Onde del nord. Il cinema danese contemporaneo 8880491911, 9788880491910

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Onde del nord. Il cinema danese contemporaneo
 8880491911, 9788880491910

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Onde

del

Nord

Il cinema danese contemporaneo

a cura di Anders Toftgaard e Ian Hawkesworth

MOMENTUM

Indice

Elsebeth Gerner Nielsen

Prefazione - Incontro

di culture al cinema......................................... 5

Anders Toftgaard e Ian Hawkesworth

INTRODUZIONE

................................................................................................................7

Sul cinema Ib Bondebjerg

La

nuova ondata cinematografica DANESE

................................................ 13

Lars Movin

Cortometraggi

e mediometraggi............................................................ 23

Peter Schepelern

Il cinema secondo Dogma Regole di recitazione, ostacoli

e superamenti......................................... 36

J0rgen Krogh

Il

cinema danese in Italia........................................................................ 52

Thomas Harder

L’ITALIANO

NELLA CULTURA DANESE

...................................................................... 66

Bo Tao Michaelis

IL cinema con la voce di donna nel panorama danese contemporaneo: Susanne Bier e Lotte Svendsen ............................. 70 Karsten Fledelius

L’ETNICITÀ

NEI FILM DANESI PIÙ RECENTI ............................................................... 75

Michael Eigtved

Comicità,

commedia e cani cinesi..........................................................

87

Eva Novrup

La persona è il film Ritratti di personaggi

famosi e artisti

................................................. 97

Jon Bang Carlsen

Come inventare la realtà Un saggio sul metodo documentario ............................................... 108

Letteratura Soren Ulrik Thomsen

POESIE............................................................................................................................. 115 Villy S0rensen

Solo

una ragazzata

............................................................................... 136

Jens Martin Eriksen

SETH

............................................................................................................................... 142

Dogma 95.................................................................................. 163 Note

biografiche

......................................................................................165

Incontro

di culture al cinema

di Elsebeth Gemer Nielsen Ministro della Cultura

Quando si ha occasione di incontrare altre culture, ci si accorge in modo speciale della propria tradizione e delle proprie particolarità; per questa ragione è sempre proficuo confrontarsi col resto del mondo, renderlo partecipe dei propri costumi e instaurare un dialogo con altre culture e tradizioni. Qui a Bologna è l'arte del cinema, messa al centro dell'atten­ zione durante questa rassegna del cinema danese contemporaneo, ad offrire una varietà di assaggi di quanto c'è di meglio nell'ambito della produzione danese di lungometraggi, mediometraggi, cortometraggi, documentari e film per bambini.

Attraverso gli anni, i film danesi destinati al pubblico infantile e a quel­ lo giovanile si sono rivelati stelle luminose nel firmamento del cinema, quindi il fatto che pellicole per bambini facciano parte del programma mi fa particolarmente piacere. Sono convinta che le esperienze cinema­ tografiche dei bambini s'imprimeranno fermamente nella loro memoria e contribuiranno alla formazione della prossima generazione di appas­ sionati di cinema. È un onore per il cinema danese avere la possibilità di presentarsi a Bo­ logna proprio quando questa città è capitale della cultura per il 2000. L'I­ talia possiede una tradizione cinematografica straordinaria, segnata da grandi registi quali Fellini, Visconti, Rossellini e, recentemente, Roberto Benigni, che ha conquistato il mondo con il suo La vita è bella, film toc­ cante e intelligente. Sarà entusiasmante vedere la reazione del pubblico italiano di fronte al­ la tradizione cinematografica danese e verificare quale sarà la sua inter­ pretazione. Questo festival si rivela una preziosa opportunità, sia per trascorrere delle ore piacevoli, che per discutere di film e cultura duran­ te i dibattiti cui parteciperanno registi e scrittori danesi, critici e perso­ nalità della vita intellettuale italiana.

Un film racconta una storia, questo è ciò che reputo essenziale e, sicura­ mente, una storia si può raccontare in una serie infinita di modi diversi. Uno dei soggetti/temi principali di questo festival sarà il film creato se­ condo le regole del manifesto "Dogma 95", che stabiliscono che la pel-

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Prefazione licola debba essere "purificata" da ogni elemento superfluo; anche in queste circostanze è possibile affermare che la storia è il fattore più im­ portante. In Danimarca il concetto Dogma ha influenzato l'intero dibat­ tito culturale e ha lasciato il segno anche nel teatro e in architettura. Negli ultimi anni, i film Dogma hanno contribuito alla rinascita del cine­ ma danese. Dai tempi di Carl Th. Dreyer, non credo ci sia mai stata così tanta attenzione internazionale verso la produzione cinematografica danese quanta ne hanno creata i film Festen di Thomas Vinterberg, Idioterne di Lars von Trier e Mifunes sidste sang di Soren Krag Jacobsen. L'essenza del manifesto "Dogma 95" è la cosiddetta promessa di purez­ za: una serie di regole, 10 comandamenti, che determinano la creazione di un film Dogma. Alcuni dei comandamenti stabiliscono che la registra­ zione debba avvenire interamente in esterni senza utilizzare suppellet­ tili di scena, che immagini e suono non possano realizzarsi separatamente (ovvero non esiste il concetto di musica di sottofondo), e che la cinepresa debba essere tenuta in mano. Il contenuto delle regole Dog­ ma non è senza precedenti nella storia del cinema, ma questa è la prima volta che un concetto del genere si propone come un "dogma", assor­ bendo tutti i significati religiosi e teologici sottesi alla parola stessa. Questa visione delle cose ha dato inizio a una discussione su come pos­ sa essere "liberatorio" stabilire una serie di limiti alla forma esteriore e, di conseguenza, potersi concentrare sul contenuto artistico, che signifi­ ca anche potersi concentrare su una buona sceneggiatura e sulle presta­ zioni degli attori.

Voglio augurare, a tutti voi amanti del cinema, buon divertimento in compagnia dei molti film avvincenti proposti in occasione di questo fe­ stival. Nell'oscurità della sala vi attendono momenti fantastici. E, alla fin fine, è proprio questa la magia del cinema!

Tradotto da Roberta Ziviello

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Introduzione di Anders Toftgaard e lan Hawkesworth

Il cinema danese ha vissuto un'ondata di successo in patria e all'estero, sia dal punto di vista artistico sia da quello commerciale. Come molti al­ tri successi e nuovi indirizzi, questa ondata poggia sulle spalle del con­ tributo dei precedenti creatori danesi di cinema. Registi premiati come Bille August, Gabriel Axel, Kasper Rostrup e Lars von Trier hanno creato un momentum, una volontà e un ottimismo per quanto riguarda il po­ tenziale della produzione cinematografica danese, che si sono propaga­ ti e manifestati in molteplici nuovi film. Il potenziale e la fiducia in se stessi, necessari per essere in gioco e creativi, si basano su solide fondamenta qualitative e per questo motivo la nuova ondata deve molto ai registi citati. Ma ci vuole coraggio e talento per ampliare e sviluppare, e l'onore del nuovo indirizzo deve andare perciò incondizionatamente ai rinnovatori. Ma che cosa caratterizza questo nuovo indirizzo, quali sono i temi, quali le tecniche e le tendenze predominanti, e che cosa raccon­ tano non solo della produzione cinematografica danese, ma anche del­ la Danimarca? Questo catalogo si propone il compito di fornire degli spunti per prepa­ rarsi ai film e per riflettere dopo la loro visione. Perciò contiene sia una parte letteraria - i testi sui quali sono basati alcuni dei lavori - sia una sezione di articoli sui recenti sviluppi del cinema danese. Gli articoli prendono in esame ciò che caratterizza i film dal punto di vista tecnico e da quello della storia della cinematografia, e l'orizzonte mentale sul quale si basano. Ib Bondebjerg apre il catalogo con l'articolo La nuova ondata cinemato­ grafica danese, osservando come la nuova ondata si basi fra l'altro sul­ l'incipiente internazionalizzazione del cinema danese avvenuta negli anni Ottanta. Non si può parlare del nuovo cinema danese senza parla­ re allo stesso tempo del Dogma. Nel suo articolo II cinema secondo Dog­ ma Schepelern prende in esame i presupposti storici del concetto di Dog­ ma, i suoi veri contenuti e i suoi modi di realizzazione. Ma il cinema da­ nese è anche qualcosa di diverso dai "fratelli Dogma", e perciò Bo Tao Michaelis, ne II cinema con la voce di donna nel panorama danese con­ temporaneo, getta lo sguardo sulle opere di due registe, Susanne Bier e

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Anders Toftgaard e Ian Hawkesworth Lotte Svendsen, e cerca di comprendere fino a che punto le donne fac­ ciano un tipo di cinema diverso da quello degli uomini. In un contesto europeo è interessante vedere quali aspetti amministra­ tivi possano esserci dietro il successo. La produzione cinematografica in Danimarca viene sostenuta da un solido apparato di contributi statali, e soprattutto la creazione del Dansk Novellefilm - DN (Mediometraggio Danese), sembra aver avuto un'influenza decisiva sulla produzione cine­ matografica in Danimarca. Il formato del mediometraggio (film narrati­ vi di una durata inferiore all'ora) ha dato a molti registi - soprattutto re­ gisti nuovi, ma anche registi navigati - la possibilità di mettere alla pro­ va delle idee senza ricorrere a produzioni molto costose. Nel suo artico­ lo Cortometraggio e mediometraggio Lars Movin analizza i diversi siste­ mi di contributo economico nel campo del cortometraggio, del medio­ metraggio e del documentario, ed esprime la sua opinione sullo svilup­ po della politica dei contributi del Danske Filminstitut - DFI (Istituto Ci­ nematografico Danese). La politica dei contributi, però, non può e non deve guidare lo sviluppo e non lo ha fatto. Ne La persona è il film Èva Novrup prende in esame il recente sviluppo all'interno del genere documentario: l'allontanamento dall'impegno so­ ciale in direzione di un documentarismo più basato sul personaggio e sulla star. Tale sviluppo del film documentario non è naturalmente uno sviluppo unico, ma rispecchia una mutata coscienza della società. Fra la sezione riservata ai saggi originali e quella riservata alla letteratura il re­ gista Jon Bang Carlsen, con Come inventare la realtà, ci dà il benvenuto nel suo point-of-view-cinema per dare uno sguardo al mondo e al ge­ nere documentario, osservati dal suo personale punto di vista. In generale nel cinema danese sono entrati nuovi temi, il che natural­ mente è in stretta correlazione al continuo mutamento della società da­ nese: quando in un catalogo come questo proviamo a presentare la cul­ tura danese, il risultato non è un quadro immutato e immutabile nel tempo, ma un'istantanea dello stato di cose in un determinato momen­ to storico. Attualmente in Danimarca si discute molto su quanto il pae­ se sia e debba essere una società multietnica, e come gli immigrati, ov­ vero i neodanesi, siano e debbano essere trattati. Nel suo articolo L'etnicità nei film danesi più recenti Karsten Fledelius tratteggia la più re­ cente storia dell'immigrazione in Danimarca, e descrive il modo in cui tutta la problematica etnica viene affrontata nei film. Questi film sono ambientati in genere nella grande metropoli. Si è det­ to che il cinema danese è diventato più realistico perché gli argomenti che descrive sono più crudi e diretti di quelli del socialrealismo umani­ stico praticato in precedenza. Alcuni affermano che si tratta piuttosto di una tendenza in direzione di tipi parodici che diventano quasi parodie di tipi, come il pusher Frank in Pusher, l'emigrato Vuk in I Kina spiser de hunde (In Cina mangiano i cani) o la donna sola in Den eneste ene (L'u­ nico e il solo). In alcuni dei nuovi film sembrano esserci anche segni di una nuova comicità, o almeno altre cose su cui ridere. In Comicità, com­ media e cani cinesi Michael Eigtved analizza questo aspetto e nota che

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Introduzione da una parte c'è la tendenza a separare in maniera più netta un gruppo del quale si ride, mentre dall'altra sembra esserci una tendenza umaniz­ zante che cancella il limite fra il tragico e il comico. Come si vede, il nuovo cinema danese tratta soprattutto della Danimar­ ca di oggi. Perciò in genere si cercheranno invano nuovi film basati su opere letterarie classiche. Gli autori della nuova generazione di sceneg­ giatori, che escono dal corso di sceneggiatura della Filmskole (Scuola di cinema), relativamente recente, producono in genere sceneggiature ori­ ginali. Ma è ancora viva la tendenza a portare sullo schermo opere let­ terarie, e nel catalogo compaiono perciò due racconti che sono stati tra­ sformati in film. Si tratta del breve racconto di Villy Sorensen Solo una ragazzata, divenuto un classico moderno e trasformato in un cortome­ traggio, e del racconto Seth di Jens Martin Eriksen, che ha partecipato personalmente alla lavorazione insieme al regista Anders Refn. La parte letteraria del catalogo contiene inoltre la traduzione di una scelta di poesie di uno dei più grandi poeti danesi del momento, Soren Ulrik Thomsen, di cui il regista Jorgen Leth ha appena realizzato un ritratto nel film lo sono vivo. Nella maggior parte dei paesi europei il consumo cinematografico si ba­ sa sulla produzione nazionale o sui film americani. Come sottolinea Jor­ gen Krogh nel suo articolo II cinema danese in Italia, solo negli ultimi an­ ni il cinema danese è tornato alla normale distribuzione nelle sale ita­ liane, al di fuori degli angusti ambienti dei festival. La nostra speranza è che una rassegna come questa possa contribuire a un aumento della di­ stribuzione di film danesi in Italia e, a lunga scadenza, all'aumento di una distribuzione reciproca di film europei in Europa. Una maggiore di­ stribuzione in Danimarca di film italiani sulla vita quotidiana nell'Italia di oggi sarebbe forse utile a cancellare i nostri peggiori stereotipi sugli italiani, stereotipi analizzati nell'articolo di Thomas Harder L'italiano nella cultura danese. Ma le parole non potranno mai sostituire il cinema. La sua forza sta in­ fatti nella capacità di "lasciare il segno", attraverso le immagini, nei no­ stri pensieri e soprattutto nei nostri sentimenti. Perciò un catalogo come questo non può e non deve rimanere isolato. Da parte nostra, l'invito e l'incoraggiamento a vivere e vedere ciò che qui viene discusso. Tradotto da Bruno Berni

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Ringraziamenti Un festival come questo non può essere realizzato senza grandi mezzi economici. Perciò vogliamo ringraziare i fondi Filmkopi e Nordisk Film Fond e inoltre Det Danske Fllminstitut, la Cineteca del Comune di Bolo­ gna e Dansk Litteraturinformationscenter per aver reso possibile questa manifestazione. L'iniziativa si basa sulla convinzione che il cinema danese merita di esse­ re conosciuto, anche all'estero, e nasce con la speranza che il pubblico italiano saprà apprezzarlo. Perciò siamo molto grati a tutti coloro che hanno creduto a questa idea e hanno lavorato alla sua realizzazione. Un grande ringraziamento va innanzitutto a Luisa Ceretto della Cinete­ ca del Comune di Bologna e a Dino Raymond Hansen e Jimmy Bredow Pedersen del Danske Filminstitut, che fin dall'inizio hanno appoggiato l'idea. Ci hanno messi in contatto rispettivamente con Andrea Morini e Inge Merete Norregaard, Anne Marie Kurstein e Jesper Andersen, cui siamo grati per l'aiuto fornitoci nello sviluppare l'idea. Un grazie a Bjorg Hedelykke del Dansk Litteraturinformationscenter per l'incoraggiamen­ to e per averci messi in contatto con Bruno Berni, e un grazie a Michael Jacobsen del Danske Kulturinstitut per la collaborazione. Grazie infine a Giovanni Robbiano e Antonio Costa dell'università degli Studi di Bolo­ gna per l'entusiasmo dimostrato per le iniziative di Bologna. Grazie a Èva Novrup per averci messo a disposizione la sua visione d'in­ sieme, grazie a Hedi Friis e Linda Friis di Processor A/S per aver messo a nostra disposizione le loro capacità, a Luca Gattoni per l'aiuto tecnico e a Roberta Ziviello per l'aiuto linguistico. Un grazie particolare a Lotte Machon e ad Anna Fabricius Hansen che più di chiunque altro hanno seguito questo progetto da vicino. Grazie infine ai molti che ci hanno dato incoraggiamento, idee, infor­ mazioni, buoni consigli e suggerimenti lungo il cammino.

La

nuova ondata cinematografica danese

di Ib Bondebjerg

Sin dagli inizi la Danimarca ha avu­ to registi famosi sul piano interna­ zionale, dando anche un proprio contributo alla storia del cinema. Tra il 1910 e il 1914 la Nordisk Film era una potenza che immetteva melodrammi di successo sul merca­ to mondiale e lanciava stelle come Asta Nielsen (1881-1972) o registi come Benjamin Christensen (18791959) e Cari Theodor Dreyer (18891968). Dagli anni '30, però, con l'avvento del sonoro e il dominio americano, le modeste dimensioni del mercato e la scarsa diffusione della lingua soffocarono la fertilità iniziale dell'epoca del muto, per quanto Dreyer abbia proseguito la sua traiettoria artistica internazio­ nale con capolavori come Dies Irae (1943), Ordet (1955) e Gertrud (1964). Solo nel 1966 un regista da­ nese, Henning Carlsen (1927), ini­ zierà una buona carriera interna­ zionale portando al successo la ver­ sione cinematografica del romanzo Fame di Hamsun, il cui protagoni­ sta, Per Oscarsson, sarà premiato a Cannes quale miglior attore.

Nata alla fine degli anni '80 e svi­ luppatasi negli anni '90, la nuova ondata cinematografica danese è dunque qualcosa di veramente ec­ cezionale: per la prima volta un paese di piccole dimensioni ottie­ ne successo internazionale non

con un singolo regista, ma con un ampio gruppo di autori e con di­ versi tipi di film. Non è stata la ge­ nerazione più giovane ad aver da­ to il via a questa nuova ondata, e non sembra giusto ascrivere il fe­ nomeno alla semplice comparsa di singole persone e gruppi di registi. È probabilmente l'effetto di inve­ stimenti a lungo termine che in parte affondano le proprie radici nella forte spinta alla cinemato­ grafia pubblica sovvenzionata dal 1972 dall'istituto Cinematografico Danese e dalla Scuola Cinemato­ grafica Danese, in parte nel setto­ re privato, minore ma creativo, che tra la fine degli anni '80 e gli inizi dei '90 si è rinnovato con una serie di società come Zentropa, Balboa e Nimbus Film. Essenziale, natural­ mente, il talento artistico della nuova generazione.

L'internazionalizzazione è stata il fattore chiave per l'esplodere della nuova ondata, e il merito di aver rotto l'isolamento internazionale va attribuito alla generazione più vecchia, cioè a Gabriel Axel (1918), alla leva degli anni '70 cui appar­ tiene Bille August (1948), e al gran­ de cinema artistico-letterario. Il pranzo di Babette, famoso raccon­ to di Karen Blixen, venne magi­ stralmente portato nel 1987 sul grande schermo da Gabriel Axel, 13

lb Bondebjerg

che trasferì la storia sull'aspra costa scito a vincere né un Oscar né una occidentale dello Jutland, e quasi Palma d'oro, pur avendo ottenuto per magia riuscì a farvi emergere il premi in molti festival, Cannes grande mondo e la grande arte nel compreso. Ciò nonostante egli è celebre pranzo finale. Il film, che forse il maggior regista danese di ebbe anche successo di pubblico, oggi, e l'artista che, in patria e dal­ vinse un Oscar nel 1988, e l'anno l'estero, ha inciso maggiormente dopo la Danimarca salì di nuovo al­ sulla nuova ondata cinematografi­ la ribalta quando anche Bille Augu­ ca danese. Ma August e von Trier, st vinse l'Oscar per un altro classico come personaggi e come artisti, della letteratura, il romanzo stori­ rappresentano posizioni estetiche co-proletario di Andersen Nexo molto differenti, e mettono in luce Pelle il conquistatore, divenuto il aspetti profondamente diversi del­ notevole ritratto psicologico di un la nuova ondata dell'ultimo cine­ ragazzo e di suo padre (impersona­ ma danese. to magnificamente da Max von Sydow), e un Da un lato grande af­ Bille Augu­ fresco della st, sensibile, Danimarca simpatico, e dei conflit­ a 11 'a p pati di classe renza mol­ tra la fine to aperto e del l'otto­ semplice, i cento e gli cui film sin inizi del No­ dagli esordi vecento. Il hanno se­ film ottenne guito un anche la Pal­ Maria Bonnevie e Pernilla August nel Gerusalemme tracciato (Jerusalem) di Bille August, 1996. Foto: Bengt Wanselius. ma d'oro a psicologico Cannes nel 1988, e quando Bille Au­ sobrio e tipico del realismo quotidia­ gust nel 1992 vinse di nuovo la Pal­ no dano-scandinavo, ma sempre in ma d'oro per Den gode vilje (Con le linea con la grande tradizione nordi­ migliori intenzioni), riduzione cine­ ca del kammerspiel cinematografico matografica delle memorie di Berg­ (Pelle alla conquista del mondo, Con mann, i registi danesi e il linguag­ le migliori intenzioni, e Jerusalem, gio filmico dano-nordico furono 1996) e con il film-racconto di respi­ nuovamente all'attenzione delle ro internazionale (La casa degli spiri­ platee di tutto il mondo. ti, 1993, Il senso di Smilla per la ne­ ve, 1997 e / miserabili, 1998). Dall'al­ tro Lars von Trier, palesemente non­ Bille August e Lars von Trier: danese e dagli accenti fobici, un out­ due poli estetici opposti sider chiuso e stravagante che cerca nell'arte cinematografica danese sempre e provocatoriamente di fare le cose in modo diverso e imprevedi­ Al contrario di Bille August, Lars bile, ma che all'improvviso sboccia e von Trier (1956) non è ancora riu­ riesce a imporsi al grande pubblico.

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La nuova ondata cinematografica danese Un outsider per linguaggio cinema­ tografico, che fin dal primo momen­ to ha collocato i suoi film sul traccia­ to dell'avanguardia internazionale (L'elemento del crimine, 1984; Epi­ demie, 1984; Europa, 1991), ma che pure si è appropriato, in modo dav­ vero postmoderno, della formula del film di genere, e che alla fine si è imposto al grande pubblico con il genere ibrido di una serie per la tv, Il Regno l-ll (1994 e 1997), satira acuta, confusa e divertente, e con un melo­ dramma a tinte forti, Breaking the Waves (1996), romantico ed erotico.

Il tratto interessante dei due - e in specie di von Trier - è che entrambi si sono mossi in modo assai perso­ nale all'interno della tipologia dei vari generi e dell'espressione este­ tica, con ciò spostando le tradizio­ nali regole danesi dell'uso dei ge­ neri e dell'estetica cinematografi­ ca. Essi hanno dilatato anche il con­ cetto danese di film. Mentre i primi lavori di Bille August, ad esempio Honningmàne (Luna di miele) e Tro, hàb og kaerlighed (Fede, spe­ ranza e amore), sono film danesi, precisi e realistici benché sussurrati, nel senso che sono calati in am­ bienti esplicitamente danesi e con attori danesi, i suoi lavori più re­ centi sono coproduzioni interna­ zionali. Lars von Tier fin dagli esor­ di ha invece fatto film europei, che sono stati accettati e hanno otte­ nuto successo come film danesi, e che perciò sono riusciti a trasfor­ mare il concetto nazionale di film danese. Sul piano cinematografico ed este­ tico Bille August, nella maggior parte dei suoi film, è essenzialmen­ te un realista psicologico, con una

tonalità nordico-danese di autenti­ cità e autorevolezza visiva, e insie­ me con uno stile minimalistico e li­ rico. Sia nel film del debutto Luna di miele (1978), dedicato alle esi­ stenze solitarie nella società del benessere, che in Con le migliori intenzioni (1992), le scene intimo­ psicologiche del kammerspiel, con immagini d'interno pregnanti e concrete, alternano la qualità liri­ ca, quasi magica, con la precisione realistica. In August le storie quoti­ diane e sentimentali di personaggi qualsiasi assumono i tratti di un realismo sincero e vissuto. Egli si pone così sulla linea della solida tradizione danese di realismo fil­ mico che risale alla Nouvelle Vague cinematografica degli anni '60, e che altri registi contemporanei, ad esempio Nils Malmros (1945) e Soren Kragh-Jakobsen (1947) hanno seguito con maestria, prevalente­ mente con immagini di bambini e di giovani. Questo vale, ad esem­ pio, per il film di Malmros Kundskabens trae (L'albero della sapien­ za), realistico e mitologico al tem­ po stesso, un classico moderno sul peccato della pubertà visto nella vita collettiva di una classe di Àrhus, oppure in Skyggen af Em­ ma (L'ombra di Emma, 1988), una notevole descrizione di una bam­ bina e di una Copenaghen degli anni '30 in cui si incontrano e si scontrano classi alte e classi infe­ riori.

Se il realismo danese si nutre di paesaggi, l'universo cinematografi­ co di Lars von Trier, sia sul piano espressivo che su quello simbolico, è unico e provocatorio nella sua di­ versità - una diversità che ha con­ tribuito ad ampliare il quadro di ri­

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lb Bondebjerg ferimento e il registro espressivo me espressive possibili. In tal modo della nuova generazione. Già in oc­ rende il film di genere sia danese casione del suo debutto, con L'ele­ che internazionale accettabile al­ mento del crimine (1984), von Trier l'interno dell'arte cinematografica ristampò provocatoriamente nel danese, e il suo grande successo di programma del film il suo primo pubblico è arrivato proprio quan­ manifesto, rivolto contro la grazia do, con II Regno l-ll e Breaking the realistica della produzione danese l/l/aves, ha imposto la sua persona­ dell'epoca: "Non vogliamo più ac­ le visione dei generi classici. I ge­ contentarci di film 'di buoni senti­ neri tradizionali sono dunque stati menti' con messaggi 'umanistici', affinati e rinnovati, esattamente vogliamo invece dati di realtà, fa­ come avverrà con il musical nel suo scinazioni, esperienze - infantili ultimo progetto Dancer in the eppure di arte autentica. Vogliamo Dark (la prima è prevista per la pri­ ritornare all'epoca in cui l'amore mavera del 2000). tra il regista e il film era giovane, quando la felicità creativa consiste­ va nel leggere ogni inquadratu­ ra! ... Non possia­ mo più acconten­ tarci di surrogati. Vogliamo vedere la religione sullo schermo". Il manifesto del film Europa di Lars von Trier, 1991. Foto Rolf Konow. Opera d'esordio e manifesto introducono così un'ar­ te labirintica, avanguardistica, che La (nuova) nuova ondata: in Danimarca trova antecedenti so­ la generazione degli anni '90 lo nel culto costante di Dreyer per si fa avanti i registri cinematografici di grande respiro e melodrammatici, ma che Proprio nel periodo 1994-1996, per il resto si richiama al cinema quando Lars von Trier, Thomas Vind'arte europeo (in particolare al­ terberg, Soren Kragh-Jakobsen e l'espressionismo tedesco), al film Kristian Levring, provocatoriamen­ nero americano e alle visioni sim­ te e con grande risalto sui media, boliche e apodittiche del russo aprono la nuova ondata formulan­ Tarkovskij. Con le sue opere più re­ do Dogma 95, l'ultima generazione centi von Trier introduce una mag­ irrompe decisamente nel cinema giore internazionalizzazione este­ danese. Si tratta di una generazio­ tica del film danese, e dove il reali­ ne che prosegue il percorso del rea­ smo si riallaccia all'arte cinemato­ lismo danese e dell'avanguardismo grafica narrativa sia per episodi di von Trier, ma che al contempo li che classica, gioca in maniera post­ scavalca. Von Trier stesso, nel mani­ moderna con tutti i generi e le for­ festo, ha sostenuto e promosso

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La nuova ondata cinematografica danese

questa generazione, che tuttavia è una leva indipendente e varia, prossima già alla fine degli anni '90 a rivoluzionare la tipica espressione cinematografica danese. Nel 1994 Ole Bornedal (1959), con lo scalpore suscitato dal suo Nattevagten (Il guardiano di notte), in­ frange un tabù: fino ad allora in Da­ nimarca non si erano mai fatti film del terrore, e tanto meno combi­ nando orrore psicologico alla Hitch­ cock, effetti stilistici americani e im­ magini d'impatto. Ma proprio la crescente internazionalizzazione e il rapporto non problematico e di­ retto della nuova generazione con il mainstream danese e straniero (messo in moto proprio da von Trier) hanno fatto sì che il film di ge­ nere esplodesse. Azione, crimina­ lità, orrore, ambienti metropolitani e giovani ribelli asociali si sono mol­ tiplicati nei film danesi. C'è una grande distanza tra i prodotti gio­ vanili di aggraziato realismo degli anni '70 e '80 e il crudo cinismo che gioca con i limiti tabuizzati di Nattevagten. E la distanza è ancora maggiore se consideriamo film d'a­ zione torbidi e violenti come Pusher (1996) di Winding Refn oppure Por­ tland (1996) di Niels Oplev, ambien­ tati il primo nel quartiere di Vesterbro a Copenaghen e il secondo nei sobborghi cementificati di Àlborg, una grossa città di provincia. Girato con un budget limitato, Pusher ha dimostrato che ci si può ispirare ai registi americani più indipendenti, Scorsese e Tarantino ad esempio, e tuttavia mostrare uno stile visivo e una forma narrativa originale e tale da rinnovare l'immagine del cinema danese. In Portland l'applicazione di un'estetica e di forme narrative più

avanzate - debitrici peraltro di von Trier - a un tema da film di genere era ancora più evidente. Il realismo più esplicito e il film decisamente di genere si sono svi­ luppati in produzioni ulteriori, ad esempio nel thriller di Susanne Bier Sekten (La setta, 1997), in Besat (Posseduto, 1999) di Anders Ronnov Klarlund, thriller e horror metafisico, e in Bleeder (1999), il nuovo crudo film di Winding Refn. Refn conserva in questo film l'universo disperato e la violenza dell'opera d'esordio, ma vi ag­ giunge una dimensione nuova, più nascosta e poetica, con la con­ trapposizione tra due storie d'a­ more. Ma anche in tv il filone del film di genere ha lasciato una traccia feconda. Ole Bornedal nel 1996 ha realizzato il fiabesco Chariot e Charlotte (1-4), che con un'ottima intertestualità postmo­ derna e con linguaggio filmico polimorfo rappresenta un roadmovie femminile allegorico e sim­ bolico, in cui le classi e gli stili di vita collidono come mai si era vi­ sto prima in Danimarca. Un ampio gruppo di nuovi registi e la popo­ losa galleria dei loro giovani atto­ ri hanno inoltre mostrato con due serie per TV2, Strisser a Samso (Piedipiatti a Samso, 1997) e Taxa (Taxi, 1997), come gli ambienti da­ nesi si possano descrivere in ma­ niera autentica, realistica e diretta proprio attraverso le formule che caratterizzano i tradizionali poli­ zieschi americani e le soap anglo­ sassoni. Sia nel cinema che in tv la nuova ondata abbatte i muri tra la cultura popolare e quella d'a­ vanguardia, tra il nazionale e l'in­ ternazionale.

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lb Bondebjerg

Rinnovamento del realismo e magia del quotidiano Al gruppo della nuova ondata che ha iniziato a studiare l'efficacia drammaturgica del film di genere appartiene il talento artistico forse maggiore della nuova generazio­ ne, Thomas Vinterberg (1969), che ha debuttato nel 1996 con De storste helte (/ più grandi eroi). Si trat­ ta di un film d'azione criminale e al tempo stesso di un road-movie tra Danimarca e Svezia sulle tracce di giovani ai margini della legge e con gravi problemi psichici d'iden­ tità, che unisce magistralmente il tradizionale realismo dei film da­ nesi e il rinnovato linguaggio cine­ matografico della nuova ondata. Nella sua capacità di diagnosi so­ ciale e di introspezione psicologi­ ca, Thomas Vinterberg è molto più vicino a Malmros e ad August di

quanto non siano gli altri giovani registi di film di genere. Lo si può notare già nei suoi primi due cor­ tometraggi, Sidste omgang (Ulti­ mo giro, 1993), lavoro di diploma della scuola cinematografica, l'ori­ ginale addio di un giovane malato di cancro agli amici e al mondo, e Drengen der gik baglaens (Il ragaz­ zo che camminava all'indietro, 1994). Prova notevole e più volte premiata, la storia di Andreas, un bambino di nove anni che deve af­ frontare l'improvvisa morte del fratello maggiore, è un intenso studio di psicologia infantile, ca­ ratterizzato al tempo stesso da realismo interiore e da una magica espressività cinematografica che supera il tradizionale realismo gio­ vanile danese della generazione precedente. Thomas Vinterberg non è il solo, fra i registi della nuova ondata, a

Thomas Bo Larsen e Ulrich Thomsen nel / più grandi eroi (De storste helte) di Thomas Vinterberg, 1996. Foto: Jens Juncker.

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La nuova ondata cinematografica danese

rappresentare questa nuova tona­ lità realistica, una forte miscela di realismo e magia, un linguaggio filmico simbolico e sperimentale in un quotidiano orientato a temati­ che sociali. Tale linguaggio emer­ ge anche nelle descrizioni di bam­ bini offerte dai due migliori talen­ ti che debuttarono nell'anno di inizio della nuova ondata (1996): Carsten Rudolf, che ha firmato Menneskedyret (Cucciolo d'uo­ mo), descrizione fiabesca, grotte­ sca ma anche realistica di un ra­ gazzo in bilico tra padre e madre, e Aage Rais, vicino a Malmros ma anche del tutto autonomo, autore di Anton, la storia di un ragazzo orfano al quale le fantasie sulla morte del padre serviranno a tro­ vare un'identità nel mondo. Nel 1998, legato allo stesso filone, è uscito Nàr mor kommer hjem (Quando mamma torna a casa) di Lone Scherfig (1959), un mix di forte realismo sociale e di feroce commedia surreale sugli irresolu­ bili problemi di una ragazza ma­ dre. Ancora del 1998 è Forbudt for born (Vietato ai bambini) del talentuoso Jesper W. Nielsen, che narra in tono mistico e leggenda­ rio di pubertà e amori incipienti, con immagini di vita familiare da­ nese del tutto attuali, assai reali­ stiche e divertenti. Anche per i film su bambini e ragazzi, genere che da sempre in Danimarca ha avuto molto seguito, si sono aper­ ti nuovi orizzonti con la nuova on­ data cinematografica danese.

Nel frattempo il realismo si è rin­ novato anche con altri registi del­ la nuova ondata, che mirano ri­ spettivamente ad una sintesi fra sperimentazione e realismo (An­

der Ronnov Klarlund), alla descri­ zione estemporanea e poeticoumoristica del quotidiano (Jonas Elmer), oppure al realismo sociale e alla sua stilizzazione satirica (Lotte Svendsen). Anche i film d'e­ sordio di Ander Ronnov Klarlund e Jonas Elmer (1966) propongono un linguaggio cinematografico originale. In Den attende (Il diciot­ to, 1996) di Ronnov Klarlund si in­ trecciano tre storie drammatiche ciascuna delle quali è narrata con una diversa cifra stilistica - nella notte fatale del referendum dane­ se per l'Unione Europea, quella del 18 maggio 1993. Let's get lost (1997) di Elmer, vincitore del pre­ mio Bodil, è invece un crudo film in bianco e nero che prende di mi­ ra tipi maschili e femminili alla moda in episodi di stile documen­ taristico, caratterizzati da una poetica quotidiana ed umoristica. Lotte Svendsen si è affermata con il cortometraggio Royal Blues (1997), che dà un quadro notevole e tragicomico di una Danimarca piena di istanze e conflitti sociali, temi di norma assenti nella recen­ te filmografia danese; nel 1999 è uscita la sua prima commedia Bornholms stemme (La voce di Bornholm), un film realistico sulla vita dei pescatori dell'isola. Il reali­ smo, nella nuova cinematografia danese, si sta sviluppando in am­ piezza e in profondità, e si potreb­ be anche dire che, con Den eneste ene (L'unico e il solo, 1999), fortu­ nato lavoro di Susanne Bier sulla complicata vita sentimentale del danese medio, sono state riscatta­ te anche le accuse di disimpegno e di scarsa attenzione alla contem­ poraneità normalmente indirizza­ te alla commedia danese.

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lb Bondebjerg

Il "voto" include dieci articoli, tutti rivolti a promuovere un'espressio­ ne estetica e visiva nella quale ab­ Il 13 marzo 1995 a Copenaghen, biano priorità l'autenticità del rea­ come poco sopra accennato, è sta­ le, la luce naturale, il suono natura­ to dunque fondato Dogma 95, as­ le e l'espressione fotografica pura, sociazione di registi che si impegna non manipolata. Al tempo stesso il a "contrastare 'certe tendenze' nel manifesto è diretto contro la su­ film di oggi", arrivando a procla­ perficialità e i luoghi comuni del mare una "azione di salvataggio". film di genere, e ammette solo i Il testo introduttivo del manifesto film che si svolgono qui e ora. Un'e­ di Dogma cita espressamente la sigenza fondamentale è anche che Nouvelle Vague francese e riman­ la macchina da presa debba essere da al famoso articolo di Truffaut manovrata manualmente: ciò im­ "Certe tendenze nell'arte cinemato­ plica in pratica una tecnica di ripre­ grafica" (1962), sa più imme­ ma sottolinea diata e diret­ al tempo stes­ ta, e in effetti so che quella gli attori che hanno lavora­ "vague" è mor­ ta da tempo, to nei film dei e che è neces­ registi di Dog­ saria una nuo­ ma sostengo­ va rivolta. Il no che le in­ manifesto di quadrature Dogma si ri­ non operano volge princiin modo limi­ p a I m e n t e Ulrich Thomsen nel Festen di Thomas Vinterberg, 1998. tativo, ma contro i film Foto Lars Hogsted. sembrano al che antepon­ contrario fa­ gono l'illusione e la trama esterio­ vorire una recitazione più sponta­ re al dramma interiore e all'auten­ nea e intensa dal punto di vista psi­ ticità visiva ed espressiva. cologico. Dogma e la forza dell'internazionalizzazione

Si tratta di una rivolta contro il do­ minio della tecnologia e degli ap­ parati sull'uomo, sul reale e sull'at­ tore. "Con l'aiuto delle tecniche più recenti, tutti o quasi possono can­ cellare l'ultimo resto di verità dal mortale abbraccio della sensazione. Le illusioni sono ciò dietro cui il film può nascondersi". Il manifesto e il "voto di castità" che tutti gli ade­ renti al movimento hanno dovuto sottoscrivere sono stati elaborati da Lars von Trier e Thomas Vinterberg.

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Il voto di castità prevede anche il ri­ fiuto dell'individualità del regista in quanto autore, a favore della più stretta oggettività. Ma nei tre film riconducibili a Dogma, che hanno avuto successo internazionale e creato casi cinematografici, ciò che emerge è proprio la soggettività del regista. Il manifesto, dunque, è assai più ideologico che pratico, e i registi si regolano con libertà ri­ spetto ad alcuni articoli del "voto". Thomas Vinterberg ha "confessa-

La nuova ondata cinematografica danese

to" pubblicamente sei violazioni al­ le regole di Dogma. Ma dal punto di vista artistico, dunque al di là de­ gli aspetti puramente mediatici, queste regole hanno rappresentato un formidabile trampolino di lancio per le opere, che dimostrano, con mezzi semplici ed economici, come la qualità dipenda più da buone storie e da autentica arte di recita­ zione che da costose tecnologie. In questo consiste la maggior sfida della nuova ondata danese alla do­ minante mega-industria cinemato­ grafica di Hollywood: dal 1998, la filosofia di Dogma si è estesa anche ad altri paesi europei e perfino agli Stati Uniti. Le tre opere riconducibili a Dogma sono Festen di Thomas Vinterberg e Idioti di Lars von Trier, presentati al festival di Cannes nel 1998 (dove Vinterberg ha vinto il premio della giuria), cui è seguita nella primave­ ra 1999 Mifune di Soren Kragh-Jacobsen, che ha vinto l'Orso d'argen­ to a Berlino. Si tratta di opere assai diverse. Festen è un dramma fami­ liare di spessore bergmaniano, dove gli scheletri escono dagli armadi, il passato si ripresenta rompendo l'i­ dillio della famiglia danese, e la ca­ mera viva e mobile esalta l'intensità psicologica e la tumida autenticità della storia. Idioti di von Trier è for­ se, dei tre, quello che soddisfa i re­ quisiti di Dogma in modo più preci­ so. Con un registro quasi documen­ taristico e con la totale mancanza di trama e drammaturgia tradizionali, è un film commovente e quasi pro­ vocatorio, "un sasso aguzzo nella scarpa" scrive, citando il von Trier di Epidemie, Èva Jorholt su "Informa­ tion". Come il gruppo di finti idioti prova a superare tutti i tabù e le convenzioni sociali liberando i pro­

pri istinti e i propri sentimenti, allo stesso modo il film punta a innova­ re sul piano delle immagini, della psicologia e del rapporto fra rap­ presentazione e significato. Le as­ surdità introduttive precipitano nel finale in un dramma cupo e pateti­ co che unisce verità melodrammati­ ca e cinematografica. Mifune di So­ ren Kragh-Jacobsen, invece, ci ripor­ ta al dramma quotidiano classico, mediato però da una poetica storia d'amore collocata nella provincia danese, fornendo così una tipologia molto particolare di commedia ro­ mantica: uno yuppie della capitale incontra una squillo di lusso in fuga e recupera le sue radici rimosse, fino al punto di tornare da un fratello handicappato che vive in una casa fatiscente. Poesia e romanticismo fanno scintille in questo film in cui, senza ricorrere a stereotipi, si tenta di recuperare valori umani diversi da quelli eleganti e obbligati della modernità. Una "Pretty Woman" di Lolland, come il manager tv Bjorn Erichsen l'ha ribattezzato a Berlino con puntuale arguzia - ma con più realismo e profondità psicologica. Nella loro peculiarità artistica, i film di Dogma mettono in luce gli orien­ tamenti della nuova ondata cinema­ tografica danese, un'ondata che, film dopo film, con budget relativa­ mente ridotti, ha narrato grandi e piccole storie con un solido ancorag­ gio alla realtà nazionale ma con grande apertura nei confronti delle impressioni e delle espressioni deri­ vate dal cinema straniero. I migliori film danesi che testimoniano la nuo­ va ondata non sono autoreferenzia­ li, né cercano le grandi mode inter­ nazionali o una forma espressiva eu­ ropea comune. Al contrario, essi

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lb Bondebjerg contribuiscono alla molteplice cultu­ ra cinematografica d'Europa assu­ mendo come punto fisico di parten­ za il luogo in cui sono ambientati, ma traggono ispirazione da molto altro, ed in generale da una cultura cinematografica cosmopolita di co­ lore locale. Resta da dire che Dogma da solo non spiega il fatto per cui molti registi danesi sono capaci di passare da un tipo di film all'altro: Lars von Trier, per esempio, si sposta direttamente da Idioti a Dancer in the Dark, film da più di 100 milioni di corone, in cui si misura con la for­

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mula del musical e del grande cast internazionale.

Il grande successo nazionale e in­ ternazionale, successo solido e ina­ spettato, deriva in conclusione dal­ la congiunzione di più elementi e da una particolare condizione di fertilità. La speranza è che anche nel nuovo millennio la nuova on­ data sia capace di continuare a per­ seguire e sviluppare nuovi ed origi­ nali percorsi. Tradotto da Alessandra Perticci

Cortometraggi e mediometraggi di Lars Movin

Nel corso dell'ultimo decennio, il settore cinematografico in Dani­ marca è stato caratterizzato da una serie di trasformazioni istituzionali che hanno avuto in particolare un impatto sulla produzione di corto­ metraggi e documentari. L'evento decisivo è stato rappresentato nel 1996 dalla fusione in un'unica isti­ tuzione, il Danske Filminstitut (Isti­ tuto Cinematografico Danese, DFI), di una serie di organismi indipen­ denti. A ciò si aggiunge la creazio­ ne nel 1994 di Dansk Novellefilm, un'iniziativa il cui scopo primario è quello di potenziare il ruolo della fiction sotto forma di cortometrag­ gio. Quanto qui di seguito propo­ sto è un excursus sull'ampio pano­ rama offerto dalla cinematografia danese gravitante attorno al gene­ re del lungometraggio: cortome­ traggi, documentari, mediome­ traggi, film di laboratorio e video.

Il (nuovo) Danske Filminstitut

Nella sua nuova forma, il DFI si oc­ cupa a livello statale della produ­ zione, distribuzione e promozione di tutti i generi cinematografici e ha sede presso la Filmhuset, nel centro di Copenaghen, un mix inte­ ressante, almeno sulla carta, di atti­ vità amministrative, museo, biblio­

teca, workshop e cineteca. La fusio­ ne dei vari uffici cinematografici è stata tuttavia molto di più di una semplice fusione fisica. L'iniziativa ha comportato una radicale ristrut­ turazione di tutte le prassi relative alla cinematografia danese, e solo ora, tre-quattro anni dopo, è possi­ bile iniziare a valutarne le conse­ guenze per i vari generi. L'effetto sinergico auspicato è stato ottenu­ to? Oppure ci sono generi o settori che risultano indeboliti nel nuovo sistema? Non c'era il minimo dub­ bio in merito al fatto che il lungometraggio se la sarebbe cavata nel­ la nuova organizzazione. Grazie ai suoi budget elevati, alla distribu­ zione nelle sale quasi obbligatoria e ai servizi sulla stampa, il lungometraggio è e rimarrà la forza trai­ nante del cinema; infatti, grazie al prestigio e alle aspettative ad esso tradizionalmente legate, il lungometraggio di fiction gode di un particolare favore, sul quale ben poco può fare l'intervento ammini-

l'M

DANISH FILM INSTITUTE

Il nuovo logo dell'istituto Cinematografico Danese.

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Lars Movin strativo. Per esempio, è sintomatico che alcuni dei principali esempi del movimento cinematografico degli ultimi anni - in primo luogo i film del gruppo Dogma, ma anche i film di Nicolas Winding Refn e Lasse Spang Olsen - si siano affermati si può dire quasi malgrado la politica di aiuti del DFI.

ampio spettro, che non solo aveva obiettivi e programmi nel settore dei cortometraggi, dei documen­ tari e dei video, ma che inoltre, at­ traverso le biblioteche, metteva a disposizione di tutti i danesi il pa­ trimonio cinematografico naziona­ le e una selezione di produzioni straniere.

La situazione è diversa per quanto riguarda i cortometraggi e i docu­ mentari. In Danimarca esiste un'antica e rigogliosa tradizione che è stata alimentata soprattutto da forze creative individuali: regi­ sti e cineasti di ogni tipo - come, per esempio, Jorgen Roos che, a partire dalla fine degli anni '30 e fino alla sua morte, nel 1998, ha contribuito alla realizzazione di 200-300 film. I cortometraggi e i documentari hanno inoltre goduto di un solido sostegno istituzionale nell'ambito della Statens Filmcen­ tral (Cineteca di Stato, SFC), ora sciolta, che era stata fondata nel lontano 1939. Prima dell'avvento della televisione come canale di di­ stribuzione dominante, in Dani­ marca esisteva un legame molto stretto tra i cortometraggi e l'istru­ zione popolare, e la SFC per molti anni, all'inizio della propria atti­ vità, fu una sorta di marchio di fabbrica conosciuto dalla stragran­ de maggioranza dei danesi sin dai tempi della scuola. I proiettori 16 mm ronzanti nelle aule buie sono rimasti impressi nei loro ricordi d'infanzia come un'attesa interru­ zione della quotidianità. La SFC, che all'inizio si occupava sostan­ zialmente di fornire al settore del­ l'istruzione film pedagogici, si è trasformata poi nel corso degli ul­ timi decenni in un'istituzione a più

Dopo la fusione del 1996, con il conseguente scioglimento delle istituzioni esistenti, si trattò di de­ finire quale posto avrebbero occu­ pato i cortometraggi e i documen­ tari nella coscienza comune. Come avrebbero potuto cavarsela le ca­ tegorie cinematografiche minori all'interno del grande contenitore DFI? E come poteva riuscire il nuo­ vo ente a gestire i profondi cam­ biamenti in atto nel campo dei mezzi di comunicazione e lo svi­ luppo tecnologico che caratterizza i cortometraggi e i documentari in questi anni? Pensiamo a fenomeni come il costante spostamento dal­ la proiezione a 16 mm alle video­ cassette, alla transizione dal noleg­ gio alla vendita di cassette, all'av­ vento dei nuovi formati di distribu­ zione digitali, al sempre più fre­ quente noleggio a privati attraver­ so le biblioteche, nonché al ruolo sempre crescente della televisione come fonte di finanziamento e luogo di proiezione al pubblico. L'obiettivo della fusione delle vec­ chie istituzioni cinematografiche è sicuramente stato quello di raffor­ zare tutti i generi cinematografici. È ancora troppo presto per dire se questo sarà davvero l'effetto a lun­ go termine, poiché la fase transito­ ria di turbolenza si è protratta ol­ tre ogni possibile previsione. Non si individua immediatamente

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Cortometraggi e mediometraggi presso la direzione del nuovo DFI la volontà di puntare ancor di più sulla definizione della tradizione danese, in partenza già forte nel­ l'ambito dei cortometraggi e dei documentari - e soprattutto per quanto riguarda la distribuzione e la promozione, demandate sem­ pre di più ai produttori privati. La nuova direzione sembra puntare molto sui criteri di successo misura­ ti in termini di audience e biglietti venduti, e proprio da questo pun­ to di vista possono nascere diffi­ coltà per i cortometraggi e i docu­ mentari. Tradizionalmente la SFC e Det Danske Filmvaerksted (Labora­ torio cinematografico danese) hanno sempre insistito sull'impor­ tanza di fare pervenire quanti più titoli possibile a tutte le nicchie che possono offrire l'opportunità di proiettare cortometraggi e docu­ mentari - festival, rassegne ed eventi simili. Puntando invece sul raggiungimento di un considere­ vole successo di pochi titoli selezio­ nati, il fragile "ecosistema" di que­ sti generi cinematografici sensibili viene minacciato. Tuttavia, grazie alle più elevate risorse in termini di produzione che in questi anni af­ fluiscono all'istituto dal Ministero della Cultura danese, si suppone che in un prossimo futuro vengano almeno assicurate eque opportu­ nità di affermazione ai nuovi titoli.

Uno dei vantaggi fondamentali ot­ tenuti con la fusione è che il cine­ ma danese con Filmhuset ha ora un punto di riferimento visibile nel cuore della capitale. Una casa del cinema, con una cineteca nelle cui tre sale, ottimamente attrezzate, i cortometraggi e i documentari da­ nesi hanno trovato un forum stabi­

le di incontro con il pubblico. Un luogo dove è possibile vedere tutti i giorni le produzioni del DFI, e do­ ve è sempre possibile ottenere informazioni sulle migliori produ­ zioni straniere, sulle serie temati­ che, sugli eventi principali dei festi­ val internazionali, eccetera. È un'i­ niziativa unica. Per quanto riguar­ da i sistemi di finanziamento, è sta­ to sostanzialmente mantenuto il si­ stema di consulenza nell'ambito del quale consulenti con contratti a tempo determinato, specializzati nei settori dei cortometraggi, dei documentari e dei film per bambi­ ni, sottopongono progetti perché ne sia approvato il finanziamento. Ma c'è una novità: i progetti relati­ vi a cortometraggi e documentari così come quelli relativi ai lungometraggi - nella nuova "Divisione Sviluppo", hanno la possibilità di essere sottoposti ad un'ulteriore analisi, per quanto riguarda la sce­ neggiatura e la distribuzione. Nel­ l'ambito dei film per bambini, oc­ corre aggiungere che il DFI ha isti­ tuito un "Centro film per l'infanzia e la gioventù" destinato a promuo­ vere i film per i più giovani.

Cortometraggi e documentari Ogni anno vengono prodotti circa quaranta-cinquanta cortometrag­ gi e documentari grazie al contri­ buto economico del DFI. A questi si aggiungono alcune opere del Dansk Novellefilm, con sede anch'esso presso la nuova Filmhus. Ma ritor­ neremo su questo aspetto in segui­ to. Se si rivolge uno sguardo ai cor­ tometraggi e ai documentari da­ nesi che siano stati presentati in prima visione negli ultimi anni, si

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Lars Movin nota che abbracciano un ampio spettro di generi e formati. Dal­ l'austera serie in quattro episodi sui sogni dei danesi della defunta documentarista Lise Roos, Fik da set det du ville? (Hai visto quello che volevi?, 1998), a Kandidaterne (/ candidati, 1998) del duo di gior­ nalisti Michael Kristiansen e Jakob Kvist, un esempio di cinema verità, un dietro le quinte della campa­ gna elettorale della primavera del 1998 tra l'attuale Primo ministro Poul Nyrup Rasmussen e l'allora leader del partito "Venstre" Uffe Elleman-Jensen. Da Ernst og Lyset (Ernst e la luce, 1996), la favola di Anders Thomas Jensen e Thomas Villum Jensen sull'inatteso incon­ tro di un uomo moderno con Cri­ sto, fino a Lyset, morket og farverne (La luce, il buio e i colori, 1998), film 35 mm di straordinaria bellez­ za sulla cromatologia di Goethe di Henrik Boètius, Marie Louise Lauridsen e Marie Louise Levèfre, pre­ parato in dieci anni e studiato sin nei minimi dettagli.

Film ritratto

Nonostante la multiformità dei ge­ neri, ce n'è uno che si distingue: si tratta del film ritratto. Negli ultimi anni, i registi danesi si sono dedi­ cati sempre più al ritratto filmico. Si va dai primi piani intimi realiz­ zati dal regista stesso, fino ai docu­ mentari classici prodotti in 35 mm da un'intera troupe cinematogra­ fica. Si è manifestato un particola­ re interesse verso la sperimenta­ zione delle possibilità offerte dai nuovi piccoli formati digitali. Lars Johansson nel 1997 ha realizzato un ritratto video dello scrittore da­ 26

nese Per Hojholt e ha continuato nel 1998 nella stessa direzione con il film Simona dedicato all'attrice rumena Simona Maicanescu. An­ che Anne Wivel già nota per i suoi documentari classici, si è cimentata con il nuovo formato in Johannes Hjerte (Il cuore di Johannes, 1998) dedicato allo scrittore Johannes Mollehave. In film di questo tipo si può constatare che lo strumento video offre soprattutto un nuovo livello di intimità nella lavorazio­ ne. Si ha l'impressione di arrivare "più vicino" o, per meglio dire, si arriva "vicino" in modo diverso ri­ spetto al film classico.

Questo vale anche per De ydmygede (Gli umiliati) di Jesper Jargil, un film sul lavoro di Lars von Trier du­ rante della realizzazione del film Dogma Idioterne (Idioti). Il film sul film di Jargil segue il processo di sperimentazione molto da vicino e, ricorrendo al diario di lavorazio­ ne personale di Lars von Trier inci­ so su nastro, si insinua fino a rag­ giungere livelli estremamente inti­ mi del protagonista che è normal­ mente off limits anche nei ritratti più indiscreti.

Un'interpretazione più convenzio­ nale del genere del ritratto viene data dal critico e regista Christian Braad Thomsen nel suo Karen Blixen - Storyteller (1996). Braad Thomsen (nato nel 1940) è un in­ stancabile protagonista di discus­ sioni e dibattiti ed è considerato un fenomeno nel mondo cinemato­ grafico danese. Nel corso degli an­ ni si è diviso tra un'ampia gamma di attività: regista, scrittore, giorna­ lista, conferenziere, importatore di film e ultimamente direttore del­

Cortometraggi e mediometraggi

l'Odense Film Festival. Sia nei suoi scritti che nei suoi documentari Braad Thomsen si fa interprete di una rappresentazione sobria, soli­ da e ben documentata che, nel film sulla baronessa Blixen, si esprime attraverso la presenza di un mate­ riale d'archivio unico abbinato a se­ quenze tratte da interviste estre­ mamente curate e sostanzialmente non montate.

no state, per esempio, investite in una trilogia di saggi visivi: Flaneur (1992), Dandy (1996) e Benjamins skygge (L'ombra di Benjamin, 1998), ispirati rispettivamente a Italo Calvino, Charles Baudelaire e Walter Benjamin. Dal punto di vi­ sta tecnico, i tre film sono stati gi­ rati e montati su video, dopodiché sono stati scannerizzati in 35 mm. La stessa strategia viene utilizzata in una cer­ ta qual mi­ ivi e n t r e Braad sura nel Thomsen film su Cari Th. Dreyer, rappresen­ ta la forma nel quale classica, Min Skjodt Jen­ Metier (Il sen riesce ad unificare i mio mestie­ re, 1995) numerosi elementi un ritratto di Carl Th. del suo la­ Dreyer - dà boratorio una testi­ cinemato­ grafico in monianza del fatto che Dal Karen Blixen di Christian Braad Thomsen, 1996. un insieme le radici del regista Torben Skjodt più elevato, che associa la struttu­ Jensen affondano nel mondo del ra base classica con una lingua for­ video musicale, della video-arte e male innovativa. del saggio cinematografico speri­ mentatore di forme. Dall'inizio de­ gli anni '80, Skjodt Jensen (nato Jon Bang Carlsen nel 1958) ha realizzato un'enorme quantità di lavori, per gran parte Anche Jon Bang Carlsen (nato nel dei quali si è servito di un linguag­ 1950) opera su un territorio di con­ gio figurato tipicamente associati­ fine tra il classico e il trasgressivo. vo. In queste opere, videomanipo­ Come Christian Braad Thomsen e lazioni quasi plastiche, con più Torben Skjodt Jensen, Jon Bang strati di immagini e una tecnica di Carlsen ha "flirtato" con il lungomontaggio "soft", improntata alla metraggio, ma, proprio in ragione metamorfosi, si sposano con una della sua particolare forma di "doforma narrativa poetica e filmica. cumentarismo portato in scena", è Negli anni '90, Skjodt Jensen iniziò considerato oggi uno dei cineasti inoltre a lavorare sul documentari- danesi di maggior rilievo. Per più di smo e le esperienze maturate con trentanni Bang Carlsen ha esplora­ le numerose produzioni video so- to con costanza e coerenza una 27

Lars Movin propria gamma di destini e perife­ rie geografiche, spesso con un'at­ tenzione particolare alla poesia del­ l'assenza e alla presenza della vita nello spazio silenzioso. Negli anni '90 Bang Carlsen ha cominciato a cercare al di là delle frontiere del proprio paese, in primo luogo in Ir­ landa, dove ha raccolto materiale per almeno quattro film, e poi in Sud Africa, che è diventato il punto di partenza e lo spunto per tre film. L'incontro con un mondo più gran­ de non ha solo esercitato un'in­ fluenza sul contenuto, ma ha anche segnato un cambiamento metodo­ logico per Bang Carlsen, poiché egli - con un'unica eccezione - ha per­ sonalmente girato su video i film nati all'estero. Questo vale anche per Addicted to Solitude (1999), film biografico e provocatorio della durata di un'ora, che costituisce un tentativo di capire la situazione in

Da Addicted to Solitude di Jon Bang Carlsen, 1999.

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Sud Africa durante il passaggio dal­ l'apartheid alla democrazia. Il com­ pito è arduo, e il regista danese ri­ nuncia in corso d'opera a realizzare il lavoro che aveva originariamente in mente. Ha invece montato un film a partire dai propri appunti vi­ deo. Il tutto appare più casuale e incompiuto di quanto invece non sia. Jon Bang Carlsen è un regista di grande esperienza e anche se in al­ cuni casi avrebbe potuto abbellire la propria opera ricorrendo ad un fotografo professionista, ci sono talmente tanti altri aspetti positivi che la forma del lavoro ne risulta le­ gittimata.

Jorgen Leth

Il vecchio maestro tra i registi da­ nesi di cortometraggi e documen­ tari è Jorgen Leth (nato nel 1937) -

Cortometraggi e mediometraggi

poeta, commentatore sportivo spe­ cializzato in ciclismo, regista, gior­ nalista politico, ecc. Dal suo debut­ to nel 1963 con Stopforbud (Divie­ to di sosta), un cortometraggio dal­ lo stile esplosivo che ruota attorno alla figura del pianista Bud Powell, Leth ha realizzato sì e no quaranta film che, dal punto di vista del ge­ nere, esplorano il terreno compre­ so tra fiction e documentarismo, e tra l'esperimento filmico e il saggio personale. Alcune delle principali caratteristiche di Jorgen Leth regi­ sta sono la coerenza, il coraggio di dire di no e il senso dell'importan­ za del metodo. Si ha l'impressione che, indipendentemente dalle per­ sone con cui Leth lavora e indipen­ dentemente dal livello di responsa­ bilità che egli attribuisce alla trou­ pe cinematografica, le sue inten­ zioni raggiungono sempre lo scher­ mo - come un tono, un cenno, un gesto linguistico e, in estrema ana­ lisi, naturalmente anche una visio­ ne dell'arte e della vita che si mani­ festano con una forza tale per cui anche il più piccolo frammento di un film di Leth potrebbe sempre essere identificato. Jorgen Leth non scrive vere e proprie sceneg­ giature per i suoi film. "Se avessi una sceneggiatura, mi annoierei a morte", confida in un nuovo libro di interviste. "Non mi interessereb­ be fare il film, perché sarebbe per me già una ripetizione, una cosa inutile". Invece egli inizia ogni nuovo progetto cinematografico schizzando un metodo, una serie di regole, non tanto per definire anti­ cipatamente il contenuto oppure escludere l'intervento del caso, ma per disporre sempre di un quadro e di una cassa di risonanza per le de­ cisioni che dovranno essere prese.

Nei film compiuti è possibile osser­ vare come queste specifiche forma­ li e metodologiche non abbiano necessariamente un effetto limi­ tante, ma al contrario possano co­ stituire un grande spunto di creati­ vità. Un chiaro esempio è costituito dall'ultimo film di Jorgen Leth, Jeg er levende (lo sono vivo, 1999), un ritratto del celebre poeta danese Soren Ulrik Thomsen. Con la sua forma rigidamente costruita e le sue immagini 35 mm in bianco e nero elaborate in ogni particolare, il film si erige come una colonna di lucidità tra i numerosi ritratti video più scintillanti del periodo. Il film è semplicemente l'esposizione del­ l'arte della rinuncia. Gli ingredienti sono pochi e scelti con grande cura. Il protagonista è ritratto in due tipi di sequenze, la lettura di poesie e una serie di monologhi, che per­ mettono di ricomporre, in modo realistico e non pretenzioso, l'"uomo" e il "poeta", dall'infanzia nel­ la fredda casa di Stevns, all'incon­ tro con la poesia, fino ad una serie di riflessioni più tecniche nate nel laboratorio dell'artista. Attorno al protagonista vengono creati due spazi, quello vicino, la casa - con primi piani degli elementi negli in­ terni ordinati: un telefono nero, una fotografia di Frank Sinatra, il rito del tè - e il mondo esterno, Co­ penaghen, soprattutto in atmosfe­ re crepuscolari, piogge grigie e nebbioline, esplorazioni nelle zone malinconiche del giorno, con l'ag­ giunta di jazz soft e languido. Il tutto magistralmente fotografato da Dan Holmberg. A tratti, questo universo quasi sterile e asettico può apparire troppo perfetto e intocca­ bile, ma quando Soren Ulrik Thom­ sen inizia a parlare della freddezza

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Lars Movin formale, che in letteratura può esprimere passione, temperamen­ to, allora il quadro visivo comincia ad avere senso. Inoltre quella certa avversione alla magniloquenza che pulsa sotto la pelle tesa del film viene spezzata quando il poeta ini­ zia a spiegare la sua accettazione del pathos come stucco che tiene assieme le due colonne portanti della lirica - l'elegia e l'inno. Il fat­ to che Soren Ulrik Thomsen non parli liberamente, senza peli sulla lingua, oppure non venga visto in situazioni non controllate, non sor­ prenderà di certo i conoscitori del film di Jorgen Leth. Jorgen Leth non è un regista di questo tipo, e non lo è nemmeno il suo protago­ nista. Questo non significa tuttavia che l'uomo Soren Ulrik Thomsen sia assente. Un pubblico attento potrà trovare un segno della sua presenza almeno nella scelta degli aneddoti proposti, nella gestualità e nella mimica, e nelle numerose si­ tuazioni nelle quali il flusso delle parole fa cadere la maschera. È qui che Jorgen Leth mostra il proprio talento nel tirare fuori la verità dal­ la storia della sua "vittima" senza inondare lo spazio del film con am­ massi di dettagli tratti dalla sfera personale. Invece di cercare spiega­ zioni psicologiche o teoriche del­ l'arte del proprio protagonista, la­ scia che il suo ritratto emerga come una poesia che - come avviene con Soren Ulrik Thomsen - oscilla attor­ no al punto ideale tra pensieri e sentimenti, tra musica e pensiero, tra vista e udito. Una poesia che riprendendo le parole del protago­ nista - seduce il destinatario con la musica e poi, prima di diventare una ninnananna, lascia che la co­ scienza si intrecci con la lingua.

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Dansk Novellefilm Prima di diventare celebre in tutto il mondo come "fratello Dogma" di Lars von Trier, Thomas Vinterberg (nato nel 1969) aveva definito il nuovo standard del cortometraggio danese con Drengen der gik baglaens (Il ragazzo che camminava all'indietro, 1994). In 37 minuti pie­ ni e ben articolati, il film segue An­ dreas, nove anni, che perde il fra­ tellino di 2-3 anni, Mikkel. È An­ dreas che, narratore carismatico af­ fascinante e innocente, dà al film un tono al contempo delicato ed umoristico. E benché il film non manchi né di atmosfera né di spa­ zio per approfondire i sentimenti dei personaggi mai sovraesposti, Vinterberg non perde tempo. Il pubblico viene introdotto direttamente nel bel mezzo di una festa di famiglia danese, dove l'ambiente e i protagonisti vengono disegnati, in modo allo stesso tempo incisivo e sfumato, in pochissime scene e bat­ tute. La festa si svolge il giorno pri­ ma dell'incidente che cambia la vita del protagonista, e il resto del film cerca di analizzare come Andreas elabora il dolore, la perdita, il lutto e l'incontro con la morte.

Drengen der gik baglaens ha se­ gnato il debutto di Thomas Vinter­ berg come regista - se non si consi­ dera l'elogiatissimo film con cui si è laureato alla Danske Filmskole (Scuola di cinema danese) Sidste omgang (Ultimo giro, 1993) - e si è inserito con forza in un dibattito nell'ambiente cinematografico da­ nese sulla giustificazione del gene­ re del mediometraggio. Ci si chie­ deva se i cortometraggi di fiction dovessero essere realizzati fuori

Cortometraggi e mediometraggi

dalle scuole cinematografiche. Si tratta davvero di una forma artisti­ ca a sé stante? Dove devono essere proiettati i cortometraggi, e chi li vede? L'evento concreto che ha da­ to il via al dibattito è stata la fon­ dazione, nel 1994, dell'istituzione autonoma Dansk Novellefilm. Dan­ sk Novellefilm è sempre stata, sin dalla sua creazione, una struttura molto insolita che, grazie a risorse provenienti dalla disciolta SFC, dal DFI e dalle due stazioni televisive nazionali, DR/TV e TV2, aveva il compito di assicurare la produzio­ ne di cortometraggi di fiction. Ognuno dei quattro partner ha versato in una cassa comune tre mi­ lioni di corone danesi, in totale do­ dici milioni, e il Ministero della Cul­ tura ha raddoppiato la posta fino a raggiungere la cifra di 24 milioni. È stato aperto allora un ufficio con

un consulente, un direttore di pro­ duzione e un assistente; l'obiettivo, ogni anno, era quello di realizzare una serie di cortometraggi di fic­ tion, che potessero in primo luogo servire un eventuale potenziale nei cinema e in seguito potessero esse­ re diffusi dalle due stazioni televisi­ ve coinvolte nel progetto. Nonostante i numerosi rischi di con­ flitto insiti nel progetto stesso, l'ini­ ziativa è in corso da circa cinque-sei anni, e tra i più di cinquanta titoli realizzati finora, ci sono relativa­ mente molti successi, film che sono sicuramente più di semplici schizzi, esercizi, o lungometraggi incompiu­ ti. I vari consulenti che si sono avvi­ cendati nell'amministrazione delle risorse di Dansk Novellefilm, hanno chiaramente dato la priorità ai pro­ getti più lunghi, presentati in modo convenzionale, film che assomiglia-

Da II ragazzo che camminava all'indietro (Drengen der gik baglaens) di Thomas Vinterberg, 1994.

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Lars Movin no a piccoli "lungometraggi". Que­ sto atteggiamento non è sempre sembrato quello ottimale, poiché gli esiti degli esperimenti che il for­ mato del cortometraggio avrebbe dovuto favorire sono stati mediocri. Al contrario si può affermare che nella maggior parte dei casi i più grandi successi di pubblico sono sta­ ti ottenuti con film della durata di cinquanta-sessanta minuti. Opere come Blomsterfangen (Il prigionie­ ro di fiori, 1996) di Jens Arentzen, Antenneforeningen (Antenna co­ mune, 1999) di Soren Fauli e Seth di Anders Refn (1999) hanno avuto un significativo riscontro; la satira hip­ pie Fede tider (Bei tempi, 1996) di Peter Bay è riuscita a portare al ci­ nema più di 40.000 danesi - malgra­ do i suoi "soli" 55 minuti.

Let's get lost Un successo cinematografico inatte­ so di Dansk Novellefilm è stato Let's get lost di Jonas Elmer (1997). Nato nelle intenzioni del regista come mediometraggio, il progetto si ètra­ sformato, in corso d'opera, in un ve­ ro e proprio lungometraggio. Il film è in larga misura improvvisato e, grazie ad un approccio sdrammatiz­ zante e per nulla pretenzioso, il re­ gista debuttante e il suo gruppo di giovani attori sono effettivamente riusciti a creare un proprio tono poetico jazz in alcune sequenze, nel­ le quali i protagonisti del film cerca­ no di mettere un pizzico di dignità in un'esistenza che altrimenti non offre molti momenti di gloria o no­ vità. Anche le immagini in bianco e nero e la cinepresa a mano contri­ buiscono alla tipicità del film, ai toni sommessi, così come tra i pregi tro­

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viamo uno stile semplice, vicino alla realtà, quasi documentaristico che si mantiene con grande coerenza per tutta la durata del film. Let's get lo­ st è stato il primo di una serie di film dell'"ondata danese" degli anni '90 che trae spunto dall'agrodolce realtà quotidiana di Norrebro, un quartiere sicuramente poco "in" di Copenaghen. Il film parla di quei trentenni che vivono ai margini del­ la società, sempre in bilico tra una vita normale e la prospettiva di ri­ manere per sempre uomini di serie B. I caratteri sono disegnati con estrema precisione senza però alcu­ na esagerazione o caricatura, men­ tre non c'è molta azione. Non si fa fatica a credere al regista quando di­ ce alla stampa che "Let's get lost è nato da un testo scritto di 3 pagine". E soprattutto questo film così esile schizza un simpatico ritratto di una generazione e di un quartiere che non erano mai stati descritti prima in questo modo nel cinema danese.

Sinans bryllup (Il matrimonio di Sinan) Altrettanto innovatore è Sinans bryllup, film della durata di un'ora di Ole Christian Madsen (1997). È il primissimo film danese che si svol­ ge completamente tra gli immigra­ ti della seconda generazione a Co­ penaghen. Il film segue gli ultimi tre giorni del giovane ed irrequie­ to Sinan prima del suo matrimonio con Gùl. I due giovani sono di ori­ gine turca e il matrimonio è stato combinato dai genitori della cop­ pia. Insieme ad alcuni registi e sce­ neggiatori coetanei, Ole Christian Madsen apre con questo film un nuovo capitolo della storia cine­

Cortometraggi e mediometraggi

matografica danese, i cui tratti sti­ ha aperto la porta sull'ambiente listici vengono presi per esempio degli immigrati, ambiente normal­ dal realismo sociale britannico - mente difficile da penetrare per i Mike Leigh, Ken Loach e lo danesi bianchi. Il film forse non è Stephen Frears negli anni '80 -, estremamente originale nella scel­ mentre dal punto di vista tematico ta del tema conflittuale, ma la de­ si assiste ad un'esplorazione delle scrizione dell'ambiente così disin­ parti cinematograficamente meno volta, credibile e soprattutto non esposte di Copenaghen. Sinans distaccata di una Vesterbro mulbryllup è stato il primo film di una tietnica di fine anni '90 ha voluto trilogia dedicato a quella catego­ soprattutto esprimere la necessità ria di persone che i media chiama­ di seguire nuove strade nel cinema no "i neo-danesi" - la seconda par­ danese. te, il lungometraggio Pizza King, è uscito nelle sale nel 1999. I film rispecchiano una presa di coscienza: la realtà danese non può più essere racchiusa nella carto­ lina monoculturale del pa­ trimonio cinematografico nazionale. I problemi e i fe­ nomeni dei nostri giorni devono essere inseriti in storie più complesse, se il regista ha ambizioni che non si limitano a voler in­ trattenere il pubblico e confermarlo in una conce­ Sofie Gràbol e Janus Nabil Bakrawi ne II matrimonio zione di sé che a voler ben di Sinan (Sinans bryllup, 1997) di Ole Christian Madsen. Foto: Lars Hogsted. vedere non è più praticabi­ le. "Se Dogma è stata la prima nuova onda prodottasi nel cinema Filmvaerkstedet danese, quella successiva sarà (Laboratorio cinematografico) quella dell'impegno sociale", ha affermato Ole Christian Madsen in Produzioni così diverse come Invi­ un'intervista e il giovane regista - dia di Jonas Wagner (1997), un mi­ in collaborazione con lo sceneg­ ni film dell'orrore elaborato digital­ giatore Lars K. Andersen - ha nella mente e il cortometraggio grotte­ sua generazione dimostrato que­ sco di John Goodwin Blot en drensto "impegno sociale". Originaria­ gestreg (Solo una ragazzata, 1998) mente, Sinan era un personaggio provengono da un angolo molto secondario in una storia su Vester­ particolare dell'ambiente cinema­ bro, ma durante il lavoro di sce­ tografico danese: il Filmvaerksted neggiatura la figura è cresciuta e che è stato per più di vent'anni uno la scoperta dell'attore Janus Nabil spazio libero nel quale professioni­ Bakrawi - che interpreta Sinan - sti e dilettanti hanno potuto realiz-

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Lars Movin zare progetti che non rientrano nelle possibilità del settore com­ merciale. Il laboratorio è nel con­ tempo servito da vivaio per giovani talenti, che - dopo aver fatto prati­ ca in condizioni meno rigide - sono stati poi inseriti progressivamente nel sistema. Molti dei cineasti che col tempo sono stati ammessi alla Danske Filmskole - per esempio Thomas Vinterberg - hanno parte­ cipato prima o poi al lavoro del Filmvaerksted. È il DFI che sostiene economicamente il Filmvaerksted, la cui esistenza è stabilita e discipli­ nata dalla legge sul cinema. Inoltre, il DFI gestisce il Laboratorio Video di Haderslev, un piccolo centro nel sud della Danimarca, a pochi chilo­ metri dalla frontiera con la Germa­ nia. Il Filmvaerksted offre l'accesso a strutture tecniche di livello profes­ sionale: attrezzatura di registrazio­ ne Super 16, tavolo di montaggio, Digital Betacam, Avid e altri com­ puter da utilizzarsi per l'animazio­ ne. Una parte fondamentale del­ l'attività del Filmvaerksted ha ri­ guardato la creazione di un forum per progetti relativi ad esperimenti formali o di produzione. Questo av­ viene ancora oggi, anche se nel cor­ so degli anni '90 abbiamo assistito ad una notevole professionalizzazione della produzione. La maggior parte delle produzioni del Labora­ torio ottiene una buona distribu­ zione attraverso i festival, così come non è rara la vendita alle stazioni televisive. Dopo il trasloco presso la Filmhus, anche gli orientamenti e le pratiche del Laboratorio si sono leggermente modificate. Mentre precedentemente, l'accento princi­ pale veniva messo sugli esperimen­ ti all'interno dei generi noti del do­ cumentario, del mediometraggio o 34

del video, ora l'impegno principale si rivolge sulla ricerca di nuove tec­ nologie, animazione computerizza­ ta e forme narrative interattive. Ol­ tre a questo, la distribuzione, che precedentemente era seguita dal personale del Laboratorio, ora rien­ tra nelle attività di distribuzione del DFI, il che costituisce un consistente indebolimento poiché le produzio­ ni del Laboratorio rischiano spesso di "sparire nella folla". Uno degli elementi più interessanti legati alla produzione presso il Laboratorio era rappresentato dalla possibilità di trovare un pubblico in occasione di festival e manifestazioni affini. Ora questa possibilità è meno fre­ quente, e conseguentemente può essere difficile per molti cineasti ve­ dere dei vantaggi in un lavoro non retribuito presso il Laboratorio. Tut­ tavia certi principi fondamentali so­ no rimasti invariati: possono essere fornite attrezzature, ma non aiuti economici rilevanti. Per contro, non costa nulla lavorare presso i Labora­ tori. Le richieste vengono vagliate da un comitato di redazione dei progetti, il cui mandato dura un an­ no, ed è composto da ex-utenti. In questo contesto, ogni anno vengo­ no completati tra trenta e quaranta film e video, il che, tradotto in ter­ mini di durata, corrisponde a circa dieci lungometraggi - con un bud­ get che nella produzione normale sarebbe sufficiente solo per un lun­ gometraggio. Il management del DFI - e per di più in un periodo in cui il cinema danese ha più soldi di quanti ne abbia mai avuti - ha tut­ tavia ritenuto opportuno ridurre i finanziamenti al Filmvaerksted.

Oltre ad occuparsi di produzione, il Filmvaerksted partecipa ogni anno

Cortometraggi e mediometraggi

ad iniziative di promozione e studio in occasione per esempio di festival, rassegne, seminari e altre forme di progetti di cooperazione. Nel perio­ do 1998-99, è stato avviato il pro­ getto Digitale Dage (Giorni Digita­ li), un'ampia ricerca sulle possibilità dei nuovi mezzi digitali - con festi­ val, seminari e workshop. Vengono da qui L'Homme qui marche di Mi­ chael Lindborg e Mads Tobias Olsen (1999). Questo progetto prosegue con nuove iniziative nel 2000.

Un cinema mai visto prima Nel 1998 è morto, all'età di 76 anni, il grande vecchio del cortometrag­ gio e del documentario danese, Jor­ gen Roos. Roos, un regista molto produttivo, ha lavorato, a partire dalla fine degli anni '30 fino alla sua morte, a 200-300 film. È stato uno dei fondatori del documentarismo danese e i suoi numerosi film "groenlandesi" hanno da tempo trovato il loro spazio tra i classici del

genere. Jorgen Roos si è sempre im­ pegnato fino alla fine della sua car­ riera nel documentario e nel corto­ metraggio, non solo come regista, ma anche come direttore di festival e protagonista di dibattiti. Nel 1992, quando il Filmvaerksted Dane­ se organizzò il festival dei "film che rompono le tradizioni", Roos scrisse sul catalogo: "Abbasso le mani sudi­ cie dei burocrati che uccidono la li­ bera cinematografia. Abbasso il di­ lettantismo e la 'fabbrica di proget­ ti'. Abbiamo un'opportunità unica di suscitare l'interesse di tutto il mondo puntando su un cinema per­ sonale, insolito, diverso, astratto, sorprendente, pazzo, mai visto pri­ ma". Si può solo cercare di immagi­ nare in qual misura Jorgen Roos pensasse che i frutti del documenta­ rio e del cortometraggio degli ulti­ mi anni fossero all'altezza di tale obiettivo. Quello che è certo è che vale la pena di portare le parole di Roos nel futuro. Tradotto da Paola Sioli

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Il cinema secondo Dogma Regole di recitazione, ostacoli

e superamenti

di Peter Schepelern

Nella primavera del 1995 Lars von Trier presentò con grande scalpo­ re Dogma 95, eccentrico collettivo di registi cinematografici. Il grup­ po, che traeva spunto dalla bene­ merita ma ormai inadeguata Nouvelle Vague francese degli anni '60, si prefiggeva lo scopo di con­ trobattere "certe tendenze" del cinema contemporaneo e di com­ piere un'autentica "azione di sal­ vataggio" che si sarebbe opposta alla drammaturgia prevedibile, al­ le trame superficiali e alla cosmesi tecnologica del repertorio cine­ matografico di matrice hollywoo­ diana.

Il cosiddetto voto di castità cui gli aderenti erano tenuti a uniformar­ si stabiliva dieci regole corrispon­ denti a particolari vincoli tecnico­ estetici in grado di opporsi nei loro aspetti fondamentali alle prassi di produzione dominanti: obbligo di girare i film sul campo, senza scene e attrezzature artificiali; obbligo di produrre il sonoro, musiche incluse, contemporaneamente e conte­ stualmente alle riprese; obbligo di usare una macchina da presa por­ tatile e di trasportarla a mano; ob­ bligo di realizzare film a colori sen­ za alcun effetto speciale di luce; di­ vieto di manipolazioni ottiche e di filtri; esclusione di ogni "azione su­ 36

perficiale" (ad esempio il film non avrebbe dovuto presentare omici­ di, conflitti a fuoco e così via); rifiu­ to delle storie che non si svolgono in unità di tempo e di luogo ("7. L'alienazione, sia temporale che geografica, è proibita - la storia avrà luogo qui e ora"); rifiuto del film di genere. Era previsto anche l'austero vincolo, che poi sarà an­ nullato, di usare necessariamente il formato Accademia in 35 mm; e l'ultimo singolare precetto, di non citare il nome del regista nei titoli (in accordo con il giuramento con­ clusivo del voto di castità - "Non sarò più un artista") suonava come una battuta autoironica, che dà forza all'affermazione di Oscar Wil­ de secondo la quale "la modestia è menzognera". Lo scopo principale era opporre resistenza alla propen­ sione, tipicamente americana, per i cliches di genere e gli effetti spe­ ciali e, sosteneva il manifesto, alla danza ininterrotta intorno al "vi­ tello d'oro" della prevedibilità, provocatoriamente associata alla drammaturgia. Nei film di Dogma non ci si sarebbe dovuti nasconde­ re dietro i numeri di illusione tecni­ ca, ma si sarebbe dovuto persegui­ re il vero: "Il mio obiettivo supre­ mo sarà quello di scovare la verità in ogni personaggio e in ogni con­ testo".

Il cinema secondo Dogma

Distribuito su un volantino rosso fuoco all'Odéon di Parigi in occasio­ ne di una conferenza sul centenario del cinema, il testo di Dogma firma­ to da von Trier e da Thomas Vinter­ berg fu accolto come una provoca­ zione scherzosa, come uno dei gio­ chi dissacranti tipici del regista da­ nese. Ma lo scherzo in realtà era molto serio. Lo spunto di von Trier non era tanto il centenario del cinema, ma piutto­ sto il fatto che dagli anni '60 non si era­ no più avute dichiarazioni sotto forma di manifesto. Se infatti guar­ diamo al pen­ siero di Dog­ ma, vediamo come sia chia­ ramente lega­ to a una serie Da Idioterne di Lars von Trier, di vecchi pro­ cedimenti della storia del cinema sot­ to forma di principi e di regole di re­ citazione.

Antecedenti nella storia del cinema Il cinema, ovviamente, ha sempre avuto le sue regole. Si tratta di li­ mitazioni e vincoli tecnici, con cui il mezzo deve confrontarsi ed entro cui deve necessariamente operare: la mancanza di sonoro, ad esem­ pio, ai tempi del cinema muto. Ma esistono anche regole estetiche, cioè convenzioni sulle possibilità di espressione del linguaggio cinema­ tografico, caratteristiche dei generi e delle strutture della drammatur­

gia. Tali regole non sono dettate da qualche necessità, ma dal senso co­ mune: per quanto teoricamente sa­ rebbe possibile, non si fanno ad esempio western con cow-boy che studiano pianoforte. Talvolta si hanno film che rompono con il sen­ so comune, lo superano e quindi ampliano i confini delle norme.

È ciò che fece von Trier quando, ne Il Regno (1994), infranse con suc­ cesso alcune delle regole più segui­ te riguardo il montag­ gio e la linea d'azione. Già in Epide­ mie (1987) aveva lavo­ rato per me­ ta-livelli in­ gannevoli (il film compren­ deva un film nel film e parlava del 1998. Foto: Jan Schut. lavoro ad una sceneggiatura), vicini alla tradizio­ ne letteraria di sistemi strani e biz­ zarri i cui numi tutelari sono Joyce, Nabokov, Borges e lo stravagante Raymond Roussel (di cui si interes­ sava lo sceneggiatore fisso di von Trier, Niels Vorsel), e tra i cui eredi si possono annoverare, tra gli altri, scrittori come Arno Schmidt, John Barth, Walter Abish, Martin Amis, Svend Àge Madsen. Ma a questa tradizione si possono ricondurre anche autori come Raymond Queneau, Georges Perec e Italo Calvino che facevano parte di Oulipo, la so­ cietà letteraria che, fondata nel 1960, lavorava con vincoli fantasio­ si e severe regole creative, i cosid­ detti contraintes.

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Peter Schepelern

I paralleli storico-cinematografici a tali limitazioni autoimposte sono costituiti da quei film nei quali si opera con una regola di ripresa più o meno particolare. Ci riferiamo a Nodo alla gola (1948) di Hitchcock, un film poliziesco la cui regola più evidente è riassunta nel fatto che il tempo cinematografico e il tempo narrativo, così come tutta la storia - l'uccisione di due giovani ad ope­ ra di un terzo -, si svolgono in un'unica località per gli oltre 80 minuti del film, e inoltre - ancora come regola di ripresa - sono ri­ presi senza (apparenti) tagli e salti temporali. Lo stesso trucco tempo­ rale viene impiegato nel western di Zinnemann Mezzogiorno di fuo­ co (1952), dove lo sceriffo ha un'o­ ra per prepararsi, perché alle 12 ar­ riverà con il treno il suo nemico mortale, e in C/éo dalle 5 alle 7 (1961) di Agnès Varda, dove il tem­ po narrato e il tempo della narra­ zione sono congruenti nella storia di una ballerina, che gira per la città mente aspetta dall'ospedale l'esito di un test per il cancro. Ci so­ no poi anche opere, come il film americano di spionaggio La spia (1952), Ballando ballando (1983) di Ettore Scola dove vengono narrati 50 anni di storia europea in una sa­ la da ballo, e la commedia danese Panico in Paradiso (1960), la cui raffinatezza consiste nell'utilizzare il sonoro ma non i dialoghi. Blue (1993) di Derek Jarman, invece, è forse l'unico film a presentare il monologo del regista, colpito da Aids, sotto un vuoto quadro blu. Nella sfortunata commedia di Bergman A proposito di tutte que­ ste signore (1964) e ne II mondo nuovo (1982) di Scola si è rispetta­ ta la regola per cui del personag­ 38

gio principale - rispettivamente il grande violoncellista e re Luigi XVI - devono essere inquadrati, pars pro foto!, solo i piedi. Anche l'an­ golo narrativo può essere sorpren­ dente: nel melodramma hollywoo­ diano di Billy Wilder II viale del tra­ monto (1950) la voce narrante è quella di un morto; In quei giorni (1947) di Helmut Kàutner presen­ ta, in tutti e sette gli episodi, la sin­ golarità del far raccontare la storia della Germania dal 1933 al 1945 da un'automobile. La regola di ripre­ sa può anche essere una burla, co­ me negli ultimi tre film di Bunuel, una sorta di trilogia degli ostacoli le cui storie si svolgono intorno a un progetto che, nonostante tutti gli sforzi, non si riesce a realizzare; ne II fascino discreto della borghe­ sia (1972) gli amici, nonostante nu­ merosi tentativi, non riescono a mettersi a pranzare; ne II fantasma della libertà (1974) non si riesce a raccontare la storia; e in Quell'o­ scuro oggetto del desiderio (1977) il protagonista non riesce mai a stare insieme alla sua amante. Pro­ prio quest'ultimo film presenta inoltre la regola bizzarra secondo cui il principale personaggio fem­ minile, senza nessuna logica spie­ gazione, è impersonato da due at­ trici completamente diverse! Ab­ biamo poi la versione fantascienti­ fica di Chris Marker di un mondo devastato, La jetée (1962), in cui tutto il film (con l'eccezione di un unico momento) consiste in imma­ gini ferme; lo straordinario detec­ tive-movie La donna nel lago (1946), dal romanzo di Raymond Chandler, in cui il detective è la ci­ nepresa, un intero film fatto in soggettiva. Ricordiamo ancora la commedia minimalista di humor

Il cinema secondo Dogma nero Stranger than Paradise (1984) di Jim Jarmush, che narra di alcune vite contorte, in cui ogni scena consiste in una ripresa priva di in­ terruzioni, seguita da un breve pezzo di film nero; il giallo di Ta­ rantino Pulp Fiction (1994), che ha dato il via ad una vera e propria moda, dove il racconto paradossal­ mente si morde la coda; oppure Romeo e Giulietta (1996) di Baz Luhrmann, il cui trucco consiste nell'impiegare nei dialoghi l'au­ tentico blankverse shakespeariano nonostante la storia sia trasportata nel mondo moderno delle bande criminali di Los Angeles. Le regole sovvertono l'ordine normale anche in film artistici e formalisti come Hiroshima mon amour (1959), con i suoi riflessi del passato e del pre­ sente, e L'anno scorso a Marienbad (1961) di Alain Resnais, con il suo universo di marionette, come Les parapluies de Cherbourg (1964), film operistico molto stilizzato di Demy, La donna del tenente fran­ cese (1981) di Karel Reisz, con il suo oscillare tra finzione e realtà, e il dramma di Paul Schrader Mishi­ ma (1985), sullo scrittore giappo­ nese, dove tre piani narrativi o temporali sono contrassegnati ri­ spettivamente da bianco e nero, da colori realistici e da cromie sti­ lizzate. Per non parlare poi del for­ se maggior complesso di regole bizzarre nella storia cinematogra­ fica: l'intero sistema di rebus enig­ matici e labirintici e i rompicapo intertestuali di Peter Greeneway in film come The Draughtman's Con­ tract (1982) e Drowing by Numbers (1988). Anche lo stesso von Trier, specie ne L'elemento del crimine (1984), in Epidemie (1987) e in Eu­ ropa (1991), aveva già indagato le

possibilità dell'artificio secondo tutte le regole dell'arte. Un tentativo deciso, per non dire esplicito, di riassumere la produzio­ ne di un film in una serie di prescri­ zioni risale agli anni '20 ed è quel­ lo dei numerosi manifesti di Dziga Vertov, una delle più interessanti fi­ gure del rivoluzionario cinema mu­ to sovietico con i suoi cinegiornali Kino-Pravda (1922-25) e il capola­ voro Tjelovek kinoaparaton (1929). In una serie di testi brevi e vigorosi, Vertov bollò come vecchio e bor­ ghese il dramma cinematografico, e indicò al suo posto il genere di film non narrativo, di propaganda politica, che egli stesso faceva: "Il dramma cinematografico è l'oppio del popolo" si legge nelle istruzio­ ni introduttive a II circolo Kinoglaz (1926). "Abbasso i re e le regine im­ mortali dello schermo! Viva gli uo­ mini normali, mortali, ripresi du­ rante il loro lavoro ordinario! Ab­ basso la messinscena di ogni gior­ no: riprendeteci in modo inaspetta­ to, così come siamo". Per farlo, oc­ correrà anche avere "mezzi di tra­ sporto più veloci, pellicole ad alta fotosensibilità, cineprese manuali più facili, ed un semplice apparato di illuminazione". Dopo la guerra fu il neorealismo a muoversi contro il glamour hol­ lywoodiano, arrivando a proporre attori non professionisti anche nei ruoli principali, situazioni vere e una drammaturgia vicina alla realtà che toccava le stesse bana­ lità della vita quotidiana. Questa impostazione fu codificata da Ce­ sare Zavattini nel suo programma Alcune idee sull'arte cinematogra­ fica (1952), e trovò applicazione, fra gli altri, in due film di Vittorio

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Peter Schepelern De Sica, Ladri di biciclette (1948) e Umberto D (1951), entrambi sce­ neggiati da Zavattini.

Si arrivò poi, negli anni 1959-60, al movimento francese che prese il nome di Nouvelle Vague. Con Francois Truffaut, Jean-Luc Godard e Claude Chabrol quali esponenti principali, il movimento non for­ malizzò mai un proprio program­ ma. Ispirò tuttavia il celebre mani­ festo di Alexandre Astruc La nasci­ ta dell'ultima avanguardia: la cine­ presa come penna (1948), che si proponeva di "fare cinema nella lingua più comprensibile e più chia­ ra possibile", e la sarcastica presa di posizione di Truffaut sulla debolez­ za del cinema ufficiale (Una certa tendenza nel cinema francese, 1954). Ma era la messa in atto dei nuovi principi che costituiva di per sé una dichiarazione di intenti: di rompere cioè con l'arte cinemato­ grafica letteraria e conforme "del­ la tradizione di qualità", e di crea­ re film spontanei, diretti, che tra­ scurassero i tagli convenzionali e la drammaturgia tradizionale (sotto questo profilo Fino all'ultimo respi­ ro, 1960, di Godard, è da conside­ rarsi un geniale capolavoro). Nello stesso periodo nacquero movimen­ ti di rottura in altre nazioni: nel 1962, nella Germania occidentale, un gruppo di giovani registi pro­ clamò, con il cosiddetto manifesto di Oberhausen, l'avvento di tempi nuovi, anche se curiosamente non furono questi 26 registi (tra i quali Alexander Kluge e Edgar Reitz) a mettere in atto tali concetti, bensì i nuovi e più acuti talenti degli anni '70, Fassbinder, Herzog e Wenders: "Questi nuovi film hanno bisogno di nuove forme di libertà: libertà 40

dalle convenzioni dell'industria e la complicità commerciale della so­ cietà. [...] Il vecchio cinema è mor­ to. Noi crediamo nel nuovo".

Ritorno ai Lumière Sotto molti profili Dogma 95 deve molto alla tradizione precedente, che in generale consiste in una rea­ zione contro la società (come in Ver­ tov, nella Nouvelle Vague, nel mani­ festo di Oberhausen) e in un'inizia­ tiva contro il film di intrattenimen­ to "borghese" e il banale film d'a­ zione (Vertov, gruppo di Oberhau­ sen). Dogma 95 cerca di penetrare la realtà, di fissare la verità senza il­ lusioni, con sincerità e autenticità (neorealismo, Nouvelle Vagué). Un dogma è un concetto religioso, un'affermazione che non si può mettere in dubbio ma che si deve semplicemente accettare, così co­ me prescrivono le religioni e le al­ tre ideologie irrazionali ("Il dog­ ma", diceva il filosofo Feuerbach nel 1838, "non è altro che un espresso divieto di pensare"). In ef­ fetti, usare per il movimento que­ sto nome è singolare, perché il dogmatismo e la necessità del nuo­ vo sono fra loro in contrasto.

Dogma 95 si presenta come una sorta di fondamentalismo cinema­ tografico, un movimento di ritorno alla natura, un ritorno all'innocen­ za filmica dei Lumière, quando i giardinieri venivano annaffiati e gli operai si allontanavano dalla fab­ brica. Ma Dogma propone una li­ berazione tramite la rinuncia, nien­ te di più e niente di meno. Il suo punto debole sotto l'aspetto filoso­ fico è che la conseguenza, logica

Il cinema secondo Dogma

ma paradossale, delle iniziative an­ titecnologiche del voto di castità dovrebbe essere la soppressione della macchina da presa. Se infatti dobbiamo eliminare ogni tecnolo­ gia e attrezzatura, perchè rispar­ miare proprio la più invasiva!? La macchina da presa è infatti quella cosa che più di ogni altra va contro l'ordine naturale! E che dire degli attori? Perché i luoghi dovrebbero essere autentici e contenere ogget­ ti reali, quando le persone possono non essere autentiche, per l'appun­ to attori!? Non v'è, in verità, alcuna giustificazione. Ma il dogma è tale nel momento in cui non lo si può discutere. È chiaro che se si fosse andati fino in fondo alla ricerca di una realtà "vera", come conseguenza logica avremmo dovuto fare a meno non solo degli attori, ma anche delle storie. In questo modo, però, ci si sarebbe dovuti muovere verso il film documentaristico, un documentarismo analogo al cinéma vérité alla francese, al direct cinema di Frederick Wiseman oppure alla serie tv An American life (1973), in cui la cinepresa ha seguito la vita di una famiglia californiana per un anno. Il film di Dogma Idioti deve molto, in effetti, a questo tipo di re­ portage autentico, una specie di documentarismo sociologico focalizzato sul comportamento umano; il racconto per immagini del film as­ somiglia forse più alle riprese video sfuocate e manuali, assolutamente in-estetiche, con lampade e cine­ presa non nascoste, talvolta visibili direttamente nell'inquadratura, che vengono usate nei film a luci rosse per il circuito degli home-video del pornografo Ed Power. Ma il

punto in Dogma è che non si mira al documentarismo, il cui metodo cerca di apparire convenzionale piuttosto che innovativo; Dogma lancia invece una sfida al film nar­ rativo, perchè qui può nascere una dialettica tra la storia e la ricerca della verità. Si tratta quindi della stessa tendenza già alla base del neorealismo, che cercava di bandire le arti illusionistiche, ponendo al lo­ ro posto una descrizione veritiera della realtà, e tuttavia sempre al­ l'interno della cornice narrativa. Benché il testo stesso di Dogma po­ stuli la pulizia estetica e un'ascesi nei procedimenti della produzione che implica la modestia dei budget (senza però che ciò sia detto esplici­ tamente), è chiaro che il movimen­ to di Dogma è anche un invito a partecipare a un gioco con alcune regole divertenti. Allo stesso modo è divertente cavarsela nonostante gli ostacoli imposti, proprio come i bambini quando giocano a mosca­ cieca, a terra avvelenata o magari si rincorrono. È divertente, semplicemente, vedere cosa succede quan­ do si sottrae ai registi (grandi quan­ tità di) tecnica cinematografica. Equivale a trascorrere le vacanze nel villaggio danese dell'età del fer­ ro di Lejre: provate a trascorrere una settimana senza le scoperte tecnologiche degli ultimi 1000 anni e vediamo cosa succede!

Dogma 95 iniziò come movimento con il manifesto del 1995; oltre a von Trier e Vinterberg, firmatari erano anche Soren Kragh-Jacobsen, Kristian Levring e la documen­ tarista Anne Wivel, che però si staccò presto dal gruppo. Il proget­ to di Dogma sulla produzione di quattro film con un budget di 6

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Peter Schepelern milioni di corone ciascuno (una ci­ fra che tuttavia in molti casi è sta­ ta superata) aveva dapprima rice­ vuto la promessa personale di aiu­ to da parte del ministro della cul­ tura Jytte Hilden. Il fatto però che il ministro aggirasse in tal modo la normale procedura di sostegno statale al cinema causò l'opposi­ zione del'lstituto Danese per la ci­ nematografia (Det Danske Filmin­ stitut). Nel frattempo Jytte Hilden era decaduta dal suo incarico, e il ministero non si ritenne obbligato a dare seguito all'impegno. Il pro­ getto venne salvato dalla TV dane­ se, che mise i capitali necessari in cambio dei diritti. Gli affiliati al gruppo di Dogma, che si tennero in contatto tra di loro via internet durante gli anni in cui i progetti vennero realizzati, nell'aprile 1998 poterono finalmente redigere due comunicati, sostenendo che "Dog­ ma 1: Festen e Dogma 2: Idioti era­ no stati prodotti in accordo con le regole e le intenzioni espresse nel manifesto di Dogma 95"; nel 1999 è seguito Dogma 3: Mifune. I film, che vedremo più da vicino, sono stati diretti rispettivamente da Thomas Vinterberg, Lars von Trier e Soren Kragh-Jacobsen.

Mifune venne premiato con l'Orso d'argento e altri due riconosci­ menti a Berlino. L'opera, che è riu­ scita in modo stupefacente con le regole di Dogma, ha portato il mondo del cinema e il pubblico a confrontarsi seriamente con l'in­ sieme quasi religioso di prescrizio­ ni che ha rinnovato in senso artisti­ co il metodo. Regolarmente, infat­ ti, si producono film con budget li­ mitati che non sono molto diversi, ad un primo impatto, dai film di Dogma (in Danimarca, per esem­ pio, l'allegro Let's get lost di Jonas Elmer, 1997), anche se il metodo, dopo Ombre (1960) e Mariti (1970) di Cassavetes, non è stato conside­ rato di per sé innovativo. Non è del resto l'aspetto meno rilevante del talento di von Trier il fatto che rie­ sca ad attirare l'attenzione non so­ lo sulle persone ma anche sui fatti. Idioti, ad esempio, ha avuto una straordinaria copertura da parte dei media, stimolati anche dal dia­ rio tenuto da von Trier durante le riprese, che tuttavia, oltre ad an­ notazioni sincere ed esplicite, con­ tiene anche molte reticenze.

Si tratta di lavori che hanno susci­ tato grande attenzione. I primi due hanno partecipato al festival di Cannes, dove Festen, com'è no­ to, ha ottenuto il premio speciale della giuria (una vittoria per Vin­ terberg, ma è abbastanza singola­ re che a von Trier con Europa nel 1991 sia andato lo stesso riconosci­ mento, accettato con un pizzico di tristezza!). Anche se ad Idioti non venne riconosciuto alcun premio, il film ebbe tuttavia ottime critiche.

Sin da giovanissimo Vinterberg ha mostrato un talento eccezionale nella sensibile tradizione realistica danese, con il lavoro di diploma L'ultimo giro (1993), il film breve II ragazzo che camminava all'indietro (1994), ed anche, sia pur in mi­ sura minore, con il primo film vero e proprio, / più grandi eroi (1996). Festen fu un film di rottura, fatto singolare visto che pubblico e criti­ ca hanno fatto a gara a incoronare l'autore. Dopo Cannes, in effetti,

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Dogma 1: Festen

Il cinema secondo Dogma le onorificenze sono piovute ineso­ rabili sul giovane regista. Di solito, nel cinema danese, gli interrogati­ vi seguono le grandi occasioni mancate, quando uno si chiede che cos'è che è andato storto. Nel caso di Festen, invece, è d'obbligo chiedersi il perché di un tale suc­ cesso. La risposta è che esso si deve alla combinazione unica di storia ed esecuzione in un contesto cine­ matografico virtuoso.

L'intensa storia del figlio che sma­ schera il diabolico padre durante una festa familiare di compleanno è molto efficace dal punto di vista della narrazione; la costruzione è quella di un dramma aristotelico, con l'osservazione rigorosa delle unità di tempo, luogo e spazio. La storia, per la cronaca, è tratta da

un caso autentico, mandato in on­ da durante una trasmissione ra­ diofonica nel 1996. Un giovane malato di Aids, di cui è stato taciu­ to il nome, raccontò come, duran­ te la festa di compleanno del pa­ dre, avesse detto a tutti delle sue violenze sessuali sui figli, su lui stesso e sulla sorella gemella, spin­ ta così al suicidio.

Il film inizia con il giovane che cammina a piedi nella campagna danese d'estate - come dice anche H.C. Andersen, era così bello in campagna. Ma ecco che inizia la festa. Ovviamente la sceneggiatu­ ra potrebbe essere realizzata come classico film teatrale; ma il film presenta questo regolamento di conti familiare che si situa altri­ menti nella tradizione teatrale da

Fotogrammi tratte dal Festen di Thomas Vinterberg, 1998.

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Peter Schepelern Strindberg a Norén, e precisamen­ te come un fluire duttile, creato da una cinepresa indagatrice, scruta­ trice, che non si dà pace. La cine­ presa è uno strumento instancabi­ le alla ricerca della verità, che deve saltar fuori ad ogni costo, così co­ me è stabilito nel manifesto costi­ tutivo di Dogma 95. In tal modo la forma cinematografica riesce a so­ vrapporsi al progetto narrativo. Infine la recitazione: gli attori han­ no avuto l'occasione di recitare in un modo che di solito, nella nor­ male procedura delle riprese cine­ matografiche, è proibito. Questo infatti è il film degli attori; tutti quanti rifulgono come Naturai Born Actors sotto la direzione im­ percettibile di un regista anonimo.

Dogma 2: Idioti

Dogma 95 si rifà soprattutto alla Nouvelle Vague francese. Uno dei temi preferiti da questo movimen­ to cinematografico è la fecalizza­ zione su un gruppo che con un pro­ prio stile di vita non impegnato, improvvisato, si porta fuori dalle convenzioni borghesi: in Godard questo vale per Tanti-eroe anarchi­ co di Fino all'ultimo respiro, per il triangolo di Una donna sposata (1964) e Una donna è una donna (1961) e, con partecipazione politi­ ca sempre più cosciente, per II ban­ dito delle 11 (1965). In Truffaut tro­ viamo questo tema nel cortome­ traggio su Les mistons (1957), nei 400 colpi (1959), con i due ragazzi che marinano la scuola, nel trian­ golo in Jules e Jim (1961); in Cha­ brol nei film / cugini (1959) e Les bonnes femmes (1960). Questo è 44

anche il tema utilizzato da Idioti: una banda scioperata che gioca e recita.

A causa del tema, Idioti appare co­ me l'opera elettiva di Dogma, dal momento che l'osservazione delle regole tecniche ed estetiche trova un corrispettivo nella storia, in cui si devono rispettare le regole del gioco per rispondere a domande provocatorie: l'insegnante può scherzare durante l'ora d'arte? La moglie, quando torna a casa, può scherzare con la famiglia? Von Trier può giocare con il linguaggio cinematografico? Così come von Trier insegue l'arte cinematografi­ ca delle origini, il gruppo cerca di ritornare indietro alla condizione originaria, all'idiota interiore. Il su­ peramento delle norme borghesi equivale al superamento del senso comune del linguaggio cinemato­ grafico. Sotto questo aspetto, molto nella storia cinematografica di von Trier ha concorso alla sua crociata dog­ matica. Ci sono state le regole, so­ prattutto interne, dei primi film, e ci sono stati diversi manifesti, più o meno criptici. Ci sono stati l'ab­ braccio sarcastico di Epidemie con il film amatoriale; la rottura ecla­ tante de II regno con le regole fon­ damentali della grammatica cine­ matografica riguardo al montag­ gio; c'è stata la cinepresa fissa in Breaking the Waves (Le onde del destino), che ha reso questo film ad alto budget un prodotto unico dell'avanguardia. Per non parlare delle bizzarre regole nell'adatta­ mento teatrale L'orologio astrono­ mico (1996) e nel suo work-in-progress Dimensione.

Il cinema secondo Dogma

Fotogrammi tratti da Idioterne di Lars von Trier, 1998.

Idioti può essere considerato sinto­ matico della traiettoria umana di von Trier. Dopo la perdizione de­ moniaca dell'uomo cinico o impo­ tente nella trilogia sull'Europa L'elemento del crimine, Epidemie e Europa -, adesso, con Le onde del destino (1996), Idioti e il musical Dancer in the Dark (2000), è la vol­ ta di donne toccanti e calde, che devono intenerire il cuore. Gli idio­ ti, con un romanticismo che non tutti sono in grado di apprezzare, adorano quell'originalità che di so­ lito si accredita ai bambini, agli idioti stessi e alle donne sensibili. A bilanciare questo romanticismo sta la ridicolizzazione di borghesi, ipo­ criti e snob attraverso le forme clas­ siche e feconde di una comicità di­ retta. Il film esercita una potente forza attrattiva, forse per la sua au­

dacia formale e per l'energica im­ prontitudine dell'intero progetto. Il von Trier maturo è tornato, con intento distruttore, alla Sollerod della sua infanzia, avendo mante­ nuto intatti l'anarchismo e una vi­ vace sete di vendetta.

Il film ricorda anche gli esperimenti politici e sociali degli anni '70, e ciò può essere considerato il ritorno di von Trier a ciò che era in gioventù, dove il pathos decadente è sostituito ormai dalla maturazione artistica ma senza che ciò elimini, come si legge nel diario, la solitudine e il tormento della giovinezza: "È una specie di gioco che il piccolo Lars da non so quale classe ha messo in scena, e non c'è mai nemmeno un pizzico di realtà in questo, perché visto nel profondo più profondo più profondo, giù giù 45

Peter Schepelern

giù nel proprio intimo, l'uomo è solo al centonovantamila per cento nel suo mondo infinitesimo, sciocco, buffo e umiliante". Von Trier concepisce Idioti come il film "più vero e corretto che abbia mai fatto. [...] È straordinario come le regole di Dogma abbiano manda­ to all'inferno l'estetica". Egli nota, tuttavia, che "l'estetica segue, quasi da sola". Questa situazione para­ dossale vale anche per il controllo. Von Trier stesso, in un libretto per la stampa, ha precisato che Dogma 95 e Idioti equivalgono a un'iniziativa che punta a fare a meno del con­ trollo. Ma il controllo è un fattore irrinunciabile nell'universo di von Trier. E in realtà il film, con le sue scene di carattere improvvisato, ap­ parentemente staccate, è saldamen­ te tenuto in uno stile home movie non riuscito, in tutto e per tutto for­ malistico come nel caso di Europa, dove tutto era concepito secondo piani ingegnosamente definiti. Un folletto di questo calibro, che ospita l'istanza di controllo di von Trier, na­ turalmente è sempre in movimento. Dove altro potrebbe abitare, del re­ sto? Il manoscritto del film è stato seguito alla lettera durante le ripre­ se, le improvvisazioni sono state eli­ minate dalla versione definitiva, le riprese sono state effettuate per il 90% da von Trier stesso. E le rigide prescrizioni di Dogma derivano da von Trier stesso. C'è di sicuro molto controllo in tutto questo. E ciò seb­ bene il regista si chiami.............

Trier aveva due fotografi sul set di Idioti, Kristoffer Nyholm e Jesper Jargil, ma ha finito per fare le ripre­ se quasi da solo. In compenso Jesper 46

Jargil, come documentarista, ha ese­ guito le riprese del documentario De ydmygede {Gli umiliati, 1998). Il cast di Idioti era composto principal­ mente da attori giovani, relativa­ mente sconosciuti e senza grande esperienza. La cinepresa ha ripreso tutto, mentre gli attori lavoravano senza pausa per lunghi periodi. È so­ prattutto per questo intenso lavoro con gli attori che il film riesce a con­ seguire un tono che è nuovo nell'o­ pera di von Trier. È un'intensità che scaturisce dall'assoluta centralità dell'attore. Ma questo metodo ha presentato anche degli inconvenien­ ti: il materiale filmico che ne era ri­ sultato era eccezionalmente lungo, più di 120 ore, e dovette essere ri­ dotto in appena due ore!

Dogma 3: Mifune

Nel suo diario di lavorazione del film von Trier osserva a proposito di Idioti che Soren Kragh-Jacobsen sarà il regista ad avere le più gran­ di difficoltà ad "assumere l'intero concetto" di Dogma 95. D'altro canto è evidente che, senza sco­ starsi da quell'insieme di regole, Mifune è un film di Soren KraghJacobsen. Mifune è il secondo film vero e pro­ prio del regista, e deriva direttamente dal primo, Isfugle {L'uccello di ghiaccio, 1983); nel frattempo, egli aveva fatto alcuni tra i migliori (anzi, proprio i migliori) film danesi per l'infanzia e l'adolescenza Gummi Tarzan {Tarzan di gomma, 1981), Skyggen af Emma {L'ombra di Emma, 1988) e Drengene fra Sankt Petri {I ragazzi di San Pietro, 1991). I due fratelli di Mifune, un ti-

Il cinema secondo Dogma po cittadino (Anders W. Berthelsen) e uno bonario (Jesper Asholt), corri­ spondono, mutatis mutandis, alia coppia sbilanciata de L'uccello di ghiaccio: uno più sveglio e uno me­ no intraprendente. L'uccello di ghiaccio è un bel film che, insieme a opere come la trilogia di Àrhus e Kundskabens Trae (L'albero della co­ noscenza, 1981) di Malmros, ma an­ che Honningmàne (Luna di miele, 1978) e Maj (Maggio, 1982) di Bilie August, e lo e Charly (Mig og Charly, 1978) e Johnny Larsen (1979) di Morten Arnfred, esplicita il nocciolo di tutta quella filmogra­ fia umanistica di buona fattura che è stata il vessillo del cinema danese dagli anni '70: tutti questi danesi delicati, dai tristi destini colmi della vuota tristezza di ogni giorno, ma all'interno di film accurati, dai colo­

ri tenui e realizzati nel perfetto ac­ cordo degli interpreti. Adesso i tempi richiedono più vitalità, e que­ sto è il difetto di Mifune. Dal punto di vista dell'azione que­ sto film comprende in modo tutto sommato singolare gli stessi ele­ menti di Festen e di Idioti. Anche qui abbiamo il ritorno del figlio! prodigo alla casa del padre, dove diversi scheletri si agitano nell'ar­ madio; qui incontriamo addirittura un idiota autentico insieme ad una partoriente, e pure la ricetta, quan­ do il poveretto deve essere curato. Per fortuna anch'ella, specularmen­ te, ha i suoi traumi e deve essere curata: io salverò te se tu salverai me. È esattamente questa la mate­ ria di cui son fatti i melodrammi, e Mifune è un intrepido melodram­ ma che osa arrivare fino alla con-

Fotogrammi tratti da Mifune di Soren Kragh-Jacobsen, 1998.

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Peter Schepelern

fessione. La località principale di Lolland è quindi una caricatura de­ monizzata di una fattoria di fami­ glia stile Morten Korch (1876-1954), uno scrittore popolare, autore di romanzi legati alla terra, diventati poi film di successo. Koch è stato as­ sunto a modello del cattivo gusto popolare, ma von Trier, in modo ironico, lo ha usato come oggetto per una serie TV, Morten Korch, 1999-2000, di cui è l'executive pro­ ducer.

Ma Kragh-Jacobsen, rispetto al ro­ manticismo provinciale di Korch, non ha una posizione tanto più sarcastica, se si pensa all'omaggio conclusivo alla vecchia buona mo­ rale secondo cui il caotico univer­ so urbano è falso e di scarso valo­ re, e gli orgasmi violenti e anche un po' impersonali. Così è bello tornare alla famiglia, alla terra, al­ l'amore vero e alla conservazione della casa di famiglia.

È interessante vedere che il meto­ do di Dogma può portare anche a un film di natura classicamente tradizionale. Dogma, infatti, non prescrive che le immagini debba­ no essere mosse; la macchina da presa manuale può essere benissi­ mo tenuta da qualcuno che non ha le mani tremolanti. E così le im­ magini in Mifune sono belle, clas­ siche - Dogma appare semmai evi­ dente in qualche inquadratura un po' troppo ricca di contrasti, dove entra in gioco la mancanza di im­ postazione delle luci. Ma Dogma sembra aver permesso all'autore di liberarsi di una carineria eccessi­ vamente sdolcinata. Il diabolico è riuscito ad emergere, e i sentimen­ ti puri galleggiano da soli.

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Il giorno D Adesso aspettiamo l'ultimo dei quattro progetti originali di Dog­ ma, Dogma 4: The King is alive, un film in lingua inglese che uscirà nel 2000 per la regia di Kristian Le­ vring. Levring, a parte un unico film di scarso rilievo, Et skud i hjertet (Un colpo al cuore, 1986), si è dedicato sinora agli spot pubblicitari. The king is alive, secondo il manoscritto di Anders Thomas Jen­ sen, co-sceneggiatore di Mifune, è un dramma nero su un gruppo di turisti il cui autobus ha un guasto irrimediabile durante l'attraversa­ mento del deserto del Kalahari. Senza speranza di essere soccorsi, essi impiegano disperati il tempo che resta loro mettendo in scena il Re Leardi Shakespeare. Entro l'an­ no seguirà anche Dogma 5, un in­ treccio dolceamaro di destini in un quartiere di periferia, diretto da Lone Scherfig. Sul piano interna­ zionale il movimento ha avuto l'a­ desione di Jean-Marc Barr con il francese Lovers (1999) e di Har­ mony Korine con l'americano Ju­ lien Donkey-Boy (1999); entrambi, però, non hanno avuto accoglien­ za positiva. Al volgere dell'anno e del secolo, i quattro primi firmatari di Dogma si sono nuovamente dati un progetto comune, che sfrutta le regole del manifesto per un nuovo esperi­ mento. Il giorno D (D-dag, 2000), questo è il titolo dell'opera, è costi­ tuito da quattro film che sono stati ripresi e diretti dal vivo la notte di San Silvestro. Lontani dalla sala di regia, come un gruppo di diversi giocatori a un videogioco, ciascuno dei quattro registi con la propria

Il cinema secondo Dogma

squadra di assistenti dirigeva il pro­ prio personaggio/attore in giro per il centro di Copenaghen nelle ore intorno al capodanno 2000. Il lavo­ ro degli attori, simile a un insieme di esercizi d'improvvisazione o a un gioco di società, avveniva sulla ba­ se dello schizzo di un manoscritto e di una sola prova. Ciascun perso­ naggio alimentava uno sviluppo narrativo tessuto insieme agli altri dal resoconto di un colpo in banca. Thomas Vinterberg ha seguito le vi­ cende del nevrotico esperto di esplosivi Niels-Henning (Nikolaj Kopernikus); Lars von Trier quelle del­ la vendicativa moglie Lise (Charlot­ te Sachs Bostrup), che prende parte al colpo in banca per smascherare l'infedeltà del marito (Stellan Skarsgàrd); Soren Kragh-Jacobsen quel­ le del bancario Boris (Dejan Cukic), il cui amico invadente (Jesper Asholt) finisce per accaparrarsi tut­ ti i soldi; e Kristian Levring ha se­ guito la storia dell'amico di NielsHenning, Carl (Bjarne Henriksen), che vuole liberarsi della sua fidan­ zata (Helle Dolleris) e ricondurre al­ la ragione un candidato al suicidio. I quattro film da 70 minuti, dopo un minimo montaggio, sono stati trasmessi il giorno successivo, il pri­ mo gennaio del 2000, nell'ora di massimo ascolto, su quattro diversi canali TV (completati da altri tre canali, che hanno mostrato riprese dalla sala di controllo insieme a tutti e quattro i film insieme su una schermata split-screen. L'intenzio­ ne era quella di fare in modo che i telespettatori con il telecomando potessero fare il loro proprio film, cioè costruire la storia da quattro angolazioni diverse. In passato abbiamo già avuto mol­

ti esempi di questi racconti com­ plementari, nei quali una storia viene presentata da molteplici punti di vista. In letteratura abbia­ mo sia II quartetto di Alessandria {Alexandria Quartet, 1957-60) di Lawrence Durrell e la trilogia su II seduttore {Forfqreren, 1993) di Jan Kjaerstad; in teatro abbiamo Le conquiste dei Normanni {The Nor­ man Conquests, 1973; la versione per la TV è del 1993) di Alan Ayck­ bourn, una trilogia in cui un cata­ strofico week-end familiare viene osservato rispettivamente dalla sa­ la da pranzo, dal salotto e dal giar­ dino. E poi ci sono opere come il film doppio La vita coniugale (La vie coniugale, 1963) di André Cayatte, due film indipendenti che raccontano la storia di un matri­ monio dai rispettivi punti di vista dei due coniugi, esattamente co­ me nei due film per la TV di Warris Hussein II divorzio di lui/ll divorzio di lei {Divorce His/Divorce Hers, 1973) che presenta una separazio­ ne dal punto di vista di entrambi recitato da Richard Burton e Eliza­ beth Taylor! Ma in tutti questi casi il discorso è relativo a racconti dif­ ferenti, che solo lo spettatore può unire - com'è anche il caso del ce­ lebre Rashomon (1950) di Kuro­ sawa, dove una storia viene pre­ sentata in quattro versioni diffe­ renti che si escludono a vicenda.

Il salto decisivo verso la collabora­ zione interattiva del pubblico arriva con Decisione fatale (Mórderische Entscheidung, 1991), un colorito dramma poliziesco di Oliver Hirschbiegel, nella veste di due film TV paralleli che seguono rispettiva­ mente il protagonista maschile e femminile; i film furono mandati in 49

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onda contemporaneamente su ARD e su ZDF, cosicché i telespetta­ tori potevano far zapping a loro piacimento tra le due proiezioni parallele: "si consiglia di cambiare canale", suggeriva il sottotitolo. In altri mezzi espressivi diversi dalla televisione si possono citare prece­ denti come il romanzo dell'argenti­ no Julio Coràzar Rayuela (1963), i cui capitoli possono essere letti se­ guendo due percorsi diversi; oppu­ re il dramma teatrale Tamara (1984) del canadese John Krizanc, le cui cinque-sei azioni parallele vengono rappresentate in altrettanti locali di un grande palazzo, cosicché il pub­ blico può scegliere quale svolgi­ mento seguire. Anche l'esperimen­ to teatrale di von Trier, L'orologio astronomico (Verdensuret, 1996), in cui il pubblico, in tre ore, poteva scegliere 50 volte tra 53 personaggi in 19 locali diversi, dove il cambia­ mento di stato dei personaggi, de­ finito in un grosso manuale, veniva diretto da lampade accese e spente da impulsi computerizzati, a loro volta comandati attraverso un col­ legamento in rete dal movimento di una formica dentro il suo formi­ caio in un qualche luogo sperduto del Nex Mexico, USA! (il riepilogo filmato da Jesper Jargil della rap­ presentazione viene trasmesso con il titolo De udstillede, Gli esposti, 2000). È questo carattere di interat­ tività tra più giocatori, desunto an­ che dai videogiochi in rete, che von Trier e gli altri seguaci di Dogma provano a sfruttare come forma narrativa cinematografica ne II giorno D.

Il film è stato visto da un milione e mezzo circa di danesi, una percen­ tuale ragguardevole per un paese 50

di cinque milioni di abitanti, ma è stato in realtà considerato un espe­ rimento più curioso che non davve­ ro riuscito.

Il problema, nella libertà di scelta del pubblico come metodo, è che una scelta esclude l'altra. Ma chi sceglie non può sapere che cosa sceglie e che cosa evita, non può sapere che cos'è importante e che cosa non lo è. Così il percorso nar­ rativo diventa contingente, e le scelte che lo definiscono diventano definitive. Se Amleto venisse narra­ to in quel modo, correremmo il ri­ schio di perdere la scena dello spet­ tro e al suo posto sprecare tempo guardando Ofelia limarsi le unghie. Naturalmente si può difendere un tal metodo dicendo che la finzione, in questo modo, viene ad assomi­ gliare alla vita reale, perchè anche qui si incontrano scelte che, una vol­ ta compiute, non possono più esse­ re modificate. Forse ci se ne può pentire ma, si sa, il tempo non può tornare indietro e riproporsi. E non c'è dubbio che la realtà sia così, ma proprio per questo l'arte deve forse fare qualcosa di diverso. Il virtuoso potere della finzione sta nella sua capacità di proporre eventi caratte­ rizzati da coerenza e da significato, liberi dalle trivialità della realtà, da tempi d'attesa vuoti e da decisioni sbagliate. C'è differenza tra le scelte della vita e la scelta artistica.

Ma se l'innovazione interattiva non è granché interessante come metodo estetico, non deve essere trascurato il fatto che II giorno D è un appassionante esperimento con le nuove forme di produzione, do­ ve un film a basso budget di circa

Il cinema secondo Dogma

quattro ore e mezzo viene prodot­ to con registrazioni dal vivo di 70 minuti con l'ausilio dei nuovi mez­ zi logistici, tecnici e di gestione. Dogma 95 era partito come una stravaganza di von Trier, un ironico esperimento dovuto a eccesso di ori­ ginalità. Ma ora che i primi tre film, con il loro messaggio innovativo e la

capacità di stimolare la nuova cine­ matografia danese, sono riusciti ol­ tre le aspettative, il metodo appare incontestabilmente l'inizio di una nuova filosofia artistica, in cui gli ostacoli dogmatici si trasformano in una liberazione, secondo tutte le re­ gole dell'arte.

Tradotto da Alessandra Perticci

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Il

cinema danese in

Italia

di Jorgen Krogh

Il cinema danese? - Ah! C'è Dreyer - Carl Theodor Dreyer così si di­ ceva una volta perché il cinema da­ nese era sinonimo del famoso Dreyer padre di tutti i danesi cine­ fili e di molti cinefili stranieri. Oggi quando si parla del cinema danese, si nomina Vinterberg - e da anni anche Lars von Trier. E Dreyer? Ah!, non sapevo che era danese.

Dal dopoguerra agli anni novanta sono pochi i film danesi che arriva­ no al grande schermo attraverso una distribuzione normale. Oltre l'eterno Dreyer si tratta di film co­ me Stille dage i Clichy (Giorni a Cli­ chy, 1970) di Jens Jorgen Thorsen, e basato sul romanzo di Henry Mil­ ler: Quiet Days in Clichy. La legge contro la pornografia era da poco stata cancellata in Danimarca, e una lunga serie di film erotici/pornografici uscivano sugli schermi; di questi tanti arrivavano anche in Italia dopo alcuni tagli della censu­ ra (Il preside balla sempre la ma­ zurka sul letto, 1972, di John Hilbart, e via di seguito). Jens Jorgen Thorsen in particolare fu conosciu­ to in tutto il mondo per il suo pro­ getto di voler fare un film sulla vi­ ta sessuale di Gesù. Un certo interesse suscita il film 92 minutter af igàr (92 minuti in

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un'altra città, 1978) di Carsten Brandt, acquistato da una distribu­ zione italiana perché non c'erano problemi di doppiaggio o di sotto­ titolatura (il film racconta la storia di un commerciante-viaggiatore francese che fa una breve sosta a Copenaghen ed incontra una ra­ gazza danese: lui parla francese e lei danese). Nel 1986 Carsten Brandt presenta al Festival di Ve­ nezia il film svedese Demonen (De­ moni, 1986) che è la trascrizione della crudelissima opera teatrale di Lars Norén. Tra i film presentati ai diversi festi­ val di film si possono ricordare: Dit­ te Menneskebarn (Ditte, figlia del­ l'uomo, 1947) di Bjarne HenningJensen, basato sul romanzo di Martin Andesen Nexo; Sirup (Sci­ roppo, 1990) di Helle Ryslinge, pre­ sentato al Festival di Venezia; Oviri (The Wolf at the Door, 1986) di Henning Carlsen; Et skud fra hjertet (Uno sparo dal cuore, 1987) di Kristian Levring che più tardi entra nel gruppo di Dogma 95, vincitore alla Mostra Internazionale del Film d'Autore di Sanremo. Il direttore della fotografia di Mord i morket (Assassinio nel buio, 1987, regia Sune Lund-Sorensen) di Claus Loof, è premiato al Mystfest di Cattolica, e a Venezia va il premio speciale

Il cinema danese in Italia

della Giuria al film 'scandinavo' Hip, hip, hurrah (1987) di Kjeld Grede, sulla vita di un gruppo di pittori scandinavi a Skagen (all'e­ stremo nord della penisola dello Jutland) all'inizio del '900. Più importanti invece, sono state le tante rassegne cinematografiche organizzate durante gli anni '70 e '80, spesso in collaborazione con l'i­ stituto Danese di Cultura di Milano:

"Assieme alla vitalità dimo­ strata in altre occasioni, ci pa­ re che [i cineasti scandinavi] abbiano confermato una atti­ tudine assai creativa a con­ frontarsi con le proprie illustri tradizioni. Certo bisogna stare attenti a non fare generalizza­ zioni (gli scandinavi sarebbero i primi, giustamente, ad opporvisi) tuttavia qualcosa in comune emerge anche da au­ tori diversi (sia per ispirazione, che per valore, che per origine linguistico-nazionale). C'è ad esempio il tema del paesag­ gio, vissuto con drammaticità e angoscia diffuse. [...] Altro tema ricorrente [...] è quello dei sentimenti. Sentimenti d'angoscia e paura verso la so­ litudine, bisogno d'amore, perdita, aspirazione all'assolu­ to, sfiducia verso il futuro e il benessere." ("Cineforum" n. 258, ottobre 1986, p. 46) Nel 1984 l'istituto Danese di Cul­ tura organizzò inoltre in collaborazione con il Comune di Verona la più grande manifestazione mai realizzata sul cinema di Dreyer, che prevedeva la proiezione di tutti film di lungometraggio e di corto­ metraggio di Dreyer, nonché un convegno di 3 giorni con la parte­

cipazione dei più grande esperti del cinema di Dreyer. La mostra e la rassegna proseguiranno in se­ guito in altre città, con incontri di studio organizzati localmente a Milano, Torino, Bologna, Firenze, Pisa e Roma. Nel 1986 l'istituto Danese di Cultu­ ra organizzò una mostra ed un ras­ segna intorno all'attrice danese del cinema muto, Asta Nielsen, pri­ ma a Firenze in collaborazione con la Regione Toscana, poi a Milano in collaborazione con il Comune di Milano e la Cineteca Italiana. Un percorso particolare hanno com­ piuto i film danesi per bambini e ra­ gazzi. Questi hanno trovato un maggior successo in Italia con la di­ stribuzione tramite diverse organiz­ zazioni culturali e cinematografiche (ad esempio S. Paolo Film), spesso con copia in versione di 16 mm, ogni tanto anche 35 mm. Nel corso degli anni, alcuni di questi film sono stati presentati al Festival di Film per Bambini e Ragazzi a Giffoni, ed inoltre inclusi nelle diverse rassegne di film danesi organizzate in parec­ chie città italiane; ed in seguito tra­ smessi in televisione.

Gli anni '80 e '90

Sono gli anni delle rassegne di ci­ nema danese in Italia: nel 1983 lìstituto Danese di Cultura in Italia organizza a Verona in collabora­ zione con il Comune "Cinema Da­ nese di oggi e di ieri", con una se­ lezione di Henning Carlsen; nel 1987 lo stesso Istituto organizza con il Centro Studi Cinematografi­ ci a Milano "Danimarca - Cinema";

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Jorgen Krogh e di nuovo nel 1991 con il Comune di Milano "La mia Danimarca - In­ contri con il cinema e la letteratu­ ra scandinava". Scrive Giulio Fede­ li su "Segnocinema":

"Semplificando molte cose, si potrebbero individuare nel ci­ nema danese di oggi (ci rife­ riamo ovviamente ai giovani registi delle ultime generazio­ ni) due tendenze dominanti: da un lato quello che chiame­ remmo 'il cinema dell'immagi­ ne', dall'altro 'il cinema del racconto'. Dall'altra incontria­ mo invece storie solide, ben articolate, impegnate nello sforzo di rinnovare - nei casi più felici puntando anche su una certa 'accelerazione' di ritmi e tempi della narrazione - la tradizione nordica del rac­ conto sulle solitudini e le crisi che si producono all'interno della società del benessere scandinava."

Babette e Pelle Soltanto negli anni '80 cominciano di nuovo a uscire film danesi nei ci­ nema italiani. Senza dubbio que­ sto era anche dovuto al fatto che alcuni film danesi ottennero pre­ stigiosi premi internazionali: Ba­ bettes Gaestebud (Il pranzo di Ba­ bette, 1987), di Gabriel Axel, basa­ to sul racconto della scrittrice da­ nese Karen Blixen riceve l'Oscar per il migliore film straniero; Pelle Erobreren (Pelle alla conquista del mondo, 1987) di Bille August ot­ tenne lo stesso anno la Palma d'o­ ro a Cannes e l'anno seguente un Oscar come migliore film stranie­ ro1. Così scrive Giulio Fedeli su "Se­ 54

gnocinema" a proposito de II pran­ zo di Babette:

"È arrivato dalla Danimarca un bel film dove la figura del pranzo - così come quello del ballo nel Gattopardo - si cari­ ca di infiniti significati: cele­ brazione della vittoria delle gioie corporali sulla mortificatoria spiritualità luterana; con­ fronto allegorico tra la dou­ ceur de vivre franco-mediter­ ranea e il rigorismo doverista nordico; simbolico accosta­ mento tra i caldi colori del sud (la cucina, le vivande...) e lo slavato pastellismo scandinavo (la fredda luce della costa da­ nese, lo scuro degli abiti...).... Il pranzo di Babette è un film prezioso come un bicchiere di Amontillado". E per quanto riguarda Pelle:

"... il quale è un film di ottima riuscita professionale, profon­ damente intriso di un toccante e tipicamente nordico senso della natura, diligente nel reinventare - con risultati di indubbio fascino figurativo la civiltà rurale della Danimar­ ca di fine Ottocento. ... Pure i ritmi sono quelli tipici di tanto cinema nordico e possono ave­ re la stessa velocità di Top Gun".

Nattevagten La Danimarca non può vantare una tradizione di film horror di cui il cinema anglosassone detiene quasi il monopolio, ma eccoci di fronte a un film danese Nattevag­ ten (Il Guardiano di notte, 1994), primo film di lungometraggio di

Il cinema danese in Italia Ole Bornedal (n. 1959), che raccon­ ta la storia di un vero psycokiller. Il film fu presentato a Cannes alla "Semaine de la Critique" e risultò inoltre vincitore del "Fantafestival" di Roma. Il film gioca con sma­ liziata abilità su due registri diffe­ renti, la paura e lo humour nero, senza mai confonderli ma regalan­ do allo spettatore qualche brivido autentico. Scrive Roberto Nepoti su "La Repubblica":

"Il guardiano di notte ha l'abi­ lità di affidarsi a emozioni pri­ marie, di origine infantile ma proprio per questo ancora la­ tenti negli strati profondi: la paura del buio, la paura del­ l'invisibile e la paura che i ca­ daveri possano rianimarsi. Il che gli permette di giocare... più sulle ossessioni dei perso­ naggi e dello spettatore che sulla esibizione dell'immagine orrorifica."

Lars von Trier

Ma negli anni '80 esce sugli scher­ mi anche il primo film di Lars von Trier: The Element of Crime/Forbrydelsens element (L'elemento del crimine, 1984) che con il Premio Tecnico della Giuria al Festival di Cannes conquista un grande nu­ mero di ammiratori, in particolare in Francia ed in Italia. "L'uomo nuovo si chiama Lars von Trier, classe 1956, respon­ sabile sino ad ora di due film, L'Elemento del crimine ... e Epidemie (1987)"

scrive Aldo Pittante su "Segnocinema" nel 1988,

"facenti parte di una EuropaTrilogy che si chiuderà nel 1990 con Europa e cioè mate­ ria concettuale (i primi corri­ spondono rispettivamente alla materia inorganica e alla ma­ teria organica). Come si può ben capire siamo dalle parti del cinema 'alto', sperimenta­ le, di ricerca, assolutamente al di fuori di ogni commercializ­ zazione, rigoroso e austero, intellettuale ma mai intellet­ tualistico, dalla parte di nessu­ no, nel tentativo utopistico e perciò bellissimo - di entrare tutti." E a proposito del secondo film di von Trier, Epidemie (1987), prose­ gue Pittante:

"Epidemie è tutto quello che non avreste mai osato pensare di vedere in un film. Falso do­ cumentario e falsa fiction. Ten­ tativo riuscitissimo di ricercare strade nuove, nuove linguag­ gi, nuovi approcci che non sia­ no necessariamente debitori di quelli della pubblicità e/o vi­ deoclip. Aids, ipnosi, deterio­ ramento dell'ambiente e del­ l'animo umano. Inquinamento atmosferico e 'cinematografi­ co'. Miscellanea d'autore". Film come Europa (1991) esistono ancora, per fortuna. Si entra in sala e si capisce subito che il cinema non è morto, anzi. Ancora un film di Lars von Trier premiato a Cannes e che ha goduto di un certo successo in Italia ed in altri paesi. Scrive Irene Bignardi su "La Repubblica" (11/10/91): "Chi è stanco di minimalismi anglo-franco-italiani si acco­ modi. Europa è un film massi­ malista, ambizioso, totale, che

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Jorgen Krogh punta alto e che non cade mai in basso: e anche se può irrita­ re e disturbare, anche se talvol­ ta il contenitore e la forma pre­ varicano sulla sostanza, dice le sue cose sgradevoli con effica­ cia e al momento giusto. Recu­ perando e rinnovando con l'e­ lettronica le tecniche della proiezione frontale, le sovraimpressioni, le colorazioni che illuminano uno splendido bianco e nero di stampo espressionista, von Trier mesco­ la la storia di Germania anno zero, la cupezza e il populismo di Metropolis, il culto dell'as­ surdità del Buon soldato Schweik, l'angoscia di Hichcock in un cocktail di grande cinema e di effetti stupefacenti". Europa ha l'invenzione visionaria di un classico e l'amarezza e il di­ sincanto di una cupa analisi politi­ ca che oggi è tutta da meditare, e soprattutto riafferma l'esistenza del cinema-cinema. Anche Tullio Kezich sul "Corriere della Sera" (9/10/91) fa riferimento all'ispira­ zione di alcuni maestri come Fritz Lang, Orson Welles e Hitchcock, e aggiunge:

"Sì, Lars von Trier ha certo più di un santo in paradiso; ma il suo paradiso è solo l'intollera­ bile inferno che si chiama Eu­ ropa". Bruno Fornara divide la carriera di von Trier in (per ora) due periodi: la prima fase, della mano destra, si può definire illusionistica, o esibi­ zionista, o ipnotica. Vi apparten­ gono la triologia formata da L'ele­ mento del crimine, Epidemie, e Eu­ ropa, più il film per la TV Medea (1988), basato su un progetto di

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Dreyer. La seconda fase, della ma­ no sinistra, comincia con II Regno/The Kingdom (Riget I & II, 1994 e 1997), e prosegue con Breaking the l/l/aves (Le onde del destino, 1996) e Idioterne (Idioti, 1998), e si può definire sporca, o inelegante, o sgradevole. "Diverse, la prima e la seconda fase: comunque, malsane en­ trambe le fasi e le mani, mal­ sani tutti i film, al di là delle differenze... Verissimo che von Trier è tutto il peggio che si può pensare di lui, in ordine alfabetico, da ambiguo fino a sporco. Altrettanto vero che proprio per questo è interes­ sante: perché è uno di quei ra­ ri registi che non si sa come prendere, perché è la quintes­ senza dell'antinomia, del nau­ fragio del principio di non contraddizione nel cinema del male e del nulla dentro l'infi­ nito e moribondo tramonto di una fine di millennio che dura da più di un secolo (e andrà avanti un bel pezzo)." ("Cineforum" n. 389, novembre 1999; p. 72)

Il regno 1 e 2

Nel 1994 esce la prima opera fatta come dice von Trier stesso, con la mano sinistra: "Abituati ad usare sempre la mano destra, provate per ispi­ razione improvvisa e per gioco a scrivere con la sinistra. Dap­ prima vedrete ciò che vi aspet­ tate: degli scarabocchi che han­ no poco a che fare con le lette­ re. Ma dopo un po' non riusci­ rete più a non prender gusto a

Il cinema danese in Italia quel padroneggiare parole e frasi che, se le aveste scritte con la destra, non vi avrebbero det­ to niente e vi sarebbero sem­ brate banali e trite. La vera qualità del lavoro della vostra mano sinistra è l'oggetto della vostra ammirazione."

Si tratta della prima parte di Riget/The Kingdom (Il regno) un film TV a 4 puntate con una durata to­ tale di 280 minuti. Il film ha la sua prima presentazione mondiale al Festival di Venezia e per l'occasio­ ne viene elaborato una versione su 35 mm. Diventa presto un cult-film nei circoli dei cinefili in Italia e in altri paesi. "Cinque ore, tiratissime, di ci­ nema nato per la Tv, filmate nell'ospedale di Copenaghen - lo chiamano 'The Kingdom', il regno, con allusione alla fa­ mosa frase deWAmleto'. 'C'è del marcio in Danimarca'. Cin­ que ore nelle quali il regista scandinavo ci racconta di me­ dici e di infermieri, ispirandosi per il protagonista al Paperino di Disney e narrandoci le vicis­ situdini dei pazienti con un glaciale umor nero e una vena misteriosa, magica, fantastica, orrificata che si avvicina a quella di Twin Peaks." (Callisto Cosulich, The Kingdom, c'è del marcio (magico) in Danimarca, su "Avvenimenti" del 19 feb­ braio 1997, p. 78) "Riget è il prodotto più inven­ tivo e appassionante che si è vi­ sto a Venezia, un ribaltamento intelligente della stupidità tra­ dizionale della serie televisiva, che non rinuncia per nulla al­ l'intreccio popolare, perfetta­ mente calibrato tra umorismo

(strepitose le tirate del prima­ rio svedese che considera i da­ nesi dei mollaccioni, la loggia massonica ospedaliera, i batti­ becchi tra la madre medium e il figlio infermiere) e tensione (molto belli, inquietanti, tipo Twin Peaks, i dialoghi tra i due giovani inservienti handicappati, gli unici che 'sentono' le presenze annidate nell'ospeda­ le). Quando, alla fine di 4 ore e mezzo, sul più bello, ci si trova davanti alla scritta 'to be conti­ nued', ci si augura che von Trier trovi in fretta i soldi per terminare il suo serial (e che magari qualche nostrana rete televisiva lo acquisti)." (E.M. su "Cineforum" n. 337, settembre 1994, p. 28)

Infatti, 3 anni dopo e di nuovo a Venezia, viene presentato II regno 2, 4 puntate per un totale di 295 minuti.

"Tutto continua nella più nor­ male anormalità dentro l'ospe­ dale costruito sulla palude... Il regno va già a collocarsi, quan­ do ancora non è finito, tra quelle imprese televisive che dimostrano la netta superio­ rità del cinema. Si piazza ac­ canto a Berlin Alexanderplatz (1980) di Rainer Werner Fas­ sbinder e ai due Heimat (1984, 1992) di Edgar Reitz. (Anche II regno 2 finisce con) la scritta 'continua'. Aspettiamo già le prossime puntate. Lars von Trier ha detto in una intervista: 'In The Kingdom III ci sarà più slapstick, penso'. Siamo pronti a tutto." ( B.F. su "Cineforum" n. 367, ottobre 1997, p. 31)

Il regno 1 e 2 sono stati acquistati dalla RAI ma soltanto anni dopo 57

Jorgen Krogh hanno trovato spazio per la messa in onda, e naturalmente di notte, in "Fuori orario", per non rubare spazio dalle trasmissioni più impor­ tanti con i vari Frizzi e De Filippi.

Nella pubblicazione La paura man­ gia l'anima - Il cinema di Lars von Trier troviamo la seguente introdu­ zione:

"Immediatamente vi troverete immersi nel mondo di Lars von Trier. Niente paura. Basta la­ sciare scorrere qualche nume­ ro. Lasciarsi ipnotizzare: 3, 2, 1,... Fogne e paludi segnano l'inizio del viaggio. Poi treni che attraversano ponti. Lun­ ghi corridoi ospedalieri con qualche spirito di troppo. Infi­ ne scogliere schiaffeggiate dal vento.... Lars von Trier possie­ de un tocco raffinato e ricerca­ to. Si è conquistato la libertà per poter sperimentare codici diversi. Si diverte e ci diverte a sciogliere le sue ossessioni in immagini. Racconta storie di personaggi kafkiani, buffi, ipnotizzati, malati, folli. La paura che li attanaglia è un sentimento lieve, impalpabile, ma sempre presente. E scava. Scava dentro... La paura man­ gia l'anima." (La paura man­ gia l'anima - Il cinema di Lars von Trier, a cura di Luca Sandrini e Alberto Scandola, Cen­ tro Mazziano di Studi e Ricer­ che, 88 pp., Verona 1997; p. 7)

Le onde del destino

Con II regno Lars von Trier conqui­ sta il grande pubblico in Danimar­ ca, e la stessa cosa succede con il film melodrammatico per il cinema 58

Breaking the Waves (Le onde del destino, 1996).

"Mai traduzione di titolo fu più inappropriata, suggeren­ do la parola destino una tra­ scendenza oppressiva e inva­ dente opposta alla superbia dell'azione mortale"

sostiene Angelo Signorelli ("Cineforum" n. 358, ottobre 1996, p. 6). Finalmente Lars von Trier con­ quistò i cuori dei danesi, e anche in Italia il film ottenne un grande suc­ cesso con la proiezione per parec­ chi mesi nei cinema delle grande città. "Un film straordinario! Girato in cinemascope ma interamen­ te con la camera a mano. Un melodramma erotico che ini­ zia con un matrimonio e fini­ sce con un miracolo. Una sto­ ria d'amore totale, assoluto, carnale e divino che ha il volto indimenticabile di un'attrice mai vista: Emily Watson, sensi­ bilità a fior di pelle e un volto mobile come il cielo delle Ebri­ di in cui è stato girato il film" (F. Ferzetti su "Il Messaggero") "Un film che porta il cinema, il racconto, la tecnica, l'emozio­ ne, in zone mai raggiunte pri­ ma. Una sconcertante combi­ nazione di fede e perversione, la via crucis di Bess passa attra­ verso prove dolorose come la proscrizione dalla chiesa, la la­ pidazione da parte dei monel­ li." (Tullio Kezich sul "Corriere della Sera")

"Lars von Trier è l'ardimentoso visionario che con Breaking the Waves ha osato fare un film sul miracolo dell'amore

Il cinema danese in Italia incondizionato, che è anche il risultato più originale, com­ plesso e toccante visto finora in questa edizione di Cannes." (Irene Bignardi su "La Repub­ blica") "Chi è Lars von Trier, un furbo o un folle? ... Furbo o folle che sia, in fondo qualsiasi giudizio viene meno di fronte a una constatazione molto semplice: e cioè che in questo film - così sopra le righe - ci si commuo­ ve e ci si coinvolge sul serio. Perché in effetti c'è una since­ rità e soprattutto un'origina­ lità che non può essere nega­ ta. Lars avrà dei difetti, come tutti, ma è capace di costruire un suo ideale di bellezza at­ traverso una commistione davvero fuori dalla norma - di codici narrativi differenti. Von Trier non cavalca le 'onde', più che altro le 'rompe'. Anche il delirio è una cosa seria. E d'al­ tra parte lo sapevamo da tem­ po che c'è del metodo in certa follia." (M.F. su "Cineforum" n. 355, giugno 1996, p. 15)

Possiamo concludere che Le onde del destino ha avuto un grande successo in Danimarca perché rac­ conta una bella storia d'amore che commuove oltre il solito, e in Italia, paese di tradizione cattolica, ha avuto un gran successo a causa del tema del miracolo? C'è un prece­ dente: tra i film sonori di Dreyer, Dies Irae (1943) è normalmente ri­ tenuto il suo migliore, ma in Italia si parla e viene spesso presentato il film Ordet (1954) che parla appun­ to di un miracolo. Sulla rivista "Ci­ viltà Cattolica", però, scrive Virgi­ lio Fantuzzi s.j.:

"La concezione religiosa espressa nel film si muove sul filo di un innaturale connubio tra attrazione e ripulsa. Il regi­ sta manifesta un atteggia­ mento freddo e distaccato nei confronti di tutto ciò che si ri­ ferisce agli argomenti affron­ tati direttamente nel film, mentre rivela una sorta di con­ citazione febbrile, in sintonia con gli spasimi e i sussulti che si avvicendano sul volto della protagonista, quando si tratta di evocare atmosfere caratte­ rizzate da un grado elevato d'indeterminatezza... Tra gli aspetti urtanti del film vi è, immediatamente riconoscibi­ le, il piglio aggressivo con il quale viene presa di petto l'i­ stituzione ecclesiastica, che sembra fatta non per rendere visibile la presenza di Dio sul suolo arido dell'isola, ma per occultarla... (Bess) chiede a Dio la forza di cui ha bisogno per compiere quello che ritie­ ne essere il suo dovere. Dio (ed è questo uno degli aspetti del film più difficili da accetta­ re) non solo la incoraggia ad andare avanti, ma, in qualche modo, la costringe a farlo: 'Dammi la prova che lo ami ve­ ramente e io lo farò vivere'. Per quanto ciò possa apparire incredibile, tutte le volte che Bess tradisce Jan andando con un altro uomo... Jan ne trae beneficio con qualche miglio­ ramento delle sue pur sempre precarie condizioni di salute... Il Bene e il Male le si presenta­ no davanti come entità ugual­ mente incommensurabili. La singolarità del suo destino personale induce Bess a getta­ re un ponte tra questi due aspetti antitetici della realtà, reciprocamente distanti come

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Jorgen Krogh il Paradiso lo è dall'inferno. Il risultato non può essere che l'annientamento di chi ha osa­ to ciò che non è consentito osare nella vita: amare l'amo­ re al di là di ogni limite... Alla pari di Teorema (1968) di Paso­ lini e Je vous salue, Marie (1984) di Godard, film che al loro apparire hanno suscitato scalpore, anche Le onde del destino può essere considera­ to come sintomo di un feno­ meno, per certi aspetti inquie­ tante, che merita tuttavia di essere osservato con attenzio­ ne." (Virgilio Fantuzzi s.j., Le onde del destino di Lars von Trier, in "Civiltà Cattolica" n. 3521 del 1 marzo 1997, pp. 482, 486, 487)

I film Dogma 95 Nel 1995 Lars von Trier lanciava il progetto "Dogma 95" durante una conferenza stampa nel cinema Odèon a Parigi in occasione del centenario del cinema. L'iniziativa veniva accolta come una provoca­ zione scherzosa, una tipica propo­ sta ironica nello stile di Lars von Trier. Ma non era un scherzo, il re­ gista faceva sul serio. Il "Dogma 95" ha il fine dichiarato di contra­ stare "certe tendenze" del cinema contemporaneo, è un'azione di salvataggio per combattere certe tendenze del cinema più recente, quali una drammaturgia scontata, un'azione superficiale, una cosme­ tica tecnologica, che è così eviden­ te nel cinema di oggi, in particola­ re quello americano.

Il primo film che uscì secondo le re­ gole del Dogma 95 (cioè Dogma 1) 60

fu Festen di Thomas Vinterberg, presentato a Cannes nel 1998, e premiato con "Prix du Jury". Il se­ condo film (Dogma 2) fu Idioterne (Idioti) di Lars von Trier, presentato al Festival di Cannes nel 1998. Il terzo film (Dogma 3) è Mifune di Soren Kragh-Jacobsen, presentato tra l'altro al Festival di Berlino nel 1999 dove ha ottenuto il 2° pre­ mio, l'Orso d'argento. Un film Dogma di Christian Levring uscirà in questa primavera, e altri film Dogma (riconosciuti tali dal grup­ po) sono già usciti all'estero, tra l'altro Lovers di Jean-Marc Barr (at­ tore in più film di von Trier), uscito in Italia nell'autunno 1999, e Ju­ lien: donkey boy di Harmony Korine, presentato al Festival di Vene­ zia nel 1999. Nel press-book di Idioti dice von Trier: "Per un verso, i precetti del Dogma derivano dal desiderio di sottomettersi all'autorità e alle regole che mi sono state inculcate nella mia educazio­ ne umanista e culturale di sini­ stra; per un altro verso, quei precetti esprimono il desiderio di fare qualcosa di assolutamente semplice. Quando si produce un film normale, si è impacciati dal dover decidere e controllare un numero incal­ colabile di cose, come i filtri e i colori. In fondo, le regole del Dogma dicono che non biso­ gna perdere tempo con tutto questo. [...] C'è contraddizione in termini, perché qualsiasi scelta si faccia si fa sempre del­ la drammaturgia. Dogma 95 contiene delle regole impossi­ bili, paradossali, la stessa cosa che succede con i dogmi reli-

Il cinema danese in Italia

giosi". (Per ulteriori dettagli su Dogma 95 si veda in questa pubblicazione l'articolo di Pe­ ter Schepelern.)

Dogma # 7: Festen (Festen - Festa in famiglia, 1998) di Thomas Vinterberg

Il primo film secondo le regole del Dogma 95 fu Festen del giovane Thomas Vinterberg. Festen, secon­ do lungometraggio del regista, ot­ tenne grande successo in patria e all'estero e ricevette il Premio della Giuria al Festival di Cannes nel 1998 dove venne presentato insieme ad Idioti (Dogma # 2) di Lars von Trier. Il film, girato in video e poi gonfia­ to su 35 mm, segue quasi alla lette­ ra i dettami di Dogma 95.

"Festen è la rappresentazio­ ne documentaria di uno psi­ codramma consumato all'in­ terno di un nucleo domestico allargato, con conseguente esumazione di tutti gli sche­ letri che per anni erano stati accuratamente conservati negli armadi, il tutto corre­ dato di tempeste di emozio­ ni e catarsi finale. Gli ingre­ dienti di questa tragedia so­ no terrificanti, e vanno dalla pedofilia incestuosa al suici­ dio. Eppure, pare incredibile, il film di Vinterberg risulta leggero e per certi tratti ad­ dirittura divertente." (Ales­ sandra Di Luzio, Così gli "sca­ rabocchi diventano un incan­ to", su "Cineforum" n. 380, dicembre 1998, p. 10) "Ma quello che colpisce nel film di Vinterberg è soprat­ tutto la sicurezza della mes­

sinscena, l'ottima direzione di un cast di attori bravissimi, la padronanza della cinepre­ sa mossa a mano in comples­ si piani sequenza. E la sor­ presa di vedere come l'allie­ vo abbia, ad armi pari, battu­ to il maestro." (Irene Bignardi su "La Repubblica" del 28 novembre 1998) "Ma rispetto al film di von Trier, quello di Vinterberg di­ mostra una superiore consa­ pevolezza estetica che mette al suo servizio agilmente e in modo più spontaneo, i cosid­ detti capisaldi del Dogma. Vinterberg potrà o meno vin­ cere la scommessa di diventa­ re uno dei registi più interes­ santi degli anni a venire." (Fabrizio Liberti, Scommessa a rischio del regista dogmati­ co, su "Cineforum" n. 387, settembre 1999, p. 17) "Dunque possiamo conclu­ dere dicendo che Vinterberg ha fatto il furbo: prima si è inventato le regole e ha giu­ rato di rispettarle, e poi ha trovato il modo per contrav­ venire a esse a norma di leg­ ge. Questa non è una accusa, semmai un complimento. Non è da poco riuscire a fare un film del genere, che sem­ bra casuale e invece è studia­ tissimo, che sembra povero e scarno e invece è curato in ogni dettaglio, che sembra un video e invece è una pelli­ cola. [...] Che sia stato fatto con la mano destra o con la sinistra, il film è riuscitissimo, anche se molte delle regole sono infrante. 'L'unica vera consolazione', scriveva De Ma­ rinis a conclusione della sua po­ lemica contro Dogma 95, 'è che

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Jorgen Krogh

a volte i registi fanno grandi dichiarazioni di teoria, di poe­ tica e di tecnica, e poi fanno film completamente diversi'. Nel caso di Festen ciò è perfet­ tamente valido. Il primo film realizzato secondo i dettami del collettivo danese è la di­ mostrazione lampante che il cinema non è alla portata di astutti. E che difficilmente perderà il suo legame con l'il­ lusione." (Alessandra Di Luzio, Così gli "scarabocchi diventa­ no un incanto", su "Cineforum" n. 380, dicembre 1998, p. 11)

Dogma # 2: Idioterne (Idioti, 1998) di Lars von Trier

Il film di Lars von Trier fu presenta­ to a Cannes nel 1998 insieme a Fe­ sten, ma senza attirare l'attenzio­ ne della Giuria. Ha suscitato invece tanta polemica e reazioni scanda­ lizzate, e diviso il pubblico e la cri­ tica. Nella versione italiana il film è stato censurato con un taglio di circa 3 minuti in tutto, e inoltre tramite il doppiaggio è stato modi­ fico il sonoro originale. In un'inter­ vista von Trier commenta: "Ah, ho capito, quindi ne devo dedurre che in Italia non avete la penetrazione. [...] Ma per­ ché mai il Papa si preoccupa tanto dei profilattici, se in Ita­ lia non avete la penetrazione? Però, penso sia il primo paese che, sento, censura il film. An­ che in Norvegia, che, sapete, è molto rigida, non c'è stata censura, e nemmeno in Inghil­ terra. Ma in Italia... bene, sono orgoglioso di essere cattolico! [...] La cosa che mi incuriosisce

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è perché vi sia un qualsiasi ti­ po di censura. Da dove viene l'idea. Ovviamente sono con­ tro la censura, ma non riesco nemmeno a capirne le ragioni. Sono sicuro che la gente è in grado di censurarsi da sola, di scegliere cosa vuole o non vuole vedere. Comunque mi sembra assurdo eliminare la penetrazione da Idioti. Tra l'altro mi sembra una scena piuttosto divertente. La penetrazione è una bella cosa. [...] La considero semplicemente parte della quotidianità." (In­ tervista a Lars von Trier; ne II Dogma della Libertà, a cura di A. Addonizio ed altri, Edizioni della battaglia, Palermo 1999; p. 41) Nel film Idioti

"Lars von Trier ci invita a ricer­ care l'idiota che è in noi. Con­ siderare la follia una condizio­ ne umana che ogni individuo in misura maggiore o minore ospita dentro di sé, non è un pensiero originale, ma il frutto di un percorso che dalla psico­ patologia di Jaspers giunge al­ la fenomenologia della follia di Foucault, all'antipsichiatria di Laing. Nei personaggi del regista è quanto mai incon­ gruo operare una distinzione concettuale fra salute e malat­ tia mentale: basti pensare alla duplicità del 'Werwolf' (lupo mannaro) in Europa, all'indi­ menticabile (s)ragionevolezza di Bess ne Le onde del destino, alla coppia di ragazzi down de Il regno ai quali è affidata, co­ me a un coro greco, la funzio­ ne poetica di anticipare e com­ mentare gli eventi. [...] In Idio­ ti von Trier indaga sul modo di porsi nei confronti dei 'diversi'

Il cinema danese in Italia

(e altro ancora), con l'intento di smascherare l'intolleranze e ipocrisie. L'indignazione prov(oc)ata diventa il segno stesso di questa intolleranza. [...] L'indignazione scaturisce dal disagio, dall'imbarazzo che si prova di fronte ai disabi­ li, dalla sterile pietà con la quale si cerca di placare il sen­ so di colpa connesso al deside­ rio, sia pur inconscio, di rimuo­ vere la loro presenza piuttosto che di accettarla. Il tema della diversità si lega inestricabil­ mente alla 'riflessione' sulla finzione." (Eliana Elia su "Se­ gnocinema" n. 95, marzo-apri­ le 1999, pp. 32-33) Di altra opinione è Irene Bignardi:

"Idioti è un film tanto abile quanto cattivo, tanto interes­ sante quanto moralmente am­ biguo, tanto intelligente quanto offensivo. Il film di un uomo che non ama l'umanità, e finge, attraverso un com­ plesso rovesciamento di ruoli, di prendere le parti degli idio­ ti, degli umiliati e degli offesi per giocare invece con i senti­ menti delle persone comuni sullo schermo - e degli spetta­ tori - davanti allo schermo. Il film di un regista dotatissimo che mette il suo talento al ser­ vizio della propria arroganza intellettuale." (Irene Bignardi, Che arroganti gli idioti di von Trier, "La Repubblica" del 23 gennaio 1999) "Non c'è giudizio, da parte di Lars von Trier, sull'operato de­ gli 'idioti' che abitano insieme nella casa di campagna: un gruppo di provocatori, di giul­ lari tristi (che hanno scelto la maschera per tutti imbaraz­

zante, quella della demenza), di sperimentatori d'un punto di vista diverso dall'ordinario, di eversori impegnati a pro­ durre un atto d'accusa nei confronti della normalità." (Pierpaolo Loffreda, Incertez­ za del vivere e nichilismo atti­ vo, su "Cineforum" n. 381, febbraio 1999, p. 19) Non a caso Lars von Trier commen­ ta nel press-book del film:

"Idioti è un film molto strano, dal quale il pubblico dovrebbe essere divertito e commosso, ma anche un po' disturbato. Contiene qualcosa di pericolo­ so perché gioca col concetto di normalità, con il modo in cui noi dovremmo o non dovrem­ mo comportarci. E se qualcuno svaluta la razionalità, il mon­ do rischia d'andare a pezzi. Si può dire che questo è il film più politico che io abbia mai fatto. Apparentemente ri­ guarda il nostro comporta­ mento nei confronti degli handicappati mentali, ma in realtà si tratta di un'estrema difesa dell'anormalità."

Dogma # 3: Mifunes sidste sang {Mifune, 1999) di Soren Kragh-Jacobsen

Il film di Kragh-Jacobsen era molto atteso, anche perché il regista, che coi suoi 51 anni è il più "anziano" del gruppo, ha una lunga produ­ zione cinematografica dietro di sé, in particolare film per bambini e giovani. In Italia sono usciti tra al­ tro Gummitarzan {Tarzan di gom­ ma, 1981), Guldregn {Pioggia d'o­ ro, 1986). A lui è anche stata dedi-

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Jorgen Krogh

cata una selezione particolare al Festival del Cinema per Ragazzi di Gittone. Il regista ha dichiarato nel press-book che lui era proprio alla ricerca della spontaneità perduta e l'invito da parte dei suoi connazio­ nali a realizzare un'opera secondo i dettami di Dogma 95 gli è piovu­ to "come il cacio sui maccheroni".

"Non soltanto il suo è un film da "pentito" di questioni tec­ nico-produttive e manierismi linguistici, ma racconta anche una storia di ravvedimento. [...] Dogma 3 conferma che il manifesto di von Trier ha ef­ fetti piuttosto benefici sul ci­ nema. Non che sia un film perfetto, intendiamoci: anzi, è decisamente discontinuo per come alterna momenti ispirati con altri (in particolare la storia d'amore tra il prota­ gonista e la governante) più risaputi e ovvi. Però la so­ brietà della messa in scena ha effetti benefici e la recitazio­ ne degli attori risulta molto spontanea. Tanto più che il re­ gista, meno genialoide dei colleghi, non usa la cinepresa ubriaca di von Trier e si conce­ de una fotografia meno sgra­ nata di quella di Vinterberg. Né dispiace la morale della fa­ vola, una favola moderna e crudele che non chiude la por­ ta alla speranza. Perché il film di Kragh-Jacobsen è una para­ bola sui guasti dell'ambizio­ ne, che racconta i compromes­ si e le rinunce legati alla ricer­ ca del successo personale sen­ za nascondersi, però, neppure quanto può costare la decisio­ ne di rinunciarvi." (Roberto Nepoti, Uno yuppie nella fat­ toria, "La Repubblica" del 21 novembre 1999) 64

"Sorpresa! Il Dogma può an­ che veicolare storie convenzio­ nali e sentimentalismi senza troppe velleità anticonformi­ ste. [...] In verità il Dogma as­ somiglia sempre meno ad una 'scuola' (cosa che d'altra parte von Trier non ha mai voluto) o ad una 'missione' e sempre più ad uno schema formale (se preferite chiamarlo pure 'voto di castità') di cui l'autore/regista si appropria per misurarsi su un terreno nuovo, ma non tanto adeguandosi, quanto adeguandolo alla propria idea di cinema. Jacobsen ha d'altra parte già detto che questa esperienza cinematografica è solo un episodio (per quanto rigenerante): 'Sono un realista e un narratore; non ho lascia­ to la mia tradizione e allo stes­ so tempo ho rispettato le con­ dizioni poste dalle regole del Dogma'. Il risultato è però quello di un film molto spez­ zato, quasi costruito a seg­ menti spesso accostati brusca­ mente. [...] Ci sono 'buchi' im­ provvisi che si aprono tra l'i­ stinto di narratore di Jacobsen e la sua voglia di adeguarsi al­ l'essenzialità anti-spettacolare del Dogma. [...] Non c'è la for­ za di un von Trier che rende la finzione più vera della 'realtà' (anzi, che mette in discussione i due termini del rapporto) ed elimina all'origine la necessità di una trama, o il geniale vir­ tuosismo di un Vinterberg che si mimetizza tra i luoghi co­ muni narrativi del cinema e del teatro nordico per esaltar­ ne quasi fisicamente (con un gioco estetico disturbante) la 'verità'. C'è insomma del buon cinema, con una vena ottimi­ stica abbastanza originale." (Fabrizio Tassi, Mifune, su "Ci-

Il cinema danese in Italia

neforum" n. 390, dicembre 1999, pp. 43-44)

Per finire...

Gli anni '90 ci hanno fatto vedere film danesi che hanno anche avuto successo all'estero, film diretti da nuovi e giovani registi, e film rea­ lizzati da registi già affermati. Questo fatto è anche dovuto ad una precisa, ed impegnativa politi­ ca da parte del governo danese con l'istituzione nel 1972 dell'isti­ tuto Cinematografica Danese (Det danske Filminstitut) che tra l'altro ha il compito di finanziare e pro­ muovere film danesi, e la Scuola del Cinema (corsi quadriennali con 4-5 indirizzi). In particolar modo l'Ufficio Estero dell'istituto Cine­ matografica Danese è stato molto attivo duranti gli anni '80 e '90, con la presenza di film danesi ai grandi e piccoli festival, nonché al­ le tante rassegne cinematografi­ che realizzate all'estero, e qui an­ che in Italia.

È probabile che anche i premi Oscar a Pelle alla conquista del

mondo e a II pranzo di Babette ab­ biano creato un nuovo interesse per i film danesi, dopo Dreyer, mentre la costante presenza dei film di Lars von Trier al Festival di Cannes ha confermato una curio­ sità per i giovani registi danesi. La rassegna di Bologna presenta alcu­ ni di questi film, tra gli altri: Bornholms Stemme (La voce di Bornholm) di lotte Svendsen, Den eneste ene (L'unico e il solo, 1999) di Susanne Bier. Al festival di Vene­ zia del 1999 fu inoltre presentato Bleeder, il secondo film del giova­ ne Nicolas Winding Refn, che ave­ va già ottenuto un grande succes­ so in Danimarca con il suo primo film Pusher (Spacciatore, 1996). Jgrgen Krogh

1 I film di Bille August che seguono non sono danesi secondo il sistema di valuta­ zione dell'Associazione Collaboratori Ci­ nematografici, ma: Con le migliori in­ tenzioni, 1992: svedese; La casa degli spiriti, 1993: tedesco; Gerusalemme, 1996: svedese; Il senso di Smilla per la neve, 1997: tedesco; / Miserabili, 1998: americano.

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L'italiano

nella cultura danese

di Thomas Harder

Il popolo italiano ha assunto nella coscienza dei danesi un profilo rela­ tivamente chiaro, che esiste da quando gli artisti del periodo aureo giungevano in "pellegrinaggio" in Italia per ritrarre quegli italiani così spontanei, passionali e sensuali nel­ lo splendere del sole, e da quando scrittori come H.C. Andersen e Bergsoe hanno fornito una propria rappresentazione letteraria dell'Ita­ lia esotica. Naturalmente l'immagi­ ne che i danesi hanno degli italiani non è rimasta invariata da allora si sono aggiunti nuovi elementi e si sono inserite nuove sfumature -, tuttavia i vecchi cliché godono an­ cora di ottima salute, grazie anche al ruolo che l'Italia e gli italiani han­ no assunto nell'industria del diver­ timento danese. Nonostante gli sforzi fatti col pas­ sare del tempo da alcuni giornalisti e scrittori danesi per ritrarre gli ita­ liani come un popolo di persone "normali" e non particolarmente colorite, che vivono la loro vita quotidiana come la maggior parte degli altri europei, desiderano cose normali dalla vita e reagiscono in modo razionale nei confronti del­ l'ambiente che li circonda, l'Italia è ancora avvolta da una nube di cli­ ché e pregiudizi che impediscono a molti osservatori danesi di vedere 66

l'Italia per quello che è realmente. Oppure, come ha scritto la giorna­ lista Karen Dissing nell'introduzio­ ne del suo libro Ikke et ord om Mi­ chelangelo - Den politiske Italien (Non una parola su Michelangelo L'Italia politica) (Gyldendal, 1969):

"Esiste una tradizione lettera­ ria secolare ma ancora vigoro­ sa che porta ad ignorare la realtà italiana in favore di alcu­ ni miti duri a morire. Con una noncuranza che offende la realtà visibile ed evidente, si tiene in vita il mito di un'Italia immaginaria e romanticizzata, che era con ogni probabilità già irrealistico quando fu per la prima volta dipinto nel secolo scorso dagli autori dei diari di viaggio nordeuropei e anglo­ sassoni, e che oggi in ogni caso non corrisponde alla vera Italia dei giorni nostri", (pp. 10-12) La collega francese di Karen Dis­ sing, Marcelle Padovani, si è espressa nel modo seguente:

"La funzione dell'Italia varia a seconda della latitudine. Per la Francia, l'Italia rappresenta la faccia ludica e disordinata del­ l'identità medievale comune. Quando i francesi vogliono fare un confronto lusinghiero, fan­ no riferimento alla Germania; quando invece vogliono descri­

L'italiano nella cultura danese

vere qualche cosa di meno serio o comicamente superficiale, in­ dicano l'Italia e utilizzano a sproposito l'espressione 'à l'italienne'". (in Piero De Garzarolli, Dicono di noi. L'Italia nei grandi giornali stranieri, p. 18, Laterza, Roma-Bari, 1992) Per i danesi, l'Italia non rappresenta in generale solo una faccia della cul­ tura mediterranea, ma l'essenza stes­ sa della cultura mediterranea che - a seconda dell'indole e delle opinioni viene vista come l'altra faccia positi­ va, negativa o semplicemente diver­ sa rispetto alla propria tradizione. La concezione del diverso è l'immagine riflessa della concezione di sé. Nessuno dei film in programmazione al festival ha come tema l'Italia o gli italiani; ce ne sono tuttavia due, nei quali si gioca più o meno con l'imma­ gine che i danesi hanno dell'Italia e degli italiani. Si tratta della comme­ dia romantica di Susanne Bier Den eneste ene (L'unico e il solo), film nel quale la rappresentazione dell'italia­ no è estremamente carica di cliché, e il melodramma di Lotte Svendsen Bormholms stemme (La voce di Bornholm), nel quale la presenza ita­ liana assume forme più originali.

L'italiano Sonny nel film di Susanne Bier, con il suo atteggiamento su­ perficiale, giocoso e fannullone l'italiano per antonomasia per gli standard danesi - risponde alla perfezione alle descrizioni di Karen Dissing e di Marcelle Padovani. Inoltre è un vero e proprio latin-lover: bello, elegante, romantico, passionale e focoso, un flusso inar­ restabile di parole mielose sgorga dalle sue labbra, tra le sue mani

non manca mai un mazzo di rose rosse. Che questa rappresentazio­ ne degli italiani sia uno dei più co­ muni cliché risulta anche da una scena del film per ragazzi Kaerlighed ved forste hik (Amore al pri­ mo singhiozzo), nella quale il play­ boy cattivo del film cerca di sedur­ re la ragazza dei sogni del prota­ gonista sulle note di una canzone pop italiana intitolata II grande amante, scritta per il film da un compositore danese. Sonny è anche un tipico rappresen­ tante della famiglia all'antica: ha 44 tra cugini e cugine ed è un ma­ schilista che vuole avere figli - figli maschi per la precisione - il più pre­ sto possibile, e crede che una don­ na non sia una vera donna se non riesce a dargli questi figli. Sonny venera la moglie danese, ma non la rispetta e fa bella mostra di un'i­ gnoranza quasi comica sui misteri dell'inseminazione, l'unica cosa che sa è che è necessario fare sesso. È anche egocentrico al di là di ogni li­ mite, privo di qualsiasi capacità di comprensione dei sentimenti e del­ le esigenze degli altri e oltre a ciò completamente inaffidabile. Quan­ do la moglie rimane finalmente in­ cinta, la tradisce con una bionda dalla coscia lunga e dal seno pro­ speroso, semplicemente perché non può fare a meno di sedurla, ma questa donna non significa nul­ la, assicura Sonny alla moglie quan­ do viene scoperto. Il suo orgoglio maschile è quello di un bambino, e Sonny reagisce violentemente quando alla fine la moglie non ne vuole più sapere di lui. L'immagine di Sonny è completata dal suo for­ tissimo accento che, anche se asso­ lutamente improbabile e sgradevo67

Thomas Harder le da sentire per chiunque conosca un po' di italiano, suona "bene", nel senso che corrisponde all'accen­ to con il quale parlano i danesi che non hanno una particolare cono­ scenza delle lingue, quando voglio­ no prendere in giro un italiano.

Il fatto che non ci siano stati critici che abbiano avuto da ridire su que­ sta parodia piuttosto volgare la dice lunga su quello che il pubblico da­ nese è disposto ad accettare come "tipicamente italiano". Questo tut­ tavia indica anche che i danesi han­ no in sostanza un rapporto bonario e assolutamente non problematico con gli italiani: non ci vuole molta fantasia per immaginarsi lo sdegno che si sarebbe creato se fosse stato rappresentato in modo analogo un turco, un pachistano, un somalo op­ pure un groenlandese. L'italiano di Bornholms Stemme, Fransisco (sic), è un personaggio di tutt'altro tipo. Ad esclusione di

un'unica occasione nella quale non riesce a frenare il suo temperamen­ to meridionale, egli è effettiva­ mente così calmo, addirittura flem­ matico, che è abbastanza difficile capire come possa essere italiano. Parte della spiegazione ci viene for­ se dal fatto che in questo modo è assolutamente naturale per lui e sua moglie aprire una pizzeria, vi­ sto che non riescono a vivere di pe­ sca. I cliché latini, che non ritrovia­ mo in Fransisco, sono invece pre­ senti in virtù di uno strano scambio di ruoli con la moglie bruna e foco­ sa, nativa di Bornholm. Troviamo un vasto panorama dei cliché danesi sull'Italia nel film per bambini Katjas enventyr/Falkehjertet (L'avventura di Katja/Cuore di falco). La protagonista, Katja, si ad­ dormenta sul piano di carico di un autocarro in Danimarca; quando si sveglia, si trova in un "paese stra­ niero", il cui nome non viene cita-

Sos Egelind e Sidse Babett Knudsen ne L'unico e il solo (Den eneste ene) di Susanne Bier, 1999. Foto: Ole Kragh-Jacobsen.

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L'italiano nella cultura danese to, ma che presenta inconfondibili analogie con i bassi di Napoli. Qui senza conoscere la lingua - Katja deve salvare il suo migliore amico, un falco ferito, che viene tenuto prigioniero e che rischia di essere imbalsamato da un ricco malvagio che ricorda moltissimo l'impresario cattivo del Pinocchio disneyano. Nella sua azione di soccorso, Katja viene aiutata da un gruppetto di ragazzini molto svegli che trascor­ rono le loro giornate per la strada, inventandosi ogni sorta di cose, e alla sera tornano a casa dalla ma­ dre che cucina loro spaghetti col pomodoro. Del padre non si sa nul­ la, mentre la madre è una madre modello, che trabocca di dolcezza e ospitalità. Si capisce chiaramente che la casa è povera, ma Katja vie­ ne subito invitata a trasferirvisi. In Den eneste ene e - anche se più en passant - in Kaerlighed ved forste hik gli italiani che sfoggiano il loro fascino vacuo a prima vista seducen­ te, ma alla lunga poco credibile, fi­ no a diventare insopportabile, rap­ presentano l'opposto dei protago­ nisti danesi, più piatti e legati alla realtà, ma anche più responsabili e schietti. In Katjas eventyr/Falkehjerte, il confronto assume toni diversi. In questo caso gli italiani sono sia buoni che cattivi, e il confronto italiani/danesi riguarda in primo luogo le famiglie e il contesto in cui vivo­ no: la casa danese di Katja è una vil­ letta moderna, bella e confortevole, ma completamente vuota quando Katja torna a casa da scuola, perché i genitori lavorano e, fino alla scena del ricongiungimento conclusivo, sono presenti nel film solo come vo­ ci registrate sulla segreteria telefo­ nica. Il quartiere è anonimo anche

se benestante, e Katja non ha appa­ rentemente alcun contatto con gli altri bambini che ci vivono. Nel "paese straniero" invece i colori so­ no forti, i dintorni drammatici, il contatto umano, nel bene e nel ma­ le, diretto e, nonostante la povertà materiale, la famiglia c'è ed è fonte di calore e di energia per tutti.

Con l'eccezione - ma solo parziale di Bornholms stemme, film nel quale "l'italianità" è trasferita dal siciliano alla moglie di Bornholm, nessuno dei quattro film dice nulla di controverso o semplicemente nuovo sull'Italia e sugli italiani. E sarebbe d'altra parte strano, poiché la funzione degli ita­ liani nei film è proprio quella di fare gli "italiani", ossia di corrispondere agli stereotipi danesi. Come i perso­ naggi danesi che - ancora una volta con l'eccezione di Bornholms stemme - non sono particolarmente originali o destabilizzanti rispetto alle aspetta­ tive del pubblico danese, anche gli italiani sono tipi che devono rispon­ dere ai cliché e fare esattamente quello che ci si aspetta da loro. In una prospettiva italo-danese, l'a­ spetto interessante di questi quat­ tro film non è il fatto che rivelano che i danesi, nell'opinione dei regi­ sti - a giudicare dall'accoglienza ri­ servata ai film e dall'esperienza ge­ nerale - hanno un'immagine ste­ reotipata degli italiani, ma che di­ mostrano l'ampia gamma di ele­ menti diversi, talvolta contrari, ma non per questo meno solidi, che in­ tervengono in questa immagine un'immagine che è in larga misura il contraltare della concezione che i danesi hanno di loro stessi. Tradotto da Paola Sioli

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Il

cinema con la voce di donna NEL PANORAMA DANESE CONTEMPORANEO: Susanne Bier e Lotte Svendsen

di Bo Tao Michaelis

Perché non vuoi essere una donna? Questo chiede l'italiano Sonny a sua moglie Sus, una danese, nel film di Susanne Bier Den eneste ene (L'unico e il solo). Non discute­ remo qui se si tratti di una doman­ da legata all'italianità del protago­ nista. Ha sicuramente un ruolo il fatto che Sonny, il latin-lover del film, sia succube della madre che lo tempesta di telefonate dall'Italia per avere notizie del matrimonio e per sapere se ci sono figli in arrivo. Ma molto più importante, e centra­ le, nel film di Susanne Bier è il fat­ to che il tema conduttore del film è il senso di presenza e di apparte­ nenza al proprio sesso: definire in forma di commedia cosa vuol dire essere donna o uomo nella Dani­ marca di oggi. Agli occhi di suo ma­ rito, Sus rifugge il suo essere donna perché non vuole essere madre. Come si sa, lo diventerà per venire poi tradita dall'uomo che l'aveva spinta alla maternità. Sus lavora in un salone di bellezza ed è questo impiego, con l'umanità che vi si trova - in particolare il legame con l'amica del cuore, Stella, l'"oca" del film -, che Sus cerca di non perde­ re, evitando di restare incinta e di diventare poco a poco una casalin­ ga a tutti gli effetti. Magari rin­ chiusa in una di quelle cucine, luo­ go di lavoro dell'altro personaggio

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maschile del film, Niller, l'uomo da­ nese che, sotto tutti gli aspetti, in base ai pregiudizi tradizionali, non si dimostra all'altezza del suo ruolo di maschio: ha una cattiva qualità del liquido seminale, è al servizio delle casalinghe come installatore di cucine e, in casa, la moglie la fa da padrona. Insomma Niller è un principe consorte, un mollaccione e un antieroe.

Nel film tutto, la storia delle due coppie, del loro scioglimento e del­ la formazione di una nuova nel lie­ to fine del film, quando Niller e Sus si trovano, persino il momento del parto, tutto è guidato dalla mano della classica cabala della comme­ dia. Un'elegante commedia degli errori nella quale le ultime gran­ diose immagini paiono sottinten­ dere che anche i molti personaggi secondari del film, il broncioso Mulle e l'avventata Stella, si trovi­ no un partner. Den eneste ene rac­ conta una storia di figli avuti in un modo o nell'altro. La sceneggiatura di Kim Fupz Aakeson disegna, non senza un tono satirico, una Dani­ marca di fine anni '90 che ricono­ sciamo. Den eneste ene, come i film precedenti della Bier, dal pro­ mettente debutto sulle peripezie di una famiglia ebrea svedese, Freud flytter hjemmefra (Freud se ne va

Il cinema con la voce di donna di casa), ai meno maturi Det blir i La meccanica degli intrighi di Den familien (Cose di famiglia) e Sekten eneste ene ha origine da una tra­ (La setta), è un'opera in forma da gica morte, cosa impensabile in camera, che indulge sul dettaglio una commedia tradizionale. La intimo sia nella forma, appunto, moglie di Niller, l'antipatica ed in­ che nel contenuto, e in tal modo traprendente Lizzie, viene investi­ mai cancellando o sacrificando l'e­ ta mentre sta andando a comprare terogeneità e la particolarità di cia­ il latte che Niller aveva dimentica­ scuna prestazione degli attori (Sid- to di acquistare. Anche il dolore se Babett Knudsen, Niels Olsen, Pa­ per l'infedeltà di Sonny quasi co­ prika Steen, Sofie Gràbol, Sos Ege- pre le pareti anguste della comme­ lund e Lars Kaalund) a vantaggio di dia grazie alla formidabile recita­ una unitarietà artistica e manierata zione di Sidse Babett Knudsen, in perseguita dalla regia. Anzi, pare cui la passione di quel dolore si tra­ che la re­ sforma in gista ab­ esposizio­ bia lavo­ ne melorato di dramma­ cesello su tica e ro­ ciascuna mantica piuttosto parte. An­ che il per­ che comi­ ca ed iro­ sonaggio nica. Lo un po' ca­ ricaturato spettato­ dell'italia­ re si im­ medesima no Sonny acquista in questi simpatia Sos Egelind, Sidse Babett Knudsen e Rafael Edholm in L'unico e il solo personag­ gi molto in rotta (Den eneste ene) di Susanne Bier, 1999. Foto: Ole Kragh-Jacobsen. finale nel­ più che la recitazione autoironica ed un negli stereotipi che affollano la po' coquette di Rafael Edlund. tradizionale commedia popolare danese. La forza di tutti i film del­ Ma l'originalità di Den eneste ene la Bier è il loro essere racconto mo­ è il fatto che riesce ad uscire conti­ rale, guidato da una morale impre­ nuamente dallo schema che si è da­ vedibile e incarnato in personaggi to. Un film raccontato in modo di­ realistici, anche se il loro compor­ vertente, arguto e raffinato. Ma tamento viene rappresentato se­ anche un film che consapevolmen­ condo il prefissato copione multi­ te fa l'occhiolino alla commedia colore della commedia. tradizionale danese, anche se for­ tunatamente non si va oltre quella Lo stesso si può dire del film strizzata d'occhio e non ci si adagia Bornholms stemme (La voce di in quel genere "nazional popola­ Bornholm) di Lotte Svendsen, un re" così intriso di danesità e senti­ film molto diverso, ma nel quale ri­ mentalismo. troviamo alcune di quelle tenden-

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Bo Tao Michaelis ze evidenti anche nella produzio­ ne della Bier. Ci troviamo in un'al­ tra tradizione, più politicizzata, di socialrealismo da anni '70. Mentre il gioco di Susanne Bier con il ge­ nere può dirsi postmoderno, l'ap­ prodo alla commedia popolare della Svendsen è molto più politi­ cizzato ed impegnato sulla storia, senza che il tocco di intimismo nel­ la costruzione dei personaggi ven­ ga meno. Siamo nella Bornholm del 1981, una provincia, un'isola, che agli occhi di molti danesi è pa­ ragonabile a ciò che la Sicilia rap­ presenta per l'Italia. Un luogo ma­ gico, la cittadina di Nexo di Martin Andersen e l'isola di Pelle il con­ quistatore. Un luogo che trasuda di conflitti tra vita da pescatore e vita da contadino ed adesso, negli anni '80, anche di tempi moderni che, nel bene e nel male, diventa­ no sempre più sinonimo di turismo e di tutto quello che vi ruota attor­ no. Sonja fa la casalinga, mentre il marito Lars Erik guadagna lauta­ mente con la pesca. Il benessere raggiunge livelli al limite del di­ sgustevole con pareti piene di quell'attrezzatura con cui si gua­ dagna da vivere il Niller di Susanne Bier. Ma l'UE impone dei limiti alla pesca, e per l'isola si avvicina la fi­ ne del grande, redditizio self-servi­ ce del Baltico. Le cose si mettono male per la coppia e Sonja inizia a lavorare di nascosto, pittura chiosi­ ne in miniatura. Il marito glielo im­ pedisce. Qui siamo lontano dalla capitale, in un altro tempo, e le donne devono stare a casa a cuci­ nare ed accudire al marito quando questo torna a casa. Ma Bornholms stemme - il titolo è tratto dal nome di una radio locale

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- è molto più che una stanca gere­ miade sui tempi che cambiano. Il tono satirico verso modi e maniere dei nuovi ricchi danesi lo ricono­ sciamo dal cortometraggio Royal Blues; nel suo lungometraggio di debutto, che fonda su una trama leggera, l'accento satirico viene in­ trecciato a un tono di compassione. Il materialismo e la società del de­ naro impongono norme e conven­ zioni devastanti per le relazioni umane. Lo si potrebbe dire il tema conduttore del film. La Svendsen, che a Bornholm è nata, sente in modo particolare l'orgoglio popo­ lare che pervade una società di pe­ scatori. È umiliante che siano altri, e non chi nel mare lavora, a deci­ dere dalla lontana Bruxelles quan­ ti pesci un pescatore di Bornholm possa prendere nella rete. E questa umiliazione non incide solo sulla sfera economica e sociale ma ha anche risvolti psicologici che si fan­ no sentire nella sfera intima. Sonja e Lars Erik, nelle convincenti inter­ pretazioni di Sofie Stougaard e Henrik Lykkegaard, trovano, per così dire, un approdo al termine del film. Ma è l'immagine del pe­ scatore (buona l'intepretazione di Soren Hauch-Fausboll), che si suici­ da poiché non riesce ad accettare la sua nuova vita di tassista, a re­ stare incisa nella mente dopo l'epi­ logo relativamente lieto del film.

La presentazione solidale e artico­ lata che Lotte Svendsen fa dei suoi personaggi ammanta il film di sim­ patia e gli conferisce un trasporto contagioso. Lo si può definire me­ glio un racconto indignato con ac­ centi da commedia nel ritmo di quanto non valga per il racconto

Il cinema con la voce di donna morale della Bier. Entrambe le regi­ ste non cedono mai ad una misan­ tropia scandalizzata ed al cinismo e alla superbia ormai di moda. En­ trambi i film sono scaldati dal di dentro, ed anche i peggiori cliché vengono smussati in modo da pro­ durre altro che solo la risata com­ piaciuta e il ludibrio. Anche il com­ mercio "al nero" tra i pescatori del­ la Svendsen - qui si paga in con­ tanti e al netto dell'IVA - viene rac­ contato con umorismo e senza il di­ to accusatore puntato del political­ ly correct. Ed è caratteristico che entrambi i film affrontano i ruoli uomo-donna col pennello fine, mai mossi dal pregiudizio e dalla facile condanna. Il proprietario di pe­ schereccio arrivato dallo Jutland, naturalmente, è un maschilista. Ma siamo in provincia all'inizio degli anni '80 e la sua rabbiosa ristret­ tezza mentale rispetto al lavoro di Sonja deriva più da un originario orgoglio maschile che da una mo­ derna ideologia maschilista. Nel complesso entrambi i film sono moderni, ma con spunti di premo­ derno. La maternità come movente è infatti presente in ambedue i film. Anche in Bornholms stemme è presente il tema dell'adozione e la questione di chi sia degno di avere una famiglia con figli. Con l'appor­ to della buona sceneggiatura di Elith Nulle Nykjaer, Lotte Svendsen è più anarchica e politicizzata di Susanne Bier per il modo in cui ac­ centua l'influenza delle forze estra­ nee sull'ambiente in cui si svolge la vicenda. L'UE decide le quote di pe­ sca e l'amministrazione statale chi è degno di adottare dei bambini. Nel film della Bier gli elementi tro­ vano composizione in una elegan­ te rappresentazione che si fa gioco

dei dogmi e della ricerca di reali­ smo delle situazioni richieste dalla moda del momento. In Bornholms stemme interviene la magia per mano di forze che rendono ragio­ ne all'amore e alla dignità. Ma la superstiziosa credenza folklorica nel soprannaturale dell'isola non è demoniaca come in Riget di Lars von Trier, con i suoi fantasmi e spi­ riti inquieti. Il realismo magico del­ la Svendsen è in realtà positivo co­ me quello che troviamo nella pa­ tria del realismo magico, l'America Latina. È forse perché la magia in realtà origina da un matriarcato preistorico, quel matriarcato che una volta governava anche l'isola di Bornholm? E adesso si fa sentire simbolicamente come una voce femminile alla radio locale, che per lo più annuncia il ritorno sull'isola della band svedese che risponde al nome pagano di "Vikingarna". "Sì, nessuno può scuotere Bornholms stemme", risuona rassicurante la voce dello speaker Conny in mezzo alla miseria ed all'uragano.

In realtà in Danimarca esiste una lunga tradizione di registe donne: Bodil Ipsen, Alice O'Fredericks, Jyt­ te Rex e Helle Ryslinge. Esiste quin­ di una voce femminile nella storia del film danese, cui bene si unisco­ no le voci della Bier e della Svend­ sen. Se ci è permessa quest'affer­ mazione che - essendo chi scrive un uomo - potrà sembrare un'im­ pertinenza, diremo che esse utiliz­ zano il cinema in modo più fami­ gliare dei loro colleghi uomini, realizzando un ensemble da came­ ra in una cornice intima, che però si rivolge lo stesso in modo deciso e potente verso il mondo, con una prospettiva di universale umanità. 73

Bo Tao Michaelis

Cinema come giostra e caleidosco­ pio più che come sequenza di aperti conflitti dagli esiti catastro­ fici. Come invece utilizzano questo mezzo molti registi danesi. Forse è troppo presto per parlare di caratteristiche d'autore in Su­ sanne Bier e Lotte Svendsen, vista la loro ancor piccola produzione. Epperò pare evidente per entram­ be che non si lasciano domare dai confini tradizionali dei generi. Che assumono e riconoscono il cinema come rappresentazione, illusione e

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cabala. L'arte del possibile nell'ambito di infinite possibilità. Il cinema come una costruzione dell'uomo, un proposito artistico, e - a diffe­ renza di quanto vale per i loro col­ leghi uomini, i leggendari fratelli del dogma - come un'arte che non è né più autentica né più realistica delle altre regole dell'arte. E que­ ste, come si sa, sono sempre bef­ farde, sfuggevoli, e se ne vanno sempre per la loro strada, meglio se senza una carta o una bussola. Tradotto da Paolo Nesti Poggi

L'etnicitA nei

film danesi più recenti

di Karsten Fledelius

Immigrati e profughi dopo la seconda guerra mondiale Il rapporto dei danesi con la que­ stione etnica è cambiato molto dalla seconda guerra mondiale, durante la quale l'occupazione te­ desca risvegliò forti sentimenti na­ zionali e antigermanici. Tali senti­ menti si sono mantenuti durevoli e neppure oggi sono del tutto estin­ ti, anche se negli anni che vanno dal 1962 al 1972 si può dire che non esistesse un problema etnico in Danimarca. In quel periodo, in­ fatti, il senso nazionale e la simbo­ logia ad esso legata erano stati messi sotto accusa da uno Zeitgeist di sinistra che li trovava ridicoli. In­ sieme e contestualmente una lun­ ga fase di crescita economica portò il tasso di disoccupazione ai minimi storici, e il consistente flusso mi­ gratorio di lavoratori stranieri, provenienti in particolar modo dalla Jugoslavia, dalla Turchia e dal Pakistan, si indirizzava, con lo stes­ so consenso dei sindacati, verso quei lavori che i danesi comincia­ vano a rifiutare. Nel 1969 arrivò in Danimarca un numero notevole di ebrei polacchi, che furono ben accolti e in seguito integrati. Due erano gli elementi che favorivano un atteggiamento benevolo nei confronti di questo

flusso in entrata: l'ormai tradizio­ nale aiuto, sviluppatosi con il nazi­ smo, agli ebrei perseguitati e il fatto che gli ebrei polacchi fuggis­ sero da un regime comunista.

La successiva grande ondata di profughi si ebbe nel 1973, quando il generale Pinochet rovesciò Al­ lende e il suo governo in Cile. Di nuovo si trattava di profughi da una dittatura, e vennero ben ac­ colti. Ma negli anni '70 sono avvenuti due importanti mutamenti nella società danese: in primo luogo la Danimarca è diventata membro dell'unione Europea, e in secondo luogo il tasso di disoccupazione è iniziato a salire. Nel 1976 la Dani­ marca introdusse il contingenta­ mento dell'immigrazione, e fu in seguito possibile ottenere il per­ messo di soggiorno solo per ricon­ giungimento familiare o in qualità di profughi politici, limitazioni dal­ le quali risultavano comunque esclusi i cittadini degli altri paesi nordici e anche quelli degli altri paesi europei.

L'ingresso della Danimarca nell'Unione Europea fu controverso, poi­ ché molti vi si opponevano consi­ derandolo una minaccia all'iden­ tità nazionale. Si paventava un

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Karsten Fledelius paese invaso da europei mediter­ ranei affamati di welfare, che avrebbero sottratto lavoro ai da­ nesi, e si temeva inoltre che la legi­ slazione dell'unione Europea, a lungo termine, avrebbe indotto mutamenti indesiderati sulla so­ cietà danese e sui suoi valori. Que­ sti atteggiamenti portarono nel 1992 al referendum sugli accordi di Maastricht, che vennero respinti con un piccolo margine. Solo quando, nel 1993, il governo dane­ se promosse leggi che correggeva­ no le delibere dell'unione Europea rispetto agli affari sociali, all'inte­ grazione giuridica, alla collabora­ zione per la difesa e all'unione economico-monetaria, si potè rag­ giungere una maggioranza favo­ revole all'integrazione europea, sia pure modesta. A questo punto, l'atmosfera di chiusura contro gli extracomunitari assunse ancora più forza. I primi se­ gnali si erano manifestati nel 1985, con la protesta degli abitanti disoc­ cupati di una cittadina di provincia contro il fatto che i profughi ira­ niani che vi si trovavano avessero gratuitamente a disposizione delle biciclette. Che questi stranieri fos­ sero anch'essi oppositori di una dit­ tatura islamica non serviva affatto a renderli bene accetti. Un altro grosso gruppo di profughi a giun­ gere in Danimarca fu quello tamil dallo Sri Lanka. In questo caso l'allora ministro della giustizia cercò di intervenire sulla legge relativa­ mente liberale sull'asilo politico, per impedire ai profughi tamil che erano già in Danimarca il ricon­ giungimento con la famiglia.

La maggioranza del parlamento 76

danese era orientata in senso favo­ revole ai profughi, e alla fine l'ag­ giustamento della legge proposto dal ministro della giustizia portò, nel gennaio 1993, alla caduta del governo. Ma il nuovo esecutivo so­ cialdemocratico, con ciò ricevendo critiche per essersi posto al di fuori delle convenzioni internazionali, nell'ultimo anno ha ritoccato più volte in senso restrittivo la legisla­ zione relativa ai profughi e agli im­ migrati. Una tale politica non deri­ va più tanto dalla minaccia della disoccupazione, dal momento che questa, con il nuovo governo, è nettamente calata, ma da due fat­ tori diversi: in primo luogo, il timo­ re che del sistema di welfare dane­ se possano abusare i familiari stra­ nieri ricongiunti, che si trovereb­ bero a vivere alle spalle del sistema di protezione sociale; in secondo luogo, il rischio che la società da­ nese possa essere minacciata da stranieri che non vi si vogliono in­ tegrare, rifiutandosi di apprender­ ne la lingua e di assumere il modo di vita danese.

In questi timori gioca un ruolo rile­ vante il fatto che la maggior parte degli immigrati e dei profughi ne­ gli anni '90 sia di religione mussul­ mana. Tra il 1992 e il 1993 sono ar­ rivate in Danimarca grandi masse di profughi dalla Bosnia, il 90% dei quali mussulmano o di radici mus­ sulmane. Un altro grande gruppo di profughi, che tendeva ancor più a chiudersi in se stesso, è stato quello dei somali. La percezione dell'alterità, in questo caso, non proveniva soltanto dal diverso aspetto, ma anche dalla cultura, dal modo di vita e dall'elevato nu­ mero dei componenti del nucleo

L'etnicità nei film danesi più recenti

familiare. A questi gruppi si sono aggiunti peraltro palestinesi e liba­ nesi, oltre a turchi, curdi e pachi­ stani arrivati a seguito delle fami­ glie. E a questo punto è necessario considerare un aspetto ulteriore della questione etnica: i primi gruppi di immigrati jugoslavi, tur­ chi e pachistani, giunti intorno agli anni '70, hanno figli nati in Dani­ marca, che sono ormai diventati adulti, e che ritengono naturale essere considerati danesi, e dun­ que ne rivendicano gli stessi diritti, a partire da quello al lavoro. Que­

sta generazione ha frequentato scuole danesi e normalmente parla danese correntemente. Ma di soli­ to ha mantenuto la fede dei propri genitori. Nella maggior parte dei casi, so­ prattutto nelle famiglie mussulma­ ne, i genitori hanno cercato di tra­ smettere ai figli la loro identità ori­ ginaria. Si sono infatti mostrati contrari a che i figli si sposassero con danesi e spesso danno molta importanza al fatto che i figli spo­ sino un partner, scelto dai genitori,

Nau. jEG fA/l ET DA/x/fK n/Avn/z V/L

V/O-E

"Quando avrò un nome danese, voglio essere ingegnere". Pubblicità dall'associazione Nydansker (Neodanese) fatta dall'ufficio pubblicitario Agitator, parte da una serie pubblicata tra l'altro nei giornali danesi nel 2000.

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Karsten Fledelius che provenga dal loro stesso paese di origine, meglio ancora se appar­ tenente a famiglie della stessa città di provenienza. Ciò è irritante per molti danesi, in parte perché nella Danimarca moderna è norma che i figli scelgano da soli il pro­ prio partner, in parte perché sem­ bra un modo elegante di aggirare il divieto di immigrazione. In breve, il danese di oggi pensa che, a meno che gli immigrati non si integrino velocemente nella so­ cietà danese, essi possono rappre­ sentare una minaccia contro lo stesso ordine sociale. Mogens Glistrup, uno dei più accaniti politici di destra, ha dichiarato a questo proposito che si presenterà alle ele­ zioni per rendere la Danimarca "li­ bera dai mussulmani". Che la li­ bertà di religione sia un principio garantito dalla Costituzione sem­ bra essere passato di mente sia a lui che a molti altri. Ciò non ha reso più semplice ai figli degli immigra­ ti cresciuti in Danimarca il diventa­ re cittadini danesi a tutti gli effetti. Da un lato essi sono pressati dai ge­ nitori che cercano di mantenere la loro etnicità originaria e di eserci­ tare nei loro confronti l'autorità fa­ miliare, stimoli questi evidente­ mente diversi da quelli dei loro coetanei danesi. Dall'altro sono pressati dai danesi stessi, che richie­ dono loro di integrarsi, imparare il danese e procurarsi un lavoro nor­ male, che tuttavia non gli è facile trovare perché molti imprenditori sono recalcitranti non solo ad im­ piegare immigrati, ma anche immi­ grati di "seconda generazione", cioè i figli degli stranieri cresciuti in Danimarca, perché i loro nomi stra­ nieri provocano sfiducia. 78

Così, alla fine del millennio, il pro­ blema degli immigrati e dei profu­ ghi è la questione politica più di­ scussa in Danimarca, nonostante oltre il 90% della popolazione sia "etnicamente danese". Non sono stati solo i politici della destra, ma anche gli appartenenti ai circoli so­ cialdemocratici, a dipingere la ter­ ribile visione di una presa del po­ tere da parte dei mussulmani en­ tro il duemila. Mai si era discusso così tanto della cristianità della Da­ nimarca come ora che la si ritiene minacciata: si stigmatizzano le vio­ lazioni alla legge nei casi di matri­ moni combinati per aggirare i vin­ coli all'ingresso, si propone l'espul­ sione di tutta la famiglia per gli immigrati che sporcano la propria fedina penale, si discute di ulterio­ ri limitazioni ai ricongiungimenti familiari e ai diritti al lavoro e al­ l'abitazione per i cittadini danesi che si sposano con stranieri. Ovviamente esiste anche un movi­ mento contrario a queste tenden­ ze negative. Ma i sondaggi d'opi­ nione indicano che la paura del di­ verso ha conquistato una grossa parte della popolazione danese, e che perciò essa può avere un peso decisivo alle prossime elezioni.

Il cinema e II Regno Danese

Il rinnovato milieu dell'arte cinema­ tografica danese, di norma, ha sem­ pre avuto un atteggiamento pro­ gressista rispetto al tema dei diritti umani. Negli anni '60 è stato so­ prattutto il documentarista Jorgen Roos a mettere in discussione la po­ litica ufficiale del governo nei con­ fronti dei groenlandesi, il maggior

L'etnicità nei film danesi più recenti gruppo nazionale di minoranza al­ l'interno del Regno. Sia Roos che al­ tri registi, alcuni dei quali groenlan­ desi, hanno portato all'attenzione il problema di quella identità na­ zionale e del suo rapporto con quella danese, e il cinema ha senza dubbio contribuito a una migliore considerazione di quel rapporto, favorendo inoltre un più forte au­ toriconoscimento da parte dei groenlandesi. Dopo l'introduzione dell'autonomia nel 1979, la que­ stione groenlandese è comparsa più raramente nei film danesi, ma opere come la riduzione cinemato­ grafica del romanzo di Peter Hoeg Il senso di Smilla per la neve di Bilie August e II cuore della luce, con il bravo cantante folk groenlandese Rasmus Lyberth nei panni di un vi­ goroso personaggio, si occupano da diversi punti di vista dell'impat­ to culturale tra l'isola e il regno.

Tra quelli che vedremo in questo festival, compare un solo film di te­ ma groenlandese che lambisce la problematica dell'incontro tra due culture. Si tratta di Sinilluarit (Buo­ na notte) di Inuk Silis Hoegh, un film finanziato e prodotto in Groenlandia. Si tratta in sintesi della storia di un uomo che, a let­ to, viene rifiutato da sua moglie. Costui si alza, si allontana e comin­ cia a immaginarsi di tutto; si rende conto che lei va assai spesso al cir­ colo di cucito e progetta di spiare se è veramente lì che trascorre le sue serate; poi trova una foto che mostra un uomo dall'aspetto da­ nese presente a una festa di Nata­ le al circolo, e preso dalla gelosia si immagina che abbia una relazione con sua moglie, va in giro tutta la notte e alla fine, sconvolto, gli ca­

pita pure di cadere in acqua. Torna a casa tutto fradicio, si addormen­ ta in salotto e là, il mattino dopo, la moglie lo sveglia amorevolmen­ te: si è trattato solo di una tempe­ sta in un bicchier d'acqua. Il film, nella sua descrizione umoristica della vita quotidiana, è rappresen­ tativo della nuova cinematografia groenlandese.

Il film di Lotte Svendsen La voce di Bornholm narra invece della so­ cietà insulare al confine opposto del Regno Danese, quella dell'isola di Bornholm nel Mar Baltico. Il ten­ tativo è quello di delineare il qua­ dro di una società profondamente diversa da quella del resto della Danimarca, tanto diversa che i nati­ vi che hanno preso parte al film si sono dovuti alla fine doppiare. Lars Erik, un esperto pescatore origina­ rio della costa occidentale dello Ju­ tland, si è trasferito a Bornholm dove si è sposato con Sonja e, con la pesca, ha guadagnato molti sol­ di: possiede infatti un grande pe­ schereccio con diversi marinai, una casa grande e un'auto, la famiglia ha un buon livello di vita e natural­ mente Sonja non lavora. Ma nel 1981 arriva la notizia che dal primo dell'anno del 1982 verranno intro­ dotte le quote per la pesca: dovrà perciò diminuire drasticamente la quantità di pesce pescato e i pesca­ tori dovranno vendere le loro bar­ che, oppure le dovranno disarmare ricevendo un indennizzo. Ma Lars Erik non vuole neppure sentirne parlare, e non intende neanche ac­ cettare che, in questa nuova situa­ zione, sua moglie vada a lavorare presso i vicini per dipingere souve­ nirs: non ha nessuna intenzione di rinunciare al suo peschereccio. Gli 79

Karsten Fledelius altri pescatori però gli rinfacciano di continuare a pescare dopo l'in­ troduzione delle quote, e presto si arriva ad una rissa in cui Lars Erik è difeso da un uomo del suo equi­ paggio, un immigrato siciliano di nome Francesco. Ma per quanto ci si opponga, non si può resistere al mutamento: Francesco finirà per lasciare Lars Erik e metterà su una pizzeria con la moglie, nativa di Bornholm, mentre Lars Erik sarà presto costretto a cominciare a vendere tutto ciò che possiede, precipitando via via nella più cupa disperazione. Oltre a ciò, come ulti­ ma beffa, a Lars Erik e alla moglie viene negato il diritto all'adozione proprio a causa delle condizioni economiche sempre più precarie. Entrambi cadono in una profonda crisi che quasi costa loro la vita, ma alla fine la storia si risolve positivamente: Lars Erik troverà un lavoro, un imbarco sulla nave traghetto fra Bornholm e la Danimarca, e gli verrà finalmente accordato il per­ messo di adottare un bambino. Non un bianco, perché, come dice la moglie di Francesco, i bambini bianchi erano tutti finiti, ma un piccolo asiatico dalla pelle scura. Il film disegna questo particolare mi­ crocosmo insulare con molto calore e con l'idea che ogni ambiente del­ la provincia danese abbia un suo proprio tratto distintivo. Al tempo stesso mette in luce come siano la minaccia al lavoro e la disoccupa­ zione a creare astio e intransigenza contro gli stranieri. Anche la fine della storia, con la comparsa di un piccolo asiatico contiene in sé un messaggio: che ogni uomo è un uo­ mo, e ogni bambino un bambino. Tuttavia gli argomenti qui trattati rispecchiano più il dibattito degli 80

ultimi anni '90 che non quello dei primi anni '80. Il tema dell'adozione compare an­ che ne L'unico e il solo di Susanne Bier, il film danese che ha avuto il maggior numero di spettatori nel 1999. Argomento centrale è la bat­ taglia per arrivare ad avere un bambino quando il "metodo natu­ rale" fallisce, battaglia che preve­ de l'utilizzo di tutti i mezzi. La sto­ ria è quella di una coppia che ha adottato un piccolo orfano africa­ no; quando però la madre muore, il padre si trova in difficoltà con i servizi sociali. Si arriva addirittura a una lotta del tutto insensata con­ tro le autorità, che nel film viene trattata in tono umoristico. L'ele­ mento razziale è sottolineato dal fatto che l'assistente sociale, che frappone una serie di difficoltà al padre adottivo, è una danese di colore. Un tale plot evita di mette­ re in evidenza una problematica che è stata assai attuale negli anni '90: l'espulsione, da parte delle au­ torità preposte alla regolamenta­ zione del flusso degli stranieri, di bambini "non accompagnati", co­ me si chiamano in Danimarca, una delle motivazioni verso la mancata accoglienza dei quali è che non possono dimostrare di essere per­ seguitati politici. Il film sottolinea semmai il fatto che la battaglia per l'adozione è qualcosa di indipen­ dente dal colore della pelle - cosa che anche La voce di Bornholm mette in evidenza.

Questi film mostrano che a parte i profughi e gli immigrati, ci sono dei bambini e dei giovani danesi dall'aspetto straniero, anche se so­ no cresciuti all'interno di famiglie danesi. Una grande parte degli at­

L'etnicìtà nei film danesi più recenti tori che impersonano i figli degli immigrati appartengono in realtà a questo gruppo che è pienamente integrato e ha il vantaggio fonda­ mentale di non avere soltanto il danese come lingua madre, ma an­ che di portare un nome danese.

di conoscerla e continua ad osser­ varla di nascosto, ma la giovane danese se ne accorge e natural­ mente comincia a chiudere le ten­ dine della finestra. Alla fine, però, la protagonista riesce a far capire alla sua coetanea danese che vor­ rebbe soltanto fare amicizia con lei e sentirla suonare. La ragazza da­ Il film e i nuovi danesi nese rimane toccata, le regala un biglietto per una serata durante il Ma che succede agli stranieri che a quale suonerà il Concerto per vio­ prezzo di mille difficoltà sono riu­ loncello di Dvorak, e le fa promet­ sciti a passare per la cruna dell'ago tere di venire. La ragazza iraniana e hanno ottenuto un permesso di si prepara per la serata e la madre soggiorno stabile o addirittura la l'aiuta, ma proprio mentre è quasi cittadinanza danese? E che succede pronta appare il padre che le proi­ ai loro figli, bisce di usci­ dei quali un re. Lei non può che rin­ numero chiudersi nel­ sempre mag­ giore è nato la sua stanza e cresciuto in e sognare con la fantasia Danimarca, e frequenta di essere al scuole dane­ concerto. In si? Molti dei maniera film più re­ toccante il film mostra centi pren­ dono spunto nitidamente il conflitto proprio da Thomas Bo Larsen, Paprika Steen e Gbatokai Dakinah nel Festen di Thomas Vinterberg, 1998. Foto: Lars Hogsted. loro. generazio­ nale che sof­ II toccante film-novella La mia bel­ frono molte ragazze figlie di immi­ la vicina descrive la storia di una grati: desidererebbero avere con­ graziosa ragazza di origine irania­ tatti con giovani danesi della loro na o pachistana, che a causa del età e studiare, ma urtano contro il suo aspetto e del suo nome stra­ tradizionale modello patriarcale nieri non riesce a trovare un posto della propria famiglia. Il film, tut­ di tirocinio. Il padre cerca di con­ tavia, mostra anche un altro punto vincerla a sposarsi, ma lei non vuo­ di vista: quello del padre, che era le. Sogna infatti di poter studiare e venuto in Danimarca come inge­ dalla sua stanza osserva con un bi­ gnere ma che ha trovato lavoro so­ nocolo una ragazza danese che vi­ lo come tassista. Egli non riesce ve dall'altra parte del condominio, quindi a capire in che cosa lo stu­ suona il violoncello e incontra sen­ dio, che lei sogna, possa essere uti­ za problemi il suo ragazzo. Cerca le alla figlia. Di particolare interes­

si

Karsten Fledelius se ne La mia bella vicina è che, con­ trariamente agli altri film che toc­ cano la questione razziale, è scritto e diretto da un immigrato, Amir Rezazade. Nei due film II matrimonio di Sinan e Pizza King del danese Ole Chri­ stian Madsen la stessa problemati­ ca trova un'espressione più violen­ ta e drammatica. Il matrimonio di Sinan è un film-novella di appena un'ora, incentrato sui tre giorni precedenti il matrimonio del pro­ tagonista, il giovane turco Sinan, con la sua bella fidanzata Gùl, di origine turca ma cresciuta in Dani­ marca. Il film inizia con Sinan che si sveglia a casa di una ragazza dane­ se con cui ha un legame e la prega di pazientare un po' per il prossi­ mo incontro, visto che in quei gior­ ni si deve sposare. La ragazza, però, gli risponde che non ha nes­ suna intenzione di frequentare uo­ mini sposati. Ma non è la perdita della ragazza il problema maggio­ re per Sinan. È piuttosto il fatto che con il matrimonio sarà costret­ to ad assumere la gestione del ri­ storante che suo padre possiede nel quartiere di Vesterbro a Cope­ naghen, mentre ciò che vorrebbe davvero è andare negli Stati Uniti, tanto meglio se con Gùl. Ma Gùl non ha affatto voglia di lasciare la Danimarca, perché vuole studiare danese, non inglese. Dietro il ma­ trimonio si nasconde il fatto che il padre di Sinan deve dei soldi al pa­ dre di Gùl, che con la sua ricchezza manovra i traffici del quartiere tur­ co di Copenaghen. Il matrimonio è l'occasione per il padre di Sinan di liberarsi del suo debito. Sinan è quindi diviso tra il rispetto per suo padre, al quale vuole bene, e la re­

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pulsione per essere spinto verso un futuro che non desidera. Sinan reagisce andando in un night club, dove conosce e frequenta una gio­ vane ballerina danese, venuta da una città di provincia la cui vita le sembrava troppo monotona. Poi­ ché non riesce a coinvolgere Gùl nei suoi progetti sull'America, Si­ nan progetta di fuggire all'estero con lei. Durante la sontuosa festa turca di matrimonio egli tiene un discorso durante il quale ringrazia i suoi genitori, ma dice che non si può sposare con Gùl. Dopodiché fugge. Alla fine però viene riac­ ciuffato dal padre, che lo imbarca su un aereo per gli Stati Uniti con­ sigliandogli di non farsi mai più ve­ dere e di procurarsi una nuova identità. Secondo il padre, Sinan non è che un immaturo playboy pieno di amici danesi che desidera solo stare in città a spassarsela, nulla a che vedere con suo nonno che rapì sua nonna per poterla sposare. In realtà anche Sinan avrebbe rapito volentieri Gùl se la ragazza lo avesse voluto seguire negli USA. Ma lei è molto più ma­ tura e desidera realizzare le pro­ prie opportunità in Danimarca. Il vero sconfitto, alla fine, risulta es­ sere il padre, che non è stato capa­ ce di imporre al figlio la propria volontà, con ciò consegnando al consuocero la merce che lo avreb­ be liberato dalle spire del debito.

Il lungometraggio Pizza King di Ole Christian Madsen è ancora più crudo. I quattro giovani "nuovi da­ nesi" che vediamo nel film sono manifestamente dei criminali: il primo è turco, il secondo arabo, il terzo pachistano e l'ultimo di in­ certa origine. Si incontrano nel

L'etnicìtà nei film danesi più recenti bar-shawarma "Pizza king" in un quartiere operaio di Copenaghen. Contrariamente a II matrimonio di Sinan, ambientato nella classe me­ dia, i quattro amici provengono dalle famiglie più povere: al centro abbiamo gli amici Junes e Bobbyimpersonato dallo stesso attore che ha il ruolo di Sinan (Janus Na­ bil Bakrawi). Ole Christian Madsen, agli esordi, ha rivolto la sua atten­ zione alla vita di una metropoli moderna di cui gli stranieri, dal punto di vista etnico, costituiscono una parte importante, ma ha pre­ sto focalizzato la sua attenzione proprio sulle etnie, che hanno as­ sunto un posto centrale nella sua produzione più recente. Ha colla­ borato anche alla popolarissima serie per la TV danese Taxa (Taxi), in cui compaiono molti degli attori che ha impiegato nel suo film sul­ l'ambiente dell'immigrazione. Zlatko Buric, di origine jugoslava, ha impersonato il turco padre di Si­ nan, mentre in Taxa appare come l'immigrato bosniaco Meho; Janus Nabil Bakrawi, che ha i ruoli di Si­ nan e Bobby, in Taxa impersona il rissoso Walid, immigrato arabo. In questa serie televisiva, però, i "nuovi danesi" non hanno alcun ruolo centrale. L'immigrazione ha grande rilevanza nel film Pusher, diretto da Nicolas Winding Refn. Anche qui ci trovia­ mo in un ambiente criminale, quel­ lo dei grandi trafficanti. Il danese Frank smercia piccoli quantitativi di eroina insieme al suo socio Tony, anch'egli danese; essi ricevono l'e­ roina da Milo, il padrone di un ri­ storante immigrato dall'ex-Jugoslavia, interpretato da Zlatko Buric. Il suo braccio destro è il serbo Rado­ van, impersonato dallo jugoslavo

Slavko Labovic, un gigante glabro e muscoloso. Piano piano Frank si tro­ va a dipendere sempre di più da Mi­ lo perché, nonostante la grande brutalità, non riesce a far firmare cambiali ai suoi clienti per i soldi che gli devono, e anche perché un affare con alcuni svedesi, scoperto della polizia, gli va male. Nella sua inesorabilità, il film dà un quadro del più duro ambiente narco della capitale, ma è meno interessante dal punto di vista etnico.

Anche il film successivo di Refn, Bleeder, è un film in cui il ruolo più importante degli stranieri è quello di mostrare come (certi) danesi si comportano nei loro confronti. Lo stesso vale per il film di Thomas Vinterberg Festen, che narra di un sessantesimo compleanno che fini­ sce nel caos più totale e in una sconfitta per il festeggiato. La festa si tiene in una casa signorile, quasi un castello, in una zona ricca, pre­ sumibilmente a nord di Copena­ ghen. La figlia del festeggiato, He­ lene, porta con sé il nuovo fidanza­ to, un africano giovane e garbato, che dapprima suo fratello Michael cerca di mandare via nella maniera più grossolana e nei cui confronti si esprime poi in termini estremamente razzisti. La festa si trasforma in un inferno, in cui si ha l'impres­ sione che l'unica persona del tutto normale sia l'africano: sono piutto­ sto i danesi della migliore società, pazzi, frustrati o paranoici in vario grado, a trovarsi e rispecchiarsi nel­ la normalità dell'africano.

La commedia di Anders Thomas Jensen, La notte delle elezioni, breve e ben girata, presenta un co­ mico ritratto dei pregiudizi che 83

Karsten Fledelius animano tanto l'etnia danese quanto quelle allogene. Il film ini­ zia in un'osteria di Copenaghen dove il protagonista, del tutto po­ litically correct, ha appena inviato un carico di tappeti in Kosovo e or­ dina birra messicana seduto al banco, mentre il barista, suo ami­ co, preferisce birra danese tradi­ zionale, la Hof della Carlsberg. Ma quando il protagonista improvvi­ samente si accorge che è rimasta solo mezz'ora prima che i seggi elettorali chiudano, si precipita fuori dalla porta e salta su un taxi. Il conducente, un danese, si espri­ me in maniera così razzista contro i "nuovi danesi", soprattutto ara­ bi, che il cliente chiede di scendere. Il tassista successivo si manifesta chiaramente nazista, e pensa prin­ cipalmente che i turchi cerchino di minare geneticamente l'Europa,

dal momento che hanno violenta­ to tutte le donne dell'isola di Cre­ ta. Il terzo conducente, un turco, pensa invece che tutto vada bene, ma lo fa impazzire il fatto che una rosticceria turca sia stata rilevata da giapponesi, perché, dice, non li può assolutamente soffrire. Il no­ stro elettore salta fuori ancora una volta, e sotto la pioggia rifiuta l'of­ ferta di un passaggio da un condu­ cente di taxi che porta un berretto con la bandiera degli Stati sudisti all'epoca della guerra di secessione americana - probabilmente perché un tale simbolo dimostrava le sue convinzioni circa i neri. Finalmente riesce ad arrivare al seggio, ma vie­ ne fermato da una giovane donna danese dall'aspetto africano, che sta chiudendo la porta. Il protago­ nista frappone il piede e chiede, addirittura supplica di poter entra­

Ulrich Thomsen ne La notte delle elezioni di Anders Thomas Jensen, 1998.

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L'etnicìtà nei film danesi più recenti re, sostenendo che "è anche per aiutarvi" che è venuto - un'osser­ vazione che la donna considera co­ me rozzamente discriminante. Lo chiama razzista, e accorre un dane­ se che gli dà un pugno e lo butta per terra. Il film si chiude nell'oste­ ria in cui era cominciato: l'elettore lascia perdere la birra messicana, ordina una buona Carlsberg e brin­ da con gli altri.

In Cina mangiano i cani di Lasse Spang Olsen è una commedia nera di gangster ambientata nella downtown di Copenaghen. Al cen­ tro stanno due fratelli: Arvid, un tranquillo bancario, e Harald, un gangster rotto a tutti i vizi, che per un colpo in banca riceve aiuto da Vuk, un immigrato della ex-Jugoslavia. Arvid è l'uomo onesto i cui nobili fini producono delle conse­ guenze paranoiche, e che viene precipitato dall'amore per il fratel­ lo in un giro criminale e violento. Quando Vuk rimane ucciso, i suoi amici e compatrioti, sotto la guida del già citato Slavko Labovic, cerca­ no di vendicarlo. La risposta di Ar­ vid è altrettanto violenta: spara in testa a un uomo e uccide un'intera banda rock. Alla fine tutti i combat­ tenti restano sul campo come acca­ de alla fine dell'Am/eto di Shake­ speare. Un angelo e un diavolo scel­ gono i caduti, e l'angelo sceglie Ar­ vid. Anche se il suo comportamento ha portato alla catastrofe totale, egli era pur sempre un uomo buo­ no che cercava il bene. Sul piano esplicito della narrazio­ ne, In Cina mangiano i cani mostra il contrasto fra danesi e ex-jugosla­ vi nell'ambiente malavitoso di Co­ penaghen. Ma ci sono alcune sfu­

mature interessanti. Lo sfortunato Vuk è interpretato non da un ex­ jugoslavo ma da un inglese (Brian Patterson). In compenso il bravo bancario danese Arvid è imperso­ nato da un ex-jugoslavo, Dejan Cukic, che finalmente ha ottenuto un ruolo in cui viene riconosciuto come danese integrato. Ma Dejan Cukic, uno dei molti bravi attori tra i "nuovi danesi", è cresciuto in Da­ nimarca - suo padre arrivò nel pae­ se già nel 1968. Nei film citati, inol­ tre, troviamo spesso altri attori di origine jugoslava, come Slavko La­ bovic e Zlatko Buric. Attori altret­ tanto interessanti sono Janus Nabil Bakrawi, che incontriamo in molti film, e Ali Kazim, che recita nel ruolo commovente di Junes in Piz­ za King. Se alla fine degli anni '90 il film "etnico" e il film con ele­ menti "etnici" sono diventati così popolari, non dipende quindi sol­ tanto dal fascino che i nuovi registi subiscono dagli ambienti esotici nella capitale danese, ma anche dal fatto che nella nuova genera­ zione di "nuovi danesi" si trovano grandi risorse interpretative, su cui sia il cinema che la televisione pos­ sono contare. Dalla bella commedia Fratello, fra­ tello mio o Theis e Niko si può ca­ pire che forse una nuova genera­ zione sta nascendo. Seguiamo due fratelli, rispettivamente di nove e sei anni in un quartiere periferico. Vengono attratti da una graziosa bambina indiana di nove anni, che invita il più piccolo dei due alla fe­ sta di compleanno credendo di aver indicato sull'invito il nome del più grande. Il bambino di nove an­ ni ha istruito il fratellino sulla ma­ niera di baciare, basandosi sulla prima pagina strappata da un vec-

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Karsten Fledelius chic opuscolo di Via col vento. Quando entrambi si presentano al­ la festa di compleanno e vengono ben accolti in un ambiente molto diverso dal loro, il bambino di sei anni dice a quello di nove che adesso deve far vedere cosa è ca­ pace di fare. Nonostante l'imba­ razzo per la cotta che si è preso per la bambina, lui la prende, la fa ri­ cadere all'indietro sulla schiena e le dà un lungo bacio sulla bocca. Tutti rimangono sbigottiti, com­ presi i ragazzi, e la bambina si asciuga le labbra umide con un movimento arrabbiato della ma­ no. Ma improvvisamente l'atmo­ sfera viene rotta da risa e sorrisi, e gli altri ragazzi, mentre ballano con le ragazze, le fanno ricadere all'indietro e le baciano. L'incontro tra le culture è riuscito! Qual è dunque, in generale, il rap­ porto tra l'etica e gli immigrati o i "nuovi danesi" nei film degli ultimi anni? Danno generalmente u'idea di giovani violenti, senza radici, im­ plicati in vari reati, dalla rissa al traffico dell'eroina? Portano al fuoco dell'odio razzista? Forse. Ma al tempo stesso presentano impie­

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tosamente l'autocompiacimento, il razzismo e la brutalità dei danesi. Consentono anche di intravedere qualcosa dei meccanismi che posso­ no trasformare gente pacifica in razzista. Penetrano nei dolorosi conflitti cui i figli degli immigrati, sia ragazzi che ragazze, sono co­ stretti, quando la famiglia preten­ de da loro che si limitino ad acco­ gliere con riconoscenza tutto ciò che è stato organizzato per loro, come il matrimonio e il lavoro. E mostrano ancora che è possibile per alcuni dei figli degli immigrati sfondare e crearsi la propria vita, mentre altri si rappacificano con la famiglia, e altri ancora si perdono o fuggono.

Si tratta dunque di film importan­ ti, perché possono aiutare i danesi a comprendere i conflitti che agi­ tano i figli degli immigrati. Ma il valore di questi lavori consiste es­ senzialmente nella loro qualità e nel fascino che sono in grado di emanare, e che proviene tanto dal­ l'ambiente quanto dagli interpreti. Tradotto da Alessandra Perticci

Comicità, commedia e

cani cinesi

di Michael Eigtved

La comicità, l'umorismo e la situa­ zione ridicola sono tipiche del cine­ ma fin dalla sua nascita. Ciò si deve certamente al fatto che la comme­ dia e la farsa, dal punto di vista del­ la forma, sono particolarmente adatte alle potenzialità espressive del mezzo. In rapporto ad altri tipi di narrazione - tragedia, mito e dramma morale -, la commedia e la farsa si caratterizzano per un iter narrativo costituito dalla successio­ ne di numerose scene brevi. Le far­ se, per loro natura, si sviluppano con un ritmo accelerato e con ef­ fetti di comicità immediata, tanto che la moderna tecnica di montag­ gio è stata anticipata dalla costru­ zione a mosaico delle farse sulla ca­ mera da letto. Nella commedia le situazioni sono l'elemento fonda­ mentale, l'umorismo si sviluppa in situazioni divertenti e in comiche immagini istantanee, e la grande storia viene sacrificata volentieri a una gag efficace o a un siparietto particolarmente esilarante, che poi il montaggio si incaricherà di enfa­ tizzare.

Entrambe le forme, dunque, han­ no un forte impatto visivo. La com­ media non rinuncia ad alimentarsi di figure comiche, esagerazioni e minimizzazioni, stranezze del cor­ po, mimica e gestualità. Al centro dell'attenzione sono evidentemen­

te gli attori, e primi piani della co­ micità che è insita nell'esistenza umana si alternano ad inquadratu­ re totali in cui il piccolo uomo è collocato nell'ottica beffarda o pa­ tetica della grande prospettiva.

L'umorismo è tipico dell'uomo Anche se questo saggio si riferisce al cinema danese e alla concezione danese della comicità cinemato­ grafica, tuttavia è utile notare che il tratto caratteristico dell'umori­ smo è proprio la sua trasversalità. Perché, sostiene il filosofo francese Henri Bergson, non esiste niente che sia comico senza essere uma­ no. Nel saggio II Riso Bergson af­ ferma che solo gli uomini possono essere divertenti: una sedia o un cavallo non sono comici; solo quando sono implicati uomini vivi qualcosa può far ridere. Una sedia può semmai divertire se ci ricorda qualcosa di umano: una signora grassa o un uomo gracile, ad esem­ pio. Così la danza dei panini nella Febbre dell'oro di Chaplin è diver­ tente perché ci immaginiamo l'o­ mino con i piedi di pane. Oppure Babe, maialino coraggioso, che è audace e assomiglia più a un ra­ gazzino che a un maiale, e fa ride­ re perché parla e agisce come un essere umano. 87

Michael Eigtved Il centro di ogni tipo di umorismo è quindi l'uomo, e il suo punto di partenza è qualcosa che ha a che fare, in senso lato, con noi in quan­ to uomini, non con il paese, la so­ cietà o le specificità del luogo. È, in pratica, un modo di interpretare il mondo, una forma di comunica­ zione di valore universale, mentre l'elaborazione e il contesto, come mezzi in cui l'umorismo e la comi­ cità assumono veste concreta, va­ riano con i gruppi sociali, le strut­ ture della società, le regioni e le nazioni.

(spesso quella del pubblico), è in­ vece nelle mani degli altri che si di­ vertono alle sue spalle. Le figure tragicomiche di Buster Keaton e Charlie Chaplin esprimono molti dei significati del burattino che di­ sperato cerca afferrare la moder­ nità e le sue esigenze cogenti e molteplici. Bergson afferma che qui, ad essere in gioco, è ovvia­ mente la libertà. O meglio, le illu­ sioni della libertà. Perché, per ren­ dere comiche le rappresentazioni della libertà, occorre coprire i fili che animano la marionetta.

Bergson individua tre tipi di comi­ cità. Il primo è l'orco nella scatola, cioè la situazione nella quale qual­ cosa viene pressato verso il basso e torna su con un balzo. Si tratta in pratica del conflitto tra due forze, delle quali una è meccanica (esat­ tamente la molla nella scatola) e l'altra umana (propriamente le mani e la volontà di chi spinge l'or­ co verso il basso). Ma questo con­ flitto ha ovviamente anche un va­ lore figurato, cioè quello del pen­ siero che viene espresso e represso, come nei monologhi in cui una fra­ se, con effetti comici, viene conti­ nuamente interrotta. Si potrebbe sostenere che molti dei film di Woody Alien si servono proprio di una comicità di questo tipo: i suoi commenti incongruenti, eterna­ mente associativi, sono governati proprio da repressioni simili a quelle che per tutto il tempo trat­ tengono l'orco nella scatola.

L'ultimo tipo è la Palla di neve. Si tratta di un tipo di umorismo che poggia su un effetto che si molti­ plica, e in cui una causa originaria­ mente insignificante porta a un ri­ sultato che è tanto enorme quanto inaspettato. È in pratica il principio fondamentale della farsa. Una ver­ sione di questa tipologia si manife­ sta quando, dopo una lunga se­ quenza di azioni fra loro legate e nonostante un lungo giro, ci si ri­ trova al punto di partenza. Quan­ do, cioè, si mettono in atto molti sforzi per non ottenere nulla. Le commedie americane come La grassa vacanza di papà di Chevy Chase o l'intera serie dei film Scuo­ la di polizia sono governate pro­ prio da questo tipo di comicità. Pic­ cole cose, come una piccola dimen­ ticanza in Mamma ho perso l'ae­ reo, hanno conseguenze incalcola­ bili, che tuttavia alla fine si risolvo­ no felicemente: è la comicità a sgonfiare il castello delle conse­ guenze.

Il secondo tipo, il burattino, è qua­ si la stessa cosa. Si tratta del tipo di umorismo in cui uno crede di pen­ sare e agire liberamente mentre, osservato da un'altra prospettiva 88

L'umorismo, come abbiamo già constatato, è direttamente legato agli uomini. Ma oltre ad essere un

Comicità, commedia e cani cinesi

mezzo di espressione comune all'u­ manità intera, la comicità ha anche una sua funzione. Per Bergson essa esprime un'imperfezione che ha bi­ sogno di una correzione. Il riso è un agitarsi sociale. "La persona che va per la sua strada del tutto automa­ ticamente, senza pensare di entrare in contatto con gli altri, è comica. Il riso è quindi un rimedio alla sua di­ strazione e lo risveglia dai suoi so­ gni". C'è dunque anche una pro­ spettiva sociale nella comicità e nel­ la descrizione delle figure comiche.

Noi ridiamo degli errori della gen­ te, la mancanza di capacità di adat­ tamento sociale è comica. Il clown è divertente proprio perché fa tutto "alla rovescia": aspira nella tromba invece che soffiarvi, indossa la gon­ na invece dei pantaloni, insieme a scarpe troppo grandi e cappelli troppo piccoli. La comicità scaturi­ sce dal trovarsi in contrasto con le norme vigenti. Il riso, insomma, è un modo di indicare delle deroghe. Ma è anche, di contro, un modo di ribadire le regole e di ridefinire i confini dell'accettazione sociale.

L'umorismo ha una funzione

Così come il divertimento, in gene­ rale, non è mai semplicemente di­ vertimento, ma anche espressione di qualcosa di contemporaneo, allo stesso modo l'umorismo - e il film che lo usa - è sempre espressione di qualcosa di contemporaneo. L'u­ morismo ha una funzione. Ogni so­ cietà ha bisogno dell'umorismo. Al­ meno per tre diversi motivi. Il primo e, nonostante tutto, forse il più importante motivo è che l'u­

morismo è un'insostituibile valvola di sicurezza. Proprio perché la co­ micità afferma le norme sociali, l'umorismo può essere usato per ri­ badirne i confini. Pensiamo ad esempio alla stand up comedy e al­ la perlustrazione costante della portata dei tabù. In questo tipo di commedia i comici giocano intor­ no ai limiti convenuti, e per questo pare che li superino. L'umorismo esprime istanze represse e proibite in una forma accettabile. È forse per questo che l'omosessualità venne descritta seriamente in La Cage aux Folles sotto forma di far­ sa, la più flessibile delle forme nar­ rative.

Il secondo motivo è, come già det­ to, che l'umorismo e quindi la co­ micità e il riso possono essere uti­ lizzati come una forma non totali­ taria di regolazione sociale. Pen­ siamo solamente alla percentuale di film di guerra in cui il nemico viene ridicolizzato. Se non si può bombardarlo, in ogni caso lo si può deridere. L'ultimo motivo è che attraverso l'umorismo si trasmette, in modo del tutto peculiare, l'autoreferenzialità di una società. Si può quasi parlare di una forma particolare, ad esempio, di umorismo danese. Ma attraverso l'uso della comicità e della satira è possibile misurare anche la nostra autopercezione. Quando la commedia popolare da­ nese standardizza gli ideali di asce­ sa piccolo-borghese di Olsenbanden, esplodono battute pungenti sulla pigrizia danese e sui suoi va­ lori morali.

Oliver Double, comico stand up 89

Michael Eigtved

britannico, sostiene che le radici digia, gelosia, desiderio o pigrizia dell'umorismo sono le grandezze diventano un'altra e più leggera incommensurabili, o incongruen­ cosa se non si associano al pathos o ze. La battuta implica sempre o ai giudizi morali. Attraverso l'umo­ una forma di scontro tra idee che rismo possiamo dire le cose più spa­ non stanno insieme o un frainten­ ventose, o permetterci di reagir lo­ dimento delle parole. L'idea del- ro con un atteggiamento diverso l'incongruenza si focalizza sull'u­ dallo scandalo o dalla denuncia alla polizia. morismo come luo­ L'umorigo in cui le smo redi­ deroghe me i senti­ dai modelli menti da abituali, cui noi cer­ insieme al­ chiamo di le conse­ liberarci guenze im­ con tutta la nostra previste e comiche, forza. costituisco­ no il punto Mezzo e centrale. Il destinazio­ lato diver­ Ove Sprogoe, Poul Bundgaard e Morten Grunwald ne dell'u­ tente in un (che insieme formano il cosiddetto Olsenbanden) morismo nell'ultimo film di Olsenbanden: Ultima presa di Olsenbanden film che ha (Olsenbandens sidste stik), 1999. Foto Rolf Konow. possono nell'umori­ dunque smo la forza trainante è dunque anche essere l'aggressione nei con­ dipendente da un angolo obliquo, fronti di un terzo soggetto. Molta e dal fatto che ci sono alcune delle comicità stand up si serve proprio di deroghe di Bergson - in senso po­ questa sorta di transfert, perché l'at­ sitivo - che muovono la storia. mosfera intima dei club e la totale dipendenza dei comici dall'accetta­ L'umorismo ha dunque una direzio­ zione del loro pubblico sono strettane. E ha un effetto. Quando l'umo­ mente legate alla necessità di fare rismo viene usato come mezzo, al­ fronte comune. È un umorismo che lora la cosa ha delle conseguenze. E lega il pubblico e il comico in una accade qualcosa di diverso a secon­ unione contro un politico, una mi­ da che si sia parlato in maniera se­ noranza, un fenomeno alla moda o ria o irata. In particolare l'umori­ una persona falsa o inaffidabile. L'u­ smo può redimere ciò che Sigmund morismo dà quindi senso di apparte­ Freud chiamava i sentimenti anti­ nenza, comunione contro qualcuno sociali. Battute o situazioni comiche o qualcosa. Forse è l'uso sempre più sono un modo per allentare la pres­ diffuso di questa forma di umorismo sione cui le norme sociali ci sotto­ a far sì che si percepisca una sorta di pongono. Attraverso l'umorismo piano inclinato nei film danesi più possiamo toccare peccati mortali recenti. Ma, per il momento, sospen­ senza esserne compromessi. Ingor­ diamo questa domanda. 90

Comicità, commedia e cani cinesi

Danesità danese

L'antropologo Victor Turner ha det­ to che il miglior modo per studiare una cultura è osservarla in perfor­ mance. Quando si allestisce una rappresentazione, si esegue un ri­ tuale, si rappresenta un dramma o si gira un film, bisogna necessaria­ mente chiarire chi siamo. O meglio: nella rappresentazione si prende coscienza di se stessi, e quindi della propria cultura. Si fornisce cioè un'immagine che è una costruzio­ ne intellettuale di noi stessi. Per questo motivo il film è un ottimo strumento per capire come una cul­ tura si autopercepisce. Ma il Far west non esistava mai, è una co­ struzione culturale, un modo parti­ colare di osservare se stessi.

Allo stesso modo il paese idillico ci­ nematografico alla Morten Korch non è mai stato tale. La quotidia­ nità in campagna, allegra o melo­ drammatica, è un artificio, l'e­ spressione di un particolare biso­ gno, quello di voler mostrare la da­ nesità, come reazione al progressi­ vo entrare nella modernità di que­ sto piccolo paese. In questo qua­ dro rientrano figure comiche come Peter Malberg, oppure uomini e donne sinceri e dalla battuta pron­ ta e divertente. L'umorismo o in ogni caso una redenzione umori­ stica dei problemi grandi e piccoli di ogni giorno era tipica di film co­ me questo. Giungiamo così alle commedie mo­ derne degli anni '50 e oltre. Alme­ no a partire dall'affermarsi dell'u­ morismo folle dei nevrotici perso­ naggi di Kjeld Petersen, la società moderna viene osservata attraver­

so la lente d'ingrandimento dell'u­ morismo. Si è trattato in pratica di rappresentare l'incontro della Da­ nimarca lilipuziana con il grande mondo. Spesso l'idea di moderno ha avuto un ruolo importante, co­ me in Vi er allesammen tossede (Siamo tutti pazzi), dove il nascen­ te stato sociale danese offre l'occa­ sione di situazioni comiche. L'a­ gente di commercio di Kjeld Peter­ sen, tormentato dalle tasse, viene ricoverato in una clinica psichiatri­ ca perché ha urtato contro l'ele­ fante di un circo ed è convinto che si tratti di un'allucinazione causata dallo stress, la scusa elaborata dal­ la società moderna per ogni tipo di problema. In questo caso il buratti­ no di Bergson è decisivo per le si­ tuazioni comiche, e il riso ci porta in un certo senso dalla parte del deviante, come in una sorta di ver­ sione popolare di anti-psichiatria. Se noi, come suggerisce il titolo, siamo tutti pazzi, i devianti sono proprio coloro che affermano di essere normali.

La danesità, o meglio l'idea di que­ sta, gioca un ruolo importante nel genere particolare della commedia popolare danese. Forse è proprio la nascita di questo genere che de­ ve essere vista, in pratica, come un consolidamento dei valori social­ democratici definitivamente affer­ matisi tra la metà degli anni '50 e gli inizi degli anni'80. Ma stiamo parlando della commedia, e il trat­ to caratteristico della commedia è la miscela di elementi innovativi e conservativi. Un esempio illustre è dato dai film di Olsen Bande, che iniziano sempre con un'azione cri­ minosa che infrange le regole ma che inevitabilmente si concludono 91

Michael Eigtved con la vittoria delle norme sociali. Per tutta la storia la simpatia va in­ condizionatamente ai devianti, che però al tempo stesso vengono tratteggiati in modo comico, come ad esempio Egon Olsen nella sua patetica sopravvalutazione di se stesso. Si tratta della "classica" fi­ gura (danese) dell'omino-in-difficoltà-nel-sistema-Danimarca, che è poi il protagonista dei vari film. Ma alla fine è tuttavia il deviante che diviene oggetto di riso, quan­ do il portone della prigione si chiu­ dono alle spalle di Egon dopo l'ul­ timo insuccesso.

Una nuova ondata? L'elemento più caratteristico dei film più recenti è la sospensione dei confini tra i generi, e ciò può

essere constatato nel modo più ef­ ficace osservando che l'umorismo è un mezzo presente senza ecce­ zioni in tutti i tipi di film. Anche i drammi più coriacei e sanguinari trapassano nel genere della comi­ cità barocca. E, data la crescente crudezza della filmografia danese, forse la comicità e l'ironia comica sono diventate un modo di rende­ re meno acuto il dolore. La produ­ zione drammatica più recente mo­ stra proprio questo fenomeno. Nel movimento è subentrato un cam­ biamento nel disegno delle figure: nonostante il method-acting o l'iper-realismo, con l'ironia e l'affer­ mazione della comicità ci si è spo­ stati dalle caratterizzazioni alle ca­ ricature - un modo per ottenere una maggiore distanza. L'ironia è infatti legata alla distan­

Thomas Villum Jensen, Dejan Cukic, Kim Bodnia, e Nikolaj Lie Kaas ne In Cina mangiano cani (/ Kina spiser de hunde, 1999) di Lasse Spang Olsen.

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Comicità, commedia e cani cinesi

za, che semina dubbi su ciò che si pensa realmente ed è in tutto e per tutto un modo di rendersi meno vulnerabili. Allo stesso modo l'u­ morismo è uno scudo, un modo forse meno doloroso di entrare in rapporto con gli altri. Sta allo spet­ tatore decidere qual è il nocciolo nella rappresentazione, dal mo­ mento che non trova più, come pri­ ma, l'aiuto che gli era offerto dalle regole dei generi o dalle raffigura­ zioni convenzionali dei personaggi. In quanto mezzo all'interno dei film, l'umorismo e l'ironia sono in netto contrasto con la psicologia. Il personaggio ironico, come il comi­ co, esterna il problema, anche fisi­ camente, e lo porge all'attenzione, mentre la psicoanalisi cerca di inda­ gare l'uomo al suo interno. L'umori­ smo e l'ironia sono quindi una sor­ ta di mimesi delle opinioni, l'estre­ mizzazione dei rapporti interiori. Non sarebbe dunque corretto met­ tere in analisi le figure comiche, ca­ ricaturali o ironiche dei nuovi film. Ma anche se i confini tra i generi sono fluidi, è nell'uso dell'umori­ smo che si può scorgere una sorta di sistematicità. Forse i vecchi ge­ neri continuano ad essere validi, però bisognerebbe aggiungere "commedia" alle varie definizioni. Per esempio, il brutale / Kina spiser de hunde (/n Cina mangiano i cani) viene presentato sul mercato come action-comedy.

Comicità nascosta e umorismo barocco

Il curioso miscuglio di esteriorità e interiorità è una caratteristica es­

senziale della fortuna di Idioti di Lars von Trier. Anche se il film non è proprio divertente, è comunque una dimostrazione esemplare del­ la riflessione di Bergson sul riso. Il tema è il diritto a essere devianti, o piuttosto il diritto a scegliere di es­ sere devianti. Il diritto a "divertir­ si" è ciò per cui si lotta. Si tratta, in sé, di un progetto comico, e anche se spesso l'obiettivo viene raggiun­ to con una serietà quasi glaciale, il film sottende costantemente che chi osserva coloro che si "diverto­ no" in realtà è ingannnato ed è anch'egli oggetto di scherno. Quando i giovani abbandonano il ruolo di idioti, lo fanno con la sen­ sazione di aver inscenato una ma­ cabra burla.

Idioti tratta quindi del riso come di uno strumento di controllo sociale, e il film di von Trier arriva a porre una domanda postmoderna su chi controlla chi, se cioè i devianti so­ no devianti solo quando il loro comportamento è del tutto volon­ tario. Così, per tutto il film aleggia un riso di riprovazione. L'umori­ smo è sicuramente una componen­ te del film, ma si tratta quasi di un fattore impercettibile, che sta die­ tro a ogni altro. Il titolo In Cina mangiano i cani è di per sé un indicatore dello stile esagerato ed eurocentrico che ca­ ratterizza il film. Oltre all'uso ec­ cessivo di violenza e azione, il ter­ zo elemento decisivo nel film è la comicità. Si tratta di un umorismo sostenuto soprattutto dall'incongruenza tra le scene violente e la punteggiatura verbale, quasi flem­ matica, della scena successiva, co­ me quando il personaggio princi­

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Michael Eigtved pale, dopo che gli hanno rotto in testa una racchetta da squash du­ rante una rapina in banca, consta­ ta che quella sera sarebbe dovuto uscire, ma "ora penso che me ne starò a casa". Oppure quando le due cuoche, che devono preparare il pranzo ma che invece prendono parte attivamente alla sanguinosa rapina organizzata dal loro capo, dicono: "Qualche volta ho pensato di telefonare al sindacato". Come negli altri film danesi, anche qui si ha un profilo dei personaggi quasi parodistico o caricaturale. Il banca­ rio è esageratamente noioso, il gangster esageratamente cattivo e violento e il lavoratore straniero, come d'obbligo, esageratamente stupido: "non devi chiedere scusa se non sai dirlo", sibila il boss al ti­ rapiedi jugoslavo. In questo sta un elemento assai si­ gnificativo del cinema danese più recente. La danesità viene rappre­ sentata spesso attraverso una sorta di contrapposizione con gli immi­ grati, e il singolo immigrato assu­ me tratti da pagliaccio. Solo l'uso di un accento quasi clownesco ren­ de le figure divertenti: in In Cina mangiano i cani, ad esempio, Vuk pronuncia "scussa" invece di "scu­ sa", e nonostante si sia preso i suoi bravi rischi non gli viene nemmeno data la sua parte del bottino, per­ ché "l'usa solo per comprarsi cate­ ne d'oro e copertoni larghi", cioè per quegli attributi che appaiono indispensabili all'immagine stereo­ tipa dell'immigrato. Anche se l'in­ tenzione del film è ben lungi dal­ l'essere razzista, si tratta pur sem­ pre di un'aggressione contro un terzo, che condiziona il riso e uni­ sce gli spettatori (tra di loro e nei confronti del boss mafioso) nel ri­

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dere dello slavo. Il riso colpisce quindi di nuovo il deviante ma, di­ versamente dall'innocente Vuk, il gangster Kim Bodnias è talmente realistico da non riuscire a diventa­ re comico. Il riso non ce la fa pro­ prio a riportare il deviante nell'am­ bito delle norme della società.

Farsa moderna e commedia autentica

Let's get lost di Jonas Elmer, con il suo omaggio in bianco e nero ai film di Godard e della Nouvelle Va­ gue, è come una riscoperta della farsa classica. È infatti l'assurdo di ogni giorno che governa tutta la storia. Le farse raramente si svol­ gono in ambientazioni esotiche o in scenari grandiosi: è lo spazio di ogni giorno - il salotto o la camera da letto - a costituire la cornice. La farsa sceglie tra migliaia di situa­ zioni, molte delle quali emergono riconoscibili dalla vita quotidiana, le prende e le trasporta nel ridico­ lo. Con la comicità come leva, le delizie grandi e piccole di ogni giorno diventano oggetto di rifles­ sione. È come se la farsa tenesse sollevato sopra di noi uno specchio umoristico, permettendoci così di ridere di noi stessi, specie quando si tratta di affari sentimentali e di quanto riguarda l'attività fisica. Il ritmo e il dialogo leggero della far­ sa, combinati con equivoci dispera­ ti ed un enorme livello di confusio­ ne, sono una vetrina sicura del comportamento irrazionale degli innamorati.

In Let's get lost è il tentativo dispe­ rato della ragazza innamorata di riconquistare il fidanzato a diven­

Comicità, commedia e cani cinesi

tare la scena di una farsa. Il punto di partenza, come al solito, è dato dall'equivoco: lei crede che lui ab­ bia un'altra, e questo scatena la comicità. Ma anche l'effetto palla di neve, di cui si è già parlato, è un mezzo tipico. Già nella scena d'a­ pertura appare chiaro che piccole cose potranno avere grandi conse­ guenze: poche briciole gettate sul pavimento non sono che un moti­ vo marginale, e la palla di neve ha bisogno di tempo per crescere. Ma la scena si legittima con un'incongruenza perché la protagonista, dopo un'autentica esplosione d'i­ ra, butta fuori dalla porta gli amici importuni informandoli che lei "non è arrabbiata". Anche in Den eneste ene (L'unico e il solo) di Susanne Bier l'incongruenza è il tratto saliente. Già dal­ la situazione iniziale, mentre scor­ rono i titoli di testa, quando il per­ plesso montatore di cucine cerca di­ sperato improbabili similitudini tra la sua vita sessuale e il suo lavoro, appare chiaro che l'umorismo del film poggia su grandezze non com­ mensurabili. Sempre nei titoli di te­ sta, il carosello di presentazione dei personaggi mostra che i loro carat­ teri sono spinti all'estremo, quasi alla caricatura. Come quando l'im­ piegata dell'ufficio adozioni chiede alla coppia speranzosa di descrivere la propria vita sessuale paragonan­ dola a quella di un animale, e il montatore seriamente risponde che gli viene a mente il porcellino d'in­ dia - di sicuro un animale assai po­ co passionale ed istintivo, benché il montatore si giustifichi: "non è mi­ ca una brutta bestia". Come nella commedia classica, L'u­

nico e il solo è popolato di perso­ naggi buffi. Il più buffo di tutti - e diventa delicato dirlo in questo contesto - è un italiano. In lui pren­ de vita la rappresentazione stereo­ tipica che i nordici hanno di un ve­ ro latin-lover. Ma la sua fidanzata Susanne lo confonde con il suo pre­ cedente fidanzato e decide di chia­ marlo Sonny, un nome più facile del suo, Andrea, che in danese è un no­ me femminile! E come nella com­ media classica, le cose vanno in mo­ do tale che il personaggio buffo viene rimesso radicalmente in riga: sarà il buon danese medio a risulta­ re in possesso dei valori più profon­ di e di una morale, mentre il latinlover si dimostrerà inevitabilmente un donnaiolo e un sorpassato scio­ vinista. Alla fine, con il suo ritorno a casa ai tegami di pasta della madre, nella piccola Danimarca vengono ri­ stabiliti ordine e tranquillità.

Benché si tratti di una storia cruda e tragica, tutto il film è una sorta di dimostrazione dell'umorismo come valvola di sfogo. La sensazione di frustrazione del personaggio prin­ cipale - che il pubblico avverte qua­ si fisicamente - trova sfogo in una risata. Ed è anche attraverso lo sfo­ go comico (redenzione) che il mon­ tatore elabora la sua vedovanza. Dopo l'investimento mortale della moglie, anche il suo collega nota del resto che si trattava di un tipo maledettamente intrigante e fasti­ dioso. L'atmosfera di compostezza e di dolore viene punteggiata da una inaspettata svolta comica. Il tratto comune dei film di cui si parla in questo articolo - e forse è un tratto caratteristico dei nuovi film considerati nel complesso - è il

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Michael Eigtved fatto che l'umorismo rende possi­ bile introdurre spunti crudeli nelle commedie ed elementi di riconci­ liazione nei drammi tragici. Con l'offuscamento dei confini tra i ge­ neri si ha un doppio movimento, che non è di esclusione. L'uso estensivo di umorismo e comicità ha reso i film più sfumati. La vec­ chia paura del contatto con la co­ micità dei cosiddetti film seri è scomparsa, ed ha anzi spianato la strada a film che, sebbene di argo­ mento profondamente serio, han­ no uno sguardo anche per l'umori­ smo dei lati assurdi dell'esistenza. E, di contro, lavori come L'unico e il solo dimostrano che un film che nel suo atteggiamento di fondo è pensato in senso umoristico può tranquillamente trattare le grandi questioni della vita.

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In conclusione, la comicità è un fe­ nomeno fondamentalmente uma­ no come il dolore, e il riso altret­ tanto naturale del pianto. È forse questo il motivo per cui hanno se­ riamente fatto irruzione nell'uni­ verso del cinema.

Bibliografia Henri Bergson, Le rire, Parigi, 1899. Oliver Double, Stand-upl, Londra, 1997. Eric Bentley, Det levende Drama (Il dramma vivente), Copenaghen, 1964. Svend Christiansen, Det komiske pà teatret (Il comico nel teatro), Copenaghen, 1988. Martin Zerlang, Underholdingens historie (La storia dell'intrattenimento), Copenaghen, 1992.

La persona è il film Ritratti di personaggi

famosi e artisti

di Èva Novrup

Mentre alla televisione riscuotono successo i più svariati formati di do­ cumentari, questo genere incontra molte difficoltà nelle sale cinemato­ grafiche. Il documentario è diventa­ to ormai una specie protetta per i festival, e solo in casi molto rari vie­ ne presentato in prima visione nelle sale cinematografiche entrando co­ sì in contatto con il pubblico generi­ co. In Danimarca, i film hanno la possibilità di raggiungere un pub­ blico piuttosto numeroso attraverso l'attività di distribuzione dell'istitu­ zione pubblica Statens Filmcentral (Cineteca di Stato) che per esempio fornisce i film alle biblioteche; si as­ siste tuttavia ad una tendenza mol­ to negativa: sembra che al pubblico non piaccia più vedere documentari sul grande schermo. Il documentario generalmente si concentra sulla vita reale, sui suoi eventi duri e sui suoi problemi quotidiani. Si definisce attraverso la sua stessa relazione con la realtà ed uno dei suoi punti forti è quel­ lo di essere in grado di cogliere la vita nel suo scorrere e di raffigura­ re la storia mentre si svolge. Que­ sto tipo di film riprende la Dani­ marca di oggi. Queste riproduzioni filmiche ci danno la possibilità di riflettere la nostra stessa immagi­ ne e quella della nostra quotidia­

nità oppure ci consentono di svi­ luppare o mettere in discussione la nostra concezione della realtà.

Se consideriamo i documentari proiettati in prima visione nelle sa­ le cinematografiche danesi negli anni '90, osserviamo in ogni caso che c'è molta differenza tra le rap­ presentazioni della realtà. I temi sociali e politici sono delegati al mezzo televisivo che, con un ap­ proccio più giornalistico, propone del documentarismo elettronico facendone un segnale di serietà. Ci sono da una parte programmi documentaristici duri, nei quali vengono messi in discussione i po­ tenti e rivelati gli scandali, ma ci sono anche forme di documentari più soft che cercano proprio il con­ tatto con la realtà. L'elogiato pro­ gramma del regista Lars Engels su vari gruppi sociali di esclusi, per esempio le prostitute in Pigerne pà Halmtorvet (Le ragazze di Halmtorv, 1992) oppure figure criminali femminili in Kvinderne i Vestre Faengsel (Le donne della prigione di ovest, 1996), costituisce l'esem­ pio di due rappresentazioni docu­ mentaristiche che hanno ottenuto grande popolarità e sono riuscite a rianimare un dibattito sociale 97

Eva Novrup troppo raramente alimentato da eventi cinematografici. Sul fronte cinematografico, negli anni '90 ci si è tenuti a distanza dalla realtà problematica e si è la­ vorato invece sul soggettivo e sul­ l'unico, sull'arte e sull'estetica. La maggior parte dei documentari proiettati nelle sale cinematografi­ che ha in genere la durata tipica dei lungometraggi ed un contenu­ to chiaro e preciso; nella maggior parte dei casi promette intratteni­ mento e uno spaccato della vita di un personaggio famoso. In questo caso non ci si confronta con la du­ ra realtà della vita, ma si incontra una persona interessante, che si di­ stingue dalla massa grazie alla sua vita o alla sua professione.

e i colori, 1999) sulla cromatologia di Goethe, i film trattano in genere solo di due temi: il personaggio o l'artista. I film sono straordinaria­ mente concentrati sulla persona, ma se l'intento è quello di attirare il pubblico degli anni '90 al cinema a vedere un documentario, sembra che solo le personalità forti siano in grado di esercitare fascino. I film in programma alla rassegna di Bologna sul cinema danese sono molto rappresentativi dei docu­ mentari più visti e discussi negli ul­ timi anni. Ci sono due film su da­ nesi celebri, il film di Chr. Braad Thomsen sulla celeberrima scrittri­ ce danese Karen Blixen e il film di Torben Skjodt Jensen sul famosissi­ mo regista danese Carl Th. Dreyer. Entrambi gli artisti erano perso­ naggi eccentrici, la cui vita offre in­ numerevoli aneddoti interessanti e abbondante documentazione sot­ to forma di materiale d'archivio, opere e testimo­ nianze di cono­ scenti viventi.

Tra i documentari proiettati nelle sale cinematografiche negli anni '90, sostanzialmente solo 1700 meter fra fremtiden (1700 metri dal fu­ turo) di Ulla Ra­ smussen (1990), ambientato nelle Faroer, si propone di occuparsi della vita quotidiana di un gruppo di per­ sone comuni. Ecce­ zion fatta per un'unica descrizio­ ne di viaggio esoti­ ca Nordkaperen i det indiske ocean (Il corsaro di Capo Nord nell'oceano indiano, 1995) e del bellissimo ed espressivo Lyset, Morket og Ferver­ Dal film La scala di Giacobbe ne (La luce, il buio (Himmelstigen) di Niels Vest, 1997. 98

Inoltre, ci sono due film sulle ope­ re ed il lavoro di noti artisti con­ temporanei: De Ydmygede (Gli umiliati, 1998) che ci propone Lars von Trier durante le riprese del film Dogma Idioterne (Idioti) e Jeg er Ze­ ven de (lo sono vi­ vo, 1999), il ritrat­ to che Jorgen Leth ha fatto del poeta Soren Ulrik Thom­ sen. Himmelstigen

La persona è il film - Ritratti di personaggi famosi e artisti (La scala di Giacobbe, 1997) di Nils Vest è un ritratto misto di una nota costruzione architettonica e dell'ar­ chitetto barocco danese Lauritz de Thurah, che ha costruito l'imponen­ te guglia a spirale della Vor Frelser Kirke (Chiesa del Redentore) a Co­ penaghen. Sono stati i lavori di re­ stauro della chiesa che hanno ispi­ rato il progetto filmico, e Himmelstigen costituisce un felice esempio di un film ricco di informazioni che funziona, perché si propone di nar­ rare invece di insegnare. Addicted to Solitude (1999), film poetico e personale di Jon Bang Carl­ sen si contraddistingue come docu­ mentario più soggettivo e caratteriz­ zato dall'esperienza personale, in grado di trasmettere con la stessa forza immagini, pensieri ed impres­ sioni, così come fatti e sapere. Addic­ ted to Solitude costituisce un bellissi­ mo esempio del suo stile unico che fi­ no a tutti gli anni '90 si è espresso per esempio nel poema filmico dedi­ cato alla madre Livet vii leves (La vita si vivrà, 1994) e nella commedia do­ cumentaristica It's now or never che narra di un uomo solo che cerca un sensale di matrimoni in un piccolo villaggio di campagna sulla costa oc­ cidentale irlandese (1996). Il saggio di Jon Bang Carlsen, ripor­ tato in questo stesso volume, dà una chiara immagine della sua visione filmica e dei suoi metodi di lavoro, mentre nel presente testo ci concen­ treremo sui film che offrono un ri­ tratto del personaggio e dell'aclista.

Il personaggio

I film che offrono un ritratto del

personaggio trattano spesso, an­ che se non sempre, di un artista scomparso. Tra le eccezioni il ritrat­ to, opera di Torben Skjodt Jensen, del pittore e pornografo Hans Henrik Lerfeldt It's a Blue World (1990), o l'ultimo film di Skjodt Jensen Simons Film (Film di Simon, 1999) dedicato al milionario, re dei viaggi e amante della vita, Simon Spies.

La rappresentazione del personag­ gio defunto offre un vantaggio: si ha una visione retrospettiva sulla vita del protagonista. È possibile tracciare delle linee ed identificare dei leit-motiv che vanno dalla na­ scita fino alla morte. Inoltre, spesso la vita spettacolare della persona è documentata in modo estremamente completo. Simon Spies in­ gaggiò per esempio il fotografo Steen Herdel perché documentasse il suo operato. Si è così creata una quantità unica di materiale d'archi­ vio che viene aggiunta agli innu­ merevoli scandali pubblicati dalla stampa rosa. Un altro vantaggio è che spesso il personaggio scelto è già noto al pubblico cinematografi­ co che, spinto dalla curiosità, spera che il film riveli nuovi aspetti della vita del mito moderno.

Il regista Carl Th. Dreyer e la scrit­ trice Karen Blixen sono quindi sog­ getti ideali per il film ritratto. En­ trambi erano caratterizzati da per­ sonalità molto forti e hanno avuto destini affascinanti che, anche molti anni dopo la loro morte, pos­ sono essere trasformati in una sto­ ria bella, organica e soprattutto appassionante. Entrambi hanno la­ sciato molte opere famose dalle quali si possono trarre citazioni. 99

Eva Novrup Inoltre, entrambi hanno meditato sulla propria posizione e sulla pro­ pria opera nei loro libri e nella cor­ rispondenza. Ed entrambi avevano molti conoscenti alcuni dei quali sono ancora vivi e possono parlare di loro in prima persona.

Il film ritratto di Christian Braad Thomsen Karen Blixen - Storyteller (1996) prende spunto da una gran­ de quantità di materiale d'archivio che Braad Thomsen ha trovato per caso durante le ricerche per un al­ tro film. Il materiale comprende, tra le altre cose, varie interviste televi­ sive effettuate durante la visita del­ la Blixen negli Stati Uniti nel 1959, integrate da interviste con suoi co­ noscenti ed inedite riprese in ester­ ni. Il film si concentra su quella par­ te della sua vita che va da quando, nel 1931, ri­ torna in Dan i m a rca dall'Africa e si stabilisce a Rungstedlund, fino a quando, 31 anni più tar­ di, viene se­ polta sotto un grande albero nel parco.

privata grazie alle testimonianze dei suoi numerosi conoscenti di sesso maschile, che raccontano che per la Blixen fu quasi una missione rovinare i loro matrimoni, perché "se si deve partire alla ricerca del sacro graal, non ci si può portare la carrozzina". Per tutta la durata del film la voce fuori campo di Braad Thomsen com­ menta i vari eventi della vita della Blixen e in alcuni casi la smentisce. Come la storia della lettera del re al­ la quale, come amava raccontare la Blixen, gli indigeni nella sua tenuta in Africa attribuivano proprietà ma­ giche e curative. Per questo la appli­ cava sulle parti da curare, se si am­ malavano, per guarirli. La lettera fu però poi trovata in condizioni perfet­ te in un cassetto. Non è sicuramente mai stata a contatto di­ retto con al­ tri esseri umani, e la Blixen deve essersi in­ ventata l'aneddoto per il gusto di divertirsi.

Il film lascia Dal Karen Blixen di Christian Braad Thomsen, 1996. tuttavia par­ lare la Blixen Come indica il titolo, il film ruota in prima persona, e si ha l'impres­ attorno al grande talento di narra­ sione di entrare sempre di più nel­ trice della Blixen. Vi si trovano la vita della "Baronessa" con lo molti piacevoli aneddoti, si vede e svolgersi del film. Braad Thomsen si sente la Blixen raccontarsi in mo­ non si propone di cambiare la no­ do avvincente indifferentemente stra opinione di lei, ma ci dà la pos­ in danese, inglese o francese. Si sibilità di conoscerla meglio e di riesce anche per un attimo a getta­ elaborarne un'immagine più sfac­ re un rapido sguardo nella sua vita cettata. 100

La persona è il film - Ritratti di personaggi famosi e artisti Il film di Torben Skjodt Jensen Carl Th. Dreyer - Min metier (Carl Th. Dreyer - Il mio mestiere, 1995) tratta - come lo indica il titolo - so­ prattutto del rapporto di Dreyer con il suo lavoro. In questo caso, non c'è praticamente materiale re­ lativo alla sfera privata e sono for­ nite solo poche informazioni bio­ grafiche. Il film si concentra sull'ar­ tista cinematografico Dreyer e trae spunto dai suoi film, dai suoi com­ menti sulla propria opera e da molte interviste con persone con cui Dreyer ha lavorato durante tut­ ta la sua carriera, per esempio il fo­ tografo Henning Bendtsen (che si è poi occupato delle riprese di Eu­ ropa del fan di Dreyer Lars von Trier), il regista e fotografo Jorgen Roos (che ha realizzato un proprio film ritratto di Dreyer nel 1996) e attori danesi che hanno lavorato nei suoi film e la figlia di Renée Falconetti interprete di Giovanna d'Arco. Il film analizza inoltre i film muti di Dreyer, i motivi delle lunghe pause tra i film e le condizioni in cui sono stati girati i celebri lungometraggi Vampyr, Dies trae, Ordet e Ger­ trud. Nel film troviamo anche sto­ rie divertenti. Sembra per esempio che la scelta del personaggio di Giovanna d'Arco sia del tutto ca­ suale: si trattava di scegliere tra lei, Caterina de' Medici e Maria Anto­ nietta, e la decisione è stata affi­ data ad un'estrazione a sorte. Il film si concentra tuttavia di più sul procedimento di lavorazione e su­ gli approcci professionali di Dreyer, il quale ha affermato che il difetto del film è che ci sono troppo pochi individualisti: il film stesso ci per­ mette di annoverarlo senza ombra

di dubbio tra i più puri esemplari di questa razza.

La strutturazione del film è di per sé estremamente dreyeriana con belle immagini in bianco e nero, e Skjodt Jensen, che precedentemente si era già distinto come vi­ deosperimentatore stilisticamente all'avanguardia, crea uno stile spe­ ciale copiando gli uni sugli altri va­ ri strati di immagini, nei quali il presente e il passato si confondo­ no e si generano movimenti con­ trari. Contrariamente a quanto si osserva nello stile del ritratto più tradizionale di Braad Thomsen, il film su Dreyer cerca di trovare un proprio linguaggio. Skjodt Jensen ha realizzato successivamente il lungometraggio Manden som ikke ville do (L'uomo che non voleva morire, 1999) le cui immagini sono chiaramente influenzate dallo stile di Dreyer. Gli anni '90 hanno offerto altri ri­ tratti di personaggi con un forte stile visivo, come per esempio il bel ritratto, realizzato da Anders Ostergaard, dell'originale pianista svedese Jan Johansson, Troldkarlen (Il mago, 1999). Il film associa il tra­ dizionale materiale d'archivio, con dichiarazioni e testimonianze di amici e conoscenti, con immagini dell'infanzia di Johansson riprese in super8, reazioni della gente che ascolta la sua musica, immagini grafiche e la ricostruzione della notte nella quale perse precoce­ mente la vita in un incidente auto­ mobilistico. Il film cerca di utilizza­ re la forma non come semplice mezzo di comunicazione, ma tenta di trovare un tono e un linguaggio adeguati al soggetto e trasforma il

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Eva Novrup film in una vera e propria espe­ rienza.

vativo di Soren Kirkegaard. Il con­ testo è quello di una conferenza durante la quale persone con opi­ nioni e posizioni molto diverse di­ scutono animatamente della sua vita e della sua opera. Il risultato S0ren Kirkegaard è naturalmente molto caratterizzato dalla pre­ senza di talking heads, ma si è trattato in ogni caso di un inte­ ressante tentativo di rompere la struttura tradizionale del film ri­ tratto e di vedere la vita e l'opera di Kirkegaard come qualche cosa di attuale e dinamico invece di considerarle un capitolo chiuso e finito.

Il coltivare una propria forma è uno dei fattori che rende interes­ sante il documentario nel contesto cinematografico, ma non sono né la forma né lo stile ad attirare il pubblico al cinema. La gente sce­ glie in genere i film in funzione del contenuto, anche se la maggior parte degli spettatori si aspetta di vedere sul grande schermo un par­ ticolare stile documentaristico. Mentre la televisione offre tutti i giorni un realismo grezzo, non ri­ pulito, al cinema si preferisce vede­ re una realtà già elaborata. E non solo nella fiction, ma L'artista anche in ope­ re documen­ I film sugli taristiche più artisti si fan­ indipenden­ no influen­ ti, che sfrut­ zare molto tano le pos­ di più dei sibilità del film sui per­ linguaggio sonaggi fa­ filmico e non mosi dal te­ solo una sem­ ma del ritrat­ plice e neu­ to e sono trale esposi­ molto diversi Il poeta Soren Ulrik Thomsen nel film-ritratto zione dei fat­ in termini di ti. Nella mag­ lo sono vivo (Jeg er levende, 1999) di Jorgen Leth. contenuto e Foto: Dan Holmberg. gior parte dei forma. I film ritratti filmici non si ha solo la per­ scelgono in genere di ritrarre un cezione del ritratto, ma si sentono artista vivente e tutta la sua opera anche la voce e lo stile del ritratti­ fino al momento della realizzazio­ sta, ed è in genere quando questi ne del film, oppure di documenta­ due elementi si fondono perfetta­ re o "spiare" in segreto una lavo­ mente che il risultato è migliore. razione reale. Il documentario filmico si prende inoltre spesso la libertà di speri­ mentare di più, come avviene con la regista Anne Regitze Wivel, che nel 1994 realizza un ritratto inno-

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Tra i ritratti di artisti degli ultimi cinque anni ce ne sono molti dedi­ cati a poeti, per esempio Inger Ch­ ristensen - Cikaderne findes (Ci so­ no le cicale, Jytte Rex, 1998) e Per

La persona è il film - Ritratti di personaggi famosi e artisti H0jholt - un film di Lars Johansson (1997). Il più caratteristico è tutta­ via il ritratto di Soren Ulrik Thom­ sen realizzato da Jorgen Leth, Jeg er levende (lo sono vivo), che si propone di essere un opera d'arte in sé. Jorgen Leth ha sempre insisti­ to sulla sperimentazione personale e a partire dai film sperimentali de­ gli anni '60 e '70, come Det perfekte menneske (L'uomo perfetto, 1967), Livet i Danmark (La vita in Danimarca, 1971) e Det gode og det onde (Il bene e il male, 1975), ha sfidato il mezzo espressivo e l'o­ pinione che noi ne abbiamo.

A livello internazionale, Jorgen Leth è noto soprattutto per i film sul ciclismo Stjernerne og vandbaererne (Stelle e gregari, 1973) e En foràrsdag i helvede (Un giorno di primavera all'inferno, 1976), nei quali utilizza le performance spor­ tive della realtà per creare grandi storie mitologiche. Sempre in am­ bito sportivo, ha successivamente realizzato un altro ritratto: Mi­ chael Laudrup - en fodboldspiller (Michael Laudrup - un calciatore, 1993). Tanto per cominciare Jeg er leven­ de non è nato in realtà da un'idea di Leth, ma gli fu proposto dalla casa di produzione Bech Film. So­ ren Ulrik Thomsen desiderava che Leth facesse il film e insieme han­ no messo a punto alcune regole progettuali che lasciavano a Leth massima libertà. Per esempio, la li­ bertà di escludere molte cose e di evitare di cercare di defiorare il mi­ stero di Soren Ulrik Thomsen.

Il risultato è un ritratto suggestivo che permette a due grandi artisti

di stare bene assieme. Lo stile è estetico e varia tra le immagini ele­ ganti in bianco e nero di Soren Ul­ rik Thomsen che legge o racconta alcuni aneddoti e le immagini cor­ pose di una Copenaghen autunna­ le. Leth, noto per il suo caratteri­ stico linguaggio, che ogni danese conosce grazie alle telecronache estive del Tour de France, non si è occupato del suono e lascia invece che siano Soren Ulrik Thomsen e la musica a parlare in prima persona.

Per quanto riguarda le immagini, egli è invece estremamente pre­ sente. Tutto è misurato e soppesa­ to come nelle poesie e le immagini così calme e composte assicurano la concentrazione necessaria per ascoltare le poesie e i racconti con cui Soren Ulrik Thomsen le intro­ duce. Soren Ulrik Thomsen non corre dietro alle poesie, sono le poesie ad andare verso di lui, per­ ché le possa scrivere. Racconta di quando, bambino, imparava i versi dei salmi, oppure del fatto che rie­ sce a scrivere solo con la sua Mont Blanc, mentre assistiamo alla sua cerimonia del tè, e vediamo il suo appartamento e il mondo nel qua­ le cambia la luce. Si ha quasi l'im­ pressione di toccarlo, ma non si rie­ sce ad spiegare o a digerire tutto.

Jeg er levende va molto al di là del mero interesse solitamente espres­ so dai film sui personaggi per i da­ ti biografici e per un lavoro di pu­ ra detection. In questo caso sono l'attimo e la persona stessa ad es­ sere al centro, e si entra nel cuore del processo creativo e dell'opera di Soren Ulrik Thomsen alle condi­ zioni imposte dal poeta stesso. Tut­ to è elaborato e messo in scena 103

Eva Novrup con precisione, ma questo conta poco, perché, dietro alla forma af­ fascinante, si percepiscono since­ rità e spontaneità.

I film sull'artista/lavoratore sono nella maggior parte dei casi di na­ tura totalmente diversa. Qui l'arti­ sta viene colto nell'atto creativo, e non c'è nello stesso modo tempo per la riflessione e la rappresenta­ zione dell'ego. Spesso le immagini sono influenzate dalle condizioni caotiche delle riprese, come avvie­ ne con De Ydmygede di Jesper Jar­ gil, che ha seguito la realizzazione del film Dogma Idioteme di Lars von Trier nell'estate del 1997. In De Ydmygede Jesper Jargil di­ venta la "mosca" che spia e ci offre una visione in primo piano di un processo messo a nudo. Mentre i comuni film girati "dietro alle quinte" sono in genere filmati pubblicitari camuffati, infarciti di interviste sdolcinate e storie a lieto fine, in questo caso Jesper Jargil documenta il difficoltoso parto del film. Le immagini inquiete, realiz­ zate con cinepresa a mano, sono accompagnate a livello di suono da un diario di lavorazione che Lars von Trier ha registrato su un dittafono, e la schiettezza appa­ rentemente totale di Lars von Trier è di volta in volta sorprendente.

Jargil ha avuto accesso libero ed il­ limitato alle riprese, e il suo film non si intromette minimamente nel rapporto Lars von Trier-attori. Durante la lavorazione si assiste ad alcuni episodi piuttosto duri e Jar­ gil si è autodefinito un "paparazzo di merda", ma anche un "voyeur comprensivo". Accompagna il pub­ 104

blico a fare una passeggiata al di là delle pareti, e il film, oltre ad esse­ re un intenso ritratto di Lars von Trier, diventa anche un ritratto estremamente vivace di tutti gli at­ ti della lavorazione che ruotano attorno al film. Jargil ha affermato che quello di cui si può discutere col film è "se il fine giustifica i mezzi, se a partire dall'umiliazione si può realizzare un prodotto arti­ stico degno di questo nome. Ma non pretendo di rispondere a que­ sta domanda". Jargil fa sì che ciò che vediamo e sentiamo parli da solo, e siamo poi noi a doverci fare un'opinione in merito. Si tratta di un processo caotico e conflittuale, ma Jargil ha dimostrato in precedenza che il modello dell'osservatore funziona anche con un soggetto più tran­ quillo, come per esempio con l'ar­ monioso Per Kirkeby - Vinterbillede (Per Kirkeby - Immagine inver­ nale, 1996). Qui Jargil segue la rea­ lizzazione da parte del pittore del suo più grande dipinto ad olio con una cinepresa statica in fondo alla galleria. Vediamo il dipinto tra­ sformarsi drammaticamente gior­ no dopo giorno, mentre Kirkeby, dopo il lavoro, esprime le proprie riflessioni sui diversi stadi del di­ pinto. Infinitamente semplice, ma allo stesso tempo incredibilmente forte. Jargil sta realizzando una trilogia sul lavoro di Lars von Trier, di cui De Ydmygede è la seconda parte. La prima è De Udstillede (Gli espo­ sti), che parla del progetto artistico unico di von Trier Psychomobile #1 - Verdensuret (Psicomobile #1 L'orologio astronomico), uno dei

La persona è il film - Ritratti di personaggi famosi e artisti progetti più discussi durante il soggetto di innumerevoli lavori 1996, l'anno di "Copenaghen capi­ documentaristici. Stig Bjòrkman ha tale della cultura". 53 attori sono realizzato un libro di interviste e il stati guidati per 50 giorni in 19 di­ film ritratto Tranceformer (1997) verse sale d'esposizione da segnali su di lui, lo storico cinematografico provenienti da un formicaio negli Peter Schepelern ha pubblicato Stati Uniti. Il film, che è stato pre­ una biografia esaustiva sulla sua sentato in prima mondiale al Festi­ carriera e lo stesso von Trier, ben­ val cinematografico di Goteborg ché estremamente riservato, ha nel febbraio del 2000 e che sarà pubblicato la registrazione sonora presentato a Bologna, segue il mi­ del diario di lavorazione ripreso da crocosmo unico dell'esposizione. Il De Ydmygede unitamente alla sce­ terzo film neggiatura di Trovaerdigheds Idioterne. In rige (Il regno occasione del­ della credibi­ la prima, pre­ lità) tratta di vista per la Lars von Trier, prossima pri­ Thomas Vin­ mavera, del terberg e So­ musical Dan­ ren Kragh Ja­ cer in the Dark cobsen e della con Bjòrk e realizzazione Catherine De­ dei primi tre neuve, usciran­ film Dogma no sicuramen­ Idioterne, Fete molti altri sten e Mifunes il poeta Soren Ulrik Thomsen con il regista Jorgen lavori dedicati Leth durante le riprese per il film-ritratto lo sono vivo sidste sang a von Trier; (Jeg er levende, 1999). Foto: Dan Holmberg. (Mifune). J ar­ sembra infatti gii ha inoltre iniziato a lavorare ad che l'interesse del pubblico per un film che ha il titolo provvisorio quello che si trova dietro le quinte di D42K e che è dedicato al pro­ sia davvero illimitato. getto cinematografico dei fratelli Dogma von Trier, Vinterberg, Kra­ gh Jacobsen e Levring. I 4 film so­ La star vende il film no stati trasmessi in diretta l'ulti­ ma notte dell'anno 1999 contem­ Nel lungometraggio, l'ingrediente poraneamente da quattro canali principale è spesso costituito dalla della televisione danese. Il pubbli­ star, soprattutto quando si tratta co aveva così la possibilità di salta­ di vendere il film. Il documentario, re col telecomando da un film al­ per la sua stessa natura, non deve l'altro e di montarsi così un proprio sottostare al fattore star, ma pro­ film. pone persone comuni o gruppi di persone comuni, che nella mag­ Lars von Trier, il più significativo ar­ gior parte dei casi sono anonimi e tista cinematografico della Dani­ che quindi non hanno lo stesso va­ marca di oggi, è stato scelto come lore commerciale. È tuttavia inte-

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Eva Novrup ressante notare che i documentari che, negli anni '90, si propongono di competere con il lungometrag­ gio sul suo terreno, devono avere un nome noto sulla locandina, si tratti di una personalità pubblica o di un artista. Il pubblico non cerca gli sconosciuti, ma vuole sapere di più di chi già è noto.

Si assiste ad una tendenza genera­ le verso una maggiore attenzione alla persona nella società di oggi. Mai nel passato sono state pubbli­ cate e vendute così tante memorie, autobiografie, biografie di ogni ti­ po di personaggio, dai calciatori, agli imprenditori, agli attori o ai politici. Molti talk-show hanno successo grazie alla presenza di personaggi noti. Chiamiamo i poli­ tici con il loro nome di battesimo e questi stessi politici ci aprono vo­ lentieri le loro case e si prestano ad amichevoli chiacchierate e servizi fotografici. Anche l'attualità, un campo nel quale in passato - in ogni caso secondo il servizio pub­ blico - si reputava che un volto troppo noto e un tono troppo per­ sonale non fossero compatibili con la neutralità e l'oggettività del­ l'informazione, si è improvvisa­ mente trovata ad avere anchor­ men amichevoli e aperti, che inter­ vengono ed esprimono osservazio­ ni - e che sono diventati volti noti anche fuori dallo schermo.

Mentre i generi biografici letterari fanno spesso fatica ad affermarsi oltre le frontiere danesi in ragione dell'insufficiente conoscenza del personaggio in questione e del suo ambiente, il ritratto cinematogra­ fico riesce spesso ad avere un buon riscontro a livello internazionale. 106

Film validi su personaggi danesi fa­ mosi sono sicuramente ottimi am­ basciatori per il paese, e le imma­ gini sono più idonee a trasmettere con immediatezza il carattere del­ la persona e la sua epoca rispetto alla rappresentazione che ne da­ rebbero dei libri.

Attualmente nelle sale cinemato­ grafiche non ci sono documentari danesi che indaghino le varie di­ namiche sociali o che esprimano un chiaro impegno sociale o politi­ co. Bisogna cercare altrove per trovare immagini della popolazio­ ne danese comune, della sua vita quotidiana, dei suoi dilemmi e dei suoi sogni. È un fenomeno che può sembrare estremamente ne­ gativo agli occhi dei più convinti appassionati del documentario, ma bisogna allo stesso tempo va­ lorizzare la qualità dei numerosi e affascinanti film ritratto che sono stati realizzati in questi ultimi an­ ni. La maggior parte dei ritratti degli anni '90, che dipingono per­ sonaggi o artisti danesi, sono esperienze fonte di grande arric­ chimento che hanno trovato una propria forma e una propria voce e che, a livello personale e poeti­ co, offrono spunti e spinte di cre­ scita che non hanno nulla da invi­ diare ai documentari che trattano di una realtà più prosaica. Il genere del ritratto si è rivelato multiforme e fertile, un genere in grado di mantenere in vita o riani­ mare persone importanti, che han­ no contribuito o contribuiscono a formare l'identità danese e il suo equilibrio culturale. Le opere in programma al festival cinemato­ grafico di Bologna ci offrono un

La persona è il film - Ritratti di personaggi famosi e artisti nuovo approccio ai generi perso­ nali. Il primo consiglio è quello di lasciarsi avvolgere dal loro univer­ so unico in compagnia di un noto personaggio danese, ma il secondo consiglio è quello di addentrarsi su

sentieri più stretti e impervi per trovare altri aspetti sicuramente meno commerciali della Danimar­ ca del 2000.

Tradotto da Paola Sioli

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Come inventare la realtà Un saggio sul metodo documentario di Jon Bang Carlsen

Il mio stile cinematografico è il ri­ sultato della mia personale diffi­ coltà di discernimento in merito ai termini "fiction" e "documenta­ rio". Una difficoltà che si incentra sul rapporto che intrattengo con il mondo così come lo vedo attraver­ so l'obiettivo della macchina da presa. Fin da quando mi ricordi ho avuto difficoltà a mantenere i due termini separati. L'idea che la fic­ tion dovrebbe affrontare la "vita immaginata" e il documentario la "vita che già esiste" mi è sempre apparsa falsa - come dilaniare una persona in due metà per poi affer­ mare di averne due. Fin da quando ho iniziato a fare ci­ nema mi sono trovato in una bru­ mosa terra di nessuno, dove il con­ fine tra fiction e documentario si dissolveva lentamente. Spessissimo ho ammirato l'infinito rigoglio di fantasia che si nasconde nella fic­ tion solo per scoprire, d'un tratto, in lontananza, le torrette di confi­ ne e dovermi ritrovare, con sorpre­ sa, ancora poggiato sul terreno della realtà. Alla scuola di cinema­ tografia però il mondo era sempli­ ce. Un film di fiction creava un uni­ verso nel quale, mediante il suo potere di suggestione, venivamo spinti a credere. Il documentario era invece semplicemente la vita quotidiana vista attraverso una 108

macchina da presa. Il fatto che la maggior parte delle persone pre­ ferisse la fiction si doveva quasi certamente al fatto che essa non era legata ad una falsa Regola e poteva dispiegarsi liberamente sul­ l'arena dei sentimenti. Il documen­ tario tuttavia veniva mosso in quella stessa arena da un intelletto virtuoso e assetato di verità che, infaticabile, rivoltava ogni pietra che si trovasse sul suo cammino per accertarsi che fosse stata lì colloca­ ta dal grande idolo ... il pedante scenografo della realtà ... il Caso.

Per parte mia ho dovuto riconosce­ re fin dal principio che mi trovavo in un eterno isolamento, rinchiuso dietro ai miei occhi a scrutare la realtà. Che io lo voglia o meno non posso rendere gli altri partecipi del mio punto di vista... e mai lo potrò fa­ re. La visuale dell'ego sul mondo è un aspetto intimamente connesso alla vita stessa, un'impronta men­ tale unica per ognuno di noi e gra­ zie alla quale Dio conosce sempre il nome del regista se per una vol­ ta cerca di scacciare l'eternità con una visita al Cinema PDV del quar­ tiere. Noi possiamo però solo cer­ care di indovinare cosa provano gli altri, perché cosa è in "realtà" quello che loro provano, e cos'è ciò che proviamo noi, quello con cui

Come inventare la realtà

noi copiosamente irroriamo il loro paesaggio interiore?

è unicamente una questione di sti­ le. Come per un pittore che scelga di raccontare la sua storia impie­ gando elementi visivi preesistenti un piatto rotto, un coltello, un om­ brellino strappato - oppure che scelga di spremere l'arcobaleno dai suoi tubetti. In entrambi i casi il risultato, nella migliore delle ipo­ tesi, sarà un'espressione personale di una percezione del mondo, op­ pure un sogno del mondo.

Possiamo guardare il mondo utiliz­ zando solo noi stessi per gettarvi luce. Per questa ragione l'ombra di chi ritrae comparirà sempre come un elemento di primo piano nel­ l'immagine finale. E fortunata­ mente ciò vale anche per il docu­ mentario, perché solo rispecchian­ do il mondo nella propria mente il cineasta può sperare di raggiunge­ re quel grado di onestà della sua Spesso si mescolano stili e si pren­ storia che permetterà al film di pe­ de lo spunto da immagini di og­ netrare la solitudine di un altro es­ getti trovati nella "realtà". Talvol­ ta, ad sere uma­ no. Il mon­ esempio, do che ci ambiento i circonda ir­ miei perso­ naggi in rompe at­ abitazioni traverso i nostri occhi di cui, pri­ ma che ini­ e crea nuo­ ve immagi­ ziassimo a ni sullo girare, essi schermo non aveva­ del nostro no mai neanche cinema in­ teriore, im­ conosciuta magini che Da Come inventare la realtà (How to invent reality, 1996) l'esistenza. di Jon Bang Carlsen. Foto: Jon Bang Carlsen. A me pare sono natu­ ralmente le nostre. Ma io credo che queste nuove abitazioni abbia­ che se le presentiamo con onestà, no una visività che, ai miei occhi, senza ritoccarle con la banale sin­ accentua il ritratto dei personaggi. tassi della ragione, queste immagi­ La funzione principale del mondo ni possono essere usate da altri esterno è quella di rispecchiare un nella loro esplorazione del mondo. mondo interiore che la cinepresa, per limiti fisici, non è capace di os­ L'obiettività è una pianta che cre­ servare. Allo stesso modo per i miei sce a stento nel terreno del viven­ "personaggi" scrivo quasi sempre te, ed ancora peggio in un mezzo delle scene che li mettono in situa­ la cui specificità è quella di con­ zioni in cui non si sono mai trovati densare i destini umani in estem­ prima, ma che mi paiono rendere poranei momenti di forza poetica. più chiara la loro descrizione. Per questa ragione la scelta tra fic­ tion e documentario, a mio avviso, I fatti concreti riguardanti una per­

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Jon Bang Carlsen sona non sono necessariamente "i migliori colori con cui dipingerne il ritratto". Per noi che cerchiamo di ritrarre il mondo così come si proietta sulle pareti interne della nostra scatola cranica, è grandioso sapere che ogni condizione può es­ sere compresa solo introducendo il suo contrario. Uno spazio di nero totale non è l'oscurità, ma solo l'assenza di luce, il che spiega per­ ché si aggiunge la luce anche per ritrarre la notte...

Lasciarsi limitare dalla casuale ap­ parenza del mondo è il risultato di un malinteso autoritarismo... an­ che nell'arte. I miei film non sono né documen­ tari né fiction nell'accezione comu­ ne di questi due termini. Sono la percezione di un essere umano da parte di un altro essere umano, so­ no reali né più né meno di un so­ gno e non sono più illusori della realtà neanche di una virgola. Non hanno niente a che spartire con la realtà, ma essendo onesto verso la mia personale percezione di un de­ terminato angolo di mondo spero che altri possano servirsi della mia percezione visiva per la loro esplo­ razione della vita.

lo definisco il mio metodo docu­ mentario inscenato. E per quanto mi riguarda questa non è una con­ traddizione in termini; è invece la migliore rete che ho tessuto finora allo scopo di imbrigliare attimi di vita. Il metodo si basa su una ap­ profondita ricerca sulle realtà che mi accingo a ritrarre - il paesaggio, le persone sole o in compagnia, il loro lavoro e i loro attimi di pausa, il modo di sedere su una sedia, gia­ 110

cere sul letto, le loro ansietà, ecc. Sulla base di questa ricerca scrivo un copione dello stesso tipo di quelli utilizzati per la realizzazione di un film di fiction, vale a dire scritto in scene e dialoghi. Quindi faccio interpretare se stessi ai miei personaggi e mediante questa in­ terpretazione essi danno al pubbli­ co ed a me un'interpretazione di come essi concepiscono sé stessi. Il contrasto tra questa interpretazio­ ne e le persone del documentario, nei suoi esiti più felici, crea un'e­ spressione che mi fissa dritta negli occhi, come il proverbiale volto nella folla che improvvisamente si fa sentire.

Questo metodo mi dà anche il van­ taggio di riuscire a controllare i miei momenti come se lavorassi su un film di pura fiction. Non ho bi­ sogno di correre dietro alla realtà come un bimbo infelice che si sia svegliato in mezzo alla notte e stia cercando disperatamente il padre negli infiniti bar della città. Tengo la "realtà" in pugno, suddivisa per scene e dialoghi che non scatteran­ no senza essersi messi d'accordo in anticipo. Sopratutto posso com­ porli a mio piacere e volere. "Beh, allora non hanno più niente a che vedere con il sig. e la sig.ra Realtà" sento già protestare molti. "È una manipolazione, menzogne mascherate da inartisticità docu­ mentaria". È un luogo comune che la manipolazione sia un elemento importante dell'intensità artistica anche nel mondo del documenta­ rio. Ad ogni modo sarà menzogna solo se non resterò fedele ai miei occhi e cercherò invece di vedere attraverso occhi che credo vedano

Come inventare la realtà

il mondo in modo più vero del mio. Ed è probabile che una men­ zogna si prenda la briga di compa­ rire ad una festa alla quale la ve­ rità non è stata invitata?

un gemello della realtà, è piutto­ sto la mia esperienza soggettiva dell'universo di un'altra persona. Affermare che un media può esse­ re oggettivo è la più insidiosa men­ zogna pronunciabile nell'universo della comunicazione. Molto simile a quella di una persona che affer­ mi di essere l'umanità. Solo veden­ do il mondo attraverso la mente si può creare una soggettività, quella soggettività che permette agli altri di ricono­ scere la vita in quell'an­ golo di realtà pre­ scelto e, magari, di farsi ispira­ re dalla vi­ sione dei giorni co­ municata da un'altra persona.

Non credo nella verità aprioristica del documentario nel momento in cui si piazza una troupe con mac­ chine da presa, registratori e riflet­ tori accesi nell'appartamento di un uomo che, solo, si è alterato in mo­ do fonda­ mentale la sua realtà. Nel sacro no­ me del do­ cumentario lo si è tra­ sformato. Il suo appar­ tamento è affollato di persone rumoreggianti e que­ Da Come inventare la realtà (How to invent reality, 1996) st'uomo, pri­ di Jon Bang Carlsen. Foto: Jon Bang Carlsen. ma così ano­ La nostra nimo, è diventato l'oggetto dell'at­ puerile credenza nel fatto che le tenzione di tutti. Se le pareti aves­ immagini con cui veniamo bom­ sero davvero occhi ed orecchi e ri­ bardati dal mondo dei media siano prendessero quest'uomo mentre più reali delle nostre impressioni tutti gli altri si accalcano dietro la non irregimentate è sciocca e para­ macchina da presa, quella ripresa lizzante. Forse questa, che essen­ sarebbe adesso una scena sulla tra­ zialmente è costituita da un irre­ sformazione di un tipo di realtà ad sponsabile rispetto per i media, è opera di un altro - quello della una delle ragioni per cui nell'uomo troupe cinematografica. moderno si ha uno scollamento tra Ma non si sarebbe data al pubblico azione e sapere. Come per il pilota la possibilità di rapportarsi al sog­ d'aereo che, avendo a sua disposi­ getto invisibile. zione tutte le necessarie informa­ zioni sulla rotta dell'aereo, sull'al­ Per me è importante ricreare la titudine e sulla velocità, se ne vada realtà con la quale io sono venuto tranquillamente e con sicurezza a contatto durante la mia ricerca, d'animo dritto dritto contro il fian­ quando l'unico elemento estraneo co della montagna che egli sa esse­ ero io. Il film che ne risulta non è re lì, a cinque minuti di volo. Come

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Jon Bang Carlsen per Ie verdure nell'orto e gli alberi nel parco, le riflessioni del mondo prodotte da questi media devono nutrire le loro radici emozionali verso un universo che è troppo caotico per essere imbrigliato dal­ l'occhio inartistico della macchina da presa. Esse devono trovare radi­ ci profonde nell'ego che le ha crea­ te, dotato com'è della capacità di dubitare. Senza la sua firma perso­ nale le immagini sono impotenti e ci sprofonderanno sempre più nel­ la nostra poltrona come fossimo grossi hamburger gonfi di amido.

Immaginiamo per un attimo che la realtà non sia niente altro che la so­ lita faccia che troviamo la mattina sopra il lavandino. Proviamo ad im­ maginare che il mosaico pulsante di questa faccia - i frammenti dei suoi

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sogni, i meandri delle sue fantasie e le sue delusioni cosparse di borracci­ na -venga corroso da un concetto di realtà che prende sul serio solo il tan­ gibile. Ed il pensiero allora, che for­ tunatamente solo raramente è una smorta copia dello status quo e che quindi trova il suo nutrimento nel profondo del territorio della fiction? Basta questo a renderlo un figlio ille­ gittimo della nostra vita? Che misera faccia sarebbe quella, se i sogni non la illuminassero dal di dentro? Que­ sta è la ragione per cui il documen­ tario deve poter spaziare anche se il suo materiale è preesistente. La mac­ china da presa sa vedere, ma non sa guardare. Va aiutata a penetrare l'apparenza ed a raggiungere la realtà che, anche, è un sogno. Tradotto da Paolo Nesti Poggi

Poesie di Soren Ulrik Thomsen (traduzioni di Bruno Berni)

Soren Ulrik Thomsen nel documentario lo sono vivo (Jeg er levende) di Jorgen Leth, 1999.

Soren Ulrik Thomsen

Med en lysstràle peger den unge laege ind i mit oje, hvor en stumfilm knitrer. Den sidste af de medvirkende, som overlod mig at skrive ord til historie, bar jeg til graven i gar, mens syrenerne, svanerne og alt, hvad der er hvidt i denne verden, henlagde resten i skygge. Dér sad jeg laenge og lytted til den susende oplosning af to kodimagnyler i vand. "Det er arveligt", siger han, og slukker lygten. (Fra Det skabtes vaklen)

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Poesie

Con un raggio di luce il giovane medico punta dentro il mio occhio in cui fruscia un film muto. L'ultimo degli interpreti, che mi ha affidato il compito di far delle parole una storia, lo accompagnai alla tomba ieri, mentre i lillà, i cigni e tutto ciò che è bianco a questo mondo confinavano il resto nell'ombra. Rimasi a lungo seduto ad ascoltare il sibilante dissolversi di due aspirine nell'acqua. "È ereditaria" dice, e spegne la lampada. (Da L'oscillare del creato)

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Soren Ulrik Thomsen

Tilgiv at jeg ser dine knogler for kodet, kodet for kjolen og kjolen for dit svaevende blik, for det er december, og mere nogne end den frygtelige kylling, jeg tog fra koledisken og straks smed fra mig, da dens tynde blod pludselig pibled gennem cellofanen og ned i mit aerme, er traeerne, hvis sorte strukturer forfolger mig som alt, der er levende, men minder om doden, samt alt, der er dodt, men synes at leve; regnestykker med syv variable, digtes snoede sneglehuse, og Nordhavns1 kraner, der gir sig i vinden, mens jeg sover ind i dine lange lemmer, men drommer om hojhuse belejrede af stilladser og om stilladser behaengt med buldrende presenninger. Tilgiv mit blik, der iler over dig som àrstider for skiftevis at krone dig med kaertegns lys og klaede dig af som en ràkold regn; jeg pàstàr jo ikke, at denne rnaneds strenge stammer er sandere end den dunede blade i maj og sandheden har jeg i ovrigt overladt til de unge: For mig er det tiIstraekkeligt, at sige tingene som de er.

(Fra Det skabtes vaklen)

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Poesie

Perdonami se vedo le tue ossa prima della carne, la carne prima del vestito e il vestito prima del tuo sguardo, perché è dicembre, e più nudi dell'orribile pollo che ho preso dal banco frigorifero e ho subito gettato quando il suo sangue fiacco d'un tratto è gocciato dal cellofan giù nella mia manica, sono gli alberi, le cui nere strutture mi inseguono come tutto ciò che è vivo ma ricorda la morte, e tutto ciò che è morto ma sembra vivere; le operazioni con sette variabili, le contorte chiocciole delle poesie, le gru del porto che cedono al vento mentre mi addormento fra le tue lunghe membra ma sogno grattacieli assediati dai ponteggi e ponteggi coperti da vocianti teloni. Perdona il mio sguardo che corre su di te come le stagioni per incoronarti con la luce delle carezze e a un tempo spogliarti come gelida pioggia; io non dico in fondo che i rigidi tronchi in questo mese siano più veri delle lanose foglie di maggio e poi la verità l'ho lasciata ai giovani: per me è sufficiente dire le cose come sono.

(Da L'oscillare del creato)

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Soren Ulrik Thomsen

Hvis jeg, som da jeg var sytten, kunne se mit liv som fiktion, ville alt ha betydning datoen, regnen og drommen i hvilken du sover bag en med isblomster tilsàet rude; men jeg for vild i de slyngede stisystemer, der skaer sig gennem romanernes morke, og blev af de andre personer ribbet for alt, jeg fik raget til mig af vaerdier, ideer og store vulgaere diplomer, for jeg blev skrevet ud af historien og ind pà poesiens privathospital med siger og skriver 13 gloser at ode vaek som liljer, der kastes pà havet dét sted, hvor skibet gik ned. En uslukkelig sol gled ind pà min stue mobleret med seng, telefon og en vugge fyldt op med skygger og klor - pludselig sa en stemme, der sagde: "Time for time vender livet tilbage". Men siden da busker jeg intet, og nu skraber i dag mod i morgen, hvor mine erindringer begynder. (Fra "Det skabtes vaklen)

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Poesie

Se io, come quando avevo diciassette anni, potessi vedere la vita come una finzione, tutto avrebbe un senso la data, la pioggia e il sogno nel quale tu dormi dietro un vetro cosparso di formazioni di ghiaccio; ma mi sono smarrito nei tortuosi apparati di sentieri che attraversavano il buio dei romanzi e dagli altri personaggi sono stato depredato di tutto ciò che avevo sottratto, valori, idee e grossi volgari diplomi, prima di essere esiliato dalla storia e registrato nella clinica della poesia con - dico e scrivo - 13 parole da dilapidare come gigli gettati sul mare nel punto in cui la nave è affondata. Un sole implacabile è scivolato nella mia stanza ammobiliata con letto, telefono e una culla piena di ombre e cloro - e d'improvviso una voce che diceva: "Ora per ora ritorna la vita". Ma poi non ricordo più nulla, e ora raschia l'oggi verso il domani, dove iniziano i miei ricordi.

(Da L'oscillare del creato)

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Soren Ulrik Thomsen

Levende

regnvandet driver ned ad min arm jeg er levende telefonen ringer roret er koldt i Handen jeg er levende graeder laegger min hand mod min nakke jeg er levende porten smaekker bilerne suser bag muren jeg er levende mit toj er beskidt vandet koger jeg er levende laenges efter din stemme den er her ikke stoder mod bordet jeg er levende kan huske lugten i hans lejlighed blaesten pà stationen ved havnen jeg er levende finder gamie digte breve erindringer 10 àr 8 àr 7 àr 1 àr jeg er levende skrive til kontor maelken er sur jeg graeder jeg er levende graeder levende (fra City Slang)

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Poesie

Vivo la pioggia mi scende lungo il braccio sono vivo il telefono squilla la cornetta è fredda nella mano sono vivo piango appoggio la mano sulla nuca sono vivo la porta sbatte le auto sibilano di là dal muro sono vivo ho i vestiti sporchi l'acqua bolle sono vivo mi manca la tua voce non è qui sbatto contro il tavolo sono vivo ricordo l'odore del suo appartamento il vento alla stazione vicino al porto sono vivo trovo vecchie poesie lettere ricordi 10 anni 8 anni 7 anni 1 anno sono vivo scrivere all'ufficio il latte è inacidito piango sono vivo piango vivo

(da City Slang)

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Soren Ulrik Thomsen

Jeg vàgner og konstaterer i spejlet, at jeg ikke er fodt i gar. Det gaelder om at vinde tid, sa man kan tale at miste alt det, man skal. At ofre en time om dagen pà at gore et-eller-andet efter alle kunstens regler: Stryge sin skjorte. Lae re et knaldhàrdt vers udenad. Hvad er vel mere ynkeligt end de evige opbrud? Som om vi ikke er brudt op een gang for alle. Jeg bilder mig ikke ind hver morgen at komme til verden, tordi dén hver dag er som fodt pàny. Til gengaeld drommer traeerne vel naeppe om mig, som jeg om dem. (Fra Hjemfalden)

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Poesie

Mi sveglio e constato nello specchio che non sono nato ieri. Si tratta di guadagnare tempo per sopportare di perdere quanto perdere si deve. Sacrificare un'ora al giorno facendo qualcosa con tutte le regole d'arte: stirarsi la camicia. Imparare a memoria una strofa coriacea. Che c'è di più misero dell'eterna partenza? Anche se non siamo partiti una volta per tutte. Non credo certo di venire al mondo ogni mattina, solo perché la mattina rinasce ogni giorno. In compenso è sicuro che gli alberi non sognano me come io loro.

(Da Rimesso)

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Soren Ulrik Thomsen

Den sidste time er dognets bedste. Alt er for sent og for tidligt. Det kan godt vaere, at jeg er lykkelig, men det kan ogsà vaere al den tobak, der gor mig svimmel, og jeg er helt ligeglad: Jeg bar alligevel ondt i hovedet i morgen, for det slàr mig, at selv du kunne do. Digtet, jeg bar arbejdet pà hele aftenen, oser bare som en gammel lampe. Jeg tommer askebaegeret og gar ud og pisser. Hver dag er det hele forbì. (fra Hjemfalden)

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Poesie

L'ultima ora è la migliore del giorno. Per ogni cosa è troppo tardi e troppo presto. Può anche essere che io sia felice, ma può essere anche tutto quel tabacco a darmi il capogiro, e non mi importa niente: domani comunque avrò mal di testa perché mi ha colpito che anche tu potresti morire. La poesia cui ho lavorato tutta la sera puzza solo come una vecchia lampada. Svuoto il posacenere e vado a pisciare. Ogni giorno tutto è finito.

(da Rimesso)

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Soren Ulrik Thomsen

Tandlaege. Gravsted. Vielsesring

Til Michael Strunge Da jeg kom var det efteràr, men da jeg gik fra tandlaegen, var det blevet vinter. Jeg standser foran butikkernes ruder og smiler bredt til mit eget spejlbillede, sa mine nye guldtaender lyner fra kaebernes lyserode morke, og jeg ligner en gammel nazist pà film. I nekrologerne skrev de, at sàdan matte det jo gà, men jeg vii ikke vaere med til at give din dod en mening, som alene er livets. Jeg kober en rose og leder efter din grav. "Jeg savner dig," siger jeg og synes, du smiler - men det er jo bare no­ get, jeg bilder mig ind. Her star jeg med mine forste grà bar og mit onske om en vielsesring. Og der er du, et sted mellem alt for meget jord og alt for meget Himmel. I mit urolige hoved. (Fra Nye digte)

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Poesie

Dentista. Tomba. Anello nuziale

Per Michael Strunge

Quando sono arrivato era autunno, ma quando uscii dal dentista si era fatto inverno. Mi fermo davanti alle vetrine dei negozi e invio un ampio sorriso al mio riflesso, cosicché i miei denti d'oro sfavillano dalla rosea tenebra delle mandibole, e somiglio al vecchio nazista di un film. Nei ne­ crologi hanno scritto che doveva andare così, ma non voglio dare an­ ch'io alla tua morte un senso che è solo della vita. Compro una rosa e cerco la tua tomba. "Mi manchi" dico e mi sembra tu sorrida - ma lo sto solo immaginando. Eccomi qui, con i miei primi capelli grigi e la mia smania di un anello nuziale. Eccoti lì in un luogo fra troppa terra e trop­ po cielo. Nella mia testa inquieta.

(Da Nuove poesie)

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Soren Ulrik Thomsen

At tabe det hele og baere det med sig som en usynlig skonhed lagt til ens eneste ansigt. Indfatte grusomheden i en gron arabesk og vaere den vaerdig. At sta som et drivhus i Islands nat; et lysende, knagende telt af glas fuldt af bristende frugter. Vende som radarens dybe tallerken mod et endelost Asien ingen bar set. At synke sammen i fuld figur - hoved, haender, penis og nederst to sorte sko. At lade et andet menneskes smerte gà lukt ignnem sit legemes sluse og se at fa lidt sovn. Foraere sine bedste to linier bort; dén, der lyser som en hyld og dén af tyngde som syrén. At lade nelliken urort og lede efter et ord sa urimeligt skont at det ikke er menneskeligt muligt. At haegte de mulige sammen i tidsrum af krybdyr og tai. Lade en hàndbevaegelse gore det ud for et belt livs kaerlighed, og at elske et helt langt liv som om man bare slog ud med hànden. At tale sig frem til sin stemme og glemme sig selv, gà planken ud og blive benàdet, lade sandheden falde og laegge sjaelen til ro pà et braendende blad. (Fra Hjemfalden)

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Poesie

Perdere ogni cosa e portarla con sé come un'invisibile bellezza aggiunta al tuo unico volto. Incastonare la crudeltà in un verde arabesco ed essere degno di lei. Stare come una serra nella notte d'Islanda; una luminosa, stridente tenda di vetro piena di frutti che si aprono. Girare come il piatto fondo del radar verso un'Asia sconfinata che nessuno ha visto. Crollare a figura piena -testa, mani, penee in basso due scarpe nere. Infilare il dolore di un altro essere umano attraverso la chiusa del tuo corpo e cercare di dormire un po'. Regalare i tuoi due versi migliori; uno che splende come un sambuco e l'altro di gravezza come il lillà. Lasciare intatto il garofano e cercare una parola così assurdamente bella da non essere umanamente possibile. Agganciare insieme le possibili in epoche di rettili e numeri. Fare esprimere al gesto di una mano l'amora di una vita intera, e amare per un'intera lunga vita come fosse il cenno di una mano. Parlare seguendo la tua voce e dimenticare te stesso, percorrere l'asse fino in fondo e ottenere la grazia, lasciar cadere la verità e mettere in pace l'anima su una foglia rovente.

(Da Rimesso)

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Soren Ulrik Thomsen

Tilegnet alt der har stàet for laenge i regnen i varmen i skyggen i blaesten i verden; alt der star laenket til livet mens solen braser igennem dets anlobne omrids. Og alt der ma flygte fra dràbe til dràbe langs murenes kalk og faldstammens bulede gaze for forst at sia ud som rust, sa stov det er ikke sa tiIfaeldigt, at negativ tilvaekst ir, korrosion og belaegninger naevnes, for dette er tilegnet alt, der er hjemlost og soger en bolig i elnettets vildnis, urinen, en henkastet tegning. Ikke tilegnet torskens skelet, hvidt pà den hvide tallerken, men de traevler af fisken der sidder og ràdner mellem en guldtand og én af solv; blodet der glider pà tandtràdens voks og glinser i spejlet foran dit ansigt. Dit ansigt som ikke kan ses i et spejl, kun i en andens.

(Fra Hjemfalden)

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Poesie

Dedicata a tutto ciò che è stato troppo alla pioggia al caldo all'ombra al vento al mondo; a tutto ciò che è incatenato alla vita mentre il sole brucia il suo bordo appannato. E a tutto ciò che deve fuggire di goccia in goccia lungo la calce dei muri e la rigonfia garza degli scarichi per sgorgare solo come ruggine, poi polvere non è così casuale che crescita negativa, verderame, corrosione e rivestimenti, siano menzionati perché questa è dedicata a tutto ciò che non ha casa e cerca dimora nel dedalo della rete elettrica, all'urina, a un disegno abbozzato. Non è dedicata allo scheletro del merluzzo bianco sul piatto bianco ma alle fibre del pesce che marciscono fra un dente d'oro e uno d'argento; al sangue che scivola sulla cera del filo interdentale e luccica nello specchio davanti al tuo volto. Al tuo volto che non può essere visto in uno specchio, solo nel volto di un altro.

(Da Rimesso)

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Soren Ulrik Thomsen

Tusindhaven

Op gennem den varme regn driver aftenens smeltede sange pà din lette hand flyder nellikers tunge folder a wild gardenia lyser i faldet a wild gardenia falder i lys fra et solvskarpt vindue pà syvende sal Strommer Det Vidunderlige uophorligt ud gennem morket i Tusindhavens blodfyldte blomstring ligger en rà diamant i den smattede jord bla àrer iler under làrets hvide hud blidt foldes ojenlaget over synets sitrende klarhed mundene bades i kobbersange fungerne indskibes vàdt i hinanden fra en fed og flaekket roses àbning lober det Uophorlige vidunderligt ud gennem folderne Àkander

Asters Aralier langt bag de gragronne regntraeer vender trafikken i glinsende buer ud ud ud af byens revnede centrum nu haelder allerede de fungeste roser ind i en ràdden, en hed og fugtig august rà diamant Àh, Rà Diamant: du skal àbne din hànd du skal àbne din hànd: Vis mig dit indres fugtige ydre. (Fra Mit lys braender)

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Poesie

Il Millegiardino Attraverso la pioggia calda salgono i canti disciolti della sera scorrono sulla tua mano leggera le pesanti crespe dei garofani a wild gardenia riluce nel cadere a wild gardenia ricade nella luce da una finestra argentea al settimo piano incessante sgorga il Meraviglioso dall'oscurità nella fioritura insanguinata del Millegiardino c'è un diamante grezzo nella terra viscida vene azzurre scorrono nella pelle bianca della coscia dolce piega la palpebra sul vibrante nitore della vista le bocche si bagnano in canti di rame le lingue si imbarcano umide fra loro dalla fessura di una rosa aperta e carnosa meraviglioso fluisce l'incessante dalle pieghe Ninfee Asteri Aralie lontano, dietro gli alberi pluviali grigioverdi, il traffico svolta in archi scintillanti fuori fuori fuori dal centro incrinato della città ora già le rose più pesanti pendono in un agosto marcio, umido e afoso diamante grezzo Ah, Diamante Grezzo: devi aprire la tua mano devi aprire la tua mano: mostrami l'umido esterno del tuo interno.

(Da La mia candela brucia)

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Solo una ragazzata di Villy Sorensen

Due ragazzini, che erano fratelli perché avevano gli stessi genitori, ave­ vano in comune anche uno zio cui un bel giorno fu amputata una gam­ ba. Per quel motivo l'interesse dei ragazzini per lo zio aumentò al pun­ to che i genitori ritennero di doverli tranquillizzare con una spiegazione scientifica. Lo zio un giorno si era procurato un buco sull'alluce, e attra­ verso il buco era entrata nella sua gamba una gran quantità di animali, degli animali così piccoli che non si potevano affatto vedere, e che papà chiamava batteri e mamma bacilli, per il qual motivo il fratello maggio­ re preferiva chiamarli bachilli, mentre il fratello minore li chiamava bat­ terie. Quei bizzarri animali si arrampicavano su per la gamba lungo una linea rossa, ed era importante segare la gamba prima che arrivassero nel corpo, perché altrimenti lo zio sarebbe morto. Adesso era vivo e gli ave­ vano fatto una gamba finta ed era praticamente come una vera, e i ge­ nitori ritenevano che in tal modo i ragazzini fossero tranquillizzati. Arrivò a piedi nudi un bambino che correva a fianco di un cavallo attac­ cato a un carro, correva perché voleva studiare come poteva correre un cavallo nonostante avesse quattro zampe. Perciò dimenticò di studiare come poteva correre lui, e improvvisamente uno degli alluci attirò a sé ogni sentimento del suo corpo, e lui cominciò a saltellare su un piede so­ lo, dicendo oooh!, mentre contorceva il volto ancora molto piccolo, che non sarebbe mai diventato grande. Dall'alluce penzolante, che proba­ bilmente aveva sbattuto contro una pietra aguzza, una pesante goccia di sangue cadde nel vicino rigagnolo - proprio mentre passavano i due ragazzini grandi. "Oh, ha un avvelenamento del sangue", disse il più piccolo. "Devi anda­ re dal dottore." "No, non voglio." "Forse non lo sai che ti sei fatto un buco sull'alluce, e attraverso il buco ti sale nella gamba una quantità di animali." Il ragazzino si guardò l'alluce con curiosità: "Mi prendi in giro, lo non vedo animali." "No, perché sono così piccoli che non li puoi vedere. Si chiamano batterie." "Bachilli", corresse il fratello più grande e più intelligente. "Se ti salgo­ no nel corpo muori. Perciò bisogna toglierti la gamba." "lo la gamba voglio tenermela. È mia", disse il ragazzino, e si afferrò la gamba con entrambe le mani. "Allora vuoi proprio morire?" 136

Solo una ragazzata

"Sì" disse il ragazzino, che come tutti gli altri non aveva mai provato a morire e perciò non considerava particolarmente importante la morte. "Non sa nemmeno cosa significa morire. È stupido. Non capisci che se muori non vivi?" "Non mi importa." "Sei stupido se non ti importa. Se non vivi non puoi più mangiare e non puoi neanche giocare." "Non mi importa nemmeno di questo. Tanto sono un cavallo." "Già, ma se sei morto non puoi essere nemmeno un cavallo." "Non sono morto." "Tu sei stupido. Morirai se non ti fai togliere la gamba, perché hai l'av­ velenamento del sangue e ora i bachi II i hanno già superato il ginocchio. Devi andare dal dottore e farti segare la gamba." "Non voglio andare dal dottore. Quello mi punge." "Il dottore è bravo", esordì il più piccolo dei fratelli. "Ti sega solo la gamba, così le batterie non ti fanno niente." "Bachilli", disse il maggiore. Ma ora il ragazzino, cui intanto l'alluce ave­ va smesso di sanguinare, aveva perso completamente il coraggio, spa­ lancò la bocca al punto che la testa, che era molto piccola, rischiava di essere inghiottita, e cominciò a piangere a dirotto e i due più grandi, che beninteso erano piccoli in confronto a ragazzi ancora più grandi, co­ minciarono ad avere compassione di lui. "Chi se ne frega", disse il maggiore, "ci pensiamo noi. Ce lo portiamo a casa e gli seghiamo la gamba noi. Usiamo la mia sega da traforo." "Sì ma... non siamo capaci..." "Certo che siamo capaci. Una gamba sottile come quella non è niente in confronto al tronco che ho segato l'altro ieri senza batter ciglio. Come ti chiami?" "Peter" disse il ragazzino, con tanto pianto nella voce che quasi non c'e­ ra più voce. "Vieni allora, Peter. Così non devi andare dal dottore. Te la sego io la gamba." "Voglio tenermi la gamba", gridò il piccolo. "Voglio anche la tua di gamba, perché sono un cavallo." "Ma te la potrai tenere, la gamba. E poi ti daranno una gamba finta, ed è buona come una vera, e così ne avrai tre. Ma devi sbrigarti perché i ba­ chilli ci mettono poco a salire per una gambetta come la tua." "Quindi me la potrò tenere, la gamba?" "Ma certo, te la potrai portare a casa per giocarci." "Quando sarò grande voglio essere un cavallo", spiegò il piccolo mentre andava fiducioso con i due fratelli, "perché un cavallo può correre quan­ to vuole." I due grandi gli diedero ragione, e si sentivano molto più grandi, men­ tre camminavano e gli davano ragione. "Ci metteranno sicuramente sul giornale", sussurrò il maggiore al fra­ tello più piccolo. Fortunatamente a casa non c'era nessuno, così il fratello più piccolo fe­

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Villy Sorensen ce sdraiare Peter sul tavolo della cucina mentre il maggiore andava a prendere la sua sega da traforo. Peter cinguettava senza sosta di cavalli che corrono e non sospettò nulla quando il più piccolo gli arrotolò i pan­ taloni e il maggiore sollevò la sega. Ma non appena la lama toccò la gamba, scalciò e strillò e voleva andare a casa, e visto che ora sembrava del tutto refrattario ad argomenti ragionevoli, i fratelli non trovarono di meglio che legarlo con il filo per il bucato. Nonostante la sua piccola cor­ poratura, Peter si rivelò in possesso di forze enormi, e passò un periodo di tempo fatalmente lungo prima che i ragazzini avessero avvolto in ma­ niera abbastanza sicura il filo per il bucato intorno al suo corpo minac­ ciato e intorno alle gambe del tavolo della cucina. Così infine giacque immobile, ma strillava ancora con tanto isterismo che il fratello maggio­ re non riusciva a far sentire i suoi ordini al più piccolo, perciò dovette in­ filare lui stesso il fazzoletto nella bocca urlante e fu morso a un dito e cominciò a sanguinare, ma quasi non ci fece caso perché era un ragazzi­ no in gamba. Con fierezza posò dunque la sega un bel po' al di sopra del ginocchio e segò che era un piacere. Rimase sgradevolmente stupito dal fatto che potesse esserci tanto sangue in una gamba così piccola, ma furono d'ac­ cordo nel considerarlo una prova del fatto che l'avvelenamento del san­ gue era a uno stadio molto avanzato, e perciò era tempo di debellarlo. E il fratello maggiore segava mentre il sangue schizzava e fibre e carne rossa si alzavano dal solco della sega, che non era dritto come avrebbe dovuto. "Puh", ansimò. "È così strano da segare. Prova tu." Il più piccolo si mise al lavoro, imbarazzato perché non gli era mai stato permesso di prendere in prestito la sega da traforo del fratello maggio­ re. E visto che non aveva mai segato prima, non si rendeva conto che era strano da segare, e disse: "È divertente segare." "Non concludi niente. Lascia fare a me!" Il maggiore riprese a segare mentre il più piccolo in estasi trotterellava avanti e indietro sul pavimento insanguinato - fu molto stupito quando il fratello maggiore disse: "Questa schifezza, non vuole staccarsi." "Lascia fare a me", disse il più piccolo. Il fratello maggiore cedette la sega senza opporre resistenza. Il sangue gocciava sul pavimento come una pioggia e avanzava strisciando come un grosso serpente. "Dobbiamo... far sparire tutto prima che mamma torni a casa." Il fratello più piccolo si fermò e guardò stupito il maggiore che sudava: "Sì ma... gli verrà l'avvelenamento del sangue?" "Cosa credi che mi importi. Le prenderemo, quando papà torna a casa." "Allora non finiremo sul giornale?" "Finiremo a letto." Il più piccolo cominciò a toccarsi il naso. Lasciò cadere fiaccamente la se­ ga e il sangue gli schizzò sulle gambe. 138

Solo una ragazzata

"Fratello maggiore... non credi... non credi che un buco così sia abba­ stanza per far uscire le batterie..." Cercò di indicare la caotica ferita di Peter, ma ci rinunciò, il braccio era troppo pesante. "Può anche essere", disse il maggiore con indifferenza. Strappò con cat­ tiveria il fazzoletto dalla bocca di Peter, che non per questo cambiò espressione, stava lì disteso e fissava il soffitto e non aveva nemmeno vo­ glia di chiudere la bocca. "Oh, che faccia stupida ha", disse il maggiore con profondo disprezzo. "Già... stupido è stupido, tutte quelle cose che diceva sui cavalli..." "Ora puoi anche andare a casa", disse il maggiore a Peter. "La gamba è segata abbastanza." "Già ma dobbiamo slegarlo..." "Ah, non è nemmeno capace di farlo da solo, quel poppante." Disperatamente si mise a tirare il filo per il bucato che si arrotolò come un lasso intorno a lui e al più piccolo, cosicché il maggiore cacciò una be­ stemmia così laida che il minore lo guardò pieno di ammirazione. Quan­ do infine ci furono riusciti, Peter rimase sdraiato con gli occhi vuoti e la bocca aperta. "Non si muove per niente", disse curioso il più piccolo. "Ah, si vede subito che è morto come un'aringa morta." "È... proprio morto?" "Certo che è morto. Poteva stare fermo... i bachilli non hanno nessuna voglia di aspettare che uno leghi un tipo così." "Già... ma non può tornare vivo?" "Certo che non può tornare vivo se è morto di avvelenamento del sangue. Guarda che faccia ha." Il più piccolo guardò... e senza pensarci due volte si fece la pipì nei pan­ taloni, scorreva giù per la gamba e gocciolava nel sangue, e lui si mise a piangere a dirotto perché il maggiore non la sentisse gocciolare. "Chiudi la bocca! Dobbiamo far sparire tutto prima che arrivi mamma. Prendi quel tipo e gettalo in strada, non serve a niente, lo devo lavare, che tu non te ne intendi." "Già... ma non riesco a portarlo da solo... sei stato tu a volerlo... e la se­ ga è tua..." "Chiudi la bocca, poppante, puoi trascinarlo... ma bada che non ti veda nessuno... perché altrimenti crederanno che lo abbiamo ammazzato... e allora ci metteranno in prigione..." "Già... lui è morto di avvelenamento del sangue..." "Ah, credi che riescano a capirlo... Sbrigati!" Il piccolo afferrò Peter, che cadde sul pavimento, e il sangue schizzò sul­ le pareti e il piccolo strillò e il maggiore gridò: "Salame!" "Non sei andato molto avanti", disse il più piccolo quando tornò, il mag­ giore stava in ginocchio e strofinava, ma non si vedeva nessun cambia­ mento, tutto era ancora rosso.

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Villy Sorensen

"Dove devo metterlo?", balbettò il maggiore, e il piccolo sentì trionfan­ te che anche lui ora stava per piangere. "Non mi ha visto nessuno. L'ho gettato per strada. Lui non ha detto niente. Ma tanto sono troppo grande per stare a sentire tutte le sue sciocchezze sui cavalli." Il maggiore cercò di sollevare il secchio per versare l'acqua colorata nel lavandino. Suonarono alla porta. "Non apriamo." Il piccolo fece di nuovo la pipì, e quando guardò con un'espressione im­ plorante il maggiore, la fece anche lui. Continuavano a suonare. Il pic­ colo guardò fuori attraverso la tenda della cucina, ma ritrasse subito lo sguardo. "E... un po... poti... pozi..." "Che ti avevo detto", sibilò il maggiore, e al più piccolo sembrò che fos­ se un fratello maggiore molto diverso, con la bocca deformata. "Credono... che siamo noi..." Il maggiore taceva. Poi gli cadde lo sguardo sul pavimento. "Dobbiamo toglierlo" disse improvvisamente. E come invasati si misero a strofinare il sangue denso, avanti e indietro sul pavimento. Suonarono ancora. "Entrano. Sfondano la porta." "Ci... ci... ci prendono", sussurrò tremante il più piccolo. "Sei stato tu a cominciare." "È solo la mamma" disse il maggiore e sorrise, e d'un tratto sembrava quello di sempre, solo che aveva la testa tutta rossa, ma quella la mam­ ma avrebbe potuto lavarla. "Mamma", gridò il più piccolo. "Non ero in casa", disse mamma là fuori. "Be'", disse il poliziotto. "Qualcuno ha investito un ragazzino proprio da­ vanti alla Sua casa, sembra che sia scappato, e nessuno ha visto niente." "Non sarà... uno dei miei..." La porta di casa si aprì. Il maggiore trascinò il più piccolo fuori dalla cu­ cina e sbattè la porta. "Ah, sia ringraziato il cielo", ansimò mamma e li baciò entrambi, e così facendo si sporcò un po' di sangue. "Ma come vi siete conciati?" I ragazzini non dicevano niente. "Siete tutti rossi... vi è successo qualcosa... fa male?" I ragazzini non risposero. "Rispondete, siete vivi... siete voi che hanno investito?" "Sì mamma", disse il maggiore e cominciò a piangere. "Anch'io" disse il più piccolo e pianse anche lui. "Di traverso." "Venite a lavarvi", ansimò mamma. Spalancò la porta della cucina, il san­ gue le sguazzava sulle gambe e pendeva a grumi dalle pareti. "Ma siete stati investiti qui dentro?" "Sì mamma", pianse il maggiore. "Insieme", pianse il più piccolo. 140

Solo una ragazzata

Improvvisamente ecco il poliziotto sulla porta con in mano la sega da traforo del maggiore: "Che cos'è questo?" "Non lo so", disse mamma, "ma ora lasci che li lavi". E li lavò, bianchi come angeli. Poi furono messi a letto come aveva pre­ visto il maggiore. Ma il giorno dopo finirono comunque sul giornale.

Tradotto da Bruno Berni

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Seth di Jens Martin Eriksen

Le informazioni che abbiamo in proposito sono limitate. Sappiamo solo che è la fine di settembre, il sole splende sul mare, sono quasi le quattro del pomeriggio. Alcuni turisti tedeschi sono assolutamente gli ultimi del­ la stagione. Gironzolano lungo la spiaggia provenienti da Thorup, dove sono stati a vedere le barche tirate in secco sulla sabbia. Camminano da una buona mezz'ora verso sud quando vedono un corpo disteso sul ba­ gnasciuga. Inizialmente credono che sia solo un mucchio di stracci o di rifiuti trasci­ nati sulla battigia. Ma quando lo raggiungono si rendono conto che è il corpo di una persona. È sdraiato su un fianco, col volto verso il mare. Non riescono a vedergli gli occhi. Al suo arrivo, ogni onda fa muovere un poco una delle gambe del cadavere restituito dal mare. Come se la morte non fosse sopraggiunta. I turisti sembrano confusi, e quasi non riescono a credere ai propri occhi. Una di loro ricorda di essersi improvvisamente resa conto che era una giornata molto calda, e poi di aver guardato verso il mare. Ma non si ve­ deva nulla. Poteva essere un marinaio naufragato molto lontano o caduto in mare e trascinato verso la spiaggia dalla corrente? La turista non riesce a ri­ cordare se lo aveva chiesto a qualcuno degli altri, ma ricorda solo che fa­ ceva molto caldo. Del resto aveva fatto molto caldo, un caldo torrido, per quasi tutta l'estate. Perciò non era niente di strano. Uno degli altri si mette a punzecchiare il corpo con un bastone. Poi si riprendono e tor­ nano a Thorup per allarmare l'addetto alla sorveglianza della spiaggia o qualche altro locale da cui riescono a farsi capire. È un giorno di fine set­ tembre. Come si è detto non è molto ciò che sappiamo. Ma siamo venuti a co­ noscenza di una parte delle premesse a questo avvenimento. Iniziano al­ la metà di agosto, un giorno in cui uno straniero arriva in città con l'e­ spresso di Fjerritslev. È il capolinea e l'uomo attraversa il piazzale delle corriere ed entra nella pensione. Sopra la porta c'è scritto "Rio Bravo". E ci sono delle selle davanti al bancone del bar, e dei box in giro per la sala, dove si siede riparati intorno a un tavolo. La moglie del padrone della pensione, Jonna, lo ha visto fin dal mo­ mento in cui il pullman si era fermato. Stava seduto in fondo insieme a una ragazza, forse Helena, la figlia del pastore. Erano scesi e stavano in

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Seth

piedi al chiosco a bere un caffè, e dopo un po' di tempo lui le aveva da­ to la mano e lei aveva indicato il "Rio Bravo". Vuole una stanza, alle normali condizioni di affitto, a pensione, dice. Ep­ pure è molto presto, l'alta stagione non è ancora terminata, ma le sem­ bra quasi di non poter rifiutare, visto che chiede così direttamente. C'è qualcosa di singolare in lui. È molto abbronzato, magro, con una mano avvolta nella garza e appesa al collo. A tracolla porta una borsa con qualche vestito. Questo è tutto. Gli dà la numero 21, è appena in cima alla scala, e poi avanti sul lato destro del corridoio. C'è la vista sulla sta­ zione delle corriere. Può andare, dice lui. "Può andare" suona così in­ grato! Jonna vuole accompagnarlo su, ma non ce n'è bisogno. Valash e un vecchio che si chiama Stage arrivano al "Rio Bravo" verso se­ ra per bere e chiacchierare e giocare al Pensatoio. È la normalità. Una giornata calda. Chissà se il tempo terrà fino al raccolto? Jonna, due fred­ de. Novità? Il tipo su alla 21, di Copenaghen, che è arrivato nel pome­ riggio, dice di chiamarsi Seth. Ha pagato tutto in anticipo per una setti­ mana e vuole dire solo che si chiama Seth. Ha dimenticato i suoi docu­ menti laggiù. Oppure sono smarriti, controllerà, se solo vogliono lasciar­ lo in pace. Il padrone lo ha incontrato appena, e se lui stesso non gli avesse rivolto la parola, quello si sarebbe limitato a passargli davanti. Di­ ce di essere stato in India. Era in piedi e beveva un'acqua minerale. Sen­ za ghiaccio, non era un pattinatore. Il padrone non aveva capito quel­ l'osservazione. E il braccio? Era stato morso da un serpente, disse. Ah sì, e come? E lui si era limitato a guardare il padrone con gli occhi spenti, occhi accusatori, aveva ripetuto la domanda ed era uscito dal Rio Bravo! Strano tipo. Chi sarebbe lo strano tipo? Il padrone, Valash e il vecchio Stage si guar­ dano intorno nella sala, ma inizialmente non riescono a vedere nessuno. Chi ha parlato? Poi vedono un volto abbronzato alla finestra che dà sul piazzale delle corriere. Fa un caldo torrido quella sera, tutte le finestre sono aperte. Bi­ sogna stare attenti a parlare della gente, possono passare in qualsiasi momento, dice. Ha degli occhi stranamente luminosi, come se potesse passargli per la testa di fare qualsiasi cosa. Occhi come da lupo. Di un az­ zurro assolutamente splendente nel volto abbronzato. Poi ride forte, in tono sprezzante. Molto brevemente. Poi è di nuovo serio e scompare dalla finestra e poco dopo entra in sala. Valash si azzarda a chiedere com'era dunque l'india. Seth allunga la ma­ no sul bancone del bar e prende un bicchiere, lo tiene in controluce per vedere se è pulito, completamente pulito. Non lo è. Allora lo rimette a posto e ne trova un altro. Un'acqua minerale. Già, l'india. Fa caldo in India. Poi ride e salta su una sella davanti al bancone. "Caldo in India"?! Per esempio fa più caldo a sud che a nord, ma dipende dalla stagione! E dovunque si vada, non c'è carta igienica. Si lavano il culo - con le dita e l'acqua. Certo non è così alla pensione di Fjerritslev? Il padrone non sa rispondere altro che "certo". Poi si rende conto di aver 143

Jens Martin Eriksen dato una risposta sbagliata e risponde "no", chiaramente confuso. Que­ sto fa ridere Valash e Stage, ma Seth non ride, non subito. Solo quando gli altri due smettono. Allora ride veloce e forte. E in un modo spiace­ vole, in modo che non è chiaro quale sia la cosa divertente. Valash e Stage stanno lì seduti a guardare un po'. Non sanno dove guar­ dare. Seth non dice niente. In India fa caldo, e ancora più caldo, sì, un caldo torrido quanto più si va a sud, sì, certo. E non c'è la carta igienica. Poi cominciano a giocare al Pensatoio. Seth si avvicina al loro tavolo, be­ ve un sorso della sua acqua minerale, posa il volto sul tavolo e chiede se non vogliono che racconti dell'india. Dicendo "India" mostra loro il brac­ cio, dove è stato morso da un serpente. Laggiù deve sposarsi con una ra­ gazza, dice, quando sarà abbastanza grande. È molto, molto bella. È la prima volta che sorride, quando dice che la ragazza è bella. Ha quattor­ dici anni. È andato a chiedere ai suoi genitori, ma non vogliono ancora dargli il permesso di portarla via. Quanti anni ha lui? chiede Valash. Già, quanti anni ha lui. Quanti anni ha lui. Quel che è fatto è reso. Poi ride nuovamente in tono sprezzante. Intorno al tavolo c'è silenzio. Valash e Stage non sanno dove guardare. Il padrone comincia a lavare dei bicchieri che non gli sembrano comple­ tamente puliti. Sta lì ad asciugarli dietro il bancone. Sì, dice Stage. Solo sì. Seth chiede cosa significa. "Sì"? Nessuno gli ha chiesto niente. Seth si volta per vedere se c'è qualcuno nella sala. Nessuno. Poi racconta che in India se l'è cavata impegnando un tappeto ricamato a mano che si trascinava sempre dietro. Quando aveva bisogno di soldi impegnava il tappeto. Era un bene che avesse quel tappeto. Poi giocano un po', i tre. A pari e dispari. Intanto il padrone asciuga i bicchieri. Seth vince ogni volta. E quando prende i soldi sembra pensa­ re che riesce a farsi beffe di loro anche se credevano di fregarlo. Che erano cattivi. Il pomeriggio del giorno dopo. Stage entra al "Rio Bravo". C'è Valash se­ duto, e il padrone sta in piedi dietro il bancone a sfogliare una rivista. Ci sono anche alcuni turisti seduti a mangiare in un box all'altro capo del­ la sala. Jonna è in cucina. Stage vuole sapere dov'è, quello lì. Il padrone non l'ha visto per tutto il giorno, è via dal mattino presto. Ma sicura­ mente è sulla spiaggia. Secondo Stage è un tipo che viveva con certi altri in una fattoria nei pressi di Hjorring. Conducevano una vita pericolosa lassù una decina di anni fa. Il nome gli sembra di ricordarlo dai giornali. Andavano in giro a rubare macchine, rubavano nelle case giù a Aalborg e minacciavano i vi­ cini di picchiarli. Sì, una volta avevano segato la porta di un vicino e vo­ levano ucciderlo. Gli stavano davanti con la motosega e lo minacciavano sotto gli occhi della moglie e dei figli. Quell'uomo non sarebbe mai più tornato un essere umano. Nessuno sa cosa sia accaduto davvero alla fattoria, forse fu gelosia. Ma uccisero uno dei loro compagni, lo bruciarono durante la notte e polve­ rizzarono le ossa e le mescolarono al cemento col quale fecero una nuo­ va autorimessa. Vennero fin da Copenaghen per effettuare le ricerche. I 144

Seth medici legali della polizia. Scavarono il cemento, lo tagliarono come se fosse dell'affettato, e dentro ci trovarono dei resti umani. A Stage sembra di ricordare il nome, sì. Seth. Cosa farà ora il padrone, chiede Valash. Il padrone non sa se è vero. C'è qualcosa da fare? Guarda verso la cucina, come se volesse rimproverare Jonna. Se solo non lo aves­ se alloggiato. I turisti continuano a mangiare come se niente fosse. Stage ha sentito dire che ha fatto il viaggio insieme a Helena, la figlia del pastore, per tutto il tragitto da Copenaghen. Erano seduti insieme nella corriera. Qualcuno li ha visti. Lei deve cominciare l'università giù a Aalborg dopo le ferie. Ha lavorato tutta l'estate in un ristorante di Copenaghen. I due sono stati visti men­ tre prendevano il caffè insieme alla stazione, e qualcuno li ha visti sedu­ ti a parlare per tutto il tragitto in corriera. Chissà di cosa avevano da par­ lare due così? Lei si era sempre sentita troppo fine per quelli del paese. Comunque non aveva mai avuto un ragazzo di Fjerritslev. E se infine qualcuno al ballo andava da lei e le diceva qualcosa, magari quanto era bella, lei rispondeva solo: sono come sono. Che risposta! Era solo una gentilezza. Ma da lei non avevano mai cavato altro. Una sera l'avevano vista fare il bagno nuda nel tratto paludoso di Gronne Strand insieme ad alcuni amici del ginnasio di Aalborg. Era stato al­ l'inizio di quell'estate, dopo aver finito gli esami. Si erano accampati sul­ la spiaggia e avevano acceso un falò, e per la notte avevano preso delle stanze alla pensione lì vicino. Ma non avevano dormito molto, per quan­ to se ne poteva capire. Invece erano andati in giro nudi. Chi sono quei maiali che possono fare una cosa del genere? C'è Seth al­ la finestra sul piazzale delle corriere. Ha in braccio un gattino che lo guarda, e lui lo bacia sul muso. Stage ha un sussulto, si alza immediata­ mente senza finire la sua birra. Urta contro Seth che entra dalla porta, gli passa davanti e si dirige verso il bar. Posso avere del latte per questo? Dovete stare attenti con quelle finestre, quando sono aperte si sente quello che pensate fin da laggiù in mezzo alle corriere. Sono pieni di pettegolezzi quei pullman. Il padrone mette sul banco un piatto con il latte. Dove ha preso quel gattino? Già, dove ha preso quel gattino. Seth si limita a ripetere. Il gatto beve il latte. Poi Seth lo porta in giro per la sala, prima da Valash, che non sa cosa fa­ re e lo accarezza un po'. Seth continua fino ai turisti nel loro box. Intan­ to continua a ripetere fra sé, sì, dove lo ha preso? Dove lo ha preso? Scuote la testa. I turisti smettono di mangiare ed emettono tutti un grande sospiro. Incantevole. Seth vuole che Valash gli dia un nome. Ma Valash non ha nessun nome. Non sa che nomi si danno ai gatti, mente. Se ne sta seduto in silenzio e lo guarda, lo accarezza di tanto in tanto, sorseggia la sua birra. Seth si volta verso il padrone e chiede a lui. Tira fuori un nome, che diavolo. Un gatto dovrà pur avere un nome, non c'è nessuno al mondo che può an­ darsene in giro senza un nome. C'è? No, non c'è. Tira fuori un nome! Il padrone gli dice che può anche tenere in gatto in camera, non fa niente. Ma il nome, che diavolo, tira fuori il nome! Il padrone vuole asciugare i 145

Jens Martin Eriksen bicchieri, ma Seth continua e gli dice di lasciar stare un momento i bic­ chieri. Prima un nome, dacci un nome! I bicchieri possono aspettare. Poi il padrone si gira e dice Buller. Seth comincia a ridere sprezzante. Buller! Un gatto non può mica chia­ marsi così. Anche Valash non può fare a meno di ridere. Ride e ride, ed esce sulla strada. E non riesce a smettere. E lui stesso non capisce. Conti­ nua e continua mentre si siede nella sua Ford Sierra azzurra ed esce dal­ la città verso nord. Ride a tal punto che deve fermarsi al distributore so­ lo per riprendere fiato. Il gatto si chiama Perla, dice Seth. Il padrone annuisce, certo. Seth lo guarda come se fosse scemo e improvvisamente si volta e sale nella sua stanza con il gatto in braccio. La 21. Il raccolto comincia presto. È un'estate torrida, forse la più calda dagli anni Quaranta, dice Stage. Valash si asciuga la fronte e annuisce. Una mattina i due sono al "Rio Bravo", il padrone serve loro una birra e rac­ conta che quello della 21 un'ora prima è andato con Helmer alla sua fat­ toria. Helmer è venuto a prenderlo. Di Helmer sappiamo poco. È un contadino indaffarato e industrioso che abita a circa 8 km a est di Fjerritslev in una fattoria con più di 100 etta­ ri di terreno. Si è sposato tardi e oltre a sua moglie non ha altri ad aiu­ tarlo. E poi ha due figlie di 6 e 10 anni, ma non sono di grande aiuto per il raccolto. Nemmeno la moglie può dare una mano, aspetta il terzo fi­ glio. Ha qualcosa, Helmer. È diventato un po' strano per aver vissuto tan­ ti anni da solo prima di sposarsi. Ha poco più di cinquant'anni. Impa­ ziente e facile a inalberarsi. Helmer è entrato nella sala della pensione per venirlo a prendere. Non viveva forse qui, lo avevano detto al comune. Sicuramente era stato lì per avere dei soldi, ma gli avevano detto che non c'erano soldi se non avesse accettato il lavoro che c'era per lui. Lo avrebbero mandato a chiamare. Poi il padrone disse a Helmer che sarebbe salito a bussare. Non si pote­ va mai sapere, se fosse andato su Helmer. Ora aspettarono un po', i due. Ma Helmer non voleva niente nel frattempo. Niente birra, e nemmeno caffè. Stava lì fermo in piedi e diventava sempre più impaziente. Ma il padrone non era molto propenso a far salire Helmer in corridoio. In un certo senso era privato. Ci si può annunciare come visitatore qui in sala, e allora noi andiamo a chiamare. È tutto ciò che si può fare, è costume, anche in altri posti. Infine arrivò. Con il gatto in braccio. Lo mise sul bancone, lo baciò sul muso e lo chiamò Perla, gli chiese se aveva fame. Il padrone mise un piat­ to con il latte. Voleva solo del caffè e dell'acqua minerale senza ghiac­ cio, niente da mangiare. Chiese di metterlo in conto. Helmer porta improvvisamente una gamba davanti all'altra in uno stra­ no movimento che il padrone non ha mai visto prima. Dovette ripeterlo per Valash e Stage. Era proprio Helmer quando era infuriato, disse Sta­ ge. Helmer chiede se quello deve star lì a fargli perdere tutta la matti­ 146

Seth nata?! E non si sarà mica immaginato di arrivare in paese per scroccare e oziare senza avere alcuna intenzione di lavorare anche un po'?! Seth non alza nemmeno lo sguardo su di lui. Guarda solo il gatto, che sta sul bancone del bar e beve. Poi lo bacia su un orecchio e ripete la do­ manda di Helmer. Sì, viene qui solo per scroccare, per fargli perdere tem­ po, per oziare, è così? Viene qui solo per oziare. Lo dice come se stesse parlando al gattino. Con un tono affettuoso, come se non si aspettasse alcuna risposta. Helmer porta una gamba davanti all'altra ancora una volta, e si fa tutto rosso in volto. E chiede se ha davvero pensato di portarsi il gatto al la­ voro? E quello chiede al gattino se Perla deve andare con lui al lavoro, di nuovo dolcemente. Perla deve andare con lui al lavoro, deve andare? Deve andare? Ma poi si fa improvvisamente serio e guarda Helmer. Spin­ ge il culo del gatto sul volto di Helmer e chiede se in Danimarca non c'è un mare chiamato "Culo del Gatto". Che cosa si era messo in testa, venire qui e sputare parole, e poi per quanto aveva sentito non si era nemmeno presentato. Qual era davvero il senso profondo? Questo disse Seth: "il senso profondo"! Helmer chiede se lui non è Michael... Non fa in tempo a dire altro, il ti­ po lo interrompe e dice che non deve andare lì a chiamarlo Michael. Lui si chiama Seth. Poi alla fine partono col pickup grigio di Helmer. Ciò che accade dopo lo apprendiamo in seguito, quando la moglie di Helmer lo ha raccontato al padrone della pensione, il pomeriggio dello stesso giorno giù al supermercato: Per quanto aveva raccontato Helmer, non avevano pronunciato una so­ la parola mentre erano in macchina diretti alla fattoria. Poi Helmer lo aveva messo a gettare le balle di paglia dal rimorchio al nastro traspor­ tatore che c'è sul piazzale e portarle a braccio nel fienile. Ci sono solo due rimorchi, ed è necessario che lui finisca mentre Helmer riempie il carico successivo, affinché al suo ritorno possa prendersi quel­ lo vuoto. Ma quando arriva dopo il secondo giro sul campo e deve por­ tarsi via il rimorchio vuoto, quel tipo non ha finito. Helmer deve aspet­ tare, e comincia a trattarlo subito con sarcasmo. Tutti gli altri che sono stati lì ad aiutarlo hanno avuto tutto il tempo di mettere quelle balle sul nastro. Che cosa si era messo in testa, in fondo era un lavoro. Helmer doveva aspettare un po', e lei lo aveva chiamato dentro per un caffè, visto che comunque doveva aspettare, solo per evitare guai. Si sa com'è Helmer. Poi finalmente il rimorchio era stato svuotato, e Helmer era ripartito. Non si erano detti niente. Il tipo doveva mettersi al lavoro subito con il nuovo rimorchio, senza pausa. Ma quando Helmer torna dal campo, il rimorchio in cortile è ancora qua­ si completamente pieno. Helmer ferma il trattore all'entrata e salta giù, e poi fa quel movimento con la gamba, si vede che è infuriato. Grida qualcosa che lei non riesce a sentire bene. Corre nel fienile. Grida qual­ cosa là dentro, ma lei non riesce a sentire nemmeno quello. Quando po­ co dopo torna fuori, fa di nuovo quel movimento con la gamba e va ver­ so casa. Nemmeno lei, sua moglie, sa dov'è il tipo. Allora Helmer fa un

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Jens Martin Eriksen giro intorno agli edifici e intanto grida. Ma lei non riesce a sentire cosa. Quando lui torna entra in cucina, le passa davanti senza dire una paro­ la e continua salendo nelle stanze delle ragazze. E quello sta seduto lì, quel tipo, con la loro figlia di dieci anni e gioca con la sua casa della bambola insieme al gattino. Helmer lo manda via subi­ to, li caccia entrambi dalla stanza e loro scendono in cucina. Ma il tipo vuole essere pagato per le ore che è stato lì. Helmer ritiene di non dovergli niente, perché ha svuotato solo un rimorchio. Ma al tipo non importa niente di quanto lavoro pensa che avrebbe dovuto fare, lui è sta­ to lì due ore. Quelle le vuole pagate. Helmer continua a fare quel movi­ mento con la gamba, ma non serve a niente. Due ore oppure non se ne va. Lei si rende conto che le cose hanno preso una brutta piega e tira Hel­ mer in sala, solo per due ore, e facciamola finita. Allora Helmer va alla sua scrivania e trova il libretto degli assegni. Ma vuole il suo nome, il suo no­ me completo e il numero personale, per potergli pagare dei soldi, anche se non li ha meritati! Ma lo straniero. Si limita a ripetere. Nome completo e numero personale. Sì, nome completo e numero personale. Ma i soldi vuole averli, anche se non ha un nome completo. I suoi documenti sono scomparsi. Helmer non vuole pagare. E allora lui rimarrà lì in cucina, pian­ gerà con loro ecc. finché non avrà avuto quanto gli è dovuto. Lei dovette di nuovo tirare Helmer in sala per fargli capire che doveva cedere. Non si può vincere ogni volta, no. Altrimenti avrebbe pagato lei dai soldi di casa. Allora Helmer cedette, e i due uscirono in cortile. An­ che la bambina andò con loro. Sta quasi per finire in uno scontro fra Helmer e lo straniero. Quando lui gira sulla strada e rimane lì con il gattino in braccio, chiama la ragazzi­ na. Lei si avvicina e lui si china e la bacia sulla bocca. Lei si volta verso Helmer e la madre, e poco dopo fa una smorfia, solleva la mano e si pu­ lisce la bocca. Lo straniero continua a camminare con il gattino in brac­ cio allontanandosi dalla fattoria di Helmer, verso il paese. Helmer si av­ vicina alla bambina, come se volesse corrergli dietro. Ma allo stesso tem­ po è come se volesse fare quel movimento con la gamba. Non sa cosa fa­ re. Poi improvvisamente colpisce la bambina sulla bocca e quella comin­ cia a piangere. Sono tutte cose che al padrone sono state raccontate dalla moglie di Helmer quel pomeriggio giù al supermercato. È quasi sera, e lui lo sta raccontando ai due, Valash e Stage, che sono en­ trati per giocare al Pensatoio e farsi una birra. Le finestre sono aperte e fa ancora un caldo torrido, anche se il sole è scomparso. Non faceva co­ sì caldo dagli anni Quaranta, dice Stage di nuovo. Non che lui ricordi. Fa uno strano effetto quel caldo, è come se le cose non fossero più le stes­ se. Quasi non si riesce a stare vestiti. Valash aveva pensato di mettersi i pantaloncini corti, ma lì si pone un limite. Questo devono lasciarlo fare ai turisti. Ridono tutti e tre. Che maledetto quel tipo. Nessuno mai ha avuto il coraggio di mettere al suo posto Helmer in quel modo. Magari se lo meritava pure! Con quella 148

Seth sua gamba! Valash comincia a ridere con violenza, come se non riuscisse a smettere. La sua gamba! Forse è il caldo, è per questo che ride così. Che c'è di maledetto in quel tipo?! Stage, Valash e il padrone sanno be­ ne dove guardare. Fuori nel crepuscolo c'è Seth che ride con i suoi den­ ti bianchi, i suoi occhi da lupo e il suo volto abbronzato. Ha in braccio il gattino. Poi entra nel "Rio Bravo". Comincia subito a chiudere le finestre, e dice che devono preoccuparsi di tenerle chiuse se vogliono parlare, perché altrimenti si sente tutto dalle corriere che camminano con i pettegolezzi. Gli altri protestano un po' spavaldi e dicono che fa così caldo. Più caldo di quanto abbia fatto a me­ moria d'uomo, aggiunge Stage. Il tipo continua ugualmente. Va in giro con il gattino in braccio e chiude le finestre, sì, più caldo di quanto abbia fatto a memoria d'uomo, fa così caldo. Come se li prendesse in giro per quello che hanno detto. Che segreti ci dovrebbero essere, chiede Valash, sta quasi per mettersi a ridere quando lo dice. Sì, che segreti ci dovreb­ bero essere, sì che segreti ci dovrebbero essere qui, ripete lo straniero. Ma nessuno dei tre gli impedisce di chiudere le finestre. Il padrone si chiede se ha sentito tutto ciò che ha raccontato agli altri due di quanto è suc­ cesso alla fattoria di Helmer. Poi comincia a pulire i bicchieri. Seth dice a Valash e Stage di sedersi al tavolo, gli farà vedere qualcosa. Mette il gattino sul tavolo e poi estrae una pistola che ha alla cintola die­ tro la schiena, una Smith & Wesson. È stato sulla spiaggia tutto il pome­ riggio per sparare al bersaglio, dice. Un caldo della miseria. Ma splendi­ do, quando il sole è forte quasi come in India, e ti brucia in volto, e ri­ mani continuamente abbagliato. E la sabbia che ti brucia le piante dei piedi, e bisogna camminare svelti. È a causa dello specchio del mare. E per questo che a lui piace stare lì. Non ci sono altri posti così nel paese. In realtà è uno dei posti migliori d'Europa, se deve dire la sua onesta opi­ nione, con la sola eccezione della Spagna. Ma laggiù le ragazze hanno i peli sulle gambe, e all'inguine puzzano di piscio, non sono pulite. Stage non ha idea di dove deve guardare, così guarda alternativamente il gattino e il soffitto. Valash sta per morire dal ridere. Ma quando ce lo racconta non ritiene che sia proprio così, non gli sembra di sentirsi a suo agio. Non sa bene perché ride. Forse è il caldo e quello che fa alla gente? Seth dice che vorrebbe avere un po' di latte per il gattino e un'acqua mi­ nerale per lui - senza ghiaccio. Il padrone arriva al suo tavolo con l'ac­ qua minerale, ma dice che purtroppo non ha latte. Quello deve procu­ rarselo da solo. Passa forse un minuto. Nessuno di loro dice niente. Valash sta continuamente per mettersi a ridere, e si scusa. Non sa perché, dice. Il caldo for­ se? Poi Seth si volta verso il padrone, alza lo sguardo e gli chiede se non sa che la legge impone di avere sempre il latte. Valash scoppietta di ri­ so. A nessuno degli altri sembra divertente. Nemmeno a Valash, quando deve spiegarlo in seguito, ma ride comunque. Il padrone chiede a Seth cosa intende dire. Seth chiede se deve proprio spiegargli tutto. Se non conosce la legge. La legge lo impone, come pure è vietato negare l'uso del proprio bagno e

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Jens Martin Eriksen negare l'acqua del rubinetto se qualcuno ha sete! Questo non può igno­ rarlo. Sta nella legge, si deve! Valash chiede in quale legge trova quella prescrizione? Ci sono così tan­ te leggi. Riesce appena a smettere di ridere mentre chiede. Seth allora ripete con la pistola puntata verso Valash. Ora non ha cartucce. Ripete la domanda ancora e ancora. Sì, in quale legge, sì in quale legge è? In quale legge? Ci sono così tante leggi. Ripete in modo che sembra stra­ no. Poi punta la pistola vuota verso il padrone, che senza cambiare espressione esce dalla sala e va a comprare il latte nel chiosco dall'altra parte del piazzale delle corriere. Quando torna versa del latte in un piatto e va verso il loro tavolo e lo mette sul pavimento. Così il gattino può bere, dice. Ma Seth lo afferra subito per il collo e gli mette la pistola alla tempia e gli chiede se lui si accontenterebbe di mangiare per terra? Non è una cosa che si dice ai bambini maleducati quando non voglio stare seduti composti a tavola? "Vuoi andare a mangiare sul pavimento?" E Perla gli ha fatto qualcosa? Vorrebbe saperlo. Perla gli ha fatto qualcosa? Il padrone deve negare, è costretto a dire tutta la frase. "Perla non mi ha fatto niente". Valash co­ mincia di nuovo a ridere. Seth chiede anche agli altri due al tavolo di ne­ garlo. Perla non ha fatto niente al padrone. Valash non riesce quasi a re­ spirare. Non sa se è per la paura o per il caldo. Non è mai stato così. Seth agita la pistola. Poi la infila nella bocca del padrone e dice che fra poco sparerà. Ma non deve aver paura, perché non si accorgerà di nien­ te. Non sentirà niente perché lo sparo arriva prima del rumore. Solo nei film si ha l'impressione che il rumore sia contemporaneo allo sparo. Non ha mai pensato a quel fenomeno? Solo nei film c'è il rumore. Ma è per­ ché a guardarlo da fuori chi muore è sempre qualcun altro. Qui non è così. Qui è il padrone stesso a morire. Seth dice che sono dei pidocchiosi che conoscono il mondo solo dai film, dai film da due soldi che prendono in affitto al distributore di benzina. Non sanno niente di come vanno davvero le cose. Cosa capita veramen­ te quando è il momento. Poi stringe il collo del padrone e alza il cane della pistola, e gli dice che in un certo senso è fortunato. Perché c'è un modo peggiore per morire. Gli chiede se conosce quel modo, e lui deve negare quanto può, ma ciò che dice è comunque poco chiaro. Certo, di­ ce Seth, e nello stesso istante gli spinge la pistola in gola, si può rima­ nere soffocati con i propri spiccioli o con quelli degli altri. Quando Seth gli spinge la pistola in gola il padrone sta quasi per vomitare. Valash non sa se deve smettere di ridere. Poi si sente un clic. Sappiamo che Seth preme il grilletto tre volte. E lascia il collo del pa­ drone e sorride. Estrae dal taschino della camicia il caricatore della pi­ stola. Poi preme la molletta e le pallottole cadono giù nel posacenere vuoto sul tavolo. Dodici pezzi di ottone lucidi e tintinnanti. Solo un bluff, dice. Valash non sa se deve smettere di ridere. Ma quando vede che il padro­ ne si è pisciato nei pantaloni esplode in una risata. Stage guarda fuori 150

Fotogrammi tratti dal film Seth di Anders Refn, tratto da una novella di Jens Martin Eriksen. Si riconoscono gli attori Benny Hansen (Stage), Lars Mikkelsen (Seth), Peter Schroder (Jens), Lars Oluf Larsen (Valsh), Bjarne Henriksen (Helmer), Kirsten Olesen (Jonna), Emilie Holm Andersen (Helena).

Jens Martin Eriksen dalla finestra che è stata chiusa. Fa così caldo qui dentro, dice. Questo fa cadere Valash dalla sedia per le risate. "Fa così caldo qui dentro"! Seth infila le pallottole nel caricatore e indica i due, Stage e Valash, e di­ ce che nessuno di loro deve sentirsi troppo sicuro. "Perché la prossima volta può toccare a te". Indica uno. "O a te". E indica l'altro. Un paio di giorni dopo, mattina. La moglie del padrone, Jonna, scende nella sala della pensione e dice che c'è qualcuno nella sua stanza, alla numero 21, e lei non può fare le pulizie. È l'unica stanza che le manca. Il padrone non lo vede da giorni, andava sulla spiaggia fin dal mattino presto, prima che lui si fosse alzato. E tornava senza che lui lo vedesse. Valash e Stage chiedono di lui quando arrivano, ma non c'è niente da raccontare. Quando Jonna dice questo, il padrone non sa cosa risponderle. Poi fa fin­ ta di essere arrabbiato, posa la sua rivista e per controllare sale la scala che porta al corridoio delle stanze. Jonna lo segue. Dice che è rimasta un po' fuori senza bussare. E che ha sentito dei rumori, come se ci fosse una persona che si lamentava. Erano strani. Come se ci fosse qualcuno mol­ to addolorato o che stava male. Il padrone non risponde nemmeno alla moglie, si limita a parlare ad alta voce da solo. Questo non è mica un bordello. È una schifezza, usare la sua pensione come un bordello. Il ti­ po pagherà per quella che si è portata dentro la stanza, e allora non im­ porta quante pistole ha. Pagherà tutto. Jonna gli chiede cosa sta dicendo. Lui si limita a risponderle male e dice che non deve rompersi la testa con queste cose. Se ne occuperà lui. Si av­ vicina alla porta e bussa, e Jonna si mette accanto a lui. Ma lui la spinge via, le bisbiglia in un tono isterico che deve scendere in cucina e lavare le stoviglie della colazione degli altri. Queste non sono cose per lei. Ma Jonna continua a chiedere come se facesse finta di non capirlo. Sta lì con le lenzuola pulite. Perché deve andarsene? Sta lì con le lenzuola pulite. Ma poi se ne va lo stesso. Il padrone bussa ancora, dice che è quasi mezzogiorno, e che la stanza dev'essere pulita. Non c'è alcuna risposta, dentro si fa solo silenzio, il let­ to non cigola più. Poi dopo un po' lo dice di nuovo. La stanza dev'esse­ re pulita. È tardi. Regole. Già. Sono regole che non può cambiare. Qual­ cuno ride. Poi sente Seth gridare che sta per venire, e che farà ancora prima se il padrone sarà così gentile da andarsene. C'è una donna che ri­ de. Ci dev'essere qualcosa di divertente. Poi il padrone scende nella sala della pensione. Laggiù. Jonna esce dalla cucina con le lenzuola e chiede se può salire. Ma il padrone dice che ci vorrà un attimo, poi la stanza sarà pronta per essere pulita. A lei sembra che lo dica come se sua moglie fosse solo una dipendente. Cosa ha detto a quello lì dentro? Gli ha detto che è adesso - oppure deve andarsene! Né più né meno. E Jonna torna in cucina con le sue lenzuola e continua a lavare e a preparare il pranzo per gli ospiti. Manca un'ora. Un quarto d'ora dopo Seth scende nella sala della pensione con il suo gattino in braccio. Dietro arriva Helena, la figlia del pastore. Sorride dol-

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Seth cernente e un po' timida al padrone. Vanno in uno dei box più lontani, si siedono. Il padrone rimane un po' lì e cerca di sentire cosa dicono. Non ci riesce. Poi si avvicina. Sono arrivati anche degli altri, degli ospiti in an­ ticipo per il pranzo, dei turisti che si sono seduti negli altri box. Chiac­ chierano in tedesco, inglese, francese, per quanto riesce a sentire. Gen­ te coi pantaloncini corti. Quando arriva al loro box, quello di Seth e della figlia del pastore, ri­ mane lì in piedi. Ma Seth chiede di vedere la carta. Quale carta? Il pa­ drone non ha nessuna carta. Sta tutto scritto su una tavola fuori dal Rio Bravo, così si può scegliere prima di entrare. E poi c'è persino il piatto del giorno, che la maggior parte sceglie. Ma la carta?! Allora Seth vuole sen­ tire dalle labbra stesse del cavallo cosa hanno da offrire, visto che non può averlo per iscritto, dice e sorride. Helena comincia a ridacchiare. Il padrone va da sua moglie in cucina e le dice di andare in sala e pren­ dere le ordinazioni da quelli, lei sa chi. Perché? C'è qualcosa che non va? No, ma deve solo fare come le dice. Vai da lui e prendi le ordinazioni. Non c'è niente da discutere. Ma con chi sta? Vai e vedrai! Seth posa il gattino sulla coscia di Helena, in modo che arriva al tavolo col muso. Lei solleva le gambe e quello le si siede sulle ginocchia, e si possono vedere le sue cosce quando il vestito scivola giù. Jonna arriva e chiede se desiderano qualcosa di speciale. Non può fare a meno di guardare le cosce di Helena. Ma non sa perché. Seth vuole una colazione robusta. Bacon, uova, patate arrosto, ketchup, toast, burro, formaggio, caffè, latte, succo di frutta, acqua minerale. Sul conto come al solito. Jonna comincia a preparare in cucina. Poi suo marito entra e chiede co­ sa hanno ordinato. Che importanza ha, risponde lei, e rompe le uova in una ciotola per sbatterle come ha chiesto lui, il tipo, alla maniera ingle­ se. Scrambled eggs, sbattute e rivoltate velocemente, come una crema, al massimo un minuto in padella, il bacon non del tutto abbrustolito, succo di frutta freddo, caffè bollente, appena fatto. Perché chiedere, non è capace da sola? Ma perché a suo tempo gli aveva dato una stanza, e per giunta al prez­ zo economico, dal momento che non era nemmeno finita l'alta stagio­ ne? Perché doveva essere a prezzo di pensionante quando avevano il di­ ritto di chiedergli il prezzo normale per il pernottamento? Era una per­ dita del cavolo. Perché? Jonna non sa cosa rispondere. Prende le uova e le rompe nella ciotola. Perché? Il mondo e le sue domande. Ma si erano messi d'accordo. Lei sbatte le uova e guarda il tostapane per non far bruciare il pane. Si erano messi d'accordo, e ora la stagione era alla fine. Ma non capisce che ora se lo devono tenere. Avrebbe dovuto rendersi conto, quando era entrato, che era un tipo strano. E poi, non sa perché, poi finisce per darle uno schiaffo. Ma dopo è imbarazzato ed esce in sala con il cibo su un vassoio. Camminando mormora fra sé. Che cosa si crede, una puttana come quella. Ed è persino la figlia del pasto­ re! Poi serve loro la colazione. Jonna se ne va subito, sale le scale per fare le pulizie. Dentro la 21. C'è 153

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qualcosa di magico, così le sembra, nella 21. Le sembra improvvisamente di non riconoscere più quella stanza, come se fosse un posto compietamente nuovo. Afferra il lenzuolo e lo sfila. Ma è come se qualcosa la fer­ masse. Non riesce a spiegarlo meglio. Poi prende il lenzuolo e lo porta al naso, lo annusa. Va alla porta e la chiude e poi si getta sul letto e annu­ sa il piumino e i cuscini. Comincia a piangere, ma non sa bene perché. È strano piangere così, quando non c'è alcun motivo visibile. Altro non sap­ piamo. Poi va alla finestra e guarda fuori. Il piazzale delle corriere è com­ pletamente vuoto. Niente persone, niente pullman che partono. Siamo arrivati all'inizio di settembre. Fa ancora un caldo torrido. Stage si chiede se la smetterà mai. Valash e il padrone stanno seduti a giocar­ si gli spiccioli, pezzi da 5 corone. Al Pensatoio. È sera tardi, domenica. Le finestre sono aperte. Il paese è immerso nel silenzio e buio, non c'è nes­ sun rumore. La luce della sala della pensione splende sul piazzale delle corriere. Poi arriva un taxi a grande velocità e si ferma fuori dal "Rio Bra­ vo". Si precipitano alle finestre, i tre, e guardano fuori. Dalla macchina scende una donna che rimane stranamente incerta sui suoi tacchi alti, come se le gambe stessero continuamente per cederle. Chiaramente molto ubriaca. Si appoggia prima alla macchina, ma poi comincia a cam­ minare. Vedono che è la figlia del pastore. Poi scende il tipo, ha il gatti­ no in braccio. La sostiene, si dirigono verso la porta della pensione. Stage, Valash e il padrone si affrettano a tornare ai loro posti. Ma fan­ no difficoltà a riprendere il gioco, non ricordano a che punto sono arri­ vati. Stanno lì e aspettano e fanno finta di giocare. Valash ha la sensa­ zione che abbiano fatto qualcosa di scortese, perciò non sa se deve ri­ dere o piangere. Lo straniero e Helena vanno verso un box in un punto lontano dal bar. Non si incomodano a salutare gli altri tre. Lui bacia Helena, che ridacchia e ondeggia verso il box sui suoi tacchi alti. Valash e Stage cominciano a chiacchierare di qualcosa quando il padrone va verso i due per prende­ re un'ordinazione. Ma non ricordano più di cosa parlano. Dopo che il padrone è tornato con della birra per i due, va da Valash e Stage con della birra e dice impassibile che è da parte di Seth. Guarda nella sua direzione. Quello ride verso di loro. Anche Helena li guarda, e ride. Il gattino ha ricevuto il suo latte sul tavolo davanti a lei. Poi Seth comincia a tirare fuori banconote dalle tasche e a metterle in un mucchio accanto al gatto. Banconote da cento corone, da duecento corone. Ne prende altre da una normale busta di plastica e le mette nel mucchio, tanto che occupano quasi tutto il tavolo. Il gattino si infila sot­ to le banconote, le graffia e ci gioca. Helena sta per cadere dalla panca per le risate. Lo straniero alza in aria la sua birra e dice salute, e che pos­ sono ringraziare il gatto per la birra. Non lui! Lui e Helena sono stati al casinò di Aalborg, giù al porto, e si sono portati Perla come mascotte. Poi protende la mano verso i soldi sul tavolo. Ecco il risultato. Tutta la ric­ chezza sta per strada, bisogna solo raccoglierla. È uno scemo chi non se ne rende nemmeno conto! Si può risparmiare per comprare una busta di 154

Seth

plastica. Oppure può capitare di conoscere uno che ha una busta di pla­ stica che si può prendere in prestito. Il padrone sta in piedi accanto al tavolo di Valash e Stage. Stanno lì con la bocca aperta, nessuno di loro sa cosa dire. Poi bevono un goccio di bir­ ra. E il tipo si alza, prende in braccio il gattino e viene verso il loro tavo­ lo. È lui che devono ringraziare. E deve ringraziarlo anche lui. Se lo sol­ leva davanti al volto, lo bacia sul muso e dice grazie. Helena ride dalla sua panca. Valash e Stage siedono rigidi e guardano lei e il mucchio di banconote sul tavolo. Tengono ancora in mano le birre senza rimetterle sul tavolo. Seth dice che devono metterle giù e dedicare un po' di attenzioni al gat­ tino, in fondo è lui che gli ha offerto la birra. È il gatto che devono rin­ graziare, non lui. Loro non sanno cosa rispondere, ma rimettono giù le birre. Poi mette il gattino davanti al viso di Valash e lo prega di ringraziarlo e baciarlo. È lui che ha offerto la birra. Valash fa ciò che gli viene detto e ridacchia. Non sa bene perché. Sa solo spiegarci che era tutto come un gioco, una commedia di quelle in cui bisognava solo fare ciò che veniva detto. Strano. Lo stesso si ripete con Stage. Anche lui bacia il gatto, e rin­ grazia. Helena comincia a ridacchiare tanto che cade dalla panca e si ve­ dono le sue cosce mentre sta distesa per terra. Seth va da lei e l'aiuta ad alzarsi. Solleva la sua bottiglia e vuole brindare ancora con loro. Valash e Stage esitano, ma poi prendono le birre. Devono solo accettare, non avere paura di accettare qualcosa. Lui indica con la testa le sue banconote sul tavolo. Guardate. Nonostante tutto è qualcosa di diverso dallo starsene seduti a giocare gli spiccioli. Fuori nel mondo e darsi alla pazza gioia! Trovate una mascotte e la ragazza più bella del paese. Helena ridacchia. Lui si china sul tavolo e la bacia. Non essere un fesso rifiutato che sta lì seduto sullo stesso misero culo per tutta la vita e non ha il coraggio di lasciare gli altri fessi. Non essere uno schiavo che prende solo ciò che gli viene offerto. Poi brinda al loro futuro. Non gli sembra che ci sia altro da fare che bere un sorso di birra e far finta di essere grati. Helena gli ba­ cia la mano. Il padrone ricorda che poi esce dal "Rio Bravo" e va sul retro, rompe la birra e tutto quello che può su un muro. Ma non riesce a spiegare perché. La settimana successiva nessuno vede molto lo straniero. Jonna di tanto in tanto, al mattino, quando scende dalla stanza. Talvolta da solo, di tan­ to in tanto con Helena. Hanno deciso di non dirgli niente se ha un'ospi­ te che si ferma a dormire, anche se a rigore è solo lui che ha affittato la stanza e che può dormirci. E poi chi dovrebbe dirglielo, e lui risponde­ rebbe solo ripetendo, e rimarrebbero lì sentendosi stupidi? Li ha visti prendere insieme il pullman per Aalborg un paio di volte. Al­ trimenti è stato sulla spiaggia, è andato laggiù ed è tornato solo nel tar­ do pomeriggio. Poi è rimasto su nella stanza per il resto della giornata senza mangiare né bere. Jonna si domanda cosa combina lassù, ma lei non è salita. E poi cosa dovrebbe chiedergli? 155

Jens Martin Eriksen È domenica mattina. Valash e il padrone stanno seduti a giocare al Pen­ satoio nella sala della pensione. Sono circa le 11.15, Jonna sta ancora fa­ cendo le stanze. Stage entra e dice che è incredibile che il caldo conti­ nui. Chissà se quest'estate avrà mai fine. Ordina una birra. E si siede e racconta che sua moglie ha visto Seth su al­ la chiesa, seduto in uno dei banchi più indietro insieme a Helena. Lei non riusciva a lasciarlo in pace, nemmeno durante la funzione. Poi è andato con lei e altri a casa del pastore. Si fa silenzio. Valash dice che sicuramente è arrivato il momento in cui si trasferirà in canonica. Ha fatto presto. Poi ride. Il padrone non dice niente, non gli sembra divertente. Stage è passato lì davanti mentre veniva alla pensione, racconta. Ed era vero. Chi c'era seduto nel giardino del pastore, proprio accanto al pa­ store, buttato su una sedia? Come se fosse assolutamente di casa in quel luogo. Stava seduto e beveva una birra insieme al pastore e a qualcun altro. Rideva e guardava dei bambini che giocavano con il gattino. Che cosa potevano avere da parlare, il pastore e i suoi ospiti della comunità? Sicuramente stava lì a vantarsi dei luoghi in cui era stato e dei soldi che aveva vinto giù al casinò. E quant'altro poteva fargli credere. Ma sicura­ mente nemmeno una parola del fatto che insieme ad altri ha ucciso uno dei suoi compagni nella fattoria vicino a Hjorring. O che voleva scappa­ re con una ragazzina in India, ma visto che era troppo piccola lui se ne andava in giro con un tappeto - se poi è vero - e poi alla fine si era sta­ bilito lì a Fjerritslev alla pensione senza soldi in tasca. Sicuramente pote­ va pagare i suoi conti perché aveva vìnto al casinò. Perché lavorare non lavorava. E adesso, sì, Valash forse aveva ragione, adesso sicuramente si sarebbe trasferito in canonica. E si era fidanzato con lei, la puttanella Helena. Jonna lo sente, proprio mentre dice quelle cose su Helena. Arriva con le braccia piene di bucato, per metterlo in un armadio dietro la cucina. Poi si ferma nella sala della pensione. Stage si interrompe e la guarda. Sa che quello che sta dicendo è vero. Il padrone si volta e guarda Jonna. Poi le dice irritato che non deve impicciarsi e deve badare al suo lavoro. Co­ sì lei continua uscendo con la biancheria sporca. Può anche essere che a loro sembri strano, dice Stage esitando un po'. Valash guarda e aspetta. Ma il padrone scuote la testa. No, in quello che Stage dice non c'è nulla che sia troppo strano per essere raccontato. Ma Stage ritiene che ci sia proprio qualcosa di demoniaco in quello stranie­ ro. È capace di destreggiarsi, di fare amicizia con chi gli pare, anche col pastore, e poi sa chi si può permettere di disprezzare. Sputargli in faccia, prenderli in giro continuando a ripetere le loro domande. Come se non avessero il diritto di parlargli. Come se lui fosse più fine di loro. E lui era proprio il tipo giusto per quella puttanella di Helena. Potrebbe anche sembrare che sia fatta di una stoffa assolutamente di­ versa dagli altri, dice Valash. È così bella, proprio esotica con i suoi occhi verdi e i capelli scuri. Era strano vederla sdraiata sul pavimento quella se­ ra che erano stati al casinò. Quando era caduta dalla panca e stava lì 156

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sdraiata con le gambe in aria. E quando camminava lì sul piazzale con le sue scarpe alte, e barcollava e rideva. Ma cosa se ne farà di lei, chiede il padrone. C'è silenzio per un po'. Cos'ha lei, chiede il padrone. Cos'hanno le donne, gli capita anche di dire. Che devono farci in assoluto con uomini come quello lì? Non possono essere i soldi. Valash chiede al padrone perché Jonna lo ha alloggiato, e poi al prezzo normale da pensionante? Ma lui non risponde, perché nello stesso istante la porta del "Rio Bravo" si apre. Sono circa le 12.15. Seth entra con il gattino in braccio. Va al loro tavo­ lo, si siede e sorride. Ora nessuno sa cosa dire. Poi Seth guarda Stage e chiede se finirà mai? Che cosa, chiede Stage. Già, il tempo naturalmente. Chissà se un giorno la smetterà, ma nessu­ no può sapere cosa succederà quando questo tempo non ci sarà più, e di cosa parlerà Stage con tutte le finestre aperte? Allora si può parlare so­ lo l'uno dell'altro, vero? Dovrebbero ascoltare lui e preoccuparsi di te­ nere le finestre chiuse, così tutto non sarebbe com'è, in paese. Il padrone sta un po' seduto, come se preparasse una frase. Poi dice so­ lo "Che cosa?". La gente si farebbe gli affari suoi, risponde Seth e sorri­ de a Jonna che esce dalla cucina. Ordina al padrone quattro birre e si al­ za per andare in cucina con Jonna. Valash e Stage stanno lì seduti a guardare il padrone mentre gli altri due sono in cucina. È come se si aspettassero qualcosa da lui, ma lui non si muove. Quando Seth torna e si siede, lui va subito in cucina. Jonna sta tirando fuori le cose dal frigorifero. Lui le si avvicina e le strin­ ge il braccio, e avvicinando il suo volto a quello di lei sussurra con tono cattivo, come se in realtà volesse gridare ma non osa per via degli altri in sala. Cosa voleva? Lei lo guarda, quasi come se non si conoscessero. Poi dice che ha ordinato il pranzo per tutti, tutti e cinque sul suo conto, tutto ciò che c'è da offrire. Con birra e snaps. Non si deve risparmiare nulla. Poi è come se il padrone stesse per dire qualcosa, ma rinuncia e senza aspettare un istante torna in sala. Mentre entra i tre laggiù al ta­ volo esplodono in una forte risata per qualcosa che Seth ha raccontato. Seth loda il pastore perché ha detto che predicare non ha senso, che non c'è motivo che tutti noi ci mettiamo col culo per aria come i musulmani a sventolare verso lo stesso dio o come bigotti stiamo lì a mani giunte in stupida trepidazione perché ci troviamo nella stessa stanza con altri. Per­ ché Dio comunque è dappertutto, sotto di noi, dentro di noi, qualsiasi cosa diciamo e pensiamo, e allora tanto vale stare soli con Dio. "Prega Dio nella tua stanzetta", questo ha predicato. Non lasciarti mettere con lui su un palcoscenico, questo non ti fa diventare migliore. Perciò lui lo intende così, che Dio è sia in chiesa sia alla pensione. E chiede se Stage, Valash e il padrone vanno mai su in chiesa. Loro non sanno cosa dire, perché nessuno glielo chiede da tanti anni. Poi Valash si azzarda a dire che quelle cose le lasciano fare alle mogli! Nello stesso istante Jonna apre la porta con un calcio ed entra con i piat­ ti da portata. È vero, dice Seth, lui ha ordinato il pranzo per tutti, sul suo 157

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conto naturalmente, invita lui, perciò spera che abbiano appetito. Stage e Valash vogliono solo fare una telefonata a casa. Jonna esce diverse volte. Arriva aringa, snaps, birra, paté, bacon, salsic­ cia, polpette, torta, insalata, sgombro affumicato, trota affumicata, frit­ tata, spaghetti alla bolognese (dalla cena del giorno prima), gamberi, sogliola arrosto. Seth prega Jonna di portare anche della panna per il gattino, per l'occasione. Stanno seduti tutti insieme e piluccano il cibo, Valash, Stage e il padrone, come se aspettassero la panna per il gatto. Seth si getta prima sull'aringa. Parla con la bocca piena. Dice che non de­ vono trattenersi, né ringraziare lui, ma Perla. Brindisi per Perla, a rigore sono tutte cose che offre Perla. Devono brindare alla salute di Perla, di­ ce, essere allegri, non così di poche parole. Solleva lo snaps. Poi brinda­ no. Dice che gli ricorda un funerale. Ma non è morto nessuno - ancora! aggiunge poi e ride, al punto che quasi non riesce a tenersi il cibo in boc­ ca. Gli altri cominciano a prendersi un po' da mangiare, Seth dice che an­ che Jonna deve venire a sedersi. Lei sorride. Il padrone la vede e guarda stranamente accigliato. Poi cominciano a mangiare tutti insieme. Perla lecca la panna. Lo vedi, Stage, dice Seth, così ci si fanno degli amici. Basta trattare bene animali e persone, è così semplice. Valash ricorda che comincia a ridere, poi tre­ ma. Gli sembra di non sapere più niente. Poi mangia con una fame da lupo, ma è perché ha sempre amato la frittata, spiega. Gli altri mangiano come Valash. Poi Seth comincia a lamentarsi di tutta la storia di Gesù, che sarebbe dovuto morire per i nostri peccati. Come se fosse necessario che lui morisse per qualcun altro che forse 2000 anni dopo - o forse no - avrebbe fatto qualcosa di sbagliato, forse persino di molto sbagliato. Come se il dolore potesse essere scambiato con i pecca­ ti di altre persone, come se si potesse pagare per loro. E chi avrebbe te­ nuto il libro contabile con i peccati e il pagamento? E perché i peccati, i peccati di qualcuno, dovevano essere pagati con altre sofferenze, perché un'altra persona deve pagare con la sua vita perché altri possano avere il patrocinio gratuito? Perché ha dovuto farsi torturare sotto Ponzio Pi­ lato solo perché a lui - Seth - potesse venire in mente di fare qualcosa di sbagliato così tanti anni dopo? Non che dovessero mettere in discussione l'insensatezza di tutto l'accor­ do di scambio fra peccati e morte precoce, morte troppo precoce, ma questo è tutto. A chi può venire in mente di pretendere questo scambio, e a quale scopo? E allora, quando si tratta di peccato, dev'essere sempre un rapporto personale fra il peccatore e colui o coloro che ci rimettono, e non una terza istanza che sente offeso il suo onore. Se Dio è così, che ha organizzato tutto in funzione di se stesso, allora dev'essere un Dio di­ sorientato e attaccato al proprio onore, che non riesce a trovare nean­ che lui la via, la verità e la vita, ma è chiuso nel suo incubo e osserva so­ lerte i suoi stessi figli come fossero il suo incubo, il suo problema perso­ nale. Che ridicolo Dio è questo? Se Dio considera seriamente la storia del perdono, allora perché non può farsi coraggio e limitarsi a perdonare? Quando gli sembra che ce ne sia 158

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motivo, oppure sempre, quando qualcuno è davvero in ginocchio? Per­ ché non può farlo così semplicemente, senza tante smancerie? Ma per conto suo, senza tutte quelle storie sciocche e vanesie con la morte di Gesù sulla croce. Comunque smancerie è una parola divertente. Seth prende un po' di frittata e ride. Gli altri non sanno cosa dire, si limitano a mangiare. Non c'è mai nessuno che parla così. Solo il pastore, e comunque non è pro­ prio così, per quanto hanno sentito. Valash beve un sorso di birra e sta quasi per andargli di traverso. Stage mangia in completo silenzio. C'è qualcosa di terribile in tutto questo, ma ci racconta che non sa il perché. È solo un sentimento, una sensazione che non riesce a identificare, per­ ché non l'ha mai conosciuta prima. Dopo il pranzo Jonna sparecchia il tavolo e gli altri giocano al Pensatoio. Prendono il caffè e Seth prega il padrone di portare anche un calvados. Sa dove trovare il suo conto. Giocano, e Seth vince la maggior parte, ma quando prende i soldi non è più in quell'umore diffidente, come se cre­ desse che gli altri farebbero di tutto per truffargli i soldi. È come se gli fosse del tutto indifferente vincere o perdere, e non fa lo sbruffone, an­ che se vince quasi ogni volta. Dopo aver giocato così per un po', e bevuto caffè e calvados, propone di prendere tutti e tre la Ford Sierra di Valash per andare in spiaggia a spa­ rare al bersaglio. Non aspetta una risposta, ma si alza immediatamente dopo averlo detto e dice che vuole andare un attimo su a prendere la sua pistola e le cartucce in camera. Prima di salire le scale si volta verso di loro e dice, rivolto a Valash, che promette di non dire niente durante il tragitto per Thorup Strand, così non gli verrà da ridere e non finiran­ no fuori strada. Questo fa sorridere Valash. I ricordi che il padrone ha del tragitto fino a Thorup Strand, distante cir­ ca 10 chilometri, sono limitati. Seth sta seduto davanti accanto a Valash al volante, e Stage è seduto dietro Valash, con il padrone alla sua destra. E Seth mantiene la promessa, anche se Valash quasi non riesce a tratte­ nersi dal ridere ogni volta che lo guarda. Sorridono tutti e due. Il pa­ drone e Stage stanno seduti e guardano fuori dal finestrino, anche se co­ noscono il tragitto fino alla nausea. Stage non ricorda a cosa pensa. Quando arrivano al boschetto, a un paio di chilometri da Thorup Strand, Seth dice ai due sul sedile posteriore che gli piacerebbe abitare lì in una fattoria, se ce n'è una in vendita, e far venire sua moglie dall'india. Sta­ ge chiede se allora non deve sposarsi con Helena. C'è un po' di silenzio, e poi improvvisamente ricomincia con quelle ripetizioni. Deve sposarsi con Helena, deve sposarsi con Helena. Come se fosse la cosa più sconve­ niente e sciocca da chiedere. Si fa un silenzio assoluto. Valash non sente alcun motivo di sorridere o ridere, perché gli sembra che la situazione abbia qualcosa di predestinato, che in qualche modo inspiegabile non si può evitare. Non c'è altro da fare che far finta di niente e andare avanti. Il sole non splende più, sono arrivate delle nubi, ma comunque l'aria è molto calda. E umida. Si percepisce che è un po­ meriggio di quelli che possono far venire il sangue cattivo, come quan159

Jens Martin Eriksen do c'è tempesta. Non riesce a spiegare perché, non lo sa. C'è anche quel­ lo strano cambiamento nello straniero. Improvvisamente è di nuovo lui, sospettoso e sprezzante, quando qualcuno dice qualcosa. Ripete, come se volessero accusarlo ingiustamente di qualche proposito ostile. Brusco e riservato come il primo giorno in cui entrò al Rio Bravo. Quando lo racconta, Valash si sorprende forse a sperare invano nel suo animo tranquillo che lo straniero a un certo punto si mescoli con loro. Che ammetta di essere come loro, altrettanto curioso, senza sottolinea­ re di essere uno che è appena arrivato. Perciò non gli sembra una sor­ presa ciò che poi avviene sulla spiaggia. Stage non dice niente, ma nota che il padrone guarda fuori dal finestri­ no e digrigna i denti. C'è in lui qualcosa che non riesce a capire. Lo stra­ niero tira fuori la pistola, estrae il caricatore, prende le cartucce da una scatola che ha in tasca e lo riempie. Lo infila nell'impugnatura della pi­ stola. Valash ammette che sa cosa dovrà accadere, ma che non può far­ ci nulla. Ciò che avviene successivamente sembra assolutamente confuso. È come se tutto durasse solo un breve attimo. Quando escono dal boschetto e hanno attraversato il paese di Thorup, Seth chiede se Valash non può portare la macchina fin sulla spiaggia, e poi girare a sinistra lungo il ma­ re. Ma Valash risponde che è impossibile, a parte il fatto che è anche vie­ tato. La macchina rimarrebbe insabbiata nel punto in cui le barche ven­ gono tirate a riva. Invece gira a sinistra per il vialetto di ghiaia che cor­ re subito dietro la fila di dune. Vicino al chiosco dei gelati Seth gli dice di fermarsi un attimo. Salta giù, getta la pistola sul sedile e va al chiosco dei gelati. Mentre lui è via nessuno degli altri parla. Guardano la pisto­ la sul sedile. Poi Seth torna e si mette la pistola in grembo e distribuisce acqua minerale agli altri. Dice che possono usare le bottiglie come ber­ saglio quando saranno vuote. Stage ricorda che il padrone apre la sua e la beve tutta in un sorso. Non ricorda invece quanto beve lui. Poi Valash continua a camminare verso sud, forse un chilometro, forse due chilometri, non ricorda, solo finché lo straniero gli dice fermati. Poi parcheggia la macchina nel miglio delle dune accanto al vialetto di ghiaia. Poi saltano giù dalla macchina, e Valash sa che non chiude. Non c'è nessun altro. Il tempo è grigio. Quando arrivano sulla duna sente una fresca brezza dal mare. Ciò che avviene ora dura solo un brevissimo attimo. Scendono dalle du­ ne e rimangono un po' in silenzio guardando verso il mare. La spiaggia è completamente deserta. Non si vede neanche una nave. Poi lo stranie­ ro svuota la sua bottiglia e corre fino alla battigia e la infila nella sabbia. Tornando indietro estrae la pistola dalla cintola, toglie la sicura, va dal padrone della pensione e gliela consegna. Lui è il primo. Poi si mette lì in piedi e fissa il mare, come se aspettasse. È un po' davanti al padrone, sulla sua sinistra. Stage e Valash sono invece al suo fianco, alla sua de­ stra. Entrambi guardano verso la bottiglia nella sabbia proprio sulla bat­ tigia. Poi guardano il padrone che non ha ancora sollevato il braccio. Seth chiede cosa sta aspettando? Non c'è niente da aspettare. 160

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Valash afferma di sapere già cosa sarebbe accaduto, perché è come in un sogno in cui si può anche sapere tutto, in cui si può anche presagire qual­ cosa senza per questo poterci fare niente. È come qualcosa di scritto, co­ me un pezzo teatrale di qualche tipo, come un rituale che bisogna com­ piere. E poi in qualche modo si tratta solo di crederci, altrimenti si diven­ ta pazzi se ci si azzarda a dire qualcosa rivelando così di avere dei dubbi. Non si può dubitare di tutto. Non ha niente a che fare con ciò che è giu­ sto e ciò che è sbagliato, spiega, è solo il modo in cui stanno le cose. Stage guarda il padrone quando si fa coraggio e solleva il braccio, ma sa che non colpirà la bottiglia vicino all'acqua. Spiega anche che è come se fosse un piccolo animale, un piccolo animale limpido, o un bambino, che sta lì e aspetta il suo destino. Non sa da dove gli vengono tutte quelle idee. Il padrone della pensione spiega anche che è tutto come un sogno. Ag­ giunge subito che dopo non ci si pensa. Perché dopo non c'è niente. Poi lo straniero dice di nuovo che deve sparare, che deve mirare e non du­ bitare troppo a lungo, perché altrimenti la sua mira va fuori fuoco. Si de­ ve sapere cosa si vuole, prendere la mira, crederci. È tutto un problema di osservazione e istinto. Dobbiamo sapere dentro di noi quando c'è e poi dobbiamo sparare. Altrimenti si sprecherà una possibilità che non tornerà più. Non è più un problema di osservazione e intelligenza, ma anche di fiducia in sé. Bisogna conoscere il nostro momento giusto. Al padrone sembra che la bottiglia sia così sola, è una strana sensazione sentimentale, come quella di Stage, come se fosse viva. E le onde del ma­ re sono come il suono dell'eternità stessa, come di uno strumento, un to­ no basso che ha sempre risuonato nel mondo. Qualcosa di tragico, gli sembra, che si può sentire rimanendo ad ascoltare abbastanza a lungo. Lui ha abitato in quella zona per tutta la vita, ma gli viene in mente so­ lo in quell'istante. Gli sembra che sarebbe diventato pazzo se avesse po­ tuto sentirlo per tutta la vita. Poter sentire eternamente e sempre lo stesso tocco che non va mai oltre. Come se tutto il resto al mondo an­ dasse avanti, come se la nostra vita fosse erba che si secca al vento. Solo questo suono durerà in eterno. Come se fossimo sempre morti e vivessi­ mo per un brevissimo istante tornando poi a essere morti. Ma il suono laggiù continua. Come se vivessimo così brevemente e tutto fosse solo uno smarrimento. Gli sembra di non sapere più niente, di non avere desideri né brame, nessuna speranza di alcun tipo, ma vede solo, in un modo inspiegabile, qualcosa in cui ha vissuto per tutta la sua vita. Sente che un'aspirazione, non importa di che tipo, sarebbe un vero in­ ferno. Ma non sa spiegarlo. Il cielo è grigio e scende fino al mare. La spiaggia è completamente de­ serta. Si diventa come una formica. C'è una vita, ma la storia è troppo breve e troppo piccola per ciò che per un attimo riusciamo a distingue­ re davanti a noi. Come se potessimo essere fatti per qualcosa di più gran­ de e più bello, qualcosa di più puro. Come se vedessimo un lembo di eternità, se in un breve attimo come quello intuissimo una parte della

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Jens Martin Eriksen bellezza del mondo, e poi, sapendo che tutto dura così poco, avessimo poi questa sensazione di perdita, di malinconia. Lo straniero insiste ancora perché prenda la mira e si decida. Perché si faccia coraggio. Poi pensa di prenderlo in parola e protende il braccio e gli punta la pistola da dietro verso l'orecchio destro. Stage ricorda che vede, ma sente di non avere alcuna influenza su ciò che dovrà accadere. Per Valash tutto è già previsto, ma non sa da chi. È tutto indifferente. Basta farla finita. Poi il padrone spara allo straniero nella schiena. Lo sparo è solo come un breve schiocco che si mescola alla risacca, e poi è scomparso di nuovo. Lo straniero cade sulle ginocchia, in silenzio, e poi si inginocchia come se fis­ sasse le onde o sognasse. Il sangue gli riempie la bocca, poi quando ca­ de in avanti cola sulla sabbia. Nessuno ricorda bene cosa avviene dopo. Solo che Stage si fa avanti e col piede copre il sangue con la sabbia. Gli altri due trascinano il morto sul­ la spiaggia e nel mare. Fino al punto in cui l'acqua gli arriva al collo. Poi lo tengono giù finché non riaffiora più. Poi tornano fuori e arrivano sul­ la spiaggia fradici. Stage cancella col piede le tracce sulla sabbia. Affer­ mano che nessuno di loro dice niente. Poi superano le dune e scendono alla macchina. È insabbiata, e Stage e il padrone devono spingerla per li­ berarla. Poi partono. Dopo non pensano niente. Tradotto da Bruno Berni

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Dogma 95

DOGMA 95 è un collettivo di cineasti fondato a Copenaghen nella pri­ mavera del 1995. DOGMA 95 ha come scopo formale di contrastare "cer­ te tendenze" del cinema contemporaneo. DOGMA 95 è un atto di salvataggio! Nel 1960 si era raggiunto il limite! Il cinema era morto e aveva bisogno di risorgere. Lo scopo era giusto, ma non i mezzi impiegati! La Nouvelle Vague dimostrava di essere solo un'increspatura che andava a morire sulla riva trasformandosi in fango. Gli slogan di individualismo e di libertà hanno dato vita a qualche ope­ ra, ma niente è cambiato. L'onda è stata data in pasto al migliore offe­ rente, come i registi. La Nouvelle Vague non è stata più forte di quelli che l'avevano creata. Il cinema anti-borghese è diventato borghese, per­ ché era fondato su teorie che avevano una concezione borghese dell'ar­ te. Il concetto di autore, nato dal romanticismo borghese era dunque... falso! Per DOGMA 95 il cinema non è un'arte individuale! Oggi imperversa una tempesta tecnologica. Il risultato sarà la democra­ tizzazione suprema del cinema. Per la prima volta, chiunque può fare dei film. Ma più i media diventano accessibili, più il ruolo dell'avanguar­ dia ha delle connotazioni militari. La risposta è la disciplina... Dobbiamo mettere i nostri film in divisa, perché il cinema individuaiista è decaden­ te per definizione. DOGMA 95, per erigersi contro il cinema individualista, presenta una se­ rie di regole definite come IL VOTO DI CASTITÀ. Nel 1960 si era raggiunto il limite! Il cinema era stato "cosmetizzato" a morte, dicevano. Da quel momento in poi, l'uso dei "cosmetici" è au­ mentato in maniera considerevole. Il compito "supremo" dei cineasti decadenti è di ingannare il pubblico. È a questo che i "100 anni" di cinema ci hanno portato? Illusioni per comunicare emozioni? Che tipo di emozioni potranno mai essere comunicate attraverso queste illusioni?... Attraverso la libera scel­ ta di imbrogliare da parte dell'artista individuale? La prevedibilità (la drammaturgia) è diventata il vello d'oro attorno al quale balliamo. Fare in modo che la vita interiore dei personaggi giustifichi l'intreccio è troppo complicato, non è "arte vera". Mai come oggi sono stati fatti film superficiali, e sono stati portati alle stelle. Quel che ne risulta è poca cosa. Un'illusione di pathos, un'illusione d'amore.

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Dogma 95

Per DOGMA 95, il cinema non è un'illusione! Oggi imperversa una tempesta tecnologica, si innalzano i "cosmetici" al grado di Dio. Utilizzando la nuova tecnologia, chiunque può, in qualsia­ si momento, spedire le ultime briciole di verità nell'abbraccio mortale delle sensazioni. Dietro alle illusioni può nascondersi ogni tipo di film. DOGMA 95, per erigersi contro il cinema delle illusioni, presenta una se­ rie di regole statutarie definite come IL VOTO DI CASTITÀ.

IL VOTO DI CASTITÀ Giuro di sottomettermi alle regole seguenti, stabilite e approvate dal DOGMA 95: 1. Le riprese devono aver luogo in esterni. Accessori e scenografie pos­ sono essere forniti se un accessorio particolare è necessario alla sto­ ria. Bisogna scegliere degli esterni dove si trovino questi accessori. 2. Il suono non deve essere prodotto separatamente dalle immagini o viceversa. (Non bisogna utilizzare musica, tranne se questa è pre­ sente nel momento in cui viene girata la scena). 3. La macchina da presa deve essere portata a spalla. Qualsiasi movi­ mento - o immobilità - che si può fare a spalla è autorizzata. Il film non deve svolgersi dove è sistemata la macchina da presa, sono le riprese che devono svolgersi dove si svolge il film. 4. Il film deve essere a colori. Le illuminazioni speciali non sono am­ messe. Se non c'è abbastanza luce, la scena deve essere tagliata, op­ pure bisogna montare una sola lampada sulla macchina da presa. 5. Trucchi e filtri sono vietati. 6. Il firn non deve contenere nessuna azione superficiale (omicidi, ar­ mi, ecc. non sono permessi). 7. Le alienazioni temporali e geografiche sono vietate (significa che il film si svolge qui e adesso). 8. I film di genere sono inaccettabili. 9. Il formato del film deve essere un 35mm standard. 10. Il regista non deve figurare nei titoli di testa.

Inoltre, giuro come regista di astenermi dal mio gusto personale. Non sono più un artista. Giuro di astenermi dal creare un'opera, perché con­ sidero l'istante più importante della totalità. Il mio scopo supremo è constringere la verità a venir fuori dai miei personaggi e dai luoghi. Giu­ ro di fare questo con tutti i mezzi disponibili e a prezzo di qualsiasi tipo di buon gusto e di qualsiasi considerazione estetica. Così pronuncio il mio VOTO DI CASTITÀ. Lars von Trier, Thomas Vinterberg Copenaghen, lunedì 13 marzo 1995 Traduzione tratta dal libro II Dogma della Libertà Conversazioni con Lars von Trier, Edizioni della Battaglia, 1999

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Note

biografiche

Autori lb Bondebjerg Nato nel 1947. Ph.D. Docente all'istituto di Scienza del Cinema e dei Massmedia all'università di Copenaghen. Presidente del consiglio di am­ ministrazione dell'istituto Cinematografico Danese 1997-2000. Attual­ mente co-direttore con Prof. Peter Golding (GB) del programma di ricer­ ca "Changing Media - Changing Europe", finanziato dall'European Science Foundation di Strasburgo. Ha pubblicato Medier og Samfund (Media e società, 1990) Television in Scandinavia (con Francesco Bono, 1996), Dansk mediehistorie 3 (Storia dei media danese, 1997), Dansk Film 1972-1997 (Cinema danese 1972-1997, con Peter Schepelern e Jesper An­ dersen, 1997). Jon Bang Carlsen Nato nel 1950. Diplomato alla Scuola Cinematografica Danese nel 1972. Poeta e soprattutto regista di documentari inscenati, tra cui For gaesterne kommer (Prima che gli ospiti vengano, 1986), Livet vii leves - breve fra en mor (La vita si vivrà, 1994), It's Now or Never (1996), Addicted to so­ litude (1999) e il meta-documentario su come realizza i suoi documen­ tari, How to invent reality (Come inventare la realtà, 1996).

Michael Eigtved Nato nel 1964. Laureato in musica e cultura moderna. Ph.D. Professore all'istituto di Scienza del Teatro all'università di Copenaghen. Critico al giornale danese BT. Ha pubblicato Musicals. Storbyscener og drommerum (Musicals -tra scena metropolitana e spazio di sogno, 1995) e Mellem komik og livslede (Tra comicità e spleen) su Gustav Wied. Jens Martin Eriksen Nato nel 1955. Laureato in lingua e letteratura danese nel 1982. Scritto­ re. Dopo il debutto nel 1982 con il romanzo Nani (Id.), ha pubblicato nu­ merosi romanzi e drammi, tra cui Rejse under morket (Viaggio sotto il buio, 1988), Jim og jeg (Jim e io, 1989), Det inderste rum (Lo spazio più interiore, 1994), Vinter ved daggry (Inverno all'alba, 1997). La novella

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Note biografiche

Seth che appare in questo volume verrà pubblicata prossimamente in una raccolta di novelle danesi. Karsten Fledelius Nato nel 1940. Laureato in storia e serbo-croato. Professore all'istituto di Scienza del Cinema e dei Massmedia all'università di Copenaghen. Ha pubblicato: Jugoslaviens sygdom og dod (Malattia e morte della Yugo­ slavia, 1999), Det eksplosive Balkan (Il Balkan esplosivo, coautore Ole Nyeng, 1997), Byzantium: identity, image, influence (coautore Peter Sch­ reiner, 1996). Thomas Harder Nato nel 1959. Laureato in italiano e storia. Presidente del consiglio da­ nese di letteratura (Litteraturàdet). Critico al giornale danese Politiken. Traduttore. Ha pubblicato Italien: fra Mazzini til Bossi (L'Italia da Mazzi­ ni a Bossi, 1999), Italienske steder, rejser mm 1991-98 (Luoghi italiani, viaggi ecc., 1998), Ikke altid pizza (Non sempre Pizza, coautore il fratel­ lo Andreas, 1996), Mafiaens maend (Gli uomini della Mafia, 1990). Jorgen Krogh Nato nel 1940. Laureato in lingue e letterature romanze all'università di Copenaghen. Dal 1974 al 1993 Direttore dell'istituto Danese di Cultura in Italia (con sede a Milano) e responsabile dei rapporti culturali tra Ita­ lia e Danimarca. Ha curato numerose mostre, concerti e rassegne di film danesi. Ha pubblicato articoli e saggi su diversi aspetti socio-culturali in Danimarca. Dal 1996 insegna all'università di Pisa (Lingue e Letterature Scandinave). Bo Tao Michaelis Nato nel 1948. Laureato in Scienza della letteratura. Professore all'isti­ tuto di Scienza della letteratura all'università di Copenaghen. Critico al giornale danese Politiken. Ha pubblicato: Àrhundredets mand: et portraet af Ernest Hemingway (L'uomo del secolo - un ritratto di Ernest He­ mingway, 1999), Filmcitater (Citazioni cinematografiche, 1999) e Ray­ mond Chandler: Portraet af smàborgeren som privatdetektiv (Raymond Chandler: Ritratto del piccolo borghese come detective, 1978).

Lars Movin Nato nel 1959. Cand. phil. in filologia danese e scandinava. Autore. Re­ gista tra l'altro del documentario premiato The Misfits. 30 years of Fluxus (1993). Critico al giornale Information dal 1984. Ha pubblicato: Rockreklamer (Pubblicità di rock, 1990) Video i Danmark (Video in Dani­ marca, 1992), Kunst & video i Europa: Elektroniske understromme (Arte & Video in Europa: Sottocorrenti elettronici, coautore Torben Christen­ sen, 1996), Rejsefeber: log bog fra turisticana (Febbre della partenza: giornale di bordo da Turisticana, 1996).

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Note biografiche Eva Novrup Nata nel 1974. BA in Scienza del Cinema e dei Massmedia all'università di Copenaghen. Critico al giornale danese Information. Ha contributo al­ l'antologia Klondike og Karaoke (Klondike e Karaoke) sulla cultura po­ polare degli anni '90.

Peter Schepelern Nato nel 1945. Professore all'istituto di Scienza del Cinema e dei Mas­ smedia all'università di Copenaghen. Ha pubblicato Film og genre (Film e genere, 1981), Lars von Triers elementer (Elementi di Lars von Trier, 1997), Dansk Film 1972-1997 (Cinema danese 1972-1997, coautori Ib Bondebjerg e Jesper Andersen, 1997). Ha curato Filmleksikon (Diziona­ rio cinematografico, 1995). Ha recentemente pubblicato i racconti fittizi Af samme forfatter (Dello stesso autore, 1999). Villy Sorensen Nato nel 1929. Studia filosofia all'università di Copenaghen e all'uni­ versità di Freibourg. Scrittore. Riceve il premio letterario del consiglio nordico (Nordisk Ràds Litteraturpris) nel 1974. Ha pubblicato libri di pro­ sa, racconti, critica letteraria e culturale, libri per i ragazzi e biografie tra cui: Saere historier (Storie strane, 1953), dal quale è tratta la novella qui pubblicata Blot en drengestreg (Solo una ragazzata), Nietzsche (1963), Formynderfortaellinger (Racconti di tutela, 1964), Seneca (1976), Apol­ lons opror. De udodeliges historie (La rivolta di Apollone. La storia degli immortali, 1989), Den frie vilje (La volontà libera, 1992).

Soren Ulrik Thomsen Nato nel 1956. Poeta. Membro dell'Accademia Danese. Ha pubblicato i libri di poesia: City slang (1981), Ukendt under den samme màne (Sco­ nosciuti sotto la stessa luna, 1982), Nye digte (Nuove Poesie, 1991), Hjemfalden (Rimesso, 1991), Det skabtes vaklen (L'oscillare del creato, 1996) e i libri di poetica Mit lys braender (La mia candela brucia) e En dans pà gloser (Danza sui vocaboli, 1996).

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Traduttori Bruno Berni Nato a Roma nel 1959. È bibliotecario dell'istituto Italiano di Studi Ger­ manici a Roma. Insegna lingua danese presso la LUISS. Ha scritto saggi sulla letteratura danese e tradotto numerose opere letterarie moderne e classiche. Alessandra Pertici Nata nel 1956. Laureata in lingue e letterature straniere, è redattrice della rivista Studi Nordici e collabora con i Dipartimenti di Scandinavistica delle Università di Pisa e di Firenze.

Paolo Nesti Poggi Nato a Firenze nel 1961. Diplomato in flauto traverso presso il Conser­ vatorio di Bologna, interrompe gli studi di comunicazione e musica al DAMS di Bologna per trasferirsi in Danimarca, dove nel 1992 si diploma come interprete simultaneo. Tiene lezioni sulla storia e la cultura italia­ na e lavora come traduttore ed interprete con l'agenzia Italia Consult.

Paola Sioli Nata a Milano nel 1962. Laureata in Lingue e Letterature Straniere all'i­ stituto Universitario di Lingue Moderne, Milano. Svolge l'attività di in­ terprete e traduttrice; è interprete free-lance presso la Commissione Eu­ ropea - Bruxelles.

Roberta Ziviello Nata nel 1975. Laureata in inglese all'università di Pisa. Dottoranda al­ l'istituto di inglese all'università di Copenaghen.

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