Parola di Galileo. Attualità del grande scienziato in una scelta commentata dei suoi scritti [Second ed.] 9788858631607

La selezione di scritti tocca i temi a Galileo più cari ed è commentata in modo agile e accessibile sia sotto il profilo

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Parola di Galileo. Attualità del grande scienziato in una scelta commentata dei suoi scritti [Second ed.]
 9788858631607

Table of contents :
Frontespizio
Copyright
Dedica
RINGRAZIAMENTI
PREFAZIONE
IL PREGIUDIZIO UNIVERSALE - UN TEST
PARTE PRIMA - INTRODUZIONE
Capitolo 1 - AUTORITRATTO POSTUMO DI GALILEO GALILEI, FILOSOFO
Capitolo 2 (dai Discorsi) - L'ORIGINE DEI NERVI ovvero non credere all'evidenza
PARTE SECONDA - MOTI RIVOLUZIONARI
Capitolo 3 (dai Discorsi) - DISCESA QUASI LIBERA ovvero chi arriva a terra prima?
Capitolo 4 (dalla Lettera a Ingoli) - VITA DI BORDO ovvero i princìpi d'inerzia e di relatività
Capitolo 5 (dal Dialogo) - TORRI FRECCE COLUBRINE E UCCELLI ovvero ancora inerzia e relatività
PARTE TERZA - IL PENDOLO E LA MUSICA
Capitolo 6 (dai Discorsi) - LE DIVINE ARMONIE ovvero dai pendoli alla consonanza musicale
PARTE QUARTA - IL CIELO STELLATO SOPRA DI NOI
Capitolo 7 (dal Sidereus Nuncius) - LA LUNA DI CRISTALLO ovvero le meraviglie del cannocchiale
Capitolo 8 (dal Dialogo) - AL CHIARO DI LUNA ovvero l'origine del candore lunare
PARTE QUINTA - LA VERTIGINE TERRESTRE
Capitolo 9 (dal Dialogo) - UNA GENIALE TEORIA ERRATA ovvero flusso e deflusso della marea
Capitolo 10 (dal Dialogo) - L'ATMOSFERA RAPITA ovvero perché l'aria segue la rotazione terrestre
Capitolo 11 (dalle Lettere copernicane) - FERMATI, O SOLE ovvero di Bibbia e Scienza
PARTE SESTA - L'INVASIONE DEGLI INFINITESIMI
Capitolo 12 (dai Discorsi) - INFINITO FINITO INFINITESIMO
Capitolo 13 (dai Discorsi) - GIÙ PER LA CHINA ovvero l'accelerazione e l'esperienza del piano inclinato
PARTE SETTIMA - CORPI E AMBIENTE
Capitolo 14 (dai Discorsi) - ARCHIMEDE E IL PESO DELL'ARIA
Capitolo 15 (dai Discorsi) - PALLE DI CERA E GOCCE DI RUGIADA
Capitolo 16 (dai Discorsi) - MACCHINE PICCOLE E GRANDI
PARTE OTTAVA - DALLA MATERIA ALLA LUCE
Capitolo 17 (dai Discorsi) - L'ORRORE DEL VUOTO ovvero nei recessi della materia
Capitolo 18 (da Il Saggiatore) - L'OSCURO LABIRINTO DEI SENSI ovvero matematica nella natura e percezione sensoriale
Capitolo 19 (dai Discorsi) - RAPIDO COME LA LUCE
PARTE NONA - NON È TUTT'ORO...
Capitolo 20 (da Il Saggiatore) - BARUFFE DI SCIENZIATI
Capitolo 21 (da Il Saggiatore) - LO SCIENZIATO E LA CICALA
EPILOGO
Capitolo 22 - CONDANNA E ABIURA
IL PREGIUDIZIO UNIVERSALE – RISPOSTE
PRINCIPALI TESTI CITATI
ALTRE LETTURE

Citation preview

Parlare oscuramente lo sa fare ognuno, ma chiaro pochissimi. Galileo Galilei Ogni persona di cultura sa cosa di Galileo si dice, ma spesso non sa quello che Galileo dice. Diamogli dunque la parola, affinché egli porti all’attenzione di tutti, in particolare dei giovani, il suo messaggio di ragione, onestà intellettuale, indipendenza di pensiero. La selezione di scritti qui sopra - preceduta da un sorprendente autoritratto inedito – tocca i temi a Galileo più cari ed è commentata in modo agile e accessibile sia sotto il profilo scientifico sia sotto quello storico-letterario. Oltre ad apprezzare l’opera di un italiano sommo come scienziato e come scrittore, il lettore si stupirà nel verificare attraverso un test quanti pregiudizi pregalileiani sopravvivano a tutt’oggi tra le nozioni scientifiche più diffuse. Una lettura che stimola il gusto dell’osservare, il desiderio di capire e il piacere di dare delle risposte. Una lezione fortemente attuale che non ha perso nulla della sua validità attraverso i secoli.

Andrea Frova insegna Fisica generale presso l’Università di Roma “La Sapienza”. Ha pubblicato numerosi lavori scientifici e testi nel settore della Fisica della materia. Per BUR ha pubblicato: Parola di Galileo (1998), Luce colore visione (2000), La fisica sotto il naso (2001), Ragione per cui (2004), Armonia celeste e dodecafonia (2006), Se l’uomo avesse le ali (2007, vincitore del Premio Galileo 2008) e Il Cosmo e il Buondio (2009). Mariapiera Marenzana è docente di lettere e saggistica.

Andrea Frova Mariapiera Marenzana

PAROLA DI GALILEO

Proprietà letteraria riservata © 1998 RCS Libri S.p.A., Milano eISBN 978-88-58-63160-7 Prima edizione digitale 2014 dalla prima edizione BUR Scienza luglio 2007 Copertina: Giove circondato dai satelliti galileiani (Composizione di fotografie prese dalla sonda spaziale Voyager I) Progetto collana di Mucca Design Per conoscere il mondo BUR visita il sito www.bur.eu Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

Dedica Dedicato a Eli e Lupi

RINGRAZIAMENTI Gli autori sono grati a molti amici per aver letto parti del manoscritto ed aver espresso preziosi commenti, in particolare Gabriella Palli Baroni, Anna Maria Pica, Giorgio Salvini, Carlo Bernardini, Giuliano Toraldo di Francia, e sopra tutti Egidio Longo. Un ringraziamento va ad Anna Degrossi per il valido aiuto nella gestione informatica dei testi.

PREFAZIONE Infelice questo nostro clima, nel quale regna una fissa resoluzione di voler esterminare tutte le novità, in particulare nelle scienze, quasi che già si sia saputo ogni scibile. Galileo, Lettera a Diodati, 18 dicembre 1635 Scopo del libro è proporre una selezione ragionata di passi galileiani all’attenzione soprattutto dei giovani, ma anche di coloro ai quali Galileo è noto solo indirettamente e a volte attraverso stereotipi consegnatici dalla tradizione. Gli autori non hanno alcuna pretesa di originalità e di approfondimento per quanto riguarda il quadro storico e biografico della vicenda galileiana, avendo attinto alle opere di qualificati studiosi italiani e stranieri. Si augurano piuttosto di essere riusciti a evidenziare, mediante una lettura attenta degli scritti di Galileo, elementi di interesse per quanto riguarda sia le scoperte scientifiche e gli sviluppi che ne sono derivati, sia i meccanismi del processo logico del suo pensiero, che avanza per analisi, associazioni, sviluppi, ritorni, ulteriori chiarificazioni, in un graduale e progressivo avvicinamento alla conclusione. Le pagine proposte all’attenzione dei lettori, sebbene assai poche in rapporto alla mole delle opere di Galileo, sono state selezionate in modo da offrire un’adeguata visione dei suoi molteplici interessi in campo scientifico e culturale, della sua prodigiosa curiosità per tutti i fenomeni naturali, del suo inesausto porsi delle domande e cercare, ragionando, delle soluzioni. E anche della sua esultanza nello scoprire. Il carattere antologico del libro, prevedendo una lettura episodica, e d’altra parte la necessità che ogni argomento abbia una propria sufficiente autonomia, hanno reso inevitabile la ripetizione di alcuni concetti: ce ne scusiamo con coloro che

vorranno leggere il testo per intero. I brani scelti sono accompagnati da note storiche e scientifiche, e preceduti da brevi riassunti che ne evidenziano i punti salienti. L’apparato delle note a piè pagina è per lo più limitato a quelle indispensabili alla comprensione del testo, nella convinzione che l’elegante linguaggio galileiano, pur nella sua articolata ricchezza e nel suo ampio periodare, possa divenire accessibile al lettore non appena egli abbia acquisito una certa dimestichezza con esso. Del resto, il Parini scriveva di Galileo: «d’altro più non si cura fuorché d’essere inteso».

GALILEO E MILTON (Statua marmorea nell’atrio dell’edificio G. Marconi del Dipartimento di Fisica, Università di Roma « La Sapienza »)

La lingua di Galileo, se confrontata con quella ormai

sedimentata e codificata di oggi, appare sorprendente per la multiforme ricchezza di termini tra loro equivalenti – verbali, avverbiali, lessicali. Galileo, nel suo stile dal De Sanctis definito «tutto cose e tutto pensiero, scevro di ogni pretensione e maniera», alieno dalla ricerca di vezzi, opera via via scelte che, irrilevanti dal punto di vista della chiarezza della comunicazione, appaiono dettate dalla sua sensibilità musicale e prosodica, nonché dalla straordinaria capacità di piegare il linguaggio alle esigenze di fluidità e naturalezza. «Il discorrere è come il correre», scrive Galileo stesso, e l’affermazione costituisce il suo programma stilistico, come rileva Italo Calvino nelle Lezioni americane: «stile come metodo di pensiero e come gusto letterario: la rapidità, l’agilità del ragionamento, l’economia degli argomenti, ma anche la fantasia degli esempi sono per Galileo qualità decisive del pensar bene». Il valore letterario degli scritti di Galileo ben si riassume nel giudizio di Natalino Sapegno: «La sua opera, per ricchezza di contenuto umano e potenza di stile, si proponeva come un esempio e si inseriva nella storia futura della nostra prosa, come un fatto letterario e culturale di prima grandezza, il più importante anzi, forse, dopo il Machiavelli e prima del Manzoni». Ma perché riproporre oggi Galileo? Perché la sua lezione, al di là dei contenuti scientifici – e sarà sorprendente scoprire quante credenze pre-galileiane alberghino ancora in noi alle soglie del Duemila – non ha perso nulla della sua validità attraverso i secoli. La lettura delle pagine galileiane non potrà non stimolare il gusto dell’osservare, il desiderio di capire, e il piacere di dare risposte sulla base dell’esperienza e delle deduzioni logiche: tale è la convinzione degli autori, i quali ritengono che in questo declinare del millennio e della ragione, tra scomposti sussulti di irrazionalismo, non possa esserci lezione più indispensabile. Quanto agli errori di Galileo, essi possono rivelarsi altrettanto preziosi delle sue conquiste più geniali. Da un lato ci permettono di cogliere il suo percorso mentale, dall’altro ci istruiscono sulla complessità e sulla difficoltà del processo conoscitivo.

Dimorare con Galileo per qualche tempo è stato per gli autori un privilegio alto e fortificante, è stato un lungo viaggio sugli altipiani della mente, ed essi si augurano che i lettori possano condividere questa esperienza. Andrea Frova e Mariapiera Marenzana Roma, 1 settembre 1998 • La dicitura «Ed. Naz.» sta a indicare l’edizione nazionale delle opere di Galileo a cura di Antonio Favaro, pubblicata dall’editore Barbèra in Firenze (1890-1907) e ristampata negli anni 1964-66. Il numero romano che segue indica il volume. • La successione dei capitoli è tale da privilegiare una certa gradualità scientifica, a partire dalla caduta dei gravi per giungere alla intima costituzione della materia, piuttosto che l’ordine storico-cronologico degli scritti galileiani. • I contenuti fisici sono accessibili a studenti di scuola media superiore. Le note fisico-matematiche in chiusura dei capitoli sono ad esclusivo uso dei cultori della materia e nient’affatto indispensabili ai fini della comprensione dei testi galileiani.

IL PREGIUDIZIO UNIVERSALE - UN TEST Come avremo modo di sottolineare di volta in volta nel corso del libro, un gran numero di pregiudizi scientifici di stampo pregalileiano – relativi anche a normali accadimenti del vivere quotidiano – sono sopravvissuti fino ai nostri giorni e si avviano a mantenersi vivi per i secoli a venire. In effetti, ad eccezione di chi è professionalmente implicato nella fisica e nella tecnologia, anche persone con un buon livello di educazione possono cadere in micidiali trappole se messe a confronto con fenomeni fisici elementari, la cui spiegazione, nell’anno Duemila, dopo oltre quattro secoli di progresso scientifico, dovrebbe apparire scontata al pubblico più generale. Vale la pena di proporre al lettore, prima che si inoltri nel libro, una serie di interrogativi ai quali Galileo e altri scienziati del tempo hanno trovato risposta, ma che prima di loro venivano erroneamente spiegati. Per ciascun esempio, dopo la necessaria meditazione provi il lettore ad annotare in calce il proprio punto di vista, per poi tornare sulla pagina a libro ultimato: avrà una concreta percezione di quanto la rivoluzione galileiana abbia (o eventualmente non abbia) influito sul nostro comune modo di esaminare e giudicare quanto accade intorno a noi. NOTA. Tra parentesi sono indicati i capitoli dove si tratta di ciascun problema. Risposte succinte ai quesiti sono riportate alla fine del libro. 1. È proprio vero che, all’interno di un ambiente in cui sia stato fatto il vuoto spinto, una biglia d’acciaio e un batuffolo di cotone cadono con la stessa velocità, oppure qualche differenza rimane sempre? (Capitolo 3) 2. Lanciamo in alto, con eguale velocità, due sfere eguali, una di sughero e una di piombo: supponendo di poter ritenere

trascurabile l’attrito con l’aria, quale delle due raggiungerà la maggiore altezza? (Capitolo 13) 3. Leghiamo ora le stesse sfere a due fili di eguale lunghezza e con una spinta facciamogli compiere delle oscillazioni di piccola ampiezza: sempre in assenza di attrito, quale di esse va avanti e indietro più velocemente? (Capitolo 6) 4. Come è diretta la forza che agisce su un corpo lanciato verticalmente in alto nel momento in cui si arresta per intraprendere la discesa? (Capitoli 4, 5, 13) 5. Scagliamo un sasso orizzontalmente con la massima velocità possibile, poi lasciamolo cadere a peso morto dalla stessa altezza: considerando trascurabile l’effetto dell’attrito contro l’aria, in quale dei due casi esso impiega meno tempo a toccare terra? (Capitolo 5) 6. Quale fenomeno fisico fa perdere velocità a una freccia in volo man mano che si allontana dall’arco che l’ha scoccata? (Capitolo 5) 7. Qual è il motivo per cui occorre fare uno sforzo per estrarre lo stantuffo da una siringa, allorché si tiene tappato il foro per l’ago? (Capitolo 17) 8. Qual è, in tutto rigore, il meccanismo fisico che consente di succhiare una bibita con la cannuccia? (Capitolo 17) 9. Perché una bilancia pesa-persone non segna il peso della colonna di aria atmosferica che la sovrasta? (Capitolo 14) 10. Che forma assumerebbe, prima di risalire in superficie, un palloncino sferico gonfiato che venisse lasciato libero molti metri sotto la superficie del mare: allungata in senso verticale, appiattita, o sempre sferica? (Capitolo 17) 11. Perché, dato che la Terra ruota su se stessa, l’atmosfera e con essa gli uccelli, le nubi e ciò che vi si trova sospeso non

restano indietro rispetto agli oggetti rigidamente collegati al suolo? (Capitolo 10) 12. Si supponga di scagliare un’ancora da una barca in movimento, una volta nel senso di moto, un’altra in senso contrario, ma con identica forza e identica inclinazione rispetto alla superficie del mare. Prescindendo dall’attrito contro l’aria, dire se al momento di toccare l’acqua l’ancora sarà egualmente distante dalla barca nei due casi oppure no. (Capitolo 5) 13. Perché se si gioca a ping-pong all’interno di un vagone ferroviario che corre a velocità costante non c’è alcuna differenza tra lo stare dalla parte della testa oppure della coda? (Capitolo 4) 14. E perché invece, in caso di brusca frenata, tavolo giocatori e pallina vengono sospinti verso la testa del treno? (Capitoli 4 e 5) 15. La legge di Newton afferma che, sotto l’azione di una forza, un corpo è soggetto ad accelerazione: che cosa fa sì che un paracadute, pur essendo tirato verso il basso dal peso del paracadutista, scenda a velocità costante (e piccola)? (Capitolo 3) 16. Qual è l’esatta ragione per cui una sfera di piombo, affondando in un liquido, scende con una velocità maggiore di un’eguale sfera di marmo? (Capitoli 14 e 15) 17. Supponiamo che la superficie della Luna, invece di essere ruvida e opaca, fosse lucidata a specchio: sarebbe più splendente o meno splendente di come ci appare? (Capitolo 8)

PARTE PRIMA INTRODUZIONE

Capitolo 1 AUTORITRATTO POSTUMO DI GALILEO GALILEI, FILOSOFO Io credo nell’uomo, e questo vuol dire che credo nella sua ragione! Il mio nome è Galileo Galilei, nacqui a Pisa il 15 febbraio 1564, figlio di Vincenzo, di professione musicista, e di Giulio Ammannati, donna d’intelletto fino ma, non posso tacerlo, malevola e litigiosa alquanto. Da lei devo aver preso il muovermi facilmente all’ira (sebbene facilmente mi plachi) e il gusto d’attaccar briga o, per dirla con le parole dell’ambasciatore di Toscana, l’umore fisso di scaponire i frati, e combattere con chi non posso se non perdere. Da lei per certo ereditai l’impazienza per la stupidità. Carattere e tratti somatici Circa il mio carattere si è detto che m’infuocavo nelle opinioni, perché avevo estrema passione dentro, ma poca fortezza e prudenza a saperla vincere, e che ’l mio ardito e resoluto parlare troppo spesso non sapeva astenersi da gli aculei; quanto all’aspetto, ch’esso fu grave, ma più gioviale in vecchiezza, gli occhi vivaci, la carnagione bianca e ’l pelo che pendeva nel rossiccio. Fui di statura più tosto alta, di corpo membruto e ben quadrato, di complessione robusta e forte. Nondimeno fui travagliato dai quarant’anni sino all’ultim’ora da acutissimi dolori o punture che acerbamente mi molestavano nella mutazione de’ tempi in diversi luoghi della persona, e più volte fui assalito da gravi e pericolose malattie. E per fatiche e travagli, sì dell’anima come del corpo, spesso tanto ero debilitato, da redurmi in stato di grande languidezza. 1

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Ancorché avido di gloria, non fui mai ambizioso de gli onori del volgo, ma solo di quella fama che dal volgo differenziarmi poteva. Nessun vizio fu per me più detestabile della menzogna, forse perché in grazia delle matematiche scienze troppo bene conoscevo la bellezza della verità. Ebbi più in odio l’avarizia che la prodigalità, e sempre feci del mio meglio per soccorrer alle necessità di mia madre, presto rimasta vedova, delle mie sorelle, cui assicurai la dote affinché maritar si potessero, di mio fratello Michelangelo e in seguito della sua vedova e de’ suoi sventurati figlioli, di Vincenzo figlio di mia sorella Virginia, cui pagai l’affitto di casa ed una somma mensile per molti anni, fino alle sue figlie, alla cui dote provvidi quando furon monacate. Spesi liberalmente nel ricever e onorar forestieri e nel sollevare i poveri, specie se eccellenti in alcuna arte o professione, mantenendoli a volte in casa mia.

Mezzi e famiglia Anco a Padova, dove consumai i diciotto migliori anni di tutta la mia età, non poco fatigar dovei per sopperir alle sempre pressanti richieste della mia famiglia lontana e provveder a quella che in tanto m’ero formato. Per agumentar il magro salario di professore, davo private lezioni a gran numero di studenti, stranieri ancora, de’ quali alcuni tenevo a pensione. Nella mia piccola officina di casa facevo costruir dal tecnico Marco Antonio Mazzoleni geometrici ed astronomici istromenti, li quali poi vendevo. Alcun provento mi veniva dallo stilar oroscopi per chi non sapeva trovar altrove consolazione o speranza. Porse campo quest’attività a una denuncia d’eresia, a cui concorse il fatto che meco avevo una concubina, Marina Gamba, e non ero aduso a praticar la messa. Di quegl’anni sovra tutto raccordo i silenzi e il riso di Marina. Mi generò tre figli, Virginia, Livia e Vincenzo, accudì a me, a loro, alla grande casa e a gli ospiti con operosità ed allegrezza, senza mai nulla chiedere. Senza rimproveri o proteste, neppur quando tornai in Toscana e con me condussi i figli ancor bambini. Le trovai marito, a più riprese le mandai danari. Vorrei ora, quando ripenso a i grandi suoi occhi scuri e alla bocca serrata, ch’avesse parlato, ch’avesse pianto. Quando Virginia e Livia raggiunsero i sedici anni, altro far non potei che consegnarle al convento. Nate di fornicazione e di padre ignoto, come ne gli atti di nascita era scritto, per accasarle degnamente, dotarle avrei dovuto come non ero in facultà di fare. Od oppormi all’ottusa crudeltà de’ tempi con quella libertà e quel coraggio di cui in altre circostanze fui capace. Livia manifestò, nell’acidità del carattere, l’insofferenza per la monacale condizione, che Virginia, suor Maria Celeste, visse invece con rassegnata dolcezza, altruismo e un affetto devoto verso di me che sempre mi fu di gran conforto. Questa figliola, diletta per altezza d’ingegno, accortezza e bontà, a soli trentatre anni fu strappata alla vita, lasciandomi, odioso a me stesso, in estrema afflizione. Fui privato in cotal modo, negli anni bui del confino, della gran dolcezza di parlar con lei: per delicato pudore poco di sé diceva, ma con prudenza 4

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temperava le fila de’ familiari affetti, i miei libri leggeva e con me ne parlava. Né più ebbi le sue lettere gentili, i piccoli doni ch’ella m’inviava, le conserve di cedro e fiori di ramerino, la rosa sbocciata a dicembre; né più potei accomodar per lei un’impannata o sistemare un oriuolo, opere più tosto da legnaioli che da filosofi, com’ella diceva, ma a me grate perché dell’affetto mio paterno testimoni. Cecità Nella tarda vecchiaia divenni cieco, e non mi fu facile avvezzarmi a questa così strabocchevole trasmutazione, la qual nella mia mente cagionò una straordinaria metamorfosi di pensieri e concetti. Quel cielo ch’io, con le mie maravigliose osservazioni, avevo mille e più volte ampliato oltre il veduto da’ sapienti di tutti i secoli passati s’era così ristretto da non esser maggiore di quel che occupava la persona mia. Ebbi a servirmi de gli occhi e della penna d’attri, e non potei più far esperienze, né manco attender all’esercizio dell’orto, potare o legar le viti, le quali operazioni eran per me passatempo insieme e materia di filosofare. Mi consolava nella mia disgrazia solo ’l pensiero che, dei figliuoli d’Adamo, nessun altro più di me avea veduto. Pur nelle tenebre continuai a fantasticare or sopra questo or sopra quello effetto di natura. Né mai riuscii, com’avrei voluto, a dar quiete alcuna al mio cervello inquieto, che mai potea restare d’andar mulinando; agitazione che a gran segno mi nocque, tenendomi negli ultimi anni poco meno che in una perpetua vigilia. Diletti e svaghi Tra i miei più grati trattenimenti era la pratica della musica, toccar i tasti e suonare ’l liuto, gareggiando a volte co’ primi professori di Firenze e Pisa, e recrearmi con le musiche armonie, non meno mirabili di quelle ascose ne’ fenomeni de la natura. Gusto grande traevo da ’l disegnare, e dall’amicizia di pittori illustri, quali il Bronzino, il Cigoli, l’Empoli, il Passignano e la giovane Artemisia Gentileschi. Amai le belle lettere, l’invenzion de’ concetti e la spiegatura loro, e a mente avevo moltissime poesie, specialmente gran parte dell’Orlando 11

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Furioso del divino Ariosto, massimo tra tutti i poeti latini e toscani. Ancor oggi non tollero che gli si paragoni quel pedantone del Tasso, poi che sento l’istessa differenza tra l’uno e l’altro che al mio palato recava il mangiar citrivuoli dopo aver gustato saporiti poponi. E poi il Tasso diceva parole, dove l’Ariosto cose; assai meglio i sali e l’arguzia del Ruzante, con le libere sue invenzioni e ’l discorso, a lui sì come a me caro, sulla vita diversa di città e campagna. In verun luogo maggior sollievo trovavo alle passioni dell’anima né miglior medicina a’ malanni del corpo che nell’aria aperta e salubre della campagna, Contano da gli strepiti della città, ch’è in certo modo la prigione de gli ingegni speculativi. È nella quiete dello star in villa che per trent’anni potei attender a’ miei studi, e osservar gli effetti della natura che, quantunque appariscano minimi e di nessun conto, non devono mai dal filosofo disprezzarsi, ché le operazioni di natura son tutte in pari grado degne di maraviglia; e perché anco da cose comuni, direi in certo modo vili, si posson trarre notizie molto curiose e nuove, e bene spesso remote da ogni immaginazione. Ben che per indole dedito alla solitudine, sempre trassi gioia e conforto dalla compagnia de gli amici che mi visitavano giornalmente o con li quali mi recavo a conviti. Amavo il gentil conversare e sentir lodare la mia eloquenza tanto ne’ discorsi seri, per le sentenze e i concetti gravi, che ’n quelli piacevoli, dove le arguzie e i sali non mi mancavano. E mi piaceva ridere pur delle cose più serie e stimate, che tal volta non hanno meno del ridicolo delle altre. Nel vitto fui moderato, specialmente nel bere. Mi difettava tuttavia gustar vini esquisiti e varii, ciliegiolo, chiarello, l’amabile razzese, bruschetto piccante e dolce, che mi venivano anco dalla cantina del granduca; e sminuzzolar cantucci con gli amici nella quiete della mia casa. Stimavo l’allegrezza essere l’ottimo preservativo della sanità e della vita. Studi e attività Feci i miei primi studi a Firenze presso il convento di Santa Maria di Vallombrosa. Nel 1581, volle il padre mio inscrivermi alla facoltà di Medicina dell’Università di Pisa, dov’io invece 18

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m’appassionai a gli studi de’ fenomeni naturali. A Ostilio Ricci debbo l’avermi introdotto al mondo della matematica e alle opere di Archimede. Fu così che non giunsi a conseguir titolo accademico alcuno; ma, non ancora ventenne, discoprii l’isocronismo del pendolo e poco dopo inventai la bilancetta idrostatica per la misura della gravità delle sostanze. Sendomi a Firenze ricondotto, quattro anni in famiglia trascorsi senza occupazion precisa, ma approfondendo gli studi nelle scienze come nelle lettere. I teoremi da me ideati sul baricentro de i corpi la stima mi valsero di Guidubaldo del Monte e dell’astronomo illustre padre Clavio. Nel 1589 una cattedra di matematica mi fu conferita all’Università di Pisa, poco importante e mal remunerata. A quegli anni risalgono i miei primi studi sul moto, ispirati dall’opera di Giovanni Battista Benedetti. Con quanta ipocrisia e boria si scontrò la giovanile mia insofferenza nel decrepito mondo dell’università! Fu allora che scrissi un componimento in versi contro ’l portar la toga. Sostenevo in esso che il sommo ben sarebbe andare ignudo, perché è la veste, tra tanti inconvenienti, che fa i sudditi diversi da i padroni. Peggio che mai la toga, che inoltre ti s’attraversa, t’impaccia e t’intrica, e ben si addice a quei che fan le loro cose adagio, e non hanno troppo a grado la fatica, come a dir frati o qualche prete grasso; o a quei che tengon l’uomo più valente o più saputo a seconda che indossi un abito di lana rozza o di velluto. Per me gli uomini son fatti come i fiaschi: ce n’è che non han tanto indosso, ma poi son pieni d’eccellente vino; altri han veste elegante, ma contengono vento o acqua profumata, e son buoni soltanto per pisciarvi dentro. L’improvvisa morte del padre mio carissimo, e la necessità che n’ebbi d accrescer i guadagni per sostentar la famiglia, e l’ostilità ancora del mondo accademico pisano, furon forza ch’io cercassi lavoro altrove. Mercé della generosa raccomandazione di Guidubaldo del Monte, ottenni la nomina alla cattedra di matematica dello Studio di Padova, e colà mi trasferii nel dicembre del 1592. Qual vivacità d’ingegni, qual appassionato libero discorrer nell’operoso e vital clima di quell’università! E quanto acuto e spregiudicato conversar ne’ nobili palazzi di Venezia ch’io presi 23

a frequentare! Non meno gusto e campo di speculare mi dava a Venezia la pratica del famoso arsenale, ove molto appresi intorno alla meccanica osservando e parlando con gli artigiani, non pochi de’ quali peritissimi e di finissimo discorso. Divenni in quegli anni amico di Paolo Sarpi, troppo illustre perch’io qui ne parli, del filosofo aristotelico Cesare Cremonini, poi processato per ateismo dall’Inquisizione (l’indagine a me pur fu estesa), del nobil veneziano Giovanfrancesco Sagredo, che poi in un de’ personaggi del Dialogo dipigner mi piacque, e dell’allievo mio devotissimo Benedetto Castelli. Insegnai in latino all’università il sistema tolemaico; architettura e fortificazioni militari nelle private lezioni. Approfondii i miei studii sul moto, brevettai una pompa per sollevar l’acqua, migliorai e costruii un istromento che chiamai compasso geometrico e militare, costruii calamite, inventai un apparecchio per misurar la temperatura. Studiavo intanto il sistema di Copernico; le idee nuove che contrastavano alle apparenze mi costringevano a far forza tale a’ sensi miei da antepor ad essi quel che ’l ragionato discorso mi dettava in contrario. Cervelli ostinati o di lenta apprensione, menti non appassionate, com’arebbono potuto sostener l’ardua battaglia con le inveterate abitudini del pensiero, ch’io dentro di me passo passo andavo vincendo? Ma un giorno avrei addotto, con chiarezza intelleggibile da tutti, prove inconfutabili anco a gli impersuasibili, ché la sensata esperienza è quella che molto chiaramente conclude, e sigilla le partite a coloro che non voglion o non posson esser capaci della ragione. Copernico e la Bibbia Nelle fredde e chiare notti d’inverno del 1609, al cielo volsi l’occhiale da me esquisitamente perfezionato e, primo tra gli uomini, osservai con esso il rugoso volto della Luna, le congerie di stelle, le macchie solari, lo strano aspetto di Saturno, discoprii i satelliti di Giove e poi le fasi di Venere, simiglianti a quelle della Luna. Mi convinsi allora senza più scrupolo alcuno della bontà della teoria di Copernico, e delle molte non concludenti ragioni e fallacie nelle dottrine per tanti secoli frequentate nelle 24

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scuole. E decrepite e fatte ridicolose dal nuovo sapere scientifico mi si palesaron le proposizione della Bibbia sul moto del Sole attorno alla Terra immobile. Desideroso di manifestar al mondo l’antico inganno, d’assai persuaso che ’l bene dell’uomo risiede nel progresso delle conoscenze e che gli amatori del vero, comprendendo di aver mal creduto, avrebbero ringraziato chi gli mostrava la verità, stabilii di adoprarmi per dar alla dottrina copernicana la diffusion più ampia. Tempo era venuto di rimpatriarmi a Firenze. Il mio primo proposito era di conseguir tanto di ozio e quiete che potessi condurre a fine un’opera grande sui sistemi del mondo, tolemaico e copernicano. Le pubbliche e le private letture e gli scolari domestici, da cui m’era forza trar il sostentamento della casa mia, erano di impedimento e ritardanza a i miei studi, e da cotali pesi mi occorreva vivere esente, desiderando io più il tempo libero che l’oro. Ma ottenere da una Repubblica, benché splendida e generosa, stipendi senza servire al pubblico, non si costuma. Il Senato di Venezia, avendo apprezzato i pratici utilizzi del mio occhiale, o perspicillo o cannocchiale, o telescopio, come altri volle chiamarlo, portò il mio salario a 1000 fiorini l’anno; non poteva però esentarmi da gli incarichi lasciandomi gli emolumenti. Simile comodità non era da sperar da altri che da un principe assoluto. Accolsi così con gioia l’invito del granduca di Toscana Cosimo II, già mio discepolo, a divenir Matematico primario dello Studio di Pisa e suo Filosofo, senza obbligo alcuno. La mia resoluzione causa fu di risentimento e sorpresa per alcuni, di dolore per altri. fui giudicato imprudente a lasciar la libertà patavina, ove non avevo che a servir me medesimo, per affrontar gli infiniti e incomprensibili accidenti di un mondo, la Corte e la Curia intendo, governato dall’imposture d’uomini ambiziosi e invidiosi. Scontro con la Chiesa Ignorai gli avvertimenti, persuaso che in quel mondo solamente, e non nel chiuso d’una Repubblica libera ne’ suoi confini ma isolata in Italia dall’ostilità di Roma, averei potuto alle mie scoperte dar resonanza grande. Ero per scrivere in 36

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volgare, anzi che in latino, poi che l’intento mio era che la verità fusse da tutti ricevuta e in particular da i giovani, molti de’ quali sono mandati a studiar materie in cui sono inettissimi, dove che altri, li quali atti sarebbero, ne rimangono lontani. Volevo sapesser tutti che la natura, come ha dato gli occhi per vedere le opere sue, ha dato anco ’l cervello per intenderle e capirle. Non fu a questa resoluzion estranea la vanità di sapermi nell’universal conosciuto e lodato. Era ne’ miei intenti di far la Chiesa participe delle nuove mirabili verità. Quella Chiesa che, depositaria del sapere, giudice era vigile e saldo di tutto quel che in Italia si scriveva allora: fuori di lei non v’era che ’l silenzio, scelta che fusse o imposizione. La museruola che serrava la bocca di Giordano Bruno mentre che, denudato, era trascinato al rogo, era per me prova assai accomodata a significar le intenzioni della Curia. Non più parole dalle labbra di Francesco Pucci quando la testa era rotolata nel paniere. Soltanto Tommaso Campanella s’adoprava a vincer il silenzio seguitando a scriver nel ristretto del carcere dov’era per passar ventisett’anni della vita sua. Ma, concederete a me, qual sostegno efficace dalla Chiesa giugner arìa potuto! Se la Terra si muove de facto, noi non possiamo mutar la natura e far ch’ella non si muova: chi segue il sensato discorso segue un duce non fallace. Mi illudevo che, superata l’inizial resistenza al nuovo, la forza del fondato ragionamento avrebbe prevalso sulle proposizioni non dimostrate né necessarie, la cui sola efficacia stava nell’esser inveterate nelle menti de gli uomini. Fu forse l’errore mio più grande: un errore che per sicuro rifarei quando di nuovo percorrer dovessi il cammin della vita, atteso che stimo la ragione la sola adequata iscorta a sortir d’oscurità l’uomo, e a quietar la sua mente. Nella primavera del 1611 mi recai a Roma dove dal nobile Federico Cesi, giovine appassionato e di vivace ingegno, fui iscritto all’Accademia dei Lincei, che sempre mi fu poi d’incoraggiamento e aiuto. Ma più: con grande cortesia dal papa Paolo V fui ricevuto, e così da i padri gesuiti li quali, avendo conosciuto la verità dei nuovi pianeti Medicei, ne aveano fatto continue osservazioni che rispondevano giustissime con le mie. Ignoravo allora che il potente cardinal 42

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Bellarmino cominciava a nutrir sospetti circa le consequenze delle mie scoperte sulla tradizionale vision del mondo, quella tenuta dalla Chiesa. Negli anni che tosto seguirono studiai le cose che stanno in su l’acqua, e diedi dimostrazioni intorno alle macchie solari. Esse tenevano dell’evidente assai più delle bamboccerie di quel maligno asinone del padre Scheiner, che sempre volle togliermene ’l merito, e sempre mi fu invidioso. Scrissi inoltre alcune lettere su scienza e fede, acciò che agevolmente la Chiesa accoglier potesse le nuove evidenze, e a rischio non mettesse l’autorità sua sostenendo princìpi che un giorno, se non da me da altri, sarìano stati apertissimamente e concludentemente mostrati falsi. Ma due domenicani, da malevoli ispiratori instigati e costituiti nel più sublime grado dell’ignoranza, ch’è madre della malignità, dell’invidia, della rabbia e di tutti gli altri vizi e peccati scellerati e brutti, dichiararono sospette o temerarie alcune mie proposizioni, inconvenienti certi miei modi di favellar della Sacra Scrittura, primo tra tutti che nelle dispute de gli effetti naturali essa tenga l’ultimo luogo. E pieni di santissimo zelo sottoposero una mia lettera al Sant ’Uffizio perché mettesse quei repari ch’ avrebbe giudicato più necessari. Pur gravemente infermo, non disperavo di superare anco questa difficultà, quando fussi stato in luogo di potermi valer della lingua al posto della penna. Appena mi redussi in stato di sanità mi portai a Roma, temendo che, per gli stimoli di alcuni maligni e nulla intendenti di queste materie, presa fusse qualche resoluzion non buona. Tutte le operazioni a Roma e in ispecie a un forestiero, riescono laboriose e lunghe, ma la speranza certa ch’avevo di condurre a fine impresa grandissima, che la Chiesa aderisse all’opinion del Copernico, e di poter partire di là con triplicato aumento della mia reputazione mi faceva tollerar con pazienza ogni fatica. San Roberto Bellarmino Ma la speranza ha le ali molto pigre e la fortuna velocissime. Non era quello paese da venire a disputar della Luna né da volere, nel secolo che correva, sostenere o portar dottrine 48

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nuove. Molti gesuiti li quali intendevo esser in segreto dell’istessa mia opinione tacquero, pecore stolide tra equivochi inviluppate. Altri assai leggiermente se la passarono. E nel febbraio del 1616 il Sant ’Uffizio condannò la proposizione del moto della Terra intorno al Sole, e furono proibiti i libri che insegnavano la dottrina sospetta. Quante calunnie, frodi, stratagemmi e inganni usati per abbarbagliar la vista a’ superiori! Convocato fui poi dal cardinal Bellarmino il quale mi ammonì a non tenere e a non defendere l’opinione incriminata. Qual arroganza, qual ipocrisia nelle sue parole! Ebbi pena per lui, dal mandato papale costretto a offender l’istessa intelligenza sua. E tacqui, ma in ciò che conta dalla mia linea non deviai d’un capello; e del resto, se i nemici miei non mi ci avessero intromesso, punto mi sarei occupato del negozio. Tornato a Firenze, parendomi dover esser fermo che conveniva ubbidir e credere alle determinazioni de’ superiori, come quei che aveano più alte cognizioni alle quali la bassezza del mio ingegno non poteva arrivare, feci mostra di reputar come poesia, ovvero un sogno, certi miei capricci, certe chimere raggiratemi per la fantasia, quali le note sul flusso e reflusso del mare scritte in gennaio a Roma. E alla prudenza per alcun tempo mi attenni. Studiai i periodi de’ satelliti di Giove, al fine anco di trovare un metodo sicuro per determinar la longitudine, che speravo d’utilità a stabilir la rotta delle navi, ed ebbi in proposito trattative, pur troppo infruttuose, co ’l re di Spagna e ’l governo dei Paesi Bassi. La disputa con Padre Grassi Dimostrai poi vanissima e falsa l’opinion del padre gesuita Orazio grassi circa la natura delle comete con un Discorso delle comete, fatto scriver al mio allievo Guiducci. Erravo a ritener le comete corpi solo apparenti, illusioni dell’ occhio, ma ancor oggi defendo i princìpi cui in quella polemica m’attenni e che mi dettaron le pagine del Saggiatore. L’opera, intesa a promuover dubitazioni e ad arrecar qualche lume ad agevolar la strada al ritrovamento del vero, mi valse, oltre alla stima de gli intelletti vivaci, l’odio di quel bufalaccio del Grassi, da me apertamente dichiarato poco intendente di logica, avvezzo a 55

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sostenersi in piedi solo con distinzioni e istorcimenti o altre girandole di parole. Molti anni dopo egli disse che m’ero rovinato da me stesso con l’invaghirmi tanto del mio ingegno e col non far stima alcuna dell’altrui. È certo verissimo che la reputazione comincia da noi medesimi, e che quello che vuole essere stimato bisogna che sia il primo a stimarsi. Ma equalmente vero è che il levar dall’ignoranza uomini sconoscenti, è veramente una pena! Il veleno di quello scorpione, giunto a insinuar che la mia atomistica idea della materia repugnava a la reale presenza di Cristo nell’eucarestia, fu di certo, con altri lacci che l’invidia e la diabolica malignità mi hanno macchinato contro, tra le cause della mia disgrazia. Nel 1623 la creazione del nuovo pontefice Urbano VIII, il cardinal Maffeo Barberini, mi rallegrò ďassai. In lui, ch’avea fatto tanta stima della persona mia da dedicarmi un suo componimento ed era fautor delle arti e mecenate, ravvisavo la speranza, già del tutto sepolta, di veder richiamate dal loro lungo esilino le idee sospette. Alla sua benignissima protezion mi rivolsi e mi recai a pagar l’obbligo a’ suoi piedi a Roma nel 1624. Ma fu subito chiaro che ’l papa non intendeva rimuover le difficultà, atteso che si contenne a dir che la Santa Chiesa, come non avea dannata la teoria copernicana per eretica, ma solo per temeraria, così non era per dannarla in futuro, tanto più che non era da temer ch’alcuno fusse mai per dimostrarla necessariamente vera. Non nego essermi state di poco gusto le parole del papa, ma esse non considerai un intoppo mal agevole a superarsi. Mi sarei mosso adunque con prudenza, ma con rinnovati assalti sulla strada che porta alla cognizion del vero. Costruii in quegli anni un occhialino per veder da vicino le più piccole cose, approfondii gli studi sulle calamite. E massime, con rinnovato slancio, intrapresi a scrivere per mostrar che se gli eretici si ridono di noi cattolici perché restiamo nell’antica certezza insegnataci da i sacri autori, non è per difetto di discorso naturale o per non aver inteso le ragioni conosciute da loro; e che al più potranno tassarci per uomini costanti nella nostra opinione, ma non già per ciechi o per ignoranti dell’umane discipline. Volevo con fondamento, e guadagno non poco di 61

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tutti gli amatori della verità, resolvere antiche istanze; volevo con prudenza, mai bastante secondo gli amici miei, far intendere alla Chiesa che por la fede innanzi a quante ragioni e sensate esperienze hanno con somma evidenza prodotte tutti gli astronomi e filosofi insieme era error gravissimo per le discipline tutte e in primis per essa lei. Avesse allora accolto le mie proposizioni, le Sacre Scritture ed ella istessa tratto ne avrebbono gran benefizio nella storia. Sventure peggiori Queste idee a favor di Copernico, che per fiducia nel nuovo papa mi sentii di esporre, sviluppai nell’Opera grande che mi proponevo di scriver sin da quando avevo lasciato Padova, il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano. Uscì a stampa a Firenze nel febbraio del 1632, con prefazione concordata con l’Inquisitore, e segnò il principio delle sventure mie più gravi. Ci furon presto rumori di teologi irati a proibir il Dialogo, e giunse notizia del papa esser in molta collera e peggio volto verso di me. Che il Dialogo fusse per aver de’ contradditori era previsto da me e da gli amici miei, ché così par che comunenemente portino seco le dottrine le quali dalle consuete e inveterate opinioni si allontanano. Ma che l’odio contro di me e le mie scritture dovesse esser potente a imprimer nelle menti santissime de i superiori questo mio libro esser indegno della luce, mi giunse veramente inaspettato ed ancor parmi che tenga dell’impossibile. Ordine giunse che ’l libro si trattenesse e si avesse a correggere, e in fine dalla Sacra Congregazione del Sant ’Uffizio mi fu intimato di trasferirmi a Roma. Presi tempo, ma essendo stato molto mal inteso che non avessi prontamente obbedito al precetto, mi si fece saper che sarebbe stato mandato un Commissario a pigliarmi, e condurmi alle carceri, legato anco con ferri, poiché avevo abusato della benignità della Congregazione. Appresso questa rigorosa intimazione, fattami senza riguardo alcuno delle indisposizioni grandi in cui mi trovavo, della stagion d’inverno, della grave mia età, della peste non ancora ridotta, feci testamento e partii per Roma, ivi giugnendo il 13 68

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febbraio 1633. Di sollevamento m’era la purità della mia coscienza, la quale voleva persuadermi non mi dovesse esser difficile il manifestar l’innocenza mia. Ma non posso negar l’intimazion di dovermi presentare al Tribunale essermi stata di grandissima afflizione, mentre andavo considerando i frutti di tutti i miei studi e fatiche di tanti anni essersi convertiti in gravi note della mia reputazione. Questo in tal modo mi affliggeva, che detestavo tutto ’l tempo già da me consumato in quegli studi per li quali io ambivo di potermi alquanto separare dal trito e popolar sentiero de gli studiosi, e m’invogliava a sopprimere e condannar al fuoco l’opere mie. Non si volle creder ch’avevo scritto anco per benefizio della Chiesa, acciò che, intorno a materie per lor natura difficili a intendersi, quei a cui stava il deliberar potessero, con minor fatica e dispendio di tempo, comprendere in qual parte pieghi la verità, e con quella concordare i sensi delle Scritture Sante. Qual cosa fu quella che spinse la Chiesa a perseguitarmi? Qual cosa le fece giudicar il mio sventurato Dialogo esecrando e più pernicioso per lei che gli scritti di Lutero e di Calvino? Paura d’esser travolta dal crollo di verità antiche, di perdere ’l dominio di un gregge che principiava a pensare? O ancora, ottusità, gelosia dei dotti padri gesuiti, sinistro affetto di anime invidiose, o forse solo la miopia che ne’ secoli pare ottenebrar le scelte sue? Nel processo mi furon tesi lacci sì ch’io, che avrei voluto defender le mie opinioni, seguii i consigli di chi m’esortava a farla finita al più presto, a sottomettermi a quel che i giudici desideravano ch’io credessi circa la mobilità della Terra. Facessero quel che a loro piaceva, ero nelle loro mani. Giudicato veementemente sospetto d’eresia, fui condannato al carcere a vita, a penitenze salutari, e il mio Dialogo fu proibito. Udita la sentenza, vestito co ’l camice bianco de’ penitenti, lessi la mia abiura. Odio, empietà, frode e menzogna avevano prevalso. Ero stato costretto a negar ciò che sta scritto a chiare lettere nel gran libro della natura, ciò che si impone a chiunque abbia occhi per vedere e orecchie per sentire, ciò che la Bibbia medesima apertamente affermerebbe ove fusse riscritta. Era il 22 giugno 1633. 73

Non speravo in sollevamento alcuno, perché non avevo commesso delitto nessuno. Avrei sperato d’ottener grazia e perdono s’io avessi avuto colpa, ché i falli son materia sopra la quale può il principe esercitar le grazie e gli indulti, mentre che sopra uno innocentemente condannato conviene, per mostrare d’aver con giustizia operato, mantener il rigore. Solo il luogo assegnatomi per carcere a Roma mi fu permutato nel ristretto della mia villetta di Arcetri, con severissima proibizione di calare a Firenze, di aver conversazioni o incontri con molti amici insieme, e di convitarli. Null’altro mi restava che in cuor mio maledir nei secoli gli artefici della mia disgrazia, ma tacere, tornar a’ miei studi prediletti, e passar sotto silenzio le molte pene, prima tra tutte e materia d’inconsolabil pianto la perdita di Virginia, ch’ebbi a soffrire in quel ch’avanzava della mia vita travagliosa. Nella cadente vecchiezza, i torti e le ingiustizie che l’invidia, la diabolica malignità e iniqua volontà mi aveano macchinato contro non mi hanno travagliato, anzi la grandezza delle ingiurie mi è stata piuttosto di sollevamento, è stata un ’ispecie di vendetta, perché l’infamia è ricaduta sopra i miei persecutori. Amare constatazioni A nulla eran valse l’ipocrisia e la reticenza che, in nome de gli studi miei, con i potenti e i capi della Chiesa di praticar m’ero resoluto. A nulla era valso asconder i miei pensieri liberi e quelle convinzioni che in eresia potean esser tenute. A nulla era valso condurmi qual pecorella del gregge di San Pietro. Fatica buttata in vano, forse perché tal volta, stupefatto dall’invenzione e desiderando participarla, o pur ferito da l’altrui idiozia, misi da parte quella cautela che nella circostanza mi sarebbe convenuto usare. Di cotal prudenza ho da dolermi assaissimo: ché già ci furon alcuni gentil uomini, e altri son vivi e sani oggi, ch’ella hanno prodotta a prova della più grande esorbitanza, ch’io fussi tra coloro cui fa di bisogno ’l dogma. Io che occhi ebbi nella fronte e nella mente; io che sempre ragionai, conclusi e scrissi nel segno della sensata esperienza e delle fondate dimostrazioni; io che, se rispetto portai alla rivelata religione, unicamente fu per 74

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la sua azzione nella storia e il suo potere sulle genti. Mai volli indagare quel che Dio poteva essere o fare, ma quello solo che Egli ha fatto, il libro della natura, scritto in caratteri matematici, che perpetuamente ci sta aperto dinnanzi agli occhi. E sempre gustai della semplicità e facilità della natura, che non intraprende a fare quello che non può essere fatto, non opera con molte cose quello che può con poche, agevolmente attua quello che a noi riesce difficile a intendersi. Il tentar l’essenza l’ebbi sempre per impresa non meno impossibile e per fatica non men vana nelle prossime sostanze elementari che nelle remotissime e celesti. E tanto basti. Gli allievi Nell’amarezza delle persecuzioni mi fu di sollevamento sapere d’aver lasciato vestigia d’esser passato per questo mondo, e ancor più d’aver generato allievi di vivace ingegno e limpida mente. Voglio ricordar fra tanti Cavalieri, Torricelli, Viviani, Castelli, li quali in modo egregio innanzi condussero l’opera mia, ma sovra tutto seppero far uso di quella libertà del pensiero che al progredir delle scienze e alle conclusive dimostrazioni essenzial si palesa. Mai paghi o sicuri dell’autorità, Aristotele, Galileo, le Scritture o altri che fusser, ad essa sempre belle e gagliarde considerazioni opposero, giugnendo a volte fin anco a produr nuove esperienze e ragioni contro a gl’istessi miei resultati. Cosa che, di tutti i possibili conseguimenti, certo è per un maestro il più nobile e grato. I detestabili In repugnanza ebbi tutti quei che: – per convenienza o debolezza d’intelletto combatton gl’introduttori di novità – per meglio asservir chi da lor depende ne nutron l’ignoranza e la superstizione – per interesse o dabbenaggine fomentan negli altri il senso del mistero – per disprezzo dell mano raziocinio propugnano ’l dogma – per arroganza voglion dar regole a’ cervelli e agli oggetti intorno a’ quali questi s’aggirano – per balordaggine, se impugnate una loro sciocchezza, ve ne 76

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propongono un’altra maggiore – per indegnità spirituale, pur conoscendo la verità, la chiaman menzogna – per opportunismo assecondano i potenti – per vanità o mediocrità usurpano il lavoro altrui – per ottusità si dicon filosofi, quando non son che accozzatori d’istorie – per boria o pigrizia parlano oscuramente – per vigliaccheria chiaman debolezze le consolazioni della carne – per svariate ragioni son fatti come i tamburi, li quali guardati per un verso paion tondi e per l’altro quadrati. Autocritica Posso chiamar me stesso da tali colpe esente? Non certo dall’aver usurpato ’l lavoro d’altri, se ben per vanità più tosto che per esser mediocre. Del Benedetti accolsi le migliori idee, come l’argomento mirabile sull’egual velocità di libera caduta di corpi diversi in gravità, o le intuizioni acute sul principio d’inerzia. Mie feci le tesi dell’amico diletto Guidubaldo del Monte, da cui trassi, senza di ciò far parola, il discorso sulla resistenza delle corde alla rottura. E non mancai d’ispirarmi al De motu di Francesco Buonamici, o agli scritti di Giordano Bruno, riposi in pace C’inquieta anima sua. Di lui mancai d’onorar la memoria, né mi resolsi ad apportar aiuto a Tommaso Campanella, che pur dal carcere scrisse a mio sostegno. Ma così dico io, e mi sarà conceduto: averei potuto espormi, a rischio com’io stesso ero? Fu colpa questa? Favoritemi ingrazia di risposta. Apologia dell’abiura È vero, mi piegai a’ potenti, e lo feci insino a rinnegar il fulcro de l’opera mia. Ma qui voglio che notiate: tengo per certo d’aver agito non tanto a mio guadagno, ancor che l’integrità del corpo sempre a cuore abbia avuto, quanto più tosto de la conoscenza. Pur vi sarà chi, ne’ secoli futuri, vorrà pronunziar renovate condanne. E dirà, lo stimo per certo, che con l’abiura sacrificai il vero a la violenza de’ potenti, dirà che l’idea mi guidava che 79

la scienza ha l’obbligazione sola d’alimentar se medesima, dirà financo ch’io mi redussi a coltivarla sì come un vizio, in silenzio, preda de’ rimorsi. E argumenterà parimente che, s’io immolato mi fussi, i professori delle scienze demostrative non arebbono potuto sottrarsi al dovere solenne d’usar d’esse a solo benefizio dell’umano genere tutto. Quei che, da sinistro affetto animato, cotal fantasia proponesse commetterebbe un errore che sommamente m’offende. Il negozio non istà così, procede per l’appunto a rovescio: se ben è vero che dalla scienza trassi i piaceri della vita più grandi, è vero ancora ch’essa condussi fuor da le morte biblioteche e da le accademie dei sapienti, ed estesi a tutti, scrivendo ne la mia favella fiorentina. Imperò che, torno a dire, sempre nella scienza massimamente confidai per il miglior futuro della posterità. Ma non soltanto perché tanti vantaggi a la vita, non men che la giustizia, da lei dependono, ben sì perché, come il nostro padre Dante ammonisce, fatti non fummo per viver come bruti, ma per seguir virtude e conoscenza. E a questa cura con tutto me stesso attesi e con atlantiche fatiche. Fiducia nella scienza Che la debolezza de’ cervelli comuni sia ridotta a tanta miseria, e massime nel paese mio, sì che sono largamente premiati cacciatori e cuochi, che con nuove invenzioni di caccie e pasticci s’affaticano di dar gusto alle bizzarrie e palati degli uomini, e all’incontro son posti altissimi intoppi agl’intelletti specolativi, assaissimo m’amareggia. Che menti avide e inique abbiano macchinato per render la scienza serva di ignobili scopi, è motivo per me di tristizia e melanconia immensa. Ma speranza alcuna e consolazion vera non vi essendo al di fuor di scienza e ragione, ad esse la mia ormai debil voce vi esorta a tornare, con limpida mente e rinnovato vigore. Elenco delle opere Per quei che essaminar volessero l’opera mia, fo seguire un elenco de’ miei principali scritti. • La bilancetta, scritto nel 1586 80

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• Le operazioni del compasso geometrico e militare, pubblicato nel 1606 • Sidereus Nuncius, scritto in latino e pubblicato nel 1610, dove espongo le astronomiche osservazioni fatte con l’occhiale • Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono, pubblicato nel 1612 • Il Saggiatore, pubblicato nel 1623 in risposta a un saggio del Padre Grassi sulle comete e dedicato al papa Urbano VIII. In esso stabilisco precetti e regole per investigar la natura. Fu lodato per la pungente satira e l’elegante scrittura • Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano, iniziato nel 1624 e pubblicato nel 1632. Uno scritto dove, nelle discussioni tra Salviati, Sagredo e Simplicio, la dottrina tolemaica, accolta dalla peripatetica filosofia, pongo a fronte di quella copernicana in cui la Terra verte attorno al Sole • Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, iniziato nel 1633, subito dopo l’interdizione del Dialogo e l’abiura, e pubblicato in Olanda nel 1638 dagli Elzevirii. Nel libro tratto del moto naturale, a gravità dovuto, e del moto violento, causato da forze. E parlo ancora dell’intima costituzion de’ materiali e resistenza lor alla frazione • Lettere ad amici e nemici, di cui talune tanto estese da potersi nomar trattatelli. Tra queste: – a Marco Velseri sulle macchie solari (tre lettere), 1612 – a Cristina di Lorena, sull’interpretazione della Bibbia, 1615 – a Francesco Ingoli, sui princìpi d’inerzia e di relatività, 1624 – a Leopoldo di Toscana, sul candore della Luna, 1640 • Scritti vari su Dante, Ariosto e Tasso • Contro il portar la toga, componimento satirico in versi Questo autoritratto non è mai stato scritto da Galileo ma è quello che gli autori ritengono egli avrebbe tracciato se i tempi gli avessero permesso di esprimersi libero da ossequi formali e da criteri di prudenza. Nel delinearlo, essi hanno fatto ampio ricorso a lettere di Galileo e di

suoi corrispondenti, nonché a biografie e documenti del tempo.

Capitolo 2 (dai Discorsi) L’ORIGINE DEI NERVI ovvero non credere all’evidenza ... quando il testo d’Aristotile non fusse in contrario, che apertamente dice, i nervi nascer dal cuore, bisognerebbe per forza confessarla per vera

Descrizione di una autopsia nel corso della quale un filosofo rifiuta di credere a ciò che il chirurgo gli mostra – ossia che i nervi hanno origine nel cervello e non nel cuore – per non veder incrinata la sua fede aristotelica. Occasione per un’invettiva contro il sapere fondato sul dogma e sulla tradizione (ipse dixit), nella quale affiorano le idee fondamentali di Galileo in merito al ruolo e alla metodologia della vera scienza.

Il principio di autorità L’ha detto Lui, l’ha detto Aristotele, e tanto deve bastare, secondo i suoi tardi seguaci, contemporanei di Galileo, perché nessuno osi porre in discussione qualsiasi affermazione da lui fatta, o presunta tale. Peggio ancora: la cultura aristotelica, o peripatetica, che costituisce la cultura ufficiale ai tempi di Galileo, spinge la propria fede in Aristotele al punto da ritenere di poter trovare in lui la risposta ad ogni questione (analogamente, del resto, a quanto avviene ancora oggi nell’ambito di tante credenze di massa, in particolare di carattere religioso). Quanto ad Aristotele, occorre «... intenderlo, e non solamente intenderlo, ma aver tanta gran pratica ne’ suoi libri, che se ne sia formata un’idea

perfettissima», come, nel dialogo qui proposto, assicura fiducioso Simplicio; al che Sagredo non manca di osservare che anche in un libretto assai più breve delle opere di Aristotele, l’alfabeto, accostando in modo opportuno vocali e consonanti, si può trovare risposta a ogni sorta di problemi. Tuttavia «questo è un modo di contener tutti gli scibili assai simile a quello col quale un marmo contiene in sé una bellissima, anzi mille bellissime statue; ma il punto sta a saperle scoprire». L’essenza dell’informazione e dell’arte – implica Sagredo – non consiste nella materia prima, ma nel modo di plasmarla. Nel passo di seguito riportato, prendendo lo spunto da un’autopsia, nel corso della quale un filosofo si rifiuta di riconoscere ciò che vede – che i nervi si dipartono dal cervello – perché contrasta con quanto dice Aristotele, Galileo affronta il tema del sapere fondato unicamente sull’autorità (ipse dixit). Non è difficile intuire le conseguenze nefaste, morali e culturali, della posizione tardo-aristotelica. Non solo essa riduce la conoscenza ad apprendimento passivo e mnemonico, a sterili esercizi formali, spesso unicamente motivo di conversazione e di lustro; non solo essa consente, a chi è in malafede, di piegare il sapere a finalità estrinseche, facendosi scudo dell’autorità di Aristotele; ma in particolare, e ciò è ancor più grave, congela lo sviluppo della scienza, che è per sua natura storica e dinamica. E in tal modo finisce col tradire proprio il pensiero e l’insegnamento originali di Aristotele. Ben a ragione dunque Galileo si dichiara spesso più aristotelico dei suoi avversari e sicuro che, se il grande filosofo fosse vissuto al tempo presente, avrebbe mutato opinione e corretto i propri libri, deludendo molti suoi seguaci «poveretti di cervello». Il principio di autorità, se nel particolare contesto storico dell’Italia del ’600 può essere descritto, seppure sommariamente, come precede, è sopravvissuto attraverso i secoli fino ai giorni nostri, in forme diverse e adeguandosi ai tempi. Esso infatti sembra soddisfare due impulsi fondamentali e contrastanti della natura umana: quello di imporsi e quello di ubbidire. Eccolo quindi, ad esempio, giocare un ruolo scoperto nei vari regimi dittatoriali, nelle fedi e nelle sette religiose; e uno più subdolo, ma non meno incisivo, anche nelle moderne democrazie, dove il consenso è raggiunto attraverso abili 1

sistemi di persuasione che prescindono da ogni convincimento razionale, o dove le masse sono indotte a comportamenti imposti dall’alto e accettati acriticamente. «Credere, ubbidire, combattere», ieri, «credere, conformarsi, consumare», oggi. È comodo accettare delle verità rivelate, quali che siano: sottrae alla fatica della responsabilità individuale. La lezione galileiana, se assimilata, può aiutarci a vivere in modo più degno. Il testo Il dialogo si raccomanda, oltre che per l’interesse dell’argomento, per la vivacità e l’arguzia discorsiva, che richiamano alla mente certe pagine del Boccaccio, nonché per l’evidenza realistica delle immagini e del linguaggio («infilzare i suoi sillogismi», «trarne il sugo», «poveretti di cervello», «pecore stolide», «uscir un di traverso», eccetera). Particolare risalto vi acquista la personalità di Simplicio che, nella sua caparbia quanto patetica difesa di Aristotele, assurge a simbolo del declinante e tranquillo mondo del sapere cartaceo, fondato solo su autorità e memoria. Si osservi come il sorriso garbatamente canzonatorio che pervade tutto il passo si spenga nell’alta eloquenza delle parole finali, allorché Salviati rivolge un appassionato invito a chi è provvisto di «occhi nella fronte e nella mente» a procedere con il solo loro aiuto nell’esplorazione del mondo. Galileo amava definirsi «filosofo», sinonimo di uomo di scienza. Nelle parole di Salviati è ben evidenziato cosa egli intenda con tale termine, e quali siano i requisiti necessari a fregiarsene degnamente. Per coloro che discutono «sopra un mondo di carta», usurpando «l’onorato titolo di filosofo», bastino i ben più appropriati termini di «istorici o dottori di memoria». Salviati è l’alter ego di Galileo nella grande maggioranza dei dialoghi galileiani; i suoi interlocutori sono Simplicio, punto di confluenza di tutti gli oppositori aristotelici di Galileo, e Sagredo, acuto gentiluomo veneziano che dovrebbe fungere da giudice imparziale, ma quasi sempre finisce per esaltare il maggior valore delle tesi copernicane rispetto a quelle dei filosofi peripatetici. Merita leggere quanto dei tre interlocutori

del Dialogo dice Tommaso Campanella, ammiratore di Galileo e suo scomodo difensore: «... ognun fa la parte sua mirabilmente; e Simplicio par il trastullo di questa comedia filosofica, ch’insieme mostra la sciocchezza della sua setta, il parlare e l’instabilità, e l’ostinazione, e quanto ci va. Certo che non havemo a invidiar Platone. Salviati è un gran Socrate, che fa parturire, più che non parturisce, et Sagredo un libero ingegno, che senza esser adulterato nelle scole giudica di tutte con molta sagacità». Per Italo Calvino, «Salviati e Sagredo rappresentano due diverse sfaccettature del temperamento di Galileo: Salviati è il ragionatore metodologicamente rigoroso, che procede lentamente con prudenza; Sagredo è caratterizzato dal suo «velocissimo discorso», da uno spirito più portato all’immaginazione, a trarre conseguenze non dimostrate e a spingere ogni idea alle estreme conseguenze, come quando fa ipotesi su come potrebbe essere la vita sulla luna o su cosa succederebbe se la terra si fermasse». L’autopsia SIMPL. Io vi confesso che tutta questa notte sono andato ruminando le cose di ieri, e veramente trovo di molte belle nuove e gagliarde considerazioni; con tutto ciò mi sento stringer assai più dall’autorità di tanti grandi scrittori, ed in particolare... Voi scotete la testa, signor Sagredo, e sogghignate, come se io dicessi qualche grande esorbitanza. SAGR. Io sogghigno solamente, ma crediatemi ch’io scoppio nel voler far forza di ritener le risa maggiori, perché mi avete fatto sovvenire di un bellissimo caso, al quale io mi trovai presente non sono molti anni, insieme con alcuni altri nobili amici miei, i quali vi potrei ancora nominare. SALV. Sarà ben che voi ce lo raccontiate, acciò forse il signor Simplicio non continuasse di creder d’avervi esso mosse le risa. SAGR. Son contento. Mi trovai un giorno in casa un medico molto stimato in Venezia, dove alcuni per loro studio, ed altri per curiosità, convenivano tal volta a veder qualche taglio di notomia per mano di uno veramente non men dotto che dirigente e pratico notomista. Ed accadde quel giorno, che si andava ricercando l’origine e nascimento de i nervi, sopra di 2

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che è famosa controversia tra i medici Galenisti ed i Peripatetici; e mostrando il notomista come, partendosi dal cervello e passando per la nuca, il grandissimo ceppo de i nervi si andava poi distendendo per la spinale e diramandosi per tutto il corpo, e che solo un filo sottilissimo come il refe arrivava al cuore, voltosi ad un gentil uomo ch’egli conosceva per filosofo peripatetico, e per la presenza del quale egli aveva con estraordinaria diligenza scoperto e mostrato il tutto, gli domandò s’ei restava ben pago e sicuro, l’origine de i nervi venir dal cervello e non dal cuore; al quale il filosofo, doppo essere stato alquanto sopra di sé, rispose: «Voi mi avete fatto veder questa cosa talmente aperta e sensata, che quando il testo d’Aristotile non fusse in contrario, che apertamente dice, i nervi nascer dal cuore, bisognerebbe per forza confessarla per vera». SIMPL. Signori, io voglio che voi sappiate che questa disputa dell’origine de i nervi non è miga così smaltita e decisa come forse alcuno si persuade. SAGR. Né sarà mai al sicuro, come si abbiano di simili contradittori; ma questo che voi dite non diminuisce punto la stravaganza della risposta del Peripatetico, il quale contro a così sensata esperienza non produsse altre esperienze o ragioni d’Aristotile, ma la sola autorità ed il puro Ipse dixit. SIMPL. Aristotile non si è acquistata sì grande autorità se non per la forza delle sue dimostrazioni e della profondità de i suoi discorsi: ma bisogna intenderlo, e non solamente intenderlo, ma aver tanta gran pratica ne’ suoi libri, che se ne sia formata un’idea perfettissima, in modo che ogni suo detto vi sia sempre innanzi alla mente; perché e’ non ha scritto per il volgo, né si è obligato a infilzare i suoi silogismi col metodo triviale ordinato, anzi, servendosi del perturbato, ha messo talvolta la prova di una proposizione tra testi che par che trattino di ogni altra cosa; e però bisogna aver tutta quella grande idea, e saper combinar questo passo con quello, accozzar questo testo con un altro remotissimo; ch’e’ non è dubbio che chi averà questa pratica, saprà cavar da’ suoi libri le dimostrazioni di ogni scibile, perché, in essi è ogni cosa. 7

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REMBRANDT, ANATOMIA DEL PROFESSOR TULP (Mauritshuis, L’Aja)

I tesori dell’alfabeto SAGR. Ma, signor Simplicio mio, come l’esser le cose disseminate in qua e in là non vi dà fastidio, e che voi crediate con l’accozzamento e con la combinazione di varie particelle trarne il sugo, questo che voi e gli altri filosofi bravi farete con i testi d’Aristotile, farò io con i versi di Virgilio o di Ovidio, formandone centoni ed esplicando con quelli tutti gli affari de gli uomini e i segreti della natura. Ma che dico io di Virgilio o di altro poeta? io ho un libretto assai più breve d’Aristotile e d’Ovidio, nel quale si contengono tutte le scienze, e con pochissimo studio altri se ne può formare una perfettissima idea: e questo è l’alfabeto; e non è dubbio che quello che saprà ben accoppiare e ordinare questa e quella vocale con quelle consonanti o con quell’altre, ne caverà le risposte verissime a tutti i dubbi e ne trarrà gli insegnamenti di tutte le scienze e di tutte le arti, in quella maniera appunto che il pittore da i semplici colori diversi, separatamente posti sopra la tavolozza, va, con l’accozzare un poco di questo con un poco di quello e di 13

quell’altro, figurando uomini, piante, fabbriche, uccelli, pesci, ed in somma imitando tutti gli oggetti visibili, senza che su la tavolozza sieno né occhi né penne né squamme né foglie né sassi: anzi pure è necessario che nessuna delle cose da imitarsi, o parte alcuna di quelle, sieno attualmente tra i colori, volendo che con essi si possano rappresentare tutte le cose; ché se vi fussero, verbigrazia, penne, queste non servirebbero per dipignere altro che uccelli o pennacchi. SALV. E’ son vivi e sani alcuni gentil uomini che furon presenti quando un dottor leggente in uno Studio famoso, nel sentir circoscrivere il telescopio, da sé non ancor veduto, disse che l’invenzione era presa da Aristotile; e fattosi portare un testo, trovò certo luogo dove si rende la ragione onde avvenga che dar fondo d’un pozzo molto cupo si possano di giorno veder le stelle in cielo; e disse a i circostanti: «Eccovi il pozzo, che denota il cannone; eccovi i vapori grossi, da i quali è tolta l’invenzione de i cristalli; ed eccovi finalmente fortificata la vista nel passare i raggi per il diafano più denso e oscuro». SAGR. Questo è un modo di contener tutti gli scibili assai simile a quello col quale un marmo contiene in sé una bellissima, anzi mille bellissime statue; ma il punto sta a saperle scoprire [...]. Aristotele oggi SALV. [...] E voi, ditemi in grazia, sete così semplice che non intendiate che quando Aristotile fusse stato presente a sentir il dottor che lo voleva far autor del telescopio, si sarebbe molto più alterato contro di lui che contro quelli che del dottore e delle sue interpretazioni si ridevano? Avete voi forse dubbio che quando Aristotile vedesse le novità scoperte in cielo, e’ non fusse per mutar opinione e per emendar i suoi libri e per accostarsi alle più sensate dottrine, discacciando da sé quei così poveretti di cervello che troppo pusillanimamente s’inducono a voler sostenere ogni suo detto, senza intendere che quando Aristotile fusse tale quale essi se lo figurano, sarebbe un cervello indocile, una mente ostinata, un animo pieno di barbarie, un voler tirannico, che, reputando tutti gli altri come pecore stolide, volesse che i suoi decreti fussero anteposti a i sensi, alle esperienze, alla natura istessa? Sono i suoi seguaci che hanno data! l’autorità ad Aristotile, e non esso 14

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che se la sia usurpata o presa; e perché, è più facile il coprirsi sotto lo scudo d’un altro che ’l comparire a faccia aperta, temono né si ardiscono d’allontanarsi un sol passo, e più tosto che mettere qualche alterazione nel cielo di Aristotile, vogliono impertinentemente negar quelle che veggono nel cielo della natura. [...] SALV. lo mi son più volte maravigliato come possa esser che questi puntuali mantenitori d’ogni detto d’Aristotile non si accorgano di quanto gran progiudizio e’ sieno alla reputazione ed al credito di quello, e quanto, nel volergli accrescere autorità, gliene detraggano [...]. SIMPL. Ma quando si lasci Aristotile, chi ne ha da essere scorta nella filosofia? nominate voi qualche autore. Per Simplicio l’alternativa ad Aristotele non può essere che la parola scritta di qualche altro filosofo, tanto è lontano dal concepire il sapere come indagine da parte dell’individuo che nel processo mette alla prova se stesso. Un mondo di carta SALV. Ci è bisogno di scorta ne i paesi incogniti e selvaggi, ma ne i luoghi aperti e piani i ciechi solamente hanno bisogno di guida; e chi è tale, è ben che si resti in casa, ma chi ha gli occhi nella fronte e nella mente, di quelli si ha da servire per iscorta. Né perciò dico io che non si deva ascoltare Aristotile, anzi laudo il vederlo e diligentemente studiarlo, e solo biasimo il darsegli in preda in maniera che alla cieca si sottoscriva a ogni suo detto e, senza cercarne altra ragione, si debba avere per decreto inviolabile; il che è un abuso che si tira dietro un altro disordine estremo, ed è che altri non si applica più a cercar d’intender la forza delle sue dimostrazioni. E qual cosa è più vergognosa che ’l sentir nelle publiche dispute, mentre si tratta di conclusioni dimostrabili, uscir un di traverso con un testo, e bene spesso scritto in ogni altro proposito, e con esso serrar la bocca all’avversario? Ma quando pure voi vogliate continuare in questo modo di studiare, deponete il nome di filosofi, e chiamatevi o istorici o dottori di memoria; ché non conviene che quelli che non filosofano mai, si usurpino l’onorato titolo di filosofo. Ma è ben ritornare a riva, per non 19

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entrare in un pelago infinito, del quale in tutt’oggi non si uscirebbe. Però, signor Simplicio, venite pure con le ragioni e con le dimostrazioni, vostre o di Aristotile, e non con testi e nude autorità, perché i discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo sensibile, e non sopra un mondo di carta. [... ] I tre interlocutori In merito alla scrittura del testo in forma di dialogo e alla scelta dei tre interlocutori, riportiamo le motivazioni offerte dallo stesso Galileo. Ho poi pensato tornare molto a proposito lo spiegare questi concetti in forma di dialogo, che, per non esser ristretto alla rigorosa osservanza delle leggi matematiche, porge campo ancora a digressioni, tal ora non meno curiose del principale argomento. Mi trovai, molt’anni sono, più volte nella maravigliosa città di Venezia in conversazione col signor Giovan Francesco Sagredo, illustrissimo di nascita, acutissimo d’ingegno. Venne là di Firenze il signor Filippo Salviati, nel quale il minor splendore era la chiarezza del sangue e la magnificenza delle ricchezze; sublime intelletto, che di niuna delizia più avidamente si nutriva, che di specolazioni esquisite. Con questi due mi trovai spesso a discorrer di queste materie, con intervento di un filosofo peripatetico, al quale pareva che niuna cosa ostasse maggiormente per l’intelligenza del vero, che la fama acquistata nell’interpretazioni Aristoteliche. Ora, poiché morte acerbissima ha, nel più bel sereno de gli anni loro, privato di quei due gran lumi Venezia e Firenze, ho risoluto prolungar, per quanto vagliano le mie debili forze, la vita alla fama loro sopra queste mie carte, introducendoli per interlocutori della presente controversia. Né mancherà il suo luogo al buon Peripatetico, al quale, per soverchio affetto verso i comenti di Simplicio, è parso decente, senza esprimerne il nome, lasciarli quello del reverito scrittore. Gradiscano quelle due grand’anime, al cuor mio sempre venerabili, questo publico monumento del mio non mai morto amore, e con la memoria della loro eloquenza mi aiutino a spiegare alla posterità le promesse specolazioni. 23

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PARTE SECONDA MOTI RIVOLUZIONARI

Capitolo 3 (dai Discorsi) DISCESA QUASI LIBERA ovvero chi arriva a terra prima? Simplicio: Io non crederò mai che nell’istesso vacuo... un fiocco di lana si movesse così veloce come un pezza di piombo

Galileo dimostra, con uno storico ragionamento per assurdo, che i corpi in caduta libera scendono tutti con eguale velocità, impiegando lo stesso tempo per arrivare a terra, contrariamente alla visione aristotelica. Descrive il tipo di moto, che è uniformemente accelerato. Attribuisce infine alle alterazioni prodotte dall’attrito, in mezzi che non siano il vuoto, l’eventuale diversità di comportamento osservata per corpi di peso e forma differenti.

Come cadono i gravi Un problema che da sempre ha suscitato l’interesse degli uomini è quale sia la vera ragione per cui due corpi diversi in caduta da una stessa altezza impiegano tempi differenti a toccare terra. Tempi che, inoltre, cambiano se varia il mezzo in cui avviene la caduta, come si verifica subito confrontando il comportamento di un grave in aria e in acqua, tanto per fare riferimento ai mezzi più comuni. La risposta più istintiva è quella fornita dai filosofi aristotelici: il corpo di maggior peso arriva a terra prima perché le velocità di caduta sono proporzionali ai pesi. Circa il ruolo del mezzo ambiente, sempre secondo Aristotele, la

velocità di caduta sarebbe inversamente proporzionale alla sua densità. Tale concezione non spiega diverse cose, ad esempio perché, a parità di peso del corpo e a parità di mezzo ambiente, i tempi di caduta possono comunque differire se i due corpi hanno forma diversa, più aerodinamica o meno. Oggi sappiamo che la forza complessiva agente sul corpo è data dalla differenza tra forza peso e forza d’attrito associata alla resistenza del mezzo. Per la legge di Newton – forza eguale a massa per accelerazione – il corpo accelera solo se la forza complessiva agente su di esso è diversa da zero, altrimenti la sua velocità si mantiene costante. È appena necessario ricordare che, mentre il peso resta fisso durante la caduta, la forza d’attrito cresce man mano che aumenta la velocità del corpo. Se il peso è grande, esso rimane preponderante per un lungo tragitto e la caduta differisce poco da quella libera (caduta nel vuoto): è il caso di una biglia di piombo. Se la biglia fosse di sughero, la forza d’attrito pareggerebbe presto il peso, così da impedire ogni ulteriore accelerazione del corpo e fargli assumere una definita velocità terminale (tale comportamento è ben visibile nella discesa di un paracadutista). Corpi di peso intermedio hanno comportamento intermedio. Dunque il valore del peso conta solo per quanto si commisura alla forza d’attrito. Così, di due sfere dello stesso materiale, cade più rapidamente quella con raggio maggiore, perché il suo peso cresce con il volume (raggio al cubo), mentre l’attrito cresce con la superficie (raggio al quadrato), ossia meno sensibilmente. Ciò implica che corpi di raggio molto grande cadano senza troppo risentire dell’attrito per un lungo tratto di discesa. 1

L’errore aristotelico Nella visione aristotelica dettagli del genere non vengono presi in considerazione, come viene lasciata da parte, in quanto effetto transitorio e marginale, la fase di accelerazione tra velocità nulla e velocità terminale. Galileo, che pure agli inizi dei suoi studi non rifiuta questo approccio, si spinge gradualmente fino a capovolgere il quadro, individuando nel moto con accelerazione costante l’essenza del fenomeno di caduta. Nel vuoto, infatti, esso sarebbe l’unico meccanismo operante. L’azione frenante del mezzo è un «effetto accidentario», da considerare in separata sede. Per gli aristotelici, invece, la caduta nel vuoto, che sappiamo aver luogo in modo identico per tutti i gravi, di qualsiasi forma e peso, non è un fenomeno concepibile: essi affermano che dove c’è vuoto non c’è moto. L’argomento, come Galileo lo fa esporre a Simplicio, è il seguente: SIMPL. Aristotele, per quanto mi sovviene, insurge contro alcuni antichi, i quali introducevano il vacuo come necessario per il moto, dicendo che questo senza quello non si potrebbe fare. A questo contrapponendosi Aristotele, dimostra che, all’opposito, il farsi (come veggiamo) il moto distrugge la 2

posizione del vacuo [...]. [...] piglia che le velocità del medesimo mobile in diversi mezzi ritengano tra di loro la proporzione contraria di quella che hanno le grossezze o densità di essi mezzi [... ]. E da questo secondo supposto trae la dimostrazione in cotal forma: perché la tenuità del vacuo supera di infinito intervallo la corpulenza , ben che sottilissima, di qualsivoglia mezzo pieno, ogni mobile che nel mezzo pieno si movesse per qualche spazio in qualche tempo, nel vacuo dovrebbe muoversi in uno instante, ma farsi moto in uno instante è impossibile; adunque darsi il vacuo in grazia del moto è impossibile. 3

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Che la velocità di caduta in un mezzo sia proporzionale al peso del corpo è effettivamente vero allorché esso raggiunge la velocità terminale (nella nota FISICO-MATEMATICA a fine capitolo si dimostrerà che un paracadute con appesi due uomini scende a velocità doppia). Quanto invece alla fase iniziale del moto accelerato, che è poi quella da noi osservata nella quotidianità, già Filopono, commentatore di Aristotele del VI secolo d.C., scriveva: «Se lasciate cadere due pesi dalla stessa altezza, uno essendo molte volte più pesante dell’altro, vedrete che il rapporto dei tempi di caduta non dipende dal rapporto dei pesi, e che la loro differenza risulta molto piccola». Tale considerazione, come pone in risalto Stillman Drake, è stata ignorata per circa un millennio. 7

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Dalla torre di Pisa Di Galileo si racconta che, per chiarirsi le idee su questo problema, lasciasse cadere oggetti dalla torre di Pisa. Egli avrebbe usato due corpi dello stesso materiale, differenti solo nelle dimensioni. Galileo arrivò ad affermare che, ove si potessero escludere gli effetti di attrito dell’aria, i due corpi giungerebbero a terra nello stesso istante. Non sappiamo esattamente se egli fu mai in grado di fare i dovuti esperimenti, ma conosciamo l’argomento che egli propose a sostegno della sua conclusione, uno splendido e inoppugnabile Gedankenexperiment. In parole d’oggi, esso suona come segue. Supponiamo per un momento che, anche nel vuoto, il più 9

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pesante dei due corpi, come il senso comune ci suggerirebbe, arrivi a terra per primo. Ripetiamo ora l’esperimento unendo insieme i due corpi in modo da avere un oggetto più pesante. Esso dovrebbe cadere a terra in un tempo più breve e dell’uno e dell’altro dei due corpi presi individualmente. All’opposto, si può ragionare anche così: il corpo più pesante, dovendo cadere più in fretta, trascinerà il corpo più leggero facendolo scendere più velocemente. Questo, per converso, agirà da freno sul corpo più pesante, rallentandone un po’ la velocità di caduta. Allora il tempo di caduta finirà per essere intermedio tra quelli misurati separatamente per i due oggetti. Due verità contrastanti, ma dal punto di vista del ragionamento logico egualmente valide. Dunque l’assunto iniziale, che il corpo più pesante scenda più velocemente, deve essere errato.

Vediamo ora il discorso nella veste originale. A Simplicio che ha esposto, invero con molta competenza, il punto di vista aristotelico, Salviati risponde con la seguente affermazione: SALV. [...] io grandemente dubito che Aristotele non sperimentasse mai quanto sia vero che due pietre, una più grave dell’altra dieci volte, lasciate nel medesimo instante cader da un’altezza, v. g., di cento braccia, fusser talmente differenti nelle lor velocità, che all’arrivo della maggior in terra, l’altra si trovasse non avere né anco sceso dieci braccia. 11

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SIMPL. Si vede pure dalle sue parole ch ’ei mostra d’averlo sperimentato, perché ei dice: Veggiamo il più grave; or quel vedersi accenna l’averne fatta l’esperienza. SAGR. Ma io, Sig. Simplicio, che n’ho fatto la prova, vi assicuro che una palla d’artiglieria, che pesi cento, dugento e anco più libbre, non anticiperà di un palmo solamente l’arrivo in terra della palla d’un moschetto, che ne pesi una mezza, venendo anco dall’altezza di dugento braccia. Il paradosso dei due gravi SALV. Ma, senz’altre esperienze, con breve e concludente dimostrazione possiamo chiaramente provare, non esser vero che un mobile più grave si muova più velocemente d’un altro men grave, intendendo di mobili dell’istessa materia, ed in somma di quelli de i quali parla Aristotele. Però ditemi, Sig. Simplicio, se voi ammettete che di ciascheduno corpo grave cadente sia una da natura determinata velocità, sì che accrescergliela o diminuirgliela non si possa se non con usargli violenza o opporgli qualche impedimento. SIMPL. Non si può dubitare che l’istesso mobile nell’istesso mezzo abbia una statuita e da natura determinata velocità, la quale non se gli possa accrescere se non con nuovo impeto conferitogli, o diminuirgliela salvo che con qualche impedimento che lo ritardi. SALV. Quando dunque noi avessimo due mobili, le naturali velocità de i quali fussero ineguali, è manifesto che se noi congiugnessimo il più tardo col più veloce, questo dal più tardo sarebbe in parte ritardato, ed il tardo in parte velocitato dall’altro più veloce. Non concorrete voi meco in quest’opinione? SIMPL. Parmi che così debba indubitabilmente seguire. SALV. Ma se questo è, ed è insieme vero che una pietra grande si muova, per esempio, con otto gradi di velocità, ed una minore con quattro, adunque, congiugnendole amendue insieme, il composto di loro si moverà con velocità minore di otto gradi: ma le due pietre, congiunte insieme, fanno una pietra maggiore che quella prima, che si moveva con otto gradi di velocità: adunque questo composto (che pure è maggiore che quella prima sola) si muoverà più tardamente che la prima sola, 13

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che è minore; che è contro alla vostra supposizione. vedete dunque come dal suppor che ’l mobile più grave si muova più velocemente del men grave, io vi concludo, il più grave muoversi men velocemente. SIMPL. Io mi trovo avviluppato, perché mi par pure che la pietra minore aggiunta alla maggiore le aggiunga peso, e, aggiugnendole peso, non so come non debba aggiugnerle velocità, o almeno non diminuirgliela. SALV. Qui commettete un altro errore, Sig. Simplicio, perché non è vero che quella minor pietra accresca peso alla maggiore. SIMPL. Oh, questo passa bene ogni mio concetto. SALV. Non lo passerà altrimente, fatto ch’io v’abbia accorto dell’equivoco nel quale voi andate fluttuando: però avvertite che bisogna distinguere i gravi posti in moto da i medesimi costituiti in quiete. Una gran pietra messa nella bilancia non solamente acquista peso maggiore col soprapporgli un’altra pietra, ma anco la giunta di un pennecchio di stoppa la farà pesar più quelle sei o dieci once che peserà la stoppa; ma se voi lascerete liberamente cader da un’altezza la pietra legata con la stoppa, credete voi che nel moto la stoppa graviti sopra la pietra, onde gli debba accelerar il suo moto, o pur credete che ella la ritarderà, sostenendola in parte? Sentiamo gravitarci su le spalle mentre vogliamo opporci al moto che farebbe quel peso che ci sta addosso; ma se noi scendessimo con quella velocità che quel tal grave naturalmente scenderebbe, in che modo volete che ci prema e graviti sopra? Non vedete che questo sarebbe un voler ferir con la lancia colui che vi corre innanzi con tanta velocità, con quanta o con maggiore di quella con la quale voi lo seguite? Concludete pertanto che nella libera e naturale caduta la minor pietra non gravita sopra la maggiore, ed in consequenza non le accresce peso, come fa nella quiete. Le immagini di Salviati sembrano anticipare il famoso esempio di Einstein della persona posta all’interno di un ascensore in caduta libera: nel sistema di riferimento dell’ascensore la persona non ha peso, ossia non esercita alcuna forza sul pavimento (un foglio di carta posto sotto la suola delle scarpe 17

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potrebbe essere sfilato senza offrire la benché minima resistenza). Simplicio non appare convinto e solleva un’ulteriore obiezione: SIMPL. Ma chi posasse la maggior sopra la minore? SALV. Le accrescerebbe peso, quando il suo moto fusse più veloce: ma già si è concluso che quando la minore fusse più tarda, ritarderebbe in parte la velocità della maggiore, tal che il foro composto si moverebbe men veloce, essendo maggiore dell’altra; che è contro al vostro assunto. Concludiamo per ciò, che i mobili grandi e i piccoli ancora, essendo della medesima gravità in spezie, si muovono con pari velocità. SIMPL. Il vostro discorso procede benissimo veramente: tuttavia mi par duro a credere che una lagrima di piombo si abbia a muover così veloce come una palla d’artiglieria. SALV. Voi dovevi dire, un grano di rena come una macina da guado. Io non vorrei, Sig. Simplicio, che voi faceste come molt’altri fanno, che, divertendo il discorso dal principale intento, vi attaccaste a un mio detto che mancasse dal vero quant’è un capello, e che sotto questo capello voleste nasconder un difetto d’un altro, grande quant’una gomona da nave. Aristotele dice: «Una palla di ferro di cento libbre, cadendo dall’altezza di cento braccia, arriva in terra prima che una di una libbra sia scesa un sol braccio»; io dico ch’ell’arrivano nell’istesso tempo; voi trovate, nel farne l’esperienza, che la maggiore anticipa due dita la minore, cioè che quando la grande percuote in terra, l’altra ne è fontana due dita: ora vorreste dopo queste due dita appiattare le novantanove braccia di Aristotele, e parlando solo del mio minimo errore, metter sotto silenzio l’altro massimo. Aristotele pronunzia che mobili di diversa gravità nel medesimo mezzo si muovono (per quanto depende dalla gravità) con velocitadi proporzionate a i pesi loro, e l’esemplifica con mobili ne i quali si possa scorgere il puro ed assoluto effetto del peso, lasciando l’altre considerazioni sì delle figure come de i minimi momenti, le quali cose grande alterazione ricevono dal mezzo, che altera il semplice effetto della sola gravità: che perciò si vede l’oro, gravissimo sopra tutte l’altre materie, ridotto in una sottilissima foglia andar vagando per aria; l’istesso fanno i 24

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sassi pestati in sottilissima polvere. Ma se voi volete mantenere la proposizione universale, bisogna che voi mostriate, la proporzione delle velocità osservarsi in tutti i gravi, e che un sasso di venti libbre si muova dieci volte più veloce che uno di due; il che vi dico esser farso, e che, cadendo dall’altezza di cinquanta o cento braccia, arrivano in terra nell’istesso momento. SIMPL. Forse da grandissime altezze di migliaia di braccia seguirebbe quello che in queste altezze minori non si vede accadere. SALV. Se Aristotele avesse inteso questo, voi gli addossereste un altro errore, che sarebbe una bugia; perché, non si trovando in terra tali altezze perpendicolari, chiara cosa è che Aristotele non ne poteva aver fatta esperienza: e pur ci vuol persuadere d’averla fatta, mentre dice che tale effetto si vede. 29

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Galileo rimprovera ad Aristotele di aver fatto delle affermazioni senza la necessaria sperimentazione. Essa rappresenta per Galileo – come del resto già per Aristotele – il fulcro dell’investigazione scientifica, e questo egli tiene a ribadire più e più volte: «È sciocchezza cercar filosofia che ci mostri la verità di un effetto meglio che l’esperienza e gli occhi nostri»; e anche: «... tra le sicure maniere di conseguire la verità è l’anteporre l’esperienza a qualsivoglia discorso... non sendo possibile che una sensata esperienza sia contraria al vero». Nella caduta dei gravi nel vuoto, l’esperienza non era fattibile, quindi Galileo stesso è costretto a trarre conclusioni senza poterle verificare. Egli tuttavia fa ricorso, come si è visto poc’anzi, a un ferreo ragionamento per assurdo, il cui valore persuasivo può dirsi pari a quello di una reale sperimentazione. È un emblematico esempio del modo di procedere di Galileo: le osservazioni preliminari e la relativa discussione teorica culminano nella scena madre, quella in cui si propone una appariscente verifica empirica, Gedanken o reale che sia, della tesi fondamentale. Dopo questo momento focale, la discussione prosegue su aspetti di dettaglio, per giungere alla questione delle diverse velocità di caduta al variare del mezzo ambiente. Parla Salviati: 31

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L’attrito dell’aria SALV. [...] Veduto come la differenza di velocità, ne i mobili di gravità diverse, si trova esser sommamente maggiore ne i mezzi più e più resistenti; ma che più? nel mezzo dell’argento vivo l’oro non solamente va in fondo più velocemente del piombo, ma esso solo vi descende, e gli altri metalli e pietre tutti vi si muovono in su e vi galleggiano, dove che tra palle d’oro, di piombo, di rame, di porfido, o di altre materie gravi, quasi del tutto insensibile sarà la disegualità del moto per aria, ché sicuramente una palla d’oro nel fine della scesa di cento braccia non preverrà una di rame di quattro dita; veduto, dico, questo, cascai in opinione che se si levasse totalmente la resistenza del mezzo, tutte le materie descenderebbero con eguali velocità. SIMPL. Gran detto è questo, Sig. Salviati. Io non crederò mai che nell’istesso vacuo, se pur vi si desse il moto, un fiocco di lana si movesse così veloce come un pezzo di piombo. All’obiezione di Simplicio, Salviati risponde con un discorso il cui senso è il seguente. Non disponendo del vuoto, facciamo esperimenti in mezzi via via meno densi, allo scopo di arrivare a descrivere il comportamento nel vuoto per estrapolazione. Se troveremo che i tempi di caduta di due corpi differenti risultano sempre più ravvicinati quanto meno il mezzo è denso, potremo concludere che nel vuoto essi sarebbero identici. La ricerca scientifica post-galileiana si varrà di questa procedura estrapolativa per determinare proprietà che non possono venire osservate. SALV. Pian piano, Sig. Simplicio: la vostra difficoltà non è tanto recondita, né io così inavveduto, che si debba credere che non mi sia sovvenuta, e che in consequenza io non vi abbia trovato ripiego. Però, per mia dichiarazione e vostra intelligenza, sentite il mio discorso. Noi siamo su ’l volere investigare quello che accaderebbe a i mobili differentissimi di peso in un mezzo dove la resistenza sua fusse nulla, sì che tutta la differenza di velocità, che tra essi mobili si ritrovasse, referir si dovesse alla sola disuguaglianza di peso; e perché solo uno spazio del tutto voto d’aria e di ogni altro corpo, ancor che tenue e cedente, sarebbe atto a sensatamente mostrarci quello che ricerchiamo, 34

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già che manchiamo di cotale spazio, andremo osservando ciò che accaggia ne i mezzi più sottili e meno resistenti, in comparazione di quello che si vede accadere ne gli altri manco sottili e più resistenti: ché se noi troveremo, in fatto, i mobili differenti di gravità meno e meno differir di velocità secondo che in mezzi più e più cedenti si troveranno e che finalmente, ancor che estremamente diseguali di peso, nel mezzo più d’ogni altro tenue, se ben non voto, piccolissima si scorga e quasi inosservabile la diversità della velocità, parmi che ben potremo con molto probabil coniettura credere che nel vacuo sarebbero le velocità loro del tutto eguali. Per tanto consideriamo ciò che accade nell’aria: dove, per aver una figura di superficie ben terminata e di materia leggierissima, voglio che pigliamo una vescica gonfiata, nella quale l’aria che vi sarà dentro peserà, nel mezzo dell’aria stessa, niente o poco, perché poco vi si potrà comprimere; talché la gravità è solo quella poca della stessa pellicola, che non sarebbe la millesima parte del peso d’una mole di piombo grande quanto la medesima vescica gonfiata. Queste, Sig. Simplicio, lasciate dall’altezza di quattro o sei braccia, di quanto spazio stimereste che ’l piombo fusse per anticipare la vescica nella sua scesa? siate sicuro che non l’anticiperebbe del triplo, né anco del doppio, se ben già l’aresti fatto mille volte più veloce. SIMPL. Potrebbe esser che nel principio del moto, cioè nelle prime quattro o sei braccia, accadesse cotesto che dite: ma nel progresso ed in una lunga continuazione, credo che ’l piombo se la lascerebbe indietro non solamente delle dodici parti dello spazio le sei, ma anco le otto e le dieci. SALV. Ed io ancora credo l’istesso, e non dubito che in distanze grandissime potesse il piombo aver passato cento miglia di spazio, prima che la vescica ne avesse passato un solo: ma questo, Sig. Simplicio mio, che voi proponete come effetto contrariante alla mia proposizione, è quello che massimamente la conferma. È (torno a dire) l’intento mio dichiarare, come delle diverse velocità di mobili di differente gravità non ne sia altramente causa la diversa gravità, ma che ciò dependa da accidenti esteriori ed in particolare dalla resistenza del mezzo, sì che, tolta questa, tutti i mobili si moverebber con i medesimi gradi di velocità: e questo deduco io principalmente da quello 39

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che ora voi stesso ammettete e che è verissimo, cioè che di mobili differentissimi di peso le velocità più e più differiscono secondo che maggiori e maggiori sono gli spazii che essi van trapassando; effetto che non seguirebbe quando ei dependesse dalle differenti gravità. Imperò che, essendo esse sempre le medesime, medesima dovrebbe mantenersi sempre la proporzione tra gli spazii passati, la qual proporzione noi veggiamo andar, nella continuazion del moto, sempre crescendo; poiché l’un mobile gravissimo nella scesa d’un braccio non anticiperà il leggierissimo della decima parte di tale spazio, ma nella caduta di dodici braccia lo preverrà della terza parte, in quella di cento l’anticiperà di 90/100, etc. Gli argomenti di Salviati conducono alla nitida formulazione del meccanismo di caduta di un corpo nel vuoto e in un mezzo materiale. Mentre nel vuoto, ossia in caduta libera, il grave continua ad accelerare indefinitamente, aumentando la velocità in modo proporzionale al tempo trascorso, nei mezzi materiali esso accelera nella fase iniziale, quando la velocità è bassa, ma raggiunge un moto uniforme dopo un certo intervallo di tempo, che è tanto più breve quanto più il mezzo offre resistenza. Si arriva così alla definizione della velocità terminale, quella che il corpo raggiunge quando la forza peso e quella d’attrito si pareggiano (effetto paracadute). La descrizione di Galileo sarà quantitativamente espressa dalla legge di Newton (si veda la NOTA FISICO-MATEMATICA che conclude il presente capitolo). Nella descrizione aristotelica, la fase transitoria di accelerazione dallo stato di quiete non è presa in considerazione. [...] Dico per tanto che un corpo grave ha da natura intrinseco principio di muoversi verso ’l comun centro de i gravi, cioè del nostro globo terrestre, con movimento continuamente accelerato, ed accelerato sempre egualmente, cioè che in tempi eguali si fanno aggiunte eguali di nuovi momenti e gradi di velocità. E questo si deve intender verificarsi tutta volta che si rimovessero tutti gl’impedimenti accidentarii ed esterni, tra i quali uno ve ne ha che noi rimuover non possiamo, che è l’impedimento del mezzo pieno, mentre dal mobile cadente 44

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deve esser aperto e lateralmente mosso: al qual moto trasversale il mezzo, benché fluido cedente e quieto, si oppone con resistenza or minore ed or maggiore e maggiore, secondo che lentamente o velocemente ei deve aprirsi per dar il transito al mobile; il quale, perché, come ho detto, si va per sua natura continuamente accelerando, vien per conseguenza ad incontrar continuamente resistenza maggiore nel mezzo, e però ritardamento e diminuzione nell’acquisto di nuovi gradi di velocità, sì che finalmente la velocità perviene a tal segno, e la resistenza del mezzo a tal grandezza, che, bilanciandosi fra loro, levano il più accelerarsi, e riducono il mobile in un moto equabile ed uniforme, nel quale egli continua poi di mantenersi sempre. E dunque, nel mezzo, accrescimento di resistenza, non perché si muti la sua essenza, ma perché si altera la velocità con la quale ei deve aprirsi e lateralmente muoversi per cedere il passaggio al cadente, il quale va successivamente accelerandosi. Ora il vedere che la resistenza dell’aria al poco momento della vescica è grandissima, ed algran peso del piombo è piccolissima, mi fa tener per fermo che chi la rimovesse del tutto, con l’arrecare alla vescica grandissimo commodo, ma ben poco al piombo, le velocità loro si pareggerebbero. [...]. Effetto paracadute Molto più avanti nel dialogo, Galileo riprenderà il discorso sul ruolo della forza d’attrito in relazione al peso del corpo in caduta e alla sua velocità, precisando ulteriormente il significato di velocità limite, quella oltre la quale il moto diviene uniforme: SALV [...] Imperò che, quanto alla velocità, secondo che questa sarà maggiore, maggiore sarà il contrasto fattogli dall’aria; la quale anco impedirà più i mobili secondo che saranno men gravi: talché, se bene il grave descendente dovrebbe andare accelerandosi in duplicata proporzione della durazion delsuo moto, tuttavia, per gravissimo che fusse il mobile, nel venir da grandissime altezze sarà tale l’impedimento dell’aria. che gli torrà il poter crescere più la sua velocità, e lo ridurrà ad un moto uniforme ed equabile; e questa adequazione tanto più 47

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presto ed in minori altezze si otterrà, quanto il mobile sarà men grave. Al termine del dibattito, che si protrae con dovizia di argomentazioni e di esempi, Simplicio si dichiara finalmente convinto delle tesi di Salviati. Ciò induce Sagredo a emettere un giudizio, che evidentemente esprime il legittimo risentimento di Galileo nei confronti dei suoi oppositori (meglio, dei suoi persecutori). Si noti tuttavia come, nelle parole di Sagredo, la dolorosa esperienza biografica di Galileo trascenda in amare considerazioni sui comportamenti umani. SIMPL. Pur mi pareva che nell’addotte esperienze vi fusse qualche cosa da desiderare; ma ora mi quieto interamente. SALV. Le cose da me sin qui prodotte, ed in particolare questa, che la differenza di gravità, ben che grandissima, non abbia parte veruna nel diversificare le velocità de i mobili, sì che, per quanto da quella depende, tutti si moverebbero con egual celerità, è tanto nuova e, nella prima apprensione, remota dal verisimile, che quando non si avesse modo di dilucidarla e renderla più chiara che ’l Sole, meglio sarebbe il tacerla che ’l pronunziarla: però, già che me la sono lasciata scappar di bocca, convien ch’io non lasci indietro esperienza o ragione che possa corroborarla. SAGR Non questa sola, ma molte altre insieme delle vostre proposizioni son così remote dalle opinioni e dottrine communemente ricevute, che spargendosi in publico vi conciterebber numero grande di contradittori, essendo che l’innata condizione degli uomini non vede con buon occhio che altri nel loro esercizio scuopra verità o falsità non scoperte da loro; e col dar titolo di innovatori di dottrine, poco grato agli orecchi di molti, s’ingegnano di tagliar quei nodi che non possono sciorre, e con mine sotterranee dissipar quelli edifizii che sono stati, con gli strumenti consueti, da pazienti artefici costrutti. Ma con esso noi, lontani da simili pretensioni, l’esperienze e le ragioni sin qui addotte bastano a quietarci: tuttavia, quando abbiate altre più palpabili esperienze e ragioni più efficaci, le sentiremo molto volentieri. 53

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Il dialogo sulla caduta dei gravi sopra riportato ben illustra lo stile dialettico proprio di Galileo, come argutamente lo descrive il canonico Querengo, suo avversario: «Del Galileo avrebbe gran gusto V.S. Illustrissima, se l’udisse discorrere, come fa spesso in mezzo di XV e XX che gli dànno assalti crudeli [...]. Ma egli sta fortificato in maniera che si ride di tutti; e sebbene non persuade la novità della sua opinione, convince nondimeno di vanità la maggior parte degli argomenti co’ quali gli oppugnatori cercano di atterrarlo. Lunedì [...] prima di rispondere alle ragioni contrarie, le amplificava e rinforzava con nuovi fondamenti d’apparenza grandissima, per far poi, nel rovinarle rimaner più ridicoli gli avversari». Simplicio e la falsa scienza Simplicio, nonostante il nome che potrebbe indurre in inganno, è per lo più un avversario di rispetto, benché talvolta – più nel Dialogo che nei Discorsi – possa accadergli di sfiorare il ridicolo. Profondo conoscitore di Aristotele, è culturalmente il simbolo di una grande tradizione ormai incapace di rinnovarsi, e psicologicamente dell’uomo che non osa pensare diverso. Egli è quindi l’antitesi di Galileo-Salviati. È abbastanza intelligente da seguire un ragionamento, ma appare a volte quasi patetico nella sua ostinata difesa delle sicure idee tradizionali («mi par duro a credere», afferma di fronte alla novità dimostrata): se le abbandonasse dovrebbe poi essere in grado di mettersi in discussione, di procedere da solo, e ciò lo disorienta. Inoltre, come bene evidenzia Salviati, il metodo che egli usa per difendere ciò che, per autorità, ritiene giusto – ipse dixit – e che gli è familiare, consiste nell’appigliarsi a ogni approssimazione di dettaglio dell’avversario, anche se pressoché ininfluente sul meccanismo basilare del fenomeno osservato («un mio detto che mancasse del vero quant’è un capello», nelle parole di Salviati). Mostrando di cogliere in fallo l’oppositore, ancorché su un particolare poco rilevante, Simplicio tenta di smantellarne la credibilità, nello stesso tempo mascherando la debolezza dell’intero sistema cui egli stesso si affida. È un procedimento che di scientifico non ha 56

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nulla, ma che è assai in voga ancora oggi, e viene spesso utilizzato con stupidità o malafede maggiori di quelle di Simplicio. Si pensi a certi dibattici politici, alla cattiva divulgazione scientifica o, in maniera ancor più vistosa, alla difesa del paranormale e dell’ufologia. La grande battaglia di Galileo si svolge dunque non soltanto sul piano delle conoscenze scientifiche, ma anche dell’abito mentale e dell’etica. I rigurgiti di irrazionalismo che sembrano affiorare in questo scorcio di secolo – sette religiose, medicine alternative, oroscopi, new age, intolleranza e razzismo, ossessione consumistica, apparire più che essere, il mito del look, e così via – rendono purtroppo la battaglia non meno attuale oggi che ai suoi tempi.

CADUTA LIBERA AL DI SOPRA DELLE NUBI (Skydive WWW, Foto M. Skeffington)

L’esortazione di Salviati a Simplicio illustra uno dei cardini della rivoluzione scientifica galileiana: in presenza di un fenomeno, si cerchi di separare e indagare il meccanismo

fondamentale, ignorando in prima istanza le piccole alterazioni, le sfumature che scaturiscono da fattori marginali. Per esempio, data la bassissima densità dell’aria, in un primo approccio essa è assimilabile al vuoto. Affinché ciò sia legittimo, occorre che la caduta avvenga su distanze non troppo lunghe, cioè che la velocità rimanga bassa, e così l’effetto dell’attrito. Quest’ultimo può essere introdotto in seconda approssimazione, come perturbazione sul processo base. La fisica moderna è interamente fondata su questo genere di procedura. NOTA FISICO-MATEMATICA L’intera problematica si compendia in una sola equazione. L’andamento dell’accelerazione a nel tempo t è descritto dalla legge di Newton

m a(t) = P + F A(t) (massa per accelerazione=forza peso+forza d’attrito)

dove la forza peso è P=mg, con m=massa del corpo e g=accelerazione di gravità, indipendente dal tempo. Nella maggioranza dei casi, purché la velocità non sia troppo elevata, la forza d’attrito FA è proporzionale alla velocità v, ossia FA= , dove il fattore costante di attrito b dipende dalla viscosità del mezzo e dalla forma del corpo (in particolare dalla sua sezione), e il segno meno sta a indicare che la forza di attrito si oppone alla forza peso. Sostituendo nell’equazione di moto e integrando, si arriva a un’accelerazione e a una velocità che variano nel tempo secondo le equazioni 58

-bv

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L’andamento delle due grandezze (1a) e (1b) è illustrato nella figura di pagina seguente a sinistra. Per t=0 l’accelerazione coincide con quella di gravità, poi cala esponenzialmente verso zero, valore cui tende tanto più rapidamente quanto più piccola è la massa m del corpo e quanto più grande è il fattore di attrito b. Dopo un certo tempo di caduta, il grave smette in pratica di accelerare e scende con velocità costante (velocità limite , effetto paracadute). Se l’attrito è nullo, caso della caduta libera, il moto è sempre uniformemente accelerato ed eguale per tutti i gravi, giacché la legge di Newton si riduce in qualsiasi caso a a(t) = g. La figura di pagina seguente a destra illustra i primi 9 spazi di caduta percorsi, come apparirebbero in una serie di scatti fotografici equidistanti nel tempo: (I) caso ideale di assenza di attrito ipotizzato da Galileo, (II) caso reale in presenza di un mezzo ambiente. Dall’equazione (1b), per t → ∞, si ricava subito che la velocità limite è data da

(2)

Essa risulta in crescita diretta con il peso del corpo e inversa con il fattore di attrito. Dato che quest’ultimo, oltre a dipendere da vari parametri, aumenta con la densità del mezzo, si vede che il risultato trovato va nella giusta direzione di quanto asserivano gli aristotelici, sebbene valga soltanto dopo la fase transitoria di accelerazione, quando il grave ha raggiunto la velocità limite. Dalla formula si vede che la velocità di discesa di un paracadute cresce proporzionalmente al peso sorretto.

Ancora una breve annotazione. In uno scritto di Leonardo da Vinci, del quale Galilei molto difficilmente era a conoscenza, la concezione aristotelica sembra venir rifiutata. Leonardo, riportando alla luce l’osservazione fatta da Filopono nel VI secolo, scrive: «Se due palle di una medesima materia, che l’una sia doppio peso dell’altra, cadendo in un tempo da una medesima altezza, non caderà prima altrettanto tempo la maggiore che la minore». Anche Leonardo, come poi Galileo, si rende conto che il ruolo dell’attrito con l’aria è la chiave di spiegazione della diversità di comportamento di corpi differenti, ma egli non tiene evidentemente conto del fatto che la forza d’attrito cresce con la velocità. Prendendola costante, e debitamente proporzionale alla sezione del corpo (laddove la massa e il peso vanno con il volume), egli perviene a una correzione della legge aristotelica – velocità di caduta proporzionale al peso del corpo – del seguente tenore: «Se caderà dall’alto in basso due diseguali corpi sferici e ponderosi,

di egual materia e caduta, tanto caderà più presto l’uno che l’altro, quanto il diametro dell’uno entra nell’altro». Il che è vero soltanto quando il grave ha raggiunto la velocità limite, data dall’equazione (2). Infatti, essendo b proporzionale alla sezione del corpo (quadrato del raggio) e m al volume (cubo del raggio), νlimite risulta proporzionale al raggio del corpo, coerentemente appunto con l’affermazione di Leonardo. Contemporaneamente, nel caso più generale di moti dovuti a qualsivoglia forze agenti, Leonardo crede ancora, come Aristotele, che la velocità di un corpo cresca con la forza ad esso applicata. Dice Aristotele: «Se una certa forza o potenza muove un certo corpo con una certa velocità, occorrerà una forza o potenza doppia per muovere lo stesso corpo con velocità doppia». Ribadisce Leonardo: «Se alcuna virtù moverà alcun mobile per alcuno spazio, in equal tempo, la medesima virtù muoverà la metà di quel mobile in tutto quello spazio nella metà di quel tempo».

Capitolo 4 (dalla Lettera a Ingoli) VITA DI BORDO ovvero i princìpi d’inerzia e di relatività ... pigliatevi anco un gran vaso con acqua, e dentrovi de ’pescetti

Dal modo in cui vede svolgersi un evento, un osservatore non può dire di se stesso se sia fermo o si muova di moto rettilineo uniforme. Lo conferma la vita a bordo di una nave, con la celebre immagine del moto di animaletti vari e della caduta di gocce d’acqua all’interno di una stanza sotto coperta, in cui nulla cambia rispetto alla terraferma. Si dimostra la vanità dei principali argomenti dei filosofi aristotelici invocati a sostegno dell’immobilità della Terra. Nel brano affiora l’idea rivoluzionaria, poi portata a completezza da Newton, di collegare la forza agente su un corpo alla sua accelerazione e non più alla velocità.

Eppur si muove In questa impeccabile dissertazione, inviata a Francesco Ingoli come risposta a un suo testo, Galileo enuncia implicitamente i due princìpi fondamentali di inerzia e di relatività, quelli che in certo modo rappresentano il punto focale della rivoluzione galileiana. L’oggetto del contendere è se la Terra sia immobile – punto di vista aristotelico – oppure orbiti attorno al Sole, nel contempo ruotando su se stessa. Qui ci limiteremo a riportare parte del discorso relativo al secondo moto, quello che Galileo chiama «il moto diurno». Gli argomenti addotti da Ingoli a

favore dell’immobilità della Terra e presi in considerazione da Galileo sono essenzialmente tre: primo, una pietra lasciata cadere da una torre scende a perpendicolo, correndo parallelamente alla torre lungo l’intero percorso (vero); secondo, lo stesso avviene per una pietra lasciata cadere dalla cima dell’albero di una nave ferma, ma non già se la nave avanza (falso); terzo, i tiri di un cannone sono di egual gittata se sparati verso Est oppure verso Ovest (vero). Veri o falsi che siano – mostra Galileo – i tre argomenti sono inconcludenti. Galileo evidenzia le pecche che affliggono l’osservazione dei fenomeni da parte di certi aristotelici, spesso data per buona senza una reale e diretta sperimentazione, nonché i loro ragionamenti, che sovente si possono ritorcere contro loro stessi. L’argomento del sasso che cade alla base della torre, e non a una qualche distanza a Ovest di essa, non prova assolutamente nulla: Galileo dimostra che in entrambi i casi – Terra immobile o Terra in rotazione con velocità costante – la caduta deve avvenire con identiche modalità. Questa conclusione equivale a enunciare al contempo i due princìpi, di inerzia e di relatività. Principio di inerzia Secondo il principio di inerzia, un corpo, una volta posto in movimento, mantiene la propria velocità se è nulla la risultante delle forze cui si trova sottoposto, siano esse agenti o resistenti (tra queste, tipicamente, quella d’attrito). Esso resta quindi fermo se lo è all’istante iniziale. Viene meno allora la necessità di invocare – come faceva Aristotele – una forza di spinta, o altri deus ex machina atti a garantire la conservazione del moto. Se una forza interviene, essa ha l’effetto o di frenare il corpo, allorché si contrappone al suo moto, oppure di accelerarlo, se è concorde con esso; mai di conservargli la velocità iniziale. Concetto rivoluzionario, giacché prima di Galileo si riteneva che la velocità di un corpo fosse in qualche modo da collegare a una forza applicata. Gli studiosi erano ancora fermi alle parole di Aristotele: «Se una certa forza o potenza muove un certo corpo con una certa velocità, occorrerà una forza o potenza doppia per muovere lo stesso corpo con velocità doppia» (ossia due cavalli fanno avanzare la

carrozza più speditamente di uno solo). Concetto così rivoluzionario che ancor oggi fatica a penetrare le menti dei profani, come indicano certi sondaggi fatti tra i nuovi iscritti al corso di laurea in Fisica, i quali in proposito rivelano di nutrire, in due casi su tre, concezioni pre-galileiane. Un grande studioso francese di Galileo, ma anche grande fautore di Cartesio, Alexandre Koyré, sul principio d’inerzia e sui meriti dei due scienziati in proposito, scrive: «La maggior gloria di Cartesio fisico è, senza dubbio, quella di aver dato del principio d’inerzia una formula “chiara e distinta” e di averla messa al giusto posto. Si potrebbe però obiettare che quando la formulò, al tempo cioè dei Principia – dodici anni dopo il Dialogo, sei anni dopo i Discorsi di Galileo – [ciò] non era né molto meritorio, né molto difficile. In realtà nel 1644 la legge d’inerzia non si presentava più come una concezione inaudita e nuova ma, al contrario, grazie ai lavori e agli scritti di Gassendi, di Torricelli, di Cavalieri, cominciava ad apparire come una verità universalmente riconosciuta. Si potrebbe inoltre aggiungere che, se Galileo stesso non l’aveva formulata expressis verbis, o almeno non l’aveva posta come legge fondamentale del movimento, la sua fisica ne era talmente imbevuta che un Baliani – studioso il cui ingegno non si può, in alcun modo, paragonare con quello di coloro che abbiamo menzionato poche righe sopra – ebbe la possibilità, con tutta semplicità, di ricavarla. Si potrebbe citare il giudizio di Newton che attribuisce tutto il merito della scoperta a Galileo, passando completamente sotto silenzio il nome di Cartesio... ». Si deve appunto a Newton l’aver colto nell’opera di Galileo tutti i presupposti fondamentali di una concezione rivoluzionaria del movimento. Una concezione che è stata lungamente preparata, ma che in lui mostra i tratti essenziali e più sistematici. Moto circolare Se proprio si volesse esprimere una riserva sui meriti di Galileo, si potrebbe dire che in lui non tutti gli aspetti dell’inerzia sono messi perfettamente a fuoco. Manca per esempio l’esplicito riconoscimento che il moto circolare uniforme non è un moto inerziale, un moto cioè che avviene 1

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senza intervento di forze. Si tratta infatti di un moto accelerato, in quanto implica un continuo cambiamento di direzione (e perché ciò si verifichi, è necessaria l’azione di una forza diretta verso il centro della traiettoria, per esempio quella gravitazionale nel caso di un pianeta in orbita). Nel Dialogo, invece, Galileo fa dire a Salviati: «... e perché nel moto circolare il mobile sempre si parte da termine naturale, e sempre si muove verso il medesimo, adunque in lui la repugnanza e l’inclinazione son sempre di eguali forze; dalla quale egualità ne risulta una non ritardata né accelerata velocità, cioè l’uniformità del moto». D’altra parte, Enrico Bellone fa osservare che, nelle affermazioni di Galileo, nulla autorizza a emettere giudizi attorno a una sua presunta e contraddittoria idea di inerzia circolare. Dai passi che seguiranno e da quelli riportati nel prossimo capitolo, giudichi il lettore fino a che punto Newton avesse visto giusto. Principio di relatività Il principio di relatività afferma che un fenomeno fisico viene descritto da un’identica legge se visto da un osservatore fermo oppure in moto, purché tale moto sia rettilineo e uniforme, cioè avvenga con velocità costante (in termini scientifici si dice che l’osservatore si trova in un sistema di riferimento inerziale). Più in generale: le leggi fisiche sono le stesse per due osservatori in moto rettilineo uniforme uno rispetto all’altro. O, in parole diverse, dal modo in cui vede svolgersi un fenomeno, un osservatore non può dire di essere fermo oppure di muoversi con moto rettilineo uniforme. Soltanto gli osservatori non inerziali – ossia in stato di accelerazione – danno un resoconto diverso del fenomeno. Osservatori posti sulla superficie della Terra, a rigor di logica, non sono inerziali, perché la rotazione terrestre li fa muovere lungo un arco (o, se vogliamo, conferisce loro un’accelerazione radiale). Tuttavia, data la grandezza del raggio terrestre, il loro moto differisce poco da un moto rettilineo uniforme e l’errore che si fa trattandoli come osservatori inerziali è molto piccolo (si veda per una valutazione la NOTA FISICO-MATEMATICA a fine capitolo). È per questo motivo che Galileo non confuta, anzi accoglie 6

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l’analogia fatta da Ingoli tra caduta di un corpo da una torre sulla terraferma e dall’albero di una nave in movimento. La carrozza a cavalli Prima di passare alle parole di Galileo è bene chiarire perché il fatto che due cavalli possano trainare una carrozza più velocemente di uno solo non dimostra che per conservare il moto occorra mantenere una forza applicata. Al contrario, affinché un corpo (la carrozza) viaggi con velocità di crociera costante, bisogna che la forza complessiva agente su di esso sia nulla, altrimenti per la legge di Newton – forza eguale a massa per accelerazione – il corpo continuerebbe ad accelerare. Come interviene allora la forza dei cavalli? Perché, se la forza determina l’accelerazione e non la velocità, per mantenere un corpo in movimento è sempre necessario disporre di un motore o di qualche altro agente?

La risposta è: perché nella pratica occorre vincere la resistenza degli attriti. L’assenza di accelerazione significa semplicemente che la forza dei cavalli è tale da bilanciare quella opposta dovuta agli attriti (dell’aria, delle ruote sul selciato, eccetera). È noto che in genere l’attrito cresce con la velocità del corpo, quindi la forza di due cavalli permette di vincere un attrito maggiore e di ottenere una velocità più alta. Si può invece 8

senz’altro affermare che due cavalli sono in grado di far accelerare la carrozza più rapidamente che un cavallo solo (in un’automobile: più potenza, maggior ripresa). È in questa revisione dei rapporti tra forza, velocità e accelerazione che risiede il fulcro del nuovo pensiero galileiano. Sarà Newton, diversi decenni più tardi, a tradurre questi concetti in forma quantitativa, dettando la legge fondamentale che porta il suo nome. Prudenza e ironia Il paragrafo iniziale della lettera è tanto cerimonioso e barocco, ed elaborato nello stile, quanto è pungente nel contenuto. Galileo dice di non aver confutato prima le tesi dell’Ingoli per riguardo alla sua reputazione; ma poiché il silenzio ha indotto molti a ritenere Galileo persuaso da argomentazioni del tutto insostenibili, provvederà a rimediare. In questo primo paragrafo, lo scienziato accenna inoltre alla sua recente visita a Roma per rendere omaggio a papa Urbano VIII, Maffeo Barberini, da poco eletto al soglio pontificio, il quale sarebbe il vero destinatario della Risposta. Alcuni elementi a sostegno dell’ipotesi: la chiarezza cristallina del testo, fors’anche troppo minuzioso, come di chi si rivolga a persona, per quanto competente, non esperta del campo, ma che si intende assolutamente persuadere; lo stile, in particolar modo forbito, soprattutto nei passi dove l’argomento non è scientifico; la cautela con cui Galileo ribadisce di volersi astenere dal controbattere le tesi teologiche e di voler restare «dentro a i termini dei discorsi umani e naturali»; l’accenno al cosiddetto argomento di Urbano VIII (Capitolo 9), là dove – secondo paragrafo – Galileo sostiene che se i cattolici, a differenza degli eretici, non accettano le tesi copernicane, non è perché non le conoscono, ma perché antepongono alle «ragioni ed esperienze» degli astronomi «la reverenza e la fede», e perché sono consapevoli di quanto poca fiducia si debba avere «negli umani discorsi e nell’umana sapienza» e quanto «obbligo» invece verso le «scienze superiori» – leggasi teologia – le quali sole «son potenti a dissottenebrar la cecità della nostra mente e ad insegnarci quelle discipline alle quali per nostre esperienze o ragioni giammai non arriveremmo». Parole quasi

identiche si ritrovano nel proemio del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, alla cui stesura Galileo si dedica a partire dallo stesso anno della risposta all’Ingoli, e nel quale riprende con linguaggio scientificamente più approfondito molti temi qui trattati (si veda il Capitolo 5). Ora, conoscendo appena Galileo, non si può non cogliere, in questa sua esplicita dichiarazione di sottomissione, tutta l’amarezza di chi è forzato a scrivere l’esatto contrario di ciò che pensa e che è la base del suo lavoro, la mortificazione dello scienziato di appartenere a un contesto culturale e sociale tanto retrivo, ma nello stesso tempo anche l’ironia che fin troppo imprudentemente vi si affaccia. Così come imprudente appare, a tratti, seppure giustificata dalle traversie che hanno preceduto la Risposta – si veda la NOTA STORICA più avanti – la forza polemica con cui Galileo passa a smantellare, con inesorabile progressione di argomenti, tutte le tesi anticopernicane; e l’accusa di «bugia» e «inganno» agli avversari; e infine il puntiglio con cui ne evidenzia i due principali errori di metodo («l’uno è di raggirarsi sempre tra equivochi, supponendo per noto quello ch’è in quistione; e l’altro è, che sovvenendovi esperienze da potersi fare, per le quali voi potesse venir in luce del vero, senz’altramente farle le ponete come fatte e le portate come rispondenti a favore della vostra conclusione»). Nella sostanza, insomma, la Risposta, quale splendido esempio di fiducia nel raziocinio e di amorosa attenzione al mondo dell’esperienza, contraddice tutte le dichiarazioni iniziali. Pare comunque che il papa l’abbia letta e ne sia rimasto soddisfatto. Leggiamola anche noi: 9

LETTERA A FRANCESCO INGOLI IN RISPOSTA ALLA DISPUTATIO DE SITU ET QUIETE TERRAE

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Otto anni sono già decorsi, Sig. Ingoli, ch’io, ritrovandomi in Roma, ebbi da voi una scrittura, in forma quasi di lettera, indirizzata a me, nella quale v’ingegnavi di dimostrar falsa

l’ipotesi Copernicana, intorno alla quale in quel tempo assai si tumultuava; falsa, dico, principalmente quanto al luogo e movimento del Sole e della Terra, sostenendo voi, questa esser nel centro dell’universo e del tutto immobile, e quello mobile e tanto lontano dal detto centro quanto dalla Terra stessa: in confermazione di che producevi tre generi d’argomenti, i primi astronomici, i secondi filosofici, i terzi teologici; poi molto cortesemente mi sollecitavi a dovervi rispondere, quando io vi avessi scorto drento alcuna fallacia o altra men concludente ragione. Io, mosso dalla vostra ingenuità e da altri cortesi affetti in voi per altri tempi a dietro scorti, e sicurissimo che lontano da ogni invidia e con animo sincero mi avevi conferiti i vostri pensieri, doppo averli una e due volte considerati, desideroso di contraccambiare nel meglio modo ch’io potessi la sincerità dell’animo vostro, conclusi meco medesimo, niun altro mezzo esser più opportuno per effettuar tal mio desiderio, che il silenzio; parendomi che in questa guisa io non venissi ad amareggiare il gusto che pur voglio credere che voi sentiste nel persuadervi d’aver convinto un tant’uomo quale è il Copernico, e che insieme insieme io lasciassi, per quanto dependeva da me, intera la vostra reputazione appresso quelli che avesser letta la vostra scrittura. Non dirò già, che la stima della vostra fama mi facesse divenir dispregiatore della mia propria, la quale non credetti mai che dovessi esser così tenue, che potessi avvenir caso onde alcuno che bene avesse esaminate le vostre contradizioni a quella opinione ch’io allora reputava vera, avesse dal mio tacere ad inferire in me intelligenza minore di quella che bastava per confutarle tutte; tutte, dico, trattone le teologiche, intorno alle quali parmi che assai diversamente procedere si deva che intorno all’altre, come quelle che non alle confutazioni soggiacciono, ma solo delle interpretazioni son capaci. Ma essendo io ultimamente rivenuto a Roma, per pagar quell’obbligo a’ santissimi piedi del Sommo Pontefice Urbano VIII, al quale antica servitù ed i molteplici favori ricevuti dalla Santità sua mi tenevano legato, ho scoperto e toccato con mano, essermi, nel concetto ch’io teneva, ingannato d’assai atteso che ferma e generale opinione è ch’io abbia taciuto come convinto dalle vostre dimostrazioni, le quali anco da tal uno vengono stimate necessarie ed 11

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insolubili. E ben che l’esser credute tali sia di qualche sollevamento alla reputazion mia, nulla di meno, perché in generale tanto gl’intelligenti quanto i non intendenti hanno del mio sapere formato un assai tenue concetto, quelli perché comprendono la poca efficacia dell’oppugnazioni e pur mi veggono tacere, e questi che, per non esser bastanti a giudicar d’altro che dall’esito, dal mio silenzio pur argomentano l’istesso, io mi son trovato posto in necessità, ben che, come vedete, assai tardi e contro a mia voglia, a dover rispondere alla vostra scrittura. Ed avvertite, Sig. Ingoli, ch ’io non intraprendo quest’impresa per pensiero o disegno ch’io abbia di sollevare e sostener per vera quella proposizione che già è stata dichiarata per sospetta e repugnante a quella dottrina la quale di maestà e d’autorità è superiore alle naturali ed astronomiche discipline. [...] E più soggiungo, che, a confusione degli eretici, tra i quali sento quelli di maggior grido esser tutti dell’opinione di Copernico, ho pensiero di trattar questo argomento assai diffusamente, e mostrar loro che noi cattolici, non per difetto di discorso naturale, o per non aver vedute quante ragioni, esperienze, e dimostrazioni si abbiano vedute loro, restiamo nell’antica certezza insegnataci da’ sacri autori, ma per la reverenza che portiamo alle scritture de i nostri Padri e per il zelo della religione e della nostra fede; sì che quando loro abbino vedute tutte le loro ragioni astronomiche e naturali benissimo intese da noi, anzi, di più, altre ancora di maggior forza assai delle prodotte fin qui, al più potranno tassarci per uomini costanti nella nostra oppinione, ma non già per ciechi o per ignoranti dell’umane discipline: cosa che veramente non deve importare a un vero cristiano cattolico; dico, che un eretico si rida di lui perch’egli anteponga la riverenza e la fede che si deve agli autori sacri, a quante ragioni ed esperienze hanno tutti gli astronomi e filosofi insieme. Aggiugnerassi a questo un altro benefizio per noi, che sarà il comprendere quanto poco altri si deva confidare negli umani discorsi e nell’umana sapienza, e quanto perciò noi siamo obbligati alle scienze superiori, le quali sole son potenti a dissottenebrar la cecità della nostra mente e ad insegnarci quelle discipline alle quali per nostre esperienze o ragioni giammai non arriveremmo. 16

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Movimento diurno Dopo questa ossequiosa e insieme ironica premessa, Galileo passa ai contenuti. Quella che segue è la parte relativa al moto di rotazione della Terra attorno al suo asse: [...] Quanto al movimento diurno, cioè al moto in sé stessa in 24 ore da occidente verso oriente, delle morte ragioni ed esperienze che da Aristotile, da Tolomeo, da Ticone e da altri vengono prodotte, voi assai leggiermente ve la passate con l’accennarne solamente due, cioè quella usitatissima de i corpi gravi cadenti a perpendicolo sopra la superficie della Terra, e l’altra de i proietti, li quali senza differenza veruna per eguali spazi si muovono tanto verso levante quanto verso ponente, e tanto verso austro quanto verso tramontana; e ve la passate così brevemente, credo, forse per la molta evidenza e necessità con la quale vi pare che e’ convinchino. Ma io, e questi ed altri, molto bene conosciuti ed esaminati dal Copernico ed assai più curiosamente da me, conosco in tutti o non esser nulla che possa concludere né per la parte affermativa né per la negativa, o se in alcuno vi è qualche illazione, questa esser per l’opinione Copernicana; ma più dico, aver altre esperienze non osservate sin qui da alcuno, le quali (restando dentro a i termini de i discorsi umani e naturali) necessariamente convincono la sicurezza del sistema Copernicano. Ma tutte queste cose, come bisognose per la loro esplicazione di più lunghi discorsi, le riserbo ad altro tempo; e in tanto, per rispondere quanto basta alle cose toccate da voi, torno a replicarvi che voi, insieme con tutti quegli altri, per avervi prima saldamente impresso nella mente la stabilità della Terra, incorrete poi in due gravissimi errori: l’uno è di raggirarsi sempre tra equivochi, supponendo per noto quello ch’è in quistione; e l’altro è, che sovvenendovi esperienze da potersi fare, per le quali voi potesse venir in luce del vero, senz’altramente farle le ponete come fatte e le portate come rispondenti a favore della vostra conclusione. Io, con la maggior brevità che potrò, cercherò di farvi toccar con mano questi due errori; ed altra volta potrete vedere assai diffusamente trattato questo punto, con le risposte a tutte le 24

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instanze che a prima faccia sembrano aver qualche probabilità, e non ne hanno punta. La Terra e la nave Voi, con Aristotile ed altri, dite: Se la Terra girasse in sé stessa in 24 ore, le pietre e gli altri corpi gravi cadenti da alto a basso, dalla cima, v. g., d’un’alta torre, non verrebbono a percuotere in Terra al piede della torre; avvenga che nel tempo che la pietra si trattiene per aria, scendendo verso il centro della Terra, essa Terra, procedendo con somma velocità verso levante e portando seco il piede della torre, verrebbe per necessità a lasciarsi a dietro la pietra per tanto spazio, per quanto la vertigine della Terra nel medesimo tempo fusse scorsa avanti, che sarebbero molte centinaia di braccia. Il qual discorso confermano poi con un esempio preso da un’altra esperienza, dicendo ciò manifestamente vedersi in una nave, nella quale se, mentre ella sta ferma in porto, si lascia dalla sommità dell’albero cader liberamente una pietra, quella, scendendo a perpendicolo, va a percuotere al piede dell’albero, ed in quel punto precisamente che risponde a piombo sotto il luogo di dove si lasciò cadere il sasso; il quale effetto non avviene (soggiungono essi) quando la nave si muove con veloce corso; imperò che nel tempo che la pietra consuma nel venir da alto a basso e che ella, posta in libertà, perpendicolarmente descende, scorrendo il navilio avanti, si lascia per molte braccia il sasso per poppa lontano dal piede dell’albero; conforme al quale effetto dovrebbe seguire del sasso cadente dalla cima della torre, quando la Terra circolasse con tanta velocità. Questo è il discorso: nel quale pur troppo apertamente scorgo ambedue gli errori de’ quali io parlo. Imperò che, che la pietra cadente dalla cima della torre si muova per linea retta e perpendicolare alla superficie terrestre, né Aristotile né voi da altro lo raccogliete, né potete raccorre, se non dal vedere come nel suo scendere ella vien, per così dire, lambendo la superficie della torre, eretta a perpendicolo sopra la Terra; sì che si scorge, la linea descritta dalla pietra esser retta essa ancora e perpendicolare. Ma io qui vi dico che da questa apparenza non si può altramente inferir cotesto se non supposto che la Terra stia immobile mentre la pietra descende, 27

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che è poi il quesito che si cerca; perché, se io col Copernico dirò che la Terra va in giro e seco in conseguenza porta la torre e noi ancora che osserviamo l’effetto della pietra, diremo che la pietra si muove d’un moto composto dell’universal diurno circolare verso levante e dell’altro accidentario retto verso il suo tutto, da i quali ne resulta uno inclinato verso oriente; de i quali quello ch’è comune a me, alla pietra ed alla torre, mi resta in questo caso impercettibile e come se non fusse, e solo rimane osservabile l’altro, del quale la torre ed io manchiamo, cioè l’avvicinamento alla Terra. Eccovi, dunque, l’equivoco manifesto, se però io mi sono saputo a bastanza esplicare. E più v’aggiungo che, sì come voi, con Aristotile, argomentando dalle parti al tutto, dicevi che vedendosi le parti della Terra naturalmente muoversi rettamente al basso, tale si poteva inferire essere la naturale inclinazione di tutta la Terra, cioè d’appetire il centro ed in quello, avendolo ormai conseguito, essersi fermata; così io molto meglio, argomentando dal tutto alle parti, dirò che essendo naturale inclinazione ed operazione del globo terrestre il circolare in 24 ore intorno al suo centro, tale ancora è l’inclinazione delle parti, e che però per sua natura hanno di circondare il centro della Terra in 24 ore, e che questa è la loro ingenita, propria e naturalissima azione, alla quale (ma accidentariamente) si aggiugne l’altra del discendere, quando per alcuna violenza elle fussero dal suo tutto state separate [...]. Quanto all’altro errore, che è del produrre esperienze come fatte e rispondenti al vostro bisogno senza averle mai né fatte né osservate, prima, se voi e Ticone voleste sinceramente confessare il vero, direste non aver mai sperimentato (e massime ne i paesi vicini al polo, dove l’effetto sarebbe, per quanto voi dite, più cospicuo) se accaggia o non accaggia diversità alcuna di quelle che vi par che dovessero apparire nel tirar con l’artiglierie or verso levante, or verso ponente, or verso settentrione, or verso austro; ed a così credere, anzi all’esserne sicuro, mi muove il vedere portar per certe e chiare altre esperienze assai più facili a farsi ed ad osservarsi, delle quali poi io sono tanto sicuro che provate non le hanno, quanto che a chi le prova l’effetto segue al contrario di quello che con troppa confidenza e’ dicevano. Ed una di tali esperienze è 30

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appunto questa del sasso cadente dalla sommità dell’albero nella nave, il quale va sempre a terminare e ferire nell’istesso luogo, tanto quando la nave è in quiete quanto mentre ella velocemente cammina, e non va, come essi credevano (scorrendo via la nave mentre la pietra per aria vien a basso), a ferir lontano dal piede verso la poppa; nella quale io sono stato doppiamente miglior filosofo di loro, perché loro, al dir quello ch’è il contrario in effetto, hanno anco aggiunto la bugia, dicendo d’aver ciò veduto dall’esperienza, ed io ne ho fatto l’esperienza, avanti la quale, il natural discorso mi aveva molto fermamente persuaso che l’effetto doveva succedere come appunto succede: né mi fu difficil cosa il conoscer l’inganno loro, i quali, figurandosi uno che, stando ferma la nave, fusse in cima all’albero, e così, stando il tutto in quiete, di lì lasciasse cadere un sasso, non avvertirno poi, che quando la nave era in moto, il sasso non si partiva più dalla quiete, atteso che e l’albero e l’uomo in cima e la sua mano e ’l sasso ancora si moveano con la medesima velocità che tutto il vassello; ed ancora ancora mi danno spesso per le mani ingegni tanto materiali, che non se gli può cacciare in testa che, tenendo colui ch’è su l’albero il braccio fermo, la pietra non si parta dalla quiete. Dicovi per tanto, Sig. Ingoli, che mentre la nave è in corso, con altrettanto impeto si muove anco quella pietra, il qual impeto non si perde perché quello che la teneva apra la mano e la lasci in libertà, anzi indelebilmente si conserva in lei, sì che mediante questo ell’è bastante a seguitar la nave; e per la propria gravità, non più impedita da colui, se ne descende al basso, componendo di ambedue un solo moto (e forse anco circolare), traversale e inclinato verso dove cammina la nave; e così vien a cadere in quell’istesso punto di essa nave dove cadeva quando il tutto era in quiete. Di qui potreste voi comprendere come le medesime esperienze prodotte dagli avversarii contro il Copernico fanno assai più per lui che per loro; perché se il moto comunicato dal corso della nave al sasso, il quale è ad esso indubitabilmente accidentario, tuttavia in lui talmente si conserva, che l’effetto medesimo a capello si scorge sì nella quiete come nel moto della nave, qual dubbio dovrà restare che la pietra, portata, sopra la sommità della torre, con la medesima velocità che tutto il globo terrestre, 37

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conservi la medesima nel suo venir poi a basso? la medesima, dico, la quale non, come quella della nave, gli è accidentaria, ma è la sua naturale primaria e coeterna inclinazione. Come rileva il Drake, l’argomento anticopernicano della torre non era di Aristotele, sebbene i suoi seguaci amassero attribuirglielo. Galileo lo utilizza in modo esteso perché gli consente di introdurre simultaneamente i princìpi di relatività, di conservazione del moto e, come si vedrà nel prossimo capitolo, di indipendenza dei moti. In precedenti scritti, Galileo aveva liquidato l’argomento della torre, qui così ricco di contorni, in modo assai più semplice. Un grave cade sempre lungo la linea che lo congiunge con il centro della Terra; il lato della torre è appunto parallelo a tale linea, dunque il corpo deve cadere radente alla torre, sia che la Terra giri, sia che resti immobile. L’idea, questa sì, derivava dallo stesso Aristotele, salvo che il filosofo greco l’aveva enunciata in riferimento al centro dell’universo (che per lui coincideva, ma questo era inessenziale, con il centro della Terra). Torniamo ora al discorso di Galileo per esaminare il secondo argomento, quello della gittata dei proiettili di artiglieria. Tiri d’artiglieria Quanto a i moti proietti dell’artiglierie, ancor che io non ne abbia fatte l’esperienze, non ho dubbio alcuno che ne è per succedere quello appunto che ne dice Ticone, e voi con esso lui, cioè che non si vedrà diversità veruna e che i tiri riusciranno sempre i medesimi, fatti verso qual si voglia parte del mondo; ma aggiungo bene (quello che Ticone non ha inteso) che ciò accaderà perché così è necessario che avvenga, o muovasi o stia ferma la Terra, né veruna immaginabil differenza vi si può scorgere, come con evidenti ragioni intenderete a suo tempo. E tra tanto per rimuovervi queste e tutte l’altre difficultà di questo genere,, quali sono il volar degli uccelli e come possino seguire un tanto moto, come anco le nugole sospese in aria, le quali non però scorrono sempre verso occidente, come a voi altri pare che dovesse avvenire quando la Terra si movesse; per levarvi, dico, tutte queste apparenti difficultà, vi dico che mentre l’acqua, la terra e l’aria, loro 43

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ambiente, facciano concordemente l’istesse cose, cioè o unitamente si muovino o unitamente stieno ferme, necessariamente le medesime apparenze tutte ad unguem ci s’hanno a rappresentare sì nell’uno come nell’altro stato, tutte, dico, quelle che riguardano i nominati movimenti di gravi cadenti, di proietti in alto o lateralmente verso questa o quella parte, di volar di uccelli verso levante o ponente, di movimenti di nugole, etc. [... ] La stanza sotto coperta Viene adesso il celebre e suggestivo passo del moto degli animaletti e della caduta delle gocce d’acqua all’interno di una stanza della nave, moto che avviene nello stesso identico modo che la nave si muova o che stia ferma. In esso, Galileo enuncia il principio di relatività e ne suggerisce implicitamente la concatenazione con quello di inerzia (il principio di relatività implica il principio di inerzia). L’incantevole realismo del passo è una spia di come l’occhio indagatore di Galileo si posi sui fenomeni e sugli oggetti più umili del quotidiano con la stessa curiosità e attenzione con cui esplora gli spazi celesti. Comuni sono le leggi della natura che governano ciò che è assai piccolo e ciò che è immenso: il volo di una mosca non è meno degno di essere osservato di una stella che solchi il cielo. E infatti con logica stringata Galileo estende il comportamento di ciò che ha visto sulla nave alla Terra stessa, che rotola nello spazio trascinando con sé l’aria che l’avvolge, tutte le cose e noi stessi, senza che ce ne possiamo avvedere. Vale la pena di evidenziare il comportamento galileiano per tanti giovani che oggi si avvicinano alla scienza perché attratti dal fascino lontano delle galassie o dei buchi neri, ma restano ciechi e indifferenti di fronte ai mille perché che salgono dall’esperienza quotidiana. Nella maggiore stanza che sia sotto coverta di alcun gran navilio riserratevi con qualche amico, e quivi fate di aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti; pigliatevi anco un gran vaso con acqua, e dentrovi de’ pescetti; accomodate ancora qualche vaso alto che vada gocciolando in un altro basso e di angusta gola: e stando ferma la nave, osservate 47

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diligentemente come quelli animaletti volanti con pari velocità vanno verso tutte le parti della stanza; i pesci, gli vedrete andar vagando indifferentemente verso qual si voglia parte delle sponde del vaso; le stille cadenti entreranno tutte nel vaso sottoposto; e voi, gettando all’amico vostro alcuna cosa, non più gagliardamente la dovrete gettar verso quella parte che verso questa, quando le lontananze sieno eguali; e saltando, come si dice, a pie’ giunti, eguali spazii passerete verso tutte le parti. Osservate che averete bene tutte queste cose, fate muover la nave con quanta si voglia velocità; ché (pur che il moto sia uniforme e non fluttuante in qua e ’n là) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutte le nominate cose, né da alcuna di quelle, né meno da cosa che sia in voi stesso, potrete assicurarvi se la nave cammina o pure sta ferma: voi saltando passerete nel tavolato i medesimi spazii che prima, né, perché la nave si muova velocissimamente, farete voi maggior salti verso la poppa che verso la prua, ben che, nel tempo che voi state in aria, il tavolato scorra verso la parte contraria al vostro salto; e gettando un frutto all’amico, non con più forza bisognerà gettarglielo, per arrivarlo, se egli sarà verso la prua e voi verso la poppa, che se voi fuste situati per l’opposito; le goccie cadranno nel vaso inferiore senza restarne pur una verso poppa, ancor che, mentre la goccia è per aria, la nave scorra molti palmi; i pesci nella loro acqua non più fatica dureranno per notare verso la precedente che verso la sussequente parte del vaso, ma con pari agevolezza andranno a prender il cibo che voi gli metterete su qual si voglia parte dell’orlo del vaso; e finalmente le farfalle e le mosche dureranno a volare indifferentemente verso tutte le parti, né si ridurranno mai a ritirarsi verso la parte che risguarda la poppa, quasi che le fussero stracche in tener dietro al veloce corso della nave, dalla quale per lungo tempo esse saranno state separate, cioè mentre restarono sospese in aria; e se abbruciando alcuna lagrimetta d’incenso farete un poco di fumo, vedrete quello ascender in alto e quivi trattenersi, ed a guisa di nugoletta indifferentemente muoversi non più verso questa che quella parte. E se voi di tutti questi effetti mi domanderete la cagione, vi risponderò per ora: «Perché il moto universale della nave, essendo comunicato all’aria ed a tutte 50

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quelle cose che in essa vengono contenute, e non essendo contrario alla naturale inclinazione di quelle, in foro indelebilmente si conserva»; altra volta poi ne sentirete risposte particolari e diffusamente spiegate. Or, quando voi abbiate vedute tutte queste esperienze, e come questi movimenti, ben che accidentarii ed avventizii, ci si mostrano i medesimi appunto così quando la nave si muova quanto se ella stia ferma, non lascerete voi ogni dubbio che l’istesso deva accadere intorno al globo terrestre, tutta volta che l’aria vadia insieme con quello? e tanto più ancora, quanto quel moto universale, che nella nave è accidentario, noi lo ponghiamo, in Terra e nelle cose terrestri, come suo naturale e proprio. Aggiugnete di più, che nella nave noi, ben che cento volte abbiamo provato a farla muovere e a farla star ferma, né però mai abbiamo potuto imparare a conoscere dalle cose interne quello ch’ella faccia: come sarà possibile conoscer questo nella Terra, la quale noi abbiamo auta sempre in un medesimo stato? NOTA STORICA «Otto anni son già decorsi, Sig. Ingoli, ch’io, ritrovandomi in Roma, ebbi da voi una scrittura, in forma quasi di lettera, indirizzata a me, nella quale v’ingegnavi di dimostrar falsa l’ipotesi Copernicana, intorno alla quale in quel tempo assai si tumultuava...» La lettera indirizzata nel 1616 a Galileo dal giurista Francesco Ingoli, segretario della Congregazione di Propaganda Fide, fa seguito a una serie di conversazioni avvenute tra l’Ingoli stesso e Galileo a Roma nel dicembre del 1615. In essa l’Ingoli tenta di confutare le teorie copernicane utilizzando argomenti tratti da Aristotele, Tolomeo e Tycho Brahe – Ticone, nel testo galileiano – l’illustre astronomo danese particolarmente inviso a Galileo per le sue tesi conciliatorie (tutti i pianeti girano intorno al Sole, ma la Terra è ferma e il Sole con i pianeti gira intorno ad essa). Ma i drammatici avvenimenti dei primi mesi del 1616 costringono Galileo a rimandare la risposta a tempi più propizi. Nel febbraio di quell’anno, infatti, i teologi del Sant’Uffizio dichiarano errate in filosofia ed eretiche, in quanto contrastanti con le Sacre Scritture, le proposizioni «che il sole sia il centro 53

del mondo, et per conseguenza immobile di moto locale» e «la terra non è centro del mondo né immobile, ma si muove secondo sé tutta, etiam di moto diurno». Segue, nel marzo dello stesso anno, la sospensione da parte della Congregazione dell’Indice delle opere di Copernico, fino a correzione. Nessuna condanna esplicita di Galileo, il quale peraltro è stato convocato alcuni giorni prima dal cardinale Roberto Bellarmino – il maggior teologo dell’ordine dei gesuiti, interprete dello spirito controriformistico, santificato nel 1930 e nominato dottore della Chiesa – e ammonito ad abbandonare l’opinione incriminata, che non dovrà mai più essere da lui tenuta per vera e divulgata, a voce o per iscritto. Lo scienziato si è recato a Roma con l’ottimismo di chi è certo di poter smontare, con la forza delle argomentazioni, la campagna anticopernicana e antigalileiana avviata da due padri domenicani, Nicolò Lorini e Tommaso Caccini, e giunta fino all’attenzione del Sant’Uffizio. Egli ha ottenuto nella città vaticana un vivo successo personale per le sue brillanti doti di logico e di parlatore, nonché per la sua vasta cultura, anche musicale e umanistica, ma ne riparte sconfitto, così come con lui viene sconfitta quella fazione interna alla Chiesa che la vuole aperta alla cultura scientifica. «... questo non è paese da venire a disputare della luna, né da volere, nel secolo che corre, sostenere né portarci dottrine nuove», scrive nel dicembre del 1615, con profetico scetticismo, l’ambasciatore di Firenze a Roma, Guicciardini, all’annunzio dell’arrivo in città dello scienziato. È già tanto se Galileo può ripartire da Roma, come scrive il cardinale del Monte, «con sua intera reputazione e con laude di tutti quelli che hanno trattato seco», e con un certificato, datogli dal cardinale Bellarmino, in cui si riconosce che non ha abiurato le sue opinioni e che non ha neppur ricevuto «penitentie salutari né d’altra sorte». Otto anni più tardi i tempi sembrano mutati e più favorevoli alla ripresa della discussione sui temi copernicani. Nel 1623 è stato infatti eletto papa, col nome di Urbano VIII, Maffeo Barberini, che più volte ha dimostrato simpatia per Galileo e vivo interesse alle sue idee. Versato nelle arti e nelle scienze, si presenta come l’uomo ideale a ricondurre la Chiesa verso 54

posizioni di tolleranza e di apertura culturale (al punto che gli Accademici lincei decidono di dedicare a lui il Saggiatore che Galilei ha terminato di scrivere nel 1622). Galileo non perde tempo e nell’aprile del 1624 si reca a Roma. Spera di persuadere il papa a mitigare «il salutifero editto», quel bando al copernicanesimo che, a quanto il papa stesso avrebbe confessato a Campanella, «fosse dipeso da lui non si sarebbe fatto». Ma il Barberini, forse reso particolarmente cauto dalla sua nuova posizione, dimostra con chiarezza, nel corso delle ben sei udienze che concede a Galileo, di non voler andare al di là di alcuni gesti amichevoli, e tantomeno lo autorizza a ignorare il decreto del 1616. Il papa sembra inoltre tuttora convinto di una tesi già da lui più volte sostenuta, e che lo porta a non temere che il copernicanesimo possa essere dimostrato vero. L’argomento, detto appunto di Urbano VIII, è perlomeno sorprendente: non importa quante prove possano essere addotte a sostegno delle tesi di Copernico; Dio, nella sua infinita potenza, può ottenere gli stessi risultati facendo girare il Sole attorno alla Terra, come sostengono le Scritture. Anche se l’obiettivo primo del suo viaggio è fallito, Galileo, per via del benevolo atteggiamento del papa nei suoi confronti, si sente in qualche modo autorizzato a riprendere la discussione. Scrive quindi finalmente la risposta all’Ingoli e inizia la stesura di un libro sui sistemi del mondo, il Dialogo, al quale va pensando ormai da anni. NOTA FISICO-MATEMATICA Come esempio del principio di relatività, verifichiamo che la legge fondamentale della dinamica, o legge di Newton, scritta da un dato osservatore S:

(1)

è la stessa per un altro osservatore S’ che viaggi con moto rettilineo uniforme rispetto al primo (ovvero: le leggi fondamentali della fisica sono invarianti in due sistemi di riferimento collegabili da una trasformazione galileiana). F e a

sono vettori che danno – in valore, direzione e verso – rispettivamente la forza applicata al corpo e la sua accelerazione, m è una caratteristica del corpo, la massa inerziale, che stabilisce la proporzionalità tra forza e accelerazione. Si tratta di mostrare che la legge di Newton per l’osservatore S’:

(1’)

è riconducibile alla (1). Sia V la velocità relativa tra i due osservatori. Se v è la velocità del corpo misurata dal primo di essi, la trasformazione che permette di avere la velocità del corpo v’ simultaneamente vista dal secondo osservatore – trasformazione galileiana – è:

v’ = v+ V

e derivando rispetto al tempo, per le accelerazioni si ha: 55

a’ = a+A

dove a=dv/dt, a’=dv’/dt, e A=dV/dt è l’accelerazione del secondo osservatore relativa al primo. Dato che V è costante, si ha A=0 e a’=a. D’altra parte, la forza non muta nel giudizio dei due osservatori, giacché essa può essere misurata in modo statico con un dinamometro. Allora è anche F=F’ e la (1’) ricade nella (1). Non è così se uno dei due osservatori è invece in stato di accelerazione, perché V non rimane costante nel tempo. La legge di Newton secondo S’ è perciò differente dalla (1’):

F = m(a+A)

La trasformazione galileiana si dimostra valida fintanto che la velocità relativa V tra i due sistemi di osservazione si mantiene bassa rispetto a quella della luce, ossia nel limite delle velocità cosiddette nonrelativistiche. In caso contrario, la descrizione del moto del corpo deve essere fatta secondo le leggi della relatività di Einstein e le trasformazioni galileiane vanno sostituite da quelle più complesse di Lorentz. Una considerazione per i più esperti. Quanto incide sul ragionamento di Galileo (la pietra in caduta libera da una torre arriva nello stesso punto in cui giungerebbe se la Terra fosse immobile) l’aver assunto che il sistema terrestre sia inerziale? In un sistema ruotante, un corpo in movimento è soggetto alla forza di Coriolis, quella stessa che induce la rotazione del piano di oscillazione del pendolo di Foucault. Tralasciando di svolgere i conti, tale forza farebbe deviare leggermente la traiettoria della pietra dal perfetto perpendicolo, dando luogo a uno spostamento verso Est del punto di impatto pari a (risultato approssimato, valido all’equatore): 56

essendo ω= 7,27⋅10 rad/s la velocità angolare di rotazione della Terra, g=9,81 m/S l’accelerazione di gravità, e t≈4,5 s il tempo di caduta per una torre alta 100 metri. In termini del semplice intuito fisico, ciò è dovuto al fatto che la pietra, quand’è in cima alla torre, corre più velocemente del piede della torre, trovandosi a maggior distanza dall’asse di rotazione terrestre. Man mano che scende, quindi, per il principio di inerzia si trova ad avere sempre un eccesso di velocità rispetto ai corrispondenti punti della torre, finendo per guadagnare terreno a Est, la direzione appunto verso cui tutti gli oggetti si -5

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dirigono. L’effetto, come mostra il conto, è così piccolo da potersi trascurare.

COME CADREBBE LA PIETRA PER EFFETTO DELLA FORZA DI CORIOLIS

In merito al fatto che un osservatore posto sulla superficie terrestre è «quasi» inerziale, ma non esattamente tale, è interessante valutare l’errore che egli fa per esempio nel misurare il proprio peso, rispetto a quello che sarebbe se la Terra fosse immobile. La legge di gravitazione dice che, per l’osservatore inerziale, il peso p del terrestre è dato dalla massa m per l’accelerazione di gravità g

p = mg

In realtà il terrestre, che supporremo situato all’equatore per fare un caso semplice, sente agire sul proprio corpo due forze: la forza peso e la forza centrifuga associata al moto rotatorio della Terra e diretta verso l’alto. L’espressione di quest’ultima, in valore assoluto, è

Fc = mω R 2

dove ω è di nuovo la velocità angolare di rotazione della Terrà e R è il suo raggio. Egli misurerebbe pertanto un peso (apparente) minore, dato da p’=p-Fc. Facciamo una stima dell’errore relativo, sapendo che R=6.360 km:

che corrisponde a pochi per mille ma è senz’altro misurabile. Il peso rilevato aumenta man mano che ci si avvicina ai poli, sia per la riduzione della forza centrifuga, sia per la crescita di g causata dallo schiacciamento del globo terrestre.

Capitolo 5 (dal Dialogo) TORRI FRECCE COLUBRINE E UCCELLI ovvero ancora inerzia e relatività Quando gli uccelli avessero a tener dietro al corso de gli alberi con l’aiuto delle loro ali, starebbero freschi

Galileo ribadisce con dovizia di argomenti il concetto che i fenomeni invocati dagli aristotelici per dimostrare l’immobilità della Terra non provano in alcun modo l’assunto. Esaminando una serie di eventi, la caduta di una pietra da una torre ovvero dall’albero di una nave in movimento, i tiri di artiglieria, il moto dei proietti sparati da un’arma posta su una carrozza in corsa, il volo degli uccelli, e altri ancora, egli riafferma il ruolo dell’inerzia nei comportamenti osservati, respingendo la necessità di una «forza di spinta» per garantire il moto. Tra le gemme, la discussione dell’indipendenza di moti secondo assi tra loro ortogonali, con il famosissimo esempio del tempo di caduta delle palle di cannone.

Inerzia inerzia inerzia Nel capitolo che precede si è visto come Galileo, nella risposta alla lettera di Ingoli, accenni ripetutamente alla sua intenzione di tornare in modo più diffuso sugli argomenti trattati, vale a dire inerzia e relatività. Nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, pubblicato nel 1632, egli riprende infatti il

confronto tra la caduta della pietra da una torre sulla terraferma e dall’albero di una nave in movimento. È sulla presunta differenza di comportamento nei due casi – puntualmente smentita da Galileo – che i seguaci di Aristotele fondano la loro asserzione che la Terra non ruota. Qui il discorso, pur ripetendosi in parte, è arricchito da una dovizia di nuovi esempi, che si superano l’un l’altro nel corroborare le argomentazioni di Galileo. Un’estesa rivisitazione del soggetto è dunque del tutto meritevole. Tra gli innumerevoli punti destinati a catturare l’attenzione del lettore è utile preannunciarne alcuni. Anzitutto, il delizioso trabocchetto in cui Salviati attira Simplicio, facendogli dire, benché con riluttanza, che in assenza di «impedimenti esterni» un corpo che si trovi in movimento vi permane indefinitamente. Da qui a concludere che la pietra deve cadere in ogni caso al piede dell’albero, sia che la nave viaggi, sia che resti ferma, il passo è breve. Con buona pace degli aristotelici, si estingue così l’argomento che la caduta a perpendicolo dalla torre sia una prova dell’immobilità della Terra. Non meno gustoso è il tema che segue: la confutazione della credenza degli aristotelici che un corpo lanciato nell’aria avanzi non tanto per inerzia, quanto perché trasportato dall’aria stessa; cui sarebbe stato trasmesso un impulso dal braccio del lanciatore. Di nuovo Simplicio finisce nei guai allorché Sagredo gli dimostra che in tal caso una freccia scagliata per traverso, anziché con la punta in avanti, andrebbe più lontano. Moto dei proietti Il terzo passo di particolare rilevanza è quello in cui Galileo afferma che due moti tra loro perpendicolari non si influenzano affatto, ciascuno svolgendosi esattamente nel modo in cui si svolgerebbe ove l’altro fosse assente. Ed ecco il celebre brano, questa volta messo in bocca a Sagredo, che inizia con le parole «quando in cima di una torre fusse una colubrina livellata...», dove si argomenta che una palla di cannone sparata orizzontalmente a grandissima velocità arriva a terra nello stesso tempo di un’altra lasciata cadere senza spinta dalla

bocca della colubrina (trascurando, ovviamente, piccole differenze dovute all’attrito dell’aria). Questo perché, appunto, il moto di discesa della palla lungo la verticale non risente di quello orizzontale. Risultato che, ancora oggi, molti troverebbero sorprendente, tanto lontana dal senso comune è l’idea dell’indipendenza dei due moti (una trattazione matematica del problema è data nella NOTA FISICOMATEMATICA a fine capitolo). In effetti, il pregiudizio aristotelico che due movimenti di uno stesso corpo non sono indifferenti l’uno all’altro era radicato persino tra alcuni allievi e seguaci di Galileo – rispettivamente Antonio Nardi e Giovan Battista Baliani, per fare due nomi – i quali ritenevano che la velocità orizzontale andasse via via deperendo per effetto della concomitante caduta verticale, e che anche quest’ultima avvenisse più lentamente a causa della prima. Cartesio si professò veementemente contrario alla descrizione offerta da Galileo. È però sconcertante che oggi, alle soglie del terzo millennio, la risposta a questo problema, come ad altri ancora più comuni nell’esperienza quotidiana, rimanga sostanzialmente pregalileiana. I membri dell’Accademia del Cimento ritennero di dover verificare l’idea galileiana facendo un esperimento dalla torre della Fortezza Vecchia di Livorno (era il 1658). I risultati, benché vicini alla tesi di Galileo, non furono del tutto univoci, probabilmente per effetto dell’attrito dell’aria e di imprecisioni nelle condizioni sperimentali, tanto che gli sperimentatori scrissero nei diari dell’Accademia di non poter dirimere la questione in modo definitivo. È istruttivo leggere come essi si ingegnarono a far partire le due palle – quella lasciata cadere e quella lanciata dalla polvere da sparo – nel medesimo istante: la prima veniva appesa con un filo giusto sotto la bocca del cannone; uscendo dalla canna, la palla sparata spezzava il filo, liberandola. Scontro con l’allievo A proposito della traiettoria descritta da un proietto – ovvero oggetto lanciato – merita riferire un episodio alquanto peculiare. Nell’esposizione di Galileo sono dati tutti gli elementi utili a concludere qual è l’esatta forma geometrica

della traiettoria, ossia una parabola (prima di lui si riteneva trattarsi di un arco di cerchio). Pur conscio di ciò, Galileo non lo dice mai esplicitamente, ma ne parla in modo riservato – lo racconta egli stesso – con l’amico-allievo Benedetto Castelli: è ragionevole pensare che abbia intenzione di affrontare l’argomento in modo più esauriente in un successivo scritto, ciò che infatti avviene nella quarta giornata dei Discorsi, iniziati nel ’33 e pubblicati nel ’38. Sta di fatto che il suo allievo Bonaventura Cavalieri, nel libro Specchio ustorio del 1632, si prende la libertà di pubblicare la notizia, evidentemente ormai di dominio comune nel giro degli intimi, e di informarne Galileo per lettera a cose fatte. Al che Galileo va su tutte le furie, anche perché il suo morale è scosso per le inquietanti notizie che gli giungono da Roma. In una lettera a Marsili, egli così si esprime: Io non posso nascondere a V. S. Ill.ma tale avviso essermi stato di poco gusto, nel veder come di un mio studio di più di 40 anni, conferitone buona parte con larga confidenza al detto Padre, mi deva or essere levato le primizie, e sfiorata quella gloria che tanto avidamente desideravo e mi promettevo da sì lunghe fatiche; perché veramente il mio primo intendimento, che mi mosse a specular sopra ’l moto, fu il trovar tal linea, la quale se ben, ritrovata, è poi di non molto difficile dimostrazione, tuttavia io, che l’ho provata, so quanta fatica vi ho hauto in ritrovar tal conclusione: e se il P. Fra Bonaventura m’havesse innanzi la pubblicazione, significato il suo pensiero (come forse civil creanza richiedeva) io l’havrei tosto pregato, che m’harebbe permesso che io havessi prima stampato il mio libro, dopo il quale poteva egli poi soggiugner quanti ritrovati gli fusse piaciuto. Alla quale rimostranza, il povero Cavalieri, che evidentemente nutre per il suo maestro una notevole devozione ed è lungi dal volerlo defraudare, cerca di giustificarsi nel modo seguente: «Quello che ho detto del moto l’ho detto come suo discepolo e del P. D. Benedetto ... È ben vero che ella dirà forse ch’io dovevo spiegare un poco più chiaro che il pensiero della detta linea parabolica fosse di V. S. Ecc.ma; ma sappi che il dubbio ch’avevo di non concordarmi forse onninamente con la sua 1

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conclusione fece che io non ardissi con parole specificate di ascriverli quello che havesse poi havuto lei a rigettare come cosa non sua». Aggiunge poi che, avendo visto il Castelli «fare esperienze con altri scolari, de’ quali pure ho sentito l’istessa conclusione», gli era sembrata «talmente divulgata e la conclusione e ch’ella n’era l’autore, che non potesse cadere dubbio alcuno ch’io me la potessi arrogare come cosa mia...; e questo pure mi ha reso trascurato in non scrivergliene prima, stimando in realtà ch’ella punto si curassi, anzi fosse più tosto haver grato, che un suo discepolo, con un’azione sì opportuna, si mostrasse seguace della sua dottrina, quale tuttavia confessa haver da lei imparato». Va detto, a onor del vero, che di lì a poco Galileo riconoscerà la buonafede dell’allievo. Tiri a levante e tiri a ponente Dal moto dei proietti, si passa poi a discutere il problema delle gittate dei tiri di artiglieria, che sono eguali verso levante e verso ponente, ma che non per questo dimostrano l’immobilità della Terra. Galileo argomenta che ciò avviene anche con una Terra in rotazione, e a questo scopo traccia un significativo parallelo Terra-carrozza in corsa, analogo a quello Terra-nave fatto in precedenza: una freccia che parta dalla carrozza tocca il suolo alla medesima distanza da essa sia quand’è scagliata nel verso di moto della carrozza, sia in verso contrario. Molti altri sono i punti affrontati nella discussione, la natura del vento, la caduta di oggetti da veicoli in corsa, il volo degli uccelli, l’arte di prendere la mira... Tutti i fenomeni esaminati in questo dialogo sono evidenza del completo capovolgimento del pensiero scientifico galileiano rispetto alle concezioni degli aristotelici («’l negozio procede per l’appunto a rovescio di quel che dice Aristotile»), e non soltanto per i princìpi esposti, ma anche per il costante riferimento all’esperienza sensibile come punto di avvio di ogni riflessione logica. Il testo Degna di nota è la tecnica utilizzata da Salviati per condurre a poco a poco Simplicio alla scoperta di alcuni concetti fondamentali. La discussione non parte mai da essi, perché ciò non è nello stile della nuova scienza, e perché Salviati sa

benissimo che in tal caso non riuscirebbe a smuovere Simplicio dal suo credo. Egli vuole piuttosto che sia l’interlocutore, in modo opportuno pungolato e incalzato, ad approdare quasi inavvertitamente alla scoperta di alcuni princìpi incontrovertibili, sulla base di esperienze che ha già compiuto o che potrebbe compiere, ma sulle quali non ha mai riflettuto. Vuole cioè mostrargli «che egli stesso ha le soluzioni in mano, se bene non se n’accorge». Il percorso è tutto fatto da Simplicio, o almeno questo è ciò che egli è indotto a credere. È una sorta di socratica arte della maieutica applicata all’investigazione scientifica, dove tuttavia, al posto del giovane che non sa di sapere e lo viene gioiosamente scoprendo, c’è un adulto che presume di sapere, il quale anche può arrivare alla conoscenza, servendosi di strumenti che possiede in sé, a patto però prima di smantellare abitudini mentali scorrette e buttare a mare la zavorra delle vecchie nozioni. Circa la psicologia dei dialoganti, si osservi con quanta maestria Salviati stringa d’assedio Simplicio («voi dite... or ditemi... benissimo... io non desidero che voi diciate o rispondiate di saper niente altro che quello che sicuramente sapete... però ditemi... avvertite bene a quel che voi dite...») e come si assicuri, prima di procedere, che Simplicio non rischi di scivolare all’indietro («E questo lo tenete per fermo, non perché io ve l’abbia insegnato... ma per voi stesso e per il vostro giudizio naturale»). In possesso di una dialettica ben più articolata del suo interlocutore, Salviati non esita a volte, pur di metterne alla prova le neonate capacità deduttive o di accelerare i tempi, a ricorrere a qualche «artifizio», ad esempio ammannirgli per vero ciò che egli stesso sa essere falso. Quanto a Simplicio, in questo dialogo più boriosetto e saccente che altrove, è in genere convinto di avere il controllo della situazione («ho compreso il tutto benissimo»), crede inizialmente di poter addirittura cogliere in fallo il suo oppositore (poiché «voi, signor Salviati, vi servite di questa sorte di supposizioni, io comincierò a non mi maravigliar che voi concludiate conclusioni falsissime»), sputa sentenze in latino, e ha quasi l’aria, rispondendo a domande precise e incalzanti, di essere lui a istruire Salviati. Prende tempo, appena sospetta di venir avviato in una direzione diversa da

quella che vorrebbe («Qui bisogna ch’io pensi un poco alla risposta»), tentenna («Parmi di sì... Par che deva essere così»), rivela diffidenza nei confronti di ciò che crede di intuire («Sin qui tutto cammina bene. Ma il resto?»), sino a far perdere la pazienza a Salviati, che si lascia sfuggire un «Cavatene in buon’ora l’ultima conseguenza da per voi, se da per voi avete sapute tutte le premesse». Ma sarà Simplicio stesso a formulare con chiarezza, ad esempio, le modalità di caduta di un grave soggetto a un simultaneo moto orizzontale. Subito tuttavia si affretta a opporre altri ostacoli, come colui che approda alla conclusione non con gioia, ma piuttosto con riluttanza. Una figura, quella di Simplicio, che a tutti nella vita è capitato di incontrare. Non solo il prototipo del pensatore aristotelico, ma quasi di certo il ritratto di un preciso oppositore di Galileo, tanto realisticamente è dipinta. Dietro la vivezza del dialogo e l’affascinante contrasto delle personalità, al lettore si dispiega con meravigliosa chiarezza il lucido pensiero galileiano che, nell’affrontare un problema, punta diretto alla soluzione della questione focale, risolta la quale aggredisce quelle minori, fino a consegnarci un tutto organicamente coerente, in cui le singole parti si sostengono e rafforzano a vicenda. Un’ultima osservazione sullo stile. Il periodare di Salviati e Sagredo, ampio e digressivo, ricco di subordinate nelle parti narrative, si fa secco e veloce quanto più il discorso scientifico avanza, e si risolve tutto in superficie: le proposizioni principali si susseguono strettamente incollate da nessi (dunque, adunque, tuttavia, ecc.) e sembrano scaturire di necessità l’una dall’altra. Il lessico non è mai aridamente tecnico, ma attinge anch’esso all’esperienza quotidiana ed estende al mondo sensibile qualità e sentimenti umani, quasi a evidenziare una natura comune («non ha il mobile né repugnanza né propensione», «la causa motrice... si abbia... a inlanguidire»). Astratto e tecnico nella scelta dei vocaboli, sinuoso e compiaciuto nel periodare, è invece Simplicio, tranne quando, messo alle corde, è indotto a formulare un enunciato scientifico. Anche qui Galileo ci mette in guardia: le troppe parole spesso coprono povertà di idee, quando non servono a trarre in inganno; la semplicità e la chiarezza espressiva sono

un punto di approdo e un obbligo morale per chi voglia davvero partecipare ad altri ciò che sa, piuttosto che far credere di sapere. Il linguaggio odierno di tanti nostri politici ed esperti dovrebbe farci riflettere in proposito. È il momento di venire al testo originale. Parla Salviati rivolto a Simplicio: Caduta dall’albero maestro SALV. [...] Voi dite: «Perche, quando la nave sta ferma, il sasso cade al pie’ dell’albero, e quando ell’è in moto cade lontano dal piede, adunque, per il converso, dal cadere il sasso al piede si inferisce la nave star ferma, e dal caderne lontano s’argumenta la nave muoversi; e perché quello che occorre della nave deve parimente accader della Terra, però dal cader della pietra al piè della torre si inferisce di necessità l’immobilità del globo terrestre». Non è questo il vostro discorso? SIMPL. È per appunto, ridotto in brevità, che lo rende agevolissimo ad apprendersi. SALV. Or ditemi: se la pietra lasciata dalla cima dell’albero, quando la nave cammina con gran velocità, cadesse precisamente nel medesimo luogo della nave nel quale casca quando la nave sta ferma, qual servizio vi presterebber queste cadute circa l’assicurarvi se ’l vassello sta fermo o pur se cammina? SIMPL. Assolutamente nissuno: in quel modo che, per esempio, dal batter del polso non si può conoscere se altri dorme o è desto, poiché il polso batte nell’istesso modo ne’ dormienti che ne i vegghianti. SALV. Benissimo. Avete voi fatta mai l’esperienza della nave? SIMPL. Non l’ho fatta; ma ben credo che quelli autori che la producono, l’abbiano diligentemente osservata: oltre che si conosce tanto apertamente la causa della disparità, che non lascia luogo di dubitare. SALV. Che possa esser che quelli autori la portino senza averla fatta, voi stesso ne sete buon testimonio, che senza averla fatta la recate per sicura e ve ne rimettete a buona fede al detto loro: sì come è poi non solo possibile, ma necessario, che abbiano fatto essi ancora, dico di rimettersi a i suoi antecessori, senza arrivar mai a uno che l’abbia fatta; perché, 11

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chiunque la farà, troverà l’esperienza mostrar tutto ’l contrario di quel che viene scritto: cioè mostrerà che la pietra casca sempre nel medesimo luogo della nave, stia ella ferma o muovasi con qualsivoglia velocità. Onde, per esser la medesima ragione della Terra che della nave, dal cader la pietra sempre a perpendicolo al pie’ della torre non si può inferir nulla del moto o della quiete della Terra. [...] Simplicio si dichiara dubbioso – e non a torto – che Salviati stesso abbia fatto l’esperienza della pietra. Ma allora, chiede Simplicio, come può dirsi tanto sicuro del risultato? Nel confessare di non aver fatta l’esperienza, Salviati afferma il concetto che, quando i princìpi che informano il fenomeno sono ben chiari, la conclusione può essere raggiunta con il «discorso», ossia con il ragionamento logico, il quale assume, in tal caso, un valore pari a quello della prova sperimentale (si noti bene, sulla base di un «discorso», non di una semplice nozione, come poc’anzi ha preteso Simplicio). È qui che scatta la sottile trappola con cui Salviati induce Simplicio, sulla scorta del ragionamento, a conclusioni contrarie al suo più consolidato bagaglio di nozioni. Il piano perfettamente levigato SALV. Io senza esperienza son sicuro che l’effetto seguirà come vi dico, perché così è necessario che segua; e più v’aggiungo che voi stesso ancora sapete che non può seguire altrimenti, se ben fingete, o simulate di fingere, di non lo sapere. Ma io son tanto buon cozzon di cervelli, che ve lo farò confessare a viva forza. [...] Io non desidero che voi diciate o rispondiate di saper niente altro che quello che voi sicuramente sapete. Però ditemi: quando voi aveste una superficie piana, pulitissima come uno specchio e di materia dura come l’acciaio, e che fusse non parallela all’orizonte, ma alquanto inclinata, e che sopra di essa voi poneste una palla perfettamente sferica e di materia grave e durissima, come, verbigrazia, di bronzo, lasciata in sua libertà che credete voi che ella facesse? non credete voi (sì 18

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come credo io) che ella stesse ferma? SIMPL. Se quella superficie fusse inclinata? SALV. Sì, ché così già ho supposto. SIMPL. Io non credo che ella si fermasse altrimente, anzi pur son sicuro ch’ella si moverebbe verso il declive spontaneamente. SALV. Avvertite bene a quel che voi dite, signor Simplicio, perché io son sicuro ch’ella si fermerebbe in qualunque luogo voi la posaste. SIMPL. Come voi, signor Salviati, vi servite di questa sorte di supposizioni, io comincierò a non mi maravigliar che voi concludiate conclusioni falsissime. SALV. Avete dunque per sicurissimo ch’ella si moverebbe verso il declive spontaneamente? SIMPL. Che dubbio? SALV. E questo lo tenete per fermo, non perché io ve l’abbia insegnato (perché io cercavo di persuadervi il contrario), ma per voi stesso e per il vostro giudizio naturale. SIMPL. Ora intendo il vostro artifizio: voi dicevi così per tentarmi e (come si dice dal vulgo) per iscalzarmi ma non che in quella guisa credeste veramente. SALV. Così sta. E quanto durerebbe a muoversi quella palla, e con che velocità? E avvertite che io ho nominata una palla perfettissimamente rotonda ed un piano esquisitamente pulito, per rimuover tutti gli impedimenti esterni ed accidentarii: e così voglio che voi astragghiate dall’impedimento dell’aria, mediante la sua resistenza all’essere aperta, e tutti gli altri ostacoli accidentarii, se altri ve ne potessero essere. Dice Salviati «... una palla perfettissimamente rotonda ed un piano esquisitamente pulito...», propone cioè un mondo fatto di astrazioni, dove gli aspetti marginali vengono accantonati per rendere possibile una formulazione matematica del fenomeno nella sua essenza. È il tipico approccio galileiano, fulcro della nuova scienza: non si tratta più soltanto di confutare il punto di vista aristotelico, ma di affermare il concetto che la realtà ha connotati eminentemente matematici. Simplicio, non ancora conscio degli sviluppi del dialogo, accetta di buon grado. 20

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SIMPL. Ho compreso il tutto benissimo: e quanto alla vostra domanda, rispondo che ella continuerebbe a muoversi in infinito, se tanto durasse la inclinazione del piano, e con movimento accelerato continuamente; ché tale è la natura de i mobili gravi, che vires acquirant eundo: e quanto maggior fusse la declività, maggior sarebbe la velocità. SALV. Ma quand’altri volesse che quella palla si movesse all’insù sopra quella medesima superficie, credete voi che ella vi andasse? SIMPL. Spontaneamente no, ma ben strascinatavi o con violenza gettatavi. SALV. E quando da qualche impeto violentemente impressole ella fusse spinta, quale e quanto sarebbe il suo moto? SIMPL. Il moto andrebbe sempre languendo e ritardandosi, per esser contro a natura, e sarebbe più lungo o più breve secondo il maggiore o minore impulso e secondo la maggiore o minore acclività. SALV. [...] Ora ditemi quel che accaderebbe del medesimo mobile sopra una superficie che non fusse né acclive né declive. SIMPL. Qui bisogna ch’io pensi un poco alla risposta. Non vi essendo declività, non vi può essere inclinazione naturale al moto, e non vi essendo acclività, non vi può esser resistenza all’esser mosso, talché verrebbe ad essere indifferente tra la propensione e la resistenza al moto: parmi dunque che e’ dovrebbe restarvi naturalmente fermo. [...] SALV. Così credo, quando altri ve lo posasse fermo; ma se gli fusse dato impeto verso qualche parte, che seguirebbe? SIMPL. Seguirebbe il muoversi verso quella parte. SALV. Ma di che sorte di movimento? di continuamente accelerato, come ne’ piani declivi, o di successivamente ritardato, come negli acclivi? SIMPL. Io non ci so scorgere causa di accelerazion né di ritardamento, non vi essendo né declività né acclività. SALV. Sì. Ma se non vi fusse causa di ritardamento, molto meno vi dovrebbe esser di quiete: quanto dunque vorreste voi che il mobile durasse a muoversi? SIMPL. Tanto quanto durasse la lunghezza di quella superficie né erta né china. 24

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SASLV. Adunque se tale spazio fusse interminato, il moto in esso sarebbe parimente senza termine, cioè perpetuo? SIMPL. Parmi di sì, quando il mobile fusse di materia da durare. SALV. Già questo si è supposto, mentre si è detto che si rimuovano tutti gl’impedimenti accidentarii ed esterni, e la fragilità del mobile, in questo fatto, è un degli impedimenti accidentarii. Ditemi ora: quale stimate voi la cagione del muoversi quella palla spontaneamente sul piano inclinato, e non, senza violenza, sopra l’elevato? SIMPL. Perché l’inclinazion de’ corpi gravi è di muoversi verso ’l centro della Terra, e solo per violenza in su verso la circonferenza; e la superficie inclinata è quella che acquista vicinità al centro, e l’acclive discostamento. SALV. Adunque una superficie che dovesse esser non declive e non acclive, bisognerebbe che in tutte le sue parti fusse egualmente distante dal centro. Ma di tali superficie ve n’è egli alcuna al mondo? SIMPL. Non ve ne mancano: ècci quella del nostro globo terrestre, se però ella fusse ben pulita, e non, quale ella è, scabrosa e montuosa; ma vi è quella dell’acqua, mentre è placida e tranquilla. Tornando alla caduta della pietra SALV. Adunque una nave che vadia movendosi per la bonaccia del mare, è un di quei mobili che scorrono per una di quelle superficie che non sono né declivi né acclivi, e però disposta, quando le fusser rimossi tutti gli ostacoli accidentarii ed esterni, a muoversi, con l’impulso concepito una volta, incessabilmente e uniformemente. SIMPL. Par che deva esser così. SALV. E quella pietra ch’è su la cima dell’albero non si muov’ella, portata dalla nave, essa ancora per la circonferenza d’un cerchio intorno al centro, e per conseguenza d’un moto indelebile in lei, rimossi gli impedimenti esterni? e questo moto non è egli così veloce come quel della nave? SIMPL. Sin qui tutto cammina bene. Ma il resto? SALV. Cavatene in buon ’ora l’ultima conseguenza da per voi, se da per voi avete sapute tutte le premesse. 29

SIMPL. Voi volete dir per ultima conclusione, che movendosi quella pietra d’un moto indelebilmente impressole, non l’è per lasciare, anzi è per seguire la nave, ed in ultimo per cadere nel medesimo luogo dove cade quando la nave sta ferma; e così dico io ancora che seguirebbe quando non ci fussero impedimenti esterni, che sturbassero il movimento della pietra dopo esser posta in libertà: li quali impedimenti son due; l’uno è l’essere il mobile impotente a romper l’aria col suo impeto solo, essendogli mancato quello della forza de’ remi, del quale era partecipe, come parte della nave, mentre era su l’albero; l’altro è ’l moto novello del cadere a basso, che pur bisogna che sia d’impedimento all’altro progressivo. Si arriva finalmente al momento atteso da Salviati, l’esposizione dell’erronea idea aristotelica che i due moti secondo l’orizzontale e la verticale debbano influenzarsi vicendevolmente. Egli si affretta a farne un boccone. SALV. Quanto all’impedimento dell’aria, io non ve lo nego; e quando il cadente fusse materia leggiera, come una penna o un fiocco di lana, il ritardamento sarebbe molto grande; ma in una pietra grave, è piccolissimo [...]. Tuttavia, come ho detto, vi concedo questo piccolo effetto, che può dependere da tale impedimento; sì come so che voi concederete a me che quando l’aria si movesse con l’istessa velocità della nave e del sasso, impedimento sarebbe assolutamente nullo. Quanto all’altro, del sopra vegnente moto in giù, prima è manifesto che questi due, dico il circolare intorno al centro e ’l retto verso ’l centro, non son contrarii né destruttivi l’un dell’altro né incompatibile, perché, quanto al mobile, ei non ha repugnanza alcuna a cotal moto: ché già voi stesso avete conceduto, la repugnanza esser contro al moto che allontana dal centro, e l’inclinazione, verso il moto che avvicina al centro; onde necessariamente segue che al moto che non appressa né discosta dal centro, non ha il mobile né repugnanza né propensione né, in conseguenza, cagione di diminuirsi in lui la facultà impressagli: e perché la causa motrice non è una sola, che si abbia, per la nuova operazione, a inlanguidire, ma son due tra loro distinte, delle quali la gravità attende solo a tirare il mobile al centro, e la 30

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virtù impressa a condurlo intorno al centro, non resta occasione alcuna d’impedimento. Moto violento Il quadro di Salviati tocca un punto critico, quale sia il meccanismo per cui un corpo, una volta lanciato, prosegue il suo moto dopo essersi separato dall’apparato di lancio («moto violento»). Simplicio non esita a reagire con impeto: SIMPL. Il discorso veramente è in apparenza assai probabile, ma in essenza turbato un poco da qualche intoppo mal agevole a superarsi. Voi in tutto ’l progresso avete fatta una supposizione, che dalla scuola peripatetica non di leggiero vi sarà conceduta, essendo contrariissima ad Aristotile: e questa è il prender come cosa notoria e manifesta che ’l proietto separato dal proiciente continui il moto per virtù impressagli dall’istesso proiciente, la qual virtù impressa è tanto esosa nella peripatetica filosofia, quanto il passaggio d’alcuno accidente d’uno in un altro suggetto: nella qual filosofia si tiene, come credo che vi sia noto, che ’l proietto sia portato dal mezo, che nel nostro caso viene ad esser l’aria; e però se quel sasso, lasciato dalla cima dell’albero, dovesse seguire il moto della nave, bisognerebbe attribuire tal effetto all’aria, e non a virtù impressagli: ma voi supponete che l’aria non sèguiti il moto della nave, ma sia tranquilla. Oltre che colui che lo lascia cadere, non l’ha a scagliare né dargli impeto col braccio, ma deve semplicemente aprir la mano e lasciarlo: e così, né per virtù impressagli dal proiciente, né per benefizio dell’aria, potrà il sasso seguire ’l moto della nave, e però resterà indietro. L’errata visione aristotelica Prima di passare alla risposta di Salviati, è opportuno precisare meglio il concetto espresso da Simplicio. Anticipiamo quanto egli stesso dirà più avanti. Non avendo sentore dell’inerzia, e invece propugnando l’idea che al movimento sia associata una forza di spinta, Aristotele attribuisce al mezzo il ruolo di assicurare la prosecuzione del moto dell’oggetto scagliato: l’aria, sospinta in avanti al momento del lancio, tenderebbe a 34

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rioccupare il vuoto che si forma dietro il proietto, e quindi a sospingerlo ulteriormente (vale la pena di notare che, semmai, il vuoto o risucchio che si crea dietro a un corpo in movimento ha l’effetto contrario, cioè di frenarlo ). Secondo la visione aristotelica, perciò, il moto di un proietto non sarebbe possibile nel vuoto. SALV. [...] Ma ditemi: già che la vostra instanza si fonda tutta su la nullità della virtù impressa, quando io vi abbia dimostrato che ’l mezo non ha che fare nella continuazion del moto de’ proietti, dopo che son separati dal proiciente, lascierete voi in essere la virtù impressa, o pur vi moverete con qualch’altr’assalto alla sua destruzione? SIMPL. Rimossa l’azione del mezo, non veggo che si possa ricorrere ad altro che alla facultà impressa dal movente. SALV. Sarà bene, per levare il più che sia possibile le cause dell’andarsene in infinito con le altercazioni, che voi quanto si può distintamente spianiate qual sia l’operazione del mezo nel continuar il moto al proietto. Nella replica che Simplicio si accinge a dare risulta palese che egli ha assimilato il linguaggio di Salviati, ma che del metodo scientifico, basato sull’osservazione, ha acquisito soltanto l’aspetto formale. Lo stile è puntuale, secco, preciso, come dell’alunno che ha ben memorizzato la lezione. Peccato che, subito dopo, nel passare alle conclusioni, egli proceda ignorando l’esperienza, basandosi ancora e in toto su nozioni antiche assorbite acriticamente. Bene sintetizza questa passività del sapere Salviati, quando fa notare al «credulo» Simplicio come si sia «lasciato persuader» – e non si sia persuaso – pur possedendo «i sensi», le evidenze cioè, per confutare gli errori e giungere a valide conclusioni. SIMPL. Il proiciente ha il sasso in mano; muove con velocità e forza il braccio al cui moto si muove non più il sasso che l’aria circonvicina, onde il sasso, nell’esser abbandonato dalla mano, si trova nell’aria che già si muove con impeto, e da quella vien portato: che se l’aria non operasse, il sasso cadrebbe dalla mano al piede del proiciente. 40

SALV. E voi sete stato tanto credulo che vi sete lasciato persuader queste vanità, mentre in voi stesso avevi i sensi da confutarle e da intenderne il vero? Però ditemi: quella gran pietra e quella palla d’artiglieria che, posata solamente sopra una tavola, restava immobile contro a qualsivoglia impetuoso vento, secondo che voi poco fa affermaste, se fusse stata una palla di sughero o altrettanta bambagia, credete che il vento l’avesse mossa di luogo? SIMPL. Anzi so certo che l’averebbe portata via, e tanto più velocemente, quanto la materia fusse stata più leggiera; ché per questo veggiamo noi le nugole esser portate con velocità pari a quella del vento stesso che le spigne. SALV. E ’l vento che cosa è? SIMPL. Il vento si definisce, non esser altro che aria mossa. SALV. Adunque l’aria mossa molto più velocemente e ’n maggior distanza traporta le materie leggierissime che le gravissime? SIMPL. Sicuramente. SALV. Ma quando voi aveste a scagliar col braccio un sasso, e poi un fiocco di bambagia, chi si moverebbe con più velocità e in maggior lontananza? SIMPL. La pietra assaissimo; anzi la bambagia mi cascherebbe a i piedi. SALV. Ma se quel che muove il proietto, doppo l’esser lasciato dalla mano, non è altro che l’aria mossa dal braccio, e l’aria mossa più facilmente spigne le materie leggiere che le gravi, come dunque il proietto di bambagia non va più lontano e più veloce di quel di pietra? bisogna pure che nella pietra resti qualche cosa, oltre al moto dell’aria. [...] Frecce per traverso È qui che interviene Sagredo il quale, per consolidare il principio d’inerzia e demolire il concetto aristotelico di forza di spinta, tira in ballo la divertente storiella delle frecce spedite per traverso. Il tono con cui egli si rivolge a Simplicio è cerimonioso e fintamente modesto: servirà anch’esso allo scopo di fargli abbassare le difese. Tutto si svolge molto in fretta. Due scambi di battute e Simplicio è indotto ad affermare che «la freccia tirata per punta ha a penetrar poca quantità d’aria, e 41

l’altra ne ha da fender tanta quanta è tutta la sua lunghezza». Quanto basta perché Sagredo, senza troppi complimenti, osservi che le cose stanno al contrario di come dice Aristotele. Si inserisce a questo punto nel dialogo di nuovo Salviati per infliggere il colpo di grazia («Quante proposizioni ho io notate in Aristotile... che sono non pur false, ma false in maniera, che la sua diametralmente contraria è vera»). SAGR. Quando si tira una freccia contr’al vento, quanto è incredibil cosa che quel filetto d’aria, spinto dalla corda, vadia al dispetto della fortuna accompagnando la freccia! Ma io ancora vorrei sapere un particolare da Aristotile, per il quale prego il signor Simplicio che mi favorisca di risposta. Quando col medesimo arco fussero tirate due freccie, una per punta al modo consueto, e l’altra per traverso, cioè posandola per lo lungo su la corda, e così distesa tirandola, vorrei sapere qual di esse andrebbe più lontana. Favoritemi in grazia di risposta, benché forse la dimanda vi paia più tosto ridicola che altrimenti; e scusatemi, perché io, che ho, come voi vedete, anzi del grossetto che no, non arrivo più in alto con la mia speculativa. SIMPL. Io non ho veduto mai tirar le freccie per traverso: tuttavia credo che intraversata non andrebbe né anco la ventesima parte di quel ch’ella va per punta. SAGR. E perché io ho creduto l’istesso, quindi è che mi è nata occasione di metter dubbio tra ’l detto d’Aristotile e l’esperienza. Perché, quanto all’esperienza, s’io metterò sopra quella tavola due freccie in tempo che spiri vento gagliardo, una posata per il filo del vento e l’altra intraversata, il vento porterà via speditamente questa e lascerà star l’altra: ed il medesimo par che dovesse accadere, quando la dottrina d’Aristotile fusse vera, delle due tirate con l’arco: imperocché la traversa vien cacciata da una gran quantità dell’aria mossa dalla corda, cioè da tanta quanta è la sua lunghezza, dove che l’altra freccia non riceve impulso da più aria che si sia il piccolissimo cerchietto della sua grossezza: ed io non so immaginarmi la cagione di tal diversità, e desidererei di saperla. SIMPL. La causa mi par assai manifesta, ed è perché la freccia 42

tirata per punta ha a penetrar poca quantità d’aria, e l’altra ne ha da fender tanta quanta è tutta la sua lunghezza. SAGR. Adunque le freccie tirate hanno a penetrar l’aria? Oh se l’aria va con loro, anzi è quella che le conduce, che penetrazione vi può essere? non vedete voi che a questo modo bisognerebbe che la freccia si movesse con maggior velocità che l’aria? e questa maggior velocità, chi la conferisce alla freccia? vorrete voi dir che l’aria le dia velocità maggiore della sua propria? Intendete dunque, signor Simplicio, che ’l negozio procede per l’appunto a rovescio di quel che dice Aristotile, e che tanto è falso che ’l mezo conferisca il moto al proietto, quanto è vero che egli solo è che gli arreca impedimento: e inteso questo, intenderete senza trovar difficultà che quando l’aria si muove veramente, molto meglio porta seco la freccia per traverso che per lo dritto, perché molta è l’aria che la spigne in quella postura, e pochissima in questa; ma tirate con l’arco, perché l’aria sta ferma, la freccia traversa, percotendo in molt’aria, molto viene impedita, e l’altra per punta facilissimamente supera l’ostacolo della minima quantità d’aria che se le oppone. SALV. Quante proposizioni ho io notate in Aristotile (intendendo sempre nella filosofia naturale), che sono non pur false, ma false in maniera, che la sua diametralmente contraria è vera, come accade di questa! Ma seguitando il nostro proposito, credo che il signor Simplicio resti persuaso che dar veder cader la pietra nel medesimo luogo sempre, non si possa conietturare circa il moto o la stabilità della nave [...]. Or, quando in questo caso non apparisca diversità alcuna, che si deve pretender di veder nella pietra cadente dalla sommità della torre, dove il movimento in giro è alla pietra non avventizio e accidentario, ma naturale ed eterno, e dove l’aria segue puntualmente il moto della torre, e la torre quel del globo terrestre? Avete voi, signor Simplicio, da replicar altro sopra questo particulare? SIMPL. Non altro, se non che non veggio sin qui provata la mobilità della Terra. SALV. Né io tampoco ho preteso di provarla, ma solo di mostrare come dall’esperienza portata da gli avversarii per argomento della fermezza non si può cavar nulla; sì come credo 43

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mostrar dell’altre. Le sorprese della colubrina Interviene ora di nuovo Sagredo, constatando che l’indipendenza dei due moti orizzontale e verticale nella pietra lasciata cadere dall’albero della nave, dimostrata da Salviati, comporta un effetto alquanto stupefacente: i proiettili sparati in orizzontale da un cannone impiegano sempre il medesimo tempo a toccare terra, indipendentemente dalla lunghezza del tiro. La descrizione del fenomeno offre una delle immagini più suggestive tra quelle proposte negli scritti di Galileo. Il passo evidenzia ancora una volta la complicità che si stabilisce tra Salviati e Sagredo quando a farne le spese è Simplicio. Sembra quasi, già dalla prima battuta che segue, dove Sagredo con delizioso realismo di linguaggio si prende affettuosamente gioco dell’amico, di cogliere tra i due un sorriso d’intesa. Il che giustifica il tono piccato con cui Simplicio si rivolge e all’uno («Io non mi sento rimossi tutti gli scrupoli») e all’altro («... forse il difetto è mio, per non esser di così facile e veloce apprensiva come il signor Sagredo»), e il suo sforzo di tirar fuori una brillante obiezione. SAGR. Di grazia, signor Salviati, prima che passare ad altro, concedetemi che io metta in campo certa difficultà che mi si è raggirata per la fantasia mentre voi stavi con tanta flemma sminuzolando al signor Simplicio questa esperienza della nave. SALV. Noi siam qui per discorrere, ed è bene che ogn’uno muova le difficultà che gli sovvengono, ché questa è la strada per venir in cognizion del vero. Però dite. SAGR. Quando sia vero che l’impeto col quale si muove la nave resti impresso indelebilmente nella pietra, dopo che s’è separata dall’albero, e sia in oltre vero che questo moto non arrechi impedimento o ritardamento al moto retto all’ingiù, naturale alla pietra, è forza che ne segua un effetto meraviglioso in natura. Stia la nave ferma, e sia il tempo della caduta d’un sasso dalla cima dell’albero due battute di polso: muovasi poi la nave, e lascisi andar dal medesimo luogo l’istesso sasso, il quale, per le cose dette, metterà pur il tempo di due battute ad arrivare a basso, nel qual tempo la nave avrà,

verbigrazia, scorso venti braccia, talché il vero moto della pietra sarà stato una linea trasversale, assai più lunga della prima retta e perpendicolare, che è la sola lunghezza dell’albero: tuttavia la palla l’avrà passata nel medesimo tempo. Intendasi di nuovo il moto della nave accelerato assai più, sì che la pietra nel cadere dovrà passare una trasversale ancor più lunga dell’altra; ed insomma, crescendosi la velocità della nave quanto si voglia, il sasso cadente descriverà le sue trasversali sempre più e più lunghe, e pur tutte le passerà nelle medesime due battute di polso: ed a questa similitudine, quando in cima di una torre fusse una colubrina livellata, e con essa si tirassero tiri di punto bianco, cioè paralleli all’orizonte, per poca o molta carica che si desse al pezzo, sì che la palla andasse a cadere ora lontana mille braccia, or quattro mila, or sei mila, or dieci mila etc., tutti questi tiri si spedirebbero in tempi eguali tra di loro, e ciascheduno eguale al tempo che la palla consumerebbe a venire dalla bocca del pezzo sino in terra, lasciata, senz’altro impulso, cadere semplicemente giù a perpendicolo. Or par meravigliosa cosa che nell’istesso breve tempo della caduta a piombo sino in terra dall’altezza, verbigrazia, di cento braccia, possa la medesima palla, cacciata dal fuoco, passare or quattrocento, or mille, or quattromila, ed or diecimila braccia sì che la palla in tutti i tiri di punto bianco si trattenga sempre in aria per tempi eguali. SALV. [...] Or, se così vi piace, venghiamo alle soluzioni degli altri argomenti, già che il signor Simplicio resta (per quanto io mi creda) ben capace della nullità di questo primo, preso da i cadenti da alto a basso. Oggetti lanciati in corsa SIMPL. Io non mi sento rimossi tutti gli scrupoli; e forse il difetto è mio, per non esser di così facile e veloce apprensiva come il signor Sagredo. E parmi che quando questo moto participato dalla pietra, mentre era su l’albero della nave, s’avesse, come voi dite, a conservar indelebilmente in lei, dopo ancora che si trova separata dalla nave, bisognerebbe che similmente quando alcuno, sendo sopra un cavallo che corresse velocemente, si lasciasse cader di mano una palla, quella, caduta in terra, continuasse il suo moto e seguitasse il corso 46

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del cavallo senza restargli a dietro: il quale effetto non credo io che si vegga, se non quando colui ch’è sul cavallo la gettasse con forza verso la parte del corso; ma senza questo, credo ch’ella resterà in terra dov’ella percuote. Il parallelo fatto da Simplicio lo rivela, in questa circostanza, buon ragionatore, ma altrettanto cattivo osservatore, giacché l’ipotesi che egli ventila come assurda è proprio ciò che si riscontra nei fatti; la sua disattenzione deriva dalla mancanza di coraggio nei confronti del nuovo, da cui cerca di distogliere gli occhi. Si noti, nella risposta di Salviati, l’identità che viene stabilita tra i due casi, quello in cui la «virtù impressa» al proietto è il risultato di un lancio, e quello in cui essa deriva dal fatto che l’intero sistema da cui il proietto si diparte – qui il cavaliere – non è in quiete. SALV. Io credo che voi v’inganniate d’assai, e son sicuro che l’esperienza vi mostrerà il contrario, e che la palla, arrivata che sia in terra, correrà insieme col cavallo, né gli resterà indietro se non quanto l’asprezza ed inegualità della strada l’impedirà: e la ragione mi par pure assai chiara. Imperocché, quando voi, stando fermo, tiraste per terra la medesima palla, non continuerebbe ella il moto anco fuori della vostra mano? e per tanto più lungo intervallo, quanto la superficie fusse più eguale, sì che, verbigrazia, sopra il ghiaccio andrebbe lontanissima? SIMPL. Questo non ha dubbio, quando io gli do impeto col braccio; ma nell’altro caso si suppone che colui che è sul cavallo la lasci solamente cadere. SALV. Così voglio io che segua. Ma quando voi la tirate col braccio, che altro rimane alla palla, uscita che ella vi è di mano, che il moto concepito dal vostro braccio, il quale, in lei conservato, continua di condurla innanzi? ora, che importa che quell’impeto sia conferito alla palla più dal vostro braccio che dal cavallo? mentre che voi sete a cavallo, non corre la vostra mano, ed in conseguenze la palla, così veloce come il cavallo stesso? certo sì; adunque, nell’aprir solamente la mano, la palla si parte col moto già concepito non dal vostro braccio per moto vostro particolare, ma dal moto dependente dall’istesso cavallo, 50

che vien comunicato a voi, al braccio, alla mano, e finalmente alla palla. Anzi voglio dirvi di più, che se colui nel correre getterà col braccio la palla al contrario del corso, ella, arrivata che sia in terra, talvolta, ancorché scagliata al contrario, pur seguiterà il corso del cavallo, e talvolta resterà ferma in terra, e solamente si muoverà all’opposito del corso, quando il moto ricevuto dal braccio superasse in velocità quello della carriera. [...] Sparare verso Est e verso Ovest I tanti argomenti di Salviati sulla caduta di una pietra sembrano finalmente aver fatto breccia nel volonteroso Simplicio, ed egli con onestà lo ammette. Cerca tuttavia di difendersi spostando la discussione sull’altra presunta prova fondamentale dell’immobilità della Terra, quella ben rinomata dei tiri d’artiglieria, che egli considera incontrovertibile. Si comincia con i tiri sparati lungo i paralleli. Non passi inosservato nell’intervento di Sagredo, che dichiara la propria difficoltà a capire come gli uccelli riescano col loro volo a tener dietro al movimento della Terra, il complice garbo con cui in realtà egli porge a Salviati un nuovo argomento da trattare a maggior scapito delle tesi di Simplicio. Quanto a quest’ultimo, decisamente comico è il suo sbottare («Ma, Dio buono... ») a difesa del «senso manifesto», ossia dell’evidenza sperimentale: ancora una volta ha imparato bene la forma, gli sfugge la sostanza. SIMPL. Quanto a questo primo, confesso veramente aver sentito varie sottigliezze alle quali non avevo pensato, e come che elle mi giungono nuove, non posso aver le risposte così in pronto. Ma questo, preso da i cadenti a perpendicolo, non l’ho per de i più gagliardi argomenti per l’immobilità della Terra, e non so quello che accaderà de i tiri dell’artiglierie, e massime di quelli contro al moto diurno. SAGR. Tanto mi desse fastidio il volar degli uccelli, quanto mi fanno difficultà le artiglierie e tutte le altre esperienze arrecate di sopra! Ma questi uccelli, che ad arbitrio loro volano innanzi e ’ndietro e rigirano in mille modi, e, quel che importa più, stanno le ore intere sospesi per aria, questi, dico, mi 51

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scompigliano la fantasia, né so intendere come tra tante girandole e’ non ismarriscano il moto della Terra, o come e’ possin tener dietro a una tanta velocità,, che finalmente supera a parecchi e parecchi doppi il lor volo. SALV. Veramente il dubitar vostro non è senza ragione, e forse il Copernico stesso non ne dovette trovar scioglimento di sua intera sodisfazione, e perciò per avventura lo tacque; se ben anco nell’esaminar l’altre ragioni in contrario fu assai conciso, credo per altezza d’ingegno, e fondato su maggiori e più alte contemplazioni, nel modo che i leoni poco si muovono per l’importuno abbaiar de i picciol cani. Serberemo dunque l’instanza de gli uccelli in ultimo, e ’n tanto cercheremo di dar sodisfazione al signor Simplicio nell’altre, col mostrargli, al modo solito, che egli stesso ha le soluzioni in mano, se bene non se n’accorge. E facendo principio da i tiri di volata, fatti, col medesimo pezzo polvere e palla, l’uno verso oriente e l’altro verso occidente, dicami qual cosa sia quella che lo muove a credere che ’l tiro verso occidente (quando la revoluzion diurna fusse del globo terrestre) dovrebbe riuscir più lungo assai che l’altro verso levante. SIMPL. Muovomi a così credere, perché nel tiro verso levante la palla, mentre che è fuori dell’artiglieria, viene seguita dall’istessa artiglieria, la quale, portata dalla Terra, pur velocemente corre verso la medesima parte, onde la caduta della palla in terra vien poco lontana dal pezzo. All’incontro nel tiro occidentale, avanti che la palla percuota in terra, il pezzo si è ritirato assai verso levante, onde lo spazio tra la palla e ’l pezzo, cioè il tiro, apparirà più lungo dell’altro quanto sarà stato il corso dell’artiglieria, cioè della Terra, ne’ tempi che amendue le palle sono state per aria. Dalla carrozza in corsa SALV. Io vorrei che noi trovassimo qualche modo di far una esperienza corrispondente al moto di questi proietti, come quella della nave al moto de i cadenti da alto a basso, e vo pensando la maniera. SAGR. Credo che prova assai accomodata sarebbe il pigliare una carrozzetta scoperta, ed accomodare in essa un balestrone da bolzoni a meza elevazione, acciò il tiro riuscisse il 54

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massimo di tutti, e mentre i cavalli corressero, tirare una volta verso la parte dove si corre, e poi un ’altra verso la contraria, facendo benissimo notare dove si trova la carrozza in quel momento di tempo che ’l bolzone si ficca in terra, sì nell’uno come nell’altro tiro; ché così potrà vedersi per appunto quanto l’uno riesce maggior dell’altro. SIMPL. Parmi che tale esperienza sia molto accomodata; e non ho dubbio che ’l tiro, cioè che lo spazio tra la freccia e dove si trova la carrozza nel momento che la freccia si ficca in terra, sarà minore assai quando si tira verso il corso della carrozza, che quando si tira per l’opposito. Sia, per esempio, il tiro in se stesso trecento braccia, e ’l corso della carrozza, nel tempo che il bolzone sta per aria, sia braccia cento: adunque, tirandosi verso il corso, delle trecento braccia del tiro la carrozzetta ne passa cento, onde nella percossa del bolzone in terra lo spazio tra esso e la carrozza sarà braccia dugento solamente; ma all’incontro nell’altro tiro, correndo la carrozza al contrario del bolzone, quando il bolzone arà passate le sue trecento braccia e la carrozza le sua cento altre in contrario, la distanza traposta si troverà esser di braccia quattrocento. SALV. Sarebbec ’egli modo alcuno per far che questi tiri riuscissero eguali? SIMPL. Io non saprei altro modo che col far star ferma la carrozza. SALV. Questo si sa: ma io domando, facendo correr la carrozza a tutto corso. SIMPL. Chi non ingagliardisse l’arco nel tirar secondo il corso, e poi l’indebolisse per tirar contro al corso. SALV. Ecco dunque che pur ci è qualch’altro rimedio. Ma quanto bisognerebbe ingagliardirlo di più, e quanto poi indebolirlo? SIMPL. Nell’esempio nostro, dove aviamo supposto che l’arco tirasse trecento braccia, bisognerebbe, per il tiro verso il corso, ingagliardirlo sì che tirasse braccia quattrocento, e per l’altro indebolirlo tanto che non tirasse più di dugento, perché così l’uno e l’altro tiro riuscirebbe di braccia trecento in relazione alla carrozza, la quale col suo corso di cento braccia, che ella sottrarrebbe al tiro delle quattrocento e l’aggiugnerebbe a quel delle dugento, verrebbe a ridurgli amendue alle trecento. [...] 59

Molto preciso il ragionamento di Simplicio, e del tutto coerente con la visione aristotelica che l’avanzamento del proietto è garantito dalla reazione del mezzo, senza che l’eventuale moto del lanciatore abbia su di esso alcuna influenza. Ma cospicuamente falso. Dopo che Simplicio ha precisato le velocità con cui la freccia deve partire affinché si abbiano tiri eguali nei due casi, rispettivamente 4 e 2 nel verso del moto e contro, essendo 1 quella della carrozza, restituiamo la parola a Salviati perché tiri le conclusioni in nome di Galileo. SALV. [...] Ma ditemi: quando la carrozza corre, non si muovono ancora con la medesima velocità tutte le cose che son nella carrozza? SIMPL. Senza dubbio. SALV. Adunque il bolzone ancora, e l’arco, e la corda su la quale è teso. SIMPL. Così è. SALV. Adunque, nello scaricare il bolzone verso il corso della carrozza l’arco imprime i suoi tre gradi di velocità in un bolzone che ne ha già un grado, mercé della carrozza che verso quella parte con tanta velocità lo porta, talché nell’uscir della cocca e’ si trova con quattro gradi di velocità; ed all’incontro, tirando per l’altro verso, il medesimo arco conferisce i suoi medesimi tre gradi in un bolzone che si muove in contrario con un grado, talché nel separarsi dalla corda non gli restano altro che dua soli gradi di velocità. Ma già voi stesso avete deposto che per fare i tiri eguali bisogna che il bolzone si parta una volta con quattro gradi e l’altra con due: adunque, senza mutar arco, l’istesso corso della carrozza è quello che aggiusta le partite, e l’esperienza è poi quella che le sigilla a coloro che non volessero o non potessero esser capaci della ragione. Ora applicate questo discorso all’artiglieria, e troverete che, muovasi la Terra o stia ferma, i tiri fatti dalla medesima forza hanno a riuscir sempre eguali, verso qualsivoglia parte indrizzati. L’errore di Aristotile, di Tolomeo, di Ticone, vostro, e di tutti gli altri, ha radice in quella fissa e inveterata impressione che la Terra stia ferma, della quale non vi potete o 60

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sapete spogliare né anco quando volete filosofare di quel che seguirebbe, posto che la Terra si movesse; e così nell’altro argomento, non considerando che mentre che la pietra è su la torre, fa, circa il muoversi o non muoversi, quel che fa il globo terrestre, perché avete fisso nella mente che la Terra stia ferma, discorrete intorno alla caduta del sasso sempre come se si partisse dalla quiete, dove che bisogna dire: Se la Terra sta ferma, il sasso si parte dalla quiete e scende perpendicolarmente; ma se la Terra si muove, la pietra altresì si muove con pari velocità, né si parte dalla quiete, ma dal moto eguale a quel della Terra, col quale mescola il sopravegnente in giù e ne compone un trasversale. SIMPL. Ma, Dio buono, come, se ella si muove trasversalmente, la veggo io muoversi rettamente e perpendicolarmente? questo è pure un negare il senso manifesto; e se non si deve credere al senso, per qual altra porta si deve entrare a filosofare? SALV. Rispetto alla Terra, alla torre e a noi, che tutti di conserva ci moviamo, col moto diurno, insieme con la pietra, il moto diurno è come se non fusse, resta insensibile, resta impercettibile, è senza azione alcuna, e solo ci resta osservabile quel moto del quale noi manchiamo, che è il venire a basso lambendo la torre. Voi non sete il primo che senta gran repugnanza in apprender questo nulla operar il moto tra le cose delle quali egli è comune. [...] Tiri al volo È adesso il momento, in questa disquisizione ricca di gemme, di una curiosa svista di Galileo circa il meccanismo di puntamento dei cacciatori quando cercano di colpire un uccello in volo. È alquanto sorprendente che egli, proprio nell’applicare un concetto – il principio d’inerzia – che sta in tutti i modi cercando di affermare, commetta una tale disattenzione. Se si sparasse come descrive Galileo, evidentemente poco informato di caccia, le prede se la caverebbero senza danno, poiché si lascerebbero i proiettili alle spalle. Corretta è invece, almeno in prima approssimazione, la spiegazione del perché i tiri di artiglieria – diretti, questa volta, lungo i meridiani – non 62

vengono alterati dalla rotazione terrestre, come vorrebbero gli aristotelici (il problema dei tiri di artiglieria e quello dei tiri del cacciatore presentano una fondamentale differenza fisica, contrariamente a quanto afferma Galileo). Alcuni aspetti quantitativi del meccanismo errato di Galileo nel puntamento al volo, diretti a coloro che si interessano di problemi fisici, vengono esaminati nella NOTA FISICO-MATEMATICA alla fine del capitolo; con essi si accenna al comportamento rigoroso dei tiri di artiglieria Sud-Nord, come verrebbe descritto oggi, con il senno di poi, nel sistema Terra in rotazione. SALV. Quietiamoci pur, signor Simplicio, perché il negozio cammina giustamente così. Ed ora da questo discorso vengo a intender la ragione di un problema venatorio di questi imberciatori che con l’archibuso ammazzano gli uccelli per aria: e perché io mi era immaginato che per còrre l’uccello fermassero la mira lontana dall’uccello anticipando per certo spazio, e più o meno secondo la velocità del volo e la lontananza dell’uccello, acciò che sparando ed andando la palla a dirittura della mira venisse ad arrivar nell’istesso tempo al medesimo punto, essa co ’l suo moto e l’uccello co ’l suo volo, e così si incontrassero; domandando ad uno di loro se la lor pratica fusse tale, mi rispose di no, ma che l’artifizio era assai più facile e sicuro, e che operano nello stesso modo per appunto che quando tirano all’uccello fermo, cioè che aggiustano la mira all’uccel volante, e quello co ’l muover l’archibuso vanno seguitando, mantenendogli sempre la mira addosso sin che sparano, e che così gli imberciano come gli altri fermi. Bisogna dunque che quel moto, benché lento, che l’archibuso fa nel volgersi, secondando con la mira il volo dell’uccello, si comunichi alla palla ancora e che in essa si congiunga con l’altro del fuoco, sì che la palla abbia dal fuoco il moto diritto in alto, e dalla canna il declinar secondando il volo dell’uccello [...]. Il tener dunque la mira continuamente indirizzata verso lo scopo fa che il tiro va a ferir giusto: e per tener la mira a segno, se lo scopo sta fermo, anco la canna converrà che si tenga ferma; e se il berzaglio si muoverà, la canna si terrà a segno co ’l moto. E di qui depende la propria risposta all’altro argomento del tirar con l’artiglieria al 63

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berzaglio posto verso mezogiorno o verso settentrione [...]. Rispondo dunque domandando se, aggiustata che si sia l’artiglieria al segno e lasciata star così, ella continua a rimirar sempre l’istesso segno, muovasi la Terra o stia ferma. Convien rispondere che la mira non si muta altrimenti, perché, se lo scopo sta fermo, l’artiglieria parimente sta ferma, e se quello, portato dalla Terra, si muove, muovesi con l’istesso tenore l’artiglieria ancora; e mantenendosi la mira, il tiro riesce sempre giusto, come per le cose dette di sopra e manifesto. [...] Uccelli all’inseguimento E dalla mira del cacciatore, si viene finalmente al discorso preannunciato del volo degli uccelli, che Salviati affronta con rigore scientifico e nello stesso tempo con quel piglio sorridente che abbiamo già visto affiorare qua e là nel dialogo e in questo caso nasce dalla capacità di «vedere», cioè di tradurre in immagine una situazione paradossale («Quando gli uccelli avessero a tener dietro al corso de gli alberi con l’aiuto delle loro ali, starebbero freschi»). Il gusto tutto toscano della battuta riappare nelle ultime parole qui riportate («... quanto a seguir la Terra, gli uccelli non v’hanno a pensare, e per questo servizio potrebbero dormir sempre...»), dove il sorriso arguto stempera la serietà e la fatica delle impegnative discussioni affrontate, e nello stesso tempo ben si concilia con esse. Che non ci suggerisca Galileo di diffidare di chi scambia seriosità per serietà e, bandendo la lievità del sorriso per ammantarsi di importanza, si priva di uno strumento critico essenziale, dal momento che saper ridere, anche di sé, è saper mettere in discussione ciò che si sa e ciò che si è? SAGR. Io per la parte mia resto sin qui sodisfatto a pieno, ed intendo benissimo che chiunque si imprimerà nella fantasia questa general comunicanza della diurna conversione tra tutte le cose terrestri, alle quali tutte ella naturalmente convenga, in quel modo che nel vecchio concetto stimavano convenirgli la quiete intorno al centro, senza veruno intoppo discernerà la fallacia e l’equivocazione che faceva parer gli argomenti prodotti esser concludenti. Restami solamente qualche 68

scrupolo, come di sopra ho accennato, intorno al volar de gli uccelli; i quali, avendo, come animati, facultà di muoversi a lor piacimento di centomila moti, e di trattenersi, separati dalla Terra, lungamente per aria, e qui con disordinatissimi rivolgimenti andar vagando, non resto ben capace come tra sì gran mescolanza di movimenti non si abbia a confondere e smarrir il primo moto comune, ed in qual modo, restati che ne sieno spogliati, e’ lo possano compensare e ragguagliar co ’l volo, e tener dietro alle torri ed a gli alberi che di corso tanto precipitoso fuggono verso levante: dico tanto precipitoso, che nel cerchio massimo del globo è poco meno di mille miglia per ora, delle quali il volo delle rondini non credo che ne faccia cinquanta. SALV. Quando gli uccelli avessero a tener dietro al corso de gli alberi con l’aiuto delle loro ali, starebbero freschi; e quando e’ venisser privati dell’universal conversione, resterebbero tanto indietro, e tanto furioso apparirebbe il corso loro verso ponente, a chi però gli potesse vedere, che supererebbe di assai quel d’una freccia; ma credo che noi non gli potremmo scorgere, sì come non si veggono le palle d’artiglieria, mentre, cacciate dalla furia del fuoco, scorron per aria. Ma la verità è che il moto proprio de gli uccelli, dico del lor volare, non ha che far nulla co ’l moto universale, al quale né apporta aiuto né disaiuto: e quello che mantiene inalterato cotal moto ne gli uccelli, è l’aria stessa per la quale e’ vanno vagando, la quale, seguitando naturalmente la vertigine della Terra, sì come conduce seco le nugole, così porta gli uccelli ed ogn’altra cosa che in essa si ritrovasse pendente: talché, quanto al seguir la Terra, gli uccelli non v’hanno a pensare, e per questo servizio potrebbero dormir sempre. [...] NOTA FISICO-MATEMATICA Indipendenza dei moti La dimostrazione che il tempo di caduta di una palla sparata orizzontalmente oppure lasciata cadere a corpo morto dalla bocca del cannone è sempre lo stesso, per quanto elevata possa essere la velocità di uscita, si fa come segue. Trascurando 69

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l’attrito dell’aria, lungo l’asse orizzontale x il proiettile si muove per inerzia con velocità costante, eguale a quella di uscita vx. Lungo l’asse verticale, invece, si muove di moto uniformemente accelerato per effetto della gravità, a partire da un’altezza h. Sia g il valore dell’accelerazione di gravità. Presa l’origine degli assi al suolo sulla verticale del cannone, le coordinate del proiettile, in funzione del tempo t, sono allora:

(1a)

(1b)

Eliminando il tempo, si ricava l’equazione parabolica della traiettoria:

La gittata a, che si trova dal valore di x allorché y = 0, risulta proporzionale alla velocità iniziale vx:

il tempo T per toccare terra si ricava dal valore di t allorché x=a. Dall’equazione (1a) si ottiene

che risulta appunto indipendente dalla velocità iniziale vx e quindi lo stesso di un proiettile che fosse lasciato cadere a perpendicolo. Vale la pena di richiamare un piccolo problema, quasi un gioco, che è parente stretto di quello della caduta del proiettile. Si abbia un arciere che vuole colpire con una freccia una noce di cocco appesa a una palma, a una certa distanza da lui. Egli la punta direttamente. Nel momento stesso in cui fa partire la freccia, la noce si stacca dal ramo e inizia a cadere. Ahimè, pensa l’arciere, un colpo sprecato! E invece no, con sua sorpresa la freccia giunge a segno spezzando la noce al volo prima che tocchi terra. Spiegazione ovvia: gli spostamenti verticali della noce e della freccia sono identici, perché entrambe scendono per gravità (purché, come al solito, sia legittimo trascurare l’attrito con l’aria). Dunque l’arciere, mirando diritto alla noce, avrebbe fallito il colpo se questa non si fosse staccata dal ramo! Un bell’esempio di quanto possa rendersi utile la conoscenza delle leggi fisiche. Prendere la mira Non è così che si svolgono i fatti, invece, nel meccanismo di mira descritto da Salviati per un uccello in volo. Qui Galileo, evidentemente non bene informato sulle procedure di puntamento e affascinato dalla prospettiva di una spiegazione rivoluzionaria, incorre in uno sbaglio concettuale, non facendo applicare a Salviati in modo corretto quello stesso principio d’inerzia che è impegnato a dimostrare. Se la canna del fucile è sempre tenuta puntata sul bersaglio, il proiettile all’uscita della stessa ha una velocità trasversale notevolmente più piccola di quella dell’uccello, perché è molto più vicino alla spalla del cacciatore, che è il fulcro della rotazione del sistema complessivo fucile-uccello. Consideriamo il caso più semplice, quello di un uccello che voli in direzione trasversale rispetto alla canna del fucile. La velocità trasversale del proiettile è ridotta rispetto a

quella dell’uccello di un fattore d/L, dove d è la lunghezza dell’arma e L è la distanza cacciatore-bersaglio. Una volta che il proiettile è libero, tale velocità non può più mutare, appunto per il principio d’inerzia. Allora il tratto percorso trasversalmente dal proiettile nel suo tempo di volo è minore di quello percorso dall’uccello e il colpo fallisce. Esempio numerico: lunghezza dell’arma d=50 cm; distanza dell’uccello L=100 m; velocità dell’uccello V=30 km/h; velocità longitudinale del proiettile u=1.000 km/h. La velocità trasversale della punta del fucile (e del proiettile) che ne risulta è v=Vd/L=0,15 km/h, e il tempo di percorrenza del tragitto fucile-bersaglio t=L/u=0,36 secondi. In tale intervallo di tempo, l’uccello si sposta in avanti di 3 metri, mentre il proiettile trasla soltanto di 1,5 cm, passandogli perciò alle spalle. In realtà, a evitare ciò si mettono in pratica accorgimenti diversi, per discutere i quali occorrerebbe intendersi di armi: in ogni modo, onde non correre rischi, i cacciatori sparano agli uccelli con una rosa di pallini piuttosto che un singolo proiettile. Tiri di artiglieria Infine, sullo stesso leit motiv, una notazione per i pignoli che volessero contestare, con il senno di oggi, l’affermazione galileiana che i tiri di artiglieria Sud-Nord, con mira centrata sul bersaglio, non risentono della rotazione terrestre. In realtà, nel nostro emisfero un bersaglio situato più a Nord del cannone corre da Ovest a Est più lentamente di quanto non faccia il cannone. Per il principio d’inerzia, la palla non colpirà il bersaglio, passandogli invece davanti. L’effetto, piccolo alle nostre latitudini, può divenire invece cospicuo salendo all’estremo Nord. Per fare il caso limite, poniamo il bersaglio al Polo Nord e il cannone a una certa distanza da esso. La

rotazione terrestre fa girare il cannone attorno al bersaglio, che invece rimane in posizione. All’uscita dalla bocca, la palla ha una componente di moto lungo la circonferenza: questa si conserva e le impedisce di colpire il bersaglio mirato. Esempio numerico: sia il cannone a r=10 km dal bersaglio, il che significa che descrive attorno ad esso un’orbita circolare alla velocità v=ωr=0.727 m/s (ω= 7.27.10 rad/s=velocità angolare di rotazione attorno all’asse terrestre). Se la velocità longitudinale della palla è pari a 1.000 km/h, il tempo impiegato dalla palla per raggiungere il bersaglio è di 36 secondi e in tale tempo essa devia a destra di 0,727x36=26 metri. Nella meccanica d’oggi, si preferisce descrivere questo genere di effetti in termini della forza di Coriolis, una forza che fa piegare la traiettoria di ogni corpo che viaggi in un sistema non inerziale, quale è la Terra in rotazione. Il piegamento della traiettoria è verso destra nell’emisfero settentrionale, verso sinistra nell’altro. Si tratta dello stesso effetto che fa variare il piano di rotazione del pendolo di Foucault attorno alla verticale, fa formare spirali all’acqua che scende nel foro di un lavandino, o devia la caduta di un grave dal perpendicolo, come si discute nella NOTA FISICO-MATEMATICA in chiusura del Capitolo 3. L’espressione matematica della forza di Coriolis è la seguente -5

FCoriolis = -2m(ωxv),

dove x è il segno di prodotto vettore, m è la massa del corpo, v la sua velocità e ω il vettore che esprime la velocità angolare di rotazione del sistema ruotante (orientato come l’asse di rotazione). Si osserva che la forza è trasversale sia rispetto alla direzione di moto del corpo, che all’asse di rotazione del sistema in cui esso si trova. Inoltre, poiché il prodotto vettore tra v e ω è nullo se i due vettori sono paralleli e massimo se sono tra loro perpendicolari, si vede che, nell’esempio del

cannone fatto sopra, la forza di Coriolis è nulla all’equatore e massima ai poli.

IL PENDOLO DI FOUCAULT, APPESO ALLA CUPOLA DEL PANTHÉON DI PARIGI, RUOTA PER EFFETTO DELLA FORZA DI CORIOLIS ED È PROVA SOVRANA DELLA ROTAZIONE TERRESTRE

PARTE TERZA IL PENDOLO E LA MUSICA

Capitolo 6 (dai Discorsi) LE DIVINE ARMONIE ovvero dai pendoli alla consonanza musicale Consonanti, e con diletto ricevute, saranno quelle coppie di suoni che verranno a percuotere con qualche ordine sopra ’l timpano

Come amante della musica, Galileo si chiede perché certi accordi musicali suonino in modo consonante, altri dissonante. La sua spiegazione si riconduce alla natura fisica del suono, un’oscillazione di parti meccaniche che si trasmette all’aria e infine al nostro timpano. Galileo intuisce la correlazione del fenomeno sonoro, in quanto di natura oscillatoria, con il moto dei pendoli, e da quest’ultimo avvia quindi la discussione. La sua ipotesi – la consonanza nascerebbe da una stimolazione più sincrona e ordinata del nostro timpano – va nella direzione della moderna psicoacustica, che la attribuisce a una più semplice configurazione degli impulsi nervosi che dall’orecchio raggiungono il cervello.

Consonanza e dissonanza Galileo era un raffinato suonatore di liuto e, come già suo padre Vincenzo, un grande estimatore dell’arte musicale. È del tutto naturale, quindi, che cercasse una risposta all’antica domanda: che cosa conferisce a un insieme di note un carattere consonante, anziché dissonante? La sua risposta, come si vedrà, è solidamente ancorata alla fenomenologia fisica, 1

piuttosto che alla matematica. Già Pitagora aveva notato che due note suonate insieme producono in noi una sensazione tanto più gradevole quanto più le loro frequenze fondamentali stanno nel rapporto di piccoli numeri interi (ad esempio, in ordine di consonanza decrescente, 2/1 per l’intervallo di ottava, 3/2 per quello di quinta perfetta do-sol, 4/3 per la quarta perfetta do-fa, 5/4 per la terza maggiore do-mi, e così via). Da questa osservazione, fatta usando il monocordo, egli aveva tratto la celebre conclusione: «Il segreto dell’armonia sta nel magico potere dei numeri». Galileo, incredulo nella possibilità in natura di effetti magici e astratti, coglie invece l’elemento concreto del fenomeno della consonanza, che è l’ordinata sincronia nei movimenti di pendoli i cui periodi di oscillazione stiano fra loro, appunto, in rapporti di piccoli numeri interi. Pendoli e corde vibranti devono, per lui, presentare fondamentali analogie, trattandosi, in entrambi i casi, di sistemi meccanici oscillanti. La differenza sta solo nel tipo di forza agente, che è quella di gravità nel primo caso, quella elastica nel secondo. Di qui, con notevole intuito, Galileo trae una spiegazione per la consonanza in termini di una eccitazione del timpano in modo caratteristicamente coordinato, laddove la dissonanza corrisponde a una stimolazione confusa, priva di correlazioni. Due pendoli, dice Galileo, che abbiano periodi di oscillazione rispettivamente 3 e 2 secondi, si ritrovano al passo ogni due oscillazioni del pendolo più lento, ossia ogni sei secondi, indice che i due moti hanno un comune elemento di periodicità. Così due corde, di lunghezze che stanno tra loro nel rapporto 3 a 2, agiscono sincronicamente sul timpano ogni due oscillazioni della corda più grave. Al contrario, due corde le cui lunghezze non stiano tra loro in rapporti semplici, non si trovano mai ad agire sul timpano in sincronia, inducendo un effetto di disturbo anziché di piacere; analogamente i due pendoli corrispondenti offrono alla vista moti tra loro scorrelati, senza momenti di coincidenza. 2

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SE LE FREQUENZE DI OSCILLAZIONE DEI PENDOLI STANNO FRA LORO IN RAPPORTI DI NUMERI INTERI PICCOLI, PER ESEMPIO 3 A 2, ESSI RIPASSANO PERIODICAMENTE PER UNA CONDIZIONE DI PERFETTA SINCRONIA

È opportuno sottolineare subito che la moderna psicoacustica adotta criteri di definizione della consonanza che in qualche modo fanno capo all’ipotesi di Galileo. Il discorso che egli fa a proposito dell’armonica fondamentale delle note viene esteso a includere gli armonici superiori che, nelle note tra loro consonanti, possono risultare almeno in parte comuni. Per esempio, nell’accordo di quinta perfetta do-sol, la terza armonica del do coincide in frequenza con la seconda del sol, e così la sesta del do con la quarta del sol. Si ha dunque un’eccitazione timpanica che, per le due note, presenta una sequenza di stimoli identici, costituenti una traccia unificatrice dei due suoni. La psicoacustica, d’altra parte, non attribuisce la sensazione di gradevolezza del suono al comportamento del timpano, bensì al sistema nervoso: nelle condizioni di stimolazione detta, l’insieme dei segnali inviati dalla coclea alla rete neurale si presenta più semplice, meglio decifrabile, ed è più gradito che non un insieme di segnali senza elementi in comune. Ai tempi di Galileo, naturalmente, questo tipo di discorsi non era immaginabile. E neppure era immaginabile che, con la dovuta assuefazione, il nostro apparato psicofisiologico avrebbe saputo trarre da insiemi di note dissonanti non meno piacere 4

che da insiemi consonanti, come dimostra tutta la musica dal periodo romantico ai giorni nostri. Se il bambino sembra prediligere, come indicano recenti studi di psicologia della percezione, gli accordi consonanti, e lo stesso vale per l’adulto digiuno di musica, il buon conoscitore trova invece nell’esclusione delle dissonanze dal discorso musicale un elemento di monotonia e di prevedibilità. Le leggi del pendolo Galileo passa dai pendoli alla consonanza musicale per naturale evoluzione del discorso, allo stesso modo in cui ai pendoli giunge a partire dalla caduta dei gravi, studio fatto con tutt’altro intento, cioè quello di confutare con l’evidenza sperimentale, oltre che con il ragionamento, le concezioni aristoteliche. Galileo prende le mosse dall’idea che, per analizzare sperimentalmente tale caduta, convenga far scendere il corpo – una sfera levigata – lungo un piano inclinato, perché i tempi in gioco sono più lunghi. La misura del tempo veniva effettuata contando, per la durata dell’evento in esame, i battiti cardiaci oppure pesando la quantità d’acqua caduta da un recipiente forato (cronometro ad acqua, si veda il Capitolo 13): metodi affetti da grande errore se usati per fenomeni di breve durata. Tutto dunque doveva essere rallentato nei limiti del possibile. Poiché la massa del pendolo oscilla grazie all’azione del peso, essa sembra prestarsi ancor meglio allo studio dei fenomeni gravitazionali, giacché il suo moto può essere reso lento a piacere, tanto più lento quanto più è lungo il filo cui la massa viene appesa. La graduale transizione del discorso dalla caduta dei gravi alla consonanza musicale offre un mirabile esempio di concatenazione logica nel procedere del discorso scientifico, dove ogni fenomeno è fortemente interlacciato con altri, così da costituire un tutto omogeneo e conseguente. Questo modo di addentrarsi nei meandri della materia, una delle caratteristiche essenziali della fisica moderna, pervade tutta l’opera di Galileo. Isocronismo delle oscillazioni Vogliamo qui aggiungere alcune brevi considerazioni in merito

alla scoperta galileiana dell’isocronismo del pendolo, ossia l’eguale durata delle oscillazioni a parità di lunghezza del filo, indipendentemente dalla loro ampiezza, nonché dal valore della massa oscillante. Oggi sappiamo che ciò è vero soltanto, e comunque con una certa approssimazione, per piccole oscillazioni (angoli al vertice fino al paio di gradi). Nell’esempio di Galileo, biglie eguali fatte di piombo o di sughero hanno, sotto questo punto di vista, un comportamento quasi identico: se c’è una differenza, questa sta nel tempo di smorzamento delle oscillazioni, che per il piombo è molto più lungo. Il Viviani ci narra che il suo maestro dedusse l’isocronismo dei pendoli osservando, ancora giovanissimo, il moto dei lampadari della cattedrale di Pisa. Benché vi sia chi ritiene che l’isocronismo fosse già noto all’astronomo arabo Ibn Yunus vari secoli prima della nascita di Galileo, certo è che lo scienziato italiano fu il primo a studiare il fenomeno in modo sistematico e a trattare l’argomento con rigore scientifico. Nel discorso di Galileo, la nozione dell’isocronismo porta a quella che le velocità di oscillazione di due masse – una di piombo e una di sughero – a parità di lunghezza del filo e di ampiezza di oscillazione sono eguali. Proprietà questa che, non essendo la discesa del pendolo altro che una caduta lungo un arco circolare, rientra nelle modalità di caduta dei gravi, identiche, secondo Galileo, per tutti i corpi, purché sia lecito trascurare effetti secondari come la resistenza offerta dal mezzo. Nel pendolo, tuttavia, si manifesta un fatto nuovo, concettualmente imprevedibile, anche per Galileo, e rilevabile solo con l’osservazione sperimentale: il tempo di caduta è indipendente dalla quota da cui il pendolo parte – oscillazioni isocroniche, appunto – cosa che non è vera per caduta verticale o lungo piani inclinati. Galileo non pretese mai che l’isocronismo fosse esatto. Sappiamo dal Viviani che egli aveva osservato minuscole differenze nel periodo delle grandi e delle piccole oscillazioni. Tuttavia, conscio com’era degli effetti di resistenza dell’aria, tanto più importanti quanto maggiore è la velocità del corpo (e quindi l’ampiezza di oscillazione), fu indotto ad attribuirle piuttosto a tale «impedimento», che non al fatto che la legge fisica che porta all’isocronismo cessa di valere per ampiezze di 5

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oscillazione medie e grandi. Galileo comunque fu, in proposito, molto cauto e non tentò di dimostrare l’isocronismo con argomentazioni logiche, né con la matematica, accontentandosi di porlo come fatto meramente empirico. A questo proposito, ci piace riportare un commento di Toraldo di Francia: «La definizione di piccole oscillazioni è ovviamente convenzionale. Tutto sta a dichiarare che precisioni uno vuole e può misurare. Galileo, per sua fortuna, non poteva raggiungere precisioni sbalorditive, quali si possono raggiungere oggi o si potranno raggiungere in un lontano futuro; altrimenti è probabile che, per esempio, non avrebbe potuto scoprire nulla sulla caduta dei gravi (l’accelerazione di gravità dipende dal luogo sulla superficie terrestre e dalla distanza dal centro della terra, dalla posizione della luna e dei pianeti; la terra attira il grave e il grave attira la terra; il tempo di caduta è diverso se misurato da chi sta coi piedi in terra o da chi cade col grave; la luce riflessa dal grave è curvata dall’attrazione terrestre, ecc...)». C’è di più: l’ampio margine concesso alla precisone dai rudimentali mezzi di misura del tempo conforta il Nostro – come tutti gli scienziati suoi contemporanei e dei due secoli a seguire – nel convincimento che la fisica sia una scienza fatta di certezze, dominata a tutti i livelli dal determinismo, ossia da vincoli unici e certi tra cause ed effetti. Non sarà prima dell’Ottocento, con Clerk Maxwell e Ludwig Boltzmann, che si farà strada il concetto di probabilità nella realizzazione di un certo stato fisico d’insieme, piuttosto che di altri. E sarà soltanto nel secolo scorso che la meccanica quantistica perverrà a rimuovere i vincoli di causalità negli eventi fisici a livello microscopico. A quando il prossimo passo, e in quale direzione? Ma torniamo all’isocronismo del pendolo di Galileo. È interessante rilevare che l’errore di prenderlo come perfetto fu foriero di importanti progressi tecnologici e scientifici: forse non si sarebbe mai pensato, altrimenti, di usare il pendolo per la misurazione del tempo. Per una esposizione dettagliata di questa tematica, e in particolare dei tentativi di Galileo di costruire un orologio a pendolo, coinvolgendo nell’impresa il figlio Vincenzo, si veda per esempio il testo di Ferdinando 8

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Flora.

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Il pendolo di Foucault Un’ultima considerazione a proposito dell’oscillazione dei lampadari della cattedrale di Pisa. C’è da chiedersi: se Galileo effettivamente si dedicò a tale osservazione per tempi prolungati, è possibile che non gli sia mai occorso di veder ruotare il piano di oscillazione, come avviene per il pendolo di Foucault per effetto della rotazione terrestre? Certo i lampadari non erano ideali come pendoli di Foucault, ed è probabile che, se ruotavano, lo facessero in modo molto casuale, così che Galileo avrebbe attribuito il fenomeno a qualche «impedimento accidentario», come diverse condizioni di avvio, movimenti d’aria o attriti di varia specie, effetti di interesse scientifico marginale. Peccato, perché questa sarebbe stata la prova diretta e incontrovertibile della rotazione terrestre, quella prova decisiva di cui egli andò in cerca per tutta la vita allo scopo di tacitare i suoi oppositori aristotelici. Quella prova che invece credette di trovare nel fenomeno delle maree, tanto genialmente quanto erroneamente interpretato (si veda il Capitolo 9 dedicato a questo problema). Ma i lampadari non erano l’unica fonte di informazione per Galileo, giacché all’Università di Padova, fuori dalla finestra del suo studio, egli aveva allestito un grande pendolo, capace forse di rivelargli l’effetto Foucault. Piccola parentesi: nel 1995, uno studente del primo anno di Fisica dell’Università di Roma «La Sapienza», Matteo Bissiri, ha sperimentalmente mostrato che è possibile verificare la rotazione della Terra (e misurarne la velocità) osservando lo spostamento dell’ombra di un pendolo nel corso di venti minuti, il tempo a disposizione prima che l’ampiezza dell’oscillazione si smorzi eccessivamente. Il filo del pendolo era lungo 22 metri e reggeva una boccia di massa 1 kg. Tornando a Galileo, si sa che il suo pendolo era lungo non meno di dieci metri ed è presumibile che la massa fosse alquanto più pesante di 1 kg, poiché il Nostro ben sapeva che per minimizzare l’effetto di attrito dell’aria conviene usare una massa grande. È allora lecito ipotizzare, considerata anche la sua grande abilità di sperimentatore, che la medesima osservazione fatta da Bissiri sarebbe stata per lui possibile. 11

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Dove avrebbe altrimenti attinto l’allievo Viviani la nozione che un pendolo – come si legge in un suo appunto – «insensibilmente va traviando dalla prima sua gita»? Il testo Passando ora alla lettura del testo, si noti la concretezza del ragionamento, il costante riferimento a fenomeni che possono essere osservati da tutti, nonché la naturalezza dello stile discorsivo che, pur interrompendosi più volte a registrare gli umori, la partecipazione e le aspettative dei dialoganti, come accade nella conversazione, procede con lucido rigore verso l’obiettivo prefisso. Le cosiddette digressioni di Galileo, là dove non rispondono all’esigenza artistica di conferire vivacità alla forma del dialogo, al posto di quella più rigida del saggio, sono in realtà tali solo in superficie: nel trascorrere da un fenomeno all’altro, Galileo coglie gli aspetti comuni, individua nella apparente eterogeneità del reale gli elementi unificanti, compie un’opera di illuminante semplificazione, anticipando un carattere saliente della fisica contemporanea. Si noti infine, qui come altrove, l’abilità con cui Salviati utilizza gli interventi di Sagredo integrandoli nel proprio discorso, in modo quasi da conferire all’interlocutore l’impressione di un proprio effettivo contributo dialettico alla spiegazione del fenomeno. 14

DETTAGLIO DEL PENDOLO DI FOUCAULT IN MINIATURA REALIZZATO DA MATTEO BISSIRI PRESSO IL DIPARTIMENTO DI FISICA ALL’UNIVERSITÀ «LA SAPIENZA» DI ROMA

Il dialogo inizia – a partire come si è detto dall’eguaglianza delle modalità di caduta libera per due gravi di peso differente – con l’argomentazione riguardante l’indipendenza del periodo delle oscillazioni di un pendolo dal valore della massa oscillante appesa al filo (o spago, o corda, nelle varie terminologie usate da Galileo), seguita da quella dell’isocronismo delle oscillazioni. La massa del pendolo SALV. L’esperienza fatta con due mobili quanto più si possa differenti di peso, col fargli scendere da un’altezza per osservar se la velocità loro sia eguale, patisce qualche difficoltà: imperò che se l’altezza sarà grande, il mezzo, che dall’impeto del cadente deve esser aperto e lateralmente spinto, di molto maggior pregiudizio sarà al piccol momento del mobile leggierissimo che alla violenza del gravissimo, per lo che per lungo spazio il leggiero rimarrà indietro; e nell’altezza piccola si potrebbe dubitare se veramente non vi fusse differenza, o pur se ve ne fusse, ma inosservabile. E però sono andato 15

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pensando di reiterar tante volte la scesa da piccole altezze, ed accumulare insieme tante di quelle minime differenze di tempo, che potessero intercedere tra l’arrivo al termine del grave e l’arrivo del leggiero, che così congiunte facessero un tempo non solo osservabile, ma grandemente osservabile. In oltre, per potermi prevaler di moti quanto si possa tardi, ne i quali manco lavora la resistenza del mezzo in alterar l’effetto che depende dalla semplice gravità, sono andato pensando di fare scendere i mobili sopra un piano declive, non molto elevato sopra l’orizontale; ché sopra questo, non meno che nel perpendicolo, potrà scorgersi quello che facciano i gravi differenti di peso: e passando più avanti, ho anco voluto liberarmi da qualche impedimento che potesse nascer dal contatto di essi mobili su ’l detto piano declive: e finalmente ho preso due palle, una di piombo ed una di sughero, quella ben più di cento volte più grave di questa, e ciascheduna di loro ho attaccata a due sottili spaghetti eguali, lunghi quattro o cinque braccia, legati ad alto; allontanata poi l’una e l’altra palla dallo stato perpendicolare, gli ho dato l’andare nell’istesso momento, ed esse, scendendo per le circonferenze de’ cerchi descritti da gli spaghi eguali, (or semidiametri, passate oltre al perpendicolo, son poi per le medesime strade ritornate indietro; e reiterando ben cento volte per lor medesime le andate e le tornate, hanno sensatamente mostrato, come la grave va talmente sotto il tempo della leggiera, che né in ben cento vibrazioni, né in mille, anticipa il tempo d’un minimo momento, ma camminano con passo egualissimo. Scorgesi anco l’operazione del mezzo, il quale, arrecando qualche impedimento al moto, assai più diminuisce le vibrazioni del sughero che quelle del piombo, ma non però che le renda più o men frequenti; anzi quando gli archi passati dal sughero non fusser più che di cinque o sei gradi, e quei del piombo di cinquanta o sessanta, son eglin passati sotto i medesimi tempi. [...] Isocronismo SALV. [...] Però notate: slargato il pendolo del piombo, v. g., cinquanta gradi dal perpendicolo e di lì lasciato in libertà, scorre, e passando oltre al perpendicolo quasi altri cinquanta, 21

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descrive l’arco di quasi cento gradi e ritornando per se stesso indietro, descrive un altro poco minore arco, e continuando le sue vibrazioni, dopo gran numero di quelle si riduce finalmente alla quiete. Ciascheduna di tali vibrazioni si fa sotto tempi eguali, tanto quella di novanta gradi, quanto quella di cinquanta, di venti, di dieci e di quattro; sì che, in conseguenza, la velocità del mobile vien sempre languendo, poiché sotto tempi eguali va passando successivamente archi sempre minori e minori. Un simile, anzi l’istesso, effetto fa il sughero pendente da un filo altrettanto lungo, salvo che in minor numero di vibrazioni si conduce alla quiete, come meno atto, mediante la sua leggerezza, a superar l’ostacolo dell’aria: con tutto ciò tutte le vibrazioni, grandi e piccole, si fanno sotto tempi eguali tra di loro, ed eguali ancora a i tempi delle vibrazioni del piombo. Onde è vero che, se mentre il piombo passa un arco di cinquanta gradi, il sughero ne passa uno di dieci, il sughero allora è più tardo del piombo; ma accaderà ancora, all’incontro, che il sughero passi l’arco di cinquanta, quando il piombo passi quel di dieci o di sei: e così, in diversi tempi, or sarà più veloce il piombo ed ora il sughero. Ma se gli stessi mobili passeranno ancora, sotto i medesimi tempi eguali, archi eguali, ben sicuramente si potrà dire allora essere le velocità loro eguali. Al di là della bella immagine del Viviani, che ci descrive il suo maestro in pensosa osservazione dei lampadari della cattedrale, è molto logico pensare che Galileo ipotizzasse l’isocronismo del pendolo dall’analogia – per lui del tutto evidente, come si è detto in apertura – tra i due sistemi meccanici oscillanti, pendolo e corda musicale. Egli certo era ben conscio del fatto che, quando il suono della corda va svanendo, ossia l’ampiezza di oscillazione si riduce, l’altezza (o frequenza) della nota rimane sempre la stessa. La discussione prosegue con numerosi dettagli ed esempi, fino a che Salviati, caldamente incoraggiato da Sagredo, si accinge a parlare dell’effetto di risonanza acustica e a stabilire il collegamento tra il fenomeno dell’oscillazione dei pendoli e i meccanismi che portano alla definizione di consonanza e dissonanza, tema di fondo nell’armonia musicale. 31

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SALV. Vengo ora agli altri quesiti, attenenti a i pendoli. [... ] penso che potrò dirvi qualche mio pensiero sopra alcuni problemi attenenti alla musica, materia nobilissima, della quale hanno scritto tanti grand’uomini e l’istesso Aristotele, e circa di essa considera molti problemi curiosi; talché se io ancora da così facili e sensate esperienze trarrò ragioni di accidenti maravigliosi in materia de i suoni, posso sperare che i miei ragionamenti siano per esser graditi da voi. SAGR. Non solamente graditi, ma da me in particolare sommamente desiderati, come quello che, sendomi dilettato di tutti gli strumenti musici, ed assai filosofato intorno alle consonanze, son sempre restato incapace e perplesso onde avvenga che più mi piaccia e diletti questa che quella, e che alcuna non solo non mi diletti, ma sommamente m’offenda. Il problema poi trito delle due corde tese all’unisono, che al suono dell’una l’altra si muova e attualmente risuoni, mi resta ancora irresoluto, come anco non ben chiare le forme delle consonanze ed altre particolarità. È ora il momento in cui, tra le righe, Salviati enuncia la legge che lega il periodo di oscillazione dei pendoli alla lunghezza del filo che sostiene la massa oscillante. In particolare viene chiaramente espresso il concetto di risonanza: una perturbazione esterna può far oscillare un pendolo solo se lo stimola in sincronia, ossia se la sua frequenza coincide con quella propria del pendolo, definita in modo univoco dalla lunghezza del filo (si pensi al caso di un’altalena). Nelle parole di Sagredo («Io ho ben mille volte posto cura alle vibrazioni, in particolare, delle lampade pendenti in alcune chiese da lunghissime corde») riecheggia l’esperienza personale di Galileo giovane, alle prese con i lampadari della cattedrale di Pisa. Il medesimo concetto di risonanza viene poi esteso alle corde, la cui frequenza fondamentale di oscillazione è definita dalla loro lunghezza (a parità di tensione, spessore e materiale). L’oscillazione della corda, la sua trasmissione alle particelle dell’aria (o di altri mezzi) e infine al timpano: ecco in breve il meccanismo del suono, la sensazione che abbiamo a livello percettivo di una perturbazione meccanica di carattere oscillatorio periodico. Come sempre, maggiori dettagli quantitativi saranno proposti nella NOTA FISICO34

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MATEMATICA a fine capitolo. Lunghezza del filo SALV. Vedremo se da questi nostri pendoli si possa cavare qualche sodisfazione a tutte queste difficoltà. [...] Quanto poi alla proporzione de i tempi delle vibrazioni di mobili pendenti da fila di differente lunghezza, sono essi tempi in proporzione suddupla delle lunghezze delle, fila, o vogliam dire le lunghezze esser in duplicata proporzion de i tempi, cioè son come i quadrati de i tempi: sì che volendo, v. g., che ’l tempo d’una vibrazione d’un pendolo sia doppio del tempo d’una vibrazione d’un altro, bisogna che la lunghezza della corda di quello sia quadrupla della lunghezza della corda di questo; ed allora, nel tempo d’una vibrazione di quello, un altro ne farà tre, quando la corda di quello sarà nove volte più lunga dell’altra: dal che ne sèguita che le lunghezze delle corde hanno fra di loro la proporzione che hanno i quadrati de’ numeri delle vibrazioni che si fanno nel medesimo tempo. SAGR. Adunque, se io ho ben inteso, potrò speditamente sapere la lunghezza d’una corda pendente da qualsivoglia grandissima altezza, quando bene il termine sublime dell’attaccatura mi fusse invisibile e solo si vedesse l’altro estremo basso. Imperò che, se io attaccherò qui da basso un assai grave peso a detta corda e farò che si vada vibrando in qua e in là, e che un amico vadia numerando alcune delle sue vibrazioni e che io nell’istesso tempo vadia parimente contando le vibrazioni che farà un altro mobile appeso a un filo di lunghezza precisamente d’un braccio, da i numeri delle vibrazioni di questi pendoli, fatte nell’istesso tempo, troverò la lunghezza della corda [...]. SALV. Né vi ingannerete d’un palmo, e massime se piglierete moltitudini grandi di vibrazioni. SAGR. V. S. mi dà pur frequentemente occasione d’ammirare la ricchezza ed insieme la somma liberalità della natura, mentre da cose tanto comuni, e direi anco in certo modo vili, ne andate traendo notizie molto curiose e nuove, e bene spesso remote da ogni immaginazione. Io ho ben mille volte posto cura alle vibrazioni, in particolare, delle lampade pendenti in alcune chiese da lunghissime corde, inavvertentemente state mosse da 37

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alcuno; ma il più che io cavassi da tale osservazione, fu l’improbabilità dell’opinione di quelli che vogliono che simili moti vengano mantenuti e continuati dal mezzo, cioè dall’aria, perché mi parrebbe bene che l’aria avesse un gran giudizio, ed insieme una poca faccenda, a consumar le ore e le ore di tempo in sospignere con tanta regola in qua e in là un peso pendente: ma che io fussi per apprenderne che quel mobile medesimo, appeso a una corda di cento braccia di lunghezza, slontanato dall’imo punto una volta novanta gradi ed un’altra un grado solo o mezzo, tanto tempo spendesse in passar questo minimo, quanto in passar quel massimo arco, certo non credo che mai l’avrei incontrato, ché ancor ancora mi par che tenga dell’impossibile. Ora sto aspettando di sentire che queste medesime semplicissime minuzie mi assegnino ragioni tali di quei problemi musici, che mi possino, almeno in parte, quietar la mente. La risonanza SALV. Prima d’ogni altra cosa bisogna avvertire che ciaschedun pendolo ha il tempo delle sue vibrazioni talmente limitato e prefisso, che impossibil cosa è il farlo muover sotto altro periodo che l’unico suo naturale. Prenda pur chi si voglia in mano la corda ond’è attaccato il peso, e tenti quanto gli piace d’accrescergli o scemargli la frequenza delle sue vibrazioni; sarà fatica buttata in vano: ma ben all’incontro ad un pendolo, ancor che grave e posto in quiete, col solo soffiarvi dentro conferiremo noi moto, e moto anche assai grande col reiterare i soffi, ma sotto ’l tempo che è proprio quel delle sue vibrazioni; che se al primo soffio l’aremo rimosso dal perpendicolo mezzo dito, aggiugnendogli il secondo dopo che, sendo ritornato verso noi, comincerebbe la seconda vibrazione, gli conferiremo nuovo moto, e così successivamente con altri soffi, ma dati a tempo, e non quando il pendolo ci vien incontro (che così gl’impediremmo,, e non aiuteremmo, il moto); e seguendo, con molti impulsi gli conferiremo impeto tale, che maggior forza assai che quella d’un soffio ci bisognerà a cessarlo. SAGR. Ho da fanciullo osservato, con questi impulsi dati a tempo un uomo solo far sonare una grossissima campana, e nel 43

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volerla poi fermare, attaccarsi alla corda quattro e sei altri e tutti esser levati in alto, né poter tanti insieme arrestar quell’impeto che un solo con regolati tratti gli aveva conferito. SALV. Esempio che dichiara ’l mio intento non meno acconciamente di quel che questa mia premessa si accomodi a render la ragione del maraviglioso problema della corda della cetera o del cimbalo, che muove e fa realmente sonare quella non solo che all’unisono gli è concorde, ma anco all’ottava e alla quinta. Toccata, la corda comincia e continua le sue vibrazioni per tutto ’l tempo che si sente durar la sua risonanza: queste vibrazioni fanno vibrare e tremare l’aria che gli è appresso, i cui tremori e increspamenti si distendono per grande spazio e vanno a urtare in tutte le corde del medesimo strumento, ed anco di altri vicini: la corda che è tesa all’unisono con la tocca, essendo disposta a far le sue vibrazioni sotto ’l medesimo tempo, comincia al primo impulso a muoversi un poco; e sopraggiugnendogli il secondo, il terzo, il ventesimo e più altri, e tutti ne gli aggiustati e periodici tempi, riceve finalmente il medesimo tremore che la prima tocca, e si vede chiarissimamente andar dilatando le sue vibrazioni giusto allo spazio della sua motrice. Quest’ondeggiamento che si va distendendo per l’aria, muove e fa vibrare non solamente le corde, ma qualsivoglia altro corpo disposto a tremare e vibrarsi sotto quel tempo della tremante corda; sì che se si ficcheranno nelle sponde dello strumento diversi pezzetti di setole o di altre materie flessibili, si vedrà, nel sonare il cimbalo, tremare or questo or quel corpuscolo, secondo che verrà toccata quella corda le cui vibrazioni van sotto ’l medesimo tempo: gli altri non si muoveranno al suono di questa corda, né quello tremerà al suono d’altra corda. Se con l’archetto si toccherà gagliardamente una corda grossa d’una viola, appressandogli un bicchiere di vetro sottile e pulito, quando il tuono della corda sia all’unisono del tuono del bicchiere, questo tremerà e sensatamente risonerà. Il diffondersi poi ampiamente l’increspamento del mezzo intorno al corpo risonante, apertamente si vede nel far sonare il bicchiere, dentro ’l quale sia dell’acqua, fregando il polpastrello del dito sopra l’orlo; imperò che l’acqua contenuta con regolatissimo ordine si vede andar ondeggiando: e meglio ancora si vedrà l’istesso effetto 46

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fermando il piede del bicchiere nel fondo di qualche vaso assai largo, nel quale sia dell’acqua sin presso all’orlo del bicchiere; ché parimente, facendolo risonare con la confricazione del dito, si vedranno gl’increspamenti nell’acqua regolatissimi, e con gran velocità spargersi in gran distanza intorno al bicchiere: ed io più volte mi sono incontrato, nel fare al modo detto sonare un bicchiere assai grande e quasi pieno d’acqua, a veder prima le onde nell’acqua con estrema egualità formate, ed accadendo tal volta che ’l tuono del bicchiere salti un ’ottava più alto, nell’istesso momento ho visto ciascheduna delle dette onde dividersi in due; accidente che molto chiaramente conclude, la forma dell’ottava esser la dupla, [...] Le corde musicali Si viene ora a discutere la dipendenza della frequenza fondamentale prodotta da una corda (in linguaggio musicale: altezza della nota) da altri fattori che non la lunghezza, cioè tensione, diametro e materiale costituente. Galileo è il primo a evidenziare l’importanza di quest’ultimo fattore, per il quale una corda di pesante ottone, a parità di ogni altra condizione, oscilla più lentamente di una corda di budello. In effetti, poiché il limite alla rapidità con cui una corda può oscillare è definito dalla sua inerzia, a sua volta legata alla massa, lo spessore e la densità della corda agiscono in maniera concorde. Le dipendenze quantitative proposte sono del tutto corrette: dipendenza inversa dalla lunghezza della corda e dalla radice quadrata del prodotto densità per sezione; dipendenza diretta invece dalla radice quadrata della tensione. SAGR. [...] Tre sono le maniere con le quali noi possiamo inacutire il tuono a una corda: l’una è lo scorciarla; l’altra, il tenderla più, o vogliam dir tirarla; il terzo è l’assottigliarla. Ritenendo la medesima tiratezza e grossezza della corda, se vorremo sentir l’ottava, bisogna scorciarla la metà, cioè toccarla tutta, e poi mezza: ma se, ritenendo la medesima lunghezza e grossezza, vorremo farla montare all’ottava col tirarla più, non basta tirarla il doppio più, ma ci bisogna il quadruplo, sì che se prima era tirata dal peso d’una libbra, converrà attaccarvene quattro per inacutirla all’ottava: e 53

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finalmente se, stante la medesima lunghezza e tiratezza, vorremo una corda che, per esser più sottile, renda l’ottava, sarà necessario che ritenga solo la quarta parte della grossezza dell’altra più grave. E questo che dico dell’ottava, cioè che la sua forma presa dalla tensione o dalla grossezza della corda è in duplicata proporzione di quella che si ha dalla lunghezza, intendasi di tutti gli altri intervalli musici [...]. SALV. Ma qui, prima che passare più avanti, voglio avvertirvi, che delle tre maniere d’inacutire il suono, quella che voi referite alla sottigliezza della corda, con più verità deve attribuirsi al peso. Imperò che l’alterazione presa dalla grossezza risponde quando le corde siano della medesima materia: e così una minugia per far l’ottava deve esser più grossa quattro volte dell’altra pur di minugia; ed una d’ottone, più grossa quattro volte d’un’altra d’ottone: ma s’io vorrò far l’ottava con una d’ottone ad una di minugia, non si ha da ingrossar quattro volte, ma sì ben farla quattro volte più grave; sì che, quanto alla grossezza, questa di metallo non sarà altrimenti quattro volte più grossa, ma ben quadrupla in gravità, che tal volta sarà più sottile che la sua rispondente all’ottava, più acuta, che sia di minugia: onde accade che incordandosi un cimbalo di corde d’oro ed un altro d’ottone, se saranno della medesima lunghezza, grossezza e tensione, per esser l’oro quasi il doppio più grave, riuscirà l’accordatura circa una quinta più grave. [...] Ma seguitando il primo proposito, dico che non è la ragion prossima ed immediata delle forme de gl’intervalli musici la lunghezza delle corde, non la tensione, non la grossezza, ma sì bene la proporzione de i numeri delle vibrazioni e percosse dell’onde dell’aria che vanno a ferire il timpano del nostro orecchio, il quale esso ancora sotto le medesime misure di tempi vien fatto tremare. Il segreto della consonanza Fermato questo punto, potremo per avventura assegnar assai congrua ragione onde avvenga che di essi suoni, differenti di tuono, alcune coppie siano con gran diletto ricevute dal nostro sensorio, altre con minore, ed altre ci feriscano con grandissima molestia; che è il recar la ragione delle consonanze più o men perfette e delle dissonanze. La molestia 57

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di queste nascerà, credo io, dalle discordi pulsazioni di due diversi tuoni che sproporzionatamente colpeggiano sopra ’l nostro timpano, e crudissime saranno le dissonanze quando i tempi delle vibrazioni fussero incommensurabili [...]. Consonanti, e con diletto ricevute, saranno quelle coppie di suoni che verranno a percuotere con qualche ordine sopra ’l timpano; il qual ordine ricerca, prima, che le percosse fatte dentro all’istesso tempo siano commensurabili di numero, acciò che la cartilagine del timpano non abbia a star in un perpetuo tormento d’inflettersi in due diverse maniere per acconsentire ed ubbidire alle sempre discordi battiture: sarà dunque la prima e più grata consonanza l’ottava, essendo che per ogni percossa che dia la corda grave su ’l timpano, l’acuta ne dà due, tal che amendue vanno a ferire unitamente in una sì, e nell’altra no, delle vibrazioni della corda acuta, sì che di tutto ’l numero delle percosse la metà s’accordano a battere unitamente; ma i colpi delle corde unisone giungon sempre tutti insieme, e però son come d’una corda sola, né fanno consonanza. La quinta diletta ancora, atteso che per ogni due pulsazioni della corda grave l’acuta ne dà tre, dal che ne sèguita che, numerando le vibrazioni della corda acuta, la terza parte di tutte s’accordano a battere insieme, cioè due solitarie s’interpongono tra ogni coppia delle concordi; e nella diatesseron se n’interpongon tre. Nella seconda, cioè nel tuono sesquiottavo, per ogni nove pulsazioni una sola arriva concordemente a percuotere con l’altra della corda più grave; tutte l’altre sono discordi e con molestia ricevute su ’l timpano, e giudicate dissonanti dall’udito. A questo punto, Salviati si addentra in alcune illustrazioni geometriche di quanto ha spiegato a parole, considerazioni che omettiamo. Alla fine Sagredo non riesce a contenere il suo entusiasmo, rivelando il sentimento che Galileo stesso doveva provare di fronte alla mirabile concordanza tra consonanze musicali, meccanismi fisici del suono e rappresentazione in termini numerici. Lo stesso entusiasmo che, due millenni prima, aveva animato Pitagora. Ma se Pitagora era stato affascinato dalla perfetta corrispondenza tra armonia e semplicità matematica, in Galileo è ormai presente – con 65

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straripante evidenza – la nozione che i termini matematici altro non sono che la traduzione in cifre di proprietà fisiche delle sorgenti acustiche, e persino l’intuizione di un riscontro di tali proprietà a livello della fisiologia del nostro sistema percettivo. Ne è prova l’immagine visiva della consonanza/dissonanza, fatta per mezzo di un insieme di pendoli, con cui Salviati conclude elegantemente la discussione («è forza... che io gli mostri il modo col quale l’occhio ancora, non pur l’udito, possa recrearsi nel veder i medesimi scherzi che sente l’udito»).

Manca invece ogni riferimento al ruolo della psiche, ma questa, giova ripeterlo, è materia troppo moderna perché Galileo ne avvertisse l’importanza. In ogni caso, la concezione è strettamente materialistica, giacché si limita ad attribuire a un certo grado di perfezione meccanica la condizione per l’apprezzamento dell’armonia, senza che vengano chiamati in causa aspetti animistici. Tale atteggiamento si pone in contrasto rispetto a coloro che vorrebbero in Galileo una netta distinzione tra ciò che è fisico e ciò che è spirituale, facendo torto alla sua logicissima e pragmatica struttura mentale. Vale la pena di rammentare che l’opinione di Galileo era del tutto opposta a quella espressa in proposito da un altro grande, Keplero, per cui l’armonia musicale non si può ascrivere a cause fisiologiche, ma deve essere ricondotta all’intelletto, in quanto percezione della conformità con la perfezione geometrica dell’Armonia dell’Universo. È questa propensione di Keplero ad accogliere talora suggestioni metafisiche o magiche la causa di qualche riserva nella stima, peraltro grande, che Galileo nutriva nei suoi confronti. Merita infine sottolineare la definizione che Sagredo dà dell’intervallo di quinta perfetta («temperando la dolcezza con 70

uno spruzzo d’acrimonia, par che insieme soavemente baci e morda»), una misura di quanto Galileo – come si è detto valentissimo suonatore di liuto – fosse profondamente partecipe del fenomeno musicale. SAGR. Io non posso più tacere: è forza ch’io esclami il gusto che sento nel vedermi tanto adequatamente rese ragioni di effetti che tanto tempo m’hanno tenuto in tenebre e cecità. Ora intendo perché l’unisono non differisce punto da una voce sola: intendo perché l’ottava è la principal consonanza, ma tanto simile all’unisono, che come unisono si prende e si accompagna con le altre; simile è all’unisono, perché, dove le pulsazioni delle corde unisone vanno a ferire tutte insieme sempre, queste della corda grave dell’ottava vanno tutte accompagnate da quelle dell’acuta, e di queste una s’interpone solitaria ed in distanze eguali ed in certo modo senza fare scherzo alcuno, onde tal consonanza ne diviene sdolcinata troppo e senza brio. Ma la quinta, con quei suoi contrattempi, e con l’interpor tra le coppie delle due pulsazioni congiunte due solitarie della corda acuta ed una pur solitaria della grave, e queste tre con tanto intervallo di tempo quanto è la metà di quello che è tra ciascuna coppia e le solitarie dell’acuta, fa una titillazione ed un solletico tale sopra la cartilagine del timpano, che temperando la dolcezza con uno spruzzo d’acrimonia, par che insieme soavemente baci e morda. Corrispondenza di armoniosi sensi SALV. È forza, poiché veggo che V. S. gusta tanto di queste novellizie, che io gli mostri il modo col quale l’occhio ancora, non pur l’udito, possa recrearsi nel veder i medesimi scherzi che sente l’udito. Sospendete palle di piombo, o altri simili gravi, da tre fili di lunghezze diverse, ma tali che nel tempo che il più lungo fa due vibrazioni, il più corto ne faccia quattro e ’l mezzano tre, il che accaderà quando il più lungo contenga sedici palmi o altre misure, delle quali il mezzano ne contenga nove ed il minore quattro; e rimossi tutti insieme dal perpendicolo e poi lasciatigli andare, si vedrà un intrecciamento vago di essi fili, con incontri varii, ma tali che ad ogni quarta vibrazione del più lungo tutti tre arriveranno al 71

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medesimo termine unitamente, e da quello poi si partiranno, reiterando di nuovo l’istesso periodo: la qual mistione di vibrazioni è quella che, fatta dalle corde, rende all’udito l’ottava con la quinta in mezzo. E se con simile disposizione si andranno temperando le lunghezze di altri fili, sì che le vibrazioni loro rispondano a quelle di altri intervalli musici, ma consonanti, si vedranno altri ed altri intrecciamenti, e sempre tali, che in determinati tempi e dopo determinati numeri di vibrazioni tutti i fili (siano tre o siano quattro) si accordano a giugner nell’istesso momento al termine di loro vibrazioni, e di lì a cominciare un altro simil periodo. Ma quando le vibrazioni di due o più fili siano o incommensurabili, sì che mai non ritornino a terminar concordemente determinati numeri di vibrazioni, o se pur, non essendo incommensurabili, vi ritornano dopo lungo tempo e dopo gran numero di vibrazioni, allora la vista si confonde nell’ordine disordinato di sregolata intrecciatura, e l’udito con noia riceve gli appulsi intemperati de i tremori dell’aria, che senza ordine o regola vanno a ferire su ’l timpano. [ ..] Va ancora una volta ribadito come in Galileo sia sempre presente l’esigenza di far convergere i diversi aspetti sotto i quali percepiamo un fenomeno in qualcosa di autoconsistente, coerente e unitario: lo dimostra l’idea che se un dato coordinamento nella vibrazione meccanica di più corde – la «commensurabilità» delle frequenze emesse – porta a effetti gradevoli per l’udito, un comportamento speciale debba manifestarsi anche sotto l’aspetto visivo, un comportamento, diciamo così, più nobile e gratificante per l’osservatore che non quello di un moto del tutto scoordinato. Poiché ciò non è osservabile con le corde, le quali nell’intervallo di interesse acustico e musicale vibrano a frequenze troppo elevate per essere seguite dall’occhio, Galileo pensa bene di osservare il comportamento di pendoli, giacché questi possono essere fatti oscillare assai più lentamente. La fisica, per lui, è esattamente la stessa: e non sbaglia, dato che, come verrà mostrato in anni a seguire, entrambi i fenomeni rientrano in un’unica formulazione matematica, quella che fa corrispondere l’andamento temporale della deviazione dalla posizione di 76

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riposo a una funzione sinusoidale del tempo (si veda la NOTA FISICO-MATEMATICA). Ambedue sono moti armonici, diremmo con terminologia moderna. La questione della fase Può risultare interessante notare che, nel criterio di Salviati, per l’armoniosità del moto dei pendoli («tutti i fili... si accordano a giugner nell’istesso momento al termine di loro vibrazioni») appare essenziale che i moti si avviino in coincidenza di fase tra loro e che tale proprietà si conservi nel tempo. Questa condizione non è altrettanto esplicitamente posta, invece, per la consonanza musicale, che riguarda «quelle coppie di suoni che verranno a percuotere con qualche ordine sopra ’l timpano; il qual ordine ricerca, prima, che le percosse fatte dentro all’istesso tempo siano commensurabili di numero». Nei moderni studi di psicoacustica, si trova che la coincidenza di fase tra i suoni di un accordo è inessenziale. Una volta che le frequenze dei toni fondamentali stanno fra loro nei rapporti voluti, le vibrazioni possono trovarsi sfasate senza che né il timbro dei suoni individuali, né il grado di consonanza ne risentano. In effetti, a causa del gioco dei meccanismi di risonanza e di estinzione che caratterizzano il sistema cordacassa armonica dello strumento, variazioni di fase nel corso di un’emissione prolungata, come lo sviluppo di una nota di pianoforte, sono la norma. Prima di concludere la lettura, sullo stesso argomento vogliamo proporre un altro brano, questa volta tratto dal Dialogo: in esso, accanto alla ripetizione di alcuni concetti, si danno suggerimenti sul modo di verificare semplicemente e rapidamente la relazione tra periodo di oscillazione del pendolo e lunghezza del filo, oltre all’isocronismo delle oscillazioni di varia ampiezza. Fatti meravigliosi SALV. [...] Dico per tanto, cosa vera, naturale, anzi necessaria, essere che un medesimo mobile, fatto muovere in giro dalla medesima virtù movente, in più lungo tempo faccia suo corso per un cerchio maggiore che per un minore; e questa è verità ricevuta da tutti, e confermata da tutte l’esperienze, delle 81

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quali ne produrremo alcuna. Ne gli oriuoli da ruote, ed in particolare ne i grandi, per temperare il tempo accomodano i loro artefici certa asta volubile orizzontalmente, e nelle sue estremità attaccano due pesi di piombo; e quando il tempo andasse troppo tardo, co ’l solo avvicinare alquanto i detti piombi al centro dell’asta, rendono le sue vibrazioni più frequenti; ed all’incontro, per ritardarlo, basta ritirare i medesimi pesi più verso l’estremità, perché così le vibrazioni si fanno più rade, ed in conseguenza gl’intervalli dell’ore si allungano. Qui la virtù movente è la medesima, cioè il contrappeso, i mobili sono i medesimi piombi, e le vibrazioni loro son più frequenti quando sono più vicini al centro, cioè quando si muovono per minori cerchi. Sospendansi pesi equali da corde diseguali, e rimossi dal perpendicolo lascinsi in libertà; vedremo gli appesi a corde più brevi fare lor vibrazioni sotto più brevi tempi, come quelli che si muovono per cerchi minori. Ma più: attacchisi un tal peso a una corda la quale cavalchi un chiodo fermato nel palco, e voi tenete l’altro capo della corda in mano, ed avendo data l’andata al pendente peso, mentre ei va facendo sue vibrazioni, tirate il capo della corda che avete in mano, sì che il peso si vadia alzando; vedrete nel suo sollevarsi crescer la frequenza delle sue vibrazioni, come quelle che si vanno facendo continuamente per cerchi minori. E qui voglio che notiate due particolari, degni d’esser saputi. Uno è, che le vibrazioni di un tal pendolo si fanno con tal necessità sotto tali determinati tempi, che è del tutto impossibile il fargliele far sotto altri tempi, salvo che con allungargli o abbreviargli la corda; del che potete anco di presente con l’esperienza accertarvi, legando un sasso a uno spago e tenendo l’altro capo in mano, tentando se mai, per qualunque artifizio si usi, vi possa succedere di farlo andare in qua ed in là sotto altro che un determinato tempo, fuor che con allungare o scorciar lo spago; che assolutamente vedrete essere impossibile. L’altro particolare, veramente maraviglioso, è che il medesimo pendolo fa le sue vibrazioni con l’istessa frequenza, o pochissimo e quasi insensibilmente differente, sien elleno fatte per archi grandissimi o per piccolissimi dell’istessa circonferenza. 84

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Non saranno sfuggiti, nei passi che precedono, sia il ripetuto uso del termine «maraviglioso», sia le di dichiarazioni di stupore, quasi l’incredulità dell’osservatore di fronte alle magiche proprietà del pendolo e degli altri oscillatori discussi («non credo che mai l’avrei incontrato, ché ancor ancora mi par che tenga dell’impossibile»). Se di fronte alle meraviglie della natura non manca mai di provare esaltazione, Galileo qui si mostra particolarmente affascinato dalle proprietà dei sistemi oscillanti. Ciò non è affatto strano per uno scienziato che è al contempo buon musicista, ma è anche indice di un fondo culturale di natura aristotelica; Aristotele infatti, pur senza occuparsi di pendoli, scrisse pagine e pagine sul suono e sulla consonanza musicale. Merita notare, a proposito di questo emozionato stupore, che esso è presente nelle parole di Salviati e di Sagredo, non in quelle di Simplicio, il quale in tutta la conversazione appare invece poco gratificato, semmai infastidito. Lui, che porta la grammatica di Aristotele cristallizzata nel cervello, ma che evidentemente non ne sa cogliere gli ammaestramenti universali, né l’implicita dinamica del sapere. NOTA FISICO-MATEMATICA In questa nota proponiamo anzitutto una succinta trattazione del pendolo nel limite di piccole oscillazioni, allorché il moto si dice armonico semplice. Dall’equazione del moto si ricava l’espressione del periodo di oscillazione e l’effetto di isocronismo delle oscillazioni. Quanto alle corde, non dimostreremo che la deviazione dalla posizione di equilibrio va nello stesso modo (di nuovo per piccole oscillazioni), né ricaveremo la relazione tra la frequenza e i vari parametri della corda, rimandando il lettore interessato a testi più specializzati. Passeremo poi a dare un resoconto qualitativo del fenomeno della consonanza musicale, come descritto dalla moderna psicoacustica in termini di sequenze di punti di eccitazione della membrana basilare all’interno della coclea. La legge del pendolo Scriviamo la legge di Newton per un corpo oscillante di massa m appeso a un filo lungo L (di massa trascurabile). Ignoriamo 90

per il momento ogni effetto di attrito. Tenendo presente il grafico di pagina seguente, dove con θ si è indicato l’angolo al vertice, se g è il valore dell’accelerazione di gravità, la forza agente è data dalla componente del peso diretta come la tangente alla circonferenza percorsa dalla massa oscillante, ossia da -mgsin θ (la componente del peso ad essa normale, mgcosθ, è totalmente neutralizzata dalla tensione del filo). Se le forze d’attrito sono trascurabili, si ha

-mgsinθ = ma

dove a è l’accelerazione, eguale alla derivata seconda rispetto al tempo t dello spazio percorso (lungo l’arco di circonferenza), dunque a L(d θ/dt ). Nel caso di piccole oscillazioni, si può approssimare sinθ≈θ, cosicché l’equazione di Newton si riduce a 91

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avendo anche semplificato rispetto alla massa. L’equazione di moto, dunque, non dipende dalla massa. Una possibile soluzione è data dalla funzione

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dove θo è l’angolo che corrisponde all’ampiezza dell’oscillazione e ω viene detta pulsazione del pendolo. Si verifica subito, sostituendola nell’equazione, che essa la soddisfa a condizione che

Il periodo T è legato alla pulsazione dalla relazione T=2π/ω, per cui si ha

(2)

che conferma la predizione di Galileo: il periodo non dipende dalla massa oscillante, mentre dipende dalla lunghezza del filo in ragione della radice quadrata. Si noti che lo spazio x percorso dalla massa lungo l’arco di circonferenza si ottiene dalla soluzione (1), moltiplicandone ambo i membri per il raggio L, così da ottenere (xo indica l’ampiezza dell’oscillazione)

(3)

Cercando le onde stazionarie di una corda vibrante, si può mostrare che l’equazione (3) vale identicamente anche per la deviazione trasversale dei punti di una corda rispetto alla posizione di quiete, come pure che la frequenza fondamentale di oscillazione, se la corda è fissa ad ambo gli estremi, è data 92

da

dove τ è la tensione della corda e µ la sua densità lineare (ossia la massa per unità di lunghezza). Il risultato è in tutto e per tutto quello dedotto empiricamente da Galileo (la densità lineare si ottiene infatti dalla densità volumica, che è proporzionale al peso specifico, moltiplicandola per la sezione della corda). Effetto dello smorzamento Galileo affermava che un pendolo di piombo e uno di sughero hanno eguali periodi di oscillazione. Abbiamo mostrato che nel caso ideale di piccole oscillazioni senza attrito ciò è senz’altro vero. Nella realtà, invece, il pendolo di sughero oscilla appena un po’ più lentamente perché, essendo più leggero, soffre maggiormente dell’attrito dell’aria. Se v è la velocità, la forza resistente può essere introdotta nell’equazione del moto nella forma FA=-bv, dove b è un fattore di attrito che dipende dalla viscosità del mezzo e dalla forma geometrica della massa oscillante (un problema del tutto analogo è trattato nella NOTA FISICO-MATEMATICA del Capitolo 3):

-mgsinθ – bv = ma

Evitando di eseguire i passaggi, che si trovano su qualsiasi trattato di fisica, diciamo che la pulsazione ωA, in funzione della ω in assenza attrito, è ora data da (sempre nel limite di piccole oscillazioni):

ossia tanto più piccola quanto più alto è il rapporto tra il fattore di attrito b e la massa m del pendolo. Facciamo un esempio. Per una sfera di sughero avente periodo di oscillazione ideale di 1 s, per cui ω=2π s , sia b/2m=0,60 s : si calcola subito ωA=0.99· ω. Per un’eguale sfera di piombo, il rapporto b/2m diventa talmente piccolo che la frequenza ωA è sostanzialmente identica a ω. La consonanza musicale E veniamo adesso a un modello per la consonanza quale ci viene proposto dalla psicoacustica. Si vedrà come Galileo ha avuto il corretto sentore degli aspetti psicofisiologici che stanno alla base di essa. Dunque, cominciamo col dire in che modo le frequenze contenute in un suono complesso agiscono sulla membrana basilare, quell’organo interno alla coclea che, ricevendo l’onda sonora dalla catena degli ossicini attraverso la finestra ovale, entra in vibrazione e immette segnali nel nervo acustico, il quale a sua volta li trasmette al cervello. Tale immissione avviene a opera di terminazioni nervose (le cellule ciliate), allineate lungo l’intera lunghezza della membrana. La principale caratteristica della membrana basilare è quella di presentare il massimo di eccitazione in punti diversi a seconda della frequenza dell’onda ricevuta, in accordo con lo schema sopra mostrato, valido per suoni puri, ossia monocromatici. Il disegno illustra l’ampiezza dell’onda sonora lungo la membrana basilare per alcuni valori fissati della frequenza, corrispondenti a una serie di do: quanto più la frequenza è alta, tanto più il massimo di deformazione della membrana è prossimo alla finestra ovale. I suoni più profondi, invece, eccitano la membrana in vicinanza dell’altro capo, l’elicotrema. Tale comportamento dà luogo a una discriminazione spaziale dei suoni in relazione alla loro frequenza. -1

-1

Un suono reale contiene la frequenza fondamentale più quelle delle armoniche superiori, che sono multipli interi della prima. Esso dunque produce sulla membrana basilare una sua specifica configurazione di punti di eccitazione, che chiameremo segmento armonico. Il cervello riconosce tale segmento in base alle particolari terminazioni nervose che si incaricano di inviargli il segnale complesso. Se invece di un do fosse stato suonato un sol, il segmento armonico sarebbe stato differente. Si ritiene che il cervello, nel ricevere un accordo di più note, sia agevolato se i rispettivi segmenti armonici hanno dei punti in comune, così da impegnare una rete neuronica più semplice. Tale agevolazione comporterebbe un effetto gratificante, ossia ciò che chiamiamo una consonanza. In questa descrizione non trova posto, come si è anticipato nel testo, la relazione di fase tra i diversi toni di un accordo. La verifica sperimentale conferma che essa riveste scarsa importanza già nell’ambito delle varie armoniche di un suono complesso, il cui timbro ne risulta influenzato solo molto debolmente. Lo schema di eccitazione della membrana basilare per un accordo di quinta perfetta do-sol è illustrato nella figura che segue, dove i numeri corrispondono all’ordine dell’armonica. Poiché le frequenze fondamentali del sol e del do stanno nel

rapporto di 3 a 2, la seconda armonica del sol coincide con la terza del do, come si è già accennato nella prima parte del capitolo, stimolando così la medesima terminazione nervosa, la quarta del sol con la sesta del do, e così via. 93

Una naturale predilezione per gli accordi che presentano concatenazioni del tipo detto – a confronto con quelli che non le presentano, per esempio il tritono o quarta aumentata do-fa#, storicamente detto diabolus in musica – sembra essere presente nei neonati, come mostrano recenti studi di psicologia della percezione. Il nostro sistema percettivo, d’altronde, sa imparare, e parecchio: non è difficile, per un orecchio esercitato, perdere quasi totalmente questa innata predilezione per gli accordi consonanti, ciò che lascia ben sperare per il futuro della musica. Naturalmente questo era lungi dal poter essere ipotizzato da Galileo, che certo non conosceva altra musica se non quella rigorosamente fondata sui princìpi dell’armonia classica, come era stata codificata e tramandata dai greci. 94

PARTE QUARTA IL CIELO STELLATO SOPRA DI NOI

Capitolo 7 (dal Sidereus Nuncius) LA LUNA DI CRISTALLO ovvero le meraviglie del cannocchiale Bellissima cosa e assai attraente alla vista è rimirare il corpo lunare

Galileo scopre le montuosità della Luna, e i filosofi aristotelici, non accettando che un corpo celeste non sia di forma sferica e liscia (canoni della perfezione), gli controbattono che essa si comporta come una sfera di cristallo trasparente che racchiuda al suo interno delle zone di maggiore o minore densità. Dopo le pagine di apertura del Sidereus Nuncius, dove vengono descritte le meraviglie del cannocchiale, sono illustrati alcuni aspetti delle osservazioni di Galileo e infine i suoi argomenti contro la luna di cristallo.

Provate a chiedere alle più colte tra le persone che conoscete, e che magari si occupano di scienza, se hanno mai letto il Sidereus Nuncius. Le risposte saranno deludenti nella maggior parte dei casi, eppure si tratta di un libretto di straordinario interesse, non meno emozionante di un racconto di fantascienza, e che, pur essendo stato scritto in latino, è disponibile in traduzione, con un eccellente apparato di note. La principale ragione della sua attuale limitatissima diffusione è che non lo si incontra mai nei nostri percorsi scolastici, in cui il sapere è rigidamente incasellato: si tratta di un’operetta scritta in latino ma da un autore del ’600; non rientra nella 1

letteratura italiana per la lingua, ma anche perché parla di scienza; se si studia scienza, non ci si dedica alla lettura di un testo che ha fatto il suo tempo. L’uomo e l’universo Agli albori di un nuovo secolo, per la prima volta nella storia dell’umanità, un uomo guarda il cielo servendosi di uno strumento – il cannocchiale – che gli spalanca dinanzi agli occhi meraviglie mai osservate. E non si limita a godere di quella bellezza fino ad allora nascosta, vuole ansiosamente capire, è convinto che il piacere estetico sia maggiore se accompagnato dalla comprensione; vuole indagare la natura dei corpi celesti, scoprire le leggi che regolano i loro moti. La dottrina tradizionale, infatti, non gli può essere di alcun aiuto: essa costituisce anzi – per ora ne è solo in parte consapevole – un ostacolo difficile da abbattere per l’ottusa o interessata diffidenza dei più. La curiosità e l’emozione che noi tutti, nell’affacciarci sul terzo millennio, proviamo dinanzi alle limpide immagini che scendono da Marte nelle nostre case, sono di certo enormemente inferiori allo stupore ansioso con cui Galileo andava esplorando in solitudine il cielo nelle fredde notti d’inverno del 1609-1610. L’impetuoso progredire di scienza e tecnica in questi ultimi anni ha attutito la nostra capacità di sorprenderci: ciò che vediamo è ciò che ci aspettiamo di vedere; dall’esplorazione di quello che per noi è il vicino universo difficilmente possiamo attenderci scoperte che modifichino radicalmente la nostra conoscenza, e tanto meno il nostro modo di pensare. Galileo compie un atto rivoluzionario quando punta il cannocchiale al cielo. Da anni ormai, come testimonia una sua lettera a Keplero del 1597, è convinto della bontà della tesi eliocentrica di Copernico, pur essendo costretto a insegnare ancora il sistema tolemaico. Il cannocchiale gli può fornire le prove che gli occorrono. Il gesto è divenuto simbolico dell’uomo che, novello Ulisse, vuole espandere i confini della conoscenza da protagonista, e rifiuta il sapere tramandato non sorretto dall’evidenza logica e sperimentale. 2

Dedica al granduca Il testo del Sidereus Nuncius è preceduto dalla dedica – adulatoria in maniera imbarazzante, ma adeguata al gusto dell’epoca e alla finalità – al giovane granduca di Firenze, Cosimo II De’ Medici, cui Galileo ha impartito lezioni di matematica durante alcuni periodi estivi. Galileo vuole ormai lasciare Padova, con gli onerosi impegni di insegnamento, le lezioni private, lo stipendio modesto. Aspira ad avere maggior tempo da dedicare alla ricerca e all’opera grande che già ha in progetto di scrivere sui sistemi del mondo, e pensa di trovare in Toscana un ambiente più aperto e propizio. L’attacco solenne della dedica avrà di certo interessato il Foscolo dei Sepolcri: tratta il tema della sopravvivenza degli uomini insigni, il cui nome è meglio legare agli astri, piuttosto che a monumenti di marmo o di bronzo, o alle parole dei poeti, tutti corruttibili nel tempo. Leggiamolo insieme. 3

AL SERENISSIMO COSIMO II DE’ MEDICI IV GRANDUCA DI TOSCANA

Insigne certo ed eminentemente civile impresa fu quella di coloro che si preoccuparono di proteggere dall’invidia le nobili azioni di uomini eccellenti per virtù, e di sottrarre all’estinzione e all’oblio i loro nomi degni di immortalità. Di qui, si tramandarono immagini alla memoria della posterità, o scolpite nel marmo, o fuse nel bronzo; di qui, si collocarono statue, pedestri o equestri; di qui si innalzarono colonne e piramidi con costi alle stelle, come dice il poeta; di qui, infine, si edificarono città, insignite dei nomi di coloro che la posterità grata ritenne di consegnare all’eternità. Tale è infatti la condizione della mente umana che, se non viene di continuo stimolata dalle immagini delle cose che irrompono dall’esterno, ogni ricordo facilmente si dilegua. Altri invece, miranti a cose più salde e durature, 4

consacrarono la fama eterna di uomini sommi non alla pietra ed al metallo, ma alla custodia delle Muse e ai monumenti incorrotti delle lettere. Ma perché ricordo tali cose? quasi che l’ingegno umano, contento di queste regioni [terrene], non abbia osato spingersi oltre; invece esso, con maggior lungimiranza, ben comprendendo che ogni monumento umano per violenza di tempeste o per vetustà alfine perisce, escogitò monumenti più incorruttibili, sui quali il tempo vorace e l’invidiosa vecchiezza non potessero rivendicare diritti. E così, migrando al cielo, assegnò a quei noti sempiterni Globi di lucentissime Stelle i nomi di coloro che, per imprese egregie e quasi divine, furono ritenuti degni di godere dell’eternità insieme con gli Astri. Per questo non si oscurerà la fama di Giove, Marte, Mercurio, Ercole e degli altri eroi, con i cui nomi si appellano le Stelle, prima che si estingua lo splendore delle stesse Stelle. Presentiamo qui di seguito alcuni passi significativi del Sidereus Nuncius. Anzitutto, l’inizio dell’opera, nel quale Galileo annuncia le grandiose scoperte astronomiche che si vanno aprendo con l’avvento del cannocchiale, lo strumento da lui perfezionato e qui descritto. Come esempio, riportiamo in primo luogo frammenti relativi allo studio della faccia lunare, che Galileo scopre cosparsa di monti e avvallamenti, contrariamente alle credenze del tempo che la volevano, in quanto corpo celeste, incorruttibile, sferica e perfettamente liscia. La superficie della Luna viene equiparata a quella terrestre, e l’analogia è imprudentemente spinta sino al punto di postulare la presenza di un involucro gassoso attorno ad essa. Oltremodo ingegnoso, e al tempo stesso semplice, è il metodo con cui Galileo giunge alla determinazione dell’altezza dei monti della Luna. Egli passa poi all’altra grande scoperta, quella dei quattro «Astri Medicei» attorno a Giove, e all’osservazione meticolosa dei loro moti, che gli permette di stabilirne la natura di satelliti del pianeta. Fra i due grandi temi, Galileo interpone alcune considerazioni sulla Via Lattea e sulle altre nebulose, da lui correttamente descritte come ammassi di piccole stelle non separabili a occhio nudo. 5

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Essenza dell’opera Grandi cose in verità io propongo in questo breve trattato all’osservazione e alla contemplazione degli studiosi della natura. Grandi, dico, sia per l’eccellenza della materia stessa, sia per la novità non mai udita in passato, sia anche per lo Strumento, grazie al quale tali cose si sono rese manifeste alla nostra percezione. Grande cosa è certo l’aggiungere, alla vasta moltitudine di Stelle fisse che fino ad oggi si sono potute scorgere a occhio nudo, innumerevoli altre mai scorte prima, ed esporle apertamente alla vista, e in numero che supera più di dieci volte le antiche e già note. Bellissima cosa e assai attraente alla vista è rimirare il corpo lunare, da noi distante quasi sessanta raggi terrestri, così da vicino, come se distasse soltanto due di dette unità, in modo che il diametro della Luna appare quasi trenta volte maggiore, la superficie quasi novecento volte, il volume poi circa ventisettemila volte più grande di quando si guarda ad occhio nudo: dal che segue che chiunque, con la certezza dell’osservazione sperimentale, possa comprendere che la Luna non è affatto rivestita di una superficie liscia e levigata, ma scabra e diseguale; e che, proprio come la faccia della Terra, si presenta dovunque ricoperta di grandi protuberanze, profondi avvallamenti e anfratti. Di più, l’aver rimosso le controversie riguardo alla Galassia, ovvero Via Lattea, e l’aver manifestato al senso, oltre che all’intelletto, la sua essenza, non sembra affatto doversi ritenere cosa di poco conto; come anche sarà gratificante e oltremodo bello toccare con dito che la sostanza delle Stelle, sino ad ora chiamate dagli Astronomi Nebulose, è di gran lunga diversa da quella fin qui creduta. Ma ciò che supera di gran lunga ogni meraviglia e che in primo luogo ci ha spinto ad avvisare tutti gli Astronomi e Filosofi, è l’aver noi appunto scoperto quattro Stelle Erranti, da nessuno prima di noi conosciute né osservate, le quali, a somiglianza di Venere e Mercurio intorno al Sole, compiono rivoluzioni attorno a una Stella principale tra quelle conosciute, e ora la precedono, ora la seguono, senza mai allontanarsi da

essa oltre precisi limiti. Tutte queste cose sono state da me scoperte e osservate pochi giorni fa, con l’ausilio di un Occhiale, da me inventato sotto illuminazione della grazia divina. Altre cose forse più importanti saranno in futuro da me o da altri scoperte grazie a tale strumento, la cui forma e struttura, come anche le circostanze dell’invenzione, ricorderò prima brevemente, per poi riferire la storia delle osservazioni da me compiute. Circa dieci mesi fa giunse alle nostre orecchie la voce che da un certo Fiammingo era stato realizzato un occhiale, per mezzo del quale gli oggetti visibili, pur lontanissimi dall’occhio dell’osservatore, si vedevano distintamente come fossero vicini; e di questo invero mirabile effetto si raccontavano alcune esperienze, alle quali alcuni prestavano fede, altri no. La stessa cosa mi fu confermata per lettera pochi giorni dopo da un nobile Francese, Jacopo Badovere, da Parigi; il che infine fu il motivo che mi spinse a dedicarmi interamente a cercar le ragioni e ad escogitare i mezzi con cui giungere all’invenzione di un simile strumento; invenzione che conseguii poco dopo, basandomi sulla dottrina delle rifrazioni. Galileo riconosce dunque a un fiammingo il merito della fabbricazione del cannocchiale. In realtà, si hanno notizie di rudimentali apparecchi del genere costruiti in Italia già alla fine del ’500. Persino Leonardo da Vinci parla di «occhiali da vedere la luna grande». Il merito di Galileo è di avere intuito le straordinarie potenzialità dello strumento e di averne realizzati prototipi di qualità superiore, adatti all’impiego scientifico. Infatti, è soltanto dopo l’annuncio di Galileo che gli scienziati cominciano ad adottare il cannocchiale come reale strumento di ricerca e non mera curiosità. Ancora nel 1610, alla pubblicazione del Nuncius, circa il «tubo bilente» Keplero si esprimeva in termini spregiativi (ma l’anno successivo si affrettava a suggerire il proprio modello a due lenti convergenti). Galileo passa ora a fornire dettagli tecnici e costruttivi del suo cannocchiale perfezionato, capace di un ingrandimento lineare di circa 30. Poi suggerisce il modo per misurare le 7

distanze tra gli oggetti osservati, facendo ricorso a una costruzione di ottica geometrica che, per la verità, non si presenta con la chiarezza che di solito contraddistingue le descrizioni galileiane (il lettore interessato può trovare spiegazioni dettagliate nella NOTA FISICO-MATEMATICA a fine capitolo). Questo fatto, oltre a quello che la sua competenza nell’ottica era limitata, suggerisce che la sua affermazione «basandomi sulla dottrina delle rifrazioni» non sia del tutto sincera. Piuttosto che sulla base di princìpi teorici, è probabile che egli sia giunto all’ottimizzazione del cannocchiale attraverso una procedura sistematica di successivi miglioramenti pratici. Il cannocchiale Prima di tutto mi procurai un tubo di piombo, alle cui estremità adattai due lenti, entrambe piane da un lato, dall’altro invece una convessa e l’altra concava; accostando poi l’occhio alla concava, scorsi gli oggetti abbastanza grandi e vicini; essi apparivano infatti tre volte più vicini e nove volte più grandi di quando venivano guardati ad occhio nudo. In seguito, me ne preparai un altro più accurato, che mostrava gli oggetti ingranditi più di sessanta volte. Infine, non lesinando fatica né spesa alcuna, sono arrivato al punto di costruirmi uno strumento così eccellente, che le cose vedute per suo mezzo appaiono quasi mille volte più grandi e oltre trenta volte più vicine che se le si guardano al naturale. Sarebbe del tutto superfluo elencare quali e quanti siano i vantaggi di questo strumento, tanto per terra quanto per mare. Ma io, lasciate le cose terrene, mi rivolsi all’investigazione delle Celesti; e per prima cosa mirai la Luna così da vicino, come se fosse distante appena due raggi terrestri. Dopo questa, osservai più volte con incredibile piacere spirituale le Stelle, sia fisse che erranti; e vedendole tanto fitte, cominciai a pensare al modo con cui potessi misurare le loro distanze; e finalmente lo trovai. Del che è opportuno che restino avvertiti tutti coloro che vogliono intraprendere osservazioni di tal genere. In primo luogo occorre infatti che essi si procurino un cannocchiale perfettissimo, il quale rappresenti gli oggetti chiari, distinti e sgombri da ogni caligine, e che li amplifichi di almeno 8

quattrocento volte; in tal caso li farà apparire venti volte più vicini: giacché, se lo strumento non sarà tale, invano si tenterà di osservare tutte quelle cose che da noi furono viste nel cielo e che più avanti verranno enumerate. Per stabilire poi in maniera semplice l’ingrandimento dell’apparecchio, si tracci il contorno di due cerchi o di due quadrati di carta, di cui uno sia quattrocento volte maggiore dell’altro; il che si avrà quando il diametro del maggiore sarà di lunghezza venti volte superiore al diametro dell’altro: poi si guardino da lontano simultaneamente entrambe le superfici affisse ad una medesima parete, ma la minore con un occhio applicato al cannocchiale, la maggiore invece con l’altro occhio libero; il che si può fare senza fatica al medesimo tempo, tenendo tutti e due gli occhi aperti: e allora ambedue le figure appariranno della stessa dimensione, se l’apparato amplificherà gli oggetti secondo la proporzione voluta. Preparato un simile strumento, si dovrà studiare il modo di misurare le distanze: il che otterremo con l’artificio seguente. Si abbia dunque, per facilitare la comprensione, il tubo ABCD. L’occhio dell’osservatore sia E. I raggi, se il tubo fosse privo di lenti, andrebbero all’oggetto FG secondo le linee rette ECF, EDG; ma, introdottevi le lenti, vanno secondo le linee rifratte ECH, EDI, poiché si riduce la loro divergenza e mentre prima, liberi, si dirigevano all’oggetto FG, ora ne comprendono soltanto la parte HI. Stabilito poi il rapporto della distanza EH al segmento HI, si troverà mediante la tavola dei seni l’entità dell’angolo formato nell’occhio dall’oggetto HI, che troveremo essere di pochi minuti soltanto. Che se alla lente CD adatteremo delle sottili lamine perforate, talune con fori più grandi, altre più piccoli, sovrapponendo ora questa, ora quella, secondo necessità, formeremo a nostro piacere una serie di angoli diversi, di più o meno minuti, per mezzo dei quali potremo comodamente misurare le separazioni delle Stelle distanti fra loro di alcuni minuti, con un errore di uno o due minuti soltanto. Ma basti per ora aver così lievemente toccati questi argomenti, e quasi a fior di labbra gustati, poiché in altra occasione esporremo la teoria di questo strumento per intero. Richiamando ora, agli esordi di così grandi contemplazioni, l’attenzione di tutti gli amanti della vera

conoscenza, passiamo ad esporre le osservazioni da noi fatte durante gli ultimi due mesi.

Inizia qui la descrizione della superficie lunare, accompagnata da accurate illustrazioni e analisi del confine che separa la zona illuminata dal sole da quella in ombra. Si osservi con attenzione l’immagine lunare di Galileo, una delle tante da lui tracciate, così vicina al vero. Si immagini anche la sorpresa e la diffidenza dei lettori suoi contemporanei, abituati a ritenere il satellite una sfera lucida e levigata. Il volto della Luna In primo luogo parliamo della faccia lunare che si offre al nostro sguardo [...]. [...] da osservazioni più volte ripetute, siamo giunti alla convinzione che la superficie della Luna non è affatto liscia, uniforme ed esattamente sferica, come di essa e degli altri corpi celesti una vasta schiera di filosofi ha ritenuto, ma al contrario, diseguale, scabra, ricca di cavità e di sporgenze, non altrimenti che la faccia della stessa Terra, la quale varia qua per catene di monti, là per profondità di valli. E le osservazioni da cui è stato possibile giungere a tali conclusioni, sono le seguenti. Già nel quarto o quinto giorno dopo la congiunzione, quando la Luna si mostra a noi con i corni splendenti, il confine che separa la parte oscura da quella luminosa non descrive uniformemente una linea ovale, come accadrebbe in un solido perfettamente sferico, ma è segnato da una linea diseguale, aspra e alquanto sinuosa, come dimostra la seguente figura: infatti oltre il confine di luce e tenebre si estendono nella parte oscura, in gran numero, una sorta di luminose propaggini, e al contrario, delle particelle tenebrose si addentrano nella zona illuminata. Di più, una notevole quantità di piccole macchie nereggianti, del tutto separate dalla parte oscura, cosparge ovunque quasi tutta la zona già illuminata dal Sole, con la sola 9

eccezione di quella parte che è segnata dalle macchie grandi ed antiche. Abbiamo inoltre osservato che le suddette piccole macchie concordano, tutte e sempre, nell’avere la parte nereggiante rivolta verso il punto dove sta il Sole; mentre, dalla parte opposta, sono coronate da contorni assai lucenti, quasi montagne accese. Una visione del tutto simile si ha sulla Terra al levar del Sole quando, non essendo le valli ancora inondate di luce, vediamo i monti che le bordano sul lato opposto al Sole ormai fulgidi e splendenti: e come le ombre degli avvallamenti terrestri si riducono man mano che il Sole s’innalza, così anche queste macchie lunari, col crescere della parte illuminata, perdono l’oscurità.

In realtà, non solo i confini tra tenebre e luce si mostrano nella Luna ineguali e sinuosi, ma, ciò che desta maggior stupore, nella parte oscura della Luna appaiono moltissime cuspidi lucenti, totalmente divise e staccate dalla regione illuminata, e da essa non di breve tratto distanti; le quali a poco a poco, dopo un certo tempo, aumentano di grandezza e di luminosità, poi, dopo due o tre ore, si congiungono con la restante parte lucente, fattasi ormai più ampia; ma intanto nella parte tenebrosa se ne accendono altre ed altre ancora, di qua e di là quasi pullulanti, s’ingrandiscono e infine si fondono con la medesima superficie luminosa, che si è andata sempre

più estendendo. E l’esempio di ciò ce lo mostra la medesima figura. E sulla Terra appunto, prima del sorger del Sole, non sono forse le più alte cime dei monti rese lucenti dai raggi solari, quando ancora l’ombra occupa le pianure? E di lì a poco quella luce non va forse estendendosi, quando s’illuminano le parti di mezzo e più larghe degli stessi monti; e sorto infine il Sole, le zone illuminate delle pianure e dei colli non finiscono forse per congiungersi? Le varietà poi di tali elevazioni e avvallamenti nella Luna sembrano superare in lunghezza e vastità le asperità terrestri, come più sotto dimostreremo. [...] I monti lunari È assai stimolante vedere come Galileo, nel seguito del discorso, riesca a fare valutazioni dettagliate e molto precise delle dimensioni degli oggetti osservati. Riportiamo, malgrado il non sempre dilettevole contenuto geometrico delle spiegazioni, la sua procedura – ingegnosa e nondimeno facile – per il calcolo dell’elevazione dei monti della Luna, che Galileo sovrastima leggermente. Un aspetto singolare è che egli perviene a tale buon risultato malgrado non possegga informazioni valide sull’altezza dei monti della Terra, che egli reputa di gran lunga inferiore a quella reale («sulla Terra non esistono monti che appena si avvicinino all’altezza perpendicolare di un miglio»). Che dunque la superficie più chiara della Luna sia da ogni parte cosparsa di protuberanze e avvallamenti, ritengo sia stato a sufficienza dimostrato dai già spiegati fenomeni. Rimane da parlare delle loro dimensioni, per dimostrare che le asperità terrestri sono di gran lunga minori di quelle lunari; minori, dico, anche parlando in assoluto, e non soltanto in rapporto alle grandezze dei rispettivi globi; e ciò si spiega chiaramente come segue. Avendo io più volte osservato, in posizioni via via diverse della Luna rispetto al Sole, che alcuni vertici dentro la parte tenebrosa della Luna, pure abbastanza remoti dal limitare della luce, apparivano illuminati, paragonando la loro distanza all’intero diametro della Luna, accertai che questo intervallo supera a volte la ventesima parte del diametro. Ciò stabilito, 10

s’immagini il corpo lunare, il cui circolo massimo sia CAF, il centro E e il diametro CF, che sta al diametro terrestre come due a sette, e poiché il diametro terrestre, secondo le osservazioni più precise, conta 7000 miglia italiane, CF sarà 2000, e CE 1000; la ventesima parte poi di tutto CF sarà 100 miglia. Sia ora CF il diametro del circolo massimo che divide la parte luminosa della Luna da quella oscura (infatti, per l’enorme distanza del Sole dalla Luna, questo circolo non differisce sensibilmente dal massimo) e A disti dal punto C della ventesima parte di esso; si tracci il raggio EA, che prolungato incontra nel punto D la tangente GCD (rappresentante il raggio luminoso); l’arco CA, ovvero il segmento retto CD, sarà dunque 100 di tali parti, CE è 1000, e la somma dei quadrati di DC e CE sarà 1.010.000, a cui è eguale il quadrato di DE; dunque tutta la ED sarà più di 1004, e AD più di 4 di tali parti (delle quali CE vale 1000). Pertanto sulla Luna l’altezza AD, che designa un qualsiasi vertice che si spinga fino al raggio solare GCD, e lontano dal confine C per la distanza CD, eccede le 4 miglia italiane. Giacché sulla Terra non esistono monti che appena si avvicinino all’altezza perpendicolare di un miglio, risulta evidente che i rilievi lunari son più alti di quelli terrestri. [...] 11

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Struttura delle galassie Seguono ora le brevi pagine concernenti le differenze tra le stelle fisse e i pianeti, nonché lo studio della Via Lattea, che

egli descrive in termini vicini a quelli odierni, in particolare come una congerie di aggregati di stelle. La parte relativa alla Galassia e alle nebulose è qui di seguito riportata. Ciò che in terzo luogo abbiamo osservato è l’essenza, ovvero la materia, della stessa Via LATTEA, che in virtù del cannocchiale si riesce ad osservare così tangibilmente, da far cadere, con la certezza che deriva dall’aver visto, tutte le diatribe che per tanti secoli hanno assillato i filosofi, e da rendere noi liberi da qualsiasi sterile disputa. La GALASSIA non è infatti altro che una congerie di innumerevoli Stelle disseminate a gruppi: perché, in qualunque sua regione si punti il cannocchiale, si offre subito alla vista un ingente affollamento di Stelle, parecchie delle quali appaiono abbastanza grandi e ben visibili; mentre la moltitudine delle piccole è del tutto inesplorabile. E poiché non soltanto nella GALASSIA si osserva quel candore latteo come di nube biancastra, ma numerose piccole zone di un colore simile splendono qua e là nella volta del cielo, se si dirige il cannocchiale verso una qualsiasi di esse, ci si imbatte in un fitto ammasso di Stelle. Inoltre, ciò che desta meraviglia ancor maggiore, le Stelle chiamate fino ad ora dagli astronomi NEBULOSE sono greggi di Stelline mirabilmente disseminate; e mentre ciascuna di esse, per la debolezza derivante dall’enorme distanza, sfugge alla nostra vista, dalla commistione dei loro raggi si genera quel candore che finora è stato ritenuto una parte più densa del cielo, in grado di riflettere i raggi delle Stelle e del Sole. Noi ne abbiamo osservate non poche, e di due abbiamo voluto riportare le costellazioni. Nella prima si ha la NEBULOSA chiamata Testa di Orione, nella quale abbiamo contato ventuno Stelle. La seconda costellazione rappresenta la NEBULOSA detta PRESEPE, che non è soltanto una Stella, ma un ammasso di oltre quaranta Stelline: ne abbiamo annotate trentasei in aggiunta agli Asinelli, disposte nell’ordine che segue. 22

UN’IMMAGINE ODIERNA: LA NEBULOSA DI ANDROMEDA (The Electronic Universe Project)

I satelliti di Giove Ed ecco infine alcuni frammenti relativi alla tematica dei Pianeti Medicei, cioè i quattro satelliti di Giove, la scoperta astronomica più importante di Galileo. I frammenti illustrano 23

la minuziosa scrupolosità dell’approccio galileiano e lo stile agile e moderno con cui egli annota e presenta il materiale osservato. Negli schemi grafici di pagina seguente, Giove è rappresentato da un circoletto, i suoi satelliti da asterischi. [...] il giorno 7 gennaio del corrente anno 1610, all’una di notte, mentre osservavo gli astri celesti con il cannocchiale, mi si presentò Giove, e dato che mi ero allestito uno strumento davvero eccellente, mi avvidi che gli stavano vicino tre Stelline, invero piccole, ma assai luminose (e questo prima non mi era mai accaduto per l’inadeguatezza dell’altro apparecchio); le quali, per quanto fossero da me ritenute nel numero delle fisse, mi destarono tuttavia una certa meraviglia, per il fatto che sembravano disposte secondo una precisa linea retta e parallela all’Eclittica e più luminose di altre di pari grandezza. E la disposizione fra loro e rispetto a Giove era questa:

cioè dalla parte orientale c’erano due Stelle, una sola invece verso occidente. La più orientale e quella occidentale apparivano un po’ più grandi della restante: della loro distanza da Giove non mi curai affatto, avendole ritenute fisse, come già ho detto. Ma essendo ritornato alla medesima indagine il giorno 8, spinto da non so quale fato, trovai una disposizione molto diversa: le tre Stelline erano infatti tutte a occidente di Giove e fra loro più vicine della notte precedente, separate da uguali intervalli, come mostra il seguente grafico:

L’osservazione prosegue nelle notti seguenti, con dovizia di rappresentazioni continuamente mutevoli, in cui i corpi celesti cambiano di posizione, numero e dimensione. Riprendiamo il racconto dal 19 gennaio.

[...] Il giorno 19, alle due di notte, tale era la disposizione delle Stelle:

vi erano cioè tre Stelle rigorosamente in linea retta con Giove: una sola ad oriente, distante da Giove 6 primi; fra Giove e la prima situata ad occidente c’era una separazione di 5 primi; questa infine distava 4 primi da quella più occidentale. Ero allora in dubbio se in mezzo fra la stella orientare e Giove vi fosse una Stellina, ma tanto vicina a Giove da quasi toccarlo. Ma alle cinque la vidi con chiarezza occupare esattamente il punto di mezzo tra Giove e la Stella orientale, così che tale era la configurazione:

inoltre la Stella osservata per ultima era estremamente piccola, ma alle sei divenne quasi eguale alle altre in grandezza. [...] Proseguono i rilevamenti, fra dubbi e ipotesi sulle configurazioni osservate. Galileo comincia a fare valutazioni quantitative delle distanze tra Giove e i suoi satelliti in termini di angoli sotto cui si vedono i vari corpi. Il diario dell’8 febbraio riporta le seguenti annotazioni: Il giorno 8, all’una, c’erano tre Stelle tutte orientali, come nel grafico:

la più prossima a Giove, abbastanza piccola, distava da esso min. 1, sec. 20; la media da questa min. 4, ed era abbastanza grande; la più orientale, estremamente piccola, distava dalla media min. 0, sec. 20. Ero in dubbio se la più vicina a Giove

fosse soltanto una oppure due Stelline; sembrava infatti a momenti che accanto ad essa se ne presentasse un ’altra verso oriente, straordinariamente piccola e separata soltanto per min. 0, sec. 10; tutte giacevano su un’unica retta, allineate secondo il corso dello Zodiaco. Ma alle tre, la Stella più vicina a Giove quasi lo toccava, distando da esso soltanto min. 0, sec. 10: le rimanenti invece si erano allontanate da Giove, giacché la media distava da esso min. 6. Infine, alle quattro, quella che prima era la più vicina a Giove, unitasi ad esso, non si distingueva più. Negli ultimi giorni di osservazione, per rendere evidenti i moti relativi interni al sistema Giove-satelliti, Galileo riporta anche la posizione di una stella fissa. Il resoconto finale è del 2 marzo 1610: Il giorno 2, ore 0, min. 40, c’erano tre Pianeti, due orientali e uno occidentale, in tale disposizione:

il più orientale distava da Giove min. 7, e da esso il seguente distava min. 0, sec. 30; quanto all’occidentale era Contano da Giove min. 2; gli estremi erano più luminosi e più grandi del restante, il quale appariva molto piccolo. Il più orientale si mostrava un po’ sollevato verso borea dalla linea retta passante per gli altri Pianeti e per Giove. La fissa già notata distava dal Pianeta occidentale min. 8, secondo la perpendicolare alla retta passante per tutti i Pianeti, tracciata dallo stesso Pianeta, come l’annessa figura illustra. Ho voluto riportare questi confronti di Giove e dei Pianeti adiacenti con la Stella fissa perché da essi chiunque possa capire che le progressioni dei medesimi Pianeti concordano perfettamente, sia in longitudine che in latitudine, con i movimenti che si ricavano dalle tavole.

Effetto dei vapori Queste sono le osservazioni sui quattro Pianeti Medicei, di recente e per la prima volta da me scoperti; dalle quali, benché non sia ancora possibile esprimere in termini numerici i loro periodi, è lecito almeno evidenziare alcuni aspetti degni di attenzione. In primo luogo, poiché ora seguono, ora precedono Giove con intervalli simili, e da esso si allontanano per minimi spazi sia verso oriente che verso occidente, e parimenti lo accompagnano nel suo moto retrogrado e nel diretto, nessuno può dubitare che essi compiano giri intorno ad esso, mentre effettuano tutti insieme una rivoluzione con periodo dodecennale intorno al centro del mondo. Essi inoltre orbitano in modi differenti: ciò che manifestamente si ricava dal fatto che, quando l’allontanamento da Giove è più grande non è dalla rivoluzione della sola Luna intorno alla Terra, intanto che ambedue compiono il giro annuale intorno al Sole, da ritenere che si debba rifiutare come impossibile questa struttura dell’universo: ora infatti non abbiamo più un solo Pianeta ruotante intorno ad un altro, mentre entrambi percorrono una grande orbita intorno al Sole, bensì quattro Stelle che l’evidenza sperimentale ci mostra orbitanti attorno a Giove, a guisa della Luna intorno alla Terra, mentre tutte insieme con Giove, nel periodo di 12 anni, descrivono una grande orbita intorno al Sole. Infine, non si deve trascurare la ragione per cui accade che gli Astri Medicei, mentre compiono strettissime rivoluzioni intorno a Giove, sembrino talvolta più grandi del doppio. Non possiamo minimamente ricercarne la causa nei vapori terrestri, poiché essi appaiono accresciuti o diminuiti, laddove la mole di Giove e delle stelle fisse vicine non si vede affatto mutata. Che poi essi s’avvicino alla Terra al perigeo della loro orbita, e se ne allontanino all’apogeo così tanto da giustificare un simile mutamento, sembra del tutto impensabile: infatti un percorso circolare stretto non può in alcun modo indurre tale effetto; e un percorso ovale (che in questo caso sarebbe quasi retto) sembra essere inopinabile e per nulla consono con quanto si osserva. Ciò che a tale proposito mi viene in mente, volentieri espongo e sottopongo al giudizio e alla critica degli studiosi più validi. mai possibile 24

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vedere due Pianeti congiunti; mentre in vicinanza di Giove se ne trovano riuniti due, tre, e talvolta tutti insieme. Si rileva ancora che sono più veloci le rivoluzioni dei Pianeti che descrivono orbite più strette intorno a Giove, poiché le Stelle più vicine a Giove si vedono più spesso ad oriente quando il giorno prima apparivano ad occidente, e viceversa: ma il Pianeta che descrive l’orbita più grande, a chi esamini accuratamente i predetti cicli, mostra di avere periodi semimensili. Abbiamo inoltre un eccellente e più che valido argomento per togliere ogni scrupolo a coloro che, pur accettando tranquillamente la rivoluzione dei Pianeti intorno al Sole secondo il Sistema Copernicano, sono però così turbati 26

GIOVE E I SATELLITI MEDICEI IN UNA COMPOSIZIONE DI FOTOGRAFIE PRESE NEL 1996 DALLA SONDA SPAZIALE GALILEO. DA DESTRA: IO, EUROPA, GANIMEDE, CALLISTO

Le affermazioni che seguono sono del tutto opinabili, quando non erronee. Per esempio, l’apparente aumento di diametro del Sole e della Luna in prossimità dell’orizzonte è dovuto

principalmente a un’illusione psicologica, causata dalla presenza di oggetti di riferimento più prossimi a noi, assenti invece nel cielo aperto. All’alba e al tramonto si ha effettivamente un incurvamento dei raggi solari nel lungo percorso attraverso l’atmosfera per causa della variazione graduale dell’indice di rifrazione dell’aria con l’altitudine (variano la densità, l’umidità, la temperatura). Tuttavia, ciò può avere soltanto l’effetto di appiattire il disco solare. Quanto all’atmosfera lunare, non occorrono commenti: Galileo stesso, negli scritti successivi, non ne fa più cenno. È noto che per l’interposizione dei vapori terrestri il Sole e la Luna appaiono più grandi, le stelle fisse e i Pianeti, invece, più piccoli; per il che i due Luminari vicino all’orizzonte si vedono più grandi, mentre le Stelle, più piccole e in genere poco visibili, diminuiscono ancor più, se i vapori sono soffusi di luce; perciò le Stelle di giorno e al crepuscolo appaiono molto fievoli; non così la Luna, come sopra abbiamo rilevato. Che inoltre non solo la Terra, ma anche la Luna, sia avvolta in un involucro di vapori, risulta sia da quanto già abbiamo detto, sia e soprattutto da ciò che più estesamente verrà esposto nel nostro Sistema; possiamo dunque a ragione affermare la stessa cosa dei rimanenti Pianeti, per cui non sembra per nulla improbabile collocare un involucro più denso del rimanente etere anche intorno a Giove, intorno al quale, come la Luna intorno alla sfera degli elementi, ruotino i Pianeti MEDICEI; e che, a causa dell’interposizione di questo involucro, quando sono all’apogeo appaiano più piccoli, e più grandi al perigeo per l’assenza, o almeno l’attenuazione, del medesimo involucro. La ristrettezza del tempo impedisce di procedere oltre; il Lettore aspetti benevolmente una più ampia trattazione di questo argomento in un prossimo futuro. Inno alla Terra Nel discorso di Galileo Terra e Luna vengono considerate di identica natura, montuose, non incorruttibili, avvolte da un’atmosfera, illuminate in egual modo dalla luce solare e reciprocamente illuminantisi («con giusto e gradito scambio rende la Terra alla Luna un’illuminazione pari a quella che 27

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riceve da essa per quasi tutto il tempo nelle tenebre più profonde della notte»). Tra esse esiste una vera «parentela e somiglianza». Nel momento stesso in cui sembra togliere nobiltà alla Luna, svelandone imperfezioni e asperità, Galileo avverte la necessità di elevare la Terra al rango di corpo celeste e preannuncia lo sviluppo dell’argomento in un’opera di più ampio respiro, il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, con le seguenti bellissime parole: [...] nel nostro Sistema del Mondo [...] con moltissimi ragionamenti ed esperimenti, si mostrerà validissima la riflessione della luce solare ad opera della Terra: e ciò per quelli che proclamano che essa debba essere esclusa dalla danza delle stelle, soprattutto perché sarebbe priva di moto e di luce; dimostreremo infatti che essa è errante e superiore in luminosità alla Luna, e non già sentina di terrene sordidezze e brutture. Nel Dialogo Galileo innalzerà un vero inno all’amata Terra, «nobilissima ed ammirabile» proprio per le incessanti mutazioni che in essa avvengono: SAGR. [...] e quando, senza esser suggetta ad alcuna mutazione, ella fusse tutta una vasta solitudine d’arena o una massa di diaspro, o che al tempo del diluvio diacciandosi l’acque che la ricoprivano fusse restata un globo immenso di cristallo, dove mai non nascesse né si alterasse o si mutasse cosa veruna, io la stimerei un corpaccio inutile al mondo, pieno di ozio e, per dirla in breve, superfluo e come se non fusse in natura, e quella stessa differenza ci farei che è tra l’animale vivo e il morto [...]. E qual maggior sciocchezza si può immaginar di quella che chiama cose preziose le gemme, l’argento e l’oro, e vilissime la terra e il fango? e come non sovviene a questi tali, che quando fusse tanta scarsità della terra quanta è delle gioie o de i metalli più pregiati, non sarebbe principe alcuno che volentieri non ispendesse una soma di diamanti e di rubini e quattro carrate di oro per aver solamente tanta terra quanta bastasse per piantare in un picciol vaso un gelsomino o seminarvi un arancino della Cina, 30

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per vederlo nascere, crescere e produrre sì belle frondi, fiori così odorosi e sì gentil frutti? NOTA STORICA L’impatto che il Sidereus Nuncius ebbe sugli studiosi contemporanei fu di eccezionale portata e rese Galileo celebre in tutta Europa. Nel contempo, lo mise in grave sospetto agli occhi dei tradizionalisti. Per dare una misura degli argomenti che a quell’epoca potevano venir usati, basterà dire che ci fu chi negò la possibilità di satelliti di Giove perché con essi il numero totale dei pianeti avrebbe superato il sette, figura perfetta e resa sacra dalla tradizione. Nel 1611 il cardinale Bellarmino, colpito (e forse anche un po’ affascinato) dalla lettura del Sidereus Nuncius, appena pubblicato, chiede ai gesuiti del Collegio Romano – l’istituzione scientifica più prestigiosa d’Europa – di rispondere alla seguente interrogazione sulla validità delle scoperte di Galileo al cannocchiale: «So che le RR. VV. hanno notitia delle nuove osservationi celesti di un valente mathematico per mezo d’un instrumento chiamato cannone ovvero ochiale; et ancor io ho visto, per mezo dell’istesso instrumento alcune cose molto maravigliose intorno alla Luna et a Venere. Però desidero mi facciano piacere di dirmi sinceramente il parer loro intorno alle cose sequenti: Prima, se approvano la moltitudine delle stelle fisse, invisibili con il solo ochio naturale, et in particolare della Via Lattea et delle nebulose, che siano congerie di minutissime stelle; 2°, che Saturno non sia una semplice stella, ma tre stelle congionte insieme; 3°, che la stella di Venere habbia le mutationi di figura, crescendo e scemando come la Luna; 4°, che la Luna habbia la superficie aspera et ineguale; 5°, che intorno al pianeta di Giove discorrino quattro stelle mobili et di movimenti fra loro differenti et velocissimi. Questo desidero sapere, perché ne sento parlare variamente; et le RR. VV. come essercitate nelle scienze mathematiche, facilmente mi sapranno dire se queste nuove inventioni siano ben fondate o pure siano apparenti et non vere». Fatto interessante per gli sviluppi che comunque seguiranno, le scoperte vengono tutte confermate, salvo qualche riserva 32

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espressa sui monti della Luna dal massimo astronomo tra i gesuiti, padre Cristoforo Clavio, apparentemente l’unico a pronunciarsi in tal senso. È bene rammentare che la perfetta sfericità di tutti i corpi celesti era una concezione difesa dagli aristotelici in modo forse anche più strenuo di quella del geocentrismo. In proposito risponde il Collegio: «... non si può negare la grande inequalità della Luna; ma pare al P. Clavio più probabile che non sia la superficie inequale, ma più presto che il corpo lunare non sia denso uniformemente et che habbia parti più dense et più rare, come sono le macchie ordinarie, che si vedono con la vista naturale. Altri pensano, essere veramente inequale la superficie: ma infin hora noi non habbiamo intorno a questo tanta certezza, che lo possiamo affermare indubitatamente». Malgrado tale autorevole e sostanziale conferma, il cardinale Bellarmino, cinque anni dopo, ingiunge a Galileo di non più rendere pubbliche le sue idee. È ragionevole ritenere che egli arrivi a tanto più per dovere d’ufficio che per convinzione, come suggerisce il fatto che si limita a diffidare Galileo dal diffondere le proprie idee, ma non gli vieta di formularle. La sfera di cristallo Tornando al responso del Collegio Romano, è da segnalare un curioso qui pro quo in cui sono incorsi vari storici della scienza, non escluso il Geymonat. All’illustre padre Clavio viene attribuita una strana congettura, tendente a salvare la perfetta forma sferica della Luna, in quanto corpo celeste. Egli avrebbe proposto, raccogliendo un’opinione diffusa tra alcuni studiosi tedeschi, che la Luna sia avvolta in un involucro sferico simile al cristallo, così trasparente da mostrare eventuali asperità interne, ma invero liscio e levigato alla superficie. Padre Clavio era troppo valente scienziato per profferire una simile grossolanità: fu invece Lodovico delle Colombe che, nell’inviargli una lettera di apprezzamento del giudizio espresso dal Collegio Romano, suggerì una possibile analogia circa l’apparenza all’occhio di un remoto osservatore tra la Luna, costituita al suo interno da zone di densità variabile, e una sfera di cristallo in cui fossero racchiuse delle figure fatte di smalto bianco. 36

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Affinché il lettore possa direttamente documentarsi in proposito, riportiamo uno stralcio della lettera citata: «Molto Rev. Sig. mio, Ho veduto la risposta che le Paternità vostre danno all’Illustriss. Cardinale Belarmino; e mi piace ch’ella in particolare non approvi che la luna sia di superficie ineguale e montuosa, come crede e vorrebbe persuadere il Sig. Galileo. Quelle montuosità che appaiono nella luna, possono essere vere, perché mostrano, dall’ombre e lumi e dalle mutazioni di quelle, che siano reali e abbiano le dimensioni corporee, e non siano solo superficiali, come se dipinte fossero. Ma il punto consiste più della differenza tra me ed il Sig. Galileo, ch’egli tiene ch’elle siano nella superficie, a guisa della terra ch’è circondata dall’aria; ed io tengo ch’elle siano per entro quel corpo, e non nella superficie, perché sono parti più dense, e il restante del corpo sia ripieno di parti più rare, sicché sia tutto un corpo, con una sola superficie liscia e in niuna parte diseguale o dentata; ma perché il senso viene in tanta distanza ingannato, non si vedendo quelle parti rare, perché il sole non vi reflette con i suoi raggi, di qui è che quel corpo pare ineguale, e non polito e sferico, perché non si termina la vista in quelle parti; siccome farebbe una gran palla di cristallo, dentro la quale fossero molte varietà di figure fatte di smalto bianco, ed esposta in alto lontana dai nostri occhi, che non parrebbe tonda, non si vedendo le parti pure di quel cristallo [...]». La lettera di Lodovico delle Colombe è trasmessa a Galileo da una tal Gallanzone Gallanzoni, al quale lo scienziato invia una storica risposta: [...] procurerò di rispondere quanto mi occorre in proposito del contenuto nella lettera scritta al molto R. Padre Clavio dal S. Lodovico dalle Colombe [...] et questo fo io tanto più volentieri, quanto veggo, questo esser l’ultimo refugio di quei filosofi, li quali vorriano pure accomodare le opere della natura alle loro inveterate opinioni. Questa nuova introduzione di un ambiente molto perspicuo intorno al corpo lunare, per riempiere et 39

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adequare le sue visibili cavità et eminenze, mi fu, molti mesi sono, scritta dall’Ill. S. Marco Velsero d’Augusta, come pensiero di alcuni filosofi di quelle parti; io gli risposi et forse con quietare et persuadere i suoi autori (non havendo io poi sentito replicare altro): non so quello che mi succederà in Roma, dove questo medesimo concetto trova, come bene ella mi scrive, molti che gli applaudono. [...] Le osservazioni dalle quali io deduco le mie dimostrazioni, non occorre che in questo luogo racconti, sì per haverle io altrove scritte et in voce moltissime volte dichiarate, sì perché gli avversarii, con li quali si tratta al presente, non negano né quelle, né tampoco le apparenti inegualità lunari; ma vengono, in sustanza del loro discorso, a dire che la Luna sia hora non solamente quel globo che noi sensatamente con gl’occhi veggiamo et sin qui havevamo veduto, ma che, oltre al veduto da gl’huomini, vi è intorno un certo ambiente trasparentissimo, a guisa di cristallo o diamante, totalmente impercettibile da i sensi nostri, il quale, empiendo tutte le cavità et cimando le più alte eminenze lunari, cinge intorno intorno quel primo et visibile corpo, et termina in una liscia et pulitissima superficie sferica, non vietando in tanto il passaggio a i raggi del sole, sì che eglino possino nelle sommerse montuosità reflettere et dalle parti averse causare le proiezioni delle ombre, rendendo intanto l’antica luna al senso nostro suggetta. Veramente l’immaginazione è bella; solo gli manca il non essere né dimostrata né dimostrabile. Et chi non vede che questa è una pura et arbitraria finzione, che nulla pone in essere, et solo propone una semplice non repugnanza? Che se il chimerizare del nostro cervello dovesse havere azione nelle determinazioni della natura, a me sarà lecito con altretanta autorità dire che la terra è di superficie perfettissimamente sferica e pulita; intendendo per terra non solamente questo corpo opaco dove si terminano i raggi solari, ma insieme con questo quella parte dell’ambiente diafano che riempie tutte le valli, et con altezza eguale a i più sublimi gioghi delle montagne lo circonda. [...] mo

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CON IL CANNOCCHIALE DI GALILEO SATURNO APPARIVA COME «TRE STELLE CONGIONTE INSIEME». NELL’IMMAGINE PRESA DALLA SONDA VOYAGER 2 SI VEDONO LE LUNE DEL PIANETA

NOTA FISICO-MATEMATICA Il telescopio kepleriano Il cannocchiale, o telescopio rifrattore, o diottrico, serve per avvicinare l’oggetto all’occhio dell’osservatore, così che, aumentando l’angolo visuale sotto cui viene visto, esso appare ingrandito. Il cannocchiale di Keplero, descritto nel 1611 e il più usato in astronomia, è costituito da due lenti convergenti, di lunghezze focali differenti. La prima (obiettivo), di focale lunga fob, forma un’immagine reale capovolta dell’oggetto; la seconda (oculare), di focale corta foc, ha la funzione di lente di ingrandimento per osservare detta immagine. Le due lenti sono poste sullo stesso asse, distanziate in modo che il primo fuoco Foc della seconda si sovrapponga al secondo fuoco Fob della prima (si veda la figura). Quando l’oggetto osservato A si trova a grande distanza, l’immagine B prodotta dall’obiettivo cade circa nel suo secondo fuoco (la sua altezza si determina subito tracciando il raggio che, provenendo dal bordo dell’oggetto, passa per il centro della lente, in quanto esso non viene deviato). Ma poiché tale immagine si trova anche nel primo fuoco della seconda lente, il raggio che passa per il centro dell’oculare definisce l’angolo sotto il quale l’occhio la vede. L’ingrandimento visuale G è dato, in valore assoluto dal rapporto degli angoli β e α. Considerando i due triangoli

rettangoli interni al cannocchiale, si vede che vale la proporzione tgβ/tgα=fob/foc. Se gli angoli sono abbastanza piccoli, si può approssimare tgβ/tgα~β/α, e in definitiva si ha

dove il segno meno è stato apposto per evidenziare che l’immagine vista dall’occhio è capovolta. L’ingrandimento visuale è dunque tanto più grande quanto maggiore è il rapporto delle due distanze focali.

L’ingrandimento visuale è dato dal rapporto tra gli angoli β e α. L’immagine vista dall’occhio è capovolta

In un telescopio non conta soltanto il potere d’ingrandimento, ma anche la luminosità, la quale aumenta con il diametro dell’obiettivo. Il più grande cannocchiale di questo tipo si trova allo Yerkes Observatory dell’Università di Chicago. Ha un obiettivo di diametro 102 cm e focali rispettivamente di 19,5 m e 10 cm. Per l’ingrandimento visuale si calcola allora G=195. La realizzazione e la posa in opera di lenti tanto grandi presentano problemi tecnologici e fisici (per esempio, si hanno forti aberrazioni cromatiche), per cui si preferisce oggi impiegare telescopi riflettori, dove la funzione delle lenti è svolta da specchi. Va notato che l’oculare, invece, può essere piccolo, e precisamente di diametro |G| volte minore di quello dell’obiettivo, fatto che è di notevole convenienza. Ciò appare

subito chiaro dalla considerazione che l’oculare non deve raccogliere altro che il fascio luminoso emergente dall’obiettivo, i cui raggi estremali sono illustrati nello schema che segue. Da ultimo, merita sottolineare un vantaggio del telescopio kepleriano rispetto a quello galileiano: grazie al fatto che l’immagine B, la quale funge da oggetto per la seconda lente, è reale, si può collocare nel suo stesso piano un reticolo graduato su scala micrometrica, rendendo possibili accurate misurazioni.

Dimensioni delle due lenti nel telescopio kepleriano (o astronomico). L’inversione alto-basso dei raggi estremali mostra chiaramente che l’immagine nell’occhio appare capovolta

Il telescopio galileiano Nel telescopio rifrattore di Galileo, costruito nel 1609, la seconda lente è biconcava e divergente. Essa viene collocata in modo che, di nuovo, il secondo piano focale dell’obiettivo coincida con il primo dell’oculare. Poiché, tuttavia, nelle lenti divergenti le posizioni dei punti focali sono scambiate (il che si traduce in distanze focali negative), l’assetto del telescopio è quello della figura sottostante.

L’ingrandimento visuale è dato dal rapporto tra gli angoli β e α. Grazie alla lente divergente, l’immagine vista dall’occhio è diritta

Ragionando esattamente come in precedenza, si trova che l’ingrandimento visuale è dato nuovamente da

con la differenza che, essendo focρ’ il corpo affonda; per ρ=ρ’ si ha la condizione di immobilità; infine, per ρ