Non è per cattiveria. Confessioni di un viaggiatore pigro

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Non è per cattiveria. Confessioni di un viaggiatore pigro

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Antonio Pascale Non è per cattiveria. Confessioni di un viaggiatore pigro

Antonio Pascale

Non è per cattiveria Confessioni di un viaggiatore pigro

Editori Laterza

© 2006, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2006

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel giugno 2006 Poligrafico Dehoniano - Stabilimento di Bari per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 88-420-7881-6

Indice

1. Non è per cattiveria

3

2. È tutta un’altra cosa

13

3. Per il Molise chiedi in piazza

23

4. I vecchi e i giovani

35

5. I (benedetti) prodotti tipici

57

6. Non si mangia più come una volta

75

7. Verso il mare

101

Non è per cattiveria

1.

Non è per cattiveria

Col tempo ho sviluppato una vera e propria antipatia verso i viaggiatori professionisti. Quelli che a intervalli regolari prendono e partono. Perché, dicono, devono staccare la spina, cambiare aria, vedere posti nuovi, magari più belli, più strani, più vivi di quelli visti l’anno prima. Non è che io sia contrario al viaggio su tutta la linea. Viaggiare in fondo è un accidente che può capitare a tutti e, certo, è quel genere di accidente capace di generare un benefico cambiamento d’umore (anche se non più di una bella giornata uscita fuori all’improvviso). Ma appunto si tratta di casualità, imprevisti della vita che non andrebbero teorizzati. E invece il viaggiatore professionista pretende attenzione costante alle sue esperienze di viaggio. Del resto, come potrebbe essere altrimenti? È appena tornato da posti belli, strani, vivi, migliori di quelli che ha visto (e ha raccontato) un anno prima. Il viaggiatore professionista è un missionario incorreggibile che disciplina la legge universale sul viaggio e ad essa, tout court, vorrebbe convertirvi. È inutile dirvi che molti 3

viaggiatori compilano guide di viaggio. Dove mangiare, dormire, fare l’amore, cosa comprare e cosa non comprare per aiutare o non danneggiare le popolazione povere. Mi rendo conto: questo genere di guide sono le benvenute, accrescono il nostro tasso d’informazione sul mondo, ci rendono più intelligenti, meno vittime d’inganni, insomma più belli, vivi, migliori di quanto non eravamo appena un anno fa, prima di viaggiare e acquistare, appunto, le suddette guide. Forse, a questo punto, è superfluo dirlo: non riesco ad usarle, faccio fatica perfino a sfogliarle. La sola idea di dover vivere un’emozione da altri già rigidamente codificata mi getta nello sconforto. Quando qualcuno viaggia traccia una strada personale. Direi molto personale, quasi pudica. Il viaggio promuove sommovimenti interiori, strane associazioni, libera cattivi e buoni umori in una tale quantità che spesso siamo i primi a sorprenderci della capacità del nostro serbatoio interno. Dunque, vista la quantità di sensazioni, diciamo così, innervate dalla strada, per quale motivo dovrei, a priori, segnare il mio percorso con paletti piantati da altri? Un’avvertenza: nonostante sia pieno di idiosincrasie e ostilità di varia natura nei confronti del viaggio, dei viaggiatori professionisti e delle guide da viaggio, tutto questo, naturalmente, non mi impedisce di viaggiare e di compilare la mia personale mappa. Ma pretendere che questa mia mappa sia universale, risolutiva, obiettiva è una di quelle sciocchezze a cui non voglio neppure stare a pensare. 4

Più spesso, prima di viaggiare, faccio semplicemente un giro su Google Earth. Guardo il mondo dall’alto, così come è stato fotografato (in una bella giornata di sole) dai satelliti. Mi avvicino con lo zoom alla città e la studio. Vi devo dire la verità, per me potrebbe finire qui, il mio viaggio. Davanti a questa fotografia che mostra una città ben illuminata, libera dal traffico e da tutti gli inconvenienti della vita moderna, già mi passa la voglia di viaggiare. Cioè, comincio a pensare con inquietudine che i miei futuri passi nelle vie di quella città macchieranno la foto, renderanno la città, adesso cristallizzata dall’alto, meno bella, perfetta, migliore di quanto non fosse prima che ci andassi io. Eppure anche questa sensazione mi spaventa, e cioè l’idea di mantenere la purezza a una soglia così alta. Allora, per non intaccare troppo le mie convinzioni e nello stesso tempo scendere a patti con esse, scelgo sempre di viaggiare con moderazione, di ricercare prima del viaggio una misura, ossia, detta in breve, andare là dove posso utilizzare le poche cose contenute nel mio zainetto. Il mio zainetto, sì. Adesso, potrei anche elencarvi i capi di vestiario usati per il viaggio e che entrano nello zaino senza forzare più di tanto la tela, ma sarebbe una perdita di tempo e soprattutto una presuntuosa dichiarazione di austerità che non mi piacerebbe leggere. Viaggio con lo zainetto e non con lo zaino da campeggiatore per un motivo fondamentale, tanto fondamentale per me quanto, mi rendo conto, antipatico per gli altri: non sopporto i trolley. Non sopporto di vedere i viaggiatori che in 5

aeroporto si trascinano dietro i trolley, quel loro rumore di rotelle, così poco allegro, da piccola macchina macina-tutto, appunto da viaggiatore professionista, concentrato, organizzato a dovere, per godersi al meglio e senza sforzi il paese dove sta andando, certamente più bello, vivo e migliore di quello visto l’anno prima. A parte il fatto, poi, che quei viaggiatori spesso fanno passare il trolley sopra i tuoi piedi (cioè, tradotto, quel viaggiatore guarda sempre avanti e non a fianco o dietro di sé, dunque non capisco che viaggia a fare). Nemmeno sopporto, dicevo, lo zaino da campeggiatore. Grava troppo sulle spalle. Curvi sotto un peso, schiacciati dalla roba che devono assolutamente portare con sé, per risparmiare sui costi del viaggio, i campeggiatori sono così concentrati da essere incapaci di alzare la testa per il tempo della marcia. Assomigliano ai portatori sherpa: tutti metodo e concentrazione per raggiungere la cima. Un altro obbligo che, nella mia vita, non vorrei adempiere. Quello della cima da conquistare, dico. Stando così le cose, e cioè arrivato alla soglia dei quarant’anni pieno di idiosincrasie e discriminazioni, qualcuno direbbe malumore, verso il mondo, non posso permettermi di cambiare vita adesso. Qualsiasi variazione sulla mia idea di viaggio, qualsiasi tipo di apertura avventurosa, anche a fin di bene, sarebbe una rottura troppo grande con il mio abituale modo di pensare. Le mie sensazioni di viaggiatore assomigliano a quelle del cacciatore, attento a capire da quale parte arriva l’odore del6

la selvaggina. Così è per me il viaggio; l’istinto del cacciatore mi basta e mi avanza. Quell’istinto che mi dovrebbe tenere all’erta, vigile e attento, in qualunque posto io vada, non importa se esotico, nazionale, provinciale o di quartiere. Senza considerare che la questione dello zainetto mi impedisce di portare troppo in là i miei passi, e cioè regola la mia voglia di avventura con una sorta di premuroso e preventivo esame delle mie possibilità. È inutile che vada troppo in là, perché non riuscirei a descrivere nulla; in quel caso il mio istinto da cacciatore funzionerebbe poco e ben presto perderei la fantasia. E poi, come vi dicevo, per me il viaggio è un accidente mai programmato per tempo. All’improvviso un impegno mi spinge in un luogo e devo combattere con tutte le mie forze la mattina per alzarmi dal letto. Non vorrei mai partire, perché pensare di assomigliare ai viaggiatori con i trolley mi avvilisce, e soprattutto quello che mi frena e mi toglie le forze mattutine è la certezza che anche io, in fondo, per consuetudine, assumo le sembianze di un viaggiatore professionista, di quelli che sanno consigliare il ristorante giusto, l’hotel dove si spende poco e si fa una buona colazione. Quelli che devono assolutamente staccare la spina e prendere una boccata d’aria nuova. Questa contraddizione mi scoraggia e mi immobilizza. Da sempre. Fin da piccolo mi sono trovato a viaggiare non per volontà e desiderio ma per motivi che non capivo, trascinato dai miei in vacanza o in qualche gita scolastica. Il viaggio è sempre stato un’intrusione nella tranquillità do7

mestica della mia vita. Adesso, alle soglie dei quarant’anni, posso dire di prendere bene questo genere di intrusioni, a patto che non escludano il resto della mia vita. A patto che le mie meditazioni sul passato e sul futuro, i miei ricordi e i miei stati d’animo non siano annullati dal viaggio, dalla cima o dal traguardo da raggiungere. Sono un uomo da pausa, non da arrivo. Piuttosto che alzare le mani e gli occhi al cielo una volta tagliato il traguardo, preferisco quando i miei occhi si rivoltano a guardare il fondo del mio animo, le braccia si stancano e allora dico a me stesso: non ce la faccio più, quasi quasi mi fermo un momento. È lì, in quel momento, che comprendo a fondo il senso del viaggio: girare attorno al traguardo, farsi trascinare da un istinto interiore, socializzare con persone che puoi incontrare solo nelle pause, cambiare obiettivo, sentire il territorio sotto i tuoi piedi. Se posso usare una metafora ardita, il viaggio per me è il contrario del monumento. Il monumento è il traguardo da raggiungere, la cima da conquistare. Io non entro mai per principio in un monumento. Non avrebbe senso andare a Roma per vedere il Colosseo o piazza San Pietro. Vi entro solo se il territorio che percorro mi instrada in quella direzione, altrimenti rinuncio. Anche adesso, per questo libro, è stato così. Avrei dovuto assecondare la linea dell’editore, scrivere un reportage sul Sud Italia. Ragionato e analitico, perché basta con queste mappe astratte del Sud... C’è infatti bisogno di precisione. Così m’aveva detto, giustamente, l’editore. E io avevo pure risposto: 8

– Sono d’accordo. Eppure la mattina, poco prima di cominciare il viaggio, ecco tornare la mia idiosincrasia. Avrei dovuto preparare il trolley, informarmi sugli spostamenti da effettuare, cercare di visitare non dico cento ma almeno dieci ristoranti dove il rapporto qualità-prezzo è ottimo, e i monumenti in cui bisogna assolutamente entrare. Insomma, vi devo dire la verità: non me la sono sentita. Andare in luoghi a me (parzialmente) ignoti, provare a raccontarli con il rischio, poi, di abbandonarmi a descrizioni di comodo o celebrare immaginari già definiti: ecco, tutto questo, alle soglie dei quarant’anni, non mi stimola più. Il viaggio in luoghi a me non familiari mi mette ansia. Se proprio devo affrontare una simile impresa, allora ho bisogno di un calmante. E così ho fatto quello che faccio sempre in questi casi, quando l’ansia si fa incontenibile e quando, non so perché, divento nervoso e finisco per muovermi velocemente, a caso, come un pupazzo mosso da un burattinaio con le convulsioni. Ho fatto una cosa che placa e aggiusta i miei movimenti: sono andato in Molise, una regione dove da trent’anni vado in vacanza. Dunque, poca avventura e molta domesticità a me congeniale (eppure mi sono successe un sacco di cose poco domestiche e per niente a me congeniali). Però, visto che ormai mi trovavo lì e il contratto con l’editore l’avevo già firmato, ho pensato di scrivere una guida del Molise. Con una postilla, però, come vi dicevo: piuttosto che approntare una guida onnicomprensiva, con i cento alberghi e i cento risto9

ranti da frequentare assolutamente per l’ottimo rapporto qualità-prezzo, piuttosto che cercare luoghi sconosciuti ai più da visitare, anche questi assolutamente, almeno una volta prima di morire, ecco, anche in questo caso, piuttosto che parlare del Molise come luogo geografico, ho preferito parlare della mia idea di viaggio. Un’idea che, fortuna vuole, trova la sua concretizzazione proprio in Molise. Il fatto è che la mia idea di viaggio e di sguardo durante il cammino è strettamente assonante con i miei variabili umori, appunto. Quelli di un cittadino comune, non particolarmente esperto di vini, non proprio in grado di capire se una salsa ha il giusto grado di salatura. Un cittadino comune che decide di affidarsi alla sua autonomia di giudizio, accettando la spiacevole conseguenza che questi (gli umori e i giudizi ricavati) si sono formati anni addietro, in tempi lontani, in momenti di sofferenza. Dunque sono contaminati con il mondo e nessun viaggio potrà purificarli più di tanto. Un cittadino che si fida dei propri umori, soprattutto di quelli cattivi, perché sono proprio questi a darci una regola, una misura. Evidentemente rimandano a qualcosa di importante per noi, di perduto. Come dicono i francesi, i giorni felici non hanno memoria. E infine: questi umori non sono un modello di riferimento, ma semmai un metodo di lavoro. Il viaggio, per me, significa muoversi il meno possibile, proprio per permettere agli umori, nelle pause accidiose, di manifestarsi senza ulteriore pena. Prima di viaggiare e poi durante il viaggio non bisogna 10

mai perdere di vista quelli che Barthes chiamava gli elementi cardinali: quelli che definiscono il nostro tema. Ovvero: la nostra bussola. Devo chiedermi, insomma, quanto un luogo mi assomiglia e quanto è lontano da me. E soprattutto perché mi assomiglia o non mi assomiglia. Fare i conti con quello che vedo qui e ora, ma tenendo bene a mente che il presente può essere conosciuto solo attraverso una sana archeologia. Mi tocca dunque, per poter guardare quello che vedo, scavare nella mia labile dimensione psichica. Non spaventarmi se il percorso è ondivago e divagatorio, perché, in pratica, tutte le storie sono dei surrogati di un’unica storia che fa da matrice, più viva e palpitante, e per questo naturalmente più nascosta. Prima o poi tutti noi, alle soglie di una certa età critica, cercheremo il percorso di viaggio più adatto, personale e pudico per arrivare a questa benedetta matrice: il nostro punto cardinale. Questo è il metodo di lavoro che qui, umilmente, vi sottopongo. Ma, ahimè, questo metodo, divagatorio proprio come i miei umori, non è esportabile né consigliabile. Contiene in nuce solo una possibilità: che altri viaggiatori, occasionali come me, incrocino i miei umori in un momento di pausa e li riconoscano simili ai loro. Non è per cattiveria, ma la penso così.

2.

È tutta un’altra cosa

Ora, non sono mica obbligato a cominciare questo viaggio con un’associazione, intesa come strumento linguistico di paragone, però un po’ mi piace farlo. Se per caso vi trovate in Molise, dovete per forza percorrere le strade molisane. Ecco, non ho ancora finito la prima associazione che già me ne viene in mente un’altra, e allora, visto che ci sono, vado fino in fondo. Avete presente la canzone di Bruce Springsteen Thunder Road? A un certo punto dice: abbassa il finestrino e lascia che il vento scompigli i tuoi capelli. Come mi piaceva da giovane questo verso. Immaginavo la strada diritta su cui correre e fuggire. In America la corsa ha a che fare con l’idea della fuga. Fuggire poi, non proprio nel senso realistico del termine, pigro come sono. Però mi aiutava a divagare, questo sì. Comunque, quando questa canzone arrivò in Italia, io avevo già casa in Molise e spesso ci andavo. Bene, quella canzone non la potevo sentire, sulle strade molisane stonava proprio. Era vero ieri ed è vero ancora oggi. Insomma non avrebbe senso, quasi tutte le strade hanno un andamento contorto, ondeggiano, sono soggette a sali13

scendi continui. Dunque, a parte il fatto che stai sempre a giocare con le marce per non far perdere potenza al motore, non ti viene proprio in mente l’immagine della Thunder Road. Perché nemmeno metti la terza che un dislivello improvviso o un tornante che non ti aspettavi ti riduce il numero di giri, il motore si ingolfa e devi cambiare marcia. Non hai il tempo materiale di abbassare il finestrino, farti scompigliare i capelli dal vento, eccetera, eccetera. Bruce Springsteen e il suo rock si troverebbero a disagio. Le strade molisane sono così perché, ed è questa la prima associazione che volevo fare, seguono la matrice dei pascoli. È come se da questa matrice partissero per seguire analogicamente il tracciato delle pecore, soprattutto delle capre, al pascolo. Non so se siete esperti di capre, di vacche e simili («vacche, non mucche», mi disse il professore di zootecnia prima di bocciarmi a libretto nel 1985, terzo esame di agraria, una giornata fredda e triste che ancora mi ricordo. Mucche! La colpa era di sicuro di Heidi e prima ancora della mucca Carolina. Come era diverso l’immaginario dalla realtà, e che brutto scoprirlo sulla mia pelle durante un esame. Fu una lezione dura che, detto fra noi, non mi ha mai fatto apprezzare del tutto gli scrittori cannibali, troppo legati al gergo dei fumetti, troppo vicini all’uso di quella parola: mucca), ma queste (vacche, capre e simili, insomma gli ungulati) seguono durante il giorno un percorso accidentale, vanno su e giù, a destra o a sinistra, alla ricerca dell’erba fresca, anche loro, un po’ come me, fidandosi del proprio istinto. 14

Un po’ come me, brucando e ruminando, divagano. E divagando tracciano un solco che si allargherà con il tempo e il continuo calpestio fino a diventare sentiero. Sì, ora è vero che il Molise è pieno di tratturi, cioè strade diritte, usate una volta per la transumanza verso la Puglia, però questi, anche se vengono considerati tipici prodotti molisani, non sono così diffusi. Nel Molise vince il tracciato ondivago, il sentiero del pascolo, e su questo le strade si devono essere nel tempo modellate. Sì, è vero, ci sono un paio di fondovalli, ma anche su queste non si può correre, fuggire e quindi abbassare il vetro. Il vento scompiglia sì i capelli, ma per altre ragioni. Queste strade particolari innervano un territorio non molto grande, composto da 136 paesi, alcuni disabitati e difficili da raggiungere. Una regione abitata da 320.000 persone, in sostanza un quartiere di Roma. Un’avvertenza: io credo seriamente che il Molise sia una regione bellissima. Ma è sconosciuta. Ancora oggi è poco rappresentata. Se guardate il meteo su Canale 5 (quello in coda a Prima pagina), noterete certamente che non riporta il capoluogo della provincia: Campobasso. Il Molise è bello ma invisibile, spesso ancora associato all’Abruzzo. Tutte le guide parlano d’Abruzzo e Molise. Ancora è difficile trovare una guida che tratti solo del Molise. In realtà ne esiste una, pare bellissima, ma è in tedesco (sembra abbia venduto in patria 20.000 copie). Così chi vuole andare in Molise deve prima imparare il tedesco e poi avviarsi alla scoperta della regione. Per il resto le guide uniscono l’Abruzzo e il 15

Molise. Abruzzo e Molise stanno sempre insieme, quasi fossero gli Assiri e i Babilonesi. Un’unione, a detta degli stessi molisani, che non ha senso. Provate a fare quello che ho fatto io, a domandare cioè se si sentono legati all’Abruzzo, antropologicamente, geologicamente e socialmente parlando. Vi risponderanno: – È tutta un’altra cosa. Se volete fare la cosiddetta prova del nove (che tra l’altro non ricordo, ho solo l’immagine di una croce), provate a fare quello che ho fatto io. Non appena vi trovate in Abruzzo, non importa quanto distanti dal Molise, perché è lo stesso anche se state sul confine, provate a chiedere se si sentono legati al Molise, antropologicamente, geologicamente e socialmente parlando. Vi risponderanno: – È tutta un’altra cosa. Io, forse per colpa dei miei malumori di cui sopra, non sono mai riuscito a capire il senso di questa dichiarazione di indipendenza. Per me le due regioni sono antropologicamente, eccetera, molto vicine. Temo, infatti, che questa dichiarazione di indipendenza abbia a che fare con ragioni più piccole, a volte meschine, insomma campanilistiche. Lo deduco da un episodio che mi è capitato, uno di quelli che accadono su scala ridotta ma che possono, per analogia, essere ingranditi. Una volta stavo a Pietracupa, un piccolo paese di 252 abitanti (di cui 150 anziani). Qui un signore anziano mi ha fatto l’elogio del paese e soprattutto dell’aria di questo paese. – La più pulita di tutto il Molise. 16

Tanta era la convinzione con cui ha espresso questo giudizio che io stesso, che per via degli ormai risaputi malumori respiro con affanno e irregolarità, ho preso a espirare con profondità e gioia. In quei pochi secondi (tanto è durata la mia prova quasi di meditazione) mi sentivo più pulito, come se avessi fatto una sauna di aria fresca. Tutto questo, appunto, finché lo stesso signore ha espresso un altro giudizio: – Non è mica (l’aria pulita di Pietracupa) come quella di Salcito, che è tutta un’altra cosa. Dovete sapere che Salcito è un altro paese molisano (120 abitanti circa) che dista da Pietracupa appena tre chilometri. Quindi, o l’aria di Pietracupa era protetta da un’atmosfera particolare, tenuta insieme da una misteriosa e singolare forza di gravità, oppure il signore portava avanti un ragionamento campanilistico. Fatto sta che il mio respiro regolare e dolce si è interrotto e il malessere si è di nuovo impadronito di me. Non vorrei che credeste che solo i molisani siano così attaccati alle radici da nobilitarle in continuazione. Un episodio simile mi è successo anche in Abruzzo, a Castelbasso. Un fatto davvero strano. Ero stato invitato al festival di Castelbasso, piccolo paese vicino a Teramo che conta dieci abitanti, così mi pare. Se non sono dieci saranno quindici. Ma questo l’avrei scoperto dopo. Fatto sta che feci fatica a individuare questo paese sulla cartina (Google Earth ancora non esisteva). C’era solo Castelbasso di sotto. La cosa mi faceva toccare la nervatura. Se c’era un Castelbasso di sotto, ci doveva essere per forza un Castelbasso 17

di sopra. Proprio per non pensare più di tanto a questo mistero geografico, uscii per andare alla libreria Mel Book di Roma (ci vado sempre, tanto spazio e caffetteria al piano di sopra: 55 centesimi il caffè, un prezzo onesto; il barista, Marco, è bravo ma politicamente un po’ confuso). Volevo prendere una cartina aggiornata dell’Abruzzo (che stava sempre insieme al Molise) quando la direttrice mi disse: – Ho visto che sei a Castelbasso. – E tu come fai a saperlo? – Scusa, eh! Quello è un festival famoso, ci arriva sempre il programma. Tutto contento di essere stato invitato a un festival famoso, faccio per tornare a casa quando incontro un mio amico musicista che per prima cosa mi fa: – Guarda, ieri ho mangiato benissimo. – Dove? – A Castelbasso. È stata quella l’unica volta in vita mia che ho pensato di stare su Scherzi a parte. Però il dubbio si è subito dissolto. Chi vuoi che faccia uno scherzo a uno scrittore? Per questo chiesi al mio amico musicista: – Castelbasso di sopra o di sotto? – Di sopra, ma, perché, non lo conosci? E così ha cominciato a dirmi del festival, di quanto fosse importante, ben fatto, che lo conosceva tutta Italia (tranne me, a quanto pareva). E poi è passato a consigliarmi gli alberghi e i ristoranti nei quali dovevo assolutamente andare, visto l’ottimo rapporto qualità-prezzo, e quelli che dovevo 18

evitare perché si mangiava male e si pagava assai. Purtroppo il mio amico musicista è una brava persona, molto simpatica, ma appartiene alla cerchia dei viaggiatori professionisti, con i quali, come ben sapete, ho dei problemi. Nei giorni seguenti non ho fatto altro che incontrare persone che erano state a Castelbasso; così quando mia moglie mi ha detto: «Ma che vai a fare in questo paese sperduto?», le ho risposto che solo lei non conosceva Castelbasso di sopra e che insomma non era possibile. E si informasse meglio prima di sparare giudizi. Sono poi partito per Castelbasso, e nelle vicinanze della Valle del Vomano, quando cioè mancavano, secondo un cartello stradale, dieci chilometri al paese che ospitava il festival più famoso d’Italia, ho chiesto al signore della pompa di benzina quale strada dovevo fare per Castelbasso. Mi ha risposto: – E che posto è? – Come? Il posto dove si tiene uno dei festival più importanti d’Italia. – Non lo conosco. Nemmeno potevo indicarglielo sulla cartina, perché (maledizione) non era indicato. Così ho pensato che mia moglie avesse ragione, pensiero che a volte mi piace, altre no. Questa volta no. Ho chiesto ad altre persone e qualcuno mi ha dato informazioni. Ma più facevo domande precise («Ma è un bel paese, si tiene un bel festival») più mi rispondevano con vaghezza. Pur abitando nelle vicinanze di Castelbasso, non 19

c’erano mai stati. Alcuni, invece, erano gelosi che in quel paese di dieci abitanti si tenesse un festival mentre nel proprio non c’era nemmeno il teatro dei burattini. E usavano il metodo classico: ignorare il problema. Oppure tendevano a nobilitare il proprio paese d’origine, magari a cento metri di distanza da Castelbasso di sopra. Il discorso opposto ma speculare a quello del signore di Pietracupa: – L’aria di Pietracupa non è come quella di Salcito. Per inciso, dopo aver percorso una strada ondivaga, del tutto somigliante a quelle del Molise, una volta giunto finalmente a Castelbasso, chiesi a un signore se per lui la situazione antropologica, geologica e sociale dell’Abruzzo fosse simile a quella del Molise. Mi rispose: – È tutta un’altra cosa. Ragion per cui ho sempre pensato che in realtà le due regioni fossero uguali e che forse potevo scrivere la guida del Molise e farla passare per quella dell’Abruzzo. Se mi fossi mantenuto sulle linee generali, nessuno se ne sarebbe accorto. Ma il mio amore per il Molise me lo impedisce e dunque, continuando il nostro discorso sulle strade così simili a vecchi sentieri di pascolo, devo dire che questa mia osservazione analogica di sicuro non fa piacere ai molisani. Quando ho cominciato a dire in giro che avrei fatto una guida del Molise (staccata dall’Abruzzo, per la prima volta nella storia, dopo l’episodio tedesco), tutti i molisani mi hanno chiesto una cortesia: – Non parlare dei pastori, non ne possiamo più. 20

Molti di loro sostengono che l’immagine del Molise sia rimasta legata ai pastori, e che venga riproposta ogni volta, subdolamente. Viene la troupe di Linea verde e per prima cosa cerca uno scorcio particolare dove infilare il caratteristico pastore. Che è un finto pastore di una volta, nel senso che posteggiata ai bordi del campo ha una jeep ultimo tipo, magari una Hummer. Insomma, se una regione resta così legata a questi modelli arcaici, poi come fa a crescere? Era indispensabile, secondo loro, che io mi prendessi questa responsabilità: portare avanti un’immagine completa del Molise, che tra l’altro come pastorizia se la vede brutta. Questa immagine completa dovrebbe tenere conto, pensavo mentre tornavo verso casa (in montagna, sul Matese), di più verità, insomma del giusto posizionamento delle singole verità. Non avrei dovuto usare quel metodo dello spot, così caro a Voltaire e così giustamente stigmatizzato da Auerbach nel suo capolavoro, Mimesis. Il filologo sosteneva che Voltaire montava le singole verità in maniera veloce e pregiudiziale, mettendo così in ridicolo le persone. Piegava la realtà ai suoi fini. E ripetendo questa parte di verità per decine di volte, faceva in modo che una mezza verità assumesse valore totalitario. Auerbach chiosava che, nelle epoche confuse, questo metodo dello spot (inteso come luce) tornava sempre con prepotenza, come strumento di inganno. Un saggio molto bello e duro, così attuale. Mentre pensavo e ricordavo il saggio, mi sono trovato circondato da pecore. Più avanti c’era un pastore. Ho vagato con lo sguardo per vedere se ci fosse la famosa troupe di Linea verde. Niente. 21

– Buon giorno – ha detto il pastore. – Buon giorno – ho risposto – ma che state a piedi o con la macchina? – Ma quale macchina, qua sto in piedi dalle cinque di mattina. In mezzo alle pecore, nell’attesa che la strada si liberasse, mi è venuto bene in mente il pensiero di Auerbach sullo spot: «Esso consiste in ciò che di tutto un ampio discorso si illumina solo una parte, ma tutto il resto che servirebbe a spiegarlo e a dare ciascuna cosa al suo posto, e verrebbe, così a dire, a formare un contrappeso a ciò che è stato messo in risalto, viene lasciato nel buio. In questo modo viene detta apparentemente la verità, poiché quanto detto è incontestabile e tuttavia tutto è falsato, essendo che la verità è composta da tutta la verità e nel giusto rapporto tra le singole parti. Specialmente nelle epoche agitate, il pubblico ricasca sempre in questo tranello, e siamo tutti in grado di trarre un buon numero di esempi dal passato più recente». E poi dice che divagare per le strade del Molise non serve. Altroché se serve, potrebbe essere un modo per illuminare quante più cose possibili. E non solo del Molise.

3.

Per il Molise chiedi in piazza

Come vi dicevo, la mattina, poco prima di partire, mi cala l’accidia. Perché dovrei partire? Per assomigliare ai viaggiatori professionisti eccetera? La solita tiritera che mi ripeto da anni. Fatto sta, alle soglie dei quarant’anni, che non posso far finta di essere diverso. Per me partire è fare essenzialmente una pausa. Solo che questa pausa inizia molto prima di partire. Prima ancora di cominciare a percorrere la strada, già vorrei fare una pausa. È un paradosso, una specie di Achille e la tartaruga. Non posso partire, perché la strada è sempre un po’ più in là, distanziata di una frazione infinitesimale rispetto alla falcata dei miei passi. In effetti, con il tempo credo di aver capito meglio il paradosso di Zenone. Per una sorta di empirismo quotidiano, dico, non certo perché sono diventato un matematico teorico. Di tutte le mie esperienze finora vissute, me ne sono goduta solo una piccola parte. Ho capito l’importanza di un viaggio solo alla fine, quando ero in procinto di atterrare e guardavo con struggimento la pista. Al tocco del carrello, proprio quando la testa dell’aereo calava leggermente a col23

pire l’asfalto, mi sono ricordato di tutte le cose fatte e apprese durante il viaggio. L’importanza di una storia d’amore mi è balzata davanti agli occhi, come un bimbo che fa uno scherzo ben riuscito, solo quando ho visto la mia ragazza smontare dalla mia macchina per non tornare mai più, nemmeno nei sogni. O al contrario, ho imparato cosa può essere il disamore solo quando, dopo tanta pena e struggimento d’amore, sono tornato dalla mia amata. Vederla aprire la porta sorridente per il mio arrivo è stata un’esperienza dolorosa, come una perfetta misura al laser che segnasse la distanza che passava tra le mie illusioni e la realtà. Insomma, ho imparato qualcosa solo nelle pause. Pause e basta, nemmeno voglio aggiungere pause di riflessione, perché spesso non avevano questo intento. Più semplicemente ero stanco, senza sapere il perché. Il risultato era un sentimento di inadeguatezza diffuso che mi faceva mancare agli appuntamenti importanti. Non solo assomigliavo ad Achille per l’ampia falcata giovanile, ma anche io, come lui, non riuscivo a raggiungere il mio avversario, anzi spesso nemmeno ci provavo. Per questo amo il Molise, soprattutto per le pause. Qui ho una scusa in più. Sono proprio costretto a farle, proprio per via del percorso accidentato. Da piccolo, nell’Opel Ascona 1100 dei miei genitori, chiedevo spesso a mio padre di fermarsi per alleviare il mio cronico dolore di pancia, causato appunto dal maldestro tentativo di raggiungere rapidamente il traguardo: andare a sciare, andare finalmente a funghi, accendere il fuoco per fa24

re la carne alla brace. Come se solo il raggiungimento del traguardo potesse fruttare un buon premio in seguito. Cosa magari vera, ma non completamente per me. Non riesco a pensare al traguardo, devo di tanto in tanto fermarmi per vedere come va la costruzione della strada, la stessa che mi dovrebbe condurre alla meta. La pausa, tra l’altro, ha un ulteriore vantaggio: in caso di difficoltà ti permette, per esempio, di guardare la tua auto che affonda nel fango mentre tu dal bordo del paracarro la saluti con mestizia. Un altro accidente della vita moderna da non prendere troppo sul serio. Fatto sta che, se come me amate le pause (e di tanto in tanto il silenzio), il Molise è il posto che fa per voi. Scendendo dai monti del Matese (è lì che ho casa), mi fermo, come prima sosta, a Guardiaregia. In realtà sono solo quindici chilometri dalla partenza. Tutti quelli che ho conosciuto finora e che hanno visto Guardiaregia (saranno almeno una ventina) hanno definito il paese «un presepe». L’ha fatto mio padre quando me l’ha mostrato la prima volta, mia mamma quando venivano ospiti. E a loro volta gli ospiti hanno accompagnato qui altre persone e a questi hanno detto: Guardiaregia è proprio un presepe. Io, benché faccia lo scrittore da parecchi anni e legga tanto e quindi dovrei avere un buon rapporto con i sostantivi e gli aggettivi, non sono riuscito nel tempo a immaginare nessun’altra definizione del paese: pure per me è un presepe. Soprattutto visto di notte, dalla statale, incastonato (mi rendo conto che è una parola abusata) ai piedi di una bianca 25

roccia calcarea, con le pendici parzialmente ricoperte dai faggi, con a fianco un’oasi del WWF, Guardiaregia, illuminata dalle luci gialle, è un vero e proprio presepe, uno di quelli classici, con muschio e felci. Fermarsi qui è un piacere. Non si fa niente (pochi, pochissimi abitanti) se non sedersi ai tavolini del bar in piazza o frequentare la villa comunale, due scivoli per bambini e un bell’olmo. C’è un piacevole silenzio che non devi disturbare. Il silenzio chiede continuo rispetto. Se infatti siete a Guardiaregia e provate, che so, ad appallottolare un foglio di carta, sentirete un rumore assordante, come quando di prima mattina, nel silenzio di casa vostra, fate cadere un piatto. A Guardiaregia le case sono in pietra e i tetti in mattoni o tegole d’ardesia. Molte case hanno un piccolo giardino, un pezzetto di terra con ortaggi e qualche albero, pesche, mele, pere. Le case sono in pratica una sulle spalle dell’altra, si sostengono a vicenda, si guardano, si controllano. Tranquillità, insomma. Per questo Guardiaregia è il primo posto dove ho lasciato i miei bambini liberi di correre per il paese, per tutta la giornata, mentre io faccio pausa, s’intende. Ci sono due bar, c’era una buona macelleria (che adesso ha chiuso), due minimarket e una specie di bazar, dove si possono trovare i giornali («Corriere della sera», «Repubblica», «Giornale», «Stampa», «Mattino» e «Il Quotidiano del Molise»). Una farmacia e la guardia medica. Ristoranti non ce ne sono, però la signora del bazar (che adesso avrà credo novant’anni e che io ricordo da trent’anni a questa parte sempre con lo stesso vestito, la stessa pettinatura, solo di anno in 26

anno leggermente più bassa) prepara buoni panini. Oppure in alternativa c’è la pizza paesana, semplice e gustosa. Se proprio devo fare la parte del viaggiatore professionista, vi spingerei a comprare la pizza o il pane fresco al forno vicino al paese (ci sono le indicazioni per arrivarci). È genuino e semplice. C’è una sola controindicazione: è difficile capire quando è aperto e quando sforna. Perché, dite voi? Ho una teoria, ma ne parliamo dopo. Naturalmente, in questo paese c’è la posta. Non c’è mai nessuno e spesso pago qui le bollette romane. Il concetto di posta è una specie di leva per sollevare la regione e guardare cosa c’è sotto. Una questione fondante l’economia molisana. Voglio dire, nel Molise ci sono paesi con pochi abitanti, spesso non ci sono nemmeno le scuole, non sono serviti da nessuna linea ferroviaria e di bus, eppure la posta c’è sempre. Piccola, discreta, nascosta, ma c’è sempre. A San Polo Matese (730 metri s.l.m.), un altro piccolo paese vicino Guardiaregia, circa 470 anime (un numero sovrastimato), ha un solo bazar, situato proprio all’inizio del paese. La chiesa parrocchiale (1241 d.C., pieno romanico). E poi più nulla, solo vicoli, meravigliosi scalini di pietra grezza e la montagna con le sue coste di pietra calcarea a sovrastare, una montagna che a volte sembra la continuazione del paese e allora, soprattutto nelle belle giornate, non fa paura. È amichevole, quasi fa l’occhiolino, mentre altre volte è cupa, nebbiosa e fa sembrare il paese una landa desolata. In questo paese, dicevo, la posta è una casa privata. Nel senso che al piano di sotto c’è la posta e in quello di sopra la 27

signora proprietaria. La posta apre tre volte a settimana, ma ogni tanto, se c’è qualche commissione urgente, la signora scende per aprire e vi fa (segretamente) il piacere. La posta c’è sempre perché questa regione ha perduto in circa cento anni quasi un milione di persone. Tutte emigrate, in Papuasia, America Latina, Canada, America del Nord, Svizzera. Se consultate l’archivio storico dell’emigrazione, vedrete che non c’è paese del mondo dove i molisani non siano arrivati. C’è chi sostiene, per la scarsità di informazioni, l’assenza di guide, di scrittori (tranne Jovine e Rimanelli), eccetera, che i molisani siano stati dappertutto, tranne che nel Molise. Comunque, dicevo che le poste servono perché dall’estero continuano ad arrivare le rimesse degli emigrati. Che, almeno a sentire gli economisti, sono una buona parte del bilancio delle famiglie. Fatto sta che negli anni l’emigrazione ha spopolato il Molise, e molti dei 136 paesi sono quasi disabitati. Questo fatto, oltre a tutte le spiacevoli sofferenze che ha portato ai molisani, ha ancora oggi delle conseguenze. Alcune buffe. Per esempio, i pochi abitanti rimasti nei paesi, bene o male, si conoscono. Si conoscono anche tra paesi vicini. In più, si conoscono anche tra paesi lontani, perché la maggior parte dei molisani abitano nei paesi, ma lavorano a Campobasso. I gradi di separazione tra noi e un qualunque individuo al mondo, secondo la nota teoria, sono sei. Tra me e Bush ci sono solo sei persone. Cioè, vivendo a Roma, potrei conoscere Bush risalendo solo sei gradini (persone) della scala. 28

Questo dice la nota teoria. Il Molise fa eccezione: sono meno di sei, forse solo un paio. Tant’è vero che se cercate qualcuno, che so, un elettricista, un idraulico, un muratore, il molisano vi dirà: – Chiedete in piazza. Le prime volte questa espressione mi faceva toccare la nervatura. Sono un metropolitano convinto, ho bisogno delle Pagine Gialle, di Internet, della strada e del numero civico per trovare le persone. Che mi significa questa cosa della piazza? Ma funziona. Avete bisogno di qualcuno? Andate in piazza e chiedete. Non voglio dire che in piazza esiste un ufficio informazioni, con tanto di bancariello, no. Chiedete alla prima persona che incontrate, tempo due minuti e sarete accontentati. Per il Molise, insomma, basta chiedere in piazza. E qui torniamo alla questione del forno di Guardiaregia che è sempre chiuso. La mia teoria, che ho lasciato in sospeso qualche pagina fa, è essenzialmente questa: tutti gli abitanti di Guardiaregia conoscono il fornaio, dunque ordinano il loro pane. Il fornaio, che conosce a sua volta tutti gli abitanti del paese, prepara solo quel quantitativo di pane che gli hanno ordinato. Tutti gli abitanti di Guardiaregia prendono il pane dalle sei alle sette, dopo di che il fornaio chiude perché ha finito il pane e io e voi, turisti, viaggiatori occasionali o professionisti, non riusciamo a godere di quel bene. Sembra strano, ma questa cosa del forno è diventata un’ossessione per me. Non solo perché avevo difficoltà a 29

mangiarmi questa benedetta pizza di cui tutti (in piazza) mi dicevano un gran bene, ma perché il forno di Guardiaregia dovrebbe essere studiato nelle università. Non in quelle alimentari, in quelle economiche. È un po’ la vecchia battuta di Massimo Troisi in Scusate il ritardo. Gaetano (Troisi) usufruisce dell’appartamento del professore, durante l’assenza di quest’ultimo. Il professore non sa che Gaetano usa il suo appartamento. Sarebbero guai se lo sapesse. Fatto sta che Gaetano nota che la macchinetta del caffè è per una persona. Il professore non ha una macchinetta da sei o da nove. Come fa una persona, dice Gaetano nel film, a vivere con una macchinetta da uno? Vuol dire che sa che mai nessun amico verrà a trovarlo. Perché non si compra una macchinetta da sei, così almeno invita qualcuno a casa? Ecco, tutto l’apparato economico molisano, soprattutto quello dei paesi, funziona secondo questa teoria: la moka da uno. O, se vogliamo definirla in altro modo, il forno di Guardiaregia. Come se nessuno aspettasse gli ospiti, di aggiungere il posto a tavola. Non si ha interesse a comprare la macchinetta da sei oppure, per analogia, ad aprire il forno per me, viaggiatore occasionale. Che, però, sta accidentalmente facendo una guida e pubblicizzando il medesimo forno. Hai visto mai che i miei dieci lettori canonici si mettano in testa di seguire i miei consigli (fatelo) e aspettare il pane caldo? Si rendono conto quelli del forno di Guardiaregia di che occasione si stanno perdendo? 30

Tutte le persone interrogate su questa questione della moka da uno o, se vogliamo, del forno di Guardiaregia (cinque: un direttore di biblioteca, un libraio anarchico, uno chef, un imprenditore agricolo e un semplice passante trovato in piazza) mi hanno risposto con una parola: «arroccamento». Molti molisani sono arroccati, nei loro paesi, nelle loro convinzioni. Questo spiega la dichiarazione sull’aria di Pietracupa, la migliore di tutto il Molise, non come quella di Salcito. Ma esempi simili ce ne sono a bizzeffe. Ho conosciuto a Limosano un tizio che sosteneva che le donne di Ripalimosani fossero di facili costumi e infatti lui andava ogni sabato sera fin lì per rimorchiare. «Fin lì» è un eufemismo: i due paesi distano poco più di tre chilometri, e infatti ogni sera il nostro amico ritornava al paese d’origine a mani vuote. Arroccamento. Parola che per analogia richiama l’emigrazione: i paesi si sono spopolati, e quelli che sono rimasti hanno patito l’isolamento culturale. Sempre tra loro, capaci sì di trovare qualcuno in piazza, ma non in grado di guardare oltre. Hanno atteso. Atteso le rimesse per ristrutturare la casa quel tanto che bastava, forse atteso a fin di bene, sperando che un giorno tornassero tutti gli emigrati e trovassero il paese così come l’avevano lasciato. L’arroccamento deve avere una matrice di dolore antico. Di contro, per dirla con Auerbach e cercare di dirla tutta, l’isolamento ha creato un mondo a parte, silenzioso, poco trafficato, dotato di un microcosmo incantevole, tutto 31

faggi e rocce calcaree, bellissime sotto la luce della luna. Un territorio costituito per buona parte da calanchi d’argilla, scivolosi ma anche questi incantevoli allo sguardo, soprattutto di notte, alla luce della sempre solita luna. Un territorio dove l’inquinamento luminoso è basso e da una qualsiasi collina o da una media cima (1400 metri s.l.m.) potete vedere la volta stellare come se foste in mezzo al deserto. Il mio amore per l’infinito di Leopardi non è certo nato tra i banchi di scuola. Come avrei potuto con tutto quel marasma di critica che inquinava i versi del sommo poeta? È nato qui in Molise, guardando la Via Lattea e le costellazioni. Qui, sotto questo cielo, ho capito il senso dell’infinito. Qui la percezione del mio sguardo si è modificata in maniera così profonda che adesso mi risulta difficile ritrovare quella precedente. Un territorio dove potete vedere resti e vestigia, splendidi scavi romani (Altilia), più ricchi e completi di quelli di Ercolano o Pompei ma poco conosciuti. O come l’anfiteatro di Pietrabbondante, che una volta nella vita bisogna proprio vedere, fosse solo per il silenzio che si gode stando sulle sue gradinate. O resti meno antichi e raffinati, grezzi e tagliati male, ma per me belli, come il tavolino di pietra con olmo a pochi passi dal belvedere di Macchiagodena. Qui, sotto quest’olmo, appoggiato sul tavolino, ho dato il mio primo bacio, guardando con un occhio la mia fidanzata e con l’altro il panorama. Qui, in questo posto, ho portato in seguito altre fidanzate nell’inutile tentativo di rivivere quel momento, di riassaporare con più consapevolezza la mia scena ma32

dre. Scoprendo dunque, grazie a una pausa, che le cose belle le avevo già vissute e alcune di queste, come il primo bacio, erano state così belle perché avvolte da un silenzio particolare. Quel tipo di silenzio che cristallizza gli eventi, li ferma nell’attimo migliore, un po’ come le immagini delle città prese dai satelliti che adesso guardo grazie a Google Earth: immagini potenti e ferme, e ferme perché potenti, che, come dicevo, quasi m’impediscono di partire per paura che ogni mio movimento possa sporcare quell’immagine cristallina di città. È chiaro, insomma, che alle soglie dei quarant’anni temo il movimento perché questo accelera il tempo. È chiaro allora che ho paura della morte. Ma mi è anche chiaro che qui in Molise le pause che mi concedo mi forniscono, nei confronti del tempo che ancora mi manca, un paio di ore in più. Un lusso, quello della pausa che allunga la vita, un lusso temporale che non teme il silenzio perché ne è parte integrante. E infatti, a questo punto, mi sento di invitarvi tutti, senza distinzione alcuna e senza paura di passare per un becchino, a visitare lo splendido e minuscolo cimitero di Civita Superiore (Boiano), specialmente d’inverno quando tutto è coperto dalla neve. Mi sono venute in mente un sacco di metafore agronomiche, come quella classica: che il seme coperto dalla neve germoglierà con più vigore. Allora, in una visione, ho visto di fronte a me i fantasmi delle persone morte. Nella mia immaginazione questi fluidi uscivano dalle tombe e davano corpo agli alberi, sostenevano i faggi di tutta la valle molisa33

na. Innervavano i ruscelli e i versanti. Sì, perché ho capito (durante la mia visione) che non erano i ghiacciai e il vento a modellare le montagne, non c’entrava niente il lento processo di esarazione, ma, al contrario, mi sono convinto che erano proprio questi fantasmi a disegnare il profilo delle valli. Insomma, corpi di contadini e pastori, emigrati e montanari che, tornati alla terra dopo averla lavorata e attraversata per tutta la vita, sono stati dalla stessa ringraziati e aiutati nel trapasso. E dopo la terra, sotto diversa forma, gli ha ridato vita. Qui, davanti a questo cimitero, alla soglia dei quarant’anni, mi passa completamente la paura della morte e mi viene voglia di viaggiare.

4.

I vecchi e i giovani

Problema serio. I vecchi e i giovani in Molise, dico. Anche perché la popolazione di mezzo sembra non esista. È apparenza. Dovuta al fatto che se andate in un piccolo paese molisano, in piazza, ai tavolini del bar troverete i vecchi e i giovani. Spesso insieme, che magari si fanno la passatella. Che è un gioco con le carte, chi vince prende una birra. Un’avvertenza: i vecchi, anche se vi sembrano un po’ fuori di testa, sono ottimi giocatori di carte e non solo briscola o tressette, ma anche poker. Non ci provate a sfidarli. Fatto sta che se la sera andate davanti a un bar (ma la «serata» comincia alle tre di pomeriggio) potete vedere i vecchi che si fanno la passatella, qualche volta con i giovani. Fumo e birra. Adesso, dopo il divieto di fumo, troverete locali con meno fumo e la stessa quantità di birra. In Molise si beve. In classifica, la regione è al primo posto per consumo di alcolici. Ci credo, dissi una volta a un ristoratore, con tutte le passatelle che vi fate la sera al bar. Ma il ristoratore quasi mi assalì. Perché sosteneva che la cultura contadina ha sempre fatto del bere (il buon vino, dicono loro) un momento fondante. Conviviale. 35

– Ora, adesso, che vogliamo fare, togliere ai contadini pure il gusto del bere? Qui gli hanno già tolto tutto. La terra non ce l’hanno più; in gran parte il territorio non solo si è spopolato durante gli anni dell’emigrazione, ma è stato pure abbandonato. Sì, perché la terra non si coltiva più, nessun giovane ha voglia di riprendere la professione del padre o del nonno. Dunque vivacchiano, tanto ci sono le pensioni dei nonni e le rimesse di qualche parente emigrato. Tanto ci sono le poste. Ma i vecchi contadini, diceva il ristoratore, non me li dovete toccare. – Ma chi ve li tocca? – rispondevo io. – Vi ho pregato, non mi toccate i contadini. La tradizione è la tradizione, quando mai il vino ha fatto male ai contadini? – E allora – dicevo io – qual è il problema? – I giovani – rispondeva il ristoratore – il modo in cui bevono, solitari, tristi. Bevono superalcolici da soli, nelle piazze di questi nostri paesi, lungo le strade ondulate, nelle case di campagna. Per questo le statistiche sul consumo degli alcolici ci vedono al primo posto. Colpa dei giovani, sono immobili, peggio dei vecchi, non vogliono far niente, pure sognare gli costa. E se a un giovane gli togli la voglia di sognare, lo hai ammazzato. Dunque questa regione non ha speranza. – Che esagerazione – dico io. Vi devo dire la verità: è solo apparenza, a volte potete avere anche voi questa impressione: mancanza di speranza. In36

somma, se andate in qualche paese molisano, faccio per dire Pietracupa, che si chiama così non perché è cupa, ma perché è cava. Cupa, in greco, vuol dire cava. Cioè, il paese è costruito attorno a uno sperone di roccia (bellissimo). Avete presente le tre cime di Lavaredo? Quel tipo di formazione calcarea? Bene, immaginate non tre cime ma una sola, e in piccolo, ed ecco Pietracupa. Sotto questo sperone, c’è una cripta romana: cava, appunto. In questo paese ci sono 255 persone, di cui la maggior parte anziani. Se andate in questo paese, dicevo, e chiedete ai giovani quali sono i loro sogni, vi diranno che vogliono andarsene da qui. Però, quasi tutti, mentre faranno questa dichiarazione, volteranno le spalle all’orizzonte (che qui è bello, verde e arioso) e guarderanno in direzione del bar, della piazza, della posta. È come se non riuscissero davvero a immaginare una fuga, come se la nostalgia li bloccasse preventivamente. Non hanno davvero la forza per lasciarsi trainare dal panorama, la piazza li blocca. La tensione li fa bere. Ma forse, vi dicevo, è solo apparenza. In realtà, molti giovani sono così ossessionati dal proprio paese e così desiderosi di dargli un aspetto diverso che lottano come dei folli, visionari romantici, soli contro tutti. Le loro speranze partono dal bar, dalla piazza, e vanno verso l’orizzonte. Vogliono portare il nome del proprio paese fuori dai confini. In questo caso agisce la forza contraria al teorema forno di Guardiaregia. Agisce, ma non è detto che vinca. 37

Per capire questo processo, dovete andare, per esempio, a Ferrazzano, appena cinque chilometri da Campobasso. È un paese molto bello, quasi disabitato, con un castello piccolo ma compatto. Tutte le case sono costruite con pietre bianche, levigate oppure grezze. Alla luce della luna, Ferrazzano brilla come dotato di luce propria e sembra sollevato da terra. C’è, poi, una favolosa piazza che dà su una vallata e fa, a volte, lo stesso effetto di piazza Unità a Trieste. Quest’ultima dà sul mare, quella di Ferrazzano, invece, in alcune serate particolari, su un mare di nebbia. Nel paese ci sono ancora un bazar e un negozio di ortofrutta. In piazza un ristorante che va per la maggiore: Emilio, con molti stemmi e attestati del Gambero Rosso e affini. Nel quale io mi sono trovato male, ma lasciamo stare: come vi ho detto, non è per cattiveria, ho problemi con le guide. Il paese è bello, ma è obbligatorio percorrerlo a piedi. Dovete lasciare la macchina. Non fate come me che un giorno per spirito di avventura, visto che il paese era disabitato, ho deciso di percorrere i vicoletti in macchina. Eravamo io e una mia fidanzata. È stato il momento più difficile della mia vita. Con una grande macchina intrappolato tra i vicoli, senza sapere se era il caso di andare avanti o provare a tornare indietro (ma man mano che andavamo avanti non potevamo più tornare indietro), con gli spigoli delle case come lame di rasoio. Però ce la feci. Con grande sangue freddo e abilità, senza sbattere né graffiare minimamente le portiere, condussi la macchina in una strada più grande. La mia fidanzata mi disse: 38

– Certo che guidi benissimo. E c’era nei suoi occhi l’orgoglio e anche qualcosa in più. Un sentimento di sicurezza. Io, per analogia, l’avrei condotta tra gli stretti vicoli della vita senza toccare mai gli spigoli, senza cioè sentire quelle dolorose, lancinanti fitte che si provano ogni volta che una parte qualsiasi del nostro corpo sbatte contro qualcosa di acuminato. Eravamo giovani e forti, io un comandante fiero e lei un secondo pilota, orgogliosa di curare la mia fierezza. Dopo, posteggiammo la macchina e camminammo separati, tanto la prova ci aveva uniti, non serviva andare mano nella mano. Dopo nemmeno due mesi la mia fidanzata ha cominciato a dirmi: – Certo che non guidi più come una volta, fammi guidare! Ma torniamo a Ferrazzano. Voi non lo sapete, ma Robert De Niro è originario di qui. Non lui, i bisnonni. Per questo un giorno sono andato a Ferrazzano, insomma è stato così che l’ho scoperto. Sapevo che in questo paese di 200 anime c’era una certa Maria Assunta Barranello che aveva organizzato un comitato per il ritorno con tutti gli onori di Bob. Mi sono detto: mo’ a questa dove la trovo? Mi hanno suggerito: – Chiedi in piazza. Nemmeno a farlo apposta, ho chiesto al primo che ho incontrato e subito mi ha portato da Maria Assunta (solo un grado di separazione, un’altra eccezione alla nota teoria). Maria Assunta Barranello è un’avvocatessa. Stava lavoran39

do, ma ha lasciato tutto e come prima cosa mi ha fatto vedere il video di De Niro. Il filmato dura un minuto e trentasei secondi. Bob manda i saluti in italiano, ringrazia e promette che prima o poi si farà vedere a Ferrazzano. La cosa divertente è stata che Maria Assunta ha inserito la cassetta non proprio dall’inizio, così ci siamo persi la parte iniziale, quella più importante, fondamentale, dove De Niro dice: «Al mio Ferrazzano e a tutti i ferrazzanesi...». Dunque la madre di Maria Assunta, una signora che fino a quel momento aveva mantenuto la posa della tipica vecchietta di paese, è intervenuta con insistenza, dicendo alla figlia: «Manca la parte iniziale, quella dove Lui dice: ‘Al mio Ferrazzano’». Successivamente avrei scoperto che la signora Barranello è colta e pure battagliera. Siccome conosce bene l’architettura di Ferrazzano, e un paio di volte mi ha messo in imbarazzo, perché parlava con competenza dello stile romanico, è convinta che alcuni amministratori, «che non hanno nemmeno la terza elementare», stiano rovinando tutte le bellezze archeologiche del Molise: – O fanno restauri che ci vorrebbero gli schiaffi, o lasciano in stato di totale abbandono chiese e castelli. Però mi aveva molto colpito quella dichiarazione: «Manca ‘Al mio Ferrazzano’». Non c’è niente da fare, i molisani sono così orgogliosi dei loro paesi, ma così orgogliosi, che spesso finiscono per disprezzare i paesi degli altri. Siamo sempre lì: l’aria di Pietracupa. Ora, questo orgoglio delle proprie radici è la tenera ca40

ratteristica e insieme il guaio del Molise. È come se la minuzia ottundesse ogni pensiero collettivo. Perché in fin dei conti se tutti sono convinti che il proprio paese è il migliore di tutti, bene, allora perché impegnarsi per fare qualcosa di nuovo? E qui torniamo alla questione forno di Guardiaregia, o se vogliamo: la moka per uno di Troisi. Chi tenta di smuovere lo status quo è considerato uno che perde tempo. È la stessa impasse nella quale si è trovata Maria Assunta. Sì, perché dovete sapere che a Ferrazzano, se andate nel bazar a comprare qualcosa, noterete che si chiamano tutti zio e zia. Io ho pure chiesto se fossero tutti parenti, e mi hanno guardato come se fossi un cretino: – No, è una simpatica usanza, insomma un modo per ribadire l’idea della comunità. Si chiamano tutti zio e zia, però la Barranello per organizzare questo festival un po’ se l’è vista brutta. Per spiegare meglio la storia, un passo indietro. Tutto è cominciato qualche tempo fa, d’estate. La Barranello e altri avevano qualche sospetto sull’origine dei De Niro, ma prove niente, fin quando un uomo dall’accento italoamericano si è fermato nel bazar di Ferrazzano. Ha detto qualche parola come «sausicchio», «mulignana», eccetera, e si è capito che era un ferrazzanese emigrato tempo addietro. Ma non era tutto. L’uomo si chiamava Jack De Niro. – Che sarebbe il padre – ho detto io. – No – ha risposto la Barranello – è lo zio di Bob. A questo punto, siccome cominciavo a confondermi, la 41

Barranello mi ha descritto tutto l’albero genealogico dei De Niro. Si parte ai primi del Novecento quando due ferrazzanesi, Giovanni De Niro e Angelina Mercuzio, lasciano, uno all’insaputa dell’altra, il paese e si ritrovano con grande, reciproca sorpresa in America. Si sposano e danno vita a Enrico Martino De Niro, il quale genera tre figli: Jack De Niro, Joan De Niro e Robert De Niro senior. Quest’ultimo sposa un’irlandese, Ellen O’Ryan, e mettono al mondo il nostro Bob. Ora, grazie all’amicizia con lo zio si può pensare di contattare Bob. E non è tutto. Casualità vuole che un giorno arrivi a Ferrazzano anche il master taylor di Hollywood, Domenico Gheraci, anche lui, incredibile a dirsi, di origine ferrazzanese, il quale è il sarto ufficiale di Bob. Sì, perché i due, incredibile a dirsi, si sono incontrati sul set e hanno scoperto di avere comuni origini ferrazzanesi. Dunque, incredibile a dirsi, sono diventati amicissimi. Domenico Gheraci è il secondo tramite per arrivare a Bob. La Barranello a questo punto comincia pure a cercare le prove cartacee della presenza di Giovanni De Niro a Ferrazzano, e riesce a trovarle in parrocchia. Adesso, prove alla mano, si può partire con il festival: una settimana di proiezioni dei migliori film dell’attore. – Un modo per dare dignità culturale a un paese che amiamo e che ci fa soffrire – dice sempre la Barranello, in qualunque intervista conceda. Ma l’organizzazione è difficile. All’inizio non si trovano i soldi. Qualche assessore locale comincia pure a fare storie. Insomma, nessuno ci crede, e la comunità degli zii e delle zie 42

comincia a pensare che gli organizzatori hanno strane idee in testa. Ma questi, testardi, riescono a partire e organizzano la prima edizione: un discreto successo. Dunque, si appellano a una legge regionale per un finanziamento, ma la disciplina, che questa legge promuove, recita: «Si possono avere finanziamenti solo se il bilancio del festival è in passivo». Loro avevano chiuso in attivo. Siccome non è il caso di falsificare il bilancio, si è continuato a fare il festival con i pochi euro che si riescono a racimolare e, anno dopo anno, si arriva alla quinta edizione. Alla quale, nella serata inaugurale, ho assistito anche io. Presentavo il film Re per una notte. Una parentesi. La sera prima c’era con me Filippo La Porta (il critico). Aveva davanti a sé un pubblico di 300 persone. Nemmeno al festival di Mantova. Filippo era così contento che in un orecchio mi ha detto: – Lo vedi che serve la militanza critica, alla fine la gente legge riviste come «Linea d’ombra» o «Lo Straniero». No, non le leggono. Avevano scambiato Filippo La Porta per Gabriele La Porta. La televisione! Altro che riviste militanti. Ma, tornando a noi, anche la sera di Toro scatenato c’erano molta gente e autorità. Però alla fine della proiezione ho sentito la moglie di un politico lamentarsi per le scene osé. Ha detto: – Si è buttato un milione per questa cosa qui. Il fatto è che in Molise i soldi per la cultura vengono in gran parte impiegati per allestire le sagre. D’estate, soprat43

tutto: tartufo, fungo, salsiccia, fagioli, melanzana e frittata. D’estate, perché solo allora la regione sembra ripopolarsi; tornano tutti gli emigrati, dunque i paesi si accendono di luminarie e suonano le bande musicali, c’è aria di festa. Ma è una festa malinconica: quella malinconia che dà l’eccesso. Eccesso di segni. Gli emigrati li riconosci subito: oro pesante al collo o al braccio e discorsi su Mussolini. Dal Molise, nell’arco di cento anni, se ne sono andate un milione di persone. Come dicevo, ci sono comunità molisane dappertutto. A Roma, per esempio, la maggior parte dei tassisti è di origine molisana. In particolare vengono da Salcito (quel paese in cui, secondo il vecchietto di Pietracupa, l’aria non è così buona). Andarci in estate significa vedere un paese pieno di taxi. Per fortuna ci sono le poste che accolgono le rimesse degli emigrati e poi le pensioni dei nonni, risparmi che costituiscono una buona parte del reddito dei molisani. Solo che questa immensa quantità di denari non è servita a riorganizzare al meglio la regione, è servita solo a rifarsi la casa. Per questo Campobasso è piena di ferramenta. Per essere precisi, oreficerie e ferramenta. L’oro è il simbolo di unione con gli emigrati. A loro volta, le ditte edili sono tantissime e sono impegnate a rifare le vecchie case. C’è però, per la verità, un altro uso del ferro: le ringhiere dei balconi. Soprattutto a Campobasso, queste ringhiere sono molto particolari. Se, come me, non siete viaggiatori da trolley e dunque non guardate avanti perché vi importa poco raggiungere il traguardo, allora alzate gli occhi verso i balconi di Campobasso. Sono 44

uno diverso dall’altro. Le ringhiere si flettono, si arrotolano su se stesse, si intrecciano. Una vera arte della ringhiera. Ma, tornando a noi, a volte queste case molisane ospitano bellissime e antiche biblioteche, un patrimonio inestimabile di libri. Ebbene, siccome le librerie spesso ingombrano, allora si svendono i libri. Un patrimonio che se ne va per sempre. Del resto il Molise è la regione dove si vendono meno libri e giornali. Dove ci sono solo due vere librerie. Due librerie in tutta la regione. Me lo spiegava Michele Paparella, ex proprietario di una di queste librerie, che dopo vent’anni di tentativi per portare i libri in mezzo ai molisani ha ceduto. La libreria è passata al nipote, che ha ristrutturato, ha dato più spazio alla cancelleria e acquistato un sacco di testi in uso agli avvocati. Siccome Campobasso è piena di avvocati, almeno la rendita mensile è garantita. C'è il direttore della biblioteca che non ci può pensare, ogni volta che mi incontra mi dice: – Il Molise non era così, nell’Ottocento tutti questi paesi erano attivi e sani. C’erano addirittura paesi che avevano due giornali. C’erano molte biblioteche e un pubblico che ad esse attingeva. Poi, durante il ventennio fascista tutto è cambiato. L’emigrazione ha fatto il resto. Per questo Maria Assunta Barranello si è fissata con Bob De Niro, per uscire da questo vecchiume, senza cacciare via i vecchi ricordi, ovviamente. Eppure la maledizione del forno di Guardiaregia continua a imperversare. Più di tanto non si può andare, diventi un corpo estraneo, bizzarro. 45

Se volete un altro esempio di bizzarria imprenditoriale, di segno opposto ma speculare al forno, allora dovete proprio andare a Pietracupa. Che, come vi dicevo, non vuol dire cupa, inteso come aggettivo. Anche se, vi devo dire la verità, in certe giornate, quando i cumulonembi si arricciano sopra lo sperone di roccia, oppure quando il maestrale porta le perturbazioni del Nord, be’, in quei giorni «cupa» diventa l’aggettivo adatto. Però, come mi dicevano i pietracupesi, anche questo ha il suo fascino: l’idea di poter guardare le sfumature della natura. Le sfumature del bianco e del grigio. Non è cosa da poco. Questo vale soprattutto per me che oggi, alle soglie dei quarant’anni, percepisco molto le sfumature. Fatto sta che a Pietracupa, paese di 252 persone, di cui 150 anziani, c’è un albergo, il President Hotel, che ha 250 stanze. Praticamente, può ospitare più persone di tutto il paese. Un albergo moderno, dice l’ingegnere: come si possono trovare a Londra o New York (però esagera), con i badge magnetici, sale convegni, discoteca incorporata, belle stanze e buona colazione. L’ingegnere di professione fa l’imprenditore ed è convinto, a ragione, che il Molise sia bellissimo. Mi ha fatto pure l’elenco delle bellezze molisane: – Abbiamo Sepino, un sito archeologico che fa impallidire Pompei ed Ercolano, tanto bello quanto sconosciuto, tanto da non essere riportato nemmeno nelle guide del Touring. Pietrabbondante, con l’anfiteatro sannita con i caratteristici sedili ergonomici, da cui si deduce che l’ergonomia l’hanno inventata i Sanniti. Frosolone, con l’artigianato dei coltelli, esportati in tutto il mondo. Agnone, con le fonderie 46

per la fabbricazione delle campane, uniche fonderie a possedere il brevetto. E poi sparsi qua e là ritrovamenti archeologici, alcuni dei quali rivoluzionerebbero gli studi sul Medioevo, eccetera, eccetera. Il nostro ingegnere è uno di quelli che dice sempre «eccetera, eccetera». Sono così tante le cose belle che non può elencarle tutte. E siccome è convinto che nessuno lo sa, nemmeno i propri concittadini, si è fatto fare delle cartoline pubblicitarie double-face. Un piccolo capolavoro narrativo. Sul davanti c’era l’immagine di un pascolo con su scritto: «Pascoli scozzesi? NO!». La giravi e c’era la stessa foto con la risposta giusta: «Pascoli molisani». Effettivamente alcuni pascoli molisani sono uno spettacolo. La leggera ondulazione delle colline già placa lo sguardo, quando poi la terra è seminata a grano o a segale, oppure a prato misto, medica più loietto, quando le mandrie di cavalli selvaggi galoppano con ritmo e ardore, quando bellissime mucche brune alpine e frisone bastarde, con la pelle luccicante, in buona salute per via dell’aria fresca e della ginnastica fra le rocce, con delle mammelle piene di latte, quando queste vacche, dicevo, vi passano accanto alla macchina, indifferenti a tutto, pure alla storia, dimentiche di tutto, anche di loro stesse, un cinico come me diventa sentimentale. Oppure, altra cartolina double-face dell’imprenditore: piste da sci con la scritta «Courmayeur? NO!». La giravi e c’era scritto: «Capracotta». Ma non basta; oltre al fatto che il Molise è bello, c’è da aggiungere il fatto non secondario che qui si vive benissimo. 47

– Qua c’è ancora il senso della comunità. Gli anziani sono accuditi e rispettati, mica come a Roma – e mi guardava storto – che se muore un vecchio in un appartamento lo ritrovano dopo un mese. I vecchi e i giovani, quindi. I giovani che bevono e non hanno sogni e i vecchi che, sì, invecchiano bene, ma rinnovano anno dopo anno questa aria malinconica. I giovani che si dice accudiscano i vecchi li rispettano soprattutto perché hanno bisogno di loro, delle loro pensioni, dei risparmi accumulati nei libretti postali, dei legami di parentela che hanno con fratelli o cugini emigrati i quali dunque fanno arrivare metodicamente le rimesse. Però il nostro imprenditore apparteneva a quella formazione di neoromantici molisani che cercano e compiono gesti (imprenditoriali) che rompono il modello «forno di Guardiaregia». Un po’ come Maria Assunta Barranello con la sua fissazione per Bob De Niro e «Al mio Ferrazzano e a tutti i ferrazzanesi». Un po’ come tanti altri molisani, sono quel genere di persone che sognano di continuo che non solo il loro paese cresca, ma che, attraverso quest’esempio di crescita, tutto il Molise avanzi verso nuovi orizzonti. Per questo lui ha creato il President Hotel di Pietracupa, 250 stanze in un paese che ha 252 abitanti, di cui 150 anziani eccetera, eccetera. Vuole dare il buon esempio a tutti, eccedere anche lui nei segni, sperare nell’eco, contaminare con il suo modello tutti gli altri paesi. Non c’è altra scelta, altrimenti resta solo il forno di Guardiaregia. A un certo punto, mentre parlavamo 48

di sogni, lui, per dimostrarmi di essere sì un romantico ma con venature illuministe, mi ha detto: – Lo sa quanti miliardi di vecchie lire perde il Molise ogni anno? Vi devo dire la verità, non è per cattiveria, ma questa questione delle vecchie lire mi dà parecchio fastidio. Rientra nella tradizione italiana di non credere per niente ai cambiamenti, o meglio di non saperli valutare. Non possiamo lamentarci della Lega e delle proposte di rimettere in circolazione la lira, se poi chiunque traduce gli euro in vecchie lire, appunto. Così ho rifatto la domanda all’imprenditore: – Mi dica, quanti euro si perdono? – Si perdono 750 miliardi di vecchie lire. Ho capito che era inutile insistere sugli euro, la mia era appunto una fissazione solitaria. Così ho ascoltato il rumore della calcolatrice. Il nostro imprenditore, essendo un romantico sui generis, si affidava parecchio ai numeri (illuministici). Ha cominciato dunque a battere sui tasti, come un vecchio ragioniere ministeriale, di quelli che si applicano di continuo ai conti, in questo caso solo con un paio di esitazioni, dovute però al fatto che una dipendente dell’albergo entrava nella stanza per chiedergli dei consigli. Tutti gli alberghi, mi diceva, mantengono la ricettività al 20 per cento, dati alla mano. Sia nei paesi, sia a Termoli (luogo di mare) la ricettività è bassa. Questo significava, in soldoni, 250 miliardi di vecchie lire. A questo andava aggiunto tutto il mancato indotto, cioè ristoranti, trasporti, cinema, eccetera, eccetera. Insomma, adesso non ricordo i singoli 49

passaggi, ma è veramente uscito (dalla calcolatrice) questo numero: 750 miliardi di vecchie lire. Non è per cattiveria, ma è la verità. Le strutture alberghiere sono un po’ alla buona. Quelle che ci sono, poche, sembrano, per come sono fatte, avulse dal contesto. Meglio andare negli agriturismi. Ma solo se vi piace la campagna, solo se vi piace svegliarvi al canto del gallo alle sei di mattina. Se vi piace fare colazione all’aperto con biscotti fatti in casa e la marmellata ancora calda. E poi, il nostro imprenditore ha continuato, non ci sono strade, bisogna costruire le grandi opere. Alle parole «grandi opere», all’immagine dell’imprenditore, si è sovrapposta quella di Berlusconi. Però, chissà, dapprima ho pensato, non è detto che non abbia ragione: il nostro imprenditore, dico, non Berlusconi. Forse i numeri gli danno ragione (sempre all’imprenditore), il Molise non cresce, perde 750 miliardi di vecchie lire all’anno, qualcosa bisogna pur fare. Per un po’, uscendo dal President Hotel di Pietracupa, mi sono guardato intorno: effettivamente, quattro persone al bar che chiedono la birra, due persone al bazar che non comprano niente perché sono troppo impegnate a chiacchierare con lo zio e la zia. Eppure dopo, tornando a casa, sui monti del Matese, il mio egoismo si è fatto sentire. L’idea di condividere il Molise con tutte quelle persone capaci di azzerare il deficit negativo, quell’idea non mi convinceva. Come in un delirio futurista, alla Fritz Lang, ho visto davanti a me, davanti a quella strada vuota e tranquilla che percorrevo lentamente, 50

migliaia di persone in auto che sfruttavano le grandi opere autostradali e andavano su e giù per i paesi molisani. Paesi adesso così tranquilli e in fondo ben curati, con tutti quei vasi di gerani ai balconi, intonatissimi con il cielo e con il panorama. Migliaia di persone all’anno che percorrono quei vicoli sempre così (felicemente) fuori squadro, che guardano le ringhiere di Campobasso, o i portici di pietra di Agnone, o si siedono con i panini in mano e la birra sui gradoni dell’anfiteatro sannita di Pietrabbondante. Persone che percorrono paesi dove le comodissime sedie impagliate hanno l’orma del culone delle nonne, e dimostrano così, quelle sedie, in una sola battuta, che l’ergonomia è strettamente legata all’uso e alla funzione, non certo alla bellezza del design. Dimostrazione tanto fondamentale quanto ignorata. Vedere tutta questa calma trasformata in frenesia è una cosa insopportabile. Immagino già viaggiatori professionisti che con i loro trolley entrano ed escono dal President Hotel di Pietracupa, azzerando, sì, il deficit, ma impedendomi di continuare a viaggiare in Molise. Cioè, meglio, a non viaggiare affatto in Molise, perché sono troppo perso nelle sue strade ondulate, nelle pause fatte davanti al bar, ad occhi chiusi, con il vento che soffia leggero e mi scompiglia solo un po’ i capelli. O magari a Boiano, sempre al bar, ma nelle sere d’estate, seduto ai tavolini sull’orlo di una piazza rettangolare circondata da platani, non solo comodamente seduto ma mezzo incantato a guardare la banda musicale che suona vecchi motivi del melodramma italiano per la gioia degli emigrati 51

che sono tornati qui ad agosto, dalle Americhe, Australia, Nuova Zelanda, Svizzera, Belgio, Papuasia e da varie parti d’Italia. Guardare tutto questo movimento adagio, illuminato dalle luminarie accese con il giusto tono di luce, dimentico delle mie molte ossessioni, delle caterve di idiosincrasie, della paura di superare i quarant’anni, pensare insomma che la vita è bella, non sempre si intende, ma solo e proprio in questi momenti accidentali, quando tutto fa rima con tutto, e l’oro grezzo al collo di un emigrato non stona con il completo fresco lana di un vecchio pastore vestito a festa, né i rubicondi visi dei paesani si differenziano troppo dal mio biancore esangue, insomma un olismo fatto in casa, con semplicità, senza supporto teorico della new age. Così, quando penso a tutte queste cose, non vedo la necessità di ripianare questo deficit di 750 miliardi di vecchie lire, unità di misura che tra l’altro non esiste più. Comincio a temere per il Molise, a vedere i suoi 136 paesi diventare come Gradara, il tipico borgo medievale, così tipico che se lo sostituisci con un modello di cartapesta ottieni lo stesso effetto sui tuoi sensi. Mi sono detto, tornando a casa, sui monti del Matese (1449 metri s.l.m.), passando in mezzo a greggi di pecore (sempre attento a capire se c’era la troupe di Linea verde): ma forse il modello «forno di Guardiaregia» non è male, in fondo basta diventare uno che sta in piazza per essere servito bene, uno zio o una zia che non fa niente e che le Marie Assunte Barranello non gradiscono. E nemmeno a farlo ap52

posta, passando vicino all’ormai famoso forno di Guardiaregia, l’ho trovato aperto. Hai visto, mi sono detto, hai visto che ci vuole solo un po’ di pazienza per godersi il buon pane fatto in casa? Così ho telefonato a mia moglie tutto contento, dicendole: – Ti porto il pane di Guardiaregia, e pure le pizze e pure le torte, faccio rifornimento. – Non ci credo! – Ti dico che è aperto. – Prendine un quintale. – Di che, di pane? – Di tutto. E sono entrato nel forno. Faceva freddo. Un forno dove fa freddo non l’ho mai visto. C’erano due signore sedute sulle sedie impagliate dei contadini. Capito quali? Quelle che lasciano l’orma, dimostrando appunto che l’ergonomia eccetera, eccetera. Parlavano fra di loro. – Buongiorno! – Buongiorno. Va bene, i convenevoli sono stati esauditi, ma adesso, pensavo nella mia mente (ma sotto sotto, diciamo che era un pensiero latente, in nuce), adesso volete alzare il culo da queste comodissime sedie ergonomiche che dimostrano eccetera, eccetera, e chiedermi se per caso desidero qualcosa? – Buongiorno. – Buongiorno, ma un po’ di pane ce l’avete? – No! – No? 53

– Non è per cattiveria, ma l’abbiamo finito stamattina. Devo fare un inciso: i molisani sono molto gentili, d’animo. Dicono spesso questa frase qui: «Non è per cattiveria». Non vogliono davvero farvi indispettire. La loro è un’affermazione quasi stoica, questo è quello che abbiamo, non vi prendete collera, ma più di questo non possiamo servirvi. In genere prendo bene questa affermazione, soprattutto perché accompagnata da uno sguardo buono e gentile, un sorriso affabile. Se dovessi usare un’immagine animale, cioè arcaica, sarebbe quella del cane che mostra il collo o la pancia: «non ho intenzione di farvi male». Prendo bene questo genere di affermazione, ma vi devo confessare che quella volta, nel forno di Guardiaregia, avevo questo pensiero in nuce, che faticava a uscire: e che state facendo adesso, per quale assurdo motivo non accendete questo forno e fate un altro po’ di pane? Altrimenti diamo ragione all’imprenditore del President Hotel di Pietracupa, 250 stanze in un paese con 252 persone di cui 150 anziani. Diamo ragione a lui e al suo progetto delle grandi opere. Insomma, una terza via ci deve pur essere. Ma invece ho detto: – Ma a che ora bisogna venire per il pane? – Presto, la mattina presto, poi chiudiamo. Non è per cattiveria, mi hanno detto, ma abbiamo la nostra clientela. – Voi, per esempio, da dove venite? – Da Bocca della Selva, a sedici chilometri da Guardiaregia. 54

– Ah! E di chi siete figlio? Ho dovuto ricostruire tutto l’albero genealogico e finalmente hanno capito chi è mio padre, anche perché molte volte, anche lui, come me, se ne sta in piazza a fare chiacchiere. Solo dopo questo riconoscimento mi hanno dato il numero di cellulare del fornaio, così se avevo bisogno chiamavo un po’ prima e mi mettevo d’accordo. – Ma com’è? – ho detto – Non se ne sta in piazza? – No, lui fa il fornaio, ma poi lavora anche a Campobasso. Sono uscito dal forno pieno di dubbi. Tra il forno di Guardiaregia e le grandi opere proposte dall’imprenditore non sapevo proprio che scegliere. O solitudine, o turisti richiamati a frotte come stormi di uccelli. Ho chiamato un mio amico molisano. – Qua un modo per uscire da quest’impasse ci deve pur essere. – I prodotti tipici. – I prodotti tipici? – È la vera terza via. Per il Molise, dico.

5.

I (benedetti) prodotti tipici

– Ma quali prodotti tipici vai trovando? – mi ha detto un ristoratore a cui avevo chiesto notizie di alcune varietà di mele che si trovano solo qui. Prima, però, vi devo dire, avevo pensato, invece delle mele, a un prodotto tipico particolare: i coltelli di Frosolone. Un paese, questo, non piccolo ma nemmeno grande, dove alcuni artigiani da centinaia di anni creano bellissimi coltelli, esportati in tutto il mondo. Adesso è chiaro, io per i coltelli sono malato. Non ne possiedo nemmeno uno, si intende, mi fanno pure paura. Però mi piace guardarli e questo è il luogo ideale per farlo. Nelle vetrine dei negozi sono esposti coltelli di tutti i tipi, per qualunque uso, di qualunque peso, mannaie, asce, coltelli a serramanico, set da cucina, coltellini e limette per le unghie. Vederli esposti in vetrina mi fa un effetto particolare. Forse lo stesso che mi provoca Google Earth. Lì vedo la terra fotografata e cristallizzata in una bella giornata di sole, qui vedo tutta la violenza atavica del mondo, espressa dai coltelli, messa in vetrina, e forse, così facendo, resa innocua. Se a Frosolone ci andate in agosto, potete vedere anche il pro57

cesso di lavorazione, all’aperto. È qualcosa di arcaico, il rapporto che l’uomo ha con il ferro, perché intorno al fabbro c’è un silenzio che nemmeno i bambini interrompono. Insomma, vedere queste cose qui mi ha fatto pensare che i coltelli, voglio dire, il rapporto con il ferro, potrebbero essere il vero prodotto tipico molisano, la terza via dunque. Ma ho cambiato idea, meglio le mele del ferro, meglio qualcosa, come le mele, che tutti possono afferrare. Allora sono andato dal ristoratore, e come vi dicevo ho chiesto di queste mele. E lui, invece, mi ha risposto: – Ma quale prodotto tipico, quali mele? Qua il vero prodotto tipico è l’emigrazione, il resto sono chiacchiere. Adesso, a conti fatti, questa questione dell’emigrazione è così da tutti sentita soprattutto perché non c’è un molisano, ma dico uno, che non abbia un parente emigrato nel resto del mondo. Un milione di persone, dicono i molisani. E ho detto tutto, aggiungono sempre in chiosa. – Noi siamo stati molto poveri – ha detto sempre il ristoratore. Non c’era niente da fare, delle mele non ne voleva sapere. – Il Veneto, dalla seconda metà dell’Ottocento, ha esportato le donne di servizio. Questo perché loro, le donne veneziane, erano molto brave a riordinare la casa, ma questo cosa vuol dire? – Cosa vuol dire? – (Tenevo sempre in mente la questione delle mele e poi non mi piacciono gli indovinelli.) – Vuol dire che loro sapevano cos’era una casa, per questo hanno fatto le donne di servizio, ma noi eravamo così po58

veri che non sapevamo cos’era la casa, vivevamo nei tuguri, insieme alle pecore. Quali case vai cercando? – Senta, ma la questione delle mele tipiche, forse potrebbero essere una buona possibilità. – Sì, a metà degli anni Sessanta il «Corriere della Sera» uscì con un titolo: Dal Molise con dolore, spiegando appunto che nel giro di soli cento anni se n’erano andate un milione di persone, e ho detto tutto. Non c’era niente da fare, più nominavo le mele tipiche, più mi parlava della tipica emigrazione molisana. Ora, non è per cattiveria, ma credo che adesso questo problema sia irrisolvibile, gli emigrati non torneranno più, dunque bisogna pensare al futuro, alle mele, appunto. Che poi, voglio dire, non sono mica per i prodotti tipici, solo che mi stavo fissando per questa benedetta terza via, alternativa ai due modelli per ora presenti, President Hotel di Pietracupa e forno di Guardiaregia. In fondo, gli emigrati non torneranno più, quello che è stato è stato. – E qui ti sbagli – mi ha detto Michele Paparella, per molti anni unico libraio di Campobasso (c’erano solo le cartolibrerie). – E qui ti sbagli. Dipende da dove vengono gli emigrati. Devi distinguere tra le Americhe e l’Europa, due tipologie differenti. Quelli dell’Europa, faccio per dire, Germania, Svizzera, Belgio, hanno un solo pensiero fisso in testa, lo sai qual è? Volevo dire: le mele tipiche, ma giusto così per provocare. Invece ho risposto: – Non ne ho idea. 59

– Pensaci un po’... Ora, fin da piccolo ho provato schifo e disgusto verso gli indovinelli. La faccia di chi li propone, quell’espressione particolare di chi sa che mai indovinerai perché in fondo in fondo non ci puoi arrivare. Gli indovinelli sono quelle storielle che trasformano immediatamente le vittime in carnefici. Chi ha subìto un indovinello si ricorda della faccia del carnefice e per superare lo scotto vuole a sua volta diventare pure lui il carnefice, magari un po’ più violento, con una faccia ancora più temibile. Siccome io non ci sono arrivato, non ci devi arrivare nemmeno tu. Detto questo, quando alle soglie dei quarant’anni ancora subisco un indovinello, tendo a cercare la soluzione in fretta, per vendetta. Sogno, cioè, di diventare a mia volta carnefice, ma in modo diverso, una terza via, diciamo, che consiste nell’indovinare subito la soluzione, così, per vedere la faccia del carnefice sgonfiarsi, inebetirsi. C’ho pensato e ho detto: – Le ferramenta. – E cioè? Stavo sulla buona strada. – Cioè. La casa, a Campobasso ci sono molte ferramenta perché tanti emigrati hanno un solo pensiero in testa: tornare per morire qui, nei loro paesi di nascita. È bello, a volte, prendersi delle piccole soddisfazioni. Il mio interlocutore non ci poteva credere. In verità, conoscevo già la risposta, perché tante persone in Molise ripetono questa storia della casa rifatta, aggiustata, solo per poter morire in un letto conosciuto, nel letto nel quale hanno visto la 60

luce o dove hanno visto la luce i parenti, insomma il letto delle radici comuni. La ripetono da tanti anni, questa storia, che la conoscevo pure io. Pure io che davanti agli indovinelli crollo, anche quelli più semplici. Le ferramenta, dunque. Tornano gli emigrati europei e, estate dopo estate, il loro pensiero si fa più forte: ristrutturare la vecchia casa di proprietà o il vecchio rudere abbandonato in campagna. Per questo assoldano piccole ditte edili che non costruiscono case nuove ma ristrutturano quelle vecchie. Le ferramenta servono a questo, a fornire materiale di rifinitura. – Altra questione – m’ha detto il mio amico libraio (un po’ spazientito perché avevo indovinato) – sono gli emigrati del Centro America. Per loro l’unico valore è l’oro. Anche perché a tornare, tranne d’estate, non ci pensano. Allora, l’unica cosa che possono fare è rinnovare la memoria. Come? E qui non mi ha dato il tempo di fare l’indovinello... – Con il regalo in oro. L’oro non si corrompe, non perde valore, l’oro è un legame perenne. Capisci? È segno di investimento duraturo. Quindi, o comprano oro nel loro paese per investire, oppure fanno i regali ai nipotini, ai figli. Comunque, il simbolo è questo: rinnovare la memoria dell’emigrazione, dargli un senso, un valore. Ma questo processo simbolico non lascia tracce sulla collettività, almeno secondo alcuni. Sì, per carità, aiuta, sostiene le famiglie, ma non crea altri stimoli, oltre la rifinitura della casa. Diciamo che produce una sorta di strana stagna61

zione. Strana perché non impoverisce economicamente, ma culturalmente sì. A che serve cercare nuovi stimoli quando un parente lontano, in preda alla nostalgia per quello che si è perduto per sempre, ti invia un vitalizio mensile? E soprattutto, la stagnazione è culturale, perché chi è rimasto (in paese) ha investito simbolicamente in questo legame, cercando di lasciare tutto come era una volta, quasi a garantire all’emigrato un buon ritorno. Non so se avete presente la poesia di Esenin, Ritorno al paese natale, quando il poeta, dopo la rivoluzione, torna nel suo paese e non riconosce più niente. Le strade, le case, le chiese, tutto è cambiato. «Che mi importa se oggi nessuno mi riconosce, io ho cantato quando il mio paese era malato, ora accetto tutto, tutto». Vado a memoria, ma questi dovrebbero essere i versi finali. Ecco, qui in Molise, questa poesia non avrebbe senso. Quelli che sono rimasti hanno voluto risparmiare a quelli che un giorno sarebbero tornati la brutta sorpresa del cambiamento, quasi a dirgli: hai visto, non ti sei perso niente, nessuna rivoluzione, nessuna modifica è avvenuta in tua assenza, ora puoi anche morire in pace. La dinamica, indubbiamente, ha una sua dolcezza intrinseca, solo che davvero il limite si passa subito, la dolcezza si trasforma in immobilismo o arroccamento. Stagnazione culturale, appunto. Capisco che per uscire dalla palude viene poi la tentazione di costruire il President Hotel di Pietracupa. O al contrario, galleggiare appena, fare quello che è possibile, ac62

contentare gli zii e le zie, ma non me. Il forno di Guardiaregia, appunto. – La terza via potrebbe essere la cultura. Questo me l’ha detto un assessore. Sì, perché qui d’estate ci sono sagre di tutti i prodotti tipici, tutto in funzione degli emigrati che tornano e vogliono trovare le cose caratteristiche, appunto. E allora bisogna combattere per quanto è possibile per far franare questo modello di sagre paesane. Lentamente, con pazienza, uscire fuori dalla stagnazione culturale. Le iniziative culturali, nella regione, le mette in cartellone, da un po’ di tempo, una professoressa di filologia romanza. Da anni, per molti scrittori Campobasso è un punto di arrivo. Tutti ci vogliono andare, perché le presentazioni sono un successo. La rassegna «Ti presento un libro» di Campobasso è un po’ come il festival estivo di Castelbasso di sopra, in Abruzzo. Dopo un po’ di tempo, ogni scrittore ambisce ad andarci, nel senso che accetta un viaggio in treno non semplice, la totale assenza di gettone di presenza, pur di trovarsi davanti al cospicuo pubblico di Campobasso. E di andare dopo a mangiare in trattoria. La nostra professoressa, che si chiama Brunella, organizza manifestazioni in molti paesi molisani, anche quelli più sperduti. Ci tiene molto a portare una ventata d’aria nuova nei paesi, sempre per uscire (si tratta di una terza via) dalla stagnazione culturale. Ora, generalmente, nei posti più sperduti del Molise ci manda me. E io dico di sì. Poi mi pento, la chiamo, cerco di 63

sondare l’aria, vedo se magari si può rimandare. Ma lei mi sprona, mi responsabilizza sulla mia funzione di scrittore, io cerco di resistere, poi cedo e parto. Arrivo a Campobasso con il treno, lei mi raccoglie alla stazione e andiamo. Su per le strade ondulate del Molise, attraverso splendidi pascoli, soprattutto in primavera inoltrata, lasciandoci ai fianchi formazioni argillose e modesti e gentili blocchi calcarei. E parliamo. Del Molise, delle iniziative culturali, di quelle che funzionano (tante), per esempio il festival jazz di Monteroduni, un piccolo paese vicino Isernia. E di quelle (manifestazioni) che lei vede male, cioè, generalmente, i posti dove vado io. Non per colpa mia, si intende. Perché sono luoghi dove la cultura non entra mai, sono... sono stagnanti, appunto. E andiamo, parliamo e saliamo verso i paesi. A volte, salendo, verso l’alto Molise soprattutto, ci sono dei posti così belli che mi stupisco anche io. Campolattaro, per esempio. È un passo a circa 1000 metri s.l.m. È battuto dal vento in continuazione, per questo ci sono parecchie pale eoliche. Il verde, le colline ondulate, quelle linee sensuali delle montagne ti fanno venire sonno, un sonno placido ma pesante. Mi sono fatto delle bellissime dormite su questo passo, sotto alcuni faggi, con il rumore, lo schiocco, delle pale eoliche. Perché in Molise si dorme benissimo, le membra vanno in letargo, si sbadiglia in continuazione, un po’ tutti i viag64

giatori occasionali che vanno su e giù per le strade molisane sbadigliano e allora, per non vergognarsi di questo penoso ma felice senso di sonno, ci si dice incontrandosi: è l’aria (buona) della montagna. Ma c’è un’altra cosa da dire in merito al sonno e all’aria buona della montagna che lo provoca. Tutto ciò ha qualcosa a che fare con l’amore. Il sonno, per me, significa essenzialmente fare bene l’amore. A vent’anni ero anche io un viaggiatore professionista, allora frequentavo poco il Molise. Ero giovane e curioso e tendevo a essere rapace. I miei viaggi, il modo in cui viaggiavo, il prendere e partire, lasciare, mollare, toccare, vedere e mollare ancora, era molto vicino al mio particolare modo di fare l’amore. Ero giovane e ingenuo e fingevo di saper viaggiare, di conoscere le lingue del mondo. Fingevo di saper fare l’amore. In certi viaggi da professionista, fatti grazie alle guide giuste, gli amici giusti, nei tempi giusti, con i mezzi giusti, a Parigi, a Madrid, a Praga, all’Oktoberfest, ai vari festival del cinema e del teatro, ai concerti o nei campeggi estivi, nelle vacanze culturali e in quelle di studio, tendevo a guardare tutte le cose con la stessa lente: conoscere per possedere e, dopo aver posseduto, mollare gli ormeggi per partire ancora. Ne ricavavo, in alcuni momenti di spleen, un senso di vuoto che mi spaventava. A cosa serviva tanta conoscenza se tutto ruotava attorno al vuoto? Cercavo allora una risposta nell’amore, che pensavo, a quell’età, funzionasse a riempire i vuoti solo a patto di sa65

perlo raccontare. Raccontare l’amore agli amici era come raccontare un viaggio in un posto bello, strano, migliore di quello visto l’anno prima. Tutta la narrazione era su un calco troppo grande per contenere la trama. Eppure non importava, o c’era (nelle storie d’amore) troppo dolore o troppa eccitazione o troppo l’una o l’altra cosa per poter chiaramente misurare l’amore, cioè differenziarlo dagli altri amori avuti in precedenza, dagli altri viaggi compiuti gli anni addietro, e capire allora lo stato del viaggio, a quale pagina del diario di bordo c’era l’orecchietta. Nell’amore come nei viaggi guardavo tutto con la stessa lente: sedurre e poi mollare, mollare solo per sedurre un attimo dopo. Non voglio dire che scopavo con velocità e improvvisazione, semmai tendevo a essere atletico, mi sforzavo di sembrare prestante e cioè a corrispondere agli ardori della mia partner anche se né i miei sentimenti né quelli della mia amica erano coinvolti. C’era, nel sesso specialmente, quel senso di passione che dà il piacere della conquista a raffica, il piacere di rubare a man bassa. Come un bambino sceglievo le caramelle in un emporio e rovistavo senza cogliere le sfumature né dei colori né dei gusti. Il sesso e il viaggio andavano d’accordo, c’era un traguardo da raggiungere al più presto per poi raccontare la vittoria e subito dopo rimettersi ai blocchi di partenza in attesa dello starter. Il risultato era che spesso i gusti si confondevano in un sapore amarognolo, tipico di quello che ha mangiato troppo in fretta e senza il piacere della pausa. Tut66

to fatto per il gusto della professione, che come si sa è essenzialmente il gusto della recita. Finché ho scoperto il sonno del Molise e con questo l’amore. L’amore poi... è un concetto troppo presuntuoso per me, diciamo che ho scoperto meglio il sesso. In certi pomeriggi d’estate, quando in montagna arrivavano, da dietro le cime o le colline verdi, le nuvole, quel particolare tipo di nubi create dal normale scambio di calore con la pianura, io dapprima mi inquietavo. La luce si ritirava dai monti e li lasciava scialbi, esangui; era estate e l’aria all’improvviso cambiava di tono: assomigliava all’autunno. Era come se non fosse passato solo un altro giorno, ma come se fosse passata un’intera stagione. Mi inquietavo perché il tempo scappava e allora tendevo a reagire, scappare, mollare, ripartire, come ai tempi in cui mi sentivo giovane e rapace. Finché un giorno per stanchezza ho mollato, stanchezza di correre verso un luogo stabilito, stanchezza di preoccuparmi del vuoto attorno e dentro di me. Un pomeriggio in Molise, una controra inquieta, durante un temporale senza pioggia e con molti lampi, mi sono addormentato insieme a Carmela, una ragazza che viaggiava con me. Anche lei era, come me, viaggiatrice professionista (avrebbe poi fatto la diplomatica). Lei tendeva, forse più di me, a cercare subito un altro viaggio e un altro racconto d’amore. Ci addormentammo insieme e per la prima volta il torpore del corpo, quel senso di ottundimento che precede il sonno, non mi creava inquietudine. Come non mi creava in67

quietudine il temporale senza pioggia e con molti lampi che guardavo con gli occhi semichiusi dalla finestra. Sognai più volte di cadere (nel sonno), e mentre solo un giorno prima a questa sensazione corrispondeva una mia reazione (da legge fisica) uguale e contraria, cioè aprivo gli occhi e cambiavo posizione, quel pomeriggio mi lasciai andare. Lei fece lo stesso. Quando ci svegliammo facemmo l’amore, anzi facemmo sesso quasi senza farlo. C’era tra noi una voglia di pausa mai provata. L’esplorazione calma, l’abbandono dei rispettivi pensieri su noi stessi, la facilità con cui cambiammo posizione, la facilità con cui non cambiammo posizione, tutte le volte che calai la testa all’indietro, piegando più che potevo il collo, tutte le volte che lei si fermò perché le era tornato il sonno e si addormentò quasi sul più bello mentre io continuavo, tutte le volte che io assunsi, senza preoccuparmene, pose strane, sgrammaticate rispetto a quell’estetica da temporale estivo, tutte le volte in cui lei invece di aprirsi si chiuse a riccio (voleva dormire ancora) e viceversa (ero io che sbadigliavo) e ancora viceversa, quel tipo di calore derivato più dal sonno che dal metabolismo dei corpi in movimento, tutte queste volte divennero matrice elementare, un abicì scoperto accidentalmente in un pomeriggio di sonno non previsto, e mi fecero cambiare idea sul viaggio e sull’amore. E mi portarono soprattutto a pensare che fino ad allora ero stato uno stupido a non cercare nella vita, nel viaggio e nel sesso quello specifico torpore pre e post-sonno. L’amore, da allora in poi, da quel pomeriggio, corrispondeva a una dichiarazione di debolezza. Le lettere 68

d’amore che avrei scritto parlavano non della grande forza del mio amore ma della mia fragilità, la stessa che dà il sonno, la stessa di quel pomeriggio. Da quel preciso momento avrei smesso di innamorarmi di ragazze che come me fuggivano verso un traguardo. A loro avrei preferito quelle che nel cinema calavano la testa sulla mia spalla o che a un tratto, in macchina, mentre parlavamo, s’addormentavano in maniera coatta, rapida, conservando solo la creanza di dire, un attimo dopo aver riaperto gli occhi: – Scusa, mi sono addormentata. Il Molise era la mia zona di piacere, perché staccata dal tipico piacere. Non dovevo indovinare niente e non c’era un premio per la risposta giusta. Chiedevo, sì, qualcosa, ma senza l’ansia della risposta. Uno speciale ossimoro, così vicino al viaggio, al sesso, alla vita. Da allora, dicevo, cambiai idea, smisi di chiedermi se viaggiavo bene, smisi di preoccuparmi dell’amore, non volevo più dare una risposta a questa domanda che mi tormentava da ragazzino: farò bene l’amore, sarò un buon compagno di viaggio, otterrò la giusta soddisfazione, il gioco varrà la candela? Non mi preoccupai più di tanto, intendo, se i percorsi che sceglievo, durante i viaggi o nel sesso, fossero quelli ideali, verso cui assolutamente tendere, con l’aiuto della saggezza delle guide da viaggio o della saggezza in genere. Il minimo che posso chiedere a un viaggio o a una donna è che sia leale con me, cioè di non fornirmi più illusioni di quelle che sia69

no strettamente necessarie al nostro percorso insieme. Di fornirmi, cioè, una misura. La verità è che troppa saggezza esaspera, e forse il compito del saggio non è quello di indicarci il giusto cammino, ma di ricordarci che ogni passo, cioè ogni conoscenza di un luogo ignoto, porta con sé un bagaglio di amarezza e di scontento. E che si può fare un passo avanti anche stando in pausa. Un po’ come avviene in Molise. E quelli che sostengono il contrario esprimono in genere pareri che oramai non voglio neppure stare ad ascoltare. Quindi, riepilogando, dormo così bene che quando ritorno dalle vacanze e incontro i miei amici viaggiatori professionisti che sono andati in un posto più bello, più vivo, migliore di quello dell’anno prima, e mi chiedono, ma solo alla fine del loro eccitante racconto di viaggio, tu cosa hai fatto, io rispondo: niente. E loro notano che questo niente mi ha reso davvero felice, meno nevrotico, meno ansioso di raccontare la mia parte d’avventura, meno partecipe del mondo, dei suoi problemi, dei suoi rituali. Niente, appunto. Ho dormito sotto un faggio a Campolattaro. Oppure, ho bevuto molta acqua. Che qui, dovete sapere, è superlativa. Non importa se sgorga dalla catena dei monti del Matese o da quella delle Mainarde (gli esperti preferiscono l’una o l’altra a seconda di dove sono originari, un po’ la vecchia questione dell’aria di Pietracupa). È un’acqua fredda e vischiosa, che vi farà fare, dopo averla bevuta, lunghi sospiri, vagiti anche un po’ cafoni, come sbadigli inopportuni. Ma vedrete, nessuno se ne avrà a male. 70

– Ho bevuto l’acqua delle Mainarde e pure quella del Matese. Lo so che è un po’ poco e forse facile da raccontare, però gli amici viaggiatori avvertono in quel mio niente un sentimento forte. Sono addirittura un po’ spaventati, soprattutto dal fatto che esista un’alternativa al viaggiare, un’alternativa non teorizzabile in guide, perché intima e pudica, perché non porta a niente, perché non c’è nessun traguardo da raggiungere, ma solo una pausa da trovare. Credo, inoltre, che siano spaventati perché avvertono che forse quel niente riguarda anche il loro viaggiare. Sbattuti da un aereo all’altro, tra fusi orari differenti, punti da strani insetti, vittime di spaventose gastroenteriti solo perché si sono dimenticati di bere esclusivamente acqua minerale, i miei amici viaggiatori si rendono conto che quella loro disciplina di viaggio, così stilizzata e rigorosa, quel loro sistema, ha qualcosa a che fare con la depressione. Come dice Phillip Lopate in un suo saggio Contro la gioia di vivere: che bisogno c’è di un regime di vita così stilizzato se non si è appunto dei depressi? Lo stesso dico io per il viaggio. Ma a volte, quando vedo la faccia turbata dei miei amici viaggiatori professionisti, aggiungo, per non inquietarli oltre, che qualcosa ho fatto anch’io: sono stato con Brunella, la professoressa di filologia romanza, in un paese sperduto a fare una presentazione. – E com’è andata? 71

– Non c’è male! Vi confesso, a volte mento. Nel Molise, il confine che separa noia da opportunità, progresso da impossibilità di progresso, è sottile. Mento. Lo faccio un po’ per dare fastidio ai miei amici viaggiatori professionisti, e un po’ perché a volte è difficile non solo spiegare ma cercare e poi attuare questa benedetta terza via. Saranno i prodotti tipici, sarà la cultura, sarà la memoria o tutte queste cose prese insieme, ma forse, invece della vecchia questione ottimismo versus pessimismo, bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno, bisognerebbe trovare il modo di misurare quello che si vede. Bicchiere mezzo vuoto? No, 55 centilitri. In fondo basterebbe solo chiarirsi sul contesto, cioè l’unità di misura da usare. Anche questo significa far bene l’amore, trovare una misura, dico, sapere, suppergiù e senza troppo esagerare nella conta dei millimetri, quanto ampi sono i nostri passi. Questo perché può succedere che queste terze vie siano deludenti, non valgano lo sforzo. Una volta, per colpa (o merito) di Brunella, sono stato a Santa Croce in Magliano, uno dei due paesi colpiti dal terremoto. Ho fatto una presentazione. Non era una presentazione qualsiasi, era la prima presentazione che si faceva in tutta la storia di questo paese. E ci credo. Nella sala comunale c’erano quadri che rappresentavano paesaggi agresti commentati da famosi poeti locali. La cultura non aveva lasciato quei quadri, Santa Croce in quei quadri aveva deciso di fermarsi. È chiaro, dunque, che se al mio posto ci fosse stato Proust o l’ultimo poeta dialettale, uno di quelli che fa 72

ancora le rime cuore/amore, l’effetto sul pubblico sarebbe stato lo stesso. Scoramento, quella volta mio, appunto. Ma è un genere di sentimento che prima o poi prende tutti quelli che provano le terze vie, siano essi agronomi che dopo lunghi anni passati all’estero hanno deciso di tornare in Molise per portare la propria esperienza, siano sempre agronomi che hanno scoperto vecchie varietà di mele e con santa pazienza anno dopo anno le hanno reinnestate e anno dopo anno le hanno testate e sembra vadano bene, o zootecnici che a dispetto di tutti ricominciano ad allevare gli animali (le bufale, per esempio) e inventano dei formaggi che prima non c’erano. O ancora tecnici forestali che si sono dati da fare per realizzare isole WWF, parchi pubblici, zone verdi, o professoresse di filologia romanza con l’ossessione della cultura. Tutti questi sono stati preda di scoramenti profondi e di volta in volta hanno visto il bicchiere molto vuoto o, per reazione (allo scoramento), assolutamente pieno. Ebbene, in questo complicato intrigo di strade ondulate, in questa dimensione ambigua double-face, dove il progresso porta con sé il disagio del regresso, in questa regione dove il futuro ha un cuore antico, l’unica cosa da fare per muoversi senza scoramenti è cercare questa famosa misura: né mezzo vuoto né mezzo pieno, se fosse possibile dire senza scoramento alcuno: solo 55 centilitri. È anche vero che alle soglie dei quarant’anni sempre più spesso giudico questa misura essenziale, non solo per il Molise, ma soprattutto per la mia vita quotidiana. E forse sarà 73

per questo che questa regione, senza però, appunto, esagerare nella conta dei millimetri, diventa per me quasi una dimensione esistenziale. E poi in Molise si mangia bene.

6.

Non si mangia più come una volta

– Una volta si mangiava bene, c’era uno che praticamente ti apriva la casa, ti faceva entrare nel suo soggiorno e mangiavi tanto e con pochi soldi. E che cosa mangiavi! Tutti i migliori prodotti contadini, quelli veri, non quelli inventati per il grande pubblico. La pasta, per esempio, e soprattutto i piatti poveri della tradizione contadina. Ma adesso dove li mangi più prodotti come i nodi di trippa, per esempio? Non si mangia più come una volta. Ecco, sono quasi trent’anni che ascolto questo giudizio: – Una volta si mangiava bene in Molise. E invece non è vero, si mangia ancora bene e con pochi soldi. Qui trovate molti prodotti stagionali, è inutile cercare prodotti fuori stagione. Perché, in alcuni paesi, il rapporto con il territorio è ancora arcaico, ovvero (questo rapporto) segue il ritmo delle stagioni. Le colture forzate in serra, quelle non sono ancora arrivate. È un bene o un male? Fatto sta che potete trovare ancora i nodi di trippa, per esempio, ma solo dopo la spigolatura. I nodi di trippa sono ricavati dall’intestino dell’agnello lattante che ha mangiato i 75

resti del grano. La spigolatura è un tipico prodotto «da fame». Una cultura degli avanzi, un riciclo intelligente, se vogliamo modernizzare la pratica. I resti, le spighe, appunto, del grano, ottenuti dopo la trebbiatura, vengono fatti mangiare agli agnelli, di modo che il loro ventre risulti molle e digeribile. Si ottiene così un prodotto forte, che se non siete abituati vi spaventerà molto per quel suo senso di antichità del gusto. Ecco, secondo me almeno una volta nella vita bisognerebbe venire in Molise per assaggiare i prodotti di un tempo, soprattutto quelli derivati dal maiale o dall’agnello, elaborati per successive pressature, salature e stagionature. È utile, questo assaggio, proprio per misurare la distanza che passa tra il buon c’era una volta e il mondo d’oggi che spesso non ci piace. Quei sapori avevano proprio a che fare con la povertà, anzi con l’adattamento alla povertà. Non so se sia giusto riproporli intonsi, bisognerebbe lavorarci su, come dire, rileggerli. Ebbene, alcuni ristoratori molisani da anni ci stanno provando. Hanno ricevuto un modello (la cultura povera contadina) e tentano di innestare su questa (presunta) eredità un proprio metodo di lettura. E io li seguo, ogni anno, durante le vacanze estive, oppure quando Brunella mi costringe, responsabilizzandomi, ad andare in giro per i paesi molisani, o ancora quando voglio allontanarmi dal presente, che qualche volta è un ospite sgradito. Vado in Molise per mangiare nei loro ristoranti. Il fatto è che, però, il Molise è pieno di strani ristoratori. Oltre al suddetto, quello delle mele (secondo me un vero intellettuale), ce ne sono altri. 76

Per esempio, ogni volta che mi recavo a Civita Superiore, il centro antico di Boiano, ci andavo per vedere il cimitero. Ogni volta, poi, mi spingevo verso piazza del Belvedere: lì c’era e c’è ancora un ristorante. Di bell’aspetto. Senza insegna. Si capiva che era un ristorante perché da una vetrata si vedevano i tavolini apparecchiati. Per quanto ne sapevo io, poteva anche essere un negozio di arredi. Non c’era mai nessuno. Ora, Civita Superiore è un paese quasi disabitato. Non è un fatto strano, molti paesi lo sono. Il fatto strano è che in un paese disabitato si apra un ristorante. Ma tant’è. Civita ha un’origine medievale. Se parlate con qualche molisano esperto in paesi vi dirà di no, che il paese ha origini più antiche, sannite o romane. Infatti ci sono ancora alcuni resti delle cinte murarie. Ma non ci tengo a essere filologo, soprattutto per quanto riguarda «le origini». Per me è medievale, come lo sono tutti i paesi del Molise. È l’impianto urbanistico a dirmelo. Il Molise ha questo di bello: è originale, cioè, è vero che ha subito restauri che ci vorrebbero gli schiaffi, come diceva la mamma di Maria Assunta Barranello, però per quanto riguarda la forma urbanistica dei paesi state sicuri che non finge. La pianta è quella medievale, non ci sono corsi principali, ma strade fitte e intrecciate, costantemente fuori squadro, magari larghe all’ingresso e poi stranamente strette a metà. Le case si appoggiano l’una sull’altra, per ripararsi dal freddo e per darsi calore. Ci sono pochi punti di potere, il 77

municipio e la chiesa, ma ben inseriti nella trama urbana. Secondo Mumford la pianta medievale era democratica, nel senso più umile del termine, cioè costituiva e fondava una società dove più individui, che svolgevano diverse funzioni sociali, si ritrovavano insieme lungo le strade tortuose, senza darsi fastidio, anzi integrandosi a vicenda. Si sentivano parte di una comunità. Questione di pianta topografica, appunto. In un vicolo stretto il nobile cavaliere era costretto a far passare il carretto del contadino e spesso lo faceva. Tutti contribuivano a narrare la loro storia. In una incisione medievale di un anonimo pittore, si vede raffigurata una processione. Tutti partecipano alla funzione, tutte le categorie, quelle ricche e quelle meno ricche. In fila, svolgono la loro funzione. L’unico che non partecipava era appunto l’incisore che aveva ritratto l’evento. Lo sguardo medievale è uno sguardo avvolgente, caldo. Fu il periodo barocco a rovinare questo sguardo, a dividerlo in due. Colpa del corso principale, che partiva dalla piazza d’armi. Il corso fu inventato per un solo scopo, quello di far passare le parate. Cavalieri, nobili appartenenti all’esercito, nobili nullafacenti cominciarono a sfilare lungo la strada principale per farsi guardare. Lo sguardo adesso non era più avvolgente, ma diviso: da una parte chi sfilava e veniva guardato con invidia, dall’altra quelli che stavano fermi sui marciapiedi e guardavano invidiosi. La comunità si stava separando sempre di più. Non è così in Molise. La pianta topografica, per la maggior parte, parla ancora quel linguaggio. Non per niente, il 78

molisano dà sempre del tu, è ancora medievale, non riconosce il ricco. Fatto sta che in questo paese disabitato, tutto in pietra, accanto alla piazza del Belvedere, dove vi consiglio di sedervi sulla panchina e non fare niente per parecchie ore (altro che meditazione trascendentale), accanto a questa piazza, vi dicevo, c’è questo ristorante senza insegna. O meglio un’insegna c’è, ma piccola: Risorta locanda del Castello. Però, in tanti anni di frequentazione di Civita e di meditazione sopra la panchina, non ho mai avuto il piacere di rifocillarmi, dopo l’anima, i sensi. La Risorta locanda era sempre chiusa. Non risorgeva, nemmeno provava ad annunciare la resurrezione. Certo, è un paese disabitato, chi vuoi che venga fin quassù a studiare la pianta medievale, le case in pietra grezza, la cattedrale di San Bartolomeo con il suo portale gotico. Chi vuoi che venga ad ammirare la strana intonazione di un olivo cresciuto accanto a un muro di pietra. A parte me, dico. Dunque, non ci pensavo più di tanto, finché un sabato mattina, dopo la mia consueta meditazione sulla panchina, faccio un tentativo e... miracolo: è aperto. Entro con circospezione perché non c’era nessuno, tutto vuoto, faccio due passi e mi si para davanti un tizio. – Hai prenotato? – No, perché? – Bisogna prenotare. E praticamente, mentre parliamo mi fa fare due passi indietro, mi sta spingendo fuori. No, mi sta cacciando fuori. – Ma non c’è nessuno. 79

– Per il tipo di cucina che facciamo... bisogna prenotare. Mi ha cacciato fuori. Mi sono preso veramente una questione. Altro che forno di Guardiaregia. Ma dico io, in un paese disabitato, in un ristorante vuoto, arriva un cliente e tu, proprietario, invece di accendere i lumi a qualche santo, mi cacci via perché non ho prenotato? Ma neanche alla Rosetta al Pantheon. Non ci potevo pensare. Stavo come un pazzo. Sono andato via con il sangue amaro, pensando che il Molise se lo merita di non decollare. Sono andato a mangiare a Boiano, alla trattoria da Filomena. Tempo fa, questa trattoria stava in paese ed era una tipica trattoria, ambiente un po’ angusto, tovaglie a quadri e vino in brocca. Poi, la trattoria si è spostata a poche centinaia di metri dal paese e ora l’ambiente è più gradevole, curato e quieto. Il proprietario è gentile e non caccia via nessuno e si mangia un’ottima carne alla brace, soprattutto l’agnello. Lo si mangia così com’è, senza troppe speciali rivisitazioni. Anche i primi piatti sono speciali perché antichi: soprattutto le paste con i legumi. Eppure, nonostante alla fine alla trattoria Filomena avessi mangiato, e bene anche, la notte non ci ho dormito. Pensando al ristoratore di Civita Superiore. Com’è possibile prenotare in un posto dove non va mai nessuno? Il giorno dopo ho preso il cellulare e ho telefonato al ristoratore. – Vorrei prenotare. E ci sono riuscito. Certo, prima ha voluto sapere le mie generalità, i miei gusti, se mangiavo tutto o se ero uno schiz80

zinoso, ha fatto qualche problema per i bambini (ma i miei mangiano tutto) e alla fine mi ha accolto. E comunque, alla Risorta locanda del Castello si mangia ancora bene e non si spende molto. La gestisce Renato Testa, lo chef bizzarro e arcigno, appunto, che ho visto sorridere solo nelle foto. Non in tutte le foto, ma solo in quelle fatte con la troupe di Non ti muovere, in parte girato qui. Più precisamente sorride (ma non tanto) nella foto scattata insieme a Penélope Cruz. Che è molto bassa. Non l’avrei mai saputo se non fossi venuto a mangiare qui. Il Molise è una vera scoperta. Bisogna prenotare perché lo chef non vuole improvvisare e preferisce quel particolare tipo di cliente che non capita lì per caso e magari va di fretta e si accontenta degli spaghetti aglio e olio. Cerca, ed è per questo che non fa pubblicità, un cliente che si abbandoni alla sua arte, che insomma si fidi dell’impegno culinario serio, della specifica rilettura dei classici piatti contadini. Oh, bisogna pur dirlo: lo chef è veramente burbero, perciò se volete mangiare in pace, cercate di non badarci tanto, soprattutto se viene vicino al vostro tavolo con lo sguardo cattivo e magari i bambini si spaventano. Ecco, voi, in quel caso, non date peso alla sua figura. È burbero ma un grande cuoco. E poi c’è la moglie (del burbero) che invece è buona e gentile, e spesso, come accade in molte coppie, fa da elemento di equilibrio. Un’ultima precisazione. Lo chef non ha frequentato nessuna scuola di cucina, non è stato alla bottega di nessun 81

maestro. È un ex architetto con la passione della cucina. Dunque come molte persone passionali è anche un romantico, lotta cioè contro un mondo che non gli piace, si adopera affinché i suoi valori siano riconosciuti. Perché questi sono speciali, non si adeguano a nessuno schema riconosciuto. Se voi credete nel romanticismo come strumento artistico, andate con tranquillità alla Risorta locanda di Civita Superiore e, vedrete, mangerete bene e con pochi soldi. Però, mi raccomando, prenotate. Se invece siete a Campobasso potete, se volete, fare come me: andare a mangiare da Tonino. Solo un’avvertenza: siccome in Molise alcuni ristoratori sono strani (insomma strani: sono, come vi dicevo, dei romantici convinti), se andate da Tonino non dite che avete fretta. Altrimenti non vi fa mangiare. E non dite nemmeno che volete la birra come bevanda, altrimenti vi obbliga ad andare al pub. Aldo Casilli e sua moglie gestiscono da tanti anni questo ristorante. Spesso non molto frequentato, cioè quelli di Campobasso non ci vanno (secondo me per invidia). Si mangia benissimo, è uno dei pochi ristoranti dove riesco a mangiare una cosa semplice, appunto povera, contadina, e nello stesso tempo arricchita di elementi moderni, senza provare un senso di fastidio. I ripieni sono buonissimi. Le salse, quella di fagioli specialmente, hanno sempre il giusto, misurato sapore. Non coprono mai gli altri sapori. Il baccalà è servito farcito a mo’ di involtino. Se poi avete tempo, dopo aver obbligatoriamente preso il dolce (a me non piacciono i dolci, tranne 82

quando vengo a mangiare da Tonino), scambiate due chiacchiere sul Molise. Casilli vi parlerà di immigrazione e va bene, ma con un po’ di (vostra) pazienza vi racconterà anche di cosa è la cultura alimentare contadina. Noterete nella sua spiegazione (anche in quella di sua moglie) un’inquietudine. Casilli si rende conto che non siamo più ai bei tempi di una volta, e meno male. Ma nello stesso tempo considera alcuni elementi del passato ancora, come dire, attivi, capaci di smuovere il nostro immaginario e i nostri sensi. Capaci, cioè, di darci piacere. La sua inquietudine è anche la matrice della sua ricerca culinaria: come innestare? Sì, come da una base (contadina) fare un innesto che regga e che generi un nuovo albero? Non è mica un problema da poco. Anzi, è una domanda estesa, riguarda più settori culturali, forse travalica i confini della regione e diventa un problema italiano. Se, per esempio, considerate oltre alla cultura alimentare contadina anche l’architettura molisana, lo speciale modo di considerare la casa e la generica organizzazione dello spazio urbano, vi rendete conto che non basta dire il verbo «preservare». Potrebbe non significare niente. Preservare i buoni sapori di una volta, preservare le case contadine, preservare la topologia medievale, preservare i tetti delle case, i campi, la pastorizia. Insomma, ho l’impressione che non basti il verbo «preservare», che ci voglia una rilettura. Faccio per dire, se andate in un posto lontano dal Molise, ma per molti versi simile, e cioè le valli del Lanzo, in provincia di Torino, troverete quello che potrebbe essere il fu83

turo del Molise. Cioè, anche lì, nel Lanzo, molti paesi sono stati abbandonati causa emigrazione e adesso sono in parte disabitati, anche lì si cerca di proteggere la cultura locale e si è (spesso fanaticamente) attaccati alle proprie origini montanare, con tutte le conseguenze del caso: isolamento, mancata contaminazione. E d’altra parte ci sono le virtù di una situazione simile: natura incontaminata, silenzio spasmodico, cimiteri piccoli e solitari, coperti dalla neve, così somiglianti a quello di Civita Superiore. Ecco, visitando le valli del Lanzo mi sono preso una fissazione per l’architettura della montagna, modello di costruzione che in fondo potrebbe essere sogno di alcuni architetti, quelli che si definiscono organici. È lei, la montagna, a decidere come costruire. Ed è la stessa montagna a fornire i materiali per la realizzazione di un’opera. Lo fa in funzione del suo territorio, del pericolo, per esempio, di frane e smottamenti. L’edilizia dunque è spontanea (popolare) ma rispettosa del territorio. Basta guardare le case delle valli del Lanzo, così somiglianti a quelle molisane. Alcune sono veramente belle, non sembrano case, ma un’appendice della montagna, un rifugio naturale offerto ai suoi ospiti. Allo stesso modo, in alcuni paesi molisani la casa è funzione della roccia, quasi un’operazione algebrica, una derivata che abbasserà la tensione dei vostri nervi, vi calmerà, e avrete la sensazione elementare di appartenere a tutto. Per esempio, nelle valli del Lanzo tutte le abitazioni sembrano avere un’unica matrice: quella delle balme. In pratica una sporgenza di roccia. In parte interrata oppure appog84

giata ad altre rocce. Questa apertura poteva anche essere coperta con rami o muretti a freddo se l’esposizione era verso nord. Qui si rifugiavano i nostri antenati, pagliericcio di foglie, focolare e il calore del metabolismo degli animali. Adesso, alcune di queste balme sono adibite a deposito di legno e fascine. Però, in questa valle, la matrice primordiale della balma rimane, anche nelle costruzioni più recenti. Solo modificata. Rimane nell’uso della pietra, spesso prelevata dal fiume, nelle travi in legno, nel tetto a due falde, muro a secco oppure tenuto da una leggera cerniera di malta e argilla. Un muro a volte abilmente decorato con formazioni dei conci di pietra a spina di pesce. E poi, grande cura degli angoli. Mai visto angoli così rifiniti e così strategici. Sui quattro angoli della casa appoggiava infatti il tetto, dovevano (quegli angoli) garantire una buona legatura con le travi del tetto. Che erano cinque, quella centrale e le quattro laterali. In castagno o in larice, questo dipendeva dall’altitudine. Ancora, finestre piccole, funzionali solo al passaggio dell’aria ma con grandi cornici in legno, lavorate e impreziosite. Balconi, dove esistevano, con ringhiera in legno, copertura del tetto in roccia di losa. A questo proposito è affascinante la poetica della losa. Vedere cioè come sono sistemate queste pietre. La maestria con la quale si riempivano i colmi dei tetti con lose piccole e su queste poi successivamente si poggiavano via via quelle più grandi. Le ultime lose poggiavano direttamente sul muretto di sostegno, così su questo scaricavano il peso. 85

Un’ingegneria primordiale, priva di calcoli statici e algoritmi per stabilire i pesi e i carichi. Ma che funzionava a dovere. Un’ingegneria, tra l’altro, che ha continuato a esistere, anche fuori dal Lanzo. Per esempio, molti emigranti molisani e abruzzesi, scesi a Roma nei primi anni del secolo, si sono insediati lungo le consolari, Casilina e Prenestina, e spesso, per costruire le case, si sono appoggiati alle mura aureliane. Nel senso che, per risparmiare, hanno usato le mura, e non solo quelle aureliane, come balme, come sostegno per il perimetro della casa. Povertà, appunto, e ingegno. Ora quelle case sulla Casilina (Quadraro) e sulla Prenestina (Pigneto) valgono molto, perché tanti lavoratori del cinema e molti architetti hanno deciso di stabilirsi qui. A Roma, ora quei quartieri si portano molto. Comunque, tornando a noi, quella era un’edilizia popolare, spontanea, molto rispettosa della montagna, anzi un’edilizia che continuava quello che la montagna aveva lasciato in sospeso. E infatti, archi niente affatto tondi, tetti sbilenchi, divergenze e curve che ricordavano quelle dei colli e delle montagne, muri panciuti. Ancora, viottoli con passaggi e stretti come un sentiero, con molti sottopassi, torre comunale a forma di roccia. Una giusta deformazione, insomma. Una disarmonia visiva che nascondeva una comunione profonda con il territorio d’appartenenza. Insomma, l’abitare come funzione della montagna. Così è nel Lanzo, così è nel Molise. Cambia qualche elemento architettonico, ma la poetica è la stessa. Questo grado zero dell’architettura, o in molti altri casi 86

questo gusto «romanico» della costruzione, cioè l’assenza della facciata, che spesso è stato un fastidioso elemento retorico, l’uso dei muri in pietra che, come dire, vi mostrano subito la propria anima semplice, il fuori squadro e altro ancora, vi fanno pensare che qui l’architettura ha compiuto i suoi ultimi e definitivi passi. Questa cioè è l’unica maniera di abitare: semplice ed efficace, libera dalla retorica del marmo e dalla bella forma. E pensate allora ai bei tempi di una volta. Così vi viene in testa il verbo «preservare». Ma, appunto, non basta. Rischiate di sbagliarvi come mi sono sbagliato io una volta. Sì, perché nel 1987, il 12 ottobre, verso mezzogiorno, a Portici, nell’aula dedicata appunto a Rossi Doria, durante una lezione di economia agraria, il mio professore mi fece una cazziata. Avevo detto che secondo me i contadini avevano perso qualcosa andando a lavorare in città. Sì, certo, avevano finalmente avuto il frigorifero, la lavatrice, ma avevano perso quel particolare rapporto con il territorio. La bellezza, almeno secondo me, non è un gesto isolato, estetico, ma è un sentimento che riguarda tutta la comunità. Richiede buona immaginazione e manutenzione quotidiana. Tutti i contadini d’alta montagna facevano giorno dopo giorno questa operazione, producevano bellezza, con gesti empirici, non teorici. La manutenzione dei corsi d’acqua, del paesaggio, la sistemazione del territorio. L’uso continuo dei muri a secco. Lavoravano a monte affinché noi a valle stessimo bene. Bellezza in senso ampio, insomma. In realtà questa mia allocuzione derivava dalla lettura di 87

un saggio di Carlo Levi sull’arte e gli italiani. Dove si sosteneva che gli italiani sono un popolo particolare per il quale il senso dello Stato non è basato su regole condivise, ma si è formato per il particolare rapporto che hanno con l’arte. Con l’arte e con il territorio che l’arte ospita. Nei momenti difficili, gli italiani hanno sempre difeso il loro patrocinio artistico. Soprattutto, l’arte italiana è un’arte che ci riguarda e ci accoglie. Siamo noi che giochiamo sui sagrati delle chiese, sono le nostre facce ad abbellire le pale degli altari. È un’arte realistica, diceva Levi, non perché imita la realtà, ma perché reale è il suo rapporto con il territorio. E ammoniva: se perdiamo questo rapporto che abbiamo con l’arte, non perderemo soltanto pezzi di territorio ma soprattutto perderemo la nostra cultura. Per analogia, dopo la lettura di questo saggio, pensai che la sua tesi di fondo potesse essere un calzante esempio dell’arte e del territorio dell’alta montagna. E presi una cazziata. Fui accusato di essere uno di quegli idealisti totalmente privi di esperienza. Il professore mi disse che se avessi fatto il pubblicitario avrei prodotto spot alla Mulino Bianco. Uno che immagina i montanari come uomini saggi che vivono in simbiosi con la natura, seguono il ritmo delle stagioni, fumano il sigaro e guardano il tramonto come vecchi indiani, soddisfatti di quello che hanno. Ero malato di esotismo, secondo il mio professore. Il difetto peggiore per un intellettuale, quello di immaginare un mondo lontano perfetto per evitare di aggiustare quello a noi vicino. Tutti noi, aggiunse, amiamo pensare che le vacche si 88

mungano ancora a mano, ci piace pensarlo. Ma scommetto che nessuno di voi (la cazziata si estese a tutti quelli del corso) ha mai visto le mani di un mungitore. Vi devo dire che quando poi ho smesso di essere un viaggiatore professionista, rapace e seduttivo, da quando ho scoperto le pause del Molise e ho acquisito lo sguardo vago, ho finalmente visto le mani del mungitore. Non sono un bello spettacolo, sì, perché i calli deformano le dita e il palmo, l’artrite impedisce i movimenti. Sono mani gonfie e sporche. Da allora ho dato, in sostanza, ragione al mio professore. Voglio dire, il verbo «preservare» è monco, va corretto. Come? È questione di gusto e di intelligenza. Sembra facile. Perché, ecco, tornando a noi, all’edilizia, vi devo dire una cosa, sia nelle valli del Lanzo, sia in Molise, passeggiando per sentieri, qualche volta mi sono perso. Così mi sono fatto strada tra faggi e pini e mi è capitato di finire su un altipiano. Da qui ho guardato giù per orientarmi. Ebbene, davanti a me c’erano un sacco di case nuove, tipologie abitative costruite dove e come i nostri nonni non avrebbero costruito. Qua e là, a macchia di leopardo, intravedevo gruppi di case. Abusive? Non so. Sicuramente ristrutturate male. La tipologia abitativa che stava per contaminare queste zone è quel tipo di abitazione che da anni ha invaso alcune periferie italiane: la villetta bifamiliare. E qui allora mi è venuto di nuovo in mente il mio professore di economia, fissato anche lui con l’economia montana, perso nel tentativo di far stare meglio i contadini delle valli. Mi è venuta in mente quella discussione, perché è vero che 89

alcuni montanari erano isolati, personaggi arcaici, senza futuro, e non si poteva pretendere che tali rimanessero. Ma almeno quel rapporto con il territorio lo sentivano. Tutto questo è ancora visibile. Se andate in alcuni paesi molisani, faccio per dire Agnone, Ferrazzano, Isernia, sia quelli dell’alto Molise sia quelli del medio, se vi capita di fare una pausa, guardate il modo in cui sono lavorate le pietre. Bianche, lucenti, grezze. Guardate la fatica per arrotondare gli angoli e smussare le asperità. Per farle sì rimare con la montagna, ma nello stesso tempo per non assomigliarle troppo. Un gesto di misura e di umiltà. La montagna è abitata da spiriti che fanno paura. Allora, artigiani della pietra e del ferro per anni hanno modellato questi luoghi come se volessero offrire di continuo un sacrificio alla montagna, più che un sacrificio pagano un messaggio moderno: noi saremo umili con te, non ti violenteremo, anzi, saremo tuoi figli devoti, tu però sarai buona con noi. Un patto, un matrimonio sui generis. Ora, però, i figli di quei montanari, di quegli artigiani, da diverse generazioni o sono emigrati o hanno fatto varie esperienze in città. Poi alcuni di loro sono tornati su e per prima cosa hanno pensato di ristrutturare la casa di proprietà. Hanno chiamato la ditta edile e in pratica hanno riprodotto la tipologia abitativa delle periferie dove sono andati ad abitare. Devono avere dimenticato quel messaggio moderno che l’uomo aveva mandato alla montagna. Con il tempo si sarà persa la matrice. O forse quella matrice ricordava cose brutte o, all’opposto, di lei ormai si aveva un ricordo sbia90

dito che si poteva afferrare solo esagerando con i segni e gli aggettivi. Fatto sta che un tempo la montagna era sì periferica, ma con una forte identità. Adesso chi torna nelle valli cerca di costruire la casa stile periferia. Ma in questo modo la montagna diventa doppiamente periferica: non solo resta isolata, ma riproduce anche i vizi della peggiore città. Se così stanno i fatti, allora a cosa è servito, dico, andare a lavorare in città, nelle fabbriche, a cosa è servito costruire grattacieli (è il caso dei molisani in Canada), se poi si torna a monte rimanendo per così dire ancora a valle? Per questo ho telefonato al mio professore. Con il tempo siamo diventati amici. Gli ho detto dopo i convenevoli: – Guarda, ho sotto gli occhi gli effetti pratici della tua teoria. Chi torna in montagna porta le strutture più comode della modernità, sembra che quelle da sole bastino. Niente cinema, librerie, poche associazioni, ma villini bifamiliari con cancello elettrico, non è un po’ poco? – Tu mo’ che vuoi da me? – mi ha risposto. Poi mi ha detto che la questione era complessa, che non si può pretendere che la gente viva nelle caratteristiche case della valle del Lanzo o dei paesi molisani per fare piacere ai turisti idealisti come me. E che in ultima analisi non avevo capito niente, come lui già sospettava: per strutture appropriate non intendeva certo la parabolica. – Hai capito o no che dobbiamo eliminare la sofferenza di scarto dei contadini? È quella che ha prodotto lo spopolamento, ed è ancora il ricordo di quella sofferenza che impedisce il ripopolamento. L’identità, questa specie di iden91

tità falsa, è un surrogato, un prodotto di seconda generazione, derivato da un ricordo falso, ricordo a cui adesso si cerca di dare corpo. Ci vuole una rilettura seria. Che è appunto quello che penso anche io, una rilettura di gusto e intelligenza, in pratica una terza via, come quella che stanno cercando di praticare alcuni ristoratori molisani. Una rilettura, però, viziata, appunto, da un sovrappiù di romanticismo. Il romanticismo (il mio mondo interiore è più nobile di quello che c’è fuori) da solo non basta, c’è bisogno di un oppositore che lo tenga a bada. La questione è vecchia e ancora poco studiata, quella del romanticismo versus illuminismo. Eppure, sarà perché sono perso nelle pause molisane e divago a volontà, ma io penso sempre a questa querelle irrisolta. Più precisamente la domanda è: in un indispensabile processo di rilettura, solo e unico e moderno strumento conoscitivo, cosa faccio valere, la sacralità della montagna o la contaminazione, il modello o il metodo, il prodotto tipico o quello globale, la TAV o il treno a vapore? Che di stazione in stazione e di porta in porta fa passare il dolore, come diceva Fossati. Insomma, per somiglianza, la querelle può estendersi, riguardare più cose: i cantautori italiani, con la loro retorica della sconfitta, delle ragioni del torto, delle osterie fuori porta frequentate ora da gente diversa da allora, più ricca, matura, ma che muore di una morte un po’ peggiore (che arroganza definire preventivamente la morte altrui), i cantautori italiani, dicevo, o la musica commerciale? L’autentico o l’inautentico? Lo sregolato o la regola? Illuminismo o romanticismo? 92

Perché la questione della misura moderna, del calcolo dell’ampiezza dei nostri passi, del sapere, insomma, quanti centilitri d’acqua ci sono nel bicchiere, di calcolare questa unità di misura per non lasciarsi troppo suggestionare dal mezzo pieno o mezzo vuoto, questa misura è una derivata delle due gigantesche categorie interpretative: illuminismo o romanticismo. Gli illuministi hanno creduto nella scienza. La grande e artigianale cultura illuministica del Seicento ha due basi di partenza molto definite: Linneo e Cervantes. Certo, anche Galileo, Bacone, Cartesio, Copernico, ma preferisco citare un botanico, Linneo. Per praticità, cioè, la botanica è una mia ossessione. Linneo, dicevo, è il responsabile della scomparsa dell’analogia. Quella figura retorica che avvicinava le cose per somiglianza. Linneo ha decretato, invece, che la rosa è una rosa, perché ha determinate, immutabili caratteristiche. Per quanti sforzi si facciano, non diventerà mai una viola. È lui, il botanico, che ha inquadrato un fiore in una famiglia, un ordine, un regno. Come un comando verticale che blocca i soldati al loro posto, facendoli sì brillare, ma senza spostamenti di squadro. E Cervantes, negli stessi anni, ha voluto mostrarci gli effetti dello slittamento del senso, Don Chisciotte appunto. Per il quale il mulino a vento era un gigante, il gregge un esercito. Che ironia, quella di Cervantes: dare, per l’ultima volta, vita e forza alla figura retorica dell’analogia, prima di decretarne la fine. Ebbene, gli illuministi hanno creduto nelle classificazio93

ni scientifiche. E hanno fatto bene, una rosa è una rosa. Hanno spinto l’analogia giù in basso, per seppellirla meglio. Però non si sono accorti che questa, alla fine, trionfalmente, sottilmente, tornava vittoriosa. Si sono detti, gli illuministi, con rigore scientifico: esistono tante domande ma una sola risposta. Un po’ come l’equazione che fornisce solo una soluzione, anche la vita umana, il nostro corso naturale, segue regole matematiche. La soluzione, cioè la verità, è lì a portata di mano. Davanti a noi. È solo nascosta da un mare di superstizioni, ignoranza e false credenze. Scaviamo, allontaniamo questo materiale di risulta ed ecco che apparirà la verità. Che, attenzione, sarà proprio la verità matematica, quella uguale per tutti, l’unica soluzione all’equazione, valida per me, Antonio Pascale, e per un mio simile in Antartide. Volevano eliminare (gli illuministi) lo slittamento del senso causato dall’analogia, e sono ricascati nella figura retorica di cui sopra, hanno equiparato il corpus dottrinale scientifico a quello umanistico. A questa analogia hanno reagito i romantici. Che noia il percorso uguale per tutti, le regole che classificano e rendono immutabili i nostri passi, sempre la stessa falcata, lo stesso sguardo calibrato da altri. Ma come facevano gli illuministi a non capire? I percorsi singoli non sono derivati dalla stessa traccia. È l’artista che crea i valori, li crea perché fa valere il proprio mondo interiore, nobile e pulito, contro quello che c’è fuori, generalmente sporco, oppure, se proprio va bene, così noiosamente delimitato. Movimento interessante. Ragioniamo ancora su basi ro94

mantiche, non c’è che dire. Eppure l’errore l’hanno commesso pure loro, i romantici. E ancora una volta c’entra l’analogia. Il piccolo valore universale, quel nucleo irriducibile che faceva da conio alla creazione artistica, per analogia ha cominciato a slittare, da piccolo valore a piccola patria, poi a Spirito, Anima, Entità superiore, Dio. Il mio mondo è solo un pezzo di un mondo più grande, già definito, verso il quale bisogna tendere assolutamente. L’analogia, ancora lei, lo slittamento di senso, da Bach a Hitler. Ma allora, si chiede per esempio Berlin in un suo mirabile saggio su illuminismo e romanticismo, noi di chi siamo figli? Il nostro secolo, intendo. Siamo figli dei romantici, e quindi abbiamo solo il nostro mondo interiore come misura? Oppure, al contrario, siamo figli degli illuministi, e in questo caso il nostro riferimento sono le poche e chiare regole uguali per tutti? Ma siamo figli di entrambi i movimenti, dobbiamo sempre considerare entrambe le cose: i nostri sogni e le conseguenze dei nostri sogni sul mondo esterno, illuminismo e scienza versus passioni e romanticismo. L’artista fa questo: misura la distanza, calcola le conseguenze, cerca un equilibrio, che tra l’altro è solo una fase fisica e chimica, una delle tante. Non si tende verso l’equilibrio, ma verso l’entropia. Ecco perché abbiamo bisogno di tanto in tanto di equilibrio. Ma qui, a causa di questo gregge che proprio non cammina, qui, bloccato su questa strada molisana, ho pensato più ristrettamente: ma noi italiani di chi siamo figli? Cioè, siamo davvero figli di entrambe le dottrine? No, perché la 95

querelle sopra riportata finisce per riguardare l’identità italiana, la nostra particolare matrice, il conio. Se prima non mi definisco come italiano, poi non riesco a ragionare sullo specifico. Insomma, datemi un contesto e vi illustrerò il dettaglio. Datemi l’identità italiana e vi parlerò del Molise, delle sue strade, dei suoi prodotti tipici. E viceversa, datemi un dettaglio e vi condurrò a un contesto. Ma come si fa a non capire questo, pensavo, tutto esaltato da questa pausa prolungata all’infinito, il lento pascolare degli ungulati... Come si fa a non capire che il post-moderno ci ha portati a questo, di nuovo allo slittamento di senso, verso un’analogia paranoica? Ogni parte sembra far rima con un’altra parte, siamo massimalisti e olistici, vogliamo tornare all’utero, per questo ci serviamo dell’ideologia new age e delle sue derivate. Abbiamo sì voglia di essere parte di un flusso più grande, ma vogliamo abbandonarci ad esso così, facilmente, senza conflitto. Non vogliamo ammettere che siamo da tempo immemorabile caduti, e dunque il rapporto tra il nostro io e la realtà esterna produce un continuo conflitto, richiede adattamento e dolore di scarto, disagio e amarezza. E allora, quando finalmente il pastore, finto o vero che sia, mi ha fatto strada, ho avuto un’illuminazione sull’identità italiana. Noi italiani siamo un popolo mancante. Una parte ci sfugge sempre. E mi sono ricordato del serial tivù E.R.-Medici in prima linea. Non di tutta la serie, ma in particolare di un episodio, per la precisione mi sono ricordato di un dialogo di un minuto e 53 secondi. 96

Stavo a casa, ore 22.00 circa, e guardavo la puntata d’addio di George Clooney al serial. Il dialogo avveniva tra il dottor Ross e un giudice. Clooney è il dottor Ross, un pediatra del policlinico. Ha un’anima anarchica. Se per salvare un bambino deve passare sopra le regole dell’ospedale, lui lo fa. In ospedale è arrivata una mamma, regge in braccio un bambino tetraplegico. Sta male, gli restano pochi giorni, ore, di vita. Ma soffre. La mamma ha già perduto un altro bambino per lo stesso male, adesso l’evento sta per ripetersi. Il padre del bambino è assente, i genitori sono divorziati. La mamma scongiura Ross di sedarlo. Il dolore è forte, non bastano normali analgesici. Quindi il pediatra ruba una medicina sperimentale, non ancora sottoposta al vaglio medico. Prova, ma niente, il bambino soffre ancora. Qui ci vuole una macchina speciale, dice Ross, per meglio iniettare il medicinale. Ross ruba anche quella, la porta a casa della donna, la setta e inietta la medicina: nessun risultato. Un’altra notte di sofferenza, alla fine della quale la mamma dice a Ross: «Uccidilo! Pratica un’eutanasia, non potrei mai sopportare un’altra notte così». Ross altera il dosaggio, setta di nuovo la macchina affinché inietti una dose più concentrata (e letale) di medicinale, dà istruzioni alla mamma e se ne va. Il mattino dopo arriva il padre in ospedale, prende a pugni Ross e gli dice: «Tu hai ucciso mio figlio, adesso vai davanti al giudice». Il pediatra si difende: «Cosa? Suo figlio doveva morire, io l’ho solo aiutato a morire con dignità». «Tu vai davanti al giudice»: il marito non sente ragioni. 97

Un minuto e 53 secondi di dialogo tra Ross e il giudice. Chiudo le finestre per non essere disturbato dal rumore delle macchine e dalle punture delle zanzare. «Signor giudice, ho dedicato tutta la mia vita a salvare i bambini, lei non sa a volte in che condizioni arrivano qui, maschere di sofferenza, facce distrutte dal dolore, cosa mi importa del protocollo dell’ospedale, cosa importa se una medicina è sperimentale o meno, quello che importa è curare i bambini, alleviare le loro sofferenze. Il bambino in questione sarebbe morto lo stesso, e lei lo sa, ho solo fatto in modo che il suo tormento fosse alleviato». Cito a memoria, il dialogo è scritto bene, è molto commovente. Infatti mi ero commosso. A questo punto, parla il giudice: «Il tormento che ha scelto di alleviare è quello del bambino o il suo? Se pensava di fare bene a uccidere il bambino, perché se n’è andato, avrebbe potuto farlo lei, controllare alla fine che tutto fosse andato per il verso giusto, e invece ha lasciato sola la mamma. Lei sapeva che uccidere era sbagliato e per questo non l’ha fatto lei, in fin dei conti non l’accuso di omicidio, ma di viltà». Ore 22.10: pubblicità. Provo a scomporre questo dialogo. Ci sono due registri narrativi. Quello di Ross, la retorica dei sentimenti: i bambini, e soprattutto «io ho fatto...», «io penso...». Cioè le motivazioni individuali. E, di contro, il registro della responsabilità, il giudice, l’illuminismo, la scienza, che inchioda Ross alle proprie scelte: perché non l’hai fatto tu? Se noi italiani avessimo costruito questo dialogo, l’avremmo probabilmente fatto finire sulle parole di Ross, non 98

avremmo tentato di scalfire un personaggio principale, la sua azione, la sua retorica, i suoi sentimenti. Perché? Come mai abbiamo solo uno dei due registri, o la retorica dei sentimenti o l’illuminismo? Perché appunto siamo italiani, sempre allegri, teatrali, vitali, ma non sopportiamo il confronto, comparare le nostre azioni con un contesto più ampio ci annoia, preferiamo scegliere o l’uno o l’altro sistema, è più comodo, comporta meno responsabilità. Così, tornando a casa, ho sognato un nuovo metodo di lavoro che unisse le varie discipline, agronomia, zootecnia, urbanistica, architettura, scienze umanistiche e culinarie. Questo metodo, ancora da trovare, doveva cercare la giusta misura per identificare dapprima l’oggetto, per esempio le case contadine, la pastorizia, le nuove strutture, il forno di Guardiaregia e il President Hotel di Pietracupa, per poi sistemarlo nel modo più ampio, in maniera nuova, così pulita e precisa che questi oggetti, pur mantenendo i loro contorni, acquistassero una nuova anima. Questa nuova scienza, di volta in volta da vagliare, doveva essere l’equivalente del mio tanto desiderato 55 centilitri, per misurare se il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto. Poteva essere, partendo dal Molise, una terza via tutta italiana. Accettare la mancanza, ammettere il torto, ma senza temere i futuri errori. Altro che mele tipiche.

7.

Verso il mare

La verità, adesso posso ammetterlo, è che il Molise mi piace soprattutto perché c’è il mare. Ve lo posso dire, vanno bene le pause, va bene l’amore, va bene il viaggio accidentale, ma tutte queste cose non mi bastano perché non placano i miei malumori. Non riuscirei mai a stare in Molise, a sedermi sulla panchina in piazza del Belvedere a Civita Superiore, oppure durante il mese di agosto a Boiano a sentire il festival delle bande musicali. Non riuscirei nemmeno ad andare (lo faccio una volta all’anno) a Macchiagodena, per vedere il castello (privato) e poco più avanti l’olmo con il tavolino di pietra. Non parliamo poi di assistere alla lavorazione del ferro a Frosolone, andare ad Agnone per scoprire (inutilmente) il segreto della fabbricazione delle campane. Oppure, durante il mese di novembre, con il gelo che comincia a farsi sentire, visitare gli scavi di Altilia e godere del calore di tutte quelle pietre antiche. Non riuscirei, naturalmente, a dormire a Campolattaro tra le pale eoliche, né a mangiare da Tonino, o alla Risorta locanda del Castello, o ancora a sciare a Campitello Matese. E nemmeno ad anda101

re a funghi negli straordinari boschi molisani pieni zeppi di faggi, con quel delicato sottobosco di foglie, felci e muschio. Non mi godrei il cambio di colore autunnale delle foglie di faggio, dal verde al rosso intenso. Altro che aceri del Central Park. Qui tutta la natura si prepara al cambio di passo, dall’estate all’autunno, e dissipa i suoi colori con un ultimo sforzo, dal verde rilassante dell’estate al giallo. E quando pensi che il giallo sia il momento finale, della caducità, sorpresa: ecco che il colore passa al rosso o rosso bruno, un ultimo sussulto di passione prima dell’inverno. Come se questi faggi ci volessero ricordare che gli ultimi momenti di vita (vegetativa) possono essere più belli e intensi degli altri, che la sensazione della morte (invernale) in fondo è falsa, infatti si va solo in letargo, felicemente, direi, anzi lo si annuncia a tutti gli abitanti del bosco e a tutti i visitatori accidentali come me e come voi, grazie all’uso di un colore vivo: il rosso, appunto. Un colore che in tutte le culture rappresenta sia il pericolo sia la passione, sia la vita sia il rischio. Non riuscirei a bere l’acqua fresca che sgorga da fontane improvvisate, spesso solo da un tubo a cielo aperto o da un rubinetto vecchio tipo. Non ce la farei a fare nessuna di queste cose se non sapessi che l’ultimo lembo di terra molisana confina con il mare: Termoli, appunto. Tutto questo perché ho un rapporto ambiguo con la montagna. A volte ho difficoltà anche con la collina. E con il Molise, dunque. Insomma, vengo in Molise da quando avevo otto anni, 102

scio da vent’anni, per di più sono molto attento a non inquinare: sulla neve, per esempio, non indosso abiti sgargianti per non attirare su di me l’attenzione (deve invece essere rivolta alle bellezze della natura). Non faccio a palle di neve come se fossi un bambino eccitato. In alcuni momenti di spleen, mi piacciono pure i pascoli. Non mi è mai venuto in mente di strappare i funghi dalla terra e infilarli in una busta di plastica (altrimenti le spore non si disperdono nel sottobosco). Soprattutto non temo la solitudine. Eppure c’è qualcosa nell’alta montagna che non mi convince. Riguarda il suo pregiudiziale senso dell’isolamento. Quella sensazione che chi va in montagna si debba alla fin fine purificare. L’ascesa alla vetta, la fatica, il traguardo. Quel quid di ascetico. Mi ricordo di una lettera scritta dal sindacalista Guido Rossa, ucciso dalle BR a Genova nel 1979. Lui nel tempo libero faceva l’alpinista. Ma la sua passione ebbe termine dopo il 1968. In una lettera scritta a un amico alpinista, dichiarava che era giunto ormai il tempo di stare nel mondo: «Un mondo dove, su 40 milioni di morti, 30 morivano di fame». Bisognava scendere a terra. Non bastava più l’orgoglio di infrangere un limite e conquistare l’ennesima vetta, non serviva più guardare per un attimo il panorama cristallino e incontaminato delle vette alpine. Con questo, non voglio nemmeno dire che per contrasto amo il mare. Anzi, in spiaggia ci vado solo due o tre volte l’anno; i bagni li faccio un anno sì e un anno no, dipende dal mio stato d’animo. Quello che voglio dire è che ho con la 103

montagna un rapporto fortemente contraddittorio. Per me la montagna è sia il rifugio di Hitler in alta Baviera, il castello sulle rupi, la mostruosa idea di purezza assoluta, sia però la guerra partigiana. La montagna come presupposto di lotta collettiva. Dunque, la montagna non è la purezza del bene, ma nei momenti migliori è il luogo dove si tiene a bada il peccato, combattendo e resistendo. Però, tutto questo lo posso concepire solo se lo sguardo da una vetta può spaziare verso il mare. Dall’immobilità al movimento. Ebbene, in Molise lo potete fare. Se siete sulla cima del Miletto (2050 metri) o sulle Mainarde – le due catene di monti si guardano, la prima è più placida, la seconda più tormentata, aguzza – potete vedere, in alcune belle giornate di sole, il mare. Anzi i due mari, il Tirreno e l’Adriatico. Avete a questo punto l’imbarazzo della scelta. Quando sono in vetta, ma anche quando da un promontorio di un paese dell’alto Molise guardo verso est, vedo il mare e dico: – Adesso scendo e vado verso il mare. Più precisamente vado verso Termoli, da Campobasso sono circa novanta chilometri. Dovete percorrere la fondovalle chiamata Bifernina e dopo circa un’ora ci siete, al mare. Vado al mare perché amo la contaminazione e perché so bene che i prodotti tipici sono, appunto, tipici perché hanno subito poche contaminazioni. Contaminazioni che invece, in linea di massima, non mi danno fastidio. Anzi. Da agronomo e genetista mi piacciono gli innesti culturali, gli scambi genici, i crossing over tra cromosomi, l’o104

smosi e tutti i processi fisiologici che mi trasformano, con lentezza, certo, e senza forzature, in una persona diversa da come ero prima. Non so se per far questo basta l’amore. Alle soglie dei quarant’anni, sono sensibile alle sfumature e alle trasformazioni lente, non a quelle repentine che sempre di più mi sanno di ideologia spiccia o pedagogia teorica, di narrazione romantica. Quelle che risolvono tutto con l’arrivo della cavalleria, per intenderci. Dunque, a volte la montagna, con la sua immobilità, con i suoi miti di purezza, ascesi e ascesa, mi spaventa. Quando è così, anche le mie pause molisane devono avere una via d’uscita, rivolta appunto verso il mare, la risacca, lo sciabordio delle onde, il vento, il sale, il pesce, i frutti di mare. Per avere senso le pause devono avere sì uno sfondo fisso che fa da contorno, ma devono permettere alla vita di entrare. Le pause sono come delle onde sulla risacca, o almeno così mi piace immaginarle. Quindi: verso il mare. Generalmente, faccio il percorso inverso a quello mostrato nei documentari scientifici, dove si vede l’alba della civiltà, durante la quale un rettile passa dal mare alla terra e piano piano la colonizza. Faccio questo percorso inverso, quasi come se volessi tornare alla vita marina, quella ancora non definita. Allora, mentre passeggio nei boschi di faggio, così particolari, soprattutto d’estate, perché privi di colore, per via del fogliame che non lascia passare la luce, sebbene sia ricco di sfumature e di fiori strani come i fiori di Sicilia e gli 105

anemoni che fioriscono un po’ prima del germogliare delle foglie di faggio, quando dunque c’è più luce, ma poi continuano a crescere nonostante l’ombra, tanto che a volte ho l’impressione che questi fiori parlino solo a me, mi vogliano dire qualcosa... insomma, mentre, dicevo, cerco funghi (porcini e gallinelli, specialmente) o raccolgo rami di faggio caduti per fare gli archi ai bambini, perché questo è un legno che si lascia piegare e tornire facilmente, magari si trovassero ancora i mobili di faggio, un legno di grana fina, senza quei fastidiosi nodi da distacco, perché i rami di faggio sono come quegli indiani che, giunta la loro ora, se ne vanno a morire lontani senza trascinare il dolore, e cioè (quei rami di faggio) cadono dal tronco lasciandolo pulito, ecco, mi sono perso... mentre nei boschi di faggio raccolgo le faggiole, cioè i frutti, rubandole alle visciole o agli scoiattoli, perché queste faggiole sono frutti commestibili e ricchi d’olio... e qui faccio una dichiarazione giurata, da atto notarile: è un olio così buono che secondo me è di poco inferiore all’olio di oliva, però è difficile da coltivare industrialmente perché il faggio fruttifica in zone disagevoli... e allora, mentre faccio tutto questo e penso a come mettere a coltura industriale il faggio, mi viene in mente che si potrebbe anche andare verso il mare. E parto. Faccio sempre la stessa via. Come un fissato, un pazzo. Non seguo la via normale. Salgo fino a Campitello Matese, perché da lì su, in alcune giornate di luce piena, si vede il mare. Lo voglio vedere bene, desiderarlo, prima di andare a toccarlo, a sentirlo. Qualche volta scalo anche le 106

montagne minori, una di quelle che preparano la scalata al Miletto. Lì, in questi luoghi (siamo intorno ai 1800 metri) i boschi di faggio si diradano e vengono fuori le rocce bianche calcaree, quasi le stesse usate per la costruzione dei paesi. I faggi diventano alberi simili a cespugli impertinenti, si sente che vogliono vivere, crescere, nonostante il terreno cacci fuori le pietre e il clima non sia più adatto a loro. E nonostante le pecore e le vacche e i cavalli calpestino le loro radici superficiali. Vogliono vivere. Per questo buttano fuori rami vegetativi, lunghi, incolti, rozzi come i capelli di un barbone che vuole dimostrare d’avere ancora forza e virilità. E scendendo per queste strade, guardando questi particolari arbusti, spesso tra i loro rami lunghi e strani passa la luce e già immagini il mare. Quella luce marina, diffusa, che rende tutte le cose dello stesso colore estivo. E scendendo mi diverto. A veder cambiare il paesaggio, la faggeta farsi più fitta, le file di vacche perdersi nei sentieri. E scendo verso Vinchiaturo percorrendo la strada più tortuosa, perché mi piacciono i giochi di luce che si ricavano dalle curve. E poi però mi fermo. Ho bisogno di una pausa. Vado a mangiare in un ristorante vicino a Guardiaregia, vicino alla grande oasi del WWF (la seconda per estensione in Italia). E mi dico che un giorno ci andrò nelle oasi, però devo aspettare di averne voglia. Adesso, con tutta onestà, non sento questo bisogno, ma se voi invece lo sentite, visitatela. Basta, per entrarci, chiedere della guida, cioè andare in piazza a 107

Guardiaregia e chiedere al primo che incontrate. Fatelo, oltretutto l’entrata è vicino al forno di Guardiaregia, e magari lo trovate aperto (poi magari mi telefonate per dirmi com’è questa benedetta pizza). Insomma, mentre aspetto che mi prenda la voglia di visitare l’oasi del WWF e fare bird-watching, mi siedo in questo particolare ristorante con i tavoli messi all’aperto, posizionati sotto dei pini in maniera sbilenca. Respiro la resina, come facevo da ragazzo nelle pinete di Castelvolturno, a pochi passi dal mare. – Non è per cattiveria – mi dice immancabilmente la signora che mi serve, gentile, ai tavoli. Non sempre hanno quello che c’è scritto sul menù. – Ma non è per cattiveria, non vi prendete collera. Io non mi faccio mai il sangue amaro. Come potrei? Sono in pausa. Mi lascio consigliare. Qui costa tutto poco: una pizza due euro e mezzo, un arrosto di maiale o di agnello meno di sette euro, la birra uno e mezzo. La griglia all’aperto, la pasta fatta in casa, l’odore della resina, i bambini che giocano sullo scivolo, tutte queste delizie naturali e ottenute con poco mi fanno quasi passare la voglia di andare verso il mare. Però dopo il caffè mi smuovo. Prendo la Bifernina. Prima però guardo alla mia sinistra i paesi che danno sul versante del Matese, Guardiaregia, San Polo Matese, Boiano. Li saluto e li lascio alle mie spalle, sto andando verso il mare, il posto dov’è iniziata la vita. Perché il Molise è veramente antico, qui è davvero iniziata la vita. A Isernia c’è 108

quello che si considera uno dei primi abitanti d’Italia. C’è per modo di dire: è uno scheletro. Lungo queste terre, queste calanche di argilla, a volte dure da lavorare – e per inciso, ecco perché la tradizione del ferro è così forte: bisognava costruire lame che tagliassero al primo colpo, vomeri che entrassero nella terra senza tentennamenti – lungo queste terre, dicevo, fino a trent’anni fa, i contadini, di tanto in tanto, scavando, trovavano resti di vasi, monili e altre antichità archeologiche. Le trovavano e, zitti zitti, se le mettevano nella bisaccia. Il Molise è antico e ricco di storia. Prima ancora dei Sanniti e degli Etruschi, di sicuro ci sono stati altri abitanti, ci si spinge con facilità fino agli insediamenti paleolitici. Conosco archeologi che da anni lavorano in queste terre e mi dicono sempre: – Altro che Roma, il futuro dell’archeologia è qui. In effetti dal 1979 l’archeologia e la paleontologia hanno cambiato faccia, grazie alla scoperta casuale (stavano sbancando un po’ di terra) dell’homo habilis di Isernia. Uno strano nostro progenitore, piccolo, tarchiato, senza mento, con una mandibola poderosa e un cervello che un po’ assomigliava al nostro. Ora, il fatto è che queste terre molisane, ora coltivate a grano, segale, orzo e medica, una volta erano paludose, innervate da pioppi e salici e platani e olmi, abitate come in una savana africana da ippopotami, elefanti e bufali. Mentre sulle colline c’erano cervi, daini, orsi e capre selvatiche. Ebbene, questo speciale nostro progenitore aveva già imparato a usare il fuoco, ce lo dicono alcuni ritrova109

menti di argilla arrossata, e dunque (questo uomo) cacciava e costruiva accampamenti, dove riposarsi dopo la caccia e cucinare la selvaggina. Ma tutto ciò non è niente, perché questo speciale Homo Habilis di Isernia aveva imparato già a bonificare le paludi e usava un’ingegneria elementare, la stessa usata per costruire le case, quelle particolari case di montagna che ho visto nelle valli del Lanzo e che ancora potete vedere qui. – Stiamo rivoluzionando le teorie archeologiche. Conosco molti giovani archeologi che dicono questo e si lamentano perché nessuno pensa a loro. Voglio dire, quando fanno qualche scoperta importante, tirano fuori resti e vestigia, particolari cripte, come per esempio a San Vincenzo, sotto le Mainarde, alla foce del Volturno. Nessuno ne parla. E allora, vi posso dire che tutto quello che è stato tirato fuori dalla terra e che è sfuggito ai contadini, lo potete trovare (provvisoriamente) nel Museo Nazionale della Provincia Pentria a Isernia. Andateci, ne vale la pena. Andateci anche perché, nel frattempo, io vado verso il mare, lungo la Bifernina, e guardo alla mia sinistra paesi come Frosolone, con i suoi fabbri che hanno temprato in silenzio la maggior parte dei coltelli che usate (spero bene), o paesi come Agnone, che si intravede appena, lì nell’alto Molise, che invece da centinaia di anni conosce il segreto per la fabbricazione delle campane. Il segreto per lavorare il rame. Quel particolare rintocco, quando non è registrato, è di Agnone. È strano quanto silenzio avvolge il Molise, eppure, 110

in qualche modo, penso che il Molise si deve essere vendicato di quell’abbandono. Con le campane. Quell’eco è appunto del Molise che risuona in tutto il mondo. Perché questa è una terra veramente particolare, e l’arroccamento dei paesi è lì a dimostrarlo. Povertà, isolamento, ma anche gran rifiuto di gestire il presente, cioè il potere, come il gesto di Celestino V. Una terra dove trovi un aggettivo e il suo contrario, arroccamento e difesa dalle brutture, gran rifiuto e tentativo di sfuggire al gran rifiuto, di essere nel mondo, calcando i segni del presente più del necessario. E viaggiando con calma, senza fretta, immerso in questa pausa prolungata, mi guardo tutti i castelli molisani e le torri di difesa che spesso sorgono sulla punta delle rocce. Sono lì, forse, come il mito della Medusa all’incontrario, pietrificate dall’assenza di nemici, dall’assenza del nostro sguardo. I castelli molisani li potete trovare ovunque nei paesi e hanno tutti la stessa caratteristica: sono spartani. Le torri mozzate. All’interno non troverete fasti né resti di fasti passati. Erano castelli militari, avevano poco a che fare con la poetica delle corti. Ma sono belli, di matrice sveva, federiciani, normanni, o meglio una loro rilettura. E così, mentre me ne vado sulla Bifernina, a un certo punto, poco prima del lago artificiale di Guardialfiera, si comincia a sentire l’odore del mare. Si passa su una diga enorme, bella da vedere, si attraversa il lago artificiale e se volete, prima del mare, potete fermarvi a fare il bagno o a prendere il sole. Starete tranquilli, spesso da soli. 111

Se invece non ce la fate più e avete voglia di vedere e toccare il mare, allora entrate subito a Termoli. Mi raccomando, andate verso il centro, sfuggite il porto che è piccolo e l’acqua che è troppo stagnante e puzzolente, e andate verso il borgo antico. Posate obbligatoriamente la macchina ed entrate nel borgo. È un promontorio, anzi, una terrazza che si spinge sul mare. Potete camminare per la strada principale che segue il perimetro del borgo e dovunque guarderete vedrete il mare, e se c’è la luce giusta anche le isole Tremiti. Oppure seguite i vicoli come se foste ungulati al pascolo, per finire davanti alla cattedrale di San Basso o alla torre saracena, intorno alle quali è cresciuto il borgo. Non è per cattiveria, ma potrei anche fermarmi qui per sempre. La vista del mare mi blocca. Mi incanta. Una volta vidi un documentario sul mare. C’erano un sacco di scrittori e di poeti che parlavano del fascino del mare. Che retorica, pensavo quando li ascoltavo, sempre la stessa tiritera. Finché non arriva Moravia e dice con quella sua vocina: – Il mare si fa guardare perché è sempre in movimento, la montagna mi annoia, è sempre ferma. Ecco, la semplicità a volte raggiunge il cuore della complessità, se mi permettete l’ossimoro. Sì, perché comincio a pensare, e lo penso solo in Molise, che, alle soglie dei quarant’anni, con tutta la caterva di idiosincrasie che mi trascino dietro, e una volta me la prendo con il viaggiatore che ero, un’altra volta contro il viaggiatore con il trolley, e poi 112

tutto questo appesantimento concettuale, l’identità, il modello e il metodo, la rilettura, cosa si fa e cosa non si fa, l’amore rapace e quello maturo, comincio a pensare che tutte queste complicazioni potrebbero essere parzialmente, momentaneamente, accidentalmente risolte durante una di queste pause, magari a Termoli, con davanti il mare e dietro la montagna. Allora elaboro una variazione della definizione di Moravia: accogliere restando stabili, più o meno. Una parte di me guarda il movimento delle onde e l’altra parte si àncora alla terra. Non sembra, ma queste sono pause osmotiche, la membrana lascia entrare e contemporaneamente blocca. L’osmosi: cedere qualcosa per meglio accogliere, appunto, cercare un nuovo equilibrio. Più o meno. C’è bisogno allora di entrambe le cose, mare e montagna, e sì, per analogia, romanticismo e illuminismo, il dottor Ross e il suo giudice. Il viaggio dovrebbe essere questo: spostarsi per cercare un nuovo confine dentro il quale edificare. Meglio dire membrana, invece di confine, meglio concentrarci sul concetto di permeabilità anziché su quello più definito, più netto, di confine. Tra me e il mondo c’è una membrana, è l’unico strumento di conoscenza che ora, alle soglie dei quarant’anni, riesco a usare. Meglio ancora dirlo, analogicamente, in un altro modo, meglio affidarsi a Masud Khan, lo psicanalista famoso per la sua metafora agronomica: la vita è come un campo lasciato a maggese. Adesso non voglio fare il buffone e sfoggiare le mie com113

petenze da agronomo, ma il maggese è una tecnica agronomica non più in uso, tranne che nel Molise. Si tratta di lasciare il terreno incolto per un anno, non lo si ara, né lo si concima. A riposo, a maggese. Solo apparentemente il terreno rimane improduttivo. In realtà, qualcosa sotto si muove. L’acqua arriva agli strati profondi del terreno, la flora batterica si rivitalizza, il complesso corpus del terreno non sottoposto a stress da coltivazione si semplifica, cioè si muove grazie a gesti elementari, arcaici, e così facendo rinasce, prende aria, sviluppa una sua nuova energia. Certo, per un anno il bilancio non è attivo, ma pazienza. Perché alla fine, inaspettatamente, il terreno è più produttivo di quello del tuo vicino, quello magari erpicato e arato, concimato con la trivalente: azoto, potassio, fosforo. E diserbato nei momenti giusti. Quello sottoposto allo stress da coltivazione, insomma. – La nostra vita dovrebbe incontrare di tanto intanto la dimensione del maggese. Attenzione, però, ci teneva a precisare Khan, il maggese di certo non significa purificarsi. Come sostengono le discipline indiane. Diceva: – Io sono di origine indiana, so bene che queste discipline, proprio perché tendono alla purificazione interiore, sono nichiliste, si pensa solo alla propria purificazione. E invece è necessario fare i conti con la contaminazione del mondo, non perché si deve eliminare la scoria, anzi, tutte le scorie, ma perché la nostra membrana interna ne esca più forte, più capace di scegliere cosa bloccare, cosa far pas114

sare, cosa leggere, cosa rileggere, cosa scartare. Il maggese significa fare i conti con la propria ferita e non il contrario, fingere, mentendo, che tutto va bene, che basta solo un’altra concimazione. Fare i conti con la propria ferita, saggiare cioè la consistenza della nostra membrana, accogliere il movimento e cercare un ancoraggio. Il mito di Filottete, l’arco e la ferita, la mira infallibile e la ferita al calcagno. Lamentarsi e scoccare la freccia, due dimensioni legate. Neottolemo non seguirà il consiglio di Ulisse di rubare l’arco a Filottete e lasciarlo sull’isola di Lemmo. Neottolemo capisce quello che Ulisse, così pratico e furbo, non arriva a capire: che l’arco e la ferita sono indissolubilmente legati, che non possiamo portare solo la ferita o solo l’arco. I due elementi, come dirà Wilson nel suo saggio L’arco e la ferita, sono eticamente legati. Fare i conti con la propria ferita, dunque. Così per tutto, il mare e la montagna, il mio mondo stabile e quello fuori che muta, i miei valori e le conseguenze di questi sul mondo, la mia membrana, cioè il mio passo, la mia falcata, il mio viaggio, interno o esterno non importa, la mia misura di volta in volta da calibrare. Così è per tutto, lo penso sempre qui in pausa, a Termoli, davanti al mare, con il castello romanico alle mie spalle, un castello senza orpelli, con la facciata grezza, la struttura sbilenca, le torri mozzate. Lo penso e mi sento io stesso un prodotto dell’architettura romanica: spogliato delle decorazioni, un po’ nudo. È uno speciale maggese che, devo dirvi 115

la verità, mi fa impressione. È solo allora che mi accorgo con inquietudine del sole quasi al filo dell’orizzonte. Sarà la mia ferita. Sì, perché la luce sta cambiando. È naturale, è già agosto, i giorni si stanno accorciando, dunque l’aria in lontananza si abbruna. Vedete, ho già perso il mio equilibrio, la mia dimensione. Mi viene un po’ paura, colpa della mia ferita, suppongo. Perché a me, per analogia, questo sole al tramonto ricorda il cambio di ora, da legale a solare. Quel buio che arriva all’improvviso, sul mare, è solo un anticipo di quello che vedrò fra qualche mese, quando starò a Roma e il mio quartiere di domenica sprofonderà nel buio, così all’improvviso. Sarà, meteorologicamente parlando, il giorno più triste dell’intero anno. Per me, dico. Per la mia ferita. Infatti è così adesso. Sono le 18.00 del 30 ottobre e da ieri notte è scattata l’ora solare. Sto per finire il libro, mancano ancora poche frasi, ma intanto il mio quartiere è già immerso nel buio. C’è silenzio, lo stesso tipo di silenzio che in carlinga precede un atterraggio. Quando sei un po’ spaventato oppure quando, come me, ricordi le cose belle accadute durante il viaggio. Ora, a poche frasi dalla fine del libro, con l’ora solare già scattata, è come atterrare in silenzio nel buio. Siccome il buio, come vi dicevo, a volte mi spaventa, e soprattutto nell’attimo in cui mi avvolge mi fa venire l’ansia, penso di fare come ai vecchi tempi, quando ero un viaggiatore professionista, mollare tutto e partire, staccare la spina, partire verso 116

un posto migliore, più vivo e vitale, più luminoso di quello visto l’anno prima, così che dopo posso raccontarlo agli amici, così come un tempo raccontavo l’amore. Ma ormai sono troppo pigro, non ce la faccio. Preparare il trolley, dico, o leggere le guide adatte e tutto il resto appresso. Quello che posso fare è calibrare l’arco, cioè riempire il mio zainetto con il minimo indispensabile e andare in Molise. Arriverò con il buio, ma durerà solo poche ore. Domani mattina presto, alla prima luce dell’alba, mi apparirà il bosco di colore rosso bruno, migliore, più vivo, più vitale, più luminoso di quello visto un anno fa di questi tempi, e movimentato dalle visciole e dagli scoiattoli che prendono le faggiole. E rimarrò lì, in attesa di non so cosa, probabilmente di uscire dal maggese, sperando che la comunità sia pronta ad accogliermi, anzi, addirittura mi festeggi, come adesso fa questo bosco qui davanti a me con questa esplosione di colori. Colori che tengono a dirmi che non bisogna avere paura, né scappare verso la luce, in fondo i momenti finali preparano quelli iniziali. Allora, per avviarmi verso l’inverno, fra poco accenderò il fuoco nel camino e starò bene. Passerà la brutta stagione e poi di nuovo, in un batter d’occhio, all’improvviso, tornerà l’ora legale. Pressappoco in quel periodo, i faggi apriranno bene le foglie e il bosco diventerà buio. Corsi e ricorsi, posticipi e anticipi. Fuggire e arrivare. Perdersi e ritrovarsi. Il segreto sarà tutto qua, in questi continui ossimori. Come 117

giudicarli? Buchi neri della ragione? Fisiologici percorsi di vita verso l’equilibrio del traguardo finale? Come dice Parise, passano gli anni, ottieni quello che vuoi, ne passano altri e poi è finita. Ci vuole dunque una pausa.