Noi operaisti
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Biblioteca dell'operaismo

© 2009 DeriveApprodi I edizione: novembre 2009 DeriveApprodi srl Piazza Regina Margherita 27 00198 Roma tel 06-85358977 fax 06-97251992 i nfo@derivea pprod i. org www.deriveapprodi.org Progetto grafico: Andrea Wohr Immagine di copertina: // gatto selvaggio, da «classe operaia» ISBN 978-88-89969-91-5

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DeriveApprodi

Mario Tronti

Noi operaisti

Avvertenza Si ripubblica qui il saggio introduttivo che apriva il volume edito da DeriveApprodi L'operaismo degli anni Sessanta. Da «Quaderni rossi» a «classe operaia», a cura di Giuseppe Trotta e Fabio Milana, comprendente un cd con la raccolta completa della rivista «classe operaia» 1964-1967 (maggio 2008). Il saggio ha una sua consistenza e relativa autonomia, tale da permettere e consigliare una diffusione presso un pubblico più ampio di quello che ha potuto usufruire del volume di 894 pagine che lo contiene. Si aggiungono tre brevi testi di Tronti, esplicativi e complementari rispetto al saggio. Operaismo e politica è una conferenza tenuta a Londra in un convegno della rivista «Historical Materialism», sul tema «New Directions in Marxist Theory», 8IO dicembre 2006. Perché ancora l'operaismo? È un intervento tenuto a Roma, l'Università La Sapienza, nel novembre 2006, in occasione della riedizione di Operai e capitale per DeriveApprodi, a quarant'anni dalla prima edizione. Memoria e storia degli operai è stato pubblicato in Classe operaia. Le identità: storia e prospettiva, Franco Angeli, Milano 2001, che raccoglieva gli atti di un convegno tenuto a Piombino l'anno prima. A riguardo si ringrazia l'editore per la gentile concessione di ripubblicazione.

Dedico questo libretto, a suo modo rosso, ai più giovani militanti che, soli, si ostinano a ricordare che c'è stato un tempo delle buone idee e delle buone pratiche, che bisognerebbe fare di tutto perché ritorni. E se non ritorna, peggio per quelli che restano. M.T.

Noi operaisti

Lo «stile» operaista [operaismo italiano degli anni Sessanta comincia con la nascita di «Quaderni rossi» e finisce con la morte di «classe operaia». Punto. Questa è la tesi. Poi- si le grain ne meurt- si riproduce in altri modi, si reincarna, si trasforma, si corrompe e ... si perde. Distinguere tra operaismo e post-operaismo è l'operazione di distinzione intellettuale che si propone qui. Questo libro prende motivata origine da questa esigenza. Poi, la cara dolce umana dolcezza del ricordare, ha fatto il r~sto. Che questo resto sia ben riuscito, sia di buon gusto, sia opportuno adesso, sia utile oggi, sia produttivo di qualcos'altro, a chi legge spetta la risposta. La raccomandazione è quella, trasfigurata, di Brecht: voi, amabili pluralisti, innamorati dell' «altro», pensate con indulgenza agli odiosi tempi dicotomici a cui siete scampati. Questa è la «mia» verità. Non pretendo che sia la verità della «cosa stessa». Altri ne avranno, riferita a sé, un'altra, diversa. Questo testo va letto contestualmente alle «Testimonianze» dei protagonisti, che integrano, correggono, criticano pezzi non secondari della mia lettura. [operaismo, come esperienza collettiva di uomini 7

e donne in carne e ossa, risulterà alla fine, esistenzialmente, più complicata di quanto appaia nel racconto concettuale che qui segue. Vorrei avvertire che questa lettura non avviene col senno di poi. È quello che io pensavo allora, e che oggi vedo solo più chiaro. Le testimonianze, e i ricordi, danno l'idea poi di come ognuno metteva se stesso dentro un'esperienza comune e dicome ognuno rivede ora se stesso e gli altri nel giudizio e nella memoria, anzi potremmo dire, in una memoria giudiziosa. Siamo andati tutti molto lontano da lì, ma in tutti è rimasto un segno intellettuale, un tratto umano, la parola giusta è, «uno stile», consegnatici da una scuola di eccellenza, la fabbrica moderna, con in cattedra la figura operaia. Perché riparlarne oggi? A che serve? A chi interessa? La passione cinica, o il cinismo appassionato, del nostro modo di pensare, ci dice che non serve a niente e non interessa a nessuno: tranne forse a qualche non rassegnato reduce, ferito, della guerra di classe e a qualche giovane mente che eroicamente sopravvive, senza quasi più acqua da bere, nel deserto della pace sociale. E tuttavia: le cose che sono state dette, e che si dicono, sul tema, non sono sufficienti, a volte sono indisponenti, a capire. E capire qui, permette di sapere molte cose, su quel passaggio di storia e sul suo seguito. Anni Sessanta. Il limite Italia per guardare il mondo. Ma anche la sua opportunità. E dunque: il Novecento, nostro «pensiero vissuto». Un nodo di problemi, non sciolto e da sciogliere. Ripeto: non si vuol dare un'interpretazione canonica della vicenda. Questa è solo una delle letture possibili. Parziale quanto basta per tenere fede a quella buona vecchia idea di partigianeria della ricerca, a quella indigesta e produttiva pratica teorica del «punto di y_ista» ci vuole parzialità per cogliere la totalità - che ci ha for8

mato, e poi ci ha accompagnato, e ancora adesso ci conforta a pensare nell'orizzonte di quel weberiano «malgrado tutto, continuiamo!». E dico noi, perché credo di potere parlare in nome di un'esperienza di pensiero - è la definizione corretta, esperienza di pensiero - di un cenacolo di persone, alcune almeno qui raccolte, cementate tra loro indissolubilmente da un vincolo peculiare di amicizia politica. Sul mistero di fedeltà implicato dall'esercizio praticoteorico dell'amicizia politica bisognerebbe tornare con un discorso a parte. Qui i vari classici De amicitia non aiutano. Riguardano il solo foro interno. E invece qui l'interesse della cosa sta nel rapporto, stretto, tra vita interiore e agire pubblico. Potremmo ancor oggi tranquillamente ripeterci l'un l'altro le parole che Tocqueville scriveva all'amico Louis de Kergorlay, in una lettera del 9 settembre 1853, dopo trent'anni di scambi epistolari: «Sei sempre stato e rimani l'uomo che più ha avuto l'arte di comprendere il mio pensiero allo stato nascente.[ ... ] Il contatto del tuo spirito feconda il mio. Le nostre intelligenze si intrecciano, non so come; e quando perseguiamo un'idea comune arrivano a marciare meravigliosamente con lo stesso passo» (vedi, non a caso, in U. Coldagelli, Vita di Tocqueville (1805-1859), La democrazia tra storia e politica, Donzelli, Roma 2005, p. II). Non è tutto. Nel nostro caso, la religione antica dell'amicizia lascia il posto alla politica moderna dell'amicizia/inimicizia. I.:amico/nemico non è, come banalmente si pensa, una teoria del nemico. È, appunto, una teoria, e una pratica, dell'amico e del nemico. Siamo diventati, e siamo rimasti, anche sentimentalmente, amici per il fatto che abbiamo trovato e ritrovato, politicamente, di fronte a noi un comune nemico. Questa idea è da specificare. Perché proprio su quell'originario approccio operaista si è fondata, e poi costruita, e quindi conservata e arricchita, 9

un'amicizia di questo tipo? Per la forza di riferimento del concetto politico di classe operaia? Per il rigore etico dell'impegno che quel riferimento produceva? Per la totalità di ben distribuite esperienze di lavoro culturale, che miracolosamente si trovarono lì raccolte? Probabilmente per ognuna di queste cose. Ma la mia risposta complessiva è un'altra: tanto difficile da far capire, quanto facile è stato, tutto sommato, viverla. Il cemento di quell'amicizia politica è una ben specifica e determinata e consaputa inimicizia sociale. [aver individuato, subi!~, più che un riferimento, un contrasto. Non uno «st~r~ con», ma un «essere contro». Non una «scelta per», ma una «lotta a». Questo ha avuto delle conseguenze spo·ntaneamente obbliganti, per «noi», sulle decisioni intellettuali di quel periodo e sugli orizzonti che ne sono seguiti. Di ciò bisogna forse soprattutto parlare. E questo forse serve, forse questo interessa. Cercherò, ma non so se mi riesce, facendo forza di contrasto su me stesso, di dirlo in forma piana, diretta, senza la mediazione della parola letteraria, resistendo alla tentazione della metafora lancinante, senza quel gusto dell'accenno, che chiede, non di essere compreso, ma di essere intuito. Eppure, c'è da dire una cosa. È sul terreno della scoperta intellettuale della classe operaia che è nata una forma di scrittura. Anche qui, c'è da chiedersi il perché. Resta, è vero, l'evento misterioso di un modo di dire, e di dirsi, che a un certo punto c'è, e non sai da dove viene, come è nato, quando e, di nuovo, perché così invece che altrimenti. Ho sempre pensato, un pd fatalisticamente, che un passaggio di storia si sceglie la sua propria rappresentazione simbolica. Il partigiano semianalfabeta, davanti al plotone di esecuzione nazista, scriveva nelle Lettere dei condannati a morte della Resistenza, un'opera di alta letteratura. E i ragazzi che al mattino presto andavano davanti ai cancelli di Mirafiori, la IO

sera a casa leggevano L'anima e le forme del giovane Lukàcs. La grande storia parla una lingua, la piccola cronaca un'altra. Nel nostro tempo stupido, quest'ultima dimensione, quella cronachistica, celebra i suoi fasti solenni, nella universale sciatteria volgare del linguaggio politico. Allora, anni Sessanta, i suoi inizi con il suo lascito, ci parve di scorgere un ritorno di eventi e di soggetti di alto livello. Probabilmente ci sbagliavamo. Ho parlato altrove di «illusione ottica». Ma quella sensazione di altezza del conflitto fu quanto bastò per innescare in noi quella passione per il nietzscheano «grande stile», che ci ha accompagnato poi, nel bene e nel male, in un lavoro di ricerca, tanto aperto quanto inquieto. La scelta è stata da allora quella di parlare in modo alto a nome di quelli che stanno in basso. Perché questi, e solo questi, meritano il «grande stile». Non è vero, non si dava al conflitto operaio un valore salvifico, come qualcuno, sbagliando, ha voluto vedere: per cui la forma ispirata sembrava la più adatta. Si vedeva nelriniziativa di «lotta+ organizzazione» degli operai il modo, il percorso, lo strumento più efficaci per battere l'avversario capitalistico, per costringerlo a uno sviluppo oltre se stesso. Il pensiero forte domanda una scrittura forte. Di qui traeva origine quello stile di espressione conflittuale: scandito, scolpito, battente, incessante, aggressivo e lucido. Così ci sembrava di cogliere il ritmo di battaglia degli «operai in lotta», in fabbrica, contro il padrone diretto. Non abbiamo più saputo scrivere altrimenti. C'è di più. C'è una cosa più importante. l.'.esperienza operaista ha segnato un modo di pensare politico. Solo chi l'ha attraversata ha potuto poi assumere questa forma politica del pensare. Racconterò tra poco il travaglio intellettuale e i Leh,jahre, gli anni di formazione, e di apprendistato, di un pezzo, limitato ma significativo, di generazione. Qui voglio dire come imparammo, una volta II

per tutte, a quella scuola, la scuola della classe operaia, a essere, fuori della norma, uomini di cultura di tipo nuovo. Il perenne stato d'eccezione intellettuale, in cui poi, per scelta, ci è piaciuto vivere, parte di lì. Voglio fare l'elogio di quella figura, oggi maledetta, dell'intellettuale organico, di partito. Solo chi non è stato capace di esserlo, o chi lo ha vissuto in modo subalterno, per animo opportunista, o per povertà mentale, può adesso mostrare un pentito disprezzo. Una figura nobile, a suo modo tragica, nell'esercizio di una libertà dentro una comunità, tra pesanti vincoli autoimposti e riconosciuti bisogni portati dall'esterno. Sapere che il tuo lavoro intellettuale, lo specialismo della tua ricerca, la verità che cerchi nell'analisi e nella riflessione, non serve a te, ma deve servire a quello strumento collettivo che rappresenta una parte della società: è disprezzabile questo? È più nobile scrivere un libro pensando alla probabile composizione di una prossima commissione di concorso? Eppure fummo noi, da tutt'altro punto di vista, i primi critici innovativi di quella organicità dell'intellettuale al partito. Perché il vero tipo nuovo, per noi - scoperta lancinante del periodo - era in realtà l'intellettuale organico di classe, in rapporto critico, quando necessario, con il partito.

Una rivoluzione delle forme intellettuali Questo rinvia all'indietro, a una appartenenza più profonda, sociale e proprio perciò politica in senso specifico, senza che i due livelli mai perfettamente coincidano, donde il quotidiano difficile esercizio di una reciproca autonomia: questa la scoperta definitiva, che poi si è declinata in tanti singolari modi. Fu una scelta di vita intellettuale. La definizione della propria «parte», non come valore ma come fatto, non come forma rappresentativa di un interesse ma come direttamente quell'interesse, che poi aveva bisogno semmai di una rappresentazione, 12

senza però con essa completamente identificarsi. Questo risalire alla fonte della propria ragione di fare lavoro culturale, fu il passaggio fondamentale che la realtà della grande fabbrica moderna operò, provocò, nel pensiero, e nella maniera di pensare, al momento delicato del salto di una crescita formativa. Fu a suo modo una rivoluzione delle forme intellettuali. Perché altrimenti avremmo tanto amato le avanguardie artistiche primo-novecentesche, se non per il fatto che ritrovavamo lì un modello da applicare in un campo dove non era stato mai applicato, cioè la politica come arte regia di gestione /trasformazione della società? Un punto veramente c'era, di verifica dell'impatto rivoluzionario tra avanguardie e storia, ed era l'Ottobre bolscevico. Punto da approfondire- operaismo e bolscevismo - in una analisi/riflessione a parte. E c'è chi potrebbe farlo. Punto non secondario. E dico subito, anticipando, e senza parlare per altri, che il mio operaismo fu di segno comunista. Nemmeno il primo operaismo «Quaderni rossi»+ «classe operaia» - ebbe questo segno come dominante né come maggioritario. Operaismo e comunismo è semmai un mio personale problema. Ma devo concludere il discorso sullo stato d' eccezione nel lavoro culturale dell'intellettuale organico della classe. [impatto diretto, immediato, frontale, è tra pensiero e storia. Ciò che è: ecco quello che va sottoposto ad analisi, riflessione, considerazione, a critica e a giudizio. Ciò che è stato detto e scritto su ciò che è, viene dopo: e diventa importante, essenziale, a condizione che ne fai puro, cinico, strumento, nell'elaborazione del tuo pensiero. La differenza nelle modalità di quello che significa «studiare» è radicale. Il primo corpo a corpo della teoria non è con l'altra teoria ma con la storia. Quella che sembrava una curiosa stramberia, o quello che appariva come un vezzo aristocratico, la mancanza di note a pie' di pagina, aveva questo significato. Non da libro a 13

libro, non da concetto a concetto, procede il pensiero, ma dalla nuda storia, che è il contrario della nuda vita, perché riguarda i movimenti collettivi di categorie incarnate, il concetto appunto che si svuota di pensiero e si fa storia viva, vicenda sociale diffusa. Questo per dire che non stiamo parlando di biostoria come oggi si parla di biopolitica. Allora si pensava alla forza-lavoro che nella lotta si fa classe operaia, al valore che, attraverso il plusvalore, e quindi il profitto, si fa classe capitalistica. Quando si dice storia si dice appunto le classi, le nazioni, gli Stati, le razze, le religioni, e i conflitti che si scatenano, le prospettive immaginabili che si aprono, le strade percorribili che si chiudono, i tentativi, gli esperimenti, i fallimenti, ma anche i successi, gli sviluppi, i salti, in mano a forze, potenze, che trovano di fronte a sé difese, resistenze, e cioè potenti contro-forze, con cui il rapporto si decide o sul tavolo della trattativa o sul campo di battaglia. La pratica di questo pensiero politico risulta impropria all'ordine delle tradizioni culturali, irriconoscibile e quindi non riconosciuta. La figura di intellettuale che la fa propria risulta eccentrica, eccessiva, anormale, marginale, ma la parola che tutte riassume è perturbante. Non si può dire che non sia alta cultura, ma si può sempre dire che sia cultura altra, impropria perché non propria, per i detentori, i possessori, della cultura ufficiale. E allora ogni volta devi, non gridarlo sui tetti, ma coltivarlo in interiore homine, il principio che dice «tu sei quello», per scomodare allegoricamente termini vedico-biblici. Che vuol dire questo: non voglio conoscere per conoscere, ma per rivolgere ciò che è, possibilmente nel suo contrario. Non studiare per arricchire il patrimonio di sapere dell'umanità, parola priva di senso nell'attuale condizione di umanità divisa, ma per dare armi culturali in mano a chi vuole sovvertire l'ordine esistente delle cose.

Il modello della lotta operaia di fabbrica - organizzarsi, insieme, per raggiungere con determinati strumenti determinati obiettivi - è diventato un modello di lavoro intellettuale, e ha dato senso a un che fare del pensiero che poi non ha avuto più bisogno del riferimento operaista, per svolgersi, nell'esercizio di una libertà assoluta, su altri piani e terreni e compiti. Ecco perché ha sbagliato chi ha visto in quell'approccio una sorta di filosofia della storia con al posto dello Spirito hegeliano il Soggetto operaio. Non ho mai più dimenticato la lezione di vita appresa ai cancelli delle fabbriche, quando arrivavamo noi, coi nostri pretenziosi volantini che invitavano alla lotta generale anticapitalistica, e la risposta, sempre la stessa, delle mani che prendevano il pezzo di carta e dicevano ridendo: che sono, soldi? La «rude razza pagana» era quella. Non era l'adesione al borghese enrichissez vous, era la parola salario come replica politica oggettivamente antagonistica alla parola profitto. La luminosa frase di Marx: il proletariato emancipando se stesso emanciperà tutta l'umanità, la rileggemmo oscuramente così: la classe operaia facendo il proprio parziale interesse metterà in crisi il rapporto generale di capitale. Da Marx avevamo ben appreso il nocciolo duro del suo pensiero: per fare teoria rivoluzionaria bisogna prima fare critica dell'ideologia. La parola d'ordine «il salario come variabile indipendente» non è una legge generale della lotta di classe, ma accadde a essa, in quegli anni Sessanta, di trovarsi a essere nel medesimo tempo economicamente opportuna e politicamente efficace. I..:autunno caldo del '69, a chiusura del ciclo, certificò, una volta tanto a favore dei lavoratori e a danno dei padroni, la vittoria dei fatti sui valori. E a proposito di fatti e valori, dall'operaismo è scaturito, tra le altre cose, anche un modo nuovo di fare sociologia: l'avalutatività metodologica weberiana andava a intrecciarsi con

la politicità dell'analisi marxiana. In questo senso, a rivedere oggi le cose, tra «Quaderni rossi» e «classe operaia», tra Vittorio Rieser e Romano Alquati, c'era minore distanza di quanto allora sembrasse. Ed è stato riconosciuto che la sociologia italiana, in generale, deve qualcosa al passaggio operaista. Così è vero che lì si cominciò a sperimentare un modo nuovo di scrivere storia: quando, sul n. 3 di «Quaderni rossi», Coldagelli e De Caro pubblicano Alcune ipotesi di ricerca marxista sulla storia contemporanea aprono una finestra di critica dell'ideologia applicata alla storiografia italiana di sinistra, che darà i suoi frutti. Gaspare De Caro dissacrerà le icone di Gobetti e Salvemini. Umberto Coldagelli si disporrà alla sua lunga marcia nella storia politica e istituzionale francese. Sergio Bologna guarderà alla Germania, fino allo studio su Nazismo e classe operaia, a cura della sua LUMHI (manifestolibri, Roma 1996), mentre sempre aveva osservato l'Europa, fin dalla rivista «Primo Maggio». Questo per dire della fecondità ermeneutica, di cultura generale, che ebbe la parzialità di quel punto di vista operaio, in quanto non invenzione semantica, ma in quanto scoperta concettuale.

La cultura politica come professione Non dunque da una filosofia della classe operaia, ma dalla contingenza di quella figura storicamente determinata che era l'operaio-massa, fu possibile scorgere e definire un punto di vista sul passaggio di storia della lotta di classe, in Italia e in Occidente. Punto di vista: cioè l'esatta posizione di parte di cui dovevi farti interprete, funzione, strumento. Lezione di scuola: gli operai, a quel punto dello sviluppo capitalistico, non erano più classe generale, erano classe parziale. Quanto più il capitale si fa general intellect, tanto più gli operai si fanno potenziale forza sovversiva, per il solo fatto di essere interesse parti-

colare, e non di ceto, non di corpo, non di gruppo, né di status, ma di classe, cioè organizzata forza di conflitto che lotta e comanda su quel terreno che la produzione neocapitalistica ha aperto tra fabbrica e società. Con loro, solo con loro, puoi finalmente fare a meno di sbandierare valori universali, perché dal loro punto di vista questi sono sempre ideologicamente borghesi. Dalla loro parte puoi invece sapere dove e come devi colpire. La lotta di classe operaia è stata civilizzazione della guerra. Si è posta allo stesso altissimo livello a cui si era posto lo jus publicum europaeum. Dobbiamo capire che quando si parla di operai in fabbrica si sale la scala delle esperienze storiche, si arriva a terreni di eccellenza del conflitto sociale, e si incontra per questo la grande cultura. Ecco perché, entro la loro tutto sommato breve apparizione simbolica - da poco prima la metà dell'Ottocento a poco dopo la metà del Novecento - la funzione intellettuale che si è sintonizzata sul loro punto di vista, ha avviato un processo al tempo stesso di specializzazione e di politicizzazione: la buona conoscenza per una migliore produttività del conflitto. La cultura politica diventa professione, come lo diventa la politica sulla base del capitalismo moderno. Beruf dunque anche vocazione. Essere stati operaisti ha fatto diventare ognuno di noi un totus politicus originale. Perché la politica al posto di comando esce dalla fabbrica moderna come un prodotto elaborato tecnicamente da mani operaie. Affiora qui la necessità di un passaggio di narrazione biografica, ambiguamente da tenere incerto tra livello personale e livello generazionale. Mi faccio per un momento maldestramente storico, degli eventi oltre che delle idee, con l'intenzione di contribuire a chiarire i non facili affondi precedenti del discorso e ancor più quelli seguenti. Scorrendo le « Testimonianze» di questa esperienza, emerge con prepotenza una data-chiave, un 17

transito strategico, per ognuno e per tutti, il 1956. Tante cose insieme, quell'anno «indimenticabile», ma qui va sottolineata l'irruzione di una rottura epistemologica. Il passaggio, il rovesciamento, da una verità di partito a una verità di classe, trova lì il suo inizio. Dal XX Congresso ai fatti d'Ungheria fu un seguito di salti nella coscienza di una giovane generazione di intellettuali. Benedetta la Storia, quando con i suoi passi da gigante travolge la maledetta quotidianità della cronaca. Ho prima intuito, poi pensato, che sia giunto a fine lì il «grande Novecento». Non a caso l'ultimo dei cosiddetti «grandi», che avevano concluso, insieme e l'uno contro l'altro, il secondo atto della tragedia delle guerre civili mondiali, veniva sbalzato giù dal suo monumento. Quella statua rotolò sulle nostre teste. E nulla del nostro pensiero fu più come prima. Ci svegliammo dal sonno dogmatico, quello dello storicismo, il sostantivo unico, che poteva aggettivarsi come materialista o idealista, ma sempre quello era. Imperava in Italia, è noto, la linea De Sanctis-Labriola-Croce-Gramsci: un modello ineguagliato dell'esercizio di egemonia culturale per fare politica. Qui intorno, e per il carisma di Togliatti, si era coagulato quel formidabile gruppo dirigente del PCI, all'opera nel dopo-guerra e oltre. I membri della Direzione e della Segreteria del partito li ritrovavi all'Istituto Gramsci. Non scrivevano libri, tanto meno se li facevano scrivere da improbabili ghost-writer, ma i libri li leggevano. E tra un fare e l'altro discutevano con chi pensava.

La rottura epistemologica del '56 Arrivò a un certo punto dalla Sicilia, dove insegnava emarginato a Messina, un personaggio anche fisicamente strano, lungo, segaligno, col naso adunco e una faccia da sparviero. Parlava difficile, scriveva ancora più difficile. Ma Della Volpe smontava, pezzo per pezzo,

senza curarsi di obbedienze ortodosse, la linea culturale dei comunisti italiani. Confessiamolo: per liberarci dal nazional-popolare ci rimase attaccato, con la sua influenza, un certo aristocraticismo intellettuale. Essenziale diventava il primato del comprendere sul convincere. La fatica del concetto chiedeva la difficoltà della parola, non il contrario, come oggi, la facilità del discorso che fa a meno del pensiero. Prowidenziale allora questo approdo. Prezioso ancora di più oggi, al tempo dell'assoluto trionfo della volgarità mediatica sul linguaggio politico. Fu di fatto una scuola di ascetico rigore intellettuale, pagata con un isolamento solo un po' autoreferenziale. Scienza contro ideologia, questo il paradigma. Marx contro Hegel, come Galilei contro gli scolastici e Aristotele contro i platonici. Poi superammo, ampiamente, anche questo schema, nei contenuti, mantenendo la lezione di metodo. Si trattò comunque allora di una rivoluzione copernicana. A rifletterci, fu proprio su quella base che dal 1956, mentre altri, i più, riscoprivano il valore delle libertà borghesi, a noi, pochi, fu data l'opportunità di scoprire, da lì fino a oggi, a passi successivi, per prova ed errore, l'orizzonte della libertà comunista. Questo tema, teorico, strategico, sarà da approfondire in altro luogo. Il controverso delicato punto pratico del discorso è un altro. Faccio un accenno vago, qui adesso, a un errore tattico, esistenziale, un punto di destino politico: non saprei definirlo altrimenti. È, sì, solo biografia di sé e la stessa amicizia politica, di gruppo, non c'entra niente. È nota - viene fuori da molte testimonianze qui raccolte e da altre voci in altri luoghi- la mia posizione di allora. Non ho francamente mai pensato che potessimo organizzare noi gli operai per scagliarli, duri e puri, contro il capitale. In mezzo c'era un passaggio che non si poteva saltare, anche se essere operaisti, allora e dopo, ha sempre simbolicamente significato sostenere che si trat-

tava di saltare questo passaggio. È una contraddizione che l'esperienza si è portata dentro, dalla formazione alla dissoluzione. In realtà, l'organizzazione c'era: non era quella della classe operaia senza alleati, ma quella con alleato il popolo lavoratore; nella forma del sindacato e del partito esistenti. Qui c'era un varco da attraversare, e il problema era di scegliere la via che portava dall'altra parte. La mia idea era che, meno con «Quaderni rossi», molto di più con «classe operaia», da quella.full immersion in una esperienza di classe, dovesse emergere, e formarsi, e costruirsi, un gruppo dirigente, un modello di ceto politico alternativo a quello del movimento operaio, cosiddetto ufficiale. Formarsi qui, per poi esprimersi lì. La svolta interna alla vicenda di «classe operaia», con l'editoriale 1905 in Italia, forzava questo passaggio. Simbolico era l'evento della scomparsa di Togliatti. Con una buona dose di schematismo leniniano, vedevo in progressione esaurirsi la funzione del prestigioso gruppo dirigente togliattiano, man mano che veniva portata a termine la fase della rivoluzione democratica. Si trattava adesso di aprire la fase della rivoluzione socialista, guidata dai com~nj_?ti, sull'onda, sulla spinta delle grandi lotte operaie degli anni Sessanta: in una situazione internazionale mutata questo è importante sottolinearlo - con l'entrata in crisi della guerra fredda, l'avvio della distensione tra i blocchi e della coesistenza pacifica tra i sistemi. Per questo, ci voleva un'altra leva di professionisti della politica, armati di un'altra tradizione culturale, tutta da costruire, con strumenti intellettuali nuovi, e insomma una figura aggiornata al neocapitalismo della figura dello specialista + politico, che sapesse giocare, con abilità e maestria e maturità, dentro la contingenza del disordine che stava per venire. Il limite del '68 fu quello di essere un movimento spontaneo: di qui il suo carattere effimero, la sua funzione nel medio-lungo pe20

riodo ordinante, modernizzazione senza rivoluzione. [operaismo è stato, almeno in Italia, una premessa fondante del '68, ma è stato al tempo stesso anche una sua sostanziale critica anticipata. Il '69 ha corretto molto, e ha molto di più spaventato. Il 1969 è il vero annus mirabilis. Il '68 è nato a Berkeley, è stato battezzato a Parigi. In Italia è arrivato ancora giovane e già maturo, in mezzo tra operai e PCI, proprio dove eravamo collocati noi. [operaismo ha spinto il '68 al di là delle sue premesse. Nel '69 non era questione di antiautoritarismo, ma di anticapitalismo. Operai e capitale si trovarono materialmente gli uni di fronte all'altro. La violenta reazione di sistema alla spallata dell'autunno caldo ha travolto il movimento o, è la stessa cosa, lo ha deviato. Tutto questo era già scritto nella insoluta contraddizione tra lotte e organizzazione - nuove lotte, quindi nuova organizzazione - che aveva attraversato la parabola del primo operaismo. Maldestro fu ogni tentativo di collegamento con la vicenda interna del PCI post-togliattiano, nello spazio che va fino all'XI Congresso. Se si scorrono i numeri di «classe operaia», si trova più polemica con le risposte amendoliane che adesione alle domande ingraiane. No al partito unico della sinistra, ma niente sul possibile nuovo PCI. [eccezionale materiale umano su cui ritornerò - protagonista di quell'eccezionale esperimento che fu l'operaismo, non era fatto, non era organicamente adatto, per un gioco politico che dovesse passare alla prova delle proprie ipotesi su un terreno diverso da quello da se stessi scelto. E si era già messo in moto quel meccanismo perverso, dagli esiti devastanti, come si vide negli anni Settanta: o dentro o fuori, una logica per l'organizzazione e una logica per il movimento, fino alla follia dell'azione clandestina che ripeterà i peggiori vizi dei poteri occulti. Il «dentro e contro», quel sofisticato, forse troppo, complesso principio elaborato 21

nella forma classica di un «operaismo politico», non trovò l'occasione per radicarsi in individui in carne e ossa e rimase un enunciato di metodo, indispensabile per capire, inefficace per agire. Il perché, stiamo ancora qui a chiedercelo. Non è vero che non serve più saperlo. Il passato non passa soltanto in un caso: quando viene a mancare la sua elaborazione nel pensiero. Allora si deposita lì come detrito, che chiude il passaggio e ti costringe a fare una svolta mentre vorresti fare un salto. Esattamente ciò che è awenuto. Sto parlando infatti di cronaca vissuta e di storia subìta.

Un errore nella tattica È rimasto, senza soluzione, il dubbio sulla scelta,

non la più giusta ma la più utile, di comportamento politico. È vero che a volte poco dipende da te e molto dalle circostanze, dalle occasioni, dalle opportunità, dagli incontri. Una trama oggettiva di rapporti inconsciamente ti condiziona, al punto che non c'è scampo: è stato così, perché non poteva che essere così. Ma c'era, aperta, l'altra via, di crescita politica all'interno dell'organizzazione di partito. La discontinuità del '56 offriva la possil?_ilità delle due vie: quella della contrapposizione e quella ~ella mediazione nei confronti del gruppo _dirigen_te del_~S:I, tra l'altro in fase di «rinnovamento nella continuità». Che cosa comportava questa second~ straaa? Componava una lunga marcia dentro l'organizzazione, la rinuncia a una piega etica del discorso politico, un sacrificio culturale sull'altare del primato della prassi, l'esercizio di quella «dissimulazione onesta», che poi ritroverò, categoria politica cinque-seicentesca, come nobile antefatto di una inutilmente disprezzata «doppiezza» togliattiana. Togliatti era stato, nella mia personale formazione, magister politicus per eccellenza. Mi sono chiesto se si poteva essere togliattiani, con un'altra cultura. E mi sonori22

sposto di sì. La politica ha una sua autonomia anche dall'impianto culturale che la sorregge e a volte la giustifica. La cultura dell'operaismo, di cui parlerò, era peculiarmente compatibile con la pratica del realismo politico. Del resto, il seguito del discorso ha teso a questa composizione, riuscendo nel capolavoro di non convincere né gli operaisti né i realisti. Anche da qui il dubbio che la strada fosse quell'altra, dicendo un po' di meno e facendo un po' di più. Ci siamo lasciati prendere dall'affascinante gusto del pensare alternativo. Si può spendere una vita in questo. Ma il risultato - che non riguarda il proprio soggettivo sviluppo intellettuale, riguarda piuttosto il contributo allo sviluppo oggettivo del movimento - è stato scarso, se non nullo. Un'ombra accompagna questo inquietum cor nostrum post-maturo, una melanconia politica che ormai non ci lascerà più: la bruciante sensazione di non aver dato abbastanza a chi si doveva tutto, la tua parte, quella da dove vieni, popolo lavoratore che, nello sviluppo umano dalla terra alla fabbrica, ha costituito la nostra Welt von gestern, oggi, il mondo di ieri, un mondo-Civiltà, un mondo-Storia. In La politica al tramonto a un certo punto compariva una frase, una di quelle che anche gli amici più cari, proprio perché ti vogliono bene, fanno mostra di non aver letto. Diceva: «Avevamo ragione noi, giovani intellettuali comunisti, a stare dalla parte degli insorti ungheresi. Ma - ecco il paradosso della rivoluzione in occidente non aveva torto la ragion di Stato socialista a chiudere la partita con i carri armati». Il discorso precedente precipita in questa cosa qui. Sciogliere questo enigma edipico del movimento operaio novecentesco è compito di un pensiero profetico. «Era» compito, puntini puntini. Adesso non si sa più nemmeno bene se ne vale la pena. È facile scegliere tra ragione e torto. Il difficile è CJ!.lando devi scegliere tra due ragioni. Tutte e due interne alla tua 23

parte. Il dilemma è se seguire la passione dell'appartenenza o il calcolo delle possibilità. Se la politica è sempre - come io penso- guerra civile, nel senso di guerra civilizzata o civilizzazione della guerra, allora il risultato dell'agire è sempre legato al rapporto delle forze. In genere, vince chi possiede soggettivamente l'equilibrio oggettivo che si stabilisce tra il momento e il tempo, tra la fase e l'epoca. Mai identificare, mai separare l'una e l'altra dimensione. Le due ragioni del '56 sono anche i due torti, tra chi vedeva solo il possibile sviluppo di quello che si chiamerà un «socialismo dal volto umano» e chi misurava solo il possesso immediato delle casematte nel fuoco della contrapposizione tra i blocchi. Una cosa è certa. Dall'interno dell'operaismo è venuta una delle più pregnanti analisi del tentativo novecentesco di costruzione del socialismo, quella di Rita di Leo. Analisi isolatissima: troppa la coincidenza di verum e factum perché potesse essere accolta dalle contrapposte ideologie dominanti. Operai e sistema sovietico (Laterza, Bari 1970) era dedicato a Raniero Panzieri: titolo e dedica mostrano come a partire dal punto di vista operaio diventasse possibile esporsi a capire ben più che la fabbrica capitalistica. Veniva criticamente messo in gioco l'esperimento politico operaio per eccellenza. Il discorso viene fatto qui, perché è la naturale premessa di quelle che saranno le classiche divisioni degli anni Sessanta/Settanta tra istanze operaistiche e istanze politicistiche; schematizzando, ma non più di tanto, tra le ragioni della classe e le ragioni del partito. Dove il modello, come sopra, è lo stesso: mai identificarle, mai separarle. La fondamentale conseguenza di quell'esperienza, di conricerca, di intervento, di analisi, di riflessione, fu che fece maturare la necessità strategica, armata di tattica, di tenere insieme, distinte, con tutte le ritornanti contraddizioni, le due ragioni. Lectio perennis per il seguito, tutto intero, del discorso, e anche del-

l'atteggiamento.La mia tesi è questa: la scoperta teorica dell'autonomia del politico awiene dentro l'esperienza pratica dell'operaismo. Solo la sua elaborazione storica, e storico-concettuale, awiene dopo. E con l'elaborazione, la consapevolezza di aver mancato l'obiettivo della sintesi del «dentro e contro». A volte penso: abbiamo in fondo solo anticipato, in un modesto tentativo soggettivo e collettivo, una più generale sconfitta che awerrà sul campo dei rapporti sociali e dei rapporti internazionali. Fu quel miglioramento prima della fine, tipico di ogni malattia mortale. Ripeto allora una cosa che mi pare di aver detto altrove: l'operaismo degli anni Sessanta non apriva un'epoca, la chiudeva. Era un estremo esito, che scaturiva dall'età delle guerre civili europee e mondiali. Radicalizzava il conflitto dicotomico, solo lo spostava dal livello statuale a quello sociale, e di qui, proprio di qui, recuperava il decisivo discorso sulla politica moderna. Non c'era, in quel momento, tutta intera la coscienza del problema. Si è formata, ed è cresciuta a poco a poco, in lunghi anni di solitario pensiero. Lo so che così si carica di un'ambizione eccessiva una piccola esperienza, ma scorrete i nomi delle persone allora coinvolte e chiedetevi perché da lì presero le mosse quelle personalità che, tra loro in divergente accordo, impiantarono una presenza politica nella vita intellettuale italiana, e non solo in questa. Qualche motivo deve esserci, da andare a cercare nei contenuti e nelle forme dell'esperienza stessa.

La solita passione, il solito realismo Lì intorno si era creata - primi anni Sessanta - uno spontanea aggregazione di gruppo. Non nel senso in cui i «gruppi» si organizzarono e a loro modo si istituzionalizzarono dai primi anni Settanta. Era un modo originale, del tutto informale, di ritrovarsi, politicamente e culturalmente, insieme. È singolare come sia rima-

sto nel tempo una sorta di reciproco affetto, anche con i compagni che non condivisero il percorso da «Quaderni rossi» a «classe operaia». Penso alla profonda simpatia che mi suscita ancora il ricordo della qualità umana di persone come Bianca Beccalli, Dario e Liliana Lanzardo, Mario Miegge, Giovanni Mottura, Vittorio Rieser, Edda Saccomani, Michele Salvati, e altri che forse colpevolmente tralascio. «Quaderni rossi» era un bellissimo titolo di rivista, di rara semplicità evocativa, simbolicamente per sé eloquente. Nell'idea di Quaderno c'era tutta la volontà di ricerca, di analisi, di riflessione, di studio. Nel rosso della copertina c'era il segno di una scelta, di una decisione, di un impegno, di un voler essere così e non altrimenti. Cominciare a scrivere, e quindi a leggere, nero su rosso, fin dal frontespizio, fu un'invenzione geniale di Panzieri. Raniero era uno di quegli uomini, cui il destino concede di passare troppo in fretta su questa terra. Quanto basta, però, per lasciare una traccia. A ricordarlo oggi, a ripensarlo, viene la nostalgia di un'umanità politica perduta. Non era, per natura, ma divenne, per circostanze date, un eroe romantico. Da organizzatore del movimento operaio, volle farsi organizzatore di cultura operaia. Ma non sapeva organizzare proprio niente. Era qui il fascino dei suoi limiti, e quella simiglianza in questo a noi, a me in particolare, che ce lo faceva sentire vicino. Il suo Marx era un Marx luxemburghiano, non leniniano. Come Rosa, leggeva Il Capitale e immaginava la rivoluzione. Non come Lenin, che leggeva Il Capitale per organizzare la rivoluzione. Non era, non avrebbe mai potuto essere, un comunista. La sua tradizione era quella del sindacalismo rivoluzionario, con uno sbocco da socialismo anarchico, che il vecchio Psi si portava storicamente in corpo. Ma «controllo operaio» fu una parola magica, che ci svegliò daltaltro sonno dogmatico, quello del partito di

tutto il popolo. Camminare con Raniero, di notte, per le strade di Roma o di Milano, non dell'odiata Torino, realizzava l'idea di Benjamin, che a perdersi nelle vie di una città ci vuole arte. Arte ci voleva anche per perdersi nelle vie della Polis, cioè della politica. A imparare quest'arte, da allora, ce l'abbiamo messa tutta. Più volte ci siamo persi e ritrovati, sempre, su quel bordo, senza mai passare il confine che divide una parte da un'altra parte. I padroni illuminati li abbiamo preferiti, ma per combattere meglio la guerra che ci interessava. La democrazia progressiva non l'abbiamo amata, ma utilizzata come terreno più avanzato di lotta. I riformisti della sinistra li riconosciamo a naso come seri funzionari del general intellect capitalistico, oggi a livello euro-mondiale. E la spinta movimentista l'apprezziamo come passione, non come fatto, evento dell'immaginario della politica, pensando sempre questa, e praticandola, come ben più seria cosa. Quest'ultima, la politica, è il nostro ambito specifico, declinata per sé, senza bisogno dell'apporto di altre discipline, filosofia e scienza comprese, senza il ricorso a motivazioni di altro genere, quelle genericamente umanitarie incluse, senza l'aggiunta di finalità altrimenti giustificate dalla pappa del cuore delle etiche sull'altro. Sull'idea e sulla pratica della politica avvenne il dissenso con Panzieri e con i sociologi dei «Quaderni rossi». Non su altro. Il primato della politica è già presente, fin dal primo numero, nell'iniziativa di fare «classe operaia», «giornale politico degli operai in lotta». Il grido di Lenin in Inghilterra- prima gli operai poi il capitale, cioè prima le lotte operaie poi lo sviluppo capitalistico - ebbene, questo è politica. E che cos'altro può essere, visto che è volontà, decisione, organizzazione, conflitto? Passare dall'analisi della condizione operaia all'intervento nella rivendicazione dei suoi interessi, di classe, fu il

senso del passaggio, del salto, dalla rivista al giornale. «classe operaia» portava in esergo sul rosso della testata a sinistra la frase di Marx: «Ma la rivoluzione va fino al fondo delle cose. Sta ancora attraversando il purgatorio. Lavora con metodo». Die Revolution ist grundig. Togliatti traduceva/interpretava: va fino al fondo delle cose. Non male. Quell' aber all'inizio era decisivo. Un dubbio sostanzioso. Oggi non sappiamo più se lavora con metodo. Non sappiamo nemmeno se ancora lavora, se fa anch'essa lavoro precario, o se magari è già in pensione. Certo è riprecipitata all'inferno, demonizzata e maledetta: confermando così la tesi controrivoluzionaria e apocalittica che non c'è storia della salvezza, come non ci sono domani che cantano, ci sono, dopo le età della speranza, eterni ritorni, che sono sempre ritorni indietro, cadute e decadenze. A noi è capitato di vivere questi tempi, e non gli altri, e amen. Nelle età di lunga e lenta restaurazione ci sono sempre, e ancora di più, i fuochi fatui delle illusioni rivoluzionarie. Marx, tra 1848 e 1871, ne aveva visti alcuni. A noi, nella nostra piccola cosa, parve di vederne altri. Questa sarà poi, a suo modo, una discriminante di selezione nel gruppo di persone che faranno sul campo l'esperienza operaista. La famosa rottura dentro «Quaderni rossi», di cui tanto si è parlato e di cui così tanto si parla anche in questo libro, in sintesi si può leggere oggi come un'incompatibilità di due figure come Panzieri e Alquati. Si incontrarono, in una contingente conricerca, ma non potevano convivere. Romano Alquati era il disordine intellettuale che si fa genio. Vedeva meno quello che c'era. E più quello che stava per esserci. Ci raccontava che quando, ormai in età matura, ebbe la possibilità di comprarsi degli occhiali da vista, solo allora si accorse per la prima volta che i prati erano verdi. Inventava e così indovinava. Era, diceva di essere, sempre un passo più avanti. Ma i com-

portamenti di lotta delle giovani leve operaie entrate in FIAT, ce li fece conoscere lui. Trascinava, verso dove era meno importante. Insomma, mettemmo insieme una bella gabbia di matti. Nei nostri incontri, metà tempo si parlava, metà tempo si rideva. E devo dire qui una cosa. Di queste persone, che ho incontrato e frequentato in «Quaderni rossi» prima, in «classe operaia» dopo, io non ho più trovato, se non in alcuni casi di militanza di base del PCI, un valore umano più alto, un più disinteressato agire pubblico, una più completa assenza di ambizione personale, un più semplice sentimento di adesione a un impegno e, non da ultimo, una più disincantata autoironica condivisione per un'impresa collettiva. I compagni di «Quaderni rossi» sono più noti e sono siamo - stati perdonati dalla storia nemica che ne è seguita e accolti nell'olimpo delle buone intenzioni. I compagni di «classe operaia», molto meno citati e un pd maledetti, hanno avuto in sorte di essere riconosciuti come tanti piccoli cattivi maestri. Li ricordo con infinita nostalgia: da Claudio Greppi a Mauro Gobbini, da Monica Brunatto a Pierluigi Gasparotto, da Massimo Paci a Gaspare De Caro, da Giovanni Francovich a Lapo Berti, da Pietro Bianconi a Enzo Grillo (il traduttore dei Grundrisse), da Francesco Tolin a Luciano Ferrari-Bravo, da Giairo Daghini a Ferruccio Gambino,_ da Emilio Soave a Guido Bianchini, da Anna Chicco a Mario Mariotti, da Alberto Paolucci a Luciano Arrighetti, da Alberto Forni a Giorgio Franchi. E, anche qui, così elencando avrò certo commesso l'errore di dimenticarne tanti altri. Un «modo nuovo di fare politica», queste persone non lo avevano teorizzato, l'avevano praticato. Ne veniva fuori quel misto di generosa passione e di lucido realismo che, quando si incarna in un materiale umano di qualità, produce la «grande politica». Non la produsse allora, e questo va ancora spiegato. Mi è capitato di dire

che mancava «l'epoca». L'idea è stata contestata, ma confermo. Le amare osservazioni di poco sopra lo provano. Con gli anni Sessanta, siamo già in un tempo minore del Novecento, che solo la miseranda deriva dei decenni a seguire, che ci accompagneranno sino alla fine del secolo e oltre, ce li fa riguardare come una miracolosa stagiorie di nuovi inizi. La differenza qualitativamente determinante che passa tra contestazione e rivoluzione andrebbe indagata più a fondo. Un conto è fare critica del potere, un conto è metterlo in crisi. Le dimostrazioni a contrario funzionano nell'ermeneutica storica. Il fatto che l'emancipazione degli individui abbia portato alla restaurazione, con riforme, del vecchio rapporto di forza complessivo, tra le classi, tra i sessi, tra le generazioni, questo è quello che deve essere spiegato. Tutti noi siamo state vittime sacrificali di questa che non è un'anomalia, ma una regolarità della politica. Capirla non basta per rovesciarla. Ma capirla è necessario per rovesciarla. Tutto il discorso sull'autonomia del politico, che dall'operaismo nasce e si dispiega, questo diceva. Le lotte operaie determinano lo sviluppo capitalistico. Ma se su questa determinazione strutturale non si apre soggettivamente_ un processo rivoluzionario guidato e organizzato, che rovescia appunto il rapporto delle forze, lo sviluppo capitalistico utilizzerà, per sé, le stesse lotte operaie. L'equazione con questo risultato è addirittura più facile quando si tratta di lotte genericamente civili. Per questa via, l'intero sistemico apparato di dominio si riposiziona, si riconverte, si democratizza, cioè si stabilizza. Il potere si fa di nuovo, cioè in forme nuove, autoritario. Confesso di non riuscire tuttora a spiegarmi il seguente paradosso: le lotte dell'emancipazione, culturalmente più arretrate, hanno provocato conseguenze sociali favorevoli alla parte lavoro, riflesse nella giurisdizione, nella isti30

tuzionalizzazione, nell'organizzazione, costringendo la parte capitale a concessioni, basti pensare al Welfare, agli ordinamenti costituzionali, al ruolo dei sindacati e dei partiti; le lotte per la liberazione, culturalmente più avanzate, hanno lasciato dietro di sé una rimonta e una rivincita capitalistiche, il pensiero unico di una, e una sola, forma sociale possibile, una neodittatura democratica, padronale e patriarcale, la subordinazione di tutto ciò che è umano a un'idea e a una pratica universale borghese della vita. Forse che le prime erano giuste e le seconde sbagliate, come dicono insieme i reazionari e i moderati? Sicuramente, no. Credo che dobbiamo cercare in un'altra direzione. Nelle lotte per l'emancipazione era presente e agente la forza di un movimento operaio organizzato, nelle lotte per la liberazione era presente e agente la crisi di questa for~a. E, appunto paradossalmente, quelle lotte hanno accelerato questa crisi. Ha funzionato così anche l'operaismo? Punto di domanda che lascio in sospeso. Una sola raccomandazione per un seguito dell'analisi/riflessione. Qui il contesto sociale-politico va profondamente intrecciato con la situazione internazionale, nell'aggiustamento geopolitico che attraversa tutta la seconda metà del Novecento. Dal 1956 al 1991 c'è un mondo che aspetta ancora di essere scoperto. È storia viva, e storia nostra. Non si verrà a capo di nulla senza attraversare, con il pensiero, questo futuro passato. In realtà, per tornare al «caso italiano», c'era un pesante dato di fatto, che non si poteva eliminare con un atto di volontà politica. Nella composizione generale della soggettività alternativa, tipica degli anni Sessanta, la stragrande maggioranza delle persone fisiche si era formata fuori ed era cresciuta contro le forme, ufficialmente e istituzionalmente, organizzate del movimento operaio, sindacati e partiti. Qui stava la novità dell'even31

to, qui il limite del suo impatto. Si faceva una differenza tra sindacati e partiti. Ai primi veniva concesso ancora un credito, perché più vicini alle istanze di base, più sensibili alle rivendicazioni, più trascinati dalle lotte. l.'.apertura di una vertenza per il contratto collettivo di una categoria di lavoratori diventava la straordinaria occasione per l'espressione di un agire pubblico, visibile a livello nazionale. La centralità politica della classe operaia funzionava così. Era, ogni volta, periodicamente, il riproporre all'agenda istituzionale della vita del paese l'invito brechtiano agli antifascisti di Parigi: compagni, parliamo dei rapporti di produzione! Il PCI non assolse allora alla sua naturale funzione, quella di tradurre in grande politica le grandi lotte operaie dei primi anni Sessanta. La verità- malgrado si pensi ordinariamente il contrario-è che quello che si chiamava ancora «il partito della classe operaia» era più disponibile ad ascoltare il '68 degli studenti che il '69 degli operai. Anche qui, la prova ex-post: il rinnovamento di quei gruppi dirigenti salì, negli anni seguenti, dalle lotte studentesche molto più che dalle lotte operaie. Esattamente, come accadde per l' establishment di sistema. Il partito e il paese subivano un destino comune, come del resto era negli intenti delle due ideologie complementari, quella della «classe generale» e del «partito nazionale» da una parte e quella del «capitalismo arretrato» che andava ammodernato dall'altra. Ci si ritrova sull'unica frontiera di una modernizzazione conservatrice, la tendenza vincente ormai a livello mondiale dell'ultimo Novecento. Il «compromesso storico» fu la forma politica che assunse questa doppia ideologia. La consociazione presupponeva un bipartitismo imperfetto. Ma, sia nel contrasto sia nell'accordo, quello, sì, era un bipolarismo, l'unico serio che abbiamo avuto, riconosciuto nel paese reale, rappresentato in quello legale.

Il PCI tra '56 e '68 Bisognerebbe una volta fare fanalisi storica dell'anticomunismo di sinistra. Qui da noi fu fondamentalmente un anti-rc1, di forze intellettuali, partite giovani e diventate mature con lo stesso segno, che tuttora diffusivamente permane nell'assenza ormai dell'oggetto di polemica, un segno di movimento, di generazione, di opinione, un modo di sentire, di approssimare, dicomunicare, più che un modo di essere, di ragionare e di lottare. Queste avanguardie di allora sono state oggi raggiunte dall'esercito dei pentiti. Il fenomeno si acuì in età post-togliattiana, per il naturale abbassamento delle capacità di mediazione, ma anche per le profonde trasformazioni della società italiana. Tra fine anni Cinquanta e inizi anni Sessanta è veramente awenuto il decollo del capitalismo moderno in Italia. Il piccolo mondo antico della società civile di ottocentesca memoria, era arrivato fin lì. I.:Italietta risorgimentale ce la siamo portata dietro fino alla nostra giovane età, di noi nati nei mitici anni Trenta, dove in Europa, e tra America e Russia, era successo tutto quello che poteva succedere in così breve lasso di tempo. Abbiamo imparato più studiando quel decennio che vivendo tutti i decenni successivi. Fu una vaccinazione contro la malattia vetero-italica. Tutta la storia italiana è stata una storia novecentesca minore. Chiunque di noi ha provato a pensare in forme modernamente disincantate, nei lunghi anni passati, ha sentito tale peso sulle proprie spalle, dal chiuso della lingua al cieco della cultura. In fondo, tutta l'età pre-fascista fu la caricatura dei sistemi liberali europei e occidentali. Lo scoprimmo leggendo Locke e Montesquieu e maneggiando il modello Westminster. E il fascismo fu la caricatura del totalitarismo. [abbiamo capito saggiando i processi di nazionalizzazione delle masse e i significati della rivoluzione conservatrice. Sì, alcuni per33

sonaggi incarnarono tendenze anticipatrici, nella linea che va da Cavour a Giolitti e chi su questa linea si pose nel secondo dopoguerra. Ma non riuscirono a modificare il segno lungo di una storia passiva. E i due bienni rossi, così diversi fra loro, il '19-20 e il '45-46, sono di quei momenti magici che solo gli esiti delle grandi guerre riescono a produrre. È questo che è mancato all'altro potenziale biennio alternativo, il '68-69, uno sfondo storico di tragico stato d'eccezione: donde quel suo carattere, insieme, di leggerezza e di impotenza. La forza tranquilla del PCI fu di inscriversi in questa storia minore di lunga durata, ridimensionando i propri obiettivi, spegnendo gli slanci, organizzando sempre e solo niente più di un «che fare» possibile, stando bene attento a mai tentare l'impossibile. Il nazional-popolare fu la bestia nera di noi operaisti. A livello di cultura prima che di politica. E fu un'acquisizione precoce. Alberto Asor Rosa scrive Scrittori e popolo. Saggio sulla letteratura populista in Italia, cioè contro la letteratura populista in Italia, a trent'anni (Samonà e Savelli, Roma 1964). Libro di svolta, ben più che per la storia della critica letteraria, in realtà punto di messa in crisi di un pezzo fin lì egemonico di cultura politica italiana. Ma riconosciamo che senza quella politica, popolare non populista, non avremmo potuto cantare con ragione: «avanti, avanti, il gran partito noi siamo dei lavoratori». Fu vera forza, quella comunista, perché strategia cosciente, lucidamente e culturalmente scelta per radicarsi in quel popolo, che a sua volta veniva da quella storia. Nulla avrebbe poi pregiudicato il salto successivo. Quello che era chiaro nella doppiezza di Togliatti, si oscurò nelle scelte inutilmente univoche del ceto togliattiano e infine diventò puro nulla nel fumo delle parole della generazione sessantottina. È banale dire che il PCI fu la vera socialdemocrazia in 34

Italia. Non lo fu. Era, sì, invece, la forma italiana di un partito comunista. La via italiana al socialismo veniva da lontano e andava molto lontano: dietro c'era la storia di una nazione, la realtà di un popolo, la tradizione di una cultura. La vita e l'opera di Gramsci facevano sintesi di queste cose e ne consegnavano l'egemonico lascito intellettuale all'azione politica totale di Togliatti. Così, qui e ora, il riformismo era, in modo originale, la forma politica che assumeva il processo rivoluzionario. Questo ciclo si concluse con la caduta del mito dell'arretratezza capitalistica, che sopravvisse a lungo nel rei allo stesso avvento del capitalismo sviluppato in Italia. Il ceto togliattiano più ortodosso, quello amendoliano, coltivò, oltre ogni sua giustificazione, questo mito e ne fece la base sociale di un senso comune culturale. Qui avvenne la frattura con le giovani forze intellettuali emergenti, che trovarono una sponda in pezzi di sindacato, soprattutto del nord, e in settori di partito marginalmente insofferenti. La verità era che le lotte operaie dei primi anni Sessanta in Italia erano più in continuità con le lotte operaie americane degli anni Trenta, a cavallo del New Deal, che con le lotte contadine del sud, negli anni Cinquanta, per la riforma agraria. Il bracciante pugliese che si faceva operaio-massa a Torino, era questo l'evento strutturale simbolico che chiudeva la storia dell'Italietta. Il taylorismo nel processo lavorativo, il fordismo nel processo produttivo, la centralità politica della grande fabbrica, questi i fatti che mettevano in crisi la strategia togliattiana. Togliatti colse bene gli aspetti sovrastrutturali, politici, nelle novità del primo centro-sinistra, molto meno bene vide la cause sociali materiali che li producevano. La sua scomparsa, a metà degli anni Sessanta, fu anch'essa simbolica. Non trovo nessuna difficoltà nel sostenere che il nesso di fabbrica-societàpolitica, come luogo strategico delle trasformazioni ca35

pitalistiche in atto, venisse visto allora in «Quaderni rossi» meglio che su «Società» e in «classe operaia» meglio che su «Rinascita». Così vale la pena di andarsi a rileggere questi materiali, qui solo in parte evocati: corrispondenze dalle fabbriche, analisi sul campo dei processi di ristrutturazione produttiva, giudizi sulle strategie padronali, critica delle piattaforme rivendicative, giudizi sugli esiti dei contratti, intervento nelle lotte, con esempi tipici di volantini e poi, aperture sul terreno internazionale delle lotte stesse, ma anche prese di posizione sulla interessante stagione politica del momento, contrastandola con la tecnica di spingere in avanti i due riformismi intelligenti, quello - dicevamo allora - di Moro e quello di Lombardi, per guadagnare così un livello più avanzato per il conflitto di classe. Il punto vero della differenza tra foperaismo reale, nostro, e l'operaismo formale del PCI, stava nel concetto di centralità operaia. Centralità politica. Ce la portammo dietro a lungo questa discussione, fin dentro il '77, quando si svolse un non dimenticato convegno su «Operaismo e centralità operaia», presenti Napolitano e Tortorella, in una Padova plumbea, percorsa dalle scorrerie non pacifiche dei cosiddetti autonomi (gli atti, con lo stesso titolo, Editori Riuniti, Roma 1978). Faccio notare che il '77 non compare in questo discorso come una data di significato cruciale Non è una dimenticanza, è una scelta. Convengo che, rispetto al '68, c'è nel '77 una sostanza politica più forte e un passaggio sociale più decisivo. Molto del rapporto, in negativo, tra politica e nuove generazioni, si è risolto lì, su quel terreno di lotta. Ma voglio dire anche che il percorso dell'operaismo italiano dei primi anni Sessanta non andava in quella direzione. «classe operaia», a rivederla oggi, risulta più vicina a «Quaderni rossi» e più lontana da Potere operaio, e da tutto quello che da lì deriva fino ad Autonomia operaia.

La discriminante è sul punto preciso: che quelle due iniziative, rivista prima giornale poi, si sentivano criticamente dentro il movimento operaio, mentre quelle altre esperienze, più di autorganizzazione, si mettevano pericolosamente contro il movimento operaio. C'è tutta l'intelligenza di Toni Negri nella teoria del passaggio dall'operaio massa all'operaio sociale (vedi tra altre cose con questo titolo, Intervista sull'operaismo, multhipla edizioni, Milano 1979 e ora ombre corte, Verona 2007). Ma a quel punto, a quella data, il danno pratico era già fatto. E un inutile dispendio violento di preziose risorse umane se riera andato irrimediabilmente dalla parte sbagliata. Toni Negri ha contato molto nell'esperienza di «classe operaia». È stato determinante per la sua nascita e indispensabile nel lavoro di redazione e diffusione del giornale. Con i piedi ben piantati in quel luogo strategico che è stato Porto Marghera, intuiva i processi e orientava gli atteggiamenti. [esperienza dell'operaio fordista-taylorista, e la critica successiva di questa figura, si può dire che siano alla base di tutto il suo successivo percorso di ricerca. Operai senza alleati!, gridava il titolo di un numero di «classe operaia», n. 3, marzo 1964, editoriale di Negri. Era un errore. Andava senz'altro criticato e contrastato il sistema di alleanze che il movimento operaio ufficiale aveva costruito sulla base di una sorta di pre-capitalismo avanzato: lavoratori dipendenti - ceti medi - Emilia rossa. Ma andava costruito un altro sistema di alleanze, di capitalismo sviluppato, con le nuove figure professionali che emergevano dal contesto della produzione di massa, dal conseguente allargamento del mercato e dalla diffusione del consumo, quindi dalle trasformazioni civili e dal salto culturale in atto nel paese. Tutte le cose che il '62 operaio anticipava sulla modernizzazione del '68 e sul primo post-moderno del '77. Tutto intero il terreno della politica -quello delle classi, quello dei partiti, quel37

lo delle istituzioni- e la stessa togliattiana «battaglia delle idee», andavano ridislocate più avanti, innescando sulle trasformazioni oggettive della società italiana l'istanza soggettiva di un cambiamento del rapporto di forze, nel conflitto e nella rappresentanza. [operaismo dei primi anni Sessanta ha visto un pezzo essenziale di questa realtà. Non ha visto tutto. Non si vede tutto dal punto di vista di un'esperienza sola, con una rivista prima e un giornale dopo. La parte deve farsi partito per cogliere la totalità, e per poterla aggredire da potenza a potenza. La tesi che la catena andava spezzata non dove il capitalismo era più debole ma dove la classe operaia era più forte, dettava un ordine del giorno per il «caso italiano», che meritava di essere messo sotto prova pratica. Ancora oggi, non saprei dire se gusto dell'awentura intellettuale ed esercizio della responsabilità politica potessero allora, e possano oggi, convivere. In me, e nell'amicizia politica che su quella base nacque tra persone, convissero. Non ne è venuto fuori granché. Ma almeno abbiamo trovato il modo di sopravvivere, con divertita hominis dignitate, in un mondo nemico. Non è poco. Ma mi rendo conto - mentre scrivo che si va costruendo, da sé, nel discorso un ambiguo intreccio tra autobiografia di gruppo e storia del paese. Lo lascio così questo intreccio, perché risiede forse qui un interesse non secondario per il ricordo di quell'esperienza. Quello che cerco di dimostrare adesso è che l' operaismo di cui stiamo parlando fu essenzia1mente una forma di rivoluzione culturale. Produsse, alla fine, non determinanti eventi storici, ma significative figure di intellettuali. E più che un modo di fare politica - che avrebbe richiesto altri idealtipi di uomini e di donne, rispetto a quelli che offriva il momento - fu piuttosto un modo di fare cultura politica. Si vedrà in seguito, dalla produzione di quelle figure intellettuali, come si trattas-

se di cultura vera, seria, alta cultura, quella delle diltheyane scienze dello spirito, nutrita del disincanto weberiano, specialismo senza accademia, mirata, oltre se stessa, a una fare pratico di consistenza strategica e di spessore storico. Direi così: alta cultura da prestare alla grande politica. Di stampo «aristocratico»: è già tornata questa parola, tornerà nel seguito del discorso: e l'intento è di togliere a essa quel segno negativo che gli si è appiccicato addosso. È un approccio complesso, che per adesso si può semplificare in questo modo: non si tratta di contrapporre all'idea degenerata di massa il concetto salvifico di individuo; si tratta di restaurare, o forse di impiantare, un'aristocrazia di popolo post-proletaria contro la deriva presente di un populismo borghese. Questo è piuttosto storia di oggi. Ma c'era, negli anni Sessanta, una condizione siffatta? No, non c'era. [amico-nemico operai-capitale non era un'invenzione filosofico-letteraria. Era un dato di fatto economico-sociale. Stava lì, sotto gli occhi di tutti e nessuno lo vedeva. O meglio, si vedeva con gli occhiali del padronato o con i binocoli del sindacato, ma con gli occhi della politica, e del pensiero politico, non si vedeva niente, perché si guardava altrove. Ecco, l'operaismo mise a fuoco un'immagine, accese una lampada in un interno di fabbrica: e fotografo. Tutto si può dire meno che da questa rappresentazione venisse fuori sfocata la scena del rapporto di produzione. Da allora, di questi intellettuali cosiddetti ex-operaisti si sono dette molte cose. Ma è interessante che il riconoscimento più diffuso, da sempre, è che le analisi che vengono di lì sono «lucide».

Perché la cultura della crisi Bene. Questa lucidità-questo realismo rivoluzionario, non saprei definirlo altrimenti - non era già subito da allora, ma divenne per gradi e attraverso successive 39

esperienze, il frutto di un cambio di cultura dentro la tradizione di pensiero del movimento operaio. Cambio di paradigma culturale, di approccio metodologico, di visione sistemica. C'è questo punto di problema inevaso, e quindi inespresso, eppure determinante per capire tutto il resto: perché la cultura della crisi, il pensiero negativo, si sono incontrati con l'operaismo degli anni Sessanta, e non con altre esperienze? O meglio, perché l'operaismo ha trovato lì, e non altrove, il suo orizzonte culturale? Parlo qui, in modo specifico, di operaismo politico. Perché qui sta anche la differenza vera, di cultura, tra «Quaderni rossi» e «classe operaia». Nella rivista, il cervello della ricerca stava nell'analisi, quanto più possibile scientifica, del piano del capitale. La conricerca in fabbrica veniva ricompresa lì dentro. Nel giornale, il cuore dell'intervento stava nell'organizzazione delle lotte operaie. L'analisi del rapporto di produzione si ricollocava al suo interno. Quel grido, «prima le lotte operaie, poi lo sviluppo capitalistico», apriva la fase matura dell'operaismo e chiudeva il breve intenso ciclo della sua presenza politica. A quel punto, già quasi tutto era stato detto. Un'esplosione di soggettività, un salto del politico nel soggetto: così leggevamo gli esiti degli anni Sessanta che stavano per accadere, il '68-69. Se il Marx dei «Quaderni rossi» era il Marx del Capitale, e della critica dell'economia politica, il Marx di «classe operaia» sarà il Marx dei Grundrisse, e delle opere storico-politiche. Ripercorrevamo, sulla base materiale del capitalismo fordista-taylorista-keynesiano, il transito dei bolscevichi da Marx a Lenin. «Lenin in Inghilterra» è solo l'immagine simbolica di questo passaggio. Descriveva veramente un bisogno del tempo: la piccola prova empirica che conferma questo, sta nel fatto che gran parte delle soggettività alternative e antagoniste che, tra anni Sessanta e Settanta, sentiranno la spinta a mettere in

gioco la propria persona in una esperienza collettiva di trasformazione delle cose, ripartirono di lì. Nessuna intenzione di enfatizzare il passaggio e tirarlo su per i capelli dalla cronaca alla storia. [intenzione era alta, ma il limite si mostrò più profondo. Quello che voleva essere in principio un rovesciamento del rapporto di forze, fu alla fine il rivolgimento di un punto di vista. Ma non è questo adesso il punto da indagare, bensì quell'altro: che forma aveva quel soggetto entro cui voleva saltare una cultura politica nuova - si parlava allora di giovane marxismo all'assalto del presente. Riprendo da un altro lato il discorso iniziato sopra. Ecco, questo di forma e soggetto è un discorso che fa luce su quel tempo e fa ombra nel nostro. Noi vedevamo un soggetto senza forma, anzi un soggetto con una forma, quella propria, storica, tradizionale, in crisi. Il nuovo soggetto sociale operaio non stava più dentro la vecchia forma politica. Poteva inscriversi in una generale grande crisi delle forme, perché da quella era stato preceduto e culturalmente determinato. Un soggetto che nasce dalla crisi è un soggetto critico. Massimo Cacciari, precocemente, su «Contropiano», n. 1, 1969 scrive settanta pagine, Sulla genesi del pensiero negativo: e si materializzano le grandi ombre di Schopenhauer, di Kierkegaard, di Nietzsche. Poi, con Krisis, Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein (Feltrinelli, Milano 1976), seguito da Pensiero negativo e razionalizzazione (Marsilio, Venezia-Padova 1977), porta a compimento una prima tappa del suo personale attraversamento della Krisis delle scienze europee e descrive, per tutti noi, una storia di passionale innamoramento dell'operaismo verso la novecentesca cultura mitteleuropea: un amore non deluso, direi ricambiato, viste le conquiste, di pensiero e di vita, che dentro quella costellazione abbiamo poi fatto. Basta sfogliare riviste come «Angelus novus» prima, o come 41

«Contropiano» dopo, in misura diversa «Laboratorio politico» ancora dopo, e visitare poi la Stimmung che percorrerà il fondo della nostra scrittura, per convincersi che comunicare per noi non è mai stato cosa diversa dal pensare. Ma lì, nel percorso, c'è anche il passaggio da una critica delfideologia puramente pratico-distruttiva, alla ri-costituzione di categorie politiche, in quanto concetti teologici secolarizzati. Bisogna faticare con il concetto per arrivare a comprendere come dal «dell'inizio» dell'operaismo si arriva alle cose ultime, o penultime, della teologia politica. Sbagliata -ho già detto-, deviante e inutilmente polemica, è stata la lettura della svolta verso un'esasperata soggettività operaia nei termini di una hegeliana filosofia della storia. [operaio alla catena di montaggio in nessuna pagina di «classe operaia» lo troverete come portatore di storia, in ogni pagina come portatore di politica. La differenza, anzi la contrapposizione di politica e storia, trova qui il suo lontano luogo di origine. Due piani, dove si opera uno scontro sui mezzi, oltre che una divaricazione tra i fini. [hegelismo era piuttosto di casa in quell'ideologia degli operai come «classe generale», venata di etica kantiana nell'orizzonte secondo-internazionalista e di dialettica materialistica in quella terzo-internazionalista. [immagine del proletariato che «emancipando se stesso emancipa tutta l'umanità», che c'era nel Marx ottocentesco, viene frantumata dall'urlo di Munch, a cui seguirà l'eccezionale stagione primo novecentesca di rottura di tutte le forme. E se qui si tratterà di avanguardie artistiche- ma anche scientifiche, anche filosofiche - la rivoluzione di tutte le altre forme umane collettive, sociali, economiche, politiche, verrà innescata dall'impatto tragico - 1914! - con la prima grande guerra civile europea e mondiale. La corsa del progresso umano verso il meglio - la belle époque- andrà a schiantarsi contro il muro della peggiore strage di popoli che si sia mai 42

vista. Ma - dove c'è il maggior pericolo, lì c'è anche ciò che salva - ecco che dall'inferno brillerà la luce del principio-speranza, nel più avanzato tentativo di rivoluzione mai tentata. Cultura della crisi e crisi storica si saldano in un passaggio d'epoca che fa Novecento. Il secolo della politica nasce lì. Grandioso è l' anerkennen, il procedimento del riconoscere che i bolscevichi, soli e maledetti, fanno di questo evento. Tutto quello che accadrà dopo, del loro esperimento, non è sufficiente per poter disconoscere la gratitudine dell'umanità per il loro eroico tentativo. Non è necessario essere stati comunisti per sapere questo. E chi questo non sa, o non vuole più sapere, manca di un pezzo d'anima per stare e per agire politicamente in questo mondo. Noi, da lì, avemmo la fortuna di partire, con il pensiero. Ci mettemmo la virtù del «punto di vista operaio» e ne venne fuori l'awentura intellettuale di cui stiamo parlando.

Romanzo di formazione Qui, occorre una parentesi. Introduco una breve narrazione autobiograficamente ironica - e prego di leggerla così - circa il machiavelliano peso della fortuna sulle vicende della virtù politica. Dico «noi», perché questo è un tratto che dal discorso non si può eliminare, il fatto che abbiamo iniziato e condotto un'esperienza amicale, un fare politica insieme nato sull'amicizia, o un essere amici cresciuto sul fare politica. Adesso non è importante dove cade l'accento. Certo è che da allora, sulle scelte pubbliche di fondo, nei vari successivi momenti, e passaggi, e svolte, e salti, c'è stato un accordo naturale spontaneo. Ci si ritrovava regolarmente a pensarla nello stesso modo sul singolo evento. C'è sempre qualcosa di miracoloso nel rapporto umano, quando penetra nel fondo dell'animo. Miracoloso, non misterioso. Si tratta di qualcosa di straordinario, non di oscuro. La spiegazione ra43

zionale è che quell'esperienza comune fu fondante a tal punto da condizionare, per ognuno, non solo i comportamenti momentanei, ma gli sviluppi successivi. l'.operaismo è stato anche questo: il romanzo di formazione di uno spaccato di generazione. Partire veramente da lì ha voluto dire non andare mai altrove, ma piuttosto oltre rispetto a quel punto. È così. Quando scopri una contraddizione fondamentale che ha fatto epoca, anche nel momento in cui ti ritrovi senza quell'epoca, ti rimane poi il gusto e la spinta di guardare il mondo alla ricerca dell'altra grande contraddizione, senza la quale il resto che accade ti risulta inessenziale. Puoi non trovarla, la nuova contraddizione fondamentale, ed è un dramma, puoi trovare che non c'è ed è una miseria dei tempi, puoi trovare che c'è e non si dà chi sappia affrontarla e organizzarla ed è una tragedia. Ma tu sei lì sul campo di battaglia del pensiero, che muovi le idee come il generale i suoi soldati: perché di una cosa sei sicuro, non banalmente l'awersario ma seriamente il nemico c'è, ed è il rapporto di capitale. Allora, vedete, c'è un punto di vista operaio, anche se non ci sono più gli operai, organizzati in potenziale classe antagonista. Romanzo di formazione, dunque. E romanzo storico, perché carico di attraversamenti, a volte awenuti a volte mancati, su vicende ed emergenze, e su date assurte a eventi simbolici. È il nostro vecchio caro Novecento, non, in questo caso, il mondo di ieri, ma quel presente storico in cui uno decide di vivere per tutta la vita. E chi se ne importa se risulti non sintonizzato sulle performances dell'ultimo spettacolo post-moderno. Allora: fortuna/sfortuna nella partecipazione alla storia del tuo secolo. Fu una fortuna politica il non aver dovuto essere, prima di tutto, antifascisti. l'.antifascismo infatti fu un dovere, un impegno etico-politico, di alta intensità umana, a cui nessun cuore pensante poteva sfuggire 44

nella temperie d'epoca, capace di segnare una esistenza per sempre. Così fu per i migliori fra tutti. Venuti a coscienza politica dopo la caduta del fascismo - nati negli anni Trenta, che solo dopo scopriremo come gli anni cruciali del Novecento - non abbiamo, per ragioni di età, partecipato alla lotta antifascista, a quella appassionante sequenza drammatica di esilio, clandestinità, carcere, guerra di Spagna, Resistenza. Fu giusta l'evoluzione interna alla Terza Internazionale dalla nefasta teorià del socialfascismo alla politica dell'unità antifascista nei Fronti popolari, ma è ancora materia tutta da elaborare il peso storico che le soluzioni totalitarie ebbero sul segno, sui contenuti, sui metodi, sugli obiettivi della lotta sociale di classe. Un effetto-devianza cadde allora sui comportamenti del movimento operaio, che fu costretto a farsi, nelle sue manifestazioni esterne, nella sua rappresentazione pubblica, più democraticoprogressista che socialista-comunista. Il dramma era che si trattava di una costrizione a cui non ci si poteva sottrarre, pena l'imbarbarimento della civiltà umana. Quell'obbligazione politica che fu il soccorso rosso alla civilizzazione borghese ha funzionato sul medio-lungo periodo, come processo di stabilizzazione, consolidamento e sviluppo del rapporto di produzione capitalistico, con relativo ammodernamento delle sue forme di potere. [età dei totalitarismi, con allegata età delle guerre civili mondiali, si è rivelata un'astuzia della prowidenza nella storia novecentesca del capitale. Sul campo alternativo, passa in primo piano la lotta democratica contro il neo-assolutismo e passa - e passerà e resterà in secondo piano- fino quasi a scomparire, la lotta di classe contro il neo-capitalismo. Lo stato d'eccezione - leniniano e gramsciano - che vedeva il movimento operaio prendere la testa della rivoluzione borghese per portarla alle sue ultime conseguenze, si ferma per sempre al 45

primo stadio. Il seguito conseguente - il passaggio alla rivoluzione socialista verso una società comunista non viene più messo all'ordine del giorno. La storia rivoluzionaria si interrompe. Sul cammino, un macigno che rende intransitabile il percorso, la condizione geopolitica delf esperimento sovietico e, accmto, come r:onseguenza, una via sosbtutiva di scorrimento che si chiamò lunga marcia dentro le istituzioni e che si è poi inevitabilmente persa nel nulla. Sembrò allora a noi che lo sviluppo capitalistico, portato alle ultime conseguenze dalle lotte operaie, potesse riaprire la via della rivoluzione interrotta. È vero che fu un'illusione ottica: non si apriva un ciclo politico, piuttosto si chiudeva un ciclo storico. Ed è vero anche che i processi erano più potenti dei soggetti. Così sarà sempre più, nel dopo. Tutti gli anni Sessanta furono in fondo questo: non mancò l'intelligenza, mancò la forza. E tutta la soggettività allora esplosa fu, sì, capace diconoscere i processi di modernizzazione capitalistica fino ad appropriarsene concettualmente e, direi, esistenzialmente, ma non ce la fece a prenderne politicamente la testa, per guidarli allo sbocco di quella seconda tappa della rivoluzione democratica rimasta ferma al '45-' 46, anzi da lì sottoposta, dopo, non a un'involuzione reazionaria, ma, certo, a una lunga egemonia moderata. Estraneo alla nostra formazione politico-intellettuale non era allora soltanto lo spirito antifascista, che vedeva sempre dietro l'angolo la reazione in agguato- mai credemmo a un possibile ritorno di soluzioni totalitarie estraneo era anche lo spirito costituente, quello dei fondatori della Repubblica e dei padri della Costituzione. Saltò il nesso tra questione democratica e questione nazionale, cardine fondativo di quella classe dirigente, nel senso pieno del termine, che fu il ceto politico togliattiano, macchina intelligente di conquista del consenso e

di gestione del potere, che resse il PCI fino agli anni Ottanta. No, proprio non ci stava nei nostri goethiani anni di apprendistato intellettuale della politica quella frase gramsciana - «voi porterete l'Italia alla rovina e allora toccherà a noi comunisti di salvare il nostro paese»-, giusta da dire in un tribunale fascista, ma sbagliata da praticare, con sfumature più o meno diverse, in tutti i decenni repubblicani, fino addirittura ai nostri giorni. La riscoperta della questione di classe, dentro una forma di capitalismo avanzato, classe operaia e grande industria, Marx e Ford, Lenin e Taylor, Roosevelt e Keynes, e cioè una serie di corto-circuiti teorici più l'esperienza diretta dell'operaio-massa nella fabbrica moderna, predisposero quel combinato disposto in grado di far scoccare un altro «fuoco nella mente», già proprio di passate tradizioni rivoluzionarie e andò in frantumi quell'altro dispositivo - il nazionale popolare - da cui pure era partita, prima ancora della formazione culturale, un'appartenenza di esistenza umana.

Critica del '68 Due buoni scherzi della fortuna: abbiamo vissuto il '56 quando eravamo ancora giovani e abbiamo vissuto il '68 quando non lo eravamo più. Questo ci ha permesso di cogliere delle due date il nocciolo politico dietro la scorza ideologica. Il '56 ci trovò liberi dallo storico legame di ferro che aveva pesato sulle generazioni precedenti, in grado quindi di assumere per intero la spinta innovativa che quella rottura provocava. Il limite - ne abbiamo già accennato- stava nell'essere dei giovani intellettuali. Nel passaggio tragico si compì però in complesso un'esperienza di liberazione. Anno veramente «indimenticabile»: quando la storia irrompe nella vita, la politica si impone all'esistenza, e devi implicarti negli eventi, metterti in gioco, scegliere, decidere e ci sono 47

sempre e solo due parti, e una sola quella con cui in quel momento puoi stare. Gli uomini non ce la fanno da soli a tenere alta e profonda la tensione della propria vita se dal di fuori qualcosa più grande di loro non li costringe a sollevarsi sopra di sé. Io non ho mai creduto a quel falso del messaggio cristiano, legittimato dalla Chiesa, usato per ammaestrare i fedeli circa la lotta tra il bene e il male. Ho solo capito, per prova ed errore, che il male è quando non succede niente, quei lunghi tempi della vicenda umana grigi e spenti, che conosciamo bene perché ci è toccato di viverli. Il bene è quando sei costretto a schierarti. È la caduta nel peccato che ti fa nascere alla libertà. Senza questa costrizione esterna, in interiore homine non abita verità alcuna. La politica ha bisogno della storia, non per subirla, piuttosto per contrastarla. Il nichilismo è il prodotto non dei passaggi bui della barbarie, ma dei fasulli luccichii della civiltà. Di fronte a questi, allora, non è nemmeno la soluzione peggiore. Non c'era posto per bamboleggiamenti narcisistici o per le analisi dell'inconscio in quell'anno 1956, almeno su quella tormentata scena del mondo che era il movimento comunista internazionale. La grande crisi politica scatenò una grande crisi culturale. A poco a poco, nella successione drammatica degli eventi, dal XX Congresso del rcus, con relativo Rapporto segreto, fino all'insurrezione e repressione ungherese, tutti i conti tornavano, magari al rovescio. Il ceto politico togliattiano si muoveva con passi felpati dentro le contraddizioni del sistema sovietico, volgarizzando per l'occasione l'anti-Croce gramsciano: un pd più dialettica dei distinti, un pd meno dialettica dei contrari. Noi eravamo giovani e liberi: volevamo, alquanto ingenuamente, il chiaro al posto dell'oscuro e ci veniva offerto un pur intelligente chiaroscuro. Fu il primo - sofferto ma deciso - «no» alla dirigenza di partito. Proprio perché non avevamo parte-

cipato alla lotta, anzi alla guerra, antifascista, quel «legame di ferro» con la patria del socialismo non era diventato per noi una ragione di vita. E la guerra fredda la vivevamo, da militanti, come «scontro di civiltà», non come conflitto per la spartizione del mondo. Ripeto: non era tutto giusto nei pensieri e nei comportamenti. Ma qui si precisa che cosa volle dire svegliarsi dal sonno dogmatico. Nelfimmediato emerse una dimensione libertaria, poi crebbe una più seria vocazione critica, infine si stabilizzarono e presero sostanza definitiva una forma mentis e un modus operandi da totus politicus rovesciato, la politica che «fa» dall'alto quello che «dice» il basso della società: quel dire e quel fare che, in questo senso, non coincidono e non si separano, mezzi e fini «in divergente accordo». Non ci entusiasmava la «via italiana al socialismo», inorridivamo davanti all'idea della Resistenza come «secondo Risorgimento», ci pareva che nella storia nazionale degli ultimi secoli ci fosse ben poco da salvare. E, ecco, la colpa che facevamo alla tradizione storicistico-idealistica era di stare troppo dentro questa piccola storia. [Armata rossa che sparava sugli operai ungheresi era l'evento-simbolo che arrivava a travolgere questa linea. Da allora non ci fu più posto nella nostra testa per le «magnifiche sorti e progressive». Il comunismo non starà più alla fine della strada che porta inevitabilmente l'umanità verso il meglio, ma sarà, con Marx, l'autocritica del presente e, con Lenin, l'individuazione e l'organizzazione di quella forza in grado, lì e ora, di spezzare ranello della catena di continuità storica. Non sembri eccessiva, in questa sede, f enfasi sulla data del '56. Senza questo passaggio, foperaismo non ci sarebbe stato, non ci sarebbe stato Panzieri, in primis il Panzieri delle Tesi sul controllo operaio, e soprattutto non ci saremmo stati noi, intellettuali della crisi. Ci sarebbe stato, sì, il '68, perché veniva da un'altra parte, dai biso49

gni di modernizzazione delle società capitalistiche, ma forse con un altro corso, un altro segno, con più figli dei fiori e meno apprendisti rivoluzionari. Vivemmo il '68 da adulti. [altra fortuna: perché l'aver vissuto il '68 da giovani si è rivelato, alla lunga, come l'essere lavoratore produttivo per Marx, una gran disgrazia. Si è fissata un'apparenza e si è persa una sostanza. [apparenza, nel senso di ciò che simbolicamente al momento si esprimeva, era il carattere antiautoritario del movimento. Questa, a suo modo, ha funzionato. La sostanza, nel senso di ciò che sul lungo periodo si fissa, fa massa e permane, era il suo carattere di rivolta. Questa non ha retto al tempo: nei singoli si è spenta ed è stata reintegrata, nei gruppi è deviata e si è imbastardita. Noi, che avevamo vissuto le lotte operaie, guardavamo con simpatetico distacco le lotte studentesche. Effettivamente, un conflitto generazionale non lo avevamo messo in conto, anche se in fabbrica avevamo incontrato le nuove leve operaie, giovani soprattutto emigrati dal Sud, attivi e creativi, e d'avanguardia, rispetto ai più anziani, provati dalle lotte e dalle sconfitte. Ma, lì, il fronte tra padri e figli si era saldato, è nella borghesia, media e piccola, che si era spezzato. Fenomeno interessante, ma non decisivo per quello che avevamo in mente di cambiamento strutturale del rapporto di forza tra le classi. A Valle Giulia eravamo, checché ne dicesse Pasolini, con gli studenti contro i poliziotti. Ma, sì, sapevamo che lì si trattava di conti interni al campo avverso: a chi la direzione della modernizzazione. Le vecchie classi dirigenti dell'epoca delle guerre civili mondiali erano esaurite, premevano per salire alla ribalta le nuove classi dirigenti per la futura mondializzazione capitalistica. La guerra fredda già da tempo era un impaccio, adesso la grande crisi toccava alla politica, ai partiti, allo Stato, all'idea e alla pratica di «pubblico». Il veleno dell'antipolitica co50

minciò a essere iniettato nelle vene della società dai moti sessantottini. La maturazione della società civile, la conquista di nuovi diritti, civili, sindacali, politici, provocarono un salto collettivo di coscienze, ma soprattutto fecero bene alla salute del capitalismo italiano, nel suo lungo inseguimento della modernità. Partirà di lì poi l'epoca, ancora oggi aperta, della riprivatizzazicne di tutto intero il rapporto sociale.

L'occasione mancata Gli straordinari giovani del '68 non sapevano - non la sapevamo nemmeno noi, non eravamo così perspicaci profeti, ma l'abbiamo capita presto, già nei primi anni Settanta - questa verità: che abbattere l'autorità non voleva dire automaticamente liberazione differentemente umana, maschile e femminile, poteva voler dire, equesto poi è stato, specifica libertà per gli spiriti animali capitalistici, che scalpitavano dentro la gabbia d'acciaio del raccordo politica-società che, tra rivoluzione, crisi e guerre, dagli anni Venti agli anni Cinquanta, il sistema di potere economico si era dato come inevitabile rimedio. Il '68 è stato un esempio classico di totale eterogenesi dei fini. Ce n'est qu'un début poteva vincere solo nel breve, brevissimo, periodo, sul campo di un'irruzione mondiale occidentale, e questo carattere era la potenza del movimento. La lutte continue era già l'annuncio della sconfitta. Sul medio-lungo periodo la partita era persa. La radicalizzazione del discorso sull'autonomia del politico, che è dei primissimi anni Settanta - per chi non l'avesse ancora capito - nasceva lì: dal fallimento dei moti insurrezionali che, dalle lotte operaie alla contestazione giovanile, avevano attraversato l'intero decennio Sessanta. Di nuovo: era mancato l'intervento decisivo di una forza organizzata. Questa poteva essere solo il movimento operaio, nella figura e forma della sua compo51

nente comunista post-staliniana. La grande iniziativa avrebbe potuto trascinare le deboli e riluttanti socialdemocrazie europee, awiando una ricomposizione storica, a quel punto matura. Bisognava gettare, investire, nuova politica dall'alto dentro i movimenti dal basso, per anticipare e respingere la implicita deriva verso l'antipolitica e così disordinare e non riordinare gli equilibri sociali e politici. Non portare l'immaginazione al potere, ma dare potere all'immaginazione, evocando una forma sociale e forme della politica altre rispetto ai capitalismi e ai socialismi realizzati. Allora, un altro mondo era possibile. Dopo, per lungo tempo, non lo sarà più. [occasione non fu colta, passò l'attimo fuggente, e il morto riafferrò il vivo. Processi reali sconfissero soggetti immaginosi. Tutto sommato, andò meglio negli USA che in Europa. Lì il Golia americano fu umiliato dal David vietnamita. Qui, passammo dalla rivolta di Parigi all'invasione di Praga, dai «Quaderni rossi» ai nouveaux philosophes, da Woodstock a piazza Fontana, e dai figli dei fiori agli anni di piombo. «The times they are a-changin», cantava Bob Dylan (1964). «La ruota gira ancora/ e nessuno può dire che nome farà / e chi ha perso adesso alla fine vincerà/ perché i tempi stanno per cambiare». Dieci anni dopo il '68, i tempi erano cambiati. La Trilateral dettava i dogmi alla religione civile del nuovo ordine mondiale. E da noi, non solo il duro antagonismo, anche la più leggera alternativa, cessavano di esistere con quel cadavere rinvenuto in un portabagagli. In Italia, la stagione classica dell'operaismo si era conclusa. Nel 1966, «classe operaia» aveva preso la controversa decisione di dichiarare esaurita la sua esperienza. «Non abbonatevi», raccomandava, con la solita ironia, nel suo ultimo numero (1967) ai suoi lettori, perché «adesso, noi ce ne andiamo». Si è posto il problema di che ruolo avrebbe potuto avere il «giornale po52

litico degli operai in lotta», con il suo compatto articolato prestigioso nucleo di militanti, se fosse stato ancora in vita, dentro i moti del '68. Avrebbe potuto influenzare il movimento, prenderne la testa, orientarlo politicamente? Io non credo. La decisione della chiusura fu presa di fronte al pericolo, più che evidente, di uno slittamento verso una formazione di «gruppo», nel senso deteriore che questa forma di organizzazione della militanza assumerà soprattutto negli anni seguenti: minoritarismo, autoreferenzialità, gerarchizzazione, «doppi livelli» che scimmiotteranno, senza saperlo, le pratiche del «doppio Stato», e di qui altri peggiori pericoli. Nel caso migliore, il piccolo gruppo è fatalmente portato a ripetere i vizi delle grandi organizzazioni. I..:operaismo dei primi anni Sessanta, come si è espresso in «Quaderni rossi» e in «classe operaia», è stato sicuramente un'esperienza di minoranza, ma senza mai coltivare in sé una vocazione minoritaria. Leggere i testi per convincersene. Non eravamo né Quarta Internazionale né Partito d'azione. Non i migliori, inascoltati e incompresi, sulla piazza delle lotte, ma solo il tramite tra queste lotte e il paese tutto, nel suo contesto sociale e politico. Lo schema era più semplice di quanto le argomentazioni sofisticate poi dicessero: il capitale voleva estendere il modello della fabbrica alla società, noi, proprio su questa base, volevamo estendere il modello operaio alla politica. Ecco perché tra questo operaismo politico e i moti del '68, potenzialmente antipolitici, non c'era continuità. Non c'era nemmeno opposizione, perché questi alla fine aprivano un altro fronte di contestazione dell'establishment, operavano una rottura degli equilibri fin lì dati, erano allo stesso tempo prodotto del cambiamento e volontà di accelerarlo. Certo, sorridevamo a sentir declamare lo slogan «potere studentesco», ma ricordo nitidamente un corteo di studenti sul Corso 53

a Roma, quando improwisamente si levò il grido: «potere operaio». Questo infatti accadde in Italia: se l'operaismo era diffidente verso il '68, il '68 scoprì l'operaismo, e molto prima dell'autunno caldo del '69. «Studenti e operai uniti nella lotta» fu una entusiasmante, mobilitante, parola d'ordine, formativa di una generosa generazione di militanti, tuttora rlascostamente presente nelle pieghe della società civile, non quella politicamente corretta ma quella correttamente politicizzata. Quando «classe operaia» chiudeva, si apriva l'XI Congresso del PCI. Mai coincidentia oppositorum fu più eloquente. Nell'ultimo anno era venuto fuori, sul giornale, portato dall'esterno come la coscienza politica nello spontaneismo operaio, il tema del partito. È vero che la svolta ci fu con l'articolo editoriale 1905 in Italia. Il tema, in generale non era motivo di contrasto. Il leninismo era componente strutturale di questo operaismo. Le riserve, i mugugni, e qualche sospetto, emergevano quando, dicendo partito si capiva che si intendeva PCI. Chiunque è stato comunista sa che, nel linguaggio corrente, non dicevamo mai il PCI, dicevamo sempre «il partito». In quel monoteismo politico, non c'era altro partito all'infuori del PCI. Rispetto a questo, c'è da dire tranquillamente che la generazione storica degli operaisti, da Panzieri ad Alquati a Negri, antipolitica non fu mai, però antipartito sempre. Qui, la mia storia personale diverge, si differenzia forse in modo sostanziale, e il dire «noi» va preso come una figura retorica per superare il fastidio della parola «io». Allora ero in libera uscita, ma la coscrizione obbligatoria, autonomamente scelta, era l'appartenenza di partito: questa c'è stata prima dell'esperienza operaista e c'è stata dopo, fino a quando è esistito «il partito». Ma non ci immischiammo in quel momento nell'aspra lotta di vertice per la leadership del dopo Togliatti. Eravamo, sì, antiamendolia54

ni, ma non eravamo ingraiani. Non ci piaceva la prospettiva del partito unico, cioè la esplicita socialdemocratizzazione del PCI. Ma soprattutto combattevamo la destra comunista sul piano dell'analisi del capitalismo italiano: noi portavamo avanti, marxianamente, un'apologia del neocapitalismo, che vedevamo già presente, come terreno più avanzato, e quindi più produttivo, per le lotte, mentre da quella parte veniva avanti un'immagine da capitalismo arretrato della società italiana, aggravata da un'ortodossia sovietica altrettanto attardata. Si pone, in grande, per il PCI, lo stesso problema che ponevamo, in piccolo, per «classe operaia»: che ruolo avrebbe potuto avere, nei moti del '68, un nuovo «partito nuovo»: la seconda svolta di Salerno andava forse fatta nel mezzo degli anni Sessanta, non al confine tra anni Settanta e Ottanta. Quando si arriva tardi si perde tutto. Con il senno di poi è facile scorgere un'altra storia possibile: ma, certo, l'analisi critica della modernizzazione capitalistica in atto, l'individuazione anticipata dell'esplosione di soggettività che essa comportava, la riproposizione di una specificità del comunismo italiano nella rimessa in circolo del rapporto tra masse e potere, insieme a una precoce presa di distanza dalla deriva del socialismo in URSS, questo, sì, avrebbe potuto dare al '68 il segno di uno sbocco politico e al '69 il senso di una trasformazione sociale. Non la mettemmo allora in termini così chiari. Per generosità e immaturità e falsa superiorità intellettuale ci eravamo messi, per eccesso, troppo in avanti rispetto al contesto storico. Più avanti bisogna sempre stare, rispetto ai processi, ma mai troppo. Il pensiero politico può permettersi di essere eccessivo, l'agire politico, no. Le avanguardie servono per esplorare il terreno, su cui poi deve muovere l'esercito. Perlustrano, non occupano il territorio. Chiamano le forze, e all'occorrenza le gui55

dano, non le abbandonano a se stesse, credendo di poter fare tutto da sole. Pensavo allora che quel concentrato formidabile di teste pensanti e di corpi praticanti che erano gli operaisti dovessero chiudere lì la loro esperienza ereticale e andare a crescere altrove, come proposta di ricambio delle classi dirigenti, nel partito e nel paese. Capivo, o meglio intuivo che, senza Togliatti, il ceto politico togliattiano avrebbe sperimentato sulla propria pelle l'esaurimento del proprio ruolo. La grande stagione togliattiana era conclusa già prima della morte del capo. È tra fine anni Cinquanta e inizi Sessanta che si pone all'ordine del giorno il tema di una forma di partito comunista moderno, operante nelle condizioni di un capitalismo avanzato. La forza del partito comunista italiano imponeva la prova di un esperimento che fosse valido per l'Occidente, o almeno per l'Europa occidentale. E chissà che questo non avrebbe avuto una ricaduta sull'altra Europa, quella dell'est. Noi vedemmo questo, che era il vero problema, riflesso nelle nuove lotte operaie. Era un punto di vista esclusivo, consapevolmente unilaterale. E questa unilateralità del punto di vista è stata sempre teorizzata. Ma poteva funzionare solo se, a complemento, fossero intervenuti altri punti di vista. Si sarebbe così ricomposta una visione strategica della fase, che invece mancò. Il seguito è il paradossale racconto di una generale sconfitta reale, scandita da parziali vittorie illusorie. Andò così fino alla fine degli anni Ottanta, quando tutti fummo costretti a capire dove la storia era andata per suo conto a parare. Il mondo operaio, come tutti i mondi che contano, si esprime per potenti immagini simboliche. L'arco va dalla rivolta di piazza Statuto alla marcia dei quarantamila. Nel mezzo, il gruppo dirigente del PCI subisce, in modo subalterno, la stessa sorte delle classi dirigenti del paese. La modernizzazione imponeva un passaggio di mano dalle gene-

razioni della guerra e della Resistenza alle generazioni della pace e dello sviluppo. Il '68 offre i nuovi soggetti per questo ricambio. Awiene nel partito quello che avviene nel potere: non nasce un nuovo ceto politico, nasce, al suo posto, un ceto amministrativo, amministrativamente gestionale sempre, sia a livello di governo, sia a livello di opposizione. Tutta intera la direzione berlingueriana - sia con il compromesso storico sia con l'alternativa- non sarà altro che una drammatica fase di difesa, che schierava il popolo comunista a contenere eritardare l'ondata neoborghese. Rodano, che conosceva bene il senso del katéchon paolino come arma politica della Chiesa cattolica, non a caso forniva il supporto culturale. Ma a quel punto non c'era da fare altro che quello. La tanto condannata diversità comunista sarà l'ultima frontiera contro la tanto desiderata omologazione. Il partito comunista che si rinomina partito democratico della sinistra è l'ultimo atto della tragedia. Seguirà la farsa, quando su richiesta della pulsione populista antipolitica, sparirà la stessa parola «partito». Non ci sarà più argine. Solo inondazione.

Che cos'è operaismo A questo punto, che cos'è dunque «operaismo»? Abbiamo visto: un'esperienza intellettuale di formazione, tra anni di noviziato e anni di pellegrinaggio; un episodio di storia del movimento operaio, tra forme di lotta e soluzioni di organizzazione; un'iniziativa di rottura della tradizione marxista ortodossa, italiana e non solo, riguardo al rapporto tra operai e capitale, e non solo, insomma una rivoluzione culturale, seria, in Occidente. In questo senso anche, ecco, evento del Novecento: di questo adesso dobbiamo ragionare. Il passaggio è lì, quando la grandezza tragica del secolo gira su se stessa e si awia a disporsi dalla condizione di stato d'eccezione 57

permanente a quello di tempo normale senza epoca. Ecco perché gli anni Sessanta, a riguardarli da oggi, mostrano di aver assolto alla funzione di questa transizione. Il massimo disordine ha restaurato nuovo ordine. Tutto cambiò perché l'essenziale rimanesse come prima. Dopo che si è sfiorata la guerra atomica, con la vicenda dei missili a Cuba, si è consolidata la coesistenza pacifica e si è veramente chiusa l'età delle guerre civili mondiali. Dove c'è il più grande pericolo, è vero che c'è ciò che salva, ma può esserci anche ciò che perde: tutto dipende da chi vince la partita. La classe operaia che abbiamo incontrato noi è una figura novecentesca. Non dicevamo mai «proletariato». Non gli operai di Manchester, ma quelli di Detroit, erano i «nostri» operai. Davanti alle fabbriche ci aveva portati non La condizione della classe operaia in Inghilterra di Engels, ma la lotta del lavoratore contro il lavoro nei Grundrisse di Marx. Ci muoveva non la rivolta etica per lo sfruttamento che gli operai subivano, ma l'ammirazione politica per le pratiche di insubordinazione che si inventavano. Ci deve essere dato atto che non cademmo mai nella trappola del terzomondismo, delle campagne che assediano le città, delle lunghe marce contadine, non fummo mai «cinesi», e la «rivoluzione culturale», quella d'Oriente, ci vedrà freddi, estranei, lontani, più che moderatamente scettici, in realtà fortemente critici. Il rosso era, ed è, il nostro colore preferito, ma quando lo assumono le «guardie» o le «brigate» sappiamo che può risultarne solo il peggio della storia umana. Ci piaceva al contrario il fatto che gli operai del Novecento spezzassero la continuità della lunga gloriosa storia delle classi subalterne, con le loro rivolte disperate, le loro eresie millenariste, i loro ricorrenti generosi tentativi, sempre dolorosamente repressi, di rompere le catene. In fabbrica, nella grande fabbrica, il conflitto era quasi ad armi pari, si perdeva e si vinceva, giorno per giorno,

in una permanente guerra di posizione. Nella lotta di classe quello che ci entusiasmava era la classe in lotta. La forma, sì, di quella, ma anche i tempi da scegliere, anzi i momenti da usare e le condizioni da imporre, quindi gli obiettivi da perseguire, e i mezzi atti a raggiungerli: nulla più di quanto si possa chiedere, nulla meno di quanto si possa ottenere. Fu un'altra scoperta lancinante quella che, durante il lungo periodo che va dalla sconfitta nelle elezioni di commissione interna, 1955, al ritorno nelle lotte generali contrattuali, 1962, non c'era stata affatto negli stabilimenti FIAT quella che si chiamava «passività operaia», ma un'attività di lotte di altro tipo: quelle cosiddette «a gatto selvaggio», salto della scocca, sabotaggi sulla linea di montaggio, uso insubordinato dei tempi tayloristi di produzione. Gli operai della grande fabbrica fordista erano, sì, i figli degli operai antifascisti del 1943, che avevano salvato capannoni e macchinari dalle distruzioni naziste, ma erano anche gli eredi delle occupazioni del biennio rivoluzionario, '19-20, con la bandiera rossa sugli stabilimenti, a testimoniare la volontà di «fare come in Russia». Nella concentrazione forzata di lavoro industriale, tra anni Cinquanta e anni Sessanta, per i bisogni stessi di un decollo capitalistico in atto, si era creato un potente crogiuolo inedito di esperienze storiche, di necessità quotidiane, di insoddisfazione sindacale, di volontà politica: quello che gli «operaisti» cercarono, adesso possiamo dire, ingenuamente, di interpretare. Benedetta ingenuità: che ci fece diventare da allora per sempre - lo disse splendidamente Fortini- «astuti come colombe». E fu la nostra vera Università. Quella la vera alta cultura in cui valeva la pena riconoscersi. Ci laureammo in lotta di classe. Un titolo che non ci servì per insegnare ma, molto più seriamente, per vivere. Il punto di vista operaio non avrà nemmeno più bisogno degli 59

operai per funzionare da principio regolatore nella intelligenza degli awenimenti e nella scelta delle decisioni. Sarà un modo politico di guardare il mondo e una forma umana di comportarsi in esso stando sempre, in un certo modo, da una parte sola. La verità è che nella figura dell'operaio-massa - nell'irruzione della sua esistenza storica - andava a confluire, anzi a precipitare, tutta intera la vicenda della prima metà, quella grandiosa, del Novecento. 1914-194s: solo il soggetto operaio, emerso lì dentro e cresciuto dopo, si elevò all'altezza di quella storia. So che c'è un'esagerazione intellettuale a voler trovare in fondo in una figura tecnica, socialmente empirica, l'espressione - vogliamo dire la rappresentazione? - di una totalità storica. Ma è voluta. Si vuole reagire in questo modo a due derive a cui è rimasta esposta e su cui è stata trascinata l'idea novecentesca di operaio. Una è quella vincente, di marca anglosassone, una vicenda di occidentalizzazione del mondo del lavoro, marcata da un segno capitalistico di classe introiettato dalle organizzazione ufficiali residuali del movimento operaio.

The worker The workerè l'operaio, il lavoratore di fabbrica, ridotto a funzione della produzione, solo forza-lavoro, solo capitale variabile, sottoposto all'organizzazione scientifica dei tempi con il taylorismo, al macchinismo automatizzato della produzione di massa per il fordismo, al consumo sociale istituzionalizzato, contrattualizzato e garantito nel keynesismo. Una costellazione di grande potenza politica dominante, a cui il ciclo delle lotte, dagli USA all'Europa, dagli anni Trenta agli anni Sessanta, ha saputo rispondere quasi al medesimo livello. Ma anche, alla fine, un classico luogo novecentesco, dove la tecnica vince sull'uomo: e - questa è la cosa non ancora compresa e difficile da comprendere-vince non in modo totalitario, 60

ma in forme democratiche. Qui si innesta il tradeunionismo, lo spontaneismo, cioè il carattere non immediatamente politico implicito nella condizione antropologica del lavoratore di fabbrica, e l'operaio alla catena di montaggio della grande industria non fa eccezione. Il «partito in fabbrica», tipica parola d'ordine dell'operaismo, voleva bloccare e respingere e correggere questo tipo di deriva tecnicistico-economicistica che muoveva dall'alto e dal basso della dimensione lavoro, da parte padronale e da parte sindacale: per cominciare a dare senso politico, dall'esterno, alle lotte operaie. l.'.invenzione semantica dell' «operaio collettivo», non certo sociologicamente fondata, ma certamente simbolicamente aderente a un progetto politico di attraversamento del purgatorio della rivoluzione, serviva da strumento per evidenziare un soggetto storicamente determinato. 1.'.altra deriva, che può andare sotto lo stesso nome, era quella rappresentata da un'apparenza mistificatoria che il movimento operaio ortodosso aveva appiccicato addosso a una classe operaia eretica. Era un vero e proprio apparato ideologico quello della «classe generale», emancipatoria di se stessa solo per emancipare l'umanità tutta. A parte il concetto arretrato di emancipazione, del lavoro e di altro, che il Novecento si preoccuperà di superare, era l'aura ottocentesca, sottesa a questo discorso, che non corrispondeva più alla realtà della cosa stessa e che pure sopravvisse, a dire il vero, più nella componente comunista che in quella socialdemocratica, presso il pensiero e il linguaggio delle organizzazioni dei lavoratori. Gli operai avevano sempre-dovevano avere!-una «missione» da compiere e sempre salvifica era-doveva essere! -questa missione: salvare la fabbrica, salvare il paese, salvare la pace, salvare i popoli del Terzo Mondo dalle aggressioni imperialistiche. Solidarity for ever, questa bella parola d'ordine che gli operai

americani avevano coniato per dire legame sociale tra loro, veniva stravolta come solidarietà sempre con altro o con altri, di cui, potemmo constatare nei rapporti diretti, agli operai FIAT, ad esempio, non importava un bel niente. Del resto, la proposta veniva da un ceto politico portato-torniamo al punto di sopra-dall'antifascismo al culto dell'interesse generale come interesse nazionale. Che oggi sia portato dal pacifismo al culto dell'interesse generale come interesse mondiale è soltanto la prova di quanto dura a morire sia questa ideologia. Essa esiste da quando esiste la società divisa in classi, e serve a mascherare questa realtà. Luniversalismo è la visione borghese classica del mondo e dell'uomo. Tutti gli uomini- e gli uomini e le donne-devono apparire eguali perché il riconoscimento delle differenze non porti all'organizzazione del conflitto. La borghesia ha scritto questi principii sulle bandiere delle sue rivoluzioni, e sui preamboli delle sue Costituzioni. Poi, a seconda delle sue convenienze, li ha più volte negati. La negazione massima c'è stata nei totalitarismi del Novecento, di cui le negazioni successive, fino a quelle di oggi, verso i sottopopoli del sottomondo sono delle pallide imitazioni. Da allora il movimento operaio, e ancora di più la sinistra, si sono allenati nello sport di andare a raccogliere le bandiere gettate nella polvere. Va collocato lì il principio della fine. La forza del generai intellect cresceva quanto più infuriava la violenza delle guerre civili mondiali, ma lo stato d'eccezione metteva anche a rischio la stabilità dei suoi equilibri. Dopo aver toccato il fondo della tempesta mondiale, si poteva risalire solo puntando alla normalità di una grande bonaccia delle Antille. Tra le due guerre ci poteva essere sia dittatura sia democrazia, dopo, dentro la terza guerra, quella fredda, e soprattutto oltre, ci poteva essere solo democrazia. Così la pax democratica diventa il valore universale per tutti gli uomi62

nidi buona volontà, non importa se capitalisti o operai, se abitanti del primo o del quarto mondo, se padroni o schiavi, greci o barbari, uomini o donne. Che poi per mantenere ed esportare la pax democratica occorra qualche guerricciola, questo non cambia granché il quadro. Sta di fatto che in questo contesto storico, la lotta di classe, non più riconosciuta, deperiva fin quasi a scomparire. E le classi, senza lotta, anche. Perché questo è certo: non esiste lotta senza riconoscimento della stessa; e non esistono classi senza lotta fra di esse. La fine della lotta di classe non si spiega con la sociologia, ma con la politica. Una società divisa in classi politicamente rese inconsapevoli di sé e che quindi convivono producendo e consumando in vista dell'unico bene comune, è l'utopia realizzata del capitalismo. [utopia è diventata l'isola che c'è. Il «sogno di una cosa» lo hanno messo in pratica i padroni. Si può prevedere che come fondamentale eredità dell'operaismo, resterà non tanto l'analisi della fabbrica capitalistica al tempo del fordismo, quanto la critica dell'ideologia borghese, e borghese-operaia, sul campo del Novecento. È vero che non c'è, non può esserci, e non si vuole dare, una lettura di interna assoluta autoconsapevolezza dell'esperienza operaista di allora. Se usiamo il linguaggio della teologia politica - checché se ne dica, il più pregnante nel dire la verità sul secolo passato - possiamo affermare che l'operaismo, mentre si esprimeva, prima metà degli anni Sessanta, aveva un segno escatologico: non si proponeva certo di concludere al meglio la storia della salvezza, ma, più modestamente, puntava a dare alle lotte operaie uno sbocco politico. A rileggerlo oggi compare piuttosto in primo piano la sua funzione di opposizione attiva, consistita nel trattenere, nel ritardare quella deriva umanitario-filantropica della stessa figura dell'operaio di fabbrica, rimasta ormai l'ultima

casamatta da conquistare per l'universalismo borghese. Il primo obiettivo fu in tutto naturalmente mancato, se per sbocco politico si intende quello che si intendeva allora, cioè la riapertura di un processo rivoluzionario in Occidente, sia pure sul terreno di più avanzate istituzioni liberaldemocratiche, con il soggetto operaio che, alla testa del partito, rimetteva in gioco lo stato dei rapporti di potere. In gran parte raggiunto invece il secondo obiettivo: quando il '68 studentesco viene afferrato dal '69 operaio, e la spinta antiautoritaria diventa spinta anticapitalistica, con il salario che incide sul profitto, con il potere di fabbrica che erode il potere di impresa, e interviene lo Statuto dei lavoratori e si impongono le leggi di modernizzazione della coscienza civile del paese, è chiaro che per tutti gli anni Settanta viene rinviato quel ritorno in forze di egemonia padronale, che dilagherà poi dagli anni Ottanta in poi. In realtà, a vedere bene, da quest'ultimo passaggio, con l'iniziativa di restaurazione capitalistica neoclassica, con l'avvento di una forma nuova, trilateralizzata, cioè modernamente globalizzata, della vecchia cara rivoluzione conservatrice, non si mostra in esaurimento la spinta propulsiva delle lotte operaie, piuttosto si indebolisce la forza di contrasto, l'unica, in grado di trattenere, di contenere, la ritornante potenza egemonica di comando assoluto. Quando poi si spezza quello che era ormai diventato l'anello debole della catena mondiale del socialismo, la forma-Stato URSS, e il suo blocco fondamentalmente di potenza militare alternativa, non c'è più argine al dilagare del riaffermato primato del capitalismo-mondo, primato sociale, politico, civile, culturale, teorico e ideologico insieme, buon senso intellettuale più senso comune di massa. Finisce il Novecento nel segno della sconfitta operaia. Il Novecento è stato tante cose, troppe per la fragile sensibilità e la debole intelligenza comu-

nemente umane, e per esso è particolarmente impropria ogni reductio ad unum. Qui ci interessa quel suo parziale aspetto storico e quella sua particolare immagine simbolica che ce lo consegna come secolo operaio.

Der Arbeiter Der Arbeiter: una figura tecnico-letteraria, e così poi il titolo di un libro, celebre, come il suo autore, un sapiente reazionario, un po' pretenzioso e troppo aristocratico nel senso antico per i nostri gusti. 1932, appena un anno prima di una data fatale per l'Europa e per il mondo: Junger ha scritto questo testo fra i trenta e i trentacinque anni, un creativo passaggio, sappiamo, intellettualmente difficile da controllare. Schopenhauer insegna: «A trent'anni governa Marte: l'uomo è ora violento, forte, ardito, bellicoso e caparbio» (Parerga e paralipomena, Boringhieri, Torino 1963, p. 620). Affermo subito, come si dice, a scanso di equivoci, che non conoscevo allora quel libro. Schopenhauer l'avevo letto, Junger, no. Lo lessi molto dopo. E accadde quello che miracolosamente talvolta accade: che ritrovi pezzi del tuo pensiero in chi ha pensato prima di te, e lo sai dopo, e trovi conferma così che hai pensato giusto. Ma con un problema: quando quei pensieri già pensati sono nati in un altro orizzonte, sviluppati con altri strumenti, motivati da altri fini, non semplicemente diversi ma opposti ai tuoi, che devi fare? Ebbene qui scatta il moderno conflitto weberiano tra etica della convinzione e etica della responsabilità. Nello stesso tempo si ripropone l'antica distinzione aristotelica tra scritti essoterici e scritti esoterici, o quella solo più recente hegeliana, tra lezioni dette (vedi sulla filosofia del diritto) e opere edite. Tutto sta nella vicinanza o nella lontananza che, nell'attimo della scrittura, concretamente esiste tra il livello della pratica e il livello della teoria.

Quando maneggi l'etica della convinzione, quello è il momento in cui sai che il problema non è convincere qualcuno, perché in quello stesso momento il capire tu, il comprendere per te, costi quello che costi, il conoscere ciò che è, così com'è, ha il primato assoluto. E se quello che devi sapere lo ha saputo, prima di te, il tuo stesso nemico, non c'è problema. Usi quel sapere per altri fini. Il fatto che il primo operaismo, a un certo punto del suo percorso interno, certamente non con «Quaderni rossi», ma certamente già da «classe operaia», abbia incrociato e valutato e utilizzato la tradizione del pensiero grande-conservatore, è un tratto fondamentale. Non cogliere, o equivocare, questo tratto impedisce la comprensione di quell'esperienza. Noi siamo stati costretti a riprendere tutta intera la storia del realismo politico dal lato conservatore, perché essa era stata abbandonata dal lato del movimento operaio, soprattutto occidentale. E se un filo di rapporto era rimasto, fino proprio ai primi Sessanta, con la pratica di una buona doppiezza, di lì in avanti, grazie anche al '68, sempre più, e fino a oggi, i processi di spoliticizzazione e di neutralizzazione hanno preso una corsa senza limiti e senza freni. Non a caso, proprio dagli anni Settanta, sempre di più, saltando sopra alla generale ostilità, abbiamo dovuto radicalizzare l'autonomia delle categorie del politico, man mano che precipitava verso una rovinosa caduta, fino al miserabilismo del dopo '89, la perdita di forza di quella potenza che era stata l'orizzonte operaio novecentesco. Più semplice, più facile, dire della pratica di un'etica della responsabilità. Qui hai a che fare con una realtà vicina, in cui devi intervenire subito, nel tempo-ora, per influire, modificare, spostare, aggiungere, rovesciare. Devi rendere responsabili gli altri, tutti, l'amico e il nemico. Organizzare il conflitto e al tempo stesso civilizzarlo. Fare in modo che l'eccedenza necessaria del pensiero per 66

capire non si trasformi in una trappola di parole che fatalmente porti a un cattivo agire. [impatto con la testa dura dei fatti c'è in ogni caso. Ma questa volta la primazia spetta al fare rispetto al conoscere. In un articolo, a differenza che in un saggio o in un libro, puoi permetterti di manipolare gli eventi: piegare la curva della realtà per indicare dove puoi colpire meglio. Perché questo lì conta: cambiare l'ordine delle cose, non la logica dei pensieri. Silete philosophi in munere alieno. Devi battere quello che ti sta di contro, anche qui costi quello che costi, e la storia dei mezzi e dei fini è nient'altro che l'eterno ritorno del politico. Althusser su Machiavelli ha detto in questo alcune cose importanti. [acutissimus .florentinus - come lo chiama Spinoza-è il primo teorico della congiuntura, il primo pensatore che abbia coscientemente «pensato "nella" congiuntura, cioè nel concetto di caso singolo aleatorio». Non si tratta di tener conto di un insieme di dati concreti e rifletterci su. Questa semmai era l'istanza empirico-sociologica, che pure ha avuto un ruolo nella costruzione di un punto di vista operaista. Pensare «sotto la congiuntura» «significa letteralmente sottomettersi al problema che produce e impone il suo caso». Se allora il problema era di fare dell'Italia uno Stato-nazione-obiettivo che, attraverso Machiavelli, avrebbe ripreso Hegel per la Germania del suo tempo-ora il problema era di fare dell'operaio-massa una forza politica. Intervenire sulla congiuntura non è dunque l'enumerazione delle circostanze diverse, non è il riassunto dei suoi elementi, ma è il cambiare di segno, lì e allora, di quegli elementi: «questi diventano delle forze reali o virtuali nella lotta per l' obiettivo storico e i loro rapporti diventano dei rapporti di forza[ ... ] La questione diventa allora: sotto quale "forma" raggruppare tutte le forze positive attualmente disponibili per raggiungere l'obiettivo politico» (L. Althusser, Machiavelli e noi, manifestolibri, Roma 1999, pp. 36-39).

E se la forma di questa realizzazione si presenta come

Principe, il passo ulteriore è quello di definire la sua pratica politica, in primo luogo le forze, nel senso questa volta dei mezzi e dei procedimenti, in grado di portarla al successo. Come vedrà poi Gramsci, qui Machiavelli passava la mano a Lenin. Ma se Gramsci vedeva il Principe nel partito, ecco, noi lo vedevamo direttamente nella classe. Non perché la classe potesse avere successo senza partito. Ma perché la forma-classe era il vero soggetto e la realizzazione di sé nella politica poteva essere data solo dallo strumento-partito. Gli operai possono combattere il padrone, ma per battere il capitale ci vuole il partito. La lotta però ha il primato. In questo senso ha il primato la classe. Il nostro nichilismo arrivava a declinare così il motto bernsteiniano: la lotta è tutto, il fine è nulla. E non perché gli operai fossero vocati alle lotte, ma perché erano bravi a farle. Il problema è il rapporto da stabilire soggettivamente tra la lotta parziale e il suo generale esito vincente. Qui sta l'uso politico della congiuntura. Dalle lotte operaie al partito in fabbrica: questo è l'arco di sviluppo che ha portato da «Quaderni rossi» a «classe operaia». Il passo ulteriore, nel passaggio dalla rivista al giornale, stava nel porsi il tema di approntare le forme e le forze, i mezzi e i processi, di una pratica politica in grado non solo di combattere ma di battere l'avversario di classe. Qui il nulla si rovesciava in qualcosa. La politica e il partito, e dunque il partito politico, non sarà mai, nemmeno dopo questo passaggio, il soggetto storico, sarà piuttosto il modo necessario della sua organizzazione, appunto nel «caso singolo aleatorio», forma di una figura, mezzo per un fine, procedimènto in un processo. Il Pri_ncipe sarà sempre quello: l'operaio-massa, lavoratore produttivo di capitale, a sua volta prodotto della tecnica moderna, a cui andava apprestato dall'esterno, machiavellianamente, «l'animo grande» e «l'intenzione alta». 68

Jilnger dunque non c'entrava per niente. Il suo Arbeiterera un eroe antiborghese, che aveva rotto con l'ironia romantica e si era riconciliato con l'apparato della tecnica. Il suo Einzige stirneriano era il nuovo tipo umano di una singolarità, anzi di una egoità, superindividualistica, dove lo uber nietzscheano era esattamente un sopra, non un oltre, sopra la persona e sopra la massa. Ed era l'operaio-soldato - «milite del lavoro», traduceva opportunamente il Cantimori di allora - nato nelle trincee della prima guerra mondiale, temprato nelle tempeste d'acciaio, protagonista della mobilitazione totale, che segnava il passaggio dalla Ichzeit alla Wirzeit, l'età del fuoco che diventerà l'età del ghiaccio. Affresco a suo modo geniale, come è sempre geniale il pensiero folle di chi tenta di fermare i passi del tempo evocando i segni dei tempi. «Dobbiamo riconoscere che siamo nati in una plaga di ghiaccio e di fuoco. Il passato è tale che non si può mantenere legami con esso, e la realtà in divenire è tale che non ci si può preparare a essa. Questa plaga presuppone in chi vi dimora, come atteggiamento, il massimo grado di scetticismo pronto alla guerra» (E. Jilnger, L'operaio, Longanesi, Milano 1984, p. 87). Dobbiamo riconoscere, a nostra volta, che queste frasi ci piacquero dopo, a sconfitta operaia già avvenuta. Perché non c'era rassegnazione, ma la ricerca di un altro terreno di lotta, che forse avevamo sottovalutato. «Non è concesso trovarsi in quelle parti del fronte che sono da difendere, occorre essere là dove si attacca» (ibid.). Il passaggio al terreno del politico affonda qui le ragioni strategiche sulla sua decisione. «Le forze storiche, mentre si esauriscono[ ... ] fabbricano contemporaneamente [... ] una più grande realtà» (p. 8). Man mano che si esauriva la spinta di classe veniva avanti il bisogno di un di più di politica. È nel suo corso, nel suo interno sviluppo, che l'esperienza operaista cambia il suo centro di inte-

resse, e dunque il luogo privilegiato del suo intervento: dal rapporto «fabbrica e società» si passa al rapporto «fabbrica e politica». «Arbeiter», con il suo riferirsi all'etimo «Arbeit», viene meglio descritto empiricamente traducendo «lavoratore», dove c'è il riferimento a «lavoro». Devo dire che non ci ha mai intrigato più di tanto- allora e dopola debolistica tripartizione arendtiana di labour, work, action. La versione italiana (Bompiani) di The human condition, con il titolo di Vita activa esce nel 1964. Ma non c'era quello che cercavamo, un pensiero delle lotte del lavoratore sul lavoro. Su questo nodo di problema, si tratta piuttosto di Herrschaft e Gestalt. Per questo è più opportuno dire «operaio», perché la parola è meno decrittiva, il suo significato è meno sociologico e più politico. Il lavoratore di fabbrica, produttore di capitale, si stacca, si libera, dal lavoro: tanto più quanto più si allontana dal suo orizzonte individuale di mestiere, dalla sua personale qualifica professionale, quanto più diventa lavoratore alienato, robot alla catena, appendice della macchina. La macchina non ama il lavoro, lo esegue e basta. La lotta operaia contro il lavoro è un grande tema evocato dall'operaismo. Evocato soltanto, purtroppo. [affondo non è stato portato né fino alle sue origini antropologiche né, qui veramente, fino alle sue conseguenze sociologiche. Ma solo aver detto: rifiuto del lavoro! mandò gambe all'aria un secolo di retorica lavoristica. Anche qui ci fu l'incontro tra alcune pagine marxiane dei Grundrisse e alcune parole operaie all'uscita dal turno di fabbrica, dove trovavi la stessa indifferenza e la medesima ostilità verso il tipo di «opera» compiuta da parte di chi erogava lavoro dell'industria sotto comando di capitale. Poi, Accornero parlerà de Il lavoro come ideologia (Il Mulino, Bologna 1980). Cito da questo testo un passo curioso: «" Il lavoro in frantumi fa la clas-

se unita", afferma il giovane operaismo italiano degli anni Sessanta». A conferma, riporta dal n. 2, 1964, di «classe operaia», brani di un articolo: «Soltanto col lavoro anonimo si realizza la produzione di massa. E quando la qualifica singola è nulla e quella collettiva è massima, si può dire che soltanto allora - cioè ora - nasce una vera classe operaia» (pp. 98-99).1.'.articolo è firmato 1. r., Luciano Romagnani era Aris Accornero. Poi Napoleoni riscoprirà la scholé, «equivalente greco di otium ... con un contenuto positivo, però, cioè non come mancanza di attività; scholé è contemplazione. Da questo poi viene "scuola": è la conoscenza» (Nella storia c'è salvezza?, in Cercate ancora, Editori Riuniti, Roma 1990, pp. no-n1). Il seme gettato dava frutti marginali ma saporosi, mentre la sinistra che veniva dal movimento operaio tanto più santificava il lavoro quanto meno lo organizzava. La forma-operaio, di cui parla Jiinger, è una forma della tecnica, anzi una messa in forma, eroica, superomistica, della tecnica. Per noi era una forma della politica, una messa in forma, sociale, collettiva, della politica. E non della politica eterna, quella che la forma più sottile di antipolitica vede nascere dalla polis antica e lascia morire nelle democrazie contemporanee, ma di quella cosa storicamente determinata, che si chiama «politica moderna», gestione sapiente del conflitto tra forma e potenza, autorità e potere, libertà e dominio, differenza e identità, il basso contro l'alto, servo e signore, nel reciproco riconoscimento e nel reciproco rovesciamento. La politica non è tecnica, ma nel moderno, cioè nel capitalismo, è come la tecnica: la figura novecentesca del suo destino ha assunto una tale immane potenza da farne un Dio in terra. l.'.operaio-massa ha avuto a che fare con tutte e due - la tecnica e la politica - e quando le due entità demoniache hanno saldato tra loro una laica, de71

mocratica, alleanza contro di lui, la sua «forma» è stata travolta. Jiinger ha scritto: «già di per sé la parola "operaio'' può indicare null'altro se non un modo di agire che riconosce il proprio compito, e quindi la propria libertà, nel lavoro» (op. cit., pp. 40-41). Questo lo riconoscemmo anche noi, per altre vie e per nostro conto. Non era ripeto - un compito salvifico per l'umanità e nemmeno un compito emancipatorio per se stesso. Da quanto ne abbiamo capito da allora a oggi, era un'istanza negativa, critica, rifiuto di sé, del lavoro e dell'altro, il capitale, dal momento in cui erano diventati una cosa sola, solo internamente divisa e contrapposta. Il nichilismo politico è alla fine il non-luogo dove dovremmo andare a cercare grandezza e miseria della classe operaia nel Novecento.

La condition ouvrière l.'.operaismo non si è mai occupato della «condizione operaia»: non era questo il tema, non, questo, il problema. Sotto quel titolo sono state vissute altre, nobili, esperienze: quella del militante sindacale, ovviamente e, con meno ovvietà, quella di chi vestiva i panni dell'operaio, per condividere direttamente una vita e una lotta. La figura del prete-operaio non è riconducibile a quella del missionario che predica la fede in partibus in.fidelium, o presta la sua opera d'aiuto agli ultimi della terra. Non è nemmeno simile al cappellano che va in carcere a consolare la pena dei derelitti. Il prete operaio non è un teologo della liberazione. Il prete che entra in fabbrica sceglie di essere operaio di fabbrica. Vende forza-lavoro, produce merci, assolve a una mansione, percepisce salario. Applica, sì, il precetto di Gesù: fatevi piccoli con i piccoli, non però per aiutarli a essere così, ma per essere, anch'egli, così. Finito di stampare nel maggio del '68, uscirà, anonimo, presso le Dehoniane Diario di un'operaia di fabbrica. l.'.avvertenza dice che «questo diario ha voluto rima72

nere anonimo perché la denuncia della "condizione operaia" che fa l'Autrice non è solo diretta alla sua azienda ma a tutti gli ambienti di lavoro». 1.'.autrice era Palma Plini, che aveva preso i voti, da secolare, nella Compagnia di S. Paolo, militante storica delle ACLI milanesi, dal '54, per circa vent'anni, operaia alla Borletti (v. in Pro.fili. Uomini e donne delle ACL!, il n. 2, a lei dedicato, a cura di Letizia Olivari, nel febbraio 2000). Quello che non era stato ancora possibile all'inizio del '68 diventava possibile nel '74: di poter pubblicare col proprio nome il seguito di quel diario, Lotte di fabbrica e promozione operaia, sempre presso le Dehoniane di Bologna. Scrive nella Premessa: «Lanascita dei delegati e dei consigli di fabbrica hanno segnato il rinnovamento delle strutture sindacali in fabbrica e il conseguente attacco all'organizzazione capitalistica del lavoro. Questo diario lo dedico a tutti i compagni lavoratori che nelle fabbriche lottano per migliori condizioni di vita, per la costruzione del sindacato di classe, per l'alternativa al capitalismo». Sembra un volantino di «classe operaia». Eppure la dimensione è quell'altra, intrecciata, nella complessità moderna, di nuovo novecentesca, della figura operaia, non riducibile, non semplificabile. Scrive Palma, nel primo Diario, in un giorno vigilia di Natale, sulla constatazione che in fabbrica «c'è febbre di pagano»: «Non ho potuto cogliere in nessuna donna e in nessun uomo del mio reparto un'espressione, una parola, un gesto che rivelassero dei sentimenti religiosi. Solo materialmente è inteso il lavoro, come tutti gli altri aspetti della vita. Bisogna pensare e credere che oggi la "preghiera" della povera gente sia fatta così e nella maggioranza dei casi anche noi dobbiamo farla così...» (p. 37). Ecco l'intreccio complesso, lo scambio virtuoso che si realizza, nella fabbrica, prima e più che altrove, tra materialità sfruttata del lavoro e personalità alienata del lavoratore, e in questo caso della lavoratrice. 73

Credo che a nessuno degli operaisti sia mai venuto in mente di farsi operaio. Perché? Scrive Montaigne: «Licurgo ordinava il vino agli Spartani ammalati. Perché? Perché da sani ne aborrivano l'uso» (Essais, Garnier, Gallimard, Paris 1958, Livre II, Chapitre XXXVII, De la ressemblance des enfants aux pères, p. 513). Noi consigliavamo le lotte agli operai che vivevano quotidianamente il mal di fabbrica, soprattutto la lotta contro il lavoro, che essi sanamente odiavano. Questo aspetto, questa faccia della questione operaia, fu anch'essa una scoperta del momento. Più tardi e, a esperienza conclusa, ci fu quell'altra, di scoperta: che gli operai non amavano le lotte, in sé, vi erano costretti, tirati dentro dall'interesse padronale esclusivo al profitto d'impresa, sempre prodotto dal loro sfruttamento. Gli operai sono, per vocazione e per professione, classe dirigente, soggetto di governo dei processi, forma ordinatrice di nuovi equilibri, contraddizione che si supera e che supera, a partire da sé, dalla propria consaputa parzialità. Nessuna grande esperienza politica operaia è stata mai «sovversiva». Neppure all'atto della rivoluzione. Il Palazzo d'Inverno viene conquistato con sulla bandiera rossa le due parole d'ordine: la pace, la terra. La falce e il martello incrociati sono la proposta di un'alleanza, non la minaccia di una scissione. Sovversive, dall'alto, saranno le classi dominanti, quando adotteranno la decisione di passare alla soluzione autoritaria, o quando apriranno le porte all'età delle guerre civili mondiali. Nel rifiuto del lavoro c'è un particolare tipo di nichilismo operaio, tattico, politico nel senso sopra detto dell'agire necessitato sulla contingenza, per mettere in difficoltà l'avversario sul punto in quel momento più sensibile del suo diretto interesse. Abbiamo cercato un concetto scientifico, cioè non ideologico, di rivoluzione, così come ci sembrava di aver trovato un concetto scientifico, non 74

ideologico, di fabbrica. La rivoluzione operaia era rovesciamento del rapporto di forza, non sovversione dell'ordine costituito. Questa coscienza politica è venuta a noi, più tardi, dall'esterno, portata dall'esperienza operaista, maturata poi nel pensiero. Ma non siamo mai stati soreliani: non ci ha scaldato il cuore il mito dello sciopero generale e la marxiana violenza levatrice della storia l'abbiamo regalata subito all'estremismo malattia infantile del comunismo. Ecco, è questo appassionato disincanto che rendeva superfluo il farsi operaio per chi sceglieva di stare dalla parte della classe operaia. Simone Weil è stata riconosciuta in Die heilige Johanna der Schlachthofe, la Santa Giovanna dei Macelli di Brecht. Ma il percorso di Johanna e di Simone è opposto. La prima passa dalla predicazione della non violenza alla pratica della violenza, la seconda passa dalla denuncia alla proposta. Ma è la differenza che corre tra la Chicago del '29 e la Parigi del '35. Il tratto comune tra le due figure è invece più forte. Johanna, subito all'inizio del dramma: «In tetri tempi di sanguinoso smarrimento,/ ordinato disordine,/ pianificato arbitrio,/ disumana umanità, / quando non vogliono più cessare, nelle nostre città, le agitazioni; / chiamati dalla voce di minacciose violenze / perché la rude violenza del popolo miope non spezzi le sue stesse macchine,/ non calpesti il suo proprio pane,/ vogliamo qui riportare/ Iddio ... E questa nostra impresa è certo/ l'ultima del suo genere. Ultima prova dunque/ di erigerlo ancora una volta/ su un mondo in rovina, e proprio / con gli infimi degli uomini» (Santa Giovanna dei Macelli, in Teatro di Bertolt Brecht, volume III, Einaudi, Torino 1961, pp. 338-339). E Simone, nel 1941, a qualche anno di distanza dalla sua diretta esperienza di fabbrica, gridava il suo «solo un Dio ci può salvare»: «Nessuna astuzia, nessun procedimento, nessuna riforma, nessuno sconvolgimento pos75

sono far penetrare la finalità nell'universo dove la loro stessa condizione colloca i lavoratori. Ma questo universo può essere tutto sospeso alla sola finalità che sia vera. Può essere congiunto a Dio. La condizione dei lavoratori è quella nella quale la fame di finalità che costituisce l'essere stesso di ogni uomo non può essere saziata se ncn d2 Dio [... ] Ogni fine particolare, foss'anche la salvezza di un'anima o di molte anime, può diventare uno schermo e nascondere Dio. Con distacco bisogna trapassare lo schermo. Per i lavoratori non c'è schermo. Nulla li separa da Dio. Devono solo alzare la testa» (Prima condizione di un lavoro non servile, in S. Weil, La condizione operaia, Mondadori, Milano 1990, p. 298). Aris Accornero ha parlato di questo come un «testo che infaustamente chiude la raccolta della Condition ouvrière» (v. in A. Accornero, G. Bianchi, A. Marchetti, Simone Weil e la condizione operaia, Editori Riuniti, Roma 1985, pp. 121-122). Ed è vero che qui assistiamo a una «implosione del pensiero weiliano», originata non solo dal «distacco» rispetto all'esperienza diretta di fabbrica, ma da un seguito di storia più grande, che va dalle speranze del Fronte popolare alla disfatta della Francia dell'occupazione nazista, con tutto quello che comporta di pessimismo storico, di immobilismo della questione sociale, di eterno ritorno della medesima condizione operaia in qualunque sistema di organizzazione della produzione e soprattutto di cristianesimo tragico, che è l'orizzonte esistenziale entro cui Simone andrà a lasciarsi morire. Ma ci si deve chiedere perché, a partire dalla condizione non del lavoratore genericamente inteso, ma da quella dell'operaio della fabbrica moderna si innesta, scatta, irrompe questa dimensione della trascendenza, religiosa sì ma anche filosofica. Difficile rispondere. E non so se serve solo a complicare inutilmente il problema cominciare a parlare di una teologia

politica operaia. O se questo non ci avvicini a capire il senso dell'esito a cui è andata incontro una vicenda storica. Qual è infatti il punto su cui si tratta ora non di piangere o di rimpiangere ma solo di comprendere? Il punto è la sconfitta operaia. E non di quella degli anni Sessanta nell'Italia degli operaisti, ma di quella del Novecento, tra Oriente e Occidente delfEuropa-mondo. La teologia politica nasce sul nodo della irresolubilità, nella dimensione della sola immanenza, del problema politico. Di qui, il ricorso ai concetti teologici secolarizzati. Il tempo moderno è questo. È anche questo. Nella società politica, nello Stato, si dà legalità, non si dà legittimità. E il pouvoir neutre deve sempre essere dotato di legalità più legittimità. Per grazia divina o per volontà popolare, il potere legittimo viene concesso, dall'esterno e dall'alto, al sovrano che decide. Ma in una società divisa, il potere di una parte non ha legittimità per l'altra parte. E il potere di tutti è impossibile, se la totalità prima non si riunifica. Le soluzioni formali, pura forza o pura legge, violenza o diritti, schema comando-obbedienza o schema governo-rappresentanza, assolutismo e liberalismo nella modernità classica, totalitarismo e democrazia nella modernità critica, non funzionano, né l'uno né l'altro, per stabilire che la decisione «di» non sia ancora e sempre una decisione «su». Chi sta in alto deve conquistarsi il consenso di chi sta in basso, a volte direttamente costi quello che costi, a volte indirettamente concedendo quello che si può concedere. La storia della politica moderna è la storia dell'esercizio del potere, nelle sue varie forme.

Sconfitta operaia Avevano visto bene i bolscevichi a mettere qui il tema del «che fare», e bene hanno fatto a risolvere la cosa «alla plebea», come aveva consigliato Marx. Perché ope77

raie soldati dovevano continuare a dare riconoscimento al potere dello zar che li aveva mandati al macello della guerra? Legale era quel potere per la nobiltà russa, legittima la rivoluzione per il proletariato internazionale. Qui c'è veramente senno di poi. Allora non la sapevamo questa verità, maturata appunto dopo, nelle pieghe del tempo stupido che ne è seguito: e cioè che la politica operaia è qualcosa di più che il partito in fabbrica. È la dimensione da Oberarbeiter, che porta l'operaio collettivo non sopra di sé, ma oltre, al di là, del lavoro, macchinizzato o computerizzato, di fabbrica, che lui odia: non certo per aspirare a raggiungere il generalmente umano, che odia altrettanto, quanto per arrivare a rovesciare l'alienazione nel prodotto da consumo in una riappropriazione di sé, nell'esistenza storica. In questo senso, la condizione di rude razza pagana è, a suo modo, riconoscimento di uno status obbligato, stare fermo al proprio essere empirico per non lasciarsi travolgere dal rapporto sociale generale, anzi universale. Simone Weil temeva per la sua anima, ogni volta che timbrava il cartellino per entrare in fabbrica, e avrebbe voluto lasciarla fuori per riprendersela all'uscita. In realtà, la sua anima ha conquistato libertà nel lavoro alla catena. Per convincersene, basta leggere gli scritti composti a seguire di quell'esperienza. La fabbrica moderna è come «l'immensa vastità di un'angusta cella». «Dio» qui, come spesso accade contro la secolarizzazione modernizzatrice, è un modo per dire «al di là» del proprio egoistico sé, un modo per utilizzare al meglio la benjaminiana ]etztzeit, il tempo-ora, che da un lato ci opprime dall'altro ci redime, un modo per riaffermare un sì-sì e un nono, occasionalistico e quindi realistico. [abbiamo capito dopo, perché il segno della sconfitta operaia l'abbiamo sentito - noi operaisti più di altri - sulla carne viva, cioè sul pensiero vissuto, in età matura, in grado quindi

di assimilare, rielaborare, contrastare, con scelte intellettuali strategiche e accorgimenti esistenziali tattici. Sconfitta operaia o, il che è lo stesso, lo scacco della politica del Novecento: questo è il tema che residua da una lontana consumata esperienza e che accenna a una inedita declinazione del futuro passato, l'unico lavoro di ricerca, questo, che valga la pena a questo punto di fare. «Nei crepacci del tempo» - direbbe Paul Celan - bisogna andare a trovare «il cristallo». Qui si colloca il punto più delicato del discorso: aperto a equivoci, fraintendimenti, investito da riserve, sospetti. Ma è il punto decisivo. Già accennato. Lo riprendo da un'altra parte. E quello in cui il percorso è andato su per un solitario sentiero interrotto. Credo che nessuno dei cosiddetti exoperaisti la pensi così, su questo punto. Operai e capitale: una guerra, anzi un'età delle guerre. Nel senso in cui parla Hillman della guerra: «accadimento mitico», «presenza archetipica». «Normalità della guerra», sulla base di due fattori: «la sua "costanza" nel corso della storia, la sua "ubiquità" sul pianeta» (J. Hillman, Un terribile amore per la guerra, Adelphi, Milano 2004, p. 55). La condizione operaia e l'azione capitalistica non sfuggono a questa determinata eternità della storia. Ma - ecco - da parte operaia, la grande iniziativa: una guerra «messa in forma», civilizzata, combattuta sotto il modello dello jus publicum europaeum. La regolazione del conflitto, abbandonata a livello di politica internazionale, venne conservata sul terreno delle politiche nazionali. E questo anche in pieno Novecento, quando infuriavano le guerre civili senza forma, terrore elargito dall'alto degli Stati, delle Nazioni, dei Regimi: di fronte a cui il terrorismo di oggi è una pallida immagine. Paragonate, prego, un kamikaze a una fortezza volante. La lotta di classe è stata guerra civilizzata, non guerra civile, sempre, tranne quando è stata assunta nello stato d'eccezio-

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ne della costruzione del socialismo in un paese solo, o quando è stata piegata a una risposta obbligata alla soluzione totalitaria capitalistica. Ma qual è stato l'esito dello scontro dicotomico di classe? Ebbene ha vinto il capitale, hanno perso gli operai. Se non si parte da questo dato di verità, non si capisce niente, per altro verso, proprio del Novecento. E se non si capisce niente del Novecento, non si può sapere niente né del prima di noi né del dopo di noi, noi, voglio dire, contemporanei, abitanti di quest'ultima modernità. Dentro la grande epoca novecentesca della lotta di classe c'è tutto, capitalismo e socialismo, riforme e rivoluzione, totalitarismo e Stato liberale, Stato sociale e società democratica. La sconfitta operaia c'era già stata quando si è materializzato nel mondo il fallimento politico della costruzione comunista del socialismo. Ma è la chiusura di questa vicenda che ha rivelato - simbolicamente - il fallimento storico della classe operaia. Si è detto: non è che non ce l'ha fatta il partito comunista, non ce l'hanno fatta gli operai. La mia idea è che non ce l'hanno fatta a farsi Stato, quella forma della politica moderna, che ha prodotto una sintesi straordinaria di dominio e consenso. Si sono fatti partito. Ma, per non degenerare, il partito non doveva farsi esso stesso Stato, doveva solo funzionare come strumento della sua egemonia sulla società in costruzione, tappa per tappa, fase per fase, su un impianto strategico di lungo periodo. Obiettivo: fondare un popolo socialista. Pre-condizione: portare nella classe operaia dall'esterno la coscienza della politica moderna e così inventarsi le istituzioni operaie di una rivoluzione realizzata. Potevano riuscirci solo i comunisti del Novecento. Se non ci sono riusciti loro, l'impresa non poteva riuscire. E forse non riuscirà più. Il perché di questa impossibile necessità è ancora tutta da capire. Questa cosa qui, proprio così- con il suo 80

dover essere e il suo non poter essere - c'era già nella testa dei bolscevichi dei primi anni Venti. Poi, la caduta in uno stato d'eccezione permanente, il rapido estinguersi del «fare come in Russia» nella vicina Europa, l' esperimento quindi costretto in un paese solo, l'accerchiamento capitalistico inaugurato dalla controrivoluzione bianca, l'insuperabilità antropologica del processo di collettivizzazione sulla terra dei contadini, l'irruzione dell'età dei totalitarismi con l'anticomunismo di guerra alle porte di casa, tutto insieme questo inquinamento dell'ambiente storico ha ucciso, uno a uno, sul nascere i germi rivoluzionari, prima dello sviluppo. Al loro posto, i semi fecondi di un'antica, atavica, forzatura violenta della storia e l'eterno ritorno delle degenerazioni in un potere post-rivoluzionario. Ma soprattutto: con il comunismo di guerra non si dava costruzione del socialismo. La guerra, che era stata essenziale per la rivoluzione, diventava esiziale per il dopo, per la costituzione statuale di un ordine nuovo. E non si poteva fare, come con Napoleone, esportare la rivoluzione con gli eserciti, o impiantare, come con Cromwell, un New Model Army. Mancava la forza. Ma soprattutto mancava lo spirito militare borghese, quell'arte della guerra, che la politica moderna aveva elaborato da Machiavelli a Clausewitz. La promessa della rivoluzione bolscevica, accanto alla terra, era la pace. Ed era nello spirito del socialismo l'internazionale pacifica tra i popoli. Per la sua effettiva costruzione sarebbero stati necessari decenni di pace. Ma la pace non viene concessa a chi si permette di spezzare la catena del potere nelle mani dei potenti. Per gli insubordinati, c'è solo la scelta se essere sconfitti con la lotta o senza. Solo gli operai, fuoriusciti dalla tradizione millenaria delle classi subalterne, con le loro eroico-tragiche rivolte represse con la violenza, hanno saputo rovesciare, in determinati passaggi storici, questa verità.

Qui, l'elemento di catarsi che la tragedia della Russia nel Novecento ci ha consegnato: impossibile costruzione del socialismo senza Stato operaio. Tutta intera andava ereditata la storia di lunga durata dello Stato moderno, nel suo crescere per prova ed errore, attraverso elaborazioni teoriche e pratiche politiche, con soluzioni alternative, volta a volta, sul breve e sul lungo periodo, perdenti e vincenti, e aggiustamenti successivi e processi di autoriforma in corso d'opera, nel grande arco di sviluppo dall'assolutismo alla democrazia: il capolavoro politico dell'ésprit bourgeois, che ha garantito l'altra lunga durata, quella del modo di produzione capitalistico, la trasformazione del Leviatano, il volto mostruoso del potere, nelle forme belle dello Stato sociale di diritto. Saper andare oltre, non contro, questa storia poteva essere, il contrapposto capolavoro politico di parte operaia, stabilizzazione della propria forza antagonistica e al tempo stesso contributo al destino della civitas hominis. È vero: gli operai di Pietroburgo non hanno avuto libertà di scelta. L'assalto al cielo, che non era stato perdonato ai comunardi, perché doveva essere concesso ai bolscevichi? Diceva Gogol: la vita, in questo caso la storia, mi ha sempre mostrato il volto del mastro di posta, che scuote la testa e ti dice: non ci sono cavalli. Si poteva percorrere a piedi la via al socialismo, nell'età, adveniente, del turbo-capitalismo? E nell'Europa del Novecento - perché qui si è giocata la partita - il movimento operaio ha vissuto una vicenda unica e divaricata: a oriente, condizionata dal peso dello Stato assoluto, una classe subalterna si è fatta classe dominante, senza mai diventare classe dirigente; a occidente, impigliata nella rete della democrazia liberale, una classe subalterna si è fatta classe dirigente, senza riuscire a diventare classe dominante. Due interi, mancanti ciascuno di una metà. So di usare parole ostili a chi legge. Ma qui