Non è giusto. Psicologia dell'ingiustizia sociale

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Non è giusto. Psicologia dell'ingiustizia sociale

Table of contents :
Copertina
Collana
Frontespizio
Copyright
Indice
Prefazione
Introduzione
Parte prima - Psicologia e ingiustizia: prospettive teoriche
Capitolo primo - L'in-giustizia nelle teorie psicologiche
Capitolo secondo - Dentro l'in-giustizia: le possibili conseguenze
Parte seconda - Ricerca e risvolti applicativi
Capitolo terzo - Lo sviluppo del senso morale e del senso di ingiustizia
Capitolo quarto - Giustizia e ingiustizia nelle relazioni familiari e scolastiche
Capitolo quinto - L'ingiustizia nelle organizzazioni
Capitolo sesto - L'ingiustizia sociale nel rapporto tra gruppi
Capitolo settimo - Dall'ingiustizia al benessere. La partecipazione tra opposizione e collaborazione
Capitolo ottavo - L'ingiustizia sociale e la salute di intere popolazioni: l'ineguaglianza delle condizioni di vita
Parte terza - Conclusioni: lavorare con l'ingiustizia
Capitolo nono - Che fare? Lo psicologo di fronte all'ingiustizia
Capitolo decimo - La prevenzione dell'in-giustizia: esiste un margine?
Conclusioni
Bibliografia
Indice analitico
Quarta di copertina

Citation preview

Non è Giusto Psicologia dell’ingiustizia sociale a cura di

Massimo Santinello e Alessio Vieno

LIGUORI EDITORE

Relazioni 11 Collana diretta da Adriano Zamperini

Non è giusto. Psicologia dell’ingiustizia sociale a cura di Massimo Santinello e Alessio Vieno ISSN 1972-0602

Liguori Editore

Questa opera è protetta dalla Legge 22 aprile 1941 n. 633 e successive modificazioni. L’utilizzo del libro elettronico costituisce accettazione dei termini e delle condizioni stabilite nel Contratto di licenza consultabile sul sito dell’Editore all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/ebook.asp/areadownload/eBookLicenza. Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati. La duplicazione digitale dell’opera, anche se parziale è vietata. Il regolamento per l’uso dei contenuti e dei servizi presenti sul sito della Casa Editrice Liguori è disponibile all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/politiche_contatti/default.asp?c=legal Liguori Editore Via Posillipo 394 - I 80123 Napoli NA http://www.liguori.it/ © 2011 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Ottobre 2011 Santinello, Massimo (a cura di): Non è giusto. Psicologia dell’ingiustizia sociale/Massimo Santinello, Alessio Vieno (a cura di) Relazioni Napoli : Liguori, 2011 ISBN-13 978 - 88 - 207 - 5374 - 0 ISSN 1972-0602 1. Psicologia sociale

2. Sociologia generale

I. Titolo

II. Collana

III. Serie

Aggiornamenti: —————————————————————————————————————————— 20 19 18 17 16 15 14 13 12 11 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

Indice

IX Prefazione di Isaac Prilleltensky

XIII Introduzione di Massimo Santinello e Alessio Vieno

Parte prima – Psicologia e ingiustizia: prospettive teoriche 3 Capitolo primo L’in-giustizia nelle teorie psicologiche di Sonia Mazzardis e Massimo Santinello

43 Capitolo secondo Dentro l’in-giustizia: le possibili conseguenze di Francesca Chieco e Alessio Vieno

Parte seconda – Ricerca e risvolti applicativi 69 Capitolo terzo Lo sviluppo del senso morale e del senso di ingiustizia di Gianluca Gini e Tiziana Pozzoli

91 Capitolo quarto Giustizia e ingiustizia nelle relazioni familiari e scolastiche di Monica Rubini e Silvia Moscatelli

107 Capitolo quinto L’ingiustizia nelle organizzazioni di Chiara Berti

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INDICE

139 Capitolo sesto L’ingiustizia sociale nel rapporto tra gruppi di Marcella Latrofa e Jeroen Vaes

161 Capitolo settimo Dall’ingiustizia al benessere. La partecipazione tra opposizione e collaborazione di Angela Fedi e Terri Mannarini

183 Capitolo ottavo L’ingiustizia sociale e la salute di intere popolazioni: l’ineguaglianza delle condizioni di vita di Michela Lenzi, Alessio Vieno e Douglas D. Perkins

Parte terza – Conclusioni: Lavorare con l’ingiustizia 211 Capitolo nono Che fare? Lo psicologo di fronte all’ingiustizia di Adriano Zamperini e Marialuisa Menegatto

223 Capitolo decimo La prevenzione dell’in-giustizia: esiste un margine? di Francesca Chieco e Sonia Mazzardis

233 Conclusioni di Magda Piccinini, Alessio Vieno e Massimo Santinello

239 Bibliografia 279 Indice analitico

Prefazione di Isaac Prilleltensky

Il criterio a cui fare riferimento per la distribuzione delle opportunità nella società è un terreno conteso. Nella maggior parte delle società capitaliste viene utilizzato il merito, che comprende gli sforzi e le abilità. Gli studenti ottengono borse di studio sulla base dei loro successi accademici. Ma cosa accade quando a non tutti gli studenti sono offerte le medesime opportunità dalla vita? Cosa succede quando milioni di bambini non possono andare a scuola, o frequentano istituti con poche risorse e insegnanti sottopagati? È altamente probabile che molti di questi bambini, pur possedendo un ottimo potenziale, non possano svilupparlo appieno a causa delle diminuite opportunità riservategli dalla vita. Possiamo allora andare da loro e dirgli che non sono abbastanza intelligenti o che non si impegnano abbastanza? Non potrebbero aver fatto di meglio sotto circostanze favorevoli, conseguendo risultati simili ai bambini cresciuti nella parte “buona” della città? Utilizzando esclusivamente criteri individualistici di giustizia, trascuriamo le reali condizioni che potrebbero aver dato origine all’eccellenza. E ancora, le capacità e gli sforzi individuali sono quasi sempre utilizzati per giustificare l’ineguaglianza. Coloro che lavorano duramente hanno più successo nella vita: una totale disattenzione per le condizioni che portano al successo. In circostanze di uguaglianza, nelle quali tutti gli studenti abbiano accesso ai medesimi privilegi, sarebbe giusto ricompensare coloro che hanno lavorato duramente. Ma sotto condizioni di ineguaglianza sarebbe, invece, ingiusto punire coloro che non hanno raggiunto standard elevati per via di fattori ambientali, sociali, organizzativi e comunitari esterni al loro controllo. Immaginate il seguente scenario. Tommaso è cresciuto in circostanze di povertà. I suoi genitori non hanno avuto la possibilità di mandarlo in scuole prestigiose o di comprargli libri e computer. I problemi di natura finanziaria hanno generato forti livelli di stress in famiglia. Niccolò, invece, è cresciuto in condizioni estremamente agiate. I suoi genitori lo hanno mandato in scuole prestigiose, lo hanno abbonato a riviste educative e portato ad assistere ad eventi culturali. Entrambi mostravano un simile impegno a scuola. Ma quando giunse l’ora di iscriversi all’università, Niccolò fu in grado, in virtù dei privilegi di cui beneficiava, di frequentare corsi di maggior prestigio e di

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PREFAZIONE

ottenere migliori borse di studio. Pur possedendo ambedue simili attitudini, finirono ad occupare posti molto differenti nella vita. Le condizioni privilegiate e la possibilità di accesso alle risorse e alle opportunità aprì molte più porte a Niccolò che non a Tommaso. Finché la società aderisce meramente al principio del merito nell’assegnare borse di studio, indipendentemente dalle circostanze ambientali, Niccolò sarà sempre il vincitore tra i due. Ma se la società tenesse conto anche delle condizioni di partenza di entrambi i giovani, è ragionevole aspettarsi che le borse di studio e le altre ricompense andrebbero anche a Tommaso. Tommaso non ha scelto di crescere in povertà e non ha scelto il suo ambiente, o i suoi genitori, o la sua scuola. In condizioni di relativa uguaglianza, nelle quali entrambi i ragazzi fossero cresciuti in circostanze simili, sarebbe giustificato offrire borse di studio e vantaggi a quello che lavora più duramente. Ma in condizioni di ineguaglianza, ricompensare il merito in base al privilegio non promuove giustizia. Al contrario, rafforza lo status quo. Il problema del sistema capitalista corrente è che non tiene conto delle differenti condizioni sotto le quali le persone crescono. Innumerevoli opportunità e vantaggi sono accessibili solamente a coloro che già detengono privilegi. Ora che questi ragazzi giungono ai gradi di istruzione elevati, tralasciamo di considerare che hanno beneficiato di scuole private e di un’acculturazione di tipo elitario, e attribuiamo il loro successo all’abilità imprenditoriale. Similmente, quando arriva il momento per i giovani provenienti da quartieri poveri di andare al college, dimentichiamo che sono cresciuti in condizioni svantaggiate, o in comunità dove regna il crimine, e ascriviamo i loro fallimenti alla mancanza di impegno. Le basi di partenza contano. La giustizia è una componente fondamentale del benessere. Come ampiamente dimostrato nel corso del presente volume, le condizioni di ingiustizia all’interno di famiglie, gruppi, scuole, luoghi di lavoro, comunità e nazioni incidono sul benessere in maniera significativa. Assumendo che il benessere consista di componenti oggettive (riparo, nutrizione, salute fisica) e soggettive (senso di controllo, autoefficacia, sostegno sociale), si può ben comprendere come le ineguaglianze interferiscano con l’acquisizione di uno o l’altro tipo di componenti. Tommaso non ha avuto abbastanza opportunità per sperimentare autoefficacia e non ha avuto accesso ad un buon sistema di cura. Niente di ciò è stato una sua colpa. Tommaso è nato in una famiglia dove le opportunità per eccellere a scuola erano limitate a causa dello stato di povertà e dello stress associato. Se la società avesse compreso che il merito non è l’unico criterio in base al quale distribuire le opportunità e le risorse nella società, Tommaso avrebbe beneficiato di altri criteri, quali i bisogni.

PREFAZIONE

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Questo è uno splendido volume perché stimola a comprendere l’ingiustizia dai fattori intra-personali e biochimici alle dinamiche familiari, di gruppo, occupazionali, sociali e nazionali. L’ingiustizia è, dunque, un fenomeno ecologico, il risultato di interazioni psicologiche, sociali, politiche, economiche e storiche. Se volete comprendere perché Niccolò “farà strada” nella vita, sarà più in salute e vivrà più a lungo, dovete leggere questo libro. Se volete proteggere bambini come Tommaso dal perdere opportunità per “crescere bene”, dovete cimentarvi in questa lettura. Seguendo la natura ecologica della giustizia, gli autori affrontano le declinazioni della tematica negli ambienti familiari, scolastici e nei luoghi di lavoro. Rifacendosi a una varietà di approcci psicologici, gli autori riflettono sul contributo dato dalla psicologia evolutiva, sociale, organizzativa e di comunità nel comprendere e far fronte all’ingiustizia. Gli editori dovrebbero essere encomiati per l’esaustiva copertura dell’argomento affrontato e per la sinergia dei capitoli. Ognuno di essi offre qualcosa di nuovo e complementare all’altro. Il sistema capitalista corrente cerca in ogni modo di difendere lo status quo, mentendo sull’equità del libero mercato. Gli psicologi dovrebbero rifiutare lo status quo perché esso respinge milioni di persone, perché è ingiusto ed iniquo. L’assetto economico e politico del capitalismo non regolamentato si poggia sull’ineguaglianza e l’ingiustizia. Più il capitalismo diviene non regolamentato ed estremo, più l’ineguaglianza si diffonde. La principale discussione attorno alla giusta natura del sistema è che assegni uguali opportunità a tutti. Ciò è completamente falso. I bambini poveri cresciuti in comunità cadenti e dove sono presenti scuole con poche risorse hanno molte meno opportunità di “fiorire”. Di fronte a questa sconveniente verità, i difensori dello status quo puntano il dito contro i genitori, accusandoli di misere pratiche parentali. Ma se vi soffermate un momento a riflettere, vi accorgerete che questi genitori una volta erano bambini che sono cresciuti in quartieri infestati dalla droga e con genitori adolescenti che non avevano alcuna idea di come accudire i propri figli. Ciò non importa ai ciechi difensori del sistema vigente. L’ingiustizia respinge non solo l’educazione dei bambini poveri, ma anche la loro salute. Molte persone povere sono cresciute in ambienti tossici che perpetuano il consumo di cibi ad alto contenuto di grassi e limitano le opportunità di esercizio fisico. Gli psicologi dovrebbero contestare la concezione diffusa secondo la quale le persone possono migliorare il proprio stato di salute in qualunque momento “perché sono libere di farlo”. Questo porta ad ignorare le vaste ineguaglianze nelle possibilità di accesso alle risorse che definiscono le opportunità di ciascuno nella vita. Non significa, però, che non

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PREFAZIONE

vi siano entità in grado di lottare per la giustizia sociale. Al contrario, sto asserendo che per risvegliare tali agenzie, abbiamo innanzitutto bisogno di riconoscere che l’ambiente non offre a tutti le stesse opportunità. Le nazioni e le comunità che distribuiscono le risorse più equamente e che permettono un più facile accesso ad ambienti salutari raggiungono migliori livelli di salute e benessere psicosociale, come sottolineato in questo volume. Gli psicologi dovrebbero promuovere i valori di autodeterminazione, empowerment, cura, compassione, rispetto per la diversità e di giustizia sociale nei contesti educativi, clinici, organizzativi, di salute e di comunità. In tutti questi ambienti, dovrebbero sforzarsi di promuovere processi di empowerment e di giustizia. Ciò significa dare voce e possibilità di scelta ai colleghi di lavoro, rispettarne la dignità riconoscendo i loro punti di forza e i poteri differenziali, e ricercare vie per aumentare il controllo sulle loro vite in modi che innalzino l’empowerment reciproco e non la crescita personale. Nei capitoli del presente volume si discute di come agire per la giustizia nei contesti interpersonali, di gruppo, organizzativi e di comunità. I settori della prevenzione e della psicologia di comunità vengono sfidati ad essere più efficienti nei loro sforzi di legare tra loro il benessere e la giustizia. È stato un vero piacere leggere questo libro erudito e completo sulla psicologia e la giustizia. Sono sicuro lo sarà anche per voi. Leggetelo, discutetene e fatene uso. La vita di Tommaso è in bilico. September 5, 2010 School of Education, University of Miami, Florida

Introduzione di Massimo Santinello e Alessio Vieno

Di cosa ci accingiamo a parlare Se doveste far visita ad una qualsiasi organizzazione (scuola, posto di lavoro, associazione) o in un quartiere o comunità e chiedeste alle persone cos’è che non va rispetto al posto dove vivono o trascorrono parte del loro tempo è abbastanza probabile che le argomentazioni finirebbero su temi tipo: “Non è giusto il voto che mi è stato attribuito l’altro giorno dall’insegnante di matematica”, “Il mio salario è davvero inadeguato rispetto a quello dei dirigenti. Non è giusto!”, oppure “Non è giusto che il mio vicino lasci tutti i giorni il cesto dell’immondizia aperta”. Sono queste le frasi più usuali con cui potreste confrontarvi. Le questioni del giusto/ingiusto trattamento attengono dunque al quotidiano di ogni uno di noi. Questioni di (in)giustizia si presentano pertanto in tutti i contesti di vita. I figli pretendono di essere trattati giustamente dai propri genitori o insegnanti, i lavoratori dai loro superiori, i giocatori dagli arbitri; due contendenti cercano giustizia in tribunale e gruppi sociali vessati o “svantaggiati” reclamano giustizia nei rapporti con gli altri e l’intera società. In questo libro tratteremo di questo e non solo. In effetti, non si tratta solo di chiedersi come i singoli individui percepiscono il trattamento o dovrebbero comportarsi gli uni con gli altri, ma anche di domandarsi come dovrebbe essere governata la cosa pubblica e come dovrebbe essere organizzata una comunità o un’intera società. Dai tempi antichi ai giorni odierni il tema dell’(in)giustizia ha sempre affascinato l’uomo, e tale interesse viene legittimato dalla consapevolezza dell’influenza che può esercitare sulla vita delle persone. Le questioni legate alla giustizia, infatti, pervadono ogni società, configurandosi come uno dei propulsori del comportamento umano e contribuendo a plasmare le relazioni sociali e l’organizzazione di una comunità e della società in generale. A parte alcune differenze, il tradizionale approccio filosofico condivide un comune orientamento prescrittivo, concependo la giustizia come un ideale normativo. Nonostante questa direzione continui a prosperare nella filosofia moderna attraverso l’influente lavoro di Rawls e Nozick, l’argomento del-

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INTRODUZIONE

l’ingiustizia viene oggi arricchito dall’approccio descrittivo/euristico delle scienze sociali, che non si focalizza solo su come la giustizia dovrebbe essere ma anche su come essa viene percepita. Giustizia e ingiustizia rappresentano le due facce di una stessa medaglia, per cui non si può rivolgere lo sguardo ad una senza prendere in considerazione anche la sua controparte. Diverse discipline, come la filosofia, la sociologia e l’antropologia, ma anche l’economia, le scienze giuridiche e la sanità pubblica, fino ad arrivare alla psicologia, hanno così tentato di pervenire ad una definizione di tali costrutti, ma sono finite tutte a scontrarsi con le difficoltà nel catturarne le infinte sfaccettature…«Justice is like a greased pig, it yells loudly, but is hard to catch» (autore sconosciuto, citato in Tornblom, 1992, p. 177). Pertanto, nelle diverse branche di sapere, così come all’interno dello stesso campo, si riscontrano soventemente definizioni molteplici di giustizia, e l’unica accezione condivisa sembra essere che persone diverse in contesti differenti abbiano una propria concezione di giustizia e, conseguentemente, di ingiustizia (Drew, Bishop e Syme, 2002). Nel tentativo di guidare il lettore nell’intricata trama della psicologia dell’ingiustizia sociale, abbiamo suddiviso questo volume in tre parti principali: la prima inerente i modelli teorici che in psicologia si sono occupati dell’(in)giustizia, la seconda sulle ricerche e i risvolti applicativi in diversi ambienti sociali, e, infine, la terza offre alcuni spunti di riflessione circa i possibili strumenti e le strategie da utilizzare allorché ci si accinge a lavorare con l’ingiustizia. Abbiamo aperto il volume (capitolo uno, di Mazzardis e Santinello), dunque, con una panoramica circa lo stato dell’arte di quelle che sono le teorie che, anche se non sempre in maniera diretta ma talvolta ricorrendo a concetti quali “sviluppo morale”, “punizione” o “senso di colpa”, si sono occupate della tematica dell’(in)giustizia in psicologia, prestando però un occhio particolare all’approccio psicosociale, che è quello che a noi sembra maggiormente adattato a coglierne la variegata molteplicità di forme e luoghi in cui questa si declina. In tale ambito, i contribuiti hanno principalmente ruotato intorno all’esamina di due tipologie di giustizia: distributiva e procedurale, riferendosi con la prima alla corretta distribuzione di benefici ed oneri generata dalle procedure (il focus, quindi, è sui risultati), e con la seconda al sistema delle procedure che regola la distribuzione di benefici ed oneri (focus sui processi). Nel secondo capitolo (di Chieco e Vieno) vengono, invece, passate in rassegna quelle che possono essere le conseguenze della percezione di ingiustizia in termini di benessere psicosociale. Tali tematiche non possono che intrigare una disciplina come la psicologia, ed in particolare quella di

INTRODUZIONE

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comunità, che mira a promuovere il benessere, la salute e la qualità della vita delle persone, siano esse individui, piccoli gruppi o comunità allargate. Nella seconda parte di questo volume abbiamo cercato di entrare nello specifico dei contributi teorico-empirici ai fini di farvi familiarizzare e comprendere come il senso di ingiustizia nasce e si sviluppa negli individui fin dalle prime fasi del ciclo di vita (terzo capitolo, di Gini e Pozzoli) e all’interno di diversi contesti, che vanno da quello familiare e scolastico (quarto capitolo, di Rubini e Moscatelli) a quello lavorativo (quinto capitolo, di Berti). Verrà, inoltre, fatta luce su come essa agisce nei rapporti intergruppi, ma anche su come, in presenza di alta identificazione, possa favorire lo sviluppo di comportamenti proattivi, cooperativi e di aiuto reciproco a livello intragruppo (sesto capitolo, di Latrofa e Vaes). Ancora, verranno presentati alcuni contributi che sottolineano come percepire ingiustizia/e possa fungere da catalizzatore per la mobilitazione dei cittadini e la partecipazione alla vita pubblica (settimo capitolo, di Fedi e Mannarini), fino a giungere all’ottavo capitolo (di Lenzi, Vieno e Perkins) che, invece, si spinge oltre la percezione nel tentativo di mostrare, attraverso una prospettiva macrosistemica più complessiva, come le ineguaglianze riflettano questioni di ingiustizia sociale che finiscono con l’avere importanti ricadute sulla salute di popolazioni intere. Infine, la terza ed ultima sezione tenta di addentrarsi nello specifico delle possibili strategie e dei possibili strumenti a disposizione dello psicologo finalizzati alla riduzione dell’ingiustizia e dei vissuti ad essa connessi (nono capitolo, di Zamperini e Menegatto), così come alla prevenzione della stessa nei vari livelli (decimo capitolo, di Chieco e Mazzardis).

La psicologia di comunità e l’interdisciplinarietà come approccio allo studio dell’ingiustizia Prima di addentrarvi nel volume, ci sembra rilevante offrirvi la cornice complessiva di lettura dell’ingiustizia che ci ha guidato nella sua pianificazione. In effetti, secondo il nostro punto di vista ed alla luce delle molte evidenze empiriche analizzate, per comprendere il momento in cui gli individui pronunciano la frase “non è giusto” risulta fondamentale conoscere sia i processi cognitivo-relazionali che vi sottostanno, sia il contesto (da quello più stretto a quello più allargato) dove questo si sviluppa, oltre che la loro inevitabile interazione. Contrariamente al tentativo della maggior parte delle scienze in generale, e degli approcci psicologici in particolare, secondo cui per ottenere

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scientificità oggettiva è necessario ricercare trascendenza epistemologica, fin dai suoi albori la psicologia di comunità riporta al centro la dimensione etico-valoriale, insistendo sulla dialettica che questa intrattiene con la ricerca scientifica: infatti, mentre i valori informano la scienza circa la visione ideale della società, la scienza indica i metodi da impiegare per raggiungere cambiamenti sociali. La psicologia di comunità, quindi, fonda teoria, ricerca ed intervento su entrambi questi aspetti, ispirandosi ad una serie di valori chiave come guida per le azioni di individui e della società più allargata. In tal senso, si è giunti ad individuare un set di valori, tra cui quello della giustizia sociale, che si completano a vicenda come base per la scelta degli obiettivi da perseguire e delle strategie maggiormente efficaci per raggiungerli (Prilleltensky, 1994; 2001). Nello specifico, per la promozione del benessere personale ci paiono centrali i valori di autodeterminazione, salute e crescita personale. Il rispetto per la diversità e i processi di collaborazione e partecipazione democratica si collocano, invece, a livello relazionale, giacché fungono da ponte tra la sfera personale e quella collettiva. Infine, i valori a livello collettivo sono rappresentati dal sostegno alle strutture presenti nella comunità (siano esse sociali, educative o sanitarie) e dalla giustizia sociale. Tali valori sono tra loro interdipendenti, vale a dire che ognuno di essi ricerca determinati fini tenendo in considerazione anche gli altri e, operando in sinergia, sono in grado di promuovere salute e benessere ai vari livelli (Prilleltensky e Nelson, 1997). A titolo esemplificativo, la salute promuove il benessere fisico e psicologico di individui e gruppi tenendo comunque conto dei fattori economici e strutturali che incidono sulla salute della popolazione in generale ed, inoltre, ha ricadute sul grado di autodeterminazione e crescita personale dei singoli, in quanto comporta l’acquisizione di specifiche abilità e richiede la messa in atto di cambiamenti comportamentali. Oppure, i processi di collaborazione e partecipazione democratica consentono di instaurare dialoghi e relazioni basate su processi collaborativi e rispettosi di modo che gli interessi di un gruppo non prevalgano sugli altri, rispondendo così al bisogno di agire per la giustizia sociale. Rispetto a quest’ultimo aspetto, centrale in questa trattazione, riteniamo che affinché gli individui esperiscano benessere a livello personale, sia necessario agire anche sul versante collettivo, attraverso una giusta collocazione delle risorse nella società che tenga conto anche dei gruppi più svantaggiati, così da migliorare la qualità di vita di tutti i cittadini e non solo di coloro che già detengono potere e le abilità e risorse necessarie per vedere soddisfatti i propri bisogni. L’orientamento per la “persona-nel-contesto” adottato dalla psicologia

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di comunità deve pertanto seguire ad un’attenta epistemologia socio-ecologica in grado di cogliere la complessità dei fenomeni sociali. Fondacaro e Weinberg (2002) si azzardano addirittura a sostenere che la disciplina non può sopravvivere se è incapace di provvedere basi scientificamente valide per stimare, valutare e risolvere le evidenze di (in)giustizia nei diversi contesti sociali.

Buona lettura Questo volume si rivolge agli studenti di psicologia, ai professionisti che operano nella comunità, e più in generale a tutti coloro che almeno una volta nella vita si sono ritrovati a pensare “non è giusto” o a chiunque abbia voglia di respirare un po’ di “giustizia” insieme a noi. A volte si tratta di una leggera brezza, a volte di un vento impetuoso ma, in ogni caso, crediamo si tratti sempre di una storia tanto avvincente quanto penetrante. Vi lasciamo così alla lettura del volume, con la speranza che queste pagine possano contribuire a una migliore comprensione di tale tematica e soprattutto suggerirvi strumenti per lo sviluppo d’interventi per la promozione della giustizia in futuro. Ci auguriamo altresì che anche voi possiate provare lo stesso entusiasmo che ci ha pervaso sin dal primo momento in cui ci siamo addentrati nel mondo dell’ingiustizia.

Parte prima Psicologia e ingiustizia: prospettive teoriche

Capitolo primo L’in-giustizia nelle teorie psicologiche di Sonia Mazzardis e Massimo Santinello

Supponete ancora che parecchie società distinte mantengano dei rapporti per il vantaggio e l’utilità che essi potrebbero reciprocamente derivare; i confini della giustizia si allargherebbero ancora, in proporzione alla larghezza delle vedute umane ed alla forza delle connessioni reciproche. La storia, l’esperienza, la ragione ci istruiscono abbastanza su questo naturale progresso dei sentimenti umani e sul graduale allargarsi della nostra considerazione per la giustizia, in proporzione alla conoscenza che acquistiamo dell’ampia utilità di questa virtù. (David Hume)

1.1. Introduzione Sebbene il costrutto di giustizia e, conseguentemente, quello di ingiustizia sia stato oggetto di interesse di studiosi provenienti da diversi campi, è diventato materia di studio delle ricerche psicologiche solo recentemente. Nonostante ciò, numerose teorie psicologiche hanno trattato il tema, pur non focalizzandosi esclusivamente su di esso. Per fornirne una definizione psicologica che risulti esaustiva è, perciò, necessario concentrarsi non solo sui contributi sviluppati negli ultimi decenni, ma anche sulle teorie che hanno affrontato tale argomento in maniera indiretta. Già all’interno della prospettiva psicoanalitica, Freud analizza lo sviluppo morale del bambino, descrivendo una parte dell’Io, la coscienza morale, che si oppone alle altre, le giudica criticamente e le assume come oggetto. La coscienza morale (Super-Io) viene posta, inizialmente, in relazione con la formazione di un Io ideale cui viene rivolta la libido narcisistica. In un secondo momento, Freud riconosce che l’origine di tale istanza è costituita dall’immagine dei genitori così come appare al bambino nei primi mesi di vita (Weiss, 1933). In L’Io e l’Es (1976), infatti, egli descrive compiutamente il Super-Io, definendolo come un’istanza psichica separata dall’Io, che mantiene rapporti specifici con le altre istanze (Io ed Es), e che nasce dall’in-

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NON

È GIUSTO.

PSICOLOGIA

DELL’INGIUSTIZIA SOCIALE

troiezione del Super-Io dei genitori a seguito della risoluzione del complesso di Edipo. Con il superamento di tale fase, il bambino interiorizza codici di comportamento, norme, divieti, ingiunzioni e valori, condivisi ed appresi nel rapporto instaurato con i genitori. Al Super-Io sono, pertanto, assegnate funzioni di controllo dell’Io e la formazione della coscienza morale, in questa prospettiva, si realizzerebbe in adolescenza al termine di un lungo processo di acquisizione e revisione dei codici comportamentali interiorizzati, come frutto del complesso edipico e della dipendenza genitoriale. Tabella 1.1 – Principali contributi teorici che hanno affrontato il tema della giustizia in Psicologia Contributi teorici Cosa propone Teorie sullo sviluppo morale Concezione stadiale dello svi(Piaget,1972; luppo morale; studio del penKohlberg,1958, 1984) siero morale per comprendere in quale periodo viene acquisita la comprensione di temi quali il “bene” e il “male”, i diritti e la giustizia Teoria dell’autoefÞcacia Sviluppo morale all’interno di (Bandura, 1986) un processo interattivo globale, che include fattori individuali, ambientali e sociali; individuazione di controlli morali interni Credenza in un mondo giusto Basata sull’assunto che le per(Lerner, 1980) sone sentono la necessità di credere in un mondo giusto in cui ricevono ciò che meritano e meritano ciò che ricevono; riferimento al concetto di giustizia immanente Social Intuitionist Model Individuazione delle “intuizioni (Haidt, 2001, 2007) morali”, che compaiono dopo aver ascoltato una storia o aver assistito ad una scena che implica una violazione morale; ragionamento verbale conscio inßuenzato dall’intuizione morale iniziale; identiÞcazione delle aree cerebrali attivate in risposta a dilemmi morali Event-Feature-Emotion I fenomeni morali derivano Complex Framework dall’integrazione di tre compo(Moll et al., 2005) nenti: conoscenza strutturata degli eventi, caratteristiche sociali percettive e funzionali, stati emotivi

In cosa differisce Studio sistematico delle tappe di sviluppo morale, la cui acquisizione avviene parallelamente a quella delle abilità cognitive

Non propone una concezione stadiale e gerarchica dello sviluppo morale

Cerca di veriÞcare la relazione tra credenza in un mondo giusto, giustizia e sviluppo morale: la credenza in un mondo giusto è considerata come precursore dello sviluppo del giudizio morale Integra gli apporti delle ricerche condotte sull’automatismo con le scoperte effettuate nel campo delle neuroscienze e della psicologia evolutiva

Accanto ai meccanismi cognitivi considera anche aspetti motivazionali ed emotivi

L’IN-GIUSTIZIA

NELLE TEORIE PSICOLOGICHE

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Proponendosi come obiettivo la presentazione di alcune teorie psicologiche che hanno analizzato e approfondito lo studio del costrutto di giustizia, il presente capitolo verrà articolato in modo da esporre alcuni contributi prodotti all’interno della prospettiva cognitivo – evolutiva, delle Neuroscienze e della Psicologia Sociale. Nei primi paragrafi verranno, pertanto, affrontate le teorie sullo sviluppo morale, la teoria dell’autoefficacia, la credenza in un mondo giusto e il Social Intuitionist Model (cfr. Tabella 1.1). Successivamente, verranno esposte le teorie che si sono focalizzate sulla giustizia sociale, prendendo in analisi quelle relative alla giustizia distributiva, alla giustizia procedurale, il contributo teorico di Bies e Moag sulla giustizia relazionale e, infine, l’approccio integrato alla giustizia (cfr. Tabella 1.2).

1.2. Le teorie sullo sviluppo morale All’interno della letteratura psicologica, è stato evidenziato come gli individui condividano e agiscano sulla base di principi morali relativi all’equità e alla percezione di giustizia. Nel tentativo di comprendere come tali principi vengano acquisiti, risulta fondamentale approfondire lo studio delle teorie sullo sviluppo morale. Tali teorie cercano di spiegare «come gli individui sviluppano valori morali e come tali valori guidano il modo in cui le persone si relazionano con gli altri» (Thomas e Chess, 1977). Lo studio dello sviluppo del senso morale risulta, infatti, strettamente connesso alla riflessione sul costrutto di giustizia, riguardando la comprensione del periodo in cui emerge e di come cambia il ragionamento dei bambini circa temi quali il “bene” e il “male”, il rispetto degli altri, i diritti e la giustizia all’interno delle relazioni interpersonali (vedi Capitolo 3). Sebbene numerosi teorici abbiano analizzato l’acquisizione del giudizio morale, Piaget e Kohlberg vengono annoverati come i due studiosi che maggiormente hanno contribuito allo studio dello sviluppo morale. Ne Il giudizio morale nel fanciullo (1972), Jean Piaget approfondisce lo sviluppo del giudizio morale nei bambini rifacendosi, in particolare, alle regole del gioco. Secondo Piaget, lo sviluppo morale è influenzato dall’ambiente in cui vive il bambino e dallo stadio dello sviluppo cognitivo raggiunto. In particolare, egli nota come sia possibile rintracciare un cambiamento nello sviluppo morale all’incirca nello stesso periodo in cui avviene il passaggio dal pensiero preoperatorio a quello operatorio, intorno ai 10-11 anni. L’autore, adottando una prospettiva cognitivo – evolutiva, teorizza una concezione stadiale dello sviluppo della moralità, identificando due tipi di moralità, eteronoma e autonoma.

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È GIUSTO.

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Dopo una prima fase, definita di anomia morale (0-5 anni), caratterizzata da scarsa attenzione rivolta alle regole e non consapevolezza delle stesse, si evidenzia una fase di eteronomia morale (5-8 anni), detta anche realismo morale, in cui i bambini seguono le regole dettate dagli adulti in posizione di autorità, come insegnanti e genitori, in quanto le ritengono fisse ed immutabili. I bambini, in questa fase, basano i loro giudizi morali più sulle conseguenze che sulle intenzioni. Questa fase si collega ad una prospettiva egocentrica del mondo e al predominare di un modo di pensare realistico, tipico del pensiero preoperatorio. Emerge l’idea che ogni trasgressione debba essere sanzionata con una punizione severa (sanzione espiatoria), necessaria per riparare alla rottura dei rapporti con i genitori, avvenuta a seguito di un atto di disobbedienza. Nella seconda fase, quella di autonomia morale, detta anche relativismo morale, a partire dagli 8 anni, i bambini iniziano a considerare le regole come mezzi che gli esseri umani usano per vivere in società. Le regole non sono immutabili, ma sono dovute al consenso reciproco e per questo possono essere cambiate. I giudizi sono basati sulle intenzioni e prevale la morale della responsabilità soggettiva, secondo la quale l’obbedienza alle regole è subordinata al rispetto per le aspettative e il benessere altrui, più che al rispetto per l’autorità (Crain, 1985). Si assiste, quindi, al passaggio dall’egocentrismo infantile alla comprensione della prospettiva altrui. Intorno ai 10-11 anni, infatti, le capacità cognitive dei bambini maturano e le regole vengono seguite in quanto contestualizzate all’interno della comunità di appartenenza e nelle relazioni che i bambini intrattengono con gli altri (Crisp et al., 2005). Gli studi di Piaget sono stati ripresi ed ampliati da Lawrence Kohlberg (1958, 1984), che ha elaborato una teoria dello sviluppo morale a sei stadi. All’interno di questa cornice teorica, l’autore propone un parallelismo tra le fasi dello sviluppo intellettivo identificate da Piaget e lo sviluppo morale, indicando come quest’ultimo non possa avvenire senza l’acquisizione delle competenze intellettive. Secondo Kohlberg, infatti, lo sviluppo morale è guidato non tanto dalla maturazione cerebrale quanto dall’acquisizione della capacità di assumere la prospettiva dell’altro. Ritenendo necessario andare oltre al contributo offerto da Piaget, egli identifica tre livelli dello sviluppo morale, ognuno dei quali suddiviso in due stadi. Il primo livello, detto moralità preconvenzionale, è tipico dei bambini al di sotto dei 9 anni ed è costituito dallo stadio orientamento premio/punizione e dallo stadio individualismo e scambio. Nel primo stadio, simile al primo stadio di Piaget, il bambino crede che le regole siano fissate dall’autorità e che, quindi, vi si debba adeguare per evitare punizioni. Questo

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stadio viene definito da Kohlberg preconvenzionale, in quanto i bambini non si ritengono membri della società e vedono la moralità come qualcosa a loro estraneo. Nel secondo stadio, i bambini riconoscono che non esiste un unico modo di vedere, stabilito dalle autorità, ma che ogni individuo possiede un proprio punto di vista. Dal momento che tutto è relativo, ogni persona è libera di perseguire i propri interessi personali. Coloro che sono a questo stadio ragionano ancora a livello preconvenzionale, in quanto parlano come individui isolati più che come membri della società, non essendoci un’identificazione con i valori della famiglia e della comunità. Sia al primo che al secondo stadio, i bambini parlano di punizioni, sebbene le percepiscano in maniera differente. Nello stadio orientamento premio/punizione la punizione è associata all’errore, mentre nella fase individualismo e scambio è percepita solo come un rischio che ogni persona cerca di evitare. Il secondo livello, detto moralità convenzionale, si suddivide nello stadio delle buone relazioni interpersonali e in un quarto stadio detto mantenimento dell’ordine sociale. Nel terzo stadio, i ragazzi, che sono in fase adolescenziale, vedono la moralità come un patto, per cui le persone dovrebbero essere all’altezza delle aspettative familiari e della comunità e comportarsi in modo “corretto”. Il comportamento corretto viene definito come avere buone intenzioni e sentimenti interpersonali positivi, quali amore, empatia, fiducia e interesse per gli altri. Durante il quarto stadio, invece, la persona diventa più consapevole della società nella sua interezza. Il focus è rivolto all’obbedienza alle leggi, al rispetto dell’autorità e all’esecuzione dei propri doveri in modo che sia mantenuto l’ordine sociale. Il terzo livello, infine, denominato moralità post-convenzionale, viene raggiunto da una minoranza di persone ed è suddiviso in contratto sociale e diritti individuali e principi universali. Nel quinto stadio, le persone iniziano a pensare alla società in maniera teorica, considerando i diritti e i valori che ogni società dovrebbe riconoscere. Alla luce di tali considerazioni, valutano le società esistenti, ritenendo che una buona società possa essere concepita come un contratto sociale nel quale le persone entrano a lavorare per il bene di tutti. Riconoscono che diversi gruppi sociali all’interno della società possono avere punti di vista differenti, ma ritengono che tutti vogliano il riconoscimento di alcuni diritti, come la libertà e la vita, e di procedure democratiche per modificare leggi ingiuste e migliorare la società. L’ultimo stadio, quello dei principi universali, è tipico delle persone che riflettono sui principi attraverso i quali viene raggiunta la giustizia e che si conformano ai principi individuali per evitare l’autocondanna. Entrambe le prospettive teoriche sono state oggetto di critiche (Gilligan, 1982; Hogan, 1975). Sia la teoria dello sviluppo morale di Piaget sia quella di Kohlberg sono state

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criticate da numerosi studiosi, tra cui Bandura, per la concezione stadiale e gerarchica in esse proposta.

1.3. Lo sviluppo morale secondo la teoria dell’apprendimento sociale In accordo con la prospettiva sociale cognitiva, Bandura (1986) sostiene che lo sviluppo morale avvenga all’interno di un processo interattivo globale, nel quale sono inclusi fattori individuali, ambientali e sociali. L’individuo apprende, secondo la teoria dell’apprendimento sociale (Social Learning Theory), le norme del comportamento morale attraverso l’esperienza (rinforzi positivi o punizioni). I comportamenti morali, inizialmente, vengono acquisiti non tramite rinforzo, ma spontaneamente attraverso l’osservazione e l’imitazione: un comportamento, infatti, per essere rinforzato, deve prima prodursi spontaneamente. In accordo con quanto proposto all’interno della teoria, l’apprendimento può avvenire sia attraverso esperienze dirette, sia attraverso esperienze indirette. Si parla di modeling o apprendimento vicariante per indicare la modificazione o l’apprendimento di comportamenti in funzione del comportamento di un altro che funge da modello. Secondo Bandura, l’esposizione a modelli comportamentali, offerti da genitori, pari, altri adulti, e diversi dai propri può modificare lo sviluppo del giudizio morale nel bambino. Analizzando la relazione tra giudizio morale e condotta morale, evidenzia come l’influenza reciproca di pensiero e condotta, quindi fattori individuali, e fattori sociali sia responsabile di una possibile discrepanza tra giudizio e condotta. Se, ad esempio, esistono circostanze sociali in cui il comportamento trasgressivo è difficilmente giustificabile a se stessi, verranno adottate, con maggiore probabilità, azioni congruenti con gli standard morali. Specifica attenzione, inoltre, viene posta all’organizzazione di controlli morali interni, considerati come parte integrante della moralità, che possono assumere carattere anticipatorio, prevenendo l’attuazione di comportamenti contrari ai propri modelli (auto-censura anticipatoria). Secondo Bandura, esistono dei meccanismi e delle condizioni che, nel corso della socializzazione, determinano l’attivazione e la disattivazione dei controlli morali interni, agendo come cause del comportamento. Bandura ha individuato alcuni di questi meccanismi: • la giustificazione morale, attraverso la quale comportamenti socialmente indesiderati vengono resi accettabili personalmente e socialmente attraverso una loro ricostruzione cognitiva o forme di ideologizzazione;

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• l’etichettamento eufemistico, che può consentire, attraverso una distorsione concettuale del vero significato dell’azione, di ridimensionare la dolorosità delle conseguenze; • il confronto vantaggioso, operante tramite un confronto tra la propria azione e condotte moralmente peggiori, favorendo il ridimensionamento, per contrasto, della valenza immorale del proprio comportamento; • il dislocamento della responsabilità, all’interno del quale agisce un processo di attribuzione causale delle responsabilità di un atto a persone o a circostanze; • la diffusione della responsabilità, per cui le decisioni del gruppo o le esigenze del sistema frammentano od oscurano le responsabilità individuali; • la non considerazione o distorsione delle conseguenze, nella quale opera una minimizzazione o una selezione strumentale nella rappresentazione delle conseguenze positive o negative dell’atto; • la svalutazione o deumanizzazione, realizzata attraverso il biasimo o la negazione di caratteristiche umane di altre persone; • l’attribuzione di colpa, per cui ci si convince che l’offesa arrecata alla vittima è da lei pienamente meritata. Questi processi di disattivazione o disimpegno dei controlli morali agiscono in diversi modi e a seconda delle circostanze. Nonostante la teoria dello sviluppo morale di Bandura sia sostenuta da numerose evidenze empiriche (Caprara, 1997), è stata criticata per la scarsa attenzione rivolta al modo in cui si producono i pensieri e i comportamenti, a seguito dell’integrazione tra gli stadi evolutivi e le situazioni ambientali.

1.4. La credenza in un mondo giusto Nell’ampio panorama delle teorie psicologiche che hanno affrontato il tema della giustizia, la teoria della credenza in un mondo giusto (Lerner, 1980) postula che le persone sentano la necessità di credere in un mondo giusto in cui ricevono ciò che meritano e meritano ciò che ricevono. La credenza in un mondo giusto rappresenta, secondo alcuni autori (Dalbert, 2001), un’illusione positiva in quanto, favorendo la percezione di un mondo ricco di significato, ordinato e prevedibile, ha un effetto positivo sul benessere individuale. Secondo una prospettiva evolutiva, i bambini sviluppano e acquisiscono, fin dai primi anni di vita (vedi Piaget, 1972), alcune idee di giustizia. In accordo con questo approccio, la credenza che vi sia una relazione tra ciò che le persone meritano e il loro comportamento è basata sul concetto di

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giustizia immanente, tipico della fase di eteronomia morale. In questa fase, le spiegazioni fondate sulla giustizia immanente sono guidate da un’idea delle regole come rigide e immutabili e dalla convinzione che vi sia contiguità tra trasgressione e punizione. In accordo con quanto emerso dagli studi di Piaget, il bambino in questa fase ritiene che ad ogni errore consegua una punizione. Ad esempio, al quesito “Se il bambino non avesse rubato le mele ed avesse lo stesso passato il fiume sul ponte insicuro, sarebbe ugualmente caduto nell’acqua?”, la maggior parte dei bambini intervistati da Piaget al di sotto dei 9-10 anni rispondeva di no, confermando il ricorso ad un ragionamento di causalità immanente. Con lo sviluppo e l’acquisizione di nuove competenze cognitive, le spiegazioni basate sulla giustizia immanente vengono sostituite da spiegazioni causali più realistiche, portando così ad un progressivo declino delle credenze di giustizia immanente (Oppenheimer, 2005). In linea con le fasi dello sviluppo morale individuate da Piaget (1972) e Kohlberg (1958, 1984), infatti, l’acquisizione di forme di pensiero legate alla giustizia e alla moralità più mature favorisce il superamento di una modalità di ragionamento basata sulla causalità immanente. Nonostante questo graduale esaurimento, le credenze relative ad un mondo giusto e ordinato vengono però, almeno in parte, mantenute fino all’età adulta (Karniol, 1980; Piaget, 1972). Sembra, infatti, che alcuni adulti sentano la necessità di credere che il mondo in cui vivono offra alle persone la possibilità di ottenere ciò che meritano (Lerner e Miller, 1978). Numerose ricerche sono state condotte per verificare la relazione tra credenza in un mondo giusto, giustizia e sviluppo morale (Oppenheimer, 2005). Sebbene la credenza in un mondo giusto venga considerata, all’interno della letteratura psicologica, come un precursore dello sviluppo del giudizio morale, è stata posta in luce l’esistenza di una relazione negativa tra il costrutto di giustizia immanente e lo sviluppo morale (Dalbert, 2001; Karniol, 1980). Con lo sviluppo del giudizio morale e l’acquisizione di competenze cognitive, infatti, i bambini e gli adolescenti tendono a ricorrere a forme di giudizio morale distanti da quelle proprie della fase di eteronomia morale. Alcuni autori (Furnham, 2003; Oppenheimer, 2005), inoltre, hanno sostenuto che la credenza in un mondo giusto non possa essere considerata un precursore dello sviluppo morale, bensì un meccanismo di coping utilizzato per affrontare un mondo valutato come caotico e instabile. Oppenheimer (2005) ha ipotizzato che la credenza in un mondo giusto sia funzionale per affrontare un mondo percepito come caotico, per cui, a fronte di forme di ragionamento morale più complesse, non essendo più necessario conferire ordine e stabilità al mondo circostante, viene meno la necessità di ricorrere alla credenza in un mondo giusto.

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1.5. La rivoluzione affettiva e il giudizio morale Durante la rivoluzione cognitiva degli anni Cinquanta e Sessanta, le teorie che hanno affrontato lo studio del giudizio morale (vedi paragrafo 1.2.), hanno dato la precedenza allo sviluppo di modelli mentali e al processamento delle informazioni come cornice di riferimento principale. Kohlberg, ad esempio, ha posto in evidenza come lo sviluppo morale sia guidato non tanto dalla maturazione cerebrale, quanto dalla capacità di assumere prospettive diverse nella risoluzione dei problemi, capacità che viene acquisita parallelamente allo sviluppo di competenze cognitive. Se, da una lato, i teorici dello sviluppo morale si sono a lungo focalizzati sui processi cognitivi associati all’acquisizione del giudizio morale, dall’altro, però, alcune evidenze empiriche, provenienti dalla psicologia evolutiva e dalla primatologia hanno indicato come l’origine della moralità sia da rintracciare in un insieme di emozioni, legate ad alcune abilità cognitive, che spingono gli individui a preoccuparsi del benessere altrui, della cooperazione e del rispetto delle norme (Greene e Haidt, 2002). Questa nuova prospettiva di studio, che ha preso corpo durante la “rivoluzione affettiva”1, è stata sostenuta, inizialmente, da alcune ricerche (Bargh e Chartrand, 1999) incentrate sull’automatismo, ovvero la capacità della mente di risolvere molti problemi inconsciamente ed automaticamente. Successivamente, gli studi sul giudizio morale sono stati ripresi ed ampliati dal Social Intuitionist Model, un modello multicomprensivo che integra gli apporti delle ricerche condotte sull’automatismo con le scoperte effettuate nel campo delle neuroscienze e le teorie sviluppate in seno alla psicologia evolutiva (Haidt, 2001). Secondo questo modello, dopo aver ascoltato una storia o aver assistito ad una scena che implica una violazione morale, proviamo immediate sensazioni di approvazione o disapprovazione, definite come “intuizioni morali”. Tali intuizioni sono descritte come processi rapidi, automatici, carichi di emozioni ed influenzati dalle caratteristiche culturali della società in cui l’individuo vive, in cui i giudizi di buono-cattivo o bello-brutto compaiono senza che vengano soppesati intenzionalmente i fatti (Haidt, 2007; Woodward e Allman, 2007). Secondo quanto previsto nel Social Intuitionist Model, solo a seguito dell’attivazione di questo processo automatico 1

La rivoluzione affettiva, che si è sviluppata durante gli anni Ottanta, è nata in risposta alla rivoluzione cognitiva, caratterizzandosi per un incremento nella ricerca sulle emozioni. Nello specifico, si sottolinea come l’origine della moralità umana sia da ricercare in un set di emozioni che spingono gli individui a preoccuparsi degli altri e ad interessarsi della cooperazione e del rispetto delle norme.

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è possibile intraprendere un ragionamento verbale conscio, che risulta spesso influenzato dall’iniziale intuizione morale (Haidt, 2007). Il ragionamento morale, pertanto, è considerato come un processo post-hoc nel quale l’individuo ricerca prove che supportino la sua reazione iniziale. La validità di questo modello è stata posta in evidenza da studi che hanno dimostrato come le persone abbiano reazioni immediate a scene o storie che implicano violazioni morali e che tali reazioni emotive sono solitamente predittive di giudizi morali e di comportamenti (Luo et al., 2006; Sanfey et al., 2003). Ulteriori indicazioni provengono da studi di neuroimaging, che hanno facilitato l’individuazione delle basi biologiche del comportamento morale umano (Damasio, 2007; Greene et al., 2001; Moll et al., 2005). Greene e collaboratori (2001), ad esempio, hanno rilevato, attraverso la risonanza magnetica funzionale (fMRN), l’attivazione di “circuiti emotivi” in soggetti sani a cui erano stati presentati dilemmi non morali e dilemmi morali sotto forma di immagini proiettate su uno schermo (cfr. Box 1.1). Box 1.1 – I dilemmi morali Greene e collaboratori (2001), allo scopo di studiare il giudizio morale, sottoposero ad alcuni partecipanti una serie di sessanta dilemmi non morali e morali, distinti, a loro volta, in morali personali e morali impersonali. Uno di questi, conosciuto come il dilemma del carrello, prevede che, all’interno di una stazione, un carrello ferroviario perda il controllo, rischiando di uccidere cinque persone che si trovano lungo il suo percorso e che non possono fare nulla per evitare il suo impatto. L’unico modo per salvarle è di premere un pulsante in modo da deviare il percorso del carrello su un binario, provocando, in questo modo, la morte di una persona che si trova su questo tratto alternativo. Se si decidesse di non agire il carrello ucciderebbe ugualmente cinque persone, mentre, intervenendo, ne morirebbe una sola. Ai partecipanti allo studio venne, dunque, richiesto se ritenessero opportuno premere il pulsante. La maggior parte dei partecipanti rispose di ritenere che il premere il pulsante fosse un’azione appropriata. In un secondo dilemma, ai partecipanti venne presentata la seguente situazione. Come nel dilemma precedente, un carrello ferroviario rischia di uccidere cinque persone, per le quali non esiste via di fuga. Su un ponte pedonale, sospeso sui binari della ferrovia, c’è un uomo massiccio e sconosciuto. L’unico modo di salvare le cinque persone è di spingere l’uomo giù dal ponte, impedendo al carrello di uccidere i cinque operai. In questo modo, però, l’uomo morirebbe. I partecipanti, a cui venne richiesto se ritenessero opportuno salvare le cinque persone buttando giù dal ponte l’uomo, risposero di non giudicarlo appropriato. Greene e collaboratori (2001) sostennero che, da un punto di vista psicologico, la differenza fondamentale fra i due dilemmi risiede nel fatto che vi è un diverso coinvolgimento emotivo. Nel dilemma del ponte pedonale sospeso, infatti, data la natura della situazione presentata, viene richiesta una partecipazione attiva della persona e, quindi, un maggior investimento emotivo rispetto al dilemma del carrello ferroviario, per valutare l’appropriatezza dell’azione da adottare: pensare di causare direttamente la morte di una persona è emotivamente più rilevante rispetto a pensare di premere un pulsante che causerà l’uccisione di una persona.

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I dilemmi morali proposti erano distinti in personali e impersonali. I dilemmi morali erano classificati come personali in base alla probabilità di causare danni fisici gravi, se erano rivolti ad una persona in particolare e se il danno causato alla persona non derivava dal tentativo di deviare una minaccia reale (come invece accade, ad esempio, nel dilemma del carrello ferroviario). Un dilemma morale impersonale veniva classificato come tale se non erano rispettati questi criteri. Ai partecipanti allo studio veniva richiesto di valutare l’appropriatezza delle situazioni presentate nei dilemmi morali, mentre il loro funzionamento cerebrale era studiato mediante un apparecchio di fMRN. I risultati ottenuti nello studio indicavano una maggiore attivazione delle aree del cervello associate alle emozioni – giro frontale medio, giro cingolato posteriore, giro angolare – in risposta a dilemmi morali personali rispetto a quando venivano presentati dilemmi impersonali o non morali (Figura 1.1). Si osservava, inoltre, che le aree associate alla memoria di lavoro, che risultano meno attive durante processi emotivi piuttosto che durante processi cognitivi, mostravano una minore attività quando venivano proposti dilemmi morali personali. Non si osservavano differenze significative, invece, quando venivano presentati dilemmi morali impersonali e dilemmi non morali.

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Figura 1.1 - Aree cerebrali che mostrano differenze di attivazione in risposta a dilemmi morali personali rispetto a quanto avviene per la presentazione di dilemmi morali impersonali e dilemmi non morali. Le aree che mostrano maggiore attivazione a seguito della presentazione di dilemmi personali (rispetto a quanto avviene in risposta a dilemmi impersonali e non morali) risultano essere il giro frontale medio (BA 9/10), il giro cingolato posteriore (BA 31), il solco temporale superiore e il lobo parietale inferiore (BA 39). Le aree che mostrano maggiore attività in risposta a dilemmi morali impersonali (rispetto a quanto avviene in risposta a dilemmi morali personali) sono la corteccia prefrontale dorsolaterale (BA 46), il lobo parietale (BA 7/40). (Tratto da Greene et al., 2001).

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Analizzando, inoltre, i tempi di reazione dei partecipanti, Greene e collaboratori (2001) osservarono un ritardo nei tempi registrati quando la persona forniva una risposta emotivamente incongruente, ovvero quando nella condizione del dilemma morale personale giudicava come appropriato, ad esempio, spingere l’uomo giù dal ponte pedonale. Tale ritardo non si registrava, al contrario, in risposta a dilemmi impersonali o non morali. Questi risultati supportano l’ipotesi che vi sia un maggior coinvolgimento emotivo nella condizione dei dilemmi morali personali e che tale attivazione emotiva influenzi l’elaborazione di giudizi morali. L’incremento dei tempi di reazione in risposta ai dilemmi morali personali, indice di un conflitto interno, suggerisce il ricorso ad un processo aggiuntivo e ad un tentativo di superare l’intuizione morale iniziale. Ciò può avvenire ricorrendo a ragionamenti verbali consci, considerando i costi e i benefici dell’azione, oppure ricontestualizzando la situazione, osservandola da un punto di vista differente o, infine, confrontandosi con altre persone, attraverso l’interazione sociale (Haidt, 2007). Le ricerche di Damasio (2007) su pazienti con danni alla corteccia prefrontale ventromediale, un’area implicata nella percezione delle emozioni, soprattutto quelle di rilevanza sociale, hanno offerto ulteriori conferme alle scoperte di Greene e collaboratori, evidenziando deficit nella capacità di giudizio e di presa di decisioni e ingenti deficit emozionali conseguenti a tali lesioni. Nello specifico, la presenza di deficit affettivi associati ad un decremento della capacità di giudizio e di presa di decisioni, a fronte di capacità cognitive preservate, dimostra come tali processi siano maggiormente influenzati dalle emozioni, piuttosto che essere il risultato di un ragionamento cognitivamente fondato. In particolare, i pazienti con tale tipo di lesione ricorrevano più frequentemente ad un comportamento utilitarista rispetto a soggetti sani in risposta a dilemmi morali personali, caratterizzati da elevata conflittualità interna, mentre non mostravano differenze significative in risposta agli altri dilemmi (Koenigs et al., 2007). Tali risultati offrono ulteriore supporto al ruolo che le emozioni rivestono nella elaborazione dei giudizi morali e alla necessità di considerare i giudizi morali come il frutto di processi sia cognitivi che emotivi (Greene e Haidt, 2002). Alcuni studi effettuati nel campo delle neuroscienze cognitive (Moll et al., 2005) hanno, però, indicato che i meccanismi neurali alla base della cognizione morale non sono circoscritti alla corteccia prefrontale, all’area limbica o ad altre aree del cervello. L’analisi critica delle teorie e dei modelli, in precedenza sviluppati nell’ambito delle neuroscienze, ha portato all’elaborazione dell’Event–Feature-Emotion Complex Framework, secondo cui i fenomeni morali (cognitivi e comportamentali) derivano dall’integrazione

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di tre componenti, ovvero della conoscenza strutturata degli eventi, delle caratteristiche sociali percettive e funzionali e degli stati emotivi. Gli esseri umani, infatti, quando valutano il comportamento degli altri e quando comprendono le loro azioni in una data situazione, integrano differenti elementi del contesto nel quale sono inseriti. La formulazione di giudizi morali impliciti o espliciti richiede, inoltre, la capacità di estrapolare caratteristiche percettive – ad esempio, della faccia, della voce, della postura –da differenti situazioni sociali. Secondo l’EFEC, è necessario, però, considerare, accanto a questi meccanismi cognitivi anche aspetti motivazionali ed emotivi che possono suscitare, ad esempio, ansia e attaccamento e, conseguentemente, favorire la messa in atto di comportamenti (Moll et al., 2005).

1.6. Psicologia sociale e giustizia Nei paragrafi successivi, verranno presentati i contributi teorici che hanno studiato la percezione di giustizia sociale. Saranno, in primo luogo, approfondite le teorie sulla giustizia distributiva e quelle sulla giustizia procedurale. Negli ultimi paragrafi, verranno presentati alcuni contributi teorici, sviluppati negli ultimi due decenni, che hanno proposto un’integrazione delle dimensioni, distributiva e procedurale, della giustizia percepita (cfr. Tabella 1.2). Tabella 1.2 – Principali contributi teorici che hanno affrontato il tema della giustizia all’interno della Psicologia sociale Contributi teorici Cosa propone Teoria della deprivazione re- Sentimento di deprivazione relativa (Merton e Kitt, 1950; lativa origina nelle situazioni in Runciman, 1966) cui un individuo o un gruppo si percepisce come ingiustamente svantaggiato rispetto ad altri che presentano caratteristiche simili

In cosa differisce Deprivazione relativa e ingiustizia come esito di un confronto con persone e/o gruppi con attributi simili e non come prodotto di condizioni oggettive

Teorie sulla giustizia distributiva Teoria dello scambio (Ho- Giustizia distributiva come mans, 1961; Blau, 1964) l’aspettativa che, in una relazione di scambio, le ricompense siano proporzionali ai costi sostenuti; idea di Homo oeconomicus; identiÞcazione di tre tipi di aspettative (generali, speciÞche, relative), che inßuenzano la percezione di giustizia

Natura soggettiva della percezione di giustizia distributiva, relativa alla distribuzione dei beneÞci

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Contributi teorici Cosa propone Teoria dell’equità (Adams, Principio di equità come crite1965; Walster et al., 1973) rio attraverso cui le persone valutano la distribuzione delle risorse; percezione di giustizia derivante dal confronto tra ciò che si riceve e ciò che si offre; distinzione tra equità effettiva ed equità psicologica Teoria sulla giustizia distri- Distribuzione delle risorse guibutiva di Leventhal (1976a) data da norme di allocazione e Deutsch (1975) (equità, bisogno e uguaglianza)

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In cosa differisce Giustizia come esito di un confronto, che muta continuamente nel tempo a seconda delle condizioni di scambio

Contrariamente alla teoria dello scambio e alla teoria dell’equità, non è formulata esclusivamente all’interno del contesto organizzativo

Teorie sulla giustizia procedurale Thibaut e Walker (1975): Confronto tra sistema inquianalisi psicologica della giu- sitorio e sistema accusatorio; stizia procedurale giustizia come misura soggettiva cruciale nella risoluzione dei conßitti; percezione di controllo sul processo inßuenza la percezione di giustizia e correttezza del procedimento Leventhal (1980): giustizia Regole procedurali come creprocedurale nei processi al- denze individuali rispetto al fatlocativi to che le procedure allocative siano giuste ed appropriate; valutazione delle componenti procedurali attraverso sei regole procedurali

Lind e Tyler (1988): la psico- Possibilità di esprimere il prologia sociale della giustizia prio punto di vista incide sulla procedurale formulazione del giudizio di correttezza procedurale Teoria sulla giustizia relazio- Individuazione di quattro renale (Bies e Moag, 1986) gole (sincerità, giustiÞcazione, rispetto e correttezza) che deÞniscono la percezione di correttezza all’interno del trattamento interpersonale

Focus sulla correttezza delle procedure adottate

Individua un sentimento di giustizia complessivo, derivante da fattori di giustizia distributiva e di giustizia procedurale; giustizia distributiva più rilevante rispetto a quella procedurale nel determinare il senso di giustizia. Leventhal sottolinea il valore intrinseco delle procedure, mentre gli altri autori ritengono che le procedure assumano rilevanza per i risultati che si ottengono a seguito dell’applicazione delle stesse Contrariamente a Leventhal, maggiore rilevanza viene assegnata agli aspetti procedurali piuttosto che ai risultati Attenzione rivolta alla natura interpersonale delle procedure

La prospettiva integrata Referent Cognitions Theory Esistenza di una relazione di- Propone una riformulazione (Folger, 1986a; 1986b) retta tra procedure e risultati; della teoria dell’equità, che tenvalutazione del trattamento ga conto degli elementi cogni-

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Contributi teorici

Cosa propone ricevuto in base a standard di riferimento, ricavati da fonti diverse; risentimento quando le regole distributive vengono violate Teoria della giustizia (Folger Cerca di spiegare le situazioni e Cropanzano, 1998) in cui un’autorità viene ritenuta responsabile di un’ingiustizia subita Modello del valore di gruppo Procedure come componenti (Lind e Tyler, 1988) rilevanti della vita sociale, garantendo l’esistenza del gruppo; forniscono alle persone indicazioni su come comportarsi nelle interazioni di gruppo Modello relazionale (Tyler e Focus su tre fattori (neutralità, Lind, 1992) afÞdabilità e riconoscimento del proprio status) Group Engagement Model Indaga gli antecedenti degli at(Tyler e Blader, 2000) teggiamenti, valori e comportamenti cooperativi nei gruppi; si concentra sulla rilevanza che la giustizia assume nei contesti sociali Teoria euristica della giu- Ricorso ad euristiche di giustizia (Lind, 2001; Van den stizia, ovvero a scorciatoie Bos, 2001) psicologiche, per valutare le decisioni prese dalle autorità

Teoria della gestione del- Ricorso alle informazioni rical’incertezza (Lind e Van den vate dalle procedure per ridurre Bos, 2002) l’incertezza relativa al proprio ambiente sociale o alle proprie caratteristiche individuali

In cosa differisce tivi ed affettivi che sottostanno al sentimento di ingiustizia

Utilizzo di una modalità di pensiero controfattuale, basata sull’immaginare ciò che si sarebbe potuto realizzare Connette il giudizio sulla giustizia procedurale ai valori propri del gruppo di riferimento e al desiderio di essere visto come un membro di un gruppo, organizzazione o società Tenta di indagare quali siano le caratteristiche che permettono all’autorità di operare efÞcacemente Attenzione rivolta agli effetti di tipo comportamentale della percezione di giustizia, più che sulla percezione in sé

Giustizia come elemento determinante nella legittimità delle autorità. Le procedure vengono studiate in termini di euristiche, formate rapidamente, usando ogni informazione disponibile, in modo da poter essere utilizzate per guidare le decisioni successive Giustizia come fattore che favorisce la riduzione dell’incertezza e il mantenimento di atteggiamenti positivi

1.7. La teoria della deprivazione relativa A partire dagli anni Sessanta, la psicologia sociale si è occupata delle concezioni di giustizia, del modo in cui esse influenzano la ricostruzione degli eventi da parte delle persone, le aspettative e la valutazione dei risultati ottenuti (Berti, 2002). Uno dei primi contributi relativi al tema della giustizia sociale è sta-

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to sviluppato all’interno della teoria della deprivazione relativa (Gurr, 1970; Merton e Kitt, 1950; Runciman, 1966). Secondo tale prospettiva teorica, il sentimento di deprivazione relativa e, quindi, di ingiustizia origina nelle situazioni in cui un individuo o un gruppo si percepisce come ingiustamente svantaggiato rispetto ad altri che dispongono di caratteristiche simili. Il termine, coniato da Stouffer e collaboratori (1949), descrive uno stato di tensione e frustrazione derivante dal confronto negativo all’interno di un gruppo di riferimento con cui l’individuo condivide le norme sociali (Merton e Kitt, 1950; Runciman, 1966). Adottando il concetto di gruppo di riferimento, la teoria della deprivazione relativa assume che lo stato di frustrazione individuale non derivi da condizioni oggettive, bensì sia l’esito di un confronto con persone e/o gruppi con attributi simili (Merton e Kitt, 1950; Runciman, 1966). La sensazione di deprivazione deriva, pertanto, dalle aspettative legate ad una distribuzione legittima del potere e delle risorse, come definita all’interno della società, ed è influenzata dalle norme sociali del contesto di appartenenza (Mucchi Faina, 2002). In uno studio ormai classico su soldati americani, Stouffer e collaboratori (1949) avevano, ad esempio, notato che alcuni soldati appartenenti ai reparti aerei, a fronte di condizioni piuttosto favorevoli, quali ottime possibilità di promozione, manifestavano un morale più basso e maggiore insoddisfazione se messi a confronto con soldati appartenenti alla polizia militare, le cui possibilità di promozione erano molto più ridotte. In particolare, i membri della polizia militare si sentivano maggiormente realizzati a seguito della promozione rispetto ai membri dei reparti aerei. Tra questi ultimi, inoltre, si rilevavano sentimenti di frustrazione più elevati nel caso in cui non vi fosse stato un rapido avanzamento di carriera. Ciò era imputabile al fatto che i soldati dei reparti aerei, proprio per le maggiori probabilità di promozione, si sentivano maggiormente insoddisfatti e deprivati se non ricevevano una promozione in tempi brevi, mentre questo avveniva con minore frequenza tra i soldati della polizia militare. In un ulteriore studio, Stouffer e collaboratori (1949) avevano analizzato la percezione di giustizia tra soldati afro-americani di stanza nel Nord e nel Sud degli Stati Uniti. Ai soldati veniva richiesto di indicare il trattamento ricevuto dalla polizia e sui mezzi pubblici e di fornire una descrizione della qualità del loro inserimento all’interno dell’esercito. Benché il trattamento da parte della polizia e sui mezzi pubblici venisse considerato migliore al Nord, i soldati afro-americani di stanza nel Sud indicavano di essere maggiormente soddisfatti. Secondo Stouffer e collaboratori (1949), tali risultati erano giustificabili prendendo in considerazione i differenti gruppi con cui i soldati si confrontavano. I soldati afro-americani di stanza nel Sud degli

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Stati Uniti, infatti, non paragonavano la propria situazione con i commilitoni di stanza al Nord, bensì con i civili della loro stessa etnia, residenti nel Sud, che si trovavano ad avere un minor status sociale e livelli di reddito inferiori. Le differenze di status socio-economico tra soldati e civili nel Nord degli Stati Uniti, invece, erano molto più esigue e, conseguentemente, i soldati riportavano un minor livello di soddisfazione rispetto ai soldati del Sud (Greenberg e Colquitt, 2005). Ciò conferma che non sono tanto le condizioni oggettive a determinare il sentimento di ingiustizia e discriminazione, quanto i livelli di deprivazione relativa, derivanti dal confronto tra le proprie aspettative e ciò che effettivamente si ottiene (Zamperini e Sapio, 2004). Più è ampio lo scarto tra aspettative e realtà, maggiore è il grado di insoddisfazione e la probabilità di esiti negativi. La deprivazione relativa dipende, quindi, dai confronti sociali tra la propria condizione presente e quella passata (deprivazione intrapersonale), tra se stessi e gli altri (interpersonale) e tra l’ingroup e l’outgroup (intergruppo) (Guimond e Tougas, 1994). La deprivazione interpersonale, definita da Runciman (1966) “egoistica”, è basata sulla valutazione della propria condizione personale e consiste nella percezione che i propri risultati siano al di sotto delle aspettative soggettive, sviluppate in base agli esiti ottenuti da individui simili, appartenenti al proprio gruppo. Si può parlare di deprivazione egoistica se un individuo ritiene di trovarsi in una situazione ingiusta, ad esempio, in ambito lavorativo, a causa di minori probabilità di promozione rispetto ai colleghi. La deprivazione intergruppo, definita “fraternalistica”, invece, è fondata sulle condizioni del proprio gruppo e riguarda la percezione che il gruppo di appartenenza sia privato di qualcosa che gli spetta, se confrontato con altri gruppi. La deprivazione egoistica deriva, pertanto, da un confronto soggettivo svantaggioso con altri simili, mentre la deprivazione fraternalistica consegue ad un confronto tra gruppi. In questo caso, il sentimento di deprivazione si sviluppa quando un individuo crede che la posizione del proprio gruppo sia ingiusta rispetto alla posizione occupata da un gruppo diverso dal proprio. Secondo Runciman (1966), i movimenti collettivi sono caratterizzati dalla prevalenza di forme di deprivazione fraternalistica, che motivano gli individui a organizzare azioni di lotta. I sentimenti di deprivazione relativa, infatti, spingono a intraprendere azioni al fine di cambiare la situazione e rappresentano una delle condizioni di base per la protesta (Gurr, 1970). Si pensi, ad esempio, alle lotte contro la segregazione razziale condotte negli Stati Uniti, o alla costituzione della National Levelers Association fondata nel 1922 in Giappone per rivendicare i diritti della popolazione Buraku.

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Sebbene il costrutto di deprivazione relativa venga utilizzato per spiegare come il confronto sociale possa favorire la percezione di ingiustizia sociale, la teoria è stata criticata per non aver chiarito quali sono i criteri che guidano i confronti e quali sono i principi e le regole che conducono alla formulazione delle aspettative.

1.8. La giustizia distributiva Nell’ambito della psicologia sociale, i primi studi hanno analizzato il costrutto di giustizia distributiva, focalizzandosi sulla percezione di giustizia nella distribuzione di benefici. All’interno di tale prospettiva, la centralità viene assegnata ai risultati e alla loro rispondenza a norme di allocazione, quali equità e uguaglianza.

1.8.1. La teoria dello scambio Basandosi sul costrutto di deprivazione relativa, Homans (1961) introduce all’interno della teoria degli scambi sociali il concetto di giustizia distributiva, definito come l’aspettativa che, in una relazione di scambio, le ricompense siano proporzionali ai costi sostenuti. Tale idea di giustizia distributiva richiama la natura soggettiva alla base della percezione di giustizia. Secondo Homans (1961), infatti, le parti coinvolte in uno scambio sociale tendono a giungere a conclusioni differenti relativamente ai risultati ottenuti, alle ricompense ricevute e ai costi affrontati, essendo la percezione di giustizia distributiva fondata sulla selezione degli altri individui con cui confrontarsi. Blau (1964) riprende molti dei temi proposti da Homans sostenendo che, all’interno delle relazioni di scambio, la soddisfazione dei singoli individui dipenda dai benefici ricevuti in relazione alle aspettative sviluppate dalle parti coinvolte. Le aspettative, a loro volta, originano dai benefici conseguiti da uno specifico gruppo di riferimento, con cui le parti si confrontano; possono essere distinte in generali, specifiche e relative. Le aspettative generali sono influenzate dalle norme e dai valori della società, mentre le aspettative specifiche sono focalizzate sulla credenza che una specifica persona con cui si intrattiene una relazione di scambio si conformerà a codici di condotta ritenuti accettabili e offrirà un compenso, per tale collaborazione, superiore a quello che si sarebbe potuto ottenere dalla relazione con altri individui. Le aspettative relative, infine, si rifanno ai profitti che ogni persona si aspetta

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di ottenere dalle relazioni di scambio in generale. Secondo Blau (1964), la percezione di giustizia deriva dal confronto tra benefici ottenuti e queste tipologie di aspettative, che sono influenzate dalle norme di comportamento condivise in una società, ed è importante ai fini della creazione di relazioni di scambio sociale.

1.8.2. La teoria dell’equità Inizialmente sviluppata all’interno del contesto organizzativo, la teoria dell’equità (Adams, 1965) amplia alcuni dei concetti sviluppati da Homans (1961) sulla giustizia distributiva. Secondo Adams, il criterio attraverso il quale le persone valutano la distribuzione delle risorse è quello dell’equità e, pertanto, la percezione di giustizia distributiva deriva dal rapporto tra risultati e input: ciò che si riceve in termini di esiti deve essere proporzionale all’apporto personale. I risultati possono includere “il salario, le ricompense intrinseche al lavoro, una supervisione soddisfacente, l’indennità di anzianità, l’indennità accessoria, lo status lavorativo e lo status symbol, oltre che una serie di benefici regolati formalmente e informalmente”. Gli input, invece, sono costituiti “dal livello di educazione, l’intelligenza, l’esperienza pratica, l’abilità, l’anzianità, l’età, il genere, il background socio-culturale, lo status sociale e gli sforzi messi in atto all’interno del contesto lavorativo” (Adams, 1965). Gli apporti personali sono valutati in termini di rilevanza personale e di riconoscimento che potrebbero offrire al singolo, indipendentemente dal fatto che l’altro all’interno della relazione di scambio possa o meno percepire tali contributi in maniera simile. La soddisfazione personale deriva dal confronto tra ciò che si riceve e ciò che si offre ed in particolare, secondo Adams (1965), dal bilancio tra ciò che si ottiene e ciò che si sarebbe dovuto ottenere. Tale confronto muta continuamente nel tempo a seconda delle condizioni di scambio ed è relativo, essendo la valutazione di equità effettuata attraverso la comparazione del bilancio individuale tra risultati e input con quello di un altro individuo con cui ci si confronta. Le persone, infatti, paragonano il rapporto tra quanto conseguito e il proprio apporto personale con il bilancio di una persona di riferimento o con quanto realizzato in esperienze precedenti. In accordo con quanto sostenuto all’interno della teoria della deprivazione relativa (Stouffer et al., 1949), il confronto avviene all’interno di cornici di riferimento diverse, favorendo la formulazione di differenti giudizi di giustizia. Se, ad esempio, all’interno di una organizzazione lavorativa, una persona valuta il rapporto tra esiti e contributi personali come inferiore

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rispetto a quello di altri con cui viene effettuato il confronto, si percepirà come sottopagato (iniquità negativa). Al contrario, se valuta il bilancio tra ciò che ha ottenuto e ciò che ha offerto come superiore a quello di altri con cui si paragona, si percepirà come sovrapagato (iniquità positiva). Nel primo caso, proverà un sentimento di rabbia, mentre nel secondo caso, svilupperà un senso di colpa. Le persone che percepiscono un compenso non equo cercano di ristabilire un senso di equità. Secondo il principio della dissonanza cognitiva (Festinger, 1957), la percezione di iniquità crea, infatti, un senso di tensione psicologica o di ansia che spinge il singolo a ristabilire l’equilibrio. Ciò può avvenire modificando il proprio impegno o ritirandosi dalla relazione di scambio, rivalutando la situazione o modificando le persone con cui si effettua il confronto. I punti chiave della teoria hanno ricevuto conferma dall’analisi di alcune ricerche condotte con studenti universitari (Adams e Rosenbaum, 1962). In uno studio in cui gli studenti venivano assunti per somministrare alcune interviste, ad esempio, lo sperimentatore faceva credere ad alcuni partecipanti di essere qualificati per il lavoro proposto e, quindi, equamente ricompensati per la prestazione fornita. Altri partecipanti, invece, erano indotti a credere di non avere le abilità richieste per svolgere il lavoro, ma di essere pagati quanto i soggetti qualificati e, quindi, sovrapagati. Come previsto all’interno della teoria dell’equità, i partecipanti che ritenevano di essere eccessivamente pagati conducevano un numero superiore di interviste rispetto a quelli che si percepivano come equamente ricompensati. Secondo Adams, la sensazione di ricevere un compenso superiore all’apporto fornito spingeva i partecipanti ad aumentare il loro impegno in modo da ristabilire l’equilibrio tra esiti e contributo personale. Nonostante le conferme fornite, numerose critiche sono state rivolte alla teoria dell’equità, relative in particolare alla definizione confusa di apporti ed esiti e alla mancata precisazione dei criteri di selezione delle persone con cui confrontarsi. Walster, Walster e Berscheid (1978), cercando di superare i limiti della teoria formulata da Adams (1965), hanno sviluppato un approccio alla giustizia più generale e legato a contesti più allargati rispetto all’ambito organizzativo. Gli autori hanno proposto la distinzione tra due tipi di ristrutturazione dell’equità, non previsti all’interno della teoria di Adams. L’equità effettiva implica modifiche reali ai risultati o agli input propri o altrui, quindi, un azione di tipo comportamentale. L’equità psicologica, invece, comporta il ricorso a distorsioni cognitive della realtà in modo da ristabilire un bilancio equo. Ristrutturazioni di tipo psicologico avrebbero luogo, secondo Walster

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e collaboratori (1973), nei casi in cui si percepisca iniquità positiva, ovvero la persona ritenga di aver ricevuto un compenso superiore a quello dovutole. Al contrario, nei casi di iniquità negativa, quando la persona ritiene di essere sottopagata, vengono adottate ristrutturazioni di tipo comportamentale. Studi successivi hanno, però, disconfermato tali assunti teorici, indicando come in entrambe le situazioni di iniquità le persone ricorrano a ristrutturazioni sia di tipo cognitivo sia di tipo comportamentale.

1.8.3. Leventhal, Deutsch e i principi della giustizia distributiva Sebbene la teoria dell’equità rappresenti la teoria dominante sulla giustizia distributiva, numerose sono le critiche che le sono state rivolte (Berti, 2002; Clark e Reis, 1988; Clark e Mills, 1993). Sia la teoria dell’equità sia la teoria dello scambio sociale, infatti, sono basate sull’idea di homo oeconomicus, visto come soggetto che tende a massimizzare il proprio benessere individuale. Essendo entrambe formulate all’interno del contesto organizzativo, inoltre, non tengono conto di aspettative, scopi e della loro evoluzione nel tempo, sottovalutando il ruolo di variabili quali le pressioni sociali e la resistenza al cambiamento, e focalizzandosi sulle reazioni conseguenti alla percezione di iniquità (Greenberg e Colquitt, 2005). Leventhal (1976a) assume una prospettiva maggiormente propositiva, spostando il focus delle ricerche dalle reazioni di chi riceve le ricompense al comportamento di chi le distribuisce. Verificando l’effettiva applicazione del principio di equità da parte di chi assegna i benefici, l’autore nota che la distribuzione delle risorse è guidata da una norma di allocazione, ovvero “una regola sociale che stabilisce i criteri che definiscono la distribuzione di benefici e risorse come giusta e corretta”. Il principio di equità, in quest’ottica, è solo uno dei principi allocativi che possono essere seguiti e il suo uso non risulta sempre appropriato. Dal momento che il principio dell’equità risulta associato al criterio del merito, la sua applicazione può provocare la creazione di forti disuguaglianze all’interno dei sistemi sociali. L’esclusiva adesione ai valori dell’equità risulta inappropriata nelle relazioni sociali di tipo non economico (Deutsch, 1975). In tali situazioni, sebbene questioni inerenti la giustizia svolgano un ruolo rilevante, assumono maggior rilievo principi quali quello dell’uguaglianza e del bisogno. Se il principio di equità implica che la distribuzione delle risorse sia proporzionata al merito e al contributo offerto dal singolo, secondo il principio di uguaglianza l’allocazione delle risorse deve avvenire attraverso l’assegnazione ad ogni membro della relazione di parti uguali di benefici e oneri. Il principio del bisogno,

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infine, stabilisce che la distribuzione dei benefici deve esser proporzionale alle necessità di ogni singolo individuo. Diverso risulta il rapporto tra i principi della giustizia distributiva, così definiti, e le dimensioni, strumentale e socio-affettiva, del gruppo e, conseguentemente, differenti sono gli scopi che chi distribuisce le risorse vuole raggiungere. Nel caso del principio di equità, esso risulta associato alla dimensione strumentale del gruppo e chi assegna i benefici, applicando tale principio, li usa per favorire il raggiungimento degli obiettivi del gruppo. Il principio di uguaglianza e del bisogno sono, invece, in rapporto alla dimensione socio-affettiva e l’attenzione è prevalentemente rivolta al rispetto dei bisogni dell’altro, alla produttività individuale, all’uguaglianza. In quest’ottica, un giusto esito viene raggiunto ogni volta che una norma di allocazione favorisce il conseguimento di obiettivi chiave, come rendimento e benessere. Secondo quanto teorizzato da Deutsch (1975) e Leventhal (1976b), la distribuzione dei benefici e degli oneri si caratterizza come il risultato di un compromesso tra norme di allocazione multiple. Può accadere, ad esempio, che all’interno del contesto lavorativo, il responsabile decida, applicando il principio di equità, di assegnare un bonus di produzione a chi riesce a vendere il maggior numero di prodotti. Volendo, però, mantenere l’armonia nel gruppo di lavoro, potrebbe decidere di cercare di migliorare il benessere di chi risulta meno produttivo riducendo la somma destinata come bonus, diminuendo in questo modo le probabili tensioni. Facendo ricorso a norme di allocazione differenti da quella proposta all’interno della teoria dell’equità, Leventhal e Deutsch hanno, pertanto, contribuito ad ampliare la definizione di giustizia distributiva e il focus delle ricerche sul tema (Greenberg e Colquitt, 2005).

1.9. La giustizia procedurale Contemporaneamente allo sviluppo delle teorie sulla giustizia distributiva, nella letteratura psicologica compaiono prospettive teoriche e ricerche sulla giustizia procedurale (Lind e Tyler, 1988). All’interno di tali contributi, il costrutto di giustizia procedurale designa le reazioni degli individui alle norme e agli standard che governano i processi sociali e, quindi, gli effetti sociopsicologici dei processi decisionali (Thibaut e Walker, 1975). Nonostante Thibaut e Walker siano stati i primi ad utilizzare il termine giustizia procedurale, numerosi studiosi avevano, in precedenza, focalizzato le loro ricerche sugli effetti delle variazioni delle procedure decisionali e sul ruolo del clima sociale creato da forme di leadership differenti all’interno

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del gruppo (Lewin et al., 1939). È con gli studi sui dilemmi sociali (Hardin, 1968), però, che prende corpo l’interesse per la giustizia procedurale. Hardin, in particolare, analizzando gli atteggiamenti e le condotte degli individui nelle situazioni caratterizzate da scarsità di risorse, apre la strada alle ricerche psicologiche sulla giustizia procedurale. Se, infatti, le teorie sulla giustizia distributiva si sviluppano a partire dall’idea che le persone cercano di perseguire i propri interessi personali, basandosi sul confronto sociale, la nascita delle teorie sulla giustizia procedurale può essere ricondotta al tentativo e alla necessità di risolvere i conflitti sociali derivanti dalla distribuzione di risorse limitate. Le attuali ricerche sulla giustizia procedurale prendono origine da tre approcci differenti: gli studi psicologici sulla giustizia procedurale di Thibaut e Walker (1975), la teoria di Leventhal (1976b, 1980) sulla percezione di giustizia e la teoria del valore del gruppo (Lind e Tyler, 1988).

1.9.1. Thibaut e Walker: la giustizia nei processi giudiziari Il primo contributo di Thibaut e Walker sulla giustizia procedurale risale alla pubblicazione della monografia Il giusto processo (1975), nel quale vengono presentati i risultati di una serie di ricerche condotte sulla percezione di giustizia nei contesti giudiziari. Basati sulla collaborazione tra psicologi e giuristi, gli studi prevedono il confronto tra due diversi modelli di procedimento giudiziario, inquisitorio (inquisitorial) e accusatorio (adversary), per verificare la capacità di produrre decisioni oggettivamente giuste. Il sistema accusatorio, tipico dei sistemi giudiziari statunitensi e inglesi, prevede che il giudice controlli le decisioni finali, ma non la presentazione delle prove che portano ad esse; spetta alle parti e ai loro rappresentanti, infatti, il compito di ricercare e presentare le prove. Nel sistema inquisitorio, invece, tipico delle realtà europee, il giudice controlla sia i risultati sia le procedure e, conseguentemente, le parti hanno ridotte possibilità di controllo. Prevedendo come obiettivo l’individuazione di un modello di “giusto processo”, il contributo fondamentale del lavoro di Thibaut e Walker verte sulla percezione di giustizia. Secondo gli autori, infatti, la percezione di giustizia “rappresenta una misura soggettiva cruciale dal momento che uno degli scopi fondamentali dei processi legali è di risolvere i conflitti in modo da mantenere unita la società ed incoraggiare la prosecuzione degli scambi tra gli individui”. In quest’ottica, quindi, gli studi sulla giustizia procedurale rispecchiano le ricerche sulla giustizia distributiva, in quanto, per entrambe, ciò che è giusto dipende da ciò che è percepito come giusto.

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La percezione di giustizia nei sistemi giudiziari, di tipo inquisitorio e accusatorio, è stata studiata in ricerche di laboratorio simulando una situazione di affari. In uno studio condotto con studenti universitari, i partecipanti assumevano il ruolo di agenti pubblicitari concorrenti, a cui era offerta la possibilità di ricorrere ad azioni di spionaggio per rubare il nome di alcuni prodotti della compagnia avversaria (Walker et al., 1974). Quando l’azione di spionaggio veniva scoperta, un processo valutava la colpevolezza e al vincitore veniva assegnato un premio in denaro. Durante l’esperimento, veniva manipolata il tipo di procedura (inquisitoria o accusatoria), il verdetto (colpevole o innocente) e la colpa effettiva (se un complice membro del gruppo realmente aveva messo in atto azioni di spionaggio). Nel caso del sistema accusatorio, i partecipanti potevano scegliere il loro avvocato tra due studenti di legge. L’avvocato esponeva argomenti relativi al grado di somiglianza tra il nome dei prodotti della parte lesa e dell’accusato. Al contrario, nella condizione inquisitoria il giudice istruiva un solo avvocato che doveva rappresentare entrambe le parti. La ricerca si proponeva di valutare la soddisfazione rispetto alle procedure e al verdetto finale. I partecipanti mostravano maggiore soddisfazione per il sistema di tipo accusatorio rispetto al sistema di tipo inquisitorio, indipendentemente dal verdetto finale. Sebbene il verdetto di innocenza venisse preferito a quello di colpevolezza, inoltre, emergeva che l’effetto principale delle procedure era indipendente dall’effetto dell’esito. Tali risultati confermano l’ipotesi di Thibaut e Walker, secondo cui la possibilità di esercitare una qualche forma di controllo sul processo influenza l’atteggiamento dell’utente. Le procedure utilizzate all’interno del sistema accusatorio permettono di limitare le distorsioni di giudizio basate sulle aspettative pregiudizievoli e sull’ordine di presentazione delle prove. All’interno di tale sistema, inoltre, vi è maggiore percezione di correttezza del procedimento, collegata alla ripartizione del controllo tra le parti in causa. Alla luce di questi dati, Thibaut e Walker propongono di distinguere tra due specifiche forme di controllo: il controllo sulla decisione e il controllo sul processo. Il controllo sulla decisione indica il grado con cui l’accusato può influenzare l’esito di una disputa. Il controllo sul processo designa, invece, il grado in cui l’accusato può controllare lo sviluppo, la selezione e la presentazione delle prove usate per risolvere la disputa giudiziaria. Confrontando queste modalità di controllo, gli autori arrivano a sostenere che il modello ottimale di risoluzione dei conflitti si caratterizza per il fatto di porre nelle mani delle due parti in causa il controllo sul processo, pur lasciando il controllo delle decisioni ad una parte neutrale, come avviene nel caso del sistema accusatorio.

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1.9.2. Leventhal: giustizia procedurale nei processi allocativi L’apporto delle ricerche di Thibaut e Walker spinge Leventhal (1976b) ad evidenziare, tra i limiti della teoria dell’equità, il non aver saputo cogliere l’importanza di una teoria sulla giustizia focalizzata sul processo allocativo e non solo sull’esito di tale processo. Applicando la nozione di giustizia procedurale al di fuori del contesto giudiziario, l’autore sottolinea la rilevanza di valutare qualsiasi istituzione, sia essa un’organizzazione lavorativa, un’università, o il sistema giudiziario, per la giusta applicazione di norme procedurali e distributive nell’allocazione delle risorse. Inizialmente focalizzato sulla giustizia distributiva, il contributo teorico di Leventhal si spinge a definire le regole procedurali come “credenze individuali rispetto al fatto che le procedure allocative siano giuste ed appropriate” (Leventhal, 1980). Sebbene proponga una distinzione tra giustizia procedurale e giustizia distributiva, egli sostiene la necessità di considerare le due dimensioni come strettamente collegate, dal momento che il giudizio sull’allocazione delle risorse risulta dal prodotto della valutazione di fattori procedurali e distributivi. Pertanto, percepire la presenza di un giusto sistema di procedure che regola la distribuzione di risorse e benefici è rilevante ai fini della valutazione di giustizia nella distribuzione delle risorse. Secondo il modello teorico proposto da Leventhal (1980), è possibile identificare un sentimento complessivo di giustizia, derivante da fattori di giustizia distributiva e da fattori di giustizia procedurale. I primi si basano sulla corrispondenza tra ciò che si è ottenuto e ciò che si dovrebbe ricevere e dipendono dalla combinazione di una serie di regole (di contributo, del bisogno e di uguaglianza). La giustizia del processo di allocazione, invece, viene valutata secondo differenti componenti procedurali che a loro volta, possono venire valutate attraverso sei specifiche regole procedurali (consistenza, soppressione dei pregiudizi, accuratezza, modificabilità, rappresentatività, eticità) secondo cui: 1) Le procedure devono essere applicate in maniera coerente, tra individui diversi e nel corso del tempo (consistenza). Si prescrive, perciò, che nessun individuo possa trarre vantaggi particolari e che le caratteristiche procedurali permangano stabili nel tempo. 2) Si definisce l’importanza che le procedure non siano influenzate da interessi personali o da convinzioni e preconcetti (soppressione dei pregiudizi). 3) È necessario fare esclusivo ricorso ad informazioni accurate nella presa di decisioni, in modo da ridurre al minimo la possibilità di errore (accuratezza).

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4) Le procedure devono prevedere la possibilità di modificare le proprie decisioni (modificabilità), rendendo possibili richieste e lamentele. 5) Deve essere garantita la rappresentatività delle procedure, che devono riflettere i valori, gli interessi e il punto di vista di individui e sottogruppi interessati dalla distribuzione delle risorse (rappresentatività). 6) La distribuzione delle risorse, infine, deve avvenire nel pieno rispetto dei valori etici e morali di ogni individuo (eticità). Analizzando la modalità di interazione tra giustizia procedurale e distributiva, Leventhal e collaboratori (1980) affermano che la giustizia distributiva risulta più saliente rispetto alla giustizia procedurale nel determinare il senso di giustizia. Le procedure, infatti, risultano molto spesso complesse e difficili da comprendere e possono venire trascurate quando i risultati rispecchiano le aspettative. La giustizia, sia distributiva che procedurale, ad ogni modo, influenza solo in minima parte atteggiamenti e comportamenti del singolo, essendo solo una delle forze motivazionali che influiscono su di essi. In molte situazioni, infatti, le persone prestano scarsa o nulla attenzione a questioni relative alla giustizia. Secondo Leventhal, inoltre, vi sono delle situazioni in cui viene assegnata maggiore rilevanza alla giustizia procedurale; si fa riferimento, ad esempio, alla particolare attenzione rivolta agli aspetti procedurali nelle prime fasi di sviluppo di un’organizzazione, in cui la correttezza delle procedure risulta essenziale. L’importanza che le procedure adottate siano giuste e corrette, quindi, varia a seconda degli interessi personali, dei valori, delle caratteristiche del sistema sociale e dell’ammontare della violazione delle regole. In sistemi sociali in cui è possibile manifestare il proprio dissenso, ad esempio, è possibile che, qualora venga meno il rispetto delle regole distributive e procedurali e la percezione di ingiustizia ecceda la capacità del sistema sociale di tollerarla, le persone attivino un processo valutativo e si focalizzino sugli aspetti di correttezza che risultano carenti (Berti, 2002; Leventhal, 1980). Il contributo offerto da Leventhal rappresenta, quindi, un’importante cornice di riferimento per lo studio degli effetti della giustizia procedurale all’interno dei sistemi sociali.

1.9.3. Lind e Tyler: la psicologia sociale della giustizia procedurale A partire dal lavoro di ricerca di Thibaut e Walker e dal contributo teorico di Leventhal, il tema della giustizia procedurale diventa oggetto di interesse di numerosi studiosi delle organizzazioni (Greenberg e Folger, 1983; Lind e Tyler, 1988).

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In The Social Psychology of Procedural Justice (1988), Lind e Tyler presentano una rassegna delle principali ricerche empiriche sulla giustizia procedurale, sviluppando una teoria che diventerà il punto di riferimento di chi si occupa di psicologia sociale della giustizia. Gli autori si propongono, all’interno del volume, di esaminare le implicazioni delle ricerche analizzate nei contesti giudiziari, interpersonali, politici e lavorativi. Lind e Tyler (1988; Tyler e Lind, 1992) sostengono che, sebbene sia la giustizia procedurale che distributiva siano rilevanti ai fini della soddisfazione delle persone, la percezione dei metodi utilizzati nella distribuzione delle risorse ha maggiore rilevanza rispetto alle questioni inerenti la giustizia distributiva e tale interesse è presente non solo all’interno dei contesti giudiziari, ma anche in quelli politici, informali e nelle organizzazioni lavorative. L’importanza assegnata ai risultati nel determinare il giudizio sulle procedure viene, pertanto, indicata come un limite delle ricerche di Thibaut e Walker e del lavoro di Leventhal. Thibaut e Walker (1975), infatti, ritengono che la correttezza procedurale non sia rilevante di per sé, ma sia un mezzo per ottenere giusti risultati. Allo stesso modo, Leventhal (1980) assegna alla giustizia distributiva maggiore rilevanza rispetto a quella procedurale, sovrastimando il ruolo degli esiti nel giudizio sulle procedure. Secondo Lind e Tyler, in realtà, gli individui sono più attenti agli aspetti procedurali che ai risultati, essendo la giustizia procedurale, quindi il sistema di procedure adottate, all’origine del giudizio sulla giustizia distributiva. Dalla rassegna delle ricerche sociopsicologiche sulla giustizia procedurale, Lind e Tyler ricavano una serie di conclusioni, sulla base delle quali articolano una teoria sulla giustizia (Lind e Tyler, 1988). In primo luogo, a fronte dello scetticismo dei giuristi che criticano i risultati degli studi sulla giustizia procedurale, fondati su metodi di laboratorio, dimostrano come numerose ricerche di campo abbiano confermato i risultati ottenuti in laboratorio. La giustizia procedurale, quindi, non può essere considerata un prodotto di laboratorio; al contrario, negli studi condotti in laboratorio, gli effetti della giustizia procedurale risultano attenuati. Analizzando i principali dati emersi dal lavoro di ricerca di Thibaut e Walker (1975), inoltre, gli autori assegnano particolare rilevanza ad alcune considerazioni sulla giustizia procedurale relative al legame tra percezione di correttezza delle procedure, considerato come il più importante fattore esplicativo delle preferenze procedurali, e soddisfazione per i risultati. Come confermato da studi successivi, esiste un legame significativo tra percezione di correttezza procedurale e miglioramento del giudizio sulla giustizia distributiva, pur se a fronte di alcune limitazioni. In primo luogo, infatti, emerge

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come l’effetto della correttezza procedurale sulla percezione dei risultati sia rilevabile soprattutto in caso di esito negativo. Nei casi di allocazione di risorse, poi, si registrano minori livelli di soddisfazione quando le procedure sono corrette, se i risultati sono negativi. Tale effetto viene definito effetto frustrazione (Folger, 1977) e si verifica, in accordo con quanto ipotizzato da Lind e Tyler (1988), nei casi in cui le procedure abbiano solo una parvenza di correttezza. Procedendo con l’analisi delle ricerche di Thibaut e Walker (1975), Lind e Tyler (1988) sottolineano la rilevanza dell’osservazione, secondo cui una maggiore possibilità di controllo sul processo è associata ad una migliore percezione della giustizia procedurale. Nelle ricerche di Thibaut e Walker (1975), il controllo sul processo risulta, infatti, il principale fattore esplicativo per la preferenza del sistema accusatorio: offre l’opportunità a chi è coinvolto nella disputa di fornire informazioni al giudice e, quindi, aumenta la percezione di giustizia nelle procedure (Lind e Tyler, 1988; Thibaut e Walker, 1975). Ciò conferma l’ipotesi, sviluppata all’interno della teoria sulla giustizia procedurale, secondo cui le persone risultano maggiormente soddisfatte rispetto alle procedure e ai risultati quando hanno la possibilità di presentare informazioni e prove. La centralità dell’aspetto del controllo è stata avvalorata da numerosi studi che hanno evidenziato come la possibilità di esprimere il proprio punto di vista, le proprie osservazioni e ragioni sia fondamentale per il giudizio sulla giustizia procedurale. Secondo la spiegazione offerta da Thibaut e Walker, orientata al risultato, il controllo assume un ruolo fondamentale, dal momento che permette di ottenere risultati migliori. Al contrario, secondo Lind e Tyler, è la possibilità di espressione che incide sulla formulazione del giudizio sulla correttezza procedurale (orientata alle procedure). In questo caso, il potere di controllo è fondato sul significato della procedura in sé, più che sul risultato. Sulla base di alcuni dati di ricerca (Tyler et al., 1985), gli autori, quindi, propongono una ridefinizione della dimensione del controllo rispetto a quella proposta da Thibaut e Walker (1975) nello studio sul sistema accusatorio. In accordo con l’approccio orientato alle procedure, gli autori sostengono che la possibilità di espressione, propria del sistema accusatorio, e non il controllo sul processo in vista del conseguimento dei risultati, possa determinare il giudizio sulla correttezza delle procedure, indipendentemente dall’esito della procedura. La percezione di correttezza deriva, pertanto, dalla possibilità di espressione (controllo sul processo), ma soprattutto di ascolto. In questa prospettiva, le persone reagiscono più positivamente alle procedure che offrono la possibilità di discutere e comunicare liberamente il proprio punto di vista. Percepire che è possibile esprimere la propria

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opinione favorisce un miglioramento del giudizio sulla giustizia procedurale in sé e non come mezzo per raggiungere un risultato. La percezione di correttezza procedurale, come emerge da alcune ricerche (Tyler, 1990), ha un effetto sulla valutazione dell’operato delle istituzioni giudiziarie, sulla valutazione del contenuto delle decisioni giudiziarie e sulla soddisfazione per la relazione con il sistema della giustizia e per l’appartenenza ad un gruppo. Lind e Tyler sostengono, infatti, che la possibilità di espressione migliora il sentimento di inclusione e promuove una positiva identità infragruppo che porta a credere che le procedure adottate siano giuste. Avvertire che il sistema di procedure adottate risponde a criteri di giustizia e correttezza comporta, inoltre, la percezione di legittimità della legge e dell’autorità istituzionale; la percezione di legittimità è associata, a sua volta, alla decisione di aderire alle norme, al sostegno delle istituzioni e al rispetto delle decisioni giudiziarie. Risulta, quindi, che il giudizio positivo sulla giustizia procedurale influenza la valutazione delle autorità e delle istituzioni e migliora l’impegno nei loro confronti.

1.10. La giustizia relazionale: Bies, Moag e la giustizia nei rapporti interpersonali Gli studi sulla giustizia procedurale condotti fino a metà degli anni Ottanta si sono focalizzati principalmente sulle caratteristiche strutturali delle procedure formali che guidano la presa di decisioni, dando poco rilievo, invece, alla natura interpersonale di tali procedure (Greenberg e Colquitt, 2005). È, infatti, con l’analisi della giustizia nelle comunicazioni interpersonali, condotta da Bies e Moag (1986), che la giustizia interpersonale, o relazionale, diventa oggetto di interesse degli psicologi. A partire dall’analisi delle reazioni degli studenti delle scuole di dottorato rispetto al trattamento ingiusto ricevuto dai membri della propria facoltà, Bies e Moag (1986) hanno suggerito che gli elementi relativi al trattamento interpersonale siano concettualmente distinti dalle caratteristiche strutturali delle procedure. Con giustizia interpersonale, gli autori identificano le reazioni che le persone hanno rispetto al trattamento interpersonale che ricevono durante la messa in atto di procedure organizzative. Bies e Moag hanno identificato quattro regole che definiscono la percezione di giustizia all’interno del trattamento interpersonale: • Sincerità. Le autorità devono essere oneste, sincere e dirette nelle loro comunicazioni quando devono mettere in atto procedure che guidano la presa di decisioni, evitando ogni sorta di inganno.

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• Giustificazione. Le autorità devono fornire adeguate spiegazioni dei risultati del processo decisionale. • Rispetto. Chi ricopre una posizione di potere deve trattare gli individui con sincerità, dignità, astenendosi dall’essere scortesi con gli altri o dall’attaccarli. • Correttezza. Le autorità devono trattenersi dal fare affermazioni pregiudizievoli o dal formulare domande improprie (ad es. relative al genere, all’età, al sesso o alla religione). Tali regole sono chiaramente distinte dai criteri di giustizia procedurale identificati da Thibaut e Walker (1975) e da Leventhal (1980). È possibile, infatti, che vengano messe in atto delle procedure che offrono la possibilità di controllare il processo, siano coerenti e imparziali, ma che siano implementate da un supervisore che tratta gli individui scortesemente o in maniera disonesta. Folger e Bies (1989) hanno successivamente ripreso ed ampliato i criteri per giudicare l’implementazione delle procedure, identificando la sincerità, la giustificazione, il rispetto, il feedback, la considerazione del punto di vista dei dipendenti, la coerenza e la soppressione dei pregiudizi. Nonostante il trattamento interpersonale risulti un fattore rilevante nella valutazione della giustizia percepita, rimane poco chiaro se la giustizia relazionale sia da considerare come una dimensione indipendente della giustizia o se rappresenta semplicemente una sfaccettatura della giustizia procedurale. Greenberg (1993), analizzando la giustizia relazionale, ha proposto di separare il costrutto in due dimensioni, indicate come giustizia interpersonale, sovrapponibile alle regole di rispetto e correttezza identificate da Bies e Moag (1986), e giustizia informativa, corrispondente alle regole di sincerità e giustificazione. Secondo l’autore, le componenti relazionali della giustizia non sono semplicemente parte dell’aspetto sociale della giustizia procedurale, ma possono influenzare anche la percezione delle conseguenze dei processi decisionali. Studi condotti tenendo separate le due dimensioni individuate da Greenberg hanno confermato la necessità di analizzare distintamente la giustizia interpersonale e la giustizia informativa.

1.11. La prospettiva integrata All’interno della letteratura psicologica, in particolare quella relativa alla giustizia organizzativa, viene identificata una prospettiva integrata, che riunisce al suo interno modelli e teorie che hanno esaminato gli effetti combinati delle

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dimensioni multiple di giustizia. In questa prospettiva, vengono identificate tre differenti approcci: le concettualizzazioni controfattuali, quelle orientate al gruppo e le concettualizzazioni euristiche.

1.11.1. Concettualizzazioni controfattuali: il contributo di Folger e Cropanzano All’interno della letteratura sulla giustizia organizzativa, Folger e collaboratori (1986a) hanno sviluppato due approcci, raggruppati sotto l’etichetta di concettualizzazioni controfattuali (Counterfactual Conceptualizations), che definiscono la giustizia organizzativa in termini di percezioni delle persone su cosa avrebbe potuto essere realizzato. Maturata dall’analisi critica della teoria dell’equità di Adams (1965), la Referent Cognitions Theory (Folger, 1986b) suggerisce una sua riformulazione che tenga conto, in maniera più esplicita, degli elementi cognitivi ed affettivi che sottostanno al sentimento di ingiustizia e combina, pertanto, l’enfasi sui risultati della teoria dell’equità all’accento sul processo delle teorie sulla giustizia procedurale. Ponendo particolare attenzione sia ai risultati che alle procedure, la Referent Cognitions Theory integra le forme di giustizia distributiva e procedurale. La teoria sostiene l’esistenza di una relazione diretta tra procedure e risultati ed implica un modello che si focalizza non tanto sulle circostanze reali, quanto su alternative immaginate. In quest’ottica, quando le persone valutano il trattamento ricevuto da altri, lo valutano in relazione a standard di riferimento, derivati da diverse fonti, tra cui precedenti risultati, esiti conseguiti da altri e una concezione ideale relativa ai diritti e alle ricompense. Secondo Folger, la giustificazione delle procedure usate gioca un ruolo fondamentale nelle reazioni ai risultati: un cambiamento nelle procedure, infatti, è direttamente collegato al cambiamento nelle reazioni ai risultati. Secondo Folger, nelle situazioni in cui le regole distributive (di equità, uguaglianza o bisogno) vengono violate si sviluppa risentimento, definito come “una forma di sentimento ostile verso un individuo ritenuto responsabile dei risultati sfavorevoli conseguiti” (Folger e Martin, 1986). Nel momento in cui l’individuo esperisce tale sentimento, sviluppa una forma di pensiero autoreferenziale: la sua cornice di riferimento, sulla base della quale vengono effettuate le valutazioni di ciò che è successo, è costituita dal confronto mentale tra ciò che è avvenuto e ciò che sarebbe potuto accadere (referent cognitions). La teoria si focalizza, pertanto, sui sentimenti di rabbia e risentimento che spesso accompagnano la deprivazione relativa. In particolare, la Referent Cognitions Theory (RCT) sostiene che il risentimento

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relativo alla presa di decisioni può essere massimizzato quando si realizzano tre condizioni: 1) i risultati della persona/situazione con cui ci si confronta sono elevati, ad indicare che è possibile immaginare l’esistenza di un miglior stato delle cose; 2) vi è la percezione che ci sia una bassa probabilità di migliorare e, quindi, che ci sia poca speranza che i risultati futuri siano migliori; 3) vi è una bassa giustificazione rispetto alle procedure usate per cui l’evento doveva avere un decorso differente. Numerosi studi hanno confermato gli effetti delle tre componenti della Referent Cognitions Theory. Folger e Martin (1986), ad esempio, hanno messo in evidenza che, se le procedure utilizzate sono valutate come accettabili (condizione di alta giustificazione), le persone provano un livello minimo di scontentezza, a prescindere dal fatto che i risultati reali siano o meno discordanti dalle aspettative. In una successiva dissertazione, Folger (1993) abbandona la terminologia utilizzata all’interno di tale prospettiva a favore di una modalità di pensiero controfattuale, ovvero immaginare ciò che si sarebbe potuto realizzare2. Viene, pertanto, abbandonato il gergo utilizzato precedentemente per un linguaggio che utilizzi il “se solo”, a cui spesso si ricorre nelle situazioni negative. In accordo con il pensiero controfattuale, infatti, di fronte a situazioni già realizzate è possibile fare ricorso ad un ragionamento ipotetico, in cui si immagina ciò che sarebbe potuto essere. Ad esempio, ci si può trovare di fronte ad espressioni del tipo “Se solo l’autorità avesse agito come dovuto, avrei ottenuto un risultato migliore”. Secondo l’analisi condotta da Folger, inoltre, la Referent Cognition Theory non riesce a discernere correttamente tra responsabilità causale e obbligo morale, in quanto le giustificazioni possono essere considerate come non necessarie nei casi in cui gli eventi negativi siano dovuti a circostanze attenuanti. Viene, pertanto, formulata la teoria della giustizia (Fairness Theory), che cerca di spiegare le situazioni in cui un’autorità viene ritenuta responsabile per un’ingiustizia subita. La teoria sostiene, in particolare, che l’autorità viene ritenuta colpevole quando viene risposto in maniera affermativa ai seguenti tre quesiti: 2 Il pensiero controfattuale rappresenta un processo attraverso cui esaminiamo il nostro passato, scomponendolo nelle sue parti costitutive, e ricostruiamo il futuro che si sarebbe potuto realizzare, ma che non è stato. Tale modalità di pensiero influenza notevolmente la comprensione degli eventi, degli altri e degli stati d’animo.

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1) Sarei più ricco se ci fossero stati risultati diversi o se fossero state usate procedure differenti? In altre parole, sono stato oggetto di qualche torto? 2) Chi è in posizione di potere avrebbe potuto comportarsi in maniera differente? Sarebbe stato possibile adottare altre linee d’azione? 3) Chi è in posizione di potere avrebbe dovuto comportarsi differentemente? Sono stati violati principi etici e morali? Vengono, in questo modo, integrati sia elementi di giustizia distributiva sia di giustizia procedurale e viene posta in evidenza l’importanza di violazioni morali, come pregiudizi, mancanza di eticità e ingiustizia interpersonale (Folger, 2001). Gli studi condotti per testare la validità della teoria della giustizia hanno permesso di confermare l’utilità delle ipotesi in essa sviluppate per spiegare la percezione di giustizia in diversi contesti, tra cui quello organizzativo (Colquitt e Chertkoff, 2002; Gilliland et al., 2001).

1.11.2. Le concettualizzazioni orientate al gruppo: dalla formulazione del Modello del valore di gruppo al Group Engagement Model A partire dalla riflessione relativa alle ricerche sulla giustizia procedurale, Lind e Tyler (1988) arrivano a proporre due differenti modelli di giustizia procedurale: il modello dell’interesse personale (Self-Interest Model) e il modello del valore di gruppo (Group Value Model). Il modello dell’interesse personale si focalizza sull’idea di un individuo che tende a massimizzare l’interesse personale quando si trova ad interagire con gli altri (Lind e Tyler, 1988). In quest’ottica, le persone assegnano un valore alla giustizia procedurale perché offre prevedibilità e controllo sui risultati; procedure corrette permettono di ottenere guadagni a lungo termine da relazioni di scambio, mentre procedure non corrette non garantiscono il perseguimento di tali risultati (Greenberg e Colquitt, 2005). Secondo questo modello, sebbene depongano in mano a terzi il compito di risolvere le controversie, o lascino ad un’autorità la funzione di regolare le condotte sociali, gli individui cercano di esercitare una qualche forma di controllo sulle decisioni prese, nel tentativo di soddisfare i propri interessi. La correttezza procedurale è vista come un mezzo per garantire il raggiungimento di risultati a lungo termine e non come fine rilevante di per sé. La giustizia procedurale risulta collegata, quindi, ad una valutazione dell’interesse personale ed è influenzata da variabili quali l’appropriatezza

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delle procedure rispetto al perseguimento di fini personali, la possibilità di esercitare un controllo sui risultati, la correttezza dei risultati prodotti e la coerenza con cui vengono applicate le procedure. Alcune ricerche hanno, però, messo in evidenza alcuni limiti del modello strumentale, portando Lind e Tyler alla formulazione del modello del valore di gruppo. In primo luogo, dai risultati di tali studi è emerso che, anche in presenza di esiti negativi, sono rilevabili gli effetti esercitati dal giudizio positivo sulla giustizia procedurale. Percepire come giuste le procedure adottate, infatti, incrementa la soddisfazione personale, indipendentemente dalla possibilità di influenzare i risultati. La percezione di giustizia procedurale, inoltre, non può essere spiegata completamente in termini strumentali, dal momento che la qualità delle relazioni tra gli individui e coloro che devono prendere le decisioni ha un ruolo determinante nell’influenzare il giudizio sulla giustizia distributiva. I risultati di numerose ricerche (Earley e Lind, 1987; Kanfer et al., 1987; Lind et al., 1990; Tyler, 1987) hanno evidenziato, infatti, che il controllo sul processo migliora la percezione di giustizia indipendentemente dalla sua capacità di influenzare gli esiti. Ciò implica che la capacità di esprimere il proprio punto di vista ha valore indipendentemente dalla possibilità di soddisfare interessi economici (modello non strumentale o value expressive), derivante dal controllo sul processo. Secondo Lind e Tyler (1988), inoltre, il modello dell’interesse personale non riesce a spiegare gli effetti della giustizia relazionale. Il modello del valore di gruppo viene, pertanto, introdotto come un’alternativa per colmare le criticità del modello dell’interesse personale, ponendo l’accento sul fatto che gli individui dedicano particolare enfasi all’appartenenza al loro gruppo e tendono a conformarsi allo status e al trattamento conferito loro dagli altri membri. Il modello del valore di gruppo, quindi, connette il giudizio sulla giustizia procedurale ai valori propri del gruppo di riferimento e al desiderio di essere ed essere visto come un membro maturo di un gruppo, organizzazione o società. La giustizia procedurale e relazionale forniscono, infatti, informazioni sulla natura di un gruppo e sul posto che l’individuo occupa in esso (Lind e Tyler, 1988). Le procedure che regolano la presa di decisioni sociali, in questa prospettiva, sono componenti rilevanti della vita sociale, in quanto rappresentano i principi che garantiscono l’esistenza del gruppo. Le procedure, infatti, forniscono alle persone indicazioni su come comportarsi nelle interazioni di gruppo e conseguentemente veicolano informazioni sui valori del gruppo (Lind e Earley, 1992). I principi di giustizia procedurale derivano, secondo il modello del valore di gruppo, dai valori complessivi del gruppo di riferimento e dall’interesse dell’individuo nell’essere trattato come un membro

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maturo e a cui viene riconosciuto il proprio status, ovvero il diritto di appartenenza e di partecipazione. Dal momento che le procedure veicolano i valori del gruppo o della società di appartenenza, le persone sostengono le procedure che offrono supporto a tali valori. Poiché, inoltre, le procedure offrono informazioni sul trattamento ricevuto all’interno del gruppo, gli individui rispondono positivamente alle procedure che riconoscono la partecipazione e l’appartenenza del singolo al gruppo, favorendo la riduzione dell’incertezza relativa alla propria posizione come membro e, quindi, alla propria identità. Una procedura è valutata come giusta e corretta se è congruente con i valori del gruppo o se dimostra che la persona è un membro rispettato del gruppo. Le procedure che consentono la partecipazione e il riconoscimento dell’appartenenza, inoltre, favoriscono l’incremento del giudizio di correttezza e diffondono un senso di controllo sull’ambiente decisionale. In questa prospettiva, non è il controllo in sé (come avviene, invece, nel modello dell’interesse personale) a influire sul giudizio sulla giustizia procedurale, bensì il rispetto dei bisogni di partecipazione e di appartenenza al gruppo, garantiti dalle procedure. Gli antecedenti della percezione di giustizia, secondo Lind e Tyler (1988) sono, quindi, identificabili con le procedure e le interazioni in accordo con i valori fondamentali del gruppo. Il controllo sul processo, la coerenza e il rispetto sono associati alla percezione di giustizia non solo per la loro influenza sui risultati, ma anche perché permettono di riaffermare i valori del gruppo. Tyler (1989) individua tre fattori che risultano particolarmente rilevanti ai fini dell’affermazione dei valori del gruppo: neutralità, riconoscimento dello status e standing. La soppressione dei bias (neutralità) implica che le autorità decidano secondo le regole e i fatti, facendo propri l’onestà, l’obiettività e l’imparzialità. Percepire che si è trattati come gli altri membri del gruppo ha, infatti, forti implicazioni sul senso di valore personale e sull’identità sociale dell’individuo. Le convinzioni sull’affidabilità dell’autorità si fondano sulle motivazioni che soggiaciono alle decisioni e alle scelte di implementare determinati tipi di procedure decisionali. Più ampia è la possibilità di scelte discrezionali, maggiore sarà la fiducia richiesta nei confronti dell’autorità: ciò che conta non sono, pertanto, gli esiti delle decisioni, ma la qualità della relazione tra individuo e autorità. La giustizia interpersonale, ovvero il riconoscimento del proprio status, riguarda le informazioni sulla propria posizione nel gruppo, ricavate dal trattamento ricevuto da coloro che rivestono una posizione di autorità. In una successiva teorizzazione, Tyler e Lind (1992), nel tentativo di indagare quali siano le caratteristiche che permettono all’autorità di operare efficacemente, hanno introdotto il modello relazionale (Relational Model).

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In tale modello, gli autori si focalizzano sui tre fattori individuati da Tyler (1989), sostenendo che influenzino il grado con cui gli individui valutano come legittime le autorità. Tale prospettiva prevede che la giustizia procedurale influenzi le reazioni all’autorità, come messo in luce da studi condotti in contesti legali, politici, familiari ed educativi (Tyler e Smith, 1997). Predice, inoltre, che la neutralità, la fiducia nell’autorità e il riconoscimento dello status influenzino i giudizi sulla giustizia procedurale. Alcune evidenze empiriche (Smith et al., 1998) hanno posto in luce che una buona relazione con le autorità promuove sentimenti di giustizia procedurale e, conseguentemente, favorisce la sensazione di essere stimati dal gruppo. Nonostante il modello relazionale si focalizzi più esplicitamente sulla percezione di legittimità dell’autorità, risultando abbastanza simile nella formulazione al modello del valore di gruppo, i due modelli sono stati usati in maniera interscambiabile nelle ricerche successive. Come le ricerche condotte in base al modello del valore di gruppo, anche gli studi usati per testare il modello relazionale hanno permesso di verificare che i giudizi sulle relazioni influiscono sulla percezione di giustizia, anche quando vengono controllati la favorevolezza del risultato e la percezione di controllo (Tyler, 1994). Tyler e Blader (2003), confrontando il modello del valore di gruppo e il modello relazionale, hanno, però, evidenziato come i modelli differiscano per quanto riguarda il focus e le previsioni formulate. Il modello del valore di gruppo, infatti, si focalizza sugli antecedenti del giudizio di giustizia procedurale e postula che fattori non strumentali, quindi non legati all’interesse personale, influenzino tali giudizi. Il modello relazionale, invece, analizza i fattori che guidano le reazioni alle decisioni delle autorità e ipotizza che la giustizia procedurale possa influenzare tali reazioni. Il rispetto dei tre fattori relazionali (neutralità, affidabilità, riconoscimento dello status) viene, infatti, considerato come un elemento fondamentale affinchè gli individui percepiscano che l’autorità mette in atto procedure corrette, valutandola conseguentemente come legittima. Cercando di indagare quali siano gli antecedenti della cooperazione nei gruppi, Tyler e Blader (2000, 2003) hanno sviluppato il Group Engagement Model, che integra il modello del valore del gruppo e il modello relazionale dell’autorità. In accordo con questa prospettiva, l’importanza attribuita dagli individui alla giustizia procedurale permette di far luce sulle motivazioni che spingono a far parte di un gruppo. Il modello si focalizza su ciò che le persone cercano quando prendono parte ad un gruppo e sulla rilevanza che la giustizia assume nei contesti sociali. Si propone, pertanto, di identificare ed esaminare gli antecedenti degli atteggiamenti, valori e comportamenti cooperativi nel gruppo. Rispetto ai modelli del valore di gruppo e relazio-

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nale, il Group Engagement Model si focalizza maggiormente sugli effetti di tipo comportamentale, più che sulla percezione di giustizia in sé, formulando un modello generale delle relazioni tra persone e gruppi. In accordo con questa prospettiva, le forme di giustizia procedurale e relazionale, che prendono origine dai supervisori e dalle organizzazioni, guidano il giudizio sull’identità, ovvero l’orgoglio derivante dall’essere parte di un gruppo, il percepire rispetto e l’identificazione con il gruppo stesso. Numerose ipotesi sono state sviluppate a partire dal Group Engagement Model. In primo luogo, il modello predice che i giudizi sull’identità siano i fattori primari che danno forma agli atteggiamenti, valori e comportamenti cooperativi nei gruppi. Prevede, inoltre, che i giudizi sulle risorse influenzino fortemente atteggiamenti, valori e comportamenti cooperativi attraverso l’influenza indiretta esercitata sulla formulazione dei giudizi sull’identità. In terzo luogo, ipotizza che gli antecedenti principali dei giudizi sull’identità siano giudizi formulati sulla giustizia procedurale all’interno del gruppo. Infine, sostiene che i giudizi sullo status all’interno del gruppo plasmino l’identificazione con il gruppo stesso e con i valori di cui è portatore. Essendosi focalizzato sugli effetti comportamentali della giustizia, il Group Engagement Model apporta un contributo innovativo e fondamentale che permette di ampliare il focus conoscitivo delle ricerche sulla giustizia procedurale.

1.11.3. Concettualizzazioni euristiche: la teoria euristica della giustizia e la teoria della gestione dell’incertezza Recentemente, Lind (2001) e Van den Bos (2001) si sono focalizzati sulla natura delle “scorciatoie psicologiche” utilizzate per formare giudizi sulla giustizia, dando corpo alla teoria euristica della giustizia. Sviluppata in seguito alla formulazione del modello relazionale, la teoria suggerisce che le persone usino la percezione di giustizia quando valutano se accettare le decisioni prese da un’autorità. Le persone, quindi, fanno ricorso a euristiche di giustizia, ovvero a “scorciatoie” psicologiche usate per decidere se accettare o rigettare le direttive di persone in posizione di potere. Tali euristiche vengono formate rapidamente, usando ogni informazione disponibile, in modo da poter essere utilizzate per guidare le decisioni successive (Van den Bos, Vermunt e Wilke, 1997). Secondo Van den Bos e collaboratori, all’interno di tale processo esiste un effetto di superiorità tale per cui le informazioni che si rendono disponibili per prime esercitano un effetto maggiore sulle valutazioni di giustizia rispetto alle informazioni che giungono in un secon-

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do tempo. Successivamente (1998), hanno evidenziato che le euristiche di giustizia vengono usate per valutare l’operato delle persone che ricoprono un ruolo decisionale, in quanto risulta più difficile esprimere un giudizio sulla loro affidabilità. A partire da questi assunti, Lind (2001) ha utilizzato la teoria euristica della giustizia all’interno del “dilemma sociale fondamentale”. Tale dilemma presenta una duplice situazione sociale: da un lato, ci sono dei risultati che possono essere conseguiti identificandosi e compiacendo alle richieste dell’autorità. Dall’altro lato, conformarsi a tali richieste espone la persona al rischio di sfruttamento. Le preoccupazioni relative a questo dilemma possono essere attenuate se l’autorità viene giudicata come affidabile, ma tale percezione richiede tempo per essere sviluppata e non risulta costante nel tempo. Gli individui, pertanto, formano le euristiche di giustizia basandosi sui pochi incontri avuti con chi ha potere decisionale, e poggiandosi su di esse se ne servono per prendere decisioni in situazioni strutturate come nel dilemma fondamentale. Il giudizio sulla correttezza procedurale, quindi, funziona come un’euristica per interpretare eventi successivi alle prime fasi di interazione con l’autorità, influenzando il giudizio sulla correttezza dei risultati. Studi successivi hanno condotto alla formulazione di una nuova teoria, denominata teoria della gestione dell’incertezza (Lind e Van den Bos, 2002), all’interno della quale si sostiene che le persone utilizzino le informazioni ricavate dalle procedure per ridurre l’incertezza relativa al proprio ambiente sociale o alle proprie caratteristiche individuali (es. capacità o caratteristiche fisiche). In accordo con questa prospettiva, le persone ricorrono più frequentemente alle informazioni relative alla giustizia quando si trovano ad affrontare situazioni di incertezza. Ad esempio, l’opportunità di esprimere il proprio punto di vista in un processo decisionale ha un forte impatto sulla soddisfazione relativa all’autorità quando le persone sono incerte sull’affidabilità dell’autorità stessa. La percezione di giustizia, pertanto, può rimuovere l’incertezza relativa all’affidabilità di una persona in posizione di potere, ma può mitigare anche gli effetti dell’incertezza relativa, ad esempio, ad eventi futuri (Lind e Van den Bos, 2002). In accordo con la teoria della gestione dell’incertezza, quindi, una delle funzioni della giustizia è di ridurre l’incertezza nella vita delle persone. Il bisogno di ridurre l’incertezza è probabilmente innato e, conseguentemente, evitare le situazioni poco chiare, incerte, risulta fondamentale in ogni sfera del sociale. Secondo quanto teorizzato da Lind e Van den Bos (2002), inoltre, la percezione di giustizia, in situazioni di incertezza, favorisce il mantenimento di atteggiamenti positivi da parte dell’individuo. Infatti, se situazioni di incertezza si verificano quando viene percepito un giusto trattamento, le persone,

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con minore probabilità, metteranno in atto comportamenti che possono danneggiare le organizzazioni e i loro membri. La percezione di giustizia, infatti, riduce l’ansia, le preoccupazioni e i dubbi relativi al fatto di essere sfruttati all’interno dell’organizzazione stessa (vedi capitolo successivo). Se, al contrario, le persone si sentono ingiustamente trattate e percepiscono alti livelli di incertezza, reagiranno adottando condotte antisociali, che possono danneggiare l’organizzazione e i membri. Concludendo, emerge come le concettualizzazioni euristiche enfatizzino l’importanza assegnata all’appartenenza al gruppo e le condizioni che rendono maggiormente probabili la messa in atto di comportamenti cooperativi (Beugrè, 2007). In questa prospettiva, è, quindi, possibile ipotizzare che le percezioni di giustizia e, in particolare la giustizia procedurale, possono influenzare la decisione degli individui di cooperare all’interno dei gruppi, utilizzando le informazioni sulle procedure per decodificare, ad esempio, situazioni sociali incerte o in cui non è possibile trarre chiare indicazioni sull’affidabilità dell’autorità.

1.12. Conclusione All’interno del presente capitolo sono state esposte le teorie psicologiche che hanno affrontato il tema della giustizia, riferendoci in particolare alle prospettive teoriche sviluppate all’interno della psicologia sociale. Le ricerche e le teorie presentate hanno permesso di rilevare come esso si presenti come un fenomeno complesso, multisfaccettato, dal momento che l’interesse per la giustizia si sviluppa nelle persone per diversi motivi, riguardando, da un lato, la valutazione di aspetti decisionali inerenti la realtà quotidiana, dall’altro, guidando un’ampia gamma di atteggiamenti e comportamenti che regolano la vita all’interno della società. Come messo in luce nei paragrafi precedenti, non esiste una definizione condivisa di giustizia. Si evidenzia pertanto come a partire dal concetto di giustizia distributiva, studiosi diversi abbiano identificato dimensioni di giustizia differenti. Data la complessità del tema affrontato, non è possibile tracciare quindi una cornice teorica unitaria che permetta una definizione univoca. Numerose sono le prospettive di ricerca futura che prendono origine dalle riflessioni condotte sulla giustizia, fornendo un campo fertile per quanti vogliano approfondire, teoricamente ed empiricamente, un argomento così rilevante all’interno della vita sociale degli individui.

Capitolo secondo Dentro l’in-giustizia: le possibili conseguenze di Francesca Chieco e Alessio Vieno

2.1. Introduzione Accostarsi al tema dell’in-giustizia comporta attraversare l’ampio e variegato spettro di sfaccettature di senso che la connotano, cogliendo le diverse teorizzazioni psicologiche che ne hanno suggerito una definizione. Fino a qui ci si è dunque chiesti che cosa sia l’in-giustizia; ora ci si propone di chiedersi piuttosto quali siano le conseguenze del suo vissuto: “entrare dentro” perciò all’in-giustizia esperita per coglierne i possibili esiti e conseguenti. Riteniamo utile poter mantenere la dicitura in-giustizia anche trattando le conseguenze, in primo luogo poiché ci sembra un riferimento coerente alla letteratura sull’argomento e successivamente poiché riteniamo di voler privilegiare una connotazione “psicologica” relativa alla dimensione soggettiva del farne esperienza, immaginando un continuum di possibilità dal senso dell’in (non) giustizia a quello di giustizia. Diversi autori hanno sottolineato come l’ingiustizia sia realmente in chi la percepisce piuttosto che un concetto oggettivo1 (tra gli altri: Adams, 1965; Mikula e Wenzel, 2000; Tyler, Boeckmann, Smith e Huo, 1997; Van den Bos e Lind, 2002). Serbando comunque l’idea dell’ingiustizia e del declinarsi delle sue possibili verità oggettive, quali le disuguaglianze socioeconomiche, su esiti di benessere per individui e intere popolazioni (cfr. Capitolo 8) intendiamo riferirci in questa parte di trattazione all’ingiustizia percepita, che possiamo definire, in termini generali, includendo una violazione dei diritti o contratti psicologici (Miller, 2001), in relazione all’appartenenza al gruppo o a esperienze 1 In letteratura si riscontrano alcune tendenze a considerare l’ingiustizia come un concetto oggettivo rispetto al quale ci siano o ci possano essere alcune verità oggettive (es. Hare, 1981; Jasso, 1994, 1999; Rawls, 1971; Sabbagh, Dar e Resh, 1994). Queste per lo più fanno riferimento a un approccio razionale-normativo e talvolta filosofico nel definire il concetto e la natura dell’ingiustizia nei termini di un principio riferibile a valori oggettivi di giusto e non giusto (Hare, 1981).

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individuali. In questo senso, ad esempio, pregiudizi e discriminazioni possono essere considerati forme di ingiustizia (che si manifestano a livello sia societario che individuale) legate all’appartenenza di gruppo. Altre forme di ingiustizia, invece, non sono una funzione diretta dell’appartenenza al gruppo, come la violazione, su un piano personale, di accordi, formali o informali, tra individui. La sola percezione di ingiustizia può avere effetti deleteri, oltre o in assenza di altri più diretti effetti tangibili di ingiustizia. Per queste ragioni intendiamo utilizzare la concettualizzazione di ingiustizia percepita per evidenziare l’impatto che l’esperienza soggettiva che se ne fa può avere in termini di conseguenze. Dunque, mantenendo sullo sfondo le principali teorizzazioni in tema di ingiustizia, trattate nei paragrafi precedenti, lo scopo del presente capitolo è quello di approfondire come si declina l’ingiustizia nei termini di esiti e conseguenze possibili a diversi livelli: da quello individuale a quello gruppale e comunitario più ampio. Occorre precisare come la complessità, la non univocità e la molteplicità delle dimensioni dell’in-giustizia proposte dalle diverse prospettive teoriche (così come ampiamente trattato nel capitolo 1) si intreccino necessariamente con la disquisizione circa gli esiti possibili di tale fenomeno. Tuttavia ci permettiamo di semplificare la trattazione, proposta nel presente capitolo, concentrando l’attenzione esclusivamente su questi ultimi aspetti, fiduciosi che il lettore nell’approcciarsi ai prossimi paragrafi possa comunque tenere saldi i meccanismi e le prospettive teoriche che definiscono la complessità del concetto di ingiustizia. Si intende proporre dunque una panoramica rispetto alle conseguenze dell’ingiustizia considerando i contesti in cui questa viene maggiormente riscontrata e, pertanto, indagata dalla letteratura. La varietà degli effetti che l’ingiustizia percepita può avere comprende, oltre a conseguenze più immediate, esiti più importanti in termini di benessere psicologico e salute; in questo senso viene menzionato l’effetto dell’ingiustizia in termini di stressor “psico-sociale”. L’andare poi oltre il livello delle conseguenze individuali permette di accostarsi a una riflessione a più ampio raggio rispetto agli effetti dell’ingiustizia e della percezione della stessa a livello “macro”. Infine, poter svelare “l’altro lato dell’ingiustizia” consente di concludere la trattazione con un accento positivo considerando come l’ingiustizia, percepita a livello gruppale, possa favorire degli esiti non necessariamente sfavorevoli (cfr. Capitolo 7).

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2.2. Le conseguenze dell’in-giustizia: una panoramica È importante considerare come, passando in rassegna la letteratura sull’argomento sia possibile operare un tentativo di riassumere le conseguenze dell’ingiustizia su chi la percepisce a diversi livelli: psicologico (lo scaturire di alcuni stati emotivi), comportamentale (la reazione), di salute (il benessere fisico), gruppale (dinamiche intragruppo). Si è scelto di privilegiare una trattazione che segue il riferimento a diversi contesti rispetto ai quali, in letteratura, sono riportate la presenza e l’influenza dell’ingiustizia e la cui comprensione si presta all’utilizzo di una prospettiva psicologica e che menziona le conseguenti a livello di benessere, in senso ampio. Di seguito dunque verranno proposte alcune tra le principali prospettive in cui le conseguenze all’ingiustizia sembrano potersi declinare, sulla base dei principali contributi rilevabili nella letteratura sul tema.

2.2.1. Conseguenze dell’ingiustizia tra non rispetto e rabbia2 L’esperienza dell’ingiustizia, secondo una prospettiva psicologica, è stata indagata anche, in particolare, sottolineando il ruolo giocato dalla percezione di mancanza di rispetto (per una rassegna cfr. Miller, 2001). In questo senso, la prospettiva adottata è quella di considerare tre relazioni concettuali principali: quella tra non-rispetto e rabbia, quella tra non-rispetto e ingiustizia e quella tra rabbia e ingiustizia. Infatti, le esperienze di ingiustizia possono riferirsi a situazioni caratterizzate dalla percezione di ricevere un’offesa o un trattamento non-rispettoso e sfociare in stati emotivi, quali la rabbia. Inoltre, la medesima relazione tra ingiustizia e rabbia sembra potersi caratterizzare in senso bidirezionale. In primo luogo, si sottolinea come la percezione di essere trattati in maniera non rispettosa sia riconosciuta come una diffusa, forse la più comune, fonte di rabbia. La mancanza di rispetto percepita sembra agire come condizione necessaria all’attivazione dell’emozione della rabbia e alcuni autori (Bettencourt, Miller, 1996; Cohen, Nisbett, Bowdle e Schwarz, 1996) la ritengono una determinante non solo della rabbia ma anche dell’aggres2

La rabbia è una tra le conseguenze dell’ingiustizia particolarmente citate dalla letteratura sul tema. In particolare, viene menzionata secondo prospettive diverse: nel suo legame con il non-rispetto, come reazione e come stato emotivo. Nella presente trattazione si è scelto di mantenere queste diverse angolature, dunque il lettore troverà riferimenti alla rabbia nei diversi paragrafi in base all’accezione prescelta.

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sione. Trattamenti irrispettosi, comunque, non suscitano inevitabilmente rabbia. Può capitare che alcuni individui non ritengano di meritare rispetto (Heuer, Blumenthal, Douglas e Weinblatt, 1999) e le offese vengano dunque percepite come giustificate. Il trattamento non-rispettoso, oltre ad essere percepito come spiacevole e persino doloroso, viene considerato ingiusto da chi lo riceve. Il sentimento di ingiustizia che ne scaturisce sembra infatti spiegabile proprio con la sensazione di essere sottoposti a un trattamento non meritato (Miller, 1993). Coerentemente a questa prospettiva comportamenti di ritorsione possono risultare maggiormente comprensibili e giustificabili se considerati come comportamento di autodifesa in occasione di trattamenti di offesa o che minano il rispetto (Tedeschi, Smith e Brown, 1974). La percezione di ingiustizia dunque è frequentemente associata allo stato emotivo della rabbia (Keltner, Ellsworth e Edwards, 1993; Scher, 1997), riportata come una delle più diffuse conseguenze emotive (Clayton, 1992; Mikula, 1986). Tuttavia assumere una relazione di tipo causale invariante tra l’ingiustizia percepita e la rabbia è piuttosto avventato. Se da una parte infatti l’esperienza dell’ingiustizia può favorire l’instaurarsi di stati di rabbia, dall’altra tuttavia è importante considerare come l’innescarsi della rabbia stessa possa sostenere la percezione di ingiustizia, agendo forse come un sistema di allarme che stimola quest’ultima (Solomon, 1990). Anche rispetto alla possibilità di reagire alla rabbia percepita sembra fondamentale, per gli individui, la convinzione che la ritorsione sia motivata dall’ingiustizia percepita. Questo meccanismo sembra funzionare oltre il livello individuale se si considera come un forte senso di ingiustizia sostiene, in maniera quasi necessaria, la motivazione e la giustificazione ad adottare comportamenti aggressivi rivolti ai membri del proprio gruppo (Lind, 2000) o nel senso anche di una violenza collettiva tra gruppi (Martin, Brickman e Murray, 1984).

2.2.2. Conseguenze dell’ingiustizia in termini di reazione Le conseguenze dell’ingiustizia sono state analizzate anche in termini di reazione; in particolare, un filone recente di ricerca ha permesso di accrescere la comprensione delle diverse tipologie, o forme, che la caratterizzano (cfr. Miller, 2001). Diverse in letteratura le classificazioni che vengono proposte. Una recente rassegna (Miller, 2001) riporta come la gamma di reazioni diversificate all’ingiustizia possa essere semplificata in due categorie principali: “di ritiro” piuttosto che “di attacco”. Le reazioni definite “di ritiro” si

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manifesterebbero quando la persona che ha subito l’ingiustizia tralascia le azioni che aveva precedentemente compiuto, mentre le reazioni “di attacco” si presenterebbero quando la persona che ha subito l’ingiustizia mette in atto delle azioni non implementate in precedenza. I contributi presenti in letteratura evidenziano come il ritiro possa essere volontario; nello specifico i riscontri hanno analizzato la reazione a trattamenti ingiusti da parte di autorità (Lind, 2000; Tyler e Blader, 2001) sottolineando due effetti principali: il primo relativo alla diminuzione della disponibilità a rispettare e attenersi alle autorità (Huo, Smith, Tyler e Lind, 1996; Lind, Kulik, Ambrose e de Vera-Park, 1993); il secondo relativo alla diminuzione della disponibilità degli individui a subordinare i propri obiettivi e interessi personali a quelli del gruppo, che nel contesto organizzativo assumono la forma di diminuiti livelli di disponibilità, cortesia e sportività (Jeremier, Knights e Nord, 1994; Moorman, 1991; Niehoff e Moorman, 1993), o del rendimento lavorativo (Lind, Kanfer e Earley, 1990). Occorre evidenziare come nonostante le principali indagini rispetto alle reazioni di ritiro si siano concentrate sul contesto organizzativo, altri riscontri dimostrano come la loro manifestazione non sia limitata a tale ambiente ma, ad esempio, trattamenti non rispettosi e percepiti come ingiusti possono suscitare reazioni di ritiro anche nel contesto di relazioni interpersonali, quali quelle più intime (Reichle e Montada, 1994), riconoscibili in “atteggiamenti di silenzio” rispetto al partner a cui viene attribuita l’ingiustizia (Mikula, Scherer e Athenstaedt, 1998; Sommer, Williams, Ciarocco e Baumeister, 2000). È possibile riassumere sottolineando come in diversi casi il ritiro dell’impegno nel contesto organizzativo, di gruppo o di relazioni interpersonali si manifesta come reazione volontaria e deliberata all’ingiustizia percepita. In altri casi, invece, il ritiro può essere una risposta involontaria a uno o diversi stati psicologici che la percezione di ingiustizia è in grado di suscitare. A tal proposito, è importante evidenziare come l’ingiustizia percepita, oltre a sentimenti di rabbia, può favorire una diminuzione dell’autostima (Koper, van Knippenberg, Bouhuijs, Vermunt e Wilke, 1993), stati depressivi (Hafer e Olson, 1993; Tennen e Affleck, 1991) e autodistruttivi (Heilman, Lucas e Kaplow 1990) che possono, a loro volta, produrre un’involontaria diminuzione dell’impegno e del coinvolgimento nella relazione in cui l’ingiustizia è stata sperimentata (cfr. Miller, 2001). Considerando le reazioni all’ingiustizia in termini di “attacco” si possono menzionare tentativi di ristabilire la giustizia attraverso la richiesta di provvigione. Inoltre, la maggior parte degli studi si è concentrata sul contesto organizzativo dove l’obiettivo di “pareggiare i conti” (Greenberg e Scott, 1996), a seguito di un’ingiustizia percepita, è associato a un incre-

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mento di proteste e reclami (Folger, 1977; Leung, Chiu e Au, 1993; Vermunt, Wit, Van de Bos e Lind, 1997), furto (Greenberg, 1993; Greenberg e Scott, 1996), sabotaggio (Giacalone, Riordan e Rosenfeld, 1997) e violenza (Folger e Skarlicki, 1998; Neuman e Baron, 1997). Un’altra reazione d’attacco, motivata da trattamenti non rispettosi, è relativa al ricorrere a vie maggiormente formali e legittimate, tra queste imbarazzare pubblicamente i datori di lavoro (Bies e Tripp, 1996), intraprendere delle cause (Bies e Tyler, 1993) e perseguire rivendicazioni di licenziamento non legittimo (Lind et al., 2000). Effetti simili sono stati riscontrati anche in contesti differenti da quello lavorativo, per esempio il desiderio di infliggere una punizione è una motivazione diffusa all’intraprendere cause, in un’ampia gamma di situazioni (Keeva, 1999; Merry e Silbey, 1984; Shuman, 2000; Vidmar, 2000). È interessante sottolineare come spesso sia proprio la percezione dell’ingiustizia, rispetto a caratteristiche oggettive della situazione, il miglior predittore della possibilità che una persona intraprenda una rivendicazione (Miller, 2001). Tuttavia, sebbene l’ingiustizia sia stata considerata fino a qui un predittore chiave dei comportamenti di ritorsione, un più recente filone di indagine sostiene come l’ingiustizia sia un predittore inconsistente di comportamenti di rappresaglia, suggerendo come altri fattori di moderazione potrebbero intervenire a meglio specificare questa relazione (Colquitt, Scott, Judge e Shaw, 2006).

2.2.3. Conseguenze emotive dell’ingiustizia L’ingiustizia percepita è associata all’instaurarsi di diversi stati emotivi, una sorta di reazione emotiva al farne esperienza. Alcune evidenze sostengono l’innescarsi di singole emozioni, quali disappunto, frustrazione, ansia, tristezza, orgoglio, senso di colpa (Krehbiel e Cropanzano, 2000; Weiss, Suckow e Cropanzano, 1999), rabbia (Murphy e Tyler, 2008). Per contro, nel caso di giustizia percepita il riferimento è a emozioni positive quali la felicità (Murphy e Tyler, 2008). Occorre evidenziare come si riscontri in letteratura un limitato numero di ricerche rivolte ad indagare in che modo le emozioni giochino un ruolo rispetto alla percezione di ingiustizia. La maggior parte degli studi è stata condotta nel contesto dell’ingiustizia distributiva, evidenziando la relazione tra quest’ultima e stati emotivi positivi (nel caso di giustizia percepita) e altri come rabbia e senso di colpa (Adams, 1965; Homans, 1974). Nel contesto dell’ingiustizia procedurale si riscontrano comunque poche ricerche rispetto alle conseguenti emotive. Nel passare in rassegna la letteratura esistente,

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emerge come la maggior parte degli studi si sia concentrata nell’indagare se l’ingiustizia procedurale mantenesse il potere predittivo su differenti reazioni emotive. Da un lato, si riportano studi sperimentali (Cropanzano e Folger, 1989; Weiss et al., 1999), alcuni dei quali nello specifico sottolineano come la reazione emotiva fosse associata all’esito positivo e in minor parte all’ingiustizia percepita (Hegtvedt e Killian, 1999; Krehbiel e Cropanzano, 2000; Weiss et al., 1999). Altri studi empirici invece sottolineano come l’ingiustizia percepita sia associata ai livelli di orgoglio e piacere e a quelli della rabbia (MurphyBerman, Cross e Fondacaro, 1999), emozioni negative in senso generale (Chebat e Slusarczyk, 2005) e, nel caso contrario di giustizia percepita, a stati emotivi positivi (Murphy e Tyler, 2008). Nonostante l’esperienza dell’ingiustizia venga spesso ritenuta come piena dal punto di vista emotivo, date le evidenze dell’associazione tra ingiustizia ed emozioni, l’attenzione empirica al loro ruolo sembra essere ancora limitata (Weiss, Suckow e Cropanzano, 1999). In questo senso è interessante raccogliere gli innovativi riscontri volti ad approfondire i processi emotivi che l’ingiustizia innesca che sostengono un ruolo di mediazione giocato dalle emozioni nella relazione tra ingiustizia percepita e reazione comportamentale conseguente (VanYerpen, Hagedoorn, Zweers e Postma, 2000; Barklay, Skarlicki e Pugh, 2005; Gordijn, Yzerbyt, Wigboldus e Dumont, 2006). Le emozioni, in particolare quelle negative (come rabbia e disappunto), sembrano infatti poter accompagnare i comportamenti di ritorsione come risposta all’ingiustizia percepita (Barclay et al., 2005). Tali riscontri si sono concentrati in particolare sul contesto organizzativo, le cui conseguenti in relazione all’ingiustizia verranno meglio approfondite nel paragrafo a seguire.

2.2.4. Conseguenze dell’ingiustizia organizzativa Uno dei contesti in cui la percezione e gli effetti in termini di conseguenze dell’ingiustizia sono riscontrabili è quello lavorativo. Nello specifico, non si fa riferimento a un costrutto unidimensionale ma a concettualizzazioni rispetto a diverse dimensioni dell’ingiustizia, più diffusamente distributiva, procedurale e relazionale (Cohen-Carash e Spector, 2001)3. 3

Le diverse concettualizzazioni di giustizia organizzativa sono state ampiamente specificate nel capitolo 1, a cui si rimanda per un approfondimento.

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Un recente contributo rispetto all’influenza dell’ingiustizia organizzativa su specifiche conseguenti viene proposto da Conlon, Meyer e Nowakowski (2005). Gli autori, prendendo in esame la letteratura che considera l’effetto dell’ingiustizia organizzativa su diversi esiti, ne approfondiscono alcuni particolari a livello organizzativo. Nello specifico, vengono menzionate tre categorie di conseguenti principali: “the good” (rendimento e “compliance”), “the bad” (comportamenti di ritiro, quali ricambio del personale e assenteismo), “the ugly” (violenza e altri comportamenti di lavoro controproducenti). Sembra infatti che, in termini generali, la percezione di ingiustizia a livello organizzativo abbia un impatto rilevante su diversi indici del rendimento lavorativo e su quanto gli autori definiscono in termini di compliance, intesa come accettazione e aderenza alle decisioni prese da altri e non sempre favorevoli e come continuità nella linea di lavoro intrapresa. L’effetto si riscontra inoltre sui comportamenti di ritiro legati a turnover, assenteismo e silenzio da parte dei lavoratori rispetto alla possibilità di esprimere opinioni personali; comportamento controproduttivo al lavoro rispetto all’organizzazione nel complesso e rispetto alle relazioni interpersonali al suo interno (per approfondimenti cfr. Conlon et al., 2005). La percezione di ingiustizia, dunque, emerge essere legata, tra gli altri, alle attitudini e ai comportamenti sul lavoro (Folger e Cropanzano, 1998). Un solido filone di ricerca in ambito organizzativo si pone a sostegno di come l’ingiustizia percepita nel luogo di lavoro possa favorire, in particolare, lo scaturire di reazioni poco desiderabili (per una rassegna complessiva cfr. Cohen-Carash e Spector, 2001; Colquitt, Conlon, Wesson, Porter e Ng, 2001). Tra queste, sperimentare ingiustizia può contribuire ad alcuni esiti negativi come la diminuzione del rendimento (Pfeffer e Langton, 1993), l’aumento di comportamenti di ritiro (Hulin, 1991) e controproduttivi (Jones, 2009), quali l’arrivo in ritardo, sottrarsi al lavoro e criticare l’organizzazione (Fox, Spector e Miles, 2001), assenteismo (DeBoer, Bakker, Syroit e Schaufeli, 2002) e differenti tipologie di comportamento rispetto alla partecipazione a livello del contesto organizzativo (Fassina, Jones e Uggerslev, 2008). Tra i comportamenti disfunzionali al lavoro che l’ingiustizia può suscitare vanno menzionate anche le reazioni aggressive (Beugré, 2005), che sembrano essere vere e proprie forme di rivalsa come risposta intenzionale e diretta all’ingiustizia percepita. Queste sembrano potersi manifestare in maniera esplicita e palese piuttosto che in termini di ostruzionismo o espressione di ostilità (Neuman e Baron, 1998). Per ostruzionismo si intende la serie di comportamenti in natura passivi e che sono finalizzati a ostacolare o impedire il rendimento di colui che è considerato il colpevole dell’ingiustizia; mentre l’ostilità comprende i comportamenti simbolici o verbali. Inoltre,

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reazioni aggressive esplicite assumono la forma di comportamenti di violenza vera e propria, come aggressione fisica e di danneggiamento delle strutture dell’organizzazione (Neuman e Baron, 1998). Nel campo dell’ingiustizia organizzativa la letteratura si è dunque occupata principalmente di conseguenti di natura comportamentale o attitudinale, quali ad esempio impegno (Alexander, Sinclair e Tetrick, 1995) e fiducia organizzativa (Greenberg, 1990). Solo più recentemente è stato considerato il ruolo dell’ingiustizia percepita nell’influenzare la salute dei lavoratori, in particolare rispetto ad esempio a stati di stress e disagio lavoro-correlati. A livello organizzativo, l’ingiustizia percepita sembra infatti influenzare significativamente il benessere psicologico dei lavoratori. Gran parte delle evidenze sottolinea l’influenza rispetto all’instaurarsi di stati di disagio moderato (Gilliland, 1994; Koper,Van Knippenberg, Bouhuijs, Vermunt e Wilke, 1993; Tyler, Degoey e Smith, 1996; Wiensenfeld, Brockner e Thibault, 2000): gli studi si sono focalizzati sulla valutazione delle conseguenti della percezione di ingiustizia rispetto a eventi singoli (quali licenziamento, decisioni rispetto l’attribuzione del salario, selezione, o valutazione annuale del rendimento, Cropanzano e Greenberg, 1997) riassumibili in stati di delusione, risentimento e minaccia alla propria auto-efficacia. D’altro canto, risultano meno indagati gli effetti dell’ingiustizia organizzativa su esiti più persistenti, quali il disagio psicologico (Elovainio, Kivimaki, e Helkama, 2001), maggiormente riferibili a valutazioni più generali dell’organizzazione relative alla continuità di ingiustizia a questo livello (Davidson e Friedman, 1998). Tuttavia, sembra interessante riportare alcune evidenze rispetto alle implicazioni che l’ingiustizia organizzativa (soprattutto considerando l’effetto di interazione tra componente distributiva e procedurale) può avere in termini di manifestazioni rilevanti di disagio psicologico, quali stati depressivi, esaurimento emotivo e ansia (Tepper, 2001). In linea con queste, altre evidenze sostengono l’effetto dell’ingiustizia organizzativa (nelle tre componenti distributiva, procedurale e relazionale) sui sintomi dello stress psicologico (Francis e Barling, 2005). L’importanza di questi effetti è sostenuta dal declinarsi di questo stato di stress psicologico, a sua volta, in sentimenti di demoralizzazione, assenteismo, turnover, conflitti interpersonali, infortuni (Cartwright e Cooper, 1997), aumento delle assenze per malattia e peggioramento dello stato di salute riportato (Elovainio et al., 2001; Elovainio, Kivimäki e Vahtera, 2002; Kivimäki, Elovainio, Vahtera e Ferrie, 2003). In questa prospettiva, altre recenti evidenze sottolineano il ruolo dell’ingiustizia organizzativa (nello specifico nella componente relazionale) nel predire l’assenza dovuta a malattia (Head, Kivimäki, Siegrist, Ferrie, Vahtera, Shipley e Marmot, 2007), che certamente può essere considerata

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un valido indicatore anche del più generale stato di salute (Schmitt e Dörfel, 1999), insieme alla soddisfazione per il lavoro.

2.2.5. Conseguenze dell’ingiustizia nel contesto scolastico Mantenendo il riferimento al contesto dell’ingiustizia organizzativa, rispetto al quale, come appena evidenziato, diversi sono in letteratura gli studi che hanno analizzato la relazione tra l’ingiustizia percepita sul luogo di lavoro e conseguenti in termini di salute (Kivimäki, Ferrie, Brunner et al., 2005), è interessante menzionare come alcuni studi abbiano approfondito questa relazione tra adolescenti con particolare riferimento al contesto scolastico. In effetti, la scuola può essere pensata come il contesto “di lavoro” dei ragazzi (Rudd e Walsh, 1993; Santinello, Vieno e DeVogli, 2009) rappresentando un importante ambiente di vita (Vieno, Santinello, Pastore e Perkins, 2007). Coerentemente a quanto riscontrato nel campo dell’ingiustizia organizzativa, alcune evidenze empiriche mettono in luce l’importanza dell’ingiustizia percepita nel contesto scolastico come potenziale fattore di rischio per la salute degli adolescenti (Santinello et al., 2009). In particolare, si evidenzia come l’ingiustizia da parte degli insegnanti possa influenzare lo stato di salute dei ragazzi, associandosi tra gli altri con una maggiore frequenza di episodi di mal di testa riportati settimanalmente. Questi risultati apportano un ulteriore sostegno a come episodi di ingiustizia relazionale possano favorire reazioni negative stress-correlate che accrescono, a loro volta, il rischio di esiti negativi per la salute psico-fisica (DeVogli, Ferrie, Chandola, Kivimaki e Marmot, 2007). L’ingiustizia percepita dagli insegnanti, nel contesto scolastico, sembra, inoltre, poter influenzare l’adattamento adolescenziale anche mediante il suo associarsi con esiti in termini di comportamento, in generale antisociale che nello specifico può sfociare in condotte violente, quali atteggiamenti di bullismo rivolti ai compagni o di aggressione verso gli insegnanti (Santinello e Vieno, 2010). Sembra infatti che l’ingiustizia percepita a scuola si associ con il comportamento individuale violento dei ragazzi considerando sia un livello d’analisi individuale che allargando ad un livello di classe, ovvero menzionando il ruolo di alcune caratteristiche del contesto classe (es. le relazioni oggettive che si instaurano tra un ragazzo e i propri insegnanti e compagni). In questo senso l’ingiustizia percepita si configura come uno dei potenziali meccanismi attraverso cui il contesto scolastico agisce la propria influenza sull’adattamento adolescenziale da non sottovalutare.

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2.2.6. Conseguenze dell’ingiustizia “osservata” Per concludere questa panoramica sulle possibili conseguenze dell’ingiustizia ci sembra interessante aggiungere un breve riferimento agli esiti che derivano dal fare esperienza all’interno di un gruppo o come osservatore di ingiustizia. Sebbene infatti esperire personalmente ingiustizia sembra rivelarsi un’esperienza maggiormente significativa in termini di risonanza (Lind, Kray e Thompson, 1998), le persone possono osservare e preoccuparsi dell’ingiustizia di altri (Skarlicki e Kulik, 2005). Poco approfonditi i riscontri circa le reazioni dell’osservatore all’ingiustizia altrui subita. In questo senso, risultano degni di nota alcuni recenti contributi (Hegtvedt, Johnson, Ganem, Waldron e Brody, 2010) che hanno cercato risposta all’interrogativo relativo a come un individuo che osserva un’altrui ingiustizia reagisca e risponda alla stessa. In particolare, sembra che l’ingiustizia percepita rispetto a un’esperienza altrui possa mediare la relazione tra le condizioni situazionali e le reazioni manifestate. Anche in questo caso dunque si conferma l’esperienza soggettiva, piuttosto che le circostanze oggettive in sé, lo stimolo a rispondere all’ingiustizia altrui subita. La percezione della presenza di ingiustizia può stimolare nell’osservatore uno stato di disagio che, a sua volta, sosterrebbe le potenziali reazioni volte a ristabilire la giustizia o a compensare all’ingiustizia. Sembra inoltre che a influire sulla reazione dell’osservatore di ingiustizia intervengano altri fattori, ad esempio a livello del contesto sociale di ingiustizia, degni di approfondimento (cfr. Hegtvedt et al., 2010). In ogni caso, quanto ci pare interessante rimandare al lettore è come l’ingiustizia nella dimensione soggettiva percepita possa avere una risonanza, in termini di conseguenti, anche in chi si trova nel contesto, apparentemente, semplicemente ad osservarla. Abbiamo fornito una breve panoramica di quelle che in letteratura sono considerate le conseguenze all’esperienza dell’ingiustizia, in relazione a specifici contesti che sono stati maggiormente oggetto di indagine e approfondimento. Qualche accenno è stato fatto anche all’influenza che l’ingiustizia può avere in termini di benessere generale e di salute fisica. In effetti, questa prospettiva sembra affermarsi, in tempi recenti, (per citarne alcuni: Jackson, Kubzansky e Wright, 2006; Tepper, 2001) e fornire stimolanti contributi alla comprensione della cascata dei processi sociali, psicologici e di salute che l’esperienza dell’ingiustizia può avviare.

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2.3. L’ingiustizia come stressor “psico-sociale” Molteplici i contributi che si sono dedicati ad indagare le conseguenti all’esperienza di ingiustizia, così come evidenziato nel paragrafo precedente. In particolare, è interessante considerare come l’ingiustizia, variabile socialmente definita, possa agire un’influenza sul benessere psicologico e sulla salute di chi ne fa esperienza. Tale asserzione sembra non poter essere sufficientemente compresa con il semplice riferimento alle teorie classiche in tema di ingiustizia (cfr. Capitolo 1) quanto piuttosto potendo menzionare come la connotazione sociale dell’ingiustizia possa declinarsi, attraverso un processo psicologico, in esiti di salute e benessere. Rispetto a questo, alcuni contributi (cfr. Francis e Barling, 2005), nell’esaminare la relazione tra ingiustizia e conseguenti in termini di status psicologico e di salute, hanno considerato l’ingiustizia un diretto risultato di “stress”, stato interiore caratterizzato da attivazione e spiacevolezza, a cui si possono associare esiti fisici e psicologici al prolungarsi dell’esposizione allo stesso. Nell’analizzare, dunque, l’ingiustizia in termini di stress viene valorizzata la percezione interiore di una situazione come determinante il senso di ingiustizia, mentre gli eventi legati alla situazione esterna vengono contemplati in termini di stressor (Francis e Barling, 2005). D’altro canto, tale prospettiva sembra superata alla luce di più recenti contributi emergenti che considerano l’ingiustizia nei termini di un vero e proprio “stressor” (Rousseau, Salek, Aubé e Morin, 2009; Jackson et al., 2006; Greenberg, 2004; Judje e Colquitt, 2004), per definizione esterno e verificabile, capace di suscitare una risposta interna dell’individuo alla stessa, definita come stress, che a sua volta, può minare lo stato di salute e benessere psico-fisico. È dunque chiara, in questo senso, la necessità di integrare la cornice teorica della letteratura in tema di ingiustizia con quella dei modelli di Stress e Coping (Folkman, 1984; Folkman, Schaefer e Lazarus, 1979; Lazarus e Launier, 1978) oltre che con quella propria dell’epidemiologia. Un altro importante aspetto che viene considerato in letteratura (Tepper, 2001) è relativo a come la comprensione delle conseguenti all’ingiustizia e le teorie relative si siano concentrate principalmente su ricerche in contesti-specifici e, dunque, sulla percezione episodica di ingiustizia. Mentre, adottare l’assunzione di ingiustizia come stressor comporta l’attenzione alla percezione in senso più generale di ingiustizia poiché, in termini maggiormente esplicativi, diverse manifestazioni di disagio psico-fisico possono risultare da ingiustizie percepite di giorno in giorno che in sé potrebbero apparire di poco conto, ma che potrebbero nel complesso, invece, avere implicazioni per il benessere individuale.

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Per queste ragioni, riteniamo interessante esaminare la prospettiva che considera l’ingiustizia come stressor, approfondendo la sua connotazione sociale e allo stesso tempo psicologica che le è propria nel suo influenzare la salute e il benessere. È utile, in primo luogo, considerare dunque come in letteratura crescano le evidenze a sostegno dell’influenza di aspetti sociali su esiti di salute e benessere in generale. In particolare, alcune recenti linee di ricerca si sono focalizzate proprio sulla comprensione di come i contesti sociali agiscano “sotto pelle” (Taylor, Repetti e Seeman, 1997) nell’influenzare la salute e suggeriscono come alcuni fattori psicologici giochino un ruolo fondamentale (Jackson, Kubzanky e Wright, 2006). In questo senso, l’ingiustizia percepita può essere considerata una variabile psicologica “critica”, modellata socialmente e in grado di influenzare la salute. D’altro canto la percezione di ingiustizia in sé, come abbiamo visto, può comportare alcune conseguenze di ordine psicologico, quali, ad esempio, sentimenti di rabbia, impotenza, senso di colpa e ritiro. Inoltre, alcuni fattori sembrano poter intervenire nell’amplificare o “tamponare” (moderare) gli effetti negativi dell’ingiustizia percepita, ci riferiamo ad esempio ad aspetti di ordine maggiormente sociale (es. posizione sociale). Un altro elemento da considerare è come possa essere la ripetuta esposizione all’esperienza dell’ingiustizia (Tepper, 2001) a determinare le conseguenze a livello di benessere e salute fisica. In questo senso la comprensione di questi processi di influenza richiede di accostare le diverse prospettive sociale, psicologica e della salute a quella più strettamente epidemiologica, ovvero relativa alla salute pubblica. In questo contesto, un’altra importante considerazione è relativa a come ci siano pochi studi empirici, nella letteratura psicologica, che indagano le conseguenze in termini di salute fisica dell’ingiustizia percepita (Landrine e Kolonoff, 1996). D’altra parte, come è stato già evidenziato, c’è una crescente prospettiva di studio che considera l’ingiustizia percepita come fonte di stress psicologico. Dunque, alla luce delle consolidate evidenze della relazione tra stress e salute (Baum e Posluszny, 1999; Kiekolt-Glaser, McGuire, Robles e Glaser, 2002; Krantz e McCeney, 2002), è possibile menzionare come l’ingiustizia percepita, a maggior ragione, possa avere importanti implicazioni anche per la salute. È altrettanto interessante considerare come questa relazione non sia necessaria: alcuni contributi presenti in letteratura evidenziano infatti, ad esempio, come le persone abbiano sviluppato meccanismi psicologici di cui avvalersi per evitare la percezione di ingiustizia e proteggersi dai costi in termini di salute che potrebbero derivarne. A titolo esemplificativo si può fare

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riferimento ad alcuni riscontri empirici. Alcuni studi, infatti, nell’ambito della deprivazione relativa evidenziano come le persone riconoscano che membri del proprio gruppo abbiano sperimentato discriminazione ma tendano a minimizzare di aver personalmente sperimentato discriminazione (Corning, 2000). Altri studi nell’ambito della Teoria del mondo ingiusto, mostrano come le risposte delle persone alle vittime innocenti (aiuto, disprezzo e danno) possano essere ritenute tentativi per fronteggiare la minaccia relativa alla conferma di come il mondo possa essere ingiusto (Hafer, 2000). L’evitamento e la negazione stessi dell’ingiustizia percepita possono essere considerati dei meccanismi per far fronte al disagio nel breve termine (Crosby, 1984). D’altro canto, altri riscontri evidenziano la presenza di fattori legati allo status sociale (classe sociale, etnia, età, genere) associabili alla vulnerabilità generale e a esiti negativi in termini di salute (Berkman e Kawaki, 2000); tuttavia è ancora poco chiaro come questi fattori di ordine sociale possano influenzare “sotto pelle” la salute (Jackson, Wright, Kubzansky e Weiss, 2004). In questo senso l’ingiustizia percepita può essere considerata un importante meccanismo attraverso il quale ingiustizie esterne possono diventare un qualcosa di internalizzato e influenzare la salute. A tal proposito, la prospettiva psicologica e quella epidemiologica possono fornire contributi rilevanti e complementari nel cogliere il processo mediante il quale l’ingiustizia percepita possa tradursi in conseguenze per il benessere e la salute (Jackson et al., 2006). D’altro canto i riscontri di queste due discipline non sono stati sufficientemente integrati concettualmente. Alla luce di queste considerazioni e dei frammentati singoli filoni di indagine rispetto alle conseguenti all’ingiustizia offerti dalla letteratura, riteniamo interessante approfondire un modello (riadattato da Jackson et al., 2006) che può essere considerato innovativo per il tentativo di integrare diversi costrutti nella comprensione di come l’ingiustizia percepita possa influenzare la salute, stimolando certamente una nuova prospettiva teorica, empirica e d’intervento in questo campo.

2.3.1. Il Modello dello Stress Percepito Il Modello dello Stress Percepito che si intende proporre è frutto di un riadattamento del “Perceived Stress Model” di Jackson e collaboratori (2006) esito di un tentativo di integrazione concettuale dei riscontri ottenuti in tema di ingiustizia e benessere dalla disciplina della psicologia e da quella dell’epidemiologia in una cornice che possa comprendere i fattori rilevanti (e la loro combinazione) che possono agire e, dunque, modificare gli effetti

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deleteri, in termini di salute, dell’ingiustizia percepita e i processi attraverso i quali quest’ultima influenza la salute. Nel complesso (cfr. Figura 2.1), il modello evidenzia come l’ingiustizia percepita attivi una cascata di processi di ordine psicologico e fisico. Il protrarsi nel tempo di questi ultimi può favorire lo sviluppo di stati di disagio. Come si può notare viene considerato in particolare il momento critico in cui la percezione di ingiustizia interviene. Interessante come l’ingiustizia, secondo questo processo, non si riveli inevitabilmente dannosa nelle sue conseguenti. Infatti, può essere associata a una risposta stressogena piuttosto che a una adattiva.

Figura 2.1 – Il Modello dello Stress Percepito e gli antecedenti all’ingiustizia riadattato da “Perceived Stress Model” (fonte: Jackson et al., 2006). Le risposte sia in termini di stress (Risposte di Stress) che adattive (Risposte adattive) all’ingiustizia percepita presentano componenti di ordine cognitivo, emotivo e motivazionale; ogni tipo di risposta differisce in contenuto ed effetto. Le reazioni stressogene alimentano stati di disagio fisico mentre le risposte adattive sortiscono un effetto di diminuzione su quest’ultimo o hanno un effetto neutrale. Inoltre, alcuni fattori di ordine ambientale (Ambiente) e individuale (Caratteristiche individuali) possono essere presi in considerazione come antecedenti l’esperienza di ingiustizia (nel modello rappresentati con il tratteggio).

In particolare, due aspetti chiave legati alla posizione sociale sembrano poter determinare la natura della risposta all’ingiustizia percepita: la rilevanza dell’identità e il sentirsi impossibilitati a compensare in qualche modo

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l’ingiustizia. Nel caso, dunque, si verifichi una risposta stressogena, questa contribuisce ai meccanismi di ordine biologico, sociale e comportamentale che accrescono lo stato di disagio psicologico, che, nel tempo, può favorire serie conseguenze in termini di salute. Il modello propone dunque una cornice concettuale che menziona diversi costrutti, sulla base dei riscontri presenti in letteratura rispetto alle singole relazioni che tra questi intercorrono (per una rassegna approfondita Jackson et al., 2006). In primo luogo, viene menzionata l’ingiustizia percepita valorizzando dunque l’impatto che l’esperienza soggettiva può avere sulla salute fisica; in particolare l’intensità, la frequenza e la durata delle esperienze di ingiustizia vengono ritenute fondamentali nell’influenzare i successivi fattori del modello e innescare i processi conseguenti. L’ingiustizia percepita assume il ruolo di un particolare tipo di stressor che si caratterizza, se confrontato con le due più importanti tipologie identificate dalla letteratura (eventi di vita maggiori ed eventi minori quotidiani, cfr. Jones e Kinman, 2001), per un potenziale effetto pervasivo nel corso della vita e contemporaneamente per la frequenza con cui si presenta. Dunque i suoi effetti possono essere pericolosamente deleteri per individui e gruppi, specialmente quelli a basso status (come, ad esempio, immigrati o poveri), che ne fanno esperienza frequentemente. È possibile riferirsi, a titolo esemplificativo, al fenomeno della discriminazione di genere (come l’essere donna): quest’ultima può, infatti, essere considerata nei termini di ingiustizia basata sull’appartenenza di gruppo dell’individuo bersaglio della stessa (ovvero la donna). Le sue reazioni dipenderanno, dunque, da due fattori plasmati dalla posizione sociale: dalla rilevanza che attribuisce al fatto di appartenere al genere femminile (Rilevanza dell’Identità) e dal senso di essere indifesa (Senso di impotenza) che avrà sviluppato. Quindi, gli individui sono diversamente vulnerabili all’innescarsi di questo processo: può capitare che riescano a rispondere costruttivamente mobilitando risorse adattive nel contesto dell’ingiustizia percepita. In questo senso, alcune risposte psicologiche adattive (Risposte Adattive), costituite da emozioni, cognizioni e motivazioni positive o neutre, possono essere attivate al posto di risposte stressogene (Risposte di Stress). Nell’esempio della discriminazione, lo stigma può esercitare un effetto protettivo (Crocker e Major, 1989) nel momento in cui il membro di un gruppo stigmatizzato, come la donna, può reagire all’ingiustizia percepita conservando un importante aspetto del benessere mentale, ovvero l’autostima. Questo potrà verificarsi, con maggior probabilità, in presenza di un’adeguata rete sociale di sostegno o di possibilità aggregative (cfr. Capitolo 7).

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Per quanto riguarda la rilevanza dell’identità, va considerato come quest’ultima venga a strutturarsi sulla base di esperienze individuali e dell’appartenenza al gruppo. In certe situazioni identità individuale e sociale acquistano salienza, separatamente o insieme; quanto più dunque qualcosa che viene percepito come ingiusto è importante per l’identità personale e/o sociale, quanto più può suscitare effetti di ordine psicologico. In particolare, la rilevanza del gruppo sociale sembra poter, in maniera particolare, acuire gli effetti dell’ingiustizia percepita poiché chi si trova a subire l’ingiustizia non solo menziona l’impatto dell’ingiustizia su di sé ma anche per coloro che vengono considerati in maniera positiva all’interno del gruppo, amplificandone così l’effetto. Nell’esempio riportato della discriminazione sessuale si può ipotizzare come il membro del gruppo che percepisce l’ingiustizia rivolta a sé consideri il potenziale impatto della stessa rivolta ai membri del proprio gruppo nella medesima condizione sociale, ovvero le altre donne. Concentrandoci sui legami evidenziati dal modello (cfr. Figura 2.1), alla luce delle considerazioni appena fatte, dunque la rilevanza dell’identità si pone come un moderatore degli effetti dell’ingiustizia percepita: l’entità delle conseguenze psicologiche del farne esperienza varierebbero in funzione di quanto il senso di ingiustizia è rilevante per se stessi. Un altro potenziale moderatore di questa relazione è stato considerato, nel modello, il sentirsi indifesi o di aver poco controllo nel reagire a stressor: sentire di non poter essere in grado di affrontare la situazione di ingiustizia può esacerbare gli effetti della stessa. Nell’esempio riportato della discriminazione, si può ipotizzare come il sentire di essere indifesi o di avere poco controllo influenzino la possibilità di modificare la reazione alla stessa. Si può ipotizzare come alcuni individui, sottoposti a diverse esperienze di discriminazione, rispetto alle quali percepivano di non poter esercitare un controllo, possano presentare carenze nel funzionamento cognitivo, emotivo e motivazionale, che ostacolano la messa in atto di reazioni costruttive alla discriminazione subita, esacerbando e potenziando dunque, in questo modo, l’effetto dell’ingiustizia percepita. Diversamente accade negli individui che si sentono meno indifesi che sarebbero dunque in grado di attivare risposte maggiormente adattive. Inoltre, la rilevanza dell’identità e il sentirsi indifesi di fronte alla situazione di ingiustizia sembrano poter interagire nel loro ruolo di moderatori, considerando le dimensioni di efficacia individuale piuttosto che collettiva4. 4

Le dimensioni dell’efficacia individuale e di quella collettiva meritano di essere meglio definite. Per efficacia personale si intende la fiducia degli individui nelle proprie capacità di ottenere risultati, ovvero la credenza nelle proprie capacità di organizzare e realizzare il

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Ad esempio, nel caso della discriminazione di genere, si può ipotizzare come alcune donne, bersaglio dell’ingiustizia basata sull’appartenenza a questo gruppo, possano sentirsi personalmente impotenti di reagire alla stessa quanto invece in grado di cambiare le circostanze attraverso l’azione collettiva. Il sentirsi indifesi chiaramente influenza anche la relazione tra le possibili strategie di coping adottate e i processi conseguenti. Possiamo ipotizzare come, nell’esempio della discriminazione, l’individuo che ne è bersaglio e che si senta indifeso nel reagire alla stessa possa adottare delle strategie di coping poco adattive, mostrando ad esempio atteggiamenti di ritiro ed evitamento. La risposta in termini di stress all’ingiustizia percepita deriva dall’azione di fattori di ordine cognitivo, emotivo e motivazionale. In questo senso entrano in gioco, nei processi evidenziati dal modello: la valutazione cognitiva di poter efficacemente o meno affrontare la situazione e la conseguente adozione di comportamenti di coping; la risposta emotiva (es. rabbia, ansia, paura, impotenza) che rende così internalizzata l’esperienza di ingiustizia; la risposta a livello di motivazione (ad aiutare gli altri, ad affiliarsi ad altri, a modificare il contesto sociale). Tale risposta allo stress, nel complesso, può influenzare l’instaurarsi di esiti deleteri a livello fisiologico dovuti al cronicizzarsi della situazione di stress (Stato di disagio fisico definito in letteratura “Allostatic Load”). Ad esempio, nel caso riportato della discriminazione, possiamo ipotizzare come ogni singola esposizione a episodi di discriminazione (ingiustizia percepita) che comporta una reazione psicologica di stress (invece che adattiva) comporti una certa attivazione dello stato fisiologico e un successivo ritorno alla condizione fisiologica di base. Da qui ripetute esposizioni allo stress potrebbero comportare ripetute attivazioni dei processi fisiologici, nel lungo periodo; oppure l’individuo potrebbe fallire nell’adattamento all’esposizione allo stress e nel placare la risposta ai processi di attivazione fisiologica prolungando la risposta fisiologica; o ancora potrebbe intervenire un processo di esaurimento per il quale, nel corso del tempo, le risposte fisiologiche diventino inadeguate. Tuttavia tale effetto sembra poter essere moderato dall’adozione di comportamenti di coping. Nel caso riportato della discriminazione, possiamo corso di azioni necessario a gestire adeguatamente le situazioni in modo da raggiungere gli obiettivi prefissati (Bandura, 1986). L’efficacia collettiva è stata invece definita, a partire dal lavoro di Bandura (1986), in diversi modi accomunati dalla nozione che i membri del gruppo credono nell’abilità complessiva della collettività per un’azione efficace. L’efficacia collettiva è intesa come un senso di competenza collettiva condiviso tra gli individui nell’allocare, coordinare e integrare le loro risorse in una risposta collettiva efficace a specifiche domande situazionali (Zaccaro et al., 1995).

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ad esempio ipotizzare che di fronte allo stigma sociale percepito o a un’ingiusta valutazione, gli individui possano disimpegnare, sul piano psicologico, la propria autostima da questo contesto, in modo da proteggere la propria immagine di sé in generale e ridurre la percezione di stress. Infine, il modello esplicita come la situazione di stress psicologico e il conseguente danno che ne deriva in termini fisiologici agiscono aumentando il rischio dell’individuo di incorrere in esiti di salute deleteri rispetto allo sviluppo di disturbi e patologie fisici (Morbilità – Mortalità). Riferendoci all’esempio riportato, la discriminazione riletta nei termini di ingiustizia percepita fornisce un’interessante prospettiva nella comprensione di quanto i contesti sociali possano essere nocivi e dannosi per il benessere psicologico e la salute fisica. A conclusione di questa descrizione, riteniamo interessante rimarcare la rilevanza di questo modello teorico per i diversi aspetti e costrutti che vengono considerati e per l’integrazione che di essi e dei loro legami viene proposta. Tale prospettiva nuova si pone infatti come stimolo per ulteriori ricerche che possano fornire un solido sostegno al modello. Il modello ci mostra come l’ingiustizia percepita possa avere un impatto su una delle condizioni fondamentali alla vita, ovvero la salute di ciascuno. Fornisce, inoltre, un innovativo contributo nel suggerire che situazioni di stress cronico che causano un disequilibrio e danno a livello fisico (allostatic load) possano essere un modo per spiegare come conseguenti fisiche deleterie possano svilupparsi a partire da minori, ma ripetute nel tempo, esperienze di ingiustizia percepita. Riteniamo, inoltre, interessante nel concludere la trattazione di questa cornice concettuale proporre, al lettore un ulteriore allargamento di prospettiva menzionando, in aggiunta al modello fin qui descritto (riadattato da Jackson et al., 2006), quei fattori che in qualche modo possono influenzare gli episodi di ingiustizia percepita. Possiamo, infatti, considerare, in linea con alcune prospettive teoriche nell’ambito di Stress e Coping (ad esempio Moos, 2002), che aspetti di ordine ambientale e altri di ordine individuale agiscano sulle esperienze di ingiustizia rendendo l’individuo più o meno vulnerabile alla percezione della stessa. In questo caso, possiamo immaginare di evidenziare in aggiunta al modello rappresentato questi due ordini di fattori come precursori dell’ingiustizia percepita (cfr. Figura 2.1. parte tratteggiata). I fattori ambientali possono essere considerati come quelle condizioni relativamente stabili a livello di contesti di vita significativi per l’individuo, quali ad esempio il clima relazionale di alcuni contesti, lo sviluppo di fattori ed eventi stressanti e di risorse sociali. Nell’esempio della discriminazione di

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genere, possiamo ipotizzare come a influenzare la percezione di ingiustizia da parte delle donne, possano agire un ruolo le esperienze di discriminazione subita, a vari livelli, in diversi contesti sociali nel corso della propria storia di vita. Ad esempio, se si considerano le differenze nord-sud rispetto all’emancipazione femminile è possibile rendersi conto di quale importante ruolo il contesto rivesta. I fattori, invece, di ordine individuale possono essere riferibili a quelle condizioni e caratteristiche prettamente personali, quali ad esempio quelle cognitive (es. credenze, aspettative, valutazioni cognitive) che esercitano un ruolo certamente significativo nella percezione di ingiustizia. Nell’esempio riportato rispetto alla discriminazione, possiamo considerare come ad influenzare la percezione di ingiustizia possano agire un ruolo valutazioni cognitive, quali la credenza che gli altri abbiano un pregiudizio nei propri confronti. È chiaro dunque il riferimento agli antecedenti all’ingiustizia, così come delineati dalle diverse prospettive teoriche sul tema approfondite nel capitolo precedente (Capitolo 1), a cui rimandiamo il lettore. Per concludere, dunque, crediamo che la possibilità di considerare l’ingiustizia percepita come un unico e particolare tipo di stressor che contribuisce, complici altrettanto particolari processi psicologici che vengono innescati, ad influenzare la salute possa essere un valido punto di partenza per consolidare una teorizzazione e stimolare approfondimenti empirici ma ancor più per aprire una nuova prospettiva di modulare efficaci interventi che promuovano salute e benessere per il singolo ma anche rispetto al contesto più ampio della salute pubblica.

2.4. L’ingiustizia e il suo “macro” impatto Fin qui si è discusso di conseguenti all’ingiustizia in termini individuali accennando ad alcune implicazioni a livello gruppale. A questo punto pare interessante ampliare il raggio di osservazione menzionando quali possano essere gli effetti dell’ingiustizia a “macro” livello. Ci riferiamo all’ingiustizia sociale (Levy e Sidel, 2006), un concetto di interesse universale che si caratterizza per un’elevata forza morale ma allo stesso tempo per una debolezza, che rimanda alla sua dimensione soggettiva. L’ingiustizia risiede in chi ne fa esperienza, riprendendo proprio quanto abbiamo valorizzato nell’introduzione. L’ingiustizia sociale si riferisce a diverse possibili situazioni che coinvolgono, a loro volta, differenti individui: dai bambini che abitano quartieri

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poveri e svantaggiati che sono costretti a un carente contesto d’istruzione che non consente loro lo sviluppo di abilità adeguate ed efficacemente spendibili; ai lavoratori di minoranza che possono avvalersi di ridotte opportunità di avanzamento e guadagno ed essere maggiormente esposti a rischi di salute e sicurezza sul luogo di lavoro; fino a numerose altre persone nel mondo sottoposte a cibo e acqua nocivi, condizioni igienico-sanitarie disastrose, abitazioni affollate e insufficienti, esposizione a rischi ambientali, ridotta tutela dei diritti umani e delle libertà civili, inadeguato accesso ai servizi di assistenza medica e di salute pubblici. Queste situazioni esemplificano come l’ingiustizia sociale crei le condizioni che in maniera avversa possono influenzare il benessere di singoli e di comunità, neghi a individui e gruppo uguali opportunità per soddisfare i propri bisogni umani basilari, violi i diritti umani fondamentali. In particolare l’ingiustizia sociale viene definita in due modi (Levy e Sidel, 2006). Il primo la considera nell’accezione di violazione dei diritti economici, socioculturali, politici, civili, umani di specifici popolazioni o gruppi all’interno della società, basata sulla percezione d’inferiorità di questi ultimi da coloro che hanno maggior potere e influenza. Il secondo fa invece riferimento alle politiche o azioni che in maniera avversa influenzano le condizioni sociali in cui gli individui possano godere di benessere e salute (cfr. Capitolo 8). Il richiamo è chiaramente alle tematiche di salute pubblica. Inoltre, nonostante questa tipologia di ingiustizia coinvolga un livello globale (in senso comunitario), le popolazioni e i gruppi descritti nella prima definizione sembrano esserne particolarmente coinvolti. Senza entrare nello specifico, il nostro interesse è quello di valorizzare e introdurre anche questa prospettiva più allargata rispetto alle conseguenti dell’ingiustizia evidenziando come ci siano diversi modi attraverso cui la salute di specifiche popolazioni è influenzata dall’ingiustizia: in particolare, sulla base di in-eguaglianze sociali si evidenziano esiti deleteri per il benessere come l’incremento del rischio di incorrere in disturbi fisici cronici piuttosto che in stati di disagio mentale (per una rassegna approfondita Levy e Sidel, 2006). Questa prospettiva è, inoltre, in linea con la prospettiva epidemiologica che si occupa di ingiustizia e dei determinanti sociali della salute (per una visione d’insieme Wilson, 2009). Adottare infatti una prospettiva “macro” che considera la popolazione in generale, come quella impiegata dall’epidemiologia, permette di menzionare come anche minime conseguenti dell’ingiustizia a livello individuale, nell’insieme e a livello di popolazione possano trasformarsi in importanti conseguen-

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ti rispetto alla salute pubblica. Benchè dunque gli effetti osservabili possano essere modesti a livello individuale, queste esperienze possono contribuire ad accrescere significativamente, nella popolazione, il peso di disturbi a causa del pervadere dell’esposizione all’ingiustizia. Quanto detto suggerisce dunque come meglio approfondire il tema dell’ingiustizia percepita in relazione alle sue conseguenti possa incrementare le conoscenze rispetto al perché alcuni contesti sociali si rivelino maggiormente deleteri di altri, in questo senso, e perché alcuni individui ne siano particolarmente vulnerabili.

2.5. L’ “altro lato” dell’ingiustizia A conclusione della presente trattazione circa le conseguenti all’ingiustizia ci sembra interessante proporre come quest’ultima possa, curiosamente, mostrare “un altro lato” (Barry e Tyler, 2009). Ci riferiamo in particolare al contesto gruppale in cui può essere sperimentata l’ingiustizia. L’ingiustizia, nello specifico della sua componente procedurale, agisce con l’identificazione per il gruppo nel favorire comportamenti di aiuto all’interno del gruppo stesso. È facilmente comprensibile come le persone siano più portate a comportamenti d’aiuto verso un gruppo “giusto” dal punto di vista procedurale poiché proprio quest’ultimo aspetto del gruppo alimenta l’identificazione con il gruppo stesso; di conseguenza le persone adottano comportamenti d’aiuto verso il gruppo con cui si identificano perché il benessere e il successo del gruppo si riflette sul proprio (DeCremer e Tyler, 2005). Tuttavia può capitare che l’identificazione con il gruppo e le informazioni relative alla giustizia procedurale entrino in dissonanza. La situazione che può verificarsi è che persone, altamente identificate al gruppo, si trovino a conoscere l’ingiustizia procedurale all’interno del gruppo. In questi casi sembra che ciò che ne consegua sia un aumento nei comportamenti di aiuto in favore del gruppo (Barry e Tyler, 2009), un esito che ci mostra un lato altro dell’ingiustizia rispetto alla gamma di conseguenti che abbiamo considerato fino a qui. Questo sembra attribuibile alla tendenza dei membri del gruppo ad investire maggiori risorse verso il proprio gruppo rispetto a se stessi, in particolare quando il gruppo dimostri di aver bisogno di un ausilio e soprattutto quando non ci siano possibilità di cambiamento del gruppo. Inoltre, è desiderabile per ciascun membro appartenere a un gruppo “giusto” dal punto di vista procedurale poiché essere fieri di caratteristiche del gruppo permette a ciascuno di sentirsi bene con se stessi.

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L’evidenza dell’ingiustizia a livello gruppale, dunque, può essere considerata segno della presenza di un difetto che indica come il gruppo abbia bisogno di aiuto. Così sembra che gli individui possano “aggiustare” e migliorare il proprio gruppo intraprendendo comportamenti che aiutino gli altri membri o il gruppo stesso nell’insieme; ciò renderebbe il gruppo maggiormente giusto poiché i membri che possiedono delle risorse (es. abilità) le trasferiranno ad altri nel momento del bisogno. Tutto ciò sembra poter rendere migliore il gruppo se si considera come i suoi membri in generale diventerebbero più dotati. In ogni caso, comunque, impegnarsi in comportamenti d’aiuto consente ai singoli membri di investire un ulteriore sforzo in risposta alla mancanza dimostrata dal gruppo. In conclusione, riscontrare l’aumento di cooperazione nel gruppo a breve termine come conseguenza di una moderata ingiustizia è in un certo senso incoraggiante dal momento che suggerisce come le persone siano disposte a comportamenti d’aiuto verso i loro compagni membri del gruppo a maggior ragione, piuttosto che abbandonare il gruppo, in risposta all’evidenza di ingiustizia procedurale. Tuttavia occorre riflettere su come questo effetto possa risultare in esiti diversi a lungo termine. È possibile ipotizzare come nel tempo la percezione di ingiustizia possa portare infatti i membri a distanziarsi dal gruppo (De Cremer e Tyler, 2005). Troviamo, dunque, non ci sia modo migliore che concludere questa trattazione proponendo al lettore la domanda suscitata da questo contributo: ovvero quanto e fino a che punto “in-giusto” dovrebbe essere un gruppo prima che i suoi membri smettano di attuare comportamenti d’aiuto e semplicemente lo abbandonino?

2.6. Considerazioni conclusive Il tema dell’in-giustizia e delle sue conseguenze è certamente molto ricco di contributi provenienti da diverse discipline, in questa trattazione abbiamo scelto di utilizzare una lente psicologico-sociale concedendoci di “zoomare” dall’ingiustizia esperita a livello individuale, attraverso quello gruppale e organizzativo fino a sfiorare il macro-livello. Interessante ci sembra, in questo senso, la proposta di considerare l’ingiustizia in termini di stressor in relazione a un modello integrativo per la comprensione dei processi attraverso i quali si instaurano gli esiti dell’ingiustizia, un innovativo punto di partenza per ulteriori approfondimenti in chiave psico-sociale di quanto sia “dentro” l’esperienza dell’ingiustizia. Speriamo di essere riusciti a fornire interessanti spunti, sulla base di

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una stringata e selezionata rassegna dei contributi accessibili in letteratura in tema di conseguenze all’ingiustizia che abbiano potuto accendere nel lettore la curiosità di affrontare i seguenti capitoli che, nello specifico ne approfondiranno alcuni aspetti. Per concludere, dunque, a partire dai contributi della letteratura, attraverso l’ingiustizia così come esperita ed associata al benessere di individui, gruppi e comunità, riteniamo sia stata imboccata la via da percorrere nel considerare, in primo luogo, l’importanza e, di conseguenza, la possibilità di intervento nell’ottica della prevenzione all’ingiustizia in relazione agli esiti disadattavi che può comportare.

Parte seconda Ricerca e risvolti applicativi

Capitolo terzo Lo sviluppo del senso morale e del senso di ingiustizia di Gianluca Gini e Tiziana Pozzoli

3.1. Introduzione Lo studio dello sviluppo del senso morale riguarda la comprensione di quando emerge e come cambia il ragionamento dei bambini circa temi quali il “bene” e il “male”, il rispetto degli altri, i diritti e la giustizia all’interno delle relazioni interpersonali con gli adulti e con i coetanei. Lo sviluppo morale, pertanto, coinvolge trasversalmente processi cognitivi (di percezione, analisi e interpretazione delle informazioni sociali), emotivi e relazionali che influenzano la scelta e la messa in atto delle risposte comportamentali (positive o negative) del bambino (es. Arsenio e Lemerise, 2004). Si tratta, dunque, di un insieme complesso di acquisizioni il cui pieno sviluppo richiede diversi anni e, in alcuni casi, non si può considerare definitivamente concluso neanche in età adulta. I primi segni di una qualche forma di pensiero morale, tuttavia, emergono presto nello sviluppo, come testimoniato dal fatto che già a partire dai 2-3 anni i bambini manifestano una capacità di preoccuparsi per il benessere degli altri e di valutare ciò che è giusto o sbagliato secondo criteri personali, oltre alla tendenza ad utilizzare una qualche regola di giustizia nella condivisione e nella distribuzione di giochi, oggetti, premi e punizioni (Turiel, 2006). Obiettivo del presente capitolo è quello di sintetizzare la letteratura classica e più recente relativamente a come il pensiero morale, con particolare riferimento al ragionamento sui concetti di giustizia ed ingiustizia, emerge e si modifica negli anni dell’infanzia e della fanciullezza. In particolare, sono descritti l’approccio classico di tipo cognitivo-evolutivo, la teoria dei domini, i più recenti approcci intuizionisti e gli studi sul ragionamento morale dei bambini relativamente a comportamenti negativi quali l’aggressione e l’esclusione sociale.

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3.2. I modelli cognitivo-evolutivi della moralità Il tema dello sviluppo morale è presente in quasi tutte le teorie psicologiche classiche (psicanalisi, comportamentismo, Gestalt) fin dagli inizi del XX secolo. Di particolare rilevanza, per lo studio sistematico di come emerge e si sviluppa il senso morale nel bambino e per l’influenza che ha avuto sulla ricerca e l’applicazione in ambito educativo e clinico nei decenni successivi (Kuhmerker, 1991), è l’approccio cognitivo-evolutivo (conosciuto anche come strutturalista). Secondo gli autori che si collocano entro tale filone la cognizione morale, cioè la capacità di compiere ragionamenti e inferenze di tipo morale, si sviluppa parallelamente alle più generali abilità cognitive attraverso una sequenza stadiale comune a tutti gli individui (Killen e Smetana, 2006; Turiel, 2006). Pertanto, la competenza morale di un bambino ad una determinata età non sarebbe altro che una manifestazione, insieme a molte altre, del livello di organizzazione delle strutture cognitive raggiunto. Di conseguenza, le teorie dello sviluppo morale che rientrano in questo tipo di prospettiva più che del contenuto delle regole morali si sono occupate del ragionamento morale, cioè del livello di giudizio morale raggiunto dal bambino e della sua capacità di valutare le implicazioni morali contenute in una determinata situazione (Varin, 1993). I principali e più influenti esponenti dell’approccio cognitivo-evolutivo sono certamente Piaget (1932, trad. it. 1972) e Kohlberg (1976), anche se altri importanti autori appartengono a questa tradizione (es. Damon, 1975; Selman, 1980).

3.2.1. La teoria dello sviluppo morale di Jean Piaget: dal realismo al relativismo morale Piaget è stato il primo autore ad occuparsi in maniera sistematica dello sviluppo morale. Coerentemente con la sua teoria costruttivista stadiale dello sviluppo, Piaget (1932, trad. it. 1972) sostiene che lo sviluppo morale rappresenta una funzione del più generale processo di organizzazione delle strutture cognitive che avviene nel corso dello sviluppo e che dipende anche dalle esperienze di interazione con i pari, soprattutto quelle legate alla cooperazione e alla negoziazione tra posizioni diverse. Tali esperienze, infatti, influenzano la moralità, risultando nella formazione dei giudizi del bambino relativi alle relazioni interpersonali, alle regole, alle leggi, all’autorità ed alle istituzioni sociali. Nello specifico, il modello di Piaget include l’idea che la “trasmissione sociale” non comporta una semplice riproduzione di quanto viene trasmesso dall’ambiente sociale (in termini, ad

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esempio, di regole morali), ma prevede un processo attivo di ricostruzione da parte del bambino. Analogamente a quanto avviene per tutti i tipi di regole, secondo Piaget, anche nel caso dello sviluppo e della comprensione delle regole morali il bambino vive in una sorta di condizione pre-morale fino ai 5 anni. Durante questo primo periodo della sua vita, infatti, il bambino sembrerebbe non mostrare alcun interesse per le regole. Il primo vero stadio della moralità, invece, è quello del realismo morale che dura fino ai 7-8 anni. Concetto chiave per descrivere la comprensione morale del bambino in questo stadio è quello di moralità eteronoma, secondo cui l’origine delle norme morali è esterna all’individuo e la loro validità è determinata dall’autorità. In altre parole, secondo il bambino le regole morali vengono decise da un adulto (un genitore, un insegnante) e devono essere rispettate proprio in quanto emanate da un’autorità riconosciuta: il bene si «identifica rigorosamente con l’obbedienza» (Piaget 1932, trad. it. 1972, p. 88). Un’altra caratteristica dello stadio del realismo morale è la tendenza a giudicare un comportamento principalmente sulla base delle conseguenze da esso prodotte (responsabilità oggettiva). Un’azione, quindi, deve essere considerata moralmente sbagliata, e di conseguenza il suo autore colpevole, se produce un esito negativo, ad esempio un danno fisico ad un oggetto o una persona. Non viene, invece, in alcun modo considerata l’intenzionalità del comportamento. Successivamente ad una fase di transizione in cui i bambini mostrano ancora alcune caratteristiche del primo stadio e già alcuni aspetti del secondo, a partire dai 10 anni circa la fase del realismo viene sostituita da quella del relativismo morale (o soggettivismo). In questo stadio, il bambino comprende che le regole morali non sono tanto fondate sull’autorità quanto sulla cooperazione e la reciprocità. La moralità del bambino, quindi, non è più imperniata su un insieme di prescrizioni provenienti dall’esterno, ma su una serie di principi interiorizzati che esprimono il bisogno di trattare gli altri così come si vorrebbe essere trattati e da un ideale di giustizia sentito come propria esigenza interiore, indipendentemente dalle pressioni esterne (moralità autonoma). Anche la valutazione dei comportamenti morali si modifica, con il passaggio dalla responsabilità oggettiva a quella soggettiva, con la quale viene attribuita fondamentale importanza all’intenzione che guida l’azione (invece che alle mere conseguenze prodotte), oltre che alle caratteristiche della situazione e del contesto. Per quanto riguarda nello specifico lo sviluppo della nozione di giustizia, Piaget si è occupato sia della giustizia retributiva che di quella distributiva. Nel primo caso, di fronte ad un comportamento ritenuto non corretto moralmente il

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bambino deve porsi il problema se sia giusto o no punire chi ha messo in atto quel comportamento e, successivamente, quale sia la punizione più adeguata. In altre parole, si tratta di stabilire la giusta proporzione tra l’atto compiuto e la conseguente punizione. Gli studi condotti da Piaget a tale riguardo descrivono nei bambini di età inferiore ai 6-7 anni una sostanziale mancanza di attenzione per la coerenza tra azione negativa e punizione. Questi bambini, pertanto, messi di fronte ad uno scenario ipotetico in cui il protagonista ha commesso qualcosa di negativo1 (mentire, non ubbidire ai genitori, ecc.), scelgono di preferenza sanzioni espiatorie, cioè quelle sanzioni inflitte con l’unico scopo di “far pagare” il danno infliggendo una conseguenza negativa. La caratteristica fondamentale delle sanzioni espiatorie è quella di essere arbitraria e di non avere nessun collegamento logico con l’azione che viene sanzionata. I bambini più grandi (a partire dagli 8 anni), invece, cominciano a privilegiare le sanzioni per reciprocità, cioè quelle punizioni legate logicamente all’atto compiuto e che hanno la funzione di insegnare a comprendere le conseguenze negative del comportamento stesso ed evitare la messa in atto di azioni nocive per il benessere degli altri e per la stabilità delle relazioni interpersonali (“se dici le bugie rischi che gli altri non ti credano più”). Per quanto riguarda la giustizia distributiva, cioè il problema di come le risorse o i compiti2 debbano essere divisi tra più persone, i colloqui di Piaget hanno confermato nei bambini più piccoli (5-7 anni) una sostanziale sottomissione all’autorità dell’adulto che, in questo caso, comporta l’acritica accettazione dell’ordine o della regola data dal genitore e la sua decisione di come distribuire doveri o risorse. Nella fase successiva (8-12 anni), invece, i bambini esprimono la convinzione che non si possano trattare le persone in maniera diseguale (nel caso di due fratelli, ad esempio, se al primo viene dato un compito da svolgere, se ne deve dare un altro al secondo). In preadolescenza, tuttavia, i principi dell’eguaglianza vengono corretti con quelli 1

Ad esempio, uno dei racconti utilizzati da Piaget ha per protagonista un bambino che non vuole andare a prendere il pane perché sta giocando. Di fronte a questa disobbedienza il papà pensa a tre punizioni. La prima è di vietare al figlio di andare alle giostre il giorno dopo. La seconda è di non dare del pane al bambino e di usare per gli altri familiari quel poco che è rimasto dalla mattina. La terza è di dire al bambino che quando egli avrà bisogno di un piacere da parte del papà, egli non glielo farà, così si accorgerà che è brutto non aiutarsi. Al racconto segue poi un colloquio in cui viene chiesto ai bambini qual è secondo loro la punizione più giusta. 2 Ad esempio, la storia di una mamma che un giorno chiede ai propri figli (un bambino e una bambina) di aiutarla nelle faccende di casa perché lei è molto stanca: alla bambina chiede di asciugare i piatti e al bambino di raccogliere un po’ di legna. Il bambino, però, invece di raccogliere la legna se ne va fuori a giocare. La mamma, allora, chiede alla figlia di fare tutto il lavoro, anche quello del fratello.

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dell’equità, che tengono conto anche delle caratteristiche della situazione specifica (a questo proposito si vedano le ricerche di Damon, par. 3.2.3). Infine, associato al concetto di moralità eteronoma vi è quello di giustizia immanente, secondo cui se una regola viene violata la punizione viene assegnata immediatamente ed automaticamente, anche in assenza dell’adulto (Piaget, 1932, trad. it. 1972; tuttavia, per una serie di critiche al concetto di realismo morale si veda Killen, 1991). In altre parole, per il bambino piccolo il collegamento tra infrazione e punizione è così forte da portarlo a ritenere che, se non interviene un adulto, sia la natura stessa a punire il comportamento negativo per mezzo di sanzioni automatiche (ad esempio, un bambino subisce un incidente dopo aver commesso un’azione scorretta). In sintesi, la prospettiva piagetiana sullo sviluppo morale sostiene che i giudizi morali riguardino fondamentalmente le relazioni interpersonali e che il loro sviluppo comporti un progresso verso (i) sentimenti di mutuo rispetto tra le persone, (ii) attenzione a costruire e mantenere relazioni di cooperazione, (iii) la formazione dei concetti di giustizia e (iv) la capacità di considerare la prospettiva degli altri quando differisce dalla propria (tenendo così conto della soggettività e dell’intenzionalità invece di considerare tutte le prospettive come rappresentative di una realtà oggettiva).

3.2.2. La teoria stadiale di Lawrence Kohlberg La teoria proposta da Piaget è stata ripresa ed ampliata da Lawrence Kohlberg a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso. L’idea di fondo sostenuta da Kohlberg (1976) è quella di una sostanziale universalità della sequenza e dei principi secondo cui procede lo sviluppo morale dell’individuo. Analogamente alla prospettiva piagetiana, anche secondo Kohlberg l’evoluzione degli schemi mentali che sottostanno allo sviluppo morale e che consentono il passaggio da un livello inferiore di moralità ad uno più maturo dipende in primo luogo dallo sviluppo cognitivo dell’individuo (Kuhmerker, 1991). La concezione di moralità di Kohlberg è sintetizzata dall’idea del “bambino come filosofo morale” (Kohlberg, 1968), secondo la quale il bambino è un individuo capace di sviluppare il ragionamento morale, inclusa la comprensione dei concetti morali di giustizia, diritti, uguaglianza. Attraverso una serie di studi condotti con la metodologia dei dilemmi morali3, in cui a partecipanti di diverse fasce d’età veniva richiesto di 3

L’esempio più famoso tra i dilemmi morali utilizzati da Kohlberg è quello noto come dilemma di Heinz (Kohlberg, 1969): Una donna sta per morire a causa di un tumore, ma potrebbe

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scegliere tra due principi morali in situazioni ipotetiche che richiedevano che solo uno potesse essere accolto, Kohlberg (1976) è arrivato a definire un modello a tre livelli di ragionamento morale: (i) pre-convenzionale, (ii) convenzionale, (iii) post-convenzionale. Ciascuno dei tre livelli, a sua volta, è suddiviso in due sotto-livelli o stadi. Senza entrare nel merito delle specifiche caratteristiche di ciascuno stadio, cosa che va al di là degli obiettivi del presente capitolo (per approfondimenti si veda Bacchini, 2009; Camaioni e Di Blasio, 2007), è importante sottolineare come la teoria di Kohlberg ruoti attorno al concetto di convenzionalità, cioè all’idea che lo sviluppo morale possa essere considerato come un progressivo adeguamento alle norme morali della propria famiglia e del gruppo sociale a cui si appartiene. Poiché però Kohlberg, similmente a Piaget, vede il bambino non come un semplice recettore passivo delle regole e dei principi morali che gli vengono imposti, ma come un costruttore attivo della propria competenza, per comprendere il livello di sviluppo morale dell’individuo non è tanto importante conoscere il contenuto delle norme morali (che può cambiare a seconda dell’ambiente in cui vive) quanto il suo modo di ragionare sulle questioni morali. Questo elemento caratterizzante i modelli cognitivo-evolutivi, ed in particolare la teoria stadiale dello sviluppo morale di Kohlberg, è anche quello che ha suscitato il maggior numero di critiche. Tra queste, una delle principali riguarda il problema del rapporto tra pensiero morale e comportamento morale. La teoria di Kohlberg, in particolare, è stata criticata per aver posto troppa enfasi sul pensiero morale e non abbastanza sull’azione morale, non fornendo le basi per spiegare il comportamento morale (o immorale) dell’individuo (Blasi, 1980; Walker, 2004). In altre parole, secondo i suoi critici, l’autore avrebbe descritto come l’individuo ragiona di fronte a situazioni moralmente rilevanti e come spiega eventuali violazioni di norme morali, ma non avrebbe considerato come questi ragionamenti morali si possono tradurre (o non tradurre) in azioni morali coerenti. Alla base di questa critica, vi sono la constatazione del fatto che la relazione tra giudizio e comportamento morale può, a volte, essere molto modesta (Stams, Brugman, Dekovic, Van Rosmalen, Van der Laan, Gibbs, 2006) e la domanda di come si possa spiegare la discrepanza tra la conoscenza delle norme morali e il ragionamento morale dell’individuo, da una parte, e i suoi effettivi comportamenti, dall’altro. essere salvata con un farmaco. Questo farmaco è un particolare tipo di radio scoperto da un farmacista che vive nella stessa città e lo vende ad un prezzo dieci volte maggiore di quanto gli costa fabbricarlo. Il marito della donna malata ha cercato di prendere a prestito il denaro, ma è riuscito a procurarsi solo la metà della somma. Quindi ha detto al farmacista che sua moglie stava morendo e gli ha chiesto di vendergli la medicina a minor prezzo o almeno di permettergli di pagarlo in futuro; ma il farmacista ha rifiutato. Il marito disperato ha scassinato la farmacia per rubare la medicina necessaria a sua moglie. Avrebbe dovuto farlo?

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3.2.3. La giustizia distributiva positiva secondo Damon Damon (1975, 1977, 1988) ha studiato lo sviluppo delle conoscenze sulla giustizia distributiva nell’ambito delle relazioni tra pari, focalizzandosi in particolare su quella che ha chiamato “giustizia distributiva positiva” (ossia la questione di come distribuire i beni o i premi tra più persone). A tale riguardo, Damon ha identificato tre criteri: merito (i più bravi meritano di più), eguaglianza (a ciascuno la stessa parte) e benevolenza (si tiene in considerazione la specificità della situazione per evitare di penalizzare chi è svantaggiato per qualche motivo). Si tratta di tre criteri non mutualmente esclusivi ma che possono essere combinati tra loro o usati in alternativa, di volta in volta, a seconda delle situazioni. Analogamente a Piaget e Kohlberg, anche Damon (1980) ha utilizzato il metodo dei racconti critici e dell’intervista per verificare i cambiamenti evolutivi nel ragionamento del bambino sulla giustizia distributiva positiva, arrivando a descrivere diversi livelli che includono progressivamente i tre criteri. Al primo livello (4 anni), le idee dei bambini sulla distribuzione dei beni sono strettamente legate ai loro desideri personali (“è giusto quello che voglio io”). Successivamente, ancora in età prescolare (5 anni), i bambini si rendono conto che persone diverse hanno desideri diversi e che il fatto di volere una cosa non è sufficiente per giustificare una scelta a proprio vantaggio. In questa fase, pertanto, nel ragionamento dei bambini compaiono criteri “esterni”, anche se ancora molto concreti, come l’aspetto fisico (l’altezza, il colore dei capelli, ecc.) o l’abilità dei singoli. Anche se in una prima fase questi criteri esterni sono utilizzati per giustificare i desideri personali, essi testimoniano il passaggio progressivo da una prospettiva autocentrata ad una orientata agli altri. Con l’ingresso nella scuola primaria (6-7 anni), i bambini cominciano a basare il proprio giudizio sul criterio dell’eguaglianza. Dapprima si tratta di un’eguaglianza rigida e semplicistica relativa alle persone (ad ognuno si deve dare nella stessa quantità, indipendentemente dai meriti o dai bisogni), mentre poi diventa un’eguaglianza tra azioni (se ha dato tanto deve avere tanto). Infine, intorno agli 8-9 anni i bambini includono il criterio di benevolenza nelle loro valutazioni di giustizia. Tale criterio include in sé l’idea del “compromesso”, ossia del fatto che possono esistere condizioni di partenza differenti di cui si deve tener conto (ad esempio il fatto che, nella storia dei braccialetti, un bambino ha prodotto di meno perché è più piccolo degli altri e, quindi, più svantaggiato)4. 4

Un esempio di storia utilizzata da Damon è il seguente: Ci sono quattro bambini con la loro maestra. Rita è la bambina più grande, Sergio e Luca hanno la stessa età e Marco è il bambino più picco-

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In linea generale, pertanto, le ricerche di Damon confermano quanto già descritto da Piaget, con la differenza che i bambini intervistati da Damon sono un po’ più precoci, dato che già a partire dagli 8 anni la maggioranza utilizza il criterio di benevolenza. Inoltre, poiché Damon ha studiato lo sviluppo della giustizia distributiva positiva all’interno del più ampio sviluppo sociale, è stato possibile per l’autore confermare che giustizia distributiva positiva, conoscenze relative all’autorità fra pari e all’autorità dei genitori e conoscenze relative alle regole sociali in genere si sviluppano parallelamente. Infine, i suoi studi hanno evidenziato una relazione positiva più forte tra i giudizi relativi alla giustizia positiva e quelli relativi all’autorità tra pari, rispetto a quelli relativi all’autorità dei genitori, a conferma dell’ipotesi piagetiana sull’influenza delle relazioni tra pari (in particolare di cooperazione) sullo sviluppo dei giudizi morali.

3.3. La teoria dei domini: la distinzione tra moralità e convenzione All’inizio degli anni Settanta, alcuni studi longitudinali condotti dal gruppo di ricerca “Kohlberg” hanno evidenziato delle anomalie nella sequenza degli stadi di sviluppo delle moralità. Alcuni autori hanno cercato di risolvere tali discrepanze attraverso delle modifiche alla descrizione degli stadi (vedi Power, Higgins e Kohlberg, 1989). Altri ricercatori, tuttavia, hanno osservato che una revisione esaustiva delle incongruenze riscontrate nei dati richiedeva anche una revisione della teoria stessa. Una delle linee di ricerca più produttive in quest’area è stata sicuramente quella portata avanti da Elliot Turiel e colleghi e denominata “Teoria del Dominio” (Turiel, 1983). Questa teoria opera una distinzione tra lo sviluppo nel bambino del concetto di moralità vera e propria e quello di altri aspetti della conoscenza sociale. In particolare, Turiel (1983) sostiene che fin dalle prime fasi dello sviluppo l’esperienza morale (che comprende nozioni di giustizia, di diritti e le regole universali che da esse derivano) e convenzionale (che dipende lo. Un giorno la maestra dice ai suoi bambini se vogliono fare dei braccialetti per lei. I bambini accettano volentieri di fare dei braccialetti per la maestra e si mettono subito al lavoro. Quando hanno finito di fare i braccialetti, la maestra li ringrazia e dice che sono tutti molto bravi. Rita, che è la più grande, ha fatto due braccialetti; Luca ha fatto quattro braccialetti, tanti, più di tutti; Sergio ha fatto anche lui due braccialetti, ma i suoi sono i più belli, i più carini; Marco, che è il bambino più piccolo, ha fatto solo un braccialetto piccolino. La maestra dice che vuole dare come premio 10 caramelle. Ma dice che devono essere loro, i bambini, a dividersi le caramelle.

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da regole arbitrarie, mutevoli e dipendenti dal contesto) siano distinte e che, di conseguenza, i due domini si definiscano fin dall’inizio in modo separato. Le azioni che ricadono all’interno del dominio morale, come colpire qualcuno senza essere stato provocato, hanno conseguenze intrinseche (il danno che è procurato) sul benessere di un’altra persona. Tali effetti intrinseci si verificano indipendentemente dalla natura delle regole sociali che possono esistere in riferimento a quella determinata azione. Per questa ragione, le caratteristiche centrali della cognizione morale ruotano attorno alla considerazione degli effetti che le azioni hanno sul benessere delle altre persone. La moralità è, quindi, basata sui concetti di danno, benessere e giustizia. Al contrario, i comportamenti che riguardano le convenzioni sociali hanno conseguenze interpersonali non intrinseche alle azioni stesse. Per esempio, non vi è nessuna ragione intrinseca che ci impone o ci vieta di rivolgerci a un professore chiamandolo “professore”, “signore” o semplicemente con il suo nome di battesimo. Ciò che rende una forma preferibile rispetto ad un’altra è l’esistenza di regole socialmente condivise. Queste convenzioni, benché arbitrarie, sono assolutamente importanti per l’organizzazione e il funzionamento di qualsiasi gruppo sociale. Le convenzioni, infatti, forniscono ai membri del gruppo le regole per coordinare i loro scambi sociali, grazie ad un insieme di azioni, atteggiamenti e comportamenti condivisi e, in gran parte, prevedibili. In questo approccio teorico, i domini morale e convenzionale sono considerati come due strutture distinte e parallele, al contrario del modello di Kohlberg che li incorporava in un singolo sistema di pensiero. Tuttavia, dato che tutti gli eventi sociali, compresi quelli morali, avvengono all’interno di un contesto sociale, il ragionamento delle persone inerente ai comportamenti adeguati in una data situazione sociale può richiedere di considerare e coordinare le informazioni provenienti da entrambi questi domini (Smetana, 1983; Turiel, 1983). Diverse ricerche si sono occupate di verificare se i bambini siano in grado di distinguere la moralità dalla convenzione sociale, esaminando i criteri utilizzati dai bambini per distinguere i due domini (Nucci, 1981; Smetana, Killen e Turiel, 1991; Turiel, 1983). A questo scopo, questi studi hanno esaminato i giudizi morali dei bambini su alcune situazioni ipotetiche considerate prototipiche dei due domini. Le situazioni, le regole, o le trasgressioni morali venivano solitamente presentate sotto forma di storie figurate che descrivevano situazioni semplici in cui gli stimoli morali erano descritti come atti volontari ed intenzionali che avevano conseguenze per il benessere o i diritti altrui.

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Le distinzioni tra domini sono state esaminate ricorrendo a due tipi di valutazioni. In primo luogo, i giudizi dei bambini sono stati valutati facendo riferimento alle dimensioni teoriche che si suppone differenzino la moralità da altri tipi di conoscenze sociali. I criteri per parlare di moralità comprendono la generalizzabilità della regola morale a contesti diversi, l’obbligatorietà dell’adesione alla norma morale e l’indipendenza del giudizio morale dalle regole e dalle eventuali sanzioni da parte di un’autorità. Al contrario, i criteri per cui si deve parlare di convenzione includono la relatività contestuale, l’alterabilità e la contingenza delle regole e dell’autorità. La generalizzabilità è stata operazionalizzata analizzando se gli eventi o le trasgressioni erano ritenuti sbagliati o accettabili in contesti sociali differenti, come a casa, in un’altra scuola, o in altri Paesi. L’obbligo morale è stato valutato indagando se i bambini percepivano gli individui come obbligati ad eseguire determinate azioni o ad obbedire ad alcune regole. I giudizi di indipendenza dall’autorità e dalle regole sono stati, invece, analizzati chiedendo ai bambini se i comportamenti e le trasgressioni sarebbero stati sbagliati anche in assenza di regole o nel caso in cui l’autorità (insegnante, genitore, ecc.) non sapesse della violazione della regola. Le giustificazioni che i bambini danno ai loro giudizi sono state anch’esse usate come criteri per distinguere i domini. Le giustificazioni morali riguardano le conseguenze intrinseche dei comportamenti per le altre persone, comprese le preoccupazioni per il dolore e il benessere altrui, la giustizia, i diritti o gli obblighi. Le giustificazioni socio-convenzionali riguardano invece l’autorità (es. preoccupazioni per la potenziale punizione, le regole o gli ordini dell’autorità), le aspettative e le regole sociali (es. norme sociali e culturali) e l’organizzazione e l’ordine sociale (es. il bisogno di mantenere l’ordine sociale e coordinare le interazioni sociali). Durante gli ultimi 30 anni, numerosi studi hanno esaminato se bambini di diverse età distinguono fra azioni morali e convenzionali nei loro giudizi e nelle giustificazioni che forniscono a sostegno di tali giudizi (vedi Killen, McGlothlin e Lee-Kim, 2002; Nucci, 2001; Smetana, 1995, 1997; Tisak, 1995; Turiel, 1998). Come sottolineato da Killen e colleghi (2002), i risultati di più di 100 studi forniscono un’importante conferma al fatto che i bambini, fin da molto piccoli, distinguono il dominio morale da quello convenzionale utilizzando i criteri teorici sopra descritti. Ad esempio, già a 3 anni i bambini distinguono gli eventi morali da quelli sociali (Smetana, 1981; Smetana e Braeges, 1990) soprattutto quando gli eventi descritti sono a loro familiari (Davidson, Turiel e Black, 1983). All’aumentare dell’età, la distinzione viene applicata in modo sempre più attendibile e ad una più vasta gamma di eventi sociali.

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3.4. Le teorie intuizioniste Nei paragrafi precedenti abbiamo visto come la maggior parte degli studi presenti in letteratura abbia indagato i giudizi morali dei bambini focalizzandosi sulle giustificazioni fornite a sostengo di tali giudizi. Ricerche più recenti hanno criticato l’idea che la cognizione morale sia un processo sempre basato sul ragionamento consapevole, sostenendo che l’analisi dello sviluppo morale non richieda necessariamente che i bambini esplicitino a parole i loro principi morali (Haidt, 2001). Già i filosofi classici avevano attribuito i giudizi morali alle emozioni e alle intuizioni. Platone, ad esempio, scrisse che i nostri corpi, guidati dal sentimento, dirigono la nostra più elevata cognizione. Anche David Hume ha descritto le emozioni come fonte del ragionamento morale e ha sostenuto che la ragione è, e dovrebbe essere, subordinata ai sentimenti. Quindi, pur non negando il ruolo del ragionamento nella formazione dei giudizi morali, Hume attribuisce ai sentimenti umani il ruolo primario nel determinare tali giudizi (Hume, 1758, 1880). In psicologia, l’attribuzione di motivazioni inconsce al comportamento risale alle teorizzazioni di Freud. Più recentemente, gli psicologi hanno iniziato a riferirsi a questi processi inconsapevoli parlando di “intuizione”. Haidt (2002), ad esempio, descrive l’intuizione come simile alla percezione e definisce in particolare l’intuizione morale «come un tipo di cognizione, ma non come un tipo di ragionamento» (Haidt, 2001, p. 814). L’approccio intuizionista mette in dubbio la causalità del ragionamento nel giudizio morale, esplicitando quattro punti principali: 1) esistono due processi cognitivi coinvolti nel giudizio morale, ragionamento e intuizione, e il processo di ragionamento è stato eccessivamente considerato; 2) il ragionamento è spesso motivato dalla necessità di fornire ad altri la giustificazione di un giudizio morale che in realtà è già avvenuto a livello di intuizione; 3) il processo di ragionamento porta a giustificazioni post-hoc che creano l’illusione di un ragionamento obiettivo; 4) l’azione sociale è associata più con l’emozione morale che con il ragionamento morale.

3.4.1. Social intuitionist model Un primo esempio di teoria intuizionista presente il letteratura è il Social Intuitionist Model di Haidt, secondo il quale la reazione emotiva avviene immediatamente dopo il presentarsi della situazione morale ed è poi seguita da una più lenta razionalizzazione di questi giudizi, se ritenuta necessaria

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o se richiesta. Non sempre, infatti, le persone giustificano o sono in grado di giustificare i loro giudizi morali, semplicemente “sanno” che qualcosa è giusto o sbagliato poiché percepiscono, ad esempio, il disgusto verso una certa situazione. Haidt (2001) sostiene che è proprio l’emozione di disgusto ad essere alla base del giudizio morale. Per quanto riguarda lo sviluppo della moralità, gli psicologi che adottano questo modello ritengono che le intuizioni morali siano in parte innate e in parte legate alla cultura di appartenenza, tanto che i bambini presentano una moralità particolare e unica che è proprio legata al contesto culturale. Due processi legati alla cultura che modificano la comparsa delle intuizioni morali e portano alla creazione di una specifica moralità sono la perdita selettiva delle intuizioni e la socializzazione dei pari. La perdita selettiva delle intuizioni Lo sviluppo fonologico offre un’utile analogia per comprendere l’acquisizione della moralità secondo questo approccio. Alla nascita, i bambini sono in grado di distinguere fra centinaia di fonemi, ma con la progressiva esposizione ad una specifica lingua (la loro lingua madre) perdono l’abilità di discriminare e di produrre una parte di questi fonemi. Similmente, come suggerito da Ruth Benedict (1959), possiamo immaginare un grande “arco della cultura” che comprende tutti i possibili aspetti del funzionamento umano. Benedict sostiene che «una cultura che tiene in considerazione una proporzione considerevole di questi aspetti sarebbe inintelligibile allo stesso modo di una lingua che usasse tutti i suoni gutturali e tutti i labiali possibili» (p. 24). Una cultura che enfatizzasse tutte le intuizioni morali che la mente umana può sperimentare rischierebbe la paralisi, dato che ogni azione potrebbe provocare una molteplicità di intuizioni contraddittorie. Le culture sembrano, invece, specializzarsi in un sottoinsieme di aspetti morali. Shweder, nel suo modello sulle tre grandi etiche morali (Jensen, 1997; Shweder, Much, Mahapatra e Park, 1997) sostiene che generalmente i “beni morali” (le credenze culturalmente condivise circa quello che è moralmente buono e importante) si raggruppano in tre gruppi etici, che le culture possono abbracciare in diversi gradi: la morale dell’autonomia (beni che proteggono l’individuo autonomo, come la libertà di scelta e il benessere personale); la morale della comunità (beni che proteggono le famiglie, le nazioni e le altre collettività, come la lealtà, il dovere, l’onore e il rispetto); la morale della divinità (beni che proteggono la parte spirituale, come la pietà). Un bambino, quando nasce, possiede le potenzialità per sviluppare le intuizioni morali in tutte le tre etiche descritte, ma solitamente il suo ambiente culturale mette l’accento solo su una o due di queste. Ne consegue

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che le intuizioni all’interno dell’etica culturalmente sostenuta diventano via via più forti e accessibili (Higgins, 1996), mentre le intuizioni che riguardano un’etica non considerata dalla cultura di appartenenza divengono più deboli e meno accessibili. A livello di sviluppo neuro-cognitivo, Huttenlocher (1994) sostiene che la maggior parte della selezione e dell’eliminazione di sinapsi nella corteccia cerebrale avvengono nei primi anni di vita, mentre nella corteccia pre-frontale il periodo di plasticità è maggiore. Il processo di selezione delle sinapsi nella corteccia pre-frontale comincia più tardi, accelera in tarda infanzia, e poi diminuisce in adolescenza (Spear, 2000). Dato che la corteccia prefrontale è l’area del cervello più frequentemente implicata nel giudizio e nel comportamento morali (Damasio, Tranel e Damasio, 1990; Raine 1997), questo suggerirebbe che, se c’è un periodo sensibile per l’apprendimento morale, è probabile che avvenga più tardi nell’infanzia rispetto a quanto gli psicanalisti e la maggior parte dei genitori suppongono. Socializzazione dei pari Gli intuizionisti sociali considerano le persone come creature profondamente sociali, i cui giudizi morali sono plasmati dai giudizi delle altre persone. Ma tali giudizi hanno effetti più forti sui bambini? Harris (1995) sostiene che il compito dei ragazzi in pre-adolescenza e adolescenza non è divenire come i loro genitori, ma essere ben inseriti nel gruppo dei pari, formando alleanze e guadagnandosi il prestigio. Harris ha, quindi, proposto una teoria della socializzazione di gruppo, all’interno della quale i bambini acquisirebbero la loro cultura, inclusi i valori morali, dai loro pari, proprio come accade per l’acquisizione della fonologia (es. i bambini immigrati copiano l’accento dei pari, non dei loro genitori). L’apprendimento delle norme morali e culturali grazie alle interazioni coi pari sono state indagate anche da Minoura (1992) nel suo studio relativo ad alcuni bambini giapponesi trasferitesi per un periodo in California a causa del lavoro dei genitori. Minoura sostiene l’esistenza di un periodo sensibile per l’apprendimento della cultura tra i 9 e i 15 anni. Questo è stato confermato dal fatto che i bambini rimasti negli Stati Uniti durante questo periodo hanno sviluppato modalità di interazione con gli amici tipiche degli americani e anche reazioni emotive in situazioni problematiche e nelle interazione tipiche del paese ospitante. Questo non è accaduto, invece, nel caso di bambini troppo piccoli (apprendimento delle norme poco profondo e senza effetti durevoli) o troppo grandi (disorientamento e confusione). In quest’ultimo caso, benché i ragazzi siano in grado di descrivere le norme americane riguardo al comportamento interpersonale, alle amicizie e ad

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altri contesti, queste norme non sono interiorizzate. Le norme non arrivano, quindi, ad essere automatiche, a essere percepite come ovviamente valide, come si verifica, invece, nella conoscenza intuitiva che è legata a un’acquisizione delle norme morali durante il periodo sensibile. Riassumendo, secondo il modello dell’intuizionismo sociale, lo sviluppo morale è primariamente legato alla maturazione delle intuizioni endogene e all’influenza culturale su queste. Le persone possono acquisire la conoscenza proposizionale esplicita rispetto a ciò che è giusto e ciò che è sbagliato anche da adulti. Tuttavia, è principalmente attraverso la partecipazione ai costumi culturali (Shweder et al., 1998), che sono condivisi coi pari durante il periodo sensibile della tarda fanciullezza e dell’adolescenza (Harris, 1995; Huttenlocher, 1994; Minoura, 1992) che tali “verità morali” vengono interiorizzate (Damasio, 1994; Lakoff e Johnson, 1999).

3.4.2. Moral Grammar Model All’interno dell’approccio intuizionista, le emozioni sono state considerate come uno dei meccanismi di ragionamento inconscio che guidano i nostri giudizi morali, ma non come l’unico meccanismo. John Rawls ha paragonato i giudizi morali immediati e inconsci a dei giudizi grammaticali (Rawls, 1971). Nel libro Una teoria della giustizia (1971, trad. it. 2004, p.55) afferma che: una concezione della giustizia riesce a caratterizzare la nostra sensibilità morale se i nostri giudizi quotidiani si accordano con i suoi principi [...] Non comprendiamo il nostro senso di giustizia fino a quando non sappiamo in un qualche modo sistematico, che copre un ampio spettro di casi, quali sono questi principi […] Un interessante confronto a riguardo è quello con il problema di descrivere la nozione di grammaticalità che possediamo per le frasi del nostro linguaggio nativo […] Probabilmente una situazione simile si verifica anche per la filosofia morale. Non c’è ragione di assumere che il nostro senso di giustizia possa essere adeguatamente rappresentato dalle normali massime di senso comune, o derivato dagli ancora più ovvi principi dell’apprendimento.

La formazione dei giudizi morali può essere paragonata all’acquisizione del linguaggio5 poiché elementi discreti vengono combinati in principi che 5

I sostenitori della grammatica generativa (Chomsky, 1957) sostengono che la grammatica è parte del nostro bagaglio fin dalla nascita, è operativa ed esiste al di là della nostra consapevolezza. Noi possiamo acquisire qualsiasi linguaggio sulla base del linguaggio che

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acquistano un significato. Infatti, le azioni possono non avere senso se prese singolarmente ma, se combinate, possono dare origine a eventi morali o immorali (Hauser, Young e Cushman, 2008). Sarebbe quindi una “grammatica morale” a organizzare queste azioni in eventi significativi, così come una grammatica linguistica organizza i fonemi in parole, passando da semplici “parametri linguistici” all’eloquio. Utilizzando questa analogia è dunque possibile parlare di “parametri morali” e spiegare le differenze culturali nelle credenze morali come combinazioni particolari di questi parametri. Volendo indagare i principi che determinano le differenze individuali nei giudizi morali, occorre considerare almeno due aspetti. Prima di tutto, bisogna comprendere quale sia la natura di tali parametri morali. In secondo luogo, occorre chiedersi se questi siano utilizzati in modo consapevole. Di fronte ad alcuni dilemmi morali, infatti, si ha maggiore difficoltà a dare una giustificazione dei propri giudizi, che appaiono quindi basati su una reazione istintiva. In altri casi, invece, si è facilmente in grado di giustificare i propri giudizi riferendosi a regole consapevoli. Per rispondere a queste due domande, filosofi e psicologi hanno utilizzato diversi metodi per comprendere i principi che stanno alla base di differenze nei giudizi morali. Risposte interessanti provengono da alcuni studi svolti presentando a individui adulti appartenenti a diverse culture alcuni dilemmi morali. Accanto a studi di laboratorio, centinaia di migliaia di risposte a questi dilemmi sono state raccolte attraverso il Moral Sense Test (MST; http://moral.wjh.harvard.edu/), un questionario online ideato da Marc Hauser e colleghi all’inizio del 2000. I risultati hanno dimostrato una certa universalità nei giudizi morali, portando gli autori ad identificare alcuni principi morali universali, come la differenza tra un’azione immorale intenzionale o accidentale e la maggiore gravità, a parità di conseguenze, di una azione rispetto ad una omissione. Quando si vanno ad analizzare le giustificazioni fornite a tali giudizi, si nota come in molti casi i giudizi non siano immediatamente e facilmente giustificabili. Hauser e colleghi concludono che è possibile giustificare le nostre scelte morali solo a posteriori, riferendoci a processi consci sia emotivi che razionali, mentre esisterebbe una grammatica morale universale, un insieme di strumenti per costruire sistemi morali specifici. Una volta acquisite le norme morali specifiche della nostra cultura – un processo più simile alla crescita di un arto che a una lezione di sperimentiamo nel nostro contesto. I diversi linguaggi condividono alcuni pattern attraverso le diverse culture, suggerendo come alcuni vincoli grammaticali siano comuni a tutti gli individui. Inoltre, esistono anche vincoli legati a limiti strutturali del cervello nell’elaborazione degli stimoli (in nessuna lingua si creano frasi con un numero eccessivo di subordinate).

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catechismo sui vizi e le virtù – giudichiamo se le azioni sono lecite, obbligatorie o proibite senza bisogno di un ragionamento conscio e di un ricorso esplicito ai principi soggiacenti [...] I nostri istinti morali sono immuni ai comandamenti espliciti trasmessi dalle religioni e dalle autorità. A volte le nostre intuizioni morali convergeranno con quelle dettate dalla cultura, a volte ne divergeranno (Hauser, 2007, p. vii-viii).

Ulteriori evidenze riguardo all’esistenza di una struttura interna che modella la cognizione morale derivano da alcuni studi sulla prima infanzia, che confermerebbero l’esistenza di meccanismi-chiave, necessari per lo sviluppo della cognizione morale, già a partire da fasi di sviluppo molto precoci. Quest’area di ricerca affonda le radici nel filone di studi che mostra come i bambini molto piccoli siano sensibili ai comportamenti orientati a un obiettivo. Un esempio è fornito dalle ricerche di Woodward e colleghi, che hanno messo in evidenza come i bambini, già nei primi mesi di vita, sanno riconoscere azioni dirette a un obiettivo, specialmente quando l’agente è umano (Guajardo e Woodward, 2004), o sequenze di azioni aventi come fine un obiettivo sovraordinato (Woodward e Somerville, 2000) e tendono a focalizzarsi sull’obiettivo di un comportamento anche quando questo è incompleto (Woodward, 1999). In aggiunta a questi risultati, recenti ricerche hanno mostrato che i bambini sono sensibili anche allo status morale delle azioni dirette a un obiettivo. Per esempio, Hamlin, Wynn e Bloom (2007) hanno mostrato a bambini di 6 e 10 mesi due scenette in cui uno dei “personaggi”, rappresentato da un cerchio rosso, cercava di superare una collina fallendo entrambe le volte e tornando, quindi al punto di partenza. In una terza scenetta, il cerchio veniva o aiutato da un triangolo giallo a superare la collina o ostacolato da un quadrato blu. A seguito della presentazione di queste scenette, ai bambini veniva proposto un compito di scelta tra due personaggi o un compito di violazione dell’aspettativa. I risultati dell’applicazione della tecnica di preferenza visiva hanno mostrato che i bambini di entrambe le fasce d’età mostravano una preferenza per l’agente aiutante (triangolo giallo) rispetto all’agente ostacolante (quadrato blu). Nel compito di violazione dell’aspettativa, ai bambini veniva presentata una situazione in cui il “cerchio rosso”, posto sulla cima di una collinetta, preferiva alternativamente avvicinarsi all’agente ostacolante (violazione dell’aspettativa) o a quello aiutante. I bambini di 10 mesi si mostravano maggiormente sorpresi nel vedere il protagonista mostrare una preferenza per l’agente ostacolante. Questi effetti sarebbero in linea con recenti risultati che affermano che la cognizione morale e sociale sia basata su “sistemi nucleari”, ossia sistemi specializzati che processano, in modo automatico e inconscio, informazioni sociali ed emotive evolutivamente rilevanti (Dupoux e Jacob, 2007). Tut-

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tavia, sarebbe riduttivo credere che l’intero sviluppo morale possa essere ridotto a un unico meccanismo innato specifico. È più probabile, come emerso per la cognizione numerica, che esistano differenti sistemi nucleari alla base della moralità, nessuno dei quali intrinsecamente morale (Jacob e Dupoux, 2008). Inoltre, dato che quest’area di ricerca è relativamente recente, studi futuri avranno il compito di disambiguare alcuni aspetti. Ad esempio, come suggerito da Jacob e Dupoux (2008), lo studio di Hamlin e colleghi (2007) tende a confondere due dimensioni di contrasto: aiutare vs ostacolare e confortare vs provocare dolore. Queste dimensioni sono, in realtà, dissociabili (ad es. si può aiutare qualcuno a fare qualcosa dannoso per lui stesso) e possono suscitare differenti emozioni. Sarà compito degli studi futuri elicitare quanti e quali siano i meccanismi e le dimensioni sociali rilevanti per lo sviluppo morale.

3.5. La valutazione morale dei comportamenti negativi Negli ultimi anni si è assistito ad un crescente interesse per il modo in cui i bambini interpretano e giudicano i comportamenti sociali (Alvarez, Ruble e Bolger, 2001; Gelman, Heyman e Legare, 2007; Giles e Heyman, 2004; Kalish e Shiverick, 2004; Porath, 2003). All’interno di questo filone di ricerca, una piccola parte di questi studi si è occupata di indagare, accanto ad altre variabili, anche il ragionamento morale dei bambini su diversi tipi di comportamento. La maggior parte di queste ricerche si è basata su una distinzione tra il concetto di moralità e il ragionamento morale vero e proprio. Il primo farebbe riferimento alla capacità dell’individuo di discriminare tra comportamenti giusti e sbagliati (Quinn, Houts e Graesser, 1994), mentre il ragionamento morale riguarderebbe i processi di pensiero che portano a decidere se un comportamento è moralmente accettabile (Shaffer, 2000). In altre parole, la moralità sarebbe elicitata dalla domanda “è giusto o sbagliato che …?”, mentre il ragionamento morale riguarderebbe la motivazione data a questo giudizio. La prospettiva teorica comunemente adottata in questi studi si rifà, più o meno esplicitamente, alla teoria dei domini morali, descritta nel paragrafo 3.3. Il merito di questi studi è quello di aver messo in luce come il ragionamento morale dei bambini possa differire a seconda non solo del comportamento considerato, ma anche delle variabili di contesto o delle caratteristiche di chi mette in atto la condotta. La procedura solitamente adottata in queste ricerche prevede la presentazione di una situazione ipotetica in cui il protagonista mette in atto un comportamento o subisce una situazione

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decisa da altri. Nei paragrafi successivi prenderemo in esame i risultati riguardanti due dei temi più estesamente affrontati in questo filone di ricerca, ossia la valutazione da parte dei bambini dei comportamenti aggressivi e dell’esclusione sociale.

3.5.1. La valutazione dei comportamenti aggressivi In situazioni ipotetiche, i comportamenti negativi in generale sono tipicamente valutati negativamente da parte dei pari (Erdley e Dweck, 1993). I bambini aggressivi, in particolare, sono spesso ritenuti poco simpatici, vengono considerati più responsabili del loro comportamento e meritevoli di punizioni da parte di terzi (Graham e Hoehn, 1995). Oltre a venir percepito come negativo e sbagliato, il comportamento aggressivo risulta anche associato al rifiuto sociale dell’individuo che lo mette in atto (Boxer e Tisak, 2005; Warman e Cohen, 2000). Dallo studio di Boxer e Tisak (2005) condotto con bambini di scuola primaria, inoltre, emerge che nelle bambine il giudizio morale è legato alla stabilità percepita del comportamento aggressivo, tale per cui ad una maggiore persistenza del comportamento si associa un giudizio più negativo. Occorre ricordare, tuttavia, che il comportamento aggressivo può esprimersi in diverse forme che possono influenzare diversamente la percezione e il ragionamento morale dei bambini. Uno studio interessante in questo ambito è stato proposto da Murray-Close, Crick e Galotti (2006), che hanno esplorato il ragionamento di bambini di 9-10 anni rispetto a diversi tipi di aggressività (fisica vs relazionale). Studi precedenti avevano messo in evidenza che bambini in età prescolare tendono a ritenere l’aggressività fisica come più sbagliata e più dannosa di forme di aggressività verbale, come il prendere in giro (Goldstein, Tisak e Boxer, 2002; Smetana, CampioneBarr e Yell, 2003). Inoltre, anche se alcuni studi indicano che i bambini di scuola primaria mostrano di comprendere quanto l’aggressività relazionale possa essere dannosa per le vittime (Crick, Bigbee e Howes, 1996; Galen e Underwood, 1997), è possibile che tale dannosità sia comunque considerata minore rispetto a quella provocata da un’aggressione fisica. A partire da queste premesse, Murray-Close e colleghi (2006) hanno indagato diversi aspetti del ragionamento sociale dei bambini sul comportamento aggressivo, tra i quali il considerare l’aggressività come un argomento inerente la sfera morale (giusto/sbagliato) e il ricorso ad aspetti morali o di convenzione sociale quando viene richiesta loro una giustificazione del giudizio dato sul comportamento. Gli autori identificano quattro domini in cui possono rica-

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dere tali giustificazioni: morale (riferito a concetti di giustizia e benessere dell’umanità), della convenzione sociale (legato a norme sociali che permettono di mantenere la struttura e l’ordine sociale), personale (associato a concetti di privacy o ad azioni ritenute rilevanti per il singolo individuo) e legato alla prudenza (azioni personali pericolose per l’individuo). I risultati dello studio mostrano che i bambini tendono a riferirsi sia all’aggressività fisica che a quella relazionale adottando una prospettiva morale. In altre parole, quando considerano il comportamento aggressivo, i bambini tendono a far riferimento nei loro giudizi soprattutto a concetti di giustizia e di benessere generale. Tuttavia, emergono delle differenze tra le due forme di aggressività, tali per cui i bambini considerano l’aggressione fisica maggiormente sbagliata e più dannosa rispetto a quella relazionale, che è invece considerata più spesso un problema di ordine morale rispetto a quella fisica. Un altro risultato interessante riguarda il maggior ricorso a giustificazioni legate alla prudenza rispetto a giustificazioni relative alla violazione di convenzioni sociali nella valutazione dell’aggressività fisica, che viene considerata un problema legato alla sfera della prudenza più frequentemente rispetto all’aggressività relazionale. In altre parole, i bambini di scuola primaria sembrano particolarmente focalizzati sui problemi che l’aggressività fisica può causare a chi la mette in atto, ad esempio in termini di possibili ritorsioni, piuttosto che sulle norme sociali che identificano questa condotta come sbagliata.

3.5.2. La valutazione dell’esclusione sociale Una seconda area che ha ricevuto grande interesse da parte dei ricercatori riguarda la valutazione del comportamento di esclusione, in particolare quando questa avviene sulla base dell’appartenenza di gruppo (es. genere o etnia). Ciò che rende l’esclusione intergruppi particolarmente interessante per gli studiosi del ragionamento morale è che questa riflette, da una parte, processi di pregiudizio, stereotipizzazione e bias sui gruppi e, dall’altra, giudizi riguardo la giustizia, l’uguaglianza e i diritti (Killen, 2007; Killen, Crystal e Watanabe, 2002; Killen, Lee-Kim, McGlothlin e Stangor, 2002). Da un punto di vista concettuale, questi giudizi sono diametralmente opposti: i pregiudizi violano i principi morali di giustizia, la discriminazione viola l’uguaglianza e gli stereotipi portano alla riduzione dei diritti individuali. L’interesse principale dei ricercatori è stato quello di indagare come ragionano i bambini di fronte a situazioni che coinvolgono queste dimensioni. I risultati in quest’area di ricerca arrivano a sostenere che i bambini non utilizzano un singolo schema (stadio) per valutare tutte le problemati-

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che intergruppi che potrebbero essere moralmente rilevanti. Infatti, anche se alcuni tipi di decisione sono legati all’età dei bambini, per altri tipi di ragionamento non è sostenibile tale relazione. In uno studio condotto da Killen e Stangor (2001) con bambini di prima e quarta elementare e con ragazzi di seconda media, ad esempio, la quasi totalità dei partecipanti (95%) ha valutato l’esclusione di un pari sulla base del genere o della razza come un comportamento sbagliato. Le giustificazioni date a tale valutazione da parte dei bambini delle diverse età erano per lo più di origine morale, basate, ad esempio, sul fatto che tale tipo di esclusione fosse ingiusto e discriminatorio. Contrariamente all’aspettativa di giustificazioni diverse ad età differenti, l’assenza di differenze tra i gruppi-età contrasta con un approccio teorico di tipo stadiale. Alcune differenze nei giudizi e nelle giustificazioni emergono, invece, quando gli scenari presentati sono maggiormente complessi. Per esempio, in situazioni in cui la caratteristica richiesta è presente in modo equo nei rappresentanti dei due gruppi messi a confronto (es. “C’è ancora un solo posto per entrare a far parte del gruppo e ci sono un ragazzo e una ragazza che sono ugualmente qualificati per farne parte. Chi bisognerebbe ammettere nel gruppo?”) i bambini utilizzano ragioni morali per giustificare la loro valutazione (es. “Dato che sono entrambi ugualmente bravi, bisognerebbe ammettere chi solitamente ha meno possibilità di entrare a farne parte”) senza differenze di età. Al contrario, quando la situazione descritta mostra una condizione di disparità, si nota, al crescere dell’età dei partecipanti, un maggior utilizzo di giustificazioni socio-convenzionali. In questo caso, infatti, i pre-adolescenti tendono a prendere in considerazione i meriti individuali e il funzionamento del gruppo. Le abilità personali (es. bravo a ballare o a giocare a calcio) vengono considerate informazioni più salienti rispetto alla tutela della dimensione di uguaglianza. Altri studi hanno identificato ulteriori variabili che vanno ad influenzare la valutazione e le giustificazioni esplicitate dai bambini rispetto a situazioni di esclusione. Abrams e colleghi (Abrams, Rutland, Cameron e Ferrell, 2007), ad esempio, hanno messo in luce come il giudizio dei bambini circa l’appropriatezza o meno dell’esclusione sia contingente all’interpretazione dell’individuo escluso come più o meno conforme all’identità dell’ingroup. Similmente, Horn (2003) ha indagato il modo in cui gli adolescenti ragionano sull’esclusione di membri di un gruppo a basso status dall’entrare a far parte di un gruppo ad alto status (gruppo di cheerleaders, squadra di basket, consiglio scolastico). I risultati di questo studio hanno evidenziato che i ragazzi a volte considerano l’esclusione come una forma di regolazione sociale, che risulta accettabile, in particolare, in quelle situazioni in cui l’indi-

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viduo non è portatore di quelle norme o di quei valori che caratterizzano il gruppo (es. una ragazza gotica in un gruppo di cheerleaders) o nel momento in cui la sua presenza potrebbe risultare minacciosa per il funzionamento o l’identità del gruppo. Infine, altri risultati interessanti emergono dalle ricerche sul contatto intergruppi durante l’infanzia, che hanno fornito informazioni su come l’esperienza sociale influenzi la manifestazione degli stereotipi e del ragionamento convenzionale dei bambini nella giustificazione dell’esclusione (Pettigrew e Tropp, 2005). Per i bambini, avere esperienze positive con pari differenti da loro sembra facilitare il ragionamento morale circa l’esclusione intergruppi ed elimina le aspettative stereotipiche che facilmente conducono ad approvare o giustificare l’esclusione. Nel loro insieme, questi studi evidenziano che il ragionamento dei bambini sulla correttezza e accettabilità dell’esclusione sociale varia in base al contesto e alla valutazione di alcune priorità. Per le decisioni sull’esclusione, non solo risultano importanti le caratteristiche dell’individuo escluso, ma anche quelle del partecipante (età, genere, razza/etnia). Per quanto riguarda il motivo dell’esclusione, l’esclusione di genere viene considerata più accettabile e legittima di quella basata sull’etnia e viene giustificata maggiormente facendo ricorso a motivazioni socio-convenzionali e stereotipiche (Killen et al., 2002). Anche se gli stereotipi e le convenzioni sono forze potenti nel legittimare l’esclusione, ci sono anche numerose evidenze in letteratura riguardanti la tendenza degli adolescenti a spiegare la scorrettezza della discriminazione in termini di giustizia sociale (Killen, 2007), riferendosi a norme di equità, uguaglianza e pari opportunità. Concludendo, gli studi sul ragionamento sociale dei bambini forniscono interessanti informazioni sulle modalità, i principi e le norme che i bambini usano per giustificare i loro giudizi morali e sulle circostanze che influenzano i cambiamenti nel modo in cui i bambini percepiscono i comportamenti e le situazioni moralmente rilevanti.

3.6. Conclusioni In questo capitolo sono state presentate le teorie classiche sullo sviluppo morale, con particolare riferimento alle teorie cognitivo-evolutive, secondo le quali lo sviluppo del senso morale del bambino è strettamente legato al suo sviluppo cognitivo ed avviene attraverso la progressiva adesione razionale (descrivibile attraverso precisi stadi evolutivi) a principi e valori universali. Una posizione opposta è sostenuta dai modelli intuizionisti, che criticano

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questa visione eccessivamente razionalistica della moralità e mettono al centro il ruolo delle emozioni e della “intuizione morale”. Da questa breve rassegna di studi sullo sviluppo morale, emerge chiaramente come descrivere questo processo in maniera univoca sia molto difficile perché le controversie tra i ricercatori che si occupano di questo tema sono ancora numerose e molte domande sono tuttora aperte. Tra queste, di particolare rilevanza appare il problema della natura universale vs. culturale dello sviluppo morale, cioè se esso possa essere adeguatamente descritto come una sequenza di sviluppo comune a tutti gli individui o se prevalgano le differenze individuali, culturali e storiche (Bacchini, 2009). Parzialmente connesso a questo problema, vi è la questione delle possibili basi biologiche della moralità, così come quella della natura del legame tra pensiero morale ed azione (im)morale (Caravita e Gini, 2010). Il motivo per cui molte di queste domande sono ancora aperte risiede non solo nella complessità del tema di indagine, ma anche, almeno in parte, nel fatto che per molto tempo questo argomento è stato pregiudizialmente considerato difficilmente indagabile con un metodo “scientifico”. Solo negli ultimi vent’anni si è assistito ad una riscoperta di questa linea di ricerca, anche se il numero di studi empirici rimane ancora piuttosto limitato. Un maggiore sviluppo della ricerca in quest’ambito e la nostra capacità di fornire risposte alle domande aperte potrà essere di aiuto non solo alla comprensione di una dimensione importante della vita sociale di tutti gli individui, ma anche alla possibilità di fornire a genitori ed insegnanti strategie educative più adeguate a favorire il pieno sviluppo del bambino come “essere morale”.

Capitolo quarto Giustizia e ingiustizia nelle relazioni familiari e scolastiche di Monica Rubini e Silvia Moscatelli

4.1. Introduzione La giustizia costituisce un elemento fondamentale nelle relazioni con gli altri. L’esercizio della giustizia contribuisce alla percezione di stabilità e di controllabilità delle situazioni in cui le persone si trovano a vivere. Inoltre, relazioni improntate alla giustizia fanno sì che gli individui si sentano valorizzati all’interno dei contesti sociali di riferimento, e dunque hanno un riverbero positivo in termini di stima di sé e di identità sociale (cfr. Capitolo 2). Viceversa, l’ingiustizia nelle relazioni sociali è percepita come minacciosa (MacCoun e Tyler, 1988) e produce esiti negativi per il benessere fisico e psicologico di chi la subisce (Fox, Spector e Miles, 2001; Judge e Colquitt, 2004; Santinello, Vieno e De Vogli, 2009). Queste importanti dimensioni della giustizia rappresentano il fulcro del modello del valore di gruppo (Tyler, Degoy e Smith, 1996; cfr. Capitolo 1). Numerose ricerche condotte con questo paradigma hanno evidenziato che la giustizia relazionale e procedurale esercitata dalle autorità dei gruppi e dei sistemi sociali contribuisce al benessere psicosociale degli individui coinvolti e favorisce la messa in atto di comportamenti di aiuto e cooperazione verso il gruppo stesso. Sebbene molti studi condotti seguendo questo approccio teorico abbiano preso in considerazione le dinamiche di giustizia in contesti organizzativi o istituzionali, gli individui sin dall’infanzia fanno esperienza di relazioni giuste o inique (cfr. Capitolo 3) nei principali contesti di socializzazione in cui si dispiega il percorso di sviluppo verso l’età adulta: la famiglia e la scuola. Famiglia e scuola, infatti, possono essere concettualizzati come gruppi sociali (Cole, 1996; Lewin, 1948; Scabini, 1995) in cui gli individui intrattengono relazioni asimmetriche con le autorità adulte, rappresentate dai genitori e dagli insegnanti, ed interagiscono con gli altri membri del gruppo (i fratelli, i compagni di classe) con cui hanno una posizione paritaria.

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In questo capitolo, ci si focalizzerà su queste particolari esperienze di gruppo, allo scopo di esaminare le conseguenze della giustizia percepita nel trattamento ricevuto dai genitori e dagli insegnanti per lo sviluppo psicosociale in adolescenza. Dopo una breve illustrazione del modello del valore di gruppo, saranno discusse alcune evidenze provenienti da un ampio programma di ricerca con adolescenti di età compresa fra i 12 ed i 19 anni (Moscatelli e Roncarati, 2006; Palmonari e Rubini, 2006), che mostrano il legame fra giustizia percepita nel rapporto con i genitori e gli insegnanti e l’identità sociale degli adolescenti. Inoltre, saranno presentate evidenze originali che mostrano l’influenza della giustizia esercitata dagli adulti significativi sul comportamento degli adolescenti nei confronti della famiglia e sulla qualità dei rapporti con i pari all’interno del gruppo-classe.

4.2. Il Modello del Valore di Gruppo Il modello del valore di gruppo (Tyler e Lind, 1992; Tyler et al., 1996; cf. Berti, 2002) ha messo in rilievo l’importanza della percezione di giustizia nella relazione fra membri di un gruppo ed autorità. In particolare, il modello ha enfatizzato il ruolo della giustizia procedurale, che si basa su tre dimensioni di tipo relazionale: riconoscimento dello status, affidabilità e neutralità (Tyler, 1989). Un’autorità è percepita come giusta se si comporta in modo educato e rispettoso delle opinioni e dei diritti dei membri del gruppo, opera in modo onesto e giustifica le proprie decisioni mostrando il desiderio di agire equamente. Il modello assegna invece un ruolo secondario alla cosiddetta giustizia distributiva, relativa alla distribuzione di beni materiali e privilegi tra gli appartenenti ad un gruppo (Adams, 1965; Walster, Berscheid e Walster, 1973). Secondo il modello del valore di gruppo, la percezione di ricevere un trattamento giusto da parte dell’autorità fa sì che le persone si sentano valorizzate e rispettate all’interno del gruppo, e siano orgogliose e soddisfatte per la propria appartenenza. A loro volta, rispetto ed orgoglio sono associati a diversi esiti positivi per la vita del gruppo fra cui, ad esempio, la disponibilità a cooperare con il gruppo accettandone le regole e sacrificandosi per il bene comune. Nel complesso, gli studi con il modello del valore di gruppo sono stati condotti soprattutto in contesti organizzativi e giudiziari; inoltre, anche quelli che si sono focalizzati su contesti diversi, fra i quali la famiglia, hanno per lo più utilizzato partecipanti adulti. Tuttavia, la giustizia nei rapporti con le autorità costituisce una possibile chiave di lettura per comprendere i processi

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di socializzazione in adolescenza all’interno dei due gruppi fondamentali a cui la maggior parte degli individui appartiene: la famiglia e la scuola.

4.3. La Giustizia in Famiglia La famiglia rappresenta un ambito di confronto sociale privilegiato, ove gli adolescenti osservano come padre e madre interpretano la propria identità sessuale e professionale e gestiscono le relazioni fra loro e con i figli. Allo stesso tempo, essi si confrontano con le soluzioni adottate da fratelli e sorelle nel percorso di costruzione della propria identità. In psicologia sociale, il comportamento dei genitori verso i figli è stato esaminato principalmente in termini di stili educativi adottati. A questo proposito, numerose ricerche (Moscatelli e Rubini, 2009; Steinberg, Lamborn, Darling, Mounts e Dornbusch, 1994; Steinberg, Lamborn, Dornbusch e Darling, 1992; Vieno, Nation, Pastore e Santinello, 2009) hanno messo in luce che la richiesta di comportamenti maturi e la supervisione da parte dei genitori, coniugate ad un atteggiamento di disponibilità, comprensione e sostegno, favoriscono lo sviluppo psicosociale dei figli, i loro successi in ambito accademico, la loro capacità di instaurare relazioni positive, e rendono meno probabile la messa in atto di comportamenti devianti. Minore attenzione è stata sinora dedicata al ruolo della giustizia esercitata dai genitori nell’interazione con i figli come elemento promotore di sviluppo degli stessi (Moscatelli e Roncarati, 2006; Rubini, Moscatelli e Prati, 2010). Tuttavia, seguendo la letteratura sulla giustizia, nel comportamento dei genitori è possibile distinguere principi di giustizia relazionale (relativa cioè alle dimensioni alla base della giustizia procedurale) e distributiva. Ad esempio, la prima forma di giustizia fa riferimento al fatto che i genitori prendano decisioni in modo imparziale e sulla base di fatti verificabili; essi, inoltre, saranno percepiti come degni di fiducia se giustificano e motivano le decisioni che riguardano i figli. Infine, genitori che agiscono in modo equo, dal punto di vista relazionale, riconoscono e tengono in considerazione le opinioni, le esigenze ed i bisogni dei figli, e li trattano con gentilezza. La giustizia distributiva, invece, riguarda la distribuzione di risorse concrete e simboliche in funzione dei risultati ottenuti dai figli. Sulla base di queste considerazioni, Moscatelli e Roncarati (2006) hanno esaminato il modo in cui adolescenti frequentanti le scuole medie (età compresa fra i 12 ed i 14 anni) e le scuole superiori (età compresa tra i 14-15 ed i 19 anni) percepiscono il trattamento ricevuto dai genitori. Innanzitutto, un’analisi preliminare delle risposte fornite ha confermato che gli adolescenti

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di entrambe le fasce d’età distinguono fra giustizia relazionale e distributiva nel comportamento dei genitori. I giudizi emersi sono molto positivi su entrambe le dimensioni, e mettono in luce in particolare la soddisfazione per il rapporto instaurato con la madre; per quanto riguarda il padre, si riscontrano alcune differenze di genere, dovute a valutazioni leggermente più severe nei confronti del padre da parte delle femmine rispetto a quelle dei coetanei maschi. Inoltre, l’età costituisce un fattore di differenziazione importante: al crescere dell’età, infatti, i genitori sono giudicati meno giusti su entrambe le dimensioni considerate, almeno nel campione di adolescenti di 12-14 anni. I giudizi appaiono invece più stabili considerando il campione di adolescenti frequentanti le scuole superiori. In questa ricerca è stata inoltre esaminata l’influenza della giustizia nel trattamento ricevuto dai genitori sull’importanza assegnata alla propria famiglia per l’identità sociale, ossia sul valore attribuito a questa appartenenza in relazione al concetto di sé (Luhtanen e Crocker, 1992). È stato inoltre esaminato il ruolo mediazionale del rispetto percepito da parte dei genitori. I risultati hanno evidenziato, innanzitutto, che all’aumentare della giustizia esercitata dai genitori aumenta la percezione dei figli di essere rispettati all’interno della propria famiglia. In particolare, per gli adolescenti frequentanti le scuole medie, il sentimento di rispetto è legato alla giustizia, relazionale e distributiva, percepita nel comportamento della madre, e solo in modo secondario al trattamento ricevuto dal padre sulla sola dimensione di giustizia relazionale. Considerando il campione di studenti delle scuole superiori, invece, la giustizia relazionale percepita nel comportamento del padre assume la stessa importanza della giustizia relazionale esercitata dalla madre. Adolescenti trattati in modo giusto, inoltre, valorizzano maggiormente il contributo della propria famiglia per l’identità sociale. Anche in questo caso, per i più giovani è il comportamento della madre (soprattutto dal punto di vista della giustizia relazionale) a giocare un ruolo decisivo, mentre all’aumentare dell’età aumenta il peso della dimensione relazionale di giustizia nel trattamento ricevuto dal padre. I giudizi di giustizia distributiva hanno invece un ruolo secondario, e per il campione di adolescenti di 14-19 anni non sono correlati all’importanza della famiglia per l’identità. Infine, le analisi di mediazione condotte seguendo il modello del valore di gruppo hanno evidenziato che il sentimento di rispetto rende conto degli effetti della giustizia sull’importanza della famiglia per l’identità. Se il valore attribuito alla famiglia costituisce un esito “simbolico” della relazione fra adolescenti e genitori, è possibile che la percezione di giustizia influenzi le dinamiche familiari concrete facilitando la messa in atto, da

GIUSTIZIA

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E INGIUSTIZIA NELLE RELAZIONI FAMILIARI E SCOLASTICHE

parte dei figli, di quelli che nel modello del valore di gruppo sono definiti “comportamenti a favore del gruppo” (group-serving behaviors). Per esaminare tale aspetto ulteriore sono stati considerati comportamenti quali la disponibilità ad impegnarsi e a collaborare con la propria famiglia anche quando ciò comporta qualche sacrificio personale (ad esempio, rinunciare ad uscire con gli amici per partecipare ad attività familiari), e l’accettazione di decisioni e regole familiari. Figura 4.1 - Relazioni fra giustizia percepita nel comportamento del padre e della madre, sentimento di rispetto da parte dei genitori, orgoglio per l’appartenenza familiare e impegno verso la famiglia

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