Panchine. Come uscire dal mondo senza uscirne 9788842086338

"Le panchine scompaiono e io da tempo compongo il catalogo di quelle che ho amato. Quelle del Parco Ducale di Parma

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Panchine. Come uscire dal mondo senza uscirne
 9788842086338

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Contromano

ULTIMI VOLUMI PUBBLICATI

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Matteo Melchiorre La banda della superstrada Fenadora-Anzù (con vaneggiamenti sovversivi)

Gian Luca Favetto Se dico radici dico storie

Rosella Postorino Il mare in salita. Da Sanremo a Dolcedo passando per i bricchi

Flavio Soriga Nuraghe Beach. La Sardegna che non visiterete mai

Rossella Milone Nella pancia, sulla schiena, tra le mani

Vanni Santoni Se fossi fuoco, arderei Firenze

Beppe Sebaste

Panchine

Come uscire dal mondo senza uscirne

Editori Laterza

© 2008, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2008 Quarta edizione 2011 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council L’Editore ringrazia per aver gentilmente concesso la pubblicazione delle fotografie presenti in questo volume: gli Eredi di Luigi Ghirri (pp. 25, 62, 72, 166); Olivier Perrin (p. 115); Gianni Leone (p. 121); Elio De Pascalis (p. 131).

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nell’ottobre 2011 Martano editrice srl - Lecce (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8633-8

Why is a short story short? Ask that man sitting on a bench in the park, any park, but be prepared, for he might tell you a story longer than you would want to listen to. Richard Brautigan, The Short Story

Indice

Mi piace sedermi qui

3

Una piega del mondo

6

Verdi, a onda

9

Blow up

15

Margini

19

Beat

26

Zattere

32

Che cosa è il lusso

36

Infinito

43

Luogo comune

48

Passeggiare da fermi

55

Lo spazio tra la gente

62 VII

Scarpe gialle e cielo blu

73

«Tutto è presente e immanenza»

84

Lessness

89

Scandali, evasioni

94

Gennaio

100

Via del Mare

106

Shining

110

Leggere, vita secondaria

115

Elenco

121

Pop

132

Still life

139

Elenco 2

142

Mosca e Zagarolo

149

Commedia, tragedia

153

Altre storie

159

Fantasmi

167

Ringraziamenti

173

Indice dei nomi e delle cose notevoli

175

VIII

Panchine

Mi piace sedermi qui

Sono a Ginevra, una delle città più ricche del pianeta. So, come lo sa la maggior parte della gente, che passeggiando per le strade di questa città si calpestano montagne di lingotti d’oro, stipati sotto il suolo dalle banche. Non che cambi molto nella nostra attività di passanti. Sto camminando con mio figlio Pierre, adolescente, che ora abita qui con la mamma, e frequenta la scuola francese. Dopo molte peregrinazioni nella città vecchia – nel grande spazio vuoto di Plainpalais in mezzo alla città, dove il sabato c’è il mercato delle pulci e a volte montano il tendone del circo; lungo il lago, lungo il Rodano, lungo l’Arve, che mescola le sue acque con quelle del Rodano, e affascinava lo scrittore Jorge Luis Borges –, dopo tutto quel girovagare, adesso, prima di cena, Pierre vuole mostrarmi un suo luogo intimo, dice, un suo posto segreto. È una sera del suo primo autunno in questa città, dove io pure ho vissuto qualche anno dopo la laurea, facendo ricerche all’università. Confrontiamo i suoi riferimenti con i miei ricordi, le nostre rispettive mappe interiori. Il suo bar, il mio bar. Abbiamo visitato il Mamco (Musée d’Art Moderne et Contemporain), gli ho fatto vedere i lavori magnifici e misteriosi di Claudio Parmiggiani – le ‘delocazioni’ ottenute inondando di 3

fumo uno spazio chiuso, e facendo emergere nel grigio uniforme le tracce bianche lasciate dalla sparizione delle cose, le tracce dell’assenza. Abbiamo visto una mostra di John Armleder, per lo più installazioni d’oggetti. L’arte pop e contemporanea di solito piace ai ragazzi. È d’altronde su uno dei cartoncini della mostra che ho scritto questi appunti. Siamo ora nelle rues basses, le vie commerciali del centro, non lontane dal lago, dove le banche e i palazzi di uffici lasciano posto a negozi di moda, boutiques, supermercati di lusso, grandi magazzini, cioccolaterie eleganti. Altre installazioni d’oggetti, altre esposizioni. Da tempo assistiamo a una museificazione del mondo, difficile trovare un luogo che faccia eccezione. C’è molta gente per strada, e mi chiedo quale sia il posto segreto di mio figlio in tanta calca. Finché, nell’affollata rue du Marché, riservata ai pedoni e alle rotaie, sgusciando tra la gente indaffarata a comprare e quella che aspetta il tram, Pierre mi indica alcune panchine di legno chiaro, e ci sediamo su una di esse. Davanti alle fermate dei tram, nel crocevia dello shopping, questa sua confidenza mi sembra pura poesia – ciò che per un ragazzo è sempre uno strano mistero. Sedersi lì sulla panchina significa non farsi trascinare dalla corrente, non fare la coda a una cassa, non provarsi abiti, non indicare le vetrine. Non salire nemmeno sul tram quando arriva e si ferma lì davanti, non essere una di quelle persone che ci circondano in piedi e che ordinatamente, ritmicamente, scompaiono salendo sul tram, come il risucchio delle onde del mare che si infrangono a riva e poi si ritirano. Sedersi su quella panchina significa diventare di colpo invisibili. Perdere tempo, cioè guadagnarlo. Paralleli alla rue du Rhône, siamo nell’occhio del ciclone della strada di maggiore passaggio della città. I tram che scorrono nei due sensi conducono alla stazione, allo stadio, a Ca4

rouge, oppure in Francia, passando per Chêne-Bougeries e altri quartieri residenziali. Nelle ore d’uscita dal lavoro sono carichi quindi di frontaliers, pendolari della dogana. Di fronte alla nostra panchina c’è il Globus, un grande negozio di alimentari che comprende anche vari ristoranti, tra cui uno cinese, uno salutista e una pasticceria. Alle nostre spalle c’è il Bon Génie, emporio anch’esso con ristorante, e la cioccolateria Merkur. Negozi di abiti, di scarpe, gioiellerie. Grande flusso di persone sperse nel vortice dei regali di Natale. Al rumore metallico del tram, lieve e discreto rispetto allo sferragliare di milanese e neorealistica memoria, si aggiunge ogni tanto il campanellino da vacca svizzera azionato dal conducente per scansare un pedone. «Mi piace sedermi qui», dice mio figlio mentre rinviamo ogni volta il tram con cui dobbiamo rientrare nella sua nuova casa. Quella panchina è il suo luogo segreto, nascosto dalla sua evidenza. Guardiamo il mondo e gli umani affaccendati come un paesaggio. E provo con lui una beatitudine complice e silenziosa. Mentalmente modifico il giudizio perplesso, a volte negativo, di tanti suoi insegnanti con cui ho parlato il giorno prima: troppo disinvolto, noncurante; quando entra in classe commenta ad alta voce la luce della giornata. Come un personaggio di Robert Walser, poetico e disadattato. E, visto che parliamo anche di questo, penso che quella panchina gli insegna, tra gli altri, il valore della lentezza come raramente si impara dalla scuola. Eppure la cultura – la letteratura soprattutto – in fondo non è altro che questo: fermarsi, lasciare scorrere il mondo, guardarlo, guardare anche un po’ se stessi.

Una piega del mondo

Due anni dopo sono a Linosa, un’isola giù in fondo al Mediterraneo, più a sud di Tunisi ma frazione del comune di Lampedusa, provincia di Agrigento. È estate, c’è il mare più intenso che abbia mai visto, un’acqua limpida ricchissima di pesci colorati, scogliere e baie magnifiche, case color pastello incorniciate di colori, tre vulcani, terra rossa, fichi d’india, capperi. Per tranquillizzarmi, prima di partire avevo cercato delle immagini di Linosa in Internet – avevo paura di sentirmi perso e annoiato, oppure come in uno di quei disegnini delle isolette dei naufraghi, sotto l’unica palma e i pescecani intorno. Tra le bellissime vedute delle coste mi ero imbattuto nella foto della farmacia del paese, con davanti due palme e un albero di ficus. Quello che non sapevo era che all’ombra di quegli alberi ci fossero due panchine, una a listelli tradizionali di legno e un’altra colorata. In breve, quel punto dell’isola è divenuta la postazione in cui l’estate scorsa a Linosa ho passato molti momenti di ozio e contemplazione. Anni di abitudine mi guidavano: su quelle panchine (avevo scelto per me quella colorata) non facevo assolutamente niente. Raramente leggevo il giornale, che del resto arrivava molto tardi, mentre alla lettura di libri erano già deputati il 6

bar sull’unica spiaggetta o quello sul porticciolo. Fu comunque un’attrazione a prima vista. Erano quasi sempre libere e all’ombra, su un piano rialzato rispetto alla strada, come un podio. All’inizio il richiamo di quella panchina aveva l’alibi di un’attesa: mi sedevo ad aspettare che aprisse il negozio di alimentari, oppure la tabaccheria, o che arrivasse il giornale con la nave delle 16.30, o che si smaltisse la fila all’ufficio postale, cose così. Spesso era un luogo di sosta in cui divoravo quasi metà del pane che dovevo portare a casa – sfilatini ancora caldi e teneri, ricoperti di semi di sesamo. Lo masticavo poco alla volta in contemplazione di qualsiasi cosa, dell’aperto, del puro vedere davanti a me. Il cielo era sempre azzurro e terso, i muri delle case colorati. Guardavo anche la colonia di gatti magrissimi, accuditi dalla farmacista, che avevano la loro casa ai piedi del ficus. I più piccoli sfruttavano come cuccia le conche naturali del tronco, prodotte dal complicato intrico di fusti avvinghiati tra loro. Ogni tanto uno di loro si arrampicava sulla panchina ad annusarmi o farsi accarezzare. A fianco della farmacia c’era un’altra porta, quella della Guardia medica. Quando non c’erano pazienti, ogni tanto un medico usciva a fumare una sigaretta in silenzio sull’altra panchina. Il marciapiede sopraelevato in cui si trovavano le panchine era all’incrocio delle due strade principali, o meglio, le uniche strade: quella che attraversava l’isola e il paese nell’interno e quella costiera. L’incrocio era una specie di piazza, e non a caso lì vicino c’erano la chiesa, la posta, il comune, una vineria e un bar che apriva la notte. Senza volerlo né saperlo, le panchine erano il centro ortogonale dell’isola. Quella a listelli colorati era semplicemente bella, e la sua attrazione all’inizio era puramente poetica. Era bello sedersi lì, guardare le case e il cielo, gli arabeschi del tronco del ficus, 7

le palme, i muri dipinti di giallo, di verde, di rosso, di blu, di arancione, il rado traffico ravvicinato di motorini, le rare automobili che passavano, e dopo qualche giorno mi accorgevo di conoscere un po’ tutti di vista, a partire dal prete e dal segretario comunale. Sull’altro lato della piazza c’era un muretto dove si sedevano alcuni uomini anziani col cappello, i volti segnati dal sole e dall’aria. Anche loro non facevano nulla, non parlavano quasi mai, stavano semplicemente seduti, e tutt’uno col paesaggio. La loro immobilità non aveva niente di passivo né di rassegnato, e anche quando uno dei vecchi chiudeva gli occhi e verosimilmente sonnecchiava, non perdeva in nessun modo il dono della presenza, né la dignità della sua postura. C’era caldo, si sentiva tutta l’estate del Mediterraneo. Ma anch’io sulla mia panchina mi sentivo vivo e presente. È il potere delle migliori panchine, quando sono ben situate. Una buona panchina fa sentire al riparo chi vi siede, e fa apparire il suo ozio come un’attività non soltanto legittima, ma di qualità superiore, da intenditore – un po’ come quando al ristorante uno ordina un piatto molto semplice e il cuoco gli fa capire di considerarlo un buongustaio (a me capitava in un certo posto a Parma col radicchio verde e l’uovo sodo). Una panchina perfetta è come una piega del mondo, non un luogo nascosto ma una zona franca, liberata o salvata, dove semplicemente sedersi è già in sé una meditazione. Quella di Linosa, di fronte alla farmacia e alla Guardia medica, sotto gli unici alberi del paese, era una panchina perfetta.

Verdi, a onda

Lo si sarà capito, ma lo dico lo stesso: io sono uno di quelli che si siedono sulle panchine. Non solo nei belvedere o sui poggi panoramici, di fronte a un lago o sul lungomare, ma anche nei parchi, nei giardinetti, nelle piazze, nei viali, negli interstizi tra le case, negli angoli, in centro, in periferia, alle fermate dell’autobus senza salire sull’autobus, e anche sotto casa. Ovunque. Potreste avermi visto, magari di sottecchi. O più probabilmente avete evitato di guardarmi: perché nelle nostre città, da qualche tempo, chi si siede su una panchina non è più soltanto anonimo, diventa invisibile. Lo scrittore Luciano Bianciardi raccontò che nella Milano dei primi anni Sessanta, quella del boom economico, fu arrestato per strada perché camminava troppo lentamente, perché «strascicava i piedi». Ben prima che fosse detta «da bere», a Milano Bianciardi vedeva «la gente che corre, che si dibatte, che ti ignora, che deve arrivare», e che per di più «si sentono privilegiati». Oggi stare in panchina è un’anomalia sociale più grave se chi si siede si sottrae non solo alle regole non scritte della produttività e dell’efficienza, ma anche allo sguardo degli altri. 9

Se non si è anziani, donne incinte o con carrozzina, se si è maschi o femmine adulti, chi sta seduto su una panchina è poco raccomandabile. Nel migliore dei casi è un disoccupato, uno sfaccendato, vita di riserva da ignorare. Per molti, che a stare seduti su una panchina provano imbarazzo, è l’immagine della provvisorietà, della precarietà, forse del declino. Stare in panchina, nel lessico attuale, è il contrario dello scendere in campo. Ma la panchina è l’ultimo simbolo di qualcosa che non si compra, di un modo gratuito di trascorrere il tempo e di mostrarsi in pubblico, di abitare la città e lo spazio. La panchina è un luogo di sosta, un’utopia realizzata. È il margine sopraelevato della realtà, vacanza a portata di mano. È anche il posto ideale per osservare quello che accade. Non è necessario che sia sullo Stelvio o sulla Promenade des Anglais – anche se è bello vedere di schiena qualcuno seduto sulla panchina con lo sfondo delle montagne o del mare. O dei grattacieli di New York. È sufficiente la bellezza del sedersi su una panchina in città e guardare una strada o una piazza. Guardare la gente che si muove, che vive. Guardare l’autobus che passa, guardare i piccioni, guardare le nuvole sopra la testa. Lo scrittore francese Georges Perec lo ha fatto per interi pomeriggi, seduto a Parigi in place Saint-Sulpice, negli anni Settanta. Le pagine che riportano le sue osservazioni (Tentativo di esaurire un luogo parigino) sono una lezione di scrittura e di felicità mentale. Un lavoro di accettazione di sé e del mondo, di semplificazione dello sguardo: «sforzarsi di guardare più piattamente». Insegnano fra l’altro che, ovunque si trovi, la panchina è per chi si siede il centro dell’universo. Sulle panchine si contempla dunque lo spettacolo del mondo, si guarda senza essere visti e ci si dà il tempo di per10

dere il tempo, come leggere un romanzo. Ecco alcuni dei non piccoli piaceri del sedersi su una panchina. Infine, è molto semplice: le panchine sono i posti in cui si siede la gente, proprio come le periferie – su cui si sono stratificate tante chiacchiere di esperti – non sono altro che i luoghi in cui abita la gente. Le mie preferite sono quelle verdi a onda di una volta, di legno, in via di estinzione. Ma tutte le panchine sembrano oggi in via di estinzione. Come se la loro gratuità (la loro grazia) nel nuovo orizzonte del welfare fosse assolutamente da bandire. «Bandire»: la stessa parola da cui viene banlieue, luogo bandito. Vorrei davvero che non accadesse. Che ci si possa sedere ancora a lungo e forse sempre in qualsiasi luogo ci piaccia, liberamente. È bello sedersi dove capita. È bello sedersi. «Contentezza: sedere con un bambino su uno scalino al sole, di fronte alla fermata dell’autobus», scriveva Peter Handke in un libro di frammenti. Le panchine, mi ha detto qualche tempo fa l’artista Enzo Cucchi, «sono necessarie», semplicemente necessarie. Una volta, ad Ancona, dove la municipalità lo aveva invitato per acquistare delle sue opere, Cucchi notò che non c’erano abbastanza panchine su cui sedersi all’aperto. Realizzò dei prototipi di panchine e li diede alla città, chiedendo di convertire e devolvere il suo compenso nella realizzazione effettiva di panchine pubbliche. Che le panchine siano necessarie lo mostrano i tanti scrittori che hanno raccontato le panchine, da Victor Hugo a Samuel Beckett, da Henry James a Michail Bulgakov, da Robert L. Stevenson (che fa accadere su una panchina la trasformazione del dottor Jekyll in mister Hyde) a Thomas Mann in Ca11

ne e padrone. E tanti altri. Di recente in una libreria francese mi sono imbattuto nell’unico romanzo di Fred Vargas che non avevo letto, Un peu plus loin sur la droite: una storia poliziesca in cui l’eroe ha la sua sede nella panchina n. 102 (a place de la Contrescarpe) e può contare sulla complicità della variopinta popolazione delle panchine come di una rete efficacissima di spie e di detective. Si chiude su una panchina l’amore che Dostoevskij racconta in Le notti bianche; si apre su una panchina Bouvard et Pécuchet, precisamente la stessa panchina in cui simultaneamente si siedono in boulevard Bourdon gli eroi epistemologici del meraviglioso e incompiuto romanzo di Gustave Flaubert, monumento epico all’inutilità del sapere e della cultura, dove fallimento e riuscita diventano la stessa cosa. Ho sempre pensato che gli eroi ridicoli e commoventi di Flaubert siano gli antesignani di Stanlio e Ollio. E innumerevoli sono le panchine che scandiscono le surreali avventure dei due celebri emarginati e vagabondi. La panchina per Stan Laurel e Oliver Hardy è il luogo a volte magico di una deriva tragicomica, e i loro continui, esilaranti fallimenti dicono la poesia di un nomadismo che resiste, anarchico e irriducibile, all’imperativo dell’ordine e del successo. Anche nel cinema le panchine resistono al disprezzo sociale in storie che costituiscono una resistenza culturale all’omologazione, sia sociale che psicologica. Per non citarne che alcuni, penso a quella di La venticinquesima ora di Spike Lee, dove Edward Norton medita su una panchina il suo ultimo giorno di libertà prima del carcere, o a quella di Forrest Gump, eroe e quasi santo in rotta coi valori dominanti, che racconta la sua storia seduto su una panchina mentre aspetta l’autobus. Se qualcuno ha suggerito che anche il luogo della serie tv Friends – un bar di Manhattan che si alterna a un ap12

partamento – è quasi una metafora delle panchine pubbliche, è proprio una panchina il sito di celluloide divenuto icona del paesaggio newyorchese, tra sogno e realtà. Parlo ovviamente della panchina di Sutton Place che Woody Allen ha immortalato in Manhattan, dove lo si vede in smoking seduto di schiena ad aspettare l’alba con Diane Keaton sotto Queensborough Bridge, ammirando come il viandante del romantico Friedrich non le Alpi ghiacciate, ma lo skyline di New York. Segnalo anche la disperazione urbana di un alcolista descritta di recente in The bench, dal regista danese Per Fly, e la versione cinematografica di Claude Chabrol di La panchina della desolazione di Henry James. Già prima che cominciassero a sparire avevo iniziato il catalogo delle panchine che ho amato: quelle del Parco Ducale di Parma, dove guardando gli alberi e la gente scrissi le mie prime poesie, quelle di Bologna vicino all’università, isole nelle tempeste. Quelle di tutti i centri storici vicino alle immancabili fontane, quando era normale incontrarsi nei centri storici e stare sulle panchine, e c’era un senso di colorata appartenenza. Le panchine incontrate per caso a Milano in un ricco quartiere dietro via Solferino, dove imparai il valore del riposo guardando il pranzo di immigrati nordafricani a base di pane e sardine, ma anche il valore d’uso di un luogo imbalsamato dalle algide e lussuose residenze. Le panchine di Lerici e del Golfo dei Poeti, il lungomare della mia infanzia. Le panchine di Ravello – un luogo già interamente votato al lusso dell’ozio e della contemplazione. Le innumerevoli panchine in cui ho soggiornato nei parchi di Parigi, nei suoi squares, sui suoi marciapiedi. Quelle sul Gianicolo o a Villa Borghese a Roma, a Villa Sciarra, Villa Pamphili, quella sulla sommità della Scala del Tamburino, su via Dandolo, oggi 13

scomparsa. Quelle di piazza Dante, dietro piazza Vittorio. Quelle, sempre a Roma, del cimitero dei poeti al Testaccio, dove sull’erba, di fianco alla tomba di John Keats, si contempla la Piramide e il traffico irreale di auto. Ma anche in via della Magliana, semiperiferia romana non priva di dolcezza, dove si siedono anziani e immigrati, a Villa Torlonia, dove mi addormentavo al mattino dopo notti intense, come possono essere quelle di un poeta ventenne di provincia, per di più innamorato. Il mio elenco rischia di assomigliare, ben oltre le mie intenzioni, a una specie di autobiografia: una vita in panchina.

Blow up

È curioso che abbia cominciato da Ginevra, però si spiega. Ginevra è stata il mio estero, la mia miniaturizzazione dell’America e dell’Occidente. Prolungamento e futuro (profezia) dell’Italia che conoscevo. Ero incantato dai distributori automatici che vendevano di tutto a tutte le ore (a volte andavo nei sotterranei della stazione solo per quello), dai negozi aperti la notte e la domenica. Ero incantato dai riflessi al neon che decoravano le acque del lago di mille colori, e dal contrasto tra quella bellezza e l’aggressività della fonte che la irradiava, cioè i nomi di tutte le banche del mondo in tutte le lingue del mondo (leggerli mi dava le vertigini). Ero incantato dalla mescolanza incredibile di etnie e di lingue, dal cosmopolitismo così denso che, quando ero seduto al bar con un paio di amici, potevo essere certo che al nostro tavolo si contassero almeno cinque passaporti di diverse nazionalità (io ne ho uno solo). Ai miei occhi era una città di allegri avventurieri, tipo Corto Maltese o Maqroll il Gabbiere, marinai che non si vedono mai su una barca. Una città infine che dava un agio intossicante, come il lampione acceso per le falene in una notte d’estate. Io ero la falena, naturalmente, e rimasi appiccicato a quella città, pur senza bruciarmi, per alcuni anni indimenti15

cabili e inconcludenti. Una volta disincantato, pagai il mio debito sentimentale ritraducendo le Rêveries del ginevrino Jean-Jacques Rousseau. Con altri scrittori e fotografi feci una descrizione del lago Lemano. La mia appartenenza a quella città-Stato era ormai quasi perfetta. Infatti me ne andai per ricominciare da capo da qualche altra parte. Quando parlo di agio intossicante intendo anche una forma sottile di censura: quella di ottenere tutto, di ricevere dal potere pubblico o privato (che nella lungimirante Svizzera già coincidevano) l’oggetto di qualunque rivendicazione, qualunque desiderio pubblicamente espresso. Non si dava il tempo di organizzare politicamente una domanda di felicità che subito veniva esaudita, quindi neutralizzata. Quando arrivai a Ginevra la prima volta, nei primi anni Ottanta, seppi che nel lago c’era una nave a disposizione dei tossici. La città abbondava di parchi, e i parchi abbondavano di bellissime panchine. Mi piacevano molto quelle di Parc Bertrand, in un quartiere residenziale in cui si trovava la Cité Universitaire, dove alloggiavo il primo anno. C’era una radura che mi ricordava il prato del parco di Blow up, e stando lì aspettavo anch’io che mi capitasse chissà quale avventura. Eppure, dopo il primo anno, cominciai a diffidare di quella accoglienza, perfino di quelle panchine così pulite e invitanti che mi facevano addormentare sempre più spesso. In un testo che scrissi allora su Ginevra, Café Suisse, ritrovo queste frasi: «Appena arrivato, Beatrice mi disse che in questa città ci si trova soli con se stessi. Quello che ho notato io è che c’è davvero molto spazio. Dovresti vedere quanti parchi, e quante panchine libere ci sono. Anche senza parchi. Lo dico spesso nelle lettere agli amici, le panchine sono quasi tutte belle, lisce e libere. Adesso però continuo a camminare, e grazie al cielo non ho voglia di sedermi». 16

E più avanti: «Seduto su una panchina del porto, vedo la città dal punto di vista preciso in cui si collocano i margini. Resto sulla soglia. La gente, qui, quando c’è il sole, passeggia avanti e indietro leccando i gelati. Io guardo davanti a me e aspetto di essere più stanco». Ma tutto quel libro oggi mi sembra una meditazione sull’abitare e sulle panchine, sull’osservazione della vita degli altri. Chiedersi ad esempio cosa sia abitare d’inverno in una casa che si affaccia sul lago, in quella lunga periferia costellata di panchine invisibili, dove l’aria e la nebbia portano a volte un profumo appena percettibile, un alito lieve e quasi inodore, come di burro sul pane. Ricordo i cartelli stradali che invitavano a dare la precedenza «alla cortesia», ricordo la cortesia raggelata e stampata sui volti dei negozianti. Era l’epoca della paura della guerra – calda, non fredda –, l’epoca dei missili a Comiso, di Ronald Reagan e dei presidenti dell’Urss che si accavallavano e morivano dopo un raffreddore, delle grandi manifestazioni per la pace, dello striscione magnifico delle donne: «Fuori la guerra dalla Storia». Ma a Ginevra sembrava che la guerra non riguardasse la vita della gente, c’erano il Salève e le Alpi intorno a proteggerla, c’erano la cortesia e le panchine. C’erano Rousseau, Amiel, Godard, l’esplorazione del mondo interiore, i viaggi intorno alla propria camera, l’urgenza del diario e delle confessioni. Ogni tanto faccio ritorno a Ginevra, e devo ammettere che questa città è una festa delle panchine. Nuovi ricordi affiorano. Le passeggiate con i professori Starobinski o Steiner nel parco dell’università o nella città vecchia, nella mia timida inadeguatezza. Il giardino di Michel Butor quando abitava ‘alla frontiera’. Le panchine di pietra e legno in rue de la Corraterie, tra l’università e il Rodano. Davvero sembra che nessuno si vergogni a stare seduto in pubblico. Però un anno fa 17

mi ritrovai seduto su una panchina di fronte al lago, zona centrale. La sera prima avevo lasciato mio figlio in un taxi in quello stesso quartiere ormai svuotato dagli abitanti, solo negozi chiusi, uffici, palazzi di vetro e acciaio. Lui aveva paura a quell’ora, perché il centro è percorso da bande che promettono violenza. La periferia, nel suo senso più temibile, si trova nel cuore della città – ecco un’altra cosa in cui Ginevra ha giocato d’anticipo. Quel giorno dunque, era pomeriggio, spinto da una fame improvvisa, avevo comprato hamburger con patatine fritte, e lo mangiai di gusto sulla panchina, perché tutti gli altri locali non mi piacevano per una ragione o per un’altra, e volevo stare all’aperto. Ero vestito elegantemente, perché più tardi dovevo andare a una cena cerimoniosa in un posto di lusso. Per un po’ sono rimasto lì, seduto con le dita unte a guardare la gente, che rigorosamente non mi ha degnato di uno sguardo.

Margini

Né luogo di rinuncia né luogo di eroismo, semplicemente di sosta: ma chi aspetta il bus o esce dal metrò, le gambe stanche dopo una giornata di lavoro, troverà sempre più raramente una panchina. Scompaiono perché sospettate di attirare i «drogati» e i «senza casa». Quando era ministro dell’Interno, Nicolas Sarkozy propose di eliminare le panchine ai piedi degli immobili, mentre il sindaco di Tolosa, la sera, faceva copiosamente innaffiare le panchine per dissuadere i miserabili dal sistemarvisi per la notte. Sopprimere le panchine è diventato un modo politicamente corretto di rimuovere i poveri. Lo scorso novembre, a Roma, mentre si procedeva allo sgombero e alle espulsioni di rom, alcuni lavoratori rumeni, pestati da squadre di neofascisti, venivano intervistati dai telegiornali sullo sfondo di immancabili panchine in giardinetti dimessi di periferia. Negli stessi giorni, a Pordenone, alcuni abitanti coprivano con triangoli acuminati di alluminio le panchine di un quartiere, per impedire non solo di sedersi, ma persino di appoggiarvi cose e oggetti. Per impedire soprattutto i bivacchi che sarebbero avvenuti su quelle panchine. Ho usato apposta la parola spregiativa «bivacco»; se aves19

si scritto «picnic», quell’acuminato impedimento sarebbe sembrato più malevolo e grottesco, eppure è la stessa cosa. Picnic o pranzi al sacco di turisti si vedono spesso, sulle panchine intorno al Castello Sforzesco a Milano o a Castel Sant’Angelo a Roma. Nessuno del resto chiamerebbe extracomunitari una coppia di grassocci statunitensi o di rosei svizzeri, perché extracomunitari sono solo i poveri. O meglio, i poveri sono ormai gli extracomunitari. Clandestini non sul piano geografico, ma ontologico. Che oggi sulle panchine soggiornino gli extracomunitari (qualunque senso abbia questa parola: anche gli anziani sono esclusi dalla comunità dei consumatori), lo confermano le sparizioni e i divieti in alcune città del Nord-Est, ultima delle quali Padova (sindaco Ds): panchine eliminate per scoraggiare la sosta degli indesiderabili. Nel frattempo, già da molti anni è in atto nel nostro e in altri paesi una guerra contro i poveri (non contro la povertà), di cui la rimozione delle panchine è solo un tassello. A parte il fatto che sulle panchine non si siedono solo i barboni ma chiunque, non è pazzesco che si voglia lucidamente impedire ai senza casa di sistemarsi sulle panchine, come se li si punisse di una nefandezza? Mi viene in mente la parodia delle banche in un vecchio film di Benigni: solo se hai già un miliardo ti prestano un milione, come se il verduraio per darti un chilo di melanzane a credito si assicurasse che tu ne abbia già dieci chili. (A proposito: banche e panchine vengono dalla stessa parola, ma questo è un altro discorso.) Forse troppo spesso abbiamo dato per scontate alcune abitudini urbanistiche, cioè politiche. Come l’orario di chiusura di parchi e giardini. Credo risalga a Jack London la prima descrizione del popolo dei senza casa e senza sonno, e la seguente constatazione: «è il potere costituito a vietare che la 20

gente senza fissa dimora dorma di notte». In Il popolo degli abissi London descrive le migrazioni notturne dei miserabili sulle strade di Londra, a cui è vietato riposarsi («ehi tu, fuori dai piedi»). Green Park, scriveva, «gode della reputazione di essere il parco che spalanca per primo i cancelli». Le leggi «prescrivono che questi senza dimora vaghino tutta la notte per le strade della città; dai portoni e dai sottopassi vengono allontanati; dai parchi, vengono chiusi fuori. Ovviamente, tutto ciò ha un unico fine: privarli di ogni possibilità di dormire. Ok: le autorità hanno il potere di privarli del sonno e di qualunque altra cosa. Ma allora perché alle cinque del mattino spalancano i cancelli dei parchi e lasciano che quegli stessi senza casa cui finora hanno proibito di dormire vi sciamino dentro per farsi qualche ora di sonno? Se è davvero intenzione delle autorità impedirgli di dormire, perché glielo permettono dopo le cinque del mattino? E se al contrario non è questa la loro intenzione, perché allora non li lasciano dormire prima delle cinque?». Franco La Cecla (amico antropologo con cui ho condiviso case e panchine) in un suo scritto si soffermava sul nuovo «galateo urbano»: «dormire in pubblico è considerato una pratica non solo oscena, ma soprattutto a rischio dell’incolumità di chi dorme. Nonostante secoli di siesta, di stravaccamenti e di riposo in pubblico. In altre culture e in altre città, specie in quelle asiatiche, ciò sarebbe inconcepibile. Nelle città europee e americane il ‘riposo’ diventa, se esercitato in pubblico, altrettanto osceno di un atto sessuale». A inaugurare in Italia la recente rappresaglia sociale contro il popolo delle panchine fu l’ex sindaco leghista di Treviso, Gentilini, che fece ripulire una piazza da ogni tipo di sedile in funzione anti-immigrati. L’opposizione di sinistra si defilò dalle proteste, non volendo rischiare di cavalcare una 21

rivolta ‘pauperistica’. Ma un gruppo di dissidenti è riuscito tempo dopo a rimettere le panchine al loro posto, con tanto di saldatrice e fiamma ossidrica. Per impedire ai barboni di sedersi a Natale, le panchine furono segate, letteralmente, anche a Trieste, dove però si registrò una protesta tanto inattesa quanto significativa; La città in piazza con i clochard, titolava un articolo di Paolo Rumiz il 9 dicembre 2006: «Stavolta qualcosa s’è rotto. Dopo il primo blitz dei vigili armati di sega, un mese fa, in piazza Venezia, una delle più antiche del centro, è cambiata l’aria. Sul giornale locale sono piovute lettere indignate, piene di parole come ‘rabbia’ e ‘vergogna’. Sono nati movimenti, il tam-tam è cresciuto, anche tra gli anziani della città, utenti consolidati delle panche cittadine. Un’associazione giovanile ha acquistato un sedile nuovo e l’ha cementato sul luogo del ‘delitto’, subendo per ritorsione una denuncia e persino lo sfratto da parte del sindaco. E quando il Comune di centrodestra, senza fare una piega, ha compiuto un secondo blitz in un giardino di periferia, il confronto è diventato guerra aperta». «Come può venire in mente di segare delle panchine?», sbottò lo scrittore triestino Claudio Magris. «Le panchine sono quelle cose dove quasi tutti, grazie a dio, abbiamo passato momenti felici, e non certo in compagnia di assessori o scrittori.» L’attore veneto Marco Paolini esortò i triestini a mettersi sulla schiena un bel numero 13, come i giocatori di calcio d’una volta quando dovevano restare fuori campo come riserve, e aggiunse: «Intorno a noi è pieno di gente pronta a toglierci di sotto il culo la tua panchina gratuita e a offrirci mille alternative a pagamento. Non credo che sia per caso che segano le panchine nelle piazze e ne mettono di nuove nei centri commerciali». E Rumiz: «Stare su quelle panchine di legno rosso era il mio modo di segnare il territorio, 22

di dire: questo luogo è un po’ mio, fa parte della mia Trieste. Sedendomi lì, accanto alla fontana, celebravo la comunità e i valori in cui essa si riconosce. Ribadivo che lo spazio pubblico ha un valore irrinunciabile, specie oggi che tutto diventa privato, anche l’aria». Dalle montagne del Vajont, lo scrittore-boscaiolo Mauro Corona dichiarava di essere esterrefatto: «Segare le panchine è una cosa vergognosa e incivile. Lasciamo stare la vigliaccata contro i barboni. La storia è un’altra: la panchina è anche mia. Io voglio sedermi quando vengo a Trieste». E lo scrittore triestino Pino Roveredo: «Che la gente vada a sedersi anche sul teatro romano, così vediamo se abbattono anche quello». L’articolo riportava anche gli interventi della gente comune: «Se porteremo de casa una panca cole riodele», ci porteremo una panchina con le ruote, proponeva una signora con la sporta della spesa. «Negli altri giardini pubblici, la gente quando vede un vigile si afferra alle panchine, perché non si sa mai», rideva un tipo brizzolato in maglione davanti all’edicola. «In comun i ga la fobia del cul», ghignava una sboccata signora col bastone; «appena uno si siede, gli corrono dietro con la sega». Un altro, azzimato in cravatta, aggiunse saggiamente: «Non sono i barboni che danno fastidio. Siamo noi, perché vogliamo sederci gratis. Senza consumare». Pausa. A proposito del consumare, confesso che nella mia vita ho passato un mucchio di tempo anche ai tavolini di bar e di caffè, alternati allegramente alle panchine. Per questo mi ha colpito molto questo severo e pascaliano brano del filosofo Emmanuel Lévinas: «Il caffè è la casa aperta, al livello della strada, luogo della socialità facile, senza responsabilità reciproca. Si entra senza necessità. Ci si siede senza stanchezza, si beve senza sete. Pur di non restare nella propria 23

stanza. Voi sapete che tutte le disgrazie provengono dalla nostra incapacità di restare soli nella nostra stanza. Il caffè non è un luogo, ma un non-luogo, per una non-società, per una società senza solidarietà, senza domani, senza impegni, senza interessi comuni: società del gioco. [...] Si sta lì, ciascuno al proprio tavolino, vicino alla propria tazza o al proprio bicchiere, ci si rilassa assolutamente, al punto di non sentirsi in obbligo verso niente e nessuno; ed è perché si può andare al caffè a rilassarsi che si sopportano gli orrori e le ingiustizie di un mondo senz’anima. Il mondo come gioco, dal quale ognuno può ritirarsi per esistere solo per se stesso, luogo di dimenticanza – dell’oblio dell’altro – ecco il caffè». Scopo della citazione non era stigmatizzare il bar, ma l’indifferenza, la sazietà, l’uso sterile della noia. Fine della pausa. «Il Piccolo» dell’11 dicembre 2006 riportò la cronaca della manifestazione: «Trieste: corteo fino in piazza Unità per protestare contro il taglio delle panchine. La protesta contro la decisione dell’assessore ai Lavori pubblici si è trasformata in una kermesse popolare che ha visto la partecipazione di Vinicio Capossela». Fu un’allegra festa con musica e canzoni, e cartelli inneggianti alle panchine. Una sagra popolare dell’essere viandanti, di passaggio. Una festa della gratuità e della cittadinanza. Di colpo le panchine, oggetti ignorati dai più, o dati per scontati, al massimo incasellati dagli assessori nel cosiddetto ‘arredo urbano’ di molti municipi italiani, sono diventate oggetti politici, risvegliando l’attenzione della gente. Uscite dalle poesie di Jacques Prévert o dalle ballate di Georges Brassens (maestro di De André), le panchine si rivelano, mentre spariscono, non più solo un decoro degli innamorati, ma valore d’uso per tutti e per ciascuno. Ci si accorge che le pan24

chine sono l’unico posto gratuito delle nostre città, l’unico contrassegno di una cittadinanza che non vuole per forza entrare nei ranghi dei clienti per esistere in pubblico, per continuare a sedersi all’aperto. È proprio vero, come scriveva un altro filosofo, che non c’è niente di meno marginale della questione dei margini.

Modena 1973

Beat

Anni fa c’era una serie televisiva che raccontava di un gruppo di adolescenti, I ragazzi del muretto. Avrebbe anche potuto chiamarsi «i ragazzi della panchina», e sarebbe stato altrettanto universale. Nella mia adolescenza, ritrovarsi con gli amici aveva effettivamente a che fare con delle panchine. Parlo di un’epoca in cui per vedersi non c’era bisogno di telefonarsi. Ci si incontrava e basta, e si sapeva sempre dove. A una certa epoca il luogo di ritrovo era una delle panchine, l’ultima, di un viale alberato dai marciapiedi molto larghi, dove il flusso delle automobili non aveva ancora l’intensità di un’autostrada, le si poteva anche guardare una a una, e commentarle. La gente lo chiama «lo Stradone», anche se il vero nome è più banale, viale Martiri della Libertà, e da un ponte arriva a un casotto giallo che fa ora da rotonda nel traffico, costruito in passato dal mitico architetto Petitot. Una volta era un circolo ricreativo, e quando ero piccolo mio padre suonava lì il pianoforte con gli amici la domenica mattina all’ora dell’aperitivo (io leggevo i miei fumetti). Ma la mia vera educazione alle panchine avvenne nel Parco Ducale di Parma, il «giardino pubblico», come lo chiama 26

la gente. L’iniziazione alla poesia e ai comportamenti trasgressivi avvennero lì. Fu una cosa dolce e forte. Il parco era il mio rifugio, la mia campagna, il mio Aperto Mondo. Non avevo dubbi che le panchine – ma anche i prati e il selciato – fossero i luoghi naturali in cui sedermi. (Stare ai tavolini del chiosco posto al centro del parco era una rarità, insieme al vezzo di prendere, con un amico che disegnava, «un tè all’arancio». Avevamo diciassette anni, ci definivamo «artisti beat».) Non so cosa fosse arrivato prima, se la suggestione e l’ammirazione esteriore per chi si vestiva strano, il sapore acidulo dei joint, la lettura dei poeti beat americani, la seduzione carnale delle ragazze, la spiritualità orientale. Fu un’estensione infinita di scoperte e di esperienze possibili, tutte concatenate, e di cui la scuola e il mondo degli adulti non ci dicevano niente. Leggere le poesie di Allen Ginsberg mi fece nascere allo scrivere – cosa che confusamente volevo fare senza sapere né cosa né come. Ginsberg insegnava che si può scrivere di tutto, e che tutto era degno, anzi ‘santo’: il corpo, il sesso, ogni sensazione e desiderio, e il mondo esterno, niente escluso. Il ritmo delle sue poesie era altrettanto fisico della musica rock e blues, e il suo messaggio di fondo – «allargare l’area della coscienza» – fu tra i primi e più forti orientamenti etici della mia vita. Nessuna avanguardia letteraria europea, tanto meno italiana, sapeva collegare stile in senso letterario e linguistico a uno stile di vita. Ginsberg in una parola era libertà pura, che apriva e faceva respirare ogni poro della pelle e della mente. Eccomi allora seduto sulle panchine del parco, sotto gli ippocastani, oppure lungo il laghetto coi cigni e le anatre, e in mano un libro, e una matita per sottolineare: oltre ai poeti 27

beat, potevano essere il saggio sulla poesia cinese di Ezra Pound (uno dei maestri di Ginsberg), lui stesso traduttore dal cinese senza conoscere il cinese, con Ernest Fenollosa, o I vagabondi del Dharma di Jack Kerouac, o un numero del «Verri», unica rivista italiana istituzionale che della letteratura dava un’idea diversa da quella dei manuali scolastici (anche se alcuni cominciarono a pubblicare negli anni Settanta testi di Pagliarani e Sanguineti). Oppure leggevo con avidità una delle tante piccole riviste dei circuiti alternativi che si stampavano in quegli anni, da «Tam Tam» (diretta da Adriano Spatola e Giulia Niccolai) a «North» – dove scoprii ad esempio Gary Snyder, il suo motto «energia è eterna gioia» mutuato da William Blake (quello stesso Gary Snyder, eroe di Kerouac col nome Jafy Rider, col quale ebbi l’ebbrezza a diciotto anni di leggere poesie in pubblico a Venezia). Poesia sperimentale, si diceva. Per dare l’idea dell’ebbrezza e della tensione che passava nel fare poesia di quegli anni, cito una specie di epigramma datato 17 marzo 1976 di Franco Beltrametti (che come gli altri sarebbe diventato compagno di reading di poesie): Cosa intendi con «non capisco la tua roba»? / Cosa intendi per «capire» qualcosa? / Da dove viene l’arroganza del tuo «capire» – cosa ti fa credere che tutto sia a portata del tuo consumo, a misura del tuo ipotetico appetito? / [...] / Sono contento che «non capisci» – se tu «capissi» mi assalirebbe un dubbio atroce. / Il tuo «non capire» carica di significato anche la più sbandata parentesi aperta (.

Il carattere minoritario di questa vocazione letteraria era tutt’uno col suo fascino, e con la vocazione stessa: scoperta e affermazione della marginalità. Mi piacevano quelli che erano diversi, ribelli nello stile e nell’atteggiamento. Mi pia28

ceva l’innocenza di quella ribellione, la sua carica erotica spesso inconsapevole (oggi so che innocenza, diversità, ribellione e poesia erano, e forse sono, sinonimi o equivalenti dell’erotismo). Sulle panchine del parco, dunque, accanto agli anziani che appoggiavano sul retro le loro biciclette e chiacchieravano in dialetto, cominciò a radunarsi una fauna eteroclita di giovani di varie età, coi capelli lunghi e gli abiti colorati, che fumavano sigarette coniche, ridevano, si sedevano a volte sugli schienali, suonavano la chitarra, si passavano il chilum. A volte ci sedevamo a cerchio su un prato, ma i prati non si potevano calpestare, e i nostri piccoli raduni attiravano le alfaromeo azzurre della polizia (che sui prati ci andavano con le ruote). Conflitti quasi quotidiani. Mi interessano però le panchine della solitudine, della mia formazione, delle mie associazioni mentali, delle mie prime poesie. Frequentavo molto anche quelle di pietra addossate ai muri del Vescovado, nella piazza del Duomo, negli anfratti del Battistero. Seduto su quelle panche, la qualità metafisica di quel vuoto, l’umiltà sublime del romanico, le sfumature di rosa e bianco del marmo mi davano, anche senza conoscere la storia (anche senza conoscere Benedetto Antelami), una strana euforia. Al parco, invece, sognavo a occhi aperti. Credo che senza le panchine, per esempio, non avrei amato e capito Cézanne, di cui mi piacevano i quadri, ma su cui furono illuminanti alcune osservazioni proprio di Allen Ginsberg. Che descriveva l’immobilità del pittore di fronte alla sua ossessiva Montagne Sainte-Victoire come se fosse la postura di uno yogi indiano. Il fatto cioè che lui, Cézanne, inquadrasse il paesaggio della montagna per ore e ore – assorbendolo con un’intensità tale che se solo si scostava di pochi centimetri l’intero paesaggio mutava – aveva qualcosa di mi29

stico. E c’era l’idea che, nella più protesa e oggettiva delle visioni, egli finisse in realtà, e consapevolmente, coll’osservare se stesso, la propria soggettività più fisica e profonda – ragione per la quale, credo, si dice che Cézanne sia il primo cubista, ovvero il primo pittore a dipingere la pittura e l’atto del vedere. Tutte queste cose le pensavo sulla mia panchina del parco senza usare concetti (non mi interessava la ‘cultura’), e le traducevo a mio modo in poesia, guardando gli alberi di fronte e sopra la mia testa, i passanti del vialetto. Ancora adesso, se dovessi pubblicare le mie poesie, il loro titolo complessivo resterebbe quello di allora, Parco centrale. Anche se prima di tutto sono poesie scritte su una panchina: sopra la strada nella linea retta si vedono le cupole verdi degli alberi con le foglie si intrecciano gli alberi fra di loro e i rami di diversi alberi le foglie di diversi rami che si mettono insieme si riempiono gli spazi come foglie dello stesso ramo come rami che appartengono allo stesso tronco si intrecciano in senso orizzontale possono essere uno davanti e uno dietro raramente uno più alto e uno più basso sono uno di fianco all’altro si riempiono a vicenda gli spazi vuoti con i rami con le foglie non dello stesso albero sopra la linea di demarcazione

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della strada proprio di fronte davanti agli occhi alberi diversi formano alberi uguali si intrecciano in senso orizzontale eliminate le petites sensations e i bambini col gelato resta il dettaglio più importante: la contemplazione delle tue stesse pupille contemplate attraverso le tue stesse pupille proprio come Cézanne.

Zattere

C’è un altro episodio della mia formazione, legato al parco e alle panchine, che devo assolutamente raccontare. È la storia di una scoperta casuale che ha del miracoloso. Almeno per me. Non ero nel Parco Ducale, ma in un altro più sportivo, detto «la Cittadella». In basso c’erano campi da calcio, in alto, sui cosiddetti «Bastioni», c’erano altri prati appartati, con e senza panchine. In uno di questi mi trovavo a oziare intensamente con una ragazza e, dietro una panchina, seminascosti da un cespuglio, trovai dei fogli laceri. Erano pagine strappate e squadernate di un libro senza copertina, senza in realtà nessuna indicazione che rinviasse a una fonte o a un significato. Mi misi a leggerle. Fu uno shock, ma meraviglioso. Non solo capivo quelle strane frasi, ma mi sentii profondamente capito da esse. ... O Sariputra, qui la forma è vuoto, e il vuoto è forma; la forma non è altro che vuoto, e il vuoto non è altro che forma... ... O Sariputra, ogni cosa qui è caratterizzata dal vuoto; non è nata e non è distrutta; non è contaminata e non è pura; non aumenta e non diminuisce...

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Il testo continuava negando uno a uno l’esistenza effettiva dei cinque sensi, negando infine la mente. Era lo stile logico di quelle frasi, così vicino alle poesie che mi piacevano, a darmi un senso di evidenza e di beatitudine. Effetto purificatorio del dissolvimento dei vincoli logici e concettuali, come l’immagine, forse provenzale, della ninfa che «si veste di ciò che la denuda». Gli altri fogli erano in uno stile diverso: una prosa che si dispiegava in triplici negazioni, finché la quarta frase di ogni periodo affermava quanto si era prima negato. Del tipo (invento): non c’è poesia, non c’è nessuna poesia, non c’è niente che si possa chiamare poesia, per questo possiamo ora dire che c’è poesia. Molto tempo dopo capii che il secondo testo in qualche modo illustrava il primo, e che le negazioni di ciò che si afferma alla fine significa che ogni fenomeno, ogni cosa presa in esame, doveva essere annullata come oggetto della mente, come concetto, prima di poter essere accolta come cosa nuova, con nuova freschezza – dopo avere cioè trasformato i meccanismi della nostra ‘comprensione’ in qualcosa per così dire di più ingenuo, in realtà di molto più vigile e attento. Molti anni dopo, insomma, seppi che quei frammenti di testi erano rispettivamente il Sutra del Cuore e il Sutra del Diamante, due dei testi più antichi della tradizione buddhista e zen. Per quanto riguarda il «Sutra del Diamante che recide l’illusione», i suoi insegnamenti, poiché di insegnamenti si tratta, così vengono grossomodo presentati: «tutti gli insegnamenti che vi dò non sono altro che una zattera. Tutti gli insegnamenti devono essere abbandonati, per non parlare dei non-insegnamenti». Chi parla così è Buddha, il Tathagata (colui che viene e che va), cioè «colui che non viene da nessun luogo e non va in nessun luogo, e che proprio per questo 33

viene chiamato Tathagata». L’insegnamento, dice, genera virtù e felicità, ma chi lo apprende non è catturato da virtù e felicità, né conosce qualcosa che si chiami virtù e felicità, ecc. Non ci sono panchine, non c’è nessuna panchina, non c’è niente che si possa chiamare panchina, per questo ora possiamo parlare di panchine. È chiaro che l’oggetto che ritorna (rinviene, risuscita) è un altro rispetto a quelli che sono stati spazzati via dal repulisti della mente, delle sue passioni e dei suoi pregiudizi. Quanto al Sutra del Cuore (Hannya Shingyo o, in sanscrito, Prajnaparamitahridaya), che nelle sedute di meditazione dei monasteri zen, e in tutti i luoghi di pratica, viene intonato a voce alta e ritmato dal respiro, è di una tale nudità e bellezza che mi rimase addosso per anni prima di scoprirne la fonte. Ma in questo caso fu uno scherzo del destino, visto che la pratica a cui corrisponde divenne ed è tuttora la mia, pur da eterno principiante. D’altronde lo Zen si pratica in zazen, cioè stando «semplicemente seduti» (shikantaza) di fronte a un muro bianco (ma si può fare evidentemente ovunque), testa verso l’alto, ginocchia verso il basso, gli occhi che guardano senza catturare nulla, pura contemplazione, pensieri che scorrono come nuvole in cielo – e viceversa. Sedersi, sedersi su una panchina, ne è insieme preludio e prosecuzione. Fin dalla prima volta che li lessi, quei testi mi diedero la stessa emozione che imparai a ricevere da certi testi della letteratura, per esempio le poesie di Corrado Costa, ma soprattutto l’opera folgorante di Samuel Beckett (grande frequentatore di panchine), e il suo tentativo, a volte spasmodico, altre umoristico, di decostruire e ricostruire nella lingua una grammatica dell’ineffabile, che è sempre un voler dire, e prendere, il presente. Teologia apofatica, o negativa, come scoprii che si dice studiando filosofia (e in particolare Jacques Derrida). 34

Quei testi strani e laceri, quei testi senza corpo apparente, dimenticati e ricordati di continuo, sono stati la pietra miliare e il punto di riferimento di molte mie scelte future: un’etica e una poetica della non-ideologia, dell’apertura, del far coincidere sempre e in ogni campo l’immanente e il trascendente. Ma allora, in quel mattino estivo di metà anni Settanta, cosa ci facevano quei fogli sulla panchina di un parco? Era un atto di bookcrossing buddhista ante litteram? Prima di allora avevo letto soltanto Beat, Zen & altri saggi di Alan Watts – e ricordo che mentre lo leggevo mi ero tagliato le unghie dei piedi, e scambiai quella sensazione di pigro e rilassato benessere col cosiddetto satori. Perché (domanda inevitabile) dovevo trovarli proprio io? Non è solo perché ho conosciuto i Sutra su una panchina, che ne parlo. Qualche nesso invisibile deve esserci se, dopo le esperienze che sto raccontando, io mi trovo qui, alle soglie della maturità, a scrivere un libro sulle panchine. Forse le panchine non esistono, forse sono solo zattere. Adesso mi viene in mente che le mie poesie avevano questo esergo: Diciamo «c’è un albero», ma non vediamo realmente l’albero.

Che cosa è il lusso

Se la panchina rischia l’estinzione è perché è considerata pericolosa. È considerata pericolosa per la sua casualità e gratuità, che urta contro le norme della circolazione e quelle del controllo sociale. Eppure l’urbanista Mike Davis ricordava come la qualità di un ambiente urbano si misuri prima di tutto con la presenza di posti in cui i passanti possano sedersi comodamente. In La città di quarzo. Indagine sul futuro a Los Angeles, Davis racconta come quel principio fosse stato accettato con entusiasmo dai designer dell’area direzionale di Bunker Hill e del nuovo villaggio urbano di South Park, dove i progettisti sognavano «un opulento complesso fatto di piazze, di fontane, di public art di livello internazionale, di giardini esotici e di arredamenti d’avanguardia. […] Per i propagandisti ufficiali dell’operazione non c’è nulla che dia la misura della vivibilità come la visione idilliaca di impiegati e turisti di lusso che fanno uno spuntino o che si riposano nei giardini pensili del California Plaza o del Grand Hope Park. In netto contrasto con tutto questo, a pochi isolati di distanza la città era impegnata in una battaglia senza pietà per rendere le strutture e gli spazi pubblici il più possibile invivibili per i senzatetto e i poveri. [...] Uno dei più comuni, e demenziali, di questi deter36

renti sono le panchine da fermata d’autobus a forma di botte (con la parte convessa come sedile) che offrono una superficie minima per sedersi scomodamente, ma che rendono assolutamente impossibile dormirci sopra». Le frasi di Mike Davis trovano conferma nelle nostre quotidiane esperienze, compresi i pannelli espositivi di progetti di ristrutturazione di piazze pubbliche, che mostrano sul disegno quelle panchine e quella vivibilità che si negano generalmente nella realizzazione finale del progetto. Eppure molte associazioni, in Francia e in Svizzera, esortano a costruire sul modello americano dei pocket garden, giardini tascabili provvisti di panchine, anche tra i grattacieli, per attenuare l’isolamento di quanti, anziani o invalidi, non possono altrimenti allontanarsi da casa*. L’architetto ‘nomade’ Francesco Careri mi ha messo a contatto con due suoi colleghi francesi protagonisti di una bellissima storia. Accade a Bordeaux nel 1996. Il sindaco della città aveva già ordinato il rifacimento per «abbellire» una piazza importante – nuovo design urbano, nuova pavimentazione, nuove fontane e così via. Altre sei piazze dovevano proseguire l’opera di ‘abbellimento’, ognuna affidata a diversi architetti. Anne Lacaton e Jean-Philippe Vassal dovevano occuparsi di una piazza piccola e defilata, non prestigiosa, place Léon Aucoc. La studiarono, e subito risentirono un’atmosfera molto bella e piacevole: alberi, gente, panchine. Osservandone la vita, si interrogarono sul significato di «abbellire». Gli alberi si abbelliscono? Le persone si abbelliscono? E così via. Scoprirono che la piazza era già bella così com’era. Tutto era bello così com’era, compresi i lampioni e le panchine. I due architetti firmarono così il loro progetto: non era necessario * Si veda il sito francese http://www.lesbancspubliques.fr.

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nessun abbellimento per qualcosa che era già bello. Il loro lavoro fu di non far fare niente. Ma era un progetto, non un rifiuto. Poiché rientra nella formazione, nella cultura e nell’educazione degli architetti che tutto deve essere cambiato e rifatto, la storia ha un’importanza esemplare. L’idea di fondo è che le cose che esistono hanno valore, e bisogna continuare a farne uso. È sufficiente una buona manutenzione. Non fu loro facile comunicare quel progetto: la committenza insisteva nel cambiare almeno le panchine e l’illuminazione, gli architetti risposero che non aveva senso scegliere nuove panchine su un catalogo, quelle esistenti andavano benissimo e non erano consumate, né lo erano i lampioni. Anche l’arte contemporanea si fa portatrice della poeticità, della gratuità e dell’umanità delle panchine. D’altronde l’arte porta da sempre l’attenzione sulle soglie, sulla frontiera tra l’interno e l’esterno dell’abitare, che la panchina incarna così bene. Citavo prima Enzo Cucchi, che nella vita ama sedersi sulle panchine. Del grande Constantin Brancusi esiste, nel parco di Targu Jiu, in Romania, la Mensa del silenzio, con sedili e panchine. George Segal ha riprodotto panchine urbane nelle sue famose sculture di gesso. Penso anche alle sculture abitabili di Kan Yasuda, giapponese di Pietrasanta, le cui nuvole di marmo o bronzo, le sue panche quasi extraterrestri, sono amate dai bambini ogni volta che vengono esposte in pubblico perché sono un invito esplicito a toccarle, a sedercisi, e addirittura a coricarcisi (lo abbiamo fatto insieme, l’artista e io, in occasione della sua mostra al Mercato di Traiano a Roma): sculture da vivere con il corpo, che invitano all’abbandono. Forse, come suggerisce implicitamente l’artista Alberto Garutti, il bisogno delle opere di uscire dallo spazio dei musei (un movimento simmetricamente opposto a quello inau38

gurato da Marcel Duchamp, e che forse riprende – fuori dalla tela – quel portare per strada oggetti di arredo avviato dai quadri di De Chirico) si incontra spontaneamente con le panchine. C’è la panchina monumentale che Massimo Bertolini ha installato sulla piazza della fiera di Basilea, sormontata dall’immensa A di anarchia, e la panchina portatrice dei sussurri e le frasi degli innamorati che Christian Boltanski ha posto in un parco del XIII arrondissement di Parigi. Ci sono le panchine luminose e fosforescenti dello stesso Garutti – ma tutto il suo lavoro è rivolto alle connessioni col «là fuori» in dialogo con l’architettura, a una definizione poetica dell’abitare che ci risveglia l’attenzione al mondo esterno. «Le panchine mi ispirano un’idea bellissima di ospitalità e di accoglienza», mi ha detto Alberto Garutti. «Mi ci siedo spesso, quando sono tranquillo. Anche dormire sulle panchine è bello, suggerisce una dimensione di libertà e, pensando a giardini, dà l’idea di un addomesticare la natura in senso buono, di un’apertura, un inventare la vita. Le panchine contengono poi l’idea dello stare insieme, per esempio una promessa di conversazione con persone che non conosciamo e non prevediamo. Per questo le nuove panchine monoposto, ad esempio, sono un terribile errore. Del resto, non sono mai d’accordo con quello che vedo in giro». Del resto, abbiamo concluso, se una cosa ci piace possiamo stare sicuri che prima o poi ce la toglieranno. Esposizioni e installazioni di opere site specific vengono promosse un po’ dappertutto, e le panchine, di diversi materiali, sono i soggetti (e gli oggetti) più realizzati dagli artisti. Da Fanano a Velletri, da Pontedera a Verona, dove nel 2006 furono realizzate sette «panchine d’autore per sguardi d’amore», cui partecipò con una panchina che si affaccia su un fiume anche Garutti. Ma è proprio la museificazione delle panchine a preoccuparmi maggiormente sulla loro estinzio39

ne. Come se il loro destino e la loro sopravvivenza fossero quelli di oggetti speciali, separati dall’uso, da guardare e basta. Così, ogni città e provincia ha le sue panchine speciali – compresa quella di legno dove a Torino, oltre un secolo fa, fu fondata la Juventus, in corso Re Umberto. A Bagnocavallo, nell’Orto dei Semplici, per il centenario di Leo Longanesi, che lì era nato, due anni fa hanno realizzato il «Giardino degli Aforismi»: dieci panchine liberty in ferro battuto disegnate appositamente, con sopra incisi, in targhe in ottone, degli aforismi d’epoca di Longanesi. Anche a Merano, lungo la Passeggiata sul Passirio, ci sono panchine che portano incise sul legno citazioni di poeti, scrittori, filosofi (Shakespeare, Ezra Pound, Nietzsche e altri ancora). Succede così di fermarsi, di leggere e, se ci si riesce, di tradurre. Ma ci si dimentica di sedersi. A dimostrare che le panchine possono essere fatte anche per i ricchi, ma spesso nella forma di simulacri di esperienza, a Sils-Maria, in Engadina, gli epigoni dello Zarathustra di Nietzsche possono prenotarsi una panchina panoramica e fare incidere sul legno le parole più gradite, al prezzo (alcuni anni fa) di 2500 franchi svizzeri. Un’iniziativa nata dall’ufficio del turismo che sta devastando il paesaggio con una proliferazione, questa sì in controtendenza, di panchine. Nel gennaio di quest’anno sono tornato, dopo molti anni, a Gstaad, lussuoso centro di vacanze invernali nell’Oberland bernese. È una Cortina più internazionale – James Bond vi ha passato alcune avventure – ma negli ultimi anni anche la coppia Boldi-De Sica vi ha trascorso una loro saga natalizia. Ero lì per qualche giorno di vacanza con mio figlio, entrambi ospiti. Lui è un appassionato sciatore, io mi sono riposato da mesi e mesi di città. Il panorama delle cime di tremila metri è incantevole, e 40

d’inverno gli alberi cristallizzati, sculture bianche su fondo bianco, anche per chi non scia valgono la fatica di una seggiovia e di una camminata nella neve. Tutt’intorno vi sono strati di chalet di legno scuro, e la notte i triangoli di luci, cioè le linee luminose che ne delimitano i tetti, sembrano un’immensa installazione d’arte. A pochi chilometri c’è lo chalet in cui viveva il pittore Balthus. Non è male, nonostante i negozi di moda, le griffes, le automobili esageratamente lussuose, la ricchezza che trasuda dalla gente. Ci sono panchine di legno disposte un po’ dappertutto, ma è come se fossero panchine di un club privato: tu paghi l’accesso, poi se vuoi ti siedi anche per terra. Mio figlio, che come tutti gli adolescenti è in balìa dei modelli di vita che si trova intorno, lusso compreso, trova Gstaad ‘magica’, e non si pone nessuno dei miei problemi. Cerco di imparare da lui a vincere i miei pregiudizi, ma non è facile. Eppure lui sa che su una panchina al sole con vista sui monti si sta altrettanto bene che sulla terrazza del suo magico Palace Hotel, sorta di castello torrito color crema che domina il colle chiamato Oberbort. Che cosa è il lusso? Ho parlato a mio figlio di Ravello. Scoprii Ravello, paesino arrampicato sopra la costiera di Amalfi, e la sua incredibile, abitabile bellezza, verso la fine degli anni Ottanta. Ero fresco di laurea e non avevo una lira, ma dal lusso naturale del luogo non mi sono mai sentito respinto, né tanto meno estraneo. Per chi non la conoscesse, Ravello è una sintesi di classicità greco-romana e stile arabonormanno, dove Wagner trasse ispirazione per il Parsifal, poiché nell’esotico giardino di Villa Rufolo vide tradotto il giardino incantato di Klingsor. Ravello è luogo di visitatori e abitatori incantati, da Ibsen ad Adorno a Gore Vidal. Vi restai per un periodo a scrivere un racconto, alternato alla lettura della Divina Commedia, note comprese, in vista di 41

un concorso per diventare insegnante di Lettere alle superiori (non sapendo come prepararmi, leggevo e rileggevo Dante). Interrompevo le attività sedentarie con passeggiate lungo i sentieri costeggiati da muretti a secco che delimitano orti e distese terrazzate di limoni, vigne e ulivi. All’orizzonte, da qualsiasi parte, il blu del mare. Panchine e muretti. La soavità fuori stagione mi faceva oscillare senza soluzione di continuità tra sensazioni ispirate a Virgilio, al Cantico delle creature di san Francesco e alle novelle del Decameron, senza che sapessi che a Ravello erano pervenuti, nella lunga schiera di vagabondi di ogni epoca, sia Boccaccio che il santo di Assisi (e Pier Paolo Pasolini, che vi girò il suo Decameron). Per molte ragioni, compresa naturalmente l’influenza di Villa Cimbrone e la sua «terrazza dell’infinito», il racconto che scrissi fu pubblicato all’inizio col titolo L’infinito di Dante. È la storia, realistica e paradossale, di un fotografo cieco. Quanto a un possibile «Paradiso» di Leopardi, il personaggio del racconto aveva pure qualcosa da dire. Ravello, spiego a mio figlio, è agli antipodi dalla Costa Smeralda, così come i suoi bar e ristoranti sono all’opposto del «Billionaire» di Briatore, almeno quanto un film di Peter Greenaway lo è da un film con Massimo Boldi. Lusso è qui la fruizione di cose rare come il silenzio, il tempo, lo spazio, la bellezza. Otium. Va da sé che quel lusso lo provai seduto sui muretti e le panchine tanto quanto al tavolo della sala da pranzo dell’Hotel Palumbo con lo scomparso signor Vuilleumier, il proprietario. Intanto mio figlio scia là in alto, sulle cime. Il cielo è azzurro, io sono sulla neve al sole, non faccio nulla. L’ho detto al telefono a Stefania, restando seduto sulla panchina. Mi ha risposto: le tue parole sono quasi un haiku, qualcosa hai fatto. 42

Infinito

Scrivendo questo libro, atterrito dal fatto che la materia si svelasse inconsistente, mi accorgevo che l’idea delle panchine contaminava tutte le mie esperienze. Non metaforicamente, ma alla lettera. Per esempio, le panchine rimandano allo stare seduti: che cosa è sedersi? Quanta parte della vita avviene da seduti? Quanti sinonimi di panchine esistono nella nostra vita quotidiana, nei nostri atti, che ci passano inosservati? Non siamo su una specie di panchina anche quando siamo al cinema o a teatro, per non dire in una chiesa? A definire le panchine, tuttavia, non è solo il sedersi, ma un certo tipo di sedersi, un certo uso, non solo e non tanto del proprio corpo quanto del proprio tempo, e della propria mente. Lasciare libera la mente di vagare, divagare. Passeggiare da fermi. «Trasognamento»: ero molto fiero di avere tradotto con questa parola il francese rêverie, che dà il titolo all’opera postuma di Jean-Jacques Rousseau, Les rêveries du promeneur solitaire. Di solito veniva tradotta con due parole non solo cacofoniche – «fantasticherie» del «passeggiatore» (solitario) – ma anche sbagliate. Fantasticare è un atto più volontario di quello che intende la parola rêverie, che contiene il sognare: essere, appunto, trasognati. 43

[Coincidenza: proprio mentre stavo scrivendo queste frasi, cercando dei riferimenti in Internet, m’imbatto nel sito bookcrossing.com dove scopro che una lettrice (tale afrodita da Torino) ha «rilasciato» sulle panchine di piazza Castello a Torino, davanti alle fontane, una copia di «Jean-Jacques Rousseau, Le passeggiate del sognatore solitario, Feltrinelli, traduzione e cura di Beppe Sebaste», di cui erano riportate alcune frasi della quarta di copertina («l’opera più perturbante, più innovativa, più sperimentale e, infine, più gratuita – nel senso della grazia e del dono, se già non sono sinonimi – di Jean-Jacques Rousseau», «autentico romanzo di ‘ecologia della mente’ che trasforma il disagio del vivere in estasi e il tormentato groviglio delle emozioni in musicalità della prosa»). L’intestazione in alto del sito di bookcrossing segnala: donatore solitario.] Le passeggiate di Rousseau sono un elogio del contemplare, del sentire lo scorrere del tempo, del godimento che si prova a non agire, del senso di pace e di comunione col mondo; dove per la prima volta, a proposito delle sensazioni che se ne traggono, e del paesaggio creato non solo dallo sguardo ma anche dalla disposizione della mente, appare l’aggettivo «romantico». Molte fotografie di Luigi Ghirri, maestro del guardare e dell’abitare i luoghi, senza nessunissima enfasi mi davano lo stesso effetto, oltre che degli occhi per guardare il mondo. Sedersi, stare seduti. Semplicemente sedere. Il lessico del buddhismo zen mi viene di nuovo in soccorso. Stare semplicemente seduti, dicevo, si esegue in zazen, la meditazione. Il già citato shikantaza è un termine composto da quattro ideogrammi, ma shikan e taza si possono isolare: shikan vuol dire «semplicemente», «intensamente», «senza oggetto»; taza vuol dire «essere seduti». Essere seduti intensamente, osser44

vando senza oggetto. Senza scopo, così come crescono l’erba e gli alberi, da soli. Attraverso shikantaza, spiegano i Maestri, le illusioni e i desideri vengono mitigati e via via eliminati; si può anche shikan-camminare, shikan-mangiare, e così via, in ogni azione della vita quotidiana, superando l’illusione soggettiva. Come poi tutto questo si possa armonizzare senza conflitti con lo scrivere, col rendere traccia e testimonianza, è il grande dilemma del sottoscritto. «Ma sedendo e mirando, interminati / spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi, e profondissima quiete...». Questo è Leopardi, L’infinito. Uno che scrive. Una volta portai quel sublime sonetto al monastero zen, e lo lessi di fronte al maestro. Da allora so che lo recita spesso ai discepoli, e sono abbastanza sicuro che lo faccia a memoria (come fa con la poesia sul mare di Eduardo de Filippo, e quella sul silenzio di Raffaello Baldini). L’infinito è il più bel testo letterario dedicato al «qui e ora» (questo colle, questa siepe, queste piante, questa voce, questa immensità, questo mare), e nello stesso tempo all’oltre, al sogno, all’evasione dall’essere, all’infinito appunto. «Infinito silenzio»: dirlo nella sua impossibilità di dirlo. Un dire che illustra il carattere onnicomprensivo e sincronico della meditazione. Poiché l’infinito è il desiderio, ed entrambi sono incolmabili, col loro vuoto si può però stringere un patto, dolce come il naufragare, cioè un abbandonarsi. Immersi nel processo del nascere e del morire. «Quando trovi il tuo posto lì dove sei, la pratica avviene». Questo è Dogen il patriarca, fondatore del So¯to Zen nel XIII secolo. Sedersi, nello Zen, è già satori, illuminazione. Nessun finalismo, pura gratuità. Stare semplicemente seduti, preferibilmente di fronte a un muro bianco e screpolato, le mani sul grembo, la schiena diritta, gli occhi aperti ma umilmente spioventi. Perché un muro bianco, una parete, una siepe, è 45

già l’infinito, insegna Leopardi nel suo canto. Ma anche ogni infinito, ogni spazio è un muro o una siepe. E quindi, perché non una panchina in un parco, sul ciglio di una strada, di fronte al mare o al vuoto. Una panchina, ovunque si trovi, è il luogo ideale della pratica, cioè dell’illuminazione. Anche quella nel cortile interno al mio condominio che il meraviglioso portiere Carmine, sorta di ‘Chance il giardiniere’, ha posto per chi la sa vedere (per chi si sa sedere). Anche lo Zarathustra di Nietzsche non ci sarebbe stato senza una panchina: di fronte al lago di Sils-Maria il filosofo stava infatti «seduto ad attendere / attendere ma senza attendersi nulla / al di là del bene e del male». In uno dei suoi ultimi libri, Le lune di Hvar, Lalla Romano parla di «panchine estreme». Una di esse, durante un soggiorno in Croazia, è quella che raggiungeva ogni giorno in fondo alla passeggiata lungo il mare, per restare lì, in contemplazione. «Contemplazione», parola che ho così spesso evocato in questo libro, significa precisamente «fondare il proprio tempio». L’invisibile lavoro dello stare su una panchina è a volte quello di fondare o rifondare il proprio tempio – un po’ come nella religione ebraica la festa della capanne, che ricorda l’esodo, quando il proprio tempio veniva portato con sé, lungo la propria erranza. Che altro è quel tempo (e tempio) apparentemente perduto della panchina, tempo del lavoro invisibile – elaborazione, affezione, intensità – che Octavio Paz descriveva ad esempio nel suo ritratto di Marcel Duchamp, che durante le sue interminabili partite a scacchi elaborava silenziosamente il proprio lavoro estetico? Dal punto in cui Giacomo Leopardi galleggiava nell’infinito, nel 1819, oltre quella siepe si vedono, in fondo all’orizzonte, le cime innevate dei monti Sibillini. A sinistra della grande vallata si vede il mare. Lo so perché l’ho visto. Ora al 46

posto della siepe c’è un muretto, e una lapide a ricordarla. E di fronte al muretto c’è una panchina dove ci si può sedere a sognare o a contemplare. È nel giardino di un convento di suore, attiguo a una scuola superiore di Recanati. Mi sono seduto su quella panchina. Quando sono uscito, qualcuno mi ha rivolto la parola: credeva che fossi il nuovo insegnante di religione. È una sorta di malinconico, nostalgico infinito anche la Saudade, evocata da Antonio Tabucchi nel suo I volatili del Beato Angelico: «Il comune di Lisbona ha da sempre messo delle panchine pubbliche in alcune zone della città: i moli del porto, i belvedere, i giardini da cui si domina il mare. Sono molti coloro che vanno a sedersi lì. Tacciono, con lo sguardo perso in lontananza. Cosa fanno? Praticano la ‘Saudade’. Cercate di imitarli. Certo, è un cammino arduo, le sensazioni non sono immediate, talvolta l’attesa dura persino degli anni. Ma, lo sappiamo, la morte è fatta anche di questo».

Luogo comune

Nei primi anni Novanta, grazie alla piccola notorietà che mi aveva dato la pubblicazione dei miei primi racconti da Feltrinelli, per un periodo tenni sulla «Gazzetta di Parma» una specie di seminario pubblico in forma di rubrica, dal titolo Luogo comune. Il primo pezzo, dal titolo Abitare, verbo di moto a luogo, prese le mosse proprio dalla panchine del Parco Ducale, e dagli immigrati che allora – pochi e quasi tutti africani – erano l’unica speranza di colori e di etnie nell’omologazione grigiastra delle città. Del resto, mi trovavo ad abitare a Parma dopo una lunghissima assenza. Raccontavo una passeggiata nel parco dopo alcuni giorni di pioggia settembrina, a un’ora insolita e piacevole, quella del torpore del dopopranzo domenicale. Nel parco c’era un’altra pioggia, quella delle foglie gialle degli ippocastani che danzavano sui vialetti e sull’erba, e la musica del vento che attraversava i rami ancora carichi, al ritmo delle castagne che cadevano a terra scoppiettando. Profumo, e prati di un verde intenso, come nelle favole. Osservavo come anche la popolazione del parco, quel giorno, avesse per me qualcosa di inedito, di cui mi resi conto meglio sedendomi su una panchina. Poco lontano da me, sparsi sui prati, c’erano alcuni 48

gruppi di africani che si riposavano con le loro scarpe ammaccate. I loro profili scuri erano coperti da abiti variopinti che risaltavano sullo smeraldo dell’erba. A quell’ora, nel parco, c’eravamo solo loro e io a tenere viva la cultura e la pratica dell’ozio. E mi venne in mente quella volta a Milano, d’inverno, in una pausa di lavoro, in un luogo di sosta che nell’articolo raccontavo così. Mi ero seduto su una panchina della piazzetta di fianco alla Chiesa di San Simpliciano, zona elegantemente residenziale tra via Solferino e corso Garibaldi. Vicino a me un gruppo di maghrebini stavano accoccolati su altre panchine e sul cordolo di granito che cingeva l’aiuola di terra, senz’erba né fiori. Si apprestavano a consumare il loro pasto delle quattro pomeridiane: bottiglie di succo di frutta, e bisacce da cui estraevano pane, formaggio, scatole di sardine e cartocci di latte. Osservai il gesto accurato con cui uno di essi faceva colare l’olio delle sardine in un filone di pane aperto in mezzo. Intorno al loro ristoro si spandeva un piacevole silenzio, che mi faceva sentire del tutto a mio agio. Sotto il cielo incolore di Milano, la mia sosta casuale divenne autentico riposo grazie agli emigrati maghrebini, e dentro di me li ringraziai della loro presenza. L’ozio – ricordavo nel mio articolo – è resistenza culturale al neg-ozio, come scriveva già Francesco Petrarca nel suo bellissimo De vita solitaria. Presi spunto da quegli aneddoti per dedicare l’articolo al tema dell’abitare. Innanzitutto, che cosa significa questa parola? Avere un indirizzo, per esempio, cui ricevere la posta, e qualche visita? Avere abitudini quotidiane? Quel verbo così unanime e radicale, e così ‘evidente’, mi sembrava racchiudesse un mistero. Se ne parlava troppo in astratto, e che fosse diventato ormai quasi un verbo intransitivo mi appariva manifestamente assurdo. Anche i filosofi, ricordavo, Heideg49

ger soprattutto, ne parlano intransitivamente, come equivalente dell’essere. Così però si perde qualcosa. Si abitano dei luoghi, e possibilmente insieme ad altri. Se ne hanno delle sensazioni, anzi dei sentimenti. A volte di ‘appartenenza’. L’accordo, la consonanza dei sentimenti degli abitatori tra di loro, e col luogo che essi abitano, è il cuore stesso dell’abitare. Ed è di una ricchezza inaudita o inascoltata. Scrissi: siamo ciechi e sordi all’abitare, a ciò che il poeta Rilke poneva al centro del sentimento lirico nelle sue Lettere a un giovane poeta: non accusate la vostra vita quotidiana di essere povera, rimproverate voi stesso di non essere abbastanza poeta da richiamare a voi le sue ricchezze. Ed è anche il cuore – l’abitare quotidiano, con le sue innumerevoli esperienze fatte di gesti, voci, consapevolezze – delle filosofie e delle pratiche imperniate sulla ricerca della saggezza. È importante quindi la consapevolezza del dove e come si abita, la cui risposta è una ricerca inesauribile. Da lì sviluppavo un altro pensiero, quello dell’ospitalità, per gli immigrati e i rifugiati politici (c’era in quel periodo il terribile assedio a Sarajevo). Citavo la vecchia e ambigua «Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino»: dovrebbe bastare essere uomini per essere cittadini, ma non è mai stato così. Credo di non essermi granché evoluto rispetto a quelle frasi forse ingenue. So sempre di meno che cosa sia abitare, anche se nel frattempo ho cambiato già troppe abitazioni, ogni volta illudendomi di essere arrivato ‘a casa’. Itaca è un luogo di sosta come un altro, prima di un nuovo viaggio, e il mistero dell’abitare è tutt’uno col mio vizio di raccontare delle storie, se non un sinonimo. Nel frattempo sono arrivato alla conclusione che siamo tutti, più o meno consapevolmente, dei rifugiati politici. 50

Nella primavera del 2007, pur abitando a Roma, accettai dietro insistenze di amici di candidarmi in una lista alle elezioni comunali di Parma. L’idea era di dare una mano a sostegno di un candidato sindaco alternativo al delfino di colui che aveva già amministrato Parma per due mandati consecutivi, all’insegna dello slogan «Parma città cantiere». In una lettera aperta scrissi che Parma, con le sue presunzioni di metropolitana e le sue grandi opere (alcuni «ponti», ad esempio, inutili e pomposi), col suo consumismo opulento e sazio era ormai diventata un «cantiere» non solo della speculazione edilizia (banche e costruttori hanno rimpiazzato l’industria agroalimentare), ma anche della noia e dell’anestesia, dell’ottundimento psichico, e di quella che un sociologo ha chiamato «vetrinizzazione sociale». Scrissi di vedere i parmigiani passivi come spettatori televisivi, ipnotizzati da un’ideologia del successo (quella del sindaco, ad esempio, e della sua retorica), e contenti di essere invitati a un banchetto anche se magari nel ruolo di panettoni più che di commensali. Facevo l’elenco delle bruttezze realizzate, come certe folkloristiche sculture messe qui e là, in piazze e angoli di Parma (il famoso «arredo urbano», intercambiabile con vasi di fiori), auspicando viceversa una partecipazione collettiva di artisti e cittadini alla realizzazione e «situazione» di opere pubbliche. Opere, come si dice, partecipate. Esprimevo infine nostalgia di una sinistra che una volta era vincente, nella società e nella cultura, anche senza essere per forza «di governo»; una sinistra capace di connettersi con la vita delle persone, gli ideali e i valori, di guidare la cultura ma soprattutto farsi guidare dalla cultura, sapendo che la cultura è soprattutto la vita delle persone, il loro immaginario e la loro socialità. Fui attaccato oltre misura dal potente apparato del sindaco, e perfino additato per strada. Scriveva lo psicoanalista 51

James Hillman che se i cittadini fossero consapevoli della loro fame di bellezza scenderebbero a protestare per le strade. Il problema è come farglielo sapere, cioè l’educazione. Le elezioni a Parma furono un disastro per la mia parte politica, su cui gravava il dubbio esempio del governo nazionale, e le mie peggiori previsioni confermate. La sostituzione della socialità con le vetrine e i centri commerciali continua. Le panchine, se esistono, sono soste commerciali (come in molte altre città), e sono diminuite nettamente anche nel Parco, che nel frattempo, dopo un restauro milionario, è diventato un Giardino. Sono molte ormai le città in cui i cittadini, per esistere socialmente, devono trasformarsi in clienti e consumatori – e tanto peggio se si mangia senza fame e si beve senza sete. È per avere detto che la desocializzazione a Parma è iniziata simbolicamente con l’occupazione dei gradini del monumento a Garibaldi, nell’omonima piazza, con fioriere per impedire alla gente di sedersi, che il sottoscritto ha ricevuto insulti e annunci di querela: una da parte del sindaco uscente, una da parte del sindaco entrante (già delfino del sindaco uscente). Fu detto che su quei gradini si sedevano i drogati. Io mi sedevo anche con mio padre. E si sedevano altri signori anziani col cappello, che assicuravano e tramandavano la memoria e il tessuto connettivo in quella città. Si sedevano vecchi partigiani, anziani umanisti e insegnanti coi giornali sotto il braccio, insieme a mamme e bambini. Una volta, a Parma, c’era la memoria, che si estingue più velocemente delle panchine. Adesso, come diceva l’anziana signora di Trieste, c’è la fobia del culo – la fobia di chi sta seduto e non fa niente, neanche comprare un aperitivo coi salatini e i pistacchi. L’ultima volta che sono stato a Parma era prima di Natale, ma sembrava di essere a Rimini in estate. Nella città del Par52

migianino, di Maria Luigia e di Arturo Toscanini, quasi tutte le insegne e le parole pubbliche che ho incontrato erano in inglese. Appena fuori dalla stazione c’era un cantiere con su scritto: Temporary Station. Poco più in là, dove vendono libri: Library Box. C’era una mostra, o fiera, di gastronomia, ma c’era scritto Art & Food. (Sentimento di inutilità e sconforto; a Parma avevo scritto per anni, di fronte a insegne di locali come Harmony Bar: non sarebbe più bello un «Caffè dell’Armonia»?) In ogni piazza avevano montato una tenda dove vendere o reclamizzare qualcosa, e in quella principale il frastuono dei bar era come nelle discoteche di spiaggia. Camminando, non ho visto neanche una panchina. I caffè intorno al monumento a Garibaldi, i cui gradini non si vedono più per le fioriere (l’ultima volta erano piene di arbusti verdastri), hanno ricoperto le distese di tavolini con pesanti tettoie e pareti di vetro, che impediscono di vedere il cielo. In realtà non fanno vedere niente, a parte fare vedere da fuori chi sta dentro. Alcuni avevano grandi schermi televisivi accesi. Sembrano grandi serre senza fiori, per allevare i parmigiani come piante grasse. Lo so che si dice «coltivare», ma allevare dà più l’idea. Comunque sia, i clienti possono stare in vetrina. Quella vecchia rubrica dal titolo Luogo comune finì dopo pochi mesi. Non subii mai censure (il direttore, unica discontinuità nella storia di quel giornale di Parma, era il bravissimo Bruno Rossi, dimissionato un anno dopo), finché non ironizzai sul «Mulino bianco» di Barilla, che accostai allo scherzo che un buontempone fece una notte versando detersivo nella fontana dell’enorme bianca scultura di Pietro Cascella (regalo di Barilla alla città), e che inondò di schiuma (bianca) un quartiere e un incrocio stradale. Lo associai al Lanciere Bianco, al Cavaliere da poco sceso in politica, ecc. ecc. 53

L’ultimo pezzo si intitolava Cosa vedo dalla mia finestra, proprio come il titolo di un tema delle scuole elementari o medie, e invitavo i lettori a fare anch’essi questo utile esercizio di descrizione. Il senso era per me compendiato da una frase che citavo da Finzioni in cui credere, un testo che Gianni Celati scrisse nel 1984 per Luigi Ghirri: «Noi crediamo sia possibile ricucire le apparenze disperse negli spazi vuoti, attraverso un racconto che organizzi l’esperienza, e che perciò dia sollievo, come quello di Luigi Ghirri. Non esiste nessun racconto che valga la pena d’esser fatto, se non dà sollievo (anche la tragedia dà sollievo, i brillanti smascheramenti d’ogni finzione invece no). Crediamo che tutto ciò che la gente fa dalla mattina alla sera sia uno sforzo per trovare un possibile racconto dell’esterno, che sia almeno un po’ vivibile. Pensiamo anche che questa sia una finzione, ma una finzione a cui è necessario credere. Ci sono mondi di racconto in ogni punto dello spazio, apparenze che cambiano a ogni apertura d’occhi, disorientamenti infiniti che richiedono sempre nuovi racconti: richiedono soprattutto un pensare-immaginare che non si paralizzi nel disprezzo di ciò che sta attorno».

Passeggiare da fermi

All’epoca di Ginevra non avevo visto ovviamente il film Las lunes al sol di Fernando León de Aranoa, né avevo tenuto con quel titolo, I lunedì al sole, una rubrica sul quotidiano «l’Unità». Non conoscevo nemmeno le declinazioni della povertà e della ricchezza, spesso invisibili. Conoscevo solo superficialmente quei particolari margini della vita collettiva che si chiamano periferie. Non sapevo ancora quasi niente. Las lunes al sol racconta il trascorrere dei giorni di un gruppo di amici operai, già compagni di lotte, licenziati dai cantieri navali. Il loro bisogno di risollevarsi, la ricerca di un altro lavoro, le infelicità domestiche e sociali, ma soprattutto le loro conversazioni libere all’aperto, il loro ozio forzato. A volte si vedono delle vere panchine, ma tutto è un po’ panchina, anche gli scogli sul mare, i muretti, il bancone di un bar. Le loro parole scelgono il paradosso e la fantasia per dire meglio la realtà delle cose. Come ad esempio quelle di un immigrato dell’Est, che scopre che tutto quello che gli avevano detto sul comunismo era falso, ma la cosa peggiore è che tutto quello che gli avevano detto del capitalismo era vero. I racconti, le fantasie, i vaneggiamenti dei disoccupati sono la cosa più bella del film. 55

L’Australia è agli antipodi, dice uno guardando il mare e l’orizzonte. Che cosa sono gli antipodi? Beh, sono il contrario. L’Australia è il contrario. Per esempio, là c’è un sacco di spazio, qui no. Là si lavora, qui no. Là si scopa, qui no. I lunedì al sole, che non sono così diversi dalle giornate di lavoro degli scrittori, sono una bella immagine della verità della letteratura. La letteratura è piena di panchine, perché parla della vita della gente – e la gente, sopra ogni cosa, aspetta, e aspettando gira a zonzo e si siede dove capita. Poi parla di panchine perché quelli che scrivono, oltre ad aspettare e guardare anche più degli altri, hanno spesso una vita di frontiera, senza appartenenza. La vita di scrittori e artisti è spesso oziosa per lo sguardo comune, cioè straordinariamente assorbita dal loro lavoro invisibile. Gli scrittori che parlano di panchine appaiono più perdigiorno di altri, come i personaggi dei racconti dello svizzero Robert Walser, la cui esistenza fu volutamente ai margini dello stile di vita borghese. È lui l’autore che mi veniva in mente nel luogo segreto di mio figlio a Ginevra, immobili tra i corpi frettolosi e le luci multicolori dei negozi. Una volta ho scritto che se Don Chisciotte fosse stato svizzero, e si fosse trovato in una città del primo Novecento, guarito dalla follia ma pur sempre sognatore e vagabondo, con un’inalterata smania di mettersi al servizio del prossimo, forse avrebbe ragionato fra sé come lo scrivano Simon Tanner: «L’edificio di una banca è proprio una cosa stupida, in primavera. Che effetto farebbe un istituto bancario in mezzo a un rigoglioso prato verde? Forse la mia penna mi sembrerebbe un piccolo fiore appena spuntato dalla terra […] Le nuvole bianche passano nel cielo, e io devo stare qui a scri56

vere. Perché guardo le nuvole? Se fossi un calzolaio, almeno farei le scarpe per bambini e uomini e donne, e loro in una giornata di primavera andrebbero a passeggio per la strada con le mie scarpe. Io sentirei la primavera se vedessi la scarpa fatta da me sul piede di un altro. Qui non posso sentirla, mi disturba». Ecco, in questo periodare giovanile tratto da I fratelli Tanner (1907) c’è tutto l’incanto della prosa tenera e lieve di Walser. Come gli scrittori da lui più amati, sui quali ripetutamente scrisse (Kleist, Lenz, Büchner), Walser fu un ‘anti Goethe’, anomalo e ai margini. La sua scrittura, come la sua vita, fu precaria e appartata, fino alla decisione del silenzio: quella di andare ad abitare, cinquantenne, in un asilo psichiatrico a Herisau, da cui usciva la domenica per fare lunghe passeggiate, a volte in compagnia del devoto editore Carl Seelig (non mi ricordo se ci siano panchine nel libro di memorie di Seelig). Nel frattempo scriveva a matita, in una calligrafia minuscola e impossibile, un’enorme produzione di racconti. Se lo Zen fosse nato in Svizzera, o se nel cantone di Berna vi fossero stati dei monasteri buddhisti, forse Robert Walser ne sarebbe stato monaco, «in umore di santità». Fu comunque lì, durante una passeggiata, che il 25 dicembre 1956 Walser morì accasciandosi sulla neve. Una foto lo ritrae, il suo corpo sembra un segno di matita tracciato sulla neve. Che Walser si identifichi in quasi tutti i suoi personaggi è noto. Uno poco conosciuto è il giovane poeta Sebastian del racconto titolato, appunto, Poeta (Dichter), apparso sulla rivista «Die Insel» nel 1900, quando Walser aveva solo 22 anni. Ha lo stesso nome di uno dei fratelli Tanner, e la stessa autoironia. Ecco le prime parole, nella traduzione di Mattia Mantovani: «Ecco, voglio sedermi su questa panchina di pietra davanti a questa vecchia casa. Qui non c’è nessuno al qua57

le possa dire quanto mi sento stanco. Sono un poeta: la mia missione consiste nel costringere i miei sentimenti in quelle misere sequenze di sillabe che si chiamano versi. Già, i miei versi: a giudicare dalle alzate di spalle e dai freddi sguardi di coloro che li leggono, deve trattarsi di versi piuttosto brutti. Ma io non mi lamento, no, non mi lamento affatto. Perché non c’è niente da fare. I miei lamenti potrebbero anche essere commoventi, ma non sarebbero in grado di fare di me un artista migliore. E allora mi faccio forza e continuo a scrivere. È una cosa che fanno molti poeti, perché c’è una gran quantità di motivi forse assolutamente ignobili che impone loro di farlo, che impone loro di continuare a scrivere. Ciò che mi spinge è forse la semplice noia di scrivere di cose che, quando mi guardano prima che io le trasformi in parole, mi ispirano tristezza, se non addirittura qualcosa di molto peggio. Il mondo ci passa sopra, il mondo scherza coi mezzi talenti dei quali sembra che io faccia parte, il mondo accetta e tollera ciò che invece dovrebbe allontanare energicamente da sé. E tuttavia il mondo dice che sono un folle, cosa che invece, purtroppo, sono fin troppo poco. Però non osa dirmelo in faccia. È una cosa che mi sento dire alle spalle, o di lato, oppure sussurrata dall’alto. È una cosa che il mondo mi lascia solamente intuire. Ah, se avessi un lavoro che mi permettesse di guadagnarmi onestamente la pagnotta! Un lavoro vero, col quale guadagnarsi la pagnotta più onestamente che non con questa mezza missione poetica nella quale sono immerso fino al collo!». Walser, che ha imparato in una scuola per domestici l’arte cerimoniosa del servire che traspare nelle sue storie, è il più disadattato degli scrittori contemporanei, ma è anche il campione della libertà narrativa. Quello che più di ogni altro ha allargato l’area della storiabilità, insegnandoci che ogni mini58

mo evento è esperienza degna di essere narrata, e che ‘discorso’ e ‘percorso’ appartengono a un comune, anarchico divagare (penso a La passeggiata, o a I temi di Fritz Kocher). Recentemente lo scrittore tedesco Winfrid G. Sebald ha dedicato a Walser un riverente e commosso omaggio dal titolo Il passeggiatore solitario. Ma è Walter Benjamin che gli dedicò un saggio folgorante: i personaggi dei racconti di Walser, scrisse, «sono figure che hanno dietro di sé la follia». Ma «se si vuole indicare con una parola ciò che essi hanno di felice e di inquietante, si può dire che sono tutti ‘guariti’». Folli guariti dalla cui bocca esce prosa, «pura e forte come l’aria della vita che guarisce». Su Walser e Benjamin – il grande critico e filosofo che ha fatto del vagabondaggio urbano (flânerie) un metodo – voglio aprire una parentesi. Non bisogna dimenticare, quando si cita Benjamin, che egli è ben lontano dal cliché accademico dello specialista, non è mai stato professore universitario e ha condotto una vita di marginale e indigente (oltre che di perseguitato e nomade). Homme de lettres (come si diceva fino al Settecento) per vivere, non aveva altro reddito né altra appartenenza che il proprio leggere e scrivere, e come proprio parco e panchina la grande Bibliothèque Nationale di Parigi, oggi sfrattata dal Marais e trasferita nei palazzi di vetro di Tolbiac. Walser, dunque, è uno di quegli autori che, per Benjamin, esemplificano e realizzano l’incontro tra un’idea di letteratura e un’idea di rivoluzione politica, forse anche un’idea di religione – ciò che è stato definito il messianesimo di Benjamin, la sua utopia. Questa utopia lui la chiamava «comunismo», ma anche «paradiso». C’entra colla letteratura e col linguaggio perché l’aspetto più eclatante di questo ‘luogo’ è che chi vi risiede non ha beatamente (più) nulla da dire, è esentato 59

cioè dall’uso strumentale (borghese) del linguaggio. Come accade per i personaggi di Walser, ciò che nel paradiso esce dalla bocca è pura prosa, o pura poesia, pura lingua trasparente a se stessa, che non ha nulla a che spartire con la comunicazione o l’informazione. Dove, con altre parole, si può dire e parlare un idioma che sia «come la lingua degli uccelli e dei nati di domenica». Se vi fossero una retorica o una stilistica delle panchine, credo che risulterebbe che in esse sia sopravvissuto un tipo affine di linguaggio – condivisione più che comunicazione – che una certa letteratura ‘marginale’ ha generosamente raccolto. Sedersi sulle panchine è l’equivalente del passeggiare a vuoto. Nessuno come Walser, ha scritto un altro scrittore svizzero, Peter Bichsel, sa descrivere il passeggiare in sé e per sé. Non è né un camminare né un osservare. Le cose per lui esistono quasi casualmente, non hanno nome, gli alberi si chiamano alberi, i fiori fiori, e il lago si chiama lago. La forma della passeggiata ha il ritmo di un blues, aggiunge Bichsel, e il narratore, l’uomo che passeggia, non si dirige intenzionalmente verso qualcosa, ma lascia sempre consapevolmente qualcosa dietro di sé. Anche Gianni Celati, l’autore di Narratori delle pianure e di Narratori delle riserve, ha dato un commento lungimirante su Walser e la sua «passeggiata senza meta». Lo «scandalo» di Walser, ha scritto, è quello di «una scrittura che dichiaratamente non cattura nulla», che anzi «celebra affettuosamente tutto ciò che ci sfugge», e proprio per questo «acquisterà un’importanza sempre maggiore quando tutto il campo della letteratura ufficiale sarà composta solo da prodotti fabbricati per il successo». Cioè oggi. Negli scrittori da panchina per fortuna prevale l’arte della passeggiata e della conversazione oziosa, della chiacchiera, 60

del parlare a vanvera, del parlare a vuoto, fantasticare, divagare, sognare ad occhi aperti, raccontare panzane per dire la verità con un effetto di anamorfosi, tutto un universo di metafore e di paradossi, di iperboli, di motti di spirito, di osservazioni acute e acuminate, di moralità leggendarie, di miti, di trasparenza, di libertà, di lunedì al sole. Perché le panchine, se non sono il paradiso e neppure il comunismo, sono comunque il luogo in cui è possibile dire quello che si pensa, che a volte non si sa nemmeno di pensare, una zona franca del linguaggio e della mente. La sua espressione letteraria comprende autori come il praghese Hrabal o il padano Zavattini, e tutti gli altri visionari (spesso emiliani) che scrivono come se parlassero con la bocca piena e vivessero su una panchina. Tutti, ognuno a suo modo, devono qualcosa nel loro nudo incantamento al Walser di queste esclamazioni: «Com’è bella la bellezza, come può affascinare il fascino!».

Reggio Emilia 1991

Lo spazio tra la gente L’estate del 2007, mentre ero a Linosa, uscì su «la Repubblica» un mio articolo sulle panchine – quasi la tavola delle materie di questo libro. Parlavo anche di quelle città venete e giulie in cui le panchine sono state eliminate per non far sedere i poveri e gli immigrati. Ricevetti un gentile e-mail (che passai poi al giornale) del sindaco di Reggio Emilia, che affermava come la città da lui amministrata fosse in controtendenza, perché lì le panchine si sono moltiplicate. Ho un rapporto antico con Reggio Emilia, e un attaccamento molto sentimentale. Per chi come me è nato a Parma, Reggio Emilia ha sempre dato un certo sollievo. È a soli venticinque chilometri di distanza, ma anni luce dalla sua presunzione (Parma fu capitale di un ducato che comprendeva Piacenza e Guastalla, e questo, insieme alla duchessa Maria Luigia, moglie di Napoleone, l’ha ubriacata per sempre di una strampalata nostalgia). Viceversa riconoscevo a Reggio la verità semplice di un grosso borgo emiliano con la nebbia e senza grilli per la testa, con locali dove ascoltare il jazz e un 62

proletariato industriale (Parma invece è stata insieme anarchica e conservatrice perché le uniche industrie sono agroalimentari, frutto di una classe e di una cultura dominanti di proprietari terrieri). Ma non avrei conosciuto Reggio Emilia se non vi avesse abitato il mio migliore amico dai tempi dell’università di Bologna. Lo conobbi un mattino d’inverno dopo che ebbe fatto una relazione su Benjamin e Kafka durante la lezione di Estetica di Luciano Anceschi. Alle dieci e mezza del mattino mi propose di andare a bere una birra, e da lì cominciò un rapporto inossidabile fatto di parole e silenzi, condivisioni di pensieri, letture, conversazioni, avventure piccole e grandi, come due Bouvard e Pécuchet legati dal fascino estetico del fallire, ma emendati dal voler essere e dal voler diventare. Ci accomunavano il leggere e lo scrivere, ma soprattutto un modo di guardare il mondo e l’umano. Fu lui a farmi conoscere le poesie di Vladimir Holan (quella sul silenzio, la neve, la cucina), e a farmi amare l’Ottava Elegia di Rilke, sul guardare l’Aperto come gli animali. Parlavamo di Kafka, di Giorgio Colli, di Walser, di Beckett, di Max Frisch. Leggevamo Thomas Bernhard a voce alta, per ridere. Scoprivamo e leggevamo a voce alta anche l’aforisma Sur l’eau di Adorno, che citando Baudelaire – «Rien faire comme une bête, giacere sull’acqua e guardare tranquillamente il cielo, essere e nient’altro» – ipotizzava l’adempimento della logica dialettica, «sfociare nella propria origine» (immagini peraltro che si conciliano benissimo con la panchina di un parco). Venivamo entrambi dalla lettura dei beat americani, e in presa diretta ci piacevano i primi romanzi di Peter Handke, tutti quelli di Patricia Highsmith, i film di Wenders e di Antonioni. Credo che siamo andati a vedere insieme L’amico americano almeno otto volte, affascinati dai dialoghi e dalla 63

frase su «il blu che non è più quello di una volta» detta dal corniciaio Bruno Ganz al gangster Dennis Hopper, e da quest’ultimo al pittore, falsario di se stesso, Samuel Fuller; o da quelle che Hopper, cappello da cow-boy in testa, dice a se stesso al registratore guidando per le strade di Amburgo: «più divento vecchio e più sono confuso». Prendemmo la laurea insieme, il mio amico e io, sostenendo la cerimonia della discussione della tesi quasi alla stessa ora, dopo una notte bianca trascorsa a ubriacarci e a leggere poesie in pubblico nell’osteria di un paese in provincia di Reggio che sembrava il pub di Guerre stellari. La sera stessa, dopo esserci riposati sui colli di Bologna ascoltando Neil Young dal registratore in macchina, fondammo con altri amici la cooperativa editoriale dove uscì un libro di racconti che montammo insieme, suoi e miei, senza distinguerne l’autore. Si chiamava L’ultimo buco nell’acqua, era il nostro primo libro. E quella notte, a Reggio Emilia, facemmo un’altra lettura pubblica con le scarpe in mano. Titolo: Tutto lo strano via. All’inizio di novembre del 2007 mi trovavo in provincia di Reggio Emilia a commemorare con una lettura collettiva lo scrittore Giorgio Messori – è lui l’amico, compagno di meditazioni da panchina per una vita; scomparso, come si dice, eppure così presente. Il luogo era immerso nella campagna di Quattrocastella. Il mattino dopo lo esplorai e percorsi nella nebbiolina montante un viale che dal paese saliva in direzione del castello di Canossa – tutta la zona è detta «matildica» in riferimento alla signora di Canossa cui ‘andò’, più o meno genuflesso, l’imperatore Enrico IV. Ignoro se esistesse all’epoca qualcosa di analogo alle panchine, ma le due o tre di legno marrone poste a un lato della strada per riposarsi e contemplare permettevano di guardare la campagna, cioè l’aperto. Che, si sa, 64

con la nebbia acquista una qualità di infinitudine che i poeti hanno esplorato (penso a una poesia di Pascoli che si chiama proprio Nebbia, e che riprende, quasi rovesciandolo, L’infinito di Leopardi). Lì, seduto con un amico romano (che di professione è storico), rimpiansi, come troppo spesso mi accade, di non conoscere i nomi delle piante che avrei potuto almeno descrivere. In fondo allo sguardo c’era una tenuta con una bellissima casa rurale, forse la casa dei contadini dell’antico seminascosto castello di Bianello – uno dei quattro della zona. Alle mie spalle, la chiesa su base romanica di Sant’Antonino, dove alcuni muratori stavano lavorando a un lieve restauro. La sera prima udii qualcuno ironizzare sulle panchine che «guardano il vuoto». Ma cosa deve guardare di meglio una panchina? Comunque si stava benissimo, e più tardi io e l’amico non facemmo in tempo a sederci sulla panchina della strada principale, alla fermata del pullman per Reggio Emilia, che questo arrivò subito, e giungemmo in città sfogliando una campagna e alcuni centri abitati in cui con mia sorpresa non ci ferì gli occhi nessuna costruzione geometrile e nessun ipermercato. Quel pomeriggio potevo visitare le panchine di Reggio Emilia descritte dal sindaco. Mi portò in giro per la città il dirigente per il Comune dell’assessorato «alla Città storica» – nozione più ampia di «centro storico» e più aperta di spazio pubblico –, l’architetto Massimo Magnani. La città pubblica è stata uccisa dall’individualismo delle villette, mi disse, e noi stiamo lavorando su questo concetto per aprirlo, mettere lo spazio in relazione con le persone: strade, parchi, piazze. E panchine. Le città europee lavorano tutte su questa cultura del paesaggio. A Reggio Emilia stiamo trasformando la città in un salotto, dove si abbia piacere di stare e di andare. 65

Di fronte alla mia obiezione (per la parola salotto ho una vera e propria allergia), l’architetto aggiunse che non lo diceva in senso borghese. (Ma il salotto si intende solo in senso borghese, è un concetto borghese, come le carte da parati e i divani a fiori, come le piante di geranio o di aspidistra secondo George Orwell.) Ci siamo messi a camminare per le vie pedonali. Con la legge Bersani, disse l’architetto, è adesso possibile che il pescivendolo, per esempio, possa vendere fritture ai clienti, e il salumiere servire del prosciutto da consumare magari fuori dal negozio. Le panchine aumentano così anche per iniziativa dei privati. Poi vidi le nuove panchine multiple, come quelle poste in piazza Casotto, dietro il Comune. Disposte come in un salottino, c’erano due panchine lunghe e altre due monoposto, che sembrano fatte per persone molte grasse. A fianco ci sono delle fioriere, rivestite dello stesso legno marrone delle panchine. Nella piccola piazza, notai l’ingresso di uno spazio espositivo e una «yogurteria». A Reggio Emilia le innovazioni in materia di panchine avvengono in una ridefinizione complessiva dell’uso della città storica. In un’idea soprattutto di cura della città, di manutenzione col concorso di tutti – che è il contrario del concetto pomposo di «grande opera». Sono aumentate le «distese», cioè le zone dei tavolini all’aperto dei bar, grazie alla pedonalizzazione delle strade. È stato proibito ai bar di usare sedie e tavolini di plastica, incentivando con sgravi fiscali l’adozione di altri materiali, come il legno, il vimini o il ferro. La scomparsa delle macchine da molte zone del centro ha reso quasi irriconoscibili i luoghi agli stessi abitanti. Eppure, penso mentre cammino, tutto questo l’ho già visto in altre città a vocazione meno sociale, come Parma, ma anche in una miriade di città del Nord Europa. I centri storici, le città storiche, sono diventate città commerciali, e quelle fioriere mi ri66

cordano quel concetto di «arredo urbano» che spesso è l’unico criterio di intervento pubblico. Come è possibile (domanda inconfessabile) che le strade della città, in questa loro conversione ecologica e socializzante, mi sembrino più fredde, spesso glaciali? Quel giorno, passeggiando con l’architetto, mi vennero in mente infatti i centri storici delle città tedesche ricostruite dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale, dove le strade pedonali, nel silenzio in cui senti risuonare i tacchi delle scarpe la domenica mattina, o nel frastuono notturno, sono totalmente occupate dai caffè e dai negozi, e dove la socializzazione, nonostante le panchine piazzate qui e là, avviene all’insegna dei consumi e del commercio, del mostrarsi tutti, in una sovrapposizione di vita pubblica e privata, come consumatori e nient’altro. Oggi, nelle città, il flusso dei corpi dei consumatori consumati si chiama movida, e il suo movimento è prevedibile e ripetitivo, ogni sera uguale. Andiamo ora nella bellissima e metafisica piazza Fontanesi, che so essere stata un tempo una piazza adibita alle esecuzioni capitali, ed è piazza del mercato di giorno. Non si vedono chiese dalla piazza, solo case con portici, ed è tappezzata di alberi, un grande rettangolo come certi squares parigini. Ho ricordi di una bellezza onirica d’inverno, con la nebbia. Le mie passeggiate con Giorgio. Le fotografie di Luigi Ghirri. Le osterie quando c’è freddo. Noto i gruppi di nuove panchine, anch’esse disposte effettivamente come in un salotto che segua i dettami spaziali del feng shui – panchine lunghe che si fronteggiano oblique intervallate da panchine monoposto, le fioriere al posto del tavolino o della credenza. È una disposizione che incoraggia la convivenza e la conversazione, dove ci si sente sociali e al tempo stesso protetti. C’è perfino il progetto di aggiungere alle panchine dei funghi per 67

il riscaldamento, e prese di corrente alimentate dall’energia solare, utili anche per alimentare il computer. Magnifico. È stato calcolato anche lo spazio per incastrare le carrozzine per invalidi, e si capisce che il modello ideale di fruitore di questi salotti all’aperto è la badante moldava o ucraina che chiacchiera con la sua compaesana, con l’anziano o l’anziana parcheggiati di fianco. Sono davvero panchine sociali. E, quando poco prima chiesi all’architetto Magnani cosa pensasse di quelle città del Veneto in cui, pur non essendoci un numero di immigrati maggiore che a Reggio, hanno tolto e segato le panchine per far loro dispetto, lui mi ha dato una risposta sintetica e forse l’unica sensata: «le panchine sono di sinistra, togliere le panchine è di destra». Perfetto. «Ma chi volesse stare da solo su una panchina, e magari leggere il giornale in silenzio?», non riuscii a trattenermi dal chiedergli. Ci sono ancora panchine anarchiche a Reggio, o magari asociali? L’ultimo tratto di passeggiata lo abbiamo fatto verso il Teatro Municipale, anch’esso in qualche modo avvicinato al resto del centro commerciale da una nuova pavimentazione. Di fianco al teatro ci sono i giardini, dove una volta c’era l’unico caffè con le vetrate e una distesa fuori. Il «giardino d’inverno», lo chiamavano. Lì sopravvivono le panchine verdi di una volta, semplici e spartane, e noto che su quelle ci sono sedute coppie e famiglie intere di immigrati, spesso nordafricani. C’è allegria. Ora che ci penso, i salotti di piazza Fontanesi erano deserti. Mi accorgevo anche che gli unici bambini che vedevo per strada, o che giocassero con i giochi poveri del parco, erano tenuti per mano da genitori dalla pelle scura, oppure da mamme che avevano la testa fasciata da un velo color pastello. (Ma questo è un altro discorso: forse i bambini italiani sono troppo occupati a giocare con la playstation o il computer.) Fu dopo avere attra68

versato i giardini che l’architetto si girò e mi indicò il centro commerciale, dicendo: là c’è l’Europa, lì il Mediterraneo (il viale adiacente al teatro) e qui il Maghreb (i giardini). Nel Maghreb mi trovavo benissimo. A fianco, di fronte a un vecchio edificio che ospita ora l’università (Europa? America? porto franco?), su uno spazioso marciapiede dove una volta c’erano solo automobili parcheggiate, c’erano alcune panchine del solito legno marrone fatte a sdraio, o meglio a chaise longue, per allungare le gambe. Mi sono coricato lì e, se non fosse stato per il vento e il freddo, avrei fatto volentieri un pisolino. Non era ancora però la panchina solitaria, seminascosta, che anche il mio amico Giorgio si portava dentro. L’equivalente del nascondiglio dell’infanzia, giardino dell’anima, che lui realizzò nella sua casa a Tashkent, Uzbekistan, quando uscì da Reggio e dall’Europa. Scrisse nel suo romanzo autobiografico La città del pane e dei postini (2005) di capire che il suo giardino fosse «qualcosa che cercavo fin da quando mi rifugiavo al cesso per piangere, perfino quand’era morta mia nonna e non ci sarebbe stato niente di cui vergognarsi. E se non era il cesso c’era sempre il divano rosso incassato nell’armadio, nella stanza che avevo occupato dove prima stava mia nonna e che per tanti anni è stata casa mia, la mia vera casa oltre la quale c’era l’appartamento dei miei, la camera dove andavo a dormire». E aggiungeva: «Ma anche fuori da quel recinto ricordo una panchina in un piazzale ingombro di macchine, il giardinetto allo scalo ferroviario, l’ultimo banco accanto alla finestra per tutti gli anni del liceo. Lathe biosas, vivi nascosto, appartato, senza metterti in mostra, consigliavano i Greci; e questa è fra l’altro una delle pochissime cose che ancora ricordo di una lingua studiata cinque anni». 69

Ora mi viene in mente che sulle panchine, anche nella mia città, non ho scritto solo poesie. Tra le altre tracce dei miei soggiorni solitari nel parco, per esempio, una compariva ne L’ultimo buco nell’acqua (1983), col titolo Confessioni di un astigmatico. Descrivevo il mondo come lo si vede stando distesi su una panchina, e seppi da Daniele Del Giudice che piaceva molto a Italo Calvino. Nello stesso libro c’è una prosa di Giorgio che esprime lo stesso spirito di chi si siede su una panchina, sotto lo sguardo di disapprovazione dei benpensanti. Si chiama È un tipo losco, e quando ci scambiavamo i testi in pubblico, mi piaceva molto leggerla: «Nell’ufficio dove lavora è considerato una persona losca. Verso le dieci e mezza/undici va a un supermercato che si trova nello stesso isolato. Lì trova delle Budweiser, birre americane importate dalla Cecoslovacchia che non costano tanto. Con sé non ha mai un apribottiglia perciò è costretto, all’uscita dal supermercato, a usare dei piletti di transenne per fare leva sul tappo. Così può finalmente bersi la birra appoggiato a un muretto ai margini della strada, sotto il sole». Così mi viene anche in mente la giornata con Giorgio a Reggio quando abbiamo montato il nostro libro. Avevamo faticato invano per ore a trovare un ordine, coi fogli dei raccontini sparpagliati sul tavolo della sua camera rossa nell’appartamento che si affacciava su un incrocio della via Emilia, da dove si vedevano i semafori rossi bucare la nebbia, una piccola vista metropolitana di provincia. Non ne venivamo a capo. La colonna sonora era David Bowie, Rock’n’roll suicide (una canzone che aleggiava, insieme ai Kinks di Lola, Hollywood boulevard e Sunny afternoon, su tutto il libro). Finché Giorgio si ricordò che qualcuno gli aveva regalato una pastiglia di acido lisergico. Era un azzardo, ci sentivamo fuori da quelle cose, ma non ci pensammo più di dieci minuti prima 70

di buttarla giù. Dopo neanche un’ora avevamo montato il libro in un ordine che ci sembrò assolutamente perfetto. L’ultimo buco nell’acqua era davvero finito. Era una sera invernale, e da qualche parte dovevamo smaltire tutta quell’energia e quella lucidità. Ricordo vagamente che quella notte finimmo a Parma a casa di un’amica, e guidare sulla via Emilia fu una specie di videogame (la regola era seguire le lucine rosse, i buoni, ed evitare le lucine bianche, i cattivi). Ma prima, a Reggio, dopo la cioccolata calda in tazza, dopo avere camminato a lungo, andammo in un cinema dove proiettavano E.T. di Spielberg. Sì, era l’anno di quel film, fino ad allora lo avevamo snobbato, ma adesso ci sembrava una buonissima idea. Quello che seguì lo raccontai un anno dopo in un articolo intitolato Wenders, Spielberg e la scatola nera. Era uscito in effetti un film di Wim Wenders intitolato Lo stato delle cose, dove tra l’altro c’è una stupenda esclamazione: «basta lo spazio fra la gente per costruire una storia». Scrissi che Wenders e Spielberg erano esattamente all’opposto l’uno dell’altro, impossibile amare entrambi. Quanto a E.T., raccontai la circostanza della nostra visione, che grazie allo stato di lieve alterazione ci consentì di vedere dietro gli effetti speciali, ahimè neutralizzandoli. Vedevamo dentro la scatola nera dell’operazione, all’interno di quell’altra incantevole scatola nera che è la sala cinematografica. Insomma, E.T. ci sembrò così idiota che, alla scena delle biciclette che si arrampicano in cielo, cominciammo a voltarci nella sala per guardare gli spettatori, i cui volti rapiti ci affascinavano più del film. (L’acido è rivelatore. Gli effetti speciali, i trucchi e le diversioni appaiono nudi come una maschera che fa vedere l’elastico. Tutt’altra cosa sarebbe stata vedere, credo, Viaggio in Italia di Rossellini o L’avventura di Antonioni, o un qualsiasi film 71

di Bernardo Bertolucci: ci avrebbero letteralmente commosso.) Poco tempo prima avevo letto in un trafiletto sul giornale che a Montemario, un quartiere di Roma, c’erano state proteste degli abitanti, perché i matti in libera uscita di una vicina clinica disturbavano gli spettatori di un cinema: invece di guardare il film, loro guardavano il pubblico, creando turbamento. Erano matti contemplativi, non spettatori anestetizzati. Guardavano il cinema e la gente come se fossero su una panchina. Se infatti ho ricordato tutto questo è perché sulle sedie del cinema, spettatori, io e Giorgio ci sentivamo proprio come quando si è seduti su una panchina, e lo spettacolo diventa il mondo, nessuno escluso. Ho già detto che sulle panchine si diventa invisibili, che si gode di una specie di extraterritorialità: extraterritorialità che è come una zona franca, una piega nella società dello spettacolo. Quel giorno, al cinema, non eravamo però così invisibili, e per di più ridevamo. Uscimmo prima di creare scompiglio.

Scandiano 1975

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Scarpe gialle e cielo blu

Poiché da tempo volevo andare nel famoso Veneto a vedere i resti delle panchine, sono stato a Padova qualche giorno prima di Natale. Di Treviso avevo parlato al telefono col poeta Lello Voce, che ci vive e insegna. Di Venezia mi basta dire l’aura e la bellezza ogni volta inattese delle panchine che appaiono in qualche isolato campiello, epifanie al quadrato. E le panchine rosse nei Giardini Reali di fianco a San Marco: l’ultima volta che ero a Venezia, nello sfarzo della festa del cinema, provai un piacere speciale ad andare in quel rettangolo di verde pubblico macchiato dalle panchine a pochi passi dall’Hotel Danieli, in compagnia di altre persone indefinibili e sedute. Quanto a Padova, ne avevo dall’infanzia un ricordo in bianco e nero, quello di una chiesa enorme in una piazza ancora più grande, piena di piccioni che mi svolazzavano intorno. Pensavo fosse il Duomo (che è invece molto piccolo, romanico, in una piazza ancora più piccola), ma doveva essere la chiesa di Sant’Antonio (da Padova), che non ho fatto in tempo a rivedere. Avevo letto in Internet alcuni articoli sulle panchine di Padova, e questa ambigua frase difensiva del sindaco: «A Pa73

dova ci sono cinquecento panchine. Se volessi toglierle tutte comincerei dal Giardino dell’Arena e non certo da via Manzoni, dove nessuno si siede». L’effetto comico è che sembrava confessare di volerle togliere, le panchine, proprio dove la gente si siede, non dove non si siede. Ma mi dava due indicazioni di luoghi. Cui si aggiungeva quella di una piazza – piazza De Gasperi – dove gli articoli dicevano esserci state delle panchine, in seguito tolte. Eccomi dunque attraversare col treno una malinconica, pascoliana campagna padana d’inverno. Ma già alla stazione di Monselice brillavano al sole delle belle panchine verdi. In quella dopo però, Terme Euganee, al loro posto c’erano seggiolini di plastica con braccioli di ferro. Un’avvisaglia? No, ma vorrei dirlo subito: ho trovato a Padova una città bella, allegra e moderatamente irresponsabile, cioè nella norma del consumismo che sta divorando spensieratamente ogni città. Piuttosto, trovarmi in una città a vagabondare deliberatamente per panchine mi ha dato il giusto smarrimento, e il giusto raccoglimento, per riflettere su una serie di cose, panchine comprese. Uscendo dalla stazione, basta camminare dritto su corso del Popolo per arrivare prima a un ponte, e subito dopo all’ingresso del Giardino dell’Arena, allegramente annunciato da un’edicola e un chiosco di frittelle. Nel vialetto principale, intitolato a Giorgio Perlasca («Giusto delle nazioni», come lo chiama il busto in suo onore), circondato da prati e aiuole, sciamavano studenti delle scuole e dell’università, mentre gli immigrati erano per lo più fermi in una specie di ristagno, non sulle panchine, ma nei pressi di un paio di esse. Uno andava su e giù in bicicletta guardandosi le ruote, come se fosse stupito del funzionamento della bicicletta, affascinato della magia delle ruote che girano. Altri parlottavano fitti. 74

Avevo fatto mentalmente un elenco delle persone che vedevo nel giardino a ora di pranzo: studenti e studentesse, mamme, uomini frettolosi, immigrati, notando che l’ultima parola era fuori registro rispetto alle altre. Forse che un immigrato non può essere mamma, studente, o frettoloso? Mi sono chiesto quindi come mai avessi messo gli immigrati, e in genere li mettiamo, in una categoria a parte. Il che equivaleva a chiedermi: come ho fatto a riconoscerli, a parte i presunti tratti somatici? Mi sono risposto. Perché sono vestiti male, e male in modo inconfondibile – non solo abiti a poco prezzo (lo facciamo in tanti), ma anche accostamenti di colori sbagliati e fasulli. Perché stanno insieme, e parlottano tra di loro. Perché si muovono lentamente, spesso strascicando i piedi. Perché hanno davvero l’aria di avere tutto il tempo da perdere. Perché sono letteralmente degli sfaccendati, più o meno come me. Io però sono più losco: uno che si siede su una panchina libera (sono tutte di legno marrone) e si guarda in giro, scrivendo ogni tanto su un taccuino. Per esempio le didascalie di altri busti messi tra una panchina e l’altra. Di fronte a me quello di Antonio Magarotti (1891-1966), che «precursore di nuove frontiere diede voce al silenzio», cioè fondò il primo istituto superiore per sordomuti. Più in là c’è il Museo degli Eremitani, e dietro la cancellata guardo con desiderio alcune panchine tranquille, ma in quel momento non avevo voglia di fare il biglietto. Ho continuato a camminare e a scrivere. Ho preso nota di un uomo seduto con molta dignità su una panchina, una bottiglia di vino bianco ai suoi piedi, le ginocchia unite per appoggiarsi mentre scriveva su dei fogli azzurri, consultando ogni tanto una cartina geografica, o forse una piantina della città (come quella che avevo io), posta sopra dei libri. Un barbone davvero diverso dagli altri. Poco più in là il busto di una 75

donna, Lina Merlin (1877-1979), «eletta alla Costituente, parlamentare che promosse per tutta la vita la dignità e l’avanzamento sociale delle donne», e mentre scrivo davanti al busto la mia attenzione provoca l’arresto di altri uomini e donne, tra cui un gruppo ciarliero di congressisti che parlano a voce alta e in modo allusivo della famosa Merlin, «quella della legge Merlin», sogghignando sopra le loro cravatte. Soltanto quando sto per uscire dal giardino noto un diverso tipo di immigrati in disparte: uomini col berretto di lana in testa, coppie sposate, anch’esse sedute sulle panchine, corpi calmi e sfiniti, non lenti ma fermi, coppie di donne anziane, o donne non più giovani. Cammino verso il centro (che, come ormai ovunque, vuol dire centro commerciale, non centro storico), a destra della strada con le rotaie del tram. Piazza Cavour, con il busto di Cavour, un’edicola e un bar con le vetrate tipo serra. Poco più in là c’è il famoso Caffè Pedrocchi, una delusione: un contenitore freddo nonostante la folla, giovani eleganti, persone senza visibilmente nessuna cultura del caffè, e un’esposizione di bottiglie di champagne all’entrata, esibite a casse. La cultura del caffè sopravvive sulle panchine, ho pensato. Guardo, appoggiandomi fuori dal Pedrocchi all’orecchio sinistro di una delle due leonesse di pietra, le panchine bianche di legno, con strutture di ferro, di piazza Cavour, poste su una specie di pedana grigia. Sono panchine multiple, double face, dove ci si siede schiena contro schiena. Sembrano fatte apposta per bivaccare, ma solo un paio di immigrati lo fanno, per il resto sono deserte. Tra il falso caffè e le false panchine, scelgo di mangiare al ristorante Brek, scritto proprio così. Un vero selfservice. È lì che mi raggiunge una telefonata di Fabrizio, amico caro e (forse) cugino, insegnante di filosofia a Belluno: viene a Padova per salutarmi. Sono contento. 76

Nell’attesa cammino. Piazza delle Erbe, piazza della Frutta, piazza dei Signori, piazza del Capitanato (cui si accede passando sotto la Torre dell’Orologio), tutte bellissime piazze rinascimentali col mercato, collegate l’una all’altra, in cui mi colpisce l’assenza di qualunque panchina o sedile (scrivo ora sulla base di una statua). Soprattutto piazza dei Signori, vasta e rettangolare, dove ai lati starebbero benissimo anche delle semplici panche di pietra senza schienale (avevo voglia di sedermi) e dove invece mi colpisce il numero di appartamenti che si affacciano sulla piazza, anche con balconi, ‘in panchina’, cioè con la scritta «da affittare». Guardo la gente che passeggia, la gente che compra, che vende. Guardo quelli che si limitano a guardare. Mi siedo a pensare su un gradino. Da qualche tempo i giornali parlano volentieri dei poveri, dei nuovi poveri. Ero stato il primo, sull’«Unità»: Chiedo scusa se parlo di povertà. Era un pezzo sulla pagina della cultura, in una serie sulle eresie. La povertà era l’eresia che mi colpiva di più. La sua invisibilità, la vergogna di dichiararsi poveri. La povertà che non fa notizia. Non quella di chi vende un rene, ma di chi non lo vende, e si dissimula. Prova del nove: il deserto che si crea intorno a chi si dichiara povero. Lo scandalo di chiedere denaro in prestito, che supera ogni esibizione di nudità, ogni atto considerato osceno. I poveri sono diversi dai disgraziati, pensavo seduto sul gradino in mancanza di panchine (ma anche in mancanza di un bar coi tavolini). Oggi i poveri sono i pensionati, gli impiegati, gli occupati, la piccola borghesia, gli insegnanti. Ma ci sono sempre nuovi disgraziati (come ci sono sempre nuove periferie e nuovi slum), più poveri dei poveri, in un’evoluzione che è in realtà una regressione sociale: aumenta il numero di chi vive alla giornata, senza futuro, di chi si abitua senza saperlo, né tanto meno volerlo, a un’assenza di orizzonti. Gli immigrati sfaccendati 77

riportano ad altre epoche storiche, altre aree geografiche, altre frontiere, in un processo di tijuanizzazione del mondo. Ha scritto una volta il filosofo Emmanuel Lévinas che la vita ordinaria delle persone richiede più coraggio di quella dei samurai. Quella frase mi ha sempre fatto pensare ai volti e ai corpi delle persone che si vedono nella metropolitana di Parigi alle ore di punta, quelle di andata o ritorno dai luoghi di lavoro. Poi ci sono naturalmente i volti e i corpi di chi cammina nelle strade, le singolarità che compongono la folla, di cui pochi hanno il coraggio di uscire dai ranghi e sedersi su una panchina, e guardare se stessi negli altri. È il tema di fondo del capolavoro letterario delle panchine, il romanzo di Georges Simenon Maigret e l’uomo della panchina, noto ai lettori come la storia dell’uomo con le scarpe gialle. Sono quelle scarpe del cadavere a commuovere Maigret, che intuisce essere state un segno di libertà per l’uomo che le portava. Con l’empatia che è il suo unico metodo d’indagine, il commissario Maigret percorre l’epopea di un provinciale, il signor Louis, impressionato dall’agitazione della grande città, dalla folla, ma anche commosso dalle vite umili e ordinarie che lottano ogni giorno per tirare avanti: «quando a vent’anni era arrivato nella capitale, quello che lo aveva impressionato di più era stato il costante fermento della grande città, l’agitarsi continuo di migliaia di esseri umani alla ricerca di qualcosa. In certi punti, per così dire strategici, questo fermento era più accentuato che altrove, per esempio alle Halles, in place Clichy, alla Bastille e su quel boulevard Saint-Martin dove il signor Louis era andato a morire. Ciò che lo turbava all’epoca, in quella folla in perpetuo movimento, ciò che suscitava in lui una sorta di eccitazione romantica, erano quelli che avevano mollato la presa, gli scoraggiati, i vinti, i rassegnati che si abbandonavano alla corrente. 78

Poi aveva imparato a conoscerli e adesso non erano più loro a impressionarlo, ma quelli che stavano un gradino più in alto, quelli decorosi e ammodo, senza niente di stravagante, quelli che giorno dopo giorno lottavano per restare a galla, per illudersi, per convincersi di essere vivi e che la vita è degna di essere vissuta». I testimoni raccontano la doppia vita dell’uomo con le scarpe gialle, che invece di lavorare si sedeva su una panchina. Qualcuno, un ex collega, lo ha visto seduto su una panchina del boulevard Bonne-Nouvelle: «Mi sono seduto vicino a lui. Voleva offrirmi da bere in un caffè lì accanto, ma io non ho accettato. C’era il sole e siamo rimasti a chiacchierare, guardando i passanti». La portinaia lo ha visto seduto in boulevard Saint-Martin. La panchina l’aveva turbata. «Un uomo come il signor Louis, abituato da una vita a lavorare dieci ore al giorno, seduto a poltrire su una panchina! E non di domenica, né dopo una giornata di lavoro, ma alle undici del mattino, quando tutti gli uffici e tutti i negozi sono in piena attività!» L’anonimato conferito dalla panchina («un uomo come se ne vedono tanti sulle panchine del quartiere») rende difficoltosa l’identificazione del colpevole, anch’egli frequentatore di panchine. Maigret ordina a un ispettore di andare a osservare la gente seduta sulle panchine: «All’inizio della sua carriera Maigret era stato di servizio in strada abbastanza a lungo da rendersi conto che ogni panchina ha i suoi habitué, i quali la occupano sempre nelle stesse ore del giorno. La gente che passa non ci fa caso. Chi mai si mette a guardare quelli seduti sulle panchine? Tra di loro, però, si conoscono tutti benissimo. Non era stato forse proprio chiacchierando con la mamma di un bambinetto su una panchina dei giardini di place d’Anvers, mentre aspettava l’ora dell’ap79

puntamento con il dentista, che la signora Maigret aveva scoperto senza volerlo le tracce di un assassino? – Vuole che faccia una retata? – Assolutamente no! Siediti semplicemente sulle panchine e attacca bottone un po’ con tutti. – Va bene, capo, sospirò Neveu, che non era per niente entusiasta di quella prospettiva e piuttosto avrebbe preferito continuare ad andare in giro. Non gli passava nemmeno per la testa che il commissario avrebbe tanto voluto essere al suo posto». Anche Simenon evidentemente si sedeva sulle panchine, se non altro perché era capace di scrivere un romanzo all’aperto nel tempo che impiegava la sua donna di turno a fare shopping (e in effetti ne ha scritto un numero a tre cifre). Nei suoi romanzi c’è una descrizione viva della città e dei suoi abitatori, dei vezzi e caratteri delle diverse classi sociali, i modi di fare, i volti, gli abiti, i pensieri di uomini e donne, con attenzione precisa e compassionevole. Come se avesse fatto proprio lo stupore filosofico e ammirato di Lévinas per la gente comune. Adesso il sole sta tramontando, e io sono seduto su una delle panchine che invidiavo oggi, all’interno dei musei civici, di fronte all’ingresso della famosa Cappella degli Scrovegni affrescata da Giotto. Scopro che su queste panchine ci può andare chiunque, anche senza pagare il biglietto. Accanto a me ci sono resti archeologici romani, vasi e statue tra gli alberi. Come è bello tutto a quest’ora! Il Giardino dell’Arena è vuoto e silenzioso. Solo due ragazze con delle valigette rosse, che bisbigliano sedute su una panchina lungo il vialetto. È il momento degli uccellini, degli animali del parco. La quiete, e la città intorno. Mi viene in mente Ginevra. Sarà 80

perché Padova è una città universitaria, di fuori-sede: la scoperta del mondo, del privato nel pubblico, dello spazio proprio (tranne che i cancelli chiudono alle 17.45). Poi mi immergo nel cielo blu stellato di Giotto, che dà sollievo misto a un senso di vertigine. Si sente che è la prima coraggiosa valorizzazione dell’al di qua, del mondo e delle umane percezioni, quando solo contava l’al di là, e il cielo doveva essere d’oro. Guardo i corpi e la vita negli affreschi, la luce scolpita dalla pittura. Poi lo sguardo deformato si posa sulle panche di legno ai lati della cappella. Quando esco, fuori dal museo trovo Fabrizio. L’ultima volta eravamo in Salento d’estate, serate passate a cazzeggiare sul mare. Lo facciamo anche adesso coi cappotti a Padova, seduti su un muretto in piazza De Gasperi. La piazza è un quadrato, con in mezzo un giardinetto di erba spelacchiata e qualche albero. Nessuna panchina, siamo seduti sul cemento che delimita un bocchettone d’aria del parcheggio sotterraneo. Abbiamo chiesto ai passanti se qui vi fossero prima delle panchine. Tanti «non so», «non ricordo», stupore e perfino timore (da parte di due africani che gettavano rifiuti in un cassonetto). Assenza di memoria o di attenzione. È un quartiere di uffici e di passaggio dopo tutto, palazzi squadrati, materiali freddi, poche abitazioni sotto le luci al neon che si vedono dietro le finestre. Unione Provinciale Artigiani. Due bar. Un’agenzia immobiliare. Cassonetti di rifiuti. Molte macchine parcheggiate intorno. E la vecchia domanda che riemerge – che cosa sia abitare. Solo due ragazzi in un bar ci dicono ridendo che sì, c’erano delle panchine, ma le hanno tolte da tempo. I bivacchi. Interviene un uomo con la barba: c’era pieno di slavi e di rumeni che ci dormivano. Andate a vedere a piazza Mazzini quanti ce n’è. Quasi si agita. Usciamo in quel che resta del prato. L’unica cosa che cattura la nostra atten81

zione è il sentiero che taglia in diagonale il giardinetto, come una pista bianca e storta in mezzo all’erba. Senza panchine, dice Fabrizio, il sentiero è muto e inutile. Poiché entrambi partiremo la sera, non c’è tempo di andare a via Manzoni, tranne un rapido passaggio. È una specie di circonvallazione, un viale a quattro corsie che costeggia le vecchie mura della città, lungo le quali c’erano molte panchine e tavoli, frequentati soprattutto dagli studenti di medicina nella pausa pranzo, ed immigrati naturalmente, dell’Est e del Maghreb. C’è un bar che vende kebab. Ufficialmente il comune le ha tolte per ordinaria manutenzione, ma è chiaro che lo scopo era scoraggiare un luogo di aggregazione spontanea. Studenti, varie associazioni, tra cui il Comitato Diritti Sicuri, hanno protestato e scritto lettere, fino a organizzare una manifestazione il 3 luglio scorso dal nome Notte fucsia (quella ‘bianca’ fu revocata dal sindaco), cui parteciparono anche transessuali vestiti a festa, e si concluse col deposito di una panchina davanti al Municipio. Siamo seduti adesso a piazza Mazzini, su un’elegante, vecchia panchina di legno e ghisa, su cui si legge il marchio di fabbrica: Fonderie Fratelli Silvestri di Fidenza. Sono panchine perfette. Il traffico di automobili e bus che passa nella piazza – in realtà un’arteria, stradone di snodo di chi costeggia il centro – diventa brusio. Si vedono le insegne di un ristorante cinese poco lontano. Si sentono fioche le voci dei cosiddetti extracomunitari in una panchina più lontana, dietro la statua, sotto un grande albero addobbato. Si vede che è un albero di Natale secondario, l’albero dei poveri. Ma è tutto impacchettato di lucine, e il volume del fogliame ha la forma di una zucca, ma anche del cappello di un pascià. Fabrizio dice di un sultano, e ci mettiamo a discutere se Solimano era il nome di un pascià o di un sultano. E l’uva sultanina, perché 82

si chiama così? Perché la mangiava il sultano. Davanti a noi il fianco destro di Mazzini si vede poco perché è buio, ma sotto di lui c’è un leone di bronzo. Intorno, palazzi come se ne vedono nelle cinture dei centri storici delle città, nei quartieri vicino alla stazione, per esempio. Ci hanno indicato questa piazza come area di degrado. Ma il degrado è dato dal fatto che non è, o non è più, una piazza, ma un’arteria, dove Mazzini non c’entra più niente, né c’entrano gli alberi, né le panchine, né un progetto abitativo. E questo nonostante gli sforzi dei cosiddetti extracomunitari di abitarla, di abitare le panchine. L’unica parvenza di piazza, nel senso più bello della parola, sono loro, la causa presunta del degrado. L’unica comunità visibile. Stiamo bene, Fabrizio e io, perché sappiamo: che queste panchine sono state pensate, e fabbricate con cura, pensate per altri uomini, per un’altra civiltà. Sono l’unico elemento estetico di tutta la zona, dice Fabrizio. Dove pulsa la vita, mentre l’arteria della circolazione di auto e bus è, anche fuori di metafora, senza sangue. È una sera senza stelle. Ma Giotto ha ragione, il cielo è blu.

«Tutto è presente e immanenza»

Avevo citato prima il walseriano Sebald, scrittore tedesco trapiantato in Inghilterra e morto cinquantasettenne nel 2001 (in realtà un apolide flâneur). La sua prosa, che è un vagabondaggio colto e spesso ossessivo, mescola le forme discorsive in qualcosa di inedito, dove è indistinto o abolito il confine tra ragionamento e finzione, tra critica e romanzo. Al fraseggio sempre oscillante tra infinito e incompiuto aggiunge poi un’iconografia parallela, inserti visivi che interagiscono con le parole: foto sgranate, mappe, disegni, biglietti di treni o musei, ecc. Voglio citare qui un suo racconto dal titolo All’estero, che fa parte di un libro intitolato Vertigini. Anche lui parla del Veneto. Nel 1980, durante un viaggio che assomiglia a una fuga a vuoto, un girovagare petrarchesco che dall’Inghilterra lo porta a Vienna, e da lì a Venezia e a Verona, il narratore si dedica a delle ricerche sul pittore Pisanello, «la ragione per cui avevo deciso di raggiungere Verona». E a stazionare quindi nella chiesa di Sant’Anastasia, dove si può ammirare l’affresco su san Giorgio e il drago terminato nel 1435 da Pisanello. Continuando a leggere questo racconto si capisce perché questo pittore è così importante. In realtà nulla della narra84

zione di Sebald fa presagire un punto di arrivo. Prima racconta un vagabondare solitario e opprimente a Vienna (l’ultima passeggiata è nei sobborghi, in compagnia di un amico lungodegente di un asilo psichiatrico), poi si sofferma sui fantasmi più o meno letterari che vanno e vengono nel suo silenzioso ozio veneziano. Punto culminante del soggiorno a Venezia, tramite la lettura del Diario del viaggio in Italia (1819) di Grillparzer – che paragona il Palazzo Ducale prima a un «coccodrillo», poi a un informe «enigma di pietra» – e poi con una serie di coincidenze letterarie e associazioni di idee, sarà l’accorgersi di essere in contemplazione della prigione dei Piombi lo stesso giorno della fuga di Casanova, il 31 ottobre. Il giorno dei Morti decide di ripartire, e al buffet della stazione di Santa Lucia i clienti che affollano il bancone gli sembrano «una vasta cerchia di teste mozze» addossate sul marmo. A Verona si rifugia nel magnifico Giardino Giusti, dove si sdraia su «una panchina di pietra all’ombra di un cedro». Seguono frasi colme di una tenera suspense, dove la poetica dell’idillio – il mondo interno dell’esterno e viceversa – vissuto lì sulla panchina è un crescendo di tensione compressa: «Udivo l’aria affluire e defluire attraverso i rami, e il lieve rumore che il giardiniere faceva rastrellando i viottoli di ghiaia fra le siepi di bosso, il cui delicato profumo riempiva persino quell’aria già autunnale. Da un pezzo non mi sentivo più così bene...». Il fatto è che l’ansia, nella prosa di Sebald, non viene da quello che racconta, ma da come lo racconta, in un basso continuo e quasi senza puntuazioni. Tutto si concatena con tutto, anche il fatto che a Verona, in una pizzeria, lo sguardo gli cade su un giornale che parla di misteriosi ed efferati omicidi avvenuti nella zona, rivendicati da un sedicente gruppo Ludwig (giovani neonazisti di buona famiglia che 85

vennero arrestati negli anni Ottanta). Ecco ora perché è importante la pittura di Pisanello: «Davanti alla pittura del Pisanello, già anni prima mi ero detto pronto a rinunciare a tutto, fuorché alla vista. Ciò che mi affascinava in lui non è solo la sua arte realistica, eccezionalmente sviluppata per quell’epoca, ma anche il modo in cui gli riesce di far germogliare quest’arte su una superficie di fatto inconciliabile con il realismo pittorico e nella quale viene accordato a ogni cosa – ai protagonisti e alle comparse, agli uccelli in cielo, all’inquieto bosco verdeggiante e a ciascuna singola foglia – il medesimo diritto all’esistenza, da nulla sminuito». Rileggiamo questa frase. In essa il «particolareggiamento» del Pisanello richiama per effetto di riverbero – mise en abîme o autoreferenzialità – la scrittura di Sebald. La saturazione narrativa e l’attenzione panica (che conosciamo nei suoi bellissimi romanzi Migranti, Austerlitz, Gli anelli di Saturno) si fa qui poetica esplicita, progetto: «tutto è presente e immanenza». È una delle migliori definizioni delle panchine, e del mondo visto dalle panchine. Ancora sul Nord-Est. Qualche giorno dopo la mia gita a Padova, ho ricevuto da Fabrizio Gloria, il mio cugino d’adozione, questa lettera: «Caro Beppe, mi hai chiesto di raccontarti come sono le panchine a Belluno: la loro forma, il materiale con il quale sono costruite, le dimensioni e se, dal punto di vista della loro collocazione, siano ancora ritenute un valido strumento di coesione sociale da parte dell’Amministrazione comunale. Così, mi sono messo a cercare o, per meglio dire, a guardare meglio. Come ogni giorno, mi capita di attraversare piazza dei Martiri, a Belluno. Mi piace fare sempre lo stesso percorso: passare da sotto porta Doglioni, fiancheg86

giare il teatro comunale e camminare all’interno del piccolo parco, da dove è possibile tenere con lo sguardo tutto il porticato che delimita come un taglio di lama l’intera piazza. Allora mi siedo su una panchina e mi metto a pensare a cose mie, oppure semplicemente a osservare. Dal parco, infatti, è possibile vedere i tavolini dei bar collocati all’interno della piazza, che da sempre mi rimandano alle tante parole che si scambia la gente e alle possibili vite che sembrano promettersi. E mi viene spontaneo considerare che la vita in generale nei bar appare sempre migliore. Questa mattina, invece, è un po’ diverso. Dapprima sono andato dove sapevo con certezza che le avrei trovate. Al mio solito posto, dove prediligo di più stare. All’interno del giardino ho notato che le panchine sono cambiate. Non hanno più la forma classica. Adesso sono di legno chiaro e separate nel mezzo da un elemento divisorio. Più in là, verso sinistra, vi sono delle altre panchine in cemento. Sono disposte lungo tutta la circonferenza ritagliata da una fontana che si trova al centro. Mi alzo e decido di muovermi verso piazza Santo Stefano. Appena arrivato noto lungo il lato destro del sagrato della chiesa tre panchine di legno con base in metallo, che non credo sia ferro. Mi siedo, e penso che sarebbe anche bello provare a descrivere non soltanto i luoghi dove le panchine sono già presenti, ma anche quei posti dove se ne avverte la mancanza, come nella piazzetta di Santa Maria dei Battuti, parallela a via Mezzaterra. E mentre mi alzo per proseguire il mio giro, mi fa sorridere l’idea che un giorno non lontano potremmo imparare a educarci alla bellezza indicando i luoghi dove se ne avverte l’assenza. Ora attraverso il parco comunale. Nell’osservare i bambini che giocano, provo un senso di nostalgia. Vorrei sedermi. Ma le panchine in griglie di metallo, dislocate nel parco, mi 87

comunicano un senso di disagio. Ho voglia di tornare a casa. Sarà per il freddo che mi ha preso dentro, ma mi sento solo, proprio come l’unica vera panchina che casualmente avrei scoperto il giorno dopo mentre fumavo nel cortile della succursale della scuola nella quale insegno. Come quelle di una volta, nascosta tra gli arbusti di una pianta, di fianco ad una scala in muratura che porta all’ingresso di una casa, mi ha rimandato con la mente ad una poesia, In Amabile Azzurro di Hölderlin».

Lessness

La morte di Samuel Beckett, appartato eroe della parola e del silenzio, ci turbò e ci sorprese il 22 dicembre 1989 perché nessuno di noi lo immaginava ‘vivo’, vivo di quella stupidità dei viventi condannati a essere presenti, o peggio oggetto dei telegiornali e della loro marmellata audiovisiva. Ma furono proprio loro a darne la notizia, subito dopo le cronache e le descrizioni dei saccheggi che si stavano compiendo a Bucarest, del linciaggio del dittatore Ceausescu (da poco era caduto il Muro di Berlino). Curiosa ripetizione della Storia: scrissi su Beckett per un giornale, in occasione dell’uscita di un libro delicato di ricordi della sua amica Anne Atik, moglie del pittore Avigdor Arikha, e nell’anniversario della sua morte, mentre giornali e Tg diffondevano il patetico volto barbuto di un altro tiranno in un altro finale di partita, Saddam Hussein, simile in tutto a un clochard o a un senza casa del metrò di Parigi, e perché no a un personaggio di Samuel Beckett, tipo Malone muore. L’opera di Samuel Beckett, premio Nobel nel 1969, è quasi interamente un dare voce, a volte balbettio, a un universo di barboni, reietti, uomini e donne anziane e infermi, spesso immobili su una panchina. Il suo teatro non ha nulla di so89

ciologico, tutt’altro. Non incornicia e non fa vedere niente di speciale, tranne il genere umano, di cui i lettori sono parte. Nello stesso tempo è un’opera che mostra il tentativo di andare oltre i limiti del linguaggio, che non sono mai al di là, ma al di qua: in uno scavo della lingua, in una tensione o torsione delle parole, in una loro ostensività, come nei pronomi dimostrativi che tanto hanno allucinato e illuminato i filosofi (il questo, il qui, il qui e ora, il ci dell’esserci, o Dasein, ecc.). Un programma ascetico, che si descrive di solito con aggettivi come spoglio, nudo, essenziale, e che forse si può cercare di cogliere anche da un aneddoto raccontato da Emile Cioran. Quando Beckett tradusse il suo testo Senza dal francese all’inglese, coniò per il titolo il neologismo lessness, che Cioran definì una «inesauribile mescolanza di privazione e d’infinito, vacuità sinonimo di apoteosi» (analogo al «vestirsi di ciò che ci denuda» che evocavo sopra da qualche parte). Cioran cercò senza trovarlo un neologismo francese equivalente a lessness. Ecco, la qualità di quell’essere-senza, «sineità», linguaggio che si sottrae a se stesso, è l’inquietudine maggiore che l’opera di Beckett ha prodotto nella nostra epoca. Se tutta la scrittura di Beckett ha la povertà e l’essenzialità di una panchina, il suo teatro ne è come una grande estensione, anche metaforica. Aspettando Godot, il suo testo più famoso, che deve molto al retroterra irlandese di storie di vagabondi e mendicanti, prevede come unica scenografia una stradina e un albero scheletrico, sotto cui indugiano i due personaggi vestiti quasi come clown, Vladimiro ed Estragone. Ma è stato spesso rappresentato anche con una panchina: la loro conversazione comica e assurda sembra proprio il dialogo di due sbandati su una panchina. L’intera situazione dell’opera esprime la concezione del teatro (e della vita) di Samuel Beckett: aspettare che qualcuno arrivi, o che accada 90

qualcosa, che possa cambiare gli eventi – che è poi l’elemento chiave del teatro moderno. Per Beckett «tutto il teatro è un aspettare», e gran parte dei suoi testi sono varianti della stessa situazione, un’attesa più o meno ricca di tensione drammatica. Ma c’è un silenzio speciale e concreto in Aspettando Godot, se Vladimiro ed Estragone si sentono in dovere di riempirlo con tante parole e buffonerie, in una gesticolazione linguistica continua e inconcludente, come se non ci fosse nulla di più drammatico di quel vuoto, di quel niente, di quel silenzio, né nulla di più reale (e questa idea affonda nelle letture filosofiche di Beckett). La qualità drammatica dell’attesa e del niente Beckett li aveva imparati però anche dagli anni della guerra e della Resistenza (cui partecipò attivamente), e la coppia che sopraggiunge, Pozzo e Lucky, ricordano un kapò tedesco e la sua vittima. Non è un caso se i suoi testi teatrali sono stati accolti e rappresentati con tanto favore e fervore da carcerati e detenuti di mezzo mondo, come il San Quentin Drama Workshop, dal carcere americano di San Quentin. Non è necessario sottolineare che la situazione dell’attesa e quella della panchina si assomiglino. La panchina è al limite surrogato, consolazione e memoria di attese più claustrofobiche e angosciose. E Beckett, formidabile passeggiatore solitario già a Dublino e a Londra, che nella routine parigina vagabondava quasi ogni giorno nel Jardin du Luxembourg o nel Parc de Montsouris, entrambi vicini a casa, aveva un rapporto molto naturale con le panchine (e con i bar). Quanto alle carceri, che trovava penose, ne sentiva le urla dalla sua casa a boulevard Saint-Jacques. Alla fine di gennaio del 1965 Beckett dedicò a una panchina un «drammino (una pagina e mezza, tre o quattro minuti di registrazione)», dal titolo Come and go (Va’ e vieni): tre perso91

naggi femminili stanno seduti su una stretta panchina, quasi invisibile in una zona di luce fioca al centro della scena. Ogni donna fa una sola uscita, e le altre due parlano ogni volta, sussurrando, dell’assente, esprimendo preoccupazione e perfino orrore. Capita a ognuna delle tre di essere assente. C’è simmetria nelle parole, nei gesti, nei movimenti, e la condizione delle tre donne diafane sulla panchina è la condizione universale. «Sono condannate tutt’e tre», scrisse Beckett a un’amica. È l’umanità in generale a essere condannata. In panchina. Ma è il romanzo giovanile Primo amore, scritto nel dopoguerra e pubblicato solo nel 1970, che rappresenta una panchina al centro della narrazione. È un testo ancora abbastanza tradizionale che Beckett non amava, e che risale a prima della sua svolta narrativa. Risente in modo un po’ caricaturale dell’immagine che Beckett dava di sé in un certo periodo della vita, come sintetizza un dialogo del 1932 con Walter Lowenfels, un amico della cerchia di Joyce a Parigi, riportato dalla biografa americana Deirdre Bair: «Alla fine (racconta Lowenfels) sbottai: ‘Tu te ne stai seduto lì, senza dir nulla, mentre il mondo va a rotoli. Che cosa vuoi? Che cosa vuoi fare?’ Beckett incrociò allora le sue lunghe gambe e mormorò: ‘Walter, tutto quello che voglio è stare seduto sul mio culo, e scoreggiare, e pensare a Dante’». In Primo amore il personaggio e narratore conosce Lulu su una panchina ai bordi di un canale, «una panchina in ottima posizione, addossata a un cumulo di terra e di detriti induriti, cosicché alle spalle ero coperto». Stava lì sdraiato come ogni giorno, guardando il cielo e gli alberi, il tempo era dolce, quando la voce di una donna gli chiede di fargli posto. Il primo impulso fu di andarsene, ma le fece spazio. Lei prese a venire lì sulla panchina tutti i giorni. Un giorno, racconta, pioveva, e lui si credeva tranquillo, ma sbagliava. 92

«Le domandai se rientrava nei suoi progetti venire a disturbarmi tutte le sere. La disturbo? disse lei. Mi guardava senza incertezza. Non doveva vederci granché. [...] Credevo che stessimo bene, disse. Lei mi disturba, dissi, quando c’è lei non posso allungarmi. Parlavo nel bavero del mio cappotto e lei mi sentiva lo stesso. Ci tiene così tanto a allungarsi? disse. Il torto che abbiamo è di rivolgere la parola alle persone. Non ha che da appoggiarmi i piedi sulle ginocchia, disse. Io non mi feci pregare. Sentivo le sue cosce paffute sotto i miei poveri polpacci. Si mise a carezzarmi le caviglie.» I due andranno a vivere a casa di Lulu. Lui non la ama, lei fa la prostituta. «Quel che si chiama amore è l’esilio, con una cartolina da casa di tanto in tanto.» Ma l’immagine di Lulu che trattiene, anche quando se ne andrà via da lei, è quella della panchina, la panchina della sera, «dimodoché parlare della panchina, come mi appariva la sera, è parlare di lei, per me». Nel 1983, anno di uscita dell’Ultimo buco nell’acqua, Giorgio Messori e io facemmo anche un film, con una fitta banda di amici, tra cui un regista di Berlino declassato a cameraman, Johannes Flütsch, e un’amica svizzera di nome Irene. Facemmo interpretare a loro due la scenetta della panchina di Primo amore, su una panchina di assicelle di plastica colorate. Ricordo che lui aveva dei pantaloni rossi e una camicia hawayana, lei una voce vellutata con uno straniante accento svizzero tedesco. Fu una scenetta deliziosa, anche per la variante di lui che dopo le parole estrasse a sorpresa un ranocchio dal taschino della camicia, dando un finale comico e dolce alla scena. Il film si chiamava Questo periodo non finisce mai. Era dedicato alla scrittura, e c’era la presenza costante di una panchina. Fu girato in tre giorni e tre notti dentro uno studio fotografico, fumavamo tutti come pazzi, e nell’insieme risultò molto claustrofobico. 93

Scandali, evasioni

Il 4 ottobre 2007 avevo letto sul giornale questa notizia: «Milano, ‘evade’ dalla panchina. Scontava gli arresti domiciliari nel parco. Colpevole del furto in un supermercato, ‘imprigionato’ in un giardino pubblico ora è a San Vittore. La polizia lo sorprende lontano dalla sua ‘cella’. Processo per direttissima rinviato». L’uomo in questione si chiama Antonio Capone, quarantunenne di Avellino. La sua cella, appresi, era una panchina, anzi l’unica panchina, di piazzale Aquileia a Milano, da cui non poteva muoversi dalle 7 del mattino alle 9 di sera. Non solo si era mosso da lì, ma il reato che aveva commesso questa volta era stato rubare una maglietta e un paio di calze in un supermercato vicino alla panchina. Aveva freddo. Ignoro quale fosse il reato originario per cui doveva scontare la pena, e le circostanze che spinsero il giudice a decidere che la scontasse su quella panchina eletta a domicilio. Dato che la panchina è posta nelle immediate vicinanze del carcere di San Vittore, si può ipotizzare che per Capone fosse una questione di orientamento, di familiarità e prossimità a un luogo che conosceva bene, più che per via di una facilità di controllo da parte del personale penitenziario. In effetti, il 94

reo era stato perso di vista e quindi accusato di essere fuggito, e ha dovuto andare in una cella vera, al chiuso. La cronaca parlava di un processo per direttissima che si sarebbe dovuto svolgere nell’ottobre del 2007, ma poi aggiungeva che il giudice aveva deciso di rinviare il dibattimento di una settimana, per accogliere la richiesta di patteggiamento presentata dall’avvocato dell’‘evaso’. Non ho più saputo niente, e la mia curiosità – se si possa ‘evadere’ anche da uno spazio aperto – è restata, se così posso dire, inevasa. Questa storia vera mi ha fatto venire in mente un personaggio di Italo Calvino, Marcovaldo, che in un capitolo delle sue avventure, La villeggiatura in panchina (1956), parla appunto di una panchina che vorrebbe eleggere a proprio letto. «Andando ogni mattino al suo lavoro, Marcovaldo passava sotto il verde di una piazza alberata, un quadrato di giardino pubblico ritagliato in mezzo a quattro vie.» E c’era, «in un angolo della piazza, sotto una cupola di ippocastani, una panchina appartata e seminascosta. E Marcovaldo l’aveva prescelta come sua». È estate, e sogna di svegliarsi sotto il cinguettare dei passeri, che a lui sembrano usignoli, piuttosto che al suono della sveglia e allo strillo dei figli neonati e della moglie. Pregusta perfino il contatto di quegli assi di legno che immagina morbidi e accoglienti, e insomma «sognava la panchina come un senza tetto può sognare il letto d’una reggia». Il resto della novella assomiglia a un film di Jacques Tati, una serie di gag di un antieroe nevrotico che si scontra prima col fatto che la panchina è occupata da una coppia più nevrotica di lui che non smette di litigare in modo inconcludente, poi è disturbato dalle luci del semaforo, poi dal rumore degli operai che riparano le rotaie del tram, dalla fontana che zampilla, dal camion della spazzatura, dal vigile urbano, e così via. 95

Che io sappia, le prime apparizioni delle panchine nei romanzi italiani avevano un sapore verista o scapigliato, da Alfredo Oriani (dove la panchina è addirittura «ignobile» in Quartetto, ma già più contemplativa ne La bicicletta), al Verga delle Novelle rusticane (Malaria), dal Demetrio Pianelli di Emilio De Marchi agli accenti convulsi e disperati di Tre croci di Federico Tozzi. Solo La coscienza di Zeno di Svevo, non a caso nel capitolo intitolato Moglie e amante, fa un uso per noi riconoscibile della panchina, luogo appartato dove sedersi e pensare agli affari propri. Alberto Moravia, in un romanzo del 1988 dal titolo Il viaggio a Roma, descrive una panchina senz’altro autobiografica di Villa Balestra, «grande prato rettangolare» nel quartiere Parioli. Il protagonista ha appuntamento con una specie di donna «schermo». «Ho alzato gli occhi verso il cielo; i fogliami rotondi degli smilzi, altissimi pini, lassù, sullo sfondo dell’immensa deriva di cirri dello scirocco, non palpitavano e svariavano al vento come tutti gli altri giorni, ma apparivano opachi e immobili; i cipressi neri e ritti stavano fermi come sentinelle ai quattro angoli del prato. Aldilà del parapetto, il panorama dei tetti e delle terrazze di Roma si stendeva, senza luce, velato dall’afa, fino alla remota minuscola cupola di San Pietro.» La donna è già seduta sulla panchina: «una figura femminile seduta tutta sola con un libro in mano, su un banco a ridosso della muraglia di cinta. L’ho riconosciuta dalla gonna pieghettata...». Condurrà con lei, sulla panchina, un dialogo ambiguo, fatto anche di ginocchia che si toccano. Non conosco Villa Balestra, ma ci sono un sacco di ville a Roma, cioè di parchi, bellissimi e pieni di panchine. I miei preferiti sono il Giardino degli Aranci sull’Aventino e il piccolo giardino soprelevato del Cimitero degli Inglesi, detto Ci96

mitero dei Poeti, o Cimitero acattolico, uno dei più bei luoghi di Roma. Poi c’è l’Orto botanico, tra il Gianicolo e Trastevere, dove si paga un biglietto e si viaggia in una geografia botanica e silenziosa. Mi piace sedermi sulle panchine tra le piante del Giappone e quelle del Mediterraneo, o vicino a una fontana circolare frequentata da dei gatti selvaggi. È un luogo appartato in pieno centro che sa far dimenticare la città. Stefania mi ha raccontato che all’Orto botanico, dove andava tutte le mattine quando suo figlio era piccolo, si sedeva su una panchina vicino a una fontana, sotto un albero strano, e mentre il bambino disteso nella carrozzina guardava incantato le foglie, un pettirosso si posava sulla panchina di fianco a lei. Tempo fa c’era una coppia che faceva l’amore su una panchina, non nascosti ma addirittura in rilievo su un’altura dove ci sono decine di rose (è una panchina solitaria, in effetti), ma mi sembrarono naturali come se fossero usciti dalla scena del sesso collettivo di Zabriskie Point. Era poco prima della chiusura del giardino, e lo facevano con tanta innocente intensità che, quando lo vidi, attaccai bottone col custode bloccandolo nel suo giro di ricognizione, a protezione ideale della coppia. Non sono più i tempi della canzone di Georges Brassens sugli innamorati delle panchine, Les amoureux des bancs publics, che ironizzava sullo sdegno dei passanti scandalizzati dai loro baci, ma non si sa mai – e del resto sbaglio sempre le mie diagnosi sociali. Ho sempre simpatizzato con chi serenamente dà scandalo, anche perché spesso sono stato io a suscitarlo. Il Cimitero acattolico è un’altra oasi. Sopraelevato rispetto alla città, sembra addirittura un’isola e dai suoi prati si vede emergere dal basso la surreale Piramide, stando seduti su una panchina a fianco della tomba di John Keats. Ma anche 97

passeggiare nei sentieri tra le tombe è piacevole, e nel silenzio è come visitare un museo, e provo sempre un’emozione nel trovarmi davanti al semplice rettangolo della tomba di Antonio Gramsci. Tra le tante, c’è la tomba di Gregory Corso, il poeta che incarnava da solo, diceva Ginsberg, tutta la beat generation. Gregory Corso, l’autore di The Bomb, poesia scritta a forma di fungo atomico, passò dal riformatorio e poi dal carcere, dove entrò scassinatore e uscì poeta, innamorato di Marlowe e di Shelley. Della prigione scrisse che «a volte anche l’inferno è un buon posto, se serve a dimostrare con la sua esistenza che deve esistere anche il suo contrario, cioè il paradiso. E cos’è questo paradiso? La poesia». Corso restò comunque un alieno, randagio e ribelle, vera incarnazione dello straniero (il poeta è spesso come l’ebreo): non chi arriva oggi e riparte domani, come il turista, ma chi arriva oggi e domani non parte, e resta ad aggiungere una nuova modalità di relazione con gli altri. Gregory Corso straniero lo fu ovunque, e nei primi anni Ottanta soprattutto a Roma, tra Campo de’ Fiori e il Beat 72, il Folk’s Studio di via Gaetano Sacchi e il Music Inn, il bar di San Callisto e la vineria del «Tedesco» in via del Governo Vecchio – e in tutti i posti in cui si può testimoniare di averlo visto parlare, ridere, bivaccare. Dove my casa? (1987) non è solo il titolo di una sua raccolta di poesie, ma la frase che immancabilmente a una certa ora della notte Gregory Corso ripeteva guardandosi intorno, quando chi aveva condiviso tempo con lui si congedava per tornare a casa. Gregory Corso non aveva mai una casa. La città era per lui un’immensa panchina. Ma Roma fu per Corso un luogo in cui afferrare, non importa se illusoriamente, radici antiche e un’appartenenza simbolica: a cosa può anelare di più un poeta che una rela98

zione simbolica? (il symbolon, nell’antichità, suggellava il patto di ospitalità e protezione che si dava allo straniero). Di sicuro Roma era il luogo in cui volle restare: dove cioè i suoi resti, in cenere, in simbolo, permanessero a fianco di quelli del suo amato Shelley nel Cimitero dei Poeti al Testaccio. E così fu. Alla cerimonia funebre gli amici buttarono di tutto nella tomba, alcool e droghe soprattutto. Sotto le date di nascita (26 marzo 1930) e di morte (17 gennaio 2001), sulla lapide è incisa una poesia di Corso: «Spirit / is Life / It flows thru / the death of me / endlessy / like a river / unafraid / of becoming / the sea» (Lo Spirito / è Vita / Attraversa / la mia morte / all’infinito / come un fiume / che non ha paura / di diventare / mare). Al momento della mia ultima visita, tra gennaio e febbraio, sulla tomba qualcuno aveva fermato con un sasso un foglietto a righe sbrecciato. Non ho potuto fare a meno di leggere la prima e l’ultima frase di questa specie di appello o di ex voto: «Extreme love said: which past I have to live? […] Pray the Angels to call 334...». La tomba è una lastra quadrata, accanto a quella di un patriota canadese e appena un po’ più giù di quella di Percy B. Shelley, su cui svetta una rosa fresca e lunga color rosa. Poco più in là, la tomba di Amelia Rosselli. Poi c’è il Gianicolo, c’è Villa Sciarra. Le mie attuali panchine. San Cosimato, la mia piazza.

Gennaio

Fino a un paio d’anni fa c’erano le panchine a cui si pensa normalmente quando si dice «panchina», sistemate sotto i platani, tra i quali il grande e storico platano di San Cosimato. Servivano alle vecchiette per chiacchierare, alle signore per fermarsi lungo il cammino dalla spesa al mercato a casa, alle mamme per guardare i bambini, alle altre donne del quartiere per parlare di sesso, ai polacchi (era il periodo dei polacchi) per bere il vino da cartoni e dormire la notte. C’era un brusio collettivo intenso e familiare, ma mi trovavo benissimo anche a sedermi in solitudine. San Cosimato era una piazza di paese, com’è Trastevere rispetto ad altri quartieri della Capitale. Diversi anni fa, una mattina, i trasteverini trovarono una panchina diversa sistemata distante dalle altre, sul lato del ristorante Corsetti. Una panchina stonata, grigia, pesante, e un crocchio di persone si formò intorno a quella intrusione di pietra. Sedile lungo e stretto e schienale dritto e altissimo. Qualcuno si sedette: scomodissima. Orribile, concordarono tutti. Un signore più curioso degli altri cominciò a esplorare la panchina grigia in ogni angolo, finché accovacciandosi vide una scritta incisa in basso, dietro lo schienale: «Gli architetti Tizio e Sempronio per Massimo Fagioli». Il guru della 100

psicanalisi Fagioli ha infatti lo studio-teatro a San Cosimato. Due pomeriggi la settimana una folla di ‘fagiolini’, allora come oggi, attendeva pazientemente e tristemente l’apertura della porta del palazzo, ed entrava in fila indiana come al suono della campanella di una scuola. La panchina era opera di due allievi, pazienti, fan? Comunque fosse, quel regalo per Fagioli imposto alla piazza non piacque ai trasteverini e tre giorni dopo un camion del comune parcheggiò e ripartì colla panchina grigia sul rimorchio. A pensarci sembra una profezia. Da poco tempo una ristrutturazione (un ‘abbellimento’?) ha ricoperto i pavimenti della piazza di grigio, e circondato con un inutile muretto grigio lo spazio alberato dove giocano i bambini, e dove prima c’erano le panchine verdi sparse qui e là. Ai lati della piazza altre panche grigie, ma perlomeno larghe di sedile. Per fortuna il mercato, i colori della frutta e della verdura, il traffico dei corpi, la gente, le grida dei bambini che giocano a palla o con lo skateboard, oltre ai colori pastello delle case e alla luce di Roma, hanno finito per distrarci dall’abbellimento. E nella lunga panca marrone interrotta da braccioli che contorna il muro grigio continuo a sedermi. Abito a Trastevere alle pendici del Gianicolo, e so l’avvicinarsi del pranzo dal colpo di cannone sparato a mezzogiorno dal colle. Sono circondato di scalinate per arrampicarmi sul colle panoramico, ma dalla terrazza sul tetto vedo quasi le stesse cose che dal Gianicolo, quindi non è per i belvedere che ci vado. È che il Gianicolo è un luogo speciale, dotato di una sua extraterritorialità che si trasmette e fa sentire liberi, beatamente stranieri. Oltre che parchi e panchine, ci sono ambasciate, accademie, università americane, istituti pontifici, conventi, luoghi di studio e di ritiro laici e religiosi, qualche alber101

go (di lusso), scuole, ospedali pediatrici (ex brefotrofi). Sembra che qui la città sia davvero finita (o stia per iniziare). Se ci si trova sullo spiazzo più frequentato del Gianicolo, piazza Garibaldi, tra suoni di giostre, grida di burattini e lo stereo del Copacabana Café (un chiosco), che spiccano nel vocio di famiglie con bambini, di innamorati e di turisti, e se si guarda non dalla parte della città, che si estende biancosporca allo sguardo dalla Farnesina a San Giovanni, facendo emergere cupole di chiese e creste di palazzi di cui ignorate il nome (e la bacheca di plexiglas col disegno della città e le didascalie non aiuta, coperta com’è dall’unto di milioni di dita e altrettanti graffiti), se si guarda dall’altra parte, quella di Villa Pamphili, ebbene, quello che si vede è pura campagna. La città è scomparsa (ricompare più avanti, mentre si avvicinano la cupola di San Pietro e la punta dorata della Chiesa Russa). Forse la cosa più importante del Gianicolo è il cielo. Non si va sul Gianicolo per vedere Roma, ma per sentirsi a contatto col cielo. E la città quasi a strapiombo, con le panchine in riva, sembra che sia, a volte, il mare. Quando ci vado, salendo rampe e scale, prima di tutto faccio una sosta su una normale panchina di legno nel cortile del Chiostro del Bramante, attiguo alla chiesa di San Pietro in Montorio. Nella chiesa c’è un quadro, nella seconda cappella a sinistra, che a suo modo racchiude la misteriosa bellezza e sacralità del Gianicolo. Lo ha dipinto un discepolo del quattrocentesco Antoniazzo Romano e raffigura «Sant’Anna, la Vergine Santissima e Gesù bambino». A me aiutò a guardarlo, in un incontro casuale, un gentile signore con la barba, Marcello Beltramme, coltissimo autore di saggi di storia dell’arte. Il segreto del quadro, mi spiegò, è quello dell’Immacolata Concezione, ovvero la Grazia. La madre della Madonna, del cui grembo il resto del quadro è emanazione, tiene un 102

libro e lo legge assorta. Quel libro letto da sant’Anna è il nodo teologico cruciale: lei sa per esso i segreti del mondo, la Via, le Scritture. La Madonna guarda invece davanti a sé, ci guarda con tale serenità e forza interiore che il suo sguardo intenso ci riguarda (qualunque attrice o top model darebbe inutilmente l’anima per avere quello sguardo, ma non è una posa). Il quadro suggerisce quindi che l’Immacolata Concezione, contrariamente al senso comune, non sarebbe una procreazione senza la sessualità, ma l’immunità radicale, l’esenzione dal peccato originale, il riscatto di Eva: promessa di una salvezza indipendente dalla Chiesa e dal peccato. Confortato da quel quadro mi sono convinto da tempo che il mio grazioso vagabondare in quel porto franco che è il Gianicolo, il salvarmi ogni tanto su una panchina, mi metta a contatto con la Grazia salvifica (per tutti), con la liberazione dalla colpa. Ma c’è una sacralità speciale del Gianicolo. Il richiamo al dio Giano collega una pluralità di miti che rimandano a una religiosità radicale: Giano è il dio delle porte (ianua, porta, da cui ‘gennaio’), dei solstizi e degli equinozi, degli inizi e delle iniziazioni; è il dio della nascita, delle soglie, del cammino e dei passaggi, quindi, perché no, delle passeggiate; una specie di dio buddhista delle ‘porte senza porta’, sinonimo di ‘illuminazione’. Il suo essere ‘bifronte’, o ‘gemino’, in qualche modo androgino (o transessuale?), lo rende il dio che dissolve i dualismi. Ci sono molte leggende salvifiche sul Gianicolo, da Ovidio a Virgilio, dal re Anco Marcio al re Numa Pompilio, sepolto lì. Da quella di Giano-Noè, che dopo il diluvio sarebbe approdato a Ripa Grande (Trastevere) e vissuto sul Gianicolo, al martirio di san Pietro, avvenuto dove sorge la chiesa detta in Montorio (Monte d’oro). Oltre all’italico eroismo di cui il Gianicolo è sempre stato teatro, da Muzio Scevola a Garibaldi. 103

La passeggiata del Gianicolo l’ho rifatta a Capodanno. Uscendo dalla chiesa di San Pietro in Montorio ho guardato i pini e le palme che svettano contro il cielo e le nuvole, e i turisti che guardavano il panorama di Roma tra lo scroscio d’acqua del Fontanone (la fontana dell’Acqua Paola) e l’Ambasciata di Spagna. Dopo qualche passo nel viale del Parco di Villa Corsini, che costeggia l’Orto botanico, sono entrato nella «Passeggiata del Gianicolo», più affollata del solito. Nello spiazzo erboso circondato dai busti severi e barbuti dei garibaldini galleggiavano decine di detriti colorati di petardi esplosi e bottiglie di champagne. Andavo da una panchina all’altra. Ho sorriso alla solita folla, su cui troneggiavano palloni colorati tenuti col filo, in piedi a guardare come un’olografica tv per aria il teatrino dei burattini di Carlo Piantadosi, che «sopravvive per le generose offerte del pubblico (non fatelo morire)». Il Copacabana Café e il chioschetto erano ugualmente sgargianti, colle loro musiche e gli sgabelli unti. Ho superato Villa Lante, grosso confetto color cappuccino, covo di umanisti finlandesi in seno alla loro ambasciata presso la Santa Sede, e ho contemplato bottiglie lasciate sul muretto panoramico con la scritta GIULIO TI AMO. Di fianco, una giovane coppia verosimilmente straniera pranzava sulla panchina perfettamente apparecchiata con calici di cristallo e una bottiglia di Champagne. All’improvviso tutte le campane della città hanno preso a suonare come un immenso metafisico pascolo di vacche. In prossimità del Faro, all’altezza del muretto con su scritto VOGLIO MORIRE DI TE, PULCINA, ho sentito un grido venire dal carcere di Regina Coeli, proprio giù di fronte. Ho ricordato le storie dei dialoghi lancinanti tra chi è fuori e chi è dentro, tra le mogli e i mariti (Samuel Beckett, che abitava a Parigi vicino alla prigione, ascoltando grida così scrisse Finale 104

di partita). Ho calpestato cocci di vetro e petardi consumati come un campo di battaglia, fino alla terrazza detta Anfiteatro che circonda la Rampa della Quercia. Mi sono seduto su una panchina a contemplarla – la quercia del Tasso, naturalmente, quella su cui ironizzò meravigliosamente Achille Campanile (che secondo lui era un tasso, abitato da un tasso, detto il tasso del tasso del Tasso), la quercia, dicevo, alla cui ombra il Poeta, recita la lapide, «vicino ai sospirati allori e alla morte ripensava silenzioso le miserie sue tutte». Sembra un’istallazione di arte povera, un pezzo morto di tronco sostenuto da una trave di ferro: monumento alla ruggine, alla cenere, alla sopravvivenza. Quindi alla poesia. La scritta sul muretto attiguo dice un sopravvivere a portata di tutti, come un sms: TANTI AUGURI AMORE MIO – TI AMO TROPPO. Poi sono arrivato al convento di Sant’Onofrio, dove Torquato Tasso scelse di morire: un’oasi gestita dai frati francescani dell’Atonement (non so cosa significhi). Seduto su una delle due panchine di pietra, sull’erba di fianco alla fontana zampillante, ho pensato come doveva essere quando lo visitarono commossi Goethe, Chateaubriand («uno dei più bei siti della terra»), Leopardi. Quest’ultimo scrisse al fratello di avere pianto visitando il sepolcro del Tasso: «è il primo e l’unico piacere che ho provato a Roma», riferendosi anche alla gente che incontrava per via. Aggiunse considerazioni sulla sublime nudità del sepolcro rispetto ai «superbissimi mausolei» che «si osservano con perfetta indifferenza per la persona cui furono innalzati». Dentro la chiesa dedicata a Onofrio, santo anacoreta, c’è un dipinto di Antoniazzo Romano, il volto bellissimo di una Madonna che galleggia nel blu, nella posa dell’Annunciazione. Fuori dal cancello un cartello avverte: «Zona extraterritoriale». 105

Via del Mare

Alcuni mesi fa sono stato intervistato da una trasmissione televisiva di Rai Educational sul tema dell’abitare. Dovevo parlare di villette e commentare la vecchia frase sull’Italia rovinata dai geometri, ripresa di recente dal ministro Rutelli. Come luogo dell’appuntamento avevo scelto Ostia Antica, e precisamente l’ultima fila di villette a schiera che si affacciano sulla campagna, e dove, chissà se è vero, mi hanno detto che furono girate le puntate della villetta più famosa d’Italia, quella di Un medico in famiglia. Mi sono seduto su una panchina privata dentro un residence di villette, e ho sproloquiato a ruota libera sul paesaggio e sull’Italian beauty, specialità che emerge soprattutto dalla cronaca nera, visto che in Italia i delitti più efferati avvengono in villette, mono e bifamiliari, rigorosamente geometrili. Il mio segreto piacere era parlare in tv seduto su una panchina. È grazie alle panchine che ho scoperto il paese Ostia Antica. Non sapevo cosa fosse, a parte il sito archeologico che visitai pagando un biglietto che concede di camminare tra basi e mura di edifici romani, mosaici, anfiteatri, viali di rovine tra l’erba e i pini. A parte, anche, un nebuloso e alcolico ricordo di una serata estiva nell’antico teatro dove mi innamorai di 106

un’attrice che leggeva poesie. Ma da qualche tempo mi affascina la sua parte abitata, e cerco di conoscerla andandoci e perdendomi. Ho visitato di nuovo la zona archeologica, mi sono seduto sulle panchine che costeggiano il vialetto di fronte ai mosaici, i pavimenti delle piscine romane che raffigurano pesci e altre creature marine. L’ora più bella è quella che precede il tramonto. Come mi ha detto un’amica, Ostia Antica è una periferia della periferia, e il tramonto sulle rovine è sempre più struggente e chiaro di qualsiasi altro tramonto. Ho anche pensato che sarebbe bello abitarci. La distanza da Roma non mi spaventa. Com’è che già quando in automobile svolto da via Marconi per la via del Mare, e per un tratto la strada è inghiottita dal verde, io mi sento già un po’ in salvo? Quanto alla mezz’ora scarsa di trenino, se proprio non coincide col rientro dei pendolari, è una passeggiata che dura il capitolo di un libro veloce. Di più. Quando mi avvicino a Ostia Antica in automobile lungo la via del Mare, oppure col trenino elettrico che nasce alla Piramide e corre parallelo alla strada, attraversando una periferia interrotta ogni tanto da alberi e radure, e soprattutto verso il tramonto, mi sento miracolosamente liberato dai pesi e le afflizioni che mi porto dietro. In una parola, provo benessere. Quando arrivo mi sbraccio con gli occhi per cogliere la fonte di quel buonumore, che è una miscela di luce, di pini marittimi all’orizzonte, di spazi vuoti e di verde macchiato qui e là dall’ocra delle rovine, come la rasserenante necropoli separata dalla strada da un reticolato. Sono sceso più volte dal trenino a Ostia Antica per rimanere lì, nella piccola stazione, a guardarmi intorno a 360 gradi. Seduto su una delle panchine azzurre di metallo a rete lungo i binari, in quella quiete mi sono quasi addormentato. Dovrei dunque descrivere «Ostia Antica» a partire dalla stazione, mio unico sicuro punto di orientamento. 107

Già da quella panchina l’aria è saporita e la luce brilla più che altrove. Alle mie spalle c’è una distesa con pini marittimi e un gruppo di cipressi (è un piccolo cimitero), e una strada invisibile che porta a una vecchia casa rurale gialla che ospita maneggi di cavalli (anche per disabili) e un ristorante che reclamizza carne alla brace. Dietro la casa gialla, dopo una radura, c’è un’ultima pineta che confina con Ostia moderna. Tornando alla mia panchina nella piccola stazione, dall’altra parte si vede, oltre la sala d’aspetto, una serie di altri pini e le prime case dell’agglomerato urbano, cui si arriva attraverso un cavalcavia pedonale anch’esso azzurro. Ma è più a sinistra, verso il mare, dove i pini parasole fanno ombra allo sguardo mentre il cielo è inondato della luce dorata del tramonto, che in quella luce si vede e si sente già il mare. È un paesaggio intatto da secoli, quale poté vederlo un contemporaneo di Goethe. Intatto come lo spazio che appariva ai pittori, tedeschi e non solo, che facevano tappa qui durante il Grand Tour, o l’Italienische Reise, nel Sette e Ottocento. C’è un’Ostia abitata e moderna anche a Ostia Antica. Entrati in paese c’è una main street che conduce agli scavi archeologici e al castello cinquecentesco. Negozi di frutta e verdura, un’agenzia viaggi, un parrucchiere unisex, una pizzeria, una gelateria, una tabaccheria, l’ufficio postale, la farmacia, alcune fermate di autobus. Qualche casa inizio secolo, annerita dai tubi di scarico. C’è anche una piazza. Una casupola alberga un caffè dalle vetrate finto liberty e qualche sedia fuori di plastica rossa: è il «Gran Caffè in Piazza». La ombreggiano due enormi lecci sotto cui i bambini giocano a palla guardati da sette o otto panchine su cui siedono anziani, mamme, sfaccendati di passaggio. Io sono uno di quelli. Il traffico della via del Mare arriva attutito. Poi c’è il vecchio borgo, attiguo, se non addirittura inter108

no al castello. Sembra uno scorcio di Trastevere rifatto per il set di un film, pulito e senz’auto, i vicoli in miniatura decorati da vasi di gerani e altri fiori. Ma è quello che non c’è a rendere Ostia Antica speciale. Nell’aria tersa, la presenza assente, invisibile, del passato. Il concetto ambiguo di ‘rovine’. Ho desiderato una di quelle case a schiera ai bordi del paese, io che normalmente le detesto, prospicienti quello spazio vuoto che si spera non sarà mai edificabile. L’ultima volta ho guidato piano, pianissimo lungo la via delle Tombe, per gustare il silenzio nonostante il motore. Più avanti c’è l’idroscalo, altre tombe, il monumento a Pier Paolo Pasolini, la torre di avvistamento progettata da Michelangelo, baracche, cani randagi, di cui uno a tre zampe. C’è il porto turistico, c’è il mare a cui si arriva con una serie di strade tortuose che ricordano, pur nella bruttezza dei palazzi nuovi di Ostia, il percorso barocco per accedere alla meraviglia di piazza Navona. E il mare, quando ci arrivi, è una sferzata di luce e di colore, una botta salutare alla testa, agli occhi, al cuore, ai polmoni. Il mare è lì. Quello spazio vuoto e mosso come un prato azzurro al vento, meraviglia struggente. Non il mare degli stabilimenti, non quello dei bar, dei rumori. Il mare e basta, e una spiaggia libera come una panchina vuota.

Shining

Nella mia vita ho scoperto abbastanza presto che, anche nel dolore e nella disperazione, mi ha sempre accompagnato qualcos’altro di uguale potenza, se addirittura non maggiore, ovvero il desiderio di scrivere per dire la verità. Quando coincide con l’arrendersi, questo desiderio si chiama confessione. Domanda: ma se non si sa neppure a chi dirla, la verità, da dove nasce questo desiderio? Forse dalla quiete che permette di andare avanti, la quiete della disperazione. Come quando un fatto imprevisto butta all’aria i nostri piani, anche quelli minimi. Quando la macchina si rompe in un luogo deserto. Quando ci si chiude fuori casa senza chiave, senza rimedio. Quando per un incidente qualunque gli impegni inderogabili, gli appuntamenti immancabili, le questioni capitali, tutto insomma diventa irrilevante, nulla. Devo a quelle piccole grandi morti, a quelle rese, alcuni dei momenti più belli e sereni della mia vita. Ore passate seduto sulle scale di una casa aspettando il fabbro, indifferente allo sguardo dei vicini. Su una panchina. Ma anche su un sasso, su un guard rail, su un prato, su un muretto, ad aspettare soccorsi. Quando il bar che in altri momenti avrei trovato squallido, in un’isolata stazione di campagna, diviene il centro del mon110

do, il dolcissimo ombelico della Terra. Ore di naufragio fuori dal tempo in cui quello che conta è trovare una nicchia confortevole adesso, e magari un pezzo di carta e una penna per testimoniare i pensieri più liberi dell’esistenza. Momenti di puro presente, di pura intensità: i colori, le sfumature, i cinguettii, i fili d’erba, i fili d’aria. La luce e la polvere. Nuovi anche i ricordi, venuti da chissà dove. A volte semplicemente il respiro. Momenti liberi, perché non c’è niente da perdere. È questo che intendo con «scrivere la verità», inseparabile dalla disperazione, dalle sue diradate speranze. Epifania dell’infinito, che è sempre informe. Quando, scomparsa ogni aspettativa e ogni desiderio residuo, c’è solo la perfezione e lo shining di quello che c’è, e questo ci appaga. Scoprire che le cose stanno così come sono davanti agli occhi. E che non c’è nient’altro. La letteratura, dicevo sopra, è piena di attese e di panchine. Mi interessano però quelle che, descritte o meno, rimandano a uno stile e a una postura dello scrivere. (Detto en passant, gran parte di questo libro è scritto e pensato seduto su una panchina.) Le panchine mi fanno pensare agli scrittori. Gli scrittori che mi piacciono mi fanno pensare alle panchine. Credo sia prima di tutto un’idea di libertà – di essere, di guardare, di scrivere. E di quel dire la verità che dicevo sopra. Poi è una questione di tono e di messa a fuoco: la poetica degli interstizi, delle zone d’ombra o di opacità che si sceglie di guardare e raccontare. Queste realtà interstiziali, queste pieghe del mondo in cui ripararsi (come le panchine), possono anche non essere tali nella realtà, ma create dalla soggettività dello scrittore. Ecco perché è una questione di tono e di sguardo. Ancora, questa opacità può anche essere luminosa («pulita e illuminata bene», come il bar del racconto di 111

Hemingway), brillante, o può perfino irradiare shining (alle panchine isolate capita spesso), ma in questo caso è come se la loro umiltà fosse nascosta. Non è solo l’umiltà del monte che sta nascosto sotto terra (come recita un bellissimo versetto del I Ching a proposito, appunto, della «modestia»). L’umiltà – da humus, terra – può a sua volta travestirsi da superbia. O nascondersi dietro la propria evidenza. Anche questo è «il mondo visto da una panchina». Una sfumatura dello sguardo, un senso forte della presenza, di sé e delle cose. Come se davvero la prosa, come in un suo luogo aveva intuito Kafka, possa essere preghiera, e a suo modo salvare (o salvaguardare) il mondo. Ho amato molto Max Frisch, i suoi libri mi hanno fatto vedere il mondo. Nei primi mesi a Ginevra scoprii la città leggendo Il mio nome sia Gantenbein, anche se Ginevra non è mai nominata e la città in cui si svolge la storia è Zurigo. Eppure quel romanzo fu un apprendistato allo sguardo, a come esercitarlo perché il mondo appaia. Leggere Max Frisch mi dava la consapevolezza di trovarmi nel mondo. In particolare, quel romanzo mette in scena un personaggio che si finge cieco, perché la sua cecità mette gli altri a proprio agio: la moglie non deve nascondere l’amante quando scende dall’aereo, la prostituta lo invita a prendere il tè fingendosi una manicure, ecc. Fingere di essere ciechi significa vedere senza essere visti, senza che il proprio sguardo ferisca in alcun modo gli altri e il mondo. Stare seduti su una panchina, dicevo, permette qualcosa di simile. Ho molto amato anche Homo faber, e un libro di appunti dal titolo Montauk. Del primo vorrei ricordare almeno la sequenza struggente e piena di suspense di quando il personaggio principale, un uomo d’affari, mostra a una riunione di la112

voro alcune diapositive, ma si sbaglia, e ci si trova a fissare immagini di lui con la sua giovane amante (che si rivelerà essere sua figlia, mai conosciuta): immagini tanto più cariche di pathos quanto più sono comuni e banali – baci, tuffi nel mare, abbracci al sole, ecc. Montauk è un libro di frammenti titolati, quasi un documentario in soggettiva dell’autore. Alcuni di essi parlano di parchi, e quindi di panchine, di Manhattan. Vi si descrivono i giocatori di scacchi ai tavolini di pietra pubblici, scacchiere a prova di intemperie come le panchine. Ci si gode l’ozio nel cortile alberato con panche del Museum of Modern Art, confessando che la prima cosa che si ha voglia di visitare, in un museo, è il bar: «Può darsi che dell’arte non mi importi niente, quando sono solo. Godo di star seduto qui sotto i pochi alberi. Siedo in questo cortile alberato (Moore, Picasso, Calder ecc.) da vent’anni o più...». Annota maliziosamente su Central Park: «un uomo di fiducia mi ha insegnato che i famosi scoiattoli non sono affatto degli scoiattoli, ma ratti degli alberi. I ratti degli alberi non sono rossicci come gli scoiattoli, tuttavia non meno graziosi. Li si può guardare da vicino per lunghi minuti, tanto domestici sono i ratti degli alberi. La differenza dagli scoiattoli consiste soprattutto in ciò: che distruggono gli scoiattoli». C’è poi in Max Frisch e negli scrittori che amo – gli scrittori da panchina – un senso della vita che si esprime nelle minuzie (Dio è nei dettagli, si dice), nella descrizione scrupolosa dei gesti ordinari, carichi di una verità e di un’esattezza che solo una voce e uno sguardo appartati, pacificati, estranei alla giostra dei valori dominanti, sanno vedere e dire. Questo tono, questo senso della presenza nella prosa si colgono ad esempio nelle parole semplici con cui l’autore si accomiata dalla storia in Il mio nome sia Gantenbein – che da Zurigo sembra trasferirsi nella zona etrusca a nord di Roma (ma po113

trebbe essere anche la mia amata Ostia Antica): «È una giornata di settembre, e quando si esce dalle tombe buie [...] strizziamo gli occhi, tanto è violento il giorno; io vedo le rosse zolle nei campi sopra le tombe, lontano e oscuro il mare dell’autunno, mezzogiorno, tutto è presente, vento tra cardi polverosi, odo suoni di flauto, non sono i flauti etruschi nelle tombe, ma il vento tra i fili, tra le ombre stillanti di un olivo c’è la mia macchina grigia di polvere e rovente, caldo tropicale nonostante il vento, e già di nuovo settembre: ma tutto presente, e noi sediamo a un tavolo all’ombra e mangiamo pane, fino a che il pesce è arrostito, io allungo la mano verso la bottiglia, per sentire se il vino (Verdicchio) è freddo, sete, poi fame, vivere mi piace».

Gay Liberation (particolare) di George Segal a Christopher Park, New York

Leggere, vita secondaria Sulle panchine ci si siede per leggere. È una vista così consueta – quella di un lettore o di una lettrice, con un giornale o un libro in mano – che da sola riempie una panchina. Anch’io non ho mai cessato di farlo, e questo dall’infanzia. Nel mio primo ricordo di lettore cosciente mi vedo su una panchina nel giardino sotto casa, separato dalla strada da un muretto e un’inferriata. La panchina era privata ma era una di quelle vere, arrotondate, a listelli verdi di legno, e restai lì disteso un pomeriggio intero con una pila alta come me di Tex Willer. Avevo imparato a leggere da poco, e quei fumetti appena scoperti (me li aveva prestati il figlio più grande di una vicina di casa) mi eccitavano come i western al cinema (anzi, perché non fanno film così belli? – mi chiedevo). Il ricordo è quello di una sensazione intensa e piena – stare lì a leggere, fuori dal tempo e dal mondo, autosufficiente e appagato, con un tesoro inesauribile di vita secondaria, una vi115

ta di riserva piena di avventure. Leggere, ha detto una volta lo scrittore Peter Bichsel in una sua conferenza intitolata proprio La lettura, è optare felicemente per una «vita secondaria». Quella sensazione di pienezza mi torna ogni volta che evado dalla realtà sprofondando in un romanzo, e nel dirlo uso molto seriamente la parola ‘evasione’. Ora, leggere un romanzo e stare seduti su una panchina sono attività molto simili, e il loro mix realizza forse il modello della vera vacanza. Vacanza vuol dire sospensione del tempo, e quindi del mondo reale. Vuol dire, in altre parole, stare in panchina, che della secondarietà è un po’ l’emblema. Ma leggere è anche un atto anarchico, e solo il piacere spinge alla lettura, il piacere e il gusto di convivere senza timore e senza diversioni con la noia, quindi coi tempi morti, se non addirittura con l’idea stessa della morte. Leggere è un atto anarchico perché non ha né deve avere né capo né coda, nessuno scopo da raggiungere né servizio da eseguire. Uno scopo in sé, senz’altre finalità, come l’opera d’arte secondo Kant. Forse ci si ricorderà del saggio famoso di Enzensberger sul leggere e sulla poesia. In Italia uscì su «Quaderni Piacentini», e si chiamava, credo, La poesia e la figlia del macellaio. Il poeta tedesco raccontava che nella sua solita macelleria, un giorno, il titolare lo trattò insolitamente male perché la figlia del macellaio, a scuola, aveva preso un brutto voto commentando una sua poesia, e il macellaio lo riteneva in qualche modo colpevole. Da questo aneddoto Enzensberger traeva un’appassionata apologia della lettura come atto libero in opposizione alle scuole, alle pedagogie e alle scienze letterarie che prosperano suggerendo metodi più o meno normativi di accesso ai testi letterari. Poneva l’accento sulla libertà della lettura, irriducibile a un senso e un valore preordinati, e ricon116

ducibile a una politica, come si diceva allora, «dell’esperienza». Leggere, concludeva il poeta, è un atto anarchico. La lettura è un atto anarchico anche per il rapporto che stabilisce con la cosiddetta realtà. A parte lo straniamento che induce una lettura prolungata (al limite dell’incespicamento e dell’inettitudine), dice Peter Bichsel: «È incontestabile che la lettura cambi il rapporto con la realtà. Ma è anche risaputo che la nostra epoca considera ogni mutamento del rapporto con la realtà pericoloso per l’ordine costituito. Vengono definiti ‘realisti’ soltanto coloro che accettano l’esistente come dato di fatto, naturale, e che tutt’al più prendono atto con un ‘purtroppo’ dell’impossibilità di modificare l’esistente. Tuttavia questi ‘realisti’ si fanno passare decisamente, e ad alta voce, per degli ‘innovatori’ quando decidono, ad esempio, di allargare la pista di volo ovest dell’aeroporto di Francoforte. Per loro a essere difeso è ancora una volta soltanto l’esistente, vale a dire un’immagine assurda della crescita economica. ‘Innovàti’, e in questo caso distrutti, sono il paesaggio e l’ambiente. I costruttori trovano la pista di volo ‘realistica’ perché conforme ai loro interessi; ed è per questo che ai loro occhi gli avversari della costruzione mancherebbero di qualsiasi ‘rapporto con la realtà’. Menziono questo fatto solo perché sono convinto che si trovino più lettori tra gli avversari che non tra i sostenitori della pista di volo. Al lettore viene infatti rinfacciato continuamente di avere uno scarso rapporto con la realtà, di essere cioè uno svitato». Ora, anche sedersi su una panchina è un’attività senza scopo, ed è in sé, ormai lo sappiamo, un atto anarchico quasi suo malgrado, o senza saperlo, ed è senz’altro un modo per estraniarsi dalla cosiddetta realtà. Del resto la cosiddetta realtà che altro è se non un sogno senza sognatori? Leggere e stare in panchina sono allora quasi sinonimi. 117

Due esperienze di vita secondaria e contemplativa, due modalità di stare sulle soglie (del mondo). Si legge con il corpo, diceva ancora Peter Bichsel, e certe posizioni, certe sedie, favoriscono la lettura. La panchina è una di quelle. La loro sovrapposizione – leggere su una panchina – intensifica una posizione nel mondo e verso il mondo che a volte mi stupisco non sia ancora stata messa fuori legge. L’altro giorno ero nella fase finale della lettura dell’ennesimo mastodontico giallo svedese – libri che da qualche tempo prediligo per la loro lussuosa lentezza. Dopo quelli di Henning Mankell, ora sto dedicandomi a quelli di Stieg Larsson. Dovevo lavorare (cioè scrivere, lavoro reso difficilissimo dalla quasi totale assenza di un capufficio), ma me la godevo troppo a continuare a leggere il giallo svedese, a lasciare scorrere il tempo senza fare nient’altro che quello, continuare a seguire la storia dei personaggi che erano in quel momento la mia famiglia e i miei amici. E improvvisamente mi è venuta per la prima volta l’idea che non era vero che non stavo facendo niente, e non era vero nemmeno che ero da solo mentre leggevo. Ho pensato anzi che leggere sia un benefico e generoso lavoro collettivo, o comunque fatto anche per gli altri, come i riti e le preghiere. Avevo l’idea che il mio leggere facesse andare avanti il mondo, che in qualche modo lo tenesse in piedi, e comunque tenesse in piedi il mondo del libro che stavo leggendo. Senza di me, cioè se avessi smesso di leggere, che ne sarebbe stato della storia e dei suoi personaggi? Soprattutto trattandosi di un giallo – ero in quel momento a un passaggio cruciale della vicenda, e qualcuno era forse in pericolo di vita. Proprio non me la sentivo di abbandonarlo. Ho pensato, credendoci, che leggendo avrei aiutato il detective a trovare il colpevole, a sconfiggere il male, a tornare 118

a casa, ecc. Questa idea mi liberava beatamente da ogni residuo senso di colpa di non fare un tubo, di non lavorare, di non scrivere, di non uscire nemmeno a prendere dell’aria per farmi del bene (stavo leggendo in casa). Mi sono sentito più libero anche dal senso di colpa sempre incombente di vivere una «vita secondaria» – come diceva Bichsel. Al contrario, sapevo ormai mentre leggevo che stavo creando io il mondo della storia, che partecipavo a una vita collettiva all’interno di una comunità, quella di tutti i personaggi della storia, anche quelli off, fuori campo; nonché, a ripensarci, la comunità di tutti gli altri lettori, virtuali e non. Lo sguardo protettivo del lettore nei confronti dell’eroe, e del mondo delle storie: non è forse un altro modo, e più caloroso, per dire quel principio di cooperazione del testo, quel lector in fabula che, quando ero studente a Bologna, in quel periodo insegnava con formule semiotiche il professor Umberto Eco? Non so, forse ne è la versione da panchina. (O, forse, lo sguardo protettivo del lettore nei confronti dell’eroe è la versione postmoderna dell’intervento provvidenziale di Atena che interviene da fuori – da dove? – per salvare Ulisse. Ma cosa ne sarebbe stato dei personaggi di Omero senza i lettori? I lettori sono i veri dèi dell’Olimpo, il loro deus ex machina.) Il lettore crea il racconto, insegnava Eco, in cooperazione coll’autore, percorrendo con lui le cosiddette passeggiate inferenziali, insomma le ipotesi e le svolte narrative che ad ogni episodio, atto, forse ad ogni frase, autore e lettore decidono di compiere. Tornando all’altro giorno, e al mio poderoso giallo svedese, alla fine mi sono messo il cappotto e sono uscito di casa per fare una passeggiata. Avevo una meta fittizia, del tipo fare la spesa o passare al bancomat. Ma avevo il libro svedese in mano, e come è finita la mia passeggiata inferenziale è in fondo prevedibile anche per voi che leggete. 119

Mi sono seduto sulla prima panchina, una di quelle della piazza San Cosimato, e col brusio dei giochi dei bambini sullo sfondo, tra palle che rimbalzavano e skateboard che slittavano, ho continuato beatamente la lettura del giallo svedese all’aperto. Quando il freddo è diventato insopportabile sono entrato nell’enoteca di fronte e mi sono seduto a leggere di fronte alla vetrina con un bicchiere di vino rosso. Il libro l’ho finito a ora di cena. Sia Mikael Blomqwist che Lisbeth Lisander, eroi stanchi e provati, sono tornati a casa con successo, a Stoccolma. Sono tornato a casa anch’io, a Roma, sotto il Gianicolo.

Molveno 2007

Elenco Ho fatto l’altro giorno l’elenco delle panchine che mi ricordavo (con esclusione di quelle di Parigi, che voglio pensare un’altra volta). Le panchine (un paio) di Capalbio, su in paese, quasi un premio per chi vi arriva a piedi, nella piazzetta di fianco al ristorante, alle spalle il panorama della valle e delle colline, e di fronte la fontana con la scultura di Niki de Saint Phalle – rumore d’acqua, la città vecchia che comincia, dove ci si aggira come dentro un castello, però pacifico, molto pacifico. Le panchine della grande piazza vuota di Borgo Carige (sotto Capalbio), con davanti una locanda chiusa con un’insegna scolorita che sembra un edificio rurale, anzi la casa dei contadini di Novecento, e in quel vuoto ci si sente bene una volta che lo si capisce e che si sa dove ci si trovi (tutta quella zona è difficile da capire all’inizio, il mare se non lo sai non lo trovi, e la campagna intorno non sai come usarla, eppure è 121

bellissima, il verde e il giallo insieme). Bisognerebbe cercare soprattutto di definire la qualità di quel vuoto. La panchina di legno a Bologna verso la fine di via Zamboni, vicino all’istituto di Matematica (o di Geografia?) all’incrocio con la fine (o l’inizio) di via Belle Arti, dove ci si riposa in uno spiazzo tra il traffico dei corpi, senza mescolarsi ai bar dei panini (quelle paninoteche nate all’improvviso, fine anni Settanta, mentre prima i panini li facevano i salumieri). Da quella panchina si vedeva anche la fila di chi andava alla mensa. E lì seduti una notte con Valeria e Nereo si parlava di tutte le case in cui avevamo abitato e da cui eravamo stati sfrattati, primi anni Ottanta, e Nereo citava un’ordinanza del Comune di Bologna sulle case da assegnare che dava la precedenza a «chi vive in una grotta» (?). La panchina di pietra sempre a Bologna attaccata al baretto d’angolo sopravvissuto, si chiamava «Pierino», a forma di cuneo, inizio via Belle Arti, gestito da due vecchietti a ridosso di uno spazio vuoto edificabile, che per anni gli speculatori volevano demolire (alla loro morte ci riuscirono), e dove abbiamo passato tanto di quel tempo (tempo distribuito in modo equanime, in realtà, tra lì e molti altri posti all’aperto), tempo perso e felice di cui vorrei riuscire a descrivere la pienezza fisica, il lusso, perché quel modo di perderlo, il tempo, di farlo scorrere, mi manca oggi anche fisicamente. La panchina di pietra della piazzetta San Domenico, a Napoli, tra l’Istituto Orientale e la mitica pasticceria Scaturchio, dove aspettavo che mi si confezionasse una pastiera che avrei portato a casa (all’epoca, a Pietrasanta). 122

Le panchine maiolicate nel chiostro della chiesa di Santa Chiara, a Napoli, anzi Spaccanapoli. Una panchina a Capri, con la vista che si vede da Capri (era il luogo più appartato e lussuoso, senz’altro più dei ristoranti gremiti di folla e di rumore). Una panchina panoramica in una curva lungo la strada sopra il lago di Bracciano, con vista sul paese e il lago di Bracciano, vicino alla casa di Niki e Andrea. Tutto il resto non mi piaceva, la panchina sì. Le panchine lungo il lago di Castelgandolfo, malinconico e perfetto, il paese e le case abbarbicate sulle colline intorno, anche quella papale, quasi una miniatura del mondo in uno sguardo, che faceva pensare all’espressione «origine vulcanica» – geologicamente ancestrale (nonché atea) – dei laghi, e forse del mondo. Le panchine nei pressi del cosiddetto «ponte romano» all’inizio della pineta della Versiliana, lungo viale Apua, a Fiumetto (Marina di Pietrasanta), quasi una cartolina illustrata. Le panchine del giardinetto di Fiumetto, con vista sul mare (alzando la testa), tra il bar Grimaldi e quell’altro di cui non ricordo il nome, sotto l’hotel azzurrino, ma soprattutto dietro l’edicola che mi prestava i fumetti da leggere lì nelle mie lunghe pause (pause da cosa?). (All’inizio, con le giostrine per i bambini e i cigni nel canale, quello spazio mi sembrava uscito da un vecchio film di Wenders.) Le panchine sul lungomare commerciale di Viareggio, lo struscio pedonale il pomeriggio tardi e la sera, e una soprat123

tutto, quella davanti alla Libreria Internazionale, che è bianca, e aperta anche la notte (almeno in estate). La panchina bianca privata dove ci si siede con finta modestia lungo gli spogliatoi dell’Augustus Lido, davanti al bar sulla spiaggia, dal fascino così coloniale (Forte dei Marmi). Le panchine di Tonfano (Marina di Pietrasanta), dove mi fermavo quando andavo alla posta, e dove negli ultimi anni avevano posto una scultura di Kan Yasuda, Porta di ritorno (ma io me n’ero già andato, senza più farvi ritorno) (ora, mi dicono, se n’è andata anche la scultura, con tutte le panchine). Le panche di pietra rosa lungo la fontana circolare del monumento colonialista a Vittorio Bottego, di fronte alla stazione, a Parma; c’erano pesci rossi nella vasca circolare, e da bambino mi piaceva guardarli stando in piedi sulle panchine rosa, e guardare Vittorio Bottego con l’elmetto coloniale e con un selvaggio vinto ai suoi piedi – poi l’acqua è diventata melmosa, e lì si ritrovarono negli anni solo i drogati all’ultimo stadio, nemmeno gli immigrati (non si sa cosa diventerà, è un cantiere recintato, l’acqua è sparita, forse sparirà anche il monumento, nella smania dei cambiamenti e dei make up, forse qualcuno se ne vergogna, eppure dovrebbe restare, quel fascismo con l’elmetto è la nostra storia, ed è il più onesto monumento all’azienda Italia che conosco). Le panchine di legno verde alla fine del molo di Forte dei Marmi che sembra una fotografia di Luigi Ghirri, dove ho camminato tante volte guardando il mare e l’orizzonte, o i surfisti quando ci sono le onde, di giorno, di sera, di notte – perché è un luogo molto consolante, soprattutto l’inverno. Ci 124

sono andato tante volte anche con mio figlio, e quando il mare era molto mosso le onde ributtavano l’acqua in su dalle fessure del molo, e ci si doveva arrampicare ridendo sulle panchine per non bagnarsi i piedi. La panchina vicino a Torre dell’Orso, in Salento, sull’Adriatico, posta dentro un anfratto roccioso, sola, isolata, invitante, quasi scintillante nella sua imprevedibilità, all’ombra, con vista sul mare e il sole ed il mondo che brilla, e dove mi sono fatto fotografare. La panchina rossa sullo Zermatt, in mezzo alla neve, dove mi sono seduto a riposarmi e ho scritto una poesia sul tradire = scrivere guardando le orme che avevo lasciato sul sentiero di neve. Le panchine dei piccoli giardini recintati a Manhattan, New York, alcune delle quali sono riservate a chi accompagna un cane, e dove mi sono seduto senza avere un cane. Le innumerevoli panchine visitate dagli scoiattoli a Central Park, dove mi sono meravigliato anch’io e ho fotografato gli scoiattoli (o ratti, direbbe Max Frisch). (Ero vestito come un giovane professore da film, con un soprabito di gabardine che amavo molto, e che mi hanno rubato a Parma dalla mia automobile, anni dopo.) Le panchine sulle meravigliose distese d’erba e gli eucalipti, in realtà campo da golf, dell’Ojai Valley Inn a Ojai, California, e quelle nel resto del paese, dove capitai per caso bevendo una Coca Cola, dove rimasi una settimana meravigliandomi di stare così bene, e dove scoprii, dopo, che vi aveva risieduto Krishnamurti. 125

Le panchine di fronte agli edifici della New York University, i muri rossicci, la quiete composta. Le panchine di Ashbury Heighs, una volta ritrovo degli hippies, a San Francisco (dove ho perso il taccuino con tutto quello che avevo scritto, su San Francisco e sulla California). Le panchine di Washington Square (a San Francisco, non a New York. Eppure sono belle anche quelle di N.Y., ma nella piazza di S.F. c’era il sole). La panca di legno di Big Sur, all’ingresso del Big Sur Inn, dove mi sedevo a scrivere, oppure a parlare col custode hippie della Henri Miller Library, aspettando che prima o poi passassero le balene, là sotto. Le panchine nella piazza di Palermo dove una notte, all’uscita da una privata cena sontuosa nella sala della mitica biblioteca dell’autore del Gattopardo, sono rimasto incantato a guardare il tronco di un ficus che avrebbe potuto ospitare all’interno tre o quattro famiglie (ma mi sarei seduto anche senza il ficus). Le panchine disposte a cerchio intorno a una fontana a Villa Borghese, dove abbiamo bivaccato per ore io e alcuni ex studenti e studentesse del mio corso di formazione all’Accademia, biscotti dolci e salati, patatine, vino e succhi di frutta, finché ci siamo messi a osservare la statua sulla fontana (autore Giovanni Nicolini, scultore, anno 1925), del genere la bella e la bestia, un satiro tardo liberty color verderame (colore che, mi ha insegnato una ex studentessa, viene dall’ossidazione del rame, scoperto dagli egizi – come anche il blu). 126

Le bellissime panchine vecchio stile, sparse ad arte nel grande prato dietro il borgo di Ostia Antica, alle spalle dell’unica piazza (quella coi lecci e il bar) che non si vedono subito, sono sette, ma se ne vedono massimo due alla volta, ognuna circondata da una sua solitudine (il prato si chiama Parco dei Ravennati, con sotto scritto come didascalia: bonificatori). La panchina nella piazzetta circolare davanti alla piccola stazione di Novoli (Lecce), paesino natale di mia madre, dove da ragazzo mi isolavo sognando di andarmene, perché odiavo passare l’estate in quel posto dove non succedeva niente, c’era solo il sole e il cibo, e dove ora invece agogno ogni volta di andare, perché non succede niente, c’è solo il sole e il cibo. E cielo, luce, spazio, qualche generosa panchina. Una delle panchine isolate nello spazio dell’immenso parco di Monza, città in cui da ragazzo fui parcheggiato in casa di una sorella (sposata) e dove mi rifugiavo a leggere, e precisamente lessi Il mestiere di vivere di Cesare Pavese e La vita agra di Luciano Bianciardi. La panchina nella piccola stazione di Casalmaggiore un pomeriggio d’estate, dove mi trovavo perché avevo comprato, proprio lì, un panetto di hashish, e dove guardavo i gerani e i gesti indolenti del capostazione col cappellino dalla visiera rossa, e dove ho scritto una poesia sul desiderio di diventare capostazione di un paesino così (e continuare quindi a scrivere poesie). Le panchine del piccolo parco les Cropettes, sotto casa a Ginevra, rue du Fort Barreau (dietro la stazione Cornavin), 127

dove ho letto Mes amis di Emmanuel Bove (prima di tradurlo anni dopo in italiano, proprio mentre Peter Handke lo traduceva in tedesco) e dove ho letto gli scritti di Benjamin Constant sulla conversione («desiderare quello che abbiamo, non quello che ci manca»). Su quelle panchine mangiavo felicemente il pane caldo con dentro la cioccolata, quando avevo i soldi per comprare appunto solo il pane caldo e una stecca di cioccolata al vicino negozio della Migros. C’è una panchina vicino alla tomba di Rilke? C’è una panchina nel piccolo prato attiguo alla chiesetta di Raron (Sierre, sopra Sion, Valais, Svizzera) dove si trova la tomba bianca e nuda, spoglia come una panca rude rovesciata, del poeta Rainer Maria Rilke? O me la sono inventata io? Di fatto ci ho soggiornato lunghi momenti almeno due volte, incantato dal silenzio, dalla scelta del poeta (che abitò lì, a Muzot, e lo immaginavo, dopo avere scritto i suoi poemi, scendere da qualche contadino a chiedere del formaggio per la cena), incantato dalle parole – disadorne come la lapide che le riporta – «rosa bianca purissima / piacere di non essere più / il sogno di nessuno». Le panchine sulla strada per andare al lago di Bienne, la città di Robert Walser, quando uscivo di casa (bisognerebbe scrivere Biel/Bienne, come nei cartelli e alla stazione, perché è una piccola città bilingue – tagliata dalla frontiera del rösti, dicono lì), ma di fatto io abitavo a Bienne, perché sono francofono. Le panchine lungo il lago di Bienne, dove spesso non si vedeva quasi niente per la nebbia (come il lago di Stranger than paradise), e a me piaceva moltissimo (anche il film). 128

Una panchina (ma dove? forse a Firenze) in cui con altri tre amici, tutti circa diciottenni, ci siamo messi a suonare per raccogliere soldi (colletta, si diceva), quattro piccoli fricchettoni, e io suonavo l’armonica a bocca e sulla chitarra facevo acuti disgraziati stile blues (a volte suonavo anche i bonghi), e la cosa stupefacente è che qualcuno si fermava, qualcuno ci ha addirittura dato dei soldi (le monete da cento lire, per chi se le ricorda). Le panchine di sera in fondo al lungomare di San Terenzo, direzione Lerici, quando a un certo punto finisce (sopra quella collinetta e il voltone c’era un albergo stile liberty, forse il Byron), finiva anche la spiaggia e c’erano gli scogli su cui s’infrangevano le onde, e mio padre mi diceva «respira» – quando si vedeva il bianco spumoso, e quello era lo ‘iodio’ (altre volte invece lì seduto leccavo il gelato mentre gli adulti parlavano di cose noiose, e dovevo indossare il pullover perché alla sera, diceva mia madre, fa freschino). La panchina sotto la parete rocciosa, cavernosa, minacciosa, a strapiombo, dietro il castello di San Terenzo, sul sentiero per andare alla Baia Blu (e da lì alla mitica Baia dei Morti). Una panchina dell’infanzia in una gita a Genova, davanti al porto e alle navi, e un’altra a Sanremo, entrambe accomunate dal mio broncio (sono coi miei genitori). Le panchine sulla rada di Marciana Marina, di fronte al mare, soprattutto in inverno, con Jean-Jacques e Danielle, e Cathy che fa la danza del floppy dog, il giorno prima e il giorno dopo dell’ultimo dell’anno. La panchina sul monte panoramico dove sorge l’albergo Portofino Kulm, finto come un poster, io e Pierre. 129

La panchina sulla strada lungo il mare dove ho aspettato la corriera con mio figlio per andare da un albergo all’altro, da Portofino a Santa Margherita (che mi sembrò di gran lungo più abitabile del lusso senza valore d’uso di Portofino), e dove tirai un bel respiro rilassato (a Portofino eravamo stati portati in barca dalla truppa del Premio Strega, sponsorizzati – perbacco – dalla Telecom di Tronchetti Provera). Le panchine in un piazzale panoramico di Genova che ho scoperto per caso con mio figlio quando ci siamo persi, da cui si vede il mare e il porto e la città in basso, ma soprattutto un quartiere arioso, elegante e abitabile, case inizio secolo – silenzio. Le panchine incantatrici – molte di legno, altre di marmo – di piazza Calipso a Ostia, in fondo a via delle Oceanine, vicino a via delle Sirene, dopo via delle Nereidi e via delle Meduse. Le panchine sul lungolago di Como, dove si siedono solo i teenager e gli immigrati, e le altre inospitali panchine di metallo messe in una piazza del centro, bollenti d’estate e gelide d’inverno. Le panchine del bellissimo parco rettangolare di Chiusi (Giardino Paolozzi), alternate e attorniate da urne, cippi, statue, e altri resti archeologici etruschi (si entra passando in mezzo a due leoni di pietra). Le tre panchine ‘etrusche’ di Sarteano, panoramiche, nel sito della necropoli (dove c’è la Tomba della Quadriga Infernale), su una collina che domina la valle e si vede fino al lago Trasimeno. 130

La panchina di montagna a Gstaad, con Pierre che non ha ancora cinque anni, ne conservo le foto in bianco e nero – entrambi facciamo le smorfie oppure assumiamo l’aria ispirata, mentre la mamma ci fotografa –, una panchina di legno all’inizio della salita per andare al Palace, bel contrasto col lusso là sopra, ma soprattutto amore. La panchina di Atrani – paese di infinite scale e viottoli che incantò Escher – nella piazzetta a livello del mare (lo si vede dietro gli archi), un pomeriggio con Giorgio, Enzo e Jacques, a guardarla affascinati pensando che sia la più bella piazza del mondo, cercando di descriverla con le parole – e quel negozio lì davanti che pensavamo vendesse colori, dove entrarono due bionde ragazze inglesi, c’eravamo fatti una storia, salvo scoprire che non vendeva colori, ma vasi, statuine, spezie, droghe, e infatti c’era l’insegna: Ceramiche e Coloniali.

Torre dell’Orso 2007

Pop

Quasi tutti, quando parlo di panchine, mi parlano dei primi baci che si sono scambiati su una panchina da ragazzi. Forse ha ragione Brassens, alla fine della sua ironica canzone sugli innamorati delle panchine: che una volta realizzati i loro sogni d’amore, ormai da anni sposati, «capiranno commossi / che a caso, per la strada / sulle panchine verdi / si era compiuto il momento migliore / del loro amore». È da una panchina del Jardin du Luxembourg che prende le mosse I miserabili di Victor Hugo. Lo scrittore aveva del resto un affetto particolare per quel parco, vi passeggiava regolarmente e abitava lì vicino. È lì che si incontrano i personaggi principali del romanzo, Jean Valjean, Cosette e Marius, un giorno in cui «l’aria era tiepida, il Luxembourg inondato d’ombra e di sole, il cielo puro come se gli angeli lo avessero lavato al mattino». Jean Valjean e la figlia sono seduti fianco a fianco su una panchina in un vialetto deserto del parco, dalla parte dell’attuale rue d’Assas. La ragazza alza gli occhi al passaggio di lui, provocando la più fatidica delle frasi della letteratura: «i loro sguardi si incontrarono». Per somiglianza e contrasto, aggiungo la gioiosa panchina nel parco in cui si incrociano i destini dei futuri sposi (e dei loro cani) ne La carica dei 101. 132

Poi mi vengono in mente le panchine di Central Park, descritte nel sempreverde Il giovane Holden di Jerome D. Salinger, quando il ragazzo, mentre conosce l’amore, continua a preoccuparsi della sorte delle anatre quando il laghetto è ghiacciato, e vuole andare di persona a controllare cosa fanno o dove vanno. Ci sono molte panchine newyorchesi anche nei primi romanzi di Paul Auster, e soprattutto in Moon Palace, così debitore dei romanzi europei, e soprattutto francesi (Georges Perec). Ma a proposito di parchi e di panchine. Per molti anni, una pagina della vecchia edizione Feltrinelli di Breve lettera del lungo addio, uno dei primi romanzi di Peter Handke, mi è rimasta nel cuore e nella mente, al punto che ne ricordo ancora il numero a memoria: la pagina 100. È un momento di requie del personaggio, esausto, in viaggio negli Stati Uniti, ma soprattutto in un’assurda deriva-inseguimento con la sua ex moglie (il conflitto con lei verrà redento alla fine del libro nientemeno che dal regista John Ford). Con sé il personaggio ha un libro viatico, Enrico il Verde dello svizzero Gottfried Keller, racconto dell’apprendistato di un pittore che insegna come pochi a far vedere il mondo con le parole (ciò che basterebbe a giustificarne l’omaggio). A pagina 100 c’è solo una descrizione, uno stato in luogo, che è però anche una riscoperta del mondo condiviso con un’amica-amante, sua partner in questa epifania. I due, naturalmente, sono seduti su una panchina. «Eravamo seduti nel Warren Park di Indianapolis e chiacchieravamo [...]. Soltanto adesso sorse la luna piena, e le panchine e i cespugli bianchi si levarono intorno come apparizioni. Un lampione aveva il vetro rotto e dentro svolazzava una falena, finché bruciò. La luce della luna era molto chiara, eppure non abbastanza chiara, tanto che mi pareva di 133

scoppiare. Il mio cuore batteva dolorosamente, e spesso, quando prendevo il fiato, sospiravo. Fiori dal lungo stelo si levavano lungo i sentieri, i petali bianchi dispiegati nel chiaro di luna, completamente immobili, al culmine di un delirio – non si aveva neanche più la forza di farli muovere –, e di tanto in tanto una gemma si apriva scricchiolando. In un cestino dei rifiuti ci fu un fruscio, poi tornò il silenzio. L’erba era pallida, come disseccata, le brevi ombre degli alberi sembravano macchie di incendio. Avevo un gran caldo anche dentro, benché l’aria fosse piuttosto fresca. Dietro i pioppi tulipiferi e le palme artisticamente disposte scintillavano la freccia e la stella a cinque punte dell’Holiday Inn. ‘Mi accorgo che qui in America mi si ripetono le esperienze dell’infanzia’, dissi.» Il dialogo che segue è anch’esso molto bello. Parlando sulla panchina, pur senza ancora toccarsi, l’uomo e la donna «avvertivano già la vicinanza come uno scambio di tenerezze». Lei descrive lui come qualcuno che «contempla ogni esperienza spiegarne un’altra e l’altra spiegare la prima», senza interpretare nulla. «Ti comporti come se il mondo fosse un regalo, espressamente dedicato a te. Stai a guardare la graduale apertura del pacco; intervenire sarebbe una scortesia. Lasci fare, e se qualcosa ti capita la accetti con stupore, ne ammiri l’aspetto enigmatico e lo paragoni ad enigmi precedenti». Quando si alzano, si sente che la panchina che li ha avvicinati li accompagna sotto il chiarore della luna. È difficile dire che cosa di preciso mi avesse già affascinato a vent’anni in questo brano. La sospensione, credo. E che l’erotismo sia tramite di una conoscenza (o forse viceversa). Ma so che le pagine d’amore che preferisco nei romanzi sono quelle che si svolgono in luoghi e situazioni simbolica134

mente inconcludenti, come un luna park o un lungolago sommerso dalla nebbia, e quindi invisibile (quello di Stranger than paradise). O come certe scene dei romanzi di Chuck Palahniuk e di Joe Lansdale, appena prima o appena dopo una tragedia, o una catastrofe naturale. Sembra che l’amore sia più vero e nello stesso tempo più forte, quando i personaggi restano senza parole ed è il mondo intorno a parlare, meglio se un mondo periferico, polveroso, vacillante. Ma l’idea del parco, l’idea della zona franca che emerge in questo frammento, che è la dimensione naturale delle panchine, fa parte di una costellazione che in mancanza di altre parole chiamerei pop. Il parco notturno di Indianapolis mi ricorda altri parchi delle canzoni migliori del rock, quello di Just a perfect day di Lou Reed per esempio. O quello che non c’è, non è nemmeno nominato, eppure potrebbe esserci, nella stupenda canzone dei Velvet Undeground Sunday morning, con quella specie di carillon elettrico insieme malinconico e gioioso all’inizio, con la voce di Nico o di Lou Reed intensa e asciutta come occhi lavati dal pianto, o dal vento: «Domenica mattina, la gloria dell’alba / ma c’è una sensazione di irrequietezza che mi accompagna / le prime luci del giorno...». In una fenomenologia della domenica, non c’è dubbio che la panchina dovrebbe essere contemplata. La panchina è domenicale. Ma la panchina è sempre vacanza – domenica – anche quando vacanza non c’è, e anche di lunedì. A sua volta, la domenica può anche non essere noiosa come quella borghese, col pacchetto delle paste e a casa il brodo e il lesso con tutta la famiglia. Né assomigliare a quei giorni di festa feriale di Marino Moretti («È mercoledì. / Piove. / Sono a Cesena...»), quando il poeta crepuscolare si trovava al matrimonio della sorella, in uno stato di spirito analogo al «gelato al limon», o allo stralunato turista al mare di Paolo Conte «solo 135

e con mille lire». La domenica può voler dire allora svegliarsi col sole già alto senza nessun senso di colpa, guardare la primavera negli occhi dell’amante. Essere beatamente spaesati e sospesi, mangiare fuori orario e fuori pasto, passeggiare nel parco o per le strade vuote, essere fuori luogo. Leggere i giornali al bar come se niente di tutto quello che è scritto ci appartenesse davvero. Provare la sottile sinestesia dell’andare al cinema di pomeriggio e uscire col sole addosso da quel sogno nella sala oscura. Stare sulle panchine. Ma nella canzone dei Velvet Underground c’è dell’altro: «Domenica mattina, / sono appena dietro di me gli anni che ho sprecato / Attento ai mondi alle tue spalle / c’è sempre qualcuno intorno a te che chiamerà». La stessa inquietudine sottopelle dell’altra canzone di Lou Reed: «Just a perfect day / drink Sangria in the park / and then later / when it gets dark / we go home». La voce, come il tono, vibra di un’intensità compressa e per questo tanto più sensuale. L’ambiguità, o addirittura il paradosso, è sempre a portata di mano. Non la possibilità banale dell’ironia, ma il fatto che una cosa possa voler dire il suo contrario. O che invece voglia dire esattamente se stessa, in una vertiginosa sincerità. Per questo, proprio come nei momenti di libertà che si trascorrono in quelle zone franche del mondo che sono le panchine, la domenica mattina può essere davvero una giornata perfetta, quando il paesaggio urbano si rivela elegiaco come gli oggetti ordinari della pop art, e i nostri gesti sono perfetti in virtù della loro semplicità, come un’andatura sciolta ed elastica, come accontentarsi, essere in ciò che si fa. «Proprio una giornata perfetta / Sorseggiare sangria nel parco / E più tardi quando fa buio tornarsene a casa / Proprio una giornata perfetta / Dar da mangiare alle bestie dello zoo / Poi un film, e infine a casa». «Oh, proprio una giornata perfetta / Sono contento di 136

averla passata con te / Tu mi aiuti a resistere e ad andare avanti / I problemi sono lasciati soli / Turisti per conto nostro / È divertente / Proprio una giornata perfetta / Mi hai fatto dimenticare me stesso...». Di panchine di disgraziati parla il disco Aqualung dei Jethro Tull. La voce stentorea e nasale di Ian Anderson, nella melodia fatta dalla chitarra, descrive un cinico quadretto urbano con parco; un barbone col moccio al naso seduto su una panchina adocchia le mutandine colorate delle ragazzine: «Sitting on a park bench / eyeing little girls with bad intent». Ma non è il genere di panchine – né di parchi – di cui parla questo capitolo. Occorre invece ricordare almeno un’altra canzone, che nella mia vita, ma credo anche in quella di molti altri, è stata molto importante. Parlo di Simple twist of fate di Bob Dylan. Quando attacca la voce di Dylan, e immediatamente si riconosce la canzone, è facile provare un brivido: «They sat together in the park...». È la storia di un amore mancato o perduto, come spesso in Dylan. Un’anima gemella di cui ha «perduto la chiamata»: «la colpa è di uno scherzo [o svolta] del destino». «Erano seduti insieme nel parco, / il cielo della sera si tingeva di scuro; / lei lo guardò e lui sentì un brivido percorrere il suo corpo. / Fu allora che capì di essere da solo / e che desiderò di aver tirato dritto / guardandosi da una breve svolta [o scherzo] del destino». Panchina è spesso solitudine, anche nelle canzoni d’amore. E tutte le canzoni, come ogni racconto, sono in fondo canzoni d’amore. Ce n’è una dove la parola panchina è assente, ma il senso è lo stesso. È cantata dalla voce calda di Otis Redding, ed è giustamente famosa: Sittin’ on the dock of the bay. 137

Dock, che si può anche tradurre «molo», si traduce di solito con «banchina». La persona che medita nella solitudine di una baia è senz’altro più affascinante se immaginata in un porto commerciale o industriale piuttosto che turistico. Magari con quei container a cubi rossastri che tanto hanno influenzato il cinema e l’arte contemporanea. Come su una panchina abbandonata, qualcuno è semplicemente seduto di fronte all’aperto, al mare ondeggiante. «Sittin’ in the mornin’ sun / I’ll be sittin’ when the evenin’ comes / Watching the ships roll in / And I watch’em roll away again...» (Seduto sotto la luce del mattino / Starò qui quando la sera arriverà / A guardare le navi entrare lentamente / E guardarle andare via di nuovo...). Questa canzone del 1968, cantilenante come il rollio delle onde o di una barca, dice la libertà del sogno, la sospensione dal tempo e dal mondo. Un altro naufragar che è dolce, ma al ritmo del soul, che vuol dire anima. «I’m sittin’ on the dock of the bay / Watchin’ the tide roll away, ooh / I’m just sittin’ on the dock of the bay / Wastin’ time» (Sono seduto sulla banchina della baia / A guardare la marea andarsene / Sono seduto sulla banchina della baia / Sprecando il mio tempo). P.S. Ho fatto leggere questa pagina al mio amico Antonio. Ma vuoi mettere con Paolo Conte? – ha detto. E come altri recitano a memoria versi di Dante, Racine o Baudelaire, mi ha sciorinato solennemente i primi versi di Bartali: «Sono seduto sopra un paracarro / e sto pensando agli affari miei / tra una moto e l’altra c’è un silenzio / che descriverti non saprei...».

Still life

Ancora su pop art e panchine. Quando stavo con Cathy Josefowitz, e lei ancora danzava (più tardi, quando nacque nostro figlio, lei a poco a poco si limitò a dipingere multicolori danze su tela), ci fu un progetto di coreografia che dovevamo realizzare insieme. Avevamo già fatto un Omaggio a Muybridge, il celebre crono-fotografo (fotografo della velocità e del movimento) che aveva ispirato, tra gli altri, Francis Bacon e Philip Glass. C’erano due cerchi di luce, uno piccolo intorno a me, uno grande in cui danzava lei. Mentre io recitavo, con alcune ripetizioni drammatizzate, i titoli ossessivi delle fotografie di Edward Muybridge (su un’altra base registrata la voce di Cathy ripeteva in inglese le mie parole) lei correva ininterrottamente, dinoccolata e morbida (floscia come un floppy dog, dicevamo), sul bordo del cerchio illuminato. A questo omaggio dovevano seguirne uno a Francis Bacon – Fleshdance, «danza della carne», per ovvi motivi – e uno allo scultore George Segal, dal titolo Bonesdance, «danza delle ossa». È su questo che mi soffermo. L’idea si ispirava a una celebre scultura di Segal che mostra un uomo imbalsamato di bianco (come sempre) seduto a tavolino con davanti una tazzina di caffè, naturalmente 139

bianca. Interamente bianco, io avrei riprodotto quella scultura, e con movimenti di una lentezza impercettibile, estenuante, avrei portato quella tazzina alle labbra (naturalmente bianche). Questa fissità (che a me ricordava certi lentissimi risvegli da una sbronza, a volte al tavolino di un bar) sarebbe stata sottolineata dalla musica di fondo, la sfrenata, trascinante canzone dei Beatles Twist and shout. Subito dopo, Cathy avrebbe danzato altrettanto freneticamente, però in assoluto silenzio. Il contrasto tra immobilità e movimento ci sembrava sintetizzasse un aspetto importante della poetica di Segal. La new dance di cui Cathy era ed è maestra, trasmessale da altri danzatori come Steve Paxton, insegna (proprio come lo Zen) che l’immobilità è movimento, contiene ogni movimento. E che una coreografia che unisca bellezza e cura di sé si sviluppa mostrando le cosiddette easy actions, le azioni semplici come sedersi, coricarsi, alzarsi, camminare, correre, ecc. Adesso, ripensandoci, mi sembra che quel contrasto sintetizzi bene anche l’idea dello stare sulle panchine. Se guardate le sculture di Segal, intensificate dal bianco che le rende simili a mummie, vedete che quei corpi umani imbalsamati sono colti e fissati nelle posture e azioni più quotidiane e ordinarie, urbane e metropolitane. Come nei quadri del maestro del realismo americano, Edward Hopper, nelle sculture ambientate da Segal ci sono, oltre a panchine, bar, semafori, pompe di benzina, camere d’albergo, ecc. Anche frutta in una zuppiera, certo, con citazioni di Cézanne. Perché tutto, in Segal, ha la suspense dello still life. Lo still life, formula che la traduzione italiana «natura morta» sposta e riduce, è l’equivalente del mondo trasformato in paesaggio. Anche i nostri corpi sono parte del paesaggio. Anche l’osservatore, anche il pittore sono paesaggio. Still 140

life, natura morta, era già in fondo la passante di Baudelaire, quando i loro occhi si incontrano e s’innamorano, prima di sparire per sempre nella folla (e lui rimane seduto). Anticipando l’invenzione luttuosa della fotografia – la nostalgia del passato che non c’è più, lutto che le è perennemente intrinseco – il poeta esercita uno sguardo in concorrenza col trascorrere del tempo e dei corpi. Segal ricorda tutto questo. Fare poesia, fare arte, significa da allora perorare una lentezza, avere cura delle soste e dei luoghi di sosta, al limite fermare il traffico, come nei sit in. Soffermarsi, non appena sia possibile, sulle panchine, isole nel flusso frenetico del mondo, dove tutto, anche i corpi e la bellezza, passano ininterrottamente come merci, o come i programmi della tv.

Elenco 2

Ho fatto poi l’elenco delle panchine di Parigi che mi venivano in mente. La panchina in alto della rue de la Montagne Sainte Genéviève, di fianco a dove avrei insegnato per anni, al Collège International de Philosophie, ma su cui ho cominciato a sedermi molti anni prima, affascinato dalla piazzetta simile a un’oasi, un concentrato di pariginità, i colori, la pace, le luci soffici e giallognole d’inverno, e una libreria alle spalle, di fianco ai bistrot (oggi scomparsa). Io la chiamavo la panchina di place Descartes, ma non ha un nome, solo che lì comincia in effetti una rue Descartes (che diventa poi rue Mouffetard). La panchina vicino a place Maubert, in tutti i casi su boulevard Saint-Germain, vicino ai taxi fermi, quando una sera tardi all’uscita da una cena al ristorante ho convinto mia moglie Cathy e un’altra donna (una pittrice più vecchia di noi) che fosse bello sedersi lì, guardare il traffico e le luci senza esserne toccati, avere la sensazione di essere inattaccabili e sicuri, nell’occhio del ciclone, e con loro stessa sorpresa hanno apprezzato vivamente la sosta, nonostante il freddo invernale (se la ricordano ancora, con mia sorpresa). 142

Una qualsiasi delle panchine di avenue de Breteuil nel tratto più vicino al Dôme des Invalides, dove andavo a passeggiare per farmi passare l’ansia, a volte, e dove mi sedevo e restavo in contemplazione delle case, quasi tutte bellissime. (Era il mio quartiere, un quartiere di destra, ma proprio per questo è più facile pensare i propri pensieri senza che nessuno ti tiri per la giacca, è questo il lusso.) Una panchina tra la chiesa di Saint-François-Xavier e il ristorante cinese «Aux délices de Tze Chuan», per lo stesso motivo di cui sopra (gli alberi quando perdevano le foglie gialle e rosse lì erano sublimi, e c’era una cabina telefonica isolata e luminosa nella notte che scaldava il cuore). Le panchine del piccolo parco segreto di rue de Babylone, nascosto dal lungo muro e in origine appartenuto a un convento, si chiama credo Jardin de Babylone (sto perdendone la memoria?), a due passi da casa mia, dove andavo a qualsiasi ora del giorno, spesso a ora di pranzo e mangiavo un panino leggendo il giornale o un libro, oppure verso il tramonto, a guardare il cielo, e a guardare la sagoma ipermetropolitana della torre di Montparnasse sbucare nera come una stalattite sopra i tetti di zinco dei palazzi color crema, placidi, che circondano con perfetto perimetro il parco. Bellezza di quelle case, della loro abitabilità. Bellezza di quel giardino, che unisce la semplicità di un orto al profilo rassicurante di una città, con prati nel mezzo e un corridoio intorno, costeggiato anch’esso di panchine. Io preferivo le panchine più al centro, in riva ai prati. Le panchine del Jardin des Plantes, attigue allo zoo, dopo avere visitato con Pierre la flora del mondo in miniatura (e gli 143

animali dello zoo, che sembravano tutti condannati a stare su delle panchine recintate). Le panchine del Jardin de l’Observatoire (prolungamento ideale e geometrico del Jardin du Luxembourg), dopo la scuola di Pierre, giochi di lotta e di corpo sul prato, poi riposo, la fontana, la merenda alla Closerie attigua, e io che non ho mai cessato di sognare di abitare in una delle case che costeggiano quel lungo giardino tra i viali, stile avenue de Breteuil ma più di sinistra, da dove mi piaceva guardare in fondo l’Osservatorio astronomico, bianco, cilindrico, bellissimo, oltre l’incrocio tra Port Royal e Montparnasse. Le panchine nel Parc de Montsouris, vicino alla casa di mio figlio e di sua madre, grandi prati rigogliosi da non calpestare (io lo chiamavo per scherzo il parco del Montetopo, traducendo), dove andava spesso anche Samuel Beckett. La panchina che vedevo dalla finestra della nostra prima casa a Parigi in rue de Seine, di fronte a rue Jacob (di cui si vedeva tutta l’infilata), in quella specie di giardinetto beckettiano, oppure da ubriachi (ci ho scritto un raccontino che non trovo, su quel giardino minuscolo e su quella panchina, a meno che non l’abbia inventata io). Una delle due panchine che, mi ricordo, si trovano o si trovavano in rue Jacques Callot, tra rue de Seine e rue Dauphine, dove c’è il famoso bistrot La Palette (e dove l’oste barbuto ancora adesso, anche se non mi vede da anni, con voce roca mi dice «Salut mon ami, comment ça va?»), dove si sta in pace tra le gallerie d’arte. Una panchina sul ponte pedonale di fronte al Louvre, o quasi, cui si arriva facendo fino in fondo la rue de Seine, e do144

ve un mattino sono stato al freddo a guardare la Senna e Parigi biancastra e fumare una sigaretta dopo avere spinto per una lunga passeggiata la carrozzina in cui dormiva mio figlio di tre mesi, ben coperto e al calduccio. Tutte le panchine, ma anche le sedie verdi di ferro sparpagliate, del Jardin du Luxembourg, troppe per ricordarle tutte. Da solo. Con la carrozzina di mio figlio. Con mio figlio per mano. Con mio figlio che gioca nel recinto dei bambini, a scambiarmi il giornale con Daniel Auteuil (che ha la figlia che gioca nello stesso recinto dei bambini). Oppure a leggere, semplicemente. O a mangiare le gauffres con lo zucchero sopra. O a guardare, sempre con mio figlio, le partite di pallacanestro di giovani dilettanti di talento. Le panchine di place de Vosges in inverno, dietro le griglie di metallo che cingono il giardino, a chiedermi quale sia la casa non di Victor Hugo, ma quella in cui in un appartamento c’è stato il delitto di cui narra il romanzo di Maigret L’ombra cinese. La panchina in primavera di fronte all’albero bellissimo e maestoso di paulonie fiorite, come glicini in erezione che sbocciano all’insù, in una piazzetta del V arrondissement, da qualche parte dietro al Panthéon. Le panchine in place Dauphine, linda e perfetta, una piega del mondo nell’Île de la Cité, con due o tre alberi, e lì vicino un bistrot con pochi tavolini (che poi potrebbe essere quello dove ordinava i panini Maigret). Le panchine del giardinetto di place de la Contrescarpe, coi bevitori di birra e i giovani turisti squattrinati (io preferivo stare nei bar intorno, a tavolino). 145

Le due, massimo tre panchine, alla fine di rue Mouffetard, verso il XIII arrondissement, coi banchi del mercato vicino, verdura e frutta soprattutto. Le panchine dove mi riposavo dopo il Qi Kong nel parco del XIII arrondissement, rue Croulebarbe, dove guardavo il Tai Chi, insegnato dalla stessa ‘letterata’ cinese, maestra, la signora Kar Fung (una volta ha spiegato dalla versione cinese il Sutra del Cuore ed è stato magnifico, io ascoltavo da una panchina). Le panchine nella piazza Sèvres-Babylone, dove non mi sono mai seduto – troppe macchine intorno, troppo passaggio, e la presenza incombente del Bon Marché proprio di fronte (lo attraversavo per andare da qualche parte, avenue Raspail, oppure Saint-Germain-de-Prés, però le guardavo, erano popolate da un insieme assortito – signore, immigrati, coppiette). Le panchine, dove viceversa andavo a sedermi quasi con golosità, nella vicinissima piazzetta Récamier, quasi privata, e sconosciuta ai più, un giardino residenziale tra le case che vi si affacciano, in fondo a un vicolo cieco (su cui si affaccia anche la veranda del ristorante omonimo, caro, pretenzioso e deludente). Le panchine del giardino segreto dietro la Fondation Cartier, riservate ai visitatori del museo (io ci andavo spesso). L’unica panchina nascosta, di legno, del cinema la Pagode, in rue de Babylone, con un giardinetto dietro, dove andavo a spasso con mio figlio quando era piccolo, e potevamo anche 146

fare una merenda con una fetta di torta e un tè (è una vera pagoda di legno, importata e trapiantata lì da un ricco signore, da anni trasformata in cinema d’essai). Le panchine nel giardino del Musée Rodin disseminate di sculture (ci ho scritto un intero racconto; del resto abitavo lì vicino, e Cathy ci ha fatto anche una mostra esagerando un po’ nel titolo – L’appartement en face du Musée Rodin. Il mio racconto invece si chiama Il mondo della merce, e avrei quasi voglia di riportarne dei brani). Le panchine del metrò, che da qualche anno sono cambiate, di modo che non ci si possa più coricare per dormire (in quell’odore caldo e inconfondibile del metrò di Parigi, con quella sonorità e luminosità inconfondibile, con quelle folate anche di vento freddo inconfondibile quando si esce). Le sobrie panchine (non so bene perché, ma è così che le sento, quasi austere) del Jardin des Tuileries, coi busti di Maillol, in un quartiere che non è mai stato il mio (rive droite), salvo il giorno che ero lì, uscito dal cinema con mio figlio, lo stesso giorno che Pantani ha vinto il Tour de France e ha fatto tre volte il giro del giardino, e c’era diffuso dagli altoparlanti l’inno di Mameli. Ci sono panchine nel Jardin du Palais Royal, così perennemente autunnale e demodé? Nel rettangolo racchiuso da un rettangolo circondato di portici (dove abitava Colette: ma dove? in quali finestre?) forse ci sono solo sedie per sedersi, sedie verdi. Tutte le panchine da cui vedevo il cielo di Parigi. Per esempio questa, dicembre 1997 (la ritrovo in un taccuino): «Il 147

grande cielo del Nord visto sbocconcellando una mela, grandi nuvole filamentose come zucchero su un cielo blu notte, aria pura e silenzio...». Oppure questa: «Tra le nuvole chiazze di azzurro, e nonostante il crepuscolo, e il sole assente, si sente una sfumatura di rosa (Pierre addirittura la vede), e ancora risalta tenue ogni colore...». O anche: «Il cielo così alto, azzurro, con una carrellata di nuvole bianche che corrono più veloci del metrò...».

Mosca e Zagarolo

Una delle panchine più famose della letteratura è quella in cui si apre (e si chiude) Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov. Come tanti, l’ho letto da ragazzo, e quindi l’ho dimenticato, tranne la descrizione del cangiante Diavolo che appare allampanato ai due letterati seduti su una delle panchine presso gli stagni PatriarΔie. Ognuno dei due pensa che sia straniero (tedesco, inglese, polacco ecc.: manca solo l’idea del turista belga). I due sono rispettivamente il grassoccio direttore di una rivista letteraria chiamata «Massolit» (cioè «letteratura di massa») e un giovane poeta infervorato conosciuto come Bezdomnyj (cioè «senza casa»). È l’ora di un caldo tramonto primaverile, e nel parco costellato di panchine sono stranamente i soli a sedersi all’ombra. Con l’arrivo dello strampalato e inquietante professor Voland, i tre continueranno la loro grottesca conversazione sull’esistenza e la non esistenza di Dio seduti sulla panchina, alzandosi ogni tanto per sottolineare una parola o uno stato d’animo. Alla fine di novembre del 2007 sono andato a una cena di compleanno a Zagarolo, nel ristorante di un giovane cuoco di cui si decantavano le doti. Non ero mai stato a Zagarolo, 149

e sfortunatamente neanche l’amico che guidava, che era d’altronde il festeggiato. A partire dall’Eur dovevamo seguire un’altra macchina, la quale subito ci seminò sgomitando nel traffico e bruciando i semafori. Di esserci perduti ce ne rendemmo conto a Pomezia. Saremmo finiti al mare se un benzinaio non ci avesse suggerito di tornare indietro, oppure di prendere per i Castelli. Naturalmente scegliemmo i Castelli, e fu un altro sbaglio. Capimmo la distanza dall’espressione stralunata di tutti coloro cui chiedevamo indicazioni – immigrati rumeni, le uniche persone gentili, o meglio le uniche persone tout court sui marciapiedi. L’amica seduta dietro cercò saggiamente ma invano di suggerire di cambiare destinazione. Il festeggiato non demordeva. Dopo oltre un’ora cominciammo ad attraversare paesini attaccati l’uno all’altro, pieni di luci e di panchine, che irradiavano un malinconico fascino termale: Albano, Ariccia, Genzano, Velletri. Io ero incantato ovviamente dalle panchine. Arrivammo a Zagarolo quasi a mezzanotte. Dove, in una piazzetta accanto al Palazzo Rospigliosi, vidi un complesso di panchine bianche di marmo, provviste perfino di tavolini laterali pure di marmo, come divani di un salotto. Volli provarle, ma non ebbi il tempo di soffermarmici perché gli amici scalpitavano giustamente per quella cena che sarebbe dovuta essere memorabile. La mia mossa tuttavia non sfuggì, e a tavola dovetti spiegare che stavo scrivendo questo libro sulle panchine, finché per una serie di associazioni di idee si arrivò al romanzo russo Il Maestro e Margherita, che inizia su una panchina. Riccardo De Gennaro, il festeggiato, giornalista e romanziere ma soprattutto collezionista di luoghi e persone, purché dotati di un’aura immaginaria, fu felice di raccontare che lui, su quella stessa panchina del romanzo, si era seduto in occasione di 150

un suo viaggio a Mosca. Ed ecco così, qui di seguito, il dono per questo libro di un paio di pagine del suo diarietto moscovita, sul tema delle panchine. «Mosca. 21 luglio 2002. Mausoleo di Lenin. Non si può sostare davanti alla bara. Ci si mette in coda e si sfila lentamente. Lenin è diventato piccolissimo, vestito di nero, la mano destra quasi stretta a pugno, la sinistra con le dita distese. Sembra una statua di cera. La salma è molto illuminata, buio intorno. Si scendono alcuni gradini nella più totale oscurità, rischiando di ruzzolare, perché si è ancora accecati dal sole della Piazza rossa. Museo Majakovskij. Non c’è nessuno, posso visitarlo con calma. La prima cosa che vedo è una pezza superstite della blusa giallonera che M. indossava per sconvolgere i passanti. Nel taschino infilava un cucchiaio di legno. Il museo è stato ristrutturato in chiave futurista. Ci sono centinaia di lettere e documenti incollati sotto grandi pezzi di vetro. Scrivo queste note seduto su di una comoda e fresca panchina del parco che circonda lo stagno del Patriarca, esattamente là dove Bulgakov fa cominciare Il Maestro e Margherita con la prima apparizione di Woland, il diavolo, e dei suoi due aiutanti. La panchina è in legno, tinteggiata di verde, a forma d’onda. È situata ai bordi del vialetto alberato che costeggia il laghetto. C’è una panchina ogni pochi metri. Forse la mia è la medesima dove stavano seduti il direttore di una rivista letteraria Berlioz e il suo amico poeta Bezdomnyj, le spalle rivolte a via Malaja Bronnaja. Era un pomeriggio di maggio, adesso è luglio. Il parco è rettangolare, il laghetto è al centro e lo occupa quasi interamente. Sul lato sinistro sorge una costruzione che sembra l’ingresso di un impianto balneare, o di un circolo di canottaggio. Sul lato destro, dentro 151

il lago, c’è una piattaforma galleggiante, una specie di battello-bar all’ancora con dei tavolini. Oltre alle panchine e ai tavolini con le sedie ci sono anche alcune barchette. Perché si è suicidato Majakovskij? Una delle custodi del museo, una signora dai capelli neri, sulla quarantina, vestita con un abitino di tela, mi dà alcuni elementi: ‘Aveva organizzato una festa per i 20 anni della sua attività e non c’era andato quasi nessuno; da tre anni era in conflitto con il potere retto da Stalin; vedeva che le sue idee non erano più condivise; soffriva di depressione. L’ultimo giorno gli fa visita una sua amica attrice, lui le chiede di sposarlo, ma lei dice di no, non può lasciare il teatro. Poi lo saluta. Mentre scende le scale ode il colpo di pistola, corre su, ma Majakovskij è già morto. No, non è stato ucciso, l’ultima a vederlo è l’attrice’. Da tempo era finita la sua storia con Lili Brik, che tra l’altro il giorno del suicidio si trovava all’estero. A Berlino, se non ricordo male, con il marito Osip. Majakovskij si era sposato negli Stati Uniti e aveva avuto un figlio, che è ancora vivo e che la prossima settimana, mi dice ancora la signora del museo, sarà a Mosca. Il Museo della Rivoluzione lo trovo chiuso. Sono entrato nel parco dello stagno del Patriarca in cerca del diavolo. Forse sono io. Lo deduco dagli sguardi dei cittadini moscoviti. L’avranno letto il romanzo di Bulgakov? Poco dopo aver oltrepassato il cancelletto d’ingresso mi accorgo di una bellissima ragazza bionda, alta, vestita di rosso. L’abito è molto attillato, le gambe nude. Eccolo il diavolo. Ha le scarpe di vernice blu. Aiuto, farò la fine di Berlioz, un tram mi taglierà la testa. ‘Ma chi è arrivato, a un certo punto, mentre mi riposavo sulla panchina? Un gatto nero: nonostante i richiami di altre persone, si è rannicchiato di fianco a me’». 152

Commedia, tragedia

C’è una foto, anzi ce ne sono varie, che ritraggono Thomas Bernhard seduto su delle panchine. Lo scrittore austriaco dalla sintassi ossessiva, dallo humour devastante e l’ironia feroce, che disprezzava i politici in primo luogo, e in secondo luogo gli austriaci – al punto da scrivere nel testamento il divieto di rappresentazione, lettura e pubblicazione in patria dei suoi testi – ha scritto naturalmente sul tema delle panchine. C’è un testo in particolare che fa molto ridere, come spesso accade con Bernhard. Si intitola: È una commedia? È una tragedia? Il narratore esce per andare a teatro, malgrado odi intimamente il teatro e voglia scrivere un trattato contro il teatro («si descrive bene quello che si odia»). Ma davanti al teatro indugia e si siede a guardare il pubblico seduto su una panchina ai giardini pubblici di fronte, finché uno sconosciuto gli rivolge la parola. Il dialogo che si sviluppa è un crescendo grottesco. A un certo punto il narratore si accorge che lo sconosciuto porta scarpe da donna. Dopo un po’, quando alzatisi dalla panchina si dirigono verso il Parlamento, e lo sconosciuto continua ossessivamente a monologare, il narratore si accorge che egli è interamente vestito da donna, cappello compreso. È una commedia? È una tragedia? 153

È la stessa domanda, agghiacciante, che tramite Thomas Bernhard potremmo rivolgere alla politica, oggi più che mai. Per spiegarmi devo prima riferire che tra i vari testi e rimandi che si trovano su Internet sotto la voce «panchine» (con l’aggiunta di altre svariate parole chiave), ce ne sono alcuni ‘politici’ – il che non mi stupisce (credo a una politica delle panchine). Un politico locale, già sindaco di Monza, in una lettera a Romano Prodi e al sindaco di Firenze Leonardo Domenici, ha scritto: «Chiederò a tutte le parti politiche, ai politici e ai dirigenti di sottoscrivere un codice etico, per la moralizzazione dei comportamenti, sulla base di principi chiari e precisi, come l’integrità, la responsabilità, la credibilità, la dedizione al servizio pubblico, la trasparenza, l’austerità e la parsimonia. [...] Cinque anni fa ci presentammo, tra gli altri, con uno slogan semplice, ma forte e chiaro: meno poltrone, più panchine. Un messaggio che vorrei tutti facessimo nostro, per andare incontro ad un’esigenza sempre più forte sul piano politico e morale». Chissà quante altre volte quello slogan – meno poltrone più panchine – è stato pronunciato, però ha una sua efficacia e bellezza nell’esprimere la semplice parola d’ordine della democrazia. Panchine è democrazia («panchine e libertà», volevo all’inizio intitolare questo libro). Ma se c’è una categoria, e una lista di persone che immediatamente trovo agli antipodi delle panchine, e che mi stupirebbe moltissimo vedere seduti sulle panchine dei giardinetti, sono i politici. Avevo perfino pensato di farmi fotografare su una panchina insieme a una serie di persone pubbliche, per questo libro o anche per un film documentario, e vedere cosa succede. Creare le circostanze per mettere su una panchina insieme a me Massimo D’Alema, per esempio, Walter Veltroni, il ministro delle Finanze, oppure uno come Stefano Ricucci (certe persone pubbliche hanno per 154

me la stessa qualità dei politici), o come Tronchetti Provera, come Montezemolo, come il presidente della Banca d’Italia. Si sono mai seduti su una panchina a pensare? Non so se sia un’idea alla Chiambretti. Mi interessa il contrasto. Il contrasto – comico, tragico – tra la politica e la vita. L’anno scorso in Francia una scrittrice di teatro, Yasmina Reza, ha avuto un’idea molto bella, una di quelle idee nascoste dalla loro evidenza, come l’uovo di Colombo. Poco prima della campagna elettorale presidenziale, chiese all’allora ministro dell’Interno Nicolas Sarkozy di poterlo seguire passo a passo, e testimoniarne come sapeva farlo lei, cioè da scrittrice. Lui ha avuto il merito di acconsentire. Il libro che ne è scaturito, L’alba, la sera o la notte, al di là del prevedibile successo commerciale, spinge a chiedersi perché non sia mai stata fatta prima un’esperienza simile, ovvero il confronto tra la letteratura e la politica, le loro diverse ritmiche o manipolazioni del tempo; tra la necessaria lentezza della letteratura e la rapidità, il mito dell’efficacia della politica; tra il perpetuo presente dei politici e quello, di tutt’altra natura, degli scrittori; tra il senso della comunità, in qualsiasi modo lo si voglia intendere, e quello dell’immunità; tra il senso delle parole senza scopo né destinazione certa, della gratuità e della grazia possibile, e quello delle parole finalizzate a uno scopo. Tra lo spettacolo e la scrittura, a mio avviso irriducibili. In altre parole, tra le poltrone e le panchine. Dice un consigliere di Sarkozy, a proposito di un suo intervento televisivo: la realtà non ha alcuna importanza, solo la percezione conta. Dice lui stesso: «l’immobilità è la morte». L’autrice invece si ricorda una frase di Kasparov, il campione mondiale di scacchi: «Posso forse battere Kramnik, ma non il tempo che passa». E osserva il candidato presidente sfogliare il «Figaro», su cui campeggia un titolo riguardante 155

Ahmadinejad, il presidente dell’Iran, diversi sottotitoli (tra cui uno che lo riguarda) e, in basso a destra, una pubblicità: «Dopo alcuni secondi di attenzione, dice: È bello il Rolex». Ma non si tratta di un libro sulle apparenze, quanto di un libro sul tempo. Il filo della narrazione, il suo contenuto, è infatti l’impazienza di Sarkozy, paradigma del politico. «Non voglio scrivere del potere – annota Yasmina Reza – o di politica, o della politica come modalità dell’esistenza. Quel che mi interessa è contemplare un uomo che vuole fare concorrenza alla fuga del tempo». Ma proprio questa è la politica. Thomas Bernhard lo sapeva bene. La sua avversione (politica) alla politica trasuda in ogni suo scritto. Il suo periodare ripetitivo, ossessivo, asmatico, circonvoluto, esasperante, violento, quasi sempre entusiasmante, è una guerra permanente con le armi di uno scrittore all’azzeramento del tempo e allo sradicamento del linguaggio da parte dei politici. Thomas Bernhard parlava da un luogo estremo, da una panchina estrema. Per esempio dall’ospedale dei malati ai polmoni, dove gli estrassero un tumore. È li che si svolge lo straordinario romanzo Il nipote di Wittgenstein, storia dell’amicizia col nipote dell’autore del Tractatus logico-philosophicus, ricoverato in un padiglione adiacente a quello di Bernhard, riservato però alle malattie mentali. La loro permanenza è un’oscillazione anche fisica tra una panchina e l’altra. La degenza all’ospedale, il contatto quotidiano con la morte, il convivere anzi con la morte, anche la propria, di cui Bernhard parla diffusamente, è quanto di più lontano possa esserci dalla dimensione dei politici, la cui essenza sta proprio nella rimozione dell’idea stessa del morire (non c’è nulla di più serio del cerone e del lifting, come ci hanno insegnato anni di dittatura mediatica). Ecco in cosa consiste l’immunità – qualcosa di più radicale dell’immunità parlamentare e degli sciocchi privilegi con cui ci distraggono 156

le cronache. D’altra parte, l’unica comunità possibile è evidentemente quella dei mortali e parlanti, cioè degli umani, di cui i poeti sono da sempre i portavoce. A suo modo, anche Yasmina Reza lo sa. Nella seconda metà del suo libro su Sarkozy, verso la fine della campagna elettorale, si trova col candidato presidente e il suo seguito in un posto diverso dagli altri. Sono infatti a Bourg-Blanc, al Centro di accoglienza per malati di Alzheimer. Escono nel giardino (un «giardino terapeutico»). L’intera situazione è descritta impeccabilmente: «Seduti su una panchina di legno chiaro, cinque ospiti del Centro, quattro donne e un uomo. Nicolas: Da quanto tempo siete qui? Una donna: Su questa panchina? Nicolas: No, nell’istituto! Appena Nicolas se ne va, i cinque si alzano e si allontanano sul sentiero di ghiaia, ridendo. L’uomo cammina completamente curvo. Il giardino è deserto. Elodie e io ci sediamo sulla panchina abbandonata. [...] Ci diciamo che anche noi un giorno potremmo trovarci lì, davanti al fazzoletto di terra dove crescono i rododendri. Che tristezza, dice Elodie. Passa un tizio e ci informa che c’è ancora qualche stanza libera. Ridiamo stupidamente. È il giorno del mio compleanno. All’ingresso dell’istituto c’è un murale su cui arranca un cavallo da tiro, con un dolmen e una croce davanti al mare. Colori crudi, delimitati da un tratto nero. Dall’interno arriva la voce dell’uomo che seguiamo. Un uomo che cerca di adeguarsi alla gente e che forse la gente acclamerà tra qualche giorno. Cosa può dire a queste persone fragili, sedute al tavolino della colazione, l’ultimo che vedranno in vita loro, davanti alle scodelle, ai piatti, al pane, al157

la semplicità di un pasto che va sempre più impoverendosi? A loro non dice niente, le vede a malapena, parla agli altri, a quelli lontano dietro la telecamera. La piccola casa di BourgBlanc è una scenografia, i degenti sono comparse. Nel mio quaderno trovo una definizione, senza fonte, della vita come lotta estenuante, e infine letale, contro se stessa. Che tristezza, ripete Elodie. Ripenso a questa scena, una delle più geniali della letteratura: Thomas Bernhard, il narratore, e Paul Wittgenstein, il suo amico, siedono su una panchina dopo essersi ritrovati tra il padiglione Hermann (tisici) e il Padiglione Ludwig (pazzi) dell’ospedale Steinhof di Vienna, indossando ciascuno la divisa regolamentare del proprio reparto. Eravamo seduti su una panchina, una di quelle che facevano ancora parte del settore tisici. Grottesco! Grottesco! ha detto lui ed è scoppiato a piangere a dirotto». Ma la parte più bella e agghiacciante della pagina, e forse del libro, viene immediatamente dopo la citazione di Bernhard, nel dialogo con Sarkozy durante il viaggio di ritorno a Parigi dopo la tappa elettorale di Bourg-Blanc, che illumina (o oscura) l’episodio dell’ospizio e della panchina: «Al rientro dalla Bretagna, Sarkozy dice questa frase: io sono estraneo al mio passato. L’unica cosa che mi interessi è l’oggi pomeriggio, il domani. Gli chiedo perché non il subito. Gli dico: il presente non ti interessa mai, tu vivi in un continuo divenire. Riflette. Concorda. Gli dico: sacrifichi istanti che non torneranno più, bruci giorni che non conoscerai mai. Sì, dice».

Altre storie

«Caro Beppe, ho provato a chiamarti ma il tuo cellulare ha squillato a vuoto. Volevo ricordarti il film cui ti accennavo, Paranoid Park, che mi sembra sulla tua lunghezza d’onda per quanto riguarda il tema panchine. Infatti il protagonista nel momento in cui scrive il suo diario, ripiegandosi sulla propria interiorità (direi singolarità), lo fa su una panchina immersa in una campagna incolta con il mare come sfondo. Per contrasto, quando perde in parte la sua individualità, per diventare meno individuo onde uniformarsi meglio a una logica di ‘numero’ inserito in un ‘gruppo’, lo fa in una pista di cemento situata in una zona urbana piuttosto degradata...» È vero, come mi ricordava in questo e-mail Cesare De Sessa, architetto e scrittore: anche senza volere uno comincia a guardare i film prestando attenzione alla presenza o meno di panchine. Sembrerà strano, ma i film più belli che ho visto in questo periodo, inverno 2007-8, mostrano tutti almeno una volta una panchina, e la sua messa in scena ha un’importanza narrativa e simbolica. Non solo in Paranoid Park, dove la panchina è il luogo della confessione scritta, quindi della formazione di sé come soggetto del ragazzo protagonista. Ma anche in Il mio amico giardiniere si vede una coppia di spalle sul lun159

gomare, e l’immagine è bella come una fotografia di Luigi Ghirri; anche in Irina Palm c’è una panchina solitaria per meditare sul destino nel proprio sobborgo; e anche nel film che ho visto l’altra sera in tv, Neverland, in cui Johnny Depp interpreta l’autore di Peter Pan, la panchina nel parco scandisce la sua vita e le sue opere, fino alla scena finale con dissolvenza di lui e il bambino a meditare sul dolore e sulla consolazione delle storie, seduti su una panchina. Sparire su una panchina. Negli ultimi giorni delle vacanze di Natale sono andato al cinema con mio figlio in una grande multisala, e abbiamo visto un manifesto che reclamizzava un film misterioso: un uomo di spalle seduto su una panchina. Sarà Forrest Gump 2, ha detto mio figlio. Poi ho saputo che l’immagine si riferiva alla versione cinematografica del romanzo Caos calmo di Sandro Veronesi. Mi ricordavo il personaggio che sostava ossessivamente nell’automobile di fronte alla scuola della figlia, e a volte forse su una panchina. Nella storia, tutti i personaggi che ruotano intorno alla sua vita fanno pellegrinaggio da lui, invidiando la sua assurda, terapeutica postazione. Il titolo del romanzo è del resto una bellissima definizione della panchina. Non mi stupisce quindi che nel film, come pare, tutto sia stato trasferito su una vera panchina, verde a onda. Le panchine nei film dunque non sono solo i luoghi di appuntamento, in genere in parchi affollati, di spie e agenti segreti di un certo filone di storie. Né sono luoghi di degrado. Almeno per ora, i film con panchine sono una specie di resistenza culturale. Per chi invece cercasse riferimenti su Internet, sono migliaia le storie di panchine, spesso come sfondo di letture e di bookcrossing. Ma in questo capitolo vorrei parlare delle panchine degli altri, o almeno di alcune tra quante mi hanno regalato gli amici in questo periodo. 160

Melisa Dane, studentessa di origine albanese, mi ha raccontato di una panchina a Ostia, dove abita, di fronte alla pineta di via Mar Rosso, accanto a dei grossi tralicci della luce posti su una base di marmo. Su quella panchina passava intere mattinate quando, con un suo amico, «faceva sega» a scuola, e non potevano andare per ovvie ragioni né a casa di lei né a casa di lui. Su quella panchina parlavano, leggevano, scrivevano, disegnavano, e lui fece per lei anche dei graffiti colorati sulle doghe di legno. Quella panchina era un po’ la loro casa, scelta forse casualmente, ma tranquilla e isolata. C’è ripassata dopo anni, voleva rivederla. Ma non c’è più. Al poeta Sergio Zuccaro è capitato anni fa di trovare lavoro grazie a una panchina. Era seduto in piazza Vanvitelli, una piazza con giardino di Caserta, mentre i suoi bambini giocavano. Aveva i capelli lunghi raccolti in un codino, e una ragazza gli si avvicinò dicendo che per un film che si faceva lì vicino cercavano delle persone coi capelli lunghi come lui. Era carina, e lui ne fu intrigato. Si presentò all’indirizzo, il set era alla Reggia di Caserta, che simulava quella di Versailles in un film a basso costo dal titolo Liberté Egalité Charcuterie (Libertà Uguaglianza e Salume), parodia della rivoluzione francese. Si trovò a recitare il sanculotto insieme ad altri coi capelli lunghi. Manuela Trinci, psicanalista e saggista di Pistoia, mi ha raccontato una storia su una panchina della sua città, quella di piazza d’Armi, che ora si chiama piazza della Resistenza, ma tutti la chiamano «panchina dell’elefante». «Negli anni Cinquanta, quando la piazza era un ritrovo per militari di leva e ragazze, baci furtivi e anche qualcosa di più, e ai ragazzini veniva proibito di andarci – vi stazionavano a volte ani161

mali appartenenti a un circo stabile e a due o tre saltimbanchi, come una scimmietta e una tartaruga ammaestrata. Ma una sera scappò dalla gabbia un elefante, piccolo si racconta. E pare che questo elefante se la prendesse proprio con una delle tante panchine che erano state messe vicino alla vasca delle ninfee e dei pesci rossi. In questa lotta furiosa che l’elefante intraprese contro la panchina – una lotta che il giorno dopo si favoleggiava e di sicuro si abbelliva o ingrandiva in tutta la città – ad avere la meglio fu proprio la panchina. Inamovibile. E l’elefante tornò in gabbia. Così la panchina venne soprannominata la ‘panchina dell’elefante’ e anche quando il circo si trasferì, i saltimbanchi forse morirono, il nome della piazza cambiò per inneggiare alla Resistenza partigiana della città e le panchine mutarono in base alla moda – ora di legno, ora di pietra, ora verdi, ora dipinte dai bambini delle scuole a strisce o a pois – ecco, quella panchina fu lasciata tale e quale. E assunse un valore scaramantico. Ovvio che gli innamorati si volessero baciare proprio lì, o che prima di un’interrogazione o di un esame ci si rivolgesse speranzosi alla panchina dell’elefante, quasi come quando si accende una candela al santo protettore». Stefania Scateni mi ha raccontato una serie di aneddoti di panchine. Quella di un giardinetto di fronte a Westminster, a Londra, dove sedeva con suo figlio tre volte al giorno aspettando che suonasse il Big Ben. Quella nel piccolo giardinetto tra i grattacieli di Manhattan, vicino al Moma, dove stava sempre seduto un signore col capello in testa intento a leggere un libro; sempre straordinariamente immobile, finché scoprì che era una statua di bronzo. Mi ha anche raccontato una panchina della sua adolescenza a Città di Castello, che mi piace particolarmente perché ha a che fare col 162

tema dello sparire: «A Città di Castello c’è un viale di tigli che fino a vent’anni fa era lo struscio estivo (d’inverno si camminava avanti e indietro sul corso, la strada principale del centro). Il Tassi, cosiddetto per via di un bar all’inizio del viale che si chiamava così, era un viale che, in realtà, era una strada statale, la 3 bis, che collegava – prima della costruzione della superstrada – Romagna e Toscana con Umbria e Lazio. In primavera profumava intensamente di un odore dolce e struggente e sulle sue panchine ci si sedeva a chiacchierare per sentire quel profumo. Tante le panchine di legno, quelle classiche a liste che disegnano un’onda, dove in genere sedevano vecchi coi bambini e dove i giovani sedevano sulla spalliera, così, tanto per distinguersi dagli adulti. Avevo circa tredici anni, terza media, e stavo accompagnando il mio amico Luigi, del quale ero perdutamente innamorata (lui non lo sapeva) e mi ero decisa a dirglielo. Due anni più di me, capelli neri e occhi profondi, alto e magro, mi aveva insegnato a suonare la chitarra una notte davanti a un falò in montagna e aveva una voce morbida che accarezzava le orecchie. Camminavo con lui sotto i tigli, lo stavo accompagnando dal dentista che aveva lo studio con affaccio sul viale, dall’altra parte del marciapiede con le panchine. Io aspettavo il momento buono per dichiararmi. Lui, d’improvviso, mi confessò che era molto innamorato di Alessandra ma che lei lo faceva soffrire, era sfuggente, usciva anche con altri ragazzi, non lo considerava importante. Io mi sentii svenire, Alessandra era la mia migliore amica. Arrivati davanti allo studio del dentista ci sedemmo sulla panchina di fronte. Prima di salutarmi, Gigi mi chiese se poteva parlare con me delle sue pene d’amore, perché ero la sua migliore amica. Poi mi chiese di aspettarlo là sulla panchina. Non risposi, lo salutai. Seduta su quella panchina volevo solo sparire, sparire 163

come un fiato di vento, come quegli attori nei film che li vedi seduti su una panchina, per esempio, poi passa un’automobile che li nasconde per una frazione di secondo alla vista e, una volta liberato il campo visivo, non ci sono più. Puff, spariti. Sentivo questo mentre Gigi attraversava la strada, suonava il campanello, entrava nella palazzina e spariva alla mia vista. Me lo immaginavo dietro la finestra che si apriva sul viale, mi sentivo sempre più a disagio, il traffico mi rombava nel cervello. Allora decisi di fare come avevo visto al cinema, sparire dietro un camion. Ne passavano molti di camion sul viale di Tassi. Bastava aspettare quello giusto. Quello giusto si annunciò con un rumore fortissimo, girai la testa nella direzione del rombo e lo vidi arrivare da lontano. Era grande, col rimorchio. Perfetto. Appena il muso quadrato arrivò all’altezza della panchina mi alzai e cominciai a camminare svelta nella direzione contraria. Il camion finì di passare che ero ancora vicinissima alla panchina, non avevo percorso neanche tre metri, e ben in vista dalla casa di fronte, dal dentista. Pensavo fosse più facile sparire...». All’inizio di quest’anno ho conosciuto Angelo, autore di Lenzuola di cartone, edito dalla casa editrice ExCogita di Luciana Bianciardi. Angelo Starinieri ha settantasette anni, gli ultimi dei quali ha abitato sulla panchina n. 3 di piazza Cadorna a Milano – quella con le tettoie progettate da Gae Aulenti. Nel libro racconta la sua esperienza paradossale e disperata, ma anche generosa di aiuti verso i suoi compagni di panchine. È un doloroso e straordinario osservatorio dell’umano, con anche disegni, ritratti di sé e degli altri senza dimora, poiché Angelo ha studiato arte e architettura. In un commento sul mio blog a un post che avevo intitolato Fantasmi e panchine, Simona Vinci mi ha scritto all’ini164

zio di luglio del 2007: «A Bologna, vicino a casa, c’è una piazzetta, piazza Carducci si chiama, c’è la casa dove abitava il poeta, bellissima, con un grande giardino recintato, e ci sono le panchine. La domenica mattina c’è un signore di mezza età che pratica tai chi, a volte con un allievo, più spesso da solo. Sulle panchine si siedono gli anziani, gli africani con le borse piene di fazzoletti e calze a righe stanchi di camminare, qualche solitario che legge il giornale. Tra questi, anch’io. I luoghi con le panchine sono un esempio di commons – spazi comuni – ben utilizzati. È triste che gli spazi comuni svaniscano, triste che gli spazi comuni diventino solo luoghi dove ‘transitare’ e non dove ‘sostare’ (a meno che ovviamente non ci siano attività commerciali, e allora il sostare è incentivato visto che produce denaro). Sediamoci per terra. Portiamoci dietro le seggioline pieghevoli, facciamo commons dappertutto!». In risposta allo stesso contenuto del mio blog, Rossana M., blogger, mi ha scritto di un uomo senza età, pulito, indefinibile, spesso con un libro in mano, che «ogni giorno sta seduto su una panchina che si trova in un piccolissimo angolo di verde che incontro sulla strada per o dal lavoro [...] Gli mando ogni volta un saluto mentale affettuoso, come a un parente di cui ti assicuri che tutto sia a posto per poi proseguire [...]. L’altra settimana, passando, m’è venuto in mente che sta sulla ‘panchina’ – e non avevo mai considerato l’aspetto panchina collegato alle tue, di panchine. E che in qualche modo è un ‘fantasma’. Una di quelle persone che pur essendo parte della mia vita, non ne è parte davvero...». Rossana faceva riferimento a un mio racconto (uscito sulle pagine romane di «Repubblica», per la serie «I colori di Roma») dal titolo Bianco su bianco, che sul mio sito ho però chiamato Fantasmi e panchine. Ormai da anni, infatti, è sui 165

‘fantasmi’ che io sto scrivendo – sapendo che, in qualunque storia che li riguardi, siamo sempre noi i fantasmi. Lo propongo qui, per finire. E con questo l’autore si congeda dai suoi lettori – da cuore a cuore, da panchina a panchina.

Lucerna 1971

Fantasmi

Da tempo, da quando me li aveva indicati mia moglie, pensavo che i gabbiani che svolazzano sull’Altare della Patria, soprattutto al crepuscolo nei mesi di primavera e d’estate, fossero fantasmi in una delle loro trasformazioni. Quel bianco su bianco, sui tetti dell’immensa macchina da scrivere di marmo, sullo sfondo di un cielo blu elettrico, non aveva più cessato di farmi sentire una strana premonizione, e insieme un’idea di comunanza. Se attraversando la sera piazza Venezia vedevo i gabbiani svolazzare nell’ultima luce, io ero allegro, anche se di un’allegria irrequieta, un po’ nervosa, come l’energia di quegli uccelli che non stanno mai fermi, o che si posano a volte sulle statue del ponte di Castel Sant’Angelo, o dovunque ci sia dell’arte umana da prendere un po’ in giro, magari lasciando cadere dall’alto qualche cacca, tanto per giocare. I gabbiani e le statue, i gabbiani e l’arte: mi sembrava un bel tema. Come le panchine e i fantasmi. In realtà, ora lo so, è tutto collegato. Era un presentimento? Mi spiego. All’inizio e alla fine di ogni colore c’è sempre il bianco. Anche le statue sono bianche, le tele e i fogli dove si scrive sono 167

bianchi. Ho sempre voluto fare lo scrittore, e l’ultima cosa che avrei voluto scrivere era sulle panchine, solo che... non ho fatto in tempo. Mi spiego meglio: il fatto è che nel frattempo sono diventato anch’io un fantasma. Me ne sono accorto per la prima volta una sera d’inizio primavera, e lì per lì non ci ho fatto molto caso. Ero al Circolo degli Artisti sulla Casilina Vecchia, era sabato, l’aria era tiepida e c’era una luce molto tenera – la luce migliore di Roma. Non so come ero capitato lì, si inaugurava una mostra dal titolo «svuotamenti» – pezzi di mondo che vengono svuotati del visibile e, in cambio, riempiti di quello che non si vede mai, lo spazio tra le cose e tra la gente, lo spazio tra le forme (lo spazio dei fantasmi?). Avevo già guardato la mostra due volte, stranamente non mi aveva salutato nessuno, e mi sono seduto fuori in disparte, su una panchina verde col prato alle spalle. Sorseggiavo del vino e guardavo le ragazze che entravano e uscivano dal bar. Mi sentivo così in pace che mi misi a scrivere degli sms dolci: a mio figlio, a mia moglie, agli amici, alle amanti perdute, a quelle non ancora trovate. A tutti dicevo che stavo davvero bene, descrissi il rosso e l’arancio del tramonto, la luce romana di fine marzo. Intanto contemplavo la luce declinante e le ragazze e i ragazzi che sciamavano coi bicchieri in mano, parlottando come api in un giardino. Buffo che solo poche ore prima mi ero alzato dal letto in quello stato che una frase romantica dice così: «mentre contemplavo l’aurora, è calata la sera». Ero passato da un crepuscolo all’altro, dopo una notte di... che cosa, in effetti? Finché mi accorsi, mentre tenevo ancora in mano il telefonino, che l’orologio segnava sempre la stessa ora, le 20.00. Le otto di sera. Mi sentivo bene, mi sentivo in pace e contemplativo. Mi sentivo invisibile. 168

Mi sentivo fuori dal tempo. Allora sorrisi, perché capii. Ero diventato fantasma. Era stato questo a darmi voglia di scrivere? Scrivere, si sa, è una cosa che fanno i fantasmi. Qualche segno c’era stato: quell’idea di scrivere sulle panchine, il tempo senza tempo di chi ci sta tutto il giorno sopra e intorno. Stare in panchina non è già una cosa da fantasmi? Alcune, soprattutto, erano diventate le mie predilette, come quelle della piazzetta con la fontana intitolata a Cairoli, vicino al ministero della Giustizia. Io lavoravo lì vicino (sono il direttore dell’ufficio postale di via Arenula), e ci andavo a fare le pause. Sempre più spesso, devo dire. La chiamavo la «piazzetta dell’accasciato» perché c’è una statua di uno, credo Cairoli stesso, che siede con le gambe accavallate su una poltrona rigida come uno scranno, completamente accasciato e tristissimo. Ha la mano sinistra a reggersi la testa, il braccio destro riverso di fianco alla poltrona, e un libro in mano che sta per cadergli per terra. Forse si è addormentato, o forse è così assorto da preoccupazioni e pensieri che non si rende conto. La cosa buffa è che, sulle panchine che costeggiano il giardinetto, le persone che si siedono (persone?) hanno assunto tutte quella stessa aria accasciata, forse perché sono disoccupati, e sembrano presi da una stanchezza o da un tedio tali, da lasciarsi tutti scivolare sulle panchine come se fossero schiacciati da preoccupazioni e pensieri sovrumani, come Cairoli – anche se quasi nessuno a dire il vero ha un libro in mano, e pur essendo facile provvedere a questo: a pochi metri c’è una bancarella che vende libri usati, e io stesso ci ho trovato più di una volta per pochi euro un libro che faceva al caso, poter accasciarmi su una panchina e leggere, oppure chiudere il libro nella mano e lasciarla cadere giù, alla mia de169

stra, preso dai miei pensieri o dalla mia stanchezza di direttore dell’ufficio postale. Lì nel giardinetto ci sono sempre degli uccelli, però svolazzano poco, si limitano a camminare saltellando. Hanno l’aria un po’ stanca anche loro, e a volte si accasciano chiudendo le ali sull’erba rada e ingiallita – perché anche l’erba lì è stanca e accasciata per terra. Ecco, a pensarci, il fatto che passassi la maggior parte del tempo sulla piazzetta dell’accasciato non avrebbe dovuto insospettirmi? Stavo diventando un fantasma, e anche quelli che si sedevano con me, e anche gli uccelli (per lo più piccioni). Ma questo lo capii solo dopo. È su una di quelle panchine che conobbi il signor Guzman. Guzman aveva i capelli rossi, era ebreo ma sembrava un irlandese, e tutti i giorni entrava e usciva dall’Istituto Italo Latino Americano. Cercava documenti, diceva, e non riusciva a farsi dare nessun riconoscimento di identità, e a sentir lui non aveva niente, solo il nome, Guzman. Di lui sapevo solo che era ebreo, credo russo, ma parlava spagnolo e aveva i capelli rossi da irlandese, voleva andare in Argentina ed era il mio compagno di panchina. Aveva la faccia più anonima del mondo, mi faceva pensare a uno di quei racconti strampalati di Pirandello, però più rassegnato e moderno. Finché un giorno improvvisamente lo vidi diventare bianco, ma così bianco che sembrava una statua. Poi sparì. Non lo vidi più sulla panchina, finché una sera una cacca di piccione sulla spalla, poi altre a raffica sulla statua dell’accasciato mi fecero alzare la testa e vidi un uccello alto con un ciuffo rosso, e pensai a Guzman. Ora lo so, era lui. Adesso so un sacco di cose. Sono un fantasma anch’io. Quella notte tornai dalla Casilina Vecchia, salii a casa e, mentre cercavo di aprire la porta con la chiave, vidi che la mia mano ci passava attraverso (la chiave però no, la lasciai sulla 170

toppa), e andai da mia moglie tutto eccitato per dirglielo. Lei però era al telefono e non mi sentiva, nemmeno se parlavo forte. Uscii sul terrazzo attraversando i vetri, e guardai il cielo e la città gialla per via delle luci elettriche, e mi sembrò bellissima, anche se mi sembrava di guardarla attraverso un vetro sottile, o un plexiglas. È così che guardano i fantasmi, come dietro un vetro. L’aria frizzante mi dava piccoli brividi attraversandomi, e mi sentivo davvero in forma. Mia moglie era sempre al telefono (ma con chi parlava?) e non c’era davvero nulla che potessi fare per richiamare la sua attenzione. Passai le ore in terrazza a guardare e pensare, ogni tanto rientravo – stare dentro era come stare fuori – e intanto diventavo sempre più bianco, «bianco come un fantasma» esclamai, e scoppiai a ridere da solo, una risata stridula da fantasma timido. Mia moglie era sempre al telefono, agitata. Poco prima dell’alba rimasi seduto sul cornicione a guardare giù, indeciso se avere paura del vuoto. Macché. E pensare che una volta soffrivo di vertigini. E se magari volo?, mi sono detto. No, i fantasmi non sono angeli, al massimo fluttuo, però non mi sfracellerò al suolo, tutt’al più divento terra, divento suolo, potrei perfino farmi calpestare dagli altri. E intanto dondolavo i miei arti di fantasma seduto sulla balaustra arrugginita, come se fosse una panchina. Guardavo i tetti, le cupole in lontananza, la città invisibile dietro la città visibile, mentre io stesso facevo parte dell’invisibile, ero – risi tra me e me – l’uomo invisibile. Quello che, ha scritto un poeta, non si vede mai, neanche nei film sull’Uomo invisibile. Neanche fuori dal cinema, dopo il film. E continuai a ridere. Fu in quel momento che mi lasciai andare, oltre la terrazza e la balaustra, oltre tutte quelle forme e quei vuoti tra le forme, oltre le correnti d’aria. Ciao, dissi alla finestra, ai quadri e ai mobili (mia moglie era sempre al telefono e non mi vi171

de: le sorrisi), leviamo le ancore, cessiamo ogni attaccamento e lasciamo ogni presa, è bello il vento che mi passa attraverso, sono davvero felice. Fu dopo pochissimo tempo (quanto, non saprei calcolarlo) che mi ritrovai a svolazzare sul Castel Sant’Angelo, sopra le statue bianche, sopra le chiese bianche, sopra le panchine, e da lì mi diressi verso i miei simili – erano tanti – e volteggiai insieme a loro allegramente. Ridevamo danzando, scrivevamo frasi sul cielo nella nostra allegra scrittura di fantasmi, sul foglio bianco della Macchina da Scrivere, sul cielo grande e scuro che cominciava a diventare colorato, sopra quel piccolo altare bianco. Roma, 10 novembre 2007 - 15 gennaio 2008

Ringraziamenti

Questo libro ha avuto molti doni preziosi da un gran numero di amiche e di amici. Per questo ringrazio di cuore tutti coloro che mi hanno aiutato a scriverlo, molti dei quali sono esplicitamente nominati nel testo. Ma la mia gratitudine va anche a Paolo Di Paolo, Gino Ruozzi e Roberta Bianchi per i loro preziosi suggerimenti. Un grazie affettuoso a Paola Ghirri, che a nome degli eredi di Luigi Ghirri mi ha messo a disposizione le bellissime foto di Luigi. Grazie a Olivier Perrin e a Gianni Leone per le altre due foto (New York e Molveno), e a Elio De Pascalis che mi ha fotografato in Salento. Spero di vedervi tutti presto, magari su una panchina.

Indice dei nomi e delle cose notevoli

Allen, Woody, 13. amore, 12, 93, 131-135, 137, 163. architettura (e architetti), 36-39. arte (e sculture) 36-39, 53, 102-103, 139-141. Atrani, 131.

Corso, Gregory, 98-99. Cucchi, Enzo, 11, 38. Davis, Mike, 36-37. Dylan, Bob, 137. Firenze, 129. Flaubert, Gustave, 12. Frisch, Max, 112-114.

Bagnocavallo, 40. Beckett, Samuel, 11, 34, 89-93. Belluno, 86-88. Benjamin, Walter, 59-60. Bernhard, Thomas, 153-158. Bianciardi, Luciano, 9, 127. Bichsel, Peter, 60, 116-118. Bologna, 13, 122, 165. Boltanski, Christian, 39. Bordeaux, 37-38. Bulgakov, Michail, 11, 150-152.

Garutti, Alberto, 38-39. Ghirri, Luigi, 44, 54, 67, 124, 127. Ginevra, 3-5, 15-18, 112, 127-128. Ginsberg, Allen, 27-29. Giotto, 80-81. Gstaad, 40, 131.

Calvino, Italo, 95. Capalbio, 121. Celati, Gianni, 54, 60. Cézanne, Paul, 29-31. Chiusi, 130. cinema (e film), 12-13, 16, 42, 5556, 63-64, 71-72, 128, 159-160. Città di Castello, 163-164. Como, 130. Conte, Paolo, 138.

Handke, Peter, 11, 133-134. Hugo,Victor, 11, 132. James, Henry, 11. Josefowitz, Cathy, 139-140, 147. leggere, 115-120. Leopardi, Giacomo, 45-47, 105. Lerici, 129. Lévinas, Emmanuel, 23-24, 78. libri, vedi leggere.

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Linosa, 6-8. Lisbona, 47. London, Jack, 20-21. Merano, 40. Messori, Giorgio, 63-72, 93. Milano, 9, 13-20, 49, 94, 164. Moravia, Alberto, 96. Mosca, 151-152. Napoli, 122-123. New York, 12-13, 113, 125-126. Nietzsche, Friederich, 40, 46. Novoli, 127. Ojai, 125. Ostia, 130. Ostia Antica, 106-109, 127.

Redding, Otis, 137-138. Reed, Lou, 135-136. Reggio Emilia, 62-72. Reza, Yasmina, 155-158. Roma, 13-14, 19, 96-99, 100-105, 126, 167-172. Romano, Lalla, 46 Rousseau, Jean-Jacques, 17, 43-44. Rumiz, Paolo, 22. San Francisco, 126. Sarkozy, Nicolas, 19, 155-158. sculture, vedi arte. Sebald, Winfrid G., 84-86. Segal, Georges, 38, 139-140. Sils-Maria, 46. Simenon, Georges, 78-80. Stanlio e Ollio, 12.

Padova, 20, 73-83. Palermo, 126. parchi (e giardini), 21, 29-35, 48, 96-97, 113, 126-127, 132-134. Parigi, 39, 91, 132, 142-148. Parma, 13, 26-31, 48-53, 62, 124. Perec, Georges, 10. Petrarca, Francesco, 49. Pietrasanta, 123-124. Pistoia, 161-162. poesie, 27-28, 45, 135. politica (e politici), 52-53, 153-156.

Tabucchi, Antonio, 47. Treviso, 21. Trieste, 22-24.

Ravello, 13, 41-42. Recanati, 46-47.

Zagarolo, 149-150. Zen (buddhismo), 32-35, 44-45.

Velvet Underground, 135-136. Venezia, 73, 84-85. Verona, 84-86. Walser, Robert, 56-61, 128. Wenders, Wim, 63, 71, 123. Yasuda, Kan, 38.