Neoliberismi e azione pubblica. Il caso italiano 8823019435, 9788823019430

L'attuale crisi economica e finanziaria globale ha stimolato un intenso dibattito scientifico, oltre che politico,

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Neoliberismi e azione pubblica. Il caso italiano
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Neoliberismi .< e azione pubblica Il caso italiano a curadi

Giulio Moini

Neoliberismi e azione pubblica Il caso italiano a cura di

Giulio Moini

EDIESSE

Il volume è stato pubblicato con il contributo del Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche della Sapienza Università di Roma.

© Copyright by Ediesse, 2015 Ediesse s.r.l. Viale di Porta Tiburtina, 36 - 00185 Roma Tel. 06/44870283 - 06/44870325 Fax 06/44870335

www.ediesseonline.it [email protected]

Progetto grafico: Antonella Lupi

Indice

Introduzione

L’azione pubblica neoliberista: un’analisi del caso italiano di Giulio Moini

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Capitolo primo

Capire il neoliberismo: variegatura, egemonia e (de)politicizzazione di Giulio Moini 1. 2. 3. 4. 5.

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Problemi definitori e tipi di neoliberismo Idee e interessi nell’azione pubblica neoliberista Variegatura ed egemonia del neoliberismo Processi e strumenti di depoliticizzazione La variegatura del neoliberismo in Italia

17 23 27 33 38

Capitolo secondo

La 'religione’ del capitalismo finanziario e la variegatura del neoliberismo di Luca Salmieri

1. 2. 3. 4.

51

Il capitalismo finanziario comereligione Terreno ed ultra terreno Capitalismo finanziario e variegaturadel neoliberismo Conclusioni

51 55 62 69

Capitolo terzo Governance economica europea in tempi di crisi e scelte dì policy nazionali: l’austerità nel discorso

parlamentare italiano di Sabrina Cavatorto e Alba Ferreri

71

1. Introduzione 2. Politiche regolative, risposte ordoliberali aH’eurocrisi, fallimenti di democrazia

71 72

3. Il coordinamento sovranazionale della finanza pubblica 4. Partecipazione parlamentare e salienza europea 5. Conclusioni

77 80 90

Capitolo quarto

Neoliberismo e riforme del mercato del lavoro italiano: fatti, versioni, determinanti strutturali di Andrea Clarini

93

1. Introduzione 2. Variabilità nel tempo e nello spazio delle riforme del mercato del lavoro in Europa 3. Italia. Le costantidella via bassa alla competitività 4. Regole e riforme del mercato del lavoro. Tra nuovi dualismi e persistenti incastri distorti

93 96 101

105

Capitolo quinto

Comunità, impresa, responsabilità. Processi di neoliberalizzazione nel welfare italiano di Davide Caselli

111

1. 2. 3. 4. 5.

111 113 116 120 125

Introduzione Ascesa del ivelfare mix: 1991-2008 Una nuova fase di distruzione creatrice: 2008-... Gli attori principali Conclusioni e scenario

Capitolo sesto

Il nuovo scenario delle politiche educative: tra valutazione, quasi-mercato e l’emergere di nuovi attori di Orazio Giancola 1. Il mutamento delle politiche dAV education: tra spinte internazionali e processi di decentramento 2. Gli organismi sovranazionali e i nuovi orizzonti dì policy 3. «Grandi dati», valutazione e nuova governance della scuola 4. L’Italia nel contesto Europeo ed internazionale: il nodo problematico della valutazione 5. Dietro i «dati», dentro le politiche

129 129 132 136

141 144

Capitolo settimo

Azione pubblica, imprese ed egemonia in una politica neoliberista: FAgenda urbana italiana e il paradigma Smart City di Ernesto dfAlbergo

147

1. L’agenda urbana italiana: perché e come studiare una politica nascente 147 2. L’immaginario Smart City e i suoi knowledge brand 153 3. Interessi, idee ed egemonia: un nuovo ruolo politico per le imprese? 160

'^Capitolo ottavo

Fuoco incrociato sul planning di Barbara Pizzo

1. 2. 3. 4. 5.

Introduzione li planning: cos’è Pianificazione e neoliberismo Il contesto e il caso Osservazioni conclusive

169

169 172 175 176 184

^Capitolo nono

Le politiche di sicurezza urbana in Italia: neoliberismo e nuova punitività di Giuseppe Ricotta

189

1. Introduzione 2. Neoliberismo e rappresentazioni sociali delle politiche di sicurezza 3. Le politiche di sicurezza urbana in Italia: tra nuova prevenzione e punitività 4. Conclusioni: i limiti delle politiche di sicurezza urbana

189

190 194 202

Conclusioni

Neoliberismi in Italia: evidenze e possibili agende di ricerca di Giulio Moini

205;

Bibliografia

209

Le autrici e gli autori

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Introduzione L’azione pubblica neoliberista: un’analisi del caso italiano di Giulio Moini

12 febbraio 1981: il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta scrive al governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi chiedendogli un "parere’ sull’esigenza di cambiare regime’, ossia di ampliare l’autonomia della Banca centrale dal ministero nell’ambito delle politiche monetarie. Si tratta di una questione ampiamente di­ scussa e rispetto alla quale sono state date interpretazioni contra­ stanti. Nessuno, neanche chi sostiene ancora oggi l’opportunità di quella scelta, nega che essa abbia dato inizio .alla crescita del debito pubblico italiano. Una scelta che rappresenta, occorre aggiungere, anche il primo rilevante esempio di un processo di depoliticizzazione.dell’azione pubblica italiana, ossia di uno spostamento di respon­ sabilità decisionali vexso arene non politiche in senso stretto. Con questa decisione si apre quindi la strada a una stagione di cambiamenti che - passando anche attraverso due riforme del mec­ canismo di adeguamento delle retribuzioni all’inflazione che porte­ ranno nel 1992 alla sua cancellazione definitiva (complice la sconfit­ ta del PCI al referendum del 1985 sull’abolizione della scala mobile) - è stata sistematicamente guidata dall’imperativo di contrastare la crescita del debito pubblico e, quindi, di ridurre la spesa pubblica. Questi eventi possono essere_simbolicamente considerati come l’inizio della lunga stagione neoliberista in Italia. Una stagione che arriva fino a noi. I governi di G. Amato (giugno del 1992 - aprile del 1993) e C.A. Ciampi (aprile 1993 - maggio 1994) si concentrano in quel periodo, tra le altre cose, su un massiccio programma di privatizzazioni. La Corte dei Conti (2010), in un’analisi del processo di privatizzazioni delle imprese a partecipazione statale, scrive che «il primum movens 9

del grande programma di privatizzazione su larga scala è stata la promulgazione nell’agosto del 1992 della legge 3^9»(p. 29), che ha avviato la trasformazione in società per azione di TRI, ENI, INA, ENEL e altri enti pubblici economici1. Nello stesso periodo, solo per fare qualche brevissimo esempio, si avvia una riforma radicale del pubblico impiego (decreto legislativo n. 29 del 1993), si introduco­ no i ‘quasi-mercati della salute’ (decreto legislativo n. 502 del 1992 e 517 del 1993), si promuove una politica dei redditi in cui il salario è una variabile dipendente dal livello di inflazione programmata e si favorisce la sperimentazione del lavoro interinale (Accordo del 23 [luglio 1993 fra sindacati confederali, imprenditori e governo). Non occorre andare oltre per collocare queste riforme all’interno della progressiva affermazione di un modello di azione pubblica neolibe­ rista, che si rinforzerà ulteriormente con la firma del Trattato di Maastricht e il successivo processo di europeizzazione delle politiche nazionali. Un modello che si consolida ulteriormente con il primo governo di R. Prodi (maggio 1996 - ottobre 1998), il quale vince le elezioni con un programma che rivendica, solo per fare dei brevi esempi, l’esigenza che lo Stato «promuova il mercato» e si «apra al mercato dei capitali»; che persegua «senza tentennamenti la privatizzazione delle banche e delle imprese pubbliche italiane»; che promuova an­ che a livello locale «la concorrenza fra le imprese di fornitura o ge­ stione ovunque ciò sia possibile» (Tesi, nn. 46-49)12. Si tratta di tesi che poggiano non solo sul primato della competizione - tipica delle riforme condotte, più o meno nello stesso periodo, anche in altri Paesi occidentali - ma anche su una presunta virtù civilizzatrice del mercato, il quale avrebbe dovuto rappresentare l’antidoto princi­ pale nei confronti della commistione clientelare tra politica ed eco­ nomia, che la vicenda ‘Mani pulite’ aveva portato in primo piano. 1 Nel Libro Verde sulle privatizzazioni pubblicato dalla Direzione generale del Te­ soro nel 1992 gli obiettivi principali dichiarati erano i seguenti; «(i) potenziare la competitività del sistema produttivo; (ii) promuovere lo sviluppo del mercato finan­ ziario; (iii) incentivare l’internazionalizzazione delle imprese ed incrementare l’inte­ grazione a livello europeo. Un obiettivo solo formalmente secondario era natural­ mente quello di migliorare i conti dello Stato e di arginare il debito pubblico» (Corte dei Conti, 2010, p. 18). 2 Tesi per la definizione della piattaforma programmatica de L’Ulivo, http://www. perlulivo.it/radici/vittorieelettorali/programma/tesi/index.html (ultimo accesso 30 marzo 2015).

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Il 26 gennaio 1994 Silvio Berlusconi entra nell’arena politica ita­ liana con dichiarazioni che, almeno dal punto di vista della retorica discorsiva, lo collocano immediatamente nella cornice dei valori e dei principi del neoliberismo, in continuità e coerenza con una cul­ tura politica di destra contraria, in tutto il mondo occidentale a ‘big government' e ‘ta and spend'. Afferma non solo l’esigenza «di una amministrazione pubblica che voglia essere liberale in politica e li­ berista in economia», ma declina anche un sistema di credenze diffi­ cilmente equivocabile: «crediamo nell’individuo, nella famiglia, nel­ l’impresa, nella competizione, nello sviluppo, nell’efficienza, nel mercato libero e nella solidarietà, figlia della giustizia e della liber­ tà»3. Le conseguenze della crisi iniziata nel 2007-2008 - unitamente alle ‘sollecitazioni’ della Banca centrale europea che, come noto, prendono la forma di una lettera spedita da J.C. Trichet e M. Dra­ ghi allo stesso S. Berlusconi nel 20114 e all’azione politica svolta dal Presidente della Repubblica in quel momento in carica - portano alla guida del governo M. Monti (novembre 2011 - aprile 2013) che, nella seconda parte del suo mandato con un decreto legge (n. 1 del 24 gennaio 2011), promuove «disposizioni urgenti per la concor­ renza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività». In breve utilizzando peraltro l’analisi critica di tali provvedimenti condotta da chi ritiene che «la libertà di iniziativa e il mercato competitivo sono principi irrinunciabili» (Saltari, 2012, p. 589) - si tratta di un insieme di misure che «hanno introiettato la logica ‘dello Stato del mercato’ cioè che i poteri pubblici, anziché limitarla, promuovono e difendono la concorrenza» (ivi, p. 588). Ritorna in questa esperien­ za un tratto che ha sistematicamente caratterizzato l’azione pubblica italiana dagli inizi degli anni novanta in poi, ovvero l’introduzione per via gerarchica e autoritativa dei valori e dei principi operativi del mercato e della concorrenza.

3 http://www.cini92.altervista.org/discorsoberlusconi.html (ultimo accesso 31 marzo 2015). 4 Nella quale, solo per fare un esempio, si citano come sfide principali «l’aumento della concorrenza, particolarmente nei servizi, il miglioramento della qualità dei ser­ vizi pubblici e il ridisegno di sistemi regolatori e fiscali che siano più adatti a sostener • re la competitività delle imprese e I’efficienza del mercato del lavoro», http://www.il sole 24ore. com/art/notizie/2011-09-29/testo4ettera-governo-italiano-09 1227. shtml?uuid =Aad8ZT8D (ultimo accesso 31 marzo 2015).

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Lasciando da parte sia la riforma del mercato del lavoro realizza­ ta dalla ministra Elsa Fornero (legge n. 92/2012) durante la presi­ denza di M. Monti, sia la parentesi del governo di E. Letta, si arriva a oggi con il governo presieduto da M. Renzi, rispetto al quale vale la pena di citare, come esempio paradigmatico delle credenze che guidano la sua azione pubblica, quanto dichiarato in un’intervista al quotidiano II Foglio (8 giugno 2012) parlando della sua partecipa­ zione alle primarie del Partito democratico previste per la fine del 2012: «dimostreremo che non è vero che l’Italia e l’Europa sono sta­ te distrutte dal liberismo ma che al contrario il liberismo è un con­ cetto di sinistra, e che le idee degli Zingales, degli Ichino e dei Blair non possono essere dei tratti marginali dell’identità del nostro par­ tito, ma ne devono essere il cuore». La palingènesi del neoliberismo trova così la sua forma più compiuta nel tentativo dell’attuale presi­ dente del Consiglio di collocarlo nel cuore della cultura politica della sinistra. In poco meno di trent’anni il neoliberismo si radica con decisione nelle forme e nei contenuti dell’azione pubblica italiana5. In questo stesso periodo conosce delle varianti. Quella del «neoliberismo con­ certato» (Rossi, 2012), tipico dei primi anni novanta. La variante «gerarchico-autoritaria» (d’Albergo, Moini, 2010) - in cui si usa la forza dell’autorità pubblica per introdurre interventi a favore di un segmento ben definito di interessi economici e politici all’interno, però, di una complessiva retorica discorsiva che tuona contro il po­ tere dello Stato (Briziarelli, 2014) - propria del lungo periodo berlusconiano. La forma del neoliberismo «tecnocratico» (Gualmini, Schmidt, 2013) di M. Monti e infine quella «palatable» di M. Renzi (Anili, 2014). La stagione del neoliberismo italiano ha prodotto nel corso dell’ultimo trentennio esperimenti che complessivamente si sono sviluppati (e si stanno sviluppando) tra «false promesse e fal­ limenti sociali» (Salento, 2014). Fallimenti che appaiono evidenti anche in relazione alla presunta e già citata capacità di riuscire a 5 È interessante notare che la forza politica del neoliberismo in Italia è solo in pic­ cola parte riconducibile alla forza normativa delle analisi scientifiche di autori italiani che si rifanno alle tradizioni teoriche del neoliberismo. Come scrivono M. Fotia e A. Pilieri (1993), in uno dei rari lavori sul neoliberismo in Italia, «contributi originali provenienti, a tutt’oggi, dai neoliberisti italiani non mancano, Prevalgono, tuttavia, serie ed impegnate esercitazioni applicative del pensiero straniero, prive di prospetti­ ve veramente autonome» (p. 49).

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moralizzare i rapporti collusivi tra interessi economici e politici, ti­ pici del nostro Paese, attraverso la forza purificatrice del mercato. Nonostante ciò il neoliberismo sembra rimanere un riferimento centrale per Fazione pubblica. Ma è davvero così? È possibile indi­ viduare le evidenze empiriche di un progressivo consolidamento dei valori del neoliberismo in diversi ambiti di azione pubblica? E, in caso di risposta positiva, quali sono le variabili che possono giustifi­ care la permanenza nel tempo di questo paradigma di azione? Co­ sa, in modo più specifico, può spiegare l’egemonia degli attori che strutturano in Italia i sistemi di credenze e le pratiche di azione neoliberiste e degli interessi che ne traggono vantaggio? Sono que­ ste le domande principali attorno a cui ruota il libro. Nei capitoli seguenti per rispondere a queste domande si analizzano diacroni­ camente le forme assunte dall’azione pubblica in diversi ambiti di intervento. Da queste analisi emergono in modo sistematico alcune evidenze del processo di neoliberalizzazione in Italia. Questo per­ mette di sostenere empiricamente un’ipotesi interpretativa dell’ege­ monia neoliberista che, in questa sede, ci si limita ad introdurre. L’ipotesLè. che tale egemonia poggi sia sulla capacità posseduta de­ gli attori delle élite a loro ‘organiche’ di varjegare il paradigma di azione neoliberista in diversi ambiti di azione, ossia di declinarlo con modal ità.specific he in differenti contesti d’uso, sia sulla capacità dXus^^attiche di de­ politicizzazione dell’azione_pp.ubblica stessa. ossia^di-peì^^uire^uh progetto politico di sostanziale consolidamento delle strategie,di, ac­ cumulazione della ricchezza, evitando però di pagarne i costi sociali e politici. r SoncTquindi stati presi in considerazione alcuni ambiti di inter­ vento che meglio di altri permettono di mettere a fuoco le caratteri­ stiche di un’azione pubblica neoliberista: la finanza pubblica, il mer­ cato del lavoro, il welfare, la scuola e l’educazione, le questioni ur­ bane, la sicurezza e l’uso dello spazio. Naturalmente altri settori avrebbero potuto avere rilevanza esplicativa (basti pensare all’ambito della salute e dei servizi sanitari o a quello dello sviluppo economi­ co), ma ovvie ragioni di spazio hanno imposto di ridurre l’analisi ai casi indicati. Il libro si apre con due capitoli introduttivi di carattere teorico. Nel primo Giulio Moini propone un modello interpretativo gene­ rale e fissa i principali risultati dell’analisi dei singoli casi di studio

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analizzati. Nel secondo Luca Salmieri - muovendo dalla fondamen­ tale considerazione che non si può capire il neoliberismo senza ca­ pire il capitalismo - sviluppa un’accurata e originale analisi del rap­ porto tra la variegatura del neoliberismo e il capitalismo finanziario, utilizzando in modo innovativo alcune delle categorie analitiche ti­ piche della sociologia delle religioni. Nel terzo capitolo, che apre gli approfondimenti nei diversi am­ biti di azione pubblica, Sabrina Cavatorto e Alba Ferreri sviluppano - utilizzando i dati di una ricerca che hanno condotto sul dibattito parlamentare che si è sviluppato in Italia tra il 2008 e il 2013 relati­ vamente alla riforma della governance economica dell’Unione Euro­ pea - un’analisi degli interventi nel cruciale ambito della finanza pubblica e delle politiche di bilancio che fa emergere come il raffor­ zamento dei vincoli di bilancio comunitari non produca, nel conte­ sto nazionale, una maggiore politicizzazione delle questioni europee Nel capitolo seguente (il quarto) Andrea Ciarini ricostruisce i cambiamenti più rilevanti che hanno interessato a partire dagli anni novanta la regolazione del mercato del lavoro, mostrando gli inca­ stri, decisamente poco virtuosi, tra il sistema della regolazione e le caratteristiche del sistema produttivo italiano. Davide Caselli nel quinto capitolo ricostruisce criticamente gli sviluppi più recenti del welfare italiano evidenziando, a partire dalle trasformazioni conosciute dai modelli di welfare mix, le potenti spin­ te non solo verso una crescente imprenditorializzazione del terzo settore, ma soprattutto verso una lenta ma progressiva finanziariz­ zazione dello stesso welfare state. Il caso delle politiche educative, analizzato da Orazio Giancola nel sesto capitolo, è di grande interesse non solo perché fa emerge­ re la co-azione di vettori di cambiamento sovranazionali e spinte endogene dei processi di riforma avviati dalla fine degli anni settan­ ta ad oggi (che hanno ad esempio portato al progressivo consoli­ damenti di quasi-mercati dell’educazione), ma anche perché mostra con chiarezza la forza depoliticizzante del governare attraverso i numeri e gli standard. Nel settimo capitolo Ernesto d’Albergo, con riferimento alla crea­ zione di un’agenda per le politiche urbane in Italia che trova nel paradigma delle Smart City un riferimento fondamentale, mostra come i processi di depoliticizzazione si compiano anche attraverso la creazione di «immaginari» di città desiderabili e mediante «mar-

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chi di conoscenza» che costruiscono soluzioni 'smart' ai problemi della convivenza urbana. Immaginari e marchi che essendo prodotti in primo luogo da imprese private, producono una sostanziale poli­ ticizzazione degli interessi e delle strategie degli attori economici. Nell’ottavo capitolo Barbara Pizzo approfondisce le questioni ur­ bane con specifico riferimento alle azioni di planning, mostrando attraverso uno studio di caso - non solo come in questo settore le partnership pubblico-privato siano divenute di fondamentale impor­ tanza, ma anche come la specifica conformazione di queste possa dare vita a configurazioni completamente differenti dei rapporti tra Stato e mercato e come, in modo solo apparentemente paradossale, si possano produrre processi di deregolazione attraverso una iperregolazione dell’uso dello spazio. Giuseppe Ricotta nel nono capitolo analizza il caso delle politiche della sicurezza che stanno assumendo una centralità crescente negli studi sul neoliberismo. Nel capitolo si analizza in modo puntuale con quali modalità i modelli di sicurezza ispirati a principi neocon­ servatori e neoliberisti sono stati tradotti nello specifico contesto politico-istituzionale, demografico e criminale dell’Italia dando vita a delle politiche di tipo adattivo» e situazionali. Delle brevi conclusioni, curate da Giulio Moini, sintetizzano il tema dei neoliberismi in Italia e introducono alcuni punti di una pos­ sibile agenda di ricerca.

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Capitolo primo Capire il neoliberismo: variegatura, egemonia e (de)politicizzazione di Giulio Moini

1. Problemi definitori e tipi di neoliberismo

Una decina di anni fa Clive Barnett (2005), analizzando criticamente i tentativi di conciliare le letture marxiste con quelle di deri­ vazione foucaultiana del neoliberismo, considerava questo un ter­ mine «consolatorio» per gli accademici di sinistra, poiché permette­ va di semplificare la rappresentazione di molti processi sociali, eco­ nomici e politici, e quindi.favoriva la costruzione di una sorta di fan­ toccio ideale contro il quale orientare le critiche. Da qui un invito radicale: smettere di usare il concetto di neoliberismo per spiegare come funziona e come cambia il mondo contemporaneo. Un invito che, indirettamente, sembra trovare conferma in alcune delle più recenti analisi, secondo cui l’unica vera funzione di questa categoria interpretativa è separare le analisi degli economisti (che raramente usano questo concetto) da quelle degli altri scienziati sociali (che al contrario vi ricorrono frequentemente) (Venugopal, 2015). A queste posizioni si oppongono quelle di chi ritiene che il concetto di neoli­ berismo sia imprescindibile per descrivere il processo storico che negli ultimi quarant’anni ha sostituito «il giudizio politico con la valutazione economica» (Davies, 2014a, p. 3), o di chi vede nella plu­ ralità dei significati attribuiti a questo stesso concetto un suo specifi­ co punto di forza (Pellizzoni, Ylònen, 2012). Quest’ultimo aspetto può essere considerato come la manifesta­ zione più evidente di uno stiramento concettuale (Sartori, 1970) della categoria di neoliberismo..che - estendendosi nel tempo, nello spazio e lungo differenti scale politiche ed economiche di azione rischia di essere utilizzato per descrivere fenomeni e processi tra lo17

ro rnolto. diversLT.C. Boas e J. Gans-Morse (2009) attraverso l’ana­ lisi del contenuto di 148 articoli pubblicati su riviste scientifiche in­ ternazionali tra il 1990 e il 2004 evidenziano come in questi lavori il concetto di neoliberismo rimanga in larga misura non definito e privo di riferimenti empirici certi. Inevitabile quindi considerareJl neoliberismo un «rascal concept» (Brenner, Peck Theodore, 2010), utilizzato con.molte .sfumature (Davies, 2014b) al punto di_jdiyeijjre un concetto «fluido ed elusivQ» (Hilgers, 2013) o, peggio, > jpp. 40-45). Mentre le prime punta­ no sulla sostanziale riduzione del ruolo dello Stato nella regolazione del mercato e cercano di liberare questo da qualunque condiziona­ mento politico, le seconde - anche in virtù della crescita progressiva ÓeTcosti economici e sociali (p. 41) di questo stesso modello di azione - introducono dei parziali correttivi attraverso forme di intervento so­ ciale e circoscritte limitazióni della competizione economica. JNello stésso tempo, però, introducono per via politica forme di regolazione deir azione pubblica orientate al mercato. Si tratta di un tipo di neoli­ berismo che ben corrisponde allo sviluppo di quello che è stato definito_un^^^^to^^^^^^:i(Braithwite, 2008) in cui cresce la..regola­ zione dello Stato (La Spina, Majone, 2000) e la maggior parte di que­ sta si realizza «attraverso e per la competizione» (Braithwite, 2008, p. 11). La transizione storica tra gli anni settanta-ottànta e gli anni no­ vanta e quindi tra forme di neoliberismo é può anche e^epe rappresentata nei terrpinidi una transizione dalle forme di neoliberismo radicale a quelle temperate (Moini, 2011), q, «sociali» (Cerny, 2008): Queste distinzioni, al di là delle esplicite intenzioni degli autori, sembrano involontariamente veicolare una rappresentazione mec­ canica del processo di neoliberalizzazione, secondo la quale da una fase di sviluppo si passerebbe a quella successiva in modo più o me­ no automatico. In realtà i diversi tipi di n^olibgrismo non sono mu­ tuamente esclusivi. Al contrario spesso tfÉoesistonò non solo in diversi contesti istituzionali e geografici, ma anche all’interno di uno stesso Paese^Per questa ragione M. Geddes (2010) preferisce parlare di «momenti espansivi e di cóhsòlidàmento» del neoliberismo che pos­ sono anche soyrapporsi temporalmente e non svilupparsi in succes­ sione come una distinzione, in fasi di sviluppo sembrerebbe implici­ tamente presupporre. A conclusioni analoghe, ma con una lettura teorica più raffinata, arriva C. Hay (2004) il quale distingue tra il «neoliberismo normati­ vo» degli anni settanta e ottanta e quello «normalizzato»4 degli anni

4 Un altro termine che C. Hay usa per definire questo neoliberismo è «necessita­ rian» che non ha un equivalente immediato in italiano. Tale termine indica che un

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novanta. Mentre il primo si basa sulla credenza della «santità, inviolabilità o infallibilità del mercato» (p. 504), il. secondo vede le agende rieolibèriste di riforma come «una condizione dello sviluppo econo­ mico duraturo e della competizione in un mondo economico interdi­ pendente» (ibidem). L’esito è l’istituzionalizzazione e normalizzazione del paradigma di azione neoliberista, il quale trova il suo principale punto di forza e di continuità in degli assunti razionalisti stilizzati (va­ riamente declinati) che non solo lo guidano ma soprattutto lo legit­ timano (pp. 507-522). Il consolidamento del neoliberismo può quin­ di, essere, letto-come una sua progressiva naturalizzazione è tale pro­ cesso si sviluppa con particolare forza nel corso degli anni novanta. G . H ay (2004, pp. 5Ó7-508), in questo stesso lavoro, isola gfi ele­ menti distintivi del neoliberismò, che sintetizza in: i) fiducia nel mercato come meccanismo per l’efficace allocazione di risorse scar­ se; ii) credenza nella desiderabilità di un regime globale di libero commercio e di libera circolazione dei capitali; iii) volontà di limita­ re il ruolo interventista dello Stato nei processi economici o di con­ siderarlo un facilitatore e garante dei meccanismi di mercato; iv) ri­ fiuto delle soluzioni e delle tecniche economiche keynesiane a favo­ re di politiche economiche monetariste e dell’offerta; v) impegno a ridurre i benefici di welfare che potrebbero produrre deresponsabi­ lizzazione, passivazione dei destinatari e disincentivi al prendere parte alla competizione mercantile, all’interno di una più comples­ siva logica di subordinazione dei principi di giustizia sociale e agli imperativi economici; vi) difesa della_flessibilità nel mercato del la­ voro; vii) fiducia nell’uso di risorse private, e più in generale nella capacità allocativa dei mercati e dei quasi mercati, nell’ambito della fornitura dei servizi pubblici. B. Jessop (2014) cercando di arrivare allo stesso obiettivo ha di recente individuato un set tipico delle politiche neoliberiste che comprende: i) liberalizzazioni per promuovere la competizione di mercato; ii) de-regolazione basata sulla credenza nell’efficacia allo­ cativa del mercato; iii) introduzione di proxies di mercato nella ge­ stione ed erogazione dei servizi pubblici combinata con tagli ai budget disponibili per questi stessi servizi; iv) riduzione della tassazione di­ retta dei redditi individuali ma soprattutto d’impresa per incoragevento è determinato da cause antecedenti. Può essere tradotto come un neoliberismo reso necessario da circostanze ed eventi di carattere storico.

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giare le forze di mercato; v) promozione dell’internazionalizzazione per sostenere e incoraggiare la libera circolazione di beni, servizi e capitali. Si tratta di caratteristiche che, come si può facilmente vedere, si sovrappongono o integrano quelle indicate da C. Hay. V. Schmidt e M. Thatcher (2014, p. 40) definiscono il neoliberi­ smo a partire dalle idee (o principi di azione) fondamentali, indivi­ duate in: i) Fimportanza del mercato; ii) il peso ed ruolo dello Stato nei processi economici e sociali; iii) la natura dei sistemi di welfare; iv) l’ampiezza e la rilevanza della competizione; v) la conformazione del mercato del lavoro; vi) le regole di governo delle corporations.

2Ì Idee e interessi nelVazione pubblica neoliberista È sicuramente possibilejmaluz^ idee che‘ lo rappresentano. Occorre però introdurre, sebbene in modo sintetico, alcune precisazioni per non scivolare in involontari ma pericolosi riduzionismi teorici. In primo luogo sono essere separate né dagli toteressLa istituzioni in cui sono collocate5 6 exhe hanno contribuito a costituire né, infine, dalle relazioni di potere che possono concorrere a creare, riprodurre e, in qualche caso, modificare. In secondo luogo le idee si configurano come deì'clusters di concetti (Blyth, 2002) che evol­ vendo nel tempo (Blyth, 2011) danno vita a differenti soluzioni di policy, definizioni di problemi pubblici e filosofie pubbliche (intese in senso ampio come Zeitgeist) (Mehta, 2011). Le idee sono degli in­ siemi polimorfi di concetti che si collocano su diversi livelli di astra­ zione assumendo la forma sia di teorie per l’azione sia di valori, con connotazioni normative7. Ed è questa molteplicità di elementi, for5 II rapporto tra idee e interessi, unitamente a quello tra agency e structure, è un as­ se interpretativo fondamentale per l’analisi dei fenomeni socio-politici. Non conside­ rare le interdipendenze tra questi elementi può limitare significativamente la com­ prensione di questi stessi fenomeni (d’Albergo^ 2014). 6 Le idee possono essere considerate le fondamenta delle istituzioni poiché gene­ rano azioni che sedimentano in routine e quindi in istituzioni sociali (Béland, Cox, 2011, p. 9). ~ 7 Le idee dei^dÌY.er5LattQii.che..prend9nQ.p.arte alla strutturazionedell’azione pubMica.p.QSgono^e ss ere definite come delle «credenze». Queste, senza poter sviluppare in dettaglio un concetto fondamentale negli studi di derivazione co strut tivi sta dei pro­ cessi politici e sociali, possono essere ricondotte a delle vere e proprie «visioni del

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temente variabili nel tempo, che concorre alla strutturazione storica dell’azione pubblica neoliberista. Il legame tra idee, interessi, istituzioni e relazioni di potere è una questione molto ampia, che ha implicazioni ontologiche, epistemo­ logiche e metodologiche non centrali in questa sede e che richiede­ rebbero, per essere adeguatamente approfondite, uno spazio deci­ samente maggiore di quello che si ha a disposizione in questo vo­ lume. L’analisi - sebbene sintetica - di tale legame è però rilevante per arrivare a fissare lo specifico oggetto di studio di questo lavoro e la sua principale tesi interpretativa. In una prospettiva di «istituzio^ nalismo costruttivista» (Hay, 2011, p. 69) le,idee funzionano come dei filtri cognitivi attraverso cui diversi attori filtrano e rappresen­ tano l’ambiente in cui sono inseriti e, in quésto modo, concepisconoi propri interessi^ In questa prospettiva è importante ricostruire le modalità attraverso cui questi stessi filtri cognitivi si costituiscono, affermano e successivamente sono sfidati, modificati o sostituiti. Si tratta delle modalità attraverso cui le idee si istituzionalizzano8 e successivamente si trasformano. Tali dinamiche danno vita a delle vere e proprie istituzioni discorsive»9 che, come tutte le istituzioni,

mondo», che orientano la percezione dei problemi, la loro tematìzzazione, la defini­ zione delle soluzioni e dei conseguenti corsi di azione. G. Capano (1996, p. 176) defi­ nisce «le idee come le credenze che gli attori decisionali hanno rispetto agli elementi cognitivi e valutativi che ne strutturano la relazione con gli altri e con il mondo». Tale idee sono caratterizzate da una dimensione normativa (ossia prescrivono valori e corsi di azione considerati desiderabili o, al contrario, deprecabili) e da una cognitiva (ossia da teorie per l’azione che possono essere utilizzate per la risoluzione di problemi). Quelle rilevanti per lo studio dell’azione pubblica sono quelle con «conseguenze poli­ tiche» (Yee, 1996, p. 70). 8 L. Lanzalaco (1995, pp. 64-65) descrive l’istituzionalizzazione nei termini di un processo fondato sulla tipizzazione, validazione autoreferenziale e spersonalizzazione di comportamenti o abitudini che in virtù di questo stesso processo diventano indi­ pendenti dagli individui che li hanno posti in essere assumendo, in questo modo, trat­ ti universalistici che finiscono con l’essere dati per scontati. Questo processo è in gra­ do di descrivere adeguatamente le dinamiche di istituzionalizzazione delle idee. 9 Nell’approccio del neoistituzionalismo discorsivo le azioni e lo scambio di idee sono inseparabili. Le une non possono essere comprese senza le altre. L.9 scambio di ÌUe£4Uxdl죣JÌi^Qrsj_£^^ che, a loro volta, costitui­ scono la cornice entro cui si sviluppano le idee stesse e i discorsi. Le istituzioni, dal punto di vista dell’approccio discorsivo, sono il contesto all’interno del quale si svi­ luppano repertori di idee più o meno accettabili (Schmidt, 2008). Le istituzioni di­ scorsive non vanno considerate solo dei vincoli per le azioni degli attori, ma anche delle risorse per la loro capacità di com prensione e quindi di azione (Schmidt, 2011).

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simodificano nel .tempo, I mutamenti possono avvenire con intensità e modalità differenziate, ossia - utilizzando il modello analitico pro­ posto da J. Campbell (2004, pp. 62-89) - attraverso processi di: path dependence, in cui il cambiamento è sostanzialmente dipendente dalle idee e dalle soluzione del passato; bricolage, in cui si ricombinano, in forma nuova, principi e pràtiche del passato; diffusione, rii cui si trapermei pi e pratiche già esistenti in contesti nuovi generan­ do un progressivo iscanorfismo; traslazione, in cui invece il cambia­ mento prevede sia la ricòmbinazione di soluzioni del passato, sia quella di soluzioni nuove e provenienti da altri contesti di azione. In queste dinamiche i diversi attori hanno un accesso diversificato a risorse strategiche, in primo luogo le conoscenze, per modificare gli ambienti istituzionali in cui sono inseriti e quindi sono dotati di un potere di azione e discorsivo differenziato. Gli interessi assumo­ no in questa prospettiva la forma di vere e proprie costruzioni so­ ciali10 in grado di orientare le azioni. Ciò che è rilevante non è in­ teresse in senso stretto, ma la percezione che gli attori hanno del­ l’interesse stesso e quindi le modalità con cui questo viene rappre­ sentato. Questa lettura - che in buona sostanza intende negare, o quantomeno considerare irrilevante, la questione dell’esistenza di interessi materiali preesistenti non solo alle forme di azione indivi­ duali o collettive, ma anche alle loro rappresentazioni valoriali, teo­ riche e cognitive - è importante perché fa risaltare la capacità di azione strategica che i diversi attori possono avere per costruire delle rappresentazioni sociali dei propri interessi. Colloca in questo modo, sebbene indirettamente, la costruzione sociale degli interessi, in un sistema di relazioni, di potere. Questa proposta, a causa di un certo grado di incertezza logica nella costruzione dell’interpreta­ zione, lascia però non completamente spiegata la questione delle origini degli interessi. C. Hay (2011) afferma che «il monetarismo è stato promosso dal business non perché servisse ai suoi interessi, ma perché è stato percepito come utile a questo scopo» (p. 80), In questo esempio ciò che viene costruito socialmente e discorsivamen­ te è il monetarismo e non la rappresentazione degli interessi che, anzi, rimangono sostanzialmente indefiniti. Rimangono sullo sfon­ do come un elemento che deve essere rappresentato, che preesiste 10 C. Hay (2011, p. 79) afferma che le costruzioni di interessi sono «estrapolazioni idealizzate di preferenze soggettive e intersoggettive».

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alla rappresentazione stessa. Il determinismo che si voleva estromet­ tere dall’analisi del rapporto tra idee e interessi ritorna in tutta la forza. In realtà ciò che questa concezione non evidenzia è il caratte­ re storicamente determinato degli interessi stessi, ossia il loro essere prima di tutto un prodotto (mutevole) di processi di trasformazione storica che hanno a che fare, in primo luogo, con le modalità di produzione della ricchezza economica e dei meccanismi di riprodu­ zione di queste stesse modalità. Insomma gli JiiXeressi possono an­ che essere considerati delle costruzioni sociali poiché sono basati sul­ l’interpretazione che i singoli o i gruppi danno della loro situazione (Campbell 2004, p. 91), ma non si può trascurare il fatto che queste stesse situazioni siano storicamente determinate, ovvero indipen­ denti dalle azioni poste in essere da singoli individui o gruppi11. Analizzare le idee del neoliberismo nel loro articolato sistema di relazioni con degli interessi storicamente determinati, con gli attori che a questi si riferiscono, con i quadri istituzionali in cui si colloca­ no (che nello stesso tempo concorrono a costruire) e infine con le relazioni di potere che da questo complesso sistema d’interdipen­ denze può scaturire, equivale - a ben vedere - ad analizzare in real­ tà le forme e i contenuti dell’azione pubblica neoliberista. Questa, nella prospettiva di P. Lascoumes e P. Le Galés (2012, pp- 14-16), si struttura infatti sulla base di cinque variabili, che sono gli attori (e gli interessi di cui sono portatori), le rappresentazioni, le istituzioni, le relazioni tra i diversi attori e i risultati ottenuti dall’azione stes­ sa11 12. In questa prospettiva l’azione pubblica appare come una vera e propria pratica di potere che, in quanto tale, è indissolubilmente le­ gata alle questioni del dominio, dell’egemonia, della legittimazione delle scelte assunte e delle possibili forme di resistenza nei confronti di queste (ivi, p. 42). L’azione pubblica, in termini ancor più gene­ rali, può essere considerata «Finsieme delle relazioni, delle pratiche e delle rappresentazioni che concorrono alla produzione politica­ mente legittima di modi di regolazione dei rapporti sociali» (Du­ bois, 2009, p. 311). Se quindi è vero che le idee del neoliberismo non possono essere 11 Si tratta di attualizzare la lezione gramsciana secondo cui; «le forme materiali non sarebbero concepibili storicamente senza forma e le ideologie sarebbero ghiribiz­ zi individuali senza le forze materiali» (Gramsci, 1975 e 2001, p. 869). 12 Per un’analisi di questi elementi e per una loro ulteriore precisazione si può ve­ dere Moini (2013, pp. 24-29).

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disgiunte dagli interessi e dagli attori, dai frame istituzionali, dalle relazioni tra gli attori e dai risultati che producono, e se è vero che l’azione pubblica si struttura sulla base di questi stessi elementi, al­ lora studiare le idee del neoliberismo equivale a studiare, dal punto di vista empirico, sia le forme e i contenuti dell’azione pubblica, sia le pratiche di potere in cui queste stesse idee si sostanziano. L’og­ getto specifico di analisi del presente lavoro è quindi l’azione pub­ blicaneoliberista i ni talia.

3. Variegatura ed egemonia del neoliberismo Tale limitazione del campo di indagine consente non solo di de­ finire con maggiore precisione concettuale Fazione pubblica neoli­ berista, ma anche di fissare una .prima ipotesi interpretativa della perdurante egemonia13 degli attori, degli interessi e delle idee del neoliberismo stesso. Se si considerano le idee come delle rappresen­ tazioni di, interessi che sono storicamente determinati e se ciò si configura anche come una pratica di potere, allora diventa possibile pensare al neoliberismo come una forma di azione pubblica che dà cprpo al progetto di politico di tutelare, consolidare e riprodurre gli interessi delle ruling classes capitalistiche. D. Harvey (2005, p. 19) considera il neoliberismo come «progetto politico per ristabilire le condizioni di accumulazione del capitale e ripristinare il potere delle élite economiche». Sulla stessa linea A. Saad-Filho e D. Johnston (2007, p. 3) pensano al neoliberismo «co­ me ad una forma particolare del capitalismo che si è evoluta per proteggere il capitalismo e ridurre il potere della forza-lavoro». G. Duménil e D. Lévy (2ÒÒ1, 2004, 2005, 2011) insistono sul rapporto tra^neoliberismo e processi di accumulazione capitalistica e in parti­ colare sulla sua capacità di favorire la definizione di un nuovo ordi13 A. Gramsci afferma che «l’esercizio normale dell’egemonia [...] è caratterizzato da una combinazione della forza e del consenso che si equilibrano, senza che la forza soverchi di troppo il consenso, anzi appaia appoggiata dal consenso della maggioran­ za espresso dai così detti organi dell’opinione pubblica» (Gramsci, 1975 e 2001, p. 59). Bob Jessop (1997, p. 62) operazionalizza il concetto di egemonia nei termini di un progetto che «mobilita supporto a un programma di azione che asserisce resi­ stenza di un interesse generale nel perseguimento di obiettivi che implicitamente o esplicitamente fanno avanzare gli interessi di lungo periodo della classe egemonica».

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ne sociale in grado di proteggere l’accumulazione di ricchezza delle élite più ricche laddove si determinando crisi strutturali (Duménil, Lévy, 2007, p. 12) o, ancor più direttamente, considerano il neoliberismo come «la strategia con cui le classi capitalistiche in~alleanza in particolare i manager della finanza, in­ tendono rinforzare la loro egemonia ed espanderla globalmente» (Duménil, Lévy, 2011, p. 1). C. Scherrer (2104), intervenendo di re­ cente nella discussione delle ragioni della resilienza del neoliberi­ smo (che saranno sviluppate nelle pagine seguenti) con particolare riferimento alla situazione successiva alla crisi economica e finanzia­ ria del 2007/2008, afferma che questa stessa resilienza può essere meglio compresa considerando «il carattere di classe del neoliberi­ smo» (p. 351). L’idea che il neoliberismo sia un progetto politico non è propria solo delle prospettive teoriche di derivazione marxi­ sta, ma anche di quelle che, cercando una mediazione con le letture post-strutturaliste, definiscono il neoliberismo come un progetto politico di reingegnerizzazione dello Stato (Wacquant, 2012) che, a sua volta, si compone di differenti specifici sub-progetti politici (Bockman, 2012). Il vantaggio teorico dell’insieme di queste spiegazioni - che in qualche caso possono essere esposte ai rischi simmetricamente con­ trapposti di determinismo economicistico e volontarismo politico consiste nella possibilità che offrono di contestualizzare storicamen­ te fanalisi del neohberismo nei processi di trasformazione (e crisi) delle strategie di accumulazione capitalistica. In questa sede non è possibile approfondire il fondamentale rapporto tra neoliberismo e capitalismo. Luca Salmieri nel secondo capitolo di questo volume a cui si rinvia per un’analisi maggiormente approfondita - si con­ centra su tale questione analizzando in particolare il rapporto tra il neoliberismo e il contemporaneo capitalismo finanziario letto, con acume e profondità, utilizzando le categorie interpretative della so­ ciologia della religione. Ciò che conta, al momento, è fissare che il radicamento dell’a­ zione pubblica.meoliberista nel quadro delle trasformazioni del mo­ dello capitalistico, consente di fissare un importante referente stori­ co per l’analisi. Si tratta di un referente importante per diversi mo­ tivi. Il più significativo fa riferimento alla possibilità di riconoscere il carattere differenziato e mutevole che può assumere l’azione pub­ blica neoliberista., Differenziato e mutevole almeno quanto lo sono

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le forme che assumono le strategie di accumulazione in diversi luo­ ghi, contesti istituzionali, sistemi economici, momenti storici e scale di azione. M. Fourcade-Gourinchas e S.L. Babb (2002), solo per ci­ tare l’esempio di un lavoro pre-crisi, evidenziano, attraverso un'ana­ lisi comparativa di quattro Paesi (Cina, Regno Unito, Messico e Francia), come la transizione al neoliberismo sia «altamente ine­ guale in tempi, scopi e natura» (p. 534). S. Hall (2011), per citare invece un’analisi post-crisi, mostra come ci siano differenze notevoli tra le varianti nord-americane e britanniche del neoliberismo, tra quelle europee e anglo-americane o quelle del Sud-Est asiatico e dei Paesi del precedente blocco sovietico (p. 708). Insomma Fanalisi del neoliberismo deve prendere in considerazione le traiettorie che la sua stessa diffusione conosce in Stati diversi (Hilgers, 2012). Emerge così, in tutta la sua rilevanza, la centralità della dimen­ sione nazionale per la comprensione del neoliberismo. Questo può quindi essere consideratoi.^XHTOUina., forma storicamente determinata di azione pubblica - con forme e contenuti mutevoli nel tempo, nello spazio, in settori d’intervento e lungo diverse scale - cheJ^LVorisce Inviluppo e lajriproduzione delle strategie di accumulazione delle élite di classe. Interpretare if neoliberismo non solo come un progetto politico, ma soprattutto come tin determinato tipo storico di azione pubblica che sostiene le strategie dr accumula­ zione jdelle élite di.classe, presenta alcuni vantaggi teorici. In primo luogo consente di limitare i rischi di letture determini­ stiche a cui sono esposte tanto le analisi di derivazione strutturalista quanto quelle di impostazione post-strutturalista, fazione, pubblica èjnultidimensipnale e ricostruire le forme e i contenuti che assume implica considerare, come visto, la co-azione di un in.sieme di fattori differenziati e interdipendenti (attori, interessi, istituzioni, rappre­ sentazioni, sistemi di relazione e risultati) e quindi limita i rischi di un determinismo mono-causale. In secondo luogo l’azione pubblica costituisce un importante referente empirico per l’analisi del neoli­ berismo, che altrimenti rischia di essere condotta solo per mezzo di (pur rilevanti) astrazioni teoriche. La mutevolezza storica dell’azione pubblica e l’analisi dei modi con cui nel corso degli ultimi quaranta anni ha sostenuto le ricorrenti trasformazioni delle strategie di ac­ cumulazione consentono, in terzo luogo, di confrontarsi con la mol­ teplicità delle forme assunte dal neoliberismo effettivamente realiz­ zato. In quarto luogo l’azione pubblica implica, come detto, prati-

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che di potere ed è indissolubilmente legata alle questioni del domi­ nio, dell’egemonia, della legittimazione delle scelte con cui si rego­ lano politicamente i rapporti sociali. Analizzare il neoliberismo nei termini di una forma storicamente determinata di azione pubblica consente di confrontarsi immediatamente con le ragioni della sua perdurante egemonia e con le specifiche pratiche di potere attra­ verso cui si esprime. In quinto luogo occorre considerare che le stra­ tegie di accumulazione «definiscono uno specifico modello di cresci­ ta per un dato spazio economico e le sue varie precondizioni ex­ traeconomiche e disegnano una strategia generale appropriata per la sua realizzazione» (Jessop, 1997, p. 61) e che si sviluppano in vir­ tù del primato acquisito da specifiche frazioni del capitale (finanzia­ rio, industriale, commerciale ecc.) che varierà al variare storico del livello di sviluppo capitalistico (Jessop, 1983). Ciò consente di radi­ care l’analisi del neoliberismo nel contesto delle trasformazioni sto­ riche del modello di accumulazione capitalista e delle sue concrete e specifiche realizzazioni locali. Quest’ultimo punto, in particolare, consente di saldare la spiega­ zione del neoliberismo come forma di azione pubblica storicamente determinata con le ragioni della sua perdurante egemonia. L’ipotesi che si avanza in questa sede è che gli interessi delle élite economi­ che di classe e le corrispondenti forme di azione pubblica acquisi­ scono una connotazione egemonica attraverso il ricorso a diverse ri­ sorse e, tra queste, due appaiono particolarmente rilevanti: i) la va­ riegatura14 delle forme concretamente assunte dall’azione pubblica neoliberista; ii) lo sviluppo di processi di depoliticizzazione dell’a­ zione pubblica stessa. Rinviando al paragrafo successivo l’analisi delle «strategie politi­ che» (Jessop, 2014) di depoliticizzazione, per esplicitare ulterior­ mente la tesi proposta è necessario considerare, seppure brevemen­ te, alcune coordinate concettuali minime per l’analisi del carattere variegato del neoliberismo che si sviluppa a partire dalle analisi di alcuni esponenti della geografia politica radicale (Peck, Tickell, 2002; Peck, Theodore 2007; Brenner, Peck, Theodore 2010). In questi la14 Si utilizza questo termine anziché quello più semplice e immediato di ‘varietà’ poiché rappresenta una traduzione possibile del termine inglese ’variegation’ che, co­ me si vedrà nelle righe successive, nella letteratura sul «variegated neoliberalism» inten­ de marcare una rilevante differenziazione teorica con le analisi sulla «varietà dei capi­ talismi».

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vori (in particolare cfr. Brenner, Peck, Theodore 2010) - muovendo dalla critica del nazionalismo metodologico della letteratura sulla varietà dei capitalismi (Albert, 1993; Hollingsworth, Boyer, 1997; Hall, Soskice, 2001), dalla denuncia dei limiti delle letture iperglobaliste del neoliberismo come regime globale di regolazione (Duménil, Lévy, 2001; Crotty, 2003; Gill, 2000)15 e della sostanziale disattenzione nei confronti dei modelli e delle cornici regolative che sostengono il neoliberismo tipico, infine, delle letture basate sul con­ cetto di governmentality (Larner, 2000; Ong, 2006) - si afferma che il neoliberismo è molto più variegato di quanto alcune sue rappresen­ tazioni lascerebbero credere (Peck, Tickell, 2002, p. 387). Il neoli­ berismo appare quindi ricco di sfumature che lo rendono mutevole e, per alcuni versi, fortemente seducente. A voler restare nella me­ tafora cromatica sono proprio tali nuance che lo rendono facilmente adattabile ai diversi colori delle culture politiche. Tnsomma veste hens tanto con i toni della destra, quanto con quelli della sinistra riformista. QueslgLaJ^sMa^en^^ neoliberismo varieg^W^,nel^Jòimex. condivisione-dei.valoxi^di fondo nonjolo coesistono, masi^gforza^^ Ciò che convince menoTIefie analisi sulla variegatura del neoliberismo è: il voler declina­ re questa principalmente in termini spaziali o geografici; una certa disattenzione nei confronti della dimensione nazionale del neolibe­ rismo (con l’eccezione dell’analisi di Macartney, 2011 dedicata pro­ prio alle varianti nazionali del neoliberismo in Europa) che invece, almeno a partire dalla crisi del 2007-2008, sta mostrando tutta la sua rilevanza; la carenza dal punto di vista metodologico di tentativi di operazionalizzazione empirica della variegatura; la non conside­ razione che il neoliberismo può acquisire connotazione variegate anche tra diversi settori dì azione pubblica in uno stesso contesto nazionale; la mancanza di un’analisi del rapporto che esiste tra il carattere variegato del neoliberismo e la sua capacità di sopravvive­ re e riprodursi.neh tempo. In particolare questa capacità è stata, di recente, declinata nei termini di una sostanziale «resilienza» delle idee del neoliberismo 15 Sebbene la rilevanza di queste dovrebbe essere considerata con maggiore atten­ zione rispetto ad alcune recenti vicende come mostra ad esempio la creazione di una Transatlantic Trade and Investment Partnership (1 IIP) tra Unione Europea e Stati Uniti.

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(Schmidt, Thatcher, 2013, 2014). Il concetto dijesilienza, che è usa­ to in diverse discipline16, rispetto alle idee del neoliberismo intende esprimere la capacità che queste hanno di adattarsi a nuove circo­ stanze, di rispondere alle sfide, all’abilità di cambiare pur mante­ nendo fermi degli elementi centrali che danno continuità a questo insieme di idee (Schmidt, Thatcher, 2013, p. 14). Si tratta di un concetto che esprime la flessibilità, l’elasticità, la plasticità e adatta­ bilità di queste stesse idee e, soprattutto, la capacità di adattarsi con successo alle tensioni e alle avversità (Schmidt, Thatcher, 2013, p. 15). Si tratta di un concetto che indirettamente rimanda al carattere variegato delle idee del neoliberismo. Le ragioni della resilienza so­ no individuate nella malleabilità di queste stesse idee, nel divario che c’è tra la loro rivendicazione teorica e politica e le concrete rea­ lizzazioni pratiche, nella capacità di strutturare dei discorsi di policy coerenti e convincenti dal punto di vista comunicativo, nella forza degli interessi materiali che le sostengono e, infine, nella loro capa­ cità di cristallizzarsi in quadri istituzionali (Schmidt, Thatcher, 2013, pp. 26-27). Questa lettura, di cui si riconosce l’eleganza formale e Futilità esplicativa, è stata di recente criticamente discussa con riferi­ mento alla scarsa considerazione attribuita, nella spiegazione della re­ silienza stessa, alla globalizzazione del neoliberismo (Cerny, 2014); a una fallacia metonimica in virtù della quale tali idee appaiono desoggettivizzate (Jessop, 2014); alla sottovalutazione del carattere di classe di queste idee (Scherrer, 2014). Accanto a questi elementi critici c’è da considerare una sorta di effetto non voluto dell’uso del concetto di resilienza, che si aggiunge ad un suo uso normativo in molti ambiti di azione pubblica, e che consiste in una naturalizzazione del neoliberismo stesso. Tematizza­ re la capacità di sopravvivere e riprodursi nel tempo del neoliberi­ smo nei termini della resilienza delle sue idee implica leggere que­ sto processo con una categoria interpretativa propria delle scienze naturali e successivamente transitata nel campo delle scienze sociali. Il rischio, in altri termini, è quello di una deriva meccanicistica nelle 16 Nelle scienze naturali è stato impiegato principalmente nell’ambito dello studio delle caratteristiche dei metalli (fisica, ingegneria, metallurgia, ecc.). Successivamente è stato utilizzato, solo per fare alcuni esempi, in psicologia, nelle analisi ecologiche, sanitarie, in geriatria, ecc. Per utili indicazioni bibliografiche sull’uso di tale concetto in differenti ambiti disciplinari si può vedere la letteratura citata in Schmidt, Thatcher, 2014, p. 14.

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analisi della permanenza nel tempo di forme di azione pubblica neoliberista, che è invece un processo storico che non ha nulla di meccanico . Questo aspetto, unitamente ad una singolare e interessante reci­ proca disattenzione tra i lavori sul carattere variegato del neoliberi­ smo e quelli sulla resilienza, suggerisce di integrare l’ipotesi inter­ pretativa proposta con un’ulteriore considerazione che riguarda un rapporto di interdipendenza tra il carattere variegato del neoliberi­ smo e la resilienza delle sue idee. È ragionevole ipotizzare che la va­ riegatura delle forme effettivamente realizzate di neoliberismo favo­ risce la resilienza delle sue idee e questa, a sua volta, alimenta la va­ riegatura delle sue concrete realizzazioni. Questo circolo virtuoso’ sostiene l’egemonia degli attori e degli interessi che alimentano le forme di azione pubblica neoliberista. Un’ulteriore risorsa di tale egemonia è costituita dalle strategie di depoliticizzazione di questa stessa azione pubblica, che merita di es­ sere ulteriormente approfondita.

Processi e strumenti di depoliticizzazione

Il concetto di depoliticizzazione in uno dei lavori seminali su questo tema (Burnham, 1999), è considerato un attraverso il quale, dagli anni novanta del secolo scorso, si cerca nel nuovo contesto della globalizzazione economica di «realizzare lei subordinaziori.eL_del lavoro al controllo del capitale» (pp. 50-51).JSi_ tratta di una vera e propria strategia di governo che assume tre forme principali: i) l’assegnazione di compiti e responsabilità a enti ‘non pplitid’; ii) la ricerca di y^lidazione e legittimazione delle poli­ tiche da parte di attori esterni al sistema ppliticp; iii) l’individuazione di regole esterne vincolanti l’azione governativa stessa (pp. 47-50). Si tratta quindi di una vera e propria(4arte del governare’ che permette di rendere meno visibile il carattere politico del policy making. In particolare gli attori politici cercano di guadagnare la credibilità dei soggetti economici tentando però nello stesso tempo di proteggere l’azione governativa dalle conseguenze di politiche 17 Per una raffinata e acuta analisi critica del concetto di resilienza si può vedere Pizzo (2015).

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impopolari (Burnham, 2001). L’azione pubblica si depoliticizza ma, in virtù di questo stesso processo, «continua a giocare un ruolo co­ stante e diretto nella riproduzione dell’accumulazione capitalistica a livello sia nazionale sia globale» (p. 145). I vantaggi di questa strate­ gia consistono principalmente nel rappresentare il processo deci­ sionale e le sue poste in gioco come questioni tecniche, apolitiche o di bassa salienza politica (Kettel, 2008). Operativamente i processi di depoliticizzazione si possono svi­ luppare attraverso diverse «tattiche» (Flinders, Buller, 2006, pp. 298-311). Possono strutturarsi istituzionalmente (ad esempio asse­ gnando ad uno specifico soggetto istituzionale compiti che prima erano tipici ad esempio di un governo, come è avvenuto nei proces­ si di agentificazione delle amministrazioni pubbliche anglosassoni prima e continentali poi). Possono poi svilupparsi attraverso la de­ finizione di un sistema di regole che lascia scarsa discrezionalità al­ l’azione politica (ad esempio costituzionalizzando l’obbligo del pa­ reggio di bilancio, come di recente avvenuto in Italia). Infine posso­ no svilupparsi attraverso l’individuazione di preferenze che sono di­ scorsivamente costruite in modo da apparire come delle scelte im­ poste da forze sociali ed economiche che sono al di là della capacità di azione della politica stessa (ad esempio dichiarando che non ci sono alternative alla competizione economica internazionale). Analoga, ma maggiormente articolata, è l’analisi dei processi di depoliticizzazione proposta da C. 'Ha^'(2OO7, pp. 78-89). Il primo tipo di depoliticizzazione sposta questioni e temi dalla sfera gover­ nativa a quella non governativa e presenta due forme principali di realizzazione: , trasferisce la responsabilità decisipnale verso autorità «quasi-pubbliche» oppure verso il mercato. La prima delle due for­ me è particolarmente rilevante e trova nell’autonomia delle banche centrali nazionali e della stessa Banca centrale europea, o nella creazione di autorità regolative indipendenti, degli ottimi esempi. Tali organismi sembrano perdere la loro origine politica (cioè il lo­ ro essere creati attraverso una decisione politica) e acquisiscono immediatamente la connotazione di attori tecnici e apolitici. La se­ conda forma indica il classico passaggio di responsabilità decisio­ nale dal settore pubblico a quello privato e trova nell’allocazione di responsabilità allocativa al mercato o nella creazione di quasi-mercati nei servizi pubblici nazionali o locali dei buoni esempi. Un’altra forma tipica assunta da questo primo tipo di depoliticizzazione ri34

guarda il trasferimento di responsabilità decisionale verso istituzioni che operano a livello sovranazionale (ad esempio l’Unione Europea) o transnazionale (ad esempio il Fondo monetario internazionale). Il secondo tipo di depoliticizzazione riguarda il trasferimento di questioni di interesse pubblico nella sfera privata, ossia nell’ambito di Scelte individuali. Le questioni ambientali, ad esempio, non im­ plicano scelte di governo o mutamenti nei comportamenti delle im­ prese che producono beni e determinano inquinamento, ma diven­ tano questioni che riguardano gli stili di vita e di consumo dei sin­ goli. Il benessere individuale non è più conseguenza del funziona­ mento di un efficace sistema di welfare, ma diventa l’esito possibile di un individuo che responsabilmente si occupa di se stesso o di una famiglia che si prende cura di un proprio membro in difficoltà (ad esempio un anziano). Il terzo e ultimo tipo di depoliticizzazione implica il trasferimentp di una determinata questione dalla sfera governativa o pubblica a quella della «necessità», ossia in un ambito che va al di là della ca­ pacità di azione umana. E la sfera dell’inevitabile, una sorta di stato di natura al quale non si può oppure nessuna capacità di agency. È il «disconoscimento della capacità di deliberare e decidere» (p. 86). Può assumere (difficilmente nelle democrazie liberali occidentali) la forma di processi di desecolarizzazione del potere politico oppure, in modo prevalente per le democrazie occidentali, quella di un’iden­ tificazione con storici, economici, sociali che non possono essere arrestati come, ad esempio, gli imperativi non negoziabili della globalizzazione. Anche nel caso dei processi descritti da C. Hay le diverse .forme della depoliticizzazione possono coesistere e coagire. Questa discussione è stata di recente aggiornata con una sorta di «seconda ondata» (Hay, 2014) di studi sulla depoliticizzazione che si sviluppa a partire dalla constatazione che questa rappresenta «il modello dominante dell’arte di governare del ventunesimo secolo» (Flinders, Wood, 2014, p. 135). SiajnQ^per dirla con un’efficace espressione di E. Rubin (2012), nell’eppcadella «iper-deppliticizzazione». In questa seconda ondata di studi il tema è inquadrato, an­ cor più chiaramente che in quelli della prima stagione, nel primato del paradigma neoliberista (Fawcett, Marsh, 2014), della crisi delle forme tradizionali della politica e del consolidamento di processi decisionali post-democratici (Hay, 2007; Norris, 2011; Crouch, 2004;

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Mastropaolo, 2012). Un ulteriore tema rilevante nella nuova stagio­ ne di studi sulla depoliticizzazione, soprattutto in relazione a tenta­ tivi di reinterpretare i rapporto tra Stato e mercato nel periodo suc­ cessivo alla crisi del 2007-2008, è l’emersione di modelli tecnocratici digow^In questo contesto emerge una sorta di «ecosistema di tendenze depoliticizzanti» (Flinders, Wood, 2014, p. 153) che rende la depoli­ ticizzazione stessa, parafrasando D. Marsh (2011), una «nuova orto­ dossia». Anche in questi studi la depoliticizzazione è rappresentata in termini multidimensional! e, con una forte assonanza con la tripartizione proposta da C. Hay (2007), viene distinta in: depoliticiz­ zazioni governativa (ossia dell’autorità governativa) che implica il trasferiménto di questioni dalla sfera decisionale delle autorità go­ vernative in senso stretto verso enti non governativi p temici; una depoliticizzazione socialeIche implica il trasferimento di questioni e problemi dalla sfera pùbblica a quella privata e, infine, una depoli­ ticizzazione discorsiva- in cui attraverso il ricorso al sapere esperto alcune questioni diventano puramente tecniche (Flinders, Wood, 2014, p. 165). Cambiano le etichette (rispetto alla proposta di C. Hay), ma i processi sono sostanzialmente situilii Un limite di tale rappresentazione della depoliticizzazione può essere ricondotto alla scarsa attenzione che presta sia agli attori delle strategie di depoliticizzazione, sia agli interessi cui queste stra­ tegie, direttamente o indirettamente, sono funzionali. Occorre, in altri termini, tenere fermo che si_ tratta di una strategia di azione fortemente influenzata dal contesto strutturale in cui si sviluppa e, in particolare,, che tende a svilupparsi «all’ombra della gerarchia» (Fawcett, Marsh, 2014, p. 178). Se non'si presta attenzione a questi aspetti la depoliticizzazione rischia di essere definita come un pro­ cesso (senza .attori (Beveridge, Naumann, 2014) e, in particolare, si rischia di non cogliere la rilevanza che ha lo Stato in questo stesso processo (Fawcett, Marsh, 2014, p. 179). Non si intende in questa sede aprire una riflessione sulla princi­ pale sfida teorica che la seconda generazione di studi sulla depoliti­ cizzazione dovrebbe affrontare, ossia identificare e analizzare in det­ taglio le ragioni per cui le élite politiche scelgono di attivare strate­ gie di depoliticizzazione (Hay, 2014), ma solo fissare con maggiore precisione il rapporto tra questi processi e l’egemonia del paradig­ ma neoliberista . 36

Per far questo è necessario in primo luogo capovolgere il modo con cui si legge solitamente tale rapporto, per cui la depoliticizza­ zione non è un prodotto del primato del discorso neoliberista che tende a promuovere sfiducia nei confronti della politica (Hay, 2007; Màdra, Adaman, 2014), quanto una risorsa strategicamente utilizza­ ta nelle forme di azione pubblica orientata al mercato. Il_neoliberismo non è quindi la variabile indipendente che spiega la depoliti­ cizzazione, anche perché questa è un processo che esiste in modo storicamente indipendente dal neoliberismo (al punto che si può anche dubitare che la depoliticizzazione sìa un fenomeno nuovo) (Fawcett, Marsh, 2014). La depoUticizz^oa^^Qnfi^ra, ..piuttosto, come una specifìca^risorsa istituzionale e discorsiva che Fazione pub­ blica neoliberista, utilizza in modo sistematico dall’ultimo decennio del secolo-scarso. E, da questo punto di vista, una vera e propria Astrategia polit^^ (Jessop, 2014) che può assumere forme e stru­ menti diversi che vanno dalla riallocazione delle responsabilità deci­ sionali dei governi verso enti non politici, verso il settore o la sfera privata, fino alla naturalizzazione dei fenomeni sociali e politici. È importante evidenziare «con quMe.^Qxabolmùo,^lessicQ,.m:gomenti e_in qiiaHd^matuar^nm^tativi>> (de Leonardis, 2013, p. 130) prendono corpo i precessi.... di depoliticizzazione. Particolarmente rilevanti appaiono i formati argomentativi che fanno riferimento ai saperi esperti, alla tecnica, alla scienza, all’oggettività dei numeri. Le scelte pubbliche vengono considerate «tendenze oggettive e na­ turalizzate e in quanto tàli inevitabili» (ivi, p. 131). Un’altra forma discorsiva rilevante della depoliticizzazione è quella che fa riferi­ mento alla prefigurazione di scenari desiderabili, sull’immaginario, sulla costruzione di seduzioni collettive, nel costruire «una specifica forza normativa che si esercita nelFindicare a che cosa, e come aspi­ rare» (ivi, p. 132). In conclusione: il neoliberismo può. essere interpretato come un tipo storicamente determinato di Azione pubblica che favorisce il consolidamento e la riproduzione delle strategie di accumulazione capitalistica e che trova nel carattere variegato delle forme concre­ tamente assunte e nelle strategie di depoliticizzazione due risorse strategiche per,r il. mantenimento del p rimatò egemonico dglle- fra­ zioni di capitale che guidano i processi di accumulazione. L’integra­ zione sistemica tra lo sviluppo di strategie di accumulazione e di depoliticizzazione rappresenta un tratto denotativo generale dell’a37

zione pubblica neoliberista, mentre le forme concretamente assunte da queste due strategie rappresentano i suoi tratti connotativi spe­ cifici. La variabilità delle forme sostiene e consente la riproduzione del tempo dei tratti costitutivi tipici del neoliberismo. Si tratta quindi di una variabilità che si esplica su tratti comuni di fondo, di una variegatura appunto di uno stesso paradigma di azione. Una variegatura che, in ipotesi, si può sviluppare tra diversi ambiti di azione anche all’interno di uno stesso contesto nazionale e nello stes­ so arco temporale di riferimento.

5. La variegatura del neoliberismo in Italia Al fine di ricostruire la variegatura dell’azione pubblica neoliberi­ sta italiana, i casi studiati nei capitoli successivi (a cui si rimanda per un’analisi di dettaglio) sono adesso analizzati comparativamente, considerando il modello interpretativo descritto nelle pagine pre­ cedenti. In particolare, per ogni ambito di azione, sono presi in esame: gli attori prevalenti, dei quali si considera in particolare la scala di azione e il tipo di risorse utilizzate nella costruzione del­ l’azione pubblica; gli obiettivi principali perseguiti; le credenze che strutturano i corsi di azione stessa; le modalità con cui queste cre­ denze si modificano per assumere connotazioni neoliberiste e con cui danno vita a delle istituzioni discorsive; il tipo prevalente di de­ politicizzazione perseguita e i suoi principali registri argomentativi. finanza pubblica e politiche di bilancio Nel caso della finanza pubblica e delle politiche di bilancio, ana­ lizzato da S. Cavatorto e A. Ferreri, si evidenzia la presenza preva­ lente di attori pubblici che si collocano in una scala di azione multi­ livello e utilizzano risorse di carattere gerarchicò. Particolarmente significativa - sebbene con specifico riferimento all’analisi della di­ scussione parlamentare che si è sviluppata tra il 2008 e il 2013 - è firrilevanza delle culture politiche di centro-destra o centro-sinistra dei diversi componenti del Parlamento nel promuovere e sostenere le politiche «anticrisi di stampo neolibierale/ordoliberale» (infra, p. 91) promosse dall’Unione Europea. La variabile dì politics non è discriminante, in particolare, rispetto alla promozione di misure di

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austerity. In termini ancor più generali questa variabile non sembra avere alcuna capacità di differenziazione nell’orientamento delle forze parlamentari con riferimento agli obiettivi delle politiche co­ munitarie e alle credenze su queste si basano. Gli obiettivi e le credente, ruotano attorno sia all’idea, della con­ correnza conte ^principio centrale per la regolazione pubblici (in­ fra, p. 73), sia alla promozione di processi di liberalizzazione e al correlato divieto di aiuti statali alle imprese. S. Cava tor to e A. Ferreri riconducono queste credenze ai precetti di un ordoliberalismo il quale - utilizzando un’efficace annotazione di S. Fabbrini (2013) mira a garantire un «ordinato» funzionamento del mercato. Le credenze che caratterizzano l’azione comunitaria in termini di politiche di bilancio e finanza pubblica si affermano in Italia, come in altri Paesi dell’Unione, attraverso il meccanismo della diffusione, che produce un sostanziale isomorfismo tra l’azione pubblica italia­ na e quella comunitaria. L’aspetto maggiormente, interessante di questo ambito di azione riguarda il tipodi depoliticizzazione e ..Ì5uoi: formati .discorsivi pre­ valenti. Tale ambito di azione appare - rispetto a quelli complessi­ vamente analizzati in questo libro ~ quello in cui si compiono con maggior forza ed evidenza i processi di depoliticizzazione. Questi si sviluppano attraverso diverse tecniche, facendo acquisire a questi stessi processi un carattere sistemico. Il trasferimento di responsa­ bilità decisionali a istituzioni sovranazionali come la Commissione e l’Ecofin descrive i processi di depoliticizzazione governativa descritti nelle pagine precedenti, a cui si aggiunge la definizione di regole esterne a cui gli attori politici nazionali non possono non unifor­ marsi. Gli esempi dei pacchetti legislativi 'ó-pack' e ‘2-pack' incardi­ nati nel funzionamento del ‘semestre europeo’ (dettagliatamente descritti nel capitolo terzo) sono paradigmatici da questo punto di vista. Troviamo, inoltre, un ulteriore processo di depoliticizzazione basato sulla naturalizzazione delle soluzioni di policy comunitarie al punto che la riduzione del debito pubblico (uno dei cardini delle politiche economiche neoliberiste) viene riconosciuta nello stesso dibattito parlamentare «come un dovere della classe politica» (infra, p. 90). La vecchia massima thatcheriana secondo cui «there is no al­ ternative» al mercato, si aggiorna nella discussione parlamentare ita­ liana (e non solo) con specifico riferimento alle politiche di austeri­ tà. La forma discorsiva principale è quella che fa riferimento all’au-

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torità dei numeri e del sapere economico prevalente, attraverso cui si costruisce l’inevitabilità del pareggio di bilancio, dell’austenty e della riduzione della spesa pubblica. Mercato del lavoro

L’azione pubblica nell’ambito del, mercato del lavoro, ricostruita da A. Clarini, è caratterizzata dalla prevalenza di attori pubblici, in particolare governativi, che utilizzano risorsedi tìpo..^ si collocano prevalentemente su ux^ scala (a cui si aggiungono con riferimento ad alcuni specifici interventi attori re­ gionali). Gli obiettivi sono stati, a partire dal «pacchetto Treu» del 1996, sostanzialmente l’incremento della flessibilità del mercato del lavoro e la promozione dell’occupabilità, all’interno di un set di credenze tipico delle politiche del lavoro ‘offertista’. Nello stesso tempo non si sono però prodotte «riforme altrettanto incisive dal la­ to del sostegno al reddito in caso di perdita dell’occupazione» (infra, p. 106). Queste tendenze si sono «incastrate» - come rileva A. Ciarini - in una struttura produttiva storicamente caratterizzata dal basso svi­ luppo dei settori ad alta qualificazione. Il punto centrale è l’assenza di un’integrazione strategica delle politiche del lavoro con quelle industriali. L’assenza di politiche della domanda non consente di riorganizzare la struttura produttiva del Paese che essendo princi­ palmente caratterizzata da produzioni «a basso valore aggiunto non smette di generare lavoro povero» (infra, p. 109). Il rifiuto di qua­ lunque strategia di incremento della domanda, la prevalenza del tema dell’occupabilità su quello dell’occupazione rappresentano obiettivi che segnalano una connotazione neoliberista dell’azione ita­ liana nell’ambito del mercato del lavoro. Dal punto di vista delle credenze si privilegia una teoria cognitiva che punta sulla flessibilizzazione come strumento per la creazione di occupazione. Una teo­ ria per l’azione che, con riferimento al caso italiano (ma non solo), mostra tutti i suoi limiti e si diffonde in una logica di path dependency rispetto alle soluzioni individuate nella seconda metà degli anni no­ vanta, la quale, a sua volta, trova delle determinanti strutturali nella configurazione del sistema produttivo del Paese. Dal punto di vista delle strategie della depoliticizzazione il caso del mercato del lavoro è interessante perché mostra un basso grado

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di depoliticizzazione governativa (sono stati infatti i diversi governi e ministri che hanno prodotto le decisioni più importanti di riforma del mercato del lavoro) anche se, nello stesso tempo, la riforma del collocamento ha spostato verso il settore privato funzioni rilevanti e quindi vi è stato un processo di depoliticizzazione basato sul trasfe­ rimento di responsabilità verso il settore privato. Appare inoltre particolarmente rilevante una strategia di depoliticizzazione discor­ siva basata sulla naturalizzazione della flessibilità. Nel Libro Bianco sul mercato del lavoro in Italia (ottobre 2001)18 (da cui come noto ha poi preso forma la legge 30 del 2003) si scrive, a proposito di «fles­ sibilità e sicurezza», che «mercato e organizzazione del lavoro si stanno evolvendo con crescente velocità» (p. XII). Il cambiamento del mercato del lavoro e della sua organizzazione è dato per sconta­ to, viene rappresentato come una tendenza oggettiva, piuttosto che come un processo storico. Il cambiamento è una tendenza naturaliz­ zata. La cosa più interessante è che a fronte di tale cambiamento si dà anche immediatamente per scontato che «il sistema regolativo ancor oggi utilizzato in Italia non è più in grado di cogliere e go­ vernare la trasformazione in atto» (ibidem). Quindi anche l’inade­ guatezza del sistema esistente di regole si assume come dato di fat­ to, senza nessuna argomentazione. Ma è la conclusione del ragio­ namento che mostra con maggior forza la naturalizzazione della de­ cisione politica di flessibilizzare il mercato del lavoro. Si scrive infat­ ti che: «assai più che semplice titolare di un ‘rapporto di lavoro’, il prestatore di oggi e, soprattutto, di domani, è un collaboratore». Il lavoratore diventa un «prestatore» e poi addirittura un «collaborato­ re». Una rappresentazione volutamente neutra che offusca il suo es­ sere in primo luogo un soggetto fondamentale di rapporti sociali di produzione storicamente determinati. Questa caratterizzazione sto­ rica del lavoratore (e dei suoi diritti si potrebbe aggiungere) spari­ sce a favore di una naturalizzazione di un rapporto di semplice col­ laborazione. Questo collaboratore - continua il ragionamento del Libro Bianco - opera «all’interno di un ‘ciclo’. Si tratti di un progetto, di una missione, di un incarico, di una fase dell’attività produttiva o

18 L’esempio viene utilizzato non per riassumere tutto il dibattito che si è sviluppa­ to sulla riforma del mercato del lavoro in Italia nel corso degli ultimi due decenni, ma per evidenziare un rilevante processo di de-politicizzazione di tale issue che trova, nel citato Libro Bianco, significative evidenze discorsive.

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della sua vita. Il percorso lavorativo è segnato da cicli in cui si pos­ sono alternare fasi di lavoro dipendente ed autonomo, in ipotesi in­ tervallati da forme intermedie e/o da periodi di formazione e riqua­ lificazione professionale (ibidem). Inevitabile concludere che «il qua­ dro giuridico-istituzionale ed i rapporti costruiti dalle parti sociali, quindi il diritto dei lavoro e le relazioni industriali, devono cogliere queste trasformazioni in divenire, agevolandone il governo» (ibi­ dem). Dalla naturalizzazione del processo storico si passa quindi con estrema facilità a quella della soluzione e della decisione politica.

Welfare

Il caso del welfare, analizzato da D. Caselli, evidenzia la presenza di una molteplicità di attori che strutturano razione pubblica. Si tratta di attori pubblici (che operano su scala sia nazionale sia loca­ le), del privato sociale (i soggetti del terzo settore) o ibridi (ad esempio le fondazioni bancarie), che nel loro insieme utilizzano un repertorio articolato di risorse. Tra queste quelle cognitive e finan­ ziarie sono particolarmente rilevanti. Il caso è ricostruito e analizza­ to con specifico riferimento all’affermazione, e alle successive tra­ sformazioni, del modello di welfare mix. Un punto di passaggio fon­ damentale è collocato dall’autore nel 2008 quando si apre - con le efficaci parole di D. Caselli - una «nuova fase di "distruzione creatri­ ce’ nei campo delle politiche sociali italiane» (infra, p. 116) che tro­ verà una manifestazione esemplare nell’avvio di una progressiva e sistematica riduzione del Fondo nazionale per le politiche sociali. Questa tendenza, propria di un neoliberismo di tipo roll-back, si co­ niuga successivamente con soluzioni di policy orientate al mercato, proprie invece di forme di neoliberismo roll-out. Tali strategie si sviluppano in una logica di azione trans-scalare che senza, ricostruire nei dettagli i processi ben analizzati da D. Ca­ selli, si sviluppano attraverso la promozione di un mercato di inve­ stimenti sociali con l’istituzione di una task force sul Social Impact In­ vestment del G8; il lancio nel 2011 di una Social Business Initiative della Commissione Europea orientata alla creazione di un clima fa­ vorevole all’impresa sociale considerata un portatore-di-interesse chiave dell’economia e dell’innovazione sociale; la riforma, a scala nazionale, del terzo settore attraverso il disegno di legge «Delega al Governo per la riforma del terzo settore, dell’impresa sociale e per 42

la disciplina del Servizio civile universale» attualmente (marzo 2015) in discussione presso la XII Commissione (Affari sociali) della Ca­ mera dei deputati. Gli obiettivi che condividono tali iniziative sono interconnessi e sintetizzati da D. Caselli in: «riforma in chiave low profit delle cooperative sociali, ingresso del mondo della finanza nel campo delle politiche sociali, concentrazione del lavoro sociale nelle mani di pochi grandi soggetti delle cooperazione, creazione di un orizzonte sociale pacificato in cui tutti gli attori sociali collaborano per il bene comune» (infra, p. 120). Tali obiettivi si collocano nelforizzonte di credenze tipico dei modelli di welfare community, in cui si spostano responsabilità e com­ piti non solo verso il settore privato e del privato sociale, ma anche verso la sfera privata dei singoli individui e le famiglie. A ben vede­ re, però, la tendenza è decisamente più radicale: non si tratta solo di mercificare i servizi ma di sottoporli ad una loro crescente finan­ ziarizzazione, sotto la spinta della crescita di quella che viene chia­ mata ‘finanza a impatto sociale’. Si tratta di cambiamenti che av­ vengono in parte per diffusione in parte per traslazione: si diffon­ dono le idee e le pratiche di privatizzazione tipiche del welfare com­ munity e si traslano quelle del mondo della finanza al settore delle politiche sociali. L’effetto cumulato di tali tendenze può essere de­ vastante rispetto alle condizioni di godimento dei diritti di cittadi­ nanza sociale. I processi di depoliticizzazione appaiono pienamente coerenti e possono essere ricondotti sia allo spostamento di respon­ sabilità pubbliche verso il settore e la sfera privata, sia alla naturaliz­ zazione dell’insostenibilità finanziaria dei sistemi di welfare a fronte della quale si costruisce la seduzione di una finanza capace di gene­ rare innovazione sociale, benessere e sostenibilità del welfare.

Educazione Il caso dell’educazione, analizzato da O. Giancola, trova un suo specifico punto di interesse nelle caratteristiche degli attori che strutturano l’azione pubblica. Accanto agli attori pubblici, tra i quali possono anche essere inseriti gli stessi istituti scolastici ‘dell’auto­ nomia’, ci sono in posizione strategica attori che non sono «né isti­ tuzionali, né politici» (infra, p. 146), ossia delle agenzie internazio­ nali (ad esempio: OECD, International Association for the Evaluation of Educational Achievement, UNESCO) e l’Unione Europea, i quali co­

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struiscono e realizzano analisi di tipo comparativo su scala interna­ zionali dei sistemi educativi. Attraverso tali analisi riescono a strut­ turare, con forti spinte isomorfiche, le caratteristiche e gli obiettivi di questi stessi sistemi. Usando le parole di O. Giancola è «un pro­ cesso che costruisce le realtà educative tanto quanto le descrive» (infra, p. 133). Nell’ambito dell’educazione agiscono quindi attori che operano in una dimensione trans-scalare e utilizzano risorse in primo luogo cognitive. L’INVALSI (Istituto nazionale per la valuta­ zione del sistema educativo dell’istruzione) rappresenta sia uno snodo fondamentale di questo sistema di azione trans-scalare, sia un soggetto centrale delle riforme avviate negli anni novanta. La valu­ tazione delle scuole rischia di attivare, come osservato da O. Gian­ cola, l’avvio di processi competitivi tra le scuole e quindi la progres­ siva realizzazione di relazioni ‘quasi mercantili’ tra le scuole stesse e con i loro ‘clienti’. Gli obiettivi fanno riferimento alla valutazione delle performance e al potenziamento dell’autonomia scolastica (che al tempo stesso è però paradossalmente anche contrastata da spinte isomorfizzanti). Si tratta di obiettivi apparentemente neutrali, tecni­ ci, che, in virtù di questa stessa caratteristica, si inseriscono però alla perfezione in un sistema di credenze che trova nelle evidence-based policy la sua rappresentazione più tipica. Come nel caso del welfare siamo di fronte a processi di cambia­ mento che avvengono tanto per diffusione, quanto per traslazione attivati in primo luogo da vettori sovranazionali. L’aspetto più interessante riguarda però le strategie di depoliti­ cizzazione. In questo ambito le scelte sembrano essere desoggettiva­ te: il primato dei numeri diviene totale. Come scrive con grande ef­ ficacia O. Giancola, si determina «una naturalizzazione del dato che non viene più trattato come un artefatto socialmente costruito, bensì come un’entità con un proprio significato a prescindere dal conte­ sto» (infra, p. 138). E una strategia di depoliticizzazione che - utiliz­ zando l’analisi condotta da O. de Leonardis (2013) in un contesto di azione completamente differente - «evoca l’autorità di saperi esper­ ti, l’argomentare scientifico, e il criterio dell’oggettività, la prova delFettómce che ne gius tifica le pretese di verità» (p. 131). Una de­ politicizzazione che, nelle conclusioni di O. Giancola, accompagna una simmetrica desocializzazione dei problemi di rilevanza colletti­ va (Brown, 2006; Moini, 2012), che ben caratterizza i paradigmi di azione neoliberisti. 44

Agenda urbana e Smart City Anche nel caso dell’agenda urbana e del correlato paradigma del­ le Smart City, analizzato da E. dAlbergo, siamo di fronte ad una stra­ tegia di azione multilivello e trans-scalare nella quale l’Unione Eu­ ropea ha un ruolo particolarmente rilevante. Accanto agli attori pubblici r tra i quali il Comitato interministeriale per le politiche urbane che avrebbe dovuto svolgere un ruolo di coordinamento e di integrazione di azioni e progetti riguardanti le città italiane, che spesso si sviluppano sotto la regia di istituzioni regionali, locali o anche di associazioni di governi locali - troviamo in posizione stra­ tegica gli attori privati. Tra questi sono centrali le imprese che ope­ rano nel settore delle nuove tecnologie per la comunicazione ZCT). Tra le risorse utilizzate da questi attori, come minuziosamente rico­ struito da E. d’Albergo con specifico riferimento alla più recente let­ teratura sulla Cultural Political Economy; sono particolarmente rile­ vanti quelle «cognitive, comunicative e di coordinamento» (infra, p. 154). Attraverso queste risorse si producono «immaginari», ossia narrazioni su mondi desiderabili e ‘regimi di verità’,. .e. Brand», ossia traduzioni di questi stessi immaginari in ricette di poli­ cy, in algoritmi per Fazione pubblica. Particolarmente rilevante ap­ pare la considerazione di E. d’Albergo secondo cui «l’immaginario Smart City assembla preesistenti immaginari urbani {Smart Growth, città intelligente» {infra, p. 155). Si tratta quindi di un processo di diffusione delle credenze normative sulle Smart City, attraverso il quale si riadattano a contesti nuovi principi e pratiche esistenti. Nello stesso tempo, però, questi stessi immaginari si costruiscono attraverso la traslazione di narrazioni costruite dalle grandi imprese transnazionali che operano nel settore dell’ZCT (ad esempio: Cisco System, Microsoft, Siemens e IBM). Queste credenze sostengono obiettivi legati allo sviluppo sostenibile, all’innovazione sociale, alla competizione tra città, alla coesione sociale in corrispondenza dei diversi ambiti di azione che compongono l’idea stessa di Smart City {Smart Governance, Smart People, Smart Living, Smart Mobility, Smart Economy, Smart Environment) {infra, p. 156). Un primo tratto di depoliticizzazione si ritrova nel potere tauma­ turgico assegnato alle tecnologie dell’informazione e comunicazio­ ne, che diventano, nella narrazione prevalente, una risorsa o uno 45

strumento in grado di risolvere qualunque problema collettivo. Con ciò diventa meno visibile che tali tecnologie, prima ancora di essere mezzi per la risoluzione di problemi legati alla mobilità, all’am­ biente, ecc., sono componenti essenziali di una strategia di accu­ mulazione che trova nelle corporations del settore delle ICT la prin­ cipale frazione egemonica di capitale. Un ulteriore tratto di depoli­ ticizzazione è costituito dal potenziale seduttivo degli immaginari e dei knowledge brand delle Smart City che - per usare ancora una volta le parole di O. de Leonardis (2013, p. 132) - allestiscono una «rap­ presentazione della città da desiderare». Una città in cui le princi­ pali questioni (l’abitare, il produrre, il muoversi, il governare, l’am­ biente) sono risolte attraverso fuso intelligente delle nuove tecnolo­ gie. Una città pacificata, priva di conflitti, di disuguaglianze, di dif­ ferenze, di appartenenze, di tensioni legate a diverse visioni del mondo. Un luogo apparentemente utopico, di cui E. d’Albergo (in­ fra, pp. 167-168) segnala con acume una possibile deriva non post­ democratica, ma addirittura post-politica. Un luogo in cui, per dirla in modo solo in parte diverso, si compie un «mimetizzarsi del pote­ re nel meraviglioso» in cui però «l’esercizio del potere resta implici­ to, inapparente» (de Leonardis, 2013, p. 140). Pianificazione

Il caso della pianificazione è ricostruito e analizzato da B. Pizzo muovendo dall’idea di base che il planning è una disciplina tecnica che «regola il regime e il mercato dei suoli» (infra, p. 172). In questi processi di regolazione hanno naturalmente un ruolo rilevante gli at­ tori pubblici che agiscono in una scala di azione nazionale e multivello, ai quali si affiancano però attori privati (in primo luogo co­ struttori e proprietari dei suoli) che hanno importanti poste in gio­ co in questi stessi processi regolativi. Le partnership pubblico-privato (PPP) hanno da tempo acquisito notevole rilevanza nell’azione pub­ blica in generale e nella pianificazione in particolare. Rappresenta­ no, nell’efficace definizione di B. Pizzo, «un modo per strutturare i rapporti tra Stato e mercato» (infra, p. 184) che non possono però essere considerate in maniera indifferenziata, poiché acquisiscono forme specifiche, fortemente dipendenti dalle caratteristiche dei si­ stemi locali di azione, dalle strategie di accumulazione esistenti, dalla relazione tra «space of dependence» e «space of engagement» (Cox, 46

1998)19 degli stessi attori economici. Sono quindi, come scrive B. Pizzo, un «costrutto socio-politico» (infra, p. 185) che può indurre ulteriori variegature nelle forme di azione neoliberista. Le risorse utilizzate dai diversi attori sono gerarchiche (quelle degli attori pubblici che strutturano la regolazione), materiali (quelle degli atto­ ri economici, ma anche quelle utilizzate dagli attori pubblici ad esempio attraverso uno strumento come la «moneta urbanistica»20) e cognitive (che riguardano prevalentemente i planners coinvolti nei processi di pianificazione). Gli obiettivi variano al variare della for­ ma assunta dalle PPP, mentre le credenze che accompagnano que­ ste forme di azione si sono consolidate nel tempo e trovano nei co­ siddetti ‘Programmi Complessi’ degli anni novanta un luogo di sin­ tesi. La teoria cognitiva di fondo di questi programmi individua nella pianificazione uno strumento sia dello sviluppo locale, sia della riqualificazione e del rinnovo urbano. Considerando questi aspetti e la rilevanza assunta dalle PPP e la variabilità della loro possibili configurazioni B. Pizzo esplora il nes­ so tra neoliberismo e pianificazione con specifico riferimento ad un caso di studio locale, quello del waterfront di Ostia (Roma) che, in virtù delle sue specifiche caratteristiche, permette - nelle parole del­ l’autrice - «di ricostruire aspetti fondamentali dei cambiamenti che hanno segnato la pianificazione come forma di azione pubblica lun­ go l’orizzonte temporale che corrisponde all’emergere delle politi­ che e pratiche neoliberiste in Italia» (infra, p. 181). Questo caso è in­ teressante poiché fa emergere lo sviluppo di un vero e proprio bri­ colage di soluzioni che, sviluppandosi dagli anni ottanta a oggi, de­ termina, come sottolinea B. Pizzo, una sorta di iper-regolazione che si rovescia in una sostanziale deregolazione dei processi pianificatori. Una deregolazione che, in qualche caso, rischia di sfociare in di­ namiche collusive (se non corruttive). Le strategie di depoliticizza­ zione in questo ambito di azione non sono particolarmente evidenti 19 Gli «spaces of dependence» rappresentano «un sistema di relazioni sociali più o meno localizzato dal quale si dipende per la realizzazione di interessi essenziali e per i quali non ci sono possibili alternative; definiscono condizioni specifiche di uno spa­ zio per il benessere materiale (Cox, 1998, p. 2). Questi spazi sono inseriti in «spaces of engagement» definiti come «set più ampi di relazioni con carattere maggiormente glo­ bale» (ibidem). 29 Si tratta dell’assegnazione da parte delle amministrazioni comunali di diritti edificatori in cambio degli oneri di concessione.

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e sono principalmente riconducibili al trasferimento di compiti e re­ sponsabilità verso il settore privato, testimoniato dalla rilevanza cre­ scente assunta dalle PPP.

Sicurezza urbana

La sicurezza urbana, analizzata da G. Ricotta, è un ambito di azione in cui prevalgono attori pubblici che operano prevalente­ mente su una scala locale di intervento (sebbene ci siano importanti relazioni con il livello nazionale di governo). Le risorse che questi attori utilizzano sono prevalentemente gerarchiche (si pensi, ad esempio, al ruolo giocato dalle ordinanze dei sindaci), anche se lo sviluppo delle politiche della sicurezza locale in Italia prende avvio agli inizi degli anni novanta anche attraverso l’uso di risorse cogni­ tive. Come nota G. Ricotta la «fondazione della rivista ‘Sicurezza e Territorio’ da parte della federazione bolognese dell’allora Partito Democratico di Sinistra. Una rivista che raccoglie le suggestioni in campo di sicurezza urbana provenienti dalle più avanzate esperien­ ze internazionali, con particolare riferimento all’Inghilterra e alla Francia» (infra, p. 194) ha avuto un ruolo rilevante. Il campo di azione si struttura quindi a partire dall’attivazione anche di risorse cognitive che concorrono, soprattutto ad opera delle giunte di cen­ tro-sinistra dei comuni del Centro-Nord, all’introduzione delle «tesi sull’inciviltà e sul senso di insicurezza» (infra, p. 196). Gli obiettivi principali sono Fincremento dell’ordine, della sicurezza, la tutela e lo sviluppo del decoro urbano (sia dal punto di vista fisico, sia da quello dei comportamenti sociali). Questo campo di azione si avvia ad una rapida istituzionalizza­ zione anche attraverso la nascita nei comuni di dipartimenti e asses­ sorati dedicati al tema della sicurezza. Tale processo si sviluppa in virtù di una dinamica di diffusione locale di credenze elaborate su scala sovranazionale ad esempio dalla Federazione europea sulla sicu­ rezza urbana. Nonostante la questione della sicurezza entri inizial­ mente nelle agende locali degli amministratori italiani senza riferi­ menti diretti alle retoriche punitive tipiche delle politiche neocon­ servatrici che si sviluppano negli Stati Uniti e nel Regno Unito a partire dagli anni ottanta (ossia, più o meno, nello stesso periodo in cui il neoliberismo si affermava e consolidava in quegli stessi Paesi), la sua tematizzazione - per ragioni che sono ben ricostruite da G. 48

Ricotta - inizia progressivamente a spostarsi adattivamente verso modelli di derivazione neoconservatrice e neoliberista. Uno sposta­ mento che culminerà non solo nel riconoscimento ai sindaci della facoltà di intervenire autoritativamente sulle questioni della sicurez­ za urbana, ma anche in un crescendo di retoriche e misure legislati­ ve populiste che prevedono, solo per citare gli esempi più significa­ tivi riportati dall’autore, il reato di immigrazione clandestina, le ronde’ per la sicurezza, lo sgombero dei campi nomadi, ecc. Si compie, in breve, una progressiva torsione in senso securitario delle credenze che orientano l’azione pubblica nell’ambito della sicurezza coerente - come riporta efficacemente G. Ricotta nelle sue conclu­ sioni - con un «modello neoliberista di gestione della sicurezza ur­ bana» che si caratterizza «per interventi extrapenali di controllo del territorio, attraverso il ricorso al mercato (polizie private, tecnologie e arredo urbano dissuasivo), soprattutto rivolto ai luoghi della città di maggiore interesse economico» (infra, p. 203). Le strategie di depoliticizzazione si sviluppano principalmente in termini discorsivi attraverso la naturalizzazione dell’idea stessa di si­ curezza che diventa una condizione desiderabile in sé: chi mai vor­ rebbe vivere in città non sicure? In questo modo il nesso tra alcuni comportamenti sociali tematizzati come portatori di insicurezza (l’ac­ cattonaggio, la prostituzione, l’immigrazione irregolare, l’occupa­ zione di spazi pubblici, ecc.) e le scelte politiche relative alla ridu­ zione dei sistemi di welfare, contrazione della spesa pubblica, assen­ za di politiche capaci di produrre occupazione, viene invariabilmen­ te occultato. Nei capitoli successivi, dopo l’analisi dei rapporti tra neoliberi­ smo e capitalismo finanziario (capitolo secondo), si sviluppano degli approfonditi studi di caso (capitoli terzo, quarto, quinto, sesto, set­ timo, ottavo, nono) relativi a diversi ambiti di azione pubblica. Delle brevi conclusioni sintetizzano la questione dei neoliberismi in Italia.

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Capitolo secondo La "religione’ del capitalismo finanziario e la variegatura del neoliberismo di Luca Salmieri

1. II capitalismo finanziario come religione

L’accostamento del capitalismo alla religione non è certo un tema nuovo. Ma qui, più che rifarmi alla tesi weberiana, prenderò le mos­ se da un saggio molto breve e poco noto di Walter Benjamin intito­ lato, appunto, Capitalismo come religione'. In questo scritto l’autore berlinese intendeva andare oltre la lettura assiologicamente neutra che Weber aveva dato al rapporto tra religione e capitalismo e «dar prova [che] questa struttura religiosa del capitalismo non solo, come intende Weber, [è] conformazione determinata dalla religione, ma [è] fenomeno essenzialmente religioso» (Benjamin, in Palma, 2011, p. 83). Questa considerazione così dirompente riguarda il capitalismo in generale. Ritengo però che la sua estrema attualità possa renderla trasferibile e ancora più adatta a cogliere l’essenza del capitalismo finanziario12. Benjamin sostiene che: 1) «il capitalismo è una religio­ ne cultuale, forse la più estrema che sia mai esistita»; 2) «la durata del culto è permanente»; 3) «questo culto genera colpa». Ciascuno di questi tratti che Benjamin associa al capitalismo in generale si 1 II saggio, originariamente non destinato alla pubblicazione, probabilmente scrit­ to intorno al 1921, è stato pubblicato postumo solo nel 1985, da Ralph Tiedemann e Hermann Schweppenhàuser in Gesammelte Schriften (Suhrkamp Verlag). E ora tradotto in italiano all’interno di una raccolta di saggi di Benjamin, pubblicata nel 2011 e cu­ rata da Massimo Palma. In italiano il saggio è altresì disponibile dal 2013 per i tipi de Il Melangolo. Nelle pagine seguenti farò riferimento alla versione curata e tradotta da Massimo Palma. 2Tornerò appena più avanti sulle specificità della forma finanziaria del capitale.

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adatta a mio parere ancor più allo specifico movimento del capitale finanziario. 1) Nel primo caso, Benjamin sostiene che «tutto» nel capitalismo «ha un significato solo nell’immediato riferimento al culto, non co­ nosce una dogmatica speciale, né una teologia. Sotto questa pro­ spettiva, l’utilitarismo ottiene la sua tonalità religiosa» (ivi, p. 84). Se nel capitalismo industriale esisteva una dottrina rivolta all’etica dello sviluppo e della crescita, in quello finanziario vi si agisce senza alcuna etica predefinita, senza alcuna teologia, ma attraverso una pragmatica della speculazione e della scommessa (Taleb, 2001, 2007; Mutti, 2008; Marazzi, 2010; Gallino, 2011; Crouch, 2012; Lazzarato, 2012). Le pratiche utilitaristiche degli investimenti in denaro, delle speculazioni, delle operazioni borsistiche, delle scommesse nei mercati paralleli equivalgono a un culto religioso diretto, esteriore alla trascendenza teologica, ovvero un culto reiterato a-dottrinario. Il capitalismo finanziario non ha bisogno di una catechesi specifica, poiché ha una sua diretta coazione a ripetere dinamiche cultuali: le transazioni finanziarie si dispiegano ininterrottamente in un campo epistemologico chiuso nella ripetizione infinita del gesto ‘divinazio­ ne-speculazione-divinazione’. Il ‘fare denaro’ e la trasformazione di­ retta del denaro in denaro rappresentano la natura stessa delle pra­ tiche di culto. 2) Per Benjamin al primo tratto del capitalismo «è direttamente connesso un secondo [...]: la durata permanente del culto. Il capita­ lismo è la celebrazione di un culto sans tréve et sans merci. Non vi è alcun giorno feriale, alcun giorno che non sia giorno festivo nel te­ mibile senso del dispiegamento di ogni fasto sacrale, delfestremo impegno del venerante» (Benjamin, in Palma, 2011, pp. 83-84). Non c’è dubbio che questa permanenza del culto sia una caratteri­ stica basilare dei mercati finanziari dove, appunto, le transazioni av­ vengono senza sosta, 24 ore su 24. Rispetto al capitalismo in gene­ rale, nella sua forma astratta, in quello finanziario opera una delega delle pratiche agli strumenti e ai modelli informatici e computazio­ nali che, in qualità di protesi dell’osservazione umana, rendono quest’ultima continua - sans tréve et sans merci - e dunque costante (MacKenzie, 2006; Callon et al., 2008). Anzi, il culto della ‘divinazione-speculazione-divinazione’ sfrutta proprio le asimmetrie spa­ zio-temporali nei mercati delle valute, delle azioni e dei prodotti fi­ nanziari complessi (Sanders, 2008; Jordan al., 2010; Esposito, 2011). 52

3) Infine, il terzo tratto è per Benjamin il carattere che vi assume la colpa (il peccato): «il capitalismo è verosimilmente il primo caso di culto che non purifica [entsuhnend], ma colpevolizza. Un’immane coscienza della colpa, che non sa purificarsi, fa ricorso al culto non per espiare in esso questa colpa, ma per renderla universale, per martellarla nella coscienza e soprattutto per coinvolgere Dio stesso in questa colpa» (wz, p. 84). Nel capitalismo finanziario la colpa cul­ mina nella massima diffusione del debito (Koo, 2014). Non è solo il capitalista ad essere in debito e colpevole3; debito e colpa sono uni­ versali: le banche sono in debito, gli Stati e quindi i cittadini sono in debito, i consumatori sono in debito (Medoff, Harless, 1996; Denninger, 2012; Brubaker et al., 2012; Lazzarato, 2012; Musu, 2012; Paik, Wiesner, 2013). Ma in cosa si sostanzia l’attuale forma finanziaria del capitalismo? In cosa è diversa dal capitalismo a cui allude Benjamin? In quanto fenomeno storico, il capitalismo appare in determinate figure fe­ nomeniche che subiscono metamorfosi, come del resto Marx (Des Metamorphosen del Kapitals) aveva già descritto nel secondo Libro de Il Capitale, definendo tre modalità: quella imprenditoriale, quella industriale e quella finanziaria. Pur coesistendo in maniera intrec­ ciata, possiamo osservare che queste tre forme si sono storicamente sviluppate facendo sì che in ogni epoca ognuna abbia prevalso sulle altre che operavano a sostegno di quella egemone, i) Nella forma imprenditoriale che è alla base dello sviluppo industriale e della produzione, il capitale assume soprattutto l’immagine della merce che risponde a bisogni in primo luogo materiali. Imprenditore e forza lavoro trasformano il capitale nelle forme produttive e com­ merciali della merce. L’imprenditore investe il denaro nei mezzi di produzione, organizza la produzione, la dirige verso il consumo per ottenere profitto, ii) Nella forma industriale, il denaro passa attra­ verso le merci per generare altro denaro e per ri-immergersi in grandi investimenti industriali. L’investimento su larga scala assume la forma territoriale dei grandi aggregati industriali. Nella versione fordista, il capitale è regolato e accompagnato dalle politiche keynesiane. Il lavoro trova un ancoraggio tra mercato e Stato e assume la forma della stabilità industriale, burocratica, standard. L’industria 3 Benjamin evoca «l’ambiguità della parola demoniaca schuld», vale a dire, il dop­ pio significato del termine tedesco traducibile sia come «debito» che come «colpa».

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inonda la realtà di oggetti, beni, prodotti che allargano la rappre­ sentazione del mondo, la mediano, la filtrano, la materializzano comprendendovi gli stessi rapporti sociali. La loro capacità di tra­ sformare il mondo è al centro del ciclo di riproduzione del capitale, iii) Infine, nella forma finanziaria, il capitale si dinamizza ulterior­ mente sotto forma di denaro virtuale, ovvero di denaro che si gene­ ra da denaro, in via diretta, come per partenogenesi. Le sfere del capitale industriale, commerciale e monetario (un tempo divise e coordinate per via istituzionale) divengono variabile dipendente della finanza: faccumulazione del capitai gain è traslata nella sfera della circolazione, dello scambio e della speculazione degli attivi e dei passivi nell’arena elettronica delle borse e dei mercati finanziari paralleli. Il capitalismo finanziario marginalizza i cicli più lenti di riproduzione e così ritira il capitale dalla produzione oppure la sus­ sume inglobandola nei suoi scopi di riproduzione del profitto a bre­ vissimo termine, esaltando pratiche transattive, speculative e di scommessa così come orientamenti previsionali basati su rischi mol­ to elevati4. La moneta elettronica, il ‘cyber-capitale’, le transazioni digitali e i prodotti nei mercati ombra della finanza non incontrano ostacoli e barriere particolarmente ostative (Madigele, 2014), il che rende la cornice di riferimento del capitalismo finanziario capace di include­ re trasversalmente i vari regimi nazionali di capitalismo in una me­ desima correlazione planetaria. Pur mantenendo le proprie specifi­ cità geopolitiche e socioculturali, i territori entrano in rapporto con il capitale finanziario secondo un’unica logica globale, ovvero: riu­ scire ad attrarre porzioni di capitale fuori dal ciclo autonomo della finanza e/o evitare che le risorse produttive e organizzative locali si depauperizzino finanziariamente. 4 Nella circolazione del capitalismo industriale si investiva una quantità di denaro (DI) nella produzione di merci (M) per ricavare poi dalla vendita di tali merci una quantità di denaro (D2) superiore a quella precedentemente investita (D1-M-D2). La circolazione del capitale aveva tempi e modalità separate, nello spazio e nei tempi: vi si celava sia una lentezza che una svalutazione del capitale finanziario, quando assu­ meva la forma della merce non ancora venduta. Ora invece il capitale è incessante­ mente immesso in una spirale di valorizzazione continua. Questo movimento può es­ sere sintetizzato dalla formula D1-D2, così come l’aveva riassunta Marx, laddove il profitto si verifica per la trasformazione diretta di una determinata somma di denaro iniziale (DI) in una somma superiore, ottenuta ad un momento successivo (D2), per effetto di pratiche speculative.

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Alla luce delle brevi considerazioni preliminari di questo primo paragrafo e mantenendo viva l’intuizione di Benjamin, nelle pagine seguenti analizzerò il neoliberismo nell’ambito del capitalismo fi­ nanziario. Ciascun paragrafo riporta sia una descrizione sia una tesi sul rapporto attuale tra capitalismo e neoliberismo. Nel prossimo paragrafo proverò a chiarire ulteriormente il carattere religioso del capitalismo finanziario, confrontando i sistemi di conoscenza e di osservazione che vi operano a più livelli: quello dei mercati finan­ ziari, quello dell’economia reale e quello che connette questi due. La tesi è che esista uno scarto tra tali sistemi di conoscenza e che tale scarto comporti la necessità di avvicinare il mondo ultraterre­ no’ e impredicibile della finanza a quello ‘terreno’ dell’economia reale. Nel terzo paragrafo entrerò ancora più nel vivo dell’insieme dei nessi tra finanza e pratiche neoliberiste: passerò brevemente in rassegna le possibili declinazioni del neoliberismo in ragione degli sforzi trasformativi tesi a ‘finanziarizzare ’ i settori dell’economia e del sociale. La tesi è che il neoliberismo, nell’estrema varietà delle sue forme, debba essere considerato una variabile dipendente del capitalismo finanziario e che un tale insieme frammentato e com­ plesso di processi di trasformazione dell’economia e della politica (Crespi, 2013; Esposito, 2013) si intrecci con diverse specificità set­ toriali e geo-scalari. Nel quarto ed ultimo paragrafo, le conclusioni riassumeranno gli elementi a sostegno della tesi generale, ovvero che per arrivare a comprendere la variegatura del neoliberismo è analiticamente necessario considerarla come il risultato delle varia­ bili attraverso cui una vera e propria religione del capitalismo fi­ nanziario è posta in essere di volta in volta, su scale di governance differenti, in settori sociali ed economici eterogenei, in territori di­ versi, per raccordare i capricci dell’economia finanziaria alle esigen­ ze dell’economia reale.

2. Terreno ed ultraterreno

E nel continuo movimento teso a far corrispondere le esigenze terrene al volere imperscrutabile dei mercati finanziari - movimen­ to più o meno efficace a seconda della combinazione di molteplici variabili - che si palesa la natura religiosa del capitalismo finanzia­ rio e il carattere molto variegato del neoliberismo. Il ciclo di ripro-

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dazione del capitale finanziario agisce in seno ad un rapporto tra ultraterreno’ e ‘terreno’, laddove si ‘territorializza’ come un «Dio salvifico che scende in terra» a premiare l’opera di una rete di fedeli - che siano un distretto industriale, un’area urbana, un settore del welfare, un governo locale nazionale, un gruppo di ricerca ecc. capaci di propiziare investimenti grazie a programmi di ristruttura­ zione, rigenerazione, riorganizzazione; oppure laddove si ‘deterritorializza’ come un «Dio severo che abbandona gli uomini in terra» per punire i suoi fedeli, rei di non essersi sacrificati abbastanza con progetti ed interventi di riduzione del debito, di promozione del­ l’austerity, di miglioramento delle performance, della govemmentality o dell accountability. Nel commercio di colpe e sacrifìci, pene ed espia­ zioni, tra ‘terreno’ e ‘ultraterreno’ il debito costituisce il nesso rap­ presentazionale ed operativo tra le due sfere. Nella complessità del mondo ‘terreno’ che per brevità chiamerò ‘socio-economia reale’, le politiche ed i programmi, i discorsi e le legittimazioni (ex ante, in itinere ed ex post) di marca neoliberista rap­ presentano riti propiziatori con cui imprenditorializzare, indicizza­ re, riorganizzare e ottimizzare il valore finanziario del (dis-) ordine di fronte alle dinamiche altrimenti imperscrutabili del capitale fi­ nanziario. Così ‘terreno’ e ‘ultraterreno’ attengono e possono essere utilizzati per distinguere il campo dell’economia virtuale da quello della socio-economia reale: tra questi due mondi scorrono i flussi del capitale, da virtuale, aleatorio, incerto - quando si riproduce nei circuiti dei mercati finanziari - a concreto, materiale e produttivo quando è riversato nell’economia reale o quando da questa viene drenato verso i mercati finanziari. Tra i due campi esiste uno scarto relativo ai sistemi di conoscenza ed è in questo scarto che vanno analiticamente collocati i processi e i programmi neoliberisti, considerandoli tentativi più o meno com­ plessi ed articolati di ‘miracolo economico’, cioè operazioni di tra­ sformazione, ristrutturazione e riorganizzazione di una data realtà in chiave di profittabilità finanziaria. Ma in cosa consiste questo scarto conoscitivo tra mercati finanziari e socio-economia reale? Tra ultraterreno e terreno? Se in entrambi i campi l’osservazione, la conoscenza e la performatività non sono derivate da una prospettiva esogena e neutrale, ma dallo sguardo degli attori in gioco (Abolafia, 1998; Callon, 1998; MacKenzie, Milo, 2003; Beunza et al., 2006; MacKenzie et al., 2007), 56

nei mercati finanziari la circolarità e la retroattività dei livelli di os­ servazione e conoscenza raggiungono una velocità e un’astrazione superiore rispetto a quanto avviene nella socio-economia reale. Ciò determina una distanziazione dall’ordine conoscitivo razionale del­ l’economia terrena: gli attori finanziari si muovono secondo criteri conoscitivi che, pur se precisi e non casuali, sono sempre meno sen­ sibili al valore effettivo dell’economia terrena (Lazonick, O’Sulli­ van, 2000; Epstein, 2005), sempre meno correlati ai fondamentali della socio-economia reale e, al contrario, sempre più intimamente incorporati negli andamenti delle attese di fluttuazione dei prodotti e degli indici finanziari. Questo aspetto spiega anche perché possa accadere che un programma neoliberista che migliori sensibilmente i fondamentali economici di un settore industriale in una determi­ nata area produttiva del mondo 'terreno’ non venga di per sé auto­ maticamente premiato e ricompensato dai mercati finanziari. Per­ ché il Dio del capitale finanziario fa i capricci? La risposta va trovata nei processi conoscitivi e decisionali che so­ no all’opera nei mercati finanziari. Elena Esposito (2013) ha brillan­ temente descritto questi fenomeni, richiamandosi alle metafore del beauty contestb e del moral hazard, cui va aggiunta la speculazione in senso stretto quando procede attraverso vere e proprie scommesse. Nei mercati finanziari come nel beauty contest, l’attore deve conti­ nuamente porsi la fondamentale domanda: «come si comportano gli altri attori?». Ma anche gli altri attori adottano la stessa prospet­ tiva: osservano ciò che gli altri osservano. Questo tipo di situazione produce una circolarità delle osservazioni. La finanza dunque consi­ ste in un’osservazione di second’ordine a partire dalla quale posso­ no svilupparsi, ed è ciò che accade, ri-framing di terzo, quarto, quinto ordine e così via (Esposito, 2013)5 6. I fondamentali della socio-eco5 John Maynard Keynes (1935) nel dodicesimo capitolo della sua Teoria generale deiroccupazione, dell'interesse e della moneta descrive la situazione di un ipotetico concor­ so di bellezza - beauty contest - in cui i membri della giuria devono indovinare quali sa­ ranno le 6 donne ritenute più belle dalla giuria stessa nel suo complesso. I giudici che scelgono le 6 donne di maggior gradimento (cioè le 6 più votate dal totale dei giudici) vincono un premio. Il dato strutturale importante è che i giudici, se vogliono avere qualche chance di vittoria, non possono limitarsi a votare le 6 candidate che ai loro oc­ chi risultano più belle, ma devono votare le 6 candidate che ai loro occhi saranno probabilmente scelte dalla maggioranza dei giudici. 6 In questa situazione l’osservazione non perde tutti i riferimenti alla realtà concre­ ta delle transazioni in corso. Non è un mondo in parte random. Tuttavia, le fluttuazio-

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nomia terrena attengono invece al primo ordine di osservazione: sono importanti come collegamento con l’ultraterreno della finanza, ma non governano le dinamiche dell’osservazione di secondo, terzo ed ennesimo ordine dei mercati finanziari. Il Dio del capitale finan­ ziario non si fa manovrare dall’ordine terreno! Gli investitori istitu­ zionali agiscono dunque in una dimensione parallela, aleatoria e quindi ultraterrena rispetto alla dimensione della socio-economia terrena. Riproducono un ordine di osservazione superiore, unpredicable e incontrollabile. Gli attori dei processi variegati del neoliberi­ smo controreagiscono con forme di osservazione terrena, molto più lente e basate su criteri di prim’ordine. La metafora del moral hazard - in italiano traducibile in modo imperfetto come 'rischio morale’ - attiene ai meccanismi di retro­ azione e di anticipazione che contraddistinguono le decisioni nei mercati finanziari. Il concetto si riferisce al quel fenomeno per il quale le conseguenze di una decisione influenzano pesantemente la situazione rispetto alla quale era stata presa quella decisione, fino a renderla controproducente. Questo principio vale per i modelli di simulazione e per gli algoritmi che replicano le transazioni finanzia­ rie e che sono alla base delle gestione telematica e in tempo reale dei capitali. L’osservazione della realtà ad un primo momento quando viene progettato il software di gestione o il complesso pro­ dotto finanziario - influenza la realtà osservata ad un secondo mo­ mento - quando il software o il prodotto è immesso nel contesto fi­ nanziario precedentemente analizzato. I calcoli, le simulazioni, gli algoritmi, i modelli matematici utilizzati producono effetti addizio­ nali che non esistevano prima della loro azione e che quindi non potevano essere presi in considerazione7. L’osservazione in chiave predittiva contribuisce a creare la realtà economica proprio mentre la descrive. Ma il carattere religioso del capitalismo finanziario emerge so­ prattutto in relazione al processo di 'divinizzazione’ del capitale: es­ so da strumento di trasformazione del reale diviene fine ultimo ni dei valori espressi all’interno di questo mondo sono il frutto di continui riaggiu­ stamenti dall’esito imprevedibile. 7 Vi sono modelli e prodotti che considerano come variabile anche il loro stesso effetto di retroazione sull’ambiente finanziario, ma ovviamente non esiste un modello che in tempo reale possa simulare la reazione di tutti gli altri operatori che adotte­ ranno quello stesso modello (Lenglet, 2011).

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della speculazione (divinazione): speculare, in latino speculari, signi­ fica appunto osservare, esaminare. L’azione nei mercati finanziari è dunque eternamente proiettata su un futuro a venire in cui si ride­ terminano condizioni di cronica mancanza di informazioni certe. Informazioni attendibili non sono mai disponibili in anticipo e ciò costituisce l’essenza della scommessa, l’incerto su cui opera una con­ vinzione religiosa e una serie di pratiche divinatorie. Nei casi in cui una previsione si verifica è perché spesso essa si basava su presup­ posti e osservazioni non corrette; mentre previsioni basate su osser­ vazioni e analisi corrette non si verificano quasi mai per effetto delle condizioni di adverse selection3. Più le analisi e le conseguenti strate­ gie rasentano la correttezza, più esse saranno convincenti e più sa­ ranno seguite e adottate dai vari attori finanziari, finendo così per modificare le condizioni su cui si erano basate e alterando sensibil­ mente le certezze di successo. Agire nei mercati finanziari rappre­ senta sempre una scommessa. Siamo dunque di fronte ad una doppia incertezza: da un lato, l’incertezza dovuta agli attori della finanza che scommettono su o contro il comportamento degli altri attori della finanza (e sugli an­ damenti dell’economia reale mediati dalle scommesse degli altri); dall’altro, l’incertezza degli attori e delle forze della socio-economia reale che sperano che le performance e le attese di sviluppo possano «far scendere Dio in terra» sotto forma di investimenti e prestiti. Questa doppia incertezza è calmierata - solo parzialmente ~ dal ruolo delle agenzie di rating che svolgono funzioni ‘sacerdotali’ di in­ termediazione indiretta, di comunicazione e collegamento sia all’in­ terno del mondo finanziario (nella sfera ultraterrena), sia tra questo e quello esterno (tra Fultraterreno e il terreno), sia direttamente nella socio-economia reale (il terreno). Il ruolo sacerdotale delle agenzie di rating si avvicina a quello dell’oracolo religioso: poiché l’intero sistema dell’economia finanziaria è proiettato al futuro, nel classificare debiti, crediti, rischi e incertezze, tali agenzie non fanno altro che tradurre8 8 Adverse selection e moral hazard non sono la stessa cosa. Il secondo tipo di fenome­ no è frutto soprattutto di asimmetrie informative. Naturalmente le condizioni di ad­ verse selection valgono anche nei tantissimi mercati di beni e servizi dell’economia reale in cui vigono condizioni di asimmetria delle informazioni. Tuttavia, è solo nella sfera finanziaria ultraterrena che fosservazione e la predizione assumono un’aura sacra su cui si fonda il gioco e per la quale gli strumenti razionali di calcolo delle transazioni sono sottoposti al servizio dell’imprevedibile.

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1’impredicibile in qualcosa di razionale; riassumono le opinioni degli operatori su ciò che è a venire in indici di riferimento9. Rispetto all’ultraterreno, le agenzie di rating riducono lo sforzo osservativo, parametrizzano la percezione dei rischi in una media aggregata e indicizzano l’incertezza (Di Caro, 2014; Carruthers, 2013)10. Tuttavia, la loro osservazione sintetizza, non senza ambigui­ tà, i vari livelli di osservazione, ma non li sostituisce definitivamen­ te, Senza contare che anche i rating hanno un effetto di retroazione: operano in tempo reale in uno streaming di valutazioni e, mentre of­ frono indici di riferimento dei mercati finanziari, alterano il decorso stesso dei mercati (Millo, Holzer, 2005). Ne consegue che la loro funzione di oracolo in continuo divenire da un lato orienta le deci­ sioni, ma dall’altro fa sì che tale orientamento non produca affatto risultati certi circa il comportamento degli altri attori finanziari. Nel rapporto tra ‘ultraterreno’ e ‘terreno’, gli oracoli orientano invece il traffico dei capitali: dalla sfera finanziaria a quella della so­ cio-economia reale ogni qualvolta una quota di capitale finanziario si materializza in un investimento concreto o più prosaicamente nell’acquisto di asset e risorse; dalla sfera della socio-economia reale ai mercati finanziari ogni qual volta asset e risorse patrimoniali si astraggono in capitale finanziario. Infine, le agenzie di rating valutano l’affidabilità degli attori e delle organizzazioni presenti in terra, nella socio-economia, dove sono state affiancate in questo compito da una miriade di altre agenzie di diversa natura che provvedono alla valutazione della ‘sostenibilità’ e delle performance di qualsiasi entità in qualsiasi settore. E proprio in questo ambito che il neoliberismo può essere visto all’opera nelle sue svariate forme di trasformazione continua di tutti gli assetti po­ tenzialmente capitalizzabili (Leyshon, Thrift, 2007). Nonostante le facilitazioni prodotte dalla funzione di oracolo, lo scarto tra ultraterreno e terreno permane, poiché il sistema di valu­ tazione riposa su epistemologie differenti. Prima di tutto, nelle valu9 Se si assume che le «credenze [...] sono stati di opinione» (Durkheim, 1979, p. 39) si può concludere che la vocazione delle agenzie di rating consiste principalmente nello studio delle credenze collettive della finanza. 10 Questo ruolo privilegiato deriva loro dal fatto che, almeno apparentemente, le agenzie di rating non dovrebbero avere interessi in gioco nei mercati finanziari. Ma que­ sto tipo di affidabilità si è mostrata poco certa. Il conflitto di interessi delle agenzie di rating è stato da più parti evidenziato e criticato. Per una sintesi si veda Sinclair (2005).

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tazioni delle entità socio-economiche del reale, le agenzie di rating non operano la media aggregata delle varie aspettative che circola­ no tra gli attori, ma si attengono agli indicatori dei fondamentali dell’economia. Dunque, anziché la volatilità delle quotazioni sogget­ te all’osservazione di secondo ed ennesimo ordine, nella socio-eco­ nomia reale il processo di rating, più lento, si sviluppa con un’epi­ stemologia di prim’ordine basata sui fondamentali dell’economia11. In secondo luogo, le transazioni finanziarie avvengono nell’ordine dei minuti, in alcuni casi nell’ordine dei secondi, mentre nel mondo terreno della socio-economia reale le decisioni danno vita a proget­ ti, programmi, trasformazioni che, anche nel breve tempo, alterano la realtà di riferimento in modo molto graduale. Malgrado questa differenza di velocità sia sempre più avvertita come un gap da ero­ dere nella socio-economia reale, difficilmente le trasformazioni e i processi di cambiamento nella circolazione terrena potranno, anche in futuro, tenere il passo delle circolazioni in tempo reale dell’eco­ nomia finanziaria. In questo gap di velocità si colloca l’intera essen­ za del prospetto religioso del capitalismo finanziario che, essendo costantemente all’opera, sposta continuamente in avanti, sulle aspet­ tative future, il momento della resa dei conti, inducendo per questo verso ad un processo trasformativo infinito. In terzo luogo, solita­ mente, le entità che agiscono nella dimensione profana della socioeconomia reale si trasformano con il concorso di complessi inter­ venti in cui hanno un ruolo articolate catene decisionali e proces­ suali oltre che numerose variabili socio-economiche di una realtà di prim’ordine. Diversamente, nel sistema finanziario gli operatori e i modelli di simulazione a decisione automatica, anche quando agi­ scono per conto di complesse organizzazioni finanziarie, compiono scelte univoche, il più delle volte, del tipo to buy o to sell. Dunque, nella dimensione dei mercati finanziari, la valutazione espressa dalle agenzie di rating sintetizza in un segnale l’insieme delle valutazioni di secondo, terzo, quarto ordine che gli operatori interni starebbero producendo. Nell’ultraterreno gli attori della fi­ nanza, a partire da questo segnale, prendono decisioni che possono11 11 Anche laddove un attacco speculativo dei mercati finanziari si rivolga contro il debito di uno Stato sovrano, la valutazione delle agenzie di rating è comunque ancora­ ta ai parametri (i fondamentali dell’economia e dell’economia politica) che riguarda­ no l’osservazione delle possibilità di tenuta di quello Stato sovrano e registrano, solo in parte, [’opinione-scommessa proveniente dagli speculatori.

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rispecchiare quella valutazione (soprattutto se operano in automati­ co attraverso modelli computazionali di simulazione), oppure - dato che nella finanza emozioni, rumour, azzardi e panico contano ecco­ me (Pixley, 2013) - possono talvolta persino muoversi controcorren­ te (Taleb, 2007)12. Nel mondo terreno, per gli attori della socioeconomia reale, invece, i capitali finanziari si spostano e si moltipli­ cano secondo logiche ancora più imprevedibili, aleatorie e fuori da qualsiasi portata predittiva. Per questi attori esterni ai mercati fi­ nanziari non resta che ricorrere alle pratiche neoliberiste che in qualche modo aumentino le speranze di attrarre capitale/ridurre de­ biti, «sacrificando» in cambio elementi organizzativi e risorse che at­ tengono alla loro presente configurazione. Rispetto alle dinamiche sacrificali - altamente variegate in funzione dei processi neoliberisti - nella sfera terrena, le agenzie di rating misurano l’affidabilità, la solvibilità e la potenzialità di performance di tutte quelle entità sotto­ poste a processi di attrazione dei capitali finanziari e/o migliora­ mento delle condizioni di performatività/redditività. Inoltre, nel profano della sfera mondana, questi processi variegati di matrice neoliberista che puntano a migliorare le performance e quindi la va­ lutazione delle strutture socio-economiche reali, procedono con modalità, velocità e dinamiche estremamente farraginose rispetto alla rapidità di riproduzione del capitale finanziario.

3. Capitalismo finanziario e variegatura del neoliberismo

Alla luce del rapporto tra i mercati finanziari e la variegatura del neoliberismo è possibile rivedere le due più importanti prospettive che nelle scienze sociali hanno sinora ricostruito lo sviluppo del neoli­ berismo: da un lato, l’idea che il neoliberismo costituisca un regime di­ sciplinare globale (Crotty, 2003; Gill, 1995, 1998, 2002; Duménil, Lévy, 2001; Kotz, 2000; Silver, Arrighi, 2003) che avrebbe schiacciato e uniformato le strutture economiche e politiche nazionali (critica al neoliberismo come sistema mondiale ideologico, politico ed econo­ mico); dall’altro, la prospettiva della varietà dei capitalismi, secondo la quale il neoliberismo costituirebbe invece una versione nazionale 12 Può persino accadere che una mossa originariamente controcorrente produca un’improvvisa ed estesa corrente imitativa nell’arco di brevissimo tempo.

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di capitalismo - quello statunitense - impostosi su scala globale, co­ stringendo gli altri modelli a capitolare e adattarsi alla nuova fisio­ nomia (Hall, Soskice, 2001; Streeck, Thelen, 2005; Coates, 2005; Yamamura, Streeck, 2005). Queste due visioni sono ricche di efficaci descrizioni delle macro­ trasformazioni economiche e politiche avvenute negli ultimi cinquant’anni. Tuttavia, mancano di considerare le seguenti evidenze: il capitalismo finanziario è l’esito di un’evoluzione prima di tutto in­ terna alla riproduzione del capitale e alle sue contraddizioni; le po­ litiche neoliberiste rappresentano un insieme molto eterogeneo di tentativi di far convivere i mercati finanziari con la socio-economia reale; tali tentativi sono calati in una perpetua spirale di ‘prova fallimento - nuova prova’, secondo un processo di religione laica di induzione della crisi, gestione della crisi e reinduzione della crisi (Halliday, Carruthers, 2010), su differenti livelli di scala: globale, nazionale, locale, fino alla singola organizzazione d’impresa o alla ristretta area urbana di una città. Nello specifico, la visione del regime disciplinare globale presenta di­ versi limiti dal punto di vista sociologico. Il progetto di disciplinamento neoliberista non produce un regime monolitico e internamen­ te coerente di pratiche normative e di convenzioni sociali: è un pro­ cesso che certamente decostruisce e distrugge le strutture precedenti su cui agisce, ma al contempo le sostituisce con nuove forme in dive­ nire, incomplete,, differenziate e comunque influenzate dalle condi­ zioni specifiche precedenti (Brenner, Theodore, 2002). Né i modelli di riforme neoliberiste sono semplicemente progettati all’interno delle istituzioni multilaterali e poi automaticamente implementati su scala nazionale e subnazionale. Semmai spesso sono costruzioni po­ limorfe e interscalari che nascono in cornici di riforme istituzionali transnazionali, nazionali e subnazionali, cucite e collaudate attraver­ so specifiche forme di sperimentazione variabili per scala, contesto e territorio, revisionate e aggiornate in relazione a fallimenti, conflitti, contraddizioni e crisi e, in alcuni casi, persino rimesse in circolo re­ troattivamente all’interno delle reti di policy translocali da cui erano originate (Peck, Tickell, 1994; Brenner et al., 2010). Parimenti anche l’approccio della varietà dei capitalismi mostra un limite preciso: concede troppo potere esplicativo ai processi di impo­ sizione di un modello nazionale di capitalismo sugli altri per via di un processo omogeneo di neoliberalizzazione. Nella realtà i progetti di

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neoliberismo spesso si combinano, in modo quasi parassitario, con istituzioni e regimi di policy completamente diversi, creando un pae­ saggio istituzionale ibrido nel quale le logiche di mercificazione e con­ trollo dei mercati si mescolano e co-evolvono (Peck, 2011). Se è cer­ tamente realistico individuare differenti modelli territoriali o nazio­ nali di capitalismo, è altrettanto realistico considerare come ciascuno sia ormai incorniciato alTintemo del capitalismo finanziario: non solo le specificità sociali, politiche, normative, culturali ed economiche di ciascun modello possono predefinire il set di opzioni disponibili ogni volta che vi si avvia al suo interno un processo neoliberista, ma l’esito di questo processo è sempre diverso. Si dovrà allora convenire che il neoliberismo non è un modello specifico nella varietà dei capitalismi, ma semmai una varietà di pro­ cessi di trasformazione del reale collegati all’egemonia del capitalismo finanziario. Se le istituzioni e le politiche di disciplinamento del mer­ cato si sviluppano a livelli e in forme differenti in base ai luoghi, ai settori, alla scala e ai territori, è il neoliberismo in sé che deve essere definito come un fenomeno sostanzialmente eterogeneo (Peck, 2010), mentre il capitalismo finanziario, preso nella sua globalità, appare come un sistema instabile nelle sue ripercussioni sulFeconomia reale, ma stabile nei principi che ne spiegano la continuità e lo sviluppo. Ne deriva che la comprensione dei processi operativi del neoliberismo non può né basarsi sullo studio del movimento di transizione nazio­ nale guidato dall’alto, né sull’individuazione di una periodizzazione circoscritta di specifiche varietà nazionali di neoliberismo. Cosa spiega allora la variegatura del neoliberismo? Se ingloba processi dagli esiti ogni volta differenti, se procede lungo assi che vanno dal globale al locale o viceversa o ancora orizzontalmente tra spazi e istituzioni posti sullo stesso livello di scala, quali sono allora le variabili che ne spiegano le differenze? Proverò ora a identificare i tipi di variabili che possano dar conto del carattere eterogeneo del neoliberismo.

Set normativo-organizzativo

Il neoliberismo mostra una sua relativa durabilità a livello di geo­ grafie istituzionali che in molti casi corrispondono alla scala nazio­ nale e alla governabilità statale (a cui seguono però diverse configu­ razioni in termini di incontro-scontro con fattori di path-dependency 64

nazionale). Ad esempio, la preesistenza di norme tese a limitare concorrenza, competizione, finanziarizzazione e valutazioni in ter­ mini di risultati e non in termini di processo possono rappresentare un ostacolo rispetto al quale lo specifico flusso di azioni dovrà armarsi di estrema virulenza. Laddove invece tali regole consentono un più agevole sviluppo di dinamiche concorrenziali, competitive, finanzia­ rizzate e performanti, il flusso potrà ammantarsi di legittimazioni e discorsi più orientati al cambiamento, alla qualità, ai benefici collet­ tivi e a qualsiasi altra narrazione che non richiami esplicitamente la rottura con il passato. Non è però possibile ridurre il neoliberismo alla sola dimensione della durabilità su scala nazionale.

Scala di governance È più realistico circostanziare Teffettiva imposizione di vincoli al­ l’azione degli attori, delle istituzioni e delle organizzazioni di gover­ nance non solo a livello nazionale, ma anche su scala sub-nazionale e micro-locale. La questione della scala in cui prende piede un proget­ to o un intervento neoliberista è di primaria importanza (Peck, 2002). Volendo generalizzare, quanto più piccola è la scala, tanto più è probabile che il processo, più circoscritto e più definito, scateni di­ verse forme di resistenza, senza tuttavia implicare automaticamente maggiori possibilità di successo di tale resistenza (gli esiti sono a loro volta legati a molteplici variabili locali). Tanto più il processo riguar­ da una scala più ampia - ad esempio l’Unione Europea - tanto più si sviluppa in ramificazioni e frammentazioni frutto dell’intreccio di normative, compromessi, negoziazioni ed eccezionalità derivanti dalle scale inferiori di attuazione. In questo caso, il suo mandato è generalmente più blando, tranne che nelle parti più strettamente fi­ nanziarie ed economiche, laddove le ingiunzioni sono più rigide. Ad ogni modo, il processo si alleggerisce negli strumenti e nelle metodi­ che che da obbligatorie diventano suggerite, mentre si cristallizza di­ rettamente sugli indicatori di performance riferiti non tanto al proces­ so trasformativo, ma alla realtà su cui esso insiste.

Livello di imprenditorializzazione

Un ampio spettro di relazioni tra i soggetti e le istituzioni della governance si ‘imprenditorializza’ in modalità di volta in volta diffe65

renti, denotando la plasticità, la flessibilità, il polimorfismo degli assemblaggi ordinamentali orientati al mercato13. Laddove il cam­ po di azione del processo è segnato da uno scarso livello di imprenditorializzazione - come può essere ad esempio l’ambito della lotta alla criminalità - gli obiettivi del processo stesso devono esse­ re declinati in termini di sviluppo sociale, aprendo dibattiti che in­ sistono sull’efficacia del processo stesso e che sembrano dover con­ temperare questioni di ordine etico. Se invece il livello di imprenditorializzazione è già particolarmente sviluppato -• si pensi ad esem­ pio alle ricerche in campo farmaceutico - il processo normalmente si caratterizzerà per una forte preponderanza dei vincoli e degli obiettivi finanziari. Porosità e responsività

I progetti di neoliberismo sfruttano, trasformano e riproducono le differenze ereditate a livello geo-istituzionale. Le variegazioni del neoliberismo comportano trasformazioni cumulative, ma irregolari nelle forme qualitative di regolamentazione dello sviluppo, eredita­ te dagli ambiti geo-istituzionali in precedenti round. Al di là del li­ vello di consenso rispetto agli obiettivi specifici di intervento, il li­ vello di apertura al cambiamento di un determinato settore, ambito, campo costituisce una variabile rilevante per il riprodursi dei pro­ cessi di trasformazione: l’abitudine al cambiamento, alla riorganiz­ zazione, alla ristrutturazione continue consentono il dispiegarsi del processo senza particolari resistenze, poiché la narrazione e la legit­ timazione degli interventi possono fare leva proprio sul mantra del cambiamento che costituisce un’etica chiusa e autoreferenziale della religione del capitalismo finanziario. Forma vettoriale del flusso Rispetto alla scala territoriale e agli enti e alle organizzazioni coin­ volte, sia come agenzie attive di propulsione che come agenzie cru-

13 Con imprenditorializzazione intendo un modus operandi segnato dall’adozione di prospettive marcatamente ispirate alla razionalità economica e finanziaria, cioè a principi di analisi costi/benefici, tenuta finanziaria, ritorno degli investimenti, para­ rne trizz azione, budgetizzazione.

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ciali di snodo, il processo di trasformazione neoliberista assume sempre una forma vettoriale di propagazione. La trasformazione, dalla spinta iniziale fino al suo esaurirsi, può assumere una direzio­ ne top-down, down-top, orizzontale, trasversale. Pur restando difficile identificare dove termina il processo e dove riparte sotto forme dif­ ferenti, esso può procedere dall’alto verso il basso - dalla Banca mondiale al governo di un Paese e da questo agli enti finanziari re­ gionali - ma anche dal basso verso l’altro, come nel caso dell’ado­ zione del modello del microcredito da parte delle principali agenzie delle Nazioni Unite. Può procedere in via più o meno orizzontale, come quando le imprese di un determinato settore, di comune ac­ cordo, decidono di adottare un simile protocollo di sviluppo tecno­ logico dei propri prodotti e, infine, può procedere, nella forma più virale possibile, secondo una dinamica frattale e trasversale ai terri­ tori e ai settori della socio-economia reale. In questo caso, tuttavia, si tratta di una macro-dinamica in cui a comuni parole d’ordine e ad un’unica meta-narrazione corrispondono infinite coloriture di pro­ grammi, interventi e progetti specifici, come per esempio è avvenu­ to per l’adozione del principio di spending review.

Incisività normativa e coercitiva

La trasformazione normativa è irregolare, ovvero procede per co­ stituzione e continua ricostituzione di cornici istituzionali macro­ spaziali, fortemente orientate al mercato, che governano i processi di sperimentazione e di trasferimento di politiche tra più settori. I processi che agiscono primariamente a livello normativo, abolendo, ridefinendo o innovando il campo delle regole scritte, costituiscono il tipo più incisivo di trasformazione dell’ecologia socio-economica che ci circonda, poiché ovviamente rideterminano vincoli e oppor­ tunità di azione. Il disciplinamento può essere palesemente indiriz­ zato a liberare forze che invocano la veloce riproduzione del capi­ tale - come ad esempio nel caso delle norme che favoriscono l’ab­ battimento delle barriere doganali - ma può anche risultare da nuove norme che hanno un carattere più blandamente connesso agli obiettivi di stretto disciplinamento, come nel caso delle regole del mercato del lavoro. Proprio perché il neoliberismo è, in effetti, una forma di governance che nega espressamente il suo carattere poli­ tico (Beck, 2000), la sua funzione regolatrice esiste anche in manie67

ra contraddittoria, come una forma di meta-regolamentazione, un sistema di regole che, paradossalmente, si autodefinisce come una forma di anti-regolamentazione. Velocità inerziale

La cogenza e l’urgenza con cui si sviluppa il processo rispetto a precedenti processi che nel medesimo campo, ambito o scala sono stati percepiti come fallimentari, è un elemento saliente. Le politi­ che che si rivelano inefficaci o parzialmente infruttuose rispetto agli obiettivi di privatizzazione, innalzamento della competizione, attrat­ tività finanziaria, solvibilità, miglioramento delle performance di un determinato settore, risultano tuttavia cruciali per l’esplorazione e la sperimentazione del modus operandi del neoliberismo. Esiste come un impeto continuo a reinventare e rielaborare modelli, programmi e riorganizzazioni che allargano così lo spazio della circolazione tra ambiti e territori diversi. Quanto più il terreno è solcato da falli­ menti e l’opinione pubblica è presa dall’urgenza, tanto più il nuovo processo scaturisce nella sua forma più aggressiva. In altre parole quanto più è veloce il ciclo ‘induzione della crisi, gestione della crisi, reinduzione della crisi’, tanto più il modello di trasformazione è preso in un vortice contraddittorio di interventi riparatori, come ad esempio nel caso delle strategie delle banche centrali per il contra­ sto della speculazione finanziaria. Fase del processo

I processi di trasformazione neoliberista procedono secondo un movimento a spirale di ‘induzione della crisi, gestione della crisi e reinduzione della crisi’. Anche per questo motivo non esiste uno stadio finale, compiuto e definitivo di equilibrio neoliberista. I pro­ cessi neoliberisti non hanno mai portato ad una stabilità istituzio­ nale, sebbene spesso siano animati, almeno in termini retorici, dalla ricerca forzata di tale stabilità. I target hanno sempre una localizza­ zione spaziale ben determinata che viene tracciata in maniera preci­ sa durante le fasi di avanzamento e di ritirata dei processi di cam­ biamento. Dunque, anche quando si palesa come una dottrina, il neoliberismo è in un certo senso utopico, poiché non indica esatta­ mente come raggiungere l’obiettivo finale, ma indica solo che l’obiet68

tivo deve essere raggiunto14. Nella fasi di induzione e reinduzione della crisi le politiche e i processi neoliberisti tendono a trovare le­ gittimazione in quanto forme di aggiustamento e riorganizzazione nell’ottica del lungo periodo e rispetto a finalità a prima vista legate alla sostenibilità e al mantenimento di un dato sistema in equilibrio di lunga durata, mentre nella fase di gestione della crisi il processo assume il carattere palese di richiamo diretto ai principi della performatività finanziaria.

4, Conclusioni Ho provato ad illustrare la natura e la dinamica essenziale del rapporto tra i processi neoliberisti e il capitalismo finanziario, come se si trattasse di una matrice religiosa che punta a connettere terre­ no e ultraterreno. L’essenza del capitalismo finanziario risiede nel­ l’espansione del debito ad libitum, nella creazione del denaro dal nulla attraverso i meccanismi di leverage, nelle mete speculative dei prodotti e delle transazioni finanziarie15, mentre il neoliberismo appare come un coacervo di politiche, sperimentazioni, indirizzi e riforme tra loro diverse per tipo di attori coinvolti, territori implica­ ti e massima varietà dei settori sociali ed economici toccati. Qualsia­ si processo neoliberista costituisce in generale un culto della trasfor­ mazione di un campo o di un ambito della socio-economia reale, di modo che questo, in termini espliciti o latenti, possa tendere ad av­ vicinarsi a livelli di accresciuta performance, competitività, solvibilità H Persino il Thatcherismo o la Reaganomics sono paradigmatici di questo paradosso; sebbene siano stati determinanti nel ristrutturare e disarticolare il quadro dello Stato keynesiano, hanno poi dato vita ad uno sviluppo irregolare e disomogeneo del neoliberismo. L’isomorfismo normativo e disciplinare iniziale è stato poi troncato dal mol­ tiplicarsi di continue sperimentazioni e ristrutturazioni nei vari settori, spazi, territori e scale della govemance. Lo stesso concetto di governance - che rimanda all’idea di una gestione ottimale dell’esistente - denota questo movimento reiterativo di ricerca con­ tinua della riforma vincente. 16 Per questioni di spazio, qui non ho potuto accennare ai processi storici che han­ no condotto il capitalismo ad assumere una forma prevalentemente finanziaria. Per una rassegna sintetica dei pilastri del processo di finanziarizzazione del capitalismo rimando ai seguenti testi: Useem (1996), Toporowski (2000), Aglietta, Rebérioux (2004), Epstein (2005), Poon (2009), Adrian, Shin (2009), Carney (2010), Gallino (2011), Marazzi (2011), Denninger (2012), Gerding (2014), Madigele (2014).

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e attrattività al cospetto del capitale finanziario. Le ragioni di questo culto terreno risiedono proprio nello scarto tra il mondano razio­ nale e fextramondano più o meno imperscrutabile, tra l’economia politica e la politica economica ‘reali’ da un lato, e il denaro virtuale dell’economia finanziaria dall’altro. Questo culto, che anela ad avvi­ cinare il terreno all’ultraterreno, si compie nell’ottica di perseguire uno o più dei seguenti obiettivi: attrarre il capitale di origine finan­ ziaria nell’ambito specifico della socio-economia reale in cui si de­ termina il processo neoliberista di trasformazione; puntare a creare plusvalore terreno da investire nei mercati finanziari; mantenere o generare un profilo di p ararne trizzazione dello specifico campo o ambito terreno funzionale ad una valutazione finanziariamente po­ sitiva. Nel suo legame circolare con la dimensione terrena e reale della socio-economia, il capitale finanziario alimenta diverse e differenti modalità cultuali di reazione e sviluppo (privatizzazione, innalza­ mento della competizione, attrattività finanziaria, solvibilità, migliar ramento delle performance di un determinato settore): è in questo senso una religione senza una teologia dottrinaria, una religione coercitiva, ma non prescrittiva, che lascia agli attori svariate possibi­ lità di azione e senza fornire una precisa prassi per la grazia e la sal­ vezza. È anche per questo motivo che le caratteristiche dei processi neoliberisti sono molteplici e che per ciascuna di esse è possibile in­ dividuare un campo molto ampio di variabilità, non solo per i fatto­ ri di processo, ma persino per gli esiti finali. In sintesi, è necessario abbandonare la prospettiva della varietà dei capitalismi su scala nazionale, poiché tale varietà è l’oggetto delle scommesse di un unico regime finanziario globale. E poi euri­ sticamente utile considerare questo tipo di regime capitalistico alla stregua di una particolare forma di religione: intesa non tanto quan­ to credo o teologia che abbia conquistato le anime del mondo, ma piuttosto, nell’ambito della sociologia della conoscenza (Fligstein, 1996, 2001; Preda, 2007; MacKenzie, 2009), come sistema di rap­ presentazioni e pratiche che muovono il presente contro l’ignoto e l’imprevedibile. Le dinamiche neoliberiste costituiscono così una ri­ strutturazione continua, basata su una successione di modelli distinti che avanzano per round e che agiscono sulle normative e sul fun­ zionamento delle istituzioni relazionate al capitale con prossimità differenti. 70

Capitolo, terzo Governance economica eurppeajn tempi di crisi e scelte di policy nazionali: l’austerità nel discorso parlamentare italiano di Sabrina Cavatorto e Alba Ferrerà

1. Introduzione

Il capitolo descrive e interpreta il processo di neoliberalizzazione in un ambito cruciale dell’azione pubblica statale sottoposto, ancor più durante la crisi finanziario-economica, all’influenza crescente della regolazione comunitaria. Ci riferiamo alla finanza pubblica e alla politica di bilancio, da cui dipendono tutte le politiche nazionali che comportano spese e trasferimenti monetari anche agli enti terri­ toriali. Un oggetto privilegiato di osservazione per approfondire il rapporto fra politiche e istituzioni quando è in gioco la regolazione multilivello dell’economia. Lo studio analizza il dibattito sviluppatosi nel Parlamento italiano contestualmente ai vincoli alla finanza pubblica derivati dalla rifor­ ma della governance economica dell’unione Europea (UE). La ricer­ ca si concentra sul periodo 2008-13 ed esamina, nel ciclo di pro­ grammazione coordinata multilivello, la nuova formula del semestre europeo approfondendo due processi decisionali. Il primo riguarda l’approvazione parlamentare dei documenti economici e finanziari proposti dall’esecutivo nei quali vengono delineati gli obiettivi pro­ grammatici di politica economica e di finanza pubblica. L’attuale Documento di economia e finanza (DEF) attiene a una componente strutturata delle decisioni di bilancio presente nell’ordinamento ita­ liano già dalla fine degli anni ottanta e via via adeguata al mutare delle regole UE. Si tratta perciò di un passaggio istituzionale reite* Il capitolo è frutto di riflessione e ricerca comuni. Sabrina Cavatorto ha tuttavia redatto i paragrafi 1, 2, 3, 4.2 e le conclusioni. Alba Ferreri è autrice del paragrafo 4.1.

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rato che consente di sviluppare la dimensione diacronica dell’ana­ lisi. Il secondo processo individua invece una metadecisione, la rati­ fica di tre trattati internazionali intervenuti a disciplinare il sistema di governo dell’eurozona: da un lato introducendo un patto raffor­ zato di bilancio (Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la gover­ nance nell’Unione economica e monetaria, c.d. Fiscal compact), dal­ l’altro ritoccando gli strumenti di stabilizzazione e assistenza finan­ ziaria per gli Stati dell’area euro (Meccanismo europeo di stabilità). Un importante momento di snodo che, a pochi mesi dalla costituzionalizzazione del pareggio di bilancio (legge costituzionale 1/2012), di fatto completa, con la manovra di finanza pubblica di cui il DEF 2013 è interprete, la cornice degli adattamenti nazionali in risposta alla crisi dei debiti sovrani. Gli sviluppi di policy osservati sono una proxy non esaustiva ma si­ gnificativa delle principali tendenze adattive che, in tempi di crisi e per effetto delle interdipendenze della governance multilivello, si re­ gistrano sulle istituzioni della rappresentanza.

2. Politiche regolative, risposte ordoliberali alVeurocrisi, fallimenti di democrazia

Gli Stati dell’eurozona hanno reagito alla crisi confermando l’ado­ zione delle ricette già tipiche del modello regolativo europeo. Nel­ l’interpretazione di Majone (1996) la UE è stata la prima struttura istituzionale a valorizzare la funzione regolativa su quella distributiva e redistributiva delle politiche pubbliche. Il bilancio limitato della UE e l’impossibilità di imporre tasse ai cittadini hanno favorito la produ­ zione di politiche sovranazionali finalizzate alla regolazione del mer­ cato unico e alla correzione dei fallimenti dei mercati nazionali, anzi­ ché alla produzione diretta di beni e servizi e alla distribuzione e re­ distribuzione del benessere collettivo a fini di equità sociale. Nell’approccio UE la funzione dello Stato regolatore (La Spina, Majone, 2000) è pertanto distinta da quella dello Stato gestore/interventista spesso intrecciato con lo Stato sociale, stili di intervento pubblico più tipici del XX secolo: allo Stato regolatore è associato il governo indiretto delle attività economiche da parte delle istituzioni pubbliche che, in posizione di terzietà, svolgono la funzione preva­ lente di produrre le regole del gioco, anziché spendere o tassare. La 72

concorrenza agisce da principio centrale di riferimento per la re­ golazione pubblica. Le regole di concorrenza e il conseguente orien­ tamento ai processi di liberalizzazione e ri-regolazione secondo standard comuni sovranazionali sono un fondamentale fattore di in­ tegrazione, uno strumento essenziale nella formazione del mercato unico, insieme alle libertà di circolazione (merci, lavoratori, servizi, capitali) e al divieto degli aiuti statali alle imprese. Di contro, i trat­ tati comunitari non hanno posto l’armonizzazione delle politiche sociali redistributive come priorità, considerandole un possibile co­ rollario del mercato unico, non un suo requisito. Tali elementi richiamano la concezione neoliberale dell’economia, nella versione più moderata delTordoliberalismo, che al laissez faire ha storicamente preferito l’enfasi sulle regole, «preoccupato di garantire il funzionamento ordinato del mercato» (Fabbrini, 2013, corsivo nostro) secondo i principi della costituzione economica (Cassese, 2004). In più passaggi Majone (2009; 2014a) sottolinea che questi rife­ rimenti, presenti ne\Yacquis communautaire, hanno avuto nell’evolu­ zione della polity europea un valore strumentale. Nel Trattato di Roma, l’espressione da parte degli Stati fondatori di concezioni di­ vergenti del modello regolativo ha consolidato «not a commitment to a genuine free-market philosophy, but the realistic assessment that it would be impossible to integrate a group of heavily regulated economies without limi­ tations on the interventionism of the national governments» (Majone, 2009, pp. 96-97)l. Sarebbe prevalsa un’ispirazione pragmatica, oscil­ lante fra lo spill over neofunzionalista (che aveva previsto un travaso continuo e irreversibile di risorse normative dall’unione economica a quella politica) e la negoziazione strategica interstatale teorizzata dall’intergovernativismo liberale (che nelle decisioni europee so­ prattutto di treaty making vedeva solo compromessi al minimo comun denominatore finalizzati a soddisfare interessi economici e geo­ politici delle coalizioni più potenti di attori)1 2. Al di là delle valuta­ 1 Sulla divergenza degli orientamenti dì policy dei padri fondatori concorda anche M. Thatcher (2013): «rivai conception of EU regulation remained [...] one view was that the EU should seek the rapid extension of competition across markets and. remove constraints on firms [...] a rival view was that the extension of competition should be slow and limited [...] lib­ eralization was to be counterbalanced by re-regulation to shape markets through setting stan­ dards and rules to ensure that competition did not damage collective benefits» (ivi, p. 176). 2 Per una introduzione critica alle teorìe classiche dell’integrazione europea si ri­ manda al sempre valido Rosamond (2000). Una trattazione più aggiornata in Giusti (2008).

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zioni circa le radici e i limiti dell’integrazione europea3, che non è possibile approfondire in questa sede, vogliamo concentrarci su evi­ denze dell’impostazione concettuale che ha interpretato la UE come polity regolativa. Al riguardo è utile ricordare che il modello regolativo comunitario si è concretizzato nei due processi di integrazione negativa e positiva (Scharpf, 1998): la prima volta a rimuovere le barriere nazionali di ostacolo al mercato unico e alla libera concor­ renza; la seconda orientata a strutturare un assetto regolativo euro­ peo soprattutto mediante l’armonizzazione degli ordinamenti legi­ slativi nazionali e, dal Trattato di Maastricht in poi, anche attraver­ so strumenti diversi dalla regolazione diretta, meno vincolanti per gli Stati, meno onerosi per le istituzioni sovranazionali, perciò con­ siderati potenzialmente più efficaci. I processi di integrazione nega­ tiva e positiva sono interconnessi e influenzano gli esiti delle politi­ che europee. Se infatti le politiche regolative non sono soggette ai vincoli di bilancio e i costi che ne derivano sono sostenuti innanzitutto dai re­ golati, esse condizionano profondamente le istituzioni nazionali e al contempo dipendono da queste per quanto attiene alla loro imple­ mentazione. Per garantire l’efficacia delle politiche è perciò crucia­ le, secondo la teoria della regolazione, che l’impegno dei governi sia credibile e le soluzioni regolative coerenti nel tempo. A tal fine, per l’approccio regolazionista, si devono valorizzare l’expertise e la neutralità politica delle istituzioni che producono regolazione (isti­ tuzioni «non maggioritarie» o «indipendenti») sottraendole al circui­ to elettorale della rappresentanza (nella UE tale funzione è svolta da Commissione, Banca centrale, Corte di giustizia). In questa pe­ culiarità dello Stato regolatore europeo si anniderebbe però anche il rischio del deficit di legittimazione democratica della delega sovranazionale di poteri, aggravato dall’estensione progressiva delle competenze comunitarie in aree sensibili della sovranità statale (po­ litica finanziaria e fiscale)4.s s Sul punto anche l’interessante riflessione di Jabko (2006), che esplora l’articola­ zione della metafora «mercato» nelle tappe della costruzione comunitaria. 4 Sulla politica fiscale, Genschel e Jachtenfùchs (2011) osservano che gli Stati con­ tinuano a raccogliere le tasse ma perdono il controllo sui parametri fiscali e l’espan­ sione di competenze UE non passa attraverso il rinnovamento dei trattati ma è l’ef­ fetto di una loro attuazione attraverso la regolazione sovranazionale. Majone (2005) definisce tale processo di integrazione «strisciante» (integration by stealth).

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Nella costituzione economica europea al controllo sul mercato si aggiunge quello sulla moneta (Unione economica e monetaria, UEM) e sulla finanza pubblica (Patto di stabilità e crescita, PSC3*5). Pertanto, in chiave anticrisi, le politiche di contenimento della spesa, il raffor­ zamento della sorveglianza di bilancio, il maggiore coordinamento e controllo sovranazionale delle politiche economiche si conferma­ no in continuità con la disciplina di mercato già avviata negli anni novanta. In tempi di crisi non si registrano cambiamenti paradig­ matici negli obiettivi dì policy, né nella costellazione di attori rilevan­ ti. Questi ultimi, tuttavia, per giustificare le politiche anticrisi, mo­ dificano il discorso politico puntando sul dovere collettivo di sanare f implementazione inefficace delle (buone) regole vigenti soprattut­ to da parte di alcuni (pochi) governi «opportunisti» (Kamkhaji, Radaelli, 2013, p. 209). E la costruzione discorsiva dell’austerità. Nella contingenza critica, la dimensione dei problemi (Scharpf, 2014) e le preferenze di politica pubblica risultate prevalenti nel si­ stema delle élite europee (Cotta, 2014) hanno prodotto una fallacia regolativa che ha seriamente sfidato la credibilità della UEM: la concentrazione dei costi su taluni Stati membri (i debitori) delle scelte di politica economica restrittiva (sponsorizzate dai Paesi in surplus guidati dalla Germania e dalle istituzioni sovranazionali non maggioritarie) ha sbilanciato le asimmetrie interne alFUnione6. Ciò ha prodotto un aggravamento istituzionale del deficit democratico, fra l’altro associato alla centralità assunta dal Consiglio europeo nella gestione della crisi, anche attraverso la creazione degli Eurosummit7, nonché alla tendenza ad approvare accordi intergoverna­ tivi al di fuori dei trattati (come il Fiscal compact). In letteratura molti sono intervenuti sulle implicazioni di questo regime di «execu­ tive-dominated federalism» (Puetter, 2012; Crum, 2013) realizzatosi nella fase critica per il governo della politica monetaria: le relazioni negoziali fra i governi nazionali e le istituzioni non maggioritarie, esperte e depoliticizzate (BCE e Commissione, insieme al Fondo monetario internazionale, raggruppate nella Troika incaricata della 3 Stipulato nel 1997 allo scopo di fissare i requisiti di adesione alla UEM avviata con il Trattato di Maastricht del 1992, il PSC limita il deficit nazionale e il debito pubblico degli Stati euro rispettivamente al 3% e al 60% del PIL. 6 Hall (2013) semplifica distinguendo modelli economici del Nord e del Sud Eu­ ropa. 7 Vertici dei capi di Stato e di governo dei soli Paesi che hanno adottato l’euro.

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sorveglianza finanziaria) diventano il perno dell’autorità regolativa sovranazionale tratteggiando la possibilità di un vero e proprio de­ fault di democrazia: «the mechanisms set up in the hope of resolving the eurozone crisis clearly reveal a willingness to sacrifice democratic legitimacy in order to rescue the monetary union» (Majone, 2014b, p. 7). Sullo stesso punto insiste Scharpf (2014), che nelfeurocrisi e nel regime di salvataggio della moneta unica lamenta, per un verso, la fine della intermediazione di legittimità da sempre svolta dagli Stati a parziale compensazione delle carenze strutturali di input democra­ tico della polity europea; per altro verso, l’ambivalente (se non criti­ ca) affermazione oltre il breve termine dell’altra faccia della legitti­ mità, quella fondata sull’ow/pw/, cioè sull’efficacia delle politiche eu­ ropee8*. Quest’ultima risulterebbe ancora una volta minata dall’a­ simmetria degli effetti distributivi della nuova regolazione economi­ ca, «where practically all the costs of rescuing the common currency are borne by the debtor states and their citizens» (ivi, p. 13). Come implicazione, nell’architettura dell’eurozona che Scharpf definisce «authoritarian expert regime, [..J dictat imposed by creditor gov­ ernments» (ivi, p. 4), è particolarmente penalizzato il ruolo dei Par­ lamenti, soprattutto nazionali (PN). I PN vedono generalmente in­ debolita la propria sovranità di bilancio (Crum, 2013; Fossum, 2014) e subiscono in modo amplificato lo squilibrio fra governi di Paesi creditori e governi di Paesi debitori: i Parlamenti degli Stati più for­ ti sono meno penalizzati di quelli dei Paesi più compromessi poiché di fatto i primi determinano molte delle condizioni operative entro cui sono limitati ad agire i secondi (Benz, 2013). In conclusione i PN, soprattutto degli Stati più in bilico nella crisi, sono chiamati ad approvare - tendenzialmente senza poter discutere - decisioni eu­ ropee già prese dai governi e a giustificare all’elettorato i sacrifici de­ rivanti dall’adozione di politiche economiche restrittive (Puntscher Riekmann, Wydra, 2013). Nel quadro dei vincoli della nuova governance economica UE ci siamo dunque domandate quali effetti l’architettura dell’eurozona e il discorso sull’austerity abbiano prodotto sulle rappresentazioni dei parlamentari italiani quanto a salienza delle issues europee, articola­ zione delle preferenze di politica pubblica, relazioni governo-Parla8 Sulla nota distinzione fra input e output legitimacy, per una più estesa trattazione, si rimanda a Scharpf (1999),

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mento. L’ipotesi è che le politiche influenzino le istituzioni e la crisi abbia agito da catalizzatore.

3. Il coordinamento sovranazionale della finanza pubblica La crisi dei debiti sovrani ha portato all’approvazione di nuovi strumenti che hanno rafforzato i vincoli esterni per gli Stati mem­ bri, soprattutto dell’eurozona. Il PSC è stato corretto da due pacchetti legislativi, ‘6-pack’ e ‘2-pack’, rispettivamente nel 2011 e 2013. Il primo ha introdotto più strin­ genti obblighi di convergenza verso il pareggio di bilancio e la ridu­ zione del debito pubblico, oltre ad avere previsto un meccanismo semiautomatico per le sanzioni finanziarie ai Paesi inadempienti9. Il secondo ha rafforzato la sorveglianza di bilancio nella zona euro ed è intervenuto sulla correzione dei disavanzi eccessivi, oltre ad avere rimodulato il ciclo della programmazione di bilancio1011 . Queste deci­ sioni sono incardinate nel calendario del coordinamento sovrana­ zionale economico e di bilancio denominato «semestre europeo»11. Il ciclo di policy inizia ogni anno in autunno con l’analisi da parte della Commissione europea delle priorità economiche generali per la UÈ (analisi annuali della crescita); la valutazione ex ante dei do­ cumenti programmatici di bilancio per l’anno successivo degli Stati 9 II 6-pack si compone di sei atti legislativi in vigore dal 13 dicembre 2011: 1) re­ golamento UÈ 1173/2011 sull’effettiva esecuzione della sorveglianza di bilancio nella zona euro; 2) regolamento UE 1174/2011 sulle misure esecutive per la correzione de­ gli squilibri macroeconomici eccessivi nella zona euro; 3) regolamento UE 1175/2011 che modifica le procedure di sorveglianza delle posizioni di bilancio; 4) regolamento UE 1176/2011 sulla prevenzione e la correzione degli squilibri macroeconomici; 5) re­ golamento UE 1177/2011 che modifica la procedura per i disavanzi eccessivi; 6) diret­ tiva 2011/85/UE del Consiglio relativa ai requisiti per i quadri di bilancio degli Stati membri. 10 II 2-pack consta di due regolamenti, in vigore dal 27 maggio 2013: 1) regolamento UE 472/2013 sul rafforzamento della sorveglianza economica e di bilancio degli Stati membri nella zona euro che si trovano o rischiano di trovarsi in gravi difficoltà per quan­ to riguarda la loro stabilità finanziaria; 2) regolamento UE 473/2013 sulle disposizioni comuni per il monitoraggio e la valutazione dei documenti programmatici di bilancio e per la correzione dei disavanzi eccessivi negli Stati membri della zona euro. 11 Già introdotto nel 2010 nel quadro della strategia europea per la crescita e l’oc­ cupazione Europe 2020 (decorrenza 1° gennaio 2011), poi meglio specificato nel 6-pack (regolamento UE 1175/2011).

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della zona euro e dei programmi di partenariato economico per gli Stati soggetti alla procedura di disavanzo eccessivo; la relazione sul meccanismo di allerta per individuare, nel contesto della procedura per gli squilibri macroeconomici, eventuali situazioni di rischio12. In primavera, nel vertice dedicato convenzionalmente ai temi economici, il Consiglio europeo elabora i propri orientamenti strate­ gici sulle riforme finanziarie, macroeconomiche e strutturali, di cui devono tenere conto gli Stati. Al contempo, la Commissione pubblica gli esami approfonditi per Stato membro sui potenziali squilibri. In linea con gli orientamenti strategici e le raccomandazioni UE, ad aprile gli Stati presentano i piani di risanamento dei conti pub­ blici (programmi di stabilità o convergenza a medio termine, PSC) e le misure economiche da adottare (programmi nazionali di riforma, PNR). Questi documenti sono valutati a maggio-giugno dalla Com­ missione che rivolge raccomandazioni strategiche per i successivi 12-18 mesi, discusse dal Consiglio dei ministri economici e finanzia­ ri (Ecofin) e approvate dal Consiglio europeo (giugno-luglio). Le indicazioni strategiche sono fornite agli Stati prima che siano ulti­ mati i bilanci preventivi per l’anno successivo. Il ciclo si chiude con la presentazione alla Commissione e ai mi­ nistri Ecofin (entro il 15 ottobre) dei documenti programmatici di bilancio. Se un documento non è in linea con gli obiettivi a medio termine dello Stato, la Commissione può chiedere che venga rifor­ mulato. Agli Stati rimane quindi tempo (poco) sino alla fine del­ l’anno per riformulare e approvare i bilanci definitivi. In altre pa­ role, «the Commission - not the national parliament - is the first institution where the proposed budget of a country in financial difficulties is examined» (Majone, 2014b, p. 6). Citando Chalmers (2012), anche Majone con­ corda che la costituzione di tale zona di influenza dominata dalla Commissione e dall’Ecofm produca il trasferimento in questa sede in buona sostanza del conflitto politico di norma allocato al livello 12 Le Analisi annuali della crescila presentate dalla Commissione dal 2011 al 2013 evidenziano una revisione delie priorità UE già dal 2012: dal «rigoroso risanamento dei bilanci per una maggiore stabilità macroeconomica» (2011) ad un «risanamento di bilancio differenzialo (dal 2012) e favorevole alla crescila» (2013); dalle «riforme struttu­ rali per aumentare I’occupazione» (2011) alla «lotta contro la disoccupazione e le conse­ guenze sociali della crisi» (dal 2012); da «misure di stimolo alla crescita» (2011) al «ri­ pristino di una normale attività creditizia a sostegno dell’economia» (dal 2012); inoltre, (dal 2012) la modernizzazione della pubblica amministrazione (corsivi nostri).

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nazionale. Ciò trasforma i processi di democrazia locale in «little mo­ re than administrative containers» (ivi, p. 693). A fronte del crescente scetticismo espresso anche dall’opinione pubblica, la stessa Commissione europea ha raccomandato agli Stati di valorizzare il coinvolgimento di PN, parti sociali, enti territoriali, oltre che più generalmente dei cittadini, allo scopo di assicurare che «le riforme chiave siano comprese e accettate» (Commissione, 2013, p. 6). Un intervento attivo dei PN è in particolare sollecitato per la discussione dei PNR e PSC prima che questi siano presentati alla UE. È quanto dovrebbe accadere in Italia con la discussione del Do­ cumento di economia e finanza (DEF) che, incorporando PSC e PNR, viene presentato ogni anno in Parlamento nel mese aprile (in attua­ zione della legge 39/2011 introdotta per ottemperare alle nuove re­ gole e procedure UE sul ciclo della programmazione finanziaria13). La riforma della contabilità pubblica ha richiesto, per le caratteristi­ che prudenziali delfimpianto europeo, lo svolgimento in tempi più consoni dell’esame parlamentare14. Essa è stata eseguita dando at­ tuazione al Patto Europlus adottato dall’Eurosummit nel marzo 2011 e, in previsione dell’entrata in vigore dal 1° gennaio 2013 del Patto di bilancio europeo o Fiscal compact (FC)15, dalle seguenti ulteriori meta-decisioni: la costituzionalizzazione della «regola d’oro» del pa13 Precedenti del DEF sono il DPEF (Documento di programmazione economicofìnanziaria) e la DFP (Decisione di finanza pubblica), istituiti rispettivamente dalle leggi di contabilità legge 362/1988 e legge 196/2009. Il DPEF (pubblicato dal 1988 al 2009) definiva la manovra di finanza pubblica per conseguire gli obiettivi fìssati dal governo nel bilancio pluriennale (talvolta ha conciso con l’intera legislatura). La DFP è stata redatta solo per il 2010 nell’intento di triennalizzare la manovra e definire una proiezione di maggiore stabilità finanziaria. Essa nasce tuttavia come strumento reso già obsoleto dalla versione rafforzata del PSC nel frattempo approvata in sede euro­ pea: la DFP è «insieme il primo e l’ultimo [documento] del suo genere [...] già desti­ nato ad essere sostituito da un diverso e più articolato apparato di documentazione di matrice europea» (MEF, 2010, pp. III-1V). 14 La riforma del 2011 anticipa l’avvio della programmazione economica alla pri­ ma parte dell’anno, lasciando invariato il calendario della successiva fase, con la ma­ novra di finanza pubblica ad ottobre (legge di stabilità e legge di bilancio). L’adegua­ mento del DEF all’evolvere della situazione in corso d’anno è contenuto nella Nota di aggiornamento da trasmettere al Parlamento a settembre. La Nota può anche ag­ giornare il DEF in base alle raccomandazioni sovranazionali su PSC e PNR. Un’approfòndita disamina circa la «spinta» delle prescrizioni europee alla «irresponsabile» politica italiana di bilancio è condotta da Damonte (2013). 15 Anch’esso concordato, il 2 marzo 2012, da 25 Stati membri al di fuori della cor­ nice giuridica dei trattati.

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reggio di bilancio (legge costituzionale 1/2012), la successiva ratifica del trattato internazionale FC (legge 114/2012), l’approvazione di una legge quadro di attuazione delle precedenti disposizioni (legge 243/2012) che prevedevano fra l’altro l’istituzione di un organismo indipendente (Ufficio parlamentare di bilancio) incaricato di verifi­ care il rispetto delle regole. Il quadro degli adattamenti nazionali è completato dalla ratifica di un altro trattato intemazionale (che per essere approvato ha richiesto una modifica del Trattato di funzio­ namento della UE), il quale ha istituito nella forma di organizzazio­ ne intergovernativa il Meccanismo europeo di stabilità (MES)16. A fronte di tale scenario, la ricerca riguarda la misura e le modali­ tà con cui gli attori del Parlamento italiano (MP) hanno bilanciato, se lo hanno fatto, la predominanza degli attori governativi nel processo di partecipazione alla nuova governance economica europea. La persi­ stenza della crisi economica ha influenzato gli atteggiamenti dell’élite parlamentare nei confronti delle issues europee aumentandone la sa­ lienza? Se sì, in che direzione di contenuto e con quali effetti?

4. Partecipazione parlamentare e salienza europea 4,1. Decisioni macroeconomiche e di bilancio

Il dibattito parlamentare sui documenti economico-finanziari rap­ presenta quindi una significativa intersezione del livello nazionale sul semestre europeo. L’andamento della partecipazione dei MP alle decisioni ne denota una capacità attrattiva di qualche rilievo, nono­ stante l’esame parlamentare si risolva con la votazione di un atto non legislativo ma di indirizzo (risoluzione): nel periodo 2008-13 (tab. 1) la presenza in aula si mantiene mediamente al di sopra del1’80% ad eccezione del 2012, quando il «governo d’impegno nazio­ nale» guidato dal senatore a vita Mario Monti per «portare l’Italia 16 La revisione semplificata dell’art. 136 TFUE, ratificata in Italia con FC e MES, è stata deliberata dal Consiglio europeo nel dicembre 2010 (poi formalizzata, con i pareri positivi di Parlamento europeo, Commissione e BCE, nella Decisione 2011/199/UE del 25 marzo 2011) al fine di riconoscere agli Stati dell’eurozona la prerogativa di istitui­ re un meccanismo finanziario permanente «da attivare ove indispensabile per salva­ guardare la stabilità della zona euro nel suo insieme» e che «stabilisce che la conces­ sione di qualsiasi assistenza finanziaria necessaria nell’ambito del meccanismo sarà soggetta a una rigorosa condizionalità» (dai considerata della Decisione 2011/199/UE).

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fuori dall’emergenza finanziaria»17, sostenuto da amplissima mag­ gioranza18, sembra ridurre negli stessi MP la percezione dell’impor­ tanza del passaggio parlamentare. Anche la discussione in assem­ blea registra una contrazione del numero di sedute19. Nel tempo, inoltre, con l’acuirsi della crisi, alla durata contenuta del dibattito e alla minore partecipazione dei MP corrisponde un orientamento più consensuale delle forze politiche: il voto descrive la maggiore prevalenza dei favorevoli sui DEF 2012 e 2013.

Tab. 1 - Partecipazione parlamentare e voto sui documenti economicofinanziari Legislatura Governo

XVI Berlusconi IV 2008 2010 2009 DPEF DPEF DFP 2009-2013 2010-2013 2011-2013

2011 DEF 2011

Monti 2012 DEF 2012

XVII Letta 2013 DEF 2013

1 (26 aprile 2012)

2(6-7 maggio 2013)

170 24 4

209 58 19

SENATO

N. sedute plenarie Voti Favorevoli Contrari Astenuti % Presenti su totale senatori CAMERA

N. sedute plenarie

Voti Favorevoli Contrari Astenuti % Presenti su totale deputati

3 (13-14- 4 (3-4-5 19 ottobre maggio 2011) 2010

3 (8-9 lu­ glio 2008)

3(2829 luglio 2009)

161 127 5

152 121 3

174 129 0

93%

88%

96%

84%

63%

91%

2 (7-8 lu­ glio 2008)

2(2829 luglio 2009)

1 (13 otto­ bre 2010)

1 (28 aprile 2011)

1 (26 aprile 2012)

2(6-7 maggio 2013)

292 240 4

254 233 2

297 256 3

389 56 11

419 153 17

85%

78%

88%

72%

93%

145 117 3

283 263 1 87%

Fonte: nostra rielaborazione su dati Parlamento italiano.

17 Espressioni dello stesso Monti nel discorso per la fiducia al Senato il 17 novem­ bre 2011. 18 Vota contro la fiducia solo la Lega nord. Dopo un mese, anche l’Italia dei valori nega l’appoggio al governo. 19 In media le sedute plenarie sui documenti programmatici 2008-13 sono 2,6 al Senato e 1,5 alla Camera, più incline alla sintesi.

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Nel biennio di più marcato consensualismo, l’espressione di una maggiore quantità di voti contrari nel 201320 dipende dal conte­ stuale passaggio di legislatura e dalle difficoltà di formazione di un nuovo esecutivo all’indomani del risultato delle elezioni del febbraio 2013. Il governo di larghe intese affidato all’esponente del Partito democratico (PD) Enrico Letta fronteggia un’opposizione più consi­ stente del predecessore Monti, con l’ingresso in Parlamento del Movimento 5 stelle (M5S) che nega la fiducia insieme a Sinistra ecologìa e libertà (Sei), con l’astensione della Lega nord. Stesso comportamento di voto sul DEF 2013, peraltro redatto dal governo Monti in fase di prorogati/) per rispettare le scadenze del semestre europeo. In tempi di crisi quindi, la decisione sui documenti di program­ mazione economica assume carattere emergenziale, di fatto depo­ tenziando le dinamiche anche awersariali di confronto parlamenta­ re: lo spazio per la discussione politica è mediamente ridimensiona­ to, la partecipazione dei MP diminuisce, l’orientamento dei gruppi sembra di nuovo ispirato al permissive consensus di impronta più rea­ lista dell’eurottimismo identitarie espresso in passato dall’élite poli­ tica italiana2122 . Analizzando il contenuto degli interventi parlamentari, qual è la salienza dei temi europei? Aumenta all’acuirsi dei vincoli di finanza pubblica? Come viene declinata dal punto di vista degli orientamen­ ti e delle preferenze dì policy da parte dei MP? Sul totale dei claims2,2 considerati (N = 11.113), osserviamo un aumento complessivo della salienza europea, intesa come menzione esplicita di temi collegati alla UE (tab. 2): se nel biennio 2008-09 le questioni europee erano meno centrali nella discussione economicofinanziaria (infatti prevalgono i claims non UE-salienti), a partire dalla DFP 2010 si evidenza un’inversione di tendenza. Le questioni europee, segnatamente la politica macroeconomica (che assorbe il 66% dei claims UE-salienti), diventano prevalenti nei dibattiti esa20 +13% di voti contrari rispetto al 2012 (le astensioni al Senato equivalgono a voti contrari). 21 Sulle fasi dell’europeismo italiano, cfr. Cotta, Isernia, Verzichelli (2005); Beliuc­ ci, Conti (2012). 221 claims sono «unità di discorso strategiche espresse nella sfera pubblica», in que­ sto caso il Parlamento nazionale. Una rassegna sulle metodologie di claim analysis in De Wilde (2013).

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minati e l’intensificarsi della crisi (o meglio della percezione dei suoi effetti sul sistema politico italiano, che porterà a fine 2011 alla caduta del governo Berlusconi IV2324 ) si conferma come momento apicale della salienza. Tab. 2 - Salienza europea del dibattito parlamentare sui documenti economico-finanziari

2008 2009 2010 2011 2012 2013 Totale (N) Totale %

Menzione esplicita di temi europei (salienza) % 49 38 60 77 59 65 6.468 58

Assenza di menzione esplicita di temi europei (non salienza) % 51 62 40 23 41 35 4.645 42

Totale (N)

1.455 2.302 2.214 2.058 1.189 1.895 11.113

Fonte: nostra rielaborazione da dati codificati24.

Partecipazione parlamentare e salienza europea risultano perciò inversamente collegate. La diminuzione in assoluto dei claims sui DEF 2012 e 2013 dipende infatti dalla contrazione dello spazio di discussione, cui però non corrisponde un decremento della salienza europea (anzi nel 2012 la menzione esplicita di riferimenti alle que­ stioni macroeconomiche sale al 74%). La severa contrazione dei tempi della decisione, unitamente alle difficoltà di disamina di do­ cumenti resi più complessi dal ciclo della programmazione multili­ vello, impoveriscono il dialogo fra Parlamento e governo. Mediamente, durante il governo Berlusconi IV, è più attenta ai temi europei l’opposizione, rappresentata dal PD (fig. 1). Sul DEF 2011 si registra il massimo scostamento dagli altri partiti, che coin­ cide con un grado di conflittualità maggioranza-opposizione fra i più elevati (45% dei voti contrari al Senato, 48% alla Camera).

23 Sulla crisi del debito sovrano e la caduta del governo Berlusconi IV, cfr. Jones (2012). 24 I dati sono stati raccolti da Alba Ferreri nell’ambito del suo lavoro di ricerca per

il dottorato.

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-

Salienza europea per maggioranza e opposizione

Fonte: nostra rielaborazione

Fig. 1

Il PD si conferma partito attivo sulle issues europee anche quando diventa maggioranza parlamentare (tab. 3). Al contrario, il Popolo della libertà (PdL) dimostra un interesse ridotto quando è partito del presidente del Consiglio (2008-11), con percentuali di claims UE-salienti mai superiori, in media rispetto agli altri partiti, al 20%. È poi più disattento nei governi Monti e Letta, che pure sostiene25. Nell’approccio alle questioni europee anche di politica economica, il PdL appare più condizionato dalla propria collocazione governa­ tiva rispetto al PD.

Tab. 3 - Salienza europea nei due maggiori partiti PD PdL Altri Totale (N)

2008 41% 28% 31% 731

2009 48% 13% 39% 901

2010 34% 20% 46% 1.330

2011 42% 13% 45% 1.575

2012 37% 15% 48% 699

2013 25% 14% 61% 1.232

Totale (N) 2.422 1.067 2.979 6.468

Fonte: nostra ri elaborazione

Riguardo agli altri gruppi parlamentari, la salienza è variamente articolata anche in virtù delle ricomposizioni nel centro-destra già durante il governo Berlusconi IV26: la media annuale di Lega, UdC e IdV27 è attorno al 10%; il gruppo Misto all’8%. Merita menzione nel 2013 il M5S che esprime il 21% dei claims UE-salienti. La fig. 2 descrive la posizione dei MP riguardo a scelte di policy di orientamento neoliberale, riconducibili - come ricette anticrisi di più specifica matrice ordoliberale - a misure non anticicliche ma proci­ cliche, cioè avverse al deficit spending e ad una politica fiscale espan­ siva, finalizzate alla stabilizzazione macroeconomica e finanziaria, al rilancio degli investimenti privati. L’indice di neoliberismo28 assume valori positivi anche quando sono esplicitamente osteggiate opzioni di policy di ispirazione keynesiana, in primis investimenti pubblici in disavanzo. 25 Nel novembre 2013, sul voto della legge di stabilità, Berlusconi ritira la fiducia ed esce dalla maggioranza. In seguito alla scissione del PdL, il Nuovo centro destra di Angelino Alfano continua a sostenere il governo Letta. 26 Nel 2010 nasce, poi uscendo dal PdL, il gruppo Futuro e libertà (FLI) fondato da Gianfranco Fini. 27 Non presente però in Parlamento nel 2013. 28 Risultante dalla combinazione di due indicatori, uno riferito ai paradigmi di po­ licy, l’altro all’atteggiamento di sostegno o critica dei MP.

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Fig. 2 - Orientamenti neoliberal di maggioranza e opposizione

Mentre nel periodo iniziale della crisi la differenza ideologica fra parlamentari di governo di centro-destra e parlamentari di opposi­ zione di centro-sinistra interpreta l’orientamento favorevole o vice­ versa più critico nei confronti di politiche macroeconomiche neolibe­ ral, assistiamo ad un avvio di inversione di tendenza sul DEF 2011: Forientamento meno favorevole degli esponenti di maggioranza nei confronti delle politiche neoliberal corrisponde ad una presa di di­ stanza dall’austerità europea. Sebbene gran parte dei parlamentari del PdL lamentino l’eccessiva rigidità delle misure europee ma ne riconoscano la fondamentale validità come scudo anticrisi, esponen­ ti di Lega nord e Movimento per le autonomie (MpA) mettono in discussione l’applicabilità dei vincoli europei e giudicano inadegua­ ta l’azione dello stesso governo, troppo deludente sul fronte della crescita. L’opposizione invece, soprattutto il PD, che già aveva so­ stenuto una politica fiscale espansiva in funzione anticiclica, insiste ora - con IdV e UdC - sulla necessità di affiancare agli stabilizzatori automatici e alla politica monetaria interventi discrezionali di bilan­ cio (spending review), assumendo con ciò una posizione molto critica sull’azione del governo, accusato di non avere realizzato riforme strutturali volte ad incrementare il livello di competitività, concor­ renza e liberalizzazione del sistema economico italiano. 86

Sul DEF 2012 PdL e PD, ora coalizzati a sostenere il governo tec­ nico Monti, confermano l’urgenza sia della spending review, sia di in­ terventi che riducano la pressione fiscale (nel frattempo cresciuta) su redditi da lavoro e d’impresa. Per il rilancio della domanda ag­ gregata comincia ad accreditarsi l’opzione «di interesse nazionale» del richiamo in sede UE alle clausole di flessibilità previste dal PSC, anche per rilanciare gli investimenti pubblici. In questo passaggio emergenziale la differenza fra maggioranza e opposizione si riduce al minimo. Il trend di generale bilanciamento dell’austerità a van­ taggio di misure espansive è poi confermato dal DEF 2013 che, seb­ bene lasci alla maggioranza di larghe intese stretti margini di ma­ novra a causa del permanere sull’Italia della procedura di disavanzo eccessivo29, registra i valori più bassi dell’indice di neoliberismo. Pertanto, in un Paese che subisce il vincolo esterno (Stato debito­ re), la gestione sovranazionale della crisi tende a depotenziare sulle scelte di politica economica le dimensioni esplicative destra-sinistra ed esecutivo-opposizione.

4.2. Ratifica del Fiscal Compact

La situazione è ulteriormente descritta dal processo di ratifica dei tre trattati sulla governance dell’eurozona durante il governo Monti. La partecipazione dei MP al dibattito in aula (tab. 4) è in media inferiore a quella registrata nei dibattiti sui documenti economicofinanziari, con l’eccezione del DEF 2012 che, approvato durante lo stesso governo Monti, si conferma il picco più basso dell’attenzione parlamentare. L’iter di ratifica è assai più breve30 di altri trattati UE (Cavatorto, 2012). Quanto al voto, come per il DEF 2012, il soste­ gno è negato dalle opposizioni: la Lega nord, che condivide il prin­ cipio di «sana» finanza pubblica (vota il pareggio di bilancio in Co­ stituzione), è contraria a ulteriori deleghe di sovranità (e all’euro) e 29 E proprio sugli impegni del Programma di stabilità 2013 che la Commissione europea raccomanda al Consiglio Ecofin di abrogare la procedura di deficit eccessivo adottata il 2 dicembre 2009 (decisione 2010/286/UE del Consiglio). La procedura viene abrogata con decisione del Consiglio del 21 giugno 2013. 30 Al Senato l’iter congiunto di FC e MES è durato 100 giorni (dal 3 aprile al 12 luglio 2012); l’esame dell’art. 136 TFUE è iniziato prima (19 settembre 2012), poi si è svolto congiuntamente (298 giorni). Dopo l’approvazione al Senato, l’iter alla Camera è durato solo 6 giorni (dal 13 al 19 luglio 2012).

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vota contro31; l’IdV, avverso alla «camicia di forza» in fase recessiva, si astiene32. Diversamente dagli altri gruppi che sostengono il go­ verno tecnico, il PdL non si esprime compatto e soprattutto alla Ca­ mera registra, oltre alle molte assenze, il 28% di astensioni e il 3,3% di voti contrari. Tab. 4 - Partecipazione parlamentare e voto nella ratifica di Fiscal com­ pact, Modifica art. 136 TFUE e MES Legislatura Governo

FC

XVI Monti Art. 136

MES

SENATO

2 (11-12 luglio 2012) esame congiunto

N. sedute plenarie

Voti Favorevoli Contrari Astenuti % Presenti su totale senatori CAMERA

216 24 21 84%

191 21 15 73%

2 (18-19 luglio 2012) esame congiunto

N. sedute plenarie

Voti Favorevoli Contrari Astenuti % Presenti su totale deputati

230 22 14 85%

368 65 65 79%

380 59 36 75%

325 53 36 66%

Fonte: nostra rielaborazione su dati Parlamento italiano.

In proporzione, sui tre provvedimenti, il FC ottiene una percen­ tuale minore di voti favorevoli, mentre sul MES la partecipazione al voto è relativamente più contenuta, sebbene a questo provvedimen­ to - che autorizza una (cospicua) contribuzione finanziaria da parte italiana - vengano dedicate più sedute in sede consultiva, con pareri che recano anche osservazioni prudenziali. Ad esempio, la Commis­ sione finanze e tesoro del Senato prende atto dell’obiettivo di ridu­ zione del debito ma «ritiene fondamentale conferire preminenza ad una ripresa strutturale della crescita attraverso l’adozione di para31 Dichiarazione di voto on. Giorgetti (LNP) alla Camera il 19 luglio 2012. 32 Dichiarazione di voto on. Evangelisti (IdV) alla Camera il 19 luglio 2012.

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metri differenziati per promuovere gli investimenti pubblici e di appropriate misure di stimolo»33. Nella stessa direzione, la Commis­ sione bilancio auspica - con evidente riferimento all’Italia - che il MES sia uno «strumento per calmierare alti differenziali tra gli inte­ ressi dei titoli del debito pubblico degli Stati dell’area euro, soprat­ tutto riguardo a quei Paesi che, avendo intrapreso un serio percorso di risanamento delle finanze pubbliche, si trovino a soffrire di tale fenomeno per i problemi complessivi dell’area euro»34. Apprezza­ mento per tale rilievo è peraltro espresso dalla Lega, nonostante la sua astensione dal voto in commissione35. Invece alla Camera i pareri sono sempre favorevoli e, in linea ge­ nerale, giustificati dalla riconosciuta coincidenza dei principi UE con la politica del governo, oltre che dall’intesa intervenuta in sede europea che deroga - anche a vantaggio dell’Italia - al PSC. Aspetto quest’ultimo che i MP a supporto del governo considerano priorita­ rio per conseguire gli stessi obiettivi di finanza pubblica36. Dalle dichiarazioni di voto favorevoli al FC, l’esortazione ad agire a livello comunitario con più incisività nell’attuazione di politiche di contrasto alla crisi in direzione anticiclica proviene in primo luogo da UDC e PD, che approvano il FC ma chiedono il Growth Pact, sol­ tanto abbozzato dal Consiglio europeo37. Il PdL invece è diviso: alla maggioranza degli ex Forza Italia che sottolineano in positivo le re­ sponsabilità del governo Berlusconi IV per il contributo anticrisi da­ to nel 2011 in sede europea38, si contrappone una minoranza critica che marca il proprio disingaggio politico, nonché partitico39: «stia33 Parere approvato al Senato dalla 6a Commissione sui disegni di legge 2914, 3239, 3240. 34 Parere approvato al Senato dalla 5a Commissione sul disegno di legge 3240. 35 Intervento sen. Garavaglia (LNP) presso la 5a Commissione al Senato il 28 giu­ gno 2012. 36 Cfr. pareri approvati alla Camera dalla V Commissione bilancio e tesoro in esa­ me congiunto dei tre provvedimenti 5357, 5358, 5359. 37 Interventi di Tonini (PD) e Gozi (PD), rispettivamente al Senato il 12 luglio 2012 e alla Camera il 18 luglio 2012. Il Consiglio europeo del 28-29 giugno 2012 in effetti approva, assieme alle raccomandazioni sulle politiche nazionali di bilancio nel quadro della procedura del semestre europeo 2012, un nuovo «Patto per la crescita e l’occupazione» che mobilita finanziamenti dal bilancio UE per «misure a effetto rapi­ do» (vd. Conclusioni del Consiglio europeo, EUCO 76/12). 38 «Questo Trattato è del governo Berlusconi, che lo ha voluto», on. Gottardo (PdL) alla Camera il 19 luglio 2012. 39 Alcuni di questi dissidenti formeranno Fratelli d’Italia.

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mo prendendo un impegno per le prossime generazioni che sap­ piamo non potrà essere rispettato»40. Nel complesso, distribuendo i riferimenti ai principi di azione contenuti nei richiami programmatici all’eurocrisi lungo un conti­ nuum austerità-solidarietà, nelle dichiarazioni di voto in aula dei MP prevalgono gli orientamenti che esprimono esigenze di coesione (fra Stati membri), solidarietà finanziaria (fra Paesi in surplus e de­ bitori), regolazione europea (unione bancaria e politica fiscale co­ mune). Tuttavia, la condizionalità cui sono vincolate le misure di as­ sistenza richiama diffusamente al principio della responsabilità na­ zionale nell’attuazione della riduzione del debito pubblico che, an­ che attraverso le liberalizzazioni, viene riconosciuta come un dovere della classe politica. La prospettiva condivisa di un «patto sociale per le riforme strutturali» (PD) è sostenuta dalla «storia di continui­ tà dei governi italiani rispetto all’Europa» (PdL) e individua in ri­ sposte istituzionali europee non più soltanto monetarie, né intergo­ vernative, il principale rimedio anticrisi41. L’orientamento di policy oscilla fra la partecipazione cooperativa alla membership comunitaria e l’adattamento proattivo al vincolo esterno, a prescindere - nell’a­ genda futura - dalla composizione della rappresentanza parlamen­ tare e dei governi.

5. Conclusioni Emerge quindi quanto segue: nel discorso di politica economica la salienza europea aumenta nel tempo e la crisi si conferma fattore facilitante; a ciò corrisponde una diminuzione della partecipazione dei MP al dibattito e al voto, nonché una contrazione delle dinami­ che awersariali fra le forze politiche e fra l’esecutivo e l’opposizio­ ne; tali dinamiche sono in larga parte confermate nella ratifica dei tre trattati sull’euro governance, anche se questo caso di metadecisione profila con più nettezza una variabile «pro-anti UE». Nel complesso tuttavia, almeno sino alla fase apicale della crisi, il rafforzamento del vincolo esterno non produce nel contesto nazio­ nale una maggiore politicizzazione delle questioni europee. Oltre 40 Intervento dell’on. Crosetto (PdL), in dissenso dal gruppo (Camera, 19 luglio 2012). 41 Cfr. ordini del giorno in assemblea al Senato e alla Camera accolti dal governo.

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alla salienza infatti, la politicizzazione aumenta se vi è un qualche grado di attivazione anche sulle altre due componenti del fenome­ no, cioè la partecipazione parlamentare e la polarizzazione partitica e/o fra maggioranza e opposizione42 (tab. 5). Ques t’ultima - ma il dato non è generalizzabile - risulta comunque più marcata nel pro­ cesso di ratifica.

Tab. 5 - Dimensioni della politicizzazione Salienza Partecipazione Polarizzazione

Bassa

Alta

-

+ + +

-

Riguardo alle preferenze di policy, infine, si rileva un orientamen­ to tendenzialmente più favorevole alle opzioni UE anticrisi di stam­ po neoliberale/ordoliberale (austerity) da parte dei MP che fanno parte dei partiti che sostengono il governo, che sia di centro-destra o di centro-sinistra. Tale convergenza rende possibili le maggioran­ ze estese o la grande coalizione nei passaggi più difficili della crisi, cui pure corrisponde nella fase più recente il tentativo di ritematiz­ zare in sede UE un’agenda di politica economica meno restrittiva.

42 Su tale concettualizzazione si rimanda a Hooghe, Marks, 2009; De Wilde, Ziirn, 2012.

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Capitolo quarto Neoliberismo e riforme del mercato del lavoro italiano: fatti, versioni, determinanti strutturali di Andrea Ciarini

L Introduzione

La protezione sociale dell’attività lavorativa alle dipendenze è sta­ ta uno dei fattori cardine, forse il principale, dello sviluppo dei re­ gimi di welfare in Europa. Il lavoro è stato centrale ai fini dello svi­ luppo del welfare fordista. Ancora oggi è intorno alla protezione del lavoro che si stanno ridefinendo i contorni del welfare in Europa, anche a partire dalla crisi di legittimità che ha investito il neoliberi­ smo e gli approcci di policy che a esso possono essere ricondotti. A ben vedere sulla crisi di legittimità del neoliberismo come paradig­ ma di policy e anche come «discorso politico» non vi è una univocità di posizioni. Non mancano anzi autori che hanno sottolineato la re­ silienza del neoliberismo (si veda in particolare Schmidt, Thatcher, 2014), la sua capacità di mantenersi egemone pur di fronte al falli­ mento di molte delle sue ricette mainstream, non ultime quelle ri­ conducibili alle politiche &austerity, che continuano a insistere sui piani di risanamento economico e di riforma del mercato del lavo­ ro. Il fatto è che non è ancora chiaro se e come usciremo da questa fase di transizione. Non è detto che alla crisi del neoliberismo possa corrispondere il ritorno o la rivisitazione di strumenti di politica economica e del lavoro tipici dell’epoca d’oro del welfare state keynesiano. Se il mercato come principio ispiratore delle modalità di concepire l’intervento sociale mostra tutti i suoi limiti di fronte agli effetti così negativi della crisi, non necessariamente saranno le leve degli investimenti pubblici e della redistribuzione a tornare al cen­ tro del modello sociale. D’altra parte i rigidi vincoli di bilancio im­ posti dalle misure ^'austerity continuano a misconoscere qualunque 93

intervento sulla domanda di lavoro, per concentrare tutta l’atten­ zione sui tagli alla spesa pubblica, sull’alienazione dei beni pubblici, non ultimo su un ulteriore flessibilizzazione dei mercati del lavoro, quale via obbligata per il ripristino delle condizioni di equilibrio nel mercato del lavoro e il rafforzamento della competitività delle im­ prese. Nonostante gli effetti recessivi indotti dalle manovre deflati­ ve, l’intervento pubblico, di fatto, sembra destinato a essere rim­ piazzato da un mix ancora più forte e pervasivo rispetto al più re­ cente passato di mercato e di addossamento di crescenti responsa­ bilità in capo ai singoli lavoratori e individui senza istituzioni di rappresentanza in grado di controbilanciare il sempre maggiore po­ tere discrezionale delle imprese. Questa è certamente una possibili­ tà, rilanciata peraltro dall’ampio dibattito sorto di recente intorno alla questione della neoliberal convergence (Streeck, 2009; Baccaro, Howell, 2013) Una convergenza dei sistemi di welfare e delle rela­ zioni industriali verso la sostanziale destrutturazione di ciò che nei decenni del «trentennio glorioso» aveva sostenuto tanto il consoli­ damento della rappresentanza collettiva quanto l’allargamento del welfare e delle protezioni sociali riconosciute ai lavoratori. Speculare a queste trasformazioni sarebbe l’indebolimento della contrattazione collettiva (e delle organizzazioni sindacali) e di converso il decentra­ mento dei rapporti tra istituzioni e parti sociali verso soluzioni sem­ pre più individualizzate e di mercato. Secondo questi autori l’inde­ bolimento della contrattazione collettiva, la ricerca di flessibilità or­ ganizzativa e salariale da parte delle imprese, compresa una mag­ giore libertà di licenziare, la diminuzione delle misure di protezione sociale e l’indebolimento di tutti i vincoli che interferiscono sull’in­ contro tra domanda e offerta di lavoro, sarebbero tutte parti di un disegno volto a erodere i modelli di regolazione del lavoro e della rappresentanza ereditati dai trenta gloriosi, verso sistemi di diretta ispirazione anglosassone, tipici delle economie di mercato (Hall, Soskice 2001). L’ipotesi della neoliberal convergence contiene in sé spunti interes­ santi. Non mancano tuttavia punti di vista alternativi a questa pro­ spettiva, più tesi a dare risalto alle spiegazioni centrate sull’influen­ za delle mediazioni istituzionali e soprattutto sulle varietà delle ri­ sposte nazionali. In questa chiave di lettura, pur riconoscendo la presenza di pressioni esterne assai meno favorevoli rispetto al passa­ to, gli alberi, come li chiama Bordogna (2012), ovvero le istituzioni

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della rappresentanza e altresì del welfare, continuerebbero a eserci­ tare un forte potere di influenza, ad esempio attraverso la riprodu­ zione di dualismi e segmentazioni niente affatto superati da una de­ strutturazione al ribasso per tutti come vorrebbe la teoria della neo­ liberal convergence. D’altra parte come molti recenti studi hanno messo in evidenza (Palier, Thelen 2010; Emmenger et al., 2012; Palier, 2013), i passaggi che hanno scandito le riforme del welfare e nel campo della rappresentanza non sono stati immuni dal prodursi di vecchi e nuovi dualismi tra insider e outsider', cioè tra componenti core del mercato del lavoro, più tutelate nel welfare e più coperte dalla contrattazione, anche in una fase di riduzione delle garanzie e caduta della sindacalizzazione, e componenti più marginali, spesso impiegate nei settori a bassi salari, ma non necessariamente a scarso contenuto di conoscenza (questo vale soprattutto per l’Italia), più esposte alla intermittenza lavorativa e con difficoltà ad essere rico­ nosciute e tutelate tanto dal sistema di welfare quanto dalla con trat­ tazione integrativa (Gualmini, Rizza, 2011; Emmenger et al., 2012; Marx, Eichhorst, 2012; Palier, 2013). Questa lettura della transizione in corso è strettamente collegata all’analisi dei processi di mutamento delle strutture produttive e oc­ cupazionali, in particolare agli effetti indotti dal passaggio verso l’economia della conoscenza. La terziarizzazione dell’economia e il declinare dell’industria sono stati salutati per lunghi anni come un processo di graduale crescita qualitativa del lavoro e delle profes­ sionalità. Più di un commentatore ha posto l’attenzione sul portato di innovazione che f affermarsi dei servizi e dei nuovi contenuti del lavoro avrebbero avuto sulla crescita complessiva delle società. E tuttavia tali trasformazioni, che pure in parte vanno in questa dire­ zione, sono più complesse. Accanto infatti al lavoro qualificato dei servizi ad alta produttività resiste e anzi si va allargando un ampio spettro di lavori terziari sottopagati e dequalificati (Mingione, 1997; Esping-Andersen, 2000, 2002; Emmenger et al., 2012) che hanno inciso sulla crescita delle disuguaglianze. Già da queste considerazioni si capisce bene come i punti di vista e le visioni che sottendono ai processi di neoliberalizzazione siano molti e molto differenziati tra loro: de strutturazione delle relazioni collettive in vista di assetti minimi ispirati al mercato o nuove forme di mediazioni istituzionali e varietà delle risposte nazionali indotte dal peso della path dependency? La risposta a interrogativi di questo 95

tipo non è univoca. Sono molti i fattori concomitanti che insistono sulle trasformazioni del mercato del lavoro e delle istituzioni della protezione sociale. Molte sono altresì - almeno nella interpretazio­ ne che si intende dare dei mutamenti in corso in questo lavoro - le specificità nazionali che continuano a essere ben presenti. Questo vale in particolare per l’Italia, cui va molta della nostra attenzione. Nel prosieguo del capitolo guarderemo al rapporto che in Italia è andato sviluppandosi tra processi di neoliberalizzazione e riforme del mercato del lavoro. Quanto e con quali effetti questi processi hanno interessato il mercato del lavoro italiano? Ma soprattutto, con quale intensità e secondo quali direttrici di marcia, intenzionali o inattese, i processi di neoliberalizzazione hanno agito? Prima di entrare nel dettaglio di questi processi è utile partire dalla conte­ stualizzazione di questo fenomeno nello scenario europeo, per poi da qui guardare alle trasformazioni che hanno modificato le politi­ che del lavoro in Italia.

2. Variabilità nel tempo e nello spazio delle riforme del mercato del lavoro in Europa

È opinione oramai condivisa Videa di individuare nella seconda metà degli anni settanta lo spartiacque che separa il crepuscolo del lungo ciclo fordista dall’avvio dei grandi processi di trasformazione che hanno cambiato radicalmente le politiche del lavoro e le istitu­ zioni del welfare più in generale in Europa (2012; vedi anche Em­ menger et ai, 2012; Ferrera, 2012). Volendo semplificare possiamo dire che è in questo periodo che prende avvio quella rinegoziazione tra diritti e doveri che in molti hanno ricondotto all’ascesa del neo­ liberismo. Rispetto al passato alla protezione sociale non si chiede più di concorrere direttamente alla piena occupazione e alla redi­ stribuzione della ricchezza in vista della stabilità dei cicli di produ­ zione e consumo. E piuttosto indirettamente che la spesa sociale e il welfare devono concorrere a questi obiettivi, rafforzando i fattori di competitività e adattabilità dell’offerta di lavoro in un mercato che via via perde le politiche di sostegno della domanda. Abbandonati gli strumenti keynesiani e le politiche industriali e aperte le econo­ mie nazionali a una crescente interdipendenza competitiva, i merca­ ti del lavoro perdono i tradizionali connotati di stabilità. Con essi è

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altresì la spesa sociale che perde molte delle sue funzioni stabiliz­ zatrici, tant’è che un elevato livello di spesa nel welfare inizia a esse­ re visto come un fattore di freno al pieno sviluppo delle forze del mercato, le quali da sole, attraverso l’autoregolazione, riescono a garantire la più efficiente distribuzione delle risorse tra «capitale» e «lavoro». Va detto che queste trasformazioni non hanno avuto un effetto diretto sulle policy, almeno nel breve periodo e non in tutti i Paesi secondo le stesse modalità e intensità. Anzi per un certo tempo mol­ ti degli studi sui regimi di welfare hanno a lungo dibattuto sui fatto­ ri di resistenza o path dependency. A titolo d’esempio possono essere considerate le analisi proposte da Pierson (1994, 2001). Secondo questo autore, nonostante i tagli alla spesa sociale e la retorica antiwelfarista degli anni ottanta, i regimi di welfare hanno conservato una loro resistenza al cambiamento ben oltre le molte istanze di ri­ forma in senso peggiorativo propugnate dai governi. In effetti la path dependency e le vischiosità istituzionali che ha messo in luce Pierson (ivi) sono fattori che hanno disincentivato la piena aderenza a una prospettiva di smantellamento del welfare, non fosse altro che per pure ragioni di calcolo delle élite politiche, poco disposte, dice Pierson, a sostenere i molti costi nel breve di certe scelte (i tagli) a fronte di benefici futuri (il risparmio della spesa pubblica, la soste­ nibilità economica) di là da venire. Vi sono tuttavia trasformazioni che lo stesso autore non manca di evidenziare. Ad esempio è un fat­ to che quel combinato disposto di «rimercificazione» del lavoro e ri­ duzione della spesa sociale sia stato portato avanti soprattutto nei contesti anglosassoni. Qui le politiche del lavoro subiscono pesanti tagli, in particolare sul versante della spesa passiva, ridotta e crescentemente condizionata alla ricerca attiva del lavoro, pena la ri­ duzione dei sussidi. E l’avvio delle ben note politiche di workfare, ovvero un mix di misure passive (calanti) e attive, volte da un lato a ridurre la spesa sociale complessiva e dall’altro a incentivare quanto più possibile l’inserimento lavorativo nel più breve tempo possibile, date condizioni di mercato su cui è escluso qualsiasi intervento di politica economica. Di queste politiche attive sono noti ormai la gestazione e soprat­ tutto l’impatto sul corso dei dispositivi di protezione sociale. Qui ba­ sti ricordare che il workfare thatcheriano ha segnato in profondità un determinato corso delle politiche del welfare inglesi, tanto da as97

surgere a modello di riferimento, paradigmatico di un certo modo di concepire l’intervento sociale, speculare come ha ricordato di re­ cente Ferrera (2012) all’ascesa del neoliberismo come sistema di valori imperniato sulla centralità del mercato autoregolato nelle sue funzioni allocative e distributive. Non è un caso che il nucleo cen­ trale del neoliberismo tragga spunto dai cicli di riforma inaugurati dai governi Thatcher e Reagan nel Regno Unito e negli Stati Uniti. È qui che con un certo anticipo sui tempi gli assunti neoliberisti ispirano un nuovo discorso pubblico (ivi), imperniato sulla radicale critica agli effetti perversi del welfare keynesiano e fordista, accusato di essere causa di un eccesso di spesa pubblica, di rigidità che bloc­ cano il pieno dispiegarsi delle forze del mercato, infine di burocra­ tizzazione e paternalismo nei confronti delle scelte degli individui. In questa visione le funzioni redistributive del welfare state vengono concepite come un blocco che deresponsabilizza gli individui, incen­ tivando chiusure corporative e rendite di posizione che minano la crescita economica e la stessa sostenibilità dei sistemi di protezione sociale. Se così appare lo Stato del welfare giunto all’apice del tren­ tennio glorioso, logica conseguenza è il ripristino di condizioni di sostenibilità e l’avvio di riforme tutte tese a ridurre la spesa pubbli­ ca, incentivando quanto più possibile l’assunzione di responsabilità direttamente in capo agli individui, siano esse riferite al problema dell’inserimento e reinserimento lavorativo o alla fruizione di una qualunque forma di trasferimento monetario. Come abbiamo già accennato è soprattutto nei contesti anglosas­ soni che i cicli di riforma neoliberisti sono stati ispirati a questi as­ sunti. Ben presto tuttavia anche il resto d’Europa viene investito da tensioni analoghe, ma con effetti molto diversi. Se è vero che sul piano del «discorso politico» la retorica neoliberista inizia a trovare ampio risalto, diverso è il discorso per quello che riguarda le con­ crete riforme implementate. Già Pierson a suo modo (1994, 2001) aveva messo in luce questo scarto, distinguendo tra il ciclo di rifor­ me liberali ispirate al contenimento dei costi e alla «rimercificazio­ ne» del lavoro, tipiche per l’appunto dei Paesi anglosassoni e le ri­ forme cosiddette «socialdemocratiche» (tipiche dei contesti scandi­ navi) in cui il discorso sull’attivazione viene declinato in un quadro di razionalizzazione della spesa pubblica (non riduzione tout court), sempre però dentro un quadro di politiche redistributive di una certa entità. D’altra parte come hanno rimarcato in molti (Esping-

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Andersen, 2002; Bonoli, 2012) l’attivazione nei contesti scandinavi è un elemento storicamente presente nel novero delle politiche del lavoro, in un senso però molto diverso rispetto a quello sperimenta­ to nel Regno Unito al finire degli anni settanta. Il concetto di attiva­ zione è volto in questi Paesi non a una riduzione generalizzata della spesa per sussidi in favore di una crescente responsabilizzazione in­ dividuale, bensì a un esteso sistema di politiche della domanda (in­ tervenienti cioè sulle strutture produttive) e sull’offerta di lavoro volte a stimolare la mobilità della forza lavoro verso i settori a più alta produttività e più alti salari. Da questo punto di vista l’aumento della partecipazione complessiva al mercato del lavoro, soprattutto delle componenti che più corrono il rischio di rimanerne escluse, è la condizione per assicurare l’inclusione sociale e la sostenibilità nel lungo periodo del modello sociale. Ciò non di meno questo obietti­ vo richiede una spesa sociale a tutti gli effetti «produttiva», tesa cioè a produrre occasioni di impiego, a migliorare il capitale umano, a facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, a migliorare le condizioni di occupabilìtà per le donne come per gli uomini. In questa ottica possiamo leggere il senso di trasformazioni che più di recente hanno interessato le politiche del lavoro un po’ in tutto il continente, pur con esiti ancora una volta molto diversi tra un Paese e l’altro. Il riferimento va qui al paradigma del Social In­ vestment, emerso sul finire degli anni Novanta in contemporanea all’avvio di un dibattito incentrato sulle prospettive di rilancio (non semplice riduzione) della vecchia Strategia europea per l’occupazio­ ne. In un quadro di stretti vincoli di bilancio e anche alla luce di un certo consenso tra gli studiosi circa gli effetti negativi dell’ottica solo rip aratoria con cui il welfare state fordista era arrivato alla crisi dei trenta gloriosi, il Social Investment (Esping-Andesen, 2002; Jenson, 2012; Vandenbroucke, Hemerijck, Palier, 2011; Morel, Palier, Pal­ me, 2012; Costa, 2012; Cantillon, Vanderbrouke, 2013) è emerso come alternativa sia alla prospettiva keynesiana-fordista sia a quella tipicamente neoliberista. La sua declinazione trova fondamento in prospettive di analisi diverse e tuttavia accomunate dall’idea di una revisione in chiave progressiva del welfare, tesa cioè a coniugare obiettivi di competitività e di coesione sociale insieme. In questo l’in­ vestimento sociale tenta di dare forma e sostenibilità a molti degli obiettivi assunti dall’Unione Europea, sin dal lancio della Strategia europea per l’occupazione nel 2000, fino al più recente programma

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Europa 2020, Da ultimo la centralità del Social Investment è stata ri­ badita dalla Commissione Europea con l’adozione del Social Invest­ ment Package (2013). L’accordo punta a rafforzare la convergenza dei Paesi membri sull’adozione di politiche sociali in grado di soste­ nere, da un lato, l’inclusione dei soggetti a maggiore rischio di mar­ ginalità nel mercato del lavoro, dall’altro quegli investimenti, a par­ tire dall’istruzione ma anche di cura e conciliazione, in grado di rafforzare le capacità presenti e future degli individui. La produtti­ vità della spesa sociale è qui certamente diversa da quella intesa du­ rante il ciclo di espansione keynesiano-fordista, in quanto assume come prioritarie le componenti dell’offerta, senza alcun tipo di azione a supporto diretto delle componenti della domanda di lavo­ ro. Non è questo l’obiettivo delle nuove politiche del welfare. Siamo infatti a pieno titolo dentro una prospettiva offertista, senza dubbio più articolata ed equipaggiata in termini di servizi e investimenti dedicati rispetto alla prima generazione di politiche di attivazione. E tuttavia orientata ad agire indirettamente, attraverso la spesa in formazione e life-long learning, in servizi di conciliazione e misure di incentivazione all’inserimento lavorativo, sui fattori della crescita. Nella lettura di Esping-Andersen (2002; vedi anche Henerijck, 2012), una delle prime a cimentarsi con l’investimento sociale, que­ sto tipo di investimenti dovrebbe essere funzionale non solo all’al­ largamento della base fiscale su cui si sostiene il finanziamento del welfare, quanto soprattutto all’innalzamento dei livelli generali di istruzione e educazione, soprattutto nei confronti delle nuove gene­ razioni, perché è da qui che passa la concreta possibilità di collocar­ si sulle fasce occupazionali a più alto reddito. Sulla capacità di am­ pliare la fascia del lavoro a più alte qualifiche e produttività si misura già oggi il successo dell’investimento sociale. A ben vedere è pro­ prio su questo terreno che va colto il nodo critico della transizione in corso in Italia, dove l’introduzione di massicce dosi di flessibilità nei rapporti di lavoro non è stata accompagnata né da una riorga­ nizzazione delle politiche attive, né da misure e riforme in grado di qualificare verso l’alto la domanda di lavoro, né in ultimo da dispo­ sitivi dedicati di Reddito Minimo per le fasce di lavoratori più espo­ sti ai rischi di intrappolamento in condizioni (croniche) di lavoro «povero» a bassi salari o intermittenza lavorativa. In molti altri Pae­ si, a partire da Francia e Germania, che con l’Italia hanno molte ca­ ratteristiche in comune quanto a storia ed evoluzione del sistema di 100

welfare, è proprio sull’introduzione di tutele «dedicate» per i sog­ getti non coperti dai dispositivi ordinari di sostegno del reddito, che le riforme hanno più insistito in questi anni, sia sul versante delle politiche passive, sia su quello delle politiche attive. Di questo trat­ teremo meglio nel prossimo paragrafo.

3. Italia. Le costanti della via bassa alla competitività Che cosa dire insomma dell’Italia rispetto alle principali direttrici di riforma che hanno investito le politiche del lavoro nei principali Paesi europei? Ma soprattutto cosa di neoliberismo, ammesso che di ciò si possa parlare, c’è stato nelle riforme del lavoro in Italia? Riteniamo che non vi sia una risposta univoca a domande di que­ sto genere. Possiamo però partire da una constatazione. E cioè il fat­ to che anche in Italia come nei Paesi tradizionalmente bismarckiani (ma con specificità che discuteremo di seguito) le trasformazioni delle politiche del lavoro siano da assumere entro un quadro di cre­ scente dualismo. Il dualismo italiano è tuttavia diverso da quello comunemente inteso. Esso non rimanda a un crescente allargamen­ to di distanze in termini di salari, di tutele contrattuali e di welfare, tra lavoratori core ad alte qualifiche - occupati nei settori centrali a più alta produttività del lavoro - e lavoratori periferici, del terziario, a bassa produttività per lo più. Come rimarcato da Palier e Thelen (2012; vedi anche Palier, 2013), proprio la Germania, il Paese che meno sembra avere risentito dalla crisi in Europa, costituisce il caso probabilmente più eclatante di questo rafforzamento dei processi di dualizzazione interni al mercato del lavoro. La presenza di dualismi nella struttura occupazionale dei Paesi continentali, compresa la Germania, non è certo una novità. Essi sono parte costitutiva della struttura del mercato del lavoro e della stessa conformazione degli assetti di welfare bismarckiani, tra lavoratori più o meno protetti dalle tutele assicurative. È interessante semmai notare, come fanno alcuni studiosi (Carlin, Soskice, 2009; Palier, Thelen, 2012), che questa espansione occupazionale sia passata attraverso la ricostitu­ zione di un nuovo dualismo, non più tra inclusi e esclusi dal merca­ to del lavoro, bensì tra fasce core di lavoratori ad alto valore aggiun­ to - nell’occupazione manifatturiera e in quella terziaria - e fasce periferiche a più bassa produttività, sganciate nelle tipologie con-

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trattuali, così come nella copertura della contrattazione e del welfa­ re, dai settori centrali del mercato del lavoro (Karlin, Soskice, 2009). E pur tuttavia occupate. Si pensi a tal proposito ai 7,5 milioni di mi­ nijobs, impieghi remunerati per un massimo di 450 euro al mese comprensivi di limitati versamenti fiscali e contributivi a carico dei datori di lavoro. Delle riforme introdotte in Germania con i pro­ grammi Hartz, i minijobs non sono stati parte minoritaria. Insieme agli interventi sulle tutele passive (riduzione dei sussidi di disoccu­ pazione, inasprimento dei criteri di attivazione per il reinserimento lavorativo dei disoccupati), alle deroghe contrattuali e alla modera­ zione salariale, il sistema dei minijobs ha contribuito molto ad au­ mentare l’occupazione (Marx, Eichhorst, 2012; Farvaque, 2013) al prezzo però di un aumento delle disuguaglianze. In questo il duali­ smo che qui si è prodotto è in linea con quella tendenza tipica degli approcci neoliberisti tesi a segmentare il mercato del lavoro, ali­ mentando la domanda di occupazioni a bassi salari nei servizi a bas­ sa produttività. Se ne discosta invece per la presenza di rigide diffe­ renze tra il sistema delle protezioni accordate ai lavoratori core e quello ben più limitato riconosciuto ai segmenti periferici del mer­ cato del lavoro. L’Italia per diverse ragioni non sta dentro questo schema, non foss’altro che per il più basso sviluppo dei settori produttivi ad alta qualificazione (vedi Reyneri, Pintaldi, 2013). È qui che risalta uno dei caratteri specifici della transizione italiana negli anni della crisi e a ben vedere anche prima, ovvero la presenza di un settore terzia­ rio a più alte qualificazioni, non solo di ridotte dimensioni rispetto al resto dei Paesi europei ma addirittura in decrescita, segno questo di criticità che investono in pieno la qualità della struttura produttiva del Paese. Possiamo richiamare a sostegno di quanto detto il quadro emerso dai Rapporti annuali dell’ISTAT (2013a, 2014; vedi anche Reyneri, Pintaldi, 2013), laddove la riduzione dell’occupazione ten­ de ad accompagnarsi a una polarizzazione tra le tipologie contrat­ tuali, ma soprattutto a una ricomposizione a sfavore delle profes­ sioni più qualificate - dei giovani e dei lavoratori delle classi di età centrali - e di contro in favore di quelle esecutive e meno professio­ nalizzate nelle attività commerciali o dei servizi, alle persone in par­ ticolare. Come di recente evidenziato dalFISTAT (2014) a fronte di un aumento nei livelli di istruzione, in particolare tra i titoli di stu­ dio elevati (dal 16,7% del 2007 al 18,7% del 2013), la domanda di

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lavoro continua a ridurre le quote di occupati più professionalizzati, con titolo di studio elevato. Non stupisce in questo quadro la grande diffusione del lavoro parasubordinato e delle partite IVA iscritte alla gestione separata, soprattutto considerando il fatto di collocarsi in larga misura all’interno delle professioni tecniche e intellettuali e in mansioni impiegatizie del terziario avanzato, insieme naturalmente a settori meno qualificati dal punto di vista delle competenze delle formazione come i call-center, i servizi di pulizia, la sicurezza. Que­ sto tipo di lavoro, formalmente autonomo, ma economicamente di­ pendente, è presente in diversi Paesi europei (Pedersini, 2002; Eurofound, 2009). Il suo peso è tuttavia nettamente inferiore a quanto riscontrabile in Italia, anche al netto della tendenziale diminuzione riscontrabile in questi ultimi anni. Anche i dati confermano questo stato di cose. È vero che rispetto a una media europea del 15,2% (media EU27), i lavoratori indipen­ denti, compresi i piccoli imprenditori, sono a tutt’oggi superiori a tutti i Paesi europei, nel 2012 ancora il 23,4% dell’occupazione to­ tale, quasi un lavoratore su quattro. In Germania e in Francia sono praticamente la metà, circa 1’11%, nel Regno Unito il 14,2%, in Spagna il 16,8%. Solo la Grecia tra i Paesi dell’Eurozona ha una percentuale di lavoratori autonomi superiore, il 31,4%i. A livello disaggregato tuttavia le cose cambiano. Come hanno sottolineato in un recente lavoro Reyneri e Pintaldi (2013; si veda anche il rap­ porto sui lavoratori autonomi economicamente dipendenti della Commissione Occupazione e Affari Sociali del Parlamento Europeo, 2013), se sul totale dell’occupazione indipendente l’Italia supera di ben 10 punti la media europea (il 25% contro il 15,7% nel 2012), questa differenza si riduce di due soli punti se come termine di pa­ ragone si assume il lavoro autonomo con salariati alle dipendenze (i piccoli imprenditori). Allo stesso modo il lavoro professionale vero e proprio, ovvero quello non economicamente dipendente, è superio­ re di soli due punti rispetto alle medie europee (il 13% a fronte dell’ 11% sempre nel 2012). Quello che in realtà rende l’Italia un ca­ so sui generis è piuttosto la grande diffusione del lavoro autonomo economicamente dipendente: collaborazioni, partite IVA, lavori a progetto.

Dati Eurostat - European Labour Force Survey.

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Rispetto ai primi anni del duemila, quando gli studi segnalavano comunque una crescita del lavoro autonomo terziario a più alta qualificazione - pur in presenza di forti divaricazioni interne quanto a redditi e insicurezza sociale, in particolare tra le professioni non regolamentate e tra gli indipendenti economicamente dipendenti (vedi in particolare Fullin, 2004; Tavolini, 2012) - gli anni della cri­ si hanno segnato un sostanziale cambiamento, in peggio per molti versi. In particolare questo per il gruppo dei collaboratori e dei professionisti con partita IVA mono-committenti, andati ad ingros­ sare negli anni un variegato e molto eterogeneo gruppo di lavorato­ ri stretto verso il basso tra la limitata domanda di lavoro qualificato nei settori del terziario avanzato e la scelta, più o meno obbligata, del lavoro professionale in alternativa al lavoro alle dipendenze (ve­ di ancora Pavolini, 2012). È in questi circuiti e convenienze nascoste che si ripercuotono i condizionamenti negativi di quella via bassa alla competitività entro cui è tuttora incagliata la struttura produttiva italiana. In questo po­ co sembra essere cambiato rispetto ai primi anni novanta. Pur in un quadro di crescita occupazionale (ancorché trainata soprattutto da­ gli incrementi fatti registrare nelle regioni del Centro-Nord), già allora il mercato del lavoro italiano risentiva di una forte concentra­ zione nei settori manifatturieri a basso valore aggiunto, meno su­ scettibili di innovazioni e di qualificazione del lavoro, con uno scar­ so sviluppo del terziario avanzato a più alta produttività e più alta tecnologia (Paci, 1992; Reyneri, 2002). Per tutti gli anni duemila e anche negli anni della crisi questa situazione non si è modificata. Si è semmai aggravata, incidendo negativamente sulle prospettive oc­ cupazionali dei giovani più qualificati. Non stupisce in questo qua­ dro un altro dato che pure sembrerebbe destare una qualche con­ traddizione. In Italia il numero dei laureati è molto al di sotto della media europea. Ciò non di meno è molto alto il numero dei disoc­ cupati tra coloro che hanno una formazione terziaria. Ora è vero che il problema della bassa occupazione dei giovani qualificati è comune a molti altri Paesi europei ma soprattutto a tutto il versante mediterraneo (vedi fig. 1). È altrettanto vero però che su questa si­ tuazione insiste una domanda di lavoro, fatta di piccole e medie imprese, strutturalmente poco in grado di assorbire lavoro qualifica­ to, perché concentrata nei settori del basso manifatturiero. 104

Fig. 1 - Tasso di occupazione per livelli educativi (livelli 5 e 6), 25-29 an­ ni, Anni 2008-2013 Regno Unito

Germania

Francia

EU15

Svezia

|

Spagna

Italia

0,0

20,0

60,0

40,0

E1 2007

8o,o

100,0

E! 2013

Fonte: nostra elaborazione su dati Eurostat (2014)

4. Regole e riforme del mercato del lavoro. Tra nuovi dualismi e persistenti incastri distorti

Se in questa ottica guardiamo alle trasformazioni del mercato del lavoro il quadro che emerge è sensibilmente diverso da Paesi come Francia e Germania, in special modo per quello che riguarda il prodursi di nuovi dualismi. Non siamo di fronte alla costituzione di due mercati del lavoro distinti tra occupazioni qualificate e occupa­ zioni scarsamente qualificate, a più bassi salari e però destinatarie di dispositivi di inserimento lavorativo e tutela del reddito «dedicati». In questo l’assenza o meglio dire la parzialità di dispositivi simili al Reddito Minimo Garantito o al Reddito Minimo di Inserimento è un primo indicatore da tenere ben presente. A dire il vero nel 2000, in contemporanea all’introduzione della legge quadro sull’assisten­ za - la legge 328/2000 - era stato istituito anche in Italia il Reddito Minimo di Inserimento (RMI). In quell’occasione il RMI rispondeva all’esigenza di dotare il Paese di una vera politica nazionale contro la povertà, ponendo fine all’utilizzo improprio di dispositivi pensati per altre finalità (come è stato per lungo tempo con le pensioni di 105

invalidità o la stessa indennità di accompagnamento), e con il con­ tributo di partenariati di inserimento costruiti in partnership tra am­ ministrazioni territoriali e organizzazioni del terzo settore. Come sappiamo, la sperimentazione del nuovo istituto ha avuto vita breve. Nel 2001 è stato prima trasformato in Reddito di ultima istanza, poi del tutto abbandonato. Solo nel 2008 è stato introdotto un nuovo dispositivo ad hoc, la social card, a tutti gli effetti un trasferimento passivo per particolari categorie di beneficiari (anziani over 65 e mi­ nori sotto i tre anni), non solo di bassissima entità (40 euro al mese) e condizionato al reddito, ma anche slegato da qualunque politica per la creazione di nuova occupazione, ancorché a bassi salari (come è stato di contro per la Francia e anche per la Germania) nei servizi. Ad oggi nel nostro Paese è in via di sperimentazione una nuova po­ litica di contrasto della povertà sotto la dizione «SIA» (Sostegno per l’inclusione Attiva) che ha lo scopo di allargare la platea dei benefi­ ciari della precedente social card con in più l’attivazione di partena­ riati locali per il reinserimento lavorativo. L’entità della dotazione finanziaria rimane di piccola entità se paragonato agli impegni di spesa di Paesi come la Francia o la Germania. Quanto alla creazione di occupazione regolare ancorché a bassi salari nei servizi sul modello dei minijobs tedeschi in Italia non è sta­ to ancora prodotta alcuna novità. Per quanto riguarda infine la protezione del lavoro, detto della mancata connessione tra politiche del lavoro e politiche industriali, i vari interventi che si sono susseguiti nel tempo hanno soprattutto agito sul versante dell’offerta di lavoro (flessibilità, occupabilità), senza però nemmeno arrivare (almeno fino agli anni più recenti) a una riforma complessiva degli ammortizzatori sociali. Come è noto, a partire dal pacchetto Treu del 1996 per finire alla legge 30 del 2003, l’Italia ha visto crescere in maniera sostanziale le forme contrattuali atipiche a disposizione dei datori di lavoro, senza tuttavia mettere mano a riforme altrettanto incisive dal lato del sostegno al reddito in caso di perdita dell’occupazione, né introducendo dispositivi de­ dicati, assistenziali, per i soggetti esclusi dalle tutele ordinarie. Si so­ no piuttosto introdotte riforme parziali, in deroga, come per esem­ pio l’accordo tra Stato e Regioni sull’estensione degli ammortizzato ­ ri sociali. Con la legge 2/2009 e l’accordo Stato-Regioni sull’esten­ sione degli ammortizzatori sociali in deroga si è compiuto un tenta­ tivo di allargamento della platea dei beneficiari. L’estensione delle 106

indennità (agli apprendisti, ai parasubordinati, ai sospesi o licenzia­ ti) ha mantenuto, tuttavia, almeno fino alla più recente legge Forne­ ro, un carattere di provvisorietà. Inoltre anche con questo accordo sono rimaste forti differenziazioni di trattamento tra tipici a atipici, tra inclusi ed esclusi. Nel 2009 la Banca d’Italia (2009) stimava an­ cora 1,6 milioni di lavoratori dipendenti o parasubordinati non aventi diritto ad alcun trattamento in caso di sospensione o cessa­ zione del rapporto di lavoro. Negli ultimi anni le riforme sono in­ tervenute ancora a più riprese sulla riorganizzazione delle tutele. In questo caso, sull’estensione delle protezioni sociali anche ai lavora­ tori non coperti dai tradizionali dispositivi passivi, la riforma Forne­ ro ha in un effetti prodotto un allargamento della platea dei benefi­ ciari, seppure al prezzo della soppressione dell’indennità di mobili­ tà. Sono rimaste tuttavia escluse dai trattamenti di sostegno del reddito porzioni non trascurabili di lavoratori a termine ma soprat­ tutto parasubordinati. Se è vero che tra l’inclusione degli apprendi­ sti, dei lavoratori a termine delle pubbliche amministrazioni e Vana tantum per i co.co.pro., il ventaglio dei beneficiari si è allargato, è rimasta un’ampia pluralità di rapporti di lavoro di fatto fuori dei trattamenti passivi, in particolare tutte le partite IVA, escluse anche dalla nuova riforma appena approvata. D’altra parte \'una tantum per i co.co.pro. è stata un’erogazione non solo molto condizionata nel­ l’accesso ma anche bassa quanto ad ammontare. La nuova normati­ va sul mercato del lavoro, sembrerebbe prefigurare uno scenario in parte diverso. La riforma interviene su un ampio spettro di stru­ menti e istituzioni del mercato del lavoro: il riordino degli ammor­ tizzatori sociali, la razionalizzazione delle fattispecie contrattuali, il salario minimo per i settori sprovvisti di contrattazione, l’istituzione della nuova Agenzia nazionale del lavoro, la riorganizzazione dei servizi per l’impiego, l’introduzione di nuove forme di agevolazione per il lavoro accessorio, ultima ma non meno importante l’interven­ to sull’articolo 18, non più di un anno e mezzo dopo l’ultima modi­ fica apportata, proprio con la riforma Fornero. Non è semplice fare una valutazione organica di una riforma ancora in corso di imple­ mentazione. Se e quanto la nuova riforma del mercato del lavoro contribuirà a creare nuova occupazione e anche a ridurre il ricorso improprio a certe fattispecie contrattuali - utilizzate in passato in maniera strumentale tanto dalle imprese quanto dalla pubblica amministrazione - lo vedremo già nei prossimi mesi. Certo è che le 107

dosi di flessibilità sono considerevolmente aumentate, tenuto conto del fatto che il contratto a tutele crescenti è anche ad ampia facoltà di licenziamento, seppure dietro indennizzo. Se a questo aggiun­ giamo il provvedimento sui licenziamenti collettivi e il mancato in­ tervento sui contratti a tempo determinato (rimasti immutati nella durata massima), siamo di fronte a un mercato del lavoro piena­ mente concorrenziale, senza troppi vincoli di sorta all’entrata e al­ l’uscita. Ci possiamo domandare se queste misure siano in grado di inver­ tire una rotta pluriennale di interventi per la crescita, fatti soprat­ tutto di flessibilità e di incentivi fiscali e contributivi alle assunzioni e molto meno di investimenti pubblici e privati e politica per la creazione di nuova occupazione qualificata. Saranno in grado di in­ vertire il circuito di bassa crescita e bassa occupazione entro cui l’Ita­ lia è invischiata da anni? Flessibilità e politiche per l’occupabilità occupano da tempo il centro del dibattito sul mercato del lavoro e con loro le questioni riguardanti le agevolazioni, le semplificazioni del quadro normativo e amministrativo, non ultimo il costo del la­ voro. Ma quanto tutto questo ha a che fare con i nodi irrisolti del mercato del lavoro italiano nella crisi? L’Italia come molti altri Paesi europei ha perso grandi quote di occupazione, soprattutto giovanile, dall’inizio della crisi nel 2008. Certo l’Italia non è più oggi il Paese europeo con il più alto tasso di disoccupazione giovanile, benché esso abbia raggiunto dimensioni molto preoccupanti. Resta però quello con il più basso tasso di oc­ cupazione nell’area euro (Eurostat, 2014). Tutto questo ovviamente senza considerare i divari territoriali, in Italia come in nessun altro contesto europeo così forti e in aumento. Ora se la crisi ha determi­ nato un netto deterioramento del mercato del lavoro, ciò non di meno il problema della bassa occupazione viene da lontano, legan­ dosi a quello, tuttora irrisolto, della sua scarsa qualità. In piena crisi produttiva e nella sostanza senza avere affrontato per anni, il pro­ blema della riqualificazione del sistema produttivo, il mercato del lavoro italiano continua a creare lavoro poco qualificato, anche a fronte di un aumento nei livelli di istruzione, in particolare tra i ti­ toli di studio elevati. Non dovrebbe stupire più di tanto in questo quadro la grande diffusione del lavoro parasubordinato e delle par­ tite IVA mono-committenti, soprattutto considerando la loro grande diffusione all’interno delle professioni tecniche e intellettuali e nelle

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mansioni impiegatizie del terziario avanzato, insieme naturalmente a settori meno qualificati come i call-center, i servizi di pulizia, la si­ curezza. In un quadro di questo genere possiamo dubitare che il ri­ lancio dell’occupazione e del lavoro passi solo attraverso politiche dell’offerta. Con questo non si intende dire che un buon sistema di politiche attive del lavoro sia ininfluente, tanto più in un Paese co­ me l’Italia che su questo terreno sconta un ritardo enorme rispetto agli altri Paesi europei. Sono al contrario molto importanti. Dob­ biamo però sapere che il loro successo potrebbe determinare un aumento, almeno nel breve periodo, della disoccupazione. E non sarebbe affatto una cattiva notizia, come ricordano sempre Reyneri e Pintaldi 2013), essendo l’effetto del passaggio dall’inattività (in Italia su dimensioni più che preoccupanti) alla ricerca attiva del la­ voro. Non è questo tuttavia il punto dirimente. Il problema, com’è evidente, riguarda quelle azioni mirate in grado di ristrutturare ver­ so l’alto il sistema produttivo. D’altra parte, se il mercato fatica da solo a creare occupazione, non è certo con una maggiore flessibilizzazione del mercato del lavoro o con misure di incentivazione indi­ retta che verranno risolti i gravi problemi del lavoro, di quello poco qualificato ma anche (soprattutto in Italia) di quello più qualificato. Arrivati a questo punto possiamo chiederci quanto e in che cosa i processi di neoliberalizzazione hanno agito in Italia. Diciamo che se essi hanno agito, la loro influenza è da rintracciare non tanto sul piano della destrutturazione al ribasso per tutti dei tradizionali equilibri dualistici del mercato del lavoro. Il dualismo non è scom­ parso, ha semmai cambiato di forma, così come sono cambiati i sog­ getti che in precedenza riassumevano lo scarto tra insider e outsider. Da questo punto di vista i maggiori effetti dei processi di neolibera­ lizzazione sono da rintracciare piuttosto nell’assenza di politiche della domanda, ovvero nella totale mancanza di interventi e istitu­ zioni in grado di riorganizzare verso l’alto una struttura produttiva attardata su produzioni a basso valore aggiunto che non smette di generare lavoro povero. E stato questo un processo intenzionale? Lo starving the beast - e la bestia come ha ricordato Pennacchi (2013) sono i governi e le istituzioni pubbliche - è stato tradotto intenzio­ nalmente anche in Italia, attraverso tagli alla spesa pubblica, priva­ tizzazioni e deregolazioni di vario genere, al servizio degli spiriti animali del capitalismo contemporaneo? In parte certamente sì, vi­ sti i costanti tagli alle amministrazioni pubbliche e l’abbandono deli109

berato di qualunque strumento di politica economica e industriale. Questo processo, se ha ridotto il perimetro dello Stato, non ha tut­ tavia nemmeno favorito innovazioni, scadendo piuttosto nel conge­ lamento dei tradizionali equilibri produttivi e incastri distorti del si­ stema di protezione sociale.

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Capitolo quinto Comunità, impresa, responsabilità. Processi di neoliberalizzazione nel welfare italiano di Davide Caselli

7. Introduzione Questo capitolo si propone di descrivere e interpretare Fattuale processo di riorganizzazione del welfare italiano, mettendo in luce potenti spinte in direzione imprenditoriale e finanziaria. Mostrere­ mo le dimensioni nazionale e sovranazionale di questo processo con Fobiettivo di rispondere ad alcune fondamentali domande. Quale riorganizzazione si profila rispetto al sistema welfare mix (Ascoli, Ran­ ci, 2003) consolidato nei decenni precedenti? Quali sono i principali attori coinvolti? Quali i loro interessi e le loro strategie? Come, in questo processo, cambia la rappresentazione del disagio sociale, del welfare e dei diversi attori sociali che vi partecipano? In che rappor­ to stanno la riorganizzazione del welfare e la produzione di una sua nuova rappresentazione sociale? E infine: in che modo le teorie della neoliberalizzazione variegata aiutano a comprendere queste trasformazioni? Rispetto a queste domande sono d’obbligo due premesse. In primo luogo, affrontare il tema della neoliberalizzazione delle poli­ tiche sociali chiama in causa due questioni, intrecciate ma distinte: da un lato la produzione sociale delle diverse forme di esclusione e di «improduttività» (legata alle caratteristiche del sistema produtti­ vo); dall’altro le modalità della loro definizione e presa in carico da parte dello Stato (Castel, 1995; Foucault, 2004). Per ragioni di spa­ zio questo capitolo si concentra sulla seconda questione, ovvero sulle politiche sociali, facendo tuttavia riferimento al più ampio contesto economico e sociale. In secondo luogo il sistema del welfare si compone di numerosi e

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diversi interventi e non è possibile in questa sede dare conto in ma­ niera esauriente di ciascuno, né proporre sintesi valide per tutti. La fondamentale articolazione che si presenta in letteratura è tra la spesa per i contributi individuali e quella per i servizi territoriali (Commissione Onofri, 1997; Ferrera, Maino, 2013; Gori, 2011; Ca­ ritas, 2014): il capitolo si occuperà principalmente della seconda. Il principale riferimento teorico saranno le teorie della neolibe­ ralizzazione variegata (Peck, Tickell, 2002; Brenner, Theodore, Peck, 2010; Peck, 2012). Rispetto all’attuale dibattito sulle trasformazioni del welfare italiano, tale approccio ci permetterà di prendere posi­ zione rispetto a tre importanti orientamenti: in primo luogo ap­ profondire le ragioni per cui la povertà e il welfare hanno avuto ne­ gli ultimi vent’anni così poca rappresentanza sociale e politica (Cari­ tas, 2014; Gori et al., 2014); in secondo luogo ampliare e ricollocare i dati di contesto necessari a rispondere alla domanda «che cosa è pubblico?» (Bifolco, Borghi, De Leonardis, Vitale, 2005) e infine mettere in discussione alcune recenti interpretazioni che vedono og­ gi dominante una nuova sintesi ideologica, denominata «neowelfarismo liberale» che sarebbe in rottura con il precedente paradigma neoliberale (Ferrera, 2013). L’approccio teorico scelto permette in­ fatti di considerare la fase attuale coerente con le caratteristiche dei processi di consolidamento («roll-out») della neoliberalizzazione, che viene suddivisa in due momenti, fondamentali e interrelati: quello distruttivo e quello creativo (Peck, Tickell, 2002). Nei processi di ri­ strutturazione economica e sociale non si ha mai a che fare infatti con la pura e semplice «fine», o «demolizione» di uno stato di cose, ma sempre anche, e soprattutto, con l’edificazione di un nuovo mo­ dello e sistema. Ciò avviene attraverso un processo che non solo so­ stituisce nuovi concetti e nuove istituzioni alle vecchie, ma al tempo stesso seleziona, mobilita e cambia di significato ad alcuni elementi del modello precedente (Sum, Jessop, 2013). In quest’ottica, l’intrec­ cio tra momento distruttivo e creativo, tra distruzione del vecchio e costruzione del nuovo, è al lavoro fin dall’avvio della transizione dal welfare state al welfare mix e non è possibile tracciare tra i due mo­ menti evoluzioni rigide e lineari. Tuttavia è possibile individuare fa­ si maggiormente caratterizzate da elementi di distruzione/deregolamentazione e altre orientate principalmente alla creazione/riregolamentazione. Questo processo di distruzione e creazione è l’ogget­ to del presente capitolo.

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2. Ascesa del welfare mix: 1991-2008

Per comprendere le trasformazioni del sistema di welfare mix che discuteremo nelle prossime pagine, è necessario ricostruirne, in prospettiva storica, gli aspetti essenziali. In questo paragrafo ci limi­ teremo a richiamare quelli più utili a illuminare gli sviluppi del pre­ sente con elementi del passato prossimo, facendo riferimento a un arco temporale di 25 anni1. Innanzitutto è utile richiamare i due elementi caratterizzanti il momento dello sviluppo e dell’«invenzione» (Moro, 2014) del terzo settore italiano: i primi anni novanta. Da una parte c’è la crisi della politica, con la cosiddetta «fine della prima Repubblica» successiva alle vicende di Tangentopoli (1992-1995); dall’altra la crisi della fi­ nanza pubblica (1992-1993), sotto la spinta dei vincoli del Trattato di Maastricht (1992), con i conseguenti pesanti tagli alla spesa pub­ blica e al welfare, in primis attraverso il blocco delle assunzioni diret­ te nel settore pubblico (Ascoli, Ranci, 2003; Marcon, 2004). Il terzo settore si configura in questo scenario come un attore capace di ri­ spondere, in modo più o meno esplicito, a entrambe queste crisi grazie ad un rapporto più diretto con la società da un lato, e al mi­ nore costo del lavoro e all’ampio ricorso al volontariato dall’altro1 2. Si verifica dunque una trasformazione dei ruoli dello Stato da un la­ to e del nonprofit dall’altro. Per quanto riguardo lo Stato ciò avviene attraverso una massiccia attività normativa finalizzata all’istituzionalizzazione del rapporto con il non profit', dalle convenzioni avviate dalle leggi 266/91 sul vo­ lontariato e 381/91 sulle cooperative sociali, attraverso le diverse sperimentazioni e declinazioni locali emerse nel corso del decennio,

1 Per una sistematica ricostruzione dell’evoluzione del terzo settore e delle politi­ che sociali italiane rimandiamo alle principali fonti utilizzate: Tubare, 1995; Ranci, 1999; Ascoli, Ranci, 2003; Gori, 2004; Marcon, 2004; Bifolco, 2005, Cartocci, Maconi, 2009; Zamagni, 2011; Kazepov, 2009, 2010; Colombo, 2013; Moro, 2014; Gori et al., 2014; Caritas, 2014. 2 Per una discussione del ruolo che il terzo settore ha avuto nella sperimentazione di nuove forme di rapporti di lavoro caratterizzate dall’estrema precarietà, che si sono nei decenni successivi generalizzati alla società nel suo complesso, si vedano Quadrel­ li, 2013; Marcon, 2004; Cerri, 2003; Curcio, 2014. Per ricostruzioni del tutto diverse, interne al mondo del terzo settore, si vedano, tra gli altri, Borzaga, Paini, 2011 e Ven­ turi, Zandonai 2012.

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fino alla co-progettazione sancita in maniera sistematica dalla legge 328/00; dalla privatizzazione delle Casse di Risparmio e la nascita delle Fondazioni di origine bancaria (legge Amato-Carli del 1990) alla loro definizione in termini di Enti di diritto privato (legge Ciampi del 1998)3. Si tratta di una parabola che illustra tre tenden­ ze che, seppure con alcune contraddizioni e in modo non lineare, continuano a segnare le politiche sociali italiane: la progressiva in­ clusione di soggetti non pubblici negli spazi di programmazione, progettazione ed erogazione delle politiche sociali; la sempre più complessa formalizzazione di questo processo; la diffusione di for­ me di «contrattualizzazione» delle politiche (Monteleone, 2007). In quest'ottica gli anni novanta sono anni in cui lo Stato non si è ritira­ to dalle politiche sociali, ma al contrario si è fortemente mobilitato in un'opera di riregolamentazione attraverso un gran numero di in­ terventi legislativi, certamente imperfetti ma molto significativi. Questi hanno plasmato e fatto crescere alcuni soggetti del terzo set­ tore (cooperative sociali e fondazioni su tutti) e strutturato un quasimercato4 dei servizi sociali. È significativo che, a fronte dell’impegno in queste due direzioni, a quindici anni dall’approvazione della 328/00, l’azione legislativa dello Stato non abbia invece prodotto nulla in tema di strumenti per Fimplementazione e la tutela dei di­ ritti sociali previsti dalla legge 328 medesima (mancata individua­ zione di livelli minimi esigibili di tutela sociale e socio-sanitaria, mancata adozione da parte dello Stato centrale di significative fun­ zioni di cofinanziamento, disegno e regia complessiva degli inter­ venti territoriali) e dalla Costituzione (mancata introduzione di mi­ sure di sostegno alla povertà estrema) (Gori, 2011; Caritas, 2014). Per quanto riguarda il terzo settore, gli anni novanta sono gli an­ ni dell’istituzionalizzazione e dell’aziendalizzazione del non profit

3 La strutturazione delle relazioni tra il campo politico e quello del terzo settore non si esaurisce nemmeno nei pur numerosi atti legislativi che si possono rintracciare negli ultimi due decenni. Si tratta di un più ampio e complesso processo politico e so­ ciale finalizzato a stabilire un equilibrio, in cui entrambi gli attori cercano di mantenere e guadagnare margini di autonomia e influenza reciproca. Questo processo è fatto di molte sfumature che possono comprendere fenomeni tanto diversi come la mutua le­ gittimazione (o delegittimazione) politica, il clientelismo, fino alla corruzione. 4 L’espressione quasi-mercato designa un sistema di produzione e scambio di beni (in questo caso servizi) in cui il Pubblico determina in maniera esclusiva il volume delle risorse economiche in gioco.

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(Diamanti, 2003), o del passaggio «dal volontariato al terzo settore» (Marcon, 2004). A questo proposito occorre sottolineare che non solo il non profit come lo conosciamo è un’invenzione molto recente, sebbene di grande fortuna (Moro, 2014), ma è anche una realtà estremamente differenziata (Borzaga, Fazzi, 2011; Fazzi, 2013; Ven­ turi, Zandonai, 2012). Per illustrare questa differenziazione, che è anche frutto degli interventi legislativi e delle dinamiche politiche e sociali richiamate più sopra, facciamo riferimento ad alcuni impor­ tanti dati emersi nell’ultima rilevazione ISTAT dedicata al terzo set­ tore italiano (ISTAT, 2013). In primo luogo emerge una differen­ ziazione di funzione e attività. Grazie all’inserimento, lungamente sollecitato da diversi importanti studiosi del settore, di una doman­ da-filtro nel questionario 2011, è oggi possibile sapere che delle 301.000 organizzazioni censite, solo 103.000 (un terzo del totale!) svolgono - non necessariamente in via esclusiva - attività di «servi­ zio alla persona» rivolte alla collettività in generale. La straordinaria crescita dell’universo non profit contiene dunque una varietà di or­ ganizzazioni e di attività sociali, per due terzi non riconducibili al welfare né ad altre forme di cura della persona0. Una seconda diffe­ renziazione riguarda la distribuzione di risorse tra le diverse aree di intervento: già nel 2001, le organizzazioni che si occupano di welfa­ re rappresentavano solo il 20% del totale e tuttavia pesavano per il 54% sul fatturato complessivo e impiegavano il 75% del personale. A conferma del ruolo cruciale dei meccanismi di esternalizzazione dei servizi sociali pubblici nella crescita del terzo settore, i più re­ centi dati ISTAT mostrano che nel campo della sanità, dell’istru­ zione e dell’assistenza sociale, per ognuno dei posti di lavoro creati nel terzo settore nel decennio 2001-2011, se ne è perso uno nel set­ tore pubblico5 6 (ISTAT, 2013). Infine c’è una terza differenziazione, data dalla polarizzazione economica interna al settore in generale,

5 Enfatizziamo qui questa distinzione per la sua capacità di svelare i limiti della re­ torica sul ‘terzo settore’ come ‘esercito dei buoni’. Siamo tuttavia consapevoli dell’uti­ lità di una definizione non eccessivamente restrittiva di ‘sociale’ che ne limiti i confini agli interventi codificati nel sistema dei servizi. La questione meriterebbe una discus­ sione a sé. 6 Questi dati non considerano il parallelo aumento dei posti di lavoro creati da imprese private, che testimoniano l’apertura del mercato sociale oltre i confini del non profit.

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anche questa in ulteriore aumento rispetto al Censimento del 2001: oggi 1’82% delle risorse economiche del non profit è detenuto dal 5% degli Enti (contro il già esiguo 15% che possedeva 1’80% delle risor­ se nel 2001) e addirittura il 62% è posseduto dallo 0,3% delle orga­ nizzazioni (ISTAT, 2014; Ferrera, Maino, 2013; Messina, 2014). Simili fenomeni di polarizzazione si ritrovano anche all’interno delle categorie delle cooperative sociali e delle fondazioni, oltre che, a livello più generale, tra Nord e Sud del Paese. Vedremo come queste differenziazioni interne siano importanti per comprendere le trasformazioni del terzo settore che discuteremo nei prossimi paragrafi.

3. Una nuova fase di distruzione creatrice: 2008-...

Gli anni duemila dunque, nonostante i vincoli del Patto di Stabili­ tà Interno (in vigore dal 1999), si sono caratterizzati per una relati­ va stabilizzazione del modello proposto della legge 328/00, con il lento ma costante aumento della spesa corrente nazionale e locale per le politiche sociali7 e lo stallo delle quote di compartecipazione alla spesa richiesta alle famiglie. Dal 2008 si registra invece una nuova fase di «distruzione creatrice» nel campo delle politiche so­ ciali italiane, ancora una volta guidata da scelte legislative e finan­ ziarie dell’Esecutivo nazionale. A partire dalla legge Finanziaria di quell’anno, i fondi nazionali che dal 1998 sono previsti per sostene­ re la programmazione e l’erogazione dei Servizi Sociali a livello ter­ ritoriale, vengono drasticamente ridotti (meno 91% tra il 2008 e il 2012, vedi fig. 1) fino all’azzeramento di alcuni di essi (Gori, 2012; Caritas, 2014)8. Più in generale vengono adottate misure che limita­ no drasticamente l’autonomia di spesa dei Comuni (ATTAC, 2015).

7 Due precisazioni doverose: 1) a differenza della spesa corrente, la spesa in conto capitale, ovvero gli investimenti, dei Comuni in campo sociale sono sensibilmente diminuiti già a partire dal 2004 (Gori, 2011); il livello di spesa dei Comuni, pur accre­ sciuto, rimaneva nel 2010 solo un terzo della percentuale di P1L necessaria indicata nel 1997 dalla Commissione Onofri (Commissione Onofri, 1997; Caritas, 2014). 8 Attualmente la spesa sociale locale è finanziata per il 62,5% dai Comuni e per il 12,4% da fondi nazionali (Caritas, 2014). Nel 2013 e 2014 il Governo nazionale ha deciso il loro parziale rifinanziamento, che tuttavia li lascia ad un valore netto, anche per i prossimi anni, inferiore alla metà di quello del 2008.

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- Andamento dei Fondi statali per le politiche sociali dal 2008 al 2016

Fonte: Misiani (2010, 2014)

Fig. 1

Questi tagli avvengono in una fase di crisi economica e sociale che ha più che raddoppiato il numero dei poveri (Caritas, 2014) e produ­ cono un grave peggioramento della presa in carico della popolazione in stato difficoltà economica e povertà. In primo luogo si osserva l’aumento dei cittadini che non riescono ad accedere ai servizi pubbli­ ci a causa di mancanza di personale, innalzamento delle soglie di ac­ cesso, aumento dei servizi per cui è richiesta una compartecipazione alla spesa da parte dei beneficiari. In secondo luogo si registra un ul­ teriore aumento dei servizi pubblici dati in affidamento al terzo setto­ re, con un significativo ritorno al metodo delle gare al massimo ribas­ so e faccorciamento della durata temporale degli affidamenti stessi (AUSER, 2013; Caritas, 2014). Infine, e di conseguenza, si delinea una trasformazione dell’Ente locale che, in mancanza di risorse pro­ prie, rinuncia a garantire in proprio le risorse necessarie alle politiche sociali e assume il ruolo di costruttore e animatore di reti miste di soggetti profit e nonprofit (Caritas, 2014; Fosti, 2013). Si tratta di tra­ sformazioni destinate ad approfondirsi dal momento che i Comuni, dopo un biennio di tagli concentrati su altri settori, a partire dal 2013 hanno operato significativi tagli ai servizi sociali (Caritas, 2014). In questo contesto la già richiamata mancata individuazione di li­ velli essenziali delle prestazioni sociali mostra tutta la sua gravità, trasformando il diritto al sostegno delle persone che vivono in po­ vertà in una variabile dipendente dei tagli ai budget pubblici previsti dalle politiche di austerità. Se questi tagli rappresentano una nuova fase della dinamica di­ struttiva dei processi di neoliberalizzazione, a partire dal 2011 pos­ siamo vedere all’opera anche un nuovo momento creativo del pro­ cesso di ristrutturazione delle politiche sociali. Si tratta di iniziative in atto a diverse scale di governo (Brenner, 2004; Kazepov, 2010; Peck, 2002) finalizzate alla costruzione di un nuovo equilibrio attra­ verso soluzioni dà policy orientate al mercato. Innanzitutto, va segnalata la creazione da parte del G8, su propo­ sta britannica, di una task force sul Social Impact Investment. Questa task force, guidata dal presidente del Fondo di investimenti britanni­ co Big Society Capital, «riunisce rappresentanti di governo e grandi figure dei mondi della finanza, degli affari e della filantropia di tutti i Paesi del G8» e «si propone di catalizzare lo sviluppo del mercato dell’investimento a impatto sociale». Nel mese di settembre 2014, dopo un anno di lavoro, la task force ha presentato un rapporto di

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sintesi dal titolo Investimento d'impatto: il cuore invisibile del mercato in cui espone una serie di raccomandazioni destinate ai governi con lo scopo di «costruire, partecipare e facilitare lo sviluppo» di un mer­ cato di investimenti sociali9. In secondo luogo, la Commissione Europea ha lanciato nel 2011 una Social Business Initiative (Commissione Europea, 2011) orientata alla «creazione di un clima favorevole all’impresa sociale, portatoredi-interesse chiave dell’economia e dell’innovazione sociale». Si tratta di un’iniziativa inserita nel quadro della strategia europea Horizon 2020 «per uno sviluppo intelligente, sostenibile e inclusivo» (Com­ missione Europea, 2010), orientata a promuovere una «economia so­ ciale di mercato altamente competitiva» e al tempo stesso a «soddi­ sfare il crescente desiderio degli europei di uno stile di vita etico e sociale». Dal punto di vista normativo, la Raccomandazione ribadisce l’impostazione delle politiche di austerità in corso e indica una chiara direzione per lo sviluppo del terzo settore: crescente contaminazione tra logiche profit e non profit, internazionalizzazione dell’attività degli Enti non profit, attuazione da parte degli Stati di politiche fiscali favo­ revoli all’economia sociale e infine individuazione in sede internazio­ nale di parametri condivisi per la misurazione dell’impatto sociale de­ gli interventi10, in funzione di attrarre nuovi capitali di investimento. Il terzo processo, che ci riporta alla scala nazionale italiana, è la Delega al Governo per la riforma del Terzo Settore, dell'impresa sociale e per la disciplina del Servizio civile universale approvata dalla Camera dei Deputati nell’aprile 2015. Il d.d.l. si propone di estendere la qualifi­ ca di «impresa sociale» a tutte le cooperative sociali, di favorire la crescita dimensionale degli Enti del terzo settore sociale, di favorire la loro partecipazione agli ambiti di programmazione delle politiche, di aprire la partecipazione di imprese private e amministrazioni pubbliche agli organi amministrativi delle imprese sociali. Di parti­ colare importanza è la riforma della legge 155/06 sull’impresa so9 Tutte le citazioni sono tratte dal sito della task force https:ZAvww.gov.uk/govern ment/groups/social-impact-investment-taskforce) dove si trova anche il testo completo del Rapporto. 10 In questo modo il tema fondamentale della valutazione dell’impatto delle politiche, su cui l’Italia sconta una grave insufficienza culturale e professionale, viene declinato esclusivamente in termini di performance economica, che in alcuni strumenti finanziari come i Social Impact Bond è il criterio primo per stabilire il grado di remunerazione del capitale investito (cfr. Fondazione Cariplo, 2013). Per una discussione critica di questo approccio, si vedano Ogman, 2014; Bryan, Rafferty, 2014; Dowling, Harvie, 2014.

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ciale, finalizzata a introdurre la possibilità di una remunerazione contenuta (low profit') degli utili delle imprese sociali e all’ampliamento del loro campo d’azione. La proposta di riforma prevede la possibilità, per gli investitori finanziari interessati, di investire in un vasto campo definito come «sociale», il quale a sua volta dovrà attrez­ zarsi per poter ricevere, gestire e remunerare questi investimenti, in­ nanzitutto attraverso la creazione di consorzi sempre più grandi, in grado di garantire «bancabilità» e capacità di investimento e gestione. Le tre iniziative condividono dunque alcuni importanti obiettivi, tra loro interconnessi: riforma in chiave low profit delle cooperative sociali, ingresso del mondo della finanza nel campo delle politiche sociali, concentrazione del lavoro sociale nelle mani di pochi grandi soggetti della cooperazione, creazione di una narrazione pacificata della realtà secondo cui tutti gli attori sociali collaborano per il bene comune.

4. Gli attori principali

Dato questo fermento nel campo della politica e delle politiche per la ridefinizione del welfare, volgiamo il nostro sguardo ai diversi attori coinvolti e alle loro trasformazioni: lo Stato, il terzo settore, la finanza. In controluce rispetto alla trasformazione di questi attori emergerà la conseguente trasformazione della posizione e del ruolo dei cittadini, su cui torneremo più estesamente nelle conclusioni. Lo Stato. In questo scenario si diffonde tra esperti e nella classe politica una nuova visione del soggetto pubblico (sia lo Stato centra­ le, sia l’Ente locale), che ne ridefinisce la funzione e la pratica. Si tratta dell’approccio della new public governance e della governance delle Reti (Hartley, 2005; Pestoff, 2012), elaborato nel decennio duemila nei campi degli studi sulfamministrazione e il management pubblici e che si propone come l’evoluzione in senso «post-neoliberale» del precedente new public management. In esso si attribuisce allo Stato la funzione di «guidare l’azione all’interno di complessi sistemi sociali piuttosto che di controllarla in solitudine attraverso gerarchie o meccanismi di mercato» (Pestoff, 2012, p. 363). Di conseguenza, la relazione con «i cittadini e il terzo settore» si baserà sul principio della «co-produzione» dei servizi, eliminando tanto le disfunzioni bu­ rocratiche del «modello tradizionale» quanto quelle di mercato del new public management. In questa visione, coerente con l’impostazione 120

della «welfare community», si otterrebbe la partecipazione (anche in termini di contributo alla spesa) dei cittadini al buon funzionamento di un mercato sociale di cui il settore non profit sarebbe l’attore prin­ cipale (ACRI, 2014a; Fondazione Cariplo, 2014b)11. Leggendo que­ sta impostazione attraverso la lente della neoliberalizzazione variega­ ta, si tratta di un tipico fenomeno di roll out, ovvero della più decisa assunzione da parte dello Stato di funzioni di regolamentazione che rafforzano processi di mercificazione dei beni pubblici, agendo sia sul lato dell’offerta sia su quello della domanda. Sul lato dell’offerta, oltre alle iniziative di policy sopra richiamate, a livello locale vengono strutturati meccanismi di co-progettazione e di accreditamento per l’erogazione di servizi che selezionano gli en­ ti del terzo settore sociale sulla base di sempre più stringenti criteri di volume di fatturato, ampiezza e varietà dei servizi offerti e capaci­ tà di cofmanziamento (De Ambrogio, Guidetti, 2014; Caritas, 2014). Gli stessi effetti di selezione sono tra l’altro prodotti dai gravi ritardi con cui gli Enti locali pagano al terzo settore i servizi svolti, con par­ ticolare sofferenza delle realtà più piccole che possono contare su un minore flusso di cassa. Sul lato della domanda, una volta «razionalizzata» (ovvero tagliata) la spesa pubblica, si tratta di razionalizzare, riorganizzandola, anche la spesa privata delle famiglie, che in un momento di crisi difficil­ mente può garantire spontaneamente la strutturazione di un nuovo mercato come quello auspicato. Due iniziative di legge in discussione nel Parlamento italiano vanno in questa direzione: quella per l’isti­ tuzione del voucher universale e quella per la riforma del mutuo ipo­ tecario vitalizio. La prima, mutuata dal contesto francese, prevede riduzioni fiscali per le famiglie e per le imprese che acquistino (nel caso delle imprese per offrirli come forma di welfare aziendale ai propri dipendenti) voucher che danno diritto a prestazioni di cura e assistenza per anziani, bambini e disabili. Si tratta di un intervento finalizzato all’emersione del lavoro di cura in nero e alla struttura11 Per un’organica applicazione del modello in ambito italiano si veda il Piano di Sviluppo del Welfare approvato dal Comune di Milano nel 2012 (Comune di Milano, 2012). Per una declinazione italiana della teoria si veda Fosti, 2013. Per una critica a questo approccio si veda Gori, 2013. Il principale aspetto critico di questo approccio è che, mentre sottolinea il necessario obiettivo di coordinamento e ricomposizione delle risorse che spetta all’Ente pubblico, trascura l’importanza della sua funzione di garan­ te dei diritti e titolare diretto di risorse adeguate a questo scopo.

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zione del mercato dell’assistenza privata12. La seconda, prendendo atto della crescente incidenza di una popolazione anziana «house-rich, cash-poor» (Fondazione Cariplo, 2014a), ovvero con poche risorse economiche (pensioni di anzianità e/o invalidità) e tuttavia proprie­ taria di casa, amplia le possibilità di vendita dei diritti sull’abitazione da parte dell’anziano. In questo modo l’anziano proprietario «fareb­ be cassa» e potrebbe con più agio pagarsi le cure private di cui ha bi­ sogno mentre il terzo settore sociale trarrebbe un doppio beneficio: da un lato si amplierebbe la platea degli «anziani solventi» in grado di acquistare servizi di cura sul mercato privato; dall’altro le imprese sociali sono individuate come il «compratore ideale» di queste case in quanto «più capaci di garantire l’eticità dell’operazione» (ivi). La possibilità di includere il TFR in busta paga e il bonus di 80 euro per i lavoratori dipendenti introdotti dal governo nel corso del 2014 possono essere interpretati dentro lo stesso quadro come uno strumento di sostegno ai consumi, anche nel campo del welfare, del ceto medio e medio-basso. Il terzo settore. In questo quadro, i grandi consorzi della coopera­ zione sociale sperimentano nuove strategie imprenditoriali ed ela­ borano nuove auto-rappresentazioni, funzionali alla loro ricollocazione nel mutato scenario della welfare community. Dal punto di vista identitario13 si tratta di una ridefinizione in chia­ ve più nettamente imprenditoriale, con la conseguente presa di di­ stanza dal modello del welfare mix, segnato dallo stigma della dipen­ denza dall’erogazione di finanziamenti a fondo perduto da parte di istituzioni europee, nazionali, Enti locali ed Enti filantropici. Con­ giuntamente, viene rimessa in questione l’identificazione del campo «sociale» con quello dell’intervento sulla marginalità e sull’esclusione sociale. La tensione costitutiva della categoria del «sociale» tra l’iden­ tificazione con la società nel suo complesso e quella con le sue classi più deboli (Cruikshank, 1999) ritorna attuale con la progressiva diver­ sificazione dei destinatari («target») dei progetti «sociali». Accanto ai progetti, pubblici e privati, che propongono e realizzano attività di 12 http://www.secondowelfare.it/editoriale/voucher-universale-per-i-servizi-alla-personae-alla-famiglia-presentata-la-proposta~di-legge.html . 13 Faccio riferimento per questo tema all’osservazione etnografica di convegni e seminari, alle interviste in profondità e all’analisi di siti e pubblicazioni sul e del terzo settore che sto svolgendo dal 2012 per la mia ricerca di dottorato. I primi risultati di questa ricerca si possono trovare in Caselli, 2014, 2015.

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relazione e assistenza verso i gruppi sociali emarginati, aumentano quelli che prendono le distanze da quelle fasce di popolazione per ri­ volgersi alla «comunità» nel suo complesso con lo scopo di stimolarne le risorse culturali e, sempre più spesso, imprenditoriali14. In questo modo le immagini dell’esclusione e del bisogno vengono mobilitate in modo selettivo: se da un lato continuano a garantire alle organizza­ zioni che se ne occupano un notevole capitale reputazionale nonché l’accesso alle risorse residuali del welfare pubblico, dall’altro rischiano di identificarle con attività di carattere «pauperistico» e «assistenzialista», quanto di peggio si possa immaginare nell’ottica di un moderno «welfare di comunità» basato sull’«attivazione dei beneficiari». Dal punto di vista delle strategie imprenditoriali, mentre il settore continua a dipendere per il 60-70% da finanziamenti pubblici (Gori, 2011; Confcooperative, 2009), si registrano due processi intrecciati. In primo luogo all’interno del terzo settore si verificano, per la pri­ ma volta, «chiusure di servizi, ricorso a cassa integrazione, assorbi­ mento di rami d’azione in difficoltà da parte di cooperative di grandi dimensioni» (Fazzi, 2012, p. 157; Fazzi, 2013). In secondo luogo i grandi attori della cooperazione sociale differenziano sempre più i loro investimenti e sviluppano servizi a pagamento da vendere ai privati cittadini. Ciò avviene principalmente in campo sanitario, con l’apertura di ambulatori di «medicina leggera» in diverse grandi città italiane, ma anche in campo abitativo, con il crescente investimento nell’/tousmg sociale, nei servizi legati al welfare aziendale, destinati ai dipendenti e alle loro famiglie e promossi dalle aziende in cambio di sgravi fiscali, spesso stabiliti in sede di contrattazione sindacale di se­ condo livello (Ferrera, Maino, 2013; Gori et al., 2014) e punta ad espandersi fino alla gestione «sociale» di «beni comuni» come servizi di fornitura dell’acqua e della luce. Questi nuovi settori determinano un cambiamento sia dei partner che dei destinatari delle imprese sociali. Dal punto di vista dei part­ ner, i nuovi settori di attività richiedono maggiore intensità di capitale di investimento, promettono un notevole ritorno economico e dunque permettono ravvicinamento, o «l’ibridazione» (Venturi, Zandonai,

14 Possiamo sintetizzare questa tendenza, rifacendoci al lessico dei progetti, con il passaggio dagli interventi di inclusione a quelli di coesione e poi di innovazione sociale. Non si tratta del resto solamente di un problema lessicale, ma di parole e categorie che determinano l’accesso a consistenti fonti di finanziamento.

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ti un duplice processo. Sul versante dell’organizzazione ed eroga­ zione dei servizi sociali, assistiamo a un fenomeno di progressiva mercificazione del benessere sociale e a fenomeni che in termini marxisti si possono definire di «accumulazione per espropriazione», ovvero di predazione commerciale di settori non ancora mercificati (o mercificati in misura minima) in quanto garantiti dal soggetto pubblico (Harvey, 2011; Cerri, 2003; Meliino, 2014). Sul versante del governo e della programmazione delle politiche vediamo un crescente peso in sede di determinazione politica da parte di diversi attori non pubblici: consorzi di cooperative, fondazioni bancarie, imprese private impegnate in programmi di responsabilità sociale. Dal punto di vista degli attori, richiamiamo il fatto che gli attuali processi di ridefinizione, tanto materiale quanto simbolica, del wel­ fare e del terzo settore sanciscono il processo, già in corso da due decenni, di polarizzazione interna al non profit tra alcuni grandi gruppi cooperativi che continuano a crescere e assumono caratteri­ stiche sempre più simili al mondo delFimprenditoria for profit e le realtà più piccole e specializzate in un settore di intervento o in una micro-area territoriale portatrici di una cultura e un modello orga­ nizzativo che il mercato sociale tende a marginalizzare ed escludere. Dal punto di vista teorico, nella nostra analisi, le teorie della neoliberalizzazione variegata aiutano a comprendere i processi in corso da almeno due punti di vista. In primo luogo, articolando ma­ cro e micro dimensioni di analisi, permettono di cogliere il ruolo centrale delle crisi fiscali dello Stato nei processi di distruzione-crea­ zione delle politiche sociali e dunque, oggi, nel rinnovato protago­ nismo del terzo settore e nell’affacciarsi del paradigma della welfare community. Più nello specifico, l’articolazione tra momento distrutti­ vo e momento creativo della neoliberalizzazione permette di rico­ struire le politiche degli ultimi 25 anni entro un quadro sfaccettato e, ciò nondimeno, coerente. Infine ci sembra utile tratteggiare due possibili scenari, oggi preponderanti eppure non inevitabili18, di evoluzione dei processi trat­ tati nel capitolo. Si tratta di scenari che emergono da un’analisi delle trasformazioni sociali in corso secondo cui i fenomeni di pre­ carietà e fragilità sociale interessano oggi non una piccola fascia di 18 Per la proposta e la discussione di possibili politiche alternative rimandiamo a Sbilanciamoci, 2014; Caritas, 2014.

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popolazione rimasta ai margini del processo produttivo ma una gran parte di chi nel processo produttivo è pienamente inserito. La fragilità sociale, come nelle prime fasi dell’industrializzazione, non riguarda dunque «i marginali» ma «gli integrati» nel sistema pro­ duttivo: è in altre parole condizione strutturale del modello di pro­ duzione capitalistico attuale, attivo su scala globale e governato dalla logica e dagli interessi del capitalismo finanziario (Castel, 1995; Bauman, 1998; Cantillon, 2011; Cantillon, Vandenbroucke, 2014). In questo contesto, dal punto di vista delle politiche sociali, si assiste alla divisione della popolazione vulnerabile in una maggioranza sempre più esclusa dall’accesso ai diritti sociali, invitata a farsi im­ prenditrice di sé stessa e a «farcela da sola», e una minoranza, rico­ nosciuta come povera, cui sono destinati interventi sociali residuali, quel che resta del welfare state (Bauman, 1998; Foucault, 2004; Qua­ drelli, 2013). I due scenari dunque non sono alternativi ma com­ plementari, nella misura in cui definiscono il trattamento di queste due distinte fasce di popolazione: chiameremo il primo scenario «utopia smart» e il secondo «paradigma coloniale». Utopia smart. Questo scenario si basa sulla confluenza tra diversi elementi politici, economici e culturali: la strategia europea Hori­ zon 2020, incentrata su uno sviluppo «intelligente, sostenibile e in­ clusivo»; l’individuazione in sede europea e nazionale delle imprese sociali (riformate per poter attirare capitale di investimento) come attori chiave dello sviluppo post-crisi; la crescita e messa a sistema di un mercato di prestazioni sociali prima fornite dallo Stato; l’e­ mergere del paradigma della new public governance. Questi elementi prospettano l’immagine di uno sviluppo economico tramato da un capitalismo intelligente e solidale, che fa del benessere dei cittadini il proprio motore etico ed insieme economico. Frutto di una virtuo­ sa ibridazione tra logiche profit e non profit, questo si baserebbe sulla partecipazione dei cittadini al disegno e aH’implementazione di un welfare «generativo» di benessere sociale e insieme di profitto eco­ nomico. Nelle condizioni attuali di crescente polarizzazione econo­ mica e di impoverimento di ampie fasce della popolazione, questa prospettiva di «sviluppo sostenibile» sembra tuttavia sostenibile solo per una parte della popolazione, e per la precisione per la fascia del ceto medio (non troppo) impoverito che potrà abitare in condomini di housing sociale, curarsi nei centri di medicina leggera e mandare il proprio figlio nell’asilo aziendale gestito da un Ente del terzo set­

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tore, probabilmente attivo anche sul mercato di altri Paesi dell’Li­ mone19. Il grande assente di questo scenario è il «cittadino non pa­ gante», ovvero la fascia di popolazione, in crescita, che vive in stato di povertà assoluta o relativa. A questa fascia di popolazione è dedi­ cato il secondo scenario. Paradigma coloniale. Questo secondo scenario si basa sulla consta­ tazione di due dati concomitanti: l’aumento, anche nel Nord del mondo, di popolazioni «di scarto» ovvero di gruppi sociali inutili al­ l’attuale sistema produttivo, politico, militare (Bauman, 1998, 2005; Quadrelli, 2013) e la diminuzione della spesa sociale in nome della competitività internazionale. La conseguente progressiva selettività delle politiche sociali reintroduce la centralità della povertà assoluta nell’accesso ai diritti sociali, producendo quel «welfare dei poveri» che, secondo la celebre espressione di Titmuss, non può che essere «un welfare povero» (Titmuss, 1968; Bauman, 1998). In questo sce­ nario i servizi sociali preposti alla presa in carico di questa popola­ zione improduttiva continuano a essere forniti dagli stessi grandi Enti del terzo settore protagonisti dell’utopia smart attraverso un in­ sufficiente finanziamento pubblico combinato a un cofinanziamento in capo a questi stessi Enti. Se la politica sociale ha storicamente ri­ vestito un ruolo ambiguo, di tutela e insieme di controllo sociale e repressione della devianza, questo scenario vede il secondo elemen­ to diventare preponderante, secondo un modello sempre più simile a quello del carcere e dei sistemi di segregazione di stampo colo­ niale (Quadrelli, 2013) in cui una popolazione «culturalmente diver­ sa», ai margini del sistema di produzione, viene gestita in modo sempre più impersonale e massificato. Questo «welfare dei poveri» si manifesta in alcune dinamiche già in atto: il costante aumento del rapporto numerico tra professionisti e utenti, il progressivo e incon­ trollato uso del volontariato nella gestione dei servizi, la crescente precarietà dei lavoratori sociali, l’innalzamento della soglia di biso­ gno per le prese in carico, la spersonalizzazione del trattamento de­ gli utenti (Quadrelli, 2013; Curdo, 2014; Ghetti, Gori 2012; Gori et al., 2014).

19 Nella letteratura sulle organizzazioni ibride, questa popolazione target è definita LO HAS (Lifestyle of Healt and Sustainability), e insieme ai «creativi culturali» sono i gruppi sociali che «sorreggono le organizzazioni ibride» (Haig, Hoffmann, 2012).

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Capitolo sesto Il nuovo scenario delle politiche educative: tra valutazione, quasi-mercato e l’emergere di nuovi attori di Orazio Giancola

1. Il mutamento delle politiche del!education: tra spinte intemazionali e processi di decentramento

Dalla fine degli anni settanta ad oggi, e con un’incredibile accele­ razione negli anni novanta e nella prima parte del successivo de­ cennio (2000-2005), i sistemi educativi europei sono stati oggetto di numerosi processi di cambiamento più o meno intensi nei diversi contesti nazionali. Nello specifico le politiche connesse al decen­ tramento, alla decentralizzazione, ^’autonomia scolastica, alla con­ correnza tra scuole («quasi-mercato» dell’istruzione) hanno avuto un ruolo fondamentale nel processo di policy change che ha interessato i sistemi educativi (anche se in varie forme e declinazioni). Come evi­ denziato da più parti, tale dinamica è prodotta (Benadusi, Consoli, 2004; Giancola, 2009) da un lato da fattori esogeni (riforme delle pubbliche amministrazioni e necessità di integrazione tra i diversi sistemi nazionali, razionalizzazione della spesa pubblica) e dall’altro da fattori endogeni ai sistemi scolastici (nuova concezione della scuola e dell’apprendimento da parte dei diversi attori che vi ope­ rano). A ciò si connette, se guardiamo alla scuola quale sotto-sistema sociale, un mutamento delle istanze e delle problematiche che l’am­ biente circostante (gli studenti, le famiglie, i territori ecc.) pongono ai sistemi educativi. Com’è noto i processi di decentramento e l’au­ tonomia scolastica hanno trasferito (in Italia come in altri Paesi in­ teressati da questa frastagliata ondata riformista) alle scuole compe­ tenze decisionali e gestionali in vari campi (dall’organizzazione e composizione di una quota del curricolo degli studenti, fino alla ge­ stione del personale; cfr. Bottani, 2002; Viteritti, 2014). Per molti 129

sociologi dell’educazione ed analisti delle politiche pubbliche, que­ sta riforma si pone come un fondamentale punto di svolta nella sto­ ria dei sistemi educativi. Tali sistemi si sono quindi trovati «stretti» da due diverse spinte, una verso varie forme di governance locale ed un’altra che tende a «isomorfizzare» dall’alto le singole istituzioni scolastiche e formative nazionali (Lawn, Grek, 2013). Possiamo quindi avanzare l’ipotesi che ci siano due macro vettori del cambiamento che sintetizzano quanto accaduto:

- il primo vettore di cambiamento è legato alle spinte istituzionali internazionali (per esempio da parte della UE) ed al sempre maggiore confronto delle performance e delle politiche educative prodotto per esempio da organismi internazionali quali l’OCSE; - un secondo vettore di cambiamento è legato ai processi di decen­ tramento, di passaggio da un assetto proprio del government ad un assetto di governance ed alla localizzazione/territorializzazione di diverse strutture educative. I due vettori del cambiamento individuati sembrano non solo tra loro coerenti, ma anche interdipendenti: mentre gli attori trans­ nazionali veicolano normativamente una tensione verso la competi­ zione dei sistemi e delle politiche educative («confronto delle per­ formances»), gli attori locali (ma probabilmente anche in conseguen­ za di processi di riforma avviati dai governi nazionali) cercano di co­ struire modelli di governance che, meglio di altri, tentano di ade­ guarsi a tali tensioni competitive. Questo si configura come un caso esemplare non solo di trans-scalar ita delle modalità di strutturazio­ ne dell’azione pubblica (l’autonomia scolastica non fa evidentemen­ te fuoriuscire la gestione della scuola da un complessivo processo di sviluppo di un’azione pubblica nell’ambito delle politiche educati­ ve), ma anche di veicolazione di valori (in primo luogo quello della competizione e il connesso meccanismo operativo dei «quasi-mercati» dell’istruzione, a cui è connesso quello della crescita dell’istruzione come vantaggio competitivo tra Paesi e come strumento di sviluppo economico) da un’arena sovranazionale a una locale. In altri termi­ ni, il primato attribuito all’autonomia e alla centralità della govern­ ance faùsce con il rinforzare (in modo più o meno consapevole da parte degli attori istituzionali locali) un orizzonte di riforme univo­ camente orientate alla competizione e al primato di relazioni (quasi)

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mercantili. In fondo la stessa idea di utilizzare il concetto di govern­ ance per declinare le modalità di gestione dei sistemi e delle politi­ che educative, non corrisponde all’uso di un concetto di evidente derivazione economica (nella peggiore delle ipotesi) o di opacizza­ zione delle relazioni tra pubblico e privato (nella migliore)? La portata di questi cambiamenti autonomia, il passaggio ad un assetto di governance) pongono il problema della valutazione degli effetti: da qui deriva il diffondersi di numerose indagini nazionali ed internazionali sulle performance e gli outcome tra i diversi sistemi educativi nazionali ed all’interno dei sistemi stessi (il caso italiano è emblematico, cfr. Benadusi, Fornari, Giancola, 2010; Benadusi, Giancola, 2014). Una nuova e poderosa spinta alla valutazione di tipo comparativo ed analitico, basata su ampie basi dati, è venuta quindi dalle grandi indagini internazionali sui livelli di apprendi­ mento basate sul testing. Le indagini PIRLS, TIMSS, PISA, IALS/SIAL (e la sua replica, ALL) ed infine la nuova indagine PIAAC hanno rifocalizzato le analisi integrando ai risultati (performaces o, dove possibili, carriere) anche aspetti processuali, contestuali, micro e macro istituzionali. Tali analisi valutative però hanno prodotto ef­ fetti «perversi» sul piano dell’uso politico dei dati e della giustifica­ zione di policy volte alla massimizzazione dell’efficacia (tralasciando numerosi altri aspetti); ma accanto al loro potenziale analitico, si affianca una «vulgata» della valutazione e un uso ideologico dei dati che, inserendosi nella retorica delle politiche evidence-based, sposta il focus sui ranking e le «classifiche» tra nazioni e/o tra scuole. Que­ st’uso fortemente distorto dei dati valutativi si combina infine ad una situazione di costante riduzione della spesa pubblica che, a sua volta, si intreccia con la trasformazione dei modelli di welfare (Esping-Andersen, Mestres, 2003). Da questo punto di vista si sono prodotti assetti di tipo aziendalistico/competitivo nella gestione del­ l’istruzione che, combinati allo smantellamento del welfare e visto l’assetto di «quasi-mercato» tra le varie scuole, hanno prodotto effet­ ti di ulteriore segregazione sociale e quindi di rafforzamento dei meccanismi di (ri)produzione delle diseguaglianze nell’istruzione. Il problema di governance in un sistema multilivello, formato dai livelli nazionale, sovranazionale e subnazionale (a sua volta diviso in re­ gionale e locale), è essenzialmente quello del coordinamento del­ l’azione politica. Per gli scopi della nostra argomentazione, inoltre, è importante domandarsi come i tentativi di giungere ad un tale

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coordinamento possano influire sulle trasformazioni delle strutture istituzionali coinvolte nel policy-making, nello specifico nel campo deiris trazione. E utile a questo punto richiamare il concetto di policy network1, meccanismo di governance che prende la forma di un net­ work tra attori pubblici e privati differenti e relativamente autonomi, permettendoci di analizzare le interazioni formali ed informali, ver­ ticali (tra livelli di governo) e orizzontali (tra attori pubblici e priva­ ti). Il punto di vista assunto nel corso della nostra argomentazione è quello top-down (governance transnazionale e soprattutto europea come variabile indipendente), poiché parte dal presupposto che siano le modalità di funzionamento della governance europea a sti­ molare f insorgere di policy networks. Data la struttura multilivello della governance europea, i giochi sono incorporati (embedded)', il poli­ cy-making di un’arena organizza il contesto per la negoziazione delle altre arene. Poiché la strutturazione del contesto d’attuazione ossia la metapolicy della policy si realizza utilizzando soprattutto una logica basata sullo scambio di informazioni circa i problemi ài policy.

2. Gli organismi sovranazionali e i nuovi orizzonti di policy

La creazione e ricreazione di «significati globali» è basata sulla competizione e valutazione internazionale. Si diffondono così sche­ mi globali e correnti di pensiero che pretendono di essere applica­ bili a vari contesti. Questi indicatori e punti di riferimento interna­ zionali non sono spontaneamente generati, al contrario sono il ri­ sultato di una ricerca sociale sull’educazione politicamente orienta­ ta. Come esempio troviamo FIEA, l’OECD e gli studi deH’UNESCO European Union Programmes. Recentemente PISA si è affermato come punto di riferimento nella definizione delle politiche educative nel mondo. Sempre in riferimento all’Unione Europea, VEducation and Training 2010 Work Programme ha individuato quattro verbi si­ gnificativi: identificare, nel senso di acconsentire alla condivisione di obiettivi e linee guida per le politiche educative; diffondere, nel senso di diffondere e trasferire le pratiche di maggior successo da un Pae1 Per maggiori approfondimenti R.A.W. Rhodes, D. Marsh (1992), New Directions in the Study ofPolicy Networks, in European Journal of Political Research, vol. 21 n. 1-2, pp. 181-205:

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se all’altro; misurare, nel senso di implementare precisi obiettivi e valutare i sistemi educativi dei singoli Paesi; comparare, nel senso di organizzare un modo di valutare il progresso ottenuto da ogni Pae­ se. È un processo che costruisce le realtà educative tanto quanto le descrive. Ci scontriamo così con nuovi modi di costruire e legittima­ re le politiche. La linea di condotta è costruita, legittimata ed infine attuata attraverso nuovi significati che intendono trovare la soluzio­ ne migliore in termini di benefici ed efficienza. La comparabilità è vista come una soluzione che diviene politica. Questo impone un ti­ po di umore comparativo basato su prestiti di riforme e pratiche di successo. L’attuale comparabilità è promossa non solo come un modo di conoscere e legittimare ma soprattutto come un modo di governare. Inoltre, la crescente comunità di qualificati ricercatori che lavorano presso centri di ricerca è strettamente correlata al cre­ scente bisogno di gestire le politiche legate ai sistemi educativi, spe­ cialmente in termini di performance, a livello finanziario e valutativo. Questi nuovi modi di governare risultano estremamente accattivanti perché naturalizzano le politiche creando un senso di inevitabilità, come se semplicemente «costruissero» dati o identificassero le mi­ gliori pratiche o metodi, mentre di fatto i dati, le pratiche e i meto­ di costituiscono di per sé dei potenti strumenti politici. In questo senso il processo «di imparare da altri» è un modo di pensare e di agire che implementa una politica dell’educazione senza averla spe­ cificatamente formulata. Antonio Nòvoa con il suo Numbers do not replace thinking (2013) ci offre un’utilissima argomentazione che ruota intorno a tre temi: il primo riguarda il ruolo della misurazione statistica nella formazione dei sistemi d’istruzione statali, il secondo si riferisce all’importanza che nel ventesimo secolo hanno assunto i test, le ricerche e le survey nello sviluppo di una «modernità pedagogica», ed infine l’ultimo si concentra su come i database siano divenuti degli importanti stru­ menti nella formulazione delle politiche educative. Tre sono gli inte­ ressi, secondo l’autore, che portano in primo piano la statistica in am­ bito educativo: 1) dare un senso al progresso dell’educazione; 2) le­ gittimare gli sforzi per consolidare i sistemi educativi nazionali; 3) pro­ durre comparazioni tra i Paesi. L’emergere di una visione compara­ tiva arriva insieme al consolidamento dei sistemi educativi naziona­ li. Statistiche e statistiche comparative sono strettamente connesse alla nascita dello Stato moderno e democratico, e le pratiche com-

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parative ad esse connesse vengono progressivamente ad organizzar­ si non solo intorno ai sistemi scolastici ma anche intorno alla categorizzazione del comportamento degli individui. Misurazione e cal­ colo si intensificano e gli Stati possono «vedere» di più, la visione è più ampia, veloce e approfondita e l’azione di «vedere» sembra di­ venire virale, creando una serie di nuovi spazi mentali, sociali e psi­ chici dentro l’educazione. Sorge un nuovo modo di pensare pro­ fondamente basato sulla misurazione, sui test standardizzati e sulle survey riguardanti l’ambito dell’educazione. La produzione di dati legittimi standardizzati sottende l’intento di «governare attraverso i numeri», intento che a distanza di molti anni, come vedremo più avanti, troverà tutta la sua drammatica concretizzazione nelle in­ chieste del Programme for International Student Assessment (PISA); compiendo una parentesi temporale l’autore ci fa notare come i nuovi dati creati da queste inchieste, originariamente considerati strumenti per comparare i sistemi educativi nazionali e per creare un’«area europea educativa comune», sono divenuti gradualmente ad oggi l’obiettivo del curriculum di ogni scuola nazionale. Le in­ chieste PISA infatti, offrono un esempio di come questo tipo di uti­ lizzo dei «big data» (Mayer-Schònberger, Cukier, 2013) contribuisca tanto a riflettere la «realtà» sociale quanto a istituirla: essi divengo­ no veri e propri strumenti di gestione in grado di cambiare indero­ gabilmente i sistemi scolastici. Da qui l’espressione «governare senza governare» per descrivere il processo di elaborazione di politiche at­ traverso la statistica dando costantemente la sensazione che nessuna politica sia stata realmente implementata. Anche Lawn (2013) nell’analisi della graduale nascita di un sapere esperto tra l’inizio e la metà del ventesimo secolo, negli Stati Uniti e in Europa, utilizza­ to per compiere bilanci e governare nei sistemi d’istruzione delle scuole, a livello regionale e nazionale, distingue due grandi fasi, il pre e il post guerra (nello specifico dal 1948-1951): dagli anni ses­ santa in poi si assiste ad una intensificazione dei cambiamenti orga­ nizzativi attraverso collegamenti tra gli istituti di ricerca, movimenti dei ricercatori, ingenti quantità di riforme nazionali nell’educazione e politiche di comparazione entro l’Europa e tra paesi europei e paesi extra-europei. Gestire i sistemi educativi attraverso i dati delle ricerche diviene una parte essenziale della comparazione, parte fondamentale di per sé nella produttività ed efficienza di un Paese. Non bisogna dimenticarsi che proprio alla fine degli anni sessanta, 134

precisamente nel 1968, viene a formarsi il celebre Centre for Educa­ tional Research and Innovation (CERI) dell’OECD, leader mondiale nel «providing information to policy makers on the topic of education»2. Ma è durante il corso gli ultimi venti anni che la misurazione dell’edu­ cazione diviene un elemento distintivo del modo di gestire l’istru­ zione. La forza motrice di questo movimento secondo l’autore ha due binari: da una parte la standardizzazione degli strumenti di mi­ surazione che permette ai risultati prodotti di essere riprodotti in differenti centri di ricerca specialistici e dall’altra la richiesta da par­ te degli attori politici di un supporto effettivo nella gestione delle crisi nell’istruzione. È già stato discusso come la statistica fornisse la legittimità e la ridefinizione della conoscenza sociale, e i suoi stru­ menti e i suoi processi fossero attivamente adoperati nell’ammini­ strazione della riforma sociale durante il ventesimo secolo in quanto simbolo dell’oggettività e del rigore; inoltre si adottava per risolvere crisi e divenne utile nel processo dei sistemi governativi. Stretti le­ gami tra i progressi metodologici e la crisi nelle politiche hanno guidato la nascita delle comunità scientifiche e i loro progetti nel ventesimo secolo. La crisi economica globale rappresenta oggi un dispositivo discorsivo straordinariamente efficace nel dettare l’agen­ da delle politiche degli Stati e nel legittimare misure di austerity e riduzione dei welfare state e per affrontare questo argomento ci ser­ viremo innanzitutto del testo di Ball, Maguire e Goodson Education, Capitalism and the Global Crisis (2012), di grande pregio in quanto propone una lettura critica dell’attuale crisi economica globale e delle scelte di «conduzione» di tale crisi da parte degli Stati coinvolti e delle conseguenze che tali scelte hanno rispetto alla «ristrutturazio­ ne» dei sistemi educativi. Gli autori affrontano questi temi con rife­ rimento specifico al tema dell’educazione, ponendo l’attenzione sui possibili scenari verso cui le riforme dei tagli e della privatizzazione si dirigono e sulla valorizzazione dell’eccellenza a scapito dell’equità verso cui si stanno spingendo molti sistemi educativi. In questo con­ testo il ruolo dello Stato in quanto responsabile e garante dell’istru­ zione «pubblica e per tutti» viene rimesso al centro del dibattito. Nel dibattito politico in cui Vausterity e le drastiche riduzioni dei servizi pubblici sembrano essere le uniche argomentazioni, due so­ no le maggiori posizioni politiche: da un lato i sostenitori del libero 2 Da Historical Summary of CERTs Main Activities, in www.oecd.org/edu/ceri/.

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mercato auspicano welfare state e servizi pubblici minimi, predili­ gendo l’ampliamento dell’offerta privata dei servizi che in ambito educativo significa riduzione della spesa e intervento statale a favore dell’offerta privata di educazione e di logiche di mercato nella go­ vernance educativa; dall’altro si contrappongono coloro che vedono nello Stato un attore strategico per lo sviluppo dei mercati e del set­ tore privato e per l’innalzamento della capacità competitiva dei Pae­ si attraverso un’agenda politica interventista di forte sostegno all’e­ ducazione, con una serie di dispositivi di valutazione finalizzati ad assicurare la "produzione’ di un capitale umano funzionale e compe­ titivo. Il dibattito per i sistemi educativi post-welfaristi si articola quindi intorno a queste due visioni e determina le risorse messe a disposi­ zione per l’educazione intesa come servizio pubblico.

5. «Grandi dati», valutazione e nuova governance della scuola

Facendo un passo indietro, è necessario illustrare innanzitutto come sia possibile nella sociologia dell’educazione, così come nella sociologia in generale, compiere una distinzione in base alla pro­ spettiva che si sceglie di utilizzare per approcciarsi al fenomeno: una distale e l’altra prossimale3. La prima può essere definita come una visione comparabile, generalizzabile e «statica» del fenomeno sociale ed è tipica delle grandi survey, anche internazionali, finanzia­ te da fondi pubblici e per questo legata all’ascesa delle grandi fonti di dati, i «big data» dell’education. La seconda, come si sarà intuito, riguarda le ricerche di tipo qualitativo e rappresenta una metodolo­ gia ed un approccio diametralmente opposti alla prospettiva distale (approccio sostanzialmente ignorato dai grandi enti sovranazionali o nazionali che producono i «big data» dell’education). La prospettiva distale, riferendoci all’ambito dell’educazione, ha visto una vera e propria esplosione nel suo impiego, poiché tramite la produzione di ingenti quantità di dati viene vista come sinonimo di affidabilità e «oggettività» e i risultati sono presi come «verità assolute», come se i

3 Per approfondimenti vedi R. Cooper, J. Law, Visioni Distali e Prossimali delVorganizzazione, in S.B. Bachard, P. Gagliardi, B. Murdell (eds.)> Il pensiero organizzativo europeo, Milano, Guerini e Associati, 1995.

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dati fossero un’entità concreta e non un artefatto sociale4. Guardan­ do al fenomeno più in generale dei grandi numeri, questi in molti campi stanno avendo profondi effetti sul piano sociale, dell’opinio­ ne pubblica, dei media e delle istituzioni, divenendo le nuove cre­ denziali per guardare ai fenomeni sociali. I numeri parlano alla po­ litica, al mondo della comunicazione, alla società civile producendo un nuovo campo sociale, quasi autonomo, capace di rappresentare mondi, definire fenomeni, suggerire ricette di cambiamento, dive­ nendo per decisori e media evidenze empiriche naturalizzate usate per interpretare i fenomeni, legittimare scelte e prendere decisioni. A sostegno dello sviluppo delle grandi basi di dati sui vari fenomeni sociali ed economici ci sono stati anche i grandi programmi euro­ pei, da Lisbona 2010 a Horizon 2020, che hanno definito le traiet­ torie dei temi e degli usi delle risorse economiche a livello europeo utilizzando e promuovendo concezioni che si fondano sull’uso dei numeri e delle misurazioni su grande scala per lo più basandosi su criteri di knowledge based evidence and knowledge based economy: le poli­ tiche europee governate attraverso i numeri. Un esempio internazionale (e sovraeuropeo) già citato di questo tipo di approccio alla ricerca è l’Organisation for Economie Coop­ eration and Development (OECD) con il suo Programme for Interna­ tional Student Assessment (PISA), che compara differenti Stati per favo­ rire lo sviluppo di politiche sui sistemi educativi a livello nazionale. Oltre al sopracitato PISA troviamo il PIAAC, Programme for the Inter­ national Assessment ofAdult Competencies, diretto a testare le competen­ ze degli adulti tra i 16 e i 65 anni nei Paesi economicamente più svi­ luppati. O ancora il TIMSS, Trends in International Mathematics and Science Study ed infine il PIRLS, Progress in International Reading Liter­ acy Study. Ciò che accomuna tutte queste survey è la convinzione della superiorità conoscitiva dell’approccio distale nella ricerca attraverso test standardizzati e generalizzabili, in particolar modo l’idea che le metodologie su larga scala siano «neutre» e che il confronto tra i si­ stemi educativi dei vari Paesi possa generare una sana e positiva spinta al progresso. Tutto ciò può essere in parte vero solo se si rico­ nosce il «lato umano» dei dati, la loro arbitrarietà, la loro costruzione sociale ed il loro essere «carichi di teoria». Questi tipi di ricerca con1 O. Giancola, A. Viteritti, Distai and Proximal Vision: a multi-perspective research in so­ ciology of education, in European Educational Research Journal, vol. 13, n. 1.

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tribuiscono a creare una visione distale dell’educazione, visione che implica l’utilizzo di indicatori predefmiti per analizzare, classificare e anche in un certo senso «giudicare» gli oggetti presi in esame; ad oc­ chi inesperti potrebbe risultare che tale metodologia sia neutra e pri­ va di influenze, ma ciò che un ricercatore non può ignorare è il fatto che al di sotto del disegno di ricerca, delle scelte metodologiche e delle prospettive si cela una particolare e specifica visione di come il sistema educativo debba essere, e dunque non si ritrova nulla di neu­ tro e oggettivo in questo. Spesso, infatti nell’ambito delle politiche pubbliche in generale, e di quelle educative qui affrontate, «[...] indi­ cators and large-scale datasets uncritically and non-problematically such as the documents commanded by the OECD, EU, etc. and the term evidenced-based has become the synonym of reliability and effectiveness in pol­ icy-making» (Giancola, Viteritti, 2014a, p. 49). Quindi ciò che non bisogna perdere di vista è che i dati prodotti in queste ricerche sono sempre guidati da teorie (e visioni del mondo) che nella presentazione dei risultati «scompaiono», lasciando spazio ad una «naturalizzazione» del dato che non viene più trattato come un artefatto socialmente costruito, bensì come un’entità con un proprio significato a prescindere dal contesto, come se la presenza di numeri e calcoli statistici bastasse di per sé a dare prova della trasparenza, af­ fidabilità e totale oggettività dei risultati. La dittatura dei dati corre il ri­ schio di provocare una cieca fiducia nel dato, che se relazionata al mondo delle politiche pubbliche sull’educazione ha sicuramente un impatto considerevole, poiché in grado di avere forti conseguenze a livello sociale nelle scelte che sono giustificate dall’oggettivazione dei risultati dei dati «distali». Con questo non si vuole assolutamente smi­ nuire l’immenso potenziale conoscitivo ed analitico di queste fonti: l’aspetto fondamentale è che tali dati prima di essere assunti come strumento, siano un oggetto di analisi (tanto sul piano metodologico quanto delle scelte àà policy che guida la loro raccolta)3. Nell’affrontare il controverso argomento delle opportunità e dei rischi che l’impiego dei grandi dataset portano con sé, illustrando le funzioni che essi assumono e i significati che tali funzioni sottendono,

° Come chi scrive questo capitolo ha già avuto modo di dire «[...] we argue that for a fruitful, original and informed use of 'distal' data, it must first become an 'object1 for analysis and then be used as a 'tool1 for analysis. The main risk in the use of 'distal* data lies in its objec­ tification and naturalization» (Giancola, Viteritti, 2014 a, p. 51).

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è importante sottolineare come l’inarrestabile sviluppo tecnologico unito alla possibilità di organizzare, archiviare e conservare i dati ab­ bia avuto una forte influenza sulla ricerca sociale e scientifica. Chi legge avrà quindi intuito che le opportunità risiedono nel fatto che le fonti da cui attingere per compiere ricerca si moltiplicano, e i nuovi strumenti e le nuove tecnologie fanno sì che l’analisi del fenomeno sociale sia estremamente più profonda e accurata. I rischi invece so­ no già stati ampiamente affrontati sopra e risiedono soprattutto nella cosiddetta «naturalizzazione» del dato; dato che diviene un prolun­ gamento del fenomeno sociale e per questo è usato per legittimare, nel campo delle politiche pubbliche, qualsiasi scelta o azione. I risultati di questi processi si concretizzano in una serie di ruoli che i big data ricoprono nell’ambito dell’educazione. Riportiamo a seguire i principali (Giancola, Viteritti, 2014b):

• Databases of education «as infrastructures»: infrastrutture basate su complessi metodi di ricerca, strumenti, competenze che si riferi­ scono al contesto nazionale e intemazionale. Survey basate su questo tipo di dati sono le ricerche che fanno riferimento ad un sistema di valutazione su larga scala, molto spesso di tipo compa­ rativo come l’OCSE PISA, il PIAAC ecc. • Databases «as people»: in questo caso si intende il fatto che nel mondo accademico in molti ormai prendano il dato come una esatta fotocopia dell’individuo osservato. I dati sono trattati quin­ di come sinonimi di ciò che rappresentano, acriticamente. Esem­ pi di questo tipo di utilizzo dei dati sono i dati prodotti dalle amministrazioni e dalle istituzioni che descrivono, ad esempio, lo «stato» di un sistema educativo in uno specifico momento. • Databases «as knowledge»: grandi gruppi di dati prodotti da comu­ nità di esperti provenienti dalle più disparate discipline (Nor­ mand, 2010), che necessitano dell’impiego di un’ingente quantità di esperti, ricercatori, analisti, professionisti del settore IT, in quanto per produrre conoscenza tali dati richiedono una costante e continua manutenzione e monitoraggio. • Databases «as a suppoìi, for policy-making» : trattati come veri e propri attori politici in grado di influenzare concretamente le decisioni politiche, i big data in queste vesti esplicitano tutta la loro «naturaliz­ zazione» e «oggettivazione», utilizzati come basi «solide» e «sicure» su cui costruire interventi, opinioni e linee di politiche pubbliche. 139

Questi particolari impieghi comportano due maggiori effetti (Giancola, Viteritti, 2014a): il primo, come si è già accennato, ri­ guarda il fatto che il lavoro dei ricercatori e le basi teoriche che gui­ dano la rilevazione dei dati vengono letteralmente eclissati nel mo­ mento dell’utilizzo delle informazioni raccolte, facendole divenire «second nature of educational events» (Giancola, Viteritti, 2014b); il se­ condo invece riguarda le innumerevoli e problematiche interpreta­ zioni a cui si prestano le ingenti quantità di dati. Come appare chia­ ro da questa argomentazione sulle implicazioni dell’utilizzo di grandi dataset nell’ambito dell’educazione, i big data possiedono la capacità di illudere ricercatori e non solo, che si approcciano ad essi vedendo il dato non come una mera costruzione sociale bensì come una reale e neutra riproduzione del fenomeno sociale che si sta in­ dagando. Nel testo The Mutual Construction of Statistics and Society (2011) Saetnan, Lomeli e Hammer illustrano chiaramente che nell’atto di misurare un oggetto non si può pretendere di rimanerne distaccati in un approccio neutrale, ma al contrario è chiaro come lo si mani­ poli, ridefinendolo e a volte arrivando a cambiare inesorabilmente i risultati dell’analisi. Infatti proprio l’«atto di contare» sarebbe di per sé la scelta di un particolare punto di vista e in quanto tale un’azione sociale che concerne la scelta di cosa prendere in considerazione, cosa non prendere in considerazione, chi compie le rilevazioni ed infine la selezione dei valori e delle categorie di cui scegliamo di servirci nelle rilevazioni; aspetti della questione che non possono essere ignorati. La statistica, così come la società, si potrebbe interpretare come una mera finzione e per questo necessitante di essere gestita ricono­ scendone i limiti, le potenzialità e i pericoli. In questo senso quindi può essere definita sia come uno strumento portatore di conoscenza, inteso come una particolare forma di scienza, sia come uno strumen­ to al servizio delle scelte politiche. Quest ultima definizione apre il cosiddetto vaso di Pandora sulla diatriba infinita tra due modelli cau­ sali: il primo che vede la tecnologia come un prodotto della società (determinismo sociale) e il secondo diametralmente opposto che ve­ de la società come un prodotto della tecnologia (determinismo tec­ nologico). Focalizzandosi sulla produzione di conoscenza relazionata ai si­ stemi di governance gli autori espongono l’analisi secondo cui le pra­ tiche e le tecniche atte a codificare, registrare, misurare «numeri» 140

fungono da parte integrante di tali sistemi e al tempo stesso le pra­ tiche decisionali nell’ambito politico sono influenzate e plagiate dalle tecniche statistiche. È palese come la co-costruttività si muova tra l’interesse di produrre conoscenza standardizzata e l’obiettivo di «creare» un mondo accountable, manageable e governable (Saetnan, Lomeli, Hammer, 2011, p. 10). Certo grazie a queste fonti abbiamo molte più informazioni, rispetto ai sistemi educativi di 20-25 anni fa, ma queste informazioni non sono neutrali. Il risultato di questo processo di «databasization of education» è infatti rilevante e rappre­ senta una radicale discontinuità con il passato poiché incorpora e produce effetti in termini etici, tecnici e politici. Le infrastrutture di LSA - Large Scale Assessment (maxi-surveys relative all’analisi delle competenze degli studenti o degli adulti) quali prodotti sociali delle attività di ricerca e valutazione, e la sfera della politica (in termini di Politics in questo caso) sono in stretta relazione e vanno costituendo strumenti e metodi di misurazione, nuovi ambiti disciplinari, appa­ rati normativizzati che negli ultimi due decenni hanno favorito la costituzione di organismi rappresentativi a livello sovranazionale quali l’OECD e lo IEA, l’UNESCO, la World Bank: l’OECD-PISA e la raccolta dinamica di indicatori Education at a glance sono in questo senso divenuti i principali dispositivi a supporto delle politiche edu­ cative, ponendosi (almeno sul piano retorico) in una dimensione post­ politica e basata sulle evidenze empiriche.

4. L'Italia nel contesto europeo ed internazionale: il nodo problematico della valutazione La valutazione del sistema di istruzione in Italia è stata pensata come necessario complemento dell’autonomia scolastica e non come una sua compressione, a differenza di quanto è accaduto in Paesi ad ordinamento decentrato (per es. la Gran Bretagna; cfr. Benadusi, Consoli, 2004). Raccogliendo l’eredità del Centro Europeo dell’Educazione (CEDE), istituito nei primi anni settanta del secolo scor­ so, l’istituzione dell’INVALSI (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo dell’istruzione) ha rappresentato un punto di snodo del periodo riformista di fine anni novanta (richiamato al­ l’inizio di questo capitolo). La portata del cambiamento dello scena­ rio di policy nell’ambito educativo (con Xautonomia ed il passaggio ad

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un assetto più spiccato di governance) ha posto inevitabilmente il problema della valutazione degli effetti: da qui è derivata la parte­ cipazione a numerose indagini nazionali ed internazionali sulle per­ formance e gli outcome tra i diversi sistemi educativi nazionali e al­ l’interno dei sistemi stessi e la necessità di dotarsi di un proprio ap­ parato valutativo nazionale. Pur se istituito praticamente in contemporanea alla prima attua­ zione deìYautonomia scolastica (con il decreto legislativo 20 luglio 1999, n. 258), l’INVALSI ha conosciuto la sua prima notorietà con l’istituzione (prima in via sperimentale, nel 2007, poi divenuta censuaria) dei test nazionali per la valutazione del sistema di istruzione. Da questi primi passi, la valutazione di sistema (soprattutto il c.d. SNV - «Servizio nazionale per la valutazione degli apprendimenti degli studenti»6) ha fatto notevoli progressi grazie alla partecipazio­ ne alle grandi indagini internazionali sugli apprendimenti e al pro­ gressivo miglioramento delle prove INVALSI che però ha ancora una struttura organizzativa estremamente debole al cospetto di quella di altri Paesi. Il vero punto di svolta nella storia della valuta­ zione test based in Italia è stato l’avvicinamento alla strumentazione tipica delle grandi indagini IEA e, in misura maggiore, OECD. In­ fatti è interessante notare come i dati SNV abbiano progressivamen­ te preso una struttura simile a quella dei dati OECD-PISA (in en­ trambi coesistono un set di prove cognitive e un questionario stu­ dente, informativo sul suo background familiare, la sua carriera sco­ lastica, i suoi atteggiamenti verso la scuola, le aspettative di istru­ zione ecc.). In realtà i dati INVALSI restano ancor oggi un oggetto fortemente ambiguo (Fondazione Giovanni Agnelli, 2014). Per un verso vi sono spinte all’uso in termini di «premi/punizioni» (posizio­ ne fortemente contestata dal mondo della scuola e del sindacato), per un altro delle posizioni meno marcate che vorrebbero un uso dei risultati dei test di apprendimento come base per politiche, a vario livello, del tipo evidence based (con la valutazione esterna quale strumento di supporto per un sistema di governance basato sull’au­ tonomia responsabile e quindi non autoreferenziale). Sicuramente l’integrazione delle prove INVALSI negli esami del primo ciclo d’istru­ zione (ex «terza media») è una testimonianza di una progressiva pervasività della diffusione di questo approccio valutativo. Allo stes6 A sua volta inserito nel c.d. «ValSiS - Valutazione di Sistema e delle Scuole».

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so tempo questo tipo di dati fornisce per la prima volta una base conoscitiva (più o meno valida) su molteplici aspetti del funziona­ mento della scuola italiana. Ancora una volta quindi, questo tipo di dati si pone, per usare la metafora di Bruno Latour (Latour, 1998, p. 7), come una sorta di «Giano Bifronte»: per un verso sono dati pre­ ziosissimi a fini conoscitivi (per quanto passibili di notevoli miglio­ ramenti metodologici), per un altro potrebbero costituire la porta di ingresso e la legittimazione di meccanismi competitivi di mercato (in un sistema già connotato da enormi diseguaglianze territoriali, tra indirizzi di studi, tra classi sociali, ecc.). In tal senso non aiuta la confusione tra valutazione di sistema, valutazione degli insegnanti/dirigenti e valutazione degli studenti. Inoltre, la logica delVempowerment delle scuole a partire dall’uso dei dati di sistema prodotti dagli organismi internazionali o dall’INVALSI stesso (secondo un proces­ so di socializzazione ed appropriazione progressiva) parrebbe essere un obiettivo ancora piuttosto lontano (nonostante varie azioni di sensibilizzazione ad hoc'. Emerge quindi un’assenza di chiarezza sulle diverse funzioni della valutazione esterna e sull’uso che si fa de­ gli esiti di tale valutazione (Losito, 2011). Le rilevazioni INVALSI portano con sé quindi vari problemi. Primo fra tutti l’ambiguità sul che cosa si intende valutare e sul perché lo si intende fare, ambigui­ tà non attribuibile all’INVALSI ma a coloro che sono responsabili politicamente delle direttive che vengono date aH’Istituto. Tale am­ biguità si riversa nella mancanza di chiarezza relativa al livello e alle funzioni delle rilevazioni, derivante a sua volta dalla mancata distin­ zione tra i vari livelli di valutazione: di sistema, delle scuole, degli insegnanti/dirigenti e degli studenti. Il rischio che si annida dietro questa mancanza di chiarezza è che si affermi un approccio secondo il quale il testing possa essere utiliz­ zato come strumento per individuare le scuole, o gli insegnanti, mi­ gliori o peggiori. L’effetto perverso di una visione di questo tipo sa­ rebbe l’induzione (cfr. Sestito, 2012) a forme di coaching o teaching to the test attraverso cui insegnare a rispondere ai test (relativi ad aree di competenza quali la literacy, la numeracy e il problem solving tipiche

7 Vale la pena qui di menzionare, tra i tanti, il progetto «PQM - Progetto Qualità e Merito» promosso dall’INDIRE e finalizzato, soprattutto per le regioni del Sud Italia (regioni che risultano sistematicamente meno performanti ai test PISA, INVALSI, ecc.) ad integrare il testing e la valutazione test based nella didattica.

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delle indagini internazionali) anziché sviluppare competenze e co­ noscenze che prescindono dallo strumento valutativo. In tal senso l’attenzione eccessiva a standard, dati e performance porrebbe il ri­ schio di mettere ai margini saperi non orientati alla performance, considerandoli di secondaria importanza (Landri, 2014). Ultimo ri­ schio è quello che comporterebbe lo slittamento della valutazione delle scuole in competizione tra le scuole sulla base dei risultati ai test. In altri termini, il primato attribuito all’autonomia e alla centrali­ tà della governance potrebbe finire paradossalmente con il rinforzare (in modo più o meno consapevole da parte degli attori istituzionali locali) un orizzonte di azioni più o meno univocamente orientate alla competizione ed al benchmarking con il rischio di un primato di relazioni (quasi) «mercantili». In un sistema quale quello italiano caratterizzato da forti dise­ guaglianze interne (Giancola, 2009; Benadusi, Fornari, Giancola, 2010), Finnesto di ulteriori dinamiche competitive (con evidenti e prevedibili effetti segregativi) potrebbe essere elemento di ulteriore produzione e (ri)produzione di vecchie e nuove diseguaglianze. In­ fine, un ultimo rischio (per l’Italia ma non solo per essa) è annidato nell’affermarsi di politiche di ridimensionamento della spesa, di ra­ zionalizzazione, come risposta della crisi economica ed alla (susse­ guente?) crisi del welfare: pur non avendo le già varie indagini (in­ ternazionali e nazionali) un’incidenza «normativa» sulle politiche scolastiche o sulla gestione delle scuole, di fatto esse potrebbero di­ ventare il principale parametro di orientamento delle nuove politi­ che di riforma e di spesa.

5. Dietro i «dati», dentro le politiche

Sulla base di quanto fino ad ora argomentato intrecciando il mu­ tamento delle politiche educative (in concomitanza con ii mutamen­ to delle politiche pubbliche in generale) all’affermarsi di sistemi di valutazione top-down che costruiscono e impongono standard che si legittimano poi sul piano politico tramite quello scientifico, si pos­ sono sviluppare alcune conclusioni (giocoforza transitorie, visto il quadro di rapido mutamento socio-economico e politico) sulla «ca­ rica» ideologica insita non tanto nei «grandi dati» quanto negli usi sociali e pubblici che di essi vengono fatti.

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Il ruolo e il significato ricoperto dall’indagine PISA, come stru­ mento per dare maggiore autorità allOECD nella governance glo­ bale dell’educazione (Sellar, Lingard, 2013) non può quindi essere messo in secondo piano rispetto alle potenzialità conoscitive dell’in­ dagine stessa. Inoltre il successo globale e l’influenza che l’indagine PISA ha ottenuto sulle politiche nazionali, fornendo un modello prototipo di politica educativa «evidence based» (Meyer, Benavot, 2013), ha permesso all’OECD di espandere il suo campo d’azione all’analisi globale delle abilità (skills) dei lavoratori attraverso l’in­ dagine PIAAC. Con PIAAC, l’OECD si va a collocare in una posi­ zione di spiccata egemonia in relazione alla valutazione delle abilità e dell’educazione di livello superiore, simile a quella che PISA ora detiene rispetto alla valutazione internazionale comparativa delle performance dei sistemi scolastici. Questo processo di valutazione sta ricreando e rafforzando il lavoro nell’educazione dell’OECD: esso ha sviluppato «macchine» impressionanti per produrre i dati inter­ nazionali comparativi e questi dati sono stati ampiamente utilizzati nei circoli politici di tutto il mondo. In molti Paesi infatti i dati comparativi nazionali e internazionali vengono utilizzati come basi per le politicy high-stakes e per giustificare tali decisioni. I processi di comparazione non sono disinteressati e oggettivi, come non lo sono gli strumenti e i dispositivi metodologici costruiti e usati in seno al­ l’OECD e ciò che viene dichiarato come verità scientifica sono in effetti ideologie tecniche che producono conseguenze performanti sui sistemi sociali. La questione dell’impiego delle grandi fonti di dati («conoscitivi», ma in fin dei conti «valutativi») nell’ambito della ricerca sociale, e nello specifico nell’ambito dell’educazione, come si è visto fino ad ora, ha portato ad un approccio quasi totalmente distale della valu­ tazione e della misurazione dei sistemi d’istruzione nel mondo. A partire dal riconoscimento della non-neutralità degli strumenti di valutazione e dell’uso dei dati come strumento di legittimazione di politiche neoliberali e neo-managerialiste, la decostruzione della lo­ gica della politics della comparazione (Grek, 2009) e di quella dell’radence-based policy (Sanderson, 2002) mostra il ruolo delle Interna­ tional Agencies (OECD, ecc.), volte alla massimizzazione dell’effi­ cacia, alla costruzione di sistemi di valutazione pervasivi che sposta­ no il focus sui ranking e le «classifiche» tra nazioni e/o tra scuole. I modelli teorici (economici ed educativi) sottostanti all’approccio del 145

governo «con i numeri» (il governing by numbers teorizzato dai vari lavori precedentemente citati di Ozga, Sellar e Lingard, Grek) evi­ denziano i paradossi, le contraddizioni e le implicazioni dell’affer­ mazione di un sistema di governance (e/o di regolazione) ibrida nella quale si mescolano un modello basato sullo «Stato valutatore» con un modello di «quasi-mercato», sotto la forte influenza di soggetti né «istituzionali» né «politici» (quali le agenzie sovranazionali). In breve parrebbe che il caso education testimoni efficacemente un processo di neoliberalizzazione del paradigma di azione pubblica nel settore delle politiche educative, poiché in esso coesistono una logica di azione trans-scalare connessa alle modalità con cui vengo­ no individuate e veicolate le soluzioni di policy, una depoliticizzazio­ ne delle risposte a un problema di rilevanza collettiva (autonomia organizzativa e primato degli indicatori «scientifici» di efficacia), una desocializzazione del problema dell’educazione a fronte di vec­ chie e nuove diseguaglianze (Benadusi, Giancola, Viteritti, 2008; Decataldo, Giancola, 2014; Benadusi, Giancola, 2014) alle quali si risponde con la retorica del merito e dell’uguaglianza (si badi bene, solo «formale») delle opportunità.

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Capitolo settimo Azione pubblica, imprese ed egemonia in una politica neoliberista: FAgenda urbana italiana e il paradigma Smart City di Ernesto d\Albergo

7. L'agenda urbana italiana: perché e come studiare una politica nascente Qualsiasi nuova politica pubblica non può che nascere nel conte­ sto creato dai processi di neoliberalizzazione della regolazione poli­ tica dell’economia e della società avviati oltre trent’anni fa. Le azio­ ni pubbliche risultano però plasmate dal paradigma neoliberista con modalità fra loro differenziate, che dipendono dai loro specifici ambienti e poste in gioco. Il concetto di variegatura della neolibera­ lizzazione coglie soprattutto una differenziazione geo-istituzionale, che deriva dall’adattamento del policy frame neoliberista in contesti territoriali e scalari diversi (Brenner, Peck, Theodore, 2010). Rico­ struire una variegatura anche «settoriale», relativa ad ambiti circo­ scritti di politiche, può far emergere ulteriori caratteristiche della regolazione politica e delle relazioni di potere associate all’azione pubblica. Obiettivo di questo capitolo è esplorare il rapporto fra questa e l’egemonia di uno specifico gruppo sociale1 attraverso l’a­ nalisi di un caso che evidenzia i connotati assunti dall’adattamento di frame neoliberisti in Italia. Di cosa ci occupiamo? Nel 2012 è stata avviata un’«Agenda urbana» nazionale. È un tentativo, sinora dimo­ stratosi debole sul piano politico e amministrativo (Gelli, 2014), di coordinare le altrimenti sconnesse azioni del Governo nazionale e 1 Egemonia indica la supremazia di un gruppo sociale esercitata anche attraverso «direzione intellettuale e morale» (Gramsci, 1967, p. 62), ossia con i mezzi cognitivi e discorsivi che lo sviluppo storico delle conoscenze e delle tecnologie comunicative rende disponibili. La classe economicamente dominante esercita potere imponendo come «naturale» la propria visione del mondo, un sistema di significati (valori e cre­ denze), che viene accettato e riprodotto come il «senso comune».

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dei governi locali, straordinarie e ordinarie, che esercitano un im­ patto sulle città e di colmare il gap fra l’Italia e i partner europei più attrezzati a far valere punti di vista nazionali nella corrispondente «agenda urbana» comunitaria. In questo paragrafo sono presentati i fattori che hanno concorso al lancio e alla sinora provvisoria e incompleta istituzionalizzazione di un’agenda di politica urbana in Italia, mentre nel successivo sono tratteggiati gli elementi di base di una sua rilevante componente ideazionale; il paradigma della Smart City (SC). Pur legittimandone soprattutto una specifica linea di azione, esso compendia A frame dell’intera Agenda, specificando gli orientamenti generali del para­ digma neoliberista a sua volta dominante nelle politiche dell’Unione Europea (UE). Focalizzando questo aspetto specifico, nell’ultimo paragrafo viene proposta un’interpretazione del rapporto fra azione pubblica e potere nell’Agenda urbana italiana, secondo la quale un tipo specifico di attori economici incrementa la sua capacità di eser­ citare egemonia attraverso l’azione statale esperendo un sostanziale cambio di strategia: al fine di creare le precondizioni extraeconomi­ che adatte per perseguire una strategia di accumulazione (Jessop, 1997) - in questo caso vendere beni e servizi - e riprodurlo nel tempo, le imprese non si limitano a effettuare pressione, ma tendo­ no a svolgere un ruolo più direttamente politico, fornendo sia stru­ menti e tecniche per condurre l’azione, sia le idee che legittimano, indirizzano e strutturano la regolazione pubblica, basate su una vi­ sione delle città e dell’ambiente urbano. Sebbene anche in Italia le città siano importanti da un punto di vista demografico, spaziale, economico, sociale e politico, fino al 2012 erano oggetto di una serie sconnessa di interventi statali, parte dei quali in attuazione di politiche comunitarie, ma non di un’espli­ cita politica urbana nazionale (Allulli, 2010). Con l’istituzione del Comitato interministeriale per le politiche urbane (CIPU)2, una 2 La missione del CIPU (istituito dalla legge n. 134 del 7 agosto 2012, art. 12-òz’y) si basa su cinque priorità: riduzione del consumo di suolo, innovazione nelle infrastrut­ ture e nei trasporti, elaborazione di una strategia urbana in materia di clima ed ener­ gia, promozione di cultura, università e SC per giungere a una declinazione urbana dei temi del lavoro e del welfare. Ne fanno parte stabilmente oltre al ministro per la Coesione territoriale, quelli degli Affari regionali, dell’interno, dell’Economia e fi­ nanza, deiristruzione, dell’università e della ricerca, del Lavoro e delle politiche so­ ciali, dello Sviluppo economico, delle Infrastrutture e dei trasporti e dell’Ambiente e

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coalizione trasversale di parlamentari, guidata dal senatore W. Vitali (PD) e speculare alla maggioranza «di larghe intese» che sosteneva il Governo Monti (novembre 2011 - aprile 2013), ha inteso dare una regia a questa pluralità frammentata di azioni e progetti3 e alle sedi politiche, amministrative e tecnico-scientifiche che le curavano, con­ ferendo loro il nuovo status di politica nazionale, basata sulla con­ vergenza intorno airidentificazione dei problemi delle città italiane e al modo in cui affrontarli e sul tentativo di integrare i programmi aggiuntivi o straordinari con le politiche urbane «ordinarie» e con altri flussi di politiche, come la contestuale riforma del governo delle aree metropolitane (legge Deirio, 2014), Al momento di questa decisione erano presenti alcune delle con­ dizioni necessarie per la formazione di un’agenda di politiche pub­ bliche (Kingdon, 1984) e, in particolare:

- sfide sociali, economiche e spaziali, definite o costruite socialmen­ te come urbane e suscettibili di essere affrontate attraverso azioni pubbliche indirizzate verso le città; - disponibilità di proposte e soluzioni, consistenti non solo in obiettivi e strumenti di intervento, ma anche in un policy frame* (Rein, Schòn, 1993) che fornisce i mezzi cognitivi e normativi necessari della tutela del territorio e del mare. Partecipano anche tin rappresentante delle Re­ gioni e delle Province autonome di Trento e Bolzano, un rappresentante delle Pro­ vince e un rappresentante dei Comuni. Assicura la segreteria il Dipartimento della Presidenza del Consiglio dei Ministri per lo sviluppo delle economie territoriali e delle aree urbane. 3 Nel periodo di programmazione dei fondi UE 2007-2013 erano stati assegnati 2,4 miliardi di euro per città e sistemi urbani, dispersi in più di 1.600 progetti. Altre linee di azione erano state via via avviate da amministrazioni e agenzie nazionali, sen­ za un significativo grado di integrazione reciproca. Fra le principali: bandi sulle SC del Ministero dell’istruzione, università e ricerca per 920,5 milioni; Piano Città del Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, che con una dotazione di 4,4 miliardi punta alla rigenerazione delle aree urbane degradate (http://wwv.mit.gov.it/mit/site. php?p=cm&o=vd&id=2404); Elìsio, una cali sulle SC dell’Osservatorio SC dell’ANCI nell’ambito dell’obiettivo convergenza (http://www.anci.it/index.cfm?layout=dettaglio &IdDett=46716); Piattaforma nazionale dell’Agenzia per l’Italia digitale (Presidenza del Consiglio dei Ministri). 4 Ossia l’insieme delle credenze, delle norme e delle pratiche condivise, fondate su valori e su conoscenze, che forniscono a chi formula politiche le risorse cognitive e normative per dare senso ai problemi collettivi percepiti e affiancare ad essi delle so­ luzioni, selezionando, organizzando e interpretando una realtà complessa e fornendo le indicazioni per esercitare persuasione e agire (Rein, Schon, 1993).

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per costruire i significati dell’azione pubblica (Moini, 2013), con­ sistente in conoscenze e rappresentazioni circa la dimensione ur­ bana dei problemi collettivi e delle misure da adottare. Questo si­ stema di idee costituisce sia una fonte di legittimazione delle azioni sia, insieme alle opportunità materiali, un collante della rete di relazioni che struttura il sistema di azione della politica urbana; - condizioni politiche e attori, come governi e maggioranze parla­ mentari, leadership e imprenditori politici dotati di sufficienti mo­ tivazioni e risorse per agire in modo tale da connettere i due flus­ si rimanenti e aprire una «finestra di opportunità», strutturando così un’agenda o facendo nascere una politica pubblica. Con i successivi governi Letta e Renzi il coordinamento politico e am­ ministrativo del CIPU si è però dimostrato più debole del previ­ sto, soprattutto in quanto a capacità di governare i vari flussi di spesa e integrare i programmi della UE con le politiche ordina­ rie. Il collante degli interessi e delle idee sembra oggi poter sup­ plire in parte al fabbisogno di legittimazione, meno a quello di coordinamento.

I primi due fattori, insieme alle risorse materiali, sono a loro volta talmente influenzati dal ruolo svolto dalla UE da rendere l’Agenda urbana italiana non solo altamente europeizzata (Radaelli, 2000), ma anche comprensibile solo in quanto parte di un processo di azione pubblica multilivello e trans-scalare. In un contesto di crisi finanziaria ed economica, in cui le politiche di austerità hanno ri­ dotto le disponibilità di risorse finanziarie pubbliche, e in continuità storica con alcuni programmi (Urban, Urbact, fra i principali) rea­ lizzati dagli anni novanta, sta infatti prendendo forma anche un’a­ genda urbana della UE. La sua attenzione è rivolta al ruolo delle città nelle politiche economiche e sociali della UE e nella sua gov­ ernance multilivello, alla rigenerazione urbana, all’ambiente nelle cit­ tà e alla regionalizzazione dello sviluppo urbano (Balducci, 2014). Oggetto di una consultazione avviata nel 2014, tale agenda - pro­ mossa da una DG «politiche regionali e urbane» rinnovata nel 2012 - è coerente con i meta-indirizzi della «strategia Europa 2020» e della politica di coesione UE, entrambe espressione di un neoliberi­ smo roll-out. Dal 2010 la prima si fonda sull’idea di crescita econo­ mica intelligente (basata su conoscenza e innovazione), sostenibile (ef150

fidente sotto il profilo delle risorse, più verde e competitiva) e soli­ dale (o inclusiva: alto tasso di occupazione che favorisca la coesione sociale e territoriale)» per conseguire «elevati livelli di occupazione, produttività e coesione sociale»0. La politica di coesione UE è una «politica di investimenti che sostiene la creazione di lavoro, la com­ petitività, la crescita economica, il miglioramento della qualità della vita e lo sviluppo sostenibile»56. Parte dell’agenda urbana UE è con­ siderato il «movimento Smart City», definita da un rapporto del Parlamento UE come «città che affronta i problemi pubblici attraver­ so fuso dell’ICT, sulla base di una partnership multi-stakeholder». Un «movimento» che viene considerato in Italia «il modello di successo se si allinea con il tema dello sviluppo della città e con la pianifica­ zione strategica di Europa 2020»7. Questa agenda UE produce sia una pressione politica sugli Stati membri - è evidente la critica a quei Paesi in cui «la policy urbana è il risultato implicito delle leggi sulla pianificazione spaziale e l’inter­ vento combinato di politiche settoriali, piuttosto che un ambito cui è data direzione politica e strategica»8 - sia un «discorso di policy in­ fluente» (Gelli, 2014, p. 426 e ss.) che ha favorito «la formazione di un policy network intorno alla issue urbana», formato da politici, stu­ diosi, burocrati e tecnici. Conoscenze e competenze tecnico-scien­ tifiche svolgono infatti un ruolo fondamentale nel costruire l’azione e nel produrre consenso attraverso uno stile che si vuole partecipa­ tivo e deliberativo, congruente con la ricerca dell’apprendimento e della condivisione di obiettivi e modalità dell’azione attraverso stan­ dard, indicatori e benchmark, affiancato dalla condizionalità attraver­ so i finanziamenti. Come si vedrà, con riferimento a queste stesse funzioni, a questi attori vanno aggiunte le imprese. Nel prendere la forma dell’Agenda urbana nazionale l’europeizzazione assume così caratteristiche di isomorfismo. Oggetto di compliance nazionale sono sia il frame e gli obiettivi delle politiche, sia le strutture e gli stru5 http ://ec. europa.eu/europei 020/indexit.htm. 6 http://ec.europa.eu/regionaipolicy/what/europe2020/indexit.cfm, 7 http ://smartinnovation .forumpa.it/story/75169/la-mappa-delle-smart-city-eu-e-lasinergia-con-europa2020. 8 The urban dimension of EU policies - Key features of an EU urban agenda. Co­ municazione della Commissione UE al Parlamento, al Consiglio, al Comitato delle Regioni e al Comitato economico sociale, 18 luglio 2014 (http://ec.europa.eu/regionalpoUcy/ consultation/urbagenda/pdf/commacturbagendaen.pdf).

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menti (assetti istituzionali e organizzativi, forme di governance, pro­ cedure gestionali dei programmi nazionali di spesa) necessari per la loro conduzione. Nel Programma operativo nazionale (PON) 2014-2020 sono in­ dividuate azioni coerenti con il frame UE, mirate alla competitività e attrattività economica delle città e dei sistemi urbani e interventi specificamente destinati alle città metropolitane e, in particolare, ai loro comuni capoluogo. I due metro driver* sono: l’applicazione del paradigma SC, considerato una «dimensione in grado di sollecitare l’adozione di soluzioni più intelligenti e creative su cui fondare nuo­ ve forme di governance e innovazione sociale»; V Innovazione Sociale stessa (pratiche e progetti di inclusione sociale per i segmenti di popolazione ed i quartieri che presentano maggiori condizioni di disagio), per «offrire un segnale di attenzione peculiare alla questione della coesione interna nelle maggiori aree urbane, in ragione delle crescenti situazioni di disagio derivanti da difficoltà economiche e marginalità sociale (DPS, 2014, pp. 7- 8, corsivo nostro). Il sistema di azione che l’Agenda urbana italiana dovrebbe coor­ dinare è formato da attori pubblici (nazionali, regionali e locali) e privati. Particolarmente importanti sono le agenzie e i forum in cui la competenza tecnica svolge un ruolo centrale. Questi nodi della rete di azione, oltre a diffondere e dettagliare un paradigma di azione pubblica e i suoi strumenti operativi, svolgono l’importante funzio­ ne di mettere in comunicazione fra loro e far cooperare gli attori istituzionali nazionali e locali e quelli di mercato. A questo scopo particolarmente funzionali sono FORUM PA, Smart City Exhibition (SCE)910 e SMAU (Salone macchine e attrezzature per l’ufficio), even­ ti che replicano il modello delle fiere commerciali, accentuando pe­ rò il carattere di presentazione e circolazione non solo di merci, ma anche di idee ed esperienze applicative. Le fiere funzionano infatti come forum articolati tematicamente, che mettono in contatto fra loro promotori di idee, dettaglianti di sistemi hardware e software, 9 L’articolazione dei driver si struttura su questi assi prioritari: Agenda digitale me­ tropolitana; Sostenibilità dei servizi e della mobilità urbana; Servizi per l’inclusione sociale; Infrastrutture per l’inclusione sociale (DPS, 2014). ■° Alla SCE di Bologna nel 2014 «oltre 7000 visitatori hanno partecipato ai 111 appuntamenti, in cui oltre 600 tra relatori e contributor! sia italiani che internazionali hanno condiviso visioni e pratiche e si sono confrontati sui progetti di oltre 120 città» (http://wwv.smartcityexhibition.it/it/guida-rapida-sce20 14).

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società di consulenza e potenziali clienti-partner, principalmente amministrazioni e aziende di servizio pubblico locali. Le associazioni dei governi locali svolgono un ruolo di relais fra attori politici e imprese per mettere a punto strategie comuni, spe­ cialmente in presenza di opportunità fornite dalla spesa pubblica. Ad esempio, nello SMAU Roma 2014 «il Presidente dell’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani (ANCI) P. Fassino presiederà la sessione nella quale i principali attori istituzionali e del mercato del digitale presenteranno i loro diversi punti di vista sulle attuali e fu­ ture politiche di innovazione, alla vigilia del lancio definitivo dei progetti prioritari messi in campo dal gruppo di lavoro del Governo Sull’Agenda Digitale»11. L’Osservatorio nazionale Smart City dell’ANCI è stato costituito nel 2012 per favorire una programmazione strate­ gica di questa linea di azione, per mettere in comune realtà diverse e velocità diverse, come quelle delle città grandi (sviluppi con un approccio «olistico» di messa a sistema di progetti e interventi in ot­ tica unitaria), medie (sperimentazioni settoriali) e realtà in ritardo (Testa, 2013). La concezione del coordinamento attraverso risorse relazionali e cognitive - una concezione mutuata dalla UE e, prima ancora, proveniente dai modelli post-burocratici delle relazioni di impresa - emerge dalla missione dell’Osservatorio, che si offre come uno spazio per la produzione e la condivisione di conoscenza sui temi dell’innovazione e della sostenibilità urbana, aperto ai contributi del mondo istituzionale e della ricerca, dell’impresa e della società civile; uno strumento per individuare e mettere in rete le migliori pratiche ed esperienze, le soluzioni tecnologiche e gli strumenti di programmazione; una guida per indirizzare le amministrazioni verso le scelte più adatte alla loro particolare realtà territoriale11 12.

2. L'immaginario Smart City e i suoi knowledge brand Collocata al centro della strategia dell’Agenda urbana, «l’innova­ zione (nuova conoscenza) è il fattore primario di sviluppo, assieme di crescita e inclusione sociale» (CIPU, 2013). Per questo nel suo 11 http ://www. smau.i t/n ews/nella-capitale-si-accendono-ì-riflettori-sui-protagonistidelle-smart-city-e-dellagenda-digitale-italìana. 12 http ://osservatoriosmartcity. it/cos-e/.

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frame è annidato un sotto-sistema discorsivo basato sull’innovazione, che specifica e operazionalizza a sua volta il frame di Europa 2020 svolgendo funzioni cognitive, comunicative e di coordinamento delle azioni (Schmidt, 2008) nella rete di policy sopra descritta: il pa­ radigma SC. L’approccio della Cultural Political Economy (Jessop, 2009; Sum, 2009) utilizza i concetti di immaginari e knowledge brand (KB) per spiegare il modo in cui alcuni attori sono capaci di produrre ege­ monia nelle reti di politiche pubbliche, perseguendo interessi e stra­ tegie attraverso una manipolazione di conoscenze e tecnologie che produce effetti di legittimazione degli orientamenti delle politiche stesse. Gli immaginari sono retoriche, spesso comunicate in forma di narrazione, sistemi di significato o «regimi di verità» con compo­ nenti cognitive e normative. Sono l’esito di un processo di riduzione della complessità, necessario agli attori che, per «andare avanti» de­ vono interpretare eventi e selezionare fra una miriade di discorsi, narrazioni e interpretazioni. Una volta selezionati, gli immaginari sono messi in opera, ritenuti e istituzionalizzati attraverso decisioni pubbliche e normalizzati come senso comune13. I knowledge brand (letteralmente «marchi della conoscenza» che identificano uno stru­ mento) traducono gli immaginari in ricette di policy e metodologie specifiche. Sono tecniche cariche di significato, promosse da orga­ nizzazioni internazionali, think tank, guru accademici o consulenti di grido ripresi, trasmessi e tradotti da «dettaglianti» imprenditoriali delle conoscenze in ricette e metodologie per l’azione pubblica14. Immaginari e KB sono usati per suscitare un consenso generale e una percezione di «dato per scontato» o di one-best-way intorno a in­ terpretazioni e a progetti politici che spesso non sono neutrali, per­ ché remunerano interessi specifici. Spiegare come e perché un im­ maginario anziché un altro venga selezionato e istituzionalizzato si­

13 Nel contesto della neoliberalizzazione esempi di immaginario sono New Public Management, Knowledge Based Economy, Competitività e coesione sociale, Green economy, Economia sociale di mercato, Responsabilità sociale delle imprese, Workfare, Big So­ ciety, Innovazione sociale e, appunto, SC. 14 Ad esempio, nel campo delle politiche economiche sono KB i cluster di imprese, i sistemi di benchmarking e best practice, la misurazione e valutazione delle performance, le tecniche di rating e ranking, che normalizzano gli imperativi di competitività tradu­ cendoli in stati mentali interiorizzati nel senso comune, la pianificazione strategica o il city marketing, per rimanere alle politiche urbane.

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gnifica quindi capire chi e come esercita potere nella forma dell’e­ gemonia. Nelle agende urbane UE e italiana uno degli immaginari di maggiore successo - ancorché solo recentemente reso ufficiale nei documenti di policy - il quale permette il dialogo fra attori istituzio­ nali ed economici nelle agenzie-nodi del sistema di azione, è quello SC. Indipendentemente dalla capacità di indirizzare effettivamente le trasformazioni urbane, è importante perché aggrega rappresen­ tazioni dei problemi urbani fondate su valori e senso comune con­ divisi, tenta di sintetizzarle e dare loro il senso integrato di un’a­ genda di governo delle città, articolata in un ventaglio di azioni rese coerenti fra loro da una strategia, a sua volta coerente con quella dell’agenda urbana europea. L’immaginario SC assembla preesistenti immaginari urbani (Smart Growth, città intelligente: Vanolo, 2014b; Armon di, 2014), è presen­ tato come adattabile pressoché ad ogni contesto urbano ed è coe­ rente con il modello competitivo e imprenditoriale (neoliberista) di città e sviluppo urbano. Si basa su tre premesse: l’urbanizzazione della popolazione mondiale, le città come motori dell’economia, specialmente nella crisi economica e nella ristrettezza delle finanze pubbliche, e la sostenibilità (Hollands, 2014), concretizzate attraverso il ruolo delle tecnologie dell’informazione e comunicazione (ICT). SC è oggetto di troppe definizioni per riportarle tutte - e in questa pluralità semantica è annidato un fattore del suo successo politico. Ci limitiamo perciò a due accezioni politicamente significative di SC: quella accettata dal Parlamento europeo di «città che cerca di affrontare questioni pubbliche attraverso soluzioni basate sulle ICT, sulla base di partnership multi-stakeholder locali»15 e quella di FORUM PA, una delle principali agenzie italiane di diffusione dell’immagi­ nario e dei KB SC: «uno spazio urbano, ben diretto da una politica lungimirante, che affronta la sfida che la globalizzazione e la crisi economica pongono in termini di competitività e di sviluppo soste­ nibile con un’attenzione particolare alla coesione sociale, alla diffu­ sione e disponibilità della conoscenza, alla creatività, alla libertà e mobilità effettivamente fruibile, alla qualità dell’ambiente naturale e 15 European Parliament, Directorate-Generale for Internai Policies, Mapping Smart Cities in the EU, gennaio 2014 (http://www.europarl.europa.eu/RegData/ etudes/etudes/join/2014/507480/IPOL.ITREET%282014%29507480EN.pdf).

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culturale»1617 . Le iniziative SC riguardano uno o più fra sei ambiti che individuano in modo ormai condiviso nella rete d’azione l’arco di questioni pubbliche interessato: Smart Governance, Smart People, Smart Living, Smart Mobility, Smart Economy, Smart Environment^. Per que­ sto il paradigma SC da un lato occupa potenzialmente Finterà agenda di governo di una città, dall’altro spinge per riorganizzarla attraverso definizioni tecniche e depoliticizzate di problemi e solu­ zioni e azioni appropriate (Vanolo, 2014b). In questo modo ripro­ pone una tendenza più generale dell’Agenda urbana a comporre li­ ste di temi e obiettivi «esposti alla sindrome del ‘non solo, ma an­ che’, da integrati a omnicomprensivi» e quindi a maggiore rischio di ineffettività perché «vicini alle aspirazioni intellettuali e di consenso degli addetti ai lavori» ma distanti dai contesti urbani (Gelli, 2014, p. 439). Da cosa deriva questa coazione a non escludere pressoché alcun problema urbano e obiettivo di intervento? Sicuramente vi è una replica isomorfica dell’approccio dominante della UE, che, per prevenire ogni possibile obiezione e riconoscere potenzialmente im­ portanza e distribuire risorse a un’ampia varietà di componenti delia rete di azione, finisce per sussumere nella crescita economica intel­ ligente, sostenibile e solidale ogni possibile finalità (anche in modo contraddittorio) dell’azione pubblica. A corroborare la conseguente richiesta di visione olistica, azione intersettoriale e mainstreaming contribuisce la finalizzazione commerciale dell’immaginario SC, i cui prodotti (KB) possono trovare attraverso l’ampia estensione multi-settoriale un ventaglio più largo di possibili compratori. Le narrazioni relative alle origini di questo immaginario le rin­ tracciano nelle iniziative di grandi imprese del settore ITC. In par­ ticolare Cisco Systems, che avrebbe risposto nel 2005 alla sfida della Fondazione Clinton a usare il suo know how per rendere le città più sostenibili con un investimento di 25 milioni di dollari in 5 anni per poi lanciare nel 2010 una divisione per commercializzare i prodotti e servizi così prodotti1819 . E IBM, che ha brevettato il brand Smarter citiesìg, oltre a Siemens, Microsoft e molte altre, che si contendono il mercato delle SC. L’immaginario SC ha però diversi antecedenti 16 http://smartinnovation.forumpa.it/smartsection/smart-cities. 17 http://www.smart-cities.eu. ■ - http://www.information-age.com/industry/hardware/2087993/ibm-cisco-and-thebusiness-of-smart-cities. 19 http://www.ibm.com/smarterplanet/us/en/smartercities/overview/.

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concettuali, fra i quali da un lato le idee, fra loro in parte diverse (Armondi, 2014) di smartness e Smart Growth (una risposta critica della American Planning Association all’approccio normativo dell’ur­ banistica statunitense dagli anni novanta) e dall’altro ulteriori pro­ poste, storicamente ricorrenti, di soluzioni tanto «scientifiche» e de­ politicizzate quanto considerate dai critici raramente efficaci per la gestione urbana (Shelton et al., 2014). Da allora la diffusione dell’immaginario SC è stata globale. Più di mille città nel mondo hanno avviato progetti SC, in India si spen­ dono 130 miliardi di dollari per sviluppare sette SC nel corridoio industriale Delhi-Mumbai, un’iniziativa all’80% in partnership pub­ blico-privato con la partecipazione di imprese giapponesi come Hi­ tachi, Mitsubishi, JGC Corp e Toshiba, che implementano modelli sviluppati in Cina e Corea del Sud. Negli USA le principali città hanno adottato progetti SC e una lista delle prime dieci include Bo­ ston, San Jose, San Diego, Austin, Seattle, Portland, Chicago, Ber­ keley, Washington, San Francisco20. A Londra il sindaco ha recen­ temente lanciato una Challenge-led Innovation Competition21 per aiuta­ re quattro aree che fanno parte della rete Smart London Districts, co­ stituita per supportare la visione del sindaco per l’innovazione SC e aiutare le piccole imprese a fornire soluzioni mirate per le sfide della crescita della capitale. In Italia, come si è visto, uno dei driver del PON Metro 2014 è il paradigma SC, che figura anche neU’unico significativo documento del CIPU (2013). Oltre alle grandi imprese, che dopo aver lanciato l’idea continua­ no a svilupparne le applicazioni, vettori dell’immaginario SC sono da un lato organizzazioni internazionali e transnazionali (come le reti di città), da un altro lato le agenzie nazionali summenzionate. Le Nazioni Unite hanno lanciato un Global Compact Cities Programme22, componente urbana dell’United Nations Global Compact, sotto forma di accordo che le città possono siglare con le UN per diventare una SC in un’area specifica, ricevendo assistenza tecnica e condividendo buone pratiche con altri membri. La UE ha contribuito a legittimare e diffondere il paradigma SC, inserendo la nozione nei suoi pro­ grammi dal 2009 e finanziandone di specifici (Armondi, 2014). Do20 http://econewsnetwork.org/2012/03/top-ten-united-states-smart-cities/. 21 http://www.instituteforsustainability.co.uk/smarttechcompetition.html . 22 http://citiesprogramme.com.

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po aver sostenuto progetti su SC e politica dell’energia nel VII Pro­ gramma Quadro (ricerca scientifica) la Commissione ha avviato una European Innovation Partnership on Smart Cities and Communities che raccoglie città, industria, ricerca e cittadini per migliorare la vita urbana attraverso soluzioni integrate e sostenibili: una migliore pia­ nificazione, un approccio più partecipativo, maggiore efficienza ener­ getica, migliori soluzioni di trasporto, uso intelligente delle ITC23. Oltre alle premesse concettuali dell’immaginario SC, gli stessi at­ tori fanno circolare KB, ossia metodologie e artefatti tecnologici commerciabili, carichi a loro volta di proprietà cognitive e normati­ ve, che completano l’immaginario e ne consentono l’operatività nei programmi pubblici. Esistono più tipi di KB. Il primo è costituito dai prodotti tecnologici (hardware e software) da vendere alle città per la realizzazione di modelli smart nei sei ambiti sopra individuati. Ne esiste un’ampia varietà, che non è possibile qui documentare. È però sufficiente frequentare le SCE o gli eventi di FORUM PA dedi­ cati alle SC, che non a caso hanno importanti caratteristiche com­ merciali, o anche navigarne i siti web24, per disegnare una mappa sia dei fornitori (grandi multinazionali e piccole imprese) che acqui­ stano gli spazi e sponsorizzano i seminari, sia delle merci offerte25* . Il secondo tipo di KB consiste in strumenti per l’apprendimento delle logiche e delle pratiche SC. È fiorita anche in Italia una ma­ nualistica divulgativa, prevalentemente fondata sulla valorizzazione delle esperienze di successo e delle soluzioni ai problemi di imple­ mentazione e apprendimento di modelli operativi delle SC. Proto­ tipo è il «Vademecum per la città intelligente» prodotto dall’Osservatorio Nazionale Smart City dell’ANCI in partnership con FORUM PA, che contiene indicazioni operative per governare il processo di pianificazione della città intelligente, esempi ed esperienze avviate nelle città italiane ed eu­ ropee [...] ed è pensato come una guida metodologica per l’elaborazione del Piano grazie al quale i decisori potranno governare il cambiamento aH’interno del proprio territorio urbano, una raccolta di tools operativi per la pianificazione e la governance, una raccolta di esperienze e di 23 http://ec.europa.eu/eip/smartcities/. 24 http://www.smartcityexhibition.it. 25 I principali sponsor delfedizione 2013 di SCE sono stati: Sinergis, ABB, Selex ES-Finmeccanica, IBM, PwC.

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progetti d’eccellenza nei vari ambiti del cambiamento smart; uno stru­ mento di confronto e benchmarking tra e per le città26.

Interessante esempio è anche il Collaborative Territories Toolkit, una «guida step by step per lo sviluppo di economia collaborativa (dove trovare le risorse chiave e come usarle), con un focus sulle best practice in giro per il mondo [...] un insieme di strumenti, esistenti e creati ad hoc, con i quali OuiShare (una 'global community e think and do-tank" nel campo dell’economia collaborativa) e FORUM PA propongono alle amministrazioni locali di lavorare insieme per la comprensione delle opportunità e delle problematiche del proprio territorio, per la definizione e Fimplementazione delle politiche»2728 . O, ancora, lo Smart(er) Cities Manual prodotto dalla «Carlo Ratti Associati per il Consorzio CSI Piemonte, che «presenta il framework per una strategia ÉSC’, supportato da esempi aggiornati e best practices»23. Un terzo tipo di KB consiste in basi di dati e risultati di ricerca che servono da un lato ad alimentare la riflessività dell’intero sistema di azione dell’agenda urbana sui fattori di successo delle azioni ispirate al paradigma SC e dall’altro a informare sulle esperienze SC, met­ terle in collegamento e segnalare le relative opportunità di mercato. Le fonti internazionali, che funzionano anche come basi cognitive per il policy transfer, sono ovviamente pienamente fungibili anche in Italia. Ad esempio, la Smart Cities Stakeholder Platform realizzata dalla Smart cities initiative fornisce informazioni sul mercato della European Innovation Partnership on Smart Cities and Communities, consentendo di «identificare e diffondere informazioni sulle soluzioni tecnologiche e i bisogni dei practitioner, fornire informazioni per policy support alla Commissione UE [...] apprendere, costruire partnership, guadagna­ re efficienza e creare nuove opportunità di affari»29. In Italia, oltre a pubblicazioni di taglio più accademico, come un «atlante delle Smart Cities» (Riva, Sanseverino et al., 2012), sono importanti: 26 http://osservatoriosmartcity.it/il-vademecum/ . 27 http://www.smartcityexhibition.it/it/collaborative-territories-toolkit-progettare-losviluppo-di-economia-collaborativa-nei-territori; http://ouishare.net/en. 28 http://www.carloratti.com/project/smarter-cities-manual/. Dello CSI Piemonte fanno parte la Regione, Università e Politecnico di Torino, Città di Torino, Province piemontesi e numerosi Comuni, ASL e altre agenzie pubbliche. 29 http://www.eu-smartcities.eu; http://www.eu-smartcities.eu/benefitsofjoining.

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- Smart City Index, metodo applicato alla misurazione del livello di smartness delle città, «un contributo alla lettura del mercato, alla messa in atto di Roadmap efficaci nelle città» che nell’edizione 2014 basa il ranking su 422 indicatori e precisa le sei dimensioni canoniche in quelle di Smart health, mobility, government, ambiente, energia, cui aggiunge Smart Culture&Travel, Smart Urban Security e SmartJustice (Between, 2014); - ICity Rate, un rapporto di IcitylAB, iniziativa di FORUM PA che disegna la mappa delle città intelligenti italiane attraverso 89 in­ dicatori relativi alle sei dimensioni SC, utilizzabili anche online per ricostruire gli elementi del «posizionamento competitivo dei 103 Capoluoghi di provincia»30* .

3. Interessi, idee ed egemonia: un nuovo ruolo politico per le imprese"? Entro la cornice cognitiva e normativa di Europa 2020 e dell’a­ genda urbana UE, specificata e operazionalizzata attraverso il para­ digma e i KB SC, l’Agenda urbana italiana raccoglie dunque una comunità di policy formata da attori pubblici e privati, i quali condi­ vidono i valori, le credenze causali e le prospettive operative che configurano uno specifico modello di azione dello Stato. Quali con­ seguenze sono osservabili, sinora? In ambito scientifico il paradigma SC è oggetto di ipotesi critiche circa l’approccio tecnocratico, capace di rilevare solo i problemi ur­ bani misurabili, l’incapacità di considerare la varietà delle città (an­ che italiane) in termini di potenzialità di sviluppo economico, le difficoltà di ripensare anche gli spazi urbani materiali, oltre a quelli virtuali dei flussi e delle reti, i rischi di ampliare marginalità e divi­ sioni sociali (fra chi può o meno utilizzare soluzioni ITC) e spaziali (fra spazi tecnologizzati e profittevoli o meno), di creare campi di controllo sociale che naturalizza l’intrusione nella vita personale (Vanolo, 2014a, 2014b; Armondi, 2014, p. 175 e ss.). Secondo varie ricostruzioni delle SC «realmente esistenti», invece, è presente un potenziale contraddittorio: da un lato il paradigma è circo scritto a 30 ICity Rate 2014, La classifica delle città intelligenti italiane, terza edizione, ottobre, realizzata da FORUM PA (http://www.icitylab.it/il-rapporto-icityrate/edizione-2014/lapubblicazione-2 014/).

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un’agenda di high-tech urban entrepreneurialism che produce maggio­ re polarizzazione sociale e spaziale (Hollands, 2008, p. 314). Dall’al­ tro, sarebbe in teoria possibile un uso «comunitario» dei dati raccolti attraverso i KB della SC (Shelton et al., 2014). Queste ipotesi devono ancora essere tradotte in narrazioni siste­ matiche, fondate sulla comparazione fra casi specifici di implemen­ tazione del paradigma (Hollands, 2008; Vanolo, 2014b) che tenga­ no conto dei rispettivi contesti (Kitchin, 2014) in termini di proble­ mi urbani e società locale, political economy e forme di governo. In particolare per quanto riguarda l’Italia, la riflessività sviluppata al­ l’interno della rete di azione attraverso ricerche, indici e ranking ri­ guarda iniziative e propositi SC e non ancora i loro outcome, lascian­ do però intravedere i dati per una promettente agenda di ricerca empirica per i prossimi anni. È invece già possibile ipotizzare delle risposte alla nostra domanda iniziale, relativa al contributo che il paradigma SC sta offrendo alla produzione di egemonia delle im­ prese attraverso le azioni dell’Agenda urbana. A questo fine possia­ mo considerare (i) il punto di vista degli attori economici e (ii) le conseguenze sull’impostazione delle azioni pubbliche. (i) Le imprese interessate associano al paradigma SC obiettivi sia a breve (realizzare profitti), sia a lungo termine (creare condizioni per realizzarne in futuro). Il mercato globale delle SC può infatti fornire opportunità per circa 3,3 miliardi di dollari entro il 2025 ai produttori dei KB consistenti in tecnologie ITC e in consulenza or­ ganizzativa e di processo31. Entrambi possono massimizzare i van­ taggi anche riducendo i costi, cioè adattando il più possibile al mer­ cato SC prodotti e routine sviluppati per altri clienti. Prendiamo un esempio che riguarda la consulenza: PwC Italia adatta al cliente amministrativo SC il prodotto e il processo di consulenza aziendale ideato per le imprese economiche, proponendo un «approccio om­ nicomprensivo, flessibile e strutturato, composto da fasi progettuali definite, monitoraggio delle performance e degli impatti delle inizia­ tive [...] che comprende il supporto alla definizione del modello di servizio, l’analisi degli stakeholder, la valutazione delle soluzioni im­ plementate e di quelle futuribili, lo studio delle opzioni di finan­ ziamento, la definizione della roadmap di implementazione e la pre­ visione degli impatti» (Galassi, 2014). 31 http ://wwv. frost.com/prod/servlet/report-brochure.pag? id = M920-01-00-00-00.

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Guardando al medio-lungo termine, le imprese cercano di attiva­ re le relazioni socio-spaziali necessarie per negoziare, assicurare e plasmare il proprio «spazio di dipendenza» dal «locale» (Cox, 1998), o per ridurla attraverso la moltiplicazione dei mercati locali. A que­ sto fine però non è sufficiente offrire prodotti tecnologici per città smart, né esercitare le tradizionali pressioni sui decisori politici af­ finché spendano: serve piuttosto rendere la regolazione delle eco­ nomie e delle società urbane favorevole a processi di accumulazione fondati sull’espansione di questi mercati. Poiché questa regolazione è multi-scalare, lo space of engagement delle imprese (Cox, 1998) non può esaurirsi nel coinvolgimento in processi di governance e part­ nership con la politica locale. Per legittimare il paradigma SC e assi­ curare mercati per i relativi KB finfluenza deve essere esercitata sui decisori e sul/raw delle politiche anche su scala nazionale e trans­ nazionale e le agende urbane nazionale e comunitaria si prestano a tale scopo. Se ai fini della smartness urbana non si può fare a meno dello Stato, secondo le imprese la governance nazionale di questa po­ licy dovrebbe rendere gli interessi particolari di istituzioni centrali, locali e imprese sinergici e coordinati, con «un progetto nazionale fondato su una leadership forte, che garantisca la continuità delle scelte di fondo, andando oltre la caducità degli assetti politici» (Ambrosetti-ABB, 2012, p. 18). (ii) L’influenza così esercitata in Italia sulla strutturazione delle azioni pubbliche è evidente ad esempio nel sistema di vendita dei servizi SC attraverso il Mercato Elettronico delle PA (MePA) gestito dallo Stato. Nel bando ICT 2009 e nelle sue estensioni successive l’articolazione della gara telematica ricalca le sei dimensioni SC (mo­ bility, environment, people, living, governance ed economy) e riguarda il servizio di set up e pianificazione di progetti di SC ed eventuale affiancamento nella fase di loro sviluppo e gestione. In particolare i fornitori scelti avranno il compito di assistere fAmministrazione nella declinazione degli obiettivi perseguiti e nella definizione delle analisi preliminari di fattibilità e di rischio, dei piani di progetto e dei piani di investimento, nel disegno dei processi e nella scelta delle tecnologie/soluzioni a supporto, nella valutazione del mercato locale e nello scouting dei finanziamenti necessari32.

: 32 http:/Avww.consip.it/pres5_room/comunicati/2013/4/notizia_0017?subFold=Comunicati.

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Vengono così replicati contenuti e fasi della consulenza azienda­ le, istituzionalizzando e generalizzando nel sistema del governo lo­ cale, attraverso gli acquisti di beni e servizi, il modello di relazioni fra consulenti e clienti d’impresa. Una simile traslazione, però, è possibile se ve ne sono dei presupposti, di varia natura. Quello co­ gnitivo di base consiste in una pratica discorsiva di costruzione di significati che produce la naturalizzazione della città come attore collettivo, omogeneo e unitario, che può perdere la sfida competiti­ va della SC o vincerla, diventando più simile alle città che ce l’han­ no fatta (Vanolo, 2014b). Ma non si tratta di un attore collettivo qualsiasi. La città smart è costruita socialmente come un «sistema so­ ciotecnico in grado di sostenere e abilitare rinnovazione» (Vademe­ cum ANCI), un’organizzazione che può vincere solo se conosce il suo ambiente, le sue risorse e problemi, le ottimizza attraverso stra­ tegie e convince i suoi stakeholder circa la loro bontà e l’affidabilità di chi le propone e le implementa. Consideriamo questo testo: Realizzare IL SUCCESSO aziendale è un percorso che parte da una vision condivisa e richiede una capacità di execution da parte della leadership DELL’IMPRESA. Non si tratta però del contributo di una sola persona, ma di una community di soggetti, che deve disegnare e realizzare il percorso di miglioramento della propria impresa, partendo dalla storia e dalla cultura che la caratterizzano.

Questo brano non è fedele all’originale (Between, 2014, p. 4), ma è stato manipolato dall’autore di questo capitolo. Per ottenere quello iniziale occorre sostituire le parole in maiuscoletto: IL SUCCESSO AZIENDALE con la Smart City; DELL’IMPRESA con politica della città; IMPRESA con città. Con una minima forzatura - non sono solo la sto­ ria e la cultura, ma anche altre risorse a costituire la base di parten­ za del successo delle imprese, ma del resto nell’approccio smart que­ sto vale anche per le città - si ottiene una raffigurazione semplice ma efficace della traslazione di una rappresentazione del cliente originata nel mondo della consulenza aziendale verso l’ambiente delle città e delle politiche pubbliche. Per questo lo stesso fornito­ re33 pratica un percorso di consulenza che prevede più stadi: un in33 Between offre servizi di consulenza direzionale che contribuiscono allo sviluppo del business tramite l’uso innovativo ed efficace dell’Information & Communication Technology (ICT) (http://www.betvveen.it/ita/chi-siamo.php).

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contro con il sindaco, cui presentare il ranking nazionale sulle SC con il posizionamento della sua città: poi con assessori e/o city mana­ ger, per condividere nell’amministrazione il punto di partenza e il percorso di lavoro; un confronto con gli stakeholder interni al comu­ ne e territoriali (camera di commercio, associazioni); l’avvio di pro­ getti con il coinvolgimento delle imprese ed eventi di comunicazio­ ne. PwC Italia articola invece lo stesso processo in: modello di servi­ zio; analisi (mappatura, coinvolgimento e gestione) degli stakeholder; quick assessment (identificare le soluzioni che garantiscono un ritorno veloce sull’investimento); analisi complete del set di soluzioni smart; analisi delle risorse di finanziamento dei programmi SC; prioritizzazione delle soluzioni; roadmap d’implementazione: Progetto ope­ rativo di SC, Analisi degli impatti delle soluzioni implementate e raffinamento del modello di previsione (Galasso, 2014, citato anche in Vademecum dell’Osservatorio ANCI). Se le città vengono ridefi­ nite come attore imprenditoriale i loro governi sono anch’essi non solo interlocutori alla pari delle imprese, ma essi stessi imprese che, secondo un modello affermato in Italia con qualche ritardo, cercano di sviluppare strategie per creare vantaggi competitivi (Dicken, 1994), avvalendosi a questo fine di consulenza come ogni attore di mercato. Questa rappresentazione della città e del suo governo come una impresa è ovviamente una metafora, che rivela però un carattere performativo, capace cioè di trasformare il discorso in azione e in­ durre effetti concreti che consistono non solo nell’allocazione di ri­ sorse materiali nel mercato SC, ma anche nell’alterazione di «geo­ metrie di potere» (Vanolo, 2014b). Nel rapporto fra politica e mer­ cato la posta in gioco diventa il potere e la sua forma è l’egemonia. Gli effetti performativi della produzione e circolazione di immagi­ nari e KB plasmano infatti i modelli di azione pubblica. La maggio­ re dipendenza degli attori pubblici da quelli privati non riguarda più infatti solo i «muscoli finanziari», come nel project financing. In questo caso sono anche la costruzione dei problemi e l’ideazione di visioni della città e degli scopi collettivi ad essere rimesse a processi ed attori di mercato, che li definiscono attraverso dati presentati come fonte neutrale di conoscenze e rappresentazioni «oggettive» (Shelton et al., 2014) di problemi e soluzioni. Le imprese si sostitui­ scono alle fonti tradizionali di input per la formazione dell’agenda di governo, in particolare l’attivismo degli eletti e degli abitanti, a meno che - come si vedrà - questo non assuma la forma di processi 164

partecipativi e/o deliberativi congruenti con la dimensione Smart Governance del paradigma. Questo ruolo delle imprese nel precisare il frame dell’Agenda ur­ bana è una manifestazione particolare della più generale tendenza di «depoliticizzazione» 34 che accompagna le policy neoliberiste. Co­ struire le agende non in arene e istituzioni politiche, legittimate più o meno direttamente attraverso la rappresentanza, ma in sedi in cui i decisori politici agiscono in partnership con tecnici, consulenti e imprese favorisce la convergenza verso una sola costruzione valo­ riale e cognitiva della realtà, se anche lo Stato inizia a «pensare» le città come imprese. Alla capacità di indurre consenso remunerando interessi si affianca quella di esercitare persuasione. A questo fine è importante il potenziale emotivo - o «valenza» (Cox, Béland, 2013) - mobilitato dalle retoriche discorsive implicate nella nozione di SC, dal quale dipende il successo di questo sistema di idee nelle comuni­ tà epistemiche e fra i decisori politici. Essa infatti associa le soluzio­ ni di policy smart a principi come (i) intelligenza, efficienza e (ii) so­ stenibilità e inclusione. (i) Intelligenza ed efficienza evocano un mito e sostrato valoriale e morale ancora capace (molto tempo dopo Weber) di unificare va­ lori e interessi nelle società del capitalismo e dei neoliberismi con­ temporanei: la razionalità come premessa dell’azione individuale e collettiva e come senso comune condiviso. Su questa base viene trac­ ciato un confine tra ciò che è accettabile o meno, stigmatizzando cit­ tà e attori che rimangono indietro nella competizione per essere smart o, peggio, non si adeguano alla «smartmentalily» e sono perciò «smartdeviant» e (moralmente) irresponsabili (Vanolo, 2014b). Come si è visto le performance misurate e registrate dai rating possono esse­ re usate come argomento persuasivo, anche attraverso forme impli­ cite di shaming. Come altri immaginari del neoliberismo, l’ottimalità del principio di intelligenza rende possibile presentare l’approccio SC in termini apolitici e di buon senso come inevitabile e, almeno razionalmente, non rifiutabile (Kitchin, 2014), sottraendolo perciò a ogni possibile controversia politica. Del resto, chi rifiuterebbe una simile panacea urbana (Hollands, 2014) scegliendo invece di vivere in una città «stupida»? Probabilmente gli stessi che preferiscono pa34 Per la discussione nelle scienze sociali sul concetto di depoliticizzazione si rinvia al capitolo primo di questo volume.

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chidermiche e lente organizzazioni burocratiche a reti di governance fluide, leggere e veloci, come avveniva con l’immaginario del New Public Management e i connessi KB (controllo di gestione, valutazio­ ne delle performance, «carte dei servizi», analisi costi-benefici, bench­ marking, network management, ecc.). O, per rimanere in ambito urba­ no, gli immaginari della sostenibilità e di città creative, strategiche e «resilienti» con i connessi KB. (ii) Sostenibilità e inclusione: nell’attuale contesto di crescente polarizzazione sociale e di funzioni redistributive statali inibite dalle politiche del neoliberismo roll-back e di austerity il paradigma SC è convincente e produce egemonia anche perché promette soluzioni «ottime» per l’intera società, giochi a somma positiva, benefici sia diffusi sia concentrati. Nel paradigma SC - come del resto più am­ pio nel frame della crescita «solidale» - è possibile inglobare valori e tensioni sociali e politiche potenzialmente, o in epoca precedente, antitetiche al mercato. Ad esempio: la Smart Growth, inizialmente sviluppata come idea progressive per limitare sprawl e consumo di suolo (Vanolo, 2014b), le economie alternative al mercato ufficiale, la cultura degli open data come beni comuni e dei software liberi, Vempowerment dei cittadini e quindi inclusione, partecipazione e de­ liberazione, comunicazione istituzionale con i connessi KB, come le soluzioni ITC per digitalizzazione, e-government attraverso Cloud computing technology, e-govemance, e-democracy, trasparenza, accesso, ecc., oltre a finalità sociali ricomprese nelle dimensioni Smart People (istruzione, pluralismo etnico, open-mindedness) e Smart Living (salu­ te, sicurezza, abitazione, istruzione, benessere economico)35. Emerge quindi la capacità di un paradigma neoliberista «resiliente» di as­ sorbire e metabolizzare idee anche contraddittorie e in tensione con il fulcro dei propri imperativi normativi (Schmidt, Thatcher, 2014) costruendo per esse «nicchie» policy. In conclusione, il ruolo svolto dal paradigma SC nell’agenda urba­ na non consiste nel far venire meno le funzioni fondamentali della politica, ma da un lato nel postularne un cambiamento e dall’altro nel realizzare l’egemonia delle imprese attraverso la loro assunzione di un nuovo e più diretto ruolo politico. Questo va oltre la consolidata varietà di pratiche e strategie prodotte dalla dipendenza delle impre­ se dallo Stato e dello Stato dalle imprese (Lang, Tenbucken, 2006). In 35 http://www.smail-cities.eu/?cid=2&:ver~3.

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questo caso le imprese sembrano sostituirsi sia agli attori pubblici sia ai centri tradizionali di produzione di conoscenze applicate, in particolare le università, nell’ideare, se necessario trascendendo gli interessi delle singole aziende, gli immaginari e i KB che forniscono a questa politica pubblica un frame e degli strumenti operativi. Il successo di un progetto egemonico nel definire le strategie di accu­ mulazione locali e le politiche pubbliche ad esse funzionali deriva quindi dalla capacità delle imprese qui considerate, superiore a quella degli attori pubblici, di sviluppare riflessività e apprendere (Jessop, 1997). Insieme agli attori tecnico-scientifici, questa «frazio­ ne» di interessi economici plasma uno specifico senso comune all’in­ terno della variegatura del neoliberismo, con un esito non molto dissimile da quello che ha consentito, ad esempio, la «convergenza divergente» delle politiche macroeconomiche neoliberiste in Europa (Macartney, 2011). Combinandosi con la disaffezione per la politica locale36, questo ruolo potrebbe disegnare per il governo urbano scenari futuri post­ democratici, se non addirittura post-politici, in cui i deficit di legit­ timazione, intelligenza e riflessività e i fallimenti delle istituzioni politiche vengono colmati dalle imprese in modo più sistematico e istituzionalizzato. Alle città verrebbe adattato, con l’approvazione dello Stato, un modello di corporate governance alle cui basi normati­ ve concorrono il diritto privato e di proprietà e standard di efficien­ za internazionali, certificabili o meno (Chiesa, 2014). In Paesi di sviluppo più recente e con minori path dependency dell’Europa SC consiste spesso in grandi progetti di imprese private che creano nuove città artificiali (greenfield') dotate di sistemi di governo fondati su un ruolo delle tecnologie e del business che sopravanza o sostitui­ sce quello di autorità elettive. Una preesistente forma, anch’essa progressivamente non più limitata agli USA37, di autoregolazione 36 Pochi esempi: nel 2013 il sindaco di Roma I. Marino è stato eletto al ballottag­ gio con una partecipazione del 45% e nelle amministrative in Italia lo stesso giorno ha votato il 51,7%; lo stesso anno a New York B. De Biasio è stato eletto sindaco con il 24% di votanti; B. Johnson è diventato sindaco di Londra nel 2012 con il 37,4%, men­ tre la media dei partecipanti alle elezioni locali nel Regno Unito è stata del 31,3%. 37 Ad esempio, in Honduras MKG Group ha concordato con lo Stato la costruzione di una città regolata con legislazione (esclusa quella penale), servizi (comprese polizia, sanità e istruzione) e sistema fiscale autonomi, gestita da un consiglio di amministra­ zione e da un amministratore delegato (http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/10/01/ stato-arretra-cosi-nasce-privatopia/369409).

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privata di spazi urbani esclusivi ben vista dai governi - «privatopia» (McKenzie, 2011) - è basata suìY enforcement di norme adottate in modo non-politico da costruttori e proprietari (Tao, McCabe, 2012). Se questa forma di governo privato della città dovesse combinarsi con il paradigma SC, il rapporto fra autonomia degli interessi eco­ nomici, depoliticizzazione della gestione urbana attraverso politiche pubbliche ed egemonia delle imprese potrebbe dare luogo a conse­ guenze sistemiche che appaiono al momento ancora futuribili, ma non improbabili.

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Capitolo ottavo Fuoco incrociato sul planning di Barbara Pizzo

1. Introduzione

Il presupposto su cui si basa la ricerca alfinterno della quale si colloca questo contributo è che esista ancora, o che debba esistere, una distinzione chiara tra pubblico e privato, che si fonda sulla ‘clas­ sica’ distinzione tra Stato e mercato. Pertanto, all’interno di questo quadro, il tipo di pianificazione che viene preso in esame per studiarne i cambiamenti nel tempo, in una prospettiva di analisi critica del neoliberismo, è la pianificaziorie intesa come forma di azione pubblica, come una specifica forma di azione del Pubblico, ovvero dello Stato, riprendendo la definizio­ ne di J. Dewey (1927). Ora, questo in realtà è un restringimento di campo, e anche una semplificazione, rispetto a cosa è la pianifica­ zione, strumentale al tipo di ragionamento che stiamo provando a fare, mentre la pianificazione può essere - e in molti casi è - non necessariamente guidata, né determinata, né voluta dal pubblico. L’esempio più chiaro, anche se non meno controverso e dibattuto di altri, riguarda il ruolo della società civile e dell’associazionismo co­ me soggetto ‘intermedio’, che ha la capacità di chiedere interventi di pianificazione, determinarne la forma e orientarne il corso d’a­ zione, e in alcuni casi persino guidarla (Alexander, 2008). In Italia questo è meno frequente e meno chiaramente riconoscibile che non * Ho presentato una prima versione di questo contributo nella sessione di Plan­ ning Theory della Conferenza AESOP (Association of European Schools of Planning) di Utrecht nel luglio 2014. Ringrazio Ernest Alexander per il suo sostegno e incorag­ giamento e per i suoi preziosi suggerimenti.

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in altri contesti geografici, tranne in alcuni casi (si pensi ad esempio al ruolo di organizzazioni come Legambiente, o delle camere di commercio), mentre in contesti diversi il ruolo di questi soggetti in­ termedi è considerato un dato di fatto che ne legittima la presenza attiva nel processo di pianificazione. E. Alexander, a partire da una posizione esplicita di rifiuto del neoliberismo, che ne rigetta gli argomenti a partire dalla loro teoria economica, sostiene che, a causa del fatto che i rapporti tra pubblico e privato sono diventati progressivamente più complicati e ambigui, in realtà sarebbe più utile cercare di capire come la pianificazione lavora nel mercato, per il mercato e con il mercato (Alexander, 2008). Per intendere, appunto, che la distinzione tra pubblico e privato e in particolare tra interesse pubblico e interesse privato è molto me­ no chiara di quanto non si assuma, e consapevoli del fatto che porre le questioni all’interno di un quadro interpretativo inadeguato non possa che determinare conclusioni insoddisfacenti e non utili. D’altra parte, bisogna considerare però un altro carattere fonda­ mentale della pianificazione ai fini del ragionamento che stiamo tentando, e cioè il fatto che in Italia la pianificazione è una forma di azionejgensata come gestita e condotta dal pubblico o, almeno, que­ sto è ciò che si può desumere dal sistema giuridico-normativo all’interno del quale trova configurazione. Questa forma di azione, nono­ stante la sua apparente ‘stabilità’ (si basa su una legge degli anni quaranta che non è stata mai ripensata in modo organico1), si è tra­ sformata nel tempo, anche proprio in relazione alle trasformazioni nel rapporto tra pubblico e privato. Ha subito progressivi aggiusta­ menti e trasformazioni che, attraverso una vasta serie di norme, hanno contribuito a realizzare quella che, a parere di chi scrive, può essere interpretata come la specifica forma di ‘variegatura’ o il modo particolare in cui il neoliberismo viene declinato e agisce lo­ calmente: ovvero attraverso una sorta di ‘formale’ super-regolarione, a cui corrispondejuna jsostanzi^leL^XWgQlarione (Pizzo, Di Salvo, 2015). In questo consiste l’aspetto forse più significativo e ca­ rico di implicazioni delle modalità di azione del neoliberismo nel 1 Una riforma della Legge Urbanistica, di cui si discute da almeno 40 anni, è stata presentata recentemente da M. Lupi, ed era in discussione al momento della prepa­ razione di questo saggio (autunno 2014). Si veda il disegno di legge intitolato «Prin­ cipi in materia di politiche pubbliche territoriali e trasformazione urbana» disponibile sul web all’indirizzo: http://www.mit.gov.it/mit/mop_all.php?p_id= 19746.

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campo della pianificazione in Italia. Queste sono le conclusioni a cui arriverò. Questo contributo lavora con tre differenti frames per delimitare e chiarire il tema e il tipo di approccio prescelto, che sara sviluppato anche attraverso un esempio ‘locale’ (romano). Propongo di leggerli come un sistema di scatole cinesi - uno dentro l’altro -, sebbene cia­ scuno abbia una propria autonomia e si presti a critiche specifiche. Si parte da un jraw teorico più generale, che tratta di come viene considerata la pianificazione, non solo in Italia: quali sono le critiche che gli sono rivolte in questi ultimi anni e come queste stesse critiche aiutino a capirne le debolezze e le problematicità, che riguardano concezioni e prassi. Sipropone poi una sorta di quadro di riferimen­ toJj-gi^atiyo7nQ.riiLa.tivo utile per onentarSHoergrOTiglio* di trasfor­ mazioni, cui prima si è accennato, che hanno interessato la pianifica­ zione nel tempo. Riferimento imprescindibile dato che in Italia la pianificazione si configura come parte costitutiva dell’attività di am­ ministrazione, rientrando nel diritto amministrativo. Non è seconda­ rio che i suoi temi siano trattati in larga misura attraverso provvedi­ menti di tipo legislativo, che una parte importante del dibattito di­ sciplinare sia costruita intorno a questioni di tipo giuridico, e che la maggior parte dei contenziosi su interpretazioni differenti venga ri­ solta’ con sentenze o pronunciamenti della stessa natura. Un terzo frame, che m urra^pjima.yersioxìe di questo contributo non era stato considerato come tale, e che rappresenta una possibile direzione di approfondimento, è più direttamente orientato all’ana­ lisi empirica del caso/esempio che presento. Qui l’attenzione è rivol­ ta ai modi in cui, parallelamente alla redazione di un piano o di un progetto di trasformazione urbana, inteso in senso fisico-spaziale, può essere costruito il ‘tipo’ di rapporto tra i diversi soggetti inte­ ressati, e in particolare tra pubblico e privato. L’attenzione per la dimensione del ‘disegno istituzionale’ è particolarmente importante proprio considerando il fatto che le relazioni tra (i diversi) attori pubblici e (i diversi) attori privati nella pratica urbanistica sono pro­ gressivamente più complesse e ambigue di quanto non si preveda in linea teorica, e che le stesse dicotomie tra pubblico e privato e tra Stato e mercato risultano spesso come delle semplificazioni che de­ rivano da una astrazione, non (più?) chiaramente riconoscibile nella realtà - mentre a parere di chi scrive tenere fermi gli elementi di quelle dicotomie è ancora utile a fini analitici. 171

2. Il planning: cos è

Si mette in questione la necessità di questa forma di azione

La pianificazione come la conosciamo, che è nata e si è sviluppata nelle società occidentali come disciplina tecnica, regola il regime e il mercato dei suoli. La sua azione produce impatti diretti e indiretti sulla struttura­ zione dello spazio urbano ed è profondamente intrecciata con l’am­ biente politico e il sistema socio-economico. Negli ultimi anni, e in particolare con la ristrutturazione econo­ mica che ha seguito il "credit crush" del 2008-09, la pianificazione come una forma di controllo (pubblico) sullo sviluppo territoriale è sottoposta al più alto grado di scetticismo, se non di sfiducia (Lovering, 2010; Swain, Tait, 2007; Tait, 2011). I suoi processi sono stati definiti ‘anacronistici’ (Tewdwr-Jones, 2012). Ciò che è in discussione è a) la sua capacità di guidare effettiva­ mente trasformazioni spaziali, b) il suo diritto/potere (in quanto forma di azione pubblica) di ‘controllare’ il cambiamento urbano e territoriale. La pianificazione è fortemente criticata per due ragioni apparen­ temente opposte: da un lato, è accusata di ‘carenze’ di regolazione, dall’altro lato di ‘eccesso di regolamentazione’. In breve: a) di re­ golare troppo poco, e b) di regolare troppo. Ovviamente ciò è im­ possibile: le due critiche non sono proponibili contemporaneamen­ te; poste in questi termini, una delle due affermazioni deve essere falsa. Chiaramente, la semplificazione di cui sopra è un dispositivo argomentativo che aiuta a mostrare quanto il dibattito sulla pianifi­ cazione rischi di essere offuscato da astrazioni ad elevato contenuto di ideologia, che non sempre aiutano a comprendere la realtà. Tut­ tavia, entrambe le opposte interpretazioni concordano sul fatto che la pianificazione non sembra essere in grado di rispondere al pro­ prio compito (l’organizzazione dello spazio ai fini del miglioramen­ to delle condizioni di vita delle società) e di affrontare le attuali sfi­ de socio-economiche. Una robusta letteratura di matrice marxista tratta la pianificazio­ ne come uno strumento per la riproduzione del capitale attraverso la città (Dear, Scott, 1981; Turok, 1992). Essa è permeata di un’ancora più influente letteratura sociologica e geografica della stessa matri172

ce, riconducibile al lavoro di H. Lefebvre (1968, 1972, 1974), M. Castells (1972, 1978, 1980) e D. Harvey (1973, 1985). È stato infatti Henry Lefebvre a capire che il capitalismo si sarebbe riprodotto non solo nella città ma "attraverso’ la città, agendo nello spazio e per mezzo del suo spazio (lo spazio urbano), cambiando il modo in cui questo è utilizzato e anche il suo significato. Conseguentemente, se chiamiamo neoliberismo la forma presente che il capitalismo ha as­ sunto, si comprende perché questo sia stato definito come «a strategy ofpolitical-economic restructuring that [.. J uses spaces as its "privileged in­ strument’» (Brenner, Theodore, 2002, p. vii). Con un’ambivalenza simile a quella prima menzionata, si sostiene anche che lo Stato (il Pubblico, ancora nell’accezione di Dewey) si stia progressivamente ritraendo dalle arene della decisione (Strange, 1996; Schneider, Hàge, 2007), ma anche che l’intervento dello stesso Stato sia fondamentale per creare’ (determinare) le condizioni necessarie per fazione di stampo neoliberista, e la pianificazione, appositamente reinventata’, stia contribuendo direttamente alla realizzazione di que­ gli obiettivi (Lovering, 2011). Da un punto di vista ancora opposto, ci si aspetta che lo Stato (finalmente) si ritragga (fino a divenire "minimo’, come ad esempio nella visione di Nozick, 1974; e Long, Machan, 2008). Da esso ci si aspetta che limiti il suo intervento solamente per creare le "right conditions’2, enfatizzando la maggiore efficienza del­ l’iniziativa privata, ma anche il più alto valore della libertà individuale. D’altra parte, il ruolo dei soggetti privati nella realizzazione di tra­ sformazioni urbane può essere/è assunto come un dato di fatto, tan­ to che si arriva a sostenere che il campo di azione e l’efficacia della pianificazione dovrebbero emergere dalla sua capacità di lavorare all’interno (o, eventualmente, a guidare) il mercato (Adam, Tiesdell, 2011). In questa prospettiva gli stessi planners sono concepiti come attori di mercato, e il loro ruolo (pubblico) sarebbe giustificato ‘se e solo se’ dimostrano di essere in grado di raggiungere maggiori e mi­ gliori risultati rispetto a quanto si sarebbe realizzato in assenza di pianificazione {ivi, p. 188). 2 II concetto è ripreso da Adam Smith, dal suo The Wealth ofNations del 1776. Que­ sto concetto è usato per intendere un ‘minimo’ di intervento pubblico (dello Stato), ma questa interpretazione del pensiero di Smith non è allatto incontrovertibile, al contrario piuttosto dibattuta, dal momento che si ritiene, diversamente, che Smith fosse molto più disponibile e aperto all’intervento da parte dello Stato di quanto spes­ so non si sostenga. Cfr. Barca, 1997, 2000.

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In questo senso, è lo Stato (e Fazione pubblica) che deve essere giustificato (Hunt, in Long, Machan, 2008) - rispetto al mercato che è considerato come un ‘dato’. Inoltre, per quanto riguarda il rapporto tra pianificazione ed economia, la condizione attuale ha suscitato interrogativi essenziali, che portano a domandarsi se la crisi presente debba essere interpre­ tata come la causa (Brenner, Theodore, 2002) o piuttosto come l’ef­ fetto degli attuali modi di regolazione (O’Toole, 2009 e Cox, 2012, anche in Moroni, 2013, p. 10), modi di regolazione che richiedono in ogni caso di essere seriamente rivisti in modo da permettere la rea­ lizzazione di più soddisfacenti assetti o configurazioni socio-spaziali. Lungo un’altra linea di pensiero, che può essere ricondotta a pa­ radigmi post-political’, ad essere messa in discussione è la forma di conoscenza che la pianificazione comporta e utilizza. Questa linea in particolare si oppone ad una nuova svolta verso la conoscenza ‘esperta’, spesso radicata in un approccio ecologico che diventa interpretazione ‘naturalistica’ della realtà, sviluppando una critica ricca e articolata (Mouffe, 2005; Swyngedouw, 2007, 2009; Zizek, 1999, 2000; Allmendinger, Haughton, 2012). Le posizioni fin qui elencate sono riconducibili a diversi filoni di pensiero: neomarxista e postmarxista, neoliberista, ‘libertario’, anar­ chico. Diverso è il senso e, specialmente, l’orientamento delle criti­ che postmoderne (riconducibili al pensiero di Foucault3, Lacan e Bourdieu4, Deleuze e Guattari5), che lavorano sull’analisi critica dei processi di conoscenza e di percezione/definizione della realtà, con­ tribuendo a capire la società e i suoi processi e strumenti di azione, inclusa la pianificazione. Il loro contributo in senso normativo è as­ sente, se mai indiretto; l’interesse, infatti, non è dare indicazioni in senso prescrittivo, quanto piuttosto concentrarsi sui motivi della predominanza (egemonia) di alcune concezioni, il cui superamento potrebbe però portare, seppure indirettamente e nel lungo periodo, a dei cambiamenti anche nelle pratiche. Che cosa sta accadendo alla pianificazione? Quali sono le traiet­ torie (dalle origini agli obiettivi) del suo agire pratico e il significato delle critiche che le sono mosse? Quali sono le vere sfide e cosa è 3Flyvberg, 1998; Yfrachel, 1998. -Mouffe, 1999; Hillier, Gunder, 2004. 5 Hillier, 2005.

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realmente in gioco? È (solo) il ‘piano’ (e che tipo di piano?), che ne­ cessita di un superamento? Da cosa e come potrà essere sostituito? Questo contributo mette quindi al centro il dibattito sulla pianifi­ cazione come forma di azione pubblica, per discutere quali trasfor­ mazioni sono in corso, quali sono proposte o auspicate, da quale idea di azione pubblica, di Stato e di società provengono e quali contribuiscono a realizzare. Alcune evidenze sono riportate da esempi presi dal contesto ita­ liano, di Roma nello specifico. L’esempio scelto è qui usato per ra­ gionare sui (supposti?) fallimenti del planning nel raggiungere i suoi obiettivi ‘pubblici’, sulla sua capacità o possibilità di rispondere ai ‘bisogni’ delle attuali condizioni di mercato; sul suo uso concorrente a determinare le ‘giuste condizioni’ per promuovere o stimolare l’iniziativa privata, e, più in generale, sulla sua capacità di governa­ re le trasformazioni spaziali.

3, Pianificazione e neoliberismo

A caccia di evidenze

La ricerca interdisciplinare all’interno della quale questo contri­ buto si colloca è indirizzata a verificare empiricamente l’interpreta­ zione neoliberista dei cambiamenti provocati dalla crisi dei modelli di accumulazione capitalistica che emerge a partire dagli anni set­ tanta e particolarmente dagli anni ottanta in poi. Questi cambiamenti riguardano una varietà di campi e di settori (il lavoro, l’educazione, Tamministrazione pubblica, ecc.) incluso il planning, e la loro interpretazione aH’interno di diversi quadri teori­ ci (e anche politici) è questione principale e contesa nel dibattito delle scienze sociali. Inoltre, tali cambiamenti costituiscono una sfi­ da per la pianificazione a causa degli impatti sui processi di struttu­ razione socio-spaziale e più precisamente sullo spazio urbano, e an­ che perché incidono sulle concezioni e i modi dell’azione pubblica, che è considerata come progressivamente sempre più subordinata all’interesse e all’iniziativa privata, o, da una prospettiva opposta, troppo restrittiva e vincolante. Più specificamente, la ricerca che origina questo contributo in­ tende verificare l’ipotesi di una variegatura’ neoliberista, come pro175

posta da Brenner, Peck e Theodore nel 2010, e prima da Peck e Tickell (2002), che dedicano un’attenzione specifica allo spazio e so­ stengono che «il neoliberismo sembra essere ovunque» (p. 380). Il concetto di neoliberismo ricorre sempre più frequentemente, an­ che nella Planning Theory, dove è considerato come «an essential descrip­ tor of the political trends and bureaucratic transformations forming the condi­ tions under which planners work» (Sager, 2011, p. 149). Diversamente da quanto rileva Tore Sager, e più in linea con Pa­ cata osservazione di Bob Jessop sulla globalizzazione, che dice che dovrebbe essere considerata come un explanandum piuttosto che come un explanans (Jessop, 2003, p. 1), assumiamo il neoliberismo come un’ipotesi da sottoporre a verifica empirica. Pertanto sono state prese in considerazione varie pratiche, all’in­ terno di uno stesso contesto geografico e socio-politico, quello di Róma, e di un orizzonte temporale di circa venti anni (dalla metà degli anni novanta alla prima decade degli anni Duemila), analizza­ te negli aspetti in cui il cambiamento si manifesta e nel tipo di tra­ sformazioni che comporta. Il focus è sullo specifico campo d’azione del planning: a questo proposito qui si presenta il ‘caso’ del water­ front di Ostia (il quartiere di Roma che si è sviluppato vicino ai resti dell’antica città romana e del suo porto). Il caso sarà introdotto da alcune necessarie informazioni di base sul sistema di pianificazione, sul quadro istituzionale, amministrativo e normativo. Rispettando la metodologia adottata dal gruppo di ricerca, la storia è stata deco­ struita attraverso il modello analitico definito da Lascoumes e Le Galés (2012), articolato in cinque elementi: 1. attori, 2. rappresen­ tazioni, 3. istituzioni, 4. processi, e 5. risultati - seppure alcuni di questi saranno restituiti qui congiuntamente, e l’ordine di appari­ zione in questa argomentazione è inverso a quello sopra riportato.

4. Il contesto e il caso Il contesto

La pianificazione è considerata da un lato la forma di azione pubblica che è (finora) rimasta più stabile nonostante la deregola­ zione neoliberista; dall’altro si evidenzia quanto sia profondamente soggetta a quella stessa deregolazione e al mercato. 176

Più specificamente, la storia urbanistica italiana fa pensare a due opposte interpretazioni della realtà di origine presocratica: tutto cambia, senza che muti l’essere delle cose (Eraclito); niente cambia, operando però una radicale trasformazione (Parmenide - stasis nel duplice senso greco di immobilità e rivoluzione). Infatti, apparente­ mente si potrebbe sostenere che FItalia abbia un sistema di pianifica­ zione molto stabile, dato che la legge fondamentale urbanistica (leg­ ge 1150) è datata 1942 ed è ancora in vigore. Lungo il corso dei de­ cenni si collocano diversi tentativi di rivedere questa legge, di fatto falliti6. Cambiamenti parziali sono stati introdotti attraverso vari provvedimenti legislativi, così che la pratica di pianificazione si è tra­ sformata costantemente grazie ad apparentemente ‘minori’ variazio­ ni, senza ripensare seriamente il quadro generale e complessivo. Gli anni novanta rappresentano una fase particolarmente impor­ tante nel processo di riforma della pianificazione. Questo processo in realtà ha seguito un doppio percorso, guidato da concezioni dello Stato diverse tra loro e da altrettanto diverse concezioni della rela­ zione tra autorità centrali e locali, che è risultato prima di tutto un cambiamento inter-istituzionale e dì governance. In particolare, anche sulla spinta di una progressiva europeizzazione delle politiche pubbliche in Italia, le relazioni tra Stato nazio­ nale e regioni si sono trasformate nel senso di nuove forme di sussi­ diarietà. Nonostante sia stato riconosciuto che questo, in una prospettiva di policy, abbia portato a una nuova ‘mutua fertilizzazione’ (Guaiini, 2001, p. 755), se si guarda indietro al suo impatto sulla pianifica­ zione l’interpretazione che se ne può dare è piuttosto differente. Infatti, visioni conflittuali e confliggenti sul ruolo degli attori pub­ blici (lo Stato, le autorità locali e le loro relazioni reciproche) hanno prodotto anche arrangiamenti di pianificazione piuttosto instabili e contraddittori. Durante gli anni novanta, si registra un lungo tentativo di redigere una nuova legge urbanistica, presentata in varie versioni e proposte7 e 6 Per una ricostruzione storica del sistema di pianificazione italiano, si veda: G. Campos Venuti, 1967. Per il tema dell’innovazione nel dibattito italiano di pianifica­ zione si vedano: Nigro, 1997; Mazza, 1997 e Palermo, 2001, mentre, da una prospet­ tiva giuridica si veda Urbani, 1995, 1998, 2000. 7 Le due proposte sono state elaborate da esperti delle due opposte coalizioni (centro-sinistra e centro-destra), che hanno anche tentato (invano) di arrivare ad una

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dibattuta a livello di governo centrale all’interno di una commissio­ ne parlamentare ‘bipartisan’. Nello stesso periodo, però, un’altra legge, sempre di livello na­ zionale, indirizzata verso le riforme istituzionali e in particolare ver­ so la devolution (142/90), ha conferito maggiore autonomia alle Re­ gioni completando il processo di decentramento che include il tra­ sferimento alle Regioni delle competenze di pianificazione, compe­ tenza che precedentemente spettava allo Stato nazionale; il processo era iniziato nel 1972. Dal 1995 in poi, le Regioni hanno iniziato ad elaborare loro pro­ prie leggi urbanistiche. Questo processo ha prodotto due principali risultati: ha portato a una grande differenziazione all’interno del territorio nazionale per quanto concerne approcci al tema dell’uso del suolo e dello sviluppo spaziale/urbano; inoltre ha contribuito (seppure indirettamente e ‘involontariamente ’) all’indebolimento del processo di riforma della legge urbanistica a livello nazionale, nonostante il fatto che le leggi regionali devono comunque essere coerenti con quella nazionale e che un quadro di riferimento di li­ vello nazionale è quindi ancora necessario. Ancora, un’altra iniziativa di livello nazionale è stata presa in quegli stessi anni, durante i quali un ruolo chiave è stato giocato dall’allora Ministero delle Infrastrutture. QaestoJja^.m ventaglio di nuovi strumenti8, i così dettC/Programmi Complessi’./H nome scelto chiarisce già le intenzioni, dato che quesiPprogrammi aspirano a trattare e risolvere questioni complesse, di riqualificazioproposta unitaria, a una qualche forma di convergenza. Le proposte erano chiamate con i nomi degli esponenti /esperti che le stavano elaborando: Montini per il centro­ sinistra e Lupi per il centro-destra (lo stesso a cui si deve la proposta attualmente in discussione). 8 Attraverso le leggi 179/92 e 493/93, e in seguito attraverso decreti ministeriali. Più in dettaglio: la legge 179/92 ha introdotto i ‘Programmi integrati’ (Print, ex art. 16) e l‘Programmi di Riqualificazione Urbana’ (PRIU, ex art. 2). La legge 493/93 ha introdotto i ‘Programmi di Recupero Urbano’ (PRU, ex art. 11). Inoltre, nel 1998 e nel 2001, attraverso atti del Ministero sono stati lanciati i così detti ‘Contratti di Quar­ tiere’ (CdQ), mentre un decreto (ex d.m. n. 1169 del 1998) del Ministero dei Lavori pubblici, ha introdotto I ‘Programmi di Riqualificazione Urbana e di Sviluppo Soste­ nibile del Territorio’ (PRUSST). In riferimento a questi cambiamenti delle logiche e delle pratiche di pianificazione si è sviluppata un’ampia e variegata letteratura. Si ve­ dano ad es.: Cremaschi, 1998, 2001, 2002; Karrer et al., 1998; INU - Ministero Lavori Pubblici, 1999; FORMEZ, 2000; Palermo, 2001; Ricci, 1998; Salone, 1999. Per inqua­ drare il caso italiano in una prospettiva internazionale si veda Guaiini, 2001.

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ne e rinnovo urbano, tenendo insieme aspetti spaziali, socio-econo­ mici, ambientali, con un orientamento strategico. Questi programmi hanno assunto tre principali significati, essen­ do pensati: a) come la risposta ai limiti della pianificazione ‘tradi­ zionale’, dei suoi processi e strumenti; b) come uno strumento di sviluppo locale; c) come uno strumento di riqualificazione e rinnovo urbano. È il primo significato a divenire presto il più dibattuto, prima di tutto perché se ne danno due opposte interpretazioni: da una parte sono pensati come un modo nuovo (più ‘efficace’) per at­ tuare gli obiettivi definiti dal piano regolatore (PRG, che la legge 1150 stabilisce come strumento fondamentale per il governo delle trasformazioni spaziali a livello locale, comunale); dall’altra, al con­ trario, come modo per superare quello stesso strumento, la sua ra­ zionalità e le sue procedure. Tali programmi determinano anche cambiamenti rispetto agli attori coinvolti nel processo di pianifica­ zione e alle loro relazioni reciproche, che virano progressivamente verso forme di partenariato pubblico-privato (PPP). Nel caso di Roma in particolare, i nuovi strumenti entrano in mi­ sura considerevole nel piano comunale in corso di redazione negli stessi anni (dalla metà degli anni novanta fino alla prima decade del Duemila9), proposti come suoi strumenti di attuazione. Un ulteriore decisivo cambiamento avviene con fintroduzione di un altro strumento ‘di attuazione’ chiamato ‘Accordo di Programma’. Questo è stato introdotto attraverso il decreto legislativo 267/2000 (art. 34). Consiste in una procedura amministrativa semplificata che per­ mette di cambiare il piano e le sue previsioni più direttamente e im­ mediatamente, senza dover ricorrere alle varianti di piano che rappre­ sentano invece la procedura ‘ordinaria’ stabilita dalla legge urbanistica. Questo strumento, inoltre, consentendo accordi ‘uno a uno’ com­ porta il rischio di svuotare i contenuti generali e la struttura del piano attraverso singoli cambiamenti. Similmente a quanto Lord e Tewdwr-Jones hanno riportato per la Gran Bretagna, il nostro obiettivo qui è quello di analizzare e di­ scutere se e come i cambiamenti di questi ultimi decenni, cui ab­ biamo accennato, possano essere interpretati come «recalibration of planning from its regulatory function to a systemically more permissive ac­ tivity» (2014, p. 347), con Pintento di trasformare la pianificazione 9 II nuovo piano sarà adottato nel 2003 e approvato definitivamente nel 2008.

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in un’attività più allineata alle logiche di mercato, per capire in che cosa consiste, in sostanza, la svolta ‘neoliberista’. Si tratterebbe, possibilmente, di individuare il confine tra ‘flessi­ bilità’ (una certa flessibilità è abbastanza ampiamente auspicata, sebbene proprio questa sia considerata una delle parole chiave della neoliberalizzazione) e ‘arbitrarietà’: confine particolarmente sfug­ gente in contesti, quale quello di Roma, caratterizzati da istituzioni ‘deboli’ e da elevati rischi di ‘collusione’1011 . Un’ultima considerazione deve essere fatta proprio rispetto al contesto socio-economico e politico specifico. L’economia di Roma è ancora in larga misura un’economia locale, strettamente connessa alla terra (al suolo) con un’intensa speculazione fondiaria e immo­ biliare (tanto che è stata interpretata come un’economia precapitali­ stica, mentre invece rendita e speculazione risultano qui strumenti principali di accumulazione capitalistica; Toscano, 2002)11 che deli­ nea una forma di capitalismo ‘neomunicipale’ (Violante, Annunzia­ ta, 2011; Pizzo, Inwinkl, 2014; Pizzo, 2014). Élite economiche e po­ litiche storicamente tendono a coincidere, e corrispondono a un numero (contenuto) di famiglie legate alla proprietà fondiaria risa­ lente all’ex Stato Pontifìcio (quindi di origine preunitaria), che han­ no condizionato in modo decisivo le scelte di sviluppo urbano, in particolare dopo il trasferimento della capitale a Roma, determi­ nando altresì un sistema di governo/gestione in cui la burocrazia ri­ veste un peso soverchio. Sono queste caratteristiche che possono esse­ re esplorate come forma specifica di variegatura neoliberista (Bren­ ner, Peck, Theodore, 2010), tenendo presente che le forme di dere­ golazione che sono tipicamente attribuite alla neoliberalizzazione ri­ schiano di confondersi, nel corso del tempo, con tentativi di vario segno di modificare il ‘modello’ socio-economico. Politiche post-keynesiane risultano ‘occultate’ all’interno e da un contesto ancora mol­ to impegnato in problemi di efficienza amministrativa12*. Non po10 Per il modo specifico in cui si ricorre al concetto di collusione si veda: Pizzo, Di Salvo, 2015). 11 Per il ruolo del suolo e della rendita nel processo di accumulazione si fa riferi­ mento a Harvey, 1985; Logan, Molotch, 1987; Peck, Tickell, 2002; Peck, Theodore, Brenner, 2009. 12 Questi, non a caso, sono al centro degli obiettivi delle attuali proposte di tra­ sformazione della città in senso metropolitano (città metropolitana), interpretata principalmente come riforma amministrativa (Pizzo, Inwinkl, 2014).

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tendo sviluppare compiutamente questo tema - che pure si ritiene di fondamentale importanza - si accenna qui solo al fatto che il ‘gioco’ (non necessariamente consapevole) tra super-regolamenta­ zione e deregolazione a cui si è accennato avviene (anche) come ‘gioco’ (con ruoli e regole variabili) a diverse scale (nazionale, re­ gionale e locale) e può essere interpretato nella prospettiva delle 'politics of scale" (Swyngedouw, 1997a, 1997b; Cox, 1998; Brenner, 2000). L’esempio sopra citato del ‘doppio binario’ (che è un doppio livello e una doppia scala di azione, nazionale e locale) sul quale, nei fatti, si è trasformata la disciplina urbanistica nel corso degli an­ ni è sufficiente, credo, a capire il meccanismo e lo spazio ambiguo nel quale le pratiche di neoliberalizzazione agiscono. Il caso

Il caso del waterfront di Ostia, attraverso il susseguirsi di rappre­ sentazioni, di configurazioni dei processi e delle relazioni tra attori che ha generato, permette di ricostruire aspetti fondamentali dei cambiamenti che hanno segnato la pianificazione come forma di azione pubblica lungo l’orizzonte temporale che corrisponde all’emergere delle politiche e pratiche neoliberiste in Italia. Lungo i de­ cenni qui considerati, per il lungomare di Ostia sono stati elaborati otto diversi progetti, alcuni dei quali includevano alternative pluri­ me per un totale di 10 diverse proposte, che corrispondono a diver­ se configurazioni di attori, meccanismi di attuazione e forme di ra­ zionalità urbanistica, raggruppabili in cinque diversi approcci. In una prima fase13 il Ministero delle Infrastrutture aveva pro­ mosso uno studio di fattibilità. Gli attori coinvolti erano pubblici (i più importanti erano lo Stato nazionale, che agiva attraverso il Mi13 Per essere precisi, un primo progetto è stato elaborato già negli anni ottanta. Si veda il: ‘Progetto Litorale’ - Ufficio Speciale Tevere e Litorale del Comune di Roma, che consiste in un progetto molto più ampio di quelli elaborati successivamente, e che include un territorio più vasto, non limitato ad Ostia. Questo era stato approvato nel 1986, ma mai realizzato. In seguito servirà da scenario di riferimento per le proposte successive. Alla fine degli anni novanta, FAssociazione dei balneari incaricò un noto architetto (Paolo Portoghesi) di elaborare un progetto di riqualificazione per Ostia. Si trattava di un progetto vasto e molto ambizioso (prevedeva cinque isole artificiali lun­ go la costa, un casinò, un tunnel sotto il fiume Tevere di connessione diretta con l’a­ rea di Fiumicino e un gran numero di strutture turistiche e di servizio), che rimase irrealizzato.

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nistero, e il Comune di Roma, che agiva attraverso una divisione operativa/tecnica dedicata alle periferie urbane), e le loro relazioni reciproche sono ascrivibili al caso della cooperazione o della govern­ ance interistituzionale. Il Comune di Roma ha partecipato al bando preparato dal Mini­ stero per la redazione di uno studio di fattibilità. Questo era indiriz­ zato a un programma di interventi per il lungomare di Ostia e i quartieri limitrofi, per l’implementazione del quale si ipotizzò la co­ stituzione di una STU - ‘Società di Trasformazione Urbana’. Da un punto di vista giuridico questa è concepita come un soggetto priva­ to; pertanto è regolata dal diritto privato, e il pubblico diviene parte dell’impresa come uno tra i partecipanti. Ruoli e poteri sono de­ terminati dalla quota percentuale che ciascun membro della società possiede. Nonostante il passaggio a forme di partenariato pubblico­ privato (PPP) abbia ricevuto critiche e sia stato considerato ‘di per sé’ come un fallimento del pubblico, o come un chiaro segno della sua crescente debolezza, l’approccio fin qui era ancora abbastanza cooperativo, e ugualmente il tipo di ‘razionalità’ che guidava e so­ steneva il progetto in questa fase. In questo stesso periodo sono stati elaborati tre diversi progetti, uno dei quali provvedeva anche ad ipotizzare delle varianti, da rea­ lizzarsi appunto attraverso la STU. Gli attori pubblici coinvolti era­ no lo Stato nazionale, specificamente rappresentato dal Demanio Pubblico, il Comune di Roma, il Municipio. Tra gli attori privati un ruolo chiave è quello giocato (da sempre, e ancora oggi) dall’Asso­ ciazione dei balneari. Nonostante le tre varianti, e l’attenzione dedi­ cata all’equilibrio finanziario e ai costi e benefici potenziali per gli investitori privati e pubblici, questi tentativi sono falliti: la motiva­ zione addotta, dagli stessi rappresentanti del Comune di Roma, è che il progetto elaborato non garantiva i risultati che gli investitori privati attendevano. In seguito il progetto verrà trasformato per divenire sempre più ‘flessibile’. Da un primo progetto unitario si è poi giunti a una sua articolazione in diverse aree di interesse. Sono stati introdotti progressivi ‘adeguamenti’ ai piani finanziari, al fine di rispondere alle esigenze espresse dagli attori privati, che possono essere ovviamente interpretati come un altrettanto pro­ gressivo abbassamento delle richieste del pubblico. In ogni caso, tutte queste proposte sono state abbandonate, fino 182

ad optare per un diverso approccio, quello della ‘concessione per la­ vori pubblici’. In questo caso lo Stato da mandato ai privati di realiz­ zare lavori di pubblico interesse. La relazione pubblico/privato risulta quindi molto meno cooperativa, e molto più assimilabile ad una rela­ zione di tipo «.principal agent», così come descritta da Stocker (1998). Un ulteriore cambiamento di rotta porterà poi alla ‘Società di Gestione del Risparmio’ (SGR)14. Questa svolta coincide con un cam­ biamento nell’assetto politico del Consiglio comunale. Nel 2008, infatti, un sindaco di centro-destra vince le elezioni e stabilisce una nuova coalizione, dopo circa quindici anni di maggioranza di cen­ tro-sinistra. La SGR si configura come una ‘Società per azioni’ e testimonia di un orientamento e di un approccio in cui la dimensione finanziaria risulta predominante o, più precisamente, dell’affermarsi del nuovo imperativo della gestione finanziaria delle trasformazioni urbane. Al centro della nuova impostazione c’è anche un’interpretazione della riqualificazione urbana come forma di in vestimento di capitale. Il ricorso ad una SGR avrebbe inoltre potuto/dovuto portare ad una maggiore efficienza, quantomeno a livello economico-finanziario. Al contrario, sono proprio le ‘criticità’ emerse dal programma finan­ ziario a portare alle più recenti svolte nella storia del progetto per il lungomare. Infatti, nonostante l’elevata redditività dello scenario ot­ timale (evidenziata dall’approccio per scenari e dalle relative valuta­ zioni economiche), anche nella migliore fra le proposte considerate emergeva un’elevata esposizione iniziale, considerata un rischio per gli investitori. Questa sarebbe riconducibile al rischio d’impresa, parte costitutiva del passaggio ad una logica di mercato. Ma questi aspetti non sono evidentemente risultati corrispondenti agli obietti­ vi e alle attese degli attori coinvolti, e così si è rinunciato anche a questa soluzione, portando poi, come ultimo tentativo, a prefigurare la vendita dell’intera area e del relativo progetto ad investitori pri­ vati (stranieri), anche questa fallita10. 14 La forma della SGR è stata introdotta nella legislazione nazionale in seguito alla Direttiva Europea 85/611/CEE. H Gli investitori che hanno manifestato un interesse per l’acquisto erano arabi. Dopo alcuni incontri iniziali è emerso che si aspettavano di poter avere una maggiore autonomia nella definizione del progetto (mentre questo era già stato stabilito, quan­ tomeno nei suoi caratteri fondamentali). Inoltre esistevano una serie di vincoli di va­ ria origine (ambientali, paesaggistici e storico-culturali, oltre ad altri di natura urbani-

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Più di recente il progetto - concepito come una somma di sotto­ progetti - è stato ridefinito, nei suoi obiettivi, nel design e nelle ca­ ratteristiche del piano finanziario. Sono state delineate quattro di­ verse strategie, a ciascuna delle quali corrisponde una diversa confi­ gurazione della partnership, che riguardano: la valorizzazione del lungomare; i Programmi Complessi già previsti; le infrastrutture principali e il trasporto pubblico. I problemi più recenti emergono già a livello interistituzionale, coinvolgendo il Ministero dei Beni cul­ turali e ambientali (Sovrintendenza), e il Demanio pubblico (statale).

5. Osservazioni conclusive

Un argomento ricorrente portato come segno del passaggio a pra­ tiche neoliberiste nel campo della pianificazione è quello del ricorso a forme di partenariato pubblico/privato (PPP) in cui un peso cre­ scente è assunto dai privati e un peso inversamente proporzionale resta al pubblico. Da un punto di vista del tutto generale, le PPP so­ no un modo per strutturare i rapporti S tato/mecca to, che non posso­ no essere ignorati, pertanto dovrebbero essere valutate rispetto a le­ gittimità ed efficacia dai risultati che permettono di raggiungere. È interessante notare che le PPP sono state definite come una ‘prospettiva aperta’, piuttosto che come un concetto definito, poiché possono essere utilizzate con più significati e intenzioni, come un’ipo­ tesi emergente per la gestione pubblica, come principio guida per la riforma della pianificazione, o come strumento ausiliario per l’at­ tuazione di un progetto o per la costruzione di un’agenda di politi­ che pubbliche (Codecasa, 20 IO)16. Stocker (1998), così come Powell e Dowling (2006) presentano una gamma di PPP, che testimoniano di una necessità di co-produzione e di condivisione (che includono

stica, connessi alla disciplina esistente, anche alle stesse previsioni del PRG), che im­ ponevano una pesante ipoteca sulle possibilità di trasformazione che i potenziali ac­ quirenti si aspettavano, quindi anche questo tentativo fu abbandonato. 16 In un contesto differente, una considerazione simile è stata proposta a C. Offe, il quale (parlando in realtà della governance) scriveva: «Mit wem kooperiert der Cooperative StaaC und welche Rolle spielt bei der (‘informellerì) Auswahl von Verhandlungspartner deren Veto-Macht?» [Offe, 2008, p. 72 - Con chi coopera lo ‘Stato cooperativo’ e quale ruolo gioca il potere di veto dei partner nelle negoziazioni, nella scelta ‘informale’ degli stessi partner?, traduzione dell’autore].

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la conoscenza) delle risorse e delle responsabilità, che può portare a cambiare profondamente gli obiettivi e anche la cultura dei partner, e anche per l’emergere di network a sostegno delle "regole del gioco’. Sono i diversi modelli di PPP, e la scelta di uno tra i diversi possibi­ li, a diventare questione politica (Lacoumes, Le Galès, 2007, p. 9). In altri termini, possiamo dire che le PPP, o meglio, le forme specifiche di PPP per cui si opta sono un costrutto socio-politico. Es­ se dipendono dalle capacità di ogni attore (conoscenze, competen­ ze, abilità, relative all’obiettivo per cui il PPP è costruito - per i suoi specifici contenuti, anche finalizzati alla negoziazione), e da uno specifico contesto politico ed economico, nel quale sono radicate, andando ad incidere su specifiche strategie di accumulazione.

La forma di PPP contribuisce alla strutturazione del processo e alla determinazione dei suoi risultati. L’esempio riportato evidenzia piuttosto chiaramente che non è il ricorso alle PPP in generale, ma la particolare forma del partenariato che deve essere esaminata per valutare quali interessi sono stati ’portati avanti (e di chi), quali obiettivi perseguiti (e per chi) e quali sono i costi o le negatività (e chi le paga). Se guardiamo le configurazioni che le PPP hanno as­ sunto lungo l’arco temporale considerato, possiamo notare prima di tutto una certa "stabilità’ degli attori coinvolti: sono le relazioni re­ ciproche a cambiare e il peso relativo che ciascun attore assume, che cambiano a seconda dei diversi approcci tentati. Nella prospettiva di questo contributo, quello che è interessante notare è il fatto che, nonostante alcuni cambiamenti nella configurazione delle PPP e dei significati che hanno assunto nel tempo, queste condividono una stessa logica di base, che ha condotto alla più "semplice’ tra le varie forme descritte da Stocker, e cioè il rapporto principal-agent’. Ma allo stesso tempo, la forma che la "ritirata’ del pubblico assu­ me nel caso presentato non si sostanzia in una rinuncia a guidare il processo, né nel riconoscere come necessità il venire a patti con i privati ma, piuttosto, nel concedere uno spazio progressivamente crescente all’interesse privato senza riuscire comunque a realizzare gli obiettivi pubblici, ovvero la soluzione dei problemi per risponde­ re ai quali era pensato il progetto. Se, assumendo un punto di vista del tutto diverso, si prova a con­ siderare lo Stato come chiamato a creare le "giuste condizioni’ per-

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ché gli attori privati possano raggiungere i loro obiettivi, non si re­ sta meno sconcertati. L'interpretazione che vede il fallimento del progetto come causato dal troppo alto rischio che gli investitori avrebbero dovuto assumere è particolarmente interessante giacché sembra che il pubblico non si sia limitato ad agire al fine di garanti­ re ai privati un reddito elevato, ma anche per limitare i possibili ri­ schi - il che è piuttosto assurdo, sia in una prospettiva centrata sullo Stato, sia in una centrata sul mercato, dato che, nella stessa teoria economica ‘classica’, una parte rilevante del guadagno degli investi­ tori privati è giustificato proprio dal rischio d'impresa. Questo comportamento del pubblico è quindi controverso sia dal punto di vista dello Stato, sia da quello del mercato. Infatti, in una prospetti­ va di mercato, il ruolo che lo Stato ha giocato sarebbe interpretato come un'interferenza nel meccanismo di ‘libera concorrenza’ tra i potenziali investitori. Un altro punto critico nel ruolo svolto dal soggetto pubblico è che non ha limitato la sua azione a dare regole generali e a definire gli obiettivi pubblici, ma ha elaborato progetti molto dettagliati, co­ sa che si è dimostrata particolarmente problematica dato che ha portato, nelle varie fasi: a) a dover modificare i progetti, comportan­ do inevitabilmente, oltre alla dilatazione dei tempi, che è nota, au­ menti di costo - tutto a carico della PA (e si direbbe che questo aspetto della storia non sia mai stato preso in considerazione); b) al­ l’abbandono dell’impresa, perché il progetto non rispondeva agli obiettivi degli investitori (come è successo in particolare con l’ultimo tentativo, quello che prevedeva la vendita). Com’è facile intuire, è difficile trovare un investitore i cui obiettivi trovino risposta adegua­ ta e soddisfacente in un progetto già definito da altri, e guidato da logiche diverse. In questo senso, il fatto di avere stabilito un proget­ to dettagliato potrebbe essere interpretato come una pre-limitazione degli investitori interessati. Nel corso della vicenda, questo aspet­ to non risulta essere emerso, né tantomeno affrontato. Ciò che emerge piuttosto chiaramente dal caso in esame è che, almeno apparentemente, sia l’interpretazione del pubblico come ‘agente’ in un contesto neoliberista, sia del pubblico come agente burocratico e centralizzante, sono entrambe insoddisfacenti e non permettono di capire che cosa accade ‘davvero’. Lo Stato non limita il suo potere nel dare poche, ma chiare e inequivocabili, regole da applicare, non governa o guida il cambiamento attraverso un simile 186

stile di regolazione, né tantomeno è in grado di definire il cambia­ mento in ogni singolo aspetto al fine di ottenere i risultati attesi.

Certamente- si^evidenzia un -divario crescente tra discorsi^sulla pianificazione e il modo in cui processi spaziali-territoriali si realiz­ zano^ Questo problema non è nuovo, maTferrnìnfBèlla questione' molto dibattuta, del gap tra teoria e pratica, stanno cambiando. Ciò che emerge è una disciplina che sembra arrancare, e in alcuni casi lottare, per riuscire ad agire in una realtà sempre più comples­ sa, nel contesto politico postkeynesiano e nel mercato globalizzato. Ma questa immagine dipende in gran parte da ciò che intendiamo per pianificazione e dal modo in cui concettualizziamo il suo ruolo pubblico, vale a dire il suo porsi come strumento di governo delle trasformazioni, con lo Stato da una parte e una pluralità di attori privati dall’altra. Nel caso qui esaminato, alcune peculiarità legate al contesto (lo­ cale e sovralocale) assumono un peso particolare e richiedono di es­ sere prese più seriamente in considerazione (regime dei suoli e que­ stione della rendita immobiliare urbana). E forse utile ricordare una condizione che è stata evidenziata da S. Cassese (1998), di uno Stato che è rimasto a metà strada tra la modernizzazione e il sottosvilup­ po, e che oscilla tra autoritarismo e liberalismo, senza essere in gra­ do di ottenere gli obiettivi che si propone. Tale incapacità è in gran parte attribuita a un’amministrazione obsoleta e alla burocrazia non a caso due dei nemici principali della neoliberalizzazione (in questo senso, la riforma amministrativa in corso potrebbe portare a chiarire la direzione che si sta intraprendendo). Queste considerazioni portano a chiedersi in che senso i processi e i risultati brevemente descritti testimonino di una svolta in senso neoliberista e, in particolare, se permettono di generalizzare, quan­ tomeno a livello nazionale, le conclusioni che se ne possono trarre. In estrema sintesi, mi sembra che emergano due questioni chiave, strettamente interrelate, che possono essere interpretate come ingre­ dienti fondamentali della variegatura’ neoliberista nel caso esposto. 1) La questione della riforma amministrativa (invocata a livello locale, nazionale e internazionale), evidenzia come il confine tra ef­ ficienza, flessibilità e deregolamentazione sia sempre più sottile. Que­ sta tematica emerge chiaramente nel modo di interpretare e prati-

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care la pianificazione; 2) in un contesto caratterizzato da un’ammi­ nistrazione complessa e spesso criticata perché non efficiente, e da un altrettanto criticato potere della burocrazia, la deregolazione rie­ sce a farsi strada (anche) attraverso forme di ‘super-regolazione’, in­ tendendo con questo la spesso estrema complessità di regole, che aumenta con l’aumentare dei livelli di governo coinvolti, e che nella pratica può tradursi in arbitrarietà e in un potere soggettivo che ri­ schia di confondersi con forme di collusione (se non di corruzione). Anche questo trova un evidente riscontro nelle pratiche di pianifica­ zione, come diverse vicende recenti ampiamente testimoniano17.

17 Per il caso di Roma in particolare, si rimanda a d’Albergo, Moini, 2015.

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Capitolo nono Le politiche di sicurezza urbana in Italia: neoliberismo e nuova punitività di Giuseppe Ricotta

L Introduzione A partire dagli anni ottanta, il mutamento nel campo delle politi­ che del controllo e della sicurezza è stato influenzato dall’affermarsi di principi neoliberisti, da un lato, e neoconservatori, dall’altro. Que­ sti principi hanno visto come contesti nazionali di elaborazione e implementazione gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Nel caso italia­ no, i nuovi modelli di politiche di sicurezza hanno trovato traduzio­ ne in un contesto con peculiarità sia di tipo politico-istituzionale, sia di tipo socio-demografico e criminale. Le politiche di carattere neoliberista perseguono la sicurezza delle città attraverso interventi di nuova prevenzione, fondati su strumenti di azione extrapenali, su partnership locali multi-agency, sul ricorso a tecnologie per la sorveglianza, ad arredi urbani con fun­ zioni dissuasive, con una maggiore attenzione alla riduzione del danno, alla sicurezza percepita, alla lotta al degrado urbano e alle inciviltà, per l’aumento della qualità della vita di residenti, city users, turisti; le politiche di impronta neoconservatrice prediligono inter­ venti penali di tipo punitivo e dai tratti populisti1. A partire da una storia o genealogia del presente (Foucault, 1977), il capitolo analizza: nel primo paragrafo, il modo attraverso cui il

1 Già in altra sede (Ricotta, 2012) ho approfondito l’interpretazione delle politiche di sicurezza urbana in Italia nell’ottica del populismo. In questa sede verranno riprese alcune delle considerazioni già allora trattate, accentuando maggiormente se e in che modo i principi neoliberisti, insieme ai principi neoconservatori, hanno influenzato le politiche di sicurezza per la città.

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campo delle politiche di sicurezza, con particolare riferimento alla cosiddetta sicurezza urbana, è stato informato da principi tanto neoliberisti quanto neoconservatori; nel secondo paragrafo, le con­ vergenze delle politiche di sicurezza in Italia con questi nuovi mo­ delli di azione pubblica. Le conclusioni analizzano i limiti della produzione di politiche per la sicurezza urbana in Italia degli ultimi ventanni: da un Iato, micro politiche locali, in buona parte dei casi di prevenzione situa­ zionale, fondate su iniziative dei sindaci, che non si sono istituzio­ nalizzate a livello nazionale in nuove pratiche di politica urbana per la sicurezza; dall’altro, politiche simboliche di tipo punitivo promos­ se sia dal governo nazionale che da numerosi sindaci, in reazione a specifici eventi di cronaca, con obiettivi volti alla rassicurazione e al consenso politico.

2. Neoliberismo e rappresentazioni sociali delle politiche di sicurezza Le esperienze di governo degli anni ottanta del Novecento dei Conservatori in Gran Bretagna e dei Repubblicani negli Stati Uniti d’America possono essere interpretate come il centro di elaborazio­ ne delle rappresentazioni sociali, prima ancora che dei modelli di policy, che hanno informato negli ultimi tre decenni, al di là e al di qua dell’Atlantico, il campo della sicurezza, della penalità e delle politiche mirate al decoro urbano. Queste esperienze hanno favorito la traduzione a livello globale di principi quali la deregulation nel settore economico, la riduzione delle tasse come valore in sé, il taglio delle spese per il welfare, la vi­ sione manageriale per la riorganizzazione dell’azione pubblica o new public management. Ai principi neoliberisti si sono associati valori neoconservatori per la guida della vita sociale che spingono per «ingiungere ai marginali sociali precise discipline morali» (Ceretti, 2007, p. 13). I lavori del criminologo David Garland (2001, 2007), che si fon­ dano sull’analisi dei due summenzionati contesti nazionali, sono conseguentemente divenuti un modello di riferimento per interpre­ tare ciò che è avvenuto anche in altri Paesi nel campo delle politiche di sicurezza. Le critiche ai costi delle politiche sociali, argomentazione cen-

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trale del neoliberismo, è una delle motivazioni di fondo anche per le critiche rivolte al welfare penale: le politiche correttive, rieducati­ ve, di intervento socio-psicologico sui reclusi, in particolare, sono state accusate tanto di inefficacia (nothing works) quanto di assisten­ zialismo e paternalismo, colpevoli quindi di favorire il diffondersi di una cultura di dipendenza dalle prestazioni dello Stato e di una deresponsabilizzazione del cittadino fruitore, oltre che di non aver im­ pedito un aumento dei reati. In tal senso, le critiche al welfare penale possono essere lette co­ me l’applicazione a un settore specifico dell’azione pubblica della più ampia crisi di legittimità che ha attraversato il welfare statale come principio regolatore della società postindustriale. Per altri versi, l’avvento di una nuova punitività in campo penale, in luogo dei principi correzionalisti tipici del processo di civilizzazione mo­ derno, è stato letto come diretta conseguenza dell’arretramento, negli ultimi trent’anni, dello Stato dal suo ruolo di protettore so­ ciale (Bauman, 2000; Castel, 2004; Wacquant, 2000)2. In questo mutamento di clima, l’enfasi nel dibattito penale e criminologico tende via via a spostarsi dal reo al delitto, e quindi, dal­ l’obiettivo del reinserimento sociale a quello della giusta retribuzio­ ne, avvalorando l’idea che le misure punitive piuttosto che quelle correttive siano la risposta non solo più efficace ma, insieme, più equa e legittima nei confronti del crimine. La proposta neoconservatrice è favorevole a un ritorno ai valori tradizionali, a una maggiore disciplina e ordine sociale, temi che sono stati favorevolmente raccolti da ampie fasce dell’elettorato, della classe media in particolare, come la risposta più credibile per contrastare un cambiamento sociale percepito come minaccioso. Sviluppo industriale e processi di modernizzazione, infatti, da un Ia­ to sono stati il motore per faumento del benessere e delle libertà individuali, dall’altro, la causa dell’aumento dei reati, e allo stesso tempo, di uno sviluppo urbano disarmonico, rapido, con la relativa esplosione di periferie, slums, banlieues, favelas. Il sapere esperto che ha prodotto le argomentazioni per le politi­ che neoliberiste, da un lato, neoconservatrici, dall’altro, può essere

2 Wacquant (2000, p. 12), in particolare, connette «declino dello Stato economico, diminuzione dello Stato sociale e glorificazione dello Stato penale».

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individuato nella svolta che si è avuta a partire dagli anni settanta/ottanta nel campo criminologico, soprattutto negli Stati Uniti, a favore di paradigmi interpretativi meno fondati rispetto al passato sull’eziologia (sociale, culturale, psicologica) di devianza e crimine. Facciamo riferimento, da un lato, alle «criminologie della rivincita», che possono essere lette come reazione conservatrice agli approcci di critica radicale alle istituzioni del controllo e della pena e che si fondano su una «separazione operata ideologicamente della que­ stione criminale dal suo contesto storico e sociale» (Melossi, 2002, p224); dall’altro, alle «criminologie del sé», o «criminologie della vita quotidiana», influenzate dalle teorie della scelta razionale (Garland, 2007). Per Garland, infatti, vi è la copresenza di una criminologia del sé, che «paragona gli autori di reato a consumatori normali e razionali, proprio come noi», e di una criminologia dell’altro, «del­ l’emarginato pericoloso, dell’estraneo che incute paura, dell’escluso e dell’arrabbiato» (2007, pp. 241-242)3. Dalle rappresentazioni alle politiche^ la stessa dialettica neoliberismo/neoconservatorismo si riscontra nei due modelli di intervento che dominano il campo della sicurezza negli ultimi trenta/quarant'anni: la compresenza di politiche neoliberiste «adattive» e di politi­ che neoconservatrici punitive. Le prime fondate su politiche locali di sicurezza urbana, che - in risposta alla crisi fiscale e di efficacia del sistema penale - mettono in campo strumenti non statuali e al di fuori dei tradizionali campi d’azione del sistema penale, attraver­ so una governance multilivello fondata su partnership territoriali, al­ leanze pubblico-privato, attivazione comunitaria e cittadinanza atti­ va, tecnologie del controllo e arredi urbani dissuasivi; le seconde, neoconservatrici, essenzialmente espressive e populiste, di acting out, che promettono certezza e inasprimento delle pene e tolleranza zero. Le cosiddette politiche di nuova prevenzione (Selmini, 2004), rappresentano il modello principale per le politiche di sicurezza ur­ bana (o, nel contesto anglosassone, di community safety). Il modello di prevenzione locale maggiormente in linea con i principi neoliberi­ sti, richiamandosi direttamente alle teorie della scelta razionale, ov­ vero alla criminologia del sé, è la cosiddetta prevenzione situazio3 Terza esclusa è la criminologia assistenzialista «un tempo dominante, che descri­ ve il reo come svantaggiato o scarsamente socializzato e attribuisce allo Stato il suo re­ cupero sotto il profilo sociale e penale» (Garland, 2007, p. 242).

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naie (Clarke, 1983). Questa mira a intervenire sulla situazione che può favorire reati o atti di inciviltà, modificandola in senso meno vantaggioso per il potenziale criminale. L’idea, dunque, è quella di aumentare i costi o diminuire i vantaggi dell’azione illegale (o inci­ vile), attraverso la manipolazione del contesto ambientale. Secondo questa prospettiva, l’attenzione non deve essere data alle motivazioni del criminale, bensì ai fattori che possono favorire le opportunità criminose. Secondo la classificazione di uno dei princi­ pali esponenti di questo approccio criminologico, Clarke (1997; Seimini, 2004a), questi interventi possono essere suddivisi tra quelli che aumentano lo sforzo del criminale (ad esempio, prevedendo il controllo degli accessi a determinati luoghi), quelli che ne aumen­ tano i rischi (come nel caso della sorveglianza, nelle varie forme in cui essa si esplica), quelli che ne riducono i vantaggi (ad esempio at­ traverso la possibilità di identificare i beni rubati) e quelli che ten­ dono a rimuovere le giustificazioni (ad esempio attraverso la rego­ lamentazione delle attività in spazi collettivi, quali la proibizione della vendita di alcol dopo una certa ora)4. Questo tipo di opzioni ha trovato un terreno fertile nella crescente attenzione data dai governi locali, a livello globale, ai temi della sicu­ rezza e della qualità della vita. Il diritto dei cittadini di poter fruire di spazi urbani sicuri può essere garantito non solo attraverso la preven­ zione dei reati diffusi, ma prevedendo misure di un più ampio contra­ sto al cosiddetto degrado urbano e sociale e per un maggiore decoro, in accordo con l’ipotesi delle inciviltà (Chiesi, 2004)5. In tal senso, la definizione del concetto di sicurezza subisce una sostanziale ridefinizione e un ampliamento dei suoi ambiti di appli4 Altri modelli di politiche per la sicurezza locale che si possono annoverare nel­ l’ambito della nuova prevenzione (Seimini, 2004a) sono la prevenzione «sociale», e la prevenzione «comunitaria». La prima, ponendo maggiore attenzione alle cause sociali della devianza, e più in linea con una visione progressista, propone misure di politiche sociali, con obiettivi di mediazione dei conflitti e inclusione, attraverso il coinvolgimento delle agenzie del welfare locale in collaborazione con il terzo settore e con le forze del­ l’ordine. La seconda è declinabile in due differenti filosofie di coinvolgimento diretto dei cittadini; una, più in linea con principi conservatori, mira airautodifesa/controllo della comunità (si pensi, per il caso italiano, alle cosiddette ‘ronde’, v. oltre), l’altra, in linea con l’idea progressista della partecipazione, mira all’attivazione della cittadinanza per iniziative socio-culturali sul territorio in un’ottica inclusiva. 5 Ovvero la violazione degli standard di cura e mantenimento del territorio e di convivenza degli spazi pubblici come fattori di insicurezza urbana.

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vazione civile che prende vita a Palermo e in Sicilia e che darà un forte impulso al movimento antimafia in Italia, via via i temi della sicurezza nelle città, del crimine diffuso e del decoro urbano occu­ peranno spazi più centrali nei programmi politici dei partiti, che fi­ no ai primi anni novanta avevano concentrato attenzione e retori­ che soprattutto nella lotta al grande crimine organizzato di stampo mafioso e al terrorismo di matrice politica (Melossi, 2002b)7. Il 1992 è anche l’anno, per FUnione Europea, del trattato di Maastricht, che introduce una nuova fase di manovre finanziarie re­ strittive e politiche di privatizzazione di aziende pubbliche al fine di rispettare i parametri relativi alla finanza pubblica, secondo prin­ cipi di tipo neoliberista e manageriale. L’esperienza dei governi tecnici darà l’avvio nel 1992-1993 a queste politiche, appena prima dell’avvento al governo dei nuovi partiti politici post-Tangentopoli (1994). La linea di governo improntata a valori neoliberisti caratte­ rizzerà, in modo bipartisan, gli esecutivi succedutisi nei vent’anni successivi. Sempre a partire dai primi anni novanta il flusso di immigrati in Italia inizia a crescere in modo costante, passando in vent’anni dal1’1% all’8% della popolazione complessiva o, in termini assoluti, de­ cuplicando le circa 500.000 presenze di inizio anni novanta negli ol­ tre 5 milioni di cittadini stranieri attuali. Il tema delfimmigrazione assumerà un ruolo centrale nel dibattito sulla sicurezza (Barbagli, ciao alle chiese di S. Giovanni e S. Giorgio al Velabro. Dopo la fase stragista, il crimi­ ne organizzato ha accentuato le sue logiche d’azione più sofisticate e occulte di com­ penetrazione della società e allo stesso tempo lontane il più possibile dai riflettori del­ l’opinione pubblica. 7 La specificità criminale italiana è una delle spiegazioni che può essere data dal relativo ritardo (quindici/venti anni) con cui nel nostro Paese si affermano i temi della criminalità diffusa e del degrado urbano rispetto ad altre società tardo-moderne, pur in presenza di un aumento dei reati iniziato negli anni settanta e proseguito per tutti gli anni ottanta. La dinamica dei reati, a partire dagli anni novanta, si fa più comples­ sa in termini di crescita/decrescita. Ad esempio, il numero di omicidi inverte la sua se­ rie storica di crescita iniziando a decrescere per tutti i vent’anni successivi. Altri tipi di reati hanno un andamento più complesso (ad es. una diminuzione per scippi e furti di automobili e un aumento delle rapine tra il 1993 e il 2007). Come è stato notato, è ancora presto di poter parlare, anche per l’Italia, di un chiaro trend di decrescila complessiva della criminalità così come avvenuto a partire dagli anni novanta in altre società tardo-moderne, quale ad esempio quella statunitense (Arcidiacono, Selmini, 2011). Un ulteriore dato da sottolineare è che la crescita esponenziale della presenza di immigrati nel nostro Paese negli ultimi vent’anni non ha coinciso con un generale aumento dei reati (Solivetti, 2014).

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cazione ben oltre i tradizionali campi riservati al sistema penale (l’ordine pubblico e la sicurezza, di competenza statale). Allo stesso tempo la città, come potenziale luogo di attrazione di capitali inter­ nazionali, sede strategica di multinazionali, luogo di promozione o accoglienza di grandi eventi culturali, economici, sportivi, ecc., non può prescindere dalla sicurezza e dal decoro urbano come elementi distintivi per la competizione nel mercato globale (Borja, Castells, 2002; Sassen, 2004).

3. Le politiche di sicurezza urbana in Italia: tra nuova prevenzione e punitività

Lo sviluppo delle politiche di sicurezza locale in Italia prende av­ vio alla metà degli anni novanta del secolo scorso. Una data simbo­ lica è stata individuata nel 1992 (Braccesi, 2004), anno di fondazio­ ne della rivista Sicurezza e Territorio da parte della federazione bolo­ gnese dell’allora Partito Democratico di Sinistra. Una rivista che raccoglie le suggestioni in campo di sicurezza urbana provenienti dalle più avanzate esperienze internazionali, con particolare riferi­ mento all’Inghilterra e alla Francia. Lo stesso anno, le inchieste del pool di magistrati di Milano sulla corruzione decretano la fine del sistema partitico che aveva caratte­ rizzato la vita democratica italiana fino a quel momento. Di lì a po­ co, nuove forze politiche, post-costituzionali (o al di fuori dell’arco costituzionale, nel caso del Movimento Sociale Italiano, poi Alleanza Nazionale), prenderanno la guida del Paese. Forza Italia e la Lega Nord, in particolare, si caratterizzano fin da subito per uno stile po­ litico populista che avrà un’influenza forte nel cambio di retoriche in tema di sicurezza. Nel 1992, ancora, Cosa Nostra colpisce a morte i magistrati an­ timafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino6. Dopo la grande solle6 Le risposte più salienti da parte delle istituzioni nazionali furono, da un lato, Tinasprimento del carcere duro per i mafiosi, dall’altro, 1’invio dell’Esercito in Sicilia, al fine di concorrere con le forze dell’ordine alle attività di controllo del territorio e alla vigilanza di obiettivi sensibili definiti dai prefetti (Operazione Vespri Siciliani). L’anno successivo, la strategia stragista di Cosa Nostra è proseguita con nuovi attenta­ ti: la strage di Via dei Georgofili, nei pressi della Galleria degli Uffizi a Firenze, la strage di via Palestro a Milano, seguita dalle due esplosioni di autobombe a Roma, vi-

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2008; Dal Lago, 1999; Melossi, 2003) connotandolo, in vari frangen­ ti, di argomentazioni xenofobe. In questo nuovo clima politico, economico e sociale, nel 1994 l’E­ milia-Romagna dà vita al progetto «Città Sicure», con l’obiettivo di promuovere politiche di sicurezza urbana nel territorio regionale, che produrrà studi e approfondimenti, pubblicati nella rivista Qua­ derni di Città sicure, punto di riferimento nel dibattito nazionale sul tema. Le tesi sull’inciviltà e sul senso di insicurezza urbano incon­ trano, dunque, l’interesse dei sindaci italiani, soprattutto del Cen­ tro-Nord e di centro-sinistra (Martin, Selmini, 2000), nel tentativo di rispondere a una crescente domanda di sicurezza e qualità della vita urbana da parte dei concittadini (Barbagli, 1998). Fondamen­ tale, per lo sviluppo delle politiche locali di sicurezza, è l’elezione diretta dei sindaci da parte dei cittadini, con il nuovo sistema di doppio turno che dona stabilità ai governi locali (legge 81/93). A partire da questo momento, nel campo della sicurezza, i sindaci iniziano a chiedere poteri e a intervenire con gli strumenti già a di­ sposizione, con l’obiettivo di aumentare l’ordine, la sicurezza e il decoro (nel suo duplice aspetto di decoro fisico, degli spazi fisici della città, e di decoro sociale, dei comportamenti «urbani» dei cit­ tadini) delle città amministrate. Nascono così dipartimenti, assesso­ rati, deleghe politiche dedicati al tema della sicurezza. Alcuni Enti locali italiani prendono parte alle attività della Fede­ razione europea sulla sicurezza urbana8*e ne fondano una sezione italiana (Federazione italiana della sicurezza urbana, nata a Roma nel 1996 su iniziativa di cinque Comuni e della Regione Emilia-Ro­ magna). Se il ruolo da protagonista è recitato dall’Emilia-Romagna, numerosi sono i governi regionali che danno vita a leggi quadro sulla sicurezza urbana, supportando anche economicamente lo svi­ luppo delle iniziative degli Enti locali (Galantino, Ricotta, 2014; Musumeci, 2010). Una differenza importante con altre esperienze internazionali che precedono quella italiana, ad esempio la Gran Bretagna o la

8 Costituitasi nel 1987 la Federazione europea per la sicurezza urbana, FESU, è un’organizzazione internazionale non governativa di Comuni e di Enti territoriali, che promuove l’analisi sulla criminalità e le politiche di sicurezza, e la cooperazione in questi ambiti dei governi locali europei. E presente in qualità di organo esperto presso le Nazioni Unite e il Consiglio d’Europa.

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Francia (dove è stato il livello centrale a fare da stimolo alle politi­ che locali di sicurezza, v. Farruggia, 2013), è dunque rappresentata dall’iniziativa autonoma del livello locale9. L’approccio nei primi tentativi di politiche di sicurezza locali è lontano da retoriche punitive, richiamandosi ad approcci inclusivi di nuova prevenzione, ispirati al realismo criminologico di sinistra britannico (Huges, 2004), così come alle esperienze della politique de la ville francese (per la valorizzazione dei quartieri individuati come «sensibili») (Farruggia, Ricotta, 2010; Farruggia, 2013). Il modello è quello delle politiche di sicurezza integrate, capaci di coniugare i diversi approcci alla nuova prevenzione, tanto di tipo situazionale quanto di tipo sociale e comunitario (Selmini, 2004), comunque al di fuori del campo di intervento penale, di competenza dello Sta­ to10. In tal senso, possiamo affermare che il contesto italiano intro9 La lettura proposta da Braccesi (2004) per scandire le fasi dello sviluppo delle politiche di sicurezza urbana segue proprio la collaborazione o meno del livello locale con quello centrale. Le fasi individuate dall’autore sono tre: la prima, di sostanziale autonomia e protagonismo degli Enti locali, con iniziative ignorate dal livello centra­ le. La seconda (fine anni novanta), di provvisorio incontro tra i due livelli di governo: nel 1998 vengono introdotti i protocolli d’intesa tra Comuni e Prefetture (il primo dei quali sottoscritto a Modena alla presenza del ministro dell’interno) che vincolano le Prefetture a concordare alcune attività, a condividere conoscenze e informazioni non­ ché a distribuire competenze in tema di sicurezza; nel 1999, la riforma dei comitati provinciali per l’ordine e la sicurezza, che apre alla partecipazione del sindaco del ca­ poluogo e del presidente della provincia e, su questioni di pertinenza specifica, anche dei sindaci degli altri comuni. La fase propulsiva che caratterizza la fine degli anni novanta, tuttavia, non riesce a favorire l’istituzionalizzare delle esperienze di collaborazione tra centro e periferia in un quadro normativo compiuto e a dare avvio a poli­ tiche integrate di sicurezza. La terza fase, quindi, viene giudicata come quella dell’in­ contro mancato (prima metà degli anni duemila), in cui il dibattito sulla sicurezza se­ gue due filoni distinti e non in comunicazione: quello locale, con le esperienze più avanzate in connessione diretta con quanto avviene in Europa e in ambito FESU (ma senza strumenti legislativi e risorse idonei agli scopi), e quello nazionale, centrato sui carattere deterrente delle norme di diritto penale e sulla massimizzazione del consen­ so politico. 10 L’evoluzione normativa nel campo della sicurezza locale, inoltre, in nessun modo ha inteso modificare il principio della competenza statale in tema di pubblica sicurezza (prevenzione dei reati e mantenimento dell’ordine pubblico), così come sancito dalla Costituzione italiana (Titolo V) all’articolo 117, comma h ([Lo Stato ha legisla­ zione esclusiva nelle seguenti materie] ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale). Il campo d’azione per politiche di sicurezza urbana da parte dei governi locali e territoriali rimane quello della polizia amministrativa e quello dell’incremento della qualità della vita urbana; quando la sicurezza urbana è invece intesa in relazione all’integrità dei cittadini, rimane per il nostro ordinamento

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duce le politiche di sicurezza urbana beneficiando della traduzione europea «da sinistra» dei modelli di policy locali ed extrapenali. In concreto, in assenza di attenzione (normativa e finanziaria) da parte del livello di governo centrale, sono state perseguite durante il primo decennio di sperimentazione soprattutto micro politiche, in maggioranza di tipo situazionale, attraverso, ad esempio, la sorve­ glianza formale del territorio (con il coinvolgimento della polizia municipale o la collaborazione tra polizie di Stato e locali), l’arredo urbano dissuasivo (cancelli, barriere architettoniche in genere), la videosorveglianza, l’aumento dell’illuminazione, il contrasto di com­ portamenti specifici (ad esempio la prostituzione in strada, l’accat­ tonaggio) attraverso lo strumento delle sanzioni amministrative (Selmini, 2000), in linea con i modelli neoliberisti di tipo adattivo. Queste politiche sono state affiancate da visioni più sociali, con programmi ad hoc di mediazione territoriale o di politiche sociali ri­ volte a specifiche fasce di popolazione o a vittime di reati (progetti di educazione alla legalità, di sensibilizzazione al decoro urbano e alla partecipazione dei cittadini, sportelli per l’assistenza alle vitti­ me, ecc.), soprattutto nei governi locali amministrati da giunte di centro-sinistra. Il carattere adattivo di queste politiche e i limitati mezzi econo­ mici e istituzionali su cui hanno potuto contare, tuttavia, non ha portato a un piano diffuso di progetti di prevenzione «strutturale» (Battistelli, 2011)11, vale a dire programmi di intervento sulle cause dell’insicurezza nelle città, attraverso progetti di ristrutturazione ur­ banistica, riqualificazione di aree degradate, programmi sociali di inclusione e mediazione consistenti e duraturi. Inoltre, il dibattito e le esperienze sulle politiche locali integrate per la sicurezza, sedimentatosi per oltre dieci anni nel nostro Paese, non ha impedito, soprattutto a partire dal 2006/2007, il consolidarsi una competenza statale, eventualmente in coordinamento con ì poteri locali (Mosca, 2012; Pajno, 2010a). 11 Battistelli (2011) ha proposto, in luogo della distinzione «sociale/situazionale», quella «strutturale/situazionale», per due motivi principali: 1) le due categorie propo­ ste hanno lo stesso livello di generalizzazione, al contrario delTaltro binomio, dove sociale è più specifico di situazionale; 2) consentono di mettere a fuoco con più effica­ cia le policy', un intervento strutturale, infatti, può riguardare tanto gli spazi urbani/fisici (si pensi alla progettazione di nuovi quartieri o alla riqualificazione di aree degradate) quanto la società (enti preposti all’assistenza, all’educazione, alla media­ zione, all’inclusione, ecc.).

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di retoriche e pratiche della sicurezza molto più fondate su approcci punitivi12. Possiamo definire questa fase di «emergenza sicurezza» (Battistelli, Lucianetti, 2011; Galantine, 2010; Ricotta, 2012). Una fase in cui è emersa una saldatura tra l’enfasi sul livello locale della sicurezza e la nuova punitività, con ampio spazio occupato da toni e misure di tipo populista. Uno stimolo è stato dato proprio da numerosi sindaci, ribattezza­ ti dai mezzi di comunicazione di massa «sindaci sceriffo», attraverso iniziative per il contrasto di specifici comportamenti «fastidiosi» di gruppi sociali marginalizzati, quali la presenza di lavavetri ai sema­ fori, la prostituzione in strada, gli accampamenti abusivi di rom, che specie nel 2006 si susseguono in diverse importanti città, tra cui Fi­ renze, Bologna e Padova (Ricotta, 2012). Molta eco suscita, nel 2007, la marcia di Milano promossa dalfallora sindaco di centro-de­ stra Letizia Moratti contro il governo Prodi, per chiedere maggiore sicurezza per la città13. Tra gli interventi significativi del governo Prodi, la promozione dei patti per la sicurezza di seconda genera­ zione, uno strumento di politica multilivello che rinforza il ruolo delle amministrazioni comunali nella gestione degli interventi locali di sicurezza. Nei Patti, sottoscritti tra Ministero dell’interno ed Enti territoriali/locali che possono finanziare specifiche attività sul terri­ torio di riferimento, emerge l’attenzione pressoché esclusiva verso un più forte coordinamento delle diverse forze di polizia nazionali e locali; appaiono, invece, meno presenti misure effettive per una si­ curezza partecipata e integrata, al centro del dibattito in ambito FISU (Della Ratta, loppolo, Ricotta, 2013). A fare da detonatore alla vera e propria fase emergenziale sono tre omicidi avvenuti a Roma nel 2007, che vedono come accusati cit­ tadini romeni e che hanno una grande eco nei mezzi di comunica12 Proprio nel 2006, il FESU produce il Manifesto di Saragozza sulla sicurezza ur­ bana, sottoscritto da oltre duecento enti locali europei, che al punto 1 recita «La sicu­ rezza è un bene comune essenziale, indissociabile da altri beni comuni quali Tinclu­ sione sociale, il diritto al lavoro, alla salute, all’educazione e alla cultura». 13 Le motivazioni della manifestazione nelle stesse parole dei sindaco: «La Milano che lavora, che produce, che accoglie, ora dice: ‘basta!’, Basta alla prostituzione. Basta allo spaccio di droga. Basta alla violenza sulle donne. Basta alle occupazioni abusive delle strade, delle case, dei palazzi. Basta alle rapine nei negozi e nelle botteghe. Ba­ sta ai maltrattamenti dei bambini. Basta alle sopraffazioni da parte di immigrati irre­ golari. Basta al degrado. Basta truffe agli anziani» (Criminalità. La marcia della Moratti contro il Governo, in Corriere della Sera, 10 marzo 2007),

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zione e nel dibattito politico. La stessa notte del terzo degli omicidi di Roma, avvenuto nei pressi di Tor di Quinto, il governo Prodi li­ cenzia il decreto per l’espulsione prefettizia di urgenza dei cittadini comunitari e dei loro familiari per motivi di pubblica sicurezza che li rendano incompatibili con l’ordinaria convivenza (Pastore, 2007). Sull’emergenza sicurezza si fonda la decisa offensiva dei partiti di destra, allora all’opposizione tanto del governo Prodi quanto della giunta Veltroni a Roma14 e la vittoria della destra alle elezioni poli­ tiche del 2008 costituisce il passo decisivo per una definizione delle politiche di sicurezza urbana di tipo punitivo. Il 18 aprile del 2008, i sindaci di venti città del Nord Italia di di­ verso colore politico danno vita, alla presenza del nuovo ministro dell’interno leghista, Maroni, alla Carta di Parma sulla sicurezza, in cui chiedono innanzitutto di potenziare le funzioni del sindaco, pur in un contesto di attribuzione allo Stato delle competenze in tema di lotta e di repressione della criminalità, prevedendo la facoltà per i primi cittadini di adottare provvedimenti in materia di ordine pubblico, relativi ai reati minori e ai temi del degrado fisico e so­ ciale del territorio. La riforma dell’articolo 54 del TUEL («Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli Enti locali»)15 pare rispondere direttamente a questa esigenza: la sicurezza urbana insieme all’incolumità pubbli­ ca divengono ambito di intervento dei sindaci. I sindaci dei comuni possono così adottare provvedimenti normativi al fine di prevenire o eliminare gravi minacce alla sicurezza urbana16 - e non solo, come 14 Sul caso romano, relativamente a questi episodi di cronaca e al tipo di reazioni che hanno provocato in ambito politico e mediatico, si rimanda a: Battistelli, Lucianetti, 2010; Galan tino, 2010; Pastore, 2007; Ricotta, 2012; 2013b. 15 All’interno della legge 125/2008, recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica (cosiddetto Pacchetto sicurezza). 16 In un successivo decreto del Ministero dell’interno, la sicurezza urbana verrà definita come «un bene pubblico da tutelare attraverso attività poste a difesa, nell’am­ bito delle comunità locali, del rispetto delle norme che regolano la vita civile, per mi­ gliorare le condizioni di vivibilità nei centri urbani, la convivenza e la coesione socia­ le». Ciò attraverso il contrasto e la prevenzione del degrado urbano e dell’isolamento (che possono favorire lo spaccio di stupefacenti, lo sfruttamento della prostituzione, l’accattonaggio con impiego di minori e disabili o l’abuso di alcol), gli atti di vandali­ smo, l’occupazione impropria di immobili o del suolo pubblico, il commercio abusivo, e infine le attività di accattonaggio e di prostituzione medesimi, in quanto fenomeni che possono offendere la decenza pubblica e impedire la libera fruizione di spazi ur­ bani agli altri cittadini.

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in precedenza, in casi di urgenza e di fronte a gravi pericoli per l’incolumità fisica dei cittadini17. L’approccio populista di alcuni provvedimenti dell’ultimo Go­ verno Berlusconi (2008-2011) può essere letto alla luce delle politi­ che che Garland ha definito di acting out. Tra i provvedimenti più significativi del pacchetto sicurezza, la previsione del reato di immi­ grazione e soggiorno illegale (legge 94/2009), Fintroduzione dei volontari per la sicurezza o «ronde» nelle città18, il piano di emer­ genza per lo sgombero dei cosiddetti campi nomadi (attraverso un d.p.c.m. che fa ricorso a una legge del 1992 sui poteri d’emergenza in caso di disastri naturali), l’operazione «Strade sicure» (legge 125/2008) per il ricorso alle Forze armate in compiti di pattuglia­ mento e di presidio di punti fissi in numerose città italiane. La natura emergenziale è l’elemento che accomuna i diversi prov­ vedimenti presi in questa fase, che hanno riguardato da vicino le tematiche connesse alle paure urbane. Questo tipo di interventi ha il limite di dislocare nello spazio e nel tempo le questioni e i pro­ blemi su cui intervengono, invece di offrire soluzioni sostenibili (Ri­ cotta, 2013b). Le ordinanze, ad esempio, pur con il loro grande ri­ chiamo mediatico, dopo il primo periodo di attuazione del 2008 hanno avuto via via una diffusione modesta (si è passati dalle 558 ordinanze del 2008 alle 157 del 2010), rivolte soprattutto a contra­ stare il consumo di bevande alcoliche, la prostituzione su strada e gli atti di vandalismo (Cittalia, 2009, 2014), con il risultato di spo­ stare i fenomeni (o occultarli momentaneamente). E una tendenza a concentrare gli sforzi per il decoro e la tranquillità della vita urbana delle zone più pregiate della città (in termini turistici, commerciali, residenziali, ecc.), accentuando così dinamiche conflittuali di tipo centro/periferia per l’accesso alla qualità della vita urbana (Galanti­ ne, Ricotta, 2014; Ricotta, 2013a).

17 Nel 2011 la Corte Costituzionale dichiarerà incostituzionale questa riforma nella parte in cui prevede che il sindaco, quale ufficiale di governo, possa emanare dei provvedimenti di carattere non contingibile e urgente. 18 È il decreto 8 agosto 2009 del Ministero dell’interno che introduce la possibilità per i cittadini di costituire associazioni di osservatori volontari per la segnalazione alle polizie locali e alle polizia nazionali di eventi che possono arrecare danno alla sicu­ rezza urbana o situazioni di disagio sociale (tramite iscrizione in un elenco provinciale costituito presso le Prefetture).

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4. Conclusioni: i limiti delle politiche di sicurezza urbana Le dinamiche delle città contemporanee richiedono modelli di intervènto per la mediazione di conflitti sempre più complessi. In tale ambito è inquadrabile, anche in Italia, l’esigenza di politiche lo­ cali di sicurezza e qualità della vita urbana. Allo stesso tempo, il trend globale di securizzazione delle città trova tra le sue cause l’inef­ ficienza inclusiva dei sistemi urbani e la connessa riproduzione di diseguaglianze, favoriti dalle politiche neoliberiste, tanto nel campo della pianificazione urbana quanto in quello delle politiche sociali ed economiche. L’autonomo percorso dei sindaci italiani, soprattutto negli anni novanta, ha costituito un laboratorio di sperimentazioni interessan­ ti, che tuttavia non si sono consolidati come prassi nazionale di un modo nuovo di pensare la città. Nelle agende delle politiche locali, infatti, non si sono affermati una cultura di governo e un modello di policy per una trasformazione dei conflitti urbani nei termini della mediazione sociale. In questo si può scorgere il limite più evidente delle politiche adattive, di ispirazione neoliberista. L’aspetto residuale delle micro politiche locali non riesce ad andare oltre iniziative limitate nel tempo, il più delle volte di natura situazionale, in una visione della criminalità e della devianza interna alle teorie della scelta razionale. Si pensi, in tal senso, alla diffusione della videosorveglianza come politica di prevenzione situazionale: la legge 38 del 2009 ha esplici­ tamente previsto per i comuni la possibilità di ricorrere alFutilizzo della videosorveglianza in luoghi pubblici o aperti al pubblico per la tutela della sicurezza urbana. Ed è interessante notare come nel 2011, in piena crisi economica, il settore della sicurezza (o Security come si usa dire) nel mercato italiano ha registrato una crescita pari al 4,9% rispetto all’anno precedente (crescita proseguita fino al 2014 e prevista confermata anche per il 201519). In tal senso, il modello neoliberista di gestione della sicurezza urbana si va delineando per interventi extrapenali di controllo del territorio, attraverso il ricorso al mercato (polizie private, tecnologie e arredo urbano dissuasivo), soprattutto rivolto ai luoghi della città - Andrea Salvadori, Sicurezza. La ripresa abita qui Fatturati in crescita del 4%, in CorrierEconomia (Corriere della Sera), 10 novembre 2014.

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di maggiore interesse economico. Allo stesso tempo, la non compe­ tenza del livello locale, in Italia, nel campo dell’ordine pubblico e della sicurezza ha ulteriormente favorito lo scollamento tra micro politiche locali e interventi simbolici del governo nazionale mag­ giormente improntati all’uso deterrente della pena. Il ricorso a interventi simbolici di tipo repressivo, come abbiamo osservato, ha interessato gli stessi sindaci delle città, quando hanno provato a fare leva sullo strumento delle ordinanze, ovvero delle sanzioni amministrative, al fine di contrastare fenomeni di margi­ nalità urbana, quali la prostituzione e l’accattonaggio. In una fase di tagli ai fondi dedicati al welfare locale (Bruni et al., 2013), il rischio è che, per i sindaci, interventi simbolici dai tratti punitivi sul tema sicurezza possano rappresentare una facile scorciatoia per cercare legittimità, in mancanza di leve di altro tipo, di fronte alle domande della cittadinanza su qualità della vita urbana, accessibilità, senso di sicurezza. Si tratta peraltro di un tradimento delle idee espresse dall’unione dei poteri locali del FESU, quando nel già citato Manifesto di Sara­ gozza del 2006 esortano a «rifiutare qualsiasi strategia che punti ad utilizzare la paura, ricorrendo invece ad interventi atti a favorire una cittadinanza attiva, la consapevolezza dell’appartenenza al terri­ torio urbano e lo sviluppo della vita collettiva». Una effettiva strategia di policy al fine della costruzione di città si­ cure in quanto inclusive richiama l’urgenza di una prevenzione di ti­ po strutturale per la città contemporanea, richiede maggiori inve­ stimenti pubblici e una nuova capacità di regia politica, aspetti, que­ sti, che rimandano a un ripensamento critico dei trend contempora­ nei di governance urbana. Si tratta, infatti, di visioni della città che sfi­ dano tanto i principi neoconservatori quanto i principi neoliberisti.

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Conclusioni Neoliberismi in Italia: evidenze e possibili agende di ricerca di Giulio Moini

Leggendo comparativamente le analisi condotte nei capitoli pre­ cedenti è possibile affermare che in Italia, nel corso dell’ultimo trentennio, analogamente a quanto avvenuto in altre democrazie occidentali (ma non solo), si è compiuto un processo di neolibera­ lizzazione dell’azione pubblica. In tutti gli ambiti analizzati si sono trovate le tracce, dirette o indirette, di evidenze che tipicamente e storicamente caratterizzano il neoliberismo: la centralità del pa­ reggio di bilancio e la riduzione della spesa pubblica nelle politiche di bilancio; la flessibilizzazione e il primato dell’occupabilità sul­ l’occupazione nel mercato del lavoro; le privatizzazioni verso il set­ tore privato e la sfera del privato nel welfare (oltre ad una drastica riduzione delle risorse pubbliche per il benessere sociale); il ricorso a modelli di quasi-mercato nell’ambito dei servizi educativi; il pre­ valere di seduzioni narrative, costruite dal mercato, sullo sviluppo desiderabile delle città e la loro governabilità; la centralità delle partnership pubblico-privato nell’implementazione dei regimi di re­ golazione dell’uso del suolo; la tendenza a far prevalere letture e misure di carattere securitario nell’ambito della sicurezza urbana. Sono, quelli indicati, ovviamente solo alcuni parziali stenogrammi di processi ben più ampi che sono ampiamente descritti nei capi­ toli precedenti. Il neoliberismo entra nell’azione pubblica italiana assumendo le caratteristiche tipiche non solo delle sue forme roll-out, sociali, o temperate coerentemente con le caratteristiche del periodo storico (inizi anni novanta) e degli attori politici (prevalentemente coalizio­ ni di centro-sinistra) che lo introducono nella politica e nelle politi­ che italiane. La progressiva europeizzazione dell’azione pubblica, 205

che si sviluppa in questo stesso periodo, rinforza e consolida le di­ namiche della neoliberalizzazione. Entra senza che nessuno degli attori politici (con qualche parziale eccezione) si richiami esplicitamente al primato assoluto del mercato sullo Stato. Entra mimetizzandosi, assumendo connotazioni mutevoli e sfumate che, con ‘abili’ rappresentazioni normative e cognitive, celano, dietro lo schermo dell’interesse generale, il primato egemo­ nico degli interessi delle élite economiche e politiche del Paese. Si afferma per questa via l’impossibilità di resistere a processi di innovazione dell’azione pubblica che vengono considerati come ne­ cessari e inevitabili per salvaguardare l’interesse collettivo. Ecco, allora, che compaiono sulla scena: l’insostenibilità del debito pub­ blico che prosciuga risorse per lo sviluppo economico e per il benes­ sere collettivo; l’impre scindibilità di una progressiva flessibilizzazio­ ne del mercato del lavoro per non rimanere periferici rispetto ai processi di competizione economica globale, situazione che, a sua volta, ridurrebbe l’occupabilità della forza lavoro del Paese; la ne­ cessità di ridurre la spesa pubblica per il welfare non solo perché sottrae risorse alle misure per la promozione della competizione economica, ma anche per superare le tendenze passivizzanti delle precedenti forme di intervento sociale; la libertà di scelta come di­ ritto delle famiglie e come pre-condizione necessaria per la creazio­ ne di processi di competizione nel quasi-mercato dell’educazione capaci di far crescere un sistema educativo migliore; la capacità delle ICT di produrre città intelligenti in cui tutti vorremmo vivere; Pimpossibilità di regolare il territorio senza il consenso e le risorse economiche degli attori privati; la tutela della sicurezza individuale e della proprietà come tratti caratterizzanti i processi di civilizzazio­ ne tipici della modernità. L’austerità salverà i bilanci dello Stato; l’occupabilità l’occupazio­ ne; la finanza il welfare; la competizione l’educazione; le ICT le forme della convivenza urbana; le partnership pubblico-privato la re­ golazione del suolo; la «tolleranza zero» la sicurezza. Si tratta, anche qui, solo di stenogrammi di una narrazione ben più ampia e artico­ lata che si compie anche in molti altri ambiti di azione e attraverso rappresentazioni ben più complesse. Ma c’è di più. L’analisi del caso italiano ci dice che la citata capa­ cità strategica delle élite politiche ed economiche di rappresentare l’interesse di una parte come l’interesse di tutti, ossia di far acquisire

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una connotazione egemonica a questi stessi interessi, non può esse­ re compresa senza osservare e ricostruire come il paradigma di azione del neoliberismo si articola e si decompone in diversi neolibe­ rismi. Non solo in termini storici e spaziali, ma anche settoriali. La variegatura settoriale dell’azione pubblica neoliberista favorisce la sua egemonia poiché accompagna e sostiene la differenziazione set­ toriale della strategia di accumulazione prevalente in un dato mo­ mento storico in un determinato contesto nazionale (con le sue articolazioni trans-scalari). La difficoltà principale, dal punto di vista teorico e metodologico, risiede nel fatto che questa variegatura non si può tipizzare, senza rischiare di coartarla in modellizzazioni ec­ cessivamente rigide. Sfugge a ogni tentativo di classificazione o, meglio ancora, è depotenziata da classificazioni tipologiche che pu­ re si potrebbero tentare. Si può però descrivere. Che neoliberismi troviamo allora in Italia? Quelli in cui gli attori prevalenti sono pubblici (bilancio, mercato del lavoro, sicurezza) e agiscono su scale nazionali e locali (mercato del lavoro e sicurezza) o multilevel (bilancio); quelli in cui sono pre­ senti mix di attori pubblici e privati (educazione, agenda urbana, pianificazione), quelli in cui agiscono attori pubblici, privati e del privato sociale (welfare). Le risorse utilizzate da questi attori in al­ cuni casi sono prevalentemente gerarchiche (bilancio, mercato del lavoro), in altri troviamo combinazioni di risorse gerarchiche e co­ gnitive (educazione, sicurezza), in altri ancora un insieme complesso di risorse gerarchiche, cognitive e materiali (welfare, agenda urba­ na, pianificazione). Gli obiettivi e le credenze che li sostengono si articolano varia­ mente attorno all’esigenza di tutelare il mercato e la concorrenza (bilancio), di promuovere la competizione (mercato del lavoro, edu­ cazione), di ridurre la spesa pubblica (bilancio e welfare), di garanti­ re la sostenibilità dello sviluppo (agenda urbana), di favorire e pro­ muovere l’uso di risorse private in progetti pubblici (pianificazione), di puntare su processi di privatizzazione (welfare), di tutelare i luo­ ghi di maggiore interesse economico (sicurezza). E possibile colloca­ re questi obiettivi e le relative credenze lungo un continuum che va da una loro connotazione tendenzialmente radicale (bilancio, mer­ cato del lavoro, educazione, sicurezza) a quella tendenzialmente tem­ perata (welfare, agenda urbana, pianificazione). In questi neoliberismi obiettivi e credenze si affermano e mutano

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le forme istituzionali dell’azione pubblica seguendo processi di path dependency (mercato del lavoro), diffusione (bilancio, sicurezza), bri­ colage (pianificazione), traslazione (agenda urbana) e un mix di dif­ fusione e traslazione (welfare, educazione). Anche le strategie di depoliticizzazione, che sostengono a loro volta l’egemonia neoliberista, variano. Ci sono strategie che inte­ grano dinamiche di depoliticizzazione governativa, istituzionale e discorsiva (bilancio), altre basate su privatizzazioni verso il settore e la sfera privata (welfare) o verso il riconoscimento di un ruolo di ri­ levanza crescente degli attori privati (pianificazione), altre ancora fondate su narrazioni seduttive (il ruolo della finanza di impatto so­ ciale per il welfare e delle ICT per l’agenda urbana), quelle fondate sul primato dei numeri e delle evidenze scientifiche (educazione), altre fondate sulla naturalizzazione di processi sociali (mercato del lavoro e sicurezza). Per concludere. Esistono in Italia diversi neoliberismi o, in altri termini, una rilevante variegatura settoriale dell’azione pubblica neoliberista. Si tratta di una conclusione minimale di una discussio­ ne molto ampia che non è soltanto teorica, ma anche politica. Una conclusione che cerca di fissare un punto di partenza (forse non scontato in molta della ricerca sui fenomeni sociali e politici del no­ stro Paese) per lo sviluppo di ulteriori analisi sulle forme e le prati­ che di neoliberismo effettivamente realizzato. Analisi che, per pro­ vare a fissare delle coordinate di base di una possibile agenda di ri­ cerca, dovrebbero dal punto di vista teorico cercare di esplorare come si articola la relazione della variegatura del neoliberismo con la differenziazione settoriale della strategia di accumulazione che si è storicamente affermata in Italia nel corso degli ultimi tre decenni. Dal punto di vista della ricerca empirica tale questione implica non solo l’individuazione delle variabili che consentono di interpretare la variegatura del neoliberismo - e qui ne sono state proposte e arti­ colate alcune che si ritengono importanti - ma anche la ricostruzio­ ne degli impatti sociali ed economici che la perdurante egemonia delle forme di azione neoliberista ha avuto in Italia. Solo attraverso ulteriori analisi, ovviamente frutto di ricerche e iniziative collettive, è forse possibile lavorare per individuare forme di azione sociale e pubblica in grado di sfidare il primato egemonico dei neoliberismi.

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Le autrici e gli autori

è dottorando in Sociologia all’università di Torino. Studia le politiche sociali, le trasformazioni dei sistemi di welfare e le politiche urbane. I suoi principali interessi di ricerca riguar­ dano le questioni del potere e del conflitto in ambito urbano. Tra le sue pubblicazioni: Acting in the emergent void. Notes on gentrifica­ tion at Isola, Milan, in Fight Specific Isola. Art, Architecture, Activism and the future of the city (con Mara Ferreri, Archive Books, 2012).

Davide CASELLI

SABRINA Cavatorto è ricercatore all’università di Siena dove inse­ gna European Union Politics e Analisi delle politiche sociali. Di recente ha pubblicato Italy: Still Looking for a New Era in the Mak­ ing of EU Policy, in AA.W., Handbook of National Parliaments and the European Union (Palgrave, 2015); Il Trattato di Lisbona nel Par­ lamento italiano, oltre il permissive consensus, in P. Bellucci, N. Conti (a cura di), Gli italiani e l’Europa (Carocci, 2012). è ricercatore a tempo determinato presso il Dipar­ timento di Scienze Sociali ed Economiche (DiSSE) della Sapienza Università di Roma dove insegna Sistemi di Welfare in Europa. Tra le sue recenti pubblicazioni: Le politiche sociali nelle regioni ita­ liane. Costanti storiche e trasformazioni recenti (Il Mulino, 2103).

Andrea Ciarini

insegna Sociologia politica e Politica, politiche e scale di azione pubblica alla Sapienza Università di Roma. Tra le sue pubblicazioni recenti: Sociologia della politica (Carocci, 2014); Beyond Institutionalization: urban movements in Rome (con M. Allulli), in A.L. Farro e H. Lustiger-Thaler, Reimagining Social Move-

Ernesto D’Albergo

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meni From Collectives to Individuals (Ashgate, 2014); Il regime del!Ur­ be. Politica, economia e potere a Roma (con G. Moini, Carocci, 2015).

è dottoranda in Politica comparata ed europea all’Università di Siena. Studia il ruolo dei Parlamenti nazionali nel policy making UE e gli atteggiamenti dei parlamentari italiani ver­ so l’Europa. Tra i suoi lavori recenti: No more waiting: the European Semester as a time for bringing ‘Europe’ back to parliamentary debating (WP Centro Einaudi, n. 9, 2014); The controversial character ofyoung voters’ attitudes toward Europe: Evidence from the Eurovision debate project (con L. Pinto, A. Pedrazzani e R. Ladini), in Comunicazione Politica, n. 3, 2015.

Alba Ferreri

è Post-Doc A*Midex presso Aix-Marseille Université. Si occupa di sociologia dell’educazione e di politiche edu­ cative. Tra le sue recenti pubblicazioni: Distai and Proximal Vision: a multi-perspective research in sociology of education (con A. Viteritti, in European Educational Research Journal, n. 1, 2014) e Sistemi di scuola secondaria comprensivi versus selettivi. Una comparazione in ter­ mini di equità (con L. Benadusi, in Scuola Democratica, n. 2, 2014).

Orazio Giancola

GIULIO moini insegna Governance e partecipazione nei sistemi ter­ ritoriali e Sociologia dell’azione pubblica alla Sapienza Università di Roma. Tra le sue pubblicazioni recenti: Teoria critica della parte­ cipazione. Un approccio sociologico (Franco Angeli, 2012); Interpreta­ re l’azione pubblica. Teorie, metodi e strumenti (Carocci, 2013); Il re­ gime dell’Urbe. Politica, economia e potere a Roma (con E. d’Albergo, Carocci, 2015).

insegna Urbanistica alla Sapienza Università di Roma. Tra le pubblicazioni recenti: Problematizing Resilience. Implications for Planning Theory and Practice, in Cities, n. 43, 2015; A muddled land­ scape of conflicts, in Planning and Conflict (a cura di E. Guaiini, Rou­ tledge, RTPI series, 2015); Il nodo della rendita immobiliare, in II re­ gime dell’Urbe. Politica, economia e potere a Roma (a cura di E. d’Alber­ go e G. Moini, Carocci, 2015) - questi ultimi con G. Di Salvo.

Barbara Pizzo

insegna Sociologia dell’inclusione e della sicu­ rezza sociale e Sociologia dei conflitti e della sicurezza alla Sa-

Giuseppe Ricotta

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pienza Università di Roma. Tra le sue pubblicazioni recenti: Vista dal Nord. Indagine sull’immaginario mafioso e l’educazione antimafia tra gli studenti di Piemonte e Lombardia (con F. della Ratta e L. loppolo, Gruppo Abele, 2015), Domanda di sicurezza e politiche locali. Il caso del Lazio (con M.G. Galantine, Franco Angeli, 2014); Con i lo­ ro occhi. L’immaginario mafioso tra i giovani (con F. della Ratta e L. loppolo, Gruppo Abele, 2012). LUCA Salmieri insegna Sociologia della cultura e Politiche e culture giovanili alla Sapienza Università di Roma. Tra le sue pubblica­ zioni più recenti: Il gioco della cultura. Attori, processi, prospettive (con S. Piccone Stella, Carocci, 2012); La religione del capitalismo finanziario (Orthothes, 2015).

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attuale crisi economica e finanziaria globale ha stimolato un intenso dibattito scientifico, oltre che politico, sulle cause

della crisi stessa e sulle possibili risposte. In questo quadro si è aperto un confronto sulle politiche orientate al mercato e fila com-

petitività, con particolare riferimento alle caratteristiche e al destino del paradigma di azione pubblica di tipo neoliberista, che si è imposto nel mondo a partire, dalla metà degli anni settanta del secolo scorso e

che dura fino ad oggi. Ma quali tipi di politiche neoliberiste si sono

affermate in Italia in questo stesso arco temporale? Con quali diffe- . reirze e similitudini nei diversi settori di intervento? E cosa spiega la perdurante egemonia degli interessi e delle idee del neoliberismo in

. Italia? Al fine di rispondere a queste domande, il libro ricostruisce sistematicamente, con un impostazione critica e di tipo comparativo, le .

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forme assunte dal neoliberismo italiano in differenti ambiti e scale di azione pubblica: bilancio e finanza pubblica, mercato del lavoro, wel­ fare state, istruzione, programmi per le smart city, uso dello spazio ur­

bano, sicurezza nelle città.

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■ frVs

Giulio Moini insegna Sociologia dell’azione pubblica e Governance e partecipazione presso il Dipartimento di Scienze Sociali ed Economi­

che della Sapienza Università di Roma.

ISBN: t1?a-fia-530-L'ìH3-D

9’788823 "019430

In copertina: Antonella Lupi, Spesa sfrenata. 7, 2013.

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