Opere di Matteo Maria Boiardo. Pastorale. Carte de Triomphi [9]

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OPERE DI MATTEO MARIA BOIARDO IX

Comune di Scandiano

Centro Studi Matteo Maria Boiardo

sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica

PIANO DELL’OPERA

I. Pastoralia • Carmina • Epigrammata a cura di Stefano Carrai e Francesco Tissoni II. Vita de alcuni electi capitani (da Cornelio Nepote) a cura di Fabio Romanini III. Amorum libri tres a cura di Tiziano Zanato IV. Asino d’oro (da Apuleio) a cura di Matteo Favaretto V. La pedìa de Cyro (da Senofonte) a cura di Valentina Gritti VI-VII. Inamoramento de Orlando a cura di Andrea Canova VIII. Historia imperiale (da Ricobaldo) a cura di Andrea Rizzi IX. Pastorale • Carte de triomphi a cura di Cristina Montagnani e Antonia Tissoni Benvenuti X. Hystorie (da Erodoto) a cura di Valentina Gritti con introduzione di Riccardo Bruscagli XI. Timone • Orphei tragoedia (attribuibile) a cura di Mariantonietta Acocella e Antonia Tissoni Benvenuti XII. Lettere a cura di Tina Matarrese

COMITATO SCIENTIFICO † Giuseppe Anceschi, Antonia Tissoni Benvenuti, Riccardo Bruscagli, Andrea Canova, Stefano Carrai, Edoardo Fumagalli, Tina Matarrese, Cristina Montagnani, † Marco Praloran, Paola Vecchi, Tiziano Zanato

MATTEO MARIA BOIARDO

PASTORALE CARTE DE TRIOMPHI a cura di Cristina Montagnani e Antonia Tissoni Benvenuti

Centro Studi Matteo Maria Boiardo

interlinea

edizioni

© Novara 2015, Interlinea srl edizioni via Mattei 21, 28100 Novara, tel. 0321 1992282 - 612571 www.interlinea.com, [email protected] Stampato da Italgrafica, Novara Finito di stampare nel novembre 2015 ISBN 978-88-8212-995-8

SOMMARIO

PASTORALE (a cura di Cristina Montagnani) Introduzione

» 11

Nota al testo

» 33

Tavola delle opere citate

» 61

Pastorale

» 75

CARTE DE TRIOMPHI (a cura di Antonia Tissoni Benvenuti) Introduzione

» 273

Nota al testo

» 285

Tavola delle opere citate

» 295

Carte de triomphi

» 303

Indice dei nomi e dei luoghi

» 345

PASTORALE a cura di Cristina Montagnani

INTRODUZIONE

«Et assomiglio quella ad un fiume rovinoso, che quando ei si adira, allaga i piani, rovina gli arbori e gli edifici, lieva da questa parte terreno, ponendolo a quell’altra; ciascuno gli fugge davanti, ognuno cede al suo furore, senza potervi ostare». Quando Machiavelli scrive il XXV capitolo del Principe, la rovinosa piena della fortuna ha già dilagato più volte attraverso l’Italia, sconvolgendo i precari assetti di fine Quattrocento, e proiettando lo scrittore e i suoi contemporanei verso scenari ignoti quanto minacciosi. D’altro canto, anche i sereni anni della politica dell’equilibrio, come ben sappiamo, furono in realtà tutt’altro che tranquilli, travagliati da guerre magari non paragonabili a quelle cinquecentesche, ma non per questo meno esiziali per gli uomini e le loro cose. Il periodo fra il 1482 e il 1484 conobbe appunto uno di questi episodi bellici all’apparenza minori, eppure funesto per gli Este e per chi negli stati estensi viveva:1 nel maggio del 1482 divampò una guerra che vide contrapporsi Venezia con alcuni alleati da una parte, Ferrara, Milano, Mantova, Bologna, Firenze e Napoli (cui nel dicembre si unì anche papa Sisto IV, inizialmente schierato a fianco dei Veneziani) dall’altra. Il conflitto prese rapidamente una piega disastrosa per le milizie di Ercole I: dopo aver sferrato nella primavera un attacco decisivo per conquistare il Polesine (i cui effetti traspaiono in PE VIII), nel luglio Roberto Sanseverino devastò le terre di Tito Vespasiano Strozzi a Ostellato (PE I, e sono i primi fatti storici riconoscibili nelle Pastorale); nell’agosto una grave pestilenza colpì le truppe ferraresi e lo stesso Ercole (PE I); a novembre, una nuova sconfitta ad Argenta, con la cattura di Niccolò da Correggio, che rimase prigioniero dei Veneziani sino alla metà di settembre del 1483 (PE IV). Solo l’arrivo di Alfonso di Calabria alla guida delle sue truppe il 14 gennaio 1483 (terminus post quem di PE II) segna il capovolgimento delle sorti dello scontro: il 1  Il contesto storico su cui si proietta l’opera boiardesca è stato indagato già in Mazzoni, poi in Tissoni Benvenuti 1995, e infine in Riccucci 2005.

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26 gennaio il duca riconquista Argenta, poi inanella nell’estate una serie di vittorie (PE X), sino alla grande battaglia sul Po del novembre, ultimo fatto storico chiaramente individuabile nelle Pastorale e terminus post quem dell’allestimento della raccolta.2 I mesi successivi, che portano alla pace di Bagnolo del 7 agosto 1484, sono assenti dalla silloge bucolica; del resto la guerra si era già di fatto conclusa, e non a favore di Ercole d’Este. La cessione a Venezia di Rovigo e di parte del Polesine, dopo l’accordo separato di Ludovico il Moro coi Veneziani, dà forse ragione della solo parziale diffusione dell’opera boiardesca,3 che vive tutta sotto il segno di Alfonso di Calabria, della sua attesa messianica (PE II) e delle sue mirabili imprese (PE I e X). Dopo la pace di Bagnolo, possiamo presumere che a Ferrara le azioni del duca fossero in netto ribasso.4 Questi, in sostanza, i fatti storici indispensabili per leggere il nostro testo; quello che mi preme però sottolineare è quanto straordinaria sia stata la personale risposta di Boiardo ai calamitosi eventi di quegli anni. È vero che, preoccupato per le sorti del suo feudo, nel gennaio del 1483 (ne aveva fatto richiesta già nel dicembre dell’anno prima) lascia Modena per fare ritorno a Scandiano,5 ma i mesi più cupi della guerra, prima dell’arrivo di Alfonso, Boiardo li dedica alla stampa del poema, le cui prime copie vengono inviate al duca Ercole il 24 febbraio del 1483,6 e alle Pastorale: 2  Mi pare questa l’ipotesi più probabile, anche se non è del tutto escluso che Boiardo a PE X, 148-9, dove il Po compare nella serie delle vittorie di Alfonso sulle sponde dei fiumi padani (Mincio, Oglio, Adda, cui si aggiunge il Ticino, per ragioni più letterarie che storiche), tutte dell’estate 1483, voglia alludere agli ultimi tratti della guerra, nella primavera del 1484, nel Polesine (Benvenuti 1995, 53). 3  È questa la tesi sostenuta da Riccucci 2005, che pensa ad una preparazione della silloge nell’inverno 1483-1484, cui avrebbe poi dovuto far seguito l’allestimento del manoscritto di dedica e l’offerta al dedicatario; processo che, per i fatti della primavera estate del 1484, si sarebbe però interrotto. La presenza di un manoscritto di area meridionale, o almeno la testimonianza della sua esistenza (Altamura), mi induce a una valutazione più prudente dei fatti; resta però indubbio che la diffusione dell’opera fu davvero minima, e che soprattutto non si arrivò alla stampa vivente l’autore. 4  Si veda anche la documentazione allegata in Riccucci 2005, 240. 5  Monducci-Badini 108. 6  Data e luogo della princeps in due libri sono argomenti noti, e dibattuti (specie dopo la pubblicazione di nuovi documenti in Monducci-Badini), ma che in questa sede non interessano più di tanto. Che si tratti della fine del 1482, o dei primissimi tempi del 1483, siamo nel cuore della guerra fra Ferrara e Venezia; la lettera che accompagna le prime copie offerte al duca in Monducci-Badini 110-1.

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i suoi ripari e i suoi argini, per tornare a Machiavelli, stanno tutti lì, nella letteratura. Lo spazio della poesia, decisamente, fa aggio su quello della storia, lo piega alle sue leggi e ne condiziona il racconto: basti pensare a parecchi segmenti di PE X, laddove le imprese di Alfonso – che pure Boiardo avrà avuto ben presenti – si modellano sul viaggio dell’aquila romana, nel VI del Paradiso. E se la realtà effettuale si presenta alla porta, e pretende di irrompere nel tessuto della letteratura, «ciò non ascolten quest’anime fele / che fan guerra per sdegno e per furore» (IO II, xxxi, 51, 5-6), versi forse meno noti di quelli che evocano, sgomenti, il dilagare di questi Galli alle ultime righe del III libro, ma non meno significativi. Una risposta letteraria, dunque, a drammatiche circostanze storiche: questa e non altra è la genesi delle Pastorale, che prendono corpo attorno alla figura di un grande condottiero, allievo del Panormita, amico di Pontano e di Sannazaro, con ogni evidenza appassionato anche di poesia, e soprattutto di poesia bucolica. Come ha infatti messo in luce Antonia Tissoni Benvenuti,7 questo di Boiardo non è un caso isolato: già prima delle Pastorale, Jacopo Fiorino de’ Buoninsegni aveva dedicato ad Alfonso quattro egloghe (accolte poi nelle Bucoliche elegantissime, ma di questo più avanti); dopo il successo nella guerra di Ferrara, il De Jennaro gli offre la sua Pastorale (stesso titolo della raccolta di Boiardo, ma qui senza dubbio al singolare) e il Galeota un’egloga tutta in sdruccioli; a ciò si aggiunga che il manoscritto dell’Arcadia Vat. Barb. Lat. 3964 venne allestito per Ippolita Sforza, moglie di Alfonso. Sulle ragioni di questa passione del duca, come su molti altri argomenti collegati alla produzione bucolica, non abbiamo informazioni. Ma il dato resta incontrovertibile. Sul fronte boiardesco, occasione storica e probabile intento encomiastico – non sappiamo quanto a lungo protratto – appaiono chiari. Ma ragioni politiche e necessità contingenti non bastano a spiegare la natura letteraria, complessa e affascinante, del libro che Boiardo viene costruendo. E lo viene costruendo «per la seconda volta» (come accade, secondo una celebre affermazione di Marco Santagata, per tutta la letteratura umanistica volgare), intrecciando col precedente latino dei suoi Pastoralia un certamen serrato. Nel riprendere fra le mani la zampogna pastorale, Boiardo dimostra che, sotto la simmetrica superficie dei dieci 7 

Benvenuti 1995, 50. 15

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componimenti, scanditi, secondo l’exemplum virgiliano, in cinque politici (più o meno) e cinque d’altro soggetto, tutto è cambiato: sulla scena, con prepotenza, si conquistano spazio gli auctores volgari. Bucolici, Arzocchi in testa, ma anche lirici, con una particolare attenzione a Giusto de’ Conti, in ossequio a quella commistione fra generi lucidamente individuata da De Robertis come tratto costitutivo della bucolica italiana. Un nuovo classicismo, dunque, molto più mescidato di quello dei Pastoralia (che a fianco di Virgilio conoscono pochi modelli, fra gli Eroticon libri dello Strozzi, i Fragmenta petrarcheschi e poco più), fortemente sperimentale e innovativo, come vedremo, che dialoga a distanza con le voci più recenti dell’esperienza poetica volgare, ma anche coi grandi modelli antichi, bucolici o meno. Se la guerra di Ferrara ha funzionato da detonatore per le Pastorale sul versante storico-politico, un ruolo non dissimile, ma sotto il profilo letterario, lo ricoprì la pubblicazione delle cosiddette Bucoliche elegantissime, la silloge edita da Antonio Miscomini nel 1482 (febbraio 1481 nell’uso fiorentino). L’incunabolo allinea, come è noto,8 il volgarizzamento delle Bucoliche virgiliane realizzato da Bernardo Pulci, cui seguono le due elegie in terzine in morte di Cosimo de’ Medici e di Simonetta Cattaneo, quest’ultima accompagnata da un sonetto responsivo dello stesso autore, in persona della fanciulla (Se viva e morta io ti dove’ far guerra, un testo di cui avremo occasione di riparlare, sia qui che nel commento a PE VIII), le quattro egloghe di Francesco Arzocchi, le otto di Girolamo Benivieni e le cinque di Jacopo Fiorino de’ Buoninsegni (le quattro dedicate nel 1468 a Alfonso di Calabria, più Felicità pastorale, scritta in occasione del Natale del 1481 e indirizzata al Magnifico). Sul valore fondativo della raccolta, e in particolare sul suo costituirsi, o potersi costituire, come una sorta di pendant in chiave bucolica della Raccolta aragonese si è molto riflettuto: meno chiara, nella silloge pasto8  Il primo studio complessivo sulle Bucoliche elegantissimamente composte (titolo in realtà della ristampa procurata nel 1494 dallo stesso Miscomini, giacché la princeps manca del frontespizio) è quello di Battera 1990 (ma sui rapporti con Boiardo di maggior rilievo Battera 1987); entreranno via via nel mio discorso le considerazioni di Serena Fornasiero, sia nell’Introduzione alle Egloghe di Arzocchi che in Fornasiero, di Carrai 1999 e di Podestà. L’incunabolo delle Bucoliche è stato anche riprodotto in anastatica, con introduzione di Ilaria Merlini: Roma, Vecchiarelli, 2009.

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introduzione

rale, risulta l’impronta fiorentinocentrica, nonostante l’apertura riservata al volgarizzamento di Bernardo Pulci dedicato a Lorenzo, e la simmetrica chiusura con l’egloga del Buoninsegni, soprattutto per il fatto che Lorenzo stesso, già autore di testi bucolici come Corinto e Apollo e Pan, è assente, e che di questa assenza non è possibile offrire nessuna reale motivazione, né cronologica né ideologica. Mi pare che questo elemento sia sufficiente a far saltare ogni simmetria con la Raccolta aragonese e la sua complessa orditura storico-critica, che tende ai sedici componimenti laurenziani come alla naturale conclusione e climax di tutto il percorso. Il tema, pur di indubbio interesse, rileva poco in prospettiva boiardesca: a noi serve piuttosto appurare se la raccolta nel suo assieme sia stata nota a Boiardo e possa quindi essere assunta come un ulteriore terminus post quem per l’elaborazione del libro. Anche questo argomento non è nuovo:9 cercherò qui di enucleare quanto emerge dal mio lavoro, e dalla tradizione degli studi. Procedo seguendo l’ordine della Miscomini, e inizio quindi dal volgarizzamento pulciano: nonostante l’approfondita e appassionata disamina condotta da Erica Podestà,10 direi che non emergono elementi che provino un utilizzo del dettato pulciano piuttosto che del testo latino. E aggiungerei che la cosa non stupisce, visto che Boiardo volgarizza sì in proprio, come ben sappiamo, ma lo fa con intenti ben precisi e su commissione, e si vale di traduzioni umanistiche latine di testi greci (non equiparabili in alcun modo ai volgarizzamenti) solo per oggettive difficoltà linguistiche: arduo pensare che il poeta dei Pastoralia abbia conservato nella memoria le iuncturae italiane del Pulci anziché quelle dell’originale. Seconda tappa del percorso il sonetto responsivo scritto in figura di Simonetta Cattaneo e indirizzato a Giuliano de’ Medici: è stata Francesca Battera a sottolineare per prima le congruenze fra il componimen9  L’attenzione degli studiosi si è dapprima focalizzata su Arzocchi, a partire da Carrara, poi Ponte, cui seguono i contributi citati più sù; solo in un secondo tempo il discorso è venuto allargandosi alle altre presenze della Miscomini: Bregoli Russo, Battera 1987, Carrai 1998, Riccucci 2005, Canova e Podestà. 10  Podestà 53-4: gli elementi più interessanti sono quelli che riguardano la presenza petrarchesca, sia nel volgarizzamento pulciano che in alcuni tratti delle Pastorale, ma mancano le prove che il volgarizzamento sia tramite per l’acquisizione da parte di Boiardo.

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to del Pulci e PE VIII,11 seguita poi sulla medesima linea da Riccucci 2005. Dopo l’intervento di Canova, e alla luce di quanto emerge dal mio commento a PE VIII, direi che la presenza pulciana appare piuttosto ridimensionata rispetto a quelle di Petrarca e di Boiardo stesso in PA II, ma rimane comunque indiscutibile, non foss’altro per il calco dell’incipit presente ai vv. 100-2. Arzocchi è il vero pezzo forte della serie, per le profonde implicazioni con le Pastorale, soprattutto PE V, VI e VII, che esistono solo in rapporto alle sue egloghe e ai modelli stilistici lì proposti, a tacere delle numerose interferenze che emergono in altri punti della silloge boiardesca. Per quello che riguarda la Miscomini, la prevalenza, secondo alcuni l’esclusività, dell’influsso di Arzocchi rispetto agli altri due bucolici, ha per lungo tempo supportato la tesi che Boiardo abbia letto il poeta senese in tradizione manoscritta.12 Si deve a Fornasiero un approccio nuovo, teso a dimostrare come in nessuno dei luoghi in cui la tradizione manoscritta presenta varianti rispetto alla princeps Boiardo, nel suo processo di imitatio, si rifaccia alla lezione dei codici, come accade invece nel caso di Sannazaro. Analisi ineccepibile, che a mio avviso costituisce un punto fermo nella questione Boiardo / Miscomini. A ciò si aggiunga che Benivieni e Buoninsegni sono tutt’altro che assenti dal regesto delle fonti: limitandomi solo ai luoghi significativi e inoppugnabili, ricordo La persa agnella di Buoninsegni che, pur nel dilagare inquietante di animali smarriti nei pascoli bucolici, costituisce un saldo precedente di PE I, 22-7 (già segnalato da Carrara 281); sempre in PE I, i vv. 31-6 mostrano in filigrana la VIII del Benivieni, vv. 1-6; ancora da Benivieni (VIII, 68-9) pare derivare a PE IV, 101 il nome di Acantide col ricordo del suo mito; per finire, a PE IX, 74, nel disegnare l’immagine dei delfini annunciatori di sciagure marittime, Boiardo sembra valersi di qualche elemento desunto dalla IV egloga del Buoninsegni, vv. 25-30. Quanto sin qui esposto mi pare chiarisca gli estremi della datazione del libro e assieme l’unitarietà del progetto complessivo: fra tutti i testi, solo PE III non mostra né allusioni storiche individuabili né tangenze con le Bucoliche elegantissime, e potrebbe quindi, in teoria, risalire a 11  12 

Battera 1987, 35-6. È questa la posizione di Battera 1987. 18

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un diverso e precedente momento (ma l’ipotesi, già piuttosto improbabile, viene ulteriormente sminuita dalla presenza dei richiami a PE II e IV individuati in Carrai 1998). A mio avviso, però, quello che dichiara inoppugnabilmente la compattezza delle Pastorale e la loro natura di macrotesto è il rapporto strutturale che le lega alle Bucoliche virgiliane e ai Pastoralia.13 A grandi linee, possiamo individuare tre blocchi testuali, mentre a parte rimane l’ultima posizione delle tre serie: I, II e III, latine e volgari, mantengono col testo virgiliano un rapporto ben individuabile. A partire dalla IV, poi soprattutto con la V, la VI e, sotto il profilo stilistico, la VII, le cose si complicano e nella partita entrano altri soggetti, sia nelle bucoliche latine che, soprattutto, in quelle italiane: alla presenza virgiliana si giustappone quella dei modelli volgari, lirici e bucolici, gli auctores del nuovo classicismo. In chiusura PE VII, VIII e IX riannodano, più o meno da presso, il dialogo con le Bucoliche e i Pastoralia. Boiardo costrui­ sce dunque un macrotesto volgare solido di per sé, in parte alternativo ai suoi modelli di elezione: diverso di necessità, giacché la tradizione di riferimento non può più essere la stessa, ma secondo il patto fondativo del classicismo, ovvero senza che vengano mai recise le connessioni con l’eloquentia latina, sia essa la propria o l’altrui. Ci sono dei punti fermi ostentati: per esempio le egloghe I e III sia di PA che di PE, che si tengono davvero vicine al pattern virgiliano, ma proprio questa loro caratteristica rende ancora più evidente cosa altrove è diverso, e perché. PA I e PE I dichiarano in maniera aperta i propri debiti nei confronti del primo maestro: siamo all’esordio dell’opera e le marche di genere devono essere evidenti; due interlocutori, dalle cui parole prende vita una realtà storica rovinosa e inquietante. In PA I, che celebra il «buon governo» di Ercole d’Este a Modena (siamo quindi dopo il 13 gennaio 1463), il ruolo della guerra è confinato nelle battute iniziali di Pan, ma è comunque notevole: il dio protettore della poesia pastorale ha dovuto abbandonare l’Arcadia (per effetto dell’offensiva turca contro la Morea del 1463), e ha cercato rifugio a Ferrara, offrendo così al giovane Poeman-Boiardo l’occasione di ereditarne la zampogna, e dunque la vena poetica. Ben più accusata la dimensione storico-politica della prima Pastorale, incentrata 13 

Montagnani 2014. 19

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sulla sofferenza privata di Tito Vespasiano Strozzi dopo il saccheggio dei suoi possedimenti, e assieme sulle disperate condizioni dei domini estensi prima dell’arrivo di Alfonso di Calabria (vaticinato nei versi boiardeschi, e dunque nella realtà storica già avvenuto). Protagonisti e temi si riflettono da un testo all’altro in un sottile gioco prismatico in cui tutto si sovrappone ma quasi nulla coincide: Titiro e Melibeo nelle Bucoliche, Poeman e Titiro nei Pastoralia, Mopso e Titiro nelle Pastorale. Ma in Virgilio Titiro è alter ego dell’autore, mentre sotto lo stesso nome, nei testi di Boiardo, si cela Tito Vespasiano Strozzi; il secondo protagonista, Poeman, è probabilmente l’autore in PA, mentre è difficile proporre la stessa identificazione per il Mopso di PE, come pensava Guido Mazzoni.14 Anche dove personaggio e nome coincidono, i fatti, necessariamente, sono diversi: Titiro-Strozzi in PA I è intento alla celebrazione del potere estense nella Borsias, mentre in PE I, come Melibeo in Virgilio, è vittima dolente della violenza della storia. Titiro-Virgilio nelle Bucoliche celebra in Ottaviano il giovane dio che gli ha garantito un destino migliore; e lo stesso fa Poeman-Boiardo in PA I, cantando le lodi di Ercole signore di Modena. La seconda egloga volgare mostra un maggiore tasso di autonomia rispetto al modello latino, sia quello virgiliano che il proprio. È monodica, come Buc. II, ma la tematica solo all’apparenza è amorosa: la ninfa Galatea intona un lamento elegiaco, consono a una protagonista femminile, ma l’oggetto del suo desiderio, cui appartiene il «viso che me strugge amando» (v. 24), è Alfonso d’Aragona, il cui arrivo sulla scena della guerra ferrarese si fece attendere sino al 14 gennaio 1483. Il taglio del componimento, e i suoi contenuti, ci portano quindi piuttosto lontano dal modello classico, mentre i rapporti fra quest’egloga e le altre volgari di contenuto storico sono indiscutibili. Anche PA II solo in parte è sovrapponibile al lamento monodico di Coridone15 per il giovane e spietato Alessi. Il protagonista Titiro, che come in PE I è lo Strozzi, piange difatti un abbandono ben più tragico, susseguente alla morte di Costanza dal Canale, la Filliroe di Eroticon libri X, 616 (un canto monodico come Buc. Mazzoni 329. Dove Virgilio rivisita il topos delle profferte di Polifemo a Galatea; e qui, volendolo proprio, potremmo cogliere un rapporto con PE II. 16  Sul ciclo legato a Filliroe si veda il recente Caterino. 14  15 

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II). Non è invece monodica PA II, dove due altri pastori cercano di consolare l’amante; il compianto funebre richiama alla memoria la V di Virgilio, con l’elogio di Dafni, pur se l’intonazione è diversa, e mostra qualche affinità con la seconda delle egloghe di Gasparo Tribraco, e soprattutto con PE VIII, dove Menalca, disperato per la morte della moglie Nisa, medita il suicidio e ne viene poi dissuaso da Melibeo. Il filo intertestuale, quindi, stringe saldamente PA II e PE VIII, ma a poco ci serve quando ci confrontiamo con PE II. La serie I, II riveste senza dubbio nelle Pastorale un valore evidente: non solo dichiara il tema, ponendo tutta la raccolta sotto il senhal di Alfonso, ma definisce il timbro, l’intonazione stilistica delle egloghe di contenuto storico. Siamo di fronte, come risulta evidente dal commento, a un particolare e raffinato intreccio di voci classiche e romanze, dove spesso Petrarca viene evocato a esprimere temi e spunti virgiliani, in un continuo trapasso dall’uno all’altro classicismo. E accanto a queste presenze si staglia, nettissima, quella di Dante, cui Boiardo affida senza esitazioni il compito di tradurre per verba i sentimenti e le emozioni che pertengono alla sfera pubblica dell’agire politico entro i confini della letteratura. Una opzione stilistica che connota tutti i testi storici, ma soprattutto PE X, forse la più vicina a queste prime due egloghe:17 la cornice delle Pastorale è dunque chiara e definita, e così ne è lo stile. All’interno, invece, Boiardo si concederà non pochi diversivi, tutti parecchio interessanti. La posizione successiva vede una notevole sovrapposizione del Boiardo volgare alle Bucoliche e ai Pastoralia; già PA III segue da vicino Buc. III, con la tenzone poetica, la presenza di un giudice, e la mancata assegnazione del premio. Sotto il velame pastorale, davvero esile, i due testi latini parlano però soprattutto di poesia: nelle Bucoliche Menalca-Virgilio replica alla battuta di Dameta (v. 84) «Pollio amat nostram, quamvis est rustica, Musam» tessendo le lodi della novità letteraria: «Pollio et ipse 17  Con questo non intendo negare la tradizionale, e virgiliana, articolazione delle Pastorale in cinque testi storici e cinque di altro genere (un tempo definiti amorosi, ma oggi li direi piuttosto di natura metapoetica); ma PE IV è un componimento complesso, in cui la storia è sì presente, ma totalmente calata in una dimensione mitica e mitologica, e PE VIII solo in apertura è connessa ai fatti luttuosi della guerra di Ferrara, ma in seguito Boiardo la piega a contenuti e intonazioni stilistiche del tutto differenti.

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facit nova carmina […]» (v. 86). I termini della questione non sono chiarissimi, ma appare evidente che Virgilio intende contrapporre due diversi tipi di espressione poetica. Con maggiore evidenza ciò accade in PA III, dove Poeman-Boiardo intreccia la sua tenzone con Silvano, l’uno a sostenere il primato della nuda poesia, l’altro invece la commistione fra parole e musica. Questo elemento connette saldamente PA III e PE III, anche se nell’egloga volgare sono assenti alcuni dei tratti strutturali di quelle latine, come la gara, l’arbitro, il premio. Però Aristeo e Dafnide si confrontano anch’essi in un carme amebeo in cui parole e musica si intrecciano, e Boiardo realizza una mimesi della frizione fra i due mezzi espressivi che, credo, ha pochi eguali nella nostra letteratura. L’egloga offre, oltre a questo, un altro interessante spunto costituito dall’uso massiccio di lessico amoroso di tradizione (sia petrarchesca che boiardesca dagli Amorum libri), quasi un anticipo della profonda riflessione metapoetica sulla lirica, e sui suoi modelli, che sfocerà in PE V. La quarta posizione, in una serie bucolica, è di tutto rilievo, e Boiardo non si sottrae al peso della tradizione, né in PA IV né in PE IV: l’egloga latina segue da vicino il modello virgiliano, celebrando i mirabili effetti della Borsia virtus e il dischiudersi degli inevitabili aurea saecla (v. 23). Anche PE IV, a suo modo, enumera i miracolosi effetti di un fatto storico, qui un po’ più circostanziato di quanto non sia nei modelli, e cioè la liberazione di Niccolò da Correggio dalla prigionia veneziana, cui consegue il ritorno salvifico di Amore sulla terra; e lo fa con intonazione alta e sovente oscura, prossima quindi al dettato delle altre quarte egloghe. A livello strutturale, però, si segnalano non poche divergenze, soprattutto riconducibili alla natura non monodica di PE IV, la cui prima parte, col canto di Dameta, è tutta volta a deprecare «la amara presa del figlio de Egeo» (v. 29) e gli effetti nefasti della prigonia di Teseo-Correggio. Con la serie delle tre quinte egloghe entriamo nel cuore dell’approccio metapoetico al genere pastorale da parte di Boiardo. Iniziamo dalle due latine: Mopso e Menalca, in Virgilio, cantano le lodi del morto Dafni e, verso la conclusione, si scambiano doni poetici; fatto che offre al poeta, come sappiamo, l’occasione per citare alcuni segmenti delle Bucoliche.18 Il contenuto di PA V si allontana dall’exemplar, perché Menalca 18 

Variazioni su Buc. II, 1 e Buc. III, 1. 22

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e Licanor parlano solo d’amore, ma la struttura interna riproduce in toto quella di Buc. V. Il rapporto fra poesia lirica e poesia bucolica d’altro canto costituisce la chiave per leggere l’egloga, specialmente nella parte di Licanor, dove Boiardo si esibisce – in latino – in una straordinaria variazione sul tema petrarchesco della natura che accoglie in sé, benevola, la radiosa immagine della donna amata. Anche PE V si allinea al tema, proponendoci due protagonisti, Menalca (alter ego di Boiardo) e Gorgo (nome certo in rapporto con la II delle Egloghe di Arzocchi, qui come più avanti nelle Pastorale), che parlano solo d’amore e di poesia amorosa. Dapprima sotto il segno del petrarchismo più ortodosso, come si evince sia dall’incipit di Menalca che dalla battuta di Gorgo ai vv. 19-20, poi in variante boiardesca, con la citazione ai vv. 25-6 dell’apertura degli Amorum libri. All’altezza del v. 40 si innesta la vera novità di PE V rispetto alla sua omologa nei Pastoralia, ovvero il certamen con la variante bucolica della frottola di Arzocchi: il tema è ancora amoroso, ma la forma, il contenitore letterario, sono lontani da quelli lirico-petrarcheschi. Va ancora sottolineato che lo sperimentalismo boiardesco non lo induce a scardinare la scelta classicista (dall’Ameto boccacciano) della terzina per i testi bucolici: la frottola non porta con sé la scelta polimetrica, secondo quanto accade invece nel modello di Arzocchi. La battuta finale di Gorgo a PE V, 76-7: «Ben ho diletto e molto de il tuo dire, / ma quel che dice poco o nulla intendo» torna a proposito per introdurre l’oscuro dettato di PE VI, la cui didascalia recita «Ne la sesta egloga alegoricamente parlano un caciatore affanato et un pastore, nascondendo e nomi loro sì come è la matera nascosa». Qui, come in parte accadrà anche nella VII, Boiardo si confronta con la nuova forma dell’egloga elaborata da Arzocchi, e il modello scelto lo porta piuttosto lontano sia da Buc. VI che da PA VI; le due egloghe latine sono invece piuttosto solidali fra loro, e nella figura di Bargo-Guarini Boiardo fa rivivere, in panni cortigiani, il Sileno virgiliano, più attento però ai fasti del potere estense che ai temi cosmogonici di Buc. VI. PE VI segue un filo diverso e mostra, come spero risulterà evidente dal commento, il possibile sviluppo in chiave narrativa di un suggerimento bucolico: lo spunto iniziale è offerto dal capro grigio invano inseguito da un pastore assetato della III egloga di Arzocchi, un tema che, se nel poeta senese non conosce un reale sviluppo diegetico, in PE VI offre a Boiardo il destro per un’ampia 23

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orchestrazione magico-allegorica, che ci riconduce nei territori già cari all’Inamoramento, fra fonti incantate e riti di iniziazione perigliosi. L’inseguimento del capro ha portato Boiardo e il suo libro molto lontano dal solco delle Bucoliche e dei Pastoralia, ma il rapporto col modello si riannoda saldamente all’altezza della VII egloga:19 in PA VII Poeman (ancora Boiardo come in PA I?) e Coridone si confrontano in un amebeo, come Tirsi e Coridone nel testo virgiliano corrispondente, e così fanno Damone e Gorgo in PE VII. Loro però contendono in sdruzola, e Boiardo ha modo di rapportarsi ancora (è la terza volta) col modello di Arzocchi, che dell’endecasillabo sdrucciolo ha fatto una vera marca dello stile bucolico. Il livello di riflessione metapoetica sotteso all’egloga volgare è alto, molto più di quanto non accada nei testi latini, che sono poco più che divertissements letterari, ma è importante che Boiardo, a questo punto del libro, senta il bisogno di ricollocarsi nel solco classico della tradizione del genere, da cui si era parecchio allontanato. La consonanza prosegue anche con PE VIII e IX, che presentano un peculiare intreccio di temi rispetto alle corrispondenti latine: le tre egloghe ottave, latine e volgari, hanno in comune la struttura a voci alterne, senza amebeo. Dopo un breve esordio di carattere storico-politico (che ritroveremo, più sviluppato, anche in PE VIII), in Buc. VIII va in scena il dolore di Damone, disperato fino a meditare il suicidio perché l’amata Nisa sposerà il rivale Mopso. Quarantacinque versi cui seguono i quarantasei di Alfesibeo, che canta in figura di donna, invocando il ritorno di un Dafni amato e perduto. La partizione di PA VIII rispetta alla lettera quella virgiliana, anzi la esaspera per la nota ossessione numerica boiardesca (le parti sono qui di quarantacinque versi ciascuna): due canti giustapposti, ma di taglio diverso da quelli virgiliani: Meri ama Citeride, che lo contraccambia, mentre Bargo soffre per il tradimento di Filotide e medita il suicidio, come accade nel modello virgiliano, e come sarà nell’esito volgare. PE VIII riprende aspetti delle corrispondenti egloghe latine, ma vi sovrappone – nella parte iniziale – elementi storico-politici ben più rilevanti del blando accenno virgiliano, e che sembrano piuttosto discendere da Buc. IX e da PA IX. Parte del con19  Pur nella diversità dei contenuti, il rapporto fra VI e VII egloga si ripete uguale nei testi latini e in quello volgare: a un’egloga “alta”, di intonazione oscura e profetica, ne succede una più tradizionale, più consona al genere.

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tenuto di Buc. VIII, parallelamente, verrà invece dislocata in PE IX, con un intreccio sottile fra le fonti, cui Boiardo dedica sempre notevole attenzione. La parte centrale dell’egloga volgare amplifica quello che in Buc. VIII è solo un accenno, e cioè il proposito suicida di Menalca, al quale la morte ha strappato la moglie Nisa. Gli sviluppi boiardeschi del tema sono lontani dalla linea classica (mentre si segnalano congruenze con PA II), tutti interni alla tradizione romanza, e soprattutto petrarchesca, col rifiuto cristiano del suicidio e la finale rassegnazione dell’amante. Il doppio registro contenutistico di PE VIII si riflette anche su PE IX, condizionandone in qualche modo i destini (e mi pare superfluo sottolineare quanta consapevolezza strutturale emerga anche da questo fatto). Le due egloghe latine sono perfettamente allineate fra loro, con PA IX che segue da vicino il modello virgiliano, sia quello di Buc. IX sia quello di Buc. I: due pastori, il fortunato Coridone (ancora Boiardo, sotto altro nome pastorale?) e il meno fortunato Titiro (di nuovo lo Strozzi? Ma qui è detto giovane, come Coridone), si dilettano lungo il viaggio verso Modena intonando frammenti poetici (non identificabili, come quelli del corrispondente testo delle Bucoliche). Anche PE IX recupera un contenuto virgiliano: non quello storico-politico di Buc. IX, ampiamente presente nell’esordio di PE VIII, bensì la sezione di Buc. VIII che in PE VIII non aveva trovato corrispondenza. Il protagonista Coridone (il nome è lo stesso del protagonista di PA IX) si lancia in una violenta invettiva contro il rivale Mopso, cui l’amata Nisa è andata in sposa, così come era accaduto al Damone virgiliano di Buc. VIII. Temi virgiliani ma intonazione ben diversa: il registro utilizzato da Boiardo è deformante, caricaturale, e pare riflettere nella sua dismisura la pena dell’io lirico, che stenta a tradursi in parole. Stilisticamente, dunque, Boiardo utilizza un pedale inedito nelle egloghe, che avevano già conosciuto qualche tratto comico-caricaturale, per esempio nell’apertura di PE VII, ma non paragonabile a questo. Il modello è quello di Giusto de’ Conti, il cui canzoniere scorre sotto le Pastorale come sotto gli Amorun libri, ma di cui viene qui utilizzato, in maniera abbastanza esplicita, uno dei testi più problematici e meno petrarchisti, il polimetro pastorale La notte torna. Quasi alla fine del suo libro, poco prima della conclusione trionfale affidata al canto di Orfeo, Boiardo si concede una ennesima sperimentazione stilistica, ricorrendo a uno dei testi più innovativi del sistema poetico del tardo Quattrocento. 25

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Il finale della raccolta mostra una notevole congruenza fra l’egloga latina di Boiardo in onore di Ercole e quella volgare, panagyrico di Alfonso di Calabria, mentre il nesso che dovrebbe entrambe stringerle alla chiusa delle Bucoliche si allenta decisamente.20 Buc. X è un’egloga monodica, come le due di Boiardo intonate da Orfeo,21 ma le affinità finiscono qui, e del tormentato amore di Cornelio Gallo per Licori ben poco viene recuperato dal nostro autore. Forse PA X ne conserva ancora un ricordo, nella disperazione di Ercole abbandonato da Ila come Gallo dalla donna amata, ma in PE X Boiardo svincola il canto di Orfeo da qualunque pretesto amoroso e lo lancia su un terreno alto, alieno dai turbamenti dell’amore, e insieme «fuor de gli usati paschi» (v. 5), e lontano dalle «opere vulgate» (v. 16) delle favole mitologiche. Il protagonista è un eroe moderno, cui viene dedicato un testo profetico, di intonazione dantesca; l’ultima egloga mostra appieno la strenua volontà dell’autore di fare della poesia il suo personale strumento di resistenza, il suo argine contro il dilagare della violenza degli uomini. Una forza mirabile, in grado di sconfiggere anche la morte, ma che consegue successi effimeri, come aveva ben capito Poliziano quando scrive la sua fabula, e come, nel giro di pochi mesi, dopo la pace di Bagnolo, o di pochi anni, con la discesa francese in Italia, risulterà chiarissimo allo stesso Boiardo. *** Ho già introdotto, trattando della cronologia, quello che è uno snodo intertestuale di grande rilievo per le Pastorale, e cioè il rapporto con gli autori delle Bucoliche elegantissime. Importante ma non certo esclusivo, se la poesia di fine Quattrocento vive all’interno di una dimensione comunicativa forte che, nel caso del «gran club bucolico», si impone in 20  La citazione espressa di Buc. X, 1 «Extremum hunc, Arethusa, mihi concede laborem» in PE X, 1 «Sorge, Arethusa, e fonde ogni tua vena» varrà quindi, secondo un comportamento ben noto ai lettori di Boiardo, ad esibire una fonte alla quale non si intende fare reale ricorso. 21  La passione di Boiardo per il mito del cantore tracio è ben nota, e serpeggia in queste Pastorale anche prima di PE X; passione per Orfeo e per i testi a lui dedicati, se pensiamo alla recente attribuzione a Boiardo dell’Orphei tragoedia, il cui eco si coglie anche nelle egloghe volgari. Si veda il commento a I, 65; I, 100; III, 32; IV, 114.

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tutta la sua evidenza. La citazione da Maria Corti mi induce ad affrontare per primo il nodo del Sannazaro: il progetto del libro Arcadia non ha nulla a che vedere con le Pastorale, se non nel senso che forse Sannazaro dal lavoro di Boiardo può avere tratto qualche suggestione ‒ posto che abbia effettivamente accompagnato Alfonso nel suo viaggio verso il Nord Italia ‒, ma le tre egloghe che precedono l’organizzazione del prosimetron (I, II, VI) possono essere state note a Boiardo in tradizione manoscritta. La somma dei rinvenimenti non è gran cosa: il giorno tepido dell’esordio di PE VI potrebbe suggerire un tenue rimando a Arcadia VI, 85-6; forse meno banale la presenza di gracule (: macule) in PE VII, 43, per la quale si potrebbe invocare la parola rima gracculo di Arcadia VI, 137. Diffuso in Sannazaro, come anche nelle prime egloghe della futura Pastorale del De Jennaro che precedono l’opera di Boiardo (I, II, IV e V), il tema dei lupi e delle loro funeste scorrerie; ma il motivo è topico, seppure di particolare rilievo nella declinazione napoletana della forma bucolica. Per rimanere all’interno del nostro club, una interessante serie di rime sdrucciole (contamina : lamina : examina) accomuna PE VII, 71-5 alla Saphira di Filenio Gallo (407-11, lamina : disamina : contamina), e secondo Corti 2001, 331 l’egloga precede di parecchi anni il 1484, e potrebbe risalire addirittura a prima del 1474. Nessun altro elemento di rilievo, però, nella Saphira (salvo un’altra coincidenza meno significativa nella serie copia : inopia), e nessuno nell’altra egloga del Galli, la Lilia, che, sempre secondo Corti 2001, 331 dovrebbe essere più o meno coeva. Decisamente poco; e non è molto più che una curiosità il fatto che le due egloghe di Filenio Gallo vengano trascritte nello stesso codice Marciano che tramanda anche PE I.22 La coppia lamina : examina tornerà anche nelle Rime del Tebaldeo, il che introduce al complesso tema dei rimandi ad autori e testi coi quali le Pastorale intrattengono senza dubbio rapporti, ma difficili da definire sotto il profilo cronologico. Iniziando appunto da Tebaldeo, attivo a Ferrara a partire dal 1480, ma più giovane di Boiardo e di inferiore prestigio nella gerarchia cortigiana, segnalo l’importante riscontro indicato da Riccucci per PE I, 79, dove la presenza dei Thebani e delle gente phrigie, cioè dei 22 

Sul codice Riccucci 1999. 27

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Troiani, rinvia abbastanza precisamente ai vv. 46-52 del capitolo di Tebaldeo Per dar riposo a l’affannata mente. La direzione del prestito è dubbia: il testo del Tebaldeo rievoca la pace di Bagnolo, quindi è senza dubbio successivo al 7 agosto del 1484; potremmo essere di fronte ad una tenue traccia di circolazione delle Pastorale per lo meno in ambito ferrarese. In altri casi Tebaldeo e Boiardo sembrano condividere una fonte comune, come accade forse per il passo di PE III, 52 in cui Boiardo celebra il felice e libero volo degli uccelli in contrasto con l’amara condizione dell’amante (il motivo è topico, ma i rimandi intertestuali al Tebaldeo sono abbastanza stringenti). Chiudo con PE IV, 10, dove Boiardo propone fra le ninfe il nome di Glautia: il personaggio mitologico non è semplice da identificare, ma quello che qui più interessa è che conosce, stando ai repertori lessicografici, solo tre attestazioni quattrocentesche: questa di Boiardo e due del Tebaldeo. Molto improbabile, in questo caso, che Tebaldeo derivi il nome da Boiardo, perché la sua protagonista si accompagna ad altre due, parimenti rare (287, 144-5 «Altre nymphe ge son […] / il c’è Cardelia, Glaucia e Isofilea»), e difficile anche ipotizzare il contrario. Evidentemente i due testi condividono una stessa fonte, forse mitografica, oggi non più individuabile. Casi analoghi si presentano spesso anche per Niccolò da Correggio, più giovane di Boiardo, ma a lui socialmente superiore. Dei molti rimandi offerti nelle note (per esempio a PE I, 169-71; II, 2; IV, 113; V, 21), in cui la direzione del prestito non è determinabile, uno solo mi pare di un certo interesse: a PE IV, 28 Dameta dichiara di avere scritto in verde foglia la triste storia della prigionia di Teseo. Foglia e non corteccia come vorrebbe il topos pastorale, con citazione esplicita da Correggio, Rime 365, 130-2: «E tu, crudel, non ti vorai commovere / a questa littra che, carta mancandomi, / t’ho scripto in foglie agionte d’una rovere?». Del resto in PE IV, che è un testo tutto dedicato a Niccolò da Correggio, un clin d’oeil come questo non può stupire. La necessità di perimetrare cronologicamente l’opera, e con essa il sistema delle fonti cui è debitrice, mi ha portato ad affrontare anche autori che in realtà non sono particolarmente significativi nella costruzione del discorso poetico delle Pastorale: al di là di singoli punti di tangenza, ci sono poeti i cui componimenti scorrono come reali ipotesti sotto diverse

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egloghe. L’auctor per eccellenza resta Virgilio,23 cui si affianca, o si giustappone, per le tre egloghe centrali Francesco Arzocchi, ma di entrambi abbiamo già ampiamente parlato. Fondamentale, come emerge dal commento, è la presenza petrarchesca, e non potrebbe essere diversamente per un poeta che ha alle spalle l’esperienza degli Amorum libri tres; ma in certi casi parlare di fonte, di prelievo, è decisamente riduttivo: penso all’apertura di PE I (vv. 1-12), un luogo molto esposto, dove Boiardo celebra l’avvento di un giorno splendente che brilla per tutti tranne che per lo sconsolato protagonista. Il motivo è senza dubbio fra i più triti, ma mi pare che il modello profondo sia quello della canzone 50 dei Rvf, le cui cinque strofe replicano la medesima struttura concettuale, con l’arrivo della sera, che reca quiete e serenità a tutti i protagonisti (e nella terza stanza si tratta appunto di pastori che muovono la loro schiera di animali verso il ricovero notturno), tranne che al soggetto che dice «io», per il quale lo scorrere del tempo segna solo invece l’acuirsi della sofferenza. Lo schema petrarchesco è quindi rovesciato nelle circostanze esterne (mattina vs sera), ma saldamente mantenuto a livello concettuale. Cambio egloga, ma non cambio autore: nella complessa orditura di PE VI, dietro all’immagine del capro grigio, che a livello di fabula è quello di Arzocchi, si celano parecchi riferimenti alla cerva di Rvf 190, luminoso e irraggiungibile simbolo d’amore. L’animale si presenta in maniera fortemente connotata: candida sullo sfondo verde dell’erba, con le corna d’oro, vicina all’acqua delle due riviere, ombreggiata da un alloro (vv. 1-3). La cerva è immagine della donna, dolce superba (v. 5), capace di distogliere l’amante da ogni altro pensiero: «ch’i’ lasciai per seguirla ogni lavoro» (v. 6), come si legge poi ai vv. 36-7 dell’egloga: «sin che io sia vivo me il conven seguire. / Lassai per lui nel bosco un cierbo e un apro». La cerva è proibita e incantata, e nei suoi ornamenti sta la chiave della sua “fatagione”: «“Nessun mi tocchi – al bel collo d’intorno / scritto avea di diamanti et di topazi –: / libera farmi al mio Cesare parve”»; e altrettanto intangi23  Scarse le presenze davvero significative degli altri bucolici latini: forse solo Calpurnio a PE I, 4-6 e 118-20; VII, 22-4. Sotto il profilo concettuale più rilevante è invece la diffusa presenza di Lucrezio in PE IV.

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bile è il capro, che appartiene a Pan. Rimando al commento per un esame più approfondito, ma mi pare che il meccanismo non sia dissimile da quello appena visto per PE I: apparente discontinuità contenutistica (qui addirittura l’animale è diverso), ma profonda convergenza ideologica. Terzo esempio petrarchesco è quello di PE VIII: anche questa un’egloga complessa, nella quale interagiscono varie fonti, classiche, umanistiche e volgari. Ma nell’invocazione che l’amata Nisa, dal Cielo, rivolge al marito Menalca, disperato e pronto al suicidio, il modello che si staglia con assoluta evidenza è quello di Rvf 268. Qui a parlare è Amore, non la donna, ma il discorso tocca i medesimi punti: la morte è solo apparente rispetto alla vita eterna, e la scelta del suicidio impedirebbe al poeta di ricongiungersi con chi ama. Come nei casi precedenti, una apparente discrasia, ma una innegabile solidarietà di intenti. Una funzione alta e modellizzante che non tocca però solo a Petrarca (oltre a Virgilio e Arzocchi), se la IX egloga si costruisce tramite un sottile processo di adattamento di La notte torna di Giusto. Due testi in apparenza distanti, soprattutto per l’assetto polimetrico del componimento giustiano, e per la presenza in esso di parti frottolistiche (a loro volta derivanti da Arzocchi, oltre che dal grande modello di Rvf 105) che nel testo boiardesco non trovano una forte eco, ma in realtà connessi da una rete solida di rimandi e di corrispondenze, certificata da una citazione esposta al v. 38, dove il rivale appena sbarbato si fa beffe dello sconfortato amante. *** Lavorare su un testo che è già stato ampiamente commentato (Merlini 2005 e Riccucci 2005), e vanta una non indifferente trafila storico-critica, è tutt’altro che semplice, specie quando si consideri che l’uso della strumentazione elettronica ha incrementato in maniera massiccia l’universo del citabile, spesso a danno dell’esattezza e dell’interesse del rimando stesso. Mi sono concentrata soprattutto sulla articolazione complessiva del singolo testo, sul registro linguistico e stilistico utilizzato, sul suo ruolo nella raccolta. Le annotazioni puntuali ai componimenti sono piuttosto parche: vengono segnalati solo i rinvii davvero stringenti e, salvo rare eccezioni, laddove per la tradizione lirica soccorra la memoria degli AL 30

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ogni altra citazione viene oscurata (il commento, anzi i due commenti, di Tiziano Zanato al canzoniere boiardesco soddisfano, mi pare, ogni curiosità). Sono convinta, infatti, che il collettore di memoria lirica degli AL funzioni da garante dei rapporti con la tradizione italiana: quello è il canone, quelli sono gli auctores. Come emerge chiaramente dal commento, la funzione degli AL rispetto alle egloghe volgari è fondamentale sotto molteplici aspetti: ci sono componimenti che trascorrono attraverso tutto il libro delle Pastorale, riconfermandone, se ancora ce ne fosse bisogno, la natura profondamente unitaria. Penso soprattutto a I, 15, il cantus conperativus che è ben visibile in filigrana a PE III, ma anche a PE IV e VI. Ma importanti (e qui rimando al commento) sono senz’altro anche I, 30 per la celebrazione mondana della danza che si riflette trasfigurata in PE IV; il mandrialis II, 44 che offre spunti per PE III; e infine la bellissima canzone 25 del III libro, anch’essa presente nell’intreccio, complesso, delle fonti di PE IV. Nelle note, come si suol dire, ho cercato di pagare tutti i miei debiti, riconducendo ogni suggerimento a chi lo ha formulato per primo (a meno che non si tratti di una citazione esplicita da parte di Boiardo: diciamo che ho segnalato come acquisizione critica altrui ciò che non era immediatamente evidente); in una tradizione esegetica piuttosto articolata può darsi che qualcosa mi sia sfuggito, per mia colpa ma senza intenzione. Errori e imprecisioni di altri non sono indicati, salvo in caso di cogente necessità. La sigla LIZ o Bibit segnala che il recupero è stato effettuato tramite la banca dati, e che l’edizione di riferimento si intende sia quella utilizzata in tale sede (il caso si dà solo per alcuni riscontri lessicali puntuali); diversamente i testi di cui mi sono valsa sono quelli indicati nella Tavola delle opere citate. Una nota necessaria riguarda i nomi propri, che nel testo mantengono la loro forma latineggiante, mentre nel commento, fuori dalle citazioni, assumono un aspetto più “moderno”; la scelta può essere discutibile, ma il preziosismo archeologico mi pare abbia senso nel testo antico, meno nel commento, che avrebbe finito con l’essere un ircocervo di bizzarre grafie. Per analoghe ragioni, e anche per uniformità interna, ho eliminato la maiuscole che in alcune edizioni segnalano l’inizio di verso. L’esegesi di un testo come il nostro è complessa sotto il profilo storico: i fatti noti e individuabili nel corpus delle Pastorale sono più o meno 31

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sempre quelli, e chi mi ha preceduto li ha individuati con sufficiente chiarezza; ho potuto aggiungere, grazie alla cortesia di Francesco Storti, solo qualche elemento nuovo nel commento di PE X. Quel che è perduto, allusioni, insinuazioni, ammiccamenti, è perduto per sempre. Come del resto scriveva Petrarca al fratello Gherardo (Familiares X, 4), il codice bucolico è duro da interpretare, se non se ne hanno le chiavi: «Sed quoniam id genus est quod nisi ex ipso qui condidit auditum, intelligi non possit, ne te inutiliter fatiges, primo quid dicam, deinde quid intendam brevibus explicabo». Visto che Boiardo non ci ha usato la stessa cortesia, mi è parso consigliabile tenermi stretta al piano, meno rischioso, della letteratura. *** Per scrivere questo libro ho fatto ricorso ai consigli e alle competenze di molti amici, che qui ricordo un po’ alla rinfusa: Simone Albonico, Andrea Canova, Maria Caraci, Valentina Gritti, Italo Pantani, Carla Maria Sanfilippo, Francesco Storti, Paolo Trovato, Claudio Vela. Antonia Tissoni Benvenuti e Tiziano Zanato hanno riletto, con pazienza e acume, testo e Nota al testo. Davvero indispensabile è stata la competenza paleografica di Sandro Bertelli, che mi ha affiancato nell’esame del codice di Lugano e a cui si debbono, come ricordato nella Nota al testo, non poche acquisizioni sul natura del manufatto. Un ringraziamento particolare alla generosa proprietaria – ne taccio il nome per sua espressa richiesta – del codice Lu, che mi ha concesso di studiarlo e ha acconsentito alla riproduzione delle carte qui presentate, e a Luciana Pedroia della Biblioteca dei Frati a Lugano, alla cui cortesia devo molto.

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NOTA AL TESTO

1. Descrizione dei testimoni 1.1 Testimonianze integrali B = Milano, Biblioteca Braidense, AG. XI. 9 (già AN. XIII. 32). Cartaceo, sec. XVI in.; mm 147 × 100; 48 fogli numerati in penna in basso a destra dalla stessa mano che stende il ms., o comunque coeva. Bianche le cc. 47v e 48. Corsiva umanistica; una sola mano scrive tutto il codice (salvo minime aggiunte alle cc. 16v e 24v) e apporta una serie di correzioni, quasi sempre su rasura, su cui si veda più avanti in questa Nota. Descritto in Manus on line da Barbara Maria Scavo; filigrana simile a Piccard, Lilie, n. 442, legatura in pelle. Nell’Inventario parziale di manoscritti moderni braidensi con collocazione AC-AH; ARM.; Fondo Castiglioni, a cura di Maria Luisa Grossi Turchetti, vol. 4 AF AG AH AN ARM, si legge: «Prov.: Il conte Vaccari, allora ministro del Regno d’Italia, lo acquistò ai primi dell’Ottocento dall’abate Gaetano Fantuzzi, bibliotecario a Reggio Emilia, per farne dono alla Braidense». Titolo: Pastorale del Mag(nifi)co conte d(e) Scandiano / Matheo maria Boiardo. Lu = Lugano, Biblioteca privata. Cartaceo; sec. XV ex. – XVI in.; mm 210 × 150; 87 fogli. I fogli originali erano in realtà 43, numerati in penna in basso a destra dalla stessa mano che stende il ms., o comunque coeva, da 1 (che corrisponde all’attuale 7) sino a 36. A questi sono state intercalate, una ogni foglio, 41 carte rimaste bianche; aggiunte anche 3 carte iniziali. Una numerazione moderna, a matita, in alto a destra su tutte le carte (fogli bianchi esclusi). Corsiva umanistica; una sola mano scrive tutto il codice e apporta una serie di correzioni, in parte contemporanee alla stesura del manoscritto, in parte successive. Per le diverse correzioni e la loro tipologia si rimanda a quanto detto più avanti in questa Nota. Legatura ottocentesca. 35

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Alla c. 6 (r e v) si legge: Questo MS.to è il citato dal Quadrio / come da lui veduto presso li Sig.i Soliani / stampatori di Modena, il quale Egli sperò / che presto vedrebbe la pubblica luce. Io l’ho / avuto dalla gentilezza dei Sig.i Amici succe / duti nella Stamperia Soliani. // L’anno 1812 il Sr. Vaccari Ministro dell’ / interno fece acquistare un altro Codice / Ms.to delle medesime Egloghe, il quale trova / vasi in Reggio presso il Sig.r Bibliotecario / Fantuzzi; e lo passò alla Biblioteca di Brera, / nel [sic] quale trovasi pur di presente. Il Sig.r / Cav.r Luigi Lamberti pubblicò successiva / mente nel Poligrafo sei delle suddette / Egloghe; poi morì, e ciò forse gli impedì la / pubblicazione delle rimanenti. / Io avea fatto legare questo mio già Solia / ni con interposta una carta bianca a ciascun / foglio, con intenzione di notare su d’essa carta / le varianti del Ms.to Fantuzzi. Ma poi esaminandolo / ho trovato non essere che una copia / mediocre del mio: onde non ho fatto altro / che notare sul mio in margine le poche / varianti prese dall’altro Codice. / 10 luglio 1819. Giambattista Venturi.1

Fascicoli: cinque quaderni (richiami alle cc. 8v, 16v, 24v e 32v). Le ultime due carte originali sono bianche. Titolo: Pastorali (con i ricalcata su e) del Mag(nifi)co conte d(e) Scandiano / Matheo maria Boiardo. Il piatto anteriore interno della copertina reca l’ex libris del padre della attuale proprietaria e una notazione a matita: «Boiardo. Poesie / Modena 1  Sui margini dei fogli originali del ms. si trovano, infatti, molte delle varianti di B (detto Fantuzzi dal nome del vecchio proprietario). Se ne dà qui l’elenco, con l’avvertenza che in più di un luogo il Venturi è piuttosto impreciso, e soprattutto, registra anche lezioni che sono identiche in B e in Lu: I, 33 «appare Ms. Fant[uzz]i»; 62: «Alcino e (Ms. Fantuzzi)»; 82 «asserena Ms. Fant.»; 102 «al tuo Ms. Fantuzzi»; 133 «piante Ms. Fant.»; II, 9: «al petto Ms. Fantuzzi»; 99 «frenire Ms. Fantuzzi»; 107 «soi Ms. Fant.»; III, 20 «e l’altro Ms. Fantuzzi»; IV, 18 «disequalli Ms. Fant.»; 24 «avena Ms. Fantuzzi»; 59 «presa Ms. Fantuzzi»; 127 «ragaglia Ms. F.» (in realtà B reca ragalia); 130 «fatie Ms. F.»; 145 «retene Ms. F.»; 149 «ringuarda Ms. Fantuzzi»; 162 «volto Ms. Fantuzzi»; 168 «presagio Ms. Fantuzzi»; V, 6: «arde ms. F.»; 53: «so Ms. F.»; 68 «bruna Ms. F.»; VI, 1 «se vi duri Ms. F.»; 3 «sorgie intorno Ms. Fantuzzi»; 32 «far (Ms. Fant.)»; VII, 85 «e quanto mai Ms. Fant.»; 90 «pigior Ms. Fantuzzi»; 111 «altro e anchor piu barbaro Ms. Fantuzzi»; VIII, 72 «megliore Ms. Fantuzzi»; X, 103: «inselta Ms. Fantuzzi»; 143: «quella Ms. Fant.». Di mano tarda (ma forse diversa da quella del Venturi) alcuni altri interventi: a c. 16r, in corrispondenza di IV, 99 «cifre» (proposto in sostituzione del difficile celse del testo); a c. 25r viene espunto il punto di domanda al v. 29 e viene invece inserito al v. 30.

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nota al testo

1820». Sul foglio di guardia una notazione recente a matita: «ms. / del sec. XVI. / ms. citato dal Quadrio come da lui veduto presso i Signori / Soliani stampatori di Modena, poi dai successori / di questi stampatori donato al Sig.r Giambattista Venturi (vd. più avanti le relative dichiarazioni a penna del prefato Sig.r Venturi, in data 10 luglio 1819)»; sul piatto posteriore interno, a matita, la data «Martedì 17 agosto 1954 matt.». Il ms. Lu ha una storia interessante e curiosa: è il primo testimone delle egloghe volgari di Boiardo ad essere conosciuto, quando, nel 1735, lo stampatore modenese Bartolomeo Soliani ne diede notizia, aprendo nel contempo un ampio dibattito fra gli studiosi sulla paternità boiardesca dell’operina bucolica.2 Non fu però il Soliani a stampare le Pastorale sulla scorta di Lu bensì, nel 1820 Giambattista Venturi, in Poesie di Matteo Maria Boiardo;3 nel frattempo era riemerso anche il ms. B, acquistato a Reggio Emilia dal bibliotecario Gaetano Fantuzzi, e donato alla Biblioteca Nazionale Braidense di Milano (su B si fonda l’edizione Lamberti del 1812). Il Venturi valutò B una «copia mediocre» di Lu, e condusse la sua edizione solo su quest’ultimo. Purtroppo lo fece secondo gli usi del tempo, cioè intervenendo pesantemente sull’assetto grafico fonetico del testo. L’impresa fu tanto più sfortunata perché di Lu, dopo l’edizione Venturi, si persero le tracce sino al 1993, anno del celebre articolo di Pedroia-Pozzi, da cui data la rinnovata attenzione al problema del testo critico delle Pastorale. 1.2 Testimonianze parziali A = Manoscritto segnalato da Altamura, allo stato attuale delle conoscenze non più recuperabile. Secondo le indicazioni dello studioso tramanda (o tramandava) il testo dell’egloga IX: «Luigi Lubrano, libraio in Napoli, mi ha indicato un foglio manoscritto di sua proprietà, ritrovato in fine a un libro cinquecentesco, il quale contiene, anonima, [...] l’egloga IX del Per le vicende di Lu rimando a Mengaldo 1962, 426-27, Pedroia-Pozzi, Spaggiari e Riccucci 2008a e 2008b. 3  Le edizioni delle egloghe volgari sono elencate alla fine della presente nota, dopo l’esame dei mss. 2 

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Boiardo. Questo ms. (A), di mm 310 × 210,50, prima metà del secolo XVI, scritto su due coll., ha per titolo: In questa egloga lamentase cantando Coridone per la sua cara Nisa ad Mopso maritata. Inc.: Fiorita riva e voi verdi arboscelli. Des.: Mal sta chi per altrui sé stesso perde». La sua testimonianza entra nella discussione testuale e in apparato (Altamura ne registra le singulares), con tutti i dubbi che porta con sé una tradizione indiretta. M = Venezia, Biblioteca Marciana, It. Z. 60 (=4752). Cartaceo, sec. XV ex. – XVI in. Titolo Egloghe Capitoli ed altre Rime volgari del sec. XV . Descritto da Carlo Frati e Arnaldo Segarizzi, Catalogo dei codici marciani Italiani, Modena, Ferraguti, 1909, I, pp. 55-58; si veda anche Riccucci 1999, che propone per il codice una datazione attorno agli anni Novanta del Quattrocento. Da c. 74v a c. 78r reca la prima egloga, attribuita a Tito Vespasiano Strozzi; rubrica: «Tytius strotius vespasianus / Tytirus et Mopsus interloqutores». R = Roma, Biblioteca Vaticana, Vat. Lat. 11255. Cartaceo, sec. XV; alla c. 4v contiene I, 112-4 e II, 22-4 (di mano, come le altre parti poetiche, di Bernardino Grapella). È un manoscritto noto,4 allestito da più persone della famiglia di Grapelino Grapella, «spenditore» di casa Boiardo. Le due terzine sono poco utili ai fini della constitutio textus: la prima, fatti salvi fatti grafici (fra cui l’ipermetro cagione), corrisponde al testo di Lu; nella seconda da rilevare un’altra ipermetria, questa non solo grafica, nella lezione destruge (v. 24) in luogo di strugge. Qualche elemento linguistico potrebbe essere originale: per esempio in nel al v. 23, che è forma ben boiardesca, in luogo di nel (precede vocale). Ma non si è azzardato un restauro, che avrebbe poi modificato la facies del testimone di riferimento, piuttosto tardo, ma coerente e, secondo me, non lontanissimo dall’originale boiardesco.

4  Segnalato da Reichenbach 1921; in seguito studiato da Bronzini, che ne ha offerto anche l’edizione. Più recentemente da Guerrini, che ne ha proposto una datazione di poco successiva al 1480 e da Benvenuti 1996; descritto in ultimo da Zanato 2012 (cui rinvio), XXXVI-XXXVII, che ne modifica la datazione in post 1484, stante la data di composizione delle Pastorale suggerita da Carrai 1998 (ma si ricordi che il convegno è del 1994).

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nota al testo

2. Rapporti fra i testimoni L’assetto stemmatico delle egloghe boiardesche è piuttosto semplice, soprattutto dopo il ritrovamento del ms. di Lugano, la cui lezione veniva ricostruita da Mengaldo solo sulla scorta di copie,5 ma che oggi, grazie alla generosa disponibilità della proprietaria, è direttamente fruibile. Questa circostanza fa sì che tutti descripti di Lu possano essere eliminati dalla discussione: sono importanti storicamente, e documentano un processo – piuttosto ovvio e piuttosto noto – di progressiva normalizzazione del testo in direzione toscana. A livello ecdotico sono del tutto ininfluenti. Le dieci egloghe, dunque, sono testimoniate solo da B e da Lu, tranne la prima, che gode di una circolazione extravagante di cui offre testimonianza M (di questo in seguito). Meno rilevante la testimonianza di A per la nona, di cui pure si tratterà più avanti. Due soli testimoni, oltre tutto vicinissimi fra loro sia nelle lezioni che nell’assetto grafico fonetico, non lasciano intravedere una sconfinata pluralità di configurazioni stemmatiche; la situazione può essere ulteriormente semplificata, dal momento che – come mi propongo di dimostrare – B è copia di Lu.6 In teoria, forse, potrebbero sussistere anche altre ipotesi, ma direi che quella della diretta derivazione del ms. milanese da quello di Lugano è senza dubbio la più economica. Parto dagli errori comuni, che sono piuttosto numerosi e dimostrano che i due mss. sono strettamente imparentati.7

Si rimanda per un esame più approfondito a Mengaldo 1962; i mss. in questione sono l’Ashburn. 1252 (1178) della Biblioteca Laurenziana di Firenze (copia di Lu fatta preparare dal Soliani) e il Pal. 252 (345. E, 5,5,3) della Biblioteca Nazionale di Firenze (copia dell’Ashburn. 1252 realizzata nel 1793 da Gaetano Poggiali). A questi si deve aggiungere l’edizione Venturi del 1820, in Poesie di Matteo Maria Boiardo, esemplata, con parecchi interventi personali del curatore, sul ms. oggi a Lugano. 6  L’ipotesi era già stata avanzata dal Venturi (come si legge nella sua nota riportata nella nostra descrizione del codice), ed è poi stata ripresa, in forma dubitativa, nel contributo di Pedroia Pozzi, 271; trascurata invece da Riccucci 2005, poco attenta, sotto molteplici profili, all’assetto dei testi. 7  La prima lezione è quella dei mss.; fra parentesi, qui e in seguito, la forma a testo; agli errori si devono poi sommare le congruenze grafiche, sin nei minimi dettagli. 5 

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I, 46 I, 73

lamentare (lamentar). diluio (diluvio); considero la forma un lapsus calami, di fronte alla compatta attestazione fra Duecento e Quattrocento di diluvio, anche se è presente, in rima con buio, nella Canzona dei poponi di Massa Legnaiuolo (Bibit), ed è registrata, nella variante diluiolo, anche dal TLIO. I, 96 sina (sin) I, 102 al tuo (altrui). I, 128 ueda (vedrà). I, 140 ardire (ardir). I, 150 Nomandi (Nomadi). I, 152 faran (saran). II, 107 soj (B), suoj (Lu) (tuoi). III, didasc. cantando (cantano). III, 13 geloso (geloso a). III, 27 ardore (ardor). III, 63 o saro (e sarò). III, 72 doro (d’or). IV, 37 superb escie (superbo escie); pare una forma aberrante di elisione non formalizzata da apostrofo (affine a quelle, con apostrofo, presenti nella X egloga; o al caso di X, 97 com altri, senza apostrofo e staccato), ma potrebbe anche essere più banalmente un errore. IV, 39 gaj (guai). IV, 117 fia (sia); qui B reca anche una correzione da fra a fia. V, 62 touo (trovo). V, 70 hora diuolti (hor duolti). VII, 49 pastori (pastor). VII, 64 monte (fonte); errore di ripetizione dal v. 62. VIII, 6 singozi (singiozi). VIII, 26 prede (preda); errore in rima. VIII, 40 parde (perde). VIII, 42 amor (ancor). VIII, 52 e il mondo e (è il mondo). VIII, 73 Quanto (Quando). IX, 59 spiecar (spiccar). IX, 69 laltro (l’altra). IX, 86 seguite (seguire). X, 21 se confonde (me confonde). X, 107 pensare (pensar). X, 116 carbono (carbone); errore in rima. X, 144 suo sede (sua sede); Boiardo non usa mai la forma indeclinabile suo per il femminile. X, 152 li (le). 40

nota al testo

I due mss. recano poi alcuni errori singolari: quelli che qui ci interessano sono soprattutto quelli di Lu, perché, se B è copia di Lu, devono essere tutti emendabili per congettura, ad opera di un copista attento (la dimostrazione delle qualità del copista di B segue poco più in basso). Procedendo in ordine alfabetico di sigla, inizio però dagli errori singolari di B; che siano o meno emendabili per congettura non interessa molto nella mia prospettiva, comunque alcuni di certo non lo sono. I, 62 I, 175 II, 99

Alcinoe (Alcione). acconda (accenda). frenire (fremir); emendabile per congettura, anche se forse non con molta facilità. III, 46 Quando (Quanto); praticamente impossibile da emendare. III, 69 dolor (doler). IV, 87 sospiri (sospir). IV, 157 dimostrar (dimostrare); errore in rima. IV, 162 uolto (volo); difficile da emendare per congettura. VI, didasc. nascondedo (nascondendo). VI, 109 seguira (seguiria). VII, 56 cedre (cedere). VII, 85 quanto (quanti). VII, 111 barbaro (barbero); errore in rima. IX, 11 Nysa (Nysa è); il verbo essere è indispensabile, e l’emendazione non è per nulla agevole. X, 56 ritrouata a (ritrovata). X, 103 inselta (iscelta); emendazione impossibile.

Veniamo ora ai pochi errori di Lu: tutti emendabili senza nessuna difficoltà, tranne forse uno, su cui varrà la pena di riflettere un po’ più a lungo. I, 50 I, 138

II, 57 III, 66 IV, 24

oue il il (ove il). a megio istade (a megia estade); la costruzione senza accordo è registrata dal TLIO, ma con un solo esempio da Ristoro d’Arezzo. Ragionevole ipotizzare che quello di Lu sia un errore, facilmente emendabile per congettura. codusse (condusse). tuo bel nome (suo bel nome); errore di anticipo di Lu. aueno (avena); errore in rima. 41

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IV, 46

hauesser (avesse); l’emendazione ope ingenii non è agevole. Possiamo forse supporre che il copista di B abbia copiato male dal suo antigrafo, che in quel punto è poco leggibile, introducendo una lezione corretta. V, 30 iuita (invita). V, 60 ovj io (ov’i’) V, 68 brina (bruna). VII, didasc. amaboro (amabeo). VIII, 13 Mel (Men.). X, 151 opere (opre). X, 167 Duce (duca); Alfonso in tutta l’egloga è sempre detto duca.

Vengo ora ai punti fondamentali del ragionamento: Lu reca numerose correzioni, di varia tipologia. Interventi su rasura, inserzione di lettere dimenticate, correzioni in rigo, correzioni per ricalco: difficile capire se sono da ricondurre a mano diversa da quella che stende il resto (tranne gli interventi in rigo, che sono necessariamente della stessa mano); l’inchiostro è simile e così la grafia. Il fatto fondamentale è che tutte queste correzioni, tranne quella sul titolo, instaurano un testo identico a quello tràdito da B.8 Ne do di seguito l’elenco, segnalando anche la tipologia dell’intervento. titolo I, 7 I, 19

I, 28 I, 56 I, 70

Pastorali su Pastorale (per ricalco); la dimensione del puntino sulla i è molto superiore alla media, quasi a mimetizzare l’occhiello della e. meschin da mischin (per ricalco). lo ungion da le ungie (per ricalco); è vero che ungion è assai boiardesco, cfr. IO in varie occorrenze, però a PE II, 88 c’è l’ongie, e sono sempre quelle del leone di San Marco. Lo schema degli accenti è diverso nei due casi: con ungie abbiamo una serie 3a 8a 10a, possibile ma più rara di quella di quella 4a 8a 10a che risulta con ungion. Potrebbe essere la spia di una vera variante, forse il relitto di una lezione più antica ancora leggibile in antigrafo. tygre hircane da tygre hircana (per ricalco); la correzione rende più evidente il parallelismo fra i due membri del verso, entrambi da considerarsi plurali. asumigliaua da asumiglia (per ricalco); la lezione base di Lu è senza dubbio errata per rima. sol da sole (e espunta e depennata).

8  Anche a III, 69 e a VII, 49 B non legge come Lu corretto, ma il caso è diverso da quello del titolo; a VIII, 112 B reca la stessa correzione di Lu.

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nota al testo

I, 96 sina da sin (per ricalco; la correzione introduce un errore, condiviso poi da B). I, 129 Phoebo da Phebo (per inserzione). I, 132 inicio da initio (per ricalco; l’intervento riguarda il sistema delle rime: in Lu precipicio : auspicio, in B precipitio : auspitio : initio. La correzione regolarizza la serie di Lu, mentre B adotta in blocco l’altra serie). I, 140 ionctura da iunctura (per ricalco). I, 140 ardire da ardir (per ricalco); ardire è un errore perché causa ipermetria; B legge come il secondo stadio di Lu e quindi concordano in errore. I, 159 adamante da adamanto (per ricalco); quella con la -e è la forma in uso, mentre l’altra sarebbe possibile con metaplasmo di declinazione, ma non risulta attestata nei consueti repertori lessicografici. I, 162 contro da conto (per inserzione). I, 176 zoglia da doglia (per ricalco; d è erasa). I, 181 dicj da dice (per ricalco). II, 4 folte da folti (per ricalco). II, 7 armento da armente (per ricalco). II, 12 serebe da serebbe (seconda b espunta). II, 98 credeti da credeti quel (cassato in rigo). III, 3 Amphriso da Ampriso (per inserzione). III, 38 hebi da hebe (per ricalco). III, 48 sol da cel (per ricalco). III, 69 doler da der (per inserzione; B legge dolor). III, 79 accende da accendo (per ricalco). III, 83 struggie da strugge (per inserzione). III, 113 uive da uiva (per ricalco). IV, 7 riguardj da riguarda (per ricalco). IV, 57 confino da confine (per ricalco). IV, 83 uoglian da uogliano (o depennata). IV, 110 et da e (per ricalco). IV, 127 figlio da figliol (l depennata). IV, 139 festegiar da festegar (per ricalco). IV, 156 focho da focco (per ricalco). IV, 156 thauro da tauro (per inserzione). IV, 168 mio pensier da pensier (per inserzione). V, 4 frondoso da frondose (per ricalco). V, 55 inuocho da inuocco (per ricalco). V, 60 ouj da oue (per ricalco; probabilmente intendendo ov’i’, cioè ‘ove io’, ma dimenticando di cancellare l’io che segue; B legge ouj). V, 83 temo da tanto temo (tanto depennato; sembrerebbe il relitto di un differente assetto del testo nell’antigrafo di Lu, ma la diversa lezione avrebbe comportato un sistema delle rime in -emo, quindi un cambiamento). VI, 9 phrigio da prygio (per inserzione). 43

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VI, 14 VI, 14 VI, 44 VI, 59 VI, 60 V, 61 VI, 80 VI, 89 VI, 103 VI, 113 VII, 8 VII, 40 VII, 49 VII, 75 VII, 87 VIII, 3 VIII, 58 VIII, 59 VIII, 61 VIII, 86 VIII, 112 VIII, 116 VIII, 118 IX, 27 IX, 32 IX, 71 IX, 74 IX, 89 X, 28 X, 81 X, 98 X, 113 X, 122 X, 150

tragge da traggi (per ricalco). tal segue cassato ragione depennato in rigo dalla mano che scrive; anche questa lezione potrebbe essere spia di un precedente assetto del testo, con un diverso sistema delle rime. Pero da Peroh (h depennata). uerde da uerda (per ricalco). miraglio da mirallo. mano da manno (titulus depennato). qualunque da qualonque (per ricalco). rendesse da rendessi (per ricalco). cotanto da cotanta (per ricalco). guardar da guardare (e depennata). cosa da cossa (s cassata e espunta). te segue una lettera, forse h, cassata in rigo. pastor da pastori (i cassata; B forse non ha visto il segno di cassatura, molto leggero, o forse ha copiato male; comunque legge pastori). suo segue suo cassato. ale da ali (per ricalco). duplicata segue la cassato (potrebbe essere relitto di una diversa lezione: duplicata la misura). Ben da Bene (e depennata). piangesse da piangese (per inserzione). tua segue dolce depennato e espunto. crudel da crudele (e depennata). Cosi da Cossi (con seconda s depennata); B reca la stessa correzione. mostro segue mo cassato. que soi da quei (per inserzione). stral da stal (per inserzione). uergogna da uergna (per ricalco). uegendome da veuendome (per ricalco). curuo spscr. a crudo (che è depennato dalla stessa mano). chiudera da chudera (per inserzione). dolcie da dolce (per ricalco). par che da parche (con una lineetta che divide le due parole). altri da altro (per ricalco). son da suon (u depennata). imperial da imperiale (e depennata). chiude da chude (per inserzione).

Si noti subito, ma sul punto ritornerò più avanti, che alcune di queste correzioni suggeriscono che l’antigrafo di Lu non sia molto lontano 44

nota al testo

dall’originale boiardesco, o dalla copia del segretario: si vedano gli interventi a I, 19; 28; V, 83; VI, 14 (con qualche difficoltà per questi due ultimi perché implicano la parola rima); VIII, 3, dietro i quali si intravede forse un ms. con varianti alternative. Questo stato di cose rende impraticabili alcune ipotesi stemmatiche: B e Lu non possono discendere dallo stesso antigrafo, né avere antigrafi diversi, e non è neppure ipotizzabile che Lu derivi da B. Rimane, come si vede, una sola alternativa possibile, e cioè la dipendenza diretta di B da Lu: le correzioni funzionano in questo caso un po’ come le famose “prove materiali” di cui va in cerca il filologo, di solito invano: strappi, macchie di umidità e così via. Non proprio la stessa cosa, ma assai simile. Funge invece da prova materiale, questa indiscutibile, una notevole frattura che si riscontra nella stesura di Lu: a metà circa della decima egloga, fra il v. 84 e il v. 85, dopo avere scritto la prima terzina della c. 37r, il copista interrompe il suo lavoro. Quando lo riprende (impossibile valutare il tempo intercorso) il ductus è nettamente più affrettato, l’inchiostro più scuro, la scrittura più compressa, tanto che sembrerebbe di trovarsi di fronte a una seconda mano.9 A partire da questo punto troviamo nel manoscritto apostrofi10 (il primo al v. 92 s’odera, cui ne seguono molti altri) e qualche accento (il primo al v. 159, più, cui ne seguono altri due; due sono del solo Lu, non condivisi da B, è al v. 164 e dimostràr al v. 168). Cambia la grafia da cel a ciel, compare la scrittura con (co con titulus), in luogo del precedente cum (sempre con titulus), per la prima volta tigri è scritto senza y (v. 85); infine, a parte l’occorrenza del v. 92, scompare la forma abbreviata di de, come pure quella scritta per esteso: la preposizione è solo di; alla forma analitica di tutte le preposizioni si affianca quella sintetica. A ciò si aggiunga che 37, 38 e 39 sono le uniche carte che non rechino la numerazione originale in basso a destra. Troppo rischioso az9  Sandro Bertelli, dopo attenta valutazione condotta sull’originale del codice, propende per l’ipotesi che si tratti della stessa mano, che riprende il lavoro dopo un certo lasso di tempo. Si possono individuare, infatti, prima e dopo lo stacco, elementi peculiari identici; si tratta soprattutto di una particolare forma della a e di una h, per nulla standard, che viene utilizzata alla c. 18r in Theseo e alla c. 37r in pocho (di quest’ultima si veda la riproduzione). 10  Nella parte precedente da segnalare il caso di IV, 37 superb escie, quasi una forma di elisione non formalizzata con l’apostrofo, o, più banalmente, un errore di Lu passato a B.

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zardare ipotesi (la più economica, è chiaro, sarebbe quella del cambio di antigrafo, ma a metà di un’egloga, a pagina iniziata?); quello che è certo è che B segue in toto la nuova trascrizione di Lu: tutto identico, ma senza che, nella stesura del codice, si evidenzi frattura di sorta. A conferma ulteriore dell’ipotesi soccorrono anche alcune delle correzioni di B: il copista, infatti, è tutt’altro che passivo di fronte al testo, e interviene più di una volta per sanare piccoli lapsus calami oppure, ed è quello che qui mi interessa, per emendare lezioni uguali a quelle di Lu e avvertite come errate. Sono tre casi significativi cui se aggiungono due meno importanti: I, 5

armento da armente; B reca come base la lezione di Lu, corretta per ricalco in quella esatta, garantita dalla rima. I, 31 e rare da errare; il copista settentrionale di B non percepisce il valore del raddoppiamento fonosintattico e pensa forse all’infinito del verbo errare; dunque interviene sulla forma. V, 8 iudicharia da iudicheria (per ricalco e iudicheria è la lezione di Lu: non è molto significativo perché le due forme sono adiafore, però è un caso analogo agli altri). VIII, 35 quando da quandi; B corregge per ricalco una lezione uguale a quella di Lu. VIII, 115 questa da quella (quella è la lezione di Lu: le lezioni sono adiafore, ma la base di B legge come Lu).

Registro qui, per comodità, anche gli altri interventi di B riconoscibili: si tratta quasi sempre della eliminazione di piccoli errori sanabili per congettura, o ricollazionando l’exemplar (si intende che la lezione finale è uguale a Lu, salvo non sia diversamente segnalato). In qualche caso il copista instaura una lezione più o meno adiafora alla sottostante; di alcune correzioni ricalcate non è più possibile leggere la lezione originale. I, 120 II, 10 II, 56 IV, 12 IV, 44 IV, 71

tuto a da tuto (la a è inserita ed è indispensabile al senso). mar da mare (e cassata con lineetta; viene sanata una ipermetria). aethrusca da aetrusca (h inserita dalla stessa mano). pianto inserito dalla mano che scrive il ms. il da al (per ricalco; al potrebbe essere l’articolo emiliano, ma in PE non è mai usato). douia da douea (per ricalco). 46

nota al testo

IV, 103 IV, 113 IV, 117 IV, 125 V, 1 VI, 19 VI, 46 VI, 49 VII, 21 VII, 41 VII, 50 VIII, 5 VIII, 58 VIII, 61 VIII, 62 VIII, 86 VIII, 93 VIII, 112 IX, 4 IX, 26 IX, 62 X, 23 X, 99 X, 144 X, 169

impinga da impigna (per ricalco). alegri da alegra (per ricalco). fia da fra (per ricalco; errore, di B e di Lu, per sia). idalia da idelia (per ricalco). ingombra da ingambra (per ricalco). pioggia (per ricalco da lezione illeggibile). al da il (per ricalco; la lezione di Lu è il). dileguo da disleguo (s espunta). iniuria da ingiuria (g espunta). fiacole da fiachole (h eliminata con un trattino). e inserito dalla mano che scrive il ms. noj da voj (per ricalco). haurebe segue cassato di. dolcie da dolce (per ricalco). dolcie da dolce (per ricalco). grato da grapo (per ricalco). chi (ch’i’) da chio (per ricalco. Chio è la lezione di Lu; adiafore). Cosi da Cossi (con seconda s depennata); da ricordare che Lu reca la stessa correzione. chel da del (per ricalco). percuote da percote (per ricalco). scalpizato da scalpezato (per ricalco). figlio da figliol (l erasa). subito da subite (per ricalco). prima da prma (con i inserita). pur da par (per ricalco).

Mi rimane da affrontare, a questo punto, solo l’unica correzione di Lu che B non recepisce,11 e cioè quella sul titolo: Pastorali, infatti, è evidente ricalco su un sottostante Pastorale. L’anello della e viene coperto da un puntino di dimensioni notevoli, ma nell’originale si legge perfettamente.12 Proprio il fatto che B non accolga la correzione, oltre alla particolarità grafica del puntino abnorme, mi ha fatto pensare che l’intervento sia tardo, successivo alla stesura di B, e ininfluente ai fini della constitutio textus: il titolo, quindi, resta Pastorale, comunque plurale, ma nella variante settentrionale. A parte quelle di III, 69 e VII, 49, che sono però casi diversi, come si è già detto. La correzione è ben visibile anche nelle due riproduzioni della prima carta di Lu pubblicate in Riccucci 2008a e Riccucci 2008b. 11  12 

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Per l’egloga I si dà una configurazione testuale differente: alla testimonianza di B e di Lu, infatti, si affianca quella di M; estravagante, come dimostra anche l’attribuzione del testo allo Strozzi, ma di grande interesse, come notava già Mengaldo nella Nota sul testo della sua edizione. Alcuni dati ecodotici appaiono di notevole importanza; M non condivide importanti errori di Lu (e quindi di B), non sanabili per congettura: legge infatti altrui e non al tuo al v. 102 e uedra e non ueda al v. 128; al v. 150 reca numidi e non il Nomandi di B Lu (a testo ho preferito utilizzare la forma Nomadi). A questi luoghi si aggiungono altre lezioni non erronee meno significative, come lacrimar al v. 46 in luogo dell’ipermetro lamentare, diluuio al v. 73, invece di diluio, mento per la prima persona singolare e non mente al v. 129, e ardir al v. 140 per l’ipermetro ardire; al v. 152, infine, M legge seran e non l’erroneo faran. In due casi ho preferito la lezione di M a quella, pure plausibile ma di qualità inferiore, tràdita da B Lu: v. 69 se al mondo e non sel mondo e laqua al v. 83, poziore rispetto a laque perché il sostantivo si inserisce in un elenco di termini tutti al singolare. Oltre a ciò il ms. è portatore di numerosissimi errori suoi propri (se ne veda un elenco parziale nella Nota di Mengaldo, p. 433; gli altri sono facilmente ricavabili dall’apparato), e di una notevole messe di lectiones singulares. Errori e lezioni (non grafie) sono stati tutti registrati; sulla qualità delle singolari è difficile esprimere un parere, anche perché la generale impressione di scorrettezza del codice ne offusca più del dovuto il valore. È senza dubbio possibile, secondo me probabile, che alcune di queste lezioni risalgano a una diversa redazione d’autore; nell’apparato, che per questa egloga I è cospicuo, ho evidenziato in grassetto le singulares di M (se una parte della lezione è errata, solo la porzione variante). Registro qui i casi più interessanti (l’elenco coincide solo in parte con quello prodotto da Mengaldo a pp. 434-6); la prima lezione è quella di M; segue quella di Lu, che si intende sempre uguale a quella di B, salvo oscillazioni grafiche. 8

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duro sasso (crudo sasso); il «crudo sasso» è quello dantesco di Par. XI, 106; ma «duro sasso» vanta (Bibit) illustri quarti di nobiltà, anche petrarchesca. A IV, 51 tornano i «crudi sassi», rispetto ai quali il «duro sasso» di M potrebbe essere una variatio. Chiamando al ciel aiuto (chiedendo al celo aiuto); adiafore: anche in IO i due costrutti si alternano alla pari.

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nota al testo

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Fato e gia pasto e preda (quasi e gia preda e pasto); adiafore, anche se la lezione di Lu è semanticamente meno radicale di quella di M. 24 cum tal parole a lacrimar (cum tal pietade a lacrimar); adiafore, anche se a supporto della lezione di Lu si può forse allegare IO I, xxvii, 53, 1-2: «Al fine del parlar,  lachrymando / abassò il viso con molta pietate» (se si trattasse di correzione d’autore, il passo del poema potrebbe del resto essere l’origine sia della prima che della seconda versione). 28 tigre ircano o qual aspido dire (tygre hircane o qual aspide dire); M reca due maschili singolari (come i luoghi affini di Saviozzo e di Correggio citati nel commento); Lu, che qui però porta una correzione sua propria, due plurali, comunque maschili. 46 a lacrimar son stato insano (al lamentare son fatto insano); la lezione di Lu è ipermetra (il che qui non rileva), ma quella di M sembra connessa a Pastoralia II, 59: «[...] si lacrimis insanus cesserit ardor», e quindi indiziata di essere d’autore. 75-76 sua porta serra / i sacri templi e sua santa cultura (la porta serra / soj sacri tempij e sua santa cultura); le due lezioni sono adiafore, ma implicate l’una con l’altra. Sussiste, quindi, una chiara volontà di intervenire sul testo. 81 fra londe stigie (tra lombre stygie); onde è giudicato da Mengaldo (p. 436) facilior. Il che è senz’altro possibile, ma dietro onde si intravede Poliziano Stanze I, 36, 5: «qual fino al labro sta nelle onde stigie». 94, 97-98 Leua le membra [...] Leua di terra tua lassa persona / driza lumida facia et alcia il ciglio (Alcia la mente [...] Leua di terra tua lassa persona / Leua la humida facia et alcia il ciglio); membra senza dubbio è errore di M, mentre nella alternanza delle forme verbali è forse individuabile una volontà esplicita. 115 Atendi al mio consiglio (Atendi al mio conforto); devo dire che la lezione di Lu (condivisa anche da R), che pure ho conservato, mi lascia perplessa. Potrebbe certo essere una difficilior, visto che attendere qui vale ‘prestare attenzione’, ma l’eco di IO II, xv, 53, 6: «Ora attendi al consiglio che io te dico» è forte, difficile da cancellare. 128 uedra el salir de fonti e il precipizio (ueda il salir de stati e il precipicio); come già osservato da Mengaldo (p. 437), è uno dei luoghi che suscita più dubbi (e si ricordi anche l’erroneo ueda di B Lu, di cui ho già parlato). Fonti, infatti, si innesta nel sistema simbolico inaugurato dal «santo rivo», là dove le sorgenti possono sgorgare per poi sprofondare, in balia della Fortuna; stati, invece, appiana la metafora, forse la appiana anche troppo. Come nel caso precedente, non sussiste comunque la necessità di emendare Lu.

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Qualche osservazione conclusiva su M, e sulla prima egloga nel suo complesso: se riteniamo che alcune delle varianti siano d’autore, come a me pare probabile, resta da chiarire se il ms. testimoni una prima fase di PE I o un suo sviluppo ulteriore. L’esame dei luoghi, come si è visto, non è risolutivo, anche se mi sembra probabile che M, o un suo antigrafo, abbiano derivato l’egloga da una testimonianza isolata (fuori quindi dal macrotesto dei dieci componimenti come lo conosciamo), riconducibile a un ambiente ferrarese, ma non allo scriptorium del poeta, vista l’attribuzione allo Strozzi. Resta indubbio che questo testo, che pure deve essere stato composto fra gli ultimi (cfr. vv. 145-7 e nota relativa), è quello che reca le più evidenti tracce di un intervento autoriale: lo confermano anche due delle correzioni di Lu, ai vv. 19 e 28; la seconda, oltretutto, riguarda un luogo che anche in M è variante, e investe l’oscillazione singolare / plurale dei due elementi che compongono il verso. Anche le Pastorale, come i Pastoralia, gli Amorum libri e forse la parte finale del II libro dell’Inamoramento, potrebbero dunque essere state oggetto di una – parca – revisione; il dato cambia non poco la prospettiva statica offerta dall’edizione Mengaldo, e ribadisce l’attenzione che Boiardo prestò sempre ai propri testi, anche a quelli apparentemente più periferici e negletti come le egloghe volgari composte in gloria di un principe prezioso, ma solo fugacemente, per la casata estense. Anche PE IX conosce una terza attestazione manoscritta, allo stato attuale delle cose ricostruibile solo per via indiretta: Altamura fornisce infatti l’elenco delle varianti del codice da lui segnalato sia rispetto a B sia rispetto alle due copie di Lu di cui alla n. 3. È ovvio che questa testimonianza non ha un valore paragonabile a un manoscritto, ma qualche elemento interessante emerge comunque. Intanto A certifica la diffusione delle egloghe boiardesche fuori dal territorio estense, e più precisamente nell’area napoletana cui le lega la presenza di Alfonso di Calabria: difficile immaginare, infatti, che l’egloga IX – di contenuto non storico – sia arrivata isolata in terra aragonese. In secondo luogo, il testo tràdito da A, da quanto si evince dal regesto variantistico di Altamura, potrebbe essere indipendente da Lu e dunque dalla sua copia B: non reca, infatti, l’errore del v. 59, dove legge sspicar e non spiecar come B Lu, e l’emendazione è praticamente impossibile. Parrebbe invece condividere con gli altri testimoni l’erroneo laltro al v. 69 in luogo di laltra, visto che Altamura 50

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non segnala variante, e legge anche sequite (B Lu seguite) e non seguire (emendazione di Mengaldo); ambedue gli errori risalirebbero dunque a un livello più alto dello stemma. Anche la facies grafica si distacca da quella così peculiare di Lu e evidenzia qualche – raro – tratto meridionale: al v. 1 A legge arboscelli e non arborscelli; manca la palatalizzazione di sciai ai vv. 15-6, al v. 28 reca innammorato in luogo del settentrionale inamorato; al v. 38 la forma meridionale frisco per fresco; al v. 55 quisto per questo. Il ms. reca poi suoi errori singolari: omissione di e chiara al v. 2; omissione di che al v. 8; al v. 72 uegendo in luogo di mirando (parrebbe ripetizione dal v. 71 «[...] e vegendomi aresta»; è comunque errato perché quanto segue non è in caso diretto ma obliquo); al v. 79 se disuiato per si disuiato; omissione di piu al v. 83. Qualche lezione singolare, di scarso o nullo interesse: capelli biondi e non bianchi al v. 35, più congruenti con il come stoppa che segue, ma probabile facilior; al v. 92 se scerne de la herbetta e non da la herbetta. Tirando le fila di quanto si è detto, vediamo disegnarsi un esile stemma (esile per le ridotte porzioni di testo testimoniate da A, M e R): un originale boiardesco, o forse una copia di segretario, probabilmente con correzioni o varianti alternative, da cui discende Lu, con la sua copia materiale B; dallo stesso antigrafo dovrebbe derivare R, un manoscritto vicinissimo all’ambiente del poeta; affine a Lu, forse con antigrafo diverso (per l’assenza di errore a IX, 59, ma il dato non è tanto rilevante da modificare lo stemma) appare A, o almeno quello che di A possiamo ricostruire; isolato rimane invece M: unica traccia di una circolazione della prima egloga estravagante rispetto alla definizione testuale della silloge bucolica quale la conosciamo. Propongo due diverse formalizzazioni grafiche dei rapporti fra i testimoni; la seconda, tutto sommato, mi pare la più probabile.

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1) Autografi sparsi

w

M

x A Lu R



B

2)

w

wI

M x A Lu R



B

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3. Edizioni Non esistono stampe antiche delle Pastorale: la loro storia tipografica è tutta moderna, ininfluente, dunque, per la costituzione del testo critico. Segnalo solo le edizioni complete, con l’eccezione di quella del Lamberti, incompiuta per la morte dell’autore; un regesto esteso alla pubblicazione di egloghe singole in Mengaldo 1962, 427-8. Lamberti Luigi Lamberti, in «Il Poligrafo», II (1812), nn. XVII, XIX. XXI, XXI, XXIV, XXV, XXVIII, XLII. ����������������������������������������������� Pubblica le egloghe I, II, III, IV, VIII secondo la lezione di B, ma con forti interventi di normalizzazione linguistica. Venturi Giambattista Venturi, in Poesie di Matteo Maria Boiardo conte di Scandiano ecc., pp. 67-124. Pubblica tutte le egloghe, tranne la VI e i vv. 28-30 della IX (in entrambi i casi per il contenuto, a suo avviso scabroso); si vale di Lu, allora ancora disponibile, ma interviene massicciamente sulla facies grafica del codice. Solerti Angelo Solerti, in Le poesie volgari e latine di Matteo Maria Boiardo, pp. 259-312. Pubblica tutte le egloghe, in buona sostanza sul fondamento di B (Lu nel frattempo era diventato irreperibile), ma attingendo singole lezioni dai descripti di Lu, l’Ashburn. 1252 (1178) della Biblioteca Laurenziana di Firenze e il Pal. 252 (345. E, 5,5,3) della Biblioteca Nazionale di Firenze (su entrambi i mss. cfr. n. 5). Zottoli Angelandrea Zottoli, in Tutte le opere di Matteo Maria Boiardo, I, pp. 123-60. Rivede il testo Solerti, riducendo l’apporto piuttosto casuale dei descripti di Lu.

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Mengaldo Pier Vincenzo Mengaldo, in Opere volgari. Amorum libri. Pastorale. Lettere, pp. 129-72. Edizione critica di tutte le egloghe, fondata su B, con l’ausilio dei descripti di Lu in caso di errore certo di B. Riccucci 2005: riproduce il testo Mengaldo, emendato, sulla scorta del riscoperto Lu, in dodici punti, in buona sostanza quelli segnalati da Pedroia-Pozzi. Si avverta che la didascalia mancante a PE IV, 157, reinserita da Riccucci, non è come ritiene la studiosa (p. 263) un errore di B da emendare, ma un incidente tipografico dell’edizione Mengaldo. Merlini 2005: riproduce il testo Mengaldo. Testo e apparato A testo lezione e forma di Lu; in apparato i luoghi emendati e le correzioni. Visto che B è copia di Lu, la sua testimonianza dovrebbe essere eliminata; in realtà, per ragioni pratiche e anche per consentire al lettore di controllare il lavoro fatto, la lezione di B è registrata a destra della quadra, sia in presenza di errore, sia di fronte alle rare adiafore,13 e sono riportate anche tutte le correzioni del ms. In caso di errore singolare di Lu, la lezione di B che va a testo deve essere intesa come emendazione del 13  Ne do qui l’elenco (sono esclusi i fatti grafici o di minima entità); prima la lezione di Lu, che è andata a testo, fra parentesi quella di B, rifiutata: I, 133 pianti (piante; forse da intendere come plurale settentrionale in -e); II, 9 il petto (al petto); III, 20 luno a laltro (luno e laltro); V, 6 ardo (arde; forse da intendere come desinenza settentrionale in -e per la prima persona singolare); V, 8 iudicheria (iudicharia); V, 60 troui (trouo; indicativo in luogo di congiuntivo, o forse una confusione col v. 62); VI, 3 de intorno (intorno); VI, 46 il seguirlo (al seguirlo; al è una forma possibile per l’articolo determinativo settentrionale, più esattamente bolognese, Corti 1960, 34); VI, 97 e me, risolto a testo in e me’, cioè ‘i miei’ (me, senza articolo); VI, 109 seguiria (seguira, futuro, forse per cattiva lettura di B sul testo di Lu); VII, 88 uale arte (ual arte); VII, 98 non il, risolto a testo in no il (il non); VII, 111 altri (altro; pronome indefinito); VIII, 115 quella (questa, da quella); VIII, 117 la fura (lo fura; la lezione di Lu è senza dubbio esatta, quella di B potrebbe essere anche una concordanza a senso con bel viso); IX, 91 celo al (cel al); X, didascalia canta (e canta); X, 141 sopral (sopra il); X, 143 questa (quella).

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copista di fronte a un exemplar scorretto. Là dove i due mss. condividono lo stesso errore, a testo va la mia emendazione (se coincide con quella già operata da precedenti editori, e si tratta di intervento rilevante, il fatto viene registrato. Per l’egloga I in alcuni casi la lezione corretta è quella di M: si tratta dei vv. 73, 83, 102, 128, 140, 152; nella IX al v. 59 si è accolta la lezione di A, adattandola alla forma grafica di Lu). Non sono registrate le oscillazioni meramente grafiche, di cui si tratta subito sotto, mentre in apparato compaiono tutte le correzioni, sia di B che di Lu, in genere precedute dalla didascalia da, che segnala che la nuova lezione è ricavata dalla precedente, per ricalco, sovrascrittura, espunzione o rasura (l’indicazione precisa della natura dell’intervento è affidata a questa Nota); ove necessario sono state utilizzate anche ins., segue cass. e corr. in. Criteri di resa grafica Di fronte a un testo poetico quattrocentesco di area settentrionale, la scelta dell’editore non può che essere conservativa; e tale è sempre stata, per Boiardo, sin dal volume curato da Mengaldo nel 1962. Durante questi ultimi cinquant’anni, poi, la tendenza alla conservazione si è fatta più radicale,14 quasi che, via via che la distanza culturale fra i testi antichi e un ipotetico lettore “comune” si andava allargando, aumentasse anche il desiderio di preservare il più possibile della loro facies grafica, che riveste del resto un indiscutibile valore culturale. Il caso di queste Pastorale si colloca dunque in questa lunga – e autorevole – scia; con qualche precisazione, però: sia B che Lu15 sono codici non autografi e sui quali non è ipotizzabile, a differenza di quanto Zanato ha dimostrato per i due testimoni fondamentali degli Amorum libri, nessun controllo diretto del poeta; si collocano verso la fine del XV secolo, se non all’inizio del successivo, in area settentrionale. Alcuni dei loro tratti 14  Faccio riferimento in particolare all’edizione critica dell’Inamoramento de Orlando e alle opere volgari nella serie pubblicata dal Centro Studi Matteo Maria Boiardo – Interlinea. 15  Il loro sistema grafico è quasi identico, e comunque quello che ci interessa è quello di Lu: solo in casi molto particolari si prenderà in considerazione anche la forma di B.

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linguistici, quindi, saranno da ricondurre più agli usi dei copisti (se vale la mia ipotesi stemmatica, del copista di Lu) che a quelli di Boiardo. A ciò si aggiunga che, a differenza di quanto accade per l’Inamoramento, il genere cui si riferiscono le egloghe non è lontanissimo da quello del canzoniere (anche se il coefficiente di liricità è senza dubbio diverso), e la gamma delle scritture attribuibili al poeta non si può quindi discostare troppo da quanto attestato per l’opera in versi. Lo stesso ragionamento non vale nel caso del poema – e non è stato applicato nell’edizione di Antonia Tissoni Benvenuti e mia –, né per il registro linguistico né per quello metrico: generi diversi seguono diverse regole. Da queste considerazioni di massima discendono alcune conseguenze pratiche, che mi hanno indotto a un comportamento un po’ più interventista, o diciamo meno strenuamente conservatore, di quello adottato per l’edizione critica dell’Inamoramento. Partendo da quanto è più ovvio: – Distinta v da u. – Introdotti maiuscole, apostrofi e una parca interpunzione; segnalate con la dieresi solo le parole che non siano di norma già iatiche. – Nella separazione e unione delle parole, si sono mantenute divise le preposizioni articolate costituite da preposizione più articolo iniziante con l (già scritte in questo modo nella quasi totalità delle occorrenze, tranne quelle composte con a che si presentano sempre unite); viceversa, unite le preposizioni composte con i. Separati: aben che, (di) poi che (temporale), però che, sin che. Sempre uniti: alfin, apena, dipoi, hormai, insembre, insieme, insin, intorno, invano, poiché (causale), tutavia. – Sciolte le abbreviazioni, secondo gli usi correnti, con qualche avvertenza. La d tagliata, piuttosto frequente, è stata sempre sciolta con de;16 in realtà, quando non abbreviate, de e di si alternano, se pure con una netta prevalenza di de. Lo scioglimento univoco dell’abbre16  Ne do qui l’elenco: I, 67, 128, 160, 165; II, 25, 77, 88, 105; III, 28, 120; IV, 9, 13, 29, 30, 33, 53, 77, 87, 126, 133, 138, 144, 158, 162; V, 1, 5, 19, 22, 28, 36, 53, 76; VI, 6,9,13, 20, 28, 33, 39, 43, 58, 70, 92, 93, 101; VII, 1, 8, 11, 64, 74, 88, 95, 112; VIII, didascalia, 13, 22, 44, 108; IX, 6, 14, 18, 22, 34, 36, 41, 50, 73, 86, 91; X, 5, 6,8, 17, 40, 60, 84, 92. Si ricordi che, dopo la “frattura” nella stesura dell’egloga X, troviamo al v. 92 l’ultima d tagliata; per il resto solo di scritto per esteso.

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viazione fa dunque sì che la presenza di de risulti probabilmente più marcata di quanto non fosse in origine. Cu con il titulus è stato sempre reso con cum, anche se a I, 51 troviamo cun scritto per esteso; co con il titulus solo in X, 154, 155 e 169. Il ch tagliato è stato reso con che; tranne a I, 99 e VII, 51 dove deve intendersi chi (scritto invece per esteso a I, 103; II, 102, 116; III, 86; V, 44, 49, 71; VI, 56; VII, 30, 81; IX, 11, 45, 53, 88, 94). La nota tironiana è stata sciolta sempre con e davanti a consonante (ma è già così nei manoscritti, salvo un paio di eccezioni), con et davanti a vocale. – Sempre a proposito di elementi puramente grafici, i casi di non il che generano ipermetria sono stati risolti in no il (e non segnalati in apparato, a differenza di quanto accade nell’edizione Mengaldo); si trovano a IV, 31;VI, 47; VII, 98 (solo Lu, perché B legge il non). In maniera analoga si è proceduto di fronte a cum il che generi ipermetria, risolto in co il: VI, 66. – Chel è stato sciolto in ch’el se pronome, che ’l se articolo. – E articolo plurale non porta apostrofo; e’ indica la terza persona o l’impersonale (tipo «E’ mi ramenta» di V, 22); e ’ (apostrofo libero) per e i (a II, 84 un caso di o ’ per o i); d’i per dei a II, 2 e tra ’ per tra i a I, 95 e X, 119. – Ridotta a i la ii (spesso ij) del plurale. – La j è stata conservata se con valore semiconsonantico (due occorrenze di Jove nella IV egloga, vv. 1 e 149; nella X: vv. 77 jesta e 133 jogi; si noti che a IV, 47 abbiamo invece ioggi); in tutti gli altri casi è stata ridotta a i. – Regolarizzato, almeno in parte, l’uso dell’h. Ovvero: le forme del verbo avere sono state ricondotte all’uso moderno e così si è fatto per le interiezioni. Si è mantenuta l’h nelle forme etimologiche e pseudoetimologiche e nei nomi propri. Eliminata nei grafemi ch, gh, mentre è stata conservata in ph e th, dove è per lo più etimologica o psuedoetimologica. – Sono stati resi con e i dittonghi latineggianti ae e oe presenti in maniera sporadica (sistematico solo quello di aegloga nelle didascalie, cui si aggiungono aeterno, aethrusca, amoeno, laeticia, Phaetonte, Phoebo, e pochi altri). – Mantenuta la y. 57

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– Mantenute le forme latineggianti con nesso nm (tipo inmutabile), mn (tipo alomno) e ns (tipo monstro). – Mantenuta la x presente in forme latine o latineggianti. – Eliminata la sporadica serie di tre consonanti in piangner (V, 15), risolto in piagner per analogia con le molte forme analoghe attestate in AL (cfr. Mengaldo 1963, 89); eliminata anche la forma fogleta a VIII, 42, con rappresentazione anomala della l palatale sia in B che in Lu e il miglore del solo Lu a VIII, 72. – Sono state accentate le forme omografe di non immediata comprensione: l’accento non risolve di per sé l’omografia, ma segnala al lettore l’esistenza di un problema. – Accentato anche sciò, per evitare inappropriate letture latineggianti. – Le forme tronche di prima persona plurale in cui la nasale finale sia passata a n sono state accentate per distinguerle dalle omografe di terza plurale. Non è stato operato nessun intervento sui tratti grafico-fonetici implicati con la lingua settentrionale17 (mantenuta, forse per eccesso di scrupolo, anche la i nei nessi cie, gie18 e scie). Una trattazione a parte merita il problema legato all’uscita in -e: il passaggio -o → -e in finale, caratteristico dell’area emiliana e ferrarese,19 è assente in AL e, ciò che più interessa, anche nei testimoni manoscritti del canzoniere rivisti dall’autore (cfr. l’introduzione di Zanato all’edizione 17  Senza alcuna pretesa di imbastire in nota una Lingua del Boiardo bucolico, visto che i testimoni non sono particolarmente autorevoli, e che Mengaldo nel suo celebre libro non è avaro di esempi attinti alle Pastorale, segnalo qui alcuni fenomeni molto diffusi; come si vedrà, nulla che non sia ben noto. Presenza di monottonghi e di forme non anafonetiche; numerosi scempiamenti o invece raddoppiamenti ipercorretti; frequenti assibilazioni e palatalizzazioni con le simmetriche forme ipercorrette; assenza della sibilante palatale toscana (tipo ussite); esito ipercorretto di i semiconsonantico (tipo noglia); forma esclusivamente palatale di sciò e sciai; incertezza e oscillazione nella resa grafica di ci, zi e z; frequente palatalizzazione nei plurali (tipo vagi o large); rilevante presenza delle forme di seconda persona plurale in -ati, -eti, -iti; plurali in -e in luogo di -i, sia al maschile che al femminile. Qualche caso più particolare sarà discusso nelle note di commento. Alcune notazioni generali sulla lingua di PE sono in Zaccarello. 18  Conservazione forse discutibile, viste le rime di II, 86-90 ponge : ongie : gionge. 19  Si vedano le tappe fondamentali costituite da Bertoni, Contini, Corti 1960.

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critica). Il fenomeno è ampiamente attestato in Lu (e in B, talvolta anche in maniera isolata), sotto forme diverse; si noti subito che in qualche caso l’uscita in -e produce errore nella rima. Uscita in -e invece di -o, maschile singolare: I, 5 armente per armento (Lu); errato per rima, e corretto da B per ricalco da armente a armento. I, 27 ascose per ascoso (B Lu). I, 134 mese han pietate (B Lu). III, 24 suone per suono (B Lu). VII, 7 queste arbore odorifero (B Lu). X, 9 corse per corso (B Lu). Viceversa, -o per -e maschile singolare o in forma invariabile: I, 74 insiemo per insieme (B Lu); la forma è attestata nelle Lettere boiardesche e (Bibit) nel De Jennaro. Lo stesso a III, 52 e VIII, didascalia. I, 107 paeso per paese (Lu). V, 30 fiumo per fiume (B Lu); anche nel Paradiso degli Alberti del Gherardi (Bibit). X, 47 presse per presso (B Lu). X, 116 carbono per carbone (B Lu); errato per rima. -e per -a (femminile singolare): I, 78 sparse ogni figura (B Lu). VIII, 26 prede per preda (B Lu); errato per rima. -e per -i (maschile plurale): I, 133 piante per pianti (B). -e per -o (desinenza verbale 1a singolare): I, 129 mente per mento (B Lu). V, 6 arde per ardo (B). V, 51 teme per temo (B Lu). V, 81 ascolte per ascolto (B Lu).

A differenza che nell’edizione dell’Inamoramento, e in questo stesso volume per le Carte (che pertengono anch’esse a un genere stilisticamente differente dalle egloghe), tutte queste forme sono state emendate: il loro tasso di “plausibilità” è diverso, ma nell’assieme, soprattutto perché le occorrenze in rima introducono errore, le ho giudicate poco probabili. 59

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Ho invece mantenuto le forme assimilate o con raddoppiamento fonosintattico: in un sistema profondamente implicato con la lingua della tradizione lirica, dunque anche toscana, presenze di questo tipo sono del tutto legittime. I due casi di per più articolo iniziante con l sono stati risolti senza l’uso del punto in alto, che si è invece reso necessario negli altri tre, due di raddoppiamento vero e proprio, e uno di degeminazione in fonosintassi: I, 6 I, 31 III, 45 VI, 71 VII, 78

pellherbe (B Lu) è stato risolto in pell’herbe, sulla scorta dell’uso quattrocentesco toscano (cfr. Bibit, fra le molte attestazioni, Poliziano, Rime LXXXVI, 3 «pella via», CXIX, 9 «pella fretta»). pecorelle spaventate errare (Lu; B presenta correzione perché una delle due r è erasa; il copista, settentrionale, avrà pensato all’infinito del verbo), risolto in e•rrare. elor (B Lu, come in AL III, 25, 41; forma emendata da Mengaldo ma mantenuta da Zanato in AL come esito scempio della forma col raddoppiamento fonosintattico), risolto in e•lor. pella promessa (B Lu); mantenuto, come nella prima occorrenza e per le stesse ragioni. accio (B Lu); risolto in a•cciò.

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TAVOLA DELLE OPERE CITATE

Alighieri, Dante Inf. La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di Giorgio Petrocchi, Milano, Mondadori, 1966-1967, vol. ii: Inferno. Par. La Commedia secondo l’antica vulgata, cit., vol. iv: Paradiso. Purg. La Commedia secondo l’antica vulgata, cit., vol. iii: Purgatorio. Rime Rime, a cura di Domenico De Robertis, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2005. «Amico del Boiardo» Canzoniere Costabili, a cura di Gabriele Baldassari, Novara, Centro Studi Matteo Maria Boiardo-Interlinea, 2012. Arzocchi, Francesco Egloghe, a cura di Serena Fornasiero, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1995. Altamura Antonio Altamura, Un nuovo manoscritto dell’egl. IX del Boiardo, in «Giornale italiano di filologia», i, n. 3 (1948), pp. 259-60. Battera 1985 Francesca Battera, Le redazioni dei «Pastoralia» del Boiardo e il modello virgiliano, in «Studi e problemi di critica testuale», xxxi (1985), pp. 63-78. Battera 1987 Francesca Battera, La bucolica volgare del Boiardo, in «Interpres», vii (1987), pp. 7-44. Battera 1990 Francesca Battera, L’edizione Miscomini (1482) delle Bucoliche elegantissimamente composte, in «Studi e problemi di critica testuale», xl (1990), pp. 149-85. Benivieni, Girolamo Le egloghe «elegantissimamente composte»: la «Buccolica» di Girolamo Benivieni, edizione critica e commento a cura di Erica Podestà, tesi di dottorato 63

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di ricerca in Letteratura e filologia italiana, tutor prof. Donatella Coppini, Università degli studi di Firenze, XXVI ciclo, 2014. Benvenuti 1995 Antonia Tissoni Benvenuti, Alfonso Duca di Calabria e le «Pastorale» di Boiardo, in Studi in memoria di Paola Medioli Masotti, a cura di Franca Magnani, Napoli, Loffredo, 1995, pp. 47-55. Benvenuti 1996 Antonia Tissoni Benvenuti, Una testimonianza manoscritta parziale dell’«Inamoramento de Orlando»: il Vaticano Lat. 11255, in Operosa parva. Per Gianni Antonini, a cura di Domenico De Robertis e Franco Gavazzeni, Verona, Valdonega, 1996, pp. 113-21. Benvenuti 2009 Antonia Tissoni Benvenuti, commento all’Orphei tragoedia (ad l.), in Timone. Orphei tragoedia. Bertoni Giulio Bertoni, Il laudario dei Battuti di Modena, Halle, Niemeyer, 1909 (nella parte relativa allo spoglio linguistico). Bibit Biblioteca italiana, al sito www.bibliotecaitaliana.it. Boccaccio, Giovanni Ameto Comedia delle ninfe fiorentine (Ameto), edizione critica a cura di Antonio Enzo Quaglio, Firenze, Sansoni, 1963. Buccolicum carmen Buccolicum carmen, a cura di Giorgio Bernardi Perini, in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, vol. v, Milano, Mondadori, 1994. Filostrato Filostrato, a cura di Vittore Branca, in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, vol. ii, Milano, Mondadori, 1964. Genealogie Genealogie deorum gentilium, a cura di Vittorio Zaccaria, in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, voll. vi-vii, Milano, Mondadori, 1998. Ninfale fiesolano Ninfale fiesolano, a cura di Armando Balduino, in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, vol. iii, Milano, Mondadori, 1974. Teseida Teseida delle nozze di Emilia, a cura di Alberto Limentani, in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, vol. ii, Milano, Mondadori, 1964. 64

tavola delle opere citate

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Manoscritto Lu, c. 13v. 73

Manoscritto Lu, c. 37r. 74

PASTORALE

Content

I

Al primo testo delle Pastorale, come a ogni proemio degno di tale nome, tocca il compito di fissare le marche dell’opera, di segnare i confini rispetto alla tradizione classica e umanistica, e assieme di indicare i temi portanti della raccolta. Ed è quello che fa l’egloga volgare nei confronti di Virgilio e dei Pastoralia, in un gioco sottile di aemulatio e variatio: come nella prima delle Bucoliche virgiliane, e come in PA I, abbiamo due interlocutori, nei cui versi prende forma una realtà storica inquieta e minacciosa: Titiro, da identificare con Tito Vespasiano Strozzi, zio di Boiardo e stella polare della poesia umanistica ferrarese, e Mopso, sulla cui identità è arduo avanzare ipotesi. Dalla lettura dei vv. 85-102 risulta solo abbastanza chiaro che è ben difficile si tratti di Boiardo, come invece pensava Mazzoni 329: il tono dell’allocuzione e le parole con le quali il pastore si rivolge a Titiro non paiono affatto quelli di un interlocutore più giovane. Due personaggi anche in PA I, che camminano assieme verso la città (il tratto deriva da Buc. IX e si riflette in PA IX; del resto la coppia I / IX è un elemento strutturale forte delle egloghe virgiliane, così come la tradizione ce le ha consegnate). In PA I, 4-5 il ruolo della guerra è confinato nelle battute iniziali di Pan, ma è comunque evidente e importante: «[...] dulcia rumpunt / carmina diverso crepitantia tympana cantu»). L’inizio dell’offensiva turca del 1463 nella guerra contro Venezia ha cacciato Pan dall’Arcadia, offrendogli così il pretesto per affidare la zampogna a un giovane epigono, Poeman-Boiardo, cui toccherà il compito di celebrare il «buon governo» di Ercole d’Este a Modena. Nomi, temi, dettagli si rincorrono nelle tre serie bucoliche, fra latino e volgare, antico e moderno: Titiro e Melibeo in Virgilio, Poeman e Titiro (evocato nelle parole di Pan mentre «[...] horrentis acies et praelia tentat / dicere [...]», vv. 16-17) in PA, Mopso e Titiro in PE. Calchi evidenti, discrepanze sottili: alter ego del poeta in Virgilio è Titiro, mentre sotto lo stesso nome, nelle due egloghe di Boiardo, si cela lo zio Tito Vespasiano Strozzi; alter ego del poeta sicuramente Poeman in PA, mentre lo stesso ruolo non può, come si diceva, essere assegnato a Mopso nell’egloga volgare. Titiro-Virgilio nelle Bu77

matteo maria boiardo

coliche celebra il giovane dio Ottaviano, così come fa Poeman-Boiardo in PA I, là dove canta le lodi di Ercole e di Modena, novella Roma nell’ottica pastorale del personaggio. Titiro-Tito intento allo sforzo epico del poema Borsias e dunque alla celebrazione del potere estense in PA I, Titiro-Tito in PE I, come Melibeo in Virgilio, dolente per il saccheggio delle sue terre sotto l’urto del leone veneziano. A complicare il gioco intertestuale, come è caratteristico di Boiardo, l’intreccio delle fonti: particolarmente notevole, qui, l’inserto da Calpurnio, dalla cui prima egloga deriva tutto il passo sull’iscrizione profetica (vv. 118-26), oltre a un importante spunto per la seconda terzina. Altrettanto notevole, sul versante volgare, la presenza certa del Buoninsegni (vv. 22-7), che conferma la lettura precoce delle Bucoliche elegantissime da parte del Boiardo. Tutta la prima parte dell’egloga illustra le disperate condizioni del gregge, e dunque della Ferrara estense, illuminate solo da un vaticinio che Mopso e Titiro leggono inciso sulla scorza di un lauro. Si profetizza una sorta di palingenesi, una novella età dell’oro, che consente a Boiardo di innestare sul tronco della I egloga virgiliana tratti della IV, oltre che di PA IV. Protagonista del rinnovamento miracoloso sarà Alfonso di Calabria, di cui viene esaltata la vittoria sui Veneziani del novembre 1483; una delle date più basse dell’intera raccolta (Tissoni Benvenuti 1995, 53), forse post quem dell’intero libro pastorale. I riferimenti a fatti precisi della guerra fra Ferrara e Venezia sono chiari e indiscutibili, già individuati da Mazzoni, poi puntualizzati da Tissoni Benvenuti 1995 e infine corredati da opportuni rimandi a storici contemporanei da Riccucci 2005. Dal punto di vista stilistico, l’egloga è importante e presenta le caratteristiche che saranno comuni a tutte le “politiche” (II, IV, VIII, nella sua parte iniziale, e X). Il tratto più evidente è senz’altro l’uso del linguaggio lirico nello sviluppo dei moduli bucolici: «segno di contraddizione» nelle parole del famoso saggio di De Robertis del 1981, ma soprattutto marca stilistica della nuova bucolica volgare, che una lingua “media” doveva ben darsela, e che appunto la trova nella langue lirica che ogni poeta del Quattrocento maneggia con assoluta disinvoltura. Poche, davvero poche, sono in questo primo testo le marche lessicali e stilistiche “pastorali” (sul modello dell’Orfeo del Poliziano o dei testi di Arzocchi), che vedremo invece addensarsi nei testi centrali della raccolta. Da segnalare, piuttosto, 78

egloga i

l’ampio ricorso a moduli danteschi, in quasi tutti i segmenti storico politici, soprattutto nella allocuzione di Mopso allo sfortunato amico, e nella lunga “profezia” che chiude il testo. La Commedia, dunque, appare non come un modello interscambiabile con altri, ma come un vero e proprio codice di scrittura, capace di dare un nome agli oggetti della politica, e della storia.

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egloga i

Ne la egloga prima parlano insieme Tytiro e Mopso. Ty. La luce che raporta il novo giorno hor escie lampegiando in quel colore che fa l’aria vermiglia e de oro intorno. Fuor de la mandra hor escie ogni pastore e cum la bianca grege e cum lo armento

5

3. vermiglia] uermiglio M – de oro] hor M 5. armento] da armente B armente Lu  1-21. Il primo intervento di Titiro-Strozzi pone il tema del dolore del pastore in termini piuttosto ambigui: l’apertura, infatti, è elegiaco amorosa (e congruenti al registro sono le fonti adottate), e solo all’altezza del v. 16 la natura storico politica degli avvenimenti viene precisandosi. 1-3. La prima terzina segna un confine temporale: è l’alba, mentre alla conclusione del testo sarà il tramonto. L’avventura dei due pastori, dunque, si estende in un certo lasso di tempo, il che è un elemento narrativo piuttosto inconsueto in ambito bucolico. La marca stilistica dominante di questo esordio è lirica, segnalata dalla citazione in apertura di AL III, 33, 1: «Né il sol che ce raporta il novo giorno» (Zanato 1998 e 2012), cui si somma l’eco di AL I, 15, 46-53: «Chi mai vide al matin nascer l’Aurora / [...] che fuor del mar el dì non esce ancora / e del suo lampegiar è il ciel depinto, / e lei più se incolora / de una luce vermiglia, / da la qual fòra vinto / qual ostro più tra noi se gli asomiglia» (Riccucci). 1. raporta: per la forma padana del prefisso, cfr. Mengaldo 1963, 140 e Zanato 2012 a I, 57, 8; le accezioni del verbo nel poema in Trolli. 2. lampegiando: anche in AL I, 11, 4 (Zanato 1998 e 2012, che sottolinea il valore assoluto del verbo, a esprimere l’intensità del fenomeno luminoso). 4-6. La seconda terzina paga invece il suo debito alla tradizione bucolica. Latina ma non virgiliana, se il riferimento più prossimo è la V egloga di Calpurnio Siculo, 52-5: «[...] sed ante diem pecus exeat: humida dulces / efficit aura cibos, quotiens fugientibus Euris / frigida nocturno tanguntur pascua rore / et matutinae lucent in gramine guttae» (Carrara 281). 4. mandra: qui nell’accezione di ‘luogo che accoglie bestiame tenuto da uomini in cura’ (TB).  81

matteo maria boiardo

pasce pell’herbe il roscido liquore. Et io meschin piangendo mi lamento ne la ripa selvagia al crudo sasso e spargo indarno e mei sospiri al vento: chiedendo al celo aiuto hormai son lasso,

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6. pasce] Passen M 7. meschin] da mischin Lu 8. crudo] duro M 10. chiedendo al celo] Chiamando al ciel M 

6. Autocitazione da PA V, 86-8 (e si noti la corrispondenza lessicale roscido / roscida): «[...] non roscida prata / mane placent pecori nec tantum salsa capellis / gramina [...]» (Riccucci). – pasce: alla lettera ‘si nutre di’, in uso non banale con rugiada (roscido liquore) complemento oggetto, anche perché Boiardo preferisce pascersi costruito con di (ma a PE IV, 84 pascier l’herbe). Forse agisce una suggestione petrarchesca da Rvf 303, 10-1 «[...] et voi [sono i pesci] che ’l fresco herboso fondo / del liquido cristallo alberga et pasce». – roscido: latinismo per ‘rugiadoso’; questa boiardesca, secondo LIZ e Bibit, è la prima attestazione in un testo volgare. 7-9. La contrapposizione fra un contesto esterno sereno e consueto nella sua dimensione pastorale, e la desolata condizione di chi parla allude senz’altro al modello virgiliano di Buc. I (vv. 1-5: «Tytire, tu patulae [...]» con quanto segue), ma vanta anche parecchi precedenti lirici, al vertice dei quali si colloca Zephiro torna, e ’l bel tempo rimena (Rvf 310); al perenne rinnovarsi della natura trionfante si contrappone in Petrarca l’irrimediabile singolarità dell’amante: «Ma per me, lasso, tornano i più gravi / sospiri [...]», vv. 9-10. L’assetto cronologico della prima terzina (è l’alba, l’inizio di un giorno splendente per tutti, tranne che per il poeta) mostra però anche un altro ipotesto petrarchesco, la canzone 50, le cui cinque strofe si strutturano secondo un modello costante, e significativo per il nostro contesto. Scende la sera, che reca serenità a tutti i protagonisti (e nella terza stanza si tratta appunto di pastori che muovono la loro schiera di animali verso il ricovero notturno), tranne che al poeta che dice «io», per il quale il trascorrere del tempo segna solo l’acuirsi della sofferenza amorosa. In altri termini, Boiardo rovescia lo schema di Petrarca, ma ne mantiene salda l’organizzazione tematico concettuale. 8. crudo sasso: dantismo esibito da Par. XI, 106: «nel crudo sasso intra Tevero e Arno», cui si riconnette forse il selvagia che lo precede, nella stessa posizione metrica di Inf. I, 5: «esta selva selvaggia [...]». 9. Autocitazione da AL II, 44, 139: «Io spargo al cielo invano e mei lamenti» (Zanato 1998 e 2012). 10. chiedendo: gerundio con valore di infinito preposizionale (Mengaldo 1963, 181).  82

egloga i

però destino insin che dura il spirto tenir giù lacrimando il viso basso. Verde genepre ombroso folto et hirto, ispidi pruni, a voi facio palese il mio dolor, e a te frondente mirto. Quel mio fiorito dolce almo paese, novo Menalo a noi, novo Liceo, ove Pan a cantar spesso discese,

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11. che] chel M 16. almo] almio M 17. Menalo a noi] Menalio ouer M 18. ove] Doue M  11. destino: ‘mi propongo’, Trolli.  12. Autocitazione da AL II, 15, 13: «Ché io son in festa, e tengo il viso basso» (Zanato 1998 e 2012); come già nel canzoniere, anche nell’egloga si avverte forse l’eco del celebre modello di Purg. III, 55: «E mentre ch’e’ tenendo ’l viso basso». 13-5. La “disperata” di Titiro si chiude su un topos ben noto, al confine fra il registro lirico e quello bucolico, ovvero l’invocazione agli elementi naturali, che siano testimoni del dolore del poeta. Dall’archetipo virgiliano del lamento di Coridone per lo spietato Alessi (Buc. II, 3-5) «Tantum inter densas, umbrosa cacumina, fagos / adsidue veniebat: ibi haec incondita solus / montibus et silvis studio iactabat inani», a PA V, 25-8: «[...] extremo frondentes carmine silvas / alloquar, hae nullos solitae contemnere questus. / Scitis enim, quercus celsoque cacumine fagi / fraxineumque nemus viridantisque ilicis arbor»; in ambito volgare basti il rimando al Petrarca di Chiare, fresche et dolci acque, al Giusto di Udite, monti alpestri, o allo stesso Boiardo nella novella di Iroldo, Prasildo e Tisbina (IO I, xii, 19). Nell’egloga volgare protagonisti sono il genepre, i pruni e il mirto, che in questa successione parrebbero inattestati prima di PE. Unico prelievo probabile è quello da AL III, 10, 11 «tra ombrosi mirti e pini e fagi e abeti» (Riccucci): da qui forse l’aggettivo ombroso che connota il genepre. Si noti però che manca in PE la ripresa per asindeto o polisindeto, che è forse l’elemento più connotato nelle varie serie arboree in poesia volgare (sul genere di Rvf 148, 5 «non edra, abete, pin, faggio o genebro»), quasi che Boiardo alluda solo al topos, senza perseguire un vero certamen col modello. 16-21. Si dichiara finalmente la ragione del dolore di Titiro, imputabile all’aggressione del leone nemeo che tenta di impadronirsi del «fiorito dolce almo paese»: fuori dal velame pastorale, lo strazio è provocato dall’offensiva veneziana contro le terre estensi, per ora genericamente allusa, più avanti esplicitata nelle sue concrete tappe storiche. 16-8. La terzina segna un importante momento di connessione fra quest’egloga e la sua corrispondente in PA; anche lì, infatti, soffiano venti di 83

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sotto lo ungion de lo animal nemeo, tra il scuro hiato e l’una e l’altra sanna, quasi è già preda e pasto di quel reo.

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Mo. Tytiro è quello o la vista me inganna, che là soletto in il fiume diserto

19. lo ungion] da le ungie Lu 21. quasi ... pasto] Fato e gia pasto e preda M 23. là] li M – il] sul M  guerra, e Pan è costretto a lasciare l’Arcadia, la terra dei monti Menalo e Liceo (già in coppia in Buc. X, 15, poi in PA I, 2). Nell’egloga latina Pan approda in terra italica, dove Titiro (anche qui è lo Strozzi) col canto addolcisce i rustica pectora in un rinnovato locus amoenus. La figura dello Strozzi è il reale trait d’union fra PA e PE: nell’egloga latina Boiardo celebra l’attività poetica dello zio che, intento a celebrare le glorie militari estensi nella Borsias, affida, per il tramite di Pan, la zampogna pastorale al giovane Poeman, cioè a Boiardo stesso. In PE tutto è tragicamente cambiato, e la novella Arcadia ferrarese ha perso ogni connotato di amoenitas. 19-21. La caratterizzazione del mostro (qui e poi in PE IV), sotto le cui minacciose parvenze Boiardo evoca Venezia, può essere forse collegata al romanzo mitologico che il ferrarese Pier Andrea de’ Bassi, negli anni Trenta del Quattrocento, dedicò alle Fatiche d’Ercole: la quarta delle imprese dell’eroe è infatti proprio l’uccisione del leone nemeo (Matarrese 1998). Già in PA I, 37-8, comunque, Boiardo aveva celebrato l’uccisione della fiera da parte di Ercole: «[...] horrendi fortissimi colla leonis / fregit [...]». 19. ungion: tratto caratteristico di parecchi animali boiardeschi (qui in esito fonetico palatale), come la sfinge di IO I, v, 73; il mostro di Rocca Crudele di I, viii, 58 o il grifone di I, xiii, 18 e 22. 20. hiato: latinismo per ‘gola’, inattestato prima di Boiardo. – sanna: la forma è anche dantesca (Inf. XXII, 56), ma sarà qui più probabilmente variante settentrionale di zanna. 22-7. La situazione in cui si trovano i due pastori è diversa da quella che ricordiamo in Virgilio: non si incontrano mentre uno se ne va e l’altro resta, come nella I, né camminano insieme, come accade nella IX e in PA I. La battuta di Mopso, e più in generale tutto il contesto, rimandano (Carrara 281) a La persa agnella, testo d’esordio delle Bucoliche del Buoninsegni, che si apre col lamento amoroso di Iacinto, cui ai vv. 28-33 si giustappone l’intervento di Aringo: «Qual pianto è questo, o che dolenti spiri / risonar sento per l’ombrosa valle? / È huom più di me carco di martiri? / Se giugner ponno e passi ad questo calle / fia chiar la vista mia, che, s’io discerno, / Hyacinto par, se l’udir non mi falle». Ma nell’egloga 84

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cum tal pietade a lacrimar se affanna? Conoscolo a la voce et esso è certo;

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24. pietade] parole M 25. Conoscolo] Conosco M  del senese Aringo si rivela subito, e immediatamente prende a consolare l’amico; lo farà anche Mopso nel testo boiardesco, ma ben più avanti, all’altezza del v. 85. In questo primo intervento invece, ascoso e ricoperto ascolta in silenzio, come altri personaggi avevano già fatto prima di lui; come Martio nell’egloga del Buoninsegni (il suo ruolo, però, è affatto marginale), ai vv. 125-6: «pur fermarò e riterrò mia voglia / insin che haranno parlato ambodui». Ma soprattutto come Iroldo e Tisbina nell’Inamoramento; già il lamento di Prasildo, con l’invocazione agli elementi naturali, è implicato con quello di Titiro, ma l’atteggiamento dei due ascoltatori del poema ricorda molto quello di Mopso: «Tra l’altre volte avenne una matina / che Hiroldo in quel boscheto a cacia andava, / et avea seco la bella Tisbina. / E cossì andando, ciascun ascoltava / pianto diroto con voce mischina» (IO I, xii, 18, 1-5) e più avanti «Hiroldo di pietade è tanto aceso / che ne avea il viso tutto lachrimoso; / e con la dama ha già partito preso / de riparare il caso doloroso. / Essendo Hiroldo nascoso rimaso, / mostra Tisbina agionger quivi a caso» (IO I, xii, 23, 3-8). Anche la seconda egloga dell’Arcadia di Sannazaro (che è precedente all’organizzazione dell’opera in forma prosimetrica), presenta una situazione non dissimile: «Io veggio un uom, se non è sterpo o sasso; / egli è pur uom che dorme in quella valle, / disteso in terra fatigoso e lasso. / Ai panni, a la statura et a le spalle, / et a quel can che è bianco, el par che sia / Uranio, se ’l giudicio mio non falle» (vv. 10-5; nella redazione antica, l’unica che poteva essere nota a Boiardo, il nome del protagonista è Turingo, ma non si segnalano altre varianti di rilievo: Villani, 93). 22-4. La prima terzina di Mopso mostra una sottile filigrana dantesca, i cui singoli componenti sono vaghi, ma si rafforzano l’uno con l’altro: a soletto possiamo riaccostare Purg. VI, 59: «sola soletta, inverso noi riguarda» (Riccucci). Il fiume diserto non conosce attestazioni sintagmatiche che precedano questa di Boiardo, ma l’aggettivo diserto / deserto, a connotare i luoghi deputati al lamento, e soprattutto a quello amoroso, è ampiamente presente nella nostra tradizione letteraria. Per la posizione in clausola, significativa l’occorrenza dantesca di Purg. I, 130: «Venimmo poi in sul lito diserto» (Riccucci). Il v. 24, infine, con la contemporanea presenza di pietade e lacrimar pare suggerire echi dal V dell’Inferno, 117 e 140. 23. in il: morfologicamente la forma è settentrionale (Mengaldo 1963, 114; analogo l’uso di PE III, 22), e si noti anche che la preposizione vale ‘verso, ‘nei pressi’ (GDLI e TB).  85

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suo dolce querellar hor voglio odire tra queste fronde ascoso e ricoperto.

Ty. Qual tygre hircane o qual aspide dire potrian cum gli ochi asciuti riguardare la horribil fiera sopra a noi fremire?

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26. odire] dire M 27. tra] fra M – ascoso e ricoperto] ascose e ricoperto B Lu abscosto e acoperto M 28. hircane] da hircana Lu ircano M – aspide] aspido M 30. a noi] noi M  26. querellar: latinismo attestato per la prima volta nella lingua volgare in AL I, 43, 101: «Così cantava, e querelando al fine». (Mengaldo 1963, 291). 28-57. Nelle parole di Titiro prende forma il dramma della guerra contro Venezia, in un continuo gioco fra allusione pastorale e disvelamento storico; gli effetti della devastazione sono visti prima nella loro dimensione collettiva (il publico dolor del v. 48), poi in quella privata. I versi volgari di Boiardo riecheggiano da vicino quelli latini dello Strozzi (Aeolostichon libri III, ii, 33-42) indirizzati a Pico della Mirandola (Mazzoni 328): «Eridani iuxta ripas mihi condita nuper / guardatae steterat non inamena domus. / Huius prima Padum facies spectabat et austros, / cernere navigeras unde iuvabat aquas. / Caetera tectorum luco pars undique / cincta pomifero grati plena decoris erat. / Magnum opus, impensis maioribus Hostellatum / struxerat (ut nosti) maximus ille ducum, / maximus hoc fratrem donarat munere quondam / Borsius, haec frater post mihi dona dedit». 28. Il verso può essere collegato a Correggio, Rime 148, 5 (Riccucci), pur con qualche dubbio sulla cronologia relativa: «Qual tigre ircana o qual fera più acerba», da integrare forse con Saviozzo, Rime 9, 17, che potrebbe avere offerto a Boiardo il secondo elemento della coppia: «Non cuor di tigre o di più rigido aspe». Anche in AL troviamo però una struttura simile: «mai voler tanto immane / fra l’unde caspe on ne le selve ircane? / Qual tigre in terra on qual orca nel mare, / che tanto crudel sia» (II, 29, 2-5; Zanato 1998 e 2012). Sul latinismo hircane cfr. anche Mengaldo 1963, 287. Sia tygre che aspide dovrebbero essere maschili plurali con uscita settentrionale in -e, anche se è forse esistita una variante al singolare (come nei testi citati più sù), testimoniata dalla base di Lu: tygre hircana e dalla lezione di M: tigre ircano o qual aspido dire. – hircane: l’Ircania, regione della Persia, è in letteratura la terra d’elezione delle tigri (Aen. IV, 367: «[...] Hyrcanaeque admorunt ubera tigres»). – dire: latinismo per ‘crudeli’. 30. fremire: ‘manifestare una forte eccitazione in particolare con la vibrazione del corpo e l’emissione di suoni inarticolati, o del suono proprio (di ogni animale)’ (TLIO).  86

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Le pecorelle spaventate e•rrare cadendo van di tabe e di penuria e il suo pastor in campo non apare. Le stelle coniurate a farce iniuria posto hano Alcide languido nel prato,

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31. pecorelle] peccorelle M – e•rrare] e rare da errare B e rare M 34. farce] farse M  31-6. Nelle terzine si intrecciano motivi letterari e concreti accadimenti storici: le pecorelle inferme sono già in PA III, 74 «[...] morbo periere capellae» (e la ragione della malattia del gregge è l’assenza da Modena di Ercole I, come glossa Carrai ad l.); PA IV, 83-4 «[...] pecudem non tabida pestis / corripiet [...]» e V, 58-9 «[...] pecorique tuo non tabida pestis / ingruat, auto fato pereant urgente capellae» (Riccucci). Ma la loro presenza assume un significato ben diverso nel contesto della guerra di Ferrara, quando i territori estensi vennero funestati da una epidemia tutt’altro che metaforica, e lo stesso duca Ercole (il pastor che non apare del v. 33) fu a lungo malato e lontano dalla scena bellica (riferimenti alle cronache dell’epoca, specie al Diario dello Zambotti, in Riccucci). Notevoli le affinità con l’egloga VIII del Benivieni, vv. 1-6: «Qual mio fero destin, qual dura et greve / sorte, qual fato adverso o crude stelle / (al ben far tardo, al mio mal prompte e leve), / afflige hor sì l’errante pecorelle / che in fertil campo le vane ossa appena / han forza d’informar l’arida pelle?» (Riccucci); da qui (oltre che dai versi del Correggio già citati) potrebbe venire a Boiardo la struttura del v. 28, ma soprattutto il collegamento fra la pestilenza che ha colpito gli animali e le stelle ostili del v. 34. 32. tabe: latinismo, da tabes, ‘consunzione’, probabilmente indotto dall’occorrenza dell’aggettivo tabida nei già ricordati versi di PA. Secondo la LIZ questa boiardesca è la prima occorrenza in poesia volgare. 34-6. La terzina allude alla malattia di Ercole, di cui già al v. 33 si lamentava l’assenza; nell’agosto del 1482 fra i soldati dell’esercito estense si diffuse un morbo contagioso e lo stesso duca rimase infermo sino all’inizio del 1483. Sono i mesi più duri della guerra: Benvenuti 1995, 51 e Riccucci. 34. stelle coniurate: sintagma di tradizione lirica, da Rvf 329, 2, poi anche in Giusto de’ Conti XXVIII, 10 e Tebaldeo 673, 47 (LIZ), sempre però in contesto amoroso. 35. Alcide: appellativo tradizionale dell’Ercole mitologico, dal nome dell’antenato Alceo, e dunque riferibile anche ad Ercole I d’Este. – languido: l’aggettivo allude, in maniera sottile e ricercata, al noto passo virgiliano di Aen. IX, 435-6 dove la fragilità della condizione umana viene accostata all’effimera vita di un fiore: «purpureus veluti cum flos succisus aratro / languescit moriens [...]». Interessante, anche perché si aggiunge al riscontro puntuale proposto per i vv. 31-6, il rimando di Riccucci alla IV egloga del Benivieni (v. 66): «Cadien per terra languidi e’ pastori».  87

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che solo era riparo a tanta furia. Heridano il dolente, habandonato de le Nayade, Satyri e Napee, corre di sangue e lacrime meschiato. Né sopra Xantho né a le selve idee, là dove il bel pastor in alto fasto se pose a iudicar tra le tre dee, fo dato a ferro e a foco un cotal guasto, né sparso a terra tanto sangue humano, parte a le fiere e parte a’ pesci in pasto. Lasso che al lamentar son fatto insano

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37. il dolente] dolente M 38. e Napee] napee M 39. meschiato] meschiate M 40. né a le] nele M 42. tra] fra M 43. e a] e M – un cotal] cotal M 44. a] in M 45. pesci in pasto] pessi dato M 46. al lamentar] al lamentare B Lu alacrimar M – fatto] stato M  37-9. La trasfigurazione classicista della devastazione prodotta dalla guerra coinvolge anche il fiume Po, qui nell’appellativo aulico di Heridano, abbandonato dai suoi abitanti mitologici, ninfe delle acque o boscherecce, e satiri, per assumere le sembianze di un fiume infernale di lacrime e sangue (Inf. XII, 47: «la riviera del sangue [...]» e forse Inf. III, 67-8: «Elle rigavan lor di sangue il volto, / che, mischiato di lagrime [...]»). 38. Naiadi e satiri sono abituali frequentatori delle selve bucoliche, anche volgari, mentre le Napee probabilmente derivano da PA IV, 14: «Exultant hilares per flumina laeta Napaeae». Le ritroviamo poi nell’Arcadia di Sannazaro, ma in luoghi cronologicamente posteriori alle Pastorale. 40-5. La rilettura classicista segna il suo culmine nel paragone con la distruzione di Troia da parte degli Achei: né sopra il fiume Xanto, né nelle vicinanze del monte Ida, là dove Paride, il bel pastor, assegnò a Venere il primato della bellezza che diede origine alla guerra, fu provocata una tale devastazione col ferro e col fuoco. 40. selve idee: i boschi del monte Ida; la coincidenza sintagmatica con Saviozzo, Rime 65, 35 «in la lor verde e aspra selva idea» garantisce l’intertestualità suggerita da Pasquini 388. 41. in alto fasto: ‘con notevole alterigia’ (TLIO ad v. fasto «Ostentazione di sé, alterigia»). 43. dato ... guasto: dare guasto vale ‘devastare’ (TB). – a ferro e a foco: a con valore modale strumentale (Mengaldo 1963, 155-6 e Matarrese 2004, 90). 46-57. Il dolore si fa più intimo, privato, e i versi di Boiardo riecheggiano da vicino quelli, già citati, in cui lo Strozzi piange la distruzione della sua amata dimora. 46. ‘Sono come impazzito a forza di lamentarmi’: 88

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e non ramento mia sorte tapina, nel publico dolor piangendo invano. Ove è il mio hostello a lato a la marina? ove il rico giardin dai frutti d’oro? Tutto è fiaccato et arso cun ruina. Ove è il novo boschetto e il verde aloro

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49. a lato a la marina] apresso lamarina M 50. il] il il Lu 51. è fiaccato] essicato M altro esempio della poliedrica funzione morfosintattica della preposizione a in Boiardo (Matarrese 2004, 90). 48. publico dolor: sofferenza di tutta una collettività, forse con un’eco del celebre pubblico segno di Par. VI, 100, una delle poche attestazioni poetiche dell’aggettivo in questa accezione prima di Boiardo. 49. hostello: ‘rifugio’, ma letto di seguito con a lato forma il toponimo Ostellato; è dunque errata la lezione, solo apparentemente adiafora, di M: apresso lamarina – a lato a la marina: Ostellato si trova oggi piuttosto lontano dal mare; è probabile che Boiardo faccia riferimento a una situazione precedente la bonifica della zona di Comacchio (Riccucci). 50. Alla casa perduta viene riaccostato il giardino delle Esperidi, un luogo mitologico assai amato da Boiardo, che lo fa rivivere nella avventura di Prasildo nell’Orto di Medusa, al canto xii del I libro del poema. La presenza del giardino, e del drago che ne custodisce l’entrata, si avverte anche in La notte torna di Giusto (144, 34-5): «Se ’l serpe che guardava il mio tesoro / fusse dal sonno stato allor più desto» (Pantani 2006, 141). 51. La distruzione del giardino è reale, drammatica; ma il verso richiama alla memoria, forse involontariamente, quello che sancisce la fine del regno di Falerina nel poema (IO II, v, 14, 6): «che strugie quel giardin a gran forore». Non per effetto di magia, però, è caduta la villa di Ostellato, ma sotto l’urto dell’esercito veneziano, il 23 luglio 1482: Mazzoni 327-8 e Riccucci. 52-7. Il senso delle terzine, soprattutto della seconda, è tutt’altro che chiaro: Titiro al v. 52 deplora la distruzione del boschetto in cui, petrarchescamente, aveva piantato un verde aloro (Rvf 323, 25-6: «In un boschetto novo, i rami santi / florian d’un lauro giovenetto e schietto»). La distruzione del locus amoenus, che nei Rvf è conseguenza della morte di Laura, fa sì che il canto amoroso si converta in pianto di dolore; e sin qui, nel nostro testo, tutto scorre entro binari ermeneutici piuttosto tranquilli. Ma il boschetto (impossibile pensare che soggetto sia l’aloro, il cui colore verde è anche sottolineato nel testo) prendeva nome e colore dal vermiglio fior amato da Venere, e l’interpretazione di questi versi non è semplice. Il fiore, secondo Riccucci, potrebbe essere il dittamo, che è detto vermiglio in IO I, xxi, 40, 7, quando Leodilla si serve della pianta dalle magiche virtù per curare Brandimarte, ma il riferimento è vago, e soprattut89

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quale io stesso piantai cum rame tenere de amor cantando, onde hor di doglia ploro? Da quel vermiglio fior che amò già Venere era nomato, e il nome asumigliava; hor in terra è divelto e posto in cenere. Mo. Tanto la noglia di costui mi grava, sì vivo a li ochi soi se stilla il pianto che dentro al petto sin al cor mi lava. Né Philomena si darebe il vanto,

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54. onde] oue M 56. asumigliava] da asumiglia Lu 57. in terra è divelto] e in terra diuolto M 58. noglia] doglia M – grava] agraua M  59. sì ... stilla il] Che sio uogliochi suoi si stilil M 60. al petto] il pecto M – lava] graua M 61. il vanto] uanto M  to il legame con Venere è sottile, fondato non su altre occorrenze boiardesche, ma solo su Aen. XII, 413-4, dove si dice che Venere si serve del dittamo («flore [...] purpureo») per curare Enea. La soluzione del piccolo rebus penso che potrebbe essere trovata solo individuando il nome del giardino della villa di Ostellato, o magari di quello della Guardata, distrutta anch’essa nella medesima occasione. Possiamo anche aggiungere, a mo’ di postilla, che il fiore di Venere per antonomasia è la rosa, e che di rose bianche e rosse è intrecciata la ghirlanda della dea nell’affresco del Cossa a Schifanoia; ciò posto, il riferimento preciso dell’egloga boiardesca per noi è perduto.  53, 55, 57. tenere : Venere : cenere: la sequenza delle parole rima viene da Saviozzo, Rime estravaganti, LXXVII, 20-4 (Pasquini 387).  58-66. Il commento di Mopso, che ancora non partecipa all’azione, verte più che altro sulla qualità del canto di Titiro-Strozzi: solo la prima terzina allude invece al contenuto del canto stesso. 58. Il verso è costruito per variatio su uno degli AL (Zanato 1998 e 2012): III, 25, 44 «qualunque più di noglia il cor se grava»; ma tutta la celebre canzone degli Amorum è interessante per questo segmento di PE: si contrappone un prima di gioia a un poi di dolore, come nelle terzine finali della battuta di Titiro; si insiste sul tema del canto, cioè della poesia, che sola può offrire conforto all’animo martoriato; e infine, fra le immagini che simboleggiano il trascorrere dalla felicità all’angoscia, ricorre anche quella della terra fiorita, che nel presente dell’abbandono, come il giardino di Titiro, è ridotta alla più totale desolazione. 61-6. Le due terzine, in climax ascendente, vantano le qualità poetiche dello Strozzi, che non potranno essere superate né dall’amoroso lamento di Filomena trasformata in usignolo, né dal rimpianto di Alcione per 90

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né Alcione plorando il suo Ceìce, equar questo lamento in dolce canto, né quello ardito amante che se dice aver mutato la morte inmutabile e tolta a Ditte sua cara Euridice. Ty.

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Come spuma de mare e fiume labile

62. Alcione] Alcinoe B – Ceìce] circe M  lo sposo perduto, né, infine, dalla poesia di Orfeo, che tenta di sottrarre Euridice alla morte. Tre canti di sconforto, tre performance poetiche destinate allo scacco, come quella di Titiro: Filomena-usignolo può solo celebrare l’orrenda vendetta nei confronti di Tereo, Alcione non ottiene dagli dei che la tregua dei «[...] dies placidos hiberno tempore septem» (Met. XI, 745), e la vittoria di Orfeo sulla morte, come ben sappiamo, è effimera. La triade composta dai tre personaggi mitologici si direbbe inattestata prima di questo passo di PE: ma se il canto della sorella di Progne è un topos della tradizione italiana (sino ad AL I, 22, 4: «e a la dolce ombra cantar Philomena»), il riaccostamento fra la vicenda di Alcione e Ceice e quella di Orfeo sembra risalire al Metamorphoseon ovidiano, e precisamente al libro XI, il cui tratto inziale è dedicato alla morte di Orfeo e allo scempio del suo corpo, mentre ai vv. 410-748 si narra l’infelice storia di Alcione che lamenta lo strazio del marito Ceice morto in mare; la narrazione ovidiana si chiude con la metamorfosi dei due protagonisti in uccelli, tratto che riaccosta questo mito al precedente di Filomena. 62. Alcione: non dieretico, come in Riccucci, perché Ceìce, in nesso vocalico ascendente, è trisillabo. 64-6. Orfeo, che tanta parte avrà nella compagine di PE, fa la sua prima comparsa più come amante ardito che come poeta (ma la sua qualità di cantore è implicita); interessante il gioco paranomastico del v. 65 «aver mutato la morte inmutabile», simile a IV, 18 dell’Orphei tragoedia: «mossa ha la immobil porta». 67-84. Il terzo intervento di Titiro abbandona contenuti e lessico pastorali, per adottarne invece uno “alto”, di tono politico profetico; e sullo stesso registro gli risponderà Mopso ai vv. 88-102. 67-9. Versi di intonazione sentenziosa, che trovano il loro immediato precedente in AL III, 49, 9-11: «Quando fia adunque più cosa terrena / stabile e ferma, poiché in tanta altura / il Tempo e la Fortuna a terra mena?» (Zanato 1998 e 2012), forse incrociati con la loro fonte diretta (TE 1-2): «Dapoi che sotto ’l ciel cosa non vidi / stabile e ferma [...]», che potrebbe avere suggerito l’attacco del v. 70. 67. spuma de mare: l’immagine pare legata a Inf. XXIV, 50-1 «cotal vestigio in terra di sé lascia, / qual fummo in aere e in acqua la schiuma»; e lo stesso canto 91

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periti siamo e como aura che spira; hor pòi mirar se al mondo è cosa stabile. Non vede il sol che tuto il mondo agira cosa tanto gentil quanto la terra a cui ciascun pianeta è volto in ira: diluvio de onde, peste, fame e guerra premeno insieme, e questo il Cel non cura né a tanta crudeltà la porta serra; soi sacri tempi e sua santa cultura son consumati e le divine effigie abandonate, e sparsa ogni figura.

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69. se al] sel B Lu  70. vede il sol] uedi el ciel M – sol] da sole Lu 71. quanto] quanto e M 72. pianeta] pianto M 73. diluvio] diluio B Lu – de onde] dique (forse per daque) M 74. insieme] insiemo B Lu  75. la porta] sua porta M 76. soi sacri tempi] i sacri templi M 78. abandonate] arbandonata M – sparsa] sparse B Lu sparsa e M  ritornerà in implicazione con i successivi versi di Mopso. – labile: latinismo ‘che scorre’. 68. periti: l’accezione non è chiarissima. Più che ‘morti’ vorrà forse dire ‘svaniti’, ‘offuscati’, in uso affine a IO II, viii, 61, 7: «perito è ’l sol [...]». 69. Adotto la lezione di M, già suggerita in forma di emendazione congetturale da Zanato 2012, 907, in nota a AL III, 49, 7-8. 70-2. Si ritorna sulla sventura che ha colpito Ferrara e le terre estensi, ma i referenti non sono più espliciti: l’esempio vale a ribadire l’incostanza e la precarietà della condizione umana nel suo complesso. L’intonazione stilistica è ancora elevata, come dimostra la citazione aperta dalla seconda canzone del Convivio (v. 19): «Non vede il sol, che tutto ’l mondo gira». La fonte dantesca potrebbe incrociarsi con una autocitazione da IO I, xiii, 32, 1: «Il sol, che tutto ’l mondo volta intorno», soprattutto per la presenza delle stesse parole rima, terra : serra : guerra. 71. cosa tanto gentil: eco da Tanto gentile e tanto onesta pare, di cui è ripreso anche il v. 7: «e par che sia una cosa venuta». 73-8. Boiardo costruisce il quadro di devastazione della sua patria giustapponendo tessere di varia origine: il Morgante pulciano (XVIII, 139, 8: «e ’l mondo e ’l cielo in peste e ’n fame e ’n guerra»; Riccucci), il Paradiso dantesco (e si noti come l’incidenza della Commedia sul testo tenda ad aumentare: III, 43 «La nostra carità non serra porte»; Riccucci), le Rime del Saviozzo (XV, 96-7, in un testo anch’esso politico: «vedete or come giace Italia bella! / Ove so’ i sacri templi, ove i teatri?»; Riccucci). 76. cultura: ‘assieme dei culti religiosi’ (TLIO). 78. figura: ‘immagine sacra’.  92

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Quai miseri Thebani o gente phrigie

patirno a’ soi delitti cotal pena, o qual magior è giù tra l’ombre stygie? L’aria sopra di nui non se aserena, il foco e l’aqua ce fan danno a prova,

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79. Quai] Qual M 81. giù] gia M – tra l’ombre] fra londe M  83. l’aqua] laque B Lu – ce fan] si fa M  79-81. Come già ai vv. 40-5, la situazione storica contemporanea si riflette in quella antica: né i Tebani, colpiti dalla maledizione conseguente al delitto di Edipo, né i Troiani (gente phrigie), su cui grava la colpa di Paride, ma nemmeno i peggiori peccatori che giacciono fra l’ombre stygie, ovvero negli Inferi pagani, hanno mai pagato un prezzo tanto alto. 79. Il riferimento di Riccucci al capitolo del Tebaldeo Per dar riposo a l’affannata mente, vv. 46-52 è senz’altro corretto, anche perché quella porzione di testo allude appunto alla guerra fra Ferrara e Venezia: «Ché poi che tra il Leone et Hercul nacque / l’odio da cui la guerra principo ebbe, / mai la mia patria de gridar non tacque; // e tanto sopra lei l’incendio crebbe, / che del regno troiano il caso duro, / apresso questo, poco mal sarebbe; // non mai Thebani in tanta angustia furo». Ho parecchi dubbi, però, sulla direzione lungo la quale si muove l’intertestualità: le terzine successive a quelle appena citate alludono infatti alla pace di Bagnolo, siglata il 7 agosto del 1484, con la quale, a scorno delle speranze ferraresi, il Polesine viene ceduto in via definitiva alla Serenissima: «Poi che Venetia se era facta exangue / e che Ferrara aver dovea victoria, / abandonata fu, che anchor ne langue: // questo è l’immortal nome e la gran gloria / che hoggi se acquista, e la perpetua fama / che i signor’ lassan de la lor memoria! // Impara, patria mia dolente e grama, / de non credere a pacto o sacramento, / ché ognun più lo oro assai che la fede ama». Nessun riferimento storico delle Pastorale sembra travalicare il novembre del 1483: quella del Tebaldeo, dunque, potrebbe essere una delle rare traccia lasciate dall’operina boiardesca sulla letteratura coeva. 81-3. In un contesto che si è progressivamente allontanato dai moduli lirici, Boiardo inserisce una splendida variazione antifrastica su un celebre luogo petrarchesco (Rvf 310, 5-7): «Ridono i prati, e ’l ciel si rasserena; / Giove s’allegra di mirar sua figlia; / l’aria et l’acqua et la terra è d’amor piena». Ripresa raffinata, da grande petrarchista, perché anche nel Canzoniere allo splendore del mondo illuminato dal ritorno di Primavera si giustappone la desolazione dell’amante, per sempre privato di Laura, in perfetta coincidenza, quindi, con lo stato d’animo espresso del protagonista boiardesco.  93

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la terra è di cordoglio e pianti piena.

Mo. Meglio è che a consolar costui me mova: a quel ch’io vedo il suo dolor non manca, anci magior nel pianto se rinova. Leva, Tytiro, su l’anima stanca, leva le membra: hor non sai che Fortuna talhor nera ha la facia e talhor bianca?

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84. cordoglio] cordogli M – piena] e piena M 90. nera ha la facia] la facia nera M 84. Come poi in IO III, viii, 8, 5: «De strida e pianti è quella terra piena» (Merlini). – cordoglio: considero erronea e non adiafora la lezione di M, cordogli, perché il sostantivo nella lingua lirica fra Due e Quattrocento (LIZ) non è mai usato al plurale. 85-102. Mopso entra finalmente in scena e, seguendo un modello stilistico che abbiamo già visto disegnarsi, affronta il dolore dell’amico con un discorso in tonalità alta, che assume spesso cadenze dantesche. 86-7. I versi mostrano la forte impronta di Aen. II, 1: «Infandum, regina, iubes renovare dolorem» e della ripresa di Inf. XXXIII, 4-5: «[...] Tu vuo’ ch’io rinovelli / disperato dolor che ’l cor mi preme»; possibile anche l’interferenza di AL II, 51, 11: «perché il dolor antico se rinove» (Riccucci). 88-9. Leva ... membra: l’esortazione del v. 88, che ritorna in anafora ai vv. 97 e 98 e, con variatio solo lessicale, a 94 e 98 rimanda a Inf. XXIV, 52-4 (Ponte 29): «E però leva sù: vinci l’ambascia / con l’animo che vince ogne battaglia, / se col suo grave corpo non s’accascia», anche per l’intonazione affine della «rimenata» di Virgilio e di quella di Mopso. Non so se sia solo il casuale prodotto della memoria elettronica della LIZ, ma un passo dell’Acerba (4, 2, 8-9), piuttosto vicino a quello dantesco, propone in sequenza anche la luna: «Per più sentire la tua mente leva, / ché ciò che qui ti dico non è ciancia. // E tu a me: “Perché sempre vedemo / la Luna scema [...]». 89-90. hor ... bianca?: sia qui che a PE V, 67-9 (Ponte 27) Boiardo omaggia il bucolico senese Francesco Arzocchi, l’autore attorno al quale si struttura la parte centrale delle sue egloghe. In questo caso l’occorrenza della fonte sembra però piuttosto casuale, estranea al contesto stilistico che la circonda: «Non comincia per ‘una’ la fortuna, ma fa come la luna, / che, rossa o chiara o bruna che la torni, / cotal s’aspetta poi ch’ella soggiorni» (Egloghe I, 96-9). A mio avviso, più che citare il senese (cosa senz’altro possibile, anche perché la prima delle Pastorale è probabilmente fra le ultime ad essere scritta, ed è quindi successiva a quelle più implicate con Arzocchi), Boiardo qui cita sé stesso, dall’esordio sentenzioso di IO I, xvi, 1, 1-5: «Tutte le cose sotto dela luna, / l’alta richeza, e regni dela terra / son soto94

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Stato fermo non è sotto la luna, né fo né mai serà, però la sorte candida tornerà che hor tanto è bruna. Alcia la mente e fa’ lo animo forte, ché (come tra ’ più sagi si ragiona) tristicia è da fugir sin a la morte. Leva di terra tua lassa persona, leva la humida facia et alcia il ciglio: perduto è sol chi sé stesso abandona. Come fronde caduca e colto ziglio è quel che da speranza se alontana, né il suo saper gli giova o altrui consiglio.

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Ty. Chi te ha condutto in questa parte istrana, Mopso, a vederme in sì dolente caso 93. che hor tanto è bruna] che [ch’è] tanto bruna M 94. Alcia la mente] Leua le membra M 95-96.] scambiati fra loro M 96. sin] sina B Lu (da sin)  98. leva] driza M 100. caduca] cadute M 102. il suo] suo M – gli giova] li ual M – altrui] al tuo B Lu  103. te ha condutto] ta mandato M  104. dolente] lento M  posti a voglia di Fortuna: / lei la porta apre de improviso, e sèra, / e quando più par bianca divien bruna».  91. ‘Nessuna condizione umana è stabile’. 93. Alcia la mente: fra le molte espressioni analoghe offerte dalla LIZ, oltre all’Acerba già segnalata, si può allegare anche un verso di Giusto 92, 4: «fra i bei pensier d’amor alza la mente!». 96. A differenza del contesto che la circonda, questa sentenza proverbiale, come pure la analoga del v. 99, non vanta precedenti letterari: sembra una personale professione di fede epicurea. 100. Il verso ha un tasso di letterarietà piuttosto alto: il primo comparandum (che spesso è un fiore) è invece qui la fronde, cui si accompagna l’aulico aggettivo caduca. Come nelle Rime del Correggio (174, 10), sempre con qualche dubbio di cronologia: «le tue caduche e or bramate fronde». Più di tradizione il secondo comparandum, che è appunto un fiore, come in AL III, 31, 5: «come succisa rosa e colto fiore» (Riccucci) e come nell’Orphei tragoedia (II, 46-7; un altro dettaglio che si aggiunge alle molte spie di una paternità boiardesca del rifacimento): «Come succisa rosa / e come colto ziglio [...]» (Zanato 1998 e 2012). 102. Autocitazione da IO I, i, 31, 7: «né mi giova saper, né altrui consiglio»; la lezione di M, ual, potrebbe essere frutto di variatio. 103-11. La risposta di Titiro riconduce il dialogo entro gli usuali confini 95

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qual me ha da gli ochi tratto una fontana?

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Rapito mi è lo armento, il grege invaso

da peste muore, il mio paese ameno inculto, solo e squalido è rimaso; e chiedi che al dolore io ponga freno? Mancherà l’onda al mare e luce al sole prima che ’l pianto mio mai venga a meno.

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105. me ha] mai M 107. paese] paeso Lu  108. è rimaso] rimaso M 109. io ponga] riponga M 110. l’onda] londe M 111. pianto mio] mio dolor M  della bucolica, con espliciti richiami interni ai vv. 16 e 31-2, e dunque alla desolazione delle terre estensi. 103. istrana: probabilmente nel significato (TB ad v. strano) di ‘remoto’, ‘disagiato’ (quindi non estranea rispetto all’interlocutore, come ipotizza Riccucci). 105. Espressione topica del linguaggio lirico, anche di intonazione medio bassa: fra le molte occorrenze reperibili nelle banche dati, forse la più congruente è quella segnalata da Riccucci, con l’avvertenza, qui come altrove, che si tratta di langue molto più che di parole: Boccaccio, Filostrato VI, 2, 8 «fé de’ suoi occhi un’amara fontana». 106. Per il motivo del furto del gregge cfr. Giusto de’ Conti 144, 19-21: «Un altro Cacco [...] / fura gli armenti di ciascun vicino» (Pantani 2006, 141). 108. squalido: aggettivo piuttosto raro nella lingua poetica italiana antica (a parte la nobile occorrenza di Rvf 318, 4): la LIZ registra, oltre a questa, meno di una decina di occorrenze, fra le Rime del Correggio, del Tebaldeo e di Serafino Aquilano, sempre riferite a persone o a oggetti di uso personale. Probabile quindi che sia un latinismo semantico, da PA I, 8: «[...] abductis squalescunt arva iuvencis». 110-1. Boiardo applica alla disperazione di Titiro due adunata prettamente lirici: prima che il pastore cessi di piangere, il mare resterà senza onda (cioè senza acqua) e il sole senza luce. Il primo è petrarchesco, da Rvf 57, 5-8: «Lasso, le nevi fien tepide et nigre, e ’l mar senz’onda, et per l’alpe ogni pesce, / e corcherassi il sol là oltre ond’esce / d’un medesimo fonte Eufrate et Tigre», o anche da 237, 16-7: «Ben fia, prima ch’i’ posi, il mar senz’onde, / et la sua luce avrà ’l sol da la luna» (Riccucci). Sono i due contesti più calzanti, soprattutto per la contemporanea presenza del sole; il secondo adunaton boiardesco nasce per probabile variatio su AL I, 57, 9-12: «Servo me vi son fatto, e non mi pento, / né pentirò giamai [...] / se ’l sol la luce al giorno non asconde». 111. pianto mio: la lezione di M mio dolor è errore di ripetizione dal v. 109.  96

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Mo. Ben iusta è la cagion che al cor ti dole, ma il lamentar che giova? e che riparo se trova a quel che il cel destina e vole? Atendi al mio conforto e fìati caro venirne meco al Fonte di Narciso e passaren parlando il tempo amaro. Ma vedi tu, o che io ben non aviso? Il sacro arbor de Apollo intorno è scritto, e tuto a letre il tronco pare inciso.

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113 E] o M 115. conforto] consiglio M 118. Ma] Hor M – aviso] ho uiso M 120. a] ins. B – tronco] tronchon M  112-20. La battuta di Mopso introduce nel dialogo due elementi nuovi: la fonte e, soprattutto, l’albero dalla corteccia intagliata. 112-4. La terzina è una delle due trascritte da Bernardino Grapella in R. 113. il lamentar che giova?: citazione da Poliziano, Stanze 2, 36, 1: «Adunque il tanto lamentar che giova?»  giova: nel significato latino di ‘arrecare piacere’. 115. Atendi: ‘poni attenzione’ (Trolli). 116. Fonte di Narciso: la fonte, nella topografia fantastica boiardesca, è spesso luogo di malìa e di incantesimo, tendenzialmente pericoloso (come apparirà evidente in PE VI). La presenza dell’iscrizione avvicina questa nostra a IO II, iv, 20 (là dove Orlando si avventura nel Giardino di Falerina), con la sua valenza profetica: «Era alla sua man dextra una fontana / spargendo intorno a sé molta aqua viva; / una figura di pietra soprana, / a cui del peto fuor quel’acqua ussiva, / “Drito” avìa in fronte “per questa fiumana / al bel palagio dil Giardin s’arriva”». 118-20. L’iscrizione viene introdotta secondo modalità classiche, non romanze: i versi di Boiardo (Carrara 181) seguono infatti da vicino quelli della prima egloga di Calpurnio. Si vedano in particolare i vv. 20-3 (parla Ornito): «sed quaenam sacra descripta est pagina fago, / quam modo nescio quis properanti falce notavit? / Aspicis ut virides etiam nunc littera rimas / servet et arenti nondum se laxet hiatu?», con la risposta di Coridone (vv. 24-5): «Ornyte, fer proprius tua lumina: tu potes alto / cortice descriptos citius percurrerere versus». 118. Ma: la lezione di M, Hor, sarebbe anche plausibile, ma la sua attendibilità è minata dall’altro hor che M reca al v. 122: una ripetizione che è ben difficile supporre boiardesca. – ben non aviso: ‘non giudico correttamente’ (TLIO). 119. Il sacro arbor de Apollo: un alloro, dunque, e non un faggio come in Calpurnio, forse in omaggio alle dote profetiche del dio, forse per petrarchismo generico. 120. a letre ... inciso: eco di AL III, 59, 53: «Legette il verso a lettre d’oro inciso» (Zanato 1998 e 2002, che segnala la rima inciso : Narciso, come in PE; e anche nella canzone si parla della fonte di Narciso).  97

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Ty.

Io il vedo, e se non è forse interditto lo antivedere il fàtto, legi un poco, se trovasti conforto al core afflitto.

Mo. Non sciò se per nascondere o per gioco, in giro è scritto e par del capo privo, ma pur certo comincia in questo loco: «Qualunque passerà nel santo rivo vedrà il salir de’ Stati e il precipicio. Io, Phebo che non mento, a voi lo scrivo.

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122. legi] hor legi M 125. è scritto] hascrito M 126. pur certo] certo pur M 128. vedrà] ueda B Lu Stati] fonti M  129. mento] mente B Lu – a voi] a chi M 

122. antivedere il fàtto: ‘prevedere il destino’; sul fondo dell’egloga di Calpurnio si innesta il tema del vaticinio poetico, segnalato dall’uso piuttosto tecnico di antivedere, che anticipa la profezia di Mopso. 125. par del capo privo: ‘pare che ne manchi la prima parte’, che non coincide però con l’inizio della profezia: la scrittura è circolare, per celarne il significato o per burla (v. 124: «Non sciò se per nascondere o per gioco»). 126-74. Nelle parole di Mopso, dove affiorano evidenti echi danteschi, si intrecciano motivi di palingenesi, riferimenti storici più concreti a fatti della guerra contro Venezia, e lodi ad Ercole, cui si attribuisce la definitiva sconfitta dei mostri generati dalla guerra; tutti gli avvenimenti cui Boiardo allude sono evidentemente già accaduti, il che ci porta, come si vedrà, a una datazione dell’egloga successiva al novembre 1483. 127. Qualunque: col valore di ‘chiunque’, come spesso in Boiardo e in tutto l’italiano antico (Mengaldo 1963, 162). – passerà nel santo rivo: il fiume, come già nella Commedia, è tramite di purificazione e via di accesso a una forma di conoscenza più alta; anche il sintagma santo rio è dantesco (Par. IV, 115; Riccucci), ma l’occorrenza è decontestualizzata, perché Dante allude metaforicamente al fiume di parole che esce dalla bocca di Beatrice. 128. il salir ... precipicio: le alterne vicende delle fortune politiche; la lezione di M è congruente con il sistema metaforico utilizzato.  128, 130, 132. La correzione della seconda mano di Lu rende perfetta la serie delle rime; che in B escono invece tutte in -tio. 129. Nel corpus dell’iscrizione si recupera Calpurnio I, 28-9: «Non pastor, non haec triviali more viator, / sed deus ipse canit [...]», intrecciati però (Zanato 1998 e 2002) con AL I, 43, 82: «sciai che io so’ Phebo e non soglio mentire». 98

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Più faustamente e cum miglior auspicio nascerà il tempo e tornerà la fine mite e diversa a sì crudel inicio. Il sangue il foco e pianti e le roine che move il fier leon meso han pietate per tuto il celo a l’anime divine. Là dove il nome è di nova citade vedo levare una incredibil luce, qual è il mio carro in Cancro a megia estade. Sieco natura ogni gloria produce; rara ionctura: ardir co la prudentia accolti ha insembre questo inclyto duce.

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132. inicio] da initio Lu 133. Il sangue il foco] El focho el sangue M – pianti] piante B 134. move] ha mosso M – meso] mese B Lu posto M 136. il nome è] e il nome M 137. levare] leuarse M 138. megia] megio Lu 140. ionctura] da iunctura Lu uentura M  ardir] ardire B Lu (in Lu ardire è ricavato da ardir per ricalco parziale) 141. ha insembre questo inclyto] insieme questi incliti M  130-2. La terzina allude, in termini piuttosto generici, al rinnovamento dei tempi, sulla scorta di Buc. IV, 5: «magnus ab integro saeclorum nascitur ordo» e dei testi che ne derivano. Da notare subito che né qui né negli altri luoghi che si collegano a questo (PE I, 154-6; 172-4 e X, 79-87) Boiardo fa riferimento esplicito al campo metaforico dell’età dell’oro. 133-5. Secondo quanto suggerito da Mazzoni 326, la terzina dovrebbe alludere al rovesciamento di fronte da parte di Sisto IV, che nel dicembre del 1482 abbandonò l’alleanza coi Veneziani per appoggiare gli Estensi; riferimenti ai documenti d’archivio in Riccucci. 134-5. meso ... divine: ‘hanno indotto pietà nelle anime beate (e di conseguenza anche nel Pontefice) attraversando tutto il cielo’. 134. muove: ‘suscita’, ‘origina’.  134, 136, 138. Si noti la serie di rime fra sorde e sonore. 136. A Napoli, nova citade, ovvero Neapolis. 137. incredibil luce: lo splendore metaforico del duca di Calabria; una immagine simile anche in PE X, 64-6, riferita però ad Alfonso il Magnanimo. 138. in Cancro: sotto la costellazione del Cancro, fra giugno e luglio. – megia: forma ipercorretta (e scempia) per mezza. 139. Eco da IO II, xxvii, 56, 3-4 (l’ottava è riferita a «Alfonso gioveneto»): «sì come la Natura avesse eleto / un hom a possider ogni sua gloria». 140. rara ionctura: ‘congiungimento raro a vedersi’. 141. Calco da AL I, XIV, 14: «agiunti ha insieme questa alma felice» (Zanato 1998 e 2002).  99

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Ben n’ha la Italia vera experïentia che, già ripiena di spietati Thurchi, per lui purgata fu di tal sementia. Dalmati e Sclavi e ’ soi signor più lurchi vedo hor fugir avanti a la sua facia e lasserano in Po gondolle e burchi. E da lo ispano Hibero a lo Hebro in Tracia

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142. n’ha la] nela M 143. che, già] chera M 144. purgata] purgato M – sementia] sententia M 145. e Sclavi] schiaui M – più] piui M 146. avanti] dinante M 148. da lo] alo M  142-4. La terzina allude alla liberazione di Otranto, il 10 settembre del 1481, impresa celebrata anche dall’ottava 56 bis di IO II, xxvii (3-4), che si inserisce appieno nel clima storico delle Pastorale (Benvenuti 1995, 53): «sì com’è Italia da’ Turchi diffesa / per sua prodecia sola e suo valore».  143, 145, 147. La rima Thurchi : lurchi : burchi deriva da Inf. XVII, 17-21 (Ponte 27), e la vena dantesca del passo si estende alla coppia experïentia : sementia dei vv. 142-4, forse un omaggio al celebre passo di Inf. XXVI, 116-8: «non vogliate negar l’esperïenza, / di retro al sol, del mondo sanza gente. / Considerate la vostra semenza». 145-7. La terzina rimanda a un fatto storico preciso, una vittoria riportata da Alfonso di Calabria sul fiume Po; l’ipotesi più probabile (Benvenuti 1995, 53 e Riccucci) è che si tratti dello scontro del novembre 1483, sul Po ferrarese. Come si è già detto, questa pare la data più bassa attestata nel corpus delle Pastorale; se ne potrebbe inferire che questa prima sia, in realtà, l’ultima egloga della silloge a essere composta, prima della Pace di Bagnolo, della cessione del Polesine a Venezia, e dunque della profonda ostilità che a Ferrara matura nei confronti di Alfonso. 145. Dalmati e Sclavi: soldati provenienti dalla Dalmazia e dalla parte orientale della Croazia (Schiavonia), al servizio dei loro padroni ingordi (dantescamente lurchi). 147. gondolle e burchi: il poeta sceglie due imbarcazioni di spiccata connotazione veneziana (la seconda forse per via della sequenza rimica), ma ben poco adatte al combattimento. 148-59. Boiardo si stacca dalla contingenza storica per celebrare la fama di Alfonso in una dimensione più ampia; i modelli prevalenti, nonostante la citazione petrarchesca del v. 148, sono danteschi. 148. I due Ebro, il primo in Spagna, il secondo in Tracia, connotano l’occidente e l’oriente, secondo il modello petrarchesco (Merlini) di Rvf 210, 1: «Non da l’hispano Hibero a l’indo Ydaspe». Ma i fiumi che fanno da sfondo ai trionfi del condottiero evocano alla memoria quelli ben più famosi di Par. VI, 58-60: «E quel che fe’ da Varo infino al Reno, / Isara vide ed Era e vide Senna / e ogni valle onde ’l Rodano 100

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sonerà il nome di quella virtute che a gli Indi, a’ Scithi e a’ Nomadi minacia. Lui sol di tuta Hesperia fia salute e seran l’opre sue maravigliose,

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149. quella] questa M 150. a’ Scithi e a’ Nomadi] a Scithi e a Nomandi B Lu sithi et numidi M – minacia] da minaza Lu 152. seran] faran B Lu  è pieno». Fiumi diversi, ma intonazione simile, specie se si leggono questi versi alla luce di 154-6 e di PE X, 148. 150. La virtus di Alfonso potrebbe incutere paura anche ai popoli più fieri: gli abitanti dell’India (che paiono recuperati dal verso incipitario del sonetto 210 di Petrarca appena ricordato), della Scizia (territorio in parte corrispondente alla Russia odierna) e della Numidia. – Nomadi: si è emendato il Nomandi di Lu (e quindi di B; M legge numidi), nonostante IO II, xvii, 21, 1 rechi «E Baliverzo, il re di Nomandìa»; la lezione del poema è frutto di emendazione sul Normandia dell’archetipo, e soprattutto le occorrenze coeve registrate da LIZ sono concordi nel recare Nomadi e Numidia: per esempio Libri della famiglia di Leon Battista Alberti, IV: «E chi non odiasse quelle gente crudelissime di là da’ Nomadi, quali beono el sangue del suo ferito inimico, e que’ ditti Zeloni, quali ne’ teschi de’ suoi morti inimici si pasceano, e quelli Scite, de’ quali scrive Erodoto che de’ dieci presi inimici immolavano uno in luogo di pecore, e solo chi portava el capo dell’inimico era participe della preda; faceano della pelle degl’inimici faretre da saette e simili?». Nell’Erodoto volgarizzato da Boiardo (I, I, ii; si cita dalla princeps veneziana del 1533 minimamente modernizzata) leggiamo: «Nel suo tempo i Cymerii cacciati da gli Scythi nomadi passorno in Asia con grandissima rovina et presero la città de Sardi eccetto la rocha nella quale era Ardio»; e resta il dubbio che nomadi sia un semplice attributo di Scithi. Se poi si tratti degli africani Numidi, o di altre popolazioni denominate genericamente Nomades, è difficile dirlo. La serie ritorna simile (Riccucci) in Tebaldeo, Rime 270, 74-5: «[...] cerca Numidia, / gli Indi, i Britanni, i Scythi e l’Ethiopia». 151. di tuta ... salute: ‘sarà la salvezza di tutta l’Italia’, con clausola dantesca da Inf. I, 106 «Di quella umile Italia fia salute» (Ponte 1962, 27). La fonte dantesca concorre anche alla genesi di IO II, xxi, 56, 5-8 (Riccucci), ma i due passi boiardeschi mi sembrano indipendenti: «O beï Italïani, io ve n’acerto: / costui [il mitico Ugo Alberto di Sassonia, capostipite degli Este nella prima genealogia del poema] che vien con quel stendardo in mano / porta con sieco ogni vostra salute, / per lui fia piena Italia de vertute». 152. Ancora un dantismo (Ponte 1962, 27) da Par. XVII, 76-8: «Con lui vedrai colui che ’mpresso fue, / nascendo, sì da questa stella forte, / che notabili fien l’opere sue».  101

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non da veder più mai né mai vedute. Per lui l’arme dolente fieno ascose e sotto il suo pacifico vexillo la terra fiorirà viole e rose; l’aria serena, il mar sarà tranquillo, e fia la fama sua fra l’altre quale puro adamante al turbido berillo. Hercule alhor, disolto de ogni male, per tuto il mondo prenderà diffesa contro al leon che aperte ha sì grande ale. E ben che fia tremenda la contesa (ché il magior monstro mai non fo veduto),

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153. più mai] mai piu M 158. la fama] lama M – quale] equale M 159. adamante]da adamanto Lu – al] in M 162. contro] da conto Lu – al] el M – che aperte ha] chaperto M  154-6. La maggiore vittoria di un condottiero, per Alfonso come per Ottaviano, è la pace, secondo quanto recita Par. VI, 80-1: «con costui puose il mondo in tanta pace / che fu serrato a Iano il suo delubro». 156-7. Le immagini che connotano la pace: la terra fiorita, l’aria serena e il mare tranquillo rimandano al De rerum natura I, 6-9: «te, Dea, te fugiunt venti, te nubila caeli / adventumque tuum, tibi suavis daedala tellus / summittit flores, tibi rident aequaora ponti, / placatumque nitet diffuso lumine caelum» e 31: «nam tu sola potes tranquilla pace iuvare», con il probabile tramite di AL I, 43, 73-4 (Zanato 1998 e 2002): «fioria la terra e stava con diletto, / tranquillo il mare, e il vento era quïeto». 158-9. La sua fama brillerà come un diamante in confronto all’opaco berillo. Il paragone fra le due pietre è inattestato, ma la serie vexillo : tranquillo : berillo è in rima anche in Poliziano, Stanze I, 96, 2, 4, 6 (ed è l’unica altra occorrenza che la LIZ segnali per il Quattrocento, anche se per Poliziano il berillo è lucido). 160-74. Boiardo dedica a Ercole tutta la parte finale dell’egloga: come già era accaduto nell’Inamoramento (Benvenuti 1995, 53), il poeta deve riscattare la figura del suo signore, che dalla sequenza degli avvenimenti bellici dell’inverno ’83-’84 usciva piuttosto malconcia. Come è logico attendersi, lo fa in forma allegorica: Ercole, a mo’ dell’eroe mitologico, ma con qualche ricordo anche del veltro dantesco, respinge il leone veneziano e stermina poi, come nelle Fatiche del Bassi, i mostri che hanno invaso la terra. 160. disolto de ogni male: ‘guarito’: siamo dunque dopo il gennaio del 1483; ma la data post quem dell’egloga (vv. 145-7) è più bassa. 164. Riecheggia IO II, viii, 16, 8: «Più crudel mostro mai non fo veduto».  102

egloga i

pur fia punito alfin de ogni sua offesa: più non serà come era prima arguto, ma de’ monti caciato e de le selve al litto tornerà donde è venuto. In terra non saran più monstri o belve: tutte le vedo oppresse andare al fondo, ché ’l novo Alcide le strugge e divelve. Tornerà poi quel tempo sì iocondo che ben di questo potrà fare amenda, tanto fia lieto e gratïoso il mondo.

165

Ty.

175

Par che nova alegreza il cor me accenda

170

165. pur fia punito alfin] al fin sara puni M 167. caciato] caduto M 168. donde] doue M 169. saran] sera M 170. andare] gir M 171. strugge] distruge M 175. il cor] al cor M – accenda] acconda B  166. arguto: è un aggettivo canterino, polisemico, ampiamente utilizzato nel poema (Trolli); il significato più probabile, visto il contesto, è quello di ‘feroce’, come in IO I, i, 58, 3 ecc. 167-8. Pertinente il rinvio di Pasquini 387 a Inf. I, 109-11: «Questi la caccerà per ogne villa, / fin che l’avrà rimessa ne lo ’nferno, / là onde ’nvidia prima dipartilla». 169-71. Ercole sterminatore di mostri, come in Tebaldeo, Rime 272, 133: «[Hercule Estense] de vitii domitor, de fiere e mostri» o in Correggio, Rime 277, 5-8: «a questo Ercol secondo e Iove e Marte / sono più propizii, che se quello uccide / orribil monstri, a questo Ectore e Atride / credon per gloria lor militar arte» (Riccucci); in ambedue i casi con le difficoltà di cronologia relativa di cui abbiamo più volte detto. Di sicuro, il tema è ampiamente frequentato nella Ferrara estense.  167, 169, 171. La sequenza rimica è in Arzocchi II, 83-87 (Fornasiero 1998, 665). 169. Simile a PE X 85-7 (lì in lode di Alfonso di Calabria): «tigri e serpenti e ogni animal crudele / rari sarano, e se qualcun ne fia, / sarà senza veneno e senza fele»; in entrambi i casi da Buc. IV, 24-5: «Occidet et serpens, et fallax herba veneni / occidet […]». 172. Probabilmente con eco virgiliana da Buc. IV, 6: «Iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna». 173. fare amenda: ‘risarcire, ripagare i danni’ (TLIO ad v. ammenda). 174. lieto e gratïoso: sintagma di tradizione lirica: AL II, 52, 6: «né mai fu lieto e grazïoso tanto» (Zanato 1998 e 2012). 175-84. La chiusa dell’egloga salda i fili con la tradizione bucolica, soprattutto virgiliana: il calare della sera segna il chiudersi della performance pastorale, secondo il modello di Buc. I, 79-83; il lessico utilizzato, come in 103

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e cum gran zoglia quel che leggi ascolto, aben che chiaro il tuto non intenda. Ma vedi il sol che a lo ocidente è volto: partir convieme hormai, ché il cel se anera, il tempo è poco e il mio camino è molto.

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Mo. Come tu dici è già gionta la sera e se a te non dispiace la mia stanza posar potremo in su questa rivera, cantando insieme il giorno che ne avanza.

176. cum ... leggi] quel che leggi con gran zoglia M – zoglia] da doglia Lu 178. vedi] uedo M 180. poco] breue M 181. dici] da dice Lu 182. la mia stanza] mia partanza M 183. in su] sun M

altri segmenti di impronta bucolica, è però diffusamente lirico. 175-7. La profezia poetica regala alegreza e zoglia (vocabolo ben noto ai lettori di Boiardo) a chi l’ha ascoltata, anche se il senso profondo ne rimane misterioso. 177. Il topos dell’oscurità si replica quasi identico a PE V, 77: «ma quel che dice poco o nulla intendo». 178. Il sole si avvicina all’occidente, dunque il tramonto è prossimo. 179. il cel se anera: Boiardo utilizza il sintagma sia in AL I, 45, 3 che in IO I, i, 59, 5, sempre sotto il suggello del celebre incipit giustiano: «La notte torna e l’aria e il ciel si annera». 180. Ancora un verso di forte connotazione lirica: Rvf 244, 14: «perché ’l camin è lungo, e ’l tempo è corto» (Riccucci). 182-4. L’invito di Mopso riprende, con sottile variatio, quello di Titiro a Melibeo (Buc. I, 79-80): «Hic tamen hanc mecum poteras requiescere noctem / fronde super viridi: sunt nobis mitia poma». L’insistenza sul tema del canto, tuttavia, imprime al testo, e alla raccolta tutta, una forte impronta metapoetica e letteraria: il pastore virgiliano non canterà più (I, 77: «carmina nulla canam [...]»), travolto dalla bufera della guerra, e l’invito dell’amico si declina in quel caso in un passato solo ipotetico. 183. Il verso rimanda (Carrai 2005, XVIII) all’attacco della seconda egloga: «Posto me era a posare in su la riva»; è l’inizio di una catena che lega fra loro i primi cinque testi delle Pastorale. 104

II

Come nel modello virgiliano, PE II è un’egloga monodica: secondo la didascalia è anzi doppiamente monodica, perché, dopo un breve preambolo bucolico in cui «parla lo auttor», cioè protagonista è il pastore che parla in prima persona, «canta Galathea». Ma il margine di autonomia rispetto al lamento di Coridone trascurato dal bell’Alessi nella II delle egloghe virgiliane1 è notevole; intanto, a parlare è la ninfa Galatea, una presenza certo non inusuale in contesto bucolico (a partire dall’idillio XI di Teocrito), ma a cui non è mai toccato un ruolo da protagonista. Boiardo le fa pronunciare un lamento (v. 21) che all’apparenza è elegiaco amoroso (e quindi ben si attaglia a una protagonista femminile, in ossequio al modello delle Heroides ovidiane), ma assume ben presto movenze politiche, non dissimili dall’exemplum di Titiro in PE I. Il «viso che me strugge amando» (v. 24) è infatti quello di Alfonso d’Aragona, il cui arrivo sulla scena della guerra ferrarese si fece a lungo attendere. Il taglio del componimento, e i suoi contenuti, ci portano quindi piuttosto lontani dal testo di Virgilio, mentre i rapporti che legano quest’egloga alle sorelle volgari (soprattutto alla X) sono indiscutibili; non solo per la comune presenza del duca di Calabria, ma anche per la sottile rete di riferimenti che stringe la figura di Galatea, al cui canto la natura ammirata si tace, a quella di Orfeo, che intona la X. Complessi anche i rapporti coi Pastoralia: il lamento – amoroso – della fanciulla ricorda piuttosto da vicino PA I, 67-85, là dove Poeman-Boiardo presta voce alla ninfa innamorata di Ercole d’Este-Alcide, ma le coincidenze finiscono qui, e la ragazza non si chiama affatto Galatea (come si legge invece in Ponte 43). PA II segue altre strade: lo strazio di Titiro è provocato da un abbandono, come quello di Coridone in Virgilio, però senza rimedio e senza speranza. Il pastore poeta, che è ancora lo Strozzi, piange difatti la morte di Costanza dal Canale, in arte Filliroe, come ave-

1  In cui Virgilio rivisita il topos delle profferte di Polifemo a Galatea; e qui, forse, potremmo cogliere un rapporto con PE II.

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va già fatto in Erotica X, 6.2 Ma il suo canto non è monodico, e l’egloga presenta altri due interlocutori, Bargo, forse Battista Guarini, e Lince, di dubbia identificazione, che cercano di consolare l’amante. Parecchi fili si intrecciano fra questa egloga e altre, latine e volgari, ma la trama non è univoca e il disegno è difficile da individuare: il compianto funebre richiama alla memoria Buc. V, con l’elogio di Dafni, ma il contesto generale appare difforme. Più simile, invece, l’impianto della seconda delle egloghe di Gasparo Tribraco, e soprattutto stringente risulta il rapporto con PE VIII, dove Menalca piange la morte dell’amata Nisa e viene dissuaso dal suicidio dall’intervento di Melibeo. Menalca non è lo Strozzi, e Nisa non è Filliroe, ma l’artificio cui Melibeo fa ricorso per confortare l’amico, e cioè far pronunciare dalla fanciulla perduta parole di cristiana consolazione, ricorda molto da vicino Spirto peregrin, che gionto sei, il capitolo del Canzoniere Costabili dedicato alla giovane donna amata dallo Strozzi.3 Il filo intertestuale, quindi, stringe saldamente PA II e PE VIII, ma a poco ci serve quando ci confrontiamo con PE II. Qui Boiardo descrive sé stesso in contesto pastorale, e il fatto lascia presagire che, come accade in questi casi nei testi latini, l’argomento del canto sarà elevato.4 Galatea, che Boiardo descrive schizzando un’immagine simile a quella di Aretusa nel V del Metamorphoseon, intona un canto di attesa struggente per Alfonso, che, partito da Napoli alla metà di aprile del 1482, solo il 14 gennaio del 1483 poté finalmente giungere a Ferrara e imprimere alle vicende della guerra una svolta positiva. Non è presente alcuna allusione a fatti successivi a questa data ma, secondo la norma non scritta delle bucoliche per cui gli avvenimenti cui si allude (qui l’arrivo di Alfonso) sono sempre già avvenuti, mi è difficile credere (come fa invece Riccucci 2005, 41) che l’egloga risalga alla fine del 1482; sarà precedente a PE I, ma comunque del 1483. Qualche altra parola sulla figura di Galatea e sulla sua funzione nel testo: il gioco di Boiardo è sottile e, come sempre, sapientemente allusivo. 2  Che è un canto monodico come Buc. II e come PE II; sul ciclo legato a Filliroe si veda il recente Caterino. 3  Canzoniere Costabili 497. Possibile anche una interferenza col sonetto di Bernardo Pulci Se viva o morta, accolto nelle Bucoliche elegantissime, ma sulla questione ritornerò trattando di PE VIII.

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Galatea si dispera per una assenza, come Coridone in Buc. II si strugge per Alessi, ma la monodia di lei allude anche al simmetrico canto di Polifemo, che nelle Metamorfosi si sforza invano di conquistare le grazie della bella ninfa riottosa e silente. Aggiungo infine, a chiudere il cerchio della complessa costruzione boiardesca, che il canto di Galatea assume intonazioni non dissimili da una disperata, a mo’ di celeberrimi testi del Saviozzo. E anche al Serdini (oltre che al Petrarca di Chiare fresche e dolci acque, e a tutti i testi che ne discendono) possiamo ricondurre l’intreccio fra elegia e bucolica, quando la protagonista di O specchio di Narciso, o Ganimede, o il suo corrispondente maschile in Cerbero invoco e ’l suo crudo latrare, errano sconsolati fra i boschi, testimoni del loro dolore amoroso.5 Allargando lo sguardo ad altri testi, la sesta egloga del Tribraco piange la morte di una Galantis, ninfa del Po amata dal poeta; così come la XI egloga petrarchesca deplora, sotto il nome di Galatea, la morte di Laura; e Galatea, infine, è il nome (segreto) della ninfa amata nella seconda dell’Arzocchi. Da punto di vista stilistico il testo conferma la linea di PE I: il registro bucolico e quello lirico sono strettamente intrecciati nelle zone liminari dell’egloga, mentre il lungo monologo di Galatea, di taglio storico politico, vede il ricorso a un linguaggio di intonazione alta, con frequenti riprese dalla Commedia dantesca. Notevole, in particolare, l’affinità fra l’appello finale di Galatea ad Alfonso e l’esortazione dantesca a Alberto tedesco nel VI del Purgatorio. Numerose, come è logico aspettarsi, anche le corrispondenze fra quest’egloga PE I e PE X.

Cfr. IV e VI sia delle Buc. che di PA. Molto interessanti, anche se in una diversa prospettiva, le osservazioni al riguardo di Longhi 60-2. 4  5 

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Egloga secunda ne la qual parla lo auttor e canta Galathea. Posto me era a posare in su la riva de il re d’i fiumi, tacito e pensoso, mirando il sol che a l’orïente ussiva; tra folte rame de arbori nascoso gli augelleti ascoltava e quel diletto che fan cantando al giorno luminoso.

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4. folte] da folti Lu  1-9. L’apertura del testo è lirica, con qualche venatura bucolica: il protagonista (solo il v. 7 ce lo rivela pastore) trova conforto e rifugio nella natura; l’ora è quella mattutina, come già nell’esordio di PE I.  1-4. Prossimo al contesto boiardesco è Ameto XLIX, 3-6: «da folti rami chiuso, posto m’era / ad ascoltare i lieti e vaghi amori, / nascosamente, delle ninfe belle, / que’ recitanti, e de’ loro amadori» (Merlini), forse mediato da tra le folte rame di AL I, 16, 1 (Zanato 1998 e 2012).  1. Il verso si collega (Carrai 2005, XVIII) alla chiusa di PE I: «posar potremo in su questa rivera»; il rapporto fra i due testi è solo lessicale, non narrativo, perché alla fine di PE I, virgilianamente, cala la sera.  2. tacito e pensoso: la dittologia è di impianto lirico, ma inattestata prima di questo luogo; per il contesto naturale circostante, oltre che per la rilevanza del passo, il riferimento più evidente è al petrarchesco Solo e pensoso di Rvf 51, 1. Prossimo anche il Correggio, Rime 16, 1 ricordato da Riccucci: «Tacito e solo in questa amena valle», però con i consueti dubbi di cronologia. Tutto il contesto richiama anche alla memoria un famoso passo di IO I, iii, 37, 3-8 (è Ranaldo che arriva alla Riviera dell’Amore): «Cossì pensoso gionse a una riviera / de una aqua viva, cristallina e pura: / tutti li fior che mostra primavera / avea quivi dipinto la Natura / e faceano ombra sopra a quella riva / un fagio, un pino et una verda oliva». Nel locus amoenus del poema irrompe poi Angelica, presenza femminile di rilievo, come da qui a pochi versi quella di Galatea.  5-6. ‘Ascoltavo gli uccelli e il loro canto che ingenera diletto’.  6. al giorno: ‘nel giorno’, con preposizione a indeterminata fra uso spaziale e temporale (Matarrese 2004, 90).  109

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Mentre lo armento e la mia gregge aspetto, la bellissima nympha Galathea ussite fuor de l’onde a megio il petto. Quando sorse da il mar Venere idea mostrando ignuda l’alta sua belleza, nulla serebe a quel ch’io là vedea: sparsa a le spalle avea l’humida treza qual sì ioconda a nodi lustregiava

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7. armento] da armente Lu  9. il petto] al petto B  10. mar] da mare B  12. serebe] da serebbe Lu  7. lo armento e la mia gregge: sono le marche della identità pastorale, qui come in PE I, 5: «e cum la bianca grege e cum lo armento» e in I, 106: «rapito mi è l’armento e il grege invaso».  8-15. Galatea che sorge dalle acque, a mo’ di Venere, offre a Boiardo l’occasione per un pezzo di bravura a cui concorrono spunti diversi: la Galatea virgiliana di Aen. IX, 103: «et Galatea secat spumantem pectore pontum», ma forse ancor più l’Aretusa ritratta da Ovidio (Met. V, 487-8 e 574-5; Merlini): «Tum caput Eleis Alpheïas extulit undis, / rorantesque comas a fronte removit ad aures»; «Conticuere undae, quarum dea sustulit alto / fonte caput, viridesque manu siccata capillos». Notevole, nel secondo brano, anche il silenzio della natura di fronte alla ninfa, spunto presente nel passo boiardesco. La sovrapposizione fra Galatea e Venere è la probabile ragione dell’utilizzo di tratti delle Stanze di Poliziano che rievocano appunto la nascita della dea: I, 101, 1-2: «Giurar potresti che dell’onde uscissi / la dea premendo colla destra il crino», e soprattutto I, 102, 2-3: «sopra l’umide trezze una ghirlanda / d’oro e di gemme orïentali accesa» (Merlini e Riccucci).  9. Il modello che soggiace al verso è quello di Inf. I, 23: «uscito fuor del pelago a la riva» (Merlini); la forma ussite, oltre alla assibilazione settentrionale usuale in Boiardo, mostra la forma analogica del perfetto con -tt- (Rohlfs 577).  10. Venere idea: Pasquini 388 riaccosta l’aggettivo alle selve idee di I, 40, e lo interpreta quindi come riferito al monte Ida, là dove Paride offrì a Venere il pomo della discordia. Mi pare che qui, come osserva Zanato 1998 nel commento a AL I, 4, idea valga piuttosto ‘dea’.  14. ioconda: ‘bella, piacevole a guardarsi’ (Trolli). – a nodi: la preposizione ha valore modale strumentale (Mengaldo 1963, 155-6 e Matarrese 2004, 90); l’origine dell’immagine è da ricondurre ai mille dolci nodi di Rvf 90, 2. – lustregiava: Pasquini 380 segnala il verbo come prestito lessicale da Serdini, Rime estravaganti LXXIV, 283-4: «e già l’aurata chioma / lustreggiava per lui [...]»; l’indicazione di GDLI, che considera questa boiardesca (con l’altra di PE X, 65, e le due di IO: I, xxiv, 27, 8 e III, i, 53, 6) come la prima attestazione volgare, è dunque da correggere.  110

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che téne il fiume il corso per vageza. Ogni ocellin che lì prima cantava quetò la voce per vederla, e il vento senza soffiare e stupido amirava. E standome io a cotal vista intento, lei dolcemente mosse sospirando queste parole a guisa de lamento: «Quando serà quel giorno gionto, e quando serà nel mondo quel’hora felice che io vida il viso che me strugge amando?

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15-8. Il fiume trattenne (téne) il suo corso, gli uccelli smisero di cantare e anche il vento si tacque: sono più o meno gli effetti del canto di Orfeo, ma qui la natura, ammirata, contempla la vageza di Galatea, in procinto di celebrare le lodi di Alfonso, così come farà Orfeo in PE X. I singoli tasselli del mosaico hanno origini diverse: le acque del fiume smettono di scorrere come in PA I, 58 «flumina praecipiti tenuerunt concita cursu» al suono della zampogna del cantore, mentre il silenzio degli uccelli e il placarsi del vento non fanno parte del tradizionale catalogo (che si legge per esempio della Praefatio al libro II del De raptu Proserpinae di Claudiano). Sono elementi che compaiono però assieme nell’esordio del De rerum naturae, a salutare l’avvento di Venere (il passo è citato anche per PE I, 156-7): «te, dea, te fugiunt venti, te nubila caeli» (v. 6) e «aeriae primum volucris te, diva, tuumque / significant initum perculsae corda tua vi» (vv. 12-3).  20-1. Galatea inizia a cantare, intrecciando sospiri e dolcezza: forte l’eco di AL I, 1, 8: «formava sospirando le parole» (Zanato 1998 e 2012), forse con un ricordo della Lalage oraziana «dulce loquentem» (Carmina I, 22, 24), e di tutte le sue eredi volgari, sino alla Leodilla di IO I, xxi, 48, 5 che «dolcemente parlando gli dicìa».  21-123. Il monologo di Galatea si sviluppa, intrecciando temi e accenti diversi nelle varie zone, sino quasi alla fine dell’egloga, dove l’intonazione si fa nuovamente lirica.  22-4. La terzina è una delle due trascritte da Bernardino Grapella in R. Come nella “disperata” di Titiro in PE I, l’intonazione dell’esordio è prettamente lirica: dietro alle parole di Galatea traluce, infatti, Petrarca, Rvf 122, 9-14: «Oïmè lasso, e quando fia quel giorno / che, mirando il fuggir degli anni miei, / esca del foco, et di sì lunghe pene? / Vedrò mai il dì che pur quant’io vorrei / quel’aria dolce del bel viso adorno / piaccia a quest’occhi, et quanto si convene?».  24. me strugge amando: l’espressione rientra nella topica lirico amorosa; simile Giusto de’ Conti XXXV, 12: «Ma pur meglio è, poiché amando mi strugo».  111

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Lassai Peloro e il bel monte de Herice per veder lui, che ogni anima gentile le sue vestigie a seguitar elice. Ditime, nymphe, voi, se forsi humile torni il leon che sì crudo vi cacia, se la Fortuna cangi miglior stile, non aspettati che sua regal facia ponga spavento a la terribil fiera qual vi ha già chiuse quasi entro le bracia? Non aspettati che questa rivera, che hor sanguinosa e turbida se trova,

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25-7. La terzina giustifica geograficamente la presenza di Galatea, che è una delle Nereidi, nelle acque del Po: ha lasciato la natia Sicilia, indicata dal promontorio Peloro, a est, e dal monte Erice a ovest. Il primo era già stato utilizzato da Dante per designare la «bella Trinacria [...] / tra Pachino e Peloro» (Par. VIII, 67-8), il secondo non è attestato nella lingua poetica di tradizione. Il viaggio di Galatea muove dal desiderio di vedere lui, ovvero Alfonso, di cui in qualche modo è conterranea, e che invita (elice) ogni cuore gentile a seguire le sue tracce (vestigie).  27. elice: latinismo, già segnalato da Mengaldo 1963, 334 perché in uso in AL, oltre che qui: III, 25, 4.  28-36. L’intonazione del monologo di Galatea comincia a cambiare da questo punto, dalla invocazione alle sorelle “fluviali”, che sono chiamate a immaginare con lei i benefici effetti dell’arrivo di Alfonso sul terreno di guerra.  28-30. La terzina, strutturata sull’anafora del se ottativo, prospetta due eventualità felici: che il leone veneziano dismetta la sua arroganza (umile torni; per il significato di tornare per ‘diventare’, cfr. Trolli) e cessi quindi di perseguitare crudelmente (crudo è usato in senso avverbiale) le ninfe, e che la Fortuna cambi il suo aspetto, assumendone uno migliore (l’espressione boiardesca è alquanto brachilogica, ma il significato è chiaro).  30. cangi miglior stile: Petrarca TM I, 135: «Come Fortuna va cangiando stile!» (Pasquini 389); il riferimento al mutare della sorte era già in PE I, 89-93.  31. aspettati: l’unica accezione possibile nel contesto è quella registrata dal TLIO ‘immaginare l’accadere di un evento’.  306. Gli effetti del futuro arrivo di Alfonso vengono enunciati in forma allegorica: innanzitutto la sua regal facia incuterà terrore al leone veneziano (la terribil fiera) che ha ormai quasi circondato le ninfe dei fiumi ferraresi, ovvero si è impadronito di larga parte dei territori intorno alla città. In seconda battuta, l’acqua dei fiumi dismetterà il suo nuovo e inquietante aspetto sanguigno, per ritornare tranquilla e lucida.  35. La stessa immagine di PE I, 37-9: «Heridano il dolente, habandonato 112

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torni tranquilla e lucida come era? Ben sciò dir io che non fia cosa nova a lui quel monstro che orgoglioso è tanto, ché in altro loco ha fatto magior prova. Ne la marina dove iace Othranto un drago sì crudele era disseso che tuta Ausonia avea già posta in pianto. Era il gran cólto di tal fiama acceso, le gente intorno sì smarite e sparte, che un altro mondo non l’avria diffeso,

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/ de le Nayade, Satyri e Napee, / corre di sangue e lacrime meschiato»; e si rilegga anche IO II, xxi, 5, 6-7: «e l’acqua che sì chiara era davante / se fece a quel ferir torbida e scura».  36. tranquilla e lucida: ripresa, con membri invertiti, da AL I, 21, 4: «al sol nascente lucida e tranquilla» (Zanato 1998 e 2012).  37-9. La certezza della vittoria futura deriva dalla grandiosità delle imprese già compiute da Alfonso: il monstro veneziano per lui non sarà nulla di straordinario, ovvero, con latinismo semantico, non sarà cosa nova.  40-57. Si apre la zona dedicata alla rievocazione delle imprese militari del duca di Calabria prima di questa ferrarese: la liberazione di Otranto dall’assedio turco, il 10 settembre 1481 (vv. 40-8, già menzionata in PE I, 142-4 e poi di nuovo in PE X, 127-44), e la vittoria di Poggio Imperiale dell’8 settembre del 1479 (vv. 49-57; anche in PE X, 121-3).  40. marina: tratto costiero, come in Inf. V, 98: «su la marina dove ’l Po discende», che presta forse a Boiardo anche il verbo del verso successivo.  41. drago: dopo il leone veneziano, un altro esponente della galleria di mostri generati dalla guerra; qui incarna l’esercito dei Turchi, che aveva afflitto (e quindi indotto a piangere) l’Italia intera (tuta Ausonia).  43-5. ‘Il territorio coltivato era divorato dalle fiamme, le popolazioni erano disperate, a un punto tale che neppure tutto il resto del mondo avrebbe potuto essere di aiuto’. 43. cólto: ‘terreno coltivato’ (TLIO). – di tal fiama acceso: probabile allusione (Riccucci) all’incendio delle riserve di olio da parte delle popolazioni assalite dai Turchi, registrato dai cronisti del tempo.  45. Il verso presenta una doppia difficoltà: la prima, sintattica, riguarda il mancato accordo del participio diffeso; come suggerito da Mengaldo 1963, 175, il maschile avrà funzione di neutro, in accordo sia con cólto che con gente (Matarrese 2004, 96 per esempi nel poema). La seconda difficoltà è relativa al significato di un altro mondo; è possibile che la fonte sia Par. XXIX, 39 (Riccucci): «anzi che l’altro mondo fosse fatto», ma il significato è diverso: il mondo di cui parla Dante è difatti quello terreno contrapposto a quello celeste, che non è certo l’accezione boiardesca.  113

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se quel figliol di Pallade e di Marte, di cui ragiono et ardo in tanto amore, gionto non fosse cum possanza et arte. Non è sola questa opra al suo valore: tra tante alte vittorie una ne è tale che non se amenta in terra la magiore. Il leon vero e questo altro da l’ale, la vipera sublime e il sacro ocello sconfisse insieme a Poggio Imperïale. Né più lodar se puote il gran flagello

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46. quel figliol ... Marte: Alfonso, in cui le doti di saggezza (arte) e valore (possanza) risplendevano, come se fosse figlio di Pallade Atena e di Marte.  47. ragiono: ‘parlo’.  49-57. La vittoria di Poggio Imperiale è un argomento difficile: nel settembre del 1479, infatti, Alfonso d’Aragona, alla testa delle truppe aragonesi e papali, inflisse una dura sconfitta agli eserciti alleati di Lorenzo de’ Medici, cui il 3 luglio 1478 il papa Sisto IV aveva mosso guerra. E gli alleati erano, appunto, Milano, Venezia e Ferrara. La strategia di Boiardo è duplice (Benvenuti 1995): invertire l’ordine cronologico della battaglia di Otranto e di quella toscana, e sottolineare il grande valore degli sconfitti di Poggio Imperiale, col che il prestigio di Alfonso possa essere ancora più esaltato, ma anche la forza di Ercole I, che è fra coloro che hanno perso. Alla stessa battaglia è riservata una ottava in IO, ritenuta da Tissoni Benvenuti e Montagnani successiva alla princeps perché posteriore alla fine della guerra del 1484, e quindi numerata II, xxvii, 56 bis: «Pur vi era ordita alcuna eleta empresa / de arme o di séno o di guerra o di amore: / sì com’è Italia da’ Turchi diffesa / per sua prodecia sola e suo valore; / e la battaglia tutta era distesa / di Monte Imperïale, a grande honore, / e le forteze roinate al fondo, / sì belle che eran d’i triomphi al mondo!».  49. ‘Il suo valore non è testimoniato da questa sola impresa’ (cioè non solo dalla vittoria di Otranto).  52-4. Le parti in causa sono indicate attraverso i loro emblemi araldici (Mazzoni 330): il leon vero è il marzocco fiorentino, autentico perché senza ali; quello alato è l’emblema di Venezia, qui in vesti meno mostruose che nel resto delle Pastorale; la vipera è quella viscontea, detta sublime, cioè ‘elevata’ forse per la postura dell’animale nell’arma milanese (Mengaldo nel Glossario a Boiardo, Opere volgari); il sacro ocello, infine, è l’aquila estense, con espressione dantesca, da Par. XVII, 72. Milanesi e Veneziani erano stati identificati nello stesso modo in PA IX, 18-20 (Bregoli Russo, 166): «[...] Non vos sinuoso vipera tractu / alligat aut torvi violentia dira leonis / exagitat trepidos, non vos rapit atra luporum / ingluvies [...]».  55-7. Di certo meno imbarazzante, per Boiardo, parlare della pace che seguì la battaglia 114

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di terra ethrusca che la pace, ove esso condusse a ber il lupo cum l’agnello. Io parlo, e pur rivolgo il viso spesso al bel paese che un tempo era pieno de ogni leticia, hor misero et oppresso. Ove èno e cori? e il canto sì sereno che adequava Parnaso e la sua fonte? come è venuta tanta zoglia meno? ove son le sorelle di Phetonte che soliano ombregiar di tal verdura questo bel fiume da la foce al monte?

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56. ethrusca] da aetrusca B  57. condusse] codusse Lu  di Poggio Imperiale, siglata il 6 marzo del 1480, e propiziata proprio da Alfonso di Calabria, che nei versi boiardeschi viene rappresentato in veste messianica, mentre porta il lupo e l’agnello ad abbeverarsi alla stessa fonte.  55-6. Il gran [...] ethrusca: ‘la grande battaglia avvenuta in Toscana’.  58-90. Il tono del lamento di Galatea muta ancora, e assume la forma della deprecazione del destino amaro toccato a Ferrara (e in qualche misura all’Italia tutta), in forme piuttosto simili alla prima parte di PE I.  59. bel paese: citazione dantesca, da Inf. XXXIII, 80; qui è Ferrara e non l’Italia, ma nella struttura del passo boiardesco il destino della città si intreccia con quello della nazione. In PE I, 16 «Quel mio fiorito dolce almo paese»  58-63. Di grande interesse lo sviluppo argomentativo di queste terzine: la contrapposizione fra un prima di leticia e un presente misero et oppresso è piuttosto tradizionale, e già ampiamente sperimentata in PE I, mentre più nuovo è il rapporto che si intreccia in maniera esplicita fra la zoglia, che qui non può prescindere dal buon governo della città (non è quindi solo privata) e la poesia (e cori, il canto sì sereno). Solo un accenno al tema in PE I, 18, in maniera meno esplicita: «ove Pan a cantar spesso discese», detto sempre di Ferrara.  61. Ove èno e cori?: ‘dove sono i canti?’ Si noti la forma del verbo essere, apax in PE, assente in AL e ampiamente attestata in IO (Mengaldo 1963, 121 e Matarrese 2004, 79).  62. adequava ... fonte: ‘eguagliava il Parnaso (sacro alle Muse e ad Apollo) e la fonte (Castalia) che si trova alla base del monte’. Per l’accezione ‘eguagliare’ di adequare, cfr. TLIO, ad v. adeguare.  64-6. Anche le Eliadi, come «Nayade, Satyri e Napee» in PE I, 37, hanno abbandonato il Po. Il riferimento mitologico è al mito ovidiano di Met. II, 325-67: le sorelle di Fetonte, precipitato nel fiume per aver maldestramente condotto il carro del Sole, suo padre naturale, addolorate 115

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Qual malegno pianeta o stella oscura fatto ha tal stracio in sì fiorito loco che pur a rimirarlo è una paura? Àprete, celo, e voi guardati un poco, pietosi dei, a le isole del Pado, ché per tuto è roina e sangue e foco. Di corpi occisi è fatto un novo vado, e fame e peste sceman tutavia ogni etade, ogni sexo et ogni grado. È questa quella terra che solia esser spechio de Italia, anci del mondo, a li homini cortesa et al Cel pia? sì regal corte e stato sì iocondo,

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per la morte del fratello non fanno altro che piangere e vengono, per il misericordioso intervento degli dei, trasformate in alberi (e in resina le loro lacrime), donde il boiardesco «soliano ombregiar di tal verdura».  67-9. Ritorna il tema dell’influsso astrale, già di PE I, 34 «Le stelle coniurate a farce iniuria», qui sviluppato attraverso la ripresa antifrastica da AL I, 24, 1-2: «Qual benigno pianetto o stella pia / in questo gentil loco [...]» (Zanato 1998 e 2012).  69. Citazione da Inf. I, 6: «che nel pensier rinova la paura» (Riccucci).  68. fiorito loco: come in PE I, 16 «Quel mio fiorito dolce almo paese».  70-5. A dipingere le precarie condizioni dello Stato estense ritornano immagini che abbiamo già incontrato in PE I, con qualche elemento di novità.  70. Àprete: ‘apriti’, con la forma settentrionale in -e (Mengaldo 1963, 122).  71. Pado: Po, come in PE VIII, 9 e X, 148, e secondo l’illustre modello dantesco del canto di Cacciaguida (Par. XV, 137): «mia donna venne a me di val di Pado».  72. sangue e foco: come in PE I, 43-4: «fo dato a ferro e a foco un cotal guasto, / né sparso a terra tanto sangue humano».  73. Nuova, e non altrimenti attestata, è invece l’immagine del guado (vado, Mengaldo 1963, 301) costruito sul Po dai mucchi di cadaveri.  74. fame e peste: come in PE I, 73: «diluvio de onde, peste, fame e guerra». – sceman tutavia: ‘continuano a far diminuire’.  75-81. Le due terzine ci presentano di nuovo l’immagine di Ferrara in tempo di pace, modello (spechio, cioè speculum) per l’Italia e per tutto il mondo, reincarnazione terrena della magica corte arturiana, come ci appare in tanti luoghi del poema. La notevole espressione regal corte ritornerà anche nel III libro di IO: ii, 34: «più regal corte non se vide mai!», a proposito dell’ambiente che circonda Mandricardo al momento della sua vestizione a cavaliere.  78. Cfr. IO I, xvii, 14, 4: «vedi quanto è il Baron cortese e pio!».  116

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tanti triomphi e tanti cavalieri come ha sparsi Fortuna e posti al fondo? Le large strate hor son stretti sentieri, arse le ville, e tra la gente morta stanno hor le serpi o ’ barbari più fieri. Non sei del tuo periglio, Italia, accorta? vedi che a divorarte el leon ponge in ogni parte e bate a questa porta: la soglia de la intrata ha già tra l’ongie, e ciascun passo fia soluto e piano,

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81. ‘Solo la mala sorte (Fortuna) ha potuto avere ragione di una corte siffatta, e dei suoi eroi (tanti cavalieri)’. – posti al fondo: l’espressione è attestata in IO II, xiii, 39, 5-6 (in senso proprio): «[...] posto l’avea (com’io vi conto) / al fondo de un torrion [...]» e II, xiii, 50, 8: «per por re Carlo e i Cristïan al fondo»; ritorna anche all’inizio del III, i, 5, 4 «[...] pose quasi l’universo al fondo», e a III, iii, 1, 8: «fu da lor vinta a forza e posta al fondo». Questa ultima occorrenza a me pare diretta discendente della nostra di PE, in un contesto tutto notevole: «Tra bianche rose e tra vermiglie, e fiori / diversamente in terra coloriti, / tra fresche erbette e tra soavi odori / degli arboscelli a verde rivestiti, / cantando componea gli antichi honori / de’ cavalier sì prodi e tanto arditi / che ogni tremenda cosa in tuto el mondo / fu da lor vinta a forza e posta al fondo». Analogo il contesto di PE IV, 79-81: «come è contraro a la tua essenza il mondo: / pien di lamenti, sconsolato e scuro, / dipoi che il suo splendore è posto al fondo!».  82-4. Di nuovo immagini di desolazione e di abbandono: le strade sono diventate sentieri, le case sono bruciate, in mezzo ai cadaveri si celano i serpenti, o altri nemici. Alcuni luoghi affini: dal Dittamondo di Fazio, IV, 17, 10-2: «Io vedea arsa e guasta la contrada, / le larghe strade venute sentieri, / i campi senza frutto e senza biada» alla I egloga del Benivieni (19-21; Riccucci) per l’immagine delle serpi (che lì però stanno nell’acqua): «[...] tute le vene, / gli umbrosi rivi, le fontane e i fiumi / d’aspidi venenosi e serpi piene».  85-90. Apostrofe diretta all’Italia, di intonazione simile ai celebri luoghi danteschi e petrarcheschi (Purg. VI, 76 e Rvf 128, 1-3), senza però prelievi lessicali diretti. Il senso delle due terzine dovrebbe essere che attraverso la porta di Ferrara, cioè una volta conquistata la città, il leone veneziano potrà dilagare in tutta Italia, se non verrà fermato dall’arrivo di Alfonso.  86-7. a divorarte ... parte: ‘il leone veneziano ferisce in ogni luogo per divorarti’.  88. Probabile (Riccucci) allusione all’assedio di Ferrara nel novembre del 1482.  89. ‘Da lì in poi il suo cammino (passo) sarà agevole e spedito’.  117

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se quel che io dico a tempo non vi gionge. Ogni rimedio, ogni altro aiuto è vano. però che Alcide, qual era restauro al danno inmenso et al furor insano, non da gethico dardo o stral di Mauro, ma da febre ferito a terra giace, e sieco di vertute ogni thesauro. Oh, se risurga quel spirto vivace credeti che il leon che sì se afretta non farà tal fremir come hora face! Ma tu perché non vieni, anima eletta,

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98. credeti] segue cass. quel Lu  99. fremir] frenire B  91-9. Ritorna, come in PE I, 34-6, il ricordo della malattia di Ercole I, assieme con l’auspicio (il se del v. 97 ha una sfumatura ottativa, e infatti introduce un verbo al congiuntivo) di una pronta guarigione.  91. Nel verso si intrecciano tessere liriche: AL III, 7, 4: «ogni rimedio, ogni altra spene è gita» e AL III, 36, 14: «ogni altro aiuto al mio scampo era tardo» (Zanato 1998 e 2012); analoga espressione in PE III, 75: «se a te non torno, ogni altro aiuto è vano».  92. restauro: ‘ristoro’, quindi ‘conforto’ (per la forma cfr. Mengaldo 1963, 61); la catena rimica è petrarchesca: Rvf 197, 4-5 restauro : mauro e 269, 4-5 mauro : thesauro.  94. Ercole Alcide non è vittima di armi straniere, ma della febre; Mauro, come si diceva, è una probabile eredità petrarchesca, cui Boiardo giustappone i Geti (gethico dardo), come in PE VII, 111: «un Getha, un Mauro o se altro è ancor più barbero». 96. thesauro: anch’esso un portato petrarchesco, qui nell’accezione di ‘riserva’, ‘risorsa’.  97-9. La terzina esprime l’auspicio che Ercole possa guarire (risurga quel spirto vivace): allora il leone veneziano, che ora pare tanto rapido (sì se afretta) non ruggirà più (farà tal fremir) come fa ora.  99. fremir: nello stesso significato di PE I, 30.  100-23. L’egloga si avvia alla conclusione, con la ripresa della invocazione diretta ad Alfonso, e un recupero di moduli lirici, che tracimeranno poi nella chiusa vera e propria, ai vv. 124-30.  100-5. Anche in assenza di riprese puntuali, notevole l’affinità con le parole che Dante in Purg. VI rivolge a Alberto d’Asburgo, 109-10: «Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura / d’i tuoi gentili [...]» e 112-17: «Vieni a veder la tua Roma che piagne / vedova e sola, e dì e notte chiama: / “Cesare mio, perché non m’accompagne?”. / Vieni a veder la gente quanto s’ama! / e se nulla di noi pietà ti move, / a vergognar ti vien de la tua fama» (Riccucci). 100-3. I versi ricordano da vicino (Benvenuti 1995, 49) quelli di IO II, xxvii, 118

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eletta in terra a possider vittoria, perché non vieni a chi tanto t’aspetta? Ove credi aquistar mai più di gloria traendo Italia languida e confusa fuor de la servitù di tanta boria? Non sciai che Mongibello et Aretusa fuòr da gli atavi tuoi già liberati cum quel valor che ancor tra voi se adusa? Et hor le stelle a te fautrici e i fati e la intonsa Fortuna te aparechia più fulvido scalion se ben ve guati. Cotanta armata gente in te si spechia e così da te sol ciaschedun pende che ogni altrui fama sembra oscura e vechia. La palma non ha quel che non contende,

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107. tuoi] soj B suoj Lu (emendazione di Mengaldo)

56, 1-4: «Ma l’ondecimo Alfonso gioveneto / con l’ale è armato a guisa de Vitoria / sì come la natura avesse eleto / un hom a possider ogni sua gloria». 105. boria: ‘tracotanza’, ‘arroganza’ (dei Veneziani).  106-8. Boiardo sottolinea come il coraggio e il valore militare non siano una caratteristica solo di Alfonso, ma di tutta la casata aragonese, già dai tempi della vittoria di Pietro III sugli Angioini, dopo i Vespri siciliani del 1282.  106. Mongibello et Aretusa: designano per sineddoche la Sicilia nel suo complesso; il Mongibello è l’Etna, mentre Aretusa è la fonte nell’isola di Ortigia, a Siracusa.  107. atavi: ‘antenati’.  108. se adusa: ‘si usa’; cfr. Glossario di Mengaldo a Boiardo, Opere volgari.  109-17. Ancora più splendido del passato glorioso sarà il futuro che il destino riserva ad Alfonso.  110. intonsa Fortuna: ancora fornita di ciuffo, e quindi possibile da afferrare.  111. fulvido scalion: un gradino che può far arrivare a una gloria ancora più fulgida (fulvido è in ipallage).  112-4. Torna l’immagine dello specchio, del modello; qui è Alfonso, la cui forza si imprimerà nella armata gente che lo accompagna, tanto che ogni combattente potrà derivare da lui il suo valore («da te sol ciaschedun pende») e oscurare ogni altra fama passata.  113. pende: nel significato registrato da TB: ‘Pendere da alcuno [...] seguitar la sua fortuna’.  114. Eco di Purg. XI, 96: «sì che la fama di colui è scura», cui è forse da riconnettere anche la riflessione sulla gloria, che si sviluppa nella terzina seguente.  115-7. ‘Chi non combatte 119

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ma sol chi segue a magnanima empresa cum nome trïomphale al celo ascende. Io pur te aspetto e dubito sospesa che al gran disir lo effetto non riesca qual m’ha ne lo aspettar la mente accesa. Che degio far hormai, che ardo come esca? Starò nascosa al fiume che mi cella temprando il mio fervore a l’onda fresca». Non avea dette quella nympha bella apena apena l’ultime parole che ’l viso ascose e l’una e l’altra stella. Le stelle dico che sembravan sole

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(contende) non merita la palma del vincitore, mentre chi persegue (segue a; per la reggenza cfr. Trolli) una grande impresa ascenderà al cielo ricordato come un eroe’.  116. Probabile, anche per la posizione in clausola, eco petrarchesca da Rvf 7, 14: «non lassar la magnanima tua impresa» (Riccucci).  118-23. Si chiude qui il lungo monologo della ninfa, che torna di nuovo sul tema dell’attesa (sei occorrenze del verbo aspettare nell’egloga, di cui cinque riferite all’arrivo di Alfonso) e del desiderio; gli elementi storici sfumano in lontananza, e il disir della ninfa ritorna quale ci era apparso all’inizio, più erotico che politico. Il linguaggio, di conseguenza, assume movenze lirico petrarchesche.  118. dubito: ‘temo’ (TLIO).  119. ‘che il risultato non si realizzi in maniera conforme al gran disir (significato e costrutto al punto 23 del GDLI). – gran disir: sintagma petrarchesco, Rvf 147, 11: «ché gran temenza gran desire affrena» (Merlini).  120. Cfr. Rvf 241, 3: «di bel piacer m’avea la mente accesa».  121. Collage di tessere liriche: Rvf 268, 1 «Che debb’io far? [...]» (Riccucci); 90, 7-8: «i’ che l’ésca amorosa al petto avea, / qual meraviglia se di sùbito arsi?».  123. Il fervore che deve essere temprato dall’acqua fresca è di solito quello amoroso, come in Rvf 71, 28: «non temprasse l’arsura che m’incende» (Riccucci); ancora più prossimo al dettato boiardesco è Petrarca, Rime estravaganti 20, 3: «a’ pastor tempra il gran fervore estivo» (Riccucci).  124-30. Le ultime due terzine toccano alla voce narrante, che chiude su un registro intensamente lirico, simile a quello su cui Boiardo aveva aperto il testo.  124-5. Cfr. Petrarca TM 2, 85-6: «A pena ebb’io queste parole ditte, / ch’io vidi lampeggiar quel dolce riso» (Merlini).  125. l’ultime parole: sintagma presente anche in AL II, 48, 14 e III, 53, 1 (Zanato 1998 e 2012).  126. ‘Nascose il viso e gli occhi’; calco esatto da Rvf 299, 3: «Ov’è ’l bel ciglio, et l’una et l’altra stella» (Merlini).  127-30. Negli ultimi versi Boiardo ingaggia un 120

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de sotto a’ cigli, e ’ lumi tanti vaghi che ancor quel dipartir dolce me dole, né mai serà piacer che me ne apaghi.

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vero certamen con un celebre luogo petrarchesco, ripreso per variatio conservando le parole rima del modello: Rvf 37, 63-4: «per gli occhi che di sempre pianger vaghi / cercan dì et nocte pur chi glien’appaghi» (Riccucci).  128-9. ‘Gli occhi di Galatea sono tanto belli che la sofferenza che provoca la loro scomparsa è essa stessa dolce’; il nesso fra dolore e dolcezza è intrinsecamente lirico: basti il rimando a AL III, 25, 1: «Nel doloroso cor dolce rivene».  128. tanti vaghi: mantengo la lezione di Lu e B, emendata invece da Mengaldo, con la concordanza dell’avverbio di quantità con l’aggettivo annesso, secondo una consuetudine ben diffusa nel Quattrocento: Zanato 1986, 130.  129-30. La chiusa dell’egloga si ricollega (Carrai 1998, 653-54) alla apertura della successiva: il dipartire di Galatea e la dipartita di Aristeo dalla Tessaglia; anche l’aggettivo dolce collega i due testi, fra il v. 129 di questa seconda egloga e il v. 2 della successiva. 121

III

Con le prime due egloghe Boiardo ha chiaramente definito i confini della sua opera in rapporto al canone delle Bucoliche virgiliane, e ne ha individuato un fondamentale ambito tematico, quello storico politico legato alla guerra con Venezia e alla figura di Alfonso di Calabria. In rapporto a questo specifico soggetto ha dato forma, intrecciando moduli lirici, bucolici e danteschi (dalla Commedia), a uno dei registri stilistici di cui si varrà nella scrittura delle Pastorale. La terza è stata giudicata dalla tradizione critica meno recente come la prima delle cosiddette “amorose” (con varie e perigliose proposte di identificazione per i due interlocutori): come già detto nell’Introduzione, eviterei il termine, che magari pertiene – già con qualche difficoltà – al contenuto, ma non certo al testo che lo veicola al lettore. Parlerei piuttosto, per questa terza come per altre, di egloghe metapoetiche, componimenti, dunque, che non hanno altro oggetto che sé stessi, il proprio stile, la propria lingua; in un poeta classicista come Boiardo questo comporta una continua verifica delle scelte operate rispetto al modello, soprattutto quello latino ma, come vedremo, anche vari modelli volgari. La terza posizione mostra a livello strutturale un notevole allineamento sulla struttura delle raccolte latine. PA III segue da presso la terza delle Bucoliche: una tenzone poetica, un giudice, la mancata assegnazione del premio. Forse, però, sia l’egloga virgiliana che quella boiardesca latina ci parlano anche di altro: la disputa fra Menalca e Dameta inclina difatti verso riflessioni metapoetiche sul valore della letteratura bucolica all’altezza della famosa battuta di Dameta (v. 84) «Pollio amat nostram, quamvis est rustica, Musam», cui Menalca-Virgilio ribatte con l’elogio della nuova poesia: «Pollio et ipse facit nova carmina [...]» (v. 86). E in PA III Poeman-Boiardo intreccia la sua tenzone con Silvano, l’uno a sostenere l’autonomia del dettato poetico, l’altro la commistione fra parole e musica: «Primus Amor docuit varias componere voces / et dare disparibus resonantia verba cicutis, / primus et insuetos querulo de gutture cantus / 123

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duxit et argutas docuit cantare volucres» (vv. 61-4); la creazione melodica, dunque, si organizza in successione di suoni, o di note (voces), diversi. La dimensione metatestuale connette saldamente PA III e PE III; mancano nell’egloga volgare alcune componenti strutturali delle altre due: non c’è gara, non c’è arbitro, come invece in PE VII, non c’è premio, quasi che tutto l’apparato di contorno apparisse superfluo a Boiardo, concentrato solo sulla poesia, e sul rapporto musica / poesia. Ma Aristeo e Dafnide si confrontano, di nuovo, in un carme amebeo in cui parole e musica si affiancano; alle modalità tecniche che consentono alle parole e alla musica di procedere in parallelo, con lo strumento che imita gli effetti della voce, Boiardo dedica un passo specifico, di notevole interesse: «[Daphnide] [...] primo in su il fiume dissese, / mutando il fiato e il ditto sì veloce / che le parole al suono erano intese / e ritocando hor questa hor quella voce / cum tal parlare in dolce melodia / aperse quello ardor che ’l cor gli coce» (vv. 22-7). L’introduzione tocca all’auttor, le cui parole illustrano le ragioni della sofferenza dei due protagonisti, Aristeo e Dafnide, che solo nel canto, petrarchescamente, potrà trovare sollievo. I due interlocutori si alternano: sei versi ciascuno (erano due in Virgilio e quattro in PA III) per sette scambi, in cui è Dameta a dare il tema, e Aristeo, secondo la norma pastorale, risponde. Sono presenti anche rimandi, concettuali o lessicali, che connettono fra loro le diverse coppie: il diletto della prima battuta di Aristeo al v. 37 si riverbera nella zoglia (v. 42) e nel solazo (v. 45) di Dafnide; la compagnia del v. 51 (Aristeo) trova corrispondenza concettuale con lo stormo di uccelli che volano insieme (v. 52) e con l’armento (v. 53) della prima terzina di Dafnide; il richiamo successivo è al v. 72: stral d’or di Aristeo e lacio d’oro (v. 76) di Dafnide; la lontananza (v. 87) di Aristeo si ripercuote nelle terzine di Dafnide: «essendo già vicino a tanto acquisto» (v. 92) e, ancora più chiaramente, si riflette delle parole di Aristeo stesso: «lo abandonai, et è per me diserto» (v. 99); e ancora il tema dell’abbandono si riverbera nell’ultimo scambio. La chiusa dell’egloga (vv. 112-8) ripropone il tema della malìa della musica: le creature della foresta, mitologiche e arboree, accorrono, incantate. L’ambientazione non è più quella “padana” di PE I e PE II, ma è arcade: Arcadia come pura terra della poesia, sprovvista cioè dei segni che facevano riconoscere anche in PA III le montagne del Modenese. 124

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Dal punto di vista stilistico il testo è un piccolo capolavoro di ars imitandi: Boiardo si confronta in maniera serrata col linguaggio lirico, quello petrarchesco, ma anche il suo proprio, innestando sulla struttura dell’amebeo una declinazione dei temi e delle parole dell’amore piuttosto vicina a memorabili esempi degli Amorum libri. Penso per esempio alla prima canzone, al cantus conperativus che allinea luminose immagini astrali cui si giustappone la trionfale bellezza di Antonia, o anche al mandrialis di II, 44: la sequenza delle battute di Dafnide e Aristeo non è poi profondamente diversa. Soprattutto, e il dato è forse quello più significativo, il lavoro di Boiardo è tutto interno al sistema lirico (tranne echi dai Pastoralia, utilizzati in maniera affatto analoga ai modelli lirici volgari): ancora non traspare nessuna presenza del modello arzocchiano, o in genere della bucolica volgare. Col che non intendo certamente riaprire questioni di datazione: se comunque un’egloga potesse essere stata composta prima delle altre, sarebbe questa terza. Ma il rimando intertestuale forte che la connette da un lato alla seconda e dall’altro alla quarta rende l’ipotesi difficilmente praticabile.

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Ne la terza parla lo auttore; cantano alternatamente nello amabeo rispondendosi Aristeo e Daphnyde. Abandonata il pastore Aristeo avia Thesalia e la dolce verdura e ’l chiaro Amphriso e il fiume di Peneo. Ma dentro al petto più fervida cura lo accende et arde che la dipartita da’ colli ameni e sua antica pastura, perché sovente a lacrimar lo invita Cloride bella, a lui fissa nel core

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didascalia. cantano] cantando B Lu  3. Amphriso] da Ampriso Lu  1-9. Il pastore Aristeo ha abbandonato la Tessaglia, e con essa la ninfa Cloride, la cui assenza lo strazia. 1-3. Come giustamente rileva Merlini, la dipartita di Aristeo si lega al quarto libro delle Georgiche, laddove il pastore abbandona la valle di Tempe perché ha provocato la morte di Euridice («Pastor Aristaeus fugiens Peneia Tempe», IV, 317): ancora una traccia del mito di Orfeo che tanto profondamente permea di sé la compagine delle Pastorale. – Notevole, come si è detto in chiusa del testo precedente, la ripresa lessicale e tematica fra II e III egloga, che stringe il nodo della composizione dell’opera in maniera indiscutibile. 3. Anfriso e Peneo sono fiumi della Tessaglia. 4. fervida cura: comincia a dispiegarsi un lessico che, da qui in avanti, sarà tutto lirico amoroso: il sintagma non è attestato, ma cura è vocabolo di forte connotazione (dalle dolce acerbe cure delle Stanze di Poliziano, I, 8,4 alle amorose cure del Correggio, Rime, 98, 5, ad apertura di LIZ). 5. accende et arde: dittologia lirica già di AL III, 25, 71: «tal che di vita privo incendo et ardo» (Zanato 1998 e 2012). 6. pastura: ‘assieme di pascoli’, come poi in PE VIII, 1; in rima con cura in IO II, xxiv, 4, 4, 6. 7. a lacrimar lo invita: giuntura lirica attestata (LIZ) tre volte nelle Rime del Tebaldeo: 168, 12; 525 (estrav.), 2; 672 (estrav.), 7. 8. Cloride bella: la ninfa è memorabile personaggio della Primavera di Botticelli; ma la passione boiardesca per il nome preesiste al dipinto, perché roseam Chlorim è già in PA V, 66, laddove si ricorda la fanciulla amata dal pastore Licanor.  127

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da’ suoi primi anni e da la età fiorita. Sieco piangendo adunque quello ardore véne in Cyleno, e là sotto ad un pino Daphnyde a l’ombra se dolea de amore. Sospetto di geloso a quel tapino Cyteride avia tolta, unde dolente si stava sospirando a capo chino. E poi che ciaschedun primeramente detto ebe lo esser suo cum la cagione

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13. a quel] quel B Lu (emendazione già di Lamberti)  9. Il verso intreccia due celebri luoghi del sonetto incipitario di AL, v. 2: «nel dolce tempo de mia età fiorita» (Zanato 1998 e 2012; il verso torna in IO I, xvii, 3, 1) e v. 12 «[...] nel fior de’ soi primi anni» (Zanato 1998 e 2012). 10-2. Con il suo carico di sofferenza amorosa (anche ardore è un vocabolo ad alto tasso di liricità), Aristeo giunge in Arcadia, dove incontra Dafnide, che sotto l’ombra di un pino, «se dolea de amore»; la situazione ricorda l’apertura della prima egloga virgiliana, ed è intimamente bucolica. La presenza del pino, in luogo del faggio del modello, sottolinea subito la pertinenza amorosa del contesto: si veda PE VI, 16-8, con la nota relativa. 11. Cyleno: il monte Cillene, in Arcadia; da notare l’uscita in -o del sostantivo, già attestata in Boccaccio, Ameto XVIII, 8 (con nesso consonantico scempio); con la doppia in Dittamondo III, 16, 52 e in Teseida VI, 35, 2 e VI, 39, 8 (tutte le occorrenze da LIZ). 12. Daphnyde: variante, non altrimenti attestata, di Dafni; il nome è ampiamente diffuso nel codice bucolico, a partire dal primo idillio di Teocrito e poi da Buc. V, che ne piange la morte. La sua storia letteraria pregressa, che ne fa l’inventore della poesia bucolica, giustifica la posizione di prestigio in quest’egloga, e soprattutto la notevole rilevanza del suo agire musicale (vv. 22-7). 13-5. Anche Dafnide, come Aristeo, ha perso la donna amata: nel suo caso, però, non si tratta di abbandono, ma dell’intervento di un marito, o di un precedente amante, che gli ha portato via Citeride; indispensabile l’emendazione a quel tapino, che è già del Lamberti. 16-21. L’origine dell’amebeo non è la gara, seppure fittizia, ma il desiderio di condividere nel canto le pene amorose: il petrarchesco «cantando il duol si disacerba» si declina quindi in forma plurale, adattandosi così al contesto bucolico. 14. Cyteride: il nome è noto nell’ambiente ferrarese, fra l’Eroticon liber di Strozzi (II, II) e i Pastoralia di Boiardo (III e VIII); proprio sulla scorta del nome Mazzoni (342-3) propose l’identificazione di Dafnide con Tito Vespasiano Strozzi.  128

egloga iii

che gli atristava l’anima e la mente, deliberarno la lor passïone cantando l’uno a l’altro far palese cum versi alterni e nuota di canzone. Daphnide primo in su il fiume dissese mutando il fiato e il ditto sì veloce che le parole al suono erano intese, e ritocando hor questa hor quella voce

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20. a l’altro] e laltro B  24. suono] suone B Lu  21. Il primo emistichio indica la tecnica del canto amebeo (si veda il rinvio di Riccucci alla settima egloga del Benivieni, 23-4: «[...] Alla lor voce alterna / Echo gli orecchi porge e poi risponde»), il secondo designa l’accompagnamento con la zampogna. – nuota: la nota musicale, con dittongo aberrante (Mengaldo 1963, 60). La competenza musicale di Boiardo è nota, e attestata anche nel poema: si veda per esempio IO III, ii, 31, 2-4: «[...] una canzon comincieno / di nuota arguta, consonante e varia, / e con le voci ch’e stormenti vincieno», o il canto a tre voci, polifonia senza accompagnamento musicale, di I, xiv, 42, 3-5: «Aquilante cantava e Chiarïone, / l’un dice sopra, e l’altro di tenore; / Brandimarte fa contra ala cancione». 23-7. I versi descrivono puntualmente un atto musicale: ‘Dafnide, cambiando l’intensità del soffio nella zampogna (mutando il fiato) e la posizione delle dita sulle canne (ditto, con raddoppiamento ipercorretto) in modo tale che il suono fosse così eloquente da tradursi esso stesso in parola («le parole al suono erano intese»), variando i diversi suoni (ritocando [...] voce), con tale parlare (reale, cioè canto che si alterna alla musica, o più probabilmente in senso metaforico, come prima), in una dolce melodia mostrò l’ardore che gli infiammava il cuore’. L’unica reale difficoltà delle due terzine si colloca al v. 24 (con una eventuale propaggine al v. 26), e risiede nel significato che dobbiamo attribuite a intese: è impossibile che, nel momento stesso in cui il musico soffia nella zampogna canti, come invece glossa Riccucci (e la triste favola di Marsia ne offre autorevole conferma). L’equivoco riposa, forse, anche sulla prassi musicale del tempo, che prevedeva il canto accompagnato dal liuto: così si esibiva, ad esempio, Petrobono dal Chitarrino: Lockwood 131; a tacere poi delle fascinazioni figurative, con in testa il bellissimo Concerto attribuito a Lorenzo Costa e custodito alla National Gallery di Londra. Intese varrà quindi in senso proprio: ‘comprese’, al suono mostra l’uso della preposizione a in senso modale strumentale (Mengaldo 1963, 155-6 e Matarrese 2004, 90), e il significato ultimo del verso è quello di lasciare intuire al lettore una miracolosa forma di mimesi. Lo stesso nodo concettuale è 129

matteo maria boiardo

cum tal parlare in dolce melodia aperse quello ardor che ’l cor gli coce. Daph.

Stella de amor che al giorno fai la via, torna la notte e copre il tuo bel lume,

27. ardor] ardore B Lu  presente anche in PA III, 62 (sul brano nel suo assieme ritornerò subito sotto): Amore ha insegnato al poeta a «[...] dare disparibus resonantia verba cicutis», ovvero, come traduce Carrai: «dare alle degradanti canne della zampogna suoni eloquenti come parole». Boiardo descrive quindi, in questi versi di PE, il gesto del musico, non il canto che alla musica si può alternare. Lo stesso processo è illustrato anche in PA III, 57-64, in uno scambio di battute famoso perché Boiardo sottolinea come sia Amore la molla propulsiva sia del canto che della musica. Parla per primo Poeman-Boiardo: «Quid non cogat Amor? Tunc dicere carmina primum / coepimus et primum moeditatos fundere versus / ille dedit cantus nobis artemque loquendi, / Castaliis melior nymphis et Apolline maior»; qui si parla chiaramente di un canto che si accompagna, o meglio si alterna, alla melodia. A lui replica Silvano, che senza dubbio è un musico (Carrai in Pastoralia Carmina Epigrammata, 81 avanza la candidatura di Pietrobono dal Chitarrino): «Primus Amor docuit varias componere voces / et dare disparibus resonantia verba cicutis, / primus et insuetos querulo de gutture cantus / duxit et argutas docuit cantare volucres»; e qui si tratta, appunto, solo di musica. Rispetto al nostro brano, è evidente che varias componere voces corrisponde in qualche modo al v. 25 e, come si è già detto, i resonantia verba sono i ‘suoni eloquenti come parole’ cui allude il v. 24. 27. Il verso ritorna sui più confortanti binari del lessico lirico, e si propone come variatio di AL II, 4, 3: «mirate a quel ardor che ’l cor mi coce» (Zanato 1998 e 2012). 28-33. Le due terzine di Dafnide proiettano il tema del dolore del protagonista su uno sfondo astrale: Venere Lucifero non deve portare il giorno sulla terra, bensì la notte, più consona al dolore del protagonista. 28. Stella de amor: Venere, l’astro caro agli amanti, è una presenza ricorrente nelle opere boiardesche, talvolta in contesti molto simili a questo; penso soprattutto a AL I, 40, 3-4: «stella d’amor, che sei benigna e pia; / rendece il giorno che la notte cella» (Zanato 1998 e 2012), che presenta la stessa struttura di vocativo seguito da pronome relativo e verbo all’imperativo. Ricorderei anche, come si diceva nel cappello al testo, I, XV, 31-2: «Come in la notte liquida e serena / vien la stella d’amore avanti al giorno». Affine, ma il rimando è più sfocato, anche IO II, xii, 1, 1: «Stella d’Amor che ’l terzo ciel governi». 29. torna: ‘fai tornare’, come in IO I, iii, 38, 4: «torna la mente incesa e innamorata»; il valore del verbo è diverso, ma è comunque 130

egloga iii

ché ’l sol di me non prenda gielosia. Io farò colmo in questo tempo el fiume di quello humor che agli ochi se distilla, poiché il Cel vol che in pianto io me consume. Arist.

Daph.

Per me non splenda ragio né sintilla di celeste fulgor, ché non ho mai, né mai son per aver, hora tranquilla; dipoi che ’l mio diletto abandonai non ebi né aver vuo’ vita serena, ma sempre in pianti consumarmi e in guai. Quella stagion che al bon tempo rimena rami fronzuti e i fiori intra le fronde

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38. ebi] da hebe Lu  presente l’eco di Giusto de’ Conti 144, 1 «La notte torna [...]» (Pantani 2006, 141). – copre: imperativo settentrionale in -e (Mengaldo 1963, 122). 30. Il significato letterale del verso è chiaro: la proposizione è finale, dunque ‘affinché il sole non diventi geloso di me’. Più ardua la contestualizzazione, a meno che il sole non si ingelosisca per le parole amorose che Dafnide indirizza a Venere.  31. in questo tempo: ‘nel frattempo’. 32. humor ... distilla: sono le lacrime che vanno ad aggiungersi alle acque del fiume. Analogo sviluppo testuale nell’Orphei tragoedia II, 29-30: «e al nostro lachrimare / crescano e fiumi al colmo de la riva» (Merlini). 33. Intarsio di luoghi lirici filtrati da AL: II, 23, 8: «convien che io me consumi in tristo pianto» e III, 14, 12-4, che suggerisce la rima fiume : consume (Zanato 1998 e 2012). 34-9. La ripresa di Aristeo è puntuale: lo splendore degli astri (ragio del sole o sintilla, bagliore delle stelle) non gli arreca alcun conforto: la sua vita, segnata dall’abbandono, è destinata a consumarsi in pianti e guai. 37-9. La terzina risente di AL III, 48, 13-6: «Dapoi che me partio da quel bel volto / non ebi ora serena, / né spero aver più mai se io non ritorno. / Sempre in sospiri e lamentando in pena» (Merlini). 39. Citazione dall’ultima battuta di Dafnide, al v. 33. La coppia pianti e guai è dantesca, da Inf. III, 22: «quivi sospiri, pianti e alti guai»; qui appare però piuttosto decontestualizzata. 40-51. La seconda “stazione” del canto amebeo è dedicata al rapporto fra contesto naturale e stato d’animo dell’amante: la primavera, petrarchescamente, non fa che aumentare il dolore di Dafnide; viceversa l’inverno – stagione di desolata deprivazione – 131

matteo maria boiardo

dona altrui zoglia e me ripone in pena; e quando io miro e pesci intra queste onde sì son de ogni altra sorte invidïoso che e•lor vago solazo mi confonde. Arist.

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Quanto è più il verno turbido e guazoso e pioggia il cel riversa e fredo vento,

46. Quanto] Quando B  reca ad Aristeo una qualche forma di conforto. I temi, come si vede, sono ampiamente topici della tradizione lirica, non solo quella che muove da Petrarca, ma anche quella che origina dal Dante petroso. 40-2. Il contrasto fra lo splendore primaverile e la disperazione dell’amante è presente (oltre che in Rvf 310, qui citato proprio nel suo verso incipitario «Zephiro torna, e ’l bel tempo rimena») in numerosi testi del canzoniere boiardesco, specie del II libro, che toccano il tema della disforia fra amante e natura, per esempio II, 56; II, 59. 43-5. Anche il mondo animale partecipa della gioia primaverile: qui Dafnide cita solo i pesci, dicendosi invidïoso persino del loro solazo. I pesci fanno però parte del corteo degli animali che, nella tradizione lirica, gioiscono del vivere secondo natura; qui il protagonista, di fronte a queste onde, cioè alle acque del fiume presso cui si sono recati i due pastori, ricorda solo loro. Si vedano, fra i molti esempi citabili, almeno due luoghi del canzoniere: II, 15, 9-11: «E son d’altrui zoir sì róto e lasso / ch’io porto invidia non che a li animali»; e soprattutto II, 44, 118-23: «alor mi vedo sconsolato e solo, / e porto invidia a ogni animal terreno / che alor s’aqueta e non sente il mio dolo. / Dormen gli ocelli in fronda al ciel sereno, / le fere in bosco e ne’ frondusi dumi, / nei fiumi e pesci e dentro al salso seno» (Riccucci). 46-51. Come già rilevato da Pasquini 389, il referente più prossimo delle due terzine di Aristeo è il Dante di Io son venuto al punto de la rota, non solo per la ripresa puntuale di alcuni lessemi (su cui si veda più avanti), ma per la situazione generale, così come l’autore la condensa nella chiusa del componimento (vv. 6670): «Canzone, or che sarà di me ne l’altro / dolce tempo novello, quando piove / amore in terra da tutti li cieli, / quando per questi geli / amore è solo in me, e non altrove?». Aggiungerei anche che il v. 25 della canzone ci presenta l’augel, ovvero l’animale su cui si apre la successiva battuta di Dafnide. 46. verno turbido e guazoso: inverno torbido (‘scuro’ glossa Mengaldo) e umidiccio, in una dittologia semanticamente molto connotata, prossima a IO I, x, 53, 1: «Comme de verno nel tempo guazoso»; affine anche AL I, 45, 1: «Tornato è il tempo rigido e guazoso» (Zanato 1998 e 2012). 47-8. Gli elementi naturali sono quelli della canzone 132

egloga iii

nì luce apare, e il sol ci sta nascoso, ne la cruda stagione io me contento, parendomi al languir non esser solo, ché compagnia raqueta ogni lamento. Daph.

50

Se io vedo occelli andar insieme a volo,

48. sol] da cel Lu  52. insieme] insiemo B Lu  dantesca (vv. 20-5): «e poi si solve, e cade in bianca falda / di fredda neve ed in noiosa pioggia, / onde l’aere s’attrista tutto e piagne: / e Amor, che le sue ragne / ritira in alto pel vento che poggia / non m’abbandona [...]». 49. cruda: ‘ostile’, e per questo in sintonia con l’animo di Aristeo. – me contento: ‘mi rassereno’. 50-1. Aristeo non soffre da solo, e il condividere la pena modera (raqueta) la sofferenza; analoga espressione in AL II, 24, 14: «ché par che l’altrui mal ralenti il dolo» (Zanato 1998 e 2012; e si noti che dolo è la parola rima del v. 55 dell’egloga). 52-63. Entra nell’amebeo, dopo l’accenno ai pesci, il tema degli animali: tema ampiamente presente nel mandrialis 44 del II libro, che abbiamo già più volte citato. Si leggano per esempio i vv. 109-14: «Tu dai riposo, notte, ai tristi lai / de tutti li animali, / e doni smenticanza a tutti e guai; / tu, notte, le fatiche a zascun cali; / et io, ne l’umbra tua distesso in terra, / non prendo posa dai mei eterni mali». La corrispondenza fra la proposta di Dafnide e la risposta di Aristeo si riflette in maniera raffinata sul gioco intertestuale, per il quale Boiardo fa qui ricorso soprattutto ai suoi Pastoralia, sia per il primo che per il secondo interlocutore.  52-7. Lo stesso motivo, ovvero la libertà degli animali contrapposto alla schiavitù dell’amante, in PA II, 27-34: «Quid non esse velim? Pecudes sua gramina pascunt, / laeta saginatus iacet ad praesepia taurus, / libera per campos curisque soluta vagatur / cerva, et aves vacuum volitant per inane, marinos / per fluctus placidi ludunt, per flumina pisces; / at me durus Amor [...] / urget, et in nostro fixi stant pectore vultus / et flavi crines et candida colla puellae» (Riccucci). 52. L’immagine del libero volo degli uccelli ricorda da vicino una delle estravaganti del Tebaldeo (586, 1-4): «Felici ucelli che cantando a volo / giti per l’aria vostri dolci versi! / Ma lasso io che, piangendo i giorni persi, / per sassi, per caverne e boschi volo». O anche il capitolo ternario, sempre di Tebaldeo ma di dubbia attribuzione, molto prossimo a tutta questa zona dell’egloga boiardesca (65, 1-9): «Or che la terra di bei fiori è piena / e che gli ucelli van cantando a volo / e il mar se acquieta e l’aer s’asirena, / io miser piango e in questi boschi solo / vo giorno e note, da matina e sera, / e la mia vita sol pasco di dolo. / Per me non è, né fu mai primavera, / ma nebia, pioggia, pianto, ira e dolore, / dapo che intrai ne l’amorosa schiera». La qualità dei versi non è altissima, ma la contiguità con Boiardo è 133

matteo maria boiardo

se l’armento de cervi in selva accolto, di cotal vista più me acresce il dolo, ché ogni animal va libero e dissolto e se accompagna a quel che lo diletta; ma a me star sieco o pur vederla è tolto. Arist.

Daph.

La tortorella che si sta soletta cantando, anci piangendo, il suo consorte per meggio al cor di doglia mi saetta e mi ramenta mia misera sorte, ché son rimaso solo e sconsolato come io sono e sarò sino ala morte.

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Verde cipresso, nobile e beato,

63. e] o B Lu  notevole, anche a prescindere dalla sequenza rimica volo : solo : dolo (che è già in AL I, 8, in AL II, 20 e in IO II, xv, 51). È evidente che la cronologia depone a sfavore di una derivazione di Boiardo da Tebaldeo, che comincia a poetare a Ferrara nel 1480; dovremmo supporre, per questo come per almeno il caso di PE IV, 10-2, che le egloghe boiardesche abbiano goduto di una qualche circolazione, o, molto più probabile, che Boiardo e Tebaldeo condividano una fonte oggi non riconoscibile. 53. Il gregge (armento) di cervi è presente nelle Stanze del Poliziano (I, 30, 3-4), ma in senso proprio, nella scena iniziale della caccia: «[...] e vecchi armenti / de’ cervi [...]»; ci sono cervi, e uccelli, nel bosco incantato che attraversa Orlando nel canto iv del II libro (ottava 23) dell’Inamoramento. La cerva, infine, è simbolo amoroso (come sarà qui nella battuta di Dafnide, ai vv. 100-4), a partire da Rvf 190 (del testo riparleremo più avanti, commentando PE VI), poi attraverso le Stanze di Poliziano, le Rime del Correggio (326) eccetera: in conclusione, il testo del Tebaldeo, o presunto del Tebaldeo, è senz’altro interessante, ma nel complesso il riferimento più stringente resta quello ai Pastoralia boiardeschi. 58-63. L’animale senhal nella risposta di Aristeo è la tortora, che piange in eterno la perdita del compagno; il referente testuale più prossimo sono anche per questo tratto i versi di PA II, 9-11 (come segnalato da Carrai nel suo commento e prima da Ponte 28): «Quale sonat dulci turtur viduata marito / carmen et aeriae celso de vertice quercus / argutos iterat questus et flebile cantat». 64-75. Si intrecciano fonti classiche e romanze nello scambio successivo, che riguarda il nome 134

egloga iii

Arist.

Daph.

per la cara memoria di colei che ha il suo bel nome in tua scorza segnato, ben tra le piante gloriar te dei avendo un tal thesor che è teco unito; ma doler mi debo io che la perdei.

65

Il dolce nome tuo non fia partito mai de il mio petto: Amor cum la sua mano cum un stral d’or ve l’ha dentro scolpito; ma rimembrando quanto io son lontano al tuo bel viso, per la angoscia moro: se a te non torno, ogni altro aiuto è vano.

70

75

Quando a mente mi torna il lacio d’oro

66. suo] tuo Lu  69. doler] da der Lu  72. d’or] doro B Lu  dell’amata: Dafnide, classicamente, lo ha inciso sul tronco di un cipresso, mentre Amore lo ha stampigliato nel cuore di Aristeo. 64-6. L’albero alla cui corteccia è affidata la memoria dell’amore fa la sua comparsa nel mandrialis già citato più volte (vv. 64-6): «Tu, che hai de la mia mano il bel signale, / arbor felice, e ne la verde scorza / inscritta hai la memoria del mio male»; il referente più prossimo, però, sono di nuovo versi dei Pastoralia (V, 27-30), dietro cui tralucono esempi classici; Ovidio, Properzio, oltre ovviamente alla V egloga virgiliana, su cui cfr. Riccucci: «Scitis enim, quercus celsoque cacumine fagi / fraxineumque nemus viridantisque ilicis arbor, / scitis enim quales gemitus, quae carmina fundam, / quam repetam vestro signatum in cortice nomen».  66. ‘Il cui bel nome è inciso sulla tua corteccia’.  70-2. Il nome dell’amata (o la sua immagine) inciso nel cuore è topos lirico sin da En chantan m’aven a membrar di Folchetto da Marsiglia e da Meravigliosamente, la riscrittura italiana realizzata da Giacomo da Lentini (vv. 8-9): «che ’nfra lo core meo / porto la tua figura».  73-5. Il tema della lontananza è diffuso negli Amorum libri (sulla scorta soprattutto di Rvf 15 e 129): sono testi legati al viaggio a Roma del poeta, e alla sua forzosa separazione da Antonia. Si cfr. III, 40, 4-6: «Come viver potrò da te lontano, / gentil mio viso umano, / che solo eri cagion de la mia vita?» e invano (cfr. v. 75) è parola rima interna al v. 11.  7687. Il paradosso amoroso occupa le quattro terzine: la fiamma del desiderio brucia l’anima anche in assenza dell’oggetto amato e, nella risposta di Aristeo, divora ancora più profondamente chi cerca di sfuggirle.  76-8. La battuta di Dafnide si apre sul lacio d’oro (che richiama lessicalmente lo stral d’or di Aristeo) dei capelli 135

matteo maria boiardo

che m’ha legato e lui veder non posso, nel spirto avampo e in facia mi scoloro. Più me accende il disir che è più rimosso: come è che a me nascoso sia quel foco, qual le medolle me arde in ciascun osso? Arist.

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Lo arder da presso un tempo mi fo gioco; hor la fiama lassata sì me struggie che mia vita consuma a poco a poco.

79. accende] da accendo Lu  83. struggie] da strugge Lu  dell’amata, emblema tangibile di un vincolo profondo, anche in assenza dell’oggetto amato (e lui veder non posso).  76-8. La fune che imbriglia il cuore vanta una tradizione illustre; qui basti il ricordo di AL III, 3, 11: «[...] il bel laccio d’or che il cor me anoda».  78. Cfr. AL I, 33, 61-2: «[...] l’alma tapinella / d’una facella avampa e discolora» (Riccucci).  79-81. Il nodo della terzina è costituito dal rovesciamento dei paradigmi della realtà che caratterizza l’amore, il «privilegio degli amanti» di Rvf 15. Qui il desiderio, che si infiamma ancora più in assenza della donna, allude come archetipo concettuale al sonetto petrarchesco Pace non trovo, et non ò da far guerra (Rvf 134). Ma si leggano anche i vv. 49-50 di AL II, 44, il mandrialis già più di una volta ricordato: «la fiamma che m’ha roso e nervi e l’ossa / e senza nutrimento vive ancora».  79. rimosso: ‘allontanato’, dunque lontano. 81. le medolle me arde: cfr. AL I, 54, 13: «che sin ne le medole avampo et ardo» (Zanato 1998 e 2012); per il significato di medolle come ‘la parte più intima dell’uomo’ si veda Trolli. La coppia medolle, osso anche in IO I, xvi, 5, 3-4 (Riccucci). 82-7. La risposta di Aristeo riprende il tema della lontananza enunciato da Dafnide, su cui si innesta però il motivo dell’abbandono, che caratterizza tutto il vissuto del personaggio: Dafnide ha perso la sua donna, Aristeo l’ha lasciata. La sequenza rimica strugge : fugge : adugge rimanda a AL I, 40, 9-13 (Zanato 1998 e 2012) e condivide col sonetto l’erronea forma di indicativo adugge, che deriva da Rvf 56, 5 e 264, 74 (lì però il verbo è al congiuntivo).  82-3. Il gioco amoroso si sdoppia in un prima («da presso [...] mi fo») e in un hor di separazione: si intenda che la passione consumata da vicino è un facile gioco, mentre la fiama divora in absentia.  82. Il verso, senza la specificazione spaziale, riflette quello di Giusto de’ Conti 147, 5 «Così l’arder d’amor me pare un gioco» (Riccucci).  83-4. Intarsio di luoghi lirici: Rvf 256, 6: «a poco a poco consumando sugge» (soprattutto per la presenza della rima in -ugge, assente in AL); AL I, 60, 8: «che dentro la consuma a poco a poco» e III, 27, 7: «e in doglia mi consuma a poco a poco» (Zanato 1998 e 2012).  136

egloga iii

Fugito ho lei, ma lei da me non fuggie (chi mai lo crederà quando si dica?): quanto più mi è lontana più me aduggie. Daph.

Arist.

Splendeva il sole a la mia valle aprica, le vite carche e l’uva era matura, compiuto il grano et arida la spica; cade tempesta e grandine sì dura che, essendo già vicino a tanto aquisto, ogni speranza de le man mi fura. Lasso dolente sventurato e tristo, che ebi nel prato un arborscello inserto: più vago tronco il mondo non ha visto. De le sue fronde standomi coperto e già godendo il suo frutto soave, lo abandonai, et è per me diserto.

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85. Parallelo a AL II, 50, 5-6: «Fugito ho l’ozio, e quel fugir non vale, / e fugio lei, né fugio il mio furore» (Zanato 1998 e 2012).  86. Cfr. AL II, 19, 1: «Chi crederà giamai [...]» (Zanato 1998 e 2012).  87. aduggie: ‘nuocere coprendo d’ombra’ (TLIO), qui in senso metaforico.  88-99. Lo scambio di battute fa riferimento alla vita agreste: Dafnide era prossimo alla raccolta dei frutti e delle messi, quando una improvvisa tempesta gli ha sottratto ogni speranza. Nella battuta di Aristeo, di nuovo, non si tratta di sventura ma di colpa: il pastore aveva inserto, cioè piantato, un albero che gli sarebbe stato prodigo di frutti. Lo ha poi abbandonato e dunque per sua colpa perduto.  88-90. La terzina di Dafnide deriva da PA IV, 77-9: «[...] tunc poma autumnus et uvas / conferet ac pleni vix stabunt pondere rami, / brumaque iam tepido mitescet dura sereno» (Bregoli Russo 165).  90. compiuto: ‘maturo’ (TLIO).  91-3. La perdita dell’oggetto amato, improvvisa e imprevedibile, ricorda la seconda quartina di Rvf 56 (che abbiamo già citato per la parola rima adugge): «Qual ombra è sì crudel che ’l seme adugge / ch’al disiato frutto era sì presso? / et dentro dal mio ovil qual fera rugge? / tra la spiga e la man qual muro è messo?».  99. è per me diserto: ‘l’ho abbandonato’, ‘l’ho perduto’, con per a esprimere l’agente.  137

matteo maria boiardo

Daph.

Arist.



Mai non averà in terra e mai non have fiera tanto gentile e mansüeta, che in monte pasca o nel fiume se lave, quanto la cerva mia candida e lieta che ogni mia noglia il suo guardo aquetava. Hor tolta mi è nì val ch’io la ripeta. Danno insperato e perdita mi grava: ebi in tal modo una columba aveza che aprendo il beco in boca mi basava, e poi la abandonai per mia sciocheza; e se non torno a lei credo morire, ché ogni altra zoglia l’anima dispreza.

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Cantando e doi pastori in tal disire de amor sì caldi e voce tanto vive,

113. vive] da uiua Lu 100-11. Lo scambio amebeo si chiude su due presenze topiche nell’immaginario lirico: la cerva e la colomba, l’una perduta e l’altra, ancora una volta, abbandonata. Interessante il precedente costituito negli Amorum libri dall’epthalogos Quella amorosa voglia (I, 50), che inanella cinque appellativi di Antonia: colomba, arbosel (si vedano le terzine di Aristeo appena commentate), fera (candida come quella di PE III, 103, ma è difficile che quella del canzoniere sia una cerva, vedi Zanato 1998 e 2012); a seguire perla e fioreto, che ci interessano meno.  101. Il riferimento pare direttamente a Rvf 126, 29: «torni la fera bella et mansueta», forse incrociato con il già ricordato AL I, 50, 22: «Gentil mia fera e snella».  103. La fera è appunto una cerva, secondo il modello di Rvf 190, 1-2: «Una candida cerva sopra l’erba / verde m’apparve, con duo corna d’oro».  105. la ripeta: latinismo semantico, ‘la cerchi’.  107-8. Animale simbolo della donna amata è per Aristeo una colomba, addestrata (aveza) a baciare sulla bocca il padrone. La donna colomba rimanda a Rvf 187, 5: «Ma questa pura e candida colomba» e a tutti i testi che da lì discendono, soprattutto AL I, 50, 8: «Candida mia columba». I baci della colomba al padrone evocano forse i giochi di Lesbia e del suo amato passero nei carmi II e III di Catullo; comunque non hanno, a quanto mi pare, precedenti in volgare.  112-21. Chiusa intensamente lirica, giocata in due tempi: prima l’accorrere degli abitanti della foresta, stregati dal canto dei due poeti pastori, poi la notte che, virgilianamente, cala sulla scena.  113. de amor sì caldi: il caldo de amor è tema 138

egloga iii

le nymphe e ’ fauni venero ad udire; venero e fiumi e seco le sue rive, e veder si potea ne lo ascoltare piegar il capo pampini et olive. Sin che fu forza il canto abandonare, poi che la notte alciando le sue velle coprìti de ombra avia la terra e il mare, e fo dipinto il cel tuto di stelle.

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caro a Boiardo, che lo utilizza in una celebre coppia di versi: AL I, 1, 13-4: «sanza caldo de amore il tempo passa, / se in vista è vivo, vivo è sanza core». – voce tanto vive: forse ricordo di Rvf 158, 8: «sue [di Laura] voci vive [...]».  114-6. Accorrono dunque i mitici abitanti della foresta, ninfe e satiri, ma accorrono anche i fiumi, mentre pampini e olive allungano il capo; il passo è riaccostato da Riccucci alle Selve di Lorenzo, I, 32, 1-7: «Vengon [...] / satir’ saltando coronati e destri; / Pan vien sonando e in sua compagnia vuole / fauni [...] / porton le ninfe in grembo e ne’ canestri; / vengono i fiumi di molle ulva adorni». Ma la cronologia non conforta il rimando: pur nell’incertezza elaborativa del testo laurenziano, è ben difficile ipotizzare una sua diffusione prima del 1486. Il percorso inverso è possibile, ma poco probabile per la scarsa circolazione delle Pastorale: si tratterà, come in altri casi, di un retroterra culturale comune.  119-21. L’immagine di chiusura è intensamente metaforica, per la presenza della notte che con le sue vele distende l’ombra sul creato, e in questo senso innova il lessico lirico che pure le soggiace. Il rimando (Riccucci) a IO II, xxix, 3, 3-4 vale solo a livello lessicale: le vele, infatti, qui sono quelle della flotta di Agramante, tanto fitte da gettare ombra sul mare: «Dele sue vele è tanto spessa l’ombra / che ’l mar di soto a lor è scuro e bruno». Più pertinente l’indicazione di Ponte 33, che propone un rinvio a Orazio, Sermones I, v, 9-10: «[...] Iam nox inducere terris / umbras et coelo diffondere signa parabat».  121. L’immagine del cielo dipinto vanta parecchi precedenti: intanto quello dantesco di Par. XXIII, 26-7: «Trivia ride tra le ninfe etterne / che dipingon lo ciel per tutti i seni» (Pasquini 389), forse però già riassorbito nel corpus del canzoniere boiardesco, III, 25, 18-9: «Era in quela stagione il ciel dipinto / nel clima occidental di quelle stelle» (Merlini). Il verso finale, come segnalato da Carrai 1998, 653-4, connette la chiusa di PE III all’inizio di PE IV per la ripresa cel / Celo. 139

IV

In una raccolta di egloghe, la quarta posizione riveste un ruolo importante: è lo spazio del canto profetico, il luogo deputato a una poesia alta e programmaticamente oscura; Boiardo non si sottrae all’input della tradizione ma, come avviene spesso nella raccolta volgare, lo accoglie e lo innova al tempo stesso, contaminando la lezione virgiliana con altri e diversi modelli. La dimensione politica e visionaria di Buc. IV era stata mantenuta appieno nella IV latina, Vasilicomantia, ‘profezia regale’ in forma di canto monodico. Per effetto della Borsia virtus (v. 23) «[...] verum aurea saecla, / aurea progenies iterum [...]» (vv. 60-1), e d’altro canto «[...] Herculeo pacatur nomine tellus» (v. 71). Il testo boiardesco latino è anche attento alla dimensione metapoetica presente nel modello: al fiducioso «[...] paulo maiora canamus» di Virgilio si giustappone però l’idea che la propria poesia, comunque, non sia adeguata: «Quo ruis, ah demens? Heroum gesta superbis / commemoranda sonis tenui mandare cicutae / ausus es et dura fatorum solvere vocis» (vv. 86-8). Non siamo tanto lontani dalle amare riflessioni di Inamoramento II, xxii, 2, 1-6: «Fama, sequace degl’imperatori, / nympha ch’e gesti en dolci versi canti, / che dopo morte ancor gli homini honori / e fai color eterni che tu vanti, / ove sei gionta? a dir gli antichi amori / et a narrar bataglie di giganti». Questioni di congruenza fra materia e forma nel testo latino, di congruenza fra materia trattata e tempi non più eroici in quello volgare, ma con evidenti tangenze concettuali. Come PE II, anche PE IV, forse più all’apparenza che alla sostanza, dissuona dagli archetipi latini, sia a livello strutturale, perché è un canto amebeo, sia per una più accusata dimensione di contemporaneità. La storia e la politica occupano la scena, se il tema dell’egloga è l’annunciata liberazione del Correggio, ma il componimento propone soprattutto una riflessione sulla poesia, sulla sua forza e sui suoi limiti e, nella parte del canto amebeo, dà vita a un certamen per così dire personale, confrontandosi da presso con famosissimi testi del canzoniere. Si sviluppa quindi con PE IV la serie dei testi metapoetici aperta da PE III, che inanella ancora V e VI, secondo modalità via via differenti. 141

matteo maria boiardo

La prima parte dell’egloga si ricollega a PE III e sviluppa ulteriormente la riflessione sulla poesia, molto al di là di quanto avviene nelle Bucoliche e nei Pastoralia: Melibeo e Dameta (il primo è un poeta musico, come Silvano in PA III e Dafnide in PE III) si interrogano sulla congruenza fra il tempo rio della storia (v. 21) e la volontà di canto poetico. Petrarchesca è la risposta di Melibeo: «[...] a me paria che in minor pena / cantando se trapassi il tempo rio» (vv. 20-1), ennesima variazione su «perché cantando il duol si disacerba» di Rvf 23, 4. Il racconto di Dameta che segue (ed è importante sottolineare come, nello spazio dell’egloga, si apra una narrazione come poco dopo accadrà in PE VI) si sviluppa prima sui temi mitologici della prigionia di Teseo nell’Ade (con frequenti suggestioni della cultura “erculea” di casa d’Este, Pier Andrea de’ Bassi in testa), poi su quelli più francamente politici della prigionia (iniziata il 6 novembre 1482) di Niccolò da Correggio, novello Teseo destinato, come il suo corrispondente mitologico, alla liberazione. La seconda parte, quella della profezia post factum (quindi successiva alla metà di settembre del 14831), tocca a Melibeo, che intreccia un canto di liberazione e di riscatto che riconduce il lettore lungo il solco delle altre egloghe IV (soprattutto di quella boiardesca latina, dove più esplicito appare l’intreccio fra palingenesi e politica). Il refrain «Hor vieni, Amor, e mostra il tuo bel volto» (vv. 112, 124, 136, 148) scandisce il ritorno di qualcosa che all’età dell’oro somiglia molto da vicino: «[...] il nostro dolore in zoglia è volto» (v. 114), «il tuo foco odorato ogni odio estingua, / e sola qua fra noi sia la tua guerra» (vv. 116-7, si intende che la guerra superstite sarà solo quella amorosa); Pasitea e le Grazie (vv. 130-2) accompagnano il ritorno del novello Teseo, come le Napee e la Grazia (vv. 14-5) salutano in PA IV l’avvento di Borso. La celebrazione di Amore, che si è reso prigioniero assieme al Correggio (vv. 62-3), e che viene quindi invitato a tornare, assume un significato forte, congruente con gli assunti ideologici dell’Inamoramento. Tutta ferrarese, poi, è l’immagine finale della fenice Teseo, ancora una probabile suggestione dal Canzoniere Costabili, di quell’«amico del Boiardo» il cui volto, tenacemente, rimane nell’ombra, ma la cui presenza appare sempre più rilevante nella definizione del panorama culturale estense.

1 

Il 17 di settembre Niccolò da Correggio è già a Ferrara. 142

egloga iv

L’identificazione di Teseo con Niccolò da Correggio fu avanzata già dal Venturi, e mai più messa in discussione: come Teseo, compagno di Ercole, venne imprigionato negli Inferi per avere aiutato Piritoo nel suo tentativo di rapire Proserpina, e poi liberato dall’amico, così Niccolò, cortigiano e amico di Ercole I, viene tenuto prigioniero da un mostro alato (ancora il leone veneziano, come in PE I), ma il canto trionfale di Melibeo ne profetizza la liberazione. È stato giustamente osservato da Longhi 65-6 che il mito di Teseo nella Ferrara estense è in qualche modo complementare di quello di Ercole, e questo già a datare dalle opere del Bassi: commento al Teseida e Fatiche d’Ercole, composte su incarico di Niccolò III negli anni Trenta del secolo, ma pubblicate a Ferrara nel 1475.2 Nelle opere del Correggio il mito di Teseo è spesso evocato, in un intuibile gioco di rimandi interno alla logica cortigiana; e una lettera di Isabella d’Este del 3 marzo 1495, su cui ha richiamato l’attenzione Antonia Tissoni Benvenuti,3 inviata da Milano a Clara di Montpensier, ci tramanda una notizia interessante, anche se oggi non ben decodificabile: «Eri sera el nostro Messere Niccolò fece una bella festa per aver rappresentato quella fabula, che se lege in lo Innamoramento de Orlando, de Ippolito, Teseo e Florida, quale fu conducta cum gran ordine». Nel poema boiardesco non c’è traccia di Teseo, né del figlio Ippolito, né tanto meno della donna amata dal Correggio e celebrata col nome di Florida; ma un qualche significato, questa lettera di Isabella, dovrà averlo avuto, e comunque ribadisce l’implicazione fra Niccolò da Coreggio e l’eroe greco sotto le cui vesti lo ritrae Boiardo. Il componimento, si è detto, è un carme amebeo, come la V e l’VIII egloga di Virgilio, e come PA VIII. Le contiguità strutturali più evidenti sono con le ultime due, ma anche la V di Virgilio è importante, perché uno dei suoi due protagonisti è poeta, l’altro si direbbe più un musico, come il Melibeo dell’egloga volgare («tu calamos inflare leves, ego dicere versus», v. 2). Ritornano poi alcuni dettagli, come il pianto delle ninfe, che in Virgilio lamentano la morte di Dafini («Exstinctum Nymphae crudeli funere Daphnin / flebant [...]», vv. 20-1), mentre in Boiardo (v. 8) soffrono per la prigionia del Correggio, e più in generale per le misere condizioni in cui versa lo stato estense; e si pensi anche al paragone “botanico” dei vv. 94-6 dell’egloga boiardesca, che si rifanno ai vv. 16-8 di Buc. 2  3 

Sul Bassi si vedano i saggi raccolti in Montagnani 2004. Nelle Note a Niccolò da Correggio, Opere, 503. 143

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V; subito dopo, i versi incisi sulla corteccia di un faggio (vv. 97-9), che citano direttamente Virgilio (vv. 13-4): «[...] in viridi nuper quae cortice fagi / carmina descripsi [...]». La struttura di PE IV è complessa: a partire dal v. 46 Boiardo assegna prima a Dameta poi a Melibeo quarantacinque versi (lo stesso numero dell’amebeo di PA VIII), contraddistinti dalla presenza di un verso ritornello, che si ripete quattro volte per sequenza. La presenza del verso intercalare è una precisa citazione del modello latino, sia quello di PA VIII, in cui il refrain «Abdere quid cessas rorantia Lucifer astra?» (una invocazione a Venere, come il primo ritornello di PE VIII) si ripete sette volte, l’ultima in forma leggermente mutata, nel monologo di Meri, mentre in quello di Bargo si replica in maniera simmetrica «Audiet haec superum genitor, si talia curat», sia quello dell’VIII di Virgilio. Anche qui i versi ritornello sono sette, più uno in forma leggermente mutata e conclusiva del monologo, come accade in PA VIII. Il ritornello di PE VIII, però, intreccia le componenti classiche con qualcosa di diverso: il verso intercalare di Dameta apre infatti, per quattro volte, una terzina che declina le caratteristiche di Venere e che è isolata rispetto al contesto. Le prime tre volte con una struttura affine, cioè l’invocazione «Luce de il cielo e tu, stella maggiore» cui segue una relativa, la prima a indicare la doppia funzione dell’astro, che compare per primo la sera e svanisce per ultimo all’alba, la seconda e la terza a esaltare la funzione generatrice e lucreziana di Venere, mentre la quarta, che chiude il monologo, contiene una preghiera alla divinità astro. La struttura dei quattro versi intercalari di Melibeo è meno evidente, ma mi pare che il primo esempio basti a riaccostare questo esperimento boiardesco alla struttura metrica di AL II, 11, il cantus interchalaris rithmo intersecto, in cui è una intera terzina a fungere da ritornello. Il registro stilistico di un testo di tale complessità, come è logico aspettarsi, è sostenuto, e propone di nuovo il raffinato intreccio fra le fonti classiche e quelle volgari che abbiamo già visto dispiegarsi altrove. Qui, in particolare, mi sembra interessante sottolineare come gran parte delle riprese liriche derivino direttamente dagli Amorum libri, senza, o quasi, che sia necessario supporre antecedenti petrarcheschi: penso soprattutto a AL I, 15; 30; III, 25, la cui funzione quasi di ipotesto per alcune zone del componimento sarà discussa nel commento. 144

egloga iv

Ne la quarta egloga parlano insieme Melibeo e Dameta, cantando lo uno dipoi lo altro cum verso intercalare. Mel.

Dimi, Dameta, poi che il Celo e Jove ce hano condutti a la fresca rivera che sì soave il corso queto move, vogliàn che sanza canti il tempo pera, sin che il sol alto e il gran fervor de il giorno se intepedisca e piègisse a la sera?

5

1-27. Le battute iniziali dell’egloga affrontano un tema che, al di là delle terzine iniziali di Melibeo, è più lirico che bucolico: il tempo della storia è rio e l’Arcadia ferrarese appare tutt’altro che serena, non è quindi il momento di cantare. La risposta di Dameta è petrarchesca: il canto disacerba il dolore, e nel caso nell’egloga (non nello spazio privato del canzoniere) permette anche di condividerlo. 1-6. L’esordio di Melibeo è invece topico del registro bucolico: l’ora è quella del meriggio, il giorno è vuoto e i due pastori lo possono passare cantando, sino a che sopraggiunga la sera. 1. Dimi, Dameta: citazione di celebri incipit bucolici, da Buc. III, 1: «Dic mihi, Damoeta», alla prima di Arzocchi: «Dimmi, Terinto, che hai zampogna e cetera» (Ponte 67). – il Celo e Jove: esempio, piuttosto scontato, di sincretismo classico cristiano; importante il richiamo al finale di PE III con la parola Celo (Carrai 1998, 654). Si noti, in Jove, il mantenimento della i semiconsonantica. 2-3. Variante “acquatica” del locus amoenus; fresca rivera in AL III, 25, 29 (Zanato 1998 e 2012). 4. Il verso è da mettere in relazione col 21, sempre di Melibeo: ma il passare il tempo cantando assume nella seconda occorrenza un nuovo e più rilevante significato. – vogliàn: ‘vogliamo’, con passaggio da m a n in finale assoluta (Mengaldo 1963, 119). – pera: ‘finisca’. 5-6. La struttura sintattica dei versi pone qualche difficoltà: il problema è stato risolto dai primi editori (Solerti, Lamberti e Zottoli) sciogliendo il sinche del ms. B (unico testimone allora conosciuto) in sinch’è, riferito al sol alto e collegando i due verbi successivi al secondo soggetto, il gran fervor del giorno. Ma la forma sinch’è non conosce attestazione nella poesia dal Due al Quattrocento (LIZ), e la soluzione pare peggiore del 145

matteo maria boiardo

Da.

O Melibeo, se ben riguardi intorno, piangier vedrai le nymphe al dolcie colle che fo de verdi pini un tempo adorno. Glautia tra queste langue, e il viso ha molle de liquido cristallo, e se destina

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7. riguardi] da riguarda Lu  male: qui si mantiene la forma tràdita da Lu, ipotizzando (con Mengaldo 1962, 440, che ragionava su una copia del codice di Lugano) che la costruzione sia chiastica, e quindi il fervor se intepedisca e il sol alto piègisse a la sera. 5. il gran ... giorno: cfr. la I egloga del Benivieni, v. 78: «[...] e il gran calor del giorno» (Ponte, 32). 7-18. Le parole di Dameta evocano uno scenario naturale sconsolato, rispetto al quale i versi sono disequali, cioè ‘non conformi’, ‘non appropriati’. Si noti che, come nell’apertura di PE I, le ragioni di tanta desolazione restano oscure, e si osservi altresì come parecchie delle immagini che connotano il dissolversi della serenità arcadica evocata da Melibeo provengano dalla V egloga virgiliana, dove si piange la morte di Dafni. 8-9. Le ninfe si disperano, appunto, come in Buc. V, 20-1: «Exstinctum Nymphae crudeli funere Daphnin / flebant [...]», su un colle che è stato adorno di pini, cioè alberi in genere consoni a contesti amorosi più che bucolici (Rvf 10, 6, ma senza dimenticare il pino fra i cui rami sta nascosto Amore in PE VI, 16). Il dettaglio dell’albero può apparire del tutto marginale, ma è l’unica spiegazione dell’uso di un verbo al passato: con la cattura di Teseo-Correggio, come si vedrà più avanti, Amore e i suoi simboli hanno abbandonato la terra.  10-2. Nel coro delle ninfe spicca la presenza di Glautia (col grafema ti di non immediata risoluzione fonetica: Mengaldo 1963, 97-8); anche nel Tebaldeo compare Glaucia, in due luoghi: 287, 144-5 «Altre nymphe ge son [...] / il c’è Cardelia, Glaucia e Isofilea» e in un sonetto estravagante (453, 9): «Glaucia, che errando per l’ombrose selve»; e sono con quella di Boiardo le uniche tre attestazioni registrate dalla LIZ. Non è agevole individuare l’origine del nome: sembrerebbe più Glaucia, figlia del dio fluviale Scamandro, che la Nereide (dunque marina) Γλαύκη cui pensa Riccucci, ma è tutt’altro che semplice individuare i tramiti che hanno condotto il nome sino ai testi volgari. Come si è già detto nella nota a PE III, 52, Tebaldeo inizia a comporre i suoi testi nel 1480, ed è quindi improbabile, anche se a rigore non impossibile, che Boiardo derivi il nome da lui. Ed è difficile, in questo caso, anche il contrario, perché il nome di Glaucia nel capitolo ternario del Tebaldeo è inserito in una serie che comprende Cardelia e Isofilea, tutti nomi non altrimenti attestati: pare probabile che i due poeti condividano una stessa fonte, forse mitografica, oggi non più individuabile. 11. liquido cristallo: ‘lacrime brillanti’; il sintagma ricorre identico, ma non in senso metaforico, in Rvf 303, 146

egloga iv

provar se un pianto eterno il dolor tolle. Odi il gran mormorar de la marina, il vento che sospira, e li animali andarsi lamentando a testa china. E tu chiedi che io canti in tanti mali? e ben comprender pòi, così come io, che e versi a la stagion son disequali. Mel.

Sempre nel tuo comando è il voler mio, ma certo a me paria che in minor pena cantando se trapassi il tempo rio. E se Fortuna a lamentar ce mena,

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12. pianto] ins. B  11: «del liquido cristallo alberga e pasce» – se destina: ‘si propone’, come a PE I, 11, ma qui riflessivo: Trolli. 12. ‘Sperimentare se un pianto infinito allevia il dolore’. 13-5. Il mare, il vento e gli animali partecipano al cordoglio generale. 13. il gran ... marina: eco dantesca da Purg. I, 117: «conobbi il tremolar de la marina» (Ponte 34), già presente in AL I, 21, 3: «né il vago tremolar de la marina». 14. il vento che sospira: come in IO I, xix, 63, 6: «[...] in quel prato suspirava un vento». 15. Gli animali si lamentano, come i leoni africani, in Buc. V, 27-8 piangono la morte di Dafni: «Daphni, tuum Poenos etiam ingemuisse leones / interitum [...]» – andarsi lamentando: AL II, 40, 9-10: «Voi me vedeti sol, con lento passo, / ne’ vostri poggi andarmi lamentando» (Zanato 1998 e 2012).  16-8. Non è dunque un momento propizio al canto; tornano qui echi dalla seconda elegia di Tito Vespasiano Strozzi a Pico della Mirandola (Mazzoni 328): Aeolostichon III, ii, 1-4: «Pice, tuo instas ut molli carmine amores / scribere mentis in hac anxietate velim / casibus indignis fortunae et corporis, an me / vexatum ad Musas posse redire putas?». 18. disequali: ‘non conformi’ (TLIO). 19-27. La risposta di Dameta, con l’iterazione del verbo cantare dimostra una salda fedeltà petrarchesca (Rvf 23, 4: «perché cantando il duol si disacerba»): se il tempo rio non consente le usate voci sull’amorosa avena, la poesia si faccia almeno tramite espressivo alla sofferenza. 19. Eco concettuale da Buc. V, 4: «Tu maior; tibi me este aequum parere, Menalca». 21. tempo rio: il sintagma è anche petrarchesco (Rvf 113, 4, dove il tempo è brutto in senso proprio), ma il referente più prossimo pare il Dante del sonetto di rêverie a Cavalcanti (Rime 9, 5-6): «sì che fortuna od altro tempo rio / non ci potesse dare impedimento». 22-4. La sorte, dunque, induce al lamento e distoglie i pastori (qui Fillida e Aminta, la parte per il tutto) 147

matteo maria boiardo

né Phyllida più spira o il biondo Aminta le usate voce a la amorosa avena, non fia la mente da langor sì vinta che io non mostri cantando fuor la doglia qual ho nel cor di lacrime dipinta. Da.

Pur mo’ composi e scrissi in verde foglia la amara presa del figlio de Egeo, qual de Acheronte è posto in su la soglia. Cerbero là no il tien, come già feo,

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24. avena] aueno Lu  dal produrre col fiato (spirare) le usuali note sul flauto, d’abitudine adibito al genere amoroso (a meno che amorosa non sia qui puramente esornativo). 25-7. Il passo è marcatamente lirico, sia a livello concettuale che lessicale: gli si può giustapporre un celebre luogo petrarchesco, non tanto per le coincidenze puntuali, che pure ci sono, ma perché il nesso fra cuore, dolore, lacrime e ragionare (in Boiardo cantare) è stretto, Rvf 37, 70-4: «et par ben ch’io m’ingegni / che di lagrime pregni / sien gli occhi miei sì come ’l cor di doglia; / et perché a•cciò m’invoglia / ragionar de’ begli occhi». 25. langor: tre occorrenze poetiche (LIZ) prima di questa boiardesca. 28-42. Il canto di Dameta si presenta con una forte suggestione bucolica: è stato trascritto su verde foglia (variante meno attestata del libro con scorza de fagio di cui si varrà Melibeo). I contenuti, però, non sono banalmente pastorali: questa è un’egloga IV, collocata quindi sotto il suggello del «paulo maiora canamus». 28. Precisa la corrispondenza con un testo del Correggio stesso (Rime 365, 130-2): «E tu, crudel, non ti vorai commovere / a questa littra che, carta mancandomi, / t’ho scripto in foglie agionte d’una rovere?». Si tratta di una lettera in terzine indirizzata da Florida a Fauno, cioè dall’amata al poeta; mi pare che in questo caso l’anteriorità del testo di Correggio non possa essere messa in discussione, non solo perché quello di Boiardo sembra un vero omaggio a un poeta giovane, ma di tutto rispetto alla corte estense, ma perché in PE IV la scelta di un così bizzarro materiale scrittorio resterebbe altrimenti immotivata. 29-39. Ecco allora i contenuti del canto di Dameta: la dura prigionia (presa, quindi ‘cattura’, vista però nei suoi effetti più duraturi) di Teseo, figlio di Egeo, coinvolto dall’amico Piritoo nell’azzardato tentativo di sottrarre Proserpina a Plutone. L’impresa sortisce pessimo risultato, ma Teseo sarà liberato, dopo una lunga sosta sulla riva dell’Acheronte (v. 30), da Ercole. 31-9. La prima terzina boiardesca si mantiene prossima alla fabula mitologica, mentre le tre seguenti contestualizzano 148

egloga iv

ma un mostro più crudele e dispietato che uscì lo altro her de il regno di Protheo: come leone horribile è formato, l’ali ha penute e la coda di pescie, e faza e busto a sangue ha colorato. De le salse palude il superbo escie, cum la ciampa alta il mondo e il cel minacia: guai a la terra se quel monstro crescie!

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37. superbo escie] superb escie B Lu  39. guai] gaj B Lu  il mito nel vissuto storico: non è Cerbero a impedire la fuga ai due eroi (o meglio a impedire a Ercole di entrare), ma un altro tradizionale nemico dell’Alcide, il leone. Qui è alato, come già in PE I e II, ed è simbolo di Venezia, donde la sua origine marina (v. 33). 32. Zanato 1998 e 2012 accosta a questo un verso di AL II, 44, 7: «Qual monstro sì crudel nel verde mare», con identica giacitura degli accenti. – crudele e dispietato: la dittologia è ampiamente lirica, a partire da numerosi luoghi di Rvf sino a AL III, 27, 9: «Ahi, despietate stelle e crudel celo». Forse è utile citare anche IO II, xviii, 34, 4-5: «gente crudele dispietata e fiera. / Costoro han denti et ungie de leoni»; Boiardo sta parlando dei Lestrigoni, temibili avversari di Orlando come il leone veneziano lo è per gli Este. 33. regno di Protheo: ‘mare’. 34-6. La descrizione del leone horribile, cioè ‘che suscita orrore’, suona familiare ai lettori dell’Inamoramento (ricorda per certi tratti la sfinge che Orlando affronta a I, v, 70): condivide infatti con parecchie altre creature la tecnica di costruzione “a mosaico” di cui parla Antonia Tissoni Benvenuti; i singoli componenti del corpo dell’animale sono “normali”: è il loro assommarsi che ne fa qualcosa di eccezionale. A livello intertestuale, non ha molto a che spartire con il leone nemeo ricordato nelle Fatiche del Bassi, mentre per alcuni tratti non è lontano dall’idra, anch’essa sconfitta da Ercole (penso soprattutto al colore rosso): «in questa pallude Iuno messe questo monstro el quale era uno serpente allado de meravigliosa grandeza [...] sette teste cristade zoè con creste rosse» (le Fatiche sono di prossima pubblicazione a cura di Tina Matarrese; cito per ora dalla princeps del 1475, uscita a Ferrara presso Agostino Carneri, con qualche minimo ammodernamento grafico). Come già osservato in Pasquini 389, il leone mostra anche qualche tratto simile a Gerione (Inf. XVII, 103-5): «là ’v’era il petto, la coda rivolse, / e quella tesa, come anguilla, mosse, / e con le branche l’aere a sé raccolse».  37. salse palude: ‘paludi salate’, ‘acque di laguna’. 38. cum la ciampa alta: Pasquini 389 ricorda il leone dantesco di Inf. I, 47: «con la test’alta [...]».  149

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Hor de ciò canterò quando ti piacia, se canto se può dir questo lamento, che sol nel rimembrar dentro me agiacia. Mel.

Da.

Tanto son fatto a lo ascoltare intento che humido mergo più non chiede il sole, né lo affanato cierbo il fresco vento.

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Se avesse voce in vice de parole, gli alti ioggi de’ monti e i fiumi bassi

44. il] da al B 46. avesse] auesser Lu  40-2. Si enuncia di nuovo il tema del canto, che non può essere che di doloroso ricordo; emerge, come già visto in PE I, 85-7, il ricordo di luoghi letterari celebri, fra Aen. II, 1: «Infandum, regina, iubes renovare dolorem» e la sua ripresa in Inf. XXXIII, 4-5: «[...] Tu vuo’ ch’io rinovelli / disperato dolor che ’l cor mi preme». 43-5. La terzina di Melibeo sottolinea il fascino dei versi di Dameta; Boiardo utilizza qui immagini e protagonisti delle sue egloghe latine, in analogo contesto, PA V 49-53: «Non ita populeo madidus sub vertice mergus / laetatur nitido pennas ostendere Phoebo, / nec tantum rapido cervus deprensus ab aestu / nare per aequoreos fluctus, per flumina gaudet, / quantum ego divino laetatus carmine [...]» (Carrai 2010). 46-90. Si apre il canto di Dameta: due terzine introduttive, che sviluppano il tema della suggestione orfica della poesia, poi tre gruppi di quattro terzine, aperti ciascuno dal verso intercalare. In chiusura, ancora una terzina aperta dal verso ritornello, ma declinata diversamente dalle prime tre, che presentano strutture piuttosto simili. Il tema della assenza di Teseo-Correggio non viene più affrontato nella dimensione storica, ma se ne esplicitano tutti i nefasti effetti. 46. La contrapposizione voce vs. parole non è semplice da spiegare: in apertura di AL I, 15 leggiamo: «Chi troverà parole e voce equale / che giugnan nel parlare al pensier mio?» e Zanato 2012 glossa: «parole e voce non sono propriamente usate negli AL come sinonimi, in quanto le prime indicano il significato, le seconde il significante»; analoga l’occorrenza di IO I, xxvii, 1, 1 «Chi mi darà la voce e le parole». Nelle Pastorale mi pare entri nel circuito semantico anche l’elemento musicale: si vedano PE III, 25; IV, 24, dove voce, senza dubbio, vale ‘suoni’, ‘note’; lo stesso per voces in PA III, 61, citato a proposito di PE III. Tirando le fila, direi che Dameta si augura di riuscire a realizzare una performance completa, musicale e poetica, tale da indurre gli stessi effetti del canto di Orfeo. 47-9. La partecipazione della natura al dolore del poeta è tratto topico della poesia lirica: si veda, fra gli altri 150

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e ’ colli e ’ fonti e l’herbe e le viole cum nui nel sospirar foran già lassi, e forza avrebe lo intimo dolore spezar per la pietade e crudi sassi. Luce del celo e tu, stella magiore, che a lo imbrunir de il giorno e al matutino splendi rorando lucido licore, come è sofferto che quel peregrino spirto gentile e di virtù corona

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loci possibili, AL II, 41, 7-10: «e solo al sole e solo a l’alte stelle / vo lamentando de la pena mia. / Ripe de fiume e jogi di montagne / son or con mieco [...]» che presenta anche coppia analoga a monti, fiumi. 51. L’archetipo del verso è petrarchesco, Rvf 294, 7 «devrian de la pietà romper un sasso» (Ponte 28); forse alle Pastorale arriva già filtrato da IO I, xxi, 48, 2: «che avrìa spezato un sasso de pietate» (Riccucci). – crudi sassi: anche in PE I, 8. 52-4. L’elaborata terzina dedicata a Venere è intessuta di materiali lirici; soprattutto stringente è il rapporto con AL I, 15, il cantus conperativus già più volte ricordato. La terza strofa, infatti, paragona l’amata alla stella d’amore (già in PE III, 28), cioè a Venere Lucifero, e da qui Boiardo deriva, come vedremo, l’immagine del v. 54. 52. stella maggiore: probabilmente ancora per influsso di AL I, 15, 34-5: «et ella [Venere] a tergo mena / l’altre stelle minore». 54. ‘Splendi irrorando un umore luminoso’, quasi che la luminosità della stella si rifletta nella rugiada. Il verso deriva da AL I, 15, 39 «indi rorando splendido liquore», a sua volta debitore a Stazio, Theb. II, 136 «Aurora [...] rorantes excussa comas» e Virgilio, Georg. III, 324-6 «Luciferi primo cum sidere frigida rura / carpamus, dum mane novum, dum gramina canent / et ros in tenera pecori gratissimus herba» (Zanato 1998 e 2012). 55-63. La prigionia di Teseo-Correggio ha privato l’Arcadia ferrarese (dietro cui traspare con ogni evidenza la corte estense) delle sue più specchiate virtù, e persino l’Amore sembra deciso a rendersi prigioniero assieme al suo eroe. 55. è sofferto: ‘viene sopportato’. – peregrino: ‘eccezionale, di straordinarie virtù’ (Trolli). Spirto peregrino è iunctura del canzoniere boiardesco (III, 12, 70), ma in accezione diversa: peregrino è lo spirito del poeta, perché sta per lasciare il corpo. 56. spirto gentile: evidente citazione dell’incipit di Rvf 53: «Spirto gentil, che quelle membra reggi / dentro a le qua’ peregrinando alberga», che potrebbe essere anche implicato con l’utilizzo di peregrino (l’accezione petrarchesca è però differente). – di virtù corona: i precedenti più prossimi in IO I, xiv, 63, 6: «che fu corona e pregio di valore»; II, xxiv, 14, 4: «quel Re che di prodeza è la corona»; è invece successiva alle Pastorale l’occorrenza di IO III, ii, 27, 3-4: «de Hectòr, dico io, che ben fu la corona / d’ogni virtute al mondo apprecïata».  151

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stia relegato e posto in tal confino? Cum lui Prodecia e Senno ce abandona sieco ranchiusa e presa è Cortesia, né di tornar sanza esso a noi ragiona. Il saggio Ardire e honesta Ligiadria di qua son dipartiti e il dolce Amore per gire a impregionarsi è posto in via.

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57. confino] da confine Lu  57. confino: ‘esilio’, qui nell’accezione di ‘prigionia’. 58-63. Con la prigionia del Correggio, anche le virtù hanno abbandonato la terra; la serie proposta da Boiardo non è attestata altrove nella sua interezza, ma i singoli componenti sono ben noti, e ritornano simili in PE X, 88-90, a proposito di Alfonso di Calabria ([...] a lui per compagnia / sarà donato Amor cum gli ochi aperti / e Gentileza e Ardire e Cortesia»). Al centro di questo sistema di valori c’è la cortesia, di cui la gentilezza è l’equivalente, in senso stilnovistico e cortigiano. E Amore, isolato rispetto alla serie delle virtù sia qui in PE IV che in PE X, in qualche misura le incarna e le riassume tutte in sé: è la condizione che permette all’uomo boiardesco di esprimere al massimo le sue potenzialità. Fra i luoghi più prossimi si vedano IO I, xviii, 34, 6: «la tua prodecia e quella cortesia»; II, xxii, 1, 7-8 (interessante perché le virtù, in assenza delle memoria poetica che le celebri, sono destinate a scomparire): «L’ardire e ’l senno e l’inclyte vertute / sarìan tolte dal Tempo e al fin venute»; II, xxv, 46, 7-8: «valor, beleze, forza e cortesia, / ardir e senno in sé convinti avìa». Fondamentali sono senz’altro i contesti in cui le virtù sono scomparse, o in procinto di andarsene: e quindi Rvf 352, 12-3: «Nel tuo partir, partì del mondo Amore / et Cortesia [...] e AL II, 52, 10-1: «Di questa corte è mo’ bandito Amore, / sieco Alegreza e Cortesia fugita». Come giustamente osserva Zanato 2012, sono le stesse virtù che accompagnavano Antonia, «in un ideale corteo», all’inizio della storia d’amore, in AL I, 4, 9-11: «Sieco dal ciel discese Cortesia, / che da le umane gente era fugita, / Purità sieco e sieco Ligiadria». Ma si dà anche il percorso inverso, e le virtù possono tornare fra gli uomini: memorabile in questo senso resta IO II, i, 1-2, che celebra il riaprirsi di un’età felice (forse da collegare ai primi tempi della signoria di Ercole), un’età dell’oro come sarà quella qui cantata da Melibeo: «Nel gratïoso tempo onde natura / fa più lucente la stella d’amore [ancora Venere Lucifero], / quando la terra copre di verdura / e gli arboseli adorna di bel fiore, / gioveni e dame et ogni creatura / fano alegreza con zoglioso core; / ma poi ch’il verne viene e ’l tempo passa, / fugie el diletto e quel piacer si lassa. // Cossì nel tempo che virtù fioriva / neli antiqui signor e cavalieri, / con nui stava Alegreza e Cortesia; / e poi fogirno per strani sentieri, / sì che gran tempo smarirno la via, 152

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Luce de il celo e tu, stella magiore, che giù mirando cum benigno aspetto produci in ramo e in prato ogni bel fiore, non piangi et hai perduto il tuo diletto, il tuo Thesëo e l’humana delitia, e non ti batti cum le palme il petto? Nel più vago fiorir, quando primitia de’ soi trïomphi a Marte dovia rendere, Fortuna l’ha batuto cum nequicia. E non se armava adesso per contendere a Dyte, né Proserpina a lui tore, ma per Alcide e sua ragion diffendere. Luce del celo e tu, stella magiore, qual di letitia e de effetto iocondo scaldi cum zoglia a li animanti il core, come è contraro a la tua essenza il mondo:

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72. dovia] da douea B  / né dil più ritornar fèno pensieri. / Hor è il mal vento e quel verno compito / e torna il mondo di vertù fiorito». 64-6. Seconda terzina dedicata a Venere, qui vista come forza generatrice di impronta piuttosto lucreziana; De rerum natura I, 3-4: «[...] quae terras frugiferentis / concelebras [...]» e 7-8: «[...] tibi suavis daedala tellus / summittit flores [...]». 65. cum benigno aspetto: come in AL I, 43, 70: «mirava in terra con benigno aspetto», riferito però a Giove (Zanato 1998 e 2012). 70-5. Come ai vv. 31-3, alla fabula mitologica si sovrappone la realtà della storia: Teseo-Correggio è stato batuto (‘colpito’ Trolli) dalla sorte proprio quando avrebbe potuto offrire i suoi trionfi a Marte, ovvero conseguire successi nell’arte militare. E non si proponeva di portare guerra negli Inferi, per sottrarre Proserpina a Plutone come l’eroe mitologico, ma voleva difendere le ragioni di Ercole, il suo signore. Il 6 novembre 1482, appunto, il Correggio venne fatto prigioniero ad Argenta: cfr. Riccucci per rimandi storici più dettagliati. 76-8. Ancora una terzina di impronta lucreziana: qui Venere è vista come colei che spinge gli esseri viventi ad amarsi, De rerum natura I, 4-5 : «[...] per te quoniam genus omne animantum / concipitur visitque exortum lumina solis». E si noti il prezioso latinismo animanti, che certifica la fonte. 78. zoglia: il vocabolo in Boiardo connota la passione amorosa nella sua valenza anche sessuale. 79-87. Di nuovo una condizione di disforia: il mondo, privato del Correggio, si mostra «pien di lamen153

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pien di lamenti, sconsolato e scuro, dipoi che il suo splendore è posto al fondo! Non han li armenti e ’ thauri il cor sì duro che voglian consolarsi al caso estremo, né pascier l’herbe o ber al fiume puro; et io tra lor iacendo in terra gemmo, se forsi il pianto aqueti il mio furore, e il foco dei sospir che al petto premmo. Luce del celo e tu, stella magiore, rendeti a sì dolenti e iusti pregi la gloria nostra in terra e il nostro honore. Mel.

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Tanto soave e dolci versi spiegi che creder non potrei che te disdica,

83. voglian] da uogliano Lu 87. sospir] sospiri B  ti, sconsolato e scuro», agli antipodi, quindi, della terra beatificata dalla presenza della Venere lucreziana. 82-4. Boiardo utilizza una celebre immagine virgiliana, lì adibita ad esprimere il cordoglio della natura per la morte di Dafni: Buc. V, 24-6 «Non ulli pastos illis egere diebus / frigida, Daphni, boves ad flumina; nulla neque amnem / libavit quadrupes, nec graminis attigit herbam» (Ponte 28). Molto prossima anche l’Orphei tragoedia I, 42-5: «di ciò si lagna el mio cornuto armento, / né vòl tocar la tenera verdura, / tanto del suo pastor gli encrescie e dole» (il testo qui segue quello di Poliziano, salvo per cieffo che sostituisce grifo, ma i rapporti delle Pastorale sono più stretti col rifacimento che con l’originale). 85-7. In sintonia con la natura, anche il poeta geme (gemmo, con raddoppiamento ipercorretto), augurandosi che (il si ha valore ottativo) il pianto possa dare sollievo al furore e al foco dei sospir. 88-90. Il canto di Dameta si chiude con l’ultima terzina indirizzata a Venere: una preghiera alla divinità astro che ascolti le addolorate preghiere del poeta. 89. iusti pregi: ancora un possibile riferimento all’Orphei tragoedia IV, 88: «Pel canto, pe’ lo amor, pe’ iusti priegi (: piegi; identico l’originale, salvo per pieghi: prieghi). 91-9. Tre terzine di Melibeo che fanno da introduzione al suo canto, la prima di lode ai versi dell’amico, le altre due che, dietro il topos della modestia poetica, annunziano la sua risposta. 91. spiegi: ‘manifesti’, ‘estrinsechi’, e dunque ‘componi’, come in AL III, 29, 13-4: «[...] e le tue rime spiega / e scrive e versi toi con la sua mano» (Zanato 1998 e 2012). 92. te disdica: ‘ti dica di no’ (è il primo significato registrato nel TLIO).  154

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né quel che sì ben chiedi il Cel ti negi. Ma come a la tymbrea siegue la ortica, il palido ligustro al bianco ziglio, come la avena a più felice spica, per farti la risposta il libro piglio quale ho composto cum scorza di fagio e scritto a celse di color vermiglio. Da.

Ben del tuo iubilar altra prova hagio,

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94-6. La professione di modestia si realizza attraverso una serie di comparazioni “botaniche”, sul modello di Buc. V, 16-8, là dove Menalca esalta i versi di Mopso rispetto a quelli di Aminta: «Lenta salix quantum pallenti cedit olivae, / puniceis humilis quantum saliunca rosetis, / iudicio nostro tantum tibi cedat Amyntas». Boiardo sceglie referenti diversi da quelli virgiliani: fra le piante “alte” tymbrea, ziglio e spica, mentre quelle più modeste sono ortica, ligustro e avena. La presenza più inedita è quella della tymbrea, inattestata in questa forma nei repertori lessicografici salvo che in questa occorrenza boiardesca (GDLI registra timbra, con esempi nel Buti e nel Landino); probabile prestito da Georg. IV, 31-2: «et graviter spirantis copia thymbrae / floreat [...]» (Riccucci). Ligustri e gigli accoppiati anche in AL (ma il giglio, appunto, è bianchissimo) I, 10, 3: «bianco ligustro, bianchissimo ziglio» (Zanato 1998 e 2012). La rima ortica : spica è delle Rime di Francesco di Vannozzo, 93, 6-7 (LIZ). 97-9. Il libro scritto sulla corteccia del faggio è quello virgiliano di Buc. V, 13-4: «Immo haec in viridi nuper quae cortice fagi / carmina descripsi, et modulans alterna notavi». 99. a celse ... vermiglio: ‘con more di gelso di colore rosso’. La preposizione a riveste valore modale strumentale (Mengaldo 1963, 155-6 e Matarrese 2004, 90); la forma celse ha posto notevoli difficoltà ai primi editori, che hanno optato per una facilior: Lamberti e Venturi cifre, Solerti e Zottoli cefre. La forma tràdita è stata invece restaurata da Mengaldo 1962: la sorda iniziale è del tutto legittima, supportata anche da AL II, 21, 9 «Quel morì sotto il celso [...]»; nell’occorrenza di Pastorale, in più, c’è solo l’uso di celsa per indicare il frutto purpureo del gelso. 100-2. La terzina di Dameta, topicamente, ribadisce la fama poetica del compagno, adducendo due referenti mitologici: il canto di Acantide e quello di Filomena (quest’ultima già ricordata, in contesto non dissimile, a PE I, 61). 100. iubilar: il verbo, anche nella variante giubilare, conosce poche attestazioni poetiche (LIZ); affine a questa boiardesca quella registrata in GDLI (Bianco da Siena, 33): «Giubilando con gran festa / dì e notte d’amor canta». In Boiardo sarà probabilmente latinismo semantico da iubilare, ‘cantare con gioia’.  155

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né Acanthide nel canto più lusinga, né Philomena al bel mese di magio. Mel.

Credo che amor a tal loda te impinga; ma lascia il ragionar, ché il canto aviso e già la mano ho posta a la sirynga. Anontio a voi pastori eterno riso, ché visto ho ussire il Sol da il mar eoho,

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103. impinga] da impigna B  101. Acanthide: trasformata in cardellino per pietoso intervento di Zeus e Apollo dopo la morte del fratello Anto. Probabilmente arriva a Boiardo per il tramite dell’VIII egloga del Benivieni, vv. 68-9: «[...] in quanti hispidi dumi / han questi monti Acantide rinsuona» (Riccucci). 103-5. La terzina di Melibeo annuncia il suo canto, cui si accompagna (o meglio si alterna) il suono della sirynga; viene così sottolineata la distanza che intercorre fra questa attività e il ragionar, cioè produrre solo testo poetico, di Dameta. 103. Dichiarazione di modestia di Melibeo: solo l’affetto dell’amico lo spinge (impinga, congiuntivo di impingere, ‘spingere’) alla lode. 104. il canto aviso: ‘mi immagino (già) di cantare’ (TLIO); Melibeo prende dunque in mano la sua zampogna. Anche a PE X, 4, nello stesso significato.  106-150. Il canto di Dameta è simmetrico a quello di Melibeo: due terzine servono da introduzione, seguono tre periodi metrici di quattro terzine, ciascuno aperto dall’invocazione «Or vieni Amor e mostra il tuo bel volto»; in chiusura una terzina isolata, aperta anch’essa dal verso refrain. Il contenuto è rovesciato rispetto alle sconsolate parole di Dameta: non si deplora più la prigionia di Teseo-Correggio, con i suoi nefasti effetti sulla terra, ma se ne celebra la liberazione.  106-11. Viene annunciato il tema e, sotto il velame mitologico, si profetizza il felice esito della vicenda. 106. Forse con eco del celebre «Nuntio vobis gaudium magnum» che dal 1417 accompagna l’elezione del Pontefice, se non addirittura del modello di Luca 2, 10-11 «Evangelizo vobis gaudium magnum», le parole con le quali l’angelo annuncia ai pastori la nascita di Cristo. 107-8. I due versi presentano qualche difficoltà: il Sole (qui personificato) che sorge a oriente (da il mar eoho) non pone nessun problema, ed è supportato da almeno due importanti rimandi: AL I, 39, 1-2: «Già vidi uscir de l’onde una matina / il sol di ragi d’or tutto jubato» (Merlini) e PA VIII, 96-8: «audiet ac primo qui nunc aperitur Eoo / Phoebus et ardentis iungens Aurora iugales / fulgentem roseo faciem suffusa colore» (Carrai 2010). Ma questo Sole personificato, adorno di hiacynti e rose, dovrebbe essere Alfonso di Calabria. In modo analogo, a PE X, 156

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e di hiacynti e rose adorno ha il viso. Quel che fiacò le corna ad Acheloho sieco è nel carro et a Dyte ha ritolto colui che è un sol voler cum Pyritoho. Hor vieni, Amor, e mostra il tuo bel volto, fa’ che se alegri ogni animal in terra, poi che il nostro dolore in zoglia è volto. Apri ambe l’ale e le fiame diserra:

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110. et] da e Lu 113. alegri] da alegra B  49 e 64 Boiardo descrive il nonno Alfonso il Magnanimo come un sole che nasce però in occidente; poco corretto dal punto di vista astrologico, ma congruente con l’origine spagnola della casata aragonese. Il garbuglio testuale non è risolvibile (vedi già Mazzoni 331): resta solo da ipotizzare che Boiardo abbia declinato classicamente il verso, col rimando colto dell’aggettivo eoho, senza curarsi più di tanto della provenienza spagnola degli Aragonesi. 107-8. I due versi rimandano a un luogo già ricordato di AL I, 15, 46-8: «Chi mai vide al matin nascer l’Aurora, / di rose coronata e de jacinto, / che fuor del mar el dì non esce ancora» (Zanato 1998 e 2012). 109-11. A fianco del Sole-Alfonso, Ercole (d’Este) e il liberato Teseo-Correggio. 109. Acheloo combatté contro Ercole per amore di Deianira, trasformandosi prima in serpente poi in toro; venne sconfitto e Ercole gli portò via un corno. L’espressione «fiacò le corna» vale quindi sia in senso proprio che metaforico. 110-1. Ercole ha sottratto alle divinità infernali (Dyte) Teseo, inseparabile compagno di Piritoo. 112-123. In rapporto simmetrico coi vv. 62-3, il ritorno di Teseo-Correggio comporta quello di Amore, che con i suoi effetti beatifica la terra e i suoi abitanti. 112. L’incipit del refrain ricorda quello di un componimento ciniano (42, 1; LIZ), anche per la posizione in vocativo di Amor: «Onde vieni, Amor, così soave», ma la coincidenza potrebbe essere casuale; Boiardo riutilizzerà il primo emistichio in IO III, ix, 1, 5: «Hor vien, Amor, e qua meco te asseta». 113. Molto prossimo, coi soliti dubbi cronologici, a un incipit del Correggio (Rime 210, 1-2): «L’aer, l’acqua, la terra e gli animali / se alegran tutti a la nova stagione», dove però la felicità naturale è antifrastica alla sofferenza dell’amante, secondo il modello petrarchesco di Zefiro torna. 114. Il riferimento più prossimo è all’Orphei tragoedia, IV, 111, come segnalato nel commento di Antonia Tissoni Benvenuti: «e la mia tanta zoglia in doglia è volta», dietro a cui traspare comunque Rvf 268, 9-10: «Poscia ch’ogni mia gioia / per lo suo dipartire in pianto è volta». 115-7. Le immagini di Amore alato che, con il suo foco odorato, a mo’ di drago, spazza via odio e violenza sono piuttosto inedite. O meglio: 157

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il tuo foco odorato ogni odio estingua, e sola qua fra noi sia la tua guerra. Noi cantarem cum canne e cum la lingua le toe vittorie e l’alta tua possanza, se canto esser potrà che la distingua. Questa parte del mondo il celo avanza, ove Theseo già libero e disolto de ogni virtude ha sieco la sembianza. Hor vieni, Amore, e monstra il tuo bel volto,

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117. sia] fia B (da fra) Lu (emendazione di Lamberti)   l’immagine di Amore alato è tutt’altro che nuova (basti pensare a AL III, 48, 1-2; Zanato 1998 e 2012, che segnala anche la sequenza rimica in comune terra : serra : guerra: «Apri le candide ale e vieni in terra / a piagner meco, Amore». Il resto, però, non ha, o non sembra avere, precedenti; tranne forse AL I, 30, un sonetto di notevole interesse per tutto questo passo, che sarà citato più avanti, e di cui per ora ci interessano il v. 10: «[Amore] voltando le sue ale in più colori», e la terzina conclusiva, che celebra gli effetti della presenza di Amore sulla terra, in compagnia di Antonia: «La terra lieta germinava fiori / e il loco aventuroso sospirava / di dolce foco e d’amorosi odori». 116. odorato: ‘profumato’ (Mengaldo 1963, 334). 117. Sopravviva, cioè, solo la guerra d’amore; gli effetti pacificanti sono gli stessi prodotti da Venere nell’apertura del De rerum natura, ma sono anche quelli topici dell’età dell’oro. 118-20. Il ritorno di Amore sarà celebrato dai poeti pastori «cum canne e cum la lingua», cioè con un canto alternato al suono della zampogna, se mai ci sarà un canto degno di tanta impresa. 120. distingua: ‘renda più evidente’ (TLIO). 121-3. Il ritorno di Teseo-Correggio, incarnazione di tutte le virtù che con lui avevano abbandonato la corte (vv. 58-61), rende Ferrara («Questa parte del mondo») superiore al cielo stesso. 121. avanza: ‘è in posizione superiore a’, secondo il significato del verbo registrato dal TLIO, che allega la citazione da Par. XIII, 24 «si move il ciel che tutti li altri avanza». L’occorrenza dantesca chiarisce meglio il significato di celo al v. 121: non volta celeste, ma luogo di beatitudine. 124-35. Seconda strofa aperta dal verso refrain, che sviluppa il tema aperto dalla terzina precedente: la presenza di Teseo-Correggio trasforma Ferrara in una terra incantata, superiore persino ai luoghi mitologici cari ad Amore. Il parallelismo è sottolineato dalla ripresa quasi perfetta, in punta di verso, fra Idalia al v. 125 (la terra del promontorio Idalio, a Cipro, sacro a Venere) e Italia al v. 129. Tutto il passo risente da presso di AL I, 30, 1-4 (è il sonetto già citato, in cui Amore si accompagna ad Antonia e a due altre fanciulle che ballano): «Qual nei prati de Idalo on de Cythero, / se Amor de festegiar più voglia avea, / le due 158

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né te ritenga amaraco in Idalia, né il bosco de Cythera a myrti folto. Vedi il figlio de Egeo che ha la regàlia di Pasithea e di tute le Gratie, e per lui solo è un paradiso Italia. La figlia di Cephiso che ha tre facie cum l’altre soe compagne al dolce sono danzar intorno a lui non fòr mai sacie.

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125. Idalia] da idelia B 127. figlio] da figliol Lu  sorelle agiunte a Pasithea / cantando di sé cerchio intorno féro» (Zanato 1998 e 2012, che sottolinea come, fra i volgari, solo Poliziano nelle Stanze – I, 92, 6 e II, 22, 1-4 – nomini Pasitea: da lì, probabilmente, il nome sarà arrivato a Boiardo). L’immagine della danza delle tre fanciulle nude, con Amore al centro, è anche in un celebre episodio dell’Inamoramento (oltre che nel salone dei Mesi a Schifanoia, sotto il segno del Toro), dove Ranaldo viene punito del suo disamore: «In megio ’l prato, un gioveneto ignudo / cantando solaciava con gran festa; / tre dame intorno a lui, come a suo drudo, / danzavan nude anco esse e senza vesta» (II, xv, 44, 1-4). 125-6. Né l’amaraco dell’Idalio, né i mirti di Citera potranno trattenere presso di loro Amore: il ritorno di Teseo-Correggio ha reso l’Italia (o quanto meno Ferrara) un luogo degno degli dei (sincretisticamente un paradiso). Ripresa puntuale da Aen. I, 692-4: «[...] dea [Venere] tollit in altos / Idaliae lucos, ubi mollis amaracus illum / floribus et dulci adspirans conplectitur umbra» (Riccucci); qui è Ascanio ad essere portato nei luoghi sacri a Venere, perché il suo posto possa essere preso da Cupido, e Enea si innamori di Didone, ma in questi versi boiardeschi i protagonisti maschili appaiono, in qualche misura, interscambiabili. 127-9. Qui Boiardo applica a Teseo-Correggio ciò che in genere è un predicato di Amore: la signoria (regàlia) su Pasitea e le altre due Grazie; le tre Grazie con Amore anche in IO II, xv, 52, 5-7: «[...] “Io son nomata Pasithea, / dele tre l’una che te offese in prima, / compagna del’Amor e sua servente». 127. regàlia: non tanto ‘dono, tributo’, come nel Glossario di Mengaldo alle Opere volgari, quanto piuttosto ‘omaggio’, a significare che il Correggio è signore delle Grazie, esattamente come Amore. 130-2. Boiardo riprende da AL I, 30, già più volte citato, l’immagine della danza (qui attorno a Teseo-Correggio, nel sonetto attorno ad Amore), introducendo però, o così parrebbe, una nuova protagonista: la figlia di Cephiso, che per di più ha tre facie. L’identificazione ha posto, e pone, numerosi problemi: delle varie figlie del dio fiume Cefiso, nessuna si inserisce bene nel contesto, né Tia, cui pensa Riccucci, che propone una ulteriore sua identificazione con Diana Artemide Ecate, assai poco convincente per varie ragioni, e 159

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Questa arguta armonia de che io ragiono tanto soave nel mio core ascolto che per dolcieza me stesso abandono. Hor vieni, Amor, e mostra il tuo bel volto, e troverai de intorno al nostro coro il colegio dei dei tuto aricolto. Venuto è a festegiar ciascun di loro:

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139. festegiar] da festegar Lu  neppure Lia, per la quale propende Merlini, allegando un riferimento all’Ameto boccacciano (IV, 1-67). Esiste un’altra possibile soluzione, che è probabilmente quella cui pensava Mengaldo nel glossare, dubitativamente, con Praxitea (altra figlia di Cefiso) questa occorrenza di PE IV nelle Opere volgari. Si tratterebbe di una svista, indotta dalla contiguità fra Pasithea e Praxithea: l’immagine della danza si sovrapporrebbe così esattamente a quella delle Cariti attorno a Amore nel sonetto del canzoniere, e l’espressione che ha tre facie potrebbe alludere alla natura “trina” di Pasithea, la più celebre fra le tre Grazie, che quasi le incarna e le sussume in sé. Manca, come in altri casi che si sono già visti, una precisa fonte mitografica accessibile a Boiardo cui fare riferimento: una ipotesi abbastanza economica sarebbe quella di pensare a un commento al Metamorphoseon ovidiano, per esempio a III, 339-510, dove Ovidio narra la vicenda di Narciso, figlio di Cefiso e di Liriope e fratello, dunque di Praxithea. 133-5. La serrata orchestrazione mitologica si interrompe, e lascia il posto a una nuova variazione sul tema della malìa musicale, in grado di indurre una sorta di smarrimento dell’io. Assai prossime le terzine di AL I, 32: «Ben ho più volte nel pensier stampite / parole elette e notte sì suave / che assai presso giugneano a sua belleza; // ma poi che l’ho legiadramente ordite, / par che a ritrarle el mio parlar se inchiave / e la voce me manche per dolceza» (Riccucci e Zanato 1998 e 2012).  133. arguta: ‘sonora’ (TLIO). – armonia: non nel senso musicale moderno, per cui i tempi, e dunque il lessico, non sono maturi, ma nell’accezione registrata al punto 2 del TLIO: «melodia, accordo di suoni strumentali e vocali». Così anche nell’attacco di AL I, 43: «Ancor dentro dal cor vago mi sona / il dolce ritentir di quella lira; / ancor a sé me tira / la armonia disusata, e il novo canto». 136-47. Ultima “stazione” del canto ad Amore, che si sviluppa ancora sul terreno della mitologia. Qui sono le divinità maggiori dell’Olimpo (il colegio dei dei) ad unirsi ai festeggiamenti per il ritorno di Teseo-Correggio. 137. nostro coro: l’ampio spazio assegnato alla musica lungo il corso di tutto il componimento induce a ipotizzare una accezione di coro in questo senso, ovvero ‘espressione del canto di più persone (a una o a più voci)’ (TLIO).  160

egloga iv

Cyllenide ha la lyra, Hyaco salta, e canta Phoebo a la cythera d’oro. Ma sopra tuti Palade se essalta di tanto alomno e spargie per Athiene croco, narciso e fior de Adone e caltha. Qual magior festa o gioco te ritene? non è, che io creda, altrove o poco o molto, e se al mondo più ne è cum tieco viene.

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140. Cyllenide ha la lyra: Mercurio, nato sul monte Cillene, suona la lira, cioè lo stesso strumento (cythera) che ha dato al fratello Apollo. – Hyaco salta: ‘Bacco balla’; cfr. Met. IV, 15-7: «[...] et Iacchus et Euhan, / et quae praeterea per Graias plurimas gentes / nomina, Liber, habes [...]» per l’appellativo Hyaco; saltare nell’accezione di ‘ballare’ è piuttosto comune nell’italiano antico (TB).  141. a la cythera: a modale strumentale (Mengaldo 1963, 155-6 e Matarrese 2004, 90). 142-3. Palade ... alomno: ‘Minerva si inorgoglisce di un tale allievo’, riferito ovviamente a Teseo-Correggio. 143. Athiene: con dittongamento ipercorretto (Mengaldo 1963, 58). 144. La serie botanica sembra debitrice a un’ottava delle Stanze di Poliziano (I, 79, 4-8; Merlini): «Narcisso al rio si specchia come suole; / in bianca vesta con purpureo lembo / si gira Clizia palidetta al sole; / Adon rinfresca a Venere il suo pianto, / tre lingue mostra Croco, e ride Acanto». Se il fior de Adone è l’anemone, in cui il giovane fu trasformato dopo la morte, rimane inattestata solo la caltha (che fa qui la sua unica comparsa in contesto volgare letterario: LIZ e TLIO); probabile tessera virgiliana da Buc. II, 50: «mollia luteola pingit vaccinia caltha» (Merlini e Riccucci). 145-7. Terzina profondamente boiardesca, che introduce nella complessa rete mitologica uno stacco cortese e cortigiano, connesso alla festa e al gioco (nella duplice accezione di ‘gioia’, alla provenzale, ma anche ‘gioco’ in senso proprio), che potrebbero distogliere Amore dal ritornare sulla terra con Teseo-Correggio. Ma quale festa e quale gioia potrebbero superare quelle della corte degli Este? La terzina porta con sé una rete di riferimenti al canzoniere; il più interessante mi pare quello alla canzone III, 25, 52-68, che nella sua quarta strofa rievoca la primavera dell’amore boiardesco in chiave appunto cortigiana e festosa: «Piovea da tutti e celi amore in terra / e ralegrava l’anime gentili, / spirando in ogni parte dolce foco; / e i giovanetti arditi e i cor’ virili / sanza alcun sdegno e sanza alcuna guerra / armegiar si vedean per ogni loco; / le donne in festa, in alegreza, in gioco, / in danze perregine e in dolci canti; / per tutto leti amanti, / zente lezadre e festegiar giocondo. / Non sarà più, che io creda, e non fu avanti / fiorita tanto questa alma cittade / di onor e di beltade, / e di tanto piacer guarnita a tondo. / Bandite or son dal mondo, / non pur da noi, 161

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Hor vieni, Amor, e mostra il tuo bel volto, poiché a diretto Jove te riguarda, e ciascun fausto sydo è a te rivolto. Da.

Mel.

Se la felice gionta più non tarda, qual fai cantando cum sì bono augurio che par che di speranza il cor già m’arda, quel che io ho votato a Thetide e a Mercurio, nove iuvence, getarò nel mare; getarò in foco il thauro lor decurio.

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Se dritamente m’ebe a dimostrare Mopso lo arcado il corso de le stelle,

156. foco] da focco Lu – thauro] da tauro Lu  Bontade e Cortesia, / in questa etade dispetosa e ria». Non soltanto la festa e il gioco, legano la canzone all’egloga, ma tutto il tema del ritorno di amore, della pace che lo accompagna (vv. 116-7), il suo foco (v. 116) e, nella parte che riporta il poeta e noi lettori alla sconsolata condizione dell’amante abbandonato, il riferimento alle virtù che abbandonano la terra (vv. 58-62), e infine l’etade dispetosa e ria, che trova il suo corrispondente nel tempo rio del v. 21 dell’egloga. 148-50. Conclusiva invocazione ad Amore, che deve tornare sulla terra col favore di Giove e di tutti gli astri. 149. a diretto: ‘drittamente’, quindi favorevolmente. 150. sydo: forte latinismo per ‘stella’; anche in AL II, 19, 13 (Mengaldo 1963, 293). 151-6. L’egloga si avvia alla conclusione con le due ultime terzine di Dameta, cui seguirà la replica di Melibeo. Se il ritorno del Correggio, vaticinato nel canto di Melibeo, si realizzerà, Dameta offrirà in sacrificio a Tetide e a Mercurio nove giovenche e un toro, come ha promesso. 151. Se: introduce un periodo ipotetico, però con una sfumatura ottativa. – gionta: ‘arrivo’, in questo caso più propriamente ‘ritorno’.  155-6. ‘Nove giovenche (per la forma del plurale cfr. Mengaldo 1963, 106) gettate in mare e il toro, loro capo mandria, bruciato’. – decurio: il latinismo è già in Inf. XXII, 74 (Pasquini 389). 157-69. Ultime terzine di Melibeo: musica e magia nelle battute finali del testo, con topica chiusa pastorale. Se Mopso ha saputo correttamente interpretare i segni astrali, la profezia di Melibeo non potrà che realizzarsi. Mopso è presente in PE I, in contesto in qualche senso magico, perché legge l’iscrizione di Apollo incisa sul tronco; gli spetta però una concreta presenza 162

egloga iv

quel che ho cantato non potrà mancare. Sciò getar sorte cum fronde novelle, sciò l’arte che mai falsa non si trova, mirando il volo e il canto de le ocelle. E tu ne pigliarai verace prova, che Theseo tornerà come fenice che ardendo se abellisce e se rinova. Passiamo adunque in su quella pendice qual sopra al fiume adombra il praticello; di certo il mio penser presago dice che a nui ritornerà più che mai bello.

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162. volo] uolto B 168. mio] ins. Lu sulla scena che in questa PE IV gli manca. Porta lo stesso nome l’orrendo vecchio marito di Nisa in PE IX, ma la coincidenza non è significativa: Mopso, in Arcadia, è un nome ricorrente. Senza alcun dubbio nel testo di PE IV è ricordato per il suo passato letterario di indovino, non per quello di pastore: figlio di Apollo, accompagnò gli Argonauti nella loro spedizione. Diverse sono le vie attraverso le quali può essere arrivato a Boiardo: Genalogie boccacciane (V, vi; Riccucci), Argonautica di Valerio Flacco (I, 383-4; Riccucci), o semplicemente il Metamorphoseon di Ovidio (IV, 618-21). Non è, insomma, attestazione rara o peregrina. 160-2. Anche Melibeo, dunque, è esperto nell’arte del vaticinio: legge i movimenti delle foglie (fronde novelle), a mo’ di Sibilla, e interpreta il volo degli uccelli. 161. È osservazione interessante, anche se forse il punto di vista è quello del personaggio: le questioni astrologiche, nella Ferrara estense, erano argomento di studio, ma forse anche di conversazione. Un’eco affiora anche dal poema, nello scontro fra l’ardire di Rodomonte e il vaticinio del re di Garamantha (II, iii, 19-33): l’indovino vince, ma paga con la vita l’esattezza della sua predizione. 163-5. L’egloga si chiude sull’emblema della fenice: anche questo senza dubbio un senhal noto e amato nella Ferrara in cui prese forma il Canzoniere Costabili. 166-9. Chiusa narrativa ridotta all’essenziale: i pastori si muovono dal locus amoenus dove li avevamo incontrati (a la fresca rivera) per risalire la costa della collina (quella pendice) che lascia in ombra lo spazio in cui si è svolta l’impegnativa performance; la calura meridiana lamentata in esordio da Melibeo (vv. 5-6) si è dunque attenuata. 163

V

La riflessione metapoetica, ampiamente presente già nelle prime egloghe, con questa V, e poi con la VI e la VII, va ad occupare il cuore delle Pastorale, che prendono occasione da fatti storici precisi, ma finiscono col parlarci soprattutto di poesia. Anche nelle Bucoliche e nei Pastoralia la V egloga offre spazio alla riflessione sul dire in versi: Mopso e Menalca, in Virgilio, cantano le lodi del morto Dafni, e chiudono la loro performance scambiandosi doni, che sono nel contempo pastorali e letterari. Menalca, infatti, offre il flauto sul quale ha appreso a modulare versi famosi «Formosum Corydon ardebat Alexin»1 e «Cuium pecus? an Meliboei».2 Versi virgiliani, come è ben noto, che pertengono allo stesso genere dell’opera in cui vengono citati; e qui, quanto al modello antico, per ora ci fermiamo. Apparentemente PA V si allontana dall’exemplar, giacché i due pastori, Menalca e Licanor, intrecciano carmi amorosi. Ma le partizioni interne rispettano quasi al millimetro quelle virgiliane,3 facendo di questo testo una sorta di clone strutturale del suo modello. Identità e variazione, come abbiamo già visto, spesso coabitano: lo verifichiamo qui nella svalutazione del genere bucolico che Boiardo attribuisce a Menalca: «nos, quibus ingenium, quibus ardua verba, Lycanor, / deficiunt, humili celebremus carmine silvas» (vv. 18-9). Bargo e Titiro, invece, ovvero Guarino e Strozzi, hanno altro da fare che occuparsi di boschi e di pecore, l’uno intento agli studi, l’altro a celebrare, probabilmente nella Borsias, i fasti degli eroi. Fino a questo momento non siamo poi tanto lontani dal virgiliano «paulo maiora canamus», e restiamo dunque nel solco del classicismo. Ma le esibizioni dei due pastori, soprattutto del secondo, spiazzano anche il lettore più smaliziato: il canto di Licanor si presenta infatti come un vero certamen fra il genere bucolico e quello lirico, e la natura che accoglie be-

Variazione su Buc. II, 1. Variazione su Buc. III, 1. 3  Come è stato osservato per primo da Coppoler Orlando 40. 1  2 

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nevolmente la radiosa immagine della donna amata è senza dubbi quella petrarchesca di Chiare, dolci e fresche acque.4 Cioè un testo lirico al massimo livello, anche se con esplicite tangenze pastorali; il fatto che venga imitato in una bucolica latina ci dice parecchio, già negli anni giovanili, della variante “alla ferrarese” del classicismo boiardesco. E proprio dell’intreccio fra genere lirico e genere bucolico, con un movimento circolare che ci riconduce alla nuova poesia pastorale post Miscomini, tratta questa V egloga volgare. Ancora due i protagonisti: per la terza volta Menalca (qui alter ego dell’autore) e Gorgo (anche in PE VII, con una evidente allusione al senese Francesco Arzocchi5). Una presenza così accusata non solo ci dice molto sull’attenzione che Boiardo riserva ai recentissimi esperimenti toscani (Battera 1987, 1990 e Fornasiero), ma ci spinge anche a valutare attentamente la riflessione che già lo stesso Arzocchi propone sulla poesia, soprattutto nella sua prima egloga: non sono più tempi “poetici”, e «l’avarizia che le menti accilia» (v. 22) ha reso vana la fatica letteraria. Boiardo non solo lo imita, ma intreccia con lui una vera tenzone letteraria, lo sfida su un terreno in parte uguale al suo in parte contiguo, così come fa Giusto de’ Conti con Udite, monti alpestri nei confronti della Mirtia albertianana.6 Mi sembra importante, anche per la lettura che proporrò di PE VI, riportare qui l’inizio della prima di Arzocchi, sul cui rilievo si è già soffermata Fornasiero nell’Introduzione alle Egloghe: «– Dimmi Terinto, che hai zampogna e cetera, / trovans’egli oggi di pastor’ che cantino / come facevan quei dell’età vetera? – / – Grisaldo, oggi non son maghi che incantino / ed orchi né giganti non si trovano, / né cavalieri erranti che si vantino. –» Terinto prosegue poi sottolineando come oramai le selve si Per l’escussione delle fonti rinvio a Carrai 2010. Il nome proprio deriva dalla seconda egloga di Arzocchi; l’identificazione diretta fra il personaggio boiardesco e il poeta è stata sostenuta soprattutto da Fornasiero e data per acquisita in Merlini e in Riccucci. La distanza cronologica fra i due autori, che rende ad esempio impossibile la conoscenza da parte di Arzocchi dell’inizio del canzoniere boiardesco, e la forte svalutazione del poeta in PE VII, 11-2, suggeriscono forse qualche cautela in più: all’interno del codice bucolico si direbbe esistano diversi livelli di sovrapponibilità. 6  Mi riferisco alla seriazione cronologica fra i due testi dimostrata in Pantani 2002, 170. 4  5 

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guardino ben dal muoversi per effetto del canto di Orfeo, e come alla decadenza della poesia si accompagni quella della natura e del consesso umano nel suo insieme. Due punti mi sembrano interessanti: l’idea dell’età vetera, parallela in qualche misura alla antiqua via dell’egloga boiardesca, anche se il registro stilistico di riferimento è diverso, e soprattutto l’allusione alle forme e ai modi della poesia cavalleresca. Non mi pare che sia stato chiarito il riferimento di Arzocchi, se non nei termini di una generale stanchezza letteraria:7 la risposta di Boiardo sarà straordinaria, e sarà appunto la celebre, soprattutto per la sua oscurità, egloga sesta. Ma di questo, come è giusto, a suo luogo. Tornando a PE V, i protagonisti sono pastori ad alto tasso di letterarietà, che infatti ci parlano solo di amore, e di poesia amorosa: le prime dichiarazioni sono liriche, e petrarchesche. A partire dall’incipit, in cui Menalca omaggia Rvf 10, 12: «d’amorosi pensieri il cor ne ’ngombra», passando per l’inciso di Gorgo sulla antiqua via (v. 10), che dovrebbe essere quella della lirica “classica”, cioè non contaminata con la bucolica (Merlini), sino alla straordinaria variazione realizzata nella seconda battuta di Gorgo, che fonde in una unità affatto originale due noti luoghi petrarcheschi: «Questo è vulgato et uso de gli amanti: / cantando le sue pene a condolersi» (vv. 19-20) dietro cui tralucono «[...] questo è privilegio degli amanti» (Rvf 15, 13) e «perché cantando il duol si disacerba» (Rvf 23, 4). In questa prospettiva tutta e solo lirica stupisce meno (o forse non stupisce affatto)8 che Boiardo citi un proprio componimento all’interno dell’egloga, in ossequio al modello virgiliano di Buc. V, ma non citi versi bucolici; due anche questi, come in Virgilio: «Amor che me scaldava al suo bel sole / nel dolcie tempo di mia età fiorita» (vv. 25-6), cioè l’incipit del primo sonetto del canzoniere. 7  Fornasiero nella sua Introduzione alle Egloghe propende per l’idea che la poesia cavalleresca in qualche modo si sostituisca a quella bucolica; secondo il modello virgiliano per il quale si tende sempre alla poesia epica, senza dubbio, ma senza concreti agganci con il testo di Arzocchi. E in ogni caso anche la citazione dei maghi che incantino con tutti i loro comprimari vale solo in negativo. Non è detto che siano venuti dopo, e comunque non ci sono più neppure loro. 8  Si veda l’opinione, assai discorde da questa mia, di Battera 1987, 19. Del resto anche Arzocchi, II, 163 cita l’incipit di un suo componimento («[...] “Io sono il cervio innaverato”»); testo non noto, ma che potrebbe essere di registro lirico.

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La svolta, il passo in avanti rispetto a PA V, si colloca al v. 40, laddove Boiardo inizia una nuova gara, questa volta con la variante bucolica della frottola di Arzocchi: stesso tema, declinato in una forma e entro confini letterari diversi da quelli lirico petrarcheschi. Il gioco, che è già abbastanza patente di suo, si svela al tutto nel finale, simmetrico all’incipit petrarchesco. Ancora pianto e canto, ma ricombinati secondo un nuovo modello: «ben che più il pianto che il cantar mi agrada» (v. 88), come nel finale della prima egloga arzocchiana «Che più m’agrada il pianger che ’l cantare (v. 137). L’auctoritas della nuova bucolica volgare ha quindi sostituito non solo il modello latino classico, ma anche quello della lirica petrarchesca e il libro delle Pastorale mostra così le sue razos de trobar, il suo nuovo credo letterario. La struttura dell’egloga ricalca abbastanza da presso la V virgiliana nel susseguirsi di invito, canto, ringraziamento e lode, ma anche a livello strutturale intreccia l’exemplar classico col contemporaneo: la frottola inizia infatti dopo 13 terzine, come accade nella prima di Arzocchi, viene tagliato lo spazio per il secondo locutore presente in Virgilio, perché Menalca è richiamato dai suoi offici pastorali, come accade nella II di Arzocchi, laddove Gorgo fugge sollecitato dai muggiti dei suoi buoi, e non accetta l’invito a cantare a sua volta (vv. 166-8): «Ma tu, Gorgo, ove vai che par che fughi? / Non sai che tocca a•tte or la vicenda? – / – Io odo i buoi chiamarmi ad alti mughi». Dal punto di vista stilistico formale, il v. 40 funziona da spartiacque: quello che precede è interamente e appassionatamente lirico (tranne una inserzione di tonalità diversa al v. 33, funzionale però allo sviluppo dell’egloga). Il corpo della frottola (vv. 40-75, quindi 12 terzine, secondo lo schema metrico che si esaminerà subito sotto) utilizza un lessico e uno stile affatto differenti, debitori all’Arzocchi, come è stato ampiamente studiato9 e come si illustrerà nel commento; notevoli, inoltre, alcune riprese soprattutto rimiche da AL, inserite in un contesto sentenzioso e popolareggiante. La chiusa infine (due terzine di Gorgo, una più il verso

9  Il regesto delle corrispondenze in Ponte, in Bregoli Russo, poi in De Robertis, in Battera 1987, nella introduzione di Fornasiero alle Egloghe di Arzocchi e in Fornasiero, progressivamente ampliato.

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conclusivo di Menalca) mostra il registro lirico bucolico già utilizzato in molte aperture e finali di testi. Lo schema metrico della frottola boiardesca non si rifà alla polimetria arzocchiana (e negli Amorum libri, come sappiamo, non ci sono frottole): la struttura della terzina rimane solida (ABA, BCB ecc.), e in questo sia Francesca Battera che Serena Fornasiero vedono giustamente un segno importante di fedeltà alla marca stilistica della bucolica volgare: è la frottola che si adatta all’egloga, non il contrario. L’esempio della III arzocchiana, infatti, è differente: è vero che i vv. 28-36 presentano un tentativo di ricostruire pseudo terzine tramite le rime al mezzo,10 ma quelle di Boiardo sono terzine incatenate perfette, sulle quali si sovrappongono rime al mezzo e bisticci (rime al mezzo nei primi due versi della terzina, rima imperfetta o bisticcio nel terzo). Più esattamente:11 i 32 versi totali della frottola ci propongono 12 rime, che si ripetono ciascuna per cinque volte, tre volte nella terzina e due nella rima al mezzo. In luogo della terza rima al mezzo, a segnare la fine della terzina, troviamo una rima imperfetta, che in sei casi su dodici è un bisticcio vero e proprio:12 diletta : latte; durare : indurire; fine : fune; possa : passa; foco : fico; disfacio : officio; nasconde : scande; riparo : ripore; aduna : dona; volti : volto; voce : vice; patire : imputare.

Secondo lo schema A (b) (b) B (b) C, C (d) (d) D (d) E, E ecc., come illustrato nell’edizione Fornasiero delle Egloghe. 11  L’esame della struttura è presente sia in Battera 1987 che in Zaccarello. 12  Come quelli utilizzati da Arzocchi a III, 48-54 (sono endecasillabi, ma non in terzina, neppure ricostruita): basso : bossi; ferza : forza; ch’erra : corre. 10 

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Ne la quinta parlano insieme Menalca e Gorgo; canta per sé Menalca in frotola. Me.

Quanto pensier de amor il cor me ingombra! E le pecore mie tute han riposo, ogni mia capra rumiga ne l’ombra; ogni pastore è ne lo antro frondoso e nel fervor de il dì prende risoro,

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1. ingombra] da ingambra B  4. frondoso] da frondose Lu  1-9. Le terzine di apertura di Menalca-Boiardo propongono l’intreccio fra registro lirico e bucolico che abbiamo già visto ampiamente sperimentato: l’apertura è lirico amorosa, ma al pensier de amor subito si giustappongono le pecore mie e il riposo dei pastori nell’ora calda del meriggio, cioè nell’ora deputata alla poesia pastorale. 1. Il primo verso lega l’apertura dell’egloga alla chiusa della precedente: «di certo il mio penser presago dice», come notato da Carrai 1998, 654. Il modello soggiacente si direbbe quello di Rvf 10, 12: «d’amorosi penseri il cor ne ’ngombra», perché è l’unica occorrenza che presenta la rima : ombra (Merlini). 2-3. Le pecore che riposano sono quelle virgiliane di Buc. II, 8: «Nunc etiam pecudes umbras et frigoria captant» (Battera 1998, 40) e VI, 54: «ilice sub nigra pallentes ruminat herbas» (Ponte 28). 3. rumiga: ‘rumina’; la forma verbale non è altrimenti attestata (Bibit e LIZ), ma Ponte 28 ha giustamente proposto un confronto con la III di Arzocchi, 10-1: «[...] ogni mio agno sugge, / ogni mia ciova ruguma e si dorme». Il verbo rugumare vanta anche la celebre attestazione dantesca di Purg. XVI, 98-9: «Nullo, però che ’l pastor che procede, / rugumar può [...]»; la forma di PE potrebbe essere una sorta di metatesi, ma vista l’unicità della testimonianza di Lu, potrebbe invece essere un errore per ruguma, desunto da Arzocchi e applicato a un animale più usuale della ciova di cui non si conoscono altre attestazioni. 5. risoro: ‘ristoro’; la forma, che conosce tre occorrenze in AL (II, 8, 3; II, 11, 92 e II, 41, 14; Zanato 1998 e 2012), tre in IO (I, xii, 58, 5; II, 17, 59, 1; II, xxxi, 36, 3; Trolli) e un’altra in PE VIII, 48, è «l’emiliano arsor, con sostituzione del prefisso letterario ri- all’indigeno ar-» (Mengaldo 1963, 346).  171

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et io sol ardo sempre e mai non poso. Se questo sole e l’altro che io me adoro fossero insembre, io non iudicheria qual se risplenda in più luce di loro. Gor.

Pur sei, Menalca, ne l’antiqua via: questo tuo sospirare eterno dura; dopoi tanti sospiri alfin che fia?

Me.

Nulla speranza, o Gorgo, me assicura che il pianto mio se alente per la morte ma piagner credo ne la sepoltura; e poiché il Cel me destina a tal sorte,

10

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6. ardo] arde B  8. iudicheria] iudicharia da iudicheria B  6. Alla serenità del mondo naturale si contrappone l’inquietudine “innaturale” dell’amante, secondo il paradigma petrarchesco di Ne la stagion che ’l ciel rapido inchina (Rvf 50); e nella stessa canzone anche il pastor «[...] senza pensier’ s’adagia et dorme» (v. 38). La fiamma del desiderio, che arde più del sole, è presenza frequente in AL: si veda per esempio I, 23, 9: «Spreza lo ardor del sole il foco mio». 7-9. Il motivo dei due soli, quello reale e quello che metaforicamente evoca la bellezza dell’amata, è topico della linea petrarchesca, a partire da Rvf 219, 9-11 sino agli AL: III, 17, 4: «dell’altro Sol che Crudeltà me asconde» (e al v. 14: «poiché me è tolto l’uno e l’altro Sole»); Zanato 1998 e 2012. 8. non iudicheria: ‘non sarei in grado di giudicare’. 10-2. La battuta di Gorgo ha un indubbio sapore metapoetico, come osservato da Merlini: Menalca non solo persevera nel suo amore, ma soprattutto nella maniera di esprimerlo. Significativa in tal senso è la spia della antiqua via, che rimanda a AL III, 28, 11: «con novi passi per l’antiqua via» (Zanato 1998 e 2012), un sonetto di forte tensione autodiegetica, sin dall’incipit: «Solea cantar nei miei versi di prima». La poesia amorosa “tradizionale” è richiamata anche dalla coppia sospirare / sospiri, di cui Gorgo sottolinea l’inanità: «dopoi tanti sospiri alfin che fia?».  11. Eterno dura: ‘dura in eterno’, con eco evidente, anche se qui piuttosto spaesata, di Inf. III, 8: «[...] e io etterno duro»; ma forse il tramite sono ancora gli AL II, 9, 5: «[...] e il duolo eterno dura» (Zanato 1998 e 2012). 13-8. Menalca ribadisce la sua fedeltà alla linea lirica tradizionale: una pena senza tregua, che non si allenterà neppure dopo la morte, 172

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che posso io più? se non che in questi canti pur me raqueto e par che me conforte. Gor.

Questo è vulgato et uso de gli amanti: cantando le sue pene a condolersi, e par che l’harmonia temperi e pianti. E’ mi ramenta già che de to’ versi alquanti ne sapeva, et hor mi dole che eccetti questi dua tuti l’ho persi: «Amor che me scaldava al suo bel sole nel dolcie tempo di mia età fiorita». Più non ne sciò, che scorse ho le parole.

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trova un qualche sollievo solo nella poesia. 19-33. Alla ortodossia petrarchesca e petrarchista di Menalca si contrappone la complessa argomentazione delle terzine di Gorgo. Inizialmente una raffinata aemulatio dei Rerum vulgarium fragmenta, da cui scaturiscono i versi 19-21, poi, secondo una norma virgiliana, ma reinterpretata nei modi che abbiamo visto nel “cappello”, i versi iniziali degli Amorum libri, e infine l’invito rivolto all’amico a cantare di nuovo. Sarà però un canto differente, come suggerisce anche l’ultimo verso di Gorgo, con la figura etimologica fra chiovo e inchiave che ci porta già verso lidi stilistici lontani da quelli lirici tradizionali. 19. Il modello che soggiace al verso è petrarchesco: Rvf 15, 13 «che questo è privilegio degli amanti». – vulgato: l’uso del participio passato è raro in contesto lirico. Secondo LIZ in tutto 5 occorrenze, una delle quali è ancora boiardesca, sempre da PE, X, 16: «Dir non voglio io queste opere vulgate». In nessun caso è sostantivato (cfr. Mengaldo, Glossario): mi resta il dubbio che nel verso si annidi un errore – non esattamente individuabile e in ogni caso non sanabile – e che vulgato fosse in realtà l’attributo di uso. L’abitudine a consolarsi col canto (eventualmente condiviso, come insinua il verbo condolersi), secondo la norma che discende da Rvf 23, 4 «perché cantando il duol si disacerba», sarebbe quindi tradizione consolidata in chi ama; ma il concetto, in sostanza, rimane lo stesso espresso dal testo tràdito. 21. temperi e pianti: oltre alle occorrenze boccacciane di Teseida e Filostrato ricordate da Riccucci, il sintagma è anche nelle Rime del Correggio, 356, 84: «lo chiedo, a temperar li ardenti pianti», ma il rapporto cronologico fra i due poeti è sempre dubbio. Forse agisce sui versi boiardeschi anche il famoso luogo di Par. I, 78: «con l’armonia che temperi e discerni» (Merlini). 22-7. Gorgo invita Menalca a cantare, come in Buc. IX, 44-5; ma i versi citati, come si è già detto, sono quelli del primo sonetto di AL. 27. scorse: ‘scordate’; participio passato forte tipicamente settentrionale: Mengaldo 1963, 135.  173

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Ma nanti che de qui facia partita, alcun ne canterai, se non ti è grave: vedi che il fiume al gorgoliar te invita, e ’l fresco vento e l’aura più soave. Il canto intona: hor mostra qual ardore e cum qual chiovo l’anima te inchiave. Me.

Se io te potesse ben mostrar di fore l’ascosa vampa che entro al petto io sento, faria questa aqua sfavilar de amore.

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30. fiume] fiumo B Lu – invita] iuita Lu  28. Il verso ricalca AL III, 12, 4: «Ma nanti che da me facia partita» (Zanato 1998 e 2012). 30-1. Ancora una volta, bucolicamente, la natura mostra empatia col poeta pastore; assai prossimi i versi di AL I, 18, 3-4: «vento suave e fresco me conforta, / e il mar tranquillo a navicar me invita» (Zanato 1998 e 2012).  30. gorgoliar: l’impiego del verbo è singolare, perché è vero che il soggetto è fiume, ma l’ambito metaforico non è fra i più scontati. I data base usuali non sono d’aiu­ to: gorgogliare è verbo che connota i liquidi, tuttalpiù i sommovimenti dello stomaco. Un uso traslato in Inf. VII, 125-6: «Quest’inno si gorgoglian ne la strozza, / ché dir nol posson con parola» (è evidente però che il significato è diverso); analoga invece a quella di PE, ma successiva, l’occorrenza di IO III, i, 16, 5-6: «Sola una voce ussì dela fontana / qual gorgogliava per quella aqua pura». La ripresa nel poema rende improbabile la pur suggestiva idea di Merlini, che glossa gorgoliar: «‘pronunciare suoni in modo indistinto e discontinuo’ metaforicamente ‘poetare alla maniera di Gorgo-Arzocchi’ in frottola». 33. Il verso anticipa il lessico della prova frottolistica di Menalca-Boiardo: è vero, infatti, che il verbo inchiavare è ben attestato in contesti lirici (per es. AL I, 32, 13: «par che a ritrarle el mio parlar se inchiave»; II, 3, 11: «al smisurato duol che ’l cor me inchiava»; II, 15, 8: «che in trista angoscia il cor dolente inchiave»: Zanato 1998 e 2012), ma il bisticcio chiovo / inchiave anticipa quelli della frottola che segue, è un primo segnale del futuro cambiamento stilistico. 34-9. Sono le ultime terzine di Menalca prima che inizi la frottola: dopo una variatio su un celebre luogo petrarchesco, il pastore chiede all’amico di garantirgli silenzio e discrezione. 34-5. Eco di Rvf 35, 7-8: «perché negli atti d’alegreza spenti / di fuor si legge com’io dentro avampi». 36. Persino l’acqua (del fiume citato al v. 30) scintillerebbe d’amore; la natura dell’adunaton in sé non è nuova (rientra nella vasta compagine ossimorica del ghiaccio che brucia, del fuoco che gela eccetera), ma i componenti utilizzati da Boiardo lo sono. Sfavillare 174

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Ma se a te piace odire il mio tormento, fa’ che ad altrui per te non se ridica: cum questa legge a dirlo io son contento. Tanto me intrica  questa mia nemica che la sua dolcie ortica  me diletta: me come a latte  in lacrime notrica. In giovenetta  età poco si metta

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in contesto amoroso anche in Rvf 143, 3 «l’acceso mio desir tutto sfavilla», e da lì in più luoghi di Giusto e del Correggio (Bibit). 37. Probabilmente su suggestione di Inf. V, 124-5: «Ma s’a conoscer la prima radice / del nostro amor tu hai cotanto affetto» (Pasquini 389), anche per la presenza nel passo boiardesco di tormento, che evoca lo stesso canto V, 37-8: «Intesi ch’a così fatto tormento / enno dannati i peccator carnali». Possibile inoltre l’interferenza con la I di Arzocchi, vv. 37-9: «e se vòi pur che rida chi s’insidia, / farò come collui c’a•ddir si sforza» (Fornasiero 1998, 665). 40-75. La frottola di Menalca inanella temi connessi alla sofferenza d’amore, ma declinati secondo modalità decisamente più basse della raffinata lirica boiardesca; si succedono modi proverbiali (ogni terzina corrisponde a una sentenza), figure lessicali, giochi fonici, in ossequio al modello frottolistico, pur temperato dalla forma regolare del metro. Alcuni passaggi restano oscuri, e anche questo consuona con il pattern adottato. 40-2. ‘Questa mia (amorosa) nemica mi stringe a tal punto che la dolce sofferenza che da lei deriva mi induce piacere; mi nutre di lacrime come fossero latte’. La sequenza rimica intrica : notrica : nemica viene da AL II, 40, 2-7, ma nel sonetto boiardesco intricare è detto della lingua, secondo il topos della ineffabilità amorosa. Un uso traslato di intrica simile a questo nostro è in Giusto de’ Conti 36, 55-7: «Quel vago impallidir, ch ’l fronte oscura, / ’l subito infiammar, dove si impara / morire et ritornar, via più m’intrica» (: nemica). 41. dolcie ortica: anche nel Morgante pulciano, XXV, 310-1: «[...] – Tu m’hai punto il core, / o Astarotte, con sì dolce ortica» (Merlini). Interessante, per il contesto amoroso e per la presenza del verbo nutrica, anche un sonetto del Correggio (Rime 334, 5-7): «[Il dolce cibo dell’amore] Or facto è acerbo, exinanito e amaro, / e il nectare e l’ambrosia orrida ortica; / di questo, Amore i suoi servi nutrica». 42. La preposizione a riveste il consueto valore modale strumentale (Mengaldo 1963, 155-6 e Matarrese 2004, 90); nutrire di lacrime è espressione attestata, per esempio, nel Canzoniere di Lorenzo de’ Medici, 37, 12-3: «Quivi di dolce lacrime il mio petto / bagno e nutrisco il cor [...]», ma è immagine piuttosto topica in contesto amoroso. 43-5. La seconda sentenza è più complessa: ‘si riponga poca speranza (si presume amorosa) nell’età giovanile, ma il tempo (sogg.) sistema (positivamente) chi (compl. ogg.) aspetta e 175

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di spene, ma chi aspetta  e pò durare sin che possa indurire  il tempo assetta. Hor cossì andare  a me bisogna e fare ciò che a fortuna pare,  e pur il fine sarà una fune  a tante pene amare. Chi me divine  se le matutine rose tra tante spine  accoglier possa, ché il bronco passa  e temo che me uncine? Mai non l’ha mossa  la crudel percossa che m’arse dentro a l’ossa  de il suo foco,

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51. temo] teme B Lu  riesce a resistere sino a farsi più solido (indurire)’. 46-8. Terza stazione della frottola: ‘Ora io devo comportarmi così e fare quello che vuole la fortuna, anche se l’unica conclusione per tante sofferenze sarà la corda per impiccarmi’. 48. fune: in bisticcio con fine, è senza dubbio il vocabolo più connotato della terzina. Probabile l’interferenza lessicale con AL I, 18, dove non si tratta di propositi suicidi (il tema è il viaggio della navicella amorosa), ma compaiono due immagini che sono anche nel nostro testo: ai vv. 5-7 la fune «Vago desir coi remi a gir me aita, / governa el temo Amor, che è la mia scorta, / Speranza tien in man la fune intorta»; e nella terzina conclusiva la fortuna policroma (in PE ai vv. 67-9): «Crede a me, Guido mio, che io dico il vero: / càngiasse mortal sorte or bianca or bruna, / ma meglio è morte qua che vita altrove».  49-51. ‘Chi sa prevedere per me se, in mezzo a tante spine, io potrò cogliere le rose del mattino (forse la donna giovane), perché il gambo spinoso oltrepassa gli abiti e temo che mi laceri la pelle?’. Il sistema delle parole rima, e forse in parte anche il contenuto della terzina, rimandano a AL I, 56, 1-2: «Chi crederebbe che sì bella rosa / avesse intorno sì pungente spine» (: divine, che però è aggettivo). 49. me divine: ‘indovina per me’ ‘è in grado di predirmi’; cfr. IO I, i, 17, 2: «e divinava quasi il suo pensieri». Qui il verbo si presenta con una sfumatura di possibilità. 50. accoglier: ‘cogliere’ (TLIO). 51. passa: forse nel significato di ‘penetra’ (TB), cioè oltrepassa gli abiti e arriva alla carne.  52-4. ‘Il crudele colpo dell’amore, che mi arde con il suo fuoco sino alle ossa, non l’ha mai toccata (forse nel senso di ‘mossa a pietà’), e io in cambio (della mia sofferenza) non ricevo né molto (dataro) né poco (fico)’.  53. Simile a PE III 80-1: «[...] quel foco / qual le medolle me arde in ciascun osso?».  176

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né dataro né fico  ho per riscossa. Mercede invoco  e non ritrovo loco; languendo a poco a poco  me disfacio, ma sì noglioso officio  ho già per gioco. Per mio solacio  miro il fredo giacio qual nì loco nì spacio  mi nasconde, che sempre scande  ov’i’ mi trovi avacio. Le trezze bionde  e il viso mi confonde tanto che io non trovo onde  aver riparo,

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55. invoco] da inuocco Lu  60. ov’i’] ouj io da oue io Lu – trovi] trouo B  62. trovo] touo B Lu  54. Il significato proverbiale dovrebbe essere lo stesso di Inf. XXXIII, 120: «che qui riprendo dattero per figo» (Ponte 106), ovvero a una grave colpa tocca un castigo ancora maggiore.  55-7. ‘Chiedo pietà e non trovo pace; mi consumo a forza di languire, eppure un così doloroso compito è per me motivo di gioia’.  55. ritrovo loco: ‘non ho riposo né quiete’ (TB), come in Boccaccio, Teseida V, 39, 7: «che io non trovo dì né notte loco» (Riccucci). 57. gioco: ‘gioia’. 58-60. La terzina, che presenta qualche difficoltà semantica, pare legata alla precedente: ‘per mio piacere contemplo il freddo ghiaccio (cioè la gelida donna amata), che (compl. ogg.) né luogo né spazio possono tenermi celato, perché sale rapidamente dovunque io mi trovi’. 58. fredo giacio: sintagma petrarchesco da Rvf 59, 6 «et da’ begli occhi mosse il freddo ghiaccio» (Riccucci); giacio mostra l’usuale esito padano di GL latino (Mengaldo 1963, 89). 60. Il verso presenta due difficoltà, una relativa alla posizione di avacio (‘rapidamente’ TLIO), che meglio si attaglia a scande che a mi trovi; e la seconda che riguarda il significato esatto di scande. Mengaldo nel Glossario a Opere volgari interpreta ‘sale’, ‘cresce’, forzando leggermente il significato di ‘salire’ attestato da Par. VIII, 97: «Lo ben che tutto il regno che tu scandi»; lo si potrebbe anche interpretare in un generico senso di movimento (secondo l’accezione registrata da GDLI ad v. scandere), come suggerisce Riccucci. – ov’i’: risolvo così ovj io di Lu, ottenuto per correzione da un ove io precedente, ipotizzando che io non sia stato cassato per pura dimenticanza. Nello stesso modo interpreta il copista di B, che scrive ovj.  61-3. ‘Le trecce bionde e il viso mi confondono, a tal punto che io non riesco a difendermi e non trovo dove nascondermi’. 61. Le trecce bionde rimano con confonde anche in AL I, 12, 9-12: «Non fia mai sciolto da le treze bionde / [...] E se ben sua adorneza me confonde».  177

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né dove me ripore  accato sponde. Cum pianto amaro  a le mie spese imparo quanto altrui costi caro  ove se aduna lo ochio che dona  il guardo tanto avaro. Come la luna  fa la mia Fortuna: palida rossa o bruna  che la volti, ritien sempre quel volto,  e stassi in una.

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68. bruna] brina Lu  63. accato: ‘trovo’, forma scempia di accatto. – sponde: come il più usuale rive, vale in senso generico ‘luoghi’ (GDLI). 64-6. Ancora una terzina piuttosto ardua sotto il profilo semantico: ‘Piangendo amaramente imparo a mie spese quanto a uno (altrui) costi caro il fatto che su di lui si concentri l’occhio che così di rado concede il suo sguardo’. 64. Forse con allusione a Rvf 105, 32-3 (è la canzone frottolata di Petrarca): «I’ so ben quel ch’io dico: or lass’andare, / ché conven ch’altri impare a le sue spese» (Merlini). 65. se aduna: ‘si raccolga’, ‘si concentri’ (TLIO). 66. avaro: usato in senso avverbiale ‘parcamente’, ‘raramente’.  67-9. Il significato letterale della terzina è semplice, ma più complessa ne è l’interpretazione: ‘la sorte fa come la luna: può essere pallida, rossa o scura, ma mantiene sempre lo stesso volto, ed è una sola’. I versi senza dubbio risentono della I egloga di Arzocchi, 96-9: «Non comincia per ‘una’ la fortuna, / ma fa come la luna, / che, rossa o chiara o bruna che la torni, / cotal s’aspetta poi ch’ella soggiorni» (Ponte 27). Ovvero: come la luna, anche la sorte, una volta indirizzata in un certo modo, mantiene lo stesso aspetto; e questo dovrebbe essere anche il significato della terzina di Boiardo, che non allude alla volubilità del destino, in rapporto alla volontà dell’amata (come pare a Merlini), ma viceversa alla impossibilità che si muti una volta determinato. La corrispondenza con Arzocchi è ribadita, se ce ne fosse bisogno, dalla convergenza sintattica fra la torni e il la volti di Boiardo, entrambi con la soggetto (Mengaldo 1963, 110). Le altre occorrenze boiardesche sono interessanti, ma non aiutano a chiarire il senso: né quella di IO II, vi, 7-8: «Hor si fa rossa hor palida la luna, / che sanza dubio è segno di fortuna», perché qui fortuna vale ‘tempesta’, come in Lucano, V, 546-50, che è la fonte per il poema. E neppure l’altra di PE I, 89-93: «[...] hor non sai che Fortuna / talhor nera ha la facia e talhor bianca? / Stato fermo non è sotto la luna, / né fo né mai serà, però la sorte / candida tornerà che hor tanto è bruna», che afferma l’esatto contrario (e si veda anche il commento relativo). La terza occorrenza, sempre da Pastorale (VIII, 35-6) è più chiara quanto al significato, ma non migliora la nostra comprensione di questo passo: «quando ti piaccia nosco poserai, / sin che altro volto volti la Fortuna».  178

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Meschino, hor duolti  a questi lochi incolti; ma non ha chi me ascolti  e non ho voce, poi che una vice  gli ochi mi fòr tolti. Hor vieni atroce  e ponimi a la croce:

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70. hor duolti] hora diuolti B Lu (emendazione Mengaldo)   70-2. La terzina si regge tutta sul bisticcio voce / vice: ‘meschino, ora ti lamenti in questi luoghi selvaggi, ma non c’è nessuno che ascolti e io non ho più voce, dalla volta che gli occhi mi furono tolti (colpiti dalla bellezza della donna)’. L’amante dunque non ha più voce perché è rimasto fulminato dallo sguardo dell’amata, secondo un topos di lunga tradizione: si pensi per esempio al famoso sonetto di Guinizzelli, Lo vostro bel saluto, ai vv. 1 e 7-8: «Lo vostro bel saluto e ’l gentil sguardo», «parlar non posso, ch ’n pene io ardo / sì come quelli che sua morte vede». 70. hor duolti: la lezione di Lu (e quindi di B) hora divolti non solo è ipermetra, ma non dà senso nel contesto; era stata emendata (solo metricamente) già da Venturi, che proponeva or volti. – lochi incolti: quelli di AL II, 47, 8: «tra le ripe deserte e i lochi incolti». 71. non ha chi: la costruzione impersonale di avere per ‘esserci’ è di lunga tradizione nell’italiano letterario, sin dal Contrasto di Cielo d’Alcamo (v. 23); ma il suo impiego in questo verso boiardesco lascia qualche dubbio. Non tanto per il doppio verbo avere con due diverse accezioni, ma soprattutto per la scarsa presenza del costrutto in altre opere dell’autore: due occorrenze certe (I, xx, 47, 3 e II, viii, 28, 5) e una meno solida (I, iv, 49, 4) nel poema, nulla nel canzoniere, qualcosa di simile in PE VIII, 74. Proprio gli AL ci offrono invece un luogo simile, ma costruito con essere: II, 43, 8 «[...] e non è chi l’ascolti». L’emistichio boiardesco a sua volta rimanda (Zanato 1998 e 2012) a modelli di Giusto (66, 12) e petrarcheschi (Rvf 70, 3), tutti con essere. In conclusione: il luogo non è stato emendato perché la lezione non è errata oltre ogni ragionevole dubbio, ma il sospetto di un errore d’anticipo è forte, e una emendazione di ha in è sarebbe certo possibile. 73-5. La frottola si chiude con l’invocazione all’amata, dispensatrice non già di gioia ma di sofferenza: ‘Ora vieni, crudele, e dai inizio alla mia sofferenza; io voglio sopportare ogni tormento, e non dare la colpa a te del fuoco che mi divora’. 73. Atroce: il vocabolo (di impiego raro in campo lirico amoroso: LIZ) giunge all’egloga per il tramite di AL II, 19, 5-7: «Poco han di fede in noi le cose rade: / perché in forma suave un cor feroce, / in abito gentil l’animo atroce» (sia il cor che l’animo sono quelli di Antonia); dallo stesso sonetto (v. 3) anche il v. 75: «[...] il foco, che in tal pena il cor mi coce». La rima atroce : croce nelle Rime in forma di ballata di Lorenzo de’ Medici (LIZ): 4, 57. – Ponimi a la croce: ‘tormentami’, come in AL II, 4, 5-6: «Per dritto amar e per servir di core / son preso, flagellato e posto in croce» (: feroce) (Zanato 1998 e 2012).  179

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ogni martir feroce  io vuo’ patire, né a te imputare  il foco che mi coce. Gor.

Me.

Ben ho diletto e molto de il tuo dire, ma quel che dice poco o nulla intendo, sì sai parlando tua voglia coprire. E se l’hora de il sol dritto comprendo, passata è già la nona e il tempo fuggie mentre che ascolto e il tuo cantare atendo: la mia iuvenca sù nel boscho muggie, e non sciò la cagione, e temo assai che altrui furtivo l’ubera li muggie. Vatene Gorgo, perché è tempo hormai

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81. ascolto] ascolte B Lu  83. temo] prima di temo tanto cass. in rigo Lu 76-84. L’egloga si avvia alla conclusione: prima della zona prettamente pastorale, nelle parole di Gorgo ancora una riflessione metapoetica: la frottola di Menalca risulta oscura, cioè esattamente come deve essere, stante la natura del genere.  77. Analoga l’espressione di PE I, 177: «aben che chiaro il tuto non intenda» – dice: seconda persona singolare in -e (Mengaldo 1963, 118). 78. ‘Tanto bene sai nascondere le tue intenzioni, ciò che intendi dire’; pertinente il rimando alla II di Arzocchi, v. 43: «Ma saprestil coprir con altro velo?» (Riccucci). 79-84. Il testo ci trasporta di nuovo nell’ambito pastorale: il sole è già alto nel cielo, e mentre Gorgo ascolta il canto di Menalca sente la sua mucca muggire: forse qualcuno la sta mungendo di nascosto. 79. ‘Se interpreto bene l’ora indicata dal sole’.  81. atendo: ‘presto attenzione’; in questa accezione di solito costruito con a, ma è possibile anche la reggenza diretta (TB). 82-4. Le occupazioni pastorali che richiamano Gorgo sono quelle di Buc. III, 5: «hic alienus ovis custos bis mulget in hora» (Ponte 28), e della II di Arzocchi, 168: «Io odo i buoi chiamarmi ad alti mughi» (Introduzione di Fornasiero alle Egloghe, XXVI). 84. muggie: forte latinismo, dove si incrociano probabilmente il mulget virgiliano (qui in forma assimilata) coi mughi di Arzocchi. 85-8. Conclusione folgorante del testo boiardesco, con Menalca che di nuovo ribadisce la funzione consolatoria della poesia («et io cantando allevierò mie’ guai»), già dichiarata in veste petrarchesca ai vv. 17-21, ma qui mediata attraverso le parole di Arzocchi I, 137: «che più m’agrada il pian180

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de la ricolta, e più non stare a bada: et io cantando allevierò mie’ guai, ben che più il pianto che il cantar mi agrada.

ger che ’l cantare» (Ponte 28). L’auctoritas del poeta bucolico volgare, dunque, soppianta – o quanto meno affianca – sia quella di Virgilio che quella di Petrarca.  85-6. Il tempo che passa scandisce le diverse attività pastorali: ora è tempo di riportare il bestiame alla stalla (ricolta), non più di custodirlo (stare a bada). 181

VI

La sesta Pastorale ha sempre goduto di una singola fortuna, o sfortuna, critica: difficile da classificare, croce di editori e studiosi, è stata addirittura espunta dall’edizione Venturi; ancorché alegoricamente, era chiaro che il testo parlava anche e soprattutto di sesso. Soltanto la lettura di Guido Mazzoni le offrì una sorta di riabilitazione sociale, individuando nella fonte cui il cacciatore agogna di spegnere la sete la moglie del poeta, Taddea Gonzaga, e nel pastore che si offre di fare da intermediario fra i due fidanzati il padre di lei, Giorgio Gonzaga di Novellara. Si tratta comunque di amore fisico, ma almeno legittimo, o in via di diventare tale. L’interpretazione biografica (pure ripresa recentemente nel commento Riccucci) non soddisfa, al di là di singoli punti che restano ostici, proprio per la sua natura globale e onnicomprensiva, che finisce col rendere il testo totalmente autoriferito. Per tale via si smarrisce il rapporto con le egloghe V e VII, tutte collocate sotto il segno del certamen con Francesco Arzocchi:1 inserzione della frottola nella V; sviluppo narrativo della III arzocchiana in chiave allegorica nella VI, e uso dello sdrucciolo nella VII. “Allegoria dei poeti”, in certo qual modo, e dunque difficile da decodificare per i comuni lettori, anche molto prossimi all’autore. Oltre tutto, i tre testi vengono a formare una triade compatta e autosufficiente, al cuore della raccolta, e nella quale – il dato non mi sembra di secondaria importanza – il tema storico politico resta assente: sulla guerra contro Venezia le Pastorale si aprono e si chiudono, ma non pare questo l’oggetto fondamentale su cui Boiardo, fresco lettore di Arzocchi, vuole concentrarsi. Suggestiva, ma in sostanza non ricevibile, l’interpretazione in chiave neoplatonica avanzata da Battera 1987, e non solo perché il neoplatonismo di Boiardo mi è sempre parso più un assunto critico (di alcuni critici) che un dato di fatto, ma soprattutto perché troppi elementi, anche fondamentali, restano senza spiegazione, come dichiara del resto la stes1  Questo particolare filo fa sì che, in questo punto, Boiardo si distacchi parecchio sia da Buc. VI che da PA VI: egloghe che sono, invece, strettamente connesse fra loro (ma il fatto, in questa sede, ci interessa relativamente poco).

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sa studiosa. Molto interessante, invece, la lettura metapoetica del testo proposta da Merlini, che non è forse condivisibile sino in fondo, e non è comunque l’interpretazione che guiderà il nostro commento, ma offre degli spunti di notevole acutezza: «Si provi a leggere in questa chiave: il capro grigio più che Antonia Caprara è l’allegoria della poesia amorosa dell’Amorum libri, il cacciatore è Boiardo poeta d’amore, e il pastore probabilmente un poeta bucolico, su cui torneremo [Arzocchi]. La fonte è la fonte della poesia bucolica volgare [...], e il travestimento che si chiede al cacciatore è un travestimento poetico necessario al genere». Riprendiamo ora con pazienza la lettura dell’egloga, a partire dalla didascalia, sulla quale si proietta l’eco della battuta di Gorgo a V, 76-7: «Ben ho diletto e molto de il tuo dire, / ma quel che dice poco o nulla intendo». Come si costruisce, per restare alla lettera, PE VI? L’apertura del testo è offerta dalla III di Arzocchi: lì c’è il pastore senza nome (che però ha dei bracchi, cioè dei cani da caccia, ciò che lo apparenta parecchio al Venator), tormentato dalla sete, alla ricerca di un capro grigio. Un pretesto, un tema, che nel poeta senese non conoscono una reale declinazione narrativa (se non quella del viaggio dal Mugello sino al mar Tirreno, dove il protagonista tenta vanamente di dissetarsi con l’acqua salata), a differenza di quanto accade in Boiardo, che prosegue, su un diverso piano, il dialogo col poeta senese inaugurato da PE V. La sesta egloga pare infatti una nuova risposta (quella dell’autore dei primi due libri dell’Inamoramento) alla affermazione di Terinto nella I di Arzocchi: «[...] oggi non son maghi che incantino / ed orchi né giganti non si trovano, / né cavalieri erranti che si vantino»: non solo nei poemi abitano i cavalieri con le loro magiche imprese compiute per amore, ma anche nello spazio in apparenza chiuso dell’egloga c’è posto per l’aventure. Il dato trova conferma nel ripresentarsi di temi e motivi ben noti agli affezionati lettori delle altre opere boiardesche, primo fra tutti quello della fonte magica, attestata in AL II, 22 e III, 59, che, non a caso, sono canzoni in cui si aprono spazi narrativi piuttosto importanti, e per di più sono entrambe definite nella didascalia latina alegoria, che ulteriormente le avvicina all’egloga (sono le uniche tre occorrenze boiardesche dell’espressione). Di fontane magiche, come ben sappiamo, abbonda anche il poema, ed è la fonte il vero oggetto del desiderio del cacciatore di PE VI, tanto che compare già al v. 3 dell’egloga, prima quindi del capro grigio del v. 7. 184

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La fonte è magica, perché sgorga da un bianco marmo (v. 11); non ci si può bere «perché de ogni vigor l’anima priva» (v. 13); c’è nei pressi un pino (la pianta più topica, dato il contesto), sopra il quale sta Amore, che colpisce con la sua saetta mortifera chiunque beva. Ha parecchie sorelle, come si diceva:2 negli AL la prima è il «[...] chiaro fonte che ridendo occide» (AL II, 22, 42, una fontana in qualche modo petrarchesca: Rvf 135, 76-9); anche qui c’è Amore armato (v. 65 e poi v. 75, dove viene detto falso caciator) e c’è anche la sete (v. 72, in questo caso metaforica). Il pericolo è simboleggiato dalla serpe (v. 89), assente però in PE. A seguire AL III, 59: elementi di pericolo ancora un serpente (angue ascoso, v. 29), Amore che «nudo a la ripa se posa» (v. 38), ma cela nel profondo, forse della fonte, la morte; poi la sirena (v. 40). L’acqua è pericolosa non per chi la beve, ma per chi vi ci si specchia, come Narciso (vv. 49-52). Secondo, e più ampio, movimento testuale di PE VI: apprendiamo che per bere alla fonte amorosa è necessario un inganno (vv. 28-30), e scopriamo anche che il Pastor intrattiene con la sorgente un rapporto personale, non meglio precisato (vv. 30 e poi 70-8). Compare di nuovo il capro (vv. 34-6), intangibile perché sacro a Pan (vv. 40-2). Gli stessi ornamenti araldici, preziosi e enigmatici, ne fanno un oggetto proibito (vv. 58-60); meglio quindi che il cacciatore lasci perdere, e tenti, semmai, di raggiungere la fonte (vv. 67-9). Il pastore accetta di fare da guida al compagno (nel frattempo il capro è scomparso), anche se non vede con piacere che qualcun altro beva alla stessa acqua (vv. 70-81). C’è il primo accenno al bere transformato, cioè sotto diversa apparenza (vv. 82-4), che nelle successive parole del Venator diventa un chiaro travestimento erotico (vv. 92-3). Ultima tappa del rito: il cacciatore dovrà mettere le vesti del pastore, e solo così potrà bere (vv. 96-9); un dono, questo, che è indizio di grande cortesia (vv. 103-5; e si pensi subito alla conclusione della novella di Prasildo, Iroldo e Tisbina, che sarà poi ampiamente citata nel commento). Il tutto dovrebbe infine comportare il disvelamento dell’identità del 2  Come sempre abile giocoliere, su testi propri come altrui, Boiardo cita espressamente un luogo del poema che in realtà con questo ha poco a che spartire (segnalato da Riccucci): la rima prima : viva (PE VI, 13-5) richiama infatti la fontana di Merlino di IO I, iii, 35, vv. 4-6, dove Ranaldo «[...] invitato da quella acqua viva / [...] / e di sete e di amor tutto se priva». Il contrario, quindi, di quanto vorrebbe fare il cacciatore.

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pastore, ma il tempo è poco, e anche questo elemento – come molti altri della vicenda – resterà celato (vv. 112-5). Che cosa ricaviamo da questo breve resumé (come pure dalla lettura distesa) del testo? Ben poco, in realtà, anche tentando le diverse vie esegetiche cui si accennava prima. Però tutta la storia, come dire, ha un’aria familiare: ricorda, infatti, molto da vicino, la serie delle istruzioni che vengono date agli eroi dell’Inamoramento prima che affrontino le loro prove. Anche in PE, di concreto, non succede niente, perché tutto è illustrato al futuro dal Pastor al Venator, sollecito di ascoltare e di apprendere (v. 91). Imprese di natura allegorica che gli eroi dovranno compiere per amore, sia queste dell’egloga che le tante del poema, a partire da quella di Prasildo, a cui un vechione spiega come entrare, e soprattutto uscire, dal Giardino di Medusa (IO I, xii). A seguire l’avventura di Orlando nel Giardino di Falerina (di cui quella di Prasildo è una specie di prova generale): qui è una donzella che illustra le caratteristiche della prova (II, iv), come aveva fatto Fiordelisa con Renaldo a I, xvii, a proposito dello stesso Giardino. Il modello più vicino mi pare però quello di II, xv, quando Renaldo viene prima fustigato da Amore e dalle tre Grazie, poi consigliato da Pasitea a bere alla Riviera dell’Amore. Una sola citazione, da questo ultimo episodio: «[...] a te convien andare / per questo bosco ombroso a tuo dileto, / sin che ritroverai sopra a una riva / un alto pin et una verde oliva. // La rivera zogliosa inde dichina / per li fioreti e per l’herba novela: / nel’acqua troverai la medicina / a quel dolor ch’al peto ti martela» (IO II, xv, 556). E leggiamo per esempio PE VI, 61-6: «Meglio è che a destra mano il camin pigli: / vedi là il prato che ha cotanti fiori / azzuri e giali e candidi e vermigli. / Se tra l’herbete ponto te dimori / sin che il sol passi a l’hora che se infresca, / co il tempo passeran cotanti ardori». Questa di PE è un’impresa erotica, come quelle delle canzoni degli AL che abbiamo citato più in alto, ma proiettata nel futuro, attraverso le parole di un interlocutore-ammaestratore, e declinata secondo le modalità allegoriche caratteristiche del poema. Avrà avuto anche un contenuto preciso, storicamente restituibile? Io ho qualche dubbio, ma in ogni caso questo tipo di significato è perduto per sempre. Restano solo le tracce letterarie: almeno quelle vanno indagate con cura. Il particolare taglio dell’egloga fa sì che il registro stilistico sia piuttosto diverso da quello lirico bucolico che Boiardo è venuto elaborando nel 186

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farsi della raccolta: ci sono significative presenze lessicali arzocchiane, che spiccano nel contesto, e si presenta ancora il raffinato gioco di aemulatio variatio rispetto a Petrarca (qui soprattutto il sonetto 190 dei Rvf). Ma si segnalano anche contiguità interessanti sia con le canzoni allegoriche degli AL, sia con alcune zone del poema. Un impasto originale per un’egloga radicalmente differente dal resto della raccolta.

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Ne la sesta egloga alegoricamente parlano un caciatore affanato et un pastore, nascondendo e nomi loro sì come è la matera nascosa. Venator Diti pastori (e si vi duri il giorno tepido sempre e la notte serena), se alcuna fonte qua sorgie de intorno. Per Dio mostrati qual strata vi mena, perché mirando non vedo vestigio di fiume o de aqua che sorga di vena, et io son lasso detro a un capro grigio

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didascalia nascondendo] nascondedo B 3. de intorno] intorno B  1-9. Le terzine d’esordio del Venator pongono il tema: il protagonista si rivolge alla comunità dei pastori (che fa qui la sua unica comparsa, subito sostituita dalla individualità del Pastor), domanda loro se abbiano notizia di una fonte nelle vicinanze, e dichiara le ragioni del suo essere affanato, ovvero il lungo inseguimento del capro grigio. 1. Diti, pastori: formula allocutiva simile a quella di PE II, 28: «Ditime, nymphe [...]» o di PE VIII, 88: «Dicetimi, pastori [...]» – si vi duri: con valore ottativo: ‘possa esservi’. 1-2. il giorno tepido: come nella VI egloga dell’Arcadia (che precede l’elaborazione del prosimetron e potrebbe quindi essere nota a Boiardo in tradizione autonoma), 85-6: «[...] lucenti e tepidi / eran gli giorni [...]. 2. notte serena: quella di AL I, 15, 31 (un testo che già tante volte abbiamo visto ritornare in PE): «Come in la notte liquida e serena», forse anche con un ricordo dell’amato libro I del De rerum natura I, 42: «[...] noctes vigilare serenas». 5. vestigio: ‘traccia’, ‘indizio’. 6. de aqua ... vena: vena vale ‘fonte’, e tutta l’espressione rimanda a Purg. XXVIII, 121: «L’acqua che vedi non surge di vena» (Ponte 27). 7. Dopo la fonte, ecco il secondo oggetto del desiderio del Venator, il capro grigio su cui l’acribia dei commentatori si è ampiamente esercitata. Partendo da ciò che è più evidente, bisogna sottolineare che questo animale vive 189

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innanzitutto nella letteratura: proviene, infatti, dalla III egloga di Arzocchi, sia dal suo verso incipitario «Seguendo l’orme d’un bramoso capro» (dove bramoso ha valore passivo: come in Boiardo il capro è oggetto del desiderio sessuale), sia – e soprattutto – dai vv. 13-4: «[...] son stanco dopo l’orme / del grigio capro ond’io m’ero vantato». La coincidenza col nome di Antonia Caprara non avrà lasciato indifferente Boiardo, o almeno possiamo supporlo, ma la storia d’amore che lo legò alla donna si è chiusa da molto tempo. Se allarghiamo il campo di indagine, di animali in fuga inseguiti dal protagonista è ricca la letteratura, anche quella bucolica; ma la ricerca, in presenza di una fonte tanto manifestamente dichiarata non è a mio avviso realmente utile. Ricordiamo comunque (le occorrenze sono riassunte in Riccucci) il capro rubato di Virgilio in Buc. III, 17-8, quello perduto di Buc. VII, 6-7; ai due possiamo aggiungere la giovenca di Calpurnio III, 1-6, e l’orsa – dietro al cui senhal dovrebbe celarsi una Orsini amata dal poeta – della cui scomparsa si lamenta il pastore Filleuro nella III egloga del Buoninsegni. Fuori dall’ambito bucolico, invece, due animali si impongono alla nostra attenzione come dichiarati e inattingibili simboli d’amore: la cerva dietro alla quale vanamente si affatica Julo nelle Stanze e soprattutto quella petrarchesca di Rvf 190, di cui quella di Poliziano è con ogni probabilità stretta parente. Su alcuni elementi del sonetto ha già richiamato l’attenzione il commento Merlini, ma forse è possibile aggiungere qualcosa, e soprattutto mostrare come, anche in questo caso, il petrarchismo di Boiardo sia raffinato e sottile, in grado di “smontare” il pezzo e ricontestualizzarlo intrecciandolo con la fonte arzocchiana, in un’impresa stilistica non di agevole realizzazione. L’animale del Canzoniere si presenta in apertura del testo in maniera fortemente connotata: candida sullo sfondo verde dell’erba, con le corna d’oro, vicina all’acqua delle due riviere, ombreggiata da un alloro (vv. 1-3). Il nostro capro è grigio, anche se bel, perché grigio era quello di Arzocchi, ma quando ricompare ai vv. 58-60 mostra più smaglianti attributi coloristici: «de oro a le spalle ha il camaglio», «verde una gamba e l’altra a rose e a zigli». L’acqua delle riviere si riverbera nella fonte dell’egloga, di bianco marmo (come candida era la cerva), sovrastata da un pin, che occupa lo spazio dell’alloro petrarchesco. La cerva è immagine della donna, dolce superba (v. 5), capace di distogliere l’amante da ogni altro pensiero: «ch’i’ lasciai per seguirla ogni lavoro» (v. 6), come si legge poi ai vv. 36-7 dell’egloga: «sin che io sia vivo me il conven seguire. / Lassai per lui nel bosco un cierbo e un apro». La cerva è proibita e incantata, e nei suoi ornamenti sta la chiave della sua “fatagione”: «”Nessun mi tocchi – al bel collo d’intorno / scritto avea di diamanti et di topazi –: / libera farmi al mio Cesare parve”». Il riferimento al cosiddetto motto di Cesare manca nell’egloga, ma il capro è intangibile perché appartiene a Pan (come la cerva a Cesare?): «Quello è il capro di Pan il nostro idio / [...] Leva de la tua mente tal disio» (vv. 41-3) e la sua condizione è sottolineata dal camaglio d’oro, ornamento cavalleresco che sostituisce i diamanti e i topazi, tradizionali, ma qui incongrui, talismani contro la lussuria. La conclusione del sonetto petrarchesco, infine, stringe saldamente l’egloga di Arzocchi e 190

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che ’l più bel mai non vide Iasio in Creta né al bosco de Ida il giovaneto phrygio. Pastor

Là tra que’ colli ove è l’herba più lieta

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9. phrigio] da prygio Lu  quella di Boiardo: la cerva sparve e il protagonista «cadde ne l’acqua», così come svanisce il capro boiardesco, che passa il testimone del desiderio amoroso alla fonte incantata, e come il protagonista di Arzocchi, trascinato dal corso del fiume sino al mare, «[...] vinto cadde giù lungo la gronda» (v. 89), abbandonando così la speranza di conquistare l’oggetto della sua passione. 8. Iasio in Creta: si tratta senza dubbio di Iasione / Giasone, anche se è difficile dire se sia il capo della spedizione degli Argonauti (un episodio mitologico ben presente nelle Pastorale, specie nella X): avrebbe un senso nel contesto, perché neppure l’animale dal vello d’oro sarebbe stato più bello del capro grigio; ma Giasone sfiorò solo Creta nel suo viaggio di ritorno, riuscendo a superare l’imboscata del gigante Talo. L’ipotesi di Riccucci, cioè che si tratti dello Iasione figlio di Zeus ed Elettra riposa sull’occorrenza degli Amores ovidiani III, X, 25-6: «Viderat Iasium Cretaea diva sub Ida / figentem certa terga ferina manu»; il passo fa riferimento al folle amore di Cerere per il bel cacciatore Iasione, e alla conseguente carestia che si abbatté sull’isola di Creta. Non è da escludere che nell’ampia tradizione post classica della mitologia antica i due personaggi si fossero già sovrapposti, e in questa forma siano arrivati a Boiardo. 9. giovaneto phrygio: Paride, allevato dai pastori del monte Ida, dove era stato abbandonato a causa del sogno premonitore di Ecuba. 10-21. Si presenta il Pastor, secondo protagonista dell’egloga, e nelle sue parole si materializza la fonte, bellissima e mortale; nella interpretazione di Merlini, il pastore è Francesco Arzocchi, maestro di poesia bucolica. Ipotesi suggestiva, ma da valutare con le cautele che si sono già suggerite per PE V e che varranno poi per PE VII. 10-5. Nello spazio del locus amoenus («ove l’herba è più lieta») si colloca la fonte che sgorga da un bianco marmo (il che ne fa un luogo a priori magico): rende rigidi i nervi di chi si azzardi a bere, e lo conduce a morte certa. Oltre che nelle canzoni allegoriche già ricordate, la fonte è presente anche in AL III, 15. Qui Boiardo instaura un paragone fra il desir di un cervo incalzato da fatica e caldo (v. 4) che appaga la sete non appena tocca l’onda corrente (v. 5) e il desiderio del poeta che invece non si spegne nel suo bel fonte (v. 10), ma anzi raddoppia per l’ampla doleceza (v. 11) sperimentata. Trasparente allegoria sessuale che vedremo riflettersi nei vv. 73-4 dell’egloga, ma che mostra altri elementi di contiguità col nostro testo: l’animale che corre, la sete che tormenta sia lui che il protagonista, e infine l’ardore dei sensi, collegato all’immagine della fonte.  191

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dal bianco marmo una aqua se diriva; ma ber a lo affanato se divieta perché de ogni vigor l’anima priva e tragge e nervi caldi a tal rigore che non se vede alcun che beva e viva. Nel pin che sopra sta, nascoso è Amore e per le rame subito saetta qualunque scorgie a la sua riva pore. Però la pioggia o la rugiada aspetta: vinci soffrendo de la sete il tedio, se più nel mondo viver te diletta. Ven.

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Donque al mio scampo non serà remedio? Deh, per Dio, dati a questo spirto aiuto ché ardor e sete gli han posto lo assedio.

14. rigore] segue a ragione cassato in rigo Lu  11. se diriva: ‘sgorga’; il contesto non è chiarissimo, ma la fontana sembrerebbe naturale, come la Riviera dell’Amore, e non artificiale come il Fonte di Merlino, di cui Boiardo dice esplicitamente che è «[...] lavorato / de un alabastro candido e polito» (IO I, iii, 33, 1-2); magica dunque per natura, non per intervento di «arte maga». 12. se divieta: forse più nell’accezione di ‘si nega’ (TLIO) che in quella di ‘si proibisce’.  13. ‘Sottrae ogni energia alla forza vitale’. 16-8. La pericolosità della fonte è raddoppiata dalla presenza di Cupido arciere, come nella già ricordata canzone di AL II, 22. Il pino è albero amoroso per eccellenza, e infatti, oltre ad altre varie occorrenze (penso soprattutto alla fontaine perilleuse al v. 20409 del Roman de la Rose), in IO I, iii, 37, 8 ombreggia la Riviera dell’Amore.  18. pore: ‘dirigere’ (TB). 19-21. ‘È quindi (però) meglio aspettare pioggia o rugiada per far fronte al fastidio (tedio) della sete’. 22-4. Terzina di transizione del Venator, che ribadisce la cogente forza di ardor e sete. 22. Scampo e remedio sono più di una volta in sintagma in Boiardo (mentre l’uso è raro nella lingua poetica antica), sia nel canzoniere che nel poema: AL III, 3, 4; IO II, xii, 25, 8; II, xviii, 14, 6. 23. Affatto decontestualizzata, ritorna qui la sconfortata battuta degli astanti alla notizia che Astolfo si farà paladino della causa francese (IO I, ii, 66, 8; Riccucci): «[...]”O Dio, deh, mandaci altro aiuto!”». 24. Sembrano agire in questo luogo due diverse suggestioni: indubbia quella petrarchesca di TC III, 69: «amore e crudeltà gli àn posto assedio» (: tedio : rimedio; Riccucci), ma forse 192

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Past.

Tanto ti vedo nel viso perduto e sì conquiso e vinto da lo affanno, che per condurti a ber il passo muto. Ma a la fonte de Amor bisogna inganno,

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presente anche la I di Arzocchi (vv. 87-90), per la rima assedio : rimedio (Fornasiero 1998, 666). 25-30. Il focus testuale resta sempre sulla fonte: il Pastor, commosso dalle disperate parole del cacciatore, si offre di accompagnarlo. Ma nella seconda terzina introduce un tema nuovo, ovvero l’inganno che è necessario usare per bere alla sorgente dell’Amore, e nel contempo la liceità morale di tale comportamento. È questo il punto nodale dell’egloga, ed è anche quello che più tenacemente resta oscuro: non è possibile che il padre della futura sposa solleciti il genero a ingannarla per ottenere quello che in diverso contesto allegorico chiameremmo la rosa di lei; ma non è neppure plausibile che un poeta esorti l’altro a architettare un sotterfugio per sperimentare una nuova forma letteraria. Però inganno e inganar tornano in versi contigui (e poi in coppia con astuto ingegno troviamo ancora gli inganni al v. 95): per un poeta petrarchista questo è un segnale da non sottovalutare. Senza nessuna pretesa di intertestualità, allego qui qualche tranche narrativa dell’Inamoramento in cui inganno e amore (eventualmente anche malizia) appaiono strettamente implicati. Partiamo dalla storia di Leodilla: ingannatrice, ingannata e di nuovo ingannatrice, e sempre per amore. Come osserva la protagonista a I, xxi, 54, 1-2: «Neli antichi proverbi dir se sòle / che malicia non è che donna avancie»; ecco dunque la macchinazione ai danni del vecchio Folderico, che solo sconfiggendo nella corsa la giovane fanciulla potrebbe averla in sposa. È ben noto come finisce la storia, che è la riscrittura cortese del mito di Atalanta: Folderico lascia cadere i tre pomi, si guadagna la donna e il commento carico di ammirazione della folla (I, xxi, 67, 3-4): «Tutta la gente di fora cridava: / “Adoprata ha’, volpone, alta malicia!”». Il secondo tempo della vicenda si colloca al canto xxii, sempre del libro I: Leodilla e il giovane Ordauro diventano amanti ai danni del vecchio marito. La soluzione definitiva, però, scaturisce dal sentimento amoroso: «[...] consiglio ce donò lo Amore, / che dona inzegno e sottigliezza al core» (I, xxii, 29, 7-8). Ordauro e Leodilla risolvono la loro precaria situazione imbastendo per il vecchio marito la fola delle finte gemelle e si avviano così a nuovi destini. Lieto fine, quindi, grazie a imbrogli e malizia (in questo caso necessaria e quindi onesta); simile, non nei fatti ma nell’assunto generale, la storia di Doristella e Teodoro, al canto xxvi del II libro. Fuori dal contesto novellistico, è ben difficile trovare inganno, o almeno inganno che non sia moralmente esecrabile: Ulisse (da buon consigliere fraudolento) ne fa uso con Circella a I, vi, 52, 1-6: «Poi si vedeva lei tanto acercata / de il grande amor che portava al Barone / che dala sua stessa arte era inganata, / bevendo al napo dela 193

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e inganar per amor non è malicia; hor per piacerti a me stesso fo danno. Ven.



Sì forte voglia nel pensier me aticia che ogni cosa vuo’ fare, anche morire, pur che io me intinga e labri de una spricia. O me tapino, io già vedo aparire là sopra al colle il mio formoso capro: sin che io sia vivo me il conven seguire. Lassai per lui nel bosco un cierbo e un apro; tanto ne’ salti a rimirar me inzoglia che fino al cor la vista de gli ochi apro.

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Content

32. fare] far B  incantasone; / et era in bianca cerva tramutata, / e dapoi presa in una caciasone»; nel II libro è Orlando che finge di dormire e inganna la sirena: «come era dal libreto amestrato / sopra la rippa se colcò nel prato. // E’ mostrava dormir, ronfando forte» (II, iv, 37, 7-8 e 38, 1). Eroi che usano stratagemmi, dunque, nell’ambito di avventure erotiche o magiche: non poi tanto diverso dall’ammaestramento che il Pastor rivolge al Venator. 30. L’aiuto del Pastor comporterà un suo sacrificio personale, che per il momento resta indeterminato. 31-9. Con le battute del Venator si produce nel testo qualche, minimo, incremento narrativo: viene ribadita la necessità di bere alla fonte, anche a rischio della vita; intanto sulla scena si palesa il capro, sino a questo momento solo evocato. Anch’esso è oggetto di desiderio, e, come apprendiamo dalla risposta del Pastor, è intangibile quanto la fonte. 31-3. Accusata presenza di Arzocchi III, 83-7: «e quel ch’è più, lascivetta m’attizza, / giocando sì co’ sassi come bambola; / ma tanto più è la sete che mi rizza / drieto alla preda sùbita e leggera, / ch’io non intinsi il labbro d’una sprizza». Da questi versi, che in Arzocchi sono riferiti al capro, in Boiardo alla fonte, deriva la rima aticia : spricia (Ponte 27). 34-9. Prende corpo materialmente il secondo oggetto del desiderio del Venator: il formoso capro; in rima con apro anche nella III egloga di Arzocchi, vv. 1-3 («Seguendo l’orme d’un bramoso capro, / per più guattarmi avea lasciati i bracchi / e ’l viso con l’udir distendo ed apro»), la cui immagine desiderata si sovrappone a quella della cerva del sonetto 190 dei Rvf, come già ricordato. Si veda soprattutto il v. 6 di Petrarca già citato in nota al v. 7, che Boiardo declina in contesto venatorio al v. 37, recuperando apro dall’egloga arzocchiana (dove però è la prima persona del verbo aprire).  38-9. ‘Mi dà tanta gioia (inzoglia, denominale di creazione boiardesca) contemplarlo nei bo194

egloga vi

Past.

Ven.

Past.

Ahimé, che dici, o che furor te invoglia? quello è il capro di Pan, il nostro idio: pur ne lo odirti io tremo come foglia. Leva de la tua mente tal disio, però che ireticar sì bella cacia cosa non è di tuo poter nì mio. Ben vedo che il seguirlo è cosa pacia, ma che degio più far? che se io no il seguo e’ par che il core in petto me si sfacia, e come cera al foco mi dileguo. Che degio far? io son morto se io il lasso, e morto son se il mio disir proseguo.

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Il nome tuo non sciò, ma ferma il passo chiunque tu sia; e se ben fosti Apollo

44. però] da Peroh Lu 46. il] al da il B 49. dileguo] da disleguo B  schi montani (salti, con latinismo semantico) che faccio passare (apro, qui con recupero semantico esatto da Arzocchi III, 3, già citato) sino al cuore l’oggetto che vedo (la vista) con gli occhi’. Boiardo riprende il notissimo topos lirico dell’immagine dell’oggetto amato che attraverso gli occhi giunge al cuore dell’amante. 40-5. Il capro, dunque, è tabù, sia per il cacciatore che per il pastore: è consacrato a Pan (secondo Mazzoni da identificare con Ercole I, ma il dato resta indimostrabile; possibile piuttosto, come si è già detto, che il capro sacro a Pan sia il corrispettivo bucolico della cerva protetta da Cesare in Petrarca: 190, 11: «libera farmi al mio Cesare parve»). In qualche modo è quindi diverso dalla fonte, sulla quale il Pastor esercita una forma di controllo. 44. ireticar sì bella caccia: ‘mettere nella rete una così bella preda’. Ancora una citazione da Arzocchi II, 84: «e come fera inreticata rugge» (Fornasiero 670). 46-51. Il Venator ribadisce, in termini strettamente lirici, la ineluttabilità del suo desiderio: inseguire il capro è follia (cosa pacia), ma non seguirlo è impossibile. Prende corpo ancora una volta il paradosso amoroso che conosce il suo archetipo in uno dei testi iniziali dei Rvf: «Sì travïato è ’l folle mi’ desio / a seguitar costei che ’n fuga è volta» e «che mal mio grado a morte mi trasporta» (6, 1-2 e 11). 50. Che degio far?: come in AL II, 6, 3: «che deb’io far più, sconsolato, al mondo?» (Zanato 1998 e 2012). 52-66. Le terzine 195

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di tal empresa romaresti al basso. Hor non te avedi che già il capo e il collo ha drento al parco? e chi entra quel seraglio ne la sua vita non darà mai crollo. Mira che de oro a le spalle ha il camaglio, verde una gamba e l’altra a rose e a zigli e gli ochi puri a guisa di miraglio.

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del Venator precisano, ma certo non chiariscono, i modi e le ragioni della intangibilità del capro: chiunque sia il cacciatore, non ha nessuna possibilità di condurre l’impresa a buon fine. L’animale, infatti, è quasi del tutto entrato in un recinto (parco; TB) e chi supera quel cancello (seraglio) non si muoverà più di lì (non darà mai crollo). Anche il suo aspetto si fa simile a quello di un animale araldico: ha una copertura (camaglio) d’oro sulle spalle, una gamba è verde e l’altra è decorata con rose e con gigli, ha gli occhi limpidi come specchi (bianco, rosso e verde, oltre all’oro, sono i colori estensi per eccellenza, sin dagli affreschi di Schifanoia). Meglio è che il cacciatore scelga una strada diversa, quella di destra, che conduce a un topico locus amoenus; in questo spazio il suo desiderio, col tempo, si farà meno cogente. Difficile, per non dire impossibile, sciogliere tutti gli elementi allegorici che Boiardo dissemina in questi versi: se ne ricava l’impressione generale di una impresa senza speranza e di un animale incantato e intangibile. Certo è che, in questa sua seconda occorrenza, il capro cambia radicalmente aspetto: dismette la sua modesta apparenza bucolica (e infatti non è più neanche grigio) per trasmigrare in territori letterari almeno in parte diversi. Si pensi, oltre alla cerva di Rvf 190 già più volte ricordata, ad alcuni esemplari dell’Inamoramento, il cervo dalle corna d’oro di I, xxii dietro a cui si affatica, senza esito, Brandimarte, e che sarà poi conquistato e rifiutato da Orlando, la ciucciarella bianca che a I, xxv tenta invano lo stesso paladino; ma persino un somaro, nel regno di Falerina, è ingioiellato: II, iv, 56, 4-5 «Non la diffende né spata né macia, / ma un asino coperto a scaglie d’oro». Ponte 34 suggerisce una contiguità fra il capro e il cervo di Calpurnio Siculo, VI, 43-4: «[...] rutiloque monilia torque / extrema cervice natant [...]», e Bregoli Russo 170 propone la persa agnella della prima egloga del Buoninsegni (vv. 75-7): «Ciascun degli occhi suoi parevan rai, / candido el vello che non rosa o giglio, / ma la neve di lungo avanza assai». 57. non ... crollo: dar crollo in rima con Apollo e collo in Petrarca Rvf 197, 7 e TC I, 156 (Riccucci). 58. camaglio: sostantivo di area semantica cavalleresca, ‘collare o cappuccio di maglia metallica (indossato con l’elmo)’ (TLIO, con attestazione nel Filocolo boccacciano), che Boiardo utilizzerà due volte in IO, ma nel III libro (vi, 5, 4 e vii, 46, 7). 60. miraglio: gallicismo per ‘specchio’, con una probabile mediazione dantesca da 196

egloga vi

Meglio è che a destra mano il camin pigli: vedi là il prato che ha cotanti fiori, azzuri e giali e candidi e vermigli. Se tra l’herbete ponto te dimori sin che il sol passi a l’hora che se infresca, co il tempo passeran cotanti ardori. Ven.

Vedi ch’io moro e par che non te incresca de il mio morir: deh, mename a la fonte, ché lo un disir o l’altro mi riesca.

Past.

Sol de lo affanno mi suda la fonte pella promessa ch’io feci improviso,

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70

Purg. XXVII, 105 (Mengaldo 1963, 340). 62-3. Per la descrizione del locus amoenus Ponte 34 rinvia alle Stanze di Poliziano I, 55, 7-8: «ma l’erba verde sotto i dolci passi / bianca, gialla, vermiglia e azurra fassi» e I, 77, 7-8: «l’erba di sue belleze ha maraviglia: / bianca, cilestra, pallida e vermiglia». 64. ponto: ‘per un poco’’. 67-9. Se il capro è inviolabile, al Venator non resta che la speranza di essere accompagnato alla fonte, e lì placare la sua sete. 67-8. Vedi... morir: contesto lessicalmente lirico, per il quale si cfr., ad esempio, le Rime di Gianni Alfani (LIZ) 3, 5-6: «Se non t’incresce di veder morire / lo cor che tu m’ha’ tolto». 69. Il Venator ribadisce l’intercambiabilità dei due oggetti del desiderio. 70-84. Tocca ancora al Pastor il più ampio dispiegarsi dell’allegoria: la fonte è origine di ogni sua gioia, in lei si può specchiare e, se qualcun altro la toccasse, ne sarebbe contaminata. Ma è meglio parlare poco, perché le troppe parole comportano il fallimento dell’impresa. Unica condizione per la riuscita è la metamorfosi del cacciatore, che deve bere transformato. Anche qui, la decodifica puntuale è piuttosto ardua: pare indubbio che la fonte abbia una marcata connotazione sessuale, come in AL III, 15, il sonetto ricordato più sù, mentre la “trasformazione” del Venator resta misteriosa. È forse il dettaglio che, anche con le perplessità di cui si è già detto, meglio si adatta alla lettura di Merlini: come verrà spiegato ai vv. 97-9, il travestimento del cacciatore consisterà nell’assumere le vesti del Pastor; in termini metaletterari, per dare forma alla poesia bucolica volgare, la via migliore potrebbe essere quella della imitatio del nuovo modello.  70-2. La promessa fatta tormenta il Pastor come nell’Inamoramento succede a Tisbina (I, xii, 46, 5-8; Riccucci): la protagonista ha promesso sé stessa a Prasildo se lui riuscirà a superare l’impresa del ramo d’oro, e se ne pente amaramente. 71. improviso: ‘inavvertitamente’ (TB). 197

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che hora nel cor mi dona mille ponte. Quella fontana è sol mio paradiso, sol mio diletto e sola zoglia mia, ove io mi spechio rimirando il viso; e se altri la tocasse, e’ mi paria che in lei non fosse quella puritade ne l’onda chiara come era di pria. Come esser debon le parole rade! Perché qualunque al proferire è ingordo spesso per danno o per vergogna cade. Hora ne andiamo, ma ben ti ricordo che, transformato, bever ti convene, né trovaresti in altra forma acordo. Ven.

Novello amico, io riconosco bene che discortese assai sono e non poco bevendo a l’aqua che in vita te tiene. Ma perché esser potria che in altro loco

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73-8. Sono le terzine in cui appare più evidente la connotazione sessuale della fonte, e più chiara la connessione con AL III, 15, 9-11: «tal il mio cor, che di gran sete avampa, / nel suo bel fonte disiando more, / e piglia oltre al poter l’ampla dolceza» (Riccucci). 76. e’: pronome neutro con valore impersonale (Mengaldo 1963, 110). 84. ‘Non potresti trovare (con me) un’altra forma di intesa’. 85-93. Le terzine del Venator introducono nuovi motivi: innanzitutto la cortesia, il grande motivo della novella cavalleresca di Prasildo, Iroldo e Tisbina. Il Pastor ha offerto all’interlocutore di condividere la fonte, ma accettare sarebbe discortese, a meno che il Venator, a sua volta, non possa dare qualcosa in cambio: è il tema della gara nel comportamento maschile che i lettori dell’Inamoramento ben conoscono, e che nella novella appena ricordata conosce la sua attestazione più nota. Il secondo elemento sul quale vale la pena di fermarsi è quello mitologico: il Venator non coglie il senso della metamorfosi che il Pastor gli suggerisce, e la decodifica secondo paradigmi noti, quali gli amori di Giove, che possiede Danae sotto forma di pioggia d’oro, o si trasforma in aquila per rapire Ganimede (a meno che non si tratti del cigno sotto le cui parvenze possiede Leda, ma il riferimento alle alie del v. 94 lo rende meno probabile).  198

egloga vi

a te rendesse per la fonte un fiume, prego me aiuti a spegner questo foco: mostra come andar possa e cum qual lume, se transformar mi debbo in pioggia de oro, come già Giove, o copromi de piume. Past.

Qua non vi giova l’alie nì thesoro, ma per astuto ingegno e per inganni farai come t’ho detto il bel lavoro. Quinci te spoglia e vestite e me’ panni: questa pele di lynce e questo manto che conosciuto è già per mio molti anni.

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89. rendesse] da rendessi Lu  89. ‘Ti contraccambiassi con un favore ancora più grande’; come nel Morgante VIII, 90, 3: «di gentilezza una fonte, anzi un fiume» (Merlini). 91. cum qual lume: ‘con quale guida’. 92-3. Il riferimento al mito di Danae è anche in La notte torna di Giusto (144, 36): «quando per Damne Iove si fé d’oro» (Pantani 2006, 141). 94-105. Il Pastor chiarisce che la metamorfosi non sarà mitologica: non servono ali o tesori, ma solo inganno, astuto ingegno. Sarà necessario che il Venator indossi i panni del Pastor, e soprattutto la sua pele di lynce, e la fonte sarà sua; anche il Venator ne sarà contento, «ché più bel dono è di cosa più cara». Ritorna ancora il tema della cortesia, dell’offerta di un oggetto prezioso, ma alla catena allegorica si aggiunge un anello, l’ennesimo anello misterioso, ovvero la pelle di lince del pastore. 95. astuto ingegno: il sintagma da AL II, 22, 48: «che forza non curava o inzegno astuto» (Zanato 1998 e 2012). 96. bel lavoro: sintagma prettamente boiardesco, che ricorre quattro volte in AL e otto in IO. 97-9. Il travestimento pastorale è anche nel laurenziano Apollo e Pan 58-60: «Alhora habito prese di pastore; / ma poca differentia si comprende / da la pastoral forma al primo honore» (Battera 1987, 27). 97. questa pele di lynce: la lince non è animale molto presente nella lingua italiana poetica salvo che in AL II, 54, 13: «il tigre dama e il lince farse talpa» (Zanato 1998 e 2012) e nella Dispersa petrarchesca che ne è la fonte (CXVI, 12); conosce parecchie attestazioni latine, nessuna delle quali particolarmente significativa. Quanto al suo significato allegorico, difficile pronunciarsi: non bisognerebbe, però, dimenticare la «lonza leggera e presta molto» di Inf. I, 32, e il suo carico di seduzione sensuale. Forse di questo in sostanza, si parla: il passaggio della pelle da un protagonista all’altro significa, come sarà del resto esplicitato, la concessione della donna.  199

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Mòvete hormai, ché io te ritengo tanto: più dolcie aqua de il mondo e la più chiara aver bevuta te potrai dar vanto. Né creder che mi sia cotanto amara (come hor ti dissi) questa mia proferta, ché più bel dono è di cosa più cara. Ven.

Past.

Ciò che tu dici nel mio cor se acerta, ma tal servigio a bisogno cotale per tempo esser scordato mai non merta; e perché il guiderdon seguiria male, che altro di te non ho che l’aparenza, dimi il tuo nome se di me ti cale.

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Star più non posso ne la tua presenza, ché ogi al guardar mi toca la vicenda, onde il mio nome e la mia conoscenza per più bel aggio voglio che se intenda.

103. cotanto] da cotanta Lu 109. seguiria] seguira B 113. guardar] da guardare Lu 100. ché ... tanto: ‘perché io ti trattengo troppo’. 101. Riaffora, piuttosto decontestualizzato, il celebre incipit petrarchesco di Rvf 126: «Chiare, fresche, et dolci acque». 106-11. Siamo alle ultime battute del testo: il Venator si dice certo della promessa del Pastor, ma vuole conoscere il suo nome per poterlo adeguatamente ricompensare. Al momento di lui non conosce che l’aparenza, cioè l’aspetto fisico. 106. se acerta: ‘si riconosce per vero’ (TLIO). 107-8. ‘Ma un tale servizio per una così fatta necessità non merita di essere scordato per il trascorrere del tempo’. 109. il guiderdon seguiria male: ‘(mi) sarebbe difficile ricompensarti’. 112-5. L’egloga si chiude bruscamente: al Pastor tocca la custodia delle greggi, e il disvelamento della sua identità viene rimandato ad altra occasione. L’interruzione del testo per una necessità di tipo pastorale è già presente nella conclusione di PE V (vv. 85-6): «Vatene, Gorgo, perché è tempo hormai / de la ricolta [...]»; qui è più evidente l’influsso di Arzocchi, sia nella battuta del pastore (II, 166-7): «[...], ove vai che par che fughi? / Non sai che tocca a•tte or la vicenda?» che nella risposta di Gorgo (II, 169) «Doman per agio vo’ che tu m’intenda» (Ponte 27). 200

VII

La settima egloga, che ospita la tenzone poetica fra Damone e Gorgo, riprende e conclude il serrato confronto con gli esperimenti di Francesco Arzocchi, e assieme segna un punto di riallineamento con le serie latine. In PA VII Poeman (Boiardo come in PA I?) e Coridone intrecciano, infatti, un carme amebeo, come fanno anche Tirsi e Coridone in Buc. VII; in qualche tratto è anche evidente nel testo volgare una connessione con Buc. III, che tradizionalmente fa coppia con VII: penso ad esempio al registro comico, che appare più marcato in Boiardo che nella VII delle Bucoliche, ed è invece assai rilevato nella III. Inoltre la gara resta senza conclusione in PA VII e in PE VII come in Buc. III, mentre in Buc. VII è Coridone a riportare il successo. Il tema della “gara” poetica connota sin dalla didascalia PE VII: Damone e Gorgo, infatti, contendono in sdruzola. Il nome di Gorgo, che come in PE V evoca Francesco Arzocchi (si ricordi che è il nome del protagonista nella seconda egloga del poeta senese), ci fa capire subito che il confronto non sarà crittato e allegorico come in PE VI, ma si svolgerà in maniera aperta sul terreno della letteratura. Con l’uso della terzina di endecasillabi sdruccioli, che è forse il tratto stilisticamente più connotato dell’esperimento arzocchiano (nel suo caso in rapporto diretto con l’utilizzo di forme frottolistiche, più avanti nel tempo svincolato da questo ambito), e che diventerà in breve una vera “marca” della bucolica volgare, Boiardo imprime infatti al gioco letterario della gara fra i due pastori un taglio diverso da quello tradizionale, più chiaramente legato ai problemi di definizione del genere e delle sue forme. Importante (Corti 2001, 346) è senza dubbio riflettere su quali parole Boiardo scelga come sdrucciole, e sulla loro presenza in altri testi bucolici coevi; ciò che si è cercato di fare nel commento. La sede della rima sdrucciola, infatti, acquista un rilievo anche semantico, perché gli autori rifuggono in genere dagli sdruccioli più scontati (quelli delle desinenze verbali e dei superlativi), per scegliere invece latinismi e parole rare, in una sorta di gara a distanza piuttosto 201

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significativa anche sotto il profilo intertestuale (vedi il caso della Saphira di Filenio Gallo che condivide con PE VII due serie di rime). Il canto amebeo, che inizia al v. 58, trae origine da una disputa fra Gorgo e Damone: il primo, come Menalca in Buc. III, Astilo nella VI di Calpurnio e Coridone in PA VII, rimprovera al suo interlocutore la scarsa abilità poetica e lo sfida. Lo scambio di contumelie (vv. 1-21), improntate a un registro marcatamente comico, prosegue sino alla individuazione di un luogo per la gara, che sarà un bosco di faggio (vv. 22-7), e di un giudice (vv. 34-6 e 46-8), che sarà Corina, una fanciulla che a Gorgo non è indifferente e che è già stata evocata ai vv. 10-2. Caso raro, per non dire unico, di giudice donna in una disputa pastorale:1 a lei Boiardo assegna tre terzine (vv. 49-57), nelle quali appare senza dubbio notevole che il premio possa essere «[...] il desiderio / de la sua amata [...]» (vv. 50-1); dopo di che l’amebeo può avere inizio. Una terzina a testa (in Buc. III erano due esametri, come in PA VII), con evidente ripresa tematica fra l’uno e l’altro interlocutore:2 appello agli dei nella prima coppia (si aprono così anche Buc. III e PA VII), cui seguono il volto dell’amata; sofferenza per lei; paradosso d’amore e desiderio; celebrazione della bellezza della donna; ferite e guerra d’amore. Nelle terzine successive il rapporto fra i due interlocutori si fa meno stretto: Gorgo evoca miti amorosi e di metamorfosi, connessi a una simbologia floreale (vv. 94-6), cui Damone replica ribadendo la somma crudeltà di Amore (vv. 97-9); Gorgo persegue sul registro arboreo-floreale della sua battuta precedente, ma in ambito più personale, dichiarando che ha ormai lasciato lauro e pino, per cadere vittima di un ginepro (vv. 100-2. Il senhal tornerà anche in PE VIII, 42-3); nella terzina di Damone si presenta una fonte, come quella di PE VI, ancora metafora dell’amore sensuale, che induce un desiderio destinato a non placarsi mai (vv. 103-5); le ultime due terzine sviluppano 1  La donna giudice rimanda piuttosto a una tradizione cortese: basti pensare, per esempio, alla Fiammetta del Filocolo boccacciano. 2  Anche nella parte precedente, però, i temi rimbalzavano dall’uno all’altro: Gorgo profetizza che l’albore odorifero morirà di stenti per via del canto di Dameta; a lui ribatte l’interlocutore affermando che, al contrario, «questo lauro pulula / rami novelli (vv. 13-4). Gorgo propone una sfida canora nel bosco di faggio, «là dove l’onda più gelida flue» (v. 23) e Dameta gli domanda se è ai faggi e alle onde, che non odeno (v. 29), che Gorgo vuole mostrare la sua perizia.

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egloga vii

il tema delle precedenti: Gorgo si rammarica della sua lunga passione per il pongente arbero, mentre Damone lamenta che la fonte, un tempo amica, si sia poi mostrata tanto crudel. La parte amebea dell’egloga esibisce dunque, a differenza di quanto accade in Virgilio, solo temi amorosi, come del resto si era verificato in PA VII. La conclusione, brusca, della tenzone tocca a Corina: leggera e incostante come tutte le donne (l’esempio della Tisbina del poema vale ancora), si mostra più attratta dalla festa al prato de la rovere che dai versi dei due interlocutori. Decreta, sbrigativamente, la parità fra i due e, a mo’ di premio di consolazione ambi a le fronti li incorona di bachera: delle donne amate, e del desiderio, non c’è più traccia. Il tratto stilistico più evidente dell’egloga è quello metrico: l’uso dello sdrucciolo (con la inspiegabile eccezione dei vv. 23, 25 e 27, che sono piani senza rimedio)3 spinge Boiardo ai limiti delle possibilità usuali della lingua. Sono infatti parecchi i termini in prima attestazione in sede di rima,4 e alcuni vocaboli, soprattutto forti latinismi, vedono qui la loro prima e spesso unica presenza in poesia volgare: estifero (v. 2); macule : gracule5 (vv. 41-3);6 alicia (v. 63); lamina : examina7 (vv. 73-5, in rima con contamina); compescere (v. 81); Ebalide (v. 94); essonere (v. 121).

Alcune rime sono sdrucciole solo graficamente, per esempio la serie 20-24, oltraggio : faggio : raggio. Su altre si potrebbe discutere, ma le possibilità offerte dall’italiano per le parole sdrucciole non sono infinite. 4  Il regesto più completo in Battera 1987, 14 (con qualche lemma un po’ incerto, perché si tratta di parole già entrate nel sistema rimico, se pure non bucolico: per esempio svaria è in rima anche nelle Rime di Fazio degli Uberti; vituperio nel Tesoretto di Brunetto Latini, nelle Rime Varie e nel Dittamondo di Fazio, nelle Rime del Beccari e soprattutto tre volte in IO; vizio e inizio in rima sono diffusissimi, anche se solo in PE rimano fra loro; barberi e arberi in rima in IO. Tutti i riscontri dalla LIZ). Risultano utilizzati in rima per la prima volta agrincia (v. 46; ed è l’unica occorrenza del verbo in questa forma); contamina (v. 71); aparbero (v. 109; non sono attestati in rima neppure apparvero o aparvero). A questi si aggiungano ancora vocaboli italiani che si presentano con desinenze incongrue, per necessità di rima: salivio (v. 3), Menalio (v. 62; dovrebbe essere il nome proprio, dunque Menalo). 5  Gracculo in rima nell’Arcadia di Sannazaro, VI, 137; e si tratta di un’egloga che ha avuto circolazione extravagante prima della nascita del prosimetron. 6  In rima imperfetta con fiacole, che è invece già utilizzato in rima sdrucciola, al singolare, con la consonante geminata e in rima con maccola nelle Rime di Fazio (LIZ). 7  Anche nella Saphira di Filenio Gallo (407-11) troviamo lamina : disamina : contamina, e l’egloga è precedente al 1484; secondo Corti 2001, 348 potrebbe risalire 3 

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Non andrà trascurato il registro lessicale affatto particolare di questa egloga VII, la sua esibita antiliricità, e dunque il rapporto dialettico che, anche sotto questo profilo, il testo intrattiene con PE V. Si pensi, ad esempio, alle «[...] le tarme che se rodeno» (v. 33), o alla descrizione di Gorgo che si prepara a cantare al v. 46: «Vedi come apre il naso e il viso agrincia». Il dato è ancora più evidente dove i contenuti del testo sono amorosi: si vedano le due terzine 70-5, dove Amore fabbro viene rappresentato intento a forgiare l’anima dell’amante, con uno sfoggio di termini tecnici assolutamente sconosciuti alla tradizione poetica italiana. A differenza di altri casi, il limitato apporto di testi lirici fa sì che si incrementi la presenza di autori bucolici: oltre a Virgilio, Calpurnio Siculo e ovviamente Arzocchi.

addirittura al 1474. Non abbiamo elementi forti che ci facciano pensare fosse nota a Boiardo, salvo un’altra serie di rime meno significativa (copia : inopia ai vv. 5-7), ma la sequenza in -amina è difficile che sia casuale. La coppia lamina : examina tornerà anche nelle Rime del Tebaldeo (LIZ). 204

egloga vii

Ne la settima contendono in sdruzola Damone e Gorgo; parla Corina. Cantano per amabeo ne la medesima rima. Gor.

Che canti a quel alòr de il nostro trivio? come cicada sotto al sole estifero rauca hai la voce et arido il salivio; e la cicuta soni come piffero: se fai di cotal canto tanta copia

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Didascalia. amabeo] amaboro Lu  1-6. L’apertura del testo è fortemente topica: Gorgo si rivolge a Damone deplorando, con giocosa costernazione, le pessime doti vocali e strumentali dell’interlocutore. 1-4. Eco delle parole ingiuriose che Menalca rivolge a Dameta in Buc. III, 25-7: «Cantando tu illum? aut umquam tibi fistula cera / iuncta fuit? non tu in triviis, indocte, solebas / stridenti miserum stipula disperdere carmen?» e Astilo a Licida nella VI di Calpurnio (vv. 22-4): «Vinces tu quemquam? vel te certamine quisquam / dignetur, qui vix stillantes, aride, voces / rumpis et expellis male singultantia verba?» (Riccucci). 1. alòr: alloro. – trivio: da Buc. III, 26 appena citato.  2. Eco puntuale dalla seconda egloga di Arzocchi (v. 7): «Ma tu, ch’al sol come cicala sverni» (Fornasiero 666). 3. arido: cfr. aride nel testo di Calpurnio (v. 23). – salivio: la forma, non altrimenti attestata, è necessaria per rima. 4. Il verso riecheggia forse Buc. III, 25-6: Damone suona la zampogna (questo, per metonimia, mi pare il valore più probabile di cicuta: cfr. anche Buc. V, 85; diversamente potremmo intendere ‘flauto’, ma il concetto non cambia moltissimo), come se fosse un piffero, e Menalca non usa una zampogna con le canne incerate connesse fra loro, cioè una fistula, ma solo una stridula (stridenti), singola, canna, una stipula. 5-6. La cattiva qualità del canto comporterà la morte dell’alloro: il contrario di quanto accade ai buoni pastori poeti (vedi per esempio Buc. V, 45-7). 5. ‘Se produci in abbondanza un canto del genere’.  5, 7, 9. La terna di parole rima copia : inopia : Ethiopia è già nel Teseida boccacciano (VIII, 103, 1-5; Riccucci), mentre la coppia inopia : copia in contesto bucolico ricorre in Filenio Gallo, Safira, 233-5; Lilia, 59-61; e Buoninsegni IV, 88-90 (Merlini).  205

matteo maria boiardo

secar vedrai questo arbore odorifero. Dam.

Gorgo, sempre intervien che dove è inopia magior de quella cosa, più se aprecia, come ambro in India e giazo in Ethiopia. Però Corina, ad ascoltare avecia il canto tuo, che sembra quel de la ulula, questo mio, ben che rocio, lo acarecia; e da’ mei versi questo lauro pulula rami novelli, e sotto a lui non cantano più le cornice, e lupo più non vi ulula.

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Content

6. questo] queste B Lu  7. dove è] doue B  8. cosa] da cossa Lu  10. ascoltare] ascoltar B  6. odorifero: probabilmente da Rvf 129, 70: «D’un fresco et odorifero laureto»; il termine ricorre anche in AL, ma il contesto è più lontano dal nostro: III, 12, 29: «ne la terra odoriffera e felice». 7-15. Damone risponde alla provocazione di Gorgo: se qualcosa è raro, più facilmente lo si apprezza, e dunque Corina, abituata al canto straziante di Gorgo, mostra di gradire quello di Damone, che è soltanto rocio. E anche l’alloro pare rifiorire, libero da nefaste influenze. Corina / Corinna non è presenza usuale in contesto bucolico, con l’eccezione boccacciana del Buccolicum carmen VI, 31 (Merlini). 7. intervien: ‘accade’. 7-8. inopia magior: ‘più accentuata scarsità’. 9. I due esempi sono piuttosto diversi: il ghiaccio senza dubbio è raro in Etiopia, mentre la scarsezza dell’ambra in India è meno proverbiale, anche se è vero che l’origine della resina fossile è soprattutto legata ai paesi dell’Europa del Nord. Quale fosse la fonte di informazione di Boiardo resta oscuro. – ambro: Boiardo preferisce la variante maschile a quella femminile: IO I, v, 27; I, vi, 47; solo nel III libro è attestata ambra: ii, 25.  10-2. Cfr. PA VII, 55-6: «Tam formosa meo gaudet Cardelia cantu / quam fluviis salices, salicis quam fronde capellae». 10. avecia: ‘avvezza’. 11. ulula: ‘allocco’.  11, 13, 15. La terna di parole rima viene dalla prima egloga di Arzocchi, vv. 8-12 (Ponte 27). 14-5. ‘Le cornacchie non cantano (promettendo sventura) sotto l’alloro protetto dalla poesia di Damone, e i lupi non ululano’ ; entrambi i riferimenti sono congruenti al contesto bucolico: Buc. IX, 15: «ante sinistra cava monuisset ab ilice cornix» e Benivieni III, 134-5: «lasso, più volte udì l’impia cornice / trista cantare il mal creduto augurio» (Riccucci). La simbologia del lupo è anch’essa virgiliana (Buc. II, 63), ma soprattutto rimanda a testi napoletani, alle prime egloghe della Pasto206

egloga vii

Gor.

Color, Damone, che sue cose vantano de altrui che gli dia loda hano penuria, ove è mestier che lor stessi le incantano. Però non dar al dir fora la furia, poi che nel far mi dai cotanto oltragio ma a l’uno e l’altro vengiarò la iniuria. Andiamo insieme a quel bosco di faggio, là dove l’onda più gelida flue, e ’ rami folti al sol rompeno il raggio: là provarem mie voci cum le tue, e mostrarò tra lor tal differencia qual di grandecia è tra la rana e il bue.

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21. iniuria] da ingiuria B  rale de De Jennaro (che risalgono al 1481-82), e soprattutto all’Arcadia di Sannazaro, per esempio alla II egloga (che precede l’elaborazione del prosimetron), dove al tema dei «falsi lupi, che gli armenti furano» viene dedicato ampio spazio. 14, 16, 18. Le tre parole rima rimandano alla serie della I di Arzocchi, 2-6: cantino : incantino : vantino (Fornasiero 666).  15. cornice: ‘cornacchie’; latinismo da cornix, con uscita settentrionale in -e del plurale. 16-27. La risposta di Gorgo ci conduce sino alla sfida amebea: chi si vanta, lo fa di solito perché non c’è nessun altro che lo lodi, ed è quindi necessario che si lodi da solo. Sia le parole che le azioni di Damone sono offensive, e incitano alla vendetta. Il luogo scelto per la sfida è un bosco di faggio: là si dimostrerà chi vale di più.  18. è mestier: ‘è necessario’. – incantano: il verbo è lo stesso utilizzato da Arzocchi, ma il significato cambia; probabilmente ‘decantano’, come già Mengaldo nel Glossario alle Opere volgari.  21. vengiarò: ‘vendicherò’, gallicismo (Mengaldo 1963, 340). 22, 24, 26. Flue, tue e bue non sono parole sdrucciole; improbabile si tratti di una svista, nel caso di un metricista raffinato come Boiardo. Resta un’anomalia difficile da spiegare. 22-4. Il luogo della tenzone ricorda molto la I di Calpurnio, 8-12: «Hoc potius, frater Corydon, nemus, antra petamus / ista patris Fauni, graciles ubi pinea denset / silva comas rapidoque caput levat obvia soli, / bullantes ubi fagus aquas radice sub ipsa / protegit et ramis errantibus implicat umbras» (Riccucci). 24. flue: ‘scorre’; lo stesso verbo anche nella II di Arzocchi, v. 8: «e come rivo dì e notte flui». 27. Allusione alla nota favola di Fedro.  207

matteo maria boiardo

Dam.

Gor.

Adonque vòi mostrar la tua scïentia a’ faggi sordi e a l’onde che non odeno? ma chi darà tra noi questa sententia? vogliam far come alaude che se godeno sole del suo cantar salendo a l’aria, on far come le tarme che se rodeno? Ma vedo io bene, o che il veder mi svaria, là giù nel prato sotto al verde sovero Corina starsi a l’ombra solitaria? Come tornato sei palido e povero de la usata baldanza! Hor vati a scondere, ché non hai a vergogna altro ricovero. Ben te avedrai se a te saprò rispondere, ma que’ begli ochi e le amorose fiacole ne la vista di lei mi fa confondere.

30

35

40

40. te] segue cass. in rigo l Lu  41. fiacole] da fiachole B  28-39. È necessario un giudice, e questo ruolo non può essere ricoperto dagli elementi naturali invocati nelle terzine di Gorgo, né d’altro canto la gara poetica può svolgersi in solitudine. Damone sceglie Corina, la conturbante (vv. 40-2) fanciulla già evocata ai vv. 10-2, che qui entra in scena sotto al verde sovero.  29, 31, 33. Le tre parole rima richiamano quelle di Arzocchi II, 20-24: ode : gode : rode. 31-3. Boiardo giustappone due diverse immagini, quella dell’allodola che si rallegra del suo canto, e quella delle tarme che rosicchiano, si immagina in solitudine; la prima vanta illustri quarti di nobiltà letteraria, da Par. XX, 73-4: «Quale allodetta che ’n aere si spazia / prima cantando, e poi tace contenta» (Pasquini 388), mentre la seconda, probabilmente, nasce da un contesto proverbiale per noi irrecuperabile.  34. il veder mi svaria: ‘la vista mi inganna’.  35. sovero: ‘sughero’.  35, 37, 39. Per le parole rima cfr. la I egloga di Arzocchi, 29-33: suvaro : uvaro : ricuvaro (Fornasiero 666).  37. tornato sei: ‘sei diventato’ (TB).  38. vati a scondere: ‘vai a nasconderti’.  40-2. Una sola terzina basta a Gorgo per ribadire la sua capacità di sostenere la sfida, pure turbato dai begli ochi di Corina e dalle amorose fiacole che al vederla (ne la vista di lei) si sprigionano.  41. amorose fiacole: il sintagma è boccacciano, dal Ninfale fiesolano (26, 42 e 191; Riccucci).  208

egloga vii

Dam.

Cor.

Pur sei gionto a la rete tra le macule; se ponto vali in versi hora comencia: qua bisogna che canti e non che gracule. Vedi come apre il naso e il viso agrincia, move lo ingegno e forma la memoria; sorta è Corina e vol veder qual vincia. Cantati, bei pastor, si eterna gloria e versi vostri siegua, e il desiderio de la sua amata otenga chi ha vittoria. E ben che a me mal venga tal emperio, starò ad odervi, e al mio poco iudicio

45

50

49. pastor] pastori B pastor da pastori Lu  50. e il] e ins. B  43-8. Le due terzine di Damone propongono lessico e immagini non liriche, staccandosi quindi da quella di Gorgo. Oramai si è arrivati alla gara, e bisogna dare il meglio; come tenta di fare Gorgo, atteggiando la faccia a una smorfia deformata e sforzando faticosamente ingegno e memoria. Intanto Corina si è alzata per assistere alla tenzone.  43. ‘Ti sei incastrato fra le maglie (macule; latinismo) della rete’, cioè non hai più via di scampo.  45. gracule: ‘gracchi’; il verbo è apax boiardesco, anche se gracculo (sostantivo) è in Arcadia VI, 137 (: sacculo). Tutta la serie rimica (imperfetta) fiacole : macule : gracule è inattestata prima delle Pastorale.  46-7. I due versi descrivono, in parallelo, gli sforzi fisici e mentali di Gorgo: dilata le narici, raggrinza la faccia e dà forma (concreta) a quanto trova nella memoria. 46. move lo ingegno: il sintagma è presente anche nel Canzoniere di Lorenzo (59, 6), mentre forma la memoria pare inattestato.  49-57. Corina rivolge ai due pastori la consueta esortazione al canto, augurandosi nel contempo che i loro versi conseguano una gloria eterna e che il vincitore ottenga in premio il desiderio de la sua amata; le competenze della ragazza in materia poetico musicale sono scarse, e dunque per lo sconfitto il danno non sarà eccessivo. Solo in onor e amor è lecito disputare: diversamente una contesa non è giustificabile.  49. Cantati, bei pastor: si cfr. almeno l’esortazione di Palemone in Buc. III, 55: «Dicite, quandoquidem in molli consedimus herba», o quella di Bargo in PA VII, 39: «Dicite, nos viridi carmen capiemus ab ulmo». – si: con valore ottativo, come in PE II, 28, 30, 97; IV, 151 e VI, 1.  50-1. il desiderio ... amata: probabilmente ‘ciò che desidera dalla sua amata’.  52. mal ... emperio: ‘male mi si attagli un tale potere’.  53. al mio poco iudicio: ‘vista la mia scarsa competenza’.  209

matteo maria boiardo

fia lo esser vinto manco vituperio. Tu, Gorgo, donerai al canto initio. Né a l’honor né a lo amor mai si vol cedere: ogni contesa in altra cosa è vicio. Gor.

Dam.

Tu che ei precinto di corymbi et hedere, dona a’ mei versi, o Baco, tua leticia: più non dimando e più non sare’ chiedere.

55

60

Nemico di riposo e di pigritia, spira, o Mercurio, da il monte Menalio, sì che il mio canto ad ascoltare alicia.

56. cedere] cedre B  55. Al giudice tocca assegnare il turno, come fanno Palemone in Buc. III, 58: «Incipe, Damoeta; tu deinde sequere, Menalca» e Bargo in PA VII, 42: «Dicite, tuque prior, Corydon, tua carmina pande».  56. ‘Né in onore né in amore bisogna rinunciare senza combattere’; massima proverbiale, che ne ricorda alcune di IO, come per esempio quella di Ranaldo all’inizio del poema (I, i, 18, 7-8): «ma dove poi convene usar valore, / dasse a ciascuno il suo debito honore», o quella celeberrima di Agricane (I, xviii, 43, 7-8): «doctrina al prete et al doctor sta bene, / io tanto sacio quanto mi conviene!».  58-63. Nelle prime due terzine Gorgo invoca Bacco, come in Buc. III Dameta invocava Giove, e in PA VII Coridone la musa. A sua volta Damone invoca Mercurio (il dio della rapidità, dunque «Nemico di riposo»), come Menalca in Buc. III aveva invocato Febo, e lo stesso aveva fatto Poeman in PA VII.  58. ‘Tu che sei incoronato di pampini e edere’; l’immagine è classica (e corymbi è un latinismo inattestato nella lingua poetica): Buc. III, 38-9 «[...] vitis / diffusos hedera vestit pallente corymbos». Fra gli autori volgari, da ricordare Poliziano, Stanze I, 111, 1-2: «Vien sovra un carro, d’ellera e di pampino / coverto, Bacco [...]» (Riccucci).  60. sare’: ‘saprei’ (Mengaldo 1963, 125). 62, 64, 66. La terna delle parole rima viene dalla I di Arzocchi, 17-21: Menalio : Castalio : Accidalio. Castalio: menalio: balio nella V di Buoninsegni, 293-7 (Bregoli Russo 170).  62. spira: ‘ispirami’, forse con una suggestione dantesca da Par. I, 19: «Entra nel petto mio e spira tue». – monte Menalio: è il Menalo, sacro a Pan, come Boiardo stesso ricorda in PE I, 17. L’uscita in -io, che sarebbe quella corretta per l’aggettivo, è qui indotta da necessità di rima, come già in Arzocchi e in Buoninsegni.  63. alicia: ‘attiri’, forte latinismo, apax boiardesco, da allicere, non forma dell’italiano allicciare, ‘ingarbugliare’ (TLIO).  210

egloga vii

Gor.

Le nove nymphe de il fonte Castalio ténero un tempo il viso che io vaggegio; hor è mutato e stassi in Accidalio.

Dam.

Quel amoroso volto che ognhor chiegio stassi col sole, e a sua similitudine quanto più il miro cum più pena il vegio.

Gor.

Come potrei contar la moltitudine de’ mei martir, ché amor sì me contamina

65

70

64. fonte] monte B Lu  64-9. La terzina di Gorgo nasce attorno alle parole rima derivate da Arzocchi: la donna amata è stata a lungo presso le Muse del fonte Castalio, mentre ora si è spostata presso il fonte Ac(c)idalio, in Beozia. La terzina di Damone è costruita per variatio su quella di Gorgo: il volto della donna da lui amata stassi col sole e, come accade a chi fissa troppo l’astro, il guardarla è fonte di sofferenza. Si ripresenta qui un topos degli AL: la donna come altro sole, per cui cfr., fra i molti luoghi possibili, I, 37, 15 e III, 37, 5; il richiamo lirico non è del tutto decontestualizzato qui in PE, visto che le terzine successive sviluppano ampiamente i temi della sofferenza amorosa.  64. fonte Castalio: quello Castalio è tradizionalmente un fonte (anche in Arzocchi), e solo di rado, più tardi rispetto alle Pastorale, può indicare l’altura che lo sovrasta. La lezione monte va dunque considerata errore di ripetizione dal v. 62, con la parola in identica posizione. Anche subito dopo le Pastorale, a Ferrara, Castalio è sempre un fonte, come leggiamo nella Fabula de Cefalo del Correggio II, 151-5 (dove torna tutta la serie rimica): «Damone et io direm verso menalio / como Sarpago a l’ombra e Pasifeo. / Senza altro aiuto del fonte Castalio, / la musa ancora fronduta sonaremo / che ci diè Pan in sul monte Accidalio» (anche Riccucci, che ribattezza però l’opera Fabula di Orfeo). Il Cefalo è rappresentato nel 1487, e la sua composizione, dunque, segue di pochi anni quella delle Pastorale.  65. vaggegio: grafia settentrionale di vagheggio, come al v. 126 vagegia; invagito in AL I, 27, 17 e invagita in IO I, xxi, 62, 7.  70-5. Le due terzine sviluppano il tema dell’amore doloroso entro un contesto metaforico inusuale, che muove dal tropo dell’amore fuoco, ma arriva a disegnare un amore fabbro, che modella l’amante a suo piacimento (Battera 1987, 15-6).  71, 73, 75. cfr. Filenio Gallo, Saphira 407-11: lamina: disamina: contamina.  71. contamina: ‘perturba’ (TLIO); quindi ‘mi turba con la stessa violenza con cui si batte il ferro sull’incudine’.  211

matteo maria boiardo

come se bate un ferro in su lo ancudine. Dam.

Me bate ancor come io fosse una lamina de oro o de argento o di metal flussibile, e nel suo foco me affina et examina.

Gor.

È fatta l’alma mia tanto insensibile che creder voglia quel che non può essere, e a•cciò che io vedo son fatto incredibile.

Dam.

Già comenciai cum l’onda il foco a tessere, ché possibil mi par ciò che io desidero: chi potrà mai questo disio compescere?

Gor.

75

80

O quante volte tacito considero ciò che gli antiqui in bella donna dissero;

75. suo] da suo suo Lu  73. lamina: oltre che nella Saphira del Galli, è anche nelle Rime del Tebaldeo, 75, 1-3: «Benché in cedro, in avoria o in rica lamina / scolpiti d’oro i miei versi non vengano, / il lor simplice stil nota et examina», in cui torna anche il verbo examina, in accezione però più consueta di quella boiardesca.  74. flussibile: ‘flessibile’, latinismo da fluxibilis.  75. affina: ‘purifica’ (TLIO). – examina: probabilmente nell’accezione di ‘provare, con cimento più o meno doloroso’ (TB), dunque ‘mette alla prova’. Col che il sistema metaforico si chiude sull’amante, il cui animo è purificato e provato dal fuoco dell’amore fabbro.  76-81. Dopo la sofferenza, le due terzine sviluppano il topos del paradosso amoroso, declinato in variante conoscitiva: l’anima di chi ama è incapace di valutare (insensibile), a un punto tale che l’amante crede a ciò che è impossibile, mentre è incredulo (incredibile) di fronte a ciò che vede. La terzina di Damone propone un adunaton piuttosto inconsueto: l’amante tesse (nel senso di ‘intreccia’, costruisce quindi unendo elementi contrari) il fuoco con l’acqua, e dunque crede che sia possibile la realizzazione di ogni suo desiderio.  76. insensibile: ‘che non sente punto, o poco [...] di quel che vorrebbe o dovrebbesi’ (TB)  77, 79. La rima essere : tessere si presenta quasi identica nella Saphira del Galli, 296-9: essare : tessare (Riccucci). 78. incredibile: ‘incredulo’ (TB).  81. compescere: ‘frenare’, latinismo.  82-7. La bellezza della donna amata, sia per Gorgo che per Damone, supera quella delle 212

egloga vii

ma questa che vegiàn noi mai non videro. Dam.

Quanti hor son vivi e quanti mai ne vissero cantando non porian sue lode agiongere cum quelle ale de amor che al cor se affissero.

Gor.

Non vi vale arte o succo de herbe ad ongere ove ferisse amor, e tanto è il tedio che lo afro scorpio non ha pegior pongere.

Dam.

85

90

Amor a gli ochi mei posto ha lo assedio

85. e quanti] e quanto B  87. ale] da ali Lu  donne celebrate dai poeti antichi; e le qualità di lei restano irraggiungibili per le parole poetiche dei moderni.  84. vegiàn: ‘vediamo’, con n in luogo di m in finale (Mengaldo 1963, 119); lo stesso in PE IV, 4.  85-7. ‘Sia i poeti antichi che i moderni non potrebbero, coi loro versi, arrivare a toccare (agiongere) le sue qualità (sue lode), neppure valendosi delle ali che Amore ha posto loro nel cuore’. 86. lode: ‘merito, virtù’ (TB). – agiongere: ‘arrivare a toccare’ (TLIO).  88-94. Nelle terzine dei due interlocutori si affacciano temi di tradizione (come in fondo erano anche le ale de amor dell’ultimo verso di Damone), ma inseriti in contesti lessicali inusuali: quello di Amore è un veleno peggiore di quello dello scorpione (Gorgo), e le fiamme dell’assediante Amore sono così calide che a Damone non rimane che la resa.  88. arte: dato il contesto, senza dubbio arte maga. – succo de herbe: ‘pozione medicamentosa’, o magica, come in IO II, iv, 6, 6: «[...] con succo d’herbe e de radice» (lo stesso sintagma in Rvf 58, 9; 214, 17). – ongere: ‘ungere’ (forma settentrionale non anafonetica: Mengaldo 1963, 53), cioè ‘cospargere di unguenti’, più esattamente di succo de herbe.  88, 90. La coppia ongere : pongere è in Rvf 221, 12 (lì ovviamente con anafonesi): «Amor con tal dolcezza m’unge et punge» (Riccucci).  89, 91, 93. La serie rimica è già in PE VI 20-24; ricorre in parte nella I di Arzocchi, 87-90: assedio: rimedio (Fornasiero 670) e nelle Rime del Saviozzo (citate infra).  89. tedio: ‘sofferenza’.  91-3. La topica della battaglia amorosa è genericamente stilnovistica, ma il v. 91 rimanda alle Rime del Saviozzo LXXIV, 175-8: «soccorrimi, ch’io moro / per tua cagion, se non mi dài rimedio! / Dentro al mio cor Amor posto ha l’assedio, / tal che ogni difesa seria in vano» (Pasquini 388; si noti anche la rima assedio : rimedio).  213

matteo maria boiardo

e me combate a fiame tanto calide che hora mi rendo e più non vi ho rimedio. Gor.

Dam.

Già il bel Narciso e il gioveneto Ebalide fatto han de amore infausto il mondo florido, e il biondo croco e le viole palide.

95

Tra dii o dee non è più crudo et horrido di quel fanciulo (e no il posso discrivere), che avampa al giazo e agiaza al sol più torrido.

98. no ’l] il non B  92. a fiame: ‘con fiamme’ (a modale strumentale; Mengaldo 1963, 155-6 e Matarrese 2004, 90).  93. mi rendo: ‘mi arrendo’.  94-9. Viene ulteriormente ribadito il tema della crudeltà amorosa: Gorgo lo sviluppa ricorrendo a miti metamorfici originati da passioni infelici, mentre Damone evoca il topos del calore gelato e del ghiaccio infuocato, immagini di tradizione accostate agli effetti d’amore. 94-6. Si individuano chiaramente tre miti, tre amanti infelici che hanno reso il mondo pieno di fiori (florido): Narciso, amato da Eco, ma incapace di amare altri che sé stesso; Giacinto, figlio di Ebalo (Ebalide), invano amato da Apollo; Croco, innamorato non corrisposto della ninfa Smilace. A loro si aggiungono le viole, che sono palide come in AL III, 22, 1 e III, 25, 39, e non direttamente implicate in riti metamorfici. Forse avrà agito su Boiardo la suggestione di un celebre passo di Poliziano (Stanze I, 79) in cui ricorrono parecchi dei nostri protagonisti: «L’alba nutrica d’amoroso nembo / gialle sanguigne e candide viole; / descritto ha ’l suo dolor Iacinto in grembo, / Narcisso al rio si specchia come suole; / in bianca vesta con purpureo lembo / si gira Clizia palidetta al sole; / Adon rinfresca a Venere il suo pianto, / tre lingue mostra Croco, e ride Acanto» (Merlini e Riccucci). 95, 97. La rima florido : orrido è già in Arzocchi I, 13-5 (Ponte 27) e in Buoninsegni V, 297-9 (Bregoli Russo 166).  97-8. Amore fanciulo crudele è motivo ampiamente topico: basti il riamando a AL II, 34, 41: «Fanciul protervo, perfido e malegno». 99. Il verso esprime quelli che in genere sono gli effetti indotti da Amore sull’amante: cfr. per esempio AL III, 27, 6: «ardo nel giazo et agiazo nel foco» (e molti altri rimandi sarebbero possibili). In questo caso, o Boiardo ha trasferito su Amore la sintomatologia dell’amante, o, più probabilmente, ha usato i verbi in senso causativo; in tal caso il significato sarebbe ‘che fa bruciare quando è freddo e gelare al sole più torrido’.  214

egloga vii

Gor.

Io me credete aver mie pene livere lassando il lauro e il pino; hor un genevere mi ponge sì che più non posso vivere.

Dam.

A questa fonte me chinai a bevere, ma l’onda dolcie tanta sete genera che non la atuteria Po, lo Arno e il Tevere.

100

105

100-2. La terzina di Gorgo si stacca dal contesto topico delle precedenti per introdurre – parrebbe – elementi più personali: qui il pastore (come farà poi Melibeo in PE VIII) dichiara la sua passione per una donna celata sotto il senhal del genevere. Una Ginevra, dunque, sulla cui identificazione non è possibile avanzare nessuna ipotesi; anche perché il personaggio di Gorgo è in rapporto coi testi di Arzocchi, il che non può certo dirsi del Melibeo di PE VIII. Merlini propone una soluzione metatestuale, ovvero l’identificazione del genevere con la Ginevra moglie di Artù, e dunque con il genere cavalleresco (nella sua componente bretone), che si contrapporrebbe alla lirica tradizionale simboleggiata dal lauro e dal pino del v. 101; l’ipotesi sarebbe interessante se dietro a Gorgo e a Melibeo potessimo intravvedere Boiardo, fresco autore dei primi due libri dell’Inamoramento, il che è affatto improbabile, almeno per Gorgo in PE VII. O invece, come a me pare più probabile, la donna di cui si parla è pongente tanto quanto la Petra dantesca è dura: si tratterebbe cioè di un tipo di esperienza amorosa, e dunque di poesia, più che di una donna biograficamente individuabile.  100. ‘Io credetti che le mie pene fossero risolte (livere, con sonorizzazione per ragioni di rima)’.  101. genevere: forma sonorizzata per ragioni di rima. In rima (genepera) anche nella Saphira di Filenio Gallo, v. 150 (Merlini e Riccucci).  106-8. La terzina di Damone non segue la proposta di Gorgo, ma propone l’immagine della fonte amorosa che è anche in PE VI. Con un richiamo, oltre che a PE VI, 10-5 e 73-8, a AL III, 15, già ricordato a proposito di quei luoghi (vv. 9-14): «tal il mio cor, che di gran sete avampa, / nel suo bel fonte disiando more, / e piglia oltre al poter l’ampla dolceza: / però che nel mirar questa vagheza / ha giunto tanto foco al primo ardore / che maraviglia n’ho se quindi campa». Pertinente anche il rimando di Riccucci a IO II, xv, 61, 1-4 (è l’episodio di Ranaldo punito da Amore e dalle tre Grazie che abbiamo già ricordato per PE VI): «Bevuto avendo, et alciando la facia / da lui se parte ogni passata doglia, / ben che la sete per ciò non se sacia, / ma più bevendo, più del bere ha voglia».  103, 105. La rima bevere : Tevere è nella III di Arzocchi, vv. 76-8 (Fornasiero 666)  105. atuteria: ‘smorzerebbe’, condizionale di atutare; il verbo è utilizzato in contesto amoroso nel Filostrato (II, 87-8; LIZ): «tu, valorosa donna, tu sei quella / che sola puoi il mio foco attutare».  215

matteo maria boiardo

Gor.

Ne’ mei primi anni e ne la età più tenera fo posto nel mio core il pongente arbero, che in sé non arde e me per tuto acenera.

Dam.

Un tempo mite queste onde me aparbero, hor sì crudel che a pietà porian movere un Getha, un Mauro o se altri è ancor più barbero.

Cor.

110

Se io non me ingano al prato de la rovere

106-8. Sin dalla giovinezza Gorgo ha amato il pongente arbero, che racchiude in sé un aspetto del paradosso d’amore: non brucia, ma incenerisce chi lo ama. La qualità non pertiene alla pianta, ma alla donna di cui essa è senhal, e rientra nel topos che si sviluppa a partire da Rvf 65, 12-4: «Non prego già, né puote aver più loco, / che mesuratamente il mio cor arda, / ma che sua parte abbi costei del foco». 108. acenera: ‘incenerisce’; la forma incenerare è attestata (per es. Inf. XXV, 11), mentre questa con a- risponde meglio alle consuetudini linguistiche boiardesche (Mengaldo 1963, 138).  109-11. Damone chiude sul tema della fonte: le onde, già miti, si sono fatte tanto crudeli che muoverebbero a pietà anche popoli barbari (di nuovo i Geti e i Mauri, come in PE II, 94).  109. mite: plurale settentrionale in -e; sul latinismo semantico del vocabolo, che è anche in AL II, 16, 7, cfr. Mengaldo 1963, 289.  112-27. La battuta di Corina sviluppa in chiave ampiamente descrittiva una cellula tematica già presente in Arzocchi I, 49-57 (a proposito delle fanciulle amate): «Eccole al ballo: uditel nelle naccare! / Guardatele, se gl’invidi le mirano / cegnitole di centole di baccare. / Vergini tutte, al nuovo amor sospirano, / secure per le pratora si danzano, / come una, tutte dicono e si girano, / per quella tutte l’altre s’imbaldalzano; / quand’è chiamata o scorrucciata, spigliansi, / di subito si tacciono e si sdanzano» (Ponte 27; il brano è analizzato anche in Fornasiero 671). L’intertestualità col passo di Arzocchi è garantita dalle due serie rimiche agirano : aspirano : mirano (vv. 113-17) e bachera : nachera (vv. 125-7), ma la ripresa boiardesca è tutt’altro che passiva. L’intervento di Corina, leggera e volubile come tutte le donne boiardesche, non solo risolve alla pari il certamen fra Gorgo e Damone, ma proietta i temi amorosi di cui era intessuta la tenzone pastorale in una dimensione in qualche misura concreta e quotidiana: il prato de la rovere è infatti luogo di incontri amorosi fra Fauni e Dryade, è lì che Amore sol piovere con le sue frecce d’oro. L’attenzione di Boiardo si concentra in seguito sulla danza, sulla festa come luogo propizio all’innamoramento, riprendendo così un celebre motivo del canzoniere (cfr. per esempio AL 216

egloga vii

hoggi li Fauni e Dryade se agerano, là dove a frize d’oro Amor sol piovere. Tute le Nymphe a quella festa aspirano, ché là vano a danzare, e se non danzano sono da altrui mirate on altri mirano. Quelle che ascose stan poco gli avanzano, et io vi voglio andare, e fin vuo’ ponere a’ versi vostri che di par bilanzano. Vostra bontade prego che me essonere da il iudicar chi tanto se aparegia che lo uno a l’altro non saria preponere; e pure aciò che alcun merto si vegia ambi a le fronti vi cingo di bachera. Ma già nel ballo il mio pensier vagegia: più non starei, ché odir mi par la nachera.

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111. altri] altro B  124. pure] pur B I, 54; III, 25). Nell’egloga protagoniste sono le Nymphe, ma il loro atteggiamento esplicitamente seduttivo è lo stesso dei testi lirici: si leggano a conferma i vv. 53-61 della famosa canzone 25 del III libro (dove compare anche l’immagine di Amore che piove sui mortali): «Piovea da tutti e celi amore in terra / e ralegrava l’anime gentile, / spirando in ogni parte dolce foco; / e i giovanetti arditi e i cor’ virili / sanza alcun sdegno e sanza alcuna guerra / armegiar si vedean per ogni loco; / le donne in festa, in alegreza, in gioco, / in danze perregrine e in dolci canti; / per tutto leti amanti, / zente lezadre e festegiar giocondo».  112. rovere: ‘quercia’.  114. a frize: ‘con frecce’ (a modale strumentale; cfr. Mengaldo 1963, 155-6 e Matarrese 2004, 90). – piovere: ‘scendere’, come in AL III, 25, 53 citato subito sopra.  118. gli avanzano: ‘se ne avvantaggiano’ (TLIO).  120. di par bilanzano: ‘pesano uguale’ (TLIO).  121. essonere: latinismo per ‘esonerare’; attestato nel TLIO solo in contesti giuridici. La lettura del Timone dimostra con dovizia di esempi che questo tipo di lessico era ben noto a Boiardo, possiamo supporre anche per necessità pratiche legate al suo ruolo di feudatario.  122. tanto se aparegia: ‘è talmente alla pari’.  123. preponere: ‘anteporre’.  125. Il modesto premio di consolazione offerto da Corina rimanda ad Arzocchi I, 52 (già citato), ma anche a Buc. VII, 25: «Pastores, hedera crescentem ornate poetam» e 27-8: «[...] baccare frontem / cingite, ne vati noceat mala lingua futuro» (Ponte 28). 217

VIII

All’altezza dell’ottava egloga, il certamen boiardesco con Arzocchi può dirsi concluso: il poeta ritorna al registro più usuale dei suoi testi bucolici, al raffinato intreccio fra fonti latine e volgari, alla ricerca di un nuovo equilibrio nel segno del classicismo. A livello strutturale, le tre egloghe VIII (Buc., PA e PE) hanno parecchi elementi comuni, a partire dalla struttura di canto a voci alterne, senza amebeo. Dopo il ricordo di Asinio Pollione, e delle sue imprese militari in Dalmazia (in qualche modo, quindi, un esordio storico politico), Virgilio fa parlare Damone che medita il suicidio, disperato perché l’amata Nisa sta per sposare Mopso.1 Alla sua parte di 45 versi succede l’altra, di 46, affidata a Alfesibeo: anch’egli narra un amore infelice ma, in persona di donna, intreccia un canto di amore e di magia che possa far ritornare l’amato – e perduto – Dafni. I Philicodiae (più o meno ‘canti di amici’) di PA VIII rispettano la struttura del modello, pur senza replicarne alla lettera il contenuto. Il prologo colloca l’evento sul fare dell’alba, nello stesso momento della bucolica virgiliana, ma non ne recepisce lo spunto politico. I due canti poi (di 45 versi ciascuno – ossessione tutta boiardesca per la simmetria – e intervallati da ritornelli analoghi a quelli di Buc. VIII) si connotano per opposizione, come i due virgiliani, ma secondo uno schema diverso: Meri ama, ricambiato, Citeride, mentre Bargo subisce il tradimento di Filotide; e pensa al suicidio (v. 67), come nel modello classico, e come accadrà, anche se per ragioni diverse, nell’esito volgare. PE VIII riprende dalla I ma anche dalla IX, sia delle Bucoliche virgiliane che di PA, i componenti storico politici, mentre la zona elegiaco amorosa del testo, come vedremo, è debitrice a una tradizione non virgiliana. Parte del contenuto di Buc. VIII, infine, scivolerà in PE IX: il filo si fa sottile, ma Boiardo sta bene attento a non reciderlo mai; un’egloga è un testo che si regge sull’imitatio, fuori da questo gioco non avrebbe né ragione né modo di esistere.

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Questo aspetto dell’egloga, come vedremo, si rifletterà in PE IX. 219

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Strutturata a due voci PE VIII, come le altre, ma in realtà con un solo protagonista, Menalca (il nome del protagonista di Buc. IX, i cui canti non hanno potuto contrastare l’orrore e la desolazione della guerra), cui si affianca la voce di Melibeo. Un pastore infelice anche il Menalca boiardesco, per la devastazione subita dalle sue terre nel Polesine che lo ha costretto all’esilio; appaiono qui evidenti l’eco di Buc. I, e delle dolenti parole di Melibeo, ma anche l’allusione a Buc. IX, 7-10 «Certe equidem audieram [...] / omnia carminibus vestrum servasse Menalcan»; e precisi sono i riferimenti a PA IX, 18-25, laddove Titiro parla a Coridone. Ben diversa, quindi, la sorte di Menalca rispetto a quella di Melibeo, il fortunato sotto le cui vesti torna a vivere il Titiro di Buc. I (e il Coridone di PA IX), che offre all’amico il rifugio di un boschetto (v. 40) dentro al quale si cela Amore «che ancor lo pongie a la foglieta verde» (v. 42), cioè lo stringe a una non meglio identificabile Genevre (v. 43). Il passaggio da temi storici ad argomenti amorosi risulta brusco2 e alquanto spiazzante per il lettore, non solo perché la tradizione dell’egloga, in genere, non mescola i due registri all’interno di uno stesso testo, ma anche e soprattutto perché la sofferenza di Menalca dal terreno storico tracima su quello sentimentale secondo modalità autenticamente tragiche. Menalca ha subito un abbandono, come il Damone virgiliano, ma ben più grave perché è la morte che gli ha stappato Nisa, non un rivale. Come il pastore classico medita il suicidio; così aveva fatto anche Titiro-Strozzi in PA II, disperato per la morte di Filliroe:3 temi amorosi e funebri si intrecciano quindi in Boiardo, come non accade invece mai nel modello virgiliano, in cui il compianto assume la forma di laudatio dello scomparso (Buc. V). 2  E infatti Merlini ipotizza una doppia redazione di questa egloga VIII, la cui porzione storico politica sarebbe un’aggiunta in vista della realizzazione delle Pastorale, per rispetto alla simmetria strutturale che richiedeva cinque testi politici e cinque testi non politici. Ipotesi interessante, ma non suffragata da alcun elemento filologico. 3  Nella costellazione dei testi “in morte” di Filliroe che saranno stati senz’altro noti a Boiardo (oltre ai componimenti strozziani di Eroticon liber, soprattutto VI, 10), va ricordato il capitolo quadernario Spirito peregrin, che gionto sei del Canzoniere Costabili. Anche qui, nell’ambito di una “visione”, «la misera Constanza dal Canale» (v. 102), ovvero Filliroe, parla in prima persona, per deplorare la sua condizione di anima penitente e augurarsi un veloce arrivo nei campi Elysi (v. 108).

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A questa prima tessitura classico umanistica si sovrappone una notevole influenza di testi volgari, che orienta con decisione il testo verso una modalità elegiaca di intonazione cristiana. Boiardo porta in scena la donna perduta a colloquio con l’amante, come Petrarca in Rvf 359, dove Laura ammonisce a non disperarsi per quella che è, in termini di fede, una condizione di miglior vita (Rvf 359, 20).4 Il colloquio con l’amata è presente anche in un altro testo volgare, ampiamente debitore a Rvf 359, il sonetto di Bernardo Pulci Se viva e morta io ti dove’ far guerra su cui si è soffermata Battera 1987, che del testo ha anche procurato l’edizione. Scritto in figura di Simonetta Cattaneo e indirizzato come consolatoria a Giuliano de’ Medici, costituisce un possibile precedente per il testo boiardesco: anche se il tema del suicidio, che è centrale per Boiardo sia in PA che in PE non è presente in maniera esplicita nel testo del Pulci,5 esistono alcune congruenze testuali forti. E soprattutto il tramite di questa lettura è importante, perché il sonetto è accolto nelle Bucoliche elegantissime, e offre quindi – se lo accettiamo come fonte diretta – una ulteriore conferma della fruizione dell’incunabolo da parte di Boiardo, alla vigilia della stesura delle sue Pastorale. Come si diceva, in PE VIII la vera svolta rispetto ai testi che si sono sin qui inanellati è il tema del suicidio, e soprattutto le ragioni per cui questo suicido viene evitato. È vero che già Damone in Buc. VIII pensa alla morte, ma non certo per ricongiungersi a Nisa, che è ben viva, e infedele. In PA II, invece, Titiro-Strozzi vuole seguire nell’aldilà l’amata Filliroe e ne viene distolto da Bargo, con motivazioni blandamente religiose (vv. 86-9): «[...] Periit tua maxima cura / Phyliroe, quod tu laetari, Tityre, debes: / illa, bonum numen, superum formosa deorum / alloquio fruitur, flentem et te moeret ab alto». Come ben sottolineato da Canova, è evidente che il modello forte che soggiace a questo tratto di PA II, ma soprattutto al 4  Implicata con la costellazione petrarchesca dei testi in morte di Laura è anche la V egloga della Buccolica del Benivieni, in morte di Giuliano de’ Medici, che in qualche passaggio, come è stato già rilevato da Battera 1987 e da Riccucci, e come si vedrà nel commento, sembra esercitare una influenza diretta sul testo boiardesco. 5  Si potrebbe interpretare in questo senso il v. 8 «qual di me invidia in te si chiude et serra»; ma l’invidia di Giuliano per il destino di Simonetta, cioè il desiderio di morire e di poterla raggiungere, si traduce in volontà di suicidio solo se letta attraverso la filigrana di Rvf 368.

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corrispondente di PE (vv. 100-11), è Petrarca, con Rvf 268, 67-77, là dove è Amore a parlare a Francesco: «Pon’ freno al gran dolor che ti trasporta; / ché per soverchie voglie / si perde ’l cielo, ove ’l tuo core aspira, / dove è viva colei ch’altrui par morta, / et di sue belle spoglie / seco sorride, et sol di te sospira; / et sua fama, che spira / in molte parti anchor per la tua lingua, / prega che non extingua, / anzi la voce al suo nome rischiari, / se gli occhi suoi ti fur dolci né cari». In conclusione, nell’ambito di un testo in cui l’intreccio delle fonti è particolarmente fitto e significativo, non si può che concordare con Canova là dove afferma che l’impianto strutturale di questa sezione di PE VIII si deve più a Petrarca che a Pulci, soprattutto per la presenza di un terzo personaggio che fa da tramite fra l’amante e la defunta, oltre che per l’evocazione dell’Inferno, cui puntualmente si contrappone il Paradiso dove la donna dimora. Ulteriore conferma, a vent’anni dai Pastoralia, di quella che ben sappiamo essere una «lunga fedeltà» petrarchesca da parte di Boiardo, in cui l’influenza del Pulci non può che essere, tecnicamente, accidentale. In assenza di prologo, con cui esordiscono invece Buc. VIII e PA VIII, tocca a Melibeo aprire l’egloga (vv. 1-12); è passata l’ora più calda, e i pastori possono ritornare al pascolo (non è quindi mattina, come nei testi latini). Sulla scena dell’egloga si affaccia Menalca, un tempo il più lieto pastore che vivesse «dove Adice bagna a Val di Pado» (v. 9), cioè nel Polesine, e che ora mostra sul viso i segni di una tremenda sofferenza; immediata, quindi, la richiesta di Melibeo di conoscere «la cagion di tua sembianza ria» (v. 12). Menalca risponde alludendo ai sanguinosi avvenimenti della guerra (vv. 13-33); forse quelli dell’agosto del 1482, quando il Polesine conobbe le sue sfortune maggiori, mentre ancora a Ferrara sembrava regnare una relativa tranquillità, qui simboleggiata dalle pecorelle (v. 19) libere e disolte (v. 21), e dai sereni canti de amor (v. 22) intonati dai pastori. Melibeo non risponde sul tema della guerra: offre all’amico ospitalità, e sposta il discorso sul terreno sentimentale, alludendo al boschetto (v. 40) fra i cui rami, ancora una volta, trova rifugio Amore (vv. 34-42). Menalca accetta il cambio di argomento, ma alla situazione di Melibeo, sin dalla giovinezza innamorato di Genevre (v. 43), di nuovo contrappone il suo dolore: ha perduto Nisa, e neppure la morte lo soccorre a portargli consolazione (vv. 43-51). Melibeo compiange l’amico e deplora la dolorosa perdita di tanta donna, ma lo esorta ad accettare cristianamente 222

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«ciò che al Cel piace» (v. 66; vv. 52-66). Menalca risponde su tutt’altro registro: ogni consolazione è impossibile, e se la fine della vita tarda ad arrivare, «morendo mi trarò di tal impacio» (v. 87; vv. 67-96). Qui Melibeo introduce l’unico profondo scarto fra il nostro testo e la quasi totalità delle fonti, ovvero il rifiuto cristiano del suicidio: se Menalca si ucciderà – è Nisa che parla nei versi di Melibeo – «Sù non veresti ove abito ne l’aria, / [...] ma ne lo Acheronte» (vv. 106-7; vv. 97-111). La peroratio di Nisa ottiene lo scopo: piuttosto rapidamente Menalca «la morte abandona» (v. 123) e accetta l’invito di Melibeo ad attendere presso di lui che «Fortuna muti miglior vento (v. 126; vv. 112-127). Dal punto di vista stilistico, dopo la sperimentazione “spinta” delle tre egloghe che la precedono, questa nostra appare molto più tradizionale, o per meglio dire mostra l’intreccio fra moduli bucolici e lirici che abbiamo visto disegnarsi nei primi quattro testi delle Pastorale (a prescindere dalla data di composizione, nell’ordine in cui Boiardo ce li ha voluti proporre). Non si tratta però tanto di una compresenza dei due modelli, quanto piuttosto di una alternanza: nella prima parte dell’egloga prevale nettamente Virgilio, mentre la presenza dei cosiddetti “bucolici minori” si restringe sino praticamente a scomparire. Sempre più ampio, via via che il testo si addentra nella dimensione elegiaca, si fa invece lo spazio degli autori volgari, come verrà mostrato nel commento.

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Ne la ottava condolendosi de una fanciula morta parlano e piangono insieme Melibeo e Menalca. Mel.

Ritornati, pastori, a la pastura: passato è il caldo e più non ferve il sole e l’ombra ha duplicata sua misura. Ma non è quel Menalca che se dole, e vien piangendo a noi cum passo rado, e rompe ne’ singiozi le parole? Maraviglia è vederlo in simil grado, ché il più lieto pastor non se vedia da dove Adice bagna a Val di Pado. Non dimando, o Menalca, come stia,

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Content

didascalia insieme] insiemo B Lu  3. duplicata] segue cass. la Lu 5. noi] da uoj B 6. singiozi] singozi B Lu  1. Come nell’apertura di PE VI, l’allocuzione è rivolta alla comunità pastorale nel suo assieme; così anche al v. 88. 2. più non ferve il sole: la situazione è quindi opposta a quella di PE IV, 5 e di V, 5, quando il fervor del sole è al suo apice. 3. Celebre immagine virgiliana: il luogo più noto è la chiusa di Buc. I, ma forse più prossimo al nostro contesto è Buc. II, 66-7: «Aspice, aratra iugo referunt suspensa iuvenci, / et sol crescentis decedens duplicat umbras». 4-6. Si replica, in forma ridotta, l’agnizione del personaggio che Boiardo aveva già sperimentato a PE I, 22-4, sulla scorta soprattutto della I del Buoninsegni. 7-9. Menalca è dunque un polesano (impossibile da identificare), e l’origine spiega già le ragioni della sua sofferenza, causata dalla fulminea campagna militare condotta da Roberto Sanseverino e da suo figlio Fracassa. Nell’agosto del 1482 tutto il Polesine era in mani veneziane, e non tornerà più a Ferrara, stante i termini sanciti dalla pace di Bagnolo del 7 agosto 1484 (i dati storici sono esaminati da Riccucci nel commento e alle pp. 234-6 della sua Nota al testo). 10-2. La battuta di Melibeo riecheggia nei contenuti quella che Clizia (Lorenzo de’ Medici, secondo l’identificazione propo225

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ché lo esser tuo è nel viso aparente, ma la cagion di tua sembianza ria. Men.

Ben doveti voi star fuor de ogni gente, o Melibeo, se ancor quivi si tace quel ch’è palese e tuto il mondo sente: apena di parlare io sono audace quivi di guerra, e temo non me ascolte questo bel loco ove habita la pace.

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13. Men.] Mel Lu  sta per la prima volta in Carrai 1993, 140) rivolge allo sfortunato pastore Leuco nella V del Buoninsegni (vv. 16-8): «Donde vieni hora? O che cercando vai / per questo verde monte sì solecto, / mostrando vista di dolenti guai?». 12. sembianza ria: forse con eco di IO II, viii, 16, 6-7: «[...] bestia horenda e ria, / ch’avìa sembianza d’un bove cornuto». 13-33. Alla desolazione del Polesine si contrappone la serenità di Ferrara, «ove habita la pace»; nella fictio letteraria (ma forse non nella realtà della composizione delle Pastorale, la cui origine è indissolubilmente legata alla figura di Alfonso di Calabria), l’egloga si mostra anteriore a I, II, IV, IX, che fanno riferimento a una situazione storica più avanzata. Le parole di Menalca sono modellate su quelle di celebri protagonisti virgiliani, soprattutto il Melibeo della I, e il Meri della IX, ma risentono anche di quelle di Titiro a Coridone, in PA IX. A queste presenze classiche e umanistiche si aggiunge forse (Riccucci) qualche suggestione dalla già citata V egloga del Buoninsegni, composta a Firenze alla vigilia del Natale 1481 e dedicata a Lorenzo de’ Medici. Pochi elementi del discorso di Menalca, in conclusione, non trovano corrispondenza nelle fonti: lo stupore iniziale di fronte alla inconsapevolezza di Melibeo (forse con un’eco sottile da Buc. I, 11: «miror magis» (Riccucci), e la chiusa, con il dubbio retorico di non essere creduto e la realistica osservazione che lo stato delle cose è ben più grave di quanto non paia. 16-18. La contrapposizione guerra / pace, che ritornerà ai vv. 61-2, ma in contesto amoroso, non sembra neppure qui immemore dell’incipit petrarchesco di Rvf 134: «Pace non trovo, et non ò da far guerra» (coi molti passi ad esso collegati), anche perché nei testi che stanno a monte di questo boiardesco i due vocaboli non sono attestati: otia sono quelli che Ottaviano ha concesso a Titiro (Buc. I, 6), la discordia (Buc. I, 71) è l’origine dei mali dei cittadini; ancora quies a PA IX, 24; forse più prossimi alla guerra solo i proelia di PA IX, 29 e 85. Pace ricorre nella V del Buoninsegni, sia all’inizio, ai vv. 1-2: «Felice Clitia, che [...] / [...] siedi in dolce pace», che al v. 163: «In pace, e in quïete e libertade».  226

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Le vostre pecorelle qua ricolte intorno a le fontane e ’ fiumi usati vano pascendo libere e disolte; e voi sicuri qua de amor cantati, e le fanciule intorno vi fan festa cogliendo e fiori e l’herbe a questi prati. Quanto è diversa nostra sorte a questa! li nostri armenti e le pecore in preda, e noi scaciati o morti ala foresta; né sotto al cel stimo io che mai si veda cosa tanto crudel, onde a nararla

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26. preda] prede B Lu  19-24. La caratterizzazione degli otia di Melibeo è marcatamente topica: nulla turba le consuete attività pastorali, a partire dal canto (Buc. I, 4-5: «[...] tu, Tityre, lentus in umbra / formosam resonare doces Amaryllida silvas»), che si svolgono in un ambiente rassicurante nella sua fittizia quotidianità, come in Buc. I, 51-5: «Fortunate senex, hic inter flumina nota / et fontis sacros frigus captabis opacum». La già ricordata V egloga del Buoninsegni presenta la stessa situazione di origine virgiliana, ma non mi pare che, al di là del luogo già citato per i vv. 10-2, emergano congruenze indiscutibili. Più stringente a livello lessicale (solo da questo passo, infatti, con la ripetizione insistita tuta / tuti / tutae pare derivare l’aggettivo sicuri del v. 22) è invece il rimando offerto da PA IX, 18-25: «Felices pueri quibus hoc sub principe tuta / arva iacent! [...] / [...] tuti tondent sua prata iuvenci / et tutae passim fontes et flumina circum / pascuntur pecudes et gramina laeta capellae; / at vos blanda quies viridique sub arbore somnus / detinet ad placida vicini fluminis undas» (Riccucci). 25-30. Specularmente opposta a quella di Melibeo è la situazione di Menalca; Boiardo replica il modello archetipico virgiliano della contrapposizione fra il felice Titiro e lo sventurato Menalca: Buc. I, 3-5: «nos patriae finis et dulcia linquimus arva, / nos patriam fugimus; tu, Tityre [...]»; il riferimento alla sorte, come anche l’allusione a un nemico che si fa padrone e scaccia i legittimi proprietari, discendono forse più propriamente dalla battuta di Meri in Buc. IX, 4-5: «[...] “Haec mea sunt; veteres migrate coloni”. / Nunc victi, tristes, quoniam Fors omnia versat». 25. Forse con un ricordo di IO I, iii, 49, 6-7: «O quanto è vostra sorte aventurosa / più de la mia [...]»; Merlini cita Lorenzo Ambra 8, 1: «Quanto è diversa, anzi contraria sorte». 28. Simile all’incipit di Petrarca TE: «Da poi che sotto ’l ciel cosa non vidi / stabile e ferma [...]».  227

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vengo sospeso e temo non si creda. E poi cossì me affligie il recercarla che estender non mi vo’, ma dirvi in una che ’l danno è assai magior che non si parla. Mel.

Qua le tue capre cum le nostre aduna; quando ti piaccia nosco poserai, sin che altro volto volti la Fortuna: quivi son li antri freschi e come sciai spira aura più salubre e se riverde l’herba pasciuta e non manca giamai; quivi è il boschetto che fronda non perde

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35. quando] da quandi B quandi Lu 40. perde] parde B Lu  30. vengo sospeso: ‘sono dubbioso’. 31. recercarla: ‘prenderla in esame’ (TB). 32. estender non mi vo’: ‘non voglio dilungarmi’. 34-42. La risposta di Melibeo inizialmente si mantiene sul registro bucolico, con l’offerta all’amico di un locus amoenus dove attendere i mutamenti della Fortuna, ma all’altezza del v. 40 vira decisamente verso i territori amorosi, evocati dalla citazione petrarchesca esposta di fronda non perde. 34-5. Il modello che soggiace a queste terzine è la chiusa di Buc. I, 79-81: «Hic tamen hanc mecum poteras requiescere noctem / fronde super viridi: sunt nobis mitia poma, / castaneae molles, et pressi copia lactis». 36. L’immagine della Fortuna e delle sue mutevoli facce si ricollega (impossibile dire quale sia la direzione cronologica) a PE I, 89-90: «[...] hor non sai che Fortuna / talhor nera ha la facia e talhor bianca?» e a PE V, 67-9: «Come la luna fa la mia Fortuna: / palida rossa o bruna che la volti, / ritien sempre quel volto, e stassi in una» e ai luoghi già segnalati nel commento per possibili rapporti intertestuali. 37-9. La caratterizzazione del locus amoenus è piuttosto topica: gli antri ricordano quello di Buc. I, 75 «viridi proiectus in antro», da cui deriva forse il connotato coloristico all’herba del v. 39. L’aura, è presente, per esempio, in PA I, 83: «blandaque summissis aspirat flatibus aura», e forse l’herba, presenza di per sé ben poco significativa, è pasciuta (cioè ‘mangiata’) per influsso del verbo pascere con cui herba o gramina sono in sintagma nei testi latini: per esempio in Georg. III, 162: «Cetera pascuntur viridis armenta per herbas», o Aen. II, 471: «[...] coluber mala gramina pastus», o in PA II, 27: «[...] Pecudes sua gramina pascunt». 40. La “svolta” lirica della battuta di Melibeo si esplicita nella citazione di Rvf 23, 39-40: «[...] un lauro verde, / che per fredda 228

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per la freda stagione, e dentro è Amore che ancor mi pongie a la foglieta verde. Men.

Dunque è Genevre ancora nel tuo core: ben vero è che lo amor de’ teneri anni nì tempo mai nì caso può distore. Ma io che debbo fare in tanti affanni?

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42. ancor] amor B Lu  stagion foglia non perde», cui forse si intrecciano le Stanze di Poliziano, I, 90, 7: «e dove Amor gli scorge pel boschetto» (Riccucci). Il boschetto, in Boiardo, è del resto una allocazione topica dell’amore: pensiamo a quello che accoglie gli amplessi di Brandimarte e Fiordelisa (IO I, xix, 63, 5-8), molto simile a questo delle Pastorale: «Il fresco loco gli invita a posare, / perché in quel prato suspirava un vento / che sibilava tra le verdi fronde / de il bel boscheto che li amanti asconde». 42. Di nuovo il pongente arbero di PE VII, 107, la non meglio identificata Genevre cui accenna qui Menalca al v. 43, o una donna che come senhal ha il genevre, e che pongie, cioè tormenta, l’amato con la sua foglieta verde. 43-5. Un amore di giovinezza (de’ teneri anni), che né il tempo né gli accadimenti possono allontanare (distore). La stessa caratterizzazione di PE VII, 106: «Ne’ mei primi anni e ne la età più tenera»: un tipo d’amore, forse di poesia d’amore, di certo non la stessa donna, anche perché il Gorgo di PE VII evoca Francesco Arzocchi. 46-51. Il testo vira di nuovo e nelle parole di Menalca prende forma una vera tragedia sentimentale: la morte dell’amata Nisa. Il tema funebre è ben presente nei testi bucolici, e Buc. V, dove Virgilio intesse le lodi di Dafni, segna, come il primo idillio di Teocrito, un precedente fondativo. Come si diceva già nel “cappello” al testo, Boiardo segue però solo in parte il pattern classico: alla esaltazione delle qualità della persona scomparsa (evidente soprattutto nel compianto virgiliano) si sovrappone il lamento elegiaco dell’uomo che ha perso la donna amata. Può essere Tito Vespasiano Strozzi che nell’Eroticon liber piange la morte di Filliroe; o il pastore Titiro (controfigura dello Strozzi) in PA II, e può essere soprattutto l’amante che in Rvf subisce sgomento la perdita di Laura. Se Menalca, come parrebbe, è un polesano rifugiato a Ferrara, anche Nisa avrà avuto una identità reale, oggi perduta: nella sua esistenza letteraria porta nel nome il ricordo della Nisa – traditrice – per cui Damone pensa di uccidersi in Buc. VIII, e in qualche modo si sdoppia nella Nisa di PE IX, ben viva anche lei, ma offerta in moglie al disgustoso Mopso. 46. Il primo emistichio riformula l’incipit di Rvf 268: «Che debb’io far? [...]».  229

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Tolto morte m’ha Nisa, il mio diletto, il mio risoro a’ smisurati danni. Più mai conforto aver nì zoglia aspetto: perduto ho la mia vita et ancor vivo, ché ’l Cel spirar mi fa per più dispetto. Mel.

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Ahimè che dici? adonque è il mondo privo de la beltade che a l’altre era quale ilice a lauro e salice a lo olivo?

52. è il mondo] e il mondo e B Lu  47. Il verso fonde due noti luoghi petrarcheschi, Rvf 269, 5 da cui deriva la struttura del verso: «Tolto m’ài, Morte, il mio doppio thesauro», e 281, 7-8, che offre invece il complemento oggetto: «[...] l’alto diletto / che Morte à tolto [...]» (Riccucci). 48. Materiale lessicale di tradizione, cfr. per esempio Boccaccio Teseida IX, 68, 8: «giusto ristoro all’amoroso danno»; la forma risoro è un tratto emiliano rimodulato in direzione letteraria: cfr. PE V, 5 e la nota relativa. 49. Cfr. ancora Boccaccio, Filostrato III, 19, 4-6, con una notevole messe di coincidenze lessicali: «a te ricorro e sol da te aspetto / l’alto piacere ed il conforto mio, / la gioia e ’l bene e ’sollazzo e ’l diletto» (e diletto è al v. 47 del nostro testo). 50. La matrice del verso è petrarchesca, da Rvf 343, 5: «gran maraviglia ò come io viva anchora» (Riccucci); cfr. anche AL III, 48, 11: «perduto ho lei di cui viver solia» e AL III, 43, 9: «partir, lasso me, puòte? Et ancor vivo» (Zanato 1998 e 2012). Interessante la corrispondenza con le Rime del Correggio (anche se resta incerta la cronologia relativa) 355, 19-21: «Il dì ch’io fui di vostra vista privo, / fui privo in quella tanto di mie’ sensi, / ch’el si può dir ch’io parlo e non son vivo». 51. ‘Perché il Cielo mi fa respirare solo per tormentarmi’.  52-66. Il compianto di Melibeo per la morte di Nisa è un intarsio di temi di tradizione lirica: il mondo ha perso la sua maggiore bellezza; Amore può deporre i suoi attributi guerreschi, ormai inutili, e la terra si veste a lutto. La dolce guerra amorosa di Menalca è ormai irrimediabilmente finita, e lo strazio è tale che può condurlo alla morte. 52. Si potrebbe riaccostare a un’ottava spicciolata di Poliziano, Rime 76, 1: «Costei ha privo el ciel d’ogni bellezza». 53-4. Il motivo del confronto fra elementi vegetali è topico, ma qualcosa nel nostro testo non torna perfettamente: nella tradizione classica, infatti, il salice è inferiore all’ulivo (Buc. V, 16: «Lenta salix quantum pallenti cedit olivae»), e lo stesso destino, in ambito petrarchista, tocca senz’altro al leccio rispetto all’alloro. Se ipotizzassimo un guasto testuale, potremmo proporre l’emen230

egloga viii

Ben ha stirpate Amor le penne a l’ale, ben posar pote lo arco e la pharetra, ché senza lei sua possa poco vale. Ben avrebe ciascuno il cor di petra qual non piangesse tal dano, e la terra dovria tuta coprirsi a veste tetra. Hor è finita la tua dolcie guerra, caro Menalca, e la tua dolcie pace: tuo dolce affetto un sasso ignudo serra.

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58. Ben] da Bene Lu – avrebe] segue di cass. B 61. tua] segue dolce cass. Lu – dolcie] su dolce B 62. dolcie] su dolce B  dazione che l’altre era(n) quale, ma la tenuta sintattica del periodo risulterebbe meno solida; mantenendo il testo tràdito, dovremmo invece supporre che la posizione di olivo, bloccata dalla rima, abbia condizionato l’orchestrazione del paragone, rendendolo meno perspicuo. Una eventuale terza ipotesi, e cioè un errore d’autore, mi pare assai improbabile.  55-7. L’immagine di Amore che, dopo la morte della donna, non sa più che farsene delle armi tradizionali, e si spiuma le ali, discende senza dubbio da quella di TP 133-5: «[...] Queste [cioè le donne pudiche] gli strali / avean spezato, e la pharetra a lato / a quel protervo, e spennachiato l’ali» (Riccucci). Stupisce, semmai, il verbo: Boiardo rinuncia al connotato spennachiare (che sarà invece utilizzato da Poliziano, Stanze II, 28, 7 in analogo contesto) per il latinismo stirpare, che aveva già impiegato in IO I, xxvi, 31, 8, e poi due volte nel III libro (ii, 19, 4 e iii, 29, 4). Prima di Boiardo una sola occorrenza interessante di stirpare in Giusto de’ Conti 143, 121-2: «Or dunque come io stirpo le sue piume / a questa mia colomba [...]». 58-60. Ancora una terzina di tradizione italiana: solo chi ha un cuore di pietra potrebbe restare indifferente a un dolore che fa vestire a lutto la terra intera. 58-9. I due versi risentono di Giusto de’ Conti 80, 3-4: «quale è sì duro cor di tigre o d’orso / che a pianger meco non venisse omai?», ma con la mediazione di AL II, 12, 12-3, che offre l’immagine del cor di petra: «faria pietate a un cor crudel de tigre, / a un crudel cor di drago, a un cor di petra». 60. a veste tetra: per la posizione in clausola deriva, probabilmente, dall’ultimo verso di Rvf 268, là dove Petrarca si rivolge al suo testo come «vedova sconsolata in vesta negra». 61-3. Tornano la guerra e la pace dei vv. 16-8, ma qui in contesto dichiaratamente amoroso, e petrarchesco, donde l’insistenza sull’aggettivo dolcie. A Rvf 134: «Pace non trovo, et non ò da far guerra», già citato, possiamo forse aggiungere 21, 1-2: «Mille fïate, o dolce mia guerrera, / per aver co’ begli occhi vostri pace». 63. Il sasso ignudo nasce dall’imma231

matteo maria boiardo

Men.

Deh, non getar que’ cridi, un poco tace! Se così fai, il tuo viver fia corto: voler conviene a noi ciò che al Cel piace.

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Hor cossì fosse io, Melibeo, già morto, che ben avanti a lei ne dovea gire; ma vissi per sofrir tal dolo a torto! Oh beato colui che può finire sua vita prima che entri ne lo amaro ché nel viver migliore è bon morire. Quando pòte il mio fine essermi caro

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73. Quando] Quanto B Lu (emendazione Mengaldo)  gine di Rvf 333, 1-2 «[...] duro sasso / che ’l mio caro thesoro in terra asconde», o di TE 142, da dove proviene il verbo: «Felice sasso che ’l bel viso serra» (Pasquini 389), cui si sovrappone però Rvf 294, 7-8 che offre l’aggettivo del sintagma: «Amor de la sua luce ignudo et casso, / devrian de la pietà romper un sasso». 646. L’ultima terzina di Melibeo è un diretto ammonimento all’amico, che non si disperi al punto di mettere in pericolo la sua stessa vita. 64. Eco da PA II, 78: «Quid tantum lacrimis divosque hominesque lacessis?» (Riccucci). 65. il tuo ... corto: in filigrana, decontestualizzato, il celebre emistichio petrarchesco di Rvf 128, 94: «[...] et fia ’l combatter corto». 66. Anche nel Morgante VII, 79, 7 (LIZ): «poi ch’al Ciel piace [...] e XXIV 118, 8: «ma voler si convien quel che ’l Ciel vuole» (Merlini); più stringente l’intertestualità con la Buccolica del Benivieni I, 63: «che giusto e ’l mio partir, po’ che al ciel piace» e 114: «contento di voler ciò che ’l ciel vuole» (Riccucci; la seconda occorrenza pare una citazione da Pulci). 67-96. Le terzine di Menalca introducono il tema del suicidio, cuore della zona elegiaca dell’egloga: non solo il pastore si augura di poter morire, e raggiungere così la donna amata, ma si propone di trovare un luogo acconcio a traboccare (v. 92), cioè a lanciarsi da un sasso derupato (v. 90). Il tema, come si è detto nel “cappello” al testo, è ampiamente svolto sia in Petrarca che in PA II, il che consente a Boiardo un raffinato lavoro di intarsio fra fonti latine e volgari. 67-9. La terzina riprende, per variatio, PA II, 22-4, là dove Titiro invidia la sorte di chi può morire assieme all’amata: «Felix qui cara pariter comitante puella / tartareas sedes nigrique Acherontis ad undam / devenit [...]». 70-2. Per l’dea della “buona morte” cfr. soprattutto AL II, 1, 12-4: «Deh, chi può ben morir, adesso mora: / ché chiunque il suo ben perde e dipoi campa, / campando mille morte el giorno prova» (Zanato 1998 e 2012).  73-5. ‘Sono passati tre mesi da quando la morte 232

egloga viii

hoggi ha tre mesi; e come mal si mora vivendo in doglia a mio gran costo imparo. Ove è l’alma amorosa? ove dimora quel gentil spirto? ove quel vivo guardo, e il ragionar soave che me accora? Mio dolcie foco è morto et io pur ardo, io ardo lacrimando, e ben me aviene perché a seguirla homai troppo mi tardo. Perito è cum quel viso ogni mio bene;

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mi è parsa gioiosa, e ora imparo con sofferenza come è duro morire quando la vita non è che dolore’. Il significato della terzina non è semplice: Menalca vuole affermare, ricollegandosi ai versi precedenti, che non solo vivere è difficile per chi ha subito una grave perdita, ma in qualche modo lo è anche morire. L’intonazione sentenziosa ricorda PE V, 64-5: «Cum pianto amaro a le mie spese imparo / quanto altrui costi caro [...]». 73. Emendo, come già Mengaldo, il quanto dei mss.: difficile pensare che si tratti di una doppia interrogativa indiretta retta da imparo, e la determinazione cronologica stenterebbe in questo caso a trovare una opportuna collocazione logico sintattica. 74. hoggi ha tre mesi: ‘sono passati tre mesi’. 76-8. La struttura iterativa della terzina ricorda, fra le altre occorrenze possibili, Rvf 222, 3-4: «ove è la vita, ove la morte mia? / perché non è con voi, com’ella sòle?»; ma si rilegga, su tutt’altro tono, anche la disperata esclamazione di Carlo in IO I, ii, 64, 7-8: «Ov’è Gan de Pontieri, ove è Ranaldo? / ove ène Orlando, traditor bastardo?». Il lessico è tutto di tradizione alta, a partire dall’alma amorosa (LIZ: parecchie occorrenze fra Guittone e Boccaccio), sino ai vocaboli che troviamo tutti raccolti in AL I, 54, 9-10: «Il suave tacere, il stare altero, / lo accorto ragionar, il dolce guardo» (: ardo; Merlini). 79-85. La disperazione di Menalca e la sua volontà di morire ricalcano quelli di Petrarca nel planctus per Laura, la già ricordata canzone Rvf 268, 1-8: «Che debb’io far? Che mi consigli, Amore? / Tempo è ben di morire, / et ò tardato più ch’i’ non vorrei. / Madonna è morta, et à seco il mio core; / et volendol seguire, / interromper conven quest’anni rei, / perché mai veder lei / di qua non spero, et l’aspettar m’è noia» (Battera 1987, 35). Analoga l’intonazione di PA II, 82-4, che discende però dalla stessa fonte petrarchesca. 79. dolcie foco: Rvf 203, 12 dolce mio foco; AL I, 25, 7: il mio dolce foco. 80. io ardo lacrimando: cfr. per esempio Rvf 164, 5: «vegghio, penso, ardo, piango [...]»; ardore e lacrime in Giusto de’ Conti 48, 3-4, ma il contesto è poco significativo: «[...] quando al cor l’usato ardore, / a gli occhi mancheran lacrime tante». 82. Perito è: il verbo deriva forse da PA II, 82: «Iamdudum, Lynces, perii [...]».  233

matteo maria boiardo

io detro a quel pensando me disfacio, né pongo alcun rimedio a tante pene. Ma il mio fero destin non sarà sacio e le stelle crudel, ché a suo mal grato morendo mi trarò di tal impacio. Dicetimi, pastori, in qualche lato di questi monti loco alcuno o riva di alpestro fiume o sasso derupato, che là di sospirar se farà priva questa anima infelice traboccando. Dipoi che il mondo hormai non vol ch’io viva, vedrò morta colei almanco, quando non piace al Cel che in vita io la rivegia: mia membra sparse a voi l’aricomando.

85

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86. crudel] da crudele Lu – grato] da grapo B  83. Cfr. AL III, 25, 14-5: «il cor che se disface / pensando [...]». 84. Certo in rapporto con PA II, 67-8: «Vos, montes [...] / [...] tantisque exolvite curis» (Battera 1998, 34), e forse con un ricordo di PE V, 48: «[...] e pur il fine / sarà una fune a tante pene amare» (Merlini). 85-7. Né il destino né le stelle crudel saranno però soddisfatti (sacio), perché, loro malgrado, Menalca sfuggirà al dolore con la morte. Boiardo usa quasi le stesse parole della prima egloga di Buoninsegni (vv. 24-6), ma con una sfumatura di significato diversa: «Sacio non mi vedrò né mai contento / fin che con pianto, doglia e con sospiri / sarà col corpo el spirto insieme spento» (Riccucci). 85. fero destin: cfr. Petrarca, TF III, 48: «prevento fu dal suo fero destino» (Merlini). 86. stelle crudel: sintagma di ampia attestazione lirica: cfr. per esempio in Boiardo AL I, 40, 12 e II, 55, 22. 88-93. Menalca si ucciderà, o meglio si propone di uccidersi, lanciandosi da una rupe; lo stesso accade in tutti i testi di riferimento: a partire da Buc. VIII, 59-60, «praeceps aerii specula de montis in undas / deferar; extremum hoc munus morientis habeto»), attraverso PA II, 56: «[...] pavidis pendentia saxa ruinis», cui si intreccia PA II, 67-8: «Vos, montes, potius, potius miserescite, rupes, / obruite miserum huc tantisque exsolvite curis». 88. Simile all’esordio di PE VI: «Diti, pastori [...]». Dire qui vale ‘mostrare’ (TB); ma resta il dubbio che nel verso si annidi un errore, e che la lezione originaria potesse essere pastor, s’è. 92. traboccando: verbo tipicamente boiardesco, su cui cfr. Trolli. 94-5. Cfr. Benivieni, Buccolica V, 64-6; «Che fai, Silvan? Forse ancor vivo (ah, lasso!), / vederlo speri su, po’ ch’al ciel piace / 234

egloga viii

Mel.

Poi che la mente tua tuta vanegia ne la luce che hai persa, almen comporta che per sua parte alquanto te richiegia. Odi lei che ti dice: «Se io son morta in terra, nel Cel vivo; e in tanta zoglia solo il tuo lamentar mi disconforta. Se hai disio di vedermi, l’aspra voglia

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nulla esser fermo in questo mondo basso?» e 152-3: «spero anchor, forse poi che ’l mortal velo / lasserò in terra, rivederlo allora» (Riccucci). 96. mia membre: per la forma del possessivo («toscanismo volgare non [...] estraneo al clima di koinè») cfr. Mengaldo 1963, 112. 97-111. Tocca a Melibeo distogliere Menalca dal suo luttuoso proposito, e lo fa introducendo a parlare la stessa Nisa. Il meccanismo che genera questo passo, come già si diceva nell’introduzione al testo, è profondamente petrarchesco, e discende da Rvf 268, dove è Amore in persona che si rivolge all’amante sconsolato e lo invita a porre «[...] freno al gran dolor che ti trasporta» (v. 67). A parlare è però la donna amata, come in Rvf 359, e come nel sonetto di Bernardo Pulci in morte di Simonetta Cattaneo. 97-9. La battuta di Melibeo introduce le parole che, per suo tramite, la donna amata, la luce persa, rivolgerà a Menalca. 100-2. L’apertura del discorso di Nisa in prima persona su un periodo ipotetico ricorda senza dubbio l’incipit pulciano: Se viva o morta io ti dove’ far guerra (ed è la corrispondenza più forte che stringe i due testi), ma la contrapposizione morte (del corpo) / vita (dell’anima) su cui si orchestra la terzina è tutta petrarchesca. Si veda infatti, vicinissimo sia a Boiardo che a Pulci, salvo che per l’uso della terza persona e non della prima, Rvf 273, 14: «se viva et morta ne devea tôr pace», e Rvf 268, 70 (una citazione più estesa nel “cappello”): «dove è viva colei ch’altrui par morta». Anche la terzina finale del Pulci propone lo stesso tema: «ché piangi tu colei che non è morta / ma viva, sciolta dal terrestre velo / sol di te pensa e qui nel cel t’aspecta», ma mancano contatti lessicali precisi coll’egloga boiardesca, al di là delle comuni ascendenze da Rvf. Petrarchesco è il cielo dove la donna risiede, come pure lo sconforto che il comportamento dell’amante le induce, da Rvf 359, 14-7: «[...] “Le triste onde / del pianto, di che mai tu non se’ satio, / coll’aura de’ sospir’, per tanto spatio / passano al cielo, e turban la mia pace”». 103-5. Si affronta qui il tema del suicidio, che impedirebbe il ricongiungimento delle due anime; motivo che deriva direttamente da Rvf 268, 67-9 (già citato): «Pon’ freno al gran dolor che ti trasporta, / ché per soverchie voglie / si perde ’l cielo, ove ’l tuo core aspira», molto più vicino al passo di Boiardo dei versi pulciani (9-11) «Vinci tanto furor che ti trasporta / sì che il pianto non giunga più nel cielo / a turbar chi ti fu sempre dilecta». Del resto Rvf 268, 235

matteo maria boiardo

cacia da te, ché morte voluntaria a la porta del Cel serra la soglia. Sù non veresti ove abito ne l’aria, se te occidesti, ma ne lo Acheronte, che è sede da la mia diversa e varia». Così parla tua diva: alcia la fronte e voglia viver per amor di lei, che el ti domanda e prega a palme gionte. Men.

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Cossì pace mi renda il mondo e i dei

67-9 è il modello di Pulci, che attinge anche a Rvf 359, 14-7 appena citato: ben poco, insomma, stringe direttamente Pulci a Boiardo. Ed è petrarchesco anche PA II, 96: «[...] coeptum depone furorem». 103. aspra voglia: il sintagma è presente in Giusto de’ Conti, 86, 1: «[...] l’aspre voglie e tarde»; ma non andranno dimenticate le soverchie voglie di Rvf 268, 68. 104. morte voluntaria: cfr. AL III, 12, 64: « a volontaria morte e dolce tanto» (Zanato 1998 e 2012). 105. serra: il verbo è presente anche al v. 8 del già ricordato sonetto del Pulci (Canova). 106-8. Sotto un blando travestimento classicista (Acheronte), Boiardo ripropone la minaccia del castigo eterno che era già presente in PA II, 94-6: «Morte mori certum est, sed longe tristius illa / est aliquid: sonti scelerum tibi cernere diras / ultrices dabitur [...]»; a questo si contrappone il Cielo, «ove abita ne l’aria» la donna amata. Di nuovo un pattern, dai versi di Rvf 268, 68-70 più volte ricordati: «[...] per soverchie voglie / si perde ’l cielo [...] / dove è viva colei ch’altrui par morta». 109-11. Il discorso di Nisa è finito, e Melibeo incoraggia l’amico a resistere alla malìa del suicidio per amore di lei. 109. tua diva: la donna – paganamente – è assunta fra gli dei; così anche in PA II, 86-9, già citato: «[...] Periit tua maxima cura / Phyliroe, quod tu laetari, Tityre, debes: / illa, bonum numen, superum formosa deorum / alloquio fruitur, flentem et te moeret ab alto». – alcia la fronte: lo stesso ammonimento di PE I, 94: «Alcia la mente [...]». 111. Il verso riecheggia forse quello presente nell’episodio del duello fra Orlando e Agricane, quando il pagano, sconfitto, chiede al conte il battesimo: «pregando Dio per lui con le man gionte» (IO I, xix, 16, 8; Canova). – el: se intendiamo il pronome come maschile, lo riferiamo a senso a amor del verso precedente; diversamente dobbiamo supporre che valga ‘ella’ e si riferisca alla donna. 112-27. Le terzine di Menalca segnano il suo – rapido – adeguarsi alla volontà dell’amico, e al peso della auctoritas letteraria di cui si sono fatte interpreti. 112. renda: terza singolare per terza plurale; Mengaldo 1963, 117-8.  236

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e il Cel che contro a torto me congiura; come tu di mia vita cagion sei, e quella peregrina creatura (che natura mostrò per farci ingordi al suo bel viso e sì presto la fura) cum que’ soi santi et angelici ricordi che per tua voce a le orechie mi sona e vol che teco a viver me concordi. Suo fo il mio core, e sua la mia persona, e sarà sempre, e a suo comandamento vive Menalca e la morte abandona. Posarmi qua cum teco io me contento, né aver potrebi loco più iocondo sin che Fortuna muti miglior vento, e il Cel se plachi e ponga in pace il mondo.

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115. quella] quella corr. in questa B 116. mostrò] segue mo cass. Lu 118 soi] ins. Lu 113. Variante di PE I, 34: «le stelle coniurate a farce iniuria» (Merlini). 114. Cfr. AL III, 40, 6: «che solo eri cagion de la mia vita» (Riccucci), lì detto del viso di Antonia, qui di quello dell’amico.  115-6. Calco su IO II, xxv, 46, 1-2 (anche qui in contesto funebre): «[...] un gioveneto / che Natura mostrò, ma presto il tolse». 115. peregrina: nella stessa accezione che in IV, 55: ‘eccezionale, di straordinarie virtù’ (Trolli). 118-9. ‘con i santi e angelici ammaestramenti (ricordi; TB) che, per il tramite della tua voce, arrivano sino a me’. 120. ‘e vuole che, con il mio vivere, io mostri di essere d’accordo con te’. 124-7. Dopo un percorso complesso e variegato, l’egloga giunge alla sua “naturale” (nel senso di connaturata al genere) conclusione: Menalca accetta l’invito di Melibeo a trattenersi nel locus amoenus che l’amico gli ha offerto (vv. 34-42), sino a che la Fortuna non si mostri più benevola e la pace ritorni fra i pastori del Ferrarese. 124. Riprende a distanza l’offerta di Melibeo al v. 35: «quando ti piaccia nosco poserai». 125. potrebi: ‘potrei’ (Mengaldo 1963, 133: «condizionale di imperfetta toscanizzazione»). 126. Ripresa dal v. 36: «sin che altro volto volti la Fortuna», forse con un ricordo della chiusa di PA II, 100: «[...] forsan melior fortuna paratur» (Bregoli Russo 166). 127. Il riemergere dei temi politici comporta il recupero da Par. VI, 80: «con costui puose il mondo in tanta pace». 237

IX

La nona posizione della raccolta ci offre ancora una sorpresa, l’ultima prima della conclusione trionfale affidata al canto di Orfeo: Boiardo si confronta col registro comico caricaturale dell’invettiva, che aveva già sperimentato all’inizio della VII egloga, e lo declina sul terreno amoroso, disegnando il ritratto impietoso di un rivale dai gusti sessuali piuttosto incerti, che ha sottratto al protagonista Coridone l’amata Nisa. Gli esiti, come vedremo, fanno dell’egloga un frutto anomalo nel tessuto delle Pastorale, ma non senza precedenti nell’ambito dello sperimentalismo quattrocentesco. L’attenzione alla tradizione italiana non impedisce comunque all’autore di continuare l’usuale confronto a distanza sia col modello virgiliano che con quello dei Pastoralia; parte del materiale delle egloghe IX latine, però, era già stato utilizzato nell’VIII volgare – e questo la dice lunga sull’attenzione programmatica del poeta nell’elaborare la struttura dell’opera –, dunque l’intreccio si presenta più complesso dell’usuale. PA IX segue da vicino il modello virgiliano, sia quello di Buc. IX sia quello di Buc. I: due pastori in viaggio verso Modena (come in PA I, oltre che in Buc. IX), il fortunato Coridone e il meno fortunato Titiro, che non può godere della protezione di Ercole, accompagnano il loro cammino intonando frammenti poetici (non riconoscibili, come quelli della corrispondente egloga virgiliana). Meno chiara che in PA I l’identificazione dei due protagonisti, che potrebbero essere di nuovo Boiardo, qui sotto altro nome pastorale, e Strozzi; ma il fatto è ininfluente rispetto al problema della fedeltà al modello, che è totale. Anche PE IX si appropria di contenuto virgiliano, ma recuperando quella parte dell’egloga VIII che in PE VIII non aveva trovato corrispondenza: Coridone nella sua violenta invettiva (il nome è lo stesso del protagonista di PA IX, ma il tema del lamento amoroso evoca anche il pastore virgiliano di Buc. II, invano disperato per Alessi) ripercorre i temi toccati da Damone in Buc. VIII;1 Mopso è di nuovo il rivale e ancora una volta 1  Analoga la III di Calpurnio Siculo, dove è Licida a lamentarsi per l’abbandono di Fillide.

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Nisa è la donna (il nome femminile si sdoppia, perché è lo stesso della compagna perduta di Menalca in PE VIII). Dietro la somiglianza dei temi, e nonostante qualche eco puntuale, si avverte però una profonda frattura stilistica: il tono dolente di Damone lascia il posto a un registro comico, spesso antilirico, che percorre buona parte del testo e lo riaccosta, come si diceva, a PE VII e quindi a Buc. III. Il gioco, al solito, è squisitamente letterario, ed è lo stesso Coridone a lamentare, ai vv. 79-84, il livello della sua prova poetica, condizionata dal livore della gelosia. In altri termini, ne potremmo inferire che il registro comico della vituperatio, anche se non utilizzato in forma esclusiva, relega l’egloga in una dimensione letteraria bassa, “smisuratamente” bassa: «Nel mio cantare è persa ogni misura» commenta sconsolato Coridone al v. 82. E ogni lettore boiardesco sa bene che la demesure, in qualunque ambito ci si muova, non è mai un dato positivo. Non tutto, però, è comico nella IX egloga, e il lamento di Coridone si sviluppa anche in forme più tipicamente petrarchesche: lo fa all’inizio, con l’invocazione agli elementi naturali che hanno condiviso la felicità sua e di Nisa, e ora possono testimoniare il dolore dell’abbandono; e con le parole rivolte alla donna, che lo ha così in fretta dimenticato. Ma anche più avanti, dopo l’improperium contro Mopso, il testo recupera intonazioni e modalità più caratteristiche del codice lirico. L’ambito di riferimento per un componimento simile è senza dubbio la tradizione comico realistica, il che fa di quest’egloga un testo rusticale; prima però che si sviluppino in pieno gli esperimenti fiorentini nenciali, o meglio, senza che nel testo boiardesco sia individuabile neppure una connessione intertestuale certa coi testi noti di questa tradizione. Indubbia, invece (come già segnalato da Merlini e da Pantani 2006),2 la presenza in filigrana a PE IX del polimetro giustiano La notte torna; lo certifica la citazione esposta del v. 38 (oltre alla forte corrispondenza fra l’apertura di Giusto e la chiusa di Boiardo), e lo confermano elementi strutturali importanti: il tema del tradimento, del rivale più fortunato, in entrambi

2  Debbo ad Italo Pantani, oltre a quanto a stampa, e dunque esplicitamente segnalato come suo nel commento, numerosi suggerimenti giustiani.

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i casi un marito,3 che sono centrali nei due testi; l’alternanza di lamento elegiaco, deplorazione e invettiva (con una notevole corrispondenza nella parte in cui ci si prende gioco della pochezza sessuale del rivale: vv. 129-30 di Giusto e 29-30 in Boiardo); il frequente uso delle interrogative retoriche rivolte alla donna e ad Amore; e infine il comune ricordo del momento in cui l’inganno viene rivelato all’innamorato tradito (vv. 121-3 di Giusto e 67-72 in Boiardo). L’apparenza dei due testi è molto lontana, sia per l’impatto polimetrico del componimento giustiano a fronte delle regolari terzine boiardesche, sia per la presenza in Giusto di parti frottolistiche di intonazione sentenziosa che nel testo boiardesco non trovano eco, ma fra i componimenti scorre una rete solida di rimandi e di corrispondenze, che, nonostante le parole attribuite da Boiardo a Coridone, ci mostrano che questo dell’egloga IX è tutt’altro che un esperimento stilistico di tono “basso”. L’apertura del lamento è un appello agli elementi naturali, che sono stati partecipi dell’amore di Nisa, e ora, tramite una serie di adunata, sono chiamati a testimoniare il capovolgimento dell’ordine consueto che deriva dal tradimento della donna (vv. 1-12). La zona elegiaca prosegue con l’invocazione all’amata, e l’affermazione che, in ogni caso, i sentimenti di Coridone non potranno mai mutare (vv. 13-24). Dopo un esordio proverbiale, si apre la vituperatio ai danni di Mopso: gusti sessuali incerti, aspetto fisico ripugnante: eppure il rivale ha vinto, e se ne vanta (vv. 2539). Nuova sezione elegiaca, tramata di interrogative retoriche rivolte ad Amore, e nuova affermazione di indissolubile fedeltà a Nisa (vv. 40-60). Seconda irruzione della realtà: il fiore verginale della donna è stato colto, anzi stracciato, e Coridone rievoca disperato il momento in cui si è reso conto di averla perduta (vv. 61-75). L’egloga si avvia alla conclusione, con la riflessione metapoetica sullo sconvolgimento che la vicenda ha provocato anche sulle capacità poetiche del protagonista (vv. 76-84), cui segue la sconsolata constatazione che i doveri pastorali verranno trascurati, e che sul far della sera nessuno si prenderà cura delle greggi dell’infelice amante (vv. 85-94).

3  Seguo la lettura di Pantani 2006, che identifica il rivale con il Pepoli marito di Isabetta.

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PE IX sviluppa in altissimo grado la pratica della mescidazione stilistica: i tratti non comici, soprattutto quello iniziale e la chiusura del testo, presentano il caratteristico impasto di temi e forme liriche e bucoliche, analogo ai tanti esempi che abbiamo già visto. Nel corpus testuale si aprono squarci elegiaci, fitti di echi lirici, che si alternano a parti in improperium, di registro schiettamente comico. Non sempre, in questo ambito, le connessioni intertestuali appaiono evidenti, ma l’ambito stilistico di appartenenza è chiaro. La presenza, infine, di La notte torna come ipotesto dell’egloga ci certifica dell’importanza, e della peculiarità, dell’esperimento condotto da Boiardo, che si rifà a una zona fortemente innovativa del canzoniere giustiano, e ne sviluppa temi e motivi con un taglio stilistico personale.

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In questa nona lamentasi cantando Corydone per la sua cara Nysa a Mopso maritata.

Fiorita riva, e voi verdi arborscelli, che adombrati onda sì tranquilla e chiara, a voi convien che mia pena rivelli, perché colei che più che ’l cor ho cara qua cum voi steti, e credo che ogni fronda de vostri rami odir de amore impara. Vòlgiete, fiume, e torna al fonte l’onda, dipoi che piace al Celo e a la Fortuna

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2. e chiara] deest A 4. che ’l] da del B  1-6. Raffigurazione del locus amoenus su cui si proietta la presenza della donna amata, in un passato ormai irrimediabilmente trascorso, secondo il modello archetipico di Chiare, fresche et dolci acque riutilizzato poi da Giusto in Udite monti alpestri, vv. 2-7:«Fiumi correnti e rive / odite quanto per amar soffersi! / [...] O boschi ombrosi, e voi, riposte e chete». 1-3. Cfr. PE I, 13-5 e il relativo commento; qui gli elementi invocati sono topici, dalle verdi rive fiorite di Rvf 226, 13, agli «schietti arboscelli et verdi fronde» di Rvf 162, 5, sino alle chiare onde di AL II, 55, 1 e III, 59, 37 (oltre che di PE VI, 78 e di parecchi luoghi di IO reperibili tramite LIZ). 3. Ai vocativi iniziali segue il verbo principale, come in Rfv 126, 12-3: «date udïenzia insieme / a le dolenti mie parole extreme». 7-12. Si inanellano gli adunata, alcuni classici, altri decisamente meno. 7. Lo svolgersi a ritroso delle acque di un fiume sino alla fonte è forse il più noto degli impossibilia prodotti dal canto di Orfeo: basti il rimando alla Fabula polizianesca, 109: «che i fiumi isvolgerebbe inverso il fonte» e all’Orphei tragoedia I, 93: «che volgerebe un fiume verso il fonte». – torna: in senso causativo, ‘fa’ tornare’. 8-9. Una sorte maligna ha fatto incontrare chi mai doveva mescolarsi, come l’oro e il fango. 8. al Celo e a la Fortuna: contesti analoghi in IO, fra cui I, iii, 64, 6: «sia quel che il Ciel e la Fortuna vòle».  243

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che il fango e l’oro insieme se confonda. Di Mopso è Nisa: hor fia la neve bruna! Nysa è di Mopso, e chi crederà mai? Amor il guffo e la colomba aduna. Tu, dolcie anima mia, pur te ne vai, né te rincresce de uno abandonato che più te ama che l’alma e ben lo sciai. Sciò che lo sciai, e sciò che l’hai provato, se questo novo ardor forse non tragge for de tua mente il bon tempo passato. Ma già non credo (o creder voglio) che agge

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11. Nysa è] Nysa B  10-2. Immagini simili a queste boiardesche son presenti nelle Rime del Tebaldeo (81, 1-3 e 9): «Come comporti, ahimè, crudel Natura, / che una columba sia congiunta a un corbo, / e che se incalmi su l’oliva un sorbo?», «Legasti in piombo una gemma preciosa» e in una epistola in terzine di Serafino Aquilano (I, 37-9; LIZ): «So ben che mal se afan l’oliva e ’l sorbo, / so che mal se confanno el piombo e l’oro, / e mal se accorda la columba ’l corbo». Gli exempla utilizzati da Boiardo dovevano, quindi, inserirsi in un noto ambito di tradizione volgare, alternativo rispetto al modello classico costituito da Buc. VIII, 26-8: «Mopso Nysa datur: quid non speremus amantes? / iungentur iam grypes equis, aevoque sequenti / cum canibus timidi venient ad pocula damnae» (la fonte virgiliana in Ponte 28). 13-24. Le parole di Coridone virano su una intonazione elegiaca nel momento in cui realizza l’abbandono della donna e assieme la sua incapacità di smettere di amarla. Come nella seconda sezione de La notte torna di Giusto, vv. 43-7: «Ma tu perché mi fuggi, cor di sasso? / Deh, ferma il passo, e mei lamenti ascolta; / prendi una volta del mio mal cordoglio! / Io sarò pur qual soglio, infin che morte / le corte mie giornate no interrompa». Il tema della memoria, della possibilità che la donna dimentichi ciò che all’uomo non è dato scordare, è ampiamente sviluppato nel II libro degli Amores boiardeschi, anche se non si segnalano tangenze testuali precise con questo luogo di PE. 14. Cfr. Giusto XXIX, 3: «né me rincresce in miseria esser solo». 15. Già in AL III, 26, 4 un passo affine: «un che te ama cotanto e che te adora» (Zanato 1998 e 2002). 17. novo ardor: ‘nuovo amore’. 18. bon tempo passato: stesso sintagma, ma contesto differente, in IO II, iv, 9, 5: «[...] è bon tempo passato». 19-21. L’immagine della donna impressa nel cuore dell’uomo è una delle più ampiamente topiche della tradizione lirica; scol244

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sì poco di fermeza, ché al cor mio sta pur scolpita ancor tua bella himagge. Se fatta sei de altrui, che ne posso io? io pur son tuo come foi sempre, e questo non mi può tuor Fortuna o caso rio. O quanto è più noglioso e più molesto se uno altro te percuote e poi fa motto, perché stral improviso è troppo presto. Marito inamorato, hora ha’ tu rotto il panno virginale! Hor sta di sopra

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26. percuote] da percote B 27. stral] da stal Lu  pita, come qui in PE IX, anche in AL, I, 54, 5-6: ««Ma quella dolce angelica sembianza / che sempre fu scolpita nel mio core» (Zanato 1998 e 1002). 21. bella himagge: il sintagma conosce una discreta attestazione nella tradizione poetica (LIZ); forse la presenza più significativa è quella di Par. XIX 2: «la bella image che nel dolce frui» (Ponte, 27). 22-4. Come in Giusto 144, 46-7: «io sarò pur qual soglio, infin che morte / le corte mie giornate no interrompa». 24. Probabile eco del dantesco Guido, i’ vorrei, v. 9: «sì che fortuna od altro tempo rio». 25-39. L’attacco proverbiale della prima terzina ci introduce nella zona più violenta della vituperatio, quella in cui si concretizza la perdita della verginità dell’amata, per opera di un marito avvezzo piuttosto a star di sotto; orribili le fattezze del rivale, e dunque ancora più insopportabile il suo vanto il giorno delle nozze. È questa una delle sezioni in cui il rapporto col polimetro di Giusto si fa più evidente anche a livello intertestuale.  25-7. ‘È davvero fastidioso (più noglioso e più molesto) se uno ti picchia e solo dopo ti rivolge la parola, perché una saetta imprevista arriva troppo veloce’. Intendo dunque fare motto non nel senso di ‘motteggiare’, come fanno invece Riccucci e Merlini, ma in quello di ‘cominciare a parlare a qualcuno’ (TB), e lo lego al v. 27, che altrimenti non avrebbe un significato preciso nel contesto. 27. Variazione su Par. XVII, 27: «ché saetta previsa vien più lenta» (Ponte 27). 28-9. Il matrimonio è stato consumato, il panno virginale non c’è più, e il marito (inamorato) per una volta tanto ha fatto il maschio. Il dileggio delle pratiche sessuali altrui è ampiamente diffuso, anche in letteratura (basti il ricordo della tenzone fra Dante e Forese); più interessante, però, seguire il filo de La notte torna. Anche in Giusto il rivale è poco uomo, eppure sfida il protagonista, vv. 129-30: «Ha manco il manco e forsi, chi sa, il ritto; / e così manco lui tal guerra famme», e poco più avanti, dove ad agire è la donna, vv. 143-4: 245

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tal che già stete (e stavi ancor) di sotto. Non più di lui, non più che hormai se scopra quel volto onde Natura se vergogna de aver produtta al mondo cotal opra: ochi di gatta e voce de hom che sogna, rari e capegli, e bianchi come stoppa, il busto oguale, e gambe de cicogna. Vedeti che lo un labro a l’altro poppa, sé doneando, ché di fresco è raso;

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32. vergogna] da uergna Lu  «anzi a colui te pieghi / a cui più manca quel che pria si chiede». Anche la dura espressione boiardesca rotto il panno virginale evoca un verso di Giusto (in tutt’altro contesto, ma poco più sù del luogo appena citato), 118-9: «Rotta è la tela, che con tanto affanno / già più d’un anno avea piangendo ordita». 31-6. Ora tocca alle rivoltanti fattezze del vecchio rivale, tali che Natura stessa se ne dovrebbe vergognare. 31-3. La terzina rovescia l’immagine topica di Natura fiera della bellezza di madonna: Serdini, Rime 18, 8-9: «[...] quanto che possa il cielo / e la natura in te, donna beata» (qui in contesto metaforico); Lorenzo, Rime 99, 1-2: «Candida, bella e delicata mano, / ove Amore e Natura poser quelle»; Giusto de’ Conti 4, 5-6: «O sola agli occhi mei vera beatrice, / in cui si mostra quanto sa natura»; AL I, 26, 9-10: «[...] Natura piglia / tanta arroganza del suo bel lavoro» (tutte le citazioni – meramente esemplificative di un topos diffusissimo – da LIZ). 34. Gli ochi di gatta, come insulto, suonano bizzarri, oltre che inattestati: forse sono occhi languidi, poco virili, come la voce (esile, impastata) de hom che sogna? La seconda espressione invece è ampiamente nota, sin da Purg. XXXIII, 33: «sì che non parli più com’om che sogna» (Pasquini 389). Poi in Petrarca, Rvf 49, 7-8: «[...] et se parole fai, / son imperfecte, et quasi d’uom che sogna», sino a IO I, xxix, 9, 8: «Ch’era il mio ragionar d’un hom che sogna» (qui il significato è diverso, e le prime citazioni paiono più pertinenti al nostro contesto). 36. oguale: coperto quindi di una simile peluria bianchiccia. 37-9. La descrizione del rivale si chiude: nonostante il suo ripugnante aspetto fisico, l’uomo è fiero di sé. 37. L’immagine non è chiarissima: ‘un labbro ciuccia l’altro’, cioè gli sta appiccicato. Il che potrebbe alludere di nuovo all’aspetto fisico ripugnante, ma, se leghiamo invece il verso a quanto segue, significherebbe che il rivale atteggia la bocca come a lanciare baci, convinto del suo fascino. 38. sé doneando: ‘intrattendendosi piacevolmente’ (TLIO); probabile dantismo, da Par. XXIV, 118 e XXVII, 88 (Pasquini 389). – di fresco è raso: come il rivale dell’io poetante di 246

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nel novo manto tuto se ragroppa. Deh, disleale Amor, ove è rimaso l’honor de la tua corte e la tua stella? Ben se può dir che sia gionta a lo occaso. Qual anima crudele e più ribella de ogni pietate lacrime non getta, vegiendo a sì vil man cosa sì bella? Che sia quel ponto e l’hora maledetta, qual tolse sua speranza a tanta fede,

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Giusto in La notte torna, 164-6, quando si fa beffe di lui: «E par che mi dilegge / misser, quanto vaghegge allor per caso / il giorno che di fresco lui sia raso» (Pantani 2006, 141; come qui raso : occaso). 39. ragroppa: ‘si avvoltola’; il verbo, nella sua espressività, è ben boiardesco: Trolli. 40-8. Parentesi elegiaca di compianto sul triste destino dell’amante: la corte di Amore è disonorata, la sua stella è al tramonto, e non esiste anima tanto prava da non disperarsi vedendo chi ora possiede la donna amata. Maledetta, dunque, l’ora in cui la speranza si infranse. 40-1. L’immagine della corte amorosa è ampiamente topica (LIZ, con la prima attestazione nelle Rime di Cavalcanti), ma il contesto negativo richiama piuttosto alla memoria altri luoghi boiardeschi, soprattutto AL II, 52, 10-1: «Di questa corte è mo’ bandito Amore, / sieco Alegreza e Cortesia fugita». Ma anche un noto esordio di IO (successivo alle Pastorale), III, ix, 2, 1-5 (dove compaiono le stelle chiare e matutine, lontane dunque dall’occaso di PE): «Come nanti l’aurora al primo albore / splendono stelle chiare e matutine, / tal questa corte luce in tanto honore / di cavalieri e dame peregrine / che tu pòi ben dal ciel scendere, Amore». 41-2. Giusto de’ Conti 144, 169: «[...] quando il sole è già presso all’occaso» (Pantani 2006, 131). 43-5. Eco lontana ma indubbia (si veda il simile andamento interrogativo e la coincidenza lessicale crudele / crudel) di Inf. XXXIII, 40-2: «Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli / pensando ciò che ’l mio cor s’annunziava; / e se non piangi, di che pianger suoli?». 43. Qual anima: attacco simile in AL III, 41, 1: «- Qual anima divina o cor presago» (Zanato 1998 e 2012). 43-4. ribella de ogni pietate: AL I, 33, 70 «[...] ribella di pietate» (Zanato 1998 e 2012), ma anche IO I, xx, 44, 3: «[...] di pietà ribella». 46-8. Viene capovolto il topos petrarchesco di Rvf 61, 1-2: «Benedetto sia ’l giorno, e ’l mese, et l’anno, / et la stagione, e ’l tempo, et l’ora, e ’l punto», come già in AL III, 27, 1: «Ben fu mal’ora e maledetto punto» (Zanato 1998 e 2012). Il capovolgimento era già in Giusto 104, 9-11: «E maledico il dì ch’io vidi in prima / tanta durezza, e quel 247

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che avendola perduta ancor l’aspetta. Sia maledeto chi prosume e crede coprir doi sì diversi de una tegola! Vero è che Amor è cieco e non li vede, che vol compore il balsamo a la pegola! Oh, come è pazo chi crede e prosume pore a li amanti né ordine né regola! Ben prima sarà il foco in questo fiume, e gli occei tuti vestiran di scaglia, e tuti e pesci fian coperti a piume, che mai ragione humana o forza vaglia spiccar que’ cor che insieme agionse Amore, né a foco o a ferro un bon voler si taglia.

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58. spiccar] spiecar B Lu  fallace sguardo / che al cor mi impresse la tenace speme». 47-8. La speranza dell’amante vive appieno la condizione paradossale di amore: la fides è così profonda che chi ama è quasi costretto ad aspettare il ritorno di una condizione felice, irrimediabilmente perduta. 49-60. L’intonazione del testo cambia ancora, e di conseguenza muta il registro stilistico, che non è più lirico elegiaco, ma di nuovo espressivamente connotato. 49-52. Come già ai vv. 7-12, Boiardo propone il tema dell’unione male assortita: qui fra balsamo e pece (pegola). 49. prosume e crede: dittologia verbale che si ripresenterà rovesciata al v. 53: «Oh, come è pazo chi crede e prosume». Compare anche nelle Rime del Correggio (coi soliti dubbi di cronologia relativa), 377, 17: «e ch’io presuma e creda andare al celo». 50. ‘Mettere sotto uno stesso tetto (tegola, con sineddoche) due così diversi’.  50, 52, 54. La serie delle rime è inattestata. 53. La ripresa a distanza ravvicinata sottolinea in realtà un cambiamento d’ordine argomentativo: è maledeto chi pensa di comporre una coppia tanto male assortita, ma è pazo chi crede di poter imporre ordine e regola agli amanti. 54. Orphei tragoedia IV, 107: «Chi pon legge a li amanti?» (Merlini). 55-60. Una successione di impossibilia scandisce la tenacia dell’amore di Coridone: il fiume infuocato, gli uccelli che nuotano e i pesci che volano. 59. spiccar: ‘separare’, verbo ampiamente boiardesco (Trolli). 60. bon voler: probabile dantismo (Purg. XII, 124; XVIII, 96; Par. IV, 19; 20, 107), che orienta la lettura nel senso di ‘una volontà che tende al bene’, ‘una buona intenzione’.  248

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Ma pur da altrui fia colto il mio bel fiore; colto che dico? scalpizato e guasto, e viver posso ancora in tal dolore? Qual pelago indïano o mar più vasto potrà imbianchir la tenebrosa machia che già me atrista pur sentirla al tasto? Qual levo corvo o qual destra cornachia sì tristo augurio ad altro amante porta, lo un crocitando e l’altra quando grachia,

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62. scalpizato] da scalpezato B 69. l’altra] laltro A B Lu  61-6. La conquista di Nisa da parte dell’orrendo Mopso si mostra in tutta la sua concretezza fisica: il fiore della sua virginità è stato colto, e la tenebrosa machia ne offre una prova indiscutibile, anzi tangibile. 61. Il fiore come metafora del sesso femminile vanta una tradizione illustre, sin dal modello catulliano (LXII, 39-47) ricordato in Riccucci; il precedente più diretto è forse il passo di AL III, 46, 6-8: «dove lasciai tra l’erbe il mio bel fiore, / [...] / temendo che d’altrui non sia ricolto!» (Merlini). 62. scalpizato: participio passato (in forma settentrionale) di scalpicciare, inattestato (LIZ e Bibit) prima di questo luogo boiardesco; nel III libro del poema Boiardo utilizzerà anche il deverbale scalpizo (vi, 34, 3; Trolli). – guasto: ‘guastato’, dunque ‘sciupato’ (Mengaldo 1963, 134: «part. pass. accorciato»). 64-6. L’immagine della macchia che difficilmente potrà essere cancellata è quella di AL II, 55, 23-4: «[...] Ove son l’onde / che di lavar tal machia abin mai forza?» (Merlini), e più avanti nello stesso testo (vv. 27-8) «[...] l’onde / del mar turbato [...]». Ma nel canzoniere la macchia è quella dell’offesa, mentre qui non si direbbe affatto metaforica, ma provocata dalla rottura del panno virginale di cui al v. 29; in ambedue i casi rimane arduo spiegare come l’amante abbandonato la possa toccare con mano («sentirla al tasto»). 65. imbianchir: ‘far svanire’. 67-75. Boiardo rievoca qui il momento in cui lo sventurato Coridone realizza di aver perso Nisa: si riannoda dunque il nesso intertestuale con La notte torna di Giusto, i cui vv. 121-2 evocano la scoperta del tradimento dell’amata: «Chi mi rivela come andò l’inganno / che tanto danno a lagrimar m’invita». 67. Corvo e cornachia sono già protagonisti di Rvf 210, 5: «qual dextro corvo o qual mancha cornice». Come osserva Mengaldo 1963, 288, nel luogo boiardesco è notevole il rovesciamento di segno dell’augurio, che in Petrarca è fausto; ed è inoltre interessante il forte latinismo levo, attestato anche in AL III, 49, 5. 69. crocitando: lo stesso verbo (e soggetto è sempre un corbo) anche nell’Arcadia di Sannazaro, ma in un’egloga cestamente successiva alle Pastorale, 12, 223: «Talor d’un’alta rupe il corbo crocita».  249

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come a me Lyca sbigotita e smorta, qual vien piangendo e vegendomi aresta, che sol mirando a l’atto mi sconforta? Et io presago già de la tempesta che predice il delphyn da il curvo dorso chinai sanza sapper altro la testa. Ma lasso, ché vagando io son trascorso e del passato parlo di presente tanto insano è il dolor che il cor m’ha morso.

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71. vegendomi] da uegendome Lu 74. curvo] da crudo Lu  70. sbigotita e smorta: l’espressione è topica, da Rvf 15,7-8, di cui forse il nostro testo recupera, almeno in parte, il contesto: «fermo le piante sbigottito e smorto, / et gli occhi in terra lacrimando abbasso» (Merlini). Solo Boiardo, però, la applica ad una donna: IO I, xv, 40, 7: «tuta tremava, smorta e sbigotita». 72. ‘Mi addolora al solo guardarla, per il suo atteggiamento’. 73-5. La tempesta esistenziale del matrimonio di Nisa è dunque svelata, e Coridone, come un marinaio messo in guardia dal delfino, non può che chinare il capo e rassegnarsi agli eventi. 73, 75, 77. La sequenza rimica è anche della I di Arzocchi, 132-6 (Fornasiero 1988, 666). 74. L’annuncio di tempesta da parte dei delfini è di tradizione latina, ma qui verrà a Boiardo da Inf. XXII, 19-20: «Come i dalfini, quando fanno segno / a’ marinar con l’arco de la schiena» (Ponte 1962, 27). Forse qualche tangenza (per questo verso e per qualche tessera lessicale dei precedenti) con la IV egloga del Buoninsegni, 25-30: «Del futuro dolor quasi indivino, / mostrando el dorso fra l’onde è fuggito / nell’extremo occidente ogni delfino. / Più volte già è del suo lecto uscito / Neptunno con romore e con tempesta / sì che ciascun vicino è sbigoctito» (Battera 1990, 181). 76-84. Interessante sviluppo metapoetico del testo: il peso degli affanni ha ottenebrato la mente di Coridone, che parla del passato con l’intensità usuale di fronte a un avvenimento presente, e non riesce neppure a trasfondere il dolore in una poesia che non perda ogni misura. Il registro stilistico, che già nelle ultime terzine si era innalzato non poco, si impenna decisamente. 76. L’incipit, ma solo quello, rimanda a Giusto, La notte torna, 69: «Lasso, le notte e i giorni». – vagando io son trascorso: ‘muovendomi in maniera disordinata mi sono allontanato troppo’. 77. ‘E parlo del passato al presente’. 78. Verso di intonazione alta, dietro al quale traspare forse l’eco di Ugolino nel XXXIII, 5 dell’Inferno: «disperato dolor che ’l cor mi preme»; insano dolor è nesso già di AL II, 48, 6: «hanno pietà del mio dolor insano» (Zanato 1998 e 2012), come qui nell’accezione di ‘folle’ (Trolli). – il cor m’ha morso: sintagma lirico, da Rvf 250

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Sì disviato ha l’animo la mente che rime o versi o musica non cura, ma sol piangendo sé mostrar dolente. Nel mio cantare è persa ogni misura, né ho più quel dolcie suon che aver solia, ché il tanto sengiocir la voce indura. Ah, Coridone, ove hai tanta folia? ne l’aria de li augei seguire l’orme, de’ pesci in mar seguir credi la via? chi avrà ricolto a casa le tue torme?

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82. cantare] cantar B 86. seguire] seguite B Lu  29, 17, già in AL I, 43, 16: «che ancor dentro amoroso il cor gli morde» (Mengaldo 1963, 331). 79. ‘La passione ha talmente sviato la parte razionale di me’; animo e mente, qui, non sono dunque sinonimi. Calzante il rimando di Merlini all’Orfeo polizianesco (e dunque all’Orphei tragoedia I, 15, qui contigua all’originale), v. 31: «e mie mente d’amor divenne insana». Sempre Merlini nota come «nel Poliziano al verso 30 compare cor e al 33 piango simmetrici a cor di 78 (che in apertura esibiva insano richiamando quello posto in clausola da Poliziano) e piangendo di 81». 81. Verso di intonazione stilnovistica, per cui si veda ad es. (LIZ) Cavalcanti 35, 37-8: «Tu, voce sbigottita e deboletta / ch’esci piangendo de lo cor dolente». – mostrar: la lezione è accettabile, come completiva costruita con variatio in dipendenza da cura, anche se mostra sarebbe una lezione molto preferibile. Il sintagma mostrar dolente ricorda IO II, xxviii, 45, 4: «bate le man e móstrasse dolente». 82-5. Fra cantare e sengiocir, Coridone non sa più trovare un giusto equilibrio (misura); e il risultato è una poesia dura, priva del dolcie suon che la caratterizzava. L’intreccio fra canto e pianto (petrarchesco d’origine) era già stato il tema di PE V, 19-21 e 87-8, ma qui l’accento batte sulla perdita della misura, cioè sulla dismisura del sentimento, che nel sistema boiardesco è sempre e comunque un tratto negativo (Trolli ad vv. misura e smisurato). 85-94. La chiusa dell’egloga la riconduce, almeno in parte, nel solco della tradizione bucolica: la follia amorosa di Coridone lo distoglie infatti dai suoi doveri pastorali. E tuttavia l’amante che veglia in un mondo che si abbandona alla quiete è un tratto indiscutibilmente lirico; e la notte che scende, di nuovo, evoca il polimetro giustiano La notte torna. 85. Eco di Buc. II, 69: «Ah! Corydon, Corydon, quae te dementia cepit?» (Ponte 27), che era già stato utilizzato in PA VII, 14: «[...] Hei demens Corydon! [...]» (Merlini). 88. A Virgilio Boiardo giustappone la tradizione bucolica volgare in quello che per lui è il suo più alto rappresentante: cfr. la 251

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chi chiuderà la mandra? hor vedi, istolto, qual stai piangendo quando ogni altro dorme, quando il lume de il celo al tuto è tolto, né il fior se scerne da la herbetta verde (ché notte a veste negra ha il mondo involto): mal fa chi per altrui sé stesso perde.

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89. chiuderà] da chudera Lu 90. altro] altre B 91. celo] cel B  III egloga di Arzocchi, v. 15: «or chi averà colte oggi le mie torme?» (Fornasiero 1988, 667). 88-9. La risposta è nel polimetro di Giusto già tante volte ricordato, 13-5: «Ma tu, vicin, per Dio, la mandra serra, / sì tosto come a noi di su si oscura / e la gran luce se•nne va sotterra». 90. L’amante piange mentre il resto del mondo riposa: situazione lirica ampiamente sperimentata nei Rvf: 22, 50 ecc., ma che conosce anche in AL II, 44 una notevole attestazione ai vv. 109-35 (Riccucci). Qui anche un riferimento agli uccelli e ai pesci, che nel testo di PE sono troviamo poco più in alto; cfr. II, 44, 121-3: «Dormen gli ocelli in fronda al ciel sereno, / [...] / nei fiumi e pesci e dentro al salso seno». 91. Simmetrico al verso di Arzocchi III, 16: «Quando il lume del dì è più montato» (Ponte 27). 93. La veste negra di cui è coperta la terra ricorda la veste tetra di PE VIII, 60; ma il rimando è forse più alla fonte di quel passo boiardesco, ovvero la chiusa di Rvf 268, dove Petrarca definisce il testo «vedova sconsolata in vesta negra». Forse un’eco anche da Giusto de’ Conti 150, 197-8: «sì che di doppia notte era coperta / la terra [...]». 94. La chiusa rielabora Rvf 206, 43-5: «che me stesso perdei / (né più perder devrei). / Mal fa chi [...]», già in parte utilizzato in AL III, 23, 5: «Come fa mal colei [...]» (Zanato 1998 e 2012). 252

X

Il finale della raccolta vede l’egloga boiardesca latina e quella volgare – entrambe canti monodici di Orfeo – profondamente solidali fra loro, mentre si allenta il nesso che le stringe alle Bucoliche virgiliane: PA X canta infatti le lodi di Ercole, e PE X tesse il panagyrico di Alfonso di Calabria, mentre Buc. X sviluppa un compianto bucolico per l’amico Cornelio Gallo, perdutamente quanto sfortunatamente innamorato. Forse il testo latino conserva un ricordo del modello virgiliano nella disperazione di Ercole abbandonato da Ila come Gallo lo fu da Licori, ma PE X slega il canto di Orfeo da qualunque pretesto amoroso. Inoltre Boiardo colloca risolutamente il suo testo volgare su un terreno “altro” rispetto agli usuali soggetti mitologici, esibendosi in una personale variazione sul «paulo maiora canamus» di virgiliana memoria; con l’elogio di Alfonso di Calabria Boiardo raggiunge il culmine del percorso della sua raccolta, saldando, proprio nei mesi terribili della guerra contro Venezia, Inamoramento (II, xxvii, 56) e Pastorale in un nesso poetico forte – ahimè invece fragile nella realtà – contro la barbarie e le minacce dei tempi presenti. PA X si apre in medias res, indirizzandosi «principi invicto», cioè ad Ercole d’Este, mentre la corrispondente egloga volgare conosce un duplice esordio, prima del dispiegarsi del canto di Orfeo. Il primo (vv. 1-21), metapoetico, enuncia la matera e, di conseguenza, la forma del nuovo canto, che si pone «fuor de gli usati paschi» (v. 5), cioè non più sul terreno bucolico, ma su quello epico della celebrazione della «virtute splendida de un duce» (v. 17). Il secondo prologo (vv. 22-48) colloca la cantilena (v. 48) di Orfeo nel contesto dell’impresa degli Argonauti, quando il musico tracio riuscì ad ammaliare persino le sirene. E una sirena era Partenope, sulla cui tomba verrà fondata Napoli (vv. 55-60); l’elogio della ‘nuova città’ permette a Boiardo di trascorrere verso i fasti di Alfonso il Magnanimo, il sole spagnolo, che dunque sorge da occidente, e che a Napoli «fermerà la sua luce» (v. 66). Il panegirico di Alfonso di Calabria si apre però al v. 49, con l’origine della casata Aragonese, e si sviluppa poi attraverso il topos dell’età dell’oro, i cui effetti si accompagnano alla persona 253

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del duca (vv. 79-90). Seguono i fatti militari, da quelli compiuti in età giovanile, come la battaglia di Troia in Puglia del 18 agosto 1462 (vv. 94-9), ad altri che restano indeterminati (vv. 100-17). Il prosieguo delle imprese di Alfonso assume a questo punto un taglio chiaramente dantesco, che accomuna il suo viaggio di trionfo in trionfo alle imprese compiute dall’aquila romana nel VI del Paradiso: la campagna del 1467 contro Venezia e Ferrara, come alleato dei Fiorentini, e la vittoria (nei fatti una sconfitta estense, per quanto ben mimetizzata) di Poggio Imperiale (vv. 121-6), poi un lungo tratto che celebra (ed è la terza volta nelle Pastorale) la liberazione di Otranto e la vittoria sui Turchi (vv. 130-44). Gli ultimi avvenimenti sono ormai quelli della guerra di Ferrara (vv. 148-54): le grandi vittorie contro le truppe veneziane del Sanseverino, culminate con la battaglia sul Po, che potrebbe essere, come già in PE I, quella della fine del novembre 1483, la data più bassa della raccolta bucolica volgare. Il canto di Orfeo si chiude, e la nave degli Argonauti riprende il suo viaggio (vv. 154-62). Anche l’io lirico prende congedo dai lettori e dal testo, augurandosi di potere, in un’altra opera, di nuovo celebrare la gloria di Alfonso (vv. 163-9). Dal punto di vista stilistico, questa X è forse l’egloga più compatta della raccolta: la scelta decisa di una materia alta, lontana dalle favole mitologiche evocate con un certo spregio nei primi versi, comporta una adesione accentuata al modello dantesco, che abbiamo già visto dispiegarsi più di una volta nei componimenti di taglio storico politico, mai però con questa evidenza. Non solo singole espressioni rimandano alla Commedia, ma il canto VI del Paradiso trama di sé una parte della rievocazione delle imprese di Alfonso di Calabria, facendo sì che il condottiero si muova sul terreno della storia con la stessa agile e vittoriosa rapidità dell’aquila romana.

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egloga x

Ne l’ultima parla lo auttore; canta Orpheo el panagyrico de lo incomperabile signor duca de Calabria.

Sorge, Arethusa, e fonde ogni tua vena, ché l’alta fonte che è tra Cyrra e Nysa non bastarebe a tanta empresa apena. Questa matera che mia mente avisa fuor de gli usati paschi è da cantare cum meglior voce e versi de altra guisa.

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did. canta] e canta B  1-6. Invocazione alla ninfa Aretusa e proposizione della matera del canto. Tutta la protasi risente dell’apertura del Paradiso, anche se le coincidenze lessicali non sono molte: I, 11-2: «nella mia mente potei far tesoro, / sarà ora matera del mio canto» (Merlini); I, 16-8: «Infino a qui l’un giogo di Parnaso / assai mi fu; ma or con amendue / m’è uopo intrar ne l’aringo rimaso» (Pasquini 189); I, 36: «si pregherà perché Cirra risponda» (Pasquini 189). 1. ‘Sorgi, Aretusa, e lascia scorrere (nella mia poesia) ogni goccia della tua acqua’. L’invocazione a Aretusa è l’unica traccia virgiliana nel testo, da Buc. X, 1: «Extremum hunc, Arethusa, mihi concede laborem»; varrà qui, secondo un comportamento ben noto ai lettori di Boiardo, a prendere le distanze dalla fonte nell’atto stesso di dichiararla. In quest’egloga, a differenza che nella X virgiliana, più nulla sarà bucolico. 2-3. ‘La fonte Castalia, che sgorga dal monte Parnaso (qui alluso tramite il rimando ai suoi due gioghi, sacri a Apollo e alle Muse), reggerebbe con fatica l’impresa cui ora mi accingo’. 3. tanta empresa: l’espressione, di per sé, non è particolarmente interessante. Ma Boiardo la utilizza anche in apertura del canzoniere, in un contesto egualmente metapoetico: AL, I, 2, 7-8: «[...] il cominciato stil non abandono, / benché sia disequale a tanta empresa» (Zanato 1998 e 2012). 4-6. In ossequio al modello dantesco, l’innalzamento della matera comporta quello dello stile, che non sarà più bucolico («fuor de gli usati paschi»). 4. avisa: ‘si propone’, come a PE IV, 104, con significato simile. 6. cum meglior voce: ancora un dantismo, da 255

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Venite, belle nymphe, ad ascoltare: hor non vi narrerò le pome de oro che fèr nel corso Hyppomene avanzare; né porò l’Orse tra le stelle in coro; nì vi dirò di Crete il labyrintho; nì quel di Thebe, o qual fo più lavoro; o come fosse da Poluce vinto Bebrida al cesto; o le Arpie spenachiate;

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9. corso] corse B Lu  Par. I, 35: «forse di retro a me con miglior voci» (Merlini e Riccucci). – versi de altra guisa: si ribadisce la necessità di un cambiamento di stile, in rapporto ad argomenti nuovi. 7-15. La nuova materia è in un primo momento definita in negativo: oggetto di canto non saranno più le favole antiche, bensì la virtute splendida di un uomo contemporaneo. La dichiarazione di intenti boiardesca, anche se in forma meno drammatica, richiama alla memoria il passo di In. II, xxii, 2, 1-6, dove il poeta riflette sconsolato sulla sua poesia, e più precisamente sui contenuti di essa: «Fama, sequace degl’imperatori, / nympha ch’e gesti en dolci versi canti, / che dopo morte ancor gli homini honori / e fai color eterni che tu vanti, / ove sei gionta? a dir gli antichi amori / et a narar bataglie di giganti». 7. L’invocazione non è più ai pastori, come in PE IV, 106; VI, 1; VIII, 1 e 88, ma alle nymphe: il contesto sta già cambiando. 8-9. Comincia l’elenco delle favole che non verranno rievocate: quasi tutte ovidiane, e in gran parte note, notissime, tali che «ogni poeta ha già dipento» (v. 15); a partire da quella di Atalanta, Ippomene e le mele d’oro (Met. X, 562-707). Probabile eco dalle Stanze di Poliziano I, 94, 2-4: «[...] e pomi d’oro: / e pomi ch’arrestar fenno Atalanta, / ch’ad Ippomene dienno il verde alloro» (Merlini). 10. ‘Non porrò le Orse in mezzo alle stelle’; si allude al mito di Callisto, e alla trasformazione sua e del figlio Arcade nelle due costellazioni dell’Orsa maggiore e minore (Met. II, 401-507). 11. ‘Non vi parlerò del labirinto di Creta’.  12. ‘E non vi parlerò neppure di Tebe, e di quale sia stata la fatica maggiore’, probabilmente fra l’edificazione del labirinto e la costruzione delle mura di Tebe. 13-4. Lo scontro di pugilato fra Polluce e Bebrice (Bebrida è variante postclassica del nome antico, attestata anche nella tradizione medievale dell’Achilleide di Stazio: cfr. Statius 42) non è invece un mito notissimo, ma ci introduce al viaggio degli Argonauti, che sarà centrale nell’egloga: l’uccisione di Bebrice, infatti, avvenne in occasione di una tappa degli eroi. L’impresa di Polluce, ricordata da Boiardo già nei Carmina in Herculem I, 6 (Riccucci), è presente sia nel XXII idillio di Teocrito che negli Argonautica di Valerio Flacco (I, 763-6). 14. cesto: «Armatura contundente della mano utiliz256

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e ciò che ogni poeta ha già dipento. Dir non voglio io queste opere vulgate, ma la virtute splendida de un duce qual non ha pari in questa o in altra etate, se quello inmenso affetto che me aduce a narrar opra sì sublime e grave non me confonde gli ochi in tanta luce. Quei che passarno cum la prima nave eber cum sieco il bel figlio di Phebo, qual fo nel canto più che altri soave; colui, dico io, che da il dolente Herebo

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21. me] se B Lu (emendazione Mengaldo) 23. figlio] da figliol B  zata nelle antiche lotte» (TLIO). – le Arpie spenachiate: anch’esse presenti nel viaggio degli Argonauti, che subito dopo l’impresa pugilistica contro il re di Brebico, a Salmidesso incontrano Fineo, e lo liberano, appunto, dagli orrendi mostri alati (Argonautica II, 266-97). – spenachiate: l’aggettivo è forse meno connotato di quanto non appaia al lettore moderno, se si pensa per esempio al contesto in cui lo usa Petrarca in TP 133-5 (citato in nota a PE VIII, 55-7); Boiardo lo impiega anche nel poema, a II, xxiii, 23, 3: l’elmi spenachiati. 16-21. Il contenuto del canto viene ora proposto in positivo: verrà celebrata la virtù magnifica di un condottiero; se però la capacità del poeta, secondo il modello dantesco, non verrà offuscata dalla tanta luce dell’inmenso affetto. 19-21. Pur in assenza di riscontri lessicali puntuali, la struttura sintattica della terzina sembra alludere ancora al canto I del Paradiso, 22-4: «O divina virtù, se mi ti presti / tanto che l’ombra del beato regno / segnata nel mio capo io manifesti». 22-48. Si apre qui la tranche narrativa di Orfeo, focalizzata sul suo canto, in grado di ammaliare le sirene; l’impresa degli Argonauti, già suggerita da alcune delle terzine precedenti, occupa per intero la scena. 22-7. Boiardo ripercorre le tappe salienti dell’avventura terrena di Orfeo, figlio di Apollo e compagno degli Argonauti, che tornò grazie alla forza del suo canto (sonando) dal regno dei morti, e fu poi ucciso, ancora giovane, dalle Baccanti. 22. Gli Argonauti, che per primi solcarono per nave il mare aperto; la notizia, diversamente da quanto emerge dal commento Riccucci, è assai nota (Met. VI, 721), e si riverbera nel celebre verso di Par. XXXIII, 96: «che fe’ Nettuno ammirar l’ombra d’Argo». La trama del verso è dantesca, da Par. II, 16: «Que’ glorïosi che passaro al Colco» (Pasquini 389). 25. il dolente Herebo: Erebo è la parte più oscura della terra, ove si colloca il regno dei morti. Nella lingua letteraria italiana 257

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tornò sonando e da le Bacce occiso fo, sendo ancora giovene et ephebo. Questo cum dolcie voce e cum bel viso piegava e scogli e facea stare il vento; movea le piante a pianto e i saxi a riso, passando per la spiaggia lento lento, là dove le Syrene a dolci versi faceano in zoglia altrui morir contento.

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28. dolcie] da dolce Lu  è inattestato prima di questo luogo (ricorre nell’Arcadia di Sannazaro, ma nella prosa X, successiva alle Pastorale). Probabilmente Boiardo lo ricava dal passo delle Georgiche dedicato al viaggio di Orfeo, IV, 471-2: «At cantu commotae Erebi de sedibus imis / umbrae ibant [...]» (Riccucci). 26. Bacce: Baccanti, come nelle Stanze di Poliziano, I, 111, 4: «Satiri e Bacche, e con voci alte gridono», qui in forma settentrionale (Mengaldo 1963, 106). 27. giovene et ephebo: si direbbe in dittologia sinonimica, quindi senza alcuna allusione alla omosessualità del protagonista. 28-36. Il canto di Orfeo, già evocato al v. 24, mostra qui i suoi potenti effetti, in parte consueti, in parte piuttosto innovativi; un elenco più convenzionale è quello che Boiardo allestisce a PA X, 21-31, che non pare però implicato con questo passo. 30. Che le piante piangano e i sassi ridano esula dal catalogo usuale dei mirabilia di Orfeo. Per la paronomasia si può citare Lorenzo Apollo e Pan 171-2: «[...] et pianto tristo / sudorno e saxi et le silvestre piante» (LIZ), mentre l’accostamento dei saxi al riso pare risentire di AL I, 32, 7-8: «e se mostrar potesse il dolce riso, / faria movere e sassi e star il vento» (Zanato 1998 e 2012). Il luogo del canzoniere è comunque implicato col secondo emistichio del v. 29: «facea stare il vento». 31-6. Il magico canto si dispiega in un contesto narrativo preciso, di fronte agli scogli delle sirene, lungo la spiaggia (per la spiaggia). Che gli Argonauti nel loro viaggio abbiano sfiorato la dimora delle sirene e che il canto di Orfeo abbia ammaliato le ammaliatrici potrebbe derivare a Boiardo, più che dalla improbabile lettura delle Argonautiche di Apollonio Rodio cui, pur fra molti dubbi, pensa Riccucci, dal secondo coro della Medea di Seneca (vv. 355-60): «Quid cum Ausonium dirae pestes / voce canora mare mulcerent, / cum Pieria resonans cithara / Thracius Orpheus solitam cantu / retinere rates paene coegit / Sirena sequi? [...]». 31. lento lento: prestito dantesco decontestualizzato, da Inf. XVII, 115: «Ella sen va notando lenta lenta» o Purg. XXVIII, 5: «prendendo la campagna lento lento» (Pasquini 389), già filtrato attraverso AL III, 58, 8: «da’ laci ove or me spicco lento lento?» (Zanato 1998 e 2002). 32-3. Le sirene dal dolce 258

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E naviganti tuti eran già persi, né se potean se stessi contenire, ma il volto e i remi al canto avian conversi. Alhor comenciò lui suo canto a ordire cum tal dolceza che ogni mente oblitera e la Syrena taque per odire. Rimena il plectro de oro in su la cythera e cum le corde acorda la sua voce e il mare e il monte intorno la reitera. E’ cerco a lui vi avea delphini e phòce,

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canto assassino ricordano forse, come nota Riccucci, quella di AL III, 59, 40-4: «ché una syrena dentro vi nasconde / [...] / canta sì dolce che il spirito confonde, / e poi l’uccide che a dormir l’ha colto». Mi pare però più interessante l’idea che chi muore stregato dalla sirena muoia in gioia, perché la circostanza non è nota. E qui soccorre AL III, 12, la grande canzone «a polittico» (Zanato), in cui ogni scomparto è dedicato a un animale che si dà felicemente e volontariamente la morte: «[...] ogni animal che di suo voler more, / così contento è lui morir d’amore» (vv. 12-3). La sirena come simbolo d’amore, e dunque ossimorica per sua natura e nei suoi effetti. 35. contenire: ‘trattenere’. 36. Forse con una suggestione da Claudiano, De raptu Proserpinae III, 254-8, che così rappresenta le figlie di Acheloo: «Rapidis Acheloides alis / sublatae Siculi latus obsedere Pelori / accensaeque malo iam non impune canoras / in pestem vertere lyras: vox blanda carinas / alligat; audito frenantur carmine remi» (Riccucci). 37-48. La dolcezza del canto di Orfeo offusca quello della sirena e le impone il silenzio; attorno a lui, vittime dello stesso incantesimo, si affollano gli animali marini. 37. ordire: in senso metaforico anche in AL II, 3, 1; 12, 5; IO II, xxv, 50, 3 ecc. 39. La sirena che si zittisce sembrerebbe una variazione del motivo presente nei versi di Seneca citati più in alto. 40-1. Ancora una descrizione veloce ma piuttosto tecnica dell’intreccio fra voce e strumento musicale (come a PE III, 23-7 e nei passi di PA citati nel commento): qui però senza alcuna difficoltà, visto che Orfeo imbraccia la lira e può quindi, come Apollo nella gara con Marsia, cantare e suonare nello stesso tempo. Probabile una suggestione ulteriore dalla Medea senechiana (vv. 625-7): «ille vocali genitus Camena, / cuius ad chordas modulante plectro / restitit torrens, siluere venti» (Merlini). 43-5. Gli animali marini che si affollano attorno a Orfeo si sovrappongono in parte a quelli protagonisti della avventura di Arione in AL II, 44, 4-7: «forsi così faria compassïone / al veloce delfin questo cantare, / [...] / Qual monstro sì crudel nel verde mare» (Merlini); si comportano, però, come gli uccelli tesi al canto di Orfeo nella Medea senechiana, più volte ricordata: «cum 259

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né ceto né altro monstro al fondo resta, ma ciascun trage al canto più veloce. Tuti del mare avean sorta la testa e ciaschedun piu presso ascoltar vole la cantilena ch’a quel suon fo questa: «Io vedo ussir da lo occidente un Sole (se Apollo a me suo figlio il ver predice)

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47. presso] presse B Lu  49. Io] Eo B  suo cantu volucris relicto / adfuit tota comitante silva» (vv. 628-9). Fra i vari luoghi in qualche modo affini, forse il più suggestivo e il più congruente è però quello in cui Boiardo ci presenta per la prima volta Alcina, a IO II, xiii, 56-7: «[...] la Fata sopra ala marina / facea venir, con arte e con incanti, sin fuor del’acqua e pesci tuti quanti. // Quivi eran tonni e quivi eran delphyni / [...] diverse forme de monstri marini»; poco più avanti, come tutti ricordiamo, fa la sua comparsa anche la balena, che potremmo forse sovrapporre al ceto del v. 44. 43. E’ cerco: risolvo così la forma E cerco dei mss., attribuendole il valore di en cerco. – phòce: ‘foche’, con plurale palatale (Mengaldo 1963, 106). 45. ‘(Orfeo) col (al) suo canto tira (verso la superfice) più rapidamente ogni animale marino’. 46-7. I pesci si protendono fuori dall’acqua per ascoltare, come già abbiamo letto nei versi che Boiardo dedica ad Alcina, e come l’autore ribadisce poco sotto, a IO II, xiii, 59, 3-4: «sol le parole che al’aqua getava / facea tuti quei pesci star al segno». 48. cantilena: evidente prestito dantesco da Par. XXXII, 97. 49-153. Più di cento i versi del canto di Orfeo, che celebrano dapprima la casata aragonese nella persona di Alfonso il Magnanimo, per poi svilupparsi in forma profetica sul nipote di lui, Alfonso di Calabria. 49-69. Diversamente da quanto pensa Riccucci, tutto questo tratto è dedicato al primo Alfonso, e la pendice sì diserta non è Ferrara, ma il territorio che gli Argonauti vedono avanti a sé, passando lungo la costa. Territorio al momento abbandonato, ma sul quale, dopo la morte della sirena Partenope e la scoperta della sua tomba da parte della «gente nova e da abitare incerta», sorgerà Napoli. 49-51. La profezia di Orfeo si apre su un Sole che nasce a occidente, ossia là dove il sole della realtà fenomenica scender sòle; come poi al v. 64, Boiardo allude qui ad Alfonso il Magnanimo. La stessa immagine del sole come metafora di un combattente vittorioso è anche in PE IV, 107-8: lì però Boiardo la applica a Alfonso di Calabria, che renderà possibile la liberazione di Teseo-Correggio. Manca in PE IV, rispetto a questo nostro luogo, l’indicazione del sorgere a occidente, che vale solo per lo spagnolo Alfonso il Magnanimo. 50. suo figlio: si ribadisce quanto già detto al v. 22.  260

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che ascende ove questo altro scender sòle. E fermarasse in su questa pendice che hora vedeti avanti sì diserta, ma fia più ch’altra nobile e felice, poi che sarà la vergine scoperta, e ritrovata quella sepoltura da gente nova e da abitare incerta. Longo quel litto sorgeran le mura di quella alma cità, qual di vageza e de alta fama non avrà misura. Né ciò dico per possa o per vechieza, per soperbi edifici o per bel sito o per sua gente ale virtute aveza, ma perché il novo Sol, de Spagna ussito, poi che avrà lustregiato tuto il mondo, fermarà la sua luce in questo litto.

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56. ritrovata] ritrovata a B  52. pendice: nel significato generico di ‘luogo’ (TB). 53. diserta: ‘inospitale’. 54. fia: ‘sarà’. 55-7. La leggenda della fondazione di Napoli sulla tomba di Partenope, che sarà poi rievocata da Sannazaro in Arcadia VII, 3 (Riccucci), è presente nell’Ameto boccacciano XXXV, 15, in un passo piuttosto vicino a questo boiardesco: «Essi, nel primo fondare, di candido marmo una nobile sepoltura della terra nel ventre trovarono, il titolo della quale, di lettera appena nota, tra loro leggendo, trovarono che dicea: Qui Partenopes vergine sicula morta giace» (Merlini). 57. Sempre secondo l’Ameto (XXXV, 4), a fondare la città furono popoli di origine calcidica: «quivi disposero d’abitare, estimando che istrettezza di luogo non più li farebbe per innanzi mutare, quantunque crescesse la loro progenie» (Merlini). 58-69. Una volta fondata, Napoli crescerà splendida, soprattutto per il lustro arrecatole dalla casata degli Aragona che, con Alfonso il Magnanimo, deciderà di risiedere nella città «poi che avrà lustregiato tutto il mondo»; si allude alla dominazione aragonese, che si apre nel 1442, e viene celebrata anche in IO II, xxvii, 54 e 55. 61. per possa o per vechieza: ‘per potenza o per antichità’. 65. lustregiato: ‘illuminato’; il verbo è utilizzato anche in PE II, 14, cui si rimanda per la nota relativa. Per l’immagine di Alfonso come luce, cfr. IO II, xxiii, 6, 8: «non Spagna sol, ma iluminato ha ’l mondo».  261

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Da le superne stelle al mar profondo la terra sonerà del primo Alphonso, e seconderà il nome nel secondo. Né fia di Delpho oraculo o responso la gloria di costui, ma tanto chiara quanto di raggi ha Phebo il capo intonso. Natura generosa che rippara in regal sangue alcun lignaggio antico in altra stirpe più non se rischiara; né Atalarico gia nì Rodorico che a questa inclita jesta son disopra ogualiar se potrano a quel che io dico.

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67-9. Dal primo Alfonso si trascorre ora al secondo, il duca di Calabria. 67-8. Cfr. Buc. IV, 50-1: «Adspice convexo nutantem pondere mundum, / terrasque, tractusque maris, caelumque profundum» (Merlini). 68. ‘Farà risuonare il nome del primo Alfonso’. 69. seconderà: ‘proseguirà’. 70-90. Il primo segmento della laudatio di Alfonso non fa riferimento ad avvenimenti storici precisi: l’esaltazione della virtù del giovane condottiero si sviluppa lungo i binari della IV egloga virgiliana, celebrando l’avvento di una nuova età dell’oro. 70-2. La gloria del duca non sarà affidata ai vaticini degli oracoli, ma brillerà chiara come i raggi di Apollo-Sole. Molto simile un passaggio di PA X, 93-5: «[...] augurium non hoc mihi pandit Apollo / nec vaga Cirraeo vates seclusa sub antro, / sed tua iam caelo et terris bene cognita virtus» (Riccucci). 72. il capo intonso: è attributo tradizionale di Apollo crinitus (Aen. IX, 635): Tibullo III, x, 2: «huc ades, intonsa Phoebe superbe coma» (Merlini). 73-5. Il significato della terzina non è chiarissimo: ‘la Natura generosa, che offre rifugio e protezione (rippara) ad una antica stirpe in una discendenza (sangue) reale, non brilla (se rischiara) in altra schiatta più che in quella degli Aragona’. 73. rippara: nella stessa accezione e nello stesso costrutto (LIZ) anche nelle Rime di Fazio degli Uberti, 2, 109: «Or egli è ver che Mario in te ripara», o nell’Ameto boccacciano, XXXVII, 20: «nella quale gran parte riparavano de’ suoi seguaci». 76-8. Neppure la fama di Atalarico e Roderico, sovrani goti antenati degli Aragonesi, potrà uguagliare quella di Alfonso. 77. jesta: ‘gesta’, ‘stirpe’, anche in IO II, i, 14, 4 (iesta). 78. Il verso replica puntualmente AL I, 8, 18: «che aguagliar se potesse a quel che io sento» e soprattutto IO II, xxix, 1, 8: «che ogualiar se potrano a quel ch’io dico», dietro ai quali si intravede Par. XXII, 105: «ch’agguagliar si potesse alla mia ala» (Zanato 1998 e 2002).  262

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Vedeti che a sì grande e nobil opra (quale è produtta per cotanti honori) par che ogni stella il bel viso discopra; vedeti il mondo ornato a rose e fiori e il mar tornato di sapor di mèle, spirar il vento de cinamo odori. Tigri e serpenti e ogni animal crudele rari sarano, et se qualcun ne fia sarà senza veneno e senza fele. Come fia nato, a lui per compagnia sarà donato Amor cum gli ochi aperti e Gentilezza e Ardire e Cortesia. Né sarano a sue guanze e pel scoperti

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81. par che] da parche Lu  79-90. L’apparizione di Alfonso, come quella del puer virgiliano, è accompagnata da segni miracolosi. 79. opra: ‘impresa’, con allusione alla nascita di Alfonso. 81. ‘Le stelle gli mostrano un viso propizio’. 82. Cfr. PE I, 156 e la nota relativa. 83-4. Si ripresentano gli elementi di PE I, 157, quelli dell’elogio a Venere nel libro I del De rerum natura, ma con una sfumatura virgiliana: il mare, infatti, ha sapor di mèle, come le querce di Buc. IV, 30: «et durae quercus sudabunt roscida mella», e dietro il cinamo di cui profuma il vento del v. 84 traspare forse il ricordo (solo fonico) dell’amomum di Buc. IV, 25. 84. cinamo: variante di cinnamomo già utilizzata da Boiardo in AL III, 12, 34 (Mengaldo 1963, 280 e Zanato 1998 e 2012). 85-7. Tutta virgiliana l’impronta di questi versi, da Buc. IV, 24-5: «Occidet et serpens, et fallax herba veneni / occidet [...]», ripresi anche in PE I, 169: «In terra non saran più monstri o belve». 88-90. Ad accompagnare il magico bambino saranno Amore, Gentilezza, Ardire e Cortesia; più o meno le stesse virtù che abbandonano la terra in PE IV, 58-61, in segno di lutto per la prigionia di Teseo-Correggio. 89. Amor cum gli ochi aperti: nella sequenza è senza dubbio l’elemento più originale, visto che si presenta ad occhi spalancati, né cieco né bendato. 91-117. Le imprese militari del giovanissimo Alfonso fanno pendant con quelle di Ercole, celebrate in PA X, 76-86 e in Carmina IV, 75-85; notevole soprattutto la corrispondenza del giocando del v. 109 con il ludus di PA X, 81 e il lusus di Carmina IV, 79. 91-3. Gli echi danteschi si fanno più fitti: evidente in questo tratto, anche se non si danno coincidenze lessicali significative, il ricordo del valore del giovane Cangrande della Scala, in Par. XVII, 79-87 (Pasquini 389). 91. ‘Sulle sue guance i peli non 263

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che de lui s’oderà non dico segno, ma prove d’huon compiuto e fatti experti. A la difesa del paterno regno, quasi fanciullo, ov’è Troia minore di cotal parte se mostrarà degno. Non crescerà suo triumphal honore com’altri a poco a poco, ma ad un punto darà per tuto subito fulgore. La bellica prodezza ch’io ve conto fia tuta sieco, et non sarà divelta sin che fia al cielo in anima ragionto. E come il Mauro ha l’hasteciola iscelta, e quel di Baleare ha la sua fronda, il Scita l’arco, Amazone la pelta, così parrà che ogn’arte a lui risponda, non sol che s’usi ma pensar si possa per opra di bataglia in terra e in onda.

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99. subito] da subite B 103. iscelta] inselta B 107. pensare] pensar B Lu  saranno ancora evidenti (scoperti)’. 93. experti: ‘sperimentati’; e dunque fatti experti vale ‘imprese conosciute’. 94-6. Boiardo allude alle prime gesta di Alfonso, quando, appena quattordicenne, a Troia in Puglia sconfisse l’esercito angioino; la stessa immagine di un condottiero ancora giovane è offerta dal poema a II, xxvii, 56, 1-4: «Ma l’ondecimo Alfonso gioveneto / con l’ale è armato a guisa de Vitoria / si come la Natura avesse eleto / un hom a possider ogni sua gloria». 97-111. Le lodi di Alfonso non sono qui legate ad alcuna impresa specifica. 97-102. Il suo onore triumphal non verrà maturando nel tempo, ma mostrerà «per tuto subito fulgore», e l’eccellenza nel mestiere delle armi lo accompagnerà sino alla morte. 102. ragionto: ‘ricongiunto’ (TB). 103-8. Sarà padrone di ogni tecnica militare (reale o anche solo ipotizzabile), a differenza di quanto accade di solito. 103-5. A ogni popolo la sua arma preferita: al Mauro la lancia, al guerriero delle Baleari la fionda, allo Scita l’arco e all’Amazzone lo scudo. 103. iscelta: la lezione corretta di Lu di contro all’erroneo inselta di B conferma l’interpretazione dubitativamente avanzata da Mengaldo nel suo Glossario: ‘scelta’. 105. pelta: ‘scudo’ (TB); questa di Boiardo (GDLI, LIZ e Bibit) sembra la prima attestazione letteraria italiana. 106. arte: ‘tecnica’ di bataglia (v. 108).  264

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Talhor giocando a scudo et hasta grossa farà di sé tal mostra che ciascuno se stupirà di sua destrezza e possa. Coteste lodi che cantando aduno non son la summa di virtute tanta, ma qual in bella donna è l’ochio bruno, e qual è fior vermiglio in verde pianta, in monil d’oro il lucido carbone: tal tra tutti altri, sol costui si vanta. Testimonio è Flaminia e il Rubicone:

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109. giocando a] giocand’a B Lu  113. son] da suon Lu 116. carbone] carbono B Lu  109. giocando: anche nei combattimenti più ludici la virtù di Alfonso avrà modo di risplendere; si veda la nota ai vv. 91-117. – hasta grossa: una decina di occorrenze nel poema. 112-7. Impossibile rendere con le parole la summa delle virtù di Alfonso: le parole del poeta ne sottolineano solo gli aspetti più evidenti, come accade a chi loda gli occhi scuri in un bel viso di donna, un fiore rosso in una pianta, una pietra preziosa in un gioiello d’oro. 114. ochio bruno: forse con un ricordo di Antonia Caprara (AL I, 42, 13); la passione boiardesca per gli occhi neri riaffiora anche in IO II, xxvi, 16, 4. 116. lucido carbone: ‘luminoso carbonchio’ (TB). 118-29. La laudatio di Alfonso vira con decisione sui binari danteschi del VI del Paradiso: le imprese del condottiero si modellano sul volo dell’aquila imperiale. 118-22. Modello per questi versi è senza dubbio Par. VI, 61-6: «Quel che fe’ poi ch’elli uscì di Ravenna / e saltò Rubicon, fu di tal volo, / che nol seguiteria lingua né penna. / [...] / sì ch’al Nil caldo si sentì del duolo»; le imprese di Alfonso evocate da Flaminia, Rubicone e Arno (e si noti che due su tre dei toponimi sono fiumi, come nella famosa terzina che precede questa nella Commedia e che abbiamo citato nel commento a PE I, 148) sono quelle del 1467, in occasione dell’offensiva che Bartolomeo Colleoni, con il tacito consenso di Venezia, lanciò contro le potenze della «Lega particolare» stipulata tra Napoli, Milano e Firenze. Il percorso che Alfonso, nell’agosto del 1467, compie per dirigersi verso la Romagna, teatro degli scontri, segue effettivamente un tratto della Flaminia cosiddetta minor, lungo l’asse Arezzo Firenze Bologna, sino al campo della Lega collocato presso il fiume Idice, nel bolognese. Un percorso dunque simmetrico a quello dell’aquila romana nelle mani di Cesare nel VI del Paradiso. Come ricaviamo da una lettera che Alfonso di Calabria scrive a Galeazzo Maria Sforza (devo tutte queste indicazioni e la trascrizione che segue a Francesco Storti), il suo propo265

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là tra ’ nemici passarà di volo prendendo il pasto a guisa di falcone. Testimonio fia l’Arno e l’alto dolo ch’a Puoggio Imperïal Toscana sente: là tanti segni abbaterà lui solo. Non fia riparo all’animosa mente

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120 prendendo il] prendend’il B Lu  122. Imperïal] da imperiale Lu  sito iniziale era quello di proseguire sino a Castrocaro, lungo un itinerario che lo avrebbe quindi portato ancora più vicino al dantesco Rubicone, ma il ritorno di Galeazzo Maria a Milano rese impossibile l’incontro fra i due: «Illustrissime et excellentissime dux frater noster colendissime, sentendo la tornata de vostra signoria verso el suo stato, per lo favore che la presentia de quella donava ali comuni stati de questa Liga, et per non trovarela come per nui se desiderava, ne dole gravemente, perché vostra signoria pò considerare, essendo quella stata in campo et giongendo questa compagnia che con nui ducimo, la victoria era certissima. Et, abenché fosse deliberato secondo el parere del signor re et vostra signoria devessimo andare la via de Castrocaro, per unirsene cole gente de nostro signore, donde se spectava bonissimo successo in favore dele comune stati, tamen, l’absentia de vostra signoria farrà mutare dicto proposito et deliberatione et lunidì, che serranno XXIIII del presente, ce levaremo da cqui [...]. Date in regis paternis felicibus castris apud flumen Sevi XXI augusti M°CCCC°LXVII°. Lo vostro minor frate, lo duca de Calabria. [...]» (Archivio di Stato di Milano, Sforzesco, Potenze Estere, Napoli, cart. 216, f. 77. Originale). 118-21. L’anafora di Testimonio ricorda l’analoga struttura di Carmina IV, 85 e 87: «Testis Parthenope, testis fera turba Sicambrum / [...] / testis et [...]» (Riccucci). 119-20. L’immagine di Alfonso che si muove contro i nemici come un falcone sulla preda non è certo immemore della rapidità dell’aquila imperiale ai vv. 62-3 di Par. VI già citati, ma immagini simili, a connotare il veloce agire di un guerriero, sono presenti nell’Inamoramento, per esempio a II, xvii, 19, 3-4: «Come dal’aria giù scende il falcone / e dà nel megio a un gropo di cornachie». 121-6. Come in PE II, 49-57, Boiardo, cautamente, si confronta con la vittoria di Alfonso a Poggio Imperiale, e quindi con la sconfitta di Ercole d’Este; si veda quanto già detto nella nota a quel passo, con l’avvertenza che qui l’ordine naturale degli avvenimenti viene rispettato, e la vittoria di Otranto del 1481segue questa di Poggio Imperiale del settembre 1479. Fra le insegne abbattute da Alfonso, a PE II, 53 Boiardo annoverava anche il sacro ocello, ovvero l’aquila estense; qui il riferimento resta indistinto, con i Fiorentini (Arno, Toscana) in posizione esposta fra gli sconfitti.  266

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inexpugnabil colle, e ogni altro loco sempre di contrastarlo al fin si pente. Ma d’ognhor quel ch’è fatto a lui par poco, e più richiede sua virtude accesa spirando ad alto sempre come foco. Mirate Italia che si sta difesa sott’al suo scudo, e senza altra vigilia, senza altra guarda a sì stupenda impresa. Dal mare Eusino a’ jogi di Pamphilia, e ciò ch’è tra l’Eufrate e tra il Danubbio ne ven armato al Regno di Sicilia; e se non rompe a sì gran tela il subbio

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127. ch’è fatto] ch’ fatto B Lu  128. virtude accesa] uirtud’accesa B Lu  129. spirando ad] Spirand’ad B Lu  132. stupenda impresa] stupend’impresa B Lu 135. ven armato] uien’armato B Lu  125. inexpugnabil colle: di nuovo un riferimento a Poggio Imperiale, la cui invincibilità si è poi mostrata solo apparente. 127-9. Snodo di sapore dantesco, da Par. VI, 82-5: «Ma ciò che ’l segno che parlar mi face» / [...] / diventa in apparenza poco e scuro»: la virtude accesa dell’Aragonese non si appaga di quanto ha realizzato, ma aspira a risultati sempre più alti. 130-44. Torna di nuovo nelle Pastorale (dopo PE I, 142-4 e PE II, 40-2, alle cui note si rimanda), il ricordo della liberazione di Otranto, il 10 settembre 1481; delle tre, questa è forse l’occorrenza in cui Boiardo dedica all’avvenimento maggiore spazio. 130-2. L’Italia tutta è affidata ad Alfonso, come in IO II, xxvii, 56 bis, 3-4, già ricordato nel commento a PE I, 142-4: «sì com’è Italia da’ Turchi diffesa / per sua prodecia sola e suo valore». 130. Mirate: ultima eco di Par. VI, 86: «se in mano al terzo Cesare si mira». 132. guarda: ‘guardia’, deverbale da guardare, anche in AL III, 32, 2 (Mengaldo 1963, 141). 133-44. Viene dapprima evocato l’esercito dei barbari che muove contro il Regno di Sicilia, poi il valore di Alfonso, il duca sicuro che conquista Otranto e la strappa al dominio dei Turchi. 133-4. Si allude alla popolazioni che avanzano da est, muovendo dal mar Nero (Eusino dall’appellativo greco), dalle montagne della Panfilia in Asia Minore, e da tutta la zona compresa fra Eufrate e Danubio. 136-8. Se il duca di Calabria non spezza con forza il telaio (subbio) di una tale impresa, l’Italia è perduta. 136. subbio: più precisamente è la sbarra sulla quale i tessitori avvolgono la parte già realizzata della tela. In Boiardo è utilizzato probabilmente sulla scorta di Rvf 264, 130: «ché pur 267

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e sì gran tramma quel duca sicuro, perduta è Italia, e non ne faccio dubbio. Ma che dico io? quei barbari non curo, ché già di salto a l’alte terre in cima e già d’Otrantho il veggio sopra ’l muro. Sagitte, foco e folgore non stima, né questa gente horribile e leggiera tra la qual Marte sua sede ebbe in prima. O gentil alma nobil et altiera, ch’a tua prodezza non trovi confino, a maggior fatti drizza la bandiera. Già il Mentio, l’Oglio, Pado, Ada e Tesino

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139. dico io] dic’io B Lu  140. terre] torri B 141. sopra ’l] sopra il B 144. prima] da prma B 143. questa] quella B  horribile] horribil B 144. sua] suo B Lu  deliberando ò vòlto al subbio» (: dubbio); altre attestazioni tre-quattrocentesche in LIZ e in Riccucci, ma nessuna particolarmente significativa per il luogo boiardesco. 139-44. La descrizione passa in presa diretta, con Alfonso che balza sulle mura di Otranto per sterminare questa gente horribile e leggiera. 139. Ma che dico io?: cfr. AL I, 16, 9: «Deh, che dico io?» (Zanato 1998 e 2012). 140. terre: nell’accezione di ‘parti fortificate di una città’ (TB). 143. leggiera: ‘agile’, ‘veloce’ (TB). 144. Marte (Aen. III, 35) è nato in Tracia. – sua: emendo il suo dei mss., perché la forma toscana indeclinabile non è mai utilizzata da Boiardo. 145-53. Boiardo stringe infine sui maggior fatti della guerra di Ferrara, e restituisce la parola direttamente a Orfeo: le imprese di Alfonso in quella occasione saranno «grande e sì distese» «che bisogno non è che le ricorde». 145. O gentil alma: cfr. AL I, 33, 40 (Zanato 1998 e 2012). 148. I cinque fiumi letterariamente discendono dalla sequenza di Rvf 148, 1: «Non Tesin, Po, Varo, Arno, Adige et Tebro» (Ponte 27 e 28), ma Boiardo utilizza i toponimi (o almeno una larga parte di essi) per rievocare i fatti salienti della campagna di Alfonso contro i Veneziani. Ricapitolando i fatti, sulla scorta di Mazzoni 334, di Benvenuti 1995, 53, e infine di Riccucci, nel luglio 1483 Alfonso passa l’Adda (Ada); poco dopo l’Oglio e il Mincio (Mentio). La menzione del Po (dantescamente Pado, come in PE II, 71 e in PE VIII, 9) sembra alludere alla vittoria di Alfonso nel novembre 1483, che sarebbe quindi terminus post quem per questi nostri versi, per PE I, 145-7, ma anche per la silloge nel suo complesso, che non offre indicazioni cronologiche posteriori a questa data. Il Ticino, in questa serie di avvenimenti, non trova luogo, perché il 268

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a te fan riverenza, e il bel paese qual chiude l’Alpe, il mare e l’Apenino. Là farai l’opre grande e sì distese che bisogno non è che le ricorde, quando in se stesse fien chiare e palese». Cantava Orpheo con voce e cum le corde, ma la sua nave non potea star quieta con tal dolcezza quel canto la morde; e tanto è di quel sòn zogliosa e lieta che verso il ciel adrizava la prora onde più longo il canto li divieta,

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150. chiude] da chude Lu 151. l’opre] l’opere Lu 152. le] li B Lu  terreno del conflitto non si spostò mai tanto a ovest: la forma adottata, identica a quella petrarchesca (ma ricorre anche in IO II, xiv, 14, 4), induce a pensare che, come il Rubicone del v. 118, il fiume entri nella sequenza per ragioni soprattutto letterarie. 149-50. Nella perifrasi che indica l’Italia Boiardo giustappone luoghi letterari diversi, Rvf 146, 13-4: «[...] il bel paese / ch’Appennin parte, e ’l mar circonda et l’Alpe» (Ponte 27) e Inf. IX, 114: «ch’Italia chiude e i suoi termini bagna» (Ponte 28). 154-69. Boiardo si congeda da questo testo e dall’intera raccolta con una artificiosa struttura en abyme: la nave di Orfeo subisce essa stessa l’incantesimo del canto e, incapace di stare ferma, si allontana dal lito periglioso e porta lontano il poeta, quasi che noi lettori lo vedessimo svanire sotto i nostri occhi. Parallelamente, calata la sera, anche la poesia boiardesca si tace, con l’augurio che, con altri versi, possa tornare a celebrare le imprese di questo duca. In fondo, anche se solo nelle ultime battute, Boiardo concede qualcosa al topos del «paulo maiora canamus», e si collega alla chiusa di PA X: «[...] Cras altera reddam / munera: maiori cantandus carmine surgis», con l’auspicio di un’altra opera, a più ampio respiro. 155-8. La nave che si muove quasi per sua volontà è assimilabile a quella – incantata – che porta Ranaldo a Palazzo Zolioso (I, v, 54, 3-6): «non va il delphino per l’onda marina / quanto va questo legno a maraviglia. / A man sinistra la prora se inchina, / volto ha la poppa al vento di Sibiglia». Notevole anche il processo antropomorfico per cui alla barca vengono attribuite sensazioni e comportamenti umani: «non potea star quieta»; «quel canto la morde»; «è di quel sòn zogliosa e lieta». 158. Indirizza la prora verso il mare aperto, là dove non si vede terra ma solo cielo. 159. Impedisce a Orfeo di cantare ancora, o meglio impedisce a chi sta ascoltando di continuare a farlo.  269

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benché gran gesti restavano ancora; ma non potendo, al lito periglioso voltò la poppa e non fece dimora. Et io nel bosco hormai più star non oso poi che oscurito è per tutto d’intorno: giunt’è la notte e il tempo di riposo. Ma se mia voce, come io spero, adorno, di questo duca l’habito reale con altri versi a dimostrar ritorno pur ch’al disio la possa spieghi l’ale.

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160. restavano ancora] restauan’anchora B 166. come io] com’io B 167. duca] Duce Lu  reale] regale B 168. dimostrar] dimostràr Lu 169. pur] da par B 160. Molte ancora sarebbero le imprese future di Alfonso; il canto si interrompe qui. 163-5. Cala la notte, è tempo di riposo, non più di poesia, secondo un topos ampiamente bucolico. 166. ‘Se riesco ad abbellire le mie parole (poetiche)’; così anche in AL II, 55, 3-4 (il contesto però è diverso): «[...] l’ultime sue voce / più dolcemente de adornar si forza» (Riccucci). 167. habito: ‘aspetto’. 169. ‘Purché le mie possibilità supportino adeguatamente le mie intenzioni’; il verso ha una vaga intonazione dantesca, per es. da Purg. IV, 28-9: «[...] con l’ale snelle e con le piume / del gran disio [...]». Ma la corrispondenza più stretta è con AL I, 15, 1-4, il cantus conperativus spesso ricordato per queste Pastorale: «Chi troverà parole e voce equale / che giugnan nel parlare al pensier mio? / Chi darà piume al mio intelletto et ale / sì che volando segua el gran desio?». 270

CARTE DE TRIOMPHI a cura di Antonia Tissoni Benvenuti

INTRODUZIONE

I cosiddetti Tarocchi di Boiardo (titolo attribuito loro da Solerti) erano detti all’epoca Carte de triomphi. Il sostantivo ‘tarocchi’ al tempo di Boiardo non esisteva: secondo Dummett 1993, 18 è documentato solo a partire dal 1516. Che fosse una parola nuova nei primi decenni del Cinquecento è provato anche da questo passo del De calamitatibus Italiae (un’operetta latina attribuibile a Francesco Vigilio, intorno al 1532) edito in Dionisotti, 14:

Content

Quid illud, quod in ludis quoque barbaris verbis utuntur? Franciscus enim ille meus Petrarcha picturatarum cartarum ludo Triumphorum nomen induxerat, optime quidem, quod in eo veluti bellica victoria spectatur. Barbaro ritu, taroch nunc dicunt nulla latina ratione. Sed cur non minus improprie bachiach? Quid illud, quod astragalli iactu trictrac, quod verbum non sine dentium profertur stridore?

La curiosa citazione di Petrarca – esula dalla nostra immagine del poeta la possibilità di vederlo coinvolto in un gioco di carte – può esser stata semplicemente suggerita dal titolo e dalla struttura trionfale delle sue terze rime; quello che però importa è considerare che l’accostamento non pare invenzione dell’autore del passo sopra citato, ma un’opinione diffusa. Un accostamento che potremo tener presente per l’intentio dell’opera boiardesca. Da un punto di vista iconografico, la possibile influenza delle miniature che illustrano i Trionfi petrarcheschi sulle carte dei Tarocchi tradizionali è stata indicata nel 1956 da Moakley e talvolta ripresa negli studi più recenti. Come del resto l’inevitabile confronto con alcune figurazioni dei trionfi nella parte alta degli affreschi di Schifanoia. Ma tutto questo riguarda appunto le figure, non i versi apposti alle carte. L’interesse per le carte de triomphi era molto vivo alla corte Estense nel Quattrocento, come hanno mostrato i documenti editi da Campori, che riguardano i compensi ai miniatori che le decoravano. Sulla base di Campori, Dummett 1993,77 indica come testimonianza più antica un documento del 1442, ma ora con l’aiuto dei preziosi volumi di Franceschi275

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ni,

vediamo che le notizie sono più numerose e riguardano anche anni precedenti. Nell’età di Niccolò III, troviamo già nel 1422 un pagamento per «cartexelle da zugare» (Franceschini, I 293). Molte altri dati riguardano l’età di Leonello, di Borso e di Ercole. Un documento del 1442 è molto chiaro: si tratta di un pagamento a «Maistro Iacomo depintore dito Sagramoro», per «avere cholorido e depinto le chope e le spade e li dinari e li bastoni e tutte le figure de quatro para de chartexele de trionffi» (Franceschini I, 481). Ma non si trattava sempre di carte miniate; nel1452 troviamo la notizia del pagamento di «una pignata de negro[...] zoè libre doe de vernise liquida e quatro de raxa, fatone la dita pignata de negro per mandare al Mantoano a Sasuolo per stampire charte da Imperaduri da zugare, per uxo delo illustro nostro Signore» (Franceschini I, 688; 825). Queste carte, come quelle dei Trionfi, venivano poi colorite dai miniatori di corte, come risulta da molti documenti, espliciti a questo proposito a partire dal 1460 (Franceschini, I 920, 924, 952 ecc.). Quindi le carte in uso alla corte di Ferrara non erano solo quelle miniate, secondo un‘opinione diffusa, ma anche le xilografate. È certa la diffusione, nel Quattrocento, di carte de triomphi di diverse tipologie anche nelle altre corti italiane; ne sono sopravvissute alcune, soprattutto quelle miniate, più preziose (si veda, oltre a Dummett 1993, Passare il tempo, e I tarocchi. Il caso e la fortuna.). Può essere utile, anche per conoscere la terminologia in volgare del gioco, vedere quanto scrive in proposito il ferrarese Polismagna, nel suo volgarizzamento della Vita di Filippo Maria Visconti del Decembrio: Alcuna volta [Filippo Maria] zugava ale carte de triumphi. Et di questo giocho molto se delectoe, per modo che comparoe uno paro di carte da triumphi compite mille et cinquecento ducati. Di questo maximamente auctore et casone Martino da Terdona suo secretario, il quale cum meraviglioso inzegno et summa industria compite questo giocho de carte cum le figure et imagine de li dèi et cum le figure de li animali et de li ocelli che glie sum sottoposti. (Modena, Bibl. Estense, ms. Ital. 99, α W 2, 15; f. 62v)

È di un qualche interesse sapere che le figurazioni non seguivano il modello standard, ma erano mitologiche; diversi erano gli stessi semi: aquile, fenici, tortore e colombe. Non c’è traccia di queste figure nelle carte miniate milanesi sopravvissute (riprodotte più volte; si veda per es. I 276

introduzione

tarocchi: il caso e la fortuna). Ne abbiamo però la descrizione dello stesso Marziano nel Tractatus de deificatione sexdecim heroum (su cui Pratesi e Dummett 1993, 104). Alle carte di ambiente ferrarese è dedicato l’esaustivo capitolo II di Dummett 1993. Interessante è la sopravvivenza di alcune carte da gioco con gli stemmi estense ed aragonese. Si suppone siano successive al 1473, data del matrimonio di Ercole d’Este con Eleonora d’Aragona (si veda Algeri 24); ma va ricordato che Leonello aveva sposato nel 1444 Maria d’Aragona. Le carte sono ora alla Beinecke Library della Yale University. Testimoniano il perdurare a Ferrara dell’abitudine al gioco delle carte nei primi anni della signoria di Ercole anche alcuni capitoli a lui dedicati da Bartolomeo Fonzio (editi in Leonardi); una sorta di aition che riguarda l’origine di un gioco di carte mitologico, ma diverso da quello milanese ricordato sopra, in cui i semi tradizionali sono messi sotto la tutela di alcuni dèi. Ercole infatti presiede alla serie dei bastoni, Marte a quella delle spade, Mercurio ai denari e Bacco ovviamente alle coppe. Ma non si trova nei versi del Fonzio alcun accenno alla serie dei Trionfi, né a versi eventualmente scritti sulle carte. Riguarda invece anni più tardi la notizia data da Bertoni (Bertoni, 222-3) di versi anonimi che non si riferiscono a un gioco di carte completo, ma alla serie dei Trionfi soltanto, in cui ogni figura è abbinata al nome di una dama dell’epoca: per es. il Mondo è abbinato a Violante Trotti con questo verso: «Il tutto reggerà per sua sapienza»; la Iustitia a Ludovica Giliola «Giusta tien le bilance et il ciel mira»; l’Agnolo a Diana Trotti «Questa per sua beltà fatta è divina»; il Carro a Isabella d’Este «Trionfa sol costei per sua grandezza», e così via. Possiamo aver un’idea delle Carte de triomphi attribuite a Boiardo dalle riproduzioni di dodici di esse, in Dummett 1973 e Dummett 1980 (pp. 303-304). Sono carte xilografate, non colorite, forse copia di un originale miniato. Ma abbiamo visto come anche a corte si usassero carte stampate. Su ognuna di esse compare una terzina, inquadrata in una sorta di lapide. Nelle figure la terzina è preceduta dalla scritta Re, Regina, Cavallo, Fante. Tutti i versi del gioco attribuito a Boiardo sono tramandati in due testimoni. Uno è il manoscritto posseduto dal marchese Antaldi (visto ed edito da Solerti, ma oggi irreperibile) in cui Pier Antonio Viti di Urbino li avrebbe trascritti, descrivendo anche le figurazioni delle carte da lui viste affinché la duchessa Elisabetta potesse farsi preparare un mazzo analogo. 277

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L’attribuzione al Viti, il cui nome secondo la descrizione del Solerti non figura nel manoscritto, non viene giustificata: forse era nota per tradizione orale, dato che l’Antaldi era erede della famiglia Viti. Ma è comunemente accettata. Secondo il Renier (Renier 1894, 245) Pier Antonio Viti (1470 circa-1500) era un medico, per due volte gonfaloniere di Urbino, fratello del pittore Timoteo Viti. Ma da quanto si legge nel manoscritto a proposito della prima figura dei Trionfi – il Folle –, chi scrive sembra attribuirsi una funzione analoga a corte, cioè quella del buffone. L’unica cosa certa è quindi il suo rapporto cortigiano con Elisabetta Gonzaga, duchessa di Urbino dal 1488. Il secondo testimone è un’edizione dello Zoppino, che stampa nel 1523 i versi in forma di capitoli. Come vedremo, la princeps è seguita da altre ristampe. Da questi versi risulta che essi si riferivano a un mazzo composto da dieci carte numeriche e quattro figure per ognuno dei quattro semi (56 in totale), e da 22 carte di Trionfi. In tutto 78 carte, come i mazzi standard, che erano già così composti. Su ogni carta compariva una terzina. Altre due carte presentavano il sonetto iniziale e quello di chiusura. I semi o colori – Frecce per la serie di Amore, Occhi per la Gelosia, Vasi per la Speranza e Fruste per il Timore – e le figure della serie dei Trionfi sono diversi da quelli dei mazzi conosciuti. Nel 1869 un gruppo di queste carte – 45 carte dei quattro semi e la carta del sonetto iniziale, xilografate e non colorite – era stato visto da Merlin, che lo definiva Jeu des passions. Nella tav. 28 ne riproduceva nove, in una stampa molto rimpicciolita in cui i versi sono illeggibili. Sei di esse sono identiche alle sei pubblicate da Dummett 1973; le altre tre sono: il due di Vasi, il fante di Occhi e l’asso di Fruste. La paternità boiardesca non venne allora riconosciuta. Sempre senza alcun riferimento a Boiardo, anche se ormai erano già usciti l’edizione di Solerti e studi sui suoi tarocchi, nel 1900 Lozzi citava un mazzo di carte da gioco «detto delle Passioni», i cui quattro semi erano Dardi, Occhi, Coppe e Sferze, accompagnato da 21 Trionfi. Ma non le riproduceva né dava alcuna notizia sulla loro localizzazione. Nel 1971, 48 carte, appartenenti al mazzo dei quattro semi, e una carta contenente il sonetto finale, comparvero in un’asta di Christie a Londra, furono acquistate dall’antiquario milanese Carlo Alberto Chiesa e 278

introduzione

rivendute a un collezionista svizzero di cui si ignora l’identità. In quell’occasione Dummett le riconobbe come boiardesche, e in due successivi studi – Dummett 1973 e Dummett 1980 – come s’è detto, ne riprodusse 12. L’attribuzione a Boiardo delle terzine scritte per questo gioco di carte si basa unicamente sulla testimonianza della princeps del ferrarese Zoppino (1523), che accoglie i testi in una miscellanea di varie scritture, in gran parte anonime. Anche se lo Zoppino è un benemerito divulgatore di testi ferraresi (tra gli altri, il volgarizzamento di Apuleio di Boiardo, nel 1518; il poema boiardesco nel 1521, 1528 e 1532; e il Furioso nel 1524, 1530 e 1536), le sue attribuzioni non sono sempre affidabili: ricordiamo che lui stesso, proprio nel 1523, aveva pubblicato, di seguito ai Proverbi di Cornazzano, il volgarizzamento del Lucio fatto da Niccolò Leoniceno con l’errata attribuzione a Boiardo (cfr. Acocella, 19-53). Nessun altro documento ci tramanda notizie in proposito, né altre fonti informano che Boiardo si sia interessato a questo gioco di carte. Ma un’analoga situazione attributiva si presenta per il Timone, di cui ignoreremmo l’esistenza se non fosse stato stampato. Si tratta in entrambi i casi, di opere sicuramente commissionate dalla corte, e sappiamo quanto Ercole fosse geloso delle ‘sue’ opere letterarie, e come ne impedisse la circolazione. Nell’altro testimone completo dell’opera, il manoscritto Antaldi, non è data nessuna notizia dell’autore dei testi, né del luogo di provenienza delle carte; il gioco più volte viene definito «novi trionfi». Il mazzo descritto è a colori (miniato o con le xilografie colorate); talvolta vengono proposte figurazioni diverse da quelle che il Viti (o chi per lui) ha davanti: per esempio, per il Ciclope, fante di Amore, si legge:«è depinto in forma de rustico gigante, cum un solo ochio in fronte, armato; ma per bene assimigliarlo io el vesteria di sola pelle de pecora, con un dardo in mano e con una zampogna a li piedi et alcune pecorelle che pascessero l’erbe, sì come li poeti lo descriveno». Questo in polemica con la figurazione della carta – che vediamo tra quelle riprodotte da Dummett 1980 – dove il Ciclope porta un’armatura. Il confronto con le poche carte note prova che le figure sono in sostanza le stesse, anche se diverse in alcuni particolari: per esempio nella carta della Regina di Amore le due colombe non sono una davanti e una dietro Venere (come nel mese di Aprile a Schifanoia) ma entrambe davanti; in quella della Regina di Speranza, non si vede il cadavere di Oloferne ai piedi di Giuditta; il Re di Gelosia, Vulcano, non 279

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«è depinto nudo», ma parecchio vestito. Un solo caso sembra differire macroscopicamente: a proposito dell’ultimo Trionfo, quello della Fortezza d’animo, il Viti scrive che deve essere «per Lucrezia Romana (e non per Suor Felice, come el compositore vole) significata». La figura che Viti aveva sott’occhio discordava dai versi stessi: si trattava quindi di una versione diversa dall’originale, più tarda. Per accettare o rifiutare la paternità boiardesca dei versi scritti per queste Carte de triomphi – paternità peraltro non messa in dubbio dai pochi studiosi che se ne sono occupati (qualche riserva solo in Mazzacurati 278 e 280) – non resta che un esame dei testi stessi. Una localizzazione linguistica è resa difficile dallo stato dei testimoni, che hanno subito diverse riscritture, con regolarizzazioni linguistiche e prosodiche. Sono certo più vicine all’originale le terzine che compaiono sulle carte edite da Dummett, purtroppo solo 12. Resta comunque in tutti i testimoni qualche fenomeno genericamente settentrionale, come i frequenti scempiamenti e iperraddoppiamenti (che creano rime non toscane solo in un caso, vi 12 e 13: promisse (‘promise’) : disse : risse); qualche articolo o pronome el è sfuggito alle revisioni; rimane il numerale doi (i 13); restano anche a iii 4, 1 rason; 10, 3 fatighe; plurali come ii 9, 1 nove arte; iii 14, 2 le rete: V 6, 3 arme; e poco altro. Se è poi sostenibile il restauro del sonetto iniziale qui proposto, avremmo un ancore in rima (presente anche nell’IO ii xvii 4 e xxi 71), oltre al congiuntivo nella subordinata poi che ʼl folle il mondo adore (cfr. Mengaldo 129-30). Da un punto di vista linguistico quindi niente impedisce l’attribuzione a uno scrittore di quell’area ed epoca, o a Boiardo stesso. Le terzine sono condizionate pesantemente da quanto l’autore è costretto a dire in poco spazio: la prima parola deve essere il nome del seme della serie, seguito dal numero della carta; nelle carte numerali, considerazioni sul tema; nelle figure, la citazione di qualche personaggio esemplare. Nella serie dei Trionfi casi esemplari e altre notizie ancora. Nel sonetto iniziale è descritto tutto il mazzo, mentre quello finale assume toni moraleggianti. Non è agevole quindi individuare usi stilistici particolarmente boiardeschi; i passi citati a confronto nel commento testimoniano di solito una vicinanza di contenuto. Il testo più libero da queste costrizioni è l’ultimo sonetto, e in esso, come già notava Mazzacurati 279, e come si è cercato di evidenziare nel commento, si può riconoscere la stessa mano 280

introduzione

che ha scritto il sonetto proemiale degli AL: i due sonetti hanno anche una struttura sintattica molto simile. Qualche altra analogia di contenuto con il Boiardo più sentenzioso risulta qua e là, e nel commento si sono messi a confronto i passi interessati. I personaggi scelti ad esemplificare le varie situazioni rimandano alla Divina Commedia, ai Trionfi petrarcheschi, al De mulieribus claris di Boccaccio; più spesso ad Ovidio, e non solo alle Metamorfosi. Non ci sono citazioni peregrine. Parecchi sono i personaggi biblici che si affiancano ai più consueti classici. Riconduce molto vicino a Boiardo, se non a lui stesso, quanto si legge nella terzina dedicata ad Andromaca (v 13): Timor non lassò Andromaca secura del figlio, visto Ulixe, e intrar lo fece del patre Ector entro la sepultura.

confrontabile con IO III v 20-21 (e commento relativo nell’edizione Ricciardi). Una grande cautela è d’obbligo nell’interpretare quest’opera, che si riallaccia ad un genere di cui ben poco sappiamo – nessuna delle altre carte da gioco sopravvissute porta testi scritti – e che non può essere ricondotta, o non soltanto, alla normale tradizione letteraria. Testo di confine tra letteratura e gioco, sembra essere innovativo nei due campi. Soprattutto nell’ambito del gioco, perché i semi o colori tradizionali delle carte vengono sostituiti, come s’è visto, dai Dardi d’Amore, dai Vasi (con allusione al vaso di Pandora) della Speranza, dagli Occhi della Gelosia e dalle «scutiche o flagelli» – come scrive il Viti – del Timore; e così le figure dei quattro colori sono in generale diverse da quelle che compaiono nei mazzi tradizionali. Modello sembra essere stata la serie delle quattro passioni, da Agostino in poi composta da Amore, Dolore, Speranza, Timore; ma il Dolore, di troppo impegnativa presenza in un gioco, è qui sostituito dalla Gelosia. Trattandosi di un gioco di corte, non stupisce che Amore e Gelosia abbiano un ruolo importante. Speranza e Timore non si riferiscono, come si potrebbe pensare, solo alla vicenda amorosa: hanno una valenza esistenziale più ampia. La Speranza si identifica con l’atteggiamento ottimistico, con quella fiducia nella buona riuscita delle imprese che permette di dar 281

antonia tissoni benvenuti

loro inizio; il Timore con un atteggiamento anticavalleresco: non solo viltà nel combattimento, anche animo servile, pusillanimità, scarsa fiducia in sé e nel futuro. Il contrario dell’atteggiamento positivo della Speranza. Tutto questo può esser stato ideato da Boiardo, certo corrisponde alla sua visione del mondo. La serie dei Trionfi è ancor più innovativa. Che qui l’autore volesse ricordare i Trionfi di Petrarca mi pare risulti evidente anche dalla terzina della Ragione: Ragion fé Laura del fanciul perverso Cupido trionfar, che mai non torse Occhio dala virtù né il pié in traverso.

Per la sostituzione di Ragione a Pudicizia o Castità nel secondo Trionfo, giustamente Foà ricorda il commento dell’Ilicino: «Il secondo [trionfo] introduce la ragione triomphare d’amore, la quale intende sotto il velame de madonna Laura». (Foà 1998, II 739-40). L’unica figura in comune alla serie standard è il Mondo. Nei Tarocchi tradizionali è però la figura più alta. Boiardo ne ha fatto invece un tutt’uno col Folle, la figura tradizionalmente più bassa: il Folle è tale perché el mondo adore, come è detto nel primo sonetto. Dobbiamo tener presente che anche in questo caso si tratta di terzine isolate, pur se incatenate dalle rime, progettate per essere scritte ognuna su di una carta. Il valore che le carte hanno, segnato secondo il Viti da un numero progressivo, crea l’attesa di una possibile gerarchia, che nei Tarocchi tradizionali non esiste (e che il Viti del resto non rileva in alcun caso). Le entità presentate nelle terzine trionfano l’una sull’altra, non in un’unica catena: Ozio-Fatica; Disio-Ragion; Secreto-Grazia; Sdegno-Pazienza; Error-Perseveranza; Dubio-Fede; Inganno-Sapienza; Caso-Modestia; Pericol-Esperienza; Tempo- Oblivion. Il contesto spiega in che accezione vadano intese le varie entità, ma restano poco perspicue alcune coppie, come Secreto-Grazia e Caso-Modestia. Curiosamente le entità vittoriose sono al femminile, le perdenti al maschile. Una gerarchia trionfale complessiva è evidente soltanto se si considera il valore nullo del Mondo contrapposto ai tre valori più alti nelle ultime terzine: il Tempo, l’Oblivion e la Fortezza d’animo. Qui il ricordo di Petrarca è implicito, ma, come sempre in Boiardo, si tratta di una imitatio 282

introduzione

per oppositum. Il Tempo è solo il tempo umano, che conduce gli uomini alla morte (Tempo che gli omini ala morte sproni); è invece l’Oblivion che vince la Fama e il Tempo stesso (e Fama e Tempo hai in tue ruine). La Fortezza d’animo trionfa su tutto, rappresenta la coerenza, il desiderio di vincere comunque anche nei casi più neri della vita, come il suicidio di Lucrezia, citato nell’ultima terzina, testimonia: un exemplum di Virtù in senso albertiano, vincitrice della Fortuna avversa. Inevitabile a questo punto il confronto con la gerarchia dei Trionfi petrarcheschi: qui non c’è il finale Triumphus Eternitatis. Nessuna speranza ultraterrena, nessun risvolto ascetico, piuttosto una visione laica delle cose del mondo che potremmo definire albertiana, e che è anche boiardesca, espressa senza remore perché in fin dei conti si tratta di un gioco di carte. Ma è un gioco di carte: e forse è meglio non insistere troppo sul suo significato. Resta il fatto che la carta che ha il valore più alto è la Fortezza d’animo. La datazione dell’opera – sempre riferita a Boiardo – è stata discussa da tutti coloro che se ne sono occupati, anche se non tutti, in mancanza di documenti, hanno poi preso posizione. Per alcuni (Renier 1889, Solerti) si tratta di un’opera giovanile, degli anni Sessanta; per altri, a partire da Reichenbach, è da assegnare ad anni più tardi. Se si tien conto del fatto che a corte un giovane ancora poco noto non poteva certo essere incaricato di un’opera destinata ad avere una sua importanza mondana – o meglio, la cui importanza sarebbe stata accresciuta dal nome del letterato coinvolto – e se si riflette sul significato complessivo che il gioco assume (e che non pare attribuibile ad un ventenne), penso anch’io che la si debba collocare in anni più tardi, forse nel periodo in cui il conte di Scandiano era iscritto tra i salariati di corte, cioè negli ultimi anni Settanta. O anche dopo, se teniamo presente che il gioco era ancora «nuovo» per il Viti e per la sua dedicataria, Elisabetta Gonzaga, duchessa di Urbino dal 1488, che a dire del Viti, nell’illustrazione del Trionfo della Pazienza, «era già nel numero delle Dee, per le sustenute fatiche, meritevelmente collocata».

Ringrazio Cristina Montagnani per l’attenta lettura di questo lavoro. 283

NOTA AL TESTO

Testimonianze complete I testimoni completi utili alla ricostruzione del testo in versi sono due: V = manoscritto posseduto dal marchese Antaldo Antaldi di Pesaro, che lo ebbe in eredità dalla famiglia Viti di Urbino. Non è attualmente reperibile. Il testo fu riprodotto «integralmente e fedelmente» dal Solerti nella sua edizione, dove è così descritto: Il ms., cart. del sec. XV, misura mm.220×145, ed è composto di tre quinterni (cc. 30) sciolti, e per questo ha sofferto della perdita di alcuni fogli. Mancano al secondo quinterno i due fogli esterni con le segnature B B1 e corrispondenti B8-B9, ossia 8 carte; e così al terzo fascicolo manca pure il foglio esterno C1 e corrispondente C9, cioè 4 carte, ma soltanto due di testo, perché le ultime carte C6v-C8v sono bianche, e però doveva essere bianca anche la c. C9. Il M.se Antaldi non dispera di ritrovare questi fogli fra altri codici di sua pertinenza.

Strane le segnature delle carte riportate dal Solerti: la presenza di segnature è del tutto anomala in un manoscritto, a meno che non sia copia di una stampa.1 Dalla descrizione il ms. risulterebbe anepigrafo; non è chiaro da dove si sia ricavato che Pier Antonio Viti ne era l’autore (tradizione orale presso la famiglia Antaldi?). Solerti non dà alcuna notizia; Renier 1894, come s’è visto, identifica il Viti con un medico urbinate, fratello del pittore Timoteo. L’unica cosa certa è che chi scrive doveva essere un cortigiano alla corte di Urbino (si veda quanto dice di sé nella descrizione della carta VI 0, qui riportata nel commento). Il manoscritto è mutilo; mancano i versi V, 1-10 e le descrizioni delle figure dei Trionfi 11-17.

1 

Ricerche in questa direzione non hanno finora dato alcun esito. 287

antonia tissoni benvenuti

L’autore non dichiara la paternità dei versi che ha trascritto dalle carte, si attribuisce quella della descrizione in prosa delle figure delle carte stesse. L’opera è diretta ad Elisabetta d’Urbino, con lo scopo, dichiarato, che la duchessa possa così farsi allestire delle carte uguali.2 Ne viene sottolineata più volte la novità, con indicazioni per il loro utilizzo in vari giochi. Z = AMORE DE HIERONI/mo Benivieni Fiorentino, Al/lo Illustris. ·S· NICOLO / da CORREGGIO // Et una Caccia de Amore Bellissi/ma & cinq3 Capituli, Sopra el ti/more, ZELOSIA, Speranza, / AMORE, & uno Trionpho del / MONDO // composti per il Conte / MATTEO MARIA BO/IARDO ET ALTRE / COSE DIVERSE// [In fine:] Stampato nella īclyta Citta di Venetia p(er) Nicolo / Zopino e Vincentio compagno. Nel. M·CCCCC· / XXIII. adi. XXX. de Luio. Regnāte lo in/clito Principe Messer Andrea Gritti.

I quattro capitoli si trovano, nell’ordine indicato, alle cc. Eiir-Eiiiiv, preceduti da questa intitolazione: Cominciano cinque capituli bellissimi sopra il Timore, Gelosia, Speranza, Amore, del Con/te Matheo Maria boiardo / Capitulo I [- quarto]; segue alle cc. Eiiiiv-E5v il Capitulo del Triumpho del Vano Mondo; di seguito, a c. E6 il sonetto proemiale con l’intitolazione Argumento de li ditti capituli de Mattheo Maria Boiardo sopra un novo gioco de carte e quello conclusivo, intitolato Sonetto excusato. La stampa contiene molti altri testi, anonimi la più parte, oltre a quelli segnalati nel frontespizio. Ho utilizzato la copia conservata alla Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, segnata MB-G-4. Le successive edizioni cinquecentesche, variamente segnalate dagli editori moderni,3 sono soltanto quattro; quella dello Zoppino del 1526 contiene infatti solo l’opera del Benivieni.4 Dopo la princeps si hanno le 2  Il Viti scrive: «Tucto questo mio longo rasonamento, Illustrissima Madonna, è stato facto per descrivere minutamente questi novi Trionfi, ad ciò che Vostra Signoria, piacendoli, li possa far depingere senza essere ad altri obbligata». 3  Per Solerti sono sette. 4  Ho visto l’esemplare conservato all’Estense di Modena, segnato 22.*. 10 (5), di 28 cc, che non presenta segni di mutilazione; un’inequivoca nota del tipografo si legge al centro del recto dell’ultima carta: Stampata in Vineggia per Nicolo / Zoppino. Nel mese di octob. / MDXXVI.

288

nota al testo

tre edizioni, sempre veneziane, di Vettor quondam Piero Ravano (negli anni 1532, 1533, 1535), discese dalla prima zoppiniana. Un’ultima edizione dello Zoppino è citata a volte come del 1537, a volte come del 1538, ma tutti i repertori moderni l’assegnano senza incertezza, com’è giusto, al 1538. Un’esame della copia conservata all’Estense di Modena, segnata 70. G. 35 (5), chiarisce forse l’equivoco, perché nella nota tipografica finale l’ultima I della data in numeri romani è molto sbiadita. Ma questa edizione è interessante anche per altri motivi: lo Zoppino ha infatti modificato sia il titolo sia il contenuto. Sul frontespizio si legge: CACCIA BELLIS= /SIMA DEL REVE= /rendissimo Egidio, cõ i dilet= /teuoli amori di Messer Gi= /rolamo Beniueni, et cin /que Capituli del .S. / Cõte Matteoma /ria Boiardo: / sopra el Ti /more, / Zelosia, Bellezza, Speranza, Amore, / et un Trionfo del mondo. Opera / nouamente ristampata, et con ogni diligentia re= /uista, et castigata. / MDXXXVIII. [In fine:] Impressa in Vinegia per Nicolò d’Ari= /stotile di Ferrara detto Zoppino. / MDXXXVIIi.5

Si noti che tra i soliti capitoli boiardeschi è aggiunto qui un capitolo sulla Bellezza, Chi vuol d’amor saper suo proprio loco, annunciato nel titolo in terza posizione, che (oltre a non rientrare in nessun modo nel gioco) in realtà poi nella stampa si trova dopo il Trionfo del mondo (mancano i due sonetti) e senza attribuzione esplicita. Questo stesso capitolo nella princeps si trovava a c. E7v, in terza posizione nella serie di sette capitoli elegiaci anonimi, che si leggono da c. E6v a F5, chiusi da Finis e seguiti poi da molti altri testi. Non si capisce perché nella tipografia Zoppiniana sia stato ideato questo recupero nel 1538. È inutile dire che per il capitolo in questione, come per i suoi sei compagni anonimi della princeps, non sembra proponibile una paternità boiardesca. La stampa del 1538 non riprende nessun altro testo della princeps; nel recto dell’ultima carta si legge soltanto il sonetto di Marco Guazzo, Qual incauta cervetta al tutto sciolta.

5 

Segnalo in questo modo la scarsa leggibilità dell’ultima lettera, che però c’è. 289

antonia tissoni benvenuti

Testimonianze parziali Una grande importanza per la costituzione del testo avrebbero le carte del mazzo boiardesco; purtroppo al momento sono accessibili soltanto le 12 edite da Dummett:6 D1 = Michael Dummett, Notes on a fifteenth century pack of cards from Italy, in « The Journal of the Playng-card Society», I (1973), pp. 1-6.



Riproduce 6 carte, che contengono le terzine ii 13; iii 11, iii 13, iv 14, v 12, v 13.

D2 = Michael Dummett, The Game of Tarot from Ferrara to Salt Lake city, London, Duckworth, 1980



Riproduce altre 6 carte, con le terzine ii 11, iii 12, iv 8, iv 13, v 2, v 14.7

Edizioni moderne del testo in versi Poesie di Matteo Maria Boiardo conte di Scandiano ecc. scelte ed illustrate dal cav. Giambattista Venturi, Modena, presso la Società Tipografica, 1820. (alle pp. 125-34, solo i cinque capitoli, dalle stampe). Le poesie volgari e latine di Matteo Maria Boiardo riscontrate sui codici e su le prime stampe da Angelo Solerti, Bologna, Romagnoli-Dall’Acqua, 1894. (riproduzione di V, alle pp. 315-38). Tutte le opere di Matteo Maria Boiardo, a cura di Angelandrea Zottoli, Milano, Mondadori, 1936-37, 2 voll. 6  Sono riconoscente allo scomparso prof. Dummett per avermi spedito parecchi anni fa le fotocopie delle sue due pubblicazioni. 7  Queste ultime sono riprodotte, sulla base di Dummett, anche in Baldi, 80.

290

nota al testo



(vol. II, pp. 702-16, testo di V desunto da Solerti, ma accogliendo da Z «alcune varianti più probabili e integrando ciascun capitolo col verso finale»). La successiva edizione del 1944 non varia.

G. Mazzacurati, Le carte del Boiardo (Giochi d’Amore e di Tarocchi), in Ecrire à la fin du Moyen-Age. Le pouvoir et l’écriture en Espagne et en Italie (1450-1530), Aix-en-Provence, Publications Université de Provence, 1990, pp. 269-300 (i testi alle pp. 283-97 nelle due versioni Z e V, ma senza l’illustrazione del Viti). Matteo Maria Boiardo, Tarocchi. A cura di Simona Foà, Roma, Salerno Editrice, 1993. (pp. 27-83; il testo di V, da Solerti, seguito dal testo di Z).

Rapporti tra i testimoni Il confronto con le poche carte edite da Dummett prova che i due testimoni completi sono piuttosto lontani dall’originale. Il Viti sembra non intervenire volutamente sul testo, ma la sua fonte è evidentemente un mazzo di carte da gioco tardo, non certo l’autografo dell’autore. Trascrive le terzine dei singoli gruppi di seguito e nella prosa li definisce capitoli. Inoltre, nell’attuale impossibilità di vedere V, ci dobbiamo attenere alla trascrizione di Solerti (che sicuramente ha regolarizzato il testo secondo la prassi editoriale del suo tempo) e alle scarse notizie del suo apparato sulle lezioni rifiutate (che in qualche caso invece preferiamo accogliere). La testimonianza di Z è altrettanto se non più lontana dall’originale: oltre ad essere mutata l’intentio dell’autore in una trascrizione delle terzine in forma di capitolo con l’aggiunta di un verso finale spurio, il confronto con gli altri testimoni conferma la presenza di quella pesante normalizzazione che i testi quattrocenteschi subivano in tipografia nel secolo successivo. L’esistenza di un archetipo non è certa, in quanto tra i luoghi che giudico erronei soltanto uno coinvolge tutti i testimoni: iii 11,1. Si tratta di un’ipermetria (a meno di considerare leone bisillabo, ma in Boiardo non risulta) che provoca aggiustamenti in V e Z e rimane in D1, che legge: 291

antonia tissoni benvenuti

Speranza Orazio fece un leone, un drago

V cambia leone in leo, Z lo sopprime leggendo fece essere. È probabile che la lezione originaria fosse fe e non fece. A vi 20, 2 le diverse lezioni dei due testimoni, Elice V e el lynce Z, non sono sostenibili; in assenza di D si propone di leggere Fillide (con le motivazioni esposte nella nota di commento). Un altro luogo – non testimoniato da D – potrebbe aver causato, anche in modo indipendente, il medesimo intervento in V e Z: forse per togliere l’arcaica desinenza -e nelle rime dei versi i 5 ancore e 8 adore, V e Z leggono ancora : adora e sono poi costretti a creare errori a i 1 e 4, con signora (attributo singolare di Quattro passion) : colora (intendendolo come verbo e non sostantivo; si veda il testo). V e Z hanno qualche errore poco significativo comune: mantengono a i 13 uno con ipermetria; a iv 2, 1 leggono e dura cosa, che per la consueta posizione del numerale nel verso, deve invece essere dura cosa e; a iv 10, 1 leggono di, che in quanto parte del numerale dece dovrebbe essere de. In un caso, iii 13, la carta edita da Dummett (D1) permette di confermare una parentela tra V e Z. D1 legge: Speranza fu che Iudithe condusse fuor di Betulia e thre Oloferne a fine

mentre V e Z, probabilmente secondo il loro antigrafo che non comprende il significato di thré, ‘tirò’ ‘portò’, leggono goffamente ire. La separatezza di D non è confermata da suoi errori singolari. Gli errori certi rimasti nell’edizione di V del Solerti non sono molti: già l’editore ha scelto Z nei seguenti casi: ii 8, 3. i soi Z] li soi V; iii 7, 2. dubio Z] tu dubio V; vi 13, 1. Dianira Z] Deyanira V; 21, 3. atra Z] una V; vii 3. con Z] om. V; 11. un Z] uno V. Si considera erroneo V anche a ii 9, 1. nove arte Z] novarte V; ritengo inoltre sia un’innovazione del Viti l’uso a i 10. di terzetto (è la forma da lui sempre usata nella prosa), invece di ternario, testimoniato da Z. Gli errori di Z sono parecchi, come molte sono le lezioni innovative; spesso gli interventi nascono dal fraintendimento del testo (per esempio vengono talvolta cancellate le indicazioni numerali presenti nelle terzine); 292

nota al testo

si registra tutto in apparato. Si segnala qui un solo caso nelle prime dieci terzine del v gruppo, dove V è in lacuna. A v 2,1 Z legge: Timor si ve qualche pericol vieta (emendato da Solerti in dov’è), mentre D sembra dare il testo originale: Timor dun qualche gran pericul. Così al v. 3 della medesima terzina Z presenta la lacuna di li (da intendere ‘gli’). Nei medesimi versi dove Z è testimone unico, si emenda 6, 1. sempre fa] fa sempre Z; 7, 1 se] si Z; 8, 2. stremito] tremito Z. Ritengo ovviamente spurio il verso aggiunto da Z alla fine dei cinque capitoli appunto per confermare il loro statuto di capitoli (sono di questa opinione tutti gli editori precedenti tranne Zottoli): le terzine che il verso dovrebbe chiudere sono sempre complete per significato e sintassi, e il verso aggiunto, oltre che inutile, è spesso stonato (a volte Z modifica, per sua comodità, anche la rima del verso corrispondente).

Le illustrazioni Non sappiamo se l’autore dei versi avesse preparato delle istruzioni per chi doveva illustrare le carte, ma è molto probabile. Come s’è detto, possiamo conoscere le figure di queste carte soltanto per le 12 riprodotte da Dummett, qui alle pp. 303-304, alle quali si possono aggiungere le tre diverse di Merlin (dove, come s’è detto, i versi non sono leggibili): Fante di Occhi (Argo), Due di Vasi e Asso di Fruste. La descrizione delle carte fatta da Viti, anche se il mazzo di cui parla pare essere una copia più tarda rispetto all’originale, è utile per avere un’idea di tutte le figurazioni. Le carte di Viti, come s’è visto, sono in sostanza uguali a quelle edite da Dummett, ma a volte differenti in alcuni particolari. Può trattarsi di una realizzazione diversa delle medesime istruzioni. Cito alcuni casi: a ii 13 secondo Viti le colombe sarebbero una davanti e l’altra dietro il capo di Venere (come nel mese di Aprile a Schifanoia), mentre in D1 sono entrambe davanti; a iii 13 (D1) non c’è il corpo di Oloferne ai piedi di Giuditta, come sembra scrivere Viti (il passo è corrotto: si veda il commento al luogo citato), ma solo una donna che deposita il capo tagliato in un sacco; a iv 13 (D2) Giunone non è circondata da un arcobaleno (in questo caso sarebbe stato aggiunto quando le carte fossero state colorite) e Vulcano (Re della medesima serie, D1) non è nudo ma vestito. Il Viti inol293

antonia tissoni benvenuti

tre cita sempre i colori delle vignette e anche degli sfondi, quindi il mazzo da lui visto era miniato, oppure xilografato e poi colorito. Si è ritenuto comunque opportuno riprodurre, nel commento ad ogni singola carta, la descrizione del Viti, secondo il testo dato dal Solerti.

La presente edizione L’importanza testuale dei pochi versi ricuperati nelle carte edite da Dummett, certo più vicini all’originale, verrà evidenziata in grassetto, Sulla loro base non è certo possibile modificare le forme grafico-fonetiche del testo restante. Non si riproduce l’appellativo (Re, Regina, Cavallo, Fante) che precede la terzina sulle carte delle figure. Il testo viene qui presentato tenendo come base, anche per le lezioni adiafore, V, che sembra aver subito una riscrittura meno pesante di Z. Ma teniamo presente che anche il suo editore, Solerti, è certo intervenuto nella modernizzazione delle h e di molte altre grafie latineggianti o sulle forme conseguenti alla fonetica dialettale, soprattutto nella regolarizzazione delle rime. I luoghi per qualche verso significativi verranno discussi nel commento. L’incatenazione delle rime prova che i testi sono stati creati secondo le regole della terzarima: era però prevista una fruizione isolata delle terzine, trascritte ognuna su una carta da gioco. Ho ritenuto pertanto più fedele all’intenzione dell’autore numerare separatamente le terzine di ogni gruppo.

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TAVOLA DELLE OPERE CITATE

Acocella Mariantonietta Acocella, L’Asino d’oro nel Rinascimento. Dai volgarizzamenti alle raffigurazioni pittoriche, Ravenna, Longo, 2001. Algeri Giuliana Algeri, Un gioco per le corti: i tarocchi miniati, in Le carte di corte, pp. 21-9. Baldi Caterina Baldi, I «Tarocchi» del Boiardo nella cultura rinascimentale, in «Acme» LXI, III (2008), pp. 77-108. Bertoni Giulio Bertoni, Poesie leggende costumanze del Medio Evo, Modena, Orlandini, 1917. Boccaccio De mul. clar. De mulieribus claris, a cura di Vittorio Zaccaria, in Tutte le opere, vol. x, Milano, Mondadori, 1970. Tes. Teseida delle nozze di Emilia, a cura di Alberto Limentani, in Tutte le opere, vol. ii, Milano, Mondadori, 1964. Boiardo AL Amorum libri tres, a cura di Tiziano Zanato, Novara, Centro Studi Matteo Maria Boiardo-Interlinea, 2012, 2 voll. IO Opere, tomo i. L’inamoramento de Orlando, parte i-ii. Edizione critica a cura di Antonia Tissoni Benvenuti e Cristina Montagnani, introduzione e commento di Antonia Tissoni Benvenuti, Milano-Napoli, Ricciardi, 1999, 2 voll. Campori Giuseppe Campori, Le carte da giuoco dipinte per gli Estensi nel secolo XV, in «Atti e Memorie delle R.R. Deputazioni di Storia Patria per le Provincie modenesi e parmensi», VII (1874), pp. 123-32. Correggio (da) Niccolò Niccolò da Correggio, Opere. Cefalo-Psiche-Silva-Rime, a cura di Antonia Tissoni Benvenuti, Bari, Laterza, 1969. 297

antonia tissoni benvenuti

Decembrio Pier Candido Decembrio, Vita di Filippo Maria Visconti, tradotta dal Polismagna (Modena, Biblioteca Estense, Ital. 99, α P 6, 9). Dionisotti Carlo Dionisotti, Italia e Mantova, in Scritti di Storia della Letteratura italiana, i, 1935-62, a cura di Tania Basile, Vincenzo Fera, Susanna Villari, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2008, pp. 7-18. Dummett 1973 Michael Dummett, Notes on a fifteenth century pack of cards from Italy, in «The Journal of the Playng-card Society», I (1973), pp. 1-6. Dummett 1980 Michael Dummett, The Game of Tarot, London, Duckworth, 1980. Dummett 1993 Michael Dummett, Il mondo e l’angelo. I tarocchi e la loro storia, Napoli, Bibliopolis, 1993. Foà 1993 Matteo Maria Boiardo, Tarocchi, a cura di Simona Foà, Roma, Salerno Editrice, 1993. Foà 1998 Simona Foà, Sui «Tarocchi» di Matteo Maria Boiardo, in Il Boiardo e il mondo Estense nel Quattrocento. Atti del Convegno internazionale di studi, Scandiano-Modena-Reggio Emilia-Ferrara, 13-17 settembre 1994, a cura di Giuseppe Anceschi e Tina Matarrese, Padova, Antenore, 1998, 2 voll., pp. 755-68. Franceschini Adriano Franceschini, Artisti a Ferrara in età umanistica e rinascimentale. Testimonianze archivistiche, Ferrara, Corbo, 1993-1997, 3 voll. I tarocchi. I tarocchi. Il caso e la fortuna. Bonifacio Bembo e la cultura tardogotica, a cura di Sandrina Bandera, Milano, Electa, 1999. Le carte di corte Le carte di corte. I tarocchi. Gioco e magia alla corte degli Estensi, Bologna, Nuova Alfa Editoriale, 1987. Leonardi Laura Leonardi, Il codice Campori 187, in «La Bibliofilia», lxxxv (1983), pp. 3-25. Lozzi Carlo Lozzi, Le antiche carte da giuoco, in «La Bibliofilia», i (1899-1900), pp. 37-186. Mazzacurati Giancarlo Mazzacurati, Le carte del Boiardo (Giochi d’Amore e di Tarocchi), in Ecrire à la fin du Moyen-Age. Le pouvoir et l’écriture en Espagne et en Italie

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tavola delle opere citate

(1450-1530), Aix-en-Provence, Publications Université de Provence, 1990, pp. 269-300.

Mengaldo Pier Vincenzo Mengaldo, La lingua del Boiardo lirico, Firenze, Olschki, 1963. Merlin Romain Merlin, Origine des Cartes à jouer. Recherches nouvelles sur les naibs, les tarots et sur les autres espèces de cartes. Paris, Imprimerie Ch. Lahure, 1869. Moakley Gertrude Moakley, The Tarot Trumps and Petrarch’s Trionfi. Some Suggestions on their Relationships, in «Bulletin of the New York Public Library», 60 (1956), pp. 55-69. Passare il tempo Passare il tempo. La letteratura del Gioco e dell’intrattenimento dal XII al XVI secolo. Atti del Convegno di Pienza, 10-14 settembre 1991, Roma, Salerno editrice, 1993, 2 voll. Petrarca RVF Canzoniere, edizione commentata a cura di Marco Santagata, Milano, Mondadori, 1996. Disperse Rime disperse di Francesco Petrarca o a lui attribuite per la prima volta raccolte a cura di Angelo Solerti. Edizione postuma con prefazione introduzione e bibliografia, Firenze, Sansoni, 1909. Triumphi Trionfi, Rime estravaganti, Codice degli abbozzi, a cura di Vinicio Pacca e Laura Paolino. Introduzione di Marco Santagata, Milano, Mondadori, 1996 (TC = Tr. Cupidinis; TP = Tr. Pudicitiae; TM = Tr. Mortis; TF = Tr. Fame; TT = Tr. Temporis; TE = Tr. Eternitatis). Pratesi Franco Pratesi, Il gioco italiano dei Tarocchi e la sua storia, in Le carte di corte, pp. 111-24. Reichenbach Giulio Reichenbach, Matteo Maria Boiardo, Bologna, Zanichelli, 1929. Renier 1889 Rodolfo Renier, Tarocchi di Matteo Maria Boiardo, in «Rassegna Emiliana», I (1889), pp. 655-675. Renier 1894 Rodolfo Renier, Tarocchi di Matteo Maria Boiardo, in Studi su Matteo Maria Boiardo, Bologna, Zanichelli, 1894, pp. 229-59. Solerti Le poesie volgari e latine di Matteo Maria Boiardo riscontrate sui codici e su le

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antonia tissoni benvenuti

prime stampe da Angelo Solerti, Bologna, Romagnoli-Dall’Acqua, 1894, pp. 313-18.

Venturi Poesie di Matteo Maria Boiardo conte di Scandiano ecc. Scelte ed illustrate dal Cav. Giambattista Venturi nob. di Reggio ecc., Modena, presso la Società Tipografica, 1820. Wind Edgard Wind, Misteri pagani del Rinascimento, Milano, Adelphi, 1958. Zanato Matteo Maria Boiardo, Amorum libri tres, a cura di Tiziano Zanato, Novara, Centro Studi Matteo Maria Boiardo-Interlinea, 2012, 2 voll. Zottoli Tutte le opere di Matteo Maria Boiardo, a cura di Angelandrea Zottoli, Milano, Mondadori, 19442, 2 voll.

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tavola delle opere citate

Riprodotto in Dummett 1973 (D1). 301

antonia tissoni benvenuti

Riprodotto in Dummett 1980 (D2). 302

CARTE DE TRIOMPHI

I

Quattro passion, del’anima signore,

Hanno quaranta carte in questo gioco;

1. signore*] signora V Z  L’asterisco [*] indica l’emendazione introdotta qui per la prima volta; le emendazioni precedenti accolte sono seguite dal nome di chi le ha proposte. Sono state utilizzate anche le poche lezioni di V che Solerti segnala nel suo apparato. Il sonetto, secondo le edizioni precedenti, presenta lo schema ABBA ABBA CDC DCD, come l’ultimo; schema che conta 55 presenze negli AL (il secondo per diffusione). Ma l’inevitabile correzione qui operata al v. 1, dove il singolare signora dei testimoni, riferito a quattro passion, non sembra conservabile, con il conseguente intervento sulle altre rime A, porta ad avere l’identità della rima A con la prima delle terzine (ABBA ABBA ACA CAC) in una sorta di sonetto semicontinuato o semisonus, di cui non c’è esempio negli AL, anche se vi si trovano altri artifici vicini: i 49 per assonanze e consonanze strette e continuate (-iglia, -iva, -ivo, -iglio); ii 42 un «sonetto continuo mascherato» (Zanato 566), sempre su quattro rime, -egno, -ito, -engo, -itto; iii 58 per due rime quasi identiche, -ento A e -enta D. Qui oltre alla rima continuata -ore, è presente un’assonanza tra A e B e una parziale consonanza tra A e C; i vv. 3 e 7 in rima identica, con 6 in rima equivoca. Si noti che la rima B dell’ultimo sonetto è pure in -ore (con ripresa di errore e magiore). Secondo il Viti, il primo e l’ultimo sonetto dovevano essere scritti su due carte che durante il gioco andavano poste al centro dei giocatori, con la scrittura evidente. Questo sonetto descrive tutte le carte da gioco previste; le prime cinquantasei suddivise in quattro serie di quattordici carte, caratterizzate ognuna dal ‘colore’ o ‘seme’ relativo a una delle quattro passioni del’anima signore, e cioè Amore, Speranza, Gelosia e Timore, in ordine di valore nel gioco. Su ogni carta è trascritta una terzina, aperta sempre dal nome della passione relativa alla serie seguito dall’indicazione del numero della carta, da uno a dieci; seguono poi le quattro figure (non tre come nei normali mazzi). Un’altra serie è costituita da ventun Trionfi e un ‘matto’, con numerazione in ordine crescente; il ‘matto’ apre la serie, ma, secondo il Viti, non ha valore. Ogni carta dei Trionfi, come vedremo meglio più avanti, è dedicata ad un personaggio esemplare della situazione cui la carta si riferisce. È lasciata poi ai giocatori l’invenzione dei giochi. 305

matteo maria boiardo

Ala più degna la minor dà loco, E il lor significato l’è colore. Quatro figure ha ogni color ancore, Che ai debiti soi officii tucte loco, Con vinti et un Trionfo, e al più vil loco È un Folle, poi che ’l folle el mondo adore. Amor, Speranza, Gelosia, Timore Son le passion, e un ternario han le carte Per non lassar chi giocarà in errore. El numero nei versi se comparte, Un, doi e tre, fin al grado magiore. Resta mo’ a te trovar del gioco l’arte.

5

10

4. colore*] colora V Z  5. ancore*]ancora V Z  7. e al] al Z  8. poi] piu Z  adore*] adora V Z  10. ternario Z] terzetto V  13. un*] uno V Z 1. del’anima signore: ‘dominatrici dell’animo umano’. Si emenda il signora dei testimoni per ristabilire la concordanza; e di conseguenza, le rime corrispondenti. 2. quaranta carte: le dieci numerate delle quattro serie.  3. ‘La carta di minor valore cede il passo (dà loco) a quella di valore maggiore’.  4. ‘E il significato (nel senso di ‘attributo specifico’) delle quattro passioni è il ‘colore’ o ‘seme’ delle carte’ Secondo il Viti i quattro semi erano: per la serie di Amore i Dardi, per la Speranza i Vasi, per la Gelosia gli Occhi e per il Timore le Scutiche.  l’è colore: pleonastico; costrutto frequentissimo nelle Lettere, ma presente anche nelle opere maggiori, per es. AL i 43, 98 (Mengaldo 110).  colore: ‘seme’: questa accezione del vocabolo non pare altrimenti testimoniata in data così precoce.  5. ancore: due volte in rima nell’IO ii xvii 4 e xxi 61.  6. ai debiti soi officii: ‘nella loro propria funzione’. Come si vedrà, i personaggi scelti per le figure delle quattro serie sono degli exempla delle relative passioni.  loco: colloco.  7-8. Nella serie di questi Trionfi le ventun carte sono precedute dal Mondo, che ha nella gerarchia il valore più basso, esemplificato dal Folle o ‘matto’ che rappresenta chi è vinto dalle cose mondane. Nei Tarocchi tradizionali il Mondo è il valore più alto e il Folle il più basso.  8. poi ... adore: per la desinenza -e, sempre in rima, cfr. Mengaldo 129-30. Per il concetto, AL iii 59, 63-4 «che in tutto è pazo e vano / qualunque aver diletto in terra attende».  9. Le quattro passioni rappresentano momenti cruciali della vicenda amorosa anche secondo gli elegiaci classici, ma, come si vedrà, qui Speranza e Timore non hanno una valenza solo amorosa.  10. ternario: si preferisce la lezione di Z a terzetto di V, perché Boiardo usa il termine nell’intitolazione di AL ii 11, mentre il Viti nella prosa usa sempre terzetto.  11. ‘Per dare a chi giocherà l’esatto significato della carta’.  12. se comparte: ‘si dispone con ordine’.  14. del gioco l’arte: la tecnica, le regole del gioco.  306

II

1. Amore, un che cum te cerchi bon stato, Sollicito, animoso e prompto sia, Che nel fin a chi dura el pregio è dato. 2. Amor, dubio non è che gelosia In qualche parte ognor non te accompagni: Ma poca è bono, e troppa è cosa ria. 3.

Amor, termine e fin de’ toi guadagni

2, 3. è bono] e bona Z  e troppa] e troppo V  3, 1. e] el Z  In Z il titolo è Capitulo quarto de Amore (come s’è visto, l’ordine dei testi nelle stampe è capovolto). Come sempre, Amore è personificato, è il dio d’amore. Il significato che Amore assume in queste terzine non è moralmente negativo, come nei Trionfi petrarcheschi, né si tratta della forza invincibile che governa il poema boiardesco; il tono qui è cortese-cortigiano e il discorso spesso sentenzioso. Come abbiamo visto, i semi di Amore sono i Dardi, non i cuori come ci si potrebbe attendere. Il Viti scrive «li quali [dardi] sono come bastoni nel commune gioco incrosati, co ’l breve del ternario in mezo la carta. El campo de le qual carte è colore morello nel gioco de Amore, che significa Amore, cioè colore violaceo». 1, 1. cerchi bon stato: ‘cerchi di avere una buona situazione’.  1, 2. Una sorta di esplicitazione dell’ovidiano «Quisquis sapienter amabit, / vincet» (Ars. am. ii 765-7).  prompto: ‘disponibile’.  1, 3. Come in AL iii 35, 5-7 «chi segue e dura un tempo, vince al fine; / non è cor sì feroce / che amando e lacrimando non se pieghi».  el pregio: il premio, la vittoria.  2. Anche in AL I 27, 19-20 «né in alcun tempo amore / fu mai né sarà senza zelosia» (Zanato).  2, 1. dubio: come in questo caso, spesso compare soltanto una parte del numero della carta, all’inizio della prima parola che segue il nome della passione.  2, 2. In qualche parte: in qualche occasione.  3. Continuano le affermazioni proverbiali in una sorta di ars amandi di corte: la gelosia, compagna di amore, è positiva se resta contenuta, se è eccessiva, crea situazioni insostenibili.  3, 1. termine e fin: endiadi, ‘risultato finale’.  307

matteo maria boiardo



È un sempre sospirar infin a morte: E chi un dì ride, un anno advien se lagni.

4. Amor, questo disio stringe sì forte Di consequir quel ch’egli imprime al core Che al’effecto non par che se aprin porte. 5. Amor ce insegna non aver timore In qual se voglia impresa, ché un ardito Sempre nela sua corte è vincitore. 6. Amor, se qualche volta ha un cor ferito E lo resani cum quel proprio strale,

3, 2. sempre sospirar infin] sospirar continuo insino Z  4, 2. consequir] seguir Z  ch’egli imprime al] di che gli preme il Z  6, 2. E lo ] El lo V  3, 2. AL ii 55, 29-30 «ché già al fine / del tanto sospirar me aduce morte» (Zanato); e anche ii 8, 9-10 e 12-13 «Indi di pianti li ochi miei son pieni / sempre, e di voce sospirosa il cielo / ... / e saran sempre, insin che ‘l mortal gielo / il caldo spirto mio da me non parte».  3, 3. Cfr. Petrarca, TC iii 163 «so fra lunghi sospiri e brevi risa»; AL iii 30, 12-3 «Così fra breve zoglia e lungo stento / e fra mille ore fosce e una serena».  4. Il significato della terzina non è del tutto chiaro; intendo: ‘Amore stimola tanto fortemente il desiderio a raggiungere quello che ha impresso nel cuore, che non sembra poi si aprano possibilità di realizzazione’ (per eccesso di desiderio?).  5. Un’applicazione del proverbiale audentes Fortuna iuvat (Verg. Aen. x 284). Si veda anche AL i 23, 12-4 «Chi ha di sofrenza on di virtù desio / il viver forte segua degli amanti, / ché amor né caldo né fatica teme».  5, 2-3. un ardito ... vincitore: visualizzazione cavalleresco-cortese dell’impresa amorosa; analogamente IO ii xviii 3 «Però che Amor è quel che dà la gloria / E che fa l’homo degno et honorato; / Amor è quel che dona la vitoria / E dona ardir al cavalier armato».  6, 1-2. ‘Se talvolta accade che Amore ferisca un cuore e lo risani con la stessa freccia’, cioè ‘se un innamorato gode di un amore ricambiato’. Archetipo la lancia di Peleo e poi di Achille (Ov. Met. xii 112 e xiii 171-2), topico paragone (già in Ov. Rem. am. 47-8 «vulnus in Herculeo quae quondam fecerat hoste, / vulneris auxilium Pelias hasta tulit») fin dalle origini della lirica volgare per la ferita d’amore; qui Petrarca RVF 164, 11 «una man sola mi risana e punge».  308

ii



O quanto è nel suo regno favorito!

7. Amor septe anni andar come animale Fece quel savio re, ché la sua lege El principe al suo servo adduce equale. 8. Amore obtenne che a guardar la grege D’Ameto Apollo stesse, e a lui crudele Non fu al fin poi: ma cusì i soi correge. 9. Amor nòve arte trova, e sotto el mele L’esca tien sempre, e i soi servi contenta 6, 3. è nel suo regno] nel suo regno è Z  7, 3. El principe ... adduce ] Al principe al suo servo al Duce V  8, 1. la] el Z  8, 2. stesse] stette Z  8, 3. i soi ] li soi V  9, 1. nòve arte ] nov’arte V  6, 3. Continua il riferimento al regno o alla corte di Amore.  7, 1-2. Il savio re per antonomasia è Salomone (Foà), ma anche se nella Bibbia viene censurato il suo comportamento lussurioso e le troppe mogli e concubine straniere (cfr. Reg. iii 11), non si accenna ad un periodo di septe anni (che potrebbe anche essere inteso in senso indefinito per ‘molto tempo’). Altra candidatura proponibile è quella di Ulisse, famoso per una diversa forma di saggezza, che si trattenne presso Circe a vivere come animale, pur conservando la forma umana, ma non per sette anni.  7, 2-3. Per l’uguaglianza di tutti gli uomini di fronte all’Amore come alla Morte, si veda IO I, xxviii 2: «Gioveni e vechi vano ala sua danza, / La bassa plebe col signor altiero. / Non ha remedio Amor e non l’ha Morte: / Ciascun prende, ogni gente e d’ogni sorte».  7, 3. adduce: riduce, rende.  8. Secondo una tradizione – attestata in Tib. ii iii 11 e 14 «Pavit et Admeti tauros formosus Apollo, / [...] quicquid erat medicae vicerat artis amor» e in Ov. Her. v 151-2 «Ipse repertor opis vaccas pavisse Pheraeas / Fertur et e nostro saucius igne fuit» – Apollo sarebbe diventato pastore per amore di Admeto.  8, 3. ma ... correge: ma così Amore educa i suoi fedeli.  9, 1. nòve arte: In questo caso il numerale è scritto per intero, ma il significato è diverso, in quanto vale ‘nuove’ arti. Si preferisce la lezione di Z; è facile che l’improbabile nov’arte che Solerti attribuisce a V sia una sua emendazione per evitare il plurale arte.  9, 1-2. sotto ... sempre: si veda AL ii 22, 71-2 «L’esca atrativa sua, che fuor mostrosse / di dolce umanità, mi fece sete / de pormi per me stesso ne la rete».  309

matteo maria boiardo



Qando se ne ritrova alcun fidele.

10. Amor de ciascun servo il disio tenta, E se ’l ritrova vano, in forme tante Il volgie che ogni dì più se lamenta. 11. Amor questo gran Cyclope gigante Fece per Galatea tanto amoroso Che più de lui forse non arse amante. 12. Amor Paride fece sì animoso Che ardito fu rapir Elena bella, Ché ciascun cor Amor fa generoso.

10, 3. più] par Z  11, 1. questo gran] quel grande Z  12, 2. fu] fu a Z  9, 3. Quando se ne ritrova: ‘nel caso in cui se ne ritrovi’.  10, 1. tenta: ‘mette alla prova’ (in rima speculare con tante al v. 2).  2. vano: ‘inconsistente’.  10, 3. Il volgie: ‘lo abbindola’.  11. L’exemplum dell’amore di Polifemo per Galatea (Ovidio, Met. xiii 750-897) dimostra la forza di Amore perché la vittima è questo gran Cyclope gigante. Viti scrive: «El Fante è il Cyclope che fu veramente [vanamente?] inamorato di Galatea, et è dipinto in forma de rustico gigante, cum un solo ochio in fronte, armato; ma per bene assimigliarlo io el vesteria di sola pelle de pecora, con un dardo in mano e con una zampogna a li piedi et alcune pecorelle che pascessero l’erbe, sì come li poeti lo descriveno; e faria lo colore de la pelle morello, per significare lo Amore. E lo terzetto li è sopra il capo scritto, lo quale ha in sé il nome de la figura, come hanno tucti quelli che sopra le figure e trionfi sono: di quali diremo». Il confronto con la carta, qui riprodotta da Dummett 1980 (p. 304), prova la sua identità con quella del mazzo Viti: ma, come s’è visto, la rappresentazione del Ciclope non era da lui giudicata congrua, di qui la sua proposta di un cambiamento.  12. In questo caso non conosciamo la carta. Viti scrive: «El Cavallo de Amore è un giovene armato a cavallo, cum un dardo in mano, vestito de sopraveste e de arme morelle, cum tre corone d’oro nel scudo, el quale è Paris de Troia; con el terzetto suo sopra el capo».  12, 1. Paride non è un esempio di coraggio e forza: l’ardimento gli deriva da Amore.  12, 3. fa generoso: ‘rende di grande animo, magnanimo’. Come nell’IO «E ’l core accrescie al’amorose imprese» (ii iv 3). 310

ii

13. Amore, a Vener figlio, fece che ella Per Adone arse, e per lui tanto accese Che amor infonde ancor dal ciel sua stella. 14. Amor fece che Iove già discese In varie forme: in tauro, in cygno, in oro, E Ganymede in aquila ancor prese.

14, 1. già] giu Z  14, 4. om. V] E fe Pasiphe innamorar de un Toro Z 13. La carta in Dummett 1973 (p. 303). Viti: «La Regina d’Amore è Venere, depinta sopra un carro de due rote, vestita de colore morello; e similmente è depinto el carro tirato da doi bianchi cigni, cum le coregie al collo loro morelle. Et essa tiene un dardo in mano con una aurea corona in testa et doi colombini bianchi in aere: una che vola denanti al capo suo, l’altra de retro; et di sopra è il terzetto che nomina Venere». Come ho già notato, nella carta le due colombe sono davanti a Venere. In questo caso la figurazione delle carte Viti riconduce al mese di Aprile di Schifanoia, dove le due colombe sono una davanti e una dietro il capo di Venere, più che alle illustrazioni dei Trionfi di Petrarca, in cui di solito è posto sul carro Cupido.  13, 2. Per Adone: Amore, figlio di Venere, fece innamorare la dea di Adone; il mito in Ovidio, Met. x 518-61. Arse ... accese: ‘s’infiammò ... bruciò’ (più comune se accese), con ripetizione sinonimica.  13, 3. ‘Che ancor oggi la sua stella (di Venere) infonde amore dal cielo’.  14. La carta non è fra quelle riprodotte da Dummett. Viti scrive: «Lo Re è una figura di morello regalmente vestita, che siede con un dardo in mano; e da piedi ha l’aquila da l’un de canti, da l’altro ha Ganymede piccolo in piede, de un subtil velo vestito, ne le crespe de color morello toccato; et ne la sinistra man tiene el fulgure, et in capo una aurea corona: et di sopra un terzetto che ‘l nome di Giove in sé contene».  14, 1-2. Allusione alle imprese amorose di Giove, tramutatosi in toro per rapire Europa, in cigno per sedurre Leda e in oro per Danae. Sullo stesso argomento, AL iii 25, 26-31 «l’uno e l’altro animale / che lo amoroso Iove in piume ascose, / quel che cantando sotto a le bianche ale / a la fresca rivera Leda accolse, / e quel che de Ida tolse / il biondo Ganimede e in celo il pose».  14, 3. ‘E ancora [mutato]in aquila rapì Ganimede’. Il verso aggiunto in Z E fe Pasiphae inamorar de un toro, è del tutto fuori contesto, perché riguarda genericamente un successo di Amore, non un’altra trasformazione di Giove. 311

III

1. Speranza unita tien col corpo un’alma Talor che senza lei non starìa in vita; Poi spesso giunge a victoriosa palma. 2. Speranza dubio alcun non ha smarrita, Ma sta ferma e constante in fino al fine, Quando Ragione il suo sperare aita. 3. Speranza terminata in un confine, Se vol passar più in là che non convene, Prima che coglia el fior, trova le spine.

1, 1. unita] unica Z  2, 2. in fino] sino Z  3, 2. in là] la Z  Capitulo terzo de Speranza Z. Viti scrive: «Il campo de tucte le quatordeci carte è verde, e ne la decima sono vasi in campo verde depinti coperchiati, con uno manico nel quale “Speranza” è scripto o vero “Spe”. E questo perché se scrive ne le fabule che avendo Jove renchiusi tucti li mali nel vaso de Pandora, la Speranza non vi fu dentro chiusa, ma di fuori nel orlo del vaso se stava. E per questo li vasi in questo loco significano Speranza». 1. Viti: «Ne la prima carta del quale è un solo vase assai grandetto, zallo de colore come li altri tutti: cum un terzetto di sopra che incomenza per Speranza». 1, 1-2. ‘La speranza mantiene in vita un corpo che talvolta, senza speranza, non sopravviverebbe’.  1, 3. a victoriosa palma: ‘alla vittoria’, cioè ad ottenere quello che sperava.  2. Il due di Vasi è riprodotto da Merlin.  2, 1. ‘Nessun dubbio può far perdere la speranza’.  2, 2. in fino al fine: vedi AL I 60, 14 e Par. VI 38 (Zanato).  2, 3. ‘Quando la speranza è fondata sulla Ragione, se è ragionevole’.  3, 1. terminata in un confine: ‘racchiusa entro certi limiti’ (in rima derivativa con fine).  3, 2. Altra esortazione alla misura anche nella speranza. 3, 3. Immagine vulgata per le pene amorose.  313

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4. Speranza quanto più con Rason vene, Più dolce cibo è al cor che se ne veste; E se al contrario vien, porta più pene. 5. Speranza ce mantiene in giochi e in feste Quando il poter col voler si misura: Ma senza ordine ha in sé cose moleste. 6. Speranza, sei pur amica a Natura! Tu tieni i toi seguaci in tanta pace Che alcun patir non li par cosa dura. 7. Speranza, se tu se’ ancor contumace A chi possede il suo, dubio li poni Tal che dir l’è mio non serà audace.

4, 2. che se ne] di chi sen Z  6, 1. sei pur amica] amica sei pur Z  7, 1. contumace] pertinace Z  7, 2. dubio ] tu dubio V  7, 3. dir ... serà] a dir bene e non saria Z  4, 1. con Rason vene: ‘è unita alla ragione, è ragionevole’: ribadisce con più forza il concetto di 2, 3. Rason è la forma più comune nelle opere boiardesche.  4, 2. se ne veste: ‘se ne riveste, se ne fa scudo’.4, 3. se al contrario vien: ‘se accade il contrario’, cioè se la speranza è irragionevole.  5, 2. ‘Quando si commisura quello che si vuole con quello che si può’, cioè quando non si sperano cose impossibili.  5, 3. senza ordine: ‘senza misura’.  6, 1. amica a Natura: ‘favorevole alla natura umana’ (variazione del concetto espresso in forma più netta nella terzina 1).  6, 3. La speranza intesa come sostegno, sprone all’azione, di cui saranno esempi i personaggi citati nelle ultime quattro terzine.  cosa dura: prelievo dantesco, Inf. i 4.  7. La mancanza di speranza rende così incerto il possesso di beni, che chi li possiede non ardirà affermare di possederli.  7, 1. contumace: ‘renitente’. Anche in Niccolò da Correggio (37, 14), in contesto amoroso: «a la mia donna io sol son contumace». La lezione di Z, pertinace, è forse una facilior, del tutto senza senso.  7, 3. dir l’è mio: come in Niccolò da Correggio, 35, 13: «un falso dir: “L’è mio: el fia de l’erede”». 314

iii

8. Speranza obtener fa senz’altri doni Quel che al’animo aggrada, e par ch’el abbia Quel che vòl già, né alcun più se gli opponi. 9. Speranza non consente un preso in gabbia Dolente star, quando seco dimora, Né un ropto in mar, si ben è in seca sabbia. 10. Speranza desta il pover che lavora A zappar, a spianar un monte, un lago, Ché fructo spera ale fatighe ancora. 11.

Speranza Orazio fè un leone, un drago,

8, 1. senz’altri doni] che altri non doni Z  8, 3. vol già] voglia Z  più] par Z 11, 1. fè* un leone] fece un leone D1 fece un leo V fece essere Z  8, 2-3. e par ... opponi: ‘e sembra che [l’animo] possieda già quello che vuole, senza nessun ostacolo’.  Opponi : poni, rima derivativa.  8, 3. vòl già: la lezione di Z, voglia, sembra una modernizzazione grafica di un presunto volgia, e non risponde al contesto.  9, 1-2. Costruzione infinitiva con ellissi del che: ‘La Speranza, quando è presente, non permette che un prigioniero sia triste’.  9, 3. un ropto in mar: ‘uno che ha fatto naufragio’, un naufrago.  10, 1. desta: ‘fa risvegliare per’, ma anche ‘incita’ (il numerale è indicato con grafia fonetica des-).  10, 2. a spianar ... lago: ‘a fare imprese impossibili’.  10, 3. fatighe: sonorizzazione dialettale (sfuggita alla regolarizzazione del Solerti).  11. La carta in Dummett 1973. Viti: «La prima [figura] è il Fante, et è depinto Oratio Cocle, che sol in Roma contra Toscana tucta diffese il ponte, sperando e se stesso e la patria sua liberare per farlo derieto a le sue spalle da Romani tagliare. La pictura è de un omo armato, cum la spada in mano sopra un ponte drieto a sé tagliato, sotto el quale passa un fiume; e l’arme sue sono di verde colore tocche, e cusì el scudo. Et ha da l’uno de canti un vasetto, et il terzetto sopra il capo che’l suo nome manifesta». Non è evidente nella carta il ponte tagliato né il fiume.  11, 1. Orazio: si tratta del celebre episodio di Orazio Coclite, citato, come ricorda Viti, anche da Petrarca in TF i 80-1 e TF ia 41-2 (nessun riscontro puntuale con questi versi). L’episodio è diffusamente narrato in Livio ii 10.  fè un leone, un drago: ‘rese coraggioso come un leone o un drago’. Si emenda, non essendo mai bisillabo in Boiardo leone.  315

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A far tagliar el ponte e andar a basso, Dela salute dela patria vago.

12. Speranza Iason, d’animo non lasso, Con gli Argonauti al’aureo velo adduxe Per molti casi e in periglioso passo. 13.

Speranza fu che Iudithe conduxe

11, 2. andar a] gire al Z  12, 1. Iason, d’animo] a Iason d’almo Z  13, 1. fu] fe Z  Iudithe] Iudith Z  11, 2. andar a basso: ‘cadere giù’, riferito sia al ponte sia allo stesso Orazio che alla fine si buttò nel Tevere, con la speranza, poi realizzata, di salvarsi.  11, 3. salute: lat. per ‘salvezza’.  vago: ‘desideroso’.  12. La carta in Dummett 1980. Viti: «El Cavallo è Jason, armato de arme de verde tocca, sopra un cavallo cum la spada in mano: el quale speranza ebbe mettendosi a tanto periculo de mare cum li Argonauti per acquistare el vello d’oro; et ha da l’un de canti un vaso, e sopra el capo lo terzetto che de lui rasona». Sulla carta in D2 sembra invece che Giasone tenga il vaso con la mano sinistra.  12, 1. Iason: la ricerca del vello d’oro da parte di Giasone è considerata un exemplum di speranza nella riuscita di un’impresa impossibile.  d’animo non lasso: ‘d’animo non fiacco’, litote.  12, 2. aureo velo: più che scempiamento dialettale, forma di uso comune nei poemi cavallereschi.  adduxe: ‘condusse’.  12, 3. ‘Attraverso molte vicende e con pericolo di morte’.  periglioso passo: Petrarca RVF 91, 14 «bisogna ir lieve al periglioso varco».  13. La carta in Dummett 1973. Viti: «La Regina di Speranza è quella Yudith ebrea, de la quale el Petrarca dice: “Yudith ebrea, la sagia, casta e forte” [TP 142]. Questa è depinta in modo de nynfa, cum la spada in la dritta mano e ne la sinistra el vaso, et in piedi vestita de una vesta de verde colore tocca: et in capo una corona d’oro, cum uno terzetto sopra che la manifesta; et a i piedi sui è un omo chiamato Oloferne, che fu da Yudith morto, che in terra, con un capo barbuto e dal collo tagliato in mano mettendose, iace [Solerti qui pone tre puntini per incomprensione di quanto segue; in effetti il passo è corrotto] fosco colore nel volto; cum una veste in modo de faldetta, cum le maniche, come porta Vostra Signoria, tucte de verde listate; conciata nel capo a la moresca, con una tela più volte intorno avòltali, pur di verde tocca». Il passo è corrotto; la figura di Giuditta è la stessa della carta D1, ma poi pare che nella carta di Viti sia rappresentato ai suoi piedi il corpo di Oloferne. Dopo la lacuna, la descrizione sembra riguardare l’aiutante di Giuditta, che nella carta D1 sta mettendo in un sacco la testa di Oloferne. Quindi la figurazione della 316

iii

14.

Fuor di Betulia, e thré Oloferne a fine, Ché altro che un gran sperar par che non fusse.

Speranza Enea fuor del troian confine Guidò in Italia, e i successor fondorno Alba e poi Roma ale genti Latine.

13, 2. Betulia ] battaglia Z  e thré] a ire V et ire Z  a] al Z  13, 3. Ché ... par che] tolse che altro che speme par Z  14, 3. ale genti] ala gente Z  14, 4. om. V] Che domitor del mondo un tempo forno Z carta Viti parrebbe simile a D1, con in più il corpo di Oloferne a terra.  13, 1. Anche l’uccisione di Oloferne da parte di Giuditta è considerata il risultato di una forte speranza di riuscire in un’impresa impossibile, secondo quanto è detto nella terzina 10.  Iudithe: così D e anche V; Iudith di Z è la grafia comune nei testi settentrionali dei nomi stranieri ossitoni che in toscano acquistano una vocale finale.  conduxe: rima derivativa (adduxe 12, 2).  13, 2. Betulia: ovviamente battaglia di Z è una goffa facilior, anche se poteva essere suggerita da Petrarca TC iii 52-55, «Vedi qui ben fra quante spade e lance / amor, e ’l sonno, ed una vedovetta / con bel parlar, con sue polite guance / vince Oloferne» con quel che segue.  e thré: ‘e trasse’, ‘portò’. Così D1, che permette di ignorare il goffo conciero di V e Z.  14. Non abbiamo la carta; VITI: «Lo Re di questo gioco è il pietoso Enea, che cum speranza de trovare Italia e ponervi la sede sua, se mosse da Troya. Questo di manto verde se trova vestito, e siede con un vaso in mano, avendo intorno al capo una tela a la moresca avolta, con una corona sopra e cum lo terzetto che di lui apertamente parla». Anche la quête di Enea è un’altra impresa giudicata impossibile, vista come frutto di speranza.  14, 3. ale genti Latine: per le popolazioni del Lazio. Il verso aggiunto in Z, Che domitor del mondo un tempo forno, è del tutto pleonastico. 317

IV

1. Gelosia un vero amor non pò smarrire. Ché s’uno amante va cum pura fede, Amor il premia al fin del suo servire. 2. Gelosia dura cosa è ove esser vede Commodo al concorrente nel’amore, Ché al spesso supplicar segue merzede. 3.

Gelosia tristo rende un lieto core,

2, 1. dura cosa è*] è dura cosa V Z  3, 1. tristo] mesto Z  Capitulo secondo de gellosia Z. La forma boiardesca è sempre zelosia, negli AL come nell’IO; ma non si ritiene opportuno intervenire per non riscrivere poi analogamente tutto il testo. Il Viti scrive: «Nel gioco veramente de la Gelosia, Illustrissima Madonna, le dece carte sono di colore azurro o vero celesto, e in esse sono depinti ochi, come quei da i quali nel animo del geloso el crescier de la gelosia procede». La presenza della Gelosia è fondamentale nella vicenda amorosa degli elegiaci latini, ma anche nella lirica quattrocentesca, da Alberti a Giusto agli stessi AL boiardeschi. Anche in questo caso i precetti del tipo ars amatoria o remedia amoris si alternano a massime proverbiali. 1, 1. smarrire: causativo, ‘far perdere’, annullare.  1, 2. va cum pura fede: ‘si comporta con totale fedeltà, lealtà’.  1, 3. La massima sarebbe più adatta alla sezione di Amore; e in effetti si vedano là, per es. le terzine 1 e 9.  2. Anche Ovidio, Ars am. ii 537 definisce solennemente «ardua» l’impresa di convincere l’amante a sopportare la gelosia: «Ardua molimur; sed nulla, nisi ardua, virtus».  2, 1. dura cosa è: si considera erronea la lezione è dura cosa di VZ, in quanto la regola è che subito dopo il nome della passione della serie, compaia il numerale o parte di esso. In entrambi i casi il verso ammette sinalefe plurivocalica; anomala in Z Gelosia è. 2, 2. ‘Facilità di comunicazione amorosa per il rivale’.  2, 3. merzede: termine tradizionale nel linguaggio lirico per indicare il favore della donna.  3, 1. tristo: con significato di ‘triste’ (in opposizione a lieto core), non di ‘malvagio’ (e difatti Z 319

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Ma spesso è causa ancor, dove ella sprona, Condurre un che ami a virtüoso onore.

4. Gelosia, quando vien, non si propona Contrastarli alcun mai, ché sforza ognuno; Ma el saper tollerarla è cosa bona. 5. Gelosia ciascun cerca, e poi ciascuno La fuge; e prima ognun vorìa sapere, Poi di saper vorebbe esser digiuno. 6. Gelosia sempre non debbe volere Il concorrente per nimico, anzi esso Se vincer vòl, dié pazïenza avere. 7. Gelosia se te gionge a veder presso A la cosa che tu ami el tuo rivale, Stimi ch’el parli sempre a tuo interesso.

3, 3. ami a] ama a un Z  emenda in mesto, cancellando la presenza del numerale).  3, 3. La gelosia porta chi ama ad essere a sua volta fedele.  4, 1-2. non si ... mai: ‘nessuno si proponga di resistere alla gelosia’.  4, 3. Ovidio, Ars am. ii 539-40 «Rivalem patienter habe; victoria tecum / Stabit».  5, 1. Gelosia ciascun cerca: ‘ognuno cerca dei motivi di gelosia’.  5, 2-3. Motivo conduttore del mito di Cefalo nelle sue molte riscritture; cfr. N. da Correggio, Cefalo i 193 e195 «Che bisognava a me paccio cercare / [...] Trovato ho quel ch’io non volea trovare».  5, 3. ‘Poi vorrebbe non aver saputo mai nulla’. 6. Un consiglio analogo nei Rem. am. di Ovidio, 791-2: «Hunc quoque, quo quondam nimium rivale dolebas, / vellem desinere hostis habere loco». 6, 1. volere: col senso di ‘considerare’, ‘tenere in conto di’.  6, 2. esso: il concorrente (oggetto).  6, 3. dié ... avere: deve sopportarlo pazientemente, in forma non ostile.  7. Anche Ovidio, Rem. am. 769 sconsiglia dall’immaginarsi l’esistenza di rivali: «At tu rivalem noli tibi fingere quemquam».  7, 1. ‘Se sei assalito dalla gelosia quando vedi avvicinarsi’.  7, 3. ‘Giudichi che il rivale 320

iv

8. Gelosia, ove si pone, è sì gran male Che medicina non se trova a lei; E se troppo oltra va, cosa è mortale. 9. Gelosia non vien manco fra li Dei Che fra gli omini faccia: ecco Iunone Del suo Iove gelosa. Ah casi rei! 10. Gelosia de certezza mai non pone Alcun in strada e al ver non apre porte, E tien fra speme e dubio le persone. 11.

Gelosia d’Argo e de sue viste accorte

8, 1. ove se pone, è sì] dove ponsi e Z  8, 2. medicina non se trova] non si trova medicina Z  10, 1. de*] di V Z  11, 2. fu] e Z  10, 2. che nel] chel tuo Z  10, 3. Col ... sporte] Ale adamate mure ti transporte Z  parli sempre a tuo danno’; interesso ha infatti questo significato anche in N. da Correggio 76, 5 «vostri piacer cercar con mio interesso».  8. La carta in Dummett 1980.  8, 1. ove si pone: Il verso risulta ipermetro, se non si legge con una sinalefe anomala in gelosia ove; Z corregge dove ponsi, ma perde così la segnalazione del numerale.  8, 3. ‘E se si spinge troppo oltre, causa la morte’.  9. La gelosia di Giunone è proverbiale, e qui viene citata in modo esplicito anche nella terzina 13; implicitamente la riguarda anche la storia di Io nella 11. 9, 1-2. ‘Gelosia non è meno diffusa tra gli dei di quanto lo sia tra gli uomini’. 9, 3. Le edizioni precedenti intendevano ‘Gelosa del suo Giove a’ casi rei’; l’interpunzione qui proposta isola con un’esclamativa di commiserazione l’ultima parte del verso.  10, 1-2. ‘La gelosia non indirizza mai nessuno verso la certezza’. 10, 1. de certezza: si emenda il di presente in entrambi i testimoni per ristabilire il numerale.  11. La carta, simile a quella descritta, anche se poco leggibile, in Merlin. Viti: «La prima in luoco di Fante è Argo, che geloso fu oltra modo, dubitando che Io, datali in custodia da Junone, non li fusse tolta; et è depinto carico per tucta la faccia d’ochi, con uno ochio ne la sinistra mano e ne la diricta uno bastone da pastore, con una vesta pastorale tocca in qualche parte de celeste colore; a i piedi del quale è un pavone, cum la coda diritta, in che egli da Junone fu tramutato; et ha sopra el capo suo el terzetto che de esso brevemente ragiona». 11, 1. Gelosia: come se Giunone fosse la Gelosia per antonomasia: si allude qui 321

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Non fu secura mai, fin che nel piede Col nome de Io non li fòr l’orme sporte.

12. Gelosia Turno re, promisso erede Del re Latino, indusse a mortal guerra: E morto fu, ché morte indi procede. 13. Gelosia Iuno dea più volte in terra Fece venir per varii amor di Iove, Ché mai non posa un cor che in sé la serra.

12, 1. promisso] promisse Z  12, 2. Del re Latino] Del latin regno e Z  13, 2. Fece] Fede Z 

infatti al mito di Io, amata da Giove e tramutata in giovenca dal dio per sottrarla all’ira di Giunone, che l’affidò alla custodia di Argo.  11, 1-3. ‘La gelosia (di Giunone) non si fidò mai di Argo e dei suoi occhi vigili, finché con il nome di Io scritto col piede non le furono chiari gli indizi’. Ov. Met. i 649 «Littera pro verbis, quam pes in pulverem duxit, / Corporis indicium mutati triste peregit».  12. Viti: «Il Cavallo è per Turno figurato: el quale per gelosia da Enea fu vinto, come in Virgilio si lege; et è sopra un cavallo di tucte arme armato, de azuro colorite, con uno ochio in mano e con tre versi che lo manifesta sopra el capo». Che la lotta di Turno contro Enea fosse mossa soprattutto da gelosia e non da desiderio di potere, è un’interpretazione più cortese che virgiliana.  12, 1. promisso erede: il matrimonio di Turno con Lavinia lo avrebbe fatto diventare erede del re Latino.  12, 3. indi: dalla gelosia, già definita cosa mortale a 8, 3.  13. La carta in Dummett 1980. Viti: «La Regina de Gelosia per Junone in questo gioco se dipinge; perciò che ella sempre fu gelosa oltra mo’ di Jove, et è regalmente de azuro vestita, sopra un carro di due rote de azuro puntato, tirato da doi pavoni; con uno ochio in mano, e con la Iride, che da capo a piedi la circunda, dicto da gli altri lo arco celeste, e con una aurea corona, sopra la quale sono li versi che di lei ragionano». L’arcobaleno manca in D2: sarebbe stato ovviamente dipinto da chi avrebbe colorito le carte. Giunone ritorna ancora una volta come esempio di eccessiva gelosia.  13, 3. ‘Perché un cuore che chiude in sé la gelosia non ha mai pace’.  322

iv

14. Gelosia fè Vulcano in forme nove Pigliar Vener e Marte entro le rete, E il Sol ne fece manifeste prove.

14. 4. om. V] Con gli ecclipsi soi: segni e comete Z

14. La carta in Dummett 1973. Viti: «L’ultima figura di questo gioco è il Re di Gelosia, per Vulcano significato, lo quale, di Venere geloso, a tutti li dei, diligentemente observandola, la manifestò in adulterio, ritrovandola con Marte per l’accusazione del Sole, che, per lo cerchio suo correndo, la scorse. Et è dipinto nudo, col martello ne la dritta mano; e ne la sinistra una ala d’Amore sopra una ancudine; et ha drieto li sui piedi uno foco; e sopra el bracio che tiene l’ala, uno ochio; coperto ne le parte men belle con un celeste drappo che sopra le spalle se lega con doi groppi; et ha una corona d’oro in capo; e de sopra uno terzetto che lo manifesta». La descrizione corrisponde alla figura della carta, tranne per l’aspetto di Vulcano, che non è dipinto nudo. Inevitabile il ricordo dell’affresco di Settembre a Schifanoia, con il trionfo di Vulcano: a destra i due amanti sotto un lenzuolo e in alto un sole raggiante. Il mito è narrato da Ovidio, Ars am. ii 561-96, per illustrare i danni derivati all’amante dal palesare a tutti il tradimento dell’amata.  14, 1. in forme nove: sembra un riempitivo senza senso preciso, a meno che non si alluda alla rete sottilissima (su cui Met. iv 176-8) fabbricata da Vulcano per imprigionare Venere e Marte durante un incontro amoroso, dopo che erano stati scoperti e traditi dal Sole.  14, 3. Anche in questo caso il verso aggiunto da Z non ha alcun nesso con i precedenti, ed è anzi più stonato del solito: Con gli eclipsi soi segni e comete. 323

V

1. Timor un’alma tien tanto dubbiosa Ch’ell’ha poca cagion de viver lieta, Qual mai non gode, e sempre è paurosa. 2. Timor d’un qualche gran pericol vieta Pigliar piacere, e tanto un om fa vile Che l’animo ragion mai non li aquieta. 3. Timor tremar fa l’agnel nell’ovile Se de fuor sente il lupo, e sì sta chiuso Che a pena intrar gli può il vento sottile. 1-10. Lac. V  2, 1. d’un qualche gran] si ve qualche Z  2, 2. Piacere, e] piacere D2  3, 3. li] om. Z  Capitulo I Z. Seme o colore della serie di Timore sono le Fruste. Il Viti le definisce scutiche: «Queste sono depinte con uno manico de legno lungo assai: et in capo cum tre draghi un poco intorti». Draghi o serpenti non sembrano comparire alla sommità delle fruste nelle carte che possiamo vedere: ma ne escono tre corregge biforcute in fine. Il Timore non è qui connesso con la vicenda amorosa, ma riguarda tutte le circostanze della vita; è viltà, animo servile per paura, mancanza di coraggio nel combattimento: insomma rappresenta lo stato negativo per eccellenza rispetto alle qualità del cavaliere. Le prime dieci terzine sono presenti solo in Z per una lacuna di V, che coinvolge anche la descrizione delle figure. Per non creare un’eccessiva differenza rispetto al testo finora dato, si è regolarizzato l’uso della h, come di certo ha fatto il Solerti riproducendo V. 1. La carta è tra quelle riprodotte da Merlin.  1, 1. dubbiosa: ‘incerta’, ‘titubante’.  1, 3. Qual: l’omissione dell’articolo è frequente anche nell’IO.  2. La carta è riprodotta in Dummett 1980.  2, 1. d’un qualche gran pericol: il buon testo di D2 rende inutile l’emendazione di Solerti, dov’è al testo di Z si ve qualche pericol. 2, 3. ‘Che la ragione non riesce mai a tranquillizzargli l’animo’.  3, 1. Allitterazione iniziale.  ovile: rima inclusiva con vile di 2, 2.  3, 2. e sì sta chiuso: ‘e se ne sta così nascosto dentro’.  325

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4. Timor quattro destrier d’un carro al’uso Sotto una virga tiene, a un giogo stretti; E molti in servitù, che non gli excuso. 5. Timor ci tien talor che i nostri effetti Non possiam dimostrar, che assai ne offende, Ché compagni al timor sono i rispetti. 6. Timor sempre fa che un non se diffende, Ma supplice ai contrasti se dimostra, E senza arme adoprar vinto se rende. 7. Timor se tu ti acosti a armati in giostra, La lor virtù sarà sotto te morta: Dove tu sei sempre la fronte il mostra. 8.

Timor obturba i sensi, e faccia smorta

6, 1. sempre fa*] fa sempre Z  7, 1. se*] si Z  8, 1. obturba (Solerti)] conturba Z 4, 1. quattro: uno dei rari casi in cui il numerale è presente per intero.  d’un carro al’uso: ‘per il traino di un carro’.  4, 3. ‘E il timore tiene in stato di servitù molti uomini, per i quali non trovo scusanti’.  5, 1. Il timore in questo caso provoca un eccessivo ritegno.  effetti: ‘affetti’, ‘sentimenti’.  5, 2. che assai ne offende: ‘dato che ci turba molto’.  5, 3. i rispetti: ‘il rispetto umano’, ‘la vergogna’.  6, 1. sempre fa: si inverte l’ordine di Z per ristabilire la posizione iniziale del numero; così risultano accenti di 3a e 5a-6a. L’intervento in tipografia può essere stato causato da una volontà di regolarizzazione prosodica.  diffende: con 5, 2 offende, rima inclusiva.  6, 2. ai contrasti: ‘nelle contese’.  6, 3. ‘Si arrende, si dichiara sconfitto senza combattere’. 7, 1. se tu te acosti: ‘se entri a far parte del gruppo’. Si emenda il si di Z per restaurare la parziale citazione di ‘sette’; questo tipo di errore è in Z frequente, per la perdita del significato del gioco nei versi che vengono riprodotti come capitoli.  7, 2. virtù: ‘coraggio’, ‘valore’, alla latina.  7, 3. la fronte: ‘il viso’, ‘l’espressione’.  8, 1. obturba: così Solerti per restaurare il numerale; conturba Z. 326

v



Rende, e stremìto il cor per lui si sente E l’occhio il mostra con sua vista torta.

9. Timor non ha sol di quel ch’è presente Dubbio, ma teme, ben che sia lontano, Il periculo, e a sé pargli imminente. 10. Timor de certo è a immaginarlo vano, E dove timor regna, ogniun concorre Che invallido quel corpo sia e mal sano. 11. Timor Fineo, fra gli omini una torre, Converse in saxo col meduseo volto, Ché a’ timidi Fortuna non soccorre.

8, 2. stremìto*] tremito Z  10, 1. de certo è a (Solerti)] certo e da Z  8, 2. stremìto: ‘impaurito’; si emenda tremito di Z, evidente facilior. Anche in IO ii xiv 56 e xxviii 27.  8, 3. ‘e gli occhi lo mostrano (il terrore), con sguardi obliqui’.  9, 3. a sé ... imminente: ‘gli sembra sovrastarlo in quel momento’.  10, 1. ‘Il timore, se ci si pensa, è certo vuoto di senso, inutile’.  de certo è a: così Solerti, sulla lezione di Z certo e da, per evidenziare al solito il numerale. 10, 2. concorre: ‘concorda nell’idea’.  10, 3. Viene attribuito il timore a debolezza fisica, mancanza di salute.  mal sano è una sorta di glossa a invallido.  11. Il Fante è impersonato da Fineo. In Ovidio, Met. v 1-235, Fineo, vedendo tutti i suoi impietriti dalla Gorgone durante la battaglia con Perseo, non aveva avuto il coraggio di opporsi, e venne così apostrofato dall’eroe: «Quod ait timidissime Phineu, / Et possum tribuisse et magnum est munus inerti / (Pone metum) tribuam; nullo violabere ferro» (vv. 224-6). Perseo lo pietrificò all’istante, rendendo eterno il suo timore: «Sed tamen os timidum vultusque in marmore supplex / Summissaeque manus faciesque obnoxia mansit» (234-5).  11, 1. una torre: ‘un uomo, un guerriero eminente’. All’inizio dell’episodio Ovidio lo presenta come «belli temerarius auctor» (v. 8).  11, 3. Giusta il proverbio audentes Fortuna iuvat.  timidi: ripresa dell’epiteto ovidiano citato ai vv. 224 e 234.  327

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12. Timor Ptolomeo re sùbito vòlto Ebbe contra Pompeo, sol per paura Che Cesar non gli avesse il regno tolto. 13. Timor non lassò Andromeca secura Del figlio, visto Ulixe, e intrar lo fece Del patre Ector entro la sepultura. 14. Timor Dyonisio del tonsore in vece Usò le proprie figlie, cum carboni Per fugir ferro, e al fin non fugì nece.

13, 3. entro la] in la sua Z  14, 2. cum carboni] con carbone Z  14, 4. om. V] Che mal se fugge quel chel ciel dispone Z.

12. La carta del Cavallo di Fruste è riprodotta in Dummett 1973. Il Cavallo è Tolomeo.  12, 1-2. vòlto / Ebbe: Il piucheperfetto sottolinea il repentino voltafaccia di Tolomeo.  vòlto: in rima equivoca con 11, 2.  13. La carta della Regina di Fruste, Andromaca, in Dummett 1973. La vicenda è narrata da Seneca nella tragedia Troades, dove però il nascondiglio non serve a salvare Astianatte dalla furia di Ulisse; mentre nell’IO iii v 20-1 Astianatte nascosto si salva e diviene il capostipite, attraverso Rugiero, degli Estensi. Qui la storia è ferma al primo episodio e non si sa quale sviluppo potrà avere.  13, 1. Andromeca: così tutti i testimoni.  secura: ‘tranquilla’.  14. La carta in Dummett 1980. Il Re di Fruste è il tiranno Dionisio di Siracusa che, per timore di attentati, si faceva radere dalle figlie, e non con lame ma con carboni ardenti. Figura esemplare anche in TC i 103-4 «Que’ duo pien di paura e di sospetto, / l’uno è Dionisio e l’altr’è Alessandro».  14, 3. nece: ‘la morte’.  Z aggiunge un inutile verso sentenzioso: Che mal se fugge quel chel ciel dispone. 328

VI

0. Mondo, da’ pazzi vanamente amato, Portarti un Fol sul’asino presume, Ché i stolti sol confidano in tuo stato. Capitulo del Trionpho del vano Mondo Z. Le terzine indicano carte con valore crescente, quindi qui si numerano; non ha numero (si segna con 0) la prima terzina, perché nel sonetto iniziale è detto che il Folle è al più vil loco, e il Viti nella sua descrizione comincia la numerazione – un ponto – con la carta seguente. Le terzine, come scrive il Viti «incominzano per quella parola che significa la figura del Trionfo sotto ad essi dipinta»; la prima parola cioè indica una qualità, un vizio, una situazione personificata, di cui il personaggio citato costituisce l’exemplum. Secondo il Viti, oltre ai personaggi di esempio, sulle carte erano anche raffigurati animali con caratteristiche simili, in una sorta di bestiario. Dalle terzine questo non risulta in alcun modo e, come s’è visto, non conosciamo nessuna carta della serie dei Trionfi. Anche se il valore delle carte dovrebbe indicare una gerarchia, non sembra che esista una struttura trionfale nel senso petrarchesco del termine. Né la sequenza ha un traguardo ultraterreno, si resta nell’ambito del vivere umano: il valore più basso è assegnato al Mondo, o meglio ai pazzi che lo amano, il più alto alla Fortezza d’animo. Molto spesso, ma non sempre in modo chiaro, le carte col numero pari sembrano rappresentare un trionfo sulle dispari precedenti. Si veda in proposito l’introduzione. Oltre a non conoscere le carte di questa serie, il manoscritto V, in parte lacunoso, non ci fornisce la descrizione delle carte dall’undicesimo Trionfo fino all’inizio del diciassettesimo. 0. Viti si dilunga più del solito nella descrizione di questo personaggio, che sembra ritenere appartenente alla sua medesima categoria (buffone di corte?): «Et ad ciò che bono principio sia per me dato, da quello che è a me, per quello che se ha dicto, similimo, incomenzarò: e questo dimàndase in questo gioco el Matto. Lo quale è dipinto a cavallo de uno asino, senza briglia, vestito de rosso, con un capuccio giallo in capo, e cum due campanelle rotonde, atacate a due orechie che nel capuccio sono, una per banda; et ha questo capuccio una verde coda, sì com’ sono le rechie, che, da le spalle drieto incominciando, se rivolta inverso el capo suo. Et è cinto cum la veste atorno atorno retirata; et ha la manica larga ne la bocca, con uno friso giallo nel orlo, e ne l’ultimo pizzo de la dicta manica è un’altra campanella. E nel piede ha uno stivaletto rivolto sotto il genochio, e quella 329

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1. Ozio Sardanapalo ozioso in piume Tenne e in lascivie, concubine e gola, 1, 1. Ozio] Locio Z  parte che si rivolge è gialla; et il resto è de rosso colore. L’altro piede e l’altra mano non si vedano per essere in lato tutto dipinto, excepto el volto: lo quale è non bianco, con doi grandi e negri ochi, col naso schiazzato, et con le labbra grosse e la boca aperta, e cum doi ciglia di colore negro insieme agiunte, e con la fronte rugosa. E per quello che io vedendolo puoti existimare, parvemi di vedere la imagine di quello omo: et oltra queste tucte dicte cose, egli tiene uno mondo in mano, rotondo: nel quale e mare, e fiumi, e monti, e cittade si vedano descripte; e sta sopra questo mondo col pecto e col mento appogiato, e tiene le gambe retirate: a le quale l’asino si volta con el capo, come se basciare li volesse li piedi; e sopra de sé tiene tre versi». La descrizione trova riscontro nei versi; si noti la sottolineatura uno mondo [...] rotondo.  0, 1. Ci si aspetterebbe che la terzina cominciasse con la parola Folle, non Mondo, che come s’è visto è il valore più alto nei Tarocchi standard, mentre allo zero è raffigurato il Matto. (Dummett 1993, 13).  0, 3. Mazzacurati, 280 metteva qui a confronto AL iii 59, 62-3 «che in tutto è pazo e vano / qualunque aver diletto in terra attende».  1. Viti: «Il primo Trionfo, che è de un ponto, se dimanda l’Ozio; e la figura è di Sardanapalo re, se bene mi ramento, de li Assyrii; lo quale a la luxuria e gola dato, non seppe il regno guidare, e fu il primo che ritrovoe le piume ne le quale si dormisse. Contra al volere de Vostra Signoria, questo mi parve potere, di Sardanapalo ragionando, dire. La figura del quale è delicata: e tiene in dosso un manto bianco di celeste colore adaquato, et ha in testa l’aurea corona; e sede sopra un giallo scanno; et sotto el manto è de morello vestito; et a piedi suoi iace una marmota, che è animale pigro e ocioso e sonnolento; e sopra di sé sono li versi posti che lo nominano, li quali incomenzano per questa parola Ozio. Et in tucto el Capitulo de Trionfi li terzetti incominzano per quella parola che significa la figura del Trionfo sotto ad essi dipinta. Et a piede di tucti li Trionfi sono animali di quella medesima natura che è il Trionfo. El numero de quali Trionfi, da l’Ozio incomenzando, che per l’uno è posto, se ritrova scripto in uno canto del breve che sopra el capo loro è depinto». Interessanti queste notizie date dal Viti: sulle carte dei Trionfi, oltre al personaggio esemplare, era segnato un numero progressivo e veniva raffigurato anche l’animale di quella medesima natura. Il Viti insiste anche sulla numerazione delle carte, funzionale al gioco. L’Ozio, oltre ad essere tradizionalmente il padre dei vizi, è lo stato più contrario al contesto sociale.  1, 1. Sardanapalo: scelto da Dante a impersonare proverbialmente la lussuria in Par. xv 104-5 «non v’era giunto ancor Sardanapalo / a mostrar ciò che ‘n camera si pote».  in piume: Come abbiamo visto, secondo il 330

vi



Tanto che del regnar perse il costume.

2. Fatica fece Ipolita, che sola Meritò dele Amazone corona, E in Scizia e in Grecia ancor suo nome vola. 3.

Disio accese Atteon de una persona

1, 3. perse] prese Z  2, 2. Meritò dele Amazone] Dele Amazone merito Z  corona Z] la corona V  Viti «fu il primo che ritrovoe le piume nele quale si dormisse». Ma per le piume simbolo dell’ozio e di ogni mollezza, è ineludibile Petrarca RVF 7, 1 «La gola ’l somno et l’otïose piume / ànno del mondo ogni vertù sbandita» (: costume). 1, 3. perse: Z, probabilmente interpretando male un’abbreviazione, scrive il contrario: prese.  2. Viti: «El secondo Trionfo, che per binario numero è signato, è la Fatiga. La quale per Ippolita è descripta, che fue per sua grandissima fatiga de le Amazone Regina. Questa in forma de una Nynfa è depinta, col pecto e con la dextra manica di morello; cinta con uno cingulo de simile colore, che drieto a le sue spalle elevato e ritorto se dimostra; con uno velo in capo verde; et con il camiso, da la cintura in giuso, bianco. Et ha ne la dritta mano una lanza; ne la sinistra un giallo scuto, con uno spechio in mezo, che tutto el brazo li copre. Et a li piedi suoi molte formiche se ritrovano, che fra gli altri animali amatrice de fatica sono. E sopra el capo un terzetto si lege, come ne li altri».  2, 1. Fatica: sembra qui instaurarsi un’opposizione binaria, come in altri casi: la Fatica rappresenta certo un trionfo sull’Ozio. Forse sulla carta era scritto Fatiga, come riporta Viti.  Ipolita: ricordata anche nei Trionfi petrarcheschi, insieme ad altre amazzoni (TF ii 88-93 e TF ia 145-7).  2, 1-2. Sola ... corona: su questo ruolo privilegiato di Ippolita ha forse influito Boccaccio, Tes. i 8-9 «elesser per reina en la lor terra / Ippolita gentil, mastra di guerra. // La quale, ancora che femina fosse / e di bellezze piena oltre misura, / prese la signoria, e sì rimosse / da sé ciascuna feminil paura, / e in tal guisa ordinò le sue posse, / che ’l regno suo e sé fece sicura; / né di vicine genti avea dottanza, / sì si fidava nella sua possanza».  2, 3. Scizia: regione in cui tradizionalmente le Amazzoni risiedevano.  3. Viti: «Desio è lo terzo Trionfo per Ateone significato, lo quale cose divine desiò di vedere, e, vedendo Diana in una fonte, ignuda, si converse in cervo, spargendoli essa nel volto cum le mane l’aque. La pictura è de uno omo in giupone di giallo listato, e tutto el remanente de morello colore; e le calze de celeste e bianco, in molte liste divise sono. El capo è di cervo, con doi corna longhe e d’oro e di cervigno colore, con la boca aperta; e tiene in la sinistra mano uno lasso, e ne la diritta mostra paura: et ha doi cani che 331

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Celeste, sì che in cervo fu converso: Però el desio tropp’alto alcun non pona.

4. Ragion fè Laura del fanciul perverso Cupido trïonfar, ché mai non torse Occhio dala virtù, né il piè in traverso. 5.

Secreto Antioco fu, tanto che corse

3, 3. el desio tropp’alto alcun] Perho troppo alto lhom desio Z  4, 3. Occhio] Odio Z  lo mordano; et a piedi uno leopardo che siede, lo quale è animale molto desioso in seguire le fiere. E tiene sopra el capo il suo terzetto secondo l’ordine dicto». 3, 1. Atteon: Sul mito di Atteone mutato in cervo e divorato dai suoi cani per aver visto Diana e le ninfe mentre si bagnavano nella fonte, si veda Ovidio, Met. iii 138-252. Ma non risulta da Ovidio che la sua azione fosse voluta, né che agisse per desiderio della dea.  3, 3. tropp’alto: ‘in qualcosa di irraggiungibile’. Consueto consiglio di moderazione, di misura.  4. Viti: «Ragione per il quarto Trionfo si vede scripta, e la figura che la dimostra è Laura del nostro Petrarca, vestita come Ippolita, et in mano tiene un stendardo; et in campo verde si vede un candido ermellino; et ha dinanzi a sé Amore, cum le man ligate dietro e cum l’ale spenachiate: e sotto a piedi l’arco e la faretra sua. E da l’un de’ canti un zoco d’ape, cum li busi suoi, e cum le ape che intorno ad esso volano. Le quale per la ragione sono poste, come animali che ne le sue operazioni cum grandissima rasone procede. E sopra el capo de essa Laura sono versi che di lei, non cusì dolcemente come per l’adietro facto fu, ragionano». Quest’ultima riserva del Viti prova che si è ormai in un diverso tempo: Petrarca impera.  4, 1. Ragion: in opposizione a Disio, adombra un ricordo dei primi due Triumphi petrarcheschi, e non a caso la Rason è impersonata da Laura; si veda TM ii 101-2 «ch’Amor ardeva il core: / ma voglia, in me, ragion già mai non vinse». Per il giusto accostamento con il commento dell’Ilicino, si veda Foà 1998.  fanciul perverso: forse ricordo del dantesco «mal perverso» (Inf. v 93).  4, 2. torse: ‘allontanò’.  4, 3. né ... traverso: ‘né mise mai il piede in fallo’.  5. Viti: «Nel loco del quinto Trionfo si vede lo Secreto, e per esso Antioco se dipinge, vestito de un manto di morello che dovrebbe esser scuro; cum biondi capelli e delicata faccia; et ha a piedi suoi uno struzzo, lo quale credo che sia per paidire ogni cosa dura, e nel suo proprio sangue convertirla, non mandandola fuori per lo secreto posto. E, sì come a gli altri Trionfi, sopra el capo suo tre versi di lui si legano». La spiegazione data da Viti sul significato dello struzzo non è perspicua, né lo è questo Trionfo Secreto-Grazia. Lo struzzo forse significa che 332

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Per Stratonica quasi in fin ad morte: Ma el fisico gentil ben lo soccorse.

6. Grazia a’ secreti e savii non va a sorte, Ma cum ragion, ché nel’amore ha il vanto 5, 2. in fin] fino Z  6, 2. Nel’] con Z  nelle situazioni avverse non è opportuno nascondere la testa nella sabbia, cioè mantenere il silenzio, il segreto.  5, 1. Antioco: largo spazio alla vicenda è dato in TC ii 94-129, qui ricordato anche con riprese testuali. Antioco stava morendo d’amore in segreto per la matrigna Stratonica; un medico se ne accorse e il padre lo salvò cedendogli la donna (cfr. anche Val. Mass. v 7 ext.).  5, 1-2. TC ii 124, «Tacendo amando quasi a morte corse».  5, 3. TC ii 121-2: «E se non fosse la discreta aita / Del phisico gentil che ben s’accorse», e v. 126 «ch’a lui soccorse». Qui è ripresa la rima inclusiva corse : soccorse.  6. Viti: «Grazia per lo sexto Trionfo si vede, e ne la pictura è significata per tre donne che sono le tre Grazie: le quale nude si vedano depinte, cum li aurei capelli giù per le spalle; occultate ne le men belle parte cum veli bianchi e suttili: in guisa che esse non occultarse, ma cum le bracia tenere il velo, a chi vi mira, pare; et una guarda l’altra come se insieme ragionassino. A piedi de le quale si vede una Fenice, che volga in sé stessa il beco, e dentro ad un rogo, cum l’ale aperte stando. Et hanno queste Gratie la Fenice per sua; percioché esse in una etade se trovano in uno solo sugetto: come ora ne la divina chiaramente si vede, ne la quale sola tucte tre si ritrovano. Né in altro parmi, Illustrissima Madonna, avere qualche iudicio riservato, conformandome in ciò con tucti coloro che li animi, di rarissime virtù fregiati, cum l’ochio del corpo parimenti e del animo, ponno agevolmente cognoscere. Sopra le qual Grazie sono tre versi assai acconciamente posti». Tralasciando l’incoerente digressione religiosa, notiamo che nella terzina non è citato alcun personaggio: non sono citate le tre Grazie, ma la Grazia, col significato di situazione positiva. Ma certo sulla carta andava messa una figura. E le tre Grazie, da Seneca (De beneficiis) in poi, erano considerate figura della liberalità (cfr. Wind 44-5): di cui il padre di Antioco è un esempio. Le tre Grazie comparivano anche nell’affresco di Aprile di Schifanoia (Trionfo di Venere), nude come in IO II xv 44. Per quanto riguarda la raffigurazione della fenice, sembra ci sia una confusione col pellicano, animale quest’ultimo che rappresentava meglio il sacrificio del padre di Antioco.  6, 1. Grazia: il rapporto con la situazione di Antioco nel Secreto è stretto, ma l’opposizione, il Trionfo, è limitato a quella situazione: in amore ottiene risultato – grazia – solo chi è capace di celare le proprie passioni.  non va a sorte: ‘non è data per caso’.  6, 2. ha il vanto: ‘ha il premio’, ‘vince’.  333

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Colui che è a asconder le passion più forte.

7. Sdegno questo re Erode occupò tanto Che facta occider Marïana, poi La chiama e con amor si dòl col pianto. 8.

Pazienza Psiche ebbe nei casi soi,

6, 3. è a asconder le] asconde le Z  7, 1. questo re Erode] Herode Re Z  8, 1. Psiche ebbe nei] hebbe Psiche ai Z  6, 3. Sinalefe che coinvolge quattro vocali.  7. Viti: «Sdegno per el septimo Trionfo se dimostra, per lo quale el Re Erode ne la pictura è posto, che la cara et amata Mariana per sdegno conduxe a morte, chiamandola poi e con Amore dolendose. Et è dipinto con una corona d’oro in testa, coperto de un manto morello, e di sotto vestito di celeste colore; cum le mane battendose il pecto, e cum la boca aperta, lacrymando; e sopra un scanno giallo sedendo, con uno orso a piedi, sdegnosissimo fra tucti gli altri animali: in modo che sé stesso, le picciole ferite squarciando, cum le proprie mani sue se occide. E li versi pur in questo Trionfo come ne li altri sono».  7, 1. Sdegno: sembra che qui significhi ‘improvviso scatto d’ira’. Del fero Herode scrive Petrarca in TC iii 67-70, che così narra la vicenda: «Vedi come arde in prima, e poi si rode, / tardi pentito di sua feritate, / Marïanne chiamando, che non l’ode». La vicenda anche in Boccaccio, De mul. cl. lxxxvii, dove però Erode non piange la morte della donna (cfr. Flavio Giuseppe, Ant. Iud. xv iii 9 e Bell. Iud. i xxii 2-5).  8. Viti: «Pazienza al Sdegno nel octavo loco segue, per Psiche significata, la quale li adversi casi soi pazientissimamente soffrendo, meritò de essere nel numero de le Dee collocata. Questa è, Illustrissima Madonna, l’anima nostra, che cum grandissime fatiche da le brutture del mondo levandose, piglia l’ale, da Iove per grazia concesseli, pogiando col divino adiuto insino al Cielo, dove per merito de le sue fatighe, la felice vita prendendo, diventa Dea. [segue un paragone adulatore per Elisabetta] La pictura de Psiche è in forma de Nynfa, di morello manto vestita, con un bianco camiso di sotto, e tiene cum ambedue le mane parte del suo manto; et ha a suoi piedi, da l’un de canti, uno arco ropto, con uno scrito riverso a lui di sotto; e da l’altro canto due ali spenachiate et uno cavallo leardo, col freno morello, che pazientemente essendo generoso, patisse ogni fatica. E sopra el capo de dicta Psiche sono tre versi che di lei ragionano». Si noti l’interpretazione allegorica, assente nei versi.  8, 1. Pazienza: se si intende con sdegno l’impeto dell’ira impaziente, si potrebbe vedere un nesso di opposizione.  Psiche: la favola di Amore e Psiche, narrata da Apuleio, è molto nota alla 334

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E però fu soccorsa neli affanni E facta dea nel fin, ch’è exempio ad noi.

9. Error fece Iacob septe e septe anni Servir, ché di Rachel Laban non dixe; Ma el tempo ristorò tucti i suo’ damni. 10.

Perseveranza in Penelope vixe

9, 1. fece Iacob] Iacob fe Z  corte Estense, sia attraverso il volgarizzamento dello stesso Boiardo sia con il poemetto in ottave di Niccolò da Correggio.  8, 2. Molti furono gli aiutanti di Psiche durante le sue prove.  8, 3. Psiche, dopo aver sopportato con pazienza tutte le prove imposte da Venere, fu assunta fra gli dei; la sua vicenda è qui giudicata esemplare per tutti gli uomini.  9. Viti: «Errore per el nono Trionfo se scorge, per Jacob ne la figura importato, che avendo septe anni per Lia servito, credette aver Rachele meritato, et in questo grandemente erroe: e fecesi per septe altri anni ancora de Labaan servo per amore di Rachele; onde dice el nostro Petrarca “Septe e septe anni per Rachel servito”. La figura de Jacob è de uno giovene, da pastor vestito, con uno capello dietro e un fiasco a lato; con uno grisetto [mantello grigio?] e uno paro de ossati [per usatti, stivali] morelli in piedi; sopra de uno anodato bastone apogiato cum le mane e con el capo, cum la dritta gamba sua circuendolo; e d’intorno ad esso sono assai pecore, che facilmente errano, tutte lo errore de una seguendo. Cum le quale in disparte si vede un cane, che per guardia loro in terra iace, con un collare di ferrei spini carico, ad ciò che da lupi strangolato non sia. Li versi veramente sopra el capo, a chi vi mira, si legano, che di Jacob fanno qualche menzione».  9, 1. Error: ‘sbaglio’, non in senso morale; in questo caso non si tratterebbe di un errore di Giacobbe ma dell’inganno di Labano.  Iacob: Giacobbe servì in casa di Labano per sette anni per avere in moglie Rachele, ma dovette farne altri sette per averla veramente, in quanto Labano l’aveva sostituita con Lia nella prima notte di nozze (Genesi 29). Come scrive Viti, ricordo di TC iii 35-36 «e d’aver non gl’incresce / sette e sette anni per Rachel servito».  9, 3. ristorò: ‘recò sollievo’, ‘riparò’.  10. Viti: «Drieto a lo Errore segue la Perseveranza, cum li versi come è dicto, per la quale Penelope si vede depinta, che cum gran perseveranza molti anni tessette e disfece la texuta tela, expectando el suo caro consorte, che per il mondo andava errando. Questa è in uno tessaro [telaio] depinta, di ordimento, e di pettine e di navicella e de calcoli che con li piedi se movano, e da ogni altra cosa fornito. Sopra el quale sono alcune hyrundine che 335

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Tanta che al texer e disfar le tele, Meritò riaver l’amato Ulixe.

11. Dubio a sé stesso Egeo fece crudele, Che a morte se gittò nel mare in frecta, Visto Teseo tornar cum negre vele. 12. Fede ebbe Sofonisba non suspecta A Massinissa, che ’l venen promisse Se a seguire il trionfo era constrecta. 13.

Inganno Nesso, che a Dianira disse:

11, 2. morte] morir Z  13, 1. Dianira Z] Deyanira V  stanno, et alcune che intorno ad esse volano. Il colore del telaro è berettino, e la veste de Penelope è morella scura, con el pecto verde; e sta in forma di quelle che con piedi e cum le mane, avendo i capelli drieto a le spalle, tessendo lavorano».  10, 1. Perseveranza: veramente anche Giacobbe sarebbe un esempio di perseveranza, ma qui è stata scelta Penelope e la sua proverbiale tela.  vixe: ‘albergò,’ ‘regnò’ nell’animo di Penelope.  10, 3. Meritò: dalle fonti antiche non risulta che il ritorno di Ulisse sia un premio per la perseveranza di Penelope.  11. Da questo Trionfo ha inizio la lacuna di Viti. Restano queste poche righe: «Dubio nel undecimo loco se trova cum versi ad esso appropriati, e per il Re Egeo è significato: che dubio stando de la venuta del suo figliolo Teseo per avere...».  11, 1. Dubio: in realtà non si trattava di un dubbio del povero Egeo, ma di una certezza, dato che la nave aveva vele nere: l’accordo infatti prevedeva che in caso di insuccesso e morte di Teseo, la nave portasse appunto vele nere. Ma se lo si vede in opposizione alla seguente Fede, può significare ‘mancanza di fiducia’.  a sé stesso ... crudele: per il dolore si gettò nel mare che da lui prese il nome.  12. La vicenda di Sofonisba e Massinissa occupa molto spazio nel TC ii (vv. 28-72), ma non ci sono qui prelievi puntuali.  12, 1. Fede ... non suspecta: ‘fiducia incondizionata’.  12, 2-3. TC ii 59-60 «ché vedendosi giunta in forza altrui, / morir in prima che servir sostenne».  promisse: ‘promise’ in rima settentrionale con i seguenti disse e risse: forse in origine tutti scritti con x.  13, 1. Inganno: lo si considera sostantivo, con verbo sottinteso; Solerti leggeva ingannò, ma sarebbe l’unico caso in cui il sostantivo iniziale è sostituito da una forma verbale. L’inganno di Nesso consiste nell’aver convinto Deianira che la veste mac336

vi



«Ad Ercul dà questa vesta col sangue, Se advien che abbia d’amor mai teco risse».

14. Sapienza fu, come in un callido angue, In Ippermestra, che in feminei panni Salvò il marito, dal timor exangue. 15. Caso cadde in Pompeo, che per tanti anni Avea seduto al summo dela rota, E al fin Fortuna el sommerse in affanni. 13, 2. Ad Ercul dà questa vesta] Da questa veste ad Hercole Z  13, 3. abbia d’amor mai teco] damor mai teco habbia Z  15, 2. Avea seduto] Era reducto Z  chiata con il suo sangue avrebbe ristabilito l’amore di Ercole per lei; mentre invece la veste sarà causa di tali tormenti che Ercole preferirà finire i suoi giorni su una pira, sul monte Eta.  13, 2. Così in Ovidio, Her. ix 161-3 «Nessus, ut est avidum percussus arundine pectus, / “Hic” dixit “vires sanguis amoris habet”; / Inlita Nesseo misi tibi texta veneno»; in Boccaccio, De mul. cl. xxiv, «Nessus [...] vestem sanguine suo infectam confestim Deyanire tradidit, asserens, sic cruentam si induat, posse Herculem ab omni extero in suum amorem retrahere».  col sangue: imbevuta del suo sangue (quando venne ucciso da Ercole).  14. L’opposizione o il ‘trionfo’ di Sapienza su Inganno qui sembra nascere dall’opposto comportamento delle due donne: la prima inconsapevole strumento dell’inganno che porta il marito alla morte, la seconda ribelle all’inganno progettato dal padre.  14, 1. Sapienza: ‘saggezza’.  callido angue: il paragone, stando alla versione tradizionale del mito, è del tutto fuori luogo; per Ovidio, Her. xiv 49 «Sed timor et pietas crudelibus obstitit ausis».  14, 2. Ippermestra: unica delle cinquanta Danaidi risparmiò il cugino-marito Linceo; la vicenda è narrata nell’eroide citata e in Boccaccio, De mul. cl. xiv.  in feminei panni: nessuna delle fonti note tramanda che Ipermnestra facesse travestire il marito con vesti femminili per salvarlo; possiamo forse intendere ‘pur essendo donna’: nell’eroide ovidiana si insiste molto sulla debolezza femminile della fanciulla.  3. dal timore exangue: ‘pallida per il timore’ (cfr. AL II 51, 3 e commento Zanato). In Her. xiv, 44 si legge soltanto «capio tela tremente manu».  15, 1. Caso cadde: la sfortuna, il destino avverso colpì (caso ha qui significato negativo).  15, 2. Avea seduto: col significato di ‘aveva fatto sedere’ (sogg. il Caso). Non si trova in Boiardo, né mi risulta in altri, questo uso transitivo; Z evita la forma con Era reducto al summo dela rota. Secondo l’immagine 337

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16. Modestia Emilia, di Scipion devota Moglie, ebbe: che trovatol con l’ancilla Tacque il peccato, per non darli nota. 17. Pericol di gran foco una favilla Porta: ecco Cesar morto nel Senato Da duo. E fuggì già el furor di Scilla. 18.

Experïenza in Rea fu che, occultato

medievale della ruota della Fortuna, i fortunati stavano seduti in trono sulla sommità. 3. el sommerse in affanni: ‘lo ricoperse di disgrazie’; allusione alle note vicende di Pompeo, sconfitto duramente a Farsalo da Cesare e poi ucciso da Tolomeo.  16. Il trionfo della Modestia su un Caso sfortunato è incomprensibile, pur analizzando le vicende citate nelle due terzine.  16, 1. Modestia: vale qui ‘devozione coniugale’.  Emilia: sposa di Scipione Africano, per non danneggiare la fama del marito, non aveva divulgato l’amore di lui per una schiava. Per la vicenda qui narrata, cfr. Val. Mass. vi 7, 1, ma anche Boccaccio, De mul. cl. lxxiv: «Existimabat autem discreta uxor indecens nimium in propatulo sciri quod is qui virtute inclita reges nationesque validas subegerat, ipse amori ancillule subiaceret». 16, 3. per ... nota: ‘per non dargli biasimo’.  17. Termina qui la lacuna di Viti, che così riprende: Il Pericolo è «...per la figura di Cesare descripto, lo qual da Bruto e Cassio fu occiso nel Senato; vestito ne la pictura de uno manto morello, e sotto di veste d’oro: lo quale manto li cade da le spalle. Et appresso de lui sono e Bruto e Cassio, coperti de rosso: uno col pugnale nel pecto di Cesare ficto; l’altro in acto di cacciarlo; a piede di quali uno furioso toro si vede, che pericolo significa, percioché egli con le corna ferisce non vedendo il modo, il che al feritore è periculosissimo».  17, 1-2. Pericol ... Porta: ‘una sola favilla può creare il pericolo di un gran fuoco’. Anomala la struttura della terzina rispetto alle altre: il nome del personaggio esemplare non compare nel primo verso.  17, 3. Da duo: da due uomini soltanto, Bruto e Cassio.  Scilla: grafia ipercorretta per ‘Silla’; Cesare al suo esordio politico avrebbe preferito a Silla il partito dei mariani, ma non risulta che per questo sia stato da Silla perseguitato.  18. Anche in questo caso è difficile vedere un trionfo dell’Experienza sul Pericol, se non molto in generale: una lunga esperienza della vita può insegnare anche a evitare i pericoli. Qui forse si può intendere che Cesare, nonostante la sua lunga esperienza (di cui Silla è un’allusione) non è riuscito a evitare il pericolo. Il Viti: «Nel decimoctavo Trionfo vedesi la Experienza con lo suo terzetto, per Rea significata, che fu di Jove madre; la quale per 338

vi



Iove nel monte de Ida, ordinò i suoni Che al pianger suo non fusse ritrovato.

19. Tempo, che gli omini ala morte sproni, Nestor salvasti, e se pur venne al fine, De un viver tal non par che se ragioni. 20.

Oblivïon, che termine e confine

19, 2. salvasti] servasti Z  20, 1. che] di Z  molta experienza tolse il nato fanciullo per scamparlo da l’ira di Saturno e dettelo a i populi Corifanti: che cum cymbali sopra a un monte di Creta lo educorno, e cum bacini facendo strepito, ad ciò che el cridare non fusse da Saturno sentito. De la qual Rea, la pictura è una donna, con el capo di nero velato, di morello chiaro vestita, con il pecto azuro, che guardi a la cima di un monte, dove alcuni piccoli omini si discernano. Et ha questa denanzi a sé un piccol bambino in fascie, con una aquila a lui di sopra, con l’ale aperte, de colore negro: come quella che in molte cose experta, per la longheza de la vita, e la lontananza de’ luochi che de aver visto si trova, da Jove per suo fidato ucello fu electa».  18, 1. Experïenza: sembra valere qui ‘accortezza’: Rea non poteva avere esperienza in proposito.  18, 2-3. Ordinò ... ritrovato: ordinò ai Coribanti di suonare i loro strumenti perché Saturno non udisse i pianti di Giove neonato e così lo ritrovasse.  19. Viti: «Il Tempo doppo la Experienza segue, cum li versi suoi, nel decimonono Trionfo. Questo in forma di Vechio è depinto, cum veste di morello e con manto de cangiante; e con una crocioletta [non attestato nei lessici; il Tempo è di solito raffigurato con una clessidra in mano] in la stanca mano che intrettando [intrattanto?] va. Cum la dritta un cervo cum le corna lunghe, che per essere di longhissima vita col Tempo si pone».  19, 1. Tempo: Non ha nessun rapporto con la funzione del Tempo nella serie trionfale petrarchesca; qui il tempo è considerato solo in rapporto alla vita umana (come l’esempio di Nestore prova), non la travalica per trionfare sulla Fama: questa funzione sembra essere, nella terzina che segue, delegata all’Oblivion.  19, 2. Nestor salvasti: ‘conservasti a lungo in vita Nestore’, di cui Petr. TF ii 19 «Nestor, che tanto seppe e tanto visse» (cfr. anche Ov. Met. xii 186-8).  19, 3. ‘Di una vita così lunga non pare si abbia altra notizia’.  20. Viti: «Segue, drieto al Tempo, nel vigesimo loco l’Oblivione, cum lo ternario suo, in forma di vechia depinta, che il capo de un velo giallo e il collo tiene avolti; cum 339

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Di tutto sei, Fillide e Dido a Lete Menasti, e fama e tempo hai in tue ruine.

21. Fortezza d’animo in Lucrezia liete Exequie fece, e per dar vita al nome Se occise, e al’offensor tese atra rete. 20, 2. Fillide*] Elice V il Lynce Z  21, 2. dar vita al nome] purgar sua fama Z  21, 3. atra] una V  21, 4. om. V] Dando exempio a chil nome e lhonore ama Z. 3. con Z] om. V  maniche morelle e veste azurra, ma per longheza di tempo di tal colore in assai luochi smarrita; e tiene una catena in mano avolta ad una lince; che beve de una aqua che per il fiume Lethe è posta, lo quale suole, chi dentro li beve, de ogni memoria privare. Queste figure per tale trionfo sono poste, per ciò che la vechieza significa oblivione, e la lince è animale oblivioso molto; e Lethe è fiume che pone ne li animi di chi beve essa oblivione: la quale tole de memoria de omini, e mena a Lethe tucte le famose cose, come fu Dido, da Virgilio tanto nominata». La lince è di solito collegata alla vista acuta, non all’oblio.  20, 1-2. Oblivïon ... sei: si fa più netto il contrasto con l’ideologia sottesa ai Triumphi petrarcheschi: qui non l’Eternità ma l’Oblivione vince la Fama e il Tempo.  20, 2. Fillide e Dido: si tenta di emendare così il luogo, diversamente guasto nei due testimoni: Elice V e el Lynce Z. Fillide è ricordata subito dopo Didone in Par. ix 100-1; e con Demofoonte in TC i 127. Si veda anche la disp. «Io son sì vago della bella Aurora», lxxvii Solerti, 9-14 «Ma se Prometeo tosto non mi spira / Del suo valor contro tal donna altera, / Per cui rete d’Amor mai non si tira, / Convien ch’io entri del tutto in la schiera / Di Dido e Fillis, le quai con ira / spenser di questa vita la lumera». Fillide ha avuto una vicenda molto simile a quella di Didone, narrata da Ovidio nella seconda Eroide e anche in Rem. am. 591-608. Sarebbero quindi due casi simili di disperazione amorosa che ha portato al suicidio: casi poi del tutto dimenticati (si ricordi l’incontro di Enea con Didone in Aen. vi 450-76). Il Viti non dà lumi, perché scrive che nella carta è rappresentata l’Oblivione stessa, e non altre figure.  a Lete: secondo la tradizione classica, le acque del fiume Lete facevano dimenticare ogni cosa terrena per preparare le anime alla reincarnazione (cfr. Aen. vi 703-51) Si veda, per opposto, Petrarca RVF 336, 1-2 «Tornami a mente, anzi v’è dentro, quella / ch’indi per Lethe esser non pò sbandita».  21. Viti: «L’ultimo Trionfo nel vigesimo primo loco riposto, e con li versi suoi, è la Forteza de animo, per Lucrezia Romana (e non per Suor Felice, come il compositore vòle) significata; la quale per forteza de animo cum le proprie mane se occise mostran340

vi

do a tucto el mondo aperto el casto voler suo. Questa è in forma de una bella giovene depinta, che cum capelli sparsi cum la dritta mano uno coltello nel pecto si caccia; vestita de uno manto negro di sopra e verde di sotto, con un camiso rosso, e cum la sinistra tene un leone, che fra gli altri animali, di fortezza è da tutti lodato». Questa osservazione del Viti prova che il mazzo che lui conosce e sta descrivendo, non è simile all’originale, ma cronologicamente (o localmente) lon  tano.  21, 1. Fortezza d’animo: anche questo è un caso singolare, in cui il sostantivo iniziale è precisato dalla specificazione: che però è necessaria per evitare la confusione con la forza fisica.  21, 1-2. liete / Exequie: ‘una morte lieta’, perché frutto di libera scelta da parte del suo forte animo.  21, 2. per dar vita al nome: ‘per rendere il suo nome famoso, immortale’.  21, 3. tese atra rete: forse si allude alla vendetta che Lucrezia provocò, narrando ai suoi familiari la violenza subita dal figlio di Tarquinio il Superbo, prima di uccidersi. Questa è la lez. di Z; una rete di V sembra una banalizzazione. Z conclude al solito con un verso di sua invenzione: Dando exempio a chi il nome e l’onore ama.

341

VII

Vegio il mio error, pur el commune inganno

Sego, e stimo el mio fallo assai minore, Ché errar con la più parte è manco errore Che sol salvarsi in un publico damno.

5. Vegio che gli omini] Gli homini veggio che Z  6. parer corte l’ore] talhor tor Sonetto con schema ABBA ABBA CDC DCD (si veda la nota al primo sonetto). Assonanza nelle rime A, C, D; consonanza B e D. Rima equivoca in 4:8. La rima AC del primo sonetto torna qui in B, con la ripresa della parola errore. In Z è intitolato Sonetto excusato. È il componimento più ‘boiardesco’ della serie. Come notava Mazzacurati 279, notevoli sono le analogie con il sonetto iniziale degli AL. Anche in questo caso si tratta di una allusione a Petrarca per negare contenuti petrarcheschi: là il dissenso colpiva il primo sonetto dei RVF in nome dell’importanza vitale dell’esperienza amorosa in età giovanile; qui il confronto riguarda più direttamente RVF 355, in nome di una solidarietà umana, o forse, meglio, di una socialità cortigiana, dato che «errar con la più parte è manco errore / Che sol salvarsi in un publico damno». Il tempo fugge e non si può trattenere, e gli uomini creano anche dei passatempi, come questo, perché il tempo sembri ancor più breve: ma «fuggir tedio è insticto naturale», e l’autore preferisce seguire insieme agli altri questo istinto. In entrambi i casi l’ultima terzina si contrappone ai versi precedenti con un’avversativa: in AL I 1,12 con improvviso cambiamento Ma certo, qui con conseguente affermazione Ma poi che. 1. Vegio: prelevato da RVF 1, 9; qui anche in anafora col v. 5.  il mio error: sempre dal sonetto iniziale di Petrarca, v. 3 «in sul mio primo giovenile errore». Anche in AL II 18, 8 «che, vedendo il mio ben, seguo il mio male».  il commune inganno: si veda l’apertura di RVF 355 «O tempo, o ciel volubil, che fuggendo / inganni i ciechi et miseri mortali, / o dì veloci più che vento et strali, / ora ab experto vostre frodi intendo».  2. Sego: così V; regolarizzato in sieguo da Z; la forma è autorizzata da Petrarca RVF 240, 8.  3-4. Provano la ‘filantropia’ boiardesca, se ce ne fosse bisogno, la vicenda di Filocoro, intreccio parallelo privo di un finale misantropico inserito nel Timone, ma anche dichiarazioni di questo tipo, nel poema: «Quando mi véne a mente che il diletto / Che l’hom se prende solo è mal compiuto: / Però, baroni e dame, a tal conspetto / Per dilectarvi alquanto io son venuto / 343

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Vegio che gli omini ingannando vanno Lor stessi in farsi parer corte l’ore: Onde per far l’inganno ancor magiore Questo gioco ho composto; e io stesso el danno Perché altro non è lui che sproni, anzi ale, Che ’l tempo, tanto prezïoso e caro, Via manda, come corda d’arco un strale. Ma poi che a tener quel non è riparo E il fuggir tedio è instincto naturale, Scusomi anch’io se da Natura imparo.

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lhonore Z  10. tanto] e tanto Z  11. un Z] uno V  12. tener] traer Z. 

E con gran zoglia ad ascoltar vi expecto» (IO iii iii 2).  3. con la più parte: così Z, Solerti omette con, ma si tratta probabilmente di una sua svista, non di una lezione di V.  4. in un publico damno: ‘in una situazione di generale disgrazia’. La grafia latineggiante di damno (in rima equivoca col v. 8) crea una rima imperfetta. 6. corte l’ore: in Petrarca corto è epiteto per eccellenza del tempo.  8. el danno: ‘lo condanno’.  9. lui: questo gioco.  11. Anche se il paragone in questa forma non è petrarchesco, si rilegga RVF 355, 3 «o dì veloci più che vento et strali» (: ali).  12. prezioso e caro: i due epiteti sono petrarcheschi, ma la giuntura non lo è, e soprattutto non potrebbe in Petrarca essere riferita in palese al tempo (anche se lo pensava certamente).  13-14. L’obbedienza a Natura è presente anche in Petrarca, ma in tutt’altro, opposto, contesto, di rassegnata accettazione della vecchiaia: «Obedir a Natura in tutto è il meglio» (RVF 361, 5). 344

INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI a cura di Caterina Brandoli

L’indice registra tutti i nomi di persona (compresi personaggi mitologici e letterari) e i toponimi che compaiono nell’Introduzione, nella Nota al testo, a testo e nel commento al testo. Non si indicizzano i nomi di studiosi riportati nella Tavola delle opere citate e “Matteo Maria Boiardo” per eccesso di occorrenze. Si sono esclusi tutti i nomi di luogo che non siano strettamente inerenti al testo e che quindi risulterebbero poco significativi: per esempio non comparirà l’occorrenza di “Londra” se riferita a un dipinto conservato alla National Gallery di Londra. Il punto interrogativo entro parentesi segnala i nomi di identificazione incerta: es. “Genevre (?)”. Per facilitare la ricerca, nel caso di nomi che occorrano in più forme, si offre a lemma la più vicina a quella maggiormente attestata (tratta dal testo o dal commento), ed entro parentesi le altre varianti in ordine alfabetico, separate da virgola: es. “Giacobbe (Iacob, Jacob)”. Se l’unica forma disponibile non risulta prossima a quella vulgata, entro parentesi si dà conto della versione normalizzata, preceduta da una freccia (→) per esempio “Amarillyda (→ Amarilli)”; “Sibiglia (→ Siviglia)”. In presenza di possibile ambiguità, si troveranno entro parentesi alcune informazioni essenziali: per esempio “Argo (gigante)” per distinguerlo dal toponimo riferito alla città della Grecia o da altri personaggi mitologici omonimi; “Ebro (Hebro; in Tracia) Ebro (Hibero; in Spagna)” dove allo stesso toponimo corrispondono due luoghi differenti. Anche per particolari toponimi antichi o mitologici è prevista una specifica: per esempio “Ircania (regione della Persia)”; “Liceo (monte)”. Altre note entro parentesi sono riservate ai regnanti. Per esempio “Atalarico (sovrano ostrogoto)”. Se la parentesi tonda è già stata utilizzata per indicare il nome completo del personaggio o per registrare le varianti alternative a testo, l’informazione viene indicata fuori parentesi dopo la virgola. Per esempio “Alfonso il Magnanimo (Alfonso V d’Aragona), re di Napoli”; “Anfriso (Amphriso), fiume”. 347

indice dei nomi e dei luoghi

Alcuni personaggi mitologici citati in coppia recano un doppio rimando per chiarificarne l’individuazione: per esempio “Antioco (v. anche Stratonica)”; “Stratonica (→ Stratonice di Siria), v. anche Antioco”. Si adotta (sic) in corrispondenza di forme improprie, frutto di travisamenti: per esempio “Ugo Alberto (sic) di Sassonia”. Le occorrenze relative a opere letterarie non accompagnate dal nome dell’autore confluiscono nel lemma corrispondente all’autore stesso. Opportuni rimandi delle opere all’autore segnalano questa opzione: per esempio “Commedia (Inf., Purg., Par.) v. Alighieri, Dante”.

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indice dei nomi e dei luoghi

Acantide (Acanthide) 18, 155, 156 Acanto 161, 214 Accidalio (fonte) 210, 211 Acheloo (Acheloho) 157, 259 Acheronte (Acherontis) 148, 223, 232, 236 Achille 308 Adda (Ada) 14n, 268 Adige (Adice) 222, 225, 268 Adone 161, 214, 311 Agamennone 103 Agostino da Ippona, Aurelio (santo) 281 Agramante 139 Agricane 212, 236 Alba (Longa) 317 Alberti, Leon Battista 101, 319 Alberto I d’Asburgo (imperatore) 107, 118 Alceo 87 Alcide v. Ercole Alcina 260 Alcione (v. anche Ceice) 90, 91 Alessandro (tiranno di Fere) 328 Alessi (Alexin) 20, 83, 105, 107, 165, 239 Alfani, Gianni 197 Alfesibeo 24, 219 Alfonso, duca di Calabria 13, 14 e n, 15, 16, 20, 26, 27, 42, 50, 78, 99-103, 105-7, 111-15, 117-20, 123, 152, 156, 226, 253, 254, 260, 262-68, 270 Alfonso il Magnanimo (Alfonso V d’Ara­ gona), re di Napoli 99, 157, 253, 26062 Alighieri, Dante 15, 21, 79, 83, 85, 88, 89, 92, 98, 100-2, 107, 112-14, 116-19, 123, 132, 139, 147, 158, 171, 173, 177, 189, 197, 208, 210, 237, 245, 246, 248, 250, 254, 256-58, 260, 262, 263, 265-67, 270, 281, 313, 330, 340 Alpe (→ Alpi) 269 Amarillyda (→ Amarilli) 227

Ameto (Admeto) 309 Aminta (Amynthas) 147, 148, 155 Amore v. Cupido Andromaca (Andromeca) 281, 328 Anfriso (Amphriso), fiume 127 Angelica 109 Angioini (dinastia) 119 Antaldi (famiglia) 287 Antaldi, Antaldo 277-79, 287 Antioco (v. anche Stratonica) 332, 333 Anto 156 Antonia (Antonia Caprara) 125, 135, 138, 152, 158, 179, 184, 190, 237, 265 Apenino (→ Appennino) 269 Apollo (Febo, Phebo, Phoebo) 97, 98, 115, 150, 156, 161-63, 195, 196, 210, 214, 255, 257, 259, 260, 262, 309 Apollonio Rodo 258 Apuleio 279, 334 Aquilante 129 Aragonesi (d’Aragona), dinastia 157, 261, 262, 253, 261, 262 Aragona, Maria d’ 277 Arcade 256 Arcadia 19, 77, 84, 124, 128, 145, 151, 163 Aretusa (Arethusa) 106, 110, 119, 255 Arezzo 265 Argenta 13, 14, 153 Argo (gigante) 293, 321, 322 Aringo 84, 85 Arione 259 Aristeo (Aristaeus) 22, 121, 124, 125, 127, 128, 131-38 Arno 82, 215, 265, 266, 268 Artù 215 Arzocchi, Francesco 16 e n, 17n, 18, 23, 24, 29, 30, 78, 94, 103, 107, 145, 166 e n, 167 e n, 168 e n, 169n, 171, 174, 175, 178, 180, 183, 184, 190, 191, 193-95, 349

indice dei nomi e dei luoghi

200, 201, 204-8, 210, 211, 213-17, 219, 229, 250, 252 Ascanio 159 Asia 101 Asinio Pollione, Gaio 219 Astarotte 175 Astianatte 328 Astilo 202, 205 Astolfo 192 Atalanta 193, 256 Atalarico (sovrano ostrogoto) 262 Athiene (→ Atene) 161 Atride v. Agamennone Atteone (Ateone) 331, 332 Augusto, Gaio Giulio Cesare Ottaviano 20, 78, 102, 226 Ausonia v. Italia

Bruto, Marco Giunio 338 Buoninsegni, Jacopo Fiorino de’ 15-18, 78, 84, 85, 190, 196, 205, 210, 214, 22527, 234, 250 Buti, Francesco da 155 Cacciaguida 116 Caco (→ Cacco) 96 Callisto 256 Calpurnio Siculo, Tito 29, 78, 81, 97, 98, 190, 196, 202, 204, 205, 207, 239n Cangrande della Scala 263 Cardelia 28, 146, 208 Cariti v. Grazie Carlo I Magno (imperatore) 117, 233 Carneri, Agostino 149 Cassio Longino, Gaio 338 Castalia (Castalio), ninfa-fonte 115, 130, 211, 255 Castrocaro 266 Cattaneo, Simonetta 16, 17, 221 e n, 235 Catullo, Gaio Valerio 138 Cavalcanti, Guido 147, 247, 251 Cefalo 320 Cefiso (Cephiso), fiume 159, 160 Ceice (v. anche Alcione) 91 Cerbero 148, 149 Cerere 191 Cesare, Gaio Giulio 265, 338 Chiarione 129 Chiesa, Carlo Alberto 278 Ciclope (Cyclope) v. Polifemo Cielo d’Alcamo 179 Cillene (Cyleno), monte 128, 161 Cipro 158 Circe (Circella) 255, 309 Cirra (Cyrra) 255 Citera (Cythera, Cythero) 158, 159 Citeride (Cyteride) 24, 128, 219 Claudiano, Claudio 111, 259 Clizia (Clitia) 161, 214, 225, 226 Cloride 127 Colleoni, Bartolomeo 265 Comacchio 89 Commedia (Inf., Purg., Par.) v. Alighieri, Dante

Bacco (Baco, Hyaco, Iacchus) 161, 210, 277 Bagnolo, pace di (1484) 14, 26, 28, 93, 100, 225 Baliverzo 101 Bargo 23, 24, 106, 144, 165, 209, 210, 219, 221 Bassi, Pier Andrea de’ 84, 102, 142, 143 e n, 149 Beatrice 98 Bebrice (Bebrida) 256 Beccari, Antonio (Antonio da Ferrara, detto) 203n Benivieni, Girolamo (Hieronimo) 16, 18, 87, 117, 129, 146, 156, 206, 221n, 232, 234, 288 Beozia 211 Betulia 292, 317 Bianco da Siena 155 Boccaccio, Giovanni 96, 128, 143, 173, 177, 205, 215, 230, 233, 281, 331, 334, 337, 338 Bologna 13, 265 Borso d’Este (Borsius), duca di Ferrara, Modena e Reggio 86, 142, 276 Botticelli, Sandro (Sandro Filipepi, detto) 127 Brandimarte 89, 129, 196, 229 Brunetto Latini 203n 350

indice dei nomi e dei luoghi

Coridone (Corydon) 20, 24, 25, 83, 97, 105, 107, 165, 201, 202, 207, 210, 220, 226, 239-41, 243, 244, 248-51 Corina (Corinna) 202, 203, 205, 206, 208, 209, 216, 217 Cornazzano, Antonio 279 Correggio, Niccolò da 13, 22, 28, 49, 86, 87, 95, 96, 103, 109, 127, 134, 141, 142 e n, 143 e n, 146, 148, 150-53, 156-62, 173, 175, 211, 230, 248, 260, 263, 288, 314, 320, 321, 335 Cosimo de’ Medici (signore di Firenze) 16 Costa, Lorenzo 129 Costanza (Constanza) dal Canale 20, 105, 220n Creta (Crete) 191, 256, 339 Croco (v. anche Smilace) 161, 216 Cupido (Amore) 30, 130, 135, 142, 146, 151, 152, 157-62, 175, 185, 186, 192, 193, 202, 204, 213-17, 220, 222, 229-31, 233, 235, 241, 246-48, 263, 278, 279, 281, 282, 288, 289, 305-11, 319, 323, 332, 334 Cyllenide v. Mercurio

Dyte (→ Dite) 153, 157 Ebalide v. Giacinto Ebalo 214 Ebro (Hebro; in Tracia) 100 Ebro (Hibero; in Spagna) 100 Eco (Echo) 129, 214 Ector(e) (Hectòr → Ettore) 103, 151, 281, 328 Ecuba 191 Edipo 93 Egeo (re) 22, 148, 159, 336 Elena di Troia 310 Eleonora d’Aragona (duchessa di Ferrara, Modena e Reggio) 277 Elettra 191 Elisabetta Gonzaga (duchessa di Urbino) 277, 278, 283, 288, 334 Emilia (Terzia) 338 Enea 90, 159, 317, 322, 340 Era (→ Loira) 100 Ercole (Alcide, Ercul, Hercule) 26, 84, 87, 93, 102, 103, 105, 118, 143, 148, 149, 153, 157, 253, 337 Ercole I d’Este (Hercule), duca di Ferrara, Modena e Reggio 13, 14, 19, 20, 26, 77, 78, 87, 98, 102, 103, 105, 114, 118, 143, 152, 153, 157, 195, 239, 253, 263, 266, 276, 277, 279 Erice (Herice) 112 Eridanus v. Po Erode (Herode) 334 Erodoto 101 Este (Estensi), dinastia 13, 99, 101, 142, 149, 161, 328 Este, Isabella d’ 143, 277 Eta (monte) 337 Etiopia (Ethiopia) 101, 205, 206 Etna (Mongibello) 119 Eufrate 96, 267 Euridice 91, 127 Europa 206 Europa (mito) 311 Eusino (mar Nero) 267

Dafni (Daphni, Daphnis) 21, 22, 24, 106, 124, 125, 128-37, 142, 146, 147, 154, 165, 219, 229 Dafnide (Daphnide, Daphnyde) v. Dafni Dalmazia 100, 219 Dameta (Damoeta) 21, 22, 28, 123, 124, 142, 144-48, 150, 154-56, 162, 202n, 205, 210 Damone 24, 25, 201-3, 205-16, 219-21, 229, 239, 240 Danae (Damne) 198, 199, 311 Danubio (Danubbio) 267 Decembrio, Pier Candido 276 Deianira (Dianira, Deyanira) 157, 336, 337 De Jennaro, Pietro Iacopo 15, 27, 59, 207 Del Cossa, Francesco 90 Demofoonte 340 Diana (Artemide Ecate) 159, 331, 332 Didone (Dido) 159, 340 Dionisio (Dyonisio) di Siracusa 328 Doristella (v. anche Teodoro) 193

Falerina 89, 97, 186, 196 351

indice dei nomi e dei luoghi

Fantuzzi, Gaetano 35, 36 e n, 37 Farsalo 338 Fauno (v. anche Florida) 148 Fazio degli Uberti 117, 203n, 262 Febo (Phebo, Phoebo) v. Apollo Fedro 207 Ferrara 13, 14 e n, 15, 16, 19, 21n, 27, 78, 87, 92, 93, 100, 103, 106, 114-17, 134, 142n, 143, 149, 158, 159, 163, 211, 222, 225, 226, 229, 254, 260, 270, 268, 276, 277 Fetonte (Phetonte) 115 Fiammetta 202n Filenio Gallo (pseud. di Filippo Galli) 27, 202, 203n, 205, 211, 212, 215 Filippo Maria Visconti (duca di Milano) 276 Filleuro 190 Fillide (Fillida, Fillis, Phyllida) 147, 148, 239n, 292, 340 Filliroe (Phyliroe) 20 e n, 105, 106 e n, 220 e n, 221, 229, 236 Filocoro 343 Filomena (Philomena) 90, 91, 155, 156 Filostrato v. Boccaccio, Giovanni Filotide 24, 219 Fineo (Phineus) 257, 327 Fiordelisa 186, 229 Firenze 13, 226, 265 Flaminia (strada romana) 265 Flavio Giuseppe 334 Florida (v. anche Fauno) 143, 148 Folchetto da Marsiglia 135 Folderico 193 Fonzio, Bartolomeo 277 Forese (Donati) 245 Fracassa (Gaspare Sanseverino, detto il) 225 Francesco di Vannozzo 155 Frati, Carlo 38

Galeota, Francesco 15 Galli, Filippo v. Filenio Gallo Gallo, Gaio Cornelio 26, 253 Gan(o) de Pontieri (o di Maganza) 233 Ganimede (Ganymede) 198, 311 Garamantha, re di 163 Genevre (?) 220, 222, 229 Gerione 149 Gherardo (fratello di Petrarca) 32 Giacinto (Iacinto) 203, 214 Giacobbe (Iacob, Jacob) 335, 336 Giacomo da Lentini 135 Giasone (Iasio, Iasione, Iason, Jason) 191, 316 Giliola (→ Gilioli), Ludovica 277 Ginevra (moglie di Artù) 215 Giove (Iove, Jove) 57, 93, 103, 145, 153, 156, 162, 191, 197-99, 210, 311, 313, 321, 322, 334, 338, 339 Giuditta (Iudithe, Yudith) 279, 292, 293, 316, 317 Giunone (Iunone, Junone) 293, 321, 322 Giusto de’ Conti di Valmontone 16, 25, 30, 83, 87, 89, 95, 96, 111, 131, 136, 166, 175, 179, 199, 231, 233, 236, 240, 241, 243-47, 249, 252, 319 Glaucia (Glautia) 28, 146 Gonzaga di Novellara, Giorgio 183 Gonzaga (di Novellara), Taddea 183 Gorgo 23, 24, 166-68, 171-74, 180, 184, 200, 201, 202 e n, 203-16, 229 Gorgone 327 Grapella, Bernardino 38, 97, 111 Grapella, Grapelino 38 Grazie (Cariti) 142, 159, 160, 186, 215, 333 Grecia 331 Grisaldo 166 Gritti, Andrea (doge di Venezia) 288 Guardata, la (villa estense) 90 Guarini (Guarino), Battista 23, 106, 165 Guazzo, Marco 289 Guido (Scaiola) 176 Guinizzelli, Guido 179 Guittone d’Arezzo 233

Galantis (ninfa) 107 Galatea (Galathea) 20 e n, 105 e n, 106, 107, 109-12, 115, 121, 310 Galeazzo Maria Sforza (duca di Milano) 265, 266

Heridano v. Po 352

indice dei nomi e dei luoghi

Hesperia (→ Esperia) 101 Hyaco (Iacchus) v. Bacco

Lesbia 138 Lete (Lethe) 340 Leuco (pastore) 226 Lia (ninfa) 160 Lia (prima moglie di Giacobbe) 335 Licanor (Lycanor) 23, 127, 165 Liceo (monte) 83, 84 Licida 205, 239n Licori 26, 253 Lilia 205 Lince (Lynces) 106, 233 Linceo (marito di Ipermnestra) 337 Liriope 160 Livio, Tito 315 Lorenzo de’ Medici, detto il Magnifico (signore di Firenze) 16, 17, 114, 139, 175, 179, 209, 225-27, 246, 258 Lubrano, Luigi 37 Luca Evangelista (santo) 156 Lucano, Marco Anneo 178 Lucrezia (Romana) 280, 283, 340, 341n Lucrezio Caro, Tito 29, 144, 153, 154 Ludovico Sforza, detto il Moro (duca di Milano) 14 Lyca 250

Iacinto (Hyacinto), pastore della Persa agnella di Buoninsegni 84 Iacob (Jacob) v. Giacobbe Iano (→ Giano) 102 Iasio (Iasione) v. Giasone Ida (monte) 88, 110, 191, 339 Idalio (Idalia, Idalo) 158, 159 Idice (fiume) 265 Ila 26, 253 Ilicino (Bernardo Lapini da Montalcino o da Siena, detto) 282, 332 India 101, 206 Io 321, 322 Ipermnestra (Ippermestra) 337 Ippolita (Ipolita), regina delle Amazzoni 331, 332 Ippolito 143 Ippomene (Hyppomene) 256 Ircania (regione della Persia) 86 Iride 322 Iroldo (Hiroldo) 83, 85, 185, 198 Isabetta (Bentivogli) 241n Isara (→ Isère) 100 Isofilea 28, 146 Italia (Ausonia) 13, 26, 27, 92, 100, 101, 113-17, 119, 158, 159, 267-69, 317

Machiavelli, Niccolò 13, 15 Mandricardo 116 Mantova 13 Mariana (seconda moglie di Erode) 334 Marsia 129, 259 Marte 103, 114, 153, 268, 277, 323 Martino da Terdona 276 Martio 85 Massa Legnaiuolo 40 Massinissa 336 Mazzoni, Guido 20 e n, 183 Medici, Giuliano de’ 17, 190, 221 e n Medusa 89, 186 Melibeo 20, 21, 77, 78, 104, 106, 142-46, 148, 150, 152, 154, 156, 162, 163, 215, 220, 222, 223, 225-28, 230, 232, 235-37 Menalca 21-23, 25, 30, 106, 123, 147, 155, 165-69, 171-75, 180, 202, 205, 210, 220, 222, 223, 225-27, 229-37, 240 Menalo (Menalio), monte 83, 84, 203, 210

Julo v. Medici, Giuliano de’ Laban(o) (Labaan) 335 Lalage 111 Lamberti, Luigi 36, 37, 53, 128, 145, 155, 158 Landino, Cristoforo 155 Latino (re) 322 Laura 89, 93, 107, 139, 221 e n, 229, 233, 282, 332 Lavinia 322 Lazio 317 Leda 198, 311 Leodilla 89, 111, 193 Leonello d’Este (marchese di Ferrara) 276, 277 353

indice dei nomi e dei luoghi

Mercurio (Cyllenide) 161, 162, 210, 277 Meri 24, 144, 219, 226, 227 Merlino (fonte di) 185n, 192 Milano 13, 114, 143, 265, 266 Mincio (Mentio) 14n, 268 Minerva 161 Miscomini, Antonio 16 e n, 17 e n, 18, 166 Modena 14, 19, 20, 25, 77, 78, 87, 239 Mongibello v. Etna Montpensier, Clara (→ Chiara) Gonzaga, contessa di 143 Mopso (Mopsus) 20, 22, 24, 25, 38, 7779, 81, 84, 85, 90-92, 94, 95, 97, 98, 104, 155, 162, 163, 165, 219, 229, 239-41, 243, 244, 249 Morea 19 Morgante v. Pulci, Luigi Mugello 184

Ornito (Ornytus) 97 Orsini (famiglia) 190 Ortigia 119 Ostellato (Hostellatum) 13, 86, 89, 90 Otranto (Othranto, Otrantho), battaglia di (1480) 100, 113, 114, 254, 267, 268 Ottaviano v. Augusto Ovidio Nasone, Publio 110, 135, 160, 163, 281, 308-11, 319, 320, 322, 323, 327, 332, 337, 339, 340, 353 Pachino 112 Pado (Padum) v. Po Palemone 209, 210 Pallade (Palade) Atena 114, 161 Pan 19, 30, 77, 83, 84, 115, 139, 185, 190, 195, 210, 211 Pandora 281, 313 Panfilia (Pamphilia) 267 Panormita (Antonio Beccadelli, detto il) 15 Paride (Paris de Troia) 88, 93, 110, 191, 310 Parnaso 115, 255 Partenope (Partenopes) 253, 260, 261 Pasifeo 211 Pasitea (Pasithea) 142, 159, 160, 186 Peleo (Pelias) 308 Peloro (Pelorum) 112, 259 Penelope 335, 336 Peneo (fiume) 127 Pepoli, (Guido de’) conte 241n Perseo 327 Petrarca (Petrarcha), Francesco 18, 21, 29, 30, 32, 82, 83, 87, 89, 91, 93, 96, 100, 101, 104, 107, 109-12, 117, 118, 120, 121, 132, 134-39, 142, 146-49, 151, 152, 157, 167, 171-75, 177-79, 181, 185, 187, 190, 192, 194-96, 200, 206, 213, 216, 221 e n, 222, 226-36, 243, 246, 247, 249, 250, 252, 257, 267-69, 275, 282, 308, 311, 315-17, 328, 331-36, 339, 340, 343, 344 Pico della Mirandola, Giovanni 86, 147 Pietro III d’Aragona (re di Sicilia) 119 Pietrobono dal Chitarrino 129, 130 Piritoo (Pyritoho) 143, 148, 157 Plutone 148, 153

Napoli 13, 37, 99, 106, 253, 260, 261, 265 Narciso (Narcisso) 97, 160, 161, 185, 214 Nesso (Nessus) 336, 337 Nestore 339 Nettuno (Neptunno) 250, 257 Niccolò III d’Este (marchese di Ferrara) 276 Niccolò da Correggio v. Correggio, Nic­ colò da Niccolò Leoniceno 279 Nisa (Nysa) 21, 24, 25, 30, 106, 163, 21923, 229, 230, 235, 236, 239-41, 243, 244, 249, 250, 255 Normandia (sic) 101 Numidia 101 Oglio 14n, 268 Oloferne 279, 292, 293, 316, 317 Orazio (Oratio) Coclite (Cocle) 292, 315, 316 Orazio Flacco, Quinto 139 Ordauro 193 Orfeo (Orpheo) 25, 26 e n, 91, 105, 111, 127, 150, 167, 239, 243, 253-55, 257-60, 268, 269 Orlando 97, 134, 149, 186, 194, 196, 233, 236 354

indice dei nomi e dei luoghi

Po (Eridanus, Heridano, Pado, Padum) 14 e n, 86, 88, 100, 107, 112, 113, 115, 116, 215, 268 Poeman 19, 20, 22, 24, 77, 78, 84, 105, 123, 130, 201, 210 Poggiali, Gaetano 39n Poggio (Puoggio) Imperiale, battaglia di (1479) 113-15, 254, 266, 267 Polesine 13, 14 e n, 93, 100, 220, 222, 225, 226, 228 Polifemo 20n, 105n, 278, 310 Polismagna (Carlo di San Giorgio, detto il) 276 Poliziano (Angelo Ambrogini) 26, 49, 60, 78, 97, 102, 110, 127, 134, 154, 159, 161, 190, 197, 210, 214, 229-31, 251, 256, 258 Polluce (Poluce) 256 Pompeo, Gneo 328, 337, 338 Pontano, Giovanni 15 Prasildo 83, 85, 89, 185, 186, 197, 198 Praxitea (Praxithea) 160 Progne 91 Prometeo 340 Properzio, Sesto 135 Proserpina 143, 148, 153 Protheo (→ Proteo) 149 Psiche 334, 335 Pulci, Bernardo 16-18, 106n, 221, 222, 235, 236 Pulci, Luigi 92, 175, 199, 232

Roma 118, 135, 315, 317 Romagna 265 Rovigo 14 Rubicone 265, 266, 269 Rugiero 328 Russia 101 Safira 205 Sagramoro, Iacomo 276 Salomone 309 Sannazaro, Iacopo 15, 18, 27, 85, 88, 203n, 207, 249, 258, 261 Sanseverino, Roberto 13, 225, 254 Sardanapalo 330 Sarpago 211 Sasuolo (→ Sassuolo) 276 Saturno 339 Saviozzo (Simone Serdini, detto) 49, 86, 88, 90, 92, 107, 110, 213, 246 Scamandro 146 Scandiano 14 Schiavonia (Croazia) 100 Schifanoia 90, 159, 196, 275, 279, 293, 311, 323, 333 Scipione Africano, Publio Cornelio 338 Scizia 101, 331 Segarizzi, Arnaldo 38 Seneca, Lucio Anneo 258, 259, 328, 333 Senna 100 Serafino Aquilano (Serafino de’ Ciminelli, detto) 96, 244 Serdini, Simone v. Saviozzo Sforza, Ippolita 15 Sibiglia (→ Siviglia) 269 Sicilia 112, 119, 267 Sileno 23 Silla (Scilla), Lucio Cornelio 338 Silvano 22, 123, 130, 142, 234 Siracusa 119 Sisto IV (Francesco della Rovere), papa 13, 99, 114 Smilace (v. anche Croco) 216 Sofonisba 336 Sole v. Apollo Solerti, Angelo 145, 155, 278, 287, 291-94, 305, 309, 315, 316, 325, 327

Quadrio, Francesco Saverio 36, 37 Rachele (Rachel) 335 Ranaldo (Renaldo) 109, 159, 185n, 186, 210, 215, 233, 269 Ravano, Piero 289 Ravenna 265 Rea 338, 339 Reno 100 Rerum vulgarium fragmenta (Rvf) v. Petrarca, Francesco Ristoro d’Arezzo 41 Rodano 100 Roderico (sovrano ostrogoto) 262 Rodomonte 163 355

indice dei nomi e dei luoghi

Soliani (stampatori) 36, 37 Soliani, Bartolomeo 37, 39n Spagna 100, 261 Stazio, Publio Papinio 151, 256 Stratonica (→ Stratonice di Siria), v. anche Antioco 333 Strozzi, Tito Vespasiano 13, 16, 20, 25, 38, 48, 50, 77, 78, 81, 84, 86, 88, 90, 105, 106, 128, 147, 165, 220 e n, 221, 229, 239

Trotti, Diana 277 Trotti, Violante 277 Turingo 85 Turno 322

Talo (gigante) 191 Tarquinio il Superbo 341 Tebaldeo (Antonio Tebaldi, detto il) 27, 28, 87, 93, 96, 101, 103, 127, 133, 134, 146, 204n, 212, 244 Tebe (Thebe) 256 Tebro 268 Teocrito 105, 128, 229, 256 Teodoro (v. anche Doristella) 193 Tereo 91 Terinto 145, 166, 184 Teseida v. Boccaccio, Giovanni Teseo (Theseo) 22, 28, 142, 143, 146, 148, 150, 151, 153, 156-61, 163, 260, 263, 336 Tesino (fiume) 268 Tessaglia (Thesalia) 121, 127 Tetide (Thetide) 162 Tevere (Tevero) 82, 215, 316 Tia (figlia di Cefiso) 159 Tibullo, Albio 262, 309 Ticino 14n, 268 Tigre (→ Tigri) 96 Tirreno (mare) 184 Tirsi 24, 201 Tisbina 83, 85, 185, 197, 198, 203 Titiro (Tytiro, Tytirus) 20, 25, 77, 78, 8186, 89-91, 94-96, 104, 105, 111, 165, 220, 221, 226, 227, 229, 232, 236, 239 Tolomeo (Ptolomeo), re d’Egitto 320, 338 Toscana 115, 266, 315 Tracia 100, 268 Tribraco, Gasparo (Gaspare de’ Ti­ rimbocchi) 21, 106, 107 Troia (Troya) 88, 317 Troia (in Puglia), battaglia di (1462) 254, 264

Vaccari, conte 35, 36 Val di Pado 116, 222, 225 Valerio Flacco 163, 256 Valerio Massimo 333, 338 Varo (fiume) 100, 268 Venere 88-90, 110, 111, 130, 131, 144, 151, 153, 154, 158, 159, 161, 214, 263, 279, 293, 311, 323, 333, 335 Venere Lucifero 130, 151, 152 Venezia 13, 14 e n, 77, 78, 84, 86, 93, 98, 100, 114, 123, 149, 183, 253, 254, 265 Venturi, Giambattista 36 e n, 37, 39n, 143, 155, 179, 183 Vigilio, Francesco 275 Virgilio Marone, Publio 16, 20 e n, 21, 22, 29, 30, 77, 78, 84, 94, 105 e n, 123, 124, 141, 143, 144, 151, 165, 167, 168, 181, 190, 203, 204, 219, 223, 229, 251, 322, 340 Viti (famiglia) 278, 287 Viti, Pier Antonio 277-83, 287, 288n, 29194, 305-7, 310, 311, 313, 315-17, 321-23, 325, 329-36, 338-41 Viti, Timoteo 278, 287 Vulcano 279, 293, 323

Ugo Alberto (sic) di Sassonia 101 Ugolino (della Gherardesca) 250 Ulisse (Ulixe) 193, 281, 309, 328, 336 Urbino 277, 278, 287

Xanto (Xantho) 88 Zambotti, Bernardino 87 Zeus v. Giove Zoppino (Nicolò di Aristotile de’ Rossi, detto) 278, 279, 288 e n, 289 Zottoli, Angelandrea 145, 155

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