Opere. Prosa - Teatro

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Scrittori del mondo: i Nobel

La UTET ringrazia il Club degli Editori che ha ideato que­ sta collana nonché le Case Editrici che ne hanno consentito la realizzazione concedendo i diritti e le traduzioni delle opere prescelte per la pubblicazione.

Gerhart Hauptmann 1912

GERHART HAUPTMANN

l)TET 1 nione Tipografico-Editrice Torinese

ieri ss : Hauptmann 1912

GERHART HAUPTMANN

UTET Unione Tipografico-Eđitrice Torinese

Edizione speciale della UTET per concessione del Club degli Editori su licenza della Propyläen Verlag della Arnoldo Mondadori Editore della Casa Editrice Sonzogno e della Casa Editrice Sperling & Kupfer Prefazione © 1967 Club degli Editori - Milano

Le opere

PROSA

TEATRO

Dedica

Questo mio lavoro è dedicato alla memoria di Lavinia Mazzucchetti. L'editore aveva disposto di affidare, nella col­ lana dei Premi Nobel, la cura del volume di Hesse a Lavi­ nia Mazzucchetti, il volume di Hauptmann a me. Per ini­ ziativa di lei le parti vennero scambiate. Giustamente, per­ ché nessuno poteva presentare il poeta slesiano meglio di lei che lo aveva conosciuto di persona, era stata con Haupt­ mann in corrispondenza epistolare, di lui aveva scritto più volte. Purtroppo il destino inesorabile la rapì prima che il progetto potesse essere effettuato. Qualcosa però era stato fatto: la scelta delle opere, per esempio, e la revisione di alcune parti. Mi è parso opportuno mantenere, salvo qualche piccolo mutamento, la scelta da lei fatta, e mi sono accol­ lato volentieri la revisione di tutte le traduzioni. Non nascondo che il compito di presentare l’Autore non era facile. Accettai anche per dovere di amicizia, per la sti­ ma che mi legava all’ottima Lavinia, fin da quando, lunghi e avventurosi decenni or sono, l’avevo conosciuta in casa del nostro indimenticabile amico Aldo Oberdörfer. In tanti anni i nostri incontri erano stati frequenti, specie dopo che lei aveva preso a curare la pubblicazione di tutte le opere di Thomas Mann e di gran parte delle opere di Hesse. In quanto a Hauptmann m’è sembrato non solo acconcio e interessante, ma anzi doveroso riportare ampi giudizi e osservazioni dagli scritti della Mazzucchetti sul grande drammaturgo e romanziere: giudizi favorevoli e giudizi a volte negativi, ma sempre affettuosi, frutto della sua incor­ ruttibile sincerità e schiettezza, anche quando il parere sfa­ vorevole era dura necessità di una mente integerrima e malinconica espressione di un affetto deluso. E. P.

Gerhart Hauptmann

Chi osservi l’itinerario percorso da Hauptmann in sei decenni di attività letteraria non può non rimanere sba­ lordito da una cosi vorticosa fiumana di opere di vario genere, di varia natura, di vario valore. Quando si pensi che le opere sono un’ottantina, è ovvio che qui non sarà possibile discorrere a lungo di ciascuna, anche se tutte sono più o meno importanti. Ma da quanto si è potuto raccogliere in questo libro, il lettore potrà già parsi un’i­ dea del poliedrico scrittore la cui produzione, oltre che estendersi nel tempo, spazia dalla novella al romanzo, dalla tragedia alla commedia e alla tragicommedia, dalla leggenda alla fiaba drammatica, dalla lirica al poema, dal discorso commemorativo alla narrazione autobiografica: e, ciò che più conta, passando da una corrente letteraria all’altra, dal realismo naturalistico al simbolismo, al neo­ romanticismo, al surrealismo, secondo il mutare dell’at­ mosfera lungo il non breve arco della sua vita, con una adattabilità che, avendo saputo continuamente rinnovarsi, suscitò lo stupore, Γammirazione e le riprovazioni dei contemporanei. Qui passeremo da una delle sue prime all’ultima prosa narrativa, dal Cantoniere Thiel * a Mi­ gnon,* dal suo primo dramma giovanile a uno degli

* I titoli contrassegnati con l'asterisco sono quelli delle ope­ re pubblicate in questo volume.

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ultimi, dall’alba prima che si levi il sole al crepuscolo prima che il sole tramonti. La sua attività di scrittore volle essere (lo disse lui stesso) simile a quella del minatore: portare alla luce. « Confesso che credevo di essere al servizio di nascosti tesori della terra i quali aspirano al sole. » Scavare la terra tenebrosa e al lume di una lampada da minatore portarne i tesori alla superficie; non già rapire una favil­ la al sole e portarla giù tra gli uomini che ne siano illu­ minati. Conseguenza, questa, di una pessimistica conce­ zione del mondo e della vita umana, senza speranze ul­ traterrene, ma anche prova di un amore universale che tende ad abbracciare tutti gli uomini, premuti e domi­ nati dal dolore. Così Hauptmann fu il poeta della com­ passione sociale. « Com-passione » nel senso etimologico che non è soltanto quello di aver pietà del prossimo, ma di « patire insieme, soffrire insieme » con lui. Talvolta il poeta che presentando i suoi personaggi doloranti fa soffrire anche noi, potè sembrare freddo e distaccato; ma il distacco era richiesto dalla sua professione, perché sol­ tanto da una superiore distanza e reprimendo il dolore proprio gli era possibile plasmare i personaggi e rappre­ sentarli. Nella sua lunga vita Hauptmann ebbe periodi di gran­ de e serena felicità e perìodi di sfibranti e deprimenti lot­ te interiori, conobbe i trionfi e le sconfitte; nacque da una famiglia in floride condizioni economiche, morì in una splendida villa nell’amaro momento in cui stava per es­ sere schiacciato dalle vicende della guerra. Nato il 15 novembre 1862 a Ober-Salzbrunn, un luo­ go di cura della Slesia, dove suo padre possedeva un grande albergo, non fece regolari corsi scolastici. « Più che a scuola » scrisse, « imparai a leggere con Robinson Crusoe e con Calza di cuoio. » Comunque sia, frequentò la scuola elementare del suo villaggio, entrò a dodici

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anni nella scuola tecnica di Breslavia e la lasciò dopo quattro anni, penosi e poco redditizi, con una pagella assai meschina. Trovatosi suo padre in difficoltà e co­ stretto a lasciare il cospicuo albergo, il sedicenne non potè essere mandato agli studi. Uno zio lo accolse nella propria azienda rurale con l’idea di farne un esperto agronomo o almeno agricoltore. Ma il ragazzo, deboluccio e quasi tisicuzzo, non resse alle fatiche e dopo un anno e mezzo (1879) fu ritirato dai genitori e mandato di nuovo a Breslavia, a studiare privatamente per con­ quistarsi un diploma. Avendo poi dimostrato una certa abilità nel disegno, si iscrisse alla scuola d’arti e mestieri di Breslavia, ma dopo un po’ lo mandarono via per svogliatezza e cattivo comportamento. Andò allora a fena dove suo fratello Cari frequentava l’università. Questi lo indusse a segui­ re a sua volta i corsi universitari e così Gerhart assi­ stette, in gran disordine, a lezioni di storia, di archeo­ logìa, di plosopa con Eucken, dì scienze naturali con Haeckel. Gerhart era l’ultimo di quattro fratelli. Il maggiore Georg, nato nel '53, si era dedicato al commercio ad Amburgo, la sorella fohanna era nata nel ’56 e Cari, nato quattro anni prima del minore, fu in seguito il noto drammaturgo e romanziere che con drammi in dialetto slesiano s’incamminò per la strada del fratello, ma poi abbandonò il verismo e con racconti e romanzi si volse a una specie di simbolismo romantico. I trionfi del più grande fratello lo relegarono nell’ombra. E bene avreb­ be fatto (si disse) a rimanere nel campo degli studi scientifico-filosofici per i quali era dotato. Dopo qualche tentativo poetico (un poema, due dram­ mi), spinto dalla smania di conoscere il mondo e dalla tradizionale nostalgia di tutti i tedeschi per l’Italia, Gerhart partì da Amburgo per una crociera che aggi-

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rando la Spagna lo portò a Barcellona, Marsiglia e Ge­ nova e di lì a Napoli e Capri. Sempre infatuato dell’idea di diventare scultore si trattenne poi un anno a Roma a lavorare in uno studio. Mirava a creare statue colos­ sali: « Dalla montagna di Carrara voglio scolpire il mo­ numento della mia grandezza! ». Ma era una follia e fu un fallimento. Non gli restò che ritornare in Germa­ nia, a Dresda, a frequentare i corsi di disegno nell’Ac­ cademia di Belle Arti. Già prima di partire da Amburgo si era fidanzato con una ricchissima e bellissima ereditiera, Mary Thienemann i cui mezzi lo salvarono dalla miseria e, a sentir lui, dal­ la fame. Sembra una fiaba: prendendo Mary seguiva le orme dei suoi fratelli Georg e Cari che sposarono due sorelle di lei! A Dresda Gerhart si sposò nel maggio 1885: aveva 23 anni. E subito si trasferì a Berlino, poi nel sobborgo berlinese di Erkner, in una villa alla peri­ feria della capitale. Là ebbe tre figli e, abbandonato definitivamente il megalomane sogno della scultura, pre­ se contatto con i circoli letterari della metropoli e si diede a lavorare furiosamente. « Come una macchina a vapore » commentò Wedekind. Basti pensare che in po­ chi anni, dal 1887 al ’93, pubblicò un volume di liri­ che, stese e in parte fece rappresentare sette drammi, scris­ se le sue più belle novelle: una produzione che gettò le fondamenta della sua notorietà mondiale e della sua glo­ ria. Scritto e rappresentato nel 1889, il dramma Prima del levar del sole * piombò sulle coscienze come uno squillo di fanfara e provocò uno scandalo clamoroso, un violento conflitto tra coloro che vi udivano la diana dì un’arte nuova e quelli che vi avvertivano il rovinio del­ l’arte in genere. La prima rappresentazione nel Lessingtheater di Berlino, a cura della privata Freie Bühne, fu accompagnato da una tempesta di rumori, dì grida e

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fischi e applausi e acclamazioni all’autore. Un finimon­ do. Ma prima di mettere in rilievo i grandi e innegabili pregi e le indiscutibili manchevolezze dell’opera sarà ne­ cessario o almeno opportuno evocare brevemente i fatti che portarono a quella memorabile esplosione. Come, in­ fatti, ogni pianta nasce da un terreno e prospera in una determinata atmosfera, così anche l’opera d’arte ha le sue radici in uno strato culturale precedente e si svilup­ pa in un mondo preparato a riceverla. Anche quelle che chiamiamo rivoluzioni sono, in sostanza, evoluzioni. Nella seconda metà dell’Ottocento si venne accentuan­ do in Germania un dissidio tra due realtà: il palese slancio d’un grande progresso, dovuto alla fondazione del Reich nel 1870/71, con l’euforia politica interna del crescente benessere economico, con Γindustrializzazione, con l’ingrandimento delle città, col sorgere di nuove energie da una parte e, dall’altra, l’aumento e il fermen­ to delle masse lavoratrici nel dilagare dell’idea socialista sotto l’urto della concezione marxista della storia e del positivismo scientifico. Di qui il senso diffuso di una crisi, di un pessimismo culturale, di una sfiducia che coinvolse specialmente i giovani e provocò la loro pro­ testa. La giovane generazione, nella sua inquietudine, chiedeva l’abbandono dell’idealismo, al quale si erano ispirati i classici e i romantici, e pretendeva che meta dell’arte fosse non il bello, ma il vero. Come la scienza andava scoprendo nuovi orizzonti, così anche la lettera­ tura, invece di idealizzare la vita, doveva scendere tra gli umili, fino allora trascurati, e ritrarre la miseria delle classi diseredate e abbrutite, per suscitare la pietà che esse ispiravano. Non le inutili fantasie, ma la dura real­ tà, anche se queste descrizioni portavano all’esagerazio­ ne opposta. Infatti non è detto che il bello e il vero siano inconciliabili, come non è detto che la minutissima osservazione del vero sia sufficiente per creare un’opera

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d’arte. Ciò non toglie che l’aver portato anche lo studio dei reietti sul piano dell’arte e soprattutto dell’indagine psicologica sia stata una vera conquista di quella cor­ rente che si chiamò « naturalismo ». (In Italia, piuttosto, « verismo ».) Questa però non fu una corrente autoctona, ma venne dalla Francia, dove si era manifestata con Madame Bo­ vary di Flaubert, con i romanzi realistici dei fratelli Goncourt e soprattutto con quelli di Émile Zola, il quale fu anche il teorizzatore del movimento, sia ponendo a base del grande ciclo dei Rougon-Macquart la « legge dell’ereditarietà » e gli influssi dell’ambiente, sia formu­ lando la depnizione del « romanzo sperimentale », sta­ bilendo cioè un parallelismo, o parentela che sia, tra la letteratura e le scienze: che qui in particolare sono la filosofia positivista, sorta verso la metà dell’Ottocento ad opera di Auguste Comte e Hippolyte Taine, e il de­ terminismo materialistico. In contrasto col sognatore idea­ lista che si lascia trasportare dalla fantasia e dall’ispira­ zione, accogliendo influssi misteriosi e non analizzabili, il naturalista è un calcolatore che freddamente sottopone ogni caso all’osservazione e all’esperienza. Il sopranna­ turale e la metafisica sono da abbandonare e l’uomo va osservato e descritto soltanto sotto l’aspetto fisio-psicologico. Queste teorìe vennero riprese, commentate, esaltate in Germania da alcuni scrittori d’avanguardia, primo fra tutti Michael Georg Conrad a Monaco di Baviera: quel Conrad che, scrisse Thomas Mann, « sì era fatto bandi­ tore della moderna grandezza di Zola e, poiché gli epi­ goni dominavano ancora il gusto del pubblico, contri­ buiva a rinnovare l’aria delle lettere tedesche attraverso il naturalismo. Pubblicando la sua rivista mensile “Die Gesellschaft” (“La società”) spalancò porte e finestre su­ gli altri popoli... » Infatti anche altre influenze straniere,

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oltre a quella francese, si fecero sentire, portate dai venti che spiravano dalla Russia e dalla Scandinavia: si allude a Tolstof che trascurando a un certo punto l’individuo si mosse a studiare e a descrivere la vita delle masse con amorevole comprensione e pietà per il popolo lavoratore; si allude a Dostoevskij, il realista psicologo che seppe descrivere i più profondi abissi dell’anima umana e si disse convinto che l’Europa era minata con cariche di polvere in attesa della prima scintilla. Dalla Norvegia scendeva il verbo di Henrik Ibsen contro la morale bor­ ghese e le menzogne convenzionali; anche lui come Zola, osservava gli uomini con occhio quasi scientifico sco­ prendo gli effetti dell’ereditarietà e dell’ambiente; i suoi drammi sociali, costruiti con raffinata tecnica analitica, vibravano ironici colpi contro l’ipocrita società contem­ poranea, ma superando lo schietto naturalismo, inteso solo a osservare e descrivere, non rinunciava a porre il problema morale (non estraneo, del resto, neanche a Zola) e a giudicare le azioni umane. In questa atmosfera polemica contro l’arte del passato, in questo desiderio di rinnovamento d’un mondo stanco e convenzionale, fu fondata nel 1889, per iniziativa di critici come Otto Brahm e Paul Schlenther, la Freie Bühne sul modello del Théâtre Libre di Antoine a Parigi e in quello stesso anno 1889 venne rappresentato a Berlino, come abbiamo detto, il dramma naturalista Prima del levar del sole. Nel sottotitolo il lavoro è definito « dramma sociale » ma (come osservò un critico) più che un dramma socia­ le, un conflitto fra opposte tendenze, è una « catastrofe familiare », la rovina di una famiglia di bifolchi arric­ chitisi con la scoperta di filoni di carbone sotto i loro campi. Meravigliosamente descrittivi, i cinque atti sono quasi privi di azione e di svolgimento, riproducono si­ tuazioni alquanto statiche, in contrasto col significato del-

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la parola originale dramma, ossia azione. La rovina del­ la -famiglia è provocata dall’alcoolismo. Non mancano i particolari ripugnanti: il padre ubriaco che allunga le mani sulla figlia minore, la matrigna che sì porta a letto il promesso sposo di questa pglia, il marito della figlia maggiore che circuisce la minore, mentre sua moglie sta per partorire. L’alcool fa strage: un bambino della figlia maggiore è morto a tre anni a causa del bere, quello che arriva ora nasce morto. L’unica che è rimasta pura e lontana dal vizio in mezzo a tanto fango è Elena, la fi­ glia giovane. Loth, un amico venuto a studiare le con­ dizioni dei minatori, s’innamora di Elena ed è ricambia­ to. Ma dopo un delizioso idillio nel frutteto, saputo dal medico curante che la famiglia è tarata, una famiglia di beoni, sulla quale incombe il pericolo dell’ereditarie­ tà, Loth, nonostante l’assicurazione del dottore che « ci sono però eccezioni » se ne va e pianta l’innamorata. E questa si uccìde. Loth è il teorico che predica bene e razzola male. Se mira a redimere i traviati, se afferma di voler la felicità di tutti, non dovrebbe al momento buono abbandonare al suo destino l’unica creatura che metterebbe conto dì salvare dalla sozzura. In compenso sono ben delineati l’ingegnere, ignobile e losco uomo d’affari, il padre brutale, la ignorante, volgare, tronfia sua moglie, la governante ipocrita e scroccona: perso­ naggi disegnati da un osservatore acuto con vera mae­ stria. Interessanti le lunghe didascalie descrittive, degne d’un narratore più che di un drammaturgo, anche per­ ché pongono fatti e impongono azioni non esìguibili sul­ la scena. Soltanto il lettore può figurarsi che « sono le quattro del mattino », che la governante « porta vestiti smessi della padrona », ecc. Il dialogo è imitato dal vero in quanto le frasi sono troncate e spesso i periodi non portati a termine. (Un modo di parlare caratteristico del­ lo stesso autore che — come si ricorderà — fu messo in

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caricatura da Thomas Mann nella Montagna incantata; così infatti, a frasi smozzicate, parla mynheer Peeperkorn, e così lo stesso Mann racconta il tentativo fatto da Haupt­ mann di dargli del tu: « Il momento più singolare e comico dei nostri rapporti fu quello in cui egli fu lì lì per offrirmi il tu... e poi non ne fece nulla. Aveva be­ vuto un po’ e incominciò a dire: “Dunque... stia bene attento... Bene! Noi siamo fratelli, non è vero?... Per­ ciò, direi che... Certo... Be’, lasciamo stare”. E conti­ nuò col lei ».) Come nei noti drammi di Ibsen e nella Potenza delle tenebre di Tolstoj, anche qui si muovono accuse al vigente ordine sociale che, secondo i canoni del naturalismo, andrebbe mutato e migliorato. Di tono tolstoiano è anche la predica di Loth quando contrappo­ ne o, meglio, mette sullo stesso piano, la strage in guer­ ra e l’assassinio in tempo di pace. Il dramma vuol mo­ strare le dolorose conseguenze dell’aleoolismo e con ciò suscitare la pietà per i diseredati, sfruttati dal capitali­ smo. Non si può dire che queste intenzioni siano inte­ ramente realizzate, come in genere non sarà forse arri­ schiato affermare che tra le numerose opere di Haupt­ mann poche si possono accettare senza critiche, poche sono perfette, mentre altre sono fallite del tutto o han­ no un lato riuscito male. Intorno al primo dramma mi piace però riportare il giudizio che subito ne diede il vecchio Theodor Fon­ tane, cui sembrò di assistere all’attuazione di tutti t po­ stulati e al superamento di tutti i difetti ibseniani. « Tut­ to ciò che da anni avevo ammirato in Ibsen, la novità e l’ardimento dei problemi, l’artistica semplicità della lin­ gua, la spontanea capacità di disegnare i caratteri, il logico sviluppo dì essi e Tesclusione dì quanto non sia necessario: tutto questo lo ritrovai in Hauptmann. » A proposito di quegli anni di fermento e dì prepa­ razione a maggiori trionfi ascoltiamo l’autore: « Il tratto

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fondamentale della nostra vita di quel tempo era la certezza d’una fede. Noi credevamo nell’inarrestabile pro­ gresso dell’umanità. Credevamo nella vittoria della scien­ za naturale e quindi nell’estrema scoperta della natura. La vittoria della verità, credevamo, avrebbe annullato le chimere e le illusioni, anche nel campo dell’abbaglio re­ ligioso. In breve — cost diceva la nostra fede — l’autosbranamento dell’umanità nelle guerre sarebbe stato sol­ tanto un capitolo superato della storia. Credevamo nel trionfo della fratellanza che tra noi avevamo già quasi attuata. Oh, si credeva, si amava, si sperava con tutto il cuore! Un giorno l’ultimo delitto si sarebbe estinto con l’ultimo delinquente, come certe epidemie in virtù dell’igiene e di altre profilassi della scienza medica. Que­ sto ottimismo era schietta realtà ». Ora, a siffatte convinzioni e al concetto di un’arte li­ bera e nuova Hauptmann era arrivato attraverso i contatti che, negli anni di Erkner, aveva avuti con poeti, critici e letterati residenti a Berlino. Oltre ai sopra menzionati Brahm e Schienther, oltre a Bruno Wille, filosofo sogna­ tore e predicatore d’una nuova religione su base sociale, e a Wilhelm Bolsehe, scienziato e credente nella forza redentrice del socialismo, influirono su di lui specialmente Arno Holz e Johannes Schlaf, i teorici del naturalismo integrale o « conseguente ». La nuova norma dice: L’arte ha la tendenza a essere di nuovo natura, e lo diventa secondo i suoi mezzi e il modo di usarli. Il mezzo più importante e universale è la parola. E siccome l’arte deve ridare la realtà, anche la parola, anche il linguaggio, specie nel dramma, devono essere quelli della parlata di tutti i giorni. Dì qui, pertanto, il frequente uso del dia­ letto; e perciò i personaggi di Hauptmann parlano di preferenza il suo slesiano natio o il berlinese al quale aveva dedicato lunghi studi. Dopo il dramma dell’alcoolisme Hauptmann, senza

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concedersi riposo, ne scrisse subito altri due, La festa della riconciliazione e Anime solitarie; z7 primo è defi­ nito dallo stesso autore « una catastrofe familiare », l’al­ tro lo è altrettanto, e tutti e due, senza muovere accuse contro l’istituzione della famiglia borghese, disegnano, nella manìa di persecuzione e nella mancanza di volontà, le quali portano da una parte alla follia, dall’altra al suicidio, due quadri di vita moderna: vita di nevrotici. Palese è l’influsso del grande norvegese, in particolare degli Spettri e di Casa Rosmer. La Festa che, negli in­ contri della vigilia di Natale, dovrebbe essere di ricon­ ciliazione e pare che quasi la raggiunga, fa invece divam­ pare l’odio tra figli e genitori e tra fratelli e finisce in tragedia. La speranza, che ogni uomo sìa un uomo nuovo è illusione, lo dice la legge dell’ereditarietà. Sarà l’amo­ re una forza sufficiente a spezzare il cerchio della fata­ lità? Non lo sappiamo. Il poeta non risponde a questa domanda e, davanti al padre morto per un colpo apo­ plettico, lascia il dramma indeciso. Le Anime solitarie so­ no fatte per non comprendersi tra loro. L’uomo di scien­ za non compreso dalla moglie amorosa, ma insignificante, trovatosi a contatto con una giovane studiosa, d’intelli­ genza pari alla sua, non trova l’energia di portare fi trionfo il proprio amore con lei, e quando accetta la separazione, il suo sconforto è tale che lo spinge a but­ tarsi nel lago davanti alla sua casa e ad annegare. Il dotto, oscillante con tutta la sua debolezza tra due don­ ne, è un abulico, un nevrastenico, incapace dì rompere la tradizione familiare. Hauptmann non ha mai seguito Ibsen così da vicino come in questo dramma, benché qui le passioni siano affievolite e addolcite in una tenue atmo­ sfera romantica. In quel torno dì tempo il poeta si cimentò anche con la prosa narrativa e scrisse due racconti che chiamò mo­ destamente « studi novellistici » ; Il cantoniere Thiel * e

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L’Apostolo. Afe«/;-«- quest’ultimo è in verità lo studio psicologico d’un uomo invasato dalla mania religiosa, il quale, novello Cristo, si reputa chiamato a recare agli uomini un vangelo di pace e una nuova morale, la tragica storia del casellante è una novella che, pur ri­ sentendo ancora dello stile di Zola, è già, nonostante i difetti giovanili, un racconto compiuto. Dopo la morte della tenera prima moglie il cantoniere sposa una donna gagliarda e litigiosa che lo domina a suo talento. Il po­ veruomo sopporta e in sogno continua a vivere con la cara defunta. Ma quando vede che la donna maltratta il bambino della prima, il quale muore travolto da un treno, la ammazza e impazzisce. Le descrizioni realisti­ che dell’ambiente — la solitudine della foresta di abeti, i rumori del treno che arriva e passa rombando — sono quanto mai vìve ed efficaci. E in conclusione non pos­ siamo che aver pietà di quest’uomo che suo malgrado, come certi personaggi di Maupassant, è trascinato al de­ litto e alla follia. Nei quattro anni di permanenza a Erkner il poeta con­ cepì anche il racconto Carnevale*, che fu pubblicato molti anni dopo. « D’inverno si udivano gli schianti del ghiaccio sui laghi dei dintorni e il così detto urlo la­ custre, il boato dell’acqua sotto i ghiacci come squillo di tube dopo una sconfitta. Risonavano come la cupa col­ lera d’un titano, come il richiamo d’Orlando dal corno spaccato. E allora in una breve novella narrai come Kielblock il velaio in una notte di luna sprofondò in un crepaccio e annegò insieme con la moglie e il fglielo. » Hauptmann interruppe il suo soggiorno alla periferia di Berlino per una lunga vìsita al fratello Cari a Zu­ rìgo, dove ebbe occasione d’incontrarsi col drammaturgo Frank Wedekind. Ritornò poi a Berlino e, dopo la rap­ presentazione dei tre primi drammi, nel 1891, andò a stabilirsi nella sua Slesia, a Schreiberhau, dove aveva ac-

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quistato una casetta che ospitò anche la famiglia di suo fratello. Intraprese allora un viaggio nell’Eulengebirge per studiare le condizioni dei tessitori slesiani (suo nonno aveva fatto il tessitore) che nel 1844 avevano tentato una sommossa contro i padroni. Scosso dall'inumana mi­ seria di quei poveri lavoratori, discendenti di quelli che, nei versi di Heine-Carducci non han ne gli sbarrati occhi una lacrima, ma digrignano i denti e a' telai stanno. — Tessiam, Germania, il tuo lenzuolo funebre, e tre maledizion l’ordito fanno

preso da fiera umana compassione, scrisse il forte storico dramma I tessitori*. Dramma che segnò il culmine del naturalismo tedesco, dramma corale, perché protagonista è il popolo, dramma sociale, perché espone la palese ingiustizia della vita di una massa proletaria ignobil­ mente sfruttata, dramma storico, perché evoca cruda­ mente fatti e condizioni di mezzo secolo prima, rimaste però nonostante la rivolta pressoché immutate nel tem­ po, dramma potente perché non può non travolgere lo spettatore e farlo fremere d’indignazione, di dolore, di pietà, dramma realista in quanto presenta minutamente, fedelmente, spietatamente una realtà. Esso è dedicato dal poeta a suo padre che gli aveva raccontato le vicende del povero nonno tessitore. Gli aveva parlato della sommossa che era stata determinata non già da ideali rivoluzionari, da fermenti socialisti, ma dalle intollerabili condizioni di vita, dalla miseria e dalla fame. Considerando però il nascere, lo scoppio, le escan­ descenze della rivolta e la repressione finale nei cinque atti o quadri del dramma, le autorità costituite rifiutarono ripetutamente il permesso di rappresentare l’opera « pe­ ricolosa e sovversiva ». Essa potè andare in scena, quasi privatamente, nel febbraio 1893 alla Freie Bühne, mentre

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la prima rappresentazione pubblica potè aver luogo sol­ tanto nel settembre ’94, con la conseguenza che, dì fronte all’esultante accoglienza del pubblico, Guglielmo 11 di­ sdisse il suo abbonamento al palco, e si racconta che ancora molti anni dopo l’imperatore abbia detto: «So benissimo che Gerhart Hauptmann è il più autorevole poeta del nostro tempo. Ma I tessitori non glieli posso perdonare!». (A questo punto noteremo tra parentesi che quando il famoso critico Erich Schmidt si batté per far assegnare a Hauptmann il premio Schiller il rancore di Guglielmo 11 glielo negò). Eppure non erano nati, I tessitori, con intenzioni « sovversive », volevano soltan­ to suscitare la pietà per quei disgraziati che, dopo l’unica e vana ribellione soffocata a colpi di moschetto, si erano di nuovo rassegnati alla loro sorte, a una vita sorda, bestiale, delusa, senza speranze. Manca in queste effica­ cissime scene, nella successione dì questi magnifici qua­ dri, un vero e proprio conflitto drammatico, una pro­ gressione, un nodo che alla fine debba in qualche modo essere risolto. Una progressione appare soltanto nella sem­ pre maggiore potenza dei singoli atti, ma non al punto che non se ne possa, per esempio, spostare la succes­ sione senza compromettere l’effetto dell’insieme. Questa gente oppressa e affamata non ha nemmeno la forza di produrre un capo, di eleggere un rappresentante che la guidi, che la stringa intorno a un principio ideale e si batta per farlo trionfare. Bene scrisse, perciò, recente­ mente Hello Saito: « 1 tessitori sono soli nella lotta, l’av­ versario non si sa se sia piuttosto dentro o fuori di loro. E il dramma non è nella lotta tra padroni e schiavi ma è solo il dramma della sofferenza degli schiavi, rappre­ sentata in tutte le gradazioni e sfumature ma senza uno scheletro dì idee ». Di qui la insufficiente « drammati­ cità » e d’altra parte il « raffinato virtuosismo » descrit­ tivo dello scrittore. E se il dramma potè essere conside­

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rato a tesi e pericoloso lo si dovette al patto che le idee socialiste e il concetto di lotta di classe erano nell’aria, di modo che gli spettatori ne vedevano inevitabilmente il riflesso sulla scena. Per questa ragione il dramma fu dato subito anche nel Théâtre libre, ed era il primo dramma tedesco che si rappresentasse a Parigi dopo il ’70, e non per nulla la prima traduzione italiana uscì a Milano già nel 1894, l’anno stesso in cui i berlinesi poterono assi­ stere alla recita della Freie Bühne. « Se ancora la classe abbiente » cito le parole del mio compianto amico Enrico Rocca « è vista un po’ alla ma­ niera del socialismo romantico, il popolo, che vìve tut­ tavia e urge nel sangue di Gerhart Hauptmann, è reso in tutte lettere e compreso fin nella sua recondita e vana aspirazione a non servire più. E forse appunto perché non ne ignora l’inanità, il poeta sa intendere, impietosito, il grido di quelle cieche speranze eternamente deluse. » In un intervallo di riposo, destinato, si direbbe, a riprendere lena prima di incamminarsi verso nuovi e più impegnativi lavori, Hauptmann scrisse una comme­ dia, la commedia dell’alcoolisme, come Prima del levar del sole ne era stata la tragedia. Il collega Crampton ci offre il ritratto di un artista beone, attentamente osservato ed elegantemente delineato. Una commedia di carattere che può far pensare a quelle del nostro Goldoni. La figura di Crampton è ritratta dal vero (come parecchi altri personaggi del diligentissimo osservatore Haupt­ mann ), è un professore della Scuola d’Arte dì Breslavia dove il poeta aveva studiato a suo tempo, nonostante le sue debolezze e disavventure e benché possa ispirare pie­ tà, Crampton rimane pur sempre un personaggio diver­ tente e simpatico. Poco dopo Hauptmann presentò un’altra commedia, La pelliccia di castoro, che la critica letteraria non esita a collocare tra le più belle, riuscite e non molto numerose

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commedie del teatro tedesco, accanto alla Minna von Barnhelm di Lessing, alla Brocca infranta di Kleist (al­ la quale Hauptmann commediografo s’ispirò) e a Guai a chi mente! di Grillparzer. Commedia dì caratteri anche questa, dove Hauptmann ricordando le esperienze jatte a Erkner, satireggiò la burocrazia guglielmina mettendo in scena un funzionario prussiano — Wehrhahn - fatuo e arrivista, il quale mentre dovrebbe proteggere i con­ cittadini dai ladri, non pensa che a dar la caccia ai « sov­ versivi » ed è bellamente aggirato, non una, ma due vol­ te, dalla ladra lavandaia Wolff, furba matricolata e sor­ niona. Commedia brillante, anche se non piacque a Kaf­ ka, il quale lamentò il parallelismo tra il 1 e il II atto e fra il II e il IV, mentre secondo altri, questa ripetizione del furto e della scoperta serve appunto a creare nei due principali personaggi altrettante figure « tipiche ». La so­ miglianza con la stupenda commedia kleistiana sta nelle scene della ricerca del colpevole, ma mentre qui lo spet­ tatore sa chi ha rubato la pelliccia e il lato comico con­ sìste nella presa in giro dell’inquirente, Kleist rivela a mano a mano che il colpevole è lo stesso giudice: è luì che ha rotto la brocca! Il successo della commedia indusse Hauptmann, otto anni dopo, a scriverne un’altra, Il gallo rosso, con i me­ desimi personaggi, la Wolff e Wehrhahn, ma questa riu­ scì una minestra riscaldata. Una novità nella produzione hauptmanniana fu invece L’ascensione di Hannele, un dramma accolto male dai naturalisti, i quali credettero di scorgere nell’autore un apostata, un reazionario non più osservante dei loro ca­ noni; ma accolto male anche dall’opposta sponda, da chi volle trovarvi deplorevoli idee socialiste e offese alla dot­ trina cristiana. Avevano torto gli uni e gli altri. Haupt­ mann era anche qui sul binario del realismo in quanto proponeva un quadro della miseria e dell’abiezione, e

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non moveva certo contro la jede concretando il sogno mistico della piccola martire e la sua aspirazione al pa­ radiso. Poiché di questo si tratta: di una quattordicenne in un villaggio slesiano, che seviziata da un patrigno ubriacone, va a buttarsi nel lago, ma salvata e ricoverata all’asilo dei poveri, non resiste alla jebbre e nella notte muore. Nel delirio la poveretta sogna, in base alle sue letture injantili, un sogno angoscioso tra la paura e la speranza: e questo sogno è concretamente rappresentato sulla scena, vi appaiono la madre morta che annuncia alla figlia la fne di ogni pena, e il nero angelo della morte che le tronca la vita. Questo alternarsi di sogno e realtà, questa coesistenza di miseria terrena e di splen­ dori celesti ci trasporta nei regni delle fabe ed esprime il desiderio del poeta di uscire dalle strettoie della vita di tutti i giorni e di spaziare nelle libere regioni della jantasìa e del simbolo. Come pece precisamente nel poetico e simbolico dram­ ma La campana sommersa; dramma autobiografco, trasfgurazione di avvenimenti strettamente personali. Le musiche per L’ascensione di Hannele jurono scritte dal compositore Max Marschalk, della cui giovane fglia, ragazza intelligente, allegra, piena di vita, violinista al­ lieva di Joachim, Hauptmann a poco a poco s’innamorò. Sua moglie, visto che egli stava dimenticando tutto il bene che aveva ricevuto da lei, partì coi tre figli per l’America dove contava di parsi accogliere da un amico di pamiglia. E nutriva la speranza che la separazione lo facesse ravvedere. Da Parigi, mentre Antoine (gennaio 1894) preparava la rappresentazione francese dì Hannele, il poeta, alla notizia della partenza di Mary, si precipita ad attraversare a sua volta l’Atlantico. Dopo un viaggio avventuroso - una tremenda burrasca minaccia di som­ mergere la nave - ritrova la moglie e i fgli e, in mag­ gio, dopo la prima americana dì Hannele a New York,

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la famiglia ritorna in patria. Ma l’amore per Margarete Marschalk non è spento, non è neanche assopito, divam­ pa più che mai. Mary se ne va a stare a Dresda coi figlioli, ma per anni non vuole acconsentire alla separa­ zione. Nel giugno 1900 il poeta ha dall'amante un figlio: Benvenuto. E finalmente nell’estate 1904 ottiene la separazione e poco dopo sposa Margarete, la quale gli starà a fianco per altri quarantadue anni nella nuova grandiosa villa « Wiesenstein » ad Agnetendorf sul ver­ sante settentrionale dei Monti dei Giganti, finché egli in tristissime condizioni vi avrà esalato l’ultimo respiro. I riflessi del grande amore illuminano, come abbiamo detto, il dramma fiabesco del fonditore di campane. Pri­ ma però, frutto di lunghi e intensi studi storici, Haupt­ mann scrisse il geniale affresco del Florian Geyer, un grandioso quadro storico, un’evocazione dell’epoca del­ la Guerra dei contadini, un drammone farraginoso, con masse di popolo in movimento e una settantina di perso­ naggi, un dramma non rappresentabile, tanto è vero che la rappresentazione fu un fiasco solenne. Naturalismo anche qui, perché le scene sono reali in base a docu­ menti precisi, e non manca la compassione sociale. Ma la gigantesca fatica non ottenne il risultato voluto. Mortificato dall’insuccesso, travagliato dalla situazione familiare, rimproverato perciò aspramente dal fratello Cari, geloso dei suoi passati trionfi, impensierito per il fratello maggiore Georg, malato e finanziariamente ro­ vinato, il poeta ricorse alla fiaba e creò il poema dram­ matico La campana sommersa, la leggenda dell’artista che ha saputo fondere tante buone campane per i cam­ panili delle vallate, ma quando realizza il progetto di una stupenda campana per il tempio in cima al -monte, i malevoli gliela fanno sprofondare nel lago. Allusione palese allo scacco teatrale subito dal poeta. Ma la bella Rautendelein, simbolo della Natura, risolleva il pondi-

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tore a nuova vita ed egli, preso dal fascino di lei, ab­ bandona moglie e figli per creare una nuova meravi­ gliosa campana che inviti gli uomini alla gioia del vivere. Altra trasparente allusione autobiografica. Una notte però egli ode i rintocchi della campana sommersa: chi la suo­ na è la moglie annegatasi nel lago. Vengono anche i figli recando coppe con le lacrime della mamma. A questo punto egli ripudia Rautendelein, ma non riesce più a vi­ vere senza di lei e, ottenuto un ultimo bacio, muore. Il mito della campana - nonostante parecchi punti oscuri e di difficile interpretazione, nonostante Γincon­ gruenza tra la necessaria unione con la Natura per at­ tuare il capolavoro e il pentimento dell’artista che ne viene sminuito — fu accolto trionfalmente in tutti i teatri, tanta era, ad onta dei difetti, l’efficacia della poesia fia­ besca e romantica che è pur sempre viva nel cuore umano. L’amore della dolce silfide dai capelli d’oro per l’artista incamminato verso vette ideali, le lacrime umane che essa impara a versare, tutto l’incanto dell’atmosfera mitica e primordiale, vibrante nella suadente melodia dei versi, tutto' ciò doveva toccare le intime corde degli spettatori e abbagliare e trascinare le platee del mondo intero. Chi credeva che col suo volo poetico Hauptmann avesse rinunciato al realismo donde era partito si trovò ingan­ nato: due altissime vette doveva ancora toccare la maestria naturalista del poeta con le tragedie del Vetturale Henschel e di Rosa Bernd.* Per quanto la storia del vetturale Henschel ripeta un po’ quella del cantoniere Thiel, in quanto, mortagli la moglie, quell’uomo robusto ma di teneri sentimenti sposa la serva, donna tiranna, sensuale, volgare, egoista, nono­ stante che avesse promesso alla moglie morente di non farlo, il dramma è uno dei più potenti che Hauptmann abbia concepito. A differenza dei protagonisti precedenti, piuttosto statici, preformati, senza attiva evoluzione psi-

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cologica, Henschel, da quell’uomo pacifico e quasi tngenuo che era apprendendo le perfide gesta della seconda moglie - che lo allontana dagli amici, che gli fa com­ mettere l’ingiustizia di scacciare un servitore fedele, che lo tradisce con un cameriere, che pare sia colpevole del­ la morte della sua bambina — diventa un altro, perde la fiducia in se stesso e, non trovando in sé l’energia di reagire al fatale andamento delle cose, s’impicca. Nei quattro anni successivi Hauptmann scrisse, oltre alla citata commedia II gallo rosso, alcuni altri lavori che non lasciarono un’impronta profonda, finché, nel 1903, scalò un’altra cima con la tragica vicenda di Rosa Bernd, l’infelice ragazza sedotta che per timore della ver­ gogna sopprime la propria creatura. Quanti scrittori han­ no svolto lo sciagurato argomento dell’infanticidio! Co­ me non pensare al più grande esempio, alla povera Mar­ gherita del Faust di Goethe? « È condannata. » Voce dall’alto: « è salvata ». Rosa, la figlia d’un padre reli­ giosissimo, sarà giudicata dal tribunale, dalla maestà del­ la legge. Si udirà anche per lei una voce dall’alto? Il dramma si chiude con le parole: « La ragazza... quanto deve aver sofferto!». L’autore nella sua infinita e calda partecipazione umana l’ha forse assolta? Bella era, al­ legra, la contadinella slesiana, piena di vita, desiderabile e perciò insidiata dagli uomini cupidi e accesi dalla sua provocante freschezza fino a farla cadere alle lusinghe dell’amore, travolta dall’ardore del sangue. La passione, la brama, la gelosìa degli uomini senza scrupoli la ren­ dono spergiura e le fanno commettere il terribile fallo: e ora saranno gli uomini a giudicarla. Lo stesso Haupt­ mann aveva assistito, nel numero dei giurati, a un pro­ cesso per infanticidio. Non che egli ammetta qui o scusi lo snaturato delitto: egli lo spiega esponendo naturalisti­ camente il fatale svolgersi dei fatti. Non dà né chiede un giudizio morale, invita a comprendere sìa la brutalità

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dell’insidia, sia l’angosciosa, straziante, tragica caduta del­ la povera creatura. « Non il nodo graduale » commentò giustamente Renato Simoni « di un dramma, ma la suc­ cessione di fatti che prendono la forma e il colore e traggono la necessità dall’ambiente. » Che è appunto il carattere del teatro naturalista. Il dramma ebbe un gran­ de successo e procurò all’autore il Premio Grillparzer, nonostante che proprio in Austria una figlia dell’impe­ ratore lo facesse togliere dal repertorio, come, poco tem­ po prima, una principessa aveva protestato contro la rap­ presentazione del Vetturale Henschel « rozzo e stoma­ chevole ». Dopo un intervallo dovuto a malattia Hauptmann, nel 1906, affidava al teatro un nuovo lavoro concepito nella scia fiabesca, ma più spiccatamente simbolica, della Cam­ pana sommersa; la invernale « fiaba della vetreria » E Pippa balla ! Pippa, la figlia di un vetraio italiano, sba­ lestrato da Murano sui monti della Slesia, incanta e af­ fascina tutti gli uomini che le si avvicinano. Nelle in­ tenzioni dell’autore essa « è il simbolo della bellezza nel suo potere e nella sua caducità, espresso mediante il vetro scintillante, cangiante e fragile ». « In tutti noi c’è qualcosa che la nostra anima desidera, tutti inseguia­ mo qualcosa che davanti a noi danza e ondeggia con colori leggiadri e grazia di movimenti. Questo sarebbe Pippa, una giovane bellezza che i maschi inseguono, quando non siano del tutto privi di fantasia... Come ac­ cade spesso nella vita, anche qui la forza bruta vince la bellezza, e Pippa suggestionata danza e danza fnché crol­ la e si spezza. » Tra quelli che desiderano Pippa c’è an­ che il giovane garzone Michel, l’ingenuo innamorato che sogna i palazzi di Venezia e rappresenta l’anima popo­ lare tedesca. In sostanza lo scrittore tendeva a un « con­ nubio del genio tedesco, sotto le spoglie dì Michel, con l’ideale della bellezza del Mezzogiorno, impersonata da

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Pippa. » 1 simboli però sono alquanto oscuri e non tutti decifrabili. Nello stesso anno, il poeta scese dalle nubi del sim­ bolo alla terra solida, dalle sue montagne alla riva del mare, e scrisse La fuga di Gabriele Schilling* che però fece conoscere al pubblico soltanto sei anni dopo (nel 1912). Esitazione, crediamo, ingiustificata perché il dram­ ma è, si può dire, senza difetti e mostra con quale arte sapiente e consumata il drammaturgo abbia tessuto que­ sta tragica tela. Tragedia commovente che fece molta impressione a Rilke, il quale scrisse a uno dei figli di Hauptmann: « Vivo questi giorni sotto l’impressione del­ la Fuga di Gabriele Schilling. Non sono in grado di parlarne, ma dentro di me ne sento gli effetti... ». (Per quanto il giudizio di Rilke non sia sempre fidato! Scrisse infatti, a torto, anche questo: ((Secondo me, questo Mi­ chele Kramer è quanto dì più grande Hauptmann ci ab­ bia dato finora. Un capolavoro che tra noi si compren­ derà forse tra qualche decennio ». Mentre un capolavoro non è, e i decenni l’hanno fatto dimenticare.) Tragedia intima lo Schilling; essa ritorna un po’ all’atmosfera del­ le Anime solitarie e della Campana sommersa, al mo­ tivo dell’uomo conteso fra due donne, come appare an­ che nel Vetturale Henschel. Tragedia di un artista: il pittore Schilling, nella morsa tra la moglie borghese e una donna geniale, non trova altra soluzione che la fuga nel mare, il suicidio, come il protagonista di Anime so­ litarie, mentre l’azione parallela — lo scultore Maurer, in mezzo fra Lucia, la giovane violinista e gaia amante, e la russa seduttrice — si risolve in modo conciliante. Il dramma è ricco dì personaggi e caratteri contrastanti: i due artisti, il pittore e lo scultore, coetanei, legati da amicizia, sono su piani diversi, il primo sensibile, de­ licato, frastornato dal conflitto con le donne, è un artista in declino; l’altro, robusto e risoluto, è sicuro dell’arte

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sua e sa affrontare la vita. In contrasto evidente sono le donne, tanto quelle che gravitano intorno a Schilling, quanto quelle che puntano sullo scultore. Anche se l’am­ biente può essere ibseniano e qualcuno, forse troppo este­ riormente, ha fatto riferimento alla Donna del mare, certo è che Hauptmann ci fa sentire il mare in maniera suggestiva, proprio come deve averlo vissuto dall’isola di Hiddensee, poco lontano dalla riva del Baltico, dove andava spesso a passare l’estate. Benché il valore d’un’ opera d’arte non dipenda dai dati biograpci dell’autore, avviene spesso che l’impulso, remoto o recente, d’una crisi spirituale o sentimentale faccia perire la poesia at­ traverso la trasfigurazione della realtà. Non escludiamo pertanto che anche la posizione di Schilling e Maurer risalga alle esperienze personali del poeta. Il quale, poco tempo dopo la regolare unione con Margarete, s’invaghì della piccola Ida Orloff, l’attrice diciassettenne che reci­ tava l’eterea parte di Hannele. Ma fu una meteora che nel cielo dì Hauptmann brillò soltanto un anno, pur ri­ manendo viva in future immagini femminili, suggeren­ dogli, forse, soprattutto ì lineamenti dì Pippa. Non ci soffermeremo a esaminare le « leggende dram­ matiche » che Hauptmann scrisse elaborando soggetti di novellieri italiani — Giovanni Boccaccio e Sebastiano Erizzo — o prendendo lo spunto da poemi medioevali tede­ schi, come quello del « povero Enrico » di Hartmann von Aue. Noteremo soltanto come il passaggio da argo­ menti fantastici e romantici al più crudo realismo, da soggetti storici ad ambienti leggendari, stia a dimostrare la geniale versatilità dell’autore e la sua inesausta gioia di creare. E ci limiteremo alla notìzia che tra un lavoro e l'altro egli intraprese un viaggio in Grecia, il quale fruttò un interessante volume — Primavera ellenica — una raccolta cioè di osservazioni, appunti e meditazioni but­ tati giù con efficace immediatezza, che doveva diventare

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il punto di partenza per un dramma di soggetto ome­ rico, L’arco di Ulisse, e per la Tetralogia degli Atridi. In Grecia egli rivisse gli antichi dei e l’antica poesia, rivisse Omero e i grandi tragici e scoprì che « la più alta forma di vita umana è la serenità ». Il mondo greco è sepolto, ma non estinto; e ad ogni primavera rinasce. « Sono qui disteso sul suolo di Olimpia. Sento di essere ritornato all’origine del sogno della mia infanzia... Allar­ go più che posso le braccia e, con una tenerezza da An­ teo, premo il viso, tra i pori, su questa terra adorata. Intorno a me tremano i pii d’erba dolcemente. Sopra di me respirano le vette dei pini, pieni di mistero. Su parecchi prati stetti coricato al sole, ma il suolo non ema­ nava mai una simile forza, un tale fascino... » Certo, anche prima di questo viaggio i poeti e i plosop greci erano entrati nell’orbita del poeta, praticamente autodi­ datta, ma ora, in una rinnovellata primavera, egli si sco­ stò, nonostante i ritorni di pamma, dalle formule del naturalismo portandosi verso regioni, per così dire, più intime, più spirituali. Dal mito della natura, dall’incanto del culto dionisiaco, dal tremolio della luce meridionale, egli attingerà infatti nuove ispirazioni, nuove energie, anche se qualche opera cadrà sotto i colpi della cri­ tica. Ed ecco un nuovo orizzonte si apriva alla sua produ­ zione con le grandi opere narrative. La prima, il romanzo Emanuele Quint il pazzo in Cristo si riallaccia a L’Apo­ stolo, una delle novelle scritte diciotto anni prima. An­ che qui troviamo un esaltato, preso da mania religiosa, che seguendo l’esempio di Tolstoj mira a rinnovare il cristianesimo primitivo. Molti lo considerano pazzo ma, benché sia perseguitato e deriso, egli arde di fede e d’a­ more per il prossimo e abbraccia, con un senso di inpnita pietà, tutti i poveri e i reietti. Egli li ama tutti e

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vorrebbe stringerli al cuore, benché nel loro sguardo folle fin troppo spesso gli avvenga d’incontrare l’odio, lo scher­ no, il disprezzo. Ë la vita di Gesù che si ripete nelle contrade della Slesia. Vilipeso perché fglio illegittimo, tormentato dal patrigno ubriacone, non molto intelligen­ te, confortato dai racconti della Bibbia, Emanuele Quint comincia a predicare in pubblico; i suoi pochi seguaci vedono in lui Cristo redivivo. Il sorriso di questo mi­ stico dei nostri tempi è irresistibile e conquista i cuori; « quel muto sorriso, cosi pieno di comprensione, così pronto al perdono, assomiglia a un’occhiata di sole primaverile che ad un tempo fonde il ghiaccio e fa sbocciare il fore ». Ma benché non sia proprio perico­ loso, viene chiuso in prigione e poi rimandato al suo paese dove trova le busse del patrigno e le beffe di tutti i compaesani. Anche tessitori ci sono nel suo seguito. Ma non chiedono pane come quegli altri, quelli del dramma: le loro anime nostalgiche sperano in un aldilà più bello e consolante. Una nobile ragazza si prende a cuore il povero Emanuele che per un po’ fa il pastore, non di uomini, ma di pecore. Perduta la fducia della nobildonna e dei proseliti, egli si trasforma e va a pre­ dicare contro i peccatori, contro lo Stato e la Chiesa, insegnando che la verità è una sola: la vita in Cristo. Egli crede di essere il Redentore e così attraversa la Ger­ mania e la Svizzera dove scompare nella tormenta. Que­ sto romanzo non accusa come avviene in alcuni drammi, non pronuncia alcuna condanna, ma cerca di compren­ dere e perdonare. I fatti vengono narrati sine ira et studio con l’obiettivo psicologico di capire non solo l’esaltato, ma l’uomo in genere. L’autore indugia nelle indagini e considerazioni, con un ritmo talvolta troppo lento. Ma la crìtica ha notato che nei drammi si cerca spesso in­ vano la motivazione di un mutamento psicologico dei

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personaggi, mentre qui l’indagine si addentra fin nelle pieghe più recondite dello spirito e nei momenti del­ l’azione. Segno che, come qualcuno ha osservato, Gerhart Hauptmann possedeva le doti di un narratore di razza, e tale si manifesta, come abbiamo già detto, nelle ampie didascalie dei drammi, non prive di elementi narrativi. Ciò non toglie che, se ci diede II cantoniere e II pazzo in Cristo e ci darà lo stupendo Eretico di Soana*, in un romanzo chiaramente autobiografico si sia lasciato andare a una forma quasi di cronaca che non raggiunge l’ele­ vato piano dell’arte. Si allude d/Z'Atlantide che in Italia fu pubblicata col titolo II naufragio del transatlantico, perché le pagine meticolose e precise del naufragio sono la parte più bella e più viva del libro. Esso fu pubbli­ cato (vero romanzo d’appendice!) anzitutto a puntate ed ebbe un enorme successo, anche perché poco dopo avven­ ne la catastrofe del Titanic, e la profetica antiveggenza del romanziere parve un miracolo. In sostanza il libro si rifa all’avventurosa traversata che il poeta aveva intra­ preso per rincorrere la moglie. Qui un medico follemente innamorato di una ballerina sedicenne la segue in Ame­ rica e la salva dal naufragio. Poi guarisce da questa pas­ sione e ritorna in Germania dai genitori e dai figli. No­ nostante il successo di pubblico questo romanzo è repu­ tato unanimemente un’opera fallita. Tra l’uno e l’altro dei due romanzi, per uno di quei ritorni al naturalismo iniziale, dei quali si è fatto cenno, Hauptmann presentò un lavoro teatrale, ambientato a Berlino, la tragicommedia I ratti. Il termine tragicomme­ dia può trarre in inganno: in realtà si tratta di una com­ media intrecciata con una tragedia, che si svolgono in uno stesso falanstero berlinese. L’intreccio non può dirsi riuscito, perché le due azioni, pur toccandosi, si distur­ bano a vicenda. Non per questo la commedia del ben riuscito direttore di teatro che dà lezioni di recitazione è

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meno divertente, né la tragica fine della madre che, mor­ tole il bambino, se ne appropria un altro con tutti i mez­ zi è meno commovente. Anzi, quei due personaggi, oltre ad alcuni minori, sono disegnati con grande maestria. L’argomento, affermano i critici, « zollano » andava trat­ tato in prosa narrativa e avrebbe ottenuto, dato che Hauptmann attraversava un « periodo narrativo », risul­ tati migliori. Rimane però il fatto che la parte tragica, la tragedia della maternità, è tale da suscitare, secondo il postulato aristotelico, paura e compassione. Per incarico del comune di Breslavia nel 1915, cente­ nario delle guerre di liberazione, Hauptmann, cui l’anno prima era stato conferito, nel suo 50° compleanno, il Premio Nobel, compose uno spettacolo commemorativo, il Poema festivo in rime tedesche... e fu un altro scan­ dalo. Dopo le prime recite a cura del grande regista Max Reinhardt, le rappresentazioni, essendo ostili le autorità dello Stato e della Chiesa, furono vietate e sospese. Così il poema che invece di esaltare lo spirito guerriero della Germania sfociava in un inno alla pace scatenò una ser­ rata polemica sul terreno politico tra conservatori e pro­ gressisti. Di lì a non molto scoppiava la guerra mon­ diale e il poeta ridiventava « patriota ». Fatto è che, come scriverà Stefan Zweig nel suo ultimo libro, « i poeti te­ deschi, Hauptmann e Dehmel alla testa, si reputarono obbligati, come i bardi della Germania primeva, a spro­ nare con canti e rune i guerrieri lanciati all’assalto e ad infiammarli di entusiastico disprezzo della morte ». Ma per quanto non lo dimostri in pubblico, Haupt­ mann, pur opponendosi al pacifista Romain Rolland, an­ nota nel diario: « Premessa di ogni civiltà è che si attri­ buisca il massimo valore alla vita umana; la guerra, dove la vita umana non conta nulla, rinnega quindi e tradisce la civiltà ». Egli conserva la sua umana pietà per le sof­ ferenze che la guerra infigge a tutti i popoli e sì ritira

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nella quiete di Agnetendorf a scrivere opere e opere tutt’altro che « attuali ». La Ballata invernale, L’eretico di Soana, Il redentore bianco, L’isola della grande Madre. L’eretico di Soana segna un punto culminante tra i suoi lavori in prosa. Il breve romanzo è ambientato nella zona di Rovio (fu scritto però in gran parte a Porlo fino e nel Castello di Paraggi); un prete va a convertire una coppia di pastori sulle pendici del monte Generoso, i quali dal loro incestuoso legame hanno avuto una figlia, giovinetta bellissima, che gli abitanti del borgo di Soana odiano e perseguitano come figlia del demònio. Invece di convertire loro, il giovane sacerdote e asceta, a con­ tatto con la natura, col mondo luminoso in cui regnano Pan e Eros, è preso d’amore per la giovane e instaura con lei il più pagano dei culti fallici. Ma, stretto dai vincoli del suo ardore religioso, nella morsa del suo dovere, egli non cede ai sensi se non dopo una lunga e aspra batta­ glia interiore e dopo sinceri e inutili tentativi di non lasciare la vìa che gli è stata segnata. Queste lotte psico­ logiche, il grande conflitto fra Cristo e Dioniso, che si disputano il dominio, l’angoscia dell’anima che sì dibatte sull’orlo dì un abisso, la lenta e graduale metamorfosi della mentalità cristianamente sottomessa fino alla trion­ fale vittoria dell’Eros pagano sono presentate senza pro­ lisse lungaggini, con particolari incalzanti, drammatici, così potenti come raramente si ritrovano nei drammi veri e propri. Oui infatti la comodità epica consente all’au­ tore dì dilungarsi e di chiarire sviluppi interiori che nei drammi avvengono talvolta, anziché sulla scena, negli in­ tervalli tra un atto e l’altro. E tutto si svolge in una calda sinfonia di colori, in un’atmosfera cristallina, in un paesaggio solare, tra il luccicore delle pietre e il rombo della cascata, che sono descrìtti con una vivezza di stile che incanta e sorgono concreti e, sì, realistici davanti ai nostri occhi. Certo, Hauptmann, benché da giovane aves­

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se intenzione di scrivere una Vita di Gesù e quantunque abbia toccato soggetti religiosi in Hannele, nella Cam­ pana sommersa, nei personaggi del padre e del fidan­ zato di Rosa Bernd, in Emanuele Quint e altrove, non fu mai mollo tenero col cristianesimo. D’altronde non gli si può fare un addebito di immoralità e meno an­ cora di oscenità, benché in questo breve romanzo ci sia qualche pagina un po’ ardita. A questo proposito pare che Hauptmann abbia detto, e certo con tranquilla co­ scienza: « Mi si dimostri di aver usato in tutte le mie opere una sola parola indecente! ». Nel periodo dell’inflazione, mentre alcuni suoi dram­ mi importanti vengono accolti dal cinema con attrici e attori famosi e procurano all’autore somme favolose, mentre, specie dopo il sorgere dell’espressionismo, il gu­ sto di chi frequenta i teatri va mutando e Hauptmann è il più grande, sì, ma non l’unico drammaturgo a domi­ nare le scene, le sue nuove opere cominciano a segnare un declino. Nel ’22 però, in occasione del suo 60° com­ pleanno, il poeta fu molto festeggiato ed ebbe onori e onorificenze a iosa. « La sua voce » scrisse Heinrich Mann « è all’estero la voce della nazione. Accanto al capo po­ litico dello Stato egli è il presidente del cuore della Germania! » Dopo il suo nazionalismo del 1914 egli si era con­ vertito e ora, scrisse Lavinia Mazzucchetti, « soltanto la rivoluzione, o meglio la ricostruzione dì una nuova Ger­ mania democratica e socialista, volonterosa di sanare le colpe e ì dolori della guerra, gli fece ritrovare il con­ tatto con il suo popolo e con il suo paese... E si capisce come all’incorreggibile suo ottimismo abbia sorriso una nuova aurora, la risurrezione del vinto attraverso alla purificazione del suo soffrire... Hauptmann è un ondeg­ giante, ansioso indagatore di problemi religiosi, che da molti anni ha abbandonato il facile positivismo impe-

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raw/«? nell’Europa del 1890, ma è soprattutto un apo­ stolo della tolleranza e della concordia di tutti gli spiriti sinceri... Da quell’appassionato analizzatore della pietà sociale non si è svolto, per la fortuna dell’arte, uno scrit­ tore politico... Tuttavia il popolo come forza viva è ri­ masto protagonista in tutta la sua opera. » Fantasie drammatiche, poemi e racconti si susseguono, come II redentore bianco, che ci porta tra gli spagnoli dell’atteso Messia Fernando Cortez contro Montezuma, l’imperatore del Messico; Indipohdi che propugna l’india­ na e schopenhaueriana rinuncia al mondo; Veland, la tragedia di questo umiliato semidio germanico; L’isola della grande Madre, la storia di un utopico stato di Amazzoni fondato in un'isola dell’Oceano Pacifico da un gruppo di naufraghe, tra le quali un unico ragazzo salvato porterà la rivoluzione; il Libro della passione che narra la sua vicenda familiare; e il farraginoso, apoca­ littico e grottesco poema in esametri Avventure, scherzi, buffonate, visioni e sogni del grande bombardiere, vaga­ bondo, buffone e mago Till Eulenspiegel, il quale non è lo scaltro protagonista della leggenda popolare, bensì il proteiforme combattente entusiasta che diventa pacifista e percorre e descrive i caotici conflitti nella Germania di quel tempo. A questo poema Hauptmann teneva moltissimo. Gli anni dell’incipiente vecchiaia e gli osanna del pubblico, persino i lineamenti del volto che man mano andavano assumendo una strana somiglianza con Goethe, al quale qualche critico non si peritò di accostarlo, gli tolsero la visione reale della propria personalità. E da consuetudini ed episodi che si raccontano (come quello di vestirsi alla Goethe con tanto di finanziera e di panciotto accollato, di viaggiare con un seguito e, soprattutto, di non inter­ rompere la sua perseverante produttività) si potè argo­ mentare che fosse un gran vanitoso. Afferma per contro

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la Mazzuccbetti: « Direi ingiusta la leggenda della sua eccessiva vanità; mi pare che ci fosse in lui una candida impudicizia della propria eccezionalità, scevra di invidie e di amarezze, tale da invogliare ogni interlocutore ad una intenerita adulazione... Bisogna anche ricordare che in quegli anni il Maestro era circondato dall’unanime cor­ dialità dei colleghi più giovani, anche se già celebri e in sostanza non meno di lui candidati alla gloria dura­ tura... ». Il giornalista Richard Katz, a sua volta, asserisce che quella vanità non si riferiva tanto ad elementi essenziali, alle opere e alla propria importanza, quanto piuttosto a cose secondarie: era contento quando lo si chiamava col titolo dì « dottore ». Era infatti quattro volte doctor ho­ noris causa: di Oxford (1905), Lipsia (1909), Praga e New York (1952). Non che fosse modesto. Dopo il fiasco della prima rappresentazione del Florian Geyer a Berlino, uscì tutto sconvolto dal teatro. « Non ricordo come ne venni fuori, so soltanto che a un tratto mi tro­ vai in riva al canale, e mi venne una gran voglia di buttarmici, tanto ero disperato. Ma poi pensai: forse non io ho fatto pasco, ma ha fatto pasco il pubblico. Non mi buttai quindi nel canale... e sono trentanni ormai che incasso le percentuali per il Florian Geyer... » Dopo altre opere e dopo essere passato, come si è visto, dal verismo militante al simbolismo pabesco, ora, arri­ vato alla settantina, con uno spettacolare colpo d'ala, Hauptmann si risollevò ancora una volta alle altezze del suo periodo naturalistico col dramma della vecchiaia e dell’ingratitudine Prima del tramonto*, quasi volesse prender commiato dal teatro e dalla vita. Disse che que­ sto sarebbe stato il suo ultimo lavoro teatrale: ma così non fu. (Forse per non perdere l’elegante simmetria, voluta dall’autore stesso, e il parallelismo dei titoli ori­ ginali. Vor Sonnenaufgang - Vor Sonnenuntergang, era

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meglio dire Prima del calar del sole a riscontro di Prima del levar del sole, anche se qualcuno tradusse questo ti­ tolo con l’inesatto Prima dell’alba.) 1932: centenario della morte di Goethe, 70° gene­ tliaco di Gerhart Hauptmann, festeggiamenti da marzo a novembre, dopo che il dramma era andato in scena nel febbraio riprendendo motivi non nuovi nel suo teatro: il conflitto tra la libertà spirituale dell’individuo e le pres­ sioni sociali del legame familiare, l’amore tra un vecchio e una giovinetta, la lotta contro la solitudine della vec­ chiaia. è la tragedia del vecchio al quale i figli da lui allevati e arricchiti col suo lavoro contrastano l’amore per la diciassettenne fino a metterlo sotto tutela e gettarlo in un tale abisso di disperazione da farlo morire per sin­ cope. Il protagonista Mattia Clausen è affine dì altri perso­ naggi hauptmanniani che, apparentemente forti, crol­ lano sotto il peso delle circostanze ostili: il Giovanni dì Anime solitarie e il vetturale Henschel e Gabriele Schil­ ling. Il destino spezza la più forte volontà. Vana è la lotta contro il dolore perché il dolore s’identifica con la sorte umana. Questa convizione dell’autore sì manifesta, coe­ rentemente con tutta la sua opera, anche in questo lavoro che ritorna alla linea del passato con l’esatta e minuziosa riproduzione del vero. Questi ritorni e ondeggiamenti possono lasciar perples­ si. Il pubblico, una volta definita la fisionomia d’uno scrit­ tore, stenta a persuadersi che possa cambiar faccia. Haupt­ mann era chiaramente verista e tale doveva restare... an­ che quando si scosto dalla corrente e divenne idealista, simbolista, surrealista. Tanto più che c’erano le « ricadu­ te ». Per queste bisogna però considerare che Hauptmann cominciava spesso un lavoro, poi lo abbandonava per dedicarsi a opere più impellenti e lo riprendeva dopo qualche tempo, anche dopo anni, o teneva lavori già finiti

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per anni e anni nel cassetto prima di decidersi a pub­ blicarli. Lasciò un’infinità di opere iniziate e non mai riprese. Da ciò il disorientamento dei suoi contempo­ ranei. Nell’anno del centenario goethìano, Hauptmann fu in­ vitato a commemorare il massimo poeta tedesco negli Stati Uniti. E quel secondo viaggio in America (quanto diverso dal primo!) fu un’apoteosi. Autorità, alte perso­ nalità politiche, famosi scrittori gli si strinsero attorno e lo onorarono in tutti ì modi. Anche in Germania ju festeggiato con accoglienze trionfali, onorificenze, rappresentaziono dei suoi drammi, banchetti, ricevimenti. In fatto di onorificenze possiamo elencare oltre al Premio Nobel del 1912, il premio Grillparzer che gli fu asse­ gnato tre volte (1896, 1899 e 1905), il premio Goethe, l’ordine germanico Pour le mérite, la medaglia Goethe, Γaquila dello scudetto del Reich, l’anello d’onore della città di Vienna, ecc. Ma il fatale 1933 era alle porte. «La mia epoca co­ mincia nel 1870 e termina con l’incendio del Reichstag » disse allora il poeta. Molti scrittori anche non ebrei, ma avversi alla ditta­ tura, si affrettarono a lasciare la Germania. Hauptmann non era tra loro. E questo fatto provocò reazioni violente da parte dei fuorusciti, come ad esempio quella del cri­ tico Alfred Kerr, « l’onnipotente Minosse del mondo teatrale tedesco » che era stato un suo vecchio amico e turiferario e ora lo colmava d’ingiurie. Eppure trentanni prima aveva scritto: « Sehnsucht, struggimento, brama ar­ dente, desiderio nostalgico: ecco il tratto fondamentale della mentalità di Gerhart Hauptmann... Struggimento è il suono delle sue campane. Esso romba malinconico nel­ la severa gigantesca opera del Geyer... esso attraversa so­ noro la misera ribellione dei miserrimi, degli affamati pezzenti della Slesia... e dal confuso sogno mortale di

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una povera anima ài janciulla non si ode che un grido di nostalgia, di desiderio ardente, di struggimento ». E sempre aveva preso le dipese del suo poeta. Il quale ora (racconta il sopra menzionato scrittore Katz) reagiva così: « Che cosa vuole da me Kerr? Si direbbe che sia stato lui a parmi. Ha scritto buone critiche dei miei dram­ mi, è vero. Ma patto mi sono da me. Responsabile sono soltanto di pronte a me stesso. Sono tedesco e resto in Germania. Importa assai chi abbia il timone della nave tedesca che attraversa il mare? ». £ continuò, politicamente miope, a pare la solita vita. Non si rese conto che un capitano pazzo non poteva che par naupragare la nave. Eppure del suo amore per la libertà non è possibile dubitare. Basterebbe rileggere ciò che nel 1929 scrisse contro l’introduzione della censura: «Non ci si illuda: misure come quelle delle quali si sentono i miasmi non sono dirette contro piccole porcherie o grandi mancanze di buon gusto in artisti da strapazzo, ma mirano a ciò che l’arte ha di grande. Questa grandezza vogliono eli­ minare... Una civiltà senza arte non esiste. L’arte però è sempre e soltanto arte libera. L’arte imbavagliata da leggi non è arte. Perciò lottiamo fino all’ultimo respiro per la libertà dell’arte con la coscienza di dipendere, così, la nostra civiltà! ». A Rapallo lo storico dell’arte Julius Meier-Graepe, puoruscito nella Francia meridionale, andò invano a trovar­ lo per convincerlo a emigrare e si sentì rispondere: « È un penomeno naturale. Ti sentiresti porse di nuotare con­ tro una cascata?». (Così racconta Ludwig Marcuse.) E non era proprio necessario che per il 50° compleanno di Mussolini mandasse questo telegramma: « Il sempre grato ospite dell’Italia manda al grande duce del suo popolo molti rispettosi auguri ». E ora sentiamo che cosa scrisse la nostra Lavinia, pochi giorni dopo la morte di Hauptmann, intorno ai

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suoi ultimi colloqui a Santa Margherita nel febbraio del ’35 « quando era già chiara a noi amici la via che Hauptmann aveva scelta e quando ì suoi annaspanti soli­ loqui serali, pieni di attualismo storico, di romanticismo tentone e di pavida rassegnazione, suscitavano piuttosto pena che delusione. C’era anche Werfel presso di lui in quei giorni. Werfel che aveva appena conchiuso il profe­ tico racconto del Mussa Dagh, ma che con antica defe­ renza si indugiava a leggerci invece alcune pagine di una inedita novella fantastica di Hauptmann. Rammento che una sera, uscendo con me dalla casa ospitale del vecchio, mi disse: “Non riuscirò mai a non volergli bene!” E me lo disse quasi scusandosi, con il tono non filiale ma per così dire paternamente indulgente che spesso i gio­ vani assumevano di fronte a questo pur sempre seducente Vincenzo Monti delle muse germaniche. Cerco dì rie­ vocare la generosa benevolenza dì Werfel, che lo ha pre­ ceduto nei Campi Elìsi, per salutare con serenità, da que­ sta Italia a lui tanto diletta, il Poeta tedesco della bontà e della solidarietà umana ». Alternando il suo soggiorno tra il « Wiesenstein » di Agnetendorf, la villa « Seedorn » nell’isola di Hiddensee, gli alberghi di Rapallo, Baden-Baden, Lugano, ecc. il diligentissimo lavoratore, prima e durante la seconda guerra mondiale, accumulò ancora pagine su pagine: L’arpa d’oro, donde egli trasse « accordi che suppose grati al nuovo clima tedesco: un amore inteso alla ma­ niera idealistico-trovadorico-cavalleresca e un senso solda­ tesco dell’onore... » ma « sotto eroiche spoglie riappare un antico repertorio di passività, di passionalità abulica che assai poco può aver a che fare con l’auspicata (da Goebbels!) arte eroica, ferreamente romantica e spoglia di sentimentalismo! ». Nel vortice della vocazione è più che un romanzo una raccolta dì discussioni intorno alla propria « missione teatrale » e all’interpretazione del-

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/’Amleto, argomento che in vari periodi della sua vita attirò l’attenzione dello scrittore. Tant’è vero che non solo rifece il dramma di Shakespeare, ma ne scrisse uno nuovo: Amleto a Wittenberg. Seguirono un’opera autobiografica: L’avventura della mia giovinezza che rivela una quantità di particolari personali, li illustra e li in­ quadra negli avvenimenti della storia contemporanea; il poema in terzine II grande sogno che ju incominciato poco dopo la morte della prima moglie e continuato via vìa durante le due guerre e negli anni tra l’una e l’altra; e accanto a due novelle, a una commedia e una tragedia, l’ultimo racconto in prosa: Mignon*, e la grandiosa Te­ tralogia degli Atridi; Ifigenia in Aulide, La morte di Agamennone, Elettra, Ifigenia a Delfo. Un lavoro su Wirickelmann rimase (come molti altri) incompiuto e uscì postumo, completato da Frank Thiess. Negli ultimi anni Hauptmann si rifugiò dunque nel mondo greco. La Grecia era stata sempre in cima ai suoi pensieri e non soltanto dopo il viaggio laggiù: non ave­ va forse accolto il nome di Prometeo nel titolo della sua primissima opera giovanile? non aveva preso a modello della storia d’amore sulle falde del Generoso il romanzo pastorale di Longo Sofista intorno agli amori di Dafni e Cloe? E se nel solatio paesaggio ticinese volle far rivi­ vere l’ebbrezza dionisiaca e la primavera d’amore dei due antichi amanti non è questo un indizio di quanto egli si sentisse legato alla grecità? Ora ripensò, in mezzo al san­ gue che inondava i campi di battaglia e le città distrutte, le orrende, tenebrose, spaventevoli vicende della maledet­ ta stirpe di Atreo. Fin dal viaggio in Grecia, quasi qua­ ranta anni prima, l’idea della tragedia greca aveva occu­ pato la sua mente. Aveva immaginato le migliaia di greci adunati nell’anfiteatro e « il loro grido concorde, la ter­ rìbile assordante invocazione d’aiuto che certo saliva al cielo degli dei per la paura, l’angoscia, l’orrore... ». In-

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foraggiato da un appunto di Goethe che aveva progettato un dramma su questo argomento, scrisse per primo quello che doveva essere il quarto dramma del ciclo, Ifigenia a Delfo, che sotto la minaccia di bombardamenti ju rap­ presentato a Berlino in occasione del 79° compleanno del poeta. Seguì Ifigenia in Aulide. Gli altri due uscirono postumi. In quanto al Winckelmann la Mazzucchetti, dopo aver deplorato che si siano pubblicati questi frammenti cuciti ed elaborati da Thiess, osserva: « L’Hauptmann dell’Ÿ.rctico di Soana, della Primavera ellenica, il protestante slesiano del Pazzo in Cristo, il quale, come testimoniano gli ìntimi, ju “per istinto e quasi per superstizione sem­ pre ostile al cattolicesimo appena vi intravide un volto dì gesuita”, dovette frugare con voluttà nella ancor mi­ steriosa esistenza del geniale e tenace proletario luterano Winckelmann che s’inchinò al cattolicesimo per mero opportunismo, per amara necessità di un’altra ed urgente liberazione intellettuale e sociale. Hauptmann inoltre, nella cui anima (così lo ha formulato di recente Tho­ mas Mann), “il Crocifisso e Dioniso erano miticamente riuniti non meno che in quella dì Nietzsche”, dovette volentieri sostare col grande archeologo, indagare la difficile sorte del discepolo di Platone assorto in un so­ gno di sublime amicìzia, di amore supersensuale, e, ahi­ mè, anche eterosessuale. Ma era forse inevitabile, anche a prescindere dall’età già avanzata in cui l’incontro av­ venne e dalla scemata efficienza delle forze creative di Gerhart Hauptmann, che dal tratto di cammino insieme percorso non potesse nascere un’opera organica e armo­ nica. Troppo profonde erano anche le distanze fra i due uomini, le due epoche, i due destini, ed è ovvio pensare che ad Hauptmann, più che la forza, sìa venuta meno la piena adesione artistica al proprio tema ». Anche per Mignon, l’ultima novella di Hauptmann,

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quella che egli definì il suo « fnale », lasciamo la parola alla Mazzucchetti che scrisse un lungo e profondo studio su questa fanciulla, da Goethe a Hauptmann. « Se volli essere tra i primissimi lettori di quella postuma Mignon, non fu per ragioni letterarie o goethiane di antica data, ma per Γ affettuosa angoscia personale che pur sempre mi legava al vecchio Hauptmann... Mignon non è e non parve almeno a nessuno, né al suo primo apparire, né in disamine critiche successive, un capolavoro, un racconto “riuscito”. Esso può dare, più di altri tentativi hauptmanniani, l’impressione dì un lavoro sfasato ed incerto, prolisso e lacunoso ad un tempo. Mignon è una storia ricca al solito dì elementi autohiografci già affioranti in molte altre opere precedenti, ma è, d’altra parte, meglio che certi scritti apertamente favolosi e fiabeschi, così im­ mersa in una sua propria aura magica, in una sua atmo­ sfera poetica fedelmente goethìana, da costituire alla fine una direi quasi “concreta” resurrezione in carne e ossa di una figura artistica che in realtà non ebbe mai né ossa nè carne... Sia allucinazione o ricordo, in quel Goethe-miraggio, in quel Goethe fantasma si impersona l’esperienza del creatore solitario, dell’uomo-artista. Per questa via Mignon diventa il simbolo abbastanza per­ spicuo della Poesia: l’adolescente misteriosa possiede ca­ ratteristiche quasi ferine e sublimità angeliche, esprime istintività e misticismo, è tnsomma “terribilmente dotata per rimanere in eterno estranea a questo mondo stranie­ ro”... La forma scelta dallo scrittore per il suo ultimo manifesto trascendente può irritare a tutta prima il let­ tore, ma lo costringe anche a meditare. Egli indugia, quasi per giustificare il continuo salto dal prosaico veri­ smo all’oscuro simbolismo. Riconosciamo i due volti di un’antica e celebre erma bifronte hauptmanniana. Dob­ biamo dirci però che, se negli amarissimi giorni della sua vecchiezza egli ha voluto portare a compimento un

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non idilliaco ricordo di soggiorni italiani, ciò avvenne senza dubbio perché alla piccola opera intendeva affidare elementi essenziali del suo pensare e del suo sentire ». E di quegli amarissimi giorni diremo brevemente la vicenda. Ammalatasi la moglie settantenne nel gennaio 1945, Hauptmann a sua volta colpito da una bronchite decise di recarsi da Agnetendorf in un sanatorio nei pressi di Dresda, donde il 15 e 14 febbraio dovette as­ sistere ai bombardamenti che fecero trentamila morti e distrussero la diletta e radiosa Firenze sull’Elba. « Oh, la mia Dresda, il mio gioiello! » piangeva il poeta davanti a quel mare di fiamme. Un mese dopo i coniugi ritorna­ vano accasciati al « Wiesenstein ». In aprile la Germania si arrendeva agli eserciti alleati. I russi occupavano Agnetendorf, rispettando però la villa del poeta e ricordando che un giorno Lunaciarskif aveva detto: « Data la sua diffusione tra noi, Hauptmann è quasi un poeta russo ». E come tale era stato accolto da Stanislavskif nel realistico Teatro degli artisti, alla pari con Cechov e Gorkij. A trovare il vegliardo andò anche lo scrittore e poeta comunista fohannes R. Becher, presidente dell’« Alleanza culturale per il rinnovo democratico della Germania », il quale gli parlò cosi: « A lei, Gerhart Hauptmann, al­ zano oggi lo sguardo milioni di persone! Da lei aspet­ tano una parola, un conforto. Tutti abbiamo bisogno del­ la sua energia per risollevare e rafforzare la Germania... Ci occorre la sua parola, Gerhart Hauptmann; la preghia­ mo di dircela ». E il vecchio rispose: « Mi metto a dispo­ sizione... Voi mi accollate un compito enorme... benché io sia già sulla soglia... Sono tedesco ed è inteso che tale rimango... ». Quando, ad onta di tutti i passi intrapresi specialmente dall’amico Gerhart Pohl, tutti i tedeschi della Slesia furono costretti dai polacchi, subentrati ai russi, a lasciare il loro paese, il poeta non fu escluso. Era la

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fine del maggio 1946. Bisognava partire. Il poeta era ammalato. Le forze lo abbandonavano. Aveva superato gli 83 anni, l’età di Goethe. Si prepararono i bagagli per l’esodo. Il 3 giugno, racconta Pohl, il poeta potè ancora pronunciare le sue ultime parole: «Sono... ancora... in... casa... mìa? ». Il 6 nel pomeriggio spirò. Fu sepolto a Kloster nell’isola di Hiddensee, vestito, come aveva desiderato, del saio francescano, con una co­ pia del Nuovo Testamento, col suo poema II grande sogno e con una manciata di terra slesiana. Se anche ì suoi drammi più legati alle contingenze letterarie susseguitesi durante la sua lunga esistenza non avranno lunga vita sulle scene, di lui resteranno nella storia il grande nome e alcune opere immortali. Come uomo non fu un eroe e le sue vicissitudini susciteranno quella partecipazione e quegli affetti umani che gli fu­ rono guida all’abbraccio della povera e sempre percossa comunità degli uomini. Per concludere citerò dalla sterminata bibliografia hauptmanniana un paio di giudizi dì contemporanei ita­ liani. Scrisse nel 1933 l’infelice Enrico Rocca: « Possente realizzatore, manca tuttavia a Hauptmann un’ultima gra­ zia, un’ultima decisione, un sostenuto maestoso che con­ trasti e risolva le sue stesse morbidità. Questa deficienza si riscontra tanto nella vita quanto nell’arte di questo grande tedesco, così vicino alla genialità, ma purtroppo senza rimedio lontano dalla maschia forza del genio che suscita, insieme a vive creature, anche alti incendi spiri­ tuali e detta implicitamente solenni norme di vita ». E Renato Simoni nel 1946: «Alcune opere erano già morte prima che morisse l’autore; sebbene dal natura­ lismo sia evaso più volte egli fu soprattutto uno scrittore naturalista; e ciò lo legherebbe troppo a un periodo supe­ rato se egli non fosse stato più artista di molti e molti

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scrittori che si esaurirono nell’intransigenza di quella battaglia ». E la nostra Lavinia, che pure con irriducibile intran­ sigenza distingueva gli uomini in due categorie, fascisti e non fascisti, gli perdonò con affettuoso dolore la « de­ viazione » e — come il suo grande amico Thomas Mann aveva scritto in California pagine commosse in morte del poeta — così concludeva scrivendo di lui nel centenario della nascita (1962): « Gerhart Hauptmann non fu mai un comune mortale di comuni proporzioni: egli si sen­ tiva chiamato a soffrire nell’indagine indefessa del dolore e del mistero universale... Era un vulcano dalle viscere di fiamma e in perenne eruzione. Cercò onestamente di rendere fertile con la sua lava ingombrante ogni terra a luì raggiungibile. Non era un letterato: non fu mai in­ vidioso o meschino, vanitoso o diffidente, se anche sem­ pre molto robusto “nell’amare il prossimo cominciando da se stesso”. In un’arida epoca di laici e di intellettua­ loidi egli ci appariva quasi irreale, quasi puerile, sempre sìncero. Non si mantenne fedele ad alcuna ideologia né affrontò alcun eroismo, ma rimase capace di ogni com­ prensione ed indulgenza. Era una persona affascinante, di­ sarmante, commovente. Impossìbile, essendogli vicino, non innamorarsi della sua “unicità”, non rinunciare a presuntuose condanne, non continuare insomma a vo­ lergli bene. Molti amici si sono staccati da lui alle sue più acute crisi di sbandamento; ma tutti sono stati i pri­ mi a soffrirne, e tutti, almeno dopo la fine tristissima, hanno perdonato le debolezze e ritrovato l’intenerito ri­ cordo della sua incomparabile personalità ».

Ervino Pocar

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Titolo originale: FASCHING

Traduzione di Lavinia Mazzucchetti Prima edizione: Berlino 1887 Prima edizione italiana : Milano 1932

Kielblock, il velaio, era sposato da un anno. Posse­ deva in riva al lago una bella casetta, con giardino, ru­ stico e un po’ di terra. Nella stalla c’era una mucca, in cortile starnazzavano e schiamazzavano oche e galline. Nel porcile ingrassavano tre maiali, destinati ad essere macellati nel corso dell’anno. Kielblock era meno giovane di sua moglie, ma non meno smanioso di godersela. Ambedue erano appassio­ nati del ballo tanto dopo come prima delle nozze, e Kielblock soleva dire : — Chi entra nel matrimonio co­ me in un convento è un matto. Non è vero, Mariet­ ta? — aggiungeva poi di solito, cingendo con le brac­ cia robuste la tonda mogliettina e stringendosela al pet­ to. — Per noi la vita allegra comincia proprio adesso. Ed infatti, escluse sei brevi settimane, il primo anno di matrimonio era stato, per così dire, un’unica festa. Né le sei settimane avevan potuto recare gran muta­ mento nel metodo di vita dei due sposi. Il bamboccio strillante che esse avevan portato si lasciava alla non­ na, e appena il vento recava di lontano la melodia di un valzer, facendola echeggiare alle finestre della caset­ ta isolata, babbo e mamma scappavano allegramente. I coniugi Kielblock non intervenivano soltanto a tutti i balli del loro villaggio, ma ben di rado mancavano a quelli dei paesi circonvicini. Se poi la nonna, come spes-

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so accadeva, era costretta a letto, anche il marmocchio veniva condotto al ballo. Allora gli preparavano nel salone, alla meglio, una cuna, di solito con due sedie accostate, alle cui spalliere appendevano degli scialli per proteggerlo dalla luce. E davvero il povero pic­ colo riusciva spesso a dormire notti intere in quella specie di cuccia, fra il rumore assordante degli ottoni e dei clarinetti, fra il tramestio, il gridio e lo scal­ piccio delle coppie danzanti, nell’aria greve di esala­ zioni di grappa e di birra, impregnata di polvere e di fumo. Quando i presenti se ne facevano meraviglia, il mastro delle vele aveva sempre pronta questa spiegazione: «È il figliolo di babbo e di mamma Kielblock, non vi pa­ re che basti ? ». Se Gustavino cominciava a strillare, sua madre, finito appena il giro in cui era impegnata, correva a lui, se lo prendeva in braccio e si rifugiava nel­ l’andito freddo. Là, accovacciata sulla scala, o dovunque capitasse, porgeva al suo piccolo il seno infiammato dal bere e dalla danza, e quello poppava cupido sino a vuo­ tarlo. Una volta sazio, di solito gli veniva addosso una strana allegria che dava non poco piacere ai genitori, anche perché quasi sempre durava poco ed era seguita ben presto da un sonno di piombo, da cui certo il bim­ bo non si sarebbe più ridestato fino al mattino se­ guente.

L’estate e l’autunno erano trascorsi. Una bella mat­ tina, quando il velaio si affacciò dopo una nottata tran­ quilla alla porta di casa, vide il paesaggio ravvolto in un mantello di neve. Bianchi fiocchi s’eran fermati sui rami degli abeti che circondavano tutt’intorno il lago e la pianura dov’era adagiato il villaggio. Il velaio s’allietò in cuor suo. L’inverno era la sua stagione prediletta. La neve gli ricordava lo zucchero, lo

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zucchero il ponce, e questo a sua volta evocava in lui l’immagine di stanze calde illuminate a giorno e lo ricon­ duceva al pensiero di tutte le belle feste che si solevano celebrare in inverno. Con gioia segreta osservava le barche tozze che ormai si aprivano a stento la via, giacché il lago era già ve­ lato da una sottilissima crosta di ghiaccio. “Tra poco” disse tra sé, “saranno imprigionate del tutto, e allora verrà il tempo mio.” Sarebbe fuor di luogo prendere senz’altro il signor Kielblock per un perdigiorno di professione: al contra­ rio, nessuno sapeva lavorare meglio di lui sinché c’era lavoro. Ma quando per mesi interi ogni navigazione, e con essa ogni attività, rimaneva impedita dal gelo, non se ne lagnava affatto, anzi vedeva in quell’ozio una gradita occasione per consumare in letizia quel che s’era guadagnato con fatica.

Mandando grandi sbuffi dalla sua pipetta, Kielblock s’avviò giù per la scarpata verso la riva del lago e provò a dar dei colpetti col piede sulla superficie di ghiaccio. Questa con sua sorpresa cedette alla lieve pressione, e il velaio, benché avesse tentato l’esperimento con tutta pru­ denza, arrischiò di perdere l’equilibrio. Un pescatore che lo aveva osservato gli gridò : — Vo­ lete andare a pattinare, voi, mastro delle vele? — Fra otto giorni, perché no? — Allora andrò subito a comprarmi una rete nuova. — E perché? — Per potervi ripescare, giacché ci cascate di certo. Kielblock rise allegramente. Stava meditando una ri­ sposta pepata, quando udì la voce di sua moglie che lo chiamava a colazione. Avviandosi soggiunse solo che pre­ feriva mangiarci sopra, giacché i bagni freddi non era­ no certo la sua simpatia.

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La famiglia Kielblock faceva colazione. La vecchia nonna sorbiva il caffè e latte accanto alla finestra. Le serviva da sgabello una cassetta verdastra quadrata a cui di tanto in tanto lanciava con gli occhi semispenti sguardi amorosi. Con le sue mani lunghe e scarne aprì poi il cassettino di una piccola tavola che le stava di fianco, e vi frugò incerta, finché le riuscì di tro­ vare una monetina da un soldo. La tirò fuori e la fece poi scivolare attentamente in una fessura della cassetta ai suoi piedi. Kielblock e sua moglie osservavano quel­ le manovre facendosi dei cenni di intesa. Sul volto irri­ gidito e smunto della vecchia passò un'espressione di segreta compiacenza, come sempre quando destandosi tro­ vava nel cassetto la monetina, che i figli non dimentica­ vano mai di prepararle. Proprio il giorno avanti la sposa aveva cambiato in soldi un altro marco per quello scopo, e li aveva poi mostrati ridendo a suo marito. —■ La mamma è un ottimo salvadanaio — disse il fi­ glio gettando uno sguardo cupido verso la cassetta ver­ de, — chissà quanto ci avrà ficcato già dentro. Poco non deve esserci, e il giorno che se ne andrà - che Dio ce lo tenga lontano! - troveremo un bel gruzzolo, sta’ pur sicura. Quelle parole parvero mettere l’argento vivo nelle gambe della sposina, che si alzò e sollevò un poco la gonnella canterellando una melodia popolare. Un improvviso alto guaito la interruppe; Lotte, la ca­ gnetta bruna, si era avvicinata troppo alla cassetta, ed aveva ricevuto per castigo una pedata dalla vecchia pa­ drona. Gli sposi scoppiarono in una gran risata, mentre Lotte con la coda fra le gambe e il dorso inarcato, che faceva proprio pena a vederla, andava a rifugiarsi dietro la stufa mandando flebili mugolìi. La vecchia inveiva con parole incomprensibili contro

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t « bestiaccia » e Kielblock si mise a gridarle nei duri impani : — Avete ragione, mamma. Perché quel cagnaccio deve andare a fiutare la vostra cassetta? È vostra e deve re­ stare per voi e nessuno la deve toccare, neppure un cane o un gatto ! Non è vero ? — Quella sta attenta — disse poi soddisfatto a sua moglie, andando in cortile, dove essa stava gettando il becchime ai polli. — Non c’è pericolo, Marietta, che si lasci rubare un soldo ! Marietta intanto era affaccendata coi suoi sacchetti di crusca e le sue ciotole e si era rimboccata, malgrado Pa­ ria fresca, maniche e sottane, mettendo in mostra alla luce del bel sole il suo corpo sano e ben tornito. Kielblock rimirava la moglie con tacita compiacenza e intanto gustava dentro di sé la sicurezza del futuro, che gli veniva dall’avarizia di sua madre. Non poteva decidersi a mettersi al lavoro, tanto gli era gradevole lo stato di benessere in cui si cullava in quel momento. I suoi occhietti di gaudente si fissavano gioiosi sui dorsi rosei dei maiali, che sognava già tra­ sformati in salsicce, lardo e prosciutti. Fecero poi il giro di tutto il cortiletto imbiancato dalla neve recente, e questo gli appariva come una bella ta­ vola apparecchiata, ove fossero serviti in abbondanza, polli, anatre ed oche, sia pure ancora allo stato naturale. La signora Marietta era tutta immersa nel pensiero delle sue bestie bipedi e quadrupedi. Già da un bel pez­ zo giungeva dalla casa lo strillar disperato del bambino, ma questa circostanza non la distraeva affatto dalle sue occupazioni. Ella vedeva nei suoi capi di bestiame uno degli elementi essenziali alla sua comoda esistenza, men­ tre il bambino rappresentava per ora soltanto un ostaco­ lo alla vita godereccia.

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Era carnevale. La famiglia stava raccolta intorno alla tavola per la merenda. Gustavino, di quasi un anno, gio­ cherellava sul pavimento. Avevano fatto i migliacci ed erano in grande allegria, in parte per quella leccornia, in parte perché era sabato, ma soprattutto per la ragione che quella sera c’era in vista un ballo mascherato nel villaggio. Marietta sarebbe andata vestita da giardiniera, e il co­ stume era già lì appeso alla grande stufa di maiolica, da cui emanava un intenso calore. Non si lasciava spegnere il fuoco neppure un momento, perché già da un mese era subentrato un gelo incredibile, che aveva ricoperto anche il lago di una grossa lastra di ghiaccio, tanto che vi passavano sopra senza pericolo persino carri pesanti a carico completo. La nonna se ne stava rincantucciata come al solito vi­ cino alla finestra, con la cassetta sotto i piedi, e Lotte, illuminata dal riflesso del fuoco, si raggomitolava di fronte allo sportellino della stufa che di tanto in tanto mandava per il vento un lieve scoppiettio. Il ballo odierno doveva essere l’ultimo gran diverti­ mento di quell’invernata e meritava quindi di essere go­ duto sino alla fine. La stagione era trascorsa sinora nel migliore dei modi. Feste, musiche e balli, allegre mangiate in casa propria o di amici si erano alternate con le scarse ore di lavoro. È vero però che nel frattempo la cassa si era parecchio assottigliata, i capi di bestiame erano ridotti di molto, e tutto questo non poteva rimanere senza effetto sull’u­ more dei due coniugi. Ma si tranquillizzavano facilmente pensando che pre­ sto sarebbe venuta anche l’estate e in quanto alla borsa vuota, bastava per consolarli uno sguardo alla cassetta verde e piena zeppa della nonna. Da quel tesoro ai piedi della vecchia era sempre ema-

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nata una grande energia pacificatrice in tutti i frangenti della vita. Se per esempio un maiale prendeva la risipola, si pensava alla cassetta e ci si rassegnava. Se la tela per le vele cresceva di prezzo e diminuivano i clienti, si fa­ ceva lo stesso. Quando ai coniugi pareva per un mo­ mento che l’azienda domestica fosse lievemente in re­ gresso, dissipavano quelle prime nuvole crepuscolari ri­ pensando al gruzzolo. Insomma, quella cassetta era circondata da una tale moltitudine di attraenti fantasie, che ormai si conside­ rava come il culmine della propria esistenza l’istante in cui si sarebbe potuta aprire. Circa l’impiego del denaro contenuto là dentro, le decisioni erano prese da un pezzo. Anzitutto una picco­ la parte era destinata a un viaggetto di piacere di otto giorni circa, probabilmente a Berlino. Si capisce che non potevano condurci Gustavino, il quale sarebbe rimasto affidato per quei giorni in casa di una famiglia amica, nel villaggio posto sull’altra riva del lago. Quando si mettevano a parlare del viaggio, ambedue i coniugi eran colti da una vera ebbrezza di divertimento. Il marito diceva che avrebbe dovuto essere una nuova luna di mie­ le, mentre la moglie, rievocando i ricordi dell’adolescen­ za, parlava soltanto del circo e della fiera e di altri luo­ ghi di svago. Come già tante volte, così anche quel gior­ no, era stato ripreso il tema del viaggio, allorché il pic­ colo Gustavo con i suoi modi richiamò su di sé l’atten­ zione del babbo e della mamma. Alzò i braccìni grassi e screpolati quasi volesse dire : « Ascoltate ! » e mandò con la boccuccia impiastricciata un suono somigliante al grido del gufo. I genitori osservavano le manovre del piccolo tratte­ nendo a stento l’ilarità. Alla fine la scena si fece tanto comica, ed essi scoppiarono a ridere così forte, che Gu-

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stavino sconcertato si mise a strillare, e persino la non­ na volse la sua faccia impassibile. — Via, non piangere, sciocchino, nessuno ti fa nul­ la — lo tranquillò la mamma, la quale già per metà giardiniera, gli stava di fronte in corsetto rosso. — Cosa ti viene in mente — continuò poi — di di­ menare le braccia in aria come una ballerina sulla corda e di fare un verso simile a quello che fa lo zio quan­ do ha preso una lepre al laccio? Kielblock, che stava spazzolando la marsina gialla de­ stinata al ballo, le spiegò ridendo ancora : — Non lo senti ? è il lago ! E infatti da fuori giungevano suoni ora lievi ed ora intensi, cupi e strascicati, paragonabili a lontani squilli di tromba; erano le acque del lago costrette sotto la pos­ sente crosta di ghiaccio, e il bimbo aveva forse avver­ tito per la prima volta quei suoni strani, cercando su­ bito di imitarli. Man mano che si avvicinava la sera, marito e moglie erano presi da un’allegria sempre più sfrenata. S’aiuta­ vano l’un l’altro a truccarsi, e già prima della festa se la spassavano con mille scherzi e pazzie, di cui Kielblock, nella sua lunga pratica in materia di giochi, ave­ va sempre una grandiosa riserva. La giovane donna non finiva più di ridere, ma la colse un improvviso brivido di orrore quando Kielblock si mise una maschera di cartapesta, una faccia livida e triste, che, come diceva, contava di portare al ballo per spaventare la gente. — Butta via quella maschera, per piacere — gridò la moglie tremando in tutta la persona. — Sembra pro­ prio la faccia di un cadavere che sia stato sotto terra tre settimane. Ma l’uomo si divertiva della paura di sua moglie, le saltellava intorno, tenendo sempre tra le mani il brutto ceffo, in modo che Marietta se lo trovasse di fronte do­

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vunque volgesse lo sguardo. Alla fine essa perdette la pa­ zienza. — Smettila, stupidone! Non lo voglio vedere quel mostro ! — sbraitò battendo i piedi, mentre Kielblock, mezzo soffocato dalle risa, si lasciava cadere su uno sga­ bello mandandolo quasi a gambe all’aria. Finalmente furono pronti tutt’e due. Egli si era travestito da « strozzino » : marsina gialla, calzoni corti di velluto con scarpette a fibbia e sulla te­ sta, al posto del berretto, un calamaio spropositato di cartapesta, in cui era ficcata una lunghissima penna d’o­ ca. Marietta, la giardiniera, era tutta adornata di edera, e una ghirlanda di rose di carta incoronava i suoi ca­ pelli lisci. L'orologio segnava le sette ed era quindi il tempo di mettersi in cammino. Anche questa volta, purtroppo, bisognò portare Gustavino, sebbene la « giardiniera » non ne fosse punto edificata. La nonna aveva avuto poco tempo prima un attacco di apoplessia, per il che non era lecito imporle il mi­ nimo peso. Riusciva ancora a mala pena a vestirsi e spogliarsi da sé, ma in questa fatica si esauriva, per così dire, tutta la sua capacità di lavoro. Di solito preparavano qualche cibo per la vecchia e glielo mettevano sul davanzale della finestra accanto alla lampada accesa e potevano così tranquillamente abban­ donarla alla sua sorte fino al mattino seguente. Si congedarono da lei urlandole nei duri timpani : — Noi ce ne andiamo ! —- e un minuto dopo la nonna alla finestra e Lotte accanto alla stufa erano gli unici abitanti della casetta di cui i coniugi Kielblock avevano serrato la porta dal di fuori. L’antica pendola intagliata della Foresta Nera batte­ va il suo regolare tic-tac. La vecchia taceva o biascicava

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una preghiera. Lotte di tanto in tanto ringhiava nel sonno e dal di fuori giungevano ormai chiari e minac­ ciosi gli ululi profondi del lago, la cui superficie ghiac­ ciata si stendeva scintillante nella luce lunare, spiccan­ do coi suoi rigidi contorni tra i neri declivi boscosi dei colli vestiti d’abeti.

Quando i Kielblock entrarono nel salone da ballo vennero accolti da una fanfara. Lo « strozzino » suscitò una inaudita emozione. Giardiniere, zingare e vivandie­ re corsero a rifugiarsi strillando dai loro uomini, tutti contadini o addetti alla ferrovia, che avevano costretto le loro figure tozze entro variopinti costumi alla spa­ gnola e che portavano al fianco graziosi spadini, sottili come una frusta. Il velaio era beato del successo della sua maschera. Per tre ore si divertì a spingersi innanzi, come fa il lupo con gli agnelli, greggi interi di donne e di ragaz­ ze travestite. — Olà, compare sanguisuga — gli gridò una voce — hai proprio l’aria di uno che sia stato tre volte im­ piccato, e tre volte staccato dalla forca. Un altro gli consigliò di bere un po’ di grappa per rimettersi in gamba, giacché la grappa è il miglior ri­ medio contro il colera. Un’esortazione all'alcool era davvero superflua, giacché « l’impiccato » ne aveva già ingollata una quantità rispettabile. Dietro la sua larva cadaverica si scatenava come un secondo ballo in maschera, che superava in pazzia quello vero. Si riscaldò tanto e si sentì così lieto che in quello stato, pur di conservare l’incognito, avrebbe fatto un brindisi anche alla Morte in persona. A mezzanotte tutti dovettero togliersi le maschere. E allora gli amici si affollarono intorno a Kielblock da

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ogni parte, assicurandolo che non l’avevano riconosciuto davvero : — Sei proprio il più indiavolato dei diavoli ! — Briccone maledetto, pezzo da forca! — si sentiva gridare confusamente. — Avremmo dovuto immaginarcelo — urlava un bar­ caiolo mezzo ubriaco. — Chi altri, se non il velaio, me­ rita tre volte la forca? Tutti risero. — Il velaio, sicuro, mastro Kielblock — corse di bocca in bocca, ed egli si sentì, come tante altre volte, l’eroe della serata. — Niente di più bello — gridò Kielblock alla folla — che fare per un poco la parte del morto; ma ora ne ho abbastanza. Avanti, musica, musica! — E al suo gri­ do fecero eco tutte le altre maschere. — Musica, musica, musica ! — gridavano in coro sem­ pre più forte, finché la banda non riprese la sua dura fatica con un colpo di grancassa e una stecca tremenda. Le grida cessarono, e in un attimo tutti avevano rico­ minciato a piroettare freneticamente. Kielblock ballava come un pazzo. Batteva il ritmo coi piedi, lanciava grida tali da superare la banda. — Bisogna pur mostrare alla gente che siamo vivi davvero — urlò passando a un sonatore che gli aveva sorriso amichevolmente. Marietta faceva uno sforzo per non urlare, tanto il marito la teneva stretta : le mancava quasi il respiro. Si sarebbe detto che qualcosa gli fosse pure andato di tra­ verso nella sua parte di impiccato e ora volesse rituf­ farsi nella vita con tutto l’ardore. Durante le pause della musica tracannava grandi bic­ chieri d’acquavite e ne offriva agli amici. — Bevete, bevete, camerati — cianfrugliava alla fine, — tanto non vi riesce di mandarmi in fallimento; la mia vecchia è una donna che vale un Perù! proprio un

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Perù! — tornò a ripetere con voce strascicata, ammic­ cando con gli occhi e portando alla bocca con mano malsicura un bicchiere colmo di ginepro. La baldoria aveva raggiunto il suo culmine e stava ormai per volgere alla fine. A poco a poco la più parte degli ospiti s’era dispersa. Kielblock con la moglie e un gruppetto di fedelissimi non cedevano il campo. Gustavino stavolta era stato felicemente accomodato in un’an­ ticamera oscura, così che da parte sua non veniva neppur l’ombra di un ostacolo. Quando se ne furono andati anche i sonatori, qual­ cuno propose di cominciare un gioco di società, e la proposta fu accolta dall’unanime consenso. Ma durante il gioco alcuni si addormentarono e tra questi anche Kielblock. Appena il crepuscolo cominciò ad insinuarsi pallido e spettrale attraverso le cortine del­ le finestre, tutti si svegliarono. E il velaio al ridestarsi continuò a borbottare le ultime strofe del canto con cui si era addormentato. — Ragazzi, — esclamò mentre si faceva sempre più chiaro — a casa non ci andiamo, inteso? Ora meno che mai, poiché si fa giorno. Alcuni protestarono che era l’ora di finirla, che non bisognava esagerare; ma l’altra metà applaudì. Che fare? Qualcuno propose il « Gallo d’Oro ». — Benone, ragazzi, facciamo una passeggiata al fre­ sco; un po’ di neve in terra non guasta: tutta la com­ pagnia al « Gallo d’Oro » ! — Aria, aria! — fecero coro molte voci, e in massa si spinsero verso la porta. Il sole inaugurava una bella domenica. Sbucava, simile ad un gigantesco disco di metallo infuocato, dietro le colonne nerissime di una pineta, la quale, lontana po­ che centinaia di passi dall’osteria, si protendeva verso

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il lago. Un pulviscolo d’oro puro sommergeva ì tron­ chi, s’insinuava in tutti gli interstizi, salendo per le fo­ sche masse immote delle conifere, aureolando cielo e ter­ ra di un riflesso rossastro. L’aria era fredda e pungente, ma non c’era neve. Tutti respiravano a pieni polmoni e cercavano di scuotersi dalle vesti il tanfo della sala da ballo. Alcu­ ni fra quelli che poco prima erano stati contrari alla prosecuzione del divertimento si sentivano ora così ri­ storati da farsene i sostenitori. Altri dicevano che anda­ va tutto bene, ma che bisognava almeno mutarsi d’abi­ to se non si voleva diventare lo scandalo della gente. E a questo nessuno potè ribattere con buone ragioni : sic­ come poi alcuni, tra cui i Kielblock, dichiararono neces­ saria una capatina a casa, fu presa la decisione di divi­ dersi per un poco, e di ritrovarsi alle nove per la gita. Kielblock e sua moglie si congedarono per i primi, e fra i rimasti ve ne furono pochi non disposti ad invi­ diare la giovane coppia. Si udirono delle frasi come questa : « Già, potessimo vivere anche noi così » ed altre simili, mentre il velaio, sempre allegro, scompariva nel bosco fischiettando, con Gustavino in braccio e la moglie per la mano dall’altra parte. A casa trovarono tutto in ordine. Lotte salutò i pa­ droni, la vecchia era ancora a letto. Prepararono il caffè, svegliarono la nonna e le fecero capire che l’avrebbero subito lasciata un’altra volta. Essa cominciò a brontolare e a lanciare invettive tra sé e sé, senza rivolgersi direttamente a nessuno. Bisognò tranquillizzarla con due sol­ dini nuovi e lucenti. Marietta, mentre era occupata a mutare il piccolo Gu­ stavo, ebbe un capriccio improvviso. — Senti un po’, io ne ho abbastanza — disse al marito, — rimaniamo a casa. Kielblock era fuori di sé.

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— Ho il mal di capo e un dolore nella schiena. Una tazza di caffè forte l’avrebbe guarita del tutto, le dichiarò il velaio. Ma andare bisognava, perché il pasticcio l’avevano combinato proprio loro. Il caffè aveva fatto intanto il suo effetto. Gustavino era bene infagottato e tutto era pronto per la parten­ za, quando si presentò un barcaiolo a farsi aggiustare una vela per il giorno dopo. Era una vela per la Mary, il canotto da ghiaccio che doveva prendere parte alla grande regata. Kielblock rifiutò quel lavoro. Per i quattro soldi che ne poteva ricavare non aveva intenzione di rinunciare a quel poco divertimento domenicale. L’altro gli assicurò che sarebbe stato compensato bene, ma Kielblock si ostinò nel rifiuto. I giorni di lavoro son per il lavoro, e la festa è festa. Durante la discussione s’avviarono fuori di casa. Il barcaiolo concluse che avrebbe rattoppato lui la vela, purché gli dessero la tela adatta. Ma- anche questo Kielblock non volle, perché, come spiegò, non gli garbava che venissero a rubargli il mestiere. La brigata s’incontrò davanti all’osteria. La gita, ora che il sole aveva attenuato il freddo, divenne un vero godimento. I mariti amoreggiavano a gara con le donne, cantavano, lanciavano scherzi e saltavano al pari di ca­ proni sul musco gelato e scricchiolante del terreno bo­ scoso. La foresta echeggiò degli strilli festosi, dei canti e delle risa di quel gruppo, la cui allegria andava cre­ scendo di minuto in minuto, giacché non avevano di­ menticato di portare con sé per la passeggiata, a difesa del freddo, alcune bottiglie di liquore. All’osteria del « Gallo d’Oro » fu naturalmente im­ provvisato un ballo; verso mezzogiorno, scemati gli en­ tusiasmi, si avviarono per il ritorno. Erano le due quan­

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do i Kielblock si ritrovarono davanti alla loro casetta, un poco stanchi, ma niente affatto sazi. Il velaio aveva infilato la chiave nella porta, ma esitava ancora a girarla. Si sentiva dentro un vuoto che gli faceva paura. In quel momento il suo sguardo si volse al lago, che scintilla­ va al sole come uno specchio gigantesco, popolato di pattinatori e di piccole slitte, e subito gli venne un pen­ siero. — Marietta — domandò — che ne diresti, se faces­ simo ancora un giretto? Sai, sino a Steben, sull’altra riva, da tua sorella? Non ti pare?... Ficcarsi a letto ora a mezzogiorno sarebbe proprio peccato mortale. La donna era troppo stanca e lo assicurò di non es­ sere più in grado di camminare. — Ma questo poco importa — ribattè il marito, e nel momento stesso corse verso un piccolo ripostiglio, dietro la casa, e ne trasse fuori una poltrona a slitta dipinta di verde. — Così andremo benone, mi pare — continuò, già affaccendato ad affibbiarsi un paio di pattini che aveva trovati appesi alla spalliera della poltrona. Prima che Marietta avesse il tempo di fare altre obie­ zioni, si trovò seduta sulla slittina, col piccolo Gustavo in grembo, e già volava sulla superficie scintillante, so­ spinta dalle braccia robuste del marito. A una quarantina di metri dalla riva, la donna si voltò ancora indietro e scorse il barcaiolo della mattina, che batteva alla loro porta. Certo li aveva visti tornare, e si era deciso a rinnovare il tentativo per l’aggiustatura della sua vela. Lo additò al marito. Questi si fermò un istante, si voltò e scoppiò in una rumorosa risata che finì per trascinare all’ilarità anche la moglie. Era proprio comico vedere quel povero dia­ volo starsene là, paziente e fiducioso, sulla porta di casa,

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con la vela sulle spalle, mentre loro, che egli suppone­ va arrivati, passavano come il vento alle sue spalle sul lago gelato. Kielblock disse che era una fortuna non essersi più incontrati col barcaiolo, altrimenti la bella gita in slitta sarebbe senz’altro andata in fumo. Durante la traversata girò più volte la testa indietro per vedere se l’amico s’ostinava a rimanere lì; ma sol­ tanto quando raggiunse con la moglie ed il bambino l’altra riva potè distinguere la figura di lui, ridotta ad un piccolo punto nero, allontanarsi lentamente in di­ rezione del villaggio. I parenti, padroni di un’osteria a Steben, si ralle­ grarono di quella visita, tanto più che si era già raccolto da loro un certo numero di buoni amici. I coniugi ven­ nero ricevuti lietamente, furono recati dolci e caffè, e più tardi anche liquori. Da ultimo gli uomini fecero qualche partita a carte, mentre le consorti passavano in rassegna la cronaca del giorno. Oltre al parentado eran raccolti nel locale dell’osteria alcuni clienti di città, ma questi s’affrettarono a porsi in via appena cominciò a farsi scuro. — È luna piena, signori miei, — osservò l’oste a un piccolo gruppo di pattinatori che stava pagando il conto — e del resto la traversata del lago è perfetta­ mente sicura, non c’è davvero ragione di affrettarsi. Quelli ribatterono di non aver punto paura, ma non si lasciarono distogliere dalla partenza. — Cittadini con la tremarella — sussurrò Kielblock a suo cognato che intanto tornava a sedersi accanto a lui, con un gran sospiro, per riprendere la partita in­ terrotta. Alzando per l’ennesima volta la tazza, invitò a bere e ne vuotò la metà. — È vero — domandò una delle donne volgendosi alla tavola dei mariti, — che il ragazzo è sano e salvo?

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— Sanissimo — fecero eco quelli. — Due ore dopo che lo avevano tratto fuori e ficcato nel suo bel letto cal­ do, si mise d’un tratto a gridare: « Aiuto, aiuto, affogo! ». — Aiuto, aiuto, affogo! — fece eco Kielblock, che cominciava a risentire gli effetti della birra, e buttò sul­ la tavola l’ultima carta con un gran pugno. Aveva vinto e raccolse tutto lieto nel cavo della mano un mucchietto di monete. Intanto circolava il racconto di un ragazzo che in pieno giorno era andato a precipitare nel punto dove il lago era libero dal ghiaccio, e che sarebbe senz’altro annegato, se per fortuna all’ultimo momento non fosse­ ro sopraggiunti alcuni operai. Tutti i presenti ben co­ noscevano quel punto pericoloso : si trovava all’estremi­ tà sud del Iago, là dove gli affluiva l'acqua meno rigida di un fiumicello. Tanto più appariva strana la disgrazia, in quanto il posto pericoloso non era affatto dissimulato da una sot­ tile crosta di ghiaccio traditore, ma perfettamente aper­ to. Bisognava proprio che il ragazzo fosse andato a cacciarvisi ad occhi chiusi, pensavano tutti. Kielblock aveva vinto con tanta fortuna da sentirsi di ottimo umore. Manifestò la persuasione che tutte le spese per la festa in costume erano già recuperate. Non ebbe quindi difficoltà ad adattarsi ai desideri di sua mo­ glie, risolvendosi finalmente al ritorno. Il congedo dagli amici durò non poco. Bisognò ac­ cordarsi in gran fretta circa quattro salti per la dome­ nica seguente. Kielblock pretese da tutti la parola d’o­ nore di non mancare. Quelli consentirono e finalmente I coniugi si avviarono verso la sponda del lago. Proprio a strapiombo e al centro della gran superficie azzurra­ stra splendeva la luna piena, che appariva incastrata nel cielo come una gran borchia d’argento in una gigantesca volta cristallina disseminata di stelle. Dalla luna irrag­

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giava una tenue nebbia luminosa in cui eran magicamen­ te sommersi tutti i contorni sulla terra. Il paesaggio e l’aria parevano irrigiditi nel gelo. La signora Marietta era già da un bel pezzo accomo­ data sulla sua slittina insieme al piccolo, mentre Kielblock ancora s’arrabattava bestemmiando intorno ai suoi pattini. Le dita gli gelavano, non riusciva ad allacciar­ seli. Gustavino si mise a piangere. La moglie lo incitava a far presto, perché l’aria la pungeva come con degli spilli. Non aveva bisogno di dirglielo; a lui pure pareva di sentirsi graffiar la pelle delle mani come da diamanti da vetraio. Finalmente sentì i pattini ben saldi alle suole. Ma ancora non riusciva ad afferrare la slitta : dovette ficcare le mani in tasca perché rinvenissero un po’. Intanto fe­ ce un paio di evoluzioni sul ghiaccio. Era duro, asciutto e trasparente come il vetro. — Fra dieci minuti siamo sull’altra riva — assicurò mentre metteva in moto la slitta con un’energica spinta. Il piccolo convoglio passò velocissimo sulla superficie ghiacciata, dirigendosi in linea diritta verso una scialba luce giallognola che dall’altra parte del lago illuminava una finestra della casetta dei Kielblock. Era la lampada della nonna, la quale sovente, anche in notti senza luna, aveva fatto da guida sicura al velaio. Se venendo dall’o­ steria di Steben procedeva sempre diritto, s’incontrava dovunque il ghiaccio sicuro. — Questo è il divertimento finale — gridò Kielblock con voce rauca all’orecchio di sua moglie, ma essa non riusciva a rispondere tanto le battevano i denti. Stringeva al petto il piccolo Gustavo che piagnuco­ lava sommesso. Il velaio invece sembrava davvero instancabile : in fondo quella gita lunare era di suo gusto malgrado tutti gli strapazzi precedenti. Si permetteva di scherza­

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re : per esempio, lanciava avanti la slittina a gran corsa e poi la raggiungeva a balzi, come un falco che piombi sulla preda. Ripetutamente la scosse con tanta violenza che la moglie si mise a strillare. Sempre più nitido si faceva intanto il profilo della casetta; già si distinguevano le singole finestre, già si scorgeva al riflesso della lampada la figura della non­ na, quando d'un tratto scese un velo d’oscurità. Kielblock si voltò spaventato e scorse una paurosa parete di nubi che, velando tutto l’orizzonte, erano sorte alle sue spalle inavvertite, e proprio in quell’istante ave­ vano inghiottito il disco della luna... — Ora svelti — disse preoccupato, e lanciò la pic­ cola slitta davanti a sé a velocità raddoppiata. La casetta rimaneva ancora nella luce biancastra : ma l’ombra terribile s’impadroniva sempre più del lago, e finì per ravvolgerlo tutto, insieme con la casa, nelle sue tenebre impenetrabili. Kielblock continuò imperterrito a tenere come busso­ la il riflesso ancora distinto della lampada della nonna. Diceva a sé medesimo che non vi era motivo di temere, ma veniva tuttavia sospinto a far presto come da una potenza invisibile. Raccolse le forze; il sudore gli gron­ dava dalla fronte, il corpo ardeva, il respiro si faceva ansimante. La giovane donna sedeva tutta ripiegata su se stessa, tenendo il bimbo convulsamente stretto al seno. Non pronunciava parola, non osava un movimento, quasi te­ messe di rallentare in qualche modo la rapidità della corsa. Era oppressa da un senso inspiegabile di ango­ scia; non aveva che un desiderio : arrivare. Frattanto si era fatto così buio che Kielblock non distingueva quasi sua moglie, né questa il bambino. Il lago rombava senza tregua sotto la sua corazza ghiacciata. Fu prima un brontolio e un rigurgito con­

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tenuto, poi un cupo ruggito soffocato, e insieme l’ur­ gere violento contro la crosta di gelo, sinché questa si franse fragorosamente con grandi crepacci. L'abitudine aveva reso Kielblock indifferente al mi­ sterioso terrore di questi fenomeni; tuttavia gli parve d’un tratto di poggiare sopra un’immensa gabbia, nella quale fossero imprigionate schiere di belve assetate di sangue, ruggenti di fame e di ferocia, che ficcassero gli artigli e le zanne nelle pareti del loro carcere. Da tutti i lati si udiva lo scricchiolio dei crepacci nel ghiaccio. Kielblock era cresciuto accanto a quel lago, sapeva che con una simile crosta, alta dodici pollici, era impossibile precipitare dentro l’acqua. Ma ora la fan­ tasia gli cominciava a divagare e a non obbedire più al buon senso. Gli sembrava che ai suoi piedi si spa­ lancassero abissi foschi, per inghiottirlo insieme alla sua donna e al suo bimbo. Un brontolio temporalesco giungeva a ondate da lon­ tano, venendo a finire con un colpo sordo proprio ai suoi piedi. La moglie lanciò un grido. Egli stava per chiederle se fosse impazzita, quando vide qualcosa che gli ricacciò la voce in gola. L’unico punto luminoso che gli aveva sino allora fatto da guida si mosse... si fece sempre più smorto... mandò un guiz­ zo... un barbaglio, e d’un tratto si spense... — In nome di Dio, cosa viene mai in mente alla mamma — mormorò senza volerlo, e ratto come il ful­ mine l’orrore del pericolo effettivo gli attraversò il cer­ vello. Si era fermato e si stropicciava gli occhi : era realtà o suggestione? Quasi credesse quest’ultima, il riflesso rimasto ancora nella retina dei suoi occhi lo illuse. Ma alla fine anche questo svanì, e gli parve di sentirsi co­ me annegato nel buio. Credette tuttavia di sapere an-

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cora esattamente la direzione in cui si era spenta la luce, e verso quella si lanciò con la velocità di una freccia. Al fragore del lago s’univa la voce di sua moglie che gli giungeva nella tenebra ripetendo continui rim­ proveri : perché non erano rimasti a casa e simili recri­ minazioni. Passarono alcuni minuti. Alla fine parve loro di udire l’abbaiare di un cane. Kielblock trasse un sospiro di sol­ lievo. Ma ecco, un grido di disperazione, una scossa; le scintille sprizzarono dai suoi pattini : era riuscito con uno sforzo sovrumano a dare una svolta alla slitta fer­ mandola. Il braccio destro della moglie lo afferrava tremante e convulso. Non c’era da illudersi : essa aveva veduto la morte. — Sta’ tranquilla, Mariettina, non è niente — la con­ fortò con voce trepida, ma parve anche a lui che una mano gelida e scheletrica avesse afferrato il suo cuore palpitante. La giovane donna tremava come una foglia al vento; ma la lingua sembrava paralizzata. — Oh! oh! Dio mio... Dio mio...! — non altro riu­ sciva a balbettare. — Ma cosa c’è, benedetta donna, parla, in nome di Dio, spiegati ! — Laggiù... laggiù... — mormorò quella. — L’ho udito... ben chiaro l'ho udito... l'acqua... l’acqua... il la­ go aperto ! Tese l’orecchio intensamente: — Non sento nulla! — L’ho veduta io, davvero, l’ho veduta ben distin­ ta... proprio davanti a me... te l’assicuro. Kielblock tentò invano di trapanare la densità del­ l’ombra coi suoi sguardi. Gli pareva che gli avessero cavato gli occhi e che si ostinasse a guardare con le sole orbite. Ripete : — Non vedo nulla !

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La moglie tornò a rassicurarsi un po’. — Ma si sente un odore d’acqua. — Le disse che sognava, eppure sen­ tiva crescere il terrore. Gustavino dormiva. Egli voleva proseguire lentamen­ te, ma sua moglie si oppose con tutte le forze di un’an­ goscia mortale. Lo scongiurò con voce piagnucolosa di tornare indietro, e poiché egli non si fermava si mise ad urlare come pazza : — Si rompe ! si rompe ! Allora a Kielblock scappò la pazienza. Rimproverò sua moglie di esser lei, col suo maledetto piagnucolio, la responsabile, se annegavano tutti e tre. Tenesse la lingua in bocca, altrimenti, come era vero che si chia­ mava Kielblock, l'avrebbe piantata sola in mezzo al la­ go e se ne sarebbe andato a riva. Poiché nulla giovò, finì per perdere la testa e accumulare parole insensate. Non sapeva davvero più come dirigersi, ma il posto in cui si trovava in quel momento gli sembrava poco so­ lido e malsicuro. Invano tentò di dominare la terribile angoscia che sempre più s’impadroniva di lui. Mille fantasie gli danzavano in testa, tremava, ripeteva come in un rantolo brevi preghiere : era proprio giunta la fine? La morte non aspetta... non l’aveva mai capito... la morte non aspetta... La morte? che cosa era mai? non l’aveva mai saputo. Ma ora... no! no! Lo colse un ribrezzo gelido; voltò la slitta, prese la rincorsa con un ultimo e violento sforzo di energia... Salvarsi, salvarsi ad ogni costo... Ed ecco... un gorgo­ glio, uno sprizzare e ribollire di acque sconvolte... smar­ rì la coscienza. Fu un attimo : ebbe chiara la certezza di essere ve­ nuto a piombare nell’abisso aperto del lago. Con le sue membra robuste si dibattè nell'acqua nera, riuscì a libe­ rarsi dalla morsa gelida, si accorse di respirare ancora. Un grido gli uscì acutissimo e orrendo dal petto... un secondo... un terzo... Che se ne andassero i polmoni,

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che scoppiasse la gola! Rabbrividiva egli stesso al suono della sua voce, ma continuava a ruggire come una bel­ va : — Aiuto! Aiutateci... anneghiamo! Aiuto! S’inabissò gorgogliando e con lui si spense il grido, ma poi si riaffacciò e di nuovo lo lanciò nelle tenebre. Alzò una mano sull’acqua cercando senza interrom­ pere le grida ove afferrarsi...! Tornò ad affondare: quando riaffiorò, era nella luce. A tre bracciate alla sua sinistra si scorgeva la crosta di ghiaccio aperta lì ad arco attorno ad un piccolo specchio d’acqua. Cercò di raggiungerla. Tornò ad affondare. Poi l’afferrò, ma le dita gli scivolarono : provò un’altra volta, le ficcò ad­ dentro come fossero artigli... riuscì a sollevarsi; era già emerso con le spalle e gli occhi sbarrati di angoscia scorgevano la superficie biancheggiante, ora di nuovo illuminata dalla luce lunare. Ecco... laggiù era la sua casetta, e più oltre il villaggio... Ed ecco laggiù, ma sì, davvero... lanterne, torce, la salvezza! Ancora una vol­ ta il suo urlo attraversò la notte. Tese l’orecchio. Dall’alto nell’aria giunse un grido. Delle anatre selvatiche passavano sulla volta cristallina e stellata, segnando la luna come di punti neri. Udì die­ tro di sé un rigurgito, un gorgoglio. Bolle d’aria sali­ vano alla superficie: si sentì il sangue raggelare, ebbe orrore di voltarsi, ma pure si voltò. Una massa oscura di tanto in tanto affiorava e sprofondava. Si poteva di­ stinguere. Si poteva distinguere una scarpa, una mano, un berretto di pelo. La massa si avvicinava a lui, egli avrebbe voluto afferrarla, ma già era di nuovo sommersa. Un attimo di terrore... e poi una risata pazza. Sentì che qualcosa dal fondo si afferrava a lui, prima pren­ dendogli il piede... poi le gambe... e risaliva sino al cuore... lo sguardo si fece vitreo, le mani lasciarono la presa... sprofondò... cupo gorgogliare lontano... un caos d’immagini e di pensieri... poi la morte.

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Nel villaggio avevano udito le sue invocazioni. Ope­ rai e pescatori si raccolsero sul luogo della sciagura. Dopo un’ora riuscirono a tirar fuori e porre sulla cro­ sta di ghiaccio un bambino. Dalla sua tenera età si de­ dusse che doveva essere annegato insieme con una perso­ na adulta. Rimanendo inutili le ulteriori ricerche, un pescatore propose di calare le reti. E nelle reti appunto, verso le tre del mattino, furono ripescati i cadaveri della gio­ vane coppia. Ora l’allegro mastro delle vele se ne stava lì supino, col volto tumefatto, accusando con gli occhi sbarrati la perfidia del cielo. Le vesti grondavano acqua, attorno alle tasche si formavano pozze nere. Quando lo cari­ carono su una barella, piovvero sul ghiaccio una quan­ tità di monetine sonanti. Le tre salme vennero riconosciute e riportate nella casetta dei Kielblock. Trovarono la porta chiusa; dalle finestre non trapelava luce. Un cane abbaiava nell’inter­ no, ma nessuno aprì per quanto bussassero. Un pesca­ tore s’introdusse per la finestra del tinello buio. La sua lanterna illuminava malamente la stanza, ma questa era vuota. Facendo gran rumore coi suoi stivaloni imper­ meabili, seguito dal continuo abbaiare di un cagnoli­ no, attraversò la stanza e aprì senz’altro una porticina. Gli sfuggì un grido di stupore. In mezzo ad un’alcova stava seduta una donna vec­ chissima : sembrava addormentata, curva sopra una cas­ setta verde, che le giaceva ai piedi zeppa di monete d’oro, d'argento e di rame. La mano destra era ancora immersa in quel denaro, alla sinistra teneva appoggiato il volto. La tenue fiammella di una piccola lampada prossima a spegnersi mandava un riflesso incerto e fu­ moso sulle rade ciocche della sua testa canuta.

IL CANTONIERE THIEL

Titolo originale : BAHNWÄRTER THIEL

Traduzione di Giovanni Marcellini Prima edizione : Berlino 1892 Prima edizione italiana : Milano 1924

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Ogni domenica, immancabilmente, a meno che fosse di servizio o a letto ammalato, il cantoniere Thiel pren­ deva il suo posto nella chiesa di Neu-Zittau. In dieci anni era stato malato due volte : la prima per colpa di un pezzo di carbon fossile che, cadendo dal tender di una locomotiva in corsa, l’aveva colpito e rovesciato nel fosso con una gamba fratturata; la seconda per una bot­ tiglia lanciata dal finestrino di un direttissimo che lo aveva colto in mezzo al petto. Salvo questi due infor­ tuni, niente altro aveva potuto impedirgli, quando era libero, di recarsi in chiesa. I primi cinque anni aveva dovuto percorrere solo il cammino da Schön-Schornstein, un villaggio operaio sul­ la Sprea, a Neu-Zittau. Poi, una bella domenica, giunse accompagnato da una giovane donna, il cui aspetto gra­ cile e malaticcio mal s’accordava - secondo l’opinione generale - con la figura erculea di Thiel. E un’altra bella domenica pomeriggio, in chiesa, dinanzi all’altare, a quella stessa donna egli porse solennemente la mano per giurarle fedeltà eterna. Per due anni quella delicata creatura sedette accanto a Thiel sul banco della chiesa: per due anni il fine viso dalle gote cave si chinò sul vec­ chio libro di preghiere accanto a quello abbronzato di

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Thiel; poi, improvvisamente, il cantoniere comparve in chiesa solo come prima. Un giorno della settimana precedente la Morte aveva visitato la sua casa : ecco tutto. Da allora, osservavano gli abitanti del villaggio, le abitudini del cantoniere ben poco mutarono. I bottoni della sua bella uniforme rilucevano come un tempo e i suoi capelli rossicci erano come sempre ben lisciati e accuratamente divisi. Solo curvava un po’ più la nuca larga e pelosa, e seguiva il sermone e cantava gli inni con maggiore attenzione e fervore che nel passato. Era opinione generale che la morte della moglie non l’avesse afflitto molto; e questa opinione ebbe conferma quando, dopo l’anno di lutto, Thiel si risposò con una donna di Alte-Grund, una robusta ragazza di campagna. Il pastore stesso si permise di fargli qualche obiezio­ ne quando Thiel si recò da lui per le pubblicazioni. — Volete di già riammogliarvi? — Non posso mica fare famiglia con una morta, si­ gnor predicatore. — No certo... ma mi sembra che abbiate un po’ trop­ pa fretta. — Il bambino deperisce, signor pastore. La moglie di Thiel era morta di parto, e il bambino sopravvissuto era stato chiamato Tobia. — Ah, è vero... c’è il bambino — disse il pastore ricordandosi. — Allora è un’altra cosa... Dove lo rico­ verate, il bambino, quando siete di servizio? Thiel raccontò ch’era costretto ad affidare il piccolo Tobia a una vecchia che, un giorno, l’aveva quasi la­ sciato tra le fiamme; un altro giorno il piccolo, che teneva in grembo, le era rotolato giù a terra senza fortunatamente farsi altro che un grosso bernoccolo. — Questo stato di cose non può continuare — sog­

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giunse il cantoniere. — Anche perché il bambino è malato ed ha bisogno di cure speciali... — Ecco perché egli s’era deciso; ed anche perché aveva giurato alla moribonda di fare sempre tutto il possibile per assi­ curare al figlio una vita soddisfacente. Nessuno trovò niente da ridire contro la nuova cop­ pia che veniva ora ogni domenica in chiesa. Quella cam­ pagnola sembrava fatta apposta per Thiel. Di mezzo palmo appena più piccola di lui, lo superava in corpu­ lenza. Il suo viso era grossolanamente tagliato come quel­ lo di suo marito, ma le mancava l’espressione spirituale che illuminava invece i tratti di Thiel. Se il cantoniere desiderava possedere nella sua secon­ da moglie una lavoratrice infaticabile e una massaia esemplare, poteva dichiararsi interamente soddisfatto; tre cose però aveva preso in blocco con lei senza saperlo : una natura autoritaria e dura, un temperamento litigio­ so e una sensualità brutale. In capo a sei mesi tutti sa pevano che chi comandava nella piccola casa del can toniere era appunto la moglie; e tutti lo compiangevanc — Ë stata una bella fortuna per quella femmina ce pitare nelle mani di un pecorone come Thiel — ossei vavano gli uomini indignati. Con qualcun altro se 1 sarebbe vista brutta. Una « bestia » così andava dome ta, dicevano; magari con le botte, se occorreva. Legnai ci volevano, per farle intender ragione! Ma Thiel, nonostante i suoi pugni vigorosi, non er un uomo da bastonarla, e ciò che metteva gli altri ir collera non sembrava dargli il minimo fastidio. Di solito lasciava passare senza dire una parola le interminabili recriminazioni di sua moglie, e quando per caso repli­ cava, lo faceva con un tono così strascicato, con una voce così calma e sommessa da creare un singolare con­ trasto con la voce stridula della donna. Il mondo ester-

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no sembrava potesse fargli poco: si sarebbe detto che avesse qualcosa dentro, capace di controbilanciare col bene tutta la perfidia di lei. Tuttavia, nonostante la sua flemma inalterabile, c’erano dei momenti in cui Thiel non ammetteva scherzi: quan­ do si trattava di Tobiuccio, la sua dolcezza, la sua bon­ tà infantile lasciavano il posto a una fermezza contro la quale nemmeno il temperamento litigioso di Lena osa­ va entrare in lotta. Ma con l'andar del tempo i momenti in cui egli mo­ strava questo lato del suo carattere divennero sempre più rari e finirono poi per scomparire addirittura. Il secondo anno svanì anche quella certa resistenza passi­ va ch’egli aveva opposto da principio allo spirito auto­ ritario di Lena. Non si recava più ora al suo servizio con la calma consueta, quando gli accadeva di bisticciar­ si con lei senza riuscire poi a placarla. Andò a finire che non di rado si umiliava al punto di pregarla di voler fare la pace. Anche al suo posto di guardia, iso­ lato in mezzo al bosco di pini, non indugiava più vo­ lentieri. Il muto, devoto ricordo della prima moglie era scacciato ora dal pensiero della sposa vivente. Non più a malincuore, come un tempo, egli prendeva la via del ritorno, bensì contando con impazienza appassionata le ore e i minuti che lo separavano dall’ora in cui veniva­ no a sostituirlo. Thiel, che aveva avuto per la prima moglie un sen­ timento piuttosto spirituale, cadde sotto il dominio del­ la seconda per la potenza dei suoi brutali appetiti, al punto di dipenderne quasi totalmente in tutto. Di tan­ to in tanto la coscienza gli rimproverava questa inver­ sione di parti, e gli bisognava addurre a se stesso le scu­ se più singolari per liberarsi dal rimorso. Decise così che la sua casa cantoniera e la strada ferrata, che doveva sorvegliare, fossero consacrate esclusivamente alla me­

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moria dell’altra, la morta, e che perciò il luogo mai do­ vesse venire profanato dalla presenza della viva. Gra­ zie a ogni sorta di pretesti riuscì infatti sempre a im­ pedire a Lena di accompagnarlo. Egli sperava di poter continuare così sempre. Lena non avrebbe nemmeno saputo quale direzione prendere per venire a raggiungerlo nella sua « baracca », di cui igno­ rava anche il numero. Potendo così scrupolosamente dividere il suo tempo fra la viva e la morta, Thiel giunse a placare la sua co­ scienza. Talvolta, però, gli accadeva di veder chiaro nella sua situazione e di provarne disgusto; ciò avveniva soprat­ tutto nelle ore di raccoglimento solitario, quando entra­ va in comunione con l’anima della defunta. Quando era in servizio di giorno, i suoi rapporti con la morta si limitavano ai cari, innumerevoli ricordi del­ la loro vita in comune. Ma appena sopravveniva l’oscu­ rità, allorché le raffiche di neve passavano sui pini e sul­ la strada, nel silenzio profondo della notte, alla luce fioca della lanterna, la sua casetta diveniva una cappella. Una fotografia ingiallita dal tempo posata sulla tavo­ la, la Bibbia e il libro dei canti aperto dinanzi agli oc­ chi, egli leggeva e cantava alternativamente per tutta la notte, senza altra interruzione che, a intervalli, il rom­ bo del passaggio dei treni. Giungeva così a un tal gra­ do di estasi, da averne a volte vere e proprie visioni, in cui la defunta gli appariva davanti come viva. Il posto che Thiel occupava ormai da dieci anni pa­ reva d’altronde fatto apposta per rafforzare con l’isola­ mento le sue naturali tendenze al misticismo. Situato a tre quarti d’ora di cammino, per lo meno, da ogni abitazione, la sua cantoniera sorgeva in piena foresta, in prossimità di un passaggio a livello, di cui Thiel doveva appunto manovrare le sbarre.

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Per intere giornate, d’estate, per settimane d’inverno, il tempo scorreva senza che un piede umano, all’infuori di quello di Thiel e del collega che lo sostituiva, var­ casse la linea ferrata. Solo i cambiamenti di tempera­ tura e il ritorno periodico delle stagioni mettevano un po’ di varietà in quel deserto; se si escludono infatti i due infortuni di cui Thiel era rimasto vittima, gli avve­ nimenti che avevano interrotto il corso regolare del suo servizio si potevano ricapitolare in breve. Quattro anni prima era passato di lì a tutta velocità il treno speciale che conduceva l’imperatore a Breslavia. Una notte d’in­ verno l’espresso aveva investito un capriolo. Ispezionan­ do la linea, in un caldo giorno d’estate, Thiel aveva tro­ vato una bottiglia di vino tappata, che bruciava quasi a toccarla. Sturata che l’ebbe, ne uscì fuori un getto di schiuma; dalla qual cosa egli dedusse trattarsi di vino ben fermentato, senza dubbio squisito... Messa da Thiel a raffreddare nell’acqua bassa vicino alla riva d’uno sta­ gno, la bottiglia era misteriosamente scomparsa. Dopo anni, egli rimpiangeva ancora quella perdita. Una fonte che scaturiva dietro la sua casetta gli da­ va qualche distrazione; gli operai che lavoravano in quei pressi, lungo la linea o ai pali del telegrafo, venivano talvolta a bervi e, naturalmente, si facevano due chiac­ chiere insieme. Anche la guardia forestale veniva di quando in quan­ do a dissetarsi a quella fonte. Tobia si sviluppava molto lentamente. Soltanto ver­ so la fine del secondo anno apprese un poco a balbetta­ re e a fare i primi passi. Il bambino nutriva una tene­ rezza tutta particolare per suo padre, e Thiel dal canto suo, nel vederlo farsi più giudizioso, sentiva ridestarsi l’antico amore per lui. Ma, a misura che questa affezione aumentava, diminuiva quella della matrigna, e quando al

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termine di un anno anche lei partorì un maschio, non ebbe più per l’altro che una chiara avversione. A partire da quel momento, la. vita fu dura per il piccolo Tobia. Soprattutto durante l’assenza del padre egli veniva esposto a continue persecuzioni e costretto a mettere le sue deboli forze al servizio del fratellino berciante senza ricevere in cambio la minima ricompensa d’affetto. Quella fatica lo stremava; la sua testa assunse proporzioni inconsuete, e il viso gessoso sotto i capelli rosso-fuoco contrastava penosamente col misero corpicino. Così, quando quello sgorbietto arrancava dietro la matrigna verso la Sprea, portando penosamente in brac­ cio il neonato paffuto e pieno di salute, dietro le finestre venivano pronunciate parole di esecrazione, che pertan­ to non osavano farsi udire chiaramente. Ma Thiel, a cui la cosa doveva stare a cuore più che agli altri, pareva non avvedersene né voler comprendere le allusioni dei benintenzionati vicini.

II

Una mattina di giugno, verso le sette, Thiel ritornò dal servizio. Sua moglie non aveva ancora terminato di dargli il buon giorno che incominciò, come al solito, a lagnarsi. Il campo, che fino allora aveva fornito alla fa­ miglia una sufficiente provvista di patate, qualche setti­ mana prima era stato ripreso dal proprietario, e Lena non era riuscita ancora a trovarne uno equivalente. Ben­ ché questa cura toccasse a lei, Thiel dovette sentirsi ri­ volgere mille accuse e recriminazioni. — È colpa tua se quest’anno saremo costretti a spendere un mucchio di

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soldi per comperare dieci sacchi di patate ! — Thiel si limitò a mormorare qualche parola, e senza più curarsi delle recriminazioni della moglie si avvicinò a Tobia, con cui divideva il letto la notte quando rimaneva in casa. Si chinò sul lettino e, con un’espressione di pena nel viso buono, guardò il fanciullo addormentato. Per un poco cacciò via da lui le mosche importune; poi lo svegliò. Una gioia intensa si dipinse negli occhi azzurri e infossati di Tobia. Egli afferrò precipitosamente la ma­ no del padre, mentre gli angoli delle labbra gli si con­ traevano in un sorriso pietoso. Il cantoniere l’aiutò a vestirsi. Il suo viso si oscurò improvvisamente notan­ do, sulla gota sinistra un po’ gonfia del figlio, i segni, stampati in bianco sul rosso, di alcune ditate. Più tardi, durante la colazione, Lena tornò con rinno­ vato ardore all’argomento economico; ma il marito le troncò subito la parola per avvertirla che il capocanto­ niere gli aveva ceduto gratuitamente un pezzo di terra lungo la strada ferrata, vicinissimo alla casa cantoniera, poiché per lui, diceva, quel terreno era troppo lontano. Dapprima Lena non volle crederci, ma poi a poco a poco, scomparsi i dubbi, divenne di ottimo umore. Ri­ volse al marito precise domande sulla grandezza e sulla qualità del campo: e quando seppe che vi crescevano anche due alberelli da frutto, la sua gioia non conobbe limiti. Quando non ebbe più nulla da chiedere, siccome udiva tintinnare senza interruzione il campanello alla porta della vicina bottega, che, sia detto di passata, era percepibile in ogni casa del villaggio, partì come una freccia per andarvi a portare la notizia. Mentre Lena entrava nella bottega buia e ingombra di merci, il cantoniere, rimasto in casa, si occupò uni­ camente di Tobia. Lo prese sulle ginocchia e lo fece giocare con qualche pigna raccolta nel bosco.

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— Che cosa farai da grande? — gli chiedeva. Era una domanda stereotipata come la risposta del figlio: — Capocantoniere! — Non era una domanda fatta per celia: i suoi sogni arrivavano realmente fino a quell’al­ tezza, ed egli nutriva in tutta serietà il desiderio e la speranza che un giorno, con l'aiuto di Dio, Tobia sareb­ be diventato qualche cosa di straordinario. E, appena uscita dalle labbra esangui del piccino, che neppur com­ prendeva il significato delle sue parole, la risposta abitua­ le: «Capocantoniere!», il viso di Thiel s’illuminò gra­ datamente, fino a raggiare di felicità. — Vai, Tobia, vai a giocare! — disse quindi il pa­ dre, mentre dava fuoco alla pipa con un fuscello acceso al camino; e il fanciullo con timida gioia uscì dalla ca­ mera. Thiel si spogliò e si mise a letto, e qui, dopo ave­ re per un certo tempo fissato con lo sguardo pensieroso il soffitto basso e screpolato della stanza, prese sonno. Verso mezzodì si destò, si alzò, e mentre la moglie pre­ parava il desinare facendo il solito chiasso, egli uscì nel­ la strada, dove subito colse Tobia intento a grattare da un buco nel muro il calcinaccio per metterselo in boc­ ca. Il cantoniere prese il figlio per mano; e insieme pas­ sarono davanti alle poche case del villaggio, discenden­ do verso la Sprea, di cui si vedevano le acque nere tra le foglie rare dei pioppi. Thiel si sedette sopra un bloc­ co di granito sulla riva del fiume. Tutti erano avvezzi a vederlo in quel posto appena il tempo era buono; i fanciulli gli erano particolarmente af­ fezionati e lo chiamavano « babbo Thiel ». Egli insegna­ va loro diversi giochi che ricordava della sua lontana infanzia. Ma il meglio di quanto ricordava era riservato a Tobia. Gli tagliava frecce che volavano più alto di quelle di tutti i suoi compagni. Gli faceva dei pifferi di corteccia di salice; e si lasciava andare al punto di

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intonar canti solenni con la sua voce di basso arruggi­ nito, colpendo leggermente la corteccia col manico di corno del suo coltello. I vicini non vedevano di buon occhio queste sue fan­ ciullaggini, non arrivando a comprendere come egli po­ tesse perdere il suo tempo in mezzo a quei mocciosi; mentre, in fondo, avrebbero dovuto esserne contenti, giac­ ché i loro ragazzi, grazie a lui, erano ben sorvegliati. Inoltre egli li guidava anche in più serie occupazioni, facendo recitare la lezione ai più grandicelli e aiutandoli a imparare a memoria i versetti della Bibbia; con i pic­ coli compitava anche: b-a-ba, d-u-du, e così via. Dopo il pranzo si coricò ancora per un breve riposo; poi bevve il caffè e si preparò a raggiungere il suo po­ sto di guardia. Anche per far questo, come in tutte le sue cose, gli occorreva molto tempo. Ogni suo movi­ mento era regolato, e sempre nel medesimo ordine i suoi oggetti personali: coltello, taccuino, pettine, un den­ te di cavallo e il vecchio orologio a doppia cassa, pas­ savano dal cassettoncino di noce, sul quale erano scio­ rinati con cura, alle tasche dei suoi vestiti. Un libriccino foderato in carta rossa veniva trattato con riguardo speciale. Di notte Thiel lo nascondeva sotto il cuscino e di giorno lo portava sempre con sé nella tasca inter­ na della giubba di servizio. Sull’etichetta, sotto la co­ pertina, Thiel aveva scritto di suo pugno a caratteri gof­ fi ma ornati di ghirigori : « Libretto di risparmio di To­ bia Thiel ». La pendola dalla lunga asta e dal quadrante itterico segnava le cinque meno un quarto quando Thiel si mi­ se in cammino. Attraversò la Sprea su un piccolo canot­ to di sua proprietà. Giunto di là, si fermò diverse volte a tender l’orecchio verso l’altra riva. Infine s’inoltrò per una larga strada che conduceva alla foresta e in pochi minuti fu in mezzo al sussurrante bosco di pini, la cui

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massa di foglie aghiformi pareva un ondulato mare ver­ de-nero. Camminava senza far rumore, come su un tappe­ to di feltro, sull’umido strato di musco e di aghi che rico­ priva il terreno. Trovava la strada senza bisogno di alza­ re lo sguardo: qui fra le colonne bruno-ruggine degli al­ beri d’alto fusto, più lungi attraverso il folto di un bo­ sco ceduo, più innanzi ancora oltre le radure riservate alle nuove piantagioni, fra le quali sorgeva qualche altro pi­ no isolato che le proteggeva con la sua ombra. Un va­ pore trasparente e azzurrino, impregnato di mille aromi, saliva dal suolo e sfumava i contorni degli alberi. Un cielo latteo, pesante, gravava sulle loro cime. Stormi di cornacchie, come immersi nell’aria grigia, emettevano ininterrottamente i loro striduli richiami. Pozzanghere d’acqua nerastra riempivano le cavità del terreno e di quella natura malinconica rimandavano un'immagine an­ cor più malinconica. “Che tempaccio!” pensò Thiel quando, uscendo dalla sua profonda meditazione, alzò il capo. A un tratto però i suoi pensieri presero un altro corso. Sentiva confusamente di aver dimenticato a casa qual­ cosa. Infatti, dopo aver esplorato le sue tasche, scoprì che non aveva preso con sé il pane e burro di cui la lunga durata del servizio lo costringeva a premunirsi. Rimase per un poco indeciso, poi improvvisamente si volse e ripigliò in fretta la strada del villaggio. Ben presto raggiunse la Sprea; traversò il fiume con pochi vigorosi colpi di remo, poi, grondante di sudore, prese a salire il lieve pendio che menava al villaggio. Il vecchio, sordido can barbone del bottegaio era disteso in mezzo alla strada. Sullo steccato imbevuto di catrame di una casa colonica un corvo grigio arruffò le penne, si scosse, accennò col capo ed emise un cra-cra laceran­ te; indi con un sibilante colpo d’ala si levò in alto e si lasciò trasportare dal vento verso la foresta.

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Degli abitanti del piccolo villaggio, una ventina di pesca­ tori e di boscaioli con le famiglie, non si vedeva nessuno. D’improvviso il suono d'una voce stridula ruppe vio­ lentemente il silenzio. Il cantoniere si fermò di botto. Il suo orecchio percepì una fiumana di suoni furiosi e discordi, che sembravano uscire dall’abbaino aperto di una casetta bassa ch'egli conosceva fin troppo bene. Attutendo il più possibile il rumore dei suoi passi, Thiel si avvicinò alla casa e distinse chiaramente la voce della moglie; qualche passo ancora e ne intese le parole; — Sciagurato ! Birbante senza cuore ! Vuoi che questa povera creatura crepi di fame!... Aspetta, aspetta... Ora ti insegno io a fare attenzione... Te ne dovrai ricordare per un pezzo!... — Vi fu un silenzio di qualche secondo; poi si udì un rumore come di indumenti battuti, e su­ bito dopo, una nuova pioggia d’invettive: — Miserabile moccioso ! — tuonava la voce con rit­ mo ininterrotto. — Credi che per un disgraziato come te io lasci morire di fame la mia creatura?... Zitto! — ur­ lò la donna quando dei deboli lamenti si fecero udire. — O te ne somministro una porzione che ci metterai otto giorni a digerirla! Ma i lamenti non cessavano. Il cantoniere sentiva il cuore battergli forte, a colpi irregolari. Tutto il suo corpo tremava. I suoi occhi fis­ savano il suolo come assenti. Si passò più volte la mano tozza e ruvida sulla fronte bagnata di sudore per re­ spingere un ciuffo di capelli che continuava a cadérgli sulla fronte lentigginosa. Per un istante credette di svenire: era come se un crampo gli gonfiasse i muscoli e gli irrigidisse i pugni. Poi si rilassò e non sentì più che un'ottusa stanchezza. Con passo incerto raggiunse l’andito angusto, lastri­ cato di mattoni; e, lentamente, penosamente salì la cigo­ lante scala di legno.

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— Vergogna! — ripigliò la voce; e nel medesimo tempo Thiel udì tre volte sputare sul pavimento, in se­ gno di collera e di disprezzo. — Villanaccio miserabi­ le, abietto, perfido, maligno, vigliacco, indegno ! — Le invettive continuavano con un violento crescendo e la vo­ ce della donna, in certi momenti, rimaneva quasi soffo­ cata dal furore. — Vuoi picchiare mio figlio, eh? Tu, miserabile marmocchio, ardisci schiaffeggiare questo po­ vero innocente, eh ? — eh ? — eh ? Ringrazia che non vo­ glio insudiciarmi le mani con te, altrimenti... A questo punto Thiel spalancò la porta e alla donna, spaventata, restò in gola la fine della frase. Era livida dalla rabbia; le sue labbra fremevano malvagiamente; la sua mano era ancora sollevata in atto di minaccia, ma la lasciò subito ricadere per afferrare il pentolino del lat­ te e tentare di riempire il poppatoio del figlio. Ma do­ vette rinunciarvi, perché la metà del latte colava sulla tavola. Completamente sconvolta dall’eccitazione, pren­ deva un oggetto, poi un altro, senza tuttavia poterli tenere in mano più di qualche istante. Infine si fece ani­ mo tanto da rivolgersi violentemente contro il marito: - E tu? Che significa questa sorpresa? Perché vieni a casa a quest’ora ? Non vorrai per caso spiarmi ? Non ci mancherebbe che questo!... E seguitò dicendo che lei aveva la coscienza pulita e sentiva di non dover abbassare gli occhi dinanzi a nessuno. Thiel udiva a malapena le sue parole. Il suo sguardo sfiorò di sfuggita il piccolo Tobia che piangeva. Per un momento parve sforzarsi di contenere qualcosa di terri­ bile che prorompeva dal suo animo. Poi, repentinamen­ te, i suoi tratti ripresero la loro espressione di flemma abituale, stranamente animata da un lampeggiar d’occhi furtivo e pieno di desiderio. Il suo sguardo si soffermò per qualche secondo sulle forme opulente di Lena, la quale guardando altrove si dava da fare qua e là in cu-

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cina, ancor cercando di riprendere il controllo di se stes­ sa. Il seno turgido, a metà scoperto, si gonfiava per l’ec­ citazione minacciando di far saltare il busto, e le gonne rialzate facevano apparire ancor più ampia la rotondità delle anche. Si sprigionava dalla donna una forza irre­ sistibile e invincibile contro la quale Thiel era impoten­ te a lottare. Fina e leggera come una ragnatela, eppur salda come una rete di ferro, essa lo avviluppava, incatenandolo, sopraffacendolo, fiaccandolo. In quello stato d’animo gli sarebbe stato impossibile rivolgerle la parola; e ancor meno dirle parole dure. Perciò il piccolo Tobia che in­ zuppato di lacrime e pieno di angoscia se ne stava ran­ nicchiato in un canto, vide il babbo togliere il pane dal­ la credenza, mostrarlo a mo’ di spiegazione alla mamma e andarsene poi con un breve e distratto cenno del capo, senza neppur più rivolgergli un’occhiata.

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Benché avesse ripercorso in tutta fretta il cammino che lo separava dal suo posto di lavoro nella solitudine del bosco, tuttavia Thiel non vi giunse che quindici minuti dopo l’ora regolamentare. Il coadiutore col quale alternava il servizio, un pove­ retto che i bruschi cambiamenti di temperatura, inevita­ bili in quel mestiere, avevano reso tisico, l’attendeva già pronto ad andarsene sulla piccola piattaforma sabbiosa del castello, il cui grosso numero, nero sul bianco, ri­ saltava da lontano fra i tronchi degli alberi. I due uomini si strinsero la mano, scambiarono qual­

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che breve informazione, poi si separarono. L’uno di­ sparve nell’interno della casetta e l’altro attraversò la strada ferrata per avviarsi nella direzione opposta a quella da cui era giunto Thiel. I suoi convulsi colpi di tosse, dapprima vicini, si perdettero poi oltre gli al­ beri, e con essi si estinse anche l'unico rumore umano di quella vasta solitudine. Thiel, come al solito, cominciò col disporre a modo suo per la notte l’angusta quadrata gabbia di pietra della casa cantoniera. Lo fece macchi­ nalmente, con l’animo ancora sotto l’impressione dei fatti recenti. Depose il pezzo di pane sulla piccola ta­ vola di legno dipinto di scuro accostata a una delle stret­ te ed alte finestrelle laterali da cui si poteva comodamen­ te sorvegliare la strada. Poi accese il fuoco nella stufetta arrugginita e vi pose a scaldare una pentola piena d’ac­ qua. Dopo aver messo in ordine i suoi arnesi, paletta, cacciavite, vanga, eccetera, si mise a pulire la lanterna e la riempì di petrolio. Aveva appena terminato quando il campanello elettri­ co annunciò con tre colpi striduli e ripetuti che il treno proveniente da Breslavia aveva lasciato l’ultima stazione. Senza mostrare la minima fretta, egli rimase ancora un bel po’ dentro la casa, e poi, tenendo in mano la ban­ diera e la giberna, se ne uscì lemme lemme, dirigendosi quindi a passo lento e strascicato lungo il sentierino sabbioso verso il passaggio a livello, distante una ven­ tina di passi. Benché quella strada fosse raramente fre­ quentata, tuttavia Thiel ne chiudeva e ne apriva coscien­ ziosamente le sbarre prima e dopo ogni arrivo di treno. Terminato così il suo lavoro, attese il convoglio appog­ giato alla sbarra bianca e nera. La ferrovia tagliava, a destra e a sinistra, in linea retta la verde foresta stermina­ ta. Da un lato e dall’altro le masse folte degli alberi tor­ navano a riaddensarsi, lasciando libero nel mezzo uno

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stretto corridoio occupato dalla scarpata bruno-rossastra sparsa di ghiaia. I binari neri e paralleli formavano in­ sieme come la maglia di un’immensa rete di ferro, i cui fili sottili si riunivano, all’estremo sud e all’estremo nord, in un punto dell’orizzonte. Il vento s’era levato, soffiava a ondate lungo l’orlo del bosco e si perdeva lontano. I pali del telegrafo, pian­ tati lungo la linea, mandavano accordi ronzanti, e sui fili, che abbracciavano un palo dopo l’altro come in una gigantesca tela di ragno, posavano in fitte schiere stor­ mi di uccellini cinguettanti. Un picchio volò squittendo sopra la testa di Thiel, senza ch’egli lo degnasse di uno sguardo. Il sole, che in quel momento pendeva sotto l’orlo d’una densa massa di nubi, in procinto d’immergersi nel mare verde cupo delle cime degli alberi, versava torren­ ti di porpora sulla foresta. I colonnati dei pini oltre la ferrovia si accesero come dal di dentro e brillarono come ferro incandescente. Anche le rotaie cominciarono a fiammeggiare come ser­ pi di fuoco, ma furono le prime ad estinguersi. Poi, len­ tamente, la vampa salì da terra verso l’alto, lasciando pri­ ma i fusti dei pini e poi la maggior parte delle loro chiome in una fredda luce di decomposizione, sfioran­ do infine con un bagliore rossastro non più che l’orlo estremo delle loro cime. Muto e solenne si compì il su­ blime spettacolo. Il cantoniere sostava ancora immobile, accanto alla sbarra. Finalmente fece un passo avanti. Un punto nero si profilò all’orizzonte, laggiù dove i bina­ ri si congiungevano, s’ingrandì a poco a poco, e tuttavia sembrava immoto; indi, bruscamente, si mosse e apparve più vicino. Le rotaie vibravano e ronzavano: lo strepito ritmico, il fragore sordo aumentarono sempre più, fino a somigliare alla carica di un reggimento di cavalleria. L'ansito e il mugghio si gonfiarono a ondate nell’a­

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ria. Poi tutto fu improvvisamente sconvolto. Risuonò un fracasso di tempesta furibonda, i binari si curvarono, la terra tremò. Una ventata violenta, un nugolo di pol­ vere, di vapore e di fumo, e il mostro nero e sbuffante era passato. Come si era ingrandito, così il rumore si estinse gradatamente, il vapore si dissipò; il treno, ri­ divenuto un punto nero, disparve lontano, e l’antico sacro silenzio ricadde sulla foresta. — Minna! — mormorò il cantoniere, come sveglian­ dosi da un sogno; e ritornò verso il casello. Dopo es­ sersi preparato un caffè lungo si sedette e, prendendone di quando in quando una.sorsata, fissava assente un pez­ zo di vecchio giornale raccolto lungo la strada ferrata. A poco a poco si sentì preso da una strana inquie­ tudine. Egli ne accusò il calore intenso che il fornello spandeva nella stanzetta. Si tolse allora la giubba e il panciotto, ma non trovando sollievo si alzò, prese una vanga dall’angolo, e si avviò al campo avuto in dono. Era una striscia angusta di terreno sabbioso folto di erbacce; sui due alberi da frutto la fioritura novella in pieno rigoglio stendeva come una spuma bianchissima. Thiel si calmò, penetrato da un dolce benessere. — Mettiamoci dunque al lavoro! — disse. La vanga s’affondava crocchiando nella terra e le zol­ le umide ricadevano con un rumore sordo in frantumi. Egli lavorò per qualche tempo senza interrompersi, ma poi ad un tratto s’arrestò, e scuotendo di qua e di là il capo con aria pensosa, concluse a voce alta e di­ stinta: — No, no, questo non va! — E ancora: — No, no, questo non va. Era stato repentinamente colpito dal pensiero che or­ mai Lena sarebbe venuta spesso là per occuparsi del campicello, e che ciò gli avrebbe pericolosamente scon­ volto l’esistenza fino allora condotta. Al piacere che gli

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aveva cagionato la proprietà del campo successe brusca­ mente nel suo animo una specie di avversione. In fret­ ta, come se fosse stato sul punto di commettere una cat­ tiva azione, estrasse la vanga dal suolo e la riportò nel­ la baracca. Quivi giunto ricadde nei suoi cupi pensieri. Non sapeva bene il perché, ma, per quanto cercasse di rassegnarvisi, l’idea che Lena avrebbe passato giorni interi vicino a lui, durante il suo servizio, gli diveniva sempre più insopportabile. Gli sembrava di dover di­ fendere qualcosa di prezioso, come se volessero toccargli ciò ch’egli aveva di più sacro. Involontariamente i suoi muscoli si tesero e un riso secco, come di sfida, gli sfug­ gì dalle labbra. Spaventato dall’eco della sua stessa ri­ sata, levò gli occhi, e perdette il filo dei suoi pensieri; quando l’ebbe ritrovato, tornò a immergersi nelle con­ siderazioni di prima. Ed ecco : fu come se uno spesso velo nero si lace­ rasse in due, e i suoi occhi annebbiati acquistassero lu­ cidità. Provava l’impressione di uscire da un sonno si­ mile alla morte, un sonno che era durato due anni, e, scrollando la testa con aria incredula, considerò tutto ciò che durante quel tempo poteva aver commesso di spaventoso. Il martirio del figlio maggiore, che gli av­ venimenti delle ultime ore avevano inciso nel suo ani­ mo, gli apparve chiaro nella coscienza. Preso da pietà e pentimento, provò nel tempo stesso una vergogna pro­ fonda per esser vissuto in quella vile indifferenza, senza curarsi di quella povera creaturina, anzi, senza neppure avere il coraggio di confessare a se stesso quanto Tobia dovesse soffrire. Mentre passava così in rassegna tormentosa tutti i suoi peccati di omissione, lo colse un pesante sfinimen­ to e si addormentò, il dorso curvo, la fronte nella mano posata sul tavolo. Era rimasto così per qualche tempo, quando d’un

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tratto con voce strozzata si mise a chiamare: — Min­ na!... Minna!... Gli riempiva le orecchie un rombo come di smisurate masse d’acqua. L’oscurità l’avvolgeva tutto. Spalancò gli occhi e si destò. Le membra gli tremavano, un sudor freddo gli usciva da tutti i pori, il battito del polso era irregolare, e il viso bagnato di lacrime. Era buio pesto. Volle gettare un’occhiata alla porta, ma non sapeva da qual parte volgersi. Si alzò vacillan­ do. La sua angoscia persisteva. Di fuori, la foresta scro­ sciava con un rumore di risacca. Il vento lanciava gran­ dine e pioggia contro le finestre della cantoniera. Thiel brancolò incerto. Per qualche istante ebbe l’impressione di annegare... Poi, d’improvviso, divampò una luce blua­ stra, accecante, come se gocce di luce sovrannaturale sprofondassero nella buia atmosfera terrestre per venirne subito estinte. Bastò quel momento per farlo tornare in sé. Stese la mano alla lanterna e riuscì ad afferrarla. Proprio in quell'attimo si destò il tuono sull’orlo estremo del cielo notturno: dapprima con un brontolio sordo e contenu­ to, indi più vicino, srotolandosi in onde brevi e rotte, finché, in un crescendo di colpi fragorosi, si scaricò in pieno, inondando, rintronando, scuotendo e rumoreg­ giando. I vetri tintinnarono. La terra tremò. Thiel aveva acceso la luce. Il suo primo sguardo, riac­ quistata ch’ebbe la padronanza di se stesso, andò al­ l'orologio: mancavano soltanto cinque minuti all’arrivo ilei direttissimo. Credendo di aver mancato il segnale, corse al passaggio a livello col passo più affrettato che potevano consentirgli la tempesta e l’oscurità. Stava an­ cora chiudendolo quando il campanello si mise a suo­ nare. Il vento ne lacerò il suono disperdendolo in tutte le direzioni. I pini si piegavano, urtando i loro rami

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gli uni contro gli altri, con un fruscio lugubre. Per un momento si vide la luna, simile a una coppa d’oro pal­ lido, in mezzo alle nuvole, e la sua luce lasciava scor­ gere l’imperversare del vento tra le chiome nere degli alberi. I festoni di foglie delle betulle lungo la ferro­ via sventolavanoe schioccavano come code di fantastici destrieri e, sotto, le rotaie, lucenti per l’umidità, riflet­ tevano a chiazze la luce pallida della luna. Thiel si tolse il berretto: la pioggia gli fece bene: gli colò sul viso confondendosi con le lacrime. Il suo cervello era in tempesta. Ricordi incerti di ciò che ave­ va veduto in sogno lottavano nella sua mente. Gli era parso che Tobia venisse maltrattato da qualcuno, e ciò in una maniera così orribile che al solo pensarci il cuore gli si fermava. Di un’altra apparizione aveva un ricor­ do più preciso: aveva visto la sua cara defunta giungere di lontano sopra una rotaia, e gli era parsa assai mal­ ridotta, con stracci addosso al posto dei vestiti. Era pas­ sata davanti al casello di Thiel senza voltarsi; infine (e qui il ricordo si confondeva) per qualche motivo non aveva più potuto avanzare che con grande fatica, anzi era parecchie volte caduta... Thiel continuò a pensarci, sinché capì che ella fug­ giva... Senza dubbio, ella fuggiva: se no, perché avreb­ be rivolto indietro quei suoi sguardi pieni di spavento, perché avrebbe continuato a trascinarsi quando i piedi si rifiutavano quasi di sostenerla? Ah, quelle terribili occhiate ! Ma c’era qualcosa che lei portava con sé avvolto in panni: qualcosa d’inerte, di pallido e d’insanguinato, e il modo con cui lei vi fissava sopra gli occhi gli ricor­ dava scene del passato. Pensò alla sua Minna morente, all’espressione d’in­ tenso dolore, d’indicibile strazio con la quale contem­ plava ininterrottamente la creaturina appena nata che

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stava per abbandonare : quell’espressione che Thiel non aveva mai dimenticato, come non dimenticava di avere un padre e una madre. Dove era andata? Thiel non lo sapeva: ma era chia­ ro ch’ella l’aveva lasciato, senza badare a lui, si era trascinata via, sempre più lontano, nella tempesta e nel­ la notte. Egli aveva allora chiamato: « Minna! Minna! ». E così si era svegliato. Due occhi rossi e rotondi foravano ora l’oscurità co­ me quelli di un gigante mostruoso. Un riflesso rossastro li precedeva, trasformando le gocce di pioggia in gocce di sangue. Si sarebbe detto che una pioggia di sangue cadesse dal cielo. Thiel provò orrore e un’angoscia sempre più grande a misura che il treno si avvicinava. Confondendo il so­ gno con la realtà, vedeva sempre la donna errare sui binari. Involontariamente la sua mano cercò la giberna come se avesse l’intenzione di arrestare il treno che si avvicinava a tutta velocità. Ma ormai era troppo tardi, per fortuna. Già le luci gli sfavillavano davanti agli occhi e il treno passò oltre strepitando. Per tutto il resto della notte Thiel non potè trovar pace. Lo tormentava il desiderio di essere a casa, la no­ stalgia di rivedere Tobiuccio : gli pareva di essersene separato da anni. Sempre più in ansia per la salute del piccino, parecchie volte fu tentato di abbandonare il posto. Per far passare più presto il tempo decise di ispe­ zionare, non appena albeggiasse, il tratto di strada di cui aveva la sorveglianza. Con una mazza nella sinistra e una lunga chiave inglese nella destra, s’incamminò nella luce grigia del mattino marciando sopra una rotaia. Qua e là stringeva un bullone, oppure batteva su una delle rotonde sbarre di ferro che collegavano insieme le rotaie.

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La pioggia e il vento erano cessati. Fra i brevi in­ tervalli delle nuvole si scorgevano qua e là sprazzi di cielo d’un azzurro pallido. Il monotono risuonar dei suoi passi sul duro metallo, unito allo stormir sonnolento degli alberi sgocciolanti, lo acquietarono a poco a poco. Alle sei del mattino vennero a sostituirlo, ed egli prese senza indugio la via di casa. Era una radiosa mattina di domenica. Le nuvole si erano nel frattempo dissipate sparendo oltre la linea dell’orizzonte. Il sole sorgeva, scintillando come un’enor­ me gemma rosso-sangue, gettando un tripudio di luce sulla foresta. I raggi del sole scoccavano in fasci sottili frammezzo all’intrico dei tronchi, qui sfumando d’un color di brace un campo di tenere felci dalle volute simili a pizzi finis­ simi, là mutando in rosso corallo i licheni grigio-argen­ tei del sottobosco. Una rugiada di fuoco colava dalle cime degli alberi, dai tronchi e dai fili d’erba; un diluvio di luce pareva versarsi sulla terra. L’aria era piena d’una freschezza che penetrava il cuore, e anche nell’animo di Thiel le im­ magini della notte a poco a poco impallidirono. E queste scomparvero completamente quando, entrato in casa, egli vide nel letto baciato dal sole il piccolo Tobia col visetto più colorito del solito. Nel corso della giornata parve più volte a Lena di notare nel marito qualcosa di anormale: per esempio in chiesa, invece di guardare nel suo libro di preghiere, egli non faceva che esaminare lei di nascosto; poi, nel pomeriggio, quando Tobia prese in braccio il piccolo per portarlo fuori come al solito per un po’ d’aria, Thiel glielo tolse di braccio e lo depose senza dire una parola

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in grembo a lei. Ma tranne questo ella non notò nulla d’insolito nel contegno del marito. Thiel che per tutto un giorno non era riuscito a co­ ricarsi andò a letto verso le nove, poiché l’indomani avrebbe cominciato a far servizio di giorno. Proprio mentre stava per prender sonno, la moglie gli annunciò che la mattina appresso l'avrebbe accompagnato nel bo­ sco per vangare il campicello e piantarvi le patate. Egli trasalì all’annuncio; era ormai affatto sveglio, ma continuò a tenere gli occhi chiusi. — Ci si deve pensare per tempo — seguitava Lena — se vogliamo raccogliere ancora qualcosa. — E ag­ giunse che avrebbe condotto con sé anche i due bam­ bini, giacché presumeva ci volesse tutta la giornata. Thiel mormorò qualche parola indistinta, cui Lena non pre­ stò attenzione. Ella volgeva le spalle al marito e, alla luce d’una candela, si sfibbiava il busto per lasciar ca­ dere la sottana. D’un tratto si voltò, senza neppure sapere perché, e osservò il marito che, levato a metà, le mani sulla spon­ da del letto, la guardava fisso, con gli occhi ardenti nel volto terreo e sfigurato dalla passione. — Thiel ! — gridò, mezzo stizzita e mezzo spaven­ tata. Allora egli, come un sonnambulo che si senta chia­ mato per nome, uscì dal suo torpore, mormorò confu­ samente qualche parola e, rigettandosi sui guanciali, si tirò le coperte fin sopra le orecchie. La mattina dopo Lena fu la prima a levarsi dal letto. Senza far rumore preparò tutto l’occorrente per la gita. Pose il suo piccolino nella carrozzina, poi destò Tobia e l’aiutò a vestirsi. Quando apprese dove s’andava, il fanciullo ebbe un sorriso di contentezza. Quando tutto fu pronto, e il caffè fumava già sulla tavola, Thiel si destò. La sua prima impressione alla vista di quei pre-

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parativi fu di malessere; avrebbe voluto far qualche obiezione, ma non sapeva da dove cominciare. E quali motivi addurre, che riuscissero plausibili a Lena? Poi, il visino sempre più raggiante di Tobia lo convinse a poco a poco, ed egli non fu più in grado di sollevare la minima obiezione al progetto della moglie, tanto era visibile il piacere che il piccolo si riprometteva da quel­ la gita. Nondimeno lungo il cammino attraverso la fo­ resta Thiel restò inquieto, mentre spingeva a fatica sulla sabbia fonda la carrozzella tutta ricoperta dei fiori rac­ colti da Tobia. Il fanciullo era insolitamente allegro. Col suo berret­ tino di felpa bruna in testa saltellava in mezzo alle felci cercando goffamente di acchiappare le trasparenti libel­ lule che svolazzavano intorno. Appena furono giunti, Lena volle subito esaminare il campicello. Gettò il sacchetto di pezzi di patate da seminare sul limite erboso di un boschetto di betulle, poi s'inginocchiò e fece scorrere un po’ di quella sab­ bia scura fra le dita callose. Thiel la osservava ansioso : — Ebbene, come ti pare ? — Buona come quella in riva alla Sprea. Il cantoniere si sentì sollevato. Aveva temuto ch’ella non ne fosse soddisfatta. Rassicurato, si grattò la barba malrasata. Dopo aver consumato in fretta un grosso pezzo di pane, la donna si liberò del fazzoletto e della giacca e si mise a scavare con la rapidità e la precisione d’una macchina. A intervalli regolari si drizzava e riprendeva fiato re­ spirando profondamente. Ma durava qualche attimo sol­ tanto, salvo quando occorreva calmare i lamenti del bambino allattandolo: bisogna ch’ella assolveva alla le­ sta, col petto ansante rigato di gocce di sudore. — Io vado a ispezionare la linea. Conduco con me

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Tobia — le gridò Thiel dopo un poco dalla piattafor­ ma della casa cantoniera. — Ma non fare bestialità! — gridò la donna. —Chi rimarrà a custodia del bambino?... Vien qua, tu! — soggiunse poi a voce ancor più alta, vedendo che il marito, senza aver l’aria di ascoltarla, se ne andava col piccolo Tobia. Lena ebbe dapprima una gran voglia di correr loro dietro; ma il timore di perder tempo la trattenne. Thiel continuò la sua strada con Tobia. Il fanciullo era non poco eccitato; tutto gli riusciva nuovo e strano. Non capiva a che cosa servissero quelle esili, nere rotaie ri­ scaldate dai raggi del sole, e continuamente rivolgeva al padre domande assurde. Soprattutto lo stupiva il ri­ suonare dei pali telegrafici. Thiel conosceva il suono di ciascun palo della sua zona, tanto che ad occhi chiusi avrebbe saputo sempre dire in che punto della linea esattamente si trovassé. Spesso si arrestava, tenendo Tobia per mano, ad ascol­ tare i suoni meravigliosi che giungevano dal bosco come corali sonori dall’interno d’una chiesa. Il palo all’estremità sud della sua zona aveva ad esempio un tono par­ ticolarmente pieno ed armonioso. C’era un miscuglio di suoni nel suo interno, che echeggiavano tutti insieme senz’interruzione, e Tobia girava intorno al trave cor­ roso dal tempo in cerca dell’apertura dalla quale poter, com’egli credeva, scoprire l’autore di quella graziosa melodia. Il cantoniere provava un’emozione solenne, co­ me se si fosse trovato in chiesa. Per di più arrivò a di­ stinguere a un certo punto fra quei suoni una voce che gli ricordava quella della prima moglie. Immaginò fosse un coro di anime defunte cui si mischiasse la voce di Minna; questo pensiero risvegliò in lui un rimpianto che lo commosse fino alle lacrime. Tobia gli chiese alcuni fiori che si trovavano un po’

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discosto sotto le betulle e, come faceva sempre, Thiel 10 accontentò. Si sarebbe detto che pezzi di cielo fossero caduti al suolo, tanto meravigliosamente fitti lo coprivano i fio­ rellini azzurri. Simili a fiammelle multicolori, le farfalle tacitamente svolazzavano fra i tronchi bianchi e lucenti delle betulle, mentre un fremito lieve passava tra gli ammassi di foglie delle corone di un tenero color verde. Tobia strappava fiori e suo padre lo guardava pen­ sieroso. Ogni tanto quest’ultimo alzava gli occhi a cer­ care nelle brecce che si aprivano tra il fogliame il cielo, che accoglieva la luce d’oro del sole come un’enorme coppa di cristallo azzurro immacolato. — Babbo, è il buon Dio, questo? — chiese improv­ visamente il fanciullo, indicando uno scoiattolo bruno che raspando leggermente guizzava sul fusto di un pino. — Che pazzerello! — fu tutto ciò che Thiel potè rispondere, mentre pezzetti di corteccia cadevano lungo 11 tronco ai suoi piedi. La donna vangava ancora quando Thiel e Tobia ritor­ narono. La metà del campicello era già stata dissodata. I treni si susseguivano a brevi intervalli e ogni volta Tobia li guardava passare a bocca aperta. Perfino Lena si divertiva a vedere le sue facce. A mezzogiorno nella baracca mangiarono delle patate e un resto di arrosto di maiale freddo. Lena era allegra e Thiel sembrava accettasse di buon grado l’inevitabile. Durante il pasto intrattenne la moglie parlandole del suo lavoro; le chiese ad esempio se avrebbe mai imma­ ginato che in una sola rotaia si trovassero ben quaran­ tasei bulloni; e altre cose di questo genere. In mattinata Lena aveva finito di dissodare la terra; al pomeriggio bisognava piantare le patate. Ella insi­ stette affinché Tobia stavolta rimanesse a custodia del bambino, e lo prese con sé.

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— Stai attenta... — disse Thiel, preso da un’improv­ visa inquietudine. — Stai attenta che non s’avvicini trop­ po ai binari ! Lena rispose con una scrollata di spalle.

Il trillo del campanello annunciò il direttissimo della Slesia e Thiel raggiunse il suo posto. Era appena giunto al passaggio a livello che già ne udiva il fragore avvi­ cinarsi. Il treno comparve in vista, si avvicinò; a ondate in­ numerevoli e precipitose il vapore sbuffava dal fumaiolo nero della vaporiera. Ed ecco: uno, due, tre getti d’un bianco latteo salirono diritti al cielo, e subito dopo il fischio della locomotiva lacerò l’aria, ripetuto tre volte; breve, acuto, angoscioso. Mettono il freno, si disse Thiel. Ma perché? E di nuovo risuonarono quei segnali d’al­ larme, striduli e pieni d’echi, stavolta in lunga serie inin­ terrotta. Thiel avanzò d’un passo per guardare sulla strada fer­ rata; istintivamente trasse dal fodero la bandiera rossa e la tese diritto davanti a sé, sopra i binari. Gesù!... era stato cieco? Gesù!... Gesù, Gesù!... che cos’era quello... là... là, in mezzo alle rotaie?... — Alt! — gridò con tutta la forza dei suoi polmoni. Troppo tardi! Una cosa scura era rotolata sotto il treno e le ruote la gettavano di qua e di là come una palla di gomma. Ancora pochi attimi, e si udì il cigolio stridente dei freni. Il treno si era arrestato. La ferrovia solitaria si animò. Il macchinista e il con­ duttore corsero sulla ghiaia verso la coda del convoglio. Da tutti i finestrini occhieggiarono visi curiosi; poi i passeggeri vi si accalcarono in massa spenzolandosi fuori. Thiel ansimava. Fu costretto a tenersi per non crol­ lare a terra come un toro abbattuto. Ecco che gli fanno cenno... “No!”

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Nel punto in cui è avvenuto l'incidente un grido rom­ pe l’aria, seguito da un urlo che pare uscito dalle fauci di una belva. Chi è? Lena? Non è la voce di Lena, eppure... Un uomo corre verso di lui lungo la linea. — Cantoniere! — Che accade? — Una disgrazia!... — Il messo indietreggia spaven­ tato perché gli occhi del cantoniere hanno uno sguardo strano. Ha il berretto di traverso, e i cappelli rossi paio­ no rizzarglisi in capo. — Vive ancora, forse si potrà salvare. Solo un rantolo si sprigiona in risposta dalle labbra di Thiel. — Venga! Presto, presto! Thiel si riscuote con uno sforzo sovrumano; le sue membra infiacchite s'irrigidiscono; riesce a tirarsi su, ma il suo viso è ebete, senza vita. Egli segue l’uomo di corsa, senza vedere i volti pal­ lidi e atterriti dei viaggiatori affacciati ai finestrini. Ecco una giovane donna, un commesso viaggiatore in fez, una coppietta evidentemente in viaggio di nozze. Ma che gliene importa ? Non si è mai curato, lui, del contenuto di quelle fragorose carcasse... Le sue orecchie sono piene degli urli di Lena; innumerevoli punti gialli, simili a lucciole, gli ballano davanti agli occhi. A un tratto si ritrae, terrorizzato. In mezzo alla danza delle lucciole ha visto qualcosa di pallido, d’inerte, d’insanguinato: una fronte devastata da contusioni violacee, due labbra smorte, sulle quali sgocciola sangue nero... È lui. Thiel non parla. Il suo volto è terreo. Sorride come fosse incosciente. Infine si curva; sente sulle braccia il peso di quelle gracili membra molli, senza vita; le av­ volge nella rossa bandiera. E va.

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Dove? — Dal dottore, dal dottore della ferrovia! — si gri­ da da ogni parte. — Lo prendiamo con noi — esclama l’addetto al carro bagagli, e improvvisa nel suo vagone un giaciglio con giacche e libri. — Dunque? Thiel non dà segno di voler cedere il corpicino. Cer­ cano di persuaderlo. Invano. Allora quello sporge una barella fuori dal bagagliaio e ordina a un sottoposto di rimanere vicino al padre. Il tempo stringe. Il capotreno fischia. Delle monete piovono dai finestrini. Lena si dibatte come folle. — Povera donna ! — si esclama nelle vetture. — Povera madre! Il capotreno fischia di nuovo, una volta. La locomo­ tiva lancia bianchi getti di vapore stridulo e tende i suoi muscoli d’acciaio. Qualche secondo, poi il rapido s’av­ venta di nuovo, a velocità raddoppiata, col suo pennac­ chio di fumo al vento. Il cantoniere cambia idea e depone il bambino mo­ ribondo sulla barella. Ed eccolo in tutta la sua miseria, il povero corpicino rachitico. Un rantolo lungo e pro­ fondo solleva di quando in quando il petto ossuto che si vede a nudo sotto la camicia a brandelli. Le membra spezzate, disarticolate, prendono posizioni bizzarre; un calcagno è stravolto in avanti. Le braccia penzolano fuo­ ri della barella. Lena geme ininterrottamente. Ogni traccia di arro­ ganza è scomparsa dal suo volto. Non fa che ripetere una storia, sempre la stessa: una storia che la scagiona d’ogni colpa dell’accaduto. Thiel sembra non curarla. I suoi occhi sono fissi sul bimbo con un’espressione di angoscia disperata. Intorno si è fatto silenzio, un silenzio mortale. Le rotaie riposano nere e infuocate sulla ghiaia accecante.

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L’ora meridiana ha fatto tacere il vento, e la foresta è immota, come di pietra. Gli uomini si consultano a voce bassa. Per arrivare al più presto a Friedrichshagen bisogna tornare indietro fino alla prossima fermata in direzione di Breslavia, poi­ ché il prossimo treno, un accelerato, non ferma alla stazione utile. Thiel sembra riflettere se gli convenga accompagnar­ li. Ma per il momento non c’è nessuno che possa so­ stituirlo. Con un gesto muto ordina a Lena di sollevare la barella, e lei non osa rifiutarsi, benché l’idea di la­ sciare solo il neonato la inquieti assai. La donna e l'estraneo portano la barella. Thiel li accompagna sino al limite della sua zona, poi si ferma e li segue con gli occhi a lungo. All’improvviso si colpisce la fronte col palmo, così violentemente che il colpo riecheggia lon­ tano. In quel modo voleva svegliarsi, “perché dev’essere un sogno, come quello di ieri” diceva a se stesso. In­ vano. Più barcollando che correndo raggiunse la canto­ niera. Appena entrato, cadde a terra bocconi. Il suo berretto rotolò in un angolo, gli cadde di tasca l’oro­ logio, già oggetto di tanti riguardi, la calotta saltò via, il vetro si ruppe. Era come se una mano di ferro lo tenesse alla nuca, così saldamente da impedirgli di muo­ versi, nonostante egli tentasse di liberarsene gemendo e ansimando. Aveva la fronte diaccia, gli occhi aridi e la gola in fiamme. Il trillo del campanello elettrico lo destò. Sotto l’im­ pressione di quei tre colpi ripetuti si allentò l’accesso di parossismo. Thiel riuscì ad alzarsi e ad eseguire il suo compito. I piedi gli pesavano come piombo, e la strada ferrata gli girava intorno come il raggio d’una ruota enorme il cui perno fosse la sua testa; tuttavia riprese forza bastante a tenersi in piedi per qualche tempo.

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S’avvicinava il treno viaggiatori su cui doveva trovarsi Tobia. Più il treno avanzava, più le immagini si confon­ devano dinanzi agli occhi del cantoniere. Alla fine non vide più che il bimbo sfracellato, con la bocca sangui­ nante. Poi svenne. Riprendendo i sensi dopo qualche tempo, si ritrovò vi­ cino alla sbarra, steso sulla sabbia calda. Si alzò, scosse i granelli di sabbia dagli abiti, sputò quelli che aveva in bocca. Si sentì la testa più libera e potè coordinare i suoi pensieri. Giunto alla casa cantoniera, raccattò subito da terra l’o­ rologio e lo posò sulla tavola. Nonostante il colpo non si era fermato. Per due ore Thiel contò i minuti e i se­ condi cercando d’immaginare ciò che intanto accadeva a Tobia. Lena arrivava con lui a destinazione; eccola da­ vanti al medico. Il medico esaminava il fanciullo, lo ta­ stava e scuoteva il capo. — È grave, molto grave... ma forse, chissà! — Poi lo esaminava più attentamente. — No, — diceva allora — no, è andato. — È andato, è andato — ansimò Thiel; ma poi, driz­ zatosi in tutta la sua statura, gli occhi roteanti fissi al soffitto, strette inconsapevolmente a pugno le mani alzate, con una voce che pareva dover far scoppiare la piccola stanza gridò: — No, bisogna che viva!... Bisogna che viva, ti dico! — E già tornava ad aprire la porta della baracca, da cui entrò la luce rossa del tramonto, e nuo­ vamente corse al passaggio a livello. Lì si fermò un po’, come sbalordito, poi d’un tratto si slanciò a braccia lar­ ghe in mezzo alla strada ferrata, come a fermare qual­ cuno che provenisse dalla direzione del treno viaggia­ tori. I suoi occhi sbarrati erano senza sguardo come quelli d’un cieco. Retrocedendo come per dare il passo a un fantasma, pronunciava ininterrottamente tra i denti parole quasi

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incomprensibili: — Senti... fermati, dunque!... sfammi a sentire... fermati!... restituiscilo!... è pieno di lividi, sì... va bene, coprirò anche lei di lividure... mi senti? Fermati... restituiscimelo! Parve che quel qualcuno gli fosse passato accanto e oltre, perché egli si volse e si mosse, come per seguirlo, nella direzione opposta a quella di prima. — Minna! — e la sua voce si fece piagnucolosa co­ me quella d’un bambino. — Minna, mi senti?... ren­ dimelo... io voglio... — Brancolò a vuoto come per ar­ restare il fantasma. — Cara... ma sì... io la.... io copri­ rò di lividi anche lei... io abbatterò anche lei... con la scure, vedi?... con la scure di cucina la colpirò, e allo­ ra lei creperà. E allora... sì, con la scure... con la scure di cucina, sì... sangue nero! — Aveva la bocca coperta di schiuma. Gli occhi vitrei si muovevano ininterrotta­ mente. La dolce brezza della sera carezzava pian piano, in­ differente, la foresta, e cirri color di fiamma e di rosa si libravano nel cielo ad occidente. Dopo aver così inseguito per un centinaio di passi la sua visione Thiel si arrestò scoraggiato e, con un’an­ goscia disperata nel volto, protese le braccia imploran­ do, scongiurando. Aguzzò gli occhi, ombreggiandoli con la mano, come per poter scorgere ancora una volta il fantasma in lontananza. Poi la mano ricadde e l’espres­ sione ansiosa del viso si trasformò in ottusa indifferen­ za; si volse indietro e ripercorse il cammino fatto. Il sole lanciò i suoi ultimi raggi sul bosco e poi si spense. I tronchi dei pini si ergevano, come pallidi sche­ letri imputriditi, contro le cime degli alberi che su di loro gravavano come strati di muffa nerastra. Il silenzio era rotto dal martellare d’un picchio. Una nuvoletta rosata si attardava sola sola nel cielo freddo color dell’acciaio. La brezza divenne umida e fredda, e Thiel rabbrividì.

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Tutto gli pareva nuovo e strano; non sapeva dove cam­ minava né che cosa avesse intorno. Vide uno scoiattolo guizzare sulla strada ferrata e si mise a riflettere. Senza sapere il perché si sentì costretto a pensare al buon Dio. ■— Il buon Dio saltella sulla strada!... Il buon Dio sal­ tella sulla strada!... — ripetè parecchie volte; come per ritrovar qualcosa che a quella frase si riferiva. Poi tac­ que, e un barlume di ragione si fece strada nel suo cer­ vello. — Dio mio ! Ma io impazzisco ! — Obliando tutto, si mise a lottare contro quel nuovo nemico. Cercò di mettere ordine nei suoi pensieri, ma invano! Essi vaga­ vano e ondeggiavano continuamente. Si sorprese a pensare le cose più pazze, e rabbrividì tutto nel sentirsi impo­ tente a contrastarvi il passo. Dal vicino boschetto di betulle gli pervennero grida infantili. Fu il segnale della follia. Quasi contro il pro­ prio volere dovette accorrere là, e trovò il piccolo, del quale nessuno si era più curato, che sgambettava e pian­ geva scoperto nella carrozzina. Che voleva fare Thiel? Che cosa lo aveva spinto lì? Un turbinio di sentimenti e di idee confuse sommerse quelle domande. “Il buon Dio saltella sulla strada!” Ora sapeva che cosa significasse. — Tobia... L’ha ucciso lei, Lena... era affidato a lei... Matrigna infame! — ringhiò, — e il suo vive! — Una nebbia rossa l’avviluppò tutto, attra­ versata da due occhi infantili; si sentì sotto le dita qual­ cosa di tenero, di carnoso. Gli colpì l’orecchio una serie di suoni strozzati e sibilanti, misti a gridi rauchi emessi non sapeva da chi. Poi, nel suo cervello fu come se cadessero gocce di cera bollente, e il parossismo si allentò. Ritornando in sé udì vibrare nell’aria l’eco del campanello d’avviso. Allora comprese ciò che aveva voluto fare: la sua mano si staccò dalla gola del bimbo che si sforzava di

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sottrarsi alla sua presa. Questi riprese fiato, poi si mise a tossire e a gridare. — È vivo ! Dio sia lodato, è vivo ! — Lo lasciò lì e s’affrettò verso il passaggio a livello. Per un lungo tratto sopra la strada ferrata volute di fumo scuro erano ricacciate in basso dal vento. Thiel avvertì dietro di sé l’ansito d’una macchina, come il respiro ineguale e tor­ mentoso d’un gigante ammalato. Un crepuscolo freddo copriva la campagna. Quando il fumo si dissipò, Thiel riconobbe il treno della ghiaia che ritornava coi suoi vagoni vuoti ricon­ ducendo gli operai che avevano lavorato durante il gior­ no sulla strada ferrata. Era un treno con un orario molto elastico, che fer­ mava ogni momento per caricare e scaricare gli operai impegnati in questo o quel tratto della linea. Cominciò a frenare un bel pezzo prima del casello di Thiel. Il silenzio della sera fu rotto per un largo raggio da un cigolio acuto, da uno strepitare e tintinnare prolungato, finché il treno s’arrestò con un unico stridio lungo. Una cinquantina di operai, uomini e donne, occupa­ vano i vagoni. Erano quasi tutti in piedi, alcuni degli uomini a capo scoperto. Il loro atteggiamento era stra­ namente solenne. Quando scorsero il cantoniere, sorse in mezzo a loro un mormorio. I più anziani si tolsero la pipa di tra i denti e la tennero in mano in segno di rispetto. Di quando in quando una donna si voltava per soffiarsi il naso. Il capotreno discese e s’avvicinò a Thiel. Lo videro che gli stringeva gravemente la mano, dopodiché Thiel si diresse, a passi lenti e rigidi, quasi militareschi, verso l’ultimo vagone. Nessuno degli operai osò rivolgergli la parola, ben­ ché tutti lo conoscessero. Intanto dall’ultima vettura veniva calato il piccolo Tobia.

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Morto. Lena scese subito dopo. Il suo volto era livido, con gli occhi segnati da cerchi neri. Thiel non la degnò d’uno sguardo; ma lei rimase sgomenta alla vista del marito. Questi aveva le gote smunte, i peli della barba e delle ciglia incollati, i ca­ pelli - così a lei parve — più grigi. Aveva tracce di lacrime su tutto il volto, e negli occhi una luce incerta, di cui essa ebbe paura. Avevano riportato indietro anche la barella per po­ tervi trasportare il morticino. Per un po’ vi fu un silenzio sinistro. Una profonda, orrenda calma si era impadronita di Thiel. La notte ca­ deva. Un branco di caprioli attraversò la strada ferrata; il maschio sostò fra i binari volgendo intorno curioso il collo flessibile, poi la locomotiva fischiò, ed esso di­ sparve come un lampo insieme ai suoi compagni. Nel momento in cui il treno si mosse, Thiel crollò a terra. Il convoglio si arrestò un’altra volta e gli uomini ten­ nero consiglio sul da farsi. Decisero di lasciare per il momento il morticino nella casa cantoniera e di servirsi della barella per riportare intanto a casa il padre che non accennava a voler riprendere i sensi. Così fu fatto. Due uomini portarono l’uomo svenuto, seguiti da Lena che, singhiozzando ininterrottamente, col volto inondato di lacrime, spingeva sul terreno sabbio­ so la carrozzella col più piccino. La luna pendeva fra i tronchi dei pini sulla piana boscosa come un’enorme palla di porpora incandescente, e quanto più in alto saliva, tanto più pareva farsi pic­ cola e impallidire; infine restò sospesa come una lam­ pada sopra la foresta, versando da tutte le fessure e le brecce tra i rami una luce opaca che dipingeva i volti d’un pallore di morte.

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Il gruppo avanzava di buon passo, ma con precau­ zione, ora tra fitte boscaglie, ora lungo vaste radure cir­ condate da alberi d’alto fusto, dove la luce smorta si raccoglieva come in grandi conche scure. Thiel, svenuto, di tanto in tanto rantolava o comin­ ciava a delirare. Parecchie volte strinse i pugni e ad oc­ chi chiusi tentò di sollevarsi. Costò fatica traghettarlo oltre la Sprea. Si dovette pas­ sare il fiume una seconda volta per trasportare la donna e il piccino. Salendo la piccola altura su cui stava il villaggio, in­ contrarono alcune persone, le quali diffusero ben presto la notizia dell’accaduto. Accorsero tutti, e Lena alla vista dei vicini uscì in nuovi lamenti. A fatica l’infermo fu trasportato su per l’angusta sca­ letta in casa e messo a letto. Poi i due operai ripartirono subito per andare a prendere il cadavere del piccolo To­ bia. Alcune persone, vecchie d anni e d’esperienza, consi­ gliarono a Lena di fare al marito degli impacchi freddi, e lei eseguì le istruzioni con grande zelo e premura. Im­ mergeva le salviette nell’acqua diaccia, e le rinnovava non appena s’eran riscaldate sulla fronte ardente di Thiel, osservandone ansiosamente il respiro che di minuto in minuto le pareva farsi più regolare. Le emozioni della giornata l’avevano esaurita, ed essa decise di dormire un poco; ma non vi riuscì. Ad occhi aperti o ad occhi chiusi non faceva che rivedere mental­ mente le scene delle ultime ore. Il piccino dormiva; con­ tro la sua abitudine, Lena se ne era curata ben poco. Già non era più la stessa donna di prima. Neanche una trac­ cia dell’antica protervia. Sì, quell’infermo dal volto pal­ lido e lucido di sudore, benché addormentato, la domi­ nava.

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Quando una nuvola coprì la luna e la stanza si fece buia, Lena non udì più che il respiro pesante ma uguale di suo marito. Meditò se dovesse accendere il lume, giac­ ché al buio si sentiva a disagio, ma quando volle alzarsi avvertì le membra pesanti come piombo: le palpebre le si chiusero e s’addormentò. Quando, in capo a qualche ora, i due uomini furono di ritorno con la salma del bambino, trovarono la porta di casa spalancata. Stupiti, salirono per la scala alla stan­ za del piano superiore, di cui trovarono l’uscio ugual­ mente aperto. Chiamarono ad alta voce la donna, senza ottenere ri­ sposta. Allora uno di loro accese un fiammifero contro il muro, e la fiammella tremolante rivelò uno spettacolo orribile. — Aiuto ! L’ha ammazzata ! Lena giaceva in un lago di sangue, col viso irricono­ scibile, il cranio spaccato. — Ha ucciso sua moglie! Ha ucciso sua moglie! I due uomini correvano di qua e di là storditi. Ac­ corsero i vicini e uno di loro urtò nella culla. — Mise­ ricordia! — E arretrò, pallido, con gli occhi pieni di orrore. Il piccolo giaceva nella culla con la gola tagliata. Thiel era sparito. Le ricerche, intraprese quella stessa notte, rimasero infruttuose. Ma l’indomani mattina il can­ toniere di servizio Io trovò seduto in mez'zo ai binari, nel punto in cui il piccolo Tobia era stato investito. Egli stringeva fra le braccia il berrettino di felpa bru­ na, e lo accarezzava e lo vezzeggiava come un essere vivo. II compagno gli rivolse alcune domande, ma non ot­ tenne risposta, e si accorse ben presto di avere a che fare con un pazzo. Il cantoniere del posto dì blocco, informato di ciò, chiese soccorso telegraficamente.

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Furono quindi in molti a tentare di persuadere Thiel con le buone ad allontanarsi dai binari; ma invano. Il direttissimo, che passava a quell’ora, dovette fermar­ si, e solo la preponderanza del personale del treno riuscì ad allontanare con la forza dalla strada ferrata il folle, che cominciò subito a infuriare orribilmente. Dovettero legargli i piedi e le mani. Il gendarme nel frattempo sopraggiunto ne sorvegliò il trasporto al car­ cere preventivo di Berlino, donde però fin dal primo giorno Thiel fu trasferito alle sezioni alienati della Cha­ rité. Quando lo consegnarono alla giustizia, teneva an­ cora fra le mani il berrettino bruno e lo sorvegliava te­ neramente, con cura gelosa.

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Titolo originale: DER KETZER VON SOANA

Traduzione di Ervino Pocar Prima edizione: Berlino 1918 Prima edizione italiana: Torino 1945

Per arrivare in cima al monte Generoso il viaggiatore può partire da Mendrisio o prendere a Capolago la fer­ rovia a dentiera o incamminarsi - ed è la via più fati­ cosa - da Bissone per Soana. Tutta la zona appartiene al Ticino, un cantone svizzero con popolazione italiana. A notevole altezza gli alpinisti incontravano non di rado la figura di un capraio con tanto di occhiali, il cui aspetto dava nell’occhio anche per altri particolari. Il viso, nonostante la pelle abbronzata, rivelava l'uomo col­ to. Assomigliava al Giovanni Battista di bronzo, l’opera di Donatello nel Duomo di Siena. Aveva i capelli scuri che gli ricadevano inanellati sulle spalle brune. Era ve­ stito di pelli di capra. Quando un gruppo di forestieri si avvicinava a co­ stui, le guide alpine si mettevano a ridere. E quando poi i turisti lo vedevano, scoppiavano spesso in fragorose e villane risate o in rumorose provocazioni. Vi si crede­ vano autorizzati dalla rarità dello spettacolo. Il pastore non se ne curava, di solito non si voltava nemmeno. In fondo tutte le guide parevano in buoni rapporti con lui. Spesso si arrampicavano fino a lui per discorrere in confidenza. Quando ritornavano e i forestieri chiedeva­ no che razza di santo fosse quello là, per lo più face­ vano i misteriosi finché non lo perdevano di vista. Ma quei viaggiatori la cui curiosità era ancora viva appren­ devano poi che quello aveva una storia oscura e, chia­

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mato volgarmente « l’eretico di Soana », godeva un am­ biguo rispetto misto a superstizioso timore. Quando il curatore di questi fogli, ancora giovane di anni, ebbe più volte la fortuna di passare splendide set­ timane nella bella Soana, gli capitò immancabilmente di salire ogni tanto sul Generoso e di vedere una volta an­ che il così detto eretico di Soana. Ma non dimenticò più l’aspetto dell’uomo. E dopo aver raccolto ogni sorta di notizie contraddittorie sul suo conto, maturò la riso­ luzione di rivederlo, anzi di andare addirittura a trovar­ lo. Il suo proposito fu confortato da uno svizzero tede­ sco, il medico di Soana, il quale gli assicurò che quello stravagante non era restio a ricevere visite di persone colte. Una volta anche lui era andato a trovarlo. — A rigore — disse — dovrei avercela con lui per­ ché mi guasta il mestiere. Ma vive così in alto, così lon­ tano e, grazie al cielo, io vanno a consultare in segreto soltanto quei pochi ai quali poco importa farsi curare dal diavolo. — Il dottore continuò: — La gente, deve sapere, crede che egli abbia fatto un patto col diavolo. L’opinione non è combattuta dal clero, perché è venuta di lì. In origine, dicono, costui fu vittima di una malia, che finì col farlo diventare un malvagio impenitente, un mago infernale. In quanto a me, non ho scoperto in lui né corna né artigli. 11 curatore ricorda ancora molto bene le visite che fece a quello strano tipo. Il primo incontro avvenne in cu­ riose circostanze. Un fatto particolare lo fece apparire fortuito. Infatti il visitatore si trovò in un punto della ripida salita, davanti a una capra pregna che aveva ap­ pena partorito un capretto e, priva di aiuto, stava per darne alla luce un altro. La bestia, abbandonata nel suo travaglio, lo guardava senza timore, quasi aspettasse soc-

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corso da lui, e il grande mistero della nascita in mezzo a queirimponente deserto di rocce gli fecero la più profonda impressione. Egli affrettò il passo argomen­ tando che la capra dovesse appartenere al gregge di quell'originale e desiderando chiamarlo in aiuto. Lo tro­ vò in mezzo alle sue capre e ai bovini, gli spiegò che cosa aveva visto e lo condusse dalla partoriente, dietro alla quale il secondo capretto giaceva già sull’erba, umi­ do e insanguinato. Con la sicurezza di un medico, col pietoso amore del samaritano il proprietario ebbe cura dell’animale. Lasciò trascorrere un po’ di tempo e, preso un neonato sotto ciascun braccio, si avviò lentamente verso casa, seguito dalla madre che quasi trascinava per terra le pesanti pop­ pe. Il visitatore non solo si ebbe i più amichevoli rin­ graziamenti, ma con garbo irresistibile fu anche invitato ad accompagnare il capraio. Sull’alpe che apparteneva a lui l’originale aveva eret­ to varie costruzioni. Una di queste, vista dall’esterno, somigliava a un informe mucchio di pietre. Dentro con­ teneva stalle asciutte e calde, dove capra e capretti tro­ varono ricovero, mentre il visitatore veniva fatto salire un po’ più in alto, su una terrazza coperta da una vite, dove sorgeva un cubo scialbato, appoggiato alla parete del Generoso. Poco lontano dalla porticina sgorgava dal monte un getto d’acqua, grosso un braccio, il quale em­ piva un’enorme vasca di pietra, scalpellata dalla roccia. Accanto alla vasca una porta rinforzata con bandelle di ferro chiudeva una caverna che, come si scoprì poco do­ po, era adibita a cantina. Da quel posto che, visto dalla valle, pareva sospeso a un’altezza inaccessibile, si godeva una vista stupenda, della quale però l’autore non intende fare argomento del suo discorso. Certo, allora, quando la vide la prima

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volta, passò da un muto stupore alle più alte esclama­ zioni di entusiasmo e ricadde poi nel suo muto stupore. Il suo ospite che proprio in quel momento usciva dall’a­ bitazione dove era entrato a cercare qualcosa, sembrava che camminasse con passo più leggero. Questo contegno e, in genere, il suo comportamento pacato e quieto non sfuggirono al visitatore. Gli parvero anzi un monito ad essere parco di parole, avaro di domande. Troppo gli piaceva ormai il singolare cascinaio per correre il rischio di allontanarlo con la sola parvenza di curiosità o inva­ denza. Il visitatore di allora rivede la rotonda tavola di pie­ tra che, circondata da panche, sorgeva sulla terrazza. La rivede con tutte le buone cose che l'eretico di Soana vi disponeva: Γ ottimo· stracchino di Lecco, il delizioso pane di grano italiano, il salame, le olive, i fichi e le nespole, e anche un boccale di vino rosso, fresco, che egli era andato a prendere nella grotta. Al momento di sedersi l’ospite barbuto, dai capelli lunghi, vestito di pelli di capra, guardò cordialmente il visitatore negli occhi, dopo avergli stretto la destra come per esprimergli la sua sim­ patia. Quali furono i discorsi a quel primo trattamento ospi­ tale? Poche cose sono rimaste nella memoria. Il pastore espose il desiderio di essere chiamato Ludovico. Parlò dell’Argentina. A un certo punto, allorché dal basso giunse lo scampanio dell’Angelus, fece un’osservazione su quel « rombo certo eccitante ». Un’altra volta pro­ nunciò il nome di Seneca. Si parlò anche superficialmen­ te di politica svizzera. Infine quell’originale volle avere notizie della Germania, in quanto patria del visitatore. E quando, secondo la decisione di quest’ultimo, venne il momento del commiato, disse: — Lei sarà sempre il benvenuto. Benché l’editore di questi fogli avesse una gran vo-

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glia (e non lo nasconde) di conoscere la storia di quel­ l’uomo, evitò anche in visite successive di farlo capire. Da discorsi occasionali fatti a Soana aveva saputo alcuni fatti esteriori, ai quali era da attribuire la circostanza che Ludovico era stato soprannominato l’eretico di Soa­ na; a lui invece importava assai più scoprire in che sen­ so quella denominazione fosse giustificata e in quali sin­ golari vicende interiori, in quale speciale filosofia la vita che Ludovico conduceva avesse le sue radici. Si tratte­ neva però dal fare domande, e ne fu compensato ad usura. Di solito trovava Ludovico solo, o tra gli animali del gregge o nel suo ritiro. Alcune volte lo trovò che, come Robinson, mungeva le capre con le proprie mani. O at­ taccava i capretti alle poppe di una madre riottosa. E pareva tutto compreso della sua attività di pastore; era contento della capra che trascinava per terra le mam­ melle gonfie, contento del caprone quando era bravo e in fregola. Di uno diceva: — Non sembra il Maligno in persona? Guardi che occhi! Quanta forza, quali fiam­ me d’ira, di furore, di cattiveria! Eppure, quale fuoco sacro! — L’autore però aveva l’impressione che gli oc­ chi dell’interlocutore emanassero la stessa fiamma infer­ nale che egli chiamava fuoco sacro. Nel sorriso assume­ va un tratto rigido e truce, mostrava i magnifici denti bianchi, e quando con lo sguardo dell’intenditore osser­ vava uno dei suoi demoniaci matadores all’utile lavoro, cadeva in uno stato di trasognata meditazione. Talvolta l’eretico suonava la zampogna e il visitatore ne udiva le semplici scale già da lontano. In una siffatta occasione si venne naturalmente a parlare della musica, e il pastore espose strane opinioni. Quando era in mez­ zo al gregge Ludovico non parlava mai d’altro che degli animali e delle loro abitudini, dell’attività pastorale e delle sue usanze. Non di rado seguiva la psicologia del-

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le bestie e la vita dei pastori fin nel più remoto passato, rivelando in tal modo un’erudizione di non comune por­ tata. Parlava di Apollo che, badando al gregge di Laomedonte e Admeto, era servo e padrone. — Mi piace­ rebbe sapere quale strumento suonava allora al suo greg­ ge. — E come se esponesse una cosa reale concludeva: —■ Perbacco, mi sarebbe piaciuto sentirlo. — Erano i momenti nei quali il villoso anacoreta poteva fare l’im­ pressione di non essere in possesso di tutti i suoi ve­ nerdì. D’altro canto la sua idea appariva in certo modo giustificata quando egli dimostrava in quanti modi la musica può influire su un gregge e guidarlo. Con una nota lo metteva in moto, con un’altra lo fermava. Con suoni lo faceva accorrere da lontano, con altri lo spin­ geva a disperdersi o se lo tirava dietro, attaccato alle calcagna. Ci furono anche visite durante le quali non fu pro­ nunciata, si può dire, neanche una parola. Una volta, quando la calura opprimente di un pomeriggio di giu­ gno era salita fino alle malghe del Generoso, Ludovico circondato dal suo gregge intento a ruminare si trovò a sua volta coricato, in uno stato di beata semincoscienza. Guardò il visitatore con gli occhi socchiusi e lo invitò con un gesto a sdraiarsi anche lui sull’erba. Dopo di ciò, passato un po’ di tempo in silenzio, disse all’improv­ viso, strascicando le parole: — Lei sa che Eros è più an­ tico di Cronos, e anche più potente. Sente questa ar­ denza silenziosa intorno a noi ? Eros ! Sente come il gril­ lo sta limando? Eros! In quell’istante due lucertole inseguentisi guizzarono come un baleno sopra il suo corpo disteso. Egli ripetè: — Eros, Eros! E come se egli lo avesse ordinato, due robusti capri si alzarono e si assalirono con le corna ritorte. Egli li lasciò fare, benché la lotta diventasse sempre più focosa.

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Al cozzo i colpi secchi si fecero sempre più forti e nu­ merosi. Ed egli ripete ancora: — Eros! Eros! E alle orecchie del visitatore giunsero ora per la pri­ ma volta parole che lo fecero stare in ascolto poiché get­ tavano o almeno pareva che gettassero un po’ di luce sul motivo perché il popolo dava dell’eretico a Ludo­ vico. — Piuttosto — disse — adorerei un becco vivo o un toro vivo che un impiccato al patibolo. Non vivo in un’epoca che agisce così. Io la odio, la disprezzo. Giove Ammone veniva raffigurato con corna di montone, Pan ha gambe caprine, Bacco corna taurine. Intendo il Bacco tauriforme o tauricorno dei romani. Mithra, il dio del Sole, è presentato in figura di toro. Tutti i popoli vene­ ravano il toro, il capro, l’ariete e ne versavano il santo sangue in sacrificio. Con ciò sono d’accordo! Poiché la potenza generatrice è la potenza suprema, il potere ge­ nerante è il potere creatore. Generare e creare è la stes­ sa cosa. Certo, il culto di questa potenza non è un freddo piagnisteo di frati e monache. Una volta ho sognato Laksmi, la donna di Visnu che col nome di Sita divenne una creatura umana. I sacerdoti morivano tra le sue brac­ cia. Di passaggio appresi alcunché di ogni sorta di mi­ steri, del mistero della procreazione nera nell’erba verde, di quello della voluttà madreperlacea, dell’estasi e degli stordimenti, del mistero dei chicchi gialli di formento­ ne, di tutti i frutti, di tutti gli inturgidimenti, di tutti i colori. Quando vidi Sita, la crudele onnipotente, mi venne da urlare nella follia del dolore. Mi parve di mo­ rire dal desiderio. Durante questa confessione chi scrive ebbe l’impres­ sione di essere un ascoltatore involontario. Si alzò pro­ ferendo alcune parole come per far credere di non aver udito il soliloquio e di essere stato altrove col pensiero. Poi fece per accomiatarsi, ma Ludovico non acconsentì.

5.

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E sulla terrazza alpestre ebbe luogo un altro festino che questa volta però si svolse in modo significativo e indi­ menticabile. Il visitatore fu subito introdotto nell’abitazione, nel­ l’interno del cubo già descritto. Era quadrato, pulito, con un caminetto, e somigliava al semplice studio d’uno scienziato. C’erano inchiostro, penna, carta e una picco­ la libreria, di scrittori prevalentemente greci e latini. — Perché le dovrei nascondere — cominciò il pastore — che sono di buona famiglia, che ho vissuto una giovi­ nezza traviata e fatto studi eruditi? Lei vorrà sapere, immagino, come da uomo innaturale io sia diventato na­ turale, da prigioniero libero, da distrutto e scontento fe­ lice e soddisfatto. O come mi sia escluso per mia ini­ ziativa dalla società civile e dalla cristianità. — E scop­ piò a ridere. — Un giorno forse scriverò la storia della mia metamorfosi. — Il visitatore, la cui tensione era salita al massimo, si trovò a un tratto riallontanato dalla meta. Poco gli poteva giovare il fatto che il suo anfi­ trione indicasse alla fine la causa del suo rinnovamento dicendo che egli adorava simboli naturali. Sulla terrazza, all’ombra della roccia, accanto alla va­ sca traboccante si era mangiato, in una frescura deli­ ziosa, con larghezza anche maggiore della prima volta: prosciutto affumicato, formaggio, pane bianco, fichi, ne­ spole fresche e vino. E si era conversato non già con baldanza, ma in pacata serenità. Infine la mensa di pie­ tra fu sparecchiata. Seguì poi un momento che al cura­ tore è presente come un fatto appena avvenuto. Come sappiamo, l’abbronzato capraio, coi capelli e la barba lunghi, arricciolati, trascurati, e con l’abito di pelli faceva un’impressione selvatica. L’abbiamo paragonato a un San Giovanni di Donatello. Infatti anche il suo viso e il volto di quel Giovanni avevano nella finezza delle linee una notevole somiglianza. Visto da vicino,

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Ludovico era veramente bello, quando si prescinda dallo sgraziato particolare degli occhiali. Essi, d’altra parte, conferivano a tutta la persona, oltre al tratto legger­ mente comico, una singolarità misteriosa e attraente. Nel momento, di cui stiamo parlando, l’intera figura subiva un mutamento. Se il rigore del bronzo aveva espresso una certa immobilità di tutto il corpo, esso scomparve in quanto i lineamenti si mossero e presero un aspetto più giovanile. Egli sorrideva, si può dire, con un’aria di puerile pudore. — Ciò che sto per pretendere da lei — disse — non l'ho proposto ancora a nessuno. Io stesso non saprei dire donde mi venga questo coraggio. Per inveterata consuetudine mi dedico ancora a qualche lettura e uso talvolta la penna. E così, nei miei ozi in­ vernali, ho buttato giù un’ingenua storia di fatti che in tempi lontani sarebbero avvenuti qui e intorno a Soana. Lei vedrà che è molto semplice; ma ha attirato la mia attenzione per varie ragioni che non starò ad esporle. Mi dica in breve e sinceramente: vuol rientrare in casa con me e si sente disposto· a perdere un poco del suo tempo per questa storia che anche a me è costata pa­ recchie ore senza vantaggio? Piuttosto che caldeggiarla, gliela vorrei sconsigliare. D’altronde, se lei me lo sug­ gerisce, prendo senz’altro i fogli del manoscritto e li butto nell’abisso. S’intende che ciò non avvenne. Egli prese il boccale del vino, entrò in casa col visitatore e tutti e due si se­ dettero l'uno di fronte all’altro. Il pastore svolse da un astuccio di finissima cartapecora un manoscritto vergato in scrittura medioevale su fogli robusti. Come per farsi coraggio bevve ancora una volta alla salute del visitatore, prima di staccarsi, per così dire, dalla riva e gettarsi nel fiume del racconto. Poi cominciò con tenera voce.

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Il racconto del pastore

Sul versante di un monte sopra il lago di Lugano si trova, fra molti altri, un pascolo al quale, partendo dalla riva del lago, si può arrivare in un’oretta per una strada di montagna, erta e tutta a svolte. Le case del luogo che, come la maggior parte dei villaggi italiani della regione, sono incastonate in un’unica rovina grigia di pietra e calcinaccio, volgono la facciata a una valle o forra, formata da prati a terrazze e, di fronte, da un imponente pendio del sovrastante e gigantesco monte Generoso. In questa valle, e precisamente dove essa termina dav­ vero in un’angusta forra, si riversa da un fondovalle di un centinaio di metri più alto una cascata che, se­ condo l’ora del giorno e la stagione e secondo il vento che tira, costituisce col suo rombo più o meno forte la continua musica del borgo. In questo comune era stato trasferito molto tempo fa un prete di circa venticinque anni che si chiamava Francesco Vela. Era nativo di Ligcrnetto, dunque del Canton Ticino, e poteva vantarsi di essere un membro della stessa famiglia, ivi residente, donde era venuto il più grande scultore dell’Italia unita, nato anche lui a Ligornetto dove infine era anche morto. Il giovane sacerdote aveva passato la gioventù a Mi­ lano presso certi suoi parenti e studiato in diversi se­ minari svizzeri e italiani. Dalla madre che era di no­ bile casato aveva preso la serietà del carattere la quale assai presto e senza alcuna esitazione lo aveva indotto a vestire l’abito religioso. Tra i compagni di scuola Francesco, che portava gli

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occhiali, si distingueva per la diligenza esemplare, per il rigore della sua vita e per la devozione. Persino sua madre gli dovette suggerire con tutti i riguardi che come futuro prete secolare poteva certo concedersi qualche pia­ cere e non era proprio obbligato a seguire le rigidissime regole claustrali. Ma, appena ricevuti gli ordini il suo unico desiderio fu di ottenere una parrocchia remota per potervisi dedicare, quasi da eremita, a volontà e ancor più di prima, al servizio di Dio, del Figliolo e della sua santa Madre. Quando, capitato nella piccola Soana, ebbe occupato la canonica attigua alla chiesa, i montanari s’accorsero subito quanto fosse diverso dal suo predecessore. Già nell'aspetto : questi infatti era stato un contadino mas­ siccio, taurino, il quale teneva in pugno le belle donne e ragazze del luogo con ben altri mezzi che le penitenze e i castighi ecclesiastici. Francesco invece era pallido e delicato, aveva gli occhi profondi, macchie rosse e mal­ sane gli tingevano i pomelli. Cerano poi gli occhiali che nell’idea della gente semplice sono pur sempre un simbolo di erudizione e severità dottorale. Dopo quattro o sei settimane anche lui ebbe in pugno, più ancora di quell’altro, a modo suo le donne e figlie del luogo, che da principio si erano mostrate un po’ renitenti. Non appena Francesco, dalla porticina della casa par­ rocchiale, addossata alla chiesa, usciva nella strada, era per lo più circondato da donne e ragazzi che con sin­ cero· rispetto gli baciavano la mano. E le volte che du­ rante il giorno il campanello della chiesa lo chiamava al confessionale raggiungevano, la sera, un tal numero da far esclamare la nuova perpetua settantenne: — Non ho mai immaginato che in questa piuttosto corrotta Soa­ na ci fossero nascosti tanti angeli ! — La fama, insomma, del giovane parroco Francesco Vela si diffuse in tutta la regione, e assai presto egli venne in odore di santità.

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A tutto ciò Francesco badava ben poco ed era assai lontano dal concepire sentimenti diversi da quello del dovere passabilmente compiuto. Diceva la sue messe, ce­ lebrava con zelo sempre uguale tutte le funzioni e (la piccola aula scolastica era nell’edificio parrocchiale) si era assunto anche l’obbligo dell’istruzione elementare.

Una sera, ai primi di marzo, il campanello della ca­ nonica ebbe un sussulto violento e quando la domestica andò ad aprire e con la lanterna mandò un fascio di luce all’esterno, nel maltempo, trovò fuori della porta un individuo un po’ selvatico che desiderava parlare col parroco. Richiusa anzitutto la porta, la vecchia andò dal giovane padrone per annunciare, non senza visibile ap­ prensione, il tardo visitatore. Ma Francesco, il quale tra l’altro si era fatto un dovere di non respingere nessuno, chiunque fosse e avesse bisogno di lui, disse brevemen­ te, alzando gli occhi dalla lettura di non so quale pa­ dre della Chiesa: — Va’, Petronilla, e fallo entrare! Poco dopo, davanti alla scrivania del parroco c’era un uomo sulla quarantina, il cui aspetto era quello dei con­ tadini della zona, ma assai più trascurato, persino mal ridotto. Era a piedi nudi e una cinghia gli reggeva sui fianchi un paio di calzoni logori, zuppi di pioggia. Ave­ va la camicia sbottonata. Il petto bruno e peloso si pro­ lungava in una gola cespugliosa e in un volto incorni­ ciato da una folta barba nera e da un arruffio di ca­ pelli pure neri; gli occhi scuri mandavano lampi. Portava appesa alla spalla sinistra, al modo dei pa­ stori, una giacca tutta rattoppi, bagnata dalla pioggia, e agitato girava e rigirava tra le mani dure e brune un feltro raggrinzito e scolorito dalle intemperie di molti anni. Fuori della porta aveva posato un lungo ran­ dello. Quando gli fu chiesto che cosa volesse, emise con

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smorfie incomposte un incomprensibile profluvio di rudi suoni e parole che appartenevano, sì, al dialetto locale, ma a una variante che persino alla domestica nativa di Soana sembrò un linguaggio forestiero. Il giovane prete che al lume della piccola lampada aveva osservato attentamente il visitatore si sforzò in­ vano di scoprire il motivo della sua venuta. Con molta pazienza, con numerose domande riuscì infine a cavar­ gli di bocca che era padre di sette figli e avrebbe voluto che la scuola del sacerdote ne accogliesse qualcuno. Fran­ cesco domandò: — Ma voi chi siete? — E quando si sentì rispondere : — Sono uno di Soana — rimase stu­ pito e osservò: — Non è possibile! Qui conosco tutti, ma non conosco voi né la vostra famiglia. Il pastore, contadino o quello che fosse, descrisse viva­ cemente, accompagnandosi con grandi gesti, la posizione della sua casa, ma senza che Francesco ne capisse gran che. Disse soltanto: — Se abitate a Soana e i vostri fi­ gli hanno raggiunto l’età voluta dalla legge, dovrebbero da un pezzo frequentare la mia scuola. E io dovrei pure aver visto voi o vostra moglie o i vostri figli alle fun­ zioni in chiesa, alla messa o affa confessione. A questo punto l’uomo spalancò gli occhi e strinse le labbra. E per tutta risposta gli uscì dal petto, quasi indignato e oppresso, un lungo sospiro. — Be’, prenderò nota del vostro nome. Siete stato bravo a venire di persona e a fare i passi necessari per­ ché i vostri figli non crescano ignoranti e magari senza Dio. — A queste parole del sacerdote lo straccione, men­ tre le sue membra brune e quasi atletiche ne erano scos­ se, cominciò a rantolare in modo strano, quasi bestiale. — Sì, sì — riprese Francesco perplesso — prendo il vostro nome e farò le dovute indagini. — Dalle pal­ pebre arrossate dello sconosciuto vide scorrere una la­ crima dopo l’altra sopra il viso irsuto.

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— Bene, bene — disse Francesco che non sapeva spie­ garsi l’agitazione del visitatore e, in fondo, ne era più inquieto che commosso — via, via, la vostra questione sarà considerata. Ditemi il vostro nome, buon uomo, e mandatemi domattina i figlioli ! — L’interpellato tacque e con aria imbarazzata e angosciata guardò a lungo Fran­ cesco. Il quale ripetè la domanda: — Come vi chiamate? Ditemi il nome! Nei movimenti dell’ospite il prete avevo notato fin da principio un certo timore, come di uno che fosse per­ seguitato. Ora vedendosi costretto a rivelare il suo nome e udendo avvicinarsi il passo di Petronilla sul pavimento di pietra, si rannicchiò mostrando una trepidazione come appare di solito soltanto nei pazzi o nei delinquenti. Sembrava inseguito, quasi avesse gli sbirri alle calca­ gna. Ciò nonostante prese un pezzo di carta e la penna del religioso, si ritirò stranamente nel buio senza esporsi al­ la luce e sul davanzale, mentre dal basso veniva il mor­ morio d’un vicino ruscello e da più lontano il fragore della cascata di Soana, vergò non senza fatica, ma in maniera leggibile, qualcosa che porse risolutamente al sacerdote. Questi disse: — Sta bene — e facendo il se­ gno della croce: — Andate in pace! — L’individuo se ne andò lasciando alle spalle una nuvola puzzolente con odore di salame, cipolla e fumo di legna, di capra e di stalla. Appena fu uscito Francesco spalancò la finestra. La mattina seguente Francesco aveva detto messa co­ me sempre, poi, dopo un breve riposo, aveva fatto una colazione frugale, allorché si avviò per recarsi dal sin­ daco: per trovarlo era necessario andarci per tempo. Ogni giorno infatti partiva, da una stazione laggiù in riva al lago, per Lugano, dove in una delle vie più animate esercitava un suo commercio, all’ingrosso e al minuto, di formaggio ticinese.

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Il sole splendeva sulla piazzetta coi vecchi ippocasta­ ni, ancora spogli per il momento, la quale, vicinissima alla chiesa, costituiva per così dire, l’agorà del luogo. Su alcune panche di pietra erano seduti e giocavano i ragazzini, mentre le mamme e sorelle maggiori lavava­ no biancheria in un antico sarcofago marmoreo, traboc­ cante di acqua fredda che scendeva in abbondanza dai monti, e con ceste la portavano ad asciugare. Il suolo era bagnato, perché il giorno prima era piovuto non senza qualche fiocco di neve; anche il possente pendio dirupato del monte Generoso si ergeva, coperto di neve fresca, di là dalla gola nella propria ombra con le sue balze inaccessibili e mandava un respiro di aria di neve. Il giovane prete passò con gli occhi bassi davanti alle lavandaie rispondendo al loro vigoroso saluto con un cenno del capo. Guardò al di sopra degli occhiali i vec­ chi come i ragazzi che gli si affollarono intorno e lasciò loro una mano, sulla quale essi in tutta fretta si forbi­ rono le labbra. Il paese che cominciava oltre la piazza era reso praticabile da alcune straducole. Ma persino la strada principale era accessibile soltanto a veicoli mo­ desti e solo nella prima parte. Verso l’uscita del paese si restringeva ancora e diventava così ripida che vi si poteva passare e salire appena con un mulo carico. In quella viuzza c’erano una botteguccia di mercerie e l’uf­ ficio postale svizzero. II maestro di posta che era stato in rapporti amiche­ voli col predecessore di Francesco salutò e fu salutato a sua volta, ma in modo che tra la gravità del religioso e la prosaica cortesia del profano fosse pienamente os­ servata la distanza. Poco più in là della posta il prete imboccò un misero vicoletto che scendeva per scale e scalette a rompicollo davanti a caprili aperti e a ogni sorta di caverne sporche, senza finestre, buie come can­ tine. Su ballatoi fradici, sotto mazzi di pannocchie ap­

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pese, si vedevano gatti accovacciati e polli schiamazzanti. Qua e là una capra che belava, un bue che mugghiava e per qualche motivo non era stato condotto al pascolo. Chi uscendo da quei vicoli entrava da una porticina in casa del sindaco aveva ragione di stupirsi vedendo una fuga di salette i cui soffitti a volta erano decorati con numerose figure da pittori operai in stile tiepolesco. Finestre alte e porte vetrate, ornate di lunghe ten­ dine rosse, formavano il passaggio da quei locali soleg­ giati a una terrazza libera e altrettanto solatia, abbellita da antichi bossi tagliati a cono e da splendidi lauri. An­ che lì, come dappertutto, si udiva il simpatico rombo della cascata e si aveva di fronte la selvaggia parete del monte. Sor Domenico, il sindaco, era un uomo tranquillo, ben vestito, tra i quaranta e i cinquanta, il quale sol­ tanto tre mesi prima si era ammogliato in seconde noz­ ze. La bella moglie florida, ventiduenne, che Francesco aveva trovato nella lucida cucina, intenta a preparare la colazione, lo accompagnò dal marito. Quando questi ebbe ascoltato il resoconto della visita che il prete aveva ricevuto la sera precedente e letto il biglietto che in let­ tere stentate recava il nome dello sciamannato visita­ tore, il suo volto si atteggiò a un sorriso. Quando poi ebbe indotto il giovane sacerdote ad accomodarsi, il sin­ daco, con perfetta obiettività e senza che la maschera indifferente dei suoi lineamenti subisse alcun mutamen­ to, prese ad esporre le desiderate informazioni sul conto del misterioso visitatore che effettivamente era un cit­ tadino di Soana rimasto fino allora ignoto al parroco. — Luchino Scarabota — disse il sindaco (era il no­ me che lo strano individuo aveva scarabocchiato sul fo­ glietto) — non è affatto un povero diavolo; ma ormai da anni le sue condizioni familiari danno da pensare a me e a tutto il comune, e non si riesce a prevedere co­

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me tutto ciò andrà a finire. Viene da una famiglia anti­ ca ed è molto probabile che abbia nelle vene un po’ di sangue del famoso Luchino Scarabcta da Milano, il qua­ le tra il Quattro e il Cinquecento costruì la navata del Duomo laggiù a Como. Lei .sa, reverendo, che di questi nomi antichi e famosi ne abbiamo parecchi in questo piccolo borgo. Il sindaco aveva aperto la porta vetrata e discorrendo aveva accompagnato il parroco sulla terrazza dove gli indicò, nello scosceso imbuto della cascata, uno di quei cubi di pietra viva che albergano i contadini della zona. Ma quell’abituro attaccato lassù a grande altezza sopra tutti gli altri si distingueva da essi non soltanto per la posizione isolata, apparentemente inaccessibile, ma an­ che per la piccolezza e meschinità. — Vede, lassù, dove le indico col dito, lassù abita questo Scarabota — disse il sindaco. — Mi stupisce, re­ verendo, che lei non abbia ancora saputo nulla di quel­ l'alpe e dei suoi abitanti. Da un decennio e più co­ storo danno scandalo a tutta la regione, in lungo e in largo, nel più odioso dei modi. Purtroppo con loro non si riesce a spuntarla. Si è portata la donna in tribunale e lei ha affermato che i sette figli che ha messo al mon­ do non sono - si può dire qualcosa di più assurdo? dell’uomo col quale convive, bensì di turisti svizzeri che d’estate devono passare dall’alpe per scalare il Ge­ neroso. E bisogna aggiungere che la femmina è pidoc­ chiosa, lurida e anche paurosamente brutta come la not­ te. È chiaro, invece, che l’uomo con cui vive, quello che è venuto ieri da lei, è il padre delle sue creature. Ma questo è il punto: costui è anche suo fratello carnale. Il prete si scolorò in viso. — Naturalmente la coppia incestuosa è scansata da tutti e messa al bando. In questo la vox populi rara­ mente s’inganna. — Dopo questa dichiarazione il sinda­

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co continuò il racconto. ■— Ogni qualvolta uno dei figli si è fatto vedere qui da noi o ad Arogno o a Melano, poco è mancato che venisse lapidato. Quando la infame coppia entra in una chiesa ed è riconosciuta, la chiesa può dirsi sconsacrata, e i due proscritti, quando credet­ tero di poterne fare il tentativo, ne riportarono una tale esperienza che da anni gli è passata la voglia di recarsi in chiesa. O bisognerebbe forse permettere — proseguì il sindaco — che quei figli, quelle creature maledette, che a tutti fanno orrore e ribrezzo, possano frequentare qui la nostra scuola e sedersi sui banchi insieme coi figli dei buoni cristiani ? Si può mai pretendere dalla no­ stra sopportazione che tutto il paese, grandi e piccoli, siano appestati da questi frutti della vergogna, da que­ ste malvagie bestie rognose? Il pallido viso di Francesco non rivelò in alcun modo fino a qual punto il racconto del Sor Domenico l’aves­ se commosso. Ringraziò e se ne andò con la stessa di­ gnitosa serietà in tutto l’essere suo, con la quale era venuto. Poco dopo il colloquio col sindaco, Francesco aveva presentato al suo vescovo una relazione sul caso Scarabota. Dopo una settimana aveva in mano la risposta del vescovo che lo incaricava di informarsi di persona sulle condizioni generali dell’alpe di Santa Croce. Il vescovo elogiava il sacro zelo del giovane e gli confermava che aveva ben ragione di sentirsi depresso a causa di quelle anime smarrite e messe al bando e di pensare alla loro salvezza. Concludeva dicendo che nessun peccatore, per traviato che sia, va escluso dalle benedizioni e dai con­ forti della Santa Madre Chiesa. Soltanto verso la fine di marzo i doveri del suo uffi­ cio e anche le condizioni della neve sul Generoso per­ misero al giovane parroco di Soana di intraprendere,

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guidato da uno del luogo, l’ascensione all’alpe di Santa Croce. La Pasqua era vicina e, benché sui dirupi del gran monte le valanghe precipitassero con cupo fragore nella gola sotto la cascata, la primavera era arrivata ga­ gliarda dovunque il sole potesse agire senza ostacoli. Per quanto poco Francesco, diverso in questo punto dal santo omonimo di Assisi, fosse appassionato della natura, il tenero e succoso germogliare, verdeggiare, fio­ rire tutt’intorno non poteva mancare il suo effetto su di lui. Senza bisogno di rendersene conto chiaramente, il giovane aveva nel sangue il delicato fermento della pri­ mavera e godeva la sua parte in quell’intimo inturgi­ dirsi e urgere di tutta la natura che è di origine divina e, nonostante le conseguenze voluttuosamente sensuali e terrene, è a sua volta divino in tutte le gioie che ne sbocciano. Gli ippocastani della piazza, dalla quale il prete do­ veva anzitutto passare con la sua guida, avevano sporto tenere manine verdi da gemme brune e viscose. I ragaz­ zi facevano il chiasso, non meno di loro i passeri che avevano il nido sotto il tetto della chiesa e negli infiniti nascondigli dell’angoloso paese. Le prime rondini trac­ ciavano le loro ampie curve da Soana sopra l’abisso del­ la gola dove mutavano direzione apparentemente un atti­ mo prima di cozzare contro la fantastica muraglia del verticale massiccio montano. Lassù, sopra qualche spor­ genza, o negli incavi della roccia, dove non era mai giunto un piede umano, nidificavano le aquile marine. Le grandi brune coppie partivano per magnifici viaggi e si libravano, soltanto per il gusto di librarsi, in lunghi voli sopra le vette alpine, girando in ruote sempre più alte, quasi volessero penetrare maestose e sognanti nella libertà degli spazi infiniti. Dappertutto, non solo nell’aria, non solo nella terra bruna e sconvolta o ammantata d'erba e di narcisi e im­

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bevuta di tutto quanto attraverso steli e tronchi faceva salire alle foglie e ai fiori, ma anche negli uomini c’era un che di festoso; e i visi bruni dei contadini che sulle terrazze, tra file di viti, lavoravano di marra e falcetto, raggiavano di luce domenicale; o non aveva la maggior parte di loro già ammazzato Γ« agnello pasquale », un capretto che ormai era appeso per le zampe posteriori allo stipite della porta di casa? Le donne che particolarmente numerose e vocianti erano raccolte con le ceste piene di panni intorno al tra­ boccante sarcofago marmoreo, vedendo passare il par­ roco e la sua guida interruppero la loro rumorosa al­ legria. Lavandaie c’erano anche all’uscita dal villaggio dove un getto d’acqua sgorgava dalla roccia sotto a una madonnina, riversandosi in un altro antico sarcofago di marmo. Entrambi, tanto questo quanto l’altro sarcofago, quello della piazza, erano stati scavati parecchio tempo prima da una piantagione di roveri e castagni millenari, dove, affiorando appena dal suolo, erano rimasti na­ scosti da tempi immemorabili sotto l’edera e l’alloro selvatico.

Passando di lì Francesco si segnò, anzi trattenne il passo un istante per piegare un ginocchio in omaggio alla piccola Madonna sopra il sarcofago, graziosamente circondata di fiori di campo offerti dai paesani. Non essendo mai stato in quella parte alta del paese era la prima volta che vedeva il grazioso sacello intorno al quale ronzavano le api. Se con la parte bassa, con la chiesa e con alcune case eleganti, ornate di verdi im­ poste, intorno alla piazza degli ippocastani posata su una sottostruttura a terrazza, Soana rivelava quasi un benes­ sere borghese; se in orticelli e giardinetti ostentava lag­ giù mandorli in fiore, aranci, alti cipressi, insomma una vegetazione piuttosto meridionale; qui, qualche centi­

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naio di passi più in su, non era che un misero villaggio alpestre di pastori, che odorava di capre e di stalla. E di lì partiva una mulattiera acciottolata e ripidissima che la quotidiana uscita mattutina e il ritorno serale del gran­ de gregge del comune avevano· lisciata; essa infatti con­ duceva ai pascoli comunali nella conca intorno alla sor­ gente del Savaglia, un fiumiciattolo che in basso forma la stupenda cascata di Soana e dopo un corso breve e gorgogliante si riversa per una gola profonda nel lago di Lugano. Dopo essersi arrampicato un breve tratto per quella salita, sempre accompagnato dalla guida, il prete si fer­ mò per prender fiato. Si tolse con la sinistra il largo cappello nero e piatto, e cavò con la destra un grande fazzoletto colorato col quale si asciugò le gocce di su­ dore dalla fronte. Generalmente non si può dire che i preti italiani abbiano il senso della natura, sappiano apprezzare la bellezza del paesaggio. Ma la vastità del panorama da grande altezza, la vista, come si dice, a volo d'uccello ha pur un fascino che colpisce talvolta anche l’uomo più ingenuo e gli impone un certo stu­ pore. Ormai Francesco vedeva la sua chiesa insieme col relativo paese come una miniatura laggiù sotto di sé, mentre intorno a lui la poderosa montagna pareva si elevasse sempre più nel cielo. Il senso della primavera si unì al sentimento del sublime che sorge forse da un confronto tra la propria piccolezza e le immense schiac­ cianti opere della natura, mute e minacciosamente vicine, ed è legato a una vaga coscienza che di quella supe­ riorità anche noi siamo in qualche modo partecipi. Fran­ cesco insomma si sentiva enormemente grande e, ad un tempo, infinitamente piccolo, e ciò -lo portava a farsi, col gesto abituale, sulla fronte e sul petto, il segno della croce a protezione contro l’eresia e il demonio. Appena riprese la salita, il giovane prete rivolse di

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nuovo la mente zelante a questioni religiose e problemi pratici della sua parrocchia. E allorché, all’imbocco di un’altra valle rocciosa, fermò un’altra volta il passo e si guardò in giro, la vista di un’edicola molto trascu­ rata, eretta lì per i pastori, gli suggerì l’idea di visitare tutti i santuari esistenti sotto la sua giurisdizione, fos­ sero anche lontani, e di riassettarli in modo degno del Signore. Abbracciò subito con lo sguardo tutta la zona e cercò di farsi un chiaro concetto dei sacelli e delle cap­ pelletto locali. Prese come punto di partenza la sua chiesa, con la canonica che vi era appiccicata. Sorgeva, come si è detto, sul piano della piazza e i muri esterni avevano la loro continuazione nelle pareti verticali della roccia sotto­ stante, lungo la quale mormorava un gaio ruscello mon­ tano. Questo era incanalato sotto la piazza e ritornava alla luce del giorno da un arco murato, donde irrigava, ma imbrattato dagli scoli, frutteti e prati fioriti. Al di là della chiesa, ma un po’ più in alto, particolare che di lassù non era visibile, stava sulla cima tronca e ro­ tonda d'una collinetta il più antico santuario dei din­ torni, una piccola cappella dedicata alla Vergine, sopra la cui immagine sacra, eretta sull’altare e tutta impolve­ rata, s’inarcava il mosaico bizantino dell’abside. Questo mosaico su fondo oro ben conservato nel disegno, ben­ ché stesse là da mille anni e più, rappresentava Cristo Pantocratore. La distanza dalla chiesa alla cappelletti non era maggiore di tre tiri di sasso. Un’altra cappella, dedicata a Sant’Anna, si trovava alla medesima distan­ za. Sopra e dietro a Soana s’innalza il cono acuto d’un monte, naturalmente circondato da ampie vallate e dai fianchi scoscesi del Generoso. Il monte, quasi a pan di zucchero, ma verde fino alla vetta, apparentemente inac­ cessibile, si chiama Sant’Agata, perché sulla cima regge alla meglio la cappellina di questa santa. Queste erano

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le tre cappelle negli immediati dintorni del paese, alle quali entro una cerchia più larga se ne aggiungevano tre o quattro altre. Su ogni collina, a ogni pittoresca svolta delle strade, su ogni cima panoramica, qua e là su precipiti rupi, vicino e lontano, sopra il lago e le gole, i secoli credenti avevano eretto altrettante chie­ sette, di modo che in questo riguardo si poteva ancora sentire la profonda e universale religiosità del pagane­ simo che nel corso dei passati millenni aveva consacrato in origine quelle alture procurandosi alleati divini con­ tro le terribili minacciose poten2e di questa natura sel­ vaggia. Il giovane infervorato guardò con soddisfazione tut­ te quelle sedi del cristianesimo cattolico romano, come quelle che distinguono tutto il Canton Ticino. Certo pe­ rò, da vero campione di Dio, dovette anche riconoscere con dolore che non in tutte era viva una fede pura e attiva, né vi si esplicava da parte dei suoi confratelli un’assistenza abbastanza amorevole per preservare quelle sparpagliate dimore celesti dall'abbandono e dall’oblio. Dopo un poco presero lo stretto sentiero che in tre ore di faticosa salita porta in cima al Generoso. Presto dovettero attraversare il letto del Savaglia su un pon­ ticello cadente nelle cui vicinanze si allargava la conca del fiumiciattolo che di lì precipita per cento e più me­ tri attraverso una fenditura che si è scavata da sé. In quel punto Francesco udì dall’alto, dal basso e da varie direzioni, oltre allo scroscio delle acque affluenti al ba­ cino collettore, uno scampanio di greggi, e vide un uo­ mo di ruvido aspetto - era il pastore comunale di Soana - che, lungo disteso per terra, reggendosi sulle brac­ cia appoggiate alla riva, il viso chino sullo specchio dell’acqua, spegneva la sua sete alla maniera degli ani­ mali. Dietro a lui brucavano alcune capre coi loro ca­ pretti, mentre un cane lupo rizzando le orecchie era

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in attesa di ordini e del momento in cui il suo padrone avesse terminato di bere. Sono anch’io un pastore, pen­ sò Francesco, e quando quello alzatosi da terra, con un fischio acuto che echeggiò dalle pareti rocciose e con lunghe sassate si mise a spaventare le sue bestie disperse ora spingendole avanti ora richiamandole indietro e, in genere, cercando di salvarle dai precipizi, Francesco con­ siderò quanto quel mestiere fosse faticoso e pieno di re­ sponsabilità, se già con le bestie, figurarsi con gli uomi­ ni sempre esposti alle tentazioni di Satana.

Con nuovo zelo e nuova lena il prete riprese a salire, come se ci fosse pericolo che, per quella via verso i tra­ viati, Satana potesse arrivare prima di lui. Sempre gui­ dato dal compagno, col quale non si degnava di con­ versare, Francesco dopo un'ora e più di ripida e gra­ vosa salita, su su tra le rocce selvagge del Generoso, si trovò improvvisamente a cinquanta passi dall’alpe di Santa Croce. Gli parve incredibile che quel mucchio di pietre e quei muri eretti con lastre di pietra senza calcina fos­ sero, come assicurava la guida, la dimora cercata. Se­ condo i discorsi del sindaco si era aspettato un certo be­ nessere, mentre quell’alloggio poteva essere semmai una specie di riparo per pecore e capre in caso d’improvviso maltempo. Poiché sorgeva su un erto versante di sfa­ sciumi e blocchi di pietra a spigoli taglienti che nascon­ devano il tortuoso sentiero, pareva che la località male­ detta non avesse alcun accesso. Solo quando il sacerdote superando la sorpresa e un certo brivido si fu un po’ accostato, la scena della bandita e scansata dimora as­ sunse un aspetto più piacevole. Anzi quel mucchio di macerie si trasformò, via via che il prete si avvicinava, in un luogo di delizie: gli parve che la valanga di massi e detriti staccatasi da

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grande altezza, fosse arrestata e bloccata dal rozzo cubo della dimora, sicché più sotto si apriva un pendio sgom­ bro di sassi, coperto d’erba rigogliosa, donde sbucavano con deliziosa abbondanza e dolcissima grazia i gialli soffioni arrivando fino alla porta di casa e, quasi fos­ sero curiosi, anche più in là, letteralmente dentro alla spregiata caverna che fungeva da dimora. A quella vista Francesco rimase turbato. Quell’assalto di gialli fiori di prato contro la malfamata soglia, la saliente fioritura di fitti non-ti-scordar-di-me dal lungo stelo, sotto i quali fluivano vene di acqua montana, men­ tre anch’essi con l’azzurro riverbero del cielo muovevano alla conquista della porta, gli sembrarono quasi una pa­ lese protesta contro il bando, la scomunica e la condan­ na degli uomini. Vinto dallo stupore, cui seguì una cer­ ta confusione, Francesco fu costretto a sedersi su un macigno scaldato dal sole. Aveva passato la gioventù in valle e per lo più in luoghi chiusi, in chiese, aule e stanze di studio. In lui non si era mai destato il senso della natura. Non aveva mai intrapreso un'escursione nella sublime e rude bellezza dell’alta montagna e non ne avrebbe forse mai fatta un’altra se il caso o il dovere non gliela avessero imposta. Ora era sopraffatto dalla novità e profondità delle impressioni. Era la prima volta che Francesco Vela si sentiva per­ vaso da un chiaro e grandioso sentimento dell’essere che sull’istante gli fece dimenticare la sua mansione di sacerdote e il motivo della sua venuta: un sentimento che non solo aveva rimosso, ma soppresso tutti i suoi concetti di devozione permeata da una quantità di dog­ mi e regole ecclesiastiche. Dimenticò persino di fare il segno della croce. Ai suoi piedi si apriva la bella re­ gione di Lugano in mezzo al mondo alpino dell’Italia settentrionale, sorgeva il santuario di Sant’Agata, sopra ai quale volteggiavano ancora le brune cacciatrici di pe­

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sci, si levavano il monte San Giorgio e la cima del San Salvatore, e infine si stendeva in una profondità abis­ sale, incastonato nelle valli del rilievo montano come una lastra di vetro allungata, quel ramo del lago di Lu­ gano che è detto di Capolago, e vi veleggiava la barca di un pescatore, simile a una tignola su uno specchio a mano. Sullo sfondo lontano le candide cime delle gran­ di Alpi erano apparse più alte man mano che Francesco era salito. Da esse emergeva il monte Rosa con sette punte bianche, diadema ad un tempo e spettro contro la serica azzurrità del cielo. Se è giusto parlare di mal di montagna, non è meno lecito discorrere di una condizione di spirito che coglie l'uomo sui monti e potrebbe definirsi stato di salute senza pari. Questa era la salute che il giovane prete sen­ tiva ora nel sangue come un rinnovamento di sé. Ac­ canto a lui, tra i sassi, in mezzo all’erica secca, scoprì un piccolo fiore come non ne aveva mai visti. Era una graziosissima varietà di genziana, i cui petali erano deli­ ziosamente dipinti d’un sorprendente turchino fiamman­ te. Il giovane in talare nero, che nelfimpeto della gioio­ sa scoperta stava per cogliere il fiore, lo lasciò intatto nella sua modesta dimora e si limitò a scostare l’erica per contemplare a lungo il miracolo. Di tra i macigni sbucava dappertutto il tenero verde dei faggi nani, e da lontano, sopra le pendici di frantumi grigi e duri e di verde novello, il gregge del povero Luchino Scarabota annunciava coi campanacci la sua presenza. Quel mondo alpino presentava un’antica particolarità, il fascino gio­ vanile di ere umane sepolte, delle quali non era rimasta traccia nelle basse vallate. Francesco aveva rimandato a casa la guida, perché intendeva ritornare indisturbato senza nessuno, e oltre a ciò non desiderava un testimone del suo previsto col­ loquio con Luchino. Intanto la sua presenza era stata

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notata e alcune teste di bimbi sudicie e arruffate si spor­ gevano continuamente a curiosare da quel buco anne­ rito dal fumo che era la porta della scarabotesca rocca di pietrame. Il prete si avvicinò adagio adagio ed entrò nella cer­ chia abitata che rivelava quanto il proprietario fosse ric­ co di bestiame, anche a giudicare dalla quantità di re­ sidui lasciati da capre e bovini. Francesco sentì entrargli sempre più acre nel naso, insieme con la sottile e vigo­ rosa aria di montagna, l’odore di vacca e di capra, il cui puzzo sempre più penetrante diventava tollerabile, sulla soglia dell’abitazione, per il fumo di carbonella che ne usciva. Quando Francesco comparve nel vano della por­ ta e col nero talare intercettò la luce, i bimbi si erano già ritirati nel buio donde al saluto del sacerdote, che non li vedeva, e a tutte le sue parole opposero il loro silenzio. Soltanto una vecchia capra si fece avanti e con un fioco belato lo annusò. A poco a poco l’interno si fece più distinto agli oc­ chi del messo di Dio. Vide una stalla, piena di uno spesso strato di letame, ricavata da una grotta naturale che doveva esserci a suo tempo in quella puddinga o altra roccia che fosse. Nella rozza parete di pietra a de­ stra era stato aperto un passaggio dal quale Francesco gettò uno sguardo al focolare della famiglia, deserto in quel momento: un monte di ceneri che copriva la brace ancora viva, sopra il pavimento di pietra naturale. Da una catena grommata di spessa fuliggine pendeva un paiolo di rame, pure fuligginoso e ammaccato. Accanto .1 quel focolare da età della pietra c’era un panca senza spalliera, col largo sedile spesso quanto un pugno, po­ sato su due sostegni altrettanto larghi fissati alla roc­ cia, strusciato e pulito per un secolo e più da genera­ zioni di pastori stanchi, dalle loro donne e dai figli. Il legno non pareva più legno, ma una specie di marmo

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giallo e lucido o di pietra da sarti, con un’infinità di spacchi e graffi. Il locale quadrato, che coi muri natu­ rali, senza intonaco, fatti di grezzi macigni e lastre di lavagna somigliava piuttosto a una caverna, donde il fu­ mo passava dalla porta nella stalla e di lì per l'ingresso all’aperto, perché non aveva sfogo se non forse attra­ verso qualche fessura delle pareti; il locale, dico, era annerito dal fumo e dalla fuliggine di decenni, sicché si aveva quasi l’impressione di essere nell’interno di un camino. Francesco aveva appena scorto il singolare brillio di occhi che lucevano in un angolo, allorché si udì dal di fuori uno scivolare e slittare di sfasciumi e poco dopo apparve sulla soglia la figura di Luchino Scarabota come un’ombra silenziosa che intercettando il sole rese ancora più buio l’interno. Il trasandato pastore aveva il respiro grosso non solo perché in pochissimo tempo, dopo aver osservato l’arrivo del sacerdote, era sceso da una malga lontana e più alta, ma perché quella visita era un avve­ nimento per l’uomo messo al bando. Dopo un breve saluto il padrone di casa, ripulita con le mani ruvide la panca di lardite dai sassi e dai soffioni strappati, coi quali aveva giocato la razza maledetta dei suoi rampolli, costrinse l’ospite ad accomodarsi. Attizzò il fuoco soffiando con le gote gonfie, e al ri­ verbero i suoi occhi febbricitanti mandarono una luce selvaggia. Alimentò la fiamma con pezzi di legno e ster­ pi secchi che per poco il fumo acre non cacciava fuori il prete. Il capraio era di una sottomissione strisciante e di un ansioso zelo, come se ora si trattasse di non la­ sciarsi sfuggire col suo contegno la benevolenza dell’es­ sere superiore che era entrato nel suo misero abituro. Andò a prendere un mastello pieno di latte che alla superficie aveva formato un grosso strato di panna, ma purtroppo era talmente sporco che non fosse altro per

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questo motivo il sacerdote non Io potè toccare; respinse però anche il formaggio fresco e il pane pulito, benché avesse tame, per il superstizioso timore di commettere peccato. Infine, quando il capraio si fu un po’ calmato e con gli occhi spauriti e le braccia ciondoloni gli stette davanti in attesa, il prete cominciò: — Luchino Scarabota, voi non dovete rimanere sen­ za il conforto della nostra santa Chiesa, e i vostri figli non devono essere più respinti dalla comunità dei cri­ stiani cattolici, qualora risultasse che o le voci che cor­ rono sul vostro conto non sono vere, o voi siete dispo­ sto a confessarvi onestamente, a mostrarvi pentito e con­ trito, e pronto ad allontanare con l’aiuto di Dio la pietra dello scandalo. Apritemi dunque anzitutto il vostro cuo­ re, Scarabota, confessate francamente la calunnia di cui siete vittima e con vera sincerità il peccato che eventual­ mente grava sulla vostra coscienza! Udito questo discorso il pastore tacque. Dalla gola gli uscì a un tratto soltanto un suono breve e rude, che però non rivelava alcun sentimento, ma aveva un che di gorgogliante, quasi una voce d’uccello. Com’era con­ sueto, Francesco passò subito a dipingere al peccatore le spaventose conseguenze dell’atteggiamento caparbio e la conciliante e amorevole bontà del Signore Iddio, che ne aveva dato prova col sacrificio del suo unico Fi­ gliolo, col sacrificio dell’agnello che prese su di sé i peccati del mondo. — In nome di Gesù Cristo — con­ cluse — ogni peccato può essere perdonato, premesso che una confessione senza riserve, unita al pentimento e alla preghiera, dimostri al Padre celeste la contrizione del misero peccatore. Solo quando Francesco, dopo aver aspettato a lungo, si alzò crollando le spalle e pareva stesse per andarsene, il pastore cominciò a emettere dalla strozza un incom­ prensibile guazzabuglio di parole, una specie di borra

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da uccello di rapina. Forzando l’attenzione il prete cer­ cò di estrarre da quel caos la parte comprensibile. Ma anche questa gli parve altrettanto strana quanto la parte oscura. Da quell’arruffio di cose immaginarie, angoscio­ se e opprimenti, emerse una sola cosa chiara: Luchino voleva assicurarsi l’assistenza del prete contro tutti i dia­ voli che abitavano la montagna e lo insidiavano. Al prete giovane e credente mal si addiceva dubitare dell’esistenza e dell’attività di spiriti maligni. Non è la creazione piena di ogni sorta e grado di angeli caduti al seguito di Lucifero, il ribelle che Dio ha ripudiato? Lì però era preso dal raccapriccio, e non capiva se per la tenebra di un’inaudita superstizione o per la cecità senza speranze dovuta all’ignoranza. Deliberò quindi di arrivare mediante domande a farsi un giudizio della mentalità e dell’intelligenza del suo parrocchiano. Dopo un po’ gli risultò chiaramente che quel selvag­ gio non aveva un’idea di Dio, meno ancora di Gesù Cristo, il Redentore, e meno che mai dell’esistenza dello Spirito Santo. Per contro gli sembrò che egli si sentis­ se circondato da demoni e fosse invasato da una tetra mania di persecuzione. E nel prete non vedeva il quali­ ficato servo di Dio, ma piuttosto un mago potente o Dio stesso. Che poteva fare Francesco altro che segnar­ si, mentre il pastore si gettava umilmente a terra e con le sue labbra umide e gonfie gli leccava e baciava fervi­ damente le scarpe? Il giovane sacerdote non si era ancora mai trovato in simili condizioni. L’aria sottile, la primavera, il di­ stacco dal vero livello della civiltà gli annebbiarono a poco a poco la mente. Una specie di incantesimo gli invase l’animo come nei sogni quando la realtà si dissol­ ve in trasvolanti immagini aeree. Questo mutamento era accompagnato da un lieve timore che più volte gli suggerì di fuggire e scendere in tutta fretta nel regno

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delle chiese consacrate e delle campane. Chi poteva sa­ pere quanti e quali mezzi avesse il diavolo, potente com'è, per attirare il cristiano ignaro e ingenuo su un’al­ tura e farlo poi precipitare dall'orlo di un vertiginoso abisso ? A Francesco non avevano insegnato che gli idoli pa­ gani erano stati vane creazioni della fantasia, nient’al­ tro. La Chiesa ne riconosceva espressamente il potere, salvo che lo definiva ostile a Dio. Essi combattevano ancora, sia pure senza speranza, contro l'Onnipotente per il dominio del mondo. Il giovane allibì pertanto allorché l’ospite tirò fuori da un angolo dell’abitazio­ ne un oggetto di legno, un’orrida scultura che indubbia­ mente doveva essere un feticcio. Nonostante la sua reli­ giosa ripugnanza per quell’oggetto osceno, Francesco non potè esimersi dall’osservarlo. Con ribrezzo e stupore do­ vette concludere che lassù vigeva ancora il più sconcio malcostume pagano, il culto agreste di Priapo. Quella primitiva figura - era palese - non poteva essere altri che Priapo. Non appena Francesco ebbe in mano il piccolo inno­ cuo dio della procreazione, il dio della fertilità cam­ pestre, tanto e pubblicamente venerato dagli antichi, la strana angoscia che lo avvinghiava si tramutò in santo sdegno. Senza riflettere buttò la svergognata immagine nel fuoco donde però, lanciandosi con la velocità del cane che azzanna, il capraio la recuperò in un istante. Il fuoco l’aveva già intaccata, ma le rudi mani del pa­ gano la riportarono subito all’innocuo stato di prima. Essa però dovette subire, insieme col salvatore, una gragnuola di rimproveri. Luchino Scarabota parve incerto nel decidere quale delle due divinità dovesse considerare la più forte, quel­ la di legno o quella in carne ed ossa. Intanto teneva fisso lo sguardo, nel quale lo spavento e l’orrore erano

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misti a rabbiosa perfidia, sul dio nuovo, il cui sacrile­ go ardire non faceva certo pensare a uno stato di debo­ lezza. Ma preso l’aire, il messo del Dio uno e solo, nel suo santo zelo non si lasciò intimorire dalle occhiate del folle idolatra, per quanto fossero minacciose. E sen­ za ambagi cominciò a parlare dell’infame peccato don­ de, secondo le voci del popolo proveniva la numerosa prole del capraio. Nel discorso del parroco piombò, per così dire, la so­ rella dello Scarabota la quale però, senza parlare e li­ mitandosi a squadrare di soppiatto il predicatore, si die­ de a sbrigare le sue faccende nella caverna. Era una donna pallida e ripugnante cui l’acqua per lavarsi era evidentemente una sostanza ignota. Dagli strappi delle vesti trasandate si vedevano balenare, in modo disgusto­ so, le sue nudità. Quando il sacerdote ebbe finito, esaurendo per il mo­ mento la sua provvista di accuse, la donna mandò fuori il fratello con una sola parola sommessa. Senza replica­ re, il selvaggio scomparve subito come un cane obbedien­ te. Allora la sudicia peccatrice, i cui capelli neri e infel­ triti le scendevano sui larghi fianchi, baciò la mano del prete dicendo : — Sia lodato Gesù Cristo ! Poco dopo scoppiò in lacrime. Il prete - disse - aveva tutte le ragioni di condan­ narla con aspre parole. Certo essa aveva peccato contro il comandamento di Dio, ma non come pretendevano le calunnie. Era lei sola la peccatrice, mentre suo fratello era del tutto innocente. Giurò per tutti i santi di non aver mai commesso l’orrendo peccato dell’incesto, di cui era accusata. Certo era stata impudica, e poiché aveva cominciato a confessare, era disposta a descrivere i pa­ dri dei suoi figli, anche se non a citarli tutti per nome. Di pochissimi sapeva il nome poiché - spiegò - per bisogno aveva venduto spesso i suoi favori a forestieri di

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passaggio. D’altro canto aveva messo al mondo le sue creature con grandi dolori senza alcun aiuto, e alcuni ne aveva dovuti seppellire, poco dopo la nascita, qua e là nelle petraie del Generoso. Fosse o non fosse egli in grado di assolverla, sapeva già che Dio le aveva per­ donato, perché con dolori e patimenti e miserie aveva scontato abbastanza i suoi peccati. Francesco non potè far altro che considerare la que­ rula confessione della donna come un tessuto di menzo­ gne, almeno per quanto riguardava il delitto. Si rendeva conto però che ci sono azioni le quali rifuggono in mo­ do assoluto dalla confessione, e Dio solo ne viene a conoscenza nel solitario silenzio della preghiera. Egli ap­ prezzò il pudore della donna depravata e non si nascose che, in un certo senso, stava su un piano più alto del fratello. Il suo modo di giustificarsi rivelava una decisio­ ne precisa. L’occhio confessava, ma una confessione a parole non gliel’avrebbero strappata né benevole esor­ tazioni né le tenaglie roventi del carnefice. Era stata lei a mandare l’uomo dal parroco. Scesa un giorno a Lugano per vendere al mercato i prodotti della malga, aveva visto il giovane pallido sacerdote che le aveva ispirato fiducia e fatto sorgere l’idea di affidargli i suoi esecrati figlioli. Era lei il capofamiglia che provvedeva al fratello e ai figli. — Non voglio discutere — disse Francesco — fino a qual punto siate colpevole o innocente. Una cosa è certa: se non volete che i vostri figli crescano come be­ stie, dovete separarvi da vostro fratello. Finché vivete con lui, la spaventosa reputazione che avete non si po­ trà reprimere. In voi verrà sempre presupposto l'orribile peccato. A queste parole la donna parve dominata dalla più sorda caparbietà; non rispose e, come non ci fosse nes­ suno, si occupò delle sue faccende domestiche. Intan-

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to entrò una ragazza sui quindici anni che, spinte alcu­ ne capre nella stalla, si diede ad aiutare la donna, an­ che lei come se Francesco non fosse presente. Questi, non appena vide l'ombra della fanciulla scivolare in fondo alla caverna, intuì che doveva essere di una bel­ lezza straordinaria. E si fece il segno della croce, per­ ché aveva provato come un leggero spavento di natura inesplicabile. Non capiva se fosse il caso di ripetere i suoi moniti alla presenza della giovane pastora. Era senza dubbio corrotta fino alle radici, dato che Satana l’aveva portata al mondo per le vie del più nero pec­ cato; ma le poteva essere rimasto ancora un residuo di purezza e forse non era consapevole della sua tenebro­ sa origine. In ogni caso era molto pacata nei movimenti, e non se ne poteva assolutamente arguire un animo inquieto, o una coscienza oppressa. Al contrario, tutto rivelava una modesta sicurezza di sé che la presenza del sacer­ dote non incrinava. Fino a quel momento non lo aveva nemmeno sfiorato con lo sguardo, o almeno egli non l’aveva sorpresa a incontrare i suoi occhi. Anzi, mentre la osservava di nascosto attraverso le lenti, andava chie­ dendosi se realmente una figlia del peccato, una crea­ tura di simili genitori potesse essere così fatta. Infine la vide scomparire per una scala a pioli in una specie di soppalco e potè quindi continuare la sua faticosa ope­ ra di curatore d’anime. — Non posso abbandonare mio fratello — disse la donna — per il semplice motivo che senza di me sareb­ be perduto. È appena capace di scrivere il suo nome, ho fatto una gran fatica a insegnarglielo. Non distingue le monete e ha paura del treno, della città e degli uomini. Se vado via mi seguirà come un povero cane segue il padrone perduto. E o mi troverà o perirà miseramente: che ne sarà allora dei figlioli e della nostra roba? Se

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rimango qui coi figli, vorrei vedere quello che riuscirà ad allontanare mio fratello ! Lo si dovrebbe mettere in catene e rinchiudere a Milano dietro le inferriate. Il parroco obiettò: — Come potrebbe infine avvenire se non volete seguire il mio buon consiglio. A questo punto le paure della donna si trasformarono in furore. Aveva mandato suo fratello da Francesco disse — affinché egli avesse pietà di lei, non perché la rendesse infelice. Allora preferiva essere odiata da quel­ li laggiù e continuare a vivere reietta come era prima. Era una buona cattolica, ma chi è ripudiato dalla Chie­ sa ha il diritto di darsi al diavolo. E ciò che non ave­ va ancora commesso, il grande peccato imputatole, chi sa, forse l’avrebbe commesso ora. Tra le parole e le grida convulse della donna, Fran­ cesco udiva scendere dal palco, dov’era scomparsa la ra­ gazza, un dolce canto continuo, ora sommesso come un soffio, ora più forte, di modo che l’anima sua era presa da quel fascino melodioso più di quanto non ascoltasse gli scoppi di collera della donna perduta. E un’onda lo invase insieme con un’ansietà che non aveva mai pro­ vata. Il buco fumoso di quella spelonca da bestie più che da uomini gli parve mutato per incantesimo nella più amena delle grotte cristalline del paradiso dantesco : pie­ na di voci angeliche e di palpitanti ali di tortora. Uscì. Non era in grado di resistere ancora, senza tremare visibilmente a quegli influssi conturbanti. Fuo­ ri, trovatosi davanti al cavo mucchio di pietre, aspirò la fresca aria montanina e, come un vaso vuoto, si sentì riempire della potente impressione della montagna. La sua anima si concentrò tutta nel potere degli occhi e ab­ bracciò gli immensi colossi della crosta terrestre, dalle lontane cime nevose ai precipizi vicini, sotto il regale splendore della primavera. Rivide sopra il pan di zuc­ chero di Sant’Agata le brune aquile marine che incon­

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sapevoli tracciavano le loro ruote. In quella concepì l’i­ dea di celebrare là per la famiglia bandita una messa in segreto, ed espose questo pensiero alla donna addo­ lorata che si era fatta sulla soglia della caverna incon­ tro a una turba di gialli soffioni. — A Soana non potete venire, come sapete — le disse. — Se vi invitassi, sa­ rebbe un guaio per voi e per me. Di nuovo la donna si commosse fino alle lacrime e promise di trovarsi in un giorno stabilito col fratello e coi figli maggiori davanti alla cappella di Sant’Agata. Quando si fu allontanato dall’abitazione di Luchino e dalla sua esecrata famiglia quanto era necessario per­ ché non lo potessero vedere, il parroco scelse un maci­ gno scaldato dal sole per riposare e riflettere sulla sua recente esperienza. Riconobbe di essere salito lassù con un pauroso interessamento, ma con la doverosa freddez­ za e senza pregustare in alcun modo ciò che ora lo an­ gustiava come un presentimento. Ma che cosa era infine? Tirò, lisciò, pulì a lungo la sua veste come se di lì potesse venirgli la soluzione. Dopo un po’ non avendo trovato la desiderata chia­ rezza, estrasse il consueto breviario, ma nemmeno la let­ tura ad alta voce lo liberò da una tal quale curiosa in­ decisione. Gli pareva di aver trascurato alcunché, forse un punto importante della sua missione. Perciò al diso­ pra degli occhiali riguardava continuamente la via per­ corsa come aspettando qualcosa e non si risolveva a pro­ seguire l’iniziata discesa. Così si inoltrò quasi in un sogno donde lo svegliaro­ no due piccoli incidenti che la sua fantasia, uscita dal campo usato, afferrò in proporzioni esagerate: in primo luogo, a causa dell’aria fredda, gli s’incrinò con un col­ po secco la lente destra degli occhiali, e dopo un istan­ te udì sopra di sé uno sbuffare pauroso e una forte pressione alle spalle.

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Balzò in piedi, ma non potè che ridere quando scor­ se la causa del suo timore panico; un caprone pezzato gli aveva dato la prova della sua illimitata fiducia po­ nendogli le zampe anteriori sulle spalle senza alcun ri­ guardo per la sua veste talare. Ma quello era soltanto il principio della sua inva­ dente confidenza. Evidentemente il velloso animale dal­ le robuste corna ben ritorte e dagli occhi fiammeggian­ ti era avvezzo a chiedere l’elemosina agli alpinisti di passaggio, e lo faceva in un modo così buffo, risoluto e irresistibile che ci si poteva salvare soltanto con la fu­ ga. Ritto sulle zampe posteriori continuava a puntare le anteriori sul petto di Francesco, e dopo che questi, angustiato, gli ebbe permesso di frugare nelle sue ta­ sche e di ingoiare con incredibile rapidità un paio di croste di pane, parve deciso a rosicchiare i capelli, il naso, le dita del malcapitato. Una vecchia capra, cui il campanaccio e le mammel­ le pendevano fino al suolo, aveva seguito il grassato­ re e, incoraggiata da lui, cominciò a sua volta a mole­ stare il sacerdote. Le avevano fatto particolare impres­ sione il breviario col taglio dorato e con la croce e, men­ tre Francesco era intento a respingere un corno del ca­ prone, era riuscita a impadronirsi del volumetto. E pren­ dendo i fogli stampati in nero per foglie verdi mangiò letteralmente e con grande appetito le sante verità, se­ condo il precetto del profeta. In quell’angustia, ancora peggiorata per l’accorrere di altri ovini isolati, arrivò l’improvviso soccorso della pa­ stora. Era quella ragazza che Francesco aveva visto di sfuggita nella capanna di Luchino. Quando la fanciulla snella e robusta, scacciate le capre, fu, con le guance fresche e rosse e con gli occhi ridenti, davanti a Fran­ cesco, questi esclamò: — Brava, ragazza, mi hai salva­ to! — E quando, ridendo a sua volta ritirò dalle mani

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della giovane Èva il suo breviario, soggiunse: — È stra­ no davvero che pur essendo anch’io pastore sia così im­ barazzato davanti al tuo gregge. A un prete non è lecito intrattenersi con ragazze o giovani donne più di quanto non richieda il suo even­ tuale dovere, e i fedeli lo notano subito se fuori di chiesa assistono a un siffatto incontro a due. Anche Fran­ cesco infatti, memore del suo rigoroso ufficio, aveva ri­ preso senza indugio la via del ritorno; eppure gli pareva quasi di essersi colto in peccato e di doversi mondare al­ la prima occasione con la confessione e il pentimento. Non era ancora uscito dalla portata dei campanacci allor­ ché gli giunse il suono di una voce femminile che ad un tratto gli fece dimenticare tutte le sue meditazioni. La voce era tale che non gli venne neanche l’idea che potesse appartenere alla pastorella di poco prima. Egli aveva sentito non solo a Roma i cantori del Vaticano, ma più volte con sua madre a Milano anche le cantanti di teatro, non gli erano quindi ignoti i gorgheggi e il bel canto delle primedonne. Saranno certo turisti mila­ nesi, pensò, e desiderò d’incontrare possibilmente colei che possedeva una voce così bella. Non vedendola arri­ vare proseguì passo passo scendendo guardingo verso l’abisso. Le esperienze che Francesco aveva fatte in complesso e in particolare in quella gita d’ufficio erano esterior­ mente trascurabili, se non si considerano gli orrori ger­ mogliati nell’abituro dei fratelli Scarabota. Il parroco avvertì subito che quella escursione in montagna era per lui un avvenimento molto importante, anche se non si rendeva neanche lontanamente conto della portata di quell’importanza. Sentì che dentro di lui era avvenuto un mutamento. Era in condizioni nuove che di minuto in minuto gli diventavano più strane e più sospette, ma non mai tanto sospette da fiutarvi la presenza di Satana

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e da scagliargli un calamaio, seppure l’avesse avuto in tasca. Il mondo alpino era come un paradiso ai suoi pie­ di. Per la prima volta, a mani spontaneamente giunte, si felicitò con se stesso, perché il suo superiore gli ave­ va affidato la cura di proprio quella parrocchia. In con­ fronto di quei baratri che cos’era mai il panno di San Pietro che, sostenuto per tre cocche dagli angeli, scen­ deva dal cielo? Dove esisteva, secondo i concetti uma­ ni, una maestà più solenne di quella degli inaccessibili dirupi del Generoso tra i quali echeggiava continuamen­ te, nello sciogliersi delle nevi, il cupo fragore delle va­ langhe primaverili ?

Dal giorno della sua visita ai reietti, Francesco non riusciva, con suo grande stupore, a ritrovare la pace spensierata della sua vita precedente. Il nuovo aspetto che la natura aveva assunto non impallidiva, né essa si lasciava respingere in alcun modo nello stato primiero, inanimato. Alle sue influenze che lo angosciavano non solo di giorno, ma anche nei sogni egli dava, convinto, il nome di tentazioni. E siccome la fede della Chiesa, per il fatto stesso che combatte la superstizione pagana, è legata a questa, Francesco faceva risalire seriamente la sua metamorfosi al contatto con quel pezzo di legno, con quel feticcio che il villoso pastore aveva salvato dal fuoco. Senza dubbio era rimasto ancor vivo un residuo dell’orrendo culto fallico degli antichi, di quel culto ignominioso che nel mondo è stato debellato dalla Santa guerra, dalla Croce di Gesù. Fino al momento in cui Francesco aveva visto l’oggetto osceno il suo cuore por­ tava impressa soltanto la Croce. Era stato segnato, non diversamente da come si marcano le pecore d’un greg­ ge con un bollo infuocato, col marchio della Croce, e questo stigma presente nella veglia e nel sogno era di­ ventato il simbolo del suo essere. Ora invece Satana, il

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maledetto in persona, guatava al di sopra della Croce, e il lurido, orribile simbolo satiresco, nella diuturna con­ tesa, prendeva sempre più il posto della Croce. Oltre che al sindaco, Francesco aveva dato anzitutto al vescovo il resoconto di quella visita; la risposta per­ venutagli da quest’ultimo approvava il suo operato. « So­ prattutto » scriveva il vescovo « eviti che si faccia chias­ so e scandalo. » Gli pareva saggia l'iniziativa di indire per i poveri peccatori una messa particolare e segreta a Sant’Agata, nella cappella della Vergine santa. Ma nemmeno il riconoscimento del suo superiore potè rista­ bilire la pace interiore di Francesco; egli non riusciva a liberarsi dal pensiero di essere ritornato da lassù con addosso una specie di incantesimo. A Ligornetto dove Francesco era nato e suo zio, il celebre scultore, aveva vissuto i suoi ultimi dieci anni, viveva ancora quel vecchio parroco che a suo tempo lo aveva introdotto ragazzo nelle salutari verità della fede cattolica e incamminato per la via della grazia. Da que­ sto vecchio andò un giorno Francesco percorrendo la di­ stanza tra Soana e Ligornetto in circa tre ore. Il vec­ chio lo accolse dandogli il benvenuto e con visibile com­ mozione si disse disposto ad ascoltare la confessione se­ condo il desiderio del giovane. E naturalmente lo assolse. Francesco aveva espresso al vecchio i suoi scrupoli di coscienza press’a poco così: — Da quando sono stato insieme coi poveri peccatori nella malga di Soana sento una specie di ossessione. Mi vengono i brividi. Mi sem­ bra di aver indossato non già un’altra veste, ma addi­ rittura un’altra pelle. Quando sento scrosciare la casca­ ta di Soana, vorrei scendere in quella gola profonda e mettermi sotto quella massa d’acqua, ore e ore, per pu­ rificarmi di dentro e di fuori, e guarire. Quando vedo la Croce in chiesa, la Croce sopra il mio letto, rido. Non riesco, come prima, a piangere raffigurandomi le

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pene del Redentore. Il mio sguardo invece è attratto da ogni sorta di oggetti che somigliano al feticcio di Lu­ chino. Talvolta sono anche del tutto differenti, ma io ci vedo una rassomiglianza. Per studiare, per immerger­ mi nello studio dei Padri della Chiesa avevo messo le tendine alla finestra della mia cameretta. Ora le ho tol­ te. Il canto degli uccelli, lo scroscio dei torrenti per i prati dopo lo scioglimento delle nevi, il profumo dei narcisi mi davano fastidio. Oggi spalanco i vetri per godere tutto ciò avidamente. « Tutto questo mi angustia » aveva continuato Fran­ cesco « ma forse non è il peggio. Peggio è che come per negromanzia sono caduto in potere di sconci demoni. Mi pizzicano, mi stuzzicano, mi solleticano, mi stimolano al peccato, di giorno, di notte, ogni istante: è un tormento. Apro la finestra e per loro magia mi sembra che il can­ to degli uccelli nel ciliegio fiorito sotto la mia finestra ribocchi di impudicizia. Certe forme nella corteccia de­ gli alberi, perfino certi profili di montagne mi provo­ cano, mi rammentano parti del corpo femminino. È un terrificante assalto di demoni perfidi, laidi, subdoli, dei quali sono in balia nonostante tutte le macerazioni. Tut­ ta la natura - ve Io dico inorridito - strepita e tuona talvolta e canta nelle mie orecchie impaurite una mo­ struosa canzone fallica con la quale - sono costretto a credere nonostante le mie resistenze — inneggia al mise­ rabile idoletto del pastore. « Questo aumenta naturalmente » aveva proseguito Francesco « la mia inquietudine, i miei scrupoli tanto più che riconosco il mio dovere di andare a combattere il pestifero focolare lassù sull'alpe. Ma nemmeno questa è la parte peggiore della mia confessione. Ecco il peg­ gio: persino nei più gravi doveri del mio ufficio s’in­ sinua, con una dolcezza infernale, un veleno indelebile che tutto sconvolge. Sulle prime fui preso, con puro e

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sano vigore, dalle parole di Gesù intorno alla pecorella smarrita e al pastore che abbandona il gregge per recu­ perarla dagli impervi dirupi. Adesso invece dubito che questa intenzione duri ancora in tutta la sua primitiva purezza. Si è fatta più appassionata, sì : mi sveglio di notte, le guance bagnate di lacrime, e mi sciolgo in sin­ ghiozzante compassione per quelle anime perdute lassù. Ma quando dico anime perdute, ecco forse il punto in cui andrebbero divise con un taglio netto la menzogna e la verità. L’anima peccatrice di Scarabota e di sua sorella è rappresentata nella mia mente dall’unica e sola immagine del frutto del loro peccato, voglio dire della loro figlia. « E ora mi domando se la causa del mio zelo appa­ rentemente accetto a Dio, non sia il mio illecito desi­ derio di lei, e se faccio bene e non corro il pericolo della morte eterna, continuando la mia opera apparen­ temente accetta a Dio. » Per lo più serio, ma ogni tanto sorridendo, il vecchio prete esperto del mondo aveva ascoltato la minuziosa confessione del giovane. Francesco era proprio Come egli lo conosceva, con quel coscienzioso senso, esterno e in­ teriore, dell’ordine, col suo bisogno di precisione e pu­ lizia. Disse: — Francesco, non temere! Cammina per la tua strada come hai camminato sempre! Non ti deve stupire se le macchinazioni dell’inimico appaiono più insistenti e pericolose proprio quando ti accingi a strap­ pargli le vittime che egli considera quasi sicure. Con un senso di liberazione Francesco uscì dalla ca­ nonica e si trovò sulla strada di Ligornetto, il borgo in cui aveva passato l’infanzia. È un villaggio piutto­ sto piatto in un largo fondovalle, e intorno si stendono fertili campagne dove tra ortaggi e cereali le viti, simili a scuri canapi attorti pendono a festoni tra un gelso e

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l’altro. Anche questa zona è dominata dai ciclopici di­ rupi del monte Generoso, che vi si affaccia con tutta la maestà del versante occidentale. Era quasi mezzogiorno e Ligornetto si presentava in uno stato di sonnolenza. Al suo passaggio Francesco fu salutato soltanto dal chiocciare di qualche gallina, da alcuni ragazzini che stavano giocando e, all’uscita dal villaggio, dal guaito di un cagnolino. Laggiù, alla fine del villaggio, sorge di traverso la casa, costruita con abbondanti mezzi, di suo zio, il buen retiro di quel Vin­ cenzo scultore, che, ormai disabitata e tramutata in mu­ seo, è proprietà del Canton Ticino. Francesco salì i gra­ dini del giardino abbandonato e incolto e assecondò l’improvviso desiderio di rivedere anche l’interno della casa. I contadini d’una vicina fattoria, suoi vecchi co­ noscenti, gli diedero la chiave. I rapporti che correvano fra il giovane prete e l’ar­ te erano quelli che la tradizione coltivava nelle sue con­ dizioni sociali. Il suo illustre zio era morto da una de­ cina d'anni e dopo il giorno dei funerali Francesco non aveva più messo piede nella insigne dimora dell’artista. Non avrebbe saputo dire che cosa l’avesse indotto in quel momento a visitare quella casa vuota che di solito, pas­ sando di lì, aveva guardato solo con fugace interessa­ mento. Per lui lo zio non era stato che una persona di riguardo, la cui attività gli era estranea e insignificante. Quando ebbe girato la chiave nella toppa e dalla por­ ta cigolante sui cardini fu entrato nel vestibolo, Fran­ cesco provò quasi un brivido al polveroso silenzio che gli venne giù dalla scala e da tutte le stanze aperte. A destra del vestibolo vide subito la biblioteca dell’arti­ sta defunto, e comprese che là era vissuto un uomo di libera cultura. In modesti armadi trovò, oltre al Vasari, tutte le opere di Winckelmann, mentre il Parnaso ita­ liano era rappresentato dai sonetti di Michelangelo, da

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Dante, Petrarca, Tasso, Ariosto e altri. In bacheche co­ struite apposta notò una raccolta di disegni e acqueforti, in un’altra una collezione di medaglie del Rinascimento; e, qua e là nella stanza, molte preziose rarità tra le quali vasi etruschi di terracotta dipinta e antichità di bronzo e di marmo; sulle pareti, entro cornici, alcuni disegni particolarmente belli di Leonardo e Michelan­ gelo, con nudi maschili e femminili. Nello stanzino at­ tiguo rilevò che tre pareti erano addirittura coperte di simili oggetti. Di lì passò in una sala a cupola, alta alcuni piani, che riceveva la luce dall’alto. In quella sala Vincenzo aveva lavorato il legno e il marmo, creando modelli e statue; i calchi delle sue opere migliori empivano in muta e fitta adunanza lo spazio quasi religioso. Oppresso, anzi angosciato e impaurito dal suono dei propri passi, quasi con rimorso Francesco era arrivato fin là e si accingeva a osservare per la prima volta alcune delle opere di suo zio. Accanto a una statua di Michelangelo vide un Ghiberti, vide un Dante: opere costellate di punteggiamenti, perché i modelli erano sta­ ti eseguiti in marmo, ma ingranditi. Quelle figure però, benché famose nel mondo, non poterono trattenere a lun­ go l’attenzione del giovane. Vicino ad esse scorse le sta­ tue di tre fanciulle, le figlie di un marchese che era stato abbastanza spregiudicato da farle ritrarre senza alcun indumento. A vederle, la più giovane delle signo­ rine non aveva più di dodici anni, la terza più di di­ ciassette. Francesco si destò soltanto dopo aver osser­ vato a lungo in estasi quei corpi snelli: essi non osten­ tavano la loro nudità come quella dei greci, come no­ biltà naturale e immagine della divinità, ma come evi­ dente indiscrezione d’alcova. Anzitutto la copia non era distaccata dagli originali, ma ancora perfettamente ri­ conoscibile; e gli originali pareva dicessero: siamo nude

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in modo indecente, spogliate contro la nostra volontà e il nostro pudore, in seguito a un ordine perentorio. Destatosi da quello stordimento, col cuore in tumulto, Francesco si guardò timidamente in giro. Non faceva niente di male, ma il fatto di stare da solo insieme con quelle figure già gli pareva un peccato. Per non essere magari colto di sorpresa decise di al­ lontanarsi al più presto. Ma arrivato alla porta di casa invece di uscire fece scattare la maniglia dall’interno e girò per giunta la chiave, sicché nessuno lo poteva sor­ prendere così rinchiuso nella spettrale casa del morto. Fatto ciò ritornò ai gessi scandalosi delle tre Grazie. Dopo un po’, mentre il cuore gli batteva più forte, lo colse una pallida e timida frenesia. Un irresistibile impulso gli fece accarezzare i capelli della maggiore tra le marchesine, come fosse viva. Benché rasentasse pale­ semente la follia, anche secondo il suo giudizio, l’atto poteva ancora passare per sacerdotale. Ma la seconda marchesina dovette accettare già una carezza sulla spalla e su un braccio : tutta una spalla, tutto un braccio fino alla mano liscia e delicata. Con la terza, la marchesina minore, portando più avanti la tenerezza e dandole infine un bacio timido e delittuoso sotto il seno sinistro, Fran­ cesco divenne il peccatore intontito e forsennato, e si trovò non meno a disagio di Adamo quando, gustato il pomo della conoscenza, udì la voce del Signore. Fuggì come inseguito. Francesco passò i giorni che seguirono parte nelle chiese a pregare, parte nella sua canonica a macerarsi. Grandi erano la sua contrizione e il suo pentimento. Con la fervida devozione che non aveva mai provata fi­ no allora poteva sperare di vincere infine le tentazioni della carne. Senonché il conflitto tra il buono e il malo principio era divampato nel suo cuore con furia impen-

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sata, al punto da sembrargli che Dio e il diavolo aves­ sero trasferito per la prima volta il loro campo di bat­ taglia nel suo petto. Nemmeno il sonno, la parte irre­ sponsabile della sua esistenza, gli dava più pace: pro­ prio il periodo incustodito del sonno notturno pareva infatti particolarmente gradito a Satana per suscitare ro­ vinose fantasie nell’anima innocente del giovane. Una notte, verso il mattino - egli non sapeva se nel sonno o nella veglia - vide alla bianca luce della luna entrare nella camera e avvicinarsi al suo letto le tre candide figure delle leggiadre figlie del marchese, e a guardar meglio, notò che ciascuna si confondeva magicamente con l’immagine della pastorella dell’alpe di Santa Croce. Si era stabilita senza dubbio tra la malga-giocattolo di Scarabota e la camera del prete che vedeva l’alpe dal­ la finestra un legame la cui canapa non era certo filata da angeli. Francesco conosceva abbastanza la gerarchia celeste e abbastanza quella infernale per accorgersi su­ bito donde provenisse quella fattura. Egli credeva nelle streghe. Esperto di diversi rami della scienza scolastica, reputava che demoni maligni, per ottenere certi insani effetti, sfruttassero l'influsso degli astri. Aveva impa­ rato che l'uomo, in quanto al corpo, appartiene ai corpi celesti, l'intelletto lo uguaglia agli angeli, la volontà è subordinata a Dio, ma Dio permette che gli angeli ca­ duti distraggano da Dio il volere dell’uomo, e il regno dei demoni aumenti attraverso l’alleanza con siffatti uo­ mini già traviati. Insomma, il giovane religioso trema­ va fin nel midollo delle ossa e paventava il venefico morso dei diavoli che fiutano sangue, aveva paura del bestiale Behemoth e specialmente di Asmodeo, il vero demonio della lussuria. Sulle prime non seppe risolversi a presupporre nei due sciagurati fratelli il peccato di stregoneria e di ma­ gia. Fece però un’esperienza che gli parve tristamente

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sospetta. Ogni giorno con santo zelo e con tutti i soc­ corsi religiosi, provvedeva alla sua purificazione interio­ re per liberarsi dall’immagine della pastorella che gli si presentava sempre più distinta, più chiara, più tena­ ce. Era forse una pittura su una indistruttibile tavola di legno? Era una tela che né l’acqua né il fuoco po­ tevano intaccare? Talvolta Francesco si sorprendeva a considerare, in silenzio e con stupore, come quell’immagine si faceva avanti dappertutto e con insistenza. Leggeva un libro, e quando scorgeva su una pagina quel viso dolce, incorni­ ciato dai singolari capelli rosso-bruni, color terra, quei grandi occhi scuri, voltava la pagina per coprirla e na­ sconderla: ma essa traspariva da ogni foglio, come se questo non ci fosse, e in genere attraversava tende, por­ te, muri, e appariva persino in chiesa. In queste angosce, in questi intimi contrasti il giova­ ne moriva dall'impazienza perché il giorno stabilito per la messa speciale sulla vetta di Sant’Agata non si deci­ deva a spuntare. Egli desiderava compiere al più presto il dovere che si era assunto, perché così poteva forse strappare la ragazza agli artigli del demonio. Ma più ancora desiderava rivedere la ragazza; più di tutto però agognava la liberazione dal martirio di quell’incantesi­ mo. Mangiava poco, passava la maggior parte della not­ te senza dormire e, siccome di giorno in giorno appa­ riva più pallido e emaciato, venne presso i parrocchiani in odore di religiosità esemplare. Finalmente spuntò la mattina dell’appuntamento nella cappella di Sant’Agata in cima al pan di zucchero, dove il parroco doveva incontrare quei poveri peccatori. Per il faticoso sentiero non era possibile arrivare lassù in me­ no di due ore. Alle nove Francesco, pronto a salire, uscì nella piazza di Soana, fresco e sereno, disposto a con­ siderare il mondo con occhi rinati. Si andava verso i

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primi di maggio e la giornata non poteva essere più gradevole; il giovane aveva già visto molte giornate di uguale bellezza, ma senza sentire, come ora sentiva, che la natura è un paradiso terrestre. Donne e ragazze, raccolte come al solito intorno al sarcofago traboccante di limpida acqua alpina, salutarono il parroco a gran voce. Un che nel suo atteggiamento e nell’espressione del viso, come pure la festosa freschez­ za della giovane giornata avevano infuso coraggio alle lavandaie. La gonna stretta fra le gambe, sicché di alcu­ ne si vedevano i polpacci bruni e le ginocchia, stava­ no curve e assidue al lavoro, con le braccia nude, forti e abbronzate. Francesco si avvicinò al gruppo. Era in vena di dir parole gentili, anche se non relative alla sua cura d’anime, intorno al bel tempo, all’allegria e alla speranza di una buona futura vendemmia. Per là prima volta, suggestionato probabilmente dalla sua visita alla casa dello zio scultore, si soffermò a guardare il fregio ornamentale del sarcofago che rappresentava un corteo di baccanti e una danza di satiri e auletridi, die­ tro al carro, trascinato da pantere, di Dioniso, il dio incoronato di pampini e grappoli. In quel momento non gli parve neanche strano che gli antichi coprissero il marmoreo involucro della morte con figure di vita esu­ berante. Le donne e ragazze, tra le quali ce n’erano al­ cune di insolita bellezza, accompagnarono la sua spiega­ zione con chiacchiere e risate, fino a fargli credere di essere in mezzo a menadi ebbre ed esultanti. Quella seconda ascensione nel mondo alpestre fu, con­ frontata con la prima, come quella d’un uomo con gli oc­ chi aperti paragonata a quella di un cieco dalla nasci­ ta. Francesco si sentì costretto a pensare di aver acqui­ stato la vista all’improvviso. Anche l’esame del sarco­ fago non gli parve affatto fortuito, bensì profondamen­ te significativo. Il morto dov’era? Acqua viva colmava

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la pietra aperta, lo scrigno funebre, e la resurrezione per­ petua era annunciata nel linguaggio degli antichi sulla superficie di marmo. Così andava inteso quel vangelo. Era, è vero, un vangelo che aveva ben poco in comu­ ne con quello che Francesco aveva imparato e insegnato. Non proveniva dai fogli e dai caratteri di un libro, ma piuttosto era zampillato dalla terra attraverso erba e fiori e defluito con la luce dal centro del sole. Tutta la natura adottava una vita quasi parlante. Da morta e muta diventava attiva, confidenziale, aperta e affabile. Pareva a un tratto che dicesse tutto quanto aveva taciu­ to fino allora. Sembrava che il giovane fosse il suo be­ niamino, l’eletto, il figlio, che essa come una madre ini­ ziava al sacro mistero del suo amore e della sua mater­ nità. Scomparsi erano gli abissi del terrore, tutte le an­ gosce dell’anima conturbata. Nulla era rimasto delle te­ nebre e delle ansietà causate dal preteso assalto dell’in­ ferno. Tutta la natura emanava bontà e amore, e Fran­ cesco, colmo di bontà e amore, la ricambiava di amore e bontà. Strano: mentre si arrampicava faticosamente, scivolan­ do spesso da angolosi macigni, in mezzo a ginestre, rovi e faggi, il mattino di primavera lo accoglieva come una beata e possente sinfonia della natura che gli parlava più della creazione che delle cose create. Gli si apriva il mistero d’un’opera dispensata per sempre dalla morte. Chi non ode, pensava il giovane parroco, questa sinfo­ nia inganna se stesso quando intraprende a cantare col salmista jubilate deo omnis terra o Benedicite coeli do­ mino. Gonfia d'acque la cascata di Soana scrosciava nella sua stretta gola. Il suo rombo era sonoro e orgiastico, non si poteva non udirne il linguaggio. La voce del grande rigoglio echeggiava ora più cupa, ora più chiara dalla vicenda eterna. Dalla titanica parete ombrosa del

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Generoso si staccavano le tonanti valanghe, e quando Francesco udiva quel tuono la valanga col suo silenzio­ so fluire delle masse nevose si era già riversata nel let­ to del Savaglia. Dove trovare nella natura qualcosa che non sia preso dal mutevole vortice della vita e non ab­ bia un’anima? qualcosa che non agisca per l’impulso d’una volontà? Parole, scrittura, canto e sangue ci sono dappertutto. Non gli posava il sole una mano calda e carezzevole sul collo tra l’una e l’altra spalla? Non si muovevano e frusciavano le foglie dei cespugli di lauro e faggio quando egli li sfiorava passando? Non sgor­ gava l’acqua da ogni dove disegnando, in un sommesso parlottio, la scrittura a nodi dei suoi rigagnoli ? Non vi leggeva lui, Francesco Vela, non vi leggevano a mi­ riadi le barbe di piante piccole e grandi, e non era un loro segreto quello di foggiare miriadi di fiori e di ca­ lici ? Il prete si chinò a raccogliere un sasso e lo trovò coperto di licheni rossicci: anche quello un mondo me­ raviglioso, un linguaggio, una pittura, una scrittura, una forma plasmante, testimone della vita figurativa. E non rendevano le voci degli uccelli la medesima te­ stimonianza, intrecciandosi come una rete di fili infini­ tamente sottili e invisibili sopra i baratri dell’ampia val­ lata? Quella rete di maglie sonore si trasformava a mo­ menti per Francesco in fili concreti d’uno splendore argenteo che faceva tremolare un suo fuoco interiore e parlante. Non era amore reso udibile e visibile, e rive­ lata felicità della natura? E non era incantevole vedere come quel tessuto, non appena un soffio lo squarciava, era subito rammendato da spole volanti, veloci, instan­ cabili ? Dov’erano i piccoli tessitori pennuti ? Non si vedevano se non quando un uccellino si spostava con un guizzo muto; le minuscole gole emettevano quel lin­ guaggio tripudiante su tutte le cose vicine e lontane. Dove tutto pullulava e tutto palpitava, dentro e in­

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torno a lui, Francesco non riusciva a scoprire il luo­ go della morte. Toccò il tronco d’un castagno e vi sen­ tì il montare dei succhi. Aspirò Paria come un’anima viva e comprese che ad essa doveva il respiro e le laudi dell’anima propria. E non era lei quella che della sua gola e della sua lingua faceva l’eloquente strumento della verità rivelata? Francesco sostò un istante davanti a un formicaio brulicante in pieno fervore. Un picco­ lissimo ghiro era stato scarnito da quegli enigmatici ani­ maletti; essi ne avevano lasciato soltanto il gracile sche­ letro: questo e il ghiro scomparso nel tiepido stato di quegli imenotteri non facevano forse pensare che la vita è indistruttibile? e la natura, nella sua istintiva potenza creatrice, non aveva cercato soltanto la forma nuova? E di nuovo il prete vide, questa volta non sotto, ma in alto sopra di sé, le brune aquile marine di Sant’Agata. Il loro corpo alato e pennuto portava, con maestosa vo­ luttà, il miracolo del sangue, il miracolo del cuore pul­ sante, attraverso gli spazi. Ma chi poteva disconoscere che le loro mutevoli ruote tracciavano sulla seta azzur­ ra del cielo una palese scrittura, il cui significato e la cui bellezza erano strettamente legati alla vita e all’amo­ re? Francesco ebbe l’impressione che gli uccelli lo invi­ tassero a vivere. Se scrivevano col tracciato dei loro voli, possedevano certo anche il vigore della vita. Ed egli pen­ sò alla lunga portata della loro vista, pensò agli innu­ merevoli occhi di uomini, uccelli, mammiferi, insetti e pesci, coi quali la natura vede se stessa. Sempre più stupefatto ne riconobbe la infinita maternità: essa prov­ vede acche nulla rimanga nascosto e vietato ai suoi fi­ gli, ai quali non solo ha dato i sensi della vista, del­ l'udito, dell’olfatto, del gusto e del tatto, ma per le me­ tamorfosi nei millenni tiene in serbo un’infinità di sensi nuovi. Quale meraviglioso vedere, udire, fiutare, gustare e sentire nel mondo!

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Sopra alle aquile marine si librava una nuvola bian­ castra. Somigliava a un radioso padiglione estivo. Ma anch’essa si spostò e a vista d’occhio si trasformò viva e cangiante.

Forze mistiche e profonde avevano aperto gli occhi a Francesco. Ma lo sfondo della vicenda era dato dall’inconfessata felicità del fatto che sapeva davanti a sé quat­ tro ore deliziose durante le quali avrebbe riveduto la povera pastorella reietta. Questa previsione lo rendeva ricco e sicuro, come se il tempo così prezioso non do­ vesse passare mai. Lassù, sì, là dove era la cappella, so­ pra la quale roteavano le aquile, lo attendeva — ne era convinto — una felicità che doveva far invidia agli an­ geli. Saliva e saliva e il più beato entusiasmo gli met­ teva le ali ai piedi. Ciò che si proponeva di fare lassù doveva riversare su di lui una trasfigurazione che, nella libera prossimità del cielo, l’avrebbe quasi reso uguale al buon Pastore divino. “Sursum corda! Sursum corda!" andava ripetendo il saluto francescano, mentre al suo fianco camminava Sant’Agata, ia martire cui era dedicata la cappelletta, la santa che andava incontro alla morte sul patibolo come a una danza gioconda. E dietro a lei e a lui - pareva a Francesco nella salita - veniva un corteo di sante donne, tutte desiderose di assistere al prodigio d’amore sulla festosa cima. Maria stessa coi divini capelli deliziosamente sciolti precedeva di un buon tratto coi piedi graziosi il prete e la sua processione di donne sante affinché al suo sguardo, al suo respiro, sot­ to i suoi piedi la terra si coprisse di festevoli fiori per tutti : “Invocate! Invocate!" mormorava Francesco esta­ tico. “Invoco te, nostra benigna stella!" Era arrivato senza stancarsi alla cima del monte che non era più larga di quanto non richiedesse la pianta della chiesetta. Comprendeva inoltre uno stretto margine e un

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breve spiazzo antistante, al cui centro sorgeva un gio­ vane castagno, ancora spoglio. Un lembo del cielo e del­ l’azzurra veste della Madonna pareva steso intorno al­ la chiesetta solitaria: tanto vi cresceva rigogliosa la gen­ ziana. O si poteva anche immaginare che la cima del monte si fosse tuffata nell’azzurrità del cielo. II chierico e i fratelli Scarabota erano già sul posto e si erano accomodati sotto il castagno. Francesco im­ pallidì, benché di sfuggita: i suoi sguardi avevano cer­ cato invano la pastorella. Atteggiò il viso a una espres­ sione severa e, senza mostrare la sua delusione e il co­ sternato tumulto del cuore, aprì con una gran chiave ar­ rugginita la porta della cappella. Entrò nel santuario dove il chierico, dietro l’altare, fece i preparativi per la messa. Da una bottiglia versò un po’ d’acqua bene­ detta nel bacile asciutto dove Luchino e sua sorella po­ terono tuffare le loro dita dure e colpevoli. Fattosi il segno della croce s’inginocchiarono appena oltre la so­ glia con timore e sospetto. Intanto Francesco in preda all’inquietudine uscì al­ l’aperto dove, dopo aver girato di qua e di là, trovò con muta e improvvisa agitazione, un poco più in basso del ripiano della cima, la ragazza che cercava, su un firmamento di luminose genziane azzurre. — Entra ! Aspettavo te! — disse il prete. Ella si alzò con appa­ rente lentezza e lo guardò tranquilla di sotto alle ci­ glia. E pareva che sorridesse amabilmente, ma ciò anda­ va attribuito alla forma naturale delle dolci labbra, al­ la luce soave degli occhi celesti e alle graziose fossette delle guance. In quell’istante si compì la fatale rinascita, il perfe­ zionamento dell’immagine che Francesco aveva custodito nel cuore. Egli vide un infantile e innocente viso di madonna, il cui fascino sconvolgente era unito a una sottile e dolente acerbità. Il rossore quasi eccessivo delle

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guance fioriva sulla pelle bianca, non abbronzata, dove l’umido rossore delle labbra faceva spicco come il fuoco della melagrana. Ogni nota della mùsica di quella testa infantile era ad un tempo dolcezza e amarezza, malin­ conia e serenità. Il suo sguardo accomunava la timidez­ za restia con la tenerezza esigente: entrambe però senza la violenza di moti brutali; con l’incoscienza, invece, dei fiori. Mentre gli occhi contenevano l’enigma e la fiaba del fiore, tutta la persona della fanciulla assomigliava piuttosto a un frutto bello e maturo. La testa — Fran­ cesco lo notò con meraviglia - apparteneva ancora a una bambina in quanto era manifestazione dell’anima; sol­ tanto una certa esuberanza, simile al grappolo gonfio, rivelava che il limite della fanciullezza era varcato, che la destinazione della donna era raggiunta. I capelli in parte bruni, in parte misti a ciocche più chiare, erano raccolti in una pesante corona sulla fronte e sulle tempie. Una specie di sonnolenza greve, non senza un fermento interiore e maturo, pareva facesse abbassare le ciglia della ragazza e conferiva ai suoi oc­ chi una umida e invadente tenerezza. Ma la musica della testa si mutava, sotto il collo eburneo, in un’altra le cui note eterne esprimevano un valore diverso. Dalle spalle cominciava la donna, una donna di forme giovanili e mature che tendevano quasi alla corpulenza e sembrava non si accordassero con quella testa infantile. I piedi nudi e i polpacci bruni sostenevano un corpo florido che per essi pareva quasi di peso eccessivo. La testa pos­ sedeva il mistero sensuale di quel corpo da Iside, incon­ sciamente, semmai come un’idea vaga e lontana. Ma appunto per questo Francesco si sentì in balia di quella testa e di quel corpo imperioso, per la vita e per la mor­ te, irrimediabilmente. Di tutto ciò che vide e sentì nel momento in cui aveva incontrato la creatura di Dio così gravemente com-

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promessa dal peccato originale, il giovane seppe non tradire nulla, eccettuato un lieve tremito delle labbra. — Come ti chiami? — domandò alla colpevolissima in­ nocente. La pastora disse di chiamarsi Agata e lo fece con una voce che a Francesco parve il riso d’una tor­ tora paradisiaca. — Sai leggere e scrivere? — doman­ dò ancora, e quella rispose di no. — Hai un’idea di ciò che significa il sacrificio della messa? — Quella lo guar­ dò senza rispondere. Allora Francesco le ordinò di en­ trare nella chiesetta ed entrò prima di lei. Dietro l’al­ tare il chierichetto lo aiutò a indossare i paramenti. Fran­ cesco si mise in testa la berretta e potè cominciare il sacro rito. Mai come ora si era sentito pervaso da un fervore così solenne. Gli sembrava che soltanto ora la somma bontà divina l’avesse chiamato al suo servizio. L’itinerario degli or­ dini sacri da lui percorso non gli pareva più un’impresa arida e vuota, fallace e avventata che non avesse niente in comune col divino. Ora invece era scoccata nel suo cuore l’ora divina, era cominciato il tempo sacro. L’amo­ re del Redentore era come una pioggia di fuoco celeste, nella quale egli veniva a un tratto liberato e infiammato in virtù dei proprio amore. Con dedizione infinita il suo cuore si allargava ad accogliere tutto il creato e si sen­ tiva unito a tutte le creature in uno stesso palpitante en­ tusiasmo. Da quell’ebbrezza che quasi lo stordiva erup­ pe la pietà per tutte le creature, eruppe con raddoppiata energia lo zelo per la conquista del bene, e soltanto ora a lui parve di comprendere appieno la santa Madre Chiesa e il compito di servirla. Con un rinnovato e ben diverso fervore si propose di diventare il suo servo. E quel percorso, la salita a quella vetta, quanto gli aveva reso accessibile il mistero intorno al cui significato aveva interrogato Agata! Il silenzio di lei che aveva fat­ to tacere anche lui significava, senza che egli si facesse

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scorgere, un consenso acquisito attraverso la rivelazione. La Madre eterna non era forse la somma di tutti i mu­ tamenti ? e non aveva egli attirato quegli abbandonati e perduti figli di Dio, brancolanti nelle tenebre, su questa aerea cima per indicare loro il miracolo della transustanzazione del Figlio, la carne eterna e il sangue della divinità? Così il giovane alzò il calice, e aveva gli occhi traboccanti di lacrime e di gioia. Gli parve di diventare a sua volta un essere divino. E sentendosi, tra gli eletti, uno strumento sacro, provò la gioia di elevarsi con or­ gani invisibili fino all’empireo con una potenza che, se­ condo lui, lo sollevava infinitamente al di sopra della brulicante genia delle chiese e dei loro accoliti. Dove­ vano vedere lui con stupefatta riverenza alzare gli oc­ chi alla vertiginosa altezza dell’altare sul quale officia­ va. Stava su quell’altare in un senso assai diverso e più alto di quello del custode delle chiavi di Pietro dopo l’elezione. Rapito e convulso stringeva il calice eucari­ stico come un simbolo del sempre rinnovantesi corpo divino dell’intera creazione, nell’immensità dello spazio dove brillava come un secondo sole. E mentre stava lì, secondo lui da un'eternità, in realtà per due o tre se­ condi, col calice alzato, gli sembrò che il pan di zuc­ chero di Sant’Agata fosse popolato, dai piedi alla vetta, da angeli in ascolto, da santi e apostoli. Ma quasi ancora più belli furono per lui un cupo rullare di timpani e una ridda di donne graziose che, legate tra loro con fe­ stoni di fiori, ben visibili attraverso i muri, girava intor­ no alla cappelletta. Dietro a loro danzavano in estatica follia le menadi del sarcofago, saltavano i satiri dal pie­ de caprino e alcuni di essi recavano in gaia processione il legno di Luchino Scarabota, simbolo della fecondità.

La discesa a Soana liberò Francesco dall’incanto e lo fece riflettere seriamente, come chi abbia bevuto l’ulti­

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ma feccia dal boccale dell’ebbrezza. Dopo la messa la famiglia Scarabota era partita: fratello, sorella e figliola riconoscenti avevano baciato la mano al parroco. Il quale via via che scendeva sempre più si convin­ ceva che le condizioni di spirito in cui aveva detto la messa erano sospette. A suo tempo anche la vetta di Sant’Agata doveva essere sacra a qualche idolo paga­ no, e l’estasi che l’aveva invaso lassù col rombo dello Spirito Santo era forse un diabolico influsso di quella teocrazia che Cristo aveva detronizzata, mentre il suo malvagio potere era ancora tollerato dal creatore e reg­ gitore del mondo. Arrivato a Soana ed entrato nella sua canonica, il prete, ormai sicuro di aver commesso un pec­ cato grave, fu preso da tale angoscia che, prima ancora di mettersi a tavola, andò nella chiesa attigua per rac­ comandarsi con preghiere ardenti al supremo Propizia­ tore e purificarsi possibilmente nella sua grazia. Nel suo sentito abbandono pregò Dio di non esporlo agli assalti del demonio. Sentiva benissimo — confessò — che lo attaccavano in tutti i modi, sia mettendolo in angustie, sia portandolo oltre i suoi limiti salutari e mor­ tificandolo in maniera paurosa. “Ero un giardino accu­ ratamente coltivato” disse a Dio “ma ora è affondato in un diluvio che monta e monta, forse per influsso dei pianeti, e mi sballotta in breve scafo sui flutti senza rive. Prima conoscevo bene la mia strada: era quella che la tua santa Chiesa prescrive ai suoi ministri. Ora sono più sospinto che sicuro della via e della meta. “Ridammi” implorò Francesco “le strettoie di prima e la mia sicurezza e comanda agli angeli malvagi che smettano di sferrare i loro pericolosi assalti contro il tuo misero servo. Non c’indurre, non c’indurre in tenta­ zione ! Ai tuoi servigi sono salito da quei poveri pecca­ tori. Fa' che io mi ritrovi nella precisa cerchia dei miei sacri doveri !”

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Le preghiere di Francesco non avevano più la chia­ rezza e la precisione d’una volta. Egli chiedeva cose, delle quali Luna escludeva l’altra. Egli stesso si doman­ dava talvolta se il torrente di passione che sosteneva le sue preci scendeva dal cielo o scaturiva da altra fonte. Non capiva, cioè, se infine non implorasse dal cielo un bene infernale. Quando nelle sue preghiere compren­ deva gli Scarabota, poteva ben darsi che lo facesse per pietà cristiana e per apprensione sacerdotale. Ma era così anche quando, fino alle lacrime più fervide e co­ centi, implorava dal cielo di salvare Agata? A questa domanda poteva ancora rispondere di sì; infatti il palese moto del più potente istinto che aveva avvertito rivedendo la ragazza, si era tramutato nella esaltata sensazione di un'infinita purità. A causa di que­ sto mutamento Francesco non s’avvide come il frutto del peccato mortale andasse soppiantando Maria, la madre di Dio, e diventasse per le sue preghiere e meditazioni quasi l’incarnazione della Madonna. Il primo maggio ebbe inizio nella chiesa di Soana, come dappertutto, il mese mariano, la cui celebrazione assopì sempre più la vigilanza del giovane parroco. Giorno dopo giorno, al­ l’ora del crepuscolo, teneva, specialmente davanti a don­ ne e ragazze del paese il discorsetto intorno alle virtù della Vergine benedetta. Prima e dopo la predica la navata mandava dalla porta aperta le laudi di Maria, cantate in coro, nel cielo primaverile. E nelle belle an­ tiche melodie, graziose per il testo e per la musica, s’in­ seriva il gaio cicaleccio dei passeri e dai freschi botri il dolcissimo lamento dell’usignolo. In quei minuti, men­ tre sembrava devoto alla Vergine, Francesco era invece schiavo del suo idolo. Se le madri e le figlie di Soana avessero immaginato che agli occhi del sacerdote formavano una comunità da lui giorno per giorno convocata in chiesa per glori­

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ficare quell’odiato frutto del peccato o per farsi solle­ vare, dai devoti accenti del cantico mariano, fino alla piccola malga attaccata lassù ai dirupi, certo lo avreb­ bero lapidato; così invece pareva che allo sguardo stu­ pefatto di tutti i fedeli la devozione del giovane prete andasse ogni giorno aumentando. A poco a poco giovani e vecchi, ricchi e poveri, tutti, dal sindaco al mendican­ te, dal credente convinto agli indifferenti, furono trasci­ nati nella santa ebbrezza mariana di Francesco. Persino le sue lunghe passeggiate solitarie erano in­ terpretate in favore del giovane santo. Erano invece in­ traprese con la speranza che il caso gli facesse incon­ trare Agata. Per un altro servizio divino dedicato agli Scarabota aveva fissato, temendo di tradirsi, un inter­ vallo di oltre otto giorni, che ora gli sembrava non do­ vesse terminare mai. La natura gli parlava ancora con la franchezza che egli aveva avvertito salendo al piccolo santuario di Sant’A­ gata. Ogni stelo, ogni fiore, ogni albero, ogni foglia di edera e ogni pampino erano parole di un linguaggio sa­ liente dall’abisso dell'essere, un linguaggio che persino nel grande silenzio parlava con voce di tuono. Nessuna musica l’aveva mai pervaso così ed empito - credeva lui di Spirito Santo.

Francesco aveva perduto il sonno calmo e profondo delle sue notti. Il mistico richiamo che lo aveva destato aveva ucciso, per così dire, la morte e messo al bando il sonno suo fratello. Ciascuna di quelle notti palpi­ tanti di vita sgorgante da ogni dove fu per il giovane corpo di Francesco come una sacra rivelazione: al punto che talvolta aveva l’impressione di veder cadere l’ultimo velo dal mistero della divinità. Quando da sogni ar­ denti che erano quasi veglia passava alla veglia dei sen­ si, quando la cascata di Soana rumoreggiava più forte

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che di giorno e la luna lottava con le tenebre dei ba­ ratri profondi, e la nera nuvolaglia ruggente oscurava le cime più alte del Generoso, Francesco pregava tre­ mando con tutte le membra con rinnovato fervore, si­ mile all’albero dal tronco assetato la cui vetta, abbeve­ rata di pioggia primaverile, rabbrividisce al vento. In queste condizioni discuteva con Dio bramando che lo iniziasse al sacro miracolo della creazione, all'affocato centro della vita, a quell’intimo santissimo essere che di lì pervade il Tutto. “Di lì, mio Dio onnipotente, s’ir­ radia la tua luce più forte. Da quel centro si effonde in ondate festose e inesauribili tutta la gioia dell’esi­ stenza e il mistero del massimo piacere. Non mettermi in grembo, mio Dio, una creazione compiuta, ma fam­ mi creare insieme con te! Fammi partecipare alla tua opera ininterrotta, poiché soltanto così, e con nient’altro, posso anche diventare partecipe del tuo paradiso.” Svestito per calmare l’ardore delle membra, Francesco si aggirava per la camera con le finestre spalancate e si faceva sventolare dall’aria notturna. E gli pareva che il nero temporale si posasse sulla titanica cresta del Ge­ neroso come un toro enorme sopra una giovenca, il quale sbuffando pioggia dalle froge, muggendo, schiz­ zando lampi guizzanti dai cupi occhi infiammati, com­ pisse coi fianchi ansanti l’opera feconda della procrea­ zione. Idee siffatte erano prettamente pagane, e Francesco lo sapeva senza esserne disturbato. Ormai era troppo im­ merso nel generale stordimento delle urgenti energie primaverili. Le esalazioni narcotiche che aspirava infran­ sero le barriere della sua limitata persona e lo sposta­ rono nell’universale. Nella precoce natura nascevano dei dappertutto. E anche il fondo dell'anima di Francesco si aprì e fece emergere cose laggiù giacenti da milioni di anni.

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Una notte, nel dormiveglia, fece un sogno greve e a suo modo spaventoso che lo inabissò in un’orribile cul­ to. Fu cioè testimone d’un mistero, donde emanavano uno sgomento ignoto e quasi il rito di un primitivo ir­ resistibile potere. Da qualche parte fra le rocce del mon­ te Generoso dovevano esserci dei conventi, dai quali scendevano sentieri pericolosi e gradini scavati nel sasso che portavano a inaccessibili caverne. Giù per quei sen­ tieri calavano in solenne corteo, l’uno dietro l’altro, uo­ mini barbuti e vecchi in tonaca marrone, i quali con i gesti assorti e col volto rapito facevano un effetto rac­ capricciante e sembravano condannati a celebrare un cul­ to pauroso. La loro persona quasi gigantesca e selvag­ gia era però veneranda, benché deprimente alla vista. Scendevano quegli esecutori di un rito bestiale e spie­ tato, ritti, la testa arruffata, la barba scomposta, se­ guiti da donne coperte soltanto dalle lunghe onde dei capelli come da pesanti mantelli neri o dorati. Mentre il giogo del terribile istinto opprimeva e legava i silen­ ziosi eremiti del sogno che scendevano rigidi e assen­ ti, le donne rivelavano un’umiltà pari a quella delle vit­ time offrentisi da sé al sacrificio sull’altare di un dio tremendo. Gli occhi dei monaci erano pieni di un odio muto e forsennato come se il morso velenoso di una be­ stia arrabbiata li avesse feriti iniettando loro nel sangue una follia che fosse sul punto di scoppiare. Sulla fronte delle donne, sulle ciglia devotamente abbassate, aleg­ giava una sublime solennità. Infine gli anacoreti del Generoso si disposero a uno a uno come idoli viventi sui gradini della parete roc­ ciosa, e lì cominciò un culto fallico, altrettanto ripu­ gnante quanto sublime. Per quanto osceno _ sicché Francesco allibì nel profondo - era anche terrificante per la sua serietà mortale e per la trepida santità. Enormi civette volteggiavano con strida penetranti, al magico

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lume della luna, lungo i dirupi presso la cascata; ma i forti richiami dei grossi uccelli notturni erano sover­ chiati dalle grida strazianti delle sacerdotesse che mo­ rivano nei tormenti del piacere.

Finalmente era venuto il giorno della seconda messa per i poveri peccatori messi al bando. Fin dal mattino quando Francesco Vela si alzò, la giornata non fu si­ mile a nessuna di quelle che il prete aveva vissute. Nel­ la vita di qualunque uomo privilegiato i giorni sboc­ ciano, inattesi e non chiamati, come abbaglianti rivela­ zioni. Quella mattina il giovane non aveva affatto il desiderio di essere un santo o un arcangelo e nemme­ no Dio. Gli s’insinuò invece nell’animo il vago timore che l’invidia gli potesse inimicare santi e arcangeli e dei; quella mattina infatti egli si sentiva superiore a santi, angeli e dei. Ma già a Sant’Agata lo attendeva una delusione. Il suo idolo che portava il nome della santa non era intervenuto. Interrogato dal parroco che era impallidito, il padre rude e imbestiato non proferì che suoni rudi e bestiali, mentre la consorte, che era a un tempo sua sorella, scusò la figlia con l’obbligo di lavori domestici. Francesco celebrò la sacra funzione con tale indifferenza che alla fine non sapeva neanche se l’aveva cominciata. Nel cuore provò le pene dell’inferno, anzi condizioni tali che, paragonabili a una vera caduta, fecero di lui un misero dannato. Dopo aver congedato il chierico insieme con gli Scarabota, scese, ancora tutto frastornato, da una parte qua­ lunque della scoscesa montagna, senza scegliere una me­ ta e meno ancora rendersi conto dei pericoli che corre­ va. Di nuovo udì il grido nuziale delle aquile roteanti, ma era come uno scherno piovuto con la luce ingan­ nevole dell’etere. Nel letto di un torrente asciutto sci­ volò sui ciottoli e, alzatosi ansante, mescolò in un ge­

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mito preghiera e bestemmia. Provò le torture della ge­ losia. Nulla era successo se non che la giovane pecca­ trice era stata trattenuta da qualche impegno sull'alpe di Soana, ma a lui parve cosa certa che lei avesse un amante e passasse tra le sue braccia scellerate il tempo sottratto alla Chiesa. Mentre quell’assenza gli faceva ca­ pire a un tratto l’enormità della propria schiavitù, pro­ vava un’alternativa di angoscia, costernazione e furore, una smania di castigarla e di mendicare soccorsi nella sua distretta, cioè la corresponsione del suo amore. Non aveva ancora deposto l’inflessibile orgoglio del sacerdo­ te. Il suo orgoglio era ferito. L’assenza di Agata era per lui una triplice umiliazione. La peccatrice aveva ripu­ diato l’uomo come tale, il ministro di Dio e il dispen­ satore del sacramento. L’uomo, il prete e il santo si tor­ cevano nelle convulsioni della vanità mortificata e schiu­ mavano al pensiero del bestiale individuo che, fosse pastore o boscaiolo, lei probabilmente preferiva. Con la zimarra lacera e polverosa, le mani scorticate, il viso graffiato, dopo alcune ore di errabonda arram­ picata su e giù per le gole, tra ciuffi di ginestra, oltre fragorose acque montane, Francesco giunse in una parte del Generoso dove le sue orecchie furono colpite da uno scampanio di greggi. Non fu neanche un attimo in dubbio circa il luogo che aveva scalato. Guardò laggiù, la sua parrocchia abbandonata, la sua chiesa che si di­ stingueva benissimo alla luce del sole e scorse la folla che ora affluiva invano al sacro luogo. Proprio in quel momento avrebbe dovuto indossare i paramenti. Ma get­ tare una fune intorno al sole e tirarlo giù gli sarebbe stato più facile che spezzare le invisibili catene che lo tiravano con violenza verso quell’alpe. Ed era quasi sul punto di rinsavire allorché un fumo odoroso, portato dal fresco venticello montanino, gli salì dal naso. Guardandosi intorno istintivamente sco­

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prì a breve distanza un uomo che pareva proteggesse un focherello al quale era accostato un pentolino probabil­ mente pieno di minestra. L’individuo seduto non poteva vedere il prete perché gli voltava le spalle. Questi potè pertanto distinguere solo una testa tonda, lanosa, un collo robusto e abbronzato, mentre le spalle e la schie­ na erano coperte da una giubba diventata bruna a causa dell’età e delle intemperie. Il bifolco, capraio o taglia­ legna che fosse, stava chino sul focherello la cui fiam­ ma, appena visibile, premuta dal vento, strisciava quasi al suolo e mandava orizzontali sbuffi di fumo. Si ve­ deva che era intento a un lavoro, a intagliare qualcosa, come chi assorto in una faccenda dimentica Dio e il mondo. Dopo che Francesco, evitando per qualche scru­ polo qualsiasi movimento, era rimasto là a lungo, l’uo­ mo accanto al fuoco si mise a fischiettare e, una volta avviato alla musica, mandò dalla gola canora alcuni brani di canzoni. Il cuore di Francesco batteva furiosamente. Non già a causa della veloce arrampicata su e giù per gli anfrat­ ti, ma per motivi che erano frutto, in parte della sua singolare situazione, in parte della strana impressione provocatagli dalla presenza di quell’uomo davanti al fuo­ co. Quel collo bruno, quelle ciocche crespe e giallogno­ le, la corporatura giovanile e vigorosa che si poteva in­ dovinare sotto l’abito consunto, l’evidente soddisfazione del libero montanaro, tutto ciò si affacciò in un baleno alla mente di Francesco facendo sì che la sua morbosa e infondata gelosia divampasse ancor più dolorosamente. S’incamminò verso il fuoco. Tanto, non sarebbe riu­ scito a tenersi nascosto; oltre a ciò era tirato da forze irresistibili. In quella il montanaro si volse mostrando un viso di traboccante giovinezza e di energia, quale Francesco non aveva mai visto, e alzatosi in piedi guar­ dò il nuovo arrivato.

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Francesco capì subito di essere alla presenza di un pa­ store, perché l’oggetto che stava intagliando era una fionda. Costui sorvegliava i buoi pezzati di nero e mar­ rone che, in parte visibili, in parte lontani e nascosti, si arrampicavano tra pietre e cespugli, segnalati soltanto dai campanacci che il toro e qualche mucca portavano al collo. Era un buon cristiano: che altro avrebbe dovuto essere in una regione fitta di cappellette e immagini della Madonna? Doveva però essere un figlio particolar­ mente devoto della Chiesa, perché appena vide l’abito talare, andò a baciare la mano a Francesco, con timido e umile fervore. Ma per il resto, come il prete osservò immediatamen­ te, non somigliava agli altri parrocchiani. Era più ga­ gliardo e tarchiato, muscoloso e quasi atletico, e gli oc­ chi sembravano ricavati da quel lago azzurro là in fon­ do, ed erano acuti come quelli delle aquile brune che come sempre giravano in cerchio sopra Sant’Agata. Ave­ va la fronte bassa, le labbra gonfie e umide, lo sguardo e il sorriso d’una cruda franchezza. In lui non si notava niente di subdolo o di nascosto, come invece si nota in molti meridionali. Di tutto ciò Francesco si rese conto guardando negli occhi il giovane biondo Adamo del monte Generoso, e ammise di non aver mai veduto un villano così vigoroso e bello. Per celare la vera ragione della sua venuta e rendere anche comprensibile la sua comparsa disse, mentendo, che era andato a portare l’estrema unzione a un mori­ bondo in una capanna lontana e aveva preso la via del ritorno senza il chierico; poi si era smarrito ed era sci­ volato e chiedeva quale fosse la via giusta per scendere dopo un breve riposo. Il capraio gli credette. Con una bella risata, mostrando due file di denti sani, ma non senza soggezione, seguì il racconto del reverendo e gli assestò un sedile togliendosi la giubba e stendendola sul

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sentiero vicino al fuoco. In tal modo mostrò le spalle brune e lustre, anzi tutto il corpo nudo fino alla cinto­ la, rivelando che non aveva camicia. Era alquanto difficile attaccare discorso con un indi­ viduo così primitivo. Pareva imbarazzato di trovarsi così solo col prete. Dopo essersi inginocchiato per soffiare un po’ nel fuoco, aver aggiunto legna secca e aver sol­ levato ogni tanto il coperchio del pentolino, parlando in un dialetto incomprensibile, mandò all’improvviso un fortissimo grido di giubilo che i bastioni rocciosi ri­ mandarono con echi più volte ripetuti. Appena spentasi l’eco si udì che qualcuno si avvici­ nava con strilli e risate. Erano diverse voci, voci di ra­ gazzi, tra le quali squillava distinta una voce femmi­ nile che alternava risa e invocazioni di soccorso. Al suo­ no di quella voce Francesco si sentì troncare le mani e i piedi, ed ebbe a un tempo l’impressione che si stesse manifestando un potere il quale, confrontato con quello che gli aveva dato i natali, doveva contenere il segreto della vita vera e reale. Francesco ardeva come il roveto del Signore; ma di fuori non gli si notava nulla. Rima­ se alcuni secondi fuori di sé e sentì poi un’ignota li­ berazione e, insieme, una prigionia altrettanto dolce quan­ to priva di scampo. Intanto le femminili invocazioni di aiuto, soffocate dalle risa, si erano avvicinate finché alla svolta d’un ri­ pido sentiero si disvelò una scena bucolica innocente, ma anche insolita. Quello stesso caprone pezzato che aveva molestato Francesco dopo la sua prima visita all’alpe apriva sbuffante e restio un breve corteo da baccanti; inseguito da ragazzini che vociavano portava a cavallo sul dorso l’unica baccante del gruppo. La bella fan­ ciulla stringeva con forza le corna ritorte del capro; ma per quanto si piegasse all’indietro tirando il collo del­ l’animale, non riusciva né a costringerlo a fermarsi né

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a scendere a terra. Forse aveva voluto fare uno scherzo per divertire i ragazzi ed era venuta a trovarsi in quel­ l’impiccio : non stava proprio seduta su quella poco adat­ ta cavalcatura, ma toccando il suolo da una parte e dal­ l’altra coi piedi nudi, più che farsi portare camminava, eppure non poteva, senza rischiare un capitombolo, li­ berarsi dal focoso e ribelle caprone. Le si erano sciolti i capelli, le bretelline dalla rozza camicia le erano sci­ volate dalle spalle lasciando scorgere una deliziosa emisfera, e la gonnella che in nessun caso le sarebbe arri­ vata più giù del polpaccio arrivava appena appena a co­ prirle le rotonde ginocchia. Ci volle parecchio prima che il prete comprendesse chi era la baccante e trovasse in lei l’agognato oggetto della sua tormentosa nostalgia. Le grida, le risate, i mo­ vimenti involontariamente scomposti, i capelli sciolti al vento, la bocca aperta, il petto ansimante e tutta la te­ merità quasi imposta e pur volontaria di quella allegra cavalcata avevano trasformato il suo aspetto. Un roseo ardore le tingeva il viso mescolando piacere e paura con un pudore che appariva buffo e amabile quando, veloce come il lampo, una sua mano si staccava dal cor­ no dell’animale e correva all'orlo della gonna pericolo­ samente spostato. Francesco era incantato e schiavo di quella scena, co­ me se essa fosse dotata di un potere paralizzante. Bella gli sembrava anche se non gli rammentava neanche lon­ tanamente la ovvia rassomiglianza con una cavalcata di streghe. Rinacquero invece le sue impressioni del mon­ do antico. Egli ripensò al sarcofago marmoreo, sempre traboccante di limpida acqua alpina, del quale aveva recentemente osservato i bassorilievi. Non pareva che quel mondo di pietra, eppure tanto vivo, col dio inco­ ronato di grappoli, coi satiri danzanti, col carro trion­ fale trainato da pantere, con le auletridi e le baccanti

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si fosse nascosto nel petroso deserto del Generoso e una di quelle donne posseduta dal dio, staccatasi dal folle culto alpestre delle menadi, fosse venuta di sorpresa nel mondo presente? Se Francesco non aveva riconosciuto subito Agata, il caprone aveva invece riconosciuto subito il prete, sicché gli portò dritto dritto il suo carico invano strepitante e renitente; e ponendo senza tante cerimonie le unghie fesse delle zampe anteriori in grembo al prete, fece sì che l'amazzone, finalmente libera, potesse scivolare ada­ gio dalla sua groppa. Quando la ragazza s’accorse che c’era un forestiero e in questo riconobbe Francesco, la sua allegria e le sue risa si spensero, e il viso fino a un momento prima raggiante di piacere, si atteggiò a un’espressione di ar­ rogante fierezza. — Perché non sei venuta oggi in chiesa? — Fran­ cesco fece questa domanda alzandosi in piedi, in un to­ no e con un'espressione del pallido viso che dovevano sembrare collera, mentre derivavano da un ben diverso sentimento. Sia che egli volesse nasconderlo, sia che fos­ se imbarazzo o un senso di abbandono, sia che il cura­ tore d’anime fosse davvero indignato, la collera aumen­ tò e si manifestò in modo che il pastore ne fu stupito e la ragazza si fece prima rossa, poi pallida per la ver­ gogna e per lo sgomento. Ma mentre parlava e castigava a parole - parole che gli erano consuete senza che l’anima vi avesse parte in cuore Francesco era quieto, dentro provava come una liberazione. La miseria assillante di poco prima era di­ ventata ricchezza, la tortura della fame sazietà, e il mon­ do precedente, Finferno maledetto, splendeva come un paradiso. E mentre la voluttà dell’ira si riversava sem­ pre più copiosa, essa stessa dilagava. Egli non aveva di­

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menticato la disperazione sofferta, ma con esultanza la benediceva. Essa era stata il ponte della beatitudine. Fi­ no a questo punto Francesco era già incappato nel cer­ chio magico dell’amore: la sola presenza dell’amato be­ ne gli dava quel godimento che stordisce con la feli­ cità e fa obliare la recente mancanza. Così il giovane sentì e non si nascose più il proprio mutamento. Le sue vere condizioni di spirito erano emer­ se, per così dire, nella loro nudità. Egli sapeva che il suo folle inseguimento non era previsto dalla Chiesa, sapeva che si trovava fuori della santa rete stradale trac­ ciata con rigorosa precisione alla sua attività. Era la pri­ ma volta che non solo il suo piede, ma l’anima si era sviata, e gli sembrava di essere giunto sul posto dov’era non già come uomo, bensì come il sasso o la goccia che cadono, come una foglia spinta dalla bufera. Ciascuna delle sue dure parole gli faceva capire che non era più padrone di sé, ma invece costretto a cer­ care ed esercitare il suo potere su Agata a tutti i costi. A parole s’impossessava di lei. Quanto più la umiliava, tanto più sonore tinnivano in lui le arpe della felicità. Il dolore che le procurava suscitava un delirio nella sua mente; anzi, poco mancò che, se non era la presenza del capraio, Francesco in quella frenesia, perdesse il do­ minio di sé e, gettandosi ai piedi della fanciulla, tra­ disse i veri palpiti del suo cuore. Fino a quel giorno, benché fosse cresciuta in quel­ l'ambiente malfamato, aveva conservato l’innocenza di un fiore. Come laggiù in valle non si era mai vista la genziana delle grandi altezze, così non vi erano apparsi i suoi occhi che della genziana avevano la scura azzur­ rità. La sua cerchia di esperienze era quanto mai ristret­ ta. Ma benché il prete non fosse per lei un uomo, ben­ sì qualcosa di mezzo fra l’uomo e Dio, una specie di mago, indovinò a un tratto - e lo confermò con un’oc-

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chiata di stupore - ciò che Francesco voleva nascon­ dere. I ragazzi avevano allontanato il capro su per il ghiaio­ ne. Il taglialegna si era sentito a disagio. Preso il pen­ tolino dal fuoco si arrampicò con fatica per raggiungere probabilmente un compagno che per un lungo filo man­ dava a valle, al di sopra di un burrone, fasci di legna secca. Quei carichi scivolavano, con un rumore frusciante, lungo i bastioni di roccia come orsi bruni o ombre di grossi uccelli. Pareva d’altronde che volassero, per­ ché il filo era invisibile. Quando, lanciato un trillo squillante che riecheggiò dai pinnacoli e dalle pareti del Generoso, il pastore fu scomparso alla vista, Agata, co­ me per contrizione, baciò al sacerdote l’orlo della veste e poi la mano. Sopra la testa della ragazza Francesco aveva fatto mac­ chinalmente il segno della croce e le sue dita le avevano sfiorato i capelli. In quella un tremito convulso gli si propagò nel braccio, come se qualcosa tentasse con uno sforzo estremo di tenere in pugno un altro qualcosa. Ma ciò che cercava di opporre resistenza non potè im­ pedire che la mano benedicente si aprisse e con la pal­ ma si avvicinasse pian piano al capo della peccatrice pentita e a un tratto vi si posasse ferma e salda. Francesco girò intorno un’occhiata codarda. Non che volesse ancora mentire a se stesso e giustificare il suo operato con gli obblighi della sua santa missione; ep­ pure lo agitavano pensieri di confessione e cresima. E la febbre quasi disfrenata e pronta al balzo temeva tal­ mente l'eventualità che, scoperta, suscitasse spavento e disgusto, da rifugiarsi ancora una volta vigliaccamente sotto la maschera della religiosità. — Agata, scenderai a Soana, verrai a scuola da me — le disse. — Là imparerai a leggere e a scrivere. Ti in­ segnerò una preghiera del mattino e una della sera, e

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anche i comandamenti di Dio e il modo di riconoscere ed evitare i sette peccati mortali. E ogni settimana ver­ rai a confessarti da me. Ma Francesco, che dopo queste parole aveva preso a scendere senza voltarsi indietro, decise che la mattina seguente, dopo una notte insonne, sarebbe andato lui a confessarsi. Quando ad Arogno, una cittadina poco di­ stante, espose a un arciprete che fiutava tabacco, i suoi scrupoli di coscienza, non senza giocare a rimpiattino, ottenne l’assoluzione senza difficoltà. Era ovvio, si sentì rispondere, che il diavolo si opponesse ai tentativi del giovane parroco di riportare quelle anime smarrite in grembo alla Chiesa, tanto più che per un uomo la don­ na è sempre la più vicina occasione di peccare. Dopo la colazione nella canonica dell’arciprete, a finestre aper­ te, all’aria mite, tra il cinguettio degli uccelli, e dopo aver discorso schiettamente del frequente contrasto in cui vengono a trovarsi le cose umane coi precetti della Chie­ sa, Francesco si abbandonò all’illusione di essersi al­ leggerito il cuore. A questa vicenda dovevano aver contribuito la loro parte anche alcuni bicchieri di quel vino greve, nero­ violaceo, che sanno pigiare i contadini di Arogno. Il prete ne possedeva alcune botti. Infine dopo il pasto, il confessore accompagnò il confessato sotto le tenere fron­ de d’un enorme castagno, alla grotta-cantina, dove quella ricchezza era posata su alcune travi, perché egli aveva la consuetudine di andare a quell’ora a riempire il fia­ sco per il fabbisogno della rimanente giornata. Ma non appena ebbe detto addio al confessore sul prato fiorito e mosso dal vento, davanti alla porta fer­ rata della grotta, non appena a una curva della strada ebbe frammesso un sufficiente tratto di terreno ondu­ lato, coperto di alberi e di arbusti, Francesco provò una

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inspiegabile ripugnanza per i conforti del collega e rim­ pianse il tempo che aveva passato con lui. Quel sudicio bifolco, la cui zimarra consunta e la biancheria sudaticcia mandavano un odore sgradevole, la cui testa forforosa, le cui mani ruvide e imbrattate dovevano ignorare il sapone, gli parve piuttosto un ani­ male, un ceppo, che un ministro di Dio. I sacerdoti, pensò, sono persone sacre che coi voti hanno acquistato poteri e dignità soprannaturali, di modo che a loro si inchinano persino gli angeli. Quale vergogna trovare il potere del sacerdozio in mani così rozze! tanto più che a quel potere sottosta persino l’Onnipotente, dato che alle parole Hoc est enim corpus meum è costretto a scen­ dere sull’altare della messa. Francesco provò per lui avversione, disprezzo, ma poi una grande pietà. Infine ebbe l’impressione che quello fosse un travestimento dello stesso Satana, brutto, spor­ co, fetente. E pensò a quelle nascite che avvengono con l’aiuto di un incubo o di un succubo. Di questi sentimenti e di queste riflessioni si mera­ vigliò lui stesso. Eppure non era stato il confessore a provocarle, se non con la sua presenza; le sue parole, anche a tavola, erano state decorose. Francesco però era immerso in tal senso di esaltazione, credeva di respirare una purezza così sublime che, a paragone di tanta san­ tità, i fatti d’ogni giorno gli parevano legati alla dan­ nazione.

Venne il giorno in cui Francesco aspettava la prima volta nella canonica di Soana la penitente dell’alpe. Le aveva ordinato di suonare il campanello presso la porta della chiesa, col quale lo si chiamava al confessionale. Ma era quasi mezzogiorno e il campanello non si muo­ veva. Sempre più distratto, egli teneva lezione ad alcuni adolescenti dell'uno e dell’altro sesso in camera sua. La

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cascata mandava lo scroscio ora crescente, ora calante, dalla finestra aperta e, quando aumentava, aumentava anche l’agitazione del docente. Temeva di non sentire l’eventuale squillo del campanello. I ragazzi si stupivano della sua inquietudine, della sua distrazione che non sfuggiva specialmente alle ragazze, i cui sensi terreni e celesti si deliziavano intuendo che il giovane santo non badava al suo compito e quindi neanche a loro; colle­ gate da un profondo istinto coi sentimenti della sua gio­ vane natura, condividevano persino la tensione che in quel momento lo dominava. Poco prima che suonassero le dodici un mormorio empì la piazza del paese che fino a quell’ora, con le vette germoglianti degli ippocastani, si stendeva al sole di maggio in perfetto silenzio. Una folla si stava avvici­ nando, si udivano gutturali voci virili, abbastanza cal­ me, che pareva protestassero. Ma un inarrestabile tor­ rente di grida femminili, d’imprecazioni e querele le soverchiò fino a sommergerle. Alle orecchie del prete giunsero cupi rumori, la cui origine rimase lì per lì inspiegabile. Benché fosse maggio, era come quando d’au­ tunno l’ippocastano, a un colpo di vento, scrolla il suo primo carico di frutti: scoppiano i ricci e le dure casta­ gne crepitano sul terreno. Francesco si sporse dalla finestra. E atterrito vide ciò che avveniva sulla piazza. Rima­ se così spaventato, anzi costernato, che soltanto lo squil­ lo stridulo e lacerante del campanello della confessione, tirato con disperata insistenza, lo fece ritornare in sé. E già era in chiesa, usciva e strappava la penitente Agata — dal campanello e la tirava dentro. Poi uscì di nuovo e si mise davanti al portale. Questo era certo: Farrivo della reietta era stato no­ tato in paese e si ripeteva la solita scena. Si era ten­ tato di scacciarla a sassate dalla cerchia delle dimore

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umane, come fosse un cane rognoso o un lupo. I ra­ gazzi e le loro madri si erano radunati e s’erano dati a inseguire la creatura ripudiata e maledetta, senza che la sua bellezza potesse distoglierli dall’idea che le loro sassate intendevano colpire una bestia feroce, un mo­ stro portatore di peste e rovina. Agata invece, sicura della protezione del parroco, non si era lasciata sviare dalla sua meta. E così, braccata e inseguita, era arrivata coraggiosamente alla porta della chiesa, che ancora veni­ va colpita da qualche sasso lanciato da mani infantili. Il parroco non ebbe bisogno di far rinsavire con una ramanzina i parrocchiani eccitati: appena lo videro si squagliarono. In chiesa Francesco fece un cenno all’ansante e muta perseguitata perché lo seguisse nella canonica. Anche lui era eccitato, sicché si udiva l'affannato respiro di en­ trambi. Su una scaletta della piccola casa parrocchiale, fra due muri scialbati, la governante già un po’ tran­ quillata, stava in attesa della povera perseguitata: si ve­ deva che era pronta ad aiutare ove fosse possibile. Sol­ tanto alla vista della vecchia, Agata si rese conto delle sue condizioni umilianti; passando dal riso alla collera, dalla collera al riso cominciò a lanciare energiche im­ precazioni offrendo al parroco l’occasione di riudire la sua voce che gli parve sonora, squillante, eroica. Ella non sapeva perché la perseguitassero, considerava la cit­ tadina di Soana un nido di vespe o un formicaio e, per quanto fosse indignata, non le passava per la mente la necessità di riflettere sulla causa di una cattiveria così pericolosa. Ci era avvezza fin da piccina e le sembrava un fatto naturale. Ma ci si difende anche dalle vespe e dalle formiche. Essendo animali che ci aggrediscono, ci muovono secondo i casi a sdegno, all’odio, al furore, alla disperazione, e noi ci scarichiamo, ancora secondo i casi, con minacce, con lacrime o con moti di grande

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disprezzo. Così faceva anche Agata, mentre la gover­ nante le aggiustava i poveri stracci e lei stessa si ap­ puntava il fiotto stupefacente dei capelli d’un colore tra la ruggine e l’ocra, che le si erano sciolti nella sua corsa affannata. Come non mai Francesco soffrì in quel momento sot­ to l’impeto della passione. La vicinanza della donna ma­ turata come un delizioso frutto selvatico nel deserto montano, il calore inebriante che emanava dal suo cor­ po accaldato, il fatto che la lontana irraggiungibile sta­ va ora entro le mura della propria abitazione, tutto ciò spinse il giovane a serrare i pugni, tendere i muscoli, stringere i denti pur di reggersi in condizioni che a momenti gli oscuravano il cervello. Quando si rischiarò, gli si affacciarono in tumulto immagini, pensieri, senti­ menti. Paesaggi, persone, remotissimi ricordi, vivi squar­ ci della vita familiare e professionale si accoppiarono a visioni del presente. Quasi fuggendole, sorse dolce e pauroso un avvenire inevitabile del quale egli sapeva di essere già in balia. Innumerevoli, inquieti pensieri guizzavano sopra a quel caos di immagini, ma senza al­ cun potere. La volontà cosciente - ammise Francesco era detronizzata nell’anima sua, ove regnava un’altra, ir­ resistibile. Riconobbe inorridito che ne subiva il potere a discrezione. Era come un’ossessione; ma quando lo prendeva la paura dell’ineluttabile caduta nel delitto del peccato mortale, nello stesso tempo gli veniva voglia di urlare d’infrenabile gioia. Il suo sguardo assetato ve­ deva con stupore un appagamento mai provato. La sete era appagamento, l’appagamento sete. E gli passò per la testa il nefando pensiero che soltanto quello era il suo cibo divino e incorruttibile, col quale il sacramento nutre le anime dei cristiani credenti. Le sue sensazioni erano idolatre. Suo zio a Ligornetto era stato un cat­ tivo scultore. Perché non aveva fatto piuttosto il pit-

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tore? Chi sa, forse lui stesso poteva diventare pittore: e pensava a Bernardino Luini e al suo grande dipinto della vecchia chiesa conventuale nella vicina Lugano, e alle sante donne, bionde e graziose, che il suo pennel­ lo aveva create. Ma erano meno che niente in confronto di quella calda vivissima realtà. Lì per lì Francesco non sapeva che fare. Un monito interiore lo indusse prima di tutto a fuggire la vici­ nanza della fanciulla. Molte ragioni, non tutte ugual­ mente pure, lo spinsero a recarsi immediatamente dal sindaco, e prima che altri lo potessero fare, a informar­ le dell’accaduto. Il sindaco, che per fortuna era in casa, 10 ascoltò con calma e condivise il suo atteggiamento. Era da cristiani e da buoni cattolici non lasciar correre l’andazzo là sul monte e prendersi a cuore quei malfa­ mati irretiti nel peccato e nell'ignominia; ma in quanto ai concittadini e al loro comportamento, promise di pren­ dere severe misure. Uscito il giovane sacerdote, la bella moglie del sin­ daco che aveva un suo modo tranquillo di considerare le cose disse: — Questo giovane potrà fare molto cam­ mino e diventare cardinale, magari papa. Credo che si maceri con digiuni, con la preghiera e con le veglie. Ma 11 diavolo insidia proprio i santi con le sue arti infer­ nali e con le più recondite astuzie e malizie. Speriamo che, con l’aiuto di Dio, possa esserne preservato per sempre ! Molti occhi femminili, avidi e anche cattivi, segui­ rono Francesco, allorché accelerando il passo il meno possibile ritornò alla canonica. Si sapeva dov'era stato e tutti erano risoluti a lasciarsi imporre quella peste sol­ tanto con la violenza. Ragazze che, con un carico di legna sulla testa, camminavano ritte, incontrandolo in piazza presso il sarcofago marmoreo, lo salutarono bensì con un devoto sorriso, ma dopo si scambiarono un’oc-

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Chiata sprezzante. Francesco credeva di avere la febbre e ascoltava il confuso garrire degli uccelli, lo scroscio crescente o rattenuto dell’eterna cascata, ma gli pareva di non avere i piedi sulla terra, di essere invece trasci­ nato alla ventura da un turbine di suoni e visioni. A un tratto si trovò in sagrestia, poi nella nvata davanti all’altar maggiore, dove cadde in ginocchio e implorò la Vergine Maria di soccorrerlo nelle tempeste del suo cuore. Se non che le sue preghiere non erano intese come desiderio di essere liberato da Agata. Una siffatta aspi­ razione non avrebbe trovato alimento nell’anima sua. Erano piuttosto richieste di grazia: pregava che la Ma­ donna avesse comprensione, perdonasse, se possibile ap­ provasse. D’un tratto Francesco interruppe la preghiera e lasciò l’altare, perché gli era balenato il pensiero che Agata potesse essere partita. La trovò invece ancora là, e Petronilla le faceva compagnia. — Ho sistemato ogni cosa — disse Francesco. — La via della chiesa e del parroco è libera a tutti. Con­ fida in me! Il fatto non si ripeterà più. — Mostrava una fermezza, una sicurezza di sé, come se fosse di nuo­ vo sulla retta via e su un terreno solido. Petronilla fu mandata via con l’incarico di recapitare un documento importante a una parrocchia vicina; una commissione che purtroppo non si poteva rimandare. Intanto la perpetua poteva riferire al parroco quanto era accaduto. — Se incontri gente — le suggerì — di' pure che Agata è qui da me e io le insegno le dottrine dalla nostra re­ ligione, della nostra santa fede. Vengano pure a impe­ dirlo e ad attirarsi il castigo della dannazione eterna! Si raccolgano davanti alla chiesa e maltrattino la loro com­ pagna di fede! I sassi non colpiranno lei, colpiranno me. All’imbrunire io stesso l’accompagnerò, magari fino all’alpe.

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perché lo faceva. In realtà non faceva niente. Subiva. E Agata che ora a rigore avrebbe dovuto spaventarsi, non si spaventò, ma pareva avesse dimenticato che France­ sco era un estraneo e un sacerdote. A un tratto parve che diventasse un suo fratello. E mentre era tutta scossa dai singhiozzi non solo permise che egli, scosso a sua volta, la abbracciasse quasi a consolarla, ma chinò il vi­ so bagnato di lacrime e lo nascose sul petto di lui. Ed eccola diventata una figlia e lui un padre, in quan­ to cercava di calmare la sua pena. Ma egli non aveva mai sentito così vicino un corpo femminile, e le sue carezze, le sue tenerezze divennero presto più che pa­ terne. Sentiva benissimo che il dolore singhiozzante della fanciulla conteneva una specie di confessione. Ella sa­ peva, secondo lui, a quale tristo amore doveva la vita e soffriva le stesse pene di lui. Ed egli pativa con lei la stessa angoscia, lo stesso dolore, e ciò univa le loro anime. Ma dopo un po’ le sollevò il dolce viso di ma­ donna, le cinse le spalle con un braccio attirandola a sé, con la destra le spinse all’indietro la candida fronte e dopo essersi deliziato a lungo fissando avidamente ciò che teneva stretto, col fuoco della follia negli occhi, scese all’improvviso come un falco su quelle labbra cal­ de, salse per le tante lacrime, e vi rimase indissolubil­ mente congiunto. Dopo alcuni istanti di tempo terreno, eternità di oblio­ sa beatitudine, Francesco si staccò di scatto e si rizzò. Sulle labbra sentì un sapore di sangue. — Vieni — disse — non puoi tornare a casa da sola, senza scorta. Ti accompagno io. Un cielo variabile s’inarcava sopra il mondo alpino, quando Francesco e Agata uscirono di soppiatto dalla canonica. Svoltarono in un nascosto sentiero nei prati che fra gelsi e ghirlande di vite scendeva di terrazza

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in terrazza. Francesco sapeva benissimo che cosa c’era al di là e quale confine avevano varcato. Ma non riu­ sciva a pentirsi, era mutato, sollevato, liberato. La notte era afosa. Sulla pianura lombarda scoppiavano tempo­ rali i cui lampi balenavano a ventaglio dietro il mae­ stoso profilo dei monti. Nell’aria alitava la fragranza della vistosa serenella che cresceva sotto le finestre della parrocchia, insieme con fresche e calde correnti d’aria provenienti dalla rete di rivi e rigagnoli che irrigavano le campagne. I due inebriati, non visti, tacevano. Egli la sorreggeva quando nella penombra calavano per il muricciolo della terrazza sottostante, o la accoglieva fra le braccia: allora sentiva il seno di lei palpitare sul suo e le sue labbra assetate si univano a quelle di lei. Non sapevano dov’erano diretti, dalla profonda gola del Savaglia non c’era alcuna via che salisse all’alpe. Erano però d’accordo che per quella salita era necessario evi­ tare l’abitato. Ma non tenevano a toccare una meta esteriore, lontana: importava gustare appieno quella vi­ cina e raggiunta. Com’era stato il mondo una scoria morta e vuota! e quale mutamento era avvenuto in loro ! Com’era cam­ biata lei agli occhi del giovane prete e come era cam­ biato lui ! Nella sua memoria era cancellato e svalutato tutto quanto fino allora gli era parso importante. Pa­ dre, madre e maestri erano rimasti come vermi nella pol­ vere' del vecchio mondo ripudiato; mentre a lui, figlio di Dio e novello Adamo, il cherubino aveva riaperto la porta del paradiso terrestre. Questo paradiso, dove egli muoveva estasiato i primi passi, era fuori del tem­ po. Egli non si sentiva più uomo di qualche tempo e di qualche età. Anche il mondo notturno intorno a lui era fuori del tempo. E siccome il tempo della cacciata, il mondo dell’esilio e del peccato originale era alle sue spalle davanti al custodito ingresso del paradiso, egli

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non ne provava più la minima paura. Là fuori nes­ suno poteva nuocergli. I suoi superiori non avevano il potere di impedirgli di gustare sia pure il più piccolo frutto del paradiso, né di togliergli l’ormai ottenuto do­ no d’una suprema beatitudine. I suoi superiori erano di­ ventati inferiori, abitavano obliati un mondo remoto di grida e di stridor di denti. Francesco non era più Fran­ cesco; era il primo uomo, appena destato dal soffio divino, l'unico Adamo, l’unico signore del paradiso. Non c’erano altri viventi tranne lui nella dovizia della crea­ zione senza peccato. Gli astri sonanti nel cielo vibra­ vano di felicità. Le nubi mugghiavano come giovenche al pascolo, frutti purpurei emanavano dolce delizia e soa­ ve ristoro, tronchi sudavano resina odorosa, fiori spar­ gevano aromi squisiti: ma tutto ciò proveniva indubbia­ mente da Èva che Dio ha posto, frutto dei frutti, aro­ ma degli aromi, fra tutti questi miracoli, lei, il più su­ blime dei suoi miracoli. L’olezzo di tutti gli aromi, la loro più fine essenza il Creatore ha infuso nei suoi ca­ pelli, nella pelle, nelle floride carni del suo corpo; ma la sua forma, la sua sostanza sono un segreto di Dio. La forma affiora da se stessa e rimane sempre ugual­ mente deliziosa nella quiete come nel mutamento. La sua sostanza pare un misto di corolle di giglio e petali di rosa, ma per freschezza è più casta, per ardore più cocente e ad un tempo più resistente e più delicata. C’è in questo frutto un nucleo vivo e pulsante; in esso mar­ tellano polsi dolcemente guizzanti e a chi lo gusta dona voluttà sempre più squisite senza che la sua celestiale ricchezza ne sia diminuita. E quanto vi è di più bello in questa creazione, in questo paradiso riacquistato viene certo dalla vicinanza del Creatore. Dio non ha compiuto la sua opera ab­ bandonandola a se stessa e mettendovisi a riposo. Al contrario, la mano creatrice, lo spirito creatore, la po­

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tenza creatrice non si sono ritirati; continuano a creare nell’opera stessa, e ogni parte, ogni angolo del para­ diso crea di continuo. Francesco-Adamo, appena uscito dall’officina del vasaio, si sentì creatore in tutte le di­ rezioni. In un’estasi sovrumana sentì e vide Èva, la fi­ glia di Dio. In lei operava ancora quell’amore che l’ave­ va plasmata, e la più preziosa di tutte le sostanze, quel­ la che il Padre aveva adoperato per fare il suo corpo, possedeva ancora quella bellezza celeste che nemmeno un granello di polvere terrena deturpava. Ma anche questa creazione tremava, s’inturgidiva, brillava ancora dell’ardore della divina forza creatrice ed era impazien­ te di fondersi con Adamo. Questi a sua volta bramava lei per produrre insieme una perfezione nuova. Agata e Francesco, Francesco e Agata, il giovane re­ ligioso di buona famiglia e la pastorella disprezzata e bandita, mentre per notturni sentieri segreti e tenendosi per mano, scendevano a valle, erano la prima coppia umana apparsa sulla terra, e cercavano un nascondiglio. In silenzio, l’anima colma di uno stupore ineffabile, con una gioia che a entrambi faceva quasi scoppiare il pet­ to, calavano sempre più addentro alla stupenda mera­ viglia dell’ora astrale. Erano commossi. La grazia, la coscienza di essere eletti univa alla loro felicità infinita una severa solen­ nità. Avevano sentito i loro corpi, si erano uniti nel bacio; ma ignota era la destinazione verso la quale si erano incamminati; era il mistero estremo, quello, ap­ punto, perché Dio crea e perché ha messo al mondo anche la morte. Così la prima coppia umana scese in fondo alla stret­ ta gola, segata dal torrente Savaglia. È molto profonda e soltanto un sentierino poco frequentato saie in mar­ gine alla corrente fino al bacino nel quale da un’altezza vertiginosa l’acqua montana precipita oltre il gradino

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di roccia. A notevole distanza il ruscello è diviso in due rami, che poi si riuniscono, da un’isoletta verde che Francesco amava e visitava spesso perché era illeggia­ drita da alcuni giovani meli che vi avevano messo radi­ ci. Adamo si tolse le scarpe e traghettò Èva dicendole più volte: — Vieni o muoio. ■— E calpestarono narcisi e gigli di Pasqua col passo pesante, quasi ebbro, degli innamorati. Anche lì nella gola l’aria era calda come d’estate, nonostante che lo scrosciante ruscello recasse frescura. Com’era breve il tempo da quando era avvenuta la svol­ ta nella vita dei due, e quanto era lontano tutto quanto aveva preceduto la svolta! Il villico cui apparteneva l’isoletta, essendo essa piuttosto lontana dal luogo, si era costruito contro eventuali intemperie un modesto rifugio di pietre, rami e terra, il quale conteneva al riparo del­ la pioggia un giaciglio di foglie secche. Probabilmente Adamo aveva in mente quella capanna quando si era diretto con Èva verso la valle anziché verso il monte. Pareva che il rifugio fosse preparato per accogliere gli innamorati. Pareva che mani ignote fossero state av­ vertite della vicina festa dell’incarnazione: intorno alla capanna c’era infatti uno svolio di luci, una nuvola di scintille, di lucciole e lampiridi, mondi e vie lattee, che talvolta si levavano a fasci quasi volessero ripopolare qualche spazio vuoto dell’universo. Pullulavano e on­ deggiavano così in alto sopra la forra che non si distin­ guevano dalle stelle del firmamento. Benché lo conoscessero, quello spettacolo, quella si­ lente magia era meravigliosa agli occhi di Francesco e di Agata e il loro stupore fu per un po’ un’inibizione. “È questo il posto” si domandava Francesco “che senza immaginare che cosa dovesse diventare per me ho visi­ tato tante volte e ammirato? Mi era sembrato un luogo da farvi l’eremita scansando le miserie del mondo e da

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riflettere in rinuncia sulla parola di Dio. Non vi avrei scorto mai ciò che realmente è, un’isola nel fiume Frat o Hiddekel, il luogo più beato e segreto del paradiso.-’ E le mistiche sfavillanti nubi di scintille, fuochi nu­ ziali, fuochi propiziatori o quello che fossero, lo stac­ carono del tutto dalla terra. Pur non dimenticando il mondo, sapeva che giaceva impotente davanti alle porte dell’Eden come il drago dalle sette teste, il mostro emer­ so dal mare. Che c'entrava lui con coloro che adora­ vano il drago? Se vuol maledire la capanna di Dio, faccia pure! La sua bava non può arrivare fino a loro. Francesco non aveva mai sentito di essere così vicino a Dio, di esserne così protetto, di poter dimenticare fino a tal punto la propria persona; e nello scroscio del tor­ rente pareva che la montagna mandasse un rombo me­ lodico, che le guglie rocciose vibrassero come un orga­ no, che le stelle facessero tinnire miriadi di arpe d’oro. Cori d’angeli cantavano negli spazi infiniti, come for­ tunali rombavano armonie dall’alto, e campane, cam­ pane, campane, suoni di campane nuziali, piccole e gran­ di, basse e argentine, possenti e lievi, spandevano una felice e schiacciante solennità nell’universo. E così cad­ dero avviticchiati sul letto di foglie. Non c’è istante che indugi, e quando con ansia ed affanno si voglia trattenere quello della suprema volut­ tà... per quanto uno tenda lo sforzo, non trova l'appi­ glio. Tutta la sua vita, intuiva Francesco, era un se­ guito di gradini per salire alla vetta del mistero vissuto in quegli istanti. Se non lo poteva fermare, come avreb­ be potuto respirare in avvenire? come sopportare una vita dannata, se era respinto dall'estasi del suo più in­ timo paradiso ? Nella sovrumana ebbrezza del godimento il giovane sentì il pungente dolore della caducità, nel piacere del possesso il tormento della perdita. Ebbe l’impressione di dover vuotare un calice di vino squi-

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sito e di spegnere una sete altrettanto squisita; ma il calice non si vuotava mai, eppure la sete non era mai spenta. E mentre beveva non voleva neanche che la sua sete squisita si placasse né che il calice si vuotasse; ep­ pure vi beveva con furiosa avidità, tormentato di non poter arrivare mai al fondo. Abbracciata dalla romba del torrente, sommersa, cin­ ta dalle danze delle lucciole, la coppia riposava sulle foglie fruscianti, mentre dalle lacune del tetto ammic­ cavano le stelle. Tremando egli aveva preso possesso di tutte le segretezze di Agata, già ammirate come beni ir­ raggiungibili. Si era tuffato nei suoi capelli sciolti, at­ taccato con le labbra alle labbra di lei. Ma tosto il suo occhio si colmò d’invidia contro la bocca che gli ru­ bava la vista di quella soave bocca di fanciulla. E sem­ pre più inconcepibile, sempre più cocente, sempre più inebriante sgorgava dalle segretezze delle giovani mem­ bra la felicità. Ciò che non aveva sperato di possedere mai, ciò che le calde notti gli avevano fatto balenare non era nulla a paragone di ciò che ora possedeva illi­ mitatamente. E mentre si beava, di continuo si ritrovava incredu­ lo. Appagato a dismisura, era insaziabilmente portato ad assicurarsi il suo possesso. Era la prima volta che le sue dita, le mani e le palme tremanti, le sue braccia, il petto, i fianchi sentivano la donna. Che per lui era più che donna. Gli pareva di aver trovato una cosa perduta, una cosa che si era lasciata sfuggire, senza la quale era stato un uomo, mentre ora formava con lui una cosa sola. Era mai stato separato da quelle labbra, da quei capelli, dai seni, dalle braccia? Una dea era, non una donna. Nulla c’era che stesse a sé : ed egli s’immergeva nel centro del mondo e, premendo l’orec­ chio sotto i giovani seni, sentiva con un brivido di fe­ licità il palpito del mondo.

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La coppia fu presa da quello stordimento, da quel dormiveglia in cui la voluttà della spossatezza si al­ terna col fascino della viva primavera; e ora Francesco si addormentava fra le braccia di Agata, ora Agata fra quelle di lui. Con quale strana fiducia la ragazza timi­ da e selvatica si era adattata alle carezze invadenti del prete ! e come lo assecondava beata e devota ! E quando si assopiva tra le sue braccia, aveva quel tranquillo sor­ riso col quale il lattante sazio chiude gli occhi in brac­ cio alla madre o stretto al suo seno. Francesco osser­ vava, ammirava e amava la bella addormentata, il cui corpo era scosso dai sussulti che accompagnano il ri­ lassamento. Talvolta la giovane gridava in sogno. Ma sul viso le rifioriva il seducente sorriso ogni qualvolta apriva le languide palpebre, e ogni volta rimoriva in un’ultima dedizione. Quando s’appisolava lui, gli sem­ brava che una forza ignota gli strappasse pian piano quelle membra che teneva strette e sentiva su tutto il corpo. Ma ogni volta, al destarsi, quel breve strappo era seguito da un senso di infinita dolcezza e di pro­ fonda gratitudine: da un ineffabile sogno e da una bea­ ta sensazione della più soave realtà. Ecco: era il frutto del paradiso, il frutto dell’albero che sorgeva nel mezzo del paradiso terrestre, ed egli lo teneva stretto. Era il frutto dell’albero della vita, non già di quell’albero della conoscenza del bene e del male col quale il serpente aveva sedotto Èva. Bensì quello che rendeva pari a Dio chi lo mangiava. In Francesco si era spento ogni desiderio di una beatitu­ dine diversa, più elevata. Non in terra e non in cielo c’erano gioie paragonabili alle sue. Non c’era alcun re, alcun dio che il giovane, immergendosi nella grandiosa abbondanza, non considerasse un misero mendico. Il suo respiro era affannato, le parole ridotte a balbettamenti. E aspirava il fiato inebriante che sgorgava dalla bocca

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di Agata. Coi baci asciugava le lacrime di gioia dalle ciglia di lei e dalle guance accese. A occhi socchiusi ciascuno assaporava se stesso nell'altro, con lo sguardo assorto, coi sensi vigili e tesi. Ma tutto questo era più che un godimento. Era qualcosa che il linguaggio umano non sa esprimere.

Francesco disse puntualmente la messa mattutina. La sua assenza non era stata notata da nessuno, il ritorno a casa nemmeno da Petronilla. La precipitazione con cui dopo una pulizia sommaria dovette recarsi in sagre­ stia e all’altare davanti ai pochi fedeli in attesa, gli impedì di riprendere coscienza di sé. Questa gli ritornò quando si ritrovò nella sua cameretta dove la domestica gli servì la solita colazione. Ma la coscienza non dis­ sipò subito il suo incantamento. Anzi, il vecchio am­ biente e il giorno novello conferirono all’accaduto un aspetto irreale che impallidiva come un sogno tramon­ tato. Eppure era realtà, e per quanto superasse in fan­ tastica incredibilità tutti i sogni che Francesco aveva mai sognati, non era possibile negarla. Era stata una caduta tremenda, inutile voler sofisticare. Si trattava invece di scoprire se era ancora possibile sollevarsi da quel pre­ cipizio, da quel fallo spaventoso. La caduta era così profonda e da tale altezza che il prete ne dovette du­ bitare. Non solo secondo i criteri della Chiesa, ma an­ che nel concetto profano la spaventevole caduta era inaudita. Francesco pensò al sindaco e ricordò il col­ loquio intorno alla possibilità di salvare i reietti del­ l’alpe. Soltanto ora, nella sua grande umiliazione, com­ prese tutta la burbanza pretesca, tutta la boriosa pre­ sunzione di cui allora era stato tronfio. Strinse i denti dalla vergogna, si contorse, come un vanitoso imbro­ glione smascherato, per tanto disonore, nella sua palese miseria. Non era un santo fino a poco prima? Le don­

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ne e vergini di Soana non avevano levato a lui lo sguar­ do come a un idolo? Non era forse riuscito ad elevare lo spirito religioso della cittadina al punto che anche gli uomini avevano ripreso a frequentare la chiesa e ad assistere alla mes­ sa? Ora invece aveva tradito i suoi parrocchiani, tra­ dito la Chiesa, tradito l’onore della famiglia, tradito lui stesso, tradito persino i disprezzati, infami, reietti, miserabili Scarabota, che egli col pretesto di salvarne l’anima aveva più che mai portati alla dannazione. Francesco pensò a sua madre. Era una donna fiera, quasi virile, che da bambino lo aveva protetto e gui­ dato con mano ferma, preparandogli anche con infles­ sibile volontà la strada dell’avvenire. Egli sapeva che la sua durezza non era che ardente amore materno, si rendeva conto che la più piccola macchia sull’onore del figlio doveva ferire profondamente il suo orgoglio, e un grave fallo colpirla inguaribilmente al cuore. Stra­ no: ricollegandosi a lei egli non riusciva nemmeno a immaginare e pensare quello che era un fatto reale, un’esperienza precisa e recente. Francesco era piombato nel fango più ripugnante, nel brago della estrema abiezione. Vi aveva affondato i suoi sacri voti, la sua natura di cristiano, di figlio di sua madre, perfino di uomo. Nell’opinione materna, nel­ l'opinione di tutti gli uomini che fossero venuti a co­ noscenza di quel delitto non sarebbe rimasto altro che il lupo mannaro, la fetida diabolica bestia. Il giovane si alzò di scatto dalla sedia e dal breviario nel quale si era immerso per finta. Gli era parso di sentir cre­ pitare una gragnuola di sassi contro la casa: non già come il giorno prima, in quel tentativo di lapidare la ragazza, ma con forze centuplicate; come se la casa parrocchiale dovesse essere annientata o almeno ridotta a un mucchio di macerie che lo seppellisse come un

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rospo velenoso. Aveva udito strane voci, grida orrende, folli richiami e capiva che tra i furibondi e instanca­ bili lanciatori di pietre c’erano non soltanto tutta Soana col sindaco e sua moglie, ma anche Scarabota e la sua famiglia e innanzi a tutti sua madre. Ma dopo qualche ora altre fantasie e altri sentimenti erano subentrati a quelli. Tutti i frutti del ravvedimen­ to, del terrore per l’atto commesso, della contrizione, era come non fossero mai esistiti. Un travaglio mai co­ nosciuto, una sete bruciante inaridì Francesco. L’anima sua urlava come chi languendo si avvoltola nella sab­ bia rovente del deserto e grida chiedendo acqua. L’aria doveva essere priva di quegli elementi che sono ne­ cessari per respirare. La canonica diventò una gabbia tra le cui pareti egli si muoveva irrequieto con le gi­ nocchia doloranti, come una belva, risoluto, se non lo si liberava, a spaccarsi il cranio contro il muro piut­ tosto che continuare a vivere così. È possibile che uno viva quando è morto? si domandava osservando dalla finestra gli abitanti del luogo. Come possono aver vo­ glia di respirare? e come possono farlo? Non cono­ scendo ciò che ho goduto e che ora mi è tolto, come fanno a sopportare la loro misera esistenza? E Fran­ cesco sentì che era diventato più grande. Cominciò a guardare dall’alto in basso imperatori e papi, principi e vescovi, tutti, tutti, come gli uomini guardano le for­ miche. E lo fece persino nella sua sete, nella miseria, nella privazione. Certo, non era più padrone della sua vita. Una magia strapotente aveva fatto di lui un es­ sere abulico e, senza Agata, una vittima inanimata di Eros, il dio più antico e più potente di Zeus e di tutti gli altri dei. Aveva letto di siffatti incantesimi nei libri degli antichi e sprezzato quel dio con un sorriso. Ora sentiva chiaramente che bisogna persino pensare a un colpo di freccia e una piaga profonda, con la quale il

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dio, secondo l’opinione degli antichi, avvelena il san­ gue delle sue vittime. Quella ferita bruciava, rodeva, divampava, lo divorava. Sentiva fitte tremende... finché sull’imbrunire, quasi urlando di felicità, s’incamminò verso la stessa isoletta, verso quel mondo che il giorno prima lo aveva congiunto con la donna amata. Là le aveva fissato il nuovo incontro.

Ludovico il capraio, che gli abitanti della zona chia­ mavano Γ« eretico di Soana », arrivato con la lettura al punto dove il manoscritto è interrotto, tacque. Il vi­ sitatore avrebbe ascoltato volentieri il racconto sino alla fine. Ma quando ebbe la franchezza di esprimere que­ sto desiderio, l’ospite gli rivelò che il suo manoscritto finiva lì. Ed era del parere che la storia poteva, anzi doveva terminare così. Il visitatore non era della stessa opinione. Che ne fu di Agata e Francesco, di Francesco e Aga­ ta? Il fatto rimase segreto o fu scoperto? Gli amanti si piacquero l’uno all'altro o fu un amore fugace? La madre di Francesco lo venne a sapere? Infine l’ascol­ tatore domandò se quello era il racconto di un fatto realmente accaduto o se era tutto invenzione. — Ho già detto — rispose Ludovico scolorandosi in viso, — che fu un caso reale la causa di questa mia scribacchiatura. — Poi tacque a lungo. — Circa sei anni fa — continuò poi — un sacerdote fu letteral­ mente strappato dall’altare a colpi di bastone e sassate e cacciato dalla chiesa. In ogni caso, quando dall'Ar­ gentina tornai in Europa e da queste parti, il fatto mi fu riferito da tanta gente che non dubito sia avvenuto. Anche gli incestuosi Scarabota sono vissuti qui sul Ge­ neroso, beninteso non con questo nome. Il nome di

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Agata è inventato, lo presi dalla cappelletta che le è dedicata, sopra la quale, come vede, stanno roteando ancora le aquile marine. Gli Scarabota però ebbero ve­ ramente, tra altri frutti del peccato, una figlia adulta, e il prete fu incolpato di illeciti rapporti con lei. Si dice che egli non negò, ma non mostrò neanche il mi­ nimo pentimento, e per questo, a quanto dicono, sa­ rebbe stato scomunicato. Gli Scarabota dovettero lasciare il paese e pare che siano — i genitori, non i figli ! — morti di febbre gialla a Rio. Il vino e l’eccitazione provocata, insieme con diverse circostanze mistiche, dal luogo, dall'ora, dalla compa­ gnia e in specie dalla lettura della poetica narrazione, resero l’ascoltatore più insistente. Chiese altre notizie sulla sorte di Francesco e Agata. Ma il pastore non fu in grado di dire nulla. — A quanto pare, furono molto tempo uno scandalo della regione in quanto profanavano santuari isolati e sparsi qui dappertutto e ne facevano asili abusivi dei loro infami piaceri. — A queste pa­ role l’anacoreta scoppiò in un’improvvisa, fragorosa, li­ bera risata, che a lungo non riuscì a frenare. Soprappensiero e stranamente commosso il relatore di questa avventura di viaggio prese la via del ritorno. Di quella discesa il suo diario contiene descrizioni che egli però non intende riportare qui. Certo la così detta ora azzurra, che subentra quando il sole è già sotto l’oriz­ zonte, fu allora particolarmente bella. Si udiva scroscia­ re la cascata di Soana, come l’avevano udita scrosciare Francesco e Agata. O ne udivano ancora lo scroscio in quei medesimi istanti? Non era là il mucchio di pietre degli Scarabota? Non venivano di là le voci di bimbi allegri insieme col belato di pecore e capre? Il vian­ dante si passò una mano sul viso come per togliere un velo sconcertante: il racconto che aveva ascoltato era realmente sbocciato, come una genzianella o un fio­

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re simile, da un prato di quel mondo alpino o quel grandioso e possente rilievo montano, quella petrigna gigantomachia era uscita dalla cornice della novella? Questi e simili pensieri si agitavano nella sua mente, allorché gli giunsero all’orecchio le note sonore di un canto femminile. Si diceva infatti che l’eremita era am­ mogliato. La voce colpiva come quando in una vasta sala acustica la gente trattiene il fiato per stare in ascol­ to. Anche la natura tratteneva il respiro. Pareva che la voce cantasse entro le rocce, o almeno da essa sca­ turisse a lunghe ondate d’un’intonazione dolcissima e d’una focosa nobiltà. La cantatrice venne invece da tutt’altra parte su per il sentiero verso l’abitazione di Lu­ dovico. Portava sulla testa un recipiente di terracotta e lo reggeva leggermente con la sinistra sollevata, mentre dava la destra a una figlioletta. In questo modo la figu­ ra prosperosa ma slanciata assumeva quel portamento eretto che possiamo definire solenne, anzi imponente. A quella vista una vaga ipotesi attraversò la mente del visitatore come un’illuminazione. Ora doveva essere stato scoperto: infatti il canto a un tratto cessò. Egli la vide avvicinarsi in salita, col­ pita dalla luce dell’emisfero celeste occidentale. Udì la bimba, udì la madre rispondere con voce fonda e pa­ cata. Poi sentì il battere sonoro dei piedi nudi sugli sca­ lini rozzamente scolpiti: a causa del peso il passo do­ veva essere pesante e sicuro. I momenti che precede­ vano l’incontro furono per il visitatore in attesa quanto mai enigmatici e di una tensione mai provata. Vide la veste succinta, vide un ginocchio scoprirsi un istante a ogni passo, le spalle e le braccia sbucare nude dall’abi­ to, un viso ovale, femmineo, soave ad onta dell’orgo­ gliosa coscienza di sé, incorniciato da abbondanti ca­ pelli color terra rossobruna. Non era lei la donna vi­ rile, la dea siriana, la peccatrice che si metteva in di­

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scordia con Dio per donarsi interamente all’uomo? Il reduce si era tirato da parte e la luminosa canefora gli passò davanti rispondendo al saluto con un cenno, a causa del carico, quasi impercettibile: volse gli occhi verso di lui senza girare la testa. Sul volto le errò un sorriso altero, consapevole, non ignaro. Poi chi­ nò di nuovo lo sguardo sul cammino, mentre una scin­ tilla sovrumana le balenava tra le ciglia. Lo spettatore sarà stato forse troppo eccitato dal caldo della giornata, dal vino, da tutto quanto aveva udito, ma questo è certo: di fronte a quella donna si sentì diventare pic­ colo piccolo. Quella labbra tumide, nonostante la sedu­ cente dolcezza quasi beffardamente increspate, sapeva­ no. Non ammettevano replica. Non c’erano scudo né armi contro la pretensione di quel collo, di quelle spal­ le, di quel petto mosso e animato da spiriti vitali. Ella saliva dalle bassure del mondo e passava davanti allo spettatore meravigliato... e sale, sale in eterno co­ me colei alle cui mani inclementi sono affidati paradiso e inferno.

MIGNON

Titolo originale : MIGNON

Traduzione di Gianna Ruschena Prima edizione: Berlino 1946 Prima edizione italiana : Milano 1967

Goethe a Schiller:

Ora voglio darmi alle storie di spiriti.

Weimar, 23 dicembre 1794

Parte prima

Come avvenne di preciso che dopo circa trent’anni sentii l’impulso di tornare a Jean Paul e al suo romanzo Titano? Certo me ne ripromettevo una doppia rinasci­ ta: di me stesso e dell'opera. A Roma, baldo giovanotto tedesco, quanto Winckelmann appassionatamente in cer­ ca della bellezza, avevo visto con essa farmisi presso la morte. L’epidemia di tifo, che regnava allora in quasi tutte le città del mondo per colpa delle condutture del­ l’acqua antigieniche, aveva gettato anche me in un letto di ospedale che per poco non era divenuto il mio letto di morte. Mentre lentamente guarivo, ebbi in mano messemi lì da non so quale anima buona - il Titano. Il mondo ivi descritto mi affascinò allora più che non il Faust di Goethe, e mi ero convinto che non gli si rendeva giustizia se non lo si poneva al disopra dell’ope­ ra goethiana. Si è detto: certo me ne ripromettevo una doppia ri-

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nascita, quella dell’opera nel significato d’allora e quel­ la mia, anch’essa nel senso antico ! Benché infatti la de­ bolezza seguita alla malattia mi permettesse appena di levare un poco il capo e le mani, mi ero pur strana­ mente sentito legato a questo mondo e all’altro insie­ me: la misteriosa armonia che in sé contiene gioventù e vecchiaia io l’ho ricercata sempre, santificandola nel ricordo. Nel Titano Jean Paul esalta subito all’inizio le isole Borromee, che sorgono sul lago Maggiore. Avevo co­ nosciuto quella terra beata prima attraverso il libro, più tardi attraverso un breve soggiorno. Ed eccomi d’un tratto deciso a ritornarvi, per esaurire stavolta quello che un tempo, dentro una coppa troppo piccola benché preziosa, si era offerto alla mia sete. In decisioni del genere interviene di solito anche una circostanza esterna. Non domandiamoci come possa lì il caso allearsi alla fatalità. Io avevo presente da un pezzo il gentile invito del commendator Barratini, il quale dirigeva a Stresa - di fronte all'Isola Bella e al­ l’Isola Madre — uno splendido albergo che si fregiava del nome di « Hôtel des Iles Borromées ». I miei familiari, e soprattutto mia moglie, benché non certo all’oscuro delle particolari esigenze di una na­ tura come la mia, furono un po’ sconcertati dalla fretta con cui mi disponevo ad un viaggio, che non riusciva loro del tutto comprensibile. Ma a me riusciva forse ancora più strano. II tunnel che traversa il massiccio svizzero del San Gottardo io l’ho percorso in ferrovia, da tre decenni e più, diverse volte aff anno, ne sia lode al Cielo; e chi non avrebbe condiviso la mia gioia vedendo il treno, ch’era sprofondato nel buio a Göschenen, sbucarne fuo­ ri ad Airolo? La serpe delle carrozze uscì, d’un tratto silenziosa,

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quasi con tranquilla solennità, dal cuore della monta­ gna alla luce d’un mondo nuovo, e mentre a Göschenen avevamo lasciato nuvole basse, buio, umidità e fred­ do, ci sentimmo lì avvolti da un’aria mite, mentre so­ pra di noi s’incarnava nel suo azzurro impeccabile il cielo del sud. L’impulso verso il meridione, che aveva contribuito a determinare un viaggio in complesso, a dire il vero, senza scopo, parve già lì felicemente giustificato. Un’esi­ stenza faticosa e senza gioia si staccava dalla triste terra del nord - dove il giorno non riesce mai a liberarsi del tutto della notte — per fare un’altra volta esperienza d’un miracolo, la cui dovizia l’insufficiente medium del­ la lingua non può esprimere. Era pressappoco la metà di ottobre. Mentre il treno lungo il Ticino e al pari delle sue acque spedite e sal­ tellanti rotolava a valle, lento a causa delle molte gal­ lerie e delle curve, mi sopraffece l’ebbrezza qui tant’al­ tre volte provata. Ci si compiace del moto, eppur l’oc­ chio non vorrebbe tralasciar nulla di quanto quel pae­ saggio montano elargisce con inesauribile abbondanza. Perfino al ricordo si prova la tentazione di fermare al­ meno qualcuna delle innumerevoli immagini: rocce che si ergono fino al cielo, verdi prati di un’altitudine e di una ripidezza vertiginose, con remote, minuscole resi­ denze umane, e soprattutto cascate, che per ogni dove favolosamente fluttuano, ondeggiano, rimbalzano polve­ rizzandosi, spumeggiando si sperdono nell’aria, e nelle loro argentee figure paiono esseri vivi che esultino d’una loro selvaggia, anzi folle esistenza. Comunque sia, tralasciamo tutti quei particolari che concorrono a far nascere un mirabile e gioioso senso di rinnovamento in chi all’improvviso, quasi di sorpresa, en­ tra nel felice clima d’oltr’alpe. Non mi nascondo però che anche lì le pene e i dolori umani non sono certo

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fenomeni sconosciuti, e che i primi attimi felici non danno alcuna garanzia dei successivi. Al mio arrivo a Stresa la sfarzosa animazione del­ l’enorme albergo parve dapprima decisamente contrasta­ re col mio proposito di raccoglimento. Ma il direttore, mio ospite e amico, riuscì a farmi assegnare un alloggio tranquillo, di due camere con tutti gli accessori, dove leggere, scrivere e tener dietro ai miei pensieri indisturbato. Assicuratami così una specie di solitudine monacale, proprio quando lo spirito di Jean Paul avrebbe dovuto cominciare ad effondere la sua energia ringiovanitrice, su quel punto venni deluso. La seconda lettera pasto­ rale e circolare nello Jubelsenior, se mi trovò partecipe, suscitò però contemporaneamente il mio dissenso. Essa tratta di autori drammatici, di drammi e di attori. Quan­ do lessi certe righe che argomentavano come nulla « in­ callisse più facilmente che il sentimento della compas­ sione », mi fu chiaro che per il momento lo stile del­ l’autore, in genere davvero « incallito », cioè ampolloso, non si confaceva né alla mia atmosfera spirituale né al­ l’ambiente in cui mi trovavo. Tuttavia il giovanile incanto delle settimane di ma­ lattia a Roma che mi aveva indotto all’inconsueta im­ presa continuò ad agire su di me, conferendo al pae­ saggio descritto nella lettera una luce di poesia che mi sconvolse. Ma come sotto un certo aspetto aveva fallito da prin­ cipio Jean Paul, così fallì all’inizio il mio soggiorno tanto fiduciosamente cercato. Brutti sogni mi tormentarono! Spesso avveniva allora che, destatomi con un grido di lacerante paura, prima dell’alba aprissi le porte a vetri sulla veranda, scostassi le stridule imposte e mi aggrappassi con gli occhi, cercando sollievo, alle masse

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oscure delle isole Borromee emergenti dalla liquida su­ perficie del lago. Talvolta l’effetto era particolarmente solenne, quando ad esempio sui vasti flutti scintillanti d’argentei riflessi stava sospesa, simile alla cuspide d’am­ bra d’una cupola buia, la luna piena, diffondendo una sorta di primitivo incanto. Simili impressioni avevano a volte il potere di tra­ sformare in venerazione la mia nausea per l’esistenza umana e per la sua molteplice, quanto mai tragica fra­ gilità. Ma era questo il desiderato rinnovamento? Presi a giudicare il mio viaggio una follia. Dacché infatti avevo cominciato a riflettere sul mio avvenire, sentivo l’impulso a sottrarmi alla ressa del mondo. Nonostante ciò non ero, strano a dirsi, inso­ cievole. Avevo in casa una moglie, dei figli, domestici e visitatori d'ogni genere, e viver così non mi riusciva penoso. Ma ad intervalli mi riassaliva la smania di far­ mi anacoreta, e allora mi sembrava che soltanto per quella via fosse possibile pervenire alla piena coscienza di se stessi, e a qualcosa di più che a quella. Anche chi è solo si crea, come a me sembra, una sor­ ta di socievolezza: essa si sviluppa nel magico specchio dell’anima. L’anima allora illusoriamente popola il nul­ la, e può anche affollarlo. Per il momento non era questo, Dio ringraziando, il mio caso. Fui preso da un senso di spensieratezza che, spingen­ domi anima e corpo a caso ora in questa ora in quella direzione, una sera m’indusse ad affondare la mano nella valigia e a trarne fuori un libro qualsiasi, che si rivelò essere {’Urjaust di Goethe. È inconcepibile come una figura di tanta forza, ric­ chezza e universalità sia potuta nascere dalla mente di uno che non aveva molto più di vent’anni.

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Il grande creatore, a volte stranamente irrispettoso con se stesso, vent’anni dopo definisce la propria ope­ ra, ch'egli vuole continuare, un tragelafo, cioè un ca­ priccio, un monstrum. Fra i tedeschi che hanno imparato a leggere e a scri­ vere e che a queste arti in qualche modo indulgono ce ne saranno pochi che non conoscano l’avventura capi­ tata al dottor Faust nella stanza gotica dall'alta volta e il suo monologo. La stanza gotica voluta dall’autore basta già a incorniciare e caratterizzare esattamente il contenuto del discorso. Faust è della fine del Medioevo, la sua mente assomma il sapere accademico, diciamo quello d una Sorbona, con l'alchimia e l’astrologia. Nostradamo è per lui un’autorità, e lo dimostra, giacché grazie alla sua formula magica Faust riesce ad evocare uno spirito. Da lui l’adepto viene chiamato superuomo. Tenevo in mano il libro di Faust e nello stesso istan­ te pensavo: Non è precluso il regno degli spiriti; Chiusa è la mente tua, morto il tuo cuore!

Il corso Umberto si estende per tutta la lunghezza di Stresa, proprio sulla riva del lago. Esso consiste in una larga strada carrozzabile e in un’altrettanto larga passeggiata-giardino. Dov’esso termina, giace compatta la piccola città. Intorno alla piazza si allineano le bot­ teghe, i caffè e le trattorie. Mi attirò un negozio di antichità, ove trovai ogni sorta di cose graziose. Entrai in più d’un locale, giacché sto sempre volentieri a guar­ dare la gente. Il tempo era variabile: scuro e umido, oppure chiaro di sole tanto da ripagare divinamente dell’alterna tetraggine. Allora si vive immersi in un’ebbra fantasmagoria di colori. Cielo e lago sconfinano l’uno nell’altro. Il bian­

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co della catena alpina spicca argenteo sull'azzurro. È una surrealtà... che non riusciva però a liberarmi dagli incubi delle mie ere notturne. Avevo tempo a sufficienza - solo con me stesso — per osservare e per riflettere. I diversivi erano presto esauriti: un colloquio occasionale con il signor Barratini, lo scambio di quelle poche parole che il vivere quotidiano esige. Naturalmente stavo molto per via, stimolato dall’os­ servazione alla meditazione e da questa a quella; in ve­ rità all’osservazione si offriva materia abbondante in quella contrada meravigliosa, la cui attrattiva stavano a testimoniare castelli, parchi e ville sparsi ovunque. Qua­ si tutte quelle proprietà spiravano una certa malinconia. Principi temporali e spirituali ne erano stati i fondatori, ricchi mercanti e commercianti minuti d'ogni genere, spinti come me dal desiderio di fuggire il frastuono del mondo e la grande città nella quiete della bella natura, per viverci una vita quale forse non è dato trovare in alcun luogo. La maggior parte di quelle proprietà era deserta. Lec­ ci, faggi, castagni ed olmi vi erano cresciuti tutt’intorno giganteschi. Ma dov’erano mai i fondatori di quelle magnificenze? Morti, o se n’erano andati delusi. Anch’io, come loro, avrei lasciato Stresa? La vita di un uomo che è solo si rivela soprattutto irreale. Egli sa d’avere amici, parenti vicini e lontani, ina non li percepisce sensibilmente, vivono solo nella sua immaginazione. Per questo i morti gli si presentano come pressappoco equivalenti ai vivi. Così si agitava in me - voglio dire nella mia fantasia - uno strano miscuglio di figure che ogni giorno di più si levava sopra il tempo e lo spazio. Il solitario si pone così decisamente in due regni di-

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stinti: quello sensibile e quello soprassensibile! Non si può fare a meno di quest’espressione. Se poi egli considera tale duplice condizione, gli di­ verrà difficile non lasciarsi sedurre dalle attrattive del soprassensibile; specie nel buio della notte, ma a poco a poco anche di giorno, se dura di più l’estraniamento dagli uomini. Quanto a me, non correvo gravi rischi. Come di con­ sueto, avevo ben presto mentalmente definito e obictti­ vato il mio stato, e ne divenni un freddo osservatore. Inoltre trovavo sempre nuovi diversivi nella semplice vita d’ogni giorno: in visite a negozi e a trattorie po­ polari, in discorsi improvvisati con contadini, ragazze e giovanotti, bimbi e vecchi; e mi stancavo con partite a remi. Quindi mi tornò a proposito la notizia datami allegramente una sera dopo pranzo dal commendator Barratini che Stresa quel giorno offriva una novità sen­ sazionale: in piazza, all’aperto, avrebbero dato spettaco­ lo celebri funamboli. Se ora ripenso a ciò che, in conseguenza di quell’av­ viso, mi accadde quella sera in piazza, non riesco a su­ perare l’impressione di un qualcosa che esorbita dal cor­ so normale dell’esistenza. Quando, previdentemente avvolto nel mio cappotto, uscii in istrada, cominciavano a cadere le prime gocce di pioggia. Pur supponendo che lo spettacolo non po­ tesse aver luogo, come stabilito, all’aperto, mi affrettai verso il luogo indicatomi. Si stava levando burrasca, e un lampeggiare a secco annunciava il temporale. Quando giunsi sul posto dell’attesa rappresentazione, cominciai col rilevare che Barratini s’era preso gioco di me in una maniera che andava oltre il lecito. L’annun­ ciata compagnia di acrobati, per cui mi sarei aspettato almeno un tendone, qualche cavallo e qualche cane am­ maestrato, un clown, un trapezista e magari una mo­

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desta funambola, in realtà era costituita da tre pove­ racci che, arrabattandosi a fare il loro mestiere all’aper­ to sotto la pioggia scrosciante, palesavano uno stato di miseria che veramente straziava il cuore. Non avevo mai saputo che potesse esistere una condizione di vita così penosa come quel modo incredibilmente duro di gua­ dagnarsi il pane, né che creature umane potessero de­ cadere al punto da prestarcisi. Tutti i preparativi per lo spettacolo imminente consi­ stevano in un tappeto disteso a terra e in un robusto sgabello di legno postovi sopra a scopo ginnastico. I tre attori - marito, moglie e figlia - illuminati a sprazzi da un’apposita fiaccola che lottava contro la pioggia, indossavano lunghi mantelli bagnati sopra la maglia che ogni tanto un colpo di vento lasciava scorgere. Era evi­ dente che quei disgraziati tremebondi si auguravano in cuor loro che la pioggia smettesse e rispuntasse per un poco l'ultimo sole, per poter grazie alle loro esibizioni mettere insieme una modesta cena e tacitar la fame. A far sì che quel desiderio comunque si avverasse io ero del resto già deciso. Le tre figure che là sulla piazza vuota sembravano quasi tre statue, siccome io restavo loro vicino, si fe­ cero naturalmente attente alla mia persona. Il resistere alla pioggia, come stavano facendo, doveva avere un motivo economico. Probabilmente stava a indicare che lo spettacolo non era per nulla disdetto. Strano ! Mi pa­ reva di esserci interessato anch'io. Come ho detto, mi sentii ben presto osservato, al­ meno dalla coppia dei genitori, che ripetutamente ten­ nero conciliabolo. Ma a me interessava soltanto la figlia. Si dirà che la cosa non è poi tanto sorprendente. In effetti non ero vecchio abbastanza per sentirmi immu­ ne dal fascino della giovinezza. Ma l’attrattiva che eser­

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citava su di me quella fanciulla tutta celata era più misteriosa che erotica. Non so qual riflesso di luce pro­ veniente da qualche parte le lampeggiava nell’occhio il volto era nascosto dal mantello — ma quel riflesso quasi mi trapassò, mettendo in evidenza quel lato di me stesso che ho definito soprassensibile. Innanzitutto fui respinto indietro nel tempo di un buon secolo e mezzo, e precisamente in quei lontani tempi in cui il nonnino, come si suol dire, prese in mo­ glie la nonna. È un’età che riecheggia in certe poesie di Eichendorff e in certe canzoni che a noi bambini can­ tava in segreto la vecchia servente con la sua bocca sdentata, e che trattavano per lo più di un corno da caccia, del relativo postiglione e della diligenza. Non c’era dubbio, ero ai tempi della diligenza. Vedete i tre cavalli davanti alla carrozza E il giovane postiglione? Lo si sente da lungi lamentarsi Al suono rauco della sua cornetta.

Quasi quasi udivo il battere degli zoccoli, udivo la diligenza avvicinarsi strepitando e tintinnando, e la cor­ netta suonare (tanto più che la pioggia era un po’ sce­ mata e si preannunciava una poetica notte di luna) ; suonare in quel tono dolorosamente nostalgico che la canzoncina infantile definiva rauco. Che cosa mai mi commuoveva così all’improvviso? Era il romanticismo che, bambino, nella casa paterna, avevo fatto in tempo a vivere, a sentire veramente. Era un incanto beato, etereo, che ovunque, nella casa borghese dei miei geni­ tori e dei nonni, colpiva l’occhio, l’orecchio e il cuore. Tremai a quel ricordo, ebbi sgomento: chi mai può dire tutto quello che abbiamo così perduto ! La mia metamorfosi arrivò al punto che, quando af­

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fondai gli occhi fissamente in quelli della zingarella tale almeno la supponevo - vidi in lei una creatura del romanticismo esiliata in questa nostra era banale. Tra­ scurai di chiedermi se non fosse infine soltanto un fan­ tasma, vivo soltanto nel mio spirito: per me rimaneva comunque - se pure avvolta nel suo mistero - una real­ tà ammaliante, che tutto a un tratto diede al mio viag­ gio a Stresa il senso di un destino. Perché la mia curiosità di scorgere ciò che si sareb­ be offerto alla mia vista al cader del mantello dalle spalle della fanciulla si acuì dolorosamente? Che cosa volevo provare, vedere, stabilire? Non certo la pura e semplice realtà! Già in quell’istante cercavo piuttosto un fantasma, intorno al quale ruotavano i miei desideri: un prodotto del mondo a cui appartengono il monologo del Faust e la nostalgia del romanticismo. Eppure di una cosa ero certo; che non sarei rimasto deluso. Goethe dunque, e non Jean Paul, s’era associato al­ l’avventurosa ricerca del mio spirito. Il suo immortale agatodemone aveva posto la sua mano sopra di me e, senza che io ne avessi coscienza, già mi recingeva la sua atmosfera spirituale. Irradiava dalla fanciulla o le si era trasmessa col mio respiro? Con una risoluzione non troppo in contrasto col mio sentire abituale, mi accostai con passo deciso a quel com­ passionevole pezzetto di umana miseria pietosamente in­ zuppato, e premetti alla svelta alcune banconote nella sua mano che si protendeva controvoglia. Intravidi un viso bruno, un nasetto aguzzo, sul quale scorrevano goc­ ce di pioggia. Il mantello aperto rivelò una figura snel­ la da ragazzo, un braccìno nudo, un corpetto rosso sul petto piatto, logori sboffi attorno ai fianchi, la maglia sulle gambe e scarpette da ballo ai piedi minuscoli. Eb­ bi da lei un’occhiata diffidente e sospettosa, anzi quasi

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ostile, e mi toccò vedere il mio dono gettato al presunto padre con atto sprezzante, come di chi si libera d'una sozzura. A ciò seguì, veloce come il lampo, un gesto di bru­ talità che mi inorridì. Il panciuto acrobata, la cui faccia di un rosso intenso tradiva l’abbondante consumo di Chianti, appena riconosciuta l’entità della somma e con­ frontatovi il gesto della piccola, gettò via il mantello, afferrò la sua Mignon letteralmente per il colletto e con una sfilza d'improperi in italiano la piegò a terra, co­ stringendola a baciarmi la mano. La scenata attirò gente, tanto più che io m’incollerii, mescolai briciole d’italiano alla mia tedesca indignazio­ ne... e ottenni solo che l’acrobata schiaffeggiasse la fi­ glia. Ma la gente, che si raccoglieva ormai sempre più numerosa, non prese affatto le parti mie e della ragaz­ za; anzi, i più accolsero la scena ridendo, come fosse una parte dello spettacolo che stava allora incominciando. Il temporale s’era allontanato. L’acrobata, afferrata una frusta, spronava a gran voce moglie e figlia al lavoro. Le sferzate schioccavano loro intorno al capo. Quella notte un sogno senza fine continuò l’avven­ tura con Mignon... questo era il nome che le avevo or­ mai attribuito. Gli esercizi di quella bambina mi aveva­ no urtato. Avevo quasi preso la fuga, vedendola pie­ garsi all'indietro come fosse priva del tutto di ossa e spinger fuori la testa di tra i malleoli. Come un incu­ bo, quell'immagine mi perseguitava e si ripeteva nel sonno. La mattina, dopo il risveglio, mi ci volle molto per riadattarmi al giorno con naturalezza e distensione. Prima di arrivarci dovetti — come tant’altre volte — lot­ tare per sconfiggere le forze avverse che assalgono la vita nel suo significato e nel suo valore. Quel mattino dopo colazione il commendator Bar-

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ratini mi porse un libro di raffinato aspetto intitolato Le roman des lies Borromées. Era scritto in francese e conteneva paesaggi, ritratti, incisioni e fotografie prove­ nienti in parte dal Museo della Scala di Milano, in par­ te dalla celebre Biblioteca Ambrosiana, anch’essa di Mi­ lano. Il testo comprendeva le parti seguenti : Parte pri­ ma: Preludio - Rêves et réalités·, Parte seconda: Nottur­ no - L’esprit de Mignon·, Parte terza: Eroica — Napo­ léon·, Parte quarta: Appassionata - Poètes et amants', Parte quinta: Pastorale - Les soeurs cadettes. Diedi una scorsa al preludio, Rêves et réalités, che in­ cominciava col nome di Goethe. « Sacro è il luogo che piede d’uomo valente calcò », questa sua frase vi è citata in francese in forma alquanto enfatizzata; quindi si ag­ giunge che le isole Borromee costituiscono senza alcun dubbio un luogo quant'altri mai sacro, giacché vi han­ no messo piede innumerevoli grandi e nobili persone. Poi vi si tratta della famiglia Borromeo, la cui ori­ gine leggendaria si dice risalga ad Antenore, il fonda­ tore di Padova. Vi si nomina Santa Giustina, che patì sedicenne martirio e morte; sulla pagina accanto è ri­ prodotto il dipinto con cui Paolo Veronese glorificò il fatto. Una successiva illustrazione del diffuso trattatello mostra il Barbarossa che davanti a San Marco di Vene­ zia bacia i piedi a papa Alessandro III, non senza aver prima pronunciato le parole: Non tibi, sed Petro. Si vede poi un’immagine di San Carlo Borromeo con l’arme di famiglia e il motto Humilitas, vocabolo che qui si traduce bene con « umiltà », il più degno dei suoi molti significati. Si capita così in mezzo a una nobile compagnia di cardinali e di altri principi della Chiesa appartenenti a quella famiglia, di cui il più interessante per noi è quel cardinale Federigo che divenne celebre per la magnifica descrizione fattane da Alessandro Man­

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zoni nei Promessi Sposi. Da lui fu fondata la Biblio­ teca Ambrosiana. Col conte Vitaliano Borromeo, creatore dell’Isola Bel­ la, entra nella famiglia uno spirito mondano. Quest’uo­ mo squisito, amantissimo dello sfarzo, su squallide rocce fece nascere come per incanto un paradiso, e radunò alle sue feste duchi, principi, cardinali, ambasciatori, grandi filosofi, poeti e scrittori. I suoi banchetti, le se­ renate, i concerti, i fuochi d’artificio hanno avuto un’eco in tutto il mondo, e sono stati oggetto di ammirazione per le più brillanti corti d'Europa; così pure i suoi spettacoli teatrali. Ma che cos’era rimasto del motto Humilìtasi Di qui era breve il passo al cosiddetto Notturno: L’esprit de Mignon. Dopo il mio incontro col misera­ bile terzetto di affamati, questo capitolo comprensibil­ mente esercitava su di me la massima attrattiva. Feste come quelle celebrate all’Isola Bella dal conte Vitaliano Borromeo potevano esser state benissimo sfondo lumi­ noso alla vicenda della goethiana Mignon, traviata, ra­ pita e portata via a forza; anche se lei non vi partecipò mai di persona. Forse lo spirito animatore di tali feste, o qualcosa di esso, le era innato. Forse le era familiare un’ambiente in cui spirava come una musica lieta un’a­ ria lasciva, colma dell’inebriante aroma dei giardini; do­ ve le mele d’oro delle Esperidi si piegavano sino alla sua bocca e i frutti più preziosi facevano a gara per darle ristoro. Sarà stata magari un’orfana di padre e di madre, che passava inosservata in mezzo a una servitù ammontante a centinaia di persone; una presenza che si tollerava, canzonandola forse talvolta, ma volendole be­ ne. Chissà quanti sangui s’erano mescolati in Mignon ! Perché non avrebbe potuto esserci in lei anche quello di un Vitaliano Borromeo? Il capitolo intitolato L’esprit de Mignon cerca di di­

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mostrare, o supporre, che appunto lo spirito di Mignon abiti nelle isole Borromee sul lago Maggiore, e che ad esse sia rivolta la sua nostalgia. Il paese conosci, ove fragranti ardon tra cupe foglie arance d’oro? Del ciel puro alle dolci aure vaganti quieto il mirto verdeggia, alto l’alloro. Non lo conosci tu? Laggiù laggiù con te, diletto, io vorrei andar laggiù!

Sai tu la casa? Alte colonne reggono, splendon fulgide le Statue di marmo dall'umano mi guardan: dicci, chi t’ha Non lo conosci tu? Laggiù laggiù con te, mia guida, io vorrei

il tetto sale. aspetto fatto male?

andar laggiù.

Non c’è dubbio che questi versi immortali in nessun luogo della terra s’inseriscono così perfettamente nel­ l’ambiente come nell’Isola Bella. L’invisibile spirito di Mignon sembra alitarvi ovunque la sua malinconia sen­ za conforto, giacché per lei non ci può essere mai appa­ gamento senza dolore. Dovevo noleggiare una barca e spingermi a remi fino all’Isola Bella? Ero eccitato e impaziente. No: preferii sciogliermi da ogni romantico incanto e decisi di fare una bella passeggiata. Ma non fui capace di evitare la piazza del mercato per bandire dalla mia memoria il trio dei ginnasti. Com’era da aspettarsi, la piazza era vuota, e quella che io chiamavo Mignon aveva ripreso il cammino coi suoi aguzzini. Salendo su per il monte, mi ritrovai ben presto nella

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già descritta zona di parchi, ville e casette rustiche, che i loro proprietari, dispersi a Milano, a Como o altrove, avevano stranamente sbarrato al mondo circondando i giardini di spesse mura. Così le ville erano ancora co­ me in balia d’un incantesimo, abbandonate dai loro pa­ droni, i quali, non sopportando più la solitudine da loro stessi voluta, erano evasi, come da un carcere, da quelle mura costruite espressamente. Mentre percorrevo lento gli angusti viottoli, non di rado fermavo il passo, come uno che voglia approfondir qualcosa meditando, qualcosa che, pur restando invisibile e inudibile, era nell’aria silenziosa, pronto a esser col­ to. In un modo o nell’altro pareva che il mio spirito non cessasse di rimuginare l’idea del vivere da eremita, che aveva pur determinato il mio viaggio. Mi ricordai così d’aver ricevuto al mattino una lettera col timbro di Pallanza, scrittami da un anziano e ricco signore, che mi annunciava la sua visita e attendeva la mia nella sua villa oltre il lago. Anche lui aveva battezzato la sua casa Eremitage. La deliziosa luce mattutina che il sole riversava sulla regione più bella del mondo, i pendìi fioriti che si ar­ rampicavano fin sul Mottarone, il vasto lago e, sullo sfondo, le alte montagne luccicanti nell'aria come ar­ gento ebbero il potere di ancorarmi al regno dei sensi. Mi pervase quella sorta di gaiezza che rende felici di contemplare e, sentendosi grata e paga del puro e sem­ plice esistere, considera il lavorio del pensiero come un gioco artificioso. Tutto ciò libera dal peso del mistero della vita, e fa pensare al Creatore come a un artista beato e beatificante, ad un Maestro che mai si sazia di prodigare felicemente la sua forza. In me regnava ancora la gioia di essermi potuto scio­ gliere con qualche profondo, salutifero respiro da tutti i pensieri corrosivi, quando, di ritorno dalla passeggia-

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ta, entrai nel più frequentato caffè della piazza per bere un vermut e accrescere così ancora il mio benessere. Lì mi toccò un’esperienza che, dopo un inizio tra il ragio­ nevole e l’incomprensibile, ebbe un seguito altrettanto contraddittorio... ed è divenuto poi causa di questo rac­ conto. Nel caffè si esibivano un pianoforte, un violino e un violoncello, il che non faceva che intensificare il chiac­ chiericcio intorno ai tavoli occupati. Percorrendo con gli occhi il locale, come sempre nella speranza di trovar qualcosa d’interessante, specie tra le solite coppiette d'in­ namorati, notai a un tratto in una cerchia di vivaci da­ me d’una certa età un anziano signore, il quale mi ispi­ rò - come debbo dire? - un senso di terrore. Distolsi lo sguardo, poi lo riguardai ;· e potei vedere che il digni­ toso personaggio rispondeva serio e tranquillo alle do­ mande che di quando in quando gli rivolgevano le si­ gnore sue vicine, e per il resto sembrava sentirsi per­ fettamente a suo agio in compagnia del fiasco panciuto. Ma che cosa c’era in lui da suscitare sgomento? Quell'uomo era Goethe, dalla testa ai piedi, era pro­ prio quel signore robusto e un po’ contadinesco che ci ha tramandato il disegno di Jagemann. Si atteggiava al modo del poeta quale lo vide il suo ritrattista, ma la giacca scura e l'alto colletto risvoltato, nascondendo le cocche della cravatta bianca, toglievano al suo abbiglia­ mento ogni carattere di stranezza. Io mi comportai co­ me si comportano tutti in simili insolite circostanze. Ec­ co, pensavo, una somiglianza fra due persone quale la natura presenta non di rado. Negli archivi della polizia se ne conservano, in disegni e fotografie, esempi sor­ prendenti. Due giovanotti, diciamo, si somigliano in tut­ to e per tutto in modo tale, che l’uno (prima che si chiariscano i fatti) deve ingiustamente espiare per il delitto o l’errore dell’altro.

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E la somiglianza poteva anche interpretarsi altrimen­ ti : durante i suoi viaggi in Italia Goethe aveva avuto più d’una avventura d’amore. Nelle Elegie romane egli ne rappresenta una. Eros, il creatore instancabile, non abbandonava mai quell’uomo secondo natura; così po­ trebbero esserne nati qua e là figli e figlie che nulla sapevano del sangue che scorreva in loro: lo straniero da me visto poteva essere un nipote o pronipote di Goethe. Tutto questo mi passò per il capo mentre lo fissavo e poi tornavo a distoglierne lo sguardo. Mi persi in una specie di vaneggiamento, e quando me ne ridestai, il gruppo di dame vivacemente cicalanti era scomparso, e con esso il mio « Goethe » rusticano. Né il cameriere né la barista seppero darmi conto del nome e della provenienza del dignitoso vecchio. Ma l’apparizione era per me di una singolarità eccezionale, e la soluzione dell’enigma che essa poneva non cessa­ va di occuparmi la mente. Troppo forte era quella so­ miglianza. Che scoperta avrei fatto, se fossi riuscito a rintracciare un nipote o pronipote del poeta, venuto for­ se dalla cerchia delle Elegie romane, e a presentare que­ sto secondo Goethe alla nazione tedesca! Quando mi ritrovai nella mia stanza d’albergo, l’e­ vento già tendeva a velarsi d’una sorta d’irrealtà. Sarei forse caduto preda di fantasie oziose d’ogni genere, se l’apparizione non avesse avuto una così spassionata evi­ denza. Essa non aveva nulla che potesse ricordare un poeta. Per conto mio quello era un uomo che possedeva campi e boschi, granai e solai per riporvi i frutti della terra, grosse botti in cui far fermentare il giovane mo­ sto... e s’egli avesse creato opere d’arte, sarebbero state annate di vino delizioso, tirate fuori con mano sicura dalla sua cantina, diciamo in una greve botte dorata!

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Avrebbe riso a sentir definire il poetare una professio­ ne borghese e se stesso un poeta. Mentre bevevo dopo pranzo un espresso al bar del­ l’albergo in compagnia del commendator Barratini, ven­ ni a parlargli della mia avventura, ed egli mi accennò a un inglese bizzarro, il quale proprio sotto la cima del Mottarone aveva eretto una specie di osservatorio, di specola o qualcosa del genere, in cui aveva pure eletto dimora. Lo frequentavano tipi strani d’ogni sorta, che il popolino chiamava spettri del Mottarone. — È strano — seguitò Barratini — che a quelli che li incontrano gli spettri richiamino sempre l’immagine di qualche scomparso: padri, fratelli o sorelle defunte; com’è avvenuto anche per lei. Perché — concluse con un sorriso malizioso — io non dubito che anche nel suo caso abbiamo a che fare con uno di tali spettri.

Se io oggi ripenso ai giorni allora trascorsi, e specialmente a quelli che seguirono l’incontro col sosia di Goethe, essi mi paiono come avvolti in un’aura magica. E vale la pena di meditarci. Innanzitutto io domando: siamo noi forse mai fuori di un’aura magica? Sono propenso a rispondere con un no deciso. L’uomo ingenuo, che è nel contempo solita­ rio, cerca la compagnia di uomini, di animali e di cose per liberarsi di tale stato: ma ne rimane in balia e, se conosce sufficientemente se stesso, ne è certo al di là d’ogni dubbio. All’aura magica dell’inverno nordico si contrappone per esempio quella del paesaggio meridio­ nale, della luce meridionale, dei colori meridionali, del sole meridionale. L’una suscita serietà, energia, capacità di resistenza. L’altra dona gioventù e felicità. Questa è la forma più semplice dell’aura magica. In me ne viveva l’incanto, accresciuto dal maggior calore e dalla più alta e splendida magnificenza del so­

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le. Ero soggiogato dalla magia divina della stupenda regione che circonda il lago Maggiore. Ogni monade del mio corpo e del mio spirito vi rispondeva. Anche l’apparizione di Goethe al caffè faceva parte, e in grado già più intenso, dell’aura magica. Tuttavia non potei fare a meno di tornare in un primo tempo al mio viver quotidiano e continuare così per alcuni gior­ ni, senza che avvenisse nulla d’insolito. Anche il miste­ rioso inglese si affievolì nella mia coscienza. Dopo tutto di simili originali è pieno il mondo, e non si può in­ fine negare il potere della fredda realtà e delle sue esi genze.

Alla lettera che avevo ricevuto alcuni giorni prima da Pallanza fece poi seguito la visita del suo autore, e subi lo dopo la mia, con cui lo ricambiai. Prima di montar sull’automobile che doveva portarmi a Pallanza, spiegai a Barratini dove intendevo recarmi. Sorridendo con la solita malizia, egli osservò che così non mi sarei sbarazzato certo degli spettri del Mottarone, giacché il cavalier Graupe passava per un mezzo spettro anche lui. (Tale in effetti era il bizzarro nome del mio amico e ospite.) — Uno spettro del Mottarone! Come mai? — chiesi. — Buon Dio, sì, egli frequenta ogni genere di per­ sone, e la gente ci lavora sopra di fantasia. Salito in auto, ripensai alle parole dell’accorto diret­ tore. In realtà Graupe sin dal nostro primo incontro aveva fatto anche a me un’impressione bizzarra. Era sen­ za dubbio un eccentrico. Quasi sessantenne, e rimasto scapolo, vestiva con una ricercatezza che arieggiava per cosi dire la moda dell’Ottocento. Era strano che non desse nell’occhio, quando lo si incontrava per istrada armato di cilindro, frac, cravattone, guanti di pelle e canna d’india.

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Ero ansioso di vedere il suo Eremitage. Mi aveva par­ lato a lungo delle sue pitture, dei tappeti e degli araz­ zi, dal che io avevo dedotto che dovesse essere, fra i castelli e ville che possedeva, per così dire, il figlio mi­ nore e più caro. Non sapevo che cosa aspettarmene: se la scipitaggine di uno smargiasso, o al contrario un te­ soro di ricchezza e di buon gusto; giacché le parole so­ le non danno alcuna garanzia. Ebbene, mi convinsi ben presto che quell’Eremitage sull’amabile riviera di Pallanza rappresentava un vero gioiello, una perla incasto­ nata nell’oro. Un maggiordomo in giacchetta nera e cravatta bian­ ca mi accolse allo sportello della macchina. Mi guidò entro la casa, poi prese il mio biglietto da visita e si allontanò un momento. L’istante successivo era già com­ parso il padrone, il quale, dopo avermi cordialmente salutato, mi dichiarò che, avendo il caso e la fortuna riunito in casa sua un gruppo di cari amici, io ero pre­ gato di prolungare un poco la mia visita e di essere suo ospite anche per un modesto pasto. Non ebbi nulla da obiettare. Fui molto piacevolmente sorpreso di trovare fra i suoi visitatori alcune mie vecchie conoscenze, persone famose nel campo dell’arte e in quello della scienza, che certo non mi aspettavo di vedere. Appresi ch’essi possedevano sul lago Maggiore piccole ville, eremitag­ gi appunto, dove si ritiravano di quando in quando, sottraendosi all’impegno del loro lavoro, che li trattene­ va chi in questo che in quel paese, ma soprattutto in Germania. L’uno era un compositore, l’altro un noto antropolo­ go, il terzo né più né meno che un intendente di Regio Teatro in funzione nella capitale della Sassonia. C’era­ no inoltre alcuni giovanotti garbati e non privi d’eie­

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ganza, i quali si mostravano servizievoli con i signori più anziani. Nel salone antistante la sala da pranzo venni presen­ tato a una marchesa Gropallo, una vivace dama d'una certa età, bellissima donna, alla quale non stavano male i pochi capelli bianchi frammezzo alla chioma bruna. In armonia coi suoi occhi espressivi, quella visione rubensiana portava un abito di velluto color saio di frate che non le copriva le spalle opime. Graupe la chiama­ va semplicemente Teresa o con un altro nome di bat­ tesimo. Alla mensa, che raccolse una tavolata d’una decina di persone, servirono i domestici sotto la sorveglianza del maggiordomo, e siccome s’incominciò con del « Veuve Cliquot », il convito raggiunse ben presto un alto grado di gaia vivacità. Fin dal principio gli argomenti furono svariatissimi. Qui la marchesa dava l’esempio. Faceva un gran mi­ scuglio d’italiano, di francese e di tedesco, interpellando ora Graupe sugli affreschi alle pareti, ora lo scienziato sulle sue ultime ricerche, ora il musicista sulla sua opera più recente. Gustati gli antipasti e il brodo, avevamo già anche passato in rassegna tutta la letteratura, specialmen­ te la francese e la germanica, che la marchesa, italiana, stranamente prediligeva. Appresi poi che aveva avuto una governante tedesca. L'intendente, conte S., uno dei pochi veri signori per così dire superstiti in questa nostra epoca, tralasciò dram­ mi ed opere per discorrere soprattutto della caccia, che in lui poteva considerarsi una passione più forte di quel­ la per il teatro. Nato da madre francese, aveva una pronuncia gutturale. Giunto il sontuoso pranzo a buon punto, lo scienziato mi sussurrò all’orecchio che il piuttosto indefinibile Grau­ pe usava corredare le sue non frequenti riunioni con

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una sorpresa, per renderle più saporite. Qualcosa di si­ mile credeva sarebbe accaduto anche quel giorno. Non seppi che cosa rispondere a quell’affermazione, ma ne fui distolto di colpo quando la marchesa, col fare tipico delle dame di mondo, si rivolse quasi con imperio al mio dotto vicino: — Ci racconti qualcosa dei suoi ultimi viaggi in Africa. — Lei dice « qualcosa », marchesa, e con ciò esige da me poco e molto: poco, perché ho dietro di me do­ dici lunghi viaggi in Africa, da cui ho riportato sco­ perte numerose come i granelli di sabbia del deserto che si possono contenere in una mano. Pretende molto, perché presuppone che nel suo « qualcosa » io metta l’essenziale delle mie ricerche. A parlarne, è noto, io sono sempre pronto — e sorrise, pieno d’ironia per se stesso — ma toccarne il nocciolo non è affatto semplice. Ecco: le mie ricerche si volgono ad una morfologia del­ la cultura. L’assioma fondamentale ne è questo: non è la volontà dell’uomo a produrre la cultura, bensì la cul­ tura a vivere « sopra » l’uomo. Io pongo la cultura come soggetto di contro all’uomo come oggetto. Può suona­ re sorprendente, ma il sorprendente è sempre vero. — Con questo lei ha detto molto con poco, e non è davvero facile rispondere. Così la marchesa; e a lei lo scienziato di rimando: - Lungi da me di aggravar chicchessia con una doman­ da e di conseguenza con una risposta. La cultura ha un’anima, un principio spirituale tutto suo, che nasce da un’immensa collettività e in essa si tramanda di con­ tinuo. Paideuma io chiamo questo principio. E uso la parola anche semplicemente per « cultura ». — Certo che la parola anima è un po’ scaduta —disse il musicista. In effetti il materialismo non attribuisce a questo concetto realtà alcuna — fece lo scienziato. E continuò:

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— Ma lei certo sa per così dire tutto, di questo con­ cetto. Lei vive ed opera pur sempre nel mare dell'anima, no? Che altro è, la musica? Graupe rise: — «Fatti, fatti, fatti!» ammonisce in Charles Dickens un maestro di scuola. — Già, la morbosa mania dei fatti ! -— così disse con un’alzata di spalle quell’uomo dotto. — Nolens volens, abbiamo ancora poeti, grazie al Cielo. Graupe espresse la sua piacevole sorpresa nell’udire uno scienziato severo, tutto dedito all’indagine scientifi­ ca, rallegrarsi dell’esistenza dei poeti. — Goethe fu poeta e scienziato insieme — rispose il dotto. -— Vede che le due attività si possono benissi­ mo conciliare. Entrò in ballo così il nome di Goethe, facendomi trasalire. Lo scienziato proseguì: — Nelle lettere, che si scam­ biarono Goethe e Schiller, il poeta occupa addirittura il più alto grado della cultura, tanto che persino il som­ mo filosofo, Kant, che compare sullo sfondo, al suo con­ fronto esce degradato. L’alta cultura si muove in una dimensione dello spirito, ed è perciò essenzialmente im­ materiale. Così - suoni o no assurdo - è e rimane l’Im­ materiale quello che io ho scientificamente indagato nel continente nero. Da buongustaio, l’intendente e conte osservò che non si debbono peraltro spregiare determinate gioie ben rea­ li... e alludeva ai piaceri della tavola. — D’accordo — fu la risposta. Ma restava il dilem­ ma fatale se dare la preminenza a ciò che nell’uomo è demoniaco, o a quello che è il senso della realtà. Potrà destar stupore che io mi arroghi di ricostruire per filo e per segno una simile accozzaglia di discorsi. Ma forse entra in campo anche qui il problema dei dati reali e del demoniaco. Io oso quindi chiedere che si ac­

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cordi anche a me una certa qual virtù demoniaca. D’al­ tronde le teorie dello scienziato non mi erano estranee, perché per un verso o per l’altro io mi sentivo loro mol­ to vicino. Che la cultura vivesse « sopra » l’uomo, qual­ cosa lo suggeriva anche a me, innanzitutto le esperienze che sono state tratte daH’osserva2Ìone del cosiddetto ho­ mo sapiens jerus. Il tipico uomo selvatico - tale pres­ sappoco fu in tempi recenti Kaspar Hauser - cresciuto senza contatto con la cultura umana, non ha superato 10 stadio della bestia. Estraneo ad ogni umana conviven­ za, egli divorava i cibi crudi e conosceva il linguaggio e i costumi dell’uomo meno di un cane. Quanto all’aspetto fisico, [’homo sapiens jerus è in tutto e per tutto un uomo, ma per il resto è una bestia fatta e finita. Dal che si deduce che all’uomo singolo 11 linguaggio umano non è affatto innato, ma ch’egli nell’umana società a poco a poco lo impara, approprian­ doselo quindi coscientemente come qualcosa di estraneo. E senza lingua non v’è cultura. Mi permisi di accennare - modestamente s'intende a quanto ho qui detto. Le mie parole furono accolte con cordiale indulgenza. — La lingua — dissi, alquanto in­ coraggiato — è un mare tanto inesauribile quanto mi­ sterioso, che in sé nasconde tutto quel che esiste di tre­ mendo, pericoloso, sovvertitore, ma anche tutto ciò che è buono, bello e sublime. — E il linguaggio — completò il mio pensiero lo scienziato — questo dono sacro, in cui io includo an­ che la musica, riempie totalmente e per ogni dove la dimensione spirituale dell’uomo. L’intera nostra vita spi­ rituale che altro è se non linguaggio, e che altro è il linguaggio se non reminiscenza, e che altro è la remini­ scenza - prendendo la parola alla lettera - se non il concentrarci sull’intimo nostro? Cioè - cara lingua tede-

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sea - in quanto noi siamo spiriti, pensatori, poeti, ma­ ghi... tutto è reminiscenza, reminiscenza! — Per rendere durevolmente possibile questa remini­ scenza — dissi io — abbiamo la scrittura. Con essa e per mezzo di essa si è instaurato il culto del linguag­ gio, quasi la sua religione. Ed essendo essa in tutto e per tutto un fatto artificiale, potrebbe servire a dimostra­ re anch’essa la soprannaturalità della cultura. L’analfa­ beta, il cui intimo pure è nutrito spiritualmente, come da una specie d’atmosfera ideale, dal mare della lingua parlata, non è però in grado di percorrere in su o in giù le fasi più alte o le più basse della cultura. Per questo Thoreau-Walden scrive che solo dall’alto d’una monta­ gna di libri possiamo salire al cielo. Proprio allora ci venne offerto un pasticcio, un capo­ lavoro dell’arte culinaria, che risolse la serietà della con­ versazione in un silenzio, prima, e poi in una generale ilarità. Graupe riprese il discorso. Egli disse pressappoco que­ sto: — Ora abbiamo, per così dire, rimesso piede sulla terraferma. Ma questo non ci ha fatto che bene, raffor­ zando la nostra fede in tutto quanto lievita su di essa senza toccarla. L’elogio del poeta ci riconduce alla poe­ sia e a quella realtà che è propria della vera poesia: davvero infinito è il suo regno. Che ne direste se, par­ tendo di qui, io facessi un passo nel regno degli spettri? — Alla luce del giorno? — risero gli ospiti. — Che coraggio ! — Oh, non crediate che nello splendido luminoso clima del meridione ci siano meno fantasmi che nel cu­ po e freddo nord. Ecco dunque che cosa ho da dirvi: Goethe, un Goethe al naturale, di circa sessant’anni, s’ag­ gira in carne ed ossa da queste parti, sul lago Maggiore. Non farà meraviglia se a quella notizia io mi sentii il cuore in gola.

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Si manifestò subito una generale curiosità per quel fatto incredibile, curiosità che Graupe mutò in stupore raccontando altri particolari. Goethe, chiamato semplicemente « il poeta », era sta­ to avvistato a Stresa, a Pallanza e a Baveno. Si trattava sempre della stessa persona, ma non si sapeva donde ve­ nisse, né dove andasse dopo ciascuna delle sue appari­ zioni. La polizia non era riuscita ad accertarne la pre­ senza in nessuno degli alberghi e delle ville di quel lembo di lago. E Graupe, l’aveva forse visto di persona? — Sicuro, e con una tale chiarezza — egli rispose — che, se mi domandassero se ho visto Goethe, non esiterei a giurarlo. Perché in quel momento io non mi feci avanti a con­ validare le sue parole raccontando quanto mi era suc­ cesso nel già nominato caffè di Stresa? Invece tacqui, come se mi fosse severamente vietato parlarne. Dopoché il desiderio d’incontrare il fantasma ebbe dominato per un po’ tutti i discorsi, passammo a parlare di quella sfera in generale cui lo spettrale fenomeno doveva bene o male riferirsi. Chi non sa che è un campo, questo, d una vastità enorme? L’idea del miracoloso l’ha introdotta in fin dei conti la Bibbia. Per me, a dire il vero, il miracolo è la premessa di ogni esistenza, ma ha di grado in grado sempre nuove manifestazioni. Herder sviluppa il concet­ to d’una sfera umana-sopraumana, che definisce senso umanitario, Humanität. Questo io dissi quando, dopo il pranzo, sedevamo nel salone di Graupe a bere il caffè e fumare sigarette. Lo scienziato ammise che il termine Humanität, come lo usa Herder, era assai simile al suo paideuma. Toccammo l’argomento dello spiritismo, nominammo Mesmer e i moderni ipnotizzatori, tirammo in ballo il

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Gross-Cophta di Goethe, le evocazioni dei defunti, e perfino il tavolino che balla. Intanto si rideva sovente, cedendo anche a una certa frivolezza, che d’altronde era in qualche modo suggerita dai graziosi affreschi della stanza, riproducenti a colori e con grazia leggiadra se­ guaci di Eros — ragazze e ragazzi nudi - fiammelle si­ mili a quelle delle candele emanavano lascive da quelle parti del corpo che di solito vengono pudicamente na­ scoste. — Sono davvero curioso — mi sussurrò all’orecchio lo scienziato ·— di sapere a che mira il nostro ospite con la sua sensazionale rivelazione su Goethe redivivo. Scommetto che ha in mente qualcosa. — E in effetti, quando alcuni di noi ritennero giunto il momento di congedarsi, coi suoi modi cordiali egli li pregò espressamente di concedergli ancora una mezz’ora. Aveva com­ prato a monte del suo Tuscolo un pezzo di terra che, situato al di là della strada, si raggiungeva dal giardino per mezzo d’un viadotto. Era un terreno trasformato qua­ si in un parco naturale, ch’egli avrebbe avuto piacere di mostrarci. Ciò avvenne quando, dopo esserci sgranchiti un poco, ci decidemmo infine a rompere le file. Goethe, e non certo sotto forma di spettro del Mottarone alla Barratini, era in ispirito frammezzo a noi. La marchesa su una portechaise dorata era al centro della nostra piccola processione, circondata da noi anziani, che esponevamo al suo spirito vivace ogni sorta di giudizi intorno al poeta olimpico. Qualcuno disse non esservi stato altro grande di pari sincerità. Goethe per se stesso non rinnega nemmeno la realtà d una quasi grandiosa scostumatezza. — Sì — si sentì dire da altri — Goethe seppe giun­ gere a un vero e proprio distacco da se stesso. Egli ve­ de sé come un oggetto estraneo. Allo stesso modo vede

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la sua poesia. Hans Sachs e le sue scarpe non rappresen­ tavano certo una cosa sola, tanto meno Goethe e le sue opere. Il calzolaio di Norimberga faceva le sue canzoni come fossero state scarpe. Era un maestro dei maestri cantori e conosceva a fondo l’arte della tabulatura. Per quasi tutta la vita Goethe si sforzò - lo vediamo dallo scambio di idee che ebbe con Schiller - di diventare un altro maestro cantore e d’instaurare una nuova tabulatura. Salimmo tutti insieme, oltre il viadotto, in una zona del parco intersecata da ben curati sentieri. I discorsi, il vino e il paesaggio incomparabile ci avevano sempre più eccitati. Sopra di noi splendeva il mite sole d’au­ tunno. I giovani folleggiavano intorno. La loro allegria era contagiosa. Il conte mirava col suo bastone da pas­ seggio a capi di selvaggina inesistenti. Il musicista ese­ guiva esercizi atletici. Non so quale spiritello maligno m’indusse a chiedere tutto a un tratto a Graupe se ave­ va mai sentito parlare di spettri del Mottarone. L’argo­ mento parve non riuscirgli gradito, tanto che deplorai la mia domanda. Lo scienziato mi guardò in maniera significativa. Inavvertitamente eravamo giunti in un piccolo teatro naturale, un semicerchio di vecchie muraglie delimitato da neri cipressi alti e solenni. Il teatrino era antichissi­ mo, Graupe l’aveva trovato così. Le funeree piante era­ no cresciute, mentre muri e scena s’erano rovinati e guasti. Nello spazio riservato agli spettatori, da un seco­ lo e più unici ospiti dovevano essere stati i fili d’erba. La baldanza che ci aveva colti nell’ebbrezza del carpe diem cedette ora a un silenzio sbigottito e pensoso. D’un tratto sentii levarsi la voce dell’esploratore afri­ cano: — Magari avessimo qui il Gross-Cophta con i suoi spiriti servizievoli. Dovrebbero, come si suol dire, prenderci per mano loro, il suo Assaraton e Pantassara-

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ton, i suoi Ithruriel e Uriel... il teatrino richiede asso­ lutamente un qualche incantesimo. Fu un caso se, ciò dicendo, lanciò a Graupe un’oc­ chiata strana? Tutto preso dal profondo, vivo silenzio che regnava nella rotonda dei cipressi, i quali parevano vegliare su molti secoli, io non avvertii da principio altro che uno straordinario risuonare dell’aria frammezzo alle piante. D'un tratto però mi avvolse un fumo odoroso, che gui­ dò il mio sguardo a un argenteo tripode, nella cui cop­ pa lingueggiavano fiammelle. Poi - non credevo ai miei occhi - scorsi un vecchio (era Ossian o Omero?) al quale una ragazzetta, quasi una bimba, liberava l’arpa dalla sua guaina. Come quan­ do qualcosa emerge dalla nebbia, io riconobbi la stessa visione che a Stresa mi era apparsa quasi una nuova Mi­ gnon. Se era quella la sorpresa profetizzatami, andava assai oltre il segno, e - così pensavo - non per me soltanto. Mi parve che tutti, come rapiti, prendessimo posto. Rê­ ves et réalités, s’intitolava il preludio nel libro del commendator Barratini. Lì sembrava che i due elementi fos­ sero misti insieme. Qual voce è questa? Qual suono ascolto laggiù sul ponte, fuor del castello? Che al nostro orecchio qui nella sala risuoni a noi quel canto! Così il re dice, il paggio corre, torna: c’è un vecchio. Il re comanda: fa’ dunque entrare il vecchio! A voi m’inchino, signori illustri, a voi m’inchino, splendide dame. Che cielo d’oro! Stella con stella!

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Come nomarle tutte? In mezzo a tanto fulgore, occhi miei, vi chiudete Non questo è tempo di goder rimirando.

E chiude gli occhi - e al canto intera l’anima schiude. Levano accesi gli occhi i guerrieri. Chine le belle mirano in grembo assorte. Al re quel canto piacque. Comanda: una catena d'oro sia data come premio al cantore. Non la catena d'oro. No, Sire. Ai tuoi guerrieri dalla, ai tuoi prodi : l’ardito volto mostrano, e infrante cedon Paste nemiche. Ai tuoi ministri da’ la catena d’oro, con gli altri pesi ancor questo peso portino d’oro. Come l’uccello che sopra i rami canta, anch’io canto, ed a te stesso è premio il canto che su dal cuore impetuoso rompe. Ma se d’un dono pregar ti posso, o re, ti prego quest’uno: in tersa coppa spumante vino.

Eccola: il vecchio l’accosta al labbro, la vuota. Oh, dolce ristoro! O casa ricca, tre volte casa beata, cui questo è piccol dono! E a me nei lieti giorni pensando Dio ringraziate, com’io ringrazio or voi per questo dono. A tempo un boccale d’oro era stato porto al cantore da tre giovani. Era colmo di vino sino all’orlo.

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Eccola: il vecchio l’accosta al labbro, la vuota...

Un cenno di Graupe ci vietò di muoverci prima che Omero e Mignon si fossero allontanati.

Parte seconda

Il pranzo da Graupe era trascorso ormai, lasciandomi in uno stato d’animo mutato, in certo modo stranito. Durante le mie passeggiate ripensai parecchio a quella Mignon due volte rediviva. Correva voce che fosse di Merano, di origine ladina, e che avesse per padre un croato. Non riuscivo a liberarmi da quella visione, ben­ ché facessi di tutto: letture approfondite e lunghe mar­ ce. Mi venne in mente la seconda parte del Faust, il problema di tanti interpreti. Lì Faust non è più presente come figura centrale. Goethe in persona definisce l’opera nel suo complesso « una composizione barbarica, anzi, un prodotto di bar­ barie ». « Basterebbe un mese di tranquillità » egli scrive a Schiller « e l’opera mia, fra lo stupore e lo scandalo di tutti, spunterebbe fuor dalla terra come una grande famiglia di funghi. » E in effetti moltissimi passi della seconda parte del Faust danno l’impressione d’una fun­ gaia venuta su rigogliosa dal terreno. Ad onta di quel giudizio, soggiacqui ugualmente agli influssi narcotici di quella colonia di funghi e ne fui un poco stordito. Ma, appena cessata la narcosi, Mignon tornò a cam­ peggiare nella mia mente. S’impadronì di me l’idea di fuggire. Ordinai all’uf-

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ficio turistico il biglietto per il viaggio di ritorno. Ma quando al mattino successivo vidi preannunciarsi una giornata splendida, rimandai un’altra volta la partenza. Quel giorno vagai, come già spesso avevo fatto, sulle alture dietro Stresa, in preda a un groviglio eccitato d’innumerevoli pensieri. Il monte Mottarone è alto millequattrocentonovantun metri. Io ne avevo pressoché rag­ giunto il culmine e non me n’ero avveduto. Senza un motivo sostai in silenzio, tendendo l’orecchio a non sa­ pevo bene che cosa. Poi compresi : era il mio cuore, il cui battito l’altitudine aveva accelerato. Mi sembrava d’essere solo come non mai con quel mio cuore pieno d’affanno. A un tratto s’insinuò in me un orrore panico. Senza dubbio la morte in quel momento non mi era lontana. Neri veli caddero a uno a uno sopra di me, neri veli di quella notte che procrea il giorno. Al lace­ rarsi d’uno di essi, scorsi un edificio a cupola sorgente in quella remota parte. Si trattava certo del bizzarro osser­ vatorio di cui mi aveva parlato il commendator Barratini. Mi resi conto d’essermi smarrito in un luogo parti­ colarissimo. Qualcosa di simile l'avevo provato una vol­ ta nella cattedrale di Praga, sulla Cittadella, in una cap­ pella laterale. Là si avvertiva la presenza dei secoli. L’a­ ria stessa che vi si respirava era pregna di destino, den­ sa della presenza degli spiriti che quel destino avevano vissuto. Mi sentii sbalestrato entro una comunità miste­ riosa, alla quale compresi che anche Graupe appartene­ va. Ed ecco all’improvviso echeggiare in me la frase: Ogni nascita è rigenerazione. Richiederebbe un piccolo volume riprodurre i fregi apposti alle pareti dall’autore di quello strano edificio. Vi si trovavano monogrammi del Redentore, della Tri­ nità e altri. Honny soit qui mal y pense, si leggeva su un’antichissima lastra di pietra, e altre cose del genere.

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Ebbene sì, tutto era mistico, in quel luogo: ma la severa scienza è forse altro? Percepii una musica, scevra al tutto di voci umane. Al suo confronto quella delle sale da concerto è materiale. Io mi ci dissolsi, essa sostituì in parte il mio pensiero. Per mezzo suo acquisii conoscenze, che da allora ho nuo­ vamente e da un pezzo perduto. Era come se vi avesse voce il Tutto, come se cielo e terra vi proclamassero il loro significato vitale. Nulla certo vi era di dimostrabile in quel muto concento. Esso distruggeva piuttosto ogni dimostrabilità. Non avevo neppur modo d’esser certo se vivessi. Ma il problema in sé non mi toccava. Non so quanto durasse quell’estasi, prima che udissi all’orecchio una voce: «Il tuo Genio ti ha guidato alla cieca oltre un determinato confine, al di là del quale ben di rado un uomo vivo in carne ed ossa è giunto. Sii ardito, sfrutta l’attimo privilegiato che ti è concesso ». Avevo io forse un’invisibile guida, che era entrata con me in collegamento? Tocca dunque a me ricordare la qualità del nostro contatto. Davvero: qualcosa d’in­ visibile mi prese per mano. Dovevo aver fatto dei passi, perché oltre il margine del prato vidi salire e appres­ sarsi le teste d’un numerosissimo gregge di pecore. Lo precedeva una contadinella, che poteva avere una quin­ dicina d’anni, con in mano una verga a mo’ di tirso. Chi era quella bambina? Le fui d’un tratto accanto senz’aver mosso un passo. — Sei tu la pastora d’un gregge così grande? ■— le chiesi. Vidi un cielo azzurro guardarmi ridendo. L’occhio d’una amabile dea si posò su di me. Impossibile non tremare dinanzi a tanta grazia e dolcezza. Essa abbassò le palpebre sugli occhi, come per volermene riparare. Mi passò per la mente che avesse compassione di me, come d’un essere inferiore smarritosi in mondi più alti.

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Il suo mite e dolce sorriso m’incoraggiò. Le chiesi come mai fosse sola con quel suo enorme gregge. Disse che suo padre era un capo pecoraio, detto da tutti « il buon pastore ». Che egli amava gli uomini, ma, essendo un dio, pativa come tale tutti i loro dolori. E che questi, cioè i dolori, erano tanto più grandi di quelli degli uomini, quanto egli lo era di loro: un dio, appunto. Ecco che qui ritrovo anche te, pensai. E mi vennero in mente le figurine di legno che rappresentano Gesù Nazzareno come un’immagine di dolore, dove egli piega il capo avvilito e meditabondo. Io sono il buon pastore, dice la Scrittura. Può dar­ si; io lasciai correre. Non volevo offuscare il cielo pa­ radisiaco, che mi sovrastava incarnato in figura di pa­ storella, e meravigliosamente mi compenetrava. Vergine, madre e regina, pensai, e avvertii come sus­ surrato da Goethe in persona : Santa Maria in triplice forma. Ma d’un tratto la visione era sparita. Ci sono momenti e circostanze in cui temiamo per la nostra ragione. La psichiatria conosce due tipi di tur­ bamenti psichici, l’illusione e l'allucinazione. In quest’ultima una pura e semplice idea diventa realtà, in quella un oggetto reale viene disconosciuto. Di me s’im­ padronirono ambedue. La ragione conservava il predo­ minio, ma facevo fatica a guidare la navicella del mio intelletto. Per di più mi trovavo in una condizione spi­ rituale simile a uno stato di veggenza, che mi rendeva visibile fin nei più piccoli particolari, in maniera inau­ dita, se non il futuro, almeno il passato, tutto il mio passato. Volendolo spiegare agli altri _ come è pur mia intenzione - dovrei riuscire a condensare in un solo momento un periodo di cinquant’anni. E come, se nes­ suno al mondo è mai riuscito a scrivere la propria vera biografia? Ma per indicare con un piccolo esempio ciò

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che intendo: migliaia di volte nella mia vita ho visto l’amabile pastorella nascere, crescere, fiorire, diventare madre e sfiorire... e arrancare, lei, la più soave delle fanciulle, sotto forma di vecchia strega incartapecorita. Mi furono presenti tutte insieme, quelle immagini. Avrei potuto evocarle singolarmente, e tener con loro antichi discorsi. Ciò è forse in potere di tutti; forse si potreb­ be dire che siamo legati più profondamente e verace­ mente ai morti che ai vivi, più strettamente ai lontani che ai vicini. E mentre così pensavo, vidi uscir fuori dall’edificio a cupola a mo’ di tempio e avanzare verso di me un uomo, il quale rassomigliava in maniera sor­ prendente al sosia di Goethe da me scorto in quel caffè di Stresa. Egli non era più giovane, ma non si poteva negare al suo aspetto piena virilità. Stivali rozzi, una giacca bruna dalle lunghe falde, sul cui lato sinistro era attaccata una stella. La gorgiera, il cappello e il basto­ ne indicavano un uomo di mondo, il quale però al­ l’aria aperta sapeva muoversi con allegra disinvoltura. Ma ciò che rende oggi quell’allucinazione — come io voglio chiamarla - particolarmente significativa anche per me, che non posso smentirla, è il fatto ch’egli te­ nesse la mano destra sulla spalla d’una ragazzina che avanzava pian piano al suo fianco e non poteva essere altri che Mignon. Poi accadde qualcos’altro, qualcosa di difficile a cre­ dersi, ma che ha assunto per me il più profondo signi­ ficato. Il vecchio signore mi guardò. Mi guardò con quei magici, protuberanti occhi goethiani che sono di­ venuti un mito. Impossibile ignorare che accennava alla sua compagna. E, compenetrandomi sempre più a fon­ do col suo sguardo enigmaticamente fisso, fece fluire in me un ben definito comando, di cui fui subito schiavo. La visione scomparve in un baleno. Ma io mi ritro­

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vai come segnato, e da quel momento in poi vissi in una sfera del tutto nuova. Quanto a Mignon, eccomi d’un tratto gravato di un’incombenza. Si trattava naturalmente della ragazza che ai miei occhi rappresentava Mignon e che, in veste di Mignon, Graupe aveva presentato sulla scena. L’avrei dunque rintracciata e sottratta a chiunque esercitasse su di lei un potere malvagio. Ma nello stesso tempo m’in­ vase un altro forte sentimento, in cui non potevo non ravvisare una passione incipiente. Il commendator Barratini, col quale intanto mi ero in parte confidato, con la sua innata bonomia mi aiutò di buon grado a cercare i fantasmi del Mottarone, come egli chiamava il cantore e la sua accompagnatrice. Egli riuscì a scoprire che i due si tenevano nascosti per pau­ ra del funambolo, il quale inseguiva senza posa la pic­ cola che per lui rappresentava una fortuna. Le tracce lasciate dal vagabondo Omero, probabilmen­ te cieco, e dalla sua compagna ci portarono in una zona di villette in rovina che andavano lentamente crollando in mezzo ai loro giardini inselvatichiti. Da principio non li trovammo, giacché essi mutavano rifugio ogni notte. Ma qua e là, dove un posto poteva offrire una certa protezione, magari con carta incollata alle fine­ stre, ritrovavamo forcine per capelli, una corda di mi­ nugia o simili. Mi raccontarono che il vecchio vaga­ bóndo era un originale che rifiutava ogni aiuto duratu­ ro pur di sottrarsi a qualsiasi forma di costrizione. An­ che ad offrirgli un certo grado di benessere non si riu­ sciva a far tacere il suo amore per la libertà. Non pro­ prio cieco, egli poteva cavarsela anche da sé, ma pos­ sedeva nella sua compagna a lui devotissima due gran­ di occhi acuti che gli facevano da guida. Si portava attorno le masserizie accolte in una balla voluminosa, uso a farsene, dove capitava, un giaciglio per la notte.

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In essa si trovavano pezzi di valore: anelli, catenelle e libriccini rari, biancheria di seta, quadretti e parec­ chie altre cose; in breve: un pacco pieno dei ricordi d una vita. Io dovevo esserne ben presto testimone. Avevo quasi perso ogni speranza, quando finalmen­ te ritrovai il cantore e Mignon in una remota casetta di quella specie di necropoli piccolo-borghese. Avvenne a notte fonda, seguendo il chiarore trapelante da una rovina. Avevo bensì udito poco prima ventate di mu­ sica, ma di primo acchito le avevo prese per suggestioni. Quando attraverso una fessura del muro scorsi, come ho detto, i due personaggi misteriosi, sostai in silenzio. La luce proveniva da un focherello azzurrognolo. Mi­ gnon era indaffarata a cuocere una minestrina, che in seguito, quando dopo qualche moto d’incertezza mi fui introdotto in mezzo a loro, porse all’arpista e cantore. Non posso tacere che, quando ancora me ne stavo in­ tento a sentire e a guardare, l’arpa cominciò a mandar suoni. Affermo di non averne mai uditi di simili, né prima né dopo d’allora. Strano vecchio ! Non riusciva a tener lontane le dita dalle corde, benché proprio quel suono dovesse tradir­ lo. Quando, dopo molte esitazioni, penetrai in quel loro rifugio, fui alquanto stupito della tranquillità con cui I due mi accolsero. Chiesi al vecchio, involontariamente: Lei mi conosce? — Che mi conoscesse Mignon non era strano, dopo quanto era accaduto tra noi sulla piaz­ za del mercato a Stresa. Che altro dire, infine? L'aria era mite. Con parole cortesi il vegliardo mi lice sedere, mentre Mignon, pur senza parlare, mi dava anche lei a modo suo il benvenuto. Per tutte le evenienze avevo portato con me una sca­ lcila di confetti e una mezza fiaschetta di chartreuse, che I due gustarono volentieri e con gratitudine. Quando fu avviato il discorso, fu facile capire che υ.

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quel vecchio doveva essersi lasciato alle spalle una vita movimentata e abbastanza ricca. Indubbiamente doveva aver acquisito così una certa istruzione, senza contare la padronanza delle principali lingue europee, del france­ se in primo luogo. Conosceva Berlino, Roma, soprat­ tutto Parigi, e qui in particolare pareva avesse lavorato da capogiardiniere presso distinti signori e famiglie no­ te, nelle loro residenze di campagna. Conosceva anche celebrità del teatro e delle sale da concerto. Mentre il geniale mendicante parlava, io lo osservavo ben bene. Aveva una testa espressiva, incoronata di riccioli da Giove olimpico. — Ho un leggero mal d’occhi — dis­ se — e questa ragazza, che si è unita a me, mi riesce perciò tanto più utile. Essa mi ha posto affezione come, diciamo, a un nonno. Di questo devo essere davvero grato agli dei. Aga, senti, vieni un po’ qui ! Io chiesi donde provenisse Aga. — Dovrebbe dirglielo lei, ma appunto questo Aga non dice. Sarà venuta dalla Germania attraverso le Al­ pi, non diversamente e per lo stesso impulso di un uccello di passo, in virtù di un istinto, d'una nostalgia, d’una tristezza. Ha subito umiliazioni e abusi. Ma c’è in lei qualcosa, vorrei dire un’infinita malinconia, che la solleva d’ogni sospetto di volgarità. Dopo tali discorsi, ed altri simili, mi fu chiaro che non avevo a che fare con uno dei soliti mendicanti. Gli chiesi come mai fosse giunto fino a Graupe. Alzò le spalle e su questo argomento non volle parlare. — Gli uomini altolocati — disse — non hanno nulla, specialmente su certi punti, che li distingua da un qualsiasi rozzo artista di circo. Una bella ragazza e una belva am­ maestrata sono per loro la stessa cosa. Il fatto ch’essi possano indorare i loro vizi non cambia niente. — Con­ cluse : — Ce ne siamo venuti via in tutta fretta.

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Domandai all'arpista se conosceva l’edificio a cupola sul monte Mottarone. Egli fece spallucce: — Appena appena! — mentre Aga-Mignon levava uno sguardo veloce come il lampo. Avevamo concordato un nuovo incontro, ma non ri­ trovai più i due al vecchio posto; e per quanto li cer­ cassi rimasero irreperibili. Non era difficile scoprire, nel mendicante filosofo, il motivo di quel suo giocare a nasconderello : nel suo cuore, vecchio ma ancora giova­ ne, era nato per la mia Mignon un affetto che a me riusciva fin troppo comprensibile. In simile modo ero avvelenato anch’io. In qual maniera simili avvelenamenti si manifestino è noto a tutti. È un incantesimo contro cui si lotta, e che intanto si assapora; un incantesimo che martirizza e rapisce in estasi, e soprattutto rende schiavi. Non v'era dubbio che nei confronti della mia Mignon fossi caduto preda anch’io della stessa inguaribile malattia. E così s’impossessò di me una specie di odio e di gelosia verso quel vecchio quasi abbandonato. Occorreva dirgli il fatto suo. Non possedendo io la ricchezza di cui disponeva il vecchio briccone, come or­ mai lo chiamavo, cercai di aiutarmi con pochi soldini. Aga-Mignon più volte mi aveva guardato di sotto in su - com’era sua abitudine - con uno sguardo allusivo, com’io davo a intendere a me stesso. Come se avesse (creato una connivenza, forse voluto cattivarsi in me un salvatore. In fondo non poteva essere altrimenti: anche col vecchio pazzo lei si sentiva prigioniera. Non mi stancavo di tentare di convincermi di que­ sto, come pure del suo tormentoso anelito alla libertà. Erano passati più di otto giorni da allora, quando, sperdutomi durante una passeggiata, mi vidi costretto a ripararmi dalla pioggia in un’osteria di campagna. Era sopraggiunto un temporale, ed esso perdurò con tuoni

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e lampi tanto che a tarda sera mi trovavo ancora rele­ gato lì. Deciso infine a pernottarvi, occupai una picco­ la, linda stanzetta. Quando ero ormai in procinto di co­ ricarmi - la stanzetta si trovava al primo piano — udii da basso un diverbio. L’oste rifiutava ospitalità a qual­ cuno. A me la cosa non interessava, ma — fosse il Chian­ ti che avevo bevuto o un fuggevole sentimento d’uma­ nità - ad onta del vento e della pioggia aprii la fine­ stra e vidi due persone alla porta d’ingresso. Che devo dire? Ben presto mi fu palese che i due mendicanti l’alloggio non erano altri che l’arpista e la sua com­ pagna. Non c’era dubbio su quel che dovessi fare. In meno di dieci minuti i due erano alloggiati. Consumarono una cena ch’io avevo ordinato per loro, e intanto li lasciai soli. Ma quando il vecchio, come dalla mia stanza fui in grado di notare, dopo il pasto divenne loquace - giacché attingeva al fiasco senza eco­ nomia - m’indussi a scendere da lui un’altra volta. Egli mi apparve nuovamente quale un cieco Omero. L’arpa era appoggiata alla parete, la testa china sulle corde. Mignon era stata colta dal sonno, e mi pareva, in quel­ la giacitura, somigliante al fedele suo genio addormen­ tato. La bassa stanza, che mostrava per ogni dove travi annerite dal fumo, era fornita d’un gigantesco camino con un’antichissima mensola ad altezza d uomo. Due contadini vi sedevano comodamente sotto, scaldandosi le mani al calore d’un ceppo che ardeva senza fiamma. Sulla panca a muro due venditori ambulanti, marito e moglie, avevano scaricato grossi fagotti, mettendosi poi a sedere anche loro, per gustare del vino e dei cibi che, com’è loro costume, avevano con sé. Non lungi da Mi­ gnon prese posto un giovane contadino, che a poco a poco tentò di farlesi sempre più presso, ma si ritirò in fretta quando la piccola, risvegliandosi all’improvviso,

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lo fissò con uno sguardo minaccioso. Me ne accorsi di sfuggita, mentr’ero già impegolato nei convenevoli d’uso con l’arpista. Sembrava che stesse tenendo una conferenza, a cui mescolava dei versi. Notai che aveva velleità poetiche. Forse aveva frequentato qualche classe di ginnasio, per­ ché adoperava frasi che erano reminiscenze classiche. Credetti di udire le parole « Delfini votati alle Muse, alunni del mare, dee Nereidi, Anfitrite », e citazioni latine. I clienti contadini, quando per caso stavano a sentire, si sogguardavano con un sorriso d’intesa che non lascia­ va dubbi sul loro giudizio circa le condizioni mentali del mendicante musico. La coppia di venditori ambu­ lanti parve lo conoscesse, forse lo avevano già incon­ trato altrove. Invece di cicalare tante stupidaggini, disse l'uomo, facesse piuttosto danzare la sua bambola. Mignon drizzò le orecchie spaventata. Erano arrivati altri ospiti. Non so perché io non ab­ bia avuto riguardo alla ripugnanza di Mignon a farsi avanti. Avrei pur potuto senza difficoltà con una somma di denaro per lui cospicua indurre il vecchio a dare una piccola rappresentazione. Invece ordinai vino per tutta la compagnia e suggerii all’arpista di far girare Mignon col piattello a raccogliere soldi. Egli le impar­ tì l’ordine, ma essa obbedì controvoglia. Mi lanciò un’occhiata incattivita. Il suo contegno era simile in tutto e per tutto a quello che aveva tenuto sulla piazza di Stresa, al servizio del ciarlatano. Nel suo giro mi omise di proposito. Non so che cosa mi prendesse in quel momento, ina la costrinsi ad accettare il mio denaro, poi le iminobilizzai il polso. Lei si svincolò, ed io ebbi così modo di sentire la delicatezza delle sue dita e di ammirare la sua nobile mano. Scopersi anche che la mia Mignon

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portava un braccialetto all’omero e un altro alla cavi­ glia. Chissà quali avventure covavano ancora in lei il loro fuoco, avventure che andavano ben oltre quelle della Mignon di Goethe! Forse era stata battezzata con l’acqua dell’Oceano e aveva conosciuto la condizione del­ la schiava. L’avevo già sentita parlare? Sì e no, vorrei rispondere a me stesso. Fin dove giungiamo col pensiero quando, riflettendo sopra noi stessi, abbracciamo con gli occhi della mente la nostra origine e la nostra destinazione? È un’opinione antichis­ sima, quella di un nostro eterno ritorno, e ad essa dob­ biamo in certo modo attribuire una specie di onniscienza. Sempre più a fondo, quanto più a lungo viviamo, noi penetriamo entro i misteri e, attraverso i misteri, nella conoscenza. Fu come un lampo che mi ci fece riflettere, ed era già trascorso nell’istante in cui Mignon affondò gli occhi nei miei e per un attimo parve come trapas­ sare in me: non certo come una sorella, bensì in una maniera mistica, repentina, che si può definire soltanto con la parola amore. Aiutai Mignon a raddrizzare l’arpa dell’aedo, e lei, di nuovo caparbia, lasciò fare. Ma in me era vivo qual­ cosa che mi aveva messo con Mignon in un rapporto stranamente universale, ed era senza principio e senza fine. Scomparso tutto ciò che era indifferente... noi due eravamo uniti da sempre. Con la meccanicità di chi ripete a memoria, l’aedo stava secondo l’uso preludiando, e diceva volgarmente come l’uomo mortale debba esser lieto. Forse perché una danza di Mignon io non riuscivo proprio ad immaginarmela, insistei per vederla. In Goe­ the era la virtuosistica danza sulle uova, ch’ella aveva eseguito, ma qui non fece nessun preparativo che ac­ cennasse a qualcosa di così difficile. Non mi pareva

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che possedesse il dono della grazia, e mi ricordai di Schiller, che alla Mignon goethiana attribuiva « una stra­ nezza repellente ». Ammetto d’aver provato anch’io la stessa impressione con la mia Mignon in carne ed ossa. La danza incominciò. In essa non vi era nulla che attraesse. Anche l’arpista non ne era soddisfatto. Egli la spronò usando termini ingiuriosi. Ciò non parve toc­ care la ballerina. Ma ad un tratto essa s’infuriò e prese a smaniare. Negli spettatori la sua furia suscitò dap­ prima risa, poi tacita costernazione, giacché non la si poteva dire studiata, né tantomeno senz’arte. Non vo­ glio dilungarmi oltre su questo; dirò solo che la na­ tura un po’ sonnolenta di quella bambina si era esal­ tata a un punto tale da far venire in mente un fuoco d’artificio, che prima dell’accensione ha un aspetto mor­ to e scialbo, e poi divampa in fiamme e scintille. Accadde allora qualcosa di singolare. Stremata dalla danza sino a perdere la conoscenza, Mignon cadde bar­ collando nelle mie braccia, sì che io mi sentii in do­ vere di richiamarla in vita con un corroborante. Ciò non piacque all’arpista, che prese il fatto per un altro verso. Alzatosi, egli la chiamò con nomi incompren­ sibili, sollecitandola ad abbandonare l’osteria, visto che fuori il tempo s’era calmato e splendeva la luna. Io però glielo vietai nella maniera più decisa. Tutti furono d’accordo con me. Fu particolarmente risoluto nel prendere le mie parti uno che portava un ampio e scuro mantello a ruota, di cui teneva in testa il cappuccio. Quel vecchio briccone, disse, non faceva che rovinar la ragazza; bisognava informare la polizia. Ma il nuovo Omero ebbe uno scatto d’ira: — Sei qui, tu? Ma bene! — disse. Poi continuò: — Egli ha rapito la ragazza a sua madre, gettandola legata den­ tro il suo carro di vagabondo e portandosela via. L’ha

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ammaestrata come si ammaestra un cane, rendendola docile con la fame e con le percosse. Il vecchio seguitò per un pezzo ad inveire a quel modo. Taccio quanto gli disse in risposta il mantello a ruota, alludendo a cose assai poco pulite di cui gli faceva rimprovero. Ma io mi resi conto di avere di­ nanzi a me nientemeno che il giocoliere di Stresa, schia­ va del quale avevo visto per la prima volta la mia Mi­ gnon. Ero stato testimone del modo con cui egli l’ave­ va malmenata, a schiaffi e colpi di frusta, e non du­ bitai perciò della verità dell'accusa. Inoltre fra i clienti dell’osteria nacque contro di lui un’animosità che, minacciando di passare a vie di fatto, lo indusse a prendere il largo alla svelta. Io ero venuto a trovarmi, come dovetti confessare a me stesso, in una situazione ben strana. Indubbiamente pesava ormai su di me una responsabilità nei confronti della trovatella orfana di padre e di madre. Non ero mai stato uomo da declinare doveri del genere. Ma mi ci legava anche un altro sentimento ormai invin­ cibile. Come riconobbi con leggero spavento, non era più possibile annullarlo. Mi misi dunque a far da padrone con molta riso­ lutezza, come me lo permetteva il mio italiano: stabilii che il vecchio e così pure la sua Mignon dovevano pas­ sar la notte sotto quel tetto e attesi che avessero accom­ pagnato lui in una stanza e la ragazza in un'altra la più lontana possibile. Poi andai a letto, per il momen­ to pacificato. Quando il mattino seguente mi ridestai, mi sembrò d’aver dormito poco; ma forse mi ero ingannato e ave­ vo dormito ad occhi aperti; il che va pur sempre de­ finito un sonno. Infatti, quando chiesi notizie dei miei protetti, mi fu detto che non erano più lì, se n’erano andati senza che alcuno se ne accorgesse. Piccola co-

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m’era la casa, e coi pavimenti e le scale pieni di scric­ chiolìi, non voleva entrarmi in testa ch’io avessi potuto non udirne la fuga. Quella scoperta mi colpì in una maniera che fino a poco prima avrei considerato im­ possibile. Feci colazione in fretta, assoldai un ragazzo di tre­ dici anni che affermava di conoscere il vecchio mendi­ cante e con lui mi misi sulle sue tracce. Ma dico trop­ po, perché non c’erano assolutamente tracce da seguire. Sul meriggio lo pagai e lo lasciai libero, perché egli mi aveva portato fuori strada addentrandosi sempre più in una zona che mi era del tutto sconosciuta. Quindi mi presi qualche po’ di ristoro in un locale qualunque e mi consigliai con me stesso. Convenni tra me e me che rispetto al giorno prima la mia situazione era del tutto mutata. Ciò significava che io, proprio io, consapevole com’ero d’esser stato sempre un contemplatore, un libero gaudente, mi ve­ devo tutto a un tratto e con pena prigioniero. Una parte del mio essere, che si poteva benissimo definire la parte segreta, si era dischiusa imbevendomi tutto del suo con­ tenuto. Il mio viaggio a Stresa l’avevo deciso in piena libertà... ed eccomi inchiodato a un destino che rendeva impossibile il ritorno; se per allora o per sempre non mi era dato sapere. Rilevai con lieve spavento che per me la patria, la casa, mia moglie, i miei figli avevano perso ogni forza d’attrazione. Debbo dire che m’erano indifferenti? Qui la parola giusta, purtroppo, era forse: avversione. Del resto io avevo anche un mestiere, e per esso sentivo la stessa avversione. Mi auguravo di spa­ rire in qualche modo, di non saper più nulla di parenti ed amici, di andarmene magari in qualche terra re­ mota... ma con Mignon al fianco. Tenevo la mano avvolta nel fazzoletto che tornava sempre ad arrossarsi. Lungo il cammino la lavavo alle

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fontane e ai rigagnoli. La ferita, e il dolore struggente ch’essa mi dava, rappresentavano per me qualcosa di prezioso. L’avevo riportata, e non avevo fiatato, quando avevo tenuto in grembo Mignon sfinita per la danza. Poco mancava ch’io considerassi il mio stato complessivo co­ me una malattia. Proprio così: quella selvaggia aveva morso, convul­ samente, anzi, forse inconsciamente; ma qualcosa in me voleva credere a un impulso diverso e non se ne la­ sciava dissuadere ad alcun patto, determinando comun­ que il mio stato d’animo. Di quel morso ero e restavo malato. Lo si notava anche dal mio aspetto. Il commendator Barratini mi domandò se avessi in­ contrato un fantasma del Mottarone. Quei fantasmi in­ fatti, diceva il popolino, agivano ora in un senso ora nell’altro... da un incontro del genere un malato poteva uscir sano e un sano ammalato. — Ma, a parte gli scherzi — aggiunse — lei non mi piace. Dovrebbe mangiare più maccheroni e bere più vino. Mignon, per dirla in breve, era diventata la mia idea fissa. Né l’arpista, né lei, né l’acrobata furono reperi­ bili sulla riva italiana del lago Maggiore. Ne perlu­ strai in automobile e a piedi città e villaggi. Ma come chi soffre la fame e la sete, e non trova pane né acqua in alcun luogo, così io caddi in preda a una specie di consunzione che, ogniqualvolta mi si faceva incontro un conoscente della cerchia di Graupe, suscitava espressio­ ni tanto stupite quanto compassionevoli. L’origine della mia malattia ovviamente non intendevo rivelarla. Benché per un pezzo io mi ribellassi all’idea di ricor­ rere a Graupe per il mio problema, tuttavia finii col fare quel passo. Alla mia nuova visita diedi come me­ glio potei un carattere occasionale. Riuscii così ad espor­ re il mio caso; ma non mi fu possibile cavargli fuori

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alcunché circa Mignon e il suo Omero. Disse d’aver raccolto a suo tempo la coppia per la strada, mentre faceva musica davanti a non so quale casa; e che la ra­ gazza, secondo lui, aveva una vocina tanto commovente quanto misera. Dubitai che Graupe dicesse a questo proposito la verità. Ebbi quasi l’impressione che quel damerino mi nascondesse in piena coscienza qualcosa. Vagabondi co­ me quelli, disse, spuntavano fuori all’improvviso e scom­ parivano senza lasciar traccia, come se la terra li avesse inghiottiti. 10 assunsi altre informazioni e spesi molte lire per aver notizie. I viaggi che feci a quello scopo si rivela­ rono tutti vani. Finalmente ci fu uno che affermò deci­ samente d’aver visto a Como la ragazza che cercavo, in compagnia non dell’arpista, bensì del funambolo e di sua moglie, in uno spettacolo a tre sulla piazza del Duomo. Per me Como possedeva da sempre una grande at­ trattiva, tanto come patria di Plinio il Vecchio e di Pli­ nio il Giovane, quanto per merito dei personaggi dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. Inoltre amavo il suo Duomo gotico. Perciò presi ben presto il treno per andarvi a fare un’altra visita. Era già scesa la sera quando dal mio albergo sul lago scesi per le vie della città e, dopo aver passeggiato un po’, mi misi a sedere in piazza, davanti al Duomo. Ero circondato da italiani, che si godevano la serata seduti ai tavolini dei caffè. 11 cameriere portò anche a me vino in un fiasco. Al cospetto del Duomo scordai per un momento Mignon. Quella facciata era lì a testimoniare del tempo passato. Lì non era la musica a fare da medium, bensì un sa­ cro, profondo silenzio. L’opera acquistava a poco a poco una sempre maggiore imponenza, in confronto alla qua-

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le ogni architettura moderna diveniva muta e meschina, sì che fui colto anch’io, e quasi rapito, dal sentimento della grandezza antica. Ma ecco che d’un tratto vidi rinnovarsi il miracolo, senza averci minimamente pensato: immerso nella con­ templazione del monumento stava Goethe, con le mani unite dietro la schiena, poggiate sull’impugnatura di una canna d’india e reggenti contemporaneamente un cappello a cilindro. Era un abbigliamento consueto al­ l’inizio del secolo scorso, ma non stupiva la gente. Egli si guardò intorno e mi lanciò un’occhiata, come se volesse stabilire tra me e lui un amichevole accordo nell’ammirazione per la cattedrale. Poi alzò le soprac­ ciglia e con uno sguardo interrogativo parve voler sa­ pere se la mia ricerca di Mignon era approdata a qual­ cosa. Infine, senza ch’io avessi in alcun modo coscienza d’avergli fatto un cenno di risposta, se ne partì di lì con una spallucciata, scomparendo tra la folla a poco a poco. Quel terzo incontro con Goethe ebbe, come il primo, un carattere di piena realtà. Perciò non mi fu possibile evitar di rimuginare un’altra volta con rinnovato sgo­ mento sull’enigma di quell’apparizione. Il poeta avrebbe potuto avvicinarmisi, interpellarmi, ma non l’aveva fat­ to, e ciò poteva esser stato per vari motivi. Che fosse un consapevole travestimento, per mezzo del quale qual­ cuno voleva prendersi gioco di me? Ma respinsi subito quell’idea: il fatto era stato troppo improvviso, e tro­ vava una troppo salda conferma nel mio intimo. Inol­ tre in me urgeva il tacito interrogativo circa la sua e mia Mignon, la ragazza cui mi ero votato anima e corpo. Il fantasma ch’io inseguivo tornò ben presto a prevalere sulla goethiana apparizione, e mi sentii pres­ soché disperato quando, nei giorni seguenti, cercando Mignon per le vie di Como, non riuscii a trovarla.

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Ciò facendo ebbi tempo di riflettere sulla natura della magia d’amore, un tema sul quale hanno scritto i più grandi poeti di tutti i tempi. Non voglio unirmi a loro, ma posso qui dire con tutta semplicità che riflettei sul mio stato, paragonabile più che altro ad una sete tormentosa. Dove c’è sete, c’è un fuoco interno che vuol essere spento. In me c’era appunto un fuoco in­ terno. Ma ci son pure al mondo innumerevoli belle donne e ragazze! Perché diventano tanto insignificanti, quan­ do il nostro amore si è volto irrimediabilmente a una? Della viva Mignon io non avevo un’immagine. Che cosa non avrei dato per un suo ritratto ! Mi feci un rimprovero di non aver rubato una ciocca dei suoi ca­ pelli per farmene un feticcio. Quel tentare di rappre­ sentarmela visibile e tangibile per poco non mi consunse a mano a mano. Ma la prima notte ch’io passai di nuovo a Stresa, nel mio Hôtel des Iles Borromées, ebbe inizio una nuova fase della mia malattia: Mignon mi visitava in sogno. Sarebbe un vano sforzo tentar di dare ad altri un’idea esatta di simili sogni. Essi avevano una grandissima, una perfetta verosimiglianza: vi si gustavano banchetti e gite in campagna, si andava per strade illuminate, nelle cui vetrine erano esposte le cose più preziose. Ave­ vo al braccio l’amata e facevo per lei un’infinità di acquisti. Così intimo era il legame che in sogno a lei mi uni­ va, così precisa la conoscenza della sua indole, che nulla rimaneva indelibato di quel che popola il mondo di uomini e di donne. Finii col giungere a un punto tale che una notte dopo l'altra giacevo a letto febbricitante; benché al mattino non mi ritrovassi poi alcun aumento di temperatura. Lettere non aperte, fra cui anche quelle di mia mo­

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glie, giacevano a mucchi sul mio tavolo. Io non pen­ savo ad aprirle. Se la mia stanza avesse avuto un ca­ mino le avrei bruciate senz’altro. Il mio stato diveniva di giorno in giorno più diffi­ cile da sopportare. Eppure compiangevo quelli che mi vedevo vivere intorno sani, allegri e vacui: essi nulla sapevano dell’esistenza vera. Mi venne l’idea di immaginare, partendo da Goethe, una storia possibile o probabile della sua Mignon, per trovarvi, almeno nello spirito di Mignon, (L’Èsprit de Mignon) un sollievo, anzi, qualcosa di più. Visitai a quello scopo l’Isola Bella, per poi sbarcare sull’Isola Madre. E benché naturalmente i multiformi giardini che vi si trovavano dovessero esser stati piantati dopo l’età di Mignon, io mi figurai tuttavia che gli alberi e i cespu­ gli che vedevo lei li avesse sfiorati con gli occhi e con le mani. Lo stesso io feci, come per toccare insieme Mignon, con un cipresso indiano, con un arbusto di caffè arabo, con una tamerice e con dei salici indiani. Un eucalipto, un albero del ferro cileno erano designa­ ti, come gli altri, con tabelline. Toccai, insieme con molti altri, anche quelli. Mi passò per la mente una frase di Guardini: «Ciò che è stato ha dimora in una sfera rapita al mondo sì, ma che appartiene al Tutto». Io aggiunsi: «Ciò ch’è rapito al mondo avrebbe quindi una sua propria realtà ». E poiché in quello strano viaggio m’era pure in qualche modo compagno Jean Paul, non potei fare a meno di ricordarmi della sua affermazione: che noi ci troviamo come in un vestibolo dell’Essere, e, sinché tale è la no­ stra condizione, dobbiamo in essa, cioè nella vita tem­ porale, fare ciò che di volta in volta è in nostro potere. Vagando per l’Isola Madre, io non potevo fare a me­ no di sentirmi quasi come in un cimitero. Il mio stato

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era assai vicino alla morte, io mi muovevo, molto più che in qualsiasi altro momento, sulla linea di confine tra la vita e la morte, dando, non diversamente da chi cammini sulla cresta di un’alta montagna, occhiate ver­ tiginose dall’una e dall’altra parte. Intanto ero immerso nella bellezza. Il mio agatodemone mi sussurrava all’orecchio parole dell’Ecclesiastico, come una melodia tormentosamente beata di cui non ci si possa più liberare: «Io son la madre del bell’amo­ re e del timore, della scienza e della santa speranza ». Questo suggeriva la saggezza al caso mio, ed io vi trovai sostegno e conforto. Ma è impossibile non riconoscere la forza esclusiva dell’amore, quando riesce a turbare l’armonia degli as­ siomi supremi. Per me al mondo non c’era quasi più altro che Mignon. Ovunque io ero solo con lei. « Se­ vera, precisa, senza pathos, ma piena d’impeto e negli atteggiamenti di una dolcezza più solenne che piace­ vole » si era mostrata nella sua danza a Guglielmo Mei­ ster; ed egli sentì per lei quel che aveva già sentito prima : bramò adottare nel suo cuore come una figlia quella creatura abbandonata, prenderla fra le braccia e con l’amore d’un padre ridestare in lei la gioia di vivere. Lo stesso sentimento aveva suscitato in me la Mignon rediviva. Amore è compassione, dice il filosofo, e com­ passione è amore. Un’infinita compassione era stato fin ila principio il mio amore per Mignon: avrei voluto lenire le sue ferite, mitigare le sue pene, proteggerla, salvarla e difenderla. Per questo la cercavo : ma come, dove e quando l’a­ vrei ritrovata? La Mignon di Goethe, quale noi la conosciamo, esi­ stette soltanto nella sua fantasia; la mia era una realtà... ma mi era sfuggita. E il mio stato, poiché pareva in quel momento non

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lasciarmi alcuna possibilità di continuare a vivere senza la strana fanciulla, non era, come per Goethe, beatifi­ cante, bensì pietoso, e mi stava spingendo alla dispe­ razione. Quando dall’immaginario regno di Mignon feci ri­ torno, quasi a contraggenio, nel mio albergo, trovai in camera mia un biglietto da visita, sul quale stava scrit­ to ad inchiostro « Il consigliere segreto von Goethe ». Naturalmente non credetti ai miei occhi. Ma il bigliet­ to e la scrittura erano una realtà innegabile. Dunque qualcuno doveva essersi preso gioco di me. Poteva es­ sere Barratini ? O qualcun altro fra quanti avevan sen­ tito della mia goethiana allucinazione? Barratini, dopo aver esaminato quel pezzo di carta da tutte le parti ed essersi detto innocente d’ogni mio sospetto, dichiarò con fare sicuro che il biglietto era vecchio e l’inchiostro, con cui era stato vergato, secco. Quel foglio, disse, poteva benissimo aver trascorso cen­ t’anni chiuso in qualche armadio o cassapanca. Comin­ ciò quindi ad investigare presso il portiere ed il resto del personale per sapere come esso fosse giunto nella mia camera. Al portiere non era stato consegnato. Un valletto asserì d’aver visto un vecchio e bizzarro signo­ re, che gli aveva fatto una strana impressione, parlare con un altro valletto, dargli del denaro e spedirlo via con un incarico. Ma altro di più preciso non sapeva. Avevo quasi scordato che nella mia camera c’era un apparecchio telefonico. Lo usai allora per la prima volta per chiamare il mio amico ed ospite di Pallanza. Sa­ pevo ch’egli era un collezionista di autografi. Poteva aver avuto la bella idea di divertirsi un po’, procuran­ domi nel contempo una piccola gioia. La sua risposta suonò molto divertita, ma mi convinse che a quello scherzo egli non aveva messo mano. Ma, comunque dovesse in seguito risolversi quell’epi­

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sodio misterioso, esso mi trasformò agli occhi di Barratini in una persona predestinata. Proprio io, che sog­ giacevo stranamente credulo e per così dire cieco a un miracolo d’amore, lì non volevo credere al miracolo. Venne a galla un resto della mia abitudine al giudizio spassionato, ed io credetti di ricordarmi di un tempo in cui sulla piattaforma d’un tram cittadino avevo in­ contrato più volte un tipo bizzarro mascherato da Goe­ the. Quel pazzo innocuo era noto in tutta la città. Es­ sendo assai benestante, collezionava tutte le reliquie goethiane di cui riusciva a venire a conoscenza, e per esse pagava prezzi altissimi. Credo che fosse Lipsia la città dove viveva e aveva accumulato, non so grazie a quale attività, il suo patri­ monio. Lì si mostrava apertamente, fra l’altro, nella Cantina di Auerbach, e di sfuggita anche altrove. Ma soprattutto lo si poteva vedere in occasione di viaggi ch’egli estendeva fino all’Italia del nord. C’era chi as­ seriva che in certi posti egli si fosse addirittura noti­ ficato nei registri degli alberghi come Consigliere se­ greto von Goethe. Ebbene, su quel lembo del lago Maggiore s’aggirava pure un fantastico sosia di Goethe, detto dal popolino semplicemente « il poeta ». Io di persona non l’avevo mai visto. Può darsi che a recitar la parte fosse quel povero pazzo. Ma il mio Goethe - l’avrei giurato su qualunque cosa - non era certo in rapporto con quel calzolaio o fornaio arricchito. Intanto però questi poteva aver sentito parlare di me e aver tentato d’ingannarmi con quel biglietto. Perciò lasciai da parte quella faccenda e seguitai a dedicarmi alla ricerca di Mignon. Ma Mignon rimaneva irreperibile.

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Nessuno si meraviglierà ch’io interrogassi il Gugliel­ mo Meister e mi rimettessi a studiarvi il personaggio di Mignon. M’interessavano specialmente il secondo e il terzo capitolo del libro ottavo. È vero che quelle de­ scrizioni, fra l’altro assai spassionanti, non si accorda­ vano alla mia Mignon viva. Lei non sarebbe stata in grado di dare quelle risposte « piene di significato », perché le sue erano più rozze, chiuse, caparbie. Nep­ pure quelle « educate » avrebbe saputo dare: le sue sa­ rebbero sempre apparse più rozze, chiuse a caparbie. Mi venne in mente che già una volta mi ero occupato delle isolate apparizioni dell'homo sapiens jerus. Si tratta, come ho già detto a proposito dei discorsi fatti a tavola in casa Graupe, dell’uomo cresciuto non in mezzo agli uomini ma nei boschi, in mezzo alle bestie selvatiche. A simili creature, di cui si hanno esempi, la mia Mignon mi aveva fatto pensare talvolta. Non credo che sapesse leggere e scrivere. Le molte chiese della confessione cattolica esistenti in quel luogo aveva­ no forse lasciato in lei qualche traccia. Se a lei trave­ stita da angelo un bambino avesse chiesto se era un angelo, magari avrebbe risposto, come la Mignon di Goethe: «Vorrei esserlo»... ma non senza amaro scher­ no e scontrosità. Fra le attitudini spirituali della Mignon di Goethe c’è la poesia. Essa suona la cetra e improvvisa versi in musica. A ben guardarla, spesso si comporta in modo che nuoce al suo mistero e alla sua primitività. Qui nasce ormai spontanea la domanda, come abbia potuto il personaggio goethiano nel corso di un secolo e mezzo conservare nella fantasia una così singolare bellezza, tra il terreno e l’ultraterreno, che l’originale non sempre possiede. Il pubblico ha seguitato a poetarne, e così essa ha perduto le scorie terrestri, persino quelle che

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aveva nel libro. Mignon è entrata in una vita quasi immateriale ed eterna. Si è per così dire sciolta da ogni possibilità d’essere fissata nel verbo poetico. D’altronde è sorprendente co­ me la sincerità di Goethe non abbia indietreggiato di­ nanzi ad alcun difetto estetico. Egli parla dell'urgere misterioso, in Mignon, d’una oscura bramosia. Il suo cuore ferma i battiti, un peso di piombo le opprime il petto, respira con estrema difficoltà, corre dal vecchio arpista, della cui arpa ode il suono, e passa la notte ai suoi piedi fra terribili convulsioni. La mia Mignon mi pareva sana.

I centri del lago Maggiore sono abbastanza ben col­ legati da comodi vaporetti. Avevo già avuto l’idea di attraversare la frontiera svizzera su uno di quei battelli per andare a far visita ad un amico di giovinezza che, medico a Locamo, accudiva a una vasta clientela e pre­ stava servizio in un ospedale come direttore. Le nostre vite si erano divise, ma, ogni volta che ci rivedevamo, provavamo l’uno per l’altro ancora molta affezione, oltre all'antico cameratismo. La sua aridità, l'assenza di rispetti umani, avevano su di me spesso un effetto salutare. Tutto dedito alla vita pratica, egli era stato bensì uno dei primi a vedere in me qualche dote d’intelletto, ma per conto suo era rimasto materialista in una misura quasi provocante. Naturalmente era av­ verso a ogni teismo, al massimo accettava una specie di panteismo, e aveva per i credenti in Dio, vale a dire nel cristianesimo, espressioni molto dure. Era un ma­ gnifico medico, ed eseguiva anche, a somiglianza del grande Roberto Koch, ricerche batteriologiche. Infatti faceva iniezioni a topi bianchi e teneva un cavallo pro­ prio per i suoi esperimenti. Voleva sterminare il ba­

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cillo della febbre puerperale. Forse non è difficile indo­ vinare perché io lo cercassi : in un certo senso, per quan­ to strano possa sembrare, come medico dell’anima. La mia ossessione per Mignon aveva raggiunto un grado che io stesso trovavo preoccupante, e volevo ten­ tar di trovare, tuffandomi come in un bagno in un’ani­ ma tutta diversa dalla mia, se non la guarigione, al­ meno un po’ di sollievo. Stupito e lietissimo di rivedermi lì nel Ticino, egli mi propose subito di andare al ristorante, giacché sua moglie giaceva a letto da mesi; e mi condusse in una trattoria che aveva da offrire il meglio in fatto di cu­ cina italiana, insieme con un ottimo vino. Ci chiamavamo a vicenda coi nomignoli del tempo andato, e poiché anche la conversazione procedeva se­ condo le vecchie formule, io mi sentii tornato indietro di trent’anni. Scordai così per un po’ anche la mia in­ tima sofferenza. Il mio amico medico si chiamava Plarre. Ancora, come al tempo della giovinezza, egli osten­ tava impassibilità. Rideva molto, parlava a voce alta e usava espressioni dure e vigorose. Suo padre in Slesia aveva fatto il tappezziere. Egli era pervenuto al dotto­ rato e al professorato con le sue sole forze. Scambiarsi ricordi di gioventù è per gli amici una grande gioia. I morti resuscitarono nei nostri discorsi. Plarre non si rompeva il capo a chiedersi come siano possibili certe ore che rendono quasi misticamente beati. Ci separammo solo a tarda notte. Preso com’era dai suoi impegni all’ospedale e dalla clientela privata, egli dovette riflettere un bel po’ prima di poter scovare un po’ di tempo per me il giorno suc­ cessivo. — Dunque... per la colazione — disse — vieni da me all'ospedale, e poi mi accompagni nel mio giro di

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visite. Prima di sera mia moglie non mi aspetta di ri­ torno. Se anche resto fuori più a lungo, col genere di vita che conduco lei c’è già abituata. Ciò che egli aveva proposto, il giorno seguente si verificò. Naturalmente il trovarci in un ospedale influì sui nostri discorsi a colazione. Secondo una vecchia abi­ tudine, sviscerammo insieme una quantità di argomenti di medicina e di scienze naturali. Della mia visione goethiana e delle altre mie avventure a Stresa non par­ lai. Che cosa me ne trattenesse non so, forse un disin­ cantamento di tutto il mio essere, in me provocato dal pratico affaccendarsi del mio amico. Anche le condizioni generali dell’Europa e del resto del mondo non interessavano Plarre. — Me ne manca semplicemente il tempo -— ... e, ateo, non mancò di aggiungere alla sua frase un « sia lode a Dio ». ■— È un peccato, invece, — disse — non poter tener dietro a certe persone, a certi destini, che nella pratica medica si ha modo di conoscere. Romanzi non si ha davvero bisogno di leggerne. Un facchino della medicina, quale sono io, nei romanzi vissuti ci guazza. In realtà è abbastanza sconfortante vedere come ricchi e poveri per tutta la vita non facciano altro che dibattersi in mezzo a crucci di ogni genere. Riprendendo il suo pensiero io dissi: — Perché la natura, che Goethe tanto lodava a ogni pie’ sospinto, non ha disposto le cose in modo da farci nascere, cre­ scere e morire con una certa spensierata tranquillità? Noi, invece, da principio siamo bimbi inetti, nel primo anno di vita a volte diventiamo già ciechi, soffriamo di convulsioni, ci tocca superare malattie infantili d’ogni specie, restiamo in vita solo a patto di nutrirci, incal­ zati dalla fame e dai tormenti, dobbiamo difenderci ora dal gelo, ora dall’arsura, scopriamo sempre nuovi peri­ coli in noi e nel mondo circostante, e così via e così via.

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Plarre scoppiò in una forte e aspra risata. — Già, caro il mio giovanotto — e mi chiamò col soprannome — senza questo la vita sarebbe noiosissima. E che fa­ remmo noi, poveri medici ? Per prima cosa non gua­ dagneremmo un centesimo, e poi, senza la scienza me­ dica, a me l’esistenza riuscirebbe sommamente tediosa. Al primo giorno seguì il secondo. Visitai con Plarre qualche sala dell’ospedale, qualche paziente della sua clientela privata. Ci spostavamo talvolta in automobile, talvolta a piedi. Un giorno ci toccò una dura arrampi­ cata che ci condusse fino ad una chiesa posta in un sito pittoresco, come sospesa sulla valle. La chiesa, mi disse Plarre, possedeva una piccola farmacia e alcune stanze di cura per i casi di necessità che si presentassero du­ rante i consueti pellegrinaggi. Non so che cosa all’improvviso mi spinse a decidere d’interrompere il mio soggiorno presso l’amico. Non avevo avuto il coraggio di parlargli della mia avventura perché temevo le sue sane risate. E quel coraggio non mi sarebbe più venuto, pensavo. Quasi senza sapere quel che facessi, gli porsi d’un tratto la mano dicendogli: — Sfammi bene, Plarre. Egli rimase sbalordito. Mi aveva forse offeso in qual­ che modo? — Neanche per idea, caro amico — gli dissi. — Ma quando mi coglie una certa disposizione d'animo - tu mi conosci pure e da un pezzo, - non sopporto più neppure la migliore delle compagnie. — Non vuoi almeno accompagnarmi ancora in que­ sta visita? — mi chiese. — Conoscendoti come ti co­ nosco, pensavo che ti sarebbe parsa forse la più interes­ sante fra quante ne hai fatte finora. — La mia decisione è presa: desidero finirla. Quando ripenso oggi a quei momenti, non so trovar loro una spiegazione esauriente. Fu in ogni caso il ri­

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cordo di tutta quanta la mia avventura di Stresa a reim­ possessarsi di me con assoluta chiarezza; fu anzi come se Mignon stessa mi avesse chiesto di prendere quella decisione. Ma questa, a voler credere alla trasmissione del pen­ siero, dovette essere un’interpretazione errata da parte mia, se no non sarebbe successo quel che successe poi. Domandai di che caso si trattasse, solo per non mo­ strarmi in quel brusco congedo più sgarbato del neces­ sario. Il priore del convento, che aveva la cura della chiesa della Madonna del Sasso e dei suoi pellegrini, rispose Plarre, gli aveva raccontato per telefono una romanticissima storia che il mio amico pensava fosse proprio adatta a me. E con un sorrisetto arguto conti­ nuò : — Da quando sei qui, ho avuto Eimpressione che tu facessi un certo sforzo per scendere al mio livello di prosaicità. — Veramente — dissi io —· ho omesso di raccon­ tarti una faccenda stranissima che mi preoccupa ormai da settimane, una faccenda tale che tu non ci potresti credere. Prevedevo che, per spiegartela, tu mi avresti proposto di fare una visita insieme alla clinica psichia­ trica al Burghölzli di Zurigo. E questo non avrebbe avu­ to scopo. — Vedi che c’era qualcosa che non funzionava — egli disse. — E proprio di questo credevo di poterti risarcire con un bocconcino romantico. Ci ho pensato subito, quando il priore mi ha strombazzato all’orec­ chio per telefono il suo confuso e stravagante racconto. — Scusa, caro Plarre — risposi con una certa fred­ dezza — io non sono per i cosiddetti bocconcini ro­ mantici. — Non posso nemmeno dartene un cenno? — Fa’ come vuoi, ma non stupirti se ti presterò un orecchio distratto.

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— Quassù —■ disse Plarre — è morto uno strano vecchio. Già da quattro giorni egli giace insepolto nella stanza mortuaria. In fondo, nient’altro che uno sdentato cantastorie, ma dotato di un aspetto particolare e, come ho detto, romantico. Si era introdotto presso il priore cantando con accompagnamento d'arpa non so quale poesia tedesca, benché la sua lingua materna fosse, così parve al pastore, il francese. Mosso a compassione dai suoi capelli bianchi, il priore stava per notificarlo al­ l’ospedale di Locamo, giacché le sue condizioni di sa­ lute erano pessime. Per tre giorni egli usufruì in con­ vento dell’alloggio e di ogni altra provvidenza, ma al mattino del quarto lo trovarono a letto morto. Figurarsi come mi dovette colpire quella notizia! Il mio amico notò subito in me un improvviso muta­ mento. — E adesso? Perché non lo seppelliscono? — Il resto lo sapremo ora — fu la risposta di Plar­ re. — Ma non stai bene? Io ho sempre con me qual­ cosa di forte — e mi porse la sua fiaschetta. In effetti io provavo un’impressione strana. Il cielo, il paesaggio mi ballavano intorno. Ciò nonostante fui in grado di rispondere: — Ma la necroscopia non è compito tuo! Devi proprio arrampi­ carti fin quassù per compiere un simile ufficio? — Certo, per constatare la morte realmente avvenuta, è mio dovere. Ma qui è in gioco anche una vita. Il morto aveva una compagna, il priore pensa sua nipote. Pare che sia una ragazza d’una quindicina d’anni e che la morte del nonno abbia mezzo annientato anche lei. Deve avere le convulsioni: e io sarò probabilmente in­ caricato di farla trasferire all’ospedale. Io mi copersi gli occhi con le mani. — Non chiedermi ora — dissi — perché questa no­ tizia mi fa tanto effetto. E con questo ritiro la mia de­

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cisione di lasciarti... ma per il momento non so ancora se accompagnarti nella tua visita di dovere o aspettarti davanti alla porta del convento. Se permetti, mi siedo un istante. — Ma io non penso a costringerti — fece Plarre ri­ dendo. — C’è chi non sopporta la vista dei morti, men­ tre per uno come me è un’abitudine. Il vecchio dev’essersi portato dietro nel suo bagaglio una farragine di carte in tutte le lingue. Un giovane e dotto monaco se ne sta occupando, e sostiene che sono interessantissi­ me. Forse la ragazza non è nemmeno la nipote del vec­ chio vagabondo. È probabile ch’egli l’abbia raccolta da qualche parte, perché è mezzo cieco e deve aver avuto bisogno d’una guida. Che ne dici dunque - io posso sbrigarmela in fretta - di aspettarmi qui ? Ora comun­ que io devo andare dal priore. Benché reso inquieto, e peggio che inquieto, dall’in­ tima ansia che mi aveva preso, ben mi accorsi che per me non sarebbe più stato possibile un ritorno. — E come spiegheresti la mia presenza? — chiesi. — Niente di più facile! Dirò che sei un collega. Il terrore mi aveva quasi paralizzato quando ci muo­ vemmo. Mi pestavo i piedi, ridevo senz’alcun motivo. E Plarre, come volendo risvegliarmi, mi scuoteva. Egli disse : — Com’è strano ! Anche da studente avevi di queste mattane, e io dovevo sempre ridestartene. Il priore ci guidò dentro la chiesa. Lo accompagnava un giovane monaco, probabilmente il dotto che s’era chinato sulle carte del vecchio cantastorie. Plarre era stupito ed io pure, non sapendo perché non ci condu­ cessero subito presso la salma. Ma il religioso crepu­ scolo di quell'ambiente gotico, con la sua volta, i suoi pilastri e le navate, ci conquistò. Perfino l’anticristiano Plarre si tenne con evidente rispetto a capo scoperto guardandosi intorno un po’ stupito e impressionato.

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A poco a poco i nostri occhi si assuefecero alla luce come di grotta che regnava in quel luogo, attenuata dai vetri multicolori. I lumi dei lampadari a braccio erano circondati come da aureole. Un canonico, o quel che era, pregava a voce alta nel coro, e noi, affascinati dall’ambiente, notammo solo allora con un’occhiata improv­ visa quello che eravamo venuti a cercare e non aveva­ mo subito riconosciuto: la bara del cantastorie, innalzata in mezzo alla chiesa, non lontano dal coro. Non so di che cosa discutessero a mezza voce il sa­ cerdote e il mio amico, perché ero immerso nella con­ templazione del defunto. Avevo l’impressione che quel luogo sacro fosse lì per lui, solo per merito suo fatto misticamente vivo. Era quello l’uomo che, più che re­ citare, aveva cantato i versi goethiani, per poi recarsi il calice alla bocca e berne sino all’ultima goccia il vino color del sangue ? Sì, era ben possibile! Ma non era più il senzatetto, il diseredato, il mendico di strada e d’osteria. Io ero in preda a una stranissima commozione, che mi faceva avvertire sempre più lontani i pensieri e i sentimenti consueti. Prossimo era l’altare su cui un altro calice d’oro conteneva il vino simboleggiante il san­ gue del Redentore del mondo : la similitudine non mi voleva uscire di mente. Il morto giaceva all’ombra dei sacramenti, in una specie di esistenza santa. Avevano ripulito l’arpa per appoggiarla al sarcofago. Ed era vero: pareva mandar suono. Muta, mi inonda­ va di armonia, d’una musica da cui il mendicante era circonfuso come da argento e porpora. Con che subli­ me nobiltà quel volto, ora cieco due volte, fissava la volta come quello d’un veggente ! L’uomo oggi supera largamente a volo le più alte ci­ me dell’Himalaja. Ma a me sul capo del defunto, che giaceva quasi sprofondato nel bianco cuscino dei capei-

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li, s’aprì una lontananza che non aveva più confini. Egli era un santo e riposava nell’infinito. — Anche noi, come lei, siamo stati impressionati e commossi dalla visita di questo vegliardo — mi disse qualcuno all'orecchio. Riconobbi in lui il giovane sa­ cerdote. — Non si attaglia di certo ai tempi nostri. Ci si stupisce da un lato ch'egli sia vissuto, dall’altro ch’egli sia morto. Suppongo che, assai prima di spegnersi, egli abbia seppellito dentro di sé la sua storia terrena, sovrap­ ponendovi a mo’ di drappo funebre un inviolabile si­ lenzio. — Potrebbe darsi che fosse — gli sussurrai in rispo­ sta — un saggio, un poeta o un sovrano dei più famo­ si. Non è mai stato reso a nessuno onore più grande della luce e della grandezza che qui son profusi intor­ no a un mendico’ morto. — Udii la voce di Plarre che m’interpellava con un tono usuale: — Egli aveva una compagna, andiamo un po’ a vederla. Lo sgomento che avevo provato alle prime notizie sul vecchio cantastorie tornò a farsi sentire; l'effetto del­ l'impressione presente mi aveva fatto scordare Mignon. — Qui, a sentire il priore, ci aspetta qualcos’altro di poco comune — disse il mio amico. — Dove mai il vec­ chio Omero avrà raccolto la fanciulla? E come mai i due sono diventati inseparabili ? Che non esista tra lo­ ro alcuna parentela l'hanno già appurato i frati. La po­ verina è pure inferma, spossata dalla fame, dal freddo e da ogni sorta di strapazzi. Della ragazzina erano riusciti a sapere pressappoco questo : suo padre, rimasto vedovo, era di famiglia no­ bile. Aveva amministrato certe case d’affitto cittadine, in cambio di una magra paga e d’uno scantinato come abitazione. Egli aveva bensì condotto la sua bambina a concerti, opere e spettacoli d’ogni genere, ma per il re­ sto se n’era occupato poco. Ciò era avvenuto al di qua

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del Gottardo. Ella non era andata regolarmente a scuo­ la, perché una certa sua timida selvatichezza gliel’aveva reso praticamente impossibile. In questo essa somi­ gliava a certi poco noti tipi di homo sapiens jerus. Inoltre lei e suo padre conducevano un'esistenza così appartata che avevano potuto tirare avanti senza farsi neppure iscrivere negli uffici anagrafici. Quand’era morto il padre, sua figlia era divenuta ap­ pena un poco più sola di prima. Egli era stato sona­ tore di chitarra, una passione che in lui superava di gran lunga il talento. Lei invece attraverso la pratica quotidiana riusciva a suonarla senza difficoltà, per cui, ormai sola e senza legami, se la portava sempre attorno appesa alle spalle. La chitarra le procurava qui un pezzo di pane, là una minestra, sempre l’alloggio e occasio­ nalmente qualche soldino. La prospettiva di rivedere la mia Mignon m’indusse a chiamare a raccolta tutte le mie forze, giacché mi sen­ tivo urgere dentro una confusione di sentimenti ben difficile da padroneggiare. Una fremente smania di ri­ veder l’amata si sposava al presentimento e alla paura ch’essa cadesse preda d’un morbo incurabile, o che in­ vece il suo fascino fosse scomparso. Stranamente colle­ gati erano il pensiero della morte del mio amore e quel­ lo d’una incresciosa morte vera e propria; di fronte a quest’ultima ipotesi dovetti fare appello a un coraggio per così dire eroico. Plarre, che aveva notato il mio turbamento - è pro­ babile ch’io fossi pallidissimo - domandò al priore se avesse sottomano un sorso di vino da offrirci: eravamo saliti di fretta e un corroborante ci avrebbe certo fatto bene. Appena espresso, il nostro desiderio venne esaudito. Gustammo la bevanda, che un fratello ci versò. «Eccola: il vecchio l’accosta al labbro, la vuota»...

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mi passò per il capo, mentre portavo il bicchiere alle labbra. E, prima ancora d’esser tornato del tutto co­ sciente, vidi la mia Mignon che seduta sulla sponda del letto mi guardava coi vitrei occhi sbarrati. La casetta in cui era situata la sua stanza si trovava entro il recinto del convento. L’avevano ricoverata presso alcune pie sorelle, le cosiddette beghine. Esse erano, al loro modo stereotipato, buone con lei, senza peraltro en­ trare nella sua confidenza. Ci guardò, ci diede la mano, e, dopo avermi contemplato per un poco, all'improvviso si gettò a terra abbracciandomi le ginocchia. In queiristante divenni per tutti, anche per Plarre, un personaggio enigmatico, tanto più che il mio conte­ gno non lasciava dubbi sul fatto che per la ragazza e per me si trattava di un ritrovamento. Per di più essa esclamò piangendo: — Non lasciarmi, oh, non lasciar­ mi ! — Ma il modo con cui io le diedi, commosso, la richiesta assicurazione, convinse medico e priore che esi­ steva tra noi un legame serio. Riuscii a indurre la trovatella a lasciarsi visitare, al­ meno superficialmente, dal mio amico. Egli tuttavia, da quel medico esperto che era, aveva subito capito che, in preda a un processo morboso d’una certa importan­ za, ella andava tenuta sotto osservazione e curata. Egli se ne assunse la responsabilità. Quanto a me, mi dichia­ rai pronto a rispondere della sepoltura del vecchio, e così pure delle spese da lui e dalla ragazza procurate al convento. Il giorno seguente io e un infermiere dell’ospedale di Locamo andammo a prendere la mia Mignon con l’au­ tomobile del mio amico. Cominciò così per me un periodo il cui ricordo è ri­ masto una parte viva della mia individualità. Ero dive­ nuto tutto a un tratto il tutore, anzi il padre di un’or­ fana senza patria e senza tetto. Incontri misteriosi e se­

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mifantastici erano sfociati in una spassionata realtà. Eb­ bi a che fare con ospedale, medici e uffici, sempre con l’amico soccorrevole al fianco. Aga, così si chiamava la trovatella, venne infine da lui trasferita nella sua clini­ ca privata, cui accudiva una materna baronessa vedo­ va. Fu lei la prima a dimostrar comprensione per la mia pur sempre fantastica avventura, per il mio rap­ porto con Aga. Anzi, arrivò ben presto al punto da vedere anche lei Mignon nella mia piccola, tanto che, come me, non la chiamò più che con quel nome. Mignon occupò un grazioso quartierino, ebbe un sog­ giorno e una camera da letto. I primi otto giorni stette a riposo, e la madre adottiva curò che la grazia della sua persona fosse valorizzata, come un quadro dalla sua cornice, da lini candidissimi e coperte di seta multico­ lore. Essa giaceva lì, col volto pallido e gli occhi scuri brucianti, la nera chioma sparsa sulle coperte. I miei incontri con lei erano regolati dalle disposi­ zioni di Plarre, e i primi tempi non la vidi che per qualche minuto. Ma quando da lei mi allontanavo, do­ po averle posto in segno di commiato la mano sulla bella fronte, avevo il conforto di sapere che lei non si era mai sentita così al sicuro, certa com’era della pro­ tezione di tante anime buone, e anche della mia. Plarre attendeva alla sua clientela e, benché passas­ simo anche qualche ora insieme, per lo più durante il giorno ero solo. È facile comprendere come intanto io non pensassi che a Mignon, rievocando in ispirito lei e l’ambiente in cui viveva. Strano a dirsi, quella casa sembrava creata apposta per Mignon. La lettiera verniciata di scuro recava antichi intagli, le tende alle finestre erano un modello rococò, le sedie imbottite, come tutto l’arredamento delle stanze della baronessa, avevano il carattere dell’età di Goethe.

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In un armadio a vetri c’erano numerosi ninnoli e sou­ venirs, anch’essi risalenti al secolo decimottavo. Mi commosse moltissimo vedere nella sala di soggior­ no, dove, trascorse le prime settimane, Mignon passava alcune ore al giorno seduta in poltrona, la nota statuet­ ta di Goethe modellata da Rauch. Fusa in bronzo chia­ ro, essa dava l’impressione, con le mani intrecciate die­ tro la schiena, d’aver aspettato lì Mignon in tutta tran­ quillità. Nell’appartamento c’era inoltre una libreria a vetri, in cui erano raccolte le opere letterarie del tempo di Goethe. E la baronessa non si stancava mai di elogiare la sua defunta madre adottiva che aveva saputo, diceva lei, quasi a memoria Klopstock, Schiller, Goethe, Wie­ land e Hölderlin. Aveva già i capelli grigi e, quand’ebbe albergato Mi­ gnon per due settimane, mostrò il desiderio di imitare la propria madre adottiva adottando a sua volta come figlia Mignon. Da più di dieci anni viveva sola. Ma che devo dire di me, che potevo ormai ritrovar­ mi ogni giorno col mio idolo e fruire dell’occasione di conoscerlo ? No, io non potevo più separarmi dalla piccola. Nem­ meno le lettere toccanti dei miei cari avevano il potere di raffreddarmi e di strapparmene via. Un indistrutti­ bile incantesimo era in lei... e tuttavia non so dov’esso risiedesse. Ho chiamato strano il suo carattere, ma con ciò non ho detto nulla. Mi si faceva vicina, mi amava, poi eccola di nuovo lontanissima : non so se indugiasse col pensiero presso il vecchio scomparso, perché non gliene udii mai far parola... tanto meno se pensasse al rozzo domatore d’uomini, che pure per un certo perio­ do l'aveva ammaestrata coi pugni e con la sferza a gio­ chi di destrezza d'ogni genere. Certo che, come mi disse

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Plarre, ella ne aveva riportato danni e soffriva per que­ sto gravi dolori. Ma non si lamentava. Il suo stato, mi spiegò Plarre, non era senza speranza, ma d’altronde psichicamente non sarebbe potuta più tornare normale. Questo lo sapevo anch’io: la sua natura non aveva pro­ prio niente in comune con la norma. Mignon teneva ormai un piede nella fossa. Con me era sempre buona e cara. Ma a volte, quan­ do era a letto ed io comparivo, non mi rivolgeva nep­ pure un’occhiata, guardava sperduta lontano. La volta successiva mi stringeva a sé con una furia che aveva qualcosa di felino. Mi pareva che anche allora lei non mi trattasse che come un estraneo. Si potrebbe pensare che i miei rapporti con la nuova Mignon si raffreddassero: invece era il contrario. Non ero mai sazio di contemplare le linee di quel piccolo corpo magro eppure affascinante. Aveva le orecchie minuscole e un dolcissimo nasetto appuntito e rivolto un poco all’insù. Sotto, la boccuccia sporgente e graziosa era un invito ai baci. In lei la na­ tura aveva lavorato di cesello, con infinita, amabile de­ licatezza. Forse il suo piccolo collo era sproporzionato per lunghezza ed esilità. Il petto era magro e piatto, ma visto insieme alle spalle e alle braccia faceva tenerezza ed attraeva ugualmente. In cuor mio continuavo ad ab­ bracciarla. Qualcosa di misterioso si celava nello sguardo di Aga e a tratti si trasmetteva ai suoi movimenti. A volte vi si aggiungeva una mite, spesso anche disperante sfiducia. Pareva una creatura piena di segreti. Non era usa ridere forte, tuttavia accadeva, e non di rado, che le pervadesse il volto una gaiezza incompren­ sibile, la quale pareva - non si può dire altrimenti — annunciare e dissimulare beatitudini di cui noialtri non avevamo idea.

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Nulla, in quel miracolo di natura, parlava di sensua­ lità o vi induceva, giacché ogni rigoglio di forme era assente. Forse anche l’ossatura era un po’ sproporzio­ nata e non priva di tratti rozzi. Qual mai sangue fermentava in lei, andavo chieden­ domi... e continuavo a meditare sul miracolo del san­ gue, che chiude in sé varianti infinite. Ci pensai a lun­ go sedendo accanto al suo letto o alia poltrona di pelle su cui era morto il padre della baronessa e su cui Aga ora trascorreva a volte parecchie ore al giorno. E tor­ navo sempre a spaventarmi intimamente quando vedevo nascere all’improvviso negli occhi dell’ammalata uno scintillio, in cui pareva svelarsi tutto quanto gli uomini si sono sempre tenuti dentro : ardire, tracotanza, odio, ira, amore, piacere dei sensi, disperazione e morte; tre­ mendamente armato, pensavo, per l’eterna estraneità di questo estraneo mondo. Con la baronessa discorrevo ogni giorno dell’enigmatica fanciulla, per cui - non posso negarlo - m’ero preso di tanta passione. A volte s’accompagnava a noi Plarre, il quale con toccante premura si era assunto co­ me un dovere la cura dell’inferma, facendole visita spes­ so più volte al giorno. Ammetteva anche lui che una paziente come la mia Mignon non gli era ancor mai ca­ pitata. Era una fortuna, di cui non potevo render mai grazie sufficienti al Cielo, ch’egli fosse in grado di al­ leviare il dolore degli accessi cui la bambina occasio­ nalmente soggiaceva. Già, ma era poi proprio una bam­ bina? Erano passate circa tre settimane, e Plarre stranamen­ te si fece silenzioso sulle condizioni della paziente; ne passò un’altra, ed egli ruppe il silenzio. Non c’era da illudersi: il suo stato era senza speranza. Perché negare che a questa notizia la baronessa ed io piangemmo insieme? io.

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Ci ricordammo di un episodio che dimostrava come l’ammalata non si facesse illusioni sulla gravità della malattia di cui era caduta in preda ineluttabilmente. Da un pezzo c’era in lei una solennità nuova. Una matti­ na, quando giunsi presso di lei, e le finestre erano aper­ te come sempre - giacché essa era assetata d’aria fre­ sca - mi mostrò una grossa farfalla nera che s’era po­ sata sul suo braccìno. — È una testa di morto — disse. Il sole caldo illu­ minava l’insetto, avvolgendo anche lei col suo ardore. Essa aggiunse con uno sguardo fermo: — Oggi è la terza volta che viene, ed io mi preparo a emigrare. — A emigrare come, bambina mia? — le chiesi. — Noi cominciamo sempre da capo ; ha inizio ap­ punto un’altra migrazione. Non ci si può né aggiungere, né togliere nulla. Non si lamentava mai dei suoi dolori quando le so­ pravveniva, tremendo, l’aiïanno. Spesso, mossa certo da gratitudine, mi prendeva la mano e diceva: — Non sono scontenta: la mia barca è giunta nel tuo porto, ed io sono circondata dal vostro affetto. Di tanto in tanto dava una strappata alla sua chitar­ ra. Non udimmo mai lagnanze né accuse. Era comprensibile come, in un momento di tanta se­ rietà, io non nominassi il Goethe di Stresa. Non lo feci anche per altri motivi. La mia amicizia con Plarre era cominciata che io avevo diciotto e lui venti anni. Egli aveva però raggiunto un ben più alto grado di matu­ rità. Fin da allora io ero spesso ricorso a lui per un consiglio paterno, per un appoggio morale. In quel tem­ po io, incline com’ero a una sorta di nervosa buffone­ ria, lo irritavo con le mie finzioni. Egli frequentava corsi di psichiatria. S’arrivò al punto che mi tenne in conto d’un minorato psichico e si piccò di calmarmi con dei modi che mi fecero capire com’egli non credesse alla

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mia affermazione d’avergli voluto fare uno scherzo tìn­ gendo pazzia. Assolutamente non volevo che Plarre tor­ nasse a sospettare un’anomalia psichica nella mia na­ tura, e stimasse un segno di paranoia l’apparizione del Goethe vivo nel caffè di Stresa. Neppure alla baronessa parlai di quella visione, benché questa mi dominasse ormai da settimane, e mi avesse lasciato un dubbio ipo­ condriaco, angoscioso, circa il mio stesso stato mentale. Per di più la psichiatria era allora molto in auge. Gli alienisti dichiaravano pazzo circa un uomo su tre, e Lombroso per parte sua giudicava tale ogni artista. La paura del manicomio era abbastanza frequente nei sani, specie in occasione di liti in famiglia e in tribunale. Si consideri ora quali sentimenti e pensieri vennero a conflitto dentro di me, quando un bel giorno Plarre mi raccontò d’aver visto aggirarsi lentamente in pros­ simità dell’ospedale, con le mani dietro la schiena, una figura in cui - potevo ridere, se volevo - non era pos­ sibile non ravvisare Goethe vecchio. Un fenomeno per lui incomprensibile era che, pur non avendo egli ovvia­ mente mai incontrato Goethe da vivo, non aveva il mi­ nimo dubbio che proprio di Goethe si trattasse. Non credevo alle mie orecchie. Tacqui mordendomi le labbra. Percorsi a lenti passi e in preda a un forte turba­ mento il cammino che conduceva alla clinica della ba­ ronessa. Come avrei voluto liberarmi una volta per sem­ pre di quella malsana visione! S’era pur già posata sul­ l’avventura di Stresa quella sorta di nebbia che il pre­ sente diffonde su ogni cosa passata... Il passato è pur sempre e naturalmente irreale, per l’attualità. E Aga, la sofferente Aga votata forse a morire, aveva già assunto una nuova natura che la differenziava da Mignon e, in genere, da una creazione della fantasia. Io l’amavo, tut­ to l’essere mio era preso di lei.

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Ma quando credevo d’aver ormai ottenuto vittoria su tutte le fantasticherie, la baronessa mi si fece incontro sulla soglia, eccitatissima, ad annunciarmi che le era ca­ pitato qualcosa d’inspiegabile, un miracolo. Io persi ogni padronanza di me stesso. — Ha forse visto anche lei Goethe? —- domandai. — Sì, proprio così: in carne ed ossa! Fermo davanti alla casa, guardava la finestra di Aga. Aga spirò la sera stessa tra le mie braccia. Io le chiu­ si gli occhi. Il suo volto aveva un’espressione di profon­ da, intima beatitudine, come se ogni sua nostalgia si fosse finalmente acquietata. Perché ho scritto questo ricordo? Perché volevo fis­ sare il passato nel simbolo. Non è poco enigmatico; ma quando mai non lo è il passato? Non è forse un sollie­ vo per noi credere che lo spirito dei trapassati possa dare aiuto al debole smarrimento dei vivi, e che in que­ sto caso un grande spirito si prenda cura di questa nuova Mignon ? La visione del Poeta non ha inteso ri­ chiamarmi, perché io le facessi da amico affidandola alla protezione del mio compagno, della baronessa e di me medesimo? A quel che io vedo, fu proprio così. Io ho tentato di riprodurre la mia vicenda con il sen­ so più puro della presenza fisica, con le più lievi e pre­ saghe speranze di un lontanissimo avvenire dello spiri­ to che in me va congiunto al pensiero di tale intenzio­ ne. Tutto questo, ed ancora più grandi misteri alberga­ no nell’uomo. Bisogna elaborarli, vederli, riconoscerli per tali. Seppellimmo Aga-Mignon in un cimitero sul colle, e che altro porre sulla sua tomba se non le parole: Solo chi sa le nostalgie...

TEATRO

Titolo originale : VOR SONNENAUFGANG

Traduzione di Ervino Pocar Prima edizione: Berlino 1889 Prima edizione italiana: Trieste 1897

Personaggi

krause SIGNORA KRAUSE

ELENA MARTA HOFFMANN

GUGLIELMO KAHL

SIGNORA SPILLER

contadino proprietario di un podere sua seconda moglie figlie di primo letto di Krau­ se ingegnere, marito di Marta nipote della signora Krause compagna della signora Krause

ALFREDO LOTH DOTTOR SCHIMMELPFENNIG

BEIBST GUSTA LISA

MARIA BAER

EDOARDO

MILA

lavorante Krause

nel

podere

di

lavoranti Krause

nel

podere

di

detto « Saltamartino » domestico di Hoffmann domestica della signora Krause

LA MOGLIE DEL VETTURINO GOLISCH

UN FATTORINO

detto Gosch, vaccaro

Atto Primo

La stanza è bassa, il pavimento coperto di buoni tap­ peti. Lusso moderno sovrapposto a misere condizio­ ni di campagna. Alla parete dietro alla tavola un quadro che rappresenta un carro da trasporto tirato da quattro cavalli e guidato da un carrettiere in giub­ ba turchina. Mila, una robusta fantesca dal viso rosso, un po’ ebe­ te, apre la porta dì mezzo e fa passare Alfredo Loth. Questi è dì media statura, spalle larghe, tarchiato, de­ ciso nei movimenti ma un po’ maldestro; ha capelli biondi, occhi azzurri e baffetti radi biondochiari, il viso ossuto e un’espressione costantemente seria. Lia l’abito ordinato ma tutt’altro che moderno, soprabi­ to estivo, una borsetta a tracolla, il bastone.

Prego, vado subito a chiamare l’ingegnere. Si vuol accomodare?

mila

La porta vetrata del giardino d’inverno viene spalan­ cata con violenza, una contadina, paonazza e infuria­ ta, entra di corsa. Non è vestita molto meglio di una lavandaia. Braccia nude, rosse, gonna e corpetto di mussolina blu, scialletto a pallini rossi. Sulla quaran­ tina. Viso duro, sensuale, maligno. Tutta la persona però è ben conservata.

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(grida) Ragazze!... Eh sì!... Femmi­ ne della malora!... Fuori! Qui non si dà niente!... (Un po’ a Mila, un po’ a Lolh) Lui può lavorare Non ha forse le braccia? Fuori di qua! Qui non c’è niente ! loth Ma, signora... Non vorrà... Io... mi chiamo Loth, sono... Desidero... non ho affatto Finten... mila Vuole parlare soltanto con l'ingegnere. signora krause Già, mendicare... cavar quattrini al genero. Sappiamo, sappiamo. Non ha niente nean­ che lui, ha avuto tutto da noi, di suo non c’è niente. (Si apre la porta a destra. Hoffmann sporge la te­ stai) Hoffmann Via, mamma! Per favore... (Entra e si ri­ volge a Loth) In che posso ser... Oh Alfredo! Sei proprio tu? Questa poi... È stata veramente un’idea!

signora krause

Hoffmann ha circa trentatré anni, è alto, slanciato, scar­ no. Vestito all’ultima moda, pettinato con garbo, por­ ta anelli preziosi, bottoni col brillante alla camicia e ciondoli alla catena dell’orologio. Capelli e barba ne­ ri, la barba folta, molto curata, il viso affilato, da uccello, Γespressione vaga, occhi neri, vivaci, talvolta inquieti. loth Proprio per caso, devi sapere... Hoffmann (eccitato) Niente di più gradito... Ma pri­ ma di tutto, ti vuoi levare? (Tenta di togliergli la borsetta dalle spalle) Niente di più gradito, e così di sorpresa, mi poteva capitare (gli ha tolto bastone e cappello e li va a posare sopra una seggiola accanto alla porta) mi poteva capitare in questo momento (ritornando) proprio, sinceramente. loth (togliendosi la borsetta) Proprio così... Soltanto

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per caso... (depone la borsetta sulla tavola in primo piano.) Hoffmann Mettiti a sedere! Devi essere stanco, siedi, fammi il piacere! Ti ricordi? Quando venivi a tro­ varmi avevi uno strano modo di buttarti lungo diste­ so sul divano da far crocchiare le molle, qualche vol­ ta saltavano davvero. Dunque falle cigolare anche adesso !

La signora Krause è rimasta sbalordita e si è ritirata. Loth si siede su una delle sedie che sono intorno alla tavola. Che cosa bevi? Birra, vino, cognac, caffè, tè? In casa c’è di tutto.

hoffmann

Elena viene leggendo dal giardino d’inverno; la sua pgura alta, un po’ troppo in carne, la pettinatura dei capelli biondi straordinariamente abbondanti, l’espres­ sione, l’abito moderno, i movimenti, tutta la persona non nascondono del tutto la sua evidente origine cam­ pagnola.

Elena Cognato, non potresti... (Vede Loth e si riti­ ra subito) Oh, chiedo scusa. (Esce.) hoffmann Rimani! Vieni! loth Tua moglie ? hoffmann No, sua sorella. Non hai sentito come mi ha chiamato? loth No. hoffmann Carina, vero? Be’, decidi dunque! Caffè? Tè? Ponce? loth No, grazie, no davvero.

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(offrendo i sigari) Questi faranno per te non è vero?... Neanche questi? loth No, grazie. HOFFMANN Beato chi non ha bisogno di nulla. Invi­ diabile. (Si accende un sigaro, parlando) La... cenere... cioè volevo dire... il tabacco... fumo, si capisce! Ti dà noia il fumo? loth No, no. hoffmann Se non avessi almeno questo... Dio mio, questa vita così breve... Ma fammi il piacere, rac­ contami qualcosa. Dieci anni... Tu sei cambiato po­ chissimo... Dieci anni, un misero baleno... Che fa ora Bri... Brincio, così lo chiamavamo, mi pare? E Fer­ ri... e tutta la banda allegra di quel tempo? Hai mantenuto i contatti con qualcuno? loth Come? Possibile che tu non sappia... hoffmann Che cosa ? loth Che si è ucciso con un colpo di pistola. hoffmann Chi? Chi si è ucciso? loth Ferri. Federico Hildebrandt. hoffmann Diavolo! Non è possibile. loth Sì, sì, si è sparato... Nel Grünewald, in un bel punto sulla riva della Havel. Sono stato là a vedere, si ha davanti il panorama di Spandau. hoffmann Be', da lui non me la sarei aspettata. Non si può dire che fosse un eroe. loth Appunto per questo si è ucciso. Coscienzioso era, molto preciso. hoffmann Coscienzioso? Come sarebbe? loth Sì, per questo... Altrimenti non si sarebbe am­ mazzato. hoffmann Non capisco. loth Saprai però di che colore erano le sue idee po­ litiche. hoffmann Sì, verdi. hoffmann

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Chiamale pure così. Ma devi ammettere che era un giovane d’ingegno. Cinque anni ha dovuto lavo­ rare da stuccatore, poi altri cinque li ha passati sof­ frendo la fame, diciamo così, per conto proprio e in­ tanto modellava statuine. Hoffmann Che roba meschina! Io voglio che l’arte mi dia gioia... Vedi, quell’arte là non è mai stata di mio gusto. loth Neanche per me, ma lui ci si era incaponito. La scorsa primavera avevano bandito il concorso per un monumento; non so quale principe in ventiquat­ tresimo dovesse essere eternato. Ferri vi prese parte e vinse il concorso; poco dopo si uccise. hoffmann Ecco, non riesco proprio a capire che cosa ci trovi di coscienzioso. Per un gesto simile adoprerei un’altra definizione : mania... un baco... ipocon­ dria... così direi. loth Ed è infatti il giudizio di tutti. Hoffmann Mi dispiace, ma non posso fare a meno di approvarlo. loth A lui del resto importa poco... Hoffmann Be', lasciamo stare. In fondo, lo compian­ go al pari di te, ma... Ormai è morto, quel buon diavolo. Parlami piuttosto di te. Che cosa hai fatto? Come te la sei passata? loth Me la son passata come me la dovevo aspet­ tare. Non hai avuto nessuna notizia di me? Dai gior­ nali, voglio dire. hoffmann («« po’ imbarazzato') Non saprei... LOTH La faccenda di Lipsia? Hoffmann Già, già, è vero... Mi pare... ma niente di preciso. loth Dunque, è andata così... hoffmann (posandogli una mano sul braccio') Prima che tu continui... non vuoi proprio prendere nulla? loth

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Dopo forse. Neanche un bicchierino di cognac? loth No. Quello meno che mai. hoffmann Allora, un bicchierino per me... Non c’è di meglio per lo stomaco. (Va a prendere dalla cre­ denza una bottiglia e due bicchierini e mette tutto sulla tavola davanti a Loth) Grand Champagne, la marca migliore, te lo raccomando. Non vorresti...? loth No, grazie. hoffmann (vuota il bicchierino) Ah! Adesso sono tutto orecchi. loth Per farla breve, sono cascato assai malamente. hoffmann Due anni, se non erro. loth Giusto. Pare dunque che tu lo sappia. Ho preso due anni di prigione e dopo, per giunta, mi hanno cacciato daH’università. Avevo vent’anni. Ebbene, in quei due anni di carcere ho scritto il mio primo libro di economia politica. Se dicessi che era un piacere stare in gattabuia direi una bugia. hoffmann Come è stato mai possibile che fossimo co­ sì? Strano. Ce l’eravamo messo in testa proprio sul serio. Vere bambocciate erano, non posso dire altri­ menti... Emigrare in America, mezza dozzina di sbar­ batelli come noi! E fondare, figuriamoci, uno stato modello! Che bell’idea! loth Bambocciate? Be’, in un certo senso erano bam­ binate davvero. Avevamo sottovalutato le difficoltà di una simile impresa. hoffmann Tu poi ci sei andato davvero, in America... serio serio, a mani vuote. Pensa un po’ che cosa si­ gnifica pretendere di acquistare a mani vuote il ter­ reno per uno stato modello: roba da... In ogni caso un’enorme ingenuità. loth Invece sono proprio contento dei risultati del mio viaggio in America. loth

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{scoppiando a ridere) Acqua fresca, idro­ terapia, ottimi risultati, se credi... loth Può anche darsi, un po’ mi sono raffreddato, ma non è stato niente di particolare. Tutti gli uomini passano un periodo di raffreddamento. Io però sono ben lontano dal disconoscere il valore di quel tempo, diciamo pure accaldato. E non è neanche stata un’in­ genuità, come dici tu. hoffmann Mah... che ne so io? loth Non hai che da pensare alla media delle bam­ bocciate di oggi : le corporazioni studentesche nelluni versità, le sbornie, i duelli. Perché tutto quel chiasso ? Ferri diceva : per una cicca. La nostra im­ presa però valeva forse più di una cicca : noi aveva­ mo di mira i fini più alti dell’umanità. E anche pre­ scindendo da questo, quell’epoca ingenua ha spazza­ to via tutti i miei pregiudizi. La pseudoreligione e la pseudomorale e parecchie altre cose ancora le ho... hoffmann Sì, te lo posso anche concedere. Se oggi sono, devo dire, libero da preconcetti e pregiudizi, lo devo, siamo d’accordo, al tempo dei nostri rapporti. Naturalmente io sono l’ultimo a negarlo. Non sono certo un mostro. Ma non bisogna batter la testa nel muro. Non si deve pretendere di scacciare i mali che purtroppo affliggono la generazione presente con mali peggiori; si deve lasciare che tutto proceda tranquil­ lamente per vie naturali. Venga quel che ha da ve­ nire. Pratici, pratici dobbiamo essere. Mettitelo bene in mente! Io l’ho sempre detto, che questo princi­ pio ha dato il suo rendimento. Questo è il punto. Tutti voialtri, te compreso, procedete in modo tutt’altro che pratico. loth Per favore, spiega meglio il tuo pensiero. hoffmann Semplice : voi non sfruttate le vostre ca­ pacità. Tu per esempio, un uomo come te, con la tua

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cultura, con l’energia, eccetera, quante strade potevi prendere! Invece, che cosa vai a fare? Ti compro­ metti, fin da principio... Di’, una mano sul cuore, non te ne sei mai pentito? loth Non potevo pentirmi perché mi hanno condan­ nato senza che fossi colpevole. hoffmann Non sono in grado di giudicare. loth Lo sarai subito se ti dico questo : l’atto d’ac­ cusa affermava che avevo fondato la nostra associa­ zione « Vancouver-Island » soltanto per agitazioni di partito; e poi diceva che avevo raccolto fondi per il partito. Ora tu sai benissimo che le nostre aspirazioni coloniali erano serie, e in quanto alla colletta tu stes­ so hai detto che eravamo tutti a mani vuote. Dun­ que nell’accusa non c’è una parola di vero, e come socio dovresti pur sapere... hoffmann Be’, proprio socio non ero. Però è ovvio che ti credo. Si sa, anche i giudici sono uomini. In ogni caso, per svolgere un'azione pratica dovevi evi­ tare anche l’apparenza. E poi, in seguito mi sono proprio stupito di te : redattore della « Cattedra ope­ raia », il più oscuro dei giornalucoli ; e anche can­ didato nelle elezioni politiche! Per le masse tanto care e dilette... Che cosa ne hai ricavato? Non frain­ tendermi! Non è che io non abbia pietà del popolo povero, ma se qualcosa deve accadere bisogna che venga dall'alto. Deve venire dall’alto, il popolo non sa di che cosa abbia bisogno... Quel dal basso al­ l’alto, capisci, è quello che io chiamo picchiar la te­ sta nel muro. loth Guarda, di tutto il tuo discorso non ho capito niente. Hoffmann Ecco, volevo dire, guardami in faccia! Io ho le mani libere, potrei certo cominciare a fare qual­ cosa per gli ideali. Posso anche dire che il mio pro-

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gramma pratico è quasi realizzato. Voi invece... sem­ pre a mani vuote, che diavolo volete fare? loth Già, a quanto ho sentito tu stai navigando a vele gonfie verso le grandi banche. hoffmann {lusingato) Troppo onore, almeno per ora. E chi lo dice? Vedi, si fa quel che si può, e ne viene naturalmente la ricompensa. Ma da chi l’hai saputo? loth Ho sentito parlare due signori alla tavola ac­ canto, laggiù a Jauer. Hoffmann Oh senti ! Io ho anche nemici. Che cosa dicevamo ? loth Niente di particolare. Da loro ho saputo che ora ti sei ritirato qui nel podere dei tuoi suoceri. Hoffmann Ma guarda la gente dove va a ficcare il naso. Amico mio, non immagini come un uomo nelle mie condizioni sia continuamente osservato. È uno degli inconvenienti del nostro paese... La verità è che a causa della maggiore tranquillità e della salubrità delfaria aspetto qui il parto di mia moglie. loth E il medico? In questi casi un buon dottore ha la sua importanza. E qui nel villaggio... Hoffmann Precisamente, il medico di qui è bravissi­ mo. E devi sapere che, ne sono convinto, in un me­ dico vale più la coscienza che la genialità. loth Sarà magari un fenomeno che accompagna la genialità del medico. Hoffmann Sia pure, certo è che il nostro medico è coscienzioso. Anche lui segue un’ideologia, un po’ come noialtri... E ha grande successo tra i minatori e anche fra i contadini. Lo adorano, si può dire. Cer­ te volte, è vero, mi sta sullo stomaco. È un misto di durezza e sentimentalismo. Ma, ripeto, io so apprez­ zare l'uomo coscienzioso, assolutamente! Prima che mi dimentichi... perché ci tengo, bisogna sapere sem­ pre da chi si debba guardarsi... Dimmi un po’... ti

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leggo in faccia che quelli della tavola accanto non devono aver parlato bene di me. Fammi il piacere, dimmi di che cosa parlavano. loth Non lo dovrei fare perché dopo vorrei chiederti duecento marchi, vorrei pregarti di darmeli perché è poco probabile che te li possa mai restituire. HOFFMANN {cava dalla tasca il libretto degli assegni, riempie e ne firma uno e lo consegna a Loth) In qua­ lunque filiale della banca di Germania... con molto piacere... loth La tua prontezza supera tutte le mie speranze. Be’, accetto con gratitudine, e tu sai che non saran­ no quattrini impiegati male. hoffmann («« po’ patetico) Il lavoratore merita la mercede. Adesso però, Loth, fammi il piacere, dim­ mi di quei tali alla tavola accanto... loth Erano certamente cose assurde. Hoffmann Dimmele lo stesso. Sono cose che m’inte­ ressano soltanto... loth Dicevano che qui avresti soppiantato un tale... un impresario edile, un certo Millier. hoffmann Vedo, la solita storia. loth Credo che quello fosse un ex fidanzato di tua moglie. Hoffmann È vero. E per questo? loth Ti riferisco tutto come l’ho sentito, perché sup­ pongo che t’importi di sapere la calunnia con la mas­ sima esattezza. Hoffmann Proprio così. Dunque...? loth A quanto ho sentito, quel Miiller si era assunto l'impegno di costruire un tratto della ferrovia lo­ cale. Hoffmann Sì, con la miseria di diecimila talleri. Quan­ do poi si accorse che quella somma non era sufficien­ te tentò di pescare in tutta fretta la figlia di un pro-

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prietario terriero di Witzdorf : e mia moglie doveva essere quella che... loth Dicevano che lui mirava alla figlia, tu al vec­ chio. Poi, se non sbaglio, si uccise con un colpo di pistola. E quel tratto suo l’avresti portato a termine tu guadagnandoci un mucchio di quattrini. Hoffmann C’è qualcosa di vero, però io potrei espor­ ti una serie di fatti... E quelli là sapevano anche al­ tre cose così edificanti? loth Ti dirò che erano montati specialmente per una questione : calcolavano quale affarone hai fatto ora coi carboni e dicevano che sei un... Be’, non era pro­ prio un appellativo lusinghiero. In breve, affermava­ no che a suon di champagne avevi persuaso questi stupidi paesani a firmare un accordo che ti assicu­ rava la vendita esclusiva di tutto il carbone estratto dalle loro miniere in cambio di una somma, irrisoria, secondo loro. hoffmann (ff alza, visibilmente a disagio) Ti dirò una cosa, Loth... Ma che stiamo a rimestare? Ti pro­ pongo di pensare alla cena. Ho una fame da lupo. Una fame che non ti dico. (Preme il bottone di un cordo­ ne elettrico verde che pende sul divano. Si sente lo squillo d’un campanello.) loth Ecco, se vuoi trattenermi qui... Scusami... vorrei ripulirmi un po’. hoffmann Avrai subito tutto quanto occorre... (Edoar­ do, il domestico, in livrea, entrai) Edoardo, accompa­ gna il signore nella camera degli ospiti. Edoardo Sì, signore. hoffmann (stringendo la mano a Loth) Ti prego di scendere al più tardi fra un quarto d’ora, perché si va a tavola. loth C’è tutto il tempo. Arrivederci dunque! hoffmann Arrivederci !

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Edoardo apre la porta e ja passare Loth. Entrambi escono. Hojfmann si gratta la nuca, guarda pensiero­ so il pavimento, va verso la porta di destra e già afferra la maniglia allorché Elena, venendo ansiosa dalla porta vetrata, lo chiama. ELENA Cognato, chi era quello là? Hoffmann Uno dei miei compagni di liceo, anzi il maggiore, Alfredo Loth. ELENA (subito) È ripartito? hoffmann No, resta a cena con noi. Può anche dar­ si... sì, può darsi che pernotti qui. ELENA Gesù mio, allora non vengo a cena. Hoffmann Andiamo, Elena! ELENA Che c’entro io con la gente colta? Il mio po­ sto è tra i contadini. HOFFMANN Uff, le tue solite stramberie! Invece mi fa­ rai un grande favore se darai le disposizioni per la cena. Via, fammi il piacere. Che sia un po’ solenne, perché sospetto che stia tramando qualche cosa. Elena Che vuoi dire? che trame...? hoffmann Lavorio da talpa... grufolare, scavare. Cose che tu non capisci. Posso anche ingannarmi, perché fi­ nora ho evitato questo argomento. Ad ogni modo ap­ parecchia tutto con garbo, è la maniera migliore per... Champagne, naturalmente. Le aragoste di Amburgo sono arrivate? elena Credo, devono essere arrivate questa mattina. hoffmann Allora aragoste! (Sente bussare forte) A. vanti ! fattorino (con una cassetta sotto il braccio; parla con una sua cantilena) Una cassetta. elena Da dove? fattorino Da Berlino. Hoffmann Esatto. Saranno i corredini di Hertzog.

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(Osserva il pacco e prende il talloncino') Sì, sì, è la roba di Hertzog. ELENA Una cassetta piena? Tu esageri. (Hoffmann dà la mancia al fattorino.) fattorino (ancora con la cantilena) Buona sera. (Esce.) Hoffmann Io esagero ? Elena Certo. Qui c’è roba per almeno tre bambini. Hoffmann Sei andata a passeggio con mia moglie? elena Come faccio, se si stanca subito? Hoffmann Già, è sempre stanca. Mi fa disperare. Un’ora e mezzo... Ma dovrebbe stare agli ordini del medico. A che serve il medico se... elena E allora intervieni, manda via la Spiller! Che posso fare io con quella vecchia che la tiene sempre a bocca dolce? hoffmann Come dici? Io, perché sono uomo? E poi, tu conosci la suocera. elena (con amarezza) Eh, sì. Hoffmann E adesso dovè? elena La Spiller l’aiuta a mettersi in ghingheri da quando è arrivato il signor Loth; probabilmente a ce­ na farà di nuovo la ruota. Hoffmann (di nuovo sopra pensiero cammina per la stanza; poi con forza) È l'ultima volta, parola d’ono­ re, che aspetto un evento in questa casa. Parola d’o­ nore ! elena Facile per te, puoi andare dove vuoi. Hoffmann A casa mia non sarebbe stata la triste ricacaduta in questo maledetto vizio. elena Non addossarne a me la responsabilità! L’ac­ quavite non l'ha avuta da me. Basta che tu allontani la Spiller. Se fossi un uomo ! Hoffmann (con un sospiro) Non vedo l’ora che sia passata anche questa! (Sulla soglia della porta a de-

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stra) Dunque, cognata, fammi questo favore : una ta­ vola molto invitante. Intanto sbrigo ancora una picco­ la faccenda. ELENA {preme il bottone del campanello. Entra Mila.) Mila, aiuta ad apparecchiare! Di’ a Edoardo che metta in ghiaccio lo spumante e apra quattro dozzine di ostriche. mila {borbottando, insolente) Glielo può dire lei, da me non accetta ordini. Dice sempre che è al servizio dell’ingegnere soltanto. ELENA Allora almeno mandamelo qua. {Mila esce. Ele­ na va davanti allo specchio e si assesta un po’; intanto entra Edoardo) Edoardo, metta in fresco lo spumante e apra le ostriche! Ordine del signor Hoffmann. Edoardo Senz’altro, signorina. {Edoardo esce. Poco do­ po bussano alla porta di mezzo) ELENA {trasalendo) Dio mio! {titubante) Avanti! {Con voce più forte e ferma) Avanti! loth {entra senza inchinarsi) Oh, chiedo scusa, non volevo disturbare... Io sono Loth. {Elena fa un inchino da scuola di ballo.) LA VOCE di HOFFMANN {dalla porta di mezzo chiusa) Ragazzi, senza complimenti! Vengo subito. Loth, que­ sta è mia cognata Elena Krause. E tu, cognata : è il mio amico Alfredo Loth. Consideratevi presentati. Elena Che maniere! loth Per parte mia lo scuso, signorina. Anch’io, come mi hanno detto molte volte, in quanto a belle maniere sono mezzo barbaro. Ma se dovessi averla disturbata... elena No, non mi disturba affatto. {Pausa imbarazza­ ta) È... è molto bello da parte sua... che sia venuto a trovare mio cognato. Si lamenta sempre di... Si ram­ marica che i suoi amici di gioventù l’abbiano dimen­ ticato. loth È stato proprio un caso, ero sempre a Berlino e

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da quelle parti. Non sapevo neanche dove si era cac­ ciato Hoffmann. Dal tempo dei miei studi a Breslavia non ero più venuto nella Slesia. Elena Sicché lo ha trovato così per caso? loth Sì, proprio per caso... e precisamente nel luogo dove ho da fare i miei studi. ELENA Lei scherza. Studi a Witzdorf? Non è possibile. In questo buco miserabile! loth Miserabile lo chiama? Ma se qui si avverte una ricchezza straordinaria... Elena Oh certo, se è per questo... loth C’è di che stupirsi. Posso assicurare che fattorie come qui non se ne trovano da nessuna parte. L’ab­ bondanza trabocca da porte e finestre. ELENA In questo ha ragione. Qui ci sono stalle dove mucche e cavalli mangiano da greppie di marmo e ra­ strelliere d’argentone. Merito del carbone che si estrae dalle miniere sotto i nostri campi. È stato il car­ bone che in un baleno ha fatto di questi contadini altrettanti nababbi. {Indica il quadro alla parete di fondo) Guardi lì : mio nonno faceva il carrettiere. Il piccolo podere era suo, ma il terreno magro non ba­ stava e perciò doveva trasportare merci. Quello lì è lui in giacca turchina; allora si portavano ancora di queste giacche. Anche mio padre la portava da gio­ vane. Ma non intendevo questo dicendo « miserabi­ le », soltanto che qui si è isolati, così... Non c’è nulla per lo spirito. Una noia da morire.

Mila e Edoardo vanno e vengono e apparecchiano la tavola a destra. Ma non c’è qualche volta un ballo, una riunione? Nemmeno questo. I contadini giocano, vanno a caccia, bevono... che altro vuol che si veda tutto il

loth

ELENA

ία

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giorno? (Va verso la finestra e ìndica l’esterno) Sol­ tanto di questi figuri. loth Già, i minatori. Elena Che vanno alla miniera, tornano dalla miniera, e così di continuo. Io almeno non vedo che minatori. Crede che mi venga voglia di scender sola per la strada? Se mai, vado nei campi, dalla porta di dietro. Tutta gentaglia maleducata! E come ficcano gli occhi addosso, sempre scuri e foschi... Come se fossimo tutti delinquenti. D’inverno, quando si va qualche volta fuori con la slitta, e quelli vengono a gruppi di là dai monti, nel buio, nella tormenta, e dovrebbero ce­ dere il passo, camminano invece davanti ai cavalli e non si scostano. Allora i contadini usano qualche vol­ ta il manico della frusta, altrimenti non passano. E allora bisogna sentirli bestemmiare e imprecare ! Uh, talvolta mi sono presa certi spaventi! loth E ora si figuri : proprio per amore di questa gente della quale lei ha tanta paura, proprio per que­ sto sono venuto qua. ELENA Oh via! loth Dico sul serio, qui mi interessano più di qua­ lunque altra cosa. ELENA Nessuno eccettuato? loth Nessuno. Elena Neanche mio cognato? loth Nemmeno. Il mio interessamento a questa gente è assai diverso... Più elevato... perdoni, signorina, lei forse non mi può capire. ELENA Perché no? La capisco benissimo, lei... (Fa sci­ volare una lettera dalla tasca, Loth si china a racco­ glierla.) Oh lasci pure, non ha importanza, è soltanto una lettera qualunque dal collegio. loth Lei è stata in collegio?

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Sì, a Herrnhut. Non deve pensare che io... Ec­ co, io la capisco. loth Volevo dire che i lavoratori mi interessano per se stessi. ELENA Sì certo... È molto interessante... un minatore... se la vogliamo considerare così... In certe regioni non se ne trovano, ma quando si hanno tutto il giorno... loth Anche quando si vedono ogni giorno, signorina... Anzi si deve vederli ogni giorno per scoprire i loro lati interessanti. Elena Se è così difficile scoprirli... quali sarebbero, i lati, per essere così interessanti? loth Interessante è per esempio il lato che costoro, lo ha detto lei, hanno sempre uno sguardo astioso o fosco. ELENA Perché le sembra che questo sia particolarmente interessante ? loth Perché non è comune. Noialtri guardiamo così talvolta, un istante, certo non sempre. ELENA Già, chissà perché hanno sempre quello sguar­ do... così astioso, così torbido. Ci deve essere una ra­ gione. loth Appunto. Ed è quella che vorrei trovare. ELENA Lei mi prende in giro. Quando anche la sapes­ se che cosa gliene viene? LOTH Chi sa, si potrebbero trovare i mezzi per elimi­ nare la ragione di quegli sguardi astiosi e senza gioia... Forse si potrebbe rendere più felice questa gente. ELENA (un po’ confusa) Dobbiamo dire sinceramente che... adesso forse comincio a capirla. Ma per me... è una cosa nuova, del tutto nuova. Hoffmann (entrando dalla porta a destra con alcune let­ tere in mano) Eccomi qua dunque. Edoardo, queste lettere devono essere imbucate prima delle otto! (Con­ segna le lettere al domestico che escei) Dunque, ragazELENA

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zi, ora possiamo metterci a tavola. Ma che caldo fa! È settembre e ancora tanto caldo ! {Prende la bottiglia dì champagne dal secchiello col ghiaccio') Veuve Cliquot. Edoardo sa i miei segreti amori. {Si rivolge a Loth) ÄNtete fatto discussioni furibonde. {Si avvicina alla tavola apparecchiata, sovraccarica di ghiottonerie, e sì frega le mani) Be’, il panorama è promettente. {Strizzando l’occhio a Loth) Non pare anche a te? E poi, cognata, avremo anche una visita : Guglielmo Kahl. È venuto nella fattoria. Elena fa un gesto screanzato.

Andiamo, cara, fai come se io... Che ci posso fare? L’ho forse invitato a venire? {Si sentono passi pesanti dal vestibolo.) Appena nominato il dia­ volo, gli si vede la coda.

HOFFMANN

Entra Kahl senza aver bussato. È un giovane contadi­ no goffo, di ventiquattr'anni, e si vede che, fin dove può, vorrebbe passare per persona raffinata, ma più ancora ricca. Ha lineamenti grossolani e un’espressione tra sciocca e scaltra. Porta una giacchetta verde, un panciotto dì velluto colorato, calzoni scurì e stivaloni di vernice, in testa un cappello verde da cacciatore con una piuma di fagiano di montagna. La giacca ha i bottoni di corno di cervo, alla catena dell’orologio denti di cervo, eccetera. £ balbuziente. Buona sera a tutti. {Vede Loth, resta impacciato e fermandosi fa una figura alquanto meschina^) hoffmann {gli si avvicina e gli stringe la mano inco­ raggiandolo) Buona sera, signor Kahl! ELENA {sgarbata) Buona sera. KAHL

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{attraversa con passo pesante tutta la stanza e va a stringere la mano di Elena) Buona sera, Lena. Hoffmann (đ Loth) Ti presento il signor Kahl, figlio del nostro vicino. kahl

Kahl sogghigna girando il cappello tra le mani. Si­ lenzio d’imbarazzo.

A tavola, ragazzi! Manca qualcuno? Ah già, la suocera. Mila, vai a pregare la signora che venga a tavola. mila {esce dalla porta di mezzo e si mette a gridare nel vestibolo) Padronaaa! Padronaaa! A mangiare! Ven­ ga a mangiare!

hoffmann

Elena e Hoffmann si scambiano un’occhiata d’intesa e ridono, poi guardano Loth.

Hoffmann (đ Loth)

Paese che vai, usanze che trovi.

La signora Krause compare in pompa magna. Tutta seta e gioielli preziosi. L’abito e il portamento rivela­ no superbia, albagia, vanità assurda. Hoffmann Oh, ecco la mamma! Permetti che ti presen­ ti il mio amico dottor Loth. signora krause {fa una riverenza indefinibile) Mi prendo la libertà... {Dopo breve pausa.) Ma senta un po’, dottore, per carità non se ne abbia a male! Prima di tutto devo difendermi davanti a lei... {Più va avan­ ti più velocemente parla) difendermi per il mio por­ tamento di prima. Deve sapere, capisce, qui da queste parti arriva una gran massa di vagabondi... Lei non crede, ma c’è da rompersi il capo con questi mendi­ canti. Quella gente lì sgraffigna come le gazze. Noi

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non badiamo al soldo, neanche per idea, non stiamo lì a lesinare, neanche fosse un tallero intero, prima di spenderlo. La Krause di Ludovico, quella sì che è avara, peggio di un criceto, non darebbe un soldo a nessuno. Suo marito è morto di rabbia perché a Breslavia aveva perduto duemila sporchi talleri. No, noi non siamo così. Vede, quella credenza mi è co­ stata duecento talleri, senza calcolare il trasporto. Be’, il barone Klinkow non ne potrebbe avere una mi­ gliore.

La signora Spiller è entrata poco dopo la Krause. Ë piccola, storta e acconciata con roba smessa dalla si­ gnora Krause. Mentre quest’ultima parla, alza gli oc­ chi verso di lei con una certa devozione. Può avere cinquantacinque anni; quando emette il fiato fa senti­ re un leggero sospiro che, anche quando parla-, ha re­ golarmente il suono di una « m ». {con voce molto bassa, in tono minore, sotto­ messo, attestando malinconia') Il barone Klinkow ha esattamente la stessa credenza-m. ELENA {alla signora Krause) Mamma, non sarebbe me­ glio che incominciassimo ad accomodarci, poi... signora krause {si volta di scatto e fulmina Elena con uno sguardo. Breve e imperiosa) Credi che stia bene? {Mentre sta per sedersi, si accorge che non è ancora stata detta la preghiera, e giunge macchinalmente le mani, ma senza dominare la sua cattiveria.) SPILLER {dice la preghiera) Vieni, Gesù, sii ospite no­ stro, benedici ciò che ci hai donato. Così sia. SPILLER

Tutti si siedono rumorosamente. La penosa situazione è superata col servirsi e porgersi vicendevolmente i piatti, la qual cosa richiede un po’ di tempo.

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(4 Loth) Amico mio, non ti servi? Non prendi le ostriche? loth Sì, le prenderò. Sono le prime ostriche che man­ gio. signora krause {che ha appena sorbito un’ostrica, a bocca piena) In questa stagione, vuol dire. loth No, no, in genere. {La Krause e la Spiller si scambiano un’occhialai) hoffmann {a Kahl che spreme un limone coi denti) Son due giorni che non la vedo, signor Kahl. Avrà preso molti topi intanto. kahl N... no. hoffmann {a Loth) Devi sapere che il signor Kahl, ha la passione della caccia. kahl II t... topo è un... un infame an... an... anfibio. ELENA {sbottando) È ridicolo : ammazza tutto, bestie selvatiche e domestiche. kahl le... ieri ho am... ammazzato la ve... vecchia scro­ fa che avevamo. loth Sparare dunque è la sua occupazione principale. signora krause II signor Kahl lo fa soltanto per suo divertimento. spiller Selva, selvaggina, sesso gentile, diceva spesso sua eccellenza il ministro von Schadendorf. kahl Po... po... posdomani c’è il ti... tiro al pi... pic­ cione. loth Che cos’è il tiro al piccione? elena Ah, non lo posso soffrire, è un gioco vera­ mente crudele. Meglio quei ragazzi maleducati che ti­ rano sassi nei vetri. hoffmann Elena, tu esageri. plena Non so, ma secondo il mio cuore è più ragio­ nevole fracassare vetrate che legare i piccioni a un palo e prenderli a fucilate. hoffmann Via, Elena, bisogna però considerare... hoffmann

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{tagliando qualcosa con coltello e forchetta) È uno scandalo vergognoso. kahl Oh pe... per quel pa... paio di piccioni...! Spiller (đ Loth) Il signor Kahl-m, deve sapere, ne ha duecento nella piccionaia. loth La caccia in genere è una vergogna. hoffmann Che però non si può estirpare. Adesso per esempio stanno cercando cinquecento volpi vive; tutti i guardiaboschi da queste parti e in tutta la Germania si danno a stanare volpi. loth E che cosa ne fanno di tante volpi? Hoffmann Le mandano in Inghilterra dove hanno l’o­ nore di essere inseguite a morte dai Lord e dalle Lady. loth Maomettano o cristiano, chi è bestia resta bestia. hoffmann Mamma, posso servirti l’aragosta? signora krause Fai pure, in questa stagione è molto buona. spiller La signora ha il palato così delicato-m. sicNORA krause (đ Loth) Forse non ha ancora man­ giato l’aragosta, dottore? loth Sì, aragosta ne ho mangiata qualche volta... las­ sù al mare, a Warnemünde, dove sono nato. signora krause {a Kahl) Vero, Guglielmo, qualche volta non si sa proprio, Dio mio, che cosa si debba mangiare. kahl Da... davvero, non si sa po... proprio, co... co­ mare. Edoardo {fa per versare champagne a Loth) Champa­ gne? loth {coprendo il bicchiere) No, grazie. hoffmann Non fare sciocchezze! Elena Come? Lei non beve? loth No, signorina. hoffmann Oh senti questa! Sei proprio... sei noioso. loth

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Se bevessi sarei più noioso ancora. Interessante, dottore. loth (sgarbato) Che divento più noioso se bevo vino? Elena (imbarazzata) No, volevo dire... il fatto che lei non beve, che non beve affatto. loth E perché sarebbe interessante? ELENA (arrossendo) Perché non è... non è comune (Si ja ancora più rossa e imbarazzata.) loth (goffamente) In questo ha ragione, purtroppo. signora KRAUSE (a Loth) La bottiglia ci costa quin­ dici marchi, può bere tranquillamente. Viene direttamente da Reims. Non le offriamo roba cattiva, la roba cattiva non piace neanche a noi. Spiller Oh, mi creda-m, dottore, se Sua Eccellenza il ministro von Schadendorf-m, avesse pasteggiato così... kahl Non po... potrei vi... vivere, se... senza vino. elena (a Loth) Ci dica per favore perché non beve. loth Volentieri. Io... Hoffmann Va là, vecchio amico! (Prende la bottiglia di mano al domestico e insiste a sua volta con Loth) Pensa quante belle ore abbiamo passato insieme... loth No, ti prego, non disturbarti... Hoffmann Bevi almeno oggi! loth Ê inutile. Hoffmann Per farmi piacere! (Vorrebbe versare, ma Loth glielo impedisce. Ne viene quasi una piccola zuffa.) loth No, ho già detto... no, no, grazie. Hoffmann Senti, non avertene a male... ma è una mania. kahl (alla signora Spiller) Chi non vuole, vuo... vuol dire che ha già. (La Spiller approva devotamente.) Hoffmann Chi non vuole non vuole. Dico soltanto che senza un bicchier di vino a tavola... loth Un bicchiere di birra a colazione... loth

ELENA

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E perché no? Un bicchiere di birra fa bene. loth Un cognacchino ogni tanto... Hoffmann Se non ci dovesse essere nemmeno questo... No, di me non farai mai un asceta. La vita non avrebbe più fascino. loth Non direi. Io sono ben contento del fascino nor­ male che solletica il mio sistema nervoso. hoffmann Un gruppo di persone riunito a bocca asciutta è pur sempre insulso e noioso. Per me ne fac­ cio a meno. signora krause Ma anche nelle case dei nobili so che si beve molto. Spiller {confermando devotamente e piegando il busto in avanti) È da gentlemen bere molto vino. loth (d Hoffmann) Per me è viceversa. Io mi annoio a una tavola dove si beve molto. hoffmann Certo ci vuole moderazione. loth Secondo te, quando si è moderati? hoffmann Ecco, quando si ha ancora coscienza di sé. loth Ah, ammetti dunque che in genere l’alcool mette in pericolo la coscienza di sé. Hai visto? Per questo mi secco alla tavola dei bevitori. hoffmann Hai paura di perdere così facilmente la coscienza ? kahl Io re... recentemente ho be... bevuto una bo... bottiglia di Rrr... Rüdesheimer, una bottiglia di spu... pumante. Poi pe... per giunta una di bo... bordeaux, non ero af... affatto ubriaco. loth (đ Hoffman) No no. D’altronde sai che ero io a portarvi a casa quando avevate alzato troppo il go­ mito. Io sono ancora il solito orso. Non ho quindi paura di perdere, come tu dici, la coscienza di me. HOFFMANN Che altro temi dunque? hoffmann

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ELENA Per quale motivo non beve? Me lo dica, per favore. loth (đ Hoff than n) Affinché tu sia tranquillo, oggi non bevo se non altro perché mi sono impegnato con la parola d’onore a evitare le bevande alcooliche. hoffmann Con altre parole, ti sei felicemente abbas­ sato a fare l’eroe nelle associazioni di astemi. loth Io sono astemio in modo assoluto. Hoffmann E, se è lecito, fin quando conti di... loth Fin che vivrò. Hoffmann (butta sulla tavola coltello e forchetta e sta per alzarsi) Sacco rotto! (Si risiede) Sinceramente, così puerile... perdona la parola. loth Chiamalo pure così. Hoffmann Come diavolo ti è venuta quest’idea? elena Per questo deve avere un motivo importante, almeno suppongo. loth Ce l'ho infatti. Lei, signorina, e tu, Hoffmann, probabilmente non sapete che parte spaventosa abbia l’alcool nella nostra vita moderna... Leggi Bunge, se vuoi fartene un'idea. Ricordo ancora le parole di un certo Everett intorno all’importanza dell'alcool negli Stati Uniti. Egli si riferisce, nota bene, a un periodo di dieci anni. E dice dunque : l’alcool ha ingoiato di­ rettamente una somma di tre miliardi e indirettamen­ te di seicento milioni di dollari. L’alcool ha ammaz­ zato trecentomila persone, mandato centomila bambini negli ospizi dei poveri, ficcato altre migliaia nelle car­ ceri e nelle case di correzione, causato almeno due­ mila suicidi. Ha fatto perdere con distruzioni e incen­ di dolosi almeno dieci milioni di dollari, creato ven­ timila vedove e infine non meno di un milione di or­ fani. Gli effetti dell’alcool, e questo è il peggio, si manifestano fino alla terza e quarta generazione. Ora, se mi fossi impegnato con la mia parola d’onore a

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non ammogliarmi potrei magari bere, così invece... I miei antenati erano tutti gente sana, gagliarda e, per quanto ne so, molto moderata. Ogni mio movimento, ogni strapazzo superato, direi ogni respiro mi fa ri­ cordare quanto devo a loro. Questo, vedi, questo è il punto : sono assolutamente deciso a trasmettere ai miei discendenti tutto quanto ho ereditato, senza alcuna re­ strizione. signora krause Ehi, genero, i nostri minatori bevo­ no veramente troppo. Ê proprio vero. kahl Trincano come po... porci. elena Davvero? È cosa che si eredita? loth Ci sono famiglie che per questo vanno in rovi­ na, famiglie di ubriaconi. kahl {alla signora Krause e a Elena) Il vostro ve... vecchio, anche lui e... esagera un po’. elena {bianca come un cencio, con impeto) Via, non dica sciocchezze! signora krause Oh guarda! Senti un po’ questa sfac­ ciata, questa principessa. Ti vuoi dare le solite arie da signora, vero? Guarda come se la piglia col futu­ ro marito! (A Loth indicando Kahl) Questo è il suo fidanzato, deve sapere, dottore, tutto è già combinato. elena {balzando in piedi) Basta! Mamma, smettila, o io... signora krause Questa poi... Lo dica lei, dottore, le pare buona educazione? La tengo come fosse figlia mia, e lei si comporta così, passa le misure. Hoffmann {cercando di metter pace) Andiamo, mam­ ma, fammi il favore... signora krause No, anzi... non mi lascio... un’oca come quella lì... È il colmo... Quella testa vuota! Hoffmann Mamma, senti, adesso vorrei proprio pre­ garti... signora krause {sempre più furiosa) Invece di dare

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una mano in casa... Dio guardi! Storce la bocca fino alle orecchie, non sa fare altro che smorfie. Lo Schil­ ler invece, il Goethe, quegli scemi che non sanno al­ tro che dir bugie : da quelli sì che si fa montare la testa. C’è da farsi venire il mal di fegato. {S’inter­ rompe tremando di rabbia.) hoffmann {per rabbonirla) Andiamo, ora riprenderà... forse non è stato... Non voleva... {Fa un cenno a Ele­ na che agitata si è tirata in disparte, dopo di che la ragazza trattenendo le lacrime ritorna al suo posto. Hoffmann, interrompendo il penoso silenzio, a Loth) Già... che cosa dicevamo?... Giusto si parlava dell’al­ cool. {Alza il bicchiere) Su, mamma, facciamo la pa­ ce! Brindiamo... Pace e calma. Facciamo onore al­ l’alcool con la pace! {La signora Krause, sia pure a malincuore, tocca il bicchiere di Hoffmann, il quale poi si rivolge a Elena) Come, Elena? Hai il bicchiere vuoto?... Corpo di Bacco, Loth, hai fatto scuola. ELENA No... io... SPILLER Signorina, questo permette di vedere... hoffmann Eppure non sei di solito così schifiltosa. Elena {insolente) Oggi, invece, non ho nessuna voglia di bere. Ecco tutto. hoffmann Chiedo scusa, scusa, scusa... Che cosa di­ cevamo dunque? loth Si diceva che esistono famiglie di ubriaconi. Hoffmann {di nuovo perplesso) Va bene, va bene, ma...

Il contegno della signora Krause rivela che la sua stizza aumenta, mentre Kahl si sforza evidentemente di trattenere le risa per qualche cosa che intimamente lo diverte. Elena a sua volta guarda Kahl con occhi infiammati e già alcune volte lo ha trattenuto con oc­ chiate minacciose dal pronunciare ciò che ha, per così

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dire, sulla punta della lingua. Loth, alquanto tranquil­ lo, sta sbucciando una mela e non s’accorge di nulla.

A quanto pare, qui ne avete in abbondanza. (quasi sconcertato) Come?... Abbondanza di... Abbondanza di che cosa? loth Di beoni, naturalmente. Hoffmann Credi?... Eh sì... Veramente... I minatori... loth Non soltanto i minatori. Qui per esempio, nella locanda dove sono entrato prima di venire da te, ho visto un individuo seduto così (punta i gomiti sulla tavola, si prende la testa fra le mani e fissa la tova­ glia^) Hoffmann Davvero? (Il suo imbarazzo è giunto al colmo; la signora Krause tossisce, Elena continua a fissare Kahl che è tutto scosso dalla risata interiore, ma ancora si frena per non scoppiare.) loth Mi meraviglio che tu non conosca ancora quel, diciamo così, originale. L’osteria infatti è qui accan­ to. Mi hanno detto che è un contadino di qui, ricco sfondato, che passa le giornate e gli anni lì nell’oste­ ria a bere grappa. Una bestia vera e propria, devo di­ re. Quando penso a quegli occhi terribilmente vuo­ ti, da ubriaco assente, e come mi fissava...

loth

hoffmann

Kahl, che fino a questo momento si era trattenuto, esplode in una risata volgare, porte, incontenibile, di modo che Loth e Hoffmann lo guardano stupefatti.

(balbettando tra le risa) In ve... verità, quello era... ve... veramente era... il vecchio. ELENA (è balzata in piedi esterrefatta e indignata, sgual­ cisce il tovagliolo e lo butta sulla tavola, sbottando) Lei è... (Fa l’atto di sputare) Vergogna! (Esce rapida­ mente.)

kahl

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(interrompendo l’imbarazzo sorto dalla convinzio­ ne di aver commesso una grande sciocchezza) Mac­ ché! Stupidaggini! Che see... scemenza! Va... vado per i fatti miei. (Prende il cappello e mentre esce sen­ za neanche volgersi indietro dice) Buona sera! signora krause (gli grida dietro) Non le posso dar torto, Guglielmo. (Piega il tovagliolo e chiamò) Mila! (Mila entra.) Sparecchia! (Tra sé ma facendosi sen­ tire) Che oca! hoffmann (un po’ risentito) Però, mamma, devo dire proprio... signora krause Spicciati! (Si alza e esce subito) Spiller La signora-m ha avuto oggi parecchi dispia­ ceri in casa-m. I miei ossequi. (Si alza, prega in silen­ zio alzando gli occhi al cielo, poi esce) kahl

Mila e Edoardo sparecchiano. Hoffmann si è alzato e viene avanti con uno stuzzicadenti fra le labbra. Loth lo segue. Hoffmann Vedi? Così sono le donne. loth Veramente non ho capito nulla. Hoffmann Non ne vale la pena. Sono cose che, come sappiamo, avvengono anche nelle migliori famiglie. Ciò non deve trattenerti dal rimanere qualche giorno con noi... loth Mi sarebbe piaciuto conoscere tua moglie. Per­ ché non si fa vedere? Hoffmann (tagliando la punta di un sigaro) Capirai, nelle sue condizioni... Le donne non sono capaci di vincere la vanità. Vieni, andiamo a fare quattro passi in giardino. Edoardo, il caffè sotto la pergola! idoardo Sissignore. Hoffmann e Loth escono attraversando il giardino

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d’inverno. Edoardo esce dalla porta di mezzo, poi Mi­ la dalla stessa porla reggendo un vassoio di stoviglie. La stanza rimane vuota alcuni istanti. Entra poi Elena con occhi di pianto, agitata, il fazzoletto sulla bocca. Dalla porta di mezzo donde è entrata fa in fretta al­ cuni passi a sinistra e sta in ascolto alla porta della camera di Hoffmann. Oh non andar via! (Non udendo nulla corre alla porta del giardino d’inverno dove sta attentamen­ te in ascolto alcuni istanti. In tono di fervida preghie­ ra, giungendo le mani) No, non andar via, non an­ dar via!

ELENA

Atto Secondo

La mattina verso le quattro. Le finestre dell’osteria sono illuminate, dall’androne entra il pallido grigiore dell’alba che a poco a poco diventa roseo e infine, sempre lentamente, si risolve nella chiara luce del giorno. Sotto l’androne è seduto per terra Beibst (sul­ la sessantina) che affila la falce percuotendola. Quando si alza il sipario si scorge appena la sagoma di lui che si staglia sul cielo grigio, ma si sentono i colpi rego­ lari, monotoni, ininterrotti, del martelletto sulla pic­ cola incudine. Per qualche minuto si sente soltanto questo rumore, poi subentra il solenne silenzio del mattino, interrotto dal vociare dei clienti che escono dall’osteria. La porta di questa si chiude con fracasso, le luci alle finestre si spengono. Un lontano abbaiare di cani, i galli incrociano il loro canto. Sulla via dal­ l’osteria appare una figura incerta che a zig zag viene verso il cortile: è il contadino Krause che, come al solito, è stato l’ultimo a lasciare l’osteria. (arriva barcollando allo steccato del giardino, vi si aggrappa e grida con voce un po’ nasale, avvi­ nazzata, verso la locanda) Il giardino è mio ! L’oste­ ria è mia... Oste della malora!... Olà! (dopo aver bor­ bottato parole incomprensibili si svincola dallo stec­ cato ed entra nel cortile dove riesce ad afferrare feli­ cemente la stiva di un aratro) Il podere è mio. (Bla-

krause

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tera quasi cantando) Fratello, assaggia e bevi... bevi e assaggia... la grappa incoraggia. Olà, olà! (urlando) non sono forse un bell’uomo ?... non ho qui forse una bella donna?... Non ho forse un paio di belle ra­ gazze ? Elena (esce di casa correndo. Si vede che si è messa addosso soltanto ciò che ha potuto prendere in tutta fretta) Papà!... Papà caro, su vieni! (Lo prende per un braccio, cerca di sorreggerlo e di tirarlo in casa) Vieni, vieni, vieni presto, vieni in casa, andiamo... fa’ presto! krause (si è rizzato, cerca di stare in piedi, e con gran­ de sforzo, ricorrendo a tutte e due le mani, estrae dalla tasca dei calzoni una borsa di cuoio, gonfia di denaro. Alla luce dell’alba un po’ più chiara si distin­ gue l’abito sordido dell’uomo circa cinquantenne, che non è migliore di quello dell’infimo bracciante agrico­ lo. E a capo scoperto, i capelli radi e grigi arruffati. La camicia sporca è aperta fino all’ombelico; i calzoni di cuoio, legati alla caviglia, gialli a suo tempo, ma ora lustri e sudici, sono sorretti da un’unica bretella ricamata; ha ai piedi nudi un paio di pantofole il cui ricamo sembra ancora nuovo. Niente giacca né pan­ ciotto; le maniche della camicia sono sbottonate. Do­ po aver estratto felicemente la borsa, il contadino la posa con la mano destra più volte sulla palma della sinistra in modo da far tintinnare il denaro, e intanto lancia a sua figlia occhiate lascive) Olà! fi denaro è mio! Di’, vorresti un paio di talleri? elena Dio mio, Dio mio! (Cerca invano di trascinar­ selo dietro. In uno di questi tentativi egli la abbraccia con la goffaggine di un gorilla e la palpa con gesti sguaiati. Elena reprime invocazioni d’aiuto) Lasciami stare! Lasciami, papà, ti prego! (Piange, poi si mette

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a gridare, presa dalla paura, dal ribrezzo, dal furore) Bestia! Maiale! (Lo respinge e lo fa cadere per terra lungo disteso. Beibst arriva zoppicando di sotto al­ l’androne e insieme con Elena cerca di rimettere in piedi Krause.) krause (balbettando) Bevi e assaggia, fratello... la grappa incoraggia.

Si risolleva ed entra in casa cadendo e trascinando Beibst e Elena. La scena rimane vuota un istante. Dalla casa si odono rumori e uno sbattere di porte. Una finestra s’illumina, Beibst esce dalla casa e accen­ de un fiammifero strusciandolo sui calzoni per dar fuoco alla pipa che non si toglie mai di bocca. Men­ tre lo sta facendo, Kahl esce di soppiatto dalla porta di casa. È in calze, porta sul braccio sinistro la giacca e ha nella mano sinistra le pantofole. Con la destra porta il cappello, con la bocca il colletto della cami­ cia. Arrivato al centro del cortile si volta e vede che Beibst lo guarda. Rimane incerto un istante, poi pren­ de con la sinistra anche il cappello e il colletto, mette la destra nella tasca dei calzoni, va da Beibst e gli mette in mano qualcosa.

Ecco qua un tallero... Ma acqua in bocca! (At­ traversa in fretta il cortile e scavalca lo steccato. Esce. Intanto Beibst ha acceso la pipa con un altro fiammi­ fero, ritorna zoppicando sotto l’androne, si siede e ri­ prende a battere la falce. Di nuovo si sentono per un po’ soltanto i colpi monotoni del martelletto e i sospi­ ri del vecchio, interrotto da bestemmie quando vede che il lavoro non procede come vuole lui. Intanto il cielo si è fatto più chiaro.) loth (esce dalla casa, si stira, respira profondamen-

kahl

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te) L’aria della mattina! (Va lentamente verso il fondo fino all’androne. A Beibst) Buon giorno. Già svegli così presto? beibst (diffidente, sgarbato, alzando gli occhi) Buon giorno. (Breve pausa, poi senza tener conto della pre­ senza di Loth, come discorrendo con la falce che agita osservandola da una parte all’altra) Carogna sporca! Ti decidi a obbedire? Diavolo dell’inferno! (Conti­ nua ad affilare.) loth (si è seduto intanto sulle stive d’un erpice) Og­ gi è il giorno del fieno, vero? beibst (villano) I fessi falciano il fieno oggi. loth Eppure state affilando la falce... beibst (alla falce) Andiamo, brutta scema! (Breve pausa.) loth Vi dispiace dirmi perché volete che la falce sia così affilata, se oggi non è giornata di fieno? beibst Che non c’è bisogno di falce per tagliare il foraggio? loth Ho capito. Oggi dunque si tratta di tagliare il foraggio. beibst E che altro si dovrebbe tagliare? loth Lo fate tutte le mattine? beibst Volete forse che le bestie crepino di fame? loth Dovete avere un po’ di pazienza con me. Sono uno di città, noi non possiamo sapere i lavori della campagna. beibst Già, i cittadini... i cittadini la sanno più lun­ ga della gente di campagna, vero? loth Io no di certo. E potreste spiegarmi a che cosa serve questo attrezzo? Devo averlo già visto da qual­ che parte, ma non so neanche come si chiama... beibst Quello dove siete seduto? Noi lo chiamiamo erpice. loth Giusto. Lo adoperate anche voi qui?

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Purtroppo no. Lascia che tutto vada alla ma­ lora, il padrone, tutti i campi. I poveri diavoli vor­ rebbero avere un po’ di terra... in un’aiuola non cre­ sce il grano... Invece no, preferisce lasciare tutto in­ colto. Non cresce niente, non c’è che gramigna. loth Con questo la si può certo estirpare. So che an­ che gli Icarii usavano di questi erpici per nettare il terreno dissodato dalle erbacce. BEIBST Dove sono i Carii?... Quelli che dice lei... loth Gli Icarii? In America. BEIBST Come? Anche laggiù hanno di questi attrezzi? loth E come ! BEIBST Che popolo è quello dei Carii?... loth Gli Icarii? Non sono veramente un popolo; è gente di tutte le nazioni che si è unita; in America possiedono una bella estensione di terreno che colti­ vano insieme; dividono fra loro tutte le fatiche e tut­ to il guadagno in parti uguali. E nessuno è povero, fra loro non ci sono poveri. BEIBST (che ha assunto un’espressione più cortese, ri­ prende a queste parole il tono ostile e diffidente di prima; senza badare a Loth ritorna al suo lavoro, par­ lando alla falce) Carogna di una falce! loth (ancora seduto osserva il vecchio con un calmo sorriso e volge poi lo sguardo al giorno che sorge. At­ traverso l’androne si distinguono ora prati di trifoglio e campi tra i quali serpeggia un ruscello il cui corso è segnato da salici e ontani. All’orizzonte un monte conico isolato. Dappertutto hanno cominciato a trilla­ re le allodole che si odono ora vicine ora lontane. Loth si alza) Qui ci vuole una passeggiata, la matti­ na è troppo bella. (Esce attraversando l’androne. Si sente lo stacchettare di zoccoli di legno. Qualcuno scende in gran fretta la scala esterna della stalla: è Gusta.) BEIBST

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{una fantesca piuttosto grassa: semplice corpetto, braccia e polpacci nudi, zoccoli ai piedi. Reca una lan­ terna accesa) Buon giorno, babbo Beibst.

gusta

Beibst borbotta.

{riparandosi gli occhi segue Loth con lo sguar­ Chi è quello laggiù? beibst {seccato) Quello là prende in giro i poveri dia­ voli... Non fa che dir bugie come un parroco... Va’ da lui, te ne dice un sacco. {Si alza) Senti, figliola, prepara le carriole. gusta {dopo essersi lavata i polpacci alla fontana sta per entrare nella stalla delle mucche) Subito subito, babbo Beibst. loth {ritorna e dà a Beibst qualche monetò) Prendete, è una piccolezza. Ma il denaro fa sempre comodo. beibst {loquace, mutato, con sincera cordialità) Sì, sì, ha ragione... e tante e tante grazie. Lei è venuto a trovare il genero? {La lingua gli si scioglie) Stia a sentire : se vuole andare là fuori sul monte, dia retta, si tenga a sinistra, capisce? sempre a sinistra, a destra ci sono i crepacci. Mio figlio dice, dipende da questo, dice, che puntellano male, dice, i minatori, guada­ gnano troppo poco, dice, e allora fanno soltanto que­ sto : tanto mi dai, tanto ti do, nella miniera capisce ? Stia attento, sempre a sinistra, a destra ci sono le bu­ che. Un anno fa una donna che veniva a portare il burro è affondata nel terreno, non so neanche quante braccia è andata in fondo. E qui non lo sapeva nessu­ no... a sinistra, come ho detto, sempre a sinistra, e lì cammina sicuro. {Si ode uno sparo.)

GUSTA

do)

Beibst si riscuote e zoppicando fa qualche passo al­ l’aperto.

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Chi spara già a quest’ora? Chi vuole che sia? Un giovanotto, quel ragaz­ zaccio. loth Quale giovanotto ? BEIBST Eh, Guglielmo Kahl, il figlio del vicino... aspetta, aspetta me! Io l’ho visto, spara, Dio buono, alle allodole. loth Vedo che zoppicate. BEIBST Eh sì, purtroppo. {Alza il pugno minaccioso verso i campi) Aspetta, aspetta me!... loth Che vi siete fatto alla gamba? loth

beibst

BEIBST

Io?

Voi, sì. BEIBST È capitato così. loth Vi fa male? BEIBST {passando la mano sulla gamba) Tira qui, un male d’inferno. loth Non avete un medico? BEIBST Vede... i dottori sono tutti gaglioffi! Tranne il nostro che è un brav’uomo. loth Vi ha giovato? BEIBST Sì, un pochino forse sì. Mi ha strizzato, pe­ stato, premuto... capisce, ma non mi fa male per questo... il fatto è che vuol bene alla povera gente. Acquista lui le medicine e non vuole essere pagato. E viene in qualunque momento... loth Ma il male vi deve essere venuto in qualche modo. Avete zoppicato sempre? BEIBST Neanche per sogno. loth Allora non riesco a capire, ci deve pur essere la causa... BEIBST Che ne so io? {Alza di nuovo il pugno mi­ naccioso) Aspetta me! Con quella tua sparatoria. kahl {compare nel suo giardino. Con la destra tiene un fucile per la canna, ha la mano sinistra chiusa) loth

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Buon giorno, dottore! Loth attraversa il cortile e gli si avvicina. Intanto Gusta e un’altra fantesca di nome Lisa hanno pre­ parato due carriole mettendovi il rastrello e la forca del letame. Le spingono nel campo attraverso l’an­ drone passando davanti a Beibst che dopo aver lan­ ciato occhiate rabbiose a Kahl, accompagnandole con furtivi gesti di stizza, si mette la falce in spalla e se­ gue zoppicando le fantesche.

(đ Kahl) Buon giorno. Vuol vedere qualche cosa di bello? {Allunga il braccio col pugno chiuso al di sopra dello stec­ cato .) loth {da vicino) Che cosa tiene in mano? kahl Indovini! {Poi apre il pugnol) loth Come? È vero, dunque. Lei spara alle allodole! Ebbene, per questa malefatta, brutto fannullone, me­ riterebbe degli schiaffi, ha capito? {Gli volta le spal­ le e riattraversa il cortile seguendo Beibst e le ra­ gazze. Esce.) kahl {segue alcuni istanti Loth con lo sguardo sbalor­ dito, poi stringe il pugno) Carogna d’un dottore! {Si volta e scompare a destra. Per un po’ il cortile rimane desertol)

loth

kahl

Elena esce dalla casa in chiaro abito estivo, con un largo cappello da giardino. Si guarda in giro, fa qual­ che passo verso l’androne, si ferma e guarda fuori. Poi attraversa il cortile a destra e prende la strada che conduce alla locanda. Allo steccato sono appesi ad asciugare grossi involti di erbe diverse: passando vicino le annusa. Abbassa anche qualche ramo degli alberi da frutto e osserva le mele dalla buccia rossa.

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Quando nota che Loth le viene incontro dalla lo­ canda è presa da una grande inquietudine finché si volta e ritorna nel cortile precedendo Loth. Si ac­ corge che la piccionaia è ancora chiusa e vi si avvia dalla porticina del frutteto. Mentre sta per tirare la fune che il vento ha allacciato a un ostacolo, è rag­ giunta da Loth che le rivolge la parola.

Buon giorno, signorina. Buon giorno. Il vento ha spinto lassù la fune. loth Permette? (Entra dalla porticina, abbassa la fune e apre la piccionaia. 1 colombi escono a voloi) Elena Mille grazie. loth (esce dalla porticina, ma rimane fuori dello stec­ cato e vi si appoggia, mentre Elena è dentro. Breve pausa.) Signorina, si alza sempre così presto? elena Esattamente... quello che volevo chiedere a lei. loth Io? No, no. Ma mi capita di solito dopo la pri­ ma notte in una casa estranea. elena E perché mai? loth Non vi ho mai pensato, mi sembra inutile. elena Perché è inutile? loth Per lo meno non ci vedo uno scopo pratico. elena Sicché quando lei fa o pensa una cosa ci deve essere uno scopo pratico? loth Precisamente. D’altra parte... elena Di lei non l’avrei creduto. loth Che cosa, signorina? elena È proprio quello che mi disse l’altro giorno la mia matrigna strappandomi di mano il Werther. loth Quello è un libro sciocco. elena Non lo dica! loth Lo ripeto, signorina : è un libro per anime de­ boli. elena Questo... potrebbe anche darsi. loth

Elena

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Come mai ha preso proprio quel libro? Lei rie­ sce a capirlo? Elena Spero di sì... almeno in parte sì. Si è così cal­ mi quando lo si legge. (Dopo una pausa.) Se è un libro sciocco come dice lei, potrebbe suggerirmi qual­ che cosa di meglio? LOTH Legga... legga... conosce La lotta per Roma di Felix Dahn? ELENA No. Ma lo acquisterò. Ha uno scopo pratico? loth Uno scopo intelligente, senza dubbio. Descrive gli uomini non come sono, ma come dovranno essere un giorno. Presenta dei modelli. ELENA (convinta) Una bella cosa. (Breve pausa.) Lei potrebbe darmi forse un’informazione : nei giornali si parla tanto di Zola e Ibsen. Sono grandi scrittori? loth Signorina, quelli non sono affatto scrittori, sono mali necessari. Io sono onestamente assetato e chiedo agli scrittori un sorso limpido, rinfrescante. Non sono malato io. Zola e Ibsen offrono bevande medicinali. ELENA (quasi istintivamente) Allora potrebbe essere ro­ ba per me. loth (intento a guardare prima in parte, ora esclusivamente il frutteto rugiadoso) Che bellezza qui!... Ve­ de il sole che sorge dalla cima del monte. Quante mele in questo frutteto! Ci sarà un bel raccolto. ELENA Anche quest’anno ce ne ruberanno tre quarti. C’è molta miseria qui intorno. loth Lei non immagina quanto bene voglio alla cam­ pagna. Purtroppo il mio grano cresce per lo più in città. Ma ora me la voglio godere, la vita agreste. Noi più di qualunque altro abbiamo bisogno di un po’ di sole, di aria fresca. ELENA (con un sospiro) Più di altri... perché? loth Perché si vive in una dura battaglia della quale non si vedrà la fine. loth

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E noialtri non ci troviamo forse nella stessa battaglia ? loth No. ELENA Ma... dentro a una battaglia... ci stiamo anche noi ! loth Naturalmente. Ma la vostra può finire. Elena Può. Ha ragione. E perché non può finire... quella che combatte lei, signor Loth? loth La vostra battaglia si combatte soltanto per il benessere personale. Che il singolo può raggiungere, per quanto sia umanamente possibile. La mia invece è una battaglia per la felicità di tutti. Per poter es­ sere felice bisognerebbe che prima lo fossero tutti gli altri; intorno a me non dovrei vedere né malattie né povertà, né schiavitù né volgarità. Io dovrei, diciamo così, sedermi a tavola per ultimo. ELENA {convinta) Allora lei è un uomo molto, molto buono. loth {un po’ perplesso) Non c’è nessun merito, si­ gnorina, questa è la mia indole. Devo aggiungere però che la lotta per il progresso mi reca grande soddi­ sfazione, una specie di felicità che stimo molto più di quella della quale si accontenta il volgare egoista... ELENA Ci devono essere però pochissimi uomini dotati di questo carattere. Certo è una grande fortuna nascere con tali disposizioni. loth Non credo che si nasca così. Vi si arriva, mi sembra, attraverso le storture delle nostre condizioni; bisogna però avere la sensibilità che occorre per no­ tare le storture. Ecco il punto. Avendola e soffrendo coscientemente a causa delle condizioni' sbagliate si di­ venta necessariamente uomini come me. plena Potessi almeno capire meglio... quali condizio­ ni, per esempio, sono sbagliate, secondo lei? loth Sbagliato è per esempio che chi lavora col su-

plena

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dore della fronte debba patir la fame, mentre il fan­ nullone ha il diritto di scialare. Sbagliato è punire l’assassinio in tempo di pace e premiarlo in guerra. Sbagliato è disprezzare il boia e, come fanno i sol­ dati, andare in giro orgogliosi con uno strumento che come la spada o la sciabola serve ad ammazzare il prossimo. Se il carnefice andasse in giro con la man­ naia lo si lapiderebbe, senza dubbio. Sbagliato è con­ siderare religione di stato la fede in Cristo, questa religione del perdono, della tolleranza, dell’amore, e contemporaneamente istruire popoli interi a uccidere. Queste sono alcune storture tremende, deve sapere, e costa fatica passarvi in mezzo; si deve cominciare assai presto. Elena Come ha fatto a concepire queste idee? Sono così semplici, eppure non ci si arriva. loth Io ci sarò arrivato probabilmente attraverso il mio processo di evoluzione, attraverso conversazioni con amici, con le letture, con le mie riflessioni. La prima stortura la scoprii da bambino. Una volta dissi una solenne bugia e perciò mio padre mi caricò di botte; poco dopo feci con lui un viaggio in treno e mi accorsi che anche mio padre mentiva, e gli sem­ brava cosa ovvia; avevo allora cinque anni e mio padre disse al controllore che non avevo ancora com­ piuto i quattro, per non pagare il biglietto. Un’altra volta mi sentii dire dal maestro : sii diligente, fa’ il bravo e vedrai che senza dubbio tutto ti andrà bene nella vita. Il brav’uomo ci insegnava una stortura della quale mi resi conto poco dopo. Mio padre in­ fatti era bravo, onesto, leale, e un mascalzone che è ancora vivo e molto ricco gli truffò le sue poche mi­ gliaia di talleri. Da quel medesimo mascalzone, che possedeva una grande fabbrica di saponi, mio padre spinto dal bisogno dovette persino impiegarsi.

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Elena Noialtri non osiamo nemmeno... non abbiamo il coraggio di prendere un fatto simile per stortura, se mai lo sentiamo dentro di noi... e allora ci pren­ de la disperazione. loth Ricordo una stortura che mi colpì con partico­ lare evidenza. Fino allora credevo che l’omicidio fos­ se un delitto punito in ogni caso; in seguito invece mi accorsi che soltanto le forme più moderate del­ l’omicidio sono perseguite dalla legge. ELENA

Come sarebbe a dire?

Ecco; mio padre era caporeparto, abitavamo ac­ canto al saponificio, le nostre finestre davano sul cor­ tile della fabbrica. Laggiù vidi parecchie cose : c’era un operaio che vi aveva lavorato da cinque anni, poi cominciò a tossire e a dimagrire... Ricordo ancora le parole di mio padre : « Burmeister » (così si chia­ mava l’operaio) « avrà la tisi polmonare se continua a lavorare nel saponificio. Gliel’ha detto il dottore ». Quell’uomo aveva otto figli e, consunto com’era, non riuscì a trovare lavoro altrove. Dovette quindi rima­ nere nella fabbrica, e il principale si dava arie da benefattore perché non lo mandava via. Pensava di essere chissà quanto umano. Un pomeriggio, era d’a­ gosto, un caldo terribile, ed egli si affannava a tra­ scinare un carretto di calce attraverso il cortile. Io stavo alla finestra e a un tratto mi accorsi che si era fermato... Poi si fermò un’altra volta e infine cadde lungo disteso sul selciato. Accorsi, accorse mio padre, arrivarono altri operai, ma quello rantolava e aveva la bocca piena di sangue. Io diedi una mano a por­ tarlo in casa. Era un mucchio di cenci sporchi di calce, e puzzavano di non so quanti prodotti chimici. Prima che potessimo stenderlo sul letto era morto. Elena Spaventevole! loth Non era passato una settimana e ci trovammo a

loth

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pescare sua moglie dal fiume nel quale si scaricava la lisciva usata nella fabbrica. Vede, signorina, quan­ do si sanno queste cose, come le so io oggi, mi cre­ da, uno non trova più pace. Basta un pezzo di sa­ pone che non dà da pensare a nessuno, anzi bastano due mani ben pulite e curate per mettere uno di pes­ simo umore. ELENA Anch’io ho visto una volta una cosa simile. Oh, spaventoso! loth Che cos’era? ELENA Ci portarono qui in casa mezzo morto il figlio di un lavorante. Sarà stato... tre anni fa. loth Un infortunio ? Elena Sì, laggiù nella « galleria dell’orso ». loth Un minatore dunque? ELENA Sì, la maggior parte dei nostri giovani lavora nella miniera. Un altro figlio di quello stesso padre trainava i carrelli e anche lui è rimasto vittima di un infortunio. loth Morti tutti e due? ELENA Morti. La prima volta si era strappato un cavo; la seconda è stato il grisù. Ma il vecchio Beibst ha anche un terzo figlio che va in miniera da questa Pasqua. loth Possibile? E lui non ha nulla in contrario? ELENA No, nulla. Soltanto che ora è più brontolone di prima. Lei lo ha già visto. LOTH Io? ELENA Sì, questa mattina era seduto vicino a lei sotto l’androne. LOTH Ah, quello? E lavora qui nella fattoria? ELENA Sì, già da anni. LOTH Quello che zoppica? ELENA E parecchio anche. LOTH Vedo. Che cosa si è fatto a quella gamba?

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È una storia scabrosa. Lei conosce il signor Kahl? Adesso però bisogna che le venga molto vi­ cino. Deve sapere che suo padre andava matto per la caccia, proprio come lui. Sparava dietro alle spal­ le dei giovani operai che arrivavano nella fattoria, in aria s’intende, per spaventarli. Era anche molto ira­ scibile, deve sapere, specie quando aveva bevuto. Una volta Beibst deve aver borbottato (brontola spesso e volentieri) e allora il contadino si trovò il fucile sot­ tomano e gli sparò addosso. Beibst faceva allora il cocchiere del vicino Kahl. loth Delitti su delitti, dovunque si guardi. ELENA {sempre più incerta e agitata) Anch’io ho pen­ sato così qualche volta... tutti mi facevano pena : il vecchio Beibst e... quando i contadini sono sciocchi e villani come il... come Streckmann che... fa patire la fame ai suoi servi e compra i dolci dal pasticciere per i suoi cani. Sono come istupidita da quando sono ritornata dal collegio... Porto anch’io la mia croce... Ma sto dicendo sciocchezze... non possono importare a lei... Certamente se la ride di me. loth Ma, signorina, come può... perché dovrei...? Elena Forse che no? Lei penserà: questa non è certo migliore delle altre. loth Signorina, io non penso male di nessuno. ELENA Non me la dia a intendere... loth Andiamo, signorina, le ho forse dato motivo... ELENA {sul punto di piangere) Non dica così! Lei ci disprezza, certamente... deve disprezzarci... Insieme con mio cognato, e con me. Me soprattutto e ne ha... ne ha tutte le ragioni.

ELENA

Volta le spalle a Loth e non riuscendo a dominare la sua agitazione attraversa il frutteto ed esce dal fon­ do. Loth entra nella porticina e lentamente la segue.

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(z« pomposa veste da mattina, rossa come un peperone, esce dalla casa gridando) Male­ dette femmine! Maria, Mariiia! Sotto il mio tetto! Bisogna che la cacci via! (Attraversa il cortile di corsa ed entra nella stalla. La signora Spiller con un lavoro all’uncinetto compare sulla soglia di casa. Dal­ la stalla si sente gridare e sacrare. La Krause spin­ gendo davanti a sé la serva che piange esce dalla stal­ la) Brutta sgualdrina! (La serva singhiozza.) Via di qua, sui due piedi! Raccogli le tue carabattole e vat­ tene!

signora krause

Elena con gli occhi arrossati arriva dall’androne e si ferma ad osservare la scena.

(vede la Spiller, butta via lo sgabello e il ma­ stello del latte e le va incontro furibonda) Questa la devo a lei! Ma gliela farò pagare cara! (Fugge singhiozzando e corre sulla scala. Esce.) ELENA (avvicinandosi alla signora Krause) Che cosa ha fatto di male? signora krause (villana) Che te ne importa? Scema! ELENA (con forza, quasi piangendo) Sì che m’importa. SPILLER (accorrendo) Signorina, non sono cose per le orecchie di una fanciulla come... signora krause Oh figuriamoci, Spiller! Non è mica fatta di marzapane. A letto è andata, col capoccia! Adesso lo sai. ELENA (in tono imperativo) Ma la serva rimane qui. SIGNORA KRAUSE Chi comanda qui? Elena Bene. Allora vado a dire al papà che anche tu passi le notti così, con Guglielmo Kahl. signora krause (le allunga uno schiaffo) Questo per ricordo ! ELENA (pallida come una morta, ma sempre più risomaria

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luta) La serva rimane qui, ti dico, altrimenti... lo vado a dire a tutti! Tu con Guglielmo! Un tuo pa­ rente... il mio fidanzato... Lo dico a tutti. signora krause (titubante) Chi avrà il coraggio di dirlo ? ELENA Io! Perché stamattina l’ho visto uscire dalla tua camera... (Entra subito in casal) La signora Krause, barcollante, sta per svenire. La Spiller accorre con la boccetta dei sali.

Spiller

Signora, signora! Spiller, la ragazza... rimane qui.

SIGNORA KRAUSE

Atto Terzo

Pochi minuti dopo l’incidente tra Elena e la matrigna nel cortile. La scena è quella del primo atto. Il dottor Schimmelpfennig sta scrivendo una ricetta seduto al­ la tavola a sinistra, davanti, dove ha posato il cap­ pello a cencio, i guanti di filo e il bastone. È piccolo di statura, tarchiato, ha i capelli crespi e i baffi piut­ tosto folti. Giacca nera del taglio usato normalmente dai cacciatori. Ë vestito bene ma senza eleganza. Ha l'abitudine di lisciarsi o arricciare quasi continuamente ì baffi, più che mai quando si agita. Quando parla con Hoffmann si sforza di star calmo e ha agli an­ goli della bocca un tratto sarcastico. I suoi gesti sono vivaci, sicuri, scattanti, con naturalezza. Hoffmann passeggia in veste da camera di seta e pantofole. La tavola a destra è apparecchiata per la colazione: por­ cellana fine, panini, ampolla del rum eccetera.

Hoffmann glie?

Dottore, è contento dell’aspetto di mia mo­

L’aspetto è ottimo, perché no? Crede che tutto andrà bene? dottore Lo spero. Hoffmann (dopo una pausa, titubante) Vede, dotto­ re, mi sono proposto... già da qualche settimana... che venendo qua le avrei chiesto un consiglio per una cosa che mi sta a cuore.

dottore

Hoffmann

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(che fino a questo momento ha risposto scri­ vendo, depone la penna, si alza e consegna a Hoff­ mann la ricetta che ha scritto) Ecco qua! La faccia fare subito, (Prende cappello, guanti e bastone) Sua moglie si lamenta di mal di capo. (Guarda nel cap­ pello e dice in tono professionale) A questo propo­ sito, cerchi di far capire a sua moglie che ha una sua responsabilità verso la creatura che arriva, gliene ho già parlato anch’io... intorno alle conseguenze di stringersi troppo il busto. hoffmann Senz’altro, dottore... farò certamente tutto il possibile... dottore (con un inchino un po’ goffo) Arrivederla. (Si avvia, poi si ferma) Ah già, lei voleva chiedermi un consiglio. (Guarda Hoffmann con una certa fred­ dezza} hoffmann Sì, se ha ancora un momento di tempo... (Non senza affettazione) Lei sa quale fine terribile ha fatto il mio primo bambino. Lei era vicino e ha visto. E sa anche le mie condizioni di spirito di al­ lora. Pare impossibile, ma è proprio vero che il tem­ po riesce a mitigare... Infine ho persino motivo di essere grato; a quanto pare, sta per avverarsi il mio più grande desiderio. Capirà che devo fare tutto quan­ to mi è possibile... Mi è costato abbastanza notti in­ sonni, eppure non so, non so ancora, come fare per preservare la creatura non ancora nata dalla tremen­ da sorte del suo fratellino. E appunto perciò io le vorrei... dottore (secco e professionale) Separarlo dalla ma­ dre, condizione fondamentale di un prospero svi­ luppo. Hoffmann Proprio? Separazione decisa, vero? Non dovrà neanche stare nella stessa casa... dottore No. Se vuole seriamente che il bambino si

dottore

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salvi. La sua ricchezza le consente ogni libertà a que­ sto riguardo. hoffmann Sì, grazie al Cielo. Ho già affittato nei pres­ si di Hirschberg una villa con un gran parco. E de­ sideravo che anche mia moglie... dottore (λ arriccia i baffi e guarda per terra rifletten­ do) Compri per sua moglie una villa da qualche altra parte...

Hoffmann si stringe nelle spalle. (come sopra) Non potrebbe... affidare il com­ pito di allevare il bambino... a sua cognata? Hoffmann Sapesse, dottore, quanti impedimenti... e poi, una ragazza così inesperta... la mamma è sempre la mamma. dottore Lei ha sentito la mia opinione. Arrivederla. Hoffmann (gli scodinzola intorno con esagerata corte­ sia) Arrivederla, dottore. Le sono molto, molto gra­ to... (Escono entrambi dalla porta di mezzoi) dottore

Elena premendosi il fazzoletto sulle labbra, singhioz­ zando, fuori di sé, entra e si butta sul divano a sini­ stra. Dopo pochi istanti entra Hoffmann con in mano un fascio di giornali. Hoffmann Cosa succede?... Di’ un po’, cognata, la ha da durare ancora tanto? Dacché son qui non passa giorno senza che ti veda piangere. plena Ah, che ne sai tu? Se fossi capace di capire, ti stupiresti piuttosto quando non piango. Hoffmann Questa non la capisco. plena Capisco io. Hoffmann Deve essere successo di nuovo qualche cosa.

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(Si alza di scatto e batte un piede per terra) Vergogna!... Non ne posso più... E ora di finirla. Non sono disposta a sopportare. Non vedo perché... perché io... (soffoca dal pianto.) HOFFMANN Mi vuoi fare il piacere di dirmi di che cosa si tratta, affinché... ELENA (prorompendo di nuovo) Non m’importa nul­ la. Peggio di così non può andare... Con un padre beone, una bestia... dalla quale nemmeno sua figlia è al sicuro. Una matrigna adultera che vorrebbe le­ garmi al suo ganzo... tutta questa vita, no, no! Non vedo chi mi possa costringere a diventare cattiva a tutti i costi. Vado via, vado via!... E se non mi la­ sciate andare... Una corda, un coltello, una pistola! È indifferente... Non voglio ricorrere anch’io all’ac­ quavite come mia sorella. hoffmann (spaventato, la prende per un braccio) Le­ na... sta’ zitta!... Taci! Non parlarne! elena Tutto mi è indifferente... Non importa... C’è da sprofondare sotto terra dalla vergogna. Vorrei sa­ pere, essere qualcuno, poter essere... e che cosa sono ora? HOFFMANN (trattiene ancora il braccio e la spinge a poco a poco verso il divano. La sua voce rivela a un tratto una dolcezza molle, esagerata, quasi vibran­ te) Lenuccia... so benissimo quante ne devi soppor­ tare qui. Ma sta’ calma... Non è necessario che tu me lo dica. (Carezzevole, le pone la testa sulla spalla e avvicina il viso a quello di lei) Non posso vederti piangere, credimi, mi fa male. Ma non vedere il mondo più nero di quanto non sia... E poi : hai di­ menticato che noi due, tu e io, ci troviamo per così dire nelle stesse condizioni? Io sono capitato in que­ sta atmosfera paesana... È forse per me un luogo adat­ to? Così poco come per te, spero. ELENA

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{ancora piangendo) Se la mia... mammina... l’avesse immaginato quando... quando decise di man­ darmi a scuola... a Herrnhut. Meglio era se... mi la­ sciava a casa, allora, almeno... almeno non avrei co­ nosciuto un mondo diverso... Sarei cresciuta qui, in questo fango. Così invece... Hoffmann {ha costretto dolcemente Elena a sedersi sul divano e anche lui si siede stringendosi addosso a lei. Le sue parole di conforto rivelano sempre più chiaramente una tonalità sensuale) Lenuccia, guar­ dami, lascia perdere, consolati con me. Inutile che io ti parli di tua sorella. (Co» calore e fervore, strin­ gendola) Oh, fosse come te!... Invece... Dillo tu, che cosa può essere per me? Esiste un uomo al mondo, Lenuccia, un uomo colto {abbassando la voce) che ab­ bia come me una moglie presa da questa sciagurata passione? Non si può neanche dirlo forte. Donna e... acquavite! Ti pare che io stia meglio?... Pensa al mio piccolo Fritz. La mia sorte è forse migliore?... {Infervorandosi) Eppure, vedi, il destino ha finito col volermi bene. Ci ha fatti incontrare. Noi siamo fatti l’uno per l’altro. Era destino che diventassimo amici, con le nostre sofferenze uguali. Vero, Lenuccia? ELENA

La abbraccia. Lei lascia fare, ma facendo capire che si fa forza per sopportare. Tace e pare stia aspettando qualcosa con tremore, una certezza, un evento che sì avvicina immancabilmente. {con tenerezza) Dovresti accogliere la mia proposta, abbandonare questa casa, vivere con noi. La creatura che viene avrà bisogno di una mamma. Vie­ ni! Falle tu da mamma {appassionato, commosso, sentimentale) altrimenti sarà senza madre. E poi : por­ ta un poco, un pochino soltanto, di luce nella mia

hoffmann

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vita. Fallo, fallo! (Sta per appoggiarle la testa sul seno. Lei si alza indignata. Il suo viso esprime di­ sprezzo, sorpresa, odio, nauseai} ELENA Cognato, tu sei, sei un... Ora ti ho conosciuto a fondo. Finora ne avevo soltanto un vago presenti­ mento. Adesso ho la certezza. hoffmann (sorpreso, sconcertato) Che dici? Elena... unicamente, sul serio... ELENA Ora so con certezza che non sei per nulla mi­ gliore degli altri. Che dico? Peggiore sei, il peggiore di tutti qua dentro. Hoffmann (si alza; con freddezza) Oggi il tuo com­ portamento è veramente strano. Elena (gli va vicino) Tu hai uno scopo solo. (Al­ l’orecchio, con voce sommessa) Ma tu possiedi armi ben diverse da quelle di mio padre e della matrigna e l’onorato signor fidanzato. Di fronte a te sono agnel­ li, tutti, ecco ciò che vedo finalmente chiaro come il sole. Hoffmann (fingendo indignazione) Lena, tu non hai... non hai il cervello a posto. Tu vaneggi... (S'inter­ rompe e si batte la fronte) Dio buono ! Adesso mi viene in mente... ma certo... È ancora presto, questa mattina, ma scommetto che... Elena, questa mattina hai già parlato con Alfredo Loth. Elena Perché non dovrei avergli parlato? È un uomo di fronte al quale dovremmo nasconderci tutti per la vergogna, se le cose andassero come dovrebbero an­ dare. Hoffmann Dunque è vero!... Già, già, certo... capi­ sco... non è il caso di stupirsi. Ha approfittato del­ l'occasione per tagliare i panni addosso al suo bene­ fattore. Queste cose bisognerebbe sempre aspettarsele, si capisce. Elena Cognato! Questa la chiamerei una bassezza.

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Sembra anche a me. Non una parola, di te non ha detto neanche una parola. hoffmann (senza darle retta) Se le cose stanno così è addirittura mio dovere, mio dovere, ripeto, come parente, davanti a una ragazza inesperta come te... ELENA Ragazza inesperta? Sei un bel tipo. hoffmann (zzz collera) Loth è venuto qui in casa sot­ to la mia responsabilità. Ora devi sapere che è, a dir poco, un sognatore pericolosissimo, questo signor Loth. ELENA Che tu lo dica mi sembra quasi... una stortu­ ra... una stortura ridicola. hoffmann Un esaltato che ha il dono di far girare la testa non solo alle donne, ma anche alla gente ra­ gionevole. elena Ecco, vedi, un’altra stortura! Dopo le poche parole che ho scambiate col signor Loth, mi par di avere la testa più limpida... un vero benessere. HOFFMANN (zzz tono di rimprovero) Quel che ti sto dicendo non è niente affatto una stortura. ELENA Bisogna avere if senso delle cose storte. E tu non ce l’hai. hoffmann (come sopra) Non stiamo parlando di que­ sto. Ti dichiaro ancora una volta che non dico cose fuori di posto, ma un fatto che ti prego di prendere in considerazione. È un’esperienza che ho fatto an­ ch’io... Confonde le idee e si finisce col fantasticare di libertà e uguaglianza, di popoli fratelli, si passa oltre ai costumi e alla morale... Per amore di que­ ste fantasie saremmo passati allora sul corpo dei no­ stri genitori, per arrivare alla meta. E ti assicuro che se fosse necessario lo faremmo anche oggi. elena Chissà quanti genitori passerebbero ogni anno sul corpo dei loro figli senza che nessuno... hoffmann ELENA

2.

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(interrompendola) È assurdo! Dove si va a finire?... Ti avverto, guardati da lui in tutti... ri­ peto, in tutti i casi. Non vi è traccia di scrupoli morali. ELENA Anche questo è fuori di luogo. Credi a me, co­ gnato, appena si comincia a farci caso... È quanto mai interessante... hoffmann Di' quello che vuoi, ora ti ho avvertita. Ti dirò soltanto in confidenza : è mancato un pelo che allora, con lui e per lui, mi mettessi in un brutto impiccio. ELENA Se costui è così pericoloso, perché ieri sei stato così contento, sinceramente, quando tutti... hoffmann Mio Dio, un conoscente di quando erava­ mo ragazzi ! Puoi sapere tu se non ci siano state de­ terminate ragioni... Elena Ragioni? Come mai? hoffmann Così. Certo che se venisse oggi e io sa­ pessi ciò che so ora... elena Che cosa sai adesso? Ti ho già detto che non ha pronunciato neanche una parola sul tuo conto. Hoffmann Sta’ pur sicura, ci avrei pensato due volte e probabilmente mi sarei guardato bene dal tratte­ nerlo qui. Chi pratica Loth si compromette. Le au­ torità lo tengono d’occhio. elena Ha commesso forse qualche delitto? Hoffmann Senti, sarà meglio non parlarne. Acconten­ tati, cara cognata, di quanto affermo : andare in giro per il mondo con le idee che ha, oggi è molto peg­ gio e soprattutto assai più pericoloso che rubare. elena Ne prendo nota. Adesso però, cognato... mi ascolti? non chiedermi come, dopo ciò che hai detto del signor Loth, io la pensi sul conto tuo. Hai ca­ pito? Hoffmann (freddo, cinico) E credi davvero che m’irn-

HOFFMANN

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porti molto di saperlo? (Preme il bottone del cam­ panello') Mi pare di sentirlo venire. (Entra Loth.) E allora? Hai dormito bene, amico mio? LOTH Bene, ma non molto. Dimmi una cosa: poco fa ho visto uscire una persona da casa tua, un uomo. hoffmann Probabilmente il dottore, era qui poco fa. Te ne ho parlato... Quello strano misto di purezza e sentimentalismo. Elena prende accordi con Edoardo che è appena en­ trato. Questi esce e poco dopo rientra per servire il tè e il caffè.

Quel misto, come tu dici, assomigliava moltis­ simo a un vecchio compagno d’università : avrei giu­ rato che è lui, un certo Schimmelpfennig. Hoffmann (sedendosi a tavola) Sì, è giusto : Schim­ melpfennig. loth Che cosa è giusto? Hoffmann Si chiama veramente Schimmelpfennig. loth Allora... ma è proprio strano! deve essere lui. Hoffmann Come vedi, le anime buone si ritrovano, per terra e per mare. Non avertene a male, se co­ mincio : stavamo appunto per far colazione. Vieni, accomodati. Non avrai mica fatto colazione altrove? loth No. hoffmann Avanti allora. (Stando seduto porge una sedia a Loth. Poi a Edoardo che arriva col tè e col caffè) Di' un po’... La signora suocera non viene? Edoardo La padrona e la signora Spiller fanno co­ lazione in camera. Hoffmann Ma se non è mai... plena (servendo) Lascia correre! C’è la sua ragione. Hoffmann Vedo... Loth, serviti... Un uovo? Il tè? loth Potrei avere piuttosto un bicchiere di latte? loth

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Con molto piacere! Edoardo, dica a Mila che vada a mungere! hoffmann (sgusciando un uovo) Latte? Brrr! mi ven­ gono i brividi. (Prendendo sale e pepe) Dimmi, Loth, quale vento ti porta dalle nostre parti? Finora non te l’ho nemmeno chiesto. loth (spalmando di burro un panino) Vorrei studia­ re le condizioni di qui. hoffmann (con un’occhiata) Come?... Quali condi­ zioni ? loth Per essere più preciso : voglio studiare le condi­ zioni dei minatori di qui. hoffmann In complesso si può dire che sono ottime. loth Credi? Sarebbe certo una bellissima cosa... Ma ora mi viene in mente : tu mi dovresti fare un pia­ cere. Potresti renderti benemerito dell’economia se... hoffmann Io ? Perché? loth Lo sfruttamento di queste miniere non è forse nelle tue mani? hoffmann Sì. E per questo? loth Allora ti sarà anche facile procurarmi il per­ messo di visitare le miniere. Voglio dire, per alme­ no quattro settimane vorrei entrarvi tutti i giorni per conoscerne un poco il funzionamento. hoffmann (senza dar peso) E pensi poi di scrivere ciò che vedrai laggiù? loth Appunto. Il mio vuol essere un lavoro soprat­ tutto descrittivo. hoffmann Mi dispiace davvero, ma io non c’entro per nulla. Vorresti scrivere sul conto dei minatori, non è vero? loth Dalla tua domanda si vede che non sei eco­ nomista. hoffmann (offeso nella sua albagia) Chiedo scusa. Mi crederai, spero, capace... Perché? Non vedo perhoffmann ELENA

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che non ti debba porre questa domanda. E poi, non c’è da stupirsi... Non si può saper tutto. loth Via, calmati! Volevo dire: se intendo studiare le condizioni di questi minatori, è indispensabile trattare anche di tutte le loro cause. Hoffmann Gli scritti di questo genere accolgono tal­ volta esagerazioni enormi. loth Spero di non cadere in questo errore. hoffmann Sarà una bella cosa. {Già più volte e an­ che adesso ha sfiorato con un’occhiata breve e inda­ gatrice Elena che con ingenua devozione pende dalle labbra di Loth, e prosegue) Però... vien da ridere se si pensa che certe idee vengano in mente all'improvviso. Chissà come funziona il cervello? loth Che cosa ti è venuto in mente così all’improv­ viso? Hoffmann Una cosa che riguarda te. Ho pensato al tuo fi... No, no, sarebbe una mancanza di tatto par­ lare dei tuoi segreti amorosi davanti a una giovane. elena In questo caso posso anche... loth Ma no, signorina, resti pure, almeno per quan­ to mi riguarda. Ho notato da un pezzo dove va a parare. Non c’è niente di pericoloso. (A Hoffmann) Il mio fidanzamento, vuoi dire? Hoffmann Se lo dici tu... pensavo infatti al tuo fidan­ zamento con Anna Faber. loth Andato a monte... Quando dovetti andare in pri­ gione. Hoffmann Poco bello, però, da parte della tua... loth Però è stata onesta. La sua lettera di congedo me la presentò col suo vero aspetto. Se me l’avesse mo­ strato prima, poteva risparmiare parecchi disagi a se stessa e anche a me. Hoffmann E in seguito non hai agganciato il cuore a qualcun’altra?

306 LOTH

PRIMA DEL LEVAR DEL SOLE No.

Hoffmann Evidente. Il manico dietro alla scure. Hai giurato di non prender moglie, come di evitare le bevande alcooliche. È andata così ? Però, i gusti son gusti. loth Non direi che sia cattivo gusto, ma forse è un mio destino. Credo di averti già detto che in quanto a sposarmi non ho fatto nessuna rinuncia, temo sol­ tanto che non si trovi una donna adatta per me. Hoffmann Che paroioni, caro Loth... LOTH Dico sul serio. Può darsi che con gli anni si di­ venti troppo critici e venga a mancare il sano istin­ to che secondo me è la migliore garanzia di una buo­ na scelta. hoffmann (frivolo) Un giorno poi lo si ritrova, (ri­ dendo) l’istinto cioè. loth In fin dei conti che cosa posso offrire a una don­ na? Mi domando se mi sia lecito pretendere che si accontenti di una piccola parte della mia personalità, quella che rimane al di là della mia missione... E poi temo anche le responsabilità della famiglia. Hoffmann Come? Responsabilità della famiglia? Di’, non hai la testa, due braccia? loth Come vedi. Ma ti dicevo che le mie energie ap­ partengono per la massima parte al mio compito e gli apparterranno anche in avvenire, dunque non sono più mie. Oltre a ciò dovrei lottare con speciali difficoltà... HOFFMANN

Bum !

Credi che siano soltanto frasi? hoffmann Sinceramente così mi pareva. Infine noialtri non siamo selvaggi, benché ammogliati. Certuni si danno l’aria di avere il privilegio di tutte le buone azioni che ci sono da svolgere nel mondo. loth (con impeto) Niente affatto. Non ci penso nem­ meno. Se hai abbandonato la missione della tua vita, loth

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lo si deve anche alle tue fortunate condizioni mate­ riali. Hoffmann (ironico) Anche questo sarebbe dunque uno dei tuoi postulati. loth Come? Postulati? Hoffmann Voglio dire che per sposarti guarderesti an­ che ai quattrini? loth Certamente. hoffmann E poi, siccome ti conosco, ci sarebbe an­ che una grossa matassa di altre esigenze. loth Ci sono. Condizione indispensabile sarebbe per esempio la salute fisica e intellettuale della sposa. Hoffmann (ridendo) Benissimo. Ci vorrà quindi una preliminare visita medica della fidanzata. Dio bonino! loth (sempre serio) Devi pensare che pongo esigenze anche a me stesso. hoffmann (sempre più allegro) Lo so, lo so!... Quan­ do consultavi gli scritti sull’amore per scoprire co­ scientemente se ciò che sentivi allora per qualche ra­ gazza fosse veramente amore. Be’, sentiamo ancora qualche altra tua esigenza. loth Mia moglie, per esempio, dovrebbe saper rinun­ ciare. elena Se... se... ma farei meglio a tacere... volevo dire soltanto che in complesso la donna è avvezza alle ri­ nunce. loth Per carità, lei mi fraintende. Non intendo cosi io la rinuncia. Esigo la rinuncia solo in quanto, o meglio solo a quella parte di me che appartiene alla mia missione; solo a questa dovrebbe rinunciare vo­ lontariamente e con gioia. Per il resto mia moglie pretenda pure quello che vuole... tutto ciò che il suo sesso ha perduto nel corso dei secoli. Hoffmann Ahi! Ahi! Siamo all’emancipazione delle donne! Bravo! la tua conversione è stata ammirevole.

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Adesso navighi nel tuo elemento. Alfredo Loth, ossia l’agitatore nel taschino... E come formuleresti i tuoi postulati, o meglio fino a qual punto dovrebbe essere emancipata tua moglie? È divertente ascoltarti: do­ vrebbe fumare il sigaro, portare i calzoni ? loth Non direi questo... Dovrebbe però superare certi pregiudizi sociali. Non dovrebbe per esempio rifug­ gire, qualora mi volesse veramente bene, dal fare an­ zitutto la nota confessione. hoffmann (Ad finito dì far colazione, si alza con indi­ gnazione tra seria e allegra) Senti, questo... questa è un’esigenza che direi spudorata, che - faccio il pro­ feta - porterai con te fino alla morte, qualora tu non preferisca abbandonarla. elena (dominando con fatica la propria agitazione) Ora, signori, vi prego di scusarmi... Le faccende... Tu sai, cognato, che la mamma è nel salotto, e io... hoffmann Non fare complimenti. Elena fa un inchino e esce.

Hoffmann (con in mano la scatola dei fammiferi va a prendere i sigari sulla credenza) Dev'essere vero... Tu fai montare in collera... C’è da aver paura. (Pren­ de un sigaro e si siede sul divano. Taglia la punta del sigaro e mentre parla tiene il sigaro con la sinistra, la punta tagliata tra le dita della destra) Eppure... mi diverte. Non puoi immaginare quanto faccia bene pas­ sare qualche giorno in campagna, lontano dagli affari. Se non ci fosse oggi quel dannato... Che ora è? Pur­ troppo devo dare oggi un pranzo in città. Non ne ho potuto fare a meno. Sono necessità, per un uomo d’affari. Che ci posso fare? Una mano lava l’altra. I funzionari delle miniere ci sono ormai avvezzi. Posso, però, fumare ancora un sigaro in santa pace. (Va a

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buttare la punta nella sputacchiera, si risiede sul di­ vano e accende il sigaro.) loth (/» piedi vicino alla tavola, spoglia un volume di gran lussò) Le avventure del conte Sandor. hoffmann Una boiata che trovi qui nelle case di tutti i proprietari. loth (mentre sta spogliando) Quanti anni ha tua co­ gnata ? hoffmann In agosto ha compiuto i ventuno. loth È sofferente ? Hoffmann Non lo so. Ma non credo... Ti fa que­ sta impressione? loth A dire il vero sembra più sparuta che malata. Hoffmann Capirai, le beghe con la matrigna... loth Mi pare anche un po’ irritabile. Hoffmann In queste condizioni... Vorrei vedere uno che non fosse irritabile. loth Pare che abbia molta energia. Hoffmann Testardaggine. loth Anche sentimento, vero? Hoffmann Troppo, qualche volta... loth Se qui le condizioni sono così disagiate per lei, perché non vive nella tua famiglia? Hoffmann Chiedilo a lei il perché ! Quante volte non gliel’ho offerto ! Ma si sa, le donne hanno le loro fisime. (Col sigaro in bocca Hopfmann estrae un tac­ cuino e pa una somma) Scusa, non ti dispiace se... se poi ti devo lasciare solo? loth No, figurati. Hoffmann Quanto tempo credi... ancora? loth Ora andrò a cercarmi un alloggio. Mi sai dire dove abita Schimmelpfennig? Sarà bene che vada da lui. Mi saprà certo indicare qualcosa. Conto di trova­ re presto una sistemazione adatta, altrimenti passerò questa notte nella locanda qui accanto.

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Ma perché? Devi rimanere qui fino a do­ mani. Vero è che anch’io sono ospite in questa casa... S'intende che altrimenti ti inviterei... tu capisci... loth Perfettamente. hoffmann Ma dimmi: hai detto proprio sul serio...? loth Che passerò questa notte nella locanda? hoffmann Che storie ! No, quello che hai detto prima, intendo. Quella faccenda... di quel tuo deprecato la­ voro descrittivo... loth Perchè no ? hoffmann Ti confesso, l’ho preso per uno scherzo. (5z alza; in confidenza, quasi celiando) Come? Saresti davvero capace... Qui, proprio qui dove un tuo amico ha messo felicemente le radici, saresti capace di mi­ narmi il terreno? loth Parola d’onore, Hoffmann, non avevo un'idea che tu fossi qui. Se l’avessi saputo... hoffmann (molto contento) Va bene, va bene. Quand’è così... Vedi, sono sinceramente contento di non essermi ingannato sul conto tuo... Dunque ora tu sai, e ben s’intende che ti rifonderò le spese del viaggio con tutti gli annessi e connessi. Non schermirti ! È un mio dovere di amico... Sei proprio il mio vecchio e bravo Loth. Figurati, ti avevo un po’ in sospetto... Adesso però devo anche dirti onestamente che non sono affatto quel malvagio che sembro qualche volta. Ho avuto sempre molta stima di te, di te e delle tue oneste e serie aspirazioni. Io sono l’ultimo a non ri­ conoscere certe... purtroppo, più che giustificate prete­ se delle masse sfruttate e oppresse. Sorridi pure, arrivo persino al punto di confessare che in parlamento c’è un solo partito che abbia ideali : ed è il tuo. Ma, ri­ peto, andiamo adagio, adagio ! Senza precipitare. Tutto avverrà come deve avvenire. Ma ci vuol pazienza, mol­ ta pazienza!... hoffmann

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LOTH Certo che ci vuol pazienza. Ma non per questo siamo autorizzati a stare con le mani in mano. hoffmann È quello che dico io. In genere ti ho ap­ provato col pensiero più spesso che con le parole. È un difetto, lo riconosco. Mi ci sono abituato trat­ tando con la gente alla quale non desidero scoprire le mie carte... Anche a proposito dell'emancipazione della donna hai detto cose molte giuste. {Intanto è andato al telefono, chiama e parla un po’ al telefono e un po’ a Loth) E la cognatina era tutta orecchi... {Al telefono) Francesco, tra dieci minuti la carrozza deve essere pronta... {A Loth) Le hai fatto impres­ sione... {Al telefono) Come? Ma che storie! Questa poi... Allora attacca subito i morelli... {A Loth) Per­ ché non avrebbe dovuto farle impressione?... {Al tele­ fono) Sacco rotto, dalla modista, dice? La signora... Ma sì, ma sì! Subito però... Va bene. Chiudo. {A Loth, dopo aver premuto il campanello) Aspetta, aspetta! Lasciami prima accumulare il monte di quat­ trini che occorre, poi vedrai... {Entra Edoardo) Edoar­ do, gli stivali, la giacca da passeggio! {Edoardo esce.) Vedrai, allora. Voi tutti non mi credete capace... Se resti qui due o tre giorni... S’intende in casa nostra, altrimenti sarebbe un’offesa... {Si toglie la veste da camera) Dunque tra due o tre giorni, se conti di par­ tire, ti porto alla stazione con la mia carrozza. {Edoar­ do viene con giacca e stivali. Hoffmann si fa infilare la giacca) Ecco fatto. {Si siede su una seggiola) E ora gli stivali. {Dopo averne inflato uno) E uno! loth Forse non mi hai ben compreso. hoffmann Certo, può darsi. Si hanno sempre tante cose da pensare... Sempre affari prosaici. Edoardo, non è arrivata la posta? Va' un momento in camera mia! Sulla scrivania a sinistra c’è un fascicolo con la co­ pertina azzurra. Va’ a metterlo in carrozza nella bor­

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sa. {Edoardo esce dalla porta a destra, poi ritorna ed esce dalla porta di mezzo.) loth Credo che tu non mi abbia capito in un punto. Hoffmann {aÿaccendato a inpiarsi il secondo stivale) Oplà! Finalmente! {Si alza e si assesta i piedi negli stivali) Ci siamo! Non c’è di peggio che le scarpe strette... Che cosa dicevi? loth A proposito della mia partenza... HOFFMANN Cioè? loth Ti avevo detto che devo restare qui per uno sco­ po ben preciso. Hoffmann {sbalordito e anche indignato) Oh senti ! Questo sarebbe indegno! Ma non sai che cosa mi devi come amico? loth Non certo che tradisca la mia causa! Hoffmann {fnori di sé) Be’, allora... allora non ho nessunissimo motivo di trattarti da amico. Ti dirò quindi che la tua comparsa, a dir poco, mi sembra quanto mai sfacciata. loth {molto calmo) Ti pregherei di spiegarmi che co­ sa ti autorizza a usare simili epiteti. Hoffmann Dovrei persino spiegartelo? Questo è il col­ mo! Per non sentirlo bisogna aver la pelle di rino­ ceronte. Tu vieni qua, accetti la mia ospitalità, mi sciorini due dozzine di frasi logore, fai girare la testa a mia cognata, tiri fuori la vecchia amicizia e poi mi vieni a dire candido candido che vuoi scrivere una de­ scrizione delle condizioni di qui. Per chi mi prendi? Credi forse che non sappia come codesti così detti sag­ gi siano libelli spudorati?... Tu vorresti scrivere un li­ bello di questo genere sulla nostra zona carbonifera. Non riesci davvero a capire chi avrebbe il maggior danno da un siffatto libro infamante? Io, naturalmen­ te. Alle vostre malefatte si dovrebbe porre fine, più di quanto non si sia fatto finora, demagoghi che non

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siete altro! Che cosa fate voialtri? Fate che il mina­ tore sia malcontento, insoddisfatto, lo amareggiate, lo sobillate, lo rendete ribelle, disobbediente, infelice, gli promettete mari e monti e intanto gli raspate dalla ta­ sca quei quattro miserabili soldi. loth Ti consideri ora smascherato? hoffmann (villano) Macché! Va’ là, moralista e fan­ farone! che vuoi che m’importi se mi smaschero da­ vanti a te! Va’ a lavorare, piuttosto! Piantala con le tue stupide chiacchiere! Vedi di fare qualcosa, di di­ ventare qualcosa. Io non ho bisogno di farmi pre­ stare da nessuno duecento marchi. (Esce rapidamente dalla porta di mezzo. Loth, lo segue un istante con lo sguardo calmo, poi con altrettanta calma estrae un por­ tafoglio dalla tasca interna, ne leva l’assegno ricevuto da Hoffmann, lo strappa a pezzetti e va a gettarli nel­ la cassetta del carbone. Elena compare sulla soglia del giardino d’inverno.) Elena (sottovoce) Signor Loth! loth (j7 riscuote, si volta) Ah, è lei! Allora... allora posso almeno dirle addio. ELENA (senza volere) Ne sentiva il bisogno? loth Sì, ne sentivo il bisogno. Suppongo... che se lei era lì dentro... avrà sentito la scenata... e allora... Elena Ho ascoltato tutto. loth Be’, allora... non si stupirà se lascio questa casa senza scalpore. elena Capisco. Ma forse la posso rabbonire... se le di­ co che mio cognato è sempre pronto a pentirsi. Mol­ te volte anch’io... loth Può ben darsi. Ma forse appunto per questo ciò che ha detto di me rappresenta la sua vera opinione. Anzi, è certamente la vera opinione che ha di me. elena Lo crede davvero? loth Sì, sul serio. Perciò... (Va a stringerle la mano)

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Sia felice! (57 volta, ma si ferma subito) Non so... o meglio {guardandola calmo negli occhi) so soltanto da questo momento... che non mi è facile andar via... e... certo... ELENA E se io la pregassi... vivamente... di rimanere qui ancora? loth Lei dunque non condivide l’opinione di suo co­ gnato ? elena No. E questo... glielo volevo dire... dire a tutti i costi prima... prima che se ne andasse. loth (Je stringe di nuovo la mano) Questo mi fa un gran bene. elena (in lotta con se stessa, sempre più agitata, fino all’incoscienza, balbetta con fatica) Anche altro le volevo... le volevo dire, cioè... che di lei ho... molta stima... molto rispetto... come finora... per nessun al­ tro... in lei ho fiducia... sono pronta... a dargliene le prove... che ho tanta tenerezza per te, per lei... (cade svenuta tra le sue braccia^ loth Elena !

Atto Quarto

Il cortile della fattoria, come nel secondo atto. Un quarto d’ora dopo la dichiarazione di Elena. Maria e Golisch, il vaccaro, trascinano un carico di legna giù dalla scala del solaio. Loth esce di casa in assetto di chi parte e attraversa lento e pensoso il cortile. Prima di prendere il sentiero della locanda si imbatte in Hoffmann che gli viene incontro frettoloso. Hoffmann (In cilindro, guanti di pelle) Non avertene a male! (Taglia la strada a Loth e gli prende le ma­ ni) Ritiro tutto!... Dimmi come posso riparare. Sono pronto a darti qualunque soddisfazione... Sono penti­ to, sinceramente pentito. loth Serve poco a te e a me. hoffmann Se tu potessi... vedi, di più non posso fa­ re. Ti assicuro : la coscienza non mi ha lasciato in pace. Prima di arrivare a Jauer sono tornato indietro... Già da questo puoi capire che faccio sul serio. Dove andavi ? loth Nella locanda... per ora. Hoffmann No, non devi farmi questo torto... Non es­ sere scortese! Mi rendo conto di averti mortificato profondamente e forse non è possibile... riparare con due parole. Ma non togliermi il modo di... di dimo­ strarti... mi ascolti? Torna indietro... Resta almeno... fino a domani. O fino a che ritorno io. Dobbiamo

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ancora parlare con calma e tranquillità... Non me lo devi rifiutare. loth Se ci tieni proprio tanto... hoffmann In modo assoluto, parola d’onore! Vieni!... Vieni!... Non scappare! {Riconduce in casa Loth che non si oppone pili. Escono entrambii) La serva licenziata e il vaccaro hanno intanto deposto il carico di legna sulla carriola. Golisch si è inpiato le cinghie.

{mettendo qualcosa in mano a Golisch) Tieni, Goscellino ! Per te. il giovane {rifiuta) Tienti le tue palanche! maria Va’ là, scioccone! il giovane Be’, sia pure. {Prende il denaro e lo ripo­ ne nella sua borsetta di pelle.) spiller {da una finestra della casa) Maria! maria Che volete ancora? spiller {esce di casa dopo alcuni istanti) La signora è disposta a tenerti se prometti... maria Un corno, prometto! Avanti, Gosch! spiller {avvicinandosi) Ascolta, la padrona ti vuol aumentare anche il salario se tu... {Parla sottovoce) Non te la prendere! Anche lei qualche volta è un po’ balorda ! maria {furibonda) Se li tenga pure i suoi quattrini! {Piagnucolando) Meglio patire la fame. {Segue Go­ lisch che la precede con la carriola) Ci mancherebbe altro! Anche questa! {Esce, seguita dalla signora Spil­ ler.) maria

Dall’ingresso principale entra Baer, detto « Saltamar­ tino ». Uno spilungone dal collo di avvoltoio con tan­ to di gozzo. Ë a piedi nudi e senza copricapo, i calzo-

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ni molto sfrangiati gli arrivano un po’ sotto al ginoc­ chio. È calvo, i pochi capelli castani, impolverati e appiccicati, gli arrivano fino alle spalle. Cammina con passo di struzzo. Tira con una corda una carrozzella da bambini piena di sabbia. È senza barba e da tutto l’aspetto si vede che è un contadinottđ trasandato, sul­ la ventina.

{con strana voce belante') Rena! Reeena! {Attra­ versa il cortile e scompare tra la casa e la stalla. Hoff­ mann ed Elena escono dalla casa. Lei è pallida e tie­ ne in mano un bicchiere vuoto fi Hoffmann {a Elena) Trattienilo un po’! Hai capito? Non lasciarlo andar via... Ci tengo moltissimo. Quan­ to orgoglio offeso... Addio! Oppure, sarà forse me­ glio che io non vada via? Come sta Marta? Ho quasi un presentimento... che presto... Ma no! Addio! Ho molta fretta. Francesco! Forza, di tutta carriera! {Esce rapidamente dall'ingresso principale.)

BAER

Elena va a riempire il bicchiere alla pompa e lo vuota d’un fiato, lo riempie di nuovo e ne beve metà. Poi lo posa sul tubo della pompa ed esce lentamente dall’an­ drone voltandosi indietro ogni tanto. Baer sbuca tra la casa e la stalla e si ferma col carretto davanti alla porta dove Mila si fa dare un po’ di rena. Kahl ap­ pare in quella da destra al di là dello steccato e di­ scorre con la Spiller che sta al di qua, cioè nel cortile. Discorrendo essi si muovono lentamente lungo lo stec­ cato.

Spiller {dolente)

Ahimè-m, signor Kahl! Tante volte-m ho pensato a lei quando la signorina... ormai-m è, per così dire, la sua fidanzata-m. E siccome... purtroppo-m ai miei tempi...

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{monta sulla panca sotto la quercia e appende al ramo più basso una cassetta per le cinciallegre) Qu... quando quel do... dottore si de... deciderà a andar fu... fuori dai piedi, eh? Spiller Oh, signor Kahl, certo non presto. Oh, signor Kahl, io sono-m, per così dire-m, un po’ decaduta, ma apprezzo-m l’istruzione. In questo caso, signor Kahl... la signorina-m, la signorina... non si comporta bene con lei... No, no-m, per così dire, io non mi so­ no mai resa colpevole, la mia coscienza-m, egregio signor Kahl, è pulita... come dire-m, candida come la neve.

kahl

Intanto Baer ha concluso la vendita della sabbia e pas­ sando davanti a Kahl lascia il cortile.

{lo vede e chiamò) Saltamartino, su, un bel sal­ to! {Baer fa un gran salto e Kahl, ridendo come un matto, lo chiama un’altra volta) Saltamartino, ancora un salto ! Spiller Ebbene-m, signor Kahl... Lo dico per lei. De­ ve stare attento-m, egregio signor Kahl ! C’è qualcosa per aria... con la signorina-m... kahl II do... dottore, quella ca... carogna... alla malo­ ra! Una vo... volta sola! SPILLER {in tono misterioso) E che razza... di indivi­ duo è quello là? Anche-m, anche la signorina mi fa pena. La moglie-m della guardia municipale lo sa, credo-m daH’ufficio. Pare che sia-m un uomo perico­ loso. Suo marito-m pare che... per così dire... si figuri! Pare che-m lo debba sorvegliare. {Loth esce dalla casa e guarda in giro!) Vede, adesso va dietro alla signo­ rina. Ah, è proprio una pena. kahl Aspetta me! {Esce.) kahl

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La signora Spiller si avvia per entrare in casa e men­ tre passa accanto a Loth gli ja un profondo inchino. Esce. Loth esce lentamente dall’androne. La moglie del vetturino, una donna magra, sparuta, morta di fame, sbuca di fra la stalla e la casa. Tiene una pentola na­ scosta sotto il grembiule e guardandosi intorno circo­ spetta, entra nella stalla. Le due lavoranti, spingendo ciascuna davanti a sé una carriola carica dì trifoglio, entrano dall’androne, seguite da Beibst con la pipetta in bocca, la falce sulla spalla. Lisa ha portato la car­ riola davanti alla porta destra della stalla, Augusta da­ vanti a quella sinistra e tutte e due cominciano a por­ tar nella stalla grandi bracciate di trifoglio. {uscendo dalla stalla a braccia vuote') Lo sai, Gu­ sta, Maria se n’è andata. gusta Ma no! lisa Entra! Domanda alla Checca del vetturino che sta mungendo una goccia di latte. beibst {attacca la falce al muro) Purché non arrivi la Spiller ! gusta Gesù mio! Per carità! lisa Otto ne ha quella povera donna. gusta Otto marmocchi così! Anche loro vogliono vi­ vere. lisa Neanche una goccia di latte le danno... Che cat­ tiveria ! gusta Dove sta mungendo? lisa Laggiù in fondo, la primaiola. beibst {riempie la pipa e biascica, reggendo coi denti la borsa del tabacco) Come? Maria se n’è andata? lisa Sì sì, è andata davvero. È stata a letto col ca­ poccia. beibst {infilando in tasca la borsa) Tutti vogliono a un certo punto... Anche la donna. {Accende la pipa lisa

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e uscendo dall’ingresso principale, dice') Vado a fare un po’ di colazione. la moglie del vetturino {con la pentola del latte sot­ to il grembiule spia guardinga dalla porta della stal­ la) C’è nessuno? lisa Vieni, vieni, non c’è nessuno. Fai presto, presto! la moglie del vetturino {passando davanti alle la­ voranti) È soltanto per il più piccino. lisa {le grida dietro) Presto! Sento arrivare qualcuno! {La donna scompare tra la casa e la stallai) gusta È soltanto la nostra signorina.

Le lavoranti scaricano a poco a poco le carriole e le spingono vuote sotto l’androne, dopo di che entrano nella stalla. Loth e Elena vengono dall’androne. Che antipatico! Quel Kahl... Spione sfacciato! Direi là davanti sotto la pergola... {entrano dal­ la porticina del frutteto e vanno sotto la pergola.) È il mio posto preferito. Quando voglio leggere qui nessuno mi disturba. loth Bel posticino questo ! Davvero. {Si siedono un po’ distanti l’uno dell’altro. Silenzio. Poi Loth) Questi suoi capelli, signorina, sono molto belli e abbondanti. elena Si, lo dice anche mio cognato. Dice che non ne ha mai visti così... Neanche in città. La treccia quassù è grossa come il mio polso. Quando la sciolgo mi ar­ rivano alle ginocchia. Senta un po’ !... Come seta, vero? loth Esatto. Come la seta. {È preso da un tremito e chinandosi le bacia i capelli.) elena {sorpresa) Ma cosa fa? Se... loth Elena! Ha fatto sul serio dianzi? elena Oh, mi vergogno, mi vergogno davvero. Che cosa ho fatto mai? Abbracciare te... lei! Per chi mi prenderà ?

loth

elena

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(si avvicina un poco, le prende una mano) Non si preoccupi per questo. Elena (con un sospiro) Se lo sapesse suor Schmittgen! Non avrei il coraggio di guardarla. loth Chi è suor Schmittgen? elena Una maestra del collegio. loth Come mai le viene in mente quella suora? elena Oh, era molto buona! (Improvvisamente si met­ te a ridere.) loth E perché ride così a un tratto? elena (con un misto di compassione e burletta) Quan­ do cantava nel coro... Le era rimasto un unico dente, un dente lungo... Il testo diceva : « Un tratto mi ve­ drete, poi non mi vedrete ». E lei : « Un ratto mi ve­ drete... ». Ci pareva di vedere quel « ratto ». Era trop­ po buffo! Non potevamo trattenere le risate... E quan­ do passava per la sala... Un ratto, un ratto!... (Non sa tenersi dal ridere e così contagia anche Loth. Egli ride conquistato e vorrebbe approfittare del momento per cingere Elena con un braccio. Lei si schermisce) No, no... Sono stata io ad abbracciarla. loth Oh via, non lo dica! elena Ma la colpa non è mia, incolpi se stesso. Per­ ché pretende...? loth

Loth la cinge con un braccio e la tira a sé. Sulle pri­ me lei si oppone, ma poi si adatta e libera e felice guarda gli occhi raggianti di Loth che sì china su di lei. Λ un tratto, per una certa timidezza, è lei la pri­ ma a baciarlo. Tutti e due arrossiscono, poi Loth re­ stituisce il bacio, lungo e fervido. L’unica loro conver­ sazione consiste, per qualche tempo, nel dare e pren­ dere i baci, muti ed a un tempo eloquenti. Il primo a parlare è Loth.

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Lena, vero? Così ti chiamano qui. {baciandolo) Chiamami in altro modo... chia­ mami come piacerebbe a te. loth Adorata!... loth

ELENA

Si ripete il gioco dello scambio di baci e dì sguardi.

{stretta fra le braccia dì Loth, con la testa sul petto dì lui, gli occhi beatamente velati, mormora esaltata) Oh come è bello ! Come è bello ! loth Morire così con te ! Elena {con fervore) Vivere! {E sciogliendosi dall’ab­ braccio) Perché morire?... loth Non mi devi fraintendere. Mi sono sempre ine­ briato, specie nei momenti felici, mi esalto al pensie­ ro di averla in pugno, capisci? ELENA Di aver in pugno la morte? loth {senza sentimentalismi) Appunto. In questo mo­ do non ha niente di orrendo, anzi, al contrario. Un che di amichevole, per me. La si chiama e si sa con certezza che viene. Così si può superare qualunque co­ sa, passata... e futura. {Osserva la mano di Elena) Hai una mano meravigliosa. {La accarezza.) ELENA Oh così... {Dì nuovo gli si stringe addosso?) loth Ecco, vedi, io non sono mai vissuto... finora. ELENA Credi che sia vissuta io? Mi vengono le ver­ tigini, tanto sono felice. Dio mio, come è possibile... così all'improvviso? loth Sì, così aH’improvviso... Elena Senti : ho l’impressione... l’intera mia vita... un giorno! Ieri e oggi: un anno. È così? loth Come? Sono arrivato soltanto ieri? Elena Ma certo! Ed ecco che nemmeno lo sai. loth In verità anche a me sembra... ELENA Vero? Un anno intero è suonato! No? {Fa per ELENA

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alzarsi) Attento! Non viene...? (Si scostano l’uno dall'altroi) No, non me ne importa. Adesso... sono molto coraggiosa. (Rimane seduta e con utiocchiata incorag­ gia Loth ad avvicinarsi, ed egli lo fa subito.) ELENA (fra le braccia di Loth) Che cosa faremo ora prima di tutto? loth Penso che la tua matrigna mi caccerà via. ELENA Oh, la matrigna... Non le... Non le importerà niente. Faccio quel che mi pare. Devi sapere che pos­ siedo la legittima da parte di mia madre. loth Per questo credi... Elena Sono maggiorenne. Mio padre me la deve sbor­ sare. loth Mi pare che tu non sia in buona armonia con questa gente. E tuo padre è partito? Elena Partito? Non l’hai ancora veduto? loth No. Hoffmann mi diceva... elena Invece sì, sì che l’hai visto una volta. loth Non saprei... Dove mai, cara? elena Io... (Scoppia in lacrime) No, non te lo posso dire ancora... è una cosa terribile. loth Terribile? Ma, Elena, è capitato qualcosa a tuo padre ? elena Oh, non domandare! Non ora. Un’altra volta. loth Se è una cosa che non desideri dirmi, non te la chiederò certo mai... In quanto poi al denaro, nel peg­ giore dei casi, io guadagno scrivendo articoli, non proprio moltissimo, ma credo che per noi due possa bastare. elena Non starei in ozio nemmeno io. Certo, è me­ glio averne. La legittima è sufficiente... Tu devi svol­ gere il tuo compito... no, non lo devi abbandonare a nessun costo, ora meno che mai! Ora finalmente avrai le mani libere. loth (baciandola fervidamente) Cara, nobile creatura!

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Elena

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Mi vuoi bene davvero? Veramente? Veramente. Elena Ripeti cento volte veramente. loth Veramente, veramente e in verità. Elena Ecco che mi hai truffato. loth Quell’« in verità » vale cento veramente. ELENA A Berlino, forse. loth No, proprio a Witzdorf. ELENA Bada!... Guardami negli occhi senza ridere! loth Volentieri. ELENA Oltre alla tua prima fidanzata hai avuto anche altre...? Ecco che ridi. loth Ti voglio parlare sul serio, cara. Penso che sia il mio dovere. Con parecchie donne... ELENA {balza in piedi, gli tappa la bocca) Per carità! Me lo dirai un’altra volta... Quando saremo vecchi... Dopo molti anni, quando ti dirò... « adesso ». Non prima. loth Bene, come vuoi. ELENA Ora invece qualche cosa di bello. Sta’ attento : ripeti le mie parole! loth Quali ? ELENA Ho voluto bene... loth Ho voluto bene... ELENA A te e soltanto a te... loth A te e soltanto a te... Elena E vorrò bene soltanto a te finché vivo. loth E vorrò bene soltanto a te finché vivo. E questo è vero, come è vero che sono un uomo onesto. elena {con gioia) Io non l’ho detto. loth Lo dico io. {Baci.) elena {sottovoce) L’amore mio sei tu... loth Adesso confesserai anche tu. ELENA Tutto quello che vuoi. loth Confessa: sono io il primo? loth

PRIMA DEL LEVAR DEL SOLE ELENA LOTH

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Mo.

Chi ?

elena (co» una risata baldanzosa)

Guglielmo Kahl. Chi ancora? elena Eh, no, altri non ce ne sono. Mi devi credere... No davvero. Perché ti dovrei mentire? loth Dunque, ancora qualcuno ? elena (con impeto) Ti prego, non chiedere adesso. (Nasconde il viso tra le mani e improvvisamente piangel) loth Ma... via, Lenuccia, non voglio mica insistere. elena Un’altra volta... tutto, tutto un’altra volta. loth Cara, ti ripeto... elena È stato uno, devi sapere che io... perché tra i cattivi mi era parso meno cattivo. Adesso tutto è di­ verso. (Con le braccia al collo di Loth, piangendo, impetuosa) Almeno non dovessi mai più staccarmi da te! Vorrei venire subito con te, immediatamente. loth Stai molto male in questa casa, vero? elena Figurati! Qui si fa una vita orrenda, una vita da bestie... Senza di te morirei... Mi vengono i bri­ vidi. loth Penso che saresti più tranquilla se mi dicessi tut­ to schiettamente. elena Certo, ma... non ci riesco. Non ora... non an­ cora. Ho paura. loth Sei vissuta in collegio? elena Lo ha voluto mia madre... sul letto di morte. loth C'è stata anche tua sorella...? elena No, è rimasta sempre in casa, e quattro anni fa, quando ritornai, trovai... un padre che... una ma­ trigna che... una sorella... indovina cosa voglio dire! i.OTH La tua matrigna è attaccabrighe, no? Forse anche gelosa? Senza amore? elena Mio padre... loth (ridendo)

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Be’, lui andrà probabilmente d’accordo con lei. O forse la tiranneggia? Elena Se non fosse che questo... No, no... spavente­ vole. Tu non puoi immaginare che quello... che è sta­ to mio padre a... loth Non piangere, Lenuccia! Vedi, ora quasi vorrei insistere affinché tu... ELENA No, non posso. Non ne ho ancora la forza... loth In questo modo ti logori. ELENA Muoio dalla vergogna. Tu... mi respingerai, mi scaccerai... È al di là di ogni immaginazione... Uno schifo ! loth Lenuccia, tu non mi conosci, altrimenti non mi credetesi capace di farlo. Respingerti? Cacciarti via? Ti sembro così brutale? Elena Mio cognato Hoffmann ha detto che faresti... freddamente... No, no! Non lo farai, è vero? Non mi ripudierai. Altrimenti... non so che cosa... che cosa sarebbe di me. loth È assurdo. Non ne avrei alcun motivo. ELENA Dunque lo credi possibile? loth No, ti dico di no. Elena Se però ci fosse un motivo?... loth Motivi ce ne potrebbero essere, ma non nel caso concreto. elena E che motivi sarebbero? loth Soltanto a chi volesse farmi tradire me stesso sa­ rei costretto a passar sopra. elena Io non lo voglio di certo... Ma non riesco a li­ berarmi da un presentimento. loth Quale presentimento ? ELENA Forse viene dal fatto che sono tanto stupida. Dentro di me non c’è nulla. Non so nemmeno che cosa siano i principi. Non ti sembra un orrore? Ti amo soltanto così, semplicemente. Ma tu sei così buoloth

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no, così grande... E hai tanta ricchezza in te... Ho tanta paura che un giorno tu debba accorgerti... ve­ dere quando dico... o faccio una sciocchezza... sentire che per te sono troppo semplice... In verità sono cat­ tiva e stupida come la luna. loth Che devo dirti? Tu sei tutto per me. Tutto. Di più non so dire. ELENA E sono anche sana... loth A proposito, sono sani i tuoi genitori? ELENA Certo. Cioè, ti dirò, mia madre è morta di feb­ bre puerperale. Papà è ancora sano, anzi dev’essere fatto d’acciaio, ma... loth Dunque vedi, sicché... ELENA E se i miei genitori non fossero sani? loth {la bacia) Ma lo sono, Lenuccia. ELENA Però se non lo fossero...? La signora Krause spalanca una finestra e grida.

Ragazze! Ragazzeee! Dica, signora Krause. signora krause Corri dalla Müller! Ci siamo. lisa Dalla levatrice Müller, vuol dire? signora krause Eh già. Sei rimbecillita? {Chiude sbattendo la finestra. Lisa rientra nella stalla ed esce di corsa con uno scialletto in testa.) Spiller {compare sulla porta di casa e chiama) Signo­ rina Elena... Signorina Elena! plena Che cosa sarà successo? Spiller {avvicinandosi alla pergola) Signorina Elena! ELENA Vorrà dire che ci siamo: mia sorella... Presto, va’ via, gira di qua! {Loth esce a sinistra, Elena arri­ va dalla pergola.) Spiller Signorina! ah, eccola finalmente. plena Che c’è? signora krause

lisa

{dalla stalla)

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Spiller Oh, la signora-m sua sorella... (le bisbiglia all’orecchio?) ELENA Mio cognato ha ordinato di mandare subito in questo caso a chiamare il medico. Spiller Signorina-m, lei non vuole... non vuole il medico-m. I medici... con l’aiuto di Dio-m...

Mila esce dalla casa. Mila, va’ immediatamente a chiamare il dottor Schimmelpfennig ! spiller Però, signorina... signora krause (dalla finestra, imperiosa) Mila, vie­ ni su subito! elena Mila, tu vai dal medico ! (Mila si ritira in casa.) Va bene. Allora vado io. (Entra in casa e ritorna su­ bito col cappello di paglia inflato al braccio.) spiller Andiamo male-m. Se va a prendere il medi­ co-m, signorina, andrà male certamente. elena

Elena le passa davanti. Ea signora Spiller si ritira in casa scuotendo la testa. Quando Elena è all’uscita dal cortile, Kahl compare dietro lo steccato.

(rivolgendo la parola a Elena) lo su... succede in casa vostra?

kahl

Che dia... diavo­

Elena contìnua a correre e non degna Kahl né di uno sguardo né dì una risposta. (ridendo) do il porco?

kahl

Che sta... state fo... forse ammazzan­

Atto Quinto

La stanza del primo atto. Verso le due dì notte. La stanza è al buio. Dalla porta di mezzo aperta entra la luce del vestibolo illuminato. Si vede che è illuminata anche la scala di legno che porta al primo piano. In questo atto tutti i dialoghi, tranne poche eccezioni, sono tenuti in tono moderato. Edoardo con un lume entra dalla porta di mezzo e va ad accendere la lam­ pada a gas che pende sopra la tavola nell’angolo. Men­ tre eseguisce, anche Loth entra dalla porta dì mezzo. Edoardo Eh sì, con questi sistemi... è umanamente im­ possibile chiudere un occhio. loth Ma io non volevo mica dormire. Mi sono messo a scrivere. Edoardo {accendendo) Ecco fatto. Capisco, sarà certo grave... Dottore, desidera penna e calamaio? loth Eh, veramente... se vuol essere così gentile, signor Edoardo. Edoardo {posando sulla tavola calamaio e penna) Io dico sempre, la brava gente deve lavorare e sgobbare per ogni quattrino. Non si ha riposo neanche di not­ te. {Con sempre maggiore confidenza) Ma questa raz­ za qui non fa assolutamente nulla. Banda di poltroni, di buoni a nulla... Anche lei, dottore, deve lavorare di buzzo buono per poter campare, come tutta la gen­ te per bene.

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Mi piacerebbe non averne bisogno. Edoardo Si figuri se non piacerebbe a me... LOTH La signorina Elena sarà da sua sorella, immagino. Edoardo È una buona e brava ragazza, bisogna dire. Le sta sempre al fianco. loth {guarda l’orologio) Alle undici sono cominciate le doglie. Durano dunque... ormai da quindici ore. Lunghe quindici ore...! Edoardo Credo bene. E poi lo chiamano il sesso de­ bole... Ma si può dire che stia boccheggiando. loth È di sopra anche il signor Hoffmann? Edoardo Quello poi sembra una femminuccia. loth Non dev’essere un’inezia stare a guardare. Edoardo Certo, lo credo anch’io. Un momento fa è ve­ nuto il dottor Schimmelpfennig. Quello è un uomo, le posso dire! Rustico come il pane di crusca, ma... 10 zucchero è amaro in confronto. Mi dica un po’, che c’è di nuovo nella vecchia Berlino? (S’interrom­ pe) Santo cielo! {Vede Hoffmann e il dottore che scendono la scala. Entrano tutti e due.) Hoffmann Ora... Spero che lei resterà con noi. dottore Sì, sì, adesso rimango. Hoffmann È un motivo per me di stare tranquillo. Posso offrirle un bicchier di vino? Non rifiuterà un bicchiere di vino, vero, dottore? dottore Se proprio vuole offrirmi qualcosa, mi faccia piuttosto preparare una tazza di caffè. hoffmann Volentieri. Edoardo, caffè per il dottore! {Edoardo esce.) Le pare... le pare che tutto vada per 11 meglio? dottore Finché sua moglie conserva l’energia, non c’è alcun pericolo. Ma perché non ha mandato a chia­ mare la giovane levatrice? Se ben ricordo gliel'avevo raccomandata. loth

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Sa, mia suocera... che ci posso fare? Per essere sincero, anche mia moglie ha poca fiducia in quella giovane. dottore In questo fantasma fossile le sue signore han­ no fiducia, vero? Buon pro! Adesso lei vorrebbe ri­ tornare di sopra, no? hoffmann Confesso che quaggiù sono piuttosto in­ quieto. dottore Meglio sarebbe certo che andasse da qualche parte, fuori di casa. hoffmann Ecco, con la migliore volontà... Oh, Loth, anche tu sei ancora qui. {Loth si alza dal divano che è nell’angolo buio e va verso di loro.) dottore {molto sorpreso) Corpo di Bacco! loth Sapevo già che stai qui. Contavo di venirti a tro­ vare domani. hoffmann

Si stringono la mano. Hoffmann approfitta del mo­ mento per prendere dalla credenza un bicchierino di cognac e ingollarlo d’un fato; poi esce in punta di pie­ di e sale la scala. Nel colloquio dei due amici si no­ ta da principio un certo ritegno. Dunque avrai... spero... avrai dimenticato quella vecchia sciocchezza. {Sposta il cappello e il ba­ stone.) loth Dimenticata da un pezzo, Schimmel. dottore Anch’io, lo puoi immaginare. {Si stringono di nuovo la mano) In questo buco ho avuto così poche liete sorprese che mi sembra molto strano. Proprio qui dovevamo incontrarci. È curioso. LOTH Eri veramente scomparso, Schimmel, altrimenti sarei venuto a scovarti. dottore È stato un tuffo nell’acqua, come le foche. dottore

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Ho fatto esplorazioni sottomarine. Tra un anno e mez­ zo conto di ritornare a galla. Sai, bisogna rendersi in­ dipendenti economicamente... devi sapere... se si vuol fare qualche cosa di buono. LOTH Qui dunque fai anche i quattrini ? dottore Naturalmente, più che posso. Che altro si può fare qui? loth Però qualche volta avresti dovuto farti vivo. dottore Mi scusi... scusa; se mi fossi fatto vivo, an­ che voi vi sareste fatti vivi, mentre io non volevo vedere nessuno, assolutamente, mi sarebbe stato un ostacolo nella ricerca dell’oro. (Entrambi passeggiano lentamente per la stanza.) LOTH Capisco. Non devi quindi stupirti se quelli... de­ vo dirti, ti hanno abbandonato, tutti, senza eccezione. dottore Di che cosa non sarebbero capaci? Bella com­ pagnia! Se ne accorgeranno. loth Schimmel, ossia il Burbero. dottore Eh, se tu fossi vissuto sei anni fra questi bi­ folchi ! Razza di cani ! loth Immagino. Ma come sei capitato proprio qui a Witzdorf? dottore Così, per caso. Tu sai che allora ho dovuto battermela da Jena. loth È stato prima che ci cascassi io? dottore Sicuro. Poco dopo che avevamo rinunciato a stare insieme. Poi a Zurigo mi sono dato alla medi­ cina, anzitutto per avere una risorsa in caso di biso­ gno; poi la faccenda cominciò a piacermi e ora sono medico da capo a piedi. loth E qua... come sei capitato qua? dottore Semplice. Finiti gli studi mi sono detto : pri­ ma di tutto ci vuole un bel mucchio di baiocchi. Ho pensato all’America, del Sud e del Nord, all’Africa,

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all’Australia, alle Isole della Sonda; e alla fine mi venne in mente che nel frattempo la mia ragazzata era caduta in prescrizione. Allora mi sono deciso a ri­ tornare nella trappola. loth E i tuoi esami in Svizzera? dottore È vero, qui ho dovuto ricominciare da capo. loth Dunque, hai dato gli esami di Stato due volte? dottore Proprio così. Infine ho scoperto fortunatamen­ te questo pascolo qui, grasso e redditizio. loth Tu sai quello che vuoi. Sei da invidiare. dottore Purché non venga un crollo improvviso ! D'altronde sarebbe poco male. loth Hai molti pazienti? dottore Altroché! Certe volte riesco a coricarmi sol­ tanto alle cinque della mattina, e alle sette ricomin­ cio. (Edoardo entra col caffè. Il dottore si accomoda. A Edoardo) Grazie, Edoardo. (A Loth) Non faccio che trincare caffè... da far paura. loth Dovresti farne a meno. dottore Che ci posso fare? {Centellinando) Come ti dicevo, ancora un anno e poi smetto... così spero al­ meno. loth Vuoi abbandonare la professione? dottore Credo di sì. (Allontana il vassoio con le sto­ viglie, si pulisce la bocca) E ora mostrami la mano! (Loth gliele porge tutte e duel) Come? Senza anello? Non hai trovato nessuna? Eppure dicevi che ti sa­ rebbe piaciuto sposare una robustona, florida e sa­ na. E dicevi bene. Se proprio bisogna prenderla, è bene che sia così... O forse non la pigli più tanto sul serio ? loth E come! Altro che! dottore Avessero anche questi contadinacci di queste idee! Invece, ti posso dire, è proprio un guaio, de­ generati su tutta la linea... (Dalla tasca interna ha 13.

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estratto a metà l’astuccio dei sigari, ma lo ripone e si alza avendo udito un rumore dalla porta nel vesti­ bolo che è soltanto accostata) Aspetta un momento! {Va in punta di piedi ad ascoltare. Di juori aprono una porta, si sentono qualche istante i gemiti della partoriente. Il dottore mormora a Loth) Scusami ! (fi­ ter?.) Per alcuni secondi Loth passeggia in su e in già men­ tre di juori c’è uno sbattere di porte, un salire e scen­ dere di persone per la scala. Poi Loth si accomoda sulla poltrona a destra. Elena entra di nascosto e alle spalle abbraccia Loth che non si è accorto di lei.

{voltandosi e abbracciandola a sua volta) Lenuccia! {La tira sulle ginocchia nonostante la lieve resistenza di lei. Mentre la bacia più volte, Elena pian­ ge) Via, non piangere, Lenuccia! Perché piangi così! Elena Perché? Non lo so nemmeno io. Temo sempre di non trovarti più. Dianzi mi sono spaventata... loth Perché ? ELENA Perché ti ho sentito uscire dalla tua camera... Oh, mia sorella... povere donne che siamo!... Quanto deve soffrire! loth Poi si fa presto a dimenticare il dolore, e non c’è pericolo di morte. Elena Vedi, invece, lei se la augura. Non fa che im­ plorare : Lasciatemi morire ! Il dottore ! {Balza in pie­ di e s’infila nel giardino d’inverno.) dottore {entrando) Ora vorrei proprio che quella bra­ va donna lassù si spicciasse. {Si siede alla tavola, estrae di nuovo l’astuccio dei sigari, ne prende uno e lo posa accanto a se) Dopo, vieni con me, vero? Là fuo­ ri possiedo un malanno necessario con due destrieri, possiamo servircene per andare a casa. {Batte il siloth

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garo contro lo spigolo della tavola) Bella cosa il ma­ trimonio. Eh sì ! (Accende un fiammifero) Sei dun­ que ancora libero, gaio e giulivo, vero? loth Potevi aspettare qualche giorno a farmi questa domanda. dottore (Ha acceso il sigaro) Come dici ? Ah, ho ca­ pito. (Ride) Dunque ho scoperto finalmente i tuoi altarini. loth Sei ancora così pessimista in fatto di donne? dottore Altro che! (Seguendo con lo sguardo il fu­ mo del sigaro) Prima ero pessimista... Ero così con Γ immaginazione... loth E nel frattempo hai fatto brutte esperienze? dottore Eh sì. Sulla mia targa si legge : « Speciali­ sta in ginecologia ». L’esercizio della medicina rende molto saggi... È tanta salute... Un vero specifico con­ tro qualunque cimurro. loth (ride) Be’, allora potremmo seguitare con la to­ nalità antica. Infatti io... non ti ho affatto scoperto gli altarini. Ora meno che mai. Tu forse avrai cambiato cavallo di battaglia. dottore Che cavallo di battaglia? loth A quel tempo il problema dell’emancipazione della donna era, per così dire, il tuo cavallo di bat­ taglia. dottore Capito. Ma perché dovrei averlo cambiato? loth Se oggi pensi sul conto delle donne più male di... dottore (un po’ montato, si alza e cammina in su e in giù mentre parla) Io... non penso male delle don­ ne. Neanche per sogno. Penso male soltanto del ma­ trimonio... E, se mai, dell’uomo. Vuoi che l’eman­ cipazione della donna non abbia più importanza per me? Perché allora avrei lavorato qui sei lunghi anni come un negro? L’ho fatto soltanto per dedicare fi-

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naimente tutte le mie forze disponibili esclusivamen­ te alla soluzione di questo problema. Non lo sa­ pevi ? loth Come facevo a saperlo? dottore Anzi, ho già raccolto un materiale piuttosto cospicuo che mi renderà buoni servigi... Scusa, sono tanto abituato a gridare! (Tace, sta in ascolto. Va fi­ no alla porta e torna indietro') Ma tu per qual mo­ tivo sei venuto tra questi contadini danarosi ? loth Vorrei studiare le condizioni locali. dottore (con voce sommessa) Buona idea! (Con voce ancora più bassa) Se credi, puoi servirti del materiale che ho. LOTH Volentieri. Tu devi essere informatissimo. Come si presentano qui le famiglie? dottore Malissimo. Non ci sono che sbornie, crapu­ le, connubi tra consanguinei e, per conseguenza, una degenerazione generale. loth Vi saranno però eccezioni. dottore Poche. loth (inquieto) Non ti è mai venuta... la tentazio­ ne... di sposare una di queste ragazze danarose? dottore Grazie tante. Per chi mi prendi ? Nello stesso modo mi potresti domandare se... loth (pallidissimo) Come... perché? dottore Perché... ti senti male? (Lo fissa alcuni istan­ ti.) loth Affatto. Perché dovrei sentirmi male? dottore (improvvisamente pensoso, tace, sbuffa, lancia una breve occhiata a Loth e mormora quasi tra sé) Brutto segno. loth Sei così strano tutto ad un tratto. dottore Zitto ! (Sta in ascolto ed esce rapidamente dalla porta di mezzo.)

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(entra dopo alcuni istanti dalla medesima) Al­ fredo!... Alfredo! Ah, sei qui! Grazie al Cielo. LOTH Pensavi che fossi scappato? (Si abbracciano.) Elena (con palese spavento) Alfredo! loth Che hai, cara? Elena Niente, niente. loth Eppure devi avere qualche cosa! Elena Mi era parso... che tu fossi... così freddo. Mi vengono fantasie molto sciocche. loth E di sopra come andiamo? Elena II dottore sta litigando con la levatrice. loth II traguardo dovrebbe essere in vista. ELENA Che ne so? Ma quando ci arriviamo... allora, voglio dire... loth Che cosa? Dimmi, che cosa volevi dire? ELENA Dico che dovremmo andar via subito. Sui due piedi. loth Se credi che sia la cosa migliore... ELENA Certo. Non dobbiamo indugiare. È il meglio... perché... Se non mi prendi subito, finisce che mi pianti qui... e allora... Sarebbe la mia rovina. loth Ma come sei diffidente! ELENA Caro, non lo dire! Di te mi fido, non si può non fidarsi di te. Quando sarò tua, sono sicura che non mi abbandonerai più. (Quasi -fuori di sé) Ti scongiuro, Alfredo, non andartene! Non lasciarmi! Se te ne vai senza di me, tutto è finito. Ti prego, non andar via! loth Come sei strana... come sei... E pretendi di non essere diffidente? Oppure ti tormentano, ti tortura­ no più di quanto io mai... In ogni caso però ce ne andiamo questa notte. Sono pronto. Andiamo via ap­ pena tu vorrai. ELENA (gettandogli le braccia al collo con esultante graELENA

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Mudine) Caro, caro! (Lo bacia come impazzita e fugge. Il dottore entra dalla porta di mezzo in tem­ po per vedere che Elena scompare nel giardino d’imvernol) dottore Chi era?... Ho capito. (Lra sé) Poverina! (Con un sospiro si siede alla tavola, trova il sigaro che ha lasciato, lo butta via, ne prende un altro dal­ l’astuccio e lo batte sullo spigolo della tavola guar­ dando pensieroso davanti a sé.) loth Proprio così, battevi sempre il sigaro, otto anni fa, prima di cominciare a fumare. dottore Può darsi... (Dopo aver acceso) Senti un po’! loth Dimmi. dottore Appena ci sbrighiamo lassù, vieni da me. Siamo d’accordo? loth No, non posso, purtroppo. dottore Eppure si sente il bisogno di discorrere fran­ camente ogni tanto. loth Lo sento anch’io che è necessario. Ma appunto per ciò devi capire che oggi non mi è assolutamente possibile... dottore Neanche se ti avverto e ti dichiaro, per così dire, solennemente : « C’è un punto importantissimo del quale dobbiamo parlare questa notte ». È neces­ sario, Loth. loth Come? Non pretenderai che ti prenda proprio sul serio. Hai aspettato tanti anni e ora mi dici che non puoi aspettare nemmeno un giorno. Devi pur pensare che non ti sto raccontando frottole. dottore Dunque è vero! (Si alza e passeggia.) loth Che cosa è vero? dottore (perniandosi davanti a Loth e guardandolo ne­ gli occhi) Dunque c’è davvero qualcosa fra te e Ele­ na Krause. loth Chi ti ha...?

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DOTTORE Come sei capitato in questa famiglia? loth E tu come lo sai? dottore Non era molto difficile indovinarlo. loth E allora, per carità, non parlare affinché non... dottore Sicché siete veramente fidanzati? loth Secondo. In ogni caso siamo d'accordo. dottore Ma come sei cascato qui? Proprio in questa famiglia? loth Hoffmann è un mio compagno di scuola. Era anche membro, per quanto esterno, della mia asso­ ciazione coloniale. dottore Ne ho sentito parlare a Zurigo. Con te dun­ que si è intrattenuto? Ora mi spiego le sue due facce. loth Doppio è certamente. dottore Ma tu dimmi, sinceramente, fai proprio sul serio? Con la Krause, intendo. loth Beninteso. Ne dubiti forse? Non mi prenderai per un mascalzone... dottore Va bene, va bene. Non riscaldarti! Poteva anche darsi che dopo tanto tempo tu fossi mutato. E perché no? Non sarebbe neanche un danno. Un po’ di allegria non potrebbe nuocerti. Non capisco per­ ché si debba prendere tutto così maledettamente sul serio ! loth La mia questione è più seria che mai. (Si alza e sempre un passo più indietro cammina al fianco di Schimmelpfennig) Tu non puoi sapere, io stesso non saprei dire che cosa sia per me questa relazione. dottore Mah ! loth Non hai un’idea dello stato in cui mi trovo. Non lo si conosce e se ne ha la nostalgia. Se uno lo co­ noscesse potrebbe addirittura ammattire dal deside­ rio. dottore Chi vuoi che capisca come questo desiderio s’impossessi di voi...

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loth

Non puoi essere sicuro che non tocchi anche a

te.

La vorrei vedere! Parli come il cieco parla del colore. dottore Che cosa mi può venire da quel po’ di eb­ brezza? È ridicolo. Costruire su di essa un legame per tutta la vita... Più sicuro sarebbe costruire sulla sab­ bia. loth Ebbrezza, ebbrezza... chi parla di ebbrezza non parla da competente. L’ebbrezza è fuggevole. L’ho già avuta altre volte. Lo riconosco. Ma questa è diversa. dottore Sarà. loth E io ragiono a mente fredda. Credi forse che veda la mia ragazza... come posso dire? che la veda, come dire? con una grande aureola? Niente affatto. Ha dei difetti, non è proprio bellissima, se vogliamo essere oggettivi... ma è questione di gusti... per me, non ho mai visto una ragazza cosi bella. Ebbrezza, dunque... Assurdo! Non ho mai ragionato così fred­ damente. Però, vedi, questo è strano : non riesco a figurarmi senza di lei... È come... devi sapere, come una lega metallica, come quando due metalli sono tal­ mente fusi che nessuno saprebbe dire: questo è l’uno questo l’altro. E tutto è così ovvio... può anche darsi che io dica scempiaggini... O le mie parole sono as­ surde per te, ma certo è che chi non vede queste cose è un povero diavolo. Finora ero appunto un povero diavolaccio... E tu lo sei ancora. dottore È esattamente il quadro dei sintomi. Il fatto cioè che voi ci siete cascati fino al collo, in situazioni che avevate rifiutato in teoria, come tu, per esempio, il matrimonio. Da quando ti conosco soffri di questa disgraziata mania matrimoniale. loth II mio è un istinto, un moto istintivo, non posso farci nulla. dottore

loth

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Oh, anche un istinto si può vincere. Sì, se c’è uno scopo. Perché no? dottore C’è uno scopo ad ammogliarsi? LOTH Certo che c’è. E come! Per me ha uno scopo. Tu non sai in che modo ho dovuto vivere fin qui. Non vorrei diventare sentimentale. Forse non ne ave­ vo il sentimento preciso, forse non me ne sono mai reso conto come oggi : che cioè le mie aspirazioni erano quanto mai vuote, erano diventate quasi mec­ caniche. Senza spirito, senza entusiasmo, senza vita, chissà? forse non c’era neanche fede. Tutto questo mi è ritornato... Oggi è ritornato, un mondo così ricco, così originale, così gaio... È inutile, tanto non mi ca­ pisci. dottore Guarda un po' quante cose vi occorrono per stare a galla! Fede, amore, speranza. Per me son baggianate. La cosa invece è molto semplice : l’uma­ nità è in agonia e noialtri coi narcotici le rendiamo la vita passabilmente tollerabile. loth È la tua trovata più recente? dottore Così la penso da cinque o sei anni a questa parte. loth Mi congratulo. dottore Grazie. (Lunga pausa. Dopo aver tentato più volte l’avvio') Ecco, siamo a questo, purtroppo. Io mi considero in dovere... ti devo una spiegazione. Penso che non potrai sposare Elena Krause. loth (freddamente) Così pensi ? dottore Sì. Sono di questa opinione. Ci sono osta­ coli che proprio a te... loth Senti, per carità, non farti scrupolo. La situa­ zione non è affatto complicata, è terribilmente sem­ plice. dottore Potresti dire semplicemente terribile. loth In quanto agli ostacoli, intendo. dottore

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Così intendo anch’io. Ma non riesco a figu­ rarmi che tu conosca bene la situazione. loth La conosco abbastanza. dottore Allora devi aver modificato i tuoi principi. loth Ti prego, Schimmel, spiegati meglio! dottore Devi certo aver abbandonato i tuoi maggiori postulati circa il matrimonio, nonostante che poco fa mi abbia fatto intravedere che avresti sempre il de­ siderio di mettere al mondo discendenti sani di cor­ po e d’anima. loth Come dici? Io avrei... abbandonato... dottore Allora non c’è altra alternativa : devo dire che non conosci la situazione. Vuol dire, per esem­ pio, che non sai come Hoffmann abbia avuto un fi­ glio che a soli tre anni è stato vittima dell’alcoolismo. loth Cosa?... Cosa mi vieni a dire? dottore Mi dispiace, caro Loth, ma te lo devo dire. Poi farai quel che ti pare. Non è stato uno scherzo. Erano venuti qui in visita come ora. Mi mandarono a chiamare ma mezz’ora troppo tardi. Il povero pic­ cino era ormai dissanguato. (Loth pende dalle labbra del dottore, rivelando una profonda e tremenda abi­ tazione.) Quello sciocchino aveva arraffato la botti­ glia dell’aceto pensando che ci fosse la sua diletta grappa. La bottiglia gli cadde di mano e il bimbo cascò sui cocci e si tagliò nettamente la vena saphena. loth II bimbo di chi? dottore Di Hoffmartti e di quella stessa donna che qui sopra... e anche lei beve, beve fino all’incoscien­ za, tracanna tutto quello che trova. loth Dunque non proviene da Hoffmann... vero? dottore Dio guardi! Questo è il suo lato tragico, egli ne soffre quanto può soffrire un uomo. Ma sapeva che entrava in una famiglia di alcolizzati. Il capo del-

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la famiglia non esce più, si può dire, dall’osteria. Allora... capisco parecchie cose... anzi capisco tut­ to. (Dopo un cupo silenzio.) Allora la vita di lei... la vita che fa qui Elena... dev’essere... non so come di­ re... dev’essere... dottore Orrenda. Io ne so qualcosa. Fin da principio mi sono spiegato anche perché tu ti sia attaccato a lei. Ma, come dicevo... loth Sì, sì, capisco... Ma non... non si potrebbe forse indurre Hoffmann... a fare qualcosa? Tu non po­ tresti indurlo...? Bisognerebbe portarla via da que­ st’aria mefitica. dottore Hoffmann ? loth Sì, lui. dottore Come lo conosci male! Non credo, devo di­ re, che l’abbia già corrotta. Ma è certo che ha com­ promesso la sua reputazione. loth (sbottando) Se è così, lo ammazzo... Credi ve­ ramente... Credi che Hoffmann sia capace...? dottore Di tutto lo reputo capace, di tutto, se ne ri­ cava un piacere. loth In questo caso lei... è la creatura più cara che ci possa essere... (Prende adagio il cappello e il basto­ ne e si mette una borsetta a tracollai) dottore Che cosa conti di fare adesso? loth Non incontrare... dottore Dunque sei risoluto ? loth Risoluto a che cosa? dottore A sciogliere i vostri rapporti. loth Come potrei non essere risoluto? dottore Come medico ti posso anche dire che esisto­ no casi nei quali questi mali ereditari furono repressi, e tu certamente daresti ai tuoi figli una educazione razionale. loth Può darsi magari che ci siano di questi casi. loth

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dottore

E le probabilità non sono forse neanche po­

che... Non è una soluzione per noi. Il fatto è che ci sono tre possibilità : o la sposo e allora... no, questa eventualità non esiste. Oppure... la solita pallottola. Be’, allora si sta almeno in pace. Ma non siamo an­ cora a questo punto. Per il momento non me lo posso permettere. Bisogna vivere, combattere ! Andare avanti, sempre avanti. (Lo sguardo gli cade sulla tavola, ve­ de la penna e il calamaio preparati da Edoardo, si siede, impugna la penna, esita) O magari... ? dottore Ti prometto di spiegarle tutto con la mag­ gior chiarezza possibile. loth Sì, sì. Ma, non posso fare diversamente. (Scrive, mette l’indirizzo e chiude la busta. Si alza e stringe la mano a Schimmelpfennig') Per il resto mi affido a te. dottore Ora vai a casa mia, vero? Il mio vetturino ti ci porterà. loth Dimmi un po’. Non si dovrebbe almeno ten­ tare... di toglierla... dalle mani di costui? Altrimenti cadrà inevitabilmente nelle sue grinfie. dottore Caro, mi fai veramente pena. Posso darti un consiglio? Non toglierle... quel poco che le lasci an­ cora. loth (con un profondo sospiro) Il tormento di... Ma forse... hai ragione. Sì, hai ragione certamente. loth

Si sente qualcuno che scende precipitosamente la sca­ la. Dopo un istante entra Hofmann. Hoffmann Dottore, dottore, per carità... è svenuta... le doglie sono cessate... vuol venire?... dottore Vengo subito. (A Loth .con intenzione) Ar­ rivederci. (A Hoffmann, che gli va dietro) Signor

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Hoffmann, la prego... una distrazione, un disturbo, potrebbe essere fatale... Sarebbe meglio che lei re­ stasse qui. Hoffmann Lei mi chiede molto, dottore, ma... dottore Niente più del giusto. (Esce.) hoffmann (che rimane, scorge Loth) Tremo tutto. Vi­ bro dall’agitazione. E tu, dimmi, te ne vai ? loth Sì. hoffmann Ora, così, di notte? loth Vado soltanto da Schimmelpfennig. Hoffmann Vedo. Certo... Visto come stanno le cose, non è certo un piacere star qui. Ogni bene... loth Ti ringrazio dell’ospitalità. Hoffmann E il tuo progetto? A che punto sei? loth Quale progetto ? Hoffmann Quel tuo lavoro di economia, nella nostra regione. Non ti nascondo... che persino come amico vorrei pregarti vivamente e cordialmente di... LOTH Non inquietarti ! Domani sarò già lontano da qui. HOFFMANN Sei veramente... (s'interrompe.) loth Un vero amico, volevi dire, no? Hoffmann Cioè... sì... in un certo senso. Ma mi scu­ serai, sono tanto agitato. Conta su di me! I vecchi amici sono pur sempre i migliori. Addio! (Esce dal­ la porta di mezzo.) loth (prima di uscire si volta ancora ad abbracciare con lo sguardo la stanza per fissarsela nella mente) Ora potrei anche andarmene. (Esce dopo un ultimo sguardo l) Per un po’ la stanza rimane vuota. Si odono richiami smorzati e un rumore di passi. Poi compare Hoffmann che, chiusa la porta, estrae con calma sproporzionata il suo taccuìno e si mette a jar conti. Poi s’inter-

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rompe, sta in ascolto e inquieto va ad origliare alla porta. Qualcuno scende di corsa.

Elena (ancora di fuori) Cognato ! (Sulla soglia) Co­ gnato ! hoffmann Che c’è ? ELENA Fatti coraggio! Rassegnati... È nato morto. Hoffmann Gesù! (Esce di corsa.) ELENA (rimasta sola, si guarda intorno e chiama sotto­ voce) Alfredo! Alfredo! (Poi, non ricevendo rispo­ sta) Alfredo, Alfredo! (È corsa alla porta del giardi­ no d’inverno, guarda attraverso i vetri, poi entra. Do­ po un po’ ricompare) Alfredo! (Sempre più inquieta va a guardare dalla finestra) Alfredo! (Apre la fine­ stra e monta su una sedia. In quel momento si odono chiaramente dal cortile le grida di suo padre che ri­ torna dall’osteria.) Oilà ! Non sono forse un bell’uo­ mo, non ho una bella moglie? Non ho forse due belle figliole? Oilà... (Elena lancia un grido e si pre­ cipita verso la porta di mezzo. Dalla soglia scopre la lettera lasciata da Loth sulla tavola, la prende e strap­ pata la busta la scorre pronunciando a voce alta qual­ che parola) «Insormontabile»... «Mai più!» (La­ scia cadere la lettera, vacilla) Finita! (Con energia si prende la testa fra le mani e grida) Finita! (Si precipita dalla porta di mezzo. Fuori, ma più da vicino, si sente il padre.) Olà! Il podere non è forse mio? Non ho forse una bella moglie? Non sono un bel­ l’uomo? (Elena continuando a cercare viene dal giar­ dino d’inverno, s’imbatte in Edoardo che va a pren­ dere qualcosa nella camera di Hoffmann) Edoardo ! (Egli risponde:) Desidera, signorina? (E lei:) Vorrei... Cerco il dottor Loth... (Edoardo risponde:) Il dottor Loth è andato via con la carrozza del dottore. (Poi scompare nella camera di Hoffmann.) È vero, vero !

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{esclama Elena e ja jatica a reggersi. Con energia di­ sperata viene avanti e prende il coltello da caccia ap­ peso, sopra al sofà, alle corna di cervo. Lo nasconde e si trattiene in fondo finché Edoardo, venendo dalla camera dì Hoffmann, è uscito dalla porta di mezzo. Intanto la voce sì fa sempre più distinta) Oilà, non sono forse un bell’uomo? (A queste parole come a un segnale Elena corre nella camera di Hoffmann. La scena rimane vuota e si continua a udire la voce) Oilà, non ho forse i denti più belli? Non ho un bel poderetto? {Mila entra dalla porta di mezzo e si guar­ da in giro cercando) Signorina Elena ! Signorina Ele­ na ! {Intanto si ode la voce) Miei sono i quattrini ! {Mila è entrata senz’altro nella camera di Hoffmann lasciando aperta la porta. Dopo un istante esce a pre­ cipizio mostrando un folle terrore. Gridando si gira un paio di volte su se stessa e fugge dalla porta di mezzo. Per alcuni secondi si sentono le sue grida, sempre più deboli per la distanza. Si sente aprire la porta di casa che poi si chiude con fracasso, si ode un rumore di passi nel vestibolo: è il vecchio barcollante che borbotta vicinissimo, con la voce nasale dell'u­ briaco) Oilà, non ho due belle figliole?

Titolo originale: DIE WEBER

Traduzione di Ervino Pocar Prima edizione: Berlino 1892 Prima edizione italiana: Milano 1894

A mio padre Robert Hauptmann dedico questo dramma

Se offro questo dramma a te, caro babbo, lo jaccio se­ guendo i sentimenti a te noti, che qui non è necessario analizzare. Il racconto che mi jacevi del nonno il quale negli anni giovanili, povero tessitore, come quelli qui descrit­ ti, aveva lavorato al telaio, è stato il germe della mia opera che, sia essa intimamente vitale o bacata, è però quanto dì meglio abbia da offrire « un poveruomo co­ me Amleto ». Il tuo Gerhart

Personaggi

DREISSIGER

fabbricante di fustagno

SUA MOGLIE

PFEIFER NEUMANN

controllore cassiere

IL GARZONE GIOVANNI

cocchiere

UNA CAMERIERA WEINHOLD

istitutore dei figli di Dreìs siger

IL PASTORE KITTELHAUS SUA MOGLIE

HEIDE KUTSCHE

WELZEL

commissario di polizia gendarme oste

SUA MOGLIE ANNA WIEGAND

loro figlia falegname

UN VIAGGIATORE UN CONTADINO

UN GUARDABOSCHI SCHMIDT

HORNIG

IL VECCHIO WITTIG BÄCKER

MAURIZIO JÄGER

chirurgo straccialo fabbro ferraio

tessitori

IL VECCHIO BAUMERT

MAMMA BAUMERT BERTHA

EMMA

figli di Baumert

AUGUSTO FRITZ

figlio di Emma

IL VECCHIO ANSORGE

LA HEINRICH IL VECCHIO HILSE

SUA MOGLIE TEOFILO HILSE LUISA

EMILIETTA

sua moglie loro figlia

REIMANN

HEIBER

Un ragazzo di otto anni - Tintori - Un gran numero di tessitori, giovani e vecchi, e le loro mogli

I fatti avvengono nel quinto decennio del secolo XIX a Kaschbach nell’Eulengebirge, nonché a Peterswaldau e a Langenbielau ai piedi dell’Eulengebirge.

Atto Primo

Una stanza spaziosa dalle pareti dipinte dt grigio nel­ la casa di Dreissiger a Peterswaldau : il locale dove i tessitori hanno da consegnare il tessuto finito. A si­ nistra ci sono fnestre senza tendine, nella parete di pondo una porta vetrata, a destra un'altra porta ugua­ le dalla quale vanno e vengono continuamente tessi­ tori, le loro mogli e i figli. Lungo la parete destra, che come le altre è in gran parte coperta da scaffali di legno per il fustagno, corre un banco sul quale ì tessitori arrivati stendono la loro merce. In ordine di arrivo si fanno avanti e presentano la merce per il controllo. Il controllore Pfeifer sta dietro a una gran­ de tavola sulla quale il tessitore pone il tessuto da esaminare·. Per l’esame Pfeifer si serve di un com­ passo e dì una lente. A esame compiuto il tessitore pone il fustagno sulla bilancia e un commesso ne controlla il peso. Il medesimo commesso passa poi la merce accettata nello scaffale. Pfeifer dice di volta in volta a voce alta l’importo che è da pagare al cas­ siere Neumann il quale è seduto a un tavolino. È una giornata afosa verso la fine di maggio. L’oro­ logio segna le dodici. La maggior parte dei tessitori in attesa assomiglia a persone che si trovino davanti alle sbarre del tribunale, dove in penosa tensione so­ no in attesa di una sentenza di vita o dì morte. D’al­ tro canto tutti hanno un che di depresso, di peculiare

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a chi riceve l’elemosina e, passando da un’umiliazio­ ne all’altra, con la coscienza di essere soltanto tolle­ rato, è avvezzo a farsi notare il meno possibile. Si aggiunge su tutti i visi il tratto fisso di chi segue un pensiero tormentoso e inconcludente. Gli uomini, si­ mili tra loro, parte di statura nana, parte dall’aria gretta e servile, sono per lo più gente misera, stretta di torace, tossicolosa, d’un pallore sporco: creature del telaio che a furia di star sedute hanno le ginocchia curve. Le loro donne presentano a prima vista meno elementi tipici: sono disfatte, affannate, stracche mentre i mariti mettono in mostra una certa meschina gravità - e sbrindellate, laddove gli uomini sono rat­ toppati. Talvolta le ragazze non sono prive di fasci­ no: in tal caso hanno un pallore cereo, forme delicate, occhi grandi, prominenti, malinconici. (contando il denaro) Restano sedici grossi d'argento e due soldi. prima tessitrice (trentenne, molto macilenta, incassa il denaro con dita tremanti) La ringrazio. neumann (vedendo che la donna si ferma) Be’? C’è ancora qualcosa che non va? tessitrice (agitata, implorante) Un paio di soldi di anticipo, ecco, ne avrei proprio bisogno. neumann Io ho bisogno di qualche centinaio di tal­ leri. Se bastasse aver bisogno! (Occupato a pagare un altro tessitore, secco) Degli anticipi decide il signor Dreissiger in persona. tessitrice Potrei allora parlare col signor Dreissiger? Pfeifer (ex tessitore. In lui i tratti tipici sono evi­ denti; soltanto è ben pasciuto, vestito con garbo, raso con cura e anche assiduo consumatore di tabacco da fiuto. Interviene bruscamente) Se dovesse occuparsi personalmente di ogni inezia, il signor Dreissiger NEUMANN

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avrebbe un bel da fare. Per questo siamo qui noi. (Usa il compasso e la lente) Accidenti, che corrente! (Si avvolge intorno al collo un grosso scialle) Chiuda la porta chi entra. il commesso (a Pfeifer con voce alta) È come par­ lare al muro. Pfeifer Fatto e finito! Bilancia! (Il tessitore posa il tessuto sulla bilanciai) Sapeste far meglio il vostro me­ stiere! Di nuovo ci sono barrature... Non voglio nean­ che guardare. Il bravo tessitore non rimanda la risubbiatura a chi sa quando. Bäcker (è un tessitore giovane, eccezionalmente robu­ sto, dal contegno franco quasi insolente. Pfeifer, Neu­ mann e il commesso vedendolo entrare si scambiano uno sguardo d’intesa) Accidenti al diavolo ! C’è da sudare come se fossimo sacchi di lisciva! primo tessitore (sottovoce) Mi pare che voglia pio­ vere. il vecchio Baumert (entra dalla porta vetrata a de­ stra. Dietro la porta si vedono tessitori pigiati, spalla contro spalla, in attesa. Il vecchio si è spinto avanti traballando e ha deposto il suo carico, sul banco, vi­ cino a Bäcker. Si siede lì accanto e si asciuga il su­ dore) È un riposo meritato. Bäcker Meglio il riposo che un grosso di Boemia. il vecchio baumert Farebbe bene anche un grosso di Boemia. Buongiorno, Bäcker! Bäcker Buongiorno, papà Baumert. Adesso bisognerà aspettare chissà fin quando. primo tessitore Non ha importanza. Il tessitore aspetta un’ora e anche un giorno. Il tessitore è quel­ lo che è. pfeifer Silenzio là dietro! Non ci si intende più! backer (sottovoce) Anche oggi ha la luna per tra­ verso.

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(đ/ tessitore che sta davanti a luì) Quante volte ve lo ho già detto ! Bisogna pulire meglio. Che razza di porcheria è questa? Qui ci sono grossi di fi­ latura lunghi un dito, ci sono fuscelli e ogni sorta di robaccia. tessitore reimann Bisognerebbe avere una nuova pinza da ripassatura. commesso {che ha pesato il tessuto) Non è giusto neanche il peso. pfeifer Son tessitori questi?... Peccato per ogni cate­ na che si dà da lavorare. Oh, ai miei tempi, Gesù! Il mio padrone me l'avrebbe fatto sentire. Allora sì che la tessitura era un’altra cosa. Allora bisognava sa­ pere il proprio mestiere. Oggi non occorre più. Reimann, dieci grossi d'argento. REiMANN C’è da calcolare però una libbra di calo. pfeifer Non ho tempo. Fatto e finito. Voi che cosa portate ? tessitore heiber {presenta il suo tessuto. Mentre Pfei­ fer lo esamina, Heiber gli si avvicina e gli parla insi­ stentemente a mezza voce) Mi perdonerà, signor Pfei­ fer, vorrei proprio pregarla umilmente, se vuol farmi la grazia di essere così cortese da non dettarmi que­ sta volta l’anticipo. pfeifer {sempre lavorando col compasso e con la lente, in tono beffardo) Già, già, sarebbe bella anche que­ sta. La metà della trama è rimasta di nuovo nella ma­ tassa, vero? heiber {continuando come sopra) Volevo fare il pa­ reggio la settimana ventura. Nella passata ho dovuto prestare due giorni di lavoro nella tenuta. Per giunta la mia vecchia è a casa malata... pfeifer {porgendo il tessuto alla bilancia) Anche que­ sta volta è proprio un lavoraccio. {Mettendosi ad os­ servare un altro tessuto) Che cimosa, ora larga, ora pfeifer

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stretta. Qui avrete stretto la trama chissà quanto, qui l’avete di nuovo allentata. A mala pena settanta fili per pollice. E il resto dove è andato? Questo sarebbe un lavoro onesto? Bella roba!

Heiber reprime le lacrime, rimane umiliato e impo­ tente.

(đ Baumert con voce sommessa) Per queste canaglie dovremmo acquistare anche il filato per giunta. prima tessitrice (la quale si è ritirata soltanto un po’ dalla cassa e di quando in quando si è guardata in­ torno con gli occhi fissi cercando aiuto senza spostarsi, ora si ja coraggio e si rivolge di nuovo implorante al cassiere) Presto mi toccherà... Non so, se questa vol­ ta lei non mi concede racconto... O Gesù, Gesù! Pfeifer (dal suo posto) Che piagnisteo è questo? La­ sciate stare Gesù. Di solito non vi curate gran che di Gesù. Badate piuttosto a vostro marito che non lo si veda tutti i momenti alla finestra dell’osteria. Noi non possiamo dare anticipi. Dobbiamo render conto, noi. Non è denaro nostro. Lo dobbiamo consegnare dopo. Chi è assiduo e sa il suo mestiere e lavora nel timor di Dio non ha neanche bisogno di anticipi. Fatto e finito. neumann E se il tessitore di Bielau prende quattro volte tanto, spreca anche quattro volte tanto e ancora fa debiti. prima tessitrice (a voce alta, come jacendo appello al senso di giustizia di tutti) Io non sono certo fannullona, ma così non posso andare avanti. Fatto è che ho avuto due aborti. E in quanto a mio marito, an­ che lui è conciato : è stato dal pastore di Zerlau, ma nemmeno lui ha potuto guarirlo, e allora... non si può ottenere per forza... Noi lavoriamo certo fin dove le backer

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forze ci sostengono. Già da molte settimane non ho chiuso occhio e penso che potrò lavorare di nuovo quando potessi cavarmi un po’ la debolezza dalle os­ sa. Ma anche lei deve avere un po’ di comprensione. (Insistente, implorando e cercando di ingraziarselo) Guardi, la prego umilmente, mi conceda questa volta un po’ di soldi. Pfeifer (senza darle retta) Fiedler, undici grossi d’ar­ gento. tessitrice Soltanto un po’ di quattrini, che possa comprarmi il pane. Il contadino non dà più nulla a credito. E abbiamo un mucchio di bambini... neumann (al commesso sottovoce e con comica gravità) « II tessitore è simile al coniglio. » Zigo zago, zigo zago, ciac, ciac, ciac. il commesso (nello stesso tono) « Non passa un an­ no che non faccia un figlio. » (Termina la canzonetta) Zizo zago, zigo zago, ciac, ciac, ciac. REiMANN (senza toccare il denaro che il cassiere gli ha presentato) Per una pezza abbiamo sempre ricevuto tredici grossi e mezzo. Pfeifer (dal suo posto) Se non vi comoda, Reimann, non avete che da dire una parola. Tessitori ce n’è ab­ bastanza. Specie di quelli come voi. Quando il peso è giusto anche il compenso è giusto. reimann Possibile che manchi sul peso... Pfeifer Portate una pezza di fustagno senza difetti e anche il compenso sarà adeguato. reimann Ma non è possibile che ci siano dentro tanti difetti. pfeifer (controllando) Il bravo tessitore fa vita da signore. HEiBER (che è rimasto vicino a Pfeifer per cogliere an­ cora una volta il momento favorevole. Anche lui ha sorriso alla rima di Pfeifer e ora gli si avvicina e gli

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parla come la prima volta) Signor Pfeifer, desidere­ rei proprio pregarla... Chissà che lei... se volesse avere un po’ di pietà e questa volta non mi detraesse quei cinque grossi. Mia moglie è a letto malata fin da carnevale. Non può aiutarmi in nessun modo. E devo pagare una ragazza che dipani. Per questo... Pfeifer {prendendo una presa di tabacco) Heiber, non ho da sbrigare soltanto voi. Anche gli altri aspettano il loro turno. reimann Ho ricevuto la catena in queste condizioni. Così l’ho insubbiata e smontata. Non posso riportare un filato migliore di quello che ho ricevuto. PFEIFER Se non vi comoda, non occorre che veniate a prendere un’altra catena. Ce ne sono tanti che si consumerebbero le suole per venirla a prendere. neumann (đ Reimanrì) Non volete prendere questo de­ naro ? REIMANN Creda, non posso essere d’accordo. NEUMANN {senza curarsi più di Reimanrì) Heiber, die­ ci grossi d’argento. Detratti cinque grossi. Restano cin­ que grossi. heiber {si avvicina, guarda il denaro, si ferma, scuote la testa come se gli sembrasse incredibile e prende il denaro lentamente) Ahimè, ahimè! {Con un sospirò) Ecco, siamo a questo punto! il VECCHIO BAUMERT {in faccia a Heiber) Sì, sì, Fran­ cesco. È proprio il caso di sospirare. heiber {parlando con fatica) Vedi, e dire che a casa ho anche una bambina ammalata. Un po’ di medicina ci vorrebbe. Baumert Che cos’ha? heiber Vedi, fin da piccola è stata mingherlina. Non so nemmeno io... Vedi, a te, lo posso dire. Lo ha ere­ ditato. È una porcheria che ha nel sangue e la copre tutta.

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Baumert Ce n’è per tutti. Quand’uno è povero le di­ sgrazie arrivano l’una sull’altra. Non c’è scampo, non c’è rimedio. HEIBER Che cos’hai che tieni avvolto in quel panno? Baumert In casa siamo rimasti lisci. Allora ho fatto ammazzare il nostro cane. Non c’è attaccato molto, anche il cane era mezzo morto di fame, era piccolo, carino. Non ho voluto ammazzarlo io. Non ne avevo il coraggio. Pfeifer {dopo aver controllato il tessuto di Bäcker, an­ nunciò) Bäcker, dodici grossi d’argento e mezzo. Bäcker Questa è una misera elemosina, non un com­ penso. pfeifer Chi è sbrigato abbandoni il locale. Qui altri­ menti non ci si muove. backer {senza smorzare la voce, a quelli che gli stanno intorno) È una mancia schifosa e nient’altro. Si sta a premere le calcole dalla mattina presto fino al calar della notte. E quando uno è stato diciotto giorni al telaio e ogni sera sembra spremuto e gli viene il ca­ pogiro dalla polvere e dal caldo, ecco che si è gua­ dagnato felicemente dodici grossi boemi e mezzo. pfeifer Qui non si mugola! Bäcker Non sarà certo lei a tapparmi la bocca. pfeifer Vorrei vedere anche questa! {Balza in piedi, corre verso la porta vetrata e grida nello studio) Si­ gnor Dreissiger, signor Dreissiger, abbia la compia­ cenza di venire un momento ! dreissiger {un uomo sulla quarantina, obeso, asmatico, entra e dice con faccia severa) Che succede, Pfeifer? pfeifer {facendo il nesci) Bäcker dice che non vuole lasciarsi tappare la bocca. dreissiger {ergendosi, alzando il mento e fissando Bä­ cker, mentre gli tremano le pinne del naso) Oh, Bä-

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cker? (A Pfeifer) È quello...? (/ due impiegati annuisconol) Bäcker (insolente) Sì, sì, signor Dreissiger. (Mostran­ do se stesso) Questo è quello (mostrando Dreissiger) e questo è quell’altro. dreissiger (indignato) Che cosa si permette costui? Pfeifer Sta troppo bene. Quello andrà a ballare sul ghiaccio finché cadrà in fallo. Bäcker (brutalmente) Ohi, omino dei quattrini, bada a come parli ! Sarà stata tua madre una notte di luna nuova, a cavallo della scopa, ad aver commesso un fallo con Lucifero perché tu potessi diventare il dia­ volo che sei. dreissiger (urlando, in collera) Silenzio! Silenzio al­ l’istante, altrimenti... (Trema e avanza di qualche passo.) backer (aspettandolo risolutamente) Non sono sordo, sento ancora bene. dreissiger (si domina e domanda con apparente calma burocratica) Non c’era anche costui ? Pfeifer Sì, è un tessitore di Bielau. Quelli ci sono sempre quando si tratta di far baccano. dreissiger (tremando) Ve lo dico io : se accade anco­ ra una volta... se una banda di mezzi ubriachi mi capita ancora una volta, una banda di mascalzoni, una ban­ da di ragazzacci villani, davanti a casa mia come ieri sera... con quella canzone infame... Bäcker Quella del tribunale per la vita e la morte, vuol dire? dreissiger Saprete voi quale! E vi dico, se la sento ancora una volta, faccio acciuffare uno di voi e — pa­ rola d’onore, non scherzo — lo consegno al commis­ sario. E se pesco l’autore di questa miserabile can­ zone...

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Bäcker É una bella canzone, bisogna dire. DREISSIGER Ancora una parola e chiamo la polizia all’istante. Non sto a perdere tempo. Riusciremo a te­ nere a posto anche voi. Ho tenuto a posto ben altra gente. Bäcker Lo credo e come! Un fabbricante così tiene a posto due o trecento tessitori in un batter d’occhio. E non lascia indietro neanche un paio di ossa fradice. Uno così ha quattro stomachi come le vacche e una dentatura da lupo. Oh, non c’è che dire. DREISSIGER {agli impiegati) Costui non piglia più un filo da noi. Bäcker Oh, morire di fame al telaio o dentro un fos­ so è proprio la stessa cosa per me. DREISSIGER Fuori, fuori immediatamente! backer (cow jermezza) Prima voglio la paga. DREISSIGER Quanto spetta a costui, Neumann? NEUMANN Dodici grossi d’argento e cinque soldi. DREISSIGER {prende con gran pretta il denaro dal cas­ siere, lo butta sul banco in modo che qualche moneta rotola sul pavimento) Ecco qua ! E ora fuori di qui ! backer Prima voglio la paga. DREISSIGER Eccola lì, la vostra paga. E se ora non vi spicciate a uscire... Sono appunto le dodici e i miei tintori stanno cessando il lavoro... Bäcker La paga va messa qui in mano. Qui va messa la paga. {Con le dita della destra si tocca il palmo' della mano sinistra.) DREISSIGER {al commesso) Tilgner, raccatti lei. Il commesso eseguisce e pone il denaro nella mano di Bäcker.

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Bäcker Bisogna fare le cose a modo e per bene. (Sen­ za affrettarsi ripone il denaro in un vecchio borsel­ lino.) DREISSIGER Ebbene? (Vedendo che Bäcker non si al­ lontana, impaziente) Devo dare una mano? (Tra la polla fitta dei tessitori si nota un movimento. Qualcu­ no manda un sospiro lungo e propendo. Poi si sente un tonjo. L’attenzione di tutti si rivolge al patto nuo­ vo.) DREISSIGER

Che succede lì?

Uno è cascato in terra. È un ra­ gazzino scarnito. Che sia malcaduco o qualcos’altro? DREISSIGER Ha... come dite? Cascato per terra? (Si av­ vicinai) UN vecchio tessitore Infatti è lì. (Si pa largo. Si vede un ragazzo di otto anni steso per terra come morto.) DREISSIGER C’è qualcuno che conosce questo ragazzo? vecchio tessitore Del nostro villaggio non è. il vecchio baumert To’, mi pare che somigli quasi a Heinrichen. (Lo osserva meglio) Sì, sì, è Gustavino di Heinrichen. dreissiger Dove abitano costoro? il vecchio baumert Lassù da noi a Kaschbach, signor Dreissiger. La sera va a suonare e di giorno lavora al telaio. Hanno nove figlioli e il decimo per la strada. diversi tessitori e tessitrici È gente che vive mol­ to a stento. Gli piove nella stanza. La donna non ha neanche due carnicine per nove figlioli. il vecchio baumert (afferrando il ragazzo) Ehi, ra­ gazzino, che ti prende ? Su, svegliati ! dreissiger Aiutate a prenderlo, cerchiamo di tirarlo su. Bisogna essere senza cervello per far fare tutta questa strada a un bambino così debole. Pfeifer, vada a prendere un po’ d’acqua! alcune tessitrici

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{che aiuta a sollevarlo) Non fare brutti scherzi, non morire, figliolo. DREISSIGER Oppure, Pfeifer, un po' di cognac. È me­ glio il cognac. Bäcker {dimenticato da tutti è stato ad osservare; ora, tenendo una mano sulla maniglia della porta, dice ad alta voce, e in tono ironico) Dategli qualcosa da mettere sotto i denti, vedrete che si riprende. {Esce.) DREISSIGER Quello là va a finir male. Neumann, lo prenda sotto le ascelle. Piano, adagio... così... così... portiamolo nella mia stanza. Che cosa vuole? NEUMANN Ha detto qualcosa, signor Dreissiger. Muove le labbra. DREISSIGER Che cosa vuoi, ragazzino? il ragazzo {in un soffio) Ho fame. DREISSIGER {impallidisce) Non capisco che cosa dice. tessitrice Ha detto, mi pare... DREISSIGER Adesso vedremo. Non intralciate. Da me può coricarsi sul divano. Adesso sentiremo che cosa dice il medico. tessitrice

Dreissiger, Neumann e la tessitrice conducono il ragaz­ zo nello studio. 1 tessitori si agitano come scolari quando il maestro è uscito dalla classe. I presenti si sgranchiscono, sussurrano, fanno qualche passo e dopo pochi secondi tutti parlano a voce alta. il vecchio baumert

Credo ancora che Bäcker abbia

ragione.

Così diceva infatti. Non è la prima volta che la fame butta a terra qualcu­ no. - E poi chissà come sarà d’inverno, se si continua a raccorciare la paga. - Anche .a patate si starà male quest’anno. — Non muterà, finché non si vada tutti a ingrassare i cavoli.

alcuni tessitori e tessitrici

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Baumert Meglio fare come il tessitore Nentwich, ci si mette un cappio intorno al collo e ci si impicca alla stanga del telaio. To’, piglia una pre­ sa. Sono stato a Neurode ove c’è mio cognato che la­ vora nella fabbrica, dove lo fanno, il tabacco da naso. È stato lui a darmene qualche pizzico. E tu che cos’hai di bello nel fazzoletto? vecchio tessitore È soltanto un po’ di orzo periato. Camminavo dietro al mugnaio Ullbrich e c’era un sacco un po' squarciato. Capirai come mi venga a fagiolo. il vecchio Baumert Ventidue mulini ci sono a Peterswaldau, e a noi altri non ne tocca un briciolo. vecchio tessitore Eh, bisogna non perdersi d’animo. Qualche cosa viene sempre e aiuta a tirar avanti un tratto. HEIBER Ecco, quando arriva la fame bisogna pregare tutti i santi del paradiso e se questo non serve a sa­ ziarci, ci si mette in bocca un sasso e lo si succhia. Vero, Baumert? il vecchio

Dreissiger, Pfeifer e il cassiere rientrano.

DREISSIGER Non è stato niente di grave. Il ragazzo è di nuovo vispo e in gamba. {Passeggia agitato, sbuf­ fando) Resta però sempre un’incoscienza. Il ragazzo è un fuscello che un soffio lo porta via. È proprio inconcepibile che uomini... che genitori possano esse­ re così irragionevoli. Gli caricano sulle spalle due pez­ ze di fustagno per due buone miglia di strada. Pro­ prio da non credere. Dovrò introdurre il sistema che dai ragazzi non si accetti più la merce. {Di nuovo passeggia per un po’ in silenzio) In ogni caso deside­ ro assolutamente che ciò non abbia a ripetersi. Infine chi ci fa brutta figura? Naturalmente noi industriali.

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La colpa è sempre nostra. Se un poveraccio così in pieno inverno affonda nella neve e s’addormenta, ec­ coti che arriva uno scribacchino piovuto da chissà do­ ve e dopo due giorni tutti i giornali portano la noti­ zia raccapricciante. Il padre, i genitori che mandano un ragazzo così... Ih, per carità che colpa avranno loro? Tocca all’industriale - l’industriale è il capro espiatorio. Il tessitore è sempre accarezzato, l’indu­ striale è sempre bastonato : è un uomo senza cuore, un macigno, un individuo pericoloso che qualunque gazzettiere può mordere. Lui fa vita splendida, se la gode e dà ai poveri tessitori paghe da fame. Ma un uomo così ha pure i suoi pensieri e le notti insonni, corre grossi rischi, dei quali il lavoratore non ha un’idea. Talvolta a furia di somme, divisioni e molti­ plicazioni, di calcoli e controcalcoli, non sa dove ab­ bia la testa, deve pensare a mille cose, riflettere e lottare, diremo così, per la vita e per la morte e so­ stenere la concorrenza, di modo che non passa gior­ no senza stizze e perdite : queste cose la cortesia del giornalista non le dice. E quanti non stanno attaccati all’industriale, quanti non lo spremono e pretendono di vivere alle sue spalle! Oh, dovreste provare sol­ tanto qualche volta a essere nei miei panni, presto ne avreste abbastanza. (JDopo qualche istante di rac­ coglimento) E come si è comportato qui quel giova­ notto, quel Bäcker! Adesso andrà in giro a strombet­ tare che io sono chissà quanto spietato. Che io per un'inezia butto fuori i tessitori come se nulla fosse. È forse vero? Sono proprio così spietato? molte voci No, signor Dreissiger ! DREISSIGER Ecco, pare anche a me. E intanto questi villanzoni vanno in giro a cantare canzonacce contro di noi industriali, parlano di fame e ne hanno invece per ingollare grappa a quartini. Dovrebbero un po’ ficcare

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il naso da qualche altra parte e vedere come stanno i tessitori di lino. Quelli sì che possono parlare di mi­ seria. Qui, invece, voialtri tessitori di fustagno siete ancora in condizioni tali da ringraziare in silenzio il buon Dio. E io domando ai tessitori vecchi bravi e so­ lerti qui presenti: un lavoratore che sappia fare econo­ mia riesce o non riesce a vivere qui con me? moltissime voci Sì, signor Dreissiger! DREISSIGER Ebbene, vedete? Naturalmente un individuo come Bäcker, quello no. Ma vi consiglio, tenete a freno questi giovanotti. Se si passano i limiti chiudo, liquido l’azienda e voi vedrete di cavarvela. Cerche­ rete chi vi dia lavoro. Non certo l’onorato Bäcker. prima tessitrice (jf è avvicinata a Dreissiger e con strisciante umiltà gli pulisce la polvere dalla giacca) Scusi, signor Dreissiger, qui lei deve essersi appog­ giato da qualche parte. dreissiger Gli affari vanno alla malora, lo sapete an­ che voi. Io ci rimetto invece di guadagnare. Se no­ nostante tutto provvedo affinché i miei tessitori ab­ biano sempre lavoro, presuppongo che lo si ricono­ sca anche. Ho migliaia di pezze giacenti e oggi non so ancora se un giorno mi riuscirà di venderle. Ora ho saputo che qui intorno ci sono moltissimi tessitori senza lavoro, e allora... bene, Pfeifer vi spiegherà il resto. La faccenda è questa, affinché vediate la buona volontà... Naturalmente io non posso distribuire ele­ mosine, non sono abbastanza ricco, ma fino a un certo punto posso offrire ai disoccupati l'occasione di gua­ dagnare almeno una piccolezza. Se per farlo affronto un rischio immenso, questo è affar mio. Io penso, se uno può guadagnare col suo lavoro ogni giorno una fetta di ricotta è pur sempre meglio che patire la fame. Dico bene? molte voci Sì, sì, signor Dreissiger!

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Dunque sono pronto a dar lavoro ad altri duecento tessitori. Le condizioni ve le spiegherà Pfei­ fer. (S’avvia.) prima tessitrice (gli taglia la strada, parla affanno­ samente insistendo e implorando') Signor Dreissiger, vorrei gentilmente pregarla, se lei forse... io, vede, ho avuto due aborti. dreissiger (in fretta) Buona donna, parlate con Pfei­ fer, io ho già fatto tardi. (La pianta lì.) reimann (anche lui gli taglia la strada e parla in tono di accusa come persona offesa) Signor Dreissiger, devo proprio lamentarmi. Il signor Pfeifer mi ha... per il mio tessuto ho sempre avuto finora dodici grossi e mezzo... dreissiger (lo interrompe) Là c’è il mio segretario. Rivolgetevi a lui : questo è l’indirizzo giusto. HEiBER (trattenendo Dreissiger) Signor Dreissiger! (balbettando con fretta affannata) vorrei proprio pre­ garla, che forse lei potrebbe... Il signor Pfeifer po­ trebbe... potrebbe... dreissiger Che cosa volete dunque? HEiBER L’anticipo dell’altra volta, quello dico, che io... dreissiger Non vi capisco proprio. HEiBER Ho avuto molto bisogno perché... dreissiger Affare di Pfeifer, affare di Pfeifer. Io non posso proprio... sbrigatevela con Pfeifer. (Si ritira nello studio. I postulanti si guardano imbarazzati. Uno dopo l’altro si ritirano sospirando.) Pfeifer (riprendendo i controlli) Tu, Annina, che cosa porti ? il vecchio Baumert Quanto ci pagherà per pezza, signor Pfeifer? pfeifer Dieci grossi d’argento. il vecchio baumert Be’, continuate pur così! DREISSIGER

Movimento tra i tessitori, che sussurrano tra loro.

Atto Secondo

La stanzetta del campagnolo Guglielmo Ansorge a Kaschbach nell’Eulengebirge. In un locale angusto, al­ to appena sei piedi dal pavimento assai sconnesso fi­ no al soffitto di travi annerite dal fumo, stanno sedu­ ti: due ragazze, Emma e Berta Baumert ai telai; mam­ ma Baumert, una vecchia rattrappita, su uno sgabello vicino al letto, davanti a un arcolaio; suo figlio Au­ gusto, ventenne, idiota, con il torace piccolo, la testa piccola, le estremità lunghe da ragno, su uno sgabelli­ no anche lui occupato ad avvolgere filo. Da due fine­ strelle alla parete sinistra in parte chiuse con carta e tappate con paglia, entra la luce fioca e rosea della sera. Essa investe i capelli sciolti, biondastri delle ra­ gazze, le loro spalle scarne e nude, il collo sottile, ce­ reo, le pieghe della rozza camicia che insieme con una sottanina di ruvidissima tela costituiscono tutto il loro vestimento. La luce calda illumina il viso, il collo, il petto della vecchia: un viso ridotto a scheletro, con grinze e rughe della pelle esangue, con gli occhi in­ dossati che per la polvere di lana, per il fumo e per il lavoro alla luce artificiale sono infiammati, arrossati e lacrimosi, un lungo collo gozzuto tutto rughe e ten­ dini, il petto incavato, coperto di panni stinti e stracci. La luce illumina anche una parte della parete destra con la stufa, la panca, il letto e alcune immagini di santi dai colori vivaci. Dalla stanga presso la stufa

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pendono stracci messi ad asciugare, dietro la stufa un mucchio di anticaglie senza valore. Sulla panca, presso la stuja, sono alcune vecchie pentole e tegami; bucce di patate sono stese a seccare su jogli di carta. Dalle travi pendono matasse e rotoli di piato. Accanto ai te­ lai sono deposti cestelli con rocchetti. Nella parete di fondo una porta bassa senza serratura. Accanto, un fascio di vimini appoggiato alla parete, e alcuni ca­ nestri rotti. Lo strepito dei telai, il rimbombo ritmico della cassa battente che fa tremare il suolo e le pareti, gli scatti della spola che va e viene riempiono la stan­ za. Vi si mescola il suono profondo, continuato, mo­ notono degli arcolai che somiglia al ronzio di grandi calabroni.

Baumert (co» voce stanca e lamentosa, quan­ do le ragazze smettono di tessere e si chinano sopra il tessuto') Ancora dovete annodare? EMMA fla maggiore, ventiduenne, mentre annoda i fili strappati) Che razza di filo, questa volta, ahimè! berta (quindicenne) È un gran tormento questo ordito. EMMA Come mai tarda tanto ? È andato via fin dalle nove. mamma baumert Appunto, appunto! Chissà perché tarda, ragazze? berta Non state in pensiero, mamma ! mamma baumert Si sta sempre in pensiero. (Emma continua a tesserei) berta Aspetta un momento, Emma ! Emma Che c’è? berta Mi pareva di sentire qualcuno. EMMA Sarà Ansorge che ritorna a casa. fritz (un bambino di quattro anni, scalzo, stracciato, entra piangendo) Mamma, ho fame! mamma

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Aspetta, Fritz, il nonno arriva subito e porterà pane e caffè. fritz Ho tanta fame, mammina. EMMA Te lo sto dicendo. Non essere sciocchino. Verrà subito e porta un bel panino col caffè d’orzo. Quan­ do poi abbiamo finito di lavorare, mamma prende le bucce di patate, le porta dal contadino e quello le dà in cambio un bel pentolino di siero per il bam­ bino. fritz Dove è andato il nonno? EMMA Dal fabbricante, è andato a consegnare una pez­ za. fritz Dal fabbricante? EMMA Sì, sì, Fritz, da Dreissiger a Peterswaldau. fritz E là gli danno pane? EMMA Sì, sì, quello gli dà il denaro e lui può com­ prarsi il pane. fritz E dà al nonno molto danaro? EMMA {violenta) O smettila, bimbo, con queste chiac­ chiere. (Continua a tessere, così pure Berta. Poco dopo tutte e due smettono^) berta Augusto, va’ a chiedere ad Ansorge se vuol ac­ cendere il lume. {Augusto esce e Fritz con luti) mamma Baumert {con crescente angoscia puerile, quasi piagnucolando) Figliole, figliole, perché tarda quel­ l’uomo? berta Sarà andato a trovare Hauff. mamma Baumert {piangendo) Purché non sia andato in qualche osteria! EMMA Oh via, mamma, nostro padre non è un uomo di quelli. mamma baumert {fuori dì sé per una -folla di timori che l’assediano) Via, via... Ma dite un po’, dove s’andrà a finire? Purché... purché venga a casa... e se va a bere e non porta niente a casa? Non c’è in casa

EMMA

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una manciata di sale, non un pezzo di pane. Ci vor­ rebbe anche una palata di carbone... berta Non darti pensiero, mamma. Ê chiaro di luna. Andiamo nel bosco, portiamo con noi Augusto e si raccoglie un po’ di rami secchi. mamma baumert Già, perché il guardaboschi vi col­ ga! ANSORGE (»« vecchio tessitore con corporatura da gigan­ te, che per entrare nella stanza deve chinarsi profon­ damente, mette dentro la testa e il busto. Ha i capelli e la barba incolti) Cosa volete? berta Vi preghiamo di accendere il lume. ansorge (con voce smorzata come alla presenza di un malato) Ma se è ancora chiaro ! mamma baumert Già adesso lasciaci anche al buio. ansorge Anch'io mi debbo regolare. (Si ritira.) berta Vedi come è avaro? EMMA E dobbiamo stare così finché piace a lui. Heinrich (entra. E una donna trentenne, incinta. La sua faccia stanca rivela una tormentosa apprensione e vi­ va angoscia) Buona sera a tutti. mamma baumert Oh, comare Heinrich, che buon ven­ to? Heinrich (zoppicando) M’è entrata una scheggia di ve­ tro. berta Vieni qua, siediti. Vedrò se te la posso levare. (La Heinrich si siede, Berta le si inginocchia davanti e si dà da fare intorno alla pianta del piede.) mamma baumert Come state a casa, Heinrich? Heinrich (con espressione disperata) Presto saremo al­ la fine. (Lotta invano contro le lecrime. Ora piange in silenzio.) mamma baumert Per noi, cara Heinrich, sarebbe me­ glio che il buon Dio avesse un po’ di compassione e ci levasse da questo mondo.

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Heinrich {non più padrona di sé piange e grida) I miei poveri figlioli mi muoiono di fame! {Singhiozza e geme) Non so più a che santo votarmi. Si faccia qua­ lunque cosa, si può correre di qua e di là, finché si casca. Sono più morta che viva, eppure non c’è spe­ ranza che le cose mutino. Nove bocche affamate, come si fa a saziarle? Con che cosa? Ieri sera avevo un pezzetto di pane che non bastava neanche per i due più piccoli. A chi dovevo darlo, eh? Tutti mi grida­ vano intorno : Mammina, a me, a me, mammina... E pensare che adesso posso ancora camminare, ma cosa sarà se dovrò mettermi a letto? La piena ci ha portato via anche quel po’ di patate. Non abbiamo niente da mettere sotto i denti. berta {ha estratto il vetro e lavato la ferita) Adesso ci mettiamo una benda. {A Emma) Cercane una! mamma baumert Noi non stiamo mica meglio, co­ mare Heinrich. Heinrich Tu almeno hai le tue figliole. Hai un marito che può lavorare, il mio invece s’è dovuto mettere a letto la settimana scorsa. Ha dolori di qua, dolori di là, sicché nella mia angoscia non sapevo rigirarmi. E lui, quando ha uno di questi attacchi, gli tocca stare a letto otto giorni. mamma baumert Non credere che il mio possa fare di più. Anche lui comincia a tentennare. Gli duole il petto e gli fanno male le reni. Anche noi siamo lisci lisci, senza un soldo. Se oggi non viene a casa e non porta qualche quattrino, non so proprio come andremo avanti. emma Credi pure, Heinrich, siamo a questo punto! Il babbo ha dovuto portarsi via il cane. L’abbiamo fatto ammazzare per poter mettere qualche cosa nello sto­ maco.

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Non avreste per caso una sola manciata di farina? mamma Baumert Neanche tanta così, cara Heinrich. Non c’è più in casa un granello di sale. HEINRICH E allora non so proprio! (5z alza, si ferma, riflette) Non so davvero. Non c’è proprio altra uscita. {Gridando con rabbia e angosciò) Sarei contenta se po­ tessimo avere il pastone dei maiali! Ma non posso tornare a casa a mani vuote. Non è possibile. E al­ lora, Dio mi perdoni. Non so proprio che altro fare. {Esce rapidamente zoppicando, posando in terra sol­ tanto il calcagno del piede sinistro) mamma baumert {le grida dietro) Heinrich, Hein­ rich, non fare spropositi! berta Oh, quella non si fa del male. Non credere. EMMA Lei fa sempre così. {Siede di nuovo al telaio e tesse per qualche secondo)

heinrich

Augusto entra facendo lume con la candela di sego a suo padre, il vecchio Baumert, che si trascina con un pacco di filato. mamma baumert

Gesù, Gesù, dove sei stato tanto

tempo ? Oh via, non mordere! Lasciami prender fiato un momento. Guarda piuttosto chi è ve­ nuto con me. Jäger {entra dalla porta curvandosi. È un territoriale robusto, di media statura, guance rosse, berretto da ussaro a sghimbescio, abito e scarpe in buono stato, camicia pulita senza colletto. Appena entrato si mette sull’attenti, fa il saluto militare. Con aria spavalda) Buona sera, zia Baumert! mamma baumert O guarda, guarda, sei ritornato a il vecchio baumert

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casa? Non ci hai dimenticati del tutto? Via, siediti. Vieni qua, mettiti a sedere. EMMA {pulendo con la sottana una sedia di legno e spin­ gendola verso Jäger) Buona sera, Maurizio! Sei ve­ nuto a vedere ancora come vive la povera gente! JÄGER E dimmi un poco, Emma, io non ci volevo nem­ meno credere. Hai un bambino che presto potrà fare il soldato. Dove l’hai pescato? berta {ha tolto di mano al padre i pochi viveri che ha recato, mette la carne in un tegame e lo spinge nella stufa, mentre Augusto accende il fuoco) Tu ricordi certo il tessitore Finger? mamma Baumert L’avevamo qui con noi nella stanza. Lui la voleva sposare, ma era ormai malato di petto. Quante volte ho detto alla ragazza di stare in guar­ dia! Non ha voluto dar retta. Adesso lui è morto da un pezzo e dimenticato, e lei deve trovare il modo di tirar su il bambino. Ma dimmi un po’, Maurizio, come te la sei passata? il vecchio baumert Oh, sta’ tranquilla, mamma : a lui non manca il pane. Lui può ridersene di noi. È vestito come un principe, ha un orologio d’argento e per giunta dieci talleri in contanti. Jäger {piantato lì con aria spaccona e con un sorriso da conquistatore) Non mi lamento. Non sono mai stato male sotto le armi. il vecchio baumert Ha fatto l’attendente del capi­ tano. Ascoltalo un po’, parla come i signori. JÄGER Mi sono talmente avvezzato a parlar bene che non posso neanche farne a meno. mamma baumert O guarda, guarda! Un buono a nul­ la come costui è riuscito a far fortuna. Non sei mai servito a nulla di buono; non eri neanche capace di svolgere una matassa. E sempre in giro a tender trap-

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pole alle cinciallegre e lacci ai pettirossi. Questo ti piaceva di più. Di’, non è vero? Jäger È proprio vero, zia Baumert. Ma non prendevo soltanto pettirossi, pigliavo anche rondini. EMMA Avevamo un bel dirti che le rondini sono vele­ nose. Jäger A me importava poco. E voi, zia Baumert, co­ me ve la siete passata? mamma Baumert O Gesù, molto molto male in que­ sti ultimi quattro anni. Vedi, ho i reumi. Guarda un po’ le mie dita. Non so neanche se ho avuto un colpo o chi sa che. Fatto è che sto molto male. Non posso muovere un dito. Nessuno lo crederebbe quanti dolori mi tocca sopportare. IL VECCHIO BAUMERT Eh sì, adesso sta male. Non ne avrà più per molto. berta La mattina la vestiamo, la sera la spogliamo. Dobbiamo imboccarla come una bambina. mamma baumert (sempre con voce lamentevole e pia­ gnucolosa') Devo farmi servire davanti e di dietro. Sono peggio che malata. Sono un peso; quante volte ho pregato il buon Dio che mi chiami a sé. Sto ve­ ramente in pessime condizioni. Non so proprio... la gente potrebbe pensare... ma io ero abituata a lavora­ re fin da bambina. Ho sempre fatto la mia parte e adesso, a un tratto (cerca invano di alzarsi) no, non è più possibile. Ho un buon uomo, ho brave figliole, ma dover vedere queste cose... Che faccia hanno que­ ste creature? Non hanno più sangue nelle vene. Han­ no il colore dei lenzuoli. E faccia bene o faccia ma­ le, continuano sempre a pestare i pedali. Che cosa hanno loro dalla vita? Non scendono dalla panca neanche una volta l’anno. Non sono riuscite a metter­ si da parte nemmeno due stracci da potersi coprire e farsi vedere qualche volta dalla gente, o andare un

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po’ in chiesa e concedersi qualche ricreazione. Sem­ brano condannate alla forca, ragazzine di quindici e ventanni. berta {presso la stufa) Ecco, ricomincia a mandar fu­ mo. il vecchio baumert Già, ci mancava il fumo. Pensa un po’, si potrà mai avere qualche cambiamento? Pre­ sto crolla anche questa stufa. E dobbiamo lasciarla crollare e ingoiare la fuliggine. Tossiamo tutti, uno più dell’altro. Non si fa che tossire, e se ti strozzi e se anche sputi i polmoni, sta’ pur tranquillo che nes­ suno se ne cura. Jäger È compito di Ansorge, è lui che deve fare le riparazioni. berta Figurati, quello già borbotta più del necessario. mamma baumert Già, gli portiamo via troppo spazio. il vecchio baumert E se ci mettiamo a protestare, ci butta fuori. Sono quasi sei mesi che non vede un soldo di pigione. mamma baumert Però un uomo solo come lui, po­ trebbe essere un po’ più trattabile. il vecchio baumert Non ha niente nemmeno lui, mamma, anche lui sta male, anche se non mette in piazza la sua miseria. mamma baumert Però ha casa sua. il vecchio baumert No, ma che cosa dici? Di que­ sta casa qui non è sua neanche una scheggia. JÄGER (si è seduto e da una tasca della giacca ha tirato fuori una pipetta con helle frange, dall’altra un quar­ tino di acquavite) Così però non si può andare avanti. Ho visto con mia meraviglia come vive questa gente. In città i cani vivono meglio di voi. il vecchio baumert (attento) Vero? Vero? Lo sai anche tu? E se si dice una parola, ci sentiamo dire che i tempi sono cattivi.

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(entra tenendo in una mano un pentolino dì minestra, nell’altra un canestro intrecciato a metà) Benvenuto, Maurizio. Sei qui anche tu di nuovo? Jäger Grazie, papà Ansorge. ansorge (spingendo il pentolino nella stuja) Oh, dim­ mi un po’ : ti si può prendere per un conte. il vecchio Baumert Mostragli un po’ il tuo bell’oro­ logio. Ha portato un abito nuovo e dieci talleri in contanti. ansorge (scuotendo il capo) Ah, già, già, sì, sì. Emma (riempiendo un cartoccio di bucce di patate) Adesso devo andare anch’io con le bucce. Spero che ba­ stino per un po’ di latte scremato. (Esce.) Jäger (mentre tutti badano a lui con attenzione e ab­ bandono) Ecco, consideriamo un po’ : quante volte mi avete fatto paura. Ti insegneranno loro l’educazio­ ne, dicevate sempre, aspetta quando arrivi sotto le ar­ mi. E ora, vedete, me la sono cavata bene. Dopo sei mesi avevo i galloni di caporale. Obbedire bisogna, questo è il capo primo. Pulivo gli stivali al sergente, gli strigliavo il cavallo, gli portavo la birra. Ero svel­ to come un furetto. E sempre a posto : la mia roba, perdiana, era sempre lustra. Ero il primo nella stalla, il primo all’appello, il primo in sella : e quando si andava all’attacco, marsch! marsch! per tutti i canno­ ni, per mille fulmini e bombe! E stavo all’erta come un segugio. Pensavo sempre : qui non c’è altro da fa­ re, qui bisogna starci; e allora misi la testa a posto e tutto andò bene. Anzi s’arrivò al punto che il capi­ tano disse di me davanti a tutto lo squadrone : que­ sto è un ussaro come si deve. (Silenzio. Egli accende la pipai) ansorge (scuotendo la testa) Dunque hai avuto proprio fortuna. Già, già, sì, sì. (Si siede per terra col mazzo ansorge

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di vimini accanto a sé e tenendo il canestro jra le gambe continua a intrecciare^) il vecchio Baumert Speriamo che tu porti la fortuna anche a noi. E dunque, vogliamo bere insieme? Jäger Ma certamente, papà Baumert, e quando è fi­ nito ce n’è dell’altro. {Picchia una moneta sulla ta­ vola.) ansorge {ghignando con stupore ebete) O bella bella, qui si fa bisboccia. Qui sfrigola un arrosto, qui c’è un quartino d’acquavite... {Beve dalla fiasca) Alla tua salute, Maurizio. Eh sì sì, già già! {Da questo mo­ mento la fiasca della grappa passa da uno all’altrol) il vecchio Baumert Potessimo almeno avere in tutte le sante feste un pezzettino d’arrosto invece di non veder carne tutto l’anno ! Così bisogna aspettare che di nuovo ci capiti tra i piedi un cagnolino come quel­ lo là, quattro settimane or sono. Sono cose che non capitano spesso nella vita. ansorge Hai fatto ammazzare il cane? il vecchio Baumert Stava per crepare di fame an­ che lui... ansorge Eh già. già, sì sì! mamma baumert Ed era un cagnolino così carino e affettuoso. Jäger Da queste parti siete ancora così ghiotti di ar­ rosto di cane? il vecchio baumert O Gesù, Gesù, magari ne aves­ simo abbastanza! mamma baumert Ecco, un pezzettino di carne fa ve­ ramente bene. il vecchio baumert Non è più roba di tuo gusto. Resta un po’ di tempo da noi, Maurizio, e vedrai che il gusto ti ritorna. ansorge {sputando) Eh sì sì, già già! Anche questo è un buon boccone, manda un certo profumino.

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Baumert (fiutando) Una vera ghiottoneria, si può dire. ansorge Adesso, Maurizio, di’ un po’ la tua opinione. Tu sai meglio di noi come va il mondo là fuori. Pensi che qui la vita di noi tessitori cambierà o no? JÄGER Ma, bisognerebbe sperare. ansorge Quassù non si può né vivere né morire. Pur­ troppo tutto va molto male, credi a me. Ci si difende fino all’ultimo sangue, ma alla fine bisogna rassegnar­ si. La miseria ti mangia il tetto sopra il capo e la terra sotto i piedi. Prima, finché si poteva ancora la­ vorare al telaio, uno se la cavava alla meno peggio, sia pure con affanno. Oggi non riesco ad avere un po’ di lavoro ed è già passato un anno. Anche a intrec­ ciar canestri non si arriva più in là che a trascinare questa misera vita. Io intreccio fino a notte tarda, e quando mi butto sul letto ho guadagnato con fatica un grosso e sei soldi. Tu che sei istruito, di’ un po’ tu, è possibile campare in questa maniera, con la care­ stia che c’è? Tre talleri devo buttarli per la tassa fab­ bricati, un tallero di fondiaria, tre talleri d’ipoteca. E posso calcolare di guadagnarne quattordici. Me ne rimangono sette per tutto l’anno. E con questi biso­ gna mangiare, scaldarsi, vestirsi, comprarsi le scarpe, cucire e rammendare, e ci vuole un alloggio con tut­ to quel che segue. C’è da stupirsi se non si possono pagare gli interessi ? il vecchio Baumert Bisognerebbe che qualcuno an­ dasse a Berlino e facesse capire al re come si vive qui. JÄGER Oh, non servirebbe gran che, papà Baumert. Se ne è parlato già abbastanza nei giornali. Ma i ricchi stanno a girarla e rivoltarla e strozzano anche il più buon cristiano. il vecchio baumert (scuotendo il capo) Che a Berli­ no non abbiano un po’ di coraggio? IL vecchio

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Di’ un po’, Maurizio, è possibile che non ci siano leggi per questo? Quando uno si scanna fino a spellarsi le mani e ancora non può pagare le tasse, può il contadino 1 portargli via questa casetta ? Lui è il contadino, sì, e vuole il suo denaro. Non so pro­ prio dove si andrà a finire. E se dovrò uscire da que­ sta casa... (Fra i singhiozzi) Qui sono nato, qui mio padre ha lavorato al telaio per più di quarant’anni. Quante volte lui ha detto alla mamma : vecchia mia, quando me ne sarò andato, tieni tu, salda la casa. La gente pensa che questa casa me la sia conquistata. Qui ogni chiodo è una notte vegliata, ogni trave un anno di pane asciutto. Ma bisognerebbe pur pensare... Jäger Costoro portano via tutto fino all'ultimo. Sono delinquenti. ansorge Eh sì, già già. Ma quando arrivo a quel pun­ to preferirei che mi portassero fuori invece di do­ vermene andare con le mie gambe, vecchio come so­ no. Morire è un’inezia. Anche mio padre è morto vo­ lentieri. Solo quand’era agli ultimi gli venne un po’ di paura. Ma quando mi infilai nel suo letto anche lui si calmò. Pensarci ora ! A quel tempo ero un ra­ gazzo di tredici anni. Ero stanco e m'addormentai subito di fianco al papà malato — che ne capivo io ? - e quando mi svegliai lui era già diaccio. mamma Baumert (dopo una pausa) Guarda un po il fuoco, Berta, e porgi la minestra ad Ansorge. berta Ecco qui, mangiate, papà Ansorge! ansorge (mangiando tra le lacrime) Eh sì sì, eh già già! (Il vecchio Baumert ha incominciato a mangia­ re la carne prendendola dal tegame.) mamma baumert Eh, papà, vorrai pure avere un po’

ansorge

1. Qui e in seguito da intendere: (N. d. T.)

contadino possidente

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di pazienza. Aspetta che Berta apparecchi come si deve! il vecchio Baumert {masticando) Due anni fa an­ dai l’ultima volta alla comunione. Poco dopo ven­ detti il vestito della festa e così comprammo un po’ di carne di porco. Da quel giorno fino a questa sera non ho più mangiato carne. JÄGER Noi del resto non abbiamo bisogno di carne, per noi la mangiano i fabbricanti. Quelli nuotano nel grasso fin qui. Chi non ci crede basta che scenda a Bielau e a Peterswaldau. Là si possono vedere me­ raviglie : ville di industriali in fila. Un palazzo dopo l’altro. Con tanto di cristalli e torrette e cancelli di ferro. Eh, là nessuno sente la carestia. C’è abbastanza per il pane e l’arrosto, per equipaggi e carrozze, per le governanti e che so io. Son troppo pasciuti e diven­ tano prepotenti. Non sanno che cosa inventare, tanto sono ricchi e arroganti. ansorge Ai miei tempi le cose andavano diversamen­ te. Allora i fabbricanti lasciavano vivere anche i tes­ sitori. Oggi arraffano tutto loro. Ma la causa di ciò ve la dico io : è che i signori non credono più nel buon Dio e neanche nel diavolo. Non conoscono né comandamenti né castighi. Perciò ci levano l'ultimo tozzo di bocca, ci riducono alla fame e portano via quel po’ di cibo dovunque possono. Da quella gente lì vie­ ne tutta la nostra sventura. Se i nostri industriali fos­ sero gente di cuore, anche per noi i tempi sarebbero migliori. JÄGER Adesso state attenti. Vi voglio leggere qualcosa di bello. {Cava di tasca alcuni foglietti) Ehi, Augusto, va’ a prenderne ancora un quarto. Andiamo, Augu­ sto, non fai che ridere! mamma Baumert Non so che cos’abbia questo ragaz­ zo. Gli va sempre bene. Ha la ridarella, qualunque

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cosa avvenga. Su, spicciati, spicciati ! {Augusto esce con la fiasca vuotai) Vero? vecchio, tu sai quali sono le cose buone! il vecchio Baumert {masticando, eccitato dal cibo e dal bere) Maurizio, tu sei l’uomo che fa per noi. Tu sai leggere e scrivere. Tu sai cosa sia la tessitura. Tu hai cuore per i poveri tessitori. Dovresti dedicarti alla nostra causa. Jäger Se non è che questo! Faccio presto io. Vorrei fargliela sentire io a questi mascalzoni di industriali... Non me ne importa niente. Io sono arrendevole, ma se mi gira e monto sulle furie, prendo Dreissiger con una mano, Dittrich con l’altra e li pesto insieme da far sprizzare loro le faville dagli occhi. Se fossimo capaci di stare uniti, potremmo a un certo momento piantare agli industriali una tale grana... Per questo non c’è bisogno né del re né del governo. Potremmo dire semplicemente : Vogliamo questo e questo e non vogliamo quest’altro, e qui cambierebbero registro im­ mediatamente. Se vedono che abbiamo fegato, taglia­ no subito la corda. Li conosco, questi santocchi. Sono dei vigliacchi, delle carogne. mamma baumert Direi che è vero. Io certo non sono cattiva. Sono sempre stata pronta a dire che ci de­ vono essere anche i signori. Ma se si arriva a questo... JÄGER Per conto mio possono andare tutti all’inferno, glielo auguro a questa razza. berta Dov’è il babbo? {Il vecchio Baumert si è al­ lontanato in silenzio)) mamma baumert Non so dove possa essere andato. berta Che sia perché non è più avvezzo a mangiar carne ? mamma baumert {piangendo, fuori di sé) Ecco, avete visto, avete visto! Non gli rimane neanche dentro. Avrà rimesso quel po’ di roba squisita.

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Baumert {ritorna, piangendo di rabbia) Si vede che sono proprio alla fine. A questo punto mi hanno portato. Quando uno arraffa qualcosa di buo­ no, ecco che non riesce nemmeno a tenerlo in corpo. {Siede, piangendo, sulla panca presso la stufa.) Jäger {con impeto improvviso, fanatico) E dire che c’è gente, ci sono pretori, non molto lontano da qui, tripponi, scioperati che tutto l’anno non hanno altro da fare che stare con le mani in mano. E costoro vengono a dire che i tessitori potrebbero star bene, se non fossero così poltroni. ansorge Costoro non sono uomini. Sono mostri, sono. JÄGER Lascia andare, gli abbiamo dato il fatto loro. Io e Bäcker, quello rosso, ci siamo vendicati e prima di allontanarci, alla fine, abbiamo cantato ancora la canzone del tribunale. ansorge Gesù, Gesù, la sai la canzone? Jäger Sì, sì, ce l’ho qui. ansorge La chiamano, credo, la canzone di Dreissiger, mi pare. Jäger Adesso ve la voglio leggere. mamma baumert Chi l’ha inventata, la canzone? Jäger Non lo sa nessuno. Adesso state a sentire. {Leg­ ge sillabando come uno scolaro, sbagliando gli ac­ centi, ma con sentimento evidentemente sincero. Vi si sente tutto, disperazione, dolore, rabbia, odio, sete di vendetta.) il vecchio

Qui da noi c’è un tribunale peggio che l’inquisizione, ove senza una sentenza ti condannano a morir.

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Qui si infliggono i tormenti, è una stanza di tortura, qui i sospiri senza fine fanno fede del dolor.

IL

vecchio baumert {preso dalle parole della canzo­ ne, e profondamente sconvolto ha più volte resistito alla tentazione di interrompere Jäger. Adesso non ne può più e balbetta, tra il pianto e il riso, rivolto alla moglie) È una stanza di tortura! Chi ha scritto que­ ste cose conosce la verità. Tu puoi testimoniare... Co­ me dice? Qui i sospiri senza fine... come? fanno, eh, senza fine... JÄGER Fanno fede degli affanni. il vecchio baumert Tu lo sai quanto si sospira qui un giorno dopo l'altro, quando siamo in piedi e quan­ do ci mettiamo a letto. Jäger {mentre Ansorge, interrompendo il lavoro, se ne sta assorto e profondamente scosso e mamma Bau­ mert e Berta si asciugano continuamente gli occhi)

Sono i Dreissiger carnefici, i lor servi sono sgherri sempre pronti a scorticare, mai disposti a perdonar. E voi, vili manigoldi, generati dall’inferno, il vecchio baumert

il piede per terra) Jäger {legge)

{tremando di rabbia e pestando Sì, generati dall’inferno !

generati dall’inferno, poiché i poveri succhiate maledetti siate ognor.

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Eh sì sì, valgono proprio una maledizione. (stringendo i pugni minaccioso) Poiché i poveri succhiate! JÄGER (legge)

ansorge

il vecchio baumert

Niente giova qui implorare, sono inutili i lamenti; « Non ti garba? Va’, vai pure, se di fame vuoi crepar ».

Come dice? Niente giova qui implorare! Ogni parola... ogni parola... tutto vero... come il Vangelo. Sono inutili i lamenti. ansorge Eh sì sì, già già! Tutto inutile. Jäger (legge) il vecchio baumert

Or pensate alla miseria, al dolor di questa gente che sovente non ha pane: non vi muovono a pietà?

La pietà, bel sentimento, sconosciuto a voi, cannibali; tutti sanno, fin la pelle ci vorreste via strappar.

(balza in piedi trascinato in un impeto di follia) Fin la pelle! Tutto giusto, fin la pelle ci vorrebbero strappar. Eccomi qua, Roberto Baumert, maestro tessitore di Kaschbach. Chi può venirmi a dire...? Io sono stato in tutta la vita una persona per bene, e ora, guardatemi ! Che cosa ne ho tratto? Che faccia ho? Che cosa hanno fatto di me? Qui si infliggono i tormenti! (Tende le braccia) Ecco qua, toccate, pelle e ossa. Manigoldi, generati dal-

il vecchio baumert

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l’inferno! (Sopraffatto dalla disperazione e dalla rab­ bia cade su una sedia.) ansorge (butta in un angolo il canestro, si alza e tutto tremando di rabbia balbetta) Le cose devono andare diversamente, dico io, adesso, subito. Non possiamo sopportare più. Non lo tolleriamo, accada che vuole!

Atto Terzo

La stanza dei clienti nella locanda centrale di Peterswaldau, un vasto locale il cui soffitto di travi è soste­ nuto da un pilastro centrale di legno, intorno al quale gira una tavola. In pondo, a destra del pilastro, di modo che soltanto uno stipite rimane nascosto, è la porta d’ingresso. Di là si vede l’ampio cortile con botti e attrezzi da birraio. Dentro, nell’angolo a de­ stra della porta, c’è il banco di mescita: un tramezzo con scomparti per utensili del servizio d’osteria; die­ tro, uno scaffale con pie di bottiglie di liquori; fra il tramezzo e lo scaffale dei liquori un breve spazio per l’oste. Davanti al banco c’è una tavola coperta con una tovaglia colorata. Sopra dì questa pende una bella lampada e intorno ci sono alcune sedie di can­ na. Lì vicino, alla parete destra, una porta con sopra scritto « Taverna » dà nella saletta dei notabili. Un po’ più avanti, sempre a destra, la vecchia pendola che fa tic-tac. A sinistra della porta d’ingresso, con­ tro la parete di fondo, una tavola con bottiglie e bic­ chieri e, nell’angolo, una grande stufa di terracotta. La parete a sinistra ha tre piccole finestre sotto le quali corre una panca e davanti a ogni finestra c’è una grande tavola di legno con il lato breve rivolto alla parete. Ai lati lunghi delle tavole ci sono panche con schienale e, al lato breve interno, una sedia di

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legno. Il vasto locale è dipinto di azzurro, alle pareti ci sono manifesti, fogli con figurine e stampe a co­ lori, tra le quali il ritratto di Federico Gugliel­ mo IV. Il sindaco Welzel, un omone bonario di oltre cinquan­ tanni, sta spillando in un calice la birra da una bot­ te che è dietro al banco. Sua moglie stira vicino alla stufa. È un bel pezzo di donna, pulita, non ancora trentacinquenne. Anna, una bella ragazza di diciasset­ te anni con magnifici capelli rossi, decorosamente ve­ stita e intenta a ricamare, è seduta alla tavola coperta con la tovaglia colorata. Un istante solleva gli occhi dal lavoro e sta in ascolto, poiché da lontano arri­ vano le note di un coro funebre, cantato da scolari. Wiegand, il mastro falegname, è seduto alla mede­ sima tavola in abito da fatica davanti a un bicchiere di birra bavarese. E un uomo cui si legge in faccia che sa che cosa ci vuole in questo mondo per arrivare a una meta: furberia, prontezza e disposizione a mar­ ciare senza scrupoli. Un commesso viaggiatore, sedu­ to alla tavola del pilastro, mastica con impegno una polpetta. E di media statura, ben nutrito, gonfio, al­ legro, vivace e invadente. Si dà arie di modernità. Le sue robe da viaggiatore, borsa, campionario, om­ brello, soprabito e coperta da viaggio sono sulle se­ die vicine. (portando un bicchiere di birra al commesso viaggiatore, dice a Wiegand) Oggi pare che si sia scatenato l’inferno a Peterswaldau. WIEGAND (con voce forte, squillante) È giornata di consegne lassù da Dreissiger. la moglie Eppure di solito non c’era tanto movi­ mento.

welzel

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Sarà per via dei duecento nuovi tessitori che quello vuole assumere. la moglie {sempre stirando) Sì, sì, sarà così. Se ne vuole duecento, saranno arrivati in seicento. Ne ab­ biamo tanti in paese. wiegand Gesù, Gesù, non ne mancano, no. Per male che stiano non è una razza che si estingua. Mettono al mondo più figli di quanti ci occorrono. {Per un istante si sente il coro più forte.) Ecco, adesso si ag­ giunge anche il funerale. Sapete che è morto il tessi­ tore Fabich. WELZEL Ce n’ha messo del tempo. Da un pezzo an­ dava già intorno come un fantasma. wiegand Credi a me, Welzel, una bara così piccina, piccina, ma proprio così minuscola non l’avevo mai preparata. Era un cadaverino che non pesava forse neanche novanta libbre. il commesso viaggiatore {masticando) Non riesco a capire... Dovunque si guardi, in qualunque giornale si leggono le più orripilanti storie della miseria dei tessitori e ci si fa l’idea che qui tre quarti della gen­ te debba essere morta di fame. Quando poi si vede un funerale così... Arrivo in quel punto del villaggio, e vedo la banda, i maestri di scuola, gli allievi, il pa­ store e dietro una coda di gente, Dio mio, come se portassero al cimitero l’imperatore della Cina. Eh, se questa gente può pagare... {Beve la birra e dopo aver deposto il bicchiere con improvvisa frivolezza) Vero, signorina? Non dico bene?

wiegand

Anna sorride imbarazzata e continua a ricamare. Dev’essere certo un paio di pantofole per il signor padre. welzel Oh, quelle cose non le metterei mai ai piedi. il commesso viaggiatore

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Senta poi questa! Io inve­ ce darei metà del mio patrimonio se quelle pantofole fossero per me. la moglie Sono cose che lui non le capisce. Wiegand (dopo aver tossicchiato più volte, aver spostato la sedia e aver preso le mosse di parlare) Il signore si è espresso in modo strano a proposito del funerale. Dica lei, signorina, questo è un trasporto assai mo­ desto, non è vero? il commesso viaggiatore Già, ma allora mi doman­ do... Deve costare un patrimonio. Dove prende questa gente il denaro? Wiegand Signore, lei vorrà gentilmente scusare, ma nella classe povera della popolazione di qui c’è mol­ ta incomprensione. Se permette, costoro hanno un’i­ dea esagerata del rispetto dovuto e del doveroso ob­ bligo verso i congiunti santamente defunti. Quando poi decedono i genitori, c'è qui una strana superstizio­ ne; fra discendenti e testatori si raggranella fin l’ultimo soldo e quello che i figli non riescono a mettere in­ sieme si prende a prestito dal più vicino magnate. E allora ci si ingolfa nei debiti fino al collo; il reve­ rendo pastore fa credito e il sagrestano e tutta la gente intorno. E poi si beve, si mangia con tutto quanto occorre. Ecco, io sono per l’amore filiale rispet­ toso, ma non sono d’accordo affatto che i dolenti deb­ bano gemere tutta la vita sotto il peso delle obbliga­ zioni. il commesso viaggiatore Permetta, ma il pastore dovrebbe levare queste cose dalla testa della gente. WIEGAND Lei mi scuserà, signore, ma qui devo spie­ gare che ogni piccolo comune ha la sua chiesa eccle­ siastica e deve mantenere il reverendo curatore d’ani­ me. Da una festa funebre così grande l’alto clero trae il suo bel vantaggio. Quanto più numeroso il moril commesso viaggiatore

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torio, tanto più grasse le offerte. Chi conosce le con­ dizioni dei lavoratori di questo paese, può affermare con modesta certezza che i signori parroci tollerano soltanto a malincuore i funerali modesti. hornig (entra. ë un vecchietto con le gambe arcuate, porta a tracolla una cinghia con un gancio, è un cenciaiolo) Buongiorno a tutti. Vorrei una piccola. Eb­ bene, padrona, ha qualche straccio per me? Signori­ na Anna! Ho nel carretto bei nastri per i capelli, nastri per camicie, nastrini per calze, ottimi spilli, spil­ loni per capelli, gancetti e asole. Cambio tutto per un paio di stracci. (In altro tono) Con gli stracci si fa poi una bella carta bianca e il fidanzato vi scrive una letterina garbata. anna Oh, grazie tante, io non voglio fidanzati. la madre (inpiando un’anima nel ferro da stiro) Co­ sì è questa ragazza. Non ne vuol sapere di maritarsi. il commesso viaggiatore (balza in piedi come lieta­ mente sorpreso, s’avvicina alla tavola e porge la ma­ no ad Anna) Brava, signorina, faccia come me. Qua la mano! Noi due rimaniamo scapoli. anna (facendosi di porpora e dandogli la mano) Sì, ma lei è già ammogliato! il commesso viaggiatore Dio guardi, faccio soltan­ to per finta. Lei pensa perché porto l’anello? Oh, me lo sono infilato al dito soltanto per proteggere la mia seducente persona da attacchi disonesti. Di lei non ho paura. (Si mette l’anello in tasca) Dica un po’ se­ riamente, signorina, non vuole proprio maritarsi mai, nemmeno un pochino? anna (scuotendo il capo) Oh via! la madre Quella rimane zitella o dovrebbe proprio trovare un partito eccezionale. il commesso viaggiatore E perché no? Un ricco magnate slesiano ha sposato la cameriera di sua ma-

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dre e il ricco industriale Dreissiger ha preso anche lui la figlia di un sindaco. E non è neanche lontana­ mente bella come lei, signorina, e adesso se la spas­ sa in carrozza con i servi in livrea. Perché no? {Pas­ seggia stirandosi e sgranchendosi le gambe') Prende­ rò una tazza di caffè. Ansorge e il vecchio Baumert entrano ciascuno con un pacco e vanno a sedersi umili e silenziosi vicino a Hornig alla prima tavola di sinistra. welzel

Benvenuti! Babbo Ansorge, ti si vede final­

mente ! Sei uscito anche tu una buona volta dalla tua tana affumicata? ansorge {evidentemente impacciato') Mi son deciso a prendere un po’ di filato. il vecchio Baumert Vuol lavorare per dieci grossi. ansorge Non l’avrei mai fatto, ma ho dovuto smet­ tere di intrecciare canestri. Wiegand È sempre meglio che niente. Lo fa anche per non stare con le mani in mano. Io conosco molto be­ ne Dreissiger. La settimana scorsa gli ho tolto le con­ trofinestre. E allora se ne è parlato. Egli lo fa sol­ tanto per buon cuore. ansorge Eh sì sì, già, già. WELZEL {portando a ciascuno dei tessitori un grappino) Ecco qua. Dimmi un po’, Ansorge, quanto tempo è che non ti fai la barba? Il signore là lo vorrebbe sa­ pere. il commesso viaggiatore {dal punto dov’è) Ehi, si­ gnor oste, non l’ho detto io. Il mastro tessitore mi ha dato nell’occhio soltanto per il suo aspetto veneran­ do. Non s’incontrano spesso figure così gigantesche. ansorge {si gratta la testa imbarazzato) Eh sì, già già. hornig

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Oggi sono rari uomini co­ sì robusti e primitivi. Noi siamo troppo lisciati dalla civiltà. Ma a me fa piacere questo vigore d’altri tem­ pi : sopracciglia a cespuglio! Una barba così selva­ tica... hornig Vede, caro signore, le dirò io una parola : que­ sta gente non ne ha abbastanza per andare dal bar­ biere e meno che meno ne hanno per comperarsi un rasoio. Quel che cresce, cresce. Non possono spendere per far bella figura. il commesso viaggiatore Ma scusi, mio caro, io non... {Sottovoce all’oste') Si può offrire un bicchiere di birra a quel barbuto? welzel Per carità, non accetta niente. Ha le sue fisi­ me bizzarre. il commesso viaggiatore E allora, lasciamo stare. Permette, signorina? {Si accomoda alla tavola di lei) Le posso assicurare, fin dal momento che sono en­ trato, sono rimasto colpito dai suoi capelli, con quel­ lo splendore opaco, quella morbidezza, quella abbon­ danza! {Si bacia, quasi in estasi, la punta delle dita) E quel colore, come il grano maturo. Se con quei ca­ pelli viene a Berlino, fa furore. Parole d’honneur, con quei capelli può andare a corte... {Appoggiato alla spalliera contempla i capelli) Magnifici, semplicemen­ te magnifici. Wiegand Perciò le hanno anche dato un bel sopran­ nome. il commesso viaggiatore Come la chiamano? anna {ridendo sempre tra sé) Oh, non gli dia retta! hornig È la Rossa, non è vero? WELZEL Adesso smettetela! Non fate ancora girare la testa alla ragazza. Le hanno messo abbastanza grilli in testa. Oggi vuole un conte, domani vorrà un prin­ cipe. IL commesso viaggiatore

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Non dir male della ragazza! Non è poi un delitto desiderare di farsi strada. Non tutti però la pensano come te. Non sarebbe neanche un bene, nes­ suna farebbe un passo avanti, tutte rimarrebbero zi­ telle. Se il nonno di Dreissiger avesse pensato così, sarebbe rimasto un povero tessitore. Adesso sono ric­ chi sfondati. Il vecchio Tromtra non era nemmeno lui altro che un povero tessitore, adesso ha dodici tenute e per giunta l’hanno fatto nobile. Wiegand Quel che è giusto è giusto, Welzel. In que­ sto caso, tua moglie è sulla strada buona. Ci metto la firma. Se avessi pensato come te, dove sarebbero adesso i miei sette lavoranti? hornig Tu sei svelto, lo deve ammettere anche chi ti invidia. Quando il tessitore cammina ancora, tu già gli hai preparato la bara. WIEGAND Chi vuol campare, deve mettersi al passo. hornig Già, già, tu ti ci metti al passo. Tu sai meglio di qualunque dottore quando la morte arriva a pren­ dersi il bambino di un tessitore. Wiegand (d mala pena sorridendo, a un tratto furibon­ do') E tu sai meglio della polizia dove stanno gli ubriaconi tra i tessitori e quelli che ogni settimana mettono da parte un po’ di filato. Tu fai lo straccialo e prendi anche un rocchetto di trama, se si dà l’oc­ casione. hornig E il tuo grano fiorisce nel cimitero. Quanti più vanno a dormire sui trucioli, tanto meglio per te. Quando vedi tutte quelle piccole fosse, ti batti la pancia e dici : è stata una buona annata anche que­ sta; i marmocchi sono caduti anche questa volta come i maggiolini dagli alberi. Posso bere un quartino di più per settimana. Wiegand Non per questo si può dire che io sia un incettatore. LA madre

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HORNIG Tutt’al più presenti a qualche ricco fabbrican­ te di fustagno un doppio conto o vai a sgraffignare qualche assicella dalla fabbrica di Dreissiger, se im­ brocchi una notte senza luna. Wiegand {voltandogli le spalle) Oh senti, va’ a par­ lare con chi vuoi, non con me. {All’improvviso ri­ prende) Sacco di bugie! hornig Beccamorti ! Wiegand {ai presenti) Costui sa dare il malocchio alle bestie. hornig Bada a te, ti dico, altrimenti faccio i miei se­ gni. {Wiegand impallidisce.) l’ostessa welzel {era uscita e ora porta il caffè al commesso viaggiatore) Preferisce che le porti il caf­ fè nella saletta? il commesso viaggiatore Eh, che le viene in men­ te! {Con un’occhiata languida ad Anna) Qui voglio restare, fino alla morte.

Un giovane guardaboschi e un contadino, quest'ulti­ mo con una frusta, entrano.

Buon giorno. {Si fermano accanto al banco di mescita.) il contadino Due zenzeri, vorremmo. welzel Benarrivati! {Versa il liquore richiesto; i due prendono i bicchierini, brindano, ne prendono un sor­ so e li posano sul bancoi) il commesso viaggiatore Oh, signor guardaboschi, ha fatto una buona marcia? il guardaboschi Non c’è male. Vengo da Steinseiffersdorf. entrambi

Entrano il primo e il secondo vecchio tessitore e si siedono alla tavola di Ansorge, Baumert e Hornig.

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Scusi, lei è guardaboschi del conte Hochheim? il guardaboschi Del conte Keil. il commesso viaggiatore Già, già, volevo dire, vo­ levo dirlo anch’io. Qui è difficile raccapezzarsi con tanti conti e baroni. Bisognerebbe avere una memoria di ferro. Perché porta la scure, signor guardaboschi? IL guardaboschi L’ho tolta a certi ladri di legna. il vecchio baumert I nostri padroni guardano per il sottile, quando si tratta di un po’ di legna da ar­ dere. il commesso viaggiatore Oh, scusi, non è certo am­ missibile... Se tutti andassero a rifornirsi... il vecchio baumert Lei mi permetta, qui come dap­ pertutto ci sono ladri piccoli e grandi; ci sono quelli che fanno il commercio della legna in grande e arric­ chiscono con la legna rubata. Ma quando un povero tessitore... primo vecchio tessitore {interrompe Baumert) Noi non possiamo prendere neanche un ramoscello, men­ tre i padroni ci agguantano tanto più forte e ci le­ vano la pelle. Dobbiamo versare tasse protettive, im­ poste di filatico, prodotti in natura, bisogna far com­ missioni gratuitamente e, volere o no, offrire giornate di lavoro. ANSORGE Proprio così : quello che il fabbricante ci la­ scia, viene a cavarcelo di tasca il nobile. secondo vecchio tessitore {si è seduto alla tavola vicina) Io l’ho detto anche al padrone. Lei vorrà gentilmente scusarmi, signor conte, gli ho detto, que­ st’anno non posso offrire molti giorni di lavoro. Non ce la faccio più. E sa perché? Lei mi vorrà perdo­ nare, ma l’alluvione mi ha rovinato ogni cosa, mi ha portato via quel pezzetto di campicello. Devo lavo­ rare giorno e notte se voglio vivere. Che razza di il commesso viaggiatore

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uragano, gente mia! Ero lì che mi torcevo le mani. Quel bel terreno me lo vidi rotolare giù dalla mon­ tagna ed entrare in casa; e quella bella semente con quel che è costata!... Gesù mio, mi son messo a gri­ dare contro le nuvole e per otto giorni ho pianto, di modo che non vedevo neanche la strada davanti a me... E poi mi sono affannato a riportare il terreno oltre il monte con ottanta pesanti carriolate. il contadino (rudemente) Cos’è questo orrendo la­ mentio che fate? Ciò che ci manda il cielo va accet­ tato. E se non vivete nel modo migliore, di chi la colpa, se non di voi stessi? Quando gli affari anda­ vano bene, che cosa avete fatto? Tutto vi siete gio­ cato e bevuto. Se allora aveste messo da parte qual­ che cosa, adesso avreste i risparmi e non avreste bi­ sogno di rubare né filo né legna. primo giovane tessitore (con alcuni compagni nel cortile d’ingresso parla dalla soglia) Il contadino ri­ mane un contadino anche se dorme fino alle nove. primo vecchio tessitore Proprio così : il contadino e il nobile tirano la stessa fune. Quando un tessitore vuole un alloggio, il contadino gli dice : ti do un piccolo buco da poterci abitare. Tu mi paghi una bel­ la pigione e mi aiuti anche a portare a casa il mio fieno e il mio grano e se non vuoi, cercane un altro. Se poi vai dal secondo, questi si comporta come il primo. il vecchio Baumert (con rabbia) Siamo come i noc­ cioli, intorno ai quali tutti mangiano la polpa. il contadino (/'» collera) Carogne affamate, a che po­ tete servire? Siete forse capaci di premere un aratro nel campo? Siete capaci di tirare un solco diritto o di caricare su un carro un mucchio di covoni di segala? Non siete capaci d’altro che di poltrire e di andare a letto con le vostre donne. Siete una manica di co-

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glioni. Non servite a nulla. {Intanto ha pagato ed esce. Il guardaboschi lo segue ridendo. Welzel, il fa­ legname e la moglie di Welzel ridono forte, il com­ messo viaggiatore tra sé. Cessate le risa subentra il silenzio.) hornig Un contadino così è come un toro da razza... Come se non sapessi quanta miseria c’è qui. Nei vil­ laggi qua sopra che cosa non si è avuto occasione di vedere! A quattro, a cinque giacevano nudi su un unico pagliericcio. il commesso viaggiatore (con benevolo rimprovero') Mi scusi, brav’uomo. In quanto alla miseria sui mon­ ti ci sono opinioni molto diverse, se lei è capace di leggere... hornig Oh, io so leggere quanto lei. Lo saprò bene, ho girato abbastanza in mezzo alla gente. Quando uno ha portato sulle spalle la gerla per quarant’anni, alla fine saprà ben qualche cosa. Sa cos’è successo di Ful­ ler? I bambini frugavano nel letame insieme con le oche del vicino. La gente moriva nuda sull’ammatto­ nato della casa. Ingoiavano bozzima puzzolente per la paura di morire. La fame li ha portati via a centi­ naia e centinaia. il commesso viaggiatore Se lei sa leggere, dovrà anche sapere che il governo ha ordinato una severa inchiesta... hornig Conosciamo, conosciamo... ti arriva un dele­ gato del governo che sa già tutto come se avesse vi­ sto. Costui fa un giretto per il villaggio dove esce il torrente, dove sono le case più belle. Le belle scarpe lucide non se le vuol sporcare e allora pensa : così bello sarà probabilmente dappertutto, si rimette in car­ rozza e torna a casa. E poi scrive a Berlino che no assolutamente, non c’è miseria. Se invece avesse avuto un po’ di pazienza e fosse salito su nei villaggi dove

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il torrente entra, e avesse attraversato il torrente verso il piccolo versante o fosse andato dove stanno i pic­ coli campi e le capanne di paglia appiccicate al monte, che talvolta sono nere e cadenti in modo che non val­ gono il fiammifero con cui si potrebbero incendiare, allora avrebbe mandato a Berlino ben altre notizie. Da me avrebbero dovuto venire i signori del governo i quali non credono che qui ci sia miseria. Io avrei fatto vedere loro qualche cosa. Avrei aperto loro gli occhi in tutti questi nidi di fame. (Da fuori si sente cantare la canzone dei tessitori.) welzel Ecco che tornano a cantare quella canzone diabolica. Wiegand Costoro mettono sottosopra tutto il villaggio. l’ostessa Si direbbe che ci sia qualche cosa nell’aria.

Jäger e Bäcker, a braccetto, a capo di una schiera di giovani tessitori entrano in cortile facendo baccano e di li nell’osteria.

Jäger Squadrone, alt! A terra! (1 nuovi arrivati vanno verso le diverse tavole alle quali stanno seduti i tessi­ tori e attaccano discorso con loro)) hornig (a Bäcker) O senti un po’, che cosa succede che siete così raccolti in gruppo? Bäcker (con intenzione) Può darsi che qualche cosa ab­ bia a succedere, vero, Maurizio? hornig Mancherebbe anche questa! Non fate pazzie. Bäcker È già scorso il sangue. Vuoi vedere? (Si rim­ bocca la manica e mostra le sanguinanti ferite della vac­ cinazione. Come lui fanno altri giovani tessitori vicino agli altri tavoli.) Bäcker Siamo stati dal barbiere Schmidt a farci vac­ cinare. hornig Adesso ci vedo chiaro. Non c’è da stupirsi se si

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è scatenato un tale turbine per tutte le vie. Quando simili villani girano per il villaggio facendo i gra­ dassi... Jäger {dandosi grandi arie, a gran voce) Due quartini, Welzel ! Pago io. Credi forse che non abbia pecu­ nia? Eh, aspetta un po’. Se volessimo, potremmo bere birra e lappare caffè fino a domani mattina, come un commesso viaggiatore. {Risate tra i giovani tessitori.) il commesso viaggiatore {con comico stupore) Allu­ de forse a me? {L’oste, l’ostessa, la loro figlia, il fale­ gname Wiegand e il commesso viaggiatore ridono.) Jäger Sempre a colui che fa la domanda. il commesso viaggiatore Permetta un po’, giovanot­ to, pare che i suoi affari vadano molto bene. JÄGER Non mi lamento. Sono viaggiatore in confezioni. Faccio a metà coi fabbricanti. Quanto più il tessitore patisce la fame, tanto più io mangio di grasso. Quanti più son gli incidenti, tanto più mangio a due pal­ menti. Bäcker Buona questa! Evviva Maurizio! welzel {ha portato la grappa e ritornando verso il ban­ co si ferma e con tutta la sua flemma e la sua mole si rivolge lentamente ai tessitori. Con calma ed altrettan­ ta energia) Lasciate in pace il signore, non vi ha fatto nulla. voci di giovani tessitori Anche noi non gli facciamo nulla.

L’ostessa ha scambiato qualche parola col commesso viaggiatore. Prende la tazza col resto del caffè e la porta nella saletta attigua. Il commesso viaggiatore la segue tra le risate dei tessitori. voci di giovani tessitori {cantando)

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Sono i Dreissiger carnefici I ior servi sono sgherri...

Zitto, zitto! Cantate dove volete, ma non tol­ lero che si canti in casa mia. primo vecchio tessitore Ha pienamente ragione. Smettete di cantare. backer {gridando) Ma da Dreissiger dobbiamo ripas­ sare. Bisogna che egli senta ancora la nostra canzone. Wiegand Non fatele troppo grosse, potrebbe frainten­ dervi !

welzel

Risate e grida. {un fabbro dai capelli grigi, senza berretto, in grembiulone e zoccoli di legno, nero di fuliggine come chi viene dall’officina, è entrato e fer­ mo davanti al banco aspetta un bicchierino di grap­ pa) Lasciateli fare tranquillamente un po’ di comme­ dia! Cane che abbaia non morde. voci di vecchi tessitori Wittig, Wittig! wittig Eccolo qua! Che cosa volete? voci di vecchi tessitori È qui Wittig. Wittig, Wit­ tig ! Vieni qua, Wittig, siediti qui con noi ! Vieni da noi, Wittig! wittig Mi guarderò bene dal mettermi in mezzo a tali compari. JÄGER Vieni, bevi un po’ con noi! wittig Tientela la tua grappa. Se voglio bere, pago da me. {Si siede col suo bicchierino di grappa accanto a Baumert e Ansorge. Battendo la pancia a quest’ulti­ mo) Con che si leva il tessitor la fame? Con salcrauti e pidocchi al tegame. il vecchio Baumert {estatico) E se a un certo punto non se ne accontentasse più? il vecchio wittig

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(guardando il tessitore a occhi spalancati, con aria stupida e con finta meraviglia') Oh, senti ! Dim­ mi un po’, Enrico, sei proprio tu? (Scoppiando in una risata) Gente mia, c’è da morir dal ridere. Il vecchio Baumert vuol fare la rivoluzione. Ora ci siamo : ades­ so incominceranno anche i ragni, poi si ribelleranno gli agnelli, poi ancora i topi e i ratti. Bontà di Dio, adesso viene il bello! (Sta scoppiando dalle risa.) il vecchio Baumert Oh, guarda un po’, Wittig, io sono ancora quello di una volta. Adesso ti dico che meglio sarebbe se si potesse risolvere con le buone. wittig Un corno si risolve, e mai con le buone. Quan­ do mai si è ottenuto qualcosa con le buone? Forse in Francia? Il Robspier ha forse accarezzato le ma­ nine ai ricchi ? Là si diceva soltanto : Allé, portatelo via! Tutti alla ghigliottina! Così va bene, allon sanjan. A nessuno piovono in bocca le oche arrosto. il vecchio Baumert Se riuscissi almeno a campare... primo vecchio tessitore Abbiamo l’acqua fin qui, Wittig! secondo vecchio tessitore Non si ha neanche il co­ raggio di ritornare a casa. Sia che si sgobbi o ci si metta a dormire, in ogni caso si soffre la fame. primo vecchio tessitore A casa si finisce col per­ dere il cervello. ansorge Per me ormai è indifferente, che la vada così o cosà. voci di vecchi tessitori (sempre più eccitati) Non si trova pace in nessun posto. — Non si ha più la mente al lavoro. — Lassù da noi a Steinkunzendorf ce n’è già uno che sta tutto il giorno in riva al fiu­ me e si lava, nudo come Dio l’ha fatto. A quello ha dato di volta il cervello. terzo vecchio tessitore (si alza in uno slancio esta­ tico e incomincia a parlare come ispirato levando miwittig

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nacciosamente il dito) C’è nell’aria un tribunale. Non fatevi compagni dei ricchi e dei nobili! Nell’aria c’è il giudizio universale! Il Signore Sabaot... (Alcuni ri­ dono, lo costringono a sederei) WELZEL Quello lì basta che mandi giù un bicchierino e la testa gli gira subito. terzo vecchio tessitore (rialzandosi in furia) Ah sì, quelli non credono in Dio, non credono nell’in­ ferno o nel paradiso, della religione si fanno beffe... primo vecchio tessitore Lascia andare, via! Bäcker Lascialo che dica i suoi versetti. A più d’uno dovrebbero dar da pensare. numerose voci (in tumulto) Lasciatelo parlare! La­ sciatelo ! terzo vecchio tessitore (alzando la voce) Perciò l’inferno ha spalancato l’anima e aperto le fauci sen­ za misura, affinché vi sprofondino tutti quelli che torcono la causa dei poveri e usano violenza nel re­ gno dei miseri, così dice il Signore. (Tumulto. Il vecchio tessitore declama a un tratto come uno scola­ retto) Eppure come è strano a voler considerare quando il lavoro dei tessitori di lino si vuole disprezzare!

Bäcker

Ma noi siamo tessitori di fustagno. (Risate.) I tessitori di lino stanno ancor peggio. Quelli vagolano tra i monti come fantasmi. Voi almeno ave­ te ancora il fegato di mostrare i denti. WITTIG Pensi forse che sia già passato il peggio? Quel po’ di forza che questi hanno ancora in corpo, i fab­ bricanti gliela leveranno del tutto. Bäcker Lo ha detto : i tessitori lavoreranno ancora per una fetta di ricotta. (Tumulto!)

hornig

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Chi l'ha detto? L’ha detto Dreissiger ai tessitori. un giovane tessitore Quella carogna! Andrebbe im­ piccato per il culo. Jäger Da’ un po’ retta a me, Wittig tu hai sempre parlato tanto della rivoluzione francese. Hai sempre fatto lo spaccone. Ora potrebbe forse presentarsi l’oc­ casione che uno possa mostrare che tipo è : se è un fanfarone o un uomo d’onore. wittig {infuriato) Giovanotto, aggiungi ancora una pa­ rola! Hai mai sentito fischiare le pallottole? Hai forse montato la guardia in terra nemica? Jäger Non prenderla così! Siamo camerati. Non in­ tendevo dir male. wittig Del tuo cameratismo me ne impipo. Imbecille presuntuoso che sei! {Entra il gendarme Kutsche.) ALCUNE voci Zitto, zitto, la polizia ! {Per parecchio tempo si continua a zittire, finché si ottiene il silenzio perfetto.) kutsche {accomodandosi alla tavola centrale tra il pro­ fondo silenzio di tutti gli altri) Un grappino, per favore. {Ancora silenzio perfetto.) wittig Ehi, Kutsche, sei forse venuto a vedere se tut­ to va bene? kutsche {senza dar retta a Wittig) Buon giorno, ma­ stro Wiegand. Wiegand {sempre nell’angolo davanti al banco di mescita) Molte grazie, Kutsche. kutsche Come procede il lavoro ? wiegand Grazie dell’interessamento. Bäcker II commissario ha paura che ci guastiamo lo stomaco con la gran paga che prendiamo. (Risate.) JÄGER Vero, Welzel? Abbiamo mangiato arrosto di maiale e guazzetto e gnocchi e crauti e adesso ci be­ viamo lo champagne. (Risate.) DIVERSI TESSITORI GIOVANI E vecchi

Bäcker

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Va’ all’inferno! E se voi aveste anche champagne e arrosto, non per questo sareste contenti a lungo. Nemmeno io bevo champagne, eppure me la cavo. Bäcker (alludendo al naso di Kutsche) Quello annaf­ fia il peperone con grappa e birra. Anche così matu­ ra. (Risate.) wittig Si sa, il gendarme fa una vita dura : oggi deve cacciare in gattabuia un accattone morto di fame, poi deve sedurre la bella figliola di un tessitore, altre vol­ te deve sborniarsi e bastonar la moglie, che per lo spavento va a rifugiarsi dai vicini, e caracollare così col cavallo, e starsene tra le molli piume fino alle nove : non è certo cosa facile ! kutsche Chiacchiera pure, a furia di chiacchierare fi­ nirai col fiaccarti il collo. Da un pezzo sappiamo che razza d'amico sei. La tua lingua ribelle la conoscono fino al consiglio provinciale. Io so uno che a furia di bere e stare all’osteria manderà moglie e figli al­ l’ospizio dei poveri e se stesso in prigione, e sobil­ lerà gli altri sino a fare una brutta fine. WITTIG (ridendo amaramente) Chissà che cosa potrà ancora succedere! Alla fine potresti anche aver ra­ gione. (Prorompendo in collera) Ma se si arriva a quel punto, so io chi devo ringraziare, chi mi ha de­ nunciato e calunniato dal fabbricante e dai padroni e denigrato al punto che non mi si dà più lavoro. So chi mi ha messo contro i contadini e il mugnaio sicché per tutta la settimana non mi portano un ca­ vallo da ferrare o da cerchiare una ruota. So chi è quel tale. Una volta ho tirato giù da cavallo quell’infame canaglia perché per un paio di pere acerbe aveva bastonato uno stupido ragazzino col nerbo di bue. E ti so dire, tu mi conosci, che se mi porti in pri­ gione, puoi fare subito testamento. Appena sento bu-

WELZEL

kutsche

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cinare qualcosa, prendo quello che mi vien sotto­ mano, sia un ferro di cavallo o un martello, il rag­ gio di una ruota o un secchio, e ti vengo a cercare, dovessi cavarti dal letto di fianco alla tua donna, ti tiro fuori e ti spacco il cranio, come è vero che mi chiamo Wittig. {Balzato in piedi sta per lanciarsi contro Kutschei) tessitori vecchi e giovani {trattenendolo') Wittig, Wittig, metti giudizio! kutsche {si è alzato istintivamente ; è pallido. Durante quanto segue si ritira e quanto più si avvicina alla por­ ta tanto più diventa coraggioso. Dice le ultime pa­ role quando è già sulla soglia per scomparire nell’at­ timo seguente) Che cosa vuoi da me? Con te io non c’entro. Ho da parlare con un tessitore di qui. A te non ho fatto nulla. La tua persona non mi ri­ guarda. A voi tessitori, però, ve lo dico io : il si­ gnor commissario vi proibisce di cantare quella can­ zone, la canzone di Dreissiger, come la si chiama. E se il canto per la strada non cessa subito, penserà lui a concedervi più tempo e più calma in gattabuia. Là potrete poi cantare a pane e acqua finché ne avrete voglia. {Escel) wittig {gli grida dietro) Niente ha da proibire co­ stui, nemmeno se gridiamo fino a far tintinnare le fi­ nestre e se ci sentono fino a Reichenbach e se can­ tiamo fino a far crollare le case sulla testa di tutti gli industriali e a far ballare sul cranio l’elmo a tutti i commissari! Sono cose che non riguardano nessuno. Bäcker {intanto si è alzato e con gesti ha dato il segno di attaccare il canto e canta lui stesso insieme con gli altri) Qui da noi c’è un tribunale peggio che l’Inquisizione,

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ove senza una sentenza ti condannano a morir.

L’oste cerca di metter calma, ma nessuno lo ascolta. Wiegand sì è turato le orecchie e scappa di corsa. I tessitori si alzano e cantando i versi seguenti vanno dietro a Wittig e a Bäcker i quali con segni hanno invitato tutti a incamminarsi. Qui s’infliggono i tormenti, è una stanza di tortura, qui i sospiri senza fine fanno fede del dolor.

La maggior parte dei tessitori canta la strofa seguente nella strada, soltanto alcuni giovanotti sono ancora dentro l’osterìa e stanno pagando. Alla fine della stro­ fa successiva tutti sono usciti tranne Welzel, sua mo­ glie, sua figlia, Hornig e il vecchio Baumert. E voi, vili manigoldi, generati dall’inferno, poiché i poveri succhiate maledetti siate ognor.

{raccoglie con calma i bicchieri) Oggi sono proprio impazziti. (Il vecchio Baumert sta per uscirei) hornig Di' un po’, Baumert, che cosa si sta muli­ nando? il vecchio baumert Eh, vogliono andare da Dreissiger a vedere se intende di aumentare la paga. welzel E tu prendi parte a queste pazzie? il vecchio baumert Vedi, Welzel, non dipende da me. I giovani possono, talvolta, i vecchi devono. (Esce un po’ imbarazzato.) welzel

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{alzandosi) Mi stupirei se qui non si andasse a finir male. WELZEL Che i vecchi perdano proprio il lume della ragione? hornig Eh, ogni uomo ha una sua smania. hornig

Atto Quarto

Peterswaldau. Stanza nell’abitazione di Dreissiger, fabbricante di -fustagno. E una stanza lussuosa ammobi­ liata secondo il gusto freddo della prima metà del­ l’Ottocento. Il soffitto, la stufa, le porte sono bian­ che; la tappezzeria a fasce di fiorellini su un fondo scialbo, grigio-piombo. Vi sono mobili di mogano im­ bottiti, coperti di rosso, abbondantemente ornati e in­ tagliati, stipi e sedie dello stesso materiale, disposti come segue: a destra, tra due finestre con tende dì damasco rosso-ciliegia, c’è la scrivania con la parte anteriore ribaltabile; esattamente di fronte il divano, poco discosto, una cassaforte di ferro e davanti al di­ vano la tavola con poltrone e sedie; alla parete di fondo una rastrelliera con fucili. Questa e le altre pareti sono in parte coperte da cattivi quadri con cor­ nici dorate. Sopra il divano è appeso uno specchio con cornice rococò, riccamente dorata. A sinistra una porta a un battente dà nell’anticamera; una porta aper­ ta a due battenti nella parete di fondo dà in un sa­ lone sovraccarico dello stesso sgradevole sfarzo. Nel salone si vedono due donne, la signora Dreissiger e la moglie del pastore Kittelhaus, occupate a osservare illustrazioni; c’è anche il pastore Kittelhaus a collo­ quio col candidato e istitutore Weinhold. kittelhaus

fun omarino cordiale entra nella stanza da-

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vanti fumando e chiacchierando tranquillamente con l’istitutore che pure fuma; si guarda intorno e non ve­ dendo nessuno, scuote la testa meravigliato) Non c’è affatto da meravigliarsi, signor istitutore; lei è giovane, alla sua età noi vecchi avevamo, non dirò le medesime opinioni, ma opinioni simili. Simili in ogni caso. Ed è una bella cosa la gioventù, con tutti i suoi belli ideali. Purtroppo però questi sono fugaci, fuga­ ci come il sole d’aprile. Quando arriverà alla mia età! Quando per trent’anni si è detta la nostra pa­ rola alla gente, dal pulpito, cinquantadue volte l’an­ no senza contare le altre feste, si diventa necessaria­ mente più calmi. Quando arriverà a quel punto, ri­ pensi a me, signor istitutore. weinhold (diciannovenne, pallido, magro, spilungone, con lunghi capelli biondi e lisci, è molto irrequieto e nervoso nei movimenti) Con tutto il rispetto, signor pastore... Io non saprei... C’è pure una grande diffe­ renza nei caratteri. kittelhaus Caro istitutore, lei può essere fin che vuo­ le uno spirito irrequieto, fin tono di rimprovero) e lei lo è davvero; può muovere con violenza e con animo quanto mai ribelle contro le condizioni at­ tuali, ma tutto ciò poi passa. Sì, sì, lo ammetto, ab­ biamo confratelli che in età piuttosto avanzata fanno ancora tiri molto giovanili. L’uno predica contro la peste dell'alcool e fonda associazioni di moderati, l’al­ tro scrive appelli, non si può negare, commoventi da leggere. Ma che cosa raggiunge? La miseria fra i tes­ sitori, dove esiste, non subisce miglioramenti. In com­ penso si mina la pace sociale. Ecco, verrebbe quasi fatto di dire : ne sutor supra crepidam ! Curatore d’a­ nime, non diventare curatore di stomachi ! Predica la pura parola di Dio e per il resto lascia che ci pensi colui che offre agli uccelli il giaciglio e il loro bec-

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chime e non lascia perire il giglio nei campi. Adesso però vorrei proprio sapere dove è andato a finire, così all’improvviso, il nostro simpatico anfitrione. signora dreissiger (,r/ avanza con la moglie del pastostore. è una donna trentenne, bella, di stampo ener­ gico e robusta. Si nota un certo contrasto tra il suo modo di parlare, di muoversi e il suo elegante e ricco abbigliamento') Ha perfettamente ragione, signor pa­ store. Guglielmo fa sempre così. Quando gli viene in mente una cosa, scappa via, e mi pianta lì. Gliel’ho già detto più volte, ma si può dire quel che si vuo­ le : tutto è inutile. kittelhaus Cara signora, non per nulla è uomo d’af­ fari. Weinhold Se non m’inganno, di sotto deve essere suc­ cesso qualche cosa. dreissiger (entrando agitato, riscaldato) Ebbene, Ro­ sa, hai servito il caffè? signora dreissiger (imbronciata) Che tu debba sem­ pre scappar via! dreissiger (con leggerezza) Oh, che ne sai tu! kittelhaus Domando scusa! Ha avuto qualche di­ spiacere, signor Dreissiger? dreissiger Dispiaceri ne ho tutti i giorni che Dio manda in terra, caro signor pastore. Ci ho fatto il callo. Ebbene, Rosa? Ci penserai tu, no?

La signora Dreissiger va di malumore a dare un paio di strattoni al tirante largo e ricamato del campanello. (dopo aver passeggiato per la stanza) Pro­ prio adesso mi sarebbe piaciuto, Weinhold, che lei fosse presente. Avrebbe visto qualcosa di bello. D al tro canto... Venga, cominciamo la nostra partita! kittelhaus Sì, sì, sì, proprio così! Si scrolli dalle

dreissiger

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spalle la polvere e il peso della giornata e sia dei nostri. DREISSIGER {si è avvicinato alla finestra, sposta una ten­ dina e guarda juori istintivamente) Masnada dan­ nata! Vieni un po’ qua, Rosa! (Cđ signora si avvi­ cinai) Di’ un po’, quello laggiù, quello lungo, coi capelli rossi ! kittelhaus È quello che chiamano Bäcker il Rosso. DREISSIGER Dimmi un po’, è forse quello stesso che ti ha insultata ier l’altro? Ricordi ciò che mi hai rac­ contato : quando Giovanni ti aiutava a montare in carrozza. signora dreissiger {torcendo la bocca e strascicando le parole) Non ricordo più nulla. dreissiger Smettila di fare l’offesa. Io lo devo sa­ pere. Sono stufo ormai di queste insolenze. Se è lui, lo costringo a scolparsi. {Si ode cantare la canzone dei tessitori.) Ascoltate, ecco, ascoltate! kittelhaus {indignatissimo) Che questo scandalo non debba proprio finire? Adesso però devo dire: è ora che la polizia intervenga. Permetta un momento! {Si affaccia alla finestra) Guardi un po’ qua, signor Wein­ hold! Non sono soltanto giovanotti, ma anche tessi­ tori vecchi, posati, in massa. Gente che per molti anni ho reputata degna di stima e timorata di Dio, anche questi sono con loro. Partecipano a questo scan­ dalo inaudito. Calpestano la legge di Dio. E lei vuole difendere ancora costoro? weinhold Certamente no, signor pastore. Cioè, vo­ levo dire, cum grano salis. Sono uomini affamati, igno­ ranti, e manifestano il loro malcontento come pos­ sono. Non mi aspetto che gente così... signora kittelhaus {piccola, magra, sfiorita, somi­ glia più a una vecchia zitella che a una vecchia si-

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gnora) Signor Weinhold, signor Weinhold, ma mi faccia il piacere! DREISSIGER Signor istitutore, deploro, deploro... Io non ho preso lei in casa mia perché mi venga a tenere lezioni di umanità. Devo pregarla di limitarsi al­ l’educazione dei miei ragazzi, per il resto lasci a me, a me solo, le mie faccende! Ha capito? weinhold {rimane un istante rigido e pallido come un cencio, poi s’inchina con uno strano sorriso e mor­ mora) Certo, certo, ho compreso. Lo prevedevo : ri­ sponde ai miei desideri. {Esce.) DREISSIGER {brutalmente) E allora presto, per favore! Abbiamo bisogno della camera. signora DREISSIGER Ma Guglielmo, Guglielmo! DREISSIGER Sei matta? Vuoi prendere le difese di un individuo che scusa simili volgarità e infamie come quella canzonacela? signora DREISSIGER Ma, marito mio, lui non... DREISSIGER Signor pastore, ha preso le difese o non le ha prese? kittelhaus Signor Dreissiger, bisogna scusarlo per­ ché è giovane. signora kittelhaus Non capisco, quel giovanotto è di una famiglia così buona e degna di stima. Suo padre è stato per quarant’anni impiegato e non si è mai reso colpevole di nulla. Sua madre era felicissi­ ma che avesse trovato qui questo bel posto. E adesso lui non lo sa apprezzare. Pfeifer {spalanca la porta dell’anticamera e grida) Signor Dreissiger, signor Dreissiger! Ne hanno preso uno. Vuol favorire? Ne hanno preso uno. dreissiger {affannato) È andato qualcuno ad avver­ tire la polizia? PFEIFER II signor commissario sta già salendo le sca­ le.

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{sulla soglia) Servo suo, signor commis­ sario. Sono molto lieto che lei sia venuto.

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Kittelhaus ja capire alle signore, con gesti, che sareb­ be opportuno ritirarsi. Sua moglie, la signora Dreissiger e lui stesso scompaiono nel salone.

{arrabbiatissimo, si rivolge al commissario che intanto è entralo) Signor commissario, finalmen­ te ho fatto acciuffare dagli operai della mia tintoria uno dei caporioni tra i cantori. Non potevo più stare a guardare con le mani in mano. La sfacciataggine ha passato tutti i limiti. È rivoltante. Io ho ospiti e questi mascalzoni osano... Insultano mia moglie quan­ do si fa vedere; i miei ragazzi non sono più sicuri della loro vita. Arrischio che prendano a cazzotti i miei ospiti. Le assicuro che, se in una comunità or­ dinata dovesse essere possibile ingiuriare continuamen­ te in pubblico persone irreprensibili come me e la mia famiglia... Eh allora, allora dovrei deplorare di avere alti concetti del diritto e dei buoni costumi. commissario di polizia {circa cinquantenne, di media statura, corpulento, sanguigno. Porta la divisa di ca­ valleria con gli speroni e la sciabola strascicata) Cer­ tamente no... Certamente no, signor Dreissiger! Di­ sponga di me. Ma si calmi, io sono a sua completa disposizione. Tutto è in ordine. Sono anzi molto lieto che lei abbia fatto arrestare uno dei caporioni. Sono molto contento che finalmente si mettano le cose a posto. Ci sono qui un paio di sediziosi che da un pezzo ho sulle corna. DREISSIGER Sì, un paio di giovanotti, decisamente mar­ maglia scansafatiche, tangheri, poltroni che fanno una vitaccia... stanno tutti i giorni nelle osterie fin che ab­ biano ingollato l’ultimo soldo. Ma adesso farò smet-

DREISSIGER

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tere queste bocche sacrileghe, voglio andare fino in fondo. È nell’interesse comune, non soltanto nell’inte­ resse mio. commissario Assolutamente, proprio assolutamente, si­ gnor Dreissiger. Nessuno la può disapprovare. Per quanto sta nelle mie forze... DREISSIGER Con la frusta bisognerebbe trattare questa canaglia ! commissario Proprio così, proprio così. Bisogna dare un esempio. il gendarme kutsche {entra e si mette sull’attenti. Poiché la porta dell’anticamera rimane aperta, si ode il rumore di piedi che salgono la scala pesantemente) Signor commissario, le annuncio che abbiamo arre­ stato un individuo. dreissiger Lo vuol vedere, signor commissario? commissario Certamente, certamente. Anzitutto voglia­ mo vederlo proprio da vicino. Mi faccia il favore, signor Dreissiger, e cerchi di star calmo. Io le darò soddisfazione o non mi chiamo Heide. dreissiger Non mi accontento : costui deve essere de­ ferito al tribunale. Jäger {è introdotto da cinque operai della tintoria i quali, macchiati di colore in faccia, sulle mani e su­ gli abiti, vengono direttamente dal lavoro. Il prigio­ niero ha in testa il berretto a sghimbescio, ostenta una sfacciata allegria e in seguito alle precedenti be­ vute di acquavite è piuttosto alticcio) Miserabili, la­ voratori pretendete di essere? Camerati volete essere? Prima di fare una cosa simile, prima di mettere le mani addosso a un compagno, vorrei che questa mia mano marcisse. (A un cenno del commissario, Kut­ sche fa che i tintori lascino libera la vittima. Jäger rimane in piedi libero e sfacciato, mentre gli altri bloccano le uscitei)

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{gridando, a Jäger) Giù il berretto, vil­ lano! {Jäger se lo toglie, ma molto lentamente, senza rinunciare al suo sorriso ironico.) Come ti chiami? Jäger Di’, abbiamo già pascolato i porci insieme? commissario

Le parole janno impressione e provocano un movi­ mento tra i presenti. DREISSIGER

Questa è grossa.

{impallidisce, sta per montare sulle fu­ rie, domina la collera) Al resto penseremo dopo. Co­ me ti chiami, ti ho chiesto. {Non ottenendo risposta, furibondo) Parla, o ti faccio dare venticinque fru­ state. jäger {perfettamente sereno e senza reagire neanche con un batter di ciglio alle parole furibonde, parla a una bella cameriera che in procinto di servire il caf­ fè è rimasta colpita dalla scena inaspettata e sta lì a bocca aperta) Dimmi un po’, Emilia, non fai più la stiratrice? Sei anche tu della compagnia? Bada di trovare il modo d’uscire. Qui potrebbe tirar vento e spazzar via tutto da un giorno all’altro. {La ragazza fissa Jäger e quando capisce che le parole sono rivolte a lei, si fa rossa di vergogna, si copre gli occhi e scappa via lasciando lì il vasellame com’è. Di nuovo c’è un movimento tra ì presenti.) commissario {quasi fuori di sé, a Dreissiger) Da quando sono al mondo non mi è mai capitato di vedere una sfacciataggine così inaudita...

commissario

Jäger sputa. dreissiger·.

Capito?

Ehi, non crederai di essere in una stalla.

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La mia pazienza è arrivata all'ultimo li­ mite. Per l’ultima volta : come ti chiami ? kittelhaus (che durante l’ultima scena ha guardato e origliato dallo spiraglio della porta del salone socchiu­ sa, entra trascinato dagli avvenimenti e, tutto tremante per l’eccitazione, interviene) Si chiama Jäger, signor commissario, Maurizio... no? Maurizio Jäger. (A Jä­ ger) Di’ un po’, Jäger, non mi conosci più? Jäger (serio) Lei è il pastore Kittelhaus. kittelhaus Sì, il tuo curato, Jäger! Quello che ti ha accolto bambinello in fasce nella comunione dei santi. Quello stesso dalle cui mani hai ricevuto per la prima volta il corpo del Signore. Rammenti ancora? Ed ecco che mi sono affaticato per metterti in cuore la parola di Dio. Sarebbe questa la gratitudine? Jäger (accigliato, come uno scolaretto sgridato) Ma io ho pagato un tallero. kittelhaus Denaro, denaro... Credi forse che il vile, miserabile denaro... Tienti il tuo denaro, lo preferisco. Che sciocchezze son queste ! Sii bravo, sii un buon cri­ stiano ! Pensa alle promesse che hai fatte. Osserva i comandamenti di Dio. Sii buono, sii devoto. Denaro, de­ naro... Jäger Io sono quacchero, signor pastore, non credo più a niente. kittelhaus Macché quacchero d’Egitto. Non dire que­ ste cose. Bada di emendarti e non usare parole che non hai digerite. Quelli sono gente pia, non pagani come te. Quacchero, ma che quacchero ! commissario Con permesso, signor pastore. (S’inter­ pone fra lui e Jäger) Kutsche, gli leghi i polsi! commissario

Uriacci da juori: Jäger! Jäger venga fuori!

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po’ spaventato come gli altri presenti, si è avvicinato istintivamente alla finestra) Che cosa suc­ cede ancora? commissario Oh, lo so io. Vogliono riavere questo fur­ fante. Ma questo piacere non glielo faremo, no. In­ teso, Kutsche? Lo ficchiamo in guardina. kutsche (con la fune in mano, esitante} Con tutto il rispetto, signor commissario, incontreremo difficoltà. È un branco di gente indiavolata. Una banda di marioli. C’è il Bäcker, c’è il fabbro... kittelhaus Con sua licenza, per non farci ancora cat­ tivo sangue, non sarebbe forse più opportuno, signor commissario, che tentassimo con le buone? Jäger do­ vrebbe impegnarsi a venire volontariamente oppure... commissario Che le viene in mente? E la mia respon­ sabilità? Non posso assolutamente accettare una simile proposta. Avanti, Kutsche! Non stiamo a pensarci su! JÄGER (giungendo le mani e porgendole ridendo} Stret­ to, stretto, più stretto che potete. Tanto, dura poco. (Kutsche con l’aiuto dei camerati lo legai} commissario E ora avanti, marsch! (A Dreissiger} Se lei sta in pensiero, mandi con noi sei dei suoi tintori. Quelli lo possono prendere in mezzo a loro. Io vado avanti a cavallo, Kutsche segue. Chi si oppone viene gettato a terra.

DREISSIGER (//«

Urla da basso: Chicchirichì! Bau, bau, bau! (minaccioso verso la finestra} Canaglie! Vi darò io il chicchirichì e il bau bau. Avanti marsch! (Precede con la sciabola sguainata, gli altri lo se­ guono con Jäger.} JÄGER (grida, mentre esce} E se la signora Dreissiger monta ancora in tanta superbia, non per questo è qualcosa di più di noialtri. Quella ha servito centi-

commissario

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naia di volte il grappino a mio padre per tre soldi. Squadrone, per fila sinist, marsch! {Esce sghignaz­ zando) DREISSIGER {dopo una pausa, apparentemente calmo) Lei che ne pensa, signor pastore? Non sarà il caso di fare la nostra partita a carte? Penso che non ci siano più ostacoli. {Accende un sigaro, facendo brevi risate, e, appena il sigaro arde, grida) Adesso inco­ mincio a considerare buffa questa storia. Che indi­ viduo! {Con uno scoppio di risa nervose) Però è ve­ ramente buffa. Prima, la disputa a tavola con l’isti­ tutore, il quale dopo cinque minuti si congeda. E scompare. Poi, questa faccenda. E adesso continuiamo la partita. kittelhaus Sì, ma... {urla dal basso.) Sì, però... Ve­ de, quella gente fa un fracasso d’inferno. DREISSIGER Ci ritiriamo nell'altra stanza. Là nessuno ci disturba. kittelhaus {scuotendo il capo) Se almeno sapessi che cosa gli ha preso, a costoro! In questo devo dare ra­ gione all’istitutore, fino a poco tempo fa almeno, ero anch’io del parere che i tessitori fossero gente umile, paziente e docile. Non la pensa così anche lei, si­ gnor Dreissiger? DREISSIGER Certo che erano pazienti e docili, certo, prima erano gente per bene e costumata. Fin tanto cioè che gli utopisti umanitari non sono venuti qua a ficcare il naso. Abbastanza si è spiegato a questa gente in quale terribile miseria sono ingolfati. Pensi un po’ : tutte le associazioni, tutti i comitati per ri­ mediare alla miseria dei tessitori. Il tessitore finisce poi col crederci e il cervello gli dà di volta. Provi ora qualcuno a rimettergli la testa a posto. Ormai ha preso l’aire. Adesso brontola senza smettere, adesso non gli accomoda questo, non gli accomoda quello.

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Adesso vorrebbe sempre la pappa pronta. {Improv­ visamente si sentono grida di urrà sempre crescenti.) kittelhaus Sicché con tutte le loro fisime umanita­ rie non hanno ottenuto altro che di trasformare da un giorno all’altro gli agnelli in lupi, letteralmente. DREISSIGER Macché, signor pastore, a ragionare fred­ damente si potrebbe forse trovarci un lato buono in questa faccenda. Questi avvenimenti forse non pas­ seranno inosservati nei circoli dirigenti. Può darsi, che là si arrivi alla convinzione che non si può più an­ dare avanti così, che qualche cosa deve pure acca­ dere, se l’industria del paese non ha da andare del tutto a rotoli. kittelhaus Sì, ma da che dipende questo enorme regresso? dica un po’ lei. DREISSIGER L’estero ha eretto contro di noi le barri­ cate dei dazi. Là si sono stroncati i nostri mercati mi­ gliori, e all’interno dobbiamo sostenere la concorren­ za per la vita e per la morte perché siamo lasciati in abbandono, in completo abbandono. Pfeifer {entra senza fiato barcollando, pallido) Signor Dreissiger, signor Dreissiger ! dreissiger {già sulla soglia del salone, in procinto di uscire, si volta contrariato) Ebbene, Pfeifer, che c’è ancora ? pfeifer Oh, oh... lasciatemi stare! dreissiger Che diavolo è successo? kittelhaus Lei ci fa spaventare. Parli dunque! pfeifer {che ancora non si è riavuto) Oh, lasciatemi in pace. Una cosa simile! Ma che cosa... Le autori­ tà... Sì, sì, quelli faranno una bella fine! DREISSIGER Corpo del diavolo, che accidente le è ca­ pitato? Si è rotto l’osso del collo qualcuno? pfeifer {quasi piangendo dalla paura grida) Hanno liberato Maurizio Jäger, hanno bastonato e cacciato

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via il commissario, hanno bastonato e cacciato via il gendarme. Senza elmetto, la sciabola spezzata... oh, oh ! DREISSIGER Pfeifer, lei deve essere ammattito. kittelhaus Sarebbe la rivoluzione! Pfeifer {abbandonandosi su una sedia tutto tremante, piagnucolando) Signor Dreissiger, la faccenda si fa seria! Signor Dreissiger, la faccenda si fa seria! dreissiger Be', allora anche tutta la polizia... Pfeifer Signor Dreissiger, la cosa si fa seria! dreissiger Eh, la smetta, Pfeifer, corpp d’un acci­ dente ! signora dreissiger {dal salone con la moglie del pa­ store) Oh, ma questa è davvero rivoltante, Gugliel­ mo! Ci sciupano tutta la bella serata. Ecco dove sia­ mo arrivati. La signora vorrebbe tornarsene a casa. kittelhaus Cara signora Dreissiger, sì, questa è for­ se la cosa migliore, davvero... signora dreissiger Ma, Guglielmo, tu dovresti pure intervenire una buona volta con energia. dreissiger Sì, vaglielo a dire tu! Vaglielo a dire! Vai tu! {Fermandosi davanti al pastore, di punto in bianco) Sono forse un tiranno? Sono forse un op­ pressore del prossimo? il COCCHIERE Giovanni {entra) Signora, intanto ho at­ taccato i cavalli. Il signor istitutore ha già fatto mon­ tare in carrozza Giorgino e Carletto. Se la vediamo brutta, si parte. signora dreissiger Perché si dovrebbe vederla brut­ ta? Giovanni Non lo so nemmeno io. Dico così, la folla ingrossa sempre più. Hanno cacciato via il commis­ sario, cacciato il gendarme. Pfeifer La cosa si fa seria, signor Dreissiger, si fa seria!

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{sempre più impaurita) Ma che cosa deve succedere? Che cosa vogliono? Non pos­ sono mica aggredirci, Giovanni? Giovanni Eh, signora, ci sono anche cani rognosi tra loro. Pfeifer Si fa seria, si fa seria, proprio! DREISSIGER Stia zitto, imbecille! Sono sbarrate le por­ te? kittelhaus Mi faccia il piacere... Mi faccia il pia­ cere... Ho preso una decisione... Mi faccia il favore... (A Giovanni) Che cosa pretendono, questa gente? Giovanni {imbarazzato) Aumento di paga vogliono, quelle stupide carogne. kittelhaus E sta bene. Andrò fuori io e farò il mio dovere. Parlerò io seriamente con loro. Giovanni Signor pastore, ne faccia a meno ! Qui le parole sono invano. kittelhaus Caro signor Dreissiger, ancora una paro­ lina. Vorrei pregarla : metta gente dietro la porta e faccia chiudere appena sono uscito. signora kittelhaus Vuoi farlo davvero, Giuseppe? kittelhaus Lo voglio; lo voglio. So quel che faccio. Non stare in pensiero, il Signore mi proteggerà. signora DREISSIGER

La signora Kittelhaus gli stringe la mano, si ritira e si asciuga le lacrime. {mentre dalla strada sale ininterrotto il cu­ po rombo di una grande polla adunata) Farò come se.... Farò come se me ne tornassi tranquillamente a casa. Voglio un po’ vedere se il mio sacro ministe­ ro... se questa gente non ha più tanto rispetto... vo­ glio un po’ vedere... {Prende cappello e bastone) Avanti dunque in nome di Dio. {Esce accompagnato da Dreissiger, Pfeifer e Giovanni.)

kittelhaus

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Cara signora Dreissiger !... {Scop­ pia in lacrime e Γabbraccia) Purché non gli capiti una disgrazia ! SIGNORA DREISSIGER {come assente) Io non capisco, si­ gnora, mi pare che... non so che cosa pensare. Non è possibile una cosa simile. Se è così... è proprio co­ me se la ricchezza fosse un delitto. Vede, se qualcu­ no me l’avesse detto, non so, signora, infine sarei piuttosto rimasta nelle mie modeste condizioni. signora kittelhaus In tutte le condizioni ci sono delusioni e fastidi, fin troppo ! signora dreissiger Oh, certo, certo, la penso an­ ch'io. E se noi possediamo più di altri... Dio mio, non abbiamo mica rubato. Abbiamo accumulato un soldo sopra l’altro onestamente. Non è possibile assolutamente che questa gente ci aggredisca. È forse colpa di mio marito se gli affari vanno male?

signora kittelhaus

Dal basso sale un urlio confuso. Mentre le due donne si guardano pallide e spaventate, Dreissiger entra a precipizio.

Rosa mettiti qualcosa sulle spalle e monta in carrozza, vengo subito anch’io! {Si precipita verso la cassaforte, la apre e ne toglie diversi valori) Giovanni {entra) Siamo pronti. Ma ora facciamo pre­ sto, prima che il portone di dietro sia occupato anche quello ! signora dreissiger {con terrore panico, abbraccia il cocchiere) Giovanni, carissimo Giovanni, salvaci, ca­ ro Giovanni! Salva i miei figlioli! Ahi, ahi... dreissiger Andiamo, sii ragionevole, lascia stare Gio­ vanni ! Giovanni Signora, stia tranquilla, tranquillissima : i no­ stri morelli sono molto in gamba. Nessuno li ragDREISSIGER

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giunge. Chi non si scansa viene travolto. {Esce.) {angosciata e perplessa) Ma mio marito? Ma mio marito? Signor Dreissiger, mio ma­ rito ? dreissiger Signora, signora, è sano e salvo. Si calmi, stia tranquilla. È sano. signora kittelhaus Gli è capitata una disgrazia. Lei non me lo dice. Non me lo vuol dire. dreissiger Dia retta a me. Quelli se ne pentiranno. 50 benissimo chi erano. Una sfacciataggine simile, una spudoratezza così non resta impunita. Parrocchiani che maltrattano il loro curato! Che schifo! Cani idrofo­ bi, nient’altro; bestie infuriate, che saranno trattate come meritano. {Alla signora Dreissiger che sta lì come intontita) Tu va’ dunque, muoviti! {Si odono colpi contro la porta di casa.) Non senti? Quella mar­ maglia è impazzita! {Si sente il tintinnio di vetri rot­ ti al pianterreno.) Quelle canaglie hanno un colpo di sole. Non ci rimane altro, dobbiamo cercare di uscirne.

Pfeifer {sta in ascolto, impallidisce, intende la chia­ mata e in un momento è preso da folle terrore. Pian­ gendo, gemendo, mendicando, piagnucolando dice ciò che segue con folle rapidità. E intanto colma Dreis­ siger di carezze puerili, gli liscia le guance e le brac­ cia, gli bacia le mani e infine lo abbranca come uno che affoga e così lo ostacola nei movimenti, lo strin­ ge, non lo molla) O caro, carissimo, gentilissimo signor Dreissiger, non mi abbandoni, io l’ho sem­ pre servita fedelmente; ho sempre trattato bene la gen­ te. Non potevo dar loro più paga di quanto era sta­ bilito. Non mi abbandoni, mi ammazzano. Se mi tro­ vano, mi accoppano. Oh Dio del cielo, Dio del cie­ lo, mia moglie, i miei figli... dreissiger {mentre esce tentando invano di scrollarsi di dosso Pfeifer) Mi lasci stare almeno! Si trove­ rà il rimedio, tutto s’aggiusterà. {Esce con Pfeifer.)

signora kittelhaus

Per alcuni secondi la stanza rimane vuota. Nel salo­ ne tintinnano i vetri delle pnestre. Uno schianto rin­ trona per la casa seguito da scroscianti urrà, segue un silenzio. Passano alcuni secondi, poi si ode uno scal­ piccio prudente su per la scala del primo piano ed esclamazioni timide: A sinistra ! - Di sopra ! - Zitto ! Adagio, adagio ! - Non spingete ! - Da’ una mano ! — To’, ho trovato una cosa! - Levatevi di qui, carne­ fici! - Andiamo a nozze! - Va’ dentro tu! - No, va’ tu! Alla porta dell’anticamera si affacciano giovani tessi­ tori e tessitrici che non osano entrare e cercano dì mandarsi avanti l’un l’altro. Dopo alcuni secondi, su­ perato il timore, quelle persone meschine, scarne, in parte malaticce, stracciate e rattoppate, si distribuisco­ no nella stanza di Dreissiger e nel salone, prima os­ servando, poi tastando ogni cosa con curiosità e sog-

51 sente gridare in coro : Il controllore Pfeifer venga fuori! Vogliamo Pfeifer!

Pfeifer, Pfeifer, vogliono Pfeifer. Pfeifer {entra di corsa) Al portone di dietro c’è già gente. La porta di casa non resiste più di tre mi­ nuti. Il fabbro Wittig vi picchia con un secchione da stalla come un matto. signora dreissiger

Dal basso sempre più forte e distinto l’urlio : Venga fuori il controllore Pfeifer! Vogliamo Pfeifer! La Signora Dreissiger scappa di corsa come inseguita; dietro a lei la signora Kittelhaus.

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gezione. Le ragazze provano i divani; si formano grup­ pi che ammirano la propria immagine nello spec­ chio. Alcuni montano sulle sedie per vedere da vi­ cino i quadri e staccarli dalla parete, e intanto sem­ pre nuovi ritratti della miseria fluiscono dall’antica­ mera. {entrando') O via via, lascia­ temi stare! Di sotto già incominciano a rovinare ogni cosa. Che pazzia! Non c’è buon senso in tutto ciò. Alla fine avremo grossi guai. Chi conserva la testa a posto, non si mette con gli altri. Io mi guarderò be­ ne dal partecipare a simili misfatti.

un vecchio tessitore

Jäger, Bäcker, Wittig con una secchia di legno, il vecchio Baumert e un gruppo di tessitori giovani e vecchi arrivano di corsa come dando la caccia a qual­ che cosa, parlando tutti con voci rauche.

Jäger

Dove è andato? Dov’è il tiranno? IL vecchio baumert Se noi dobbiamo mangiare er­ ba, tu mangerai trucioli. wiTTiG Se lo pigliamo, lo impicchiamo. primo giovane tessitore Lo prendiamo per le gam­ be e lo buttiamo giù dalla finestra sul lastrico, che rimanga là per sempre. secondo giovane tessitore {entra) È scappato senza lasciar traccia. tutti Chi mai? Secondo giovane tessitore Dreissiger. Bäcker Anche Pfeifer? voci Cercate Pfeifer! Cercate Pfeifer! il vecchio baumert Cerca, cerca, Pfeiferino, si trat­ ta di affamare un tessitore. (Ê ridacchiai) backer

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JÄGER Se anche non riusciamo a prendere quella be­ stia di Dreissiger... almeno diventi povero. il vecchio Baumert Povero deve diventare come Giobbe. Povero, dev'essere! (Tutti si precipitano verso il salone con l’intenzione di demolire.') Bäcker (il quale è alla testa, si volta e trattiene gli al­ tri) Alto là! Ascoltate me! Quando abbiamo finito qui, incomincia il bello. Di qui andiamo a Bielau da Dittrich che ha i telai meccanici. Tutta la miseria pro­ viene dalle fabbriche. ansorge (entra dall’anticamera. Dopo aver patto alcu­ ni passi, si guarda intorno incredulo, scuote la testa, si batte la pronte e dice) Chi sono? Il tessitore An­ tonio Ansorge. Che sia impazzito Ansorge? Vero è che la testa mi gira come una trottola, come un ta­ fano. Che cosa fa qui? Qualche cosa di bello farà certamente. Dove è Ansorge? (Si batte più volte la pronte) Non capisco più, non garantisco nulla. Non ho più la testa a posto. Andate via, andate via! Anda­ te via, ribelli! Via la testa, via le gambe, via le mani! Se tu mi porti via la casa, io ti porto via la tua. Sempre avanti! (Urlando entra nel salone. I presenti lo se­ guono con grida e risate.)

Atto Quinto

Langenbielau. La stanzetta del vecchio tessitore Hilse. A sinistra una finestrella, davanti a questa un telaio, a destra un letto, addossato a questo un tavolino. Nel­ l’angolo a destra una stufa con relativa panca. In­ torno al tavolino, sullo sgabello, sulla sponda del let­ to, su un panchetto stanno seduti il vecchio Hilse, sua moglie, altrettanto vecchia, cieca e quasi sorda, suo fglio Teofilo e la moglie di lui Luisa durante la pre­ ghiera del mattino. Fra il letto e il telaio un arco­ laio con matassa. Sulle travi annerite del soffitto sta ogni sorta di arnesi per filare, dipanare e tessere. Ne pendono lunghe matasse. Una quantità di vecchie mas­ serizie è sparpagliata nella stanza, la quale è bassa, molto stretta e ha nello sfondo una porta che dà nell’« androne ». Di fronte a questa porta, nell’andro­ ne, c’è un’altra porta aperta che permette di vedere in una seconda stanzetta di tessitore simile alla pri­ ma. L’androne è lastricato, ha l’intonaco rovinato e una scala di legno cadente che porta alla soffitta. Si vede in parte una tinozza posata sopra una panchet­ ta. Miseri capi di biancheria e suppellettili di povera gente sono qua e là in disordine. La luce entra in tutti i vani dalla sinistra. (barbuto, di ossatura robusta, ma ora cadente, curvato dall’età, dal lavoro, dalle malattie e

il vecchio hilse

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dagli strapazzi. Ex soldato, mutilato d’un braccio. Ha il naso appuntito, il viso esangue, membra tremanti, è tutto pelle, ossa e tendini e ha gli occhi infossati qua­ si piagati, caratteristici del tessitore. Alzatosi insie­ me col figlio e con la nuora prega) Buon Dio, non sappiamo come ringraziarti di aver avuto pietà di noi anche questa notte nella tua grazia e bontà. Che non siamo stati colpiti da alcun male, Signore : tanto è grande la tua bontà, e noi siamo poveri, cattivi pec­ catori, indegni che il tuo piede ci calpesti, tanto sia­ mo peccatori e corrotti. Tu invece, Padre caro, ci guar­ di e ci accogli per amore del tuo caro figlio, Gesù Cristo, nostro Signore e Redentore. Il sangue di Ge­ sù, la sua giustizia sono l’ornamento mio, la mia letizia. E se anche qualche volta diventiamo pusilla­ nimi sotto la tua sferza, se anche il fuoco purifica­ tore arde con fiamma fin troppo veemente, non far­ cela pagare troppo cara, rimettici misericordiosamente la nostra colpa. Dacci pazienza, Padre celeste, perché dopo queste sofferenze ci sia concessa la vita eterna. E così sia. mamma HILSE (che protesa ha fatto lo sforzo d’ascol­ tare, piangendo) Oh, babbo, come è sempre bella la tua preghiera. (Luisa va verso la tinozza, Teofilo nella stanza di fronte) il vecchio HiLSE Dove la bimba? LUISA È andata a Peterswaldau da Dreissiger. Di nuo­ vo ha dipanato alcune matasse ieri sera. il vecchio HiLSE (parlando molto forte) Adesso, mamma, ti porterò l’arcolaio. mamma HILSE Portalo, portalo, vecchio mio. il vecchio hilse (ponendole davanti l’arcolaio) Ve­ di, io te lo vorrei proprio risparmiare. mamma hilse Ma no, ma no... che cosa farei di tut­ to il mio tempo?

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Ti netterò un po’ le dita perché il filo non s’ingrassi. Mi senti ? (Le pulisce le mani con un cencio) Luisa (senza allontanarsi dalla tinozza) Abbiamo forse mangiato di grasso? il vecchio HiLSE Se non abbiamo grasso, mangiamo pane asciutto; se non abbiamo pane, mangiamo pa­ tate; se non abbiamo neanche patate mangiamo cru­ sca asciutta. Luisa (con arroganza) E se non abbiamo più farina nera, facciamo come i Wengier laggiù, andiamo a cercare dove lo scortichino ha sotterrato un cavallo crepato. Lo tiriamo fuori e per un paio di settimane si vive di carogna: così facciamo, vero? teofilo (dalla stanza di dietro) Che diamine stai a borbottare ? il vecchio HILSE Dovresti guardarti dal fare discorsi sacrileghi! (Va al telaio e chiama) Vuoi darmi una mano, Teofilo? Si tratta di ordire un paio di fili. Luisa (sempre vicino alla tinozza) Teofilo, vieni ad aiutare il babbo. (Teofilo arriva. Il vecchio e suo fi­ glio si mettono al faticoso lavoro della allicciatura. I fili dell’ordito vengono tirati attraverso gli occhi dei licci. Hanno appena incominciato, quando arriva Hor­ nig nell’androne.) hornig (sulla soglia) Buon lavoro! il vecchio hilse e suo figlio Grazie, Hornig! il vecchio hilse Di’ un po’, ma quando dormi tu? Di giorno vai per i tuoi stracci, di notte monti la guardia. hornig Io ormai non dormo più. LUISA Benvenuto, Hornig. il vecchio hilse Che cosa ci porti di bello? hornig Belle novità, mastro Hilse. Quelli di Peterswaldau hanno affrontato il diavolo e hanno buttato il vecchio HiLSE

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fuori dalla tana il fabbricante Dreissiger insieme con tutta la famiglia. LUISA (co« segni di agitazione) Hornig dice di nuo­ vo le bugie, e siamo appena al mattino. hornig Questa volta no, comare! Questa volta no. Avrei nel carro bei grembiulini per bambini. No, no, vi dico la pura verità. Lo hanno proprio cacciato via. Ieri sera è arrivato a Reichenbach. Dio ci scampi. Lì non lo hanno voluto tenere - per paura dei tessitori - e lui di botto ha dovuto telarsela verso Schweidnitz. il vecchio HiLSE (prende con cautela i fili dell’ordito, li avvicina al liccio dal cui occhio il figlio li afferra dalla parte opposta con un filo di jerro a uncino) Adesso però, Hornig, è ora che tu smetta. hornig Possa non uscire di qui sano e salvo. Ormai lo sanno anche i passeri. il vecchio HILSE Di’ un po’, sei scemo tu o sono scemo io? hornig Dipende. Quello che ti ho raccontato è vero come è vero Dio. Non direi niente se non fossi stato presente io stesso, ma ho visto io. Come adesso vedo te, Teofilo. Hanno demolito la casa del fabbricante, dal fondo della cantina fin su ai comignoli. Dagli abbaini hanno scaraventato le porcellane, giù per il tetto. Quante centinaia di pezze di fustagno sono nel torrente? L’acqua non riusciva più a scorrere, credi a me; rigurgitava a ondate; era tutta azzurra per l’in­ daco che hanno gettato dalle finestre. Cortine di pul­ viscolo celeste empivano l’aria. Eh, sì, hanno com­ binato un’ira di Dio. E non solo nell’abitazione, nel­ la tintoria, nei magazzini...! Le ringhiere delle sca­ le hanno schiantato, hanno strappato le assi dai pa­ vimenti e fracassato gli specchi, i divani, le sedie, hanno stracciato e sbrindellato, tagliato e spaccato, cal-

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pestato e frantumato. Misericordia! Credi a me, peg­ gio che in guerra. il vecchio HiLSE E questo avrebbero fatto i tessitori di qui? {Scuote la testa lentamente, incredulo. Sulla so­ glia si sono raccolti alcuni inquilini incuriositii) hornig E chi altro? Potrei citare tutti per nome. Ho accompagnato per la casa un consigliere provinciale. E allora ho parlato con molti. Erano affabili come al solito. Hanno sbrigato la loro faccenda con calma ma a fondo. Il consigliere ha parlato con molti di essi. Ed erano rispettosi come sempre. Ma non si son la­ sciati trattenere. Hanno sfasciato i mobili più belli co­ me se fossero pagati per farlo. IL vecchio HiLSE Tu avresti accompagnato un consi­ gliere a vedere la casa? hornig Non avrò mica paura. Sono conosciuto da quei signori come la bettonica. Io non ce l’ho con nessu­ no. Vado d’accordo con tutti. Dunque, come è vero che mi chiamo Hornig, così lo ho accompagnato. E voi potete credermi senz’altro : sono rimasto proprio male. E anche il consigliere si vedeva bene che era rattristato. Perché poi? Non si sentiva neanche una parola; il silenzio era perfetto. Sentivi come un’aria solenne all’idea che quei poveri affamati hanno fatto una buona volta la loro vendetta. LUISA {tremando per l’agitazione e fregandosi gli oc­ chi col grembiule prorompe) Gli sta bene, così do­ veva avvenire ! voci degli inquilini Aguzzini ce ne sono anche qui. Uno abita qui di fronte. Quello ha quattro cavalli e sei carrozze nella scuderia e in compenso fa crepare di fame i suoi tessitori. il vecchio hilse {ancora incredulo) Come può es­ sere accaduto laggiù ?

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E chi lo sa? Chi lo può sapere? Gli uni di­ cono così, gli altri cosà. il vecchio hilse Ma che cosa dicono, insomma? hornig Dio ci scampi ! Dreissiger avrebbe detto : i tes­ sitori, se hanno fame, mangino erba. Io non so al­ tro. hornig

Commozione tra gli inquilini che si trasmettono la notizia da uno all’altro, tra segni di indignazione.

Adesso ascoltami, Hornig. Tu po­ tresti dirmi :· papà Hilse, domani dovrai morire. È possibile, dirò, perché no ? Tu potresti dirmi : papà Hilse, domani verrà a trovarti il re di Prussia. Ma che i tessitori, uomini come me e suo figlio, possano avere scatenato guai simili, no, mai. Non lo crederò mai e poi mai. emilietta (»«d bella bambina di sette anni, con lun­ ghi capelli di lino sciolti, un canestro sul braccio, entra saltando e porge alla mamma un cucchiaio d’argento') Mammina, guarda un po’ che cosa ho! Con questo mi dovresti comperare un vestitino. LUISA Perché così di corsa, bambina? {Sempre più agitata e incuriosita) Che cosa porti, di’ un po’ ? Sei arrivata senza fiato. E le matasse sono ancora nel cestello. Che storia è questa, figliola? il vecchio hilse Bimba, dove hai preso il cuc­ chiaio ? Luisa Forse l’avrà trovato. hornig Può valere certamente due, tre talleri. il vecchio hilse {-fuori di sé) Fuori, bimba! Fuori di qua! Vattene subito. Vuoi obbedire o devo pren­ dere il bastone? E il cucchiaio portalo subito dove l’hai preso. Fuori! Vuoi farci diventare tutti ladri?

il vecchio hilse

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Svergognata, ti insegnerò io a sgraffignare! (Cerca qualcosa per picchiarla'). emilietta (aggrappandosi alle sottane della mamma piange) Nonnino, non mi picchiare! L’abbiamo trotrovato. Tutti i bimbi dei tessitori ne hanno. Luisa (tra spaventata e incuriosita) Ecco, vedi dun­ que, lo ha trovato. Dimmi, dove l’hai trovato? emilietta (singhiozzando) A Peterswaldau, l’abbiamo trovato, davanti alla casa di Dreissiger. il vecchio HiLSE Ecco che siamo nell’imbroglio! Adesso però spicciati, altrimenti ti metto io le ali ai piedi. mamma HILSE Che cosa succede? hornig Adesso, papà Hilse, ti voglio dire una cosa. Di’ a Teofilo che si metta la giacca, prenda il cuc­ chiaio e lo porti in municipio. IL VECCHIO HILSE Teofilo, mettiti la giacca! teofilo (mentre sta già mettendosela, con zelo) E al­ lora vado in cancelleria e dico che non se ne abbiano a male, ma una bambina non può capire di che cosa si tratta. E così porto il cucchiaio. Smetti di piangere, bimba ! (La mamma conduce la bambina piangente nella stanza di dietro e chiude la porta. Lei stessa ri­ torna.) hornig Può valere i suoi tre talleri. teofilo Dammi anche un panno, Luisa, perché non si rovini. Guarda un po’, un oggetto così caro. (Men­ tre avvolge il cucchiaio, ha le lacrime agli occhii) luisa Se fosse nostro, si potrebbe campare parecchie settimane. il vecchio hilse Va’, va’, fa’ presto! Metti le gam­ be in spalla. Corri quanto più puoi. Questa poi ! Ci mancava anche questa. Fa’ presto e levami d’attorno questo cucchiaio del diavolo. (Teoplo esce col cuc­ chiaio.)

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È ora che me ne vada anch’io. (Esce, si trat­ tiene qualche secondo nell’androne, poi se ne vai) il chirurgo Schmidt (un omino tondo, tutto argento vivo, faccia da furbo, paonazzo dal bere, appare nel­ l’androne) Buon giorno, gente mia! Belle storie sono queste. (Minaccia col dito) Se mi venite a tiro... Siete ben furbi voialtri! (Sulla soglia senza entrare) Buon giorno, papà Hilse! (A una donna nell’androne) Eb­ bene, mammina, come stiamo coi reumi? Meglio, ve­ ro? Ecco, vedete? Papà Hilse, devo un po’ vedere come state voialtri. Che diavolo ha vostra moglie? LUISA Dottore, le si sono seccate le vene degli occhi, ora non ci vede niente niente. Schmidt Colpa della polvere, e del tessere col lume. Ma, dite un po’, riuscite a raccapezzarvi? Tutta Peterswaldau sta arrivando qua. Stamattina son montato in carrozza, senza pensare niente di male, ma proprio niente niente. E sento raccontare cose straordinarie. Corpo del diavolo, che cosa gli ha preso, Hilse? Sono infuriati come un branco di lupi. Si ribellano, fanno la rivoluzione, fanno resistenza, saccheggiano, svali­ giano... Emilietta! dov’è mai Emilietta? (Emilietta, ancora rossa di pianto, è fatta entrare dalla mammal) To’, Emilietta, metti un po’ la mano nella mia tasca. (Emilietta eseguisce.) Le ciambelle di pan pepato so­ no per te. Un momento, non tutte in una volta, per­ diana! Prima si canta la canzone della volpe. Volpe dove... Su, andiamo! Volpe, dove hai preso... l’oca?... Aspetta, io so che cosa hai fatto : ai passeri sullo steccato del parroco hai detto cacastecchi. Quelli sono andati a riferirlo al sagrestano. Ma senti questa! Cir­ ca millecinquecento persone stanno arrivando. (Lon­ tano suono di campami) Udite? a Reichenbach suo­ nano a stormo. Millecinquecento uomini La fine del mondo. Vengono i brividi! hornig

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IL vecchio HiLSE Ma arrivano proprio qua a Bielau? Schmidt Certo, certo, sono passato in mezzo a loro, ho attraversato tutta la folla. Avevo voglia di scen­ dere e di dare a ciascuno una polverina. Ti trottano l'uno dietro l’altro come la miseria e intonano certe canzoni che sconvolgono lo stomaco, che ti viene da vomitare. Il mio Federico, a cassetta, frignava come una donnicciola. Dopo abbiamo dovuto prendere un caffè amaro, forte. Non vorrei essere nei panni di un industriale, neanche se potessi viaggiare con le ruote di gomma. (Canto lontano?) Ascoltate! Come battere con le nocche sopra una vecchia pignatta fessa. Ragaz­ zi, in meno di cinque minuti li abbiamo qui. Addio, brava gente, non fate sciocchezze! Dietro a loro sta arrivando la truppa. Abbiate giudizio ! Quelli di Peterswaldau l’hanno perduto. (Scampanio vicino?) Cie­ lo, adesso incominciano anche le nostre campane. Questa gente deve essere proprio impazzita. (Esce e sale al piano di sopra?) teofilo (rientra e, ancora nell’androne, con affanno) Li ho visti, li ho visti io. (A una donna nell’andro­ ne) Sono qui, zia, sono qui ! (Sulla soglia) Sono qui, papà, sono qui ! Armati di pertiche, badili, zappe. Sono già arrivati di sopra da Dittrich e fanno un pandemonio. Pare che ricevano quattrini. Gesù, che cosa succederà ancora? Non mi raccapezzo. E quanta gente, Dio mio, quanta gente! Se costoro prendono la rincorsa, corpo del diavolo, anche i nostri indu­ striali se la vedranno brutta. il vecchio HILSE Perché hai corso così! Ti scalmane­ rai finché ti riprenderà il tuo vecchio malanno e do­ vrai star coricato a dibatterti sul letto. teofilo (quasi giulivo) Ho dovuto correre per forza, altrimenti mi trattenevano. Già tutti urlavano che an­ dassi a dare una mano. C’era anche il padrino Bau-

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mert. Lui mi ha detto : Va’ anche tu a prendere cin­ que grossi, anche tu sei un povero diavolo che pati­ sce la fame. Ha detto persino : Va’ a dirlo al tuo papà... M’ha detto di dirvi, papà, che anche voi do­ vreste andar ad aiutare, a prendere la rivincita su que­ sti aguzzini di fabbricanti. (Esaltandosi) Ora vengo­ no altri tempi, ha detto. E che ora devono mutare le condizioni di noi tessitori. Che dovremmo andar tutti ad aiutare per ottenerlo. Che tutti noi vogliamo ades­ so il nostro pezzo di carne alla domenica e un san­ guinaccio coi crauti nei giorni di festa. Che tutto deve prendere un aspetto diverso, così mi ha detto. IL vecchio HiLSE (con indignazione repressa) E co­ stui vuol essere il tuo padrino? E ti spinge a parteci­ pare a simili gesti criminali. Non impicciarti in que­ ste faccende, Teofilo. Qui c’è il diavolo che ci mette lo zampino. È opera di Satana quello che fanno. Luisa (sopraffatta dall’agitazione, con violenza) Già, già, Teofilo, accucciati tra la stufa e il muro al chia­ ro della fiamma, prendi in mano un mestolo e una tazza di latte sulle ginocchia, indossa la sottanina e di' le preghiere. Così piaci a papà. E costui sarebbe un uomo? (Risate della gente nell'androne.) IL vecchio HiLSE (tremando, trattenendo la collera) E tu saresti una donna ammodo, vero? Allora, te lo voglio dire, finalmente. Tu vuoi essere una madre e fai discorsi così malvagi? Tu vuoi insegnare alla tua bambina e spingi il marito al delitto e all'infamia? LUISA (senza freno) Con le vostre chiacchiere bigot­ te... Quelle non mi hanno mai sfamato nemmeno uno dei bambini. Con quelle sono stati tutti e quattro nel sudiciume e negli stracci. Con quelle non ho asciu­ gato neanche una delle loro fasce. Sì, che voglio essere una madre, sì, giacché lo vuoi sapere. E per questo, affinché tu lo sappia, auguro agli industriali l’inferno

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e la peste. Appunto perché sono una madre. Si man­ tiene forse così una creaturina? Ho più pianto che respirato da quando un trottolino così veniva al mon­ do fin quando la morte non ne aveva compassione. A voi non è importato un corno ! Voi avete pregato e cantato e io camminavo fino a farmi sanguinare i pie­ di per trovare una goccia di latte. Quante centinaia di notti mi sono rotta il capo per trovar modo di sottrar­ re un bambinello così al cimitero. Che delitto ha com­ messo un bambino così? Sentiamo! Che debba fare una fine così miseranda? E là di fronte, da Dittrich, gli fanno fare il bagno nel vino e li lavano col latte. Oh, se a un certo momento scoppio, neanche dieci funi mi potranno trattenere. E lo voglio dire : se dan­ no l’assalto al palazzo di Dittrich, io sarò la prima, e guai a chi mi si para davanti. Sono stufa, questo è certo. il vecchio HiLSE Tu sei perduta, per te non c’è sal­ vezza. LUISA (furente) Per voi non c’è salvezza. Conigli sie­ te, cialtroni e non uomini. Vigliacchi da sputarvi in faccia. Rammolliti siete, basta una raganella da bam­ bini per farvi battere i tacchi. Siete capaci di dire tre volte « grazie tante » per un fracco di legnate. Vi hanno svuotato le vene talmente che non siete nean­ che più capaci di arrossire. Una frusta bisognerebbe prendere e mettervi un po’ di pepe nelle ossa fradice. (Esce di corsa.)

Pausa d’imbarazzo.

Papà, che cos’ha Luisella? HiLSE Niente, mammina. Che cosa vuoi che abbia?

mamma HILSE

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HILSE Di' un po’, papà, sembra a me, o suo­ nano le campane? IL vecchio HILSE Ci sarà un funerale, mamma. mamma hilse E io invece non riesco a trovare la fine. Dimmi, perché non muoio ancora? mamma

Pausa. {lascia il lavoro, si rizza quanto è alto, con solennità) Teofilo! Tua moglie ci ha detto certe cose, Teofilo: guarda un po’ qua! {Si scopre il petto) Qui dentro c’è stato un cosino grande come un ditale. E lo sa il re dove ho lasciato il mio braccio. Non sono stati i topi a mangiarmelo. {Passeggia in su e in giù) Tua moglie era ancora nella mente di Dio, quando io già versavo il mio sangue a litri per la patria. E per questo si metta pure a strillare finché ne ha voglia. Non me n’importa. Io me ne infischio. Paura? Io aver paura? Paura di che, sentiamo un po’, di quel paio di soldati che forse arrivano alle spalle dei ribelli? Gesù, fosse vero! Sarebbe il minore dei mali. Oh, se anche ho il filo della schiena un po’ fiacco, in caso di bisogno ho le ossa dure come favorio. Mi sento, sì, di affrontare quattro misere baio­ nette. E se andasse a finir male? Oh, fin troppo vo­ lentieri, fin troppo volentieri chiuderei bottega. Non mi farei certo pregare a lungo per morire. Meglio oggi che domani. Che male sarebbe? Che cosa si ab­ bandonerebbe? Non sarà certo il caso di rimpiangere questo vecchio cassone di pene. Quel po’ di angoscia e di tribolazione che chiamano vita, lo si lascia ben volentieri. Ma poi, Teofilo, poi viene qualche altra cosa. E se perdiamo anche quella, allora sì che tutto è finito.

il vecchio hilse

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Chi lo sa che cosa c’è quando si è morti ? Nes­ suno l’ha visto. il vecchio HILSE Io ti dico, Teofilo, non dubitare di quell’unica cosa che abbiamo noialtri poveri. Per che cosa sarei stato a premere le calcole per quarant’anni e anche più? Perché sarei stato tranquillo a guardare come quelli là di fronte vivono nella loro grandezza e negli stravizi, cavando oro dalla mia fame e dal mio dolore? Per che cosa mai? Perché ho una spe­ ranza. Qualche cosa ho in tutta la mia miseria. (In­ dicando juori della finestra) Tu hai la tua parte qui, 10 l'ho nel mondo di là : così ho pensato. E mi lascerei squartare tanto ne sono sicuro. Ci fu promesso. E 11 giudizio ci sarà. Ma non noi siamo i giudici, però : mia è la vendetta, dice il Signore, Iddio nostro. una voce (dalla finestra) Fuori i tessitori ! il vecchio HiLSE Per me fate quel che vi piace. (Si siede al telaio) Ma dovrete pur lasciarmi qua dentro. teofilo (dopo breve lotta) Io vado e farò la mia par­ te. Avvenga che vuole. (Esce. Si ode cantato da cen­ tinaia di voci il canto dei tessitori, vicinissimo; sem­ bra un lamento cupo, monotono^) voci degli inquilini (nell’androne) O Dio, Dio, adesso però vengono come le formiche. - Da dove so­ no sbucati tanti tessitori? - Va’, non spingere, an­ ch’io voglio vedere. - O guarda quel perticone che cammina in prima fila. - Ahi, ahi, adesso arrivano tutti come la gragnuola! hornig (entra in mezzo alla gente nell’androne) Vero che questa volta siamo a teatro? Non sono cose che si vedono tutti i giorni. Dovreste andare a vedere da Dittrich là sopra. Là hanno già combinato una scena che mette conto di vedere. Quello non ha più casa, non ha più fabbrica, non ha più cantina, non ha più niente. Le bottiglie se le scolano... non si prendono teofilo

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neanche il tempo di cavare i tappi. Uno, due, tre, giù il collo e se anche si tagliano la bocca con i cocci, non importa. Certuni vanno in giro sanguinanti come maiali scannati. Ora leveranno il pelo anche al Dit­ trich di qui. (// canto del coro si è spento.) voce degli inquilini Eppure non hanno affatto l’aria feroce. hornig Oh, non pensateci ! Aspettate ! Adesso stanno appena spiando il momento buono. Guarda un po’ come prendono di mira il palazzo da tutte le parti ! Guardate quell’omino grasso che ha in mano un sec­ chione da stalla. Quello è il fabbro di Peterswaldau, un omino agile e svelto. Quello ti sfonda le porte più solide come se fossero spumoni, credete a me. Se gli capita tra le grinfie un industriale, questo può con­ siderarsi bell’e spacciato. voce degli inquilini O senti un po’ questa! Un sas­ so ha colpito la finestra - Adesso il vecchio Dittrich se la fa nei calzoni. — Ecco che espone un cartello! - Un cartello espone? - Cosa c’è scritto? - Non sai leggere? - Che sarebbe di me se non sapessi leggere! - E allora leggi una buona volta ! - « Tutti sarete sod­ disfatti, tutti sarete soddisfatti. » hornig Poteva anche farne a meno. Tanto non gli gio­ va. I compagni hanno i loro ghiribizzi. Qui prendono di mira la fabbrica. I telai meccanici vogliono levare di mezzo. Sono quelli infatti che mandano in rovina i tessitori a mano. Lo vede un cieco. Oggi i cristiani hanno preso Pabbrivo. Non gliela fa capire nessun consigliere e nessun commissario e meno che meno un cartello. Chi li ha visti all’opera sa di che si tratta. voce degli inquilini O gente, gente, guardate che folla! - Che cosa vogliono poi? - {Con ansia) Ecco che passano il ponte. - {Con timore) Sta a vedere che vengono da questa parte! — {Con grande sorpresa e

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paura) Vengono da noi, vengono da noi! - Vengono a prendere i tessitori dalle case.

Tutti prendono la fuga, l’androne è vuoto. Uno scia­ me di ribelli sudici, impolverati, con la faccia arros­ sata, laceri, sconvolti entrano nell’androne al grido: Fuori i tessitori! e si disperdono nelle singole stanze. In quella del vecchio Hilse vengono Bäcker e alcuni giovani armati di randelli e pertiche. Quando ricono­ scono il vecchio Hilse, restano esitanti e leggermente smontati. Papà Hilse, smettetela con questo supplizio ! La­ sciate che prema le calcole chi ne ha voglia. Voi non avete più bisogno di scannarvi con questo lavoro. Adesso ci pensiamo noi. primo giovane tessitore Neanche un giorno dovre­ te più andare a dormire affamato. secondo giovane tessitore II tessitore deve avere fi­ nalmente il tetto sopra il capo e la camicia indosso. il vecchio hilse Dove vi porta il diavolo con ran­ delli e scuri? Bäcker Li vogliamo spaccare in due sulle spalle di Dittrich. secondo giovane tessitore Li arroventiamo e li cac­ ciamo in gola agli industriali perché anche loro sen­ tano come brucia la fame. primo giovane tessitore Venite anche voi, papà Hilse! Noi non diamo quartiere. secondo giovane tessitore Nessuno ha avuto mai pietà di noi. Né Dio né gli uomini. Adesso ci fac­ ciamo giustizia da noi. il vecchio baumert (entra un po’ incerto sulle gam­ be tenendo sotto braccio un gallo ucciso. Allargando backer

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le braccia) Fratelli siamo tutti fratelli! Venite sul mio cuore, fratelli ! (Risate.) il vecchio HiLSE Così ti sei ridotto, Guglielmo? il vecchio Baumert Tu, Gustavo? Vieni, Gustavo, povero affamato, vieni sul mio cuore. (Commosso.) il vecchio HiLSE (brontola) Lasciami in pace. il vecchio Baumert Vedi, Gustavo, così vanno le cose. Fortuna deve avere l’uomo. Guardami un po’, Gustavo. Come sono? Fortuna deve avere l’uomo! Non sembro forse un conte? (Battendosi la pancia) Indovina cosa ci ho qui! Un mangiare da signori! Fortuna deve avere l’uomo, e allora trova champagne e arrosto di lepre. Vi dirò una cosa : abbiamo fatto un errore : servirci dobbiamo. tutti (in confusione) Servirci dobbiamo, evviva! il vecchio Baumert E quando si sono ingoiati i pri­ mi buoni bocconi, allora si sente la propria natura. Gesù, allora ti viene il vigore, ti senti forte come un toro. La forza ti esce dalle membra in modo che non vedi più neanche dove picchi. Ed è proprio un pia­ cere! JÄGER (sulla soglia, armato di una vecchia spada di ca­ valleria) Abbiamo fatto un paio di attacchi straor­ dinari. Bäcker Abbiamo già capito bene la storiella. Uno, due, tre e siamo dentro nelle case. E già bruciano con fiamme vive. Uno scoppiettare e un rombo che fa sprizzare le faville come in una fornace. primo giovane tessitore Già bisognerebbe fare un focherello. secondo giovane tessitore Andiamo a Reichenbach e appicchiamo il fuoco alle case coi ricchi dentro. JÄGER Sarebbe per loro una bella trovata. Incassereb­ bero una cospicua assicurazione per l’incendio. (Ri­ sate.)

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backer Di qui andiamo poi a Freiburg, da Tromtra. Jäger Dovremmo prendere di petto anche i funzio­ nari. Ho letto che tutti i guai vengono dalla buro­ crazia. secondo giovane tessitore Presto arriviamo a Breslavia. Difatti abbiamo sempre più consensi. il vecchio baumert (d Hilse) Su, bevi, Gustavo! il vecchio hilse Io non bevo mai grappa. il vecchio baumert Valeva per il mondo di una vol­ ta. Oggi siamo in un mondo nuovo, Gustavo. primo giovane tessitore Non è mica sagra tutti i giorni. {Risate.') il vecchio hilse {impaziente) Tizzoni d'inferno, che cosa volete da me? il vecchio baumert {un po’ intimidito, eccessivamen­ te cortese) Guarda un po’, volevo portarti un pollo. Perché tu faccia il brodo per la tua vecchia. il vecchio hilse {colpito, quasi gentile) Oh va’, e dil­ lo a lei ! mamma hilse {con una mano all’orecchio si è sfor­ zata di ascoltare, ora respinge il dono) Lasciatemi stare. Io non voglio brodo di pollo. il vecchio hilse Hai ragione, vecchia mia. Nemme­ no io. Questo poi meno che mai. E a te, Baumert, voglio dire una parola. Quando i vecchi chiacchierano come i bambini, il diavolo fa le capriole dalla gioia. E perché lo sappiate, perché lo sappiate tutti; io e voi non abbiamo niente in comune. Voi non siete qui perché io vi abbia voluti. Non dovete cercare qui il diritto e la giustizia. voce Chi non è con noi è contro di noi. Jäger {minacciando brutalmente) Tu sbagli di grosso. Senti un po’, vecchio, non siamo ladri noi. voce Abbiamo fame, nient’altro. primo giovane tessitore Vogliamo vivere e nien-

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t’altro. Perciò abbiamo tagliato la fune che ci stringe­ va il collo. JÄGER E abbiamo fatto bene! (Tenendo il pugno sul viso del vecchio) Di’ ancora una parola e te ne allun­ go una, in mezzo al grugno. Bäcker Calma, calma! Tu lascia il vecchio. Papà Hilse, noi pensiamo così : piuttosto morti che ricomin­ ciare una vita simile. il vecchio HiLSE Non l’ho forse vìssuta per sessanta e più anni? Bäcker Non conta. Ha da mutare. il vecchio HiLSE II giorno del mai. Bäcker Ciò che non otteniamo con le buone Io otte­ niamo con la forza. il vecchio hilse Con la forza? {Ride) Allora pote­ te pensare alla sepoltura. Vi faranno vedere loro dove sta la forza. Aspettate, aspetta e vedrai. Jäger Forse per via dei soldati? Anche noi abbiamo fatto il soldato. Un paio di compagnie e ce la sbri­ ghiamo da noi. il vecchio hilse A chiacchiere, lo credo. E se anche fosse, due ne cacciano fuori, dieci vengono al loro posto. voci {da fuori della finestra) Arrivano i soldati. Bada­ te a voi! {Improvvisamente tutti ammutoliscono. Per un istante si sente un debole suono di pifferi e tam­ buri. Nel silenzio un grido breve e istintivo.) Acci­ denti, io filo! {Risata generale.) Bäcker Chi parla qui di svignarsela? Chi è stato? Jäger Chi avrà paura di quattro miseri elmetti col chiodo? Prenderò io il comando. Sono stato in caser­ ma, conosco l’imbroglio. il vecchio hilse Con che cosa volete sparare? Forse coi randelli?

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Lasciamo stare questo vec­ chio balordo. Non ha tutte le rotelle a posto. secondo giovane tessitore Un po’ strambo lo è di certo. teofilo (è comparso inosservato tra i rivoltosi, afferra colui che ha parlato') Osi borbottare così contro un vecchio ? primo giovane tessitore Lasciami stare, non ho det­ to niente di male. il vecchio hilse {intervenendo') Lascialo ciarlare ! Non perdere le staffe, Teofilo. Si accorgerà fin troppo pre­ sto chi è balordo, io o lui. Bäcker Vieni con noi, Teofilo? il vecchio hilse Penso che ne farà a meno. LUISA {entra in casa ed esclama) Non state qui a gingillarvi ! Non perdete tempo con questi biascicapaternostri. Venite in piazza! In piazza dovete venire. Padrino Baumert, venite più presto che potete! Il maggiore sta parlando da cavallo con la gente. Dice che dovrebbero andare a casa. Se non venite subito è perduta la partita. Jäger {uscendo) Hai un bel marito valoroso. LUISA Un marito io? Io non ho marito! primo giovane tessitore

Nell’androne alcuni cantano: Una volta un uomo c’era piccolino, trallalera, che voleva una donnona grande e grossa, trallalà!

{con un secchio in mano è sceso dal piano dì sopra, ja per uscire, si jerma nell’androne un istan­ te) Avanti, chi non vuol essere un porco fottuto! Urrà! {Si precipita juori. Un gruppo tra cui Luisa e Jäger, lo seguono gridando Urrà!)

wittig

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Bäcker State sano, papà Hilse, ne riparleremo. (Fa per uscirei) il vecchio hilse Sarà difficile, non vivo più cinque anni. E tu non esci prima. Bäcker (fermandosi meravigliato) Da dove, papà Hil­ se? il vecchio hilse Dalla galera. Da dove altro? Bäcker (con una risata amara) Oh mi verrebbe a fa­ giolo. Là almeno c’è pane da saziarmi, papà Hilse. (Esce.) il vecchio baumert (era stato a rimuginare assorto; ora si alza) È vero, Gustavo, una piccola sbornia ce l’ho. Ma non per questo sono meno lucido qui in testa. In questa faccenda tu hai la tua opinione, io ho la mia. Io dico : Bäcker ha ragione, se si va a fini­ re in gattabuia, meglio in prigione che a casa pro­ pria. Là si è provvisti. Là non occorre patir la fame. 10 non volevo mettermi con gli altri. Ma vedi, Gu­ stavo, l’uomo deve pure almeno una volta tirare il fiato. (Lentamente verso la porta) Sta’ sano, Gustavo Se dovesse accadere qualcosa, recita una preghiera an­ che per me. Hai inteso? (Esce.) Nessuno dei rivoltosi è più in scena. L’androne si riempie a poco a poco di inquilini curiosi. Il vecchio Hilse annoda i fili della catena. Teofilo ha preso una scure di dietro alla stufa e istintivamente ne saggia 11 filo. Entrambi, il vecchio e Teofilo, sono muti e agitati. Da fuori si sente il brusio di una grande folla. Di’ un po’, papà, sento tremare il pa­ vimento. Che cosa succede? A che cosa andiamo in­ contro? (Pausa.) il vecchio hilse Teofilo ! teofilo Comandate? mamma hilse

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HiLSE Posa quella scure! E chi spaccherà la legna? {Appoggia la scure alla stufa. Pausai) mamma HiLSE Teofilo, da’ retta a quello che dice papà.· UNA VOCE {cantando davanti alla finestra) : il vecchio

teofilo

No, non hai la faccia fiera, omettino, trallalera. Resti in casa, lavi i piatti, cuci e stiri, trallalà.

{con un balzo, tende un pugno contro la fine­ Carogna, non farmi imbestialire! mamma HiLSE {spaventata) Gesù, Maria, riprende a tuonare ? il vecchio HILSE {prega con una mano sul petto) Si­ gnore, Iddio del Cielo, proteggi i poveri tessitori ! Proteggi i miei poveri fratelli ! {Dopo un breve si­ lenzio, tra sé, scosso) Adesso scorre il sangue. teofilo {nel momento in cui crepitava la fucileria è balzato in piedi e stringendo in pugno la scure, palli­ do, non riesce quasi a dominarsi dalla grande agita­ zione) Bene, anche adesso bisognerà stare a cuccia? UNA giovane tessitrice {parlando dall’androne verso la stanza) Papà Hilse, papà Hilse, andate via dalla finestra! Da noi, nella stanza di sopra, è entrata dalla finestra una pallottola. {Scompare) emilietta {affacciandosi, ridendo, alla finestra) Non­ nino, nonnino, hanno sparato coi fucili. Un paio son caduti. Uno gira intorno come una trottola, come una rotellina. Uno è lì che sgambetta come un passero quando gli si strappa il collo. Ahi, ahi, e quanto san­ gue è uscito a spruzzi! {Scompare) una tessitrice Ne hanno ammazzati un paio. teofilo

stra)

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{nell’androne) State a vedere che adesso prendono di petto i soldati. un secondo tessitore {fuori di sé) Oh, guardate un po’ le donne, guardate le donne! O non alzano le sottane? O non sputano in faccia ai soldati? una tessitrice {grida dalla porta) Teofilo, vieni a ve­ dere tua moglie, quella sì, quella ha più fegato di te : salta davanti alle baionette come se danzasse a suon di musica. un vecchio tessitore

Quattro uomini portano un ferito per la casa. Silen­ zio. Si distingue benissimo una voce che dice: È il tessitore Ulbrich. La voce dopo qualche secondo: Avrà finito di lavorare : si è preso nell’orecchio una pallot­ tola di rimbalzo. Si sentono uomini che salgono una scala di legno. Di fuori a un tratto: Urrà, urrà!

voci {nella casa) Dove hanno preso le pietre? - Ades­ so via, filate! - Dal cantiere stradale! - Adesso le bu­ scate, soldati! - Adesso piovono pietre!

Di fuori, grida di spavento e urli che arrivano fin nel cortile. Con un grido di terrore si chiude la porta di casa. {nell’androne) Caricano di nuovo. - Stanno per sparare di nuovo. - Papà Hilse, levatevi dalla finestra. TEOFILO {correndo a prendere la scure) Macché, mac­ ché, siamo forse cani rabbiosi? Dobbiamo mangiare polvere e piombo invece di pane? {Con la scure in pugno esita un istante e dice al vecchio) Lascerò che accoppino la mia donna? Non sarà mai! {Uscendo di corsa) Largo, adesso arrivo io! {Esce fi il vecchio hilse Teofilo, Teofilo ! mamma hilse Dove è andato Teofilo? VOCI

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IL vecchio HILSE All'inferno è andato. UNA voce (dall’androne) Via dalla finestra, papà Hil­ se! il vecchio hilse No ! Anche se siete tutti ammatti­ ti ! (A mamma Hilse, con fervore estatico) Qui mi ha messo il mio Padre celeste. Vero, mamma? Qui restiamo e facciamo ciò che dobbiamo fare, anche se tutto il mondo va a catafascio.

Si mette a tessere. Si ode una scarica. Colpito a mor­ te, il vecchio Hilse si rizza e ripiomba bocconi sul telaio. Hello stesso tempo le grida di evviva si fanno più forti. Con queste grida corrono fuori anche le persone che erano finora nel cortile. La vecchia chie­ de più volte: Babbo, vecchio mio, che cos'hai? Le ininterrotte grida di evviva si allontanano sempre più. A un tratto entra di corsa la piccola Emilia. Nonnino, nonnino, cacciano i soldati fuori dal villaggio, hanno dato l'assalto alla casa di Dit­ trich, fanno come laggiù da Dreissiger. Nonnino? (La bimba si spaventa, presta attenzione, si mette un dito in bocca e s'avvicina cautamente al morto) Nonnino? mamma hilse Andiamo, vecchio mio, di’ una paro­ la! C’è proprio da aver paura. EMILIETTA

ROSA BERND

I

Titolo originale: ROSE BERND

Traduzione di Cesare Castelli Prima edizione : Berlino 1903 Prima edizione italiana: Roma 1906

Personaggi

BERND

ROSA

MARTA

sue figlie

CRISTOFORO FLAMM LA SIGNORA FLAMM ARTURO STRECKMANN

AUGUSTO KEIL HAHN HEINZEL

GOLISCH

braccianti impiegati presso Flamm

KLEINERT

LA VECCHIA GOLISCH LA MASSAIA LA SOTTOMASSAIA UN GENDARME

al servizio di Flamm

Atto Primo

Ridente fertile pianura in un chiaro e caldo mattino di maggio, pieno di sole. Una via campestre parte dal fondo a sinistra e traversa la scena sino al proscenio a destra. I campi a destra sono in pendio. Un campicello di palate, nel quale già spuntano i verdi ger­ mogli, si avanza sino al mezzo della scena ed è sepa­ rato dalla via mediante un fossato erboso cosparso di fiori. A sinistra su di una scarpata dell’altezza di un uomo s’erge un vecchio ciliegio. A destra spuntano dei rami di nocciuolo e di biancospino. Parallela alla via, nel fondo, si scorge una fila di ontani e di salici che indica il corso d’un ruscello. Gruppi di alberi sparsi qua e là, danno al paesaggio l’aspetto d’un par­ co. Nel fondo a sinistra, dietro le cime e i rami de­ gli alberi, s’intravedono i tetti e il campanile di una chiesa. Sul margine della via, a destra, sorge un cro­ cifisso. È domenica. Rosa, bella e robusta contadina di ventidue anni, esce tutta rossa e concitata dal cespuglio di biancospini che è a destra, e dopo aver spiato con lo sguardo attorno, si lascia cader seduta sulla scarpata che limita la via. È scalza, porta un grembiule che le copre a metà la gonnella, ha le braccia nude e si affatica ad appun­ tare una treccia di capelli che le si è sciolta. Quasi subito, da un’altra parte del cespuglio, sbuca il borgomastro Flamm; anche lui ha l’aria impaurita, ma

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pure soddisfatta. E un bell’uomo sui quarant’anni, ve­ stito da cacciatore, con delle scarpe alte allacciate, le calze lunghe e calzoni corti, una borraccia rivestita di pelle a tracolla. Flamm ha una fisionomia fresca, ar­ dita, e una figura imponente, con spalle quadre; è un simpatico tipo di possidente di campagna. Egli siede sulla scarpata a poca distanza da Rosa; ambe­ due si guardano qualche istante in silenzio, poi pro­ rompono in una clamorosa risata.

(cantando con crescente slancio, e battendo il tem­ po come un direttore d’orchestra)

flamm

Per boschi e per vallate Io cerco l’amor mio. Io sono un cacciatore, Io sono un cacciator... (dapprima allarmata al suono della di lui voce, si rinfranca a poco a poco, e ride della propria paura) Ma signor Flamm ! flamm (incitandola) Canta anche tu, Rosina! rosa Io non so cantare, signor Flamm. flamm Non è vero, perché ti sento spesso cantare nel­ l’aia (canta) rosa

Un cacciatore del Palatinato Cavalcava nel mezzo della foresta... Questa canzone non la so nemmeno, signor Flamm. flamm Tu non m’hai da chiamare signor Flamm! Ca­ pisci? (canta)

rosa

O vieni, bimba, vieni! Dal lato del mio cuor.

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(sempre paurosa) La gente di chiesa sta per torna­ re, signor Flamm ! flamm Lasciala tornare! (Si alza e fruga nel cavo del vecchio ciliegio togliendone il suo fucile) Io riprendo il fucile, accomodo il cappello, la pipa... Ecco, ora per conto mio posson venire quanto gli pare... (si è messo il fucile ad armacollo, aggiustato il cappello ornato di penne di sulla fronte, e cavata di tasca una pipa se l’è messa in bocca) Guarda qua... una grandinata di visciole! (Leva la mano piena di ciliege che ha raccolto a terra e la stende a Rosa, poi con slancio) Rosina! Quanto pagherei perché tu fossi mia moglie! rosa Oh, Gesù mio ! Signor Flamm ! flamm Sul serio, Rosina! rosa (piena di ritegno e di paura) Ma no... no... che le pare! flamm Rosina! Dammi qua la zampa! (Prende la sua mano e, come se ne fosse trascinato, si lascia cadere se­ duto vicino a lei) Per Dio ! Rosina, vedi ? io sono un tipo curioso! Voglio un gran bene alla mia vecchia... lo credi?... rosa (alza il braccio all’altezza della testa come per na­ scondersi il volto) Allora mi nasconderei sotto ter­ ra!... flamm Io voglio un gran bene a mia moglie... ti di­ co... ma... (come se perdesse la pazienza) il nostro, è un affare che non la riguarda. rosa (ridendo suo malgrado) No, ma anche lei-, si­ gnor Flamm!... flamm (con convinzione) Senti! tu sei una bella ra­ gazza! Una ragazza... da far girare la testa!... Guarda un po’ la mia vecchia... Fra lei e me, è una storia curiosa... Tu sai che è malata. Sono nove anni che è costretta a letto o, se mai sta sulla sedia a rotelle. Che rosa

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me ne faccio di una donna così? Sangue di Diana! {Le prende il capo e la bacia ripetutamente.) rosa {sgomenta) La gente torna di chiesa... flamm Non ci pensa nemmeno... o perché oggi l'hai tanto con la chiesa? rosa Perché Augusto... è là... flamm I bigotti son sempre per le chiese... non sanno far altro!... Vedi!... non sono ancora le dieci e mez­ zo... quando è finito si sente pur la campana... No... no... Quanto alla mia vecchia non ti devi assolutamente preoccupare. rosa Ah Cristoforo! Eppure quella, alle volte... guar­ da in un modo... che parrebbe proprio di sprofondar sotto terra... flamm La mia vecchia non la conosci abbastanza!... lei è furba, vede traverso a tre muraglie! ma è buo­ na come un’agnello, e se per caso... sapesse quello che c’è fra noi... non ci scannerebbe... rosa No... no... per amor di Dio, signor Flamm! flamm Te lo ripeto... A me non importa niente... {Con rabbia) In fondo dove ha da andare un uomo come me? Eh?... Ebbene?!... Che? Di’ su, che c’è dunque?... Rosina? Ma tu già lo sai, quanto la fac­ cenda mi stia a cuore... dunque... lasciami un po’ sfo­ gare! rosa Signor Cristoforo!... lei è così buono con me... {con le lacrime agli occhi bacia ripetutamente la ma­ no a Flamm) Ma... flamm {un po’ colpito) Buono io?... bella bravura!... Che mi prenda la rogna!... Rosina... esser buono con te... non vuol dir nulla... Se fossi libero, ti sposerei... Io sono su di una falsa strada... capisci?... Senza par­ lare di altre faccende. Io avrei dovuto.... Ma, chi sa che cosa?... Oggi potrei essere ispettore forestale. E invece, quando è morto il vecchio, via, a casa! E ad-

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dio carriera! Che vuoi? Non sono fatto per le gran­ di scalate. Già qui, il paese è troppo civile per me. Una capanna in mezzo ai boschi, uno schioppo e un cosciotto d’orso! E se qualcuno mi viene per traver­ so, pallini nel didietro!... rosa Ma così, signor Flamm, non la può durare... bi­ sogna metterci un termine... flam Crist... Ma che, non ha tempo, quel collotorto rifinito? Non ce ne resta anche abbastanza per lui? No, bimba mia... quello, mandalo a quel paese... rosa L’ho tenuto a bada abbastanza... Sono più di due anni che aspetta... e ora mi sollecita... non vuol aspet­ tar più. E già, del resto, così non la può durare dav­ vero ! flamm {irritandosi) Queste sono sciocchezze... Capi­ sci? Sinora ti sei logorata per tuo padre... Ancora non hai un’idea di quel che sia la vita... e già ti vorresti incatenare al cartolaio? È una bestialità... e non dico altro!.,. Lasciarsi sfruttare sino all’osso... Del resto, se non desideri di meglio, ne hai sempre tempo!... rosa No, Cristoforo!... Questo lo dice lei, signor Flamm; però se fosse come me in mezzo a quella gente, la penserebbe in un altro modo. Io so come se la cava male il babbo... I padroni ci han dato la di­ sdetta della casa perché ci ha da entrare un nuovo bovaro... E poi è la sua idea fissa, che io mi sistemi una buona volta... flamm Allora Keil se lo dovrebbe sposare tuo padre, se è così infatuato di lui... io non capisco come si possa esserne così fanatici... è proprio una frenesia! rosa Ora lei è ingiusto, signor Flamm. flamm Di’ piuttosto... già... Che?... Che cosa dico io? Io non li posso soffrire quei musi da messale... Quel­ l’uomo l’ho proprio sullo stomaco... Dio mi perdo­ ni!... e a te soprattutto, Rosina... Perché non dovrei

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dirtelo francamente? Può essere che abbia i suoi me­ riti... S’è forse messo da parte quattro soldi... non per questo è necessario che tu vada ad affogarti nel pen­ tolo della colla... rosa No, Cristoforo... Non parli così... questo non lo dovrei star a sentire... Però Augusto ne ha avute ab­ bastanza; la sua malattia e la sua sventura... son cose che fanno compassione... flamm Voialtre ragazze, chi vi capisce? Una può es­ sere saggia e risoluta quanto vuole... ma poi un bel giorno diventate così sciocche... così stupide... Dio san­ to!... come le oche!... Fa compassione?... E che vuol dire? Allora sposeresti anche un galeotto, per com­ passione?... o meglio per stupidaggine?... Tu hai da mettere le cose a posto con tuo padre. Ad Augusto, che gli manca, in fondo? È cresciuto all’asilo... dopo tutto ha fatto la sua strada... Se tu non lo sposi, quel­ li dell'asilo gliene troveranno un'altra, perché i fra­ telli in Cristo queste faccende le sanno fare proprio a dovere... rosa {risoluta) Io non voglio... tanto... una volta bi­ sogna venirci, signor Flamm. Quello che è accaduto non mi dispiace... per quanto dentro di me n'abbia avuto a soffrire... intendo dentro di me... allora... Bi­ sogna pure... Ormai non c’è più rimedio... tanto una buona volta deve finire... così... così... non si va più avanti!... flamm Non si va più avanti?... Di’ un po’... che in­ tendi dire? rosa Basta!... Tanto ormai le cose non si possono tra­ scinare... io non ne posso più... Anche il babbo non lo tollera più. E in questo non ha torto. Ah Maria santa! per me non è una cosa tanto leggera!... Ma quando uno se la è levata dall’anima... io non so...

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(si porta una mano al petto) Lo chiamano... credo... un crepacuore... Io li ho di solito dei dolori proprio al cuore... Anche per questo è una faccenda che de­ ve finire. flamm Quand’è così non c’è più rimedio... E ora, debbo andare a casa. (Si alza, manda il fucile dietro le spalle) Arrivederci... Addio, Rosina!

Rosa fissa lo sguardo dinanzi a sé, senza rispondere. flamm

Che hai dunque?... Rosina?... Arrivederci!

Rosa scuote il capo come per negare.

No? ti ho forse fatto qualcosa di male? Ro­ sina? rosa Ma... non più così... come ora... signor Flamm. flamm (con slancio da innamorato) Bimba! e se an­ che m’avesse a costare dei dispiaceri!... (l’abbraccia e la bacia appassionatamente.) rosa (sgomenta, dopo qualche istante) Per amor di Dio... Viene qualcuno!... Signor Flamm... flamm

Flamm fa un salto dietro il cespuglio e scompare. Rosa si alza, riordina alla svelta i capelli e il vestito, si guarda intorno spaventata, ma non vede nessuno; allora prende la zappa e comincia a lavorare sul cam­ po di patate. Dopo qualche minuto, senza che Rosa lo avverta, en­ tra Streckmann vestito da festa. È uno di quei pretesi begli uomini, grosso, con larghe spalle, una lunga barba bionda che scende sino sul petto; si dà arie da zerbinotto. Dal suo fare sguaiato, dal cappello alla cac­ ciatora, che porta all’indietro, dagli stivaloni ben lu-

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stri, dal panciotto ricamato, dalla giubba da passeggio, si scorge che Streckmann è ambizioso e presuntuoso, e soprattutto conosce i vantaggi della sua bella per­ sona.

{come se sì fosse appena accorto della pre­ senza di Rosa, a voce alta) Buongiorno, Rosina... rosa {si volge spaventata) Buongiorno, Streckmann. {Sospettosa) Di dove vieni? Di chiesa?... streckmann Sono uscito un po’ prima... rosa {lo rimprovera) E perché? Non potevi sopporta­ re la predica?... streckmann Perché col tempo buono si sta meglio fuori. Ho lasciato là dentro mia moglie, bisogna qual­ che volta saper stare anche soli... rosa Io preferirei essere in chiesa. streckmann Difatti, le donne devono stare in chiesa... rosa Anche tu hai abbastanza peccati sulla gobba... e non ti farebbe male pregare un pochino... streckmann Col Padre Eterno io sono in ottimi rap­ porti. Non se la prende per i miei peccati! rosa Eh! Eh!... streckmann Non si occupa molto di me... rosa Tu sei troppo presuntuoso... streckmann

Streckmann ride clamorosamente.

Se tu fossi un buon uomo non bastoneresti tua moglie... come fai spesso a casa... streckmann {cogli occhi che mandano lampi) Ap­ punto per ciò! Sicuro! Bisogna farlo. A voi donne bisogna far vedere chi è il padrone... rosa Non ti vantare delle tue debolezze! streckmann Sicuro, è proprio così. Quello che è giu-

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sto, è giusto... E con questo son sempre arrivato do­ ve volevo... Rosa ride jorzatamente.

Dicono che vuoi andar via dai Flamm!... Ma io non sono al servizio di Flamm! Vedi be­ ne che ho altro da fare. streckmann Ma, anche ieri, eri da Flamm ad aiu­ tare... rosa Che aiuti o non aiuti, che te n’importa? occupati un po’ dei fatti tuoi... streckmann È vero che tuo padre cambia di casa? ROSA Per andar dove? streckmann Nella casa dei Lachmann con Augusto. rosa Augusto non l’ha mica ancor comprata... la gen­ te ne sa più di me. streckmann E dicono anche che presto volete spo­ sarvi. rosa Per conto mio dicano quel che vogliono... streckmann {dopo breve silenzio ja pochi passi e si pianta nel mezzo a gambe larghe) Hai ragione... hai sempre tempo! Una bella ragazza come te non corre affannata al matrimonio... prima deve ben bene di­ vertirsi... Io gli rido in faccia quando me lo dice... e difatti nessuno ci crederebbe... rosa {rapidamente) E chi lo dice? streckmann Augusto Keil. rosa Augusto l'ha detto?... Ecco l’effetto dei maledetti pettegolezzi ! streckmann {dopo breve pausa) Augusto è troppo petulante... rosa Non hai a dirlo a me, lasciami in pace... le vo­ stre zuffe non mi riguardano... Uno vale l’altro... streckmann Cioè... in quanto a forza, no... streckmann

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Oh, il tuo coraggio si conosce!... basta doman­ darlo alle donne... Augusto, così, non è di certo... streckmann {ridendo con aria di conquistatore) Oh, che te lo contesto forse? rosa E neanche lo potresti... streckmann {guardandola fisso con le ciglia strette, con sguardo provocante) Con me c’è da ingollar male... Quello che voglio da una donna, mi riesce sempre d’averlo... rosa {ironica) Oh! oh! streckmann Ebbene, cosa scommettiamo? Tu m’hai già sbirciato più d’una volta ! {Le si avvicina e ja atto di volerla abbracciare.) rosa Non t'illudere, Streckmann... sfammi lontano!... streckmann Eppure lo farai... rosa {respingendolo) Streckmann, t’ho già detto che di voialtri uomini non ne voglio sapere... Va’ per la tua strada!... streckmann Cosa ti faccio? {Dopo breve pausa, con un rìso tra malvagio e imbarazzato) Aspetta! Torne­ rai a cercarmi, te lo dico io... finirai col venire da me. Che bisogno c’è di far tanto la santarella? Là c’è una croce... qua c’è un albero. Anch’io ne ho fatte pa­ recchie, in vita mia, ma certe cose... sotto la croce,... sicuro... a parlare... Per tante altre cose non son co­ sì... ma per questo, davvero, mi vergognerei... Che ne diranno tuo padre e Augusto? Per esempio... quest’al­ bero qui è vuoto... ebbene, prima c’era un fucile... rosa {che ha continuato il lavoro ascoltando sempre più attentamente, impallidisce e con uno scatto involonta­ rio si leva) Che vai dicendo... streckmann Niente... io qon dico più niente... ma quando uno ha la coscienza pulita non si sgomenta così... No, no!... rosa

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{allibita, incapace di dominarsi, gli salta davanti) Che hai detto? streckmann {sostenendo il suo terribile sguardo) Ho detto così... di una certa... rosa Che vuol dire... una certa... STRECKMANN Non vuol dir niente!... rosa {stringe t pugni e gli salta incontro con incredi­ bile violenza, con la rabbia e la paura negli occhi agi­ tati, pnché accorgendosi della propria debolezza lascia cascare le braccia e balbetta) Io riuscirò a farmi ren­ der ragione!... {Tenendo il braccio destro dinanzi agli occhi pieni di lacrime e sollevando con la sinistra il grembiule per soffiarsi il naso, torna abbattuta e sin­ ghiozzante al suo lavoro.) streckmann {la segue con lo sguardo freddo, maligno, ostinato, tuttavia gli spunta alle labbra un involonta­ rio sorriso di trionfo, che poi prorompe in una sghi­ gnazzante risata) Non hai altro da fare... Non te ne curare... Che pensi di me, Rosa?... Cosa?... Che hai?... Non c’è nulla di male.. Che pensi di me, Rosa?... Cosa?... Che hai?... male... Ma perché non dare a in­ tendere lucciole per lanterne?... Perché no? Perché so­ no così stupide? Per me, quelle che lo fanno sono le donne migliori... E, francamente, io me ne intendo... lo credi? Io lo sapevo già da un pezzo! rosa {esasperata) Streckmann ! Io faccio qualche paz­ zia! capisci? Oppure vattene via dal campo... io so­ no... mi pare... qui succede un guaio! streckmann {siede sul ciglio del campo e sì batte con le palme sulle ginocchia) Ah, sacro Dio!... Gesù... no, no... Sono forse io quello che va a raccontarlo dappertutto? Son forse tipo io, da gettarti la croce ad­ dosso?... Che me ne viene? Che importano a me i tuoi raggiri... i tuoi segretucci... rosa {esasperata) Io vado a casa e m’appicco al trave ROSA

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della mia stanza... Anche Marietta Schubert fece così... Con quella era un’altra cosa... Quella aveva fatto ben altre scorrerie!... E soprattutto io non ebbi mai a che fare con lei... Per ora non c’è proprio di che impiccarsi... Altrimenti non ci sarebbero più donne da un pezzo... Presso a poco è quello che ac­ cade dappertutto... Dovunque si guarda... se ne vede... e non c’è altro... Che vuoi?... bisogna ridere... Di più non c’è... Vedi tuo padre, come guarda dall’alto in basso... Quand’uno pensa alle proprie scappate, ci si andrebbe a nascondere... invece vedi... ora sarebbe il caso che tu spazzassi un poco davanti alla tua porta... ROSA (pallida, tremante) Oh Gesù, Giuseppe! Maria!... streckmann Ora, di’ su... Non ho ragione? Voi ave­ te mangiato la devozione col cucchiaio... Augusto Keil, tuo padre, e tu per giunta... La bigotteria, franca­ mente, non la posso soffrire! rosa (con un nuovo passo verso di luì) È una menzo­ gna! tu non hai visto niente! streckmann Che? No, non ho visto?... Accidenti, secondo te, dovrei averlo sognato!... Non può essere diverso!... O non era Flamm, il borgomastro di Diezdorf ? Oggi, io non ho ancor bevuto neppur un sorso... Non t'ha fatto trottare tenendoti per le trecce? Non sei stata con lui sotto i salici? (Con risa sguaiate) Ah, ah!... ti sei divertita a modo?... rosa Streckmann! Ti rompo la testa!... streckmann (sempre ridendo) Ma senti... che vuoi?... Non ti va?... Io non ti sarò ingrato... Al mulino, chi prima arriva, macina prima... così va il mondo!... So­ lo se si risapesse sarebbe un affar serio... rosa (disperata, trema e piange, pur continuando il suo lavoro) Che uno si ha da permettere di queste cose? streckmann (brutale, irritato) Tu ti permetti ben al­ tro... Io non mi permetto niente, vorrei... avrei gusto streckmann

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di arrivarci anch’io... dove arriva il borgomastro Flamm, non c’è ragione perché io debba essere da meno di lui... rosa (convulsa, piangendo e urlando) Io ho vissuto sempre onestamente... e deve venir uno a sparlare di me!... Ho allevato tre sorelline... e per di più mi son levata alle tre di notte... Mi son tolta di bocca persi­ no il latte! questo lo sa la gente... lo sanno anche i bambini !... streckmann Per questo, che bisogno c'è di farci tan­ to baccano?... La gente di chiesa torna di già! Sii un poco più trattabile con le persone... Tu scoppi di bo­ ria... Può essere che dipenda anche da questo... Io non andrò a sparlare di te se lavori e sai risparmia­ re... Ma, del resto, non siete per niente da più di noi altri. rosa (nella massima angoscia guardando lontano) Non è Augusto quello che viene di laggiù?... streckmann (con indifferenza guarda verso il cimitero) Dove? Ah, già! son tutti e due che marciano lungo l’orto del parroco... Dunque? Tu pretenderesti che me ne andassi ? Quei baciapile non mi fan paura. ROSA (angosciata) Streckmann, io mi son messa da parte dodici talleri... streckmann Rosina... tu n’hai risparmiati anche di più. rosa Va bene, io ti do tutti quei pochi che ho... Io ti butto ogni cosa... tutta la poca roba che ho... ti porto qui sino all’ultimo centesimo... Streckmann, abbi pietà... (cerca di prendergli le mani in atto suppliche­ vole ma egli le ritirai) streckmann Io non prendo quattrini. ROSA Per tutto quello che c’è al mondo!... no! no! streckmann Ora voglio vedere se t’arrenderai alla ra­ gione.

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Se qualcuno del villaggio lo sapesse!... Dipende da te... Non occorre che nes­ suno lo sappia... basta che tu stessa non t’adopri a farlo sapere... {Cambiando ad un tratto di tono, con fare appassionato) Dunque, che c’è? È un pezzo che 10 sono intestato per te... rosa E per qual donna non saresti intestato tu? streckmann Va bene! Io non so che farci... Quando si va con la trebbiatrice pei poderi, qua e là... non c’è da prendersi pensiero delle chiacchiere che ci si fanno addosso... Quello che faccio, lo so io meglio di tutti... Prima che Flamm venisse, di Augusto non parlo, avevo già posato gli occhi su di te... Quello che ho dovuto penare, non lo sa nessuno... (Con fer­ rea ostinazione) Ma... che il diavolo mi porti!... alla fine ci sono... accada pur quello che vuole... Rosina... con me non si scherza... Rosina... Questa volta mi sei venuta a tiro... rosa Come?... streckmann Lo vedrai presto... rosa

streckmann

Per la via dei campi viene Marta saltando, è vestita da festa ed ha ancora l'aria infantile.

Marta Rosa, sei tu? Che fai qui? ROSA Debbo finire di zappare il campicello... giacché sabato l’avete lasciato a mezzo!... Marta Oh Dio! no! lascia stare, Rosa! Se viene il babbo... streckmann Quando gli torna il conto... non vi tor­ cerà mica il collo, per così poco... Si sa bene com’è 11 vecchio Bernd!... Marta Chi è quello, Rosa?... rosa (contrariata) Non me lo chiedere!...

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Per lo stradone, del cimitero viene il vecchio Bernd con Augusto Keil. Tanto il vecchio canuto quanto il gio­ vane trentacinquenne sono vestiti di nero, ed hanno in mano il libro dei salmi. Bernd ha l’aspetto di un vecchio cocchiere padronale in riposo, ha la barba bianca e la voce debole come se avesse superato una grave malattia di polmoni. Augusto, il legatore di libri, è il tipo del lavoratore sedentario, ha il viso pallido, sottili mustacchi biondi, piccola barba a punta, capelli già molto radi e movi­ menti incerti, convulsi.

Bernd Non c’è mica da levarglielo dalla testa, a que­ sta ragazza! Quando c'è qualcosa da fare, che sia gior­ no di lavoro o di festa, deve sempre affannarsi... (Ar­ rivando vicino a Rosa) Non hai tempo durante la set­ timana ? augusto Tu esageri, Rosa... non è necessario... BERND Se lo vede il nostro buon pastore chi sa come se ne dispiace... Non crederà ai suoi occhi!... augusto Anche oggi ha domandato di te... streckmann (allusivo) Dicono che la vuole per go­ vernante. Bernd (accorgendosi della sua presenza) Oh, guarda!... Streckmann ! streckmann Tutto d’un pezzo... Questa ragazza con­ tinua a lavorare nonostante le api e le vespe... finché non si rompe le costole... Per andar a dormire in chiesa, lei non ha tempo. bernd Noi due, là, non ci addormentiamo di certo. Io credo piuttosto che gli altri dormano qui... o che purtroppo non siano ancora abbastanza desti... Rosa, c’è qui il fidanzato. streckmann Calza come un guanto... però la sposa per ora si nasconde.

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Tu hai sempre voglia di scherzare... Anche questo calza... Potrei dar contro un paracarro... o abbracciare il manico della scopa... Per me mi sento forte come un bue... e me la rido di gusto! Bernd (đ Rosa) Raccogli la tua roba e andiamo a ca­ sa... Così non vengo con te, no... Metti la zappa nel cavo del ciliegio, altrimenti si darebbe scandalo. augusto C’è chi gira anche col fucile... streckmann E altri poveri diavolacci con la fiaschetta della grappa. {Cava di tasca una fiaschetta.) augusto Ognuno fa quel che gli piace... streckmann Precisamente, e soprattutto a proprie spe­ se. Vieni, fatti coraggio, e bevi un po’ con me... {por­ ge la fiaschetta ad Augusto, ma questi non gli bada.) bernd Sai bene che Augusto non beve liquori... Dove si trova ora la trebbiatrice? streckmann Ma voi, papà Bernd, mi dovete fare la cortesia... Non per niente siete stato distillatore an­ che voi!... La macchina si trova nella fattoria di sotto. bernd {esitando prende la fiaschetta) Perché siete voi, Streckmann, se no, non lo farei... Quand’ero fattore, bisognava che facessi un po’ di tutto; ma l’acquavite l’ho sempre fabbricata malvolentieri, e vi assicuro che in quel tempo non l’ho mai bevuta. streckmann {ad Augusto che sta 'mettendo una pala che giaceva a terra, nel cavo del ciliegio) Sta’ bene attento, con quel ciliegio... perché... pim! pam! basta stuzzicarlo... che può sparare! bernd C’è della gente che va a caccia di domenica? streckmann II borgomastro Flamm! bernd Si è incontrato or ora! Quella gente fa pena... dispiace proprio...

augusto

streckmann

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Streckmann raccoglie maggiolini e con essi prende di mira Rosa. rosa

BERND

{tremando)

Streckmann!

Cosa c’è?

augusto

Che vuol dir ciò? Oh, niente! s’ha un pulcino da spennare

streckmann

insieme.

Spennalo con chi ti pare... per conto mio te lo puoi anche mangiare da solo... streckmann {ostile, con perfidia) Sta’ attento, Augu­ sto! Sta’ in guardia!... BERND Pace, in nome di Dio... andate d’accordo. streckmann II rospo sputa sempre la sua bava dal basso in alto. augusto Un rospo sarà chi vive nel fango... streckmann Augusto! andiamo d’accordo! Papà ha ragione... vogliamo diventare amici? non è anche que­ sta, come tu dici, una massima cristiana? Vieni qua, bevi con me!... Beviamo per una volta insieme!... Bello non sei, questo te lo dicono anche quelli che son gelosi di te... ma per leggere e scrivere lo sai bene... e tu hai messo assieme il tuo gruzzolo... Dun­ que, orsù, presto ci vuole un bel matrimonio! augusto

Bernd vedendo che Augusto non si muove, prende la fiaschetta e beve.

Questo mi onora, papà Bernd ! Per un bel matrimonio so fare eccezione... streckmann Certamente, e così bisogna fare! Non è più come quando ero carrettiere... alla fattoria... allo­ ra m’avete avuto sotto la mannaia... Oggi però son divenuto rispettabile... Chi ha testa riesce a fare la sua strada.

streckmann bernd

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Tutto sta come Dio dispensa le sue benedizio­ ni!... (di/ Augusto) Bevi dunque con lui, a un bel matrimonio. augusto {prende la fiaschetta) Quello deve darlo Dio, e non c’è bisogno di berci sopra! streckmann {battendosi le cosce) E poi deve venire un piccolo Augusto! per rallegrare il nonno! e il mag­ giore di tutti, lo faremo borgomastro! Eh? Ora però lasciate che anche Rosa beva con noi. bernd Tu piangi, Rosa, che hai? Marta Ha i lucciconi agli occhi... augusto Bevine un sorso... contentalo!... BERND

Rosa prende la bottiglia facendosi forza, nauseata. streckmann

Giù, giù... sempre allegra!... bevici su!...

Rosa beve tremando, poi con palese disgusto consegna la fasebetta ad Augusto.

{con paterno orgoglio, a Streckmann) una ragazza! La dovrà tener da conto.

bernd

Questa f

Atto Secondo

La stanza di soggiorno ampia, ma bassa, al pianterre­ no della casa di Flamm. Una porta a destra mette nell’atrio, una nel pondo lascia intravedere un gabi­ netto di caccia; tre finestre con tendine di mussolina e, davanti, molti vasi di fiori occupano la parete si­ nistra. Nel gabinetto dì caccia si scorgono, quando la porta è aperta, abiti, fucili, arnesi per fare cartucce, uccelli impagliati, e nel mezzo uno scaffale per i registri dì stato civile. La sala con dei vecchi mobili, ha un aspetto semplice e agiato. Nell’angolo a sinistra c’è un grande divano a fiori, e dinanzi ad esso una tavola allungabile, di noce; all'angolo destro si eleva una grande stufa di maiolica turchina. Fra la porta e la stufa c’è un vecchio pianoforte a coda, con sopra alcune cassette d’una collezione di far­ falle; sul davanti, sempre a destra, c’è uno scrittoio. A sinistra, tra le finestre, una delle quali aperta, c’è una grossa poltrona, e più oltre un vecchio cassettone, sul quale sono posati ninnoli di vetro, porcellana, ri­ tratti d’ogni genere. Alle pareti sono appese fotografie di famiglia, corna di cervo e di capriolo, e un’intera famiglia di pernici imbalsamate, un vecchio orologio a cuculo, una tabel­ la per le chiavi, e sopra lo scrittoio un grande ritratto

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di bambino sui cinque anni, circondato da una sem­ plice cornice di legno, decorata però da una corona di fiori campestri freschi, e sotto ad esso una gran coppa di cristallo con non-ti-scordar-di-me infissi nel­ la sabbia. È una bella giornata di primavera, verso le undici, La signora Flamm, sulla poltrona a rotelle, siede pres­ so la terza finestra, verso il proscenio. Ella è una ma­ tronale figura di donna sui quarantanni. Porta un abito liscio di alpaca, un po’ antiquato, ha in testa una cuffietta di trina, un bavero e polsini pure di trina che le coprono metà delle mani. Un libro ed un faz­ zoletto posano sulle sue ginocchia. Il viso della signo­ ra Flamm è impotente, ha gli occhi azzurri, indaga­ tori, la fronte alta, le tempie larghe; la capigliatura grigia e rada, divisa nel mezzo, è pettinata accurata­ mente, e se la ravvia di tanto in tanto con la punta delle dita. L’espressione del viso è buona, è seria, ma non dura, e nei tratti, come nello sguardo, rivela una grande serenità. La signora Flamm guarda pensierosa fuor della fine-/' stra, sospira e s’immerge nella lettura del libro, poi ascolta, mette un segno fra le pagine del libro e lo chiude, si volge verso la porta e dice, con voce insi­ nuante: Chiunque sia, avanti! avanti! (&' sente pic­ chiare alla porta dell’atrio, la porta si apre e compare Bernd) Chi è? Oh! il nostro bravo tutore degli orfa­ ni, il custode della chiesa? Venite avanti! Non vi mangio mica, papà Bernd! Bernd (entra seguito da Augusto, ambedue vestiti da festa) Vorremmo parlare col signor tenente. signora Oh, oh, come siamo solenni!

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Riverita, signora. Benissimo! Buongiorno, papà Bernd! mio ma­ rito era poco fa nel suo gabinetto di caccia. (Osser­ vando Augusto) Oh, c’è anche il signor genero? Bernd Sicuro, con l'aiuto di Dio, signora Flamm. signora Quand’è cosi mettetevi a sedere; volete fare le pubblicazioni, eh? Dunque alla fine si va avanti... bernd Questa volta ringraziando Dio, ci siamo. signora Mi fa piacere. L’aspettare non porta a niente; tanto, quando una volta ha da farsi... è meglio andare per le spicce... S’è dunque decisa?... bernd Certamente! Ora mi son proprio levato un pe­ so dallo stomaco. Ha resistito un pezzo... ma ora è lei che spinge al matrimonio. Meglio oggi che domani. signora Ciò mi consola, signor Keil! Mi fa proprio piacere, papà Bernd!... Cristoforo! (Chiama a voce alta) Cristoforo! Credo che mio marito verrà da un momento all'altro... Dunque anche questo è avviato... Ora, papà Bernd, potete davvero parlare di felicità... Sarete contento, eh?... bernd E lo sono, difatti ! Lei ha ragione, signora Flamm. L’altro giorno abbiamo parlato insieme; e proprio quel giorno Dio ci dette anche una maggior benedizione... Augusto andò dalla signorina Gradauer, che è tanto caritatevole, e ottenne tremila marchi in prestito, per poter comprare la casa dei Lachmann. signora Davvero? Ë mai possibile!? Dunque ora, pa­ pà Bernd, la riavrete. Quando i vostri padroni vi li­ cenziarono, senza darvi neanche il benservito, eravate depresso e sfiduciato... Fu una vera birbonata, quella! Ora Dio ha rimesso a posto tutto... bernd Così è. L’uomo si scoraggia troppo presto. signora E ora va bene! Ora vi troverete a meraviglia, non è vero? Prima di tutto la casa è dirimpetto alla Bernd

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chiesa e poi c’è un bel pezzo di terreno intorno ! E Rosa, soprattutto... è una brava massaia... Davvero, po­ tete essere contenti! Bernd Quanto bene ci fa quella signora! Dopo Dio chi s’avrebbe a benedire di più? Se fossi stato al ser­ vizio della Gradauer, se mi fossi dato da fare per lei come ho fatto qui pei nostri padroni... non avrei avu­ to certo tanto da lamentarmi... signora Ma ora non c’è più ragione di lamentarsi, papà Bernd! BERND Ah, no! no di certo... per un verso no... signora Sulla riconoscenza, finché si è vivi, c’è da con­ tar poco... Mio padre è stato ispettore forestale per quarant’anni, eppure quando morì, mia madre ha do­ vuto soffrire anche la fame!... Voi ora avete un bravo genero; potrete abitare in una bella casa, la terra che lavorerete sarà come se fosse vostra... e che tutto con­ tinui ad andar bene sempre, lasciatene la cura ai vo­ stri figlioli. bernd Anche questo lo si spera certamente! Vede? io non ne dubito punto. Chi ha saputo lavorare tan­ to, in principio col vendere i libri per le vie... signora (W Augusto) Non volevate una volta farvi missionario ? augusto Purtroppo la mia salute era troppo debole. bernd Quando si sa che uno sa leggere e scrivere e per di più ha un mestiere ed è così buon cristiano e così onesto... si può mettere la testa fra due guanciali, anche se fosse per l’ultimo sonno. signora Sapete, papà Bernd, che mio marito vuol pian­ tare il suo ufficio di stato civile? Sarà difficile che ar­ rivi a celebrare il matrimonio della vostra Rosa. bernd Sono là intorno alle rape... signora Oh, lo sapevo... Rosa aiuta anche lei, è stata qui già stamane... se volete andarci... subito dietro il

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cortile... Cristoforo!... (chiamando) Eccolo qua!... (dal di dentro) Vengo subito! signora Affari d’ufficio!... flamm (in maniche di camicia compare sulla porta del­ la stanza di caccia, è occupato a pulire le canne d’un fucile) Già. Il macchinista Streckmann era qui poco fa. Io preferirei far trebbiare subito... ora che la mac­ china è nel podere... Ma quella gente non è ancora all’ordine!... Ah, guarda! C’è papà Bernd! Bernd Sì, signore; noi siamo venuti... si vorrebbe... flamm Uno dopo l’altro! un po’ di pazienza! (Men­ tre guarda entro le canne del fucile) Se avete affari di stato civile, papà Bernd, dovete aspettare ancora un pochino. Il mio successore è il tesoriere Steckel, che prende le cose con più solennità. signora (che ha tenuto l’uncinetto appoggiato al men­ to, mentre guarda il marito) Ma no, Cristoforo... che dici mai ! AUGUSTO (pallido sin dal principio, quando ha sentito parlare di Streckmann, è impallidito anche di più; ora si drizza solenne e agitato) Signor tenente, io voglio fare le pubblicazioni di matrimonio. Con l’aiuto di Dio, sono sul punto di contrarre il sacro vincolo del matrimonio. flamm (si leva il fucile di davanti agli occhi) È mai possibile!... È proprio una cosa così urgente?... signora (sorridendo) Che te ne viene, Cristoforo? Suvvia lascia che la gente si sposi, a piacer suo... Tu già sei un vero predicatore. Se stessero a sentire lui, non ci sarebbero che scapoli e zitelle. flamm Perché il matrimonio non è che una trappola per i merli... Lei è dunque il legatore Augusto Keil? augusto Per servirla... flamm E abita a Wandrist qui dirimpetto? e ha com­ prato la casa dei Lachmann? flamm

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Per servirla. Sicché vuole aprire una libreria? augusto Libreria e cartoleria, forse... Bernd Soprattutto pensa ai libri di devozione... flamm Alla casa di Lachmann è annesso anche del terreno... dev’essere, se non sbaglio, presso il gran pero... Bernd e augusto (insieme) Sicuro. flamm Allora siamo confinanti. (Posa il fucile e cerca nelle tasche un mazzo di chiavi, poi s’affaccia alla por­ ta e chiama) Mina? porta la signora un poco di là. (Siede rassegnato allo scrittoio, ma senza poter na­ scondere la propria irrequietezza.) signora Che marito cavalleresco!... Del resto ha ra­ gione, io sono di troppo. augusto flamm

Entra la cameriera, una ragazza fresca, vestita con mol­ ta correttezza, e si mette dietro la poltrona a ruote. Portami di là, nel gabinetto di Cristoforo ! Tu potresti appuntarti le trecce un poco meglio! (La serva la conduce nel gabinetto di caccia.) flamm Io compiango i Lachmann. (A Keil) Lei aveva dei risparmi su quel fondo, vero? signora

Augusto tossisce, irritato e imbarazzato.

Be’, in fin dei conti è lo stesso! Chi ha quel fondo può esser contento. Lei vuole dunque?... Ma qui manca la fidanzata. Come va?... La sposa è forse renitente ? augusto (eccitatissimo, ma risoluto) Ci siamo messi d’accordo, per quanto ne so io... bernd Io vado subito a chiamarla e la porto qui, si­ gnor Flamm! (Esce in frettai) flamm

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{che visibilmente distratto ha aperto la scriva­ nia, si accorge tardi della scomparsa di Bernd) Che sciocchezza! non era mica indispensabile. {Guarda per qualche istante la porta dell’atrio con aria coster­ nata, poi scuote le spalle) Fate un po’ quel che vole­ te. Io ci voglio fumar sopra. {Si alza, prende dalla libreria una scatola di tabacco, stacca dal muro una corta pipa, la riempie e l’accende, poi offrendo il ta­ bacco ad Augusto) Fuma lei? augusto No. flamm Prende forse tabacco da naso?... augusto No. flamm Non beve né birra, né liquori, né vino? augusto Niente, all'infuori del vino della santa co­ munione. flamm Sani, esemplari principi ! Avanti ! Non avevano bussato alla porta? Ah, forse no, sono stati quei ma­ ledetti cani!... Lei non fa per caso il flebotomo per •passare il tempo? flamm

Augusto scuote la testa. Non ha fatto delle guarigioni per mezzo delle preghiere? Mi par d’averlo sentito dire!... augusto Era ben altro che flebotomia. flamm Come ? AUGUSTO La fede fa muovere anche le montagne e quello che s'invoca con fede sincera... perché il Si­ gnore è onnipotente. flamm Avanti! Non hanno bussato un’altra volta? Avanti ! Entrate, perbacco ! flamm

Bernd pallido spinge Rosa, pur essa pallidissima e contrariata. Rosa e Flamm si scambiano una rapida occhiata.

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Benissimo! Aspettate un momento! (Va, co­ me se dovesse prendere qualche cosa nel gabinetto di cacciai)

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La discussione seguente tra Bernd, Rosa e Augusto si svolge sottovoce, ma con violenza.

Bernd

Che t’ha detto Streckmann? Chi? Niente, babbo... Bernd Streckmann era là fuori e ha parlato a lungo con te. rosa Ma no ! Che cosa aveva da dirmi ? BERND È quello appunto che ti domando! rosa È proprio quello che non so. augusto Non ti devi intrattenere con un tal furfante. rosa Che ci posso fare io se mi parla? Bernd Ah ! vedi dunque che t'ha parlato ? ROSA Certo, ma io non sono stata a sentire quel che diceva. bernd Quello Streckmann bisognerà denunciarlo... Sa­ rò costretto a sporger querela... Mentre noi si passava per l’aia, dove lavora la trebbiatrice... sentite! ora ri­ prende... (si sente il lontano fragoroso ronzare della macchina)... ci ha gridato dietro non so che... Non ho potuto capire quel che borbottasse... AUGUSTO Quando una ragazza scambia con lui anche due parole, la sua reputazione è già in pericolo. rosa Allora cercatene una meglio... flamm (rientra, si è messo il colletto e la giubba e ostenta un’aria seria e posata) Oh, dunque buongior­ no! In che posso servirvi? Quando si deve fare que­ sto matrimonio? Non siete ancora d’accordo su que­ sto? Allora uno di voi dica, su... Insomma, gente... O che non siete ancora a questo punto? Allora andate­ rosa

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vene a casa, dormiteci sopra e quando sarete decisi tornate... augusto (imperiosamente) La cosa deve esser rego­ lata subito. flamm Io non ho niente in contrario, Keil... (In pro­ cinto di prendere nota con la matita) Dunque quando s'ha da fare? Bernd Al più presto possibile, pensavamo oggi... augusto Fra quattro o cinque settimane, se si può. flamm Già, fra quattro o cinque settimane? augusto Sì, signor Flamm. flamm Allora ditemi la data precisa. Se volete fare le cose a precipizio... rosa (in agitazione, senza volere) Direi che si può aspettare ancora un poco... flamm (a Rosa) Che ne pensi? Che cosa ne pensa, lei, volevo dire... È vero che noi ci conosciamo fin da bambini... ma quando una è fidanzata... non si deve più dare del tu... Dunque, prego... lei... lei è... mi pa­ re, poco persuasa... augusto (che dopo le parole di Rosa è trasalito e l’ha guardata continuamente, ora domina la sua eccitazio­ ne e dice con paurosa calma) E sia ! Statevi bene, papà Bernd. Bernd E io ti dico, Augusto, che devi restar qui... (A Rosa) E tu? A te voglio dire un po’ una cosa!... Deciditi! capisci? Ho avuto troppa pazienza con te... e anche Augusto n’ha avuta più del bisogno. Abbia­ mo subito i tuoi capricci... e si pensava sempre: Pa­ zienza! Pazienza! Il buon Dio finirà col ricondurla alla ragione... Ma con te ormai si va di male in peg­ gio... Tre giorni fa me l’hai promesso dandomi la mano... e anche ad Augusto hai stretto la mano, co­ me pegno... Tu stessa non aspettavi altro... e ora in­ vece non ne vuoi più sapere. Che significa? Che cosa

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pensi di te stessa? Credi di poterti permettere qua­ lunque cosa, perché sei una ragazza ammodo? Per­ ché ti sei sempre contenuta bene, hai lavorato e nes­ suno può dire una parola sul conto tuo? Non sei mica la sola! Questo è il dovere d’ogni ragazza... non c’è da metter su superbia, per questo... Ce ne sono delle altre che non vanno a ballare, che hanno alle­ vato le sorelline e governano la casa del loro vecchio padre... Non sono mica tutte oziose e sguaiate... Do­ ve s’andrebbe a finire se non fosse cosi ? Saresti già da un pezzo fuori di casa. Una figliola cosi non la vorrei... Quest’uomo non ha bisogno di te... Uno come lui basta che levi un dito per aver dietro una folla di ragazze delle migliori famiglie. Differenti forse da quello che sei tu... Davvero!... Alla fine la pa­ zienza scappa... Cocciutaggine, orgoglio, presunzio­ ne! Dunque, o tu vuoi mantenere la tua promessa, o... flamm Su, su, papà, bisogna essere tollerante... BERND Signor tenente... Non conosce ancora come va la storia. Quando una ragazza vuol maltrattare e me­ nare per il naso un uomo per bene, non può essere mia figlia. augusto (?» procinto di piangere} Rosa! Che hai da rimproverarmi? Perché sei così cattiva con me? Già io non ho mai avuto fiducia nella mia felicità, ma perché? So che tanto per me non ci sono che sven­ ture, io sono predestinato. E l’ho sempre detto anche a papà Bernd. Nonostante, ho lavorato, pensato, e Dio mi ha fatta la grazia che non m’è andata male... Si piange!... Accade così... quando non si può fare di­ versamente. Per me questa sarebbe stata una gioia troppo grande. Quando si è cresciuti all’asilo degli orfani, e non s’è mai conosciuta una famiglia, né sorelle, né fratelli... il meglio è rivolgersi al cielo...

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È possibile che io non sia il più bello! Però io ti ho chiesto, tu m'hai detto di sì... Quel che conta è il cuore, e Dio lo vede. Però l’avrai da rimpiangere amaramente. {Vuol uscire ma Bernd lo trattienei) BERND Ancora una volta, Augusto, rimani ! Capisci tu Rosina, parola per parola?... O quest’uomo qui... op­ pure... non voglio dirlo per ora... Lui è stato il mio sostegno, molto tempo prima di chiedere la tua mano... e mentre io ero malato e non potevo guadagnare e nessuno s’occupava di noi, ha diviso con noi quel po’ di pane che aveva... Augusto non può dominare più la sua eccitazione, prende il cappello ed esce.

È stato come un angelo del cielo. Augusto ! Io voglio... certo... ma potete lasciarmi tempo... BERND T’ha lasciato tre anni ! Anche il pastore te l’ha detto... ora ne ha abbastanza, chi potrebbe dargli tor­ to! Tutto deve avere un limite. In questo ha ragione... Ma tu guarda bene dove rimani e quello che stai per fare... Tanto, a me, non puoi fare più onore!... {esce.) flamm Su! su! su! su, perbacco! Andiamo! Bernd

rosa

Rosa è apparsa ora pallida come un cadavere, ora ros­ sa come fiamma; la sua interna emozione traspare dai movimenti convulsi, quasi stesse per prorompere; do­ po l’uscita di Bernd però rimane intontita. {dopo aver chiuso il registro e ripreso animo) Rosa! svegliati! che ti succede? Non dare importan­ za a queste chiacchiere! {Ella è assalita da un tremi­ to ed ha gli occhi gonfi di lacrime.) Rosa! sii ragione­ vole! Che vuol dire tutto questo? rosa Io so quello che voglio e ci arriverò... e se...

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non se ne farà niente... allora... non sarà un gran danno ! flamm {concitato cammina su e giù per la stanza, poi si ferma dinanzi alla porta ad origliare) Naturalmen­ te!... e perché no? {si sofferma dinanzi alla tabella delle chiavi come se si interessasse solo di quella, stac­ ca alcune chiavi e bisbiglia rapidamente) Rosa! tu, Ro­ sa! Rosa! non senti niente? Dobbiamo trovarci in fondo al villaggio... devo ragionare un altro poco con te... pst!... la vecchia è là dentro... qui non è aria! rosa {con sforzo, ma risoluta) Mai, mai più, signor Flamm. flamm Tu dunque vuoi farci impazzir tutti? Che de­ monio sei? di’ un po’... Io ti corro dietro da quattro settimane per farti sentir la ragione, e tu mi sfuggi come un lebbroso..., è più che naturale, che poi av­ vengano certe storie!... rosa {con sforzo, ma energica) E se anche accade die­ ci volte peggio... battete sempre su di me... non me­ rito di meglio... Pulitevi pure le scarpe tutti addosso a me... ma... flamm {che sta ritto dinanzi alla tavola si volge con sorpresa a Rosa, ma si trattiene; infine dà un forte pugno sulla tavola e fa tremar tutto) Sacrrrr...amen­ to! rosa Per amor del cielo!...

La signora Flamm nella sua poltrona a ruote, condotta dalla serva, compare sulla porta in fondo. signora

Flamm! Che c’è mai?

Flamm si è turbato, ad un tratto si decide, stacca dalla parete il cappello ed il bastone e se ne va per la porta a destra.

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(lo guarda impressionata, ne segue la parten­ za scuotendo la testa, poi si volge a Rosa) Che cosa è accaduto? Che ha mio marito? ROSA (fortemente commossa) Ah! signora cara! Quan­ to sono disgraziata! (Cade ai piedi della signora Flamm e nasconde il suo viso nel di lei grembol) signora Ora dimmi su... su... Santo Dio! figliola, che t’è mai capitato? Che hai? Tu sei proprio cambia­ ta!... Questo, in vita mia, non arriverò mai a spie­ garmelo!... (Alla serva che le è rimasta dietro) Non ho più bisogno di te... torna più tardi; intanto va’ a metter tutto all’ordine in cucina. signora

La serva esce.

Ora, dunque, che ti succede? Che cosa ti è capitato? Confidati a me. Alleggerisciti... Che?... Co­ me?... Che dici?... Che hai detto?... Non vuoi spo­ sare il legatore? Oppure hai qualche altro per la te­ sta?... Tanto vale l’uno che l'altro... ma valore per davvero, non l’ha nessuno... rosa (alzandosi risoluta) Io so quello che voglio, e basta così... signora Ah, così? Vedi dunque? Io credevo che tu non lo sapessi... Le donne tante volte non lo sanno... specialmente alla tua età... Una vecchia, in certi casi, può essere di aiuto... Ma se già lo sai, basta. Potrai sbrigartela da te... (Con sguardo indagatore dopo es­ sersi messa gli occhiali) Rosina, sei forse malata? rosa (confusa, spaventata) Malata? Come? Perché? signora Malata... così... tanto per dire... prima eri di­ versa... rosa Io non sono malata per niente. signora E difatti non dico che tu lo sia. Lo doman­ do soltanto... Per questo, appunto, ho domandato! signora

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Noi dovremmo spiegarci bene... Vogliamo prenderci in giro? Non dobbiamo mica fare a nascondino! Cre­ di forse che ti voglia male? Rosa scuote il capo.

Volevo ben dire! Dunque siamo d’accordo, Tu hai giocato persino con la mia creatura... siete cresciuti insieme, l’uno accanto all’altra, finché Dio me lo riprese. In quel tempo morì anche la tua mamma. Me ne ricordo sempre... ella era nel suo letto... e mi disse persino... che io dovessi, se m’era possibile, occuparmi un poco di te... rosa {cogli occhi fissi nel vuoto') Sarebbe meglio che andassi ad affogarmi... se è così... Dio mi perdoni il peccato ! signora Se è così? Che intendi dire? Non ti capisco. Non potresti spiegarti più chiaramente? Prima di tut­ to sono una donna, e con me non occorre avere scru­ poli... eppoi sono madre... sebbene non abbia più il mio bambino... Figliola mia, chi sa che cosa hai? Io ti osservo da parecchie settimane... tu forse non te n’eri accorta; ora però bisogna che tu mi dica subito la verità. Spingimi fino al cassettone! {Rosa eseguisce.) Così... Qui nei cassetti ci sono delle cose vecchie... Ancora la roba del mio piccolo Kurt. Tua madre una volta mi diceva : La mia Rosa ! Quella sì, che diverrà una brava madre di famiglia! Però ha il sangue troppo caldo!... Io non lo so, può darsi che avesse ragione! {Prende da un cassetto una grossa bambola) Eppure vedi! sia come si vuole... una ma­ dre non è mai da sprezzarsi ! Con questa pupa avete giocato tu e Kurt... soprattutto tu, l’hai lavata, ve­ stita, le hai dato da mangiare... l’hai asciugata, e una SIGNORA

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volta è capitato Flamm mentre te l'eri attaccata al se­ no... Tu stamane hai portato dei fiori, è vero? I nonti-scordar-di-me che sono là nella coppa ! E poi do­ menica portasti una corona sulla sua tomba... Bam­ bini e tombe son faccende per le donne! {Prende dal cassetto una camicia da bambino e la spiega di­ nanzi a se) Parla, Rosa! Io ti son grata dell’attenzio­ ne; tuo padre pensa alla dottrina, alle missioni, a tante altre cose del genere, dice che tutti gli uomi­ ni son peccatori e pretende di farli diventare ange­ li. Può darsi che abbia anche ragione, tanto io non me ne intendo... Io ho imparato una cosa sola... cioè, che cosa voglia dire esser madre su questa terra... e come le siano destinati molti dolori ! Rosa singhiozzante e sopraffatta cade in ginocchio e bacia con riconoscenza le mani della signora, quasi volesse con quei baci farle la dura confessione.

{con un lampo degli occhi, lascia intravedere che ha intuito la realtà, però continua tranquillamente) Vedi, figliola? Questo sono arrivata a imparare... Io l’ho imparato e il mondo se riè scordato. Di molte cose io non so nulla, o so appena quello che san gli altri; ma io quello che tutti sanno non Io chiamo sapere... {Ripiega con cura la camìcia sulle ginocchia) Orsù, ora va’ a casa e sta’ di buon animo, voglio un po’ pensarci fra me e me... va bene?... Per ora non ti chiedo altro... Con te ora ci vuol riguardo... In­ tendo dire che bisogna essere doppiamente cauti. Io non voglio saper altro. Conta su di me. A me i pa­ dri sono affatto indifferenti, sia un signore o un di­ sperato, non importa, tanto le creature le dobbiamo partorire noi, lì non ci aiuta nessuno... Bisognerà

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pensare a tre cose: al babbo, ad Augusto... e a qual­ cun altro... a me non manca il tempo... Ora voglio ben bene riflettere. Almeno si può esser buoni a qual­ che cosa in questo mondo!... ROSA {si è nuovamente alzata rigida e cupa) Ah no, signora, non lo faccia... non va... Lei non ha da pren­ dersi le mie pene... non me lo son meritato né da lei, né da nessuno... Lo so, è una pillola che devo inghiottire da me. Non mi posso rimettere ad altri... si capisce... Lei è buona come un angelo, signora... Dio mio! lei è troppo buona con me!... ma non va... non posso accettare!... Addio, signora!... signora Rimani ancora. Non ti posso lasciare andar via in questo stato; chi sa mai quale sproposito stai per fare! rosa No, signora Flamm, può star tranquilla. A fi­ nirla, per ora non ci penso. In caso di bisogno potrò lavorare pel bambino... il cielo è alto e il mondo è largo... se si trattasse solo di me e non ci fosse il babbo... e Augusto non mi facesse tanta pena... è che un bambino, dopo tutto, deve aver un padre! signora Brava, sii forte! Già tu fosti sempre una ra­ gazza coraggiosa. È meglio che tu tenga la testa a posto... Ma sebbene ti abbia capito... io non so im­ maginare perché ti opponi al matrimonio... ROSA {nuovamente rigida, pallida, sgomentò) Che de­ vo dirle? Non lo so. Non mi voglio opporre più... solo Streckmann... signora Sii franca, capisci? Ora segui il mio consi­ glio... va’ a casa... torna domani... da’ retta a me... sta’ allegra, che quando nasce una creatura bisogna rallegrarsi. rosa Lo sa Iddio se lo faccio... ci riuscirò da sola, in questo nessuno mi può aiutare. {Esce in fretta.)

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{sola, la segue con lo sguardo, poi riprende dalle ginocchia la camicia da bambino, la spiega nuo­ vamente e dice') Difatti, figliola, quella che ti toc­ ca è una fortuna; per una donna non ce n’è una mag­ giore!... Tien tela cara!

signora

Atto Terzo

Una ridente campagna. Nel davanti, a destra, in una specie di avvallamento triangolare, sgorga una sor­ gente che si raccoglie in una primitiva vasca di pie­ tra, sopra questa si eleva un vecchio pero. Nel fondo si vede pure uno stagno circondato da ontani, nocciuoli e salici, nelle acque, somiglianti a quelle d’un laghetto, si levano canneti e piante lacustri. Tutto il resto è come una serie di prati. Antiche querce, olmi, faggi e betulle, disseminati qua e là, formano un semicerchio e dietro, in lontananza, spuntano i tetti e le torri di diversi casolari. A sini­ stra, dietro cespugli, si vedono i tetti di paglia d’una fattoria. Caldo meriggio al principio d’agosto. Si ode in lon­ tananza il ronzio del volano di una trebbiatrice. Bernd e Augusto vengono da destra, accasciati e fiac­ cati dalla fatica e dal caldo. Ambedue son vestiti solo con camicia, calzoni, scarpe e cappello, portano la zappa sulla spalla ed hanno nella mano una falce, mentre alla cintura recano appeso un corno di bue con la cote. Bernd Oggi fa molto caldo... bisogna riposare un po­ co, ma dà soddisfazione lavorare le proprie terre... augusto A falciare non ci siamo avvezzi... Bernd Te la sei cavata benone!

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AUGUSTO Ma che! Fin quando potrò durare? Ho le ossa rotte e i muscoli mi fanno male. Bernd Puoi esser contento, genero mio. Bisogna es­ serci abituati, mentre per te questa è un’eccezione; ma, come t’ho detto, tu potresti stare alla pari dei giardinieri... augusto Un giorno o l’altro ci lascerò la pelle!... mi fiacca troppo... e mi tornano i dolori. Sono stato an­ che dal dottore e, come al solito ha dato una scrol­ lata di spalle. bernd Tu sei sano e nelle mani di Dio... tutto al più hai da mettere un paio di chiodi arrugginiti in mol­ le... e poi berne l’acqua due o tre volte la settimana... Questo purifica il sangue e rinforza il cuore. Se al­ meno il tempo si mantenesse... augusto Fa un caldo soffocante. M'è sembrato che mentre si falciava, cominciasse a tuonare. bernd (chinandosi all’orlo della sorgente vi accosta la bocca e beve) L’acqua è sempre la miglior bibita! augusto Che ora sarà? bernd Saranno le quattro. Non capisco dove possa esser rimasta Rosa con la merenda. (Si alza e osserva la lama della falce, così pure Augusto) Devi affilarla? La mia può andare un altro poco... augusto Posso provare così anch’io... bernd (si lascia cadere sull’erba ai piedi del pero) Vieni piuttosto a sedere qua, vicino a me... Se hai qui la Bibbia potremo subito ristorarci l’anima. AUGUSTO (spossato, lasciandosi cadere accanto a Bernd) Io mi contento di dire : sia lodato Iddio ! bernd Vedi, Augusto? Te l’avevo detto subito; lascia correre; la ragazza ci pensa da sé... Ora s’è fatta ra­ gionevole anche lei... Una volta... anche prima che venisse fuori la tua faccenda... io mi sono rotto la

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testa spesso... Con quella cocciutaggine era meglio lasciar correre. Qualche volta, come è vero Dio! pa­ reva che corresse contro un muro; un muro invisi­ bile; e che ci volesse battere il capo a tutti i costi. augusto E ora che le è venuto? Per me, ringrazio Dio in ginocchio... ma prima... non sapevo capirlo... che lei, tutto a un tratto... da che potrà dipendere? 10 non so ancora rendermene ragione! Bernd Come fu questa volta, quando s’andò all’uf­ ficio di stato civile, in confronto di quell'altra! augusto Preferisco che non ci sia più il borgomastro Flamm. BERND Questa volta non ha fatto una mossa, e in quattro e quattr’otto, tutto s’è regolato... Ecco come sono le donne! augusto Che dipenda da Streckmann? Lui, quella vol­ ta, vi aveva gridato dietro qualche cosa, e prima le aveva anche parlato. Bernd Può essere e può non essere!... Questo non lo so. Da lei non si cava una parola... Ma appunto per questo sono lieto che abbia un marito che può in­ fluire su di lei e renderla meno testarda. Voi due siete fatti l’un per l’altro. È buona, ma ha bisogno di una guida, e tu hai la mano di velluto. augusto Quando vedo il macchinista Streckmann mi fa l’effetto... come se vedessi il... Dio ci scampi! Bernd Ella può aver pensato che quel figuro le fa­ cesse qualche brutto tiro... Da quando era ragazzo è sempre stato corrotto abbastanza! Quante volte sua madre se n’è lagnata! Può darsi che sia così... è ca­ pace di tutto! augusto Quando vedo quell’uomo mi sento montare 11 sangue alla testa... mi corrono i brividi per la schiena e vorrei quasi bestemmiare Iddio! Vorrei che

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mi avesse fatto un Sansone! Allora, Dio mi perdo­ ni, mi vengono dei brutti propositi. (Si sente il fi­ schio della locomotiva?) È là! BERND Non ti curare di lui. augusto Va bene! Quando tutto sarà passato, potrò chiudermi fra quattro mura... e condurre una vita tranquilla... Bernd Una vita dolce e tranquilla ! Dio ve la conceda ! augusto E di questo mondacelo non ne voglio più sapere. M’ha preso un tal disgusto del mondo e degli uomini che io... che vi ho da dire?... Quando tutto mi va a traverso... mi viene da ridere e una gran vo­ glia di morire... Una folla di braccianti assetati, una vecchia e due ra­ gazze del fodere di Flamm, vengono in fretta dai campi. Sono Hahn, Heinzel, Golisch, la vecchia Go­ tisch, sua moglie, il vecchio Kleinert, la massaia e la sottomassaia. Gli uomini portano solo camicia e calzoni, le donne hanno le gonne rialzate, uno scialletto sul petto e un fazzoletto a colori in testa.

(trentenne, dal colorito bruno, capelli castani, aria giovanile) Io arrivo sempre primo alla fonte! Po­ tete urlare quanto volete, ma non riuscite a starmi dietro. (S’inginocchia davanti alla sorgente) Mi ver­ rebbe la voglia di saltarci dentro a fare un bagno. sottomassaia Non ti ci provare! Abbiam sete an­ che noi. (Alla massaia) Hai un pentolo per attin­ gerla? massaia Aspetta... prima tocca alla massaia. heinzel (prende le due donne per le spalle e le spin­ ge indietro, passa fra mezzo a loro e si lancia sulla fontana) Prima vengono gli uomini, poi le don­ ne!

HAHN

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Qui c’è posto per tutti... Papà Bernd!... buon appetito... BERND Sì, sì, ma qui non s’ha ancora la merenda, la si aspetta da un momento all'altro. GOLISCH Mi... si potrebbe strizzare come un cencio, tanto son bagnato... ho la lingua riarsa come se fosse di legno... VECCHIA GOLISCH Acqua!... kleinert Qua ce n’è abbastanza per tutti. kleinert

Tutti bevono, alcuni chinandosi con la testa sino allo specchio dell’acqua, altri nel cavo delle mani, altri nel cappello, altri in vasi e bottiglie, non si sente che il gorgoglio delle loro gole, e i loro sospiri di sollievo. {alzandosi dopo bevuto) L’acqua è buona, ma preferirei la birra... HAHN Se ci fosse anche un bicchierino d'acquavite! GOLISCH Augusto ne potrebbe offrire un quartino! vecchia GOLISCH Meglio farebbe se c’invitasse allo sposalizio. golisch Noi veniamo tutti allo sposalizio... pare che sarà presto... HEINZEL Io non vengo, perché ci dà da bere acqua scussa. Questa la posso bere anche qui alla fonte... Tutt’al più un po’ di fondi di caffè... HAHN E per di più pregare e cantare! Chi sa. Forse capita anche il parroco di Jenkau e ci fa ripetere i dieci comandamenti, per vedere se si sanno... HEINZEL O il Paternostro... non ci sarebbe male! Io l’ho scordato ormai... kleinert Gente! lasciatemi in pace Augusto. Io vi di­ rò solo una cosa... che se avessi una figliola, un genero migliore non lo potrei desiderare... Lui sa il fatto suo... e lavora!... HEINZEL

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I braccianti e le donne si sono disposti in circolo e mangiano la loro merenda che si compone di grosse jette di pane, che tagliano col coltello, e di caffè, che hanno in piccoli pentoli.

GOLISCH Ecco Rosina Bernd che arriva dal villaggio. GOLISCH Guardate là, come salta! kleinert Quella è capace di prendersi un sacco di grano in ispalla e portarlo nel solaio! Stamane l’ho veduta con un armadio nel carrettino che se lo por­ tava alla casa nuova. Quella ha forza e cervello, e saprà governar bene i fatti suoi... HAHN Quando vedo come la va ad Augusto, credete­ mi, gente, mi vien la voglia di buttarmi anch’io dalla parte dei santi. GOLISCH Con loro bisogna saperci stare; allora le cose camminano... HAHN Quando si pensa che lui andava pei paesi con la bisaccia dei libriccini, e scriveva le lettere alla gen­ te... Oggi ha avuto la più bella casa di Wandriss e può sposare la più bella ragazza del contorno. vecchia

Rosa entra portando in un canestro la merenda per Augusto e per Bernd. Buona merenda ! Buon prò vi faccia. - Grazie! - Buon ap­ petito ! vecchia GOLISCH Tu, Rosina, fai patir la fame al tuo innamorato ! ROSA {allegra, cavando la roba dal canestro) Ma che! Non si muore di fame per così poco ! HEINZEL Ricordati, Rosina, di governarlo bene, se no, non cova... rosa

gli altri

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Se no, ti resterà troppo asciutto! Bernd Dove sei rimasta così a lungo? È già mezz’ora che ti aspettiamo. augusto {a mezza voce, irritato) E così c’è tutta quel­ la gente, mentre se no, avremmo finito chi sa da quanto ! vecchia golisch Lascialo brontolare, figliola! non te ne incaricare... rosa E chi brontola, mamma Golisch? Chi avrebbe da brontolare? Augusto non brontola affatto. vecchia golisch E se anche brontola... ti dico... non te la prendere. HEiNZEL Se per ora non brontola... verrà la volta che comincerà. rosa Augusto non è l’uomo da farlo... golisch Voi siete già come pane e cacio... rosa Noi siamo andati sempre d’accordo, no, Augu­ sto? {Bacia Augusto) Di che ridete? È proprio così. golisch Guarda... eppure m’ero illuso, di potere una volta o l’altra entrare dalla finestra anch’io... kleinert Hai intenzione di ritornare con le ossa nel fazzoletto ? massaia {allusiva) Oh Dio buono! Anche a questo rischio lo farei lo stesso; chi sa... Bernd {facendosi cupo, ma pure con voce calma) Pensa un po’ ai fatti tuoi! kleinert Hai capito quel che dice? pensa ai fatti tuoi : il vecchio Bernd, non sempre ha voglia di scher­ zare... rosa Dopo tutto, non ha detto niente... lasciatela fa­ re... kleinert Raccendendo la pipa) Per ora sta tranquillo come un agnello, ma se si scuote... non lo credereste... io lo so : da quando era fattore al podere di fron­ te... allora le donne non avevano tanto da ridere. golisch

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Lui se ne prendeva contro anche dieci come te. Al­ lora non era permesso di spassarsela coi giovanotti... massaia E chi è di noi che se la spassa coi giova­ notti ? kleinert Bisognerebbe domandarlo al macchinista Streckmann. massaia {diventando rossa) Per conto mio domanda­ telo anche al Padre Eterno... {Risa fra i braccianti.) Streckmann viene direttamente dalla trebbiatrice, tutto sporco di polvere e leggermentte ubriaco. Chi parla di Streckmann? Eccolo qua... Chi se la vuol fare con me?... Buona merenda! buon prò a tutta la compagnia!... GOLiscH Quando si parla del diavolo, scappa fuori la coda... streckmann E tu sei certo la nonna del diavolo. {Si leva il berretto e asciuga il sudore dalla fronte) Gente mia... non ci reggo più, è un lavoro da be­ stie... ci si lascia la pelle e le ossa!... Buon dì, Au­ gusto! Buon dì, Rosa! Salute, papà Bernd! Per Dio Santo! potreste ben rispondere! HEINZEL Lasciali stare; a questi la va troppo bene! streckmann II Signore gii fa la parte anche quando dormono... e noi, per quanto ci scortichiamo... non si arriva a nulla... {Si butta a terra, fra Heinzei e Klei­ nert e porge una bottiglia di acquavite a Heinzel) Falla un po’ girare! vecchia GOLISCH Tu, Streckmann, fai la più bella vi­ ta! Che ti lamenti, santa Susanna!... Guadagni il dop­ pio e il triplo di noi, e non hai che da star ritto a guardare la macchina!... streckmann Lavoro di testa! Stralavoro!... Si ha bene una testa! Certe teste di rapa non ci arriverebbero. streckmann

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Fallo tu, se ci riesci ! Del resto, lo so io quanti dispia­ ceri mi capitano. golisch Perdiana, Streckmann ha dispiaceri ! streckmann Più del bisogno. Oggi, vi posso dire, che ho un peso alla testa... No, anzi, al corpo... o meglio, al cuore... Oggi ho un tale malessere... che bisognerebbe facessi qualche corbelleria! Massaia! de­ vo buttarmi addosso a te? sottomassaia Io ti rompo la testa con questa cote. GOLISCH Tutti i suoi dispiaceri finiscono lì. Gli si offusca la vista... non ci vede più... poi ad un tratto si desta fra le braccia di una bella ragazza... (G/I al­ tri ridono.) streckmann Sganasciatevi pure, con le vostre risa ba­ lorde! Ridete; ma io non ho niente da ridere. (Fđcendo il gradasso) Io mi lascio stritolare un braccio fra le ruote della macchina!... urtare dallo stantuffo. HAHN Perché non dai fuoco a qualche granaio?... streckmann Sacrato! Di fuoco ne ho abbastanza in corpo. Augusto, quello sì che è un uomo felice!... augusto Che io sia felice o infelice... non deve im­ portare a nessuno. streckmann Che ti faccio io? Sii più socievole... augusto Quand’ho da far società la faccio altrove. streckmann (Zo guarda a lungo con cupo odio, poi inghiotte la rabbia e si attacca alla bottiglia dell’ac­ quavite che gli viene resa) Datemi qua che ci beva su... {A Rosa) E non occorre che tu mi guardi... hai capito? {Alzandosi) Io me ne vado... Non ci voglio entrare in mezzo. rosa Che tu resti o tu vada, per me è lo stesso. vecchia golisch {chiamando) Streckmann ! cosa è ac­ caduto di bello... tre settimane fa, alla macchina... quando si aveva da vagliare il seme di rape?... {Don­ ne e braccianti scoppiano in una risata.)

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È cosa passata!... non ne so niente. GOLisCH Allora t’eri impegnato sul serio... kleinert Smettetela una buona volta con le chiacchiere ! vecchia GOLiscH Non deve far tanto lo spaccone... streckmann {tornando) Quello che ho detto lo so anche fare... del resto... vorrei perder le gambe, se non lo faccio! E ora avete capito? Di più non dico. {Esce.) vecchia GOLiscH E se la cava stando zitto... streckmann {torna indietro, vorrebbe parlare, ma si trattiene) No!... non mi lascio accalappiare... Ma se poi la vuoi sapere giusta, domandalo un po’ ad Au­ gusto e anche a papà Bernd. Bernd Che c’è? Che s’ha da sapere? vecchia golisch Quando passavate per andare allo Stato civile... e Streckmann vi ha gridato dietro qual­ che cosa... kleinert È ora che tu la smetta!... vecchia golisch E perché no? Queste sono cose al­ legre!... Faceste tutto per bene, oppure quel giorno Rosa non ne volle far niente? Bernd Dio vi perdoni i vostri peccati ! Io vorrei sa­ pere perché non ci volete lasciare in pace! O, che vi si è fatto qualche cosa? golisch E neanche noi facciamo niente a nessuno... rosa Se io quella volta volevo o non volevo, è cosa che non vi riguarda. Oggi voglio, e basta così. kleinert Brava, Rosa! Ben detto! augusto {che finora s’è mostrato assorto nella lettura della Bibbia, chiude il libro e si alza di scatto) Vie­ ni Bernd, andiamo al lavoro. HAHN Ci vogliono altri polmoni... che a impastar la farina per rilegare i salmi!... HEiNZEL E dopo le nozze!... Allora ci vuol resistenza streckmann

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più che mai... Una ragazza come Rosa ha bisogno del fatto suo... (Risa generali?) streckmann {ridendo anche lut) Oh Dio! Stavo per dire qualcosa di più... {Torna in mezzo agli altri) Io vi voglio proporre un indovinello! vi piace?... Le acque chete son le più pericolose! È una brutta cosa... Non si dovrebbe mai leccare il sangue!... perché, una volta leccato, la sete aumenta sempre più... vecchia GOLISCH Come? E dove hai leccato sangue? BERND Probabilmente, intende dire l’acquavite !... streckmann Io vado per la mia strada, addio, sono un uomo per bene! Addio, papà Bernd! Addio, Au­ gusto! Addio, Rosa! {Ad Augusto) Che c’è dun­ que? Augusto, non darti tante arie... Va bene! te lo dico... non mi rivedrete più!... Ma tu... tu avresti da essermi grato... Tu hai sempre avuto una natura chiusa... Sono io che te l’ho concesso... Appena te l’ho accordato, tutto è andato liscio! {Se ne va.) rosa {ad Augusto, energica) Lascialo dire, Augusto! Non gli dar retta! kleinert Ecco Flamm! {Guardando l’orologio) È pas­ sata la mezz’ora. {Si ode il fischio della locomotiva.) HAHN {agli altri che s’alzano tutti) Sempre avanti ! Prussiani, questa è la squilla della miseria! {Brac­ cianti e donne escono in fretta.) BERND Sodoma e Gomorra! Che razza di chiacchiere ha fatto Streckmann? Di’ un po’, l’hai capito, Rosa? rosa No, ho ben altro da pensare! {Dà un amorevole scappellotto ad Augusto) Non è vero, Augusto? Noi non abbiamo tempo di occuparci di sciocchezze! Entro sei settimane ci si deve sistemare... {Raccatta i resti della merenda nel canestro?) augusto Vieni un po’ qua con noi... rosa Ho da lavare, stirare e cucire occhielli. Verrà il tempo... e non ne siamo lontani...

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Bernd

Noi torniamo a cena dopo le sette. (Erre.) {prima di uscire) Rosa, mi vuoi bene? Certo che ti voglio bene!

augusto

ROSA

Augusto esce. Rosa rimane sola. Si ode in lontanan­ za il rullio della macchina e il brontolio dei tuoni che annuncia un temporale. Dopo che Rosa ha riu­ nito e messo nel canestro i bricchi, le tazze, il pane, il burro, sembra guardare in lontananza qualche cosa che l’attrae, ma con risolutezza si stringe il -fazzolet­ to, che le è sceso sulle spalle, attorno alla testa e fa per uscire. Ma prima che scompaia alla vista, appare Flamm col fucile a tracolla e la chiama.

Rosa! Fermati! Perdincibacco barile! {Rosa ri­ mane ferma, rivolta dalla parte opposta) Tu devi darmi da bere! O che io non merito neppure un sorso d’acqua? rosa Là c’è l’acqua! flamm Non son mica cieco! Ma non voglio bere co­ me i buoi. Non hai neppure una tazza, nel canestro ?* {Rosa solleva il coperchiai) Ah, vedi? Un pentolino! Nei pentoli si beve anche meglio! flamm

Rosa gli porge il pentolo da caffè, sempre volgendo la testa altrove.

Sii buona! Un po’ più di garbo! Dovrai ben adattarti una buona volta.

flamm

Rosa scende alla sorgente, vi tuffa il pentolo e poi lo depone a terra, tornando al suo canestro nel posto dove prima si trovava, sempre voltando le spalle a Flamm.

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No, Rosa, così non va. Così si lasciano trat­ tare i vagabondi, io non sono di quelli ! Per ora sono il borgomastro Flamm! Mi tocca da bere sì o no? Uno! due! tre! e basta! Ora, con le buone, ti prego... non star tanto a pensarci.

flamm

Rosa torna verso la sorgente, prende il pentolo e lo solleva sino a Flamm, pur sempre volgendo altrove la testa. Chi può bere in questo modo? {allegra suo malgrado, volge la testa) Oh, via, 10 deve reggere. flamm Così va un po’ meglio! Ora va bene! {Inav­ vertitamente, fingendo che sia soltanto per sostenere 11 pentolo, posa le mani su quelle di Rosa e colla boc­ ca sull’orlo del recipiente, si china sempre più, sinché per sostenersi deve appoggiarsi su un ginocchio) Così! Grazie tante, Rosa! Ora mi puoi lasciare! rosa {fa uno sforzo per liberarsi dalla mano di Flamm che la stringe) Ah, no! Mi lasci lei, signor Flamm! flamm Così? Credi che io ti lasci andare, ora che alla fine t'ho presa? No, bimba mia! Con me non la va così liscia. Non mi piace! Da me non lo puoi preten­ dere. Non far tentativi, tu non mi devi scappare! Pri­ ma guardami bene in faccia! io son sempre lo stesso! fissami bene negli occhi ! Lo so ! So tutto perfettamen­ te! Ho parlato col tesoriere Steckel, dove vi siete messi d’accordo. Per grazia di Dio non ho più l’onorevole carica di mezzano! Alla trappola delle volpi ci sta un altro. E so anche che il funerale... {Riprendendosi) Ac­ cidenti!... volevo dire... il matrimonio... E poi ho ra­ gionato fra me e me. Rosa è un osso un po’ duro!... Speriamo che non ci si rompano i denti! rosa Signor Flamm, non posso trattenermi qui con lei ! flamm

rosa

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Che tu lo possa o no, me ne imbuschero ! tu de­ vi! Se questo è davvero scritto nel libro di Dio... il soldato reclama il congedo regolare... così, su due pie­ di, alla porta, non si può lasciarsi mettere! Rosa! t’ho forse da chieder perdono di qualche cosa? rosa (scuotendo vivacemente il capo) Lei non ha niente da farsi perdonare, signor Flamm! flamm Niente? dici sul serio? flamm

Rosa conferma con un cenno del capo. Questo almeno mi consola : così avevo pensato sempre anch’io. Si può dunque ricordare tutto senza rimorso! Ah, Rosa, che bei momenti furono quelli! rosa E lei deve tornare a sua moglie... flamm Oh, se tutto non fosse sfumato così presto ! Era un bel tempo quello; ora che ce ne resta? rosa Lei deve voler bene a sua moglie, signor Flamm ! Sua moglie è un angelo... lei mi ha salvata... flamm Vieni un po’ qui, sotto il pero! Va bene? Dun­ que : a mia moglie ho sempre voluto bene. Andiamo sempre d’accordo. Vieni, Rosa, raccontamela per be­ ne... dunque, com’è? Salvata eh? Da che ti ha salvata, Rosa? Puoi immaginare che m’interessa. Che ti è dun­ que capitato? La vecchia fa un monte di allusioni... e io non sono arrivato a indovinarla... rosa Signor Cristoforo! signor Flamm! Non mi posso seder qui; non fa niente, non serve a niente; ormai tutto è passato, tutto è regolato, non è vero? Lo so... Dio finirà col perdonare il mio peccato; non lo farà scontare a una innocente creatura!... Iddio è tanto mi­ sericordioso ! flamm (alludendo al rumore della macchina) E non smette mai questo maledetto fracasso!... Che? Rosa, puoi sedere un momento qui ? Non ti faccio nulla ! Non flamm

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ti tocco! Parola d’onore! Rosa, ripeti quello che hai detto! Abbi un po’ di fiducia in me... rosa Che vuole?... io non so altro... Quando sarò ma­ ritata, allora lo domandi alla signora Flamm, forse lei allora glielo dirà, quello che m’è accaduto... Non l’ho ancora detto neanche ad Augusto. Lui è buono, lo so... perciò non mi dispero... lui è tenero di cuore e buon cristiano... E ora addio, signor Cristoforo! Addio! Stia bene!... Abbiamo un’intera esistenza davanti a noi... e c’è tempo di essere veramente fedeli, per espiare, la­ vorare e redimersi. flamm {trattenendo la mano di lei) Rosina, resta un altro momento! Per conto mio, sono d’accordo. Alle tue nozze, non ci vengo... ma se anche ci venissi, do­ vrei convenire che tu ora, tu hai ragione. Bimba, ti ho voluto tanto bene! Sul serio! Non posso dirti quanto bene ti volevo ! Lo sa il demonio ! da quando, da quan­ do posso ricordarmi. Già d’allora mi piacevi, quando da bambina eri così assennata... così franca in ogni più piccola cosa... Di donne ne ho conosciute abbastanza a Tharandt e qui a Eberswald e all’Accademia, quand’ero soldato... e avevo una fortuna sfacciata... Ep­ pure la felicità me l’hai fatta conoscere tu sola. rosa Ah, Cristoforo! le ho voluto tanto bene anch’io! flamm Tu, quasi quasi, eri innamorata di me fin da bambina... qualche volta m’hai persino incoraggiato... te ne ricorderai dunque, qualche volta, di questo vec­ chio, indurito peccatore di Flamm? rosa Oh, certo! Ne ho già un pegno. flamm Ah, già! L’anellino con la pietra!... E verrai a farci visita qualche volta«? rosa Questo poi no. È una cosa che fa troppo male... Sarebbe un doppio martirio! Bisogna finirla per sem­ pre. Io mi seppellirò in casa, voglio arrabattarmi a la­ vorare per due! Quando si comincia una nuova esisten-

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za, non bisogna voltarsi indietro a riveder quella vec­ chia. Sulla terra non c’è che dolore, e il paradiso lo dobbiamo aspettare. flamm Questo dev’essere l’ultimo addio? ROSA II babbo e Augusto si meravigliano già. flamm E se i pesci nell’acqua si meravigliano e i ta­ rabusi si mettono con la testa all’ingiù, che m'importa? Non è una ragione perché io abbia a perdere neppu­ re un secondo. Dunque dev’esser finito tutto? E nean­ che la vecchia vuoi visitarla più? ROSA {scuotendo il capo) Non ho il coraggio di guar­ darla in faccia! Forse più tardi, fra dieci anni! Allora tutto potrà essere superato. Addio, signor Cristoforo, addio, signor Flamm! flamm E così sia!... Eppure, bimba, t’assicuro che se la vecchia non ci fosse, anche ora, non tentennerei un momento... Io con te la farei corta... rosa Eh! se non ci fosse il se... Anch’io, se non ci fos­ sero il babbo e Augusto chi sa quello che farei ! Vorrei prendere il volo... andarmene per il mondo! flamm E io verrei con te, Rosa! Dunque? Così tutto è finito ! E non puoi neppure darmi la mano ? {Le strin­ ge la mano, la guarda a lungo negli occhi) Così è! Accada quello che ha da accadere! E qui vogliamo separarci davvero ! {Si volge risoluto a va vìa senza più volgersi indietro.) ROSA {lo segue con lo sguardo, facendo uno sforzo sopra se stessa) Accada quello che deve accadere! E ora tutto è finito ! {Mette la roba nel canestro e si dispone ad andar via, quando compare Streckmann.) streckmann {pallido, arruffato, trascinandosi a stento, sempre un po’ brillo) Rosa! Rosa Bernd! Non mi senti? C’era qui un’altra volta quel fannullone del borgomastro Flamm? Se qualche volta m’arriva a tiro, gli caccio quattro costole nello stomaco ! Che aveva ?

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Che voleva da te? Io ti ho da dire che così non mi va; non reggo più. Uno vale l’altro, e io non mi lascio mandare a spasso così. rosa {irritata, pallida, esaltata) Che dice? E chi si pre­ tende d’esser, lei ? streckmann Chi sono? Maledizione... lo dovresti ben sapere ! rosa Chi è lei? Chi l’ha mai visto?... streckmann Tu a me? Dove m’hai visto? per babbeo dovresti cercarti qualche altro. ROSA Ma che pretende? Chi è lei? Che vuole da me? streckmann Un accidente voglio. Hai capito? per ca­ rità, non urlare così forte! rosa Io chiamerò tutti qui, se non mi si leva dai piedi. streckmann Pensa al ciliegio! Pensa al crocifisso! rosa Ma chi è lei ? Menzogne ! Che pretende da me ? Se non se ne va per la sua strada chiamo aiuto ! streckmann Figliola, tu hai perso la testa! rosa Così non mi peserà più... Chi è lei? Son menzo­ gne! Non ha visto niente! Io urlo! se non si leva su­ bito di qui, strillo con quanto fiato ho in gola! streckmann {sgomento) Rosa, ora me ne vado... sta’ zitta... va bene... rosa Ma subito, subito... sul momento, capisce? streckmann Subito, subito! se non vuoi altro... {ja una mossa burlesca come se fuggisse dinanzi a un prin­ cipio di pioggia.) rosa {infuriata come se fosse pazza) Se ne va! Un simile furfante! A guardarlo per di dietro si ha an­ cora la parte migliore! Eppure bisogna sempre aver­ ne paura. Vergogna! di fuori tutto ripulito, e per di dentro roso dai vermi. La nausea sale proprio alla gola. streckmann {sempre pallido, dice con tono sarcasti-

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co) Ah, sì?... È mai possibile?... Che mi dici mai! non era un mangiare molto appetitoso... e allora per­ ché ti ci eri messa con tanto fuoco? rosa Io? fuoco con te?... streckmann O te ne sei scordata? rosa Canaglia ! streckmann So di esserlo. rosa Canaglia, birbante! Che hai ora da annusare in­ torno a me? Chi è lei? Che le avevo fatto? ti sei attaccato ai panni, m’hai inseguita, addentata... ma­ scalzone ! peggio d'un can da macellaio ! streckmann Tu mi sei corsa dietro! rosa Che? streckmann Sei venuta a casa mia e m’hai fatto gi­ rar la testa! rosa E tu ? streckmann Io? Che cosa? rosa E tu, e tu? streckmann Non son mica di quelli che disprezzano la grazia di Dio!... ROSA Streckmann! Una volta o l’altra hai ben da mo­ rire! Pensa alla tua ultima ora! Verrà anche per te il giorno del Giudizio! Io son corsa da te atterrita! t’ho supplicato in nome di Dio che tu mi lasciassi in pace con Augusto... son caduta in ginocchio da­ vanti a te... e tu ora dici che ti son corsa dietro? La verità è che hai commesso un delitto! E m’hai co­ stretta a commetterlo! Questa è più che un’infamia! Due volte, tre volte, cento volte assassino! Iddio ti saprà ben punire! streckmann Oh, senti un po’ ! La vedremo ! rosa Questo dici tu ? È questo che vuoi ? Demonio ! ti sputo in faccia. streckmann Pensa al ciliegio, pensa al crocifisso! rosa Tu m'hai giurato che non volevi mai più par-

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lame! M’hai fatto un giuramento sacro... hai giurato con la mano sulla croce... e ora ricominci con la tua persecuzione? ma che pretendi? streckmann Io valgo quanto Flamm... e tu non te la devi più fare neppur con lui. rosa E se io mi mettessi nel suo letto, canaglia che non sei altro, che te ne importa? streckmann Vedremo come si mette... ROSA Che? Tu m’hai violentata. Tu m’hai confusa! buttata per terra! Sei piombato su di me come uno sparviero! Lo so, io volevo uscire per la porticina! tu m’hai strappato sottana e giacchetto! Io sangui­ navo persino ! Volevo scappare, e tu hai messo il pa­ letto... Questo è un delitto! Te ne chiederò conto davanti ai giudici! Bernd e Augusto entrano l’uno dopo l’altro. Poi Klei­ nert, Golisch e gli altri braccianti.

{andando quasi addosso a Streckmann) Che c’è qua? Che hai fatto alla mia figliola? augusto {si fa avanti mandando indietro Bernd) Toc­ ca a me, babbo. Domando quello che hai fatto a Rosa. streckmann Niente! BERND {facendosi di nuovo avanti) Che hai fatto a questa figliola! streckmann Niente! augusto {avanzando nuovamente) Ora hai da dire quel che le hai fatto! streckmann II diavolo che vi porti, le ho fatto ! augusto O tu dici quel che le hai fatto... streckmann Che è? Che vuol dire quell’« o»? Giù le mani! Le mani in tasca!... kleinert {corre a dividerli) Fermi ! BERND

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A posto le mani ! Ora puoi raccomandarti l’anima, oppure... augusto Che hai fatto alla ragazza? streckmann {impaurito fa un salto verso il pero) Aiu­ to! augusto Che hai fatto alla mia ragazza? Rispondi! rispondi ! lo voglio sapere ! {Si è liberato dagli altri che lo trattengono e -fronteggia Streckmann.) streckmann Prendi! {Gli dà un pugno nella fac­ cia) Questa è la mia risposta! Ecco quel che le ho fat­ to ! kleinert Streckma... vecchia GOLISCH Sostieni Augusto; cade!... massaia {raccoglie Augusto barcollante) Augusto ! BERND {a Streckmann, senza curarsi di Augusto) Ce ne darai ragione! Ti ha da costar cara! streckmann Porcheria! Per quella sgualdrina là che amoreggia con tutti... {Se ne vai) BERND O che discorso sarebbe questo? klein {che insieme a Golisch e a sua moglie, ad Hahn e alla massaia osserva Augusto quasi svenuto) L’oc­ chio è andato!... VECCHIA GOLISCH Papà Bernd, ad Augusto gli è an­ data male... kleinert II disgraziato ha avuto un brutto fidanza­ mento!... BERND Che? Come? Oh, santo cielo! {Avvicinandosi) Augusto!... augusto Mi fa tanto male l’occhio sinistro! BERND Rosa, porta un po’ d’acqua ! vecchia golisch È una sventura!... Bernd Rosa, portami l’acqua! non ci senti più?... golisch Gli può costare un annetto di carcere! rosa {come se si destasse da un incubo) Diceva? di­ streckmann

BERND

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ceva! Sì, che vuol dire? Eppure a Natale... ho rice­ vuto... una bambola! sottomassaia (đ Rosa) Ma che sogni? ROSA Non si può dire a nessuno... massaia, così non va, non c’è rimedio... Forse bisognerebbe avere una mamma !

Atto Quarto

In casa Flamm, la stessa camera del secondo atto, un sabato pomerìggio ai primi di settembre. Flamm sie­ de allo scrittoio -facendo dei conti; Streckmann è in piedi, accanto alla porta destra. Sicché avete ancora da riscuotere duecentosei marchi e trenta centesimi. streckmann Precisamente, signor Flamm. flamm Che era accaduto alla macchina, che una mat­ tina non avete lavorato ? streckmann La macchina era in ordine, ma io avevo una chiamata al tribunale. flamm Per l’affare di... Keil? streckmann Proprio! e per giunta Bernd m’ha dato querela perché, secondo lui, ho offeso la sua Rosa. flamm (prende dal cassetto del denaro e lo conta sulla tavola grande) Ecco qua, duecentosei marchi e cin­ quanta... mi vengono venti centesimi di resto. streckmann (prende il denaro e depone sulla tavola venti centesimi) Allora, signor Flamm, verso la me­ tà di dicembre, le accomoda? flamm Mi occorrono due giornate! Diciamo piuttosto ai primi di dicembre... io allora vorrei aver sgombrato il granaio grande. streckmann Ai primi allora ! Stia bene, signor Flamm. Arrivederla ! flamm

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Addio, Streckmann! E... dite un po’... come andrà a finire la vostra faccenda? streckmann {restando, scuote le spalle) Non credo che sarà una gran cosa, signor Flamm. FLAMM Perché? streckmann Bisogna fare di necessità virtù. flamm Come tante volte le cose da niente diventan grosse! Come fu che litigaste? streckmann Io non me lo so spiegare davvero! Quel­ la volta... dovevo esser proprio infuriato! Ma non riesco a ricordare proprio nulla! flamm II legatore, dicono che è un uomo così paci­ fico! streckmann Ma con me ce l’ha fitta... Del resto, co­ me sia andata... io mi ricordo soltanto che mi ven­ nero addosso... come lupi arrabbiati... Credetti che ne andasse della mia pelle! Se non fosse stato per que­ sto, la mano non mi sarebbe sfuggita così!... flamm E l’occhio non si poteva più salvare? streckmann Pare di no! Dispiace, ma ormai non c’è rimedio. Di quella disgrazia proprio non è colpa mia !... flamm Eh! È un brutto affare! e quando si va per i tribunali diventa anche peggio. Soprattutto mi rin­ cresce per la ragazza! streckmann Io mi sento venire la febbre a pensarci ! tanto me ne dispiace. Creda, signor tenente, non so più quel che vuol dir sonno... In fondo, contro Au­ gusto non ci avevo niente. Non capisco come sia andata... flamm Dovreste andare un po’ da Bernd. Se avete offeso la ragazza ed eravate fuori di senno, potete ri­ trattarvi è la cosa più semplice. streckmann Non mi garba! Questo è affar suo. Se flamm

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sapesse dove si andrà a finire, ritirerebbe certo la que­ rela... Ma tocca a qualche altro dirgli francamente che così non rende un buon servizio alla ragazza. Così è. Arrivederla, signor tenente! flamm Addio!

Streckmann esce. (da solo, eccitato) Se un manigoldo simile si potesse prendere per il collo ! ·

flamm

La signora Flamm condotta sul carrozzino dalla serva viene dalla porta di pondo. Che hai di nuovo da borbottare, Flamm? (Fa un cenno alla serva, e questa esce.) T’hanno fatto arrabbiare ? flamm Grazie! Abbastanza! signora Non era qui Streckmann? flamm II bel Streckmann! Precisamente il bel Streck­ mann! signora E come va quella faccenda? Non avete par­ lato di Keil ? flamm (scribacchiando) Ma che! io avevo i conti per la testa... signora Ah... ti disturbo forse? flamm No... ma devi stare un po’ zitta. signora Se non vuoi altro... io non fiato più... (Si­ lenzio.) flamm (sbottando) Perdincibacco barile!... Certe vol­ te verrebbe il ruzzo di pigliare il fucile e tirargli, a quel manigoldo; sarebbe un gusto aver da renderne con­ to !... signora Ma no, Cristoforo... mi fai paura! signora

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Che ci posso fare? Sono spaventato anch’io. È così basso quell'uomo, così al di sotto di tutte le canaglie!... Credi, vecchia mia, più indegni non si può essere ! Farebbe torcer le budella a uno come me, che di bocconi difficili n’ha digeriti più d’uno. Non si finisce mai d’imparare. Si può aver studiato tutte le quattro facoltà, digerire anche i sassi, ma dinan­ zi a un simile luridume non s’arriva neppure alla propedeutica. signora Ma che t’ha fatto di nuovo? flamm {rimettendosi a scrivere') Io parlo così... in ge­ nerale... signora Credevo che tu dicessi di Streckmann! Pro­ prio, Cristoforo, la storia non mi par chiara, e quan­ do tu avrai un po’ di tempo, voglio ragionare un po’ con te. flamm Con me? E che c’entro io con Streckmann? signora Se non proprio Streckmann, papà Bernd però... e Rosa... Vedi? Per quel che riguarda quella figlio­ la, è una faccenda brutta! Se non fossi così inchio­ data sulla poltrona, sarei da un pezzo andata da lei... Non si fa più vedere. flamm Tu, da Rosa? e a che fare? signora Senti un po’, Cristoforo... Guarda bene... non è mica la prima venuta! Io ho una certa responsa­ bilità, devo vedere che le cose vadano bene... flamm Ma sì, vecchia mia, fa’ quel che vuoi, tanto non ne caverai niente. signora Perché? Che intendi dire con ciò? flamm Nelle cose degli altri è meglio non ficcarci il naso, se ne leva bile e ingratitudine. signora Sia pure! La bile si può sopportare... l’in­ gratitudine è quel che si può aspettare a questo mon­ do. Ma quanto alla Rosa, io non so... m’è sempre sembrato che fosse un po’ come una figliola. Vedi,

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Cristoforo, fin dove riesco a ricordare... quando il babbo era ispettore forestale, già sua madre lavava i panni in casa nostra. Poi, in cimitero, sulla tomba del piccolo Kurt, ancora vedo la ragazza come fosse oggi, anche se ero più morta che viva. Dopo te e me, ti so dire, nessuno era inconsolabile come lei. flamm Fa’ quel che vuoi. E che intenzioni avresti? io non arrivo a capirle... signora In primo luogo voglio far un po’ la curiosa... flamm Perché ? signora Per niente!... non mi mescolo di solito nelle tue faccende... ma ora... ora vorrei proprio sapere... che cosa ti è successo in questi ultimi tempi... flamm A me? Mi pareva che tu parlassi di Rosa Bernd ! signora Per il momento parlo di te... flamm Allora, vecchia mia, te lo puoi risparmiare! Le mie faccende non ti riguardano! signora Ah sì? È presto detto... ma quando si è in­ chiodati in una poltrona e si sa che un uomo è in­ quieto e che la notte non può dormire, e si sente so­ spirare di continuo... e quest’uomo per combinazione è il proprio marito... oh allora! allora le preoccupa­ zioni vengono anche senza volerlo... flamm Ma, vecchia mia, tu sei matta! Sospirare! Tu scherzi! Dovrei essere scemo! Tu mi rendi ridicolo. E che altro ancora? non son mica un ragazzo! signora No, Cristoforo, così non mi scappi! flamm A che vuoi arrivare?... vuoi prendermi in gi­ ro? mi vuoi proprio seccare? vuoi che fugga da casa? o che faccia qualcosa di peggio? Se è così, quanto è vero Iddio, non potresti cominciar meglio. signora Eppure son persuasa che tu mi nascondi qual­ che cosa. flamm (scuotendo le spalle) Quando ne sei persuasa...

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lascia pure che ti nasconda; però, vecchia mia, am­ mettiamo che sia così... Tu mi conosci abbastanza be­ ne... Caschi il mondo, quando io non voglio, non mi si cava di bocca nemmeno tanto. (Fa con le dita una mossa significante: poco') Di arrabbiature, pur­ troppo, ne capitano a tutti... Ieri ho dovuto mandar via il cantiniere, ier l’altro ho dovuto mandare al­ l’inferno il distillatore... in conclusione, anche all’infuori di ciò, la vita che si deve condurre qui, dà mol­ to filo da torcere... e fa venire le paturnie a qualun­ que persona per bene... signora E tu trovati una compagnia... va’ in città!... flamm Giusto! All’albergo del Cavallo Bianco a gio­ care a carte coi cavallari, oppure a camminare sui trampoli col prefetto... Ringraziando Dio, di quegli svaghi ne ho piene le tasche... Ci vuol altro per far­ mi uscir di casa! Se non avessi questo po’ di caccia e non potessi mettermi ogni tanto lo schioppo in spalla... Bisognava che facessi il marinaio! signora Ah, vedi? qualche cosa hai... È quello che ti vado dicendo... Tu sei cambiato profondamente... Fino a due o tre mesi fa eri pieno di vita... Sparavi agli uccelli e ti divertivi a imbalsamarli... Facevi raccolta di piante, collezioni di farfalle, cantavi tutto il san­ to giorno... Era un piacere vederti! e ora tutto a un tratto, ti sei mutato... flamm Se almeno ci fosse rimasto il nostro Kurt! signora E che ne diresti se adottassimo un bambino?... flamm Ora? Proprio ora? No, vecchia mia, ora non posso io... Una volta eri tu che non sapevi deciderti... ora è passato il momento anche per me. signora Si dice presto, accogliere in casa un bambi­ no! Anzitutto la cosa si presenta come un tradimen­ to! A me pareva che il solo pensarci fosse un tradire il nostro piccino! Mi pareva... che debbo dirti? come

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se il nuovo venuto lo cacciasse via dalla sua stan­ zetta, dalla casa, dal lettino, e financo dai nostri cuo­ ri... E soprattutto dove trovare un bambino che ci avesse fatto rivivere un po’ di gioia? Ma lasciamo andare questo discorso... torniamo un po’ alla Rosa!... Sai tu quel che le accade? flamm Certamente! Come no? Streckmann ha gettato il sospetto sulla condotta di lei e il vecchio Bernd non lo tollera. Francamente è una sciocchezza quel­ la di dar querela... le spese, in fin dei conti, le paga sempre la povera donna. signora Ho scritto a Rosa un paio di lettere perché venisse qui da me. Veramente nella sua condizione... lei non sa proprio come contenersi. flamm Perché?... signora Perché Streckmann dice la verità!... flamm (co» un gesto di sorpresa) Che dici? Spiegati meglio !... signora Ma, Cristoforo, non andar in furia! Te l'ho nascosto sinora perché so come sei tu in certe cose... Ricordati di quella servetta che cacciasti di casa in quattro e quattr’otto, e del valigiaio che prendesti a bastonate! Quella infelice me l’ha confessato da un pezzo, da più di due mesi... e ora non si tratta più soltanto di Rosa, ma c’entra anche un altro essere, quello che ha da venire... M’intendi?... flamm {oppresso) No! non del tutto... a dirla fran­ camente... ho proprio... qui... oggi davvero... mi af­ fluisce il sangue alla testa... Ë come... se avessi le ver­ tigini... Ma sì... ma no... ho bisogno solo d’una boc­ cata d’aria e non è altro... Vecchia mia, non t’allar­ mare!... signora {osservandolo con l’occhialetto) E dove vuoi andare con la cartuccera in mano? flamm Ah! niente! Che ne faccio della cartuccera? 19.

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{Getta da una parte la cartuccera che involontaria­ mente aveva presa in mano) Non si sa mai niente! Non si viene a sapere mai niente! Qualche volta pare di diventare idiota... Ci si sente fuori del mondo!... signora {diffidente) Dimmi un po’, Cristoforo. Che significa questo discorso? flamm Niente, vecchia mia, niente, proprio niente... Mi son già rimesso... Ma qualche volta provo una certa sensazione... una paura... non so... proprio come se tutto a un tratto sentissi mancare il terreno sotto ai piedi e dovessi rompermi l’osso del collo... signora Che strani discorsi vai facendo! {Si sente bus­ sare alla porta.) signora Chi è? Avanti! Flamm scappa nella stanza di fondo. Augusto pallido più del consueto, dimagrito, con l’oc­ chio sinistro coperto da una benda nera e da occhiali affumicati sopra.

{aprendo la porta) Son io, signora Flamm! Ah, è lei, signor Keil? Poteva entrare! augusto {avanzandosi) Debbo chiederle scusa signora. Buon giorno, signora. signora Buon giorno, Keil! augusto La mia fidanzata ha una chiamata al tribu­ nale, se no sarebbe venuta lei stessa... Forse però ver­ rà verso sera... signora Sono lieta di vederla... Del resto, come sta? Si accomodi... augusto Dio si manifesta in cento modi, e quando uno è sottoposto ad una prova, non si deve lagnare, anzi, deve rallegrarsi... e, vede, signora Flamm... Così sto, pressappoco... ora un po’ meglio, ora un po’ augusto signora

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peggio... ma anche quando va male, son contento per­ ché è tanto di guadagnato per l'anima mia. signora {respirando a fatica) Io vorrei che avesse ra­ gione, Keil... Sa niente se Rosa ha avuto le mie let­ tere? augusto Me l'ha date anche da leggere... e io le ho detto... che doveva venire a trovarla... signora Se devo dirgliela francamente, mi sono mera­ vigliata, che dopo tutte le ultime storie, non sia an­ cora tornata da me. Che ci s’interessa di lei... lo sa bene... augusto In questi ultimi tempi si è fatta vergognosa e, signora, permetta che glielo dica, non dovrebbe fargliene colpa... prima aveva molto da fare con me, che avevo bisogno di chi mi curasse... e si è acqui­ stata un gran merito davanti a Dio, e poi, da quando quell’uomo l’ha insultata a quel modo, si arrischia appena a uscire dalla stanza. signora Io non me l’ho a male!... e, del resto, come sta? Che cosa fa? augusto Oh, quasi niente... è... che le devo dire? quando oggi alle undici doveva trovarsi al tribunale... è stato un vero baccano... Creda, signora Flamm, c’era d’allarmarsi... parlava in un modo così strampalato!... Prima non ci voleva andare, poi pretendeva che an­ dassi con lei; alla fine scappò via come il vento e mi gridò di non andarle dietro... Qualche volta ha pianto tutto il giorno, e... naturalmente, vengono i pensieri... signora Quali pensieri? augusto Così... di tutti i generi!... Per primo, quan­ do mi toccò la disgrazia... questo me lo ha detto tante volte,... rimase colpita proprio nell’anima... E anche per quello che riguarda papà Bernd, che se la è presa così a cuore..

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Noi siamo a quattr'occhi, signor Keil, perché non dovremmo parlare un po’ francamente? Le è mai passato per la mente... voglio dire, la storia... con Streckmann... a lei o a papà Bernd!... che in fondo ci potesse esser qualcosa di vero? augusto A questo non ci ho neanche pensato. signora Ha fatto bene! non saprei biasimarlo, qual­ che volta non resta di meglio che cacciare, come gli struzzi, la testa nella rena. Un padre però non lo de­ ve fare. augusto Creda, signora, quanto al vecchio Bernd, è lontano le mille miglia dall’idea che ci abbia da es­ ser qualcosa di vero, è così incrollabile nella sua fi­ ducia, che ci metterebbe una mano sul fuoco. An­ che il signor Flamm è stato da lui a dirgli che riti­ rasse la querela... signora (eccitata) Chi è stato da lui? augusto II signor tenente! signora Mio marito? augusto Sì, signora, e gli ha parlato a lungo. Ma vede, io ho perduto un occhio, è vero? pure non m’importa che Streckmann venga condannato, io pen­ so fra me che il Signore dice : « Io solo devo giu­ dicare ». Ma... papà Bernd è irremovibile, e dice: Pretendete da me qualunque altra cosa, ma questo no. signora Mio marito è stato dal vecchio Bernd? augusto Sì, quando ebbe la citazione. signora Che citazione era? augusto Di presentarsi al giudice istruttore. signora (agitata) Il vecchio Bernd? augusto No, il signor tenente Flamm! signora Ah sì! È stato interrogato anche mio mari­ to? E che ha da fare lui con questa faccenda? augusto Certo, è stato inteso anche lui... signora (scossa) Ah, è così? non me l’aspettavo, non signora

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ne sapevo niente; e neanche che Cristoforo fosse sta­ to dai Bernd! Dov’è la mia acqua di Colonia!... Suv­ via, Augusto, vada pure a casa, ora, io mi sento... non so... non le posso più dare alcun consiglio! m’è venuto un non so che... per tutte le membra... Vada a casa... stia a vedere come si mette... Se però vuol bene a quella ragazza... guardi me... io gliene posso dire qualche cosa... quando uno è fatto in modo... sia un uomo che va dietro alle donne, o sia una ra­ gazza che gli uomini perseguitano come pazzi... ci vuol pazienza!,., pazienza! bisogna sopportare... Io ho vissuto così per ben dodici anni! (Si mette una mano dinanzi agli occhi e guarda traverso le dita) e quando voglio vedere qualcosa, mi tocca guardare attraverso le dita!... augusto Signora Flamm, io non ci posso credere! SIGNORA Lo creda o no, nessuno glielo verrà a chiede­ re. Mi accade come a lei... io non ci capisco quasi niente... eppure bisogna vedere come se n’esce... Io ho fatto una promessa a Rosa... Qualche volta si pro­ mette, e poi riesce duro mantenere!... Orsù, per quan­ to sta nelle mie forze... Addio... Io da lei non lo posso pretendere... Speriamo che il cielo sia sempre pietoso ! Augusto stringe, commosso, la mano che la signora gli tende ed esce in silenzio, La signora Flamm re­ clina la testa appoggiandola alla spalliera della pol­ trona, guarda trasognata il cielo e manda due lunghi sospiri. Flamm pallidissimo rientra, guarda la signora dì tra­ verso e comincia a fischiare leggermente mentre apre la libreria e finge di cercare qualche cosa.

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Sì, sì, tu t’infischi di tutto... Flamm, ma di tanto non t’avrei creduto capace! (JFlamm si volge, la guarda, alza un poco le braccia e le spalle, poi le la­ scia ricadere, mentre semplicemente, senza imbarazzo, ma tuttavia pensieroso più che umiliato guarda a terra.) Voi uomini prendete tutto alla leggera! Come andrà a finire, ora? flamm {ripetendo il movimento delle spalle e delle braccia ma meno accentuato) Chi lo sa? Io per ora voglio esser lasciato in pace... Voglio raccontarti co­ me è andata... forse mi potrai giudicare con indul­ genza... se no... avrò compassione di me stesso. SIGNORA Come si può avere indulgenza per una simile leggerezza ? flamm Leggerezza? Solo leggerezza non è stata dav­ vero! Preferiresti, vecchia mia, che fosse una legge­ rezza, o una cosa seria? signora Andar proprio a rovinare l’avvenire d’una ra­ gazza!... mentre noi qui... se ne hanno tutte le respon­ sabilità!... Quando la si è cresciuta in casa! Oh, no!... È cosa proprio da cacciarsi sotto terra... Nem­ meno lo si fosse fatto apposta! flamm Hai finito?... signora Oh, ne ho ancora per un pezzo ! flamm Allora aspetterò un altro poco. signora Cristoforo! Che ti dissi io, quella volta... quando tu venisti a domandarmi in sposa? flamm Che? signora Io son troppo vecchia per te!... Una donna può essere anche sedici anni più giovane, ma non mai tre o quattro anni più vecchia... Se tu allora m’a­ vessi seguita!... flamm Che discorsi! Venir ora a parlare di quelle vecchie storie!... come se non avessimo qualcosa di più importante... Non c’è questione, così mi pare, vecsignora

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chia mia!... Di quel che accade a Rosa, finora non avevo la più lontana idea... altrimenti avrei agito in altro modo... Ora bisogna vedere se si può fare qual­ cosa, e per questo, vecchia mia, ti pregherei di non essere meschina... Finché non si disse che quel povero epilettico doveva sposare Rosa, tutto è andato bene... Ma quando fu cosa certa, tutto crollò. Può darsi che i miei concetti siano confusi. Io avevo visto crescere quella figliola... Un po’ dell’affetto per Kurt era pas­ sato a lei... Sul serio... io volevo solo trattenerla da quel passo falso... ma alla fine... come accade spesso... come ben dice Platone, nel Fedro sta scritto, dei due cavalli... il cavallo cattivo mi prese la mano... e ruppe gli argini... {Lungo silenzio.) signora Questa è proprio una bella storia... e per di più ornata di citazioni erudite... Con un po’ di que­ sta, voi uomini avete sempre ragione... E per quanto una povera donna cerchi di cavarsela... Sta' a vedere che l’hai fatta felice e che ti ci sei sacrificato... Per una faccenda simile non ci sono scuse!... flamm Va bene! Allora rimandiamo il discorso a un’altra volta... Però ricordati che quando Kurt morì io non me la potevo più vedere per casa... Chi l’ha trattenuta? Chi l’ha fatta tornare? signora Perché non volevo che tutto intorno a noi fosse morto... Quanto a me non ne avevo bisogno. flamm E io non ho parlato per amor tuo. signora È un peccato per ogni lacrima, che uno aves­ se a versare per voi ! Le tue chiacchiere te le puoi risparmiare !... la serva {entra portando il caffè) Rosa Bernd è di là in cucina!... signora Vieni figliola, conducimi. {A Flamm) Puoi dare una mano a levarmi d’attorno. Una stanza per

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me ci sarà. Io non sto mai fra i piedi... Dopo puoi fartela venir qui. flamm {alla serva con durezza) Di’ che aspetti un momento! (La serva esce. Alla signora) Tu puoi dir­ le una parola, io non posso... ho le mani legate... signora E che cosa le posso dire io? flamm Enrichetta, lo sai meglio di me, tu stessa l’hai detto... non bisogna esser meschini, per amor di Dio! Così non la si può mettere alla porta. signora Io non posso mica andare a lustrarle le scar­ pe... flamm E non lo devi! Chi ti dice questo? Ma tu l’hai chiamata, tu non ti puoi cambiare così, tutto ad un tratto, da dimenticare ogni pietà e ogni misericordia... Che m’hai detto poco fa?... Così la ragazza è rovi­ nata!... E se lei si rovina, non puoi supporre che io sia tanto canaglia d’aver ancora la voglia di vivere... Deciditi. Non te ne scordare. signora Va bene. Non lo meriteresti, ma come si fa?... Il cuore sanguina... Colpa nostra. Perché cerchiamo sempre d’illuderci, eppur siamo vecchi e ragionevoli, ma anneghiamo in un bicchier d’acqua. Solo, Cristoforo, non illuderti troppo... va bene, per parte mia... le parlerò... non per amor tuo... ma perché è giu­ sto farlo... ma non metterti in testa che io possa ac­ comodare quello che tu hai rovinato. Voi uomini sie­ te come bambini... la serva (rientrando) Non vuol più aspettare. signora Mandala qui ! (La serva esce.) flamm Dunque, Enrichetta, sii ragionevole, dammi la tua parola. signora Già, tu non la dai, e non hai bisogno d’infrangerla!...

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Flamm esce. La signora Flamm dà un lungo sospiro, prende l’uncinetto; intanto entra Rosa.

(vestita da festa a vivi colori, col viso emaciato e gli occhi febbricitanti) Buongiorno, signora. signora Buongiorno, mettiti a sedere... Orbene, Rosa, ti ho pregata di venir qui... Quello che un giorno abbiamo detto insieme... lo ricordi sempre? Intanto qualcosa è cambiato... su molti punti... Vedi, tanto più volevo ragionarne un poco con te... Mi dicesti, quel giorno, che non ti potevo aiutare... volevi far tutto da te... oggi in parte ho capito... quel tuo strano con­ tegno... e che non volevi aiuto da me. Come però tu intenda di cavartela da sola, non arrivo a indovi­ narlo ! Vieni, bevi una tazza di caffè con me.

rosa

Rosa siede vicino al tavolo da caffè su di un angolo della sedia.

Augusto era qui poco fa. Se fossi stata in te, figliola... gli avrei detto la verità. (Fissandola ne­ gli occhi) Ora non te lo posso più consigliare... non ne ho più il diritto ! rosa E perché no, signora? signora E proprio vero, più s’invecchia e meno s'im­ para a conoscere la gente. Ognuno è venuto al mon­ do allo stesso modo ; ma non se ne deve parlare. Dal­ l’imperatore e dall’arcivescovo sin giù al mozzo di stalla, tutti non fanno che rinfacciarsi donde vengo­ no l’uno con l’altro; e quando nasce una creatura sen­ za padre, tu lo sai, allora gridano allo scandalo... nessuno lo vuol vedere... ROSA Ah, signora! tutto sarebbe regolato da un pezzo, se non c’era quel birbante, quell’infame, quel bu­ giardo di Streckmann... signora

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Figliola, io non ti capisco! Come puoi chia­ mar bugiardo quell’uomo... se basta guardarti per ac­ corgersene... rosa Mente! mente! signora In che mondo mente? sentiamo! ROSA In tutti i modi; in tutti i sensi. signora Mi sembra che tu non abbia la testa a po­ sto... Chi hai davanti agli occhi? Rifletti! Prima m’hai confessato tutto completamente, inoltre ora so anche quello che mi hai nascosto... ROSA {rabbrividendo, tremando, ostinata) E se anche lei mi ammazzasse, io non so niente di più... signora Così? Ah, questo è il tuo contegno ora? Ti avevo giudicata diversamente! Non me lo aspettavo. Speriamo che col giudice avrai parlato in modo meno confuso. rosa Ho detto la stessa cosa. signora Figliola! torna alla ragione! Tu, qui, non fai che ammassare sciocchezze... ma il giudice non s’infinocchia così ! Senti quel che ti dico : bevi un sor­ so di caffè, non spaventarti, nessuno ti perseguita, non voglio mica mangiarti! Che tu m’abbia trattato bene... nessuno lo potrebbe affermare. Se tu mi avessi detto la verità, forse allora sarebbe stato più facile trovare una via; nondimeno cercheremo ancora di salvarti; forse è ancora possibile. Dunque, stabiliamo, e su questo puoi fidare completamente; non dovrete sof­ frire miseria... Anche se il babbo ti mandasse' via e Augusto ti lasciasse, per te e per il tuo bambino sarà sempre provveduto. rosa Non capisco proprio quel che vuol dire, signora! signora Allora, ti posso dire, che non hai la testa a posto, se non sai o hai dimenticato, vuol dire sempli­ cemente che hai una cattiva coscienza! Tu hai fatto ben altro! e se tu hai ancora un segreto... quello non signora

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riguarda Streckmann! È un altro il birbante che ti fa infelice ! ROSA {irruente) No, come può pensar questo, signora? Dica, per amor di Dio! Quando ho potuto meritar­ melo? Oh se il mio Kurt, il mio caro bambino... (Congiunge le mani in atto nervoso, dinanzi al ritrat­ to del bambino.) signora Rosa! Questo poi ti prego di risparmiarlo! Può darsi che tu abbia qualche merito verso di me : non è il caso di parlarne oggi... Come sei cambia­ ta! Io non arrivo a capacitarmene! rosa Ma perché la mia mamma non m’ha preso con sé?!... Diceva sempre, quando muoio, ti porto con me! signora Orsù, torna alla ragione, figliola, pensa che sei viva! Che hai? rosa Con Streckmann non ho niente. Quello straccio­ ne ha mentito Cristo in croce! signora Che ha mentito? Ha giurato? rosa Che abbia giurato o no, per me fa lo stesso! signora Hai dovuto giurare anche tu? rosa Non lo so... Se fossi stata cattiva avrei commes­ so un delitto ! Se Augusto ha perduto un occhio, non è mica per colpa mia... I dolori che quell’uomo ha dovuto soffrire!... è un martirio che lo perseguita not­ te e giorno, senza tregua... Altrimenti egli mi dovreb­ be sputare addosso! Quando si giura, si vuoi sempre salvare qualcosa... e allora ti rompono le ossa... flamm (entrando agitato) Chi ti rompe le ossa? Guar­ da un po’ la signora... al contrario, ti si vuol salvare. rosa È troppo tardi ! Ormai non è più possibile. flamm Che intendi dire? rosa Niente! Io non posso più aspettare. Addio! Va­ do per la mia strada! flamm Resta qui, non ti muovere! Ho sentito tutto,

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da dietro la porta, e ora intendo sapere tutta la verità. E non dico la verità? flamm Con Streckmann ! rosa Non c’è stato niente, fra me e lui... flamm O che lui dice che c’è stato qualche cosa? rosa Io non posso dir altro, se non che lui mente. flamm E ha giurato questa menzogna? {Guardando aspramente Rosa, che tace, poi calmandosi) Tu, vec­ chia mia, non prendertela a male, perdonami quello che mi puoi perdonare. Ormai ho visto in fondo a tutta questa faccenda... ormai è cosa che non mi ri­ guarda più... ci rido... e me ne lavo le mani!... signora {a Rosa) Dunque hai negato tutto? rosa

Rosa tace.

Io, com’era naturale, ho detto la verità, e Streckmann non può aver mentito... in una simile cir­ costanza. Per falsa testimonianza c’è la galera... c’è po­ co da scherzare! signora Figliuola, di’ su, hai detto la verità? oppure hai forse negato... sotto giuramento? E non sapevi quali sono le conseguenze? Come ha potuto venirti un’idea così stolta? ROSA (affranta, gridando) Mi vergognavo! signora Ma Rosa! flamm Ogni parola che ci si spende, è buttata! Ma perché hai mentito al giudice? rosa Mi vergognavo! Mi vergognavo! flamm E me? e la vecchia? e Augusto? perché ci hai ingannati tutti ? E forse anche Streckmann, infine ? E con chi altro hai avuto a che fare?... Sì, sì, hai un viso da madonna, ma avevi ben ragione di vergo­ gnarti !... rosa Lui m’ha inseguita come un cane! flamm

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{ridendo) Brava! Voi donne ci fate diventare cani; oggi questo... domani quello! è una cosa ben amara! Ora fate pure quel che volete! prima che io abbia a muovere anche un dito, per questo imbro­ glio, mi cerco una corda e mi frusto queste mie orec­ chie d'asino finché mi si offusca la vista!

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Rosa fissa Flamm con occhi spaventati.

Rimane fermo, Rosa, quel che t’ho promesso. A te e al tuo bimbo sarà sempre provveduto. rosa {come prima, istupidita, continua a mormorare) Mi vergognavo! Mi vergognavo! SIGNORA Senti, Rosa? Capisci, Rosa? {Rosa esce di corsa.) Rosa! La ragazza se n'è andata. Ora bisogna che Dio le tenga la sua mano addosso!... signora {chiama) Rosa! La ragazza se n’è andata. Ora bisogna che Dio le tenga la sua mano addosso!... flamm {scosso suo malgrado, rompe in singhiozzi) Dio mi perdoni, Enrichetta!... Non posso far altro. signora

Atto Quinto

La stanza di soggiorno nella casetta di Bernd. È una stanza spaziosa con le pareti grigie e un vecchio sof­ fitto con le travi imbiancate. Una porta nel fondo con­ duce alla cucina, un’altra a sinistra mette nell’atrio; a destra vi sono due piccole finestre velate da leggere cortine. Fra le due finestre un cassettone giallo con sopra un lume a petrolio spento. Alla parete è attac­ cato uno specchio. Nell'angolo di sinistra sorge una stufa da contadini, in quello di destra un divano coperto di tela incerata, una tavola con una coperta colorata, e sospeso su que­ sta un lume. Sopra il divano pende dal muro un qua­ dro biblico: Venite, pargoli e poco più sotto una foto­ grafia di Bernd, da soldato, ed un’altra di Bernd con la moglie. Nel davanti, a sinistra, c’è una vetrina con dei bicchie­ ri, tazze colorate, ecc. Sulla tavola, un crocifisso. Sul cassettone è posata una Bibbia e sopra la porta è appe­ so un quadro a olio: Cristo coronato di spine. A terra tappeti fatti di ritagli di stoffa. Quattro o cinque sedie di legno, disposte con simmetria. Altri libri di devo­ zione si vedono sulla vetrina. Al mazzapicchio della porta è appesa una cassetta per le oblazioni. Tutto ha un’aria di pulizia, ma anche di gelida bigot­ teria. È sera, verso le sette dello stesso giorno in cui si svol-

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ge il quarto atto. Le due porte sono aperte. È quasi buio. Si odono voci dal di fuori.

(dal di juori) Bernd! C’è nessuno in casa? Andiamo per la porta di dietro!

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Torna il silenzio, ma quasi subito si apre la porta di pondo e si odono voci e passi nell’atrio, poi appare alla porta di sinistra Kleinert che sostiene Rosa, sof­ ferente. (debole, affaticata) Non c’è nessuno in casa... è tutto buio. kleinert Ora non ti posso lasciar così sola. ROSA Perché no, Kleinert? Non ho niente!... kleinert A chi vuoi farlo credere che non hai niente? Se così fosse, non ti avrei raccolto laggiù in questo stato. rosa No, credetelo, è stato solo un capogiro!... Dav­ vero! Ora va bene... non ho più bisogno di voi. kleinert No, no, figliola mia, così non va... rosa Ma sì, papà Kleinert. Vi ringrazio di cuore, mi va discretamente... non ho niente! Sto già meglio! Son cose che capitano... ma non c’è da darsene pen­ siero... kleinert Tu eri mezzo morta, là dietro i salici, e ti contorcevi come un verme! rosa Kleinert, andate pure per i fatti vostri, io accen­ do subito il lume! Devo accendere il fuoco... andate pure... ormai non tarderanno a venire a cena... Ah, Kleinert... come mi sento stanca... orribilmente spos­ sata... da non credersi... kleinert E pretenderesti d’accendere il fuoco? Non è affare per te... tu dovresti andare a letto. ROSA

ROSA BERND

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Kleinert! andate via, andate... Se il babbo... se Augusto... non devono saper niente... fatemi la cari­ tà... non fatemi questo torto... kleinert Ti pare che voglia farti del male? rosa No, no, lo so bene. Voi foste sempre buono con me... (Si è alzata dalla sedia accanto alla porta, sulla quale entrando era piombata, prende il lume dietro la stuja e l’accende) Vedete? sto già meglio... non ho più nulla! sono nuovamente in piedi! non ho niente... potete andar tranquillo! KLEINERT Lo dici tu. ROSA Perché è proprio così. rosa

Marta, a braccia nude e scalza, torna dai campi.

Ah, ecco anche Marta! Rosa, sei tu? Dove sei stata tutto il giorno? rosa Mi son sognata ch’ero stata al tribunale. kleinert Al tribunale c’è stata veramente! Marta, pen­ sa un po' a tua sorella, almeno finché viene il bab­ bo... questa figliola non sta bene. ROSA Marta, fa’ presto! Accendi il fuoco, che si possa­ no metter subito le patate... Dov’è il babbo? Marta Al podere d’Augusto. rosa E Augusto ? Marta Non so dov’è. Oggi non è stato nei campi. rosa Hai patate novelline? Marta Ne ho pieno il grembiule. (Scuote il grembiule e lascia cadere a terra le patate, presso la porta della cucinai) rosa Porta un catino e una pentola, che comincerò subito a sbucciarle; io da me non li posso prendere. kleinert Di’ su, devo ordinarti qualche cosa, dove che sia?... rosa

MARTA

ROSA BERND

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Dove? Dal becchino forse? È inutile, papà Klei­ nert, per me no. Per me c’è un pezzo di terra a parte. kleinert Ebbene, addio ! rosa Addio ! Marta Tornate, padrino Kleinert! rosa

Kleinert sempre con la pipa in bocca, scuote la testa ed esce.

Marta (mentre accende il fuoco) Ti senti male, Rosa? rosa Oh, no, mi sento bene (volgendo le mani giun­ te al crocifisso, sottovoce) Gesù, Maria! abbiate pietà di me! Marta Rosa ! rosa Che vuoi ? Marta Ma che hai ? rosa Niente, portami la pentola e le patate. Marta (ha acceso il fuoco e poi viene con un catino pieno di patate. Dentro al catino sta pure un coltello) Ah, no! Rosa, mi fai paura! Mio Dio, che aspetto hai ! rosa Che aspetto ho? Di’ su. Come! ho forse qual­ cosa alle mani? C’è qualcosa che mi brucia, negli oc­ chi? Mi sembra tutto così fantastico... (Con un riso convulso) Mi passano davanti come delle ombre! Ec­ co, ora non vedo il tuo viso... ora vedo una mano sola!... Ecco là due occhi!... ora vedo puntini che sal­ tellano... Marta, mi pare di diventar cieca!... MARTA Rosa, a te dev’esser capitato qualche cosa!... rosa Dio ti guardi da quello che m’è capitato... au­ gurati piuttosto di morire prima del tempo ! perché già, anche quand’uno muore a tempo, si dice che ri­ posa in pace... almeno non si affatica a respirare... a

ROSA BERND

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vivere... come ha fatto Kurt Flamm?... Non so... mi gira la testa... me ne sono scordata... ho scordato tut­ to! come pesa la vita! Durasse così... almeno non avessi a svegliarmi mai più! Marta (sgomentò) Oh, tornasse il babbo ! ROSA Marta, vieni qui!... Stammi bene a sentire! Tu non hai da dire al babbo che sono stata qui... o che son qui... Ricordati bene, Marta, ricordati... me lo prometti? Io per amor tuo ho fatto tante cose... pen­ saci, Marta... Tu non te ne sei ancora scordata... ora che si fa tutto buio... intorno a me... Marta Vuoi un poco di caffè? Ce n’è ancora un po­ co in caldo. Rosa, tu mi fai paura! rosa Non aver paura; voglio salire in camera... sdraiar­ mi un poco sul letto, tranquilla... Del resto, mi sento abbastanza bene... non è altro... Marta E al babbo non devo dir niente? rosa Neanche una parola! Marta E neppure ad Augusto? rosa Nemmeno una sillaba... Bimba, tu non hai cono­ sciuto la mamma... io ho penato assai per allevarti... Quante notti ho vegliato al tuo letto perché eri gra­ vemente malata ! Non ero neppur cresciuta quanto te, che mi sono stroncata a portarti... perché non volevi stare che in collo... Ma se tu mi manchi di parola ora... fra noi è finita! MARTA Rosa, non c’è mica niente di male? Non c’è nessun pericolo, voglio dire... rosa Non credo! Vieni, Martuccia, prendimi su, aiu­ tami un pochino... Si è troppo abbandonati, a que­ sto mondo! Come ci si sente soli, qui! Almeno si avesse qualcuno... si è troppo soli sulla terra!... (Rosa esce, sostenuta da Marta, per la porta dell’atrio.)

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ROSA BERND

Per qualche istante la scena resta vuota, poi compare dalla porta della cucina Bernd, posa un paniere e una zappa in un angolo e con aria grave osserva tutto in­ torno a sé: intanto rientra Marta.

MARTA

Siete voi, babbo? Non c’è l'acqua calda? Eppure sai bene che debbo fare il bagno ai piedi... Rosa non c’è? Marta Ancora no. BERND Come? Non è ancora tornata dal tribunale? Mi pare impossibile, son quasi le otto... E Augusto, s’è fatto vedere qui? Marta Ancora no. Bernd Neppure lui? Allora può darsi che sia da Au­ gusto!... Hai visto, Marta, che nuvoloni c’erano, ver­ so le sei, dalla parte dello Streitberg? Marta Certo! S’era fatto quasi buio... BERND E diverrà anche più buio!... Accendi il lume a petrolio, e mettimi a posto la Bibbia... La cosa più importante è di tenersi sempre pronti... Marta! Pensi anche tu sempre alla vita eterna? affinché tu possa in qualunque momento presentarti al giudizio del Si­ gnore?... Son pochi, purtroppo, quelli che ci pensa­ no... Poco fa, mentre venivo a casa, lungo lo stagno, ho sentito qualcuno che mi gridava dietro!... Quan­ do mai sono stato uno sfruttatore? Eppure quello urlava e borbottava proprio : Sfruttatore ! Io non ho fatto mai altro che il mio dovere! Ma già la turba dei Cora, rivive dappertutto... Per esser benvisti, bi­ sogna fingere, chiudere gli occhi agli imbrogli della gente!... Io mi tengo al nostro Signore Gesù. Tutti gli uomini hanno bisogno di protezione... Fare il be­ ne non basta! Se Rosa lo avesse sempre tenuto pre­ sente, forse non saremmo mai arrivati a tutte queste BERND

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tribolazioni... e a tante altre cose gravi e amare... {Vedendo aprirsi la porta) Chi è là?... gendarme {avanzandosi) Ho qui una commissione... dovrei parlare alla sua figliola... Bernd Quella maggiore ? gendarme {leggendo sul foglio) A Rosa Bernd! Bernd Ma non è ancora tornata dal tribunale... Non potrei darle io questa lettera? gendarme No, e poi devo fare io stesso delle indagi­ ni; tornerò domani, verso le otto. Augusto entra concitato.

Bernd

Ecco qua anche Augusto. Rosa non ce? bernd No, anche il signor brigadiere chiedeva di lei ; credevo che foste insieme... gendarme Debbo fare delle indagini sopra un dato punto, e poi ho qui una carta... AUGUSTO E sempre, eternamente, la faccenda di Streck­ mann! Non basta che ci abbia rimesso un occhio!... ora ci hanno da essere anche le seccature... Questo, Dio mi perdoni, non finisce più!... gendarme Buona sera! Domattina alle otto! {Escei) augusto Marta, va’ un momento in cucina! Papà Bernd, ho qualcosa da dirvi! Va’, Marta, e chiudi la porta... Marta, sai niente di Rosa? Marta No, niente! {Fa un cenno di segretezza ad Au­ gusto e gli mormora) Augusto, ti ho da dire una co­ sa. {Esce per la porta della cucinali) augusto Chiudi la porta, figliola, ora non ho tem­ po... {Chiude lui stesso la porta) Babbo, bisogna che voi ritiriate la querela! bernd Tutto, ma questo no! augusto

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augusto

Non è da buon cristiano! Voi la dovete ri­

tirare ! Bernd Io non credo che non sia da buon cristiano. E perché dunque? Non è un’infamia, una viltà, deni­ grare l’onore d’una ragazza come quella? È un de­ litto che dev’essere punito. augusto Come ve l’ho a dire?... Papà Bernd, in que­ sta faccenda avete corso troppo... Bernd Lo esigeva la mia povera moglie che mi aspet­ ta al cimitero. Lo esigeva il mio onore e l’onore di mia figlia e per di più il tuo. augusto Papà Bernd! papà Bernd! come posso aver coraggio a parlare... se siete così irremovibile! Voi avete parlato di tanti onori... Qualche volta non bi­ sogna badar tanto al proprio onore, ma a quello di Dio. Bernd Qui è un altro paio di maniche... l’onore di una donna è anche l’onore di Dio... Oppure hai qual­ cosa da dire sul conto di Rosa?!... augusto Ve l’ho già detto... io non mi lamento. bernd Oppure c’è da rimproverarle qualche cosa ? augusto In questo voi mi conoscete abbastanza... pri­ ma che io mi scosti dalla retta via... bernd Ah! dunque! lo so; ne ero convinto... Qua la giustizia deve fare il suo corso... augusto {asciugandosi il sudore dalla fronte) Se al­ meno si sapesse dov’è Rosa! bernd Chi lo sa? È già tornata da Striegau?... augusto Un interrogatorio non dura mica tanto! alle cinque voleva essere a casa. bernd Avrà preso l’occasione per comprare qualche cosa, non aveva da fare spese?... Mi pare che vi ab­ bisogni ancora della roba... augusto Ma non aveva quattrini con sé, e quel poco che ci occorre ancora per la bottega, la stoffa per le

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vetrine e per la porta, abbiamo da comprarla insie­ me... Bernd Io credevo che venisse con te. augusto Le sono andato incontro per più d’un miglio, ma non l’ho vista, né ho saputo niente di lei. Inve­ ce ho incontrato Streckmann. BERND Che è come incontrare il diavolo. augusto Ah, babbo! Quell’uomo ha moglie e figli! Che colpa ne hanno loro dei suoi peccati ? Che me ne viene se va in prigione? Quando uno si pente, io non domando di più. BERND Quel birbante pentirsi? Hai voglia!... augusto Però lo mostra... BERND Gli hai parlato? augusto Lui è stato il primo. Camminava accanto a me, e per quanto fosse lunga e larga, per la via non si vedeva un’anima... infine mi ha fatto pena, non he potuto farne a meno. Bernd E gli hai risposto?... e che diceva? augusto Diceva che voi dovete ritirare la querela... Bernd Prima di tutto io non sono un santo! Se si trattasse di me, non me ne curerei, io posso soppor­ tare... e magari riderci sopra..., sono un uomo e cri­ stiano per giunta, ma coi figlioli è un’altra facenda. Come potrei aver il coraggio di guardarti in faccia, se le lascio questa macchia addosso? E poi, è appunto dopo la tua tremenda disgrazia! Credi, Augusto... così non va... non può andare... Tutti ci sono stati alle calcagna, perché vivevamo diversamente dagli altri! Tutti ci han chiamati bigotti, ipocriti, collitorti... e cose simili; tutti ci volevano tagliare i panni addos­ so... Che bel gusto sarebbe ora per loro!... Del resto, Rosa è stata educata a modo... nel timore di Dio, pie­ na di voglia di lavorare... che quando un cristiano la sposi, gli può metter su una casa a modo... Così

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stanno le cose, così te la consegno... e io dovrei la­ sciarla contaminata da quel veleno?... Preferirei man­ giare la paglia prima di riaccettare un boccon di pane da te! augusto Papà Bernd! Dio si manifesta in molti mo­ di. Egli ci manda ogni giorno delle prove... e l’uomo non deve farsi giustizia da sé. Se anche lo volessi, non potrei dirvi diversamente! Io non posso risparmiarvela più... babbo... la nostra Rosa è anche lei una fragile creatura!... BERND Che intendi dire? augusto Babbo, non domandate di più... BERND (r’é seduto da una parte della tavola, sopra una sedia, in modo che il suo viso è rivolto alla parete. Alle ultime parole fissa Augusto cogli occhi spalan­ cati. Qualche secondo, poi si volge alla tavola, sulla quale, con mano tremante, apre la Bibbia e ne spoglia convulsamente le pagine a destra ed a sinistra; quindi si sofferma un istante, guarda ripetutamente Augusto, infine congiunge le mani sul libro e vi lascia cader sopra il capo, mentre il suo corpo è agitato da un for­ te tremito; così rimane qualche minuto, poi si leva nuovamente') Ma no! Io non ti ho capito bene! Vedi un po’ se ti ho capito... dunque sarebbe proprio vero? Allora, non saprei... Mi vengon le vertigini... dunque io dovrei essere stato cieco e sordo?... No, Augusto, non lasciarti imbrogliare da Streckmann! Per lui tutti i mezzi sono buoni. È in trappola, sta per pagare... e ora vorrebbe in qualunque modo uscirne! Per questo ti mette contro quella figliola! No, Augusto! Da qui si vede la sua malvagità. Le è corso dietro abbastanza a quella infelice... Se non va in un modo, deve an­ dare nell’altro... ora vuol fare in maniera, se gli rie­ sce... di farvi separare. Non sarebbe la prima volta che quelli che Dio aveva destinato l’uno per l’altro,

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si sono divisi per le male arti del diavolo. Non hanno mai visto di buon occhio che la Rosa toccasse a te... Per conto mio, non te la voglio buttar dietro... Noi abbiamo vissuto anche senza di te... Se tu però vuoi dar retta a me... io ci metterei una mano sul fuoco... augusto Ma il signor Flamm l’ha giurato. Bernd (eccitandosi) Che m’importano dieci giuramen­ ti! venti giuramenti! Vuol dire che ha giurato il fal­ so... si è rovinato per ora e per l’eternità... augusto Papà Bernd! Bernd Aspetta un minuto, prima di dir altro... Io pren­ do i libri, prendo il cappello!... stacco la cassetta delle missioni... e metto tutto insieme qui sopra, e se è vero quel che dici, corro dal signor pastore... se v’è anche una stilla di vero... e gli dico: Signor pastore... io non posso più essere custode della chiesa... non posso più amministrare la cassetta delle missioni. Addio!... E allora nessuno mi vede più qui... No, no, no! Per ca­ rità! no!... Ora racconta, su... di’ quel che hai da di­ re... ma non ti dilungare inutilmente! AUGUSTO Anch’io ho avuto la stessa idea. Rivenderò casa e campi!... Si può andare anche in un altro luogo. Bernd (con indicibile sorpresa) Casa e campi, vuoi ri­ vendere ? Augusto ! Perché questa risoluzione ? È pro­ prio... Bisognerebbe farsi il segno della croce, per quanto non si sia cattolici... Sogno o son desto? op­ pure s’avvicina la fine del mondo ! Almeno sarebbe anche la mia ultima ora! augusto Sia come si vuole, tanto io non l’abbandono! BERND Tu puoi fare quel che vuoi, ciò non mi riguar­ da! Non voglio sapere se un altro vuol tenere con sé una persona di quella sorta; quanto a me, no; io non son capace di tanto... Dunque?... augusto Io non posso dirvi altro, se non che una voi-

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ta può esserle accaduto!... che sia con Flamm o con Streckmann... Bernd Questi già sarebbero due! augusto Io non posso saperlo. Bernd Allora vado dal pastore! Spazzolami, Augusto, puliscimi un poco. È come se avessi la rogna addosso. {Esce per la porta dell’atrio.) Marta {rientra d’un salto e piena di angoscia si volge ad Augusto) A Rosa dev’essere accaduta qualche di­ sgrazia ! È di sopra, sai, ed è in casa da un pezzo ! BERND {rientra con aria spaventata) Ci deve essere qualcuno nel solaio ! Al (.usto Marta lo stava dicendo in questo momento... c'è Rosa. Marta Sentite? scende le scale... Bernd Dio, perdonami, io non la voglio vedere! {Sie­ de alla tavola, come prima, col capo appoggiato alla Bibbia e si chiude le orecchie coi pollici.)

Rosa compare sulla porta dell’atrio; ha una gonnella da casa e una camicetta di cotonina sciolta alla vita. Sta convulsamente ritta. I capelli, per metà raccolti in una treccia, per metà arruffati, pendono sul collo; nei suoi lineamenti si scorge una terribile angoscia, mista di dolore e di odio. Ella guarda alcuni istanti intorno per la stanza, il vecchio accasciato sulla sua Bibbia, Augusto che si è un poco scostato dalla porta e rima­ ne fermo come se guardasse dalla finestra; poi, men­ tre cerca un appoggio, comincia a parlare con forzata energia. Buona sera a tutti!... Buona sera! {dopo qualche esitazione) Buona sera! rosa {con amarezza) Se non mi volete qui, me ne tor­ no via!

rosa

augusto

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{freddamente) E dove vuoi andare? dove sei stata ? ROSA Chi molto domanda... molto riesce a sapere! Spesso più di quel che vorrebbe; Marta, vieni un poco qui da me.

augusto

Marta le si avvicina. {che si è seduta vicino alla stufa, prende la mano di Marta) Che c’è col babbo? MARTA {interdetta, paurosa, sottovoce) Non lo so. ROSA Che ha il babbo? Puoi dirlo più forte! E tu, Au­ gusto? Che avete? Tu avresti veramente ragione di disprezzarmi! Questo non lo nego! augusto Io non disprezzo nessuno a questo mondo. ROSA Ma io sì, tutti! tutti insieme! augusto Non capisco quel che dici! rosa È oscuro? Lo so anch’io che è oscuro! tanto da far urlare le belve!... Ma dopo... ad un tratto... tor­ na la luce... Allora uno capisce... quali sono le pene dell ’ inferno !... Marta ! BERND {che ha ascoltato, si alza, stacca la mano di Mar­ ta da quella di Rosa) Giù la mano! Non avvelenar­ mi anche questa! {A Marta) Marsch! in camera, a dormire! {Marta esce piangendo.) Bisognerebbe non sentire, non vedere!... Morti bisognerebbe essere! {S’immerge di nuovo nella letura della Bibbia.) rosa Io son viva, babbo! io siedo qui!... lo vedete? e se io siedo qui, è già qualche cosa... Io pensavo, babbo, che avreste dovuto vederlo!... Quello è un mondo!... e invece siete là sprofondati... nella Bib­ bia... e non potete farmi più nulla!... Voi vivete tutti chiusi in una stanzetta... e non sapete niente di quel che accade fuori! Ma io ormai lo so... l'ho imparato fra gli spasimi! Allora son caduti tutti i veli davanti ROSA

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ROSA BERND

a me... io ero là, sola, in mezzo alla bufera... e nes­ suno m’è venuto a soccorrere... Al confronto, crede­ telo... voi siete bambini innocenti! augusto Ebbene, Rosa, se è vero quello che Streck­ mann ha detto, tu avresti giurato il falso. rosa {con un riso amaro) Io non lo so!... tutto è pos­ sibile!... io non mi raccapezzo! il mondo è fatto di menzogne e d’imbrogli... BERND {sospirando) Signor Iddio, tienimi le tue sante mani addosso... augusto Questo è il peso che dai al giuramento? ROSA Non è niente! niente! E che dovrebbe mai es­ sere?... Il male c’è... è là fra i salici! Quello impor­ ta!... Il resto è come niente! Là ho invocato il cielo! ho gridato, ho chiamato! Nessun Padre Eterno s’è mosso. Bernd {spaventato, tremando) Bestemmi anche il Si­ gnore? A questo sei arrivata? Non ti riconosco più! rosa {gli si avvicina trascinandosi sulle ginocchia) Proprio a questo punto! E voi mi conoscete, babbo... mi avete dondolata sulle ginocchia... e io vi ho cu­ rato quando eravate malato. Ora per quanto ci si sia schermiti... è capitata addosso a tutti noi. BERND {scosso) Che vuol dire? rosa Non lo so! non lo so! {Rimane tremante in gi­ nocchio guardando a terrai) augusto {straziato e vinto) Rosa, alzati, io non t’ab­ bandono! Alzati, io non ti posso vedere così... noi uomini siamo tutti peccatori... Chi si pente così, deve essere perdonato! Alzati, Rosa! Babbo... noi non sia­ mo di quelli, almeno io; alzatela voi. Io non so fare il fariseo... Non vedete come è straziata! Avvenga quello che vuole io resto con te. Io non voglio eri­ germi a giudice. Neanche Gesù ha giudicato!... Lui sopportò veramente le nostre pene, mentre la gente

ROSA BERND

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credeva che il punito del cielo fosse lui ! Forse anche voi avete commesso qualche errore! Ho riflettuto; io non mi assolvo. Prima che mi avesse conosciuto, ha dovuto dare il suo consenso. Che importa il mondo? Io non me ne curo. rosa Augusto ! Credi ! si sono attaccati a me come le lappole, non potevo più neanche andare per la via... che tutti gli uomini mi venivan dietro... Mi sono na­ scosta... ho avuto paura. Avevo un tale orrore degli uomini... Eppure non è valso a nulla! È stato sem­ pre peggio! Poi son caduta da una trappola nell’altra, tanto che ho perduto la tramontana. BERND Una volta tu avevi ben altri principi. Hai con­ dannato la Leichner e sprezzato la Kaiser... e gridavi : A me non la si fa! Hai schiaffeggiato il garzone del mugnaio... e dicevi... quando una ragazza fa certe co­ se, non merita compassione, deve andare a impiccarsi. E oggi vieni a parlare di trappole!... rosa Ora ho capito... augusto Avvenga quel che vuole, io resto con te, Ro­ sa; vendo il podere e ce ne andiamo per il mondo... Ho uno zio in Brasile... ci sosterremo l’uno con l’al­ tro... in ogni cosa... Ora forse è proprio arrivato il momento... rosa Oh, Gesù Gesù! che cosa ho fatto? Perché mi sono trascinata sino a casa? Perché non sono rimasta laggiù dalla mia creatura?... augusto Rimasta con chi?... rosa {alzandosi) Augusto... per me è finita! Prima uno se lo sente bruciare in corpo come un ferro rovente... poi viene una specie di delirio... e poi una speranza... e allora si corre come una gatta, col gattino in boc­ ca!... e i cani ti si sguinzagliano addosso!... BERND Ne capisci nulla, Augusto? augusto Di questo, no!

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Bernd Sai quello che provo? mi pare che ogni mo­ mento mi si schianti qualche cosa dentro... e che un nuovo abisso mi si apra dinanzi... Che s’abbia a sen­ tire anche di peggio?... rosa Una maledizione! Una maledizione sentirete!... Ah, ti vedo! Ti ho preso!... Sei venuto, finalmente, al tuo tribunale... io ti strapperò la lingua insieme al­ le ganasce. Tu mi risponderai ! Devi rispondere. augusto Di chi parli, Rosa? ROSA Lo sa colui che intendo. {Un grande spossamento la invade, si che quasi esaurita cade su di una sedia. Lunga pausa.) augusto {avvicinandolesi premurosamente) Cos’hai? Che ti prende? A un tratto... rosa Non lo so ! Oh, se m’aveste interrogato su que­ sto un poco prima; forse... oggi che ne posso sape­ re?... Nessuno mi ha voluto abbastanza bene. augusto Chi sa quale amore è più forte... se quello felice o quello disgraziato... rosa Forte? Io sono forte! io sono stata forte! Ora sono debole... Ora sono alla fine!... gendarme {entrando, con voce tranquilla) La ragazza deve essere in casa! Il vecchio Kleinert m’ha detto che era già qui. augusto E infatti c’era... ma noi non si sapeva. gendarme Perciò preferisco sbrigarla subito. C’è qual­ cosa da firmare, qui... {Posa alcune carte sulla tavola senza che tuttavia, a causa della poca luce, abbia po­ tuto scorgere Rosa.) augusto Rosa, c’è qui da firmare!

Rosa risponde con una risata isterica, ironica, terribile. gendarme

ridere.

È lei? Prego, signorina, non c’è niente da

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Non potrebbe aspettare ancora un momento? E perché? rosa {cogli occhi ardenti, pieni di odio) Avete stroz­ zato il mio bambino! augusto Che dici? Che dici, per amor di Dio!... gendarme {leva la testa, osserva attentamente e prose­ gue come se nulla avesse udito) Deve essere per la causa Streckmann. rosa {come sopra, urlando) Sì, Streckmann! Lui ha strozzato il mio bambino! rosa

augusto

BERND

Figliola, sta’ zitta, tu sei pazza!...

Ma se lei non ha bambini!... Allora come avrei fatto a strangolarlo con le mie mani? Il mio bambino l’ho strozzato io!... gendarme Ma che, è proprio pazza? Che le ha pre­ so?... rosa Io non sono pazza... so quello che dico!... {Con singolare ferocia) Non doveva vivere!... io non lo vo­ levo... che non avesse a sopportare i miei martiri... Doveva restare dov’era. augusto Rosa, rientra in te stessa..., non ti tormenta­ re così! Non sai quello che dici... Tu ci fai tutti in­ felici ! ROSA Voi non sapete nulla, non vedete mai nulla... Pur cogli occhi aperti, non avete visto nulla! Lui però può vederlo dietro ai salici, presso gli ontani... die­ tro i campi del parroco... lungo lo stagno... laggiù può vederla, la creaturina! bernd Avresti fatto una cosa così orribile? augusto Commesso un così orrendo delitto?... gendarme rosa

Rosa sviene, gli altri si guardano esterrefatti, perples­ si. Augusto sorregge Rosa e cerca di aiutarla.

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ROSA BERND

II meglio è che veniate all’ufficio; là potrà confessare francamente... Se non sono che fantasie, sa­ rà meglio per lei. augusto (commosso, come se gli uscisse dal profondo dell’anima) Non sono fantasie, purtroppo, brigadiere! Quanto deve aver sofferto questa ragazza!

gendarme

20.

Titolo originale: GABRIEL SCHILLINGS FLUCHT

Traduzione di Pietro Ottolini ed Emilio Thieben Prima edizione: Berlino 1912 Prima edizione italiana: Roma 1914

Premessa

Il presente dramma fu scritto nel 1906. Ho temuto più che desiderato la rappresentazione; perciò questa non ha avuto luogo. Oggi non metterei il dramma sulla tavola del gioco d’azzardo di una première. Non è una cosa per il grande pubblico, ma piuttosto per la pura passi­ vità e interiorità d’una cerchia ristretta. Un’unica rap­ presentazione, data alla perfezione, in un teatro inti­ mo : ecco il mio inesaudibile desiderio.

Taluni assicurano di aver incontrato Eunosto, mentre correva al mare per fare un bagno, perché una donna aveva messo piede nel suo santuario. Plutarco, Scritti morali

Personaggi

GABRIELE SCHILLING EVELINA

IL PROFESSOR MAURER

LUCIA HEIL

pittore sua moglie scultore e acquafortista violinista

ANNA ELIAS

SIGNORINA MA J AK IN DOTTOR RASMUSSEN

KLAS OLFERS KÜHN

oste falegname

l’apprendista SCHUCKERT

MATTIA

pescatori

Pescatori, le loro donne, i loro bambini Il dramma si svolge a Fischmeisters Oye, un’isola del mar Baltico. Verso il 1900.

Atto Primo

La spiaggia. In jondo il mare, nella luce crepuscolare d’un limpido giorno dell’agosto morente. A destra la tettoia d’una stazione di salvataggio, il cui muro è decorato con la polena d’una galea incagliata. Essa è di legno dipinto e rappresenta una donna, dalle gonne rigonfie, la cui testa è ripiegata all’indietro cosi da sembrar offrire il viso pallido al cielo in ab­ bandono estatico. 1 lunghi capelli neri sono sciolti e le scendono alle spalle. Sulla spiaggia, all’asciutto, una barca di pescatori. A sinistra, sulla duna, di fron­ te alla tettoia, l’albero dei segnali, con scale di cor­ da eccetera. Una giovane donna, in bianco abito estivo, è sdraiata fra la tettoia e l’albero su una bassa duna e legge un libro: è Lucia Heil. Da destra viene il falegname Kühn, uomo di circa 45 anni, seguito da un apprendista. Entrambi portano grembiuli turchi­ ni e sono a capo scoperto. Kühn saluta Lucia, l’ap­ prendista sogghigna verso di lei. Presso la parete di fondo della tettoia, una catasta di tavole d’abete. Kühn ne carica due sulle spalle dell’apprendista che esce. Dunque è venuta anche quest’anno, signorina? Si capisce, mastro Kühn. kühn Lei arriva sempre con gli uccelli migratori. Quando quelli fanno qui la loro prima fermata, ec­ co, viene anche lei. KÜHN Lucia

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LA FUGA DI GABRIELE SCHILLING

Proprio così. Noi aspettiamo sempre che il professor Mau­ rer si decida finalmente a fabbricarsi una casetta sul­ la nostra isola. lucia L’autunno scorso c’è mancato poco : ma il pro­ prietario del mulino alzava i prezzi in modo impres­ sionante. kühn Che gente stupida! Non sanno quello che rifiu­ tano! Sarebbe un gran vantaggio per tutti, che un uomo come il professor Maurer si stabilisse nella nostra isola. lucia Ah, ma guai se l’isola diventasse troppo cono­ sciuta! Tutta la popolazione delle città grandi vi si riverserebbe, e allora addio bellezza ! kühn Dica, signorina; è suo zio il professore? lucia {ridendo divertita) No, mastro Kühn, sono io sua nonna! lucia

kühn

Il prof. Maurer viene dalla spiaggia attraverso le du­ ne. È un uomo di media statura, di circa 36 anni, biondo, con una barbetta biondo-rossastra; i suoi ca­ pelli sono tagliati corti seguendo la forma del cra­ nio. La fronte è larga. Un’espressione d’una certa fur­ beria ridente vivifica talvolta la serietà arguta dei suoi occhi dietro gli occhiali d’oro. Ë vestito assai sem­ plicemente. Un cappello a cencio, un mantello blu, un bastone ricurvo al braccio. Tiene un libro in-quar­ to legato in pergamena.

Buongiorno, mastro Kühn. kühn Buongiorno, professore. Ben arrivato nella no­ stra isola. mäurer Sia ringraziato il cielo, mastro Kühn, ne ave­ vo un gran bisogno questa volta. mäurer

LA FUGA DI GABRIELE SCHILLING

kühn

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Lo so, lo so; anche noi l’abbiamo letto sul gior­

nale. mäurer

{sorridendo')

E che cosa avete letto sul gior­

nale ?

Della bella statua di Brema. Ah sì ! ne ho avuto del lavoro per quella sta­ tua! Potete crederlo. Sono contento di essermela tolta di dosso. kühn E vuol già fare un viaggio in Grecia! mäurer II giornale ha pubblicato anche questo? kühn Sicuro! Ci sono delle grandi cave laggiù e lei vuole andare a cercarvi dei blocchi di marmo per le sue statue. mäurer Via, via! Adesso sono qui. Mi è già acca­ duto qualche volta a Berlino di entrare in un’oste­ ria a bere un buon gotto di vino e di leggervi che mi trovavo a Costantinopoli a fare il ritratto della figlia del sultano. {Cambiando discorso) Be’! e di chi è questa polena? KÜHN L’ha gettata sulla spiaggia due anni fa una tem­ pesta. mäurer Mi piace. La comprerei volentieri. kühn Si rivolga a Schuckert. Credo sia lui che l’ha trovata. mäurer Che sarebbe il giovane Schuckert? KÜHN Appunto. Sa, dagli Schuckert lei trova sempre di questa roba. Una volta il vecchio ha cavato dal­ l’acqua un grosso braccialetto d’oro. Vuole che gliene parli ? mäurer Sì, mastro, mi farebbe un favore. kühn Sa : c’è una storia curiosa a proposito di quella statua. Il giovane Schuckert, due o tre giorni prima, quando il tempo era bellissimo, ha visto in sogno il brigantino danese dal quale probabilmente la polena proviene e che è naufragato là fuori.

kühn

mäurer

566

LA FUGA DI GABRIELE SCHILLING

(đ Lucia) scienza ottica?

mäurer LUCIA

Hai mai sentito parlare di pre­

No.

In Iscozia la chiamano second-sight. Ah sì, la seconda vista. mäurer Ecco. Vedere, per esempio, i propri funerali. kühn Grazie a Dio questo a me non capita, per quan­ to abbia sempre a che fare con casse da morto ! mäurer Ê morto qualcuno? kühn No, per il momento nessuno; ma la scorta è necessaria. (5z carica due tavole sulle spalle per par­ tire) Addio, professore. mäurer Arrivederci, mastro Kühn. {Kühn esce) Eb­ bene, ciabattinetta, sono molto sopreso di vederti qui. LUCIA E anch’io! Credevo che tu fossi al sud! e per questo son venuta al nord! Non avevo nessuna in­ tenzione di farti la posta. mäurer Ah davvero? Sei un modello di donna!... Del resto... ho avuto anch’io stanotte la seconda vista... e ho voluto spiarti su quest’isola verde... Che cosa leg­ gi·’ Lucia Indovina. mäurer Non è difficile : le poesie della Droste. Da quanto tempo sei stesa qui, piccina? LUCIA Ah, già da parecchio... A chi somiglia quella polena? mäurer {guardando la polena) Non saprei... A tua madre? LUCIA Ma certo, a mia madre. mäurer Uhm, non direi. LUCIA Anch’io forse non l’avrei trovata questa ras­ somiglianza. Ma ho sognato mia madre e l’ho vista sulla spiaggia di notte, col braccio nudo, un vezzo al collo e una corona sulla testa... proprio come in queMÄURER LUCIA

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sta statua... Sai, in quest’isola faccio dei sogni molto vivi... e anche di giorno... alla luce, ho la testa calda e sono costretta a ricordarmi dei fantasmi della notte. MAURER (sorridendo) Malgrado questo è un paese di­ vino. Proprio oggi ho vissuto ore incomparabili. Che chiarezza, che onde di luce! E aggiungi la libertà di camminare su quel piano verde senza sentieri, e il gusto di sale sulle labbra, e il fragore del mare che commuove fino alle lacrime. Guarda dietro i miei occhiali : ne troverai qualcuna. Qualche cosa di pie­ no, di luminoso, di maestoso. Musica e pittura! È magnifico ! Lucia Avrai avuto certo ispirazioni interessanti! (Pren­ de il suo libro di schizzi.) Maurer Niente, parola d’onore : non ho tracciato nem­ meno una linea. Mi pare una profanazione segnare dei tratti davanti alla grandezza della natura... Di’, l’ho data a te la lettera di Schilling? Lucia Sì, ma stamattina te l’ho resa. Maurer (fruga nelle tasche e trova la lettera) Già, è vero! Si è incrociata col mio telegramma. Sarei mol­ to contento se Schilling trovasse un giorno l’energia di togliersi dalla sua miseria. Lo credi possibile se­ condo questa lettera? Tu sei molto fine in queste cose, ciabattinetta. Lucia (scrollando le spalle) Sì, dalla lettera lo credo possibile. Ma, con sicurezza non si può predir nien­ te, se si considerano le sue condizioni. Adesso pare che sia in crisi. Ma tu stesso ricordi che già altre vol­ te i suoi rapporti con Anna Elias sono stati in crisi, e poi, con nostro gran rincrescimento, si son ricon­ ciliati. Lo sai di che mezzi lei dispone. Quando vuole che rimanga, si mette a letto e si fa venire un’emor­ ragia al naso che le dura quattro settimane. mäurer È una donna che non posso tollerare. Io non

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sono per niente nemico delle donne, e Dio lo sa se io desidero che tutte siano oche; ma quest'Anna mi fa proprio inferocire. Quando la vedo con la sua tinta cadaverica, non capisco come possa tirare in­ nanzi e spero che stia per morire ad ogni momento. Neanche per sogno ! Continua a vivere, non pensa af­ fatto ad andarsene, e magari ci seppellirà noi tutti ! LUCIA Ah, non ci sarebbe niente d’impossibile! mäurer Dio me lo perdoni. Se non c’è nessuna spe­ ranza che se ne vada al Creatore, e presto, bisogna fare qualche cosa per Schilling. Un ultimo tentativo senza nessun riguardo. È troppo buono per appic­ carsi a quel laccio. LUCIA Chissà, forse il tuo telegramma è arrivato in buon momento. mäurer Strano ! Un uomo tranquillo, semplice, che pareva più sicuro, più solido di noi, viene strappato alla sua strada da quella donna. Quando essa è ap­ parsa la prima volta, io pensavo il contrario. Il suo matrimonio con Evelina era stato uno sproposito. Egli l’aveva sposata, così, perché, indifferente a tutte le cose esteriori, si accontentava che lo lasciassero di­ pingere tranquillamente. E ad un tratto si è visto ri­ dotto alla funzione borghese di colui che deve man­ tenere una famiglia! Anna aveva più fascino, più indipendenza; così da principio, ho creduto che rap­ presentasse per la sua arte il rinascimento dei quarant’anni. E invece compromette tutta la sua esisten­ za di artista e di uomo. Lucia Come l’altra, vedi, essa è pigra quanto un'o­ rientale! Donde risulta che le donne che non hanno niente da fare fanno solo del male. Per questo mi sono proposta, vedi, quest’inverno, di consumare una grande quantità di colofonia per l’arco del mio vio­ lino.

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Hai visto, là, sui tetti di paglia delle capan­ ne dei pescatori, quante migliaia di storni e di rondi­ ni? Che vita, che animazione! Che volontà di par­ tenza! È incantevole! Quest'esempio non scuote for­ temente anche te? LUCIA Quando io posso starmene al mare, con te, so­ la, in un sito nascosto, dove nessuno ci disturba, lo sai, io non ho bisogni : sono felice. Sai che cosa mi ha domandato mastro Kühn? mäurer Be’ ? Lucia Sciocchezze! Se sei mio zio! Ah! ah! E gli ho risposto che sono io tua nonna ! mäurer L’uomo è curioso come il diavolo ! Ma non prendertela, ciabattina. I pettegolezzi si rendono in­ nocui disprezzandoli. Senti invece quello che ho de­ ciso... Vedi, di fronte al buon Schilling, la mia co­ scienza non è troppo pulita. I giudizi morali non sono che una comodità del nostro spirito. E io mi sono reso colpevole di questo, di fronte a lui, il gior­ no che non ho potuto più capire bene il suo modo d’agire. Vorrei ricompensarlo adesso, se fosse possibi­ le. Ma forse non è che un inganno di me stesso. Forse è che mi sento di buon umore e vorrei accre­ scere il suo benessere... Lucia Tutto sommato, non sei proprio un cattivo sog­ getto. mäurer Almeno, non peggiore degli altri. A Schil­ ling, vedi, è mancato sempre quel gruzzoletto che, come dicono i pescatori, deve stare sempre ai piedi dell'albero maestro. Altrimenti avrebbe fatto una mi­ gliore navigazione! E purtroppo, in questioni di de­ naro non si è troppo generosi quando non se ne ha in abbondanza. Ma adesso, dal momento che i bremensi non sono stati avari con me, voglio riparare. Mi accompagnerete in Grecia voi due.

mäurer

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Lucia {allegra) Magnifico! I tuoi occhiali brillano già, soltanto a dirlo, e i tuoi capelli sono come una fiam­ ma su un altare delfico. mäurer E voglio farti subito da profeta, allora. Ti giuro che Schilling verrà. Lucia Anch’io lo credo. Anzi, ti confermo che lag­ giù, in un sentiero lungo il mare, egli appare già alla mia seconda vista. mäurer {scrutando Γ orizzonte) Ah sì, un uomo corre a questa volta. LUCIA II vaporino da Stralsund si è fermato dieci mi­ nuti fa a Grobe. Eccolo, è lui! mäurer Corre come un indemoniato. Eh, potrebbe es­ sere proprio Schilling, col suo sacco alle spalle e la cassetta dei colori! {Grida) Ku-u-i! Ku-u-i ! LUCIA Per il primo incontro sarà meglio che vi lasci soli. mäurer {continua a guardare, estrae il fazzoletto, lo agita e grida) Ku-u-i! LUCIA {che si è già allontanata) Ma che grido è que­ sto ! Mäurer Ku-u-i ! È il grido degli ottentotti ! Lucia Si ferma! {Per partire) Addio! mäurer Addio, piccina, addio ! Abbrevierò la strada andandogli incontro. Se non è lui ti raggiungerò. {Corre vial) LUCIA {a destra, lo segue con lo sguardo, poi a un tratto ritorna correndo e s’arrampica di qualche gradino sulla scala di corda dell’albero dei segnali e in questa posi­ zione agita il fazzoletto gridando) Ku-u-i! ku-u-i! Mi troverete all’osteria di Klas Olfers! kühn {entra girando la tettoia) C’è una nuova visita? Lucia Un’intera società corale, mastro Kühn, per can­ tare una serenata in onore del professor Mäurer! {Sal­ ta al basso e corre vial)

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Entra da sinistra una schiera di pescatori con calzoni rimboccati e giacche scure. Fra loro è il giovane Schuckert. I pescatori sono per lo più alti, larghi di spalle, con capelli biondi e barbe corte. Qualcuno ha nelle ma­ ni grandi stivaloni da pesca. Nei loro movimenti c’è qualche cosa di estatico. KÜHN

Schuckert !

SCHUCKERT Che cosa c’è? kühn (sì è caricato una tavola sulle spalle) Aiutami a mettermi sulle spalle un’altra tavola. schuckert (va a lui ed eseguisce) Ebbene, ecco fatto. kühn Non vorresti vendere quella roba lassù? (Accen­ na alla polena.) schuckert Ma che roba? kühn Là, la donna senza piedi. schuckert (ridendo) Eh, eh, eh! che cosa hai nel cer­ vello che vuoi comperare la disgrazia? kühn Chi dice che voglia comperarla io? È il profes­ sore forestiero che vuole averla. schuckert Ah, quello che sta da Klas Olfers? Eh, eh, perché no ? È una cosa possibile, dopo tutto ! Addio Kühn! (Vuol continuare la sua strada dopo aver cari­ cato altre due tavole sulle spalle del falegname?) kühn Senti, porta quella roba all’albergo. Non vuoi? schuckert Sì, sì. kühn II professore forestiero paga un buon prezzo, te lo dico io. schuckert Allora, probabilmente non è molto sano qui! (Si tocca la fronte. Segue gli altri pescatori e li aiuta a spingere verso il mare una barca a vela; cosic­ ché poi escono di scena dal fondo.) Kühn si accomoda le tavole sulle spalle ma gliene ca­ sca una. Subito dopo entrano Maurer e Schilling.

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