non ho guardato le targhe, ho preso la macchina e sono scappato.26 Quella uguale a Pasolini? Ma non era stato abbandonato dagli altri e minacciato? A questo punto una domanda è le­ cita: l’arresto è mai avvenuto davvero? O c’è stata una con­ segna e lo stesso Pelosi ancora non rivela quest’ultima parte di storia camuffandola fra bugie e verità? Ad ogni modo, è possibile farsi strada in questo intreccio in chiaroscuro da lui in parte tessuto. Intanto basti qui ricordare, come riferito già in dettaglio, che non è stato l’ex ragazzo di Guidonia il primo a indicare la presenza sul luogo del delitto di più macchine, bensì la ricostruzione del testimone Silvio Parrello. Pasolini non po­ teva certo immaginare che un ragazzo che lo aveva ispirato artisticamente in vita sarebbe divenuto un testimone impor­ tante, nel 2010, nelle indagini sulla sua morte. Come detto, dopo il fermo Pelosi viene tradotto presso l’Istituto di Osservazione per Minorenni di Casal del Marmo. Al suo compagno di cella racconterà anche della perdita dell’anello sul luogo del delitto. Abbiamo visto come la storia di tale episodio sia però piena di incongruenze, di grossi buchi temporali, alla stregua di molte altre vicende 132

7. L a

m a n o d e l l ’i n t e l l i g e n c e

connesse a questo dramma. Pelosi, nel suo primo libro di memorie, scritto in forma di diario, ovviamente parla anche di quel monile, affermando che i carabinieri lo «aiutarono» a cercare l’oggetto sul luogo del delitto perdendo così molto tempo.27 Forse quello stesso tempo necessario ai complici per fuggire e poi, eventualmente, portare via altri mezzi contundenti.

Segnali di depistaggio Le pagine stracciate (una la pubblichiamo qui sotto) dai ri­ lievi presenti nel fascicolo e la non iscrizione agli atti di una teste che aveva parlato di una conoscenza preesistente fra Pelosi e Pasolini28 sono due elementi che possono essere più chiaramente identificati come depistaggi o comunque come manipolazioni.

133

II. L o SCHEMA PERFETTO

La pagina, la cui mancanza si nota dal pezzo strappato in alto, è la numero 9, che nell’elenco che introduce il rapporto sui rilievi tecnici effettuati sul luogo è indicata come «plani­ metria del luogo dell’omicidio». Nel fascicolo manca, dun­ que, il foglio quadrettato solitamente allora a disposizione degli inquirenti per riportare l’esatta posizione dei rilievi e per trascrivere i ritrovamenti ematici. Il dato del foglio qua­ drettato era stato rilevato sempre daÌYEuropeo: in questo modo due elementi raccolti a distanza di tempo l’uno dall’al­ tro si ricompongono come un puzzle.29 L’ex generale del RIS, Luciano Garofano,30 nel libro De­ litti e misteri del passato,31 spiega quanto sia indispensabile «per chiarire i punti oscuri nelle dinamiche delittuose» lo studio della distribuzione e delle caratteristiche morfologi­ che delle macchie di sangue sulla scena del delitto. Quella planimetria, perciò, avrebbe permesso di visualizzarle tutte in un unico quadro e di isolarne via via le tracce. Oggi, le nuove tecniche in supporto agli esami del dna avrebbero chiarito molti aspetti. L’esame del dna da solo, infatti, come si è potuto comprendere nell’ultima indagine sul caso, e su altri che hanno coperto di rosso la cronaca italiana degli ul­ timi sette-otto anni, non costituisce prova certa: esso, specie nei casi irrisolti più datati, costituisce un mero indizio, im­ portante, certo, ma non decisivo.32 Nel libro lo so... come hanno ucciso Pasolini, Pelosi, nel riferire l’inizio di una versione creata ad hoc per la strategia difensiva, parla di alcune foto: Mi disse [l’avvocato Rocco Mangia, N.d.A.] che c’erano al­ cune foto fatte dalla Scientifica relative al sormontamento del corpo da far sparire ma che a questo ci avrebbe pensato qualcun altro.33Il Il depistaggio, creato ad arte per togliere definitivamente dalle indagini, e quindi dal giudizio, qualsiasi indizio sul sor134

7. L a mano dellìntelligence

montamento evitando così più gravi conseguenze d ’imputa­ zione a carico del ragazzo, alla fine però non riesce. Sarà la perizia del perito Francesco Durante a far cambiare di colpo la direzione del processo di primo grado. Questi riesce a di­ mostrare la presenza di tracce delle ruote sulla schiena di Pa­ solini. Cosa che i periti nominati dall’ufficio, la controparte giudiziaria, dovranno poi ammettere nel supplemento alla nuova perizia ordinata dal giudice. Nella prima, infatti, questi avevano totalmente escluso qualsiasi passaggio d ’auto nono­ stante le evidenze. Ma, cosa quanto mai singolare, la perizia di Durante nelle nuove indagini della procura, laddove gli inqui­ renti ricostruiscono le dinamiche, non è quasi per nulla men­ zionata: solo in alcuni tratti dove la stessa coincide con quella d’ufficio. Eppure, la perizia in questione permise di appurare diverse cose: una ricognizione diversa della dinamica in due fasi dell’aggressione, l’evidenza del sormontamento e inoltre l’analisi su come fosse possibile che, oltre alle tavolette di le­ gno e alle strutture del veicolo, anche altri mezzi contundenti più pesanti abbiano potuto provocare le ferite più profonde. Ancora una volta le parole di Pelosi, non quelle depistanti ma quelle che ha scelto di dire in tutta franchezza, acquistano così un senso di fronte alle tracce evidenti dei riscontri. E ancora: l’i l novembre del 1975, l’Unità (e in maniera meno dettagliata anche II Messaggero) riempie le pagine della cronaca con una rivelazione interessante. Il contenuto si rivelerà importante solo trentasei anni dopo, quando Pe­ losi lo scriverà nel suo libro.34 Vediamo l’articolo, intanto: Nelle indagini sull’assassinio di Pier Paolo Pasolini c’è un nuovo testimone, una donna, che ieri è stata interrogata dal sostituto procuratore della Repubblica Giunta. Se ciò che dice verrà confermato dagli accertamenti in corso sarà possi­ bile provare che il diciassettenne Giuseppe Pelosi conosceva da tempo lo scrittore barbaramente assassinato. Nome, co­ 135

IL LO SCHEMA PERFETTO

gnome ed indirizzo del teste sono coperti da un riserbo as­ soluto. Si sa soltanto che essa ha firmato 2 cartelle e mezzo di deposizione. Prima di dare pubblicità a questa nuova «pista» dell’inchiesta gli inquirenti vogliono essere sicuri, vogliono portare a termine tutti i riscontri necessari. A quanto pare non sarà un lavoro breve: la «prova» definitiva che quello di sabato 1 novembre tra Pelosi e Pasolini non fu un incontro occasionale forse si avrà soltanto tra una settimana. Ma gli in­ dizi di cui già dispongono i carabinieri del nucleo investiga­ tivo e il sostituto procuratore Giunta vengono definiti molto seri. Che cosa potrà significare per la ricostruzione dell’a­ troce delitto la conferma del sospetto che Pasolini e Pelosi si conoscevano, è ancora presto per dirlo. Certo questo par­ ticolare indurrà gli investigatori a riesaminare da capo tutta la confessione del diciassettenne già lacunosa e confusa in più punti. [...] Se gli accertamenti dei carabinieri dovessero accertare l’amicizia del ragazzo e Pasolini gli inquirenti do­ vranno sciogliere tutta una serie di nuovi quesiti. [.. .]35 Attenzione: neanche le due cartelle e mezzo di cui parla il cronista (un dettaglio preciso) si trovano nel fascicolo del pro­ cedimento penale. E l’identità della donna, visto che l’allora ti­ tolare delle indagini non volle rivelare alla stampa il nome della teste, rimane ignota per sempre. Pelosi nel suo libro, infatti, confessa questo elemento della conoscenza anteriore con lo scrittore, risalente, secondo quanto da lui rivelato, al luglio del 1975. Come evidenzia il giornalista, proprio questo elemento da solo avrebbe potuto riscrivere l’intera ricostruzione. Lo schema descritto a inizio capitolo si scioglie qui nella sua evidenza: la creazione di doppi elementi per confondere le indagini; la sparizione di verbali e carte utili al reperimento delle prove accumulate in un blocco documentale unico: il dossier; il dirottamento verso un’altra dinamica sin dall’inizio; il lasciare intervenire più figure di bassa, media o alta crimina­ lità nella stessa scena per confondere il target delle indagini di quegli inquirenti in buona fede. Tutto questo rientra in uno 136

7. L

a m a n o d e l l ìn t e l l ig e n c e

schema specifico che, per la sua complessità, non può essere stato gestito da semplici balordi. Uno schema la cui frammen­ tarietà è calzante con quella delle strutture caratterizzate da una doppia organizzazione, qui applicato con modalità ido­ nee al caso: una ufficiale, l’altra clandestina; una presentabile, seppure nelle fila dell’estremismo extraparlamentare; l’altra nascosta, che agisce con proprie logiche suddividendosi in più organizzazioni apparentemente separate tra loro. Questa realtà presente negli anni della strategia della ten­ sione ha la sua massima espressione nel gruppo di estrema destra Ordine Nuovo, operativo dal 1956 e sciolto ufficial­ mente nel 1973, le cui attività sono proseguite però clande­ stinamente attraverso la creazione di altri organismi, tra cui l’organizzazione Ordine Nero, nata dalle sue ceneri come altri movimenti fra il 1974 e il 1975. Questo nome ritornerà nelle pagine che seguiranno. Una struttura diversa, quindi, da quella rappresentata pubblicamente dal suo ideatore Pino Rauti, che la definiva una palestra cultural-ideologica, mentre fu invece «cerniera fra strutture militari e civili in funzione anticomunista».36 Persino Avanguardia Nazionale (AN), fon­ data da Stefano Delle Chiaie, si porrà solo apparentemente in opposizione a Ordine Nuovo. Un gioco che non poteva sco­ prirsi affinché l’idea «rivoluzionaria» mantenesse aderenza presso la base dei militanti. Sulla stessa falsariga, quasi tutte le galassie di estrema destra nate dopo lo scioglimento di Or­ dine Nuovo. Strutture e uomini tutti al servizio di una forza dello Stato, mentre in apparenza lottavano contro la stessa: alcuni ben consci, altri inconsapevolmente. Uno di questi inconsapevoli è stato, fino a quando non l’ha scoperto rifiutandone i principi, Vincenzo Vinciguerra, ex ordinovista poi approdato ad AN, reo confesso della strage di Peteano (1972),37 il quale ha rivelato in processi ed esposti, nonché in alcuni libri, uno su tutti Ergastolo per la libertà™ di­ versi segreti relativi alla strategia della tensione, ricostruendo 137

II. LO SCHEMA PERFETTO

alcune fondamentali dinamiche senza mai trarne alcun benefi­ cio di tipo penale.59Anche un altro ex collaboratore, Paolo Pecoriello, in un memoriale ne rivelerà la vera struttura. Ordine Nuovo (inizialmente chiamato Centro Studi Ordine Nuovo) in realtà era una organizzazione concepita per coniugare re­ quisiti fisici e politico-culturali dei militanti in essa formati, e il cui obiettivo era quello di forgiare persone che fossero al di sopra della media degli attivisti di destra; AN puntava invece a una preparazione più prettamente fisica: più picchiatori che pensatori, insomma. Requisiti tutti giusti per far parte di uno schema. E in questa struttura che matura l’idea di una «stra­ tegia di diversificazione o infiltrazione» sin dai primi anni ’60. È qui che la struttura formata dalla rete atlantica si insinua nel proliferare di organizzazioni politiche di identità nazionalso­ cialista, fascista e marxista-leninista. Ed è nella Lega dei Co­ munisti Marxisti-leninisti Italiani che Giovanni Ventura, la cui presenza nel caso si rivelerà più avanti, si insinua condividen­ done le ambigue ideologie. Attraverso di essa, egli riesce a sta­ bilire legami con parte della sinistra culturale del tempo.40

Foto presente n e l fascicolo d ei rilevi tecnici della targa d e l veicolo intestato a G iuseppe Pelosi.

138

Capitolo ottavo

Figure per una strategia

Ho fatto delle «descrizioni». Ecco tutto quello che so della mia critica in quanto critica. E «descrizioni» di che cosa? Di altre «descrizioni», che altro i libri non sono. Eantropologia l’insegna: c’è il «dromenon», il fatto, la cosa occorsa, il mito, e il «legomenon», la sua descrizioneparlata. Dal saggio Leonardo Sciascia, Lodo modo, in Descrizioni di descrizioni

Aldo Semerari: il criminologo «rosso-nero» Lo psichiatra Aldo Semerari nel processo Pasolini sarà no­ minato tra i periti di parte dall’avvocato Rocco Mangia, in­ sieme alla sua assistente Fiorella Carrara e al collega Franco Ferracuti (tessera P2, il quale, durante i giorni del sequestro Moro, farà parte del comitato di crisi riunito da Francesco Cossiga).1 Ma le strade del poeta e del criminologo si erano già incrociate in passato. È il 1962 quando Pasolini viene accusato di aver minacciato in guanti neri e con una pistola caricata con un proiettile d ’oro il barista di un benzinaio del Circeo. La rapina, alquanto sui generis, secondo l’accusa gli frutterà duemila lire. Il processo inizia sui giornali, con un Pasolini ritratto nell’atto di impugnare un mitra: scatto preso dal film II gobbo2 in cui il poeta ha una parte. A Seme­ rari verrà richiesta la perizia psichiatrica con la quale scanda­ glierà, demonizzandola, la vita sessuale dello scrittore,3 evi­ denziando: «i sintomi di un processo morboso in evoluzione o, quantomeno, di un’alterazione della personalità congenita o acquisita». Sarà poi una certa Agenzia di Stampa Interna-

II. LO SCHEMA PERFETTO

Fotogram m a d el film II gobbo pubblicato dal settim anale Lo Specchio il 7 luglio I9 6 0 e riprodotto n e l libro d i Franco G rattatola Pasolini una vita

violentata.

zionale Medica4 a fare in modo che quelle note psichiatriche arrivino nelle redazioni dei quotidiani, con la subdola dici­ tura che invitava i caporedattori a mantenerle riservate. La passione politica del professor Semerari nasce a de­ stra e si radicalizza tra le fila dell’eversione nera, anche se negli anni ’40 si iscrive alla sezione locale di Martina Franca, vicino Taranto, del PCI, che in seguito non gli rinnoverà la tessera. Esperienza che più in là costituirà la base del suo progetto di eversione, costruito intorno a criminali e mili­ tanti, che non disdegna l’arruolamento a sinistra: lo psichia­ tra è convinto che il superamento degli opposti estremismi porti a più risultati. È questo lo sviluppo del concetto prin­ cipe, già delineato nelle pagine precedenti, della penetra­ zione a sinistra (la «seconda linea» di cui riferirà Giovanni 140

8. F

ig u r e p e r u n a s t r a t e g ia

Ventura nel 1973 ai magistrati), fatto proprio dagli organiz­ zatori veneti e romani della strage di Piazza Fontana e degli attentati ai treni che l’hanno preceduta. Concetto che, con sfumature e scopi diversi, anche con Semerari cercherà di mettere radici. Verso la fine degli anni 70, La mente nera, Semerari, sarà, come il giornalista del Tempo Franco Salomone, uno dei fondatori di «Costruiamo l’azione», movimento e rivi­ sta di estrema destra. Nel libro di Corrado De Rosa, che fa un ritratto a tutto tondo del criminologo, del criminale e dell’uomo, viene affrontata anche la sua controversa parte­ cipazione alla Loggia P2: la tessera resterà introvabile,5 ma le sue vicende e quelle del maestro venerabile Licio Gelli ri­ marranno sempre unite da un filo non troppo sottile. Inol­ tre, nelle audizioni della commissione d’inchiesta sulla log­ gia segreta, su di lui si trovano spesso riferimenti. Lo psichiatra entrerà in scena nel bel mezzo dello scan­ dalo del cosiddetto «Piano Solo»: un golpe progettato nell’e­ state del 1964 dall’Arma dei Carabinieri per garantire la sicurezza e l’ordine contro l’eventuale avanzata comunista, che si sarebbe attuato occupando questure, prefetture, sedi RAI, partiti. Secondo i dettami del Piano, vi è anche una lista di persone «scomode», in particolare attivisti della CGIL, appartenenti al Partito Comunista e intellettuali, che sareb­ bero dovuti essere deportati nella base militare Gladio di Capo Marrargiu, vicina ad Alghero, fino a che la situazione non si fosse calmata. Come sappiamo, il Piano Solo non riu­ scirà, ma Semerari incaricherà la sua assistente Fiorella Ma­ ria Carrara di provare a recuperare quella lista, come anche alcuni fascicoli inerenti, raccolti e costruiti sin dal 1959. Lo psichiatra vorrebbe avvalersi di quelle carte per ricattare la classe dirigente italiana coinvolta nel progetto sovversivo, carte che comunque possono sempre tornare utili vista la sua situazione giudiziaria sempre sul filo. E qui che le due vite, 141

IL LO SCHEMA PERFETTO

quella del medico e quella dello scrittore, si incroceranno senza incontrarsi una seconda volta: tra i 731 enucleati da «allontanare» è indicato anche Pier Paolo Pasolini. Un fatto poco noto, che sarà pubblicato per la prima volta in un arti­ colo dell’Unità nel 1990.6 Il riferimento alla NATO fatto da Pasolini al giornalista inglese Dragadze, quando tutto ciò an­ cora non era emerso, e citato nelle pagine precedenti, pone un’ulteriore pietra di conferma alla profonda comprensione anticipatoria, o in tempo reale, delle trame dell’epoca che possedeva il letterato. Semerari, come professionista, spunta fuori in numerose vicende oscure che hanno riguardato il Belpaese e dalle quali uscirà sempre indenne - assoluzioni, archiviazioni e nulla di fatto - come l’omicidio del giudice Amato, il sequestro Moro, il tentativo di far evadere dal carcere l’ordinovista mi­ litare Pierluigi Concutelli. Alcuni dei clienti diverranno suoi acerrimi nemici, vedi Raffaele Cutolo, mentre con altri strin­ gerà importanti amicizie, come i boss della Magliana che si avvicineranno allo psichiatra per sua precisa richiesta e con l’obiettivo di stringere un patto: diagnosi di infermità e se­ minfermità mentale in cambio di un supporto militare per il suo programma politico. La banda non sarà mai interessata a sostenere politicamente Semerari, ma usufruirà lo stesso delle sue diagnosi. A conferma della sua «trasversalità», è in­ teressante ricordare che tra i suoi assistiti, in un lavoro con­ giunto proprio con il professor Francesco Durante, ci sarà anche il ballerino e anarchico Pietro Valpreda. Semerari spa­ risce all’improvviso dalla scena il primo aprile del 1982: viene trovato decapitato in una Fiat 128 rossa a Ottaviano, il feudo di Raffaele Cutolo.7 Ma spostiamoci di nuovo indietro nel tempo, virando sui fatti del processo contro Giuseppe Pelosi per l’assassinio di Pasolini. Per definire il tipo di pena da comminare aH’«ex Rana» il tribunale ordina a tutte le parti in causa delle peri­ 142

8. F

ig u r e p e r u n a s t r a t e g ia

zie da effettuare sul minorenne. Come spesso accade in que­ sto processo, le posizioni dei periti d’ufficio e di quelli della difesa restano allineate cercando di portare all’assoluzione per immaturità il ragazzo del Tiburtino: Si tratta di un minore, immaturo, smarrito e insicuro, che reagisce con atteggiamenti infantili ad eventi di cui solo in parte afferra la portata.8 Oppure: Il minore Giuseppe Pelosi, al momento dei fatti per i quali è processo \_sic\, non aveva raggiunto un grado di matura­ zione volitiva e intellettiva tale da farlo ritenere capace di in­ tendere e di volere [...].9 Un punto delicato del processo questo, perché, se la corte di primo grado non avesse riconosciuto la volontarietà dell’omicidio imputandolo all’impossibilità di intendere e di volere di Pelosi, il ragazzo, al compimento della maggiore età, sarebbe uscito dal carcere perché non perseguibile. Il tentativo in questo senso, durante quel primo grado, però non riuscì. Nel 1976, invece, durante lo svolgimento del processo in Cassazione, in una lunga intervista alla giornalista Francamaria Trapani, Semerari si profonde in ampie spiegazioni su come poteva essere «salvato» Pasolini se solo avesse ricono­ sciuto le sue «deviazioni»:10 Un accertamento su Pasolini si poteva fare sulla persona, am­ bulatorialmente, studiandolo, soprattutto parlando molto con lui, cercando di capire quali erano le motivazioni di que­ sto suo comportarsi così particolare. Si sarebbe potuto fare nel contempo, un trattamento psicoterapeutico, si sarebbe potuto vedere in qualche modo di modificare questa sua condotta. 143

II. LO SCHEMA PERFETTO

Ma anche le domande della giornalista non sono da meno: Forse Pasolini non avrebbe mai accettato di curarsi in que­ sto senso.

E lui: Una chiarificazione psichiatrica non gli è stata mai suggerita da nessuno.

La giornalista comparirà anche in una dichiarazione dello stesso Pelosi, dalla quale si evince un altro pezzo di verità: Mi fece incontrare [Mangia, N.d.A.] Franca Maria Trapani, giornalista della rivista Gente, e mi fece intervistare dentro il suo studio in cambio di un pagamento di tre milioni di lire. Mantenni la stessa versione [...]. Gli dissi chiaramente che non ero stato io a montargli sopra con la macchina ma lui mi disse di stare tranquillo e che sarebbe stato meglio per tutti mantenere quella versione. Doveva ridursi tutto a un fatto isolato strettamente legato a me e Pasolini.11

Semerari era dunque il personaggio giusto per convo­ gliare tutto nell’esatta direzione, cui la difesa di Giuseppe Pelosi voleva si andasse: una lieve pena per un minorenne immaturo che non era riuscito a salvarsi dal «malato».

franco Salomone, gli avvocati Spoltro e Rocco Mangia Le dichiarazioni del pentito di estrema destra Sergio Calore (ucciso nel 2010 nelle campagne di Tivoli e le cui indagini sono disperse ormai tra i faldoni del tribunale)12 indiche­ ranno in Francesco Salomone (tessera P2 numero 678, la sua appartenenza verrà scoperta solo nel 1981)13 l’autore di alcuni articoli sul Tempo dichiaratamente favorevoli al­ 144

8. F

ig u r e p e r u n a s t r a t e g ia

l’«irrompere del terrore nel campo della politica». Vedremo come il quotidiano sarà di nuovo protagonista, nelle pagine che seguiranno alle perizie della macchina che ha sormon­ tato volontariamente il corpo del poeta. In particolare, af­ ferma Calore, «parlavano della possibilità di un collega­ mento tra organizzazioni criminali e formazioni politiche. L’ultimo di tali articoli era apparso subito dopo l’attentato brigatista a Fiori Publio,H esponente DC [...]». Sono, conti­ nua Calore, articoli commissionati da Aldo Semerari. Torniamo allora al processo in corso contro Pelosi, tra il 1975 e il 1976, e al ruolo che avrebbe svolto il giornalista del quotidiano romano nella vicenda. Nel suo ultimo libro, Pelosi cita il giornalista15 come persona che entra nella mani­ polazione che il collegio difensivo appronterà nel processo: Il primo avvocato d’ufficio fu Piergiorgio Manca.16 Dopo di che mi arrivò un telegramma a Regina Coeli con scritto: «Nomina come avvocati Tommaso e Vincenzo Spaltro». Il telegramma era firmato zio Giuseppe. Io non avevo uno zio che si chiamava Giuseppe [...]. Il

Il consiglio dell’Ordine degli Avvocati aprirà un procedi­ mento disciplinare nei confronti degli Spaltro per aver essi stessi inviato il telegramma indicato da Pelosi. 1 «dispacci» firmati «Giuseppe» saranno due: uno del 2 e l’altro del 4 no­ vembre 1975. Il minorenne, come si evince dalla lettura del registro delle dichiarazioni nell’ambito del procedimento penale, nominerà in effetti gli Spaltro il giorno 3. Pelosi con­ ferma questa nomina, congiuntamente a quella di Rocco Mangia, anche il giorno 5 novembre, ma i due legali, come abbiamo visto, da un certo punto in poi si riveleranno del tutto contrari alle scelte difensive di Mangia.17 Un susse­ guirsi di nomine e revoche poco chiaro. Il racconto di Pelosi prosegue e conviene riportarlo per intero: 145

II. LO SCHEMA PERFETTO Vennero a trovarmi in carcere [gli Spaltro, N.d.A.]. Dissi loro di non conoscere nessun zio Giuseppe, ma loro insistet­ tero dicendo che non mi sarei dovuto preoccupare di nulla perché erano già stati pagati. Dopo qualche giorno ricevetti un altro telegramma, stavolta da mamma e papà «nomina l’avvocato Rocco Mangia». Quando mi vennero a trovare mi dissero che un giornalista de II Tempo, Franco Salomone, si era recato a trovarli per intervistarli. In quella occasione consigliò vivamente loro di nominare mio difensore di fi­ ducia l’avvocato Rocco Mangia e che non ci sarebbero stati problemi di sorta per il suo onorario perché ci avrebbe pen­ sato qualcuno molto in alto. [...] Mangia mi consigliò di sollevare dall’incarico i fratelli Spaltro perché gli stessi per qualche ragione non avrebbero fatto i miei interessi ma mi avrebbero remato contro [...] Mangia mi suggerì di accol­ larmi l’omicidio e di mantenere questa linea, sostenendo a spada tratta che sul luogo del delitto ci fossi solamente io.18 L’intervista ai genitori, come da noi verificato, non verrà mai pubblicata, ma ne esiste una del 9 marzo 1976 in cui Sa­ lomone, chiedendo a Pelosi come vedesse il suo futuro dopo quella esperienza, cita un episodio significativo: Si riprende il colloquio a bassissima voce, sfuggendo all’at­ tenzione della scorta che ci crede dei sostituti dell’avvocato Mangia, difensore del giovane. Il risultato di tutto questo frutterà poi nel modo deside­ rato. Salomone seguirà sempre con grande attenzione i passi che porteranno, malgrado tutto, a riconoscere nel primo grado il concorso con ignoti. L’11 marzo 1976 scriverà:I I legali della madre dello scrittore fanno leva per sostenere la tesi dell’omicidio commesso da più persone: una tesi che cacciata dalla porta, cerca di rientrare dalla finestra, proprio 146

8. F

ig u r e p e r u n a s t r a t e g ia

perché c’è chi ha interesse a spostare questo processo dal piano giudiziario e manipolarlo per altri fini. Un altro personaggio degno di nota è l’avvocato Rocco Mangia che, come Piergiorgio Manca, il primo legale d’uf­ ficio di Pelosi, si occupa durante la sua carriera della difesa di diversi personaggi del mondo criminale ed eversivo, come gli assassini del Circeo. Non solo, tra i suoi assistiti c’è anche un componente della Banda della Magliana, Nicolino Selis. Mangia, durante il processo per l’omicidio Pecorelli, riferirà al pubblico ministero di aver fornito informazioni utili all’in­ dividuazione del covo di via Gradoli (uno dei covi delle BR, al secondo piano del civico 96 scala A interno 11),19 grazie alle confidenze di un’amica, Lucia Mokbel (sorella di Gen­ naro Mokbel, coinvolto nel recente affaire Telekom Serbia). Informazioni che, secondo Mangia, verranno sottovalutate dal colonnello Antonio Varisco.20 Questi dati ci sono utili per comprendere il sentiero «pe­ ricoloso» sul quale si muovono alcune figure molto rilevanti della storia giudiziaria dell’omicidio di Pier Paolo Pasolini. E chiaro che nel 1975 molte cose, forse, ancora non potes­ sero essere note, sebbene alcuni magistrati già intuissero i coinvolgimenti «altissimi» di questi soggetti in molti eventi. Non erano note, ma chi indagava come Pier Paolo Pasolini poteva averne raccolto gli elementi. Parliamo del giudice Occorsio, già citato, ma anche del giudice Amato o dell’ex magistrato Ferdinando Imposimato. Ma torniamo al processo: la revoca degli Spaltro viene co­ municata da Pelosi il 10 novembre, il giorno dopo la loro dichiarazione ai giornali riguardo la colpevolezza di più per­ sone nell’omicidio. Dunque, l’indicazione data ai genitori del minorenne, da parte del giornalista Salomone, di nomi­ nare con urgenza Mangia resta un angolo ben delineato in cui questi personaggi si vanno tutti a rintanare. 147

II. LO SCHEMA PERFETTO

Le rivelazioni di «hallo lo Zoppo» Soprannominato «Lallo lo Zoppo» da quando, durante un’evasione dal carcere di Regina Coeli si frattura la gamba, Laudavino De Sanctis appare sulla scena romana nel 1975. Le sue specialità sono furti, scippi, rapine, ma anche omi­ cidi. Lallo lo zoppo, o Lello,21 come a volte viene indicato nelle cronache del tempo, percorre tutti i gradini della ma­ lavita a folle velocità, come le auto di grossa cilindrata che guida. Il suo capo indiscusso, Jacques Berenguer, del clan dei Marsigliesi, lo coinvolge anche nella famosa rapina in piazza dei Caprettari: quella che decreterà la supremazia della banda sulla scena criminale romana. De Sanctis è au­ tore anche di alcuni sequestri eccellenti effettuati dalle tre «belve», come quello di Giovanni Palombini, proprietario del famoso e omonimo bar dell’Eur. Per quell’episodio, in cui l’ostaggio verrà ucciso, Lallo viene arrestato nel 1982 e più avanti otterrà la detenzione ai domiciliari per una grave malattia a lui diagnosticata. De Sanctis rilascerà una interessante intervista sul caso Pasolini, che pubblichiamo per la prima volta:22 D: «Ricordi l’omicidio Pasolini? Che ne pensi?» R: «Si me lo ricordo, era mi sembra il 1975 o 1976; sì fu una cosa strana dove sicuramente c’entrava Pelosi che infatti lo presero, e poi i due Braciola, quelli di Tiburtino III, poi c’era Mastini er biondino, che di quelli era il più pericoloso, anche perché viene da una famiglia di assassini, lo zio è il famoso Zio Aldo che sta a Verona. Poi Mastini è ’na spia perché alle guardie gli ha sempre detto una marea di cose, se no come faceva a traffica’ tutta la robba che trafficava senza che nessuno gli dicesse niente? A me pure se me facevo no stereo me se portavano via, e a lui niente... Era quello più trucido e cattivo de quei tempi». D: «Cosa c’entra la Banda della Magliana?» 148

8. F

ig u r e p e r u n a s t r a t e g ia

R: «A Roma nel 75 c’era un caos, che te lo dico a fa, c’erano delinquentelli sparsi che prendevano ordini ’na volta da uno e ’na volta dall’altri... la banda non c’era ancora, ma se stava pe’ creare...» D: «Chi erano questi uni e altri?» R: «Ma a secondo... Guardie, galoppini elettorali che sta­ vano nei quartieri e poi gli spacciatori e quelli che poi se stavano a ingrandì su Roma... e quelli pigliavano gli ordini dalla politica e dai carabinieri che contavano.... Noi era­ vamo soldati, ’na specie de manodopera, c’era ’no scambio de favori tra de noi... ce sta pure adesso, ma non è come prima... mo te fanno piagne... Calcola che pure i Borsel­ lino se la so sfangata un sacco de volte, ma parecchie, alla fine so morti de AIDS, pure loro erano du’ bestie... erano proprio cattivi... La differenza co’ l’altri è che loro erano proprio rabbiosi, noi rubbavamo pe fame, pe fasse qualcosa in più, loro io l’ho visti qualche volta ed era proprio gente de merda. All’epoca ce stavano i circoletti de biliardino che erano il punto di ritrovo, nostro dove se decideva quello che facevamo er giorno, anche se certi giorni non se faceva niente». D: «Ma quanto alzavi al mese?» R: «Dipende, certe volte in quei tempi pure centomila lire, che pe’ l’epoca era tanto, ma se lo fumavamo tutto...» D: «Come pensi che sia andata con l’omicidio Pasolini?» R: «Ma io penso che quella sera ce stava tutta Roma lì, tutta la Roma criminale e violenta, agli ordini non so di chi, ma se ce stava in mezzo Sergio [Placidi, N.d.A.], è stata ’na storia strana. Se sapeva nell’ambiente delle bobbine e che gli aves­ sero chiesto due miliardi, e Pasolini due miliardi non ce li aveva; quella sera gli avrà portato ’na milionata pe’ chiude lì la storia, ma loro se vede che volevano de più... Ma secondo me non è stato ammazzato pe’ i soldi... E naturale: lo zingaro e i braciola non te ammazzano pe’ politica ma pe’ i sordi, ma noi eravamo i soldati e i soldati non vanno mica in guera da soli e mica vanno in guera pe’ tutto quello che sanno, e così pure noi... spesso ho menato a gente e gli ho rubato sotto 149

II. LO SCHEMA PERFETTO

ordine ma mica so perché... Io ce credo che quel deficiente de Pelosi non sapesse nulla... ma è proprio pe’ quello che è un coglione, non se ammazza la gente senza ’na contropartita certa... questo campicchia de cose banali... mica s’è sistemato... Non hanno capito che poi ce l’hanno messa ar culo a tutti... che starno ancora affamati o starno ancora in galera. Pasolini è stato ammazzato materialmente da quei ba­ lordi che se sa, ma è stato ammazzato perché dava fastidio. Un frocio, comunista che c’aveva ’na capoccia che non fi­ niva più... poteva solo dà fastidio. E poi Placidi teneva sotto scacco un sacco de persone co’ la droga, poi era pure a mezzi co’ uno del cinema che la moglie era n’attrice, quindi le cose le conosceva bene, sapeva dove tocca’... Poi Pelosi faceva er marchettaro perché non era bono a ruba’, dava er culo, n’hai capito, e sotto de lui stava... quindi quelli hanno fatto due più due, regolare no?» D: «Come erano le bische?» R: «C’erano i biliardini, ste cazzate qui; se beveva birra so­ prattutto e si aspettavano ordini o dritte... A volte c’erano più imboscati che delinquenti...» D: «Ma secondo te Sansone, fu beccato dai Borsellino?» R: «I Borsellino erano stupidi come du’ sassi, non ce capivano un cazzo, je facevi vede’ du’ soldi e te aprivano tutto... Quelli c’erano... C’era pure Mastini, Pelosi e pure qualcun altro...» Questa volta è proprio uno dei protagonisti della crimina­ lità del tempo, dunque, a parlare di livelli, di ruoli diversi e a ricomporre in poche, semplici espressioni ciò che è stato via via raccolto sin qui in determinati tratti d ’inchiesta: l’eterodirezione delle bande criminali, il ruolo di Pelosi, quello di Ma­ stini, e così via. Certo, l’impressione è che «Lallo lo Zoppo» non abbia detto tutto. Una testimonianza che è giunta dopo il lavoro di ricostruzione e che soltanto va a rafforzarlo. L’ex marsigliese fa affacciare un altro personaggio che ha potuto prender parte in qualche modo alla vicenda: il norvegese Fred Robsahm. Nell’intervista, appare in realtà un altro nome, 150

8. F ig u r e p e r u n a str a te g ia

quello di Dino Pedriali, fotografo romano che al tempo, se­ condo la testimonianza da lui data anche negli anni più re­ centi, sarebbe stato incaricato da Pasolini di effettuare alcune foto da inserire poi nell’opera Petrolio.23 Non sono emersi qui, tuttavia, elementi di inchiesta tali, a lui riferiti, che possano es­ sere debitamente riportati. Pedriali, che si professa un amico sincero di Pasolini, resta una figura oscura. Così come appare incomprensibile la sua insistenza nel negare qualsiasi movente altro oltre all’agguato di tipo omosessuale intervenuto nell’o­ micidio. Non riportarne gli elementi nell’intervista non vuole quindi essere un atto di censura.

Fred Robsahm e il furto delle pizze Il riferimento fatto da «Lallo lo Zoppo» a qualcuno che di­ vide i guadagni della droga con Sergio Placidi, è all’attore norvegese Fred Robsahm, sposato per quindici anni con l’attrice Agostina Belli, poi arrestato per traffico di droga. Ri­ ferimento, quello di Robsahm, qui per la prima volta indivi­ duato. L’ex attore, deceduto nel marzo del 2014 a Lillesand in Norvegia, dove risiedeva dopo l’esperienza italiana, aveva contratto l’FIIV in carcere. Sebbene sia stato da noi con­ tattato quando ancora vivo, l’ex attore protagonista di film di serie B, fra horror e western, nelle condizioni in cui era ormai ridotto non è riuscito a ricordare i dettagli del furto di quelle bobine, se non il solo aneddoto di cronaca. Ma un dato rilevante che collega Placidi a Robsahm esiste: l’arresto di quest’ultimo avvenuto a Civitavecchia nel 1988,24 mentre si trova come turista su una imbarcazione che trasporta stu­ pefacenti, coinvolge proprio Placidi, tra i promotori e gli or­ ganizzatori del traffico. Robsahm, dunque, è un altro perso­ naggio introdotto nel mondo di Cinecittà che può aver fatto da trait d’union per individuare l’esatto luogo in cui i negativi 151

LI. LO SCHEMA PERFETTO

dei film erano custoditi, magari inconsapevole del fine vero. E Cinecittà, lo ricordiamo, è anche il luogo in cui vengono ritrovate le ventiquattro pizze dei tre film sottratti alla Tech­ nicolor. L’Unità, inoltre, che informò del ritrovamento in un articolo del 2 maggio 1976, chiarisce come tutte le parti man­ canti siano state ricostruite con materiale di scarto. Era importante estrapolare questo spicchio di storia dal tutto, nonostante Formai avvenuta morte dell’attore, in modo tale che il lettore stesso possa comprendere, se con­ vinto, che riferirsi a dei «livelli» non è un espediente narra­ tivo o una invenzione, ma una ricostruzione che ha una sua logica basata su elementi di fatto.

Aldo Mastini, il capo dei giostrai È utile qui riportare la parte di testimonianza del terzo col­ laboratore di giustizia che, insieme ai due già citati prima, Carapacchi e Mercurio, parlerà della partecipazione di Johnny25 «lo Zingaro» all’omicidio. Nel 2000, Damiano Fiori riferirà al magistrato della Procura Distrettuale An­ timafia di Milano della confidenza a lui fatta dello zio di Johnny, Aldo Mastini. Aldo è ritenuto a capo, sin dalla sua fondazione, dell’organizzazione denominata la «banda dei giostrai», operante soprattutto nel Veneto e in generale nel Nord Italia. Accusato di vari reati, come omicidio e seque­ stro di persona, e sospettato anche di riciclaggio di denaro, dopo la condanna con rito abbreviato in appello, dall’anno 2000, diviene collaboratore di giustizia. La parabola della banda dei giostrai termina nel 1994 con l’arresto di tutti i membri e a seguito delle prime collaborazioni rese.26 [...] mi sono ricordato dunque di alcune cose che Mastini [Aldo, N.d.A. 1 mi disse durante la comune detenzione a Bre152

8. F igure per una

strategia

scia e mi sembra opportuno perché forse Mastini vorrà chia­ rirle [...]: io sono stato detenuto presso la sezione collabora­ tori di Brescia negli anni 94/95 [...] quando arrivai alla se­ zione collaboratori di Brescia era già lì ristretto Aldo Mastini, «giostralo» che collaborava con l’AG [Autorità Giudiziaria, N.d.A.] di Venezia [...] In occasione di un anniversario della morte di Pier Paolo Pasolini [...] Mastini mi fece le seguenti confidenze: [...] che il nipote gli confidò di aver partecipato all’omicidio di Pasolini; [...] che la comune detenzione di Mastini e nipote avvenne in un carcere sardo; [...] Mastini mi raccontò che il nipote gli aveva confidato: di avere material­ mente partecipato all’omicidio; che le persone che partecipa­ rono all’omicidio furono quattro (tre più il ragazzo che si as­ sunse la responsabilità esclusiva) [...]; che gli altri tre avevano fatto ricadere la responsabilità sul minorenne [...] «perché avrebbe preso poco e sarebbe uscito presto»; che erano pre­ senti due auto, una con il minorenne e Pasolini, e l’altra con gli altri tre; che «Jonny» era passato con l’auto sul cadavere di Pasolini; che Jonny aveva smarrito un anello del quale mi fece una sintetica descrizione: «piatto con uno stemma»; che Jonny era preoccupato per il ritrovamento di questo anello; che Pasolini era stato caricato alla stazione Termini.27

Alla procura che acquisirà questi atti, nel 2005, sono ba­ state le smentite di Pelosi e dello stesso Johnny per archi­ viare i fatti, senza ascoltare la testimonianza del collabora­ tore Aldo Mastini.

Appendice: telegrammi relativi alle nomine dei legali di Pelosi

Di seguito pubblichiamo le foto dei telegrammi: una storia per fotogrammi i quali, mostrati nella loro successione, chia­ riscono forse meglio di qualunque altra spiegazione il gine­ praio creatosi e insieme le manipolazioni avvenute intorno alle nomine degli avvocati all’interno del collegio difensivo di Pino Pelosi. 153

IL LO SCHEMA PERFETTO

Telegramma d el2 novembre 1975, fascicolo n. 1466/75.

Telegramma d el3 novembre 1975, fascicolo n, 1466/75.

154

8. F igure per una strategia

Telegramma d el4 novembre 1975, fascicolo n. 1466/75.

155

II. LO SCHEMA PERFETTO

Telegramma del 5 novembre 1975 (ricevuto il 6 novembre), fascicolo n. 1466/75.

156

8. F igure per una strategia

Telegramma del 10 novembre 1975, successivo alle dichiarazioni degli Spaltro in opposizione al loro collegio difensivo. Fascicolo n. 1466/75.

157

Parte terza C o l pi m ortali Perdo io vorrei soltanto vivere / ptir essendo poeta / perché la vita si espri­ me anche solo con se stessa. / Vorrei esprimermi con gli esempi. / Gettare il mio corpo nella lotta. / Ma se le azioni della vita sono espressive, anche l’espressione è azione. Poeta delle Ceneri, autobiografia in versi del 1966 pubblicata in Nuovi Argomenti, 1980

Capitolo nono

Doppio passaggio

Dopo la mia morte, perciò non si sentirà la mancanza: l’ambiguità importa fin che è vivo l’Ambiguo. Comunicato all’ANSA [propositi], in Trasumanar e organizzar (1971-1976)

La logica del doppio sormontamento Questa parte del libro, breve ma fondamentale, conduce il let­ tore di fronte alla dinamica specifica del sormontamento del corpo del poeta e mostra, attraverso immagini inedite - e in alcuni casi emerse dalle, analisi peritali o dalle cronache del tempo, ma senza che il loro valore sia stato davvero evidenziato -, come e perché la versione ufficiale non potesse e tuttora non possa reggere. Le immagini, dei veicoli e di parte del corpo, in stretta analogia con le analisi, servono unicamente a far com­ prendere come il doppio sormontamento sia stato funzionale a cancellare le tracce di altri veicoli e a confondere l’intera di­ namica dei fatti, portando a sminuire l’effetto della mattanza tribale svoltasi durante quella notte. Tutto doveva confluire e coincidere così con la versione dell’unico imputato minorenne.

Tre tracce di pneumatici Allora sono scappato in direzione della macchina portando con me i due pezzi di tavola che ho buttato e anche il pa­ letto verde che ho pure buttato vicino alla rete e vicino alla

III. Colpi mortali

macchina subito dopo sono salito in macchina e sono fuggito con quella. Ero stravolto ed ho impiegato del tempo per met­ terla in moto e accendere le luci. Nel fuggire non so se sono passato o meno con l’auto sul corpo del Paolo. Descrivo le manovre che ho fatto con l’auto. L’auto era col muso rivolto alla rete di recinzione con il culo alla porta di calcio. Ho in­ granato la retromarcia e sono passato sotto la porta [...]. Ri­ peto che nel guidare non ho fatto caso a nulla: la macchina sobbalzava perché il terreno era pieno di buche.1

L’interrogatorio fornito da Giuseppe Pelosi il 2 novembre 1975 va a frantumarsi contro l’evidenza di una foto inedita, scattata nella fase iniziale dei rilievi, prima che la scientifica si avvicinasse al corpo:

162

9. D oppio passaggio

Le frecce indicano la posizione del ritrovamento della ca­ micia di Pasolini (1) e dei pezzi di tavola con cui, tra gli altri mezzi contundenti usati, lo scrittore è stato colpito (2); que­ ste ultime, come ricostruito in via ipotetica dagli inquirenti del nuovo secolo, sarebbero state trasportate in seguito dagli aggressori nel luogo in cui è stato ritrovato il corpo del po­ eta, per depistare la dinamica del delitto: I corpi contundenti, unitamente alla camicia (forse uti­ lizzata per trasportarli) venivano rinvenuti nei pressi della porta di calcio vicino all’autovettura.2

II lettore, a questo punto del racconto, sa già che le af­ fermazioni dei Salvitti, in particolare della signora Anna, unica testimone di quella notte ancora in vita e di cui si co­ nosca l’identità oltre al Pelosi (al pari dell’ebreo russo, il quale però non è stato ascoltato come teste dalla procura), espongono una dinamica differente. Parlano, come visto in precedenza, di due brusche accelerate, di due forti frenate (come di mezzi che incontrano un ostacolo), della presenza di più veicoli nel luogo dell’agguato e di una voce che grida «aiuto». L’arrivo di Pasolini, ignaro di ciò che lo attende perché rassicurato dalla presenza di Pelosi, non prevede grandi mosse e trambusto. Il poeta, proveniente da via dell’Idro­ scalo, parcheggia vicino alla porta del campo di calcio, in at­ tesa che all’appuntamento, come concordato, si presentino altre persone. La foto mostra tutta l’evidenza delle tracce di pneumatici presenti nell’area del delitto. Sono tre quelle che, dalla porta del campo di calcio, si diramano separatamente: due, in retromarcia nella medesima direzione, sono della stessa grandezza; una traccia taglia invece obliquamente le prime, in linea d ’aria verso il corpo e verso l’altra probabile via d’uscita, riproducendo segni di battistrada meno ampi. 163

III. Colpi mortali

Dalla foto che segue, si possono chiaramente individuare le tre uscite possibili dalla zona, rispettivamente: - via dell’Idroscalo; - via dell’Acqua Rossa; - la strada che dal campo sportivo (CS) conduce anche a Ostia.

Foto pubblicata sul Tempo, il 7 novembre 1975. Le lettere indicano i se­ guenti punti: A. l’ingresso di Pasolini e Pelosi; B. il punto del ritrovamento della camicia insanguinata; C. il punto del ritrovamento del corpo; D. il percorso dell’auto del poeta in fuga; CS. la posizione del campo sportivo. 164

9. D oppio passaggio

Inoltre, buche nell’area in cui le tre tracce sono mostrate non ve ne sono. Il terreno frastagliato e pieno di fossi si trova sul lato opposto rispetto al punto in cui viene ritro­ vato il corpo. Pelosi, dunque, se fosse fuggito come da lui dichiarato (e come accettato in tutti i gradi di giudizio), non avrebbe incontrato alcuna buca. Ecco, infatti, la foto che mostra dove il terreno è interrotto da fossati:

Foto n. 5, inedita, delfascicolo dei rilievi tecnici della Polizia Giudiziaria.

Nel verbale di istruzione sommaria rilasciato dal capo della Squadra Mobile Fernando Masone, infatti, si legge: Debbo rilevare però che il cadavere è stato rinvenuto in un terreno non accidentato e precisamente sul lato sinistro del viottolo per chi proviene dal campo di calcio diretto in via dell’Idroscalo. Mi è sembrato strano che il Pelosi guidando la macchina del Pasolini e, nell’allontanarsi dal posto, abbia 165

III. Colpi mortali

eseguito una manovra di spostamento a sinistra arrotando il corpo dell’uomo giacente a terra quando sarebbe stato assai più agevole andare diritto sulla sua destra.3

Affinché si capisca perché il racconto di Pelosi sul sormontamento accidentale non potesse reggere sin dall’i­ nizio (racconto che tuttavia non è mai stato smentito pro­ prio in virtù del fatto che la presenza di più macchine non è mai stata provata), riportiamo qui la ricostruzione svolta dall’Europeo, che ancora una volta trova aderenza con i fatti occultati. Il settimanale milanese, infatti, il 21 novem­ bre del 1975,4 pubblica una foto che riproduce due diversi percorsi: quello riferito da Pelosi - ovvero la linea a destra dello scatto che raffigura una deviazione non comprensibile alla luce di una fuga rocambolesca - e quello più logico da compiersi scappando, visibile grazie all’altra linea scura in­ dicata sulla sinistra.

166

9. D oppio passaggio

Ma perché gli aggressori fuggono lasciando solo il ragazzo con tutta la versione già assimilata da riversare? Forse, nono­ stante i preparativi allestiti, di cui anche Pelosi come interme­ diario è parte, l’ex «rana», il soprannome datogli dalla stampa allora, non si aspetta di essere abbandonato. A che prò? Per consegnare il ragazzo alla pattuglia in servizio quella notte? A quella stessa pattuglia che in modo così grossolano ha reso dichiarazioni false e contrastanti sulla dinamica del fermo? E ancora: il veicolo dello scrittore, anziché essere usato per la fuga (la cui dinamica abbiamo riferito essere piena di in­ congruenze nel racconto dei carabinieri che hanno effettuato il fermo), è stato trovato sulla Tiburtina, come ha dichiarato dieci anni fa Sergio Cittì? Intanto, poiché durante il fermo non è avvenuto alcuno slittamento fuori strada o incidente, le condizioni esterne del veicolo con il quale sarebbe fuggito Pe­ losi appaiono troppo gravi per un semplice contatto con un paletto all’interno della rimessa della caserma, come dichia­ rato al tempo.5 Affinché si capisca questo ulteriore, oscuro passaggio pubblichiamo di seguito due foto inedite:

167

III. Colpi mortali

Foto sciolte dell’Alfa GT 2000 dello scrittore, contenute in una confezione all’interno del terzo faldone relativo alfascicolo processuale n. 1466/75.

L’avvocato Nino Marazzita, nel 2005, dichiara a questo proposito all’Unità: Erano due giorni che il magistrato incaricato delle indagini, un magistrato dei minori, non si faceva vedere. Allora andai io da lui e gli chiesi dell’auto. Mi rispose «Non so dov’è la macchina». Non l’aveva posta sotto sequestro insomma. Al­ lora andai io alla Procura generale per ottenere un decreto di 168

9. Doppio passaggio

avocazione, finalmente prendemmo la macchina, ma mentre la stavano trasportando in un garage per poter eseguire gli ac­ certamenti il poliziotto che la guidava ebbe un incidente.6

Un incidente capitato al momento giusto.

L’Alfa G T del massacro Finalmente è possibile dimostrare l’esistenza di u n ’altra macchina uguale a quella in possesso del poeta attraverso una foto, pubblicata ai tempi e passata inosservata. E dal confronto fra questa e l’immagine dell’auto di Pasolini che emerge la parte fondamentale di verità. I pneumatici dell’Alfa GT 2000 di Pier Paolo Pasolini (di tipo 165 HR 14)7 presentano un spessore largo e interstizi ben delineati:

Rilievifotografici dell’auto di Pier Paolo Pasolini, fascicolo n. 1466/75. 169

III. Colpi mortali

Subito di seguito, mostriamo un altro scatto pubblicato sul Tempo, quando uscirono i risultati parziali delle perizie. Soffermiamoci sulle ruote, il cui spessore è minore rispetto a quelle dell’Alfa dello scrittore:I

Foto pubblicata sul Tempo, il 4 novembre 1975. La didascalia riferiva: «La marmitta dell'auto con i segni del mortale urto contro il capo del registascrittore steso a terni».

I disegni del battistrada sono inoltre diversi. Dunque, il quotidiano romano pubblica una foto spacciando l’auto raf­ figurata per quella di Pasolini. Ma non è così. Spostiamo ora l’attenzione sul blocco centrale dove la marmitta - il cui tubo di scappamento bianco è ben visibile - si salda con il primo silenziatore dello scarico e con il foro di drenaggio dove tutti i liquidi vanno a convogliare. La foto mostra chiaramente come quella parte fosse parecchio dan­ neggiata, così come il perito Faustino Durante aveva dimo­ strato dovesse essere, analizzando la sottile differenza in cen170

9. D oppio passaggio

timetri esistente fra il terreno e la parte inferiore del veicolo (dai dodici ai sedici centimetri a seconda della consistenza degli elementi). Visto lo spazio ristretto, è inevitabile che il blocco evidenzi un danneggiamento dovuto all’impatto con il corpo dello scrittore. Situazione non presente invece sul blocco del motore dell’auto di Pasolini, come è altrettanto evidente nella foto che segue:

Voto dell’Alfa G T2000, targata K69996, dello scrittore.

171

III. Colpi mortali

La relazione tecnica, mai citata prima d’ora, se non a brevi stralci nella memoria civile, e presente nel fascicolo originario è molto utile per interpretare in chiaro queste immagini: Le strutture inferiori dell’autovettura si presentano in buone condizioni di conservazione, salvo leggero stato di ossido sui condotti di scarico [...]. Si rilevano lievi ammaccature nella zona inferiore sinistra della parte anteriore della carrozze­ ria nonché nei condotti di scarico e nella parte anteriore e inferiore del primo silenziatore. Lievi tracce di strisciate si notano nella fiancata interna del secondo silenziatore non­ ché nella parte inferiore del serbatoio della benzina. [...] E stata rivelata la presenza di evidenti tracce biologiche nella parte inferiore sinistra del veicolo. Tali tracce [...] potreb­ bero essere di sangue coagulato. [...] Sono poi visibili alcuni frammenti solidi che potrebbero risultare porzioni di tessuti epiteliali [di pelle, N.d.A.] e capelli [...] si nota una modesta quantità di piccole macchie scure nella parte inziale dei con­ dotti di scarico.8Il

Il sangue coagulato è ovviamente quello del poeta, la cui presenza è stata confermata dagli esami di laboratorio. Le parti presentato tutte «lievi ammaccature o strisciate». E qui che la contraddizione, non solo del racconto ma an­ che della dinamica ufficiale del sormontamento, si fa in­ sostenibile: la velocità di fuga non ha potuto provocare il danneggiamento che si evince guardando la foto del quo­ tidiano romano; l’andamento veloce del veicolo ha invece, com’è ovvio, lasciato le tracce di sangue e la presenza dei capelli dello scrittore. Se il veicolo di Pasolini non fosse stato rottamato da Davoli, come autorizzato dai familiari, gli esami del DNA, insieme ad altre tecniche probatorie come la BPA (Bloodstain Pattern Analysis),9 che permette 172

9. D oppio passaggio

lo studio della distribuzione e delle caratteristiche morfo­ logiche delle macchie di sangue, tecnica non utilizzata ne­ gli esami scientifici condotti dal RIS, si sarebbero potuti estendere negli anni più recenti anche all’auto. Il veicolo, e il suo abitacolo, sono, come sottolineato già dall’ex gene­ rale del RIS Garofano, più di un corpo del reato: è l’altra scena del crimine, è il «teatro reale» in cui molti elementi si sarebbero potuti estrarre per ricostruire una fase della dinamica. L’esame effettuato sull’Alfa dell’intellettuale, invece, viene intrapreso soltanto dopo quattro giorni dall’omicidio, la­ sciando che pioggia e ruggine facciano il loro corso: saranno quindi cancellate le macchie di sangue individuate subito sulla parte esterna del tettuccio della macchina, dal lato pas­ seggero, ormai divenute «incrostazioni di materiale rossa­ stro».10 A tale proposito, la corte di primo grado individua questo dato come uno dei tanti che indicano l’azione di più persone in concorso con Giuseppe Pelosi. U n’argomenta­ zione che è utile qui riportare: Sul tetto della macchina di Pasolini, dalla parte del pas­ seggero, sono state rinvenute delle incrostazioni rossastre che secondo le indagini peritali sono di sangue del Paso­ lini [...]. Se la testa di Pasolini avesse battuto sul tetto della macchina si sarebbero trovate altre tracce ematiche o di capelli (presenti in quasi tutti i reperti); se il sangue fosse schizzato direttamente dal capo del poeta le tracce emati­ che sarebbero state assai più consistenti data la notevole fuoriuscita di sangue [ricordiamo che il veicolo fu lasciato senza protezione per otto giorni prima dell’esame tecnico, N.d.AA, se il Pasolini, durante l’aggressione, si fosse appog­ giato all’auto più vistose dovevano essere le tracce lasciate e non quelle «piccole e tenui» rinvenute dai periti, proprio perché Pasolini era inzuppato di sangue e la lotta a ridosso 173

III. C olpi mortali

della macchina avrebbe necessariamente dovuto far rinve­ nire altre tracce. [...] Allora la «piccola e tenue» incrosta­ zione di sangue deve essere stata trasportata indirettamente dall’aggressore [...] un soggetto che si è appoggiato con una mano sul tetto dell’auto mentre con l’altra apriva la portiera per entrare nella macchina [...].

La persona che deve avere certamente le mani insangui­ nate, a questo punto, non può essere Pelosi che, al contra­ rio, non presenta sulla pelle alcuna macchia ematica, indi­ viduabile anche dopo il presunto lavaggio alla fontanella di cui parla nel suo racconto ufficiale. Chi ha consegnato Pelosi ai due appuntati o chi è fuggito con lui evidente­ mente sì.

Il doppio sormontamento Gli inquirenti della Procura di Roma, nelle loro prime con­ clusioni investigative del 2011, rilevano: Gli aggressori hanno voluto uccidere deliberatamente Pier Paolo Pasolini poiché le tracce dell’automobile ri­ levate sul terreno evidenziano inequivocabilmente che il conducente ha puntato il corpo del regista agonizzante a terra accelerando fin dall’inizio della corsa come a voler impattare il corpo dell’uomo al massimo della velocità e della potenza.11

La foto che segue riproduce il particolare del terreno vi­ cino al cadavere. Si nota la traccia impressa dalla ruota per dare forza all’accelerazione. Disamina che combacia perfet­ tamente con la testimonianza di Anna Salvitti, ritenuta in­ comprensibilmente non rilevante dalla magistratura. 174

9. D oppio passaggio

Foto n. 53 delfascicolo dei rilievi tecnici eseguiti dalla scientifica.

È qui che tuttavia il meccanismo del sormontamento si sdoppia, così come doppie sono le due Alfa GT che hanno provocato la sovrapposizione delle tracce di pneumatici sulla parte superiore del corpo, cancellandone una. È lo sdoppiamento che le attività investigative non hanno accer­ tato perché la presenza dell’altra Alfa GT 2000 è stata su­ bito archiviata e poco approfondita. Non è la forte velocità a provocare le profonde ferite allo scrittore. Scrive, infatti, il famoso medico legale Gerhard Buhtz, citato anche dal professor Umani Ronchi per altri motivi nella perizia, dive­ nuta ormai la mappa ufficiale, molto approssimativa .e poco obiettiva di quella dinamica, sulla quale però tutti si sono basati senza confutarla: 175

III. Colpi mortali In questa fase dell’investimento [l’arrotamento, N.d.A.] si determinano le lesioni interne, quali fratture e sfaceli trau­ matici dei visceri. Non raramente accade che la vittima venga arrotata in successione da una o più ruote. Ciò mol­ tiplica l’azione compressiva e conseguentemente i danni da schiacciamento rendendo così estremamente complessa la ricostruzione dell’evento lesivo.12

Lesioni e fratture talmente profonde, come mostrano chia­ ramente le foto più crude allegate alla prima perizia, di cui mostreremo solo quelle essenziali, che spiegano l’altra ve­ rità sul massacro mortale, da non poter essere provocate da un’auto che procedeva soltanto in avanti e in velocità. Foto che, in alcuni casi, mostrano ben impresse, appunto, le im­ pronte degli interstizi degli pneumatici. Come riferisce l’ingegner Cappuccini (la cui analisi poteva basarsi sullo studio di un’unica automobile): [...] si ritiene altresì potersi dedurre che il veicolo, allorché le tracce vi sono rimaste impresse, procedeva ad una velocità che doveva risultare relativamente elevata e probabilmente supe­ riore a quella normalmente tenuta da un veicolo in manovra.13

Nel supplemento di perizia voluto dal magistrato durante il dibattimento, nei primi mesi dèi 1976, dopo che il profes­ sor Durante mostra, spiazzando tutti, la foto delle tracce di pneumatici sulla schiena di Pasolini, i periti nominati dalla procura si «accorgono» di molte cose (sebbene a questo punto la confusione ben congeniata è tanta): Nella interpretazione di questo fenomeno va anche tenuto conto del fatto che «ogni qualvolta i pneumatici insistono più decisamente sul substrato, le impronte si accentuano e si imprimono con maggior forza e chiarezza sul substrato me­ desimo»; e ciò si verifica nel momento della improvvisa mo176

9. D oppio passaggio

dificazione della velocità, sia nel senso dell’accelerazione, sia nel caso della brusca frenata.14

E, come rivelano le differenze qui mostrate fra le parti in­ feriori delle due Alfa GT, l’alta velocità del veicolo dello scrit­ tore a far sì che tubo di scappamento, primo silenziatore di scarico e longherone passino indenni dai danneggiamenti che invece l’altra Giulia presenta. Quest’ultimo veicolo (1040 kg15 uniti al peso eventuale delle persone all’interno dello stesso), invece, in seguito a una accelerata e persistendo nell’azione di arrotamento, con un movimento trasversale in avanti e indie­ tro sulle parti, provocherà diverse «lesioni cutanee dirette alle regioni lombari e dorsali, lesioni cutanee all’addome e al to­ race, lacerazioni del fegato, 10 fratture costali, frattura dello sterno e infine scoppio del cuore».16Un massacro che non po­ teva avvenire passando di volata per fuggire, dunque, e che ha provocato il sovrapponimelito delle ruote visibili sulla schiena del poeta, cancellando per sempre la presenza effettiva dell’al­ tra macchina. Un’operazione caratterizzata da una precisione e un’organizzazione inaudite. Il giorno del verdetto di primo grado, nell’aprile del 1976, il giornale l’Unità riferisce di alcuni contenuti che la memoria di parte civile (Marazzita e Calvi) avrebbe dovuto riportare: «L’automobile di Pasolini non è stata spostata da Pelosi ma da un altro aggressore»,17 sempre stando alle indiscrezioni che qualcuno vicino ai legali di parte della famiglia ha svelato ai cronisti. Nella memoria civile, tuttavia, in cui anche gli av­ vocati dichiarano, d’accordo con la famiglia dello scrittore, di ritirare la propria costituzione di parte, non vi è alcun ri­ ferimento in merito alla guida del veicolo da parte di un al­ tro aggressore. Anche qui la guida è sempre e solo rapportata alla volontà dell’imputato ufficiale, Pelosi, sebbene, come sappiamo, Marazzita e Calvi abbiano dichiarato la loro con­ vinzione sull’esistenza di complici. È doveroso chiedersi come 177

III. Colpi mortali

mai la parte civile abbia «rallentato» in corsa, è il caso di dire, l’argomentazione su questa dinamica precisa e se il suo ritiro dal processo non fosse collegato a questo aspetto. L’impressione è che il ritirarsi della parte civile possa essere avvenuto per altre ragioni. Le motivazioni ufficiali riportate dalla stessa non sembrano convincenti alla luce di questo det­ taglio emerso. La foto mostrata qui per la prima volta e pub­ blicata sul Tempo riproduce dunque l’altra Alfa GT 2000, uguale a quella del poeta, fatta riparare dal carrozziere Ciancabilla (come dichiarato dai testimoni Sperati e Parrello, e da Ciancabilla, con reticenza, negato), riparazione che Sperati, l’altro carrozziere, si era invece rifiutato di fare. Il quotidiano la presentò come la «macchina dello scrittore»; al contrario, qui mostriamo in modo inequivocabile come la forza dei fatti, resa dalle immagini, avrebbe potuto mettere fine sin dall’ini­ zio a una trama falsificata giunta fino a noi.

L’Alfa di Pasolini Ma non fermiamoci qui, andiamo oltre, e mostriamo an­ che come il veicolo di Pasolini sia passato, ma solo veloce­ mente, sopra il corpo dello scrittore non determinandone la morte che invece è stata provocata, attraverso «una rottura del cuore con emopericardio», dall’altra Alfa. Una rottura operata a carico del margine laterale del ventricolo destro del cuore, dove «è stata rilevata una lacerazione traversale [... .]».18 Il sormontamento con l’Alfa GT dello scrittore non è stato effettuato da Pelosi (il quale non era in grado di gui­ dare al tempo come oggi,19 e soprattutto non poteva esserlo in quel frangente) ed è avvenuto in velocità. L’Alfa di Paso­ lini è guidata da altri: all’interno, infatti, il plantare e il pul­ lover verde vengono dimenticati; per questo è plausibile che nel veicolo vi fossero saliti sin da Acilia, perché nell’imme­ 178

9. D oppio passaggio

diatezza dell’atto, il sormontamento, non avrebbero certo lasciato lì degli oggetti incriminanti. Le perizie ufficiali volute dalla procura di allora, infatti, hanno avuto gioco facile nel mostrare la presenza delle tracce ematiche e degli elementi piliferi sull’auto di Pasolini: [...] le strutture inferiori dell’autovettura presentavano «evidenti tracce biologiche». Dette tracce biologiche erano rappresentate prevalentemente da materiale che si è rivelato successivamente di certa natura ematica, e da elementi fila­ mentosi successivamente identificati come capelli umani.20

La foto dell’autovettura di Pasolini presente nel vecchio fascicolo lo dimostra:

Foto dei rilievi tecnici dell’autovettura, faldone 1 delfascicolo n. 1466/75. Le tracce biologiche sono evidenziate dai cerchi di colore bianco mostrati in foto. 179

III. Colpi mortali

Nei rilievi c’è qualcosa che però sfugge. Sotto le unghie di Pasolini, infatti, i periti medico-legali prelevano del mate­ riale organico, ma nessuno spiega a chi appartenga visto che sul corpo di Pelosi non vi sono segni di colluttazione o graffi. La perizia medico-legale ufficiale a questa domanda non ha saputo o voluto rispondere: il paragrafo dedicato a questo esame è molto lacunoso. Alla luce di nuovi esami scientifici, quel materiale prelevato non più presente fra i corpi di re­ ato e gli elementi repertati in fiale, avrebbe potuto rivelare da chi (se si fosse utilizzata anche la tecnologia BPA insieme all’esame del DNA dei sospettati nuovi o già individuati) lo scrittore si difese durante l’aggressione.

Un macchina targata Catania Attenzione: la presenza di una macchina targata Catania è dal 2005, quando Pino Pelosi ne parla durante la trasmissione Ombre sul giallo di Franca Leosini, un elemento persistente di questa vicenda. L’ex imputato ufficiale racconta di un’auto con cui tre uomini che lo avevano minacciato sarebbero fug­ giti via subito dopo l’aggressione. E, dal 2009, il tipo di vet­ tura si affaccia realmente sulla scena: una Fiat 1300, 1500 o 1100 (modelli comunque simili tra loro al tempo). Il 2009 è anche l’anno in cui Pelosi fa chiara menzione del numero de­ gli aggressori intervenuti sul luogo, inclusi i tre picchiatori: due fratelli dell’estrema destra tuttora vivi e l’«uomo con la barba», con un ruolo di coordinamento, oltre ai due fratelli Borsellino: «Quei due stavano tramando qualcosa di brutto, me ne sono accorto subito».21 A questi si aggiunge, inoltre, un secondo uomo alla guida dell’altra Alfa GT: presumibil­ mente Antonio Pinna, il quale, tuttavia, non deve essere stato l’unico adulto all’interno del veicolo perché, come abbiamo visto dalla testimonianza del carrozziere, con lui ci sono altri 180

9. D oppio passaggio

due uomini. Sei in tutto, dunque, quelli la cui presenza «Pelosino» ha potuto constatare nel luogo semibuio e affollato della mattanza. Sette, compreso sé stesso. Pelosi, dunque, non è il deus ex machina-, qualcuno ha permesso che lo diventasse, questo sì. All’agenzia di stampa ANSA una volta ha spiegato: «Ho dato input, indicazioni, ho parlato ma non tocca a me dire di più. [...] Alla verità manca ancora un 15 % della storia».22 Si tratta della percentuale in buona parte qui emersa. Dal fascicolo processuale, che tanto ancora contiene di quella notte e oltre, salta fuori un indizio sull’auto targata Catania, elemento menzionato anche nel li­ bro del regista Marco Tullio Giordana. La si cita in alcune lettere anonime, alquanto sgrammaticate, acquisite durante le indagini ma non oggetto di approfondimento o di apertura di alcun nuovo filone investigativo. Una, recapitata il giorno successivo alla sentenza (il 27 aprile 1976) al giornalista di Pa­ ese Sera Franco Rossi e da questi consegnata all’avvocato di parte civile Nino Marazzita, contiene le seguenti parole: Egregio sig. Franco Rossi, sono un ragazzo di 15 anni la notte tra IT e il 2 novembre io ero alla stazione [...] si met­ temmo a discutere di certi papponi che gironzolavano per la stazione su una Giulia targata CT42 (Catania) [...] la Giulia con i 4 magnaccia li seguirono [a Pasolini e Pelosi, N.d.A.]. Pelosi è assolutamente innocente quei 4 lo hanno minac­ ciato di morte se diceva una sola parola su tutto.23

Una ventina di giorni dopo, il 12 maggio 1976, un’altra lettera giunge direttamente a Marazzita: Senda se mi vonno ascoltare le chiacchiere stanno tutte a zero. Io sono uno di loro [...]. Dunque Pelosi e gli altri 4 l’aspettavano già tutto sommato e architettato [...]. Si sono partiti con la macchina targata Catania all’Idroscalo ne sono arrivati due soltanto con una motoretta. [...] Siamo almeno 181

III. Colpi mortali

200 che stavamo sempre lì per compinare qualcosa e tutti sappiamo tutto però nessuno parla, perché i spavaldi dice­ vano che chiunque parlasse li fanno fuori a Oriana Fallaci le anno promesso e giurato col passar del tempo la devono eliminare [...].24

Sappiamo, a questo punto, che i racconti rischiano di af­ fastellarsi, cancellandosi a vicenda, ma è questo lo scopo e a noi non resta che portare sul tavolo tutti gli elementi che hanno contribuito alla mistificazione del dramma, cercando di fare chiarezza. Ovviamente, si è preferito addebitare a millantatori poco lucidi la provenienza di queste lettere, le cui grafie differi­ scono l’una dall’altra. Tuttavia, in molti casi irrisolti di stragi o di efferati delitti, inseriti in determinati contesti di desta­ bilizzazione, compaiono spesso messaggi o rivendicazioni di finti anonimi: qualcuno coinvolto che ha avuto un barlume di coscienza e che rivela parti di verità e qualcun altro che sem­ plicemente ha intenzioni ricattatorie. Eppure, la presenza di più elementi che portano a questo dato (una Giulia targata CT42) non poteva essere ignorata. Sarebbe stato opportuno verificare attraverso il Pubblico Registro Automobilistico quante vetture di quel modello e con quella parte di targa fos­ sero in circolazione: non crediamo molte. Se qualcuno non lo ha fatto, un motivo c’è. Ma lo vedremo alla fine di questo li­ bro. Per ora è importante ricordare questa città: Catania.Il

Il corpo che parla Prima che il corpo del poeta venisse trasportato nelle fredde stanze dell’obitorio, molte erano le tracce evidenti che avrebbero condotto i periti a non mescolare le carte se solo fossero state isolate e individuate seguendo le procedure. 182

9. D oppio

passaggio

C’è una foto inedita e molto cruda (ragion per cui a lungo si è esitata qui la pubblicazione), ma anche imprescindibile affinché la verità emerga nella sua totalità: è la foto del corpo che parla e non ammette interruzioni o censure.

Foto n. 33 del fascicolo n. 1466/75 ripresa 'dalla sinistra dello spiazzo sterrato rispetto al punto d’entrata da cui provenivano Pasolini e Pelosi. L’immagine a colori distingue nettamente le due sostanze. La posizione del corpo è quella ritrovata dalla scientifica al suo arrivo. Il corpo sarà successi­ vamente girato.

183

III. Colpi mortali

L’olio della coppa, la coppa danneggiata dell’Alfa GT presumibilmente di Antonio Pinna, è qui ben visibile sul capo e il volto martoriati del poeta. Adeso sui capelli, attra­ versa il capo di Pasolini terminando il suo percorso sull’o­ recchio sinistro [rif. a) della foto sopra] e mescolandosi al sangue: è scuro, nero ma ben si differenzia dalla presenza ematica che si sparge tutto intorno [rif. b)]. E come una riga che divide in due metaforicamente il capo. Sulla canot­ tiera verde, alcune macchie tonde marroni compaiono in prossimità del collo [rif. c)]: sono le tracce dell’olio scuro. La foto, inoltre, come spiegano le didascalie, è ripresa dalla sinistra del campo. E una indicazione importante e inedita, questa, perché sulla spalla sinistra di Pasolini, im­ presse chiaramente sulla canottiera [rif. d)] compaiono delle tracce di pneumatici che non sono quelle mostrate dal perito di parte civile Durante (le tracce oblique e verti­ cali presenti sulla schiena), ma provengono dalla direzione opposta. Segno incontrovertibile della volontarietà del ge­ sto eseguito passando più volte sopra la testa, in modo tra­ sversale e da altra direzione, probabilmente da un altro vei­ colo, considerata la grandezza delle tracce lasciate dal b at­ tistrada e tenendo in mente ciò che abbiamo raccolto sin qui, ovvero la presenza di più veicoli e persone. Riguardo alla presenza di olio sui capelli dello scrittore, i periti non indicano nulla, rilevando soltanto «entità di granuli di pig­ mento scarsamente rappresentati». Spostiamo il nostro sguardo e, dalla lingua di terra e sale dell’Idroscalo, portiamoci verso il freddo metallo del labo­ ratorio di medicina legale. Il corpo di Pier Paolo Pasolini continua a parlare anche se ormai immobile. Qui i segni del pestaggio che le fragili tavolette di legno (non più pesanti di settecento-ottocento grammi, mediamente, l’una) non pote­ vano provocare vengono mostrati chiaramente da un’altra foto inedita,25 anch’essa brutale ma necessaria. 184

9. D oppio passaggio

Foto n. 77, presente nel falcione n. 1 del fascicolo n. 1466/75. Rilievi eseguiti il 3 novembre 1975 presso l’Istituto di Medicina legale da ufficiali di Polizia Scientifica. E possibile individuare altri segni simili a colpi di catena o frustate su quasi tutto lo spazio dorsale; qui si è voluto segnalare soltanto ipiù evidenti.

185

III. Colpi mortali

Con Concutelli, durante l’intervista del dicembre 2014, si è parlato di questa foto, e il commento dell’ex comandante di M PON è stato lapidario: «Non ha mai interessato gli inqui­ renti», convenendo con chi scrive. Andiamo a vedere perché. La foto, qui mostrata in verticale rispetto alla posizione ori­ ginaria, riproduce il corpo steso di schiena sul lettino dell’o­ bitorio. Sulla parte sinistra della schiena, si può individuare la traccia rettilinea degli pneumatici che - scrivono gli ufficiali della scientifica di allora - «all’altezza della coscia destra del cadavere si interrompe» [rif. a) ]. E possibile qui confrontare le due foto per rendersi conto che le tracce delle ruote pre­ senti sulla spalla sinistra del poeta [rif. d) a p. 185] proven­ gono da un’altra direzione rispetto a quelle mostrate in questa foto. Sono poi visibili alcune escoriazioni sulla spalla destra in alto, fra il collo e la canottiera dai lembi rialzati [rif. b)]. Scen­ dendo con lo sguardo oltre il lembo della canottiera, si notano dei segni profondi la cui larghezza è compatibile con l’uso di una catena [rif. c)]. Ve n’è un’altra dello stesso tipo, ma di grandezza minore, al centro della schiena [rif. d)] che precede altre ferite simili a quelle lasciate da colpi di frusta [rif. e), f)]. Di catene scrisse anche Oriana Fallaci nella sua controin­ chiesta, riportando le parole del suo «testimone misterioso»: Pasolini riusci a raggiungere l’automobile e si apprestava a salirci quando i due giovanotti della motocicletta lo agguan­ tarono e lo tirarono fuori. Pasolini si divincolò e riprese a fug­ gire. Ma i tre gli furono di nuovo addosso e continuarono a colpirlo. Stavolta con le tavolette di legno e le catene.26 Dòpo molti anni, ne parlerà anche Giuseppe Pelosi incal­ zato dalla giornalista Raffaella Fanelli su Sette, l’inserto del Corriere della Sera, su un punto: D: «Pasolini non si è difeso?» R: «Che poteva fare? Avevano catene, bastoni».27 186

9. D

o p p io p a s s a g g io

Sempre tranci di verità sovrapposti a elementi fattuali. Altri segni, questa volta tondeggianti, si individuano sparsi sulla schiena. A definirne per la prima volta l’origine saranno proprio le parole di Pierluigi Concutelli, nell’inter­ vista rilasciata a chi scrive i cui stralci i lettori hanno già po­ tuto leggere: D: «Quei segni tondeggianti non possono essere stati cau­ sati da un bastone o una tavoletta di legno: sembrano essere stati provocati da un qualcosa di più pesante» R: «Sì, tondini di ferro». L’ex comandante dell’M PON è il primo a fare questo ri­ ferimento ed è il primo a riferirsi anche all’azione del pestag­ gio («Pestano, lo pestano», risponderà durante il dialogo). Tondini di ferro, tipici strumenti da pestaggio, appunto, insieme a catene e bastoni, usati anche per fissare armature di cemento: si tratta di lunghi bastoni di ferro dalla punta tondeggiante. Sono i segni che anche la perizia di allora senza attribuirli a dei tondini - ha rilevato, contrariamente alle tracce delle catene, mai individuate: [...] escoriazioni grossolanamente rotondeggianti del dia­ metro di circa 2 cm distanti fra loro 1,5 cm.28 Sulle spalle, infine, si possono notare le lesioni provocate dal passaggio del veicolo o dei veicoli. Quest’ultima foto, appena mostrata, più di ogni altra pre­ senta la firma politica di chi ha colpito incessantemente lo scrittore. Non pubblicheremo altre immagini del corpo mar­ toriato e irriconoscibile perché non è una forma di voyeri­ smo che ci interessa qui produrre, quanto piuttosto i colpi mortali che quella notte hanno risuonato come il ferro usato.

187

'

Parte quarta P e r c h é il m a s s a c r o ? Gli italiani vogliono consapevolmente sapere chi sono gli esecutori materiali e i mandanti, connazionali, delle stragi di Milano, di Brescia, di Bologna... Perché il Processo, in Corriere della Sera, 28 settembre 1975, poi in Lettere luterane, 1976

Capitolo decimo

I l omicidio Mattei e V«Appunto 21»: due piste monche

Smetto di essere poeta originale, che costa mancanza di libertà: un sistema stilistico è troppo esclusivo. [...] Naturalmente per ragioni pratiche. Comunicato all’ANSA [scelta stilistica], in Trasumanar e organizzar, 1971-1976

Le pagine mancanti Negli ultimi cinque anni di indagine, ovvero dal 2010 al maggio 2015, si è fatto spesso riferimento a Petrolio, l’ultima opera, incompiuta, di Pier Paolo Pasolini, la cui stesura ebbe inizio nella primavera del 1972. Una «presenza» che ha viag­ giato in parallelo, senza mai incontrarsi concretamente, con l’inchiesta sulla morte del poeta. Un corpus «ingombrante» verso cui personaggi della politica, dell’industria, testimoni e intellettuali hanno via via mostrato il loro interesse appro­ priandosi di questo o quell’elemento. Il vocio che si è rac­ colto intorno ad essa ha smorzato però alcune verità. La Procura di Roma, infatti, non si è mai addentrata nelle pa­ gine di quel testo alla ricerca di elementi che permettessero agli investigatori di andare oltre il movente sessuale ampia­ mente smontato nel presente libro. Un magistrato di un’altra procura lo ha fatto, vedremo come. Petrolio o Vas (titolo poi scartato dall’autore)1 è un vero e proprio documento, come lo è La Divina Mimesis2 e, sotto altra forma, il film Salò. Tutte e tre le opere sono percorse

IV. P erché il massacro?

dallo schema dei gironi infernali danteschi, trasposti in un contesto contemporaneo, sul quale il poeta affonda le sue critiche taglienti e percorre la sua personale indagine.3 Lo stile usato in Petrolio è quello «che si adopera per la saggi­ stica, per certi articoli giornalistici, per le recensioni, per le lettere private o anche per la poesia: rari sono i passi che si possono chiamare [decisamente] narrativi»,4 come scrive Pasolini stesso nella lettera ad Alberto Moravia mai spedita e apposta in calce all’opera. Una sorta di superamento della forma romanzo,5 la quale, secondo il poeta, non è più suffi­ ciente a far comprendere la verità dei fatti al lettore: Se io dessi corpo a ciò che qui è solo potenziale, e cioè inven­ tassi la scrittura necessaria a fare di questa storia un oggetto, una macchina narrativa che funziona da sola nell’immagina­ zione del lettore, dovrei per forza accettare quella convenzio­ nalità che è in fondo giuoco. Non ho voglia più di giocare/’

All’amico e scrittore Paolo Volponi, Pasolini riferisce: Deve essere un lungo romanzo, di almeno duemila pagine. S’intitolerà Petrolio. Ci sono tutti i problemi di questi venti anni della nostra vita italiana politica, amministrativa, della crisi della nostra repubblica: con il petrolio sullo sfondo come grande protagonista della divisione internazionale del lavoro, del mondo del capitale che è quello che determina poi questa crisi, le nostre sofferenze, le nostre immaturità, le nostre debolezze, e insieme le condizioni di sudditanza della nostra borghesia, del nostro presuntuoso neocapitalismo.

Lo scrittore corsaro, dunque, non ha più voglia di «gio­ care». È un cambio di passo il suo: linguistico, stilistico e di forma. Vuole confrontarsi con la realtà utilizzando il giorna­ lismo investigativo (mediante l’uso incrociato delle fonti e il loro collegamento) pur non rinunciando alla sua anima da letterato. 192

10. L’omicidio M attei e l ’«A ppunto 21»: due piste monche

Durante la prima presentazione del libro nel 1992, il fi­ lologo Aurelio Roncaglia motiva così la lunga attesa per la pubblicazione: Abbiamo atteso tanto prima di tutto per i temi scottanti, sia dal punto di vista politico che erotico, che Pasolini tratta; in secondo luogo perché un’opera di una tale incompiutezza poteva anche nuocere all’autore. Ma non potevamo censu­ rarlo. Anche Piero Gelli, direttore editoriale di Einaudi, ha ammesso di aver avuto qualche perplessità trattandosi di un’opera scomoda.7

Cinquecentoventidue pagine o veline (il tipo di carta uti­ lizzata da Pasolini), per lo più dattiloscritte, invece delle due­ mila programmate che avrebbero dovuto raccogliere l’intera visione pasoliniana del potere. Il 26 dicembre del 1974, tuttavia, come riferisce anche Roncaglia nella nota filologica all’opera, Pasolini si esprime in modo piuttosto preciso in merito al numero delle pagine: Nulla è quanto ho fatto da quando sono nato, in confronto all’opera gigantesca che sto portando avanti: un grosso Ro­ manzo di 2000 pagine. Sono arrivato a pagina 600, e non le dico di più per non compromettermi.8Il

Il 10 gennaio 1975, sulla Stampa, il poeta ripete la stessa cifra al giornalista Lorenzo Mondo: «seicento pagine abboz­ zate sulle duemila definitive». E la conferma della mancanza o addirittura della scomparsa di circa settantotto pagine (600-522) del dattiloscritto, quantomeno stando agli ele­ menti certi a disposizione. Il numero indicato dallo scrittore è così preciso che la laconica spiegazione, nella stessa nota filologica di Roncaglia, secondo cui la cifra annunciata da Pasolini era un arrotondamento per eccesso,9 resta insuffi­ ciente. Stonano a questo proposito, inoltre, le parole dell’e­ rede Graziella Chiarcossi in un’intervista rilasciata nel 2005: 193

IV. P erché il massacro?

«D’altra parte pochissimi sapevano di Petrolio prima che Pier Paolo morisse e quei pochissimi erano amici scrittori come Volponi e Siciliano»,10 quando invece, come abbiamo visto, il poeta ne aveva parlato pubblicamente. Un altro an­ nuncio, tra gli ultimi, al riguardo lo rilasciò nel giugno del 1975 alla giornalista polacca Eugenia Wolfowicz, in un’in­ tervista realizzata per la rivista letteraria newyorkese Anthaeus. Persino su una rivista straniera, dunque, il poeta co­ municò il suo progetto.

Le carte scomparse Il 24 ottobre 2005, Guido Mazzon, musicista jazz, scrittore e cugino di Pier Paolo Pasolini, che ha permesso la riapertura delle indagini nel 2010, in un’intervista rilasciata al poeta Gianni D ’Elia, poi ripresa dai giornali, riferirà di due telefo­ nate ricevute dalla cugina Graziella Chiarcossi al tempo: ri­ spettivamente, una all’indomani della morte dello scrittore, e l’altra a pochi mesi o settimane dalla stessa: Mi ricordo bene quello che mi disse - aveva dichiarato Maz­ zon riguardo alla seconda telefonata: «Sono venuti i ladri in casa, hanno rubato della roba, gioielli e carte di Pier Paolo».

Nell’altra telefonata, la prima in ordine di tempo, la Chiarcossi si sarebbe espressa chiaramente in merito alla morte: «I fascisti hanno ucciso Pier Paolo».11 Tuttavia, la fi­ loioga, nell’intervista di Paolo Mauri sopra citata, dichiarerà smentendo il parente: Un furto in casa c’era stato, quando lui [Pasolini, N.d.A.] era ancora vivo, ma i ladri erano dei ladri ordinari. Si erano limi­ tati a portare via le solite cose: pochi soldi e qualche gioiello.12 194

10. L’ omicidio M attei e l ’«A ppunto 21»: due piste monche

Proprio di recente, inoltre, uscendo dal suo lungo riserbo, l’erede del poeta, infastidita da ciò che, secondo lei, sono fal­ sità intorno al «mistero» del dattiloscritto, chiarisce meglio i dettagli del furto intervenendo personalmente sul Sole 24 ore: Prima del novembre del 1975 ci sono stati due furti nella casa di Via Eufrate, dove abitavamo, e credo che i carabi­ nieri dell’Eur conservino copia della denuncia di almeno uno di quei furti. Penso che si siano intrufolati sempre gli stessi ladri perché la prima volta Susanna e io eravamo in casa, sono entrati dal giardino e hanno fatto tutto in fretta portando via i pochi gioielli che avevamo la zia e io e i soldi della sua pensione. La seconda volta rientrando (Pier Paolo, Susanna, i miei genitori e io) abbiamo trovato la serratura manomessa. I ladri hanno avuto più tempo a disposizione e hanno portato via il denaro che stava nel cassetto della scri­ vania di Pier Paolo e altri oggetti più o meno preziosi.13

Non esiste, tra le carte ufficiali, un verbale che attesti che il furto sia avvenuto dopo la morte di Pasolini. E tuttavia proprio questo il cuore della questione: determinare cioè quando esattamente il fatto si è verificato. Ciò non significa però che lo stesso sia solo una leggenda: abbiamo visto come molti documenti non siano mai confluiti nell’incartamento processuale, e come altri siano stati manomessi o fatti spa­ rire. Altri ancora sono stati accumulati in modo casuale nel fascicolo, senza la benché minima analisi o apparente appro­ fondimento. Di questo furto non esiste evidenza neanche sui quotidiani dell’epoca, almeno per quanto da noi riscontrato. Ma tutto ciò (lo abbiamo spiegato nelle pagine precedenti), potrebbe aver fatto parte dell’attività sistematica di depistaggio e intossicazione che ha caratterizzato sin dall’inizio le indagini sul massacro. A questo punto il dato è finito in una bolla di contrappo­ ste verità fra la Chiarcossi e Mazzon. Lasciamo da parte l’ipo195

IV. P erché il massacro?

tesi del furto (i cui riferimenti in questa storia sono utili affin­ ché il lettore possa farsi una propria idea in merito, e inoltre contribuiscono alla ricostruzione tutta del «problema») e ve­ diamo cosa può essere accaduto stando ai documenti. U n’estimatrice dello scrittore e fondatrice del sito «Pier Paolo Pa­ solini - Pagine corsare», Angela Molteni,14 scrive: H o memoria personale, per esempio, che nel 1975, a inda­ gini in corso per l’omicidio dello scrittore, sul «Corriere della Sera» fu pubblicata una notizia nella quale si riferiva che nella casa all’Eur di Pasolini, in cui il poeta abitava con la madre e la cugina, era stata effettuata una perquisizione. Nel corso di quell’intervento gli agenti avevano sequestrato «carte dello scrittore».

Si tratta di un elemento interessante che ci ha indotti a ritornare alla fonte originaria di questo lavoro, così ricca di notizie e fatti in sé: il fascicolo n. 1466/75. La notizia, infatti, potrebbe avere un qualche fondamento: esiste nell’incarta­ mento originario un verbale di perquisizione dell’8 novem­ bre 1975 che fa riferimento ad alcune «carte». Si parla di un controllo su «carte e numeri di telefono» eseguito in pre­ senza della Chiarcossi e dell’allora avvocato Nino Marazzita. Non si evince se le carte siano state anch’esse portate via dagli investigatori, ma se la Chiarcossi ha fatto davvero ri­ ferimento a un furto di carte, qui potrebbe risiedere la spie­ gazione. Un «mistero» che si mostrerebbe per quello che è in realtà: una deliberata sottrazione di documenti, magari avvenuta all’insaputa dei familiari e dell’avvocato. La par­ ticolarità del verbale sta proprio nella differenza con cui si indicano dettagliatamente alcuni documenti rinvenuti, i nu­ meri di telefono e gli oggetti sequestrati, che contrasta con il riferimento, al contrario molto vago, alle carte in questione. Non emerge alcun particolare al riguardo e nei faldoni suc­ cessivi non se ne fa mai menzione: potrebbero essere state 196

10. L’omicidio M attei e l ’«A ppunto 21»: due piste monche

carte importanti. Si trattava di documenti, e non necessaria­ mente di parti del romanzo stese direttamente dal poeta, che potevano servirgli a integrazione dei suoi scritti? La pole­ mica e la confusione lasciate crescere e imperversare intorno all’«Appunto 21», di cui a oggi sappiamo esista soltanto il titolo, Lampi sull’ENI, hanno favorito l’accrescersi dell’aura di mistero e distolto l’attenzione dal fatto oggettivo della mancanza di alcune carte forse ancora più rilevanti.

E «Appunto 21»: lampi che poco illuminano I riferimenti nell’opera all’«Appunto 21», Lampi sull’ENI, sono più di uno. Un primo riferimento, in modo specifico, è presente in uno degli schemi progettuali, inclusi nell’opera in forma manoscritta o dattiloscritta dal poeta, e apposto in calce.15 Un altro riferimento è quello più stringente e si trova nell’appunto successivo, il 22a: Per quanto riguarda le imprese antifasciste, ineccepibili e rispettabili, malgrado il misto, della formazione partigiana guidata da Bonocore [Enrico Mattei, N.d.A.], ne ho già fatto cenno nel paragrafo intitolato «lampi sull’Eni» e ad esso rimando a chi volesse rinfrescarsi la memoria.16

Chi per primo ne ha fatto cenno è stato il poeta Gianni D ’Elia, in un libro da cui poi sono scaturite le altre inchieste «a tesi». E essenziale riferire quanto d’inedito ci ha dichia­ rato al telefono D ’Elia, a cui si devono due opere importanti su Petrolio-.11 All’indomani della pubblicazione dell’articolo di Paolo Di Stefano sul Corriere della Sera18 (che subì mille peripe­ zie), per circa una settimana io e Giovannetti [Giovanni, l’editore, N.d.A.\ subimmo per alcuni giorni consecutivi il 197

IV. P erché il massacro?

blocco del telefono; a Giovannetti fu avvelenato il cane, a me arrivarono anche strane telefonate di minaccia.19

L’articolo di Di Stefano recensiva l’ultimo libro di D ’E­ lia, L’eresia di Pasolini. A differenza di altri filoni d’inchiesta giornalistica, che hanno collegato, forzando un po’ la mano, la morte di Mattei alla scomparsa dell’«Appunto 21», e indi­ cando in quest’ultimo il movente del massacro a Pasolini, il te­ sto di D ’Elia è quello che tra tutti ha analizzato meglio la parte relativa alle stragi sin dalla scelta del titolo, seppure non esclu­ dendo del tutto il movente Mattei. Forse per la prima volta, qualcuno era andato un po’ oltre la solita vulgata che di lì a breve imperverserà. Nelle righe presenti nell’«Appunto 22a», il poeta sottolineava come il «misto» avesse cancellato gli op­ posti estremismi e avesse accompagnato il nostro Paese verso una informe mescolanza politica giunta sino ai giorni nostri. Concetto espresso sotto varie forme in altri suoi scritti. È la perversione che si annida sin dalla Resistenza: l’ambiguità. L’ambiguità del partigiano Cefis20 e di Enrico Mattei, il quale, è ormai noto, usava i partiti per i suoi fini e si circondava di ex repubblichini ritenuti da lui validi collaboratori. In Petrolio queste «perversioni» di entrambi i protagonisti (dalle caratte­ ristiche diverse ma per certi aspetti rivelatesi complementari), fusi in uno solo, sono ben rappresentate e dimostrano come le stesse, sin da allora e con le dovute differenze fra i due perso­ naggi, abbiano condotto alla corruzione della politica: Un uomo e il suo doppio, o il suo sosia. Il protagonista è ora l’uno ora l’altro. Se A ha un sosia B, B ha un sosia A, ma in tal caso egli stesso è A. E la dissociazione schizoide che divide in due una persona, riunendo in A alcuni caratteri e in B altri, ecc.21

Pasolini fa spesso riferimento alla rappresentazione sdop­ piata dei due protagonisti, Tetis e Polis o Troya e Bonocore 198

10. L’omicidio M attei e l ’«A ppunto 21»: due piste monche

(come in alcuni casi vengono nominati, rispettivamente, Cefis e Mattei). Certo, Mattei optava per la «via italiana del petrolio» e quindi per un’autonomia economica del Paese, slegata dal controllo degli altri cartelli petroliferi americani e francesi. Mattei tra i due insomma era quello «più buono»: il nome scelto, Bonocore, risulta infatti appropriato. Il ma­ gistrato Vincenzo Calia, nella sua richiesta di archiviazione sulla morte dell’ingegnere - in cui riuscì a provare l’atten­ tato che fece precipitare l’aereo privato sul quale viaggiava Mattei insieme al pilota e al giornalista americano William McHale, ma non a individuare i colpevoli e i mandanti - ha inserito a margine una lunga nota che riporta alcuni estratti del libro Petrolio in riferimento alle identità di Cefis e Mat­ tei riconducibili a quella doppia del protagonista Carlo.22 In calce alla nota, Calia, oggi assegnato a Genova, riproduce anche alcuni passaggi sul capitolo mancante. L’opposizione dei familiari di Pasolini, e in generale di chi non crede nell’e­ sistenza di questo capitolo, si attesta sul fatto che si potrebbe trattare di uno dei rimandi dell’autore a cui ancora non aveva fatto seguito uno scritto vero e proprio. La Chiarcossi, sempre a Mauri sulla Repubblica, chiosa: «Sarebbe meglio dire che di quel capitolo è rimasto solo il titolo, come per tanti altri rimasti in bianco». Una cosa, intanto, è certa: l’«Appunto 21» non è l’unico a mancare. La scomparsa del capitolo Lampi sull’EN I è stato, però, sin dal 2005, il riferimento con cui si è cercato e si cerca tu tt’ora di spiegare il movente che ha condotto alla morte Pier Paolo Pasolini. Al pari dell’agenda rossa di Paolo Borsellino o della valigetta 24 ore del generale Carlo Alberto dalla Chiesa.23 Anche in Profondo Nero dei giorna­ listi Lo Bianco e Rizza, inchiesta fondamentale sotto molti aspetti, non ultimo quello dell’intervista a Pino Pelosi, l’im­ portanza di questo capitolo legato alla scomparsa di En­ rico Mattei (soprattutto nell’epilogo) viene sottolineata in 199

IV. P erché il massacro?

quanto eventuale movente comune fra le morti di Mattei, De Mauro e Pasolini: Si scopre così che Petrolio non è solo un’opera letteraria ma una clamorosa denuncia che riguarda l’uccisione di Mattei. Una denuncia scagliata come un sasso verso quell’Italia che ha comodamente archiviato il caso come un incidente aereo dovuto al caso o all’imperizia del pilota.24

In effetti, la recente storia italiana ci insegna che c’è sem­ pre un «oggetto» sul quale tutto va a puntarsi nelle indagini sulle stragi o sui delitti efferati ancora irrisolti, succedutisi negli ultimi decenni. Spesso questi meccanismi rendono gioco facile a chi vuole depistare e confondere le acque al­ lontanando la verità dall’occhio del ciclone oppure l’insieme di più moventi che possano aver scatenato la decisione di uccidere un testimone pericoloso. Un assist perfetto per bol­ lare come dietrologo e complottista ogni giornalista che in­ traprenda un’indagine alternativa. Pertanto, tutta la lettura e l’analisi filologica di Petrolio è stata indirizzata verso i retro­ scena dell’ENI e il ruolo di Cefis, rivolgendo l’attenzione al1’«Appunto 21» e all’assassinio di Enrico Mattei. Di appunti mancanti invece ne esistono diversi, alcuni segnalati solo dal titolo,25 che potrebbero davvero essere stati soltanto ab­ bozzati dallo scrittore (abbiamo visto come addirittura due dei protagonisti delle borgate, «Il Roscio» e «Il Negro», ab­ biano dato il titolo a uno di questi appunti anch’esso rima­ sto senza contenuti). Ma, soprattutto, argomenti ed elementi ben più potenti, a dirla tutta, sono presenti nel restante ma­ teriale, poi pubblicato, inclusa la storia delle ramificazioni aziendali e delle speculazioni private messe in atto da Cefis e riportate nell’Appunto 20.26 Dunque, cos’è che fa concen­ trare l’attenzione unicamente su quel capitolo mancante? È un ragionamento che ci permettiamo di fare per introdurre una riflessione che sarà svolta meglio nei capitoli seguenti. 200

1 0 . L ’o

m ic id io

M

attei e l

’« A

ppunto

21»:

d u e p is t e m o n c h e

Marcello Dell’Utri e la pubblicità Il 2 marzo del 2010, tutti i media riportano dell’esposi­ zione di una rara edizione di Questo è Cefis. L!'altra faccia dell’onorato presidente ,27 grazie alla «buona» opera di Mar­ cello dell’Utri, esattamente a trentacinque anni dalla morte dell’industriale. DeH’Utri, infatti, in occasione della XXI mostra del libro antico di Milano, organizza una sorta di lancio pubblicitario in cui anticipa la scoperta di un datti­ loscritto scomparso di Pasolini: «E uno scritto inquietante per l’ENI, parla di temi e problemi dell’azienda, parla di Cefis, di Mattei e si lega alla storia del nostro Paese». Ag­ giunge poi l’ex senatore: «Credo sia stato rubato dallo stu­ dio di Pasolini». Tutt’oggi non è chiaro se quella dell’ex sodale di Ber­ lusconi sia stata una boutade pubblicitaria o se davvero ha avuto modo di visionare, come da lui stesso dichiarato, quelle famose «78 pagine». Sicuramente Dell’Utri da biblio­ filo qual è, è anche un attento lettore e non gli sarà sfuggita la notizia del «furto» o sparizione di oggetti e carte nell’ap­ partamento di Pasolini all’Eur. Nelle risposte alle domande insistenti dei giornalisti, sminuirà questa informazione, ma colpisce che il numero da lui indicato sia lo stesso che si ri­ cava dalla differenza fra il numero comunicato da Pasolini e quello ufficialmente ritrovato: 600 pagine a fronte di 522, ovvero 78. Fatto sta che il giorno prima dell’apertura della mostra, P i i marzo, lo stesso Dell’Utri comunica che il dat­ tiloscritto non sarebbe più stato esposto: «Purtroppo quella sorpresa non ci sarà. Chi ne è in possesso si è preoccupato per tutte le questioni scoppiate sui giornali e non me lo ha più voluto dare». Ma leggiamo cosa ha esattamente dichiarato ai magistrati l’ex senatore il 22 aprile 2010, che è il dato rimasto inedito a oggi e che più dovrebbe interessare: 201

IV. P erché il massacro? Il giorno 1° marzo 2010 [...] mi si è awicinata una persona di circa 60 anni che io non conoscevo, dicendomi di essere in possesso di importanti documenti relativi a Pier Paolo Pasolini. In particolare mi mostrò un dattiloscritto (con ap­ poste alcune correzioni a penna o a matita) dicendomi che si trattava del capitolo di Petrolio che era stato trafugato, e dunque mai pubblicato. Io ho preso in mano il testo formato da fogli ingialliti di carta velina senza però avere il tempo di leggerne il contenuto. Ed infatti l’ignota persona lo riprese, dicendomi che mi avrebbe contattato lui per consegnar­ melo. In quella stessa occasione mi consegnò due libri, uno dal titolo «Questo è Cefìs» e l’altro dal titolo «Uragano Cefis» ma pubblicato e scritto nel 1975.28 L’ignoto mi disse che quello che era scritto sul dattiloscritto in gran parte com­ pare nei libri che mi ha consegnato. Tuttavia da quella data non si è fatto più sentire.29

E bene interrogarsi su queste parole di Dell’Utri, che si differenziano da tutte le altre rese ai media. Dov’è il mi­ stero se ciò che appare nel dattiloscritto è presente già nel libro Questo è Cefis, che Pasolini aveva a sua disposizione come fonte aperta? Dov’è il mistero su quel capitolo se la stampa d ’inchiesta e la controinformazione dell’epoca non lesinavano servizi su Cefis e il suo potere? E davvero stato questo il motivo del furto o del sequestro? Il capitolo è stato portato via insieme ad altre cose? Si uccide un giornalista o uno scrittore per ciò che è già noto? A questo argomento torneremo una volta per tutte nel proseguimento della no­ stra inchiesta. L’ex senatore, secondo i magistrati, ha utilizzato quell’epi­ sodio per motivi pubblicitari, come indicato nella 'richiesta di archiviazione: «in buona sostanza», si legge nel documento, «l’escusso ha modificato la versione resa alla stampa, fatta, per sua stessa ammissione, per ragioni pubblicitarie»30 e forse, possiamo ipotizzare noi, anche per distogliere da sé l’atten­ zione giudiziaria.31 Certo, il numero esatto di pagine e i detta202

10. L’omicidio M attei e l ’«A ppunto 21»: due piste monche

gli sul contenuto da lui riferiti, oltre al fatto che i due libri con­ segnati all’ex senatore sono stati poi realmente esposti, fanno pensare che quell’incontro sia awenuto davvero, ma altra cosa è imputare a quel capitolo una rilevanza che forse non ha. Dell’altro libro, Uragano Cefis, si sa poco o nulla: la co­ pia esposta viene ritirata immediatamente il primo giorno della mostra, senza più riemergere.32 Perché? La ricerca da noi svolta sul collezionista che avrebbe in mano le veline si è bloccata a Catania, dove il lavoro di questa inchiesta cul­ minerà allacciandosi a Roma. Nessuna libreria antiquaria di Catania, stando a quanto è emerso, è in possesso di quelle ve­ line probabilmente risucchiate dal vortice del mercato nero dei libri d ’arte. E proprio sul mistero delle veline, tuttavia, che il fuoco mediatico si concentra fino a spingere la Procura di Roma a riaprire le indagini, distogliendo però l’opinione pubblica e gli inquirenti tutti dall’analisi complessiva di al­ tri e più precisi moventi,33 e consegnando in questo modo una giusta e necessaria richiesta di riapertura delle indagini, supportata da alcuni nuovi elementi validi apportati dal le­ gale Maccioni e dalla criminologa Ruffini, tra le braccia di un «mistero» dai tratti «fictional». Secondo la stessa procura, proprio il tenore delle dichiarazioni rese da Dell’Utri «non ha offerto alcuno spunto investigativo percorribile e utile dal punto di vista giudiziario». Infatti, il giorno stesso dell’inter­ rogatorio, ai cronisti che subito lo intervistano, l’ex senatore dichiara nuovamente il contrario: Questa persona mi mostrò anche una copia del libro «Que­ sto è Cefis» del 1972 che fu fatto ritirare dal mercato dallo stesso Cefis, dicendomi che l’ultimo capitolo di Petrolio contiene molto di più di quello che c’è nel libro su Cefis.34

Quello che conta però è ciò che Dell’Utri riferisce alla ma­ gistratura, consapevole forse di aver giocato troppo al rialzo.

203

IV. P erché il massacro?

Le fonti aperte di Pasolini Sarà Elvio Fachinelli,35 psicoanalista e animatore della rivista L’Erba voglio, a mettere a disposizione del poeta alcune fonti documentali che serviranno per la stesura di Petrolio, com­ preso Questo è Cefis, pubblicato sotto pseudonimo dall’A­ genzia Milano Informazioni. L’Agenzia, insieme alla «Roma Informazioni», che raccolse al tempo un certo numero di lun­ ghi servizi comparsi tra il 25 aprile e il 18 dicembre del 1971, è finanziata da un potente uomo della DC siciliana, Graziano Verzotto, presidente dell’Ente Minerario Siciliano in conti­ nua lotta con Cefis e la corrente fanfaniana a cui il consulente dell’ENI appartiene.36 Verzotto verrà accusato dalla Procura di Palermo, in una delle fasi del «processo De Mauro», della sparizione del giornalista e per questo motivo talvolta lo si indica nelle inchieste o negli scritti come fonte diretta di Pa­ solini, cosa di cui non esiste, a oggi, alcun diretto riferimento o alcuna testimonianza. Il politico (le cui vicende nel caso De Mauro si intrecciano con quelle dell’avvocato e manager Vito Guarrasi),37 che al magistrato Calia ha confermato di non aver mai conosciuto il poeta, non ha avuto remore a riferire degli incontri avuti con il giornalista (che nel periodo in cui lo incontrava era alla ricerca di informazioni sugli ultimi due giorni di vita di Mattei, un lavoro che stava svolgendo per il regista Francesco Rosi), anche perché troppe sarebbero state le testimonianze in grado di smentirlo. La funzione di certe agenzie di stampa, fiorenti in quel pe­ riodo, non è sempre limpida. Spesso, come per la «Monteci­ torio» di Landò Dell’Amico,38 legata al petroliere nero Attilio Monti, si pongono come portavoce di particolari interessi. Altre volte si inseriscono nel doppiogiochismo dei servizi di sicurezza, come l’agenzia OP di Mino Pecorelli, ucciso nel marzo del 1979, la quale viene ricordata anche per memo­ rabili inchieste. Nel caso dell’AMI, l’interesse principale è 204

10. L’omicidio M attei e l ’«A ppunto 21»: due piste monche

quello di gettare fango su Cefis. Non che le notizie riportate siano false: semplicemente le si utilizza o calca in un dato mo­ mento in cui decisioni politiche o aziendali sono alle porte. Si è spesso indicato il giornalista Corrado Ragozzino come colui che si nasconde dietro allo pseudonimo di Giorgio Steimetz. Il nipote, anche lui giornalista del manifesto, nel 2005 scrive: Chi fosse Giorgio Steimetz, l’ho chiesto allo zio, tanto ai tempi dei servizi nel 1971 che vent’anni dopo, quando mi ha regalato il volume che avevo scorto tra i suoi libri. Alle mie domande non ha mai voluto rispondere. H o pensato e penso che lo fa­ cesse per attribuire al suo autore un’aura di importanza e di se­ greto, mentre probabilmente si trattava di un personaggio mi­ nore, molto dentro all’Eni, un po’ dentro ai servizi, che aveva accesso a qualche archivio e voleva tenere Cefis sotto botta, forse per conto di qualcuno, nella politica o negli affari.39

Di «Appunti» sono piene anche le informative interne ai servizi di sicurezza. In uno di questi, datato 1972, del SISMI (il servizio segreto militare attivo dal 1977 al 2007), e acquisito dal pm Calia nell’inchiesta su Mattei, vi è un riferimento a una denuncia presentata dall’agenzia di stampa stessa nei confronti di Cefis presso la Procura della Repubblica di Roma, che ad­ duce come riferimento alcuni degli articoli pubblicati.40 Alla denuncia seguirà, come è imputabile dalla data, la scomparsa delle copie del libro. Non solo: nella cartella presente presso il Gabinetto Scientifico Letterario G.P. Vieusseux di Firenze, in cui sin dal 1989 gradualmente vengono raccolti i manoscritti e i dattiloscritti originali delle opere di Pasolini, così come le sue scritture private o a lui dirette, vi sono alcuni documenti interni all’ENI, mai resi pubblici, insieme al discorso che l’in­ dustriale aveva pronunciato presso l’Accademia Militare di Modena il 23 febbraio 1972, pubblicato poi sul numero 6 della rivista L'Erba voglio che sempre Fachinelli fornì al poeta. Si tratta delle cosiddette «fonti aperte»41 di un giornalista o uno 205

IV . P erché il massacro?

scrittore per documentare il proprio lavoro, così come è pos­ sibile fare oggi consultando archivi, documenti pubblici e, ov­ viamente con un criterio preciso, il vasto mondo dell’online. Affrontare questo nodo fra fonti aperte e chiuse (di difficile o non proprio ortodossa reperibilità) ci aiuta a comprendere come le ragioni di un omicidio efferato qual è stato quello dell’intellettuale non si possano spiegare solo a partire da quanto lui stesso ha messo nero su bianco. Quel discorso pronunciato da Cefis, dal titolo «La mia pa­ tria si chiama multinazionale», riflette il ruolo che le grandi multinazionali dovevano sempre più ritagliarsi all’interno della cosa politica di tutti i paesi e come queste gradualmente dovessero divenire le vere manipolatrici delle risorse econo­ miche e politiche italiane, come di fatto è accaduto: È comunque in atto una tendenza verso l’adozione di strate­ gie globali delle multinazionali integrate su scala mondiale e ciò soprattutto per ragioni finanziarie, di programmazione e di controllo [...]. L’impresa multinazionale è una realtà poli­ tica ed economica del mondo moderno. Se gli Stati vogliono poter godere del massimo dei benefici che le imprese pos­ sono fornire e ridurre al minimo i costi devono promuovere intese che permettano di lavorare assieme [...] non disde­ gnate [voi ufficiali di domani, N.d.A.] le scienze politiche, non trascurate lo studio dei fenomeni sociali [... ] in poche parole occupatevi di politica. È soltanto un estratto di quel lungo e poco noto discorso, espresso in una forma un po’ ambigua, che rasenta l’ever­ sione, il cui senso, anche stando alle note critiche della rivi­ sta che lo accompagnano, sta tutto nell’espressione da ma­ nifesto ideologico che Cefis vuole indirizzare a un pubblico di ufficiali. I militari come «cittadini del mondo», secondo l’allora presidente della Montedison (lo fu dell’ENI fino al 1971, dopo il primo periodo di vicepresidenza), devono or206

10. L’omicidio M attei e l ’«A ppunto 21»: due piste monche

ganizzare il loro potere su scala internazionale e occuparsi di politica in modo più sistematico di quanto non abbiano fatto sino ad allora, in vista della sempre più consistente perdita di potere da parte degli Stati nazionali. Vuoto che dovrà es­ sere colmato via via dalla sempre maggiore concentrazione e capitalizzazione delle società (appunto a livello multina­ zionale). Un discorso che, letto oggi, fa impressione per la sua attualità e che sicuramente a Pasolini dovette sembrare la perfetta sintesi dei suoi giustificati timori sullo «sviluppo senza progresso» e sulla deriva autoritaria del capitalismo. L’ultima edizione critica di Petrolio, uscita nel 2005 a cura di Silvia De Laude, grazie anche al lavoro attento e certosino di una ricercatrice, Isabella Romualdi, dimostra quanto gli appunti pasoliniani, pubblicati la prima volta a diciassette anni dal massacro, siano stati raccolti prendendo spunto dalle fonti giornalistiche del tempo, tavolta riprendendole quasi letteralmente. Non soltanto, dunque, dal libro Que­ sto è Cefis, ma anche dai servizi che i settimanali pubblica­ vano: una serie di controinchieste e dossier sui potenti.42 In particolar modo, quelli sul controspionaggio e sul ruolo di Eugenio Cefis, pubblicati dal giornalista Giuseppe Catalano nell’agosto del 1974 sull 'Espresso.43 Scrive Massimo Teodori in una relazione di minoranza della commissione d ’inchiesta parlamentare sulla P2: A partire dalla seconda metà degli anni ’60 il sistema Cefis diviene un vero e proprio potentato che, partendo dalle ri­ sorse imprenditoriali pubbliche, condiziona pesantemente la stampa, usa illecitamente i servizi segreti dello Stato a scopo di informazione, giudicate dentro e fuori i limiti della legalità.44 Si tratta dello «scandalo delle informative» che svelerà come il SID (il Servizio Irìformazioni Difesa attivo fino al 1977, prima della riforma in SISMI e SISDE) stesse prepa207

IV. Perché il massacro?

rando alcuni fascicoli su uomini politici e imprenditori da uti­ lizzare a supporto delle manovre di Cefis. Trame che Pasolini fa confluire nel suo romanzo «summa»: la spregiudicata lotta fra capitalismo petrolifero di Stato e privato, rappresentato rispettivamente dai due sodalizi economici e dalle due cor­ renti DC Fanfani-Cefis e Monti-Andreotti. Due fazioni che si contrappongono soltanto nell’ottica della gestione del potere. Un potere, esercitato anche attraverso i giornali posseduti o verso i quali riversare contributi, a destra come a sinistra, che ha travolto e stravolto persino la direzione dei servizi di sicurezza interni, divisa fra l’allora capo del Reparto D Gianadelio Maletti e il responsabile del SID, suo superiore, Vito Miceli. E a partire da questa lotta che la contaminazione dello Stato, dell’economia e del mondo politico diverrà irreversi­ bile, fino a mutare il volto stesso dell’Italia. Pasolini, sempre dunque con l’ausilio di fonti aperte, cronache disponibili al tempo e fonti di scarsa reperibilità ma pubbliche, dedica un intero «appunto» a questi personaggi. Il petroliere nero At­ tilio Monti è, insieme a Giulio Andreotti, infatti, tra i perso­ naggi descritti in un capitolo di Petrolio come partecipante a una festa del Quirinale: è la festa del potere, tra le pagine più efficaci e limpide dell’opera.45 Proprio Monti sarà indagato dal giudice di Milano Gerardo D ’Ambrosio, per l’assegno di diciotto milioni di lire che avrebbe versato a Pino Rauti nel settembre del 1969, poco prima che fosse compiuta la strage di Piazza Fontana. Scrive Pasolini: Quanto all’onorevole Pino Rauti, egli si era incontrato po­ chi giorni prima con tale Bruno Riffser [cognato di Monti, N.d.A.]. I due avevano discusso lo sviluppo delle indagini giu­ diziarie nei confronti di Rauti «in merito agli attentati dell’e­ strema destra» e sulle accuse che erano state formulate a Monti di aver finanziato il movimento estremista di Pino Rauti. Dall’espressione, come abbiamo detto, leggera di quest’ul­ timo, pareva che non ci fosse in proposito da preoccuparsi.46 208

10. L’ omicidio M attei e l ’« A ppunto 21»: due piste monche

La posizione del petroliere nero sarà poi archiviata, come quella di Rauti. Il magistrato Calia estrae, dal cilindro degli «appunti» dei servizi di sicurezza da lui acquisiti, alcune interessanti infor­ mative riservate, datate sin dalla morte del presidente Mat­ tei. Uno di questi riguarda il ruolo di Cefis nella P2. Le noti­ zie che vi si leggono vengono acquisite il 20 settembre 1983, due anni dopo la scoperta della loggia massonica eversiva da parte dei magistrati Colombo e Turone: La Loggia P2 è stata fondata da Eugenio Cefis che l’ha ge­ stita sino a quando è rimasto Presidente della Montedison [1972, N.d.A.]. Da tale periodo ha abbandonato il timone, a cui è subentrato il duo Ortolani-Gelli, per paura. Sono di tale periodo gli attacchi violenti (Rovelli della SIR) contro uomini legati ad Andreotti con il quale si giunse ad un armi­ stizio per interessi comuni: lo scandalo dei petroli.47

Quando si trova all’apice di questo potere smisurato, Cefis pronuncia il discorso all’Accademia Militare di Modena: una «proposta tecnocratico-autoritaria»48 dal sapore eversivo. Ed è infatti proprio su questo crinale, lo «scandalo dei petroli», che tutto si appianerà: in nome del Dio Nero e del potere che da esso deriva. Nel momento in cui Pasolini fa tremare il palazzo con i suoi scritti polemici ricchi di fatti che però la­ sciavano intendere come le sue conoscenze andassero ben al di là delle notizie note, lo scandalo esplode (febbraio 1974). Scandalo che, con altre modalità, si ripeterà negli anni ’80. E la vecchia e sempre vibrante malattia italiana della corruzione, ma la perversione che ad essa dà inizio ha fondamento a metà degli anni ’60, con gli eventi che anticipano la strategia della tensione, e culminerà nelle bombe e nell’eversione. Dunque, il lavoro preciso e puntuale che si apprestava a svolgere lo scrittore seguendo la scia delle controinchieste del tempo è quello che anche oggi un giornalista investigativo, con il sup209

IV. Perché il massacro?

porto delle proprie capacità intellettuali, persegue: unire tutti i pezzi noti o poco noti e confrontarli per cercare di capire cosa non hanno voluto o potuto vedere gli attori in causa, e quindi cercare altri indizi, altre prove.

Matteì-De Mauro-Pasolini: qualcosa non torna L’attentato a Mattei trova solitamente spazio nelle tesi sui collegamenti con la morte di Pier Paolo Pasolini, in un filo logico comune che abbraccia però un lungo arco di anni. Tra il 1962 e il 1975, anno deU’omicidio, si susseguono numerose inchieste e servizi giornalistici che riferiscono del dubbio che la causa dello schianto dell’aereo potesse in realtà risiedere in un sabotaggio o un attentato. L’aereo sul quale viaggia il pre­ sidente dell’ENI Enrico Mattei, partito da Catania nel pome­ riggio del 27 ottobre 1962, precipita a Bascapè. È un Saulnier 706 e lo guida un pilota esperto, il capitano Irnerio Bertuzzi, un ufficiale aereo-siluratore della Repubblica di Salò.49 La prima seria inchiesta giornalistica su quello che poi il magi­ strato Calia chiamerà con il suo vero nome, attentato, prece­ duto mesi prima da un tentativo di sabotaggio,50 la scrive nel 1963 il giornalista Fulvio Bellini che, per l’ex volontario della X Mas e poi fondatore dell’MSI Giorgio Pisano,51 pubblica tre servizi ripresi anche negli atti dell’inchiesta di Calia. Bel­ lini proveniva dall’ambiente della Resistenza, i GAP (Gruppi di Azione Patriottica, che nacquero per volere del PCI), ma si era avvicinato a Pisano, come da lui stesso riferito al magi­ strato Calia, per soli motivi economici. I tre numeri, usciti fra marzo e aprile del 1963 sul settimanale Secolo XX, rivelano l’orario esatto nel quale il velivolo venne sabotato e il numero degli appartenenti al commando che eseguì l’operazione: tre. Uno di questi «indossava la divisa di un ufficiale di un corpo italiano di polizia».52 L’inchiesta è anche ricca di servizi fo210

10. L’ omicidio M attei e l ’« A ppunto 21»: due piste monche

tografici che hanno immediatamente «coperto» il fatto a Bascapè: immagini che mostrano la reale causa della caduta del Saulnier 706 (e che il lettore può trovare nell’appendice alla fine del capitolo). Da quel principio d’inchiesta, nel 1970, Bellini svilupperà un libro, Il assassinio di Enrico Mattei,53 scritto insieme a Ales­ sandro Previdi attraverso una casa editrice creata da loro stessi per l’occasione: la Flan. Furono proprio le parti essenziali di questo libro che il regista Francesco Rosi adattò cinematogra­ ficamente nel film II caso Mattei, uscito due anni dopo, e fu ancora in quell’occasione che Rosi chiamò (d’accordo con i due giornalisti) il giornalista Mauro De Mauro. Tutto questo è ben spiegato nell’introduzione all’ultima edizione del libro di Bellini (2005). De Mauro aveva già prodotto della documenta­ zione per un film di Rosi, Salvatore Giuliano, uscito nelle sale dieci anni prima. Un altro libro molto importante, sul quale tante storie d’inchieste siciliane si sono potute basare, è quello del giornalista di Paese Sera Riccardo De Sanctis, Delitto al potere, del 1972, una controinchiesta che collega le morti di Mattei e di De Mauro a quella del magistrato Pietro Scaglione (ucciso in un agguato a Palermo, insieme al suo autista, il 5 maggio 1971). Bellini fu interrogato anche dal giudice ex tito­ lare dell’inchiesta su Piazza Fontana, Guido Salvini, in merito a un altro libro pubblicato nel 197 8, Il segreto della Repubblica (stessa casa editrice, la Flan), in cui rivelava i piani di destabi­ lizzazione che causarono la strage e ciò che il presidente della DC Aldo Moro sapeva in merito. Già queste prime indicazioni sugli anni a cui le pubblicazioni fanno riferimento54 - 1963, 1970,1972 - dovrebbero far riflettere il lettore: sono tutte ben precedenti alla morte di Pier Paolo Pasolini, che infatti allude chiaramente, in Petrolio, a colui che si sarebbe giovato della morte di Mattei (Bonocore), e cioè (Troya) Cefis.55Lo scrittore aveva così a disposizione una vasta pubblicistica sul caso e non il solo libro Questo è Cefis (1972): 211

IV. P erché il massacro? In questo preciso momento storico (I BLOCCO PO LI­ TICO) Troya (!) [Cefis, N.d.A.] sta per essere fatto presi­ dente dell’Eni: e ciò implica la soppressione del suo prede­ cessore (caso Mattei, cronologicamente spostato in avanti). Egli con la cricca politica ha bisogno di anticomunismo (’68) bombe attribuite ai fascisti.

Se l’assunto di queste tesi è quello di addebitare la morte di Pasolini a ciò che egli sapeva sulla morte di Mattei, motivo per cui sarebbe sparito l’«Appunto 21», come mai non si è anche sottratta questa nota che invece compare nel libro? Ma la pubblicistica sulla tragedia di Bascapè arriva fino al 1974 - un anno prima della morte di Pasolini - con il celebre libro di Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani Razza padrona,56 in cui vi è riportata questa ipotesi, seppure in modo ironico, ed è indicato proprio Cefis come il fiancheggiatore domi­ nante di quella «razza». Libro, questo, da molti citato, ma mai in relazione alla morte di Mattei: L’impressione fu enorme. Si parlò di incidente, si parlò di sabotaggio. Vennero tirati in ballo la mafia, i servizi segreti americani, i petrolieri delle grandi compagnie, l’OAS57 fran­ cese. Qualcuno formulò addirittura l’ipotesi che rincidente mortale fosse stato provocato da chi poteva avere interesse a sgombrare il campo da un personaggio troppo scomodo da poterne prendere il posto. [...] ipotesi non dimostrate o al­ meno non più dimostrabili.

Esiste inoltre una sconfinata serie di articoli che ha indi­ cato cause diverse dall’incidente provocato dal malore del pilota o dall’avaria del velivolo nella morte di Mattei e i suoi accompagnatori: si pensi all’interrogativo «inquietante» che si pone il Corriere della Sera sull’improvviso ritorno di Cefis all’ENI (5 novembre 1962), o, ancor prima, quello avanzato dal quotidiano L’Ora il 30 ottobre del 1962: 212

10. L’ omicidio M attei e l ’« A ppunto 21»: due piste monche

Sabotaggio? È l’ipotesi che si fa all’estero. La stampa tanto italiana che estera continua a dedicare am­ pio spazio alla tragica scomparsa di Mattei, alle cronache della sciagura, alla rievocazione della vita dello scomparso e all’analisi del ruolo che sotto la sua guida LENI ha giocato in questi ultimi anni nella spietata competizione mondiale per il controllo del mercato petrolifero. L’ipotesi che un sabotaggio possa avere provocato la scia­ gura viene presa in considerazione da alcuni giornali stra­ nieri: fra questi non solo «Die Welt» di Amburgo ma anche il più diffuso giornale parigino della sera «France - Soir». Quest’ultimo, nel dare la notizia della nomina di una com­ missione governativa d’inchiesta, afferma che «la ipotesi di un sabotaggio non si escluderebbe» e ricorda che Mat­ tei «aveva molti nemici», che in passato egli aveva ricevuto delle minacce da parte dell’OAS e che nella scorsa prima­ vera era stata scoperta una chiave inglese collocata nel mo­ tore del suo aereo. A proposito dei precedenti attentati si ricorda anche da al­ cuni come qualche anno fa un attentato alla vita di Mattei fosse stato sventato per l’imprevisto rinvio di una partenza. A tale proposito fu allora anche ipotizzata la possibile cen­ trale di interessi privati concorrenti alla quale il gesto crimi­ nale avrebbe tratto ispirazione.

E molti altri ancora che sarebbe qui impossibile elencare. Tuttavia una ricerca all’emeroteca può soddisfare ampia­ mente ogni curiosità al riguardo.58 Per concludere, infine, un libro inchiesta che ha scioccato l’opinione pubblica al tempo e che qui è doveroso citare: L'Affare Montedison. Un giallo all’italiana,59 L’autore vi esponeva la tesi secondo cui i fondi neri gestiti dal presidente Giorgio Valerio erano diretti a fi­ nanziare il terrorismo economico e l’eversione. Il libro parte dalla fusione avvenuta fra la Montecatini e la Edison, nel 1966, che divenne gradualmente un’azienda di Stato. Tesi che però fu ripresa dalla magistratura nel 1972, con un’in213

IV. P erché il massacro?

chiesta sulla contabilità della Montedison. Il libro, partendo dal 1966, non affronta la morte di Mattei, ma i riferimenti a Cefis, che subentra a Valerio nella società con più poteri, e le diramazioni criminali che questi poteri hanno comportato, sono leggibili nero su bianco. In appendice, pubblichiamo anche la copertina del n. 25 del N uovo mondo d’oggi, settimanale diretto da Carmine Pecorelli (giornalista ucciso nel marzo del 1979), poi editore di OP (Osservatore Politico), che nel giugno del 1968, direttore Enrico Fiorini, conduce un’inchiesta dal titolo Enrico Mattei è stato ucciso. Il magistrato Calia, a conclusione dell’inchiesta nel 2003, ri­ uscirà a formulare quanto meno l’ipotesi dell’appoggio e della: fattiva collaborazione di persone e strutture profondamente radicate nelle nostre istituzioni e nello stesso ente petroli­ fero di stato, che hanno eseguito ordini o consigli, delibe­ rato autonomamente o col consenso e il sostegno di interessi coincidenti, ma che, comunque, da quel delitto hanno con­ seguito diretti vantaggi.60Il

Il senatore Amintore Fanfani, nell’ottobre del 1986, du­ rante un discorso a Salsomaggiore, lancerà un messaggio per chi in quel momento era pronto a sentire, chiamando per la prima volta l’«incidente» di Mattei abbattimento e defi­ nendolo «il primo atto terroristico nel nostro paese, il primo atto della piaga che ci perseguita».61 E stato necessario immergersi nei vicoli impervi delle tesi che più hanno riguardato il movente e i mandanti che avreb­ bero condotto Pasolini alla morte quella notte, in modo che si chiarisse al lettore come le due colonne portanti di queste tesi, l’«Appunto 21» e l’uccisione di Mattei, siano in realtà piut­ tosto fragili se confrontate con ciò che lo scrittore aveva già potuto scrivere sia in Petrolio sia altrove e con l’immensa pub­ blicistica presente sin dal 1962. 214

10. L’omicidio M attei e l ’« A ppunto 21»: due piste monche

Torniamo a riferire, a corollario di tutto, le parole della nostra fonte «criminale», che ha detto qualcosa anche a que­ sto riguardo: Se lo dovevano leva’ dal cazzo perché sapeva troppo, sapeva vita morte e miracoli de tutti; devi partì da sto principio: che Pasolini poi frequentava la Roma bene, l’alta borghe­ sia e lui diceva in giro a questi che stava scrivendo, sapeva troppo anche le cose che non erano state mai pubblicate.

E ancora: Mattei n ’centra proprio. De più non te posso dì» [Mattei non , è tra i motivi per cui lo hanno voluto ammazzare, N.d.A.].

Per forza di cose, trattandosi di Pasolini, si è dovuta af­ frontare una materia poco scientifica e soggetta a interpre­ tazioni come quella letteraria. In questo modo, si è anche però voluto mostrare il contesto in cui la sua opera e la sua persona si muovevano. Ora però entriamo di nuovo nel vivo dell’inchiesta e saliamo su una macchina, targata Catania.

Appendice: inchieste riguardanti la morte di Enrico Mattei precedenti al 1975b2 La forma piuttosto minuta del cratere lasciato dalle parti del velivolo precipitato - come è spiegato nell’inchiesta di Bel­ lini e Pisano - mostrava già l’impossibilità che si fosse trattato di un incidente (l’esplosione in cielo aveva causato subito il frantumarsi dei pezzi in volo, da cui le modeste dimensioni del cratere, mentre un aereo precipitato per avaria avrebbe lasciato una buca decisamente più grande); inoltre, sempre ben visibile dalle foto, è l’assenza di terreno bruciato intorno al rottame, il quale, se fosse caduto a causa di un’avaria o di un malore del pilota, si sarebbe incendiato nell’impatto con 215

IV. P e r c h é il m a s s a c r o ?

il suolo, non prima, come è avvenuto, in fase di atterraggio, dopo l’esplosione. Questo fatto fu testimoniato dal contadino Mario Ronchi, che in seguito, una volta ritrattata la sua testi­ monianza, fu indagato da Calia per favoreggiamento nei con­ fronti della dirigenza SNAM, azienda del gruppo ENI.

Copertina del primo numero di Secolo X X , 19 marzo 1963.

216

1 0 . L ’o

m ic id io

M

attei e l

’« A

ppu n to

21»:

d u e p is t e m o n c h e

Servizio fotografico interno del primo numero di Secolo XX, 19 marzo 1963: tra le primissime foto scattate quella sera a Bascapè, l’immagine mo­ stra il punto preciso in cui venne trovato il rottame più grosso dell’aereo.

217

IV. P e r c h é il m a s s a c r o ?

Servizio fotografico interno del primo numero di Secolo XX, 19 marzo 1963: una delle ruote del velivolo rinvenuta intatta a cento metri dal punto in cui lo schianto, secondo la versione ufficiale, si sarebbe verificato. La ruota, nel caso di un’esplosione per impatto, avrebbe dovuto disintegrarsi.

218

1 0 . L ’o

m ic id io

M

attei e l

’« A

ppu n to

21»:

d u e p is t e m o n c h e

Foto della copertina del settimanale II nuovo mondo d’oggi del 26 giu­ gno 1968, diretto da Carmine Pecorelli. La foto è tratta dal sito che cura la pubblicistica di Pecorelli (www.romanord.tv), gestita dal figlio di Enrico Fiorini, Edgardo, giornalista.

219

Capitolo undicesimo

Commando nero

Giovani impazziti, o ebeti o nevrotici vagano per le strade di Catania coi capelli irti o svolazzanti, le sagome deformate da calzoni che stanno bene solo agli americani: vagano con aria soddisfatta, provocatoria, come se fossero depositari d’un nuovo sapere. Sono, in realtà, paghi dell’imitazione perfetta del modello di un’altra cultura. Hanno perso la propria morale, e la loro arcaicaferocia si manifesta senza forma. Le mie mille e una notte, in Playboy, settembre 1973

Da Catania a Roma: sola andata La città di Catania è apparsa già in questa inchiesta, acco­ stata unicamente ad alcuni avvenimenti: le vicende relative alle aggressioni di Pasolini che coinvolgono gli estremisti del Movimento Politico Ordine Nuovo1 (un’emanazione del Centro Studi Ordine Nuovo, la cui corrente «culturalspirituale» andrà via via scemando)2 e gli elementi emersi su una macchina targata, appunto, Catania. A questi indizi, va aggiunto un altro: il primo riferimento, fatto da Pino Pelosi durante la trasmissione Ombre sul Giallo, nel 2005, all’ac­ cento catanese di due degli aggressori presenti quella notte all’Idroscalo. Uno di questi si sarebbe rivolto a Pasolini chia­ mandolo «jarrusu», termine oggi in disuso, proveniente dal catanese stretto, più dispregiativo dell’espressione roma­ nesca «frocio». Un particolare che poi Pelosi si affretterà a smorzare anche con chi scrive nell’intervista del 2013.3 Pe­ losi in quell’occasione, infatti, a fronte della domanda tesa a confermare o meno l’elemento siciliano, nega, affermando

IV. P erché il massacro?

che il riferimento era stato un suo «depistaggio». Modalità questa, volta a confondere i suoi interlocutori, di cui ormai conosce tutti i meccanismi: «Lo avevo detto per depistare. Era italiano, basta». Pino Pelosi ha voluto così tagliare corto passando a confermare, con parole spicce, la sola presenza di due picchiatori romani. Il primo a individuare la città di Catania come luogo di «partenza» della spedizione punitiva contro il poeta è il giornalista Valter Rizzo,4 elemento, questo della città, rima­ sto sommerso e mai individuato nel corso delle numerose e monche indagini sulla morte di Pier Paolo Pasolini, seppure evidente da lungo tempo. Nel fascicolo originario scanda­ gliato in questo libro, il numero 1466/75, infatti, emerge per la prima volta qui un verbale il cui contenuto ruota intorno a un quartiere del centro storico di Catania: San Berillo. Ben descritta da Rizzo nel libro,5 la zona, dal primo dopoguerra fino ai giorni nostri, nonostante l’arrivo delle ruspe e la sua riduzione perimetrica, resta un luogo di spaccio e prostitu­ zione. Rizzo parla anche di una taverna, una «putta», che Pasolini frequenta quando, nei primi anni 70, affittando un appartamento in un’altra parte della città, si trasferisce a Catania per lavoro e per ritagliarsi uno spazio privato tutto suo, lontano da Roma.6 Il regista si era recato nel capoluogo siciliano, per girare le scene di alcuni suoi film, già dagli anni ’60: il Vangelo Secondo Matteo, Porcile, Teorema e le se­ quenze dell’Inferno nei Racconti di Canterbury. E una città che conosce bene e che perlustra in profondità, come sem­ pre fa quando vuole conoscere a fondo fatti, costumi, società e retroscena. È proprio attraverso la testimonianza di un ex prostituto di San Berillo, riportata in quel verbale datato 20 novembre 1975, che si sarebbe potuta identificare, anche nel corso delle successive indagini, la macchina che Pasolini uti­ lizzava per muoversi nella città etnea: una Fiat 125 di colore scuro e con il cambio automatico, non targata Catania. 222

11. C ommando

nero

Estratto del verbale di inforniazioni sommane rese il 20 novembre 1975 e presente in Atti, fascicolo n. 1466/75, faldone degli esami testimoniali.

In questa parte di testimonianza, affiorano per la prima volta tutti quei dettagli che, allora come successivamente, potevano essere approfonditi e che acquisteranno una grande importanza nel corso delle prossime pagine. Anto­ nino Lazzarotto, questo il nome del testimone, afferma nel verbale che, dopo quella volta, l’unica, non ha più incon­ trato lo scrittore. Ma Pasolini, che girava la città in cerca di facce e storie, e curiosava sull’attività di alcuni prostituti di estrema destra, poteva averne conosciuti altri oltre a Lazzarotto: è possibile così cominciare a sciogliere il bandolo catanese andando di­ ritti alla matassa di quel primo fascicolo processuale. Stiamo parlando di tre indizi al tempo già presenti nei faldoni in questione: il verbale e le lettere anonime del 1976 sul veicolo targato Catania.7

223

IV. P erché il massacro?

La partita del 22 giugno 1975 L’ultima presenza del poeta nel capoluogo etneo, attestata dal lavoro di Rizzo, Maccioni e Ruffìni, risale all’anno 1973, quando Pasolini vi si reca per cercare nuovi volti per il film Il fiore delle Mille e una notte che uscirà l’anno successivo. Una ricerca iniziata in realtà già nei primi mesi del 1970, viaggiando in Etiopia, Eritrea e Yemen e selezionando gio­ vani attori non professionisti, i cui volti potessero incarnare l’idea di arcaico che il regista aveva in mente di rappresen­ tare. Nel suo diario di lavoro su Catania (che scoprirà es­ sere una «Gomorra feroce»), dal quale ricaverà un articolo pubblicato su Playboy, registra in quei giorni ciò che aveva già iniziato a capire e a scrivere sui giovani sottoproletari romani.8 In realtà Pasolini a Catania tornerà anche dopo il 1973. E domenica 22 giugno 1975 quando il Catania Calcio disputa l’incontro decisivo per salire in serie C e, in attesa della festa allo stadio Cibali, va in scena un match fra attori, vecchia glorie del calcio e giornalisti: la squadra «Nazionale Calcio Attori» odierna, che allora si chiamava «Attori e Cantanti»,9 capitanata proprio dal poeta, sfida gli ex assi del calcio etneo e alcuni cronisti. Per il calcio, Pasolini si era già catapultato in Sicilia, a Trapani, il 4 maggio dello stesso anno. Graziella Chiarcossi ricorda: Si inventava spesso una scusa per disertare importanti mani­ festazioni pubbliche pur di non perdere una partita da gio­ care in Sicilia o magari nel Friuli.10

Il quotidiano La Sicilia intercetta Pasolini che, parlando del film Salò, annuncia come mancasse più di un mese alla conclusione, sebbene la lavorazione fosse a buon punto.11 Il regista teatrale Elio Gimbo, tra gli spettatori della partita, 224

11. Commando nero

contattato da chi scrive, ricorda quel giorno con grande ec­ citazione, sebbene la festa sia stata rovinata ancor prima di cominciare: non appena Pasolini tocca palla, partono insulti sulla sua omosessualità e lanci di oggetti che rendono la si­ tuazione quasi pericolosa. Gimbo, a quel punto, sente la ne­ cessità di allontanarsi.12 Il poeta, in verità, a Catania si recherà anche successiva­ mente a quella partita di calcio, stando ai racconti degli in­ tellettuali che lo hanno frequentato durante quei soggiorni. E il luogo in cui tornerà spesso senza rendere troppo par­ tecipi i membri del suo cerchio magico di Roma (Maraini, Moravia & co.).

Reversione neofascista a Catania Nel capitolo dedicato alla «pista siciliana», gli autori di Nes­ suna pietà per Vasolini trascrivono un lungo racconto di una fonte: si tratta di uno degli intellettuali catanesi che cono­ scono e frequentano per lavoro lo scrittore. Il «professore», di cui gli autori non riferiscono il nome, parla di alcuni «ra­ gazzi di vita» catanesi legati allo squadrismo nero e tutti ap­ partenenti al servizio d’ordine delTMSI: A Catania i marchettari erano tutti di destra [...] questi ragazzi erano picchiatori di professione ma si dedicavano anche a piccoli traffici illegali, furti, rapine, spaccio di anfe­ tamine, vendita di sigarette di contrabbando... Pasolini era interessatissimo a loro sul piano sociologico. Erano fascisti che arrivano da un mondo degradato, un mondo di sfruttati, senza futuro, il mondo degradato [...] questi ragazzi veni­ vano usati per colpire quando era necessario. Era una mano­ valanza criminale che veniva usata dalla politica e che con la politica aveva ovviamente contatti strettissimi. 225

IV. Perché il massacro?

E ancora: Molti di questi ragazzi lo odiavano e giustificavano a loro volta a se stessi e ai loro camerati le prestazioni omosessuali per via dei soldi, ma l’omosessualità era diffusa proprio ne­ gli ambienti più violenti dell’estrema destra catanese, un po’ come l’omosessualità tra le SS. Quello di questi ragazzi era un ambiente duro, spesso feroce.13

Il docente parla anche dei continui viaggi in treno da Catania a Roma che in quel periodo effettuano i fascisti. Abbiamo contattato alcuni intellettuali etnei che, nella so­ stanza, confermano gli episodi.14 A tale proposito, è doveroso precisare che i fratelli Borsel­ lino, alcune volte indicati come «catanesi», sempre a partire da alcuni input iniziali di Pelosi, in realtà sono romani veraci. La famiglia, originaria di Agrigento, era immigrata a Roma tanti anni prima: Giuseppe e Franco, nati e cresciuti a San Basilio, non possono dunque aver gridato «jarrusu» mentre il poeta cadeva sotto i colpi mortali dei suoi numerosi killer. Torniamo ora sullTsola. A Catania c’è l’MSI, ma il gruppo di riferimento per i picchiatori, secondo le parole dell’ex collaboratore Sergio Calore,15 è l’M PON (che verrà sciolto con decreto ministeriale il 22 novembre del 1973) e quindi Pierluigi Concutelli, romano di origini marsicane cresciuto per lo più a Palermo e trasferitosi nel capoluogo etneo al se­ guito dei genitori proprio in quei periodi.16

f Tracce «nere» negli esami del RIS Torniamo a sfogliare per un attimo le carte delle ultime in­ dagini investigative che hanno riguardato il massacro del poeta, e specificamente viriamo sulle analisi scientifiche che il RIS ha eseguito su capi, scarpe, plantare e anche oggetti 226

11. Commando nero

rinvenuti nell’auto di Pasolini. Poi cambiamo percorso e an­ diamo di nuovo tra le vecchie carte ingiallite del primo pro­ cedimento penale. Sì, perché uno dei reperti di quel primo fascicolo è fi­ nito proprio sul tavolo del RIS insieme agli altri oggetti che, fra estrazione del dna, analisi delle impronte e disa­ mina grafico-biologica, hanno costituito l’elemento di no­ vità madre di questa indagine. I nuovi inquirenti riportano il testo di una lettera semi-anonima che contiene un’inte­ stazione specifica: s c riv e n d o te s tu a lm e n te :

“Ordine nero Sig, Procuratore - il delitto PASOLINI è

un tentato sequestro, eravamo in cinque lui sie [sì e'] rivoltato a noi e a [ha] picchiato pino pelosi, loa’ [l'ha] fatto cadere a terra e io Ho [gli sono] passato so p r a con la su a auto, io ini chiamo fran co lo [la] prego dì fa [fare] bene [in c h iesta [ l ’in ch iesta ] s e n o ’ dopo p a rlo ìo"m;

Estratto dall’informativa del 5 giugno 2011, n. 222-1-2010. Le correzioni tra parentesi quadre sono dell’estensore dell’informativa.

A tal proposito, durante le prime indagini del tempo, la procura aveva richiesto un’analisi grafica e di confronto con una lettera spedita da uno dei Borsellino (nello spe­ cifico Giuseppe) a Pelosi in carcere, la quale è, già alla let­ tura, palesemente non compatibile con quella in questione. La squadra mobile, infatti, l’8 dicembre del 1975 risponde che gli scritti «provenivano da due diverse personalità gra­ fiche».17 Le grafie non verranno però confrontate con le due missive altrettanto sgrammaticate, e dai toni simili, che parlano di una macchina targata Catania, di cui abbiamo riferito nel capitolo nono del presente volume. Lettere che non contengono l’intestazione «Ordine Nero». Cosa dicono i risultati delle analisi biologiche? Intanto, è bene precisare 227

IV. P erché il massacroP

che gli studi scientifici effettuati nel 2013 non riguardano la grafia bensì l’estrazione del dna (sempre e solo del dna, non di altra tecnica probatoria) dalla busta che contiene il mes­ saggio anonimo e dai francobolli (due) apposti, ed è da lì che il quinto soggetto ignoto, tra i cinque di cui non è stato pos­ sibile individuare l’identità, viene estratto e isolato. E un ele­ mento importante, ma anche un’analisi che sembrerebbe, per quanto concerne gli elementi che abbiamo, monca, in quanto non sono state prese impronte papillari - come è stato fatto per altri reperti -, utili al confronto con quelle presenti nella Banca Dati Nazionale e con quelle dei sospettati.18 Dalla lettera inviata dai fratelli Borsellino a Pelosi, inoltre, è stato a sua volta estratto il dna, ma «non sono stati ottenuti profili genetici utili».19

La doppia storia di Ordine Nero Affrontiamo subito un nodo: l’attendibilità della lettera e la possibilità che essa possa provenire da un’organizzazione di estrema destra che, nata nel gennaio del 1974 (dopo la messa al bando ufficiale di M PON),20 sparirà nell’estate dello stesso anno, in contemporanea allo scioglimento del servi­ zio segreto del Viminale, l’Ufficio Affari Riservati (UAR) di Federico Umberto D ’Amato. Intanto, stando alle carte repe­ rite, ancora una volta in queste ultime indagini non sembra ci siano stati approfondimenti anche soltanto per escludere il coinvolgimento di una tale organizzazione. Gli attentati ri­ vendicati da Ordine Nero sono ben 165,21 inclusa la strage di Brescia a Piazza della Loggia del 28 maggio, data a partire dalla quale l’organizzazione smette di farsi viva. I volantini usati per attribuirsi gli attentati a prescindere dal fatto di averli commessi o meno presentano solitamente la scritta in caratteri gotici «Gruppo per l’Ordine Nero, sezione...» e il 228

11. Commando nero

simbolo della croce uncinata a braccia arrotondate; alcune volte in calce al foglio compare il motto «Memento audere semper» (Ricorda di osare sempre). Addirittura, nel caso di Piazza della Loggia, il volantino raffigura la svastica nazi­ sta.22 Ma in realtà non vi è una linea eterogenea nello stilarli anzi, riferisce Vincenzo Vinciguerra: Gli attentati sono rivendicati con volantini dal linguaggio farneticante e demenziale che non indicano alcuno scopo politico, ma servono soltanto, nel loro linguaggio triviale e cialtronesco, a dimostrare l’assenza di ogni significato poli­ tico e ideologico delle azioni compiute sotto la sigla di «Or­ dine nero» [...]. Gli attentatori e i redattori dei volantini di «Ordine nero» agivano, quindi, in un’ottica antifascista ed anticomunista; il loro scopo era creare terrore e disgusto nella popolazione italiana nei confronti del fascismo e dei fascisti presentati non come una forza politica che si pro­ poneva di difenderla da un regime liberticida,,corruttore, prevaricatore, ma come un miscuglio di psicopatici, di pa­ ranoici, di delinquenti impegnati a fare attentati stragisti per massacrare quanti più italiani possibile.23 Vinciguerra qui descrive l’altra faccia della strategia della tensione, la stessa rispetto alla quale Pasolini aveva lanciato segnali: la capacità di certi apparati di sfruttare per altri scopi il terrorismo nero e rosso. A questo proposito, è utile estra­ polare alcune dichiarazioni di Pino Rauti, in un’intervista ri­ lasciata a Luigi Bisignani circa vent’anni dopo i fatti, in rela­ zione alle accuse determinate a M PON per l’omicidio di Vit­ torio Occorsio. Accuse che Rauti riteneva, ovviamente, false: Faccio solo una constatazione. Le tipografie di tutta Ita­ lia sanno che, quando stampano carta intestata di un nuovo gruppo politico, ne devono madare copia in questura [dichia­ razione alquanto curiosa visto che MPON era una organizza229

IV. P erché il massacro?

zione ormai clandestina, N.d.A.]. Gli uffici politici delle no­ stre questure sono pieni di carta intestata di Ordine Nuovo. Il giornalista a questo punto lo provoca: «Vuol dire che il volantino è uscito dalla questura?» e Rauti risponde vaga­ mente rivelando la strana coincidenza temporale dei volan­ tini. Un messaggio, certo, ma anche una dichiarazione con­ sapevole sul ruolo del Viminale nella eterodirezione di certi movimenti. Che senso ha dunque quella indicazione nel foglio ano­ nimo inviato in procura, il cui contenuto è del tutto simile alle altre lettere che fanno riferimento a Catania con uno scarto temporale di alcuni mesi dalla scomparsa dell’orga­ nizzazione? Pasolini muore nel novembre del 1975; Ordine Nero sembra scomparire nel maggio dell’anno precedente, ma anche all’indomani dell’omicidio Occorsio, avvenuto nel luglio del 1976, se ne trova traccia, sebbene a rivendicarlo siano volantini firmati da M PON che molti media indicano essere intercambiabile con l’altro movimento.24 Lo stesso Concutelli, condannato in seguito per l’atto, viene descritto alcune volte come appartenente a Ordine Nero. Tra i fascisti di San Berillo, insomma, potrebbe esserci l’estensore di questi messaggi? Si tratta del quinto soggetto ignoto, che appositamente lascia quell’indizio su Ordine Nero? È difficile stabilirlo, ma non lo si può neanche esclu­ dere. Un errore è stato senz’altro quello di non essersi posti nemmeno la domanda, per poi eventualmente proseguire con le indagini. Nell’estate dello stesso anno in cui scompare l’organizza­ zione, il ministro Taviani, come accennato, decide di scio­ gliere l’UAR perché ormai abbastanza «chiacchierato» per via dei depistaggi e del ruolo attribuitogli da Piazza Fontana in poi. Esiste, infatti, un appunto del SID, presente negli atti di Brescia, in cui il servizio segreto militare accusa formal230

11. Commando nero

mente l’UAR di aver «deliberatamente creato e finanziato la formazione terroristica di estrema destra Ordine Nero al fine di acuire il clima di tensione in Italia». E un appunto la cui attendibilità viene sminuita per via dei contrasti fra il SID e D ’Amato e il clima velenoso che si respirava. Inoltre, lo stesso SID ha intessuto rapporti con l’organizzazione, at­ traverso il capitano Giancarlo D ’Ovidio (tessera P2 numero 569).25 Di fatto tutti o quasi i movimenti extraparlamentari di estrema destra intrecciano i loro percorsi con entrambi i servizi segreti del tempo: SID e UAR. La storia «doppia» di Ordine Nero - in cui, da una parte, alcuni dei suoi inconsapevoli fondatori ne parlano come di un’avventura spontanea nata in carcere per emulare le BR,26 e, dall’altra, quella rinvenuta negli appunti del SID e del SI­ SMI, in cui si riferisce di riunioni della dirigenza di M PON (Clemente Graziani ed Elio Massagrande tra gli altri) per organizzare finanziariamente e militarmente il movimento secondo una precisa strategia - si inserisce in quell’Italia dei veleni e delle congiure che giunge, senza l’esasperazione dell’estremismo politico, fino ai nostri giorni. Non è rilevante, ai fini di questa inchiesta, che l’orga­ nizzazione eversiva, dalla natura ambigua, abbia davvero o meno gestito in tutte le sue fasi l’omicidio di Pasolini: con­ tano di più gli indizi che affiorano nella nebulosa e che vi si riferiscono, e i personaggi che, intorno, si muovono, appar­ tenenti a due gruppi distinti, ma mai davvero divisi gli uni dagli altri: Avanguardia Nazionale e M PON, dopo la fine di Ordine Nuovo (tra l’altro Delle Chiaie fu uno dei fonda­ tori di O N nel 1956, prima di fondare Avanguardia Nazio­ nale Giovanile). Senza tuttavia questi elementi emersi che la riguardano e senza l’analisi delle trame di allora non sa­ remmo mai potuti giungere a questa nuova finestra sul caso. A dicembre del 2014, quando la magistratura ha chia­ mato Pino Pelosi a testimoniare, Il Messaggero, tornando 231

IV. P erché il massacro?

sugli esami del dna svolti l’anno prima, titola, senza appro­ fondire nel testo, che tra i profili individuati un paio risali­ rebbero a due fratelli ancora vivi. Nessun altro riferimento da li in poi verrà fatto in merito, ma il cerchio si è ormai ristretto.

Pierluigi Concutelli fra Catania e Roma La prima volta che l’ex comandante Concutelli parla di Pa­ solini, a vent’anni dall’uscita del film di Marco Tullio Gior­ dana, è nell’intervista realizzata da chi scrive, di cui abbiamo disseminato gli stralci in questa inchiesta. E dalle sue parole che vengono fuori i termini «pestaggio» (dal verbo riferito nell’intervista: pestano) e «tondini» di ferro, le cui evidenze appaiono in una foto mostrata nel capitolo nono. Ma nel dialogo emergono anche alcuni «non detti». Vi è, infatti, una parte della sua vita che nel libro autobiografico Io, l’uomo nero slitta via lasciando un buco. E quello spazio temporale fra la sua latitanza, che inizia lasciando Catania nel 1974 pro­ seguendo poi a Roma, e il viaggio in Spagna, da cui torna dopo un passaggio in Angola nel 1976. Prima della fuga dalla Sicilia, Concutelli ha animato il Fronte Unitario di Lotta al Sistema (FULAS)27 dividendosi fra questa organizzazione clandestina e le legali FUAN e MSI, per cui viene anche candidato a Palermo. Subiranno degli attentati da parte del FULAS, tra gli altri: la concessio­ naria Fiat di Catania, il catasto a Reggio Calabria e la reda­ zione dell’Ora di Palermo. Sul suo conto, esiste anche una storia più oscura che parla della sua affiliazione alla loggia segreta Carnea, scoperta da Giovanni Falcone a Palermo e riscontrata anche da alcuni giornalisti;28 l’ex magistrato Ferdinando Imposimato, inol­ tre, cita persino il numero di una tessera a lui attribuita (n. 232

11. Commando nero

4070).29 La sede palermitana della loggia scoperta nel set­ tembre del 1981, quasi in contemporanea con il primo blitz ad Arezzo nelle proprietà di Licio Gelli, nel marzo dello stesso anno, è stata individuata in pieno centro nell’ambito dell’inchiesta sul falso sequestro di Michele Sindona. È a quel punto che si è avuta la prima certezza della saldatura fra mafia e massoneria, mentre l’inchiesta che metterà il sigillo ai legami fra ’ndrangheta, massoneria ed estrema destra30 sarà la cosiddetta «Operazione Olimpia», successiva alle in­ dagini già percorse proprio dal giudice Occorsio. Un vicequestore di Trapani, Roberto Peri, nell’estate del 1977 aveva indicato in un rapporto, dopo alcune inda­ gini effettuate su dei sequestri avvenuti nel 1975 nella sua provincia, collegandoli ad altri avvenuti in altre regioni, l’e­ sistenza di un’organizzazione promotrice di delitti «consu­ mati allo scopo di procurarsi somme rilevanti di denaro per il finanziamento di organizzazioni politiche antiparlamen­ tari (Ordine Nero, Milizia Rivoluzionaria) che si propone­ vano di sovvertire le istituzioni democratiche dello Stato».31 In questa organizzazione, secondo Peri, vi sarebbe stato an­ che Pierluigi Concutelli e le sue indagini si erano allargate persino agli omicidi di Occorsio e del procuratore France­ sco Scaglione, ucciso nel maggio del 1971. Il vicequestore fu trasferito e ritenuto poco credibile. Scrive il giudice Otello Lupacchini:Il Il pubblico ministero romano era stato il primo a intuire che poteva essere la massoneria a tirar le fila del terrorismo, utilizzando, a seconda delle contingenze, sia rossi che neri. Il giorno prima di essere ucciso, il magistrato parlando con un giornalista, aveva fatto notare che il totale della cifra pa­ gata per i riscatti dei rapimenti per cui era stato arrestato Albert Bergamelli, i sequestri dei figli di Roberto Ortolani, Alfredo Danesi e Giovanni Bulgari, tutti e tre iscritti alla 233

IV. P erché il massacro?

P2, corrispondeva esattamente alla cifra spesa per l’acqui­ sto della sede dell’Organizzazione Mondiale del Pensiero e dell’Assistenza Massonica (Ompam), una superloggia in­ ternazionale con sede a Montecarlo, fondata nella prima­ vera del 1975, da Licio Gelli.32 Bergamelli, il giorno del suo arresto, dichiara di essere protetto da una «grande famiglia». Parliamo del Berga­ melli del clan dei Marsigliesi, a cui Pinna risponde, lo stesso Pinna che voleva rivelare, collaborando con la magistratura, i traffici e i motivi dietro ai rapimenti dei personaggi bene dell’industria e dell’economia dell’epoca. Proprio quel Pinna che raccontava i fattacci a Pasolini, mentre lo intro­ duceva nel mondo delle borgate e della criminalità perché voleva conoscerne ogni segreto. Certe borgate romane, al tempo, erano impenetrabili senza l’aiuto di una «guida». Una volta arrivato nella capitale da Catania, Concutelli raggiungerà subito la base romana di via Sartorio, un ap­ partamento affittato legalmente da Avanguardia Nazionale, attraverso un militante il cui cognome ci riporta al regista di Storie scellerate, ma che non avrebbe con lui nessun grado di parentela: Piero Cittì. In questo periodo, i due movimenti cercano di unificarsi per non disperdere e affievolire la fiducia e le energie dei militanti dopo lo scioglimento di Ordine Nuovo: in Spagna, luogo privilegiato da ordinovisti e avanguardisti per le lati­ tanze, a gestire tutto c’è Stefano Delle Chiaie, ma il tentativo ufficiale culmina con la riunione di Albano Laziale del set­ tembre 1975.33 Sebbene la «fusione», in sede processuale, non abbia prodotto un valore giuridico, il delitto Occorsio, l’attentato al presidente della DC cilena Bernard Leighton e altri eventi si inseriscono in questo contesto.34 Da qui in poi di Concutelli si perdono le tracce. L’ex comandante si muove, si sposta; la latitanza non è un fatto registrato e nes234

11. Commando nero

suno sa che, ai primi di novembre, l’ex capo dell’MPON si trova, secondo un testimone, nel suo quartiere a Roma: Monteverde. Di fronte a un chiarimento richiesto al riguardo da chi scrive all’ex comandante, Concutelli non ha voluto rispon­ dere: si è semplicemente limitato a ribadire, in merito alla morte di Pasolini, che lui, se pure qualcuno dei suoi avesse fatto qualcosa, non c’era, perché si trovava all’estero. Il buco temporale non è soltanto qualcosa di mancante dalla sua autobiografia, in quanto esso £i allarga alle crona­ che di quei giorni e alla storia giudiziaria che lo riguarda. Qualcuno infatti ha consegnato della frutta a Concutelli, tra fine ottobre e inizio novembre, a Roma: si tratta di un cascherino, poi consigliere comunale di Monteverde vec­ chio35 (dove lo scrittore visse dal 1956 al 1963, gli anni fra l’exploit di Ragazzi di vita e Accattone), che ha conosciuto Pasolini e la sua famiglia, da cui ha appreso la grande lette­ ratura. Ad aprire la porta al cascherino (così si chiamavano i ragazzi che consegnavano a domicilio frutta e alimenti nei quartieri romani) fu proprio l’ex comandante. Il nome del testimone preferiamo, per ovvie ragioni, non riferirlo in questa sede.

Un telegramma da «Piazza Fontana» Scriveva il 28 settembre del 1975 Pasolini: L’inchiesta sui golpe (Tamburino, Vitalone...), l’inchiesta sulla morte di Pinelli, il processo Valpreda, il processo Freda e Ventura, i vari processi contro i neofascisti... Perché non va avanti niente? Perché tutto è immobile come in un cimi­ tero? [_] Al centro e al fondo di tutto c’è il problema della magistratura e delle sue scelte politiche.36 235

IV. P erché il massacro?

Le risposte a oggi, nonostante siano passati più di qua­ rantanni, restano limitate, e anzi le domande possono esten­ dersi a tutte quelle stragi e quei delitti, rimasti oscuri o par­ zialmente risolti, che sono avvenuti dalla metà degli anni 7 0 in poi. Le inchieste e i processi su Piazza Fontana, per tor­ nare ai fatti inseguiti dallo scrittore, sono arrivati a chiudere la questione quasi con un nulla di fatto, a parte una vecchia condanna, mai espiata, di un rappresentante dello Stato, Gianadelio Maletti, fuggito in Sudafrica allo scoccare della sentenza. L’ultima archiviazione di nuove piste che potevano portare a un’inchiesta ufficiale è stata comunicata a settem­ bre del 2013 dalla Procura di Milano. Un piccolo avanzamento, ma parziale, dopo quarantun’anni, si è avuto solo con la sentenza della Corte d’Assise d ’Appello di Milano, il 22 luglio del 2015, che ha condan­ nato all’ergastolo un ex ordinovista, Carlo Maria Maggi, e un informatore dei servizi segreti italiani, Maurizio Tra­ monte, conosciuto come «Fonte Tritone» per la strage di Brescia. E dalla madre di tutte le stragi italiane, tuttavia, la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, quella che ha fatto perdere l’innocenza e l’ingenuità a destra come a sinistra, che arriva un altro indizio. L’8 novembre del 1975, il commissario del nucleo antiterrorismo della Questura di Bari intercetta un telegramma pervenuto a un detenuto speciale, Giovanni Ventura, l’ex editore di destra e di sini­ stra che ha creduto nel nazionalsocialismo e ha ceduto alle forme più estreme per realizzarlo.37 Come si può constatare nell’immagine alla pagina seguente, Ventura, dal carcere di Bari, risponde al commissario e spiega che il telegramma, inviatogli da un’amica, arrivava in occasione del suo com­ pleanno, il 2 novembre del 1975. Questo documento, solo citato nell’intervista a Concutelli, è per la prima volta qui pubblicato. Dal timbro apposto, si evince che è stato acquisito il 12 novembre dello stesso anno 236

11. 'Gommando

nero

dalla Procura di Catanzaro, che in quel momento si occupava del processo, ormai spostato nel capoluogo calabrese per motivi di sicurezza. Il riferimento a un telegramma che par­ lava della morte di Pasolini («la morte di quel culattone là») e a un dialogo che si è evidentemente svolto fra Ventura e lo 237

IV. P erché il massacro?

scrittore è un elemento nuovo che accompagna il filo d’inda­ gine percorso qui finora e la cui scoperta è avvenuta grazie alla lettura di una lettera dal «suono» speciale.

Pier Paolo Pasolini e Giovanni Ventura: un dialogo interrotto L’ex giudice Gianfranco Migliaccio, che presiedeva il pro­ cesso di Catanzaro sulla strage al tempo, e a cui abbiamo chiesto se avesse mai preso nota di questa acquisizione, ha risposto che la sua priorità era Piazza Fontana e le pressioni relative a quel processo, e che quindi non ricordava questo telegramma datato pochi giorni dopo la morte dello scrit­ tore. Presso il Tribunale di Catanzaro, che ci ha gentilmente messo a disposizione l’archivio, abbiamo cercato il tele­ gramma cui Ventura, nella sua risposta al Nucleo Antiter­ rorismo di Bari, fa riferimento, senza però trovarne traccia. Il telegramma è sparito. Quindi, il suo contenuto può essere soltanto dedotto dalle parole di Ventura e da quell’unico virgolettato per cui la questura ha chiesto spiegazioni. Ma è il richiamo a quei «rapporti di dialogo con lo scrittore ucciso» che ha mosso la presente ricerca. La prima traccia dello scambio si trova in una lettera datata 24 settembre 1975 e pubblicata nella raccolta Vita attraverso le lettere curata da Nico Naldini. Giovanni Ventura, rinchiuso in carcerazione preventiva (vi rimarrà per lungo tempo e per questo ricorrerà alla Corte europea dei diritti dell’uomo) a Bari, riceve questa lettera dallo scrittore corsaro. Corsaro come la missiva: diretta tersa e sferzante ma dai toni pacati che lo caratterizzavano, di cui, alla pagina seguente, pubblichiamo la copia originale. Lo scrittore fa riferimento a un articolo, che uscirà sul Cor­ riere della Sera il 28 settembre (e inviato al quotidiano due o tre giorni prima della missiva), dal titolo Perché il Processo, in cui risponde a un editoriale non firmato della Stampa, riferi238

11. C ommando

nero

Foto, da originale, di archivio privato i cui contenuti sono stati pubblicati in Pier Paolo Pasolini, Vita attraverso le lettere, a cura diNico Naldini.

bile dunque al direttore, del 14 settembre. Un editoriale che chiedeva a Pasolini a che prò questo processo dovesse cele­ brarsi. Il pezzo corsaro è tra gli articoli della «serie del pro­ cesso», pubblicati postumi nel volume Lettere luterane, in cui l’attacco alla Democrazia Cristiana è forse più sferzante che altrove e dove l’elenco dei processi ancora irrisolti, così come dei depistaggi dei nostri servizi atti a impedire che si arrivasse alla verità, procede con forza detonante. Nella lettera, Paso­ lini sprona Ventura a uscire dall’ambiguità, «in quell’atroce penombra dove destra e sinistra si confondono», in quanto è bene a conoscenza della collocazione e delle vicissitudini politiche di Ventura riferite dalle cronache e dalle inchieste. Le controinchieste, nate sulla scia delle reazioni all’omicidio di uno studente universitario, Paolo Rossi, non erano sempre 239

I IV. P erché il massacro?

mosse da obiettività e a volte erano condizionate dalle trame istituzionali e segrete che si tessevano alle loro spalle. Un esempio su tutti è il libro La strage di Stato, le cui fonti provenivano anche dagli ambienti istituzionali. La controin­ chiesta, pubblicata a giugno del 1970, ebbe molto successo, oltre che numerose ristampe, e alcuni dei temi che essa trat­ tava erano già motivo di forti polemiche: l’ombra dei colon­ nelli greci, le trame del «partito americano» - nome mutuato dai primi articoli delYObserver del dicembre 1969 che indi­ cavano il presidente della Repubblica Saragat, già a capo del nuovo PSU,38 e alleato degli americani, come il massimo rife­ rimento politico della strategia della tensione.39 - , il ruolo dei socialdemocratici e della destra DC, ecc. Il volume conteneva sviluppi investigativi (per esempio, sul ruolo di AN) che si ri­ velarono poi giusti, sebbene il valore probatorio in tale senso non riuscì ad affermarsi. Tuttavia, esso presentava anche dei grossi limiti e molte manipolazioni volte a sminuire, se non a escludere, il ruolo del SID nei depistaggi e nella macchina or­ ganizzativa della strage del 12 dicembre, «caricando», di con­ tro, il coinvolgimento stesso di Avanguardia Nazionale. Gli autori rimasero, per ovvie ragioni di sicurezza, scono­ sciuti per lungo tempo, finché poi non è emersa la posizione del giornalista Marco Ligini tra i coordinatori della redazione romana. Una nota di indagine giudiziaria riferisce di un incon­ tro avvenuto proprio fra Giovanni Ventura (a sua volta colla­ boratore del SID fra il 1967 e il 1969) e Ligini il 30 dicembre del 1969, e di un altro incontro avvenuto il giorno successivo con l’agenze Zeta, ossia il giornalista, al soldo del SID, Guido Giannettini.40 Il primo incontro fra Ligini e Ventura è rimasto a lungo sconosciuto e poco o nulla diffuso. E stata la capacità di Ventura di entrare in contatto con gli ambienti della sinistra a renderlo possibile, mosse guidate da quella stessa strategia detta della «seconda linea», ossia dell’infiltrazione, abilmente tessuta dalla nostra intelligence. 240

i l . C om m ando nero

Ma cosa ha mosso il dialogo fra lo scrittore e l’ex edi­ tore di destra? Chi lo ha iniziato per primo? Da una ricerca presso il Gabinetto Vieusseux di Firenze, dove sono cu­ stoditi gli originali dello scambio epistolare, sono affiorate quattro lettere inedite di Giovanni Ventura indirizzate a Pa­ solini, due manoscritte e due dattiloscritte, datate rispetti­ vamente 2 marzo, 2 luglio, 19 settembre e 8 ottobre 1975. Delle due manoscritte riproduciamo, in appendice alla fine del presente volume, soltanto la trascrizione, vista la diffi­ coltà di comprensione che presenterebbe la grafia di Gio­ vanni Ventura. Qui di seguito, tuttavia, vista l’importanza dei contenuti, riproduciamo subito la lettera dattiloscritta del 19 settembre 1975.41 Lo stile e gli argomenti sono quelli che caratterizzano la strategia difensiva di Ventura utilizzata durante le varie fasi del processo: strategia perpetrata attra­ verso i memoriali e le articolesse da lui inviate ai giornali.

Lettera dattiloscritta del 19 settembre 197942 Rispetto ai contenuti delle due missive precedenti a questa, i quali, come avrà modo di verificare il lettore, erano volti ad avvicinare umanamente lo scrittore e a spiegargli i suoi punti di vista, la lettera del 19 settembre, a soli due mesi dalla morte del poeta, entra nel vivo del tema del «Processo», i cui argo­ menti Pasolini trattava in quei giorni. Nomi e complicità ven­ gono indicati qui da Ventura nel 1975, con i processi ancora in corso e gli spietati effetti di quelle bombe sempre vivi. Cosi come viva era ancora la strategia della tensione. La sua impor­ tanza non sembra dunque minima, soprattutto se si considera che è stata scritta da chi risultava già allora, e per sua stessa iniziale ammissione (poi in parte ritrattata) coinvolto. «Nel processo possibile», scrive Ventura rivogendosi a Pasolini, «ci sono tutti i tuoi indiziati». Sono le risposte che Pasolini cer­ cava? Le prove che davano concretezza alle sue invettive? 241

IV. Perché il massacro?

242

11. C ommando

243

nero

IV. Perché il massacro?

244

11. C o m m a n d o n e r o

Le risposte di Pasolini, a parte quella mostrata nel para­ grafo precedente in forma originale inedita, non esistono o meglio non solio presenti in alcun archivio: sono scomparse. Ventura, che si trovava in carcere in quel periodo, non è certo responsabile della morte di Pasolini. Ma i contenuti di queste lettere, e il dialogo che era nato fra i due uomini, hanno potuto forse allarmare qualcuno. Ciò che sembra affiorare, intanto, se si considerano le impressionanti date delle epistole? così vicine alla morte dello scrittore, e dopo il lavoro d’indagine sin qui svolto, ha i tratti di un dialogo e un’inchiesta interrotti.

245

Epilogo

La SIP «parallela» Concludiamo questo libro ripartendo dal principio. Le ul­ time settimane di vita di Pasolini, lo abbiamo letto, si sono intrecciate con uno strano attentato alla centralina della SIP all’Eur. Oggi sappiamo che in passato la società pubblica ha collaborato spesso con la nostra intelligence: ne ha par­ lato per primo, in ambito istituzionale, il deputato Luigi Cipriani, nella relazione alla commissione parlamentare d ’in­ chiesta su terrorismo e stragi (1991),1 in cui vengono «stesi i chiaroscuri» di una struttura occulta interna alla società. Si effettuavano intercettazioni non autorizzate o si provoca­ vano black out telefonici in zone precise. Se, poniamo, i ser­ vizi d’intelligence, nell’ambito della prevenzione degli atti di terrorismo, venivano a conoscenza in anticipo di un atten­ tato attraverso infiltrati o indagini da loro condotte, poteva accadere che certi eventi non fossero bloccati sul nascere e si facesse in modo di non ostacolarli. Riferisce la relazione: Nel mese di maggio 1977 il sostituto procuratore della re­ pubblica di Bologna, dottor Claudio Nunziata, avviò una in­ chiesta nei confronti della Sip relativamente a dispositivi di

E p il o g o

prova di ascolto che non erano dotati dei toni acustici di in­ clusione come previsto dalla legge. A conclusione dell’inda­ gine furono rinvenuti elenchi di utenze intercettate per pe­ riodi anche di 36 mesi senza notizia di alcuna autorizzazione dell’autorità giudiziaria. Si badi che accanto al numero tele­ fonico (esatto) era posto un nominativo di fantasia affinché i tecnici che dovevano realizzare le connessioni ignorassero l’identità degli utenti: che erano, in gran parte, partiti poli­ tici, giornalisti, operatori di vari settori. Trentasei mesi di intercettazioni a «giornalisti» e ad altri è un arco di tempo importante qui da rilevare: sono esatta­ mente tre anni e ci fanno attraversare a ritroso anche il 1975. Ricorderete che Pasolini, poco prima di morire, confida a Ines Pellegrini, Ninetto Davoli e ad alcuni giornalisti che la SIP gli aveva imposto più di una volta il cambio del numero telefonico. Il giorno successivo all’attentato del 14 ottobre, infatti, tutte le utenze che iniziano con 59 vengono isolate, compresa quella del poeta (06-5914...).2 All’inizio, riferi­ scono le cronache,3 il «silenzio» non sarebbe dovuto durare più di una settimana, ma poi esso si prolunga e a Pasolini (sembrerebbe solo a lui per quanto concerne le abitazioni private) viene assegnato un numero nuovo per poter co­ municare. Il danno derivato dal sabotaggio riguarda anche diversi uffici pubblici: quattro ministeri, la Confindustria, PENI, la Esso italiana, la Mobil Oil, l’Aviazione Civile. I ministeri, inoltre, potranno disporre di una linea dedicata, collegata con il solo Ministero dell’Interno, alla quale però potranno accedere i più stretti collaboratori. Ecco un estratto della Lettera a Pier Paolo, scritta da Oriana Fallaci e pubblicata seWEuropeo il 16 novembre del 1975: Ventiquattr’ore prima che ti sbranassero, venni a Roma con Panagulis [Alex, rivoluzionario e poeta greco, per un periodo amante della Fallaci, di cui scrisse anche Pasolini, N.d.A.Ì. Ci 248

E p il o g o

venni decisa a vederti, risponderti a voce su ciò che mi avevi scritto. Era un venerdì. E Panagulis ti telefonò a casa ma, alla terza cifra, si inseriva una voce che scandiva: «Attenzione. A causa del sabotaggio avvenuto nei giorni scorsi alla centrale dell’Eur, il servizio dei numeri che incominciano con il 59 è temporaneamente sospeso». L’indomani accadde lo stesso. Ci dispiacque perché credevamo di venire a cena con te, sa­ bato sera, ma ci consolammo pensando che saremmo riusciti a vederti domenica mattina. Per domenica avevamo dato appuntamento a Giancarlo Pajetta e Miriam Mafai in piazza Navona: prendiamo un aperitivo e poi andiamo a mangiare. Così verso le dieci ti telefonammo di nuovo. Ma, di nuovo, si inserì quella voce che scandiva: attenzione, a causa del sabo­ taggio il numero non funziona. E a piazza Navona andammo senza dite [...]. Ventiquattr’ore prima dell’omicidio, dunque, il telefono dello scrittore non è attivo e la voce metallica che risponde riferisce di un sabotaggio. Ricordiamo che Pasolini, il primo novembre, confida a un giornalista della Domenica del Cor­ riere che il suo apparecchio è stato «messo fuori uso dall’at­ tentato alla centralina dell’Eur».4 Fino a poche ore prima della morte, perciò, la sua abitazione è irraggiungibile per chi non è a conoscenza dell’utenza sostitutiva. Il quotidiano II Tempo, il 7 novembre, riporta la notizia del ripristino dei nu­ meri avvenuto a distanza di quasi un mese dall’attentato alla centralina. La riattivazione delle utenze della zona ha inizio il 3 novembre, il giorno successivo al ritrovamento del corpo del poeta:Il Il 3 di questo mese dei 9500 utenti per i quali era stato pos­ sibile fin dal 15-16 ottobre ripristinare il traffico telefonico uscente, già 9.200 usufruivano anche di quello entrante, mentre per i rimanenti 300 si prevede l’ultimazione dei la­ vori per il 12 di questo mese. Dei quattordicimila, circa, nu249

E p il o g o

meri «saltati» ne rimangono muti ancora 4.200, dei quali si prevede il ripristino5entro il 20 novembre. È a questo punto che si impongono alcune domande: il telefono dello scrittore, attivo con un numero di cortesia, può essere intercettato proprio perché isolato? E ancora, il fine di tale «favore» può essere riconducibile al solo scopo di conoscere le sue mosse? Due operazioni che, se applicate davvero, sono conseguenti l’una all’altra. Stando alla testi­ monianza di Sergio Cittì, infatti, Pasolini comunica telefo­ nicamente con i suoi ricattatori almeno sin dall’ottobre del 1975. Con essi organizza, rimanda e concorda (anche attra­ verso la mediazione di Pino Pelosi) l’appuntamento per il recupero delle pizze di Salò. Appuntamento da loro posti­ cipato più volte proprio durante i giorni del black out. Per­ ché? Per assicurarsi che l’operazione iniziata con quella che è stata a tutti gli effetti una manovra di camuffaggio - cioè il furto di diverse pellicole oltre a quelle del poeta - possa andare a termine senza ostacoli, seguendo tutte le mosse di Pasolini? Per concludersi poi con il ripristino graduale delle utenze nella zona di riferimento? «Operazione di chiusura» è l’espressione corretta utilizzata in questi casi. Teniamo conto del fatto che la cosiddetta «SIP parallela» si costitu­ isce attraverso degli appositi uffici attrezzati presso le più importanti aziende sin dal 1972. E consideriamo, a questo proposito, per ciò che riguarda la Rai almeno, le dichiara­ zioni del giornalista Diego Cimara in merito al suo telefono di lavoro perennemente intercettato dopo che aveva comin­ ciato a occuparsi del caso. Due azioni speculari: il furto dei negativi del film e la riattivazione dei numeri telefonici, proprie dello schema i cui dettagli sono stati esposti ampiamente nelle pagine del pre­ sente lavoro. È questa solo una ipotesi, certo, ma sostenuta da molti elementi.6 250

E p il o g o

Il «character assassination» Ma da quanto dura in realtà l’assassinio di Pier Paolo Pa­ solini? Da quanto tempo va avanti il suo martirio? Non è per nulla terminato con la sua morte: un processo e insieme una strategia che hanno permeato quasi tutto Yaffaire fino a riflettersi sulla sua opera e sulle sue idee. U n’opera rivi­ sta, rimaneggiata e manipolata da «amici» ed ex amici, da detrattori e da qualcuno i cui conti in sospeso sono emersi soltanto dopo la sua scomparsa: tanto ormai uno scrittore divenuto personaggio o oracolo, consegnato alla pura mi­ tizzazione, non ha più la possibilità di rispondere. Si tratta del «character assassination», una sorta di «strategia del lin­ ciaggio». Un tipo di tecnica, questa, artatamente creata dai regimi totalitari e dai suoi agenti di copertura per distrug­ gere la credibilità e la reputazione di una persona comune o di un politico, deformandone i tratti e trasformandolo in un personaggio: un character, meglio, un caratterista, un ruolo che a teatro viene generalmente assegnato a una figura dai tratti caricaturali. Insomma, mescolare fatti veri, inerenti la vita di una persona, ad altri completamente falsi e architet­ tare postulati poliziesco-archivistici per impostare processi giudiziari.7 Tutto questo è stato applicato a Pasolini: l’unico esempio di intellettuale italiano che ha subito questo tipo di aggressione continuata. Capitò, è vero, per altri motivi, anche allo scrittore Ignazio Silone il quale però non fu per sua fortuna massacrato e ucciso. Attualmente, questo tipo di «strategia» è anche divenuta oggetto di studi accademici.8 Si è assistito dunque alla distruzione dell’uomo e dell’in­ tellettuale Pasolini, delle sue idee e della sua opera, come fosse un fastidioso e ingombrante schermo di cui sbaraz­ zarsi. Un’operazione iniziata prima del suo omicidio, attuata direttamente con il massacro e infine perpetuata, non certo nel prosieguo di una «strategia», ma sulla scia dell’assalto 251

E p il o g o

che l’ha messa in moto. Si tratta di un «character assassination» culturale celato dall’amichevole invito o augurio a non interrogarsi più sulle dinamiche della sua morte e a leggere piuttosto i suoi scritti, la sua opera. Certo: dopo averla de­ bitamente infangata. Una parte del mondo intellettuale è sceso appunto sino nei meandri della psicologia (neanche si trattasse degli eredi del «buon» criminologo Aldo Semerari) per spiegare le motivazioni che hanno condotto alla morte violenta il Poeta9 e per comunicarci che l’impegno, per un intellettuale e un «poeta», non conviene. Non fa bene alla letteratura. Non interessa: è desueto. Marco Belpoliti, nel suo Vasolini in salsa piccante,10 è riu­ scito a piazzare un primato in questo senso: mentre si chiede (giustamente) cosa potesse sapere di più e di diverso Paso­ lini considerato che le sue fonti erano quelle note al mondo giornalistico dell’epoca e se si possa uccidere per questo uno scrittore, non può tuttavia trattenersi dall’affermare, ca­ lando in picchiata sull’uomo, che «la vera omissione è pro­ prio quella di non accettare il contesto e la situazione in cui Pasolini si è trovato. Non accettare la sua omosessualità». Si affretta subito Belpoliti, poi, a rettificare quel contesto in pederastia, f>er via della preferenza che Pasolini aveva per i ragazzi, non per i bambini, eterosessuali. Una puntualizza­ zione sul sesso davvero encomiabile, se non fosse che questa precisione non si è usata per andare oltre il contesto mar­ chettaro (contesto in questa inchiesta mai omesso, la dove necessario, ma che con il massacro in sé non ha nulla a che fare). Lo scrupolo di Belpoliti è arrivato sino al punto di af­ fermare che «l’omosessualità rimossa di Pasolini costituisce la radice vera della sua lettura della società italiana, l’ele­ mento estetico su cui egli ha fondato la critica della società dei consumi». Bisognerebbe credere, stando a queste parole, dunque, e scendendo allo stesso livello, che la critica all’o­ mologazione culturale e politica e le accuse al potere fossero 252

E

p il o g o

frutto del suo essere «frocio e basta». Le parole di Beipoliti giungono in perfetta sintonia con quelle di Umberto Eco. Proprio il semiologo e scrittóre, con un corsivo sul manife­ sto, infatti, sotto lo pseudonimo di Dreyfus nel gennaio del 1975, in merito alle polemiche sull’aborto suscitate dagli interventi critici di Pasolini, scrisse: «La tesi ridotta all’osso (sacro) è molto chiara. Non è l’aborto che dobbiamo discu­ tere, è il coito». Non poteva mancare in quest’elenco di in­ terventi «contro l’uomo», prima che contro il letterato, il po­ eta Edoardo Sanguineti, il quale, nel solco dell’aspra pole­ mica che ha visto contrapporsi Pasolini e l’avanguardia lette­ raria del G ruppo ’63 (di cui era parte insieme a Eco), tra un / accuse e un altro, condito anche da qualche ripensamento, nel 1995 ricredendosi di nuovo dichiara: «Vivendo di scan­ dali morali, Pasolini è stato un reazionario».11 Ecco perché il Poeta nel marzo del 1975, replicando alle polemiche del tempo, poste in maniera strumentale da molti, scrive: «Tutto ciò ha dato al mio discorso sull’aborto una certa tinta: tinta che proviene da una mia esperienza particolare e diversa della vita, e della vita sessuale». Enzo Siciliano risponderà a Sanguineti, di fronte a uno dei suoi ripensamenti, stavolta postumo, sul Poeta, in modo ironico e polemico: - Bisognerebbe dire too late [...]. Avrà capito che la poesia, al contrario di quanto gli suggerivano i suoi sogni ostinati, non si fa soltanto per superamento di forme, ma anche per con­ tenuti, per letture di realtà, per rapporti umani e conoscitivi. Avrà capito che il disegno stilistico pasoliniano non nasceva per riverbero del passato, ma che quel riverbero, una volta recuperato, aveva un senso assai più rivoluzionario.12

Ferdinando Camon, autore tra l’altro di una sorta di ro­ manzo-denuncia, Occidente. Il diritto di strage,13 incita tutti a smetterla di interrogarsi su Petrolio. Camon, che viene ci­ tato nell’opera da Pasolini come collaboratore dell’EN I,14 ci 253

E p il o g o

mette in guardia dal voler insistere nello scavare sull’ultima opera incompiuta dello scrittore per individuare un qualche indizio sul movente dell’assassinio. Perché il movente per lui, e per coloro che sono parte di questa cerchia, è sempre il sesso: argomento che plasma tutto. Anche Camon, dunque, ci chiede di accettare l’omosessualità dell’intellettuale e il benedetto contesto in cui si è trovato quella notte. In Com 'è morto Vasolini,13 Camon scrive infatti: Usare il corpo di un minorenne solo perché si è in grado di pagarlo è un crimine sessuale e sociale. Pasolini è la vit­ tima di quella notte, stiamo scrivendo di questo. Ma aveva già fatto una sua vittima. E non lo dico da etero: se avesse preso e comprato una bambina minorenne, direi le stesse cose. [...] La polemica è feroce perché è feroce, implacabile questa esigenza: di mondare Pasolini dalla morte per omo­ sessualità e consegnarlo alla storia come morto per antifasci­ smo. La morte per antifascismo risponde a un bisogno degli amici di Pasolini, e non riesco a capire perché. Ma in un suo articolo su Vanorama, di alcuni anni prece­ dente a questo, Camon era stato molto più esplicito:Il Il Pasolini rinato, dunque con la conoscenza del dopomorte, la prima cosa che farebbe sarebbe di distruggere il Pasolini preesistente. Perché era un Pasolini che ci depri­ meva, ma restava infantilmente represso. Era un non-cresciuto. Omosessuale che praticava sesso di nascosto, tra at­ tacchi di ulcera, incapace di legarsi a un partner, lì ruotava tra pericoli, sfide, scazzottate, colpi di pistola (sic) e basto­ nate; fino a restarci secco, povero corpiciattolo infangato e storpiato, offerto da lì, da una sozza spiaggia, al ludibrio della buona borghesia, sua nemica storica. Lasciando, tra l’altro, una vedova vergine. Che debole patetico omuncolo. Il Pasolini rinato ne farebbe una tabula rasa. Dandosi, natu­ ralmente, un altro nome.16 254

E

p il o g o

Insomma, un invito a seppellire l’uomo Pasolini dopo averlo distrutto. Da evacuare o da inghiottire solo in «salsa piccante», per dirla alla Belpoliti. In Com’è morto Pasolini, Camon non manca di aggiun­ gere che il Poeta è stato tre volte suo padre letterario. Sui «figli» che uccidono i propri «padri», Pasolini aveva appunto scritto molte pagine, non solo la famosa poesia II PCI ai giovani, sulla quale ancora oggi si specula a ogni manifesta­ zione anti-governativa senza averne mai voluto davvero com­ prendere il senso,17e in cui lo scrittore esasperava la sua critica riferendosi a certi aspetti del movimento di rivolta del ’68. Il Poeta, infatti, più avanti, nel 1973, metterà in guardia dai pro­ vocatori come Mario Merlino,18tra i protagonisti degli scontri di Valle Giulia, uno degli anarco-fascisti coinvolti e poi assolti per la strage di Piazza Fontana. Lo ha fatto usando la similitu­ dine dei capelli lunghi per denunciare l’omologazione politica e culturale e, dunque, l’irriconoscibilità fra ragazzi di destra e ragazzi di sinistra affacciatasi prima di tutto a livello estetico­ consumistico.19 In un numero di Nuovi argomenti?0 da lui co­ diretto insieme a Moravia e a Enzo Siciliano, il cui focus era l’estremismo politico, Pasolini affronta il tema della «distru­ zione dell’innocenza», ovvero la distruzione dei valori costitu­ iti da parte delle nuove culture che lui definisce «sotterranee»: una demolizione dei «padri» da parte dei «figli», i quali non hanno tenuto conto di ciò che ha rappresentato il fascismo. Atteggiamento parallelo a quello attuale, in cui si urla contro il berlusconismo e il renzismo senza comprendere il processo che ci ha sin qui condotti e quindi mettere in moto una forma di prevenzione contro i processi di distruzione futura. Un altro dei primati, forse il più atroce, è quello rag­ giunto da Adriano Sofri, ex leader di Lotta Continua, mo­ vimento con cui Pasolini non aveva sempre dei rapporti distesi, non condividendo inoltre con loro molte cose, mal­ grado il Poeta si prestò come direttore del loro quotidiano, 255

E

p il o g o

a volte finanziandolo, in nome della libertà di stampa e otte­ nendo da quella posizione spesso querele e processi giudi­ ziari. Partecipò inoltre, curandone la regia, al documentario autoprodotto 12 Dicembre,21 girato successivamente alla strage di Piazza Fontana. Nel trentennale della morte, sulla Repubblica, Sofri riesce a definire il Poeta un «esperto in grembi», proseguendo anche oltre, senza rinunciare prima a bollare (in completa diminutio) come nostalgia del fasci­ smo e del populismo quello che invece, Pasolini, attraverso delle spiegazioni analitiche, aveva indicato diversamente. Lo scrittore aveva spiegato come la sua «nostalgia», in realtà, consistesse nel rimpianto di quelle anime contadine portatrici di tradizioni e valori, le quali, invece di contrap­ porsi al finto sviluppo e seguire un normale iter di graduale progresso, stavano soltanto velocemente sparendo e con loro il dialetto.22 Nemico, quest’ultimo, numero uno del fascismo stesso. Concetti, questi, che con la nostalgia del fascismo non hanno nulla a che vedere. Il Poeta si trovò a difendere il suo punto di vista in merito anche con Italo Calvino: una parte della querelle, questa, che ha portato a raffreddare la loro amicizia. Nemmeno Alberto Moravia, sempre rimasto accanto a Pasolini nelle vicissitudini giudiziarie che lo coin­ volgevano, è rimasto immune da questo «fraintendimento». Vale la pena in ogni caso proporre alcuni stralci del pezzo di Sofri: A leggere i più famosi Scritti corsari, sembra che un oltran­ zismo di sincerità e di esibizione di sé abbia cancellato ogni remora di pudore o convenienza. Ma poi si legge il brogliac­ cio di Petrolio e si misura, con una stupefazione turbata, quanto fosse ancora distante il Pasolini notturno da quello dei giorni e dei giornali. Perché ciascuno di noi, più o meno, vive le sue cose, e perfino gli intellettuali più avari di sé: ma non così a corpo morto, e non queste cose. 256

E p il o g o

L’articolo prosegue estrapolando passi di «quelle cose» innominabili, senza considerare il filtro del sesso come potere, che il regista e lo scrittore, nelle sue ultime opere, aveva utilizzato dichiarandolo a giornali e giornalisti. Una reazione non distante da tanti altri intellettuali che, all’u­ scita del cosiddetto «brogliaccio», spesso si soffermavano sull’appunto «Il Pratone della Casilina» per ingiuriare l’o­ pera. Continua Sofri: H o detto del divario fra gli scritti pubblici e quello desti­ nato alla pubblicazione, anzi con l’impegno di una summa definitiva, ma così parziale e informe, che è Petrolio (1972’75). In quella farragine il competente in facce e capelli de­ gli Scritti corsari diventa senz’altro l’esperto in grembi: in una devozione esclusiva al sesso, una sottomissione sacra al cazzoP

Sofri, che ha vissuto quei tempi e di quei tempi è stato uno dei protagonisti, non ha davvero compreso il riferimento ai provocatori attraverso la descrizione dei capelloni nell’arti­ colo in questione? Riferimento a cui è seguito il nome pro­ prio di Mario Merlino?24 La scia del «frocio e basta», completamente smontata in questa inchiesta - se ne faranno tutti costoro una ragione -, è la più consistente tra chi ha abdicato del tutto a una se­ ria ricerca della verità sulla sua morte, ma non è l’unica. Lo scrittore Fulvio Abbate, ad esempio, nel suo Pasolini raccon­ tato a tu ttP (ma anche in alcuni suoi bei lavori precedenti in cui non si era mai sottratto ad affrontare le modalità e i motivi che condussero Pasolini a morire di morte violenta), stando ben attento a non sconfinare nella più scontata «die­ trologia», afferma: A sentire alcune testimonianze di persone che ebbero un rapporto di frequentazione con lo scrittore nelle sue ultime 257

E

p il o g o

settimane, trapela la certezza di una modalità di lavoro che fa supporre qualcosa di singolare. L’uomo, il poeta, l’intel­ lettuale, il regista infatti scavava, prendeva nota, cercava fonti, documenti, era sulle tracce del petrolio con i suoi nomi. Il lavoro del filologo o dello studioso della poesia po­ polare aveva lasciato il posto ad altro, all’indagine.,

Una modalità di lavorò e d’indagine, quella utilizzata da Pasolini, che il lettore ha qui potuto comprendere e che, con­ trariamente a quanto affermato da Belpoliti, non includeva ormai più il gioco estetico. Eppure queste parole di Abbate così dettagliate e illuminanti, per quanto non accompagnate da vera e propria indagine, saranno poi da lui stesso e da altri intellettuali dimenticate o rinnegate. In un articolo pubblicato sul Garantista, all’indomani della notizia sull’archiviazione della inchiesta giudiziaria, quando ancora le motivazioni non erano del tutto note, lo scrittore siciliano, da tempo trapian­ tato a Roma, chiede a gran voce «alle anime belle del complottismo di sinistra» di rassegnarsi e di «lasciare finalmente in pace Pasolini» perché la giustizia aveva così deciso. Amen. Nella testimonianza, in parte scritta di proprio pugno, che Pierluigi Concutelli, l’ex comandante militare dell’MPON, ci ha rilasciato fissandola su un paio di foglietti usati per po­ tersi meglio esprimere data la sua malattia, l’ex ordinovista dichiara: Aveva [Pasolini N.d.A.] radici culturali e politiche conta­ dine e un suo concetto di socialismo che non era condiviso dai politici di professione. Era un Poeta26 non un oracolo.27

Queste poche righe, insieme ad altre da lui consegnate come «ricordi di un vecchio che ha soltanto ricordi come patrimonio», fanno capire chiaramente quale fosse la consa­ pevolezza dell’uomo e dell’intellettuale Pasolini da parte dei vertici dell’estremismo di destra di allora. Consapevolezza che provocava timore e che, contrariamente a molta parte di 258

E p il o g o

sinistra, non baciava davvero ai suoi gusti e alle sue attitudini sessuali. Mai infatti l’ex terrorista ha fatto cenno a questo aspetto della vita di Pasolini, mai lo ha denigrato: ha sì spie­ gato cosa condivideva e cosa non condivideva. Certo non era d ’accordo con la visione che il regista e scrittore aveva dell’a­ narchia del potere, rappresentata nel film Salò attraverso la fine di un’epoca, quella del fascismo e del nazismo: H o voluto rappresentare un mondo alla fine, non nel mo­ mento di maggior gloria [...]. Se io l’avessi ambientato nell’apogeo del nazismo, sarebbe stato un film intollerabile. Sapere che tutto questo avviene negli ultimi giorni, che poi tutto questo sarebbe finito, dà un senso di sollievo allo spet­ tatore. In sostanza questo film è un film sulla vera anarchia, che sarebbe l’anarchia del potere.28

Un intellettuale che suscita il timore del potere consolidato (politico, di regime, occulto o culturale) va ucciso, va rimosso o ingurgitato. Il massacro tribale di Pier Paolo Pasolini trascina con sé una coda di quarant’anni che non smette di colpirlo quando sistematicamente si chiede ai «complottisi» di non occu­ parsi delle modalità e delle ragioni della sua morte e quando, sotto la forma di un finto rispetto o uno sprezzo malcelato, si approntano esercizi di stile volti in ultima istanza a coprire il valore politico delle sue analisi sull’Italia, sulla sua borghe­ sia, sui suoi intellettuali. Analisi la cui forza e valenza risuo­ nano ancora per la loro perenne attualità. Il «caso Pasolini» in fondo è tutto racchiuso qui: fra un omicidio politico e una strategia del linciaggio e delle mistifi­ cazioni,29 il tentativo cioè di consegnare all’oblio un messag­ gio tanto forte da sopravvivere a un massacro tribale.

259

Appendice L e t t e r e d i G io v a n n i V e n t u r a a P a s o l in i

Lettera manoscritta del2 marzo 197V Caro Pasolini, mi consenta questo modo di approccio immediato: ma se bisogna «non avere paura di avere un cuore» significa anche che è bene disporlo «cordialmente» a tutti i dialoghi che si propongano con franchezza. In re­ altà questo dialogo poteva iniziare quasi un anno fa, da quell’ormai famoso «incipit» dei suoi interventi chiari e «scandalosi» degli ultimi mesi secondo il quale «gli italiani non sono più quelli». Non so mica esattamente perché non le scrissi allora. Mi pare che a distogliermi fosse un certo quale pudore, proprio nel momento in cui lei dichiarava che bisognava prestare attenzione anche a un Fumagalli, se quel che diceva era buono.. .2 E lei lo sa, il pudore è un sentimento che organizza emotivamente quanto vi può essere di più interno e di più esterno: ed è sullo storico obliquo e ambiguo di queste volontà personali che si con­ dirono i falsi pudori, no? Tuttavia, anche a scriverle oggi, e con l’occasione che consiglia di «non avere paura di avere cuore» è come ricollegarsi a quasi un anno fa: per­ ché l’intervento suo di oggi fa parte di un «continuum» di discorso che dura almeno da allora. Sempre [testo in­

A ppendice

comprensibile, N.d.A.] sorprendente per chi abbia seguito la sua presenza di questi ultimi anni, seppure incongruo e [testo incomprensibile, N.d.A,] rispetto alle precedenze, come invece vorrebbero alcuni; seppure inusitato e «de­ viarne».... Chi avesse letto il suo intervento sull’estremi­ smo, nel numero monografico di «Nuovi Argomenti»,3 vi avrebbe trovato anticipazioni espresse o implicite di quanto è andato sostenendo in tutta la varietà degli inter­ venti giornalistici successivi. E io posso forse annoverarmi tra coloro che, con approssimazioni povere, sanno qual­ cosa di lei: non fosse altro che perché contavo di averla come coautore di una pubblicazione di storia «essenziale» della Marca Trevigiana di Andrea Zanzotto4 testi di [testo incomprensibile, N.d.A.] in epoca precedente alla mia pri­ gionia... un libro nel quale l’osservazione fisiognomica, le variazioni di «stile», i mutamenti comportamentali vole­ vano proprio valere come metodo ausiliario di approfon­ dimento «essenziale» delle espressioni visibili della vita e della storia di una piccola area veneta - ma abbastanza «individuo» [testo incomprensibile, N.d.A.] da essersi po­ tuta chiamare Marca. Dunque: le scrivo perché la «linea» del suo discorso (anche di questi ultimi mesi) mi ha for­ nito conferme sulla mia vicenda personale - cioè sulla sto­ ria umana di un «disgraziato come uno che vagola» dentro alla esigenza di trasformare, con una educazione razionale (quella che si dice anche autocoscienza [testo incompren­ sibile, N.d.A.] esclusiva inclusiva), la sua identità «generazionale» di «prodotto» [testo incomprensibile, N.d.A.]. Che questo processo duri da almeno dieci anni e trovi con­ ferme nel suo discorso, proprio nel punto sintomatico nel quale alcuni parlano del suo «clericalismo» (magari sco­ modando padre Tapareli!), non mi pare indegno. Pure se quella signora di «mandragola» che sembra essere la Ca­ milla Cederna ha parlato della mia «cultura mal digerita» sulla scorta di una intervista non pubblicata, nella quale 264

L ettere

di

G

io v a n n i

V

entura a

P

a s o l in i

attardano un riferimento «indigesto» a lei e alla sua precisa analisi dell’estremismo delle bande neofasciste. (Le invierò questo testo delle risposte a un questionario del settima­ nale «Epoca», che attendo mi venga restituito da un com­ pagno). Esistono, infatti, forme varie di «diversità» e varie contrapposte strategie manipolatone per risposta: e una di queste (assai diffusa anche tra tanti bravi materialisti) è quella che di fatto ritiene immodificabile il tipo mentale e umano di un individuo, che ne ritiene [testo incompren­ sibile, N.d.A.] la mentalità e impossibile il passaggio da una mentalità «chiusa» a una «aperta» e che, quindi, ne misconosce e disprezza il formarsi di opposti personali (e «cardiaci») aderenti a una evoluzione progressiva; e quasi ne impedisce la edificazione di difese intellettuali e umane, di precauzioni «mentali», volte a impedire sbocchi inu­ tili e invenzioni regressive nell’ambito di un processo che vuole essere di «conversione»... Insomma, caro Pasolini, esiste anche la «diversità» di chi, pur non essendo fascista, deve esserlo per una immodificabile coattiva «conformità» di potere, per una violenza di potere cioè... E se, non es­ sendolo forse mai stato e non «potendolo» comunque più essere da molto tempo, nega semplicemente di esserlo, gli danno anche del provocatore! Il canovaccio è stereotipato, si sa; è «ciclostilato»! Ma mutate le parti e i ruoli, lo vedo ben svolto anche a proposito delle reazioni «incatijate» (come si dice dalle nostre parti) ai suoi interventi di que­ sti mesi. Certo, la solidarietà tra «disgraziati» e «diversi» non è «produttiva», non è «mercatabile»: è una cosa del cuore, proprio, e bisogna «non aver paura di avere un cuore». Che, è giusto sì, non è soltanto una componente di sentimento della coscienza umana, ma la facoltà per­ cettiva dell’essere totale dell’uomo - che fa bene, allora, ad essere aperto e (incomprensibile?) sulla totalità, sull’«omogeneo» e sul «diverso», a giungere il più lontano possibile al di fuori della coscienza di identità «analogica» 265

A ppendice

[testo incomprensibile, N.d.A.], a farsi determinato e in­ tonato a ciò che comunque è... Cioè a tutti gli altri (non solo agli omogenei»). In questo senso, il pensiero è cuore, è il fondo del cuore, è l’intimo dell’uomo che entra in con­ tatto con ogni cosa e dove si raccoglie ogni cosa che gli ca­ pita, che gli tocca, che gli sta a cuore appunto, che prende a cuore... Altro che irrazionalismo! Altro che istrionismo e sentimentalismo! Qui è la facoltà di conoscenza umana essenziale: è l’incontro, è la parte, è il dialogo. La chiarezza delle cose umane semplici: estranee alla [testo incompren­ sibile, N.d.A.] e al [testo incomprensibile, N.d.A.] dei trucchi razionalistici, di quella ragione degenerata che è lo schermo di tutte le complicazioni incomunicabili (e in pri­ mis la «logica» del potere»). Dunque è realismo, non irra­ zionalismo, dire dell’intero intatto rapporto, della «infor­ male» presenza della essenza, al puro essere delle cose reali e semplici, «omogenee» e «diverse». E una coscienza «inu­ suale», codesta? C’è addirittura da credere che sia una co­ scienza «diversa»! Ecco perché le ho scritto: mi auguro vi­ vamente che il suo discorso trovi, in un pubblico più largo di quello degli «scrivani», la attenzione e la diffusione desi­ derabili. E spero di non averla «indotta in contraddizione» scrivendole così, nel solo fatto di essere io a scriverle! Ma lei non pare uomo da falsi pudori. La saluto con gratitudine. Ventura Giovanni Ventura Carcere giudiziario Bari

Lettera manoscritta del 2 luglio 197P In questa lettera, emerge la probabile intermediazione fra Ventura e lo scrittore da parte di un editore trasversale, An­ tonio Pellicani, con entrature nel PSI, nel PCI e nella DC: 266

L ettere

di

G

io v a n n i

V entura

a

P

a s o l in i

Caro Pasolini, un caro compagno, Tonino Pellicani, mi manda gli «Scritti Corsari».6 Letti d’un fiato, ora le dico soltanto l’intera gratitudine per queste pagine, messe in­ sieme come un dono... per chi voglia cercare «il cuore di un mondo senza cuori», come dice Marx. Mi lasci raccon­ tarle alcune semplici impressioni, in traccia delle linee es­ senziali del suo discorso. Anzitutto, l’affermazione impli­ cita in ogni conoscenza aperta dal mondo «corsaro», che il comportamento umano è sì condizionato da un insieme di fattori (che potrebbe essere «l’insieme dei rapporti so­ ciali»: cioè fattori biologici antropologici economici so­ ciologici religiosi...), ma che nessuno di essi va assunto aprioristicamente come antitetico; e che son tutti opera di condizionamento psicologico, regolato dalla volontà razio­ nale. Desumere una «sistematicità» del modello umano dai fatti psicologici, subordinati all’autoregolazione razionale, non significa proprio compiacere l’irrazionalismo, come vorrebbero certi nipotini paleomarxisti [testo incompren­ sibile, N.d.A.] Così, dire che la società moderna è fatta di «mostri», significa semplicemente significare che ogni nostro «mostro» ha un cuore oscurato, che «ha paura di avere un cuore». E fare i «corsari» significa avvicinarsi a questo prossimo mostruoso, con la capacità di modificarlo, non come noi vogliamo che sia, ma come egli è sotto l’ap­ parenza della persona ufficiale, oltre il suo cuore smarrito «in un mondo senza cuori» e oltre la sua anima perduta in uno dei tanti crocevia o angoli di marciapiede della con­ formità contemporanea. Oltre i condizionamenti sociali e attraverso la loro decifrazione (sottile filosofia dei segni umani, antropologia «corsara»), si tratta di captare l’al­ tro e instaurare un legame che, per lo più, è destinato a vivere occulto (quando non «diverso»): cercando di [testo incomprensibile, N.d.A.] nella spontaneità di un raccogli­ mento altrimenti possibile nel mondo andato delle piccole comunità umane, dentro alle quali la spontaneità, la pra267

A ppendice

tica della spontaneità, era un tessuto vivente di relazioni personali. La [testo incomprensibile, N.d.A.] ci ha fatto scoprire che in noi esiste una parte ignota da dissotterrare, da far affiorare, [testo incomprensibile, N.d.A.] che anche alla individuazione e soffre i condizionamenti. E questo, allora, l’attenzione di conoscenza che va liberata e lasciata correre... per vincere la sofferenza, di cui parlava Pavese, quella dell’uomo che non è se stesso e intreccia relazioni con altri, basate sulla sua persona ufficiale e condizionata da quella, ha a che vedere con la sua autenticità. La «ricostruzione» essenziale del libro, dunque, mi si propone in questa intenzione di svelamento dell’umano, di attacco alle sue obnubilazioni. Le parti politiche, poi, ma in ultimo tutto questo libro è filosofia della storia e morfologia della civiltà (fuori dall’accezione idealistica di questi «generi»), le parti politiche sono una tiepida dimostrazione di come il marxismo non debba valere come visione logica del mondo, ma come visione umana, «cardiaca» nel già detto senso marxiano. Dovrei dire altro, anche di temi che in qualche modo mi riguardano da presso. Preferisco chie­ dermi se ricevette la mia lettera di alcuni mesi fa; e, per intanto, inviarle un documento forse non inutile, anche in questo contesto. E accompagnarlo con i semplici e chiari sentimenti «cardiaci» che parrà sentirmi. Ventura Indirizzo sempre al «Mondo»; anche se mi par di capire che qualche «commenda» può aver creduto superfluo o «indi­ sponente» una certa pedagogia!... G. Ventura - carcere - bari»

268

L ettere

di

G iovanni V entura a P asolini

Lettera dattiloscritta dell’8 ottobre 19751

269

A ppendice

270

Postfazione

D i verità si può anche morire? di Otello Lupacchini

La storia, almeno quella giudiziaria, è nota: nella notte fra il primo e il due novembre del 1975, all’idroscalo di Ostia dove, nell’estate precedente, erano state girate alcune delle scene più allegre e sensuali del film II fiore delle Mille e una notte, spiazzo polveroso trasformato in mitica natura vege­ tale, moriva assassinato Pier Paolo Pasolini. La verità sull’o­ micidio, la cui ricostruzione in questo libro è ripercorsa in­ teramente, sembrò da subito essere a portata di mano: ad assassinarlo, si disse, era stato un ragazzo diciassettenne, Pino Pelosi, il quale, dopo averlo atterrato a colpi di bastone e con un calcio allo scroto, impossessatosi della sua automo­ bile, era passato, fuggendo, sul suo corpo: condannato, in primo grado, dal Tribunale per i Minorenni di Roma, pre­ sieduto da Alfredo Carlo Moro, per omicidio, commesso non da solo, ma «in concorso con ignoti», la Corte d ’Appello, con sentenza del dicembre del 1976 - confermata in Cassazione nell’aprile del 1979 - , accogliendo la richiesta del procuratore generale, il dott. Guido Guasco, lo stesso magistrato che aveva condotto l’istruttoria dopo che il suo ufficio aveva avocato Yaffaire, sottraendola alla procura della Repubblica presso il tribunale, ne ribadì l’affermazione di responsabilità, affermando, tuttavia, proprio con riguardo

O tello L upacchini

agli indizi dell’eventuale concorso di ignoti, «che questi ele­ menti possano spiegarsi con l’ipotesi della partecipazione di più persone è indubbio, che ne siano indizi sicuri e incontro­ vertibili è da negare». E in questo contrasto sull’ascrivibilità del delitto a uno ovvero a più soggetti in concorso fra loro, che, al di là della fretta di cui immediatamente si è avuto l’impressione avessero sia gli investigatori sia gli inquirenti sia i giudici di chiudere un processo, il mai sopito conflitto tra diversi modi di concepire la verità, frutto di differenti culture e ispi­ razioni ideologiche, è andato a inserirsi. Un contrasto solo formalmente risolto da quella che, in linguaggio tecnico, è l’«incontrovertibilità della cosa giudicata», almeno per quanto riguarda il «reo confesso» Pino Pelosi. Mi pare qui importante e necessario citare a estrema ma poetica sintesi del senso di questo contrasto l’atteggiamento e le riflessioni dello scrittore e fraterno amico di Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia. Nell’orazione funebre pronun­ ciata il 5 novembre 1995 in Campo de’ fiori, infatti, Alberto Moravia non nascose d ’essere perseguitato dall’«immagine, emblematica di questo paese», à un tempo agghiacciante e drammatica, di un «Pasolini che fugge a piedi, [...] inse­ guito da qualche cosa che non ha volto e che è quello che l’ha ucciso». Moravia, racconta Enzo Siciliano,1 nell’im­ mediatezza del tragico evento, aveva scritto per il Corriere della Sera un articolo «votato per intero a capire le mosse di Pelosi, il corpo e la psicologia, o il senso di quella notte, e i gesti scambiati fra quelle baracche, se con grida o in si­ lenzio»; un articolo che sembrava freddo, ma questo, spiega Enzo Siciliano, era comprensibile: «Moravia aveva perso il suo amico più caro: il fatto era atroce» e, volendo spiegarsi la meccanica degli avvenimenti, «il suo istinto di romanziere si era subito messo in moto». Pur adombrando l’ipotesi che l’assassinio di Pasolini potesse essere stato un delitto «di 272

P

o s t f a z io n e .

D i verità si può anche morire ?

gruppo, politico o altro», Moravia era sicuro che Giuseppe Pelosi avesse agito da solo, che fosse lui l’assassino, il che, spiega ancora Enzo Siciliano, «probabilmente, rendeva meno crudele la perdita dell’amico, più quietamente com­ prensibile quanto era accaduto nella notte fra l’uno e il due novembre 1975 a Ostia».2 Trascorso un anno dal massacro dell’idroscalo, celebrato, frattanto, il processo a Pelosi con la condanna di costui per omicidio volontario, in concorso con ignoti, impugnata la sentenza dal procuratore generale perché venisse esclusa l’ipotesi che altri avessero partecipato al massacro, Alberto Moravia aveva, però, cambiato idea: «Oggi non sono sicuro di ciò di cui ero sicuro un anno fa [...] Nel suo racconto [di Pelosi N.dA.] tutto vorrebbe qua­ drare; poi, lo sappiamo, tutto è pieno di falle, di particolari difficilmente sostenibili [...]. Insomma, cosa voglio dire? Che tutto questo sembra preparato a tavolino, o, se non a tavolino, deciso comunque».3 Pier Paolo Pasolini ha descritto spesso, nelle sue opere poetiche, la sua solitudine, le persecuzioni patite, il suo sco­ raggiamento, il suo linciaggio virtuale o reale. Il clima pa­ ranoico creato attorno a lui dai numerosi processi a cui era stato assoggettato per i suoi film e i suoi romanzi, dalle po­ lemiche degenerate molto spesso in insulti, da una vita, la sua, costantemente messa alla gogna, dopo l’espulsione dal PCI e l’allontanamento dalla sua scuola, in Friuli, nel 1949, a seguito di un processo per corruzione di minorenni, da cui peraltro era uscito assolto. Tutto vero, certo, ma ciò non ne affievolì, sino alla fine, la forza di provocazione. Non si può dire, dunque, che per questo si sia consegnato ai suoi assas­ sini, là dove, al contrario, era la sua stessa lucidità a proteg­ gerlo: il suo far sesso, a pagamento o meno, con giovanissimi sconosciuti, spesso riuniti in bande, comportava certamente dei rischi, dei quali egli era, tuttavia, pienamente consape­ vole. Già nel 1959, aveva descritto il pestaggio d ’un omoses­ 273

O tello L upacchini

suale milanese in una sceneggiatura recentemente scoperta e pubblicata;4 neppure faceva mistero dei sentimenti ambigui verso la sua omosessualità volutamente umiliata, che viveva apertamente, anche se ciò non lo rendeva felice. E difficile dunque, alla luce di quanto, sia pure in via di rapidissima sintesi, sin qui si è evidenziato, negare le buone ragioni che hanno guidato, lungo il corso degli ultimi qua­ rantanni, molti intellettuali, giornalisti, scrittori, romanzieri a rivelare quanto di loro conoscenza o a condividere i frutti delle loro intuizioni sull’affaire Pasolini. Mi sembra anzi estremamente positivo che vi sia ancora chi non si arrende nell 'opus estenuante di ricerca dei mandanti e degli esecu­ tori dell’assassinio che ha messo a tacere la voce più alta e più coraggiosa dell’Italia del secondo dopoguerra. E a questi si aggiunge ora Simona Zecchi, imbarcatasi con invidiabile entusiasmo nell’avventura, certo affasci­ nante, ma senz’altro faticosa e, in ogni caso, assai rischiosa, specialmente dopo il naufragio dell’ultima inchiesta giudi­ ziaria sull’efferato assassinio dell’idroscalo di Ostia, di ten­ tare il racconto di «questa storia da un’altra ottica, cercando di colmare dunque troppi vuoti e falle giudiziarie», azze­ rando molto di quanto stabilito in precedenza e non senza far chiarezza sull’unico movente che ha guidato da sempre ogni ricostruzione, cioè il sesso. Per riuscire nell’impresa e offrire una convincente e, per non pochi aspetti, nuova rico­ struzione della vicenda, l’autrice ha puntato, oltre che sulla ricognizione delle risultanze delle indagini dispiegatesi nel corso di un quarantennio, anche sull’esame critico di un va­ stissimo apparato probatorio, sia narrativo sia documentale sia peritale, talvolta nuovo o, comunque, in precedenza non scandagliato e valutato adeguatamente. Grazie a un lavoro certosino, condotto secondo inecce­ pibili tecniche d ’analisi investigativa e, soprattutto, nel rigo­ roso rispetto dei principi di causalità, di non contraddizione 274

P

o s t f a z io n e .

D i verità si può anche morire ?

e del terzo escluso, a cui da sempre si ispira il pensiero oc­ cidentale, ma oggi, purtroppo, un tantino jou de mode, Simona Zecchi fornisce ai numerosi interrogativi che l’intera storia da sempre pone e a quelli nuovi, da essa stessa indicati nella premessa a questo libro, risposte sorrette da inattacca­ bili argomenti, sicché il sanguinoso mosaico dei terribili ac­ cadimenti della notte del 2 novembre 1975 all’Idroscalo di Ostia si arricchisce di nuove, fondamentali tessere. Viviamo, ahinoi, in tempi calamitosi. La verità sembra es­ sere stata espulsa dal mondo, per far prosperare al suo posto l’era della menzogna, che contamina ormai l’attuale società umana. La peggiore delle contaminazioni morali. E per que­ ste ragioni che con tutta la buona volontà non riesco a tolle­ rare alcuni di quegli scimuniti, abilissimi nell’immutatio veri e nella pervicace negazione dell’evidenza, che da sempre posando a maìtres à penser davanti a folle plaudenti d ’ine­ betiti dagli schermi, si ostinano a liquidare ogni qualsivo­ glia volontà di ricerca della verità sul caso unicamente come un’ossessione o, quando la loro generosità lo consente, come incapacità, da parte di una fetta di estimatori pasoliniani, so­ litamente collocati a sinistra, di accettare il contesto in cui sarebbe maturato l’atroce delitto: ossia quello omosessuale. La colpa di questa mia «intolleranza » è, magari, della mia cultura demodée: educato a San Tommaso, mi viene d ’istinto pensare che ogni «ratiocinatio» intesa a un fatto muove da altri fatti, i quali costituiscono un segno del primo, vale a dire da «prove», e che, dunque, il «descursus», la dimostra­ zione cioè di un assunto, debba seguire cadenze obbligate, premessa-conclusione.5 Vista, però, l’arroganza sprezzante dei loro giudizi, mi tira mostro constatare come essi - al solo scopo di negare agli altri il diritto di affannarsi, attraverso un faticoso lavoro di scavo nel passato, a riaffermare l’evidenza da loro pervicacemente negata che, sin da subito, a propo­ sito della morte di Pier Paolo Pasolini, i conti non tornavano 275

O tello L upacchini

e, purtroppo, trascorsi quarant’anni dal 2 novembre 1975, continuano a non tornare ancora -, diano spudorata mostra d ’ignorare che quando ricostruiscono un fatto, gli investi­ ganti, costretti dalla loro miseria ontologica a una cognizione laboriosamente mediata, mescolano fantasia e rilievi speri­ mentali, intessendo trame stupefacenti: da un fatterello qua­ lunque, evocano mezzo mondo; poi, però, fantasia e desideri sono destinati a dileguare, essiccati dall’analisi causale. Quel che più mi irrita, però, nell’atteggiamento di que­ sti poveri disgraziati, afflitti dalla sindrome del savant, è che, mentre declinano argomenti dotati della stessa forza dimo­ strativa di un pugno sul tavolo, simulano dolore perché, a loro dire, «a scadenze regolari» uscirebbe un articolo, un saggio, un pamphlet sulla morte di Pier Paolo Pasolini, dove ci sarebbero «tutti gli ingredienti per cucinare la solita frit­ tata: l’ENI, Mattei, Cefis, i servizi segreti, la DC, l’appunto 21 ...», ostentano commozione per il «triste destino» dell’in­ tellettuale friulano, «ridotto a santino», e incontenibile di­ sgusto per la crisi della civiltà che ormai da decenni stiamo attraversando, in cui ha tanta parte la tendenza al diverti­ mento, in forza della quale cronaca giudiziaria e letteratura d ’inchiesta servono, allo stesso modo, da diversivo alla grigia vita quotidiana. Due sono piuttosto, i loro obiettivi. Innanzi­ tutto, demonizzare la vittima: sbeffeggiando coloro che cre­ dono «di rendere onore a Pasolini riducendolo a uno scopri­ tore di scandali politici e finanziari, come se fosse stato solo un anticipatore di Beppe Grillo»; in secondo luogo, esorciz­ zare i sospetti verso carnefici e mandanti sin qui senza volto, assecondando l’autentica passione che ha la cultura italiana per i colpevoli. È orribile, ma viviamo in un Paese generoso e dalla memoria corta, facile al perdono. Queste noticine polemiche, poco importa ormai se opportune o inopportune, conducono a emersione due «mondi». Il primo è popolato da coloro che non rinunciano 276

P

o s t f a z io n e .

D i verità si può anche morire ?

all’approccio critico alla conoscenza. Costoro, sanno che la storia è la strada che gli uomini e l’umanità percorrono, dalla nascita alla morte; son capaci, pertanto, di discernere come accanto alla grande storia, alla storia dei popoli, ci sia pure la piccola storia, la storia degli individui, che anzi non ci sarebbe quella senza di questa, come non ci sarebbe la fune senza i fili che vi si attorcigliano; conoscono le diffi­ coltà da superare per ricostruire il passato e altresi il loro moltiplicarsi, quando l’opus degli investiganti abbia ad og­ getto un « delitto », cioè, per restare all’interno della meta­ fora, un pezzo di strada del quale chi l’ha percorso cerca di distruggere le tracce; essi, finalmente, non ignorano che la ricostruzione di un «fatto-reato» è un lavoro giuridicamente disciplinato, per cui nulla esclude che l’esito a cui perviene il giudice - uno storico anch’egli, ma dalle mani legate - , im­ peccabile in sede tecnica, lasci perplesso o dissenziente uno storico di professione, a cui incombe, per contro, il dovere, poiché non patisce limiti né quanto ai metodi né quanto ai mezzi, di andare oltre la semplice verità giudiziaria. Coloro che popolano, invece, il secondo, non si pongono problemi epistemologici, ma accettano fideisticamente la verità giu­ diziaria, unica e incontrovertibile, tanto più, naturalmente, se questa sia anche la verità del proprio partito, evenienza che capita raramente, ma che nel caso della morte di Pier Paolo Pasolini è purtroppo capitata. Essi si appagano dei comunicati stampa e delle dichiarazioni ufficiali. In quanto alieni allo scavo in profondità teso a scoprire la verità senza aggettivi e a identificare gli scostamenti da essa della verità ufficiale, sono per questo disinteressati sia alle peculiarità del fatto che si definisce «delitto» sia a quelle dell’accerta­ mento di un «fatto-reato». Viene spontaneo chiedersi, allora, cosa sia la verità, in un Paese come il nostro, dove un omicidio passionale viene spettacolarizzato e sviscerato come se fosse fiction, arri­ 277

O tello L upacchini

vando, persino, ad arricchire l’arsenale probatorio, defini­ tivamente tramontata l’era dello judicium feretri di ficiniana memoria, con lo judicium canis di conio palombelliano, mentre i crimini più ignobili vengono nascosti e insabbiati. Per rispondere a questa domanda, intendo confrontarmi non soltanto con la realtà, ma anche con la letteratura, la quale è sempre e per sua stessa natura ambigua: in essa con­ vivono il sì con il no, e il male, anche se negato e combattuto, deve essere espresso, e per essere espresso deve essere pen­ sato e sentito, vissuto dal di dentro, per come i personaggi che lo esprimono lo sentono e lo pensano e lo vivono. Solo così, infatti, i personaggi di un grande scrittore, che scrive sempre in faccia all’estremo, al male, storico esistenziale da cui non distoglie lo sguardo, sono tali e non caricature o piatte rappresentazioni di edificanti apologhi di propaganda morale e di fedi ideologiche o religiose. La verità letteraria non è, insomma, la stessa verità di una realtà che, essa stessa, conosce diverse verità a seconda delle prospettive da cui quella verità è conosciuta. A tal riguardo, particolarmente interessante è quanto Leonardo Sciascia dichiarò a Marcelle Padovani, nel librointervista ha Sicilia come metafora:1' «sono arrivato alla scrit­ tura-verità, e mi sono convinto che, se la verità ha per forza di cose molte facce, l’unica forma possibile di verità è quella dell’arte. Lo scrittore svela la verità decifrando la realtà e sollevandola alla superficie, in un certo senso semplifican­ dola, anche rendendola più oscura, per come la realtà spesso è». L’idea che la verità sia per i detentori del potere una cosa non solo scomoda, ma addirittura sbagliata, da non raccon­ tare perché nessuno vorrebbe ascoltarla, è inoltre magnifi­ camente sintetizzata nel monologo recitato dall’attore Toni Servillo, che interpreta Giulio Andreotti, in un segmento del film II Divo-? «Livia [...] gli occhi tuoi pieni e puliti e in­ cantati non sapevano, non sanno e non sapranno, non hanno 278

P

o s t f a z io n e .

D i verità si può anche morire ?

idea. Non hanno idea delle malefatte che il potere deve com­ mettere per assicurare il benessere e lo sviluppo del Paese. Per troppi anni il potere sono stato io. La mostruosa, incon­ fessabile contraddizione: perpetuare il male per garantire il bene. La contraddizione mostruosa che fa di me un uomo ci­ nico e indecifrabile anche per te, gli occhi tuoi pieni e puliti e incantati non sanno la responsabilità. La responsabilità di­ retta o indiretta per tutte le stragi avvenute in Italia dal 1969 al 1984, e che hanno avuto per la precisione 236 morti e 817 feriti. A tutti i familiari delle vittime io dico: sì, confesso. Confesso: è stata anche per mia colpa, per mia colpa, per mia grandissima colpa. Questo dico anche se non serve. Lo stragismo per destabilizzare il Paese, provocare terrore, per isolare le parti politiche estreme e rafforzare i partiti di Cen­ tro come la Democrazia Cristiana; l’hanno definita ‘Strategia della Tensione’ - sarebbe più corretto dire ‘Strategia della Sopravvivenza’. Tutti a pensare che la verità sia una cosa giu­ sta, e invece è la fine del mondo, e noi non possiamo consen­ tire la fine del mondo in nome di una cosa giusta. [...] Ab­ biamo un mandato, noi. Un mandato divino. Bisogna amare così tanto Dio per capire quanto sia necessario il male per avere il bene. Questo Dio lo sa e lo so anch’io». Non può essere elusa, a questo punto, la domanda se Pier Paolo Pasolini possa forse essere morto anche lui «di troppa verità». Secondo Sergio Cittì, cineasta il cui nome è legato al sodalizio artistico con Pier Paolo Pasolini, fratello dell’attore Franco Cittì, alcune «pizze» del film Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), ultimo film scritto e diretto dal regista friu­ lano, e parzialmente ispirato al romanzo del marchese Donatien Alphonse Francois De Sade, Le centoventi giornate di Sodoma, sarebbero state rubate e ne sarebbe stata proposta la restituzione dietro pagamento di un riscatto. Il primo no­ vembre 1975, il film, considerato il più controverso di Pier Paolo Pasolini, oltre che fra i più scioccanti della storia del 279

O tello L upacchini

cinema, era stato già montato e doppiato, tanto che il regista, di ritorno da Stoccolma, s’era fermato a Parigi, per supervisionare il doppiaggio francese. Ignorando, la maggior parte del pubblico e dell’opinione pubblica, oggi come allora, quale fosse il contenuto delle «pizze» rubate (tema questo invece approfondito sin nei dettagli dall’autrice, N.d.A.) po­ trebbe rimanere di difficile comprensione la necessità che mosse il regista nel recuperarle, potendo anche essersi trat­ tato di spezzoni di pellicola abbandonati. E possibile, tu t­ tavia, che delle canaglie fossero state ingaggiate da nemici di Pasolini per pestarlo e intimidirlo. Sergio Cittì, infatti, dopo l’omicidio raccolse la testimonianza di un pescatore che avrebbe visto due automobili sul luogo del crimine, ma nessun elemento per l’identificazione di sicari e mandanti. Questa ipotesi, insieme a quella*da altri giornalisti e scrittori proposta, riguardo al movente che avrebbe mosso l’agguato allo scrittore da loro indicato tra le carte scomparse dell’Ap­ punto 21 e l’uccisione dell’ex presidente dell’ENI Enrico Mattei a essa eventualmente collegata, sarà magari opinabile e, comunque, tutta da verificare. Sono anche disposto a concedere che sia senz’altro vero - a proposito del contenuto delle violente prese di posizione dello scrittore, trasudanti disperazione politica di fronte a un’Italia corrotta, nella quale tutti i poteri concorrono ad acculturare il Paese, ormai rimbecillito, al puro consumismo, di cui agli articoli apparsi sul Corriere della Sera e II Mondo, o ai suoi poemi, da Transumanar e organizzar a certe pagine di Divina Mimesis e al progetto di Petrolio - che Pier Paolo Pa­ solini non possedeva che il potere della sua parola, ch’era pa­ rola di poeta; e pure che i poeti sono dannosi per le dittature che, fondate sul monopolio della verità e dunque della parola, non tollerano alcun relativismo, alcuna critica. Son disposto a concedere, insomma, che l’arte e la poesia siano dannose per le dittature perché relativizzano il campo dell’espressione, 280

P

o s t f a z io n e .

D i verità si può anche morire ?

mettono in discussione l’assolutismo del totalitarismo e pro­ pongono un punto di vista diverso, altri criteri e norme. Non sono, tuttavia, disposto a concedere che un intellettuale, in una democrazia, non possa mai rappresentare un tale danno, per essere le sue opinioni rilanciate dai media, da doversene disporre l’esecuzione, senza prima aver verificato se sia anche vero che l’Italia del 1975 fosse un Paese democratico, in cui la parola non era il nemico numero uno, sebbene espressione di un’intelligenza fuori dal comune e di un artista perturbatore. Negli anni Settanta, infatti, i poteri occulti si adoperarono effettivamente per aggiustare il processo politico palese, per contrastare l’allargamento a sinistra dell’area di governo e, soprattutto, per evitare il superamento del paradigma di Yalta. Poiché, ad avere l’ultima parola, era ancora, però, la sovranità popolare, venne fallito l’obiettivo, ma questi sog­ getti, al di là del sangue di cui portano direttamente o indi­ rettamente la responsabilità senza essere stati quasi mai chia­ mati a risponderne, produssero l’effetto deleterio di rendere il cammino della democrazia lento, accidentato, inefficace. Essi, per dirla con Giovani Moro, innescarono una «doppia tragedia», vale a dire: «Dal punto di vista del conflitto di si­ stema, quel periodo si chiudeva con la riproposizione della logica di Yalta, come principio ordinatore della realtà [...]. Dal punto di vista del conflitto di cittadinanza, il terrorismo e la logica dell’emergenza così come [...] l’assorbimento de­ gli spazi di partecipazione in una dimensione istituzionale subito lottizzata dai partiti e un’attuazione delle riforme va­ rate in quegli anni gestita dal vecchio personale politico, ave­ vano letteralmente rimandato a casa cittadini e movimenti, fatto sparire dalla scena pubblica soggetti come i giovani, le donne e gli operai e portato all’abiura del patrimonio di ‘fedi’ che allora si era generato».8 È, dunque, pensabile, in questo contesto, che un intel­ lettuale come Pier Paolo Pasolini, il quale alla tendenza al 281

O tello L upacchini

conformismo, alla violenza e alla dissacrazione dell’uomo e della storia, risponde con una scrittura-azione, tesa a solleci­ tare e a risvegliare il senso civico di responsabilità, ma anche a promuovere il ruolo sociale e soprattutto di cittadinanza di tutti gli individui; che un intellettuale come Pier Paolo Pa­ solini, che alle false certezze del consumismo, oppone una letteratura d ’investigazione che rimette in discussione l’in­ tero sistema morale, tutti i pregiudizi per cogliere la logica sottesa a questo tipo di potere violento e invisibile; che un intellettuale come Pier Paolo Pasolini, le cui opere sia in versi sia in prosa, sia teatrali sia cinematografiche, così come la sua imponente produzione di critico letterario e di cui non si possono tacere i numerosi interventi sociali e politici che hanno segnato la storia d’Italia e invitato a dibattere il ruolo complesso che l’intellettuale impegnato avrebbe dovuto as­ sicurare in seno alle società contemporanee, mettendo in chiarissima evidenza la tendenza a demistificare il potere e la sua violenza; che un intellettuale - tale nel senso in cui San Tommaso qualificava coloro che hanno una visione diacro­ nica del mondo - come Pier Paolo Pasolini, possa non es­ sere stato aiutato a raggiungere, finalmente «anima assunta in patria», il posto che gli competeva nella scala metafisica, accanto agli angeli, intellectuales per eccellenza?

282

Ringraziamenti

Questo libro è stato il frutto di un lungo lavoro di ricerca per certi versi frastagliato. Un percorso che ha visto la sua nascita sui Qua­ derni de L’Ora, in un breve saggio inchiesta, che tuttavia ha rappre­ sentato la base fondamentale da cui partire e riflettere. Un primo passo d’indagine che, seppur nella sua limitatezza, ancora oggi con­ divido. Le testimonianze e il parziale lavoro sulle carte, infatti, poi­ ché non interamente accessibili al tempo, non potevano bastare, ma hanno permesso di aprire uno squarcio, sempre accompagnato dal pensiero, condiviso con la collega Martina Di Matteo, di non partire da tesi precostituite. Successivamente, quando il lavoro è proseguito in solitaria, e con esso anche il metodo di «fare inchiesta», questo si è andato modificando, in un créscendo che ha anche rappresentato un pro­ fondo processo di maturazione personale. Non ho potuto certa­ mente prescindere dalla collaborazione di molte persone a volte inconsapevoli perché non1a conoscenza del mio reale motivo di ricerca: colleghi con più esperienza di me; bibliotecari; redattori; cancellieri; magistrati; ex ragazzi di borgata con il cuore pasoliniano, la cui voce viene spesso sminuita ma senza la quale la vo­ lontà di andare a fondo a questa storia non sarebbe mai emersa; registi (in particolare Federico Bruno che mi ha concesso in esclu­ siva la pubblicazione di un suo lavoro da luì non utilizzato e il cui obiettivo è sempre e solo stato quello di «capire com’è andata» e per questo ha sempre collaborato con i giornalisti che condivi­

R in g r a z ia m

enti

dono lo stesso obiettivo); professori; scrittori...Tutti, i cui nomi sarebbe impossibile trasporre qui uno a uno, sia volontariamente che involontariamente rispondendo a semplici domande o de­ dicandomi un po’ del loro prezioso tempo, hanno contribuito ognuno a modo suo a questo libro. Ringrazio in modo speciale Martina Di Matteo, che ha condi­ viso la prima parte di questo percorso sui Quaderni e che ha ri­ spettato la mia volontà di proseguire da sola; il giornalista Giu­ seppe Lo Bianco, che ha saputo per primo ascoltare con il cuore e poi valutare con l’occhio professionale quello che avevo raccolto con lei sin lì; l’editore Ila Palma di Palermo, nella persona di Rean Mazzone e la saggista Anna Vinci che, con il loro appoggio pro­ fessionale prima e con la loro amicizia poi, mi hanno dato quella prima opportunità. Ringrazio Rean anche per avermi permesso la parziale riproduzione di alcuni stralci della prima inchiesta. Rin­ grazio quei giornalisti che hanno intinto per primi «la penna» in questa storia e che per primi hanno camminato su questo sentiero. Il lavoro di chi mi ha preceduta, come ampiamente riportato in questa indagine, è stato prezioso e valido anche e soprattutto là dove questo non incontrava il mio percorso di ricerca e i suoi ri­ sultati; ragion per cui il rispetto assoluto va innanzitutto a loro. Grazie alla passione per Pier Paolo Pasolini ho potuto incro­ ciare inoltre la strada dello scrittore, vignettista, fumettista e ap­ passionato pasoliniano Francesco Schietroma, che mi ha messo a disposizione il suo archivio da cui ho tratto le dichiarazioni di Francesco Saverio Alonzo, riportate nel primo capitolo, e l’inter­ vista del primo novembre 1975 a Pier Paolo Pasolini, pubblicata postuma sulla Domenica del Corriere, insieme a una piccola parte di stralci di settimanali. Le cronache dell’ANSA sono state inoltre preziose: senza il lavoro dei giornalisti e dei cronisti che da anni seguono i fatti del nostro Paese, non sarebbe possibile svolgere alcun lavoro d’inchiesta. A loro, che nel momento in cui scrivo stanno attraversando una dura crisi lavorativa, va anche il mio ringraziamento. Una nota particolare va al giornalista Diego Cimara, la cui pre­ ziosa testimonianza, rimasta per molto tempo celata, è potuta giun­ gere fino a qui. E lui che per primo ha sperimentato come la ricerca 284

KTNGRA7.TAMF.NTI

della verità, di questa verità, in questo Paese possa essere pericolosa e scomoda. E doveroso da parte mia, inoltre, ringraziare il regista Marco Tullio Giordana, il cui lavoro d’inchiesta cinematografico riesce a superare sempre gli steccati della fiction e il cui impegno per illu­ minare i punti oscuri sulle indagini di allora ha lasciato un esem­ pio unico per tutti. Ringrazio, per l’ultima parte di questo lavoro, il regista tea­ trale Elio Gimbo di Catania, che ha sinceramente dedicato alcuni giorni alle mie richieste da Roma senza farmi troppe domande, ma percependone l’importanza. Un grazie di cuore al mio editor Ales­ sandro Zardetto, che con la sua sensibilità e competenza ha saputo guidarmi nel trasformare un lavoro d ’inchiesta, per certi versi ri­ gido e analitico, in un flusso di pagine apprezzabili per il lettore. Ringrazio la casa editrice, che ha saputo scommettere su un la­ voro diverso dagli altri sul caso e che sa supportare i suoi autori come pochi editori fanno. Si ringrazia la dottoressa Graziella Chiarcossi per l’autorizza­ zione a consultare il materiale e a riprodurre quanto richiesto. Una nota di riconoscenza va inoltre a Maria Angela Ventura e alla sua generosa disponibilità, ancorché i ricordi di un passato che aveva sepolto forse a metà l’hanno costretta ad attraversare di nuovo un dolore tutto suo che rispetto. Un profondo sentimento di gratitudine va inoltre ai consigli e al supporto di coloro che non hanno voluto comparire in queste righe, senza i quali questo libro non sarebbe stato possibile. L’ultimo pensiero, non per importanza, va alla mia famiglia, che ha sopportato le mie assenze e i miei stati d ’animo, incorag­ giandomi a non abbandonare il campo, mai. Grazie.

285

Bibliografia

Fonti bibliografiche consigliate AA.VV., Dossier Delitto Pasolini, Kaos Edizioni, Milano, 2008. Abbate, F ulvio, Pasolini raccontato a tutti, Baldini & Castoldi, Milano, 2014. Arcuri, Camillo , Il colpo distato, BUR, Milano, 2007. ARMANIO, ANTONIO, MalEdizioni. Processi, sequestri, censure a

scrittori e editori in Italia dal dopoguerra a oggi, anzi domani, BUR, Milano, 2014. Baldoni, Adalberto, Borgna , G ianni, Dna lunga incompren­ sione. Pasolinifra destra e sinistra, Vallecchi, Firenze, 2010. Bellezza, D ario, Il poeta assassinato. Una riflessione, un’ipotesi, una sfida sulla morte di Pier Paolo Pasolini, Marsilio, Venezia, 1996. Bellini, F ulvio, P revidi, A lessandro, L’assassinio di Enrico Mattei, a cura di Paolo Cucchiarelli, Yoni edizioni, 2005. Benedetti, Carla, Pasolini contro Calvino, Bollati Boringhieri, Torino, 1998. Benedetti, C arla, G iovannetti, G iovanni, Frodo e basta, effi­ gie edizioni, Milano, 2012. Concutelli, PIERLUIGI, I o, l’uomo nero, Marsilio, Venezia, 2008. CUCCHIARELLI, P aolo , Il segreto di Piazza Fontana, Ponte alle Grazie, Milano, 2012. D ’ELIA, G ianni, Il Petrolio delle stragi, effigie edizioni, Milano, 2006.

Bibliografia

D ’E lia, G ianni, L’eresia di Pasolini, effigie edizioni, Milano, 2006. Di G iovanni, E duardo, L igini, Marco, Pellegrini, Edgardo, La strage diStato. Controinchiesta, Odradek, Roma, 2006. G alli, G iorgio , La regia occulta. Da Enrico Mattei a Piazza Fon­ tana, Marco Tropea Editore, Milano, 1996. G iannuli, Aldo , Bombe a inchiostro, BUR, Milano, 2008. GIORDANA, M arco T ullio , Pasolini, un delitto italiano, Mondadori, Milano, 1994; l’edizione con DVD, 2004. G uarino, Mario, Poteri segreti e criminalità. E intreccio inconfes­ sabile tra ’ndrangheta, massoneria e apparati dello Stato, Edi­ zioni Dedalo, 2004. M olteni, Angela , Pier Paolo Pasolini, Povera Italia. Interviste e interventi, 1949-1975, Kaos Edizioni, Milano, 2013. P acini, GIACOMO, Il cuore occulto del potere. Storia dell’Ufficio Af­ fari Riservati del Viminale 1919-1984, Nutrimenti, 2010.

La stagione delle belve. La vera storia del clan dei Marsigliesi, Castelvecchi, Roma, 2014. RAO, NICOLA, Trilogia della celtica, Sperling & Kupfer, Milano, RAGONE, PASQUALE,

2014. SICILIANO, E nzo , Vita di Pasolini, Mondadori, Milano, 2005. T revi, E manuele, Qualcosa di scritto, Ponte alle Grazie, Milano,

2012.

Emeroteca La maggior parte degli articoli di cronaca interna riguardanti il caso Pasolini, settimanali e mensili, sono stati tratti dalla Biblio­ teca del Senato «Giovanni Spadolini». Segue un’emeroteca speci­ fica sul caso Mattei, tratta da archivi privati, i cui riferimenti sono tuttavia pubblici e consultabili, e che accosta la morte di Mattei a Cefis, i dubbi sull’incidente o le affermazioni che lo davano per assassinato. Di seguito le pubblicazioni più rappresentative degli anni compresi fra il 1962 e il 1975:

288

Bibliografia

P eriodici

Che cosa è accaduto sull’aereo di Mattel, in L’Europeo, ottobre-no­ vembre 1962.

Secolo XX, nn. 1-3, marzo-aprile 1963, contro-inchiesta. ’Ricordo di Enrico Mattel. E ultimo Viaggio, in 11Gatto Selvatico (ri­ vista dell’ENI), 27 ottobre 1963.

Fu una spia vestita da meccanico a uccidere Mattei?, in Panorama, 30 aprile 1970.

La morte a sei zampe. Esiste veramente un giallo collegato alla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro[...]?, in L’Espresso, primo novembre 1970. Mauro De Mauro, Gli assassini di Enrico Mattei colpiscono ancora, in Candido, 5 novembre 1970. Chi ha ucciso Mattei?, in Panora?7ta, 12 novembre 1970. Il Presidente deU’ElSIifu ucciso, in L’Europeo, 19 novembre 1970. Si riapre il dossier sulla morte di Mattei, in Panorama, 19 novem­ bre 1970. Non c’è nessun giallo nella morte diMattei, in Gente, 30 novembre 1970 (a testimonianza del dibattito sul caso).

La morte era chiusa in uno scrigno verde. De Vosjoli. la Superspia di Parigi, spiega come Mattei fu ucciso dal controspionaggio fran­ cese, in L’Espresso,13 dicembre 1970. Q uotidiani

L’inchiesta per la caduta dell’aereo dell’ing. Mattei, in II Messag­ gero, 2 novembre 1962.

Ancora nessuna conclusione dell’inchiesta sulla sciagura di Bascapé, in Giornale di Sicilia, 3 novembre 1962. Dna rivista russa attribuisce a un attentato la morte di Mattei, in Giornale di Sicilia, 4 novembre 1962. Sorpresa per la nomina del dottor Cefis, in Corriere della Sera, 3 no­ vembre 1962.

L’aereo di Mattei partì con 1800 litri di cherosene, in Giornale di Sicilia, 7 novembre 1962. L’ing. Mattei caduto per un sabotaggio, in Minute, 22 marzo 1963 (notizia riportata da quotidiani italiani). 289

Bibliografia

Smentito che Mattei sia morto per un attentato, in Corriere della Sera, 23 marzo 1963. Enrico Mattei inchiesta aperta (sul film di Francesco Rosi), in II Secolo XIX, 27 gennaio 1972. Nelle memorie di un agente segreto ipotesi sulla morte di Mattei, in Corriere della Sera, 14 giugno 1972. Tornando ai delitti impuniti della Sicilia, in La Stampa, 14 dicem­ bre 1972 (menzionato anche il caso Mattei.

La morte aspettava Mattei, in IlMattino, 27 ottobre 1972. Matteifu assassinato, in Corriere d’informazione, 19 ottobre 1973. Archivi Archivio on line dell’Unità Archivio on line della Stampa Archivi privati di varie località Archivio Storico Istituto Luigi Sturzo Biblioteche Civica e Urbino Riunite di Catania Biblioteca del Senato «Giovanni Spadolini» Gabinetto Scientifico Letterario G.R Vieusseux, direttrice Gloria Manghetti, di Firenze Tribunale dei Minori di Roma Tribunale di Catanzaro, cancelliere dott. Francesco Vatrella

Note

Introduzione. Perché una nuova inchiesta 1. L’epistolario di Pasolini è raccolto in due volumi curati da Nico Naldini: Pier Paolo Pasolini, Lettere (1955-1975), Einaudi, Torino, 1988 e Id., Vita attraverso le lettere (1940-75), Einaudi, Torino, 1994.

P arte prima. D isegno di morte 1. «Mi vogliono ammazzare» 1. Cfr. Pier Paolo aveva paura, ANSA, 20 aprile 2010. 2. Cfr. Criminale attentato a Poma contro la Sip, in l'Unità, 14 ottobre 1975. 3. Telefonata fra Pier Paolo Pasolini, di ritorno da Stoccolma, e il giornalista Norberto Valentini della Domenica del Corriere, sabato primo novembre 1975. 4. Archivio Storico dellTstituto Luigi Sturzo, Fondo DC, fascicolo 43, scatola 258, segreteria politica, uffici centrali, Roma. Le note a matita sono nostre. Cfr. anche Tre falsi agenti hanno fatto saltare una centrale della SIP, in l’U­ nità, 5 novembre 1975. 5. In L’Europeo, 16 novembre 1975. 6. E possibile ascoltare l’audio dell’incontro in questione all’indirizzo http:// www.bibliotheque-numerique-paris8.fr/fre/notices/102505-P-P-Pasolini%C3%AO-propos-du-film-Fascista-.html. Nel libro Pasolini, Grasset, Pa­ ris, 1980, la Macciocchi raccoglie gli interventi del seminario organizzato nel 1979 all’Università di Parigi Vili.

N ote alle pagine 21-24

7. Cfr. Contro i capelli lunghi, in Corriere della Sera, 7 gennaio 1973, poi in Scritti corsari, Garzanti, Milano, 2009, con il titolo II «discorso dei capelli». In particolare, p. 5. 8. Gruppo ambiguo fondato nel 1969 e scioltosi nel 1973. 9. Vallecchi, Firenze, 2010. 10. Articolo di Michele De Feudis del 9 luglio 2010. 11. Tra i primi libri che ricostruiranno la dinamica dell’aggressione, ricor­ diamo quello curato da Laura Betti, Pasolini: cronaca giudiziaria, perse­ cuzione, morte, Garzanti, Milano, 1977, e scritto a più mani; altro rife­ rimento più aggiornato si trova in Franco Grattarola, Pasolini. Una vita violentata, Coniglio Editore, Roma, 2005.1 fratelli Di Luia e Stefano delle Ghiaie entreranno nell’iter processuale di Piazza Fontana per vie diverse. Nessuno è stato ritenuto colpevole nelle sentenze. 12. Pier Paolo Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano, 2000. L’articolo citato è stato pubblicato per la prima volta in l’Espresso, 7 febbraio 1965. 13. Seguendo le cronache, sembra che Campo avesse gridato al regista, prima di avventarsi contro lo stesso: «In nome della gioventù nazionale ti dico che fai schifo!» 14. Stefano Maccioni, Valter Rizzo, Simona Ruffini, Nessuna pietà per Paso­ lini, Editori Riuniti, Roma, 2011. 15. Rovella sarà anche coinvolto, per poi essere prosciolto per insufficienza di prove, nel filone separato dell’inchiesta sull’omicidio Occorsio, aperto per individuare altri complici e mandanti, quando la condanna a Concutelli era stata già comminata. Tra gli altri, saranno inquisiti e poi prosciolti an­ che Maurizio Giorgi, Adriano Tilgher e Piero Cittì. Cfr. ANSA, 4 ottobre 1983. Alcuni di questi imputati appartenevano alla cerchia di Avanguardia Nazionale - Maurizio Giorgi, Marco Marchetti, Giancarlo Cartocci, Fla­ vio Campo, i fratelli Di Luia, Tonino Fiore - accolta nella sezione dell’MSI in via Torino così come in via Luca Signorelli a Roma. Cfr. Tribunale di Roma, Sentenza n. 3687 del 4 febbraio 2004, che assolse il sito «Isole nella Rete» dall’accusa di diffamazione per aver ospitato un dossier sulla destra in Italia, in merito ai dati citati sulle sezioni e i militanti dell’MSI. Scrive, infatti, il giudice della I Sezione Civile di Roma: «La domanda risarcitoria appare infondata, dovendo giudicarsi essere stato legittimamente eserci­ tato da parte del Centro Sociale ‘La Strada’ - autore della pagina web in contestazione - il diritto di cronaca. L’affermazione riportata può infatti ritenersi rispondente, nel suo nucleo essenziale, ai noti canoni di legitti­ mità del diritto in questione elaborati dalla giurisprudenza, primo fra tutto al requisito della verità del fatto». 16. Intervista di Philip Bouvard, Antenne 2, reperibile su YouTube: https:// www.youtube.com/watch?v=w9Efly_OYU. 17. Cfr. Emanuele Trevi, Qualcosa di scritto, Ponte alle Grazie, Milano, 2012. 292

N ote alle pagine 24-29

18. Procedimento penale n. 1466/75. Nel fascicolo, consultato presso il Tri­ bunale dei Minori di Roma, non c’è traccia di atti acquisiti che riguardino le dichiarazioni rilasciate alla stampa dal pescatore Ennio Salvitti, né di in­ terrogatori. L’intervista entrerà poi nella ricostruzione del film-inchiesta di Marco Tullio Giordana Pasolini, un delitto italiano, 1995, il cui libro omo­ nimo porterà elementi utili per la veloce riapertura d’inchiesta nello stesso anno. 19. Intervista a Furio Colombo, in Corriere della Sera, 8 maggio 2005. 20. Poi in Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano, 1999. 21. L’intera intervista è raccolta, insieme ad altre, nel volume di Angela Molteni, Pier Paolo Pasolini. Povera Italia. Interviste e interventi, 1949-1975, Kaos Edizioni, Milano, 2013. 22. Dario Bellezza, Morte di Pasolini, Mondadori, Milano, 1981. 23. Id., Il poeta assassinato. Una riflessione, un’ipotesi, una sfida sulla morte di Pier Paolo Pasolini, Marsilio, Venezia, 1996. Al momento della pub­ blicazione, era già uscito il libro di Marco Tullio Giordana Pasolini, un delitto italiano, il primo e unico lavoro che ha raccolto alcuni degli atti processuali originari, utilizzati in seguito nel film omonimo. Da lì proba­ bilmente Bellezza ha tratto la documentazione. 24. Cfr. Pier Paolo Pasolini vittima di un vero delitto politico, in II Giorno, 3 agosto 1996. 25. Cfr. Gianni Borgna, Carlo Lucarelli, Così mori Pasolini, in Micromega, giugno 2005, http:// temi.repubblica.it/micromega-online/cosi-mori-pasolini/, citata anche in Giuseppe Lo Bianco, Sandra Rizza, Profondo nero, Chiarelettere, Milano, 2012. 26. Cfr. Pier Paolo Pasolini assassinato. La vita e la violenza, in l’Unità, 3 no­ vembre 1975. 27. Cfr. Poeta delle Ceneri, Come sono diventato marxista? in bestemmia, voi. II, Garzanti, Milano, 1993. Parallelamente, Enrico Berlinguer e Aldo Moro furono gli unici due uomini politici a inviare un messaggio di cordo­ glio personale alla madre di Pasolini. Berlinguer partecipò anche ai fune­ rali a piazza Campo de’ Fiori, che si tennero il 5 novembre del 1975. 28. In un’intervista al Corriere, il cugino di Pasolini e poeta Nico Naldini diede addirittura ragione ad Andreotti. Cfr. Aveva ragione Andreotti. Pier Paolo se l’è cercata, in Corriere della Sera, 9 maggio 2005. 29. Dichiarazioni lanciate da diverse agenzie di stampa nel marzo del 1993 e riprese dalla Repubblica in Le scuse a Pasolini e un invito a pranzo, 28 marzo 1993. 30. Ivi, nota 20. 31. Testo postumo, coevo alla raccolta Lettere luterane (1976), che Pasolini consegnerà all’editore Einaudi prima di morire, presentandolo come «do293

N ote alle pagine 29-47

cumento». Nell’edizione Mondadori del 2006, Enzo Siciliano vi apporrà una post-fazione significativa, dal titolo: L’Inferno postumo di Pasolini. 32. Cfr. Pier Paolo Pasolini, La Divina Mimesis, Mondadori, Milano, 2006. 33. Ivi. Da «Per una nota all’editore», inserita anche questa come parte inte­ grante del testo e non come autentica nota per l’editore. 34. Giuseppe Zigaina, Pasolini e la morte. Un saggio puramente intellettuale, Marsilio, Venezia, 2005. 35. Ivi. Il libro è integrato da una serie di fotografie tra cui, appunto, una foto del secondo convegno del Gruppo ’63, svoltosi nel 1965.

2. Il falso movente 1. Riprendiamo il giusto titolo da un saggio di Carla Benedetti, effigie edi­ zioni, Milano, 2012. 2. Cfr. Furio Colombo, Pasolini assassinato, in La Stampa, 3 novembre 1975. 3. Le fasi giudiziarie dopo la sentenza di primo grado del 26 aprile 1976: appello dell’imputato il 27 maggio 1976; appello della difesa il 29 aprile 1976; atti versati alla Corte di Appello il 27 giugno 1976. La Corte di Ap­ pello, il 4 dicembre 1976, conferma il verdetto di primo grado nei con­ fronti di Pelosi ad eccezione del Capo A (reato di atti osceni). Il Pelosi ricorre per Cassazione il 6 dicembre 1976; la Corte di Cassazione, il 26 aprile 1979, rigetta il ricorso di Pelosi e condanna ribadendo l’accusa. 4. Cfr. l’Unità, 9 novembre 1975. 5. Cfr. Pelosi mostra agli amici: così ho ucciso Pasolini, in Gente, 24 novembre 1975. 6. Cfr. Il Tempo del 17 marzo 1976, in cui il giornalista riporterà la cronaca del sopralluogo fatto fare a Pelosi presso l’Idroscalo il giorno prima, con parole definitive sull’assenza di più persone quella notte. La pubblica­ zione delle immagini è stata autorizzata dalla Biblioteca del Senato «Gio­ vanni Spadolini». 7. Procedimento penale n. 1466/75, c/o Tribunale dei Minori di Roma. 8. Informativa del 5 giugno 2011, nella parte del resoconto sulle perizie del tempo. 9. Ivi. 10. Fino a quando era presente l’avvocato Calvi il dottor Garofano e la psico­ ioga giuridica Cinzia Gimelli svolsero, come suoi consulenti, delle riunioni per decidere come affrontare il caso e parteciparono ai primi rilievi e alle prime ispezioni fatte dal RIS di Roma sulle tavolette di legno, presenti tra i reperti e i corpi di reato e custodite sino ad allora dal Museo Criminologico di Roma. 11. Cfr. intervista di Celeste Crucillà, in Oggi, 1979. 294

N ote alle pagine 47-56

12. Registrazione effettuata da chi scrive durante l’incontro e pubblicata sul set­ timanale Le/r, nn. 50-51, a firma di Giommaria Monti, il 23 dicembre 2011.

3. La mutevole verità 1. Giuseppe Pelosi in collaborazione con Federico Bruno, Alessandro Oli­ vieri, lo so come hanno ucciso Vasolini, Vertigo, Roma, 2011. Cfr. il capi­ tolo La notte dello scambio, tra il prim o e il due novembre 1975, p. 79. 2. Ibidem. 3. In Storie maledette. Pasolini, il corpo senza pace, Rai Tre, 19 ottobre 2014. 4. Intercettazioni ambientali del dicembre 2011 presso gli uffici del Nucleo Investigativo di Roma. 5. Ritrascritta come da verbale anche la posizione della virgola. 6. Verbale di interrogatorio del 18 novembre 1975; riportiamo tutti gli estratti di verbali anche con errori di sintassi, forma o ortografia per non alterare nulla di quanto lì trascritto. 7. Intervista a Giovanni Davoli, in l ’Unità, 3 novembre 1975. 8. Le testimonianze di chi collaborava con il regista e degli amici riferiscono come, negli ultimi tempi, Pasolini fosse sempre guardingo e avvisasse pun­ tualmente la famiglia quando non rincasava.

4. La trappola 1. Un lavoro minore ma fondamentale, condotto dall’autrice di questo libro e da Martina Di Matteo, dal titolo Viaggio nella notte dell’Idroscalo, pub­ blicato in I Q uaderni de L’Ora, Ila Palma, Palermo, 2012. La fonte è di­ sponibile per essere sentita eventualmente dalla magistratura o dagli organi preposti. 2. Franco e Giuseppe Borsellino, Labbrone e Bracioletta, comunemente noti come «I Braciola». 3. Il saggio-inchiesta è uscito nel 2012. 4. Film tv trasmesso dalla Rai nel 1972. 5. Documentario del 2003 diretto da Claudio Di Mambro, Luca Mandrile, Marco Venditti e prodotto da Todomodo e Far Films. E possibile prendere visione di un estratto del documentario sul canale video Vimeo: https:// vimeo.com/19407852. Sergio Piazza compare mentre racconta della sua lotta contro la dipendenza dalla droga. 6. Martina Di Matteo, Simona Zecchi, Pasolini, l’ombra dei picchiatorifascisti, in il manifesto, 6 dicembre 2013. 7. Oriana Fallaci, I l testim one misterioso, in L’Europeo, 21 novembre 1975. La Fallaci aveva aggiunto la testimonianza del Sotgiu a quella di un indivi295

N ote alle pagine 56-70

duo di cui riteneva opportuno celare l’identità, per rafforzarne la valenza: un lavoro preciso d’inchiesta giornalistica, appunto. A marzo del 1976, la corte non riterrà di dover procedere contro la giornalista come richiesto da Rocco Mangia. 8. Gfr. Oriana Fallaci: la mia verità negata sulla morte di Pasolini, in La Stampa, 12 maggio 2005. 9. Ivi. 10. Verbale del 5 aprile 2011. 11. Cfr. il capitolo La notte dello scambio, tra il primo e il due novembre 1975, in Federico Bruno, Alessandro Olivieri, Io so... come hanno ucciso Paso­ lini, cit., p. 79. 12. Verbale reso alla Questura di Treviso il 4 agosto del 2005, su richiesta dell’autorità giudiziaria di Roma. 13. Pasolini andò verso la morte per riavere le pizze dei suoi film, in La Repub­ blica, 10 luglio 2010. 14. Grimaldi, ormai trasferitosi all’estero, è stato da noi contattato affinché potesse fissare meglio questo aneddoto. Alla fine però il produttore non ha più ritenuto di rilasciare una testimonianza. 15. G. Massaro, Lo Stato contro lo Stato, in II Messaggero, 14 luglio 1976. 16. Cfr. il Corriere della Sera dell’8 maggio 2005. 17. Cfr. Lucia Visca, Pier Paolo Pasolini. Una morte violenta, Castelvecchi, Roma, 2010. 18. Cfr. I l negativo rubato e il finale perso d i Salò, in Cinecittà Neivs, novembre 2005. 19. Lucia Visca, Pier Paolo Pasolini. Una morte violenta, cit. 20. Stessa cosa scrive Pelosi poco prima, nelle pagine del libro riportate, in me­ rito al cambio di programma, per via del viaggio di Pasolini. 21. Lucia Visca, Pier Paolo Pasolini. Una morte violenta, cit., p. 29.

5. Fra «Pommidoro» e l'Idroscalo 1. Conversazione con chi scrive dell’8 luglio 2015. 2. L’interrogatorio di Aldo Bravi è riassunto nellTnformativa n. 222/1-16-2010 del 4 giugno 2013, procedimento penale n. 1833/2010. Aldo Bravi è stato intervistato nel documentario di Borgna e Lucarelli e i particolari qui ripresi si trovano ormai solo nella prima versione originale andata in onda. Le ver­ sioni successivamente circolate via DVD non li contengono. Il particolare dell’appostamento, riportato poco più sotto, non è stato mai riferito prima. 3. Anche il suo interrogatorio è presente nellTnformativa n. 222/1-16-2010 del4 giugno 2013, procedimento penale n. 1833/2010. 4. «Delle nr. 24 fibre complessivamente recuperate dal maglione indicato come reperto 17 [pullover grigio, N .d .A .] e cromaticamente riconducibili 296

N ote alle pagine 70-77

alle fibre di cui è costituito il reperto 5 [maglione Verde, N.d.A.l è stato scelto un campione di 10 fibre scelte a caso [...]. Tutte le dieci fibre sono risultate indistinguibili tra loro e indistinguibili da quelle costituituenti il maglione reperto 5». Dalla Relazione tecnica n. prot. 1374 CM I.T. -2010 dell’l l dicembre2012. 5. Dall’elenco diviso in plichi presente nella relazione tecnica sopra citata, n. prot. 1374 CM I.T.-2010. 6. Non si comprende perché i nuovi inquirenti, per approfondire questo aspetto, accludano delle foto di Pasolini mentre gioca a calcio, tra le tante che ritragggono il poeta su un campo sportivo, in cui compare senza gli occhiali. E evidente che chiunque stia svolgendo un’attività sportiva non può indossare degli occhiali. 7. Stefano Maccioni, Simona Ruffini, Valter Rizzo, Nessuna pietà per Vasolini, cit. 8. Cfr. il capitolo secondo del presente volume. 9. Verbale testimonianza, procedimento penale n. 1466/75. 10. Martina Di Matteo, Simona Zecchi, Vasolini, l’ombra dei picchiatorifasci­ sti, cit. 11. Conversazione con chi scrive dell’estate 2013. 12. Martina Di Matteo, Simona Zecchi, Vasolini, l’ombra dei picchiatorifasci­ sti, cit. 13. Verbale di sommarie informazioni rilasciato da Walter Carapacchi il 12 di­ cembre 1995 al Nucleo Operativo di via in Selci, Roma, in merito aha nuova apertura d’indagine preliminare per la morte di Pasolini (procedimento pe­ nale n. 10845/95 I R.G.), che il sostituto procuratore Italo Ormanni aveva disposto a seguito deha richiesta deh’awocato Nino Marazzita. 14. Collaboratore di giustizia dal gennaio del 1985 ed esponente di spicco della criminalità di Torre Annunziata, affiliato al clan Gionta. Cfr. l’inchie­ sta di Roberto Paolo, I l caso non è chiuso. La verità sull’omicidio Siani, Castelvecchi, Roma, 2014. Il verbale deha sua deposizione è del 9 novembre 1995. Il clan Gionta era rivale della NCO a Torre Annunziata, ma Mercu­ rio era ormai un collaboratore di giustizia. 15. Informativa del5 giugno2011. 16. Nota n. 500/1A, Squadra Mobile, del 15 novembre 1995. 17. N. 1735/96. 18. Richiesta di archiviazione del 28 gennaio 2015, procedimento penale n. 18233/10, mod. 44. 19. Cfr. Salvatore Giannella, I l misterioso anello del caso Vasolini, in L ’Eu­ ropeo, febbraio 1976. Informazione che fi giornalista, come a noi con­ fermato, ha raccolto al tempo presso il circolo monarchico di via Diego Angeli. L’informazione sarà confermata in seguito anche dall’avvocato Marazzita in un incontro con i giornalisti Lo Bianco e Rizza. 297

N ote alle pagine 77-99

20. Cfr. Claudio Marincola, Delitto Pasolini, svolta dai RIS, trovato il terzo DNA di un uomo, in II Messaggero, 7 novembre 2011. La notizia riferiva appunto dell’individuazione di un terzo uomo. Quel «terzo uomo» non è stato mai reso pubblico. 21. Esito degli accertamenti tecnici n. 1374/20-B di prot. I.I. 2010. Gli esiti, che evidenziano in tutto cinque nuovi profili genetici presenti sui reperti di reato riemersi dal Museo Criminologico di Roma, sono stati trasmessi alla procura nel giugno del 2013 dal RIS di Roma. 22. Paolo Brogi, Vidi i killer di Pasolini, tre o quattro, in Corriere della Sera, 29 marzo 2012. 23. Cfr. Paese Sera, 9 novembre 1975. 24. È stata ’na cosa premeditata, in II Messaggero, 5 novembre 1975. Nell’u­ nico libro autobiografico esistente di uno dei fratelli Cittì, Franco, Vita di un ragazzo di Vita, a cura di Claudio Valentini, Sugarco, Milano, 1992, l’«Accattone» accennerà vagamente al fatto specifico della morte di Paso­ lini, confermando però le dichiarazioni riportate. 25. 1995 26. In Corriere della Sera, 10 aprile 1976.

6. Un massacro tribale 1. Testimonianza depositata agli atti, procedimento penale n. 1466/75. 2. Editing Edizioni, Treviso, 2008. 3. Cfr. Lucia Visca, Pier Paolo Pasolini. Una morte violenta, cit. 4. Cfr. Diego Cimara, Stragi di Stato: 1968-2008, cit. 5. Verbale del 9 novembre 1975 di Benedetto Gaetano. Nel 2011, verrà sentito anche il figlio del teste, che non apporterà altri elementi utili. 6. Cfr. Martina Di Matteo, Simona Zecchi, La testimonianza di Guido Calvi, in Viaggio nella notte dell’Idroscalo, cit. 7. Relazione denominata «Indagini di laboratorio sui reperti relativi alla morte di Pasolini Pier Paolo», fascicolo n. 1466/75, Tribunale dei Minori di Roma. La foto mostra le due tavolette spezzate, che formavano in ori­ gine un unico pezzo, così come rinvenute sul luogo del delitto. 8. Giancarlo Umani Ronchi, Lineamenti di medicina forense, in Manuale di investigazione criminale, Nuovo Studio Tecna, 2008. 9. Conversazione con chi scrive del 9 novembre 2014. 10. Cit. 11. Oriana Fallaci, Pasolini ucciso da due motociclisti?, in L’Europeo, 14 no­ vembre 1975. 12. Oriana Fallaci, Mauro Volterra, E stato un massacro, in L'Europeo, 21 no­ vembre 1975. 298

N ote alle pagine 99-114

13. Cfr. intervista di Pelosi all’ANSA del 18 ottobre 2011. 14. Oriana Fallaci, Mauro Volterra, E stato un massacro, cit. Le domande sono di Mauro Volterra, collaboratore della Fallaci morto suicida molti anni più tardi, nel 1989, in circostanze strane. 15. Cfr. Corriere della Sera del 21 luglio 2010. 16. Verbale del 2 luglio 2010, informativa n. 222/1-9 del 26 novembre 2010. Il verbale è così trascritto. 17. Ivi. 18. Già pubblicato in nota nel precedente lavoro di Martina Di Matteo e Simona Zecchi, Viaggio nella notte dell’Idroscalo, cit. 19. Conversazione con chi scrive avuta nel dicembre del 2014. Le parole della fonte, che si vuole qui mantenere segreta per ovvi motivi di prote­ zione, saranno via via riferite durante l’inchiesta e a sola conferma della ricostruzione. 20. Il movimento nasce il 20 dicembre del 1969, subito dopo la strage di Piazza Fontana, all’indomani dello scioglimento del movimento politico di riferimento guidato da Pino Rauti, Ordine Nuovo. 21. Cfr. La notte quando è morto Vasolini, maggio 2009, acquisito anche dalla procura nelle ultime indagini. 22. Martina Di Matteo, Simona Zecchi, Pasolini, l’ombra dei picchiatorifasci­ sti, cit. 23. Cfr. ivi.

P arte seconda. L o schema perfetto 7. La ìnano dell’intelligence 1. Cfr. intervista di Giuseppe Pietrobelli a Guido Lorenzon, in II Gazzettino, 5 maggio 2005. 2. La strategia cosiddetta della «seconda linea», ossia di infiltrazione a sini­ stra, innescata dalla cellula veneta di Ordine Nuovo, è stata confessata dallo stesso Ventura ai magistrati milanesi Gerardo D’Ambrosio ed Emi­ lio Alessandrini. 3. Giornalista del Tempo, fondatore di ON e coinvolto inizialmente nelle indagini sulla strage di Piazza Fontana, sarà poi segretario nazionale del Movimento Sociale Italiano - Destra Nazionale, del Movimento Sociale - Fiamma Tricolore e del Movimento Idea Sociale. Muore nel novembre del 2012. 4. Con questo non si vuole dire che al massacro hanno partecipato forze stra­ niere, ma soltanto che il modello è quello perpetrato su un caso italiano, come lo fu per la strage di piazza Fontana e altri eccidi. 299

N ote ALLE PAGINE 115-129

5. Cfr. Simona Zecchi, Pier Luigi Concutellì. Frammenti neri sul massacro Pa­ solini, in II Fatto Quotidiano, 21 dicembre 2014. 6. Cfr. Luciano Garofano, Giorgio Gruppioni, Silvano Vinceti, Delitti e mi­ steri del passato, Rizzoli, Milano, 2008, pp. 200-201. 7. Richiesta di archiviazione del 28 gennaio 2015, paragrafo «Gli accerta­ menti tecnico-scientifici svolti dal RIS dei Carabinieri di Roma». 8. Cfr. il capitolo primo del presente volume. 9. «Erano più di una cinquantina, e invasero il piccolo spiazzo d’erba sporca intorno al trampolino: per primo partì il Monnezza [...] gli andarono die­ tro Remo, lo Spudorato, il Pecetto, il Ciccione, Pallante ma pure i più pic­ coletti, che non ci smagravano per niente [...]». Da Pier Paolo Pasolini Ragazzi di vita, Garzanti, Milano, 2009, p. 30. 10. Mandato di cattura del 19 maggio 1976; ordine di carcerazione della Procura di Roma del 27 febbraio 1984; verbale di trascrizione di morte presunta del 20 agosto 1988; restituzione dell’ordine di carcerazione della Squadra Mobile del 29 maggio 1990. 11. In tutto, da quanto si evince esaminando le informative, sono state tre le deposizioni dello Sperati: il 19, il 26 aprile e il 17 maggio del 2010. In quest’ultima occasione, l’uomo dava i connotati di un frequentatore del Pinna che doveva essere, secondo i racconti dell’altro carrozziere, uno dei tre individui che uccise Pasolini. Ma questi, a quanto sembra, non è mai stato identificato. 12. Processo verbale del 15 aprile 1976 del Nucleo Investigativo dei Carabi­ nieri. Nelle informative della «pista Pinna» delle ultime indagini è pos­ sibile evincere che sono state svolte delle intercettazioni per verificare se il Pinna potesse essere ancora vivo. L’esito delle indagini è negativo, ma d’altronde nel quartiere di Donna Olimpia i rmnor più consistenti danno l’ex autista dei Marsigliesi ormai per morto, tumulato nel cemento di un appartamento. 13. Cfr. Ernesto Della Riccia II rapimento di Marina D’Alessio, in II Tempo, 24 marzo 1976. 14. Altro stralcio di conversazione di chi scrive con la fonte riservata. 15. Informativa del 4 giugno 2013 del Nucleo Investigativo di Roma. 16. Estratto della deposizione di Adolfo De Stefanis del 18 novembre 1975. 17. Cfr. Appunto 52b, «Il Negro e il Roscio», in Pier Paolo Pasolini, Petrolio, Einaudi, Torino, 1992 e Mondadori, Milano, 2005. 18. Da verbale elenco reperti. 19. Dai racconti di borgata di «Pecetto», Silvio Parrello. 20. L’altro fratello Franco, il minore, sarà fermato lo stesso giorno. 21. Garzanti, Milano, 1959. Scriverà Pasolini nel 1966 illustrando il suo me­ todo di lavoro: «Quando sono giunto al capitolo del Forlanini, ho dovuto documentarmi, perché in tutta la mia vita non avevo visto un ospedale se 300

N ote alle pagine 129-138

non per qualche visita. Ho parlato con due ex ricoverati - che sarebbero poi diventati due personaggi del romanzo -, ho parlato con uno dei me­ dici (fratello di un uomo politico comunista mio amico), e ho parlato, in­ fine, con alcuni malati anonimi. Cinque o sei giorni di lavoro. Tutto qui». In Vie nuove, poi raccolto postumo in he belle bandiere, 1977. 22. Ringrazio Martina Di Matteo per averle ottenute da Calvi, a suo tempo, quando all’inizio ci occupammo insieme dell’inchiesta. Ora però queste note acquistano un senso altro che non lascia più spazio all’immagina­ zione o alle accuse di dietrologia. 23. Si tratta della prima deposizione di Ninetto Davoli, rilasciata alla polizia di Ostia alle 10.40 del mattino, subito dopo il riconoscimento. 24. Processo verbale di informazioni testimoniali di Antonio Pelosi, il 2 no­ vembre 1975 ore 14.00. 25. Verbale di istruzione sommaria del 3 dicembre 1975. 26. Martina Di Matteo, Forse sono stato arrestato su un’auto che non era di Pasolini, in Futuro Quotidiano, 3 dicembre 2014. 27. Giuseppe Pelosi, Io, angelo nero, prefazione di Dacia Maraini, Pino Pelosi lo scrittore, Sinnos, Roma, 1995. 28. Questa poi si farà via via spazio tra i pezzi del rebus che stiamo compo­ nendo. 29. Cfr. Gian Carlo Mazzini, I sei errori della polizia, in L’Europeo, 21 novem­ bre 1975, in Dossier Delitto Pasolini, Kaos Edizioni, Milano, 2008. Ai gior­ nalisti ciò non potè che apparire come uno dei tanti «errori». 30. Il dottor Garofano ha dato ampi dettagli nella già citata intervista a noi rilasciata. 31. Luciano Garofano, Giorgio Gruppioni, Silvano Vinceti, Delitti e misteri del passato, Rizzoli, Milano, 2008. 32. Cfr. Richiesta di archiviazione del 28 gennaio 2015. 33. Giuseppe Pelosi, Io so... come hanno ucciso Pasolini, cit. 34. Ivi. 35. Sergio Criscuoli, Nelle indagini per Pasolini, un altro teste, in l’Unità, 11 no­ vembre 1975. 36. Cfr. Stefania Limiti, Doppio livello. Come si organizza la destabilizzazione in Italia, Chiarelettere, Milano, 2013. 37. Unica tra le stragi di quegli anni, forse, compiutasi il 31 maggio 1972 e in cui morirono tre carabinieri, a non doversi includere nella più ampia stra­ tegia cosiddetta della tensione. 38. Edizioni Ritter, Milano, 1989. 39. Vinciguerra sta ancora scontando la sua pena e non è un collaboratore di giustizia. 40. Il Partito Marxista-leninista d’Italia (PCd’I (M-L), fondato da alcuni fuo­ riusciti del PCI nel 1966, incrocerà la vita di Giovanni Ventura nel mo301

N ote a l l e pagine 138-145

mento precedente e successivo alla strage di Piazza Fontana. In partico­ lare Ventura avvicinerà l’ex partigiano Alberto Sartori, che nel ’68 sarà al vertice del partito e la cui storia ambigua è divisa fra spionaggio e doppio gioco. Per approfondire questa figura, si veda il testo di Aldo Giannuli, Bombe a inchiostro, BUR, Milano, 2008.

8. Figure per una strategia 1. Dichiarazione dell’onorevole Nicola Lettieri durante una sua audizione presso la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia, Roma, 1984, voi. V, doc. XXIII. 2. Film diretto da Carlo Lizzani nel 1960. 3. La vita di Aldo Semerari è narrata in maniera completa dallo scrittore e psi­ chiatra Corrado De Rosa, La mente nera, Sperling & Kupfer, Milano, 2014. 4. Anno II, n. 22, pubblicazione del 21 giugno 1962. Diverse in quegli anni le presenze di sedicenti agenzie di stampa aperte e condotte con scopi tutt’altro che dediti all’informazione pura, ma piuttosto rivolti al dossieraggio e al depistaggio. 5. Cfr. Corrado De Rosa, La mente nera, cit., p. 127. 6. Cfr. Ecco la lista dei «forzati» di Capo Marrargiu, in l’Unità, 23 dicembre 1990. 7. Cfr. il capitolo La decapitazione del criminologo Semerari, in Giuseppe Marrazzo, Il camorrista. Vita segreta di don Raffaele Cutolo, Pironti Edi­ tore, Napoli, 1984. 8. Semerari, Ferracuti, Carrara, «Note di parte alla perizia psichiatrica su Giuseppe Pelosi» del 12 aprile 1976. 9. Busnelli, Giordano, «Perizia Psichiatrica su Giuseppe Pelosi» del 9 feb­ braio 1976. 10. Francesca Maria Trapani, Rasolini poteva essere salvato, in Gente, feb­ braio 1976. 11. Giuseppe Pelosi, Io so... come hanno ucciso Rasolini, cit., p. 88. 12. Cfr. l’articolo, a cui ha collaborato chi scrive, di Giuliano Girlando, Mafia Capitale invade anche Tivoli, in Antimafia, 2000. 13. Durante un’audizione di Salomone del 1983, davanti alla Commissione d’in­ chiesta per la Loggia P2, al cronista viene contestata la volontà di formare una sorta di comitato giornalistico che potesse fare gli interessi della loggia stessa, il cosiddetto «Gruppo 17». Salomone, in quella occasione, pur ammettendo la sua appartenenza alla massoneria di Gelli, nega questa circostanza. 14. Fiori fu gravemente ferito alle gambe e al torace il 2 novembre del 1977 dalle BR. La sua appartenenza alla P2 fu definitivamente smentita da una sentenza nel 2001 (n. 20537/01). 302

N

o t e a l l e p a g in e

145-153

15. Giuseppe Pelosi, Io so... come hanno ucciso Pasolini, cit., p. 87. 16. È necessario qui riferire che Piergiorgio Manca, vittima di un agguato nel 2010 presso il suo studio a Roma, è stato indagato nell’ambito dell’«Operazione Colosseo» contro la banda della Magliana dal giudice Otello Lupacchini. 17. Cfr. Appendice: telegrammi relativi alle nomine dei legali di Pelosi, pp. 155-159 del presente volume. 18. Giuseppe Pelosi, Io so.. . come hanno ucciso Pasolini, cit., pp. 87-88. 19. Secondo tre incroci testimoniali, corpe rilevato di recente dalla Commis­ sione parlamentare d’inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro, Moro sarebbe stato per un certo periodo prigioniero in via Gradoli, ma non per forza nel covo delle BR. 20. Ci si riferisce all’udienza del 6 giugno 1995. Tale testimonianza è poi ri­ presa nel doc. XXIII, n. 64, voi. I, tomo 6 della Commissione parlamen­ tare d’inchiesta sul terrorismo e le cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, presieduta dal senatore Giovanni Pellegrino. Il tenente colonnello Varisco accompagnerà il procuratore Infelisi in via Gradoli dopo che il covo è stato finalmente scoperto. Il carabiniere morirà nel luglio del 1979 a causa di un attentato rivendicato dalle BR. L’omicidio presenta tutt’oggi alcuni lati oscuri: solo un membro del gruppo di fuoco è stato riconosciuto e soltanto perché questo, Rita Aigranati, confesserà dopo la cattura. 21. Cfr. Lello lo Zoppo, il più pericoloso, in II Tempo, 11 novembre 1975. 22. Estratto di un’intervista realizzata dal collaboratore del regista Federico Bruno, Massimiliano Coccia, per il film La verità nascosta, prodotto e di­ retto da Bruno e uscito nel 2012. Il regista, che non ha utilizzato questo estratto nel film, ha autorizzato chi scrive alla pubblicazione esclusiva. 23. Le foto, pubblicate gli scorsi anni in un libro, sono state esposte nella mo­ stra itinerante Pasolini Roma (luglio 2014, Palazzo delle Esposizioni, Pa­ rigi, Barcellona e Berlino). 24. Cfr. ANSA del 15 dicembre 1988. 25. Continuiamo a trascrivere il nome Johnny nella ortografia tradizionale, ma in borgata, così come rinvenuto nella cartolina inviata a Mastini da Pe­ losi, questo rispetto per l’ortografia ovviamente non esisteva. 26. Cfr. Catturata la banda dei giostrai, in La Repubblica, 9 gennaio 1994. 27. Verbale dell’interrogatorio di Damiano Fiori presso la Procura Distret­ tuale Antimafia di Milano, del 15 febbraio 2000.

303

N ote a l l e

p a g in e

162-178

P arte terza. Colpi mortali 9. Doppio passaggio 1. Interrogatorio del 2 novembre di Giuseppe Pelosi di fronte al procuratore ordinario (non minorile) Tranfo. 2. Informativa del Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Roma del 5 giugno 2011.

3. Verbale del 18 novembre 1975. Masone riferirà la stessa cosa durante il primo interrogatorio di Pelosi su richiesta del magistrato. 4. Si tratta del numero n. 47, centrale nell’inchiesta condotta dal settimanale, che includeva gli articoli È stato un massacro e II testimone misterioso. 5. Verbale di istruzione sommaria di Luciano Mezzana del 3 dicembre 1975, che dichiarerà l’errore di manovra svolto nel rimessaggio. Secondo Mez­ zana, la manovra provocò una strisciata sulla fiancata destra. Le foto, come visibile, riportano qualcosa di più di una strisciata. 6. Cfr. Anna Tarquini, Caso Vasolini: i magistrati riaprono l’inchiesta, in l’U­ nità, 10 maggio 2005. 7. Relazione tecnica sull’autovettura di Pier Paolo Pasolini, effettuata dall’ingegner Ambrogio Riccardo Cappuccini, del 28 novembre 1975. 8. Ivi. 9. Uno degli elementi mancanti, che non ha permesso di individuare le iden­ tità dei cinque profili genetici estratti dai reperti, è proprio l’impossibilità di determinare la collocazione temporale delle tracce ematiche. Capire cioè quando quella specifica traccia è comparsa, oltre a chi possa apparte­ nere. La BPA permette proprio questo. 10. Come indicato nella relazione delle indagini di laboratorio. 11. Informativa del Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Roma del 5 giu­ gno 2011. 12. Cfr. Pierluigi Baina Bollone, Medicina legale, Giappichelli, Torino, 2014. 13- Relazione tecnica sull’autovettura di Pier Paolo Pasolini, cit. 14. Supplemento di Perizia sulla dinamica dell’investimento di Pier Paolo Pa­ solini. 15. Relazione tecnica sull’autovettura di Pier Paolo Pasolini, cit. 16. Perizia Durante. 17. Cfr. Chiesti 11 anni per Pelosi. La parte civile si ritira, in l’Unità, 27 aprile 1976. 18. Perizia dei professori Umani Ronchi, Ronchetti e Merli. I contenuti rela­ tivi alle cause specifiche della morte qui citati sono stati condivisi anche dal professor Faustino Durante. 19. Cfr. La dichiarazione di Pelosi dell’8 maggio 2005 al Messaggero: «La macchina non me la posso permettere, non ho la patente, non l’ho mai 304

N

o t e a l l e p a g in e

1 7 8 -1 9 3

avuta e non la posso prendere». Infatti, nelle sue scorribande con gli ex so­ dali, sarà sempre Claudio Seminara a guidare la Fiat 850 e i veicoli oggetto di furto, mai lui. 20. Estratto dalla prima perizia delle indagini di laboratorio dei professori Umani Ronchi, Merli e Ronchetti, che comprendevano anche l’analisi dell’effetto del sormontamento sul corpo del poeta. 21. Cfr. Pasolini: in 5 ad ucciderlo. G ente intoccabile, ANSA, 24 febbraio 2009. Dichiarazioni rilasciate dopo l’uscita del libro di Lo Bianco e Rizza, Profondo nero, cit. 22. Cfr. Pelosi: in tan ti sanno ma alla storia manca un 15% , ANSA, 18 ottobre 2011 .

23. Protocollo reperto n. 3639/76, fascicolo n. 1466/75, anche menzionato nel libro citato di Marco Tullio Giordana. 24. Ivi. 25. Un’altra dello stesso tipo, ma con diverse angolazioni, l’ha mostrata il set­ timanale l ’Espresso nel 1979, alla vigilia della sentenza della Corte di Cas­ sazione che confermò la colpevolezza dell’unico imputato Pelosi senza il concorso di ignoti. 26. Cfr. L’Europeo del 21 novembre 1975. 27. Cfr. Raffaella Fanelli, Pino Pelosi racconta, in Sette, inserto del Corriere della Sera, 2 giugno 2011. 28. Relazione medico legale dei professori Umani Ronchi, Merli e Ronchetti. P arte

quarta.

Perché il massacro?

10. L’omicidio Mattei e 1’«Appunto 21»: due piste monche 1. Cfr. Enzo Siciliano, Vita di Pasolini, Mondadori, Milano, 2005. 2. Cfr. il capitolo primo del presente volume. 3. In Petrolio il riferimento esplicito ai gironi danteschi è presente soprattutto nella serie di appunti sulle «Visioni». 4. Pier Paolo Pasolini, Petrolio, cit., p. 579. La prima edizione, pubblicata da Einaudi diciassette anni dopo la morte del poeta, fu curata dalla cugina dello scrittore Graziella Chiarcossi e da Maria Careri. 5. Cfr. in proposito l’ottimo saggio di Carla Benedetti, Pasolini contro Cal­ vino, Bollati Boringhieri, Torino, 1998. 6. Lettera a Moravia, in Petrolio, cit., p. 579. 7. Cfr. ANSA, 24 ottobre 1992. 8. Carlotta Tagliarmi, in 11M ondo, 26 dicembre 1974. 9. Cfr. Nota filologica di Aurelio Roncaglia, in Pier Paolo Pasolini, Petrolio, cit., testo mutuato dalla prima edizione Einaudi. 305

N

o te

alle

p a g in e

1 9 4 -2 0 0

10. Cfr. Paolo Mauri, La vera storia d i Petrolio, in La Repubblica, 30 dicembre 2005. 11. Cfr. Gianni D’Elia, I l Petrolio delle stragi, effigie edizioni, Milano, 2006, p. 12. 12. Cfr. Paolo Mauri, La vera storia diPetrolio, cit. 13. Cfr. Graziella Chiarcossi, in II Sole 24 Ore Domenica, 15 giugno 2014. 14. Una donna di cultura e di grande esperienza in ambito editoriale che, da sola e via via con il supporto di altri appassionati, ha creato e curato (fino alla sua morte avvenuta due anni fa) il sito in questione. Nel sito, oltre alla storia giudiziaria ufficiale delle indagini sulla morte dello scrittore, sono raccolti spunti critici, testimonianze e articoli su Pasolini. La Molteni ha scritto anche un libro, scaricabile gratuitamente allo stesso indirizzo: Enigma Pasolini, 2010, su pasolini.net, http://www.pasolini.net/download_enigma-pasolini.htm. 15. Pier Paolo Pasolini, Petrolio, cit., p. 585. 16. «Appunto 22a», in ivi, p. 106. 17. I l Petrolio delle stragi (2006) e Ileresia d i Pasolini (2006), entrambe per effigie edizioni. 18. Cfr. Il Petrolio al veleno d i Pasolini. I l caso Mattei, i sospetti su Cefis e la morte violenta del poeta, in Corriere della Sera, 1 agosto 2005. 19. Conversazione telefonica con chi scrive del 4 ottobre 2014. 20. Durante la Resistenza, Cefis fu vicecomandante della Divisione cattolicopartigiana Valtoce, con il nome di battaglia «Alberto». Aleggiarono forti sospetti su di lui riguardo alla morte del presidente della Divisione, Al­ fredo Di Dio, caduto in un’imboscata. Tra i fondatori della Repubblica dell’Ossola, Cefis in quegli anni conobbe Enrico Mattei, che affiancò nell’attività di ristrutturazione dell’AGIP e, in seguito, nella fondazione dell’ENI, senza mai esserne dipendente. 21. Cfr. Pier Paolo Pasolini, Petrolio, cit., p. 576: si tratta di uno degli schemi o sintesi interni all’opera. 22. Richiesta di archiviazione del giudice Vincenzo Calia, procedimento pe­ nale n. 181/84, mod. 44, p. 415, nota 1290. 23. La valigetta di pelle marrone è rimasta un mistero per trentuno anni. Fu restituita alla procura di Palermo dopo l’omicidio avvenuto nel 1982 e sa­ rebbe stata ritrovata, vuota, nel 2013, in un deposito di polizia giudiziaria, su segnalazione di un anonimo. 24. Giuseppe Lo Bianco, Sandra Rizza, Profondo nero, cit., p. 275. Il libro pone anche come possibili partecipanti all’agguato i futuri membri della Banda della Magliana, che non era ancora nata né soprattutto era orga­ nizzata in modo tale che, con il supporto di elementi esterni al crimine (come i cosiddetti elementi istituzionali «deviati», dalla politica alla magi­ stratura passando per i servizi di sicurezza), potesse fare il bello e il cattivo 306

N

o t e a l l e p a g in e

2 0 0 -2 0 4

tempo fuori e dentro Roma partecipando ad alcuni episodi di violenza di cui hanno beneficiato questo o quel rappresentante politico. 25. Gli appunti o capitoli mancanti sono: l’I, il 3e, il 6a - che contiene solo alcune righe di futura scrittura (questo appunto non è indicato nella nota filologica, ma rientra comunque tra i mancanti) -, il 6 quinquies, il 21, il 33, il 34 ter, il 52, il 52a (anche questo non segnalato nella nota filologica), il 52b (dal titolo «Il Negro e il Roscio», già citato nelle pagine di questa in­ chiesta come mancante), gli appunti dal 75 all’80, l’83, gli appunti dall’85 al 90, gli appunti dal 90 al 96 (di cui esiste solo una pagina progettuale, datata agosto 1973, che descrive, capitolo per capitolo, i contenuti che Pasolini avrebbe inserito, inclusi gli appunti dal 97 al 99, che però sono interamente presenti), il 100 (presente due volte con il solo titolo), gli appunti 106b-107 (con i soli titoli) e gli appunti 108 e 109 (completamente mancanti). Cfr. Pier Paolo Pasolini, Petrolio, cit., p. 620. 26. Cfr. ivi, p. 99. 27. Edito nel 1972 attraverso l’agenzia di stampa Milano Informazioni (AMI), le sue copie sparirono dalla circolazione dopo pochi mesi. Nel 2010 l’edi­ tore Giovannetti iniziò a pubblicarne via via alcuni estratti Online. Fu poi interamente pubblicato da effigie edizioni (sempre Giovannetti), nella col­ lana Saggi e documenti. 28. Questo secondo libro fu esposto per pochi minuti alla mostra di Milano e poi rimosso senza spiegazioni. 29. Richiesta di archiviazione, procedimento penale n. 1833/2010, mod. 44. L’ex senatore sarà nuovamente sentito dai pm di Palermo in merito all’in­ chiesta sulla scomparsa di Mauro De Mauro. 30. Ivi. 31. Marcello Dell’Utri oggi sta scontando una pena per concorso in associa­ zione mafiosa e al tempo dell’annuncio del dattiloscritto era in attesa del verdetto. 32. Ne scriverà Carla Benedetti sull’&prerro (Giallo Pasolini, 29 marzo 2010, http://espresso.repubblica.it/visioni/cultura/2010/03/29/news/giallo-pasolini-1.25364). 33. Seguiranno: la lettera di Walter Veltroni all’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano; la risposta dell’ex ministro dei Beni Culturali Bondi di­ sposto a far riaprire le indagini e l’appello degli intellettuali. 34. Cfr. D ell’Utri: m i dissero capitolo Petrolio inquietante, ANSA, 22 aprile 2010.

35. Presso il Gabinetto Vieusseux di Firenze, si trova la lettera con cui Fachinelli avvisa Pasolini dell’importanza del materiale. 36. Primo comandante dei partigiani cattolici in Lombardia, Verzotto, che ha anche affiancato Enrico Mattei nella sua battaglia all’intemo della DC, scende in Sicilia da Padova e diventa uno degli uomini più potenti della fi­ 307

N o t e a l l e p a g in e 2 0 4 - 2 0 7

nanza e della politica siciliane. La sua storia si intreccia con un trentennio di cronaca dei misteri, soprattutto siciliana: la motte di Enrico Mattei, ple­ nipotenziario presidente dell’ENI; la scomparsa di Mauro De Mauro; gli affari sporchi di Michele Sindona, a causa dei quali sarà anche indagato; gli intrallazzi con i fondi neri dell’Ente Minerario Siciliano e i rapporti con la mafia di Riesi, in particolare con Giuseppe Di Cristina, in relazione al quale nel 1971 viene ascoltato dalla Commissione Antimafia. L’idea di fi­ nanziare un’agenzia di informazioni per contrastare il potere di Cefis fa parte delle dinamiche che regolamentano le fazioni politiche ed economi­ che del tempo. Muore nel 2010. 37. Condannato nel 1971 a quattro anni di reclusione per bancarotta fraudo­ lenta, il suo nome è entrato e uscito da inchieste di mafia e rumor sull’appar­ tenenza a logge massoniche segrete. Braccio destro di Eugenio Cefis dopo la morte di Mattei, la procura di Palermo assegna anche a lui un ruolo sullo sfondo che ha condotto alla morte il giornalista de L'Ora. La cassazione nel giugno del 2015 mette definitivamente fine al processo confermando l’asso­ luzione a Totò Riina. 38. Cfr la versione dello stesso Dell’Amico, anche lui coinvolto nelle indagini su Piazza Fontana, in La leggenda del giornalista spia, Koinè Nuove Edi­ zioni, Roma, 2013. 39. Cfr. Guglielmo Ragozzino, Cefis, Pasolini e m io zio Corrado, in il manife­ sto, 10 novembre 2005. 40. Appunto per il signor Capo reparto del 09/09/1972, allegato 110, busta VI. 41. Si indicano come fonti aperte, in genere, soprattutto nell’ambito giorna­ listico ma anche d’intelligence, quella serie di informazioni raccolte attra­ verso la consultazione di fonti di pubblico accesso. Queste possono anche essere di difficile reperimento, ma sono sempre da considerarsi pubbliche. Le fonti chiuse sono al contrario tutto ciò che il giornalista o lo scrittore si procura attraverso persone che non vogliono comparire o essere citate direttamente, o tutta una serie di documentazioni non rese pubbliche, di difficile e a volte non ortodossa reperibilità. 42. La controinformazione nasce in Italia quasi contemporaneamente alla strage di Piazza Fontana (dicembre 1969) e con il tempo si trasforma e si evolve: da specifica mossa ideologica di alcuni collettivi, formati anche da magistrati e giornalisti e dotati di una struttura di controspionaggio essi stessi, talvolta strumentalizzando le informazioni, a pura branca del giornalismo d’inchiesta (cfr., per saperne di più, Aldo Giannuli, Bom be a inchiostro, cit). 43. In particolare Pasolini ne impiegò due, come riscontrato da Iolanda Romualdi: Cefis e il Sid. I l mattinale, del 4 agosto 1974, e Cefis e il controspio­ naggio. E l ’ammiraglio allora disse, dell’11 agosto 1974. Articoli di cui Pa308

N

o te

a l l e p a g in e 2 0 7 - 2 1 1

solini si awalse nelT«Appunto 97» di Petrolio per citare i potenti, presenti a un evento mondano, riuniti intorno al Quirinale e spesso confluenti in questo tipo di serate volte ad armonizzare accordi o a consolidare rapporti. 44. Relazione di minoranza di Massimo Teodori, doc. XXIII, IX legislatura. 45. Cfr. Pier Paolo Pasolini, Petrolio, cit., Appunto 97, p. 427. 46. Ibidem. 47. Appunto T8-1/7-5/SM, così negli atti. 48. Relazione di minoranza di Massimo Teodori, cit. 49. La prima inchiesta giudiziaria di Pavia si chiuderà in fretta con un’archivia­ zione, stabilendo che l’aereo precipitò incidentalmente e ratificando così i risultati della commissione d’inchiesta dell’aeronautica militare, nominata il giorno dopo il disastro aereo dal ministro della Difesa Giulio Andreotti. La commissione aveva concluso il proprio lavoro nel marzo del 1963 ritenendo possibile un errore del pilota dovuto a un malore. Una commissione, que­ sta, presieduta dal generale dell’aeronautica Giuseppe Casero, che - scrive il giornalista Vincenzo Vasile - l’anno dopo la tragedia sposa la vedova di Mattei e comparirà più avanti nella lista degli affiliati alla loggia P2. 50. L’8 gennaio dello stesso anno, proprio secondo un comunicato dell’ENI, un cacciavite «era stato fissato con un nastro adesivo alla parete interna del tubo che avvolge il motore». Se non fosse stato scoperto, l’oggetto avrebbe potuto provocare l’esplosione dell’aereo. 51. Pisano, dopo la guerra e pur proseguendo la sua militanza politica a destra, fondò il settimanale Secolo X X , attraverso il quale ha pubblicato diverse inchieste scottanti. Il settimanale è inaugurato dalla prima parte dell’inchiesta di Bellini, con il quale, pur tra mille polemiche politiche, Pisano porterà avanti un rapporto di collaborazione e amicizia. Più tardi dirigera l l Candido. 52. Fulvio Bellini, La telefonata della morte, in Secolo X X , 2 aprile 1963, anno I, n. 3. 53. Il libro è stato ripubblicato da Yoni edizioni nel 2005, nella collana cu­ rata da Paolo Cucchiarelli, Carte Segrete. Un passaggio del libro chiarisce la,tesi già espressa da Bellini nel 1963: «[...] affidando a Cefis, de facto, la direzione dell’ENI [ufficiosamente, perché in un primo momento fu nominato vicepresidente, N .d.A .], le autorità di governo avevano voluto sottolineare, in realtà, la solidarietà più completa con un uomo che aveva abbandonato Mattei alla vigilia della morte [...]. Nemmeno un mese dopo la tragedia di Bascapè, già si verificavano i primi contatti tra la nuova di­ rezione dell’ENI, in fase di riorganizzazione, e la Esso: un atto che doveva dare inizio a quel processo di normalizzazione dell’ente le cui tappe fon­ damentali [...] dovevano far approdare la creatura nata dal genio e dalla volontà di Enrico Mattei nell’anticamera [...] delle compagnie petrolifere angloamericane». 309

N

o t e a l l e p a g in e

2 1 1 -2 2 2

54. Nella bibliografia del presente volume, il lettore ne troverà delle altre. 55. Cfr. Pier Paolo Pasolini, Petrolio, cit., pp. 126-127. 56. Razza Padrona. Storia della borghesia d i Stato e del capitalismo italiano 1962-1974, Feltrinelli, Milano, 1974. 57. Organization de l’armée secrète, organizzazione clandestina, operante in Algeria e coperta dal regime franchista, dalla quale Mattei aveva ricevuto delle minacce, ragion per cui il presidente fruiva anche della protezione dei nostri servizi segreti 58. Nella bibliografia del presente volume, seguirà l’elenco. 59. Di Angiolo Silvio Ori, Edizioni Settedidenari, 1971. 60. Negli atti dell’inchiesta di Pavia. 61. Cfr. il Resto del Carlino del 26 ottobre 1986. In quel momento, Fanfani era presidente del Senato; quando morì Mattei era invece presidente del Consiglio, quindi la sua affermazione acquista un grande significato. 62. Dei tre numeri dell’inchiesta del settimanale Secolo X X , pubblichiamo qui soltanto le foto del primo. Gli altri due numeri sono datati rispettiva­ mente 26 marzo e 2 aprile 1963.

11. Commando nero 1. Cfr. il capitolo primo del presente volume. 2. Il movimento fu fondato il 20 dicembre 1969 da alcuni dissidenti del Cen­ tro Studi Ordine Nuovo, mentre quest’ultimo rientrava nei ranghi dell’MSI. Per questo passaggio strategico si veda la relazione tecnica del con­ sulente della Procura di Brescia, Aldo Giannuli, sulla confluenza di ON nell’MSI (Atti Brescia 97/21). 3. Cfr. Martina Di Matteo, Simona Zecchi, Pasolini, l ’ombra dei picchiatori fascisti, cit., consultabile anche on line: http://ilmanifesto.info/pasolinilombra-dei-picchiatori-fascisti/. 4. Cfr. il capitolo primo del presente volume. 5. Stefano Maccioni, Simona Ruffini, Valter Rizzo, Nessuna pietà per Pasolini, ■ cit. 6. Vi è una interpretazione nel libro, legittima in quanto tale, della fonte de­ gli autori che indicherebbe che la vita sessuale di Pasolini era condotta a Catania in modo particolarmente libero, a differenza di quanto avveniva a Roma. Questo tipo di interpretazioni, per quanto legittime, non possono corrispondere ai fatti se non sono supportate almeno da una chiara con­ fidenza eventualmente rivolta alla fonte dallo stesso Pasolini: negli anni di cui si parla nel libro, quando il trasferimento a Roma era ormai avve­ nuto, le lacerazioni e le contraddizioni intimamente vissute che, secondo l’uomo, Pasolini cercava di espiare tramite il pagamento delle prestazioni erano già state risolte, come si evince da alcune lettere indirizzate a Franco 310

N

o t e a l l e p a g in e

2 2 2 -2 3 1

Farolfi e a Silvana Mauri. Cfr. Pier Paolo Pasolini, Vita attraverso le lettere, a cura di Nico Naldini, Einaudi, Torino, 1994. 7. Cfr. la terza parte del presente volume. 8. Sin dal primo articolo scritto per il Corriere della Sera nel gennaio del 1973: Contro i capelli lunghi, poi in Scritti corsari con il titolo II discorso dei capelli. 9. Cfr. il sito ufficiale http://www.nazionaleattori.org/storia/. 10. Cfr. Nota Introduttiva, in A lb u m Pasolini, Mondadori, Milano, 20052015. 11. Cfr. I l giorno più lungo dei catanesi, in La Sicilia, 23 giugno 1975, ma anche, Undici personaggi in cerca d i gol, in Espresso Sera dello stesso giorno. Per gentile concessione delle Biblioteche Riunite Civica e A. Ursino Recupero e della direttrice Rita Angela Carbonaro. 12. Conversazione con Elio Gimbo del 10 giugno 2015. 13. Stefano Maccioni, Simona Ruffini, Valter Rizzo, Nessuna pietà per Paso­ lini, cit., p. 149. 14. Chi scrive è disponibile a riferirne i nomi nel caso fosse necessario; le per­ sone in questione hanno preferito non comparire. 15. Verbale di confronto fra Sergio Calore e Paolo Aleandri del 28 maggio 1985, acquisito dalla Procura di Bologna. 16. Cfr. Pierluigi Concutelli, lo, l ’uomo nero, Marsilio, Venezia, 2008, pp. 7276. 17. Lettera n. 500/1-S-M, presente nei vecchi atti e citata dagli inquirenti. 18. Impronte che comunque, secondo il RIS, non si sono rivelate interamente leggibili nel confronto avvenuto con le impronte estratte sugli altri reperti: in particolare quelle di Mastini, dei Borsellino e di altri sospettati. 19. Dalle relazioni sull’esame del dna del RIS, rapporto n. 1374/20-1-B del 6 maggio 2013. 20. Dopo il processo che ne azzererà la dirigenza: Clemente Graziani ed Elio Massagrande in testa. 21. Rapporto proveniente dal Ministero dellTnterno, n. 224/10266.1 del 12 maggio 1974. 22. Si tratta di un volantino di minacce inviato al giornale Brescia Oggi, se­ condo le didascalie, il 30 maggio. In Atti Piazza Fontana. 23. Cfr. Vincenzo Vinciguerra, L’ordine sporco, Opera, 25 novembre 2008, consultabile nel sito Archivio Guerra Politica, a cui Vinciguerra invia di tanto in tanto le sue analisi. 24. Cfr. Il Giudice Occorsio ucciso.da Ordine Nero e cosche, in Corriere della Sera, 31 marzo 1995, in occasione della riapertura dell’inchiesta sull’omi­ cidio; cfr. anche Paolo Guzzanti, Q uel giudice deve tacere, in La R epub­ blica, 11 luglio 1976. 25. Secondo alcune dichiarazioni rilasciate il 21 giugno 1993 dallo stesso ca­ pitano, i contatti con un esponente di Ordine Nero, Luciano Benardelli, 311

N o t e a l l e p a g in e 2 3 1 - 2 4 0

furono da lui presi su disposizione del generale Gianadelio Maletti, re­ sponsabile del Reparto D del SID. 26. Cfr. Nicola Rao, Trilogia della celtica, Sperling & Kupfer, Milano, 2014. 27. Scrive Concutelli in lo, l’uomo nero, cit.: «Una sigla inventata a Roma, dopo lo scioglimento del Movimento, con il preciso scopo di denunciare la nostra pretesa mentre nella capitale si celebravano i processi contro il Mpon. Una sigla necessaria per fare paura, per far capire che i neofascisti erano tutt’altro che morti e sconfitti ma vivi e vegeti». Concutelli aveva evidentemente fonti certe. Gli attentati si verificarono soprattutto a Cata­ nia, ma anche a Reggio Calabria. Cfr., per i dettagli, Nicola Rao, Trilogia della celtica, cit. 28. Cfr. Mario Guarino, Jdltalia della vergogna, Laser edizioni, 1995. L’inchie­ sta di Guarino è molto scrupolosa e verte sulla massoneria e le logge co­ perte in odore di criminalità e ’ndrangheta. 29. Fernando Imposimato, Doppi Servizi. I misteri dell’Addaura, in Micromega, 10 giugno 2010, consultabile in http://temi.repubblica.it/micromega-online/ doppi-servizi-i-misteri-delladdaura/?printpage=un-defined 30. La cosca De Stefano aiuterà Franco Preda a fuggire in Costa Rica. 31. Rapporto di Polizia Giudiziaria della Procura di Marsala, datato 22 ago­ sto 1977. 32. Otello Lupacchini, In Pessimo Stato, Koinè Edizioni, Roma, 2013, p. 264. 33. L’organizzazione riunita sotto lo schermo della sigla ancora legale di Avan­ guardia Nazionale doveva avere un sud organigramma e mettere in comune le armi, le strutture logistiche e il piano d’azione attorno a una strategia. Dalla documentazione rinvenuta nell’appartamento di via Sartorio emerge con certezza l’operazione preventiva di attribuzione alla sinistra dell’atten­ tato al presidente della DC cilena Bernard Leighton. 34. Come asserito in diverse commissioni parlamentari d’inchiesta sullo stra­ gismo. 35. Fra Monteverde vecchio e nuovo esiste una sorta di confine insieme pre­ ciso e labile, che confonde geograficamente e mentalmente le due zone. Quella di Monteverde nuovo è l’area adiacente a Donna Olimpia, in cui Mussolini raccolse i poveri e gli sbandati per relegarli però in un ghetto. A pochi metri, c’è via Carini, dove anche lo scrittore ha vissuto l’anima borghese e residenziale che inaugura Monteverde nuovo. 36. Pier Paolo Pasolini, Perché il Processo, in Corriere della Sera, 28 settem­ bre 1975, articolo in risposta a un editoriale della Stampa del 14 settembre 1975. Ora in Lettere luterane, cit. 37. Nel 2005, lui e Franco Freda furono riconosciuti colpevoli sebbene non più processabili. 38. Il Partito Socialista Unificato, la cui nuova denominazione (proveniente dal Partito Socialista Unitario) nasce dalla fusione fra il PSI e il PSDI, fra 312

N

o te alle

p a g in e 2 4 0 - 2 5 2

il 1968 e il 1969, per contrastare i comunisti al governo e nel loro stesso partito. Cfr. Fulvio e Giancarlo Bellini, I l segreto della Repubblica, cit, pp. 57-72, e anche Simona Zecchi, Piazza Fontana, 12 dicembre 1969: la giusti­ zia è perduta la verità ancora no, 11 dicembre 2014. 39. Gli articoli precedettero e seguirono la strage di Piazza Fontana e misero in guardia, secondo quanto riferito da alcuni rapporti d’intelligence in­ glesi, dal golpe che l’estrema destra stava preparando in Italia con il sup­ porto del capo dello Stato. 40.1 contenuti di alcune veline riportate nel libro La strage diS ta to sono stati poi rinvenuti in una cassetta di sicurezza intestata alla madre del Ventura. 4L Su gentile concessione del Gabinetto Scientifico Letterario G.P. Vieusseux di Firenze e della dottoressa Graziella Chiarcossi, che ringraziamo. La pub­ blicazione è autorizzata anche dalla sorella di Giovanni, Maria Angela Ven­ tura. 42. Collocazione T ACGV PPP. I. 1209 3, 3 fogli con busta. Su gentile con­ cessione del Gabinetto Scientifico Letterario G.P. Vieusseux di Firenze.

Epilogo 1. Cfr. La cosiddetta Sip parallela, in Fondazione Luigi Cipriani, http://www. fondazionecipriani.it/home/. 2. L’allora numero telefonico dello scrittore, qui solo parzialmente riportato, come da Atti del fascicolo n. 1466/75. 3. Cfr. T utti i num eri che incominciano con 59 isolati dall’attentato alla cen­ trale Sip, in l’Unità, 14 ottobre 1975. 4. Cfr. il primo capitolo del presente volume. 5. Così nel testo la ripetizione. 6. Le intercettazioni erano specialità del cosiddetto «Anello» o Noto servizio, un superservizio segreto occulto, attivo dal dopoguerra fino agli anni ’80, dipendente direttamente dalla Presidenza del Consiglio. La sua esistenza è stata scoperta dallo storico e consulente della procura di Brescia, Aldo Giannuli, nel 1996, in uno scantinato dimenticato da tutti sulla via Appia a Roma. Per approfondire il tema, rimandiamo al libro di Stefania Limiti, I l A nello della Repubblica, Chiarelettere, Milano, 2009. 7. Uno dei giudici che si accanì contro Pasolini fu Carmelo Spagnuolo, per il romanzo Una vita violenta, il cui nome fu trovato in sonno nella lista degli appartenenti alla P2, tessera n. 545. In vita lo scrittore ha affrontato in tutto ben trentatré processi, uno anche «postumo» per il film Salò. 8. Studi promossi da una società intemazionale: la International Society for thè Study of Character Assassination (ISSCA). 9. Così s’intende qui riferirsi a Pier Paolo Pasolini, usando la lettera maiu­ scola, nell’accezione della parola poeta che racchiude una figura dell’intel313

N o t e a l l e p a g in e 2 5 2 - 2 5 6

lettuale a tutto tondo (poeta, scrittore, saggista, regista, filosofo, critico) e non un mero scrittore di versi. 10. Guanda, Milano, 2010. 11. Nel 1979 in un momento di «mea culpa», Sanguineti scriverà alcuni versi rivolti a Pasolini («Sono con te n el cuore e nelle viscere che m i ritorni come fratello infelice»), Enzo Siciliano spiegherà questo pentimento addebitan­ dolo piuttosto a un momento di opportunismo politico, di personale pro­ paganda elettorale, parallelo alla nuova credibilità che lo scrittore corsaro stava riacquisendo all’interno del PCI. 12. Corsivo di Enzo Siciliano apparso sul Corriere della Sera , fra l’agosto e il settembre del 1979, successivamente ad alcuni versi di Sanguineti dedicati a Pasolini e pubblicati il 12 agosto di quell’anno suWEspresso. Sul ritaglio di giornale in nostro possesso non è presente la data, ma è facilmente rin­ tracciabile. 13. Garzanti, Milano, 1975, ristampato dallo stesso editore nel 2003. Nel ro­ manzo l’autore si avvalse di alcuni documenti, da lui stesso rinvenuti, che postulavano una serie di «princìpi di uno stragista» e che furono acquisiti dalla magistratura agli inizi della fase giudiziaria sulla strage di Bologna del 2 agosto 1980. 14. Lo fu per la rivista II Gatto Selvatico , pubblicata dal colosso del petrolio. La rivista fu ideata e poi per un certo periodo diretta da Attilio Bertolucci. 15. In Quotidiani delle Venezie, 10 maggio 2005, articolo trasposto nel suo blog: http://www.ferdinandocamon.it/articolo_2005_05_10_come_morto_ pasolini.htm. 16. In Panorama, 3 ottobre 1993. 17. Ebbe per questa poesia anche le feroci critiche di chi lo aveva appoggiato all’inizio della carriera letteraria: Franco Fortini. 18. Cfr. I l discorso dei capelli, cit. 19. Andando più in là negli anni, è necessario qui ricordare come l’ultimo scontro a cui ha partecipato Valerio Verbano, 0 ragazzo di Autonomia Operaia ucciso nel 1980, era avvenuto tra ragazzi vestiti tutti alla stessa maniera, con i capelli semilunghi e la famosa tolfa in pelle. Questa è certo un’altra storia, ma le implicazioni le aveva già denunciate otto anni prima Pasolini. 20. N. 31, del gennaio-febbraio 1973. 21. Pasolini ottenne due denunce, una per istigazione alla disobbedienza delle leggi dello Stato, l’altra per istigazione a delinquere e apologia di reato, e per aver prestato generosamente la sua firma di direttore responsabile (oltre alle sovvenzioni in denaro) per il giornale Lotta continua. Il documentario, girato fra il 1970 e il 1972, generò fra il Poeta e LC degli screzi a causa dei quali si arrivò al compromesso di scrivere «da un’idea di Pier Paolo Paso­ lini». H documentario, per intercessione dello stesso regista friulano, ebbe 314

N o t e a l l e p a g in e 2 5 6 - 2 6 4

la sua visibilità passando anche dal festival di Berlino, dove Pasolini presen­ tava il film I racconti di Canterbury. Nel 2011 è stato pubblicato in DVD. 22. Interessante e illuminante insieme, a questo proposito, è la trascrizione di un dibattito avvenuto il 21 ottobre 1975 a Lecce fra lo scrittore e degli stu­ denti e docenti, pubblicata poi postuma nel 1976: Pier Paolo Pasolini, Volgar’eloquio, Editori Riuniti, Roma, 1987. 23. Cfr. A trend anni dalla morte dello scrittore, in Diario, La Repubblica, 21 ottobre 2005. 24. Cfr. il riferimento all’anarco-fascista nel primo capitolo del presente vo­ lume. 25. Baldini & Castoldi, Milano, 2014, p. 233. 26. La lettera maiuscola questa volta è di Concutelli. 27.1 fogli consegnati a chi scrive da Concutelli non equivalgono alla prova di alcuna confessione: sono però le parole di un ex comandante il cui peso e la cui influenza sul mondo neofascista era rilevante. 28. Registrazione, rimasta inedita sino al 2011, avvenuta a Stoccolma il 30 ot­ tobre del 1975 fra il regista e alcuni critici cinematografici svedesi. L'ele­ mento fascista rappresentato dalla città di Salò, in cui è stato ambientato il film, era, come dichiarato da Pasolini, soltanto un dato, scelto dal regista con lo scopo di rappresentare, seppure al suo tramonto, un mondo che esercitava il potere in modo anarchico sino alle estreme conseguenze. 29. Titolo anche di una mostra organizzata nel 2005 dal Centro Studi Archi­ vio Pier Paolo Pasolini della Cineteca di Bologna.

Appendice. Lettere di Giovanni Ventura a Pasolini 1. Collocazione IT ACGV PPP. I. 1209, 10 pagine fronte retro con busta. Su gentile concessione del Gabinetto Scientifico Letterario G.P. Vieusseux di Firenze. 2. Il riferimento è a un articolo del 16 luglio 1974, poi raccolto negli Scritti corsari (cit., p. 65) dal titolo IIfascismo degli antifascisti. Sul Corriere della Sera, il titolo era Apriam o un dibattito sul caso Pennella. Forse Ventura, deridendo la posizione di Pasolini (e in ciò sbagliando perché lo scrittore si riferiva alla posizione di Marco Pannella, non alla propria, secondo cui anche un Fumagalli poteva essere preso in considerazione), voleva con quell’espressione metterlo in guardia. Carlo Fumagalli, ideatore del Mo­ vimento di Azione Rivoluzionaria (MAR), composto da ex finti partigiani, ha appoggiato il movimento Ordine Nero e si muoveva come supporto per i diversi piani di golpe in animo al tempo. 3. Si riferisce al n. 31 della serie gennaio-febbraio 1973. La rivista N uovi A r­ gom enti è stata diretta, fino al 1975, anche da Pier Paolo Pasolini, oltre che da Moravia ed Enzo Siciliano. 315

N o t e a l l e p a g in e 2 6 4 - 2 8 1

4. Il poeta Andrea Zanzotto ha collaborato, a livello editoriale, con Ventura il quale, come abbiamo sottolineato più volte, era riuscito a entrare nelle grazie della cultura di sinistra spinto anche da una propria visione sul nazionalsocialismo in cui credeva sinceramente, come ha spiegato, a chi scrive, la sorella. Si tratta proprio di quell’ambiguità individuata da Pa­ solini e con la quale il poeta ha definito in certo senso il Ventura nella sua lettera. 5. Collocazione IT ACGV PPP. I. 1209 2, 8 pagine fronte retro con busta. Su gentile concessione del Gabinetto Scientifico Letterario G.P. Vieusseux di Firenze. 6. La prima edizione è del maggio 1975. 7. Collocazione IT ACGV PPP. I. 1209 4. Su gentile concessione del Gabi­ netto Scientifico Letterario G.P. Vieusseux di Firenze.

Postfazione di Otello Lupacchini. Di verità si può anche morire? 1. Enzo Siciliano, Colloquio con Alberto Moravia, in Tempo settimanale, giu­ gno 1976. 2. Ossessionato dall’inchiesta sulla morte del suo amico, «perseguitato dalla necessità di ricostruire i movimenti interni del delitto», nel giugno del 1976, Alberto Moravia aveva scritto anche un poemetto di sette car­ telle, Ricordo dell’Idroscalo, per rispondere all’intervista nella quale Pino Pelosi diceva di aver ucciso un «grand’uomo», che se n’era pentito e che avrebbe voluto leggere i libri di Pier Paolo Pasolini: «No, non hai ucciso un grand’uomo non hai ucciso neppure un uomo, hai tentato di uccidere te stesso senza riuscirci. Ti stava davanti l’hai guardato e hai creduto di vedere te stesso proprio te stesso come in uno specchio con la tua miseria la tua ignoranza la tua astuzia la tua abiezione e allora ti sei odiato per quello che eri per quello che non eri per quello che non potevi essere ti sei odiato...» (Cfr. Enzo Siciliano, Colloquio con A lberto Moravia, cit.). 3. Ivi. 4. Pier Paolo Pasolini, La nebbiosa, il Saggiatore, Milano 2013. 5. San Tommaso d’Aquino, Stimma Theologiae, 2a.2ae.8.1 e ad 2um. 6. Il volume è edito da Mondadori, Milano, 1979. 7. Film del 2008 scritto e diretto da Paolo Sorrentino, il cui titolo per esteso è I l divo. La spettacolare vita d i Giulio Andreotti.

8. Giovanni M oro, A n n i Settanta, Einaudi, Torino, 2007.

316

Indice

Introduzione. Perché una nuova inchiesta

p. 7

Parte prima.

p . 15

D is e g n o d i m o r t e

1. «Mi vogliono ammazzare»

p. 17

Le minacce telefoniche, p. 17 - L’attenzione e le aggressioni fasciste in­ torno a Salò, p. 20 - La testimonianza di Dario Bellezza, p. 26 - Le parole dell 'Unità e di Davoli, p. 27 - La Divina Mimesis, p. 29

2. Il falso movente

p. 31

«Frocio e basta»?, p. 31 - Il copione sbagliato di Pelosi, p. 36 - Il servi­ zio fotografico in carcere, p. 38 - Assenza di tracce del rapporto orale, p. 41 - Sangue e genetica, p. 43

3. La mutevole verità

p. 49

Le prime finte verità di Pelosi, p. 49 - Gli ex sodali, p. 50

4. La trappola

p. 53

Uno strano furto, p. 53 - L’accordo del 30 ottobre, p. 56 - L’espediente, p. 59 - Il riscatto e l’importanza del negativo, p. 62 - L’appuntamento, p. 64

5. Fra «Pommidoro» e l’Idroscalo

p. 67

Prima tappa: San Lorenzo, p. 67 - Acilia, 0 passaggio intermedio, p. 70 - «Jonny»: il falso «biondino», p. 73 - L’anello USA e il passaporto scom­ parso, p. 79 - E stato un agguato, p. 83

6. Un massacro tribale

p. 87

Altre presenze, p. 87 - Le tavolette: una falsa prova, p. 94 - La comparsa della motocicletta, p. 99 - Nuovi e vecchi testimoni, p. 100 - Le testimo­ nianze di Anna e Domenico Salvitti, p. 103 - L’uomo con la barba, p. 108

Parte seconda. Lo SCHEMA PERFETTO

p. I l i

7. La mano deU’intelligence

p. 113

Una strategia precisa, p. 113 - La doppia Alfa GT, p. 115 - L’altro doppio: le due Fiat 850 coupé, p. 121 - Il vero Biondino, p. 125 - 1 soldi sotto il tappetino, p. 126 - Pelosi e il finto arresto, p. 130 - Segnali di depistaggio, p. 133

8. Figure per una strategia

p. 139

Aldo Semerari: il criminologo «rosso-nero», p. 139 - Franco Salomone, gli avvocati Spaltro e Rocco Mangia, p. 144 - Le rivelazioni di «Lallo lo Zoppo», p. 148 - Fred Robsahm e il furto delle pizze, p. 151 —Aldo Masti­ ni, il capo dei giostrai, p. 152 - Appendice: telegrammi relativi alle nomine dei legali di Pelosi, p. 153

Parte terza. COLPI MORTALI

p. 159

9. Doppio passaggio

p. 161

La logica del doppio sormontamento, p. 161 - Tre tracce di pneumatici, p. 161 - L’Alfa GT del massacro, p. 169 - Il doppio sormontamento, p. 174 L’Alfa di Pasolini, p. 178 - Un macchina targata Catania, p. 180 - Il corpo che parla, p. 182

Parte quarta.

PERCLIÉ IL MASSACRO?

10. L’omicidio Mattei e l’«Appunto 21»: due piste monche

p. 189 p. 191

Le pagine mancanti, p. 191 - Le carte scomparse, p. 194 - L’«Appunto 21»: lampi che poco illuminano, p. 197 - Marcello Dell’Utri e la pubblici­ tà, p. 201 - Le fonti aperte di Pasolini, p. 204 - Mattei-De Mauro-Pasolini: qualcosa non torna, p. 211 - Appendice: inchieste riguardanti la morte di Enrico Mattei precedenti al 1975, p. 215

11. Commando nero

p . 221

Da Catania a Roma: sola andata, p. 221 - La partita del 22 giugno 1975, p. 224 - L’eversione neofascista a Catania, p. 225 - Tracce «nere» negli esami del RIS, p. 226 - La doppia storia di Ordine Nero, p. 228 - Pier­ luigi Concutelli fra Catania e Roma, p. 232 - Un telegramma da «Piazza Fontana», p. 235 - Pier Paolo Pasolini e Giovanni Ventura: un dialogo interrotto, p. 238 - Lettera dattiloscritta del 19 settembre 1975, p. 241

Epilogo

p- 247

La SIP «parallela», p. 247 - Il «character assassination», p. 251

Appendice. Lettere di Giovanni Ventura a Pasolini

p. 261

Lettera manoscritta del 2 marzo 1975, p. 263 - Lettera manoscritta del 2 luglio 1975, p. 266 - Lettera dattiloscritta dell’8 ottobre 1975, p. 269

Postfazione. Di verità si può anche morire? di Otello Lupacchini

P- 271

Ringraziamenti

P- 283

Bibliografia

P- 287

Note

P- 291

Finito di stampare nel mese di settembre 2015 per conto di Adriano Salani Editore s.u.r.l. da Grafica Veneta S.p.A - Trebaseleghe (PD) Printed in Italy