Non pensare all’elefante! Come riprendersi il discorso politico 9788832962161

Le tecniche per battere la destra e reinventare la sinistra, a partire dalle parole che usiamo ogni giorno. «Se volete c

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Non pensare all’elefante!  Come riprendersi il discorso politico
 9788832962161

Table of contents :
Indice......Page 201
Frontespizio......Page 5
L’autore......Page 2
Prefazione di Gianrico Carofiglio......Page 8
Prologo......Page 12
Introduzione. Il reframing come cambiamento sociale......Page 14
I frame o cornici mentali......Page 15
Il reframing o ricontestualizzazione cognitiva......Page 16
Tutta la politica è morale......Page 17
Che cos’è la razionalità......Page 18
Prima parte. Teoria e applicazione......Page 20
Prima lezione. Come riprendersi il discorso politico......Page 21
Seconda parte. Il cervello e il mondo......Page 51
Seconda lezione. Il framing......Page 52
Inquadrare la realtà......Page 53
Riflessività......Page 56
Causalità sistemica......Page 58
Politica e persona......Page 64
Il privato dipende dal pubblico......Page 73
Terza parte Il framing questione per questione......Page 80
La questione della libertà......Page 81
Assistenza sanitaria......Page 82
Istruzione......Page 84
Povertà......Page 87
Discriminazione: razza, genere e orientamento sessuale......Page 88
Pensioni e sindacati......Page 91
Immigrazione......Page 94
La teoria di Piketty sulla crescita accelerata delle disuguaglianze economiche......Page 98
Effetti sistemici sulla politica......Page 101
Conseguenze sul lavoro produttivo......Page 102
Effetti negativi della crescita esponenziale della ricchezza posseduta da pochi......Page 104
Perdita di esperienze di crescita personale......Page 105
Crescita......Page 106
Effetti sistemici intrecciati......Page 107
Il governo delle imprese......Page 109
Quarta parte. Il framing, dieci anni prima......Page 120
Quanto vale una parola? Molto, se la parola è «matrimonio»......Page 121
Com’è cambiato il nostro cervello......Page 128
Il potere delle immagini......Page 130
Il frame governativo dell’11 settembre......Page 132
Il vantaggio dei conservatori......Page 135
La visione del mondo, ovvero la motivazione religiosa......Page 136
Le condizioni sociopolitiche, ovvero la cultura della disperazione......Page 137
Il discorso pubblico......Page 139
La politica estera......Page 140
La politica interna......Page 143
Metafore che uccidono......Page 145
Quinta parte. Dalla teoria all’azione......Page 151
Cosa vogliono i conservatori......Page 152
Cosa unisce i progressisti......Page 163
La visione progressista di base......Page 165
I principi progressisti......Page 166
Gli obiettivi politici......Page 168
Le domande più frequenti......Page 172
Come rispondere ai conservatori......Page 186
Ringraziamenti......Page 195

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L’autore

George Lakoff ha insegnato per molti anni Linguistica e scienze cognitive a Berkeley, in California. Attualmente dirige il Center for Neural Mind & Society. Il suo lavoro di ricerca e insegnamento è affiancato a un impegno costante nel dibattito pubblico, di cui Non pensare all’elefante! rappresenta sicuramente l’opera più letta e discussa in tutto il mondo. In Italia sono stati pubblicati anche Metafora e vita quotidiana (con Mark Johnson, Bompiani 2004), il libro che ha introdotto nel dibattito scientifico il tema della metafora come meccanismo fondamentale del nostro funzionamento cognitivo, e La libertà di chi? (Codice 2008). Fra i tanti riconoscimenti per la sua attività, nel 2007 ha ricevuto il premio Giulio Preti per il dialogo tra scienza e democrazia.

Pamphlet, documenti, storie

www.chiarelettere.it facebook.com/chiarelettere @chiarelettere www.illibraio.it THE ALL NEW DON’T THINK OF AN ELEPHANT

by GEORGE LAKOFF

Copyright © 2004, 2014 by GEORGE LAKOFF Chiarelettere edition published by arrangement with Chelsea Green Publishing Co, White River Junction, Vt, Usa, www.chelseagreen.com Per la Prefazione, © Gianrico Carofiglio © Chiarelettere editore srl Soci: Gruppo editoriale Mauri Spagnol S.p.A. Lorenzo Fazio (direttore editoriale) Sandro Parenzo Guido Roberto Vitale (con Paolonia Immobiliare S.p.A.) Sede: corso Sempione, 2 - Milano ISBN 978-88-3296-216-1 Copertina Art director: Giacomo Callo Graphic designer: Davide Nasta Progetto grafico di Melissa Jacobson Prima edizione digitale: maggio 2019 Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

Sommario L’autore Pagina di copyright Frontespizio Prefazione di Gianrico Carofiglio Prologo Introduzione. Il reframing come cambiamento sociale I frame o cornici mentali Il reframing o ricontestualizzazione cognitiva Tutta la politica è morale Che cos’è la razionalità Prima parte. Teoria e applicazione Prima lezione. Come riprendersi il discorso politico Seconda parte. Il cervello e il mondo Seconda lezione. Il framing Inquadrare la realtà Riflessività Causalità sistemica Politica e persona Il privato dipende dal pubblico Terza parte Il framing questione per questione La questione della libertà Assistenza sanitaria Istruzione Povertà Discriminazione: razza, genere e orientamento sessuale Pensioni e sindacati Immigrazione La teoria di Piketty sulla crescita accelerata delle disuguaglianze economiche Effetti sistemici sulla politica Conseguenze sul lavoro produttivo Inadeguatezza delle tradizionali soluzioni economiche liberiste Effetti negativi della crescita esponenziale della ricchezza posseduta da pochi

Perdita di esperienze di crescita personale Piketty e il riscaldamento globale Crescita Effetti sistemici intrecciati Il governo delle imprese Quarta parte. Il framing, dieci anni prima Quanto vale una parola? Molto, se la parola è «matrimonio» Metafore del terrore Com’è cambiato il nostro cervello Il potere delle immagini Il frame governativo dell’11 settembre Il vantaggio dei conservatori Le cause La visione del mondo, ovvero la motivazione religiosa Le condizioni sociopolitiche, ovvero la cultura della disperazione Il discorso pubblico La politica estera La politica interna Metafore che uccidono Quinta parte. Dalla teoria all’azione Cosa vogliono i conservatori Cosa unisce i progressisti Che cosa ci rende progressisti La visione progressista di base La logica dietro i valori progressisti I principi progressisti Gli obiettivi politici Le domande più frequenti Come rispondere ai conservatori Ringraziamenti Seguici su IlLibraio

Prefazione di Gianrico Carofiglio

Nel 1651 Thomas Hobbes tentò di bandire dal linguaggio politico «l’uso metaforico delle parole». Il suo tentativo non ebbe successo: le metafore politiche non sono scomparse e anzi si sono moltiplicate al punto che oggi è difficile anche solo rendersi conto di quanto la loro presenza sia pervasiva. Hobbes stesso, del resto, per descrivere lo Stato, si era servito di una formidabile metafora: quella del Leviatano, gigantesco mostro mitologico. Pensare di fare a meno della metafora, in politica come in altri campi, è illusorio per una ragione tanto chiara quanto poco percepita: la metafora non è (solo) una figura retorica, essa è soprattutto una forma di manifestazione del pensiero, una modalità di comprensione del mondo. Una metafora, una buona metafora, può produrre effetti molto difficili da ottenere con argomentazioni lineari, astratte, prive di immagini e di analogie. Può illuminare un concetto altrimenti troppo oscuro. Può sciogliere un problema intricato. Può svelare un aspetto decisivo, e fino a quel momento trascurato, di una questione fondamentale. La metafora può comunicare ciò che un discorso ordinario rischia talvolta di occultare, anche semplicemente annoiando. George Lakoff, professore di linguistica cognitiva a Berkeley e autore del libro che avete fra le mani, è il più importante studioso vivente delle metafore applicate all’indagine teorica e alla pratica della politica. Non si tratta di argomento da accademici; è un tema cruciale per capire come funzionano il mondo e il potere: le metafore – e quelle della politica in particolare – incidono sui sistemi di credenze

individuali e collettive e orientano, quando addirittura non determinano, comportamenti e scelte. In altre e più sintetiche parole: le metafore possono creare o comunque trasformare la realtà. Il nostro modo di ragionare e comunicare è disseminato di metafore, anche se molte sono di uso così comune che nemmeno ci accorgiamo della loro esistenza. Tanto per dire: «disseminato» è una metafora. Il nostro è un linguaggio metaforico e prenderne consapevolezza è un passaggio fondamentale per capire certi meccanismi. A cominciare da quelli della comunicazione politica: quella buona e quella cattiva. Quest’ultima consiste nelle più diverse forme di manipolazione e intossicazione del consenso ed è il nemico dal quale più devono guardarsi oggi le forze progressiste. Le metafore manipolatorie e tossiche non si contrastano con la loro negazione (che invece le irrobustisce: se dico di non pensare a un elefante è proprio a un elefante che penseranno i miei interlocutori o il mio pubblico), ma con l’elaborazione di altre, diverse metafore, capaci anch’esse di evocare strutture interiori – i frame di Lakoff – e definire diversi quadri di riferimento ideali. Per non rimanere sul piano della teoria vediamo come Lakoff costruisce un’articolata metafora per proporre un modo alternativo di pensare alle tasse e al dovere di pagarle. Alternativo alla vulgata metaforica delle destre di tutto il mondo che parlano delle tasse come di un furto dello Stato (il concetto del fisco predone che «mette le mani nelle tasche dei cittadini») e non come l’adempimento di un obbligo di solidarietà: Pagare le tasse significa fare il proprio dovere, versare la quota di iscrizione per vivere negli Stati Uniti. Se ci iscriviamo a un club o a un circolo qualsiasi paghiamo una quota di iscrizione. Perché? Perché non siamo stati noi a costruire la piscina. E dobbiamo pagarne la manutenzione. Non abbiamo costruito noi il campo da baseball. E qualcuno deve pulirlo. Forse non usiamo il campo da squash, ma comunque dobbiamo pagare la nostra parte. Altrimenti nessuno farà la manutenzione e il circolo andrà in rovina. Quelli che evadono le tasse, come le società che si trasferiscono alle Bermude, non pagano quello che devono al loro paese. Chi paga le tasse è un patriota. Chi le evade e manda in rovina il suo paese è un traditore.

Il fatto che, nel discorso pubblico, prevalga una metafora anziché un’altra, un sistema metaforico piuttosto che un altro, ha conseguenze tanto concrete quanto, ancora, poco comprese. Per capire chi vincerà o chi perderà una competizione politica è necessario – anche se certo

non sufficiente – verificare quale dei contendenti è munito dell’armamentario metaforico più adeguato e penetrante. I progressisti in generale e quelli italiani in particolare non hanno purtroppo – salvo rare eccezioni – la capacità di costruire metafore convincenti e solidamente etiche, come nell’esempio di Lakoff. Nel discorso politico della sinistra italiana sono invece numerosi gli esempi di metafore mal fatte, inefficaci o addirittura controproducenti e, insomma, di inviti fallimentari a non pensare all’elefante. La comunicazione dei progressisti è normalmente fiacca e perdente perché – per una sorta di pregiudizio ideologico – essi rifiutano di accettare e dunque di praticare alcuni dei concetti che pensatori come Lakoff hanno proposto con grande vigore. Il più importante di tutti è per me il seguente: la verità – da sola – non ci renderà liberi. Dire la verità sul potere non basta. Bisogna inquadrare ogni verità secondo la propria prospettiva, con il proprio linguaggio, con le proprie metafore. È l’unico modo per sconfiggere l’elefante proposto dalla propaganda dei populismi e dei fascismi più o meno mascherati. Ci vogliono metafore ben fatte, ci vuole un linguaggio di motsmatière – parole concrete – come diceva Simenon. Tutto l’opposto dell’attuale comunicazione dei progressisti, impantanati in discorsi astratti, gergali, incomprensibili. La sfida per le forze del progresso, in questo periodo complicato, è difficile e implica la capacità (che è anche una tecnica, e va appresa) di sconfiggere le manipolazioni dicendo la verità con efficacia evocativa e dunque persuasiva. Se vi interessa la cosa pubblica, se volete contribuire – anche solo come cittadini consapevoli – a una politica della solidarietà e dei ponti invece che del rancore e dei muri (non ho bisogno di ricordarvi, adesso, che si tratta di metafore), leggete Lakoff, anzi studiatelo e poi mettete in pratica i suoi insegnamenti. Fatelo presto: non c’è tanto tempo a disposizione. Marzo 2019 Gianrico Carofiglio (Bari 1961) ha scritto racconti, romanzi, saggi. I suoi libri, sempre in vetta alle classifiche dei bestseller, sono tradotti in tutto il mondo. Tra i più recenti, Con i piedi nel fango. Conversazioni su politica e verità (2018) e il romanzo La versione di Fenoglio (2019).

NON PENSARE ALL’ELEFANTE!

A Kathleen, le cui intuizioni illuminano ogni pagina

Prologo

Nel 2004, quando apparve la prima edizione di questo libro, non capitava quasi mai di imbattersi nel concetto di framing applicato al discorso sociale e politico, tantomeno se ne discuteva. Il framing era un concetto misconosciuto e per nulla indagato al di fuori dello specifico ambito accademico della semantica dei frame. Le cose sono molto cambiate da quando Non pensare all’elefante! è diventato un bestseller. Oggi non c’è media americano che non tratti abitualmente di framing e non c’è dibattito in cui milioni di persone non ascoltino la parola frame senza comprenderne almeno a grandi linee il significato. Un enorme risultato per un piccolo libro. Ma gli obiettivi di Non pensare all’elefante! erano più ambiziosi di così. Quando uscì, i repubblicani erano molto più abili dei democratici nel framing, una superiorità che nel 1994 era valsa loro addirittura la conquista del Congresso. La mia speranza, come quella di molti altri, era che a partire dal 2004, grazie a una migliore conoscenza del framing, i democratici avrebbero invertito questa tendenza. Alle elezioni del 2008 Barack Obama guidò la trionfale vittoria dei democratici alla Casa bianca e al Congresso grazie a una capacità di framing di gran lunga superiore rispetto ai repubblicani, oltre che a migliori abilità tattiche e al fatto di essere un candidato indubbiamente più valido. Speravo che tale superiorità potesse durare. Così non è stato. Nel 2009, poco dopo l’insediamento di Obama, i repubblicani riconquistarono la loro iniziale egemonia nel dibattito pubblico, consentendo al Tea Party di accrescere la propria influenza al Congresso e nelle amministrazioni federali di tutta la nazione. Oggi

non c’è quasi città o Stato in cui il framing repubblicano non la faccia da padrone. Che cosa è successo? In questa nuova edizione di Non pensare all’elefante!, che vede la luce a distanza di dieci anni dalla prima, non mi limiterò a riepilogare cosa sia e come funzioni il framing. Il mio obiettivo è spiegare cosa sia accaduto nel frattempo, perché i democratici siano tornati a perdere la battaglia del framing, e in che modo possano recuperare il terreno perso. Siccome la materia è ardua, meglio cominciare subito, con una Prima lezione di ripasso dei principi base del framing, cui seguiranno una Seconda lezione e ulteriori capitoli di approfondimento.

Introduzione

Il reframing come cambiamento sociale

Noi tutti pensiamo con il cervello. C’è poco da fare. Può sembrare che alcuni politici pensino con altre parti del corpo, ma in realtà anche loro pensano con il cervello. In che modo questo incide sulla politica? Perché ogni pensiero è fisico, è veicolato dai circuiti neuronali che strutturano il nostro cervello. Comprendiamo solo ciò che il nostro cervello ci consente di comprendere. Le più profonde di queste strutture neuronali sono pressoché immutabili, non cambiano facilmente né in tempi rapidi, e svolgono un’attività e un’influenza che ignoriamo quasi del tutto. Siamo inconsapevoli di circa il 98 per cento dell’attività del nostro cervello. Di tutto, o quasi, ciò che in esso determina le nostre convinzioni morali, sociali e politiche più profonde. Eppure sono queste convinzioni per lo più inconsce a guidare le nostre azioni. Le scienze cognitive hanno trovato il modo di indagare sia gli strati consci sia quelli inconsci del pensiero. Come scienziato cognitivo il mio compito è di contribuire a rendere conscio l’inconscio, di scoprire e spiegare i meccanismi che determinano il nostro comportamento sociale e politico. Quest’ultimo dipende in larga parte da ciò che avviene nel nostro cervello, ecco perché sono convinto che conoscere a fondo tali meccanismi possa condurci a un cambiamento sociopolitico positivo. Significa che per comprendere la politica è necessario indagare a livello neuronale? In alcuni casi, come vedremo, è effettivamente importante immergersi così nel profondo. Tuttavia, in generale le

strutture cerebrali più rilevanti per la politica possono essere indagate a livello mentale e prendono il nome di frame.

I frame o cornici mentali I frame sono cornici mentali che determinano la nostra visione del mondo e di conseguenza i nostri obiettivi, i nostri progetti, le nostre azioni e i loro esiti più o meno positivi. In politica i frame influiscono sulle scelte e le istituzioni che le attuano. Cambiare i frame significa cambiare le une e le altre. Il reframing equivale di fatto a un cambiamento sociale. I frame non possono essere visti o sentiti. Compongono quello che noi scienziati cognitivi chiamiamo «inconscio cognitivo», ovvero quelle strutture mentali che non percepiamo attraverso un’introspezione cosciente, ma attraverso gli effetti che producono. Il nostro «senso comune» si compone di inferenze inconsapevoli e automatiche suscitate dai nostri frame inconsci. Ma anche il linguaggio è una spia dei frame sottostanti. Ogni parola si definisce in relazione a un frame concettuale sottostante. Ogni qualvolta ascoltiamo una parola, nel nostro cervello – eccolo chiamato in causa – si attiva immediatamente un frame. Come recita il titolo di questo libro, anche la negazione di un frame ha come effetto la sua attivazione. Se qualcuno ci dice di non pensare a un elefante, noi penseremo inevitabilmente a un elefante. Questo dato, in cui mi sono imbattuto dapprima nei miei studi di linguistica cognitiva, oggi trova conferma anche nelle ricerche della neuroscienza. Ogni volta che un macaco afferra un oggetto, nella sua corteccia premotoria ventrale (responsabile della pianificazione delle azioni, non del movimento del corpo) si attiva un determinato gruppo di neuroni. Se si addestra la scimmia a non afferrare quell’oggetto, molti di quei neuroni saranno inibiti (o spenti), ma una porzione di quei medesimi neuroni atti all’afferrare resteranno accesi. Vale a dire che anche il non afferrare induce il pensiero dell’afferrare. La negazione di un frame non solo attiva quel medesimo frame, ma lo rafforza tanto più quanto si continua ad attivarlo. Cosa questo implichi nel discorso politico è evidente: quando discutiamo con

qualcuno dello schieramento opposto al nostro utilizzandone il linguaggio, attiviamo i frame di quello schieramento, rafforzandoli in chi ci ascolta a scapito dei nostri. Alla luce di ciò i progressisti, ad esempio, dovrebbero evitare di usare il linguaggio dei conservatori e i relativi frame che quel linguaggio attiva, ed esprimere invece le loro convinzioni utilizzando il proprio linguaggio al posto di quello degli avversari.

Il reframing o ricontestualizzazione cognitiva Solo attraverso un reframing del discorso politico, cioè riappropriandoci dei nostri frame, potremo cambiare la visione dell’opinione pubblica, il cosiddetto senso comune. Poiché i frame sono attivati dal linguaggio, per mutare i frame sarà necessario cambiare prima di tutto il linguaggio. Per un nuovo modo di pensare occorrerà un nuovo modo di parlare. Ecco perché il reframing non è un processo per nulla semplice o scontato. Non si tratta di inventarsi qualche parolina magica. I frame sono idee, non slogan. Per cambiarli bisogna accedere alle convinzioni inconsce già presenti nella nostra mente e in quella di chi la pensa come noi, prenderne consapevolezza e ripeterle finché non entreranno a far parte del discorso pubblico. Tutto ciò non accadrà da un giorno all’altro, ma attraverso un processo graduale che necessita dedizione, costanza e attenzione. Per attuare un autentico cambiamento sociale attraverso il reframing, è necessario cambiare il discorso politico. Ma per farlo occorre disporre di una rete di comunicazione. I conservatori americani ne hanno sviluppata una vastissima e sofisticata – di cui Fox News è solo l’esempio più evidente – mentre i progressisti ne sono ancora privi. Dovranno capire in cosa consiste un efficace sistema comunicativo e crearne uno proprio. In caso contrario il reframing non porterà ad alcun risultato. Nell’accezione con cui lo intendiamo in questo libro, il reframing ha a che fare con l’onestà e l’integrità. L’esatto opposto della propaganda e della manipolazione. Significa portare in superficie le convinzioni e le modalità cognitive più profonde. Imparare a

esprimere le idee in cui crediamo, in modo tale da permettere alle persone che le condividono di comprenderle fino in fondo e renderle attuabili. Per cambiare i frame bisogna conoscere bene quelli delle parti con cui siamo in massimo disaccordo. Decine di milioni di americani votano per i conservatori, ma non per questo sono tutti stupidi o cattivi. Hanno semplicemente una diversa concezione del mondo e di cosa sia giusto o sbagliato.

Tutta la politica è morale Quando un leader politico presenta un programma o propone un indirizzo di condotta, il presupposto implicito è che quel programma e quell’indirizzo siano giusti. Nessun politico dice: «Dovreste fare questo. È sbagliato, è il male assoluto, ma voi fatelo comunque». Nessun leader propone una linea politica che non ritiene valida. Si dà per scontato che tutti i programmi politici si propongano come giusti. Solo che i leader politici hanno idee diverse di cosa sia giusto o sbagliato. La politica è sempre morale, ma non tutti condividono la medesima visione di moralità. Inoltre la maggior parte delle convinzioni morali è inconscia e spesso non siamo consapevoli neanche di quelle più profondamente radicate. Come vedremo, in America il divario politico è prima di tutto un divario morale. È importante prenderne coscienza e comprendere la differenza tra il sistema di valori progressista e quello conservatore. Ma soprattutto è importante riconoscere che un gran numero di persone applica sistemi di valori diversi e incoerenti ad ambiti diversi della propria esistenza. Un fenomeno che tecnicamente viene chiamato «biconcettualismo». Qui il cervello gioca una parte ancora più importante. Se a ogni sistema morale corrisponde un sistema di connessioni neuronali diverso, com’è possibile infatti che all’interno dello stesso cervello entrino in funzione sistemi morali incoerenti? Il motivo è duplice: 1) per effetto dell’inibizione reciproca (quando si attiva un sistema neuronale se ne inibisce un altro); 2) per effetto dell’interconnessione neuronale (uno stesso sistema si applica a questioni differenti).

Il biconcettualismo svolge un ruolo cruciale nella politica americana. È fondamentale comprendere il funzionamento di questo meccanismo. Ci torneremo più volte nel corso di questo libro.

Che cos’è la razionalità Le neuroscienze e le scienze cognitive hanno cambiato radicalmente la nostra idea di cosa sia la ragione e di cosa significhi essere razionali. Sfortunatamente fin troppi progressisti si sono formati su una teoria della ragione falsa e obsoleta, in base alla quale il framing, il pensiero metaforico e l’emotività non influirebbero in alcun modo sulla razionalità. Questa convinzione errata ha condotto molti progressisti a credere che i fatti, da soli, bastino a renderci liberi, tant’è che si incaponiscono a elencare fatti e dati concreti. Ovviamente i fatti contano tantissimo, ma per essere significativi occorre inquadrarli in una cornice morale. Ricordiamoci che possiamo comprendere solo ciò che il nostro cervello ci consente di capire. Se i fatti non rientrano nei frame mentali, questi ultimi restano immutati e i fatti vengono ignorati, impugnati o sminuiti. Torneremo più dettagliatamente su questo aspetto nelle pagine successive. Questo libro è intenzionalmente sintetico e informale. Si propone di essere una guida pratica sia per i cittadini e gli attivisti sia per chiunque abbia un serio interesse nella politica. Per chi fosse alla ricerca di uno studio più sistematico e approfondito rimando ai miei libri Moral Politics: How Liberals and Conservatives Think (seconda edizione), Thinking Points, Whose Freedom?, The Political Mind e The Little Blue Book (scritto con Elisabeth Wehling). Per chi non vedesse l’ora di leggere illuminanti trattazioni accademiche di seicento pagine e centinaia di articoli su politica e neuroscienze, rinvio al mio sito web personale: www.georgelakoff.com. Ma per chi voglia farsi un’idea veloce e avvicinarsi per la prima volta alla tematica dei frame, questo libro rappresenta un buon inizio. È fondamentale che gli americani e i cittadini del resto del mondo conoscano i valori progressisti su cui l’America si è fondata e ha costruito la sua grande democrazia, così come è importante, se si intende preservarla, riconoscere e affermare a gran voce tali valori. Se

in futuro i progressisti vorranno tornare a vincere, dovranno presentare al paese una visione morale chiara e unitaria, anziché la solita lista infinita di fatti, dati e programmi elettorali; un’alternativa morale che attinga alla tradizione americana e a tutto ciò di cui abbiamo motivo di andare orgogliosi. Quest’edizione aggiornata di Non pensare all’elefante! vuole essere funzionale all’elaborazione di tale visione. Non resta che augurarvi buona lettura.

Prima parte

Teoria e applicazione

Prima lezione

Come riprendersi il discorso politico1

Quando introduco allo studio dei frame i miei studenti del primo anno di Scienze cognitive a Berkeley, comincio sempre con un semplice esercizio. Dico loro: «Non pensate a un elefante! Fate quello che vi pare, ma non pensate a un elefante». Non ho mai trovato uno studente che ci riesca. Ogni parola, come appunto «elefante», evoca un frame, ovvero un’immagine o un set di nozioni: gli elefanti sono grossi, hanno orecchie pendule, zanne, proboscide, vivono liberi nella giungla oppure in cattività nei circhi e così via. Ogni parola viene definita in base a quel frame. E anche quando la usiamo in senso negativo, finiamo comunque per evocarlo. Richard Nixon lo capì a proprie spese. Durante lo scandalo Watergate, mentre riceveva pressioni affinché si dimettesse, si presentò in televisione e disse agli americani: «Non sono un imbroglione». Il risultato fu che tutti pensarono a lui come a un imbroglione. Da questo episodio possiamo dedurre un principio basilare del framing: quando discutiamo con i nostri avversari, non dobbiamo mai usare il loro linguaggio. Quel linguaggio evoca un frame specifico, che non è certamente quello che fa al caso nostro. Facciamo un altro esempio. Dal giorno dell’insediamento di George W. Bush alla Casa bianca, prese a circolare l’espressione «sgravio fiscale». Da allora la stampa la reiterò quasi quotidianamente per descrivere la linea politica del nuovo presidente e, a poco a poco, quell’espressione divenne talmente parte del discorso politico che cominciò a essere usata anche dai progressisti.

Soffermiamoci ora sul frame evocato dalla parola «sgravio». Uno sgravio presuppone l’esistenza di una sofferenza, in questo caso di un partito sofferente, e di un soggetto che interviene per rimuovere tale sofferenza, configurandosi pertanto come un eroe; chiunque tenti di ostacolare l’eroe, impedendo lo sgravio, rappresenta invece il malvagio. Ogni volta che il termine «tasse» (o l’aggettivo «fiscale») è associato alla parola «sgravio», ne risulta metaforicamente che le tasse sono una sofferenza, chi le elimina un eroe e chi prova a ostacolarlo, una persona cattiva. Ecco: questo è un frame. È una cornice costituita da concetti come «sofferenza» ed «eroe». L’espressione «sgravio fiscale» è stata coniata alla Casa bianca e, tramite comunicati stampa, si è diffusa in ogni radio, televisione e quotidiano del paese. Presto anche il «New York Times» ha cominciato a parlare di «sgravio fiscale» e di lì a poco non solo Fox, ma anche la Cnn, la Nbc e ogni altra emittente televisiva ha finito col fare da megafono al «piano di sgravi fiscali del presidente». Ben presto hanno iniziato a parlare di «sgravi fiscali» anche i democratici, dandosi da soli la zappa sui piedi. Se ci facciamo caso, proponendo un pacchetto di «sgravi fiscali per il ceto medio», i democratici non hanno fatto altro che adottare il punto di vista conservatore della tassazione intesa come sofferenza. Accettando il frame dei conservatori, sono caduti nella loro trappola: le parole li hanno attirati nella visione del mondo conservatrice. Ecco dunque di cosa parliamo quando parliamo di framing. Il framing consiste nel trovare un linguaggio adatto alla nostra visione del mondo. Ma ovviamente non è soltanto una questione di linguaggio. Prima ancora vengono le idee: il linguaggio serve a evocare e a veicolare quelle idee. Un altro notevole esempio di framing conservatore è riscontrabile nel discorso sullo stato dell’Unione che George W. Bush pronunciò nel gennaio del 2005: «Non abbiamo bisogno del permesso scritto per difendere l’America». Una metafora davvero anomala per quel contesto. Perché proprio «permesso scritto»? Avrebbe potuto dire semplicemente: «Non chiederemo il permesso». Ma parlare di «permesso scritto» è diverso. Pensiamo all’ultima volta in cui abbiamo avuto bisogno di un permesso scritto. Pensiamo a chi ha bisogno di richiedere un permesso scritto. Pensiamo alla relazione che intercorre

tra questi due soggetti. È questo il genere di domande che dobbiamo porci se vogliamo comprendere il discorso politico contemporaneo. Mentre ci riflettiamo, vorrei sollevare qualche altra questione. Ho cominciato a occuparmi di comunicazione politica dopo che nell’autunno del 1994, mentre ascoltavo gli interventi elettorali in televisione e leggevo il «Contratto con l’America» dei repubblicani, mi ponevo le seguenti domande. Che rapporto c’è tra le posizioni assunte dai conservatori sulle varie questioni? Come si collega la loro posizione sull’aborto con quella sulle tasse? E con quella sui problemi ambientali? O sulla politica estera? Come si conciliano? Cosa ha a che fare l’essere contrari all’uso delle armi da fuoco con l’essere favorevoli alla Tort Reform, la legge che limita la possibilità dei cittadini e delle organizzazioni della società civile di fare causa alle grandi corporation? Esiste un legame? Non riuscivo a venirne a capo. Certo che è proprio gente strana, mi dicevo. Non c’è nessun nesso sensato tra le loro varie posizioni. Poi feci un’altra riflessione: io la pensavo esattamente all’opposto su ogni questione; ma cosa avevano in comune nel loro insieme le mie posizioni, contrarie a quelle dei conservatori? Neanche tra quelle vedevo alcun nesso, il che era piuttosto imbarazzante per uno come me che si occupa di linguistica e scienze cognitive. Alla fine però la risposta arrivò. E arrivò da un ambito davvero inaspettato: quello dei valori famigliari. Mi ero chiesto come mai i conservatori tirassero così spesso in ballo i valori della famiglia. Come mai alcuni valori fossero considerati «valori della famiglia» e altri no. E perché infine, mentre il futuro del mondo era minacciato dalla proliferazione nucleare e dal riscaldamento globale, in una campagna elettorale per la presidenza o per il Congresso non facessero altro che parlare di valori della famiglia. Fu a quel punto che mi ricordai di una tesina in cui anni prima un mio studente aveva dimostrato che tutti in America usiamo la metafora della famiglia per parlare della nazione. Abbiamo i Padri fondatori, le Figlie della Rivoluzione americana, mandiamo in guerra i «nostri figli». È una metafora che ci viene naturale, perché tendiamo a pensare ai gruppi sociali di grandi dimensioni – come le nazioni – in termini di piccoli gruppi, come le famiglie e le comunità.

Appurata l’esistenza di una metafora che lega la nazione alla famiglia, mi posi un’ulteriore domanda: esistono due idee differenti di nazione perché esistono due idee differenti di famiglia? Provai a fare il ragionamento contrario. Presi in esame le posizioni del versante conservatore e di quello progressista e mi dissi: «Consideriamole in base a questa metafora e vediamo cosa ne viene fuori». Analizzai le due diverse idee di nazione e ne derivarono due diversi modelli di famiglia: quello del padre severo e quello del genitore premuroso. Inutile specificare a quale schieramento appartenevano l’uno e l’altro. Maturai queste considerazioni – i cui dettagli vi illustrerò tra poco – mentre preparavo il mio intervento a un convegno di linguistica, così decisi che per l’occasione avrei parlato proprio di questa scoperta. Tra il pubblico c’erano due miei carissimi amici, membri della Coalizione cristiana. Due linguisti eccellenti, nonché davvero due ottime persone, con cui amavo intrattenermi. Dopo la conferenza, durante il rinfresco, mi presero in disparte e mi dissero: «Il modello di famiglia dominato dal padre severo di cui parli è molto indovinato, ma ha alcuni difetti. Ti diamo qualche dritta per aiutarti a sistemarlo se vuoi, anche se molte cose le conoscerai già. Avrai letto Dobson…». «Chi?» risposi. «James Dobson.» «Chi?» ripetei. «Stai scherzando? Puoi sentirlo in qualsiasi radio.» «Be’, non su Npr evidentemente, perché io non l’ho mai sentito nominare.» «Già, tu vivi a Berkeley…» «Che c’entra… ma è uno che scrive?» «Certo! I suoi libri vendono milioni di copie. Il più famoso è Dare to Discipline.»2 I miei amici avevano ragione. Seguendo i loro consigli, andai nella libreria cristiana del mio quartiere e lì trovai illustrato il modello del padre severo in tutti i suoi dettagli. All’epoca Dobson era un personaggio molto influente dell’area conservatrice, con un giro d’affari dai 100 ai 200 milioni di dollari l’anno, una rubrica seguitissima sui quotidiani a diffusione nazionale e un codice postale dedicato per far fronte alle numerose lettere d’ordine dei suoi saggi e

pamphlet. Dobson insegnava efficacemente alle famiglie il modello educativo del padre severo, ben consapevole del legame che intercorre tra questo modello, la politica di destra, la religione evangelica, il liberismo economico e la politica estera neoconservatrice. Il modello del padre severo si fonda su una serie di presupposti: il mondo è un posto pericoloso e lo sarà sempre, perché lì fuori c’è il male. Il mondo è un posto difficile anche perché è competitivo. Ci saranno sempre vincitori e vinti. Esistono un bene assoluto e un male assoluto. I bambini nascono cattivi, vogliono fare soltanto ciò che è piacevole e non ciò che è giusto. Spetta a noi farli diventare buoni. Serve dunque un padre forte e severo che sia capace di: proteggere la famiglia dai pericoli del mondo; sostenere la famiglia nelle difficoltà del mondo; insegnare ai propri figli a distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. Il padre severo è un’autorità morale a cui i bambini devono obbedienza perché sa distinguere il bene dal male. E l’unico modo per insegnare ai bambini l’obbedienza – cioè a distinguere il bene dal male – consiste nel punirli duramente quando si comportano male. Persino picchiarli. Alcuni autori più conservatori raccomandano di sculacciarli con bacchette, cinghie o piccoli bastoni. Altri ancora consigliano di iniziare fin dalla nascita, mentre Dobson è più permissivo: «Non ci sono giustificazioni valide per sculacciare i bambini prima dei quindici o diciotto mesi d’età».3 Il ragionamento che giustificherebbe le punizioni corporali è il seguente: se i bambini sono puniti fisicamente quando compiono qualcosa di sbagliato, impareranno a non comportarsi più in quel modo. Svilupperanno una disciplina interiore che li tratterrà dal comportarsi male, e in futuro saranno obbedienti e agiranno in modo corretto. Senza le punizioni, viceversa, il mondo andrebbe allo sfascio e non ci sarebbe più moralità. La disciplina interiore sortirebbe anche un secondo effetto. Permetterebbe al bambino di sviluppare le qualità necessarie per avere successo in questo mondo difficile e competitivo. Se in questa terra di opportunità sapranno essere disciplinati e perseguire il proprio interesse, i nostri figli diventeranno autonomi e vincenti. Ecco dunque che il modello del padre severo collega la moralità al benessere. La

stessa disciplina di cui abbiamo bisogno per essere morali ci permetterà anche di avere successo, grazie alla responsabilità individuale e alla ricerca dell’interesse personale. Se ci sono opportunità, responsabilità individuale e disciplina, la ricerca dell’interesse personale consentirà a tutti di raggiungere il benessere. Dobson aveva le idee piuttosto chiare. Il legame tra il modello del padre severo e il capitalismo del libero mercato consiste nel valore morale dell’interesse personale. La sua altro non è che una versione conservatrice del capitalismo di Adam Smith, secondo cui se ognuno persegue il proprio profitto, la mano invisibile della natura aiuterà a massimizzare il profitto di tutti. Datti da fare per perseguire il tuo profitto personale e aiuterai tutti gli altri. Questo concetto si ricollega più in generale a una metafora che fa coincidere la felicità con la prosperità. Quando facciamo un favore a qualcuno, ad esempio, quello ci risponde: «Te ne devo una» o «Ti sono debitore». Come se fargli del bene equivalesse metaforicamente a dargli del denaro. L’altro sentirà di doverci qualcosa, al punto da dirci: «Come posso sdebitarmi?». Proviamo ad applicare questa metafora alla «legge di natura» di Adam Smith: se ognuno di noi perseguisse il proprio profitto personale, la mano invisibile della natura accrescerebbe il profitto di tutti. Questo significa che perseguire il proprio profitto è morale. Chi non lo fa è soltanto un pietoso benefattore, ovvero qualcuno che cercando di aiutare gli altri anziché se stesso intralcerà la strada di coloro che perseguono il proprio interesse personale. I pietosi benefattori mandano a rotoli tutto il sistema. Il modello in questione comprende anche la definizione di cosa significhi diventare buoni. È buono – cioè morale – chiunque sia abbastanza educato da saper obbedire alla legittima autorità, distinguere il bene dal male e comportarsi di conseguenza, perseguendo il proprio interesse per avere successo e diventare indipendente. È così che cresce un bambino buono. Un bambino cattivo invece è quello che non impara la disciplina, non si comporta moralmente, non fa ciò che è giusto e non è abbastanza disciplinato per avere successo nella vita. Non è in grado di badare a se stesso, perciò dipende dagli altri. Una volta diventato adulto, il bambino che avrà imparato la

disciplina avrà successo. Da quel momento in poi il padre severo non dovrà più intromettersi nella sua vita. Sul piano politico, questa visione si traduce nel principio di non interferenza dello Stato. Pensiamo a quali sono le implicazioni sui programmi sociali. Dare alle persone quello che non si sono guadagnate da sole è considerato immorale, perché in tal modo non svilupperanno la disciplina e diventeranno dipendenti e immorali. I programmi sociali sono immorali perché rendono le persone dipendenti, così come è immorale promuovere tali programmi. Pensiamo ora a come influisce questa teoria sulla gestione del bilancio dello Stato. Se, per esempio, al Congresso ci sono molti progressisti convinti della necessità dei programmi sociali, e si è certi che tali programmi siano immorali, cosa si può fare per fermare questi individui immorali? È abbastanza facile, secondo il modello del padre severo. Basta premiare i buoni – ovvero coloro la cui prosperità è indice di disciplina e perciò di moralità – con una riduzione fiscale abbastanza poderosa da non lasciare denaro sufficiente per questi programmi. Per usare le parole del conservatore antitasse Grover Norquist, «basta affamare la bestia». Nel 2013, ad esempio, fu messo in atto il famoso sequester – un taglio indiscriminato al budget di tutte le agenzie federali – perché i repubblicani si rifiutavano di eliminare le scappatoie fiscali o di aumentare le tasse per pagare i conti pubblici. Ecco qualche esempio dei tagli che furono effettuati, come riportato da un articolo del «Washington Post» del 20 febbraio 2013: Istituti nazionali di sanità: taglio di 1,6 miliardi di dollari. Centri di prevenzione e controllo delle malattie: taglio di circa 303 milioni di dollari. Head Start, programma di sostegno alle famiglie a basso reddito con figli: taglio di oltre 400 milioni di dollari, pari a un’estromissione dai sussidi di oltre 57.000 bambini. Fondi per le grandi emergenze e le catastrofi gestiti dal Fema (Federal Emergency Management Agency): taglio di 928 milioni di dollari. Edilizia pubblica: taglio di 1,74 milioni di dollari. Food and Drug Administration (Fda), ente per la

regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici: taglio di 209 milioni di dollari. Nasa: taglio di 896 milioni di dollari. Insegnanti di sostegno: 827 milioni di dollari. Programmi per la sicurezza nucleare del dipartimento dell’Energia: taglio di 903 milioni di dollari. National Science Foundation, agenzia che sostiene la ricerca e la formazione: taglio di circa 361 milioni di dollari. Attività diplomatiche dei dipartimenti di Stato: taglio di 665 milioni di dollari. Programmi di salute mondiale: taglio di 411 milioni di dollari. Commissione per la sicurezza nucleare: taglio di 53 milioni di dollari. Commissione per i titoli e gli scambi: taglio di 74 milioni di dollari. Museo per il memoriale dell’Olocausto degli Stati Uniti: taglio di 3 milioni di dollari. Biblioteca del Congresso: taglio di 30 milioni di dollari. Ufficio brevetti e marchi: taglio di 148 milioni di dollari. Agli occhi dei conservatori questi tagli permettevano di eliminare gli «sprechi», ovvero le spese destinate ai programmi sociali «immorali». Ciò non significa che i conservatori siano contrari a tutto ciò che è statale. Per esempio non sono affatto contrari alla difesa, alla pubblica sicurezza, ai tagli e alle scappatoie fiscali, ai contributi alle grandi corporation, né sono contrari alla Suprema corte conservatrice. Sono molti gli interventi dello Stato che apprezzano, tra cui appunto i sussidi all’industria, a quei soggetti che si sono comportati bene. Nei loro riguardi non hanno nessun problema. Sono contrari invece alle forme assistenziali. Ai programmi sociali destinati alle persone (come l’educazione della prima infanzia, l’assistenza sanitaria per i poveri, il salario minimo garantito, il sussidio di disoccupazione). Per loro tutte queste misure sono sbagliate e vanno eliminate per ragioni morali. Non perché i conservatori siano un mucchio di pazzi, meschini, avidi o stupidi, come credono molti progressisti, ma – cosa se possibile ancora più grave – per principio, perché sono convinti di quello che fanno e

hanno sostenitori in tutti gli Stati Uniti. Perché sono cresciuti con il modello morale del padre severo e ora lo applicano alla politica, convinti che questo sia il miglior modo per governare il paese. Soffermiamoci a considerare cosa implica tutto ciò nell’ambito della politica estera. Supponiamo per un attimo di essere un’autorità morale. Come ci comporteremmo con i nostri figli? Chiederemmo loro cosa devono fare o cosa dovremmo fare noi? No. Saremmo noi a stabilirlo. Il bambino fa quello che dice il genitore, non discute. La comunicazione è a senso unico. La stessa cosa accade in politica estera. Il presidente degli Stati Uniti non coinvolge la diplomazia né chiede aiuto agli alleati. Il presidente ordina. Se sei un’autorità morale sai da solo che cosa è giusto. Hai il potere e lo usi. Saresti immorale se rinunciassi alla tua autorità. Il modello del padre severo spiega bene perché gli Stati Uniti non possono rinunciare alla loro sovranità. Essendo la prima potenza mondiale – e pertanto un’autorità morale –, gli Stati Uniti non devono chiedere a nessuno cosa fare. Sono liberi di usare il loro potere militare. A questa convinzione è legata una serie di metafore che governano la politica estera americana da diverso tempo. Una metafora molto comune, che si insegna nelle scuole di specializzazione in relazioni internazionali, è la cosiddetta metafora dell’attore razionale. Tale metafora è alla base della teoria classica «realista» delle relazioni internazionali e, a sua volta, presuppone un’altra metafora secondo cui ogni nazione è una persona. Pertanto ci sono «Stati canaglia», «Stati amici» e così via. Ed esiste un interesse nazionale. Secondo la metafora dell’attore razionale, sarebbe irrazionale che una nazione agisse contro il proprio interesse. Secondo la metafora per cui ogni nazione è una persona, agire per il proprio interesse personale significa mantenersi in salute (intesa come salute economica e quantificata da un Pil elevato) e in forze (intese come forze militari). Non è necessario che tutti gli abitanti del paese siano in salute, l’importante è che lo siano l’industria e le finanze. Sempre in base alla metafora delle nazioni intese come persone («nazioni amiche», «nazioni canaglia», «nazioni nemiche» e così via),

esistono nazioni adulte e nazioni bambine (dove l’età adulta corrisponde all’industrializzazione). Le nazioni bambine sono dette «in via di sviluppo» o «sottosviluppate» e, secondo questa teoria, equivalgono a nazioni arretrate. Dobbiamo comportarci con loro come padri severi, ovvero spiegare loro come fare a crescere, quali regole seguire, e punirle quando sbagliano. Per esempio attuando le politiche del Fondo monetario internazionale. La maggior parte dei paesi aderenti alle Nazioni Unite sono in via di sviluppo o sottosviluppati. Questo vuol dire che metaforicamente sono dei bambini. Ecco allora che si spiega il discorso di Bush sullo stato dell’Unione del 2004. Gli Stati Uniti avrebbero dovuto chiedere all’Onu il permesso per invadere l’Iraq? Giammai, un adulto non ha bisogno di chiedere il «permesso scritto». L’espressione stessa «permesso scritto» ci riporta indietro ai tempi della scuola, quando c’era appunto bisogno di avere il consenso esplicito dei genitori per fare qualsiasi cosa. Ma non ne abbiamo più bisogno se siamo i professori, il preside, coloro che comandano, l’autorità morale. Adesso sono gli altri a doverci chiedere l’autorizzazione. Era questo il messaggio che sottintendeva quel discorso di Bush del 2004. Per i conservatori fu subito chiaro. Poche parole potenti – «permesso scritto» – bastarono al presidente per evocare la metafora «nazioni adulte-nazioni bambine». Era come dire: «Gli adulti siamo noi». Bush aveva assunto il ruolo del padre severo e non c’era bisogno di spiegare nient’altro. La metafora era stata automaticamente evocata. Ecco come procedono abitualmente i conservatori. A questo si aggiunge la loro idea di gerarchia morale. Come abbiamo già detto, i benestanti e tutte le persone in grado di badare a se stesse sono considerati dai conservatori moralmente più probi dei poveri e di coloro che hanno bisogno di aiuto. Ma nella visione conservatrice la superiorità morale ha implicazioni più ampie. L’idea di base è che debba comandare chi è moralmente più valido, che in un mondo ordinato correttamente (ovvero ordinato da Dio) equivale a dire le persone che hanno saputo arrivare in cima. La gerarchia è la seguente: Dio al di sopra dell’uomo, l’uomo al di sopra della natura, gli adulti al di sopra dei bambini, la cultura occidentale al di sopra delle culture non occidentali, il nostro paese al di sopra di tutti gli altri paesi. Sono questi i valori generali dei conservatori. Ma la gerarchia si

estende ancora più nello specifico, spiegando le idee oppressive dei conservatori più radicali: gli uomini al di sopra delle donne, i cristiani al di sopra dei non cristiani, i bianchi al di sopra dei non bianchi, gli eterosessuali al di sopra degli omosessuali. Ecco perché in diversi Stati del Sud i bambini disobbedienti possono essere sculacciati dagli insegnanti, le donne che vogliono abortire devono sottoporsi a procedure mediche umilianti (con tanto di permessi scritti rilasciati da mariti e padri), afroamericani e ispanici sono privati del loro diritto di voto e vengono varate leggi contro i matrimoni gay. In breve, la gerarchia morale è parte implicita delle guerre culturali. Passiamo ora ad analizzare il sistema morale dei progressisti e il loro concetto di moralità. Anch’esso deriva da un modello di famiglia, che ho chiamato modello del genitore premuroso. Se la teoria del padre severo si chiama così perché si basa sulla convinzione che il padre sia il capo della famiglia, la teoria del genitore premuroso è invece di genere neutro, perché si basa sul presupposto che entrambi i genitori siano ugualmente responsabili dell’educazione dei figli e che i bambini nascano buoni ma possano essere resi migliori. Anche il mondo è un posto migliorabile ed è nostro dovere impegnarci a questo scopo. Compito dei genitori è prendersi cura dei propri figli e educarli a prendersi cura del prossimo. La cura implica tre cose: empatia, responsabilità nei confronti di se stessi e degli altri, impegno a fare del proprio meglio non solo per il proprio interesse ma anche per quello della propria famiglia, della propria comunità, del proprio paese e del mondo. Chi ha un bambino deve imparare a interpretare ogni suo pianto: saper riconoscere quando ha fame, quando deve essere cambiato e quando ha fatto un incubo. E soprattutto ha una responsabilità: prendersene cura. Il che implica che si prenda cura prima di tutto di se stesso, poiché non possiamo prenderci cura di qualcun altro se prima non ci prendiamo cura di noi stessi. Non è un’impresa semplice. Chiunque abbia un figlio sa bene quanto sia difficile. Quanta forza, quanto impegno e quante competenze siano necessari. Dall’empatia, dalla responsabilità per se stessi e per gli altri e dall’impegno a migliorarsi discendono tutta una serie di altri valori. In primo luogo, chi ha a cuore il bene dei propri figli cerca di

proteggerli. In politica questo atteggiamento trova diverse applicazioni. Da cosa proteggiamo i nostri figli? Da droga e criminalità, certo. Ma anche dalle automobili senza cinture di sicurezza, dal fumo, dagli additivi tossici negli alimenti. In politica le priorità dei progressisti sono la protezione ambientale, quella dei lavoratori, dei consumatori, quella sanitaria. Ed è questo il genere di protezione che l’elettorato progressista vuole ricevere dal proprio governo. Tra i pericoli ci sono anche gli attacchi terroristici, tuttavia i democratici non sono stati capaci di includerli nel discorso sulla protezione che i cittadini richiedono allo Stato. La protezione è un tema fondamentale del sistema di valori progressista, eppure non è stato sufficientemente approfondito. L’11 settembre 2001 i progressisti non hanno avuto granché da dire, ma la loro è stata una scelta infelice perché, proprio come i genitori, dovrebbero avere a cuore il tema della sicurezza. Si tratta di un valore fondamentale del nostro sistema morale. In secondo luogo, chi tiene ai propri figli, vuole che siano felici e soddisfatti della loro vita. Ma chi è infelice e insoddisfatto non desidera il bene dell’altro, come insegna anche il Dalai Lama. Pertanto è nostra responsabilità morale essere felici e realizzati. Così come è nostra responsabilità morale insegnare ai nostri bambini a essere persone felici, soddisfatte e desiderose della realizzazione e felicità altrui. È un aspetto fondamentale nel modello educativo del genitore premuroso. E un presupposto per poter prendersi cura degli altri. Il modello del genitore premuroso ha il seguente corollario di valori: Libertà: se vogliamo che i nostri figli siano soddisfatti della loro vita, dobbiamo lasciarli liberi di cercare da soli la propria realizzazione. Opportunità e benessere: non c’è vera e propria libertà senza opportunità o benessere. Equità: se teniamo davvero ai nostri figli, vogliamo che siano trattati equamente da noi e dagli altri. Dialogo: se vogliamo essere in sintonia con i nostri figli e comprenderli bene dobbiamo instaurare con loro un dialogo aperto e reciproco. Senso di comunità, collaborazione, solidarietà: viviamo in

una comunità e questa influirà sulla crescita dei nostri figli. Da qui l’importanza di valori come la costruzione del senso di comunità, la collaborazione e il sostegno reciproco. Fiducia, trasparenza, dialogo: alla base della collaborazione c’è la fiducia, e alla base della fiducia ci sono trasparenza e dialogo. Ecco altri tre valori progressisti fondamentali per una comunità, così come per una famiglia. Sono questi i valori educativi del modello del genitore premuroso. Ogni progressista li riconosce come propri. Ogni programma politico progressista si basa su almeno uno di questi valori. In essi è contenuto tutto ciò che significa essere progressisti. Esistono diverse tipologie di progressisti. Quante per l’esattezza? Me lo chiedo da scienziato cognitivo, non da sociologo o politologo. In qualità di cognitivista interessato ai modi di pensiero, ho individuato sei tipi fondamentali di progressisti, ognuno contraddistinto da una diversa impostazione di pensiero. Tutti condividono i valori progressisti, ma si distinguono per alcune differenze: I progressisti socioeconomici pensano che tutto abbia a che fare con il denaro e la classe sociale e che perciò ogni soluzione possa essere soltanto di natura economica e sociale. I progressisti identitari ritengono prioritario veder riconosciuti finalmente i diritti del loro gruppo oppresso. Gli ambientalisti ragionano in termini di sacralità e sostenibilità del pianeta e di difesa dei popoli nativi. Sostengono che il riscaldamento globale sia la principale sfida del nostro tempo e che qualsiasi altro problema impallidisca al confronto. Per i sostenitori delle libertà civili la cosa più importante è difendere queste libertà da ogni tipo di minaccia. I progressisti spirituali possiedono una forma altruistica di spiritualità o di religione. La loro esperienza spirituale è collegata alla relazione con gli altri e con il mondo, così come la loro pratica spirituale consiste nel servizio al prossimo e alla comunità. I progressisti spirituali abbracciano l’intera gamma di realtà religiose: cattolica, protestante, ebrea, musulmana, buddhista, fino agli adoratori della Dea Madre e ai pagani della setta di Wicca. Per gli antiautoritari la priorità è combattere ogni forma

illegittima di autorità esistente, che sia quella delle grandi industrie o di qualsiasi altra entità. Questi sei tipi di progressisti corrispondono ad altrettanti esempi di etica del genitore premuroso. Il problema è che la maggior parte delle persone che condividono uno di questi modi di pensiero non riconosce che la loro è soltanto una particolare variante di un più generale sistema di valori e non riesce a percepire l’unità di pensiero che accomuna le varie componenti progressiste. Spesso sono convinti che il loro sia l’unico modo per essere un autentico progressista. Peccato, perché ciò impedisce ai cittadini che condividono i valori progressisti di unirsi. Bisogna superare questo limite nefasto. I conservatori lo hanno fatto. Almeno fino a quando non è sopraggiunto il Tea Party. Negli anni Cinquanta i conservatori si odiavano tutti tra di loro. I conservatori finanziari odiavano i conservatori sociali. Questi non andavano d’accordo con i libertari che, a loro volta, dissentivano dai conservatori religiosi. Infine molti conservatori sociali non erano religiosi. Un gruppo di leader conservatori si riunì intorno a William F. Buckley Jr., cominciò a chiedersi cosa avessero in comune le diverse componenti e se riuscissero a conciliare le loro divergenze in nome di una più generale causa conservatrice. Investirono milioni di dollari, fondarono riviste e istituti di ricerca. La prima cosa che ottennero, la loro prima vittoria, fu la nomina di Barry Goldwater come candidato per le presidenziali del 1964. Persero le elezioni ma, dopo la sconfitta, si rimisero intorno a un tavolo investendo ancora più soldi nelle loro attività. Durante la guerra del Vietnam notarono che molti dei giovani più brillanti e intelligenti del paese non erano conservatori. «Conservatore» era quasi una parolaccia. Pertanto, nel 1970, proprio prima di essere nominato da Nixon giudice della Corte suprema (all’epoca era primo consigliere della Camera di commercio americana), Lewis Powell redasse un memorandum. Un documento davvero decisivo, in cui sosteneva che i conservatori dovevano impegnarsi per evitare che i migliori giovani del paese diventassero anti-business. Quello che dobbiamo fare, scriveva Powell, è fondare istituti dentro e fuori le università, scrivere libri, occuparci della ricerca, sovvenzionare cattedre universitarie per insegnare a questi

ragazzi il giusto modo di pensare. Dopo l’insediamento di Powell alla Corte suprema, queste idee furono riprese da William Simon, ministro del Tesoro di Nixon. Simon convinse alcune ricchissime famiglie di conservatori – come i Coors, gli Scaife e gli Olin – a fondare la Heritage Foundation, le cattedre Olin, l’Olin Institute a Harvard e altre realtà simili. Questi istituti hanno svolto il loro compito davvero efficacemente. Le persone che hanno lavorato per loro hanno pubblicato molti più libri di quelle che hanno lavorato per la sinistra, su ogni genere di argomento. I conservatori sostengono i loro intellettuali. Creano loro occasioni mediatiche. Hanno studi televisivi all’interno dei loro istituti, quindi facile accesso al grande pubblico. Se confrontiamo il denaro che la destra spende in ricerca in un dato periodo con la presenza televisiva dei suoi esponenti nel medesimo arco di tempo, noteremo una stretta correlazione. I finanziatori della destra, come ad esempio i miliardari fratelli Koch, riversano fiumi di denaro nelle campagne elettorali. Non è certo un caso. Grazie ai loro strateghi, i conservatori hanno ben compreso l’importanza dei frame e come utilizzarli nei vari ambiti. Inoltre hanno capito come diffonderli e come assicurare una presenza costante dei loro rappresentanti in televisione. Hanno creato appositi istituti di formazione. Ogni anno il Leadership Institute in Virginia forma decine di migliaia di conservatori e organizza continui programmi di aggiornamento in tutti gli Stati Uniti e in ben quindici paesi stranieri. Portavoce qualificati (regolarmente istruiti sugli argomenti di discussione dai rappresentanti conservatori) sono ingaggiati dalle agenzie che si occupano di trovare ospiti per radio, tv e altre sedi. I conservatori hanno capito come restare uniti. Ogni mercoledì Grover Norquist riunisce vari leader conservatori – circa un’ottantina di persone – di varia appartenenza ideologica. Si incontrano e discutono tutti insieme. Cercano di comprendere le divergenze, si impegnano per superarle barattando accordi e compromessi e, quando una convergenza è impossibile, cedono. L’idea di base è: questa settimana ha vinto lui con la proposta a cui teneva, la settimana prossima vincerò io con la mia. Probabilmente nessuno otterrà tutto quello che voleva, ma alla lunga tutti ne otterranno almeno una parte. Gli incontri vanno avanti da due decenni e, negli ultimi anni, i

mercoledì mattina di Norquist si sono estesi a quarantotto Stati. Grazie all’American Legislative Exchange Council (Alec), il Consiglio legislativo americano di scambio,4 i conservatori sono cresciuti a livello federale, conquistando le assemblee legislative di molti Stati, ridisegnando i distretti elettorali e prendendo il potere della Camera dei rappresentanti pur avendo ricevuto meno voti a livello nazionale. Solo in seguito al trionfo di Obama, nel 2008, il movimento radicale del Tea Party si è separato da una formazione conservatrice fino a quel momento unitaria. Ciò nonostante i progressisti non ce l’hanno fatta a recuperare. Ma ciò che è peggio continuano imperterriti a credere in tutta una serie di miti, di eccellente provenienza, per carità, ma che hanno finito con il danneggiarli gravemente. Il primo fra questi, sorto con l’Illuminismo, recita: la verità rende liberi; gli uomini sono esseri razionali, è sufficiente illustrare loro i fatti perché traggano le giuste conclusioni. Ma le scienze cognitive ci hanno dimostrato che gli individui non ragionano così. Ragionano tramite frame. Gli schemi mentali del padre severo e del genitore premuroso ci tengono ancorati a una certa logica. Qualsiasi verità, per essere accolta, deve rientrare in quei frame, in quegli schemi mentali. Se questo non succede, i fatti rimbalzano fuori dalla nostra mente, mentre i frame restano immutati. Perché? Le neuroscienze ci insegnano che tutti i nostri concetti – i concetti a lungo termine che strutturano il nostro pensiero – sono impressi nelle sinapsi del nostro cervello. I concetti non sono realtà che si modificano semplicemente perché qualcuno ci racconta un fatto. Possiamo anche venire a conoscenza dei fatti, ma se questi non corrispondono alle strutture concettuali presenti nel nostro cervello, ci sfuggono senza che riusciamo a interpretarli. Non li ascoltiamo, non li accettiamo come fatti, ci confondono, non ne comprendiamo il senso, finiamo con l’etichettarli come dati irrazionali, insensati o di nessuna importanza. È questo che succede quando i progressisti «mettono i conservatori di fronte ai fatti». I fatti esposti dai progressisti non producono quasi alcun effetto nei conservatori, se questi non possiedono gli schemi in grado di interpretarli. Viceversa molti progressisti non capiscono quello che dicono i conservatori perché non condividono gli stessi frame. Non comprendendoli, danno per

scontato che siano stupidi. Ma non sono affatto stupidi. Anzi, hanno la meglio perché sono svegli, capiscono bene come ragiona e parla la gente, e soprattutto pensano. A questo servono i loro think tank. A sostenere i loro intellettuali, a pubblicare i loro libri e a diffondere le loro idee. Certo, ci sono stati casi in cui i conservatori hanno mentito. Non sono stati gli unici, ma bisogna ammettere che l’amministrazione Bush ha diffuso gravi menzogne, anche su base quotidiana. Ma è altrettanto importante riconoscere che molte idee che indignano i progressisti, per i conservatori sono pura verità, anche se ovviamente dal loro punto di vista. Dobbiamo distinguere i casi di totale distorsione della realtà o palese menzogna da quelli in cui i conservatori presentano la verità dal loro punto di vista. È utile smascherare di fronte all’opinione pubblica le loro bugie? Certamente non è né inutile né dannoso saper riconoscere quando mentono, ma dobbiamo tenere a mente che la verità, da sola, non rende liberi. I dati scientifici sul riscaldamento globale sono diffusi quotidianamente negli Stati Uniti, ma i cervelli sordi dei conservatori li ignorano, perché i loro frame sono inadeguati a quelle verità. Sempre dall’Illuminismo proviene un altro mito secondo cui, poiché è irrazionale agire contro il proprio interesse, ogni persona normale ragionerà a favore del proprio interesse personale. Si basano su questo presupposto le teorie economiche e di politica estera moderne. E nonostante sia stato messo in discussione da cognitivisti del calibro di Daniel Kahneman (che grazie alle sue teorie è stato insignito del premio Nobel) e Amos Tversky, i quali hanno dimostrato che le persone non ragionano davvero così, buona parte dell’economia si fonda ancora sull’assunto che la gente pensi sempre in funzione del proprio interesse personale. Questa visione della razionalità influenza significativamente la politica democratica. Presupponendo che tutti votino per il proprio interesse, i democratici sono confusi e turbati quando constatano che alcuni elettori non si comportano così: «Com’è possibile» continuano a domandarsi «che i poveri votino per i repubblicani quando è proprio la politica repubblicana a danneggiarli maggiormente?». Per tutta risposta i democratici si affannano a ripetere ai meno abbienti che

dovrebbero votare democratico per tutelare i propri interessi. Sebbene la fallacia di questa strategia sia ormai evidente, i progressisti non fanno che sbattere la testa sempre contro lo stesso muro. Durante la campagna elettorale del 2012, i democratici avevano avvertito l’elettorato che la politica di Mitt Romney avrebbe giovato soltanto ai ricchi. Eppure molti poveri tornarono a votare repubblicano contro il proprio interesse, benché fossero state diffuse le registrazioni di alcune dichiarazioni poco piacevoli di Romney riguardo ai poveri. A quanto pare circa un terzo degli americani pensa di far parte (o crede di poterlo fare prima o poi) dell’uno per cento di popolazione ricchissima e pertanto vota in base a un interesse personale auspicato. Ma cosa dire degli altri due terzi di americani che non nutrono sogni di super ricchezza? Non si può dire che votino per il proprio bene, né presente né futuro. Il punto è che le persone non votano necessariamente per il proprio interesse. Votano secondo la propria identità. Votano secondo i propri valori. Votano per la persona con cui si identificano maggiormente. Può capitare che i loro valori coincidano con l’interesse personale, certo. Non è che ai cittadini non importi affatto il proprio interesse. Ma votano prima di tutto secondo la propria identità. Se poi questa si accorda con i loro interessi personali, tanto meglio. È importante capire questo passaggio. È un grave errore dare per scontato che la gente voti sempre e soltanto per il proprio interesse. I progressisti incorrono in un terzo errore. Consideriamo la metafora per cui le campagne politiche funzionerebbero come campagne pubblicitarie. Il candidato è il prodotto da vendere e le posizioni del candidato sui vari argomenti sono le caratteristiche e le qualità del prodotto stesso. In base ai risultati dei sondaggi il candidato sceglie quali posizioni portare avanti. Su quali temi ha ottenuto il maggior consenso? Se lo ha ottenuto sulla lotta alla droga, il candidato porterà avanti un programma che include la lotta alla droga. Se invece lo ha ottenuto sulla sicurezza sociale, allora porterà avanti un programma che include la sicurezza sociale. Gli argomenti più gettonati costituiranno i cavalli di battaglia della sua campagna. Dopodiché si effettua una segmentazione del mercato: si individuano i temi più importanti circoscrizione per circoscrizione, in modo tale da

farli sfoderare al candidato in modo mirato durante le visite elettorali. In realtà non funziona così. A volte questo sistema è utile, infatti i repubblicani lo usano, ma solo in abbinamento al loro vero metodo, che consiste nel dire ciò in cui credono. È questa la vera ragione del loro successo. I repubblicani parlano alla base utilizzando gli schemi mentali (i frame) della loro base. I candidati progressisti e democratici tendono a seguire i sondaggi per decidere se diventare più «centristi», se spostarsi più a destra. I conservatori, invece, non si spostano mai a sinistra, eppure vincono. Perché? Com’è composto l’elettorato da un punto di vista cognitivo? Probabilmente in circa il 35-40 per cento degli elettori è prevalente il modello politico del padre severo. In un altro 35-40 per cento il modello politico del genitore premuroso. La restante percentuale si colloca nel «mezzo» tra le due tendenze. Ma non c’è un’ideologia del «mezzo». Non esistono sistemi morali o posizioni politiche che definiscano il «mezzo». Gli elettori che stanno nel «mezzo» sono fondamentalmente biconcettuali: sono conservatori riguardo ad alcuni problemi e progressisti riguardo ad altri, senza un discrimine preciso. Notate bene che ho detto «è prevalente». Tutti noi possediamo entrambi i modelli, attivamente o passivamente. Se i progressisti guardano un film di John Wayne o di Arnold Schwarzenegger, lo comprendono. Non dicono: «Non capisco proprio cosa succeda in questo film». Possiedono il modello del padre severo, almeno come conoscenza passiva. Allo stesso modo, se un conservatore comprende Oprah Winfrey è perché possiede il modello del genitore premuroso, perlomeno a livello passivo. Ognuno di noi possiede entrambe le visioni del mondo, perché entrambi i sistemi sono ampiamente presenti nella nostra cultura, e non è detto che manterremo la medesima visione per tutta la vita o in tutte le situazioni. Non basta chiedersi secondo quale di questi due modelli viviamo, perché gli ambiti dell’esistenza umana sono molteplici e molte persone applicano modelli diversi ad ambiti diversi. Alcuni miei colleghi sono genitori premurosi in famiglia e democratici in politica, ma padri severi dietro la cattedra. Reagan sapeva bene che gli operai che erano genitori premurosi nella loro politica sindacale spesso erano padri severi in famiglia. E utilizzava metafore politiche basate su casa e

famiglia per cercare di estendere la loro forma mentis di padri severi dal piano domestico a quello politico. È un punto davvero importante da comprendere. L’obiettivo dei due schieramenti è attivare il proprio modello politico in quelle persone che stanno nel «mezzo». Queste ultime possiedono entrambi i modelli e li usano regolarmente nei vari contesti della loro quotidianità. Se vogliamo portarle a usare il nostro modello in politica, ad attivare la nostra visione del mondo e il nostro sistema morale nelle loro decisioni politiche, dobbiamo parlare a quelle persone utilizzando gli schemi mentali (o frame) che corrispondono alla loro visione del mondo. Sfruttando il fatto che possiedono e usano entrambi i modelli, dobbiamo portarle dalla nostra parte senza offenderle. Clinton risolse il problema appropriandosi del linguaggio dell’avversario. Così ad esempio parlava di «riforma del welfare» o usava espressioni come: «È finita l’epoca dei grandi interventi statali». Portava avanti le sue politiche, ma usando le parole e il linguaggio dei conservatori, facendo saltare gli schemi. Lo stesso linguaggio può andar bene per gli uni e per gli altri. Tant’è che con George W. Bush si arrivò a parlare di «conservatorismo compassionevole», dell’operazione «Cieli puliti», delle «Foreste in salute» e della campagna «Nessun bambino resti indietro». Tutte espressioni che avevano lo scopo di indorare agli elettori in possesso del modello del genitore premuroso una politica del padre severo. Con questo metodo si possono portare dalla propria parte anche gli indecisi del «mezzo» che potrebbero ancora nutrire qualche riserva. Si usa il linguaggio orwelliano – ovvero il linguaggio che significa l’opposto di quello che dice – per tranquillizzare l’elettorato del mezzo e contemporaneamente motivare la base. Una strategia a cui i conservatori ricorrono ampiamente, ma alla quale in genere progressisti e democratici reagiscono in modo controproducente. La reazione più consueta è: «Questi conservatori sono proprio brutta gente. Usano il linguaggio orwelliano, dicono l’opposto di quello che pensano. Sono degli imbroglioni. Davvero dei poco di buono!». Tutto vero. Ma dobbiamo riconoscere che utilizzano il linguaggio orwelliano in situazioni ben precise: nei momenti di debolezza e quando non possono dire quello che hanno davvero in mente.

Immaginatevi se venissero a parlarci della proposta di legge «Cieli sporchi» o di «Distruggiamo le foreste» o «Uccidiamo la scuola pubblica». Fallirebbero subito. Sanno bene che la gente non appoggerebbe le loro vere intenzioni. Il linguaggio orwelliano è indice di debolezza, di debolezza orwelliana. Facciamo caso agli ambiti in cui viene usato, perché è lì che si annida la debolezza dei conservatori. Non lo utilizzano sempre. È importante saperlo riconoscere per comprendere i loro punti deboli e sfruttarli a nostro vantaggio. Un ottimo esempio è la strategia comunicativa per il piano ambientale ideata qualche anno fa da Frank Luntz. Luntz è il guru del linguaggio per tutto il mondo dei conservatori americani. È autore di molti libri che insegnano a utilizzare il linguaggio e i suoi testi sono usati come manuali per formare i candidati conservatori, ma anche gli avvocati, i giudici e altre figure, compresi gli studenti delle scuole superiori che sognano di fare carriera nella destra conservatrice. Nei suoi libri Luntz insegna a tutti i conservatori quale tipo di linguaggio impiegare per avere successo. È stato lui a convincere i conservatori a smettere di parlare di «riscaldamento globale» perché suonava un po’ inquietante e implicava la responsabilità di tutti. Al suo posto, ha introdotto nel discorso pubblico l’espressione «cambiamento climatico», supponendo che la parola «clima» evochi qualcosa di più piacevole (ad esempio le palme) e che il cambiamento sia avvenuto senza la responsabilità degli esseri umani. Quando, a partire dal 2003, il consenso scientifico cominciò a confutare fortemente le posizioni dei conservatori sull’ambiente, Luntz propose di passare al linguaggio orwelliano. Suggerì di utilizzare parole come «sano», «pulito» e «sicuro» anche quando si parlava di carbone o di centrali nucleari. Da qui l’uso di espressioni come «carbone pulito» o del nome «Cieli puliti» attribuito a una legge che ha causato un peggioramento dell’inquinamento. Luntz continua ancora oggi a sconsigliare l’uso di «riscaldamento globale», sostenendo che la comunità scientifica è divisa in merito e che l’economia statunitense non può essere frenata. Di recente il suo gruppo di ricerca si è dichiarato a favore della legge Cap-and-Trade per la riduzione delle emissioni. Ha suggerito di insistere

sull’«indipendenza energetica», che sostiene l’uso continuativo della fratturazione idraulica della roccia (fracking) per aumentare la produzione di idrocarburi, ma ha sconsigliato di parlare di salvaguardia del pianeta. In precedenza Luntz aveva anche scritto un promemoria su come rivolgersi alle donne in cui sosteneva che, poiché alle donne piacciono determinate parole, quando ci si rivolge a un pubblico femminile bisognerebbe utilizzare il più possibile espressioni come «amore», «con il cuore» e «per i bambini». Non è un caso che i discorsi di George W. Bush di quel periodo fossero infarciti di espressioni del genere. Questo uso funzionale della lingua è una scienza a tutti gli effetti, e come tutte le scienze ha applicazioni più o meno legittime. Inoltre, in quanto disciplina, può essere insegnata. I conservatori lo fanno. In molti uffici c’è un «fondo pizza» in cui chi usa un linguaggio sbagliato deve versare un quarto di dollaro. È così che si impara velocemente a parlare di «sgravi fiscali» o di «aborto a nascita parziale» e a non utilizzare altre espressioni. Ma Luntz non si occupa soltanto di linguaggio. Sa bene che un linguaggio corretto parte da idee corrette, da un corretto inquadramento del problema, ovvero da un framing che rifletta una prospettiva conservatrice (quella che abbiamo chiamato la morale del padre severo). Per questo le teorie di Luntz non riguardano soltanto il linguaggio. Per ogni questione Luntz prende in esame il ragionamento conservatore, poi quello progressista, e valuta in che modo le argomentazioni progressiste possano essere demolite da una prospettiva conservatrice. Lo dice chiaramente: le idee vengono prima di tutto. Uno dei principali errori dei democratici è nell’essere convinti di possedere tutte le idee di cui hanno bisogno e che a mancare sia solo un adeguato accesso ai mezzi d’informazione. O magari qualche frase a effetto, l’equivalente democratico di «aborto a nascita parziale». Ma ciò che manca non sono solo le parole, bensì le idee, che si manifestano sotto forma di frame. Quando abbiamo i frame, le parole vengono da sole. Esiste un modo per capire quando ci mancano i frame giusti. Avete notato che per esprimere un concetto in tv un conservatore usa due parole, per esempio «sgravi fiscali»? Un

progressista, invece, per esprimere la propria opinione sullo stesso concetto si lancia in una lunga disquisizione. Questo perché il conservatore si appella a un frame consolidato – ovvero che le tasse sono un supplizio o un peso – richiamato subito dalle due paroline «sgravi fiscali». Mentre il progressista non ha frame consolidati. Per lui qualsiasi concetto richiede una lunga esposizione, perché i suoi ascoltatori non hanno un frame prestabilito o un’idea già pronta a cui fare riferimento. Le scienze cognitive hanno dato un nome ben preciso a questo fenomeno: ipocognizione, ovvero mancanza di idee, mancanza di un frame relativamente semplice che possa essere evocato con una o due parole. Il concetto di ipocognizione nasce da uno studio compiuto a Tahiti negli anni Cinquanta da Bob Levy, un antropologo che era anche uno psicologo. Levy si chiedeva come mai ci fossero così tanti suicidi a Tahiti e scoprì che i tahitiani non avevano il concetto di dolore emotivo. Lo provavano. Ne avevano esperienza. Ma non avevano un concetto né un nome per designare tale esperienza. Non la consideravano un’emozione normale. Non c’erano rituali collegati al dolore, né sostegno né altro. Mancava loro quel concetto indispensabile. E questo spesso li spingeva al suicidio. I progressisti sono affetti da una grave forma di ipocognizione. Ne hanno sofferto anche i conservatori. Quando nel 1964 Goldwater fu sconfitto, per esempio, i conservatori avevano ben pochi concetti rispetto a oggi.5 La differenza è che nei successivi cinquant’anni gli strateghi conservatori hanno colmato tutte le loro lacune concettuali. Quelle dei progressisti invece sono rimaste tali. Torniamo agli sgravi fiscali. Cosa sono le tasse? Le tasse sono quanto ci spetta pagare per vivere in un paese civile, ovvero per poter avere democrazia e opportunità, e per usufruire delle infrastrutture finanziate dai contribuenti che ci hanno preceduto: della rete stradale, di internet, della ricerca scientifica, di quella medica, del trasporto aereo e del sistema di comunicazioni. Tutti servizi che sono stati pagati e continuano a essere pagati dai contribuenti. Metaforicamente si può pensare alle tasse almeno in due modi. Innanzitutto come a un investimento. Immaginiamo questo spot

pubblicitario: Pagando le tasse, i nostri genitori hanno fatto un investimento per il futuro, per il loro e per il nostro. Hanno investito i loro soldi nella rete autostradale, in internet, nella ricerca medica e scientifica, nel sistema delle comunicazioni, nel trasporto aereo e nei programmi spaziali. Hanno investito nel futuro, e noi stiamo raccogliendo i frutti delle tasse che loro hanno pagato. Oggi disponiamo di servizi – autostrade, scuole, università, internet, linee aeree – resi possibili grazie al saggio investimento compiuto dai nostri genitori.

Se una versione di questo spot venisse trasmessa e ripetuta per anni, prima o poi ne deriverebbe un frame ben chiaro: le tasse sono un saggio investimento per il futuro. Oppure consideriamo quest’altra metafora: Pagare le tasse significa fare il proprio dovere, versare la quota di iscrizione per vivere negli Stati Uniti. Se ci iscriviamo a un club o a un circolo qualsiasi paghiamo una quota di iscrizione. Perché? Perché non siamo stati noi a costruire la piscina. E dobbiamo pagarne la manutenzione. Non abbiamo costruito noi il campo da baseball. E qualcuno deve pulirlo. Forse non usiamo il campo da squash, ma comunque dobbiamo pagare la nostra parte. Altrimenti nessuno farà la manutenzione e il circolo andrà in rovina. Quelli che evadono le tasse, come le società che si trasferiscono alle Bermude, non pagano quello che devono al loro paese. Chi paga le tasse è un patriota. Chi le evade e manda in rovina il suo paese è un traditore.

Bill Gates senior riuscì forse a spiegarlo ancora meglio. Sostenendo l’importanza di mantenere la tassa di successione, fece notare che né lui né suo figlio Bill junior avevano inventato la rete internet. L’avevano soltanto usata, ricavandone miliardi e miliardi di dollari. Non esistono uomini che si fanno da sé. Per arricchirsi qualunque imprenditore americano ha attinto all’enorme patrimonio delle infrastrutture statunitensi (creato con le tasse dei contribuenti). Non ha accumulato denaro da solo, ma grazie alle infrastrutture sovvenzionate dai contribuenti. In altre parole è diventato ricco grazie al denaro che altre persone hanno investito per costruire il sistema bancario, la Federal Reserve, i dipartimenti del Tesoro e del Commercio e il sistema giudiziario (che in nove casi su dieci si occupa proprio di problemi legali relativi all’industria). Sono gli investimenti dei contribuenti a foraggiare le aziende e i ricchi investitori. Non esistono i self-made men! I ricchi sono diventati tali utilizzando i servizi sovvenzionati da altri. Devono il loro successo ai contribuenti americani e, pertanto, dovrebbero sdebitarsi con loro. Queste sono due maniere corrette di intendere le tasse, sebbene

non siano ancora ben radicate nel nostro cervello. Andrebbero ripetute in continuazione, e poi perfezionate fino a fissarle definitivamente nelle nostre sinapsi. Ma sono processi che richiedono tempo, non si realizzano da un giorno all’altro. Per questo bisogna cominciare subito. Non è un caso che i conservatori vincano negli ambiti in cui sono riusciti a creare dei frame efficaci. Hanno un vantaggio di circa quaranta-cinquant’anni, più di due miliardi di dollari investiti in strategie di comunicazione. E continuano a elaborarne di nuove. I progressisti no. I progressisti si sentono così aggrediti dai conservatori che non possono pensare ad altro che a difendersi. I personaggi pubblici democratici sono continuamente sotto attacco. Ogni giorno devono rispondere a qualche iniziativa dei conservatori: «Contro cosa dobbiamo combattere oggi?». Tutto ciò ovviamente li spinge a una politica reattiva, e non propositiva. Questo non riguarda soltanto i politici. Ho parlato con diversi gruppi di attivisti in tutto il paese, ho lavorato con loro e ho provato ad aiutarli a elaborare frame adeguati alle questioni più importanti. L’ho fatto con più di quattrocento gruppi di attivisti. Ebbene, hanno tutti gli stessi problemi: sono continuamente sotto attacco e non fanno altro che cercare di difendersi dalla prossima offensiva. Non hanno tempo per pianificare una propria strategia. Non hanno tempo per fare progetti a lungo termine. Non hanno tempo per pensare al di là dei problemi contingenti. Sono tutte bravissime persone, intelligenti, impegnate, ma sono costantemente sulla difensiva. Il perché è facile da spiegare se pensiamo al problema dei finanziamenti. Gli istituti di ricerca di destra godono di enormi sovvenzioni e di finanziamenti a fondo perduto. Parliamo di milioni di dollari alla volta. Insomma, dispongono di fondi ingenti. Inoltre hanno la certezza di poterne disporre anche l’anno prossimo e quello dopo ancora. E, notate bene, parliamo di finanziamenti a fondo perduto, senza condizioni. Hanno la libertà di fare quello che serve: assumere intellettuali, ingaggiare talenti, formare capitale umano per il futuro. Le fondazioni progressiste, invece, devolvono contenute quantità di denaro in modo sporadico. Danno venticinquemila dollari, magari cinquanta, forse anche cento, talvolta anche cifre più cospicue. Ma ai

beneficiari richiedono di realizzare qualcosa di unico, di diverso da quello che fanno tutti gli altri, perché considerano i duplicati come uno spreco di denaro. Inoltre, i loro non sono finanziamenti a fondo perduto come quelli dei conservatori: i beneficiari progressisti non sono del tutto liberi di decidere come spendere il denaro. Le fondazioni progressiste non considerano appropriato usarlo per costruire carriere, realizzare infrastrutture, ingaggiare intellettuali e progettare una linea politica a lungo o a breve termine. La priorità è sempre fornire servizi diretti a persone bisognose e dunque fornire sovvenzioni di base, non infrastrutture. Ecco come lavora la maggior parte delle fondazioni progressiste. Ed ecco perché le realtà da loro finanziate procedono per obiettivi molto ristretti. Devono realizzare progetti circostanziati, non possono avere prospettive di più ampio respiro. Gli attivisti sono sottopagati e sovraccarichi di lavoro, non hanno tempo né energia per pensare a come creare rete. E, soprattutto, non hanno il tempo né le competenze per pensare a come produrre frame adeguati a tutte le questioni politiche più importanti. Il sistema li costringe a obiettivi limitati e, dunque, all’isolamento. Vi chiederete: perché funziona così? Esiste una ragione molto profonda, sulla quale tutti dovremmo fermarci a riflettere. Nella gerarchia dei valori morali della destra, il valore principale è conservare e difendere il sistema morale stesso. Costruendo infrastrutture, comprando in blocco intere società di mezzi di informazione, pianificando tutto in anticipo, assegnando borse di studio a studenti di legge iscritti a organizzazioni studentesche conservatrici e poi offrendo loro un buon lavoro. Se si vuole diffondere la propria visione del mondo la cosa più intelligente da fare è assicurarsi le persone e le risorse necessarie per continuare a farlo nel lungo periodo. A sinistra, invece, il valore più importante è aiutare i bisognosi. Pertanto, se si ha una fondazione o se ne vuole istituire una, quale sarà la cosa migliore da fare? Aiutare quante più persone possibile. E quanto più cresceranno i tagli ai servizi pubblici, tante più persone avranno bisogno di aiuto. Perciò i finanziamenti progressisti saranno distribuiti fra tutte le organizzazioni di base e, di conseguenza, non resterà un granché da destinare alle infrastrutture o allo sviluppo dei talenti, e sicuramente non agli intellettuali. Non va sprecato neanche

un centesimo nel duplicare le iniziative, perché ci sarà sempre più gente da aiutare. Come dimostrare dunque di essere una buona fondazione eticamente corretta? Elencando tutte le persone alle quali si dà aiuto: più sono, meglio è. In questo modo si continua a perpetuare un sistema che aiuta la destra. Certo, nel frattempo aiuta anche la gente comune, che ha senz’altro bisogno di sussidi. Ma con il taglio delle tasse e dei servizi la destra sta costringendo la sinistra alla privatizzazione, ovvero a utilizzare sempre più denaro privato per sopperire a quelle spese a cui dovrebbe provvedere lo Stato. Sono molte le cose che i progressisti potrebbero fare per migliorare la situazione. Vediamo da dove partire. La destra sa parlare di valori. Anche noi progressisti ne avremmo bisogno. Con un po’ di sforzo, possiamo provare a stilare una lista, ma per noi è difficile applicare i valori ai vari problemi, trovare il modo di affrontarli dalla nostra prospettiva e non dalla loro. Avremmo bisogno di attuare piani strategici in grado di integrare questioni diverse. È un aspetto in cui la destra è estremamente scaltra. I conservatori conoscono bene quelle che io chiamo iniziative strategiche, ovvero quei progetti in cui un cambiamento in un dato settore si ripercuote in numerosi altri settori. Consideriamo per esempio gli sgravi fiscali. È inequivocabile che una delle conseguenze degli sgravi fiscali è la mancanza di denaro pubblico sufficiente per realizzare programmi sociali statali. Non solo non ci saranno abbastanza soldi per i senzatetto, per le scuole, per la protezione ambientale e così via, ma non se ne avranno a sufficienza per nient’altro di simile. Questa è un’iniziativa strategica. Oppure consideriamo la Tort Reform, la riforma federale del sistema dell’illecito. È una priorità assoluta per i conservatori. Per capire perché ci tengano così tanto basta analizzarne gli effetti. Con un colpo solo questa misura adottata in molti Stati disincentiva tutte le cause legali che potrebbero porre le basi per una futura legislazione ambientale. Quindi non solo quelle relative all’industria chimica, del carbone, nucleare o di altre realtà a rischio, ma a qualsiasi altro settore. Se le parti danneggiate non possono fare causa per ingenti somme di denaro a professionisti né a grandi imprese negligenti o prive di

etica, queste continueranno ad arricchirsi, libere di nuocere alla società. Gli avvocati che si assumono dei rischi e compiono notevoli investimenti in queste cause così impegnative non guadagneranno più abbastanza per accollarsi tali rischi. Pertanto le imprese saranno libere di ignorare il bene pubblico. Ecco che cosa comporta la Tort Reform. In ogni Stato il grosso del denaro democratico proviene appunto dagli avvocati che vincono le cause civili. Molti dei più importanti donatori democratici sono avvocati civilisti. Con la Tort Reform quindi si sottrae anche quest’altra fonte di denaro alla sinistra americana. Grazie a essa, ad esempio, scompaiono nel nulla tre quarti dei fondi del partito democratico del Texas. Ponendo dei limiti ai risarcimenti esigibili dalle parti lese, la Tort Reform fa sì che le imprese che contribuiscono all’inquinamento ambientale possano calcolare anticipatamente il costo dei risarcimenti per le vittime delle loro attività e integrarli agli altri costi dei loro bilanci aziendali complessivi. In altre parole le compagnie irresponsabili guadagnano alla grande con la Tort Reform. E così anche il partito conservatore, che però si guarda bene dal palesare le sue vere motivazioni. Apparentemente l’obiettivo sarebbe quello di eliminare «le cause legali più insignificanti», come quelle in cui qualcuno potrebbe ottenere risarcimenti da trenta milioni di dollari perché gli hanno rovesciato addosso del caffè bollente. Ma in realtà l’obiettivo dei conservatori non è tanto la riforma. Bensì ciò che deriva dalla sua attuazione. A interessarli non sono tanto le cause legali, quanto la possibilità di disfarsi del sistema di protezioni a tutela dell’ambiente, dei consumatori, dei lavoratori e via dicendo. Oltre ovviamente a quella di far perdere più fondi possibili al partito democratico. Ecco in cosa consiste la loro iniziativa strategica. In passato ci sono state un paio di iniziative strategiche anche a sinistra – i rapporti sull’impatto ambientale e la legge sulle specie in via d’estinzione –, ma ormai sono trascorsi quarant’anni. Diversamente dalla destra, la sinistra non pensa strategicamente. Affronta una questione alla volta. Non si sforza di pianificare piccoli cambiamenti che potrebbero avere effetti in molteplici ambiti. Tranne in rarissimi casi. Esiste un secondo tipo di iniziative strategiche, che ho definito a

effetto domino: muovi una tessera e ne cadono altre decine. Anche in queste i conservatori sono bravissimi. Prendiamo l’aborto a nascita parziale. Si tratta di una procedura rara. Allora perché i conservatori ci tengono così tanto? Perché è un primo passo che indurrà altri passi, in un effetto domino che finirà per eliminare completamente ogni tipo di aborto. Serve a diffondere un’immagine (o frame) dell’aborto come di una procedura orribile, quando invece la maggior parte degli interventi per porre fine alla gravidanza non lo sono affatto. Lo stesso si dica per il progetto di legge che punta a verificare la qualità delle scuole. Una volta che il frame della verifica viene applicato non soltanto agli studenti ma anche alle scuole, anche queste potranno essere metaforicamente bocciate e pertanto punite con il ritiro di ogni finanziamento. Senza sovvenzioni, sarà ancora più difficile che una scuola migliori, cosa che la porterà a un ciclo continuo di bocciature, fino a essere eliminata del tutto. Il sistema delle scuole pubbliche verrà così rimpiazzato da un sistema di voucher a vantaggio delle scuole private. I ricchi avranno scuole valide, pagate in parte dal denaro che prima era utilizzato per le tasse della scuola pubblica. I poveri invece non avranno soldi per scuole decenti. Finiremo con l’avere un sistema scolastico a due velocità: uno buono per «i ricchi meritevoli» e uno scarso per i «poveri non meritevoli». I conservatori non devono averla vinta su tutto. Sono molte le cose che i progressisti possono fare per impedirlo. Eccone undici, per cominciare: 1.

Riconoscere dove sono stati bravi i conservatori e dove invece noi abbiamo perso il treno. Non si tratta soltanto del controllo dei media, sebbene abbia il suo peso. I conservatori sono stati bravi nell’inquadrare bene ogni problema secondo la loro prospettiva e, quindi, nel creare frame che riflettono la loro visione del mondo. Dobbiamo riconoscere i loro successi così come i nostri fallimenti. 2. Ricordarsi sempre di «non pensare all’elefante». Se per ribattere utilizziamo il loro linguaggio e i loro frame, non faremo altro che rafforzarli e, perciò, perderemo. 3. La verità – da sola – non ci renderà liberi. Dire la verità sul potere non basta. Bisogna inquadrare ogni verità in modo efficace secondo la propria prospettiva.

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Parlare sempre dalla propria prospettiva morale. La politica progressista deriva dai valori progressisti. Chiariamo quali sono i nostri valori e usiamo il loro precipuo linguaggio. Lasciamo stare il linguaggio dei professionisti della politica. Capire da dove vengono i conservatori. Cerchiamo di comprendere bene la visione del mondo del padre severo e ciò che ne consegue. Dobbiamo conoscere contro chi stiamo lottando. Ed essere in grado di spiegare perché i conservatori credono in ciò che credono. Proviamo a prevedere cosa diranno. Pensare strategicamente, in modo trasversale a più settori tematici. Pensiamo in termini di ampi obiettivi, non di programmi fine a se stessi. Pensare bene alle conseguenze di ogni proposta. Intraprendiamo azioni che possano produrre un effetto domino progressista. Ricordare che gli elettori votano la propria identità e i propri valori, che non devono necessariamente coincidere con il proprio tornaconto personale. Unirsi! E collaborare. Ricordiamo quali sono i sei tipi di progressista: 1) il progressista socioeconomico; 2) l’identitario; 3) l’ambientalista; 4) il difensore delle libertà civili; 5) lo spirituale; 6) l’antiautoritario. Cerchiamo di capire in quale di questi sei tipi ci riconosciamo di più, qual è la nostra posizione e quella delle persone con cui ci relazioniamo. Poi proviamo a trascendere dalla nostra posizione e cominciamo a pensare e a parlare in base ai valori progressisti condivisi da tutti. Essere propositivi, non reattivi. Giochiamo d’attacco, non in difesa. Ogni giorno elaboriamo nuovi frame per ogni problema. Non limitiamoci a dire ciò in cui crediamo. Usiamo i nostri frame, non quelli degli avversari. Usiamo i nostri frame perché sono più adatti ai valori in cui crediamo. Parlare alla base progressista in modo da attivare il modello del genitore premuroso negli elettori biconcettuali. Non spostiamoci a destra. Lo spostamento a destra è pericoloso per due motivi: allontana la base progressista e aiuta i conservatori ad attivare il loro modello negli elettori biconcettuali.

Seconda parte

Il cervello e il mondo

Seconda lezione

Il framing

Inquadrare la realtà

Quando si parla di framing si incorre spesso in due errori. Il primo consiste nel pensare che per creare un frame basti inventarsi qualche slogan ingegnoso come «aborto a nascita parziale», chiamare «tassa sulla morte» la tassa di successione, o usare altre espressioni che strizzano l’occhio a un ampio segmento di popolazione. Slogan simili funzionano solo se, alle spalle, hanno una campagna di framing spesso di durata decennale, che ha preparato i cervelli di migliaia di persone a recepirli. Una volta mi è stato chiesto se potevo effettuare un reframing – ovvero fornire uno slogan vincente – per un progetto di legge sul riscaldamento globale «entro martedì prossimo». Sono scoppiato a ridere. Effettuare un reframing efficace significa cambiare milioni di cervelli in modo tale da prepararli a riconoscere una certa realtà. Nel caso specifico la fase preparatoria era stata saltata a piè pari. Il secondo errore consiste nel credere che se riusciamo a presentare i fatti di una data realtà in modo efficace, allora la gente si «sveglierà», muterà opinione e comincerà ad agire a livello politico per cambiare le cose. «Perché la gente non si sveglia?» è la lamentela comune. Come se il problema fosse che la gente è «addormentata» e necessita di essere svegliata per osservare e comprendere il mondo circostante. E non che certe idee devono essere seminate e ribadite in modo chiaro e continuativo perché creino un frame abbastanza definito che consenta a tutti di cogliere immediatamente determinati messaggi. Consideriamo l’esempio delle pensioni. Spesso sono presentate – anche dai loro stessi sostenitori – come privilegi, come extra che un datore di lavoro concede a un impiegato, non per quello che sono

realmente, ovvero un compenso differito per un lavoro che si è già effettuato. Per contratto, infatti, la pensione è una porzione di stipendio che il datore di lavoro trattiene e investe, per poi restituirla al dipendente a fine carriera. Perciò il datore di lavoro che dice: «Non abbiamo soldi per pagarti la pensione» è un ladro che ha dissipato, rubato o comunque sottratto indebitamente i compensi che doveva per contratto al lavoratore. Mi è capitato spesso, incontrando sindacalisti e gruppi di lavoratori, di parlare della pensione come di un pagamento differito a compenso di un lavoro già effettuato. Nessuno ha mai avuto da ridire. Peccato che al momento di chiedere loro: «Ne avete mai parlato in questi termini?», puntualmente mi è stato risposto di no. «Ma siete concordi sul fatto che sia un compenso differito?» domando ogni volta. «Certo.» «E allora perché non ne parlate in questi termini?» Ecco il punto dolente. Anche per i progressisti è difficile discostarsi dal frame, ribadito da anni dai conservatori, secondo cui le pensioni sono stipendi elargiti a gente che non lavora. Eppure il fatto che le pensioni siano compensi posticipati è una verità talmente ovvia che riuscirebbe a smentire con facilità l’idea, diffusa dagli strateghi conservatori, secondo cui le pensioni sono paghe versate a chi non lavora. Ma allora perché i progressisti, pur riconoscendo un’importante verità su un problema per loro cruciale, una verità che andrebbe ribadita e diffusa, si guardano bene dal pronunciarla, dall’inserirla nel loro discorso quotidiano? Il motivo è che non basta dire qualcosa perché questo diventi un circuito neuronale usato quotidianamente o che s’inserisce con facilità nelle strutture cerebrali preesistenti che fino a quel momento hanno indirizzato la comprensione e il linguaggio. È difficile dire cose che gli altri non sono pronti ad ascoltare, cose che non sono già state ripetute centinaia di volte. Come anticipato nella prima parte, ciò è dovuto a un fenomeno detto ipocognizione, cioè all’assenza di un circuito neuronale condiviso per quell’idea, soggiacente a una serie di espressioni di uso comune che i parlanti normalmente usano e che i loro interlocutori sono abituati a sentire. Gli slogan non possono niente contro l’ipocognizione. Solo una

discussione pubblica protratta nel tempo può porvi rimedio, ma per condurla occorrono una conoscenza approfondita del problema e un impegno serio e diffuso. Molti dei temi più importanti sui quali ci confrontiamo oggi – dal riscaldamento globale alle disuguaglianze socioeconomiche – richiederebbero questo tipo di impegno e di discussione approfondita. Ho scritto questa parte del libro nella speranza che chi mi legge scelga di assumere su di sé parte di quest’impegno quotidiano necessario alla creazione di nuovi frame, ovvero di quei modi di comprensione immediati e automatici di cui abbiamo disperato bisogno.

Riflessività

Si potrebbe pensare che il mondo esista indipendentemente da come noi lo vediamo. Ma non è così. La nostra visione del mondo è essa stessa parte del mondo. I frame concettuali esistono a livello inconscio nei circuiti neuronali del nostro cervello, e definiscono e delimitano la nostra visione del mondo, influenzando le nostre azioni. Per molti versi il mondo è dunque un riflesso dei frame attraverso cui lo guardiamo e in base ai quali agiamo; è in buona parte un riflesso delle nostre azioni. A sua volta il mondo, concepito dai nostri frame e strutturato dalle nostre azioni, attraverso l’esperienza rafforza e ricrea quei frame in altri individui che in quello stesso mondo nascono, crescono e maturano. Tale fenomeno è chiamato riflessività. Il mondo riflette la nostra visione attraverso le nostre azioni, e la nostra visione riflette il mondo modellato dalle azioni, nostre e dei nostri simili, a loro volta influenzate dai nostri frame. Essere consapevoli del concetto di riflessività aiuta a muoversi più efficacemente nel mondo. Così come per rendere il mondo un posto migliore è utile conoscere i frame che hanno modellato e continuano a modellare la realtà. La riflessività è un dato di fatto. Di per sé non è né buona né cattiva. Può essere entrambe le cose. Questa Seconda lezione si occupa di illustrare in quali modi si possa utilizzare la riflessività a fin di bene o almeno per il bene della maggior parte delle persone e di molte altre specie viventi, per la salvaguardia della bellezza e della varietà del mondo fisico che sostiene ogni forma di vita. Sono innumerevoli i casi in cui sarebbe indispensabile rinquadrare la realtà, introdurre nuove forme di comprensione, in modo da

rendere il mondo un posto migliore in virtù della riflessività. Ciò è vero soprattutto quando le questioni che abbiamo davanti (e che dobbiamo inquadrare) sono complesse e sistemiche, come il riscaldamento globale, le disuguaglianze socioeconomiche e molte altre che nell’ultimo decennio sono diventate sempre più scottanti. Vediamo come.

Causalità sistemica

La linguistica cognitiva ci è di grande aiuto. Sappiamo ad esempio che nella grammatica di ogni lingua conosciuta esiste un modo per esprimere la causalità diretta, mentre nella grammatica di nessuna lingua esiste un modo per esprimere la causalità sistemica. Qual è la differenza tra causalità diretta e causalità sistemica? Facciamo esperienza della causalità diretta fin dalla più tenera età, osservando il mondo che ci circonda: se spingiamo un giocattolo questo si ribalta; se nostra madre ruota una manopola della cucina, il fornello si accende. Anche bere da un bicchiere, affettare il pane, dare un pugno sul naso a qualcuno, lanciare un sasso contro una finestra, rubare un portafoglio sono tutti esempi di causalità diretta. Si ha un rapporto di causalità diretta ogni volta che si applica la forza a una cosa o a una persona producendo un immediato cambiamento su di essa. Quando la causalità è diretta, il termine «causa» non è problematico. Da bambini impariamo la causalità in modo naturale, perché la sperimentiamo nel quotidiano. La causalità diretta, e il controllo sull’ambiente circostante che essa ci consente, è centrale nella vita dei bambini. Ecco perché è presente nella grammatica di ogni lingua. Non è così per la causalità sistemica. Quest’ultima non può essere sperimentata direttamente. Bisogna studiarla, conoscere i fatti e metterli in relazione per comprenderla. Ecco perché nessuna lingua al mondo ha, nella sua grammatica, un modo per esprimere la causalità sistemica. Più estraiamo petrolio, più bruciamo carburante, più immettiamo anidride carbonica nell’atmosfera, più l’atmosfera terrestre si surriscalda e dagli oceani evapora sempre più umidità,

provocando perturbazioni più violente ad alcune latitudini, siccità e incendi ad altre e più freddo e neve ad altre ancora: ecco un esempio di causalità sistemica. L’ecologia del pianeta è un sistema, come l’economia mondiale e il cervello umano. Ci manca un concetto di cui avremmo disperatamente bisogno, ad esempio per comprendere e comunicare la più grande sfida del nostro tempo: il riscaldamento globale. L’ecologia infatti è retta proprio da un tipo di causalità sistemica e in assenza di un frame che la colga non possiamo comprenderla. In assenza di quel frame non riusciamo a mettere in correlazione i fenomeni legati al riscaldamento globale. Potendo affidarci solo alla causalità diretta, finiamo con l’ignorare realtà più complesse e in relazione sistemica fra loro, come quelle relative al riscaldamento globale. Là dove permangono i vecchi frame, sfuggono alla nostra comprensione tutti i fenomeni che non corrispondono al loro modello prototipico.

I modi della causalità sistemica La causalità sistemica ha quattro modalità, che possono manifestarsi singolarmente o in combinazione fra loro. Ecco come possono essere esemplificate all’interno di un discorso sul fenomeno del riscaldamento globale: Concatenazione di cause dirette. 1) Il riscaldamento globale surriscalda l’Oceano Pacifico, l’attività delle molecole di acqua oceanica aumenta e con essa aumentano l’evaporazione e l’energia con cui le molecole si muovono nell’aria. 2) Nell’atmosfera che sovrasta l’oceano, i venti che soffiano da sud-est verso nord-ovest spingono il maggiore quantitativo di umidità carica di energia verso il Polo. 3) In inverno l’umidità si trasforma in neve e precipita lungo la costa orientale degli Stati Uniti sotto forma di copiose tormente. Ecco illustrata la concatenazione di cause dirette che fa sì che il riscaldamento globale inneschi abbondanti bufere di neve. Anelli di retroazione (feedback loops). 1) La banchisa polare riflette la luce e il calore. 2) Man mano che l’atmosfera terrestre si

riscalda, la banchisa artica si scioglie e si riduce. 3) Riducendosi, il ghiaccio artico riflette meno luce e calore, cosicché l’atmosfera trattiene un maggior quantitativo di calore. 4) L’atmosfera si riscalda ancora di più. 5) Ecco dunque che il cerchio si chiude: quanto più il ghiaccio artico si scioglie, tanto meno calore viene riflesso, tanto più ne resta nell’atmosfera, tanto più ghiaccio si scioglie e così via ad libitum. Concause multiple. A causa dell’interazione tra la corrente a getto e il vortice polare, quest’ultimo si espande verso sud, fino al centro degli Stati Uniti, causando ondate di gelo in Oklahoma e Georgia. Causalità probabilistica. Molti fenomeni meteorologici hanno una distribuzione probabilistica. Non si può prevedere se lanciando in aria una monetina si otterrà testa o croce, ma dopo un certo numero di lanci, con molta probabilità, si constaterà che un 50 per cento di volte sarà uscita testa e un altro 50 per cento di volte, croce. Quindi sì, il riscaldamento globale ha provocato: ondate di gelo nel Sud degli Stati Uniti, l’uragano Sandy, la siccità del Midwest, gli incendi in Texas e Colorado e altri tremendi disastri meteorologici in tutto il mondo. Possiamo dirlo forte e chiaro: è un fenomeno dettato da una causalità di tipo sistemico. Concatenazioni di cause, anelli di retroazione, cause multiple contribuiscono con distribuzione probabilistica al riscaldamento globale e ai conseguenti disastri meteorologici che esso comporta, provocando ogni volta danni per miliardi e miliardi di dollari, oltre a incalcolabili perdite umane. La causalità sistemica è comune. Il fumo è causa sistemica del cancro ai polmoni. L’Hiv è causa sistemica dell’Aids. Lavorare in una miniera di carbone è causa sistemica dell’antracosi o malattia del polmone nero. Guidare da ubriachi è causa sistemica di incidenti automobilistici. Fare sesso senza contraccettivi è causa sistemica di gravidanze indesiderate, che sono a loro volta causa sistemica di aborti. Poiché è meno ovvia di quella diretta, la causalità sistemica va compresa fino in fondo. Come abbiamo visto, si manifesta in genere come una combinazione di cause e in condizioni particolari. Può derivare da una concatenazione di più cause dirette. Può essere

probabilistica, cioè presentarsi con un’alta percentuale di probabilità. Può rispondere a meccanismi di retroazione. In genere, negli ecosistemi, nei sistemi biologici, economici e sociali la causalità non è mai diretta, pertanto è molto più difficile da prevedere ed eventualmente da arginare per evitare conseguenze negative. Ma è importante chiamarla con il suo nome: «causalità sistemica». Non si può prevedere in anticipo la portata precisa dell’uragano Sandy, non più di quanto si possa prevedere che un fumatore si ammali di cancro ai polmoni, che un rapporto sessuale senza contraccezione possa comportare una gravidanza indesiderata, o che dalla guida in stato di ubriachezza possa scaturire un incidente automobilistico. Ma tutti questi fenomeni sono retti da un rapporto di causa. È importante che si parli di «causa». Siccome la parola «causa» si usa in genere per intendere una causa diretta, per prudenza i climatologi hanno spesso evitato di ricondurre un particolare uragano, un incendio o un episodio di siccità al riscaldamento globale. In mancanza di un concetto (frame) e di un corrispettivo linguistico atti a esprimere la causalità sistemica, i climatologi hanno compiuto il terribile errore comunicativo di ripiegare su parole ambigue. Consideriamo per esempio questa citazione tratta da Perception of Climate Change, un articolo di James Hansen, Makiko Sato e Reto Ruedy pubblicato sulla rivista «Proceedings of the National Academy of Sciences»: Possiamo affermare con un certo grado di sicurezza che anomalie estreme come quelle verificatesi nel 2011 in Texas e Oklahoma o nel 2010 a Mosca furono conseguenza del riscaldamento globale poiché le probabilità che accadessero in assenza del riscaldamento globale erano estremamente basse.

Tutte le parole chiave di questo articolo – «certo grado di sicurezza», «anomalie», «conseguenze», «probabilità», «assenza» ed «estremamente basse» – sono ambigue. Si è perso il potere della verità nuda e cruda, ovvero del rapporto di causalità. Non è una questione da poco, dal momento che c’è in gioco la sorte della Terra. La scienza ha raggiunto livelli eccelsi, ma le capacità comunicative degli scienziati sono carenti. Non possiamo capire un concetto senza le parole giuste per esprimerlo. E non possiamo capire cosa si sta abbattendo sul nostro pianeta se non comprendiamo il concetto di causalità sistemica.

Il riscaldamento globale è una realtà. Sta causando – causando – morte, distruzione ed enormi perdite economiche, e col tempo i suoi effetti cresceranno sempre di più. Non possiamo rassegnarci a questa situazione. I costi sono incalcolabili. Il nemico con cui ci stiamo confrontando è gigantesco. La quantità di energia che si accumula ogni giorno – ogni giorno! – a causa del riscaldamento globale è pari a quella sprigionata da quattrocentomila bombe atomiche di Hiroshima.

Il ruolo dei giornalisti Poiché la causalità sistemica è rimasta a lungo senza un frame e senza un nome, spesso i giornalisti non sono stati in grado di comprenderla, perciò hanno fatto ricorso a metafore inadeguate e fuorvianti. Sul «The Knight Science Journalism Tracker» del 7 gennaio 2017 Charles Petit ci ha regalato un’infilata di metafore di questa portata: Un vortice polare indebolito ruota intorno all’Artico come un coperchio che gira su se stesso sempre più lentamente, finché non cade aprendo la porta del freezer artico… Questo enorme e micidiale proiettile di aria che stazionava sulla criosfera si è sganciato dal Polo Nord abbattendosi sul Canada e fino alla costa orientale degli Stati Uniti… Quando i venti si indeboliscono, il vortice può cominciare a barcollare come un ubriaco al quarto Martini […]. In questo caso quasi tutto il vortice polare è ruzzolato verso sud…

Un giornalista responsabile può fare di meglio. Deve invocare la causalità sistemica quando discute di riscaldamento globale e dei suoi effetti sul clima, così come quando discute di altri fenomeni sistemici, come la fratturazione idraulica, la privatizzazione delle scuole, il declino dei sindacati e così via. Un giornalista responsabile dovrebbe discutere anche di quei devastanti fenomeni sistemici emersi di recente in campo economico ma che la stampa non ha ancora inserito nel discorso pubblico: mi riferisco ad esempio al rapporto causale che intercorre tra il reddito da capitale e il reddito da lavoro. I modelli di causalità sistemica appena illustrati si applicano al

fenomeno del riscaldamento globale. Ne esistono altre versioni, che si applicano per esempio ad alcuni casi economici. Ma per gli obiettivi di questo libro, la forma più importante di causalità sistemica è quella che riguarda il cervello. La riflessività infatti è una forma di causalità sistemica. E quella che lega la politica e il concetto di persona è una delle fattispecie di causalità sistemica più complicate da comunicare, specialmente ai politologi, ai sondaggisti, agli strateghi, ai teorici e a tutti gli altri professionisti della politica.

Politica e persona

Ognuno di noi ha un proprio senso di sé, una percezione di chi è in quanto persona. Parte essenziale dell’identità personale è il senso morale, il senso di cosa sia giusto o sbagliato, e di cosa giustifica le nostre azioni. Il senso morale, come l’insieme delle nostre convinzioni e credenze, è incarnato nei circuiti neuronali del nostro cervello. Se la cognizione incorporata nella nostra mente cambia, se cambiano i circuiti che caratterizzano il nostro senso morale, cambia anche la nostra personalità. Cambia il tipo di persona che siamo, ciò che pensiamo sia giusto e il modo in cui ci comportiamo. Come abbiamo visto, la politica è sempre morale, perché si presume che tutte le scelte politiche muovano da intenzioni giuste, non sbagliate né irrilevanti. Le divisioni politiche sono divisioni morali, cui corrispondono connessioni neuronali molto diverse all’interno dei nostri cervelli. In particolare, la principale divisione morale della nostra politica deriva da due modelli famigliari opposti: quello progressista del genitore premuroso e quello conservatore del padre severo. Ciò non è casuale, dal momento che la vita famigliare influenza fortemente la percezione di sé come individui. L’influenza della famiglia incide in modo complesso sulla personalità, come anche le relazioni interpersonali. Conseguenza di questa complessità è il biconcettualismo. I biconcettuali possiedono entrambi i tipi di connessioni neuronali. Queste si inibiscono a vicenda, prevalendo ora l’una ora l’altra a seconda delle questioni. Non esiste un’ideologia del «mezzo», un’ideologia politica a base morale comune a tutti i moderati. Ma che si sia progressisti, conservatori o biconcettuali, la morale –

ovvero quell’idea personale di come un individuo dovrebbe essere e comportarsi – è strettamente connessa al modo in cui il nostro cervello innesca le emozioni e determina le nostre reazioni rispetto a idee o situazioni precise. Vale la pena capire perché.

La scienza dietro l’empatia e la moralità Una delle grandi scoperte delle neuroscienze è rappresentata dal sistema dei neuroni specchio. Per farla semplice si tratta di un sistema che opera nel nostro cervello dandoci la capacità di connetterci con i nostri simili e con il mondo naturale, e di capire e sentire quello che sentono gli altri. È il centro alla base della nostra empatia. Dalle ricerche sull’emotività, sappiamo che determinate emozioni sono correlate a certe azioni del nostro corpo (ai movimenti facciali, alla postura e così via). Quando siamo felici, per esempio, i nostri muscoli facciali sono portati a disegnare un sorriso, anziché a mostrare i denti o il broncio. Sappiamo anche che in genere i segnali fisici che svelano le emozioni dei nostri interlocutori attivano nel nostro cervello quelle stesse aree che guiderebbero le reazioni fisiche a quelle stesse emozioni. Ecco perché di norma siamo in grado di dire se qualcuno è felice o triste, arrabbiato o annoiato, ed ecco perché i sorrisi o gli sbadigli sono contagiosi. Tutto questo dipende dal sistema dei neuroni specchio, il cui circuito connette i centri dell’azione con quelli della percezione. Ne consegue che quando vediamo fare qualcosa agli altri, nel nostro cervello si attivano gli stessi neuroni che sovrintendono a quelle medesime azioni. Questo «rispecchiamento» fa sì che quando osserviamo negli altri l’attivazione muscolare legata alle varie emozioni, nel nostro cervello riproduciamo quella stessa sensazione muscolare e l’emozione corrispondente. In poche parole, il sistema dei neuroni specchio ci permette di sentire le emozioni degli altri, di essere empatici. Ma non solo. I neuroscienziati, infatti, hanno scoperto che esiste una sovrapposizione a livello cerebrale tra immagini e azioni. Molte regioni neuronali vengono attivate allo stesso modo sia quando osserviamo la realtà sia quando ce la figuriamo mentalmente. Sia

quando immaginiamo di muoverci sia quando ci muoviamo davvero. Questo significa che abbiamo la capacità di entrare in empatia non soltanto con gli individui reali, ma anche con quelli immaginati, ricordati, sognati, letti e così via. Ecco perché possiamo essere profondamente toccati da un romanzo, da un film o anche da un fatto di cronaca appreso sul giornale. I neuroscienziati hanno persino dimostrato che quando qualcuno è innamorato e vede l’altro soffrire, nel suo cervello si attiva il centro del dolore, al punto che anche lui sentirà vero dolore, come la persona amata. Fin qui sembrerebbe tutto abbastanza semplice, ma la storia si complica per effetto di alcuni meccanismi neuronali connessi al modo in cui reagiamo a ciò che vediamo, sentiamo e immaginiamo. Nella corteccia prefrontale esistono regioni particolarmente attive durante l’esercizio del giudizio. Neuroni che risultano più reattivi quando compiamo in prima persona certe azioni e meno attivi quando le vediamo compiere da altri. Si è ipotizzato che derivi da questo la nostra capacità di modulare l’empatia, di moderarla o spegnerla a seconda dei casi. Il sistema dei neuroni specchio ci connette emotivamente agli altri, ma in alcuni casi può anche allontanarcene. La corteccia prefrontale interviene anche in un altro sistema neuronale, che chiamerò sistema del benessere-malessere. Questo fa sì che nel cervello vengano rilasciati determinati ormoni quando si compiono esperienze piacevoli e altri ormoni nel caso di esperienze spiacevoli. In sostanza, in ogni momento, questo sistema regola il senso di benessere o di malessere, e ci permette di prevedere, immaginandolo, ciò che ci farebbe stare più o meno bene. Il sistema empatico e il sistema del benessere-malessere possono interagire in vari modi. Alcune persone, per esempio, provano un senso di benessere sia quando sono personalmente soddisfatte sia quando lo sono altri individui con i quali si relazionano empaticamente. In altre persone i due sistemi possono essere bilanciati in modi differenti. 1) Il sistema del benessere prevale sul sistema empatico, cosicché i propri interessi prevalgono su quelli degli altri. 2) Il proprio benessere ha sempre un posto di riguardo, ma se ne bilancia l’importanza per contribuire anche al benessere altrui. 3) Prevale lo spirito di sacrificio, per cui il benessere degli altri viene

sempre prima del proprio. 4) Come membri di un gruppo ristretto, si pone al primo posto il benessere del gruppo e dei suoi membri, senza provare alcuna empatia verso chi non appartiene a quella comunità limitata. Ovviamente quest’ultima dinamica comporta numerose varianti a seconda del gruppo in questione. Poiché la moralità ha sempre a che fare con il benessere (il proprio e quello degli altri), queste quattro alternative definiscono altrettanti atteggiamenti morali. Il sistema dei neuroni specchio può essere influenzato da fattori innati. In certe forme di autismo l’empatia è minore o ampiamente assente. Negli psicopatici è controllata: possono percepire cosa prova l’altro ma non esserne toccati, traendone vantaggio o giovamento. Non è invece ancora appurato se tale sistema possa essere influenzato dal tipo di educazione ricevuta, dal proprio background famigliare e sociale; se la morale politica del singolo individuo possa essere correlata alle proprie capacità empatiche, ovvero all’attività dei neuroni specchio e al sistema del benessere. Questo punto è ancora oggetto di ricerca, ma i primi risultati evidenzierebbero una differenza tra sinistra e destra, in particolar modo una minore attivazione del sistema empatico nei conservatori. Poiché tutti i pensieri e i sentimenti sono fisici, questione di circuiti cerebrali, non sorprende che la sensibilità morale possa essere costituita da strutture cerebrali come quelle appena illustrate. Esse formano la base neuronale non soltanto della sensibilità morale personale, ma anche della nostra idea di persona ideale, delle caratteristiche che dovrebbe avere.

La persona ideale Come dovrebbe essere la persona ideale? Dal momento che partono da moralità opposte, conservatori e progressisti hanno punti di vista ampiamente diversi al proposito. Lo stesso si dica per i biconcettuali, i quali avranno una visione diversa a seconda di com’è ripartita la loro morale: i biconcettuali più conservatori tenderanno ad avere una visione conservatrice di come dovrebbero essere le persone, mentre quelli più progressisti tenderanno ad averne una più

progressista; oppure, i biconcettuali meno estremi potranno credere che la persona ideale debba essere biconcettuale proprio come loro, ovvero con la medesima distribuzione di visioni conservatrici e progressiste. Il sistema morale progressista (quello del genitore premuroso) mantiene un certo equilibrio tra il sistema empatico e quello del benessere personale. In esso è essenziale l’empatia nei confronti del prossimo, così come la responsabilità di comportarsi empaticamente, ma tutto ciò è vincolato alla clausola per cui non ci si può prendere cura dell’altro se prima non ci si prende cura di se stessi. È incentrato sull’empatia e invoca sia la responsabilità personale sia quella sociale. Il sistema morale conservatore è incentrato invece sul sistema del benessere, sulla responsabilità esclusiva nei confronti dei propri interessi senza impegno empatico verso il prossimo, sulla cura di se stessi senza responsabilità nei confronti degli altri. Possono esserci alcune sfumature, ma in sostanza è questa la differenza tra i due sistemi morali.

Empatia vs compassione Empatia e compassione comportano entrambe la capacità di comprendere i sentimenti altrui. Ma, diversamente dall’empatia, la compassione implica una presa di distanza dalle emozioni provate dall’altro. Un individuo compassionevole può comportarsi in modo da alleviare il dolore altrui, senza provarlo a sua volta. La parola «compassionevole» si usa spesso sia in riferimento all’empatia sia alla compassione. George W. Bush, per esempio, quando annunciò la sua candidatura alla presidenza, si definì un conservatore «compassionevole», citando il libro di Marvin Olasky, The Tragedy of American Compassion. Il punto di vista di Olasky e Bush sull’essere compassionevoli e conservatori mette in luce una differenza di fondo tra sinistra e destra. I progressisti tendono a credere che la società abbia la responsabilità di aiutare chi è in difficoltà materiale e che lo Stato dovrebbe essere il principale strumento di sostegno tramite il gettito fiscale. I conservatori, invece, tendono a preferire la beneficenza compiuta dalle

organizzazioni non governative, così come tendono a credere che per aiutare davvero le persone in difficoltà materiali non servano tanto le pratiche assistenzialiste, quanto incentivi per insegnare loro a sostenersi da sole. Da qui il motto conservatore: «Se vuoi aiutare un affamato non regalargli un pesce, ma insegnagli a pescare». Anche perché la beneficenza per i pochi bisognosi ha un costo inferiore rispetto alle tasse che dovrebbero fornire risorse a beneficio di tutti. Questa dicotomia comporta concezioni diverse della persona ideale e dell’ordinamento da dare alla politica per creare la persona ideale corrispondente ai vari sistema morali: puramente conservatore, puramente progressista o una combinazione dei due?

Riflessività e persona È giunto il momento di interrogarci sulla riflessività in relazione all’individuo: il framing linguistico può cambiare le persone? Ovviamente dipende dalle epoche e dalle circostanze. Ma negli anni questo genere di mutazione ha avuto luogo, pur riguardando per quanto mi è dato sapere soprattutto i biconcettuali. Il reframing e un sistema di comunicazione che funzioni costantemente, non soltanto durante le campagne elettorali, da soli non bastano a fare breccia nei conservatori più estremi (circa il 25-30 per cento della popolazione statunitense). Sembra insomma che alcune persone non possano essere «raggiunte» (imprecisa metafora progressista) o «svegliate» (altra imprecisa metafora progressista). Consideriamo invece il caso di un progressista moderato, a tratti conservatore. Ascolta e riascolta il linguaggio e le argomentazioni dei conservatori, giorno dopo giorno, anno dopo anno – in tv o con gli amici o in entrambe le situazioni –, in lui si attiverà, e si rafforzerà a ogni ascolto, il sistema morale conservatore. Quanto più nel suo cervello si rafforzerà il circuito conservatore (si consolideranno le relative sinapsi) tanto più probabile sarà che la sua visione del mondo da progressista diventi conservatrice. Alla fine in quella persona, o meglio nel suo cervello, si potrà registrare un mutamento tale da farla passare da parzialmente conservatrice a prettamente conservatrice. È questa la forza del sistema comunicativo conservatore, nonché la

forza della riflessività. Nel tempo la personalità di un individuo può cambiare, insieme alla sua idea di come dovrebbero essere gli altri. E ovviamente, di chi votare. Nel metodo conservatore, la riflessività interviene anche in un secondo momento, a voti già ottenuti. Una volta saliti al potere, infatti, i conservatori non soltanto potranno dire che lo Stato non può funzionare e che andrebbe ridotto e privatizzato, ma potranno anche effettivamente bloccarne l’operato, realizzando così una profezia autoavverante. In che modo? Tagliando le tasse e i finanziamenti, approvando leggi o dando alla Corte suprema il potere di reinterpretarle. Nell’America contemporanea, politica e persona sono inseparabili, e apparentemente si muovono entrambe in direzione conservatrice. Per invertire questa rotta, i progressisti hanno bisogno di comprendere il ruolo che il cervello e la comunicazione svolgono all’interno di questo processo.

Politica e persona ai tempi della fondazione Anche ai tempi della fondazione degli Stati Uniti, politica e persona coincidevano, ma in direzione progressista. Lynn Hunt, storica della University of California di Los Angeles, lo racconta dettagliatamente nel suo libro Inventing Human Rights: A History. L’analisi di Hunt prende le mosse da un brano della Dichiarazione d’indipendenza: Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati uguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la vita, la libertà e il perseguimento della felicità.

Se questi diritti erano evidenti – si chiede la professoressa Hunt – perché Jefferson ha dovuto specificare che lo fossero? E quand’è che lo sono diventati? Hunt, che da ex presidente dell’American Historical Society ha studiato la lingua e la cultura della Francia, dell’Inghilterra e delle Tredici colonie, spiega che queste idee non erano presenti nel Seicento, ma emersero soltanto a metà del Settecento, in particolare

dopo il 1760, quando l’Europa occidentale e gli Stati Uniti furono interessati da un importante mutamento culturale, riscontrabile in molti romanzi dell’epoca, tra cui Giulia o la nuova Eloisa di JeanJacques Rousseau, il più grande bestseller del secolo, che conobbe settanta edizioni tra il 1761 e il 1800. Giulia o la nuova Eloisa è un romanzo basato sullo scambio epistolare tra due innamorati. I lettori dell’epoca si identificavano profondamente con le vite dei protagonisti, le cui psicologie si rivelavano e si evolvevano lettera dopo lettera, suscitando l’empatia dei lettori, che si riconoscevano nelle tormentate vicende di due persone comuni. Tra il 1760 e il 1780 il genere romanzesco conobbe una larga diffusione, fu approvata l’abolizione della tortura in quanto trattamento disumano, si cominciarono a dipingere ritratti che mettevano in evidenza le caratteristiche individuali dei soggetti, cambiarono le maniere comportamentali grazie a una maggiore consapevolezza del proprio corpo (per esempio ci si iniziò a soffiare il naso con il fazzoletto) e si affermò il concetto di autonomia individuale. Questi cambiamenti furono indotti proprio dall’empatia, dall’identificazione con i problemi e le difficoltà della gente comune, dall’immedesimazione con il sentire dei personaggi dei romanzi, dall’osservazione delle sventure che affliggevano le persone. Da ciò nacque la spinta per un cambiamento giuridico e politico. Se dal 1776 i diritti umani divennero «evidenti» fu grazie allo sviluppo dell’empatia nei confronti dei propri concittadini. Fu questa empatia a gettare le basi per l’Unione degli Stati e per la democrazia americana. La storica Danielle Allen dell’Institute for Advanced Study di Princeton, nel libro Our Declaration: A Reading of the Declaration of Independence in Defense of Equality, ha compiuto un ulteriore passo avanti nello studio della Dichiarazione d’indipendenza, proponendo un’analisi approfondita del documento, sempre incentrata sul passaggio fondamentale delle verità evidenti. Analizzando le copie originali della Dichiarazione, Allen ha scoperto che la frase finale di quel passaggio non era presente nel testo, ma fu inserita in un secondo momento. Lo confermerebbero la sintassi e la punteggiatura del passaggio in questione, che qui riportiamo nell’integrità della sua versione definitiva:

Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati uguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la vita, la libertà e il perseguimento della felicità; che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo tenda a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutarla o abolirla e di istituire un nuovo governo fondato su questi principi e di organizzare i poteri nella forma che sembri ai cittadini meglio atta a procurare la loro sicurezza e la loro felicità.

Allen sottolinea come, nella versione originaria, le verità evidenti, come sottolineato dalla presenza del punto finale, si limitavano a essere «la vita, la libertà e il perseguimento della felicità», realtà che, come ho illustrato in precedenza, derivano dal sistema del benessere. Mancava l’idea che per il perseguimento della felicità i cittadini dovessero istituire governi derivanti dal consenso. Il passaggio che termina con «la vita, la libertà e il perseguimento della felicità» attiene alla sfera della libertà, mentre quello che è stato aggiunto in seguito ha a che fare con l’uguaglianza e con il ruolo fondamentale attribuito allo Stato per garantirla. La grammatica – la successione di subordinate oggettive precedute da «che», l’uso del plurale alla fine («a procurare la loro sicurezza e la loro felicità») – mostra che alla ricerca della felicità si è aggiunto il ruolo dello Stato come garante dell’uguaglianza tra i diritti inalienabili dell’uomo. Allen ha ragione nel ritenere questo passaggio fondamentale. In quella frase aggiunta c’è il nucleo della divisione che caratterizza la politica americana. Come ho spiegato nel mio libro Whose Freedom?, i progressisti e i conservatori hanno visioni diversissime della libertà. Per i conservatori essa non include l’uguaglianza né il compito dello Stato di assicurarla, ma si rifà ai Padri fondatori. Sebbene siano alla ricerca di un cambiamento radicale, i «conservatori» si autodefiniscono tali per ribadire la loro intenzione di conservare i valori fondativi della nazione. Dietro questa divisione ci sono visioni divergenti di concetti come la libertà, la democrazia e la persona.

Il privato dipende dal pubblico

Fin dalla loro fondazione, gli Stati Uniti hanno garantito ai cittadini scuole pubbliche, ospedali pubblici, strade e ponti pubblici, un esercito per difendere l’Unione, un’assemblea legislativa per fare leggi che la disciplinino e la preservino, un esecutivo per farle applicare, un sistema giudiziario per farle rispettare, una banca nazionale, un ufficio brevetti, risorse per promuovere il commercio tra gli Stati e, soprattutto, un sistema che permetta al popolo di scegliere i propri rappresentanti. Senza queste strutture pubbliche i privati cittadini americani non avrebbero potuto condurre un’esistenza soddisfacente, non avrebbero potuto avere un’economia funzionante né tantomeno la democrazia. Questo ci spiega qualcosa di fondamentale sulla democrazia americana e più in generale sulla democrazia occidentale. La democrazia americana è nata da un’idea di unione, da un incontro tra cittadini che avevano a cuore il proprio reciproco destino e quello dell’intera nazione. L’America ha funzionato come democrazia perché un certo numero di americani si è preso in carico l’interesse dell’intera comunità e ha delegato allo Stato il potere di garantire a tutti risorse pubbliche sufficienti per poter condurre una vita dignitosa. Per comprendere a fondo questo punto, bisogna accorgersi e prendere coscienza di tali risorse pubbliche, del lavoro della pubblica amministrazione e della responsabilità che in quanto cittadini ci assumiamo pagando le tasse ed eleggendo i nostri rappresentanti. Oggi è sempre più vero che il privato dipende dal pubblico. Attraverso i nostri rappresentanti, abbiamo costruito molto di più: una rete elettrica, università pubbliche, un sistema autostradale

interstatale, una ricerca scientifica sostenuta dai finanziamenti pubblici che ha reso possibile lo sviluppo dell’informatica e delle sue tecnologie, le comunicazioni satellitari e di conseguenza internet e le telecomunicazioni, la medicina moderna, gli aeroporti e il controllo del traffico aereo, l’addestramento dei piloti dell’aeronautica militare, un centro per la prevenzione delle malattie, un’agenzia per gli alimenti e i farmaci, un’altra per la difesa ambientale, un sistema per i parchi e un altro per i monumenti nazionali, un sistema per la gestione delle risorse pubbliche, un servizio civile per sostituire i vecchi corrotti dello spoils system. Nonché un sistema pubblico in grado di gestire e garantire il loro funzionamento: uno Stato, ovvero un sistema di governo super partes. Senza tutto ciò, non avremmo avuto l’enorme fortuna di cui in epoca moderna hanno goduto le famiglie e l’industria americane. Il privato dipende dal pubblico. Sono le risorse pubbliche a rendere possibile la vita privata. Non occorre un granché per rendersene conto, basta guardarsi intorno nella vita di tutti i giorni. Tempo fa nei cantieri delle opere pubbliche poteva capitare di imbattersi in cartelli che recitavano: «I soldi delle vostre tasse all’opera!». Ora non si vedono più e la verità fondamentale della nostra democrazia è spesso sottaciuta. I progressisti la danno per scontata, perché fa parte dei loro presupposti pratici e morali. Per loro è come respirare aria o notare che il cielo è blu. Il che è un’importante spia di come funziona il cervello. Alcune idee e conoscenze sono così profonde che raramente – se non mai – affiorano a livello cosciente. Nessuno va in giro declamando verità come «La gente respira» o «Tu hai un naso». Quanto ai conservatori, per loro l’idea che il privato dipenda dal pubblico è immorale, un vero e proprio anatema. I conservatori hanno una visione diversa della responsabilità. Mentre i progressisti credono essenzialmente nell’empatia (del prendersi cura dei propri concittadini), nella responsabilità personale e sociale e nell’impegnarsi a fare del proprio meglio per questi scopi, i conservatori credono soltanto nella responsabilità personale. Ciò produce una concezione completamente diversa di democrazia. Essa è intesa come un mezzo per raggiungere quella che chiamano liberty, ovvero la possibilità di inseguire il proprio tornaconto

personale senza che gli altri cittadini debbano sentire la responsabilità di aiutarci, né noi di aiutare gli altri, e senza interferenze da parte dello Stato. Questa convinzione morale è radicata nel cervello dei conservatori tanto quanto la visione morale progressista lo è nel cervello dei progressisti. Ancora una volta parlo di «cervello» – e non di «psiche» o di «mente» – per una ragione di fondamentale importanza: i pensieri sono corporei, sono frutto di connessioni neuronali all’interno del nostro cervello, non sono entità che fluttuano nell’aria. Possiamo capire soltanto ciò che le connessioni esistenti nel nostro cervello ci permettono di comprendere. I frame fondamentali attraverso i quali comprendiamo il mondo sono corporei. La nostra identità morale fa fisicamente parte di noi come i polmoni o il naso. Possiamo dare un senso soltanto a ciò che ci consente il nostro cervello. Se i fatti non corrispondono agli schemi in esso presenti, i circuiti neuronali si bloccano e ignorano quei fatti, li respingono, li ridicolizzano, o li considerano come immoralità da combattere. È un fatto che il privato dipenda dal pubblico. Forse è il fatto più importante della democrazia americana, eppure i rigidi conservatori non riescono ad afferrarlo, o lo percepiscono come una forma di immoralità così grave da dover essere debellata a tutti i costi. Questo è uno dei principali motivi di divisione del nostro paese e spiega le mosse dei conservatori mirate a rendere disfunzionale lo Stato e a privatizzarne il più possibile le istituzioni: l’istruzione, la sanità, la sicurezza, le risorse idriche, la regolamentazione dell’impresa, la difesa nazionale. I cervelli possono cambiare? È possibile cambiare la maggior parte dei cervelli degli americani in modo tale che questo principio fondamentale della nostra democrazia possa essere compreso e apprezzato? In molti casi no. Ma nella maggioranza dei casi sì. A renderlo possibile è il biconcettualismo.

Il cervello e il discorso pubblico costante

Il biconcettualismo è insito nel nostro cervello. Un gran numero di persone ha nel cervello valori morali sia progressisti sia conservatori, in numero e combinazioni variabili da questione a questione. Occorre tenere a mente che non esiste un’ideologia moderata, un insieme di opinioni comune a tutti i moderati. Un moderato progressista ha soprattutto idee progressiste e alcune idee conservatrici. Un moderato conservatore ha idee soprattutto conservatrici e alcune idee progressiste. Non esiste un conglomerato di idee politiche che si possa definire puramente moderato. Le visioni del mondo di progressisti e conservatori si contraddicono a vicenda, pur essendo entrambe determinate da circuiti neuronali all’interno del cervello. Com’è possibile avere circuiti neuronali opposti all’interno dello stesso cervello? La risposta è nella inibizione reciproca, un tipo di meccanismo cerebrale comunissimo: quando un circuito è attivo spegne automaticamente l’altro. Quale dei due sia acceso in un preciso momento dipende dal contesto. Chi possiede entrambe le visioni del mondo le applica alternativamente a seconda degli ambiti e dei contesti. A seconda delle questioni, i circuiti cerebrali fanno prevalere in modo inconscio e automatico l’una o l’altra visione. Ecco cosa significa essere biconcettuali. Spesso i biconcettuali sono oggetto di intense campagne elettorali. I repubblicani sanno meglio dei democratici come attirarli. Ricordiamoci che la politica ha sempre un fondamento morale, e che il senso morale di un elettore è centrale per la sua identità. Poiché gli elettori biconcettuali hanno entrambi i sistemi morali – uno in misura maggiore e l’altro minore – i conservatori cercano di mantenere i propri elettori ma di conquistarne altri attirando dalla propria parte i democratici parzialmente conservatori. A loro volta i progressisti, oltre a mantenere i propri elettori, avrebbero bisogno di attirare dalla propria parte i repubblicani parzialmente progressisti. A questo scopo esistono una strategia leale e una orwelliana. Quella leale consiste nell’utilizzare soltanto il proprio linguaggio ed evitare quello dell’avversario, in modo tale da attivare al massimo il proprio sistema morale nei moderati del partito opposto. La strategia orwelliana, invece, consiste nell’usare il linguaggio avversario nel tentativo di raggiungere i moderati del partito opposto con le loro stesse idee. Ma se si utilizza la strategia orwelliana, il risultato sarà che si attiverà il

sistema morale della fazione opposta rafforzandola e, di conseguenza, dandosi la zappa sui piedi. Ciò nonostante sono molte le organizzazioni politiche che applicano la strategia orwelliana. Per esempio, mentre mi stavo accingendo a scrivere, ho ricevuto una telefonata in cui una voce registrata mi chiedeva di sostenere un progetto del Center for Worker Freedom a sostegno della libertà dei lavoratori. Eppure è notorio che si tratta di un’organizzazione antisindacale, così come antisindacale era il progetto pubblicizzato, sebbene il messaggio telefonico non lo specificasse. L’intento era di raggirare l’elettorato democratico convincendolo a sostenere una norma antisindacale puntando sull’ignoranza. È fondamentale che i progressisti comprendano perché non basta citare i fatti e perché l’attenzione al discorso pubblico deve essere continua, non concentrarsi esclusivamente nel periodo elettorale. Di seguito elenco una serie di principi basilari che i progressisti dovrebbero tenere a mente. Esiste una logica nel modo in cui il cervello reagisce al discorso pubblico. Vediamola riassunta in dieci punti chiave: 1. 2. 3. 4.

5.

6. 7.

Più viene attivato un circuito cerebrale, più si rafforzano le sue sinapsi. Più si rafforzano le sinapsi, più si attivano in modo rapido e intenso. In caso di circuiti a inibizione reciproca, quanto più uno dei due si rafforza tanto più l’altro si indebolisce. In caso di circuiti a inibizione reciproca che si applicano a più questioni, quando uno dei due prevale a scapito dell’altro in una questione, esso si rafforzerà e finirà con il prevalere anche in gran parte delle altre. Il linguaggio modifica la forza dei circuiti. Il linguaggio conservatore rafforza quelli legati alla visione conservatrice; il linguaggio progressista attiva i circuiti legati alla visione progressista. L’immaginario legato all’una e all’altra visione del mondo sono ugualmente importanti. La frequenza con cui si usa un linguaggio o un immaginario è

importante. Più li si usa, più si rafforzano. 8. Per mestiere i giornalisti sono portati a usare il linguaggio che prevale nel discorso politico. 9. In America i conservatori hanno vinto grazie all’uso prevalente del loro linguaggio nel dibattito pubblico. Così prevalente che spesso persino i progressisti hanno finito per servirsene. 10. Vista l’influenza del linguaggio e dell’immaginario sul cervello, l’uso costante del linguaggio di un’ideologia a scapito di quella avversaria comporta enormi conseguenze in politica. I conservatori sono stati i più abili a far prevalere il proprio linguaggio nel discorso pubblico. Il loro gigantesco sistema di comunicazioni ha svolto un ottimo lavoro, soprattutto per quanto riguarda il fulcro portante della nostra democrazia, ovvero l’idea che il privato dipenda dal pubblico. L’idea conservatrice di ridurre al minimo, o addirittura eliminare, le risorse pubbliche si è tradotta nell’eliminazione dei fondi destinati a tali risorse, ovvero delle tasse. Oltre a ridurre le tasse ai più benestanti, i conservatori hanno coperto gravi episodi di evasione fiscale e ridotto drasticamente i fondi per l’Irs, l’agenzia americana delle entrate, con il risultato che quest’ultima non ha più personale sufficiente o strumentazione informatica adeguata per monitorare l’evasione fiscale, in particolare dei più abbienti. Rispetto agli anni Settanta il concetto di tasse si è modificato: dall’essere una fonte di necessarie e spesso auspicate risorse pubbliche sono passate per essere considerate un peso, un fardello di cui essere sgravati. Il discorso reiterato della tassazione intesa come un peso o una sofferenza ha spostato la visione anche dei biconcettuali, che non considerano più le tasse come una risorsa che permette ai cittadini di realizzare le proprie vite e alle imprese di prosperare. Mentre i conservatori conducono i frame al proprio ovile, i progressisti non si accorgono che dovrebbero fare altrettanto e che il discorso pubblico è ormai stato modificato a loro sfavore. Come per magia non sono più solo i conservatori a rimarcare il peso delle tasse anziché il valore del pubblico servizio, ma anche i media, i progressisti più moderati, fino a quando il linguaggio degli «sgravi fiscali» non proseguirà la sua marcia vittoriosa arrivando a conquistare addirittura i progressisti. Il nome «Tea Party» è stato scelto proprio per far sembrare patriottico

opporsi alle tasse.1 L’unico esponente progressista che è riuscito a trasmettere in modo reiterato l’idea che il privato dipende dal pubblico è stata con straordinario successo Elizabeth Warren, mentre concorreva per il Senato nel 2012. A un certo punto della sua campagna presidenziale, anche Barack Obama provò a introdurre l’argomento, ma s’ingarbugliò nel tentativo di parlare a braccio durante un incontro pubblico finendo per dire: «Se avete un’azienda, non l’avete costruita voi. Ve lo ha permesso qualcun altro». Per quella frase maldestra i conservatori lo attaccarono spietatamente. Avrebbe potuto rimediare aggiustando il tiro con una dichiarazione più ponderata da diffondere il giorno dopo e reiterare ogni giorno successivo, introducendo così quell’idea nel dibattito pubblico e consentendo alla stampa di fare il suo lavoro e riportare la schiacciante evidenza del fatto. Ma Obama fu troppo timido e si fece sfuggire l’occasione, perdendo così un’importante opportunità di cambiare il discorso pubblico. I progressisti possono invertire questa tendenza? Sì, ma per farlo occorre un impegno serio e consapevole. Ogni politico, ogni funzionario e ogni altra figura pubblica progressista può farlo a cominciare da subito, affermando il concetto in modo forte e chiaro, e ripetendolo all’infinito. Si deve associare il concetto che il privato dipenda dal pubblico a un altro concetto che i conservatori siano in grado di capire: la libertà. Le risorse pubbliche consentono la libertà in ogni ambito, schiudendo a ogni individuo un mondo di opportunità. È la libertà che le risorse pubbliche consentono a rendere queste ultime fondamentali per la democrazia. Il consiglio è di dirlo forte e chiaro, e ripeterlo in continuazione, in ogni discorso.

Terza parte

Il framing questione per questione

La questione della libertà

Uno dei principali errori del partito democratico è la sua tendenza a concentrarsi sulle campagne elettorali anziché sul framing costante del discorso pubblico. La politica è sempre morale. Gli elettori votano ciò che per loro è intrinsecamente, automaticamente e inconsapevolmente giusto. In poche parole le elezioni si giocano sulla visione morale che adottano i biconcettuali: quella dei progressisti o quella dei conservatori. L’esito delle elezioni dipende dal linguaggio e dalle immagini che gli elettori percepiscono giorno dopo giorno, non solo in campagna elettorale. I democratici hanno a cuore i risparmi delle famiglie e altri temi che toccano gli interessi della classe media e degli elettori meno abbienti. Eppure i meno abbienti che preferiscono la destra (conservatori e biconcettuali) votano regolarmente contro i propri interessi. Molti elettori del Tea Party sono poveri o lo sono diventati ancora di più a causa della politica conservatrice. Ma la macchina comunicativa dei conservatori è implacabile e arriva quasi ovunque. Il messaggio conservatore domina il discorso pubblico quotidiano. E il dominio del discorso pubblico – almeno quanto quello del discorso elettorale – determina la realtà politica. I conservatori si sono impossessati delle parole «libertà» e «autonomia». Ormai hanno entrambe un peso notevole nel vocabolario conservatore. Sono tra le parole più potenti della politica, perché il concetto di libertà è centrale per la democrazia. I conservatori non hanno alcun diritto di impossessarsene. Come accade per quasi tutte le parole, il termine «libertà» può avere significati molto diversi per progressisti e conservatori. Come ho

fatto notare in Whose Freedom?, la libertà è un concetto molto discusso. I conservatori e i progressisti adoperano questo termine con esiti opposti. Come abbiamo visto dalla versione originaria della Dichiarazione d’indipendenza, il messaggio progressista è il cuore della nostra democrazia ed è giunto il momento di restituirgli il posto che gli spetta. Molte delle questioni del dibattito pubblico – in campagna elettorale come nelle scelte quotidiane – sono questioni di libertà.

Assistenza sanitaria Quando il comico e conduttore televisivo Jimmy Kimmel inviò un suo collaboratore con un microfono all’angolo di una strada di Los Angeles per porre ai passanti una semplicissima domanda, «Cosa preferite, l’Obamacare o l’Affordable Care Act?», la stragrande maggioranza degli intervistati rispose che non amava l’Obamacare, ma che trovava valido l’Affordable Care Act. Molti ignoravano che si trattasse dello stesso piano sanitario. Del resto, nomi diversi in genere si riferiscono a cose diverse. Ma da dove proveniva il loro giudizio negativo sull’Obamacare? Dopo aver vinto le presidenziali del 2008, e ancor prima di insediarsi, Obama aveva ricevuto i risultati di un sondaggio che vagliava la popolarità delle future misure sanitarie. Tra le riforme che avevano raggiunto una percentuale di consensi compresa tra il 60 e l’80 per cento c’erano quelle più comuni, che furono effettivamente inserite nel piano: nessun prerequisito d’accesso, nessun tetto, la possibilità di tenere sulla propria polizza i figli fino a ventisei anni e così via. Il presupposto era che se le principali disposizioni erano popolari, tutto il disegno di legge sarebbe stato popolare. In altri termini il piano sarebbe stato accolto favorevolmente, visto che le principali misure erano state giudicate favorevolmente. Nessun conservatore attaccò quelle misure. Non ci fu alcun movimento conservatore che invocasse prerequisiti o tetti massimi, o si pronunciasse a sfavore dell’inserimento nella polizza dei genitori dei figli in età universitaria. I conservatori avevano capito che la politica è una questione di etica, così attaccarono il disegno di legge di Obama

proprio su quel terreno. Per la precisione, si appuntarono a due principi morali: la libertà e la vita. In tema di libertà, lo definirono «un colpo di mano da parte dello Stato». In tema di vita, sostennero che il piano conteneva i cosiddetti «comitati della morte» (death panels). Per mesi continuarono a reiterare queste due espressioni, «colpo di mano dello Stato» e «comitati della morte». Da parte sua, Obama, ribattendo a queste accuse non faceva altro che reiterare a sua volta le espressioni «colpo di mano dello Stato» e «comitati della morte», che attivavano e rafforzavano negli ascoltatori i concetti contenuti nell’attacco conservatore. I conservatori, al contrario, non utilizzarono mai l’espressione Affordable Care Act, coniando al suo posto il termine Obamacare, che distraeva l’attenzione pubblica dal concetto di accessibilità1 dell’assistenza sanitaria e associava ancora una volta il provvedimento al colpo di mano da parte dello Stato e ai comitati della morte. A sua volta la stampa, citando questi attacchi, prediligeva alla prolissa espressione Affordable Act Care, il termine Obamacare. Obama provò, invano, a volgere tutto a proprio vantaggio dicendo che Obamacare voleva significare «Obama cares», ovvero «Obama ci tiene». Ma era troppo tardi. Ripetendolo in continuazione, i conservatori avevano caricato quel termine del significato che volevano loro. Obama e i membri della sua amministrazione contrattaccarono appellandosi ai fatti, cioè elencando le disposizioni del piano. David Axelrod, consigliere di Obama, mandò un messaggio via email alla community «Organizing for America», che contava circa 13 milioni di sostenitori forti, chiedendo ai membri di convincere amici e vicini a sostenere il piano del presidente. Precisò che il progetto conteneva ventiquattro provvedimenti e che per semplificare aveva diviso la lista in tre gruppi da otto! Non servì a niente. Qualsiasi cognitivista avrebbe potuto dirgli che nessuno si sarebbe ricordato di quei tre gruppi da otto (io non ho mai incontrato nessuno che vi sia riuscito). I conservatori vinsero la guerra dei frame nel 2009, cosa che li aiutò a rafforzare il nascente movimento del Tea Party, i cui sostenitori trascorsero tutta l’estate a presenziare incontri in ogni angolo del paese e a parlare del colpo di mano dello Stato, dei comitati della morte e dell’Obamacare. Se Obama avesse compreso la tattica dei conservatori, avrebbe

potuto minarla in un modo semplicissimo, riprendendo gli stessi argomenti morali della libertà e della vita da una prospettiva progressista: se abbiamo un tumore e siamo privi di assistenza sanitaria, non siamo liberi, soffriremo e moriremo; se siamo coinvolti in un incidente automobilistico, riportiamo lesioni multiple e non abbiamo una copertura sanitaria, non siamo liberi, resteremo invalidi a vita o moriremo; anche se ci rompiamo una gamba e non possiamo curarla perché non abbiamo accesso all’assistenza sanitaria, non siamo liberi, perché potremmo non essere più in grado di camminare o di correre liberamente. La cattiva salute ci rende schiavi. La malattia ci rende schiavi. Persino le cataratte, che sono facilmente curabili dalla medicina moderna, ci condannano alla cecità se non possiamo permetterci l’assistenza sanitaria. Anche il cibo sano è una questione di libertà. Gran parte del cibo prodotto dalle coltivazioni intensive è malsano, così come quello industriale, ricco di zuccheri e additivi nocivi, e come la maggior parte delle carni, piene di ormoni e antibiotici e provenienti da animali allevati con mangime trattato con pesticidi. Ecco quindi che anche l’accesso al cibo sano è una questione di libertà. Anche il rifiuto dei fondi previsti dal Medicaid da parte degli Stati governati dai conservatori è una questione di libertà: sia per le persone indigenti alle quali viene negata l’assistenza sanitaria, sia per tutti gli altri, che potrebbero essere contagiati da tutti coloro con cui interagiscono quotidianamente ma che non possono permettersi cure.2 La libertà è un argomento molto forte.

Istruzione I conservatori vorrebbero tagliare tutte le risorse pubbliche: per loro è una questione morale. Dal loro punto di vista, il fatto che siano gratuite deresponsabilizza e disincentiva i lavoratori. Si prenda l’esempio dell’istruzione. Negli Stati governati dai conservatori, come il Wisconsin, i fondi per l’istruzione pubblica sono stati drasticamente tagliati. In alternativa all’istruzione pubblica il movimento

conservatore ha promosso charter schools, scuole religiose e scuole private. Le charter schools sono finanziate da fondi pubblici ma gestite privatamente, molto spesso da organizzazioni a scopo di lucro. Uno studio condotto nel 2013 dall’università di Stanford ha rilevato che circa il 75 per cento delle charter schools ha risultati peggiori – o tutt’al più uguali – alle scuole pubbliche tradizionali. Solo una piccola percentuale ha ottenuto risultati migliori. Ma attingendo per il loro finanziamento ai fondi un tempo destinati alle scuole pubbliche, le charter schools sottraggono linfa a queste ultime, peggiorandone il livello. Inoltre, non dovendo rispondere ai distretti locali o statali, le charter schools del Texas, per esempio, sono libere di confutare la scienza e le teorie evoluzionistiche e di insegnare il creazionismo. Oggi in Michigan l’80 per cento delle scuole è composto da charter schools, che non istruiscono i bambini poveri meglio delle scuole pubbliche. Secondo il framing conservatore, le scuole pubbliche sono «fallimentari», mentre i voucher, cioè i soldi pubblici pagati alle famiglie per mandare i figli negli istituti privati o religiosi, permettono ai genitori di «scegliere». Peccato che in genere i voucher non bastino per pagare scuole di qualità, perciò le famiglie povere tendono a non scegliere istituti di buon livello per i loro figli. In definitiva i voucher rappresentano un sostegno pubblico per i ricchi e un sostegno pubblico ridotto ai genitori che hanno scarse possibilità economiche. L’attacco dei conservatori alla pubblica istruzione ha avuto un impatto deteriore soprattutto ai gradi di istruzione superiore. Nelle amministrazioni federali i conservatori stanno tagliando fondi alle università pubbliche, con due gravi conseguenze. Se i college e le università statali rappresentavano la principale offerta formativa per gli studenti poveri o provenienti dalle classi medio-basse, da quando i conservatori hanno tagliato i budget, per restare in attività le università statali hanno dovuto alzare le rette, chiedendo un prezzo troppo alto alla maggior parte di questi studenti. La loro unica alternativa è chiedere soldi in prestito, cosa che ingenera il secondo problema: l’indebitamento degli studenti. In un periodo in cui le banche prestano denaro con interessi all’1 per cento, gli studenti devono pagare fino all’8 per cento per i loro prestiti, che peseranno su di loro per molti anni dopo la laurea. Tutto ciò rende ancora più

difficile potersi permettere di proseguire gli studi dopo la laurea o di farsi una famiglia. Secondo le stime più recenti, se lo Stato annullasse i debiti di tutti gli studenti, darebbe all’economia nazionale una spinta ben superiore all’ammontare dei debiti stessi. Ma i conservatori sono contrari sia ad annullare i debiti sia a ridurre gli interessi dei prestiti. Che si tratti dell’asilo, delle scuole superiori o delle università, il movimento conservatore punta a ridurre o eliminare completamente l’istruzione pubblica, così come le risorse pubbliche in generale. L’istruzione è una questione di libertà. Ma nel discorso pubblico non se ne parla mai. Senza istruzione non si è liberi per moltissimi motivi. L’istruzione ci racconta il mondo e le possibilità che offre. Se non sappiamo cosa è possibile fare, non possiamo neanche pianificare il nostro futuro. Istruire non significa solo riempire di dati la testa degli studenti, ma insegnare loro a pensare, a osservare, a essere critici, a comportarsi razionalmente, a essere pratici e ad accedere alle informazioni in maniera autonoma. L’istruzione ci fornisce le competenze, l’abilità per fare cose che altrimenti non sapremmo fare. È vero, le persone istruite hanno un maggiore potenziale economico – e i soldi possono renderci liberi in molti modi – ma la libertà che ci offre l’istruzione va oltre il denaro. Ci offre la possibilità di entrare in connessione con la natura, di comprendere ciò che ci circonda e noi stessi, di sperimentare la bellezza del mondo o delle idee. Ci dà le conoscenze e le occasioni per essere cittadini produttivi, per contribuire alla propria libertà e a quella degli altri attraverso l’impegno politico e sociale. Se l’istruzione in generale è una questione di libertà, l’istruzione pubblica lo è a maggior ragione, per due importanti ordini di motivi: 1.

1. L’istruzione pubblica è accessibile. Permette a un gran numero di persone di accedere all’istruzione, accrescendo la propria libertà. Inoltre permette di entrare in contatto con un’umanità varia, di aprirsi alle relazioni umane e di empatizzare con sempre più persone. 2. 2. L’istruzione pubblica è affidabile. Impedisce che siano gli interessi privati a determinare le materie e i contenuti dell’insegnamento. La causalità sistemica rende ancor di più l’istruzione una questione

di libertà, perché molti dei nostri principali problemi educativi sono dovuti alla povertà. La povertà fa sì che molto spesso i genitori che si barcamenano tra più lavori non possano educare al meglio i figli, per esempio leggendo loro libri, insegnando loro il rispetto per l’istruzione o sottraendoli a condizioni ambientali malsane. Significa che al mattino i bambini rischiano di andare a scuola affamati e che in classe non siano in grado di concentrarsi. Povertà e mancanza di istruzione si alimentano a vicenda. In molti casi l’insuccesso scolastico dipende più dall’inadeguatezza dell’economia nazionale che da quella di scuole o insegnanti.

Povertà La povertà è una questione di libertà. È ovvio. I poveri hanno molta meno libertà rispetto ai ricchi. Come abbiamo visto, i poveri hanno minore accesso all’assistenza sanitaria e all’istruzione. Ma la povertà ha eroso – o completamente demolito – molte altre libertà. I ricchi hanno abitazioni migliori. Non hanno il problema di non potersi permettere un alloggio. Abitano in quartieri migliori. Hanno più facilità di trasferirsi o di viaggiare. Hanno a disposizione cibo migliore. Hanno relazioni sociali migliori e posti di lavoro migliori. Sono tutte questioni inerenti alla libertà: se non abbiamo una casa o non possiamo trovare un posto dignitoso per vivere con la nostra famiglia siamo oppressi e limitati, non liberi. Se non possiamo trasferirci o viaggiare quando ne abbiamo bisogno, o voglia, siamo limitati nella nostra libertà. Se non possiamo nutrirci adeguatamente non siamo liberi. Se non possiamo relazionarci con gli altri, non siamo liberi. E non siamo liberi se non possiamo trovare una buona occupazione. In pratica ogni dimensione dell’esistenza di una persona povera e senza possibilità di fuga dalla sua condizione è una questione di libertà. Eppure molte persone meno abbienti spesso votano misure che peggiorano la loro vita anziché migliorarla, e ciò accade perché l’incessante framing conservatore ha attivato una visione del mondo conservatrice anche in coloro le cui vite possono essere

sostanzialmente rovinate da questi ideali. I conservatori considerano la povertà un insuccesso personale, un fallimento della responsabilità individuale. Ma la verità è che la povertà riduce la libertà. Se c’è un motivo per cui le persone dicono di sentirsi «intrappolate» dalla povertà è perché lo sono davvero. Ancora una volta appare evidente che nella nostra democrazia il privato dipende dal pubblico. Quanto teniamo alla libertà dei nostri concittadini?

Discriminazione: razza, genere e orientamento sessuale La storia ci ha mostrato chiaramente che anche il razzismo è una questione di libertà. Esso può indurre povertà, mancanza di istruzione, malattia. Come abbiamo visto nel caso di Trayvon Martin, in alcuni Stati può persino uccidere.3 Allo stesso modo la storia recente ci ha mostrato che anche l’omofobia è una questione di libertà. Essere gay è normale come essere mancini. La libertà di matrimonio tra persone omosessuali è una questione di amore e impegno così come lo è per gli eterosessuali, e dover rinunciare al matrimonio o ad altri diritti solo perché si è gay è un problema di libertà. Tutto ciò è ormai assodato negli Stati Uniti. La prima edizione di questo libro ha contribuito in modo significativo a compiere un reframing di queste questioni, a rinquadrare i diritti più basilari del mondo omosessuale. All’epoca i problemi principali riguardavano il diritto all’eredità e alle visite ospedaliere, due discriminazioni di carattere rispettivamente monetario e sociale, questioni in apparenza pratiche, ma che questo libro ha dimostrato essere prima di tutto morali, legate a valori come l’amore e l’impegno reciproco. Chiunque dovrebbe essere libero di sposare la persona che ama e con la quale vuole impegnarsi per tutta la vita. I progressisti diffondono questo messaggio ormai da molti anni, durante i quali i diritti degli omosessuali hanno fatto passi da gigante, a dimostrazione di quanto sia importante intervenire anche sui frame che toccano le sfere più profonde della nostra morale. Anche la cosiddetta «questione di genere» è una questione di libertà, ma i frame inerenti ai suoi principali problemi non sono

ancora stati inquadrati adeguatamente. Questi riguardano in particolare: il controllo del corpo, in quanto il diritto di disporre del proprio corpo è una questione di libertà; il rispetto, in quanto il diritto a essere trattati rispettosamente dalle istituzioni è una questione di libertà. In quanto esseri umani, le donne hanno il diritto di disporre del proprio corpo. Quando questo diritto è negato, cessano di essere libere. Sono diversi gli strumenti che consentono o negano alle donne di esercitare il controllo sul proprio corpo: Educazione sessuale. Soprattutto per le donne, l’educazione sessuale è necessaria per avere il controllo del proprio corpo. Le donne hanno bisogno di essere informate sul ciclo mestruale, sulle malattie che potrebbero trasmettere anche a eventuali figli, sulla procreazione e sui metodi per programmarla. Controllo della riproduzione. La riproduzione coinvolge il corpo delle donne in moltissimi modi. Le donne hanno bisogno di scegliere se e quando riprodursi, pertanto devono poter accedere ai servizi di pianificazione famigliare, ai metodi di controllo delle nascite e all’aborto. Ecografie obbligatorie e limiti alla pianificazione famigliare. Costringere una donna a sottoporsi a umiliazioni per esercitare il legittimo diritto di disporre del proprio corpo è una violazione della sua libertà. Lo è, per esempio, costringere una donna – come avviene in Texas – a sottoporsi a ecografie, compiute per lo più da uomini, a ventiquattr’ore dall’aborto, o permettere ad avvocati antiabortisti di assillarle mentre si recano in clinica per abortire. Anche approvare leggi che rendono impossibile mantenere aperte cliniche per la pianificazione famigliare è una violazione della libertà delle donne. Umiliare le vittime di abusi sessuali. Lo stupro, la somministrazione di stupefacenti per praticare abusi, la violenza fisica o psicologica a scopo sessuale sono tutte violazioni della libertà della donna di disporre del proprio corpo. Così come le umiliazioni che le forze di polizia e i tribunali perpetrano sulle

donne vittime di abusi. Queste questioni di libertà riguardano in modo specifico le donne, ma sono valide per ogni essere umano: tutti dovremmo poter disporre del nostro corpo. Le donne sono istituzionalmente discriminate anche in altri ambiti: Parità retributiva. Non è soltanto una questione di uguaglianza. Si tratta anche di capire che le donne vanno trattate come vorrebbe – o dovrebbe – essere trattato ogni altro essere umano. Pari opportunità di accedere a ruoli istituzionali. In una società libera, non dovrebbero esserci discriminazioni di genere per ottenere un lavoro, una promozione, l’ammissione a un programma accademico, la nomina per un incarico politico. Anche queste sono questioni di libertà. Non siamo liberi se non siamo trattati come tutti gli altri esseri umani nel rispetto della nostra funzione all’interno di un’istituzione. Uguaglianza e libertà non sono questioni separate. La discriminazione è la negazione della libertà. La libertà è un tema più vasto. Riguarda ad esempio anche il diritto di possedere beni o la mancanza di ostacoli di vario tipo al proprio esercizio dei diritti. La libertà è il cuore della democrazia e riguarda chiunque abbia bisogni, sogni e obiettivi. I democratici inquadrano la questione femminile in termini di «guerra per le donne». Probabilmente è una buona tattica per raccogliere soldi ma, tranne che per le più strenue femministe progressiste, non è un frame efficace. La stessa morale del padre severo, che pure è parzialmente favorevole a preservare l’autorità maschile in nome dell’istinto di protezione e del sostegno alle donne, non s’inquadra come una guerra contro di loro. Anche le donne conservatrici tendono a considerare l’autorità maschile come protettiva o di sostegno alla maternità (intesa come principale funzione femminile). Ecco perché insistere con la «guerra per le donne» funziona per le femministe progressiste, che giustamente vedono i propri valori sotto attacco, ma non funziona altrettanto bene per le donne conservatrici o biconcettuali. Bisognerebbe invece insistere sulla libertà, intesa come

libertà delle donne di decidere da sole, qualsiasi sia la loro opinione, in merito ad aborto, contraccezione e educazione sessuale.

Pensioni e sindacati Ai conservatori piace parlare di imprenditori e investitori benestanti come di «creatori di lavoro», o di persone che «donano» un lavoro alla gente, come se il lavoro fosse un regalo che si offre alle persone disoccupate. Che assurdità. La verità è che i lavoratori sono creatori di profitto, e che nessuno sarebbe assunto se non contribuisse al profitto di imprenditori e investitori. Questa è una verità fondamentale: i lavoratori producono profitto. Ma qualcuno lo dice? Quante volte, se mai vi è successo, avete sentito pronunciare questa verità? Eppure è una verità importante perché rinquadra la questione del lavoro dalla prospettiva del contributo fornito dai lavoratori. Come abbiamo visto, la pensione è un compenso differito per un lavoro già compiuto. Anche questa è una verità fondamentale, ma nessuno parla mai della pensione in questi termini. Non è questo il suo framing. Quando accettiamo un lavoro, e la pensione prevista contrattualmente, sappiamo che quella pensione è parte del nostro stipendio e delle condizioni di impiego. È consuetudine diffusa presso i lavoratori rinunciare anche a una quota cospicua di stipendio pur di avere una pensione più consistente, dal momento che la pensione è il denaro che ci consentirà di continuare a vivere quando non potremo più lavorare. Fa parte del contratto di impiego. L’idea alla base della pensione è che un’azienda possa pagare meno uno stipendio e investire la parte restante, ricavandoci più di quello che potrebbe ottenere il singolo lavoratore, il quale percepirà il suo ricavo più tardi, quando incasserà la pensione. Un altro concetto alla base della pensione è che questa serva a tenere i lavoratori fedeli al datore di lavoro che, in tal modo, non solo risparmierà il denaro che servirebbe a formare nuovi impiegati, ma potrà mantenere più facilmente i lavoratori che conoscono già quell’impiego e che, pertanto, sono potenzialmente più efficienti di un

neoassunto. In poche parole, una pensione è tutto fuorché un regalo per un lavoratore. È più che guadagnata. E si fonda sul vantaggio per il datore di lavoro, che non è meno importante di quello per il lavoratore. Sfortunatamente il denaro per le pensioni è spesso oggetto di appropriazione indebita e cattiva gestione da parte delle società. Può essere investito male o utilizzato per altri propositi, come pagare i dividendi agli azionisti o gli stipendi ai dirigenti. Così, quando un’azienda (per esempio la General Motors) o una città o uno Stato dice ai propri impiegati che non può «permettersi» di pagare loro le pensioni, significa che è coinvolta in un furto, e i ladri dovrebbero essere perseguiti per legge. Quel denaro è stato guadagnato. Se è stato utilizzato per altri scopi allora è stato sottratto. Se è stato investito male, allora le perdite sono dell’azienda e i pensionati dovrebbero rivalersi sui beni aziendali. Purtroppo a questo punto entra in gioco il framing. Le pensioni e l’assistenza sanitaria sono chiamate «vantaggi» o «benefit» come se fossero generosi regali agli impiegati. Ma non sono regali. Sono pagamenti rimandati di denaro che si è guadagnato lavorando. Quando un’azienda dice ai propri impiegati che non può più permettersi tali «generosi benefit» e che dovrà tagliarli, sta utilizzando un frame bugiardo. Alla base ci sono furti, cattiva gestione o investimenti sbagliati. I «benefit» non sono altro che legittimi compensi. Le pensioni e i benefit sono questioni di libertà. In una società libera, c’è un sistema giudiziario che punisce i ladri, si pronuncia sui contratti e, in caso di appropriazione indebita dei fondi, autorizza cause per rivendicazioni sui beni societari in modo da recuperare le perdite e i costi legali, economici e morali. Fintanto che un siffatto sistema giudiziario è assente, le persone a cui sono stati sottratti benefit e pensioni non saranno libere. Le grandi aziende – e qualche piccola impresa – hanno due tipi di impiegati: le «risorse strategiche» e le «risorse ordinarie». Tra le «risorse strategiche» ci sono i dirigenti, i creativi e le persone che, grazie alle loro competenze specifiche o alla loro creatività, sono indispensabili al successo dell’azienda. Fanno parte del valore di mercato dell’azienda. Sono ingaggiati dai cacciatori di teste e

necessitano alti compensi e buonuscite milionarie (cospicue pensioni e pacchetti retribuitivi). Le «risorse ordinarie» sono invece lavoratori intercambiabili che possono essere attinti da un bacino occupazionale. Sono assunti e gestiti dai responsabili aziendali delle risorse umane. E, proprio come risorse quali il gas o la benzina o l’acciaio, sono acquistati al minor prezzo possibile, per cui sono le risorse umane più a buon mercato. Poiché il livello salariale è spesso abbinato al livello delle competenze, si tende ad assumere «risorse ordinarie» con il minor livello di competenze e, di conseguenza, al minor costo possibile. Quando la disoccupazione è alta e i lavoratori in cerca di impiego sono numerosi, pur pretendendo sempre risorse umane adeguate, le aziende abbassano stipendi e benefit, massimizzando così i profitti e gli stipendi dei manager. Anche i sindacati sono una questione di libertà. Le aziende che assumono risorse umane, in genere, hanno molto più potere dei singoli individui che cercano occupazione. Quando l’azienda è grande e il bacino occupazionale è pieno di disoccupati, questi devono adattarsi e accettare quel che viene loro offerto, altrimenti il lavoro verrà dato al primo disoccupato che li segue nelle liste di collocamento. L’accettazione non riguarda soltanto lo stipendio e i benefit, ma anche le condizioni lavorative: sicurezza sul posto di lavoro, orario, straordinari e così via. L’impiegato è al servizio di queste condizioni e, spesso, dei ghiribizzi aziendali. Nella teoria economica capitalista, il lavoro è una transazione in cui il datore compra la prestazione degli impiegati e questi vendono la loro prestazione al datore. Da qui l’espressione «mercato del lavoro». Nelle transazioni economiche si presuppone che entrambe le parti cerchino l’affare migliore. Compito dei sindacati è cercare di far realizzare il miglior affare alle risorse ordinarie. I sindacati servono dunque a mediare il potere che l’azienda esercita sui lavoratori. Tranne che nel caso dell’outsourcing, le aziende non possono funzionare in totale assenza di risorse ordinarie. Se l’azienda è sindacalizzata, allora tutti i lavoratori in quanto gruppo negozieranno un potere che il singolo lavoratore non potrebbe ottenere da solo. L’alternativa – accettare qualsiasi condizione l’azienda offra al

lavoratore – potrebbe essere chiamata «schiavitù aziendale» o «salariale». Poiché il potere dei sindacati si è ridotto, i salari delle risorse ordinarie non sono aumentati negli ultimi trent’anni. Nello stesso tempo, la ricchezza di investitori e aziende benestanti è andata alle stelle sebbene non si sia registrato un vero e proprio aumento della produzione. Il declino dei sindacati ha coinciso con l’indebolimento della maggior parte dei cittadini e con la riduzione della loro fetta di ricchezza nazionale. Si sono ridotte tutte le forme di libertà che la ricchezza comporta. I sindacati sono una questione di libertà. Non essere stati in grado di dirlo forte e chiaro e di ripeterlo il più spesso possibile ha permesso ai conservatori di istituire organizzazioni come il Center for Worker Freedom, il «centro per la libertà del lavoratore», come se i sindacati sequestrassero la libertà, e di parlare di leggi per il «diritto al lavoro», come se i sindacati minassero i diritti anziché garantire la libertà dalla schiavitù aziendale e salariale.

Immigrazione L’America è un paese di immigrati. Molti di loro erano profughi, in fuga da un regime oppressivo o da un altrettanto brutalizzante stato di povertà, approdati in America in cerca di libertà. Fu così anche per i miei nonni, come credo per quelli della maggior parte degli americani miei contemporanei, a esclusione dei nativi. Subito dopo essere arrivati in America, i miei nonni diventarono americani nel senso migliore del termine: lavorarono sodo, si costruirono una famiglia, si comportarono civilmente e amarono questo paese per il quale nutrivano gratitudine. Oggi il problema della cosiddetta «immigrazione» riguarda una nuova generazione di profughi. In un discorso tenuto in Florida il 22 giugno 2012, alla presenza dei leader ispanici della National Association of Latino Elected and Appointed Officials, il presidente Obama espresse in modo chiaro e mirabile la sua visione morale della questione. Spiegò che l’attuale ondata di profughi, descritti come «immigrati senza documenti», comprende individui che per molti

versi possono già considerarsi cittadini americani, in quanto contribuiscono enormemente alla società americana e alla sua economia lavorando sodo, amano il paese in cui vivono, sono patriottici, condividono il quotidiano con altri americani e si assumono responsabilità sociali e individuali. Esprimendosi in questo modo Obama non si limitava a riconoscere loro la libertà, ma anche il suo apprezzamento. Era come se dicesse che i rifugiati non solo si sono meritati il diritto di essere considerati americani, ma anche la nostra gratitudine per quanto ci hanno già dato con il loro duro lavoro, spesso malpagato. Sono già americani a tutti gli effetti. Conducendo una vita da veri americani, si sono meritati i documenti che altri americani possiedono per diritto di nascita, senza alcun merito particolare. La narrazione morale di Obama racconta una verità che bisognerebbe continuare a reiterare. Ma raramente succede. Al suo posto persistono due metafore, una democratica e l’altra conservatrice, che non rendono giustizia ai profughi. La metafora democratica è quella del cosiddetto «Percorso di cittadinanza», che vede la cittadinanza come la tappa finale di un cammino lungo e accidentato da affrontare senza grandi concessioni, un limbo infinito al termine del quale il permesso di soggiorno viene accordato a chi si è comportato come un cittadino modello ed è entrato all’università o nell’esercito. Il Dream Act (in realtà acronimo di Development, Relief and Education for Alien Minors), il disegno di legge che permetterebbe ai figli di immigrati irregolari di accedere all’American Dream, non poteva essere chiamato in modo meno appropriato. Rende questi cittadini de facto persone che possono soltanto sognare di diventare cittadini americani, come se non si comportassero già quotidianamente allo stesso modo dei nostri migliori concittadini. Nell’attesa dovrebbero se non altro avere diritto all’assistenza sanitaria, ad alloggi decorosi, a condizioni di lavoro dignitose, a uno stipendio per vivere, all’accesso all’istruzione per i propri figli e alla possibilità di conseguire la patente di guida. Queste persone non meritano soltanto libertà, ma anche gratitudine. La metafora conservatrice, etichettandoli come criminali, mostra tutto fuorché gratitudine. Nel fuggire in America, spesso rischiando la vita, i rifugiati oltrepassano il confine senza documenti e, dunque, illegalmente. I conservatori li considerano «criminali», «illegali»,

come se commettessero crimini ogni giorno, mentre in realtà falciano i nostri prati, puliscono le nostre case, si prendono cura dei nostri figli, raccolgono frutta e verdura, ci preparano da mangiare, costruiscono i nostri edifici e, ogni volta che è possibile, usano le loro capacità per loro stessi ma anche per noi. I loro figli vanno a scuola e poi aiutano in casa. Ma siccome spesso hanno la pelle scura, parlano spagnolo e sono poveri, vengono discriminati. I conservatori vorrebbero incarcerarli ed espellerli tutti. Per questi motivi, e poiché non sono nati americani, sono relegati in fondo alla gerarchia morale dei conservatori: sono considerati moralmente inferiori. Sono discriminati per la loro lingua e per il colore della pelle e incolpati per la loro povertà. Per noi è una questione di empatia. Ci stanno a cuore questi esseri umani che si comportano esattamente come i nostri concittadini? O li trattiamo come esseri inferiori, non meritevoli della libertà che si guadagnano giorno dopo giorno? Per le persone che sono arrivate fin qui per sfuggire alla brutalità dell’oppressione e della povertà è una questione di libertà. Lo è soprattutto per quelle decine di migliaia di bambini che hanno attraversato la frontiera spediti dai genitori o di loro iniziativa, fuggendo da soli dai trafficanti di uomini, dalle gang e dagli squadroni della morte che in Guatemala, in Honduras e in parte del Messico li uccidono, li torturano e li rapiscono. In base a un provvedimento legislativo firmato da George W. Bush prima che scadesse il suo mandato, questi bambini devono essere accolti dignitosamente dallo Stato americano, in attesa che i loro casi vengano esaminati dai tribunali e si decida se affidarli a famiglie statunitensi o destinarli a un altro paese, ad esempio al Messico se provengono da lì. Nessuno poteva immaginare che sarebbero stati così numerosi. Di tale situazione i conservatori incolpano Obama, per non averli immediatamente espulsi, sebbene questo sarebbe stato illegale oltre che disumano. I democratici, viceversa, non li chiamano «i bambini rifugiati di Bush», eppure sarebbero legittimati a farlo se il problema non fosse incolpare un conservatore del problema bensì riservare a quei bambini un trattamento umano e conforme alla legge.4 Nel frattempo i conservatori del Sud, che vivono in prossimità del confine, si ribellano al fatto che i migranti vengano trattati in modo umano anziché essere espulsi. I conservatori organizzano

manifestazioni di protesta piene di persone che sfilano per strada urlando slogan razzisti e sventolando la bandiera americana. Quando vengono intervistate pronunciano frasi come: «Rimandateli a casa loro! Sono sporchi! Portano malattie! Sono criminali! Perché Obama spende i soldi delle nostre tasse per dare loro stanze pulite, vestiti, cibo e assistenza medica? Presto ce li ritroveremo anche nelle nostre scuole! Dove sono i loro genitori? Come possono essere stati così irresponsabili da mandare qui i loro figli da soli? Possibile che non gliene importi niente?». Si tratta di una questione umanitaria urgente, che richiede empatia. Nessun genitore vorrebbe vedere i propri figli mutilati, ammazzati o rapiti dai trafficanti. Molti di quei bambini sono eroici, a volte viaggiano per migliaia di chilometri per raggiungere la salvezza e la libertà. Si tratta di nutrire rispetto ed empatia per loro in quanto esseri umani.

La teoria di Piketty sulla crescita accelerata delle disuguaglianze economiche

Oltre al riscaldamento globale, la causalità sistemica si applica anche all’economia, con risultati altrettanto significativi e drammatici. Il divario tra i super ricchi e il resto della popolazione aumenta in modo sempre più accelerato. Quali sono le cause e gli effetti sistemici? C’è un meccanismo perverso alla base dell’arricchimento rapido e progressivo da parte di pochi? Nel 2014 Thomas Piketty, insieme ad altri economisti, ha formulato le risposte a tali domande, ma per il momento i risultati della sua analisi non sono stati usati per effettuare un reframing del discorso pubblico. Dallo studio di Piketty è emerso che il nostro attuale concetto di «ricchezza» non basta a spiegare il crescente divario tra ricchi e poveri. Abbiamo bisogno di fare appello alle nozioni di ricchezza intesa come «accumulazione di capitale» e come «distribuzione del reddito». Alla ricchezza fanno capo certe forme di libertà – come quella di comprare beni, viaggiare, partecipare a eventi culturali e così via – ma anche certe forme di potere, come quello di pagare altre persone per svolgere delle mansioni al posto nostro o di contribuire al finanziamento di una campagna elettorale. I lavoratori sono generatori di profitto, il che vuol dire che producono ricchezza per altre persone. Producono anche ricchezza per sé, ma il loro valore di solito risiede nella ricchezza che sono in grado di produrre per altri. A questo punto sarebbe legittimo chiedersi: del reddito da lavoro, quanta parte va a coloro che hanno compiuto il lavoro e quanta a tutti gli altri? E in che proporzione? Qual è il

meccanismo del sistema che determina o cambia la distribuzione del reddito? Il capitale nel XXI secolo di Thomas Piketty è un saggio accademico di altissimo livello in grado di cambiare la nostra visione non solo dell’economia, ma di molte altre cose. Piketty lo ha pubblicato nel momento in cui ce n’era più bisogno. Ne riassumo qui di seguito le idee basilari. Dopo aver studiato la storia del reddito e della ricchezza, Piketty osserva che esistono due diversi tipi di ricchezza: Il reddito da lavoro, ovvero la ricchezza generata dal lavoro, dalla produzione e dalla vendita di beni e servizi. È il tipo di ricchezza di cui parlava Adam Smith, incarnata da soggetti professionali come il fornaio o il falegname. Ognuno di loro produce e vende oggetti, e ha bisogno e acquista gli oggetti che produce l’altro. Il guadagno del fornaio paga il lavoro del falegname e il guadagno del falegname paga il lavoro del fornaio. Ciascuno dei due lavora per se stesso, produce beni e li cede in cambio di soldi: in un mercato semplificato al massimo, ognuno dei due produce ricchezza per se stesso e per l’altro. Il reddito da lavoro è il tipo di ricchezza che viene misurata dal Prodotto interno lordo. Piketty lo identifica con la lettera G. Il reddito da capitale, ovvero la ricchezza generata rinvestendo in continuazione le rendite finanziarie dei propri investimenti. Questo tipo di ricchezza cresce esponenzialmente, come l’interesse composto. Più si ha, più si investe, e più si investe più si avrà. Piketty lo identifica con la lettera R. È a questo punto che entra in gioco il concetto di distribuzione del reddito. Piketty osserva la distribuzione dei vari tipi di ricchezza, ovvero il rapporto tra R e G all’interno di una popolazione, e si chiede: com’è cambiato questo rapporto? E perché? La sua ricerca ha preso le mosse dallo studio della documentazione fiscale di diversi paesi a partire dal XVIII secolo. Piketty ha scoperto che fino al 1913 il grosso della ricchezza era costituita dal reddito da capitale. Persino durante il periodo della Rivoluzione industriale, che di solito viene associata al reddito da lavoro, R era molto più grande di G. In altre parole Piketty ha smentito una convinzione comune. Ha

messo in evidenza come il reddito da capitale fosse preponderante anche nelle democrazie capitaliste, dove di solito si suppone che la libertà dell’individuo e del mercato agevolassero il reddito da lavoro. In Francia ad esempio, una democrazia capitalista che ha molto a cuore l’égalité, nel 1910 il 70 per cento della ricchezza era costituita da reddito da capitale e concentrata nelle mani di pochi super ricchi, non già da reddito da lavoro distribuito per tutta la popolazione. Dal 1913 si registrò un importante cambiamento. In seguito alla Prima guerra mondiale, alla Grande depressione e alla Seconda guerra mondiale, andò distrutta una notevole parte del reddito da capitale. Crebbe il reddito da lavoro, quindi G divenne maggiore di R. Visto che gran parte della moderna teoria economica, sia progressista sia conservatrice, è stata elaborata tra il 1913 e il 1980, essa si è concentrata soprattutto sul reddito da lavoro, sul Pil (ovvero su G e non su R). Poi, intorno al 1980, ovvero nell’era di Reagan, qualcosa cambiò. Reagan ridusse notevolmente le tasse per i più ricchi, sferrò un duro attacco ai sindacati e, di conseguenza, ai salari dei lavoratori ordinari e avviò la deregolamentazione dei mercati. Lo stesso fece Margaret Thatcher in Inghilterra. A poco a poco la loro idea economica si diffuse in tutto il mondo attuando un cambiamento storico importante. R tornò a essere maggiore di G. Il reddito da capitale riprese le redini dell’economia e iniziò a crescere in modo esponenziale, come l’interesse composto. Nel 1976 l’1 per cento della popolazione statunitense possedeva il 19,9 per cento della ricchezza. Nel 2010 nelle mani di quell’1 per cento era concentrato il 35,4 per cento della ricchezza nazionale, che saliva al 63 per il 5 per cento della popolazione e all’88,9 per il 20 per cento dell’intera popolazione degli Stati Uniti. Il che significa che il restante 80 per cento degli americani doveva dividersi l’11,1 per cento della ricchezza nazionale. Sono queste le conseguenze della crescita esponenziale del reddito da capitale, e peggiorano man mano che si scende nella scala della ricchezza, al punto che oggi sei membri della famiglia Walton possiedono complessivamente un patrimonio netto superiore a quello del 41 per cento delle famiglie americane (comprese le famiglie con patrimonio netto negativo, poiché sono famiglie anche quelle).5 All’aumento della quota di ricchezza nazionale posseduta dai

benestanti corrisponde dunque una diminuzione di quella appartenente a tutto il resto della popolazione. Ma anche una diminuzione della libertà, della qualità della vita, nonché della quota di potere e influenza elettorale acquistabili tramite la ricchezza. Tecnicamente una persona dovrebbe contare sempre un solo voto. Ma l’influenza del singolo voto sulle elezioni è diminuita tantissimo. Si può invertire questo trend? Piketty sostiene di sì, ma per farlo è necessario un cambiamento politico.

Effetti sistemici sulla politica Piketty non è pessimista riguardo al fatto che R sia superiore a G. Fa notare che un cambiamento politico potrebbe riportare sotto controllo l’accumulo smodato della ricchezza, per esempio tramite un’imposta sul patrimonio. Inoltre lascia intendere che le tradizionali misure democratiche – come un aumento dei salari della classe medio-bassa, una diminuzione dei compensi dei manager aziendali, la lotta all’evasione e alle scappatoie fiscali, l’accesso agevolato all’istruzione e così via – potrebbero aiutare a realizzare un’inversione di rotta. Ma ci sono effetti sistemici che remano contro una soluzione politica. La concentrazione accelerata dei capitali comporta numerose conseguenze, tra cui: Una maggiore influenza sulla politica. I ricchi (che si tratti di individui o di imprese) esercitano un enorme potere lobbistico sulla politica, un potere che cresce nel tempo. Un maggiore controllo sul discorso pubblico. I ricchi (individui e imprese) possono controllare il discorso pubblico in molti modi: acquistando organi di stampa, sponsorizzando trasmissioni televisive e pubblicità su larga scala e così via. Questo tipo di controllo ha effetti anche sui nostri cervelli. Il linguaggio e le immagini attivati dai frame conservatori attiveranno anche la morale conservatrice (ovvero quella del padre severo). Al rafforzarsi della morale del padre severo corrisponde un indebolimento della morale progressista. Tutto ciò influenza

estremamente le convinzioni delle persone sia a livello inconscio sia a livello consapevole, di conseguenza anche il loro voto. Un maggior controllo sui diritti degli altri. Negli Stati Uniti, per esempio, tramite il controllo delle singole amministrazioni federali i ricchi possono controllare il voto dei cittadini più poveri, e il controllo sui singoli Stati è più a buon mercato rispetto a quello sulla nazione. Ci sarebbe bisogno di sovvenzionare pubblicamente i partiti e di regolamentare l’ingerenza della politica sui media. Ma considerata l’attuale distribuzione della ricchezza e la diffusione della morale del padre severo presso la popolazione americana, così come in molti altri paesi, il cambiamento politico seppur necessario sembra improbabile, a meno che non intervengano altri importanti cambiamenti indotti dalla volontà dei progressisti di lavorare al framing delle questioni sistemiche e a tenere su questi problemi un’attenzione forte e vigile grazie a un costante discorso pubblico.

Conseguenze sul lavoro produttivo Uno dei maggiori effetti sistemici del predominio del reddito da capitale riguarda la natura del lavoro produttivo, divenuto meno appagante da diversi punti di vista. Quello più ovvio è che il sistema economico basato sul lavoro produce meno ricchezza, impedendo a molti lavoratori di condurre una vita soddisfacente. Alla diminuzione della produzione corrisponde una diminuzione del lavoro e dunque dell’occupazione, con la conseguenza che il lavoro disponibile è sempre meno appagante. Un lavoro è più o meno appagante a seconda dello stipendio, delle condizioni in cui lo si svolge ma anche delle competenze che richiede, dell’utilità che ha e del piacere che procura. Per essere appagante, un impiego non deve essere necessariamente esaltante o retribuito tantissimo: è sufficiente che dia soddisfazione. Conosco diversi lavoratori che hanno trovato il modo di avere una vita professionale soddisfacente: falegnami, giardinieri, barbieri, salumieri, fornai, meccanici, capi ufficio, sarti, imbianchini, cuochi, camerieri, insegnanti, addetti alle pulizie. Non sono professionisti come gli

avvocati, i medici, gli informatici, i farmacisti, i biologi, o come gli esperti di finanza, né musicisti, attori cinematografici o atleti professionisti. Sono gente comune. Cittadini con un’istruzione, un lavoro e una famiglia. Tuttavia sono sempre meno le persone che riescono ad avere una vita professionale appagante, e a causa del peggioramento delle condizioni lavorative diminuisce anche il numero di coloro che riescono a ottenere una buona istruzione e a diventare buoni cittadini e buoni genitori. Alla base c’è una ragione strutturale. È bene ricordare che le aziende tendono ad avere due tipi di impiegati: le risorse straordinarie e quelle ordinarie. Delle risorse straordinarie fanno parte i dirigenti e i creativi indispensabili all’azienda. Di quelle ordinarie fanno parte persone intercambiabili, ingaggiate con il livello più basso di competenze, al minor prezzo possibile e con il più basso livello accettabile di condizioni lavorative (garanzie di impiego, pensioni, assistenza sanitaria, congedi parentali e di malattia, scarsa flessibilità negli orari di lavoro, scarsi o inesistenti aumenti e bonus). Tutto ciò a favore della cosiddetta «efficienza», che altro non è che la massimizzazione del profitto. I lavoratori considerati risorse ordinarie sono soggetti a licenziamenti e a riassunzioni come lavoratori a contratto, o alla perdita del lavoro se l’esternalizzazione dovesse risultare più vantaggiosa per l’azienda. La battaglia delle aziende contro la sindacalizzazione non solo consente tali condizioni, ma addirittura ne incentiva la pratica. La computerizzazione e la meccanizzazione producono un aumento dei lavori scarsamente qualificati e sottopagati e allo stesso tempo continuano ad arricchire investitori e manager aziendali. Questi infatti possono licenziare o far retrocedere i lavoratori sul piano delle mansioni e delle retribuzioni oppure decidere di delocalizzare il lavoro in luoghi dove la manodopera costi meno. Questa tendenza è trainata dalla richiesta di guadagni sempre maggiori da parte degli investitori e dall’incentivazione dei manager a diventare parte dell’azionariato, accrescendo i propri profitti. Gestendo la ricchezza dell’azienda, infatti, possono giovare di una parte più sostanziosa della stessa. Controllando i soldi dell’azienda, possono accaparrarsene una parte sempre più sostanziosa,

lasciandone sempre meno ai lavoratori, che sono gli effettivi produttori.

Inadeguatezza delle tradizionali soluzioni economiche liberiste I democratici continuano a proporre soluzioni tipiche della teoria classica del liberismo: aumento del salario minimo, ambiziosi piani di ricostruzione delle infrastrutture, riforma degli ammortizzatori sociali, investimento nell’educazione della prima infanzia e nell’istruzione in generale, migliore assistenza sanitaria. Queste misure potrebbero alleviare le sofferenze dei meno abbienti, cosa certamente importante. Ma basterebbero da sole a sanare il divario tra l’esagerato arricchimento dei benestanti e l’esagerato impoverimento di tutti gli altri? Anche l’attuazione di queste misure richiederebbe un deciso cambiamento del clima politico. Ma per realizzarlo, come abbiamo visto, non basta raccontare alla gente i risultati degli studi economici di Piketty, perché i dati da soli non producono alcun effetto. Occorre un radicale cambiamento dei frame.

Effetti negativi della crescita esponenziale della ricchezza posseduta da pochi Il primo effetto negativo, ancora privo di un framing adeguato, è quello per cui l’aumento esponenziale della quota di ricchezza posseduta da pochi tende a erodere il denaro pubblico che consentirebbe al grosso della popolazione di condurre una vita sana e soddisfacente. Sul piano politico questo si traduce ad esempio in una riduzione delle tasse per i più ricchi e in un taglio di quegli stessi fondi pubblici che ne hanno reso possibile l’arricchimento. Consideriamo l’istruzione. Sono poche le università all’avanguardia per la ricerca e soltanto alcune di esse sono pubbliche. Con il taglio dei finanziamenti, queste ultime saranno costrette ad aumentare le rette di iscrizione e altri costi e, conseguentemente, a distinguersi sempre

meno sotto questo aspetto da quelle private. Lo stesso si dica per gli altri gradi d’istruzione. Allo stesso tempo è venuta meno l’istruzione nel senso proprio del termine. L’istruzione liberale in senso classico aveva un insieme di obiettivi differenti: sviluppare le capacità intellettive e critiche dello studente, fargli conoscere il mondo e aprirsi alle sue possibilità, fornirgli gli strumenti per continuare a imparare in modo autonomo e formarlo come cittadino in grado di partecipare alla vita democratica. A causa della perdita di lavoro appagante, l’istruzione è radicalmente cambiata. Sempre più studenti vedono l’istruzione come un percorso finalizzato al raggiungimento della ricchezza o di un lavoro esaltante, perciò vengono «istruiti» per i lavori contemporanei, senza l’intangibile ma estremamente importante ricchezza personale che forniva tradizionalmente l’istruzione liberale. È un furto educativo, perché l’istruzione liberale preparava alla vita in generale, cosa che la formazione all’attuale mondo del lavoro non può fare, soprattutto se consideriamo che i lavori di oggi potrebbero non esistere più domani.

Perdita di esperienze di crescita personale Se coloro che detengono il grosso della ricchezza possedessero tutte le spiagge, tutti gli altri sarebbero privati dell’esperienza della spiaggia. È una verità valida non solo per le spiagge, bensì per molte altre realtà di cui possono fare esperienza i super ricchi ma non le classi più disagiate (o medio-basse). Scuole eccellenti, ambienti gradevoli, colonie estive, viaggi in località interessanti o piacevoli, possibilità di andare a visitare i famigliari, ferie e pause dal lavoro, costosi eventi di musica o arte, bei vestiti, ottimo cibo e vino, alimentazione sana, cure mediche di prima qualità, principali eventi sportivi, cultura internazionale, città, festival cinematografici e così via. I soldi comprano anche le esperienze di crescita personale di cui è composta buona parte dell’esistenza umana. Una persona benestante può fare moltissime esperienze. La rapida crescita di ricchezza dei benestanti, e il conseguente impoverimento di tutti gli altri, per moltissime persone significa perdere esperienze di crescita personale, ovvero perdere una vita significativa.

Piketty e il riscaldamento globale L’aumento incontrollato della ricchezza dei più ricchi associato a quello del riscaldamento globale ha generato la tempesta perfetta. È quanto mai necessario mettere in correlazione questi due fenomeni nel discorso pubblico. Le persone e le imprese ricche continuano a reinvestire e a diventare sempre più ricche. Nei media conservatori (e spesso in tutti quelli più popolari) l’attuale framing sul riscaldamento globale utilizza la negazione e le tattiche del terrore sostenendo, per esempio, che combattere il riscaldamento globale sarebbe troppo costoso, che manderebbe in rovina la nostra economia, comporterebbe massicci licenziamenti, farebbe crescere la dipendenza energetica e così via. Sono tutte falsità, come hanno dimostrato molti studi indipendenti. Ma siccome i ricchi controllano i media, possono controllare i meccanismi del dibattito e del pensiero pubblico mediante il controllo del linguaggio e delle immagini. Più peggiorano gli effetti del riscaldamento globale, maggiore sarà la sofferenza per le classi medio-basse, mentre ai medesimi effetti potranno resistere più facilmente le classi più agiate. Il riscaldamento globale è la più grande questione morale che la nostra generazione si trova ad affrontare, seguita a stretto giro dal crescente accumulo di ricchezza da parte dei più ricchi. Insieme questi due fenomeni rappresentano un pericolo evidente e urgente non solo per gli Stati Uniti, ma per il mondo intero.

Crescita Elaborare il frame dell’equazione economica di Piketty soltanto in termini di disuguaglianza, senza correlarlo al riscaldamento globale e ad altre questioni importanti come il peso della crescita economica indiscriminata, produce un effetto sistemico importante. Applicando gli schemi della teoria liberista, Piketty stima che in linea di principio, con la giusta politica, R possa essere mantenuto inferiore a G se la crescita economica G (misurata dal Pil) resta al di sotto del 2 per cento annuo.

Ma la crescita è composta e, pertanto, anche esponenziale. Crescita economica significa anche aumento della popolazione, aumento dell’uso delle risorse, aumento del riscaldamento globale, aumento dei disastri meteorologici e della distruzione della natura. Su un arco di cinquant’anni, anche una crescita del 2 per cento annuo può essere un’enormità! Quando si inserisce nell’equazione di Piketty il riscaldamento globale, la crescita diventa un problema perché implica crescita della popolazione, crescita delle necessità alimentari, crescita del bisogno energetico, crescita nell’uso delle risorse naturali e così via. L’uso del combustibile fossile deve essere frenato se si intende ovviare alle disastrose conseguenze del riscaldamento globale. Un’economia basata sulla crescita – anche soltanto del 2 per cento – non potrà prevenire tutti questi disastri. Si sta lavorando allo sviluppo di modelli per una nuova economia «sostenibile», ovvero di «non crescita». È possibile applicare gli studi di Piketty anche a questi nuovi modelli economici? La verità è che è importante adottare un approccio che tenga conto della causalità sistemica. Per esempio, il fattore principale della crescita della popolazione sembra essere l’istruzione femminile e la disponibilità (e l’utilizzo effettivo) dei metodi contraccettivi. L’istruzione delle donne è strettamente dipendente dalla povertà tanto quanto dalla religione. Religioni come il cattolicesimo e l’Islam promuovono la crescita della popolazione, cosa che rende ancora più difficile controllare il riscaldamento globale. Ecco che non si tratta più di inserire nell’equazione soltanto R e G.

Effetti sistemici intrecciati Uno dei principali obiettivi di questo libro è fare in modo che il framing possa avere effetti sistemici estesi, perché anche l’assenza di un framing adeguato ha conseguenze altrettanto vaste. Elaborare il frame della teoria di Piketty soltanto in termini di disuguaglianza significherebbe non cogliere gran parte di ciò che abbiamo appena discusso. Si perderebbero di vista gli effetti sistemici. Il framing agisce sul pensiero, sulla comprensione più profonda, su

circuiti cerebrali dalle sinapsi pregresse consolidate, sulla parte inconscia, spontanea e immediata della nostra conoscenza. In altri termini, sul senso comune. Il cambiamento dei frame produce esso stesso un effetto sistemico perché comporta la modifica di molteplici frame. Come fare per realizzare un cambiamento così esteso e complesso? Si dovrebbe partire dal potenziare il framing del sistema morale progressista e della visione progressista della democrazia basata sull’empatia e sulla responsabilità che da essa deriva. In altre parole, partire dall’importanza di occuparsi degli altri, dei cittadini del mondo che non abbiamo mai incontrato o che non incontreremo mai, e di essere consapevoli che il privato dipende dal pubblico. Tutto ciò dipende a sua volta da un altro effetto sistemico: quello che il linguaggio e il cervello possono esercitare nel discorso pubblico, e dalla mancanza di un corso che insegni questo effetto nelle università.

Il governo delle imprese

Come abbiamo visto, esistono ancora molte realtà per le quali non sono stati elaborati frame adatti alla maggioranza della popolazione. Eppure ne avremmo fortemente bisogno, in particolar modo per i seguenti concetti: La concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi super ricchi. La loro quota di ricchezza cresce esponenzialmente, così come diminuisce esponenzialmente quella del resto della popolazione. In assenza di un adeguato framing, la maggior parte delle persone si accorgerà degli effetti di questo fenomeno, ma non ne comprenderà le cause sistemiche. I disastri climatici. La Terra si sta riscaldando rapidamente e pericolosamente, e questo riscaldamento è causa sistemica di disastri climatici, tra cui anche le ondate di gelo. Se non si comprendono gli effetti sistemici, il fenomeno del freddo estremo potrebbe indurre a negare il riscaldamento globale. La privatizzazione delle risorse pubbliche. Il privato dipende dal pubblico, ma i conservatori stanno drasticamente tagliando i finanziamenti pubblici mentre promuovono con successo la privatizzazione. Sostengono che il pubblico non funzioni, e tagliandone i fondi contribuiscono effettivamente al suo malfunzionamento. Tagliando risorse pubbliche indiscriminatamente, faranno smettere di funzionare anche la democrazia. Ma c’è un framing importante che sta cominciando a prendere piede:

La Costituzione si applica soltanto agli esseri umani. Le metafore concettuali non hanno una legittimazione giuridica. Siamo abituati a pensare in base a migliaia di metafore, ma il diritto non riconosce loro uno status ufficiale. Da un punto di vista giuridico, il pensiero metaforico pur essendo onnipresente non esiste. Tuttavia nella realtà le metafore concettuali esistono al di fuori del nostro controllo consapevole, sono dappertutto, così come gli effetti che ne conseguono. Questa discrepanza tra diritto e mente umana non è stata inquadrata con opportuni frame e non fa certamente parte delle conoscenze o del discorso quotidiano della maggior parte di noi. Ciò nonostante alcune sentenze della Corte suprema hanno introdotto nell’inconscio collettivo della nazione un’importante metafora: quella delle corporation come persone che godono di diritti costituzionali. Qui entra in gioco la riflessività. Le decisioni prese dai tribunali hanno il potere di trasformare le metafore in fatti veri e propri, come in questo caso. Queste metafore intese come realtà a loro volta ispireranno ulteriori sentenze che daranno vita ad altre metafore e così via. Il potere di trasformare le metafore in dati di fatto può essere straordinario e avere un enorme impatto politico. La metafora delle corporation intese come persone ha avuto un impatto politico così grande che vale la pena dedicarle un breve approfondimento. Ma cominciamo con l’analizzare altre due potenti metafore che sono alla sua origine. I cognitivisti che studiano il pensiero metaforico hanno riconosciuto due metafore comuni che adottiamo inconsapevolmente e automaticamente, e che sono molto importanti per il nostro discorso. METAFORA 1: LE PLURALITÀ SONO GRUPPI. La metafora delle pluralità intese come gruppi attribuisce, in maniera più o meno giustificata, proprietà tipiche del gruppo a più individui distinti. Ne consegue che il gruppo viene percepito come un’entità con caratteristiche diverse rispetto agli individui che lo compongono. Prendiamo in considerazione i due termini della metafora: Una pluralità è costituita da persone, animali, piante o oggetti considerati nella loro individualità. Per esempio un certo numero di persone che viaggia in metropolitana in un dato momento non

fa necessariamente parte di un gruppo. Condividono quella corsa in metropolitana, ma non hanno necessariamente caratteristiche, obiettivi o funzioni comuni. Un gruppo è un’entità metaforicamente concettualizzata come un contenitore per altre entità. Il gruppo può avere (e in genere ha) proprietà, risorse, obiettivi e funzioni a prescindere dalle singole entità che lo costituiscono. Se combiniamo questi due concetti all’interno di una metafora, inizieremo a pensare alle pluralità in maniera diversa. Un club, una chiesa, un’associazione (come quella dei pensionati americani, per esempio), può avere denaro, una sede, oneri e responsabilità legali (per esempio può essere citata in giudizio o subire un’ipoteca) che non possono essere applicati ai suoi singoli membri. Allo stesso modo le corporation possono essere citate in giudizio, ma i loro azionisti non rispondono legalmente delle imputazioni addebitate alla società. METAFORA 2: LE ISTITUZIONI SONO PERSONE. Se proviamo a chiedere a chiunque se le istituzioni sono persone, la risposta sarà no. Infatti le due parole hanno definizioni molto diverse: Un’istituzione è un’entità astratta metaforicamente concettualizzata come un contenitore di persone. Di solito è definita in base agli obiettivi, alle risorse, alle funzioni, alle responsabilità e ai privilegi che ha nei confronti delle persone che ne fanno parte, ma indipendentemente dalle persone che operano al suo interno nell’esercizio delle loro funzioni. Una persona è un essere umano. Gli esseri umani hanno obiettivi, risorse e in genere responsabilità, privilegi e doveri da rispettare. Hanno anche proprietà che le istituzioni non hanno: corpi e cervelli, sentimenti ed emozioni, desideri e convinzioni, funzioni e bisogni fisiologici, così come ruoli sociali e capacità di pensare e comunicare. Tuttavia nel nostro cervello è rimasta a lungo una metafora concettuale che usiamo costantemente quando parliamo delle (o pensiamo alle) istituzioni. Ad esempio diciamo: l’Agenzia per la protezione ambientale è delusa dalla decisione del tribunale; la Major League di baseball vuole sgominare il doping; l’università di Stanford pensa di adottare i corsi online; Berkeley è turbata dallo stupro avvenuto nel campus; Planned Parenthood è disgustata dalle recenti

sentenze del tribunale e così via. Queste due metafore concettuali – pluralità-come-gruppi e istituzioni-come-persone – esistono da secoli in molte parti del mondo e in diversi casi sono state incorporate dal diritto. Il diritto romano riconosceva ad alcune imprese e gruppi religiosi il ruolo di istituzioni dotate delle stesse proprietà degli esseri umani: obiettivi, risorse, funzioni, responsabilità e privilegi. Tant’è che ancora oggi attribuiamo metaforicamente quelle stesse proprietà umane alle istituzioni. Si tratta di una pratica con una lunga storia. Nel Medioevo, ad esempio, per la Chiesa i monasteri erano istituzioni dotate di scopi, risorse finanziarie, responsabilità e privilegi, anche se a differenza delle persone non avevano un’anima. In Inghilterra le companies erano istituzioni con diritti esclusivi autorizzate a occuparsi di commerci per il vantaggio finanziario dei propri azionisti e della Corona britannica. Una delle più affermate era la Compagnia delle Indie orientali. La colonia della Massachusetts Bay fu fondata da un gruppo di coloni proprietari della Massachusetts Bay Company, che avevano avuto la concessione di commerciare nella regione del New England. L’idea metaforica per cui «lo Stato è un’impresa» arrivò in America nel 1623 proprio con la Massachusetts Bay Company e da allora fa parte della vita politica americana. Prima del 1819 la metafora concettuale delle istituzioni-comepersone era applicata alle aziende limitatamente a questioni come approvvigionamento finanziario, obiettivi, responsabilità, privilegi eccetera. Ma c’è una grande differenza tra questa visione comunissima e limitata dell’azienda come persona e l’idea per cui le aziende dovrebbero godere anche di diritti costituzionali. Questo ha spostato la metafora dell’azienda-come-persona dal set di solite metafore a un altro che ha richiesto il vaglio dei tribunali. Nel 1819 la Corte suprema emise una fatidica sentenza sul caso Dartmouth College contro Woodward. Prima della guerra d’Indipendenza, re Giorgio III aveva riconosciuto lo statuto di fondazione privata al Dartmouth College e gli aveva assegnato un terreno nel New Hampshire. Quando nel 1819 gli amministratori deposero il presidente del college, il parlamento dello Stato insorse e, incurante della legge, modificò arbitrariamente lo statuto del college

trasformandolo a tutti gli effetti in un istituto pubblico sotto il suo controllo. Gli amministratori fecero causa contro lo Stato e il celebre avvocato Daniel Webster si schierò appassionatamente a loro favore davanti alla Corte suprema presieduta da John Marshall. La Corte deliberò che, anche se tutti i legami politici con il Regno Unito erano stati recisi, lo statuto costituiva ancora un contratto a tutti gli effetti con la persona del re e in quanto tale rientrava nella clausola della Costituzione che impediva ai singoli Stati di emanare leggi per aggirare un contratto. Sebbene questa norma della Costituzione si applicasse ai contratti tra privati cittadini, la Corte ritenne che si dovesse applicare parimenti alle fondazioni. Dartmouth restò un college privato e sotto il controllo dei suoi amministratori. Ma intanto la linea era stata tracciata. Era stata applicata a una fondazione una clausola costituzionale che garantiva i diritti contrattuali e proprietari alle persone. Ed era stata equiparata a una persona, nel caso specifico a re Giorgio, un’istituzione, la monarchia britannica, chiamata metonimicamente Corona britannica. Nel 1868 furono approvati il Tredicesimo, il Quattordicesimo e il Quindicesimo emendamento, che resero liberi gli schiavi e garantirono loro protezione legale e diritto di voto. La prima clausola del Quattordicesimo emendamento recita: Tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati Uniti e sottoposte alla relativa giurisdizione sono cittadini degli Stati Uniti e dello Stato in cui risiedono. Nessuno Stato farà o metterà in esecuzione una qualsiasi legge che limiti i privilegi o le immunità dei cittadini degli Stati Uniti; né potrà qualsiasi Stato privare qualsiasi persona della vita, della libertà o della proprietà senza un processo nelle dovute forme di legge, né negare a qualsiasi persona sotto la sua giurisdizione l’eguale protezione delle leggi.

Negli anni in cui maturarono questi emendamenti, le grandi industrie, le banche e le ferrovie assunsero sempre più la fisionomia di vere e proprie imprese private, diventando sempre più ricche e potenti. Molti Stati cominciarono a regolamentarle e a cercare di limitarne il potere. Nel passaggio del Quattordicesimo emendamento dedicato alle garanzie degli ex schiavi, le compagnie ferroviarie scorsero un modo per arginare queste restrizioni. Tali compagnie assunsero la metafora opposta a quella delle pluralità-come-gruppi che separava le caratteristiche dei gruppi da quelle individuali dei suoi singoli membri. Ovvero adottarono la

metafora dei gruppi-come-pluralità, che identificava le caratteristiche del gruppo con quelle dei suoi membri. Cominciarono a sostenere che le aziende sono persone e in quanto tali dovrebbero possedere le stesse protezioni costituzionali di cui queste godono. Lo sostennero per quasi vent’anni e persero sempre. Ma introdussero questa idea nel discorso pubblico, soprattutto tra coloro che lavoravano nel settore ferroviario. Poi, nel 1886, qualcosa cambiò. Le compagnie ferroviarie portarono davanti alla Corte suprema quattro casi riguardanti questioni fiscali, incluso il caso Contea di Santa Clara contro Southern Pacific Railroad. Nella contea di Santa Clara vigeva una misura fiscale che permetteva alle persone di pagare le ipoteche sui propri beni deducendole dalle tasse. La Southern Pacific Railroad aveva una grossa ipoteca e avrebbe voluto dedurne il costo dalle proprie tasse, cosa che avrebbe portato un gran vantaggio alla compagnia ferroviaria ma un minor introito fiscale alla contea di Santa Clara. Il caso fu discusso dinanzi alla Corte suprema presieduta dal giudice Morrison Waite che, in precedenza, aveva già lavorato come legale per alcune compagnie ferroviarie. Il cancelliere della Corte J.C. Bancroft Davis, invece, in passato aveva presieduto una piccola società ferroviaria. Il principio della società intesa come persona si affermò proprio a partire da questo caso, anche se non fu formulato esplicitamente in alcuna argomentazione nel corso del dibattito né in alcun parere scritto contrario o favorevole. Fu citato soltanto in un’osservazione orale del presidente Waite che fu riportata dal cancelliere Bancroft Davis e che compare nelle note introduttive della sentenza e in nessun altro punto. La nota introduttiva recante l’osservazione di Waite recita: La Corte non ha intenzione di ascoltare discussioni sulla possibilità che la misura del Quattordicesimo emendamento della Costituzione, che vieta a qualsiasi Stato di negare alla persona sotto la sua propria giurisdizione un’eguale protezione delle leggi, si applichi a queste aziende. La nostra opinione è che sia possibile.

Questa osservazione determinò il precedente in questione, che fu poi citato anche in casi successivi. Nel procedere con l’elenco dei casi, consideriamo che la Common Law britannica definiva le società e i loro azionisti in modo tale da separare le proprietà di questi ultimi da quelle delle aziende, così che gli azionisti potessero essere esentati da certe responsabilità delle

aziende (da qui nacquero le società a responsabilità limitata). Ciascuna delle seguenti sentenze violava questa fondamentale caratteristica delle aziende, attribuendo loro automaticamente alcuni diritti costituzionali propri degli azionisti, ossia il diritto al giusto processo, il diritto a non essere processati due volte per lo stesso reato, il diritto a non subire perquisizioni e confische immotivate, al libero credo e alla libera espressione (intesa come libertà di contribuire alle campagne politiche e di acquistare i mezzi di informazione). Ricordiamo a questo proposito le parole di Mitt Romney durante la campagna presidenziale del 2012: «Amici miei, le imprese sono persone […]. Tutto ciò che guadagna un’impresa prima o poi finisce nelle tasche delle persone». Peccato che dimenticò di specificare quali persone. Nel 1889 la Corte garantì esplicitamente alle società le garanzie del giusto processo riconosciute dal Quattordicesimo emendamento, nel 1893 il diritto a non subire il doppio processo riconosciuto dal Quindicesimo emendamento, nel 1906 il diritto a non subire perquisizioni e sequestri irragionevoli riconosciuto dal Quarto emendamento, e nel 1978 il diritto riconosciuto dal Primo emendamento a contribuire alle iniziative per le campagne elettorali. In quest’ultimo caso la metafora fu estesa: sebbene una società non possa andare a votare, ha tuttavia il diritto di esprimersi liberamente proprio come una persona, dal momento che i suoi azionisti godono di questa libertà; e si sommò a un’ulteriore metafora: la parola è denaro, cioè rientra nel diritto di esprimersi il diritto di finanziare le campagne elettorali, non a favore di precisi candidati (persone reali), bensì per determinate politiche che possono incidere sulla vita delle imprese. Fu un passo importante verso il verdetto Citizens United.6 Curiosamente quest’ultimo caso non riguarda le società intese come persone, ovvero non dipende da questa metafora generale, bensì da altre due: Il denaro è parola. Le società hanno diritto di esprimersi. Da queste due metafore scaturisce il seguente ragionamento: le persone hanno libertà di espressione; poiché il denaro è parola e le società hanno diritto di parola, ne consegue che le società hanno il

diritto di destinare tutto il denaro che vogliono alle campagne elettorali. Questa sentenza, deliberata con cinque voti favorevoli e quattro contrari da parte di una Corte conservatrice, era chiaramente parziale. Le imprese hanno molto più denaro da spendere in campagne politiche rispetto ai sindacati. Perciò questa norma costituzionale permette ai conservatori di avere a disposizione un’enorme quantità di denaro di cui, invece, molto difficilmente i progressisti potranno disporre. Come abbiamo visto, la parola non è innocua. Se usata in modo mirato, la sentenza Citizens United può permettere ai conservatori di portare dalla propria parte i biconcettuali, di vincere elezioni e spostare il paese radicalmente a destra. I casi Hobby Lobby e Wheaton sono altrettante vittorie conservatrici. Il verdetto Hobby Lobby ha esteso la libertà di religione sancita dal Primo emendamento alle società tenute e gestite da famiglie o piccoli gruppi (più della metà delle imprese americane sono controllate da cinque persone al massimo). Si tratta della concessione di un nuovo diritto: quello di ignorare la disposizione di una legge se applicata a un’impresa posseduta o controllata da un piccolo gruppo, qualora la proprietà sia convinta che quella specifica legge violi i suoi principi religiosi.7 Questa è una nuova e diversissima estensione dei diritti del Primo emendamento alla metafora società-come-persona e spalanca le porte a una gigantesca serie di richieste da parte delle imprese che vogliano essere dispensate dalle disposizioni di determinate leggi sulla base di autodefiniti principi religiosi. In poche parole, pone le imprese al di sopra della legge. È un passo importante verso la legalizzazione del governo delle imprese. Nonché una decisione politica conservatrice radicale, perché i conservatori radicali vogliono eliminare le risorse pubbliche e ogni ingerenza dello Stato, per esempio tramite leggi introdotte da legislatori umani. In un colpo solo sposta il governo dal pubblico al privato e dalla sfera umana a quella non-umana. Tutto ciò ci conduce a un’altra verità non ancora elaborata da frame adeguati nel dibattito pubblico: Le grandi imprese governano le nostre vite.

Le grandi imprese hanno investito la loro ricchezza, cresciuta esponenzialmente, in utilissime innovazioni che hanno senz’altro migliorato la nostra esistenza. Lo hanno fatto grazie a importanti risultati conseguiti in vari settori come la tecnologia informatica, le telecomunicazioni, le innovazioni farmaceutiche, l’attrezzatura medica, i trasporti. Per quanto ne sappia, tuttavia, hanno potuto produrre tutte queste innovazioni grazie alle risorse pubbliche: è stata la ricerca finanziata da fondi statali e università pubbliche a rendere possibile l’informatica, i satelliti, lo studio e la formazione in campo medico e molto altro. La storia di ogni grande innovazione non fa che confermare la verità che il privato dipende dal pubblico. Ciò che concettualmente non è ancora stato elaborato sotto forma di frame, e di cui perciò non si parla mai, sono gli effetti negativi prodotti dalla crescita incontrollata della ricchezza delle grandi imprese. Eccone una breve lista: Incremento dei contributi aziendali e lobbistici in politica. Questi vanno principalmente contro l’interesse pubblico, fino al punto che le corporation scrivono leggi che poi affidano a legislatori da esse foraggiati. La sentenza Citizens United ha fortemente esacerbato questa pratica. Incremento dell’esternalizzazione dei costi. Più le società si arricchiscono, più potere hanno per utilizzare la loro influenza politica per evitare norme e controlli. Tra le varie cose, possono addossare ad altre persone i costi del loro business, aumentando ulteriormente i profitti. Il nome fantasioso per questa trovata è «esternalizzazione dei costi». Un primissimo esempio consiste nel rifilare i rifiuti pericolosi ai contribuenti, che saranno costretti ad affrontare le spese per smaltirli o, in alternativa, subirne le conseguenze. Consideriamo cosa succede quando le società di fracking scaricano acque contaminate nell’ambiente, o lacerano il terreno durante il processo di fratturazione e iniettano grandi quantità di sostanze chimiche tossiche nella roccia porosa di argillite prossima al livello freatico, contaminando le acque destinate all’uso domestico o utilizzate per irrigare i campi agricoli.

La responsabilità viene spostata dalle aziende private al pubblico. Il principale esempio, ovviamente, è quello delle società che emettono gas inquinanti creando l’effetto serra all’origine del riscaldamento globale. I costi di tutto ciò ricadono su di noi, che dovremo pagare più tasse per mitigare il cambiamento climatico o per riparare i danni provocati da tempeste catastrofiche, oltre ad affrontare il rincaro dei prezzi ortofrutticoli durante i periodi di grave siccità. Anche quando dobbiamo usare il nostro tempo per cercare il sito web di una società o per aspettare al telefono di parlare con un servizio clienti i costi sono esternalizzati: il nostro tempo è stato utilizzato a vantaggio dell’azienda in questione, che così risparmierà il costo del personale addetto al servizio clienti. Varie forme di self service alla stazione di servizio, nei supermercati o in altri negozi sono state realizzate appositamente per sembrare convenienti, ma in realtà sono modi per farci lavorare gratuitamente a vantaggio delle aziende. Incremento dei costi ai danni dei consumatori a causa del monopolio produttivo. Per esempio alcuni internet provider privi di concorrenza possono chiedere prezzi esagerati e fornire servizi minimi, lasciando al cliente il carico dei costi esorbitanti e del servizio inadeguato. Limitate opzioni di taglie nell’industria d’abbigliamento. Molti imprenditori di questo settore producono esclusivamente taglie che vanno bene alla maggior parte della popolazione perché è più vantaggioso che fornire taglie di tutti i tipi. Incremento di pratiche imprenditoriali immorali. Per esempio la General Motors vende automobili con difetti che potrebbero provocare incidenti mortali. Si tratta di difetti taciuti dai dipendenti aziendali che, tuttavia, ne conoscono bene l’esistenza e la potenziale pericolosità. Incremento dell’inefficienza aziendale. Chiunque abbia lavorato all’interno di una grande azienda è abituato all’inefficienza aziendale (pensiamo alle vignette di Dilbert),8 a causa della quale per esempio società di assicurazioni sanitarie hanno costi molto più alti dei programmi di sanità pubblica come Medicare. Costi che poi vengono spalmati il più possibile sui

consumatori. Incremento degli stipendi dei manager aziendali e pressione per ottenere profitti a breve termine. Quando i super ricchi diventano esponenzialmente sempre più ricchi mentre tutti gli altri perdono esponenzialmente accesso alla ricchezza, ne risulta un’inevitabile pressione per ottenere profitti a breve termine. Quando i manager aziendali sono incaricati di gestire il patrimonio dell’impresa, sono incentivati a ottenere aumenti esponenziali del patrimonio. In definitiva le società governano e controllano le nostre esistenze a loro (e non a nostro) vantaggio. L’elenco potrebbe proseguire ancora. In buona parte, la smisurata espropriazione di ricchezza indicata da Thomas Piketty è il risultato di questo governo delle imprese. Piketty evidenzia la necessità di una soluzione politica, ma quando la nostra politica è significativamente controllata da una lobby di grandi imprese anziché dal pubblico, la possibilità di questa soluzione è fortemente ridotta. Ai conservatori piace inveire contro lo Stato per sottrargli autonomia. Ma il governo delle corporation probabilmente farà molto di più che sottrarre soltanto questa «autonomia». Il governo delle imprese è un’importante realtà ancora priva di frame. È collegata allo smodato incremento di ricchezza dei super ricchi. A causa dell’effetto sistemico della smisurata ricchezza individuale e aziendale sulla nostra politica, entrambi i fenomeni sono sistemicamente collegati alla minaccia del riscaldamento globale per il futuro del pianeta, e alla fondamentale spaccatura della nostra politica che sta minacciando la democrazia in modi non scontati e, pertanto, anch’essi ancora privi di frame adeguati nel dibattito pubblico.

Quarta parte

Il framing, dieci anni prima

Quanto vale una parola? Molto, se la parola è «matrimonio»

La prima versione di questo capitolo risale al 2004, quando la nostra società era ancora molto lontana dall’accettare i matrimoni gay. Gli importanti progressi intervenuti successivamente si devono in parte alla strategia che in esso avevo indicata: focalizzare l’attenzione del discorso pubblico sui temi dell’amore e dell’impegno, da estendere a tutti i tipi di relazione, a quella omosessuale come a quella eterosessuale. […]1 [Ma] il framing conservatore è sempre lo stesso: il matrimonio gay è contro la Bibbia, minaccia il senso originario del sacramento, è soltanto uno stile di vita, ha a che fare solo con il sesso, finirà con il traviare anche i bambini. I conservatori continuano a preferire la parola «omosessuale» anziché «gay» perché contiene il termine «sesso» e quello che in inglese è ormai diventato un insulto a sé stante: «homo». Ecco per esempio come ne parla Rick Perry, il governatore del Texas: «Che tu ti senta o meno indotto a seguire un determinato stile di vita, hai sempre la possibilità di dire no […]. Nel mio codice genetico potrebbe esserci l’inclinazione all’alcolismo, ma io non voglio essere un alcolizzato. Ecco come intendo la questione omosessuale». I conservatori stanno combattendo una guerra fallimentare contro l’amore e l’impegno, la famiglia e la comunità. La stragrande maggioranza dei giovani ha già ampiamente deciso. Quando è diventato presidente, Obama non si è dichiarato esplicitamente a favore del matrimonio gay, ma ha detto che la sua

posizione era «in evoluzione», una metafora che sottolinea l’importanza dello sforzo di adattamento della politica. Ora l’evoluzione si è compiuta. Quanto vale una parola? Molto, specialmente se quella parola è «matrimonio». Il matrimonio è un concetto fondamentale della nostra cultura. Da un punto di vista giuridico, e quindi puramente materiale, comporta centinaia di vantaggi. Ma il matrimonio è anche un’istituzione, l’assunzione pubblica di un impegno per la vita basato sull’amore. Il culmine di un periodo di ricerca del compagno più adatto e, per molti, la realizzazione di un obiettivo importante, spesso raggiunto dopo un crescendo di sogni, appuntamenti, chiacchiere, ansie, promesse, e poi una festa di fidanzamento, progetti, rituali, inviti, un abito nuziale, damigelle, famiglie che si incontrano, giuramenti e luna di miele. Il matrimonio segna anche l’inizio di una nuova famiglia, l’attesa di figli e nipoti e tutto ciò che ne consegue: feste con i parenti, compleanni, cerimonie, recite a scuola, e poi diplomi, lauree e così via. L’idea del matrimonio sottende anche una serie di metafore ben radicate: un viaggio di vita insieme, una collaborazione, un’unione, un legame, una cosa sola fatta da parti complementari, un paradiso, un sacramento, una casa. Conferisce uno status sociale: una coppia sposata con nuovi ruoli sociali. Per molte persone, infine, legittima i rapporti sessuali. In breve è qualcosa di estremamente importante. Per spiegare perché sono contrari al matrimonio omosessuale, i conservatori ricorrono spesso a due argomenti forti: la definizione di matrimonio e la sua sacralità. Dobbiamo fare lo stesso, controbattendo punto per punto. Alcuni studi antropologici sul matrimonio negli Stati Uniti hanno dimostrato che la definizione dei conservatori è sbagliata. Da un punto di vista ideale, il matrimonio è definito come «la realizzazione dell’amore tramite un impegno pubblico per tutta la vita». Negli Stati Uniti l’amore è sacro, così come lo è l’impegno. Esiste una vera e propria sacralità del matrimonio, sancita dalla sacralità dell’amore e dell’impegno. Come molti concetti importanti, anche il matrimonio è associato a una vasta serie di stereotipi: il matrimonio ideale è felice, eterno, prospero, coronato da figli, da una bella casa e dall’amicizia con altre coppie altrettanto felicemente sposate; quello reale ha i suoi alti e

bassi: gioie, difficoltà e incomprensioni con figli e parenti; quello da incubo, infine, può finire con un divorzio a causa di incompatibilità, tradimenti, abusi o altro. Insomma, quello del matrimonio è un concetto molto ricco e sfaccettato. Ma nessuno dei molteplici aspetti fin qui illustrati stabilisce che il matrimonio debba essere necessariamente eterosessuale, né lo esigono la sua definizione, la sacralità, i rituali, la vita famigliare, le speranze o i sogni. A stabilire che il matrimonio sia esclusivamente eterosessuale è un diffuso stereotipo culturale. Come sempre la lingua è un importante veicolo di tale stereotipo. In passato la destra radicale era solita parlare di «matrimonio gay», ora usa sempre più spesso l’espressione «matrimonio omosessuale». Sono convinto che il motivo risieda nel fatto che il matrimonio rimandi all’idea del sesso, e per molti americani il sesso non è concepibile al di fuori di un legame eterosessuale; lo stereotipo vuole che il matrimonio sia etero. «Gay» invece veicola l’idea, comune a molti conservatori, di uno stile di vita deviante, selvaggio e sessualmente irresponsabile. Ma parlare di matrimonio gay è un’arma a doppio taglio. Il presidente Bush, per esempio, in un discorso sullo stato dell’Unione scelse di non utilizzare l’espressione «matrimonio gay». Sospetto che questa omissione non fosse casuale: Bush partiva senz’altro dalla considerazione che il matrimonio per definizione potesse avvenire soltanto tra un uomo e una donna e che perciò l’espressione «matrimonio gay» fosse soltanto un ossimoro, un’espressione priva di senso alla pari di «mela gay» o «frigorifero gay». Ma anche dalla constatazione che più si parla di «matrimonio gay», più normale diventa l’idea del matrimonio tra persone dello stesso sesso, e sempre più chiaro appare che la definizione di matrimonio contempli anche questa possibilità. Grammaticalmente parlando, «gay» è un attributo che specifica una tipologia di matrimonio. Nell’espressione «matrimonio gay» non c’è una contraddizione di termini, perché il matrimonio non è per definizione etero. Poiché il matrimonio è alla base della vita famigliare, ha anche una dimensione politica. Come ho già spiegato nei capitoli precedenti (e ancor più diffusamente nel mio libro Moral Politics), la politica conservatrice e quella progressista sono organizzate intorno a due

diversissimi modelli di vita matrimoniale e, dunque, famigliare: quello del padre severo e quello del genitore premuroso. Il padre severo è il capofamiglia nonché un’autorità morale, domina la madre e i figli e impone la necessaria disciplina. La politica conservatrice contemporanea trasforma questi valori famigliari in valori politici: autorità gerarchica, disciplina dell’individuo, potere militare. Nella famiglia del padre severo il matrimonio è necessariamente eterosessuale: il padre è virile, risoluto, forte, dominatore, un modello che i figli maschi dovranno imitare e che le figlie femmine dovranno ricercare nell’uomo da sposare. Il modello del genitore premuroso, invece, prevede la compresenza di due genitori equivalenti, il cui compito comune è crescere i figli con amorevole attenzione e insegnare loro a essere premurosi nei confronti del prossimo. Le caratteristiche fondamentali della premura sono l’empatia e la responsabilità (verso se stessi e verso gli altri), qualità che richiedono anche forza e competenza. Il genitore premuroso è protettivo e amorevole, costruisce rapporti di fiducia, promuove la felicità e la realizzazione dei suoi famigliari, l’onestà, la libertà, l’apertura, la collaborazione, e intreccia relazioni con la comunità in cui vive. Sono gli stessi valori su cui si basa un’autentica politica progressista. Sebbene parzialmente resista anche qui lo stereotipo eterosessuale, nel modello di famiglia premurosa non c’è nulla che escluda a priori il matrimonio tra persone dello stesso sesso. In una società divisa a metà da questi due modelli famigliari e dalla visione politica che ne consegue, possiamo capire perché la questione del matrimonio tra persone dello stesso sesso possa essere così esplosiva. In gioco c’è molto più dei vantaggi materiali che derivano dal matrimonio o dall’uso di questa parola. In gioco ci sono la nostra identità e i nostri valori fondamentali. Il problema non sono le coppie dello stesso sesso, bensì i valori stessi sui quali si basa la nostra società. I democratici si stupiscono quando i conservatori parlano di «difesa del matrimonio». In fin dei conti la politica progressista non ha mai cercato di vietare o di limitare i matrimoni, semmai di estenderli ad altre persone. Ma i conservatori sentono giustamente che il loro mondo è in pericolo. Infatti si tratta di una questione importante per l’insieme dei loro valori morali e politici. Dal loro

punto di vista persino le unioni civili rappresentano una minaccia, perché non suggellano un tipo di legame famigliare corrispondente al modello del padre severo. A tale riguardo i progressisti si dividono in due correnti principali. I liberali pragmatici valutano le relazioni civili soprattutto in virtù dei vantaggi pratici che esse garantiscono: eredità, assistenza sanitaria, possibilità di adozioni e così via. Se fosse tutto qui, allora le unioni civili sarebbero sufficienti, del resto lo sono state per un certo tempo. Basterebbe lasciare le unioni civili allo Stato e i matrimoni alla Chiesa, come è accaduto in Vermont, il primo Stato americano a legalizzare le unioni civili prima di ammettere anche il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Ma la visione dei progressisti idealisti travalica i vantaggi pratici, sebbene anche questi siano importanti. Molti attivisti gay pretendono che venga manifestamente riconosciuto loro il diritto al matrimonio insieme a tutti i significati culturali che esso implica (un impegno pubblico basato sull’amore, con tutte le metafore, i riti, le gioie, gli struggimenti, le esperienze famigliari), in una cornice di normalità come quella concessa alle coppie eterosessuali. È una questione di libertà personale: lo Stato non dovrebbe avere il diritto di dirci chi possiamo sposare e chi no. Ed è anche una questione di giustizia e dignità umana, perché l’uguaglianza dinanzi alla legge non riguarda soltanto i benefici materiali, ma anche quelli sociali e culturali. Da qui lo slogan: «libertà di matrimonio». Nel 2004, quando uscì la prima edizione americana di questo libro, molti politici democratici sostenevano che il matrimonio fosse una questione riguardante la Chiesa, mentre allo Stato toccasse occuparsi delle unioni civili e delle relative questioni materiali. Per me questa argomentazione ha sempre avuto poco senso. Preti, pastori e rabbini possono celebrare matrimoni soltanto perché sono stati autorizzati dallo Stato, e non dalle loro comunità religiose. Il matrimonio civile è ormai comune e diffuso, ma soddisfa soltanto le esigenze dei progressisti pragmatici. Per i conservatori idealisti le unioni civili sono equivalenti al matrimonio gay, e per i progressisti idealisti sono comunque lontane dalla parità di diritti. Cosa dire poi di quell’emendamento costituzionale che voleva definire giuridicamente il matrimonio come un legame tra uomo e

donna? Oltre che dai deputati conservatori, era sostenuto da numerosi cittadini convinti della visione stereotipica del matrimonio come esclusivamente eterosessuale. Per fortuna, […] grazie al sostegno della maggioranza degli americani, questo emendamento è finito nel dimenticatoio.2 I progressisti hanno reclamato la superiorità morale della grande tradizione americana che si fonda da sempre sui principi di libertà, imparzialità, dignità e totale uguaglianza di ogni cittadino dinanzi alla legge. Oggi negli Stati Uniti non c’è più la stessa urgenza di discutere di unioni civili e diritti materiali, ma nei trentuno Stati in cui il matrimonio gay non è ancora legalmente riconosciuto, il dovere di ogni cittadino è di rielaborare il framing del dibattito, ovunque ci sia la possibilità di discutere o scrivere di questi argomenti.3 Ora che il tasso dei divorzi eterosessuali è schizzato alle stelle, la sacralità del matrimonio è più importante che mai. È un concetto che va ribadito. Insieme all’amore e all’impegno, completa la definizione dell’ideale stesso di matrimonio. Deve farsene testimone ogni coppia intenzionata a combattere per il riconoscimento pubblico del proprio amore e della promessa di impegnarsi per tutta la vita. Dobbiamo imparare a manifestare le nostre idee, in modo che servano da riferimento per i politici. Quando in ufficio, in chiesa o in qualsiasi altra situazione ci imbattiamo in qualcuno che dice: «Credo che i gay non dovrebbero avere il diritto di sposarsi», dovremmo ribattere dicendo: «Io credo nell’uguaglianza dei diritti. Punto e basta. Non credo che sia compito dello Stato dire alle persone chi possano sposare e chi no. Il matrimonio è una questione di amore e di impegno personale, e negare il diritto di sposarsi a persone innamorate che vorrebbero impegnarsi pubblicamente è una violazione della dignità umana». Anche i media dovrebbero rifiutare i frame conservatori, cosa che finora non hanno fatto. Oltre al tipico: «Lei è favorevole ai matrimoni gay?», i giornalisti dovrebbero provare a chiedere: «Lei pensa che sia compito dello Stato dire ai cittadini chi sposare?», oppure: «Lei pensa che la libertà di sposarsi con chi si desidera sia una questione di uguaglianza di diritti dinanzi alla legge?», o ancora: «Secondo lei il matrimonio è la realizzazione dell’amore attraverso un impegno per la vita?», oppure: «Quando due persone innamorate vogliono

impegnarsi pubblicamente l’una con l’altra nuocciono alla società?». Elaborare e utilizzare frame moralmente onesti è dovere di tutti, soprattutto dei giornalisti. È stata a lungo una strategia della destra quella di ripetere in continuazione e in ogni occasione espressioni che evocavano frame conservatori e che definivano le questioni secondo il loro modo di vedere. A poco a poco questa costante reiterazione ha trasformato il linguaggio e i frame conservatori nel linguaggio e nei frame condivisi da tutti. I giornalisti hanno il dovere etico e professionale di non farsi raggirare e di rifiutarsi di contribuire a questa strategia della reiterazione. È loro compito rifiutare i frame di destra benché siano ormai entrati nell’uso comune. In particolare, dovrebbe essere compito dei giornalisti studiare come funzionano i frame e imparare a districarsi tra quelli politicamente strumentalizzati, anche quando diventano immagini del discorso comuni e quotidiane.

Metafore del terrore4

Com’è cambiato il nostro cervello Tutto quello che sappiamo è fisicamente incastonato nei circuiti neuronali del nostro cervello. Quello che sapevamo dell’America, di Manhattan, del World Trade Center, dei viaggi aerei e del Pentagono prima dell’11 settembre era intimamente collegato alla nostra identità e a un’enorme quantità di cose che davamo per scontate nella nostra vita di ogni giorno. Era tutto lì, fisicamente fissato nelle sinapsi del nostro cervello. Per generazioni di immigrati Manhattan ha rappresentato la porta d’accesso per l’America e la possibilità di una vita libera dalle guerre, dai genocidi religiosi, dall’oppressione politica. Nelle mie giornate lo skyline di Manhattan significava molto, ben più di quanto immaginassi. Quando ci pensavo mi ricordava mia madre che, da bambina, era partita dalla natia Polonia per giungere proprio a Manhattan, dove crebbe allacciando nuove amicizie e lavorando in fabbrica per venticinque anni, costruendosi una vita, una famiglia e mettendo al mondo un figlio. Non è morta in un campo di concentramento. Non ha dovuto temere per la sua vita. Forse l’America non le ha dato tutto quello che avrebbe desiderato, ma una buona parte sicuramente. Io sono cresciuto a Bayonne, in New Jersey, dall’altra parte della baia su cui si affaccia quello skyline. Allora il World Trade Center non c’era ancora, ma negli anni per me (come per tanti altri) è diventato non solo uno dei principali profili di quel panorama, ma anche un punto di riferimento culturale e simbolico dell’America stessa. Un

simbolo della possibilità di vivere ogni giorno liberi dall’oppressione, lavorando onestamente come segretaria o artista, dirigente o vigile del fuoco, commesso o insegnante o star della tv. Non ero del tutto consapevole di questa portata simbolica, ma l’immagine dello skyline di Manhattan era strettamente collegata alla mia identità, sia individuale sia di cittadino americano. E tutto questo, e molto altro ancora, faceva fisicamente parte del mio cervello quella mattina dell’11 settembre 2001. La devastazione che quel giorno colpì le Torri gemelle colpì anche me. Gli edifici sono metaforicamente persone. Ne scorgiamo i tratti dei volti – occhi, naso, bocca – nelle finestre. Oggi mi rendo conto che l’immagine dell’aereo che si schiantava sulla Torre Sud parve ai miei occhi come quella di un proiettile che attraversa la testa di una persona, e le fiamme divampate dopo l’impatto come il sangue sprigionato da una ferita. Un vero e proprio omicidio. La torre che collassava era una persona che cadeva al suolo. I corpi che precipitavano tutt’intorno erano il mio corpo, quelli dei miei amici, dei miei famigliari. Di sconosciuti che poco prima mi avevano sorriso passandomi accanto per strada e ora precipitavano urlando. L’immagine successiva fu quella dell’inferno: cenere, fumo e vapore che si alzavano verso il cielo, lo scheletro della torre, buio, dolore, morte. Nonostante mi trovassi a quasi cinquemila chilometri di distanza, quell’attentato è entrato nel mio cervello. Quei simboli erano parte fondante della mia identità molto più di quanto allora potessi rendermi conto. Per comprendere quella tragedia il mio cervello è dovuto cambiare. E lo ha fatto dolorosamente. Giorno e notte. Di giorno gli effetti di quanto accaduto inondavano la mia mente, di notte le immagini mi spezzavano il respiro, mentre gli incubi non mi lasciavano dormire. Il cambiamento di senso di quei simboli, che vivevano nel centro emotivo del mio cervello, ha provocato un dolore terribile. Non soltanto a me, ma a chiunque in questo paese, e in molti altri posti del mondo. Gli attentatori non solo sono riusciti a uccidere migliaia di individui, ma a raggiungere e cambiare il cervello di moltissime persone in tutta l’America. Per me è stato sconvolgente riconoscere che duecento milioni di

americani si sentivano devastati esattamente allo stesso modo in cui mi sentivo io.

Il potere delle immagini In qualità di studioso delle metafore, intendo partire analizzando il potere delle immagini e da dove trae origine. Le metafore associate agli edifici sono numerose. Una delle più comuni è quella che li visualizza come teste, i cui occhi sono rappresentati dalle finestre. È una metafora latente nel nostro cervello, in attesa di essere evocata, come ha fatto per l’appunto l’immagine dell’aereo che si è abbattuto sulla Torre Sud del World Trade Center. La torre è diventata una testa, le finestre i suoi occhi, e i lati del grattacielo le tempie. L’aereo che si è abbattuto contro la torre è diventato un proiettile sparato in quella testa, le fiamme che fuoriuscivano dalla parte opposta erano il suo sangue. Metaforicamente gli edifici alti sono persone in piedi. Una torre che crolla diventa dunque un corpo che cade. Non siamo completamente consapevoli di queste immagini metaforiche, ma hanno contribuito all’orrore che abbiamo provato osservando quella scena. Ognuno di noi, nella corteccia premotoria del cervello, possiede i cosiddetti neuroni specchio, collegati alle aree visive. Questi si attivano ogni volta che compiamo un’azione o la vediamo compiere da qualcun altro. Secondo gli scienziati, le connessioni neuronali che collegano questa parte del cervello con i centri emotivi sono alla base dell’empatia. Il meccanismo può funzionare in maniera «letterale»: quando vediamo un aereo arrivare in picchiata verso un grattacielo e immaginiamo le persone all’interno dell’edificio, ci sentiamo come se l’aereo stesse venendo verso di noi; quando vediamo l’edificio crollare sopra le persone, ci sentiamo come se stesse crollando sopra di noi. Ma i neuroni specchio funzionano anche in maniera metaforica: se vediamo l’aereo dirigersi verso la torre, e inconsapevolmente evochiamo la metafora dell’edificio come testa, ci sentiremo – in modo inconscio ma potente – come se ci avessero sparato in testa; se

evochiamo la metafora dell’edificio come persona e vediamo la torre cadere, ci sentiremo – in modo inconscio ma potente – crollare a terra. Il nostro sistema di pensieri metaforici, interagendo con il sistema dei neuroni specchio, trasforma gli orrori esterni concreti in orrori che avvertiamo metaforicamente. Vediamo qualche altro esempio di effetti metaforici e simbolici: Controllo dall’alto. La torre è un classico simbolo di potere. È al di sopra di tutto e da lì si ha il controllo della situazione. La caduta della torre implica di conseguenza la perdita di controllo e di potere. Immagine fallica. La torre è anche un simbolo di potere fallico e il suo crollo rafforza l’idea della perdita di potere. Ma nell’episodio delle Torri gemelle è presente anche un altro tipo di immagine fallica: l’aereo che penetra nelle torri con un’esplosione di fuoco e quello che penetra nel Pentagono, che dall’alto ha una forma che può ricordare una vagina. Due interpretazioni falliche che sono state riportate da donne che si sono sentite violentate sia da quell’attacco terroristico sia dalla violenza delle immagini televisive. Una società è un edificio. Una società può avere delle basi, che possono essere più o meno solide, e può sbriciolarsi e cadere, proprio come un edificio. Il World Trade Center era un simbolo potentissimo della società americana. Quando si è sgretolato ed è crollato a terra, l’intera società si è sentita minacciata. Restare in piedi. Metaforicamente pensiamo alle cose destinate a durare per sempre come a cose «che restano in piedi». Durante la guerra del Golfo, George W. Bush era solito affermare: «Questa realtà non resterà a lungo in piedi», intendendo che quella situazione non sarebbe durata per sempre. Il World Trade Center era stato costruito per durare migliaia di anni. Quando è crollato, ha metaforicamente sollevato la questione della durata del potere e della società degli Stati Uniti. Del resto, era proprio questo l’obiettivo dell’attacco. L’edificio come tempio. Nel centro nevralgico della nostra società, abbiamo assistito alla distruzione del tempio del commercio capitalista.

La mente ci fa brutti scherzi. L’immagine dello skyline di Manhattan si è sbilanciata. Eravamo abituati a vederlo con le Torri gemelle nella posizione in cui erano prima dell’11 settembre. Ora la mente ci impone la vecchia immagine del passato, e la vista di quel panorama senza le due torri ci dà la sensazione di squilibrio, come se Manhattan stesse scivolando via. Considerando che Manhattan è sempre stato il simbolo della promessa americana, metaforicamente ci sembra che anche questa promessa stia precipitando. Oggi nel One World Trade Center svetta la Freedom Tower. Questa nuova torre ha un aspetto diverso e meno distintivo delle Torri gemelle, così come diverso è il suo significato: non può rappresentare più la stabile sicurezza di una vita normale. Inferno. Giorno dopo giorno continuiamo a essere perseguitati dall’immagine dei resti carbonizzati e fumanti del World Trade Center: un’immagine simile a quella dell’inferno. Il World Trade Center era un simbolo potente, legato alla nostra identità individuale e collettiva da una miriade di nodi. Poiché nelle sinapsi del nostro cervello è incorporato tutto quello che conosciamo, quell’attentato ha imposto un violento cambiamento fisico al cervello di tutti gli americani.

Il frame governativo dell’11 settembre Come sappiamo, l’amministrazione Bush ha elaborato e rielaborato tantissimo i frame alla ricerca delle metafore più efficaci per raccontare alla nazione la tragedia dell’11 settembre. Il primo frame utilizzato è stato quello del crimine, con tanto di vittime e colpevoli che saranno «trascinati davanti alla giustizia e puniti». In questa immagine è contenuto anche lo scenario giudiziario che evoca tribunali, avvocati, processi, sentenze, appelli e così via. Ma dopo poche ore il governo aveva già compreso che era meglio sostituire la metafora del crimine con quella della guerra e tutto il suo immaginario di morti, feriti, nemici, azioni militari. Fino a quando il segretario della Difesa Donald Rumsfeld e altri funzionari del governo fecero notare che la situazione in corso non

corrispondeva alla comune idea di guerra. C’erano nemici e morti, certo, ma nessun esercito avversario, né reggimenti, carri armati, navi, aerei, campi di battaglia, obiettivi strategici, e nessuna chiara idea di quale sarebbe stata la vittoria. Il frame della guerra non era poi così appropriato. Secondo il segretario di Stato Colin Powell, profondamente contrario all’assunzione di impegni che non fossero ben definiti, era impossibile riuscire a coinvolgere le truppe in mancanza di obiettivi precisi, senza una definizione chiara e comprensibile di vittoria e una ben definita strategia d’uscita dal conflitto. E, al momento, nessuno di quei presupposti era presente. Poiché l’immagine della guerra sembrava non funzionare, continuò la frenetica ricerca di metafore più adeguate. Dapprima Bush chiamò i terroristi «vigliacchi», ma non parve una soluzione tanto adatta a dei martiri che avevano intenzionalmente sacrificato la propria vita in nome di un ideale. Allora il presidente cominciò a rilasciare dichiarazioni in cui assicurava che li avrebbe fatti «uscire fuori dalle loro tane», come se fossero roditori. «Prosciugheremo le paludi in cui vivono» aggiunse Rumsfeld, come se parlasse di serpenti o di altre creature striscianti negli acquitrini. Con queste nuove immagini si voleva veicolare il messaggio secondo cui ciò che è morale si trova in alto, mentre l’immoralità sta nel basso (dove vivono le creature striscianti), e le persone immorali sono animali (che vivono nelle tane o sottoterra). A questo punto David Frum, autore dei discorsi di Bush, creò l’espressione «Asse del male», che fu utilizzata dal presidente nel discorso sullo stato dell’Unione del 2002 per riferirsi a Iran, Iraq e Corea del Nord. Da allora la sua amministrazione non smise di reiterare quell’espressione per giustificare la guerra in Iraq. «Asse» era un riferimento alle cosiddette «potenze dell’Asse nemico» della Seconda guerra mondiale (Germania, Italia e Giappone), che si estendeva da Oriente a Occidente. Raggruppare insieme Iraq, Iran e Corea del Nord serviva a far intendere che anche l’Iraq fosse in possesso di armi nucleari (le inesistenti «armi di distruzione di massa»), montando così un valido pretesto per l’invasione militare. Inoltre, evocando il Giappone, il termine «asse» ricordava anche il terribile attacco di Pearl Harbor e, più o meno simbolicamente, tendeva ad assimilare l’attentato dell’11 settembre a quel drammatico

episodio, fornendo così un’ulteriore giustificazione alla nuova impresa bellica. Partendo dal presupposto che l’America («la luminosa città sulla collina», come la definiva Reagan usando un’espressione biblica) custodiva l’essenza della moralità e della democrazia, ogni suo nemico doveva essere necessariamente considerato dalla parte del male. E quanto accaduto l’11 settembre aveva senz’altro a che fare con il male. Il termine «male» era utilizzato dal governo Bush secondo la visione conservatrice del padre severo, che considera il male come una realtà concreta, una forza operante nel mondo (si veda il mio Moral Politics). Per resisterle bisogna essere moralmente forti. Se siamo deboli, lasceremo trionfare il male, per cui anche la debolezza è un’espressione del male, così come lo è la difesa della debolezza. Il male è un elemento intrinseco ed essenziale che determina il modo in cui ci comportiamo. Le persone malvagie compiono azioni malvagie. Non servono ulteriori spiegazioni. Non esistono motivazioni sociali o religiose alla base del male, né alcun altro tipo di ragione o causa. Il nemico del male è il bene. Se il nostro nemico è il male, allora noi siamo intrinsecamente il bene. Il bene è la nostra natura intrinseca, e ogni nostra azione nella guerra contro il male non potrà essere altro che bene. Bene e male sono impegnati in una battaglia che metaforicamente è rappresentata come una lotta fisica in cui sarà il più forte a vincere. Solo la forza superiore potrà sconfiggere il male, e solo la dimostrazione della forza potrà tenere il male a bada. Secondo questa visione, non mostrare la superiorità del bene sarebbe immorale, perché potrebbe indurre i malvagi a pensare di farla franca e, perciò, a compiere sempre più azioni malvagie. Nella strenua battaglia contro il male nulla è più importante della vittoria del bene, e pazienza se alcuni civili innocenti dovessero restarvi coinvolti: sono perdite da mettere inevitabilmente in conto. Questi mali minori sono giustificati se compiuti a fin di bene (mali minori come limitare le libertà individuali, compiere omicidi politici, torturare, rovesciare governi, ingaggiare criminali e permettere i cosiddetti «danni collaterali»). Ecco come si è giunti alla ormai imprescindibile metafora della sicurezza, intesa come forma di contenimento per tenere alla larga tutti i malvagi, proteggendo le nostre frontiere, allontanando i nemici e le loro armi dai nostri aeroporti, mettendo la polizia a bordo degli

aerei. Secondo molti esperti di sicurezza non esistono modi completamente certi per tenere lontani i terroristi ed evitare attacchi o aggressioni armate: un’organizzazione terroristica determinata e ben finanziata può penetrare qualsiasi sistema di sicurezza o dirigere la propria attenzione verso obiettivi alternativi (come per esempio le petroliere). Nonostante questi pareri, la metafora della sicurezza come contenimento resta molto potente. È su di essa, per esempio, che si basa la proposta per lo scudo missilistico, sebbene la ragione possa suggerirci che gli attentati dell’11 settembre ne abbiano dimostrato l’inutilità. I conservatori sono riusciti a rafforzare a tal punto la metafora della sicurezza come contenimento che, non appena nominiamo la «sicurezza nazionale», nella nostra mente si attiva subito quella metafora e, con essa, l’idea dello scudo missilistico.

Il vantaggio dei conservatori L’amministrazione Bush ha reagito agli attentati dell’11 settembre in perfetto stile conservatore, ovvero applicando rigidamente la morale del padre severo: se il mondo è pieno di malvagi a piede libero, il nostro compito è di mostrare i muscoli e farli fuori tutti. È il momento del castigo. E pazienza se ci saranno vittime o danni collaterali. Diversa è stata la reazione di democratici e progressisti: questo è il momento della giustizia, non della vendetta; adesso abbiamo bisogno di comprensione e ponderatezza, e le nostre azioni dovrebbero ispirarsi a quelle di medici e soccorritori, non a quelle degli attentatori che lanciano le bombe. Non dobbiamo comportarci come loro. Non possiamo mettere a rischio la vita di numerosi innocenti pur di consegnare i colpevoli alla giustizia. Bombardando massicciamente Afghanistan e Iraq, e uccidendo civili incolpevoli, non dimostriamo di essere migliori di loro. Nei media, tuttavia, il messaggio di Bush ha continuato ad avere la meglio. Ormai la tragedia dell’11 settembre era stata elaborata dal frame conservatore per cui, come affermò Newt Gingrich su Fox, «la vera giustizia è soltanto il castigo».

Oggi è importante comprendere la storia di questo frame, perché è tornato alla ribalta ad esempio per attaccare l’uso del soft power (diplomazia e pressioni economiche) che Obama ha opposto alla proposta repubblicana di intervenire militarmente nelle zone più problematiche del mondo. Mi viene spesso in mente la celebre raccomandazione di Gandhi: «Siate voi stessi il cambiamento che desiderate vedere nel mondo». È valida sia per i governi sia per gli individui.

Le cause Sono (almeno) tre le cause del terrorismo fondamentalista islamico: La visione del mondo, ovvero la motivazione religiosa. Le condizioni sociopolitiche, ovvero la cosiddetta cultura della disperazione. Le risorse, ovvero le condizioni materiali che hanno reso possibile questa forma radicale di terrorismo. La politica di Bush ha preso in considerazione soltanto la terza causa, ovvero quell’insieme di risorse che hanno permesso di portare a termine gli attentati terroristici. Tra queste ovviamente sono compresi i leader (come Osama bin Laden), i paesi che ospitano i terroristi, le basi e i campi di addestramento, gli appoggi finanziari, l’organizzazione delle cellule, la rete di informazione e così via. Non sono stati invece minimamente contemplati i fattori della prima e della seconda causa.

La visione del mondo, ovvero la motivazione religiosa Dall’11 settembre, la domanda che tramite i media riecheggia ovunque è: «Perché ci odiano così tanto?». Innanzitutto è importante compiere una prima fondamentale distinzione tra i musulmani moderati e progressisti e i musulmani radicali, che non rappresentano la maggior parte del mondo islamico.

I musulmani radicali e fondamentalisti odiano la nostra cultura. La loro visione del mondo è incompatibile con lo stile di vita degli americani e di tutti gli altri occidentali. Un primo aspetto di questa concezione del mondo riguarda le donne, che secondo i fondamentalisti dovrebbero coprire i loro corpi, non avere alcun diritto di proprietà eccetera. L’uguaglianza tra i generi, la cultura e i costumi dell’Occidente e il suo modo di vivere la sessualità violano i valori dei fondamentalisti islamici, che si sentono offesi dall’enorme diffusione mondiale dei prodotti culturali americani, come film e musica. Un secondo aspetto ha a che fare con la teocrazia: d’accordo con la più rigida interpretazione della legge islamica, i fondamentalisti ritengono che lo Stato debba avere una guida religiosa. Un terzo aspetto riguarda i luoghi sacri come Gerusalemme, che secondo loro dovrebbero essere sotto il controllo politico e militare islamico. Un quarto aspetto riguarda le incursioni militari e commerciali degli occidentali sul suolo islamico, che sono paragonate alle invasioni degli odiatissimi crociati: per i fondamentalisti la nostra cultura è come uno sputo in faccia. Un quinto aspetto riguarda la jihad, la guerra santa per proteggere e difendere la fede. Infine c’è l’idea dei martiri, uomini disposti a sacrificare la propria vita per la causa religiosa comune. La ricompensa per loro sarà la gloria eterna in paradiso, dove saranno circondati da vergini giovani e disponibili. In certi casi la comunità promette, dopo il martirio, di prendersi cura delle loro famiglie.

Le condizioni sociopolitiche, ovvero la cultura della disperazione Molti dei musulmani disposti al martirio non condividono soltanto convinzioni religiose, ma anche la medesima cultura della disperazione in cui sono cresciuti e che li porta a non avere nulla da perdere. Eliminare le cause di quella disperazione significherebbe eliminare il terreno in cui germoglia la maggior parte dei terroristi

(sebbene quelli responsabili dell’11 settembre fossero relativamente benestanti). Ma quando il governo Bush parlava di eliminare il terrore, non si riferiva all’eliminazione della miseria e delle condizioni sociali che possono spingere al sacrificio estremo del martirio. All’epoca Princeton Lyman dell’Aspen Institute presentò un’importante proposta: che la coalizione internazionale sorta allora contro il terrorismo ne affrontasse le cause reali. Paese per paese, consigliava di esaminare le condizioni (materiali e politiche) all’origine della disperazione, e di affrontarle con un impegno globalmente condiviso per eliminarle in modo definitivo. Oltre che una giusta causa umanitaria, sarebbe stata una parte fondamentale della lotta alle cause del terrorismo. Ma non è mai stata presa seriamente in considerazione. Pari disattenzione sembra essere stata riservata anche alla prima causa, ovvero alla visione del mondo dei fondamentalisti islamici. L’intervento militare non la cambierà, così come non ci riuscirà l’azione sociale, perché le idee vivono nella mente delle persone. Come fare allora per cambiare una mentalità, se non presente almeno futura? Non può certo farlo l’Occidente. La mentalità può essere cambiata soltanto dai musulmani moderati e progressisti, da religiosi, insegnanti, anziani e dai membri più autorevoli delle comunità islamiche. Figure simili sicuramente non mancano. Dubito siano ben organizzate, ma il mondo ha bisogno che lo diventino. È fondamentale che musulmani moderati e progressisti si uniscano in una sola voce contro l’odio e il terrore. Ricordiamoci che «talebano» vuol dire «studente». Gli insegnanti che incitano all’odio nelle scuole islamiche devono essere sostituiti, e certo non possiamo farlo noi occidentali. Può riuscirci soltanto un Islam moderato, non violento e ben organizzato. L’Occidente può offrire sostegno e risorse, ma da soli non saremo mai capaci di portare a termine un simile compito. Dipendiamo dal coraggio e dalla buona volontà dei leader islamici moderati. Per convincerli, dobbiamo mostrare loro la nostra benevolenza iniziando con l’affrontare seriamente le condizioni sociopolitiche che portano alla disperazione. Pensare al nemico come al male assoluto significa non prendere seriamente in considerazione le cause principali del fenomeno terroristico.

Il discorso pubblico L’onorevole Barbara Lee (deputato della California che sono fiero di considerare come mia rappresentante al Congresso), esprimendo l’unico voto contrario a quella guerra che, a detta di Bush, poteva essere la sola risposta adeguata al terrorismo, dichiarò: Sono convinta che l’intervento militare non impedirà ulteriori atti di terrorismo internazionale contro gli Stati Uniti. È una questione davvero complessa e complicata. […] Per quanto questo voto possa essere difficile, è necessario che qualcuno di noi si appelli alla moderazione. Il nostro paese è in lutto. Alcuni di noi dovrebbero dire: facciamo un passo indietro. Fermiamoci un attimo e pensiamo oggi alle conseguenze delle nostre azioni affinché in futuro non sfuggano al nostro controllo. Il pensiero di questo voto mi ha angosciata a lungo, ma oggi sono giunta a una decisione. Ho deciso di oppormi a questa risoluzione quando, durante la dolorosa e bellissima cerimonia per commemorare le vittime dell’11 settembre, uno dei religiosi presenti ha detto: «Qualsiasi cosa facciamo, sforziamoci di non diventare uguali a quel male che deploriamo».

Condivido pienamente la posizione di Barbara Lee. Ma ciò che, da linguista, mi stupisce molto nel suo discorso è l’uso delle negazioni: «moderazione» (con la sua negazione intrinseca), «non sfuggano al nostro controllo», «non diventare uguali a quel male che deploriamo». Un’altra petizione che circolava in quei giorni si appellava alla «giustizia senza vendetta». Anche quel «senza» aveva un implicito valore negativo. Non voglio dire che quelle frasi fossero sbagliate. Ma ciò di cui abbiamo davvero bisogno sono forme positive del discorso. Eccone una, per esempio. Il cuore della morale progressista è il fondamentale concetto della responsabilità (si veda ancora una volta il mio Moral Politics). La morale progressista comincia dall’empatia, ovvero dalla capacità di comprendere gli altri e i loro sentimenti, presupposto della responsabilità verso se stessi, verso coloro che hanno bisogno di aiuto e verso la comunità tutta. Questi sono i valori che abbiamo visto in azione tra i soccorritori intervenuti subito dopo l’attentato dell’11 settembre. La responsabilità richiede competenza ed efficacia. Per affrontare responsabilmente il terrorismo, bisogna affrontarne con efficacia tutte le cause: religiose, sociali e materiali. Bombardare civili innocenti e distruggere le infrastrutture di un paese è controproducente, oltre che

immorale. La responsabilità richiede attenzione e premura, non forza cieca e travolgente. I bombardamenti a tappeto sono irresponsabili, così come lo è il rifiuto di confrontarsi con le ragioni religiose e sociali. La risposta responsabile comincia da un’azione internazionale congiunta volta ad affrontare con la dovuta attenzione tutte e tre le cause del terrorismo islamico: le condizioni sociopolitiche, la visione religiosa e le risorse a disposizione dei terroristi.

La politica estera In un tempo come il nostro, in cui le minacce terroristiche provengono da gruppi di individui e non da Stati, in cui le guerre si combattono all’interno della stessa nazione, in cui esiste il libero mercato senza che esista la libertà, in cui la sovrappopolazione e un disastroso riscaldamento globale minacciano ogni stabilità, le culture intolleranti limitano la libertà e promuovono la violenza, le multinazionali si comportano come Stati oppressivi e l’economia petrolifera minaccia il futuro del pianeta, i problemi fondamentali del mondo non possono essere risolti con approcci individuali da parte di ogni singolo Stato. Ogni paese dovrebbe riconoscere l’interdipendenza esistente fra tutti gli Stati e concentrare l’attività della propria politica estera sulla diplomazia, sulle alleanze, sulle istituzioni internazionali e sulla creazione di forze per la difesa e il mantenimento della pace, considerando la guerra come ultima risorsa per la soluzione dei problemi. Ma ciò di cui c’è ancora più bisogno è un’etica su cui basare questa politica estera comune, un’etica che riconosca che gli Stati Uniti potranno vivere meglio soltanto se starà meglio il mondo intero. Gli Stati Uniti devono diventare un campione morale di valori come cura e responsabilità, fondamentali per affrontare efficacemente i problemi del mondo. In una politica estera basata sui valori, diventeranno centrali quelle questioni che prima erano considerate marginali. L’istruzione femminile, per esempio, è il miglior modo per limitare la

sovrappopolazione e promuovere lo sviluppo. Le fonti di energia rinnovabili potrebbero liberare il pianeta dalla dipendenza dal petrolio. Cibo, acqua, salute, ecologia e riforma delle multinazionali sono questioni di politica estera, così come lo sono i diritti delle donne, dei bambini, dei lavoratori, dei detenuti, dei rifugiati e delle minoranze politiche. In passato tali questioni erano lasciate alle organizzazioni umanitarie internazionali, molte delle quali hanno compiuto un ottimo lavoro. Ma ora questi problemi hanno bisogno di un approccio integrato e di una politica estera che li affronti seriamente. Obama lo ha compreso e la sua politica, effettivamente, ha compiuto vari progressi in questa direzione. Ma i media non hanno ancora riconosciuto l’importanza di considerare questi temi nell’ambito della politica internazionale. Perché? Le metafore che abitualmente hanno utilizzato gli esperti di politica estera per definire il loro campo di interesse hanno spesso escluso questo genere di problemi. Le loro metafore riguardano l’interesse personale (si pensi al modello dell’attore razionale), la stabilità (metafora fisica), l’industrializzazione (per cui le nazioni non industrializzate sono «sottosviluppate»), la crescita (la nostra economia dipende dalla crescita dei mercati e dall’accesso ad abbondanti quantità di materie prime e manodopera a buon mercato) e il commercio (la libertà equivale al libero commercio). Eppure esiste una maniera alternativa di pensare alla politica estera includendo tutti gli aspetti elencati poc’anzi. Bisogna premettere che quando le relazioni internazionali funzionano senza intoppi è perché sono rispettate le norme morali della comunità internazionale. In genere non ci si fa caso, proprio perché tali norme sono rispettate. I problemi si presentano quando invece vengono violate. Ed è per questo che la politica estera dovrebbe concentrarsi proprio su quelle norme. Le norme morali cui mi riferisco provengono da quella che ho definito l’etica premurosa. Come già spiegato, si tratta di una visione della condotta umana basata sull’empatia e la responsabilità (nei confronti di se stessi e di tutti coloro che hanno bisogno del nostro aiuto). Da questi principi fondamentali discendono tutti gli altri valori: l’equità, l’assistenza, la riduzione al minimo della violenza (come

recitava lo slogan «giustizia senza vendetta»), il sostegno di chi è in difficoltà, il riconoscimento dell’interdipendenza, la cooperazione per il bene comune, la costruzione di una comunità, il rispetto reciproco. Applicare alla politica estera le norme dell’etica premurosa dovrebbe condurci a sostenere il trattato antimissili balistici (Abm), a incoraggiare gli accordi internazionali per la difesa ambientale, a impegnarci in una forma di globalizzazione retta dall’etica dell’assistenza e a far rientrare automaticamente all’interno della politica estera tutti gli interessi elencati sopra (come i diritti delle donne). Questa linea politica comporterà: 1) multilateralismo; 2) interdipendenza; 3) cooperazione internazionale. Si noti bene che, in assenza di un’etica premurosa, questi tre principi possono essere ugualmente applicati a una politica estera di estrema destra. La politica estera di Bush, per esempio, era schierata completamente a favore dell’interesse nazionale degli Stati Uniti, se non addirittura della loro egemonia assoluta (secondo la linea Cheney-Rumsfeld). Ma i leader democratici si sono sbagliati nel criticare le posizioni di Bush come isolazioniste e unilateraliste nei confronti di questioni come gli accordi di Kyoto e il trattato Abm. Bush non era isolazionista né unilateralista. Obbediva soltanto alla propria politica a favore dell’interesse nazionale, utilizzando come guida il modello del padre severo. Supponiamo che la politica di Bush avesse ricevuto il totale sostegno di Francia, Germania e Nazioni Unite. Allora lo avremmo definito internazionalista e multilaterale. Pur di realizzare l’interesse degli Stati Uniti, Bush sarebbe stato pronto a collaborare con qualsiasi paese disponibile a sostenerlo nella «coalizione dei volenterosi». La sua politica estera era saldamente a favore dell’interesse nazionale, talvolta capace di superare i confini che dividono unilateralismo e multilateralismo. Qui c’è una curiosa sovrapposizione tra la politica dell’etica premurosa e la visione idealistica della guerra intrapresa dal governo Bush, riassumibile nel rifiuto morale di farsi coinvolgere o di appoggiare azioni terroristiche. Da questo punto di vista sembrerebbe che destra e sinistra concordino. Ma ovviamente è un’illusione. Nella politica della morale premurosa, l’antiterrorismo deriva da

un altro principio etico: la violenza contro gli innocenti è immorale. A un anno dalla fine della guerra del Golfo, secondo i dati della Cia circa un milione di iracheni erano morti direttamente a causa del conflitto o per via dell’embargo (ovvero per l’impossibilità di procurarsi cibo e farmaci, ma anche per malattie e malnutrizione conseguenti la distruzione di ospedali, di impianti per la purificazione dell’acqua e di centrali per la generazione di elettricità). È così che moltissimi innocenti muoiono per le conseguenze della guerra. Secondo la morale conservatrice, nella lotta tra il bene e il male i «mali minori sono tollerati e considerati persino necessari e giustificabili». La motivazione per cui uccidere civili innocenti come rappresaglia ci rende cattivi quanto loro può funzionare con i progressisti, ma non con i conservatori. Siate il cambiamento che volete vedere nel mondo! Se gli Stati Uniti vogliono mettere fine al terrore, devono mettere fine anche al loro contributo al terrore. La politica estera basata sul rispetto delle norme etiche, sulla diplomazia, sulle leve economiche e sulla riduzione al minimo nell’uso della forza è l’unica forma di politica internazionale umana e sensata.

La politica interna Dopo l’11 settembre cominciai a nutrire un timore fondato: che quell’attentato avesse dato mano libera al governo Bush per mettere in pratica i suoi intenti conservatori anche in politica interna. Le cose stavano proprio così, anche se all’epoca i media non ne parlavano. Per sostenere i costi della guerra, anziché aumentare le tasse dei più benestanti, il governo le ridusse. Per finanziare il conflitto attinse alla «cassaforte» della previdenza sociale con il consenso di tutti i democratici al Congresso (tranne uno). Il bilancio preventivo per quella guerra era di quaranta miliardi di dollari. Invece finora ci è costata tremila miliardi. I costi continuano a crescere perché bisogna considerare anche la costante spesa per curare i veterani feriti in guerra e per sostenere i nuovi governi in Iraq e Afghanistan. L’intervento bellico ha rovinato l’economia del nostro paese,

dissipando un’ingente quantità di risorse pubbliche e impoverendo il sistema dell’istruzione, le infrastrutture eccetera. I ceti medio-bassi sono diventati sempre più poveri, i ricchi sempre più ricchi, la Terra sempre più calda e il movimento conservatore sempre più forte. Ecco dunque un’altra ottima lezione di causalità sistemica. Politica estera e politica interna sono ormai inevitabilmente intrecciate. Così, per esempio, le armi prodotte per quella guerra saranno vendute alle fiere delle armi e date in mano ai bambini. I droni e la tecnologia informatica sviluppati per il controllo dei nemici all’estero saranno utilizzati per controllare i cittadini in patria. E le risorse pubbliche federali saranno prosciugate per pagare le spese di un conflitto dall’altra parte del mondo.

Metafore che uccidono

Ho scritto questo capitolo per la prima edizione di questo libro, poco prima che nel 2003 cominciasse la guerra in Iraq. Ho deciso di ripubblicarlo qui per mostrare come l’analisi dei frame abbia aiutato a comprendere quella guerra prima ancora che iniziasse. Le metafore possono uccidere. Cominciava così un articolo che ho scritto nel 1990 sulla guerra del Golfo.5 Oggi molte di quelle metafore sono tornate in auge ma in un contesto molto diverso e ben più pericoloso. Poiché da un giorno all’altro – forse anche domani – potrebbe scoppiare la guerra in Iraq, prima di trovarci catapultati nel pieno dell’azione potrebbe essere utile dare un’occhiata alle metafore utilizzate per giustificare questo nuovo conflitto. Una delle più gettonate è quella delle nazioni intese come persone, metafora fondamentale della nostra politica e attualmente usata centinaia di volte al giorno, soprattutto ogni volta che la nazione irachena è identificata con un singolo individuo: Saddam Hussein. Questa guerra – ci è stato spiegato – non verrà intrapresa contro il popolo iracheno, ma soltanto contro questa singola persona. Ed è a questa immagine che inconsciamente si rifà il cittadino americano medio quando sostiene che «Saddam è un despota e noi dobbiamo fermarlo». Ciò che la metafora non dice, ovviamente, è che migliaia di bombe non saranno lanciate soltanto su quell’unico individuo. Uccideranno migliaia di persone nascoste da quella metafora ma contro le quali, sempre stando alle dichiarazioni del nostro governo, non siamo in guerra. La metafora della nazione come persona è potente e pervasiva, e

partecipa a un sofisticato sistema di metafore, in cui rientrano anche le immagini di nazioni amiche, nazioni ostili, Stati canaglia e così via. A tali metafore si collega il concetto di interesse nazionale: così come è nell’interesse di una persona essere forte e in salute, allo stesso modo è nell’interesse di una nazione-persona essere militarmente forte ed economicamente in salute, ovvero rispondere alle due principali esigenze di ciò che generalmente si intende appunto per «interesse nazionale». Nella comunità internazionale, popolata da nazioni-persone, esistono nazioni adulte e nazioni bambine, dove la maturità è metaforicamente intesa in base al livello di industrializzazione. Quelle bambine sono le nazioni in via di sviluppo del terzo mondo, bisognose di essere guidate, per crescere correttamente, e disciplinate (dal Fondo monetario internazionale) quando non rispettano le regole. Le nazioni «arretrate» sono quelle «sottosviluppate». Nonostante sia stato la culla della civiltà umana, secondo questa metafora l’Iraq è considerato una sorta di delinquente adolescente, ribelle e pieno di armi, che si rifiuta di rispettare le regole e ha dunque bisogno che qualcuno gli dia una bella lezione. Nelle relazioni internazionali, alla metafora della nazione come persona si aggiunge il cosiddetto modello dell’attore razionale, basato sull’idea che è irrazionale agire contro il proprio interesse e che le nazioni si comportano come attori razionali, ovvero come persone intenzionate a massimizzare risorse e benefici e a minimizzare costi e perdite. Nella guerra del Golfo, questa metafora è stata applicata in modo tale che tra le «risorse» di un paese fossero inclusi soldati, materiale bellico e denaro. Poiché durante quel conflitto gli Stati Uniti persero effettivamente soltanto una piccola parte di tali «risorse», si è diffusa la convinzione che (come riportato di lì a poco anche sulle pagine economiche del «New York Times») la guerra del Golfo sia stato un «affare». Poiché i civili iracheni non facevano parte delle nostre risorse, non abbiamo potuto annoverarli tra le perdite, e nessuno ha ritenuto necessario informare l’opinione pubblica di quanti tra di loro siano stati i morti, i mutilati e i bambini denutriti o gravemente ammalati a causa del conflitto o per effetto delle sanzioni belliche. Le stime variano da cinquecentomila a un milione o forse più. Ma poiché la

reputazione pubblica degli Stati Uniti è considerata un’importante risorsa, si è cercato di evitare che la stampa la danneggiasse commentando continuamente i massacri iracheni. Con l’approssimarsi del nuovo conflitto tutte queste metafore sembrano essere tornate prepotentemente tra noi. Se la guerra in Iraq dovesse essere breve e riportare poche vittime tra i nostri soldati, i costi sarebbero minimi. Ma se dovesse durare più a lungo, con una più tenace resistenza irachena e maggiori perdite tra gli americani, il nostro paese rischierebbe di apparire sempre meno invulnerabile e la guerra in corso sempre più un conflitto contro il popolo iracheno. E questo sì che sarebbe un costo alto. Secondo il modello dell’attore razionale, ogni paese agisce naturalmente a favore del proprio interesse e proteggendo i propri beni, ovvero la popolazione, la ricchezza nazionale, le infrastrutture, gli armamenti eccetera. È quello che gli Stati Uniti hanno fatto durante la guerra del Golfo e che stanno facendo anche adesso. Ma, stando al modello dell’attore razionale, non è ciò che avrebbe fatto Saddam Hussein durante la guerra del Golfo. I suoi obiettivi erano conservare il potere in Iraq e diventare un eroe del mondo arabo per aver affrontato il Grande Satana, obiettivi del tutto «irrazionali» dal punto di vista del modello. Tra gli usi più frequenti della metafora nazione-come-persona c’è il tentativo di giustificare la guerra in quanto «guerra giusta». Alla base di questa idea troviamo due narrazioni che hanno la struttura della fiaba classica: il racconto dell’autodifesa e quello del salvataggio. In ciascuno di questi due racconti ci sono un crimine, un eroe, una vittima e un cattivo. Nel racconto dell’autodifesa l’eroe e la vittima coincidono. In entrambe le storie il cattivo è il male assoluto e irrazionale: l’eroe non può ragionare con il cattivo, può soltanto combatterlo e sconfiggerlo, o ucciderlo. In entrambe le narrazioni la vittima deve essere innocente e irreprensibile. Entrambe partono da un crimine compiuto dal cattivo, che deve essere sconfitto affinché l’eroe ristabilisca l’ordine morale. Se tutti i ruoli sono interpretati da nazioni-persone, entrambe le storie diventano la rappresentazione di una guerra giusta per l’eroe-nazione. Durante la guerra del Golfo, George W. Bush provò a giustificarsi utilizzando lo schema narrativo dell’autodifesa: Saddam stava

«minacciando il petrolio indispensabile per la nostra sopravvivenza». Ma gli americani non abboccarono all’amo. E allora Bush cercò una storia che funzionasse meglio, e trovò una bella storia di salvataggio: lo «stupro» del Kuwait. Riuscì a venderla bene, ed è ancora la versione più diffusa di quella guerra. Per la guerra in Iraq, invece, Bush sta mandando avanti diverse versioni degli stessi due tipi di storie, cosa che ci aiuta a capire meglio di cosa stanno parlando la stampa americana e i discorsi pubblici di Bush e Powell. Se riescono a mostrare che Saddam Hussein è uguale ad Al-Qaida (perché la sta aiutando o proteggendo) allora possono mettere in scena il copione dell’autodifesa e, perciò, della guerra giusta. Se invece scoprono armi di distruzione di massa pronte per essere utilizzate subito, il copione dell’autodifesa può essere giustificato in un altro modo. In realtà, sebbene il laico Saddam Hussein e il fondamentalista Bin Laden si disprezzino reciprocamente, anche in totale assenza di prove evidenti il governo di Bush è riuscito a convincere il 40 per cento degli americani che tra i due vi sia un collegamento, semplicemente dicendo che questa relazione esiste. La stessa versione dei fatti è stata raccontata anche ai nostri militari, convinti così di andare in Iraq per difendere il proprio paese. Secondo lo schema del salvataggio, invece, le vittime sarebbero il popolo iracheno e i paesi confinanti, che anche se non direttamente coinvolti si sentono minacciati. Ed è per questo motivo che Bush e Powell continuano a elencare i crimini di Saddam contro il popolo iracheno e le armi che potrebbe utilizzare contro i paesi vicini. Anche in questo caso, la maggior parte degli americani ha accettato l’idea che la guerra in Iraq sia per proteggere il popolo iracheno e le nazioni confinanti, mentre è proprio il conflitto americano a minacciare la sicurezza e il benessere di entrambi. Per quanto riguarda il rapporto con altri paesi occidentali, sempre in base alla metafora delle nazioni come persone, Francia e Germania dovrebbero essere «amiche» degli Stati Uniti e, in quanto tali, disposte a sostenerci e aiutarci nel momento del bisogno. Ma poiché non sembrerebbero essere sempre presenti quando siamo in difficoltà, non sono più considerate amiche affidabili e perciò sono trattate spesso con aperta ostilità. Questo è il modo in cui il frame della guerra è presentato dalla

stampa e dal governo al popolo americano. In tutto il mondo milioni di persone si rendono conto che tali metafore e favole non si adattano affatto all’attuale situazione, che la guerra in Iraq non può essere definita giusta né «legale». Ma se accettiamo queste metafore, così come gli americani sono stati spinti a fare dalla stampa, dal governo e dall’assenza di un’efficace opposizione democratica, allora la guerra in Iraq sembrerà davvero una guerra giusta. Sicuramente la maggior parte degli americani è a conoscenza dei fatti, ovvero della mancanza di un collegamento credibile tra Saddam Hussein e Al-Qaida, dell’inesistenza di armi di distruzione di massa e dell’enorme quantità di civili iracheni innocenti che sarà uccisa o ferita dalle nostre bombe. E allora perché non riescono a trarne le debite conclusioni? Uno dei principali risultati della scienza cognitiva è la scoperta che le persone pensano in termini di metafore e frame, ovvero con strutture concettuali come quelle di cui abbiamo parlato fin dall’inizio di questo libro. I frame si trovano nelle sinapsi del nostro cervello, fisicamente presenti sotto forma di circuiti neuronali. Quando i fatti non corrispondono ai frame, i frame restano lì, fermi e immutati nel nostro cervello, mentre i fatti vengono ignorati e scivolano via. Tra i progressisti è diffusa la convinzione popolare che «i fatti ci renderanno liberi»: soltanto portando pubblicamente i fatti davanti agli occhi di tutti potremo permettere a ogni persona razionale di giungere alle giuste conclusioni. Ma questa è una vana speranza. Il cervello umano non funziona in questo modo. Quello che importa davvero sono i frame, che una volta consolidati si fa fatica a sradicare dalla nostra testa. Durante la guerra del Golfo, Colin Powell cominciò la sua testimonianza davanti al parlamento spiegando il modello dell’attore razionale tramite la celebre definizione della guerra secondo il generale prussiano Von Clausewitz: «La guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi». Le nazioni cercano naturalmente di perseguire il proprio interesse, quando è necessario, anche utilizzando la forza militare. È naturale e legittimo. Allo stesso modo, secondo il governo Bush, questa nuova guerra sarebbe necessaria per permetterci di controllare il flusso di petrolio proveniente dalla seconda più grande riserva conosciuta, ponendoci

inoltre nella posizione di poter controllare tutti i flussi petroliferi dell’Asia centrale. Questo risultato ci garantirebbe il dominio energetico su una considerevole parte del pianeta e il controllo delle vendite petrolifere di tutto il mondo. E, in mancanza di diffuse fonti di energia alternativa, chiunque controlli la distribuzione del petrolio controllerà anche l’economia e la politica mondiali. Il mio articolo del 1990 non riuscì certo a fermare la guerra del Golfo. Neanche questo nuovo articolo impedirà che scoppi la guerra in Iraq. E allora perché mi impegno così tanto? Perché sono convinto che sia fondamentale comprendere la dimensione cognitiva della politica, specialmente quando la maggior parte dei nostri frame concettuali è inconscia e non siamo consapevoli delle metafore che governano il nostro pensiero. Come mi ha definito qualcuno, sono un «attivista cognitivo». Anche nei miei corsi universitari analizzo gli aspetti linguistici e concettuali del discorso politico, e cerco di farlo nel modo più accurato possibile. La consapevolezza è importante, perché soltanto comprendendo ciò che succede potremo cercare di intervenire e contenere i danni, perlomeno sulla lunga distanza.

Quinta parte

Dalla teoria all’azione

Cosa vogliono i conservatori

I democratici faticano a comprendere i conservatori, la loro confusione è evidente. Da una parte li vedono nel caos e si rallegrano per la loro frammentazione interna: il Tea Party contro i libertari contro i neocon contro Wall Street; Eric Cantor, leader della maggioranza repubblicana, spodestato da uno sconosciuto del Tea Party; lo speaker della Camera John Boehner ormai incapace di controllare la maggioranza. All’orizzonte le primarie repubblicane si profilano irte di difficoltà. Dall’altra parte però i democratici temono non a torto una loro presa di potere a causa dei finanziamenti che i fratelli Koch e altri ricchissimi conservatori elargiscono ai candidati repubblicani a qualsiasi livello e in ogni angolo degli Stati Uniti. Ma quale delle due è la realtà? Le fratture, i litigi, le antipatie, persino il disprezzo tra i vari conservatori sono reali. Finiranno per distruggere il movimento conservatore? Molti sostengono di sì. La teoria di una dissoluzione in atto è comprensibile e sulla bocca di tutti. Ma è altresì possibile che da queste spaccature sorga un sistema capace di rinsaldare le varie parti. Anziché indebolirli, ciò potrebbe rendere i conservatori più forti nei punti comuni, laddove sussiste una condivisione di idee. Finora la teoria di una possibile saldatura non è stata considerata, ma probabilmente è quanto sta accadendo tra i conservatori. La loro coesione su qualsiasi argomento che vada da Obama all’aborto alla sentenza della Corte suprema sulla catena di bricolage Hobby Lobby è molto forte e si manifesta anche nella fervida e unanime opposizione ai liberali e a tutte le loro posizioni politiche. Sui punti in cui riescono a trovare un terreno comune, in linea con il loro substrato di valori

fondamentali, la loro coesione si rinsalda. Se è vero che, anziché indebolirli, le divisioni rafforzano i conservatori, i progressisti farebbero bene a prenderne coscienza. Qualsiasi cosa pensino della loro frammentazione, hanno bisogno di comprendere chi hanno di fronte e di conoscerne obiettivi singoli e complessivi. Al centro del movimento conservatore c’è sempre la morale del padre severo, benché questa abbia le sue complessità e le sue naturali declinazioni. Quello che i democratici non capiscono è che le differenze possono costituire un considerevole punto di forza per i repubblicani. A definire le differenti estensioni del pensiero conservatore è la predilezione per l’uno o l’altro dei seguenti ambiti di interesse, tutti dominati dalla morale del padre severo: la libertà individuale, la ricerca del proprio interesse personale, il potere internazionale, gli affari e la società. La predilezione per ognuno di questi ambiti definisce rispettivamente il carattere dei conservatori libertari, di quelli finanziari, dei neocon e del Tea Party. AMBITO DI INTERESSE Libertà individuale Potere internazionale Affari Società e religione

TIPO DI CONSERVATORE Libertario Neocon Wall Street Tea Party

Tutti i conservatori condividono la medesima etica del padre severo, ma ognuno la applica in modo diverso. A dividerli non è la teoria morale, ma appunto i campi di interesse. La loro complementarietà li tiene uniti. Alla base della componente libertaria della destra c’è la rimozione di ogni limite al perseguimento dell’interesse individuale e, di contro, una limitazione del potere che lo Stato può esercitare sul singolo. L’area neoconservatrice crede nell’uso indiscriminato del potere (compreso quello statale) per estendere i valori e le idee del padre severo a ogni ambito a livello nazionale ma soprattutto internazionale. È particolarmente interessata al potere finanziario e militare sul piano internazionale e all’uso del potere «in casa propria». Talvolta si scontra con l’area libertaria che si oppone all’uso del potere governativo e a ogni coinvolgimento internazionale che richieda il

ricorso al potere dello Stato. I conservatori di Wall Street sono interessati soprattutto al bene dell’industria. Sono amministratori e manager di grandi aziende, banchieri, investitori, asset manager, gestori di fondi speculativi e, più in generale, figure che traggono profitto principalmente dagli investimenti. A livello politico, hanno a cuore: la politica fiscale, gli accordi economici, le politiche di import-export, la protezione degli investimenti all’estero, gli accordi statali, l’accesso alle risorse minerarie presenti sul territorio nazionale, la difesa di patenti e brevetti, i diritti proprietari contro i diritti ambientali, le riserve energetiche, il controllo dei mercati, la privatizzazione delle risorse pubbliche. In genere cercano di far valere le proprie idee tramite i lobbisti, la pubblicità e il controllo del discorso pubblico (che influenzano grazie al controllo dei mezzi di informazione). Infine ci sono i conservatori del Tea Party, guerrieri in campo sociale e religioso, che si battono su ogni fronte della guerra culturale contro democratici e progressisti. Nel complesso la destra cerca di imporre l’ideologia del padre severo a tutti gli Stati Uniti e al resto del mondo. Nonostante alcune differenze dovute ai diversi ambiti d’interesse, quello conservatore è uno schieramento compatto in nome di un’ideologia di cui molti progressisti sottovalutano la radicalità. Ecco una sintesi del pensiero della destra radicale: DIO. Alla base del pensiero di molti conservatori c’è una visione del divino che legittima l’ideologia stessa. Dio è il sommo esempio di padre severo, è potere e bene assoluto, posto al vertice di una gerarchia naturale in cui morale e potere sono strettamente collegati. Dio vuole che siano i buoni a governare, la virtù va premiata con il potere. Dio vuole una società gerarchica governata da autorità morali in ogni campo: individuale, internazionale, finanziario, sociale. Dio crea le leggi (i comandamenti), stabilendo cosa è giusto e cosa è sbagliato. Ci vuole disciplina per seguire i comandamenti di Dio, che altrimenti ci punirà anziché premiarci. Coloro che riusciranno a essere abbastanza disciplinati moralmente lo saranno anche nel prosperare e diventare potenti. Cristo il Salvatore dà una seconda possibilità anche ai peccatori: la

possibilità di cominciare una nuova vita di obbedienza ai comandamenti di Dio. ORDINE MORALE. L’ordine morale naturale è definito dai rapporti di potere tradizionali: Dio al di sopra dell’uomo, l’uomo al di sopra della natura, gli adulti al di sopra dei bambini, la cultura occidentale al di sopra di quella non occidentale, l’America su tutte le altre nazioni. Molto spesso questo ordine morale viene esteso ad altri ambiti, cosicché gli uomini sono superiori alle donne, i bianchi superiori ai non bianchi, i cristiani ai non cristiani, gli eterosessuali ai gay. ETICA. Preservare e diffondere il sistema morale conservatore (ovvero quello del padre severo) è la priorità assoluta. L’etica è definita da regole, o comandamenti, emanate da un’autorità morale. Comportarsi in modo eticamente corretto significa obbedire a quell’autorità. Occorre disciplina interiore per controllare i propri istinti naturali e seguire l’autorità morale. A seconda degli interessi predominanti, quest’ultima si identifica con: l’individuo, le istituzioni (sia pubbliche che private), Wall Street, la società conservatrice. La disciplina si impartisce fin dalla prima infanzia infliggendo punizioni ai bambini quando questi si comportano in maniera sbagliata. La moralità può essere preservata soltanto tramite questo sistema di ricompense e castighi. ECONOMIA. Anche la competizione per aggiudicarsi risorse insufficienti richiede disciplina e, pertanto, moralità. La disciplina necessaria per essere moralmente corretti è la stessa disciplina necessaria per vincere e prosperare. I cittadini benestanti tendono a essere buoni, costituendo così un’élite naturale. I poveri restano poveri perché manca loro la disciplina necessaria per prosperare. Di conseguenza il povero merita di essere tale e di obbedire al ricco. Il ricco merita invece di essere servito dal povero. Pertanto l’enorme e crescente divario tra ricchi e poveri è considerato naturale e giusto. Fino a quando rimane «libero», il mercato è un meccanismo che consente alle persone disciplinate (ovvero buone) di usare la disciplina per diventare ricche. Il libero mercato è moralmente giusto: se ognuno persegue il proprio profitto, si avrà il massimo

profitto per tutti. La competizione è giusta perché consente di trarre il meglio dalle risorse e dalle persone disciplinate, dunque risponde al principio di moralità. La regolamentazione, invece, è sbagliata perché ostacola la libera realizzazione dell’interesse personale. I ricchi sono utili alla società grazie ai loro investimenti e al lavoro che offrono ai più poveri. Questa ripartizione della ricchezza è funzionale al bene comune, che consiste nel premiare i disciplinati e lasciare che gli indisciplinati scelgano se imparare la disciplina o vivere di stenti. STATO. I programmi sociali sono immorali. Dando alle persone benefici che non si sono guadagnate da sole, i programmi sociali sopprimono quell’incentivo alla disciplina che è indispensabile per condurre una vita prospera e morale. Perciò i programmi sociali dovrebbero essere eliminati. Tutto ciò che può essere realizzato dal privato non deve essere lasciato alla sfera pubblica. Allo Stato rimangono alcune funzioni specifiche, come proteggere la vita e la proprietà privata, spianare la strada del profitto ai cittadini meritevoli (ovvero quelli disciplinati), promuovere l’etica conservatrice (la morale del padre severo), oltre che la fede e la cultura dei conservatori. ISTRUZIONE. L’istruzione deve essere al servizio dell’obiettivo supremo, che è quello di preservare e diffondere l’etica conservatrice. Ogni scuola deve insegnare i valori conservatori. E per garantire questo risultato i conservatori devono assumere il controllo dei consigli di istituto. Gli insegnanti devono essere severi, non premurosi, sia nella disciplina sia nei contenuti. L’istruzione deve insegnare la disciplina e gli studenti indisciplinati devono essere puniti. Gli studenti ribelli devono subire punizioni fisiche (per esempio sculacciate), quelli che non stanno al passo non devono essere coccolati, ma rimproverati e puniti con la bocciatura. Il livello di disciplina deve essere vagliato mediante test standardizzati da distribuire a tutte le scuole del paese. Tali verifiche servono a insegnare il concetto di giustizia: chi le supera verrà premiato, chi non è sufficientemente disciplinato per superarle verrà punito. Poiché gli allievi immorali e indisciplinati potrebbero traviare quelli morali e disciplinati, bisogna mettere i genitori nelle condizioni di

scegliere la scuola più adatta ai propri figli. Bisogna quindi sottrarre i finanziamenti alle scuole pubbliche e darli ai genitori sotto forma di voucher. Questo consentirà ai cittadini più ricchi (ovvero i più morali e disciplinati) di mandare i propri figli in scuole private o religiose che insegnano i valori conservatori e impongono la giusta disciplina. I voucher dati ai genitori più poveri (ovvero ai meno disciplinati e meritevoli), invece, non saranno sufficienti per consentire loro di mandare i propri figli nelle migliori scuole private o religiose. Pertanto le scuole finiranno per riflettere la naturale ripartizione della ricchezza che già esiste nella società. Ovviamente gli studenti che mostrano particolare talento e disciplina potranno beneficiare di borse di studio per frequentare le scuole migliori. Questo consentirà all’élite sociale di rimanere un’élite naturale. ASSISTENZA SANITARIA. I genitori devono prendersi cura dei propri figli. Se non sono in grado di farlo, allora non sono all’altezza del loro compito. Nessun altro deve assumersi le responsabilità che spettano a loro. Pertanto le cure prenatali e postnatali, l’assistenza sanitaria ai bambini, agli anziani e ai malati sono affidate alla responsabilità individuale, non a quella dei contribuenti. MATRIMONIO OMOSESSUALE E ABORTO. Il matrimonio omosessuale non rientra nel modello famigliare del padre severo, anzi tende esattamente all’opposto. Nel matrimonio tra due donne non c’è un padre. In quello tra due uomini i «padri» non sono padri quanto un uomo dovrebbe. Dal momento che, come si è detto, per i conservatori l’obiettivo principale è preservare e diffondere il modello del padre severo, il matrimonio omosessuale costituisce quindi un attentato all’intero sistema morale dei conservatori e di tutti coloro che si identificano con il modello di famiglia del padre severo. Vale lo stesso ragionamento per l’aborto. In genere sono due le tipologie di donne che ricorrono all’aborto: adolescenti single che hanno avuto rapporti sessuali «illeciti» e donne adulte che vogliono ritardare la maternità per dedicarsi alla carriera. Entrambe contraddicono gravemente il modello morale del padre severo. L’adolescente incinta ha violato i comandamenti. La donna in carriera si permette di sfidarne il potere e l’autorità. Entrambe dovrebbero essere punite con l’obbligo di portare avanti la

gravidanza, senza alcuna possibilità di sottrarsi alle conseguenze delle proprie azioni, in caso contrario si violerebbe il principio per cui la morale si basa sul castigo. Poiché i valori conservatori derivano da quelli del padre severo, l’aborto rappresenta una minaccia a questi valori e all’identità conservatrice che in essi trova fondamento. I conservatori che si dichiarano «pro vita» sono per lo più contrari alle cure pre e postnatali, così come all’assistenza sanitaria infantile, tutte mancanze che si ripercuotono con gravi conseguenze sulle vite dei bambini. Perciò non si può dire che questi conservatori siano davvero a favore della vita. Sappiamo anche che molti di loro utilizzano le battaglie contro l’aborto come strategie all’interno di una più ampia guerra culturale per il potere politico. Sia il matrimonio omosessuale sia l’aborto sono usati a pretesto per affermare quei valori che definiscono l’identità di milioni di conservatori. Ecco la ragione per cui queste tematiche rappresentano questioni così sensibili per i conservatori. Comprendere questo non significa ignorare la profonda sofferenza e le difficoltà che le donne affrontano quando decidono di interrompere la gravidanza. Per chi ha davvero a cuore la vita e la salute dei bambini, la scelta di interrompere la gravidanza – qualsiasi ne sia il motivo – è sempre dolorosa e tutt’altro che semplice. Ed è proprio quel dolore che i conservatori sfruttano quando usano l’aborto come questione divisiva nella guerra culturale contro i progressisti. Diverso è il caso di chi è autenticamente a favore della vita, di chi è convinto che la vita cominci con il concepimento, che sia il valore più importante, e quindi è a favore delle cure pre e postnatali, dell’assistenza sanitaria per i bambini più poveri, dell’educazione prescolare, e contrario alla pena di morte, alle guerre e così via. Di solito si tratta di persone consapevoli della sofferenza cui vanno incontro le donne che interrompono una gravidanza, per questo non le giudicano, ma cercano di essere solidali. Si tratta per lo più di progressisti pro-vita (spesso cattolici democratici) e, a differenza dei conservatori, non usano l’aborto come leva politica al fine di conquistare consensi per un programma politico e morale ben più vasto.

Nella visione conservatrice, Dio ha dato all’uomo il dominio sulla natura. La natura è una risorsa per far prosperare gli esseri umani. È stata creata affinché l’uomo la sfrutti a suo vantaggio. INDUSTRIA. La grande industria esiste per fornire beni e servizi, e per ottimizzare i profitti di investitori e top manager. Le aziende funzionano più efficacemente quando ottimizzano i profitti. Con il profitto delle aziende cresce anche quello dell’intera società. REGOLAMENTAZIONE. La regolamentazione statale è un ostacolo alla libera impresa, perciò dovrebbe essere ridotta al minimo. DIRITTI. I diritti devono essere compatibili con la morale. La morale del padre severo stabilisce i limiti di quello che può essere definito un «diritto». L’aborto non è un diritto, così come non lo sono il matrimonio omosessuale, l’assistenza sanitaria pubblica (e nessun’altra forma pubblica di assistenza), il salario minimo o conoscere le ragioni delle scelte politiche di un’amministrazione. È invece un diritto possedere armi (sono soprattutto i conservatori a possederle) perché le armi conferiscono autorità. DEMOCRAZIA. Una democrazia del padre severo è una democrazia in senso istituzionale che opera secondo i valori morali del padre severo. È una democrazia perché contempla elezioni, la tripartizione dei poteri, il controllo del potere civile su quello militare, un libero mercato, libertà civili fondamentali e un vasto accesso ai mezzi di informazione. Ma al suo centro ha il sistema dei valori del padre severo, ritenuto fondamentale perché consente ai singoli individui di cambiare la propria vita e la società perseguendo il proprio interesse. POLITICA ESTERA. Gli Stati Uniti sono la principale autorità morale del mondo. Sono una superpotenza perché meritano di esserlo. I valori americani (ovvero quelli conservatori) sono definiti dal sistema morale del padre severo. Affinché ci sia un ordine morale mondiale, gli Stati Uniti devono mantenere la sovranità, la ricchezza, il potere e l’egemonia, e i valori americani (il modello conservatore di famiglia, il libero mercato, la privatizzazione, il taglio dei programmi sociali, il dominio dell’uomo sulla natura e così via) devono essere diffusi in tutto il mondo. NATURA.

La morale del padre severo stabilisce anche in cosa consista una buona società. Il modello conservatore di buona società è minacciato dai principi democratici e dai programmi progressisti. Questa minaccia va combattuta a ogni costo. Sono a rischio le fondamenta stesse della nostra società. Sono questi i principi base della destra radicale americana. Queste le idee e i valori che intende mettere in pratica, rivoluzionando radicalmente il modo in cui funzionano gli Stati Uniti e il resto del mondo. Non è un caso che i conservatori fomentino la guerra culturale. Affinché la morale del padre severo conquisti il potere è necessario che esista un divario. Prima di tutto di carattere economico: un’economia a due livelli, in cui i poveri «indegni» restino poveri e al servizio dei ricchi «meritevoli». Ma per mantenere il potere i conservatori hanno bisogno del sostegno dei conservatori meno abbienti. Questo vuol dire che hanno bisogno che una cospicua percentuale di elettori appartenenti al ceto medio-basso voti contro il proprio interesse economico e a favore degli interessi personali, morali e religiosi. Ecco allora che quelle che sembrano delle divisioni, motivate da interessi diversi all’interno dell’area conservatrice, in realtà alla lunga costituiscono un punto di forza. Il conservatorismo, per dominare, ha bisogno di essere presente in tutti questi settori della società. I conservatori hanno maturato questa consapevolezza dopo essersi accorti che molti lavoratori e molti protestanti evangelici seguono la morale del padre severo nella loro vita privata, famigliare o religiosa, ovvero gli stessi valori che muovono la politica conservatrice. Hanno capito anche che le persone votano in base ai propri valori e alla propria identità più che in base ai propri interessi economici. Così, lavorando sui frame e sul linguaggio, hanno stabilito una connessione tra la morale del padre severo applicata alla vita famigliare e religiosa e la politica e l’economia conservatrici. Per convincere i meno abbienti ad andare contro i propri interessi, era però necessario che tale connessione avesse su di loro un potente impatto emotivo. È a questo scopo che è stata messa in atto la guerra culturale: una guerra, condotta con ogni arma tranne quelle da fuoco, che oppone gli americani fedeli alla morale del padre severo (i conservatori) a quelli fedeli alla morale del genitore premuroso (gli GUERRA CULTURALE.

odiatissimi democratici), ritraendo questi ultimi come una minaccia allo stile di vita e all’identità personale, culturale e religiosa dei conservatori. Per raggiungere questi obiettivi i leader politici e gli intellettuali conservatori hanno dovuto affrontare una sfida enorme. Rappresentavano un’élite politica ed economica, ma avevano bisogno dei voti dei ceti medio-bassi. Dovevano quindi far passare le proprie idee conservatrici come rivolte al popolo e quelle progressiste e democratiche come elitarie (sebbene fosse vero proprio il contrario). Avevano davanti un enorme problema di framing che richiedeva una vera e propria rivoluzione concettuale e di linguaggio. Ma la morale del padre severo è accorsa in loro aiuto, sostenendo che i ricchi hanno guadagnato la propria ricchezza perché sono brave persone e se la meritano, e che coloro che contano (sia nel pubblico che nel privato) dovrebbero mantenere il giusto ordine morale all’interno della società, secondo una specie di contratto sociale conservatore. Grazie al lavoro di strateghi intellettuali, professionisti del linguaggio, scrittori, agenzie e specialisti dei media, nel giro di quaranta-cinquant’anni i conservatori hanno realizzato la loro rivoluzione. Agendo sul linguaggio sono riusciti a far passare i democratici (la cui politica è fondamentalmente rivolta al popolo) come elitari deboli e snob, spendaccioni senza amor di patria, bollandoli con espressioni quali «democratici in limousine», «scialacquatori dei contributi pubblici», «progressisti di Hollywood», «democratici all’acqua di rose». Allo stesso tempo, ancora una volta grazie al linguaggio, compreso quello corporeo, i conservatori (la cui politica notoriamente favorisce soltanto le élite economiche) si sono autoaffibbiati l’etichetta di difensori del popolo. Dallo spicciolo stile popolare di Ronald Reagan agli atteggiamenti alla John Wayne di George W. Bush, i toni, i gerghi, il linguaggio corporeo e le forme narrative scelte sono state quelle del populismo più grezzo e contadino. Durante i talk show radiofonici i loro ospiti – tutti guerrieri – hanno adottato uno stile da predicatori apocalittici. Ma il messaggio è sempre lo stesso: gli odiati democratici stanno minacciando i valori e la cultura americani, perciò devono essere combattuti con forza e costanza su ogni fronte. Rappresentano una minaccia alla sicurezza della nazione così come alla sua moralità, alla religione, alla famiglia e

a ogni cosa i veri americani abbiano maggiormente a cuore. Le loro posizioni su ogni questione controversa – armi, bambini, tasse, matrimoni omosessuali, bandiera, preghiere scolastiche – rivelano il «tradimento» dei democratici. Le questioni controverse non sono intrinsecamente importanti, ma lo diventano per quello che rappresentano: la visione del mondo del padre severo. Senza il reciproco sostegno tra i vari campi di interesse – individuo, Stato, affari, società – il movimento conservatore inteso come sistema morale onnicomprensivo non può progredire. Quella che ai democratici sembra una frammentazione o una divisione interna in realtà è una struttura che si autoalimenta e si autosostiene, nonché una potente minaccia per i valori progressisti e della democrazia. Ecco perché, benché continuino a pensare in maggioranza che le divisioni interne stiano lacerando il conservatorismo, i democratici farebbero bene a considerare anche l’altra eventualità.

Cosa unisce i progressisti

Per comprendere cosa unisce i progressisti, dobbiamo prima interrogarci su cosa li separa. Passiamo dunque in rassegna le principali divergenze al loro interno. Interessi locali. C’è chi proviene da una comunità rurale, chi da una metropoli ultratecnologica, chi vive in una città che ospita una base militare, chi in una località in cui è presente una cospicua minoranza etnica. Provenendo da realtà diverse, ognuno pone i propri interessi locali in cima alla lista delle priorità. Idealismo contro pragmatismo. I pragmatici sono disponibili al compromesso e cercano sempre di trattare per arrivare al miglior accordo possibile. Gli idealisti, viceversa, non sono disposti ad alcun compromesso e, in genere, accusano i pragmatici di non avere ideali (in realtà li hanno, ma non se ne rendono conto); i pragmatici criticano gli idealisti seguendo la massima: «la perfezione non è di questa terra». Biconcettualismo. I progressisti con qualche idea conservatrice sono accusati dai progressisti puri di essere conservatori. A loro volta i biconcettuali accusano i progressisti puri di essere estremisti o troppo dogmatici. Cambiamenti radicali contro cambiamenti graduali. I radicali accusano chi è favorevole a cambiamenti più graduali di non essere davvero progressista; a loro volta questi ultimi accusano i radicali di essere poco pratici e di danneggiare la causa comune non sfruttando le cosiddette tattiche a effetto domino. Attivisti militanti contro sostenitori più moderati. Gli attivisti

sono insistenti, aggressivi e con modi di fare punitivi che spesso ricordano quelli del padre severo, sebbene applicati a scopi altruistici. Considerano i moderati vigliacchi e troppo poco coinvolti. I sostenitori più moderati, invece, ritengono che gli attivisti siano offensivi e provochino reazioni controproducenti per il bene della causa comune. Diverse modalità di pensiero. I valori progressisti possono essere orientati verso diversi ambiti di interesse: socioeconomico, identitario, ambientale, spirituale, antiautoritario o relativo ai diritti civili (si veda Moral Politics per maggiori dettagli). Da ogni modo di pensare conseguono effetti diversi nella scelta delle cause da perseguire, nella classificazione delle priorità, nell’utilizzo del capitale politico, nella raccolta di fondi e nella decisione di come spenderli, nella scelta di amici e conoscenti, di letture e realtà a cui dedicarsi. Molti progressisti sono stati critici nei confronti del presidente Obama. Se proviamo a compilare una lista di queste critiche, vedremo che tutte comprendono almeno uno dei seguenti fattori: non è un vero e proprio progressista, troppo pragmatico, troppo lento, troppo timido o timoroso, non è abbastanza militante, non ha fatto un granché per il mio interesse principale. Considerando che ogni progressista presenta una diversa combinazione di questi fattori, il numero delle tipologie di progressisti diventa astronomico. Ecco come andava interpretata la battuta del celebre comico Will Rogers quando diceva: «Io non appartengo a nessun partito organizzato. Io sono un democratico». Tutto questo è importante per capire cosa unisce i progressisti e da dove partire per trovare l’unità, nonostante le divergenze evidenziate da questa serie di parametri. I principali ostacoli nel percorso verso l’unità sembrano essere i programmi. Non appena viene specificata una linea politica, emergono inevitabilmente le divergenze. I progressisti parlano sempre di programmi e linee politiche. Ma gli americani non sono interessati a conoscere i dettagli dei programmi. La maggior parte di loro vuole sapere per cosa lotteranno, se i valori che porteranno avanti coincidono con i propri e in quale direzione intendono portare il paese. Nel discorso pubblico i valori superano i programmi e gli ideali

sconfiggono tutte le dettagliatissime pianificazioni politiche. Sono convinto che, se articolati nel modo corretto, i valori, i principi e gli obiettivi saranno esattamente ciò che unirà i progressisti, perché sono molto più importanti di tutte le realtà che li dividono.

Che cosa ci rende progressisti Qui di seguito spiegherò dettagliatamente quali sono le idee che ci uniscono: 1. 2. 3.

I valori derivanti dalla visione progressista di base. I principi che derivano da questi valori. Gli obiettivi politici che discendono da valori e principi.

La visione progressista di base L’idea di base dei progressisti è quella di comunità, dell’America intesa come una famiglia responsabile e premurosa. La nostra concezione di America è quella di un paese in cui le persone si preoccupano reciprocamente le une delle altre, oltre che di se stesse, e si comportano in modo responsabile, deciso ed efficace nei confronti dei propri concittadini. La democrazia consiste proprio nell’agire in questo modo premuroso e responsabile tramite lo Stato, che ha il compito di fornire risorse pubbliche a tutti, dal bisognoso al cittadino medio all’imprenditore piccolo o grande che sia. In poche parole, nella democrazia il privato dipende dal pubblico. Se produciamo ricchezza utilizzando le risorse pubbliche finanziate dalle tasse pagate da altri cittadini, che a loro volta si sono già serviti di quelle risorse, allora sarebbe giusto contribuire pagando anche noi la nostra quota di tasse, in modo che in futuro altri possano beneficiare proficuamente di quel sistema di risorse proprio come abbiamo fatto noi. Siamo tutti nella stessa barca, democratici e repubblicani, progressisti e conservatori. Questo è il significato della democrazia. Insieme, come siamo stati per un breve momento subito dopo l’11

settembre, e non divisi da una spregevole guerra culturale. E, per quanto mi risulta, questa è la visione della democrazia condivisa da tutti i progressisti.

La logica dietro i valori progressisti Alla base dei valori progressisti ci sono i valori della famiglia responsabile e premurosa, ovvero la cura e il senso di responsabilità, portati avanti con determinazione e impegno. Questi valori di base influenzano l’insieme dei valori progressisti elencati qui di seguito. Protezione, realizzazione personale, correttezza. Quando abbiamo a cuore qualcuno, vogliamo proteggerlo da ogni sofferenza, vogliamo che realizzi i suoi sogni e che sia trattato correttamente. Libertà, opportunità, prosperità. Non c’è realizzazione personale senza libertà, non c’è libertà senza opportunità e non possono esserci opportunità senza prosperità. Comunità, supporto, collaborazione. I bambini sono influenzati dalle comunità in cui crescono. Essere responsabili significa sostenere e aiutare la crescita della propria comunità. E per farlo occorre collaborazione. Fiducia, onestà, comunicazione. Non c’è collaborazione senza fiducia, così come non può esserci fiducia senza onestà, né collaborazione senza comunicazione. Così come questi valori derivano dalla cura e dal senso di responsabilità, tutti gli altri valori progressisti derivano da questi. L’uguaglianza discende dalla correttezza, l’empatia è parte dell’attenzione verso il prossimo, il rispetto della diversità deriva dall’empatia e dall’uguaglianza.

I principi progressisti I progressisti non condividono soltanto questi valori, ma anche i principi politici che da essi derivano.

È ciò che i cittadini e l’intera nazione devono gli uni agli altri reciprocamente. Se lavoriamo sodo, rispettiamo le leggi e aiutiamo la nostra famiglia, la comunità e la nazione, allora lo Stato ci fornirà libertà, sicurezza e opportunità per condurre una vita dignitosa. UGUAGLIANZA. Fare tutto ciò che è possibile per garantire uguaglianza politica e sociale ed evitare squilibri di potere. DEMOCRAZIA. Permettere la massima partecipazione dei cittadini alla vita pubblica; ridurre al minimo la concentrazione di poteri politici, economici e mediatici. Garantire i più alti standard giornalistici. Indire elezioni finanziate da fondi pubblici. Investire nell’istruzione pubblica. Fare in modo che le aziende siano controllate da tutti i soggetti interessati e non soltanto dagli azionisti. LO STATO PER UN FUTURO MIGLIORE. Lo Stato fa ciò che è necessario per il futuro dell’America e ciò che il settore privato non è in grado di fare – o che non sta facendo – efficacemente, correttamente o affatto. È compito dello Stato promuovere e, se possibile, fornire sufficiente protezione, maggiore democrazia, più libertà, un ambiente migliore, più prosperità, migliori condizioni di salute, maggiore realizzazione personale, minore violenza, costruzione e manutenzione delle infrastrutture. ETICA DEGLI AFFARI. I nostri valori si applicano anche al mondo degli affari. Nel fare soldi fornendo prodotti e servizi, le imprese non devono danneggiare il bene comune, così come è definito dai valori sopraelencati. Devono rifiutarsi di imporre la schiavitù salariale e aziendale e devono collaborare con i sindacati. Devono sostenere i costi reali dell’azienda, non esternalizzare o scaricare questi costi sui cittadini (per esempio dovrebbero occuparsi di rimediare agli effetti causati dal loro inquinamento). Le imprese devono essere sicure che i propri prodotti non danneggino i cittadini. Anziché trattare i propri impiegati come «risorse», devono considerarli come membri della comunità e parte fondamentale del loro business. POLITICA ESTERA BASATA SUI VALORI. Laddove possibile, anche in politica estera andrebbero applicati gli stessi valori su cui si basa la politica interna. Ecco qui alcuni esempi di come la politica interna progressista può EQUITÀ.

tradursi nella politica estera: La protezione si traduce in un esercito efficiente per la difesa e il mantenimento della pace. La costruzione e il mantenimento di una solida comunità si traducono nella costruzione e nel mantenimento di forti alleanze e in un efficace lavoro diplomatico. Cura e senso di responsabilità si traducono in comportamenti attenti e responsabili nei confronti dell’intera popolazione mondiale, nell’adozione di soluzioni efficaci contro i problemi di salute, fame, povertà e degrado ambientale, nel controllo della sovrappopolazione (con i modi migliori, ovvero l’istruzione femminile) e nel sostegno ai diritti di donne, bambini, detenuti, rifugiati e minoranze etniche. Ecco come dovrebbe essere una politica estera fondata sui valori progressisti.

Gli obiettivi politici Stabiliti i propri valori e principi, i progressisti possono trovare un accordo anche sugli obiettivi politici generali, se non nei dettagli degli obiettivi più specifici (che sono a un livello inferiore rispetto agli obiettivi generali). In genere i progressisti si dividono sugli obiettivi specifici, mentre concordano su quelli generali. Ecco un elenco di alcuni dei numerosi obiettivi generali sui quali concordano: ECONOMIA. Investire in un’economia basata sull’innovazione, capace di creare milioni di posti di lavoro ben retribuiti e l’opportunità di prosperare per tutti gli americani. L’economia dovrebbe essere sostenibile e non contribuire al cambiamento climatico, al degrado ambientale eccetera. SICUREZZA. Far sentire ogni americano sicuro a casa propria grazie alla forza militare, alle alleanze diplomatiche e a una saggia politica interna ed estera. Potenziare il ruolo internazionale dell’America affinché il paese possa aiutare qualsiasi popolo in difficoltà.

Costruire un sistema sanitario moderno e accessibile a ogni cittadino. ISTRUZIONE. Costruire un sistema di pubblica istruzione vivace, ben finanziato e in continua espansione, che possa offrire gli standard più alti a ogni studente e a ogni scuola, dove gli insegnanti nutrano le menti dei ragazzi e, se necessario, i ragazzi stessi, e dove gli studenti possano imparare la verità sulla loro nazione, sui suoi pregi e i suoi difetti. INFANZIA. Garantire un’educazione prescolare di qualità, poiché il cervello di ogni bambino è indelebilmente segnato dalle prime esperienze. AMBIENTE. Lottare per un ambiente pulito, salubre e sicuro per noi e per i nostri figli: acqua potabile, aria respirabile e cibo sano e sicuro. E chi inquina deve pagare per sanare i danni provocati. NATURA. Proteggere le meraviglie naturali del paese per le generazioni future e sanarle laddove siano state danneggiate. ENERGIA. Investire di più nell’energia rinnovabile, per avere milioni di posti di lavoro ben remunerati, migliorare la salute pubblica, proteggere l’ambiente e provare ad arrestare il riscaldamento globale. APERTURA. Costruire uno Stato aperto, efficiente e giusto che informi correttamente i propri cittadini e si guadagni la fiducia di ogni americano. PARITÀ DI DIRITTI. Sostenere la parità di diritti in ogni settore indipendentemente da razza, etnia, genere e orientamento sessuale. PROTEZIONI SOCIALI. Mantenere ed estendere le protezioni sociali nei confronti di consumatori, lavoratori, pensionati e investitori. Rendere più forte l’America non significa solo rafforzarne la difesa, ma ogni altro suo aspetto: il ruolo internazionale, l’economia, l’istruzione, il sistema sanitario, le famiglie, le comunità, l’ambiente. Una diffusa prosperità è quanto ci aspetteremmo come conseguenza del libero mercato. Ma ogni mercato è costruito sempre per il profitto di qualcuno e nessun mercato è del tutto libero. I mercati dovrebbero essere organizzati per generare la più ampia prosperità possibile, impedendo l’accumulo di ricchezza nelle mani di pochi e l’impoverimento della maggior parte dei cittadini (insieme alla progressiva perdita di libertà e realizzazione personale). SALUTE.

Gli americani vogliono e meritano un futuro migliore dal punto di vista economico, ambientale, nel campo dell’istruzione e in qualsiasi altro ambito della loro quotidianità. L’obiettivo giusto da perseguire è un futuro migliore per tutti. Questo implica anche tenere sotto controllo il riscaldamento globale. Un ridotto ruolo dello Stato, secondo la propaganda conservatrice, servirebbe a eliminare gli sprechi. Ma in realtà finirebbe con l’eliminare i programmi sociali. Ciò di cui invece abbiamo bisogno per creare un futuro migliore è uno Stato più efficiente. Non dovremmo essere governati dalle imprese, bensì da uno Stato fatto con e per le persone. I valori famigliari conservatori sono quelli dell’etica del padre severo, un’etica autoritaria, gerarchica, individualista, basata sulla disciplina e i castighi. I progressisti vivono in base alla più alta interpretazione dei valori di famiglia e comunità: quella della reciproca responsabilità, che comporta autorevolezza, equità, attenzione per gli altri e impegno. Il punto importante è quanti valori i progressisti condividono. Sono proprio queste le cose a cui gli elettori tengono maggiormente: i valori, i principi e la direzione che vogliamo dare al paese. Sono convinto che i valori progressisti siano gli autentici valori tradizionali americani, che i principi progressisti siano i principi fondamentali degli Stati Uniti e che gli obiettivi politici progressisti possano portarci dove molti americani vogliono davvero che il nostro paese vada. Il lavoro da fare per unire i progressisti è proprio questo: riportare tutti insieme il nostro paese al meglio dei suoi valori tradizionali. Ma se questi valori condivisi da tutti i progressisti restano per lo più nella sfera dell’inconscio e nessuno ne parla, allora non serviranno a granché. Devono essere portati fuori, dichiarati, definiti, discussi e diffusi fino a diventare parte del discorso pubblico quotidiano. Se restano taciuti, mentre i valori conservatori hanno il dominio del discorso pubblico, finiranno con l’andare persi, spazzati via dalla furia devastante della comunicazione di destra. Pertanto, non limitatevi a leggerli qui, questi valori, e ad annuire. Uscite allo scoperto e urlateli forte e chiaro. Discutetene ovunque sia possibile. Offritevi volontari durante le campagne elettorali e

discutetene in modo forte e chiaro con gli altri.

Le domande più frequenti

Ogni breve discussione sul framing e sull’etica politica può lasciare molte domande senza risposta. Di seguito riunisco alcune delle domande più comuni che mi sono state poste. – C’è un’asimmetria tra il «padre severo» e il «genitore premuroso». Perché per il primo si usa il maschile mentre per il secondo si usa il genere neutro? Nel modello del padre severo il ruolo maschile e quello femminile sono molto diversi, e la figura centrale è quella del padre. Il padre severo è l’autorità morale e il responsabile della famiglia, mentre la madre è considerata soltanto in quanto «mamma»: è amorevole ma incapace di proteggere e mantenere la famiglia, così come non è sufficientemente severa per punire i figli quando si comportano in modo sbagliato. Pensiamo all’espressione «Aspetta che torni a casa tuo padre», che si riferisce ovviamente a un padre severo. Secondo questo modello, le «mamme» devono appoggiare l’autorità paterna, ma non sono in grado di sostituirla. Nel modello del genitore premuroso, invece, non c’è questo tipo di distinzione di genere. Entrambi i genitori hanno il compito di occuparsi dei propri figli e di educarli a essere premurosi. Questo non significa che nella vita reale non ci siano distinzioni di genere nella suddivisione delle incombenze domestiche, ma solo che non ci sono all’interno del modello del genitore premuroso. Ovviamente si tratta di stereotipi, di modelli mentali idealizzati, incompleti e ipersemplificati. Modelli mentali di questo tipo sono necessariamente diversi dai casi della vita reale in cui incontriamo anche madri severe, famiglie monogenitoriali, genitori gay e così via.

– Alcuni commentatori conservatori (come David Brooks) si riferiscono ai repubblicani come al «partito papà» e ai democratici come al «partito mamma». Lei è d’accordo? Brooks e altri hanno riconosciuto la metafora della nazione come famiglia e compreso che alle spalle della politica repubblicana si erge il modello del padre severo. Tuttavia la loro caratterizzazione di un «partito mamma» si basa sulla figura di «mamma» propria del modello famigliare conservatore. Con la qualificazione «partito mamma» vogliono dire che sebbene i democratici siano premurosi e amorevoli, non sono abbastanza forti e pragmatici per guidare gli Stati Uniti. Ovviamente, dal punto di vista democratico, questa analisi è completamente scorretta. In una famiglia premurosa, entrambi i genitori sono non soltanto amorevoli ma anche necessariamente responsabili e forti per far fronte a tali responsabilità. Niente di più lontano dal modo in cui i conservatori usano sprezzantemente il termine «mamma». I democratici hanno sempre mostrato di essere in grado di garantire protezione e prosperità al paese. Sembra che i conservatori non capiscano cosa sia l’etica premurosa in famiglia e nello Stato. Ai loro occhi ogni visione del mondo che non sia severa appare «permissiva». Il modello del genitore premuroso, invece, è tutto fuorché permissivo, dal momento che è sua fondamentale priorità insegnare ai figli a essere responsabili di se stessi, empatici verso il prossimo e sufficientemente forti e istruiti per affrontare queste responsabilità. I conservatori deridono i democratici dipingendoli come individui permissivi che incitano a fare soltanto ciò che piace e fa stare bene. Non hanno capito niente. Sembrano proprio ignorare l’enorme differenza tra responsabilità e permissivismo. – Quando sono comparsi i modelli della severità e della cura? Pare risalgano a molto tempo fa. Per esempio, sappiamo con certezza che prima che arrivassero gli inglesi, in America esistevano già gruppi religiosi come i quaccheri con un’idea «premurosa» di Dio, e comunità come quelle puritane che vedevano invece Dio come un padre severo. Le colonie del New England erano principalmente puritane, anche se John Winthrop aveva una visione più «premurosa» della colonia che stava costruendo, visione che per l’appunto conviveva

già da tempo, nel nostro paese, fianco a fianco con l’idea di un Dio severo. Nell’Ottocento Horace Bushnell scriveva di «affetto cristiano». Dal periodo dell’abolizionismo fino agli anni Venti c’è stata un’accesa discussione sull’idea «premurosa» di Dio. Inoltre gli studiosi di storia della religione hanno dimostrato che queste due diverse idee della divinità severa e di quella premurosa erano riscontrabili già in epoca biblica, se non addirittura più antica. Si tratta dunque di una distinzione esistente davvero da molto tempo. – Il modello del padre severo implica che i conservatori non amino i propri figli? E quello del genitore premuroso sottintende che i progressisti non credano alla disciplina? Niente affatto. Nel modello del padre severo, la punizione fisica e dolorosa nei confronti del figlio che si è comportato male è considerata una forma di amore, sebbene si tratti di «amore severo». Dal momento che imporre «un’amorevole disciplina» è un dovere, gli abbracci e altri tipi di comportamenti affettuosi sono permessi, e spesso raccomandati, dopo le punizioni. È solo una questione di precedenza. Nel modello del genitore premuroso, la disciplina non si ottiene con dolorose punizioni fisiche ma promuovendo comportamenti responsabili tramite l’empatia, l’esempio responsabile dei genitori, la discussione aperta su ciò che i genitori si aspettano dai figli (e sul perché) e, nel caso in cui il bambino non collaborasse, tramite la privazione di uno dei beni che provengono dalla collaborazione. Un bambino cresciuto con cura è un bambino che svilupperà una disciplina interiore senza il bisogno di punizioni corporali dolorose. Ci riuscirà grazie all’elogio della collaborazione, alla comprensione dei privilegi che ne conseguono, a indicazioni chiare, alla discussione aperta e all’esempio dei genitori che vivono in base ai valori premurosi. – Quali sono le complessità dei due modelli? I modelli (spiegati dettagliatamente nel mio Moral Politics) presentano complessità intrinseche. Innanzitutto si consideri che nella cultura americana quasi tutti possediamo entrambi i modelli, in maniera attiva o passiva. Per comprendere un film di John Wayne, ad esempio, bisogna possedere lo schema del padre severo, perlomeno passivamente. Non bisogna

necessariamente vivere secondo quel modello, ma lo si utilizza per comprendere tutte le storie dei padri severi che permeano la nostra cultura, la quale ovviamente è piena anche di storie premurose. In secondo luogo molte persone utilizzano entrambi i modelli ma in diversi ambiti della loro esistenza. Un avvocato, per esempio, può essere severo in tribunale e premuroso in famiglia. Terzo, qualcuno potrebbe essere cresciuto in modo sofferto con un modello che in seguito ha rifiutato. Molti democratici sono cresciuti tristemente con un padre severo. Quarto, esistono tre diverse dimensioni applicabili a ogni modello: una dimensione ideologica/pragmatica, una radicale/moderata e una terza dimensione riguardante la contrapposizione scopi/mezzi. Tanto un progressista quanto un conservatore possono essere ideologi intransigenti, oppure pragmatici e disponibili al compromesso per ragioni di concreta fattibilità o di realismo politico. Sia i progressisti che i conservatori possono avere posizioni che, nella scala della moderatezza, variano a seconda della quantità e della rapidità dei cambiamenti. Per esempio, i conservatori radicali non sono disposti al compromesso e insistono per il massimo e più veloce cambiamento possibile. Da parte sua, il termine «conservatore» non implica necessariamente la conservazione di qualcosa. Riguarda soltanto l’etica del padre severo. Non c’è contraddizione di termini nel parlare di «conservatori radicali». Robert Reich (nel suo libro Reason) utilizza la parola «radcon» per indicare i conservatori radicali. Da questa prospettiva, un «moderato» può essere un progressista oppure un conservatore pragmatico a favore di un cambiamento lento e graduale. A volte si è parlato anche di un terzo modello, molto diverso dagli altri due, ma finora non mi è sembrato che qualcuno lo abbia esplicitamente proposto. Un’altra variabile è quella che distingue gli scopi dai mezzi. Ci sono persone di orientamento progressista (ovvero con scopi premurosi) che utilizzano i mezzi del padre severo. Sono i militanti progressisti. Il caso più estremo è quello degli antiautoritari autoritari, ovvero coloro che hanno fini progressisti antiautoritari ma utilizzano i mezzi autoritari del padre severo. Per concludere, ci sono i casi speciali di progressisti e conservatori di cui ho parlato nel primo capitolo: da un lato il progressista

socioeconomico, quello identitario, l’ambientalista, il sostenitore dei diritti civili, l’antiautoritario e lo spirituale. Dall’altro il conservatore finanziario, quello sociale, il libertario, quello religioso e infine il neoconservatore. Rientrano tutti nei modelli del genitore premuroso o del padre severo, ma con una serie di varianti. – Il concetto di reframing fa pensare a qualcosa di manipolatorio. In cosa si differenzia dalla pubblicità o dalla propaganda? Elaborare frame fa parte delle normali attività umane. Ogni frase che pronunciamo, ogni idea che esprimiamo ne sottende di precisi. Quando un conservatore usa il frame degli «sgravi fiscali» probabilmente è davvero convinto che le tasse siano un’afflizione. Tuttavia è vero, i frame possono essere utilizzati anche per manipolare le persone. Per esempio, la decisione di usare l’espressione «Operazione cieli puliti» per indicare una legge che permette l’aumento dell’inquinamento atmosferico è chiaramente manipolatoria. Ed è compiuta per nascondere una debolezza dei conservatori, ovvero la consapevolezza che alla gente non potrà piacere una legge che aumenti l’inquinamento atmosferico: perciò decidono di darle un nome che richiami esattamente il frame opposto alla realtà. Questa è pura manipolazione. Anche l’informazione sfrutta il potere manipolatorio dei frame. Succede quando si cerca di associare un frame innocente a qualcosa di imbarazzante, in modo da far credere che quell’episodio o quella dichiarazione imbarazzante siano qualcosa di normale o addirittura positivo. La propaganda è un altro uso manipolatorio dei frame. Consiste nell’intenzionale tentativo di far accettare alla gente frame falsi per conquistare o conservare il potere politico. Il reframing di cui parlo in questo libro non ha niente a che fare con la propaganda o con la manipolazione delle informazioni. I progressisti hanno bisogno di imparare a comunicare utilizzando i frame in cui credono davvero, cioè i frame che esprimono fedelmente la loro visione morale. Sconsiglio sempre di ricorrere a frame ingannevoli; non solo sarebbe moralmente riprovevole, ma è anche poco funzionale, perché prima o poi i frame falsi si ritorceranno contro i loro stessi creatori. – Perché i progressisti non approfittano delle divisioni tra i

conservatori? I conservatori hanno riflettuto a lungo sull’uso strategico delle idee, al contrario dei progressisti che, però, possono pur sempre cominciare a farlo. Potremmo iniziare dallo sfruttare le contraddizioni dei conservatori. Basta guardarci intorno per accorgerci che queste contraddizioni sono ovunque. Prendiamo per esempio la questione dell’aria e dell’acqua pulita. I conservatori ovviamente dicono di volere acqua e aria pulite. Ma se immaginiamo di realizzare una campagna per bonificare dal mercurio e da altri veleni l’aria e le acque di alcune comunità, potremmo sfruttare la divisione interna ai conservatori tra chi ha a cuore la propria salute e quella dei propri bambini e chi è contrario a qualsiasi regolamentazione statale. Per esempio si potrebbe creare un frame per cui chi è a favore della regolamentazione difende la propria salute, mentre chi è contrario la danneggia. Si potrebbe ottenere lo stesso effetto anche usando la strategia a effetto domino. Quando le persone iniziano a capire come e dove il mercurio penetra nell’ambiente (per esempio, nella lavorazione del carbone e in molti altri processi chimici) e si comincia a farle riflettere sull’avvelenamento da mercurio, su come agisce nell’ambiente e su cosa fare per eliminarlo, allora si può passare ad analizzare la sostanza inquinante successiva, e così via una dopo l’altra. Il punto di questo nostro discorso non è il mercurio o le altre sostanze inquinanti, ma l’intero complesso dell’etica premurosa. Le questioni che dividono sono emblematiche dei sistemi morali. L’aborto, per esempio, è una questione emblematica del controllo sulla vita delle donne e della gerarchia morale che i conservatori vogliono imporre. Come abbiamo visto, in genere l’aborto è paradigmatico dell’etica del padre severo. Parimenti, anche tra i progressisti sono vari e numerosi gli argomenti divisori e perciò emblematici della loro etica. – La religione è intrinsecamente conservatrice? Gli ideali progressisti non sono compatibili con le fedi religiose? I conservatori vorrebbero farci credere che le religioni sono conservatrici, ma non è così. In America milioni di cristiani sono democratici. Molti ebrei sono ebrei democratici. Credo che anche molti musulmani americani siano democratici e progressisti, e non radicalmente conservatori. Tuttavia negli Stati Uniti i progressisti religiosi non sono ben organizzati, mentre i credenti conservatori

hanno un’organizzazione efficientissima. Uno dei problemi principali è che i progressisti religiosi, specialmente quelli cristiani, non sanno bene come esprimere la propria teologia in modo da renderla comprensibile da un punto di vista politico, mentre i conservatori cristiani sanno bene come collegare la loro fede alla loro ideologia politica. Il cristianesimo conservatore è una religione che segue lo schema morale del padre severo. Ecco come la visione del mondo del padre severo è associata al cristianesimo conservatore. Innanzitutto il Dio conservatore è un Dio punitivo. I peccatori andranno all’inferno, mentre coloro che non compiono peccati saranno ricompensati con il paradiso. Ma poiché prima o poi è inevitabile che chiunque compia qualche peccato, come fare a guadagnarsi il paradiso? Per il cristianesimo conservatore la risposta è in Cristo. Gesù offre ai cristiani conservatori la possibilità di ottenere il paradiso: grazie alla sua sofferenza sulla croce, è riuscito ad accumulare un credito morale sufficiente per salvare tutti, sempre. In tal modo Gesù ha offerto a chiunque la possibilità del paradiso – ovvero la redenzione – nel rigido rispetto dei termini del padre severo: chi accetta Gesù come salvatore, ovvero come autorità morale, e promette di obbedire all’autorità morale della Chiesa e dei suoi ministri, potrà meritarsi il paradiso. Ma è necessaria molta disciplina. Bisogna essere obbedienti e rispettare le regole, pena l’inferno. Così, con il credito morale conquistato soffrendo fino alla morte, Gesù può pagare i nostri debiti (i peccati) e permetterci di arrivare in paradiso. Ma soltanto se righiamo dritto. Il cristianesimo liberale è molto diverso. Al centro della sua visione ci sono un Dio caritatevole, desideroso di aiutare le persone, e l’idea fondamentale della grazia, intesa come una specie di affetto metaforico. Nel cristianesimo liberale, la grazia non può essere meritata perché è donata incondizionatamente da Dio. Ma bisogna accettarla, restare vicini a Dio per essere riempiti e guariti dalla sua grazia che ci permetterà di diventare persone moralmente valide. In altre parole, la grazia è una metafora dell’affetto. Questo vuol dire che, proprio come l’affetto ci nutre, cura e guarisce, proprio come un genitore affettuoso può insegnarci l’attenzione per gli altri e permetterci di diventare morali, proprio com’è impossibile avere affetto senza essere vicini ai propri genitori, proprio come si deve

accettare l’affetto per poterne dare ad altri, così accade anche per la grazia divina nel cristianesimo liberale. L’affetto proviene dall’amore incondizionato (e, nel caso della grazia, dall’incondizionato amore di Dio). Ciò che rende una religione premurosa è la sua visione metaforica di Dio come genitore premuroso. In una forma di religione premurosa, l’esperienza religiosa personale deve trovare il modo di relazionarsi con gli altri e con il mondo, per cui la pratica religiosa consiste nel mettersi a disposizione del prossimo e della comunità. È questa la ragione per cui i cristiani premurosi sono progressisti: perché possiedono un’etica premurosa, proprio come i progressisti. Ma al momento in America né cristiani, né ebrei, né musulmani, né buddhisti né altri tipi di credenti hanno una valida organizzazione. Non sono considerati come un unico movimento religioso progressista. – Che cos’è un’iniziativa strategica? E in cosa differisce dalle iniziative politiche ordinarie? Ci sono due tipi di iniziative strategiche: la prima è quella che ho chiamato a effetto domino, ovvero un’iniziativa strategica in cui, in concomitanza con un frame palese e lineare, si insinua volutamente nell’opinione pubblica un frame secondario, in modo tale che, con un effetto a catena, raggiunto un obiettivo sarà ancora più facile, se non addirittura inevitabile, conquistare il secondo e di lì quello successivo e poi quello dopo ancora e così via di seguito. La Corte suprema conservatrice opera proprio così, attraverso sentenze che si susseguono una dopo l’altra a effetto domino. Consideriamo per esempio la seguente progressione. In un primo momento, la Corte ha consentito alle imprese di contribuire alle campagne elettorali in base a un’applicazione della libertà di parola riconosciuta dal Primo emendamento. Poi, la sentenza del caso Citizens United ha concesso alle imprese la possibilità di contribuire alle elezioni nella misura che preferiscono, come forma di libertà di parola. In seguito, la sentenza Hobby Lobby ha esteso anche alle imprese il diritto di libertà religiosa riconosciuto dal Primo emendamento, in modo tale da non dover fornire contraccettivi alle donne impiegate (così come era stato previsto dall’Affordable Care Act), offrendo così alle imprese la possibilità di sfruttare la libertà di religione per evitare l’applicazione di leggi a favore di trattamenti

imparziali. Facciamo un altro esempio. In passato i conservatori hanno sempre cercato di cancellare i programmi sociali uno alla volta, ma poi hanno capito come fare a eliminarli tutti insieme in un colpo solo: tagliando le tasse. La riduzione delle tasse è un’iniziativa strategica diversa dall’effetto domino, perché di qualità più raffinata, capace di provocare numerosi effetti in diversissimi ambiti. Con la riduzione fiscale si produce un ampio deficit ai danni dei programmi sociali, dal momento che non ci saranno più soldi a sufficienza per finanziare l’assistenza sanitaria per i bambini poveri, i servizi per i paraplegici o qualsiasi altra iniziativa). Perciò si finirà con il tagliare indiscriminatamente tutti i programmi sociali nel campo della salute, dell’istruzione, della protezione ambientale eccetera. Allo stesso tempo, verranno premiati coloro che i conservatori considerano brava gente, ovvero i benestanti, che sono stati così disciplinati da diventare ricchi. Esistono anche altri tipi di iniziative strategiche. Prendiamo ad esempio il matrimonio gay. Il matrimonio tra persone dello stesso sesso contraddice buona parte del modello famigliare del padre severo. Se a sposarsi sono due donne non ci sarà alcun padre, mentre se il matrimonio è tra due uomini, i padri presenti saranno due ma nessuno di loro corrisponderà all’immagine tradizionale del virile padre severo. L’opposizione al matrimonio omosessuale risponde dunque alla più alta vocazione del sistema morale conservatore, ovvero rafforzare ed estendere l’etica del padre severo. Il matrimonio omosessuale è emblematico della questione più generale su quale sistema morale debba governare il nostro paese. Simile è la questione dell’aborto. Permettere alle donne di decidere da sole se interrompere una gravidanza è in contraddizione con l’intero schema morale del padre severo. Secondo questo modello, infatti, è il padre a decidere se la moglie o la figlia debbano abortire. È il padre a dover controllare la vita sessuale di una figlia. Quando la figlia ha una relazione, il padre perde il controllo della figlia. Se il padre deve mantenere il controllo della famiglia, allora le donne di quella famiglia non possono controllare liberamente i propri comportamenti sessuali e la possibilità di riprodursi. L’aborto pertanto non è una questione politica in sé, ma lo diventa quando è necessario

comprendere se la morale del padre severo debba regolare la vita degli americani. L’aborto è emblematico in senso più ampio: è l’etica del padre severo a dover governare l’America? – Ma allora per riformulare un frame basta inventarsi qualche slogan a effetto e sostituirlo ai frame dei conservatori? No. Formulare nuovi frame non ha a che fare soltanto con le parole e la lingua, bensì con le idee. Le idee devono entrare nel cervello della gente prima degli slogan. Per esempio, prendiamo il cosiddetto «bene comune», ovvero il nostro patrimonio collettivo, come l’atmosfera o lo spettro elettromagnetico (la banda larga). È un patrimonio comune a tutta l’umanità, per questo se ne parla in termini di «bene comune». Eppure l’idea che appartenga a tutti e che si debba usare per il profitto di tutti non fa ancora parte dei frame che le persone usano quotidianamente. Ecco perché non basta trovare uno slogan a effetto affinché tutti capiscano e siano d’accordo con tale questione. – Se i repubblicani possiedono un sistema mediatico così vasto, come faremo ad affrontarli? I progressisti sanno bene che dovrebbero investire nei media. Quello che non sanno è che dovrebbero investire anche nel framing e nel linguaggio. Il nostro grande vantaggio è questo: mentre ai conservatori sono serviti più di trent’anni, miliardi di dollari e quarantatré istituti per riformulare il dibattito pubblico tramite i loro frame, noi progressisti abbiamo la scienza dalla nostra parte. Grazie alla linguistica e alle scienze cognitive sappiamo cosa fare. E possiamo raggiungere quello stesso obiettivo in meno tempo e impiegando meno risorse. Sappiamo anche come sono stati addestrati linguisticamente i conservatori, cosa che siamo in grado di fare anche noi. Purtroppo molti progressisti pensano che tutto questo lavoro possa essere delegato a sondaggisti e agenzie pubblicitarie. Si sbagliano. Abbiamo davvero bisogno di linguisti e cognitivisti, piattaforme per confronti e discussioni approfondite, e dettagliatissimi progetti per mantenere costantemente un dialogo significativo davanti alla società civile e ai politici. – Qual è la differenza tra il Rockridge Institute e altri think tank progressisti? Esistono altri istituti dedicati alla ricerca sul framing? Il Rockridge Institute è interamente dedicato alla rielaborazione dei frame nel discorso pubblico, ma da una prospettiva politica e

linguistica.1 Altri istituti progressisti hanno altre priorità: rispondere alle iniziative della destra e alle accuse dei conservatori, raccontare la verità quando i conservatori mentono e ideare politiche specifiche per i progressisti. Sono tutte funzioni importantissime, ma non possono sostituire l’elaborazione dei frame, funzione assolutamente indispensabile. Per quanto ne so, attualmente esiste soltanto un think tank dedicato completamente allo studio dei frame da una prospettiva sia politica che comunicativa, ed è il Forward Institute, in Wisconsin. Il Forward Institute si occupa di incoraggiare i progressisti del Wisconsin a inquadrare le questioni statali in frame che rispondano alla visione progressista. Hanno studiato l’attuale framing e hanno formato docenti in grado di lavorare con una vasta categoria di progressisti, dai leader politici a quelli sindacali, dagli insegnanti ai nativi americani, dagli ambientalisti ai volontari, a qualsiasi altro cittadino che in qualunque posto del Wisconsin sia disposto a parlare pubblicamente utilizzando i frame progressisti. L’istituto ha avviato da poco la sua attività. Soltanto il tempo ci dirà se avrà ottenuto le risorse necessarie per svolgere un buon lavoro. – Non trova che l’espressione «sgravi fiscali» sia adeguata? Sono progressista, ma confesso che a volte trovo che le tasse siano un peso eccessivo. Anche i compiti a casa sono un peso opprimente quando si va a scuola, ma bisogna farli se si vuole imparare qualcosa. Così come è faticoso allenarsi, ma bisogna farlo se si vuole restare in forma. Allo stesso modo, le tasse sono necessarie se vogliamo investire in modo lungimirante in quelle infrastrutture di cui tutti usufruiremo negli anni a venire, nonché nell’istruzione e nell’assistenza sanitaria per coloro che non possono permettersele. Istruzione e sanità sono investimenti sulle persone. Investimenti saggi, perché creeranno una cittadinanza istruita e una forza lavoro efficiente e in salute. Queste sono le ragioni pratiche per cui pagare le tasse. Un altro motivo pratico sono i servizi pubblici (come polizia, vigili del fuoco, protezione civile). A queste si aggiungono le ragioni morali. Istruzione e sanità sono fattori importanti per la realizzazione personale, obiettivo fondamentale per il nostro paese. C’è un motivo se la Dichiarazione d’indipendenza collega il perseguimento della felicità all’autonomia. Il

motivo è che l’uno e l’altra vanno di pari passo. Senza autonomia non può esserci realizzazione personale. Esistono dunque ragioni pratiche per intendere le tasse come un investimento e ragioni morali per intenderle come un contributo dovuto nei confronti di un paese che ci consente di perseguire la felicità grazie all’autonomia e alla libertà. – Come si può rispondere o controbattere a un’iniziativa strategica repubblicana? Non si può. L’abilità dei repubblicani consiste proprio in questo. Nel fatto che la riduzione delle tasse, per esempio, non sia solo riduzione delle tasse. Ecco perché non si può controbattere alla singola questione. La riduzione delle tasse rientra nella più ampia volontà conservatrice di disfarsi dell’intero sistema di programmi sociali e di regolamentazioni imposte alle imprese. Per fare un altro esempio, i voucher e i test scolastici non riguardano soltanto i voucher e i test scolastici, ma rientrano nel più ampio obiettivo conservatore di controllare i contenuti dell’istruzione e di tagliare i fondi pubblici. Per rispondere in modo adeguato, i progressisti dovrebbero inquadrare la singola questione in un più ampio framing corrispondente alla loro visione del mondo. Allo stesso modo la Tort Reform non riguarda semplicemente la riforma della responsabilità civile, ma la volontà conservatrice di consentire alle imprese di agire senza restrizioni nonché quella di sottrarre finanziamenti al partito democratico (dal momento che gli avvocati impegnati nelle cause contro le imprese in genere sono finanziatori democratici). Anziché cercare di controbattere alle singole iniziative strategiche, i progressisti dovrebbero prima rielaborare i frame delle questioni generali dal proprio punto di vista. Solo allora potranno discutere in modo efficace delle iniziative strategiche, o di alcuni loro dettagli, dalla propria prospettiva. Per esempio, torniamo alla Tort Reform. Gli avvocati che difendono le cause civili operano a difesa degli interessi del cittadino e la legge sull’illecito civile è una legge che protegge gli interessi sociali, pertanto di rilevanza pubblica. Per limitare le richieste di indennizzo e il loro ammontare, la riforma di tale legge prevede tra le altre cose di sottrarre questi casi alla valutazione delle giurie, in altre parole di chiudere le porte dei tribunali. Nei tribunali aperti le giurie possono decidere se una richiesta di risarcimento può essere una questione di rilevanza pubblica o meno, e spesso i grossi

indennizzi riguardano sempre questioni di rilevanza pubblica, il che vuol dire che vanno oltre l’interesse del singolo. Pertanto i tribunali aperti sono l’ultimo strumento di difesa che i cittadini hanno contro professionisti o aziende negligenti e prive di scrupoli. Per questo, quando sentiamo i conservatori parlare di queste cause, non limitiamoci a rispondere: «Sono tutt’altro che cause insignificanti»; parliamo piuttosto di pubblico interesse, di tribunali aperti e di diritto ad avere una giuria che ci difenda dalle imprese negligenti e prive di scrupoli.2 – Visto che i fatti che non soddisfano i frame vengono rifiutati dal nostro cervello, dobbiamo smettere di citare i fatti nelle argomentazioni? Ovviamente no. I fatti sono sempre importanti. Fondamentali persino. Ma devono essere adeguatamente inquadrati dai frame per entrare a far parte in modo efficace del discorso pubblico. Dobbiamo sapere in che modo un fatto può essere collegato ai principi morali e politici. Dobbiamo inquadrarlo nella maniera più efficace e onesta possibile. Soltanto da un framing onesto dei fatti potranno derivare nuovi frame che potranno essere confermati da altri fatti. – Che differenza c’è tra i valori progressisti e i tradizionali valori americani? Non c’è alcuna differenza. I valori progressisti sono quelli tradizionali americani, tutti i valori di cui andiamo fieri. Andiamo fieri delle vittorie per l’uguaglianza e contro le gerarchie: l’emancipazione dalla schiavitù, il suffragio femminile, il movimento sindacale, l’abolizione della segregazione razziale nelle forze armate, il movimento per i diritti civili, il movimento femminista, quello ambientalista e quello per i diritti gay. Andiamo fieri dell’idea di Stato «per il popolo» di Franklin Delano Roosevelt e del suo appello alla speranza per sconfiggere la paura. Andiamo fieri del Piano Marshall, che ha contribuito a cancellare la nozione di «nemico». Andiamo fieri del richiamo al servizio dello Stato di John Fitzgerald Kennedy, dell’insistenza di Martin Luther King sulla non violenza per contrastare la brutalità, della capacità di César Chávez di dare orgoglio e organizzazione ai lavoratori più maltrattati. Il pensiero progressista è americano quanto la apple pie. I progressisti vogliono uguaglianza politica, un’istruzione pubblica di

buon livello, bambini sani, sostegno per gli anziani, sicurezza pubblica, aziende agricole a conduzione famigliare, aria respirabile, acqua potabile, pesci nei ruscelli, foreste dove fare escursioni, rane e uccelli canterini, città vivibili, economia etica, giornalisti che raccontino la verità, musica, danza, poesia, arte, stipendi dignitosi per tutti i lavoratori. Gli attivisti progressisti (con le loro battaglie a favore di salari dignitosi, diritti delle donne, diritti umani, ambiente, voto e assistenza medica) sono patrioti americani che lavorano con generosa dedizione per costruire un mondo migliore, un mondo che corrisponda ai valori americani fondamentali.

Come rispondere ai conservatori

Nei capitoli precedenti ho spiegato cos’è il framing e come funziona nel linguaggio e nei sistemi di comunicazione, ho descritto la visione del mondo conservatrice e quella progressista, ho parlato del biconcettualismo e di come il framing influisce sulle questioni più importanti che riguardano la vita sociale. Ma tutti noi presto o tardi ci troveremo ad affrontare la fatidica cena di cui mi chiedono sempre i miei studenti: «Il giorno del Ringraziamento si avvicina e non potrò sottrarmi alla cena con i parenti conservatori» mi dicono. «Devo arrivarci preparatissimo per affrontare mio nonno o mia zia sulle questioni politiche. Ogni volta è una fatica. Come posso fare?» Quella che segue è una lettera che ho ricevuto nel 2004, mentre scrivevo la prima edizione di questo libro. Arrivò alcuni giorni dopo che ero andato ospite a Now, un programma televisivo di Bill Moyers: Venerdì scorso ho ascoltato con grande interesse il suo intervento televisivo. In genere mi incuriosisce molto l’uso delle parole e sono rimasta spiazzata nel constatare come l’estrema destra si sia impossessata di tanti concetti. Così ho provato a compiere un esperimento che ora le vorrei raccontare. Ho preso spunto da alcuni esempi da lei citati durante l’intervista (in particolare quello degli avvocati che promuovono le class action e quello dei matrimoni gay) e li ho usati per tutta la settimana in una chat politica su Aol. Ogni volta che qualcuno inveiva contro [John] Edwards3 definendolo un avvocatucolo rispondevo che invece era un difensore dell’interesse pubblico e in quanto tale uno degli ultimi baluardi di difesa contro le imprese negligenti, aggiungendo che l’opposto di un difensore dell’interesse pubblico è un avvocato aziendale che in genere guadagna 400-500 dollari all’ora, che ricadono su di noi sotto forma di beni e servizi più costosi. Ogni volta che qualcuno inveiva contro i matrimoni gay, chiedevo se ritenesse giusto che fosse lo Stato a decretare chi abbiamo il diritto di sposare. Se continuava a controbattere, ribadivo che se concediamo allo Stato il potere di negare a un gruppo il diritto di sposare chi vuole, dopo potrà estendere quel divieto a un altro gruppo e a

un altro ancora, fino a che sarà lui a decidere per tutti chi possiamo sposare e chi no. Ho anche iniziato a chiedere di specificare la definizione di certi concetti. Ogni volta che qualcuno mi chiamava «sporca liberale!», gli chiedevo che cosa intendesse per «liberale». Per ultimo ho spostato la discussione su un tasto che ho particolarmente a cuore: ogni volta che qualcuno si scagliava contro l’aborto o gridava all’«infanticidio», rispondevo che se erano contrari all’aborto, nessuno li costringeva ad abortire. Devo ammettere che i risultati di questo mio esperimento mi hanno davvero sorpresa. Altre persone (che non conoscevo) si sono aggiunte alla discussione mettendo in pratica le stesse strategie. L’ultima sera la chat è diventata uno spazio civile. Un numero (per me) impressionante di persone ha smesso di esprimersi con le maiuscole e ha finalmente cominciato a discutere nel vero senso della parola. Ho intenzione di proseguire su questa strada, ma prima tenevo a dirle che l’ho ascoltata, dottor Lakoff, che apprezzo molto il suo lavoro e che sto cercando di mettere in pratica i suoi consigli. Divertendomi non poco. Grazie, Penney Kolb

Ho scritto questo libro proprio per le persone come Penney Kolb. Sono tante le occasioni in cui a un progressista può capitare di dover ribattere ad argomentazioni conservatrici: a una cena per il Ringraziamento, in pausa caffè, di fronte a una platea. Ma poiché i conservatori hanno «sequestrato» un’ampia parte del discorso politico, spesso i progressisti restano sulla difensiva, avendo poco o niente da ribattere. Come ci si deve comportare dunque se ci si trova nella stessa situazione di Penney? La sua prontezza è stata impeccabile e ci ha fornito alcune indicazioni utili: I valori progressisti sono il meglio dei valori tradizionali americani. Difendiamo i nostri valori con forza e dignità, perché fanno di noi dei veri patrioti. Gli ideologi di destra hanno convinto metà del paese che il modello famigliare del padre severo (che è un pessimo modello per crescere i figli) dovrebbe governare l’etica e la politica degli Stati Uniti. È un modello che nel corso della storia è stato più e più volte sconfitto dai migliori valori americani, dall’abolizione della schiavitù al suffragio femminile, dalla battaglia per la previdenza sociale alla realizzazione di Medicare, dalle leggi per i diritti civili a quelle per il diritto di voto, dalle sentenze Brown contro Board of Education e Roe contro Wade.4 Ogni volta il nostro paese ne è uscito ancora più unito, in nome dei nostri

migliori valori tradizionali. La maggior parte delle persone possiede sia il modello del padre severo che quello del genitore premuroso, in modo attivo o passivo nei diversi ambiti della propria esistenza. Il nostro compito è di attivare nell’ambito politico il modello premuroso dei valori progressisti che è già presente (seppure soltanto passivamente) in chiunque ci ascolti. Ai miei studenti che mi chiedono cosa dire alla cena del giorno del Ringraziamento, rivolgo questo consiglio: chiedete a vostra zia o a vostro nonno di raccontarvi di quali azioni vanno particolarmente fieri tra quelle che hanno compiuto per aiutare altre persone. Gli studenti che lo hanno fatto raccontano che, con loro sorpresa, sono venuti a sapere che il nonno o altri parenti conservatori hanno compiuto moltissime buone azioni, mostrando molta attenzione verso il prossimo. Il mio consiglio aggiuntivo a questo punto è: continuate a discutere di queste buone azioni; più parlerete dell’empatia e del loro senso di responsabilità verso gli altri, più vi avvicinerete a loro. Non cercate di convertirli. Provate soltanto ad aprirvi e a instaurare un rapporto positivo. Se dimostrate rispetto e affetto nei confronti dei vostri famigliari, sarete contraccambiati. Mostriamo rispetto verso i conservatori con cui ci confrontiamo. Nessuno ci ascolterà se non siamo rispettosi. Ascoltiamoli. Possiamo essere in totale disaccordo con qualsiasi cosa dicono, ma prima dobbiamo sapere cosa stanno dicendo. Siamo sinceri. Evitiamo i colpi bassi. Cosa penseremmo noi se non fossero rispettosi nei nostri confronti? Non serve a niente rispondere con la stessa moneta. Piuttosto porgiamo l’altra guancia e continuiamo a mostrare rispetto. Ci vogliono carattere e dignità. Dimostriamo di averli. Evitiamo le gare a chi urla di più. Ricordiamo che l’estrema destra vuole la guerra culturale e che le urla sono proprio il modo di esprimersi di quella cultura. La conversazione civile invece è la forma del discorso dell’etica premurosa. Avremo già vinto se riusciremo a far diventare civile una conversazione. Se invece riusciranno a farci gridare, avranno vinto loro. Cosa fare se ci capita di indignarci? È giusto indignarsi, ma

bisogna imparare a controllarsi. Se perdiamo il controllo, avranno vinto loro. Distinguiamo i conservatori comuni dagli ideologi maligni. Molti conservatori sono persone piacevoli, dobbiamo far emergere la loro amabilità, la cortesia e l’ospitalità che sanno mostrare nei confronti del prossimo. Manteniamo la calma. La calma è segno che sappiamo di cosa stiamo parlando. Siamo cordiali e ricordiamoci che l’umorismo mostra che siamo a nostro agio. Sosteniamo le nostre idee. Giochiamo sempre in attacco, non arretriamo in difesa. Manteniamo la voce ferma, non ci lamentiamo né piagnucoliamo. La voce e il corpo devono mostrare sempre ottimismo. Non atteggiamoci a vittima. Vietato implorare. Dobbiamo trasmettere convinzione appassionata senza perdere il controllo. Evitiamo il linguaggio della debolezza, per esempio alzando il tono. I conservatori hanno fatto varie parodie dei democratici dipingendoli come deboli, arrabbiati (e perciò incapaci di controllare le proprie emozioni), teneri di cuore, disinformati e snob. Non diamo loro l’opportunità di identificarci con uno di questi stereotipi. Aspettiamoceli e prepariamoci a demolirli quando emergono. Dimostriamo forza, calma e autocontrollo; mostriamo capacità di ragionare, realismo, amore per il paese, padronanza dei fatti di cui si parla e, soprattutto, mostriamo di sentirci alla pari (e non superiori) ai nostri interlocutori. In fin dei conti vogliamo che i nostri ascoltatori ci rispettino come individui con cui possono essere in disaccordo ma che devono prendere sul serio. In molte circostanze questo è il miglior risultato in cui possiamo sperare. Dobbiamo riconoscere queste situazioni e renderci conto che se vogliamo essere presi sul serio allora un dignitoso pareggio è già una vittoria. Molte conversazioni sono già avviate. In tal caso assumiamo una posizione di rispetto e dignità e manteniamola. Non aspettiamoci di convertire i conservatori più devoti. Possiamo ottenere risultati notevoli confrontandoci con i

biconcettuali, ovvero con quelle persone che usano entrambi i modelli morali applicandoli a settori diversi della loro vita. Sono loro i nostri interlocutori migliori. Con i biconcettuali l’obiettivo è riuscire a saggiare le loro idee per capire in quali campi dell’esistenza sono premurosi. Per esempio possiamo chiedere loro a quali persone tengono maggiormente, quali responsabilità sentono di avere verso queste persone e come le mettono in pratica. Questo dovrebbe attivare in loro il modello premuroso. A questo punto, proviamo a collegarlo alla politica. Se per esempio il nostro ascoltatore è premuroso a casa ma severo al lavoro, parliamo della vita domestica e della famiglia e di come questi ambiti siano collegati alla politica. Tra i valori famigliari più autentici, per esempio, c’è quello secondo cui i genitori, quando invecchiano, non devono vendere la loro casa o ipotecare il proprio futuro per pagare le cure mediche e l’assistenza sanitaria di cui hanno bisogno. Evitiamo i soliti errori. Ricordiamo di non usare il linguaggio degli altri, neanche per negarlo. Piuttosto formuliamo nuovi frame. I fatti ai quali non corrisponde un frame adeguato non funzionano. Non possiamo vincere elencando fatti e mostrando che contraddicono le dichiarazioni dei nostri avversari. I frame superano i fatti. I frame del nostro ascoltatore conservatore resteranno solidi nel suo cervello mentre i nostri fatti rimbalzeranno fuori. Formuliamo sempre nuovi frame. Se non ricordiamo nient’altro del framing, teniamo a mente almeno questo principio: se usiamo un frame accettato, qualsiasi cosa diciamo avrà un senso. Il senso comune consiste proprio nel ragionare per frame accettati e diffusi. Non rispondiamo mai a una domanda formulata tramite i frame del nostro avversario. Rielaboriamo sempre la domanda affinché sia adeguata ai nostri frame. Potrebbe metterci a disagio, poiché in una conversazione di solito si risponde alle domande in modo diretto, senza riformulare. Ma è una trappola. Dobbiamo esercitarci a rielaborare i frame. Siamo sinceri. Usiamo i frame in cui crediamo davvero, basati sui valori a cui teniamo davvero. Una cosa utile da fare è servirsi di domande retoriche: «Non

sarebbe meglio se…?». Domande simili anticipano all’altro il nostro frame. Per esempio: «Non sarebbe meglio se riuscissimo a riparare le buche delle strade e i ponti che stanno crollando?». Oppure: «Non staremmo tutti meglio se ogni persona malata potesse essere curata, in modo da evitare la diffusione smodata delle malattie?». O ancora: «Non sarebbe meglio se tutti i bambini fossero preparati alla scuola fin dall’asilo?». Non facciamoci incastrare. Nei talk show di Fox News e in tutti gli altri programmi televisivi rabbiosamente conservatori proveranno a metterci in difficoltà. Quando un conduttore conservatore stabilisce un frame sul quale imposta insistentemente la discussione, impedendoci di esprimere la nostra opinione, di avere un minimo controllo sulla conversazione e di essere rispettosamente presi sul serio, allora non è il gioco che fa per noi. Se proprio vogliamo giocare, cambiamo i frame e non facciamo i capri espiatori. Raccontiamo una storia. Troviamo una serie di storie efficaci per rappresentare i nostri frame. Partiamo sempre dai valori, preferibilmente da quelli condivisi da tutti gli americani, come sicurezza, prosperità, opportunità, libertà. Scegliamo i valori più rilevanti per i frame che vogliamo rielaborare. Cerchiamo di vincere sul piano dei valori. Scegliamo un frame in cui la nostra posizione rappresenti valori condivisi da tutti, come la giustizia. Per esempio, se nostro zio dice: «Abbiamo bisogno di leggi che aiutino il lavoro. I sindacati sono tutti corrotti e guidati da delinquenti. Ti costringono a iscriverti, ma soltanto per prenderti soldi», rispondiamo: «I sindacati ci aiutano a restare liberi dalla schiavitù aziendale. Senza il loro sostegno, saremo costretti ad accettare qualsiasi salario ci offra un’azienda, spesso senza pensione né assistenza sanitaria, senza pianificazione né limiti di orario, e senza la garanzia degli straordinari pagati. Non voglio essere schiavo dell’azienda per cui lavoro. Voglio poter cenare con la mia famiglia e trascorrere il weekend con i miei figli. I weekend sono stati creati dai sindacati. Prima la gente lavorava sei giorni a settimana con salari molto più bassi. E sono stati i sindacati a creare la giornata lavorativa di otto ore, quando prima si lavorava dieci o dodici ore al giorno per lo

stesso stipendio. Voglio essere pagato adeguatamente, trattato correttamente, rispettato dall’azienda per cui lavoro, e voglio potermi trovare bene. Non mi interessa fare lo schiavo. La somma che verso a un sindacato è ampiamente ricompensata dalle migliori condizioni in cui mi permettono di lavorare». Siamo preparati e consapevoli. Dobbiamo essere in grado di riconoscere i frame fondamentali usati dai conservatori e pronti a riformularli. Sul mio sito web (www.georgelakoff.com) sono presenti diversi esempi di come si riformula un frame. Per esempio, se un sostenitore della riduzione fiscale afferma: «Dobbiamo liberarci dalle tasse. La gente sa molto meglio dello Stato come spendere il proprio denaro», riformuliamo il loro frame in questo modo: «Lo Stato ha realizzato investimenti davvero assennati con il denaro dei contribuenti. Per esempio ha costruito il sistema autostradale. Non credo che tu possa costruire un’autostrada con i tuoi rimborsi fiscali. Invece lo Stato lo ha fatto. Oppure prendiamo la rete internet, anch’essa realizzata grazie all’investimento dei contribuenti. Non puoi mica crearti da solo una rete internet. Ma anche la maggior parte dei progressi scientifici è stata ottenuta grazie al lavoro di istituti di ricerca finanziati dallo Stato, come la National Science Foundation o il National Institute of Health. Sono stati davvero ottimi investimenti! L’informatica è stata sviluppata con il denaro dei contribuenti, lo stesso si dica per il sistema satellitare, i microchip dei nostri cellulari e i portentosi farmaci di cui abbiamo bisogno per curarci. Per quanto tu possa essere bravo a gestire i tuoi soldi, non riuscirai mai ad arrivare a simili risultati nel campo dell’innovazione medica, scientifica o tecnologica. O forse riusciresti ad assoldare un esercito con i tuoi risparmi?». Puntiamo sulle questioni controverse, su quei casi che mostrano qualche contraddizione rispetto al sistema di valori avversario. Il debito studentesco può essere un buon esempio. Chiediamo al nostro interlocutore se crede nell’uguaglianza di opportunità, argomento che sta molto a cuore ai conservatori. Riformuliamo la questione: «Molti studenti ricchi di talento ma poveri di mezzi non possono permettersi gli studi universitari a meno di non chiedere un prestito allo Stato. Ma questi prestiti, a

un tasso di interesse dal 6 al 12 per cento, lasciano gli studenti con una montagna di debiti cui non riescono a far fronte. Tali interessi producono profitto per lo Stato, profitto che va ad alimentare i fondi pubblici per investimenti futuri. La senatrice democratica Elizabeth Warren ha proposto di ridurre l’interesse sul debito degli studenti al 3,86 per cento, cifra che continuerà a garantire un certo profitto allo Stato; si potrà rimediare alla parte di profitto perso tappando quelle scappatoie che consentono ai ricchi di eludere le tasse. In tal modo gli studenti potranno iscriversi all’università e laurearsi senza indebitarsi eccessivamente, e di conseguenza potranno utilizzare il denaro che guadagneranno non per sanare i debiti universitari ma per comprare una casa, costruire una famiglia e contribuire con i propri acquisti a sostenere l’economia e produrre lavoro. Vuoi dunque che ci sia uguaglianza di opportunità affinché studenti poveri e bravi possano permettersi di affrontare i prestiti universitari e incoraggiare l’economia, o preferisci proteggere l’ingiusta evasione fiscale dei miliardari ed eliminare l’uguaglianza di opportunità?». Ricordiamo sempre che un avversario potrebbe ipocritamente dichiarare un obiettivo diverso da quello reale. Educatamente facciamo notare qual è il suo vero obiettivo e riformuliamo la questione con i nostri frame. Per esempio, supponiamo che l’avversario sostenga la necessità di ridurre l’intervento dello Stato. Ebbene, facciamogli notare che i conservatori in realtà non vogliono affatto ridurre l’operato dello Stato. Non vogliono certo eliminare l’esercito, l’Fbi, i dipartimenti del Tesoro e del Commercio, o i nove decimi dei tribunali che sostengono e proteggono le imprese. Sono tutte istituzioni in linea con la loro idea di Stato forte. Quello che i conservatori vogliono davvero eliminare sono le politiche sociali e tutti i relativi programmi che mirano al sostegno della persona. Ma questo è in contrasto con i valori fondativi dell’America, ovvero con l’idea di una comunità di persone che si aiutino reciprocamente. Fin dai primi coloni come John Winthrop, è ciò in cui crede la nostra nazione. Ricordiamoci che il nostro avversario può anche usare un linguaggio cosiddetto orwelliano, ovvero un linguaggio che

significhi l’opposto di quello che dice. È un indice di debolezza. In tutta risposta noi usiamo un linguaggio che ci permetta di descrivere accuratamente ciò di cui il nostro avversario sta parlando, ma inquadrandolo con i nostri frame. Supponiamo ad esempio che quello citi l’operazione «Foreste in salute» come esempio di approccio equilibrato alla questione ambientale. Noi facciamo notare che sarebbe meglio chiamare quell’operazione «Nessun albero resti in piedi», dal momento che promuove la deforestazione, operazione esiziale per le foreste e per tutte le forme di vita che vi abitano. Usiamo le parole giuste per far capire che la gente ama le foreste, che non vuole siano sterminate, e che utilizzare un’espressione fasulla smaschera i punti deboli. La maggior parte delle persone vuole proteggere il patrimonio naturale dell’America, non certo distruggerlo. Ricordiamo ancora una volta che l’obiettivo è unire il paese sotto l’insegna dei nostri valori, che sono i migliori valori della tradizione americana. Gli ideologi di destra fanno di tutto affinché la loro odiosa guerra culturale divida il paese. Hanno bisogno di urlare, insultare, denigrare e seminare discordia. Noi possiamo vincere utilizzando discussioni civili e conversazioni rispettose e collaborative. Perché? Perché anche questo è un esempio di comportamento premuroso, e il nostro compito è di promuovere e difendere il modello premuroso. In conclusione, le linee guida che posso suggerire sono numerose. Ma le più importanti sono quattro: 1. 2. 3. 4.

Essere rispettosi. Rispondere riformulando i frame. Pensare e parlare in termini di valori. Dire ciò in cui si crede davvero.

Ringraziamenti

Ogni mattina mia moglie Kathleen Frumkin legge il giornale prima di me e immancabilmente smaschera il fatto politico più pregnante e pieno di implicazioni nascoste. Gran parte di quel che c’è in questo libro è una risposta a quelle sue intuizioni indignate. Pamela Morgan ha rivisto il discorso contenuto nel primo capitolo. Mi ha anche aiutato a rielaborare molti dei temi discussi nella prima edizione. Don Hazen di AlterNet ha avuto l’idea di questo volume e ha fatto molto per renderlo possibile. È stato una costante fonte di domande importanti e di aiuto, intellettuale e no. Elisabeth Wehling mi ha aiutato a formulare molte idee, in qualità di studentessa e poi di collega. Molte delle idee discusse in questo libro sono emerse nel corso di discussioni con i membri del Rockridge Institute: Larry Wallack, Peter Teague, Bruce Budner, Eric Hass, Sam Ferguson, Joe Brewer, Jason Patent, Dan Kurtz, Katherine Allen, Alyssa Wulf, David Brodwin, Fred Block, Carole Joffe, Jerome Karabel, Kristen Luker, Troy Duster, Ruth Rosen, Jessica DiCamillo, Melinda Franco, Jonathan Frank, Cathy Lenz, Jodi Short e Jessica Stites. Tra gli altri amici che hanno contribuito al dibattito ci sono: George Akerlof, Don Arbitblit, Paul Baer, Peter Barnes, Joan Blades, Wes Boyd, Tony Fazio, David Fenton, Paul Hawken, Arianna Huffington, Dan Kammen, Anne Lipow, Ted Nordhaus, Geoff Nunberg, Karen Paget, Robert Reich, Lee Rosenberg, Jon Rowe, Guy Saperstein, Michael Shellenberger, Steve Silberstein, Daniel Silverman, Glenn Smith, George Soros, Alex Steffen, Deborah Tannen, Adam Werbach, Lisa Witter, Rebecca Wodder e Richard Yanowitch. Per chiudere, un brindisi al padre della semantica, mio collega di lunga data a Berkeley e uno dei più grandi linguisti di sempre, il compianto Charles J. Fillmore, che per primo mi ha insegnato la rilevanza politica di questo lavoro. Il suo nome dovrebbe essere onorato da chiunque sia consapevole dell’importanza del framing.

Note alla Prima parte 1 Testo aggiornato dell’intervento tenuto dall’autore il 21 gennaio 2004 dinanzi a una platea di circa duecento cittadini e attivisti progressisti a Sausalito, California. 2 Tradotto in italiano con il titolo Il coraggio di disciplinare (tr. it. N. Cavone, Editrice Uomini Nuovi, Marchirolo 1999) [Ndr]. 3 James Dobson, Il coraggio di disciplinare, cit. [Ndr]. 4 Raggruppamento conservatore dei legislatori statali nato nel 1973. Negli ultimi anni si pone l’obiettivo di rafforzare i principi fondamentali dell’economia di libero mercato, della libertà dal controllo statale e del federalismo, oltre che quello di battersi contro le teorie del cambiamento climatico [Ndr]. 5 Il repubblicano Barry Morris Goldwater fu sconfitto pesantemente alle elezioni presidenziali del 1964 dal democratico Lyndon B. Johnson. Le sue posizioni troppo aggressive nei confronti dell’Urss avevano sollevato il dissenso dell’area più moderata del partito [Ndr].

Note alla Seconda parte 1 Il nome deriva dal Boston Tea Party, un atto di protesta dei coloni americani verificatosi il 16 dicembre 1773 nel porto di Boston in risposta al continuo innalzamento delle tasse da parte del governo britannico. Ne seguì un dissidio che due anni dopo portò di fatto all’inizio della guerra d’Indipendenza [Ndr].

Note alla Terza parte 1 In inglese affordable significa appunto «accessibile» [Ndr]. 2 Il Medicaid è un programma sanitario che come il Medicare, che

offre cure agli anziani, è pensato per le persone che non possono permettersi un’assicurazione medica privata. In particolare il Medicaid provvede a fornire aiuti agli individui e alle famiglie con basso reddito salariale. Siccome è un programma amministrato dai singoli Stati, e non dal governo federale, spetta a ogni Stato stabilire i criteri di reddito per accedere al servizio d’assistenza [Ndr]. 3 Il 26 febbraio 2012 Trayvon Martin, un diciassettenne nero, stava camminando lungo una strada di Sanford, in Florida, con il cappuccio della felpa alzato e in mano una bibita e un pacchetto di caramelle che aveva appena acquistati, quando George Zimmerman, un membro del locale Neighborhood Watch, la squadra di vigilanza del quartiere, considerandolo sospetto, lo inseguì con la macchina, scese e gli sparò uccidendolo. Zimmerman si è appellato all’autodifesa ed è stato assolto dalle imputazioni di omicidio di secondo grado e omicidio colposo [Ndr]. 4 Questo accadeva nel 2014, in piena presidenza Obama. Con l’arrivo di Donald Trump alla Casa bianca è stata inaugurata una politica di «tolleranza zero» nei confronti dei migranti, che ha previsto tra le altre misure l’eliminazione, attuata nel 2017, del Deferred Action for Childhood Arrivals (Daca), il programma che concedeva lo status temporaneo di immigrato regolare ai Dreamers, i migranti arrivati negli Stati Uniti irregolarmente da bambini, e il progetto di costruzione di una barriera d’acciaio lungo la frontiera con il Messico [Ndr]. 5 I Walton sono una delle famiglie più ricche d’America, una dinastia comparabile a quella dei Rockefeller. Controllano la catena di supermercati Walmart, leader mondiale nel settore della grande distribuzione [Ndr]. 6 Nel 2007 l’organizzazione no-profit di destra Citizens United, impegnata nelle campagne di sostegno politico, aveva realizzato un documentario per la tv via cavo, Hillary: The Movie, pagando all’emittente un corrispettivo per la messa in onda. Chiese alla Commissione elettorale federale il permesso di diffonderlo durante le primarie del 2008. La risposta fu negativa, perciò l’organizzazione fece appello alla Corte suprema. Nel 2010 quest’ultima emise il verdetto Citizens United contro la Commissione elettorale federale che, negando ogni distinzione fra la libertà di espressione dei singoli individui e quella delle persone giuridiche, diede ragione alla Citizens United, incurante del potere propagandistico e corruttivo che le aziende o i sindacati possono avere rispetto ai singoli cittadini. Questa sentenza ha di fatto legalizzato l’afflusso di finanziamenti illimitati da parte delle grandi aziende private e dei grandi sindacati nelle campagne elettorali, a patto che questi non vengano consegnati direttamente al candidato o al suo partito [Ndr]. 7 Nel giugno del 2014 la Corte suprema diede ragione al colosso del fai da te Hobby Lobby, proprietà della religiosissima famiglia Green, che per ragioni di fede si era rifiutata di includere l’aborto e la contraccezione nell’assicurazione sanitaria delle proprie dipendenti, benché fossero previsti nel pacchetto stabilito dall’Obamacare nel 2010. Pochi giorni dopo, la Corte suprema si pronunciò a favore dell’obiezione di coscienza del Wheaton College, un istituto evangelico dell’Illinois, avallando di fatto il suo rifiuto, in quanto ente religioso, di finanziare i piani assicurativi per la parte relativa a metodi anticoncezionali e farmaci abortivi [Ndr]. 8 Personaggio immaginario protagonista di una omonima striscia a fumetti comica creata da Scott Adams e ambientata in un ufficio, in cui si mettono in luce inefficienze, paradossi e frustrazioni del lavoro aziendale [Ndr].

Note alla Quarta parte 1 Nel 2004, all’epoca della prima edizione di questo libro, erano solo undici gli Stati che, sulla strada tracciata dal Massachusetts, avevano ammesso il matrimonio gay. Nel 2014, nell’anno della nuova edizione americana del libro, erano passati a diciassette. A seguito della sentenza della Corte suprema del 26 giugno 2015 riguardante il caso Obergefell contro Hodges, che ha stabilito che negare la licenza matrimoniale a coppie dello stesso sesso viola alcune clausole del Quattordicesimo emendamento, il matrimonio omosessuale è diventato legale in tutti gli Stati Uniti [Ndr]. 2 Nel febbraio del 2004, in seguito all’aumento di sentenze dei giudici della nazione che autorizzavano le unioni omosessuali, il presidente George W. Bush annunciò il suo appoggio a una riforma della Costituzione per porre un freno alle unioni tra gay [Ndr]. 3 I dati si riferiscono al 2014 [Ndr]. 4 Intervento del 16 settembre 2001 (riveduto nel luglio 2014). 5 Disponibile all’indirizzo internet: georgelakoff.files.wordpress.com/...

Note alla Quinta parte 1 Il Rockridge Institute è stata un’associazione no-profit dedicata alla promozione delle idee democratiche e progressiste. Creata nel 1997 da George Lakoff insieme a un gruppo di colleghi, con sede a Berkeley, ha realizzato vari studi sul framing nel discorso pubblico raggiungendo nel 2008 i principali obiettivi prefissati dai fondatori. Nello stesso anno ha terminato la sua attività, contestualmente alla campagna per la nomination del partito democratico vinta da Barack Obama, che diventerà poco dopo presidente degli Stati Uniti, dal 2009 al 2017 [Ndr]. 2 La legge americana prevede che nelle class action, una volta stabilita la responsabilità di un’impresa, la giuria possa stabilire un risarcimento più alto del danno reale subito dal querelante. Questo risarcimento, che prende il nome di «punitive damage» o «indennità punitiva», ha il duplice scopo di riparare i danni materiali e morali della parte lesa, ma anche di scoraggiare il ripetersi di comportamenti delittuosi o irresponsabili da parte delle aziende. La Tort Reform, ovvero l’insieme delle leggi restrittive della tutela risarcitoria, di fatto è in vigore in quasi tutti gli Stati degli Usa, con differenti caratteristiche da Stato a Stato. A livello federale è stata invocata da più parti, tra cui dalla seconda amministrazione Bush nel 2005, con l’obiettivo di limitare tra le altre cose la possibilità per i cittadini di fare causa alle grandi corporation e di assegnare ai soli giudici togati, e non più alle giurie, la decisione sull’ammontare dell’indennizzo [Ndr]. 3 Celebre avvocato specializzato nella difesa dei cittadini meno abbienti contro le grandi lobby e major americane, in particolare nei casi di malasanità. Fu eletto al Senato con il partito democratico nel 1999, nel 2008 appoggiò Barack Obama, dopo essersi ritirato a sua volta dalla corsa alla presidenza [Ndr]. 4 Nel 1954, con la sentenza Brown contro Board of Education, la Corte stabilì l’incostituzionalità dell’istruzione pubblica separata per studenti bianchi e neri. La decisione aprì la via alla desegregazione razziale. Nel 1973, con la sentenza Roe contro Wade, la Corte decretò l’incostituzionalità della legge del Texas che vietava l’aborto. La sentenza cercava di trovare un equilibrio tra i diritti delle donne e l’interesse dello Stato a proteggere la vita potenziale del concepito. Gli Stati, scrissero i giudici, devono rispettare in toto il diritto di una donna di abortire per quanto riguarda le prime tredici settimane mentre, a partire dal secondo trimestre e fino alla ventisettesima settimana circa, possono garantirlo, ma solo in caso di «ragionevole pericolo» per la sua salute [Ndr].

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Frontespizio L’autore Prefazione di Gianrico Carofiglio Prologo Introduzione. Il reframing come cambiamento sociale I frame o cornici mentali Il reframing o ricontestualizzazione cognitiva Tutta la politica è morale Che cos’è la razionalità Prima parte. Teoria e applicazione Prima lezione. Come riprendersi il discorso politico Seconda parte. Il cervello e il mondo Seconda lezione. Il framing

5 2 8 12 14 15 16 17 18 20 21 51 52

Terza parte Il framing questione per questione La questione della libertà

80 81

Inquadrare la realtà Riflessività Causalità sistemica Politica e persona Il privato dipende dal pubblico

Assistenza sanitaria Istruzione Povertà Discriminazione: razza, genere e orientamento sessuale Pensioni e sindacati Immigrazione

La teoria di Piketty sulla crescita accelerata delle disuguaglianze economiche Effetti sistemici sulla politica Conseguenze sul lavoro produttivo Inadeguatezza delle tradizionali soluzioni economiche liberiste Effetti negativi della crescita esponenziale della ricchezza posseduta da pochi Perdita di esperienze di crescita personale Piketty e il riscaldamento globale Crescita Effetti sistemici intrecciati

53 56 58 64 73

82 84 87 88 91 94

98 101 102 104 104 105 106 106 107

Il governo delle imprese Quarta parte. Il framing, dieci anni prima Quanto vale una parola? Molto, se la parola è «matrimonio» Metafore del terrore

109 120 121 128

Metafore che uccidono Quinta parte. Dalla teoria all’azione Cosa vogliono i conservatori Cosa unisce i progressisti

145 151 152 163

Le domande più frequenti Come rispondere ai conservatori Ringraziamenti

172 186 195

Com’è cambiato il nostro cervello Il potere delle immagini Il frame governativo dell’11 settembre Il vantaggio dei conservatori Le cause La visione del mondo, ovvero la motivazione religiosa Le condizioni sociopolitiche, ovvero la cultura della disperazione Il discorso pubblico La politica estera La politica interna

Che cosa ci rende progressisti La visione progressista di base La logica dietro i valori progressisti I principi progressisti Gli obiettivi politici

128 130 132 135 136 136 137 139 140 143

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